Quale futuro per il mondo?

 

Quale futuro per il mondo?

 

 

 

Distruggere il Futuro dell’Italia?

Ci Stiamo Riuscendo Benissimo!

Conoscenzealconfine.it – (25 Novembre 2024) - Zela Satti – ci dice:

 

Come distruggere il futuro di un paese: il nostro!

Ad oltre due anni e mezzo dall’inizio del nuovo conflitto in Ucraina, l’Italia continua a subire passivamente decisioni prese altrove, con un unico risultato: stiamo lavorando per distruggere il futuro del paese.

Le guerre non si limitano a essere conflitti armati: sono strumenti per ridisegnare equilibri di potere.

 Questo ridisegno non riguarda solo la sfera militare, ma soprattutto quella politico-economica.

 

Gli scontri sul campo di battaglia rappresentano, in fondo, la manifestazione più visibile di un gioco più ampio, dove gli attori principali – Stati Uniti, Russia, Cina, Unione Europea, ma anche Israele e India – si confrontano per ridefinire il controllo delle risorse, delle influenze e dei mercati.

La guerra in Ucraina – a oltre due anni e mezzo dalla sua manifestazione più virulenta – sta ricalibrando questi equilibri globali.

 Ogni giorno, gli attori coinvolti giocano la loro partita attraverso una combinazione di propaganda, decisioni economiche e manovre militari.

La tragedia delle vittime civili e dei territori devastati è reale, ma è anche parte di questa dinamica complessiva, in cui la posta in gioco è la riorganizzazione degli assetti economico-politici mondiali.

In questo scenario, ci sono i “vasi di coccio”, tra cui l’Italia, che subiscono passivamente gli effetti di queste scelte globali.

Ma cosa significa concretamente per il nostro paese?

Le conseguenze sono evidenti e rappresentano una seria minaccia per il nostro futuro:

 

1. Un paese sempre più povero.

Questa guerra ci renderà più poveri, e non è un’ipotesi.

 L’inflazione è impennata in questi ultimi 24 mesi mentre i salari sono fermi al palo. Il potere d’acquisto delle classi lavoratrici, dei pensionati e dei giovani precari è in caduta libera.

 È un attacco diretto al nostro tenore di vita.

 

2. I risparmi bruciati dall’inflazione.

 

L’aumento dei prezzi sta erodendo i risparmi degli italiani.

 I fondi messi da parte con sacrificio stanno perdendo valore rapidamente.

Quello che un tempo era un “cuscinetto” economico per far fronte a emergenze o incertezze ora vale sempre meno.

Paradossalmente, coloro che gridavano al pericolo quando presunti populisti minacciavano i risparmi degli italiani, oggi restano in silenzio mentre il governo, seguendo fedelmente i diktat internazionali, contribuisce alla loro distruzione.

3. Il sistema produttivo a rischio.

Il tessuto industriale italiano sta subendo colpi pesanti. L’aumento dei costi dell’energia rende le nostre aziende meno competitive sul mercato internazionale, portando a una perdita di quote di mercato occupate da altre economie. Inoltre, l’Italia ha perso un mercato importante come quello russo, dove esportavamo prodotti chiave come macchinari, vino e moda.

Le espressioni di ostilità del nostro governo verso Mosca hanno reso impossibile un futuro recupero di questo mercato, danneggiando ulteriormente la nostra economia.

 

4. Dipendenza crescente dagli Stati Uniti.

Sebbene si sperasse in un aumento delle esportazioni verso gli Stati Uniti, questa guerra sta consolidando la nostra dipendenza economica e militare da Washington.

L’intera Europa, compresa l’Italia, è stata costretta ad accettare le sanzioni contro la Russia sotto minaccia di ritorsioni economiche americane.

Tuttavia, mentre le sanzioni penalizzano l’economia europea, offrono un vantaggio strategico all’economia statunitense, che ne trae nuovo slancio.

E ora con la presidenza Trump il quadro rischia di degenerare ulteriormente per il Vecchio Continente, sempre più marginale nella visione di Washington.

 

5. Il rallentamento dell’Europa.

La Germania, locomotiva economica dell’Unione Europea, è in crisi profonda, produttiva e politica che crea una miscela pericolosa di inflazione e recessione:

la cosiddetta “tempesta perfetta”.

Quello che frena Berlino, in questo meccanismo europeo, frena anche l’Europa e dunque l’Italia.

 

6. Una UE sempre più militarizzata.

La natura stessa dell’Unione Europea sta cambiando.

 L’aumento vertiginoso delle spese militari e il coinvolgimento diretto delle grandi industrie belliche, come evidenziato dal rapporto ENAAT del 2023, mostrano una trasformazione inquietante.

Il bilancio dell’UE si sta militarizzando, e questo avviene a scapito delle politiche sociali ed economiche, che vengono invece ridimensionate.

 

7. Debito buono o debito cattivo?

C’è un’ipocrisia evidente nelle politiche economiche europee.

Gli stessi funzionari che in passato hanno criticato duramente le spese per il reddito di cittadinanza o le pensioni, non sembrano opporsi all’aumento incontrollato delle spese militari.

Questo viene considerato “debito buono”.

Le vite umane, invece, sembrano avere valore solo in quanto strumentali al profitto e all’accumulazione di capitale.

Stiamo pagando un prezzo altissimo per decisioni che favoriscono altri, mentre i lavoratori e le imprese italiane subiscono le conseguenze più gravi.

 Lo diciamo, lo ripetiamo, lo sanno tutti, ma è come se fossimo su un treno in corsa in cui nessuno ha il coraggio di tirare il freno.

(Zela Satti)

(kulturjam.it/politica-e-attualita/distruggere-il-futuro-dellitalia-ci-stiamo-riuscendo-benissimo/)

 

 

 

 

L’economia di mercato, la globalizzazione

e l’impotenza della politica.

 Inschibboth.org - Elio Matassi – (30-5-2024) – ci dice:

 

​È opinione diffusa che il capitalismo abbia trionfato sul socialismo.

 Ma si tratta di una interpretazione della contemporaneità sostanzialmente fuorviante, perché, in realtà, il trionfo è dovuto in larga misura alla democrazia piuttosto che alla economia di mercato.

 Qualora il capitalismo, trascendendo la politica, diventasse un sistema ‘totalitario’, come di fatto sta avvenendo negli ultimi dieci anni con le ricorrenti crisi finanziario-sistemiche, rischierebbe di crollare a sua volta, in quanto in nessun ciclo della nostra storia recente – eccezion fatta per il periodo degli anni Trenta – le disfunzioni dell’economia provocate dal capitalismo globale sono state tanto gravi quanto lo sono oggi:

disoccupazione crescente, crescita esponenziale dell’illegalità e povertà nei paesi sviluppati, miseria insostenibile in molti paesi in via di sviluppo, incremento delle diseguaglianze di reddito pro capite tra i paesi.

Il capitalismo globale sta di fatto provocando un’alterazione profonda degli equilibri internazionali con effetti devastanti sulla sostanza stessa della democrazia.

È doveroso precisare che ogni sistema economico non può aspirare a rappresentare immediatamente – direttamente il sistema politico;

l’economia di mercato non può esprimere, senza mediazione e controlli, un principio di democrazia e che, pertanto, entro quest’ottica peculiare, possono sussistere solo sistemi ‘spurii’.

Esistono ‘democrazie di mercato’ ma non ‘economie di mercato’.

Si tratta di una differenza rilevante che tiene nel debito conto i due contrapposti poli di riferimento che governano o che dovrebbero governare la totalità sociale.

 

Da un lato, il mercato esprime una vocazione individualistica, dall’altro, la democrazia, costruita sul principio del suffragio universale, esprime quella opposta.

Una contraddizione che era stata percepita fin dalle origini dalla teoria politica della Grecia antica.

Soltanto la ricerca di un equilibrio tra queste due vocazioni contrapposte potrà continuare a far vivere degnamente la democrazia.

Qualsiasi lacerazione di tale equilibrio non può che risultare devastante per la costruzione di un autentico assetto democratico.

All’interno di tale campo di tensione, tuttavia, deve rimanere fermo quale quadro di riferimento valoriale la priorità della democrazia sull’economia di mercato, in altri termini, il principio economico dovrà essere subordinato alla democrazia e non viceversa.

La democrazia non può, infatti, essere considerata alla stregua di un semplice sistema politico, rappresentando anche e soprattutto un sistema di valori, mentre l’economia di mercato è semplicemente uno strumento che può risultare compatibile con essa ma che, estremizzandosi, potrà diventare anche incompatibile, come stanno dimostrando gli eventi degli ultimi anni.

Un tale quadro analitico, per quanto elementare, consente di rimettere in discussione due questioni strettamente interconnesse e molto dibattute nella contemporaneità: l’economia di mercato e la globalizzazione, dove la prima è il motore della seconda.

La storia degli ultimi trent’anni può essere ricostruita in maniera plausibile con una suggestiva allegoria di “Jean – Paul Fitoussi”, politologo ed economista che insegna all’Institute d’”Etudes politiques di Parigi”, di cui presiede il consiglio scientifico:

 “Alla vigilia della globalizzazione, le popolazioni europee si riuniscono in una stanza;

al suo interno si colgono differenze di ricchezza, di reddito e di classi sociali;

ma quali che siano le difficoltà della vita quotidiana, ciascuno è socialmente integrato, ciascuno possiede un impiego e prevede un aumento del proprio reddito lungo il corso della sua esistenza;

 ciascuno, infine, è certo che i propri figli avranno un futuro migliore.

 Nell’arco di una sola notte, ecco la globalizzazione.

 Il giorno dopo, le stesse persone – esattamente le stesse – si ritrovano nella medesima stanza;

 alcune, in un numero esiguo si sono considerevolmente arricchite;

altre, un numero più elevato, hanno guadagnato molta sicurezza, sono più scaltre perché hanno applicato il dogma che i primi hanno loro ordinato di predicare:

 ‘Non ci sono alternative’.

Una parte non trascurabile della classe media ha perduto molto e piange per il proprio avvenire e per i propri figli.

 Una minoranza consistente è disoccupata o ridotta in povertà.

Allora i vincitori dicono ai vinti: ‘Siamo sinceramente desolati della sorte che vi è toccata, ma le leggi della globalizzazione sono spietate, e bisogna che vi adattiate rinunciando alle protezioni che vi restano.

 Se volete che l’economia europea continui a crescere, è necessario che accettiate una precarietà maggiore.

Questo è il contratto sociale del futuro, quello che ci farà ritrovare la strada del dinamismo’”.

L’”allegoria di Fitoussi” rappresenta compiutamente il programma – progetto politico dell’attuale blocco neopopulista, che governa il nostro paese, un programma – progetto inaccettabile proprio sul piano della democrazia stessa.

 Si tratta di un’allegoria molto efficace che fa apparire la globalizzazione per ciò che essa è realmente:

 un alibi, un discorso puramente retorico.

 I vincitori, sapendo che i dadi del destino sono caduti a loro favore, non vogliono più partecipare al sistema di protezione sociale.

Si tratta della stessa situazione in cui l’Europa e il mondo intero sembrano essere caduti in una deriva senza ritorno.

In Italia questi tratti comuni si presentano ancor più radicalizzati:

 il duplice trionfo dell’individualismo è del “mercato privo di regole” finisce con il limitare le ambizioni redistributive della società (la resistenza del contribuente) e quelle interventiste del governo.

La tutela fine a sé stessa del mercato, l’inasprimento degli obblighi imposti ai governi nazionali, la riduzione progressiva delle pretese redistributive dei governi sono tutti aspetti che stanno modificando in profondità ‘il sistema di equità’ delle nostre società mediante il ritorno ad un principio ultraliberista che entra in collisione con la stessa democrazia, indebolendone struttura e finalità.

Il processo di globalizzazione, concepito nella sua irreversibilità priva di regole, rovescia quel principio di equità su cui era stata finora fondata la democrazia:

 prima, la democrazia e, solo in secondo luogo, il mercato;

 in questo caso vi è un autentico rovesciamento prospettico che accresce il ruolo del mercato, svilendo quello della democrazia, un fenomeno che attraversa ormai in profondità l’Europa e che coinvolge in maniera particolare la situazione del nostro paese, un fenomeno che ricade sotto la formula, ‘impotenza della politica’, descrivendo compiutamente in tutta la sua regressività la presunta stagione politica del blocco neopopulista.

 Il mutamento radicale del principio di equità non deriva, infatti, da una decisione politica ma da una costrizione esterna imposta alla democrazia in nome di un’efficacia solo presunta.

 In tal modo l’attuale blocco neopopulista, oggi al potere, rovescia il principio – sistema di equità, collocando al primo posto il mercato e solo, al secondo, la democrazia.

 Sembra ormai scontata l’equazione:

se la globalizzazione genera vincitori e vinti, non si ha altra scelta se non quella di premiare i vincitori con un ulteriore sovrappiù, un premio supplementare che i perdenti devono loro.

Il che dimostra in maniera inequivoca come la globalizzazione, interpretata quale principio trascendentale di organizzazione, entri in rotta di collisione con il fondamento stesso della democrazia.

Questa diagnosi cerca di entrare nel merito di quello che sta accadendo nel nostro sistema economico e delle risposte o, meglio, non – risposte che l’attuale blocco neopopulista sta proponendo.

La distruzione ormai sistematica con cui si sta legiferando contro il pubblico: università, scuola, magistratura è ormai giunta ad un punto di non ritorno; di contro, il crescente tasso di evasione fiscale che pesa sul nostro paese e che si aggrava giorno dopo giorno in maniera esponenziale, lungi dall’essere colpito e ridimensionato, viene addirittura incoraggiato.

La politica economica del blocco neopopulista, per arrestare questa emorragia e creare nuovo dinamismo, ha scelto come soluzione quella di abbassare le imposte pagate sui redditi elevati, rafforzando ulteriormente le diseguaglianze e distruggendo in maniera definitiva l’idea stessa della democrazia.

È indispensabile rimuovere il discorso retorico di legittimazione di un capitalismo liberista e dominante che considera democrazia e politica come ostacoli per lo sviluppo, in netta contrapposizione con i fatti.

Quest’ideologia, più mercantilistica che non globale, ha ormai pervaso nel profondo le linee – guida dell’azione politica nostrana.

Il blocco neopopulista, al cui interno cominciano a verificarsi le prime crepe, sta di fatto minando progressivamente la democrazia;

stiamo entrando progressivamente in una forma di democrazia sempre più autoritaria o, meglio ancora, come suggerisce qualcuno, in una fase caratterizzabile dalla formula, tutt’altro che paradossale,  ‘democrazia senza democrazia’.

Fanno pertanto sorridere dichiarazioni come quelle argomentate da Francis Fukuyama “sulla democrazia liberale:

“la democrazia liberale potrebbe, a lungo andare, venire sovvertita internamente sia da un eccesso di “megalotimia” che da un eccesso di “isotimia”, cioè dal desiderio fanatico di un riconoscimento paritario.

A mio parere sarà la prima che alla fine costituirà la maggiore minaccia per la democrazia.

Una civiltà che indulge ad un’isotimia sfrenata, che cerca fanaticamente di eliminare ogni manifestazione di riconoscimento ineguale, si troverà ben presto a fare i conti con i limiti imposti dalla natura stessa”.

 L’esaltazione conseguente dell’attività imprenditoriale, “una forma regolata e sublimata di megalotimia”, in quanto spinge un produttore a far meglio dei suoi rivali – competitori, contestualizzata in un ambito psicologico – individuale non riesce a restituire quello che sta accadendo realmente nella contemporaneità;

si tratta di un’analisi, molto ‘datata’ che non approfondisce il versante del super -capitalismo finanziario, della sua onnipotenza, della sua capacità onnivora di impadronirsi dei mercati e di snaturarne il normale svolgimento.

Quando” F. Fukuyama” afferma, “Il fatto che le nature più dotate ambiziose tendano a darsi agli affari anziché alla vita politica e alle carriere militari, universitarie o ecclesiastica fa parte del progetto stesso dei paesi capitalistici democratici come gli Stati Uniti”, non riesce a rendersi conto che è venuto il momento di una pausa di riflessione e che il progetto di un’attività imprenditoriale fine a se stessa, incontrollata, è un progetto che può condurre, come di fatto sta avvenendo dinnanzi ai nostri occhi, non allo sviluppo ma alla “graduale consunzione della democrazia”.   

 

 

 

Che fine ha fatto la rivoluzione?

Balcanicaucaso.org – (5-9-2024) - Vesna Janković - H-Alter - Boris Buden – ci dice:

 

“L’idea di rivoluzione implica una concezione diversa della democrazia”.

Boris Buden, scrittore, traduttore e attivista, parla a tutto tondo di rivoluzione, resistenza, stato della democrazia, guerra e migrazioni nel "cosiddetto Occidente."

 

Nell’ambito della 17° edizione del “Subversive festival,” tenutasi di a luglio a Zagabria, lei ha tenuto conferenza   dal titolo “Nel vicolo cieco della critica disarmata: Come abbiamo respinto l’idea di rivoluzione?”.

Nel frattempo, si sono svolte le elezioni europee, da cui l’estrema destra, come atteso, è uscita rafforzata.

 Assistiamo ad un’escalation della guerra in Ucraina e del conflitto israelo-palestinese, i cambiamenti climatici si stanno intensificando, e la sinistra europea sembra smarrita.

In questo contesto, come possiamo anche solo concepire la rivoluzione?

Non sono un politico e non guido un partito rivoluzionario, quindi la domanda che mi pongo è:

perché abbiamo rinunciato all’idea di una svolta radicale e immediata in un momento, come quello attuale, in cui i conflitti si stanno intensificando e lo spettro di una catastrofe nucleare incombe sull’umanità, minacciando di distruggerla in un batter d’occhio?

Un momento in cui siamo anche alle prese con il riscaldamento globale, tanto che la maggior parte degli scienziati climatici, anziché un aumento della temperatura globale di 1,5°C rispetto ai livelli preindustriali – come concordato a Parigi nel 2015 – prevede un aumento di 2,5°C, se non addirittura di 3°C.

Se queste previsioni si dovessero avverare, la vita sulla terra cambierebbe drasticamente.

(Queste previsioni sono prive di controprova scientifica. Tutto si basa su false informazioni fasulle “accettate” da un mondo di finti scienziati del clima! N.D.R)

Non penso solo al caldo, ma soprattutto al fatto che due miliardi di persone saranno costrette a lasciare la cosiddetta nicchia climatica dell’uomo, cioè l’area in cui si è sviluppata la civiltà umana negli ultimi diecimila anni.

Quindi, parliamo di migrazioni di massa, fame, conflitti politici, guerre per le risorse naturali…

È evidente che stiamo sprofondando nell’abisso e nessuno ha idea di come evitare il disastro.

Si discute invece di come vincere in Ucraina, anche se nessuno ha una risposta a questo interrogativo.

Perché abbiamo smesso di pensare la rivoluzione?

Nel corso della conferenza ho esposto una serie di ragioni per cui l’idea di rivoluzione è stata estirpata dalle nostre menti.

Non è semplicemente scomparsa, è stata cancellata da una politica radicale e controrivoluzionaria che viene portata avanti da molto tempo ormai, sin dalla Rivoluzione d'ottobre.

 L'interesse che muove questa politica, attuata in modo sistematico, è la sopravvivenza dei rapporti capitalistici, o meglio la sopravvivenza del capitalismo ad ogni costo, anche rischiando di distruggere non solo l’ambiente, ma l’intera umanità.

