“Democrazia e Potere della comunicazione”.
“Democrazia
e Potere della comunicazione”.
L’Antartide
si è Raffreddata e Non Riscaldata
negli
ultimi 40 anni.
Conoscenzealconfine.it-
Redazione-(16 Novembre 2021)- ci dice:
(TelegramTwitterFacebook).
David
Icke lo ripete da 20 anni, si crea un problema, c’è una reazione collettiva e
subito viene in soccorso chi ha già pronta la soluzione. E chi te la da questa
soluzione? I soliti Noti… supportati da un branco di imbecilli che si fida
ciecamente di loro.
L’Antartide
si è raffreddata e non Riscaldata. Nel complesso, l’Antartide si è raffreddata
di circa 2 gradi Celsius nello stesso periodo di 40 anni (dal 1979 al 2018) in
cui l’anidride carbonica è aumentata da 337 a 410 parti per milione, il che
significa che il mondo si sta effettivamente raffreddando e non riscaldando.
Un
documento pubblicato sulla rivista
Atmosphere, ha notato che le tendenze di ERA5 sono coerenti con queste
osservazioni, mostrando che c’è una tendenza al raffreddamento nell’Antartide
orientale e occidentale, mentre una tendenza al riscaldamento proviene dalla
penisola antartica. ERA5 fornisce stime orarie di un gran numero di variabili
climatiche atmosferiche, terrestri e oceaniche.
Secondo
le illustrazioni grafiche delle tendenze della temperatura dell’aria
superficiale dalle osservazioni satellitari nello studio, la maggior parte dell’Antartide e
gran parte dell’Oceano Meridionale circostante si è raffreddata durante questo
periodo.
I
ricercatori hanno postulato che un terzo del trend di raffreddamento di questi
40 anni può essere attribuito all’Oscillazione Madden-Julian (MJO). Il JMO è la più grande
fluttuazione del tempo tropicale su scale temporali settimanali o mensili,
caratterizzato dal suo impulso di nuvole e pioggia che si muove verso est
vicino all’equatore. In genere, si ripete ogni 30-60 giorni. Questa influenza probabilmente
accelererà la tendenza al raffreddamento a lungo termine dell’Antartide nei
prossimi decenni.
Uno
studio della Western Washington University di Bellingham ha mostrato che la
maggior parte della calotta antartica orientale si sta raffreddando con un
limitato riscaldamento solo nella penisola antartica.
Con
l’aiuto delle misurazioni della temperatura di superficie e dei satelliti, il
riscaldamento dell’Antartide è stato dimostrato essere spurio, poiché le temperature satellitari
non hanno mostrato alcun riscaldamento negli ultimi quattro decenni. Anche l’oceano meridionale intorno
all’Antartide si è raffreddato dal 2006 e il ghiaccio marino è addirittura
aumentato dal 2012. Anche la stazione della piattaforma di ghiaccio Larsen si sta
raffreddando, al ritmo di 1,8 gradi Celsius per decennio dal 1995.
Eppure
il governo degli Stati Uniti e la National Aeronautics and Space
Administration, così come i cosiddetti scienziati, insistono ancora che il
cambiamento climatico è in atto e che il pianeta si sta riscaldando.
Fattori
chiave per il Clima dell’Antartide.
Il
clima dell’Antartide rimane ventoso e secco, con velocità del vento che variano
in tutto il continente. L’umidità relativa del continente è spesso bassa
intorno allo 0,03% ed è considerato un deserto polare. La freddezza del clima dell’Antartide
deriva da diversi fattori. La sua alta latitudine significa che la luce del
sole colpisce la superficie con un angolo basso, quindi l’energia solare è
distribuita su un’area più grande. Essendo distribuita su questa area più grande,
l’energia ricevuta per unità si riduce. Inoltre, a sud del circolo antartico
c’è un periodo durante l’inverno australe in cui il sole non sale sopra
l’orizzonte.
La
penisola antartica si stava riscaldando almeno dagli anni ’50, ma un
cambiamento nei venti prevalenti ha causato un raffreddamento nel 1998. John Turner del British Antarctic
Survey (BAS), ha detto: “Quello che stiamo vedendo è la variabilità naturale del clima
che prevale sul riscaldamento globale”.
L’Antartide
si è a malapena riscaldata nel corso degli anni, e il riscaldamento dei mari
intorno ai suoi bordi sta mangiando le piattaforme di ghiaccio e i ghiacciai,
ma non è ancora penetrato nel vasto interno del continente. Inoltre, i venti intorno al polo sud
agiscono come uno scudo che tiene lontana l’aria più calda dalle latitudini più
alte.
Uno
studio separato che utilizza le temperature dei satelliti antartici ha anche
mostrato che non c’è stato alcun riscaldamento recente e che l’Oceano
meridionale intorno all’Antartide si è raffreddato notevolmente dal 2006.
Il
ghiaccio marino è anche aumentato sostanzialmente dal 2012, e le temperature superficiali in 13
stazioni sopra la penisola antartica si sono raffreddate notevolmente dal 2006. Il ghiaccio marino ha raggiunto
livelli record e le temperature si stanno raffreddando al ritmo di 1,8 gradi Celsius per
decennio dal 1995.
(mdpi.com)
( toba60.com/lantartide-si-e-raffreddata-e-non-riscaldata-negli-ultimi-40-anni/).
Sarà
il Sole a svegliarci:
lo
teme la Religione della Paura.
Libreidee.org-Nicola
Bizzi- (16/11/2021)- ci dice:
La
deriva transumanista a cui stiamo assistendo è il frutto di uno scontro di
civiltà.
Un
emblematico, inesauribile scontro: non solo fra due culture, fra due concezioni
del mondo, ma addirittura fra due opposte e inconciliabili forme di civiltà.
Una potremmo definirla algida, fredda, pseudo-lineare, agorafobica, già vecchia
e stantia nonostante i suoi appena tre secoli di età. E’ una cultura sorta dal
razionalismo di fine Seicento e da quella che è passata alla storia come la
rivoluzione scientifica.
Una
cultura che è stata nutrita da una miope incomprensione dell’esperienza
illuministica, pur liberatoria, che però si è incanutita precocemente,
fossilizzandosi negli ingranaggi del pensiero meccanicistico. L’altra cultura è
invece antica come l’alba della conoscenza (e della coscienza), come e più
delle stesse piramidi e di quei miti che produssero. Eppure quella cultura è sempre
giovane: perché è immortale, orgogliosa e ottimistica, come quegli stessi dèi
che la donarono agli esseri umani.E’ una cultura inclusiva, conciliatrice dei
complessi rapporti tra uomo e natura. E soprattutto: è profondamente radicata
nella più arcaica e radicale delle esperienze umane: la percezione magica del
sacro.
Lo
scontro in corso rappresenta una delle ultime fasi di un conflitto, molto
antico, tra la dimensione gnostica – prometeica, titanica, estatica – e la sua
drammatica emarginazione e persecuzione ad opera di una falsa religiosità
assolutistica, quella del monoteismo patriarcale che si instaurò con il
rovesciamento degli antichi dèi. Una deriva che, poi, ha portato a quel delirio
teologico che è stato fatto proprio dalla cultura giudaico-cristiana. Ha pesato la sua applicazione
totalmente esoterica, che ha escluso ogni aspetto esoterico-iniziatico. E ha
voluto ritagliare, nella grande spirale del tempo eterno (venerata da tutte le
antiche culture del pianeta), un segmento progettuale artificioso: quello di un
dio totemico, tanto geloso quanto violento, nemico di tutte le tradizioni
fondate sulla conoscenza e sull’esperienza.
Razionalismo,
rivoluzione scientifica e rivoluzione industriale: oggi Klaus Schwab parla di
Quarta Rivoluzione Industriale, a conferma del fatto che sono sempre gli
stessi, a cantarsela e suonarsela da soli. Hanno voluto separare il sacro dal
profano, l’immanente dal trascendente. Negli ultimi tre secoli hanno
tentato, in tutti i modi, di estirpare la spiritualità dalla concezione umana,
dalle espressioni della nostra cultura. E spesso e volentieri lo hanno
fatto a braccetto con la Chiesa cattolica. Ora siamo giunti a una fase ancora
più avanzata: non servono neppure più, le masse.
Lo spiega bene Marco Della Luna: le masse sono
ormai divenute superflue, per questo potere che vorrebbe “depopolare” il
pianeta.
Ormai mirano solo al controllo: si aggrappano come pazzi ai residui brandelli
del loro potere. Puntano al controllo totale: quindi vogliono la digitalizzazione forzata,
il transumanesimo, la sostituzione definitiva dell’uomo con le macchine e la
riduzione in schiavitù dei pochi superstiti.
Schiavi:
privati di coscienza, di libero arbitrio, di raziocinio. Privati di ogni
libertà, di ogni diritto. Un po’ come recita lo slogan dell’europea Id 2030:
non possiederemo più nulla, ma saremo tutti felici. Vi piacerebbe, vero? Ma non andrà
così. Pensiamo a quelli che oggi recitano l’Om nelle piazze: sono comunque
segnali di un risveglio spirituale. In tutte le grandi epoche di crisi e
transizione, c’è sempre stato anche un grande impulso della spiritualità. L’umanità ha periodicamente
compiuto balzi quantici, a livello intellettuale e spirituale. Ebbene: sono
stati determinati anche dalle eruzioni solari. Ce ne ha appena riparlato anche
l’astrofisica Giuliana Conforto: ci ha spiegato che il campo magnetico della
Terra sta mutando velocemente, andando a saldarsi con quello del Sole, oltre
che con il campo magnetico della galassia.
La
prima tempesta solare registrata con strumentazioni moderne risale negli anni
Sessanta dell’800: mise fuori uso i telegrafi di tutto il mondo. Se dovesse avvenire oggi, una
tempesta solare di quel tipo farebbe saltare tutti i satelliti e le reti di
telecomunicazione, inclusa la telefonia cellulare, e probabilmente manderebbe
in tilt le stesse centrali elettriche. Non è detto che certi preparativi di
una crisi energetica – vera o presunta che sia – non siano anche finalizzati a
“coprire” eventuali tempeste solari in arrivo. Ma attenzione: tempeste solari di
entità ben maggiore, avvenute ciclicamente, sono state ben documentate:
dall’analisi degli anelli degli alberi, secondo la “dendrocronologia”, e anche
dai carotaggi dei ghiacci, effettuati sia in Groenlandia che in Antartide.
Fra
l’altro, è stato anche dimostrato che nel VII secolo avanti Cristo si verificò
una tempesta solare oltre 10 volte più devastante di quella del 1864. Non esistendo
la telematica, l’umanità la percepì in maniera molto diversa: al limite la
videro, sotto forma di aurore boreali alle nostre latitudini e forse ancora più
a Sud.
Gli
effetti sull’uomo, però, non tardarono a manifestarsi: nel VI secolo avanti
Cristo l’umanità visse un vero salto quantico. Se è vero che può distruggere, il
Sole può anche dare la vita: può fornire un impulso vitale per la nostra
intelligenza. Nel VI secolo, infatti, nacquero – simultaneamente – decine di
movimenti religiosi innovativi, senza contare l’esplosione della filosofia in
Grecia. Nacquero
Pitagora, Zarathustra, il Buddha. Fenomeni che rispondono a regole cosmiche,
magnetiche?
Come
in alto, così in basso: quello che accade nella galassia è interconnesso con
ciò che avviene sul nostro pianeta. Noi siamo un microcosmo, in rapporto con un
macrocosmo. Evidentemente, le tempeste solari sono in grado di farci evolvere anche
da un punto di vista spirituale. Altre tempeste solari, del resto, erano avvenute
anche in precedenza: una – grandissima, risalente al 1200 avanti Cristo – si
verificò in concomitanza con la nascita dei Misteri Eleusini, cioè con l’arrivo a Eleusi della dea
Demetra. E
ne sono avvenute moltissime altre, sempre in corrispondenza di fatti epocali.
Quindi,
probabilmente, i gestori della Matrix – quelli che ci dominano – sono anche
terrorizzati dalla possibilità di eventi (incluse appunto le tempeste solari)
che possano determinare un balzo evolutivo, un salto quantico dell’umanità.
Ovvero: se l’umanità prende coscienza di sé, si libera
delle proprie catene. Come hanno potuto assoggettare gli esseri umani, per
oltre 10.000 anni? Con l’inganno, con i dogmi: con catene mentali e spirituali. Un bravissimo ricercatore come
Sabato Scala, studioso del Cristianesimo delle origini, insiste sulla necessità
del saper diversificare il Cristianesimo originario dal Cristianesimo
“politico”, creato a tavolino – per fini di potere – da personaggi come
Giuseppe Flavio, Paolo di Tarso e il filosofo romano Seneca.
Ci sono le prove, dei loro complotti: molto abilmente,
crearono una nuova religione solo in apparenza derivata dal Cristianesimo delle
origini. L’obiettivo qual era? Prendere il potere a Roma e impadronirsi delle
redini dell’Impero. E ci riuscirono.Il coronamento del loro delirio fu il
famigerato Editto di Tessalonica, promulgato da Teodosio.
Non è
sbagliato paragonarlo al Green Pass: l’obbligo di aderire alla nuova
religione fu imposto con la forza a una popolazione di 60 milioni di abitanti,
di cui soltanto il 15% aveva aderito al nuovo credo. A tutti gli altri, il Cristianesimo
“paolino” venne imposto con la violenza: chi non si fosse convertito avrebbe
perso ogni diritto civile (rischiando anche la vita, in molti casi). Comunque:
si perdeva il diritto a frequentare le scuole, a entrare nell’esercito, a
rivestire cariche pubbliche, persino ad accedere ai pubblici edifici.
Esattamente
come oggi: questi non hanno fantasia, ripetono sempre gli stessi atti.Quello
che Sabato Scala ci ha indicato è la presenza di precise leve psicologiche,
utilizzate dalla nuova religione romana proprio per assoggettare le masse. Secondo la scienza di oggi, queste
leve sono elementi certi, assodati, per la manipolazione comportamentale. Si tratta di elementi – scrive
Scala – che intervengono nel minare i fondamenti di una psiche sana: perché è proprio la psiche sana, che
vogliono attaccare, rendendola malata.
Come? Introducendo degli effetti, rinforzati
da un apparato mitologico e simbolico creato ad arte, che vanno a scardinare
alla radice i pilastri di un sano equilibrio psichico (equilibrio che, nelle
antiche tradizioni religiose, era sempre esistito). Quali sono, questi
obiettivi? Primo: l’autostima (e l’auto-efficacia). Secondo punto: la consapevolezza delle
proprie azioni, e di conseguenza l’assenza di sensi di colpa. Terzo: un equilibrato rapporto
corpo-psiche, ovvero una relazione armonica con la propria istintualità.
Fin
dalla sua prima elaborazione, il Cristianesimo “politico” imposto a Roma,
quello che poi ha preso il potere arrivando fino all’Inquisizione e alla caccia
alle streghe, ha costruito ad arte un sistema mitologico, un “palinsesto” di
rituali e di norme, comportamentali e morali, finalizzato a utilizzare in modo
coordinato, secondo un’accurata programmazione neuro-linguistica, tutte e tre
le leve citate: autostima, consapevolezza ed equilibrio corpo-psiche. In pratica, attraverso questa
manipolazione, sono arrivati a sottomettere le masse con il dogma, impedendo e
mortificando l’accesso alla conoscenza. Perché Eva fu cacciata, insieme ad
Adamo, dal Paradiso Terrestre? Perché aveva colto il frutto dall’Albero della
Conoscenza.
Non sia mai: l’essere umano non deve avvicinarsi alla conoscenza.
Se lo
fa, i dominatori sono perduti.
Prometeo,
il grande dio Titano, tentò in extremis di salvare l’umanità, che già era caduta
sotto il giogo dei nuovi dèi, rubando a Zeus la fiaccola della conoscenza per
donarla a noi. Purtroppo quel suo gesto non servì, perché Zeus riprese il sopravvento.
Ma quello di Prometeo resta un gesto simbolico importantissimo. Quella stessa fiaccola è
rappresentata dalla Statua della Libertà che si erge davanti al porto di New
York (e pochi sanno che il prototipo di quella statua è presente sulla facciata
del Duomo di Milano). Lo ribadisco: questo è un momento storico, tutti i nodi
verranno al pettine. Ci saranno tante macerie, ma siamo sicuramente all’alba di
una nuova era. E c’è qualcuno che sta facendo di tutto per non farla
cominciare, questa nuova era.
L’intento
dei dominatori è quello di ancorarsi al loro potere: per questo stanno facendo di tutto
per sottomettere l’umanità, per impedirle di evolversi e di compiere questo
salto quantico. Soprattutto: all’umanità vogliono impedire di ricordare chi è. Se noi
ricordiamo chi siamo – se riconnettiamo la nostra parte animistica, divina, con
gli dèi creatori, recuperando la memoria genetica che ci hanno trasmesso –
allora non ci incatena più nessuno.
Se riprendiamo possesso delle nostre capacità, delle
nostre vere facoltà, questo li spaventa. E tanto per essere chiari: era scomodo anche il Cristianesimo
delle origini, che infatti è stato perseguitato dal Cristianesimo “politico”,
progettato per il dominio.
E’
proprio al Cristianesimo delle origini che si ispirarono i Catari e anche i
Templari, che volevano rovesciare il Papato (si rifacevano infatti alla
tradizione giovannita, che era stata spodestata). Erano scomode anche moltissime
tradizioni misteriche – come quella eleusina, a cui io appartengo. Entrate in clandestinità, nel
medioevo hanno tentato anch’esse, a più riprese, di spodestare la Chiesa: non
ci sono riuscite, ma c’è mancato veramente poco. Il Rinascimento non è stato solo
una rinascita delle arti e della cultura classica: ha rappresentato una vera rinascita
delle scienze e delle coscienze, guidata (sottotraccia) proprio dalle antiche
tradizioni misteriche che, come un fiume carsico, erano sopravvissute nel
sottosuolo per tornare a riaffiorare e alzare la testa, con la stagione
rinascimentale.
Potevano
farlo, avendo in mano la maggior parte degli Stati e delle signorie dell’epoca,
contrapposte al Vaticano. Oggi la Chiesa è molto preoccupata, dalla rinascita
di certe tradizioni, che vede esprimersi anche nella new age. Premetto: io non
l’ho mai amata, la cultura new age; magari era nata con buone intenzioni, ma
poi è stata manipolata (soprattutto negli Usa, dalla Cia) per finalità
politiche. Diciamo che, anche in questo caso, bisogna separare la farina dalla
crusca.
Tornando
alla Chiesa cattolica: sta procedendo ormai verso una deriva transumanista,
improntata al Grande Reset di Davos. Lo dimostrano anche le scandalose politiche
vaccinali del Vaticano: una deriva totalitaria che non trova invece il consenso
della maggior parte delle Chiese Ortodosse. Il cattolicesimo romano, al
contrario, è totalmente appiattito sull’Operazione Corona, anche perché
rappresenta un potere che di cristiano non ha più niente.
Ebbene:
il potere cattolico è oggi spaventato anche da quello che, genericamente,
chiama “gnosticismo”. Il termine però è impreciso: c’è infatti anche uno
gnosticismo cristiano, c’è uno gnosticismo di origine ermetica, e c’è uno
gnosticismo impropriamente definito “pagano”. Comunque, “gnosi” vuol dire “conoscenza”: quindi, nello gnosticismo possiamo
annoverare tante tradizioni. Le gerarchie vaticane usano questo termine, in
modo un po’ dispregiativo, per indicare qualcosa di pericoloso. E la polemica
non è solo di oggi, risale agli anni Novanta.Interessante il caso di Louis
Pauwels, autore de “Il mattino dei maghi”: un libro che, negli anni Sessanta,
ha fatto la storia dell’esoterismo occidentale (e anche, in parte, del
movimento new age).
Poi, in età avanzata, Pauwels ebbe un repentino cambio
di rotta: divenne un intransigente cattolico e si mise ad attaccare tutte
quelle dottrine esoteriche che escono dai binari della Chiesa. Molto strana, la
sua pseudo-conversione: avvenne in seguito a uno strano incidente che quasi gli
costò la vita. Mi ricorda la situazione di oggi, in cui molte persone si lasciano
manipolare dalla paura, al punto da rinunciare ai loro diritti costituzionali e
alla propria libertà.
Negli
ultimi anni della sua vita, Pauwels arrivò a parlare di un “complotto mondiale
neo-gnostico”, ordito da “forze anti-cristiane” che mirerebbero a “indebolire
la fede dei cattolici”(sembrano parole di Don Curzio Nitoglia). Comunque, gli
attacchi allo gnosticismo – che stanno avvenendo proprio in questi giorni –
hanno svariati precedenti nei decenni scorsi, ben oltre il semplice caso
Pauwels.
Nel
1990, all’indomani del crollo dei regimi dell’Est Europa, l’arcivescovo di
Bruxelles, cardinale Godfried Danneels, in una sua lettera pastorale fece una
dichiarazione molto inquietante, poi pubblicata nel 1991 sul settimanale “Il Sabato”.
«La
riesumazione della vecchia gnosi – scrisse, testualmente – è un rischio
mortale, che potrebbe portare alla distruzione del Cristianesimo. E il clima di
festa e di liberazione dal comunismo non può assolutamente far dimenticare il
sorgere di questo nuovo, insidioso avversario».
A
breve distanza, anche il Pontefice (Giovanni Paolo II) fece una dichiarazione
simile, poi inclusa nel libro-intervista “Varcare le soglie”, curato da
Vittorio Messori. Lo stesso Wojtyla, dunque, espresse preoccupazione per «la
rinascita delle antiche idee gnostiche». Rinascita definita «un nuovo modo
di praticare la gnosi, cioè quell’atteggiamento dello spirito che, in nome di
una profonda e presunta conoscenza di Dio, finisce poi per stravolgere la sua
parola».
Obiettivamente
parlando, qui siamo al ridicolo. Una religione che si considera solida –
plurimillenaria – di cosa può mai avere paura? Del risorgere di forme di
consapevolezza legate al passato? Evidentemente sì: ne ha tanta paura. E in questi giorni, sempre in ambiti
cattolici – anche ambienti giornalistici, persino quelli della cosiddetta
controinformazione – si levano le voci di chi pure asserisce di essere contrario
alla “deriva autoritaria” in corso, ma poi si mette, curiosamente, ad attaccare
proprio lo gnosticismo. Mi domando: ma dov’è, questo gnosticismo? Vedete chiese
gnostiche? Movimenti gnostici al potere?
Evidentemente,
costoro temono una presa di coscienza: temono la riscoperta, da parte delle
masse, di antiche tradizioni spirituali (mai sopite). E in maniera un po’ generica e
ipocrita, le definiscono con l’etichetta di “gnosticismo”. Lo fanno per non nominarle, per non
pronunciare i loro veri nomi.E’ emblematico, il fenomeno: conferma la paura del
risveglio.
A
Firenze, il 14 novembre, sono state schierate le camionette della polizia
davanti alla Porta del Paradiso, al Battistero del Duomo, dove si erano
radunate migliaia di persone a recitare l’Om. A chi potevano far paura, quelle
persone? Alla Curia, immagino, ben più che al governo Draghi. A quanto pare, a
quella ritualità di piazza viene attribuita un’importanza enorme. In effetti,
davanti alla Porta del Paradiso si prega per qualcosa che va contro i dettami
globalisti e transumanisti dell’attuale Chiesa. E allora si sprecano gli attacchi
contro queste “nuove forme di gnosticismo”, pericolosissime. In realtà attaccano la rinascita
della consapevolezza: è quella, che fa paura.
