“Democrazia e Potere della comunicazione”.

 

“Democrazia e Potere della comunicazione”.

 

L’Antartide si è Raffreddata e Non Riscaldata

negli ultimi 40 anni.

Conoscenzealconfine.it- Redazione-(16 Novembre 2021)- ci dice:

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David Icke lo ripete da 20 anni, si crea un problema, c’è una reazione collettiva e subito viene in soccorso chi ha già pronta la soluzione. E chi te la da questa soluzione? I soliti Noti… supportati da un branco di imbecilli che si fida ciecamente di loro.

L’Antartide si è raffreddata e non Riscaldata. Nel complesso, l’Antartide si è raffreddata di circa 2 gradi Celsius nello stesso periodo di 40 anni (dal 1979 al 2018) in cui l’anidride carbonica è aumentata da 337 a 410 parti per milione, il che significa che il mondo si sta effettivamente raffreddando e non riscaldando.

Un documento pubblicato sulla rivista  Atmosphere, ha notato che le tendenze di ERA5 sono coerenti con queste osservazioni, mostrando che c’è una tendenza al raffreddamento nell’Antartide orientale e occidentale, mentre una tendenza al riscaldamento proviene dalla penisola antartica. ERA5 fornisce stime orarie di un gran numero di variabili climatiche atmosferiche, terrestri e oceaniche.

Secondo le illustrazioni grafiche delle tendenze della temperatura dell’aria superficiale dalle osservazioni satellitari nello studio, la maggior parte dell’Antartide e gran parte dell’Oceano Meridionale circostante si è raffreddata durante questo periodo.

I ricercatori hanno postulato che un terzo del trend di raffreddamento di questi 40 anni può essere attribuito all’Oscillazione Madden-Julian (MJO). Il JMO è la più grande fluttuazione del tempo tropicale su scale temporali settimanali o mensili, caratterizzato dal suo impulso di nuvole e pioggia che si muove verso est vicino all’equatore. In genere, si ripete ogni 30-60 giorni. Questa influenza probabilmente accelererà la tendenza al raffreddamento a lungo termine dell’Antartide nei prossimi decenni.

Uno studio della Western Washington University di Bellingham ha mostrato che la maggior parte della calotta antartica orientale si sta raffreddando con un limitato riscaldamento solo nella penisola antartica.

Con l’aiuto delle misurazioni della temperatura di superficie e dei satelliti, il riscaldamento dell’Antartide è stato dimostrato essere spurio, poiché le temperature satellitari non hanno mostrato alcun riscaldamento negli ultimi quattro decenni. Anche l’oceano meridionale intorno all’Antartide si è raffreddato dal 2006 e il ghiaccio marino è addirittura aumentato dal 2012. Anche la stazione della piattaforma di ghiaccio Larsen si sta raffreddando, al ritmo di 1,8 gradi Celsius per decennio dal 1995.

Eppure il governo degli Stati Uniti e la National Aeronautics and Space Administration, così come i cosiddetti scienziati, insistono ancora che il cambiamento climatico è in atto e che il pianeta si sta riscaldando.

Fattori chiave per il Clima dell’Antartide.

Il clima dell’Antartide rimane ventoso e secco, con velocità del vento che variano in tutto il continente. L’umidità relativa del continente è spesso bassa intorno allo 0,03% ed è considerato un deserto polare. La freddezza del clima dell’Antartide deriva da diversi fattori. La sua alta latitudine significa che la luce del sole colpisce la superficie con un angolo basso, quindi l’energia solare è distribuita su un’area più grande. Essendo distribuita su questa area più grande, l’energia ricevuta per unità si riduce. Inoltre, a sud del circolo antartico c’è un periodo durante l’inverno australe in cui il sole non sale sopra l’orizzonte.

La penisola antartica si stava riscaldando almeno dagli anni ’50, ma un cambiamento nei venti prevalenti ha causato un raffreddamento nel 1998. John Turner del British Antarctic Survey (BAS), ha detto: “Quello che stiamo vedendo è la variabilità naturale del clima che prevale sul riscaldamento globale”.

L’Antartide si è a malapena riscaldata nel corso degli anni, e il riscaldamento dei mari intorno ai suoi bordi sta mangiando le piattaforme di ghiaccio e i ghiacciai, ma non è ancora penetrato nel vasto interno del continente. Inoltre, i venti intorno al polo sud agiscono come uno scudo che tiene lontana l’aria più calda dalle latitudini più alte.

Uno studio separato che utilizza le temperature dei satelliti antartici ha anche mostrato che non c’è stato alcun riscaldamento recente e che l’Oceano meridionale intorno all’Antartide si è raffreddato notevolmente dal 2006.

Il ghiaccio marino è anche aumentato sostanzialmente dal 2012, e le temperature superficiali in 13 stazioni sopra la penisola antartica si sono raffreddate notevolmente dal 2006. Il ghiaccio marino ha raggiunto livelli record e le temperature si stanno raffreddando al ritmo di 1,8 gradi Celsius per decennio dal 1995.

(mdpi.com) ( toba60.com/lantartide-si-e-raffreddata-e-non-riscaldata-negli-ultimi-40-anni/).

 

 

 

 

Sarà il Sole a svegliarci:

lo teme la Religione della Paura.

Libreidee.org-Nicola Bizzi- (16/11/2021)- ci dice:

 

La deriva transumanista a cui stiamo assistendo è il frutto di uno scontro di civiltà.

Un emblematico, inesauribile scontro: non solo fra due culture, fra due concezioni del mondo, ma addirittura fra due opposte e inconciliabili forme di civiltà. Una potremmo definirla algida, fredda, pseudo-lineare, agorafobica, già vecchia e stantia nonostante i suoi appena tre secoli di età. E’ una cultura sorta dal razionalismo di fine Seicento e da quella che è passata alla storia come la rivoluzione scientifica.

Una cultura che è stata nutrita da una miope incomprensione dell’esperienza illuministica, pur liberatoria, che però si è incanutita precocemente, fossilizzandosi negli ingranaggi del pensiero meccanicistico. L’altra cultura è invece antica come l’alba della conoscenza (e della coscienza), come e più delle stesse piramidi e di quei miti che produssero. Eppure quella cultura è sempre giovane: perché è immortale, orgogliosa e ottimistica, come quegli stessi dèi che la donarono agli esseri umani.E’ una cultura inclusiva, conciliatrice dei complessi rapporti tra uomo e natura. E soprattutto: è profondamente radicata nella più arcaica e radicale delle esperienze umane: la percezione magica del sacro.

Lo scontro in corso rappresenta una delle ultime fasi di un conflitto, molto antico, tra la dimensione gnostica – prometeica, titanica, estatica – e la sua drammatica emarginazione e persecuzione ad opera di una falsa religiosità assolutistica, quella del monoteismo patriarcale che si instaurò con il rovesciamento degli antichi dèi. Una deriva che, poi, ha portato a quel delirio teologico che è stato fatto proprio dalla cultura giudaico-cristiana. Ha pesato la sua applicazione totalmente esoterica, che ha escluso ogni aspetto esoterico-iniziatico. E ha voluto ritagliare, nella grande spirale del tempo eterno (venerata da tutte le antiche culture del pianeta), un segmento progettuale artificioso: quello di un dio totemico, tanto geloso quanto violento, nemico di tutte le tradizioni fondate sulla conoscenza e sull’esperienza.

Razionalismo, rivoluzione scientifica e rivoluzione industriale: oggi Klaus Schwab parla di Quarta Rivoluzione Industriale, a conferma del fatto che sono sempre gli stessi, a cantarsela e suonarsela da soli. Hanno voluto separare il sacro dal profano, l’immanente dal trascendente. Negli ultimi tre secoli hanno tentato, in tutti i modi, di estirpare la spiritualità dalla concezione umana, dalle espressioni della nostra cultura. E spesso e volentieri lo hanno fatto a braccetto con la Chiesa cattolica. Ora siamo giunti a una fase ancora più avanzata: non servono neppure più, le masse.

 Lo spiega bene Marco Della Luna: le masse sono ormai divenute superflue, per questo potere che vorrebbe “depopolare” il pianeta. Ormai mirano solo al controllo: si aggrappano come pazzi ai residui brandelli del loro potere. Puntano al controllo totale: quindi vogliono la digitalizzazione forzata, il transumanesimo, la sostituzione definitiva dell’uomo con le macchine e la riduzione in schiavitù dei pochi superstiti.

Schiavi: privati di coscienza, di libero arbitrio, di raziocinio. Privati di ogni libertà, di ogni diritto. Un po’ come recita lo slogan dell’europea Id 2030: non possiederemo più nulla, ma saremo tutti felici. Vi piacerebbe, vero? Ma non andrà così. Pensiamo a quelli che oggi recitano l’Om nelle piazze: sono comunque segnali di un risveglio spirituale. In tutte le grandi epoche di crisi e transizione, c’è sempre stato anche un grande impulso della spiritualità. L’umanità ha periodicamente compiuto balzi quantici, a livello intellettuale e spirituale. Ebbene: sono stati determinati anche dalle eruzioni solari. Ce ne ha appena riparlato anche l’astrofisica Giuliana Conforto: ci ha spiegato che il campo magnetico della Terra sta mutando velocemente, andando a saldarsi con quello del Sole, oltre che con il campo magnetico della galassia.

La prima tempesta solare registrata con strumentazioni moderne risale negli anni Sessanta dell’800: mise fuori uso i telegrafi di tutto il mondo. Se dovesse avvenire oggi, una tempesta solare di quel tipo farebbe saltare tutti i satelliti e le reti di telecomunicazione, inclusa la telefonia cellulare, e probabilmente manderebbe in tilt le stesse centrali elettriche. Non è detto che certi preparativi di una crisi energetica – vera o presunta che sia – non siano anche finalizzati a “coprire” eventuali tempeste solari in arrivo. Ma attenzione: tempeste solari di entità ben maggiore, avvenute ciclicamente, sono state ben documentate: dall’analisi degli anelli degli alberi, secondo la “dendrocronologia”, e anche dai carotaggi dei ghiacci, effettuati sia in Groenlandia che in Antartide.

Fra l’altro, è stato anche dimostrato che nel VII secolo avanti Cristo si verificò una tempesta solare oltre 10 volte più devastante di quella del 1864. Non esistendo la telematica, l’umanità la percepì in maniera molto diversa: al limite la videro, sotto forma di aurore boreali alle nostre latitudini e forse ancora più a Sud.

Gli effetti sull’uomo, però, non tardarono a manifestarsi: nel VI secolo avanti Cristo l’umanità visse un vero salto quantico. Se è vero che può distruggere, il Sole può anche dare la vita: può fornire un impulso vitale per la nostra intelligenza. Nel VI secolo, infatti, nacquero – simultaneamente – decine di movimenti religiosi innovativi, senza contare l’esplosione della filosofia in Grecia. Nacquero Pitagora, Zarathustra, il Buddha. Fenomeni che rispondono a regole cosmiche, magnetiche?

Come in alto, così in basso: quello che accade nella galassia è interconnesso con ciò che avviene sul nostro pianeta. Noi siamo un microcosmo, in rapporto con un macrocosmo. Evidentemente, le tempeste solari sono in grado di farci evolvere anche da un punto di vista spirituale. Altre tempeste solari, del resto, erano avvenute anche in precedenza: una – grandissima, risalente al 1200 avanti Cristo – si verificò in concomitanza con la nascita dei Misteri Eleusini, cioè con l’arrivo a Eleusi della dea Demetra. E ne sono avvenute moltissime altre, sempre in corrispondenza di fatti epocali.

Quindi, probabilmente, i gestori della Matrix – quelli che ci dominano – sono anche terrorizzati dalla possibilità di eventi (incluse appunto le tempeste solari) che possano determinare un balzo evolutivo, un salto quantico dell’umanità.

 Ovvero: se l’umanità prende coscienza di sé, si libera delle proprie catene. Come hanno potuto assoggettare gli esseri umani, per oltre 10.000 anni? Con l’inganno, con i dogmi: con catene mentali e spirituali. Un bravissimo ricercatore come Sabato Scala, studioso del Cristianesimo delle origini, insiste sulla necessità del saper diversificare il Cristianesimo originario dal Cristianesimo “politico”, creato a tavolino – per fini di potere – da personaggi come Giuseppe Flavio, Paolo di Tarso e il filosofo romano Seneca.

 Ci sono le prove, dei loro complotti: molto abilmente, crearono una nuova religione solo in apparenza derivata dal Cristianesimo delle origini. L’obiettivo qual era? Prendere il potere a Roma e impadronirsi delle redini dell’Impero. E ci riuscirono.Il coronamento del loro delirio fu il famigerato Editto di Tessalonica, promulgato da Teodosio.

Non è sbagliato paragonarlo al Green Pass: l’obbligo di aderire alla nuova religione fu imposto con la forza a una popolazione di 60 milioni di abitanti, di cui soltanto il 15% aveva aderito al nuovo credo. A tutti gli altri, il Cristianesimo “paolino” venne imposto con la violenza: chi non si fosse convertito avrebbe perso ogni diritto civile (rischiando anche la vita, in molti casi). Comunque: si perdeva il diritto a frequentare le scuole, a entrare nell’esercito, a rivestire cariche pubbliche, persino ad accedere ai pubblici edifici.

Esattamente come oggi: questi non hanno fantasia, ripetono sempre gli stessi atti.Quello che Sabato Scala ci ha indicato è la presenza di precise leve psicologiche, utilizzate dalla nuova religione romana proprio per assoggettare le masse. Secondo la scienza di oggi, queste leve sono elementi certi, assodati, per la manipolazione comportamentale. Si tratta di elementi – scrive Scala – che intervengono nel minare i fondamenti di una psiche sana: perché è proprio la psiche sana, che vogliono attaccare, rendendola malata.

 Come? Introducendo degli effetti, rinforzati da un apparato mitologico e simbolico creato ad arte, che vanno a scardinare alla radice i pilastri di un sano equilibrio psichico (equilibrio che, nelle antiche tradizioni religiose, era sempre esistito). Quali sono, questi obiettivi? Primo: l’autostima (e l’auto-efficacia). Secondo punto: la consapevolezza delle proprie azioni, e di conseguenza l’assenza di sensi di colpa. Terzo: un equilibrato rapporto corpo-psiche, ovvero una relazione armonica con la propria istintualità.

Fin dalla sua prima elaborazione, il Cristianesimo “politico” imposto a Roma, quello che poi ha preso il potere arrivando fino all’Inquisizione e alla caccia alle streghe, ha costruito ad arte un sistema mitologico, un “palinsesto” di rituali e di norme, comportamentali e morali, finalizzato a utilizzare in modo coordinato, secondo un’accurata programmazione neuro-linguistica, tutte e tre le leve citate: autostima, consapevolezza ed equilibrio corpo-psiche. In pratica, attraverso questa manipolazione, sono arrivati a sottomettere le masse con il dogma, impedendo e mortificando l’accesso alla conoscenza. Perché Eva fu cacciata, insieme ad Adamo, dal Paradiso Terrestre? Perché aveva colto il frutto dall’Albero della Conoscenza. Non sia mai: l’essere umano non deve avvicinarsi alla conoscenza.

Se lo fa, i dominatori sono perduti.

Prometeo, il grande dio Titano, tentò in extremis di salvare l’umanità, che già era caduta sotto il giogo dei nuovi dèi, rubando a Zeus la fiaccola della conoscenza per donarla a noi. Purtroppo quel suo gesto non servì, perché Zeus riprese il sopravvento. Ma quello di Prometeo resta un gesto simbolico importantissimo. Quella stessa fiaccola è rappresentata dalla Statua della Libertà che si erge davanti al porto di New York (e pochi sanno che il prototipo di quella statua è presente sulla facciata del Duomo di Milano). Lo ribadisco: questo è un momento storico, tutti i nodi verranno al pettine. Ci saranno tante macerie, ma siamo sicuramente all’alba di una nuova era. E c’è qualcuno che sta facendo di tutto per non farla cominciare, questa nuova era.

L’intento dei dominatori è quello di ancorarsi al loro potere: per questo stanno facendo di tutto per sottomettere l’umanità, per impedirle di evolversi e di compiere questo salto quantico. Soprattutto: all’umanità vogliono impedire di ricordare chi è. Se noi ricordiamo chi siamo – se riconnettiamo la nostra parte animistica, divina, con gli dèi creatori, recuperando la memoria genetica che ci hanno trasmesso – allora non ci incatena più nessuno.

 Se riprendiamo possesso delle nostre capacità, delle nostre vere facoltà, questo li spaventa. E tanto per essere chiari: era scomodo anche il Cristianesimo delle origini, che infatti è stato perseguitato dal Cristianesimo “politico”, progettato per il dominio.

E’ proprio al Cristianesimo delle origini che si ispirarono i Catari e anche i Templari, che volevano rovesciare il Papato (si rifacevano infatti alla tradizione giovannita, che era stata spodestata). Erano scomode anche moltissime tradizioni misteriche – come quella eleusina, a cui io appartengo. Entrate in clandestinità, nel medioevo hanno tentato anch’esse, a più riprese, di spodestare la Chiesa: non ci sono riuscite, ma c’è mancato veramente poco. Il Rinascimento non è stato solo una rinascita delle arti e della cultura classica: ha rappresentato una vera rinascita delle scienze e delle coscienze, guidata (sottotraccia) proprio dalle antiche tradizioni misteriche che, come un fiume carsico, erano sopravvissute nel sottosuolo per tornare a riaffiorare e alzare la testa, con la stagione rinascimentale.

Potevano farlo, avendo in mano la maggior parte degli Stati e delle signorie dell’epoca, contrapposte al Vaticano. Oggi la Chiesa è molto preoccupata, dalla rinascita di certe tradizioni, che vede esprimersi anche nella new age. Premetto: io non l’ho mai amata, la cultura new age; magari era nata con buone intenzioni, ma poi è stata manipolata (soprattutto negli Usa, dalla Cia) per finalità politiche. Diciamo che, anche in questo caso, bisogna separare la farina dalla crusca.

Tornando alla Chiesa cattolica: sta procedendo ormai verso una deriva transumanista, improntata al Grande Reset di Davos. Lo dimostrano anche le scandalose politiche vaccinali del Vaticano: una deriva totalitaria che non trova invece il consenso della maggior parte delle Chiese Ortodosse. Il cattolicesimo romano, al contrario, è totalmente appiattito sull’Operazione Corona, anche perché rappresenta un potere che di cristiano non ha più niente.

Ebbene: il potere cattolico è oggi spaventato anche da quello che, genericamente, chiama “gnosticismo”. Il termine però è impreciso: c’è infatti anche uno gnosticismo cristiano, c’è uno gnosticismo di origine ermetica, e c’è uno gnosticismo impropriamente definito “pagano”. Comunque, “gnosi” vuol dire “conoscenza”: quindi, nello gnosticismo possiamo annoverare tante tradizioni. Le gerarchie vaticane usano questo termine, in modo un po’ dispregiativo, per indicare qualcosa di pericoloso. E la polemica non è solo di oggi, risale agli anni Novanta.Interessante il caso di Louis Pauwels, autore de “Il mattino dei maghi”: un libro che, negli anni Sessanta, ha fatto la storia dell’esoterismo occidentale (e anche, in parte, del movimento new age).

 Poi, in età avanzata, Pauwels ebbe un repentino cambio di rotta: divenne un intransigente cattolico e si mise ad attaccare tutte quelle dottrine esoteriche che escono dai binari della Chiesa. Molto strana, la sua pseudo-conversione: avvenne in seguito a uno strano incidente che quasi gli costò la vita. Mi ricorda la situazione di oggi, in cui molte persone si lasciano manipolare dalla paura, al punto da rinunciare ai loro diritti costituzionali e alla propria libertà.

Negli ultimi anni della sua vita, Pauwels arrivò a parlare di un “complotto mondiale neo-gnostico”, ordito da “forze anti-cristiane” che mirerebbero a “indebolire la fede dei cattolici”(sembrano parole di Don Curzio Nitoglia). Comunque, gli attacchi allo gnosticismo – che stanno avvenendo proprio in questi giorni – hanno svariati precedenti nei decenni scorsi, ben oltre il semplice caso Pauwels.

Nel 1990, all’indomani del crollo dei regimi dell’Est Europa, l’arcivescovo di Bruxelles, cardinale Godfried Danneels, in una sua lettera pastorale fece una dichiarazione molto inquietante, poi pubblicata nel 1991 sul settimanale “Il Sabato”. «La riesumazione della vecchia gnosi – scrisse, testualmente – è un rischio mortale, che potrebbe portare alla distruzione del Cristianesimo. E il clima di festa e di liberazione dal comunismo non può assolutamente far dimenticare il sorgere di questo nuovo, insidioso avversario».

A breve distanza, anche il Pontefice (Giovanni Paolo II) fece una dichiarazione simile, poi inclusa nel libro-intervista “Varcare le soglie”, curato da Vittorio Messori. Lo stesso Wojtyla, dunque, espresse preoccupazione per «la rinascita delle antiche idee gnostiche». Rinascita definita «un nuovo modo di praticare la gnosi, cioè quell’atteggiamento dello spirito che, in nome di una profonda e presunta conoscenza di Dio, finisce poi per stravolgere la sua parola».

Obiettivamente parlando, qui siamo al ridicolo. Una religione che si considera solida – plurimillenaria – di cosa può mai avere paura? Del risorgere di forme di consapevolezza legate al passato? Evidentemente sì: ne ha tanta paura. E in questi giorni, sempre in ambiti cattolici – anche ambienti giornalistici, persino quelli della cosiddetta controinformazione – si levano le voci di chi pure asserisce di essere contrario alla “deriva autoritaria” in corso, ma poi si mette, curiosamente, ad attaccare proprio lo gnosticismo. Mi domando: ma dov’è, questo gnosticismo? Vedete chiese gnostiche? Movimenti gnostici al potere?

Evidentemente, costoro temono una presa di coscienza: temono la riscoperta, da parte delle masse, di antiche tradizioni spirituali (mai sopite). E in maniera un po’ generica e ipocrita, le definiscono con l’etichetta di “gnosticismo”. Lo fanno per non nominarle, per non pronunciare i loro veri nomi.E’ emblematico, il fenomeno: conferma la paura del risveglio.

A Firenze, il 14 novembre, sono state schierate le camionette della polizia davanti alla Porta del Paradiso, al Battistero del Duomo, dove si erano radunate migliaia di persone a recitare l’Om. A chi potevano far paura, quelle persone? Alla Curia, immagino, ben più che al governo Draghi. A quanto pare, a quella ritualità di piazza viene attribuita un’importanza enorme. In effetti, davanti alla Porta del Paradiso si prega per qualcosa che va contro i dettami globalisti e transumanisti dell’attuale Chiesa. E allora si sprecano gli attacchi contro queste “nuove forme di gnosticismo”, pericolosissime. In realtà attaccano la rinascita della consapevolezza: è quella, che fa paura.