L'idea di rivoluzione implica anche una concezione diversa della democrazia che vada oltre il concetto di liberaldemocrazia dei partiti, trascendendo tutte quelle categorie che stanno crollando davanti ai nostri occhi, compresa la distinzione – caratteristica della realpolitik – tra sinistra e destra.

La guerra in Ucraina ne è un chiaro esempio.

 Oggi la destra marcia sotto la bandiera della pace e la sinistra incita alla guerra.

La situazione è caotica, ma non per questo dobbiamo seguire la destra per raggiungere la pace, né tanto meno dobbiamo seguire la sinistra per vincere la guerra.

 Si tratta di comprendere che l’attuale sistema di democrazia capitalista – con i suoi partiti di sinistra, centristi e di destra – non è capace di fermare la guerra né di creare i presupposti per una pace duratura, anche solo limitandosi a seguire l’ideale della pace perpetua di Kant.

La questione guerra o pace è strettamente legata al nostro rapporto con la natura.

Per salvare l’umanità non basta iniziare a rispettare la natura se, al contempo, continuiamo a fare le guerre tra di noi.

Oggi più che mai è chiaro che queste dinamiche sono interconnesse.

Pur trovandoci di fronte a sfide enormi – si tratta letteralmente della sopravvivenza dell’umanità – abbiamo nullificato le nostre capacità cognitive e immaginative.

La nostra immaginazione politica e sociale è del tutto impotente di fronte alla scelta tra una sinistra che porta alla guerra fino all’ultimo uomo e una destra che porta ad una pace che equivale al perpetuarsi della distruzione capitalistica dell’ambiente e della società e a ulteriori violenze nazionaliste, scioviniste e razziste contro gli “altri”.

Supponendo che spetti alla sinistra avviare una svolta radicale, come commenta il fatto – sottolineato da molti analisti – che la destra è riuscita a intercettare meglio i bisogni di quelle classi sociali che un tempo costituivano il nocciolo duro dell’elettorato di sinistra?

Quelli che erano gli ideali tradizionali di sinistra – giustizia sociale, solidarietà, pace, contestazione della guerra capitalista – oggi, assumendo una forma distorta, appaiono come il risveglio del soppresso nelle politiche di destra attraverso un nazionalismo, ossia un razzismo sempre più palese non solo a livello degli stati nazionali, ma anche sotto forma di sovranità post-nazionale, come in quel blocco identitario e normativo che chiamiamo Occidente.

L’Occidente è un concetto razzista che permette non solo la riproduzione sovranazionale dei rapporti di egemonia e di dominio, ma anche la guerra per le risorse e una gestione violenta delle conseguenze catastrofiche della globalizzazione capitalista, conseguenze che si palesano, ad esempio, nel fenomeno migratorio.

Vediamo che in Germania l’AfD e i partiti centristi – CDU e CSU – concordano sullo smantellamento dello stato sociale e la sua trasformazione in quella che viene chiamata “società fredda”, sforzandosi, insieme ai liberali, di portare a termine il progetto della deregolamentazione neoliberista di ogni aspetto della vita.

La destra non è monolitica, ha molteplici progetti, però se oggi vive un’ascesa senza precedenti è grazie alla sinistra e alla sua decisione di rinunciare all’idea di una svolta e una critica radicale al capitalismo.

Quindi, una rivoluzione, per avere successo, deve essere globale?

Esatto, solo che oggi la dimensione globale è immersa nella fascinazione per la geopolitica e per i blocchi identitari e normativi.

 Non mi riferisco solo all’Occidente.

C’è anche il cosiddetto “mondo russo”, visto come una sorta di alleanza, altrettanto monolitica, dei cosiddetti paesi antioccidentali, poi la Cina, l'Iran, ecc.

 L’idea è quella di un mondo multipolare che dovrebbe essere più giusto e più eguale.

 Nessuno però mette in discussione il carattere capitalista di questo mondo multipolare.

Forse per questo la sinistra anticapitalista è totalmente estranea ai conflitti attuali.

 Sembra che il suo vecchio progetto di internazionalismo non sia traducibile nel linguaggio della geopolitica contemporanea, cioè della globalizzazione capitalista – unipolare, bipolare o multipolare che sia.

 

D’altra parte, la sinistra mainstream, i verdi e i socialdemocratici stanno ancora cercando di cavalcare l’onda guerrafondaia dell’Occidente capitalista e liberale, pretendendo di difendere la democrazia dalle cosiddette “autocrazie” antioccidentali.

 Questa sinistra si è schierata a fianco dei suoi leader, “Biden” e “Netanyahu”, ed è pronta a seguirli fino all’Armageddon nucleare.

Per la sinistra mainstream è più facile innescare una terza guerra mondiale che proporre un’idea politica per porre fine ai conflitti che infuriano in Ucraina e Palestina.

Se oggi è chiaro che il progetto di due stati separati, uno palestinese e l’altro ebraico, non potrà mai essere realizzato, allora qual è l'alternativa?

 La guerra fino alla distruzione di una delle due identità contrapposte?

 Il genocidio contro l’una o l’altra parte coinvolta è davvero l’unica soluzione? Sembra di sì.

Per questo il cosiddetto Occidente, compresa la sua sinistra mainstream, avendo accettato il genocidio come soluzione, sostiene la parte più forte affinché lo faccia il prima possibile.

Lo stesso vale per l’Ucraina.

L’Occidente è pronto a difendere, fino all’ultimo ucraino, un ordine fondato sul diritto internazionale, cioè sull’idea di sovranità degli stati nazione, pur avendo in passato calpestato quell’idea ogni volta che se ne presentasse l’occasione, ignorando il diritto internazionale e distruggendo l'ordine su di esso fondato.

 Come possiamo fidarci di chi afferma che l’Occidente vuole difendere i confini esistenti in Europa se quello stesso Occidente ha più volte ridisegnato i confini?

Se è vero che Putin e la sua cricca nazionalista e imperialista altro non sono che una banda criminale, che ha iniziato questa guerra assurda, è anche vero che non hanno fatto nulla che l’Occidente non abbia fatto prima.

Non vi è alcuna differenza sostanziale tra quello che accade oggi in Ucraina e in Palestina e quello che è accaduto in Iraq, Afghanistan e Siria.

Sono tutte guerre di demarcazione definitiva tra i blocchi capitalisti, dove questi ultimi stabiliscono i propri confini come luoghi di caos, illegalità, devastazione economica, politica e morale, teatro di crimini e genocidi di cui nessuno sarà chiamato a rispondere.

Da anni ormai assistiamo ad una simile guerra di demarcazione anche ai confini della Croazia, dove la destra croata ora vuole schierare l’esercito per fermare i migranti.

Come incidono le dinamiche globali sulla situazione nella nostra regione?

Quella che noi chiamiamo regione altro non è che un groviglio di confini, uno spazio tagliato in due da Schengen, cioè dalla frontiera tra l’UE e il resto del mondo, poi ulteriormente diviso dai confini tra gli stati apparentemente sovrani, e infine dai confini etnici, religiosi, linguistici e altri ancora.

In questo caso non ha senso parlare di stati sovrani.

Tutti i paesi della regione post-jugoslava sono relegati ad una posizione di dipendenza neofeudale da istanze di potere superiore, sia che di tratti di Bruxelles, membri potenti dell’UE (come la Germania), NATO, Stati Uniti o quello che viene definito Occidente, anche se nessuno sa realmente cosa sia.

Nessuno dei paesi della regione è economicamente indipendente. Può forse esserci democrazia senza indipendenza?

 Parliamo di una realtà che non è fondata su alcun ordine, bensì sul disordine e sul caos.

 Abbiamo due stati (e mezzo) albanesi con uno status indefinito.

 C’è l’ultimo rimasuglio della Macedonia, la cui sopravvivenza viene messa in discussione da tutte le parti.

C’è poi la Serbia che vuole compensare la perdita di una sua regione dividendo un paese vicino e appropriandosi di una delle sue parti.

La Bosnia Erzegovina può avere un futuro in mezzo a tutto questo caos?

Non credo.

 

Parliamo di un insieme di paesi in cui, come ho accennato prima, non vige alcun ordine, bensì un regime che io chiamo “Pax Americana”, non solo perché tutte le frontiere e le relazioni tra i popoli della regione sono state concordate negli Stati Uniti, ma anche perché questo caos ricorda la situazione in Libia, Siria, Iraq e Ucraina, paesi che non possono più essere considerati stati-nazione funzionali.

Queste nazioni non sono state “liberate” per permettere loro di essere sovrane, bensì per un motivo diametralmente opposto, ossia per relegarle ad una posizione subordinata nei rapporti neofeudali di dominio globale.

Questo non è un ordine fondato sul diritto internazionale, è un bilanciamento tra paura e potere in uno stato di violenza, temporaneamente sospesa, che potrebbe esplodere nuovamente in qualsiasi momento.

Secondo una delle interpretazioni che circolano, le guerre attualmente in corso sarebbero frutto del desiderio degli Stati Uniti di mantenere l’egemonia, ormai vacillante, a livello globale…

Magari si trattasse di quella logica ciclica relativa alla nascita, l’ascesa e la caduta dei grandi imperi, come quello romano.

 Purtroppo, viviamo sotto la minaccia di una guerra nucleare.

Non si tratta del crollo di un impero che verrà soppiantato da un altro.

 Quanto sta accadendo potrebbe rivelarsi “la soluzione finale” per tutti noi.

Quanto all’egemonia statunitense,” Immanuel Wallerstein” fa risalire l’inizio del declino agli anni Settanta del secolo scorso.

Gli USA sono stati l’unica potenza egemone solo nel periodo tra il 1945 e il 1970.

A differenza di quanto credono in molti, il crollo dell’Unione sovietica e dell’intero blocco orientale non ha portato al ripristino dell’egemonia degli Stati Uniti che non solo sono stati colti impreparati dal crollo del comunismo, ma nemmeno lo auspicavano.

Secondo “Wallerstein”, la fine dell’Urss non ha fatto che indebolire ulteriormente gli Stati Uniti, rafforzando il multipolarismo.

Questo processo ha subito una forte accelerazione dopo il 2001 e il fallito intervento militare di Bush in Iraq.

In fin dei conti, gli USA sono una potenza militare che continua a perdere le guerre, lasciando dietro di sé il caos.

 Il Vietnam se l’è cavata anche bene, ma come hanno ridotto l’Afghanistan e l’Iraq?

Che fine farà l’Ucraina, che ha già subito danni irrimediabili?

Questo non giustifica affatto Putin e la Russia, tutt’altro!

Putin ha imparato fin troppo bene dall’esempio dell’Occidente, questo è l’aspetto più preoccupante.

Tutto quello che la Russia di Putin ha fatto in Ucraina, il cosiddetto Occidente lo ha già fatto prima:

 interventi militari che violano il diritto internazionale, calpestano la sovranità e l’integrità territoriale di altri stati, occupazioni illegittime, modifiche dei confini in Europa e non solo, distruggendo interi paesi e l’ordine esistente basato sul diritto internazionale.

 E quando non li compie direttamente, l’Occidente sostiene apertamente crimini di guerra, crimini contro l’umanità, e persino potenziali genocidi.

 

In questo contesto, qual è la posizione della “Corte internazionale di giustizia” e del” Tribunale penale internazionale”, organismi che dovrebbero garantire la giustizia internazionale?

 

Quando la Corte penale internazionale ha emesso un mandato d’arresto contro Vladimir Putin, accusato di aver deportato bambini ucraini in Russia, Gordon Brown, ex primo ministro britannico e membro del Partito laburista, ha accolto con favore la decisione della Corte, definendola un grande passo in avanti nella giustizia internazionale, elogiando il Sudafrica per non aver invitato Putin ad un incontro dei BRICS a Johannesburg.

Perché oggi Brown non scrive qualcosa su Netanyahu?

Solo a Gaza gli israeliani hanno ucciso quasi quattordicimila bambini e il Sudafrica ha denunciato Israele per genocidio.

 Oggi Gordon Brown e l’intero Occidente tacciono.

 Perché l’ex premier britannico non scrive qualcosa su Biden che introduce, o minaccia sanzioni contro la Corte internazionale di giustizia e il Tribunale penale internazionale dell’Aja?

Gli Stati Uniti, come il resto dell’Occidente, in linea di massima sono “impunibili” davanti ai tribunali internazionali.

Se non c’è uguaglianza davanti ai tribunali, non può esserci nemmeno giustizia. Come ci possiamo aspettare che la giustizia internazionale sia fatta da quelli che si pongono al di sopra delle sue leggi e puniscono le sue istituzioni?

La Russia di Putin, invece di contrastarla, sfrutta questa devastante logica dell’ingiustizia per realizzare i propri interessi imperialisti.

 “Se loro possono distruggere e uccidere impunemente, lo possiamo fare anche noi”.

Non vi è nulla di difensivo nell’invasione russa dell’Ucraina, né tanto meno si può parlare di principi nel senso della difesa dell’ideale di un ordine mondiale più giusto e multipolare.

 Si tratta si mera distruzione, esteriore e interiore.

Oggi più che mai emerge l’ipocrisia dell’Occidente, in un momento in cui le democrazie occidentali sono travolte dalla censura, accompagnata da una recrudescenza del razzismo, non solo a destra.

Mi viene in mente l’affermazione del socialista Josep Borrell sull’idilliaco giardino europeo, circondato da una giungla.

 Allo stesso tempo, i punti di vista del Sud globale – che si differenziano in modo significativo dalle posizioni europee e americane – sono assenti dai media.

 Lei come commenta questa situazione?

Il senso dell’importanza dell’Europa – che negli anni ‘90 era talmente forte che sembrava che l’Europa fosse la soluzione a tutti i nostri problemi – è completamente svanito.

 Le nostre élite liberali sono le uniche a invocare ancora uno “stato normale e ordinato” che secondo loro già esiste da qualche parte in Europa e in Occidente, ad esempio in Germania.

Al contempo, queste élite insistono sulla cosiddetta “differenza di civiltà”, ossia sulla distinzione tra noi, persone civili, e i barbari, tra un’élite destinata a governare e quelli che non sono capaci né meritano di governare nemmeno se stessi.

L'idea di transizione post-comunista, ossia di allargamento dell’UE ad est, segue fedelmente il paradigma di quella “differenza di civiltà”, anziché il principio di solidarietà e uguaglianza.

 L’altra faccia di questo processo è la cosiddetta accumulazione originaria del capitale, ovvero l’espropriazione e la privatizzazione dei beni statali o – come nel caso dell’ex Jugoslavia – dei beni comuni.

Dal punto di vista politico, assistiamo al processo di instaurazione di rapporti neofeudali, intesi come forma di sovranità post-nazionale, dove tutto il potere è concentrato nelle mani delle élite burocratiche del centro, strategicamente posizionate all’interno delle istituzioni, reali o fittizie, di potere globale, da Bruxelles al Pentagono, dal Fondo monetario internazionale alla NATO, passando per il presidente francese, il premier britannico, il ministro tedesco delle Finanze e quello dell’Economia, fino al cosiddetto Occidente.

Il rapporto tra gli stati nazionali delle periferie d’Europa, come la Croazia, e le élite del centro è paragonabile al rapporto tra gli ex vassalli e i loro signori feudali.

Per quelli che aspettano ancora di entrare nell’UE, pensando che tale passo possa risolvere tutti i loro problemi, l’Europa rappresenta ancora un ideale.

 Un’Europa che non riesce più a ritrovare la propria grandezza svanita, se non in quello sguardo acritico dall’esterno di cui peraltro gode perversamente.

Se centinaia di migliaia di cittadini ucraini muoiono per quella Europa e quella NATO, allora forse l’Europa e la NATO davvero valgono qualcosa.

E cosa otterranno dall’Europa e dalla NATO tutte quelle vedove e orfani quando usciranno dalle macerie?

Un bel niente.

 

È proprio l’atteggiamento nei confronti della guerra in Ucraina a rispecchiare tutta l’impotenza politica dell’Europa…

L'Europa è ormai un ideale svanito, espulso dalla scena politica mondiale dal cosiddetto “Occidente”, cioè da un soggetto oscuro coinvolto in una miriade di attività:

esporta la democrazia, arma se stesso e gli altri, impone sanzioni, rovescia i regimi, combatte le guerre.

Però non conosciamo l’identità di questo soggetto.

Quando, nell’aprile 2022, sembrava che la guerra potesse essere fermata – l’Ucraina e la Russia erano ad un passo dal raggiungere un accordo di pace a Istanbul – Boris Johnson, recatosi improvvisamente a Kyiv, avrebbe detto a Zelensky:

 The West is not yet ready for peace” [l’Occidente non è ancora pronto per la pace].

 Il problema non è la prontezza dell’Occidente per la guerra o per la pace, ma chi ha legittimato Boris Johnson a parlare a nome di un soggetto chiamato Occidente.

Lo abbiamo forse scelto noi?

Chi ha legittimato quell’uomo a parlare a nome di centinaia di milioni di persone? Tutti i membri del suo governo lo consideravano un bugiardo e ciarlatano.

Dominic Cummings, un suo ex consigliere, lo ha chiamato proprio così, definendo l’Ucraina “un porcile corrotto”.

Io mi chiedo: come siamo arrivati al punto in cui i ciarlatani e i bugiardi, senza alcuna legittimità democratica, decidono della vita e della morte di centinaia di migliaia di persone?

È questa la democrazia che Boris Johnson, come rappresentante dell’Occidente, protegge dall’autocrate Putin?

Da tempo ormai si parla – utilizzando un eufemismo – di “deficit democratico” nell’UE.

Però negli ultimi due anni la situazione è rapidamente deteriorata. Lei come vede oggi la cosiddetta “democrazia occidentale”?

L'Occidente non è una democrazia: la mera somma di democrazie parlamentari non è di per sé una democrazia.

Quanto alla giustizia, l’Occidente – come accennato prima – è un esempio di impunità assoluta, può distruggere e uccidere impunemente.

Ma chi gli ha dato il diritto di farlo?

Siamo stati noi a dargli questo diritto attraverso un processo democratico?

 I criminali di guerra dell’ex Jugoslavia, che hanno scontato 10-15 anni di carcere per “bombardamenti indiscriminati”, ora guardano cosa sta accadendo a Gaza e chiedono:

“Aspetta un attimo, io non ho ucciso nemmeno un centinaio di bambini e ho scontato quindici anni, e questi ne hanno ucciso diverse migliaia, e continuano a uccidere, ma nessuno reagisce?”.

Quindi, la nostra intera storia postbellica, basata sulla giustizia e sulla punizione dei criminali di guerra, indipendentemente da quale parte stessero, è stata cancellata.

 Viviamo nell’illegalità, lasciati alla mercé della volontà arbitraria dei potenti.

Tra gli ospiti dell’edizione 2024 del “Subversive Festival “c’era anche “Angela Davis   secondo cui l’Europa vive ancora nell’illusione di essere un continente bianco…

Se l’Europa ancora considera sé stessa un continente bianco vuol dire che vive nel passato.

 L’Europa non ha un futuro come continente bianco, non solo a causa dell’impossibilità di un rilancio demografico, ma anche per via della provincializzazione di tutti gli aspetti della vita, compreso quello economico.

L’Europa non riesce più a tenere il passo con le altre regioni del mondo che stanno progredendo tecnologicamente ed economicamente ad un ritmo molto più veloce.

Il trauma di questa decadenza, perdita di superiorità, emarginazione e provincializzazione politica è il serbatoio emozionale da cui la destra trae energia per la sua propaganda razzista.