Parallelamente, da parte dell’élite di potere, ci sono
progetti per arrivare a una nuova religione mondiale. In realtà risalgono all’Ottocento,
e molti sono già naufragati: ma certe fazioni non vi hanno mai rinunciato. Nell’ottica della Quarta Rivoluzione
Industriale, vorrebbero arrivare a fondere le tre grandi religioni
monoteistiche in una nuova pseudo-religione con i suoi dogmi, i suoi riti e i
suoi simboli.
Il
piano però è già fallito in partenza, sia per il rifiuto (motivato) da parte
dell’ebraismo, che per il rifiuto (più che motivato) da parte dell’Islam: quando Bergoglio è andato a Baghdad,
per poi animare un incontro interreligioso davanti alla ziqqurat babilonese di
Ur, il grande ayatollah Al-Sistani (una delle massime guide spirituali
dell’Islam sciita) gli ha risposto: potevi anche fare a meno di venire qui.
Come a dire: noi non ci stiamo, non accettiamo questa
deriva globalista né tantomeno accettiamo di rinunciare alla nostra tradizione,
per fonderci in una religione che sia consona ai poteri di certe élite. Non ha funzionato nemmeno
l’incontro interreligioso tenutosi nella Piramide di Astana, in Kazakhstan,
perché non ci sono i presupposti per realizzare quel progetto. Aderendo a questa operazione, fino ad
imporre addirittura il Green Pass a messa (siamo al delirio, ormai), la Chiesa
dimostra di aver perso ogni legittimità residua, agli occhi dei fedeli.Così
come gli stessi media manistream, giudicati inattendibili, anche il Vaticano
sconta ormai la sfiducia della maggioranza della popolazione: oltre il 60% dei
cattolici italiani, probabilmente, rifiutano la piega mondialista del
pontificato di Bergoglio, non riconoscendosi più in questa Chiesa.
E’ probabile
che il cattolicesimo romano vada incontro a uno scisma, che per ora è stato
soltanto rimandato. Ed è interessante che gli attacchi anti-gnostici provengano
anche da ambienti clericali tradizionalisti: alcuni sono stati sferrati da
personaggi come quel noto arcivescovo (Carlo Maria Viganò) che pure ha fatto
proclami importanti, contro la politica di Bergoglio. Anche lui s’è messo a
denunciare lo gnosticismo montante. Mi domando: di cosa hanno paura? Del
risveglio delle coscienze? Temono di non riuscire più a irreggimentarle?
Intendiamoci:
la spiritualità non può essere ingabbiata, recintata. Secondo me, l’umanità è
destinata (in buona parte) a un grande balzo evolutivo, a una rinascita della
coscienza, a una nuova consapevolezza. E questo la porterà davvero ad
evolversi, e a liberarsi finalmente da tante catene e da tanti condizionamenti.
Il che spaventa enormemente il potere. E’ probabile che ci sarà il tentativo
di creare nuovi movimenti di stampo new age, riadattati al presente, per
cercare di ingabbiare le persone. E invece, secondo me, oggi possono nascere nuove,
grandi correnti spirituali, di portata epocale. Perché siamo veramente a un
momento di svolta. Chi vivrà vedrà, ma a mio parere assisteremo a eventi
incredibili.
Se ci sarà un risveglio della consapevolezza, ci sarà anche un balzo in avanti
della società, sotto tutti gli aspetti: un salto quantico, dal mondo
scientifico fino alla dimensione del sociale. C’è solo da augurarselo. Prima, però, deve cadere questa
impalcatura malvagia, legata all’anti-umanesimo.
(Nicola
Bizzi, “La spiritualità della nuova era”: dichiarazioni rilasciate a Gianluca
Lamberti il 14 novembre 2021, nella trasmissione “Il Sentiero di Atlantide”,
sul canale YouTube “Facciamo Finta Che”).
L'Italia
non perda più tempo
sugli
impegni presi con il Pnrr.
msn.com-Il
giornale.it- Pompeo Locatelli-(16-11-2021)-ci dice:
Proust
ci ha speso la vita per andare alla ricerca del tempo perduto. D'altronde, il
fattore tempo è questione decisiva perché impatta in misura determinante su
qualsiasi decisione occorra prendere. Si tratta di un tema centrale del vivere.
L'esperienza
suggerisce quanto sia penalizzante perseguire la strada viziosa della perdita
di tempo. O del guadagnare tempo come se il non rispettare la tempistica
rispetto a un impegno fissato porti vantaggi apprezzabili. Forse furbo, ma di corto respiro. E, pertanto, inefficace alla prova
dei fatti. La
saggezza popolare, come sempre, indica la prospettiva virtuosa; chi ha tempo
non aspetti tempo. Come a dire: muoviamoci che abbiamo degli impegni da assolvere secondo
accordi precisi.
In
questi giorni avverto una certa preoccupazione nel premier Mario Draghi
rispetto al pericolo di un rallentamento nell'attuazione dei programmi
stabiliti nel Pnrr. Nella sostanza afferma che non c'è più tempo da perdere per
rispettare i patti presi con l'Europa che osserva altrettanto preoccupata. In
qualsiasi occasione non manca di richiamare tutti al senso di responsabilità. Qualche giorno fa lo ha fatto davanti
alla platea dei sindaci. Nessuno può chiamarsi fuori, in modo particolare chi
deve agire e portare a buon fine quanto stabilito nero su bianco per rilanciare
la politica di sviluppo del Paese. Ecco perché il tempo diventa il fattore chiave. In un certo qual modo è il termometro
che misura il grado di efficienza ed efficacia della macchina pubblica.
Dell'azienda Italia.
Non
possiamo permetterci di assistere al deprimente spettacolo della cattiva
pratica del ritardo dovuta e irresponsabilità, incompetenze, litigi, garbugli
di qualsiasi tipo. Succedesse di nuovo, sarebbe il baratro. Draghi ne è consapevole. Come
quella porzione di politica avveduta e ragionevole. Il tempo, purtroppo, non è
dalla loro parte. Si guadagna tempo nel rispettare i patti per tempo. Come
insegnano le imprese private virtuose.
Con la
litania dei “dipende da noi”
scaricano le loro colpe sugli italiani.
Laverita.info-Mario
Giordano-(16-11-2021)- ci dice :
Da
Speranza alle “virostar” , non si ferma la gara ad addossare ai cittadini le
responsabilità di eventuali disagi a Natale. Come se , tra mascherine farlocche
e pasticci sui vaccini , chi governa non
avesse combinato disastri.
(…)”
Il Natale dipende da noi” ,ripetono i virologi a microfoni unificati.”Il Natale
dipende da noi”, rilanciano le tv ,i giornali ,i talk show. E alla fine uno
comincia quasi a crederci , un po' come quando all’inizio della pandemia
facevano passare l’idea che fosse tutta colpa di quei due disgraziati che andavano a fare footing sulla spiaggia o una
passeggiata con il cane.
Oggi
ci siamo di nuovo: hai un dubbio sui vaccini ai bebé? Ecco lì : sei colpevole
del Natale rovinato per milioni di italiani. Sospetti che il green pass non sia uno strumento
sanitario? Allora ti carichi sulle spalle l’abolizione del cenone di Capodanno.
Non sei del tutto convinto sulla terza dose ? Risponderai del fallimento dello
shopping e delle sciate in montagna. Il concetto è chiaro : o segui come una
marionetta i diktat del nuovo credo sanitario o sarai ritenuto responsabile di
tutte le disgrazie prossime venture. A cominciare dalla cancellazione del 25 dicembre.
Avanti
di questo passo ,infatti , tra un po' vedremo Speranza in versione clerico papale ammonire i fedeli dal pulpito del
sacrestano Fabio Fazio: “Se non fate la terza dose
,quest’anno Gesù Bambino non nasce. E i
Re Magi andranno a omaggiare il Salvatore
su Plutone.
Sinceramente
non capisco .Sono quasi due anni che ci menano il torrone dicendo che quella
contro il Covid è una guerra. E va beh .Ma se é vero ,scusate , come può una
guerra dipendere da noi che ne siamo le vittime.? E’ un po' come se gli storici
dicessero che l’ eccesso di orti civili durante i bombardamenti aerei della seconda guerra mondiale sonio stati colpa di chi non si è riparato
per tempo nei rifugi anti aerei. Per carità : magari qualche gesto sconsiderato ci sarà pur stato.
Ma si
può addossare loro la colpa della distruzione ?Allo stesso modo : si può addossare
ai cittadini la colpa del Covid? Fateci caso : la metafora della guerra viene usta come
un argine per fermare qualsiasi critica alle scelte del governo( “il nemico è il
Covid , non gli strumenti per combatterlo” ha detto il presidente Sergio Mattarella) .La medesima metafora però non
vale per fermare la colpevolizzazione degli italiani che per altro si sono
sempre comportati in modo eccellente e rigoroso (salvo poche eccezioni).
Infatti né il presidente della
Repubblica né nessun altro oggi di fronte all’ennesimo
“dipende da noi” interviene per puntualizzare che “il nemico è il Covid e non i
cittadini italiani”?
Ma
perché? Sono cattolico ,sono cresciuto con il concetto di colpa sempre ben fisso in testa , so che cosa
è il peccato originale e ci faccio i conti quotidianamente. Ma dallo Stato
vorrei un comportamento un po' diverso dalle suore dell’oratorio di 50 anni fa.
Vorrei uno Stato laico. Che non miri alla colpevolizzazione dei cittadini.
Anche perché ho la vaga idea che questa colpevolizzazione serva solo a coprire le mancanze di altri.
Ma si,
insomma : siamo entrati nell’emergenza senza un piano pandemico e poi ci avete
detto che tutto dipendeva da noi; avete regalato mascherine a Pechino quando
noi eravamo senza e poi ci avete detto
che tutto dipendeva da noi; avete messo lì Domenico Arturi a compare e
distribuire materiali farlocchi e poi avete detto che tutto dipendeva da noi;
avete fatto pasticci sui vaccini , Astrazeneca e dintorni, e poi avete detto
che tutto dipendeva da noi; non avete fatto una mazza sulle cure domiciliari e
poi avete detto che tutto dipendeva da noi ;
avete ritardato colpevolmente e ora lasciate ammuffire i farmaci monoclonali (quando non li regalate
alla Romania) e poi dite che tutto
dipende da noi; vi site inventati uno
strumento come il green pass, così
severo come non esiste al mondo ,poi vi accorgete che non serve e dite che
tutto dipende da noi…Vado avanti ?
Potremmo
continuare all’infinito .Anzi penso che i lettori della “Verità”, che sono
stati puntualmente informati su quello che è successo durante la pandemia (tra
i pochi fortunati, oserei dire)potrebbero compilare una loro personale
lista di cose che non sono dipese da
noi. Praticamente tutto. E perciò adesso sentirmi dire di nuovo ,che tutto
dipende da noi , mi fa andare ai pazzi. Ma ormai in questo clima malato che si
sta cristallizzando , sembra tutto normale. Anche prolungare le emergenze e dire
che dipende dagli italiani. Anche sbagliare
tutto e colpevolizzare i cittadini che non hanno sbagliato niente.
Anche
avere la nostra salute nelle mani di un
uomo che un anno scriveva libri per celebrare i suoi inesistenti successi e ora dice che gli eventuali insuccessi
dipendono da noi. Senza rendersi conto che non può essere così. Perché se tutto
davvero dipendesse da noi ,caro ministro Speranza ,la prima cosa certa è che lei non
sarebbe più lì.
TRUMP,
I SOCIAL NETWORK E GLI ABUSI
DI
POTERE NELLA DEMOCRAZIA DI POPPER.
Corriere.it-
Stefano Agnoli-(13 gen. 2021)-c i dice:
A
proposito (ancora) della «censura» al presidente Trump e della polemica
sull’operato dei social networks, possono tornare utili le considerazioni che
un classico del pensiero liberale, Karl Popper, dedicò alla «Cattiva maestra
televisione», un piccolo saggio scritto poco prima della sua scomparsa,
all’inizio degli anni Novanta.
Si
badi bene: era tutto un altro contesto, riguardava la violenza in tv e
l’effetto sui bambini, e tutto un altro «media», la televisione appunto e non
Facebook o Twitter o Parler. Ma sostituendo (arbitrariamente) alla parola
«televisione» il termine «social networks» qualche spunto suona ancora attuale.
E lo è proprio perché sostenuto dall’autore de «La società aperta e i suoi nemici», un pensatore che difficilmente
potrebbe essere contestato dai «liberal» dell’ultima ora.
Tutto
parte dal concetto di democrazia. Che non è «offrire alla gente ciò che la gente vuole»,
dice Popper. «Nella democrazia – precisa – non si trova nient’altro che un principio di
difesa dalla dittatura».
E con questo principio anche una vecchia e
tradizionale aspirazione delle democrazie: quella di «far crescere il livello
dell’educazione». Le
televisioni (e i social networks, aggiungiamo sempre arbitrariamente) hanno
dimostrato di poter conferire a chi li ha creati e a chi li utilizza un enorme
potere politico. Di più: un superpotere, una volta che ci si è resi conto appieno di quanta influenza
consentano di ottenere. Un superpotere che è utilizzabile sia a favore sia contro la
democrazia e l’educazione. Si potrebbe dire: libertà contro dittatura da una parte,
educazione contro «fake news» dall’altra.
E
allora che cosa si può fare? Per molti nulla, specialmente in un Paese
democratico, ricorda il filosofo viennese. Per un paio di motivi, perché la
censura — prima obiezione — «non si sposa bene con la democrazia» e perché —
seconda obiezione — «arriverebbe sempre in ritardo».
La proposta che Popper avanzò allora a
proposito della tv è nota: servirebbe una «patente», che tutti coloro coinvolti
nella produzione televisiva dovrebbero conseguire. Con un’organizzazione (sul modello di
un «ordine dei medici») che la controlli, la assegni e la possa anche ritirare. E che permetta a chi lavora nel
settore di richiamarsi a principi morali condivisi, anche per potersi opporre a
richieste inappropriate (e non rischiare il ritiro, appunto, della propria
licenza).
Non so
dire se un’idea del genere sia buona, se possa essere riproposta o funzionare
(probabilmente no) o se ce ne siano di migliori (probabilmente sì). Ma ciò che colpisce è che a
sostenerla sia stato un animo indiscutibilmente liberale come Popper. Che parla senza mezzi termini della
necessità di maggior «controllo».
La
televisione (e immaginiamo, sempre arbitrariamente, anche i social networks) «è
diventata un potere troppo grande per la democrazia. Nessuna democrazia può sopravvivere
— concludeva — se all’abuso di questo potere non si mette fine». E allora, forse, bisognerebbe
iniziare a ragionare su come le democrazie possono mettere fine agli abusi di
potere.
Abusi di potere politico, come quello dei Trump di turno (e dei tanti regimi
che vogliono invece interferire nei processi delle democrazie). O economico, come quello delle Big
Tech e degli oligopoli della comunicazione.
Brevi
considerazioni su democrazia e media.
Filodiritto.com-Armin
Kapeller- (02 Novembre 2020)- ci dice:
LIBERTÀ
DI COMUNICAZIONE.
La
libertà di comunicazione (la stessa cosa vale peraltro per quella di opinione)
è stata definita costitutiva (“konstituierend”) di una democrazia liberale e va
considerata uno dei diritti fondamentali, che uno Stato di diritto ha l’obbligo
di salvaguardare. É un presupposto indispensabile per rendere possibile la “geistige
Freiheitsentfaltung”. Laddove la libertà di comunicazione non è sancita
espressamente da una norma costituzionale, essa è ormai considerata “ungeschriebenes,
gemeinschaftsrechtliches Grundrecht”.
Indice:
1. Introduzione e
norme sopranazionali
2. Rilevanza dei
media in un ordinamento liberal-democratico
3. Funzione di
controllo dei media
4. Indipendenza,
pluralismo e partecipazione alle scelte fondamentali
5. Iniziative
spontanee e movimenti civici
1. Introduzione e
norme sopranazionali.
“Non
c’è democrazia senza media”. Quest’affermazione può sembrare ovvia, ma non è così. La nostra società viene spesso
indicata come società dell’informazione e dei media, il che illustra bene la
cosiddetta medializzazione, che caratterizza la vita di tutti i giorni. Ci serviamo, quotidianamente, di
una pluralità di media. Degli eventi in politica, ci rendiamo ormai conto quasi
esclusivamente attraverso i media.
La
particolare importanza dei media risulta anche dal fatto, che la tutela dei
medesimi, non è lasciata soltanto ai singoli Stati (e ai legislatori degli
stessi). Ci sono parecchie norme di carattere sopranazionale, che contengono
garanzie per i media. Accenneremo, per motivi di brevità, soltanto alla CEDU e alla
Carta dei diritti fondamentali dell’UE.
L’articolo
10, comma 1, CEDU garantisce la libertà di informazione da ingerenze della
pubblica autorità e precisa, che essa va garantita senza limiti di frontiere.
La libertà di informazione nel senso di diritto di ricevere informazioni e di
trasmetterle ad altri, senza interventi della pubblica autorità, è sancita pure dall’articolo 11, comma 1, ultima parte, della Carta dei
diritti fondamentali dell’UE. Per effetto di questa norma, vengono tutelati
anche gli “operatori” dei media nella loro attività di “mediare” notizie al
pubblico. Con il disposto dell’articolo 11, comma 1 della citata Carta, si è
tenuto conto dell’importanza della libertà dei media, importanza, che trascende
il diritto – individuale – alla libertà di comunicazione. La Corte di giustizia
dell’UE (C- 283/11) ha sentenziato, che il diritto alla libertà di informazione
in un ordinamento pluralistico e democratico, è di enorme importanza. Va anche
sottolineata la rilevanza del pluralismo dei media, che viene tutelato
nell’interesse della cosiddetta “Medienvielfalt”.
Il diritto
alla libertà di comunicazione, che, nel passato, era un “Abwehrrecht” (diritto
“contro” lo Stato), si è trasformato in un “Gewährleistungsrecht” (garanzia,
per cui lo Stato deve rendere possibile l’esercizio). Il diritto di ogni
persona al rispetto della comunicazione, è previsto pure dall’articolo 7 della
Carta dei diritti fondamentali dell’UE. Va però osservato, che questa norma
garantisce soltanto la comunicazione diretta a determinate persone.
Gli
odierni mezzi di comunicazione, si dirigono a destinatari non individuati a
priori, potenzialmente a tutti e consentono uno scambio di opinioni non
circoscritto a singoli luoghi, regioni o Stati; sono caratterizzati da
un’elevata “attrattività", accessibilità relativamente facile e da un
elevato “potenziale di efficacia”.
I
moderni media, specie quelli audiovisivi, oltre a fornire una molteplicità di
notizie con grande celerità, trasmettono pure immagini, alle quali – sia pure
inconsapevolmente - è attribuita una
credibilità, che non sempre meritano.
Statistiche
dimostrano, che circa il 90% degli abitanti della RFT si informano – per quanto
concerne notizie relative alla politica nazionale – usando mezzi audiovisivi;
non cosí invece per quanto riguarda notizie sulla politica locale, le quali
vengono apprese in prevalenza dalla carta stampata.
2.
Rilevanza dei media in un ordinamento liberal-democratico.
Le
odierne democrazie non possono fare a meno dei media. La comunicazione tra politica o,
meglio, tra rappresentati del popolo e cittadini avviene, in larga prevalenza,
attraverso i media. C’è chi ha parlato di una “telecratia”, con poteri tali, da
minacciare la democrazia stessa. Non è necessario risalire nel tempo, per trovare
regimi, che sono stati particolarmente abili nel manovrare le masse a loro
piacimento, servendosi dei media, che da “Werkzeuge der Freiheit” (strumenti di
libertà), sono stati trasformati in “Werkzeuge der Unfreiheit”.
Tuttora,
secondo alcuni, sarebbe condivisibile la tesi, secondo la quale i media “…are
more likely to reinforce, than to change”. Chi ha il potere sui media,
“beherrscht das Volk”. D’altra parte è però anche vero che, al giorno d’oggi,
la molteplicità dei media quali “mezzi di trasporto” di comunicazioni, consente
pure un’ampia scelta tra gli stessi, specie se si tratta di “mündige Bürger”.
Un
sistema può ritenersi democratico “...when it allows the free formulation of
political preferences through the use of basic freedoms of associations,
information and communication”. Se la libera manifestazione del pensiero (e
delle opinioni), non è garantita e se vi sono verità ufficiali, la vita
spirituale “erlahmt”, come ha detto F.A.Hayek.
La
comunicazione deve essere libera da interventi arbitrari da parte di coloro che
sono al potere. Il diritto alla libertà di opinione, garantito dalle Costituzioni di
molti Stati, assicura un ampio spazio per la libera comunicazione. Soltanto un sistema, nel quale è
assicurata la libertà di comunicazione (e di opinione), può ritenersi
democraticamente legittimato. Ciò vale, in particolare, per le democrazie parlamentari. É la libera comunicazione a
stabilizzare e a tenere unito un ordinamento autenticamente democratico.
Al
giorno d’oggi, la “comunicazione mediale” adempie in parte la funzione, che,
nella Grecia classica, aveva l’agorà.
3.
Funzione di controllo dei media.
In una
democrazia è indispensabile, che i “rulers” siano, non soltanto controllabili,
ma altresí spesso controllati. La massa dei media (di diverso orientamento) a
disposizione del cittadino, può far sì che nella ricerca di notizie e di
informazioni, non necessariamente tutti (o molti) devono condividere le
opinioni dei cosiddetti opinion leaders.
Indispensabile
per una democrazia vera, è che sussista
almeno un’adeguata distanza tra media e sistema politico. “Räumliche Nähe zur
Prominenz” non deve essere un criterio, dal quale dipende la pubblicazione.
Tutt’altro
che trascurabili, sono le modalità, con le quali le informazioni da pubblicare
vengono selezionate. Ora è ben vero, che una certa “funzione di filtraggio” è
necessaria, ma non certo in modo, che soltanto il 10% delle notizie pervenute
venga pubblicato.
I
giornalisti soltanto in pochi casi sono "inventori” di notizie; quasi
sempre riportano quelle che gruppi politici o sociali fanno pervenire ai media.
Decisivi al fine di “soffocare” uno scandalo, non è tanto la quantità e la
gravità degli attacchi, quanto l’atteggiamento dei media.
4.
Indipendenza, pluralismo e partecipazione alle scelte fondamentali.
Di
particolare importanza è poi, in quale modo il "mondo politico” è in grado
di influire sulle scelte dei giornalisti, che lavorano per i media statali e
non.
É
stato detto, che non la "forza” dei media è in grado di influire sulle
scelte determinati della politica, ma la “debolezza” dei partiti politici. É fuor di discussione, che i media
contribuiscono in modo rilevate alla trasparenza dell’attività della politica. L’uomo politico, che rifiuta una
presa di posizione, viene indubbiamente “danneggiato” da questo suo
comportamento.
É
incontestabile, che i media danno un contributo essenziale al pluralismo, che è
una delle caratteristiche della democrazia rappresentativa, la quale democrazia
ha il vantaggio “to break and control the violence of factions” (J. Madison). Coloro che hanno opinioni diverse da
quelli che sono al potere, non devono non soltanto essere tollerati, ma anche
“favoriti” (J. Stuart Mill).