 Parallelamente, da parte dell’élite di potere, ci sono progetti per arrivare a una nuova religione mondiale. In realtà risalgono all’Ottocento, e molti sono già naufragati: ma certe fazioni non vi hanno mai rinunciato. Nell’ottica della Quarta Rivoluzione Industriale, vorrebbero arrivare a fondere le tre grandi religioni monoteistiche in una nuova pseudo-religione con i suoi dogmi, i suoi riti e i suoi simboli.

Il piano però è già fallito in partenza, sia per il rifiuto (motivato) da parte dell’ebraismo, che per il rifiuto (più che motivato) da parte dell’Islam: quando Bergoglio è andato a Baghdad, per poi animare un incontro interreligioso davanti alla ziqqurat babilonese di Ur, il grande ayatollah Al-Sistani (una delle massime guide spirituali dell’Islam sciita) gli ha risposto: potevi anche fare a meno di venire qui.

 Come a dire: noi non ci stiamo, non accettiamo questa deriva globalista né tantomeno accettiamo di rinunciare alla nostra tradizione, per fonderci in una religione che sia consona ai poteri di certe élite. Non ha funzionato nemmeno l’incontro interreligioso tenutosi nella Piramide di Astana, in Kazakhstan, perché non ci sono i presupposti per realizzare quel progetto. Aderendo a questa operazione, fino ad imporre addirittura il Green Pass a messa (siamo al delirio, ormai), la Chiesa dimostra di aver perso ogni legittimità residua, agli occhi dei fedeli.Così come gli stessi media manistream, giudicati inattendibili, anche il Vaticano sconta ormai la sfiducia della maggioranza della popolazione: oltre il 60% dei cattolici italiani, probabilmente, rifiutano la piega mondialista del pontificato di Bergoglio, non riconoscendosi più in questa Chiesa.

E’ probabile che il cattolicesimo romano vada incontro a uno scisma, che per ora è stato soltanto rimandato. Ed è interessante che gli attacchi anti-gnostici provengano anche da ambienti clericali tradizionalisti: alcuni sono stati sferrati da personaggi come quel noto arcivescovo (Carlo Maria Viganò) che pure ha fatto proclami importanti, contro la politica di Bergoglio. Anche lui s’è messo a denunciare lo gnosticismo montante. Mi domando: di cosa hanno paura? Del risveglio delle coscienze? Temono di non riuscire più a irreggimentarle?

Intendiamoci: la spiritualità non può essere ingabbiata, recintata. Secondo me, l’umanità è destinata (in buona parte) a un grande balzo evolutivo, a una rinascita della coscienza, a una nuova consapevolezza. E questo la porterà davvero ad evolversi, e a liberarsi finalmente da tante catene e da tanti condizionamenti. Il che spaventa enormemente il potere. E’ probabile che ci sarà il tentativo di creare nuovi movimenti di stampo new age, riadattati al presente, per cercare di ingabbiare le persone. E invece, secondo me, oggi possono nascere nuove, grandi correnti spirituali, di portata epocale. Perché siamo veramente a un momento di svolta. Chi vivrà vedrà, ma a mio parere assisteremo a eventi incredibili. Se ci sarà un risveglio della consapevolezza, ci sarà anche un balzo in avanti della società, sotto tutti gli aspetti: un salto quantico, dal mondo scientifico fino alla dimensione del sociale. C’è solo da augurarselo. Prima, però, deve cadere questa impalcatura malvagia, legata all’anti-umanesimo.

(Nicola Bizzi, “La spiritualità della nuova era”: dichiarazioni rilasciate a Gianluca Lamberti il 14 novembre 2021, nella trasmissione “Il Sentiero di Atlantide”, sul canale YouTube “Facciamo Finta Che”).

 

 

 

L'Italia non perda più tempo

sugli impegni presi con il Pnrr.

msn.com-Il giornale.it- Pompeo Locatelli-(16-11-2021)-ci dice:

Proust ci ha speso la vita per andare alla ricerca del tempo perduto. D'altronde, il fattore tempo è questione decisiva perché impatta in misura determinante su qualsiasi decisione occorra prendere. Si tratta di un tema centrale del vivere.

L'esperienza suggerisce quanto sia penalizzante perseguire la strada viziosa della perdita di tempo. O del guadagnare tempo come se il non rispettare la tempistica rispetto a un impegno fissato porti vantaggi apprezzabili. Forse furbo, ma di corto respiro. E, pertanto, inefficace alla prova dei fatti. La saggezza popolare, come sempre, indica la prospettiva virtuosa; chi ha tempo non aspetti tempo. Come a dire: muoviamoci che abbiamo degli impegni da assolvere secondo accordi precisi.

In questi giorni avverto una certa preoccupazione nel premier Mario Draghi rispetto al pericolo di un rallentamento nell'attuazione dei programmi stabiliti nel Pnrr. Nella sostanza afferma che non c'è più tempo da perdere per rispettare i patti presi con l'Europa che osserva altrettanto preoccupata. In qualsiasi occasione non manca di richiamare tutti al senso di responsabilità. Qualche giorno fa lo ha fatto davanti alla platea dei sindaci. Nessuno può chiamarsi fuori, in modo particolare chi deve agire e portare a buon fine quanto stabilito nero su bianco per rilanciare la politica di sviluppo del Paese. Ecco perché il tempo diventa il fattore chiave. In un certo qual modo è il termometro che misura il grado di efficienza ed efficacia della macchina pubblica. Dell'azienda Italia.

Non possiamo permetterci di assistere al deprimente spettacolo della cattiva pratica del ritardo dovuta e irresponsabilità, incompetenze, litigi, garbugli di qualsiasi tipo. Succedesse di nuovo, sarebbe il baratro. Draghi ne è consapevole. Come quella porzione di politica avveduta e ragionevole. Il tempo, purtroppo, non è dalla loro parte. Si guadagna tempo nel rispettare i patti per tempo. Come insegnano le imprese private virtuose.

 

 

Con la litania dei “dipende da noi

 scaricano le loro colpe sugli italiani.

Laverita.info-Mario Giordano-(16-11-2021)- ci dice :   

Da Speranza alle “virostar” , non si ferma la gara ad addossare ai cittadini le responsabilità di eventuali disagi a Natale. Come se , tra mascherine farlocche e pasticci  sui vaccini , chi governa non avesse  combinato disastri.

(…)” Il Natale dipende da noi” ,ripetono i virologi a microfoni unificati.”Il Natale dipende da noi”, rilanciano le tv ,i giornali ,i talk show. E alla fine uno comincia quasi a crederci , un po' come quando all’inizio della pandemia facevano passare l’idea che fosse tutta colpa di quei due disgraziati che andavano  a fare footing sulla spiaggia o una passeggiata con il cane.

Oggi ci siamo di nuovo: hai un dubbio sui vaccini ai bebé? Ecco lì : sei colpevole del Natale rovinato per milioni di italiani. Sospetti  che il green pass non sia uno strumento sanitario? Allora ti carichi sulle spalle l’abolizione del cenone di Capodanno. Non sei del tutto convinto sulla terza dose ? Risponderai del fallimento dello shopping e delle sciate in montagna. Il concetto è chiaro : o segui come una marionetta i diktat del nuovo credo sanitario o sarai ritenuto responsabile di tutte le disgrazie prossime venture. A cominciare dalla cancellazione del  25 dicembre.

Avanti di questo passo ,infatti , tra un po' vedremo Speranza in versione clerico papale  ammonire i fedeli dal pulpito del sacrestano  Fabio Fazio: “Se non fate la terza dose ,quest’anno Gesù Bambino  non nasce. E i Re Magi andranno a omaggiare il Salvatore  su Plutone.

Sinceramente non capisco .Sono quasi due anni che ci menano il torrone dicendo che quella contro il Covid è una guerra. E va beh .Ma se é vero ,scusate , come può una guerra dipendere da noi che ne siamo le vittime.? E’ un po' come se gli storici dicessero che l’ eccesso di orti civili durante i bombardamenti aerei  della seconda guerra mondiale  sonio stati colpa di chi non si è riparato per tempo nei rifugi anti aerei. Per carità : magari  qualche gesto sconsiderato ci sarà pur stato.

Ma si può addossare loro la colpa della distruzione ?Allo stesso modo : si può addossare ai cittadini la colpa del Covid? Fateci caso : la metafora della guerra viene usta come un argine per fermare qualsiasi  critica  alle scelte del governo( “il nemico è il Covid , non gli strumenti per combatterlo” ha detto il presidente Sergio  Mattarella) .La medesima metafora però non vale per fermare la colpevolizzazione degli italiani che per altro si sono sempre comportati in modo eccellente e rigoroso (salvo poche eccezioni). Infatti né il presidente della  Repubblica   né nessun altro oggi di fronte all’ennesimo “dipende da noi” interviene per puntualizzare che “il nemico è il Covid e non i cittadini italiani”?

Ma perché? Sono cattolico ,sono cresciuto con il concetto di  colpa sempre ben fisso in testa , so che cosa è il peccato originale e ci faccio i conti quotidianamente. Ma dallo Stato vorrei un comportamento un po' diverso dalle suore dell’oratorio di 50 anni fa. Vorrei uno Stato laico. Che non miri alla colpevolizzazione dei cittadini. Anche perché ho la vaga idea che questa colpevolizzazione  serva solo a coprire  le mancanze di altri.

Ma si, insomma : siamo entrati nell’emergenza senza un piano pandemico e poi ci avete detto che tutto dipendeva da noi; avete regalato mascherine a Pechino quando noi eravamo senza e poi ci avete detto  che tutto dipendeva da noi; avete messo lì Domenico Arturi a compare e distribuire materiali farlocchi e poi avete detto che tutto dipendeva da noi; avete fatto pasticci sui vaccini , Astrazeneca e dintorni, e poi avete detto che tutto dipendeva da noi; non avete fatto una mazza sulle cure domiciliari e poi avete detto che tutto dipendeva da noi ;  avete ritardato colpevolmente e ora lasciate ammuffire  i farmaci monoclonali (quando non li regalate alla Romania)  e poi dite che tutto dipende  da noi; vi site inventati uno strumento come il green  pass, così severo come non esiste al mondo ,poi vi accorgete che non serve e dite che tutto dipende da noi…Vado avanti ?

Potremmo continuare all’infinito .Anzi penso che i lettori della  Verità”,  che sono stati puntualmente informati su quello che è successo durante la pandemia (tra i pochi fortunati, oserei dire)potrebbero compilare una loro personale lista  di cose che non sono dipese da noi. Praticamente tutto. E perciò adesso sentirmi dire di nuovo ,che tutto dipende da noi , mi fa andare ai pazzi. Ma ormai in questo clima malato che si sta cristallizzando , sembra tutto normale. Anche prolungare le emergenze e dire che dipende  dagli italiani. Anche sbagliare tutto e colpevolizzare i cittadini che non hanno sbagliato niente.

Anche avere  la nostra salute nelle mani di un uomo che un anno scriveva libri per celebrare i suoi inesistenti successi  e ora dice che gli eventuali insuccessi dipendono da noi. Senza rendersi conto che non può essere così. Perché se tutto davvero dipendesse da noi ,caro ministro Speranza ,la prima cosa certa è che lei non sarebbe più lì.

 

 

 

 

 

TRUMP, I SOCIAL NETWORK E GLI ABUSI

DI POTERE NELLA DEMOCRAZIA DI POPPER.

Corriere.it- Stefano Agnoli-(13 gen. 2021)-c i dice:

A proposito (ancora) della «censura» al presidente Trump e della polemica sull’operato dei social networks, possono tornare utili le considerazioni che un classico del pensiero liberale, Karl Popper, dedicò alla «Cattiva maestra televisione», un piccolo saggio scritto poco prima della sua scomparsa, all’inizio degli anni Novanta.

Si badi bene: era tutto un altro contesto, riguardava la violenza in tv e l’effetto sui bambini, e tutto un altro «media», la televisione appunto e non Facebook o Twitter o Parler. Ma sostituendo (arbitrariamente) alla parola «televisione» il termine «social networks» qualche spunto suona ancora attuale. E lo è proprio perché sostenuto dall’autore de «La società aperta e i suoi nemici», un pensatore che difficilmente potrebbe essere contestato dai «liberal» dell’ultima ora.

Tutto parte dal concetto di democrazia. Che non è «offrire alla gente ciò che la gente vuole», dice Popper. «Nella democrazia – precisa – non si trova nient’altro che un principio di difesa dalla dittatura».

 E con questo principio anche una vecchia e tradizionale aspirazione delle democrazie: quella di «far crescere il livello dell’educazione». Le televisioni (e i social networks, aggiungiamo sempre arbitrariamente) hanno dimostrato di poter conferire a chi li ha creati e a chi li utilizza un enorme potere politico. Di più: un superpotere, una volta che ci si è resi conto appieno di quanta influenza consentano di ottenere. Un superpotere che è utilizzabile sia a favore sia contro la democrazia e l’educazione. Si potrebbe dire: libertà contro dittatura da una parte, educazione contro «fake news» dall’altra.

E allora che cosa si può fare? Per molti nulla, specialmente in un Paese democratico, ricorda il filosofo viennese. Per un paio di motivi, perché la censura — prima obiezione — «non si sposa bene con la democrazia» e perché — seconda obiezione — «arriverebbe sempre in ritardo».

 La proposta che Popper avanzò allora a proposito della tv è nota: servirebbe una «patente», che tutti coloro coinvolti nella produzione televisiva dovrebbero conseguire. Con un’organizzazione (sul modello di un «ordine dei medici») che la controlli, la assegni e la possa anche ritirare. E che permetta a chi lavora nel settore di richiamarsi a principi morali condivisi, anche per potersi opporre a richieste inappropriate (e non rischiare il ritiro, appunto, della propria licenza).

Non so dire se un’idea del genere sia buona, se possa essere riproposta o funzionare (probabilmente no) o se ce ne siano di migliori (probabilmente sì). Ma ciò che colpisce è che a sostenerla sia stato un animo indiscutibilmente liberale come Popper. Che parla senza mezzi termini della necessità di maggior «controllo».

La televisione (e immaginiamo, sempre arbitrariamente, anche i social networks) «è diventata un potere troppo grande per la democrazia. Nessuna democrazia può sopravvivere — concludeva — se all’abuso di questo potere non si mette fine». E allora, forse, bisognerebbe iniziare a ragionare su come le democrazie possono mettere fine agli abusi di potere. Abusi di potere politico, come quello dei Trump di turno (e dei tanti regimi che vogliono invece interferire nei processi delle democrazie). O economico, come quello delle Big Tech e degli oligopoli della comunicazione.

 

 

Brevi considerazioni su democrazia e media.

Filodiritto.com-Armin Kapeller- (02 Novembre 2020)- ci dice:

 

 

LIBERTÀ DI COMUNICAZIONE.

La libertà di comunicazione (la stessa cosa vale peraltro per quella di opinione) è stata definita costitutiva (“konstituierend”) di una democrazia liberale e va considerata uno dei diritti fondamentali, che uno Stato di diritto ha l’obbligo di salvaguardare. É un presupposto indispensabile per rendere possibile la “geistige Freiheitsentfaltung”. Laddove la libertà di comunicazione non è sancita espressamente da una norma costituzionale, essa è ormai considerata “ungeschriebenes, gemeinschaftsrechtliches Grundrecht”.

Indice:

1. Introduzione e norme sopranazionali

2. Rilevanza dei media in un ordinamento liberal-democratico

3. Funzione di controllo dei media 

4. Indipendenza, pluralismo e partecipazione alle scelte fondamentali

5. Iniziative spontanee e movimenti civici

 

1. Introduzione e norme sopranazionali.

 

“Non c’è democrazia senza media”. Quest’affermazione può sembrare ovvia, ma non è così. La nostra società viene spesso indicata come società dell’informazione e dei media, il che illustra bene la cosiddetta medializzazione, che caratterizza la vita di tutti i giorni. Ci serviamo, quotidianamente, di una pluralità di media. Degli eventi in politica, ci rendiamo ormai conto quasi esclusivamente attraverso i media.

La particolare importanza dei media risulta anche dal fatto, che la tutela dei medesimi, non è lasciata soltanto ai singoli Stati (e ai legislatori degli stessi). Ci sono parecchie norme di carattere sopranazionale, che contengono garanzie per i media. Accenneremo, per motivi di brevità, soltanto alla CEDU e alla Carta dei diritti fondamentali dell’UE.

L’articolo 10, comma 1, CEDU garantisce la libertà di informazione da ingerenze della pubblica autorità e precisa, che essa va garantita senza limiti di frontiere. La libertà di informazione nel senso di diritto di ricevere informazioni e di trasmetterle ad altri, senza interventi della pubblica autorità,  è sancita pure dall’articolo 11,  comma 1, ultima parte, della Carta dei diritti fondamentali dell’UE. Per effetto di questa norma, vengono tutelati anche gli “operatori” dei media nella loro attività di “mediare” notizie al pubblico. Con il disposto dell’articolo 11, comma 1 della citata Carta, si è tenuto conto dell’importanza della libertà dei media, importanza, che trascende il diritto – individuale – alla libertà di comunicazione. La Corte di giustizia dell’UE (C- 283/11) ha sentenziato, che il diritto alla libertà di informazione in un ordinamento pluralistico e democratico, è di enorme importanza. Va anche sottolineata la rilevanza del pluralismo dei media, che viene tutelato nell’interesse della cosiddetta “Medienvielfalt”.

Il diritto alla libertà di comunicazione, che, nel passato, era un “Abwehrrecht” (diritto “contro” lo Stato), si è trasformato in un “Gewährleistungsrecht” (garanzia, per cui lo Stato deve rendere possibile l’esercizio). Il diritto di ogni persona al rispetto della comunicazione, è previsto pure dall’articolo 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE. Va però osservato, che questa norma garantisce soltanto la comunicazione diretta a determinate persone.

Gli odierni mezzi di comunicazione, si dirigono a destinatari non individuati a priori, potenzialmente a tutti e consentono uno scambio di opinioni non circoscritto a singoli luoghi, regioni o Stati; sono caratterizzati da un’elevata “attrattività", accessibilità relativamente facile e da un elevato “potenziale di efficacia”.

I moderni media, specie quelli audiovisivi, oltre a fornire una molteplicità di notizie con grande celerità, trasmettono pure immagini, alle quali – sia pure inconsapevolmente -  è attribuita una credibilità, che non sempre meritano.

Statistiche dimostrano, che circa il 90% degli abitanti della RFT si informano – per quanto concerne notizie relative alla politica nazionale – usando mezzi audiovisivi; non cosí invece per quanto riguarda notizie sulla politica locale, le quali vengono apprese in prevalenza dalla carta stampata.

2. Rilevanza dei media in un ordinamento liberal-democratico.

Le odierne democrazie non possono fare a meno dei media. La comunicazione tra politica o, meglio, tra rappresentati del popolo e cittadini avviene, in larga prevalenza, attraverso i media. C’è chi ha parlato di una “telecratia”, con poteri tali, da minacciare la democrazia stessa. Non è necessario risalire nel tempo, per trovare regimi, che sono stati particolarmente abili nel manovrare le masse a loro piacimento, servendosi dei media, che da “Werkzeuge der Freiheit” (strumenti di libertà), sono stati trasformati in “Werkzeuge der Unfreiheit”.

Tuttora, secondo alcuni, sarebbe condivisibile la tesi, secondo la quale i media “…are more likely to reinforce, than to change”. Chi ha il potere sui media, “beherrscht das Volk”. D’altra parte è però anche vero che, al giorno d’oggi, la molteplicità dei media quali “mezzi di trasporto” di comunicazioni, consente pure un’ampia scelta tra gli stessi, specie se si tratta di “mündige Bürger”.

Un sistema può ritenersi democratico “...when it allows the free formulation of political preferences through the use of basic freedoms of associations, information and communication”. Se la libera manifestazione del pensiero (e delle opinioni), non è garantita e se vi sono verità ufficiali, la vita spirituale “erlahmt”, come ha detto F.A.Hayek.

La comunicazione deve essere libera da interventi arbitrari da parte di coloro che sono al potere. Il diritto alla libertà di opinione, garantito dalle Costituzioni di molti Stati, assicura un ampio spazio per la libera comunicazione. Soltanto un sistema, nel quale è assicurata la libertà di comunicazione (e di opinione), può ritenersi democraticamente legittimato. Ciò vale, in particolare, per le democrazie parlamentari. É la libera comunicazione a stabilizzare e a tenere unito un ordinamento autenticamente democratico.

Al giorno d’oggi, la “comunicazione mediale” adempie in parte la funzione, che, nella Grecia classica, aveva l’agorà.

 

 

 

3. Funzione di controllo dei media.

In una democrazia è indispensabile, che i “rulers” siano, non soltanto controllabili, ma altresí spesso controllati. La massa dei media (di diverso orientamento) a disposizione del cittadino, può far sì che nella ricerca di notizie e di informazioni, non necessariamente tutti (o molti) devono condividere le opinioni dei cosiddetti opinion leaders.

Indispensabile per una democrazia vera, è che  sussista almeno un’adeguata distanza tra media e sistema politico. “Räumliche Nähe zur Prominenz” non deve essere un criterio, dal quale dipende la pubblicazione.

Tutt’altro che trascurabili, sono le modalità, con le quali le informazioni da pubblicare vengono selezionate. Ora è ben vero, che una certa “funzione di filtraggio” è necessaria, ma non certo in modo, che soltanto il 10% delle notizie pervenute venga pubblicato.

I giornalisti soltanto in pochi casi sono "inventori” di notizie; quasi sempre riportano quelle che gruppi politici o sociali fanno pervenire ai media. Decisivi al fine di “soffocare” uno scandalo, non è tanto la quantità e la gravità degli attacchi, quanto l’atteggiamento dei media.

4. Indipendenza, pluralismo e partecipazione alle scelte fondamentali.

Di particolare importanza è poi, in quale modo il "mondo politico” è in grado di influire sulle scelte dei giornalisti, che lavorano per i media statali e non.

É stato detto, che non la "forza” dei media è in grado di influire sulle scelte determinati della politica, ma la “debolezza” dei partiti politici. É fuor di discussione, che i media contribuiscono in modo rilevate alla trasparenza dell’attività della politica. L’uomo politico, che rifiuta una presa di posizione, viene indubbiamente “danneggiato” da questo suo comportamento.

É incontestabile, che i media danno un contributo essenziale al pluralismo, che è una delle caratteristiche della democrazia rappresentativa, la quale democrazia ha il vantaggio “to break and control the violence of factions” (J. Madison). Coloro che hanno opinioni diverse da quelli che sono al potere, non devono non soltanto essere tollerati, ma anche “favoriti” (J. Stuart Mill).