 Però questo risentimento è autodistruttivo.

L’unico possibile futuro dell’Europa è quello che trascende l’idea del “continente bianco”.

Dopotutto, il bianco non è il colore della pelle.

Il bianco è potere, dominio, sfruttamento. È sinonimo di impunità e ingiustizia. Questo è il punto.

Non è assurdo che questa illusione persista nonostante l’Europa non possa sopravvivere economicamente senza il lavoro migrante, come dimostra anche il caso della Croazia?

L'Europa di oggi non può sopravvivere senza l’immigrazione, e quindi senza la politica e la biopolitica dei confini.

 Non si tratta di chiudere i confini, come pensa la destra che vorrebbe schierare l’esercito lungo le frontiere, seguendo la logica della securitizzazione di ogni aspetto della vita sociale.

Le frontiere sono un filtro, tutto dipende da chi le controlla e per quali interessi, chi può passare e chi viene bloccato.

Del resto, i confini tra bianco e non bianco, presenti ovunque in Europa, oltre a stabilire le differenze culturali, regolano il rapporto tra lavoro e capitale, cioè i rapporti di classe.

Sono i luoghi in cui l’Europa esprime la sua aggressività e violenza passiva e attiva. È lungo questi confini che l’Europa oggi porta avanti le sue guerre, non solo in Ucraina, anche nei Balcani, in Libia, Siria, Iraq.

Qui tutti i nostri sentimenti morali si sono affievoliti, a partire dal senso di solidarietà, empatia e obbligo morale nei confronti delle persone in difficoltà. Ormai siamo abituati alle immagini di migliaia di cadaveri che galleggiano nel Mediterraneo.

Il ruolo principale di Frontex non è quello di proteggere le frontiere europee, bensì di normalizzare la violenza e la morte lungo queste frontiere.

Essendo ormai anestetizzati dalle immagini dei cadaveri di bambini sulle coste mediterranee dell’Europa, il massacro dei bambini a Gaza non ci sconvolge affatto. Del resto, non sono bambini bianchi.

Per parafrasare” Krleža,” nemmeno i bambini sono tutti uguali.

L'Occidente e l’Europa sono disposti a sacrificare altre centinaia di migliaia di ucraini, pur non avendo alcuna chiara idea di come porre fine alla guerra.

Quando” Annalena Baerbock,” ministra degli Esteri tedesca, ha invocato “la vittoria definitiva” in Ucraina, nessuno le ha chiesto cosa intendesse concretamente.

Mandare a morte due generazioni di giovani tedeschi, issare la bandiera dell’UE sul Cremlino o cancellare la Russia dalla faccia della terra in una guerra nucleare?

Abbiamo dimenticato la lezione di Clausewitz, secondo cui la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi, e quindi deve avere un epilogo politico.

Quale? Nell’interesse di chi?

Per raggiungere una pace duratura o una legittimazione politica della logica bellica della pulizia etnica, come accaduto nelle guerre jugoslave degli anni Novanta?

Nessuno sembra preoccuparsene.

 

Preoccupa però la mancanza di un massiccio impegno civico per promuovere il dialogo e la ricerca di una soluzione diplomatica?

Dove sono le voci contro la guerra?

 

Prima dell’inizio dell’invasione occidentale dell’Iraq – basata sulle menzogne del Pentagono e della CIA, e sostenuta dai media come New York Times, Washington Post, CNN e dalle big tech, tra cui AT&T, Google, Facebook, Microsoft – a Londra si era tenuta la più grande manifestazione contro la guerra della storia della Gran Bretagna.

I cittadini avevano capito di essere stati ingannati, intuendo che sarebbe finita male.

 Ciononostante, le élite politiche, comprese quelle della sinistra liberale, avevano spinto i loro popoli in una guerra che si è conclusa con mezzo milione di vittime civili, la distruzione di un paese e il caos politico che regna ancora sovrano.

“Anne Applebaum”, storica e presunta esperta di Europa orientale e Russia – anche se non è mai stata in Russia – ha promosso e pienamente sostenuto l’invasione dell’Iraq nel 2003 e la politica interventista dei neoconservatori americani, e oggi sostiene la guerra perenne dell’Occidente contro il presunto male.

 Quest’anno” Applebaum” ha ricevuto due riconoscimenti per la pace in Germania:

il premio intitolato a “Carl von Ossetsky”, assegnato dalla città di Oldenburg, e il Premio per la pace degli editori tedeschi.

La realtà in cui viviamo – europea, occidentale e democratica – ha letteralmente assunto una dimensione orwelliana.

L'Europa e l’Occidente sono l’Oceania del romanzo “1984” di Orwell, con il suo slogan principale: “La guerra è pace”.

Nel corso della conferenza tenuta nell’ambito del “Subversive Festival”, lei ha elaborato il concetto di resistenza giustapponendolo al movimento di liberazione popolare jugoslavo.

 Può spiegare meglio le differenze?

 

Oggi l’idea di resistenza al fascismo domina il discorso sulla Seconda guerra mondiale nello spazio post-jugoslavo.

Però la verità è che da noi non c’è stata alcuna resistenza al fascismo.

 Il 14 aprile del 1941 il Partito comunista jugoslavo non aveva invitato alla resistenza al fascismo, bensì alla lotta di liberazione popolare.

I partigiani non si definivano un movimento di resistenza, nemmeno prima del 1942 quando si chiamavano NOV (Esercito di liberazione popolare) e POJ (Brigate partigiane jugoslave).

Alla fine del 1944 contavano 650mila combattenti, organizzati in cinquantadue divisioni e quattro eserciti, controllando centinaia di chilometri lungo la linea del fronte in una guerra tradizionale.

 Quello partigiano non fu mai un movimento di resistenza.

La resistenza nacque solo dopo il 1945.

Nel suo libro “Hrvatski pokret otpora” [Movimento di resistenza croato], lo storico “Wolffy Krašić” si concentra in particolare sul movimento guidato da “Jakša Kušan”.

Anche Vjekoslav Maks Luburić aveva organizzato “la resistenza popolare croata”.

Qui l’idea di resistenza non è basata sulla lotta antifascista, bensì sulla riconciliazione tra fascisti e antifascisti.

In parole povere, nell’area post jugoslava, il termine “resistenza” fa parte della narrazione del revisionismo storico.

Oggi in Serbia è diffusa l’idea che a opporsi al fascismo fossero i cetnici di “Draža Mihailović”, non i partigiani.

A dire il vero, anche nella politica ufficiale della memoria dell’UE, basata su tre risoluzioni del Parlamento europeo, non c’è posto per i partigiani jugoslavi.

Anche perché i partigiani della Jugoslavia, anziché opporre la resistenza ai fascisti con l’intento di preservare l’ordine vigente prima dell’ascesa del fascismo, si battevano per una svolta sociale radicale e rivoluzionaria attraverso la lotta di liberazione popolare.

Quando nel Centro memoriale della resistenza tedesca a Berlino vediamo le immagini di alcuni membri di quella resistenza in uniforme nazista – penso ad esempio a “Claus von Stauffenberg” che aveva organizzato un attentato a Hitler – capiamo che questo movimento non aveva tra i suoi obiettivi quello di cambiare la posizione della donna nella società.

A differenza del Fronte antifascista delle donne jugoslave (AFŽ), che era appunto un “fronte”, non un movimento di resistenza, e contava due milioni di membri.

L'obiettivo della Resistenza tedesca (Widerstand) era quello di raggiungere un accordo di pace con gli alleati occidentali e proseguire la guerra contro l’Armata rossa.

“Otpor” [resistenza] è anche il nome di un movimento serbo contro il regime di Milošević, organizzato a Budapest dalla CIA.

Dopo il 2000 questo movimento, per conto degli americani, ha svolto diverse attività finalizzate ai cosiddetti “cambi di potere”, partecipando a rivoluzioni colorate in una cinquantina di paesi in tutto il mondo.

Tutte queste rivoluzioni sono fallite, come dimostra, tra l’altro, la guerra in Ucraina.

Quindi, il concetto di resistenza viene sfruttato principalmente dal revisionismo storico allo scopo di intaccare, definitivamente e irrimediabilmente, l’idea di rivoluzione.

Finora ci è riuscito.

Che fare invece delle rivoluzioni che divorano i propri figli?

Credo che dobbiamo porci un altro interrogativo: come affrontare le controrivoluzioni che sono riuscite a soffocare ogni rivoluzione?

Che dire della controrivoluzione di Stalin che ha annullato tutte le conquiste emancipatorie della Rivoluzione d’Ottobre?

E la controrivoluzione dei poteri tecnocratici, come venivano chiamati nell’ex Jugoslavia, che attraverso la Lega dei comunisti ha ostacolato e alla fine distrutto l’idea e la pratica di autogestione?

 O ancora le istituzioni finanziarie ed economiche internazionali che, in nome della mano invisibile del mercato, hanno promosso particolari interessi politici e ideologici, ostacolando ogni tentativo di opporsi allo sfruttamento capitalista?

Invece di rappresentare la rivoluzione come un mostro che divora sé stesso, in contrapposizione ad un mondo normale, bello, ordinato e pacifico dove tutto sarebbe perfetto se non fosse per quei matti di rivoluzionari che cercano di cambiare le cose, dobbiamo affrontare la vera storia delle controrivoluzioni e dei loro grandi successi.

Credo che ormai non ci sia una sola idea rivoluzionaria che non sia stata intaccata da queste controrivoluzioni.

 Questo è il punto!

Quei rivoluzionari che divorano i propri figli altro non sono che controrivoluzionari.

A spingermi a porre la domanda precedente è stata anche la nostra realtà locale a Zagabria.

Tre anni fa abbiamo assistito ad una piccola rivoluzione con cui il movimento Možemo! è salito al potere, promuovendo il municipalismo, la partecipazione civica e altre idee della sinistra verde.

Nel frattempo però sembra che assistiamo (nuovamente) all’espressione della legge ferrea dell’oligarchia di Michels…

Non dobbiamo temere l’oligarchia del movimento Možemo!

Anziché un coccodrillo nella palude della democrazia croata, Možemo! sembra essere preda di coccodrilli.

È già finito tra le fauci delle corporazioni dei media che hanno deciso di togliergli il potere, e ci riusciranno.

Credo però che questa grande esperienza sperimentata da Možemo! non sia vana. È bene conoscere i veri limiti, non solo i propri limiti, ma anche quelli di una democrazia parlamentare dei partiti.

 Qualcuno ne trarrà qualche lezione.

Forse impareranno che non vale mai la pena sacrificare il radicalismo di sinistra per conquistare le simpatie del centro.

 Così come non ha senso percepire quel centro come un’incarnazione della realtà, come un metro di giudizio della realtà oggettiva.

È proprio nell’identificarsi con una realtà senza alternative che il centro dimostra la sua assurdità, il suo patologico oblio della realtà.

 Non solo a Zagabria.

Il campo largo centrista liberale, neoliberale e conservatore – paneuropeo e pan occidentale – è l’estremista più pericoloso in questa storia post-democratica in cui ci siamo avventurati insieme a Možemo!

Se non ci porterà verso la Terza guerra mondiale, ci lascerà bruciare sotto il sole.

 

 

 

A chi giovano le

euro-follie green?

Labparlamento.it - Giulio Viggiani – (02 Aprile 2023 ) – ci dice:

Case green, aziende agricole green, frigoriferi green, caldaie green e, “of course”, auto green.

 Gli euro-deliri in salsa ecologica di Commissione e Parlamento Ue hanno ormai assunto le sembianze di una furente guerra ideologica di “gretina” memoria e, senza alcun criterio di razionalità e senso della realtà, puntano a travolgere come un caterpillar la maggior parte dei sistemi industriali e dei tessuti economico-sociali dei Paesi membri.

Ma l’aspetto più paradossale di questa crociata, cavalcata e propagandata come un dogma evangelico da tutti i media del mainstream, è che la palingenesi climatica da presunte emissioni zero sarebbe a dir poco un miraggio, o meglio, un vero e proprio inganno.

Ma vediamo perché.

 

Il piano “Fit for 55” presentato dalla Commissione presieduta da Ursula Von Der Leyen, si è posto l’obiettivo di ridurre del 55% le emissioni di CO2 entro il 2030 e ha ordinato lo stop a tutte le auto diesel e a benzina nel 2035, imponendo l’elettrificazione forzata del trasporto privato, con l’eccezione delle vetture alimentate con carburanti sintetici per espressa volontà della Germania e l’esclusione dei biocarburanti da scarti di origine vegetale e animale, come, invece richiesto dal Governo italiano, nell’ottica di un fantomatico e illusorio principio di “neutralità tecnologica”.

Oltre al consueto trattamento di favore riservato dalle istituzioni comunitarie a Berlino, è l’ossessione per l’azzeramento dell’anidride carbonica l’assunto fallace che ha originato una serie infinita di misure e obiettivi, i quali non solo rischiano di essere sostanzialmente irrealizzabili, ma provocherebbero la desertificazione di un settore industriale di eccellenza come quello dell’ automotive e la distruzione o quantomeno la devastazione del tessuto economico-sociale di gran parte del Vecchio Continente.

La “religione” dell’elettrico a tutti i costi metterebbe l’industria dell’automobile continentale nelle mani del Dragone cinese.

 Infatti, tutti i componenti indispensabili per la produzione di batterie di auto a conduzione elettrica vengono dalla Cina, anzi, dagli Stati africani che sono ormai dipendenti finanziariamente da Pechino, dove vengono assemblati nelle centrali a carbone, notoriamente molto inquinanti.

 Inoltre, le aziende automobilistiche tedesche, specialmente la Volkswagen, che avevano puntato fortemente in questa direzione, si stanno accorgendo di non riuscire giocoforza a competere con i volumi di produzione cinesi e hanno innestato una parziale retromarcia sul “full electric”.

Quindi, passare dalla dipendenza di approvvigionamento del gas dalla Russia a quella dei componenti elettrici per auto dalla Cina non sembra essere una mossa geopolitica particolarmente lungimirante e non migliorerebbe affatto la qualità dell’aria che respiriamo, in quanto i Paesi emergenti, africani sudamericani e asiatici, responsabili del maggior tasso di inquinamento a livello mondiale, non rinuncerebbero a produrre energia con fonti fossili, rendendo vano ogni sforzo europeo di un mondo a zero emissioni.

Un altro aspetto critico da non sottovalutare riguarda il rischio di sovraccarico che deriverebbe da una ricarica contestuale delle auto private alle colonnine che andrebbero installate nelle strade delle nostre città, soprattutto nei periodi estivi, in cui si fa largo uso dei condizionatori.

 Un blackout generalizzato, infatti, si è verificato in California poche settimane fa, per il numero eccessivo di mezzi che stavano ricaricando le batterie durante la notte.

Batterie che, ad oggi, non hanno una grande autonomia, sono molto costose e rendono inaccessibili economicamente le vetture elettriche ad almeno l’80% della popolazione italiana ed europea.

Anche la filiera della componentistica per auto a motore endotermico, molto fiorente in Italia, sarebbe costretta a tentare una complessa riconversione industriale per poter sopravvivere, dato che le auto elettriche necessitano di un numero molto inferiore di elementi rispetto a quelle tradizionali.

In sintesi, solo in Italia, tra aziende e indotto potrebbero perdere il lavoro più di 250.000 addetti del settore, con gravi ricadute economico-sociali.

Ma siamo sicuri che alla base del Green Deal europeo ci siano soltanto motivazioni ideologiche?

Non sarebbe il caso di domandarsi semplicemente “cui prodest”?

 Nell’ultimo decennio la grande finanza, con in prima linea nomi come “Bill Gates” e “George Soros, ha deciso di investire cifre considerevoli nella rivoluzione verde, per non rischiare un altro crollo borsistico di proporzioni ancora più devastanti di quello originato dall’abuso dei derivati e dei subprimes americani del 2007-2008 che poi si si tradusse nella crisi dei debiti sovrani europei.

 

Basterebbe indagare su quali società e multinazionali, legate a doppio filo con i partner cinesi sotto il diretto o indiretto controllo governativo, hanno ricavato o stanno ricavando i maggiori utili e profitti dal business green per fare due più due e capire a chi conviene realmente questa forzata rivoluzione sistemica dalle mille incognite.

 Le stesse società che veicolano tramite ogni mezzo di comunicazione il pensiero unico della catastrofe ecologica, che da decenni, secondo le loro fallaci previsioni, avrebbe già dovuto distruggere il pianeta terra a causa delle emissioni climalteranti.

Infine, una considerazione di carattere storiografico e una di carattere scientifico: conviene mettere a rischio il nostro modello sociale e mandare al macero una delle nostre industrie di eccellenza senza migliorare realmente la qualità del clima in cui viviamo?

 Pensare che sia possibile costruire un sistema produttivo avanzato e mantenere al contempo un benessere diffuso eliminando completamente i fattori cosiddetti inquinanti è una pura utopia.

Un’utopia che, per la teoria dei corsi e ricorsi storici di Giambattista Vico, assomiglia sempre di più all’abbaglio e all’inganno ideologico più mastodontico del XX secolo, il comunismo, che mentre prometteva la liberazione dallo sfruttamento e una società di liberi ed uguali, ha in realtà costruito il più longevo e disumano sistema dittatoriale e di privazione e negazione della libertà umana della storia contemporanea.

 

Non vorremmo “svegliarci” nuovamente dopo 70 anni verso la fine di questo secolo e dover ammettere che l’inquinamento non è stato eliminato ma la nostra società del benessere, che ha bene o male salvaguardato ambiente e sviluppo economico, non esiste più.

Nonostante lo si spacci come un dato incontrovertibile, non esiste unanimità della scienza e alcuna minima certezza che il cambiamento climatico, da sempre ciclico, sia di origine antropica.

Pertanto, appare quantomeno masochistico e autolesionistico scegliere deliberatamente di disastrare il nostro sistema industriale ed economico-sociale, forzando una transizione ecologica, o per meglio dire, “neurologica”, che, come un novello Frankenstein, rischia di ritorcersi contro il suo stesso creatore.

 

 

 

Oggi la società è un iniquo sistema

di distruzione. Serve ripudiare

la guerra per salvarla.

Altreeconomia.it - Roberto Mancini — (1° Marzo 2024) – ci dice:

(Le idee eretiche di Roberto Mancini)

Mentre migliaia di bambine e di bambini vengono uccisi, esposti a ogni male, resi orfani e travolti dalla disperazione, il mondo accoglie questa atrocità nella sua normalità quotidiana.

È il segno che è finito il tempo in cui la parola “società” poteva essere data per scontata.

La guerra o la società.

 È l’alternativa di fronte a cui ci troviamo oggi.

 Un tempo si cercava una società migliore.

 Ora dobbiamo agire semplicemente affinché la società continui a esistere.

Il sistema incrociato della guerra endemica (contro le donne, i giovani, i poveri, i migranti, i salariati, la natura) e di quella esplosiva (non solo in Palestina e in Ucraina, ma in molti altri luoghi del mondo) sfibra il tessuto della convivenza sociale.

In questa implosione della società sta segnando un culmine di necrofilia la vendetta in atto da parte del governo guidato da Benjamin Netanyahu, che massacra i palestinesi in nome della giustizia.

Mille intellettuali ebrei, in un appello diffuso a inizio febbraio, hanno chiarito che criticare la politica di Tel Aviv non significa essere antisemiti:

questo ricatto ideologico per garantire immunità morale e impunità giuridica al governo israeliano non ha la minima giustificazione.