Lo
Sato deve intendersi come associazione composta da una pluralità di
associazioni (la cui costituzione lo Stato deve consentire e anche rendersi
garante dell’esistenza). L’autorità statale ha l’obbligo di trovare un ragionevole
compromesso tra i gruppi sociali, spesso su posizioni tutt’altro che
concordanti; è questa una sfida
permanente, alla quale deve far fronte lo Stato.
La
democrazia è in pericolo, qualora soltanto una piccola minoranza, spesso
elitaria (o che crede di essere tale), partecipi attivamente alle decisioni di
fondamentale importanza. Soltanto l’esistenza di una valida struttura comunicativa,
é in grado di salvaguardare la partecipazione di tutti (o almeno di molti) alla
formazione della cosiddetta volontè general.
Il
requisito della trasparenza esige, che gli organi dello Stato non tengano segrete
le loro decisioni (fatte salve poche eccezioni). Soltanto in tal modo é possibile un
controllo (costruttivo) da parte dei gruppi sociali, portatori di interessi non
sempre collimanti e il formarsi di
un’opinione pubblica degna di questo nome, inserita in un sistema di “checks
and balances". Soltanto se al popolo è consentito l’accesso a una vasta
gamma di mezzi di informazione e di comunicazione, un ordinamento può dirsi
democraticamente legittimato e sarà stabile e funzionante.
Si é
detto, che il parlamento è la platform, i media sono il microfono e gli
spettatori sono costituiti dal popolo.
Nel
passato, anzi, anche in tempi recenti, i dialoghi intrapresi da cittadini e da
gruppi di interesse con politici (non soltanto locali), spesso, si sono dimostrati
tutt’altro che “zielführend”, per cui è stato fatto ricorso a più vie di
comunicazione. Accanto alla comunicazione diretta, si è rivelata di particolare
utilità la comunicazione rendendo i fatti di pubblico dominio. Le reazioni (e,
spesso, anche le soluzioni) da parte dei politicanti, in questi casi, si sono
rivelate assai più celeri e, frequentemente, anche nel senso voluto da chi si è
rivolto ai media.
5.
Iniziative spontanee e movimenti civici.
Il
fatto che colloqui diretti con politici sono spesso terminati con “montagne” di
promesse, poi non onorate, ha favorito il formarsi di iniziative spontanee e di
movimenti civici, con lo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica su
determinati problemi, creando, delle volte, anche una specie di “mediale Gegenöffentlichkeit”,
in grado “öffentliche Aufmerksamkeit zu erregen” e che, non infrequentemente,
spinge – indirettamente – una politica riluttante, ad agire (finalmente).
Il
dominio della maggioranza non vuol dire, necessariamente, che debbano essere
conculcate (o almeno ignorate) le posizioni della minoranza. In una vera democrazia, le
decisioni dovrebbero essere adottate dopo aver sentito le minoranze e dopo che
si è almeno tentato di trovare il consenso della stessa o almeno un ragionevole
compromesso. Alla democrazia è immanente il principio di parità, che non può essere
semplicemente trascurato, per non dire ignorato. Fa parte della democrazia, che
possano articolarsi – in pubblico – anche opinioni diverse da quelle gradite
alla maggioranza; altrimenti verrebbe messa in discussione la partecipazione
(almeno virtuale) di tutti alla formazione della cosiddetta volontà comune
e favorito un orientamento di passività
nei confronti della res publica.
I
moderni mezzi di comunicazione consentirebbero un’intensificazione dei rapporti
di comunicazione (e, al contempo, la rapidità degli stessi) tra i responsabili
della politica e coloro, che sono “governati”. Aprono nuove possibilità di
partecipazione alla formazione della volonté general.
I
mezzi telematici offrono sempre maggiori possibilità anche di esternare
opinioni e posizioni, che, non necessariamente, devono essere identiche a
quelle propugnate da chi ha in mano una parte rilevante, per esempio, della
carta stampata e che costituisce la cosiddetta maggioranza comunicativa, la
quale, ormai, deve “fare i conti” con la minoranza comunicativa, costituita, principalmente, dagli utilizzatori di
moderni mezzi di comunicazione, accessibili anche a chi non dispone di risorse
finanziarie elevate.
In tal
modo viene rafforzato l’elemento partecipativo, che caratterizza la democrazia,
che dovrebbe essere un “insieme” di uomini liberi aventi gli stessi diritti.
L’internet
consente ai cittadini non soltanto di informarsi (e di informare !) utilizzando
la molteplicità delle banche dati inserite nello stesso, ma anche di prendere
rapidamente contatto con una molteplicità di altre persone e di scambiare con
esse opinioni e idee. “The heart of strong democracy is talk” e “strong democracy
creates the very citizens”.
La
comunicazione può essere considerata come “trasformatore” di interessi
individuali in interessi della comunità’.
Non è
più attuale la tesi, prospettata dallo Schumpeter, secondo la quale il popolo,
a causa dell’“Uniformiertheit” (mancanza
di informazioni), non è in grado di decidere esso stesso “spezifische
Sachfragen”.
La
funzione dei media, al giorno d’oggi, è, non soltanto, di informare, ma anche
di contribuire alla formazione dell’opinione pubblica, di controllare e di
criticare, se necessario, l’operato di chi è al potere. John Locke ha affermato, che la
democrazia rappresentativa è basata su un sistema complicato di controllo e di
fiducia. Altro
requisito per il buon funzionamento della stessa, è la trasparenza.
É
stato costatato, che persone con un elevato grado di istruzione, sono più
propense ad accedere alla molteplicità dei mezzi di informazione, che persone
con un basso grado di istruzione e di cultura. Ci sono sempre stati, ci sono
tuttora e ci saranno sempre, dei creduloni, che sono facile preda di qualche
furbetto (che poi veramente furbo non è), abile nel celare i propri trucchi,
ridendosi poi dei gonzi, che ha “hinters Licht geführt “. É nella natura delle
cose, che questi pidocchi non sono in grado di accorgersi – in tempo – dei
danni, ai quali essi dovranno, in futuro, far fronte con i propri risparmi. Ma tant’è…“C’è
cu allo scrusciu (rumore) della virità, prefirisce il silenziu della…” (direbbe
un autore molto letto anche dopo sua recente scomparsa); non di rado si tratta
di soggetti, che hanno “qualichi cosa da ammucciare”.
Le
persone di scarsa cultura, spesso, omettono ogni tentativo di verificare, se
quanto riportato, corrisponde (o possa corrispondere) a un barlume di verità o
meno.
DEMOCRAZIA
DIRETTA VS DEMOCRAZIA RAPPRESENTATIVA N. 1 - 02/10/2017
STATO
» DOTTRINA - DI ANNA PAPA.
'Democrazia
della comunicazione' e formazione dell’opinione pubblica.
Federalism.it-Anna
Papa- (2-10-2017)- ci dice:
Le
dinamiche della formazione dell’opinione pubblica presentano, in un sistema
democratico, una indubbia rilevanza stante il ruolo di “pilastro” che esse rivestono
nella legittimazione delle istituzioni e delle regole della comunità, dalle
quali vengono peraltro, a loro volta, influenzate, in ragione dei diversi
elementi politici ed istituzionali che le compongono e caratterizzano.
Ne consegue che ogni Stato democratico
presenta caratteristiche peculiari di opinione pubblica e formazione del
consenso, mentre permane comune e incontroversa l’esigenza che la decisione
popolare – nella forma delle elezioni, del referendum o delle sempre più
numerose esperienze partecipative e deliberative – rappresenti il precipitato
di volontà formatesi in modo “politico”, e quindi consapevole, in una delle
tante ἀγοραί (politiche, di comunità, televisiva, virtuale) nelle quali si
sviluppa il dibattito nelle odierne società occidentali.
Anzi,
può dirsi che quanto più la manifestazione della volontà popolare è chiamata a
produrre esiti deliberativi e non solo meramente elettivi, tanto più assume
rilevanza non solo la “presenza” di una opinione pubblica formatasi in modo
libero e plurale, ma anche la “qualità” della stessa, divenendo quindi
necessario che essa si formi a valle dell’“acquisizione di un sapere e di una
competenza sull’oggetto della decisione da adottare” e che questi ultimi
(sapere e competenza) si siano formati su contenuti plurali, attendibili e,
nella misura massima possibile, imparziali.
Centrali nella formazione dell’opinione pubblica e del
consenso restano i partiti politici e i movimenti ma pari importanza va oggi
riconosciuta alla “comunicazione”, intesa in questa sede come manifestazione
del pensiero nella sfera pubblica sia al fine di informare, anche nella forma
del giornalismo partecipativo, sia di produrre adesione ad un pensiero politico.
Può
dirsi, infatti, che quanto più le società occidentali si caratterizzano per
essere basate sull’informazione e la comunicazione, tanto più anche la forma
democratica e l’opinione pubblica, che esse esprimono, tendono a presentare le
medesime caratteristiche. Si tratta peraltro
di un processo iniziato ormai da diversi decenni: la seconda metà del XX secolo è stata
caratterizzata da un progressivo ridimensionamento della stampa, incontrastato
strumento di formazione dell’opinione pubblica fino a quel momento, determinato
anche dalla progressiva affermazione della televisione come mass media, che ha
dato vita ad una nuova dimensione della sfera pubblica, definita appunto
televisiva; oggi un nuovo cambiamento viene determinato dall’affermazione ed
evoluzione della Rete, che rappresenta sempre più un elemento essenziale della
vita sociale, partecipativa, relazionale di una comunità, con indubbi riflessi
sulla circolazione delle opinioni e delle idee.
La
democrazia del terzo millennio si avvia quindi ad essere, anche da questo punto
di vista, una e-democracy, nelle molteplici forme che i cambiamenti prodotti
dalle nuove tecnologie digitali si presentano in grado di produrre.
Per
farlo necessita tuttavia anche di mantenere, come si avrà modo di approfondire,
in equilibrio l’architettura della sfera pubblica e dei meccanismi di
formazione del consenso...
(pdf
document -SCARICA IL DOCUMENTO INTEGRALE).
“Comunicazione
e potere. Le strategie retoriche
e
mediatiche per il controllo del consenso”
di
Alessandro Prato.
Letture.org-Prof.
Alessandro Prato- (30-6-2021)- ci dice:
Prof.
Alessandro Prato, Lei ha curato l’edizione del libro Comunicazione e potere. Le
strategie retoriche e mediatiche per il controllo del consenso edito da Aracne:
quale rapporto esiste tra comunicazione e potere?
Comunicazione
e potere.
Il
rapporto che lega i mezzi di comunicazione di massa con i sistemi di potere e
di controllo sociale, e che ha l’obiettivo di controllare e addomesticare la
pubblica opinione, è stato oggetto di studio di autori fondamentali del
Novecento come Walter Lippmann, Edward Bernays, e Noam Chomsky.
Quest’ultimo
in particolare ha elaborato – a partire dal fondamentale Manifacturing consent
(scritto in collaborazione con Edward S. Herman) per arrivare alle ricerche più
recenti – un
modello di analisi dei media che svela il meccanismo attraverso cui il mondo
dell’informazione mobilita l’opinione pubblica per sostenere e difendere gli
interessi dei sistemi di potere che governano la società.
L’intento
del libro Comunicazione e potere è proprio di applicare questo modello per sfatare
alcuni luoghi comuni ancora largamente imperanti, come quello che vede nel
giornalismo un sistema alternativo ai centri di potere e impegnato nella
ricerca della verità, o quello che considera l’interventismo degli USA nel
mondo (prima in Vietnam e poi in Afghanistan, Iraq e Libia) basato sugli ideali
di democrazia e libertà.
Un
altro luogo comune abbastanza radicato e tuttavia infondato è quello che
considera la propaganda un sistema congeniale ai regimi totalitari ed esclusivo
appannaggio di questo tipo di organizzazione politica e sociale. Chomsky invece ha mostrato come la
propaganda si sia sviluppata proprio nei sistemi democratici, in primo luogo
gli Stati Uniti e l’Inghilterra (dove già esisteva un Ministero
dell’informazione fin dai primi anni del Novecento) perché, essendo due paesi a
larga partecipazione democratica, era necessario studiare strategie per
controllare le opinioni, indirizzare il consenso, non essendo possibile usare,
tranne che in casi eccezionali, la forza.
Ovviamente
anche i regimi totalitari hanno usato tecniche di propaganda – il fascismo e,
ancora di più, il nazismo con Joseph Goebbels – ma prendendo come modello di
riferimento proprio il sistema del mondo anglosassone; lo stesso Hitler non mancava, nel
Mein kampf, di esprimere la sua ammirazione per l’apparato propagandistico che
gli Stati Uniti avevano usato durante la prima guerra mondiale
nell’amministrazione di Wilson, convincendo in poco tempo la maggior parte
della popolazione – che era contraria al coinvolgimento degli Stati Uniti nella
guerra – a sostenere proprio l’entrata in guerra del loro paese contro la
Germania.
Inoltre
nei regimi totalitari l’uso della propaganda è in generale più trasparente,
utilizza delle tecniche che sono più facilmente riconoscibili e per questa ragione risulta assai
meno interessante per la ricerca, anche perché in questi regimi è sempre
possibile per controllare le opinioni usare la coercizione senza particolari
problemi.
L’espressione
“fabbrica del consenso” è stata coniata da Walter Lippmann, la personalità che più ha segnato il
giornalismo americano del Novecento. Proprio negli anni venti egli
richiamava l’attenzione sulle tecniche di propaganda per controllare le masse e
pensava che il paese dovesse essere diretto da un’avanguardia di persone
competenti e responsabili, le sole a poter prendere le decisioni importanti; anche la posizione di Harold Lasswell, uno dei fondatori
delle moderne scienze politiche, andava nella stessa direzione quando riteneva che
bisognasse rinunciare al dogma democratico secondo il quale il popolo sarebbe
il miglior giudice dei propri interessi. Le tecniche di propaganda servono
allora per guidare le persone, definite il «gregge disorientato», per controllare i loro pensieri e per
convincerle ad assumere un ruolo passivo, accettando le direttive proposte dai
sistemi di comunicazione mainstream.
Controllare
le opinioni significa anche indirizzare la gente verso le cose superficiali
della vita, il consumo, lo spettacolo, lo sport, il gossip, in modo da evitare
che si interessi delle questioni importanti della vita economica e sociale del
proprio paese e che partecipi in modo attivo alla sfera pubblica.
Questa è la strategia della distrazione
perseguita dall’industria dell’intrattenimento, (della quale fanno parte la
pubblicità, il cinema, la musica, la televisione, o sport ecc.) che consiste
appunto nel distogliere l’attenzione del pubblico dai problemi importanti e dai
cambiamenti decisi dalle élites politiche ed economiche utilizzando la tecnica del diluvio o
dell’inondazione di distrazioni continue e di informazioni insignificanti. Il pubblico in questa maniera resta prigioniero della «filosofia
della futilità» che promuove il consumo come alternativa alla ribellione, al fine di plasmare consumatori
disinformati che fanno scelte irrazionali spesso contro i loro stessi
interessi:
ad esempio, il lavoratore amareggiato, invece di cercare di cambiare le sue
condizioni di lavoro, cerca di rinnovarsi circondandosi di nuovi beni e servizi,
segue le cose superficiali della vita, i consumi dettati dalla moda e dimentica
le idee così pericolose di compassione, di solidarietà, di attenzione agli
altri e, in generale, i valori umani.
Quali
sono le tecniche retoriche utilizzate per il controllo del consenso?
Tra le
tecniche retoriche ancora oggi più utilizzate nell’ambito del discorso pubblico
troviamo le fallacie argomentative che sono esempi di argomentazione
scorretta, in cui le premesse del ragionamento non sono attendibili perché
costruite sulla base di pregiudizi o stereotipi, oppure addirittura sulla
menzogna, o ancora sono espresse in forma ambigua e confusa; in altri casi le premesse non sono
pertinenti rispetto all’argomento trattato.
Pur
essendo delle mosse argomentative scorrette, le fallacie sono molto frequenti e
vengono usate nei più diversi contesti, proprio per la difficoltà di essere
riconosciute come tali; la loro apparente correttezza le rende particolarmente
adatte a manipolare intenzionalmente e in modo fraudolento l’uditorio, allo
scopo di produrre una persuasione ingannevole.
Ciò si
spiega con il fatto che a differenza della logica formale, l’argomentazione,
poiché tratta usi pratici del ragionamento (ad esempio in campo etico, politico
o giuridico) deve soddisfare anche l’ulteriore criterio della efficacia e della
forza persuasiva: entrano qui in gioco anche gli elementi della psicologia del
ragionamento.
Una
delle fallacie più sfruttate dai protagonisti della comunicazione politica è la
cosiddetta fallacia di presupposizione o ragionamento circolare, si presenta
come un errore logico, perché inserisce tra le premesse di un’argomentazione la
conclusione, ovvero ciò che si intende dimostrare.
Già
Gorgia, il grande protagonista della retorica sofistica, era pienamente
consapevole della forza persuasiva di questo tipo di ragionamento e lo
utilizzava a pieno titolo nella sua opera più conosciuta e discussa: l’Encomio di Elena. Molti messaggi che ci vengono
proposti,
infatti, presentano già tra le premesse, in modo implicito o addirittura
esplicito, la conclusione, che non è il risultato di un ragionamento, ma un assioma che viene spacciato per
vero senza che venga fornita alcuna prova. Ad esempio, L’affermazione «l’aborto
è l’uccisione ingiustificata di un essere umano, e come tale è omicidio.
L’omicidio è illegale, dunque l’aborto dovrebbe essere illegale» appare fondata
dal punto di vista argomentativo perché se si assume che l’aborto sia un
omicidio, ne segue che, visto che l’omicidio è illegale, anche l’aborto
dovrebbe essere illegale.
Tuttavia
il ragionamento proposto è chiaramente ingannevole perché la frase conclusiva
non fa che ripetere in altra forma un principio già espresso nella prima
premessa – cioè
che il feto possa essere considerato a tutti gli effetti un essere umano – senza il sostegno di alcun
principio di prova e altresì ignorando completamente il dibattito che tuttora
divide i giuristi e gli scienziati su questa questione. La prima premessa di questo
ragionamento è infondata perché l’argomentatore dà per scontato già in partenza
che l’aborto sia un omicidio, senza apportare prove che convalidino questa affermazione;
di conseguenza anche la conclusione, cioè che l’aborto dovrebbe essere
considerato illegale, è infondata.
Questa
strategia funziona molto bene nel discorso deliberativo perché permette al
soggetto politico di non rendere conto del proprio operato: ad esempio, per rispondere alle
numerose critiche rivolte dai cittadini e anche da alcuni commentatori alle
riforme promosse dal governo Renzi (sul lavoro, sulla scuola, sulla pubblica
amministrazione ecc.), gli esponenti della maggioranza, hanno detto in più
occasioni che un’innovazione era comunque necessaria, che la riforma è sinonimo
di cambiamento, e un cambiamento è sinonimo di miglioramento, evoluzione,
progresso.
Il
messaggio proposto è che la situazione andava modificata e chi critica il
rinnovamento è allora un conservatore che vuole mantenere le cose così come
sono, e la conservazione è di per sé un fattore negativo da stigmatizzare. Invece di analizzare i contenuti
delle riforme e di confrontare ciò che si intende eliminare con ciò che si
vorrebbe sostituire ad esso, ci si limita a declamare uno slogan sul
cambiamento in quanto tale. La presupposizione che sta dietro all’affermazione in
questione è che il nuovo che interrompe la continuità di una tradizione vale in
quanto tale come positivo e che l’essere conservatore di qualcosa abbia
aprioristicamente una qualifica negativa, a prescindere da quale sia in concreto
il contenuto che si intende preservare. Se dovessimo applicare questo
principio alla valutazione di episodi salienti della nostra storia, gli effetti sarebbero paradossali,
perché si potrebbe dire che le leggi fascistissime approvate nel 1926, furono
un esempio positivo di radicale innovamento rispetto a una vecchia tradizione
liberale da lungo tempo in crisi.
Le
fallacie di presupposizione sono dannose perché falsano le regole del
dibattito e lo svuotano dal suo interno: si chiede al pubblico di accettare una
tesi in modo del tutto acritico e non di ragionare su un determinato problema
cercando la soluzione che si ritiene migliore; la discussione non verte più sugli
argomenti ma si riduce alla proposta di slogan che si presentano validi senza
alcun elemento di prova.
Un
altro tipo di fallacia molto presente è l’argomento ad hominem, o appello alla
persona; si
verifica quando si cerca di screditare una tesi attaccando la persona che la
sostiene attraverso alcune sue caratteristiche come l’aspetto fisico, le
abitudini, la lingua, l’orientamento sessuale, la cultura di appartenenza,
piuttosto che portando ragioni contro la tesi stessa. Se, ad esempio, P. sostiene le
ragioni a favore dell’istituzione del reddito di cittadinanza, si compie una scorrettezza nel
momento in
cui per contestare la sua idea si fa presente che su P. pende un’accusa di
frode.
In questo caso gli argomenti di P. possono essere
validi anche nel caso in cui lui sia un soggetto di dubbia moralità e
andrebbero esaminati indipendentemente dall’opinione che abbiamo di lui, perché
questa non è rilevante per giudicare la validità della sua tesi. Se un rappresentante sindacale
sostiene che nella fabbrica dove lavora è necessario migliorare i dispositivi
di sicurezza, che a suo avviso risultano carenti e non adeguati a garantire
l’incolumità dei lavoratori, il responsabile della sicurezza usa
un’argomentazione scorretta se afferma che questa richiesta non può essere
presa in considerazione perché lo stesso rappresentante non è credibile, visto
che negli anni sessanta fu arrestato per resistenza a pubblico ufficiale.
In questo caso il punto dovrebbe essere verificare la
qualità dei dispositivi di sicurezza avviando un’analisi del rischio e non
indagare sui precedenti del rappresentante sindacale. Nonostante la sua palese
infondatezza, la fallacia ad hominem spesso risulta efficace nei contesti
elettorali perché è funzionale al fenomeno noto come «personalizzazione della
politica» che ha assunto sempre più una notevole rilevanza.
In
effetti la televisione si dimostra un mezzo estremamente efficace per
rappresentare la politica attraverso le persone e i loro confronti
spettacolari, attraverso la televisione la politica viene rivista e costruita
come uno spettacolo, in cui agiscono delle “personae”, cioè delle maschere
teatrali, nelle quali gli spettatori possono proiettarsi e identificarsi. La televisione ha cambiato il modo
di fruizione della politica, che viene ricevuta in una dimensione privata e
come funzione di personalità singole.
La
mediatizzazione della politica richiede la presenza sulla scena di leader che
siano da una parte ben identificabili e dall’altra in perenne scontro con i
loro avversari. La politica assume così le caratteristiche di un “corpo a corpo”, in
cui gli aspetti enunciativi che riguardano il contenuto del discorso sono messi
in secondo piano rispetto a quelli enunciazionali che si riferiscono, invece, alla presenza di chi pronuncia il
discorso, con la conseguenza che non è tanto importante cosa si dice, quanto chi
parla.
La
retorica tende in questa maniera a diventare un puro strumento di affabulazione
anche e soprattutto attraverso uno squilibrio nell’uso delle tre argomentazioni
di matrice aristotelica, l’ethos, il pathos e il logos, dove il primo diventa
elemento privilegiato dell’argomentazione rispetto ad un logos il cui ruolo
rimane molto limitato e secondario.
La
fallacia ad hominem si presenta anche nella variante del tu quoque, detta anche
fallacia di azzeramento: ciò si verifica ad esempio, quando, per scagionarsi da
un’accusa di corruzione, si afferma che anche la parte avversa si è macchiata dello
stesso reato; oppure
quando si dice che non bisogna indignarsi per la corruzione dei politici,
perché casi analoghi sono presenti anche tra i giudici, le forze di polizia, i
medici ecc.