Lo Sato deve intendersi come associazione composta da una pluralità di associazioni (la cui costituzione lo Stato deve consentire e anche rendersi garante dell’esistenza). L’autorità statale ha l’obbligo di trovare un ragionevole compromesso tra i gruppi sociali, spesso su posizioni tutt’altro che concordanti;  è questa una sfida permanente, alla quale deve far fronte lo Stato.

La democrazia è in pericolo, qualora soltanto una piccola minoranza, spesso elitaria (o che crede di essere tale), partecipi attivamente alle decisioni di fondamentale importanza. Soltanto l’esistenza di una valida struttura comunicativa, é in grado di salvaguardare la partecipazione di tutti (o almeno di molti) alla formazione della cosiddetta volontè general.

Il requisito della trasparenza esige, che gli organi dello Stato non tengano segrete le loro decisioni (fatte salve poche eccezioni). Soltanto in tal modo é possibile un controllo (costruttivo) da parte dei gruppi sociali, portatori di interessi non sempre collimanti e  il formarsi di un’opinione pubblica degna di questo nome, inserita in un sistema di “checks and balances". Soltanto se al popolo è consentito l’accesso a una vasta gamma di mezzi di informazione e di comunicazione, un ordinamento può dirsi democraticamente legittimato e sarà stabile e funzionante.

Si é detto, che il parlamento è la platform, i media sono il microfono e gli spettatori sono costituiti dal popolo.

Nel passato, anzi, anche in tempi recenti, i dialoghi intrapresi da cittadini e da gruppi di interesse con politici (non soltanto locali), spesso, si sono dimostrati tutt’altro che “zielführend”, per cui è stato fatto ricorso a più vie di comunicazione. Accanto alla comunicazione diretta, si è rivelata di particolare utilità la comunicazione rendendo i fatti di pubblico dominio. Le reazioni (e, spesso, anche le soluzioni) da parte dei politicanti, in questi casi, si sono rivelate assai più celeri e, frequentemente, anche nel senso voluto da chi si è rivolto ai media.

5. Iniziative spontanee e movimenti civici.

Il fatto che colloqui diretti con politici sono spesso terminati con “montagne” di promesse, poi non onorate, ha favorito il formarsi di iniziative spontanee e di movimenti civici, con lo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica su determinati problemi, creando, delle volte, anche una specie di “mediale Gegenöffentlichkeit”, in grado “öffentliche Aufmerksamkeit zu erregen” e che, non infrequentemente, spinge – indirettamente – una politica riluttante, ad agire (finalmente).

Il dominio della maggioranza non vuol dire, necessariamente, che debbano essere conculcate (o almeno ignorate) le posizioni della minoranza. In una vera democrazia, le decisioni dovrebbero essere adottate dopo aver sentito le minoranze e dopo che si è almeno tentato di trovare il consenso della stessa o almeno un ragionevole compromesso. Alla democrazia è immanente il principio di parità, che non può essere semplicemente trascurato, per non dire ignorato. Fa parte della democrazia, che possano articolarsi – in pubblico – anche opinioni diverse da quelle gradite alla maggioranza; altrimenti verrebbe messa in discussione la partecipazione (almeno virtuale) di tutti alla formazione della cosiddetta volontà comune e  favorito un orientamento di passività nei confronti della res publica.

I moderni mezzi di comunicazione consentirebbero un’intensificazione dei rapporti di comunicazione (e, al contempo, la rapidità degli stessi) tra i responsabili della politica e coloro, che sono “governati”. Aprono nuove possibilità di partecipazione alla formazione della volonté general.

I mezzi telematici offrono sempre maggiori possibilità anche di esternare opinioni e posizioni, che, non necessariamente, devono essere identiche a quelle propugnate da chi ha in mano una parte rilevante, per esempio, della carta stampata e che costituisce la cosiddetta maggioranza comunicativa, la quale, ormai, deve “fare i conti” con la minoranza comunicativa, costituita, principalmente, dagli utilizzatori di moderni mezzi di comunicazione, accessibili anche a chi non dispone di risorse finanziarie elevate.

In tal modo viene rafforzato l’elemento partecipativo, che caratterizza la democrazia, che dovrebbe essere un “insieme” di uomini liberi aventi gli stessi diritti.

L’internet consente ai cittadini non soltanto di informarsi (e di informare !) utilizzando la molteplicità delle banche dati inserite nello stesso, ma anche di prendere rapidamente contatto con una molteplicità di altre persone e di scambiare con esse opinioni e idee. “The heart of strong democracy is talk” e “strong democracy creates the very citizens”.

La comunicazione può essere considerata come “trasformatore” di interessi individuali in interessi della comunità’.

Non è più attuale la tesi, prospettata dallo Schumpeter, secondo la quale il popolo, a causa  dell’“Uniformiertheit” (mancanza di informazioni), non è in grado di decidere esso stesso “spezifische Sachfragen”.

La funzione dei media, al giorno d’oggi, è, non soltanto, di informare, ma anche di contribuire alla formazione dell’opinione pubblica, di controllare e di criticare, se necessario, l’operato di chi è al potere. John Locke ha affermato, che la democrazia rappresentativa è basata su un sistema complicato di controllo e di fiducia. Altro requisito per il buon funzionamento della stessa, è la trasparenza.

É stato costatato, che persone con un elevato grado di istruzione, sono più propense ad accedere alla molteplicità dei mezzi di informazione, che persone con un basso grado di istruzione e di cultura. Ci sono sempre stati, ci sono tuttora e ci saranno sempre, dei creduloni, che sono facile preda di qualche furbetto (che poi veramente furbo non è), abile nel celare i propri trucchi, ridendosi poi dei gonzi, che ha “hinters Licht geführt “. É nella natura delle cose, che questi pidocchi non sono in grado di accorgersi – in tempo – dei danni, ai quali essi dovranno, in futuro, far fronte con i propri risparmi. Ma tant’è…“C’è cu allo scrusciu (rumore) della virità, prefirisce il silenziu della…” (direbbe un autore molto letto anche dopo sua recente scomparsa); non di rado si tratta di soggetti, che hanno “qualichi cosa da ammucciare”.

Le persone di scarsa cultura, spesso, omettono ogni tentativo di verificare, se quanto riportato, corrisponde (o possa corrispondere) a un barlume di verità o meno.

 

 

 

DEMOCRAZIA DIRETTA VS DEMOCRAZIA RAPPRESENTATIVA N. 1 - 02/10/2017

STATO » DOTTRINA - DI ANNA PAPA.

'Democrazia della comunicazione' e formazione dell’opinione pubblica.

Federalism.it-Anna Papa- (2-10-2017)- ci dice:

 

Le dinamiche della formazione dell’opinione pubblica presentano, in un sistema democratico, una indubbia rilevanza stante il ruolo di “pilastro” che esse rivestono nella legittimazione delle istituzioni e delle regole della comunità, dalle quali vengono peraltro, a loro volta, influenzate, in ragione dei diversi elementi politici ed istituzionali che le compongono e caratterizzano.

 Ne consegue che ogni Stato democratico presenta caratteristiche peculiari di opinione pubblica e formazione del consenso, mentre permane comune e incontroversa l’esigenza che la decisione popolare – nella forma delle elezioni, del referendum o delle sempre più numerose esperienze partecipative e deliberative – rappresenti il precipitato di volontà formatesi in modo “politico”, e quindi consapevole, in una delle tante ἀγοραί (politiche, di comunità, televisiva, virtuale) nelle quali si sviluppa il dibattito nelle odierne società occidentali.

Anzi, può dirsi che quanto più la manifestazione della volontà popolare è chiamata a produrre esiti deliberativi e non solo meramente elettivi, tanto più assume rilevanza non solo la “presenza” di una opinione pubblica formatasi in modo libero e plurale, ma anche la “qualità” della stessa, divenendo quindi necessario che essa si formi a valle dell’“acquisizione di un sapere e di una competenza sull’oggetto della decisione da adottare” e che questi ultimi (sapere e competenza) si siano formati su contenuti plurali, attendibili e, nella misura massima possibile, imparziali.

 Centrali nella formazione dell’opinione pubblica e del consenso restano i partiti politici e i movimenti ma pari importanza va oggi riconosciuta alla “comunicazione”, intesa in questa sede come manifestazione del pensiero nella sfera pubblica sia al fine di informare, anche nella forma del giornalismo partecipativo, sia di produrre adesione ad un pensiero politico.

Può dirsi, infatti, che quanto più le società occidentali si caratterizzano per essere basate sull’informazione e la comunicazione, tanto più anche la forma democratica e l’opinione pubblica, che esse esprimono, tendono a presentare le medesime caratteristiche.  Si tratta peraltro di un processo iniziato ormai da diversi decenni: la seconda metà del XX secolo è stata caratterizzata da un progressivo ridimensionamento della stampa, incontrastato strumento di formazione dell’opinione pubblica fino a quel momento, determinato anche dalla progressiva affermazione della televisione come mass media, che ha dato vita ad una nuova dimensione della sfera pubblica, definita appunto televisiva; oggi un nuovo cambiamento viene determinato dall’affermazione ed evoluzione della Rete, che rappresenta sempre più un elemento essenziale della vita sociale, partecipativa, relazionale di una comunità, con indubbi riflessi sulla circolazione delle opinioni e delle idee.

La democrazia del terzo millennio si avvia quindi ad essere, anche da questo punto di vista, una e-democracy, nelle molteplici forme che i cambiamenti prodotti dalle nuove tecnologie digitali si presentano in grado di produrre.

Per farlo necessita tuttavia anche di mantenere, come si avrà modo di approfondire, in equilibrio l’architettura della sfera pubblica e dei meccanismi di formazione del consenso...

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“Comunicazione e potere. Le strategie retoriche

e mediatiche per il controllo del consenso”

di Alessandro Prato.

Letture.org-Prof. Alessandro Prato- (30-6-2021)- ci dice:

 

Prof. Alessandro Prato, Lei ha curato l’edizione del libro Comunicazione e potere. Le strategie retoriche e mediatiche per il controllo del consenso edito da Aracne: quale rapporto esiste tra comunicazione e potere?

Comunicazione e potere.

Il rapporto che lega i mezzi di comunicazione di massa con i sistemi di potere e di controllo sociale, e che ha l’obiettivo di controllare e addomesticare la pubblica opinione, è stato oggetto di studio di autori fondamentali del Novecento come Walter Lippmann, Edward Bernays, e Noam Chomsky.

Quest’ultimo in particolare ha elaborato – a partire dal fondamentale Manifacturing consent (scritto in collaborazione con Edward S. Herman) per arrivare alle ricerche più recenti – un modello di analisi dei media che svela il meccanismo attraverso cui il mondo dell’informazione mobilita l’opinione pubblica per sostenere e difendere gli interessi dei sistemi di potere che governano la società.

L’intento del libro Comunicazione e potere è proprio di applicare questo modello per sfatare alcuni luoghi comuni ancora largamente imperanti, come quello che vede nel giornalismo un sistema alternativo ai centri di potere e impegnato nella ricerca della verità, o quello che considera l’interventismo degli USA nel mondo (prima in Vietnam e poi in Afghanistan, Iraq e Libia) basato sugli ideali di democrazia e libertà.

Un altro luogo comune abbastanza radicato e tuttavia infondato è quello che considera la propaganda un sistema congeniale ai regimi totalitari ed esclusivo appannaggio di questo tipo di organizzazione politica e sociale. Chomsky invece ha mostrato come la propaganda si sia sviluppata proprio nei sistemi democratici, in primo luogo gli Stati Uniti e l’Inghilterra (dove già esisteva un Ministero dell’informazione fin dai primi anni del Novecento) perché, essendo due paesi a larga partecipazione democratica, era necessario studiare strategie per controllare le opinioni, indirizzare il consenso, non essendo possibile usare, tranne che in casi eccezionali, la forza.

Ovviamente anche i regimi totalitari hanno usato tecniche di propaganda – il fascismo e, ancora di più, il nazismo con Joseph Goebbels – ma prendendo come modello di riferimento proprio il sistema del mondo anglosassone; lo stesso Hitler non mancava, nel Mein kampf, di esprimere la sua ammirazione per l’apparato propagandistico che gli Stati Uniti avevano usato durante la prima guerra mondiale nell’amministrazione di Wilson, convincendo in poco tempo la maggior parte della popolazione – che era contraria al coinvolgimento degli Stati Uniti nella guerra – a sostenere proprio l’entrata in guerra del loro paese contro la Germania.

Inoltre nei regimi totalitari l’uso della propaganda è in generale più trasparente, utilizza delle tecniche che sono più facilmente riconoscibili e per questa ragione risulta assai meno interessante per la ricerca, anche perché in questi regimi è sempre possibile per controllare le opinioni usare la coercizione senza particolari problemi.

 

L’espressione “fabbrica del consenso” è stata coniata da Walter Lippmann, la personalità che più ha segnato il giornalismo americano del Novecento. Proprio negli anni venti egli richiamava l’attenzione sulle tecniche di propaganda per controllare le masse e pensava che il paese dovesse essere diretto da un’avanguardia di persone competenti e responsabili, le sole a poter prendere le decisioni importanti; anche la posizione di Harold Lasswell, uno dei fondatori delle moderne scienze politiche, andava nella stessa direzione quando riteneva che bisognasse rinunciare al dogma democratico secondo il quale il popolo sarebbe il miglior giudice dei propri interessi. Le tecniche di propaganda servono allora per guidare le persone, definite il «gregge disorientato», per controllare i loro pensieri e per convincerle ad assumere un ruolo passivo, accettando le direttive proposte dai sistemi di comunicazione mainstream.

Controllare le opinioni significa anche indirizzare la gente verso le cose superficiali della vita, il consumo, lo spettacolo, lo sport, il gossip, in modo da evitare che si interessi delle questioni importanti della vita economica e sociale del proprio paese e che partecipi in modo attivo alla sfera pubblica.

 Questa è la strategia della distrazione perseguita dall’industria dell’intrattenimento, (della quale fanno parte la pubblicità, il cinema, la musica, la televisione, o sport ecc.) che consiste appunto nel distogliere l’attenzione del pubblico dai problemi importanti e dai cambiamenti decisi dalle élites politiche ed economiche utilizzando la tecnica del diluvio o dell’inondazione di distrazioni continue e di informazioni insignificanti. Il pubblico in questa maniera resta prigioniero della «filosofia della futilità» che promuove il consumo come alternativa alla ribellione, al fine di plasmare consumatori disinformati che fanno scelte irrazionali spesso contro i loro stessi interessi: ad esempio, il lavoratore amareggiato, invece di cercare di cambiare le sue condizioni di lavoro, cerca di rinnovarsi circondandosi di nuovi beni e servizi, segue le cose superficiali della vita, i consumi dettati dalla moda e dimentica le idee così pericolose di compassione, di solidarietà, di attenzione agli altri e, in generale, i valori umani.

Quali sono le tecniche retoriche utilizzate per il controllo del consenso?

Tra le tecniche retoriche ancora oggi più utilizzate nell’ambito del discorso pubblico troviamo le fallacie argomentative che sono esempi di argomentazione scorretta, in cui le premesse del ragionamento non sono attendibili perché costruite sulla base di pregiudizi o stereotipi, oppure addirittura sulla menzogna, o ancora sono espresse in forma ambigua e confusa; in altri casi le premesse non sono pertinenti rispetto all’argomento trattato.

Pur essendo delle mosse argomentative scorrette, le fallacie sono molto frequenti e vengono usate nei più diversi contesti, proprio per la difficoltà di essere riconosciute come tali; la loro apparente correttezza le rende particolarmente adatte a manipolare intenzionalmente e in modo fraudolento l’uditorio, allo scopo di produrre una persuasione ingannevole.

Ciò si spiega con il fatto che a differenza della logica formale, l’argomentazione, poiché tratta usi pratici del ragionamento (ad esempio in campo etico, politico o giuridico) deve soddisfare anche l’ulteriore criterio della efficacia e della forza persuasiva: entrano qui in gioco anche gli elementi della psicologia del ragionamento.

Una delle fallacie più sfruttate dai protagonisti della comunicazione politica è la cosiddetta fallacia di presupposizione o ragionamento circolare, si presenta come un errore logico, perché inserisce tra le premesse di un’argomentazione la conclusione, ovvero ciò che si intende dimostrare.

Già Gorgia, il grande protagonista della retorica sofistica, era pienamente consapevole della forza persuasiva di questo tipo di ragionamento e lo utilizzava a pieno titolo nella sua opera più conosciuta e discussa: l’Encomio di Elena. Molti messaggi che ci vengono proposti, infatti, presentano già tra le premesse, in modo implicito o addirittura esplicito, la conclusione, che non è il risultato di un ragionamento, ma un assioma che viene spacciato per vero senza che venga fornita alcuna prova. Ad esempio, L’affermazione «l’aborto è l’uccisione ingiustificata di un essere umano, e come tale è omicidio. L’omicidio è illegale, dunque l’aborto dovrebbe essere illegale» appare fondata dal punto di vista argomentativo perché se si assume che l’aborto sia un omicidio, ne segue che, visto che l’omicidio è illegale, anche l’aborto dovrebbe essere illegale.

Tuttavia il ragionamento proposto è chiaramente ingannevole perché la frase conclusiva non fa che ripetere in altra forma un principio già espresso nella prima premessa – cioè che il feto possa essere considerato a tutti gli effetti un essere umano – senza il sostegno di alcun principio di prova e altresì ignorando completamente il dibattito che tuttora divide i giuristi e gli scienziati su questa questione. La prima premessa di questo ragionamento è infondata perché l’argomentatore dà per scontato già in partenza che l’aborto sia un omicidio, senza apportare prove che convalidino questa affermazione; di conseguenza anche la conclusione, cioè che l’aborto dovrebbe essere considerato illegale, è infondata.

Questa strategia funziona molto bene nel discorso deliberativo perché permette al soggetto politico di non rendere conto del proprio operato: ad esempio, per rispondere alle numerose critiche rivolte dai cittadini e anche da alcuni commentatori alle riforme promosse dal governo Renzi (sul lavoro, sulla scuola, sulla pubblica amministrazione ecc.), gli esponenti della maggioranza, hanno detto in più occasioni che un’innovazione era comunque necessaria, che la riforma è sinonimo di cambiamento, e un cambiamento è sinonimo di miglioramento, evoluzione, progresso.

Il messaggio proposto è che la situazione andava modificata e chi critica il rinnovamento è allora un conservatore che vuole mantenere le cose così come sono, e la conservazione è di per sé un fattore negativo da stigmatizzare. Invece di analizzare i contenuti delle riforme e di confrontare ciò che si intende eliminare con ciò che si vorrebbe sostituire ad esso, ci si limita a declamare uno slogan sul cambiamento in quanto tale. La presupposizione che sta dietro all’affermazione in questione è che il nuovo che interrompe la continuità di una tradizione vale in quanto tale come positivo e che l’essere conservatore di qualcosa abbia aprioristicamente una qualifica negativa, a prescindere da quale sia in concreto il contenuto che si intende preservare. Se dovessimo applicare questo principio alla valutazione di episodi salienti della nostra storia, gli effetti sarebbero paradossali, perché si potrebbe dire che le leggi fascistissime approvate nel 1926, furono un esempio positivo di radicale innovamento rispetto a una vecchia tradizione liberale da lungo tempo in crisi.

Le fallacie di presupposizione sono dannose perché falsano le regole del dibattito e lo svuotano dal suo interno: si chiede al pubblico di accettare una tesi in modo del tutto acritico e non di ragionare su un determinato problema cercando la soluzione che si ritiene migliore; la discussione non verte più sugli argomenti ma si riduce alla proposta di slogan che si presentano validi senza alcun elemento di prova.

Un altro tipo di fallacia molto presente è l’argomento ad hominem, o appello alla persona; si verifica quando si cerca di screditare una tesi attaccando la persona che la sostiene attraverso alcune sue caratteristiche come l’aspetto fisico, le abitudini, la lingua, l’orientamento sessuale, la cultura di appartenenza, piuttosto che portando ragioni contro la tesi stessa. Se, ad esempio, P. sostiene le ragioni a favore dell’istituzione del reddito di cittadinanza, si compie una scorrettezza nel momento in cui per contestare la sua idea si fa presente che su P. pende un’accusa di frode.

 In questo caso gli argomenti di P. possono essere validi anche nel caso in cui lui sia un soggetto di dubbia moralità e andrebbero esaminati indipendentemente dall’opinione che abbiamo di lui, perché questa non è rilevante per giudicare la validità della sua tesi. Se un rappresentante sindacale sostiene che nella fabbrica dove lavora è necessario migliorare i dispositivi di sicurezza, che a suo avviso risultano carenti e non adeguati a garantire l’incolumità dei lavoratori, il responsabile della sicurezza usa un’argomentazione scorretta se afferma che questa richiesta non può essere presa in considerazione perché lo stesso rappresentante non è credibile, visto che negli anni sessanta fu arrestato per resistenza a pubblico ufficiale.

 In questo caso il punto dovrebbe essere verificare la qualità dei dispositivi di sicurezza avviando un’analisi del rischio e non indagare sui precedenti del rappresentante sindacale. Nonostante la sua palese infondatezza, la fallacia ad hominem spesso risulta efficace nei contesti elettorali perché è funzionale al fenomeno noto come «personalizzazione della politica» che ha assunto sempre più una notevole rilevanza.

In effetti la televisione si dimostra un mezzo estremamente efficace per rappresentare la politica attraverso le persone e i loro confronti spettacolari, attraverso la televisione la politica viene rivista e costruita come uno spettacolo, in cui agiscono delle “personae”, cioè delle maschere teatrali, nelle quali gli spettatori possono proiettarsi e identificarsi. La televisione ha cambiato il modo di fruizione della politica, che viene ricevuta in una dimensione privata e come funzione di personalità singole.

La mediatizzazione della politica richiede la presenza sulla scena di leader che siano da una parte ben identificabili e dall’altra in perenne scontro con i loro avversari. La politica assume così le caratteristiche di un “corpo a corpo”, in cui gli aspetti enunciativi che riguardano il contenuto del discorso sono messi in secondo piano rispetto a quelli enunciazionali che si riferiscono, invece, alla presenza di chi pronuncia il discorso, con la conseguenza che non è tanto importante cosa si dice, quanto chi parla.

La retorica tende in questa maniera a diventare un puro strumento di affabulazione anche e soprattutto attraverso uno squilibrio nell’uso delle tre argomentazioni di matrice aristotelica, l’ethos, il pathos e il logos, dove il primo diventa elemento privilegiato dell’argomentazione rispetto ad un logos il cui ruolo rimane molto limitato e secondario.