 

Mentre migliaia di bambine e di bambini vengono uccisi, esposti a ogni male, resi orfani e travolti dalla disperazione, il mondo accoglie questa atrocità nella sua normalità quotidiana.

 È il segno che è finito il tempo in cui la parola “società” poteva essere data per scontata.

Suona surreale oggi la definizione che ne dava il filosofo statunitense “John Rawls” designandola come “un equo sistema di cooperazione”. La società globale è un iniquo sistema di distruzione.

 E se gli uomini in prima linea si trasformano in armi, moltissimi altri annegano nella rassegnazione e nel timore:

perdono i sentimenti, le parole, i pensieri, la capacità di agire.

Dinanzi al trionfo della guerra l’umanità diminuisce in tutti i sensi:

tende a sparare o a sparire.

Bisogna spezzare questa spirale.

Ritrovare sentimenti, parole, pensieri, azioni, rendendosi presenti nella realtà del mondo comune per attivare la pace.

Oltre le solite, disperanti analisi geopolitiche, ci dice di più e libera energie l’analisi storico-antropologica su come si è strutturato e ogni giorno si ripete lo schema bellico tipico della mentalità dominante.

Questa analisi indica che la guerra è la prima istituzione della civiltà del potere, che è la radice della violenza e della sua istituzionalizzazione.

 L’analisi etica aggiunge che non esiste la guerra giusta:

va dis-istituita, cioè va sradicata dai cuori, dalle menti, dalla cultura, dall’economia, dalla politica.

Occorre uscire dallo schema bellico in tutti i rapporti, da quelli interpersonali a quelli internazionali.

Di fronte al trionfo disumano della guerra l’umanità diminuisce in tutti i sensi.

E se gli uomini in prima linea si trasformano in armi, moltissimi altri cadono nella rassegnazione e nel timore.

 Bisogna spezzare questa spirale.

I processi essenziali per salvare la società sono questi.

 Il primo: educare le persone e le comunità perché solo la loro umanizzazione è la vera prevenzione delle guerre.

Occorre poi risanare le ferite storiche del passato nel rapporto tra i popoli promuovendo la coscienza del futuro comune.

In terzo luogo, agire per ricostruire la politica, vissuta come cura della vita collettiva, dotandola finalmente di istituzioni pensate per la pace.

 Infine, bisogna trasformare il modello economico:

va superata la logica del capitale, della competizione e della crescita per dare ai popoli la sicurezza economica e alla natura la tutela dei suoi equilibri.

Di tali processi ci deve interessare non l’ovvietà del fatto che sono difficili, ma l’opportunità del fatto che sono tanto ampi da dare spazio all’iniziativa di ciascuno di noi.

Le azioni da sviluppare sono molte:

 il lavoro educativo di liberazione delle nuove generazioni;

la controinformazione e la contestazione del bellicismo;

la tessitura comunitaria della vita dei territori e l’ospitalità verso tutti gli esclusi;

il federalismo delle città del mondo, secondo l’intuizione di Giorgio La Pira;

la costante pressione sulle forze politiche e sul governo perché operino per la pace; la sensibilizzazione delle associazioni e dei movimenti sociali;

la pratica del cosmopolitismo dal basso per affrontare ogni problema in modo cooperativo, mai competitivo;

la realizzazione di imprese etiche e di circuiti distributivi solidali.

Ormai è evidente:

non si può vivere né si può amare nessuno senza sperare nella guarigione del mondo, senza credere nella pace, senza agire di conseguenza.

 

Un Breve, ma Esaustivo,

Riassunto della Truffa dell’AIDS.

Conoscenzealconfine.it - (26 Novembre 2024) - Marco Dabizzi - ci dice:

 

Nessun paziente con l’“AIDS” (sindrome da immunodeficienza acquisita) è mai stato curato…

Nel 1981, un medico di Los Angeles descrisse cinque casi di grave deficienza immunitaria, tutti tra uomini omosessuali che sniffavano “nitrito di amile”, abusavano di altre droghe, “abusavano di antibiotici” e probabilmente soffrivano di malnutrizione e malattie sessualmente trasmissibili.

 

Sarebbe stato logico ipotizzare che questi gravi casi di immunodeficienza avessero origini da tossine e stile di vita.

Affermare questo però sarebbe equivalso a un’incriminazione dello stile di vita di questi pazienti, cosa inammissibile politicamente, per via delle pressioni della lobby omosessuale.

Si dovette perciò trovare un’altra ipotesi e la soluzione fu inventarsi un retrovirus.

I dati scientifici a sostegno di questa ipotesi erano e, sorprendentemente, sono ancora del tutto assenti.

Ma l’assenza di dati e prove non ha mai bloccato una buona teoria, e l’interesse istantaneo e appassionato dei ricercatori e delle istituzioni che si occupavano di trovare un’origine virale per i tumori (senza successo da trent’anni…) esplose immediatamente.

La nuova malattia salvò praticamente tutti i laboratori per la ricerca virale e l’AIDS diventò, quasi da un giorno all’altro, l’oggetto principale della ricerca.

Questo generò un enorme sostegno finanziario da parte di Big Pharma, più budget per il CDC e il NIH, e nessuno dovette preoccuparsi dello stile di vita dei pazienti che divennero subito vittime innocenti di questo orribile virus, presto etichettato come HIV.

Qualche decennio dopo, l’ipotesi dell’HIV/AIDS ha fallito completamente nel raggiungere tre obiettivi principali, nonostante gli enormi finanziamenti per la ricerca indirizzati esclusivamente a progetti basati su di essa.

1) Non è mai stata trovata una cura per l’AIDS;

2) Non sono mai state fatte previsioni epidemiologiche verificabili;

3) Non è mai stato preparato con successo un vaccino contro l’HIV.

Al contrario, sono stati utilizzati in modo irresponsabile farmaci altamente tossici ma non curativi, (ovviamente non devono curare… poiché i morti servono per mantenere viva la narrazione AIDS… la storiella è sempre la stessa… e col covid abbiamo visto l’apoteosi di questo criminale modus operandi – (nota di conoscenzealconfine.it) con effetti collaterali frequenti e letali.

Ma non è mai stata osservata al microscopio elettronico una sola particella di HIV nel sangue di pazienti che si suppone abbiano una carica virale elevata.

Ciononostante, tutti i giornali e le riviste più importanti hanno mostrato attraenti immagini computerizzate e colorate dell’HIV (come hanno poi fatto con il Covid), tutte provenienti da colture cellulari di laboratorio, ma mai da un solo paziente con AIDS.

Nonostante questa incredibile omissione, il dogma dell’HIV/AIDS è ancora solidamente radicato.

Decine di migliaia di ricercatori e centinaia di grandi aziende farmaceutiche continuano a realizzare enormi profitti basandosi sull’ipotesi dell’HIV.

E nessun paziente con l’“AIDS” è mai stato curato.

(Marco Dabizzi)

(miglioverde.eu/un-breve-ma-esaustivo-riassunto-della-truffa-dellaids/).

 

                

 

 

VIRUS MANIA.

Conoscenzealconfine.it - Stefano Scoglio, Torsten Engelbrecht, Dott. med. Claus Köhnlein, Dott. med. Samantha Bailey – Libro – Macro Edizioni - (24 – 11 – 2024) – ci dicono:

 

Come l'industria medica inventa continuamente epidemie facendo miliardi di dollari a nostre spese.

(Corona/COVID-19, Morbillo, Influenza suina, Cancro cervicale, Aviaria, SARS, BSE, Epatite C, AIDS, Polio, Spagnola). 

Questo libro veicola un messaggio tragico, ma che, si spera, contribuirà alla restaurazione di valori etici nella conduzione della ricerca sui virus, nelle politiche di salute pubblica, nella comunicazione con i media e nelle attività delle aziende farmaceutiche.

Se si seguono le dichiarazioni pubbliche, si ha l'impressione che il mondo intero sia costantemente afflitto da nuove e orribili malattie virali. L’ultima terribile variante, il cosiddetto coronavirus SARS-CoV-2, ha dominato i titoli di tutti i giornali.

Ma anche prima del coronavirus l'opinione pubblica era continuamente terrorizzata dalle notizie su morbillo, influenza suina, SARS, BSE, AIDS o poliomielite.

 Tuttavia, questo caos virale ignora fatti scientifici molto basilari: l'esistenza, la patogenicità e gli effetti mortali di questi agenti non sono mai stati dimostrati.

L'establishment medico e i media, suoi fedeli accoliti, sostengono che queste prove siano state prodotte.

Ma queste affermazioni sono altamente sospette perché la medicina moderna ha messo da parte i metodi diretti per la prova dell’esistenza dei virus e utilizza strumenti indiretti di dubbia validità come i test anticorpali e la reazione a catena della polimerasi (PCR).

Gli autori di Virus Mania, il giornalista Torsten Engelbrecht, il ricercatore scientifico Stefano Scoglio (Ph.D.) e i medici di medicina interna Claus Kohnlein (MD) e Samantha Bailey (MD), dimostrano che questi presunti virus contagiosi sono in realtà particelle prodotte dalle cellule stesse come conseguenza di alcuni fattori di stress quali farmaci e tossine.

Queste particelle vengono poi identificate con test anticorpali e PCR e interpretate come virus epidemici da medici che, da oltre 100 anni, vengono indottrinati dalla teoria dei microbi mortali sconfitti solo da farmaci e vaccini.

Lo scopo centrale di questo libro è quello di riportare la discussione ad un vero dibattito scientifico e di ricondurre la medicina sulla strada di un'analisi imparziale dei fatti.

Il volume analizza esperimenti medici, studi clinici, statistiche e politiche governative, in relazione a tutte le pseudo-epidemie e pseudo-pandemia precedenti al Covid-19:

dalla poliomielite all’AIDS; dall’epatite C alla BSE (encefalopatia spongiforme bovina); dal SARS-Cov1 all’influenza aviaria (H5N1);

dall’influenza suina al cancro della cervice; dall’influenza al morbillo e relativi vaccini; fino alla truffa del Covid/SARS-Cov2 e dei test PCR falsati, e alla natura iatrogenica delle morti etichettate come Covid.

 

Gli autori esaminano tutte le possibili cause di malattia, come i farmaci e i vaccini, lo stile di vita, i pesticidi, i metalli pesanti, l'inquinamento, lo stress e gli alimenti trasformati (e talvolta geneticamente modificati).

Tutti questi elementi possono danneggiare pesantemente il corpo degli esseri umani e degli animali e persino ucciderli. E sono proprio questi i fattori che tipicamente prevalgono dove vivono e lavorano le vittime dei presunti virus.

A sostegno di queste affermazioni, gli autori citano decine di scienziati di grande fama, tra cui i premi Nobel Kary Mullis, Barbara McClintock, Walter Gilbert, Sir Frank Macfarlane Burnet e il microbiologo e vincitore del premio Pulitzer Rene Dubos.

Il libro presenta circa 1.100 riferimenti scientifici pertinenti.

L'argomento di questo libro è di fondamentale importanza, tanto più ora che, dopo la tragica farsa del Covid, è ormai evidente a tutti che le aziende farmaceutiche, e i loro scienziati, raccolgono enormi somme di denaro fingendo di combattere inesistenti virus;

mentre i media aumentano gli indici d'ascolto, e gli introiti pubblicitari, con la diffusione di reportage sensazionalistici e terroristici sul pericolo virale.

 

 

 

Criteri e “Rating ESG” nel quadro

del principio di sostenibilità e della

correlata transizione energetica.

Dirittobancario.it - Marcello Condemi – (21 -giugno – 2023) – ci dice:

(Marcello Condemi, Professore Straordinario di Diritto dell’Economia, Università di Roma – G.Marconi).

 

Nozione e ragioni di una ordinata transizione energetica.

Sostenibilità e criteri ESG nel quadro della ragionevole preminenza (rispetto agli altri) del profilo di “governance”.

Cenni sulla dimensione economico-finanziaria della sostenibilità.

L’assoluta rilevanza del “Rating” quale strumento di misurazione degli adempimenti ESG.

La tematica, del tutto trasversale, della primazia del diritto dell’Unione sul diritto nazionale.

Conclusioni.

SOMMARIO:

Una delle tematiche più attenzionate del periodo storico contemporaneo, tanto da parte del mondo istituzionale, quanto anche dalla società civile, specialmente a seguito dei tragici eventi geopolitici ed anche naturali, risulta essere quella della transizione energetica.

Quanto fin qui accaduto ed elaborato in sede normativa ed istituzionale, tuttavia, non può (e non deve) ritenersi un definitivo approdo, e men che meno una “moda” passeggera, quanto piuttosto solo una delle insopprimibili tappe di un lungo percorso che dovrà accompagnarci per l’avvenire, volto a perseguire, attraverso complessi ed articolati interventi in costante evoluzione, l’auspicato, quanto difficile, obiettivo di assicurare condizioni di “sostenibilità” pienamente compatibili con il soddisfacimento delle necessità del presente, senza, in ragione di ciò, compromettere il soddisfacimento delle medesime in capo alle generazioni future;

complessi ed articolati interventi, questi, principalmente ed originariamente di carattere normativo ed istituzionale, che tuttavia abbisognano della necessaria ed efficace compresenza di un sentire comune da coniugarsi con una sana azione imprenditoriale, spiccatamente improntata ai temi afferenti alla “sostenibilità”, declinata cioè non solo nella più comunemente nota accezione ambientale, quanto anche con riferimento al rispetto dell’ampia gamma di profili afferenti i diritti umani e le best practice a livello di governance, tutti elementi riassumibili nell’acronimo “ESG” (Enviormental, Social, Governance).

 In questa prospettiva, il presente contributo, oltre a tener conto delle più recenti e rilevanti iniziative, in particolare legislative ed istituzionali in materia di “sostenibilità”, anche riconoscendo l’enorme sforzo fin qui compiuto specie in chiave europea e, a cascata, sul piano nazionale,  focalizza l’attenzione – in quanto fondamentale strumento di verifica e misurazione, a dispetto delle diffusissime pratiche di greenwashing, della fedele e veritiera applicazione della congerie di regole emanate e delle indicazioni istituzionali – sulle modalità e sistemi (cc.dd. framework di rating), attraverso cui è possibile misurare oggettivamente, attraverso parametri e criteri condivisi, il livello di “sostenibilità” (nel senso sopra precisato) raggiunto dai soggetti destinatari della disciplina, ad evidente beneficio di operatori, autorità, soggetti a vario titolo interessati e, per tale via, dell’effettiva crescita “ESG” del complessivo sistema.

 

Con la locuzione “transizione energetica” – ormai, per più ragioni, al centro del dibattito economico e politico – s’intende, molto sinteticamente, il passaggio da una struttura produttiva basata sulle fonti energetiche non rinnovabili, derivanti, in particolar modo, da fonti combustibili fossili come gas naturale, petrolio e carbone, ad una struttura produttiva basata su fonti rinnovabili, vale a dire da fonti energetiche quali l’energia solare, l’energia eolica, l’energia idroelettrica, l’energia mareomotrice;

fonti, queste ultime, non soggette ad esaurimento, poiché oggetto, ancorché utilizzate, di naturale reintegrazione in un arco temporale relativamente breve.

 

La transizione energetica, sebbene riguardi in generale le nazioni dell’intero globo, è tuttavia tematica di particolare interesse da parte dei paesi sviluppati, e segnatamente, per intuibili ragioni legate ai propri assetti produttivi, delle più grandi economie del mondo: l’Italia è tra queste, attestandosi su scala mondiale, con i suoi 2.228,2 miliardi di euro di PIL, all’ottavo posto.

Le molteplici ragioni che spingono gli Stati verso le “energie rinnovabili” sono di ordine ambientale, economico e geopolitico.

Da un punto di vista ambientale l’inquinamento, attraverso l’uso delle energie non rinnovabili, si estrinseca, non solo con il ben noto (e dannoso) contributo all’effetto serra e ai conseguenti fenomeni, derivanti da tale uso, di “climate change”, ma anche attraverso casistiche di eventi particolarmente dannosi per l’ambiente, quali, “ex multis”, i casi di sversamento in ambienti naturali marittimi – accidentali o, in alcuni casi, anche volontari – di petrolio ed altre sostanze altamente inquinanti.

 

Ragioni economiche, poi, inducono a considerare l’ineluttabile futuro esaurimento delle fonti non rinnovabili, quali i giacimenti petroliferi, carboniferi e di gas naturale, oggetto di elevato e rapido consumo, tale da non poterne garantire il rapido ripristino, essendo la formazione di tali fonti il frutto di centinaia di milioni di anni di evoluzione del nostro pianeta.

 

Infine, bisogna considerare, quale fattore di rilievo dell’attuale contesto storico-politico, l’incerto scacchiere mondiale, aggravato, da ultimo, dalla perdurante guerra Russo-Ucraina, che, oltre a prospettare il rischio di un possibile ridisegno degli equilibri planetari, impone, in presenza dell’avvenuta impennata dei prezzi delle materie energetiche, un’accelerazione verso la transizione energetica, oltre che il ricorso a fornitori alternativi rispetto a quelli a cui fino ad ora si è fatto ricorso.

 

Non è in tale quadro, infatti, peregrino intravvedere un uso politico di gas e petrolio da parte della Federazione Russa (e, sebbene in un diverso contesto, anche da parte di altri Paesi), al fine, da un lato, di dissuadere il mondo occidentale dal proseguire nell’adozione di misure sanzionatorie, dall’altra, di garantire un afflusso di risorse economiche necessarie, non solo a garantire la propria sopravvivenza, ma anche per proseguire lo sforzo bellico.

 

In aggiunta alle complessità appena rappresentate, occorre evidenziare come l’abbandono della Federazione Russa, quale partner principale nell’importazione di materie prime connesse alle esigenze energetiche e la conseguente, necessaria ricerca, in sostituzione di quest’ultima, di altri fornitori, potrebbero non essere pienamente risolutive delle già menzionate problematiche geopolitiche.

Non può sfuggire, difatti, come la maggioranza dei player commerciali nel settore dell’approvvigionamento di fonti energetiche fossili non siano, in larga parte, minimamente in linea con i valori che permeano gli ordinamenti europei, in termini, “ex multis”, di rispetto dei diritti umani, in particolar modo delle minoranze.

 Basti citare, esemplificativamente, quali sono i paesi che occupano le posizioni apicali della classifica, stilata dall’IEA (International Energy Agency), per il 2020, con maggiore peso, a livello di esportazione di gas naturale, su scala mondiale, per imbatterci in paesi nazioni quali l’Algeria (8° posto con 47 miliardi di metri cubi), il Turkmenistan (6° posto con 56 miliardi di metri cubi), il Qatar (2° posto con 127 miliardi di metri cubi) e la Russia che svetta con i suoi 230 miliardi di metri cubi di gas naturale esportato.

 

Il quadro di criticità appena rappresentato non diverge significativamente anche con riguardo alle esportazioni di petrolio.

 Ed infatti, in base ad un diverso rapporto dell’IEA del 2020, tra i maggiori esportatori di petrolio al mondo si annoverano il Kazakistan (8° posto con 70 milioni di tonnellate), il Kuwait (6° posto con 102 milioni di tonnellate), gli Emirati Arabi Uniti (5° posto con 148 milioni di tonnellate), l’Iraq (3° posto con 195 milioni di tonnellate), la Russia (2° posto con 269 milioni di tonnellate) e, altresì, l’Arabia Saudita, che svetta con i suoi 352 milioni di tonnellate esportate.