Si
parla in questo caso di violazione della rilevanza per simmetria. Lo scopo è quello di suggerire al
pubblico l’idea che se la colpa è generalizzata, e se molte persone si
comportano in questo modo, non c’è da preoccuparsi e il problema è azzerato. il risultato paradossale è che la
generalizzazione del reato, invece di essere un elemento aggravante, assume al
contrario funzione di attenuante. Questa dissonanza cognitiva la maggior parte delle
volte non è rilevata dall’opinione pubblica.
La
simmetria a volte risulta anche menzognera, come quando Berlusconi, per
difendersi dall’accusa di aver evitato dei processi grazie alle leggi ad
personam promulgate dal suo governo, ritorse contro Prodi la medesima
accusa, dicendo che Prodi si era salvato grazie all’amnistia e alla modifica
dell’abuso d’ufficio, mentre in realtà fu Berlusconi a beneficiare di quelle
leggi in quanto Prodi venne prosciolto perché i giudici hanno ritenuto che il
fatto non sussisteva.
La
conoscenza delle fallacie e dei meccanismi dell’argomentazione scorretta può
aiutare i destinatari dei messaggi a valutarli con maggiore cognizione di causa
e a difendersi dalla loro potenzialità persuasiva: in questa funzione di analisi critica
del discorso pubblico risiede a nostro avviso l’attualità e l’utilità della
retorica.
In che
modo i media influenzano il comportamento delle persone e la formazione
dell’opinione pubblica?
Oltre
alla strategia della distrazione di cui abbiamo già parlato, il sistema dei media utilizza altre
tecniche di manipolazione la cui dinamica è stata sempre messa in luce da
Chomsky.
La prima si può definire come la tecnica del “creare problemi e poi offrire le
soluzioni” e si basa sullo schema “problema-reazione- soluzione”: si crea un problema, una situazione
prevista per suscitare una certa reazione da parte del pubblico, con lo scopo
che sia questo il mandante delle misure che si desiderano far accettare. Ad esempio, lasciare che si intensifichi
la violenza urbana, o organizzare attentati sanguinosi, con lo scopo che sia la
stessa opinione pubblica a richiedere le leggi sulla sicurezza e le politiche a
discapito della libertà.
Oppure
si lascia sviluppare una grave crisi economica senza intervenire con lo scopo
di far accettare poi come un male necessario la retrocessione dei diritti
sociali e lo smantellamento dei servizi pubblici.
La
seconda è la cosiddetta strategia della gradualità: per far accettare una
misura che va contro gli interessi dei cittadini, basta applicarla gradualmente per
anni consecutivi. In questo modo condizioni socioeconomiche radicalmente nuove
sono state imposte durante i decenni degli anni ‘80 e ‘90: stato minimo,
privatizzazioni, precarietà, flessibilità, disoccupazione di massa, salari che
non garantiscono più redditi dignitosi, sistema pensionistico vessatorio
soprattutto in riferimento alle fasce più deboli della popolazione. Tutti questi cambiamenti che hanno
notevolmente peggiorato le condizioni di vita dei ceti medi avrebbero provocato
una rivoluzione se fossero stati applicati in una sola volta.
La
terza è la strategia del differimento: una decisione impopolare viene
presentata come dolorosa e necessaria, ottenendo l’accettazione pubblica
nell’immediato, rimandando però la sua effettiva applicazione a un momento
futuro.
È una
strategia il più delle volte efficace, dal momento che è più facile accettare
un sacrificio futuro che un sacrificio immediato, in primo luogo perché lo
sforzo non è quello impiegato immediatamente e, in secondo luogo, perché il
pubblico ha sempre la tendenza a sperare ingenuamente che “tutto andrà meglio
domani” e che il sacrificio richiesto potrebbe essere evitato. Questo dà più tempo al pubblico per
abituarsi all’idea del cambiamento e di accettarlo rassegnato quando arriva il
momento della sua effettiva realizzazione.
Degna
di interesse è anche la strategia dell’auto-colpevolezza che ha lo scopo di far
credere alle persone che se si trovano in una situazione difficile dal punto di
vista economico e sociale, la responsabilità di tutto questo appartiene a loro, alla
loro insufficiente intelligenza e alle loro limitate capacità.
Così,
invece di ribellarsi contro il sistema economico, le persone si auto-svalutano
e s’incolpano, cosa che crea a sua volta uno stato depressivo, uno dei cui
effetti è l’inibizione della loro possibilità di reagire. E senza azione, naturalmente, non è
possibile alcuna forma di reazione, sia individuale che collettiva. Questo obiettivo si consegue quando
il pubblico è immerso nell’ignoranza e nella mediocrità e non è pertanto in
grado di comprendere le tecnologie ed i metodi usati per il suo controllo e la
sua schiavitù. Per questa ragione negli ultimi decenni le politiche educative e
scolastiche, anche in Italia, sono state organizzate sempre più in modo da far sì che la qualità
dell’educazione data alle classi sociali inferiori sia la più povera e mediocre
possibile,
e che la distanza culturale che divide le classi inferiori da quelle superiori
sia tale da non poter essere colmata. Per consolidare questo risultato
l’industria dell’intrattenimento ha stimolato il pubblico ad essere compiacente
con la mediocrità, spingendolo a ritenere che è di moda essere stupidi, volgari
e ignoranti.
Quale
ruolo svolgono i mass media nella produzione delle paure collettive?
Generare
delle paure nell’opinione pubblica per addomesticarla secondo gli interessi dei
sistemi di potere è una strategia ormai classica che rientra nel più generale
metodo di utilizzo dell’aspetto emozionale a discapito della riflessione, al
fine di provocare un corto circuito su un’analisi razionale e indebolire il più
possibile il senso critico delle persone.
L’uso
esclusivo del registro emotivo permette di aprire la porta d’accesso
all’inconscio per impiantare, paure e timori, compulsioni, e indurre
comportamenti adeguati a questo stato d’animo. Sfruttare la paura per far
accettare una tesi corrisponde del resto alla dinamica della fallacia ad
baculum, che coincide un appello più o meno esplicito alla forza, in virtù del quale si ricorre anche
all’arma del ricatto come negli avvertimenti mafiosi, per cui ad esempio si
invitano i lavoratori ad accettare determinate condizioni non troppo favorevoli
perché altrimenti il loro contratto di impiego alla scadenza potrebbe non
essere rinnovato. In questa maniera il soggetto non ha allora più la
possibilità di valutare con libertà di giudizio le proposte dell’interlocutore
e il confronto non è più dialettico.
Un
esempio emblematico della strategia della paura è quello relativo all’invasione
dell’Iraq da parte degli Stati Uniti nel 2003: per giustificare questa aggressione
il governo americano e i loro alleati europei hanno sostenuto a più riprese che
l’Iraq possedeva un arsenale di armi di distruzione di massa, che l’Iraq
avrebbe potuto colpire direttamente gli Stati Uniti e che la forza militare
irachena poteva addirittura essere paragonata a quella della Germania
hitleriana.
La maggior parte dei media americani, ma anche
italiani, si è guardata bene dal sottoporre al vaglio critico queste tesi,
mettendo in dubbio la loro palese infondatezza, ad esempio chiedendosi come
fosse possibile che l’Iraq, colpito da anni di embargo e con un esercito di
gran lunga inferiore a tutti gli altri paesi dell’area mediorientale, potesse
costituire una minaccia immediata per una potenza militare mondiale come gli
Stati Uniti.
Al contrario i media a più larga diffusione non hanno fatto altro che ripetere
fino alla nausea queste tesi, inducendo, secondo i sondaggi dell’epoca, la
maggioranza della popolazione a essere favorevole all’intervento militare. Queste tesi si sono rilevate a
distanza di anni del tutto menzognere e un importante giornale come il New York
Times lo ha anche riconosciuto, dopo però che la macchina propagandistica aveva svolto
efficacemente il proprio lavoro.
In che
modo il web e i social media hanno modificato la narrazione della politica?
Le
forme e gli strumenti della comunicazione digitale hanno permesso in questi
ultimi anni di modificare in maniera rilevante le dinamiche della comunicazione
politica, rendendo più facile per i suoi protagonisti coinvolgere emotivamente
i pubblici di riferimento, costruire una relazione di fiducia, generare senso
di appartenenza ad una comunità e favorire la comprensione delle proposte. La campagna politica per l’elezione
di Barack Obama tutta centrata sui valori anziché sui contenuti costituisce da
questo punto di vista un esempio importante di questa tendenza.
Il
web, infatti, e in particolare i social media permettono, per la prima volta,
al politico di instaurare un dialogo diretto con i cittadini, superando la
tradizionale mediazione degli organi della comunicazione di massa. Una presa di posizione postata su
Facebook, un videomessaggio caricato su YouTube, uno scambio di battute su Twitter
hanno la possibilità di diffondersi in Rete, e quindi arrivare a un numero
potenzialmente elevato di persone, senza dover dipendere dalle scelte della
redazione di un giornale o di una trasmissione televisiva.
La
mediazione giornalistica diventa così sempre più marginale. Una presenza online
non sporadica e non strumentale, quindi non limitata solo allo spazio di una
campagna elettorale, mette il politico nelle condizioni di illustrare in
maniera puntuale la propria attività, informare sulle proprie proposte, fare
emergere il proprio lato privato in modo da costruire un rapporto fiduciario e
di identificazione con il suo elettorato di riferimento.
Tuttavia
non sempre la narrazione politica costruita attraverso l’uso di Twitter o di
Instagram è efficace, la coerenza tra il messaggio e la biografia del politico
che lo diffonde, o tra il messaggio e il contesto sociale ed economico in cui
viviamo, è fondamentale.
Per
questa ragione, ad esempio, la narrazione rassicurante sulla crescita economica
e sul miglioramento delle condizioni di vita costruita dal governo Renzi non ha
avuto i risultati di consenso sperati e, anzi, in molti casi ha suscitato
irritazione e derisione. Un altro aspetto critico, questa volta riferito a un altro
ambiente della comunicazione online molto amato dai politici come Twitter,
riguarda il fatto che questo strumento viene considerato come un prolungamento
social delle attività di comunicazione un tempo affidate esclusivamente
all’ufficio stampa. In molti casi più che ascoltare, più che interagire, più che
mobilitare il pubblico, ci si limita a diffondere i propri messaggi, imboccando
la strada pericolosa dell’autoreferenzialità. Il dialogo che è alla base di
questo mezzo di comunicazione è spesso trascurato e l’ascolto diventa una mera
dichiarazione d’intenti più che un’attività veramente realizzata.
Al di
là degli elementi di criticità che restano comunque importanti, è anche vero
che la rete ha permesso in molti casi una diffusione più ampia e pervasiva
delle notizie e una presenza di punti di vista diversi che spesso hanno poca
possibilità di raggiungere i mezzi di comunicazione tradizionali. Molte persone non si informano più
solo sui giornali e periodici più diffusi, o sui programmi d’informazione
televisivi, e prediligono sempre più spesso la rete. La conseguenza è che l’influenza dei
media sull’opinione pubblica sembra, soprattutto negli ultimi anni, essere
sempre meno efficace, come dimostrano i risultati della campagna referendaria
in Italia sulla riforma della Costituzione: la maggioranza dei giornali, dei
periodici e delle testate giornalistiche televisive ha sostenuto il “SÍ” al
referendum, mentre la maggioranza schiacciante degli elettori ha scelto il
“NO”.
Questo
dimostra che il potere democratico nonostante tutto è ancora nelle mani dei
cittadini che valutano gli argomenti dei politici e dei manipolatori
dell’opinione pubblica. Quanto più le persone saranno consapevoli dell’importanza di
questo loro potere e sapranno gestirlo al meglio, tanto più il veleno che
infetta la comunicazione pubblica si indebolirà e il nostro sistema
democratico, così fragile e compromesso, potrà rafforzarsi e consolidarsi.
(Pubblicato
in Saggistica-Taggato Alessandro Prato, comunicazione politica).
Stefano
Montanari: “Lasciate che io rida
di
voi. In attesa della carcerazione…”
conoscenzealconfine.it-
Stefano Montanari-(17 Novembre 2021)- ci dice:
(TelegramTwitterFacebook)
Cari
signori “politici” (virgolette d’obbligo) e cari signori “scienziati” (qui le
virgolette dovrebbero essere sostituite da ben altro), magari voi appartenete a
quella schiera di “persone che hanno studiato” e che si fanno beffe del
Medioevo, dipingendolo come una lunga sequenza di secoli oscuri da cui ci siamo
felicemente redenti e affrancati.
Senza
tirare in ballo i “giornalisti”, e questo tra pietà e delusione, non perdo
tempo in discussioni sull’argomento, mi limito a farvi notare come voi abbiate
assunto comportamenti di gran lunga più “medievali”, calpestando non solo le
leggi che per decenni hanno costituito le garanzie prestate dai governanti ai
governati e calpestando la dignità umana, ma bestemmiando in chiesa le colonne
portanti stesse della scienza.
Tra
queste, l’indispensabilità del confronto (citarvi Karl Popper è inutile perché
probabilmente lo confondereste con il più famoso Harry Potter) e la pari
indispensabilità di dimostrare tutto quanto sostenete. Chi se ne sottrae non ha niente a che
fare con la scienza, e chiamarla in causa testimonia, nella migliore delle
ipotesi, solo di un’abissale ignoranza.
Leggo
ora un lungo articolo pubblicato stamattina del giornale professionale
Farmacista 33 a firma di Francesca Giani. Cogliendo fior da fiore, superando l’orrore della proposta
entusiastica di arresti domiciliari comminati a chi non si presta a fare da
cavia,
superando lo scandalo delle discriminazioni, peraltro espressamente vietate da
quella che fu la legge senza virgolette, che confidavamo essere sepolte tra
vergogne passate, vedo alcune tra le prevaricazioni ideate per costringere i
governati ora degradati a gregge, a sottoporsi all’inoculazione di quel prodotto che
voi, nella vostra totale incompetenza (spero mi siate grati se non vado oltre)
continuate a chiamare vaccino.
Voi
non potete ignorare oltre a quanto già state facendo da troppo tempo che
obbligare per “legge” a quella somministrazione è un atto sotto ogni aspetto
illecito che vi disonorerà per sempre. Ma, incuranti della vostra dignità,
ecco che state arrogantemente inventando una serie di “torture” molto più che “medievali”,
sulla cui ragion d’essere non mi addentro.
Indipendentemente
dal fatto che, al di là di ridicoli ipse dixit, non esiste alcuna dimostrazione
che quei prodotti impediscano il contagio e, anzi, se è vero ciò che pretendete
strepitando di un suo preoccupante incremento a fronte del numero crescente di
“vaccinati” e di portatori della grottesca mascherina, si direbbe che l’effetto
sia del tutto opposto a quello dichiarato, volete dimostrarci che i cosiddetti
tamponi significano qualcosa?
Se,
come avete preteso fino a stamattina, il significato esiste, volete dimostrare
che si esaurisce dopo un certo numero di ore che, senza offrire spiegazioni
razionali, volete ora dimezzare? Il ministro Speranza ha qualche competenza tecnica in
proposito? E il generale degli alpini? E che dire del tale Walter Ricciardi? E volete dimostrarci che gli arresti
domiciliari che chiamate esoticamente lockdown hanno un qualunque effetto
positivo oltre a massacrare la salute e l’economia? E posso ridere degli stadi a capienza
in percentuale, così come del metro al di là del quale il virus (?) perde la
sua cattiveria?
Da
vecchio sportivo praticante fino a che il fisico ha retto, non posso altro che riconoscere
che state stravincendo. Che l’arbitraggio non sia dei più equanimi è un altro paio di
maniche.
Posso solo chiedervi di concedermi il desiderio regalato in extremis ai
condannati a morte: lasciate che io rida di voi. In attesa della carcerazione o
di peggio, vi saluto, purtroppo non per sempre.
(Articolo
di Stefano Montanari. Fonte: www.imolaoggi.it).
Democrazia,
tecnica e il nuovo potere
dei
social network - Intervento di Pasquale Stanzione -
Garanteprivay.it-Il
Sole 24Ore-Pasquale Stanzone-(8 luglio 2021)- ci dice:
Democrazia,
tecnica e il nuovo potere dei social network.
I
dilemmi della tecnologia.
Intervento
di Pasquale Stanzione, Presidente del Garante per la protezione dei dati
personali.
Già
nel 1997, con la sentenza Reno v. Aclu, la Corte suprema americana, nel
definire Internet
"mezzo unico e completamente nuovo di comunicazione umana in tutto il
mondo", coglieva la prima promessa della rete: il potenzialmente illimitato
pluralismo, la democratizzazione dell'informazione. Nulla come la rete, infatti, ha
liberalizzato l'accesso alle fonti informative e, al contempo, ha consentito a ciascuno di
esercitare la libertà di manifestazione del pensiero: pietra angolare della
democrazia, come affermò la Consulta italiana sin dal 1965.
Negli
anni a venire, la rete sarebbe peraltro divenuta anche presupposto di esercizio di diritti
fondamentali: dall'istruzione alla salute, dal lavoro all'accesso alla giustizia e
per ciò l'accesso
ad essa, un vero e proprio diritto fondamentale. Di qui l'esigenza, sempre più
forte, di superare il digitai divide che rappresenta, oggi, una delle
diseguaglianze più inaccettabili, che riproduce e amplificale vulnerabilità più
tradizionali. Il combinato disposto del micro-targeting informativo - quale metodo di
selezione delle notizie da proporre all'utente - e della diffusione in rete di
contenuti falsi oltre che illeciti rischia per altro verso di rendere la più
grande e aperta agorà della storia una somma di enclaves.
Nel
primo Novecento il "dominio della tecnica" fu considerato tratto distintivo del
post-moderno. Ma la primazia della tecnica caratterizza ancora più marcatamente il
nostro tempo, il cui l'uomo rischia di esserne non più dominus, ma ad essa subalterno. E ciò per la potenza trasformatrice
delle nuove tecnologie, l'attitudine a elaborare nuovi significati del mondo,
incidendo sullo sguardo prima che sull'orizzonte. In questo vorticoso sovvertimento
di coordinate e gerarchie valoriali, compito principale del diritto è
restituire all'uomo la centralità che può garantire un rapporto armonico con la
tecnologia, consolidando l'indirizzo personalista su cui si fondano la nostra
Costituzione e l'ordinamento dell'Unione europea.
Come
indicano le innumerevoli applicazioni dell'intelligenza artificiale, infatti, la tecnica oggi perde
sempre più il suo carattere strumentale per assurgere a fine in sé; scardina coordinate assiologiche,
ridisegnando la geografia del potere e il suo sistema di checks and balances.
Ne risultano profondamente incise le strutture
democratiche e la stessa tassonomia delle libertà e dei diritti individuali,
con il loro apparato di garanzie e la loro vocazione egualitaria. Ecco perché il discorso sulla
tecnica, oggi,
è essenzialmente un discorso sul potere e sulla libertà e, pertanto, sulla
democrazia, al cui sviluppo il diritto è chiamato a dare un contributo
importante se si vuole agire, non subire, l'innovazione.
Il
diritto è tra le scienze sociali quella che ha l'onere più gravoso ma, in fondo,
anche più importante: vedere orizzonti tanto quanto confini, estrarre dalle altre
discipline il limite da opporre a una corsa altrimenti cieca verso "magnifiche sorti e progressive". Attraverso le lenti dei
giurista è, dunque, possibile leggere fino infondo il percorso dell'innovazione
e orientarlo in una direzione antropocentrica, altrimenti oscurata dalla volontà di
potenza della tecnica. L'allocazione dei poteri è intimamente legata alle
dinamiche che governano la rete e che hanno determinato, in pochi anni,
l'affermazione incontrastata delle piattaforme, assurte a veri e propri poteri
privati.
Ma la
disciplina della privacy mira a contrastare l'indebito sfruttamento della
principale risorsa su cui si basa il potere nel digitale, ovvero i dati, ceduti
spesso nell'inconsapevolezza del loro valore. Il digitale ha scardinato non
soltanto il sistema di allocazione tradizionale del potere, ma anche il processo di costruzione
dell'identità e, quindi, il suo rapporto con la libertà. Le nuove tecnologie hanno, invece,
reso il
termine "identità" necessariamente plurale, affiancando all'identità
fisica innumerevoli identità digitali che concorrono con la prima, fin quasi a
prevalere su di essa.
Su
questo terreno, la protezione dei dati ha svolto un ruolo davvero centrale, nel
tentativo costante di ricomporre, è stato detto, un "Io diviso". La privacy, svolgendo un
ruolo sociale primario, garantisce infatti un governo antropocentrico
dell'innovazione, salvaguardando l'identità e la dignità individuale rispetto
al potere performativo della tecnica. In questo senso, essa rappresenta
davvero un
habeas data:
corrispettivo,
nella società digitale, di ciò che l'habeas corpus ha rappresentato sin dalla
Magna Charta; quale presupposto principale di immunità dal potere, promani esso dallo
Stato, dal mercato o dalla tecnica.
Ecco
perché la privacy, tutt'altro che un ostacolo all'innovazione ne rappresenta
invece la misura "democratica", il criterio-guida cui orientare uno
sviluppo che rischia altrimenti di essere, per paradosso, socialmente
regressivo.
Mass
Media e Democrazia.
Sites.google.com-Zavalloni
e Marchetti-Redazione-(20-10 -2021)- ci dicono:
Nel
corso del tempo si è diffusa l'idea che in una società democratica, affinché la
democrazia possa dirsi completa, debbano essere presenti dei mezzi di
informazione indipendenti che possano informare i cittadini su argomenti
riguardanti i governi e le entità aziendali; questo perché i cittadini, pur
disponendo del diritto di voto, non sarebbero altrimenti in grado di
esercitarlo con una scelta informata che rispecchi i loro reali interessi ed
opinioni.
Secondo
quest'ottica, nell'ambito del principio fondante delle democrazie liberali,
ovvero la separazione dei poteri, oltre all'esecutivo, al giudiziario e al legislativo,
il ruolo dei media di fonti di informazione per i cittadini andrebbe
considerato come un quarto potere da rendere autonomo rispetto agli altri. Ciò
è impossibile poiché in un sistema democratico i media costituiscono la più
potente tra le lobby.
Per
questi motivi alcuni credono che il più grande rischio per la democrazia sia la
concentrazione della proprietà dei media.
In
particolare al giorno d'oggi sono le televisioni la principale fonte
informativa, perché solo una ridotta minoranza di persone legge libri e
giornali o si informa
tramite
internet.
Quindi alle TV va posta particolare
attenzione.
Alcuni
paesi, come la Spagna nel 2005, hanno avviato riforme rivolte a rendere
indipendenti le televisioni pubbliche dai controlli politici.
Influenza
dei Mass Media sulla politica .
In
un’epoca caratterizzata dalla comunicazione di massa, è naturale per ciascuno
di noi, quasi inevitabile, imbattersi in una qualche forma di comunicazione
politica.
È
sufficiente sfogliare un quotidiano o fare zapping con il telecomando per
trovarsi di fronte un soggetto politico che comunica, discute, attacca,
replica, chiarisce,
smentisce.
La
comunicazione politica è parte integrante dell’azione politica, ogni partito
politico, candidato, istituzione, movimento, ha la necessità di comunicare.