La fallacia ad hominem si presenta anche nella variante del tu quoque, detta anche fallacia di azzeramento: ciò si verifica ad esempio, quando, per scagionarsi da un’accusa di corruzione, si afferma che anche la parte avversa si è macchiata dello stesso reato; oppure quando si dice che non bisogna indignarsi per la corruzione dei politici, perché casi analoghi sono presenti anche tra i giudici, le forze di polizia, i medici ecc.

Si parla in questo caso di violazione della rilevanza per simmetria. Lo scopo è quello di suggerire al pubblico l’idea che se la colpa è generalizzata, e se molte persone si comportano in questo modo, non c’è da preoccuparsi e il problema è azzerato. il risultato paradossale è che la generalizzazione del reato, invece di essere un elemento aggravante, assume al contrario funzione di attenuante. Questa dissonanza cognitiva la maggior parte delle volte non è rilevata dall’opinione pubblica.

La simmetria a volte risulta anche menzognera, come quando Berlusconi, per difendersi dall’accusa di aver evitato dei processi grazie alle leggi ad personam promulgate dal suo governo, ritorse contro Prodi la medesima accusa, dicendo che Prodi si era salvato grazie all’amnistia e alla modifica dell’abuso d’ufficio, mentre in realtà fu Berlusconi a beneficiare di quelle leggi in quanto Prodi venne prosciolto perché i giudici hanno ritenuto che il fatto non sussisteva.

La conoscenza delle fallacie e dei meccanismi dell’argomentazione scorretta può aiutare i destinatari dei messaggi a valutarli con maggiore cognizione di causa e a difendersi dalla loro potenzialità persuasiva: in questa funzione di analisi critica del discorso pubblico risiede a nostro avviso l’attualità e l’utilità della retorica.

 

In che modo i media influenzano il comportamento delle persone e la formazione dell’opinione pubblica?

Oltre alla strategia della distrazione di cui abbiamo già parlato, il sistema dei media utilizza altre tecniche di manipolazione la cui dinamica è stata sempre messa in luce da Chomsky. La prima si può definire come la tecnica del “creare problemi e poi offrire le soluzioni” e si basa sullo schema “problema-reazione- soluzione”: si crea un problema, una situazione prevista per suscitare una certa reazione da parte del pubblico, con lo scopo che sia questo il mandante delle misure che si desiderano far accettare. Ad esempio, lasciare che si intensifichi la violenza urbana, o organizzare attentati sanguinosi, con lo scopo che sia la stessa opinione pubblica a richiedere le leggi sulla sicurezza e le politiche a discapito della libertà.

Oppure si lascia sviluppare una grave crisi economica senza intervenire con lo scopo di far accettare poi come un male necessario la retrocessione dei diritti sociali e lo smantellamento dei servizi pubblici.

La seconda è la cosiddetta strategia della gradualità: per far accettare una misura che va contro gli interessi dei cittadini, basta applicarla gradualmente per anni consecutivi. In questo modo condizioni socioeconomiche radicalmente nuove sono state imposte durante i decenni degli anni ‘80 e ‘90: stato minimo, privatizzazioni, precarietà, flessibilità, disoccupazione di massa, salari che non garantiscono più redditi dignitosi, sistema pensionistico vessatorio soprattutto in riferimento alle fasce più deboli della popolazione. Tutti questi cambiamenti che hanno notevolmente peggiorato le condizioni di vita dei ceti medi avrebbero provocato una rivoluzione se fossero stati applicati in una sola volta.

La terza è la strategia del differimento: una decisione impopolare viene presentata come dolorosa e necessaria, ottenendo l’accettazione pubblica nell’immediato, rimandando però la sua effettiva applicazione a un momento futuro.

È una strategia il più delle volte efficace, dal momento che è più facile accettare un sacrificio futuro che un sacrificio immediato, in primo luogo perché lo sforzo non è quello impiegato immediatamente e, in secondo luogo, perché il pubblico ha sempre la tendenza a sperare ingenuamente che “tutto andrà meglio domani” e che il sacrificio richiesto potrebbe essere evitato. Questo dà più tempo al pubblico per abituarsi all’idea del cambiamento e di accettarlo rassegnato quando arriva il momento della sua effettiva realizzazione.

Degna di interesse è anche la strategia dell’auto-colpevolezza che ha lo scopo di far credere alle persone che se si trovano in una situazione difficile dal punto di vista economico e sociale, la responsabilità di tutto questo appartiene a loro, alla loro insufficiente intelligenza e alle loro limitate capacità.

Così, invece di ribellarsi contro il sistema economico, le persone si auto-svalutano e s’incolpano, cosa che crea a sua volta uno stato depressivo, uno dei cui effetti è l’inibizione della loro possibilità di reagire. E senza azione, naturalmente, non è possibile alcuna forma di reazione, sia individuale che collettiva. Questo obiettivo si consegue quando il pubblico è immerso nell’ignoranza e nella mediocrità e non è pertanto in grado di comprendere le tecnologie ed i metodi usati per il suo controllo e la sua schiavitù. Per questa ragione negli ultimi decenni le politiche educative e scolastiche, anche in Italia, sono state organizzate sempre più in modo da far sì che la qualità dell’educazione data alle classi sociali inferiori sia la più povera e mediocre possibile, e che la distanza culturale che divide le classi inferiori da quelle superiori sia tale da non poter essere colmata. Per consolidare questo risultato l’industria dell’intrattenimento ha stimolato il pubblico ad essere compiacente con la mediocrità, spingendolo a ritenere che è di moda essere stupidi, volgari e ignoranti.

Quale ruolo svolgono i mass media nella produzione delle paure collettive?

Generare delle paure nell’opinione pubblica per addomesticarla secondo gli interessi dei sistemi di potere è una strategia ormai classica che rientra nel più generale metodo di utilizzo dell’aspetto emozionale a discapito della riflessione, al fine di provocare un corto circuito su un’analisi razionale e indebolire il più possibile il senso critico delle persone.

L’uso esclusivo del registro emotivo permette di aprire la porta d’accesso all’inconscio per impiantare, paure e timori, compulsioni, e indurre comportamenti adeguati a questo stato d’animo. Sfruttare la paura per far accettare una tesi corrisponde del resto alla dinamica della fallacia ad baculum, che coincide un appello più o meno esplicito alla forza, in virtù del quale si ricorre anche all’arma del ricatto come negli avvertimenti mafiosi, per cui ad esempio si invitano i lavoratori ad accettare determinate condizioni non troppo favorevoli perché altrimenti il loro contratto di impiego alla scadenza potrebbe non essere rinnovato. In questa maniera il soggetto non ha allora più la possibilità di valutare con libertà di giudizio le proposte dell’interlocutore e il confronto non è più dialettico.

Un esempio emblematico della strategia della paura è quello relativo all’invasione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti nel 2003: per giustificare questa aggressione il governo americano e i loro alleati europei hanno sostenuto a più riprese che l’Iraq possedeva un arsenale di armi di distruzione di massa, che l’Iraq avrebbe potuto colpire direttamente gli Stati Uniti e che la forza militare irachena poteva addirittura essere paragonata a quella della Germania hitleriana.

 La maggior parte dei media americani, ma anche italiani, si è guardata bene dal sottoporre al vaglio critico queste tesi, mettendo in dubbio la loro palese infondatezza, ad esempio chiedendosi come fosse possibile che l’Iraq, colpito da anni di embargo e con un esercito di gran lunga inferiore a tutti gli altri paesi dell’area mediorientale, potesse costituire una minaccia immediata per una potenza militare mondiale come gli Stati Uniti. Al contrario i media a più larga diffusione non hanno fatto altro che ripetere fino alla nausea queste tesi, inducendo, secondo i sondaggi dell’epoca, la maggioranza della popolazione a essere favorevole all’intervento militare. Queste tesi si sono rilevate a distanza di anni del tutto menzognere e un importante giornale come il New York Times lo ha anche riconosciuto, dopo però che la macchina propagandistica aveva svolto efficacemente il proprio lavoro.

In che modo il web e i social media hanno modificato la narrazione della politica?

Le forme e gli strumenti della comunicazione digitale hanno permesso in questi ultimi anni di modificare in maniera rilevante le dinamiche della comunicazione politica, rendendo più facile per i suoi protagonisti coinvolgere emotivamente i pubblici di riferimento, costruire una relazione di fiducia, generare senso di appartenenza ad una comunità e favorire la comprensione delle proposte. La campagna politica per l’elezione di Barack Obama tutta centrata sui valori anziché sui contenuti costituisce da questo punto di vista un esempio importante di questa tendenza.

Il web, infatti, e in particolare i social media permettono, per la prima volta, al politico di instaurare un dialogo diretto con i cittadini, superando la tradizionale mediazione degli organi della comunicazione di massa. Una presa di posizione postata su Facebook, un videomessaggio caricato su YouTube, uno scambio di battute su Twitter hanno la possibilità di diffondersi in Rete, e quindi arrivare a un numero potenzialmente elevato di persone, senza dover dipendere dalle scelte della redazione di un giornale o di una trasmissione televisiva.

La mediazione giornalistica diventa così sempre più marginale. Una presenza online non sporadica e non strumentale, quindi non limitata solo allo spazio di una campagna elettorale, mette il politico nelle condizioni di illustrare in maniera puntuale la propria attività, informare sulle proprie proposte, fare emergere il proprio lato privato in modo da costruire un rapporto fiduciario e di identificazione con il suo elettorato di riferimento.

Tuttavia non sempre la narrazione politica costruita attraverso l’uso di Twitter o di Instagram è efficace, la coerenza tra il messaggio e la biografia del politico che lo diffonde, o tra il messaggio e il contesto sociale ed economico in cui viviamo, è fondamentale.

Per questa ragione, ad esempio, la narrazione rassicurante sulla crescita economica e sul miglioramento delle condizioni di vita costruita dal governo Renzi non ha avuto i risultati di consenso sperati e, anzi, in molti casi ha suscitato irritazione e derisione. Un altro aspetto critico, questa volta riferito a un altro ambiente della comunicazione online molto amato dai politici come Twitter, riguarda il fatto che questo strumento viene considerato come un prolungamento social delle attività di comunicazione un tempo affidate esclusivamente all’ufficio stampa. In molti casi più che ascoltare, più che interagire, più che mobilitare il pubblico, ci si limita a diffondere i propri messaggi, imboccando la strada pericolosa dell’autoreferenzialità. Il dialogo che è alla base di questo mezzo di comunicazione è spesso trascurato e l’ascolto diventa una mera dichiarazione d’intenti più che un’attività veramente realizzata.

Al di là degli elementi di criticità che restano comunque importanti, è anche vero che la rete ha permesso in molti casi una diffusione più ampia e pervasiva delle notizie e una presenza di punti di vista diversi che spesso hanno poca possibilità di raggiungere i mezzi di comunicazione tradizionali. Molte persone non si informano più solo sui giornali e periodici più diffusi, o sui programmi d’informazione televisivi, e prediligono sempre più spesso la rete. La conseguenza è che l’influenza dei media sull’opinione pubblica sembra, soprattutto negli ultimi anni, essere sempre meno efficace, come dimostrano i risultati della campagna referendaria in Italia sulla riforma della Costituzione: la maggioranza dei giornali, dei periodici e delle testate giornalistiche televisive ha sostenuto il “SÍ” al referendum, mentre la maggioranza schiacciante degli elettori ha scelto il “NO”.

Questo dimostra che il potere democratico nonostante tutto è ancora nelle mani dei cittadini che valutano gli argomenti dei politici e dei manipolatori dell’opinione pubblica. Quanto più le persone saranno consapevoli dell’importanza di questo loro potere e sapranno gestirlo al meglio, tanto più il veleno che infetta la comunicazione pubblica si indebolirà e il nostro sistema democratico, così fragile e compromesso, potrà rafforzarsi e consolidarsi.

(Pubblicato in Saggistica-Taggato Alessandro Prato, comunicazione politica).

 

 

 

 

 

Stefano Montanari: “Lasciate che io rida

di voi. In attesa della carcerazione…”

conoscenzealconfine.it- Stefano Montanari-(17 Novembre 2021)- ci dice:

(TelegramTwitterFacebook)

 

Cari signori “politici” (virgolette d’obbligo) e cari signori “scienziati” (qui le virgolette dovrebbero essere sostituite da ben altro), magari voi appartenete a quella schiera di “persone che hanno studiato” e che si fanno beffe del Medioevo, dipingendolo come una lunga sequenza di secoli oscuri da cui ci siamo felicemente redenti e affrancati.

Senza tirare in ballo i “giornalisti”, e questo tra pietà e delusione, non perdo tempo in discussioni sull’argomento, mi limito a farvi notare come voi abbiate assunto comportamenti di gran lunga più “medievali”, calpestando non solo le leggi che per decenni hanno costituito le garanzie prestate dai governanti ai governati e calpestando la dignità umana, ma bestemmiando in chiesa le colonne portanti stesse della scienza.

Tra queste, l’indispensabilità del confronto (citarvi Karl Popper è inutile perché probabilmente lo confondereste con il più famoso Harry Potter) e la pari indispensabilità di dimostrare tutto quanto sostenete. Chi se ne sottrae non ha niente a che fare con la scienza, e chiamarla in causa testimonia, nella migliore delle ipotesi, solo di un’abissale ignoranza.

Leggo ora un lungo articolo pubblicato stamattina del giornale professionale Farmacista 33 a firma di Francesca Giani. Cogliendo fior da fiore, superando l’orrore della proposta entusiastica di arresti domiciliari comminati a chi non si presta a fare da cavia, superando lo scandalo delle discriminazioni, peraltro espressamente vietate da quella che fu la legge senza virgolette, che confidavamo essere sepolte tra vergogne passate, vedo alcune tra le prevaricazioni ideate per costringere i governati ora degradati a gregge, a sottoporsi all’inoculazione di quel prodotto che voi, nella vostra totale incompetenza (spero mi siate grati se non vado oltre) continuate a chiamare vaccino.

Voi non potete ignorare oltre a quanto già state facendo da troppo tempo che obbligare per “legge” a quella somministrazione è un atto sotto ogni aspetto illecito che vi disonorerà per sempre. Ma, incuranti della vostra dignità, ecco che state arrogantemente inventando una serie di “torture” molto più che “medievali”, sulla cui ragion d’essere non mi addentro.

Indipendentemente dal fatto che, al di là di ridicoli ipse dixit, non esiste alcuna dimostrazione che quei prodotti impediscano il contagio e, anzi, se è vero ciò che pretendete strepitando di un suo preoccupante incremento a fronte del numero crescente di “vaccinati” e di portatori della grottesca mascherina, si direbbe che l’effetto sia del tutto opposto a quello dichiarato, volete dimostrarci che i cosiddetti tamponi significano qualcosa?

Se, come avete preteso fino a stamattina, il significato esiste, volete dimostrare che si esaurisce dopo un certo numero di ore che, senza offrire spiegazioni razionali, volete ora dimezzare? Il ministro Speranza ha qualche competenza tecnica in proposito? E il generale degli alpini? E che dire del tale Walter Ricciardi? E volete dimostrarci che gli arresti domiciliari che chiamate esoticamente lockdown hanno un qualunque effetto positivo oltre a massacrare la salute e l’economia? E posso ridere degli stadi a capienza in percentuale, così come del metro al di là del quale il virus (?) perde la sua cattiveria?

Da vecchio sportivo praticante fino a che il fisico ha retto, non posso altro che riconoscere che state stravincendo. Che l’arbitraggio non sia dei più equanimi è un altro paio di maniche. Posso solo chiedervi di concedermi il desiderio regalato in extremis ai condannati a morte: lasciate che io rida di voi. In attesa della carcerazione o di peggio, vi saluto, purtroppo non per sempre.

(Articolo di Stefano Montanari. Fonte: www.imolaoggi.it).

 

 

 

 

Democrazia, tecnica e il nuovo potere

dei social network - Intervento di Pasquale Stanzione -

Garanteprivay.it-Il Sole 24Ore-Pasquale Stanzone-(8 luglio 2021)- ci dice: 

 

Democrazia, tecnica e il nuovo potere dei social network.

I dilemmi della tecnologia.

Intervento di Pasquale Stanzione, Presidente del Garante per la protezione dei dati personali.

Già nel 1997, con la sentenza Reno v. Aclu, la Corte suprema americana, nel definire Internet "mezzo unico e completamente nuovo di comunicazione umana in tutto il mondo", coglieva la prima promessa della rete: il potenzialmente illimitato pluralismo, la democratizzazione dell'informazione. Nulla come la rete, infatti, ha liberalizzato l'accesso alle fonti informative e, al contempo, ha consentito a ciascuno di esercitare la libertà di manifestazione del pensiero: pietra angolare della democrazia, come affermò la Consulta italiana sin dal 1965.

Negli anni a venire, la rete sarebbe peraltro divenuta anche presupposto di esercizio di diritti fondamentali: dall'istruzione alla salute, dal lavoro all'accesso alla giustizia e per ciò l'accesso ad essa, un vero e proprio diritto fondamentale. Di qui l'esigenza, sempre più forte, di superare il digitai divide che rappresenta, oggi, una delle diseguaglianze più inaccettabili, che riproduce e amplificale vulnerabilità più tradizionali. Il combinato disposto del micro-targeting informativo - quale metodo di selezione delle notizie da proporre all'utente - e della diffusione in rete di contenuti falsi oltre che illeciti rischia per altro verso di rendere la più grande e aperta agorà della storia una somma di enclaves.

Nel primo Novecento il "dominio della tecnica" fu considerato tratto distintivo del post-moderno. Ma la primazia della tecnica caratterizza ancora più marcatamente il nostro tempo, il cui l'uomo rischia di esserne non più dominus, ma ad essa subalterno. E ciò per la potenza trasformatrice delle nuove tecnologie, l'attitudine a elaborare nuovi significati del mondo, incidendo sullo sguardo prima che sull'orizzonte. In questo vorticoso sovvertimento di coordinate e gerarchie valoriali, compito principale del diritto è restituire all'uomo la centralità che può garantire un rapporto armonico con la tecnologia, consolidando l'indirizzo personalista su cui si fondano la nostra Costituzione e l'ordinamento dell'Unione europea.

Come indicano le innumerevoli applicazioni dell'intelligenza artificiale, infatti, la tecnica oggi perde sempre più il suo carattere strumentale per assurgere a fine in sé; scardina coordinate assiologiche, ridisegnando la geografia del potere e il suo sistema di checks and balances.

 Ne risultano profondamente incise le strutture democratiche e la stessa tassonomia delle libertà e dei diritti individuali, con il loro apparato di garanzie e la loro vocazione egualitaria. Ecco perché il discorso sulla tecnica, oggi, è essenzialmente un discorso sul potere e sulla libertà e, pertanto, sulla democrazia, al cui sviluppo il diritto è chiamato a dare un contributo importante se si vuole agire, non subire, l'innovazione.

Il diritto è tra le scienze sociali quella che ha l'onere più gravoso ma, in fondo, anche più importante: vedere orizzonti tanto quanto confini, estrarre dalle altre discipline il limite da opporre a una corsa altrimenti cieca verso "magnifiche sorti e progressive". Attraverso le lenti dei giurista è, dunque, possibile leggere fino infondo il percorso dell'innovazione e orientarlo in una direzione antropocentrica, altrimenti oscurata dalla volontà di potenza della tecnica. L'allocazione dei poteri è intimamente legata alle dinamiche che governano la rete e che hanno determinato, in pochi anni, l'affermazione incontrastata delle piattaforme, assurte a veri e propri poteri privati.

Ma la disciplina della privacy mira a contrastare l'indebito sfruttamento della principale risorsa su cui si basa il potere nel digitale, ovvero i dati, ceduti spesso nell'inconsapevolezza del loro valore. Il digitale ha scardinato non soltanto il sistema di allocazione tradizionale del potere, ma anche il processo di costruzione dell'identità e, quindi, il suo rapporto con la libertà. Le nuove tecnologie hanno, invece, reso il termine "identità" necessariamente plurale, affiancando all'identità fisica innumerevoli identità digitali che concorrono con la prima, fin quasi a prevalere su di essa.

Su questo terreno, la protezione dei dati ha svolto un ruolo davvero centrale, nel tentativo costante di ricomporre, è stato detto, un "Io diviso". La privacy, svolgendo un ruolo sociale primario, garantisce infatti un governo antropocentrico dell'innovazione, salvaguardando l'identità e la dignità individuale rispetto al potere performativo della tecnica. In questo senso, essa rappresenta davvero un habeas data: corrispettivo, nella società digitale, di ciò che l'habeas corpus ha rappresentato sin dalla Magna Charta; quale presupposto principale di immunità dal potere, promani esso dallo Stato, dal mercato o dalla tecnica.

Ecco perché la privacy, tutt'altro che un ostacolo all'innovazione ne rappresenta invece la misura "democratica", il criterio-guida cui orientare uno sviluppo che rischia altrimenti di essere, per paradosso, socialmente regressivo.

 

 

 

 

Mass Media e Democrazia.

Sites.google.com-Zavalloni e Marchetti-Redazione-(20-10 -2021)- ci dicono:

 

Nel corso del tempo si è diffusa l'idea che in una società democratica, affinché la democrazia possa dirsi completa, debbano essere presenti dei mezzi di informazione indipendenti che possano informare i cittadini su argomenti riguardanti i governi e le entità aziendali; questo perché i cittadini, pur disponendo del diritto di voto, non sarebbero altrimenti in grado di esercitarlo con una scelta informata che rispecchi i loro reali interessi ed opinioni.

Secondo quest'ottica, nell'ambito del principio fondante delle democrazie liberali, ovvero la separazione dei poteri, oltre all'esecutivo, al giudiziario e al legislativo, il ruolo dei media di fonti di informazione per i cittadini andrebbe considerato come un quarto potere da rendere autonomo rispetto agli altri. Ciò è impossibile poiché in un sistema democratico i media costituiscono la più potente tra le lobby.

Per questi motivi alcuni credono che il più grande rischio per la democrazia sia la concentrazione della proprietà dei media.

In particolare al giorno d'oggi sono le televisioni la principale fonte informativa, perché solo una ridotta minoranza di persone legge libri e giornali o si informa

tramite internet.

 Quindi alle TV va posta particolare attenzione.

Alcuni paesi, come la Spagna nel 2005, hanno avviato riforme rivolte a rendere indipendenti le televisioni pubbliche dai controlli politici.

Influenza dei Mass Media sulla politica .

In un’epoca caratterizzata dalla comunicazione di massa, è naturale per ciascuno di noi, quasi inevitabile, imbattersi in una qualche forma di comunicazione politica.

È sufficiente sfogliare un quotidiano o fare zapping con il telecomando per trovarsi di fronte un soggetto politico che comunica, discute, attacca, replica, chiarisce,

smentisce. La comunicazione politica è parte integrante dell’azione politica, ogni partito politico, candidato, istituzione, movimento, ha la necessità di comunicare.