 

Appare, dunque, evidente come le maggiori fette di mercato in materia di fonti energetiche combustibili siano detenute da nazioni che, all’interno della comunità internazionale, sono note per non essere integerrime sul fronte della tutela dei diritti umani, né tantomeno possono dirsi paesi con una radicata e stabile organizzazione statale democratica, trattandosi invero, in alcuni casi, di nazioni rette da regimi dittatoriali che sopprimono il dissenso con la violenza, in altri casi, di Stati connotati da una rilevante instabilità politica, in altri casi ancora, di Stati che militano in entrambe le casistiche summenzionate.

 Di qui l’elevato rischio di ritrovarsi, in conseguenza del totale affidamento delle proprie sorti energetiche a nazioni di tal guisa, in circostanze geopolitiche analoghe a quelle già affrontate nel presente periodo storico.

Nonostante tutto ciò, le fonti combustili fossili, ancora oggi, continuano a costituire oltre l’80% della base energetica per i consumi globali, e questo in quanto l’alternativa, vale a dire la strada delle fonti rinnovabili, risulta ancora poco battuta, per differenti motivazioni, legate sia a retaggi culturali, che vedono nelle fonti non rinnovabili le uniche vere fonti di energia, sia agli aspetti connessi all’aleatorietà delle fonti di energia rinnovabile, inscindibilmente collegati alla disponibilità geografica della fonte (si pensi, solo con riguardo all’energia mareomotrice, ad un’area territoriale priva di sbocchi sul mare o bacini idrici, oltre che alle problematiche di limitata capacità di stoccaggio di dette fonti energetiche).

Non è da ignorare, infine, l’imponente dispendio economico legato al completamento di siti idonei a carpire sufficiente energia da giustificare la rilevante spesa di base ed anche il significativo impatto ambientale:

esempi, a tale proposito, sono rappresentati dall’installazione di pale eoliche, le quali possono variare le proprie dimensioni dai 20 ai 200 metri di altezza, ovvero dalla costruzione di impianti subacquei che sfruttano l’energia mareomotrice.

 

1.1. Segue: Le iniziative legislative a supporto della transizione energetica

Nonostante le molte difficoltà, la strada della transizione energetica appare, ormai, ineluttabile, al fine di garantire uno sviluppo sostenibile, anche in termini di conformità con i criteri ESG (di cui, amplius, infra).

A tal riguardo l’Italia si è dimostrata in prima linea, compiendo una pluralità di scelte, ampiamente dimostrative dell’impegno assunto in questa direzione.

 E’ meritevole di menzione, prima tra tutte, la nuova formulazione, come riscritta dalla legge costituzionale 11 febbraio 2022, n. 1 (recante “Modifiche agli articoli 9 e 41 della Costituzione in materia di tutela dell’ambiente”), degli art. 9, comma 3, e 41, comma 2, Cost., con cui si prevede, rispettivamente e significativamente, che la Repubblica «(t)utela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni», e che l’iniziativa economica privata «(n)on può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana».

 

In tale contesto di particolare attenzione alle tematiche energetiche ed ambientali, risulta altresì degna di nota la costituzione del Ministero per la Transizione Ecologica (già Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare) ed oggi Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica) a seguito dell’emanazione dell’art. 2, comma 1, del d.l. 1 marzo 2021, n. 22, convertito con modificazioni nella L. 22 aprile 2021, n. 55, recante “Disposizioni urgenti in materia di riordino delle attribuzioni dei Ministeri”, tra le cui principali attribuzioni si annoverano, ai sensi dell’art. 35, comma 2, lett. b) e c), del d.lgs, 30 luglio 1999, n. 300, così come modificato dal d.l. n. 22 del 2021, in particolare:

a) la definizione degli obiettivi e delle linee di politica energetica e mineraria nazionale;

 b) l’autorizzazione di impianti di produzione di energia di competenza statale, compresi quelli da fonti rinnovabili, anche se ubicati in mare;

 c) i piani e le misure in materia di combustibili alternativi e delle relative reti e strutture di distribuzione per la ricarica dei veicoli elettrici;

d) le politiche per il contrasto dei cambiamenti climatici e per la finanza climatica e sostenibile e il risparmio ambientale anche attraverso tecnologie per la riduzione delle emissioni dei gas ad effetto serra.

 

Le politiche che questo ministero è chiamato a perseguire risultano essere, tra l’altro, strettamente funzionali al raggiungimento dei traguardi fissati dal PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza), e segnatamente dalla “Missione 2”, vale a dire dalla missione inerente alla “Rivoluzione Verde e la transizione ecologica”.

 

1.2. Segue: Il ruolo dell’Europa nel quadro delle politiche energetiche.

L’Unione Europea è indubbiamente la protagonista assoluta nel quadro della transizione energetica:

 essa infatti, non solo è stata la promotrice degli “Accordi di Parigi sul clima “del 2016 (di cui si dirà, più dettagliatamente, infra), ma ne è anche, nel novero dei soggetti firmatari, la più ligia e rispettosa.

 Essa, inoltre, si è anche distinta per la particolare attenzione dedicata a tale importante tematica, già a partire dal 2009, con l’adozione della Direttiva 2009/28/CE del 23 aprile 2009, “sulla promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili, recante modifica e successiva abrogazione delle direttive 2001/77/CE e 2003/30/CE”.

Tale direttiva, nota anche come RED I (Renewable Energy Directive), assegna agli Stati l’obiettivo di assicurare entro il 2020, da un lato, che una quota del 20% del consumo energetico abbia ad oggetto fonti rinnovabili, dall’altro, che il 10% del carburante utilizzato per i trasporti derivi da fonti rinnovabili.

 La direttiva, inoltre, ha anche stabilito i requisiti relativi alle metodologie che gli Stati membri avrebbero dovuto applicare per il raggiungimento dei propri obiettivi.

Alla RED I ha fatto seguito, nel 2018, la Direttiva UE 2018/2001 “sulla promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili”, c.d. RED II, con la quale le quote target sopra citate sono state innalzate, rispettivamente, al 32 % e al 14% entro il 2030, per poi essere riviste ulteriormente al rialzo nel luglio 2021, portandole, sempre entro il 2030, rispettivamente, al 40% ed al 22%.

 

L’Unione Europea, d’altra parte, ricopre un ruolo di prim’ordine non solo nell’ambito della politica energetica euro unitaria, ma anche nel quadro delle politiche nazionali attraverso la previsione di importanti incentivi finalizzati al potenziamento della filiera di produzione delle energie rinnovabili nazionali, tra i quali sono da annoverare i fondi stanziati nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR).

 

Nonostante tali pregevoli iniziative, l’UE, tuttavia, sconta l’assenza di una politica comune relativa alle energie rinnovabili più longeva e meno frammentata, vale a dire vincolante per tutti gli Sati membri, per via dell’inevitabile disomogeneità derivante dal recepimento delle direttive da parte dei singoli aderenti, circostanza che pone l’Unione in una posizione di non indipendenza dal punto di vista energetico, non solo dal lato delle energie rinnovabili, ma anche dal lato delle fonti da combustibili fossili.

 La dipendenza dell’UE dalle importazioni di Gas da parte della Federazione Russa, si attestava, nel 2022, attorno al 45%. In considerazione di ciò, appare, dunque, improrogabile che si acceleri sul fronte della transizione energetica affinché l’UE non debba dipendere, oltre che così massicciamente, da paesi che non rispettano i valori fondanti dell’Unione, la cui obliterazione viene per di più resa possibile dalle risorse finanziarie che la stessa Unione fa confluire attraverso l’acquisto delle risorse combustibili fossili.

Sintomo di questa urgente necessità è che l’UE non si stia muovendo esclusivamente dal punto di vista legislativo, ma anche sul fronte commerciale e segnatamente della fissazione di un price cap (dinamico e temporaneo) al prezzo del gas, ponendo così un freno alle speculazioni che si sono verificate presso la Borsa di Amsterdam, che, come già sopra segnalato, hanno più che decuplicato il prezzo del gas nell’arco di pochi mesi.

Va salutata, quindi, con favore l’adottata strategia dell’Unione a questo rilevantissimo tema, oltre che con i richiamati interventi, anche in un’ottica di destinazione di bilancio, avendo la Commissione dichiarato di voler destinare il 20% del proprio bilancio al clima.

 

1.3. Segue: Il ruolo delle PMI nel quadro della transizione energetica.

La transizione energetica, sul piano nazionale, non può prescindere dal ruolo centrale che in tale contesto deve riconoscersi alle PMI, le quali rappresentano, secondo il rapporto ISTAT 2019, il 99,9% del totale delle imprese operanti nel nostro paese, generando oltre il 70% del fatturato ed impiegando oltre l’81% dei lavoratori, all’interno del sistema produttivo italiano.

 Di qui la necessità di sollecitare, cosa non facile, il mondo delle PMI affinché esse si adeguino alle necessità nazionali, considerando che, secondo quanto riferito dal report di AGI sull’impronta ecologica delle PMI, circa il 70% dell’inquinamento complessivo è prodotto da queste ultime.

 

Per la identificazione delle PMI è necessario fare riferimento alla definizione fornita (in conformità con l’art. 2 della raccomandazione della Commissione europea 2003/361/CE del 6 maggio 2003), dall’art. 2, commi 1-3, del DM 18 aprile del 2005 del MISE, secondo cui «La categoria delle microimprese, delle piccole imprese e delle medie imprese (complessivamente definita PMI) è costituita da imprese che:

a) hanno meno di 250 occupati, e

 b) hanno un fatturato annuo non superiore a 50 milioni di euro, oppure un totale di bilancio annuo non superiore a 43 milioni di euro.

 2. Nell’ambito della categoria delle PMI, si definisce piccola impresa l’impresa che: a) ha meno di 50 occupati, e

b) ha un fatturato annuo oppure un totale di bilancio annuo non superiore a 10 milioni di euro.

 3. Nell’ambito della categoria delle PMI, si definisce microimpresa l’impresa che: a) ha meno di 10 occupati, e

 b) ha un fatturato annuo oppure un totale di bilancio annuo non superiore a 2 milioni di euro».

Il ricorso a fonti energetiche rinnovabili comporta un notevole impegno economico, da affrontare, per di più, in un contesto energetico in cui la fonte combustibile fossile rappresenta ancora l’archetipo di normalità;

 di qui la ragione per le microimprese – che, sempre secondo il menzionato rapporto ISTAT 2019, risultano essere il 95,2% delle imprese attive – di ritenere l’investimento in fonti energetiche rinnovabili un obiettivo economicamente insostenibile, specie in un contesto economico competitivo e contrassegnato da fattori di instabilità di vario genere, e, sotto altro profilo, la scarsa rilevanza dell’apporto economico (ed incentivante) fornito dal citato DM del 10 febbraio 2022, relativo alla sostenibilità ed alla “svolta green” delle PMI, posto che, in base a quanto sancito dell’art. 3, comma 1, del DM medesimo, relativamente ai 677 milioni di euro stanziati ai fini dell’adeguamento di tali realtà ai criteri di sostenibilità, non solo almeno il 25% è riservato alle piccole e microimprese, ma il 63% circa dell’intero stanziamento (pari a 427 milioni di euro) riguarda le entità presenti nel territorio del mezzogiorno, florido, stando a quanto affermato dal summenzionato rapporto ISTAT, in prevalenza, rispetto alle medie imprese, di piccole imprese e microimprese.

Con riguardo, in particolare, alla tematica della transizione energetica risulta essere di fondamentale importanza l’art. 7, comma 1, lettere a) e c), del DM in questione, secondo cui, tra le spese ammissibili, sono ricomprese quelle, rispettivamente, per «macchinari, impianti e attrezzature» e «programmi informatici e licenze correlati all’utilizzo dei beni materiali di cui alla lettera a)».

 I finanziamenti inoltre, nell’incentivare l’istallazione di impianti funzionali alla produzione di energia rinnovabile, ammettono che tra essi, ai sensi del punto 4 dell’allegato 3 al DM, si annoverino gli impianti di produzione di energia termica o elettrica da fonte rinnovabile.

Sempre nell’ottica di un pieno e rigoroso rispetto delle normative ambientali e con l’obiettivo di favorire, senz’alcuna distorsione, la transizione energetica, l’art 12 del DM sancisce che «(i)n ogni fase del procedimento il Ministero può effettuare, anche per il tramite del soggetto gestore, controlli e ispezioni, anche a campione, sulle iniziative agevolate, al fine di verificare le condizioni per la fruizione e il mantenimento delle agevolazioni, nonché l’attuazione degli interventi finanziati».

 

2. Sostenibilità e criteri ESG nel quadro della ragionevole preminenza (rispetto agli altri) del profilo di “governance”.

La tematica della transizione energetica è intrinsecamente connessa allo sviluppo sostenibile, il quale, secondo una definizione riscontrabile all’interno del Rapporto Brundtland, della “World Commission on Environment and Development” (WCED), 1987, altro non è se non lo sviluppo che «ensure that it meets the needs of the present without compromising the ability of future generations to meet their own needs».

 

Seguendo questo tracciato, si assiste oggi all’affermazione di un modello di CSR (Corporate Social Responsability) che trova le sue fondamenta nel modello del “Triple Bottom Line” – anche denominato “sistema delle 3P” (People, Planet, Profit) – elaborato negli anni ’90 da John Elkington, ad avviso del quale è opportuno incoraggiare le imprese ad includere, all’interno della propria rendicontazione contabile, non solo le performance di natura economica, ma anche quelle sociali e ambientali.

 

Sintomo, in particolare, della grande attenzione della comunità internazionale sono gli SDG (Sustainable Development Goals), ratificati nel 2015 da tutti i 193 membri dell’Organizzazione delle Nazioni Unite in quanto obiettivi comuni agli stessi, i quali – come definiti dalle Nazioni Unite – si articolano in 17 obiettivi di sviluppo sostenibile, a loro volta articolati in 169 traguardi specifici, da raggiungere entro il 2030.

 

Sul tema della sostenibilità sono di prioritario interesse tanto gli Accordi di Parigi del 2015 quanto l’Agenda 2030 delle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile:

 entrambi i documenti, infatti, mirano a ricercare il perfetto connubio tra sostenibilità, pianeta ed economia:

 l’accordo firmato a Parigi nel dicembre 2015 da 195 paesi, costituisce, in particolare, il primo accordo universale sul clima mondiale per adattare e rafforzare la resilienza ai cambiamenti climatici e per contenere il riscaldamento climatico a un valore ben inferiore a 2 gradi centigradi.

La sostenibilità e la transizione verso un’economia a basso contenuto di carbonio, più efficiente in termini di risorse e circolare sono elementi fondamentali per garantire la competitività a lungo termine dell’economia dell’UE.

Per tale ragione, da molto tempo il tema della sostenibilità si trova al centro del progetto dell’Unione Europea e i suoi trattati ne riconoscono le dimensioni sociale e ambientale, così da favorire, garantendo la crescita economica, uno sviluppo che soddisfi le esigenze delle generazioni presenti e future e la creazione allo stesso tempo nuove opportunità di occupazione e investimento.

Ed è appunto in una prospettiva di sviluppo sostenibile che vanno ad incasellarsi i criteri ESG e lo studio della stessa tematica “ESG”, il quale impone, secondo una logica giuridico-regolamentare, di definire tanto il significato dell’acronimo, quanto l’esatta perimetrazione del contenuto delle singole aree che compongono la menzionata tematica, avendo tuttavia presente che, in una ipotetica ordinazione delle tre diverse aree tematiche, la Governance (rectius: il profilo riguardante la lettera “G”) dovrebbe essere collocata quale prima lettera dell’acronimo, nel presupposto che, per comune esperienza generale e perciò anche con riguardo alla tematica di che trattasi, non vi è valutazione e scelta gestionale, accurata o meno che sia, che non transiti da determinazioni imputabili alla persona fisica preposta a ricoprire posizioni organiche.

 

Con riguardo al primo profilo, la risposta è che l'acronimo “ESG” sta per “environmental, social and governance” , mentre, con riguardo al secondo profilo, vale a dire all'esatta perimetrazione dell'ampia materia, utili indicazioni si ricavano dalla pagina web della Commissione Europea dedicata alla “Finanza sostenibile” e segnatamente:

«La finanza sostenibile si riferisce al processo di presa in considerazione di considerazioni ambientali, sociali e di governance (ESG) quando si prendono decisioni di investimento nel settore finanziario, portando a investimenti più a lungo termine in attività e progetti economici sostenibili.

 Le considerazioni ambientali potrebbero includere la mitigazione e l'adattamento ai cambiamenti climatici, così come l'ambiente in senso più ampio, ad esempio la conservazione della biodiversità, la prevenzione dell'inquinamento e l'economia circolare.

Le considerazioni sociali potrebbero riferirsi a questioni di disuguaglianza, inclusività, relazioni di lavoro, investimenti nel capitale umano e nelle comunità, così come questioni relative ai diritti umani.

 La governance delle istituzioni pubbliche e private – comprese le strutture gestionali, i rapporti con i dipendenti e la remunerazione dei dirigenti – svolge un ruolo fondamentale nel garantire l’inclusione di considerazioni sociali e ambientali nel processo decisionale».

 Da qui l'idea, ai fini del presente contributo, di attribuire all'acronimo “ESG” due accezioni, tra loro complementari:

 a) quale obiettivo a cui deve tendere l'agire pubblico, imprenditoriale e dei cittadini (approccio orientato agli obiettivi);

 b) quale set di criteri a cui parametrare detto agire, al fine, da un lato, di incentivarlo, dall'altro, di contrastare, anche attraverso forme di incentivazione, comportamenti e pratiche incompatibili con il raggiungimento di detto obiettivo.

 

3. Cenni sulla dimensione economico-finanziaria della sostenibilità.

L’attenzione che le istituzioni, i mass media e financo la società civile rivolgono alla tematica della sostenibilità, possiede oggi un peso considerevole;

non deve pertanto stupire che, sempre più imprese, al fine di garantirsi un vantaggio competitivo, fanno, almeno formalmente, della tematica della sostenibilità un proprio vessillo, allo scopo di ottenere incentivi statali e, anche, di acquisire nuove quote di mercato.

 

L’orientamento in questione non riguarda, tuttavia, esclusivamente le imprese produttrici di beni fisici, bensì, ed in maniera rilevante, anche i soggetti che operano nel campo della finanza mobiliare.

 

In relazione a tale ultimo profilo, giova considerare come l’Unione Europea, in proposito, abbia adottato – nella piena consapevolezza che sono le imprese a tracciare, nella realtà quotidiana, la strada verso l’obiettivo di un contesto propriamente sostenibile – plurimi atti normativi.

 

Rileva, in particolare, la seguente regolamentazione:

 

Regolamento (UE) 2019/2088 “relativo all’informativa sulla sostenibilità nel settore dei servizi finanziari” (c.d. SFDR);

Regolamento Delegato (UE) 2021/1253 “che modifica il Regolamento Delegato (UE) 2017/565 per quanto riguarda l’integrazione dei fattori, dei rischi e delle preferenze di sostenibilità in taluni requisiti organizzativi e condizioni di esercizio delle attività delle imprese di investimento”.