Si
pensi alla mole di comunicazione politica prodotta da un partito. Esso comunica
costantemente con i propri iscritti, militanti e simpatizzanti per la
mobilitazione
e il
reclutamento; con gli altri soggetti politici per discutere, accordarsi,
attaccare, replicare; con i mezzi di comunicazione per far sì che veicolino il
loro messaggio ed,
eventualmente,
per difendersi da essi; con la totalità dei cittadini e degli elettori, per
comunicare la propria linea politica, creare legami di appartenenza e
conquistarne il voto.
Ma se
la comunicazione politica è parte integrante dell’agire politico, diverse sono
state le sue forme nel corso del tempo e all’interno di ciascun sistema
politico.
L’avvento
dei mezzi di comunicazione di massa, come i giornali, la radio la televisione,
fino ad arrivare ad Internet, ha rivoluzionato, come si vedrà, gli strumenti di
comunicazione dei soggetti politici e persino il loro stile comunicativo. Se fino a qualche decennio fa i
partiti auto-producevano una comunicazione politica
indirizzata
principalmente ad un ben identificato gruppo di simpatizzanti e sostenitori, con la nascita dei mass media la
comunicazione è diventata sempre più mediata, e indirizzata a masse sempre più
indefinite di potenziali elettori. Oggi è impensabile una comunicazione politica senza
i mass media, in particolare senza la televisione, così come è diventato
naturale per un mezzo di comunicazione occuparsi di politica, argomento che, se
presentato in chiave spettacolare, diventa anch’esso occasione per fare
audience.
Mass media e sistema politico, insomma, sono ormai
legati da un rapporto di mutua dipendenza.
Questo
lavoro parte proprio da questa constatazione, cercando di analizzare in che
modo i mass media sono diventati protagonisti nella produzione e nella
diffusione di comunicazione politica e in che modo ciò ha influenzato la stessa
comunicazione politica dei partiti.
Nel
primo capitolo verranno tracciati sinteticamente i confini dell’argomento e
proposto un breve excursus storico della comunicazione politica. Inoltre verranno
definiti
gli attori fondamentali della comunicazione politica e i principali modelli di
interazione tra i partiti e i mass media.
Nel
secondo capitolo verranno messi in luce gli effetti causati dall’influenza dei
mass media sullo stile e sul contenuto della comunicazione politica dei
partiti,
nonché
gli effetti sullo stesso partito come organizzazione.
Nel
terzo capitolo, infine, verrà posto l’accento sul momento più rilevante della
comunicazione politica dei partiti, vale a dire la campagna elettorale.
Verrà
sottolineata l’evoluzione delle campagne elettorali in relazione alla nascita e
all’evoluzione dei mass media, con un’attenzione particolare ai formati delle
campagne
elettorali in televisione e su Internet.
Il
lavoro rivolge la sua attenzione sulla comunicazione politica nelle democrazie
occidentali, concentrandosi sul sistema politico e mediale italiano, che ci
tocca
più da
vicino, e su quello statunitense, che rappresenta il punto di origine e di
diffusione negli altri paesi di tutte le innovazioni in questo campo.
Vi
spiego come internet sta cambiando
la sfera pubblica e la democrazia.
Parla Giacomini.
Formiche.net-
Maria Elena Viggiano -( 07/04/2019 - Mailing)-ci dice:
Grandi
e piccoli neo-intermediari nei trend del dibattito pubblico. Ruoli sempre più
determinanti nel mondo digitale per veicolare le informazioni. Ma ne siamo
consapevoli? E come si riflette tutto ciò nella comunicazione politica?
Conversazione
con Gabriele Giacomini, ricercatore e autore del libro “Potere digitale. Come internet sta
cambiando la sfera pubblica e la democrazia”, Meltemi Editore.
I
neo-intermediari sono le nuove figure che stanno assumendo sempre più potere
nel mondo digitale. Esistono due tipologie: i “grandi neo-intermediari” in riferimento alle piattaforme
tecnologiche come Facebook e Google che attraverso algoritmi raccolgono le
informazioni degli utenti e, sulla base di queste, personalizzano i contenuti e i “piccoli neo-intermediari” quali
gli influencer che si inseriscono nei trend del dibattito pubblico.
Quanto
siamo consapevoli di questo fenomeno? Come si riflette nella comunicazione
politica? Quali sono i rischi per la democrazia? Lo abbiamo chiesto a Gabriele
Giacomini, ricercatore presso l’Università di Udine ed autore del libro “Potere
digitale. Come internet sta cambiando la sfera pubblica e la democrazia”, in
cui analizza queste tematiche.
Che
impatto ha il digitale sulla comunicazione e sulla politica?
La
disintermediazione ormai è un concetto mainstream, il digitale ha favorito lo
scavallamento dei corpi intermedi così come li conoscevamo, oggi esiste la
neo-intermediazione e se non riusciamo a cogliere questo nuovo tipo di
intermediazione non possiamo capire quali sono i nuovi flussi di potere.
Pensiamo
a Facebook e Google che fanno una selezione utilizzando gli algoritmi, questo
processo ha comunque un impatto sulle informazioni che riceviamo. Se analizziamo la politica vediamo
che la partecipazione al voto dei cittadini è in calo da decenni così come la
membership è sempre meno folta, quindi gli intermediari tradizionali come i
partiti sono andati in crisi.
In
realtà sono emersi nuovi partiti che, come spiega Paolo Gerbaudo, vengono
chiamati i partiti piattaforma che utilizzano il digitale come la piattaforma Rousseau.
Non
sono solo movimenti dal basso perché entrano in gioco anche i vertici come
Beppe Grillo o Casaleggio, per esempio decidendo il momento opportuno di porre
l’attenzione su determinati argomenti, così ad una spinta dal basso corrisponde
una spinta dall’alto.
Come
sta cambiando la comunicazione politica?
Nel
modello di partito classico, la classe dirigente aveva contatto con i suoi
militanti andando nei circoli e stabilendo un incontro diretto. Ora il rapporto si è un po’
indebolito mentre
si è rafforzato quello con i media creando il fenomeno della “mediatizzazione”
della politica. In realtà è un lavoro che non fanno i politici, soprattutto affermati, ma hanno uno staff dedicato alla
comunicazione.
La
cosa interessante è lo studio dei propri interlocutori, cercano di capire quali
sono i trend e gli argomenti più diffusi, e provano ad inserirsi in questi
flussi per accompagnare il dibattito pubblico e farsi da megafono delle
tendenze in atto. Raramente i social sono gestiti in modo diretto, c’è sempre
una intermediazione delle strutture con due nuove figure di neo-intermediari:
quelli piccoli rappresentati da social media manager o micro influencer e
quelli più grandi riferiti alle big tech come Facebook o Google.
Quanto
sono consapevoli i cittadini di essere passati ad una nuova forma di
intermediazione?
Non
tantissimo. Uno dei ruoli dell’informazione è la selezione, è un po’ la parte
fondamentale del quarto potere. Questa selezione in ambito digitale viene fatta
personalizzando il contenuto, su internet i comportamenti vengono profilati ed analizzati
per offrire quello che piace affinché gli utenti rimangano sulla piattaforma il
maggior tempo possibile. C’è una bolla informativa che tradizionalmente era più
trasparente. Se una persona andava in edicola, pur comprando un certo tipo di
giornale, si rendeva conto che esisteva una pluralità di informazione mentre su
internet non si è più coscienti degli altri punti di vista. L’ambiente digitale non aiuta la
consapevolezza di queste dinamiche.
Si sta
verificando un po’ il contrario rispetto ad una rete aperta ed inclusiva?
Karl
Popper diceva che se dobbiamo cercare la verità non dobbiamo avere delle
conferme ma lo spirito giusto deve essere quello di raccogliere le informazioni
che mettono in discussione il proprio punto di vista.
Il rischio di internet è di non favorire il
confronto critico, è il paradosso del pluralismo. Da un punto di vista quantitativo è
positivo perché la gratuità di internet ha aumentato la partecipazione delle
persone ma il pluralismo è anche qualitativo. Nel momento in cui ci si confronta
non ci si chiude mai in se stessi e non si escludono gli altri ma si rimane in
un ambito di concordia discordante. È un po’ lo spirito dei debunker,
ovviamente non hanno le verità in tasca, ma cercano di smontare le bufale anche
confrontandosi con gruppi polarizzati al loro interno. La cosa da sottolineare è l’etica,
andare a misurarsi con chi la pensa diversamente da loro, con la possibilità di
uscire dalla bolla informativa.
In
prospettiva il modello sarà quello del partito piattaforma o di partiti
tradizionali che si adattano al digitale?
I
partiti tradizionali spesso usano il digitale come uno strumento di
comunicazione tradizionale. Molti politici utilizzano le dirette Facebook come una
televisione personale, con migliaia di telespettatori che seguono ed
interagiscono con commenti e like.
È un metodo molto usato da Matteo Salvini ma
anche Matteo Renzi adottava una strategia abbastanza simile dove al centro c’è
la figura del leader. Un’altra modalità riguarda i partiti piattaforma dove c’è
il tentativo ideale o programmatico di coinvolgere i cittadini con risultati
discutibili, per esempio una delle principali critiche è la partecipazione effettiva
del voto espresso. In questi partiti piattaforma il vertice è altrettanto
importante, nel M5S la figura di Beppe Grillo, che non a caso nasce come un
personaggio televisivo che riempiva palazzetti dello sport con i suoi spettacoli, è
stata fondamentale per garantire lo sviluppo del partito.
Quali
sono i rischi principali?
Ne ho
indentificati quattro. Il primo problema è l’insicurezza del metodo, quando votiamo con la carta
banalmente i voti possono essere ricontati da chiunque e i partiti mandano i
propri rappresentanti per controllare che la votazione sia regolare. Tutto
questo su internet è impossibile poiché il controllo è affidato ad esperti e
tecnici; tra
l’altro sembra che per un principio informatico è impossibile garantire
l’anonimato e la sicurezza contemporaneamente.
Poi
c’è il problema del digital divide, con il rischio di escludere coloro che non hanno la
connessione, come gli anziani, o le competenze sufficienti per fare questo tipo
di attività privandoli del diritto di partecipare. La terza difficoltà è di tipo
psicologico-sociale, non è possibile pensare ad una partecipazione continua
poiché come individui abbiamo molteplici impegni e la società va verso la
specializzazione. L’ultimo problema è il superamento dei partiti, ci possono essere molte critiche ma quello su cui concordano tutti è
che i partiti hanno capacità di sintesi e compromesso. In politica è una attività molto
importante altrimenti, come diceva Ralf Dahrendorf, c’è il rischio che le difficoltà
possano portare alla ricerca di un leader autoritario in grado di risolvere la
situazione.
Taiwan,
Xi Jinping ha detto che la
riunificazione
con la Cina è «irrinunciabile».
Msn.com-Lastampa.it-Redazione-(16-11-2021)-ci
dice:
Riportare
Taiwan sotto il controllo della Cina continentale, che considera l’isola alla stregua
di un territorio ribelle. «È una missione storica e un impegno incrollabile del
Partito comunista e anche un’aspirazione condivisa per realizzare il
ringiovanimento nazionale».
È quanto si legge nella risoluzione storica di
Xi Jinping, presidente della Repubblica popolare cinese. Approvata dal plenum del partito, è
stata ripresa dalle agenzie di stampa il 16 novembre, giorno dell’incontro
bilaterale tra Cina e Stati Uniti. Un colloquio virtuale di quattro ore caratterizzato
da toni distesi e alcuni momenti di tensione su i punti che storicamente
dividono le due potenze. Tra questi, appunto, la questione di Taiwan. Biden ha sottolineato che gli Usa «Si
oppongono con fermezza ai tentativi unilaterali di cambiare lo status quo o
minare pace e stabilità nello stretto di Taiwan».
La risposta dell’omologo della Repubblica popolare è
altrettanto ferma: incoraggiare l'indipendenza «è estremamente pericoloso, come
giocare con il fuoco. Chi ci gioca, si brucia. L'umanità vive in un villaggio
globale, affrontiamo molte sfide insieme». Secondo il ministero della Difesa
di Taiwan, il 16 novembre otto aerei militari cinesi hanno violato lo spazio di
identificazione aereo dell’isola. Tra questi ci sarebbero anche due che sono
caccia J-16. Taipei ha risposto mobilitando i propri velivoli, con un
avvertimento radio e l’attivazione del sistema di difesa aerea missilistica. Il
numero di aerei militari cinesi segnalati oggi è il più alto delle ultime
settimane e pareggia quello del 31 ottobre scorso, quando la questione di
Taiwan fu affrontata dal ministro degli Esteri cinese, Wang Yi, e dal suo
omologo Usa, Antony Blinken, a margine del G20 di Roma.
Taiwan, o Repubblica di Cina, è uno stato
insulare composto dall’isola di Formosa e da alcuni piccoli arcipelaghi
limitrofi di fronte alle coste sudorientali del subcontinente asiatico. Non riconosciuto da molti membri
della comunità internazionale, intrattiene tuttavia una fitta rete di rapporti
diplomatici. I nazionalisti cinesi di Chiang Kai-shek trovarono riparo sull’isola dopo
essere stati sconfitti da Mao Tse-Tung, nel 1949. La Cina continentale ne rivendica la
sovranità, considerando il territorio strategico per i traffici commerciali e
il controllo marittimo nella zona.
Ibm
svela il processore quantistico che
promette di battere tutti i supercomputer.
msn.com-Corriere Della Sera- Alessio Lana-(
17-112021)-ci dice:-
La
lotta per la supremazia quantistica è solo all’inizio ma già sta dando grandi
risultati. Ibm ha appena annunciato la nascita di Eagle, un processore
quantistico da 127 qubit e se questa formula appare incomprensibile, nessun
problema.
Si parla letteralmente di un altro mondo, di macchine in grado di eseguire in
200 secondi dei calcoli che un supercomputer classico esegue in 10mila anni.
Un
computer quantico (o quantistico) è completamente differente dalle macchine
tradizionali. Queste ultime si basano sul bit, un’unità binaria che ragiona
secondo il principio di acceso e spento, uno e zero. La controparte quantica invece si
basa sui quantum bit (i qubit appunto) che possono essere accesi e spenti
contemporaneamente, sia uno che zero, offrendo più soluzioni contemporaneamente. Facciamo un esempio: per cercare una
parola in un dizionario un supercomputer scansisce ogni singola riga di ogni
singola pagina finché non la trova. Un computer quantico invece non ne ha
bisogno: è come se avesse già tutte le pagine aperte di fronte, con tutte le
parole in vista e non gli resta che «pescare» quella richiesta. È da qui che
nasce il salto in avanti.
Nel
caso di Eagle si parla di una macchina in grado di superare non solo i computer
tradizionali ma anche quelli quantistici visti finora. Nel 2019 Google aveva affermato di
aver conquistato la «supremazia quantistica» (ovvero la possibilità che i computer
quantistici riescano a fare cose impossibili per i computer tradizionali) grazie a una macchina da «soli» 54
qubit contestata da Ibm. L’università della scienza e della tecnica cinese,
Ustc, era arrivata a 60 qubit, poi si erano raggiunti i 64 qubit ma ora Ibm vola a ben 127 qubit.
L’azienda
non ha reso pubblico alcun dato relativo alle prestazioni ma afferma che Eagle
è il primo processore che non può essere simulato su un supercomputer
tradizionale. E già guarda al futuro.
Eagle
è stato realizzato utilizzando una nuova tecnica che prevede componenti di
controllo dei qubit collocati in un’architettura a più livelli fisici, con i
qubit mantenuti in un livello separato. Essa sarà alla base anche dei
prossimi Osprey e Condor che metteranno in campo, rispettivamente, 433 qubit e 1121 qubit.
Sono
attesi a partire dal 2023 quando inizieranno la loro avanzata affiancati dai
supercomputer tradizionali. «Crediamo che saremo in grado di raggiungere una
dimostrazione del vantaggio quantistico — qualcosa che può avere un valore
pratico — entro i prossimi due anni», ha detto il capo della Ricerca di Ibm,
Darío Gil, a Reuters.
TRANSUMANESIMO-
Dr. Rafael YUSTE:
“Possiamo
leggere l’intera attività neurale
di un’IDRA
e modificarne il comportamento.
In
futuro forse anche nell’uomo.”
Detoxed.info-
John Cooper-(14 Novembre 2021)-ci dice:
Il
neuroscienziato Rafael Yuste, professore di scienze biologiche, direttore del Neuro-Technology Center della
Columbia University, e il suo team della
Columbia, nel 2017 hanno registrato l’attività di ogni neurone di un animale
parente alla medusa chiamato Idra (Hydra).
Ovviamente
il cervello umano è molto più complesso dell’Idra, ma questo è un enorme passo
avanti perché, una volta che sai leggere il codice neurale, è possibile anche
scriverlo.
“In un
certo senso si potrebbe sostenere che stiamo cercando di leggere la mente
dell’Idra perché possiamo misurare l’attività di ogni neurone nell’Idra, dal
suo comportamento”.
Il
professor Rafael Yuste ha dichiarato in un’intervista video a “The Economist”
nel 2018: “Possiamo
inserire pensieri in un’Idra? Possiamo scrivere un modello di attività e
cambiare il comportamento dell’animale. Stiamo cercando di farlo nell’Hydra e
stiamo cercando di farlo nei topi. Possiamo immaginare che si potrebbe farlo
con gli umani in futuro”.
Scriveva
la rivista “The Economist” nel gennaio 2018:
“Usare
il pensiero per controllare le macchine. Le interfacce cervello-computer
possono cambiare ciò che significa essere umani.”
Le
TECNOLOGIE sono spesso pubblicizzate come trasformative. Per William Kochevar, il termine è
giustificato. Kochevar è paralizzato sotto le spalle dopo un incidente in bicicletta,
eppure è riuscito a nutrirsi di sua mano. Questa notevole impresa è in parte
grazie agli elettrodi, impiantati nel braccio destro, che stimolano i muscoli.
Ma la vera magia sta più in alto. Kochevar può controllare il suo braccio usando il
potere del pensiero. La sua intenzione di muoversi si riflette nell’attività
neurale nella sua corteccia motoria; questi segnali vengono rilevati dagli
impianti nel suo cervello ed elaborati in comandi per attivare gli elettrodi
nelle sue braccia.
La
capacità di decodificare il pensiero in questo modo può sembrare fantascienza. Ma le interfacce cervello-computer
(BCI) come
il sistema BrainGate utilizzato da Kochevar forniscono la prova che il
controllo mentale può funzionare. I ricercatori sono in grado di dire quali parole e
immagini le persone hanno sentito e visto dalla sola attività neurale. Le informazioni possono anche essere
codificate e utilizzate per stimolare il cervello. Oltre 300.000 persone hanno
impianti cocleari, che li aiutano a sentire convertendo il suono in segnali
elettrici e inviandoli nel cervello. Gli scienziati hanno “iniettato” dati
nella testa delle scimmie, istruendole a eseguire azioni tramite impulsi
elettrici.
Come
spiega il nostro Technology Quarterly in questo numero, il ritmo della ricerca
sui BCI e la portata della sua ambizione stanno aumentando. Sia le forze armate americane che
la Silicon Valley stanno iniziando a concentrarsi sul cervello. Facebook sogna la digitazione da
pensiero a testo. Kernel, una startup, ha 100 milioni di dollari da spendere in neuro-tecnologie. Elon Musk ha formato una società
chiamata Neuralink; pensa che, se l’umanità vuole sopravvivere all’avvento
dell’intelligenza artificiale, ha bisogno di un aggiornamento. Gli imprenditori immaginano un mondo
in cui le persone possano comunicare telepaticamente, tra loro e con le
macchine, o acquisire abilità sovrumane, come l’udito a frequenze molto alte.
Questi
poteri, se mai si materializzeranno, sono lontani decenni. Ma ben prima di allora, i BCI
potrebbero aprire la porta a nuove notevoli applicazioni. Immagina di stimolare la corteccia
visiva per aiutare i ciechi, forgiando nuove connessioni neurali nelle vittime
di ictus o monitorando il cervello per i segni di depressione. Trasformando l’attivazione dei
neuroni in una risorsa da sfruttare, i BCI possono cambiare l’idea di cosa
significhi essere umani.
Quella
sensazione di pensiero.
Gli
scettici si fanno beffe. Portare i BCI medici fuori dal laboratorio nella pratica
clinica si è rivelato molto difficile. Il sistema BrainGate utilizzato da
Kochevar è stato sviluppato più di dieci anni fa, ma solo una manciata di persone lo ha
provato.
Trasformare gli impianti in prodotti di consumo è ancora più difficile da
immaginare. Il percorso verso il mainstream è bloccato da tre formidabili barriere:
tecnologica, scientifica e commerciale.
Inizia
con la tecnologia. Le
tecniche non invasive come un elettroencefalogramma (EEG) lottano per
raccogliere segnali cerebrali ad alta risoluzione attraverso strati intermedi
di pelle, ossa e membrana. Alcuni progressi sono stati fatti, sui tappi EEG che
possono essere utilizzati per giocare a giochi di realtà virtuale o controllare
robot industriali usando solo il pensiero. Ma almeno per il momento, le
applicazioni più ambiziose richiedono impianti in grado di interagire
direttamente con i neuroni. E i dispositivi esistenti presentano molti inconvenienti. Coinvolgono fili che passano
attraverso il cranio; provocano risposte immunitarie; comunicano solo con poche
centinaia degli 85 miliardi di neuroni nel cervello umano. Ma questo potrebbe presto cambiare. Aiutati dai progressi nella
miniaturizzazione e dall’aumento della potenza di calcolo, sono in corso sforzi
per realizzare impianti wireless sicuri in grado di comunicare con centinaia di
migliaia di neuroni. Alcuni di questi interpretano i segnali elettrici del
cervello; altri sperimentano la luce, il magnetismo e gli ultrasuoni.
Cancella
la barriera tecnologica e un’altra incombe. Il cervello è ancora un paese
straniero. Gli
scienziati sanno poco di come funziona esattamente, specialmente quando si
tratta di funzioni complesse come la formazione della memoria. La ricerca è più avanzata negli
animali, ma gli esperimenti sugli esseri umani sono difficili. Eppure, ancora oggi, alcune parti
del cervello, come la corteccia motoria, sono meglio comprese. Né è sempre necessaria una conoscenza
completa. L’apprendimento
automatico può riconoscere i modelli di attività neurale; il cervello stesso
riesce a controllare i BCIS con straordinaria facilità. E la neuro-tecnologia
rivelerà più segreti del cervello.
Come
un buco nella testa.
Il
terzo ostacolo comprende gli ostacoli pratici alla commercializzazione. Ci vuole tempo, denaro e competenza
per ottenere l’approvazione dei dispositivi medici. E le applicazioni consumer
decolleranno solo se svolgono una funzione che le persone trovano utile. Alcune delle applicazioni per le
interfacce cervello-computer non sono necessarie: un buon assistente vocale è
un modo più semplice per digitare senza dita rispetto a un impianto cerebrale,
per esempio. Anche l’idea che i consumatori reclamino a gran voce le craniotomie
sembra inverosimile. Eppure gli impianti cerebrali sono già un trattamento
consolidato per alcune condizioni. Circa 150.000 persone ricevono una stimolazione cerebrale
profonda tramite elettrodi per aiutarli a controllare il morbo di Parkinson. La chirurgia elettiva può diventare
di routine, come mostrano le procedure laser-oculari.