Si pensi alla mole di comunicazione politica prodotta da un partito. Esso comunica costantemente con i propri iscritti, militanti e simpatizzanti per la mobilitazione

e il reclutamento; con gli altri soggetti politici per discutere, accordarsi, attaccare, replicare; con i mezzi di comunicazione per far sì che veicolino il loro messaggio ed,

eventualmente, per difendersi da essi; con la totalità dei cittadini e degli elettori, per comunicare la propria linea politica, creare legami di appartenenza e conquistarne il voto.

Ma se la comunicazione politica è parte integrante dell’agire politico, diverse sono state le sue forme nel corso del tempo e all’interno di ciascun sistema politico.

L’avvento dei mezzi di comunicazione di massa, come i giornali, la radio la televisione, fino ad arrivare ad Internet, ha rivoluzionato, come si vedrà, gli strumenti di comunicazione dei soggetti politici e persino il loro stile comunicativo. Se fino a qualche decennio fa i partiti auto-producevano una comunicazione politica

indirizzata principalmente ad un ben identificato gruppo di simpatizzanti e sostenitori, con la nascita dei mass media la comunicazione è diventata sempre più mediata, e indirizzata a masse sempre più indefinite di potenziali elettori. Oggi è impensabile una comunicazione politica senza i mass media, in particolare senza la televisione, così come è diventato naturale per un mezzo di comunicazione occuparsi di politica, argomento che, se presentato in chiave spettacolare, diventa anch’esso occasione per fare audience.

 Mass media e sistema politico, insomma, sono ormai legati da un rapporto di mutua dipendenza.

Questo lavoro parte proprio da questa constatazione, cercando di analizzare in che modo i mass media sono diventati protagonisti nella produzione e nella diffusione di comunicazione politica e in che modo ciò ha influenzato la stessa comunicazione politica dei partiti.

Nel primo capitolo verranno tracciati sinteticamente i confini dell’argomento e proposto un breve excursus storico della comunicazione politica. Inoltre verranno

definiti gli attori fondamentali della comunicazione politica e i principali modelli di interazione tra i partiti e i mass media.

Nel secondo capitolo verranno messi in luce gli effetti causati dall’influenza dei mass media sullo stile e sul contenuto della comunicazione politica dei partiti,

nonché gli effetti sullo stesso partito come organizzazione.

Nel terzo capitolo, infine, verrà posto l’accento sul momento più rilevante della comunicazione politica dei partiti, vale a dire la campagna elettorale.

Verrà sottolineata l’evoluzione delle campagne elettorali in relazione alla nascita e all’evoluzione dei mass media, con un’attenzione particolare ai formati delle

campagne elettorali in televisione e su Internet.

Il lavoro rivolge la sua attenzione sulla comunicazione politica nelle democrazie occidentali, concentrandosi sul sistema politico e mediale italiano, che ci tocca

più da vicino, e su quello statunitense, che rappresenta il punto di origine e di diffusione negli altri paesi di tutte le innovazioni in questo campo.

 

 

 

 

Vi spiego come internet sta cambiando

 la sfera pubblica e la democrazia.

 Parla Giacomini.

Formiche.net- Maria Elena Viggiano -( 07/04/2019 - Mailing)-ci dice:

Grandi e piccoli neo-intermediari nei trend del dibattito pubblico. Ruoli sempre più determinanti nel mondo digitale per veicolare le informazioni. Ma ne siamo consapevoli? E come si riflette tutto ciò nella comunicazione politica?

Conversazione con Gabriele Giacomini, ricercatore e autore del libro “Potere digitale. Come internet sta cambiando la sfera pubblica e la democrazia”, Meltemi Editore.

I neo-intermediari sono le nuove figure che stanno assumendo sempre più potere nel mondo digitale. Esistono due tipologie: i “grandi neo-intermediari” in riferimento alle piattaforme tecnologiche come Facebook e Google che attraverso algoritmi raccolgono le informazioni degli utenti e, sulla base di queste, personalizzano i contenuti e i “piccoli neo-intermediari” quali gli influencer che si inseriscono nei trend del dibattito pubblico.

Quanto siamo consapevoli di questo fenomeno? Come si riflette nella comunicazione politica? Quali sono i rischi per la democrazia? Lo abbiamo chiesto a Gabriele Giacomini, ricercatore presso l’Università di Udine ed autore del libro “Potere digitale. Come internet sta cambiando la sfera pubblica e la democrazia”, in cui analizza queste tematiche.

Che impatto ha il digitale sulla comunicazione e sulla politica?

La disintermediazione ormai è un concetto mainstream, il digitale ha favorito lo scavallamento dei corpi intermedi così come li conoscevamo, oggi esiste la neo-intermediazione e se non riusciamo a cogliere questo nuovo tipo di intermediazione non possiamo capire quali sono i nuovi flussi di potere.

Pensiamo a Facebook e Google che fanno una selezione utilizzando gli algoritmi, questo processo ha comunque un impatto sulle informazioni che riceviamo. Se analizziamo la politica vediamo che la partecipazione al voto dei cittadini è in calo da decenni così come la membership è sempre meno folta, quindi gli intermediari tradizionali come i partiti sono andati in crisi.

In realtà sono emersi nuovi partiti che, come spiega Paolo Gerbaudo, vengono chiamati i partiti piattaforma che utilizzano il digitale come la piattaforma Rousseau.

Non sono solo movimenti dal basso perché entrano in gioco anche i vertici come Beppe Grillo o Casaleggio, per esempio decidendo il momento opportuno di porre l’attenzione su determinati argomenti, così ad una spinta dal basso corrisponde una spinta dall’alto.

Come sta cambiando la comunicazione politica?

Nel modello di partito classico, la classe dirigente aveva contatto con i suoi militanti andando nei circoli e stabilendo un incontro diretto. Ora il rapporto si è un po’ indebolito mentre si è rafforzato quello con i media creando il fenomeno della “mediatizzazione” della politica. In realtà è un lavoro che non fanno i politici, soprattutto affermati, ma hanno uno staff dedicato alla comunicazione.

La cosa interessante è lo studio dei propri interlocutori, cercano di capire quali sono i trend e gli argomenti più diffusi, e provano ad inserirsi in questi flussi per accompagnare il dibattito pubblico e farsi da megafono delle tendenze in atto. Raramente i social sono gestiti in modo diretto, c’è sempre una intermediazione delle strutture con due nuove figure di neo-intermediari: quelli piccoli rappresentati da social media manager o micro influencer e quelli più grandi riferiti alle big tech come Facebook o Google.

Quanto sono consapevoli i cittadini di essere passati ad una nuova forma di intermediazione?

Non tantissimo. Uno dei ruoli dell’informazione è la selezione, è un po’ la parte fondamentale del quarto potere. Questa selezione in ambito digitale viene fatta personalizzando il contenuto, su internet i comportamenti vengono profilati ed analizzati per offrire quello che piace affinché gli utenti rimangano sulla piattaforma il maggior tempo possibile. C’è una bolla informativa che tradizionalmente era più trasparente. Se una persona andava in edicola, pur comprando un certo tipo di giornale, si rendeva conto che esisteva una pluralità di informazione mentre su internet non si è più coscienti degli altri punti di vista. L’ambiente digitale non aiuta la consapevolezza di queste dinamiche.

Si sta verificando un po’ il contrario rispetto ad una rete aperta ed inclusiva?

Karl Popper diceva che se dobbiamo cercare la verità non dobbiamo avere delle conferme ma lo spirito giusto deve essere quello di raccogliere le informazioni che mettono in discussione il proprio punto di vista.

 Il rischio di internet è di non favorire il confronto critico, è il paradosso del pluralismo. Da un punto di vista quantitativo è positivo perché la gratuità di internet ha aumentato la partecipazione delle persone ma il pluralismo è anche qualitativo. Nel momento in cui ci si confronta non ci si chiude mai in se stessi e non si escludono gli altri ma si rimane in un ambito di concordia discordante. È un po’ lo spirito dei debunker, ovviamente non hanno le verità in tasca, ma cercano di smontare le bufale anche confrontandosi con gruppi polarizzati al loro interno. La cosa da sottolineare è l’etica, andare a misurarsi con chi la pensa diversamente da loro, con la possibilità di uscire dalla bolla informativa.

In prospettiva il modello sarà quello del partito piattaforma o di partiti tradizionali che si adattano al digitale?

I partiti tradizionali spesso usano il digitale come uno strumento di comunicazione tradizionale. Molti politici utilizzano le dirette Facebook come una televisione personale, con migliaia di telespettatori che seguono ed interagiscono con commenti e like.

 È un metodo molto usato da Matteo Salvini ma anche Matteo Renzi adottava una strategia abbastanza simile dove al centro c’è la figura del leader. Un’altra modalità riguarda i partiti piattaforma dove c’è il tentativo ideale o programmatico di coinvolgere i cittadini con risultati discutibili, per esempio una delle principali critiche è la partecipazione effettiva del voto espresso. In questi partiti piattaforma il vertice è altrettanto importante, nel M5S la figura di Beppe Grillo, che non a caso nasce come un personaggio televisivo che riempiva palazzetti dello sport con i suoi spettacoli, è stata fondamentale per garantire lo sviluppo del partito.

Quali sono i rischi principali?

Ne ho indentificati quattro. Il primo problema è l’insicurezza del metodo, quando votiamo con la carta banalmente i voti possono essere ricontati da chiunque e i partiti mandano i propri rappresentanti per controllare che la votazione sia regolare. Tutto questo su internet è impossibile poiché il controllo è affidato ad esperti e tecnici; tra l’altro sembra che per un principio informatico è impossibile garantire l’anonimato e la sicurezza contemporaneamente.

Poi c’è il problema del digital divide, con il rischio di escludere coloro che non hanno la connessione, come gli anziani, o le competenze sufficienti per fare questo tipo di attività privandoli del diritto di partecipare. La terza difficoltà è di tipo psicologico-sociale, non è possibile pensare ad una partecipazione continua poiché come individui abbiamo molteplici impegni e la società va verso la specializzazione. L’ultimo problema è il superamento dei partiti, ci possono essere molte critiche ma quello su cui concordano tutti è che i partiti hanno capacità di sintesi e compromesso. In politica è una attività molto importante altrimenti, come diceva Ralf Dahrendorf, c’è il rischio che le difficoltà possano portare alla ricerca di un leader autoritario in grado di risolvere la situazione.

 

 

 

Taiwan, Xi Jinping ha detto che la

riunificazione con la Cina è «irrinunciabile».

Msn.com-Lastampa.it-Redazione-(16-11-2021)-ci dice:

 

Riportare Taiwan sotto il controllo della Cina continentale, che considera l’isola alla stregua di un territorio ribelle. «È una missione storica e un impegno incrollabile del Partito comunista e anche un’aspirazione condivisa per realizzare il ringiovanimento nazionale».

 È quanto si legge nella risoluzione storica di Xi Jinping, presidente della Repubblica popolare cinese. Approvata dal plenum del partito, è stata ripresa dalle agenzie di stampa il 16 novembre, giorno dell’incontro bilaterale tra Cina e Stati Uniti. Un colloquio virtuale di quattro ore caratterizzato da toni distesi e alcuni momenti di tensione su i punti che storicamente dividono le due potenze. Tra questi, appunto, la questione di Taiwan. Biden ha sottolineato che gli Usa «Si oppongono con fermezza ai tentativi unilaterali di cambiare lo status quo o minare pace e stabilità nello stretto di Taiwan».

 La risposta dell’omologo della Repubblica popolare è altrettanto ferma: incoraggiare l'indipendenza «è estremamente pericoloso, come giocare con il fuoco. Chi ci gioca, si brucia. L'umanità vive in un villaggio globale, affrontiamo molte sfide insieme». Secondo il ministero della Difesa di Taiwan, il 16 novembre otto aerei militari cinesi hanno violato lo spazio di identificazione aereo dell’isola. Tra questi ci sarebbero anche due che sono caccia J-16. Taipei ha risposto mobilitando i propri velivoli, con un avvertimento radio e l’attivazione del sistema di difesa aerea missilistica. Il numero di aerei militari cinesi segnalati oggi è il più alto delle ultime settimane e pareggia quello del 31 ottobre scorso, quando la questione di Taiwan fu affrontata dal ministro degli Esteri cinese, Wang Yi, e dal suo omologo Usa, Antony Blinken, a margine del G20 di Roma.

 Taiwan, o Repubblica di Cina, è uno stato insulare composto dall’isola di Formosa e da alcuni piccoli arcipelaghi limitrofi di fronte alle coste sudorientali del subcontinente asiatico. Non riconosciuto da molti membri della comunità internazionale, intrattiene tuttavia una fitta rete di rapporti diplomatici. I nazionalisti cinesi di Chiang Kai-shek trovarono riparo sull’isola dopo essere stati sconfitti da Mao Tse-Tung, nel 1949. La Cina continentale ne rivendica la sovranità, considerando il territorio strategico per i traffici commerciali e il controllo marittimo nella zona.

 

 

 

Ibm svela il processore quantistico che

 promette di battere tutti i supercomputer.

 msn.com-Corriere Della Sera- Alessio Lana-( 17-112021)-ci dice:-

La lotta per la supremazia quantistica è solo all’inizio ma già sta dando grandi risultati. Ibm ha appena annunciato la nascita di Eagle, un processore quantistico da 127 qubit e se questa formula appare incomprensibile, nessun problema. Si parla letteralmente di un altro mondo, di macchine in grado di eseguire in 200 secondi dei calcoli che un supercomputer classico esegue in 10mila anni.

Un computer quantico (o quantistico) è completamente differente dalle macchine tradizionali. Queste ultime si basano sul bit, un’unità binaria che ragiona secondo il principio di acceso e spento, uno e zero. La controparte quantica invece si basa sui quantum bit (i qubit appunto) che possono essere accesi e spenti contemporaneamente, sia uno che zero, offrendo più soluzioni contemporaneamente. Facciamo un esempio: per cercare una parola in un dizionario un supercomputer scansisce ogni singola riga di ogni singola pagina finché non la trova. Un computer quantico invece non ne ha bisogno: è come se avesse già tutte le pagine aperte di fronte, con tutte le parole in vista e non gli resta che «pescare» quella richiesta. È da qui che nasce il salto in avanti.

Nel caso di Eagle si parla di una macchina in grado di superare non solo i computer tradizionali ma anche quelli quantistici visti finora. Nel 2019 Google aveva affermato di aver conquistato la «supremazia quantistica» (ovvero la possibilità che i computer quantistici riescano a fare cose impossibili per i computer tradizionali) grazie a una macchina da «soli» 54 qubit contestata da Ibm. L’università della scienza e della tecnica cinese, Ustc, era arrivata a 60 qubit, poi si erano raggiunti i 64 qubit ma ora Ibm vola a ben 127 qubit.

L’azienda non ha reso pubblico alcun dato relativo alle prestazioni ma afferma che Eagle è il primo processore che non può essere simulato su un supercomputer tradizionale. E già guarda al futuro.

Eagle è stato realizzato utilizzando una nuova tecnica che prevede componenti di controllo dei qubit collocati in un’architettura a più livelli fisici, con i qubit mantenuti in un livello separato. Essa sarà alla base anche dei prossimi Osprey e Condor che metteranno in campo, rispettivamente, 433 qubit e 1121 qubit.

Sono attesi a partire dal 2023 quando inizieranno la loro avanzata affiancati dai supercomputer tradizionali. «Crediamo che saremo in grado di raggiungere una dimostrazione del vantaggio quantistico — qualcosa che può avere un valore pratico — entro i prossimi due anni», ha detto il capo della Ricerca di Ibm, Darío Gil, a Reuters.

 

TRANSUMANESIMO- Dr. Rafael YUSTE:

“Possiamo leggere l’intera attività neurale

 di un’IDRA  e modificarne il comportamento.

In futuro forse anche nell’uomo.”

Detoxed.info- John Cooper-(14 Novembre 2021)-ci dice: 

Il neuroscienziato Rafael Yuste, professore di scienze biologiche, direttore del Neuro-Technology Center della Columbia University,  e il suo team della Columbia, nel 2017 hanno registrato l’attività di ogni neurone di un animale parente alla medusa chiamato Idra (Hydra).

Ovviamente il cervello umano è molto più complesso dell’Idra, ma questo è un enorme passo avanti perché, una volta che sai leggere il codice neurale, è possibile anche scriverlo.

“In un certo senso si potrebbe sostenere che stiamo cercando di leggere la mente dell’Idra perché possiamo misurare l’attività di ogni neurone nell’Idra, dal suo comportamento”.

Il professor Rafael Yuste ha dichiarato in un’intervista video a “The Economist” nel 2018: “Possiamo inserire pensieri in un’Idra? Possiamo scrivere un modello di attività e cambiare il comportamento dell’animale. Stiamo cercando di farlo nell’Hydra e stiamo cercando di farlo nei topi. Possiamo immaginare che si potrebbe farlo con gli umani in futuro”.

Scriveva la rivista “The Economist” nel gennaio 2018:

“Usare il pensiero per controllare le macchine. Le interfacce cervello-computer possono cambiare ciò che significa essere umani.”

 

Le TECNOLOGIE sono spesso pubblicizzate come trasformative. Per William Kochevar, il termine è giustificato. Kochevar è paralizzato sotto le spalle dopo un incidente in bicicletta, eppure è riuscito a nutrirsi di sua mano. Questa notevole impresa è in parte grazie agli elettrodi, impiantati nel braccio destro, che stimolano i muscoli. Ma la vera magia sta più in alto. Kochevar può controllare il suo braccio usando il potere del pensiero. La sua intenzione di muoversi si riflette nell’attività neurale nella sua corteccia motoria; questi segnali vengono rilevati dagli impianti nel suo cervello ed elaborati in comandi per attivare gli elettrodi nelle sue braccia.

La capacità di decodificare il pensiero in questo modo può sembrare fantascienza. Ma le interfacce cervello-computer (BCI) come il sistema BrainGate utilizzato da Kochevar forniscono la prova che il controllo mentale può funzionare. I ricercatori sono in grado di dire quali parole e immagini le persone hanno sentito e visto dalla sola attività neurale. Le informazioni possono anche essere codificate e utilizzate per stimolare il cervello. Oltre 300.000 persone hanno impianti cocleari, che li aiutano a sentire convertendo il suono in segnali elettrici e inviandoli nel cervello. Gli scienziati hanno “iniettato” dati nella testa delle scimmie, istruendole a eseguire azioni tramite impulsi elettrici.

Come spiega il nostro Technology Quarterly in questo numero, il ritmo della ricerca sui BCI e la portata della sua ambizione stanno aumentando. Sia le forze armate americane che la Silicon Valley stanno iniziando a concentrarsi sul cervello. Facebook sogna la digitazione da pensiero a testo. Kernel, una startup, ha 100 milioni di dollari da spendere in neuro-tecnologie. Elon Musk ha formato una società chiamata Neuralink; pensa che, se l’umanità vuole sopravvivere all’avvento dell’intelligenza artificiale, ha bisogno di un aggiornamento. Gli imprenditori immaginano un mondo in cui le persone possano comunicare telepaticamente, tra loro e con le macchine, o acquisire abilità sovrumane, come l’udito a frequenze molto alte.

Questi poteri, se mai si materializzeranno, sono lontani decenni. Ma ben prima di allora, i BCI potrebbero aprire la porta a nuove notevoli applicazioni. Immagina di stimolare la corteccia visiva per aiutare i ciechi, forgiando nuove connessioni neurali nelle vittime di ictus o monitorando il cervello per i segni di depressione. Trasformando l’attivazione dei neuroni in una risorsa da sfruttare, i BCI possono cambiare l’idea di cosa significhi essere umani.

Quella sensazione di pensiero.

Gli scettici si fanno beffe. Portare i BCI medici fuori dal laboratorio nella pratica clinica si è rivelato molto difficile. Il sistema BrainGate utilizzato da Kochevar è stato sviluppato più di dieci anni fa, ma solo una manciata di persone lo ha provato. Trasformare gli impianti in prodotti di consumo è ancora più difficile da immaginare. Il percorso verso il mainstream è bloccato da tre formidabili barriere: tecnologica, scientifica e commerciale.

Inizia con la tecnologia. Le tecniche non invasive come un elettroencefalogramma (EEG) lottano per raccogliere segnali cerebrali ad alta risoluzione attraverso strati intermedi di pelle, ossa e membrana. Alcuni progressi sono stati fatti, sui tappi EEG che possono essere utilizzati per giocare a giochi di realtà virtuale o controllare robot industriali usando solo il pensiero. Ma almeno per il momento, le applicazioni più ambiziose richiedono impianti in grado di interagire direttamente con i neuroni. E i dispositivi esistenti presentano molti inconvenienti. Coinvolgono fili che passano attraverso il cranio; provocano risposte immunitarie; comunicano solo con poche centinaia degli 85 miliardi di neuroni nel cervello umano. Ma questo potrebbe presto cambiare. Aiutati dai progressi nella miniaturizzazione e dall’aumento della potenza di calcolo, sono in corso sforzi per realizzare impianti wireless sicuri in grado di comunicare con centinaia di migliaia di neuroni. Alcuni di questi interpretano i segnali elettrici del cervello; altri sperimentano la luce, il magnetismo e gli ultrasuoni.

Cancella la barriera tecnologica e un’altra incombe. Il cervello è ancora un paese straniero. Gli scienziati sanno poco di come funziona esattamente, specialmente quando si tratta di funzioni complesse come la formazione della memoria. La ricerca è più avanzata negli animali, ma gli esperimenti sugli esseri umani sono difficili. Eppure, ancora oggi, alcune parti del cervello, come la corteccia motoria, sono meglio comprese. Né è sempre necessaria una conoscenza completa. L’apprendimento automatico può riconoscere i modelli di attività neurale; il cervello stesso riesce a controllare i BCIS con straordinaria facilità. E la neuro-tecnologia rivelerà più segreti del cervello.

Come un buco nella testa.

Il terzo ostacolo comprende gli ostacoli pratici alla commercializzazione. Ci vuole tempo, denaro e competenza per ottenere l’approvazione dei dispositivi medici. E le applicazioni consumer decolleranno solo se svolgono una funzione che le persone trovano utile. Alcune delle applicazioni per le interfacce cervello-computer non sono necessarie: un buon assistente vocale è un modo più semplice per digitare senza dita rispetto a un impianto cerebrale, per esempio. Anche l’idea che i consumatori reclamino a gran voce le craniotomie sembra inverosimile. Eppure gli impianti cerebrali sono già un trattamento consolidato per alcune condizioni. Circa 150.000 persone ricevono una stimolazione cerebrale profonda tramite elettrodi per aiutarli a controllare il morbo di Parkinson. La chirurgia elettiva può diventare di routine, come mostrano le procedure laser-oculari.