Il Reg. 2019/2088, a cui si deve, tra l’altro, il merito di aver fornito una definizione normativa di ”investimento sostenibile” attraverso l’art. 2, paragrafo 17, si pone l’obiettivo, sancito all’art. 1 del medesimo, di armonizzare la normativa in tema di «trasparenza per i partecipanti ai mercati finanziari e i consulenti finanziari per quanto riguarda l’integrazione dei rischi di sostenibilità e la considerazione degli effetti negativi per la sostenibilità nei loro processi e nella comunicazione delle informazioni connesse alla sostenibilità relative ai prodotti finanziari» attraverso la creazione di standard comuni per la rendicontazione e la divulgazione di informazioni, sì da orientare, in tale quadro, gli investitori verso una scelta più informata e consapevole della tipologia di prodotto finanziario oggetto della propria attenzione.

 

In ragione di tali obiettivi, vengono stabiliti appositi obblighi di trasparenza tanto a livello di soggetto operante (c.d. entity level), quanto di prodotto finanziario (c.d. product level), con particolare riferimento ai possibili profili negativi in danno della sostenibilità.

 

Il regolamento “SFDR” prevede, inoltre, la classificazione dei prodotti finanziari in due categorie a seconda del livello di considerazione dei fattori di sostenibilità, specificati ai sensi degli artt. 8, paragrafo 1, e 9, paragrafi 1-3, i quali precisano rispettivamente:

«Se un prodotto finanziario promuove, tra le altre caratteristiche, caratteristiche ambientali o sociali, o una combinazione di tali caratteristiche, a condizione che le imprese in cui gli investimenti sono effettuati rispettino prassi di buona governance, le informazioni da comunicare a norma dell’articolo 6, paragrafi 1 e 3, includono quanto segue:

a) informazioni su come tali caratteristiche sono rispettate;

b) qualora sia stato designato un indice come indice di riferimento, informazioni che indichino se e in che modo tale indice è coerente con tali caratteristiche»;

«Se un prodotto finanziario ha come obiettivo investimenti sostenibili ed è stato designato un indice come indice di riferimento, le informazioni da comunicare a norma dell’articolo 6, paragrafi 1 e 3, sono accompagnate:

 a) da informazioni che indicano in che modo l’indice designato è in linea con detto obiettivo;

b) da una spiegazione che indica perché ed in che modo l’indice designato in linea con detto obiettivo differisce da un indice generale di mercato. S

e un prodotto finanziario ha come obiettivo investimenti sostenibili e non è stato designato alcun indice come indice di riferimento, le informazioni da comunicare a norma dell’articolo 6, paragrafi 1 e 3, includono la spiegazione del modo in cui è raggiunto tale obiettivo.

 3. Se un prodotto finanziario ha come obiettivo la riduzione delle emissioni di carbonio, le informazioni da comunicare a norma dell’articolo 6, paragrafi 1 e 3, includono l’obiettivo di un’esposizione a basse emissioni di carbonio in vista del conseguimento degli obiettivi a lungo termine in materia di lotta al riscaldamento globale previsti dall’accordo di Parigi».

Già da una prima lettura, è possibile scorgere come gli strumenti di cui all’art. 8, paragrafo 1 – nonostante presentino necessariamente profili di connessione ed attenzione alle tematiche climatico-ambientali e/o sociali oltre che al rispetto delle buone pratiche di governance – non vengano qualificati, diversamente da quanto accade con riferimento agli strumenti di cui all’art 9, paragrafi 1-3, come prodotti di investimento sostenibile, attesa la mancata integrale rispondenza di tali strumenti al dettato di cui all’art. 2, paragrafo 17: per i prodotti di cui all’art. 8, paragrafo 1, non è, infatti, necessaria una totale adesione ai profili ESG, risultando per essi sufficiente una mera attenzione alle suddette tematiche; e ciò diversamente da quanto previsto ai sensi dell’art. 9, paragrafi 1-3, che, facendo espresso riferimento alla nozione di investimento sostenibile, richiama automaticamente l’omologa definizione sopra menzionata. Di qui la ragione, legata al differente grado di pervasività delle tematiche ESG, della distinzione tra strumenti di cui all’art. 8, paragrafo 1, denominati “light green”, e strumenti di cui all’art. 9, paragrafi 1-3, definiti “dark green”.

 

Da un primo esame delle evidenze di mercato, sembrerebbe emergere, allo stato, un adeguamento tattico, da parte degli operatori, ai requisiti normativi ESG: segnatamente, la maggioranza dei player operanti nel mercato italiano sembrerebbe avere inserito i rischi di sostenibilità nei propri processi decisionali attraverso l’adozione di soluzioni di rating provider terzi in ambito ESG e/o di policy di esclusione di settori qualificabili come “controversi”.

Con riferimento, in particolare, alle citate classificazioni di cui agli artt. 8 e 9, sembrerebbero al momento presenti sul mercato diverse tipologie di strumenti, prevalentemente “light green”, ma con una tendenza graduale verso gli strumenti “dark green”.

 

Il Reg. 2021/1253, invece, integra la normativa di riferimento in materia di servizi di investimento, di cui alle disposizioni contenute nel Reg. 2017/565, considerando le tematiche di sostenibilità, con l’obiettivo di aggiornare i processi di consulenza e di tutela degli investitori, soprattutto attraverso l’aggiornamento del processo di produzione e di gestione dei prodotti (c.d. Product Governance).

 

Per i prestatori di servizi di consulenza in materia di investimenti le principali modifiche si traducono nell’esigenza di:

raccogliere le preferenze di sostenibilità dei propri clienti, procedendo contestualmente all’integrazione, con apposite domande a tema ESG, dei questionari di profilatura MiFID;

aggiornare i modelli di adeguatezza tramite la previsione di controlli aggiuntivi, atti a verificare la corrispondenza tra le preferenze di sostenibilità raccolte e i prodotti raccomandati;

estendere il catalogo prodotti con particolare focus sui prodotti con caratteristiche ESG.

Infine, ad ulteriore conferma del ruolo di primaria rilevanza della normativa UE (anche) nel settore di che trattasi, va menzionata la recente proposta di direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio “relativa al dovere di diligenza delle imprese ai fini della sostenibilità e che modifica la direttiva (UE) 2019/1937” del 23.2.2022, meglio conosciuta con il nome di “Corporate Sustainability Due Diligence Directive (CSDD).

 

Essa mira alla promozione, da parte delle imprese attive nel mercato europeo, di pratiche finalizzate alla contribuzione dello sviluppo sostenibile nonché della transizione economica e sociale attraverso la tutela dei diritti umani e dell’ambiente; e ciò non solo da parte delle imprese con riferimento all’attività da essa svolta, bensì anche con riguardo alle attività svolte dalle proprie controllate, fino a risalire a tutta la” value chain” di cui sono parte, individuando, quali destinatarie, società inquadrabili all’interno di due macro-categorie:

grandi e medie imprese europee;

imprese extra-UE con un fatturato netto generato in UE superiore a Euro 150.000.000 nell’ultimo esercizio, ovvero, congiuntamente che (i) abbiano generato un fatturato netto in UE superiore ad Euro 40.000.000, ma non superiore a Euro 150.000.000, di cui almeno il 50% generato in UE in uno o più settori ad elevato impatto.

La Direttiva prevederebbe, tra l’altro:

l’integrazione di obblighi di diligenza nelle proprie politiche di gestione;

la prevenzione o mitigazione di possibili impatti negativi futuri;

l’eliminazione o, quantomeno, la marginalizzazione degli attuali impatti negativi;

la pubblicazione delle informazioni relative agli obblighi di diligenza.

Sul testo della proposta, in data 25.4.2023, si è espressa favorevolmente la Commissione giuridica del Parlamento Europeo (c.d. JURI), incentrando la propria attenzione, in particolare, sul profilo sanzionatorio e precisando, come riportato sul sito dell’Europarlamento,

«Non-compliant companies should be liable for damages and EU governments would establish supervisory authorities with the power to impose sanctions. MEPs want fines to be at least 5% of the net worldwide turnover and to ban non-compliant third-country companies from public procurement».

 La proposta di Direttiva ha poi, da ultimo, visto avanzare il proprio iter procedimentale in direzione dell’emanazione, in data 1° giugno 2023, di un documento (consultabile sul portale web del Parlamento UE), approvato dal Parlamento Europeo medesimo in seduta plenaria, con il quale questo, prendendo posizione relativamente al testo della proposta di Direttiva, conferma quanto già in proposito espresso dalla Commissione giuridica, affermando che

«…le aziende saranno tenute a identificare e, se necessario, prevenire, porre fine o mitigare, l’impatto negativo che le loro attività hanno su diritti umani e ambiente, come il lavoro minorile, la schiavitù, lo sfruttamento del lavoro, l’inquinamento, il degrado ambientale e la perdita di biodiversità. Inoltre, dovranno monitorare e valutare l’impatto sui diritti umani e sull’ambiente dei loro partner della catena del valore, compresi i fornitori, la vendita, la distribuzione, il trasporto, lo stoccaggio, la gestione dei rifiuti e altre aree. (…)

 Le nuove norme prevedono anche che le imprese collaborino e sostengano le persone colpite dalle loro azioni, compresi gli attivisti per i diritti umani e l’ambiente, introducano un meccanismo di reclamo e controllino regolarmente l’efficacia della loro politica di diligenza dovuta.

Per facilitare l’accesso degli investitori, le informazioni sulla politica della diligenza dovuta di una società dovrebbero essere disponibili anche sul “Punto unico d’accesso europeo” (ESAP). (…)».

 

4. L’assoluta rilevanza del “Rating” quale strumento di misurazione degli adempimenti ESG.

Al fine di fornire ai criteri ESG effettiva rilevanza, è avvertita la necessità di sviluppare specifici framework di rating relativi all’ambito in esame.

 Dall’analisi dei principali rating ESG disponibili, è stato possibile formulare quanto segue:

l’emersione di considerazioni non strettamente finanziarie in ordine alla valutazione aziendale è legata a un processo c.d.” investor-driven”:

 in tale quadro, i rating ESG, pur nella loro disomogeneità, hanno svolto un ruolo cruciale nel favorire la diffusione di valutazioni di sostenibilità;

il mercato dei framework di rating ESG è, attualmente, molto competitivo; di qui lo stimolo, da parte di molte agenzie di rating, a sviluppare, con le evidenti difficoltà in termini di disomogeneità del servizio offerto, il proprio specifico modello di valutazione (nel 2018 si potevano contare più di 600 modelli di rating ESG a livello globale);

allo scopo di consolidare e rendere più trasparenti ed attendibili le valutazioni ESG, è di fondamentale importanza sviluppare standard quanto più oggettivi possibile, al fine di guidare le società nella rendicontazione, sì da permettere loro di fornire una trasparente e reale disclosure in merito alle proprie performance ESG.

Emerge quindi, la necessità di assicurare una corretta valutazione del grado di allineamento ai criteri ESG, derivando da tale circostanza la possibilità, tra l’altro, di:

collegare gli obiettivi aziendali in tema ESG a parametri oggettivi, quantificabili e misurabili, evitando fenomeni di greenwashing;

valutare le performance di sostenibilità in termini realmente oggettivi a cui collegare le remunerazioni dei vertici aziendali;

comparare le performance e gli impatti ESG di società diverse;

migliorare la disclosure delle informazioni ESG agli stakeholders di riferimento;

individuare i rischi collegati ai fattori ESG attraverso la loro corretta misurazione e rendicontazione;

agevolare la rendicontazione delle performance ESG delle società target e di quelle in portafoglio.

Tra gli standard di rendicontazione utilizzati per la costruzione di questionari e sistemi di valutazione (id est: di rating) su scala internazionale è possibile individuare:

il sistema GRI (Global Reporting Initiative):

 lo standard maggiormente utilizzato dalle imprese italiane nella rendicontazione non finanziaria;

si tratta di un sistema con cui le imprese, attraverso un’analisi di materialità, individuano i fattori centrali per la propria performance e i propri impatti ESG sulla base di “un concetto di double materiality”, obbligando le imprese a rendicontare non solo i fattori ESG che influenzano i risultati aziendali (financial materiality), ma anche gli impatti dell’azienda stessa sulla società e sull’ambiente (outward materiality);

il sistema CDP (Carbon Disclosure Project):

si tratta di un sistema sector-based globale che permette alle imprese di gestire le informazioni riguardanti quattro aspetti del cambiamento climatico [id est: (i) emissioni di GHG (Green House Gas: misura che esprime in CO2 equivalente il totale delle emissioni di gas ad effetto serra associate direttamente o indirettamente ad un prodotto, ad un’organizzazione o ad un servizio), (ii) consumi energetici, rischio idrico esistente e futuro, (iii) valutazione delle attività e delle materie prime legate alla deforestazione e (iv) valutazione della catena produttiva];

il sistema CDSB (Climate Disclosure Standards Board):

si tratta di un framework di rendicontazione internazionale utilizzabile da soggetti profit e non profit per il collegamento e l’integrazione delle informazioni ambientali nella performance aziendale; tale sistema – che viene principalmente utilizzato nel Regno Unito, in Giappone, in Sud Africa, in USA e Corea del Sud – si concentra su dieci aree di rilievo (sicurezza del consumatore, energia, finance, salute, industria, tecnologia, materiali, servizi di telecomunicazione, servizi e prodotti);

il sistema IR (Integrating Reporting):

quale reporting integrato che, attraverso l’esame di sei forme di capitale (capitale finanziario, capitale produttivo, capitale intellettuale, capitale umano, capitale sociale e relazionale e capitale naturale), ha l’obiettivo di dimostrare ai fornitori di capitale finanziario la capacità di un’organizzazione a creare valore nel tempo;

il sistema SASB (Sustainability Accounting Standards Board): attraverso tale sistema l’accounting sostenibile – che si compone di cinque profili fondamentali (Environment, Social Capital, Human Capital, Business Model & Innovation e Leadership & Governance) – riflette la capacità di gestione degli impatti sociali e ambientali di un’organizzazione.

Il quadro appena rappresentato è, all’evidenza, alquanto complesso ed articolato:

allo scopo di superare le citate difficoltà derivanti dall’utilizzo di un sistema fortemente frammentato, le grandi standard-setter a livello globale, hanno manifestato, nel settembre 2020, la necessità di collaborare al fine di definire standard di rendicontazione ESG comuni, proponendosi l’obiettivo di soddisfare le seguenti due fondamentali priorità:

stabilire framework di reporting minimi, standardizzati e sector-agnostic, ovvero contenenti un set di fattori comuni a tutte le società, che permettano una comparazione trasversale delle performance ESG;

definire un concetto di “materialità” idoneo ad integrare le diverse finalità sottese ai cinque standard facendo ricorso al concetto di dynamic materiality, che riflette la natura dei fattori di sostenibilità, il cui grado di interesse (per utenti e stakeholders) e la cui influenza (sulle performance aziendali) cambia nel tempo.

Tale sforzo viene manifestamente riconosciuto ed apprezzato dall'International Organization of Securities Commissions (IOSCO), la quale, all'interno del “ Report on International Work to Develop a Global Assurance Framework for Sustainability-related Corporate Reporting” dichiara che

« L'IOSCO è incoraggiata dalla tendenza degli emittenti a presentare le proprie informative relative alla sostenibilità per una verifica indipendente. L'IOSCO accoglie con favore il lavoro degli enti normativi verso standard di verifica etica (inclusa l'indipendenza) professionali che si basano sui requisiti e sui principi degli standard esistenti e che possono essere applicati a tutti i framework di reporting. L'ulteriore sviluppo di un framework di verifica globale fornirà spunti agli emittenti e ai fornitori di verifica mentre si preparano per gli impegni di verifica e supportano una verifica coerente, comparabile e affidabile sulle informazioni relative alla sostenibilità. (…)

 L'IOSCO incoraggia un coinvolgimento tempestivo con le iniziative degli enti normativi nell'intero ecosistema del reporting sulla sostenibilità per supportare la prontezza ad applicare gli standard finali di verifica ed etica (inclusa l'indipendenza) subito dopo la loro finalizzazione alla fine del 2024, anche su base volontaria. (…)

L’IOSCO incoraggia gli enti normativi a continuare a lavorare per sviluppare standard di alta qualità in modo tempestivo e in conformità con un solido processo, coinvolgendo le parti interessate per contribuire a sviluppare standard adatti allo scopo e che soddisfino l’interesse pubblico».

 

L’UE, il cui ruolo di leader nel settore si è già avuto modo di esplicitare, dopo aver introdotto, con il Reg. UE 2020/852, un sistema di classificazione delle attività sostenibili (c.d. “Tassonomia”, nel 2021 ha proposto l’adozione di nuova Direttiva, denominata anche CSRD (Corporate Sustainability Reporting Directive), approvata dal Consiglio dell’Unione Europea in data 28 novembre 2022 e trasposta nella Dir. (UE) 2022/2464 “che modifica il regolamento (UE) n. 537/2014, la direttiva 2004/109/CE, la direttiva 2006/43/CE e la direttiva 2013/34/UE per quanto riguarda l’informativa sulla sostenibilità delle imprese”.

 

La citata direttiva – che riguarda gli obblighi informativi in materia di sostenibilità e che, tra l’altro, modifica la precedente Direttiva UE 2014/95 nota anche come Direttiva NFRD (Non-Financial Reporting Directive) – estende la portata degli obblighi informativi a tutte le imprese di grandi dimensioni e alle imprese quotate, imponendo, altresì, sia l’obbligo di certificazione delle informazioni sulla sostenibilità sia uno specifico cronoprogramma per l’adempimento di tali obblighi, che, in particolare, si applicheranno:

dal 1° gennaio 2024 alle società già soggette alla direttiva sulla rendicontazione non finanziaria;

dal 1° gennaio 2025 alle grandi società che non sono attualmente soggette alla direttiva sulla rendicontazione non finanziaria;

dal 1° gennaio 2026 alle PMI quotate, agli istituti di credito di piccole dimensioni (e non complessi) e alle imprese di assicurazione “captive”.

La Direttiva, inoltre, prevede la standardizzazione del reporting non finanziario, tramite l’adozione, a partire da ottobre 2022, di parametri di misurazione ESG comuni a livello europeo, i quali – tenuto conto anche della definitiva approvazione nel dicembre 2022, da parte dell’EFRAG (European Financial Reporting Advisory Group)[30] degli ESRS (European Sustainability Reporting Standard)[31] – si inquadrano in tre livelli:

indicatori sector-agnostic, vale a dire indicatori comuni e obbligatori per tutte le imprese, indipendentemente dal loro settore di appartenenza, che permettono la comparazione in termini di sostenibilità, tra imprese e settori diversi;

indicatori sector-specific, cioè indicatori specifici per i diversi settori, necessari per esaltare la rilevanza di quanto riportato;

indicatori entity-specific, idonei a riflettere la realtà del segnalante, posto che ogni ente soggetto a reporting è il risultato di una combinazione di fattori differenti da ogni altro soggetto, con rischi e opportunità specifici.

Va segnalata, infine, la individuazione, da parte dell’ESG European Institute, di 22 fattori ricorrenti all’interno dei framework più utilizzati, con l’obiettivo di proporne l’inserimento all’interno del livello sector-agonistic.

 

4.1. Segue: Il ruolo delle Autorità Nazionali ed Europee.

Non sfugge, dunque, la rilevanza della tematica dei rischi ambientali e in particolare, del rating ESG, con riguardo, in via generale, a qualunque settore di applicazione e, a fortiori, nel quadro delle attività bancarie e finanziarie.

 Ne sono una dimostrazione le molteplici dichiarazioni rese, in tale ultimo ambito, dalle principali autorità di vigilanza di settore, sia nazionali, sia europee (BCE, EBA, ESAMA e BANCA D’ITALIA).