Tutto
ciò suggerisce che un percorso verso il futuro immaginato dai pionieri delle neuro-tecnologie
è arduo ma realizzabile. Quando l’ingegno umano viene applicato a un problema, per
quanto difficile, non è saggio scommettere contro di esso. Nel giro di pochi anni, le tecnologie
migliorate potrebbero aprire nuovi canali di comunicazione con il cervello. Molte delle prime applicazioni
promettono inequivocabilmente di movimento e di ripristino dei sensi. Ma man mano che gli usi si spostano
verso l’aumento delle abilità, sia per scopi militari che tra i consumatori,
sorgeranno una serie di preoccupazioni. La privacy è ovvia: il rifugio di
una voce interiore può scomparire. La sicurezza è un’altra: se un cervello può essere
raggiunto su Internet, può anche essere hackerato. La disuguaglianza è una terza:
l’accesso alle capacità cognitive sovrumane potrebbe essere al di là di tutto tranne
che un’élite che si auto-perpetua.
Gli eticisti stanno già iniziando a confrontarsi con
questioni di identità e agenzia che sorgono quando una macchina è nel ciclo
neurale.
Queste
domande non sono urgenti. Ma la storia più grande è che non sono nemmeno il regno della
pura fantasia. La tecnologia cambia il modo in cui le persone vivono. Sotto il
cranio si trova la prossima frontiera.”
Comunicazione
politica e Democrazia.
Fondazionefeltrinelli.it-Michele
Sorice - (17 novembre 2021)-ci dice:
La nostra
città futura.
La
comunicazione politica è stata spesso declinata (dai media ma anche da molti
studiosi) come mero insieme di tecniche e strumenti per le strategie di
propaganda.
D’altra parte anche diversi settori della politica non sono riusciti a sfuggire
dalla banale sovrapposizione “comunicazione politica = propaganda”, privilegiando la dimensione
verticale della comunicazione (la logica della trasmissione che presiede alle
campagne elettorali) a quella orizzontale della relazione e del dialogo.
Non stupisce, quindi, che i partiti “tradizionali”
abbiano continuato a considerare la comunicazione come mera variabile
interveniente e non come dimensione che struttura la relazione. In altri termini, non sono riusciti
a pensare alla comunicazione come dimensione analitica (di fianco a quella
organizzativa) per una ridefinizione dei corpi intermedi.
Il
successo della comunicazione politica come insieme di ricette facili si è
incrociato con alcuni elementi di “crisi” delle democrazie contemporanee.
Possiamo individuarne almeno cinque:
a)-crisi
di credibilità delle istituzioni democratiche, percepite come inadeguate nel
“frame” sociale rappresentato dalla crisi economica globale;
b)-delegittimazione
sociale delle forme “tradizionali” della rappresentanza (partiti di massa e/o d’opinione,
sindacati, forme istituzionalizzate dell’associazionismo e, in genere, quelli
che vengono definiti “corpi intermedi”); sarebbe peraltro utile abbandonare
l’espressione “corpi” – che richiama a una visione funzionalista della politica
– a favore di termini più neutri (“agenti intermedi”?);
c)-accentuazione
dei processi di cartellizzazione e presidenzializzazione dei partiti ed
emersione di franchise parties, funzionali alla concentrazione di potere nel
leader, che
diventa il terminale di gruppi di interesse e stabilisce una relazione con
l’elettorato solo nella cornice definita dai media (producendo spesso, peraltro, una
deriva anti-egualitaria della democrazia);
d)-egemonia
della “ideologia” neo-liberista, che determina uno strutturale processo di
commodification dei processi democratici, con la prevalenza di un’idea di
governance basata sull’efficienza temporale e sulla valutazione delle policies
a breve periodo, a discapito di un’idea progettuale di government (in quest’ottica, anche
lo sviluppo – auspicabile – dell’open government rischia di diventare funzionale a
logiche di commercializzazione della cittadinanza e rischia di costituire un
modello culturalmente opposto a quello della democrazia partecipativa);
e)-incremento
delle istanze partecipative “dal basso”, che si manifestano sia nelle forme
del richiamo populistico alla delegittimazione delle forme organizzative (“democrazia della negazione”, delegittimazione sistematica dei
meccanismi di agency) sia nell’impegno di cittadini per una democrazia
partecipativa (movimenti sociali, esperienze di cittadinanza attiva, etc.).
Dovremmo
poi aggiungere un deficit formativo (che in Italia si è tradotto nella
sostanziale marginalizzazione sociale della scuola) e un sistema dei media
tendenzialmente conformista e scarsamente plurale. In questo scenario, i media digitali finiscono per
enfatizzare gli “effetti strutturali” della comunicazione politica, già evidenti con lo sviluppo e
l’affermazione del broadcasting (personalizzazione, spettacolarizzazione,
winnowing effects, etc.) e le forme della mediazione e della rappresentanza perdono
importanza a favore delle strategie di rappresentazione.
Un’occasione
perduta. I
media digitali (i social media, le piattaforme di partecipazione, etc.)
potrebbero infatti giocare un ruolo importante nell’attivazione di una democrazia capace di coniugare
pratiche di partecipazione e deliberazione con i processi della democrazia
rappresentativa. La comunicazione potrebbe
costituire un asse strategico per incrementare la sensibilità, l’informazione e
l’azione all’interno delle piattaforme partecipative. Ma – ridotta a technicality – la
comunicazione perde il suo potenziale democratizzante e finisce per assumere
valore solo come strumento di costruzione del consenso. L’anestetizzazione della
comunicazione (anche in ambito accademico) si rivela così per essere un
ulteriore strumento nel processo di negazione della dimensione egualitaria
della democrazia.
(Michele
Sorice-Professore di Democrazia deliberativa alla LUISS “Guido Carli”.Honorary
Professor alla University of Stirling (UK).
Il
sesto potere.
Ibm.com-
Maurizio Decollanz-(18-2-2021)-ci dice:
Nel
1787, durante una seduta della Camera dei Comuni al Parlamento inglese, il
deputato Edmund Burke si rivolse ai cronisti parlamentari e pronunciò
un’esclamazione che avrebbe segnato la storia: "Voi siete il quarto potere!". Era la prima volta che
all’informazione veniva riconosciuta la facoltà di influenzare le dinamiche di
un Paese.
In
sociologia, infatti, la comunicazione di massa assume un ruolo chiave nel
funzionamento della vita democratica, andandosi ad aggiungere ai tre poteri su cui si basa il funzionamento di
uno Stato:
legislativo, esecutivo e giudiziario. Dalla separazione e indipendenza di
questi poteri, dipende l’essenza stessa della democrazia.
Il
quarto potere, quello della carta stampata, venne analizzato scrupolosamente nell’omonimo
film di Orson Welles - uno dei migliori lungometraggi nella storia del cinema. In controluce, l’ascesa e la caduta
in disgrazia di Charles Foster Kane - editore miliardario americano - il potere
della stampa nella comunicazione politica, lo smodato interesse per la vita
privata dei personaggi pubblici e la manipolazione della realtà. Il quinto potere, quello di una
televisione che ha ormai scalzato il primato dei giornali come fonte
dell’informazione, trova invece nel capolavoro di Sidney Lumet - “Network”, del
1976 - il suo censore più spietato. Consiglio vivamente la visione di entrambi
i lungometraggi.
Comincia
ad essere evidente quanto la commistione tra potere economico e potere
mediatico sia in grado di provocare grandi danni al funzionamento di una
democrazia.
L’opinione pubblica si forma in base ai fatti di cui ha conoscenza e il ruolo
dei mass media nella società diventa sempre più ago della bilancia nelle
dispute politiche. I mezzi di comunicazione di massa, infatti, informano la
collettività sui comportamenti del governo, del parlamento e, in generale, dei
loro rappresentanti nelle Istituzioni.
Il
controllo politico e l'accentramento dei mezzi di informazione nelle mani di un
ristretto gruppo di persone - sempre in base alla sociologia - genera una
mancanza di pluralismo che non consente ai cittadini-elettori di avere delle
opinioni informate e di attuare delle scelte consapevoli. I mass media, quindi, diventano
sempre più la fabbrica del consenso e il terreno della lotta per il potere.
Dopo
la carta stampata e la televisione, chi detiene il maggior controllo nella
diffusione delle informazioni? Chi ha oggi la capacità di orientare il
consenso? Secondo
il Censis, gli italiani che si informano attraverso internet sono passati dal
45,3% nel 2007 al 79,3% nel 2019. Il sorpasso su stampa e tv si è compiuto. Ma le cifre si appesantiscono ancora
di più se si analizza la fascia d’età tra i 14 e 29 anni: internet è al 90,3%,
il telefono cellulare all’89,8% e i social media all’86,9%. Le giovani generazioni, ormai,
costruiscono le loro opinioni in base a ciò che leggono online. Sui social
media. L'Agcom
aggiunge un ulteriore tassello: “Gli Italiani accedono all'informazione online
prevalentemente attraverso fonti cd. Algoritmiche (in particolare social network
e motori di ricerca)”. Ecco chi detiene oggi il sesto potere.
Evoluzione
diete mediatiche CENSIS.
Secondo
la teoria elaborata da Edward S. Herman e Noam Chomsky, rispettivamente
economista e teorico della comunicazione, avanzata nel saggio “Manufacturing Consent: the Political
Economy of the Mass Media”, i media sono delle imprese che vendono un prodotto
(lettori, pubblico e notizie) ad altre imprese (gli inserzionisti pubblicitari)
utilizzando
cinque “filtri”:
la
proprietà ,gli introiti, le fonti di notizie, la reazione negativa, l'ideologia.
A
questi filtri, con la proliferazione esponenziale dei dati e il dominio di
social e motori di ricerca, se ne aggiunge un altro: i dati personali. Lo scandalo Cambridge Analytica ne
è la prova. Le informazioni su chi siamo, cosa facciamo, quali orientamenti abbiamo,
fanno ormai parte del “prodotto” in vendita per il “sesto potere”.
Divide
et impera, “dividi e comanda” o “separa e conquista”, è una locuzione latina secondo cui il
migliore espediente di una tirannide o di un'autorità qualsiasi per
controllare e governare un popolo è dividerlo. Provocando rivalità, fomentando
discordie. Il
sociologo Georg Simmel dedica buona parte dei suoi studi alle dinamiche che si
innescano tra gruppi e comunità che si ingrandiscono. Nella teoria della Triade, Simmel
individua tre schemi prevalenti:
quello
del “mediatore”, quando un terzo non direttamente coinvolto in una disputa, dialogando
separatamente in condizioni meno cariche di emotività, è in grado di convincere
gli altri a un accordo;
quella
del “tertius gaudens”, il terzo approfitta per i propri scopi di una divergenza
fra gli altri; e, infine,
quella
del “divide et impera”, quando un terzo fa sorgere o alimenta intenzionalmente una
discordia a proprio vantaggio.
Online
tendiamo a concentrarci su un numero limitato di fonti e di notizie, quindi
abbiamo meno possibilità di modificare le nostre opinioni. Una polarizzazione che contribuisce
a incentivare la disinformazione. É quanto emerge da un’analisi dell’equipe di
fisici del Laboratory
of Computational Social Science (CssLab) all’Istituto di studi avanzati di
Lucca e della Sapienza Università di Roma.
In sostanza, ognuno di noi tende a concentrarsi su un
numero limitato di fonti dell’informazione con cui condividiamo valori e punti
di vista.
Evitiamo opinioni diverse dalla nostra e anche sui motori di ricerca inseguiamo
solo prove che ci diano ragione. E gli algoritmi amplificano all’infinito questa
tendenza, proponendoci solo ciò che ci fa piacere. Le teorie più strampalate
diventano, quindi, verità. Perché cerchiamo e troviamo solo conferme. Solo altre persone
che guardano nella nostra stessa direzione.
Il
sesto potere ha portato con sé le più profonde divisioni e spaccature nell’opinione
pubblica. Uno,
dieci, cento schieramenti. Tutti diversi, l’uno contro l’altro. Per comprendere come non si tratti di
pura teoria ma di realtà, basti pensare ai fatti di Capitol Hill lo scorso 6
gennaio.
L’assalto al Campidoglio USA è nato e cresciuto attraverso la diffusione di
informazioni false sui social networks. Chiamarle teorie complottiste o
cospirazioniste è un insulto a chi i complotti e le cospirazioni li ha scovati
e svelati veramente, dalle inchieste sul terrorismo eversivo in Italia allo
scandalo Watergate in USA. Un’opinione pubblica divisa e litigiosa è più facilmente
controllabile. Il modo in cui ci informiamo, ci trasforma in facili prede di manipolazioni
e rende profondamente instabile il funzionamento delle democrazie che, invece,
avrebbero bisogno dell’alternanza di maggioranze solide e di governabilità.
Ma è
tutta colpa degli algoritmi, dei social network e dei motori di ricerca?
Ovviamente
no, chi decide veramente siamo noi. Forse non ne siamo pienamente
consapevoli, ma educare noi stessi e le giovani generazioni al pluralismo
dell’informazione e delle opinioni è la chiave del cambiamento che ci occorre. L’ascolto degli altri, specie di
quelli che non la pensano come noi, è un esercizio mentale che è necessario
tornare a praticare a scuola, in famiglia, in azienda. La lettura dei quotidiani, quelli
veri, per approfondire le notizie senza fermarsi alle poche righe che troviamo
online. Imparare
a fare sempre una sintesi delle idee, trovando un comun denominatore. Ci sono sempre uno o più punti di
contatto anche nelle visioni più diverse: esercitiamoci a partire da quelli per
costruire e non distruggere.
Le
compagnie tecnologiche sono certamente chiamate alla prova dell’etica, della
responsabilità e della maturità. In una recente intervista, Francesca Rossi - IBM
global leader per l’etica della AI - affermava: “La fiducia nell’AI deve essere basata
su principi quali la non-discriminazione, la trasparenza, la spiegabilità e il
rispetto della privacy. In IBM possiamo contare su un comitato per l’etica
dell’intelligenza artificiale che ci aiuta a valutare gli aspetti delicati di
ogni proposta di prodotto per un cliente: essa deve seguire i principi e le
linee guida sull’etica dell’AI che ci siamo dati, tra cui che la raccolta dati
avvenga nel rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo, della dignità e della
privacy delle persone. Se non è così, noi non partecipiamo e non firmiamo il
contratto”.
Come
ripeto spesso, il futuro avrà le forme che i pensatori e i costruttori di oggi
sapranno dargli.
(Maurizio
Decollanz, Direttore della Comunicazione IBM Italia-Editor in Chief IBM Think
Magazine).
Democrazia,
comunicazione
e diritti nel tempo del Coronavirus.
Giustiziainsieme.it- Salvatore Aleo-(29 MAGGIO 2020)- ci
dice:
(ALEO DIRITTO DELL’EMERGENZA COVID-19 E RECOVERY
FUND ).
Sommario:
1. L’emergenza del Coronavirus. Ritirati a casa e attività on-line; 2. La dimensione
politico-amministrativa e la democrazia. I decreti governativi. Le forzature
costituzionali. Il bisogno penalistico e la burocrazia; 3. Auspici di
semplificazione e flessibilizzazione giuridico-amministrativa e riduzione dello
strumento penalistico; 4. Il carcere e le scarcerazioni; 5. Tutela della sanità
e funzione giurisdizionale.
1. L’emergenza del Coronavirus. Ritirati a
casa
e attività on-line .
Le
prime riflessioni sull’esperienza fatta fin qui del Coronavirus riguardano la
velocità della diffusione del virus nel mondo globalizzato, operata dai
trasporti e dagli spostamenti di ingenti quantità di persone, e la sensazione
di paura, la preoccupazione da cui tutti siamo stati colpiti, come da una
valanga lenta e inesorabile.
Ci
siamo ritirati in casa e da lì abbiamo svolto le nostre attività lavorative e
sociali attraverso le tecnologie della comunicazione, soprattutto informatiche.
Senza
di queste, non avremmo avuto comunicazioni sociali.
Una
riflessione centrale riguarda ovviamente la rilevanza dello strumento
informatico. Il virtuale, generato da strumento informatico, ha avuto il sopravvento
sul materiale, sul fisico. I processi di dematerializzazione sono diventati modo
ordinario di esercizio delle attività, sociali, lavorative, amministrative,
politiche, perfino ludiche, ricreative.
In
tale momento eccezionale, tutti abbiamo fatto l’importante esperienza dell’uso
delle tecnologie informatiche per comunicare, per lavorare, per i nostri comuni
rapporti sociali e amicali. Ovviamente sono stati avvantaggiati, nei tempi e nella
qualità, i più dotati di competenze e di risorse.
Fare
lezione on-line è stato interessante e difficile. Parlare senza la presenza degli
interlocutori, ‘sentendone’ la presenza a distanza tramite il video e il
pensiero; assoluta
mancanza di tempi morti, pure di sfumature; grande concentrazione sui
contenuti; contrazione dei tempi complessivi; stress. Gli studenti hanno apprezzato
molto, sia lo sforzo che la modalità, che ha consentito loro di non viaggiare,
di non alzarsi presto, di ascoltare la lezione seduti comodi nella propria
stanza; hanno
riempito di messaggi di commento e pure di ringraziamento e compiacimento la
chat che accompagna la piattaforma informatica. La sensazione ovviamente superficiale
è di successo della didattica praticata on line, ma con grande fatica di chi
l’ha realizzata, senza averne preventiva esperienza.
Lo
stesso può dirsi per le diverse forme e modalità e occasioni di comunicazione,
con gli studenti, con i colleghi, con i responsabili degli uffici
amministrativi.
Guai
però a pensare che il virtuale possa essere equivalente rispetto al reale, per
ciò che riguarda appunto l’insegnamento. La mancanza del contatto nella
stessa stanza pesa sulla psicologia dei docenti e crea effetti di
semplificazione e banalizzazione sui discenti, ne riduce la fiducia oltre che
le competenze.
In
questo periodo ha avuto una dimensione preminente la comunità familiare, con le
sue dinamiche, spesso trascurate nella vita ordinaria.
La
socialità si è ridotta, si è concentrata, è stata realizzata in modo virtuale,
tramite strumenti e tecnologie della comunicazione. I giovani sono stati lungamente
attaccati al telefono cellulare o comunicando col computer.
Molti,
stando in casa, hanno letto libri e romanzi che altrimenti non avrebbero letto,
pure lunghissimi: chi scrive, La camorra e poi La Sanfelice di Dumas, il
secondo in due volumi di 1754 pagine, nonché le Memorie autobiografiche di
Garibaldi.
Sono
state indotte numerose diverse forme nuove di spettacolo e intrattenimento on
line.
Sono
state sacrificate le attività in comunità e in pubblico, per esempio quelle
sportive.
Sui canali digitali sono state esaltate la musica e le trasmissioni televisive
e cinematografiche.
La
comunità scientifica medica ha incontrato un fenomeno assolutamente nuovo che
ha cominciato a capire e cercato di capire strada facendo, mentre questo si
svolgeva.
I medici sono stati ovviamente i più esposti e hanno pagato un prezzo sicuramente
alto, praticamente inevitabile. Quali che fossero le condizioni sanitarie e preventive, il
confronto con un virus assolutamente sconosciuto e pericolosissimo ha creato
inevitabile sovraesposizione del personale sanitario.
2. La
dimensione politico-amministrativa e la democrazia. I decreti governativi. Le
forzature costituzionali. Il bisogno penalistico e la burocrazia.
Su
questo terreno, la riflessione fa emergere una contraddizione.
Da un
lato, è indubbio che le limitazioni imposte con i decreti del Presidente del
Consiglio dei ministri siano state sia efficaci che tempestive. Senza, avremmo avuto una esplosione
della pandemia, enormemente maggiore di quella che pure è avvenuta. L’efficacia e la tempestività delle
misure del nostro Governo sono state pure maggiori in confronto a quelle di
Paesi che sono considerati ovvero che si considerano più avanzati e blasonati. D’altro canto, ciò è avvenuto con
forzature dell’ordine giuridico e costituzionale.
La
libertà di movimento e spostamento è stata compressa e limitata fortemente con
atti di natura amministrativa (i decreti del Presidente del Consiglio dei ministri sulla
base generica di un decreto legge), con ordinanze dei Presidenti delle Regioni,
con interventi dei Sindaci delle città, con il supporto e l’utilizzo del rinvio
a una norma penale in bianco per la sanzione dell’inosservanza dell’ordine
(degli ordini) dell’autorità, appunto amministrativa.
Sul
piano formale, c’è di che vincere tanti ricorsi, pure qualche questione di
legittimità costituzionale.
Giova
ricordare che nella Carta costituzionale le limitazioni della libertà personale
sono ammesse solo per atto motivato dell’autorità giudiziaria, nei casi e nei
modi previsti dalla legge (art. 13); le limitazioni della libertà di circolazione
e soggiorno sono possibili solo per legge in via generale per motivi di sanità
o di sicurezza (art. 16); secondo l’art. 78 le Camere deliberano lo stato di guerra
e conferiscono al Governo i poteri necessari.
Sul
piano sostanziale, la democrazia appare forzata, ma la nostra salute è stata
difesa, salvaguardata, efficacemente. Il dato difficilmente contestabile è che la gente ha avuto bisogno
dell’imposizione, della minaccia penale e poliziesca, per non uscire di casa e
non contagiarsi. Il ragionamento sia politico, sia giuridico, deve tener conto della, di
questa, realtà. Pure comprensibile, ma poco gradita, da chi scrive, l’ostentazione di
responsabili delle Procure della Repubblica, sui mezzi di comunicazione, più
che delle Forze dell’ordine impegnate, invece, necessariamente, sul campo.
Una
riflessione necessaria riguarda, però, il bisogno (sociale) di diritto penale,
reale, per rispettare e far rispettare le cautele, e culturale, come strumento
di rassicurazione, di consolidazione del rispetto delle norme. Provoca delusione, sgomento, nel
penalista, oltre che consapevolezza delle ragioni forti che giustificano e
sorreggono il proprio ruolo sociale, la percezione che il senso di
responsabilità risulta insufficiente in mancanza della minaccia penale. Questo, a sua volta, crea
condizioni comunque squilibrate (ordinariamente squilibrate, secondo
l’insegnamento della storia) dei rapporti sociali, fra i ceti, fra politica e
magistratura.
Una
considerazione generale che si può fare riguarda i tempi e la complessità della
democrazia.
Hanno prevalso, per necessità ritenuta – e abbastanza condivisa, evidentemente
–, le ragioni della tempestività e della semplificazione. Il linguaggio informatico implica e
induce, per sé, la semplificazione, è ragione e strumento di semplificazione.
Al di
là dell’emergenza di questo virus, non si possono eludere, sul piano politico e
amministrativo, le necessità di semplificazione e velocità dei processi decisionali e
soprattutto di quelli gestionali in confronto alle esigenze poste dalle
attività umane. Si fanno qui alcune considerazioni che si ritengono valide in generale,
che sono emerse con particolare evidenza e rilevanza nell’emergenza
contingente.
I
partiti sembrano scomparsi e la democrazia politica, quella rappresentativa, ha
assunto una connotazione prevalentemente elettorale. Aspetti comunque diversi della
democrazia sono quelli esercitati mediante le attività lavorative e i mezzi di
comunicazione, quindi di formazione del consenso. Accanto alla crisi degli
istituti, delle forme e dei luoghi tradizionali della democrazia
rappresentativa può farsi rilevare la possibilità attraverso i mezzi di
comunicazione di indurre forme di democrazia rappresentativa diverse e
ulteriori. I due aspetti sono certo distinti ma hanno elementi di collegamento.
Non è questo il luogo per affrontare il problema della crisi dei partiti, ma è
impossibile analizzarlo e spiegarlo a prescindere dalla rilevanza assunta nella
nostra vita dai mezzi e dalle tecniche di comunicazione.