Tutto ciò suggerisce che un percorso verso il futuro immaginato dai pionieri delle neuro-tecnologie è arduo ma realizzabile. Quando l’ingegno umano viene applicato a un problema, per quanto difficile, non è saggio scommettere contro di esso. Nel giro di pochi anni, le tecnologie migliorate potrebbero aprire nuovi canali di comunicazione con il cervello. Molte delle prime applicazioni promettono inequivocabilmente di movimento e di ripristino dei sensi. Ma man mano che gli usi si spostano verso l’aumento delle abilità, sia per scopi militari che tra i consumatori, sorgeranno una serie di preoccupazioni. La privacy è ovvia: il rifugio di una voce interiore può scomparire. La sicurezza è un’altra: se un cervello può essere raggiunto su Internet, può anche essere hackerato. La disuguaglianza è una terza: l’accesso alle capacità cognitive sovrumane potrebbe essere al di là di tutto tranne che un’élite che si auto-perpetua.

 Gli eticisti stanno già iniziando a confrontarsi con questioni di identità e agenzia che sorgono quando una macchina è nel ciclo neurale.

Queste domande non sono urgenti. Ma la storia più grande è che non sono nemmeno il regno della pura fantasia. La tecnologia cambia il modo in cui le persone vivono. Sotto il cranio si trova la prossima frontiera.”

 

 

Comunicazione politica e Democrazia.

Fondazionefeltrinelli.it-Michele Sorice - (17 novembre 2021)-ci dice:

La nostra città futura.

La comunicazione politica è stata spesso declinata (dai media ma anche da molti studiosi) come mero insieme di tecniche e strumenti per le strategie di propaganda. D’altra parte anche diversi settori della politica non sono riusciti a sfuggire dalla banale sovrapposizione “comunicazione politica = propaganda”, privilegiando la dimensione verticale della comunicazione (la logica della trasmissione che presiede alle campagne elettorali) a quella orizzontale della relazione e del dialogo.

 Non stupisce, quindi, che i partiti “tradizionali” abbiano continuato a considerare la comunicazione come mera variabile interveniente e non come dimensione che struttura la relazione. In altri termini, non sono riusciti a pensare alla comunicazione come dimensione analitica (di fianco a quella organizzativa) per una ridefinizione dei corpi intermedi.

Il successo della comunicazione politica come insieme di ricette facili si è incrociato con alcuni elementi di “crisi” delle democrazie contemporanee. Possiamo individuarne almeno cinque:

a)-crisi di credibilità delle istituzioni democratiche, percepite come inadeguate nel “frame” sociale rappresentato dalla crisi economica globale;

b)-delegittimazione sociale delle forme “tradizionali” della rappresentanza (partiti di massa e/o d’opinione, sindacati, forme istituzionalizzate dell’associazionismo e, in genere, quelli che vengono definiti “corpi intermedi”); sarebbe peraltro utile abbandonare l’espressione “corpi” – che richiama a una visione funzionalista della politica – a favore di termini più neutri (“agenti intermedi”?);

c)-accentuazione dei processi di cartellizzazione e presidenzializzazione dei partiti ed emersione di franchise parties, funzionali alla concentrazione di potere nel leader, che diventa il terminale di gruppi di interesse e stabilisce una relazione con l’elettorato solo nella cornice definita dai media (producendo spesso, peraltro, una deriva anti-egualitaria della democrazia);

d)-egemonia della “ideologia” neo-liberista, che determina uno strutturale processo di commodification dei processi democratici, con la prevalenza di un’idea di governance basata sull’efficienza temporale e sulla valutazione delle policies a breve periodo, a discapito di un’idea progettuale di government (in quest’ottica, anche lo sviluppo – auspicabile – dell’open government rischia di diventare funzionale a logiche di commercializzazione della cittadinanza e rischia di costituire un modello culturalmente opposto a quello della democrazia partecipativa);

e)-incremento delle istanze partecipative “dal basso”, che si manifestano sia nelle forme del richiamo populistico alla delegittimazione delle forme organizzative (“democrazia della negazione”, delegittimazione sistematica dei meccanismi di agency) sia nell’impegno di cittadini per una democrazia partecipativa (movimenti sociali, esperienze di cittadinanza attiva, etc.).

Dovremmo poi aggiungere un deficit formativo (che in Italia si è tradotto nella sostanziale marginalizzazione sociale della scuola) e un sistema dei media tendenzialmente conformista e scarsamente plurale. In questo scenario, i media digitali finiscono per enfatizzare gli “effetti strutturali” della comunicazione politica, già evidenti con lo sviluppo e l’affermazione del broadcasting (personalizzazione, spettacolarizzazione, winnowing effects, etc.) e le forme della mediazione e della rappresentanza perdono importanza a favore delle strategie di rappresentazione.

Un’occasione perduta. I media digitali (i social media, le piattaforme di partecipazione, etc.) potrebbero infatti giocare un ruolo importante nell’attivazione di una democrazia capace di coniugare pratiche di partecipazione e deliberazione con i processi della democrazia rappresentativa.  La comunicazione potrebbe costituire un asse strategico per incrementare la sensibilità, l’informazione e l’azione all’interno delle piattaforme partecipative. Ma – ridotta a technicality – la comunicazione perde il suo potenziale democratizzante e finisce per assumere valore solo come strumento di costruzione del consenso. L’anestetizzazione della comunicazione (anche in ambito accademico) si rivela così per essere un ulteriore strumento nel processo di negazione della dimensione egualitaria della democrazia.

(Michele Sorice-Professore di Democrazia deliberativa alla LUISS “Guido Carli”.Honorary Professor alla University of Stirling (UK).

 

 

 

 

Il sesto potere.

Ibm.com- Maurizio Decollanz-(18-2-2021)-ci dice:

Nel 1787, durante una seduta della Camera dei Comuni al Parlamento inglese, il deputato Edmund Burke si rivolse ai cronisti parlamentari e pronunciò un’esclamazione che avrebbe segnato la storia: "Voi siete il quarto potere!". Era la prima volta che all’informazione veniva riconosciuta la facoltà di influenzare le dinamiche di un Paese.

In sociologia, infatti, la comunicazione di massa assume un ruolo chiave nel funzionamento della vita democratica, andandosi ad aggiungere ai tre poteri su cui si basa il funzionamento di uno Stato: legislativo, esecutivo e giudiziario. Dalla separazione e indipendenza di questi poteri, dipende l’essenza stessa della democrazia.

Il quarto potere, quello della carta stampata, venne analizzato scrupolosamente nell’omonimo film di Orson Welles - uno dei migliori lungometraggi nella storia del cinema. In controluce, l’ascesa e la caduta in disgrazia di Charles Foster Kane - editore miliardario americano - il potere della stampa nella comunicazione politica, lo smodato interesse per la vita privata dei personaggi pubblici e la manipolazione della realtà. Il quinto potere, quello di una televisione che ha ormai scalzato il primato dei giornali come fonte dell’informazione, trova invece nel capolavoro di Sidney Lumet - “Network”, del 1976 - il suo censore più spietato. Consiglio vivamente la visione di entrambi i lungometraggi.

Comincia ad essere evidente quanto la commistione tra potere economico e potere mediatico sia in grado di provocare grandi danni al funzionamento di una democrazia. L’opinione pubblica si forma in base ai fatti di cui ha conoscenza e il ruolo dei mass media nella società diventa sempre più ago della bilancia nelle dispute politiche. I mezzi di comunicazione di massa, infatti, informano la collettività sui comportamenti del governo, del parlamento e, in generale, dei loro rappresentanti nelle Istituzioni.

Il controllo politico e l'accentramento dei mezzi di informazione nelle mani di un ristretto gruppo di persone - sempre in base alla sociologia - genera una mancanza di pluralismo che non consente ai cittadini-elettori di avere delle opinioni informate e di attuare delle scelte consapevoli. I mass media, quindi, diventano sempre più la fabbrica del consenso e il terreno della lotta per il potere.

Dopo la carta stampata e la televisione, chi detiene il maggior controllo nella diffusione delle informazioni? Chi ha oggi la capacità di orientare il consenso? Secondo il Censis, gli italiani che si informano attraverso internet sono passati dal 45,3% nel 2007 al 79,3% nel 2019. Il sorpasso su stampa e tv si è compiuto. Ma le cifre si appesantiscono ancora di più se si analizza la fascia d’età tra i 14 e 29 anni: internet è al 90,3%, il telefono cellulare all’89,8% e i social media all’86,9%. Le giovani generazioni, ormai, costruiscono le loro opinioni in base a ciò che leggono online. Sui social media. L'Agcom aggiunge un ulteriore tassello: “Gli Italiani accedono all'informazione online prevalentemente attraverso fonti cd. Algoritmiche (in particolare social network e motori di ricerca)”. Ecco chi detiene oggi il sesto potere.

Evoluzione diete mediatiche CENSIS.

Secondo la teoria elaborata da Edward S. Herman e Noam Chomsky, rispettivamente economista e teorico della comunicazione, avanzata nel saggio “Manufacturing Consent: the Political Economy of the Mass Media”, i media sono delle imprese che vendono un prodotto (lettori, pubblico e notizie) ad altre imprese (gli inserzionisti pubblicitari) utilizzando cinque “filtri”:

la proprietà ,gli introiti, le fonti di notizie, la reazione negativa, l'ideologia.

A questi filtri, con la proliferazione esponenziale dei dati e il dominio di social e motori di ricerca, se ne aggiunge un altro: i dati personali. Lo scandalo Cambridge Analytica ne è la prova. Le informazioni su chi siamo, cosa facciamo, quali orientamenti abbiamo, fanno ormai parte del “prodotto” in vendita per il “sesto potere”.

Divide et impera, “dividi e comanda” o “separa e conquista”, è una locuzione latina secondo cui il migliore espediente di una tirannide o di un'autorità qualsiasi per controllare e governare un popolo è dividerlo. Provocando rivalità, fomentando discordie. Il sociologo Georg Simmel dedica buona parte dei suoi studi alle dinamiche che si innescano tra gruppi e comunità che si ingrandiscono. Nella teoria della Triade, Simmel individua tre schemi prevalenti:

quello del “mediatore”, quando un terzo non direttamente coinvolto in una disputa, dialogando separatamente in condizioni meno cariche di emotività, è in grado di convincere gli altri a un accordo;

quella del “tertius gaudens”, il terzo approfitta per i propri scopi di una divergenza fra gli altri; e, infine,

quella del “divide et impera”, quando un terzo fa sorgere o alimenta intenzionalmente una discordia a proprio vantaggio.

Online tendiamo a concentrarci su un numero limitato di fonti e di notizie, quindi abbiamo meno possibilità di modificare le nostre opinioni. Una polarizzazione che contribuisce a incentivare la disinformazione. É quanto emerge da un’analisi dell’equipe di fisici del Laboratory of Computational Social Science (CssLab) all’Istituto di studi avanzati di Lucca e della Sapienza Università di Roma.

 In sostanza, ognuno di noi tende a concentrarsi su un numero limitato di fonti dell’informazione con cui condividiamo valori e punti di vista. Evitiamo opinioni diverse dalla nostra e anche sui motori di ricerca inseguiamo solo prove che ci diano ragione. E gli algoritmi amplificano all’infinito questa tendenza, proponendoci solo ciò che ci fa piacere. Le teorie più strampalate diventano, quindi, verità. Perché cerchiamo e troviamo solo conferme. Solo altre persone che guardano nella nostra stessa direzione.

Il sesto potere ha portato con sé le più profonde divisioni e spaccature nell’opinione pubblica. Uno, dieci, cento schieramenti. Tutti diversi, l’uno contro l’altro. Per comprendere come non si tratti di pura teoria ma di realtà, basti pensare ai fatti di Capitol Hill lo scorso 6 gennaio. L’assalto al Campidoglio USA è nato e cresciuto attraverso la diffusione di informazioni false sui social networks. Chiamarle teorie complottiste o cospirazioniste è un insulto a chi i complotti e le cospirazioni li ha scovati e svelati veramente, dalle inchieste sul terrorismo eversivo in Italia allo scandalo Watergate in USA. Un’opinione pubblica divisa e litigiosa è più facilmente controllabile. Il modo in cui ci informiamo, ci trasforma in facili prede di manipolazioni e rende profondamente instabile il funzionamento delle democrazie che, invece, avrebbero bisogno dell’alternanza di maggioranze solide e di governabilità.

Ma è tutta colpa degli algoritmi, dei social network e dei motori di ricerca?

Ovviamente no, chi decide veramente siamo noi. Forse non ne siamo pienamente consapevoli, ma educare noi stessi e le giovani generazioni al pluralismo dell’informazione e delle opinioni è la chiave del cambiamento che ci occorre. L’ascolto degli altri, specie di quelli che non la pensano come noi, è un esercizio mentale che è necessario tornare a praticare a scuola, in famiglia, in azienda. La lettura dei quotidiani, quelli veri, per approfondire le notizie senza fermarsi alle poche righe che troviamo online. Imparare a fare sempre una sintesi delle idee, trovando un comun denominatore. Ci sono sempre uno o più punti di contatto anche nelle visioni più diverse: esercitiamoci a partire da quelli per costruire e non distruggere.

Le compagnie tecnologiche sono certamente chiamate alla prova dell’etica, della responsabilità e della maturità. In una recente intervista, Francesca Rossi - IBM global leader per l’etica della AI - affermava: “La fiducia nell’AI deve essere basata su principi quali la non-discriminazione, la trasparenza, la spiegabilità e il rispetto della privacy. In IBM possiamo contare su un comitato per l’etica dell’intelligenza artificiale che ci aiuta a valutare gli aspetti delicati di ogni proposta di prodotto per un cliente: essa deve seguire i principi e le linee guida sull’etica dell’AI che ci siamo dati, tra cui che la raccolta dati avvenga nel rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo, della dignità e della privacy delle persone. Se non è così, noi non partecipiamo e non firmiamo il contratto”.

Come ripeto spesso, il futuro avrà le forme che i pensatori e i costruttori di oggi sapranno dargli.

(Maurizio Decollanz, Direttore della Comunicazione IBM Italia-Editor in Chief IBM Think Magazine).

 

 

 

 

 

 

Democrazia, comunicazione

 e diritti nel tempo del Coronavirus.

Giustiziainsieme.it- Salvatore Aleo-(29 MAGGIO 2020)- ci dice: 

(ALEO  DIRITTO DELL’EMERGENZA COVID-19 E RECOVERY FUND  ).

Sommario: 1. L’emergenza del Coronavirus. Ritirati a casa e attività on-line; 2. La dimensione politico-amministrativa e la democrazia. I decreti governativi. Le forzature costituzionali. Il bisogno penalistico e la burocrazia; 3. Auspici di semplificazione e flessibilizzazione giuridico-amministrativa e riduzione dello strumento penalistico; 4. Il carcere e le scarcerazioni; 5. Tutela della sanità e funzione giurisdizionale.

 1. L’emergenza del Coronavirus. Ritirati a casa

 e attività on-line  .

Le prime riflessioni sull’esperienza fatta fin qui del Coronavirus riguardano la velocità della diffusione del virus nel mondo globalizzato, operata dai trasporti e dagli spostamenti di ingenti quantità di persone, e la sensazione di paura, la preoccupazione da cui tutti siamo stati colpiti, come da una valanga lenta e inesorabile.

Ci siamo ritirati in casa e da lì abbiamo svolto le nostre attività lavorative e sociali attraverso le tecnologie della comunicazione, soprattutto informatiche.

Senza di queste, non avremmo avuto comunicazioni sociali.

Una riflessione centrale riguarda ovviamente la rilevanza dello strumento informatico. Il virtuale, generato da strumento informatico, ha avuto il sopravvento sul materiale, sul fisico. I processi di dematerializzazione sono diventati modo ordinario di esercizio delle attività, sociali, lavorative, amministrative, politiche, perfino ludiche, ricreative.

In tale momento eccezionale, tutti abbiamo fatto l’importante esperienza dell’uso delle tecnologie informatiche per comunicare, per lavorare, per i nostri comuni rapporti sociali e amicali. Ovviamente sono stati avvantaggiati, nei tempi e nella qualità, i più dotati di competenze e di risorse.

Fare lezione on-line è stato interessante e difficile. Parlare senza la presenza degli interlocutori, ‘sentendone’ la presenza a distanza tramite il video e il pensiero; assoluta mancanza di tempi morti, pure di sfumature; grande concentrazione sui contenuti; contrazione dei tempi complessivi; stress. Gli studenti hanno apprezzato molto, sia lo sforzo che la modalità, che ha consentito loro di non viaggiare, di non alzarsi presto, di ascoltare la lezione seduti comodi nella propria stanza; hanno riempito di messaggi di commento e pure di ringraziamento e compiacimento la chat che accompagna la piattaforma informatica. La sensazione ovviamente superficiale è di successo della didattica praticata on line, ma con grande fatica di chi l’ha realizzata, senza averne preventiva esperienza.

Lo stesso può dirsi per le diverse forme e modalità e occasioni di comunicazione, con gli studenti, con i colleghi, con i responsabili degli uffici amministrativi.

Guai però a pensare che il virtuale possa essere equivalente rispetto al reale, per ciò che riguarda appunto l’insegnamento. La mancanza del contatto nella stessa stanza pesa sulla psicologia dei docenti e crea effetti di semplificazione e banalizzazione sui discenti, ne riduce la fiducia oltre che le competenze. 

In questo periodo ha avuto una dimensione preminente la comunità familiare, con le sue dinamiche, spesso trascurate nella vita ordinaria. 

La socialità si è ridotta, si è concentrata, è stata realizzata in modo virtuale, tramite strumenti e tecnologie della comunicazione. I giovani sono stati lungamente attaccati al telefono cellulare o comunicando col computer.

Molti, stando in casa, hanno letto libri e romanzi che altrimenti non avrebbero letto, pure lunghissimi: chi scrive, La camorra e poi La Sanfelice di Dumas, il secondo in due volumi di 1754 pagine, nonché le Memorie autobiografiche di Garibaldi.

Sono state indotte numerose diverse forme nuove di spettacolo e intrattenimento on line. 

Sono state sacrificate le attività in comunità e in pubblico, per esempio quelle sportive. Sui canali digitali sono state esaltate la musica e le trasmissioni televisive e cinematografiche.

La comunità scientifica medica ha incontrato un fenomeno assolutamente nuovo che ha cominciato a capire e cercato di capire strada facendo, mentre questo si svolgeva. I medici sono stati ovviamente i più esposti e hanno pagato un prezzo sicuramente alto, praticamente inevitabile. Quali che fossero le condizioni sanitarie e preventive, il confronto con un virus assolutamente sconosciuto e pericolosissimo ha creato inevitabile sovraesposizione del personale sanitario.

2. La dimensione politico-amministrativa e la democrazia. I decreti governativi. Le forzature costituzionali. Il bisogno penalistico e la burocrazia. 

 

Su questo terreno, la riflessione fa emergere una contraddizione.

Da un lato, è indubbio che le limitazioni imposte con i decreti del Presidente del Consiglio dei ministri siano state sia efficaci che tempestive. Senza, avremmo avuto una esplosione della pandemia, enormemente maggiore di quella che pure è avvenuta. L’efficacia e la tempestività delle misure del nostro Governo sono state pure maggiori in confronto a quelle di Paesi che sono considerati ovvero che si considerano più avanzati e blasonati. D’altro canto, ciò è avvenuto con forzature dell’ordine giuridico e costituzionale.

La libertà di movimento e spostamento è stata compressa e limitata fortemente con atti di natura amministrativa (i decreti del Presidente del Consiglio dei ministri sulla base generica di un decreto legge), con ordinanze dei Presidenti delle Regioni, con interventi dei Sindaci delle città, con il supporto e l’utilizzo del rinvio a una norma penale in bianco per la sanzione dell’inosservanza dell’ordine (degli ordini) dell’autorità, appunto amministrativa.

Sul piano formale, c’è di che vincere tanti ricorsi, pure qualche questione di legittimità costituzionale.

Giova ricordare che nella Carta costituzionale le limitazioni della libertà personale sono ammesse solo per atto motivato dell’autorità giudiziaria, nei casi e nei modi previsti dalla legge (art. 13); le limitazioni della libertà di circolazione e soggiorno sono possibili solo per legge in via generale per motivi di sanità o di sicurezza (art. 16); secondo l’art. 78 le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al Governo i poteri necessari.

Sul piano sostanziale, la democrazia appare forzata, ma la nostra salute è stata difesa, salvaguardata, efficacemente. Il dato difficilmente contestabile è che la gente ha avuto bisogno dell’imposizione, della minaccia penale e poliziesca, per non uscire di casa e non contagiarsi. Il ragionamento sia politico, sia giuridico, deve tener conto della, di questa, realtà. Pure comprensibile, ma poco gradita, da chi scrive, l’ostentazione di responsabili delle Procure della Repubblica, sui mezzi di comunicazione, più che delle Forze dell’ordine impegnate, invece, necessariamente, sul campo.

Una riflessione necessaria riguarda, però, il bisogno (sociale) di diritto penale, reale, per rispettare e far rispettare le cautele, e culturale, come strumento di rassicurazione, di consolidazione del rispetto delle norme. Provoca delusione, sgomento, nel penalista, oltre che consapevolezza delle ragioni forti che giustificano e sorreggono il proprio ruolo sociale, la percezione che il senso di responsabilità risulta insufficiente in mancanza della minaccia penale. Questo, a sua volta, crea condizioni comunque squilibrate (ordinariamente squilibrate, secondo l’insegnamento della storia) dei rapporti sociali, fra i ceti, fra politica e magistratura. 

Una considerazione generale che si può fare riguarda i tempi e la complessità della democrazia. Hanno prevalso, per necessità ritenuta – e abbastanza condivisa, evidentemente –, le ragioni della tempestività e della semplificazione. Il linguaggio informatico implica e induce, per sé, la semplificazione, è ragione e strumento di semplificazione.

Al di là dell’emergenza di questo virus, non si possono eludere, sul piano politico e amministrativo, le necessità di semplificazione e velocità dei processi decisionali e soprattutto di quelli gestionali in confronto alle esigenze poste dalle attività umane. Si fanno qui alcune considerazioni che si ritengono valide in generale, che sono emerse con particolare evidenza e rilevanza nell’emergenza contingente.

I partiti sembrano scomparsi e la democrazia politica, quella rappresentativa, ha assunto una connotazione prevalentemente elettorale. Aspetti comunque diversi della democrazia sono quelli esercitati mediante le attività lavorative e i mezzi di comunicazione, quindi di formazione del consenso. Accanto alla crisi degli istituti, delle forme e dei luoghi tradizionali della democrazia rappresentativa può farsi rilevare la possibilità attraverso i mezzi di comunicazione di indurre forme di democrazia rappresentativa diverse e ulteriori. I due aspetti sono certo distinti ma hanno elementi di collegamento. Non è questo il luogo per affrontare il problema della crisi dei partiti, ma è impossibile analizzarlo e spiegarlo a prescindere dalla rilevanza assunta nella nostra vita dai mezzi e dalle tecniche di comunicazione.