 La BCE, per di più, ha inserito il rischio ambientale tra le priorità di vigilanza per il triennio 2022/2024, segnalando «la visione della BCE in merito a una gestione sicura e prudente dei rischi climatici e ambientali nell’ambito del quadro prudenziale vigente, (e) descrivendo le sue aspettative riguardo a come gli enti dovrebbero tenere conto di tali rischi (quali fattori determinanti per le categorie di rischi preesistenti) nella formulazione e attuazione delle strategie aziendali e dei sistemi di governance e di gestione dei rischi»;

 la stessa sottolinea, inoltre, che «gli enti dovrebbero accrescere la propria trasparenza rafforzando l’informativa sugli aspetti climatici e ambientali».

In tale contesto s’inserisce il Documento BCE pubblicato in data 23 gennaio 2023 e denominato “Verso indicatori statistici legati al clima” destinato «a supportare l’analisi delle questioni legate al clima per il settore finanziario» e, anche, a «facilitare un dibattito pubblico e di consentire un aperto scambio di opinioni (anche sugli aspetti metodologici) con la comunità dei ricercatori e gli altri stakeholder su come ottenere ulteriori progressi verso la derivazione di indicatori statistici».

 

La BCE in tale Documento individua, in particolare, tre macrocategorie di indicatori:

indicatori sperimentali di finanza sostenibile;

indicatori analitici sulle emissioni di carbonio;

indicatori analitici sui rischi fisici.

Per quanto concerne i primi (indicatori di finanza sostenibile), essi «forniscono una panoramica dell’emissione e della detenzione di strumenti di debito con caratteristiche di sostenibilità da parte dei residenti nell’area dell’euro.

 Questi indicatori forniscono informazioni sui proventi raccolti per finanziare progetti sostenibili e quindi la transizione verso un’economia a zero emissioni.

 Questi dati dovrebbero portare trasparenza al mercato e sono rilevanti per l’inclusione delle considerazioni sul cambiamento climatico nella progettazione e nell’attuazione della politica monetaria della BCE, nonché nell’analisi della stabilità economica e finanziaria.

Questo set di dati è già piuttosto completo ed è pubblicato in via sperimentale.

 I limiti rimanenti sono dovuti principalmente alla mancanza di definizioni armonizzate e accettate a livello internazionale di alcuni concetti».

 

Tali indicatori concernono:

le emissioni di titoli di debito sostenibili, i quali, a mente del Documento, «sono rilasciati per area di emittenti al valore nominale e di mercato. La ripartizione per classificazione di sostenibilità (verde, sociale, di sostenibilità e legata alla sostenibilità) è disponibile solo per l’area dell’euro e l’UE nel suo complesso. La ripartizione per settore di emissione e per singolo Paese dell’area dell’euro è disponibile solo per i green bond; lo stesso vale per le emissioni nette (transazioni finanziarie), che sono disponibili solo per l’area dell’euro. I titoli sono considerati conformi ai criteri di sostenibilità se etichettati come tali dall’emittente (cioè si accetta un livello di garanzia debole). I nuovi aggregati sono disponibili con frequenza mensile circa dieci giorni lavorativi dopo la fine del periodo di riferimento (t+10)»;

la detenzione di titoli di debito sostenibili, i quali, sempre a mente del Documento,

 «comprendono una ripartizione per classificazione di sostenibilità per l’aggregato dell’area dell’euro (al valore nominale e di mercato), compresa una ripartizione per area della controparte emittente (area dell’euro, UE, resto del mondo).

Le disaggregazioni per settore di detenzione e per singolo Paese dell’area dell’euro sono disponibili solo per i “green bond”;

lo stesso vale per le transazioni finanziarie, che sono disponibili solo per l’area dell’euro.

 In linea con gli indicatori sulle emissioni, si accetta un livello di garanzia I nuovi aggregati saranno diffusi con frequenza trimestrale a circa t+2 mesi».

Relativamente agli indicatori analitici sulle emissioni di carbonio, la BCE precisa che essi «forniscono informazioni sull’intensità di carbonio dei portafogli titoli e prestiti di tali istituzioni finanziarie e contribuiscono quindi a valutare il ruolo del settore nel finanziamento della transizione verso un’economia a zero emissioni e i rischi correlati.

 Gli indicatori forniscono informazioni sull’esposizione delle banche nei confronti di controparti con un’elevata dipendenza da modelli di business ad alta intensità di emissioni di carbonio.

Queste informazioni sono importanti per valutare i rischi di transizione nel contesto della politica monetaria, della stabilità finanziaria e della vigilanza bancaria.

 Tuttavia, il set di dati sottostante presenta notevoli limiti, soprattutto in termini di copertura, poiché è stato compilato utilizzando informazioni relative solo a un sottoinsieme delle esposizioni totali in prestiti e titoli nell’area dell’euro.

 Inoltre, i dati soffrono di incoerenze intertemporali, poiché i tassi di copertura, e quindi la composizione del campione, variano nel tempo e i valori nominali non sono corretti per gli effetti dei prezzi e dei tassi di cambio.

 Di conseguenza, gli indicatori devono essere interpretati con cautela e considerati come un lavoro in corso e di natura analitica».

 

Tali indicatori si suddividono in:

 

indicatori sul finanziamento delle attività ad alta intensità di carbonio, i quali «mirano a fornire informazioni sul modo in cui il settore finanziario contribuisce al finanziamento delle attività economiche ad alta emissione. A tal fine, si esamina la quantità (quota) delle emissioni totali di carbonio delle imprese non finanziarie che possono essere collegate alle istituzioni finanziarie in base all’insieme di titoli e portafogli di prestiti identificabili.

 I seguenti indicatori sul finanziamento delle attività ad alta intensità di carbonio possono essere utilizzati per valutare l’evoluzione delle emissioni dei debitori/emittenti nel tempo prima (e in preparazione) della transizione verso un’economia a zero emissioni»;

indicatori sull’esposizione ai rischi di transizione, i quali sono «derivanti dall’esposizione dei portafogli di prestiti e titoli ad attività economiche con rischi elevati (emissioni).

 Va notato che, in questa fase, tutti gli indicatori rilevano solo le attività ad alta intensità di emissioni dei debitori/emittenti stessi e non rilevano i rischi derivanti da modelli di business basati su prodotti intermedi ad alta intensità di emissioni (cioè le emissioni generate lungo la catena del valore).

 L’esposizione viene valutata cogliendo l’importo relativo del finanziamento delle attività economiche che potrebbero essere interessate dalla transizione a zero A differenza degli indicatori relativi al finanziamento di attività ad alta intensità di carbonio, questi indicatori utilizzano il valore del portafoglio dei creditori come variabile di standardizzazione, ossia assumono la prospettiva dell’investitore. Pertanto, sebbene le metriche non possano essere intese come misure di rischio di per sé, servono come metriche di esposizione che possono informare le valutazioni del rischio».

Infine, per quanto concerne gli indicatori analitici sui rischi fisici, essi sono «utilizzati per quantificare i rischi fisici dovrebbero coprire il maggior numero possibile di rischi naturali acuti.

 Il presente rapporto si concentra su un sottoinsieme di rischi selezionati sulla base (i) dell’importanza storica dei rischi in Europa (ad esempio, dal 1980 al 2020 circa il 77% di tutti i costi dei danni nell’UE28 sono stati causati da eventi meteorologici e idrologici) o delle previsioni future (ad esempio, si prevede che i danni da stress idrico e da incendi selvaggi aumenteranno nei prossimi decenni), e (ii) della qualità di base dei dati su tali pericoli.

Alcuni rischi, come le ondate di calore, che hanno un effetto più indiretto sulla salute umana, non sono ancora inclusi in questa serie di indicatori».

 

Tali indicatori concernono:

la «(e)sposizione normalizzata al rischio (NEAR):

la percentuale del portafoglio a rischio dove l’esposizione di ciascun debitore/emittente è ponderata per un indice di rischio finanziario.

 Questo rapporto mette in relazione le perdite annue attese (EAL) con misure di performance finanziaria (ricavi) o di dimensione aziendale (totale attivo).

 L’EAL fornisce una stima del rischio che si basa esplicitamente su danni monetari e consente aggregazioni tra i rischi, cosa che non avviene per gli indicatori di punteggio.

Allo stato attuale, la qualità e la disponibilità dei dati sottostanti non sono sempre sufficienti per calcolare indicatori basati sull’EAL per tutti i pericoli.

Tuttavia, sono disponibili indicatori basati sull’EAL per le inondazioni costiere, le inondazioni fluviali e le tempeste di vento»;

la «(e)sposizione potenziale al rischio (PEAR):

la percentuale del portafoglio esposta ai rischi fisici, basata sull’esposizione finanziaria totale per tutte le entità che hanno un punteggio di rischio superiore a zero (si veda il punto 3 per la scala di rischio).

 Il PEAR offre un valore potenziale (“massimo”) a integrazione del valore specifico fornito da NEAR. Gli indicatori basati sulle esposizioni totali sono facili da interpretare e meno impegnativi da calcolare, in quanto per il loro calcolo non sono necessari i dati di vulnerabilità (analogamente ai punteggi di rischio riportati di seguito»;

i «Punteggi di rischio (RS):

integrano il PEAR suddividendo le esposizioni in categorie di livello di rischio e indicano la percentuale del portafoglio associata a una specifica classe di rischio da 0 (nessun rischio) a 5 (rischio molto elevato). I punteggi a livello di capogruppo (quando più entità appartengono allo stesso gruppo) sono calcolati utilizzando medie semplici».

L'Autorità Bancaria Europea (EBA), dal canto suo, afferma che « L'EBA ha ricevuto diversi mandati per valutare come includere i rischi ambientali, sociali e di governance (ESG) nei tre pilastri del quadro prudenziale bancario.

 Questo rapporto valuta la loro potenziale inclusione nel Pilastro 2 fornendo definizioni comuni dei rischi ESG, elaborando le disposizioni, i processi, i meccanismi e le strategie che devono essere implementati dagli istituti di credito e dalle imprese di investimento (istituzioni) per identificare, valutare e gestire i rischi ESG e raccomandando come i rischi ESG dovrebbero essere inclusi nella revisione e valutazione di vigilanza eseguite dalle autorità competenti.

 Il rapporto si concentra sulla resilienza delle istituzioni al potenziale impatto finanziario dei rischi ESG su diversi orizzonti temporali, che deve essere attentamente valutata e garantita da istituzioni e supervisori adottando una visione completa e lungimirante, nonché azioni tempestive e proattive” ;

e questo in quanto « I rischi ESG per le istituzioni sono definiti come rischi che derivano dagli impatti attuali o prospettici dei fattori ESG sulle loro controparti o attività investite, vale a dire i rischi derivanti dalle attività principali delle istituzioni. I rischi ESG si materializzano attraverso le categorie tradizionali di rischi finanziari (rischio di credito, rischio di mercato, rischi operativi e reputazionali, rischi di liquidità e di finanziamento).

 Esistono vari metodi per la valutazione dei rischi ESG sul mercato e questi sono in rapida evoluzione.

 L'EBA ha identificato tre diversi approcci:

(i) metodo di allineamento del portafoglio,

 (ii) metodo del quadro di rischio (inclusa l'analisi degli scenari) e

 (iii) metodo dell'esposizione.

Questi approcci servono agli obiettivi di valutazione dell'allineamento dei portafogli delle istituzioni con obiettivi di sostenibilità globali o regionali o di offrire approfondimenti sul rischio causato dalle esposizioni a (inclusi gli investimenti in) determinate attività. L'EBA non prescrive l'uso di un approccio particolare e vede il merito nell'applicazione di una combinazione di approcci ».

 

Sul mercato esistono vari metodi, in rapida evoluzione, per la valutazione dei rischi ESG.

L’EBA, al riguardo, ha individuato tre diversi approcci:

metodo di allineamento del portafoglio;

metodo del quadro di rischio (compresa l’analisi di scenario);

metodo di esposizione.

I già menzionati approcci perseguono, tutti, l’obiettivo di valutare l’allineamento dei portafogli delle istituzioni con gli obiettivi di sostenibilità globali o regionali o di offrire informazioni sul rischio causato dalle esposizioni (inclusi gli investimenti) in determinate attività.

L’EBA non prescrive l’uso di un approccio particolare, preferendo segnalare l’opportunità che si applichino una combinazione di approcci.

 

Oltre a ciò, è interessante osservare anche quanto indicato dall’EBA negli “Orientamenti in materia di concessione e monitoraggio dei prestiti – EBA/GL/2020/06”, adottati il 29 maggio 2020, e cioè che «(g)li enti dovrebbero incorporare i fattori ESG e i rischi ad essi associati nella loro propensione al rischio di credito, nelle politiche di gestione dei rischi e nelle politiche e procedure relative al rischio di credito, adottando un approccio olistico.

Gli enti dovrebbero tenere conto dei rischi associati ai fattori ESG per le condizioni finanziarie dei mutuatari, e in particolare del potenziale impatto dei fattori ambientali e del cambiamento climatico, nella loro propensione al rischio di credito e nelle politiche e procedure ad esso relative.

I rischi del cambiamento climatico per le performance finanziarie dei clienti possono materializzarsi principalmente sotto forma di rischi fisici, come quelli che derivano dagli effetti tangibili del cambiamento climatico, compresi i rischi di responsabilità civile per aver contribuito al cambiamento climatico stesso, o i rischi di transizione, ad esempio quelli che derivano dalla transizione verso un’economia a basse emissioni di carbonio e resistente ai cambiamenti climatici.

 Inoltre, possono verificarsi altri rischi, quali cambiamenti delle preferenze del mercato e dei consumatori e rischi legali, che potrebbero influire sull’andamento delle attività sottostanti».

 

Occorre altresì sottolineare che l’EBA ha, nel mese di dicembre 2022, pubblicato la propria” road map”, con la quale, nel delineare gli obiettivi e il calendario per l’esecuzione dei mandati e dei compiti rientranti nel perimetro ESG, illustra i programmi della propria attività nei tre anni a venire, con l’obiettivo di integrare le tematiche sui rischi ESG nel quadro bancario e sostenere gli sforzi dell’UE per la realizzazione della transizione verso un’economia più sostenibile.

 La road map, nel quadro di taluni obbiettivi, prevede, nell’arco temporale 2023-2025 e secondo un definito cronoprogramma, l’emanazione di diversi provvedimenti.

 

Proseguendo, in ambito UE, va segnalata la lettera ESMA 30-379-423, datata 28 gennaio 2021, dell'allora suo Presidente alla Commissione Europea in cui si precisa quanto segue.

 « Vorrei affrontare la natura non regolamentata e non supervisionata del mercato dei rating “ESG” e degli strumenti di valutazione ESG e la necessità di abbinare la crescita della domanda di questi prodotti con requisiti normativi appropriati per garantirne la qualità e l'affidabilità. (…)

 Per molti versi, la crescente rilevanza dei rating ESG è emersa come risultato di sviluppi positivi in ​​altre aree di attenzione legislativa, in particolare l'obbligo per i partecipanti al mercato di tenere conto in modo più sistematico dei fattori ESG nelle loro decisioni di investimento e nei processi di gestione del rischio. (…)

Rispetto ai rating del credito, i rating ESG mostrano livelli molto bassi di correlazione tra i fornitori, il che comporta problemi lungo la catena del valore degli investimenti.

La prossima analisi dell'ESMA mostra infatti che ciò è problematico nel contesto della costruzione del benchmark ESG, con la scelta del fornitore di rating ESG che ha un impatto significativo sui componenti di tali indici.

Considerando gli attuali trend di crescita in Europa negli investimenti sostenibili e nei prodotti di investimento passivo come gli ETF, le misure volte a ridurre il rischio di cattiva allocazione del capitale diventeranno cruciali per facilitare la transizione verso un sistema finanziario più sostenibile.

Analogamente, il fatto che le aziende in settori altamente inquinanti possano ottenere punteggi ambientali elevati da alcuni fornitori di rating ESG può portare a confusione negli investitori e sottolinea la necessità di una maggiore trasparenza e dello sviluppo di definizioni standardizzate».

 

Nel solco di tali orientamenti si è mossa anche la Banca d’Italia, la quale, in data 8 aprile 2022, ha pubblicato il Documento recante “Aspettative di vigilanza sui rischi climatici e ambientali” (nel prosieguo anche il “Documento”), nel quale sono contenute, in sintesi, indicazioni, per gli intermediari bancari e finanziari vigilati, relativamente all’integrazione dei rischi climatici e ambientali nei sistemi di governo e controllo, nel modello di business, nella strategia aziendale, nel sistema organizzativo e nei processi operativi, nel sistema di gestione dei rischi e nell’informativa al mercato.

 

L’Organo di Vigilanza – dopo aver preliminarmente osservato che «(u)n modello di crescita sostenibile si basa sulla piena integrazione dei fattori ambientali, sociali e di governance (Environment, Social e Governance – ESG)” e che «(q)uesta innovazione del paradigma della crescita economica tradizionale, oramai al centro dell’agenda politica internazionale, può favorire un progresso di lungo termine, resiliente agli shock esterni, ed è dunque essenziale per poter gestire le trasformazioni che la società e il sistema economico si troveranno a fronteggiare nei prossimi anni: gli effetti del cambiamento climatico e delle politiche di decarbonizzazione; il degrado degli ecosistemi e la perdita di biodiversità; la precarietà e la carenza di sicurezza sul mercato del lavoro; i rischi legati a una bassa inclusione sociale e a una crescita delle disuguaglianze» – afferma che «(l)a trasformazione in atto presenta dunque nuove opportunità, così come nuovi rischi, per il settore finanziario»; di qui, proseguendo, rileva che è «(…) importante che gli operatori predispongano idonei presidi e sviluppino adeguate prassi per identificare, misurare, monitorare e mitigare tali rischi (enfasi nostra), continuando a garantire il necessario accesso al credito e assistendo le aziende impegnate nel lungo e complesso processo di transizione con nuova finanza e adeguati servizi di consulenza (…)»; «(…) (a)ltrettanto importante è la capacità di comunicare adeguatamente l’integrazione dei rischi climatici e ambientali nel proprio modello strategico e operativo».

 

Infine, volendo ribadire nuovamente la strettissima connessione esistente tra il perseguimento dei criteri ESG (e, per loro tramite, della sostenibilità) da un lato, e l’armonizzazione dei sistemi di rating in materia ESG dall’altro, è importante evidenziare quanto dichiarato dalla Commissione Europea in sede di adozione del già menzionato “Sustainable Finance Package” (cfr., supra, sub nota 28), latore di innovazioni non solo in ragione delle previste modifiche al Reg. UE 2020/852, bensì anche per via della predisposizione del “Proposal for a Regulation of the European Parliament and of the Council on the Transparency and Integrity of Environmental, Social and Governance (ESG) rating activities”, avente ad oggetto una proposta di Regolamento Europeo in materia di attività connesse al rating ESG.

Segnatamente, sul sito web della Commissione Europea, è possibile apprendere – in linea con quanto fin qui sostenuto e cioè che il rating rappresenta un imprescindibile veicolo di corretto sviluppo dei fattori ESG – che

 «ESG ratings play an important role in the EU sustainable finance market as they provide information to investors and financial institutions regarding, for example, investment strategies and risk management on ESG factors. Today, the ESG ratings market currently suffers from a lack of transparency and the Commission is proposing a Regulation to improve the reliability and transparency of ESG ratings activities.