Lo
stesso riguarda la scena politica caratterizzata da leader, anche poco adeguati
ai compiti cui sono chiamati, che stanno moltissimo in televisione. Anche questa può essere considerata
una connotazione della democrazia, epperò costituisce un segnale di modestia
culturale della società nel suo complesso. Essenziale, e doveroso, in proposito,
il riferimento ai fenomeni di populismo. Questi elementi inducono certamente
processi di semplificazione, rispetto alla complessità dei problemi espressi
dalla società, dall’economia, dalla cultura e dalla politica. Ma questo è
sempre avvenuto nella storia. Si pensi alla straordinaria semplificazione costituita dalla
codificazione giustinianea, in cui le opinioni di alcuni giuristi vennero
sancite come norme; alla straordinaria semplificazione costituita dalla
codificazione ottocentesca, a dimensione essenzialmente binaria (l’autore e la
vittima, come i contraenti, come pure il colpevole e l’innocente, come l’attore
e il convenuto); a tacere delle operazioni giuridiche costituite dai regimi totalitari.
Il
consenso sui social spiazza chi ha una cultura consolidata diversa, forse
vecchia, ma è una realtà di cui occorre sia tener conto, sia apprezzare le
opportunità.
Non sembra un’esagerazione ritenere il mezzo informatico come uno strumento di
(agevolazione, quindi di realizzazione, della) democrazia: di partecipazione, altrimenti
assente, per la natura dei protagonisti, difficile, in una società ultraveloce.
Indubbiamente
interessanti, sul piano sia politico che tecnologico, tutti gli esperimenti,
realizzati in questo periodo, di funzionamento degli organi collegiali sulle piattaforme
informatiche.
Qualsiasi
fenomeno sociale nuovo e rilevante impatta con la lentezza sia della formazione
del consenso sia delle burocrazie.
Il
primo è un dato assolutamente e puramente irrinunciabile, ma che comunque
merita riflessione. Dalla burocrazia abbiamo, piuttosto, il dovere di difenderci,
di difendere le nuove generazioni.
La
dimensione complessiva della nostra burocrazia è diventata insostenibile. La
moltiplicazione delle norme e dei vincoli non accresce l’efficienza e la
trasparenza dell’attività amministrativa. Anzi. I Paesi con più leggi e più
avvocati hanno anche più corruzione. La semplificazione delle dinamiche
amministrative sembra indispensabile per una vita più serena di quella che
conduciamo, avendo a che fare con la pubblica amministrazione.
La
moltiplicazione esponenziale delle norme e dei controlli, giustificati come
strumenti di garanzia e di legalità, crea enormi disagi a tutti i piccoli
e medi produttori di attività economiche, che sono una forza tradizionale della
nostra realtà socio-economica e invece, stretti nella morsa fra la burocrazia e la
malavita, vengono espulsi dal mercato. Ora hanno avuto la botta finale con
il Coronavirus. È colpevole non vedere questi problemi da parte dei gruppi dirigenti,
degli intellettuali e dei politici. Di questi problemi reali il giurista
deve occuparsi e la politica deve cercare soluzioni concrete.
L’informatizzazione
può contribuire ad agevolare lo snellimento delle prassi amministrative, ma è
solo uno strumento: lo snellimento dipende da un cambio di mentalità, dalla
flessibilizzazione concettuale e giuridica. Diversamente, la stessa
informatizzazione può generare (ulteriore, precipua) burocrazia.
3.
Auspici di semplificazione e flessibilizzazione giuridico-amministrativa e
riduzione dello strumento penalistico .
Allargando
il discorso, possiamo verificare profonde trasformazioni dei rapporti fra sfera
pubblica e sfera privata. Prevalgono i meccanismi di autoregolazione del mercato, dei
suoi protagonisti. Lo Stato di diritto fa fatica, è lento, arranca, è un grosso
pachiderma. Soprattutto, fa fatica a produrre solidarietà, a sostenere i deboli.
Istituzioni
private (di rating) valutano le attività pubbliche statali, oltre quelle
private delle aziende, e inducono così importanti effetti nel mondo finanziario
e politico globale, sugli stessi comportamenti degli Stati, che ne risultano
fortemente condizionati. Tutti questi meccanismi affiancano i processi regolativi
legislativi, che nel frattempo incontrano la difficoltà costituita dalla
differenza fra l’astrattezza e generalità dei meccanismi e la contingenza
emergenziale della realtà.
Le
forze economiche influiscono sui meccanismi regolativi degli Stati: sul
processo di formazione delle leggi; sulle dinamiche economiche; sullo
svolgimento delle vicende giudiziarie.
In
questo frangente del Coronavirus va registrato pure il sostegno finanziario di
grandi imprenditori alle ricerche e alle dotazioni necessarie ad affrontare
l’emergenza.
In
confronto ai problemi della complessità, reale e culturale, dei fenomeni, della
società, della politica e della cultura, può dirsi, da un canto, che risultino
avvantaggiati i sistemi giuridici di common law, nei quali però va riscontrata
la caratteristica – che sembra avere altro tipo di origine – di essere
maggiormente alla portata dei più abbienti. I sistemi giuridici più flessibili
trovano meno ostacoli e meno contraddizioni in confronto alla complessità reale
e culturale della nostra vita sociale contemporanea, e si adattano meglio nelle
differenze fra i vari sistemi, nella dimensione della globalizzazione. Può dirsi, pure, che in generale si vada riducendo la differenza fra i
sistemi di common law e quelli continentali, anche attraverso la funzione delle
Corti costituzionali e delle Corti sovranazionali. Nei sistemi continentali, però,
l’incremento progressivo e costante della discrezionalità dei giudici, in tutti
gli ambiti e situazioni, costituisce una mutazione genetica dell’assetto dello Stato
di diritto, che deve essere necessariamente e variamente compensata. Il
passaggio è prima di tutto culturale.
In
particolare, dal punto di vista penalistico, di fronte all’elefantiasi del
diritto penale, cui assistiamo, deve essere valutata positivamente l’esperienza
dei processi davanti alla giuria popolare, con pochi imputati, su fatti
strettamente determinati, a distanza di poco tempo dal fatto. Esperienza che esprime la dimensione
democratica della giustizia penale e contraddice e contrasta l’estrema
tecnicizzazione e proliferazione dello strumento penalistico per la risoluzione
dei problemi sociali. Quindi anche le distorsioni che vi risultano collegate nei
rapporti fra i ceti dirigenti.
Il
penalista desidera e auspica poco diritto penale. Perché il diritto penale – che va
riferito, qui e ora, tipicamente al carcere – è un trauma che si abbatte sulle vite
delle persone, alterandole indubitabilmente e per sempre. Perché il diritto
penale risulta spesso scarsamente utile, o affatto inutile, o peggio ancora
dannoso, rispetto all’esigenza di evitare e diminuire la realizzazione di
misfatti.
Il diritto penale, sicuramente, però, costituisce uno straordinario, e
costosissimo, strumento di potere e stabilizzazione sociale: esattamente come durante i cinque e
più secoli di roghi per le streghe, pure senza i roghi. L’illuminismo è avvenuto largamente
come protesta, più che ribellione, di intellettuali nobili contro le nefandezze
dei magistrati e le miserie degli avvocati: intellettuali che si rivolgevano ai
sovrani, chiedendo leggi poche, semplici, chiare, pene miti, ma certe, processi veloci e con le prove,
l’abolizione della tortura e della pena di morte, magistrati che si limitassero
ad applicare le leggi, volute appunto dai sovrani e poi dai popoli.
4. Il
carcere e le scarcerazioni.
Con
l’emergenza del Coronavirus è scoppiata la polemica sulle scarcerazioni di
detenuti anche pericolosi, mafiosi.
Le
singole vicende sfuggono ovviamente alla valutazione di chi non le conosce fin
nei dettagli: principio che deve essere considerato essenziale da parte di chi
si occupi di questioni giudiziarie e peggio penali o vi s’imbatta a qualsiasi
titolo.
Una
prima considerazione riguarda la possibilità che il carcere diventasse una vera
bomba sanitaria. Tutti, abbiamo detto, siamo stati come storditi dall’impatto mediatico
con l’emergenza del virus. Lo stesso ha riguardato, ovviamente e banalmente,
tutti coloro che a qualsiasi titolo si sono occupati di gestire e valutare le
situazioni relative alla presenza dei detenuti nelle case circondariali e di
reclusione, ai colloqui e alla comunicazione con i parenti.
È
certo possibile che siano avvenute forzature e strumentalizzazioni, come
avviene sempre e in tutti i tipi di situazioni. Come abbiamo visto e detto essere
avvenute forzature istituzionali, pure efficaci, delle regole democratiche e
costituzionali.
Il carcere
è stato, ed è stato visto come, una bomba che poteva esplodere. Le polemiche sono sempre più
rumorose del lavoro per risolvere i problemi.
Una
considerazione generale riguarda però il carcere, come strumento, e le sue
condizioni, di fatto.
Il
carcere è uno strumento forse poco utile, sicuramente sopravvalutato,
costosissimo. Oggi abbiamo circa sessantamila detenuti, di cui circa un terzo
tossicodipendenti e ancor più extracomunitari, moltissimi detenuti in attesa di
giudizio, anche di primo giudizio. A parte il dato che la capienza regolamentare è di
circa diecimila unità in meno, siamo stati giudicati malissimo dalla Corte di
Strasburgo, in relazione al divieto delle pene inumane e degradanti, e abbiamo fatto
tutto ciò che è possibile per non accorgercene, per fare finta di niente. Ma
intanto moltissimi detenuti hanno citato in giudizio lo Stato italiano per
ottenere un risarcimento del danno, di avere praticato pene inumane e
degradanti, o l’abbreviazione delle stesse. E perfino i direttori di carcere
sono stati chiamati davanti alla Corte dei conti per rispondere di danno
erariale.
La
situazione complessiva delle carceri e dei detenuti in Italia è largamente al
di sotto delle condizioni di dignità per un Paese che si definisce civile. Situazione, che certo non può
trovare alcun tipo di giustificazione nella pericolosità dei fenomeni
criminali, ovvero dei loro protagonisti, e che costituisce un problema
sicuramente più grande, oggettivamente più importante, del fatto che alcuni
malavitosi possano essere scarcerati, anche per errore, per imperizia o ancora
peggio.
Papa
Francesco ha manifestato ripetutamente dolorosa attenzione al problema
carcerario ma non è stato ascoltato neppure Lui.
Anche
magistrati noti (Fassone, Colombo), di evidente sensibilità umana, hanno
cercato di attirare l’attenzione sulla situazione drammatica delle carceri e
della detenzione, nonché sull’utilità delle pene detentive soprattutto lunghe. Non è successo nulla.
La
sensibilità collettiva è mossa – facilmente, subito – dalla notizia che
detenuti in regime di alta sicurezza sono stati destinati alla detenzione
domiciliare, per ragioni attinenti alle loro precarie condizioni di salute,
pure in considerazione del pericolo ulteriore costituito dal Coronavirus. La speculazione politica fa presa
ovviamente su sentimenti che sono reali, altrimenti non ne verrebbe amplificata
e supportata.
La
gente ha bisogno, tutti noi abbiamo bisogno, della vendetta, come fonte e
motivo di soddisfazione. Ho scritto un libro che s’intitola Dal carcere.
Autoriflessione sulla pena, Pacini editore, 2016, dopo un’esperienza di ricerca
durata cinque mesi nelle due case circondariali di Catania (Bicocca, alta
sicurezza, detenuti di criminalità organizzata, Piazza Lanza, media sicurezza,
detenuti comuni, molti tossicodipendenti, molti extracomunitari), partendo dal mio bisogno e istinto di
vendetta, per fare i conti col problema della pena e del carcere.
Il
diritto penale (anche quello dello Stato democratico di diritto) costituisce il
prolungamento logico e storico della pratica della vendetta, che ha costituito forse il primo
fondamento (giuridico, costituzionale) del processo di aggregazione sociale; così come l’amore ha costituito il
fondamento costituzionale del legame familiare. È troppo forte, dentro di noi, il
bisogno, il desiderio, l’istinto o la pulsione, della vendetta, perché possiamo
riuscire a emanciparci.
Considerando
il solo budget del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, un detenuto
costa circa cinquantamila euro l’anno. Senza considerare, dunque, il
carico degli stipendi dei poliziotti non penitenziari, dei magistrati nonché
pure di chi scrive. Pensi il lettore a quanti processi ed esperimenti di
mediazione sociale e di rieducazione, nella società tecnologica del 2020, sarebbero
possibili con una cifra simile a disposizione per ciascun autore di delitto,
anche grave.
Il
carcere è, nella più nobile ipotesi di lettura, la più incresciosa delle
semplificazioni della nostra cultura sociale.
Il
carcere costituisce il pilastro (di cemento, non simbolico) di un sistema di
potere, da cui molti traiamo sussistenza e anche agi, che serve principalmente
ad alimentare se stesso. E che non deve rendere conto a nessuno, circa la sua utilità,
perché incontra il sentimento crudele della gente, del popolo, di tutti noi.
Provi,
ancora, il lettore a pensare, a immaginare, se il carcere (che è comunque una
bomba innescata, per svariate comprensibili ovvie ragioni) fosse esploso per
l’emergenza Coronavirus.
5.
Tutela della sanità e funzione giurisdizionale.
Più
sopra dicevamo dei medici, e paramedici, in prima linea, tutti. Con costi molto
alti.
Ciò è
avvenuto, per un capriccio della storia, dopo molti anni che queste categorie
sono oggetto, vittime e quindi protagonisti forzati di uno straordinario
fenomeno di contenzioso giudiziario, in tutti i Paesi più avanzati, contenzioso
civile e anche penale.
I
medici svolgono la funzione di tutela della salute e hanno in genere condizioni
economiche migliori di altri settori. Inoltre molti sono dipendenti del
servizio sanitario nazionale. In tutti i Paesi capitalistici è avvenuta una
trasformazione appunto straordinaria. Prima il malato moriva perché Dio lo
aveva chiamato e guariva perché il medico era stato bravissimo. Più di recente, ci si aspetta dai
sanitari la guarigione, pure prospettata da toni salvifici più o meno
interessati, e nei casi di evento infausto si ricorre al giudice per ottenere
il risarcimento dell’errore sanitario. Con il supporto tecnico degli avvocati. E la magistratura svolge attività di
controllo – non solo e puramente di legalità, ma anche – di qualità della
funzione sanitaria. Queste dinamiche hanno stressato gravemente lo svolgimento
della funzione sanitaria, condizionata peraltro dalla politica che sostanzialmente la governa,
e hanno
innescato i fenomeni cosiddetti di medicina difensiva (eccesso di esami, di
ricoveri, di prescrizioni farmacologiche e terapeutiche) e una grande lievitazione dei costi.
Non
c’è dubbio che questa situazione richieda uno scostamento innanzitutto
culturale, di consapevolezza complessiva dei problemi così coinvolti. È certo auspicabile e anche
verosimile che una situazione e un momento di intimità e di riflessione come la
crisi del Coronavirus, verificando intanto gli sforzi, anche eroici, comunque
straordinari, che i sanitari stanno compiendo, tra mille difficoltà, in favore
di tutti noi, inducano noi stessi a una seria riflessione, a un profondo
ripensamento, circa i reali interessi in gioco, anche in questo delicato campo.
Intanto, come spesso accade, prevale
il politichese, o se si preferisce il giuridichese. Si sta tentando di fare approvare una
norma di salvaguardia per le attività sanitarie svolte in regime di
Coronavirus, a tutela innanzitutto dei responsabili delle aziende sanitarie. Tale disciplina di salvaguardia deve
essere di carattere assolutamente generale, delle attività sanitarie. Perché costituisce un paradosso,
finanche esaltato però dalla magistratura di legittimità, che i responsabili della funzione di
garanzia della salute siano fatti responsabili, giuridicamente ed
economicamente, delle occasioni, che devono essere considerate invece tipiche
di tale funzione, di insuccesso. Un paradosso, perché è giusto e utile che il
titolare di una funzione così delicata sia mantenuto in condizioni di serenità
e di tutela.
Speriamo,
proprio, che anche il ritiro forzato nel tempo del Coronavirus ci induca a
riflessioni probe e intelligenti pure a questo così delicato proposito. Speriamo che il Coronavirus, che ci
ha generato paura e sofferenza, ci renda complessivamente più umani e più buoni.
(Questo saggio sarà pubblicato anche sul n. 1 del 2020
del Mediterranean Journal of Human Rights.).
Social
media e democrazia:
quali
sono i confini?
Ferpi.it-
Biagio Oppi-(12/01/2021)-ci
dice:
Libertà
di parola e incitazione alla violenza, difesa della democrazia e censura: la cronaca di quanto accaduto lo
scorso 6 gennaio negli USA ha messo in luce come il confine tra concetti
opposti fra loro si sia fatto sempre più labile. Un tema che riguarda tutti
come cittadini e che tocca da vicino il lavoro dei professionisti della
comunicazione. La riflessione di Biagio Oppi che apre un dibattito sul sito FERPI.
In
questi giorni, in seguito agli eventi di Capitol Hill e alla conseguente
censura (presunta o meno) di Twitter e Facebook nei confronti di Trump è
divampato sui media il dibattito sul potere delle piattaforme social e le
contromisure che le democrazie mature dovrebbero cominciare perlomeno a
definire.
Zuckerberg
in un post ha spiegato i motivi della decisione presa da Facebook verso Donald
Trump invocando il tema della priorità per la sicurezza pubblica. Twitter
intanto ha riattivato l’account, dopo averlo sospeso e dopo averne cancellato
alcuni tweet.
In
ballo si intrecciano temi importantissimi in un periodo di trasformazione
profonda dello scenario globale: libertà di informazione, i limiti della
libertà di parola, i temi di privacy e digital control, la necessità di una critical media
literacy diffusa, in generale il potere che hanno assunto piattaforme come
Twitter, Facebook (con Whatsapp e Instagram), Google.
Da un
lato si giustifica la facoltà di poter censurare i propri utenti in quanto i
grandi network siano aziende private con un contratto che gli utenti accettano
al momento dell'attivazione dell'account; dall'altro si sottolinea quanto
queste piattaforme rappresentino spazi reali di potere, gestione del consenso e
dibattito pubblico.
Il
parallelismo con i media tradizionali, a cui viene riconosciuta l'assoluta
libertà di scegliere i contenuti, fatica a tenere, perché i social network sono
molto più pervasivi.
Azioni
di gruppi hacker, guidati da potenze straniere, hanno configurato negli anni
scorsi vere e proprie azioni di disturbo nella costruzione del consenso e nelle
elezioni democratiche di vari Paesi, trasformandosi di fatto in cyberguerrilla
(interessante
paper di The EU Cybersecurity Agency) che ha spesso contribuito a
polarizzare le opinioni pubbliche, diffondendo fake news e azioni di trolling.
Infine,
non da ultimo, vanno sottolineate le differenze di approccio nelle varie aree
del globo e una domanda che ritorna è: perché il social network scende a
patti con regimi poco democratici e invece decide di intervenire in democrazie
più mature?
Negli
anni scorsi alcuni nostri colleghi hanno contribuito a realizzare un dibattito
e un manifesto, "L’algoritmo come tecnologia di libertà?", disponibile su Digidig.
FERPI
invita i soci e i professionisti della comunicazione a inviare una propria
riflessione, per offrire a questo dibattito un contributo a più voci. Si tratta sicuramente di uno dei
temi caldi che investirà informazione, società e comunicazione per i prossimi
anni. A tutti coloro che volessero
contribuire chiediamo un intervento (o anche più di uno) eventualmente
focalizzato su uno dei temi che abbiamo citato, cercando di stare nelle 1500
battute spazi compresi, da inviare a redazione@ferpi.it. Già dalla prossima
settimana cominceremo a pubblicarli sul sito FERPI.
La
seduzione della Rete che prevarica
le
prerogative della democrazia.
Altraeconomia.it-
Roberto Settembre-(20
Marzo 2021- ci dice:
Le
multinazionali del web, sottratte a ogni forma di controllo, hanno costruito
imperi plurimiliardari. Gli utenti incendiano emozioni trasformate in merce
mentre gli Stati reagiscono blandamente allo strapotere di big tech.
(
L’allarme di Roberto Settembre).
Purtroppo
dire a uno stupido che è uno stupido non lo farà diventare intelligente, ma
mostrare il pericolo a chi rischia di diventarlo serve, perché la stupidità non è innata
nella natura umana, essendo una pulsione che può venir contrastata.
La
stupidità tuttavia ha un fondamento allettante, che allevia lo spaventoso
fardello delle responsabilità quotidiane, una delle quali, mutuandola dalla
“Vita activa” della filosofa politica Hanna Arendt, è la trasformazione
dell’individuo da mero consumatore di opinioni indiscusse camuffate da notizia,
in costruttore del pensiero critico.
Su
tale assunto si innesta l’oggetto di queste righe incentrate sulla differenza
di senso della comunicazione informativa, dove per senso si intendono la causa,
la ragione, la direzione e il modo stesso del suo agire, e un’operazione
peggiore della menzogna, l’inganno. Perché l’inganno, sotteso all’uso
delle parole di per sé polisemiche, privo di spessore, attiva le parti
superficiali delle capacità cognitive, cioè lo spazio della mente dove dilaga e
impera la stupidità.
Ma
fermiamoci: la parola stupido non è di per sé un’ingiuria; letteralmente
significa stupefatto, sbalordito. La radice è “stupire”. Allarmano le sue
conseguenze. Lo sbalordimento per la notizia e la stupidità accesa da un suo callido
uso. Callido, non sapiente (per non offendere la sapienza), al fine di
catturare non l’attenzione ma l’emozione, antitesi della riflessione strumento
dell’analisi. Il punto è lo iato tra la notizia e il giudizio, che dev’essere colmato
dall’analisi razionale, di per sé ardua da sviluppare e da penetrare.
Così
entrano in conflitto la necessità della competenza e le ragioni della sua
demonizzazione, che non sono innocenti, ma hanno uno scopo, soprattutto quando
la notizia è impastata di una finta analisi che porta a un finto giudizio,
tanto più tranchant quanto più lontano dall’analisi. Per questo motivo, oggetto del
nostro discorso sarà una breve indagine su come la comunicazione agisca sui due
mondi della conoscenza: quella destinata a innescarne altra, e quella finalizzata a
esaltare se stessa, serva di manovre nemiche della democrazia razionale. Ciò non assolve l’informazione
professionale che recentemente (ma accade sempre quand’è serva del potere) ha inseguito quell’altra.
Partendo
da lontano, sta affiorando un legame tra il mondo greco antico e una possibile
rinascita della funzione del linguaggio, parlato e scritto, come luogo della
ragione.
Nel V secolo a.c., al tramonto dell’oralità, Platone disse che nessun sapiente
avrebbe dovuto ridurre la conoscenza alla parola scritta, che, essendo muta, impediva la
ricerca della verità possibile solo nel dialogo.
Dopo
quasi 2.400 anni questo pensiero si riaffaccia, ma per 24 secoli il trionfo
della parola scritta ha accompagnato quello di istituzioni basate sul pensiero
di pochi che domineranno la mente dei molti.
Attraverso
milioni di pagine scritte la società umana vedrà totali sconvolgimenti. Ma ogni
volta che un ristretto numero di parole sarà determinante per modellare la
società, è seguito un dibattito, tanto più approfondito quanto più circoscritto
agli specialisti del settore, e tanto più utile o nemico del potere, che sempre ha cercato
di semplificarlo, per esaltarne o cancellarne la rilevanza, su ogni piano,
politico, culturale, scientifico, religioso.