Lo stesso riguarda la scena politica caratterizzata da leader, anche poco adeguati ai compiti cui sono chiamati, che stanno moltissimo in televisione. Anche questa può essere considerata una connotazione della democrazia, epperò costituisce un segnale di modestia culturale della società nel suo complesso. Essenziale, e doveroso, in proposito, il riferimento ai fenomeni di populismo. Questi elementi inducono certamente processi di semplificazione, rispetto alla complessità dei problemi espressi dalla società, dall’economia, dalla cultura e dalla politica. Ma questo è sempre avvenuto nella storia. Si pensi alla straordinaria semplificazione costituita dalla codificazione giustinianea, in cui le opinioni di alcuni giuristi vennero sancite come norme; alla straordinaria semplificazione costituita dalla codificazione ottocentesca, a dimensione essenzialmente binaria (l’autore e la vittima, come i contraenti, come pure il colpevole e l’innocente, come l’attore e il convenuto); a tacere delle operazioni giuridiche costituite dai regimi totalitari.

Il consenso sui social spiazza chi ha una cultura consolidata diversa, forse vecchia, ma è una realtà di cui occorre sia tener conto, sia apprezzare le opportunità. Non sembra un’esagerazione ritenere il mezzo informatico come uno strumento di (agevolazione, quindi di realizzazione, della) democrazia: di partecipazione, altrimenti assente, per la natura dei protagonisti, difficile, in una società ultraveloce.

Indubbiamente interessanti, sul piano sia politico che tecnologico, tutti gli esperimenti, realizzati in questo periodo, di funzionamento degli organi collegiali sulle piattaforme informatiche.

Qualsiasi fenomeno sociale nuovo e rilevante impatta con la lentezza sia della formazione del consenso sia delle burocrazie.

 

Il primo è un dato assolutamente e puramente irrinunciabile, ma che comunque merita riflessione. Dalla burocrazia abbiamo, piuttosto, il dovere di difenderci, di difendere le nuove generazioni.

La dimensione complessiva della nostra burocrazia è diventata insostenibile. La moltiplicazione delle norme e dei vincoli non accresce l’efficienza e la trasparenza dell’attività amministrativa. Anzi. I Paesi con più leggi e più avvocati hanno anche più corruzione. La semplificazione delle dinamiche amministrative sembra indispensabile per una vita più serena di quella che conduciamo, avendo a che fare con la pubblica amministrazione.

La moltiplicazione esponenziale delle norme e dei controlli, giustificati come strumenti di garanzia e di legalità, crea enormi disagi a tutti i piccoli e medi produttori di attività economiche, che sono una forza tradizionale della nostra realtà socio-economica e invece, stretti nella morsa fra la burocrazia e la malavita, vengono espulsi dal mercato. Ora hanno avuto la botta finale con il Coronavirus. È colpevole non vedere questi problemi da parte dei gruppi dirigenti, degli intellettuali e dei politici. Di questi problemi reali il giurista deve occuparsi e la politica deve cercare soluzioni concrete.

L’informatizzazione può contribuire ad agevolare lo snellimento delle prassi amministrative, ma è solo uno strumento: lo snellimento dipende da un cambio di mentalità, dalla flessibilizzazione concettuale e giuridica. Diversamente, la stessa informatizzazione può generare (ulteriore, precipua) burocrazia.

3. Auspici di semplificazione e flessibilizzazione giuridico-amministrativa e riduzione dello strumento penalistico  .

Allargando il discorso, possiamo verificare profonde trasformazioni dei rapporti fra sfera pubblica e sfera privata. Prevalgono i meccanismi di autoregolazione del mercato, dei suoi protagonisti. Lo Stato di diritto fa fatica, è lento, arranca, è un grosso pachiderma. Soprattutto, fa fatica a produrre solidarietà, a sostenere i deboli.

Istituzioni private (di rating) valutano le attività pubbliche statali, oltre quelle private delle aziende, e inducono così importanti effetti nel mondo finanziario e politico globale, sugli stessi comportamenti degli Stati, che ne risultano fortemente condizionati. Tutti questi meccanismi affiancano i processi regolativi legislativi, che nel frattempo incontrano la difficoltà costituita dalla differenza fra l’astrattezza e generalità dei meccanismi e la contingenza emergenziale della realtà.

Le forze economiche influiscono sui meccanismi regolativi degli Stati: sul processo di formazione delle leggi; sulle dinamiche economiche; sullo svolgimento delle vicende giudiziarie.

In questo frangente del Coronavirus va registrato pure il sostegno finanziario di grandi imprenditori alle ricerche e alle dotazioni necessarie ad affrontare l’emergenza.

In confronto ai problemi della complessità, reale e culturale, dei fenomeni, della società, della politica e della cultura, può dirsi, da un canto, che risultino avvantaggiati i sistemi giuridici di common law, nei quali però va riscontrata la caratteristica – che sembra avere altro tipo di origine – di essere maggiormente alla portata dei più abbienti. I sistemi giuridici più flessibili trovano meno ostacoli e meno contraddizioni in confronto alla complessità reale e culturale della nostra vita sociale contemporanea, e si adattano meglio nelle differenze fra i vari sistemi, nella dimensione della globalizzazione. Può dirsi, pure, che in generale si vada riducendo la differenza fra i sistemi di common law e quelli continentali, anche attraverso la funzione delle Corti costituzionali e delle Corti sovranazionali. Nei sistemi continentali, però, l’incremento progressivo e costante della discrezionalità dei giudici, in tutti gli ambiti e situazioni, costituisce una mutazione genetica dell’assetto dello Stato di diritto, che deve essere necessariamente e variamente compensata. Il passaggio è prima di tutto culturale.

In particolare, dal punto di vista penalistico, di fronte all’elefantiasi del diritto penale, cui assistiamo, deve essere valutata positivamente l’esperienza dei processi davanti alla giuria popolare, con pochi imputati, su fatti strettamente determinati, a distanza di poco tempo dal fatto. Esperienza che esprime la dimensione democratica della giustizia penale e contraddice e contrasta l’estrema tecnicizzazione e proliferazione dello strumento penalistico per la risoluzione dei problemi sociali. Quindi anche le distorsioni che vi risultano collegate nei rapporti fra i ceti dirigenti. 

Il penalista desidera e auspica poco diritto penale. Perché il diritto penale – che va riferito, qui e ora, tipicamente al carcere – è un trauma che si abbatte sulle vite delle persone, alterandole indubitabilmente e per sempre. Perché il diritto penale risulta spesso scarsamente utile, o affatto inutile, o peggio ancora dannoso, rispetto all’esigenza di evitare e diminuire la realizzazione di misfatti. Il diritto penale, sicuramente, però, costituisce uno straordinario, e costosissimo, strumento di potere e stabilizzazione sociale: esattamente come durante i cinque e più secoli di roghi per le streghe, pure senza i roghi. L’illuminismo è avvenuto largamente come protesta, più che ribellione, di intellettuali nobili contro le nefandezze dei magistrati e le miserie degli avvocati: intellettuali che si rivolgevano ai sovrani, chiedendo leggi poche, semplici, chiare, pene miti, ma certe, processi veloci e con le prove, l’abolizione della tortura e della pena di morte, magistrati che si limitassero ad applicare le leggi, volute appunto dai sovrani e poi dai popoli.

4. Il carcere e le scarcerazioni.  

Con l’emergenza del Coronavirus è scoppiata la polemica sulle scarcerazioni di detenuti anche pericolosi, mafiosi.

Le singole vicende sfuggono ovviamente alla valutazione di chi non le conosce fin nei dettagli: principio che deve essere considerato essenziale da parte di chi si occupi di questioni giudiziarie e peggio penali o vi s’imbatta a qualsiasi titolo.

Una prima considerazione riguarda la possibilità che il carcere diventasse una vera bomba sanitaria. Tutti, abbiamo detto, siamo stati come storditi dall’impatto mediatico con l’emergenza del virus. Lo stesso ha riguardato, ovviamente e banalmente, tutti coloro che a qualsiasi titolo si sono occupati di gestire e valutare le situazioni relative alla presenza dei detenuti nelle case circondariali e di reclusione, ai colloqui e alla comunicazione con i parenti.

È certo possibile che siano avvenute forzature e strumentalizzazioni, come avviene sempre e in tutti i tipi di situazioni. Come abbiamo visto e detto essere avvenute forzature istituzionali, pure efficaci, delle regole democratiche e costituzionali.

Il carcere è stato, ed è stato visto come, una bomba che poteva esplodere. Le polemiche sono sempre più rumorose del lavoro per risolvere i problemi. 

Una considerazione generale riguarda però il carcere, come strumento, e le sue condizioni, di fatto.

Il carcere è uno strumento forse poco utile, sicuramente sopravvalutato, costosissimo. Oggi abbiamo circa sessantamila detenuti, di cui circa un terzo tossicodipendenti e ancor più extracomunitari, moltissimi detenuti in attesa di giudizio, anche di primo giudizio. A parte il dato che la capienza regolamentare è di circa diecimila unità in meno, siamo stati giudicati malissimo dalla Corte di Strasburgo, in relazione al divieto delle pene inumane e degradanti, e abbiamo fatto tutto ciò che è possibile per non accorgercene, per fare finta di niente. Ma intanto moltissimi detenuti hanno citato in giudizio lo Stato italiano per ottenere un risarcimento del danno, di avere praticato pene inumane e degradanti, o l’abbreviazione delle stesse. E perfino i direttori di carcere sono stati chiamati davanti alla Corte dei conti per rispondere di danno erariale.

La situazione complessiva delle carceri e dei detenuti in Italia è largamente al di sotto delle condizioni di dignità per un Paese che si definisce civile. Situazione, che certo non può trovare alcun tipo di giustificazione nella pericolosità dei fenomeni criminali, ovvero dei loro protagonisti, e che costituisce un problema sicuramente più grande, oggettivamente più importante, del fatto che alcuni malavitosi possano essere scarcerati, anche per errore, per imperizia o ancora peggio.

Papa Francesco ha manifestato ripetutamente dolorosa attenzione al problema carcerario ma non è stato ascoltato neppure Lui.

Anche magistrati noti (Fassone, Colombo), di evidente sensibilità umana, hanno cercato di attirare l’attenzione sulla situazione drammatica delle carceri e della detenzione, nonché sull’utilità delle pene detentive soprattutto lunghe. Non è successo nulla.

La sensibilità collettiva è mossa – facilmente, subito – dalla notizia che detenuti in regime di alta sicurezza sono stati destinati alla detenzione domiciliare, per ragioni attinenti alle loro precarie condizioni di salute, pure in considerazione del pericolo ulteriore costituito dal Coronavirus. La speculazione politica fa presa ovviamente su sentimenti che sono reali, altrimenti non ne verrebbe amplificata e supportata.

La gente ha bisogno, tutti noi abbiamo bisogno, della vendetta, come fonte e motivo di soddisfazione. Ho scritto un libro che s’intitola Dal carcere. Autoriflessione sulla pena, Pacini editore, 2016, dopo un’esperienza di ricerca durata cinque mesi nelle due case circondariali di Catania (Bicocca, alta sicurezza, detenuti di criminalità organizzata, Piazza Lanza, media sicurezza, detenuti comuni, molti tossicodipendenti, molti extracomunitari), partendo dal mio bisogno e istinto di vendetta, per fare i conti col problema della pena e del carcere.

Il diritto penale (anche quello dello Stato democratico di diritto) costituisce il prolungamento logico e storico della pratica della vendetta, che ha costituito forse il primo fondamento (giuridico, costituzionale) del processo di aggregazione sociale; così come l’amore ha costituito il fondamento costituzionale del legame familiare. È troppo forte, dentro di noi, il bisogno, il desiderio, l’istinto o la pulsione, della vendetta, perché possiamo riuscire a emanciparci.

Considerando il solo budget del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, un detenuto costa circa cinquantamila euro l’anno. Senza considerare, dunque, il carico degli stipendi dei poliziotti non penitenziari, dei magistrati nonché pure di chi scrive. Pensi il lettore a quanti processi ed esperimenti di mediazione sociale e di rieducazione, nella società tecnologica del 2020, sarebbero possibili con una cifra simile a disposizione per ciascun autore di delitto, anche grave.

Il carcere è, nella più nobile ipotesi di lettura, la più incresciosa delle semplificazioni della nostra cultura sociale.

Il carcere costituisce il pilastro (di cemento, non simbolico) di un sistema di potere, da cui molti traiamo sussistenza e anche agi, che serve principalmente ad alimentare se stesso. E che non deve rendere conto a nessuno, circa la sua utilità, perché incontra il sentimento crudele della gente, del popolo, di tutti noi.

Provi, ancora, il lettore a pensare, a immaginare, se il carcere (che è comunque una bomba innescata, per svariate comprensibili ovvie ragioni) fosse esploso per l’emergenza Coronavirus.

5. Tutela della sanità e funzione giurisdizionale.

Più sopra dicevamo dei medici, e paramedici, in prima linea, tutti. Con costi molto alti.

Ciò è avvenuto, per un capriccio della storia, dopo molti anni che queste categorie sono oggetto, vittime e quindi protagonisti forzati di uno straordinario fenomeno di contenzioso giudiziario, in tutti i Paesi più avanzati, contenzioso civile e anche penale.

I medici svolgono la funzione di tutela della salute e hanno in genere condizioni economiche migliori di altri settori. Inoltre molti sono dipendenti del servizio sanitario nazionale. In tutti i Paesi capitalistici è avvenuta una trasformazione appunto straordinaria. Prima il malato moriva perché Dio lo aveva chiamato e guariva perché il medico era stato bravissimo. Più di recente, ci si aspetta dai sanitari la guarigione, pure prospettata da toni salvifici più o meno interessati, e nei casi di evento infausto si ricorre al giudice per ottenere il risarcimento dell’errore sanitario. Con il supporto tecnico degli avvocati. E la magistratura svolge attività di controllo – non solo e puramente di legalità, ma anche – di qualità della funzione sanitaria. Queste dinamiche hanno stressato gravemente lo svolgimento della funzione sanitaria, condizionata peraltro dalla politica che sostanzialmente la governa, e hanno innescato i fenomeni cosiddetti di medicina difensiva (eccesso di esami, di ricoveri, di prescrizioni farmacologiche e terapeutiche) e una grande lievitazione dei costi.

Non c’è dubbio che questa situazione richieda uno scostamento innanzitutto culturale, di consapevolezza complessiva dei problemi così coinvolti. È certo auspicabile e anche verosimile che una situazione e un momento di intimità e di riflessione come la crisi del Coronavirus, verificando intanto gli sforzi, anche eroici, comunque straordinari, che i sanitari stanno compiendo, tra mille difficoltà, in favore di tutti noi, inducano noi stessi a una seria riflessione, a un profondo ripensamento, circa i reali interessi in gioco, anche in questo delicato campo.

Intanto, come spesso accade, prevale il politichese, o se si preferisce il giuridichese. Si sta tentando di fare approvare una norma di salvaguardia per le attività sanitarie svolte in regime di Coronavirus, a tutela innanzitutto dei responsabili delle aziende sanitarie. Tale disciplina di salvaguardia deve essere di carattere assolutamente generale, delle attività sanitarie. Perché costituisce un paradosso, finanche esaltato però dalla magistratura di legittimità, che i responsabili della funzione di garanzia della salute siano fatti responsabili, giuridicamente ed economicamente, delle occasioni, che devono essere considerate invece tipiche di tale funzione, di insuccesso. Un paradosso, perché è giusto e utile che il titolare di una funzione così delicata sia mantenuto in condizioni di serenità e di tutela.

Speriamo, proprio, che anche il ritiro forzato nel tempo del Coronavirus ci induca a riflessioni probe e intelligenti pure a questo così delicato proposito. Speriamo che il Coronavirus, che ci ha generato paura e sofferenza, ci renda complessivamente più umani e più buoni.     

 (Questo saggio sarà pubblicato anche sul n. 1 del 2020 del Mediterranean Journal of Human Rights.).

 

 

 

 

 

Social media e democrazia:

quali sono i confini?

Ferpi.it- Biagio Oppi-(12/01/2021)-ci dice:

 

Libertà di parola e incitazione alla violenza, difesa della democrazia e censura: la cronaca di quanto accaduto lo scorso 6 gennaio negli USA ha messo in luce come il confine tra concetti opposti fra loro si sia fatto sempre più labile. Un tema che riguarda tutti come cittadini e che tocca da vicino il lavoro dei professionisti della comunicazione. La riflessione di Biagio Oppi che apre un dibattito sul sito FERPI.

In questi giorni, in seguito agli eventi di Capitol Hill e alla conseguente censura (presunta o meno) di Twitter e Facebook nei confronti di Trump è divampato sui media il dibattito sul potere delle piattaforme social e le contromisure che le democrazie mature dovrebbero cominciare perlomeno a definire.

Zuckerberg in un post ha spiegato i motivi della decisione presa da Facebook verso Donald Trump invocando il tema della priorità per la sicurezza pubblica. Twitter intanto ha riattivato l’account, dopo averlo sospeso e dopo averne cancellato alcuni tweet.

In ballo si intrecciano temi importantissimi in un periodo di trasformazione profonda dello scenario globale: libertà di informazione, i limiti della libertà di parola, i temi di privacy e digital control, la necessità di una critical media literacy diffusa, in generale il potere che hanno assunto piattaforme come Twitter, Facebook (con Whatsapp e Instagram), Google.

Da un lato si giustifica la facoltà di poter censurare i propri utenti in quanto i grandi network siano aziende private con un contratto che gli utenti accettano al momento dell'attivazione dell'account; dall'altro si sottolinea quanto queste piattaforme rappresentino spazi reali di potere, gestione del consenso e dibattito pubblico.

Il parallelismo con i media tradizionali, a cui viene riconosciuta l'assoluta libertà di scegliere i contenuti, fatica a tenere, perché i social network sono molto più pervasivi.

Azioni di gruppi hacker, guidati da potenze straniere, hanno configurato negli anni scorsi vere e proprie azioni di disturbo nella costruzione del consenso e nelle elezioni democratiche di vari Paesi, trasformandosi di fatto in cyberguerrilla (interessante paper di The EU Cybersecurity Agency) che ha spesso contribuito a polarizzare le opinioni pubbliche, diffondendo fake news e azioni di trolling.

Infine, non da ultimo, vanno sottolineate le differenze di approccio nelle varie aree del globo e una domanda che ritorna è: perché il social network scende a patti con regimi poco democratici e invece decide di intervenire in democrazie più mature?

Negli anni scorsi alcuni nostri colleghi hanno contribuito a realizzare un dibattito e un manifesto, "L’algoritmo come tecnologia di libertà?", disponibile su Digidig.

FERPI invita i soci e i professionisti della comunicazione a inviare una propria riflessione, per offrire a questo dibattito un contributo a più voci. Si tratta sicuramente di uno dei temi caldi che investirà informazione, società e comunicazione per i prossimi anni. A tutti coloro che volessero contribuire chiediamo un intervento (o anche più di uno) eventualmente focalizzato su uno dei temi che abbiamo citato, cercando di stare nelle 1500 battute spazi compresi, da inviare a redazione@ferpi.it. Già dalla prossima settimana cominceremo a pubblicarli sul sito FERPI.

 

 

 

 

 

La seduzione della Rete che prevarica

le prerogative della democrazia.

Altraeconomia.it- Roberto Settembre-(20 Marzo 2021- ci dice:

 

Le multinazionali del web, sottratte a ogni forma di controllo, hanno costruito imperi plurimiliardari. Gli utenti incendiano emozioni trasformate in merce mentre gli Stati reagiscono blandamente allo strapotere di big tech.

( L’allarme di Roberto Settembre).

Purtroppo dire a uno stupido che è uno stupido non lo farà diventare intelligente, ma mostrare il pericolo a chi rischia di diventarlo serve, perché la stupidità non è innata nella natura umana, essendo una pulsione che può venir contrastata.

La stupidità tuttavia ha un fondamento allettante, che allevia lo spaventoso fardello delle responsabilità quotidiane, una delle quali, mutuandola dalla “Vita activa” della filosofa politica Hanna Arendt, è la trasformazione dell’individuo da mero consumatore di opinioni indiscusse camuffate da notizia, in costruttore del pensiero critico.

Su tale assunto si innesta l’oggetto di queste righe incentrate sulla differenza di senso della comunicazione informativa, dove per senso si intendono la causa, la ragione, la direzione e il modo stesso del suo agire, e un’operazione peggiore della menzogna, l’inganno. Perché l’inganno, sotteso all’uso delle parole di per sé polisemiche, privo di spessore, attiva le parti superficiali delle capacità cognitive, cioè lo spazio della mente dove dilaga e impera la stupidità.

Ma fermiamoci: la parola stupido non è di per sé un’ingiuria; letteralmente significa stupefatto, sbalordito. La radice è “stupire”. Allarmano le sue conseguenze. Lo sbalordimento per la notizia e la stupidità accesa da un suo callido uso. Callido, non sapiente (per non offendere la sapienza), al fine di catturare non l’attenzione ma l’emozione, antitesi della riflessione strumento dell’analisi. Il punto è lo iato tra la notizia e il giudizio, che dev’essere colmato dall’analisi razionale, di per sé ardua da sviluppare e da penetrare.

Così entrano in conflitto la necessità della competenza e le ragioni della sua demonizzazione, che non sono innocenti, ma hanno uno scopo, soprattutto quando la notizia è impastata di una finta analisi che porta a un finto giudizio, tanto più tranchant quanto più lontano dall’analisi. Per questo motivo, oggetto del nostro discorso sarà una breve indagine su come la comunicazione agisca sui due mondi della conoscenza: quella destinata a innescarne altra, e quella finalizzata a esaltare se stessa, serva di manovre nemiche della democrazia razionale. Ciò non assolve l’informazione professionale che recentemente (ma accade sempre quand’è serva del potere) ha inseguito quell’altra.

Partendo da lontano, sta affiorando un legame tra il mondo greco antico e una possibile rinascita della funzione del linguaggio, parlato e scritto, come luogo della ragione. Nel V secolo a.c., al tramonto dell’oralità, Platone disse che nessun sapiente avrebbe dovuto ridurre la conoscenza alla parola scritta, che, essendo muta, impediva la ricerca della verità possibile solo nel dialogo.

Dopo quasi 2.400 anni questo pensiero si riaffaccia, ma per 24 secoli il trionfo della parola scritta ha accompagnato quello di istituzioni basate sul pensiero di pochi che domineranno la mente dei molti.