New organisational principles and clear rules on the prevention of conflicts of interest will increase the integrity of the operations of ESG rating providers. These new rules will enable investors to make better informed decisions regarding sustainable investments.

 Moreover, the proposal will require that ESG rating providers offering services to investors and companies in the EU be authorised and supervised by the European Securities and Markets Authority (ESMA).

This will also ensure the quality and reliability of their services to protect investors and ensure market integrity».

 

5. La tematica, del tutto trasversale, della primazia del diritto dell’Unione sul diritto nazionale.

Il ruolo trainante ed insostituibile dell’Unione Europea nelle materie qui in esame (transizione energetica e, più in generale, fattori e criteri ESG), è legato all’indiscutibile, sebbene non formalizzato nei Trattati europei, principio del primato del diritto europeo sulle leggi nazionali (c.d. “Primato”);

 principio, questo, che tuttavia non deve essere ritenuto totalizzante e, per ciò stesso, idoneo a scardinare i principi ordinamentali degli Stati membri.

 A tale riguardo occorre richiamare la c.d. “teoria dei controlimiti”, la quale postula una vera e propria intangibilità, financo ad opera della normativa sostanzialmente “costituzionale” euro unitaria, dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale di uno Stato membro;

 teoria, questa, che trova giustificazione nella indiscutibile necessità di garantire la più ferrea salvaguardia di quei diritti e valori identificativi dell’ordinamento costituzionale nazionale.

 

Relativamente alla teoria su esposta è possibile riscontrare, da un lato, una frequente affermazione in linea generale ed astratta ad opera delle Corti Costituzionali degli Stati membri, dall’altro, una rarissima applicazione della stessa:

 ad oggi si è assistito a sole due contestazioni del diritto euro unitario, e sono i casi rappresentati dalla sentenza della Corte Costituzionale Polacca del 7 ottobre 2021 e dalla sentenza della Corte Costituzionale Tedesca del 5 maggio 2020 in merito alla legittimità del Piano di acquisti di titoli di debito pubblico (PSPP) da parte della Bce.

 

Una possibile applicazione della teoria dei controlimiti in ambito italiano si è paventata, recentemente, a causa della vicenda “Taricco”, la quale, tuttavia, si è conclusa, evitando dannose posizioni di contrasto, con un costruttivo dialogo tra la Consulta e la CGUE.

 

Ad affermare il principio cardine della “Primato è stata la Corte di Giustizia con la nota sentenza del 15 luglio 1964 – Flaminia Costa contro E.N.E.L [Sentenza della Corte del 15 luglio 1964, Flaminio Costa contro E.N.E.L., Causa 6-64 (edizione speciale inglese: 1964 00585)], in cui:

 

l’allora Corte di giustizia europea (attualmente Corte di giustizia dell’Unione europea (CGUE) ebbe a confermare il primato del diritto della Comunità economica europea (CEE) [ora Unione europea (Unione)] rispetto alle leggi nazionali degli Stati membri dell’Unione;

venne stabilito un principio generale del diritto della Comunità (ora Unione), secondo cui il primato, chiamato anche “preminenza” o “supremazia” del diritto dell’Unione, garantisce la propria superiorità rispetto alle leggi nazionali degli Stati membri;

si affermò, infine, che il principio del primato è garanzia di protezione uniforme dei cittadini in tutta l’Unione.

Nel corso di una pronuncia pregiudiziale relativa al trattato CEE [(ora Trattato sull’Unione europea e Trattato sul funzionamento dell’Unione europea del 13 dicembre 2007 — versione consolidata (GU C 202 del 7.6.2016, pag. 47)], la Corte ebbe ad affermare quanto segue:

 

in opposizione ai trattati internazionali ordinari, il trattato CEE ha istituito un sistema giudiziario europeo che costituisce parte integrante dei sistemi giudiziari degli Stati membri e che li vincola;

con l’istituzione della CEE, gli Stati membri hanno trasferito i diritti e gli obblighi derivanti dal trattato dal loro ordinamento giuridico nazionale a quello della CEE, limitando la loro sovranità e creando un corpus normativo vincolante perse stessi e i loro cittadini;

conseguentemente, gli Stati membri non possono adottare leggi nazionali in contrasto con il diritto dell’Unione senza rimettere in discussione la base giuridica dell’Unione stessa; il diritto dell’Unione prevale sulle leggi nazionali.

Unitamente alla sentenza in parola, sono da segnalare sentenze a questa precedenti e successive.

 

Nel 1963, con sentenza del 5 febbraio, relativa alla causa C-26/62 (c.d. Sentenza Van Gend & Loos la Corte di giustizia aveva già stabilito un principio generale parimenti importante e integrativo del diritto dell’Unione, ovvero il principio dell’efficacia diretta.

 

La Corte chiarì, in seguito, l’ambito di applicazione del principio del primato nella propria giurisprudenza,

 

applicandosi essa a tutti gli atti dell’Unione in modo giuridicamente vincolante, laddove si tratti di diritto primario (quali, i Trattati), di diritto derivato (direttive, regolamenti, decisioni, ecc.) o di giurisprudenza della CGUE.

Condiziona tutti gli atti nazionali:

a prescindere dalla loro natura (atti, regolamenti, decisioni, ordinanze, circolari, ecc.) o se sono emanati dai poteri esecutivi o legislativi di uno Stato membro;

persino se la loro adozione sia avvenuta dopo l’atto dell’Unione in questione [(Amministrazione delle Finanze contro Simmenthal SpA, 1978) Sentenza della Corte del 9 marzo 1978, Amministrazione delle Finanze dello Stato contro Simmenthal SpA. Domanda di pronuncia pregiudiziale: Pretura di Susa — Italia. Disapplicazione da parte del giudice nazionale di una legge in contrasto col diritto comunitario. Causa 106/77 (raccolta della giurisprudenza 1978 00629)];

Comprese le disposizioni di una costituzione nazionale in contrasto con il diritto dell'Unione [( Internationale Handelsgesellschaft mbH contro punto di importazione e deposito di cereali e mangimi, 1970 e Wunsch Handelsgesellschaft contro Germania , 1984 , note rispettivamente come le sentenze Solange I e Solange II ) Sentenza della Corte del 17 Fondata nel 1970, la Internationale Handelsgesellschaft mbH controlla il punto di importazione e stoccaggio di cereali e mangimi per animali. Domanda di pronuncia pregiudiziale : Tribunale amministrativo di Francoforte sul Meno - Germania. Caso 11-70 (raccolta della giurisprudenza 1970 01125)].

Sul tema si riscontra, in ambito italiano, una florida giurisprudenza da parte della Consulta.

Il primo caso in cui la Corte Costituzionale viene in contatto con il tema in esame si ha con la sent. 24 febbraio 1964, n. 14, con la quale si contesta la primazia del diritto comunitario su quello nazionale.

 

Tale orientamento muta già con le sentenze 18 dicembre 1973, n. 183 e 22 ottobre 1975, n. 232, con le quali, non solo si afferma la c.d. “Primato” della norma comunitaria (attestando così quella “Diretta applicabilità” che tanto è cara al diritto europeo), ma si censura direttamente la disciplina interna incompatibile con la illegittimità costituzionale.

 

Tuttavia, la pietra miliare per la conquista, da parte del diritto comunitario, del ruolo centrale che riveste oggi, è rappresentata dalla sent. 5 giugno 1984 n. 170, per mezzo della quale viene concepita l’automatica “disapplicazione della norma interna contrastante” ad opera del giudice comune, vale a dire che, in presenza di un atto normativo europeo dotato di diretta applicabilità, la disciplina nazionale non viene né annullata né tantomeno abrogata, bensì solo relegata ad uno stato limbico in cui non produce effetti giuridici nel caso di specie, potendoli però esprimere in altri contesti, rimanendo a tutti gli effetti una norma valida:

condizione essenziale affinché ciò possa verificarsi è che sussista una « impossibilità di pervenire, da parte del giudice nazionale, a un’interpretazione delle disposizioni interne che sia conforme alle prescrizioni del diritto dell’Unione» .

 

Una precisazione terminologica a tale orientamento viene poi apportata dalla sentenza dell’8 aprile 1991, n. 168, nella quale si afferma come sia preferibile parlare di “non applicazione” piuttosto che di “disapplicazione”.

 

Nonostante la presenza di plurime altre decisioni della Consulta sul tema, si ritiene utile concludere questo rapido excursus storico con la sentenza del 2 aprile 2012, n. 86, con la quale viene riconosciuto un ruolo fondamentale al nuovo art. 117, comma 1, Cost. (così come riscritto dalla c.d. “Riforma del Titolo V”), quale parametro normativo da utilizzare laddove si debbano censurare, ritenendole illegittime, le norme interne contrastanti con gli atti euro unitari privi di diretta applicabilità (tra cui, è bene ricordare, rientrano anche i Trattati Istitutivi).

 

Occorre, in ultima istanza, effettuare una precisazione: nonostante la strada maestra percorsa nei confronti della normativa interna contrastante con gli atti euro unitari direttamente applicabili sia la “non applicazione”, nulla vieta che la Consulta possa espungere la norma interna dall’ordinamento, ritenendola in violazione del parametro costituzionale rappresentato dagli artt. 11 e 117, comma 1, Cost.

 

In una dichiarazione relativa al primato – allegata all’atto finale della Conferenza intergovernativa che ha adottato il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea [Conferenza intergovernativa che ha adottato il trattato di Lisbona firmato il 13 dicembre 2007; A. Dichiarazioni relative a disposizioni dei trattati; 17. Dichiarazione relativa al primato (GU C 115 del 9.5.2008, pag. 344)] – la Conferenza:

ribadisce il principio del primato del diritto dell’Unione rispetto al diritto nazionale;

evidenzia il suo essere una pietra miliare del diritto dell’UE indipendentemente dal fatto che non sia incluso nel trattato.

 

6. Conclusioni.

Alla luce di quanto fin qui illustrato ed argomentato, è, anzitutto, evidente che la tematica ESG e la correlata transizione energetica – già oggi all’attenzione della comunità internazionale – riguardando il futuro del pianeta, continueranno ad accompagnarci anche negli anni a venire;

per l’indiscutibile loro centralità, in quanto tematiche aventi impatto su un ampio ventaglio di potenziali aree di interesse applicativo, condizioneranno inevitabilmente, ancorché con un diverso grado di intensità, l’agire pubblico, commerciale e personale della comunità globale.

Le questioni e le iniziative trattate in queste brevi riflessioni, d’altro canto, evidenziano l’assoluta centralità di dette tematiche, tale da richiedere, come già ampiamente accaduto (e continuerà ad accadere), un ampio spiegamento di mezzi, specie normativi, sia europei sia nazionali.

 Ne sono testimonianza:

 con riguardo alle iniziative poste in essere in ambito nazionale, la significativa modifica degli art. 9, comma 3, e 41, comma 2, della Carta Costituzionale e la stessa previsione, quale principale strumento organizzativo-funzionale di sviluppo in ambito ESG, del Ministero per la Transizione Ecologica (già “Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare” ed oggi “Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica”);

 e, con riguardo al quadro sovranazionale, le rilevanti, molteplici iniziative legislative da parte dell’Unione Europea, a cui deve riconoscersi il merito di avere svolto – anche in ragione della primazia del diritto dell’Unione sul diritto nazionale – un ruolo determinante nel quadro ESG e della correlata transizione energetica, intesa, quest’ultima, quale obiettivo strumentale al raggiungimento della piena sostenibilità [si ricordi, a tale ultimo proposito, quanto sancito (tra le altre) dalle importanti direttive 2009/28/CE (RED I) e 2018/2001 (RED II) e si ricordino, anche, le numerose iniziative e attività, poste in essere dall’UE, finalizzate al potenziamento della filiera di produzione energetica rinnovabile, tra le quali sono da annoverare le disponibilità finanziarie stanziate a sostegno del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR)].

 

Di qui la rilevanza, quale indiscutibile obiettivo, del principio di sostenibilità, capace di orientare tanto le scelte di carattere economico-politico-normativo, nazionali e sovranazionali (volendo rimanere ancorati al solo contesto europeo), quanto le scelte di carattere commerciale e finanziario, oltre che scientifiche e della società civile.

 

Ed è in tale contesto di pervasività del principio di sostenibilità che s’inquadrano, con l’obiettivo di garantire la più rapida ed efficace applicazione di ogni pratica virtuosa, le diverse intese internazionali sottoscritte, quali, in particolare, gli Accordi di Parigi del 2015, l’Agenda 2030 delle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile e le numerose normative sovranazionali e nazionali in argomento, così come, a seguire, i ricordati, notevoli sforzi profusi dall’Unione Europea, quale punto di riferimento istituzionale nello scacchiere internazionale, nella costante emanazione delle plurime normative di cui si è dato conto nel corso della presente, breve trattazione; in tale quadro va segnalata, in particolare, la rilevanza, per il suo forte impatto in termini di trasparenza, che assume, tra le altre, l’informativa in materia di sostenibilità – al cui adempimento sono tenute le imprese nei confronti dei consumatori/investitori – da ritenere un fattore, oltre che di tutela dello stesso consumatore/investitore, anche di sollecitazione, nei riguardi delle imprese più recalcitranti, ai fini del adeguamento delle stesse ai principi e criteri in materia di sostenibilità.

 

La tematica ESG, ad ulteriore conferma del suo multiforme e rilevante impatto in molte e svariate aree di interesse privato e collettivo, trova, altresì, spazio nell’imponente attività svolta dalle principali Autorità bancarie e finanziarie, tanto a livello nazionale (BANCA D’ITALIA, CONSOB e IVASS), quanto a livello europeo (EBA, EIOPA, ESMA e BCE); e ciò a testimonianza della sempre maggiore attenzione all’immagine “green” da parte, non solo delle imprese che operano nel settore della compravendita di prodotti fisici, ma anche delle imprese impegnate nella prestazione di sevizi bancari e finanziari.

 

Gli sforzi fin qui profusi rischiano, tuttavia, di perdere la loro efficacia ove non si ponga, molto rapidamente, la necessaria attenzione, al pari di quanto accaduto sul fronte delle innumerevoli iniziative e della copiosa elaborazione normativa, alle metodologie di misurazione della sostenibilità, attesa, all’evidenza, la stretta interrelazione, diretta e/o indiretta, tra gli argomenti affrontati nelle presenti considerazioni, tutti legati da un comune fil rouge, e la tematica, anch’essa centrale, dell’istituto del “rating”, assolutamente indispensabile, come si è già sopra ripetutamente precisato, per fornire, in applicazione dell’articolata disciplina (vigente e/o in divenire), un idoneo strumento di misurazione dell’effettivo livello di conformità ai fattori e criteri ESG da parte, in primo luogo, degli obbligati; effettivo livello di conformità, questo, testimoniabile solo attraverso modelli di rating che, in termini oggettivi, siano in grado di fornire indispensabili riferimenti informativi e valutativi, per un verso, in ordine al livello di compliance ESG, per altro verso, relativamente alla reale collocazione ESG, intesa quale risultante dalla comparazione, non solo tra coloro che ne abbiano fatto uso, ma anche tra coloro che siano stati oggetto, da parte di diversi operatori, di più framework di rating.

 

Di qui la necessità, da un lato, (i) di individuare criteri uniformi per l’assegnazione del rating ESG ed anche, trattandosi di attività delicatissima, di attentamente selezionare coloro che, sul mercato, già operano o si accingono ad operare in tale specialistico segmento di attività; dall’altro, la (ii) insostenibilità, a fini di chiarezza informativa, dell’attuale contesto di mercato in cui coesiste un elevato numero di framework di rating ESG che, non solo introducono elementi di confusione in ordine all’effettivo status del soggetto obbligato, ma finiscono anche per favorire, attese le difficoltà legate alla loro comparazione, coloro che, strumentalmente, ricorrono a dannose pratiche di greenwashing.

 

Per tali ragioni va scientificamente ed istituzionalmente sostenuto il lodevole intento, condotto, come segnalato, dalle maggiori standard-setter a livello globale, di definire standard di rendicontazione ESG comuni, al fine di giungere, nel rispetto degli elementari principi di trasparenza e correttezza ed a vantaggio dell’ordinato svolgimento delle attività economiche, ad una maggiore (purché soddisfacente) armonizzazione dei framework di rating ESG, sì da favorire puntuali e corrette informazioni sull’effettivo livello di sostenibilità.

 

Una migliore e soddisfacente armonizzazione degli standard di rendicontazione ESG avrebbe, tuttavia, un benefico impatto anche in capo agli emittenti, trovandosi essi, allo stato, nella scomoda posizione, da un lato, di doversi districare nella difficile interpretazione della (talvolta non chiara), copiosa e ininterrotta messe di disposizioni in materia, dall’altro, di dover apprestare ogni opportuna cautela che li ripari da contestazioni potenzialmente provenienti sia dagli investitori sia dalle Autorità.

 

L’oggettiva difficoltà di misurazione del corretto allineamento da parte dei soggetti obbligati ai fattori ESG, sotto altro profilo, è tematica di interesse anche delle Autorità, trovandosi esse investite del difficile (e delicato) compito di presidiare, istituzionalmente ed a beneficio dell’ordinato svolgimento delle attività economiche, il puntuale rispetto, ai vari livelli, del complessivo (ed articolato) quadro normativo in materia ESG; compito di presidio, questo, che richiede improrogabilmente, anche per le Autorità, che si disponga di idonee (ed oggettive) formule di misurazione delle performance ESG.

 

La preoccupazione qui manifestata, in ordine alla necessità di intervenire presto e normativamente sulla tematica del rating, ha recentemente trovato conforto nelle considerazioni espresse dalla Commissione Europea, sopra richiamate (cfr., in particolare, supra sub nota 28 e sub paragrafo 4.1.), che accompagnano la pubblicazione, datata 13 giugno 2023, da parte del predetto Organo, del “Proposal for a Regulation of the European Parliament and of the Council on the Transparency and Integrity of Environmental, Social and Governance (ESG) rating activities”, avente ad oggetto una proposta di Regolamento Europeo in materia di attività connesse al rating ESG.

 

 

Green Jobs - Come la sostenibilità

 sta cambiando la domanda

di lavoro globale.

Orienta.net – (17/10/2024) – Redazione – ci dice:

 

Il settore delle energie rinnovabili traina l'occupazione: e allora quali sono i 5 lavori verdi più richiesti in Italia?

E perché investire nelle competenze sostenibili?

Cosa sono i Green Jobs.

Negli ultimi anni, il concetto di "Green Jobs" ha guadagnato terreno nel dibattito globale sul futuro del lavoro e della sostenibilità. I Green Jobs, o lavori verdi, nascono dal principio di gestione sostenibile delle imprese, e ne fanno parte tutte quelle professioni che contribuiscono a ridurre l'impatto ambientale delle attività umane, promuovendo un uso più efficiente delle risorse, la protezione dell'ecosistema e la riduzione delle emissioni di carbonio.

La nascita di nuovi lavori verdi è strettamente collegata alla necessità di affrontare le sfide del cambiamento climatico, tema molto a cuore all’ Unione Europea col suo Green Deal, e le aziende di tutto il mondo stanno adattandosi a modelli di business più sostenibili, creando nuove opportunità lavorative.

 

 Il Tasso di Crescita dei Green Jobs.

Un report realizzato dall’ European Environment Agency nel 2024, dimostra come negli ultimi dieci anni l’occupazione nel settore di beni e servizi ambientali dell’UE è cresciuta ad un ritmo più rapido rispetto al suo tasso di occupazione complessivo