Galileo
pubblica il dialogo sui massimi sistemi, e il Cardinale Bellarmino si rifiuta
di guardare nel cannocchiale riducendo le sue tesi scientifiche a menzogna, quindi minaccia la tortura e il
rogo, consapevole di un consenso collettivo carpito con la massima
semplificazione dei concetti religiosi e scientifici.
Viceversa,
ai sette articoli della Costituzione degli Stati Uniti d’America (1776) segue
la pubblicazione dei “The Federal papers”, 85 saggi di profonda scienza
politica, scritti per convincere l’assemblea degli USA a ratificarla. I giornali di New York li
diffondono, poi vengono raccolti in volumi per offrire una visione lucida del
nuovo sistema di governo e consentire le interpretazioni e i 27 emendamenti nei
successivi 200 anni.
L’illuminismo
ha fornito la chiave interpretativa del pensiero oggettivato nello scritto per
costruire nella mente il terreno della riflessione. L’elaborazione delle idee, pur
ridotta a semplificazioni e a esemplificazioni per renderla comprensibile ai
più, non intendeva demolirne l’edificio. Lo fecero invece i nemici della riflessione
critica cercando il consenso per raggiungere i loro scopi. Condorcet venne
ghigliottinato per questo.
Ma fu
il Novecento a imboccare più di ogni altro secolo la strada della
semplificazione del messaggio come veicolo per allontanare la riflessione
critica.
Valgano
come esempio “Il dizionario mussoliniano” con “1.500 affermazioni e motti del Duce” e Il libretto “rosso” di Mao Tze Dong, l’antologia delle sue citazioni,
obbligatoria in tutti i gradi d’istruzione in tutti i luoghi di lavoro e
nell’esercito. Entrambi impasto di idee e giudizi superficiali, perfettamente
twittabili. Finché sulla scena mondiale della comunicazione compare la Rete.
Senza
farne la storia, è bene vedere come abbia sedotto gli utenti, diventando altresì un micidiale polo
di attrazione per l’informazione mainstream, tanto da causarne una
trasformazione epocale.
Si sa
che il sedotto acconsente in vista del suo tornaconto, ma se talvolta smaschera la menzogna,
cade spesso vittima dell’inganno.
Il
nuovo pubblico, con tempi di fruizione più veloci di un tempo e una soglia di
concentrazione minore, ha abbracciato entusiasta l’offerta della Rete e ha sceso il
primo gradino. Poi l’avvento dei social network ha reso fluidi lo scambio e la
condivisione di notizie e contenuti, mescolando le sfere del pubblico e
del privato, talché il sedotto ha sceso il secondo gradino, convinto di
costituire una sfera pubblica attiva con una propria opinione, dove poter
diffondere e condividere contenuti privati e viceversa. Ma big tech ha rimodulato il contesto
dove gli individui credevano di scegliere cosa proporre pubblicamente e cosa
no, usando
i luoghi della propria vita come spazi dove chiunque potesse fruire di un gran
numero di contenuti. Erano inconsapevoli che i social media stavano approfittando
del fatto che il pubblico percepiva quei luoghi con significati diversi, aperti
a decodifiche aberranti, magari a favore di chi offriva coscientemente di tutto
a un’audience in grado di comprenderne solo una parte, a causa delle variabili
cognitive soggettive di persone sedotte dall’immediata fruibilità di contenuti
a cui potevano partecipare.
Poi la
seduzione ha colto i vecchi media ancorati alle loro autorevoli informazioni
complesse e già costruite, inducendoli a reagire alla TV in streaming trasmessa
dalla Rete con versioni online in continuo aggiornamento arricchite dai
commenti dei lettori. Col moltiplicarsi delle voci dei blogger o sedicenti tali,
all’autorevolezza si è sostituita la credibilità coincidente col numero dei
follower, ma a discapito della qualità.
Oggi
il potere mainstream dei media di massa si è spostato sul web dove i singoli,
coi loro post, commenti e tweet animano dal basso la discussione, mentre il
sistema mainstream include le dinamiche dei social network ibridando mass media
e reti di comunicazione orizzontali.
Questa
eccessiva varietà di fonti pone un grave problema di veridicità, poiché in
questa commistione, che causa una distorta costruzione dell’idea di mondo, ognuno
cerca spazi di autoreferenzialità sempre più estesi e annichilenti la capacità
critica. D’altronde
i social forniscono un miele cognitivo irresistibile con effetti perversi.
Uno,
la perduta capacità di approfondimento, ha fornito lo schermo dietro al
quale gli oligopolisti
del web hanno costruito i loro imperi con guadagni plurimiliardari, senza
sfiorare col dubbio gli utenti ubriacati dalla pulsione all’uso sistematico
delle piattaforme dove si consuma il rito dell’uso fuggevole delle emozioni,
tanto più veloce, quanto più estetizzante, per dirla col filosofo Byung Churl
Han, giocato attraverso l’invito all’azione, il click, e non alla riflessione.
Le
emozioni, divenute merce, perdono la loro funzione primaria che stabilizza la
vita umana sul piano dei legami di affetto. Il trionfo dell’hate speech ne è un
esempio.
Ma il senso delle parole non viene approfondito, anzi, quanto più capaci di
risvegliare figure profonde dell’immaginario (si pensi a parole come “memoria
collettiva”, “lingua”, “insieme dei valori”, “territorio”, “sangue” “differenze
di genere” “Solidarietà” “sacrificio” “popolo” “democrazia” “patria” che
saltellano tra la destra e la sinistra con disinvoltura) tanto più vengono ingoiate e
ritrasmesse come portatrici di valori, mentre i colossi del web lucrano
immani profitti facendosi beffe degli Stati, una volta acquisito il consenso di
miliardi di utenti, sedotti dall’inganno dell’apparente gratuità, divenuti essi
stessi merce con la miriade di dati personali forniti al loro seduttore,
autorizzato a incamerarne e processarne terabyte usati per fagocitare il
mercato pubblicitario e distruggere le risorse dei media tradizionali (nel 2020
Google ne ha il 50%, Facebook il 25%).
Frattanto
gli utenti felici aumentano un narcisistico rispetto di sé palleggiando parole
polisemiche da un like all’altro, spesso a corredo di aforismi travestiti da valori che
non si riferiscono alla comunità, ma all’ego schiavo della pulsione irrefrenabile di
postare di tutto. Così le fake news volano tra persone incapaci di cogliervi il
significato sotteso, cioè il presupposto implicito: ognuno incendia le sue
emozioni sotto l’effetto del riconoscimento implicito di quel che vuole
riconoscere. È l’esaltazione del bias.
Ma c’è
di più. Da Twitter come finestra sul mondo viene l’effetto feedback sul
giornalismo professionale che, per ricavare profitti sempre più scarsi a causa
del drenaggio del big tech, è spinto a divulgare notizie sensazionalistiche,
talvolta false o non verificate sui suoi siti web e sulla carta stampata, per
aumentare le vendite in calo. Questa grave distorsione nell’uso delle piattaforme inquina
l’informazione seria. Ne è prova la critica montante dal suo stesso ambito circa
l’uso distorto delle notizie sulla stampa di opposizione al trumpismo, i cui i
destinatari sono spesso persone sprovvedute. E figuriamoci nell’altra.
Intanto
il potere del big tech è cresciuto tanto da censurare un personaggio come Trump
(ma non decine di altri), decidere come usare le fake news, truffare gli
inserzionisti, appropriarsi delle notizie sui link altrui. E queste non sono
azioni marginali di Google, Twitter e Facebook, separate dall’area narcisistica
dei loro follower: sono l’espressione di un potere immenso, sottratto a ogni
forma di controllo, che prevarica le prerogative della democrazia
rappresentativa e che opera su un’infrastruttura essenziale della
comunicazione.
Gli
Stati reagiscono blandamente. L’Unione europea ha varato una direttiva copyright. L’Australia ha imposto per legge a
Google e Facebook di pagare per pubblicare i link del giornalismo
professionale. Eppure è scontro.
Tuttavia,
come si è visto per l’elezione di Biden, decine di milioni di persone (non solo
negli USA) si abbeverano alle fonti delle piattaforme attribuendo loro il
valore della verità, come hanno mostrato le teorie complottiste amplificate sui
social da milioni di utenti.
Forse
gli entusiasti delle piattaforme credono di esercitarvi il loro controllo. Ma
quale? A
marzo Nayib Bukele ha stravinto le elezioni in El Salvador carpendo a suon di
Twitter il consenso dei giovani, stragrande maggioranza, e si è fatto sovrano
assoluto col proposito di distruggere il sistema rappresentativo. Ancora una piattaforma usata come
arma su persone prive della capacità di sviluppare risorse cognitive proprie,
forse inconsapevoli, “opinioni pubbliche fragili, incapaci di formulare
autonomamente un pensiero critico, di riconoscere cause ed effetti di un
disastro sociale” sotto la spinta di opinion maker incontrollabilmente
veritieri, come dice Mario Banti in “La democrazia dei followers”.
E qui
da noi? In questo senso gridiamo il nostro allarme contro la stupidità
crescente.
C’è
rimedio?
Forse nel recuperare l’utopia platonica: il linguaggio parlato come piattaforma
per il dialogo. Forse l’horror che alle persone dotate di un sistema cognitivo
funzionante suscita la sua negazione col ping pong dei like sui social,
proprio dai social potrebbe venir sconfitto.
È
dallo scorso gennaio che funziona Club House, un social network ancora piuttosto
esclusivo, dove si può letteralmente conversare sui temi più disparati. Ne riparleremo, ma forse questa è la
via per uscire da quella che porta alla stupidità, e, chissà, forse per tornare
al trionfo dell’illuminismo anche nel pensiero scritto.
(Roberto
Settembre, magistrato dal 1979 al 2012, ha redatto la sentenza di appello sui
fatti del G8 di Genova a Bolzaneto, a riposo come presidente di sezione di
Cassazione.)
Internet
e democrazia: come sta
cambiando il dibattito pubblico.
Webmagazine.unitn.it-
Giulia Castelli-(5 aprile 2019)- ci dice:
(Facebook
LinkedIn Twitter) .
(Giulia
Castelli laureata in Giurisprudenza UniTrento, collabora con l’Ufficio Web,
social media e produzione video dell'Ateneo.)
Intervista
a Gabriele Giacomini, autore del libro "Potere digitale" e ospite
dell’Ateneo.
Il
rapporto tra media e politica si è trasformato nel corso degli anni in modo
sorprendente. Trasformazioni scandite dall’evoluzione tecnologica e dalla nascita di
nuovi mezzi di comunicazione: la televisione negli anni Settanta; Internet e il
web 2.0 nel 2019. I mezzi di comunicazione tradizionali
dei decenni passati sono emersi come intermediari tra il mondo della politica e
i cittadini. Internet ha messo in discussione questo ruolo, ridisegnando il rapporto
tra i mezzi digitali di informazione e la democrazia liberale. Il dibattito scientifico sul tema è
molto vivace, plurale e in continua evoluzione. A riguardo abbiamo fatto qualche domanda a Gabriele Giacomini,
ricercatore dell’Università di Udine e della Fondazione Bassetti di Milano.
Giacomini è stato ospite del nostro Ateneo nel mese di marzo per un incontro su
questi temi organizzato a Sociologia dal Research Group on Collective Action,
Change and Transition (CoACT) e moderato da Giuseppe Veltri.
Dottor
Giacomini, gli intermediari tradizionali –
ad esempio partiti e giornalisti
– sono ancora protagonisti del dibattito pubblico? In che modo Internet ha
rivoluzionato la sfera pubblica e il loro ruolo?
Certamente
sono ancora i protagonisti. Internet si sta diffondendo sempre di più, ma non
dobbiamo dimenticare che, ad esempio, la maggioranza degli italiani si informa
di politica ancora attraverso la televisione, un mass media che si potrebbe
definire “tradizionale”, abitato da giornalisti professionisti. I partiti hanno un importante ruolo
istituzionale, nell’ambito del sistema politico, ma sono rilevanti anche per
informare il dibattito pubblico: realizzano manifestazioni, dimostrazioni,
banchetti, petizioni. Propongono leggi e in questo modo portano l’attenzione su
alcuni temi piuttosto che su altri. Internet è la grande novità, sta
cambiando progressivamente le nostre vite, ma non bisogna correre l’errore di
giungere a conclusioni affrettate.
Negli
anni Novanta prevaleva l’utopia di un cyberspazio incontaminato, un luogo privo
di interessi economici e centri di potere, dove l’informazione era libera da
qualsiasi tipo di ingerenza esterna. Come è cambiato il web e il mondo
dell’informazione in questi anni e cosa intende quando nel suo libro parla di
“neo-intermediazione”?
Recentemente
si è affermato il concetto di “disintermedizione”: significa che gli intermediari
tradizionali, con la diffusione di Internet, vanno in crisi. Non prenoto più il viaggio nelle
agenzie (intermediari tradizionali), ma direttamente online. Non faccio le
operazioni bancarie dallo sportellista (intermediario tradizionale) ma con
l’home banking. Anche la figura del giornalista è sicuramente in crisi. Le copie dei giornali cartacei sono
in calo da molti anni, ad esempio, e questo è un dato di fatto. In questo senso si è verificata una
parziale disintermediazione anche se, come abbiamo già precisato, la figura del
giornalista rimane centrale ed è ancora lontana dall’essere completamente
superata. Ma
il punto centrale è che nella sfera pubblica non ci sono solo vecchi
intermediari che sono in crisi, ma anche nuovi intermediari che stanno emergendo.
Google, Facebook, Twitter, ad esempio, non selezionano e non pesano le
informazioni in redazione, ma attraverso algoritmi: è la “neo-intermediazione”.
Se oltre alla “disintermediazione” non vediamo anche la “neo-intermediazione”
rimaniamo cechi di fronte ai nuovi centri di potere informativo e non solo.
Da una
parte, Internet ha moltiplicato il numero di fonti informative a cui i
cittadini hanno accesso. Dall’altra, gli algoritmi fanno in modo che gli utenti siano
profilati e quindi esposti solo alle
informazioni che gradiscono. A quali conseguenze può portare un
“ecosistema” informativo di questo tipo per il pluralismo democratico?
Ci
sono sempre più voci su Internet, il che è molto positivo, ma sembra che la
distanza fra queste voci aumenti. Simbolo di questa distanza sono le echo chambers, le camere dell’eco:
Internet
personalizza l’esperienza informativa e quindi tende ad offrirci ciò che già
gradiamo, quello con cui siamo già consonanti (è l’obiettivo soprattutto della
piattaforme commerciali, che desiderano offrire all’utente una navigazione il
più possibile piacevole). Detto in altri termini, se il pluralismo in termini
quantitativi cresce, quello in termini qualitativi (come concordia discors,
come confronto il più possibile costruttivo con l’altro) potrebbe diminuire.
È quel
fenomeno che in “Potere digitale” (Meltemi edizioni) ho chiamato “paradosso del
pluralismo”.
Il rischio è l’incastellamento della sfera pubblica, e la diminuzione di “incontri
casuali”, di esposizione con chi la pensa diversamente. Ma una certa attitudine al confronto
con l’altro è un aspetto importante della democrazia, come spiegava bene John
Stuart Mill. Ma le conseguenze possono essere più generali: parafrasando Popper, se ho una idea,
per corroborarla non devo cercare notizie o informazioni che la confermano, ma
che la falsificano, che la mettono in discussione. Il rischio è che l’architettura delle
piattaforme inibisca ciò, anche se ovviamente non si tratta di un destino e la
dieta mediale dei cittadini è varia.
In
base ai suoi studi, pensa che la democrazia rappresentativa abbia un futuro o
sarà superata grazie all’utilizzo dei nuovi strumenti tecnologici?
Per
molte ragioni credo che la democrazia rappresentativa non verrà sostituita da
una democrazia diretta, che secondo alcuni potrebbe realizzarsi grazie alle
ICT. Razionalità
limitata e specializzazione della società, ad esempio, non renderanno possibile l’avvento di
un “cittadino totale”, capace di occuparsi in maniera continua e non
intermittente delle questioni politiche. È più probabile, invece, che avremo una modifica della democrazia
rappresentativa. Ma non sappiamo se il cambiamento sarà più in una direzione
“verticistica-elitista”, in una “orizzontalistica-popolare” oppure in entrambe
al tempo stesso.
Quello
della comunicazione è il più
grave
problema della nostra democrazia.
Ilfattoquotidiano.it-Redazione-(8
luglio 2021)- ci dice:
È
stato approvato a larga maggioranza un documento dall’assemblea parlamentare
del Consiglio d’Europa del senatore piddino Roberto Rampi, in cui per la prima
volta si cerca di superare la vaghezza delle belle parole e di indicare delle
soluzioni concrete.
Si
parla molto dei media. Lo scopo è quello di far promuovere il diritto alla
conoscenza a diritto umano. A me di sinistra liberale indica il sentiero Luigi
Einaudi col suo “conoscere per deliberare”, a me europeo indica il sentiero
Dante col suo invito a “seguir vertute e conoscenza”. Voi direte, tutto scontato, ma è
cosi? O ci stiamo prendendo in giro reciprocamente facendo finta che le nostre
democrazie siano davvero tali, facendo finta che i mezzi di comunicazione siano
davvero liberi?
Mi
pare che siamo tornati all’ipocrisia dello Statuto albertino che, nel suo testo
preparatorio, affermava che “la stampa è libera ma sottomessa a leggi
repressive”.
Non sorridete. Noi potremmo dire: la stampa è libera ma sottomessa a regole che
nessuno fa rispettare, al crollo della professionalità, alla pubblicità
occulta, al terribile conformismo della concentrazione editoriale, alla precarietà che
rende schiavi, alla ignoranza che è l’esatto opposto della conoscenza.
Il
cumulo degli strumenti informativi è impressionante. Però, se ciascuno dei segmenti di
questo cumulo è inquinato, perché non libero davvero, il Tutto si tramuta in un incubo di
conformismo e di illibertà. L’opinione pubblica viene blandita come dominatrice e
onnipotente, ma in effetti è manipolata, eterodiretta, svigorita. Gli strumenti del comunicare sono
inesorabilmente e progressivamente concentrati. Dappertutto regnano, se non il
monopolio, l’oligopolio
e strutture elefantiache, costosissime, irraggiungibili dalle minoranze
ideologiche.
Alcuni
decenni fa è stato scritto un grosso volume, di Serge Tchakhotine, ormai un classico: il suo messaggio
è ben riassunto dal titolo: Le viol des foules par la propagande politique, un libro che rende bene ciò che è
avvenuto nel XX secolo.
Qual è
la differenza tra quei tempi e l’oggi? Che allora quello stupro era violento
e visibile. E certo la massa soccombeva. Oggi tutto è più subdolo. Il lettore, lo spettatore e
l’ascoltatore, che appaiono ovunque protagonisti, in realtà sono ridotti a
oggetti inconsapevoli. Non sono titolari di alcun diritto. I risultati della
conquistata libertà d’impresa mediatica sono deprimenti. Il lettore-consumatore si difende
come può e arretra: abbandona progressivamente gli strumenti più “difficili” e
soggiace a quelli più “facili”. Va sempre meno in edicola ad acquistare i quotidiani e giace di fronte alla tv e al pc. Ma chi oggi riflette su questi
problemi proponendo delle soluzioni? (…)
Prima
questione: la pubblicità inquinata. Questa truffa si è data anche una “filosofia” e
viene teorizzata. Il concetto di “pubblicità nativa” nata negli Stati Uniti
mira proprio a superare il vecchio concetto di pubblicità e a confondersi
totalmente, anche nella forma e nella scrittura, con i contenuti redazionali,
affinché il lettore non riesca ad accorgersi dell’inquinamento. È pubblicità che si camuffa da
giornalismo.
Ormai
il giornalista è un mestiere per pochi fortunati: quali proposte per uscire dal
pantano?
La
“pubblicità nativa”, ovvero truffaldina, inonda tutti i quotidiani di carta
stampata violando codici deontologici sia giornalistici sia pubblicitari,
nonché l’art. 44 dello stesso contratto nazionale giornalistico. Però, a mio avviso, la pubblicità
nativa è addirittura meno grave del silenzio-assenso del sindacato dei
giornalisti che avrebbe tutti i mezzi per stroncarla, ma è da tempo silente,
inerte, addirittura complice in questa e in altre prestazioni di distruzione
del giornalismo nostrano.
Seconda
questione: i diritti dei lettori. Nessuno mai ha pensato di garantire i diritti dei
lettori. Eppure i lettori sono consumatori di una merce ben più delicata di
altre, perché condiziona la salute mentale e democratica. I primi passi per una battaglia di
libertà: Appello per la libertà d’informazione. Le prime battaglie per i diritti dei
lettori e contro la pubblicità ingannevole.
L’informazione
in Italia è in stato comatoso. I vertici dei Gruppi editoriali si aumentano i propri
compensi e tagliano il costo del lavoro. Nessuna sorpresa. Gli editori sfrutteranno l’asino
fino alla sua morte. Così l’informazione è assediata da precariato, concentrazioni
proprietarie, distruzione della professionalità, invasione della pubblicità
occulta.
Il risultato palese è la triade: faziosità & volgarità & ignoranza. La sua funzione è ridotta o
all’adulazione degli “amici” o al manganellamento dei “nemici”. I giornali servono a tutto meno che a
informare correttamente. Hanno rinunciato alla loro funzione di mezzi di
informazione e sono finiti a farsi strumento quasi esclusivo di lotta politica
o di interessi economici e commerciali che nulla hanno a che vedere con la loro
funzione originaria.
Si
salvano in pochi. I lettori non hanno alcun diritto. Le proprietà non hanno alcuna
trasparenza. I giornalisti, soprattutto quelli più giovani, ricattati con salari da
fame, sono ridotti dalla instabilità del lavoro a servili esecutori. La televisione pubblica è regolata,
con soddisfazione di tutti i partiti, dall’autoritaria riforma Renzi.
L’Italia
aveva un diritto del lavoro avanzato, ora ha una massa di lavoratori sfruttati.
Quello
della comunicazione è oggi il più grave problema che affligge la nostra
democrazia. Occorre reagire: è inutile piangersi addosso. Lo sappiamo che il
problema è complesso e che le forze politiche mostrano di non accorgersi che
esiste una emergenza che mina addirittura il sistema delle libertà. Dobbiamo servirci di ogni mezzo
democratico: esistono regole e leggi dimenticate o accantonate. Riprendiamole
in mano e riattiviamole. Occorre chiedere la loro piena applicazione.
Il
primo passo, per noi, è il ripristino della concorrenza leale e il rispetto
della deontologia giornalistica. Ormai la “pubblicità nativa”, ovvero quella
ingannevole che nasconde al lettore il messaggio pubblicitario e lo truffa, sta
dilagando su tutta la stampa nazionale. Uno dei suoi scopi è di assuefare i
lettori, accrescere l’indifferenza e la ricettività. Affinché finalmente siano sanzionate,
sono state denunciate agli organi competenti, finora inerti, le violazioni
particolarmente clamorose e costanti dei codici deontologici e del “Contratto
di lavoro” da parte del Corriere della Sera. Ci aspettiamo che questi facciano il
loro dovere. Ma queste pratiche scorrette sono usuali anche in altri Gruppi
editoriali. Bisogna riattivare strumenti esistenti e applicabili a quasi tutti
i mezzi di informazione.
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