Attraverso milioni di pagine scritte la società umana vedrà totali sconvolgimenti. Ma ogni volta che un ristretto numero di parole sarà determinante per modellare la società, è seguito un dibattito, tanto più approfondito quanto più circoscritto agli specialisti del settore, e tanto più utile o nemico del potere, che sempre ha cercato di semplificarlo, per esaltarne o cancellarne la rilevanza, su ogni piano, politico, culturale, scientifico, religioso.

Galileo pubblica il dialogo sui massimi sistemi, e il Cardinale Bellarmino si rifiuta di guardare nel cannocchiale riducendo le sue tesi scientifiche a menzogna, quindi minaccia la tortura e il rogo, consapevole di un consenso collettivo carpito con la massima semplificazione dei concetti religiosi e scientifici.

Viceversa, ai sette articoli della Costituzione degli Stati Uniti d’America (1776) segue la pubblicazione dei “The Federal papers”, 85 saggi di profonda scienza politica, scritti per convincere l’assemblea degli USA a ratificarla. I giornali di New York li diffondono, poi vengono raccolti in volumi per offrire una visione lucida del nuovo sistema di governo e consentire le interpretazioni e i 27 emendamenti nei successivi 200 anni.

L’illuminismo ha fornito la chiave interpretativa del pensiero oggettivato nello scritto per costruire nella mente il terreno della riflessione. L’elaborazione delle idee, pur ridotta a semplificazioni e a esemplificazioni per renderla comprensibile ai più, non intendeva demolirne l’edificio. Lo fecero invece i nemici della riflessione critica cercando il consenso per raggiungere i loro scopi. Condorcet venne ghigliottinato per questo.

Ma fu il Novecento a imboccare più di ogni altro secolo la strada della semplificazione del messaggio come veicolo per allontanare la riflessione critica.

Valgano come esempio “Il dizionario mussoliniano” con “1.500 affermazioni e motti del Duce” e Il libretto “rosso” di Mao Tze Dong, l’antologia delle sue citazioni, obbligatoria in tutti i gradi d’istruzione in tutti i luoghi di lavoro e nell’esercito. Entrambi impasto di idee e giudizi superficiali, perfettamente twittabili. Finché sulla scena mondiale della comunicazione compare la Rete.

Senza farne la storia, è bene vedere come abbia sedotto gli utenti, diventando altresì un micidiale polo di attrazione per l’informazione mainstream, tanto da causarne una trasformazione epocale.

Si sa che il sedotto acconsente in vista del suo tornaconto, ma se talvolta smaschera la menzogna, cade spesso vittima dell’inganno.

Il nuovo pubblico, con tempi di fruizione più veloci di un tempo e una soglia di concentrazione minore, ha abbracciato entusiasta l’offerta della Rete e ha sceso il primo gradino. Poi l’avvento dei social network ha reso fluidi lo scambio e la condivisione di notizie e contenuti, mescolando le sfere del pubblico e del privato, talché il sedotto ha sceso il secondo gradino, convinto di costituire una sfera pubblica attiva con una propria opinione, dove poter diffondere e condividere contenuti privati e viceversa. Ma big tech ha rimodulato il contesto dove gli individui credevano di scegliere cosa proporre pubblicamente e cosa no, usando i luoghi della propria vita come spazi dove chiunque potesse fruire di un gran numero di contenuti. Erano inconsapevoli che i social media stavano approfittando del fatto che il pubblico percepiva quei luoghi con significati diversi, aperti a decodifiche aberranti, magari a favore di chi offriva coscientemente di tutto a un’audience in grado di comprenderne solo una parte, a causa delle variabili cognitive soggettive di persone sedotte dall’immediata fruibilità di contenuti a cui potevano partecipare.

Poi la seduzione ha colto i vecchi media ancorati alle loro autorevoli informazioni complesse e già costruite, inducendoli a reagire alla TV in streaming trasmessa dalla Rete con versioni online in continuo aggiornamento arricchite dai commenti dei lettori. Col moltiplicarsi delle voci dei blogger o sedicenti tali, all’autorevolezza si è sostituita la credibilità coincidente col numero dei follower, ma a discapito della qualità.

Oggi il potere mainstream dei media di massa si è spostato sul web dove i singoli, coi loro post, commenti e tweet animano dal basso la discussione, mentre il sistema mainstream include le dinamiche dei social network ibridando mass media e reti di comunicazione orizzontali.

Questa eccessiva varietà di fonti pone un grave problema di veridicità, poiché in questa commistione, che causa una distorta costruzione dell’idea di mondo, ognuno cerca spazi di autoreferenzialità sempre più estesi e annichilenti la capacità critica. D’altronde i social forniscono un miele cognitivo irresistibile con effetti perversi.

Uno, la perduta capacità di approfondimento, ha fornito lo schermo dietro al quale gli oligopolisti del web hanno costruito i loro imperi con guadagni plurimiliardari, senza sfiorare col dubbio gli utenti ubriacati dalla pulsione all’uso sistematico delle piattaforme dove si consuma il rito dell’uso fuggevole delle emozioni, tanto più veloce, quanto più estetizzante, per dirla col filosofo Byung Churl Han, giocato attraverso l’invito all’azione, il click, e non alla riflessione.

Le emozioni, divenute merce, perdono la loro funzione primaria che stabilizza la vita umana sul piano dei legami di affetto. Il trionfo dell’hate speech ne è un esempio. Ma il senso delle parole non viene approfondito, anzi, quanto più capaci di risvegliare figure profonde dell’immaginario (si pensi a parole come “memoria collettiva”, “lingua”, “insieme dei valori”, “territorio”, “sangue” “differenze di genere” “Solidarietà” “sacrificio” “popolo” “democrazia” “patria” che saltellano tra la destra e la sinistra con disinvoltura) tanto più vengono ingoiate e ritrasmesse come portatrici di valori, mentre i colossi del web lucrano immani profitti facendosi beffe degli Stati, una volta acquisito il consenso di miliardi di utenti, sedotti dall’inganno dell’apparente gratuità, divenuti essi stessi merce con la miriade di dati personali forniti al loro seduttore, autorizzato a incamerarne e processarne terabyte usati per fagocitare il mercato pubblicitario e distruggere le risorse dei media tradizionali (nel 2020 Google ne ha il 50%, Facebook il 25%).

Frattanto gli utenti felici aumentano un narcisistico rispetto di sé palleggiando parole polisemiche da un like all’altro, spesso a corredo di aforismi travestiti da valori che non si riferiscono alla comunità, ma all’ego schiavo della pulsione irrefrenabile di postare di tutto. Così le fake news volano tra persone incapaci di cogliervi il significato sotteso, cioè il presupposto implicito: ognuno incendia le sue emozioni sotto l’effetto del riconoscimento implicito di quel che vuole riconoscere. È l’esaltazione del bias.

Ma c’è di più. Da Twitter come finestra sul mondo viene l’effetto feedback sul giornalismo professionale che, per ricavare profitti sempre più scarsi a causa del drenaggio del big tech, è spinto a divulgare notizie sensazionalistiche, talvolta false o non verificate sui suoi siti web e sulla carta stampata, per aumentare le vendite in calo. Questa grave distorsione nell’uso delle piattaforme inquina l’informazione seria. Ne è prova la critica montante dal suo stesso ambito circa l’uso distorto delle notizie sulla stampa di opposizione al trumpismo, i cui i destinatari sono spesso persone sprovvedute. E figuriamoci nell’altra.

Intanto il potere del big tech è cresciuto tanto da censurare un personaggio come Trump (ma non decine di altri), decidere come usare le fake news, truffare gli inserzionisti, appropriarsi delle notizie sui link altrui. E queste non sono azioni marginali di Google, Twitter e Facebook, separate dall’area narcisistica dei loro follower: sono l’espressione di un potere immenso, sottratto a ogni forma di controllo, che prevarica le prerogative della democrazia rappresentativa e che opera su un’infrastruttura essenziale della comunicazione.

Gli Stati reagiscono blandamente. L’Unione europea ha varato una direttiva copyright. L’Australia ha imposto per legge a Google e Facebook di pagare per pubblicare i link del giornalismo professionale. Eppure è scontro.

Tuttavia, come si è visto per l’elezione di Biden, decine di milioni di persone (non solo negli USA) si abbeverano alle fonti delle piattaforme attribuendo loro il valore della verità, come hanno mostrato le teorie complottiste amplificate sui social da milioni di utenti.

Forse gli entusiasti delle piattaforme credono di esercitarvi il loro controllo. Ma quale? A marzo Nayib Bukele ha stravinto le elezioni in El Salvador carpendo a suon di Twitter il consenso dei giovani, stragrande maggioranza, e si è fatto sovrano assoluto col proposito di distruggere il sistema rappresentativo. Ancora una piattaforma usata come arma su persone prive della capacità di sviluppare risorse cognitive proprie, forse inconsapevoli, “opinioni pubbliche fragili, incapaci di formulare autonomamente un pensiero critico, di riconoscere cause ed effetti di un disastro sociale” sotto la spinta di opinion maker incontrollabilmente veritieri, come dice Mario Banti in “La democrazia dei followers”.

E qui da noi? In questo senso gridiamo il nostro allarme contro la stupidità crescente.

C’è rimedio? Forse nel recuperare l’utopia platonica: il linguaggio parlato come piattaforma per il dialogo. Forse l’horror che alle persone dotate di un sistema cognitivo funzionante suscita la sua negazione col ping pong dei like sui social, proprio dai social potrebbe venir sconfitto.

È dallo scorso gennaio che funziona Club House, un social network ancora piuttosto esclusivo, dove si può letteralmente conversare sui temi più disparati. Ne riparleremo, ma forse questa è la via per uscire da quella che porta alla stupidità, e, chissà, forse per tornare al trionfo dell’illuminismo anche nel pensiero scritto.

(Roberto Settembre, magistrato dal 1979 al 2012, ha redatto la sentenza di appello sui fatti del G8 di Genova a Bolzaneto, a riposo come presidente di sezione di Cassazione.)

 

 

 

 

Internet e democrazia: come sta

 cambiando il dibattito pubblico.

Webmagazine.unitn.it- Giulia Castelli-(5 aprile 2019)- ci dice:

(Facebook LinkedIn Twitter) .

(Giulia Castelli laureata in Giurisprudenza UniTrento, collabora con l’Ufficio Web, social media e produzione video dell'Ateneo.)

Intervista a Gabriele Giacomini, autore del libro "Potere digitale" e ospite dell’Ateneo.

Il rapporto tra media e politica si è trasformato nel corso degli anni in modo sorprendente. Trasformazioni scandite dall’evoluzione tecnologica e dalla nascita di nuovi mezzi di comunicazione: la televisione negli anni Settanta; Internet e il web 2.0  nel 2019. I mezzi di comunicazione tradizionali dei decenni passati sono emersi come intermediari tra il mondo della politica e i cittadini. Internet ha messo in discussione questo ruolo, ridisegnando il rapporto tra i mezzi digitali di informazione e la democrazia liberale. Il dibattito scientifico sul tema è molto vivace, plurale e in continua evoluzione. A riguardo abbiamo  fatto qualche domanda a Gabriele Giacomini, ricercatore dell’Università di Udine e della Fondazione Bassetti di Milano. Giacomini è stato ospite del nostro Ateneo nel mese di marzo per un incontro su questi temi organizzato a Sociologia dal Research Group on Collective Action, Change and Transition (CoACT) e moderato da Giuseppe Veltri.

Dottor Giacomini, gli intermediari tradizionali –  ad esempio  partiti e giornalisti – sono ancora protagonisti del dibattito pubblico? In che modo Internet ha rivoluzionato la sfera pubblica e il loro ruolo?

Certamente sono ancora i protagonisti. Internet si sta diffondendo sempre di più, ma non dobbiamo dimenticare che, ad esempio, la maggioranza degli italiani si informa di politica ancora attraverso la televisione, un mass media che si potrebbe definire “tradizionale”, abitato da giornalisti professionisti. I partiti hanno un importante ruolo istituzionale, nell’ambito del sistema politico, ma sono rilevanti anche per informare il dibattito pubblico: realizzano manifestazioni, dimostrazioni, banchetti, petizioni. Propongono leggi e in questo modo portano l’attenzione su alcuni temi piuttosto che su altri. Internet è la grande novità, sta cambiando progressivamente le nostre vite, ma non bisogna correre l’errore di giungere a conclusioni affrettate.

Negli anni Novanta prevaleva l’utopia di un cyberspazio incontaminato, un luogo privo di interessi economici e centri di potere, dove l’informazione era libera da qualsiasi tipo di ingerenza esterna. Come è cambiato il web e il mondo dell’informazione in questi anni e cosa intende quando nel suo libro parla di “neo-intermediazione”?

Recentemente si è affermato il concetto di “disintermedizione”: significa che gli intermediari tradizionali, con la diffusione di Internet, vanno in crisi. Non prenoto più il viaggio nelle agenzie (intermediari tradizionali), ma direttamente online. Non faccio le operazioni bancarie dallo sportellista (intermediario tradizionale) ma con l’home banking. Anche la figura del giornalista è sicuramente in crisi. Le copie dei giornali cartacei sono in calo da molti anni, ad esempio, e questo è un dato di fatto. In questo senso si è verificata una parziale disintermediazione anche se, come abbiamo già precisato, la figura del giornalista rimane centrale ed è ancora lontana dall’essere completamente superata. Ma il punto centrale è che nella sfera pubblica non ci sono solo vecchi intermediari che sono in crisi, ma anche nuovi intermediari che stanno emergendo. Google, Facebook, Twitter, ad esempio, non selezionano e non pesano le informazioni in redazione, ma attraverso algoritmi: è la “neo-intermediazione”. Se oltre alla “disintermediazione” non vediamo anche la “neo-intermediazione” rimaniamo cechi di fronte ai nuovi centri di potere informativo e non solo.

Da una parte, Internet ha moltiplicato il numero di fonti informative a cui i cittadini hanno accesso. Dall’altra, gli algoritmi fanno in modo che gli utenti siano profilati e quindi esposti  solo alle informazioni  che gradiscono. A quali conseguenze può portare un “ecosistema” informativo di questo tipo per il pluralismo democratico?

Ci sono sempre più voci su Internet, il che è molto positivo, ma sembra che la distanza fra queste voci aumenti. Simbolo di questa distanza sono le echo chambers, le camere dell’eco:

Internet personalizza l’esperienza informativa e quindi tende ad offrirci ciò che già gradiamo, quello con cui siamo già consonanti (è l’obiettivo soprattutto della piattaforme commerciali, che desiderano offrire all’utente una navigazione il più possibile piacevole). Detto in altri termini, se il pluralismo in termini quantitativi cresce, quello in termini qualitativi (come concordia discors, come confronto il più possibile costruttivo con l’altro) potrebbe diminuire.

È quel fenomeno che in “Potere digitale” (Meltemi edizioni) ho chiamato “paradosso del pluralismo”. Il rischio è l’incastellamento della sfera pubblica, e la diminuzione di “incontri casuali”, di esposizione con chi la pensa diversamente. Ma una certa attitudine al confronto con l’altro è un aspetto importante della democrazia, come spiegava bene John Stuart Mill. Ma le conseguenze possono essere più generali: parafrasando Popper, se ho una idea, per corroborarla non devo cercare notizie o informazioni che la confermano, ma che la falsificano, che la mettono in discussione. Il rischio è che l’architettura delle piattaforme inibisca ciò, anche se ovviamente non si tratta di un destino e la dieta mediale dei cittadini è varia.

In base ai suoi studi, pensa che la democrazia rappresentativa abbia un futuro o sarà superata grazie all’utilizzo dei nuovi strumenti tecnologici?

Per molte ragioni credo che la democrazia rappresentativa non verrà sostituita da una democrazia diretta, che secondo alcuni potrebbe realizzarsi grazie alle ICT. Razionalità limitata e specializzazione della società, ad esempio, non renderanno possibile l’avvento di un “cittadino totale”, capace di occuparsi in maniera continua e non intermittente delle questioni politiche. È più probabile, invece, che avremo una modifica della democrazia rappresentativa. Ma non sappiamo se il cambiamento sarà più in una direzione “verticistica-elitista”, in una “orizzontalistica-popolare” oppure in entrambe al tempo stesso.

Quello della comunicazione è il più

grave problema della nostra democrazia.

Ilfattoquotidiano.it-Redazione-(8 luglio 2021)- ci dice:

È stato approvato a larga maggioranza un documento dall’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa del senatore piddino Roberto Rampi, in cui per la prima volta si cerca di superare la vaghezza delle belle parole e di indicare delle soluzioni concrete.

Si parla molto dei media. Lo scopo è quello di far promuovere il diritto alla conoscenza a diritto umano. A me di sinistra liberale indica il sentiero Luigi Einaudi col suo “conoscere per deliberare”, a me europeo indica il sentiero Dante col suo invito a “seguir vertute e conoscenza”. Voi direte, tutto scontato, ma è cosi? O ci stiamo prendendo in giro reciprocamente facendo finta che le nostre democrazie siano davvero tali, facendo finta che i mezzi di comunicazione siano davvero liberi?

Mi pare che siamo tornati all’ipocrisia dello Statuto albertino che, nel suo testo preparatorio, affermava che “la stampa è libera ma sottomessa a leggi repressive”. Non sorridete. Noi potremmo dire: la stampa è libera ma sottomessa a regole che nessuno fa rispettare, al crollo della professionalità, alla pubblicità occulta, al terribile conformismo della concentrazione editoriale, alla precarietà che rende schiavi, alla ignoranza che è l’esatto opposto della conoscenza.

Il cumulo degli strumenti informativi è impressionante. Però, se ciascuno dei segmenti di questo cumulo è inquinato, perché non libero davvero, il Tutto si tramuta in un incubo di conformismo e di illibertà. L’opinione pubblica viene blandita come dominatrice e onnipotente, ma in effetti è manipolata, eterodiretta, svigorita. Gli strumenti del comunicare sono inesorabilmente e progressivamente concentrati. Dappertutto regnano, se non il monopolio, l’oligopolio e strutture elefantiache, costosissime, irraggiungibili dalle minoranze ideologiche.

Alcuni decenni fa è stato scritto un grosso volume, di Serge Tchakhotine, ormai un classico: il suo messaggio è ben riassunto dal titolo: Le viol des foules par la propagande politique, un libro che rende bene ciò che è avvenuto nel XX secolo.

Qual è la differenza tra quei tempi e l’oggi? Che allora quello stupro era violento e visibile. E certo la massa soccombeva. Oggi tutto è più subdolo. Il lettore, lo spettatore e l’ascoltatore, che appaiono ovunque protagonisti, in realtà sono ridotti a oggetti inconsapevoli. Non sono titolari di alcun diritto. I risultati della conquistata libertà d’impresa mediatica sono deprimenti. Il lettore-consumatore si difende come può e arretra: abbandona progressivamente gli strumenti più “difficili” e soggiace a quelli più “facili”. Va sempre meno in edicola ad acquistare i quotidiani e giace di fronte alla tv e al pc. Ma chi oggi riflette su questi problemi proponendo delle soluzioni? (…)

Prima questione: la pubblicità inquinata. Questa truffa si è data anche una “filosofia” e viene teorizzata. Il concetto di “pubblicità nativa” nata negli Stati Uniti mira proprio a superare il vecchio concetto di pubblicità e a confondersi totalmente, anche nella forma e nella scrittura, con i contenuti redazionali, affinché il lettore non riesca ad accorgersi dell’inquinamento. È pubblicità che si camuffa da giornalismo.

Ormai il giornalista è un mestiere per pochi fortunati: quali proposte per uscire dal pantano?

La “pubblicità nativa”, ovvero truffaldina, inonda tutti i quotidiani di carta stampata violando codici deontologici sia giornalistici sia pubblicitari, nonché l’art. 44 dello stesso contratto nazionale giornalistico. Però, a mio avviso, la pubblicità nativa è addirittura meno grave del silenzio-assenso del sindacato dei giornalisti che avrebbe tutti i mezzi per stroncarla, ma è da tempo silente, inerte, addirittura complice in questa e in altre prestazioni di distruzione del giornalismo nostrano.

Seconda questione: i diritti dei lettori. Nessuno mai ha pensato di garantire i diritti dei lettori. Eppure i lettori sono consumatori di una merce ben più delicata di altre, perché condiziona la salute mentale e democratica. I primi passi per una battaglia di libertà: Appello per la libertà d’informazione. Le prime battaglie per i diritti dei lettori e contro la pubblicità ingannevole.

L’informazione in Italia è in stato comatoso. I vertici dei Gruppi editoriali si aumentano i propri compensi e tagliano il costo del lavoro. Nessuna sorpresa. Gli editori sfrutteranno l’asino fino alla sua morte. Così l’informazione è assediata da precariato, concentrazioni proprietarie, distruzione della professionalità, invasione della pubblicità occulta. Il risultato palese è la triade: faziosità & volgarità & ignoranza. La sua funzione è ridotta o all’adulazione degli “amici” o al manganellamento dei “nemici”. I giornali servono a tutto meno che a informare correttamente. Hanno rinunciato alla loro funzione di mezzi di informazione e sono finiti a farsi strumento quasi esclusivo di lotta politica o di interessi economici e commerciali che nulla hanno a che vedere con la loro funzione originaria.

Si salvano in pochi. I lettori non hanno alcun diritto. Le proprietà non hanno alcuna trasparenza. I giornalisti, soprattutto quelli più giovani, ricattati con salari da fame, sono ridotti dalla instabilità del lavoro a servili esecutori. La televisione pubblica è regolata, con soddisfazione di tutti i partiti, dall’autoritaria riforma Renzi.

L’Italia aveva un diritto del lavoro avanzato, ora ha una massa di lavoratori sfruttati.

 

Quello della comunicazione è oggi il più grave problema che affligge la nostra democrazia. Occorre reagire: è inutile piangersi addosso. Lo sappiamo che il problema è complesso e che le forze politiche mostrano di non accorgersi che esiste una emergenza che mina addirittura il sistema delle libertà. Dobbiamo servirci di ogni mezzo democratico: esistono regole e leggi dimenticate o accantonate. Riprendiamole in mano e riattiviamole. Occorre chiedere la loro piena applicazione.

Il primo passo, per noi, è il ripristino della concorrenza leale e il rispetto della deontologia giornalistica. Ormai la “pubblicità nativa”, ovvero quella ingannevole che nasconde al lettore il messaggio pubblicitario e lo truffa, sta dilagando su tutta la stampa nazionale. Uno dei suoi scopi è di assuefare i lettori, accrescere l’indifferenza e la ricettività. Affinché finalmente siano sanzionate, sono state denunciate agli organi competenti, finora inerti, le violazioni particolarmente clamorose e costanti dei codici deontologici e del “Contratto di lavoro” da parte del Corriere della Sera. Ci aspettiamo che questi facciano il loro dovere. Ma queste pratiche scorrette sono usuali anche in altri Gruppi editoriali. Bisogna riattivare strumenti esistenti e applicabili a quasi tutti i mezzi di informazione.

 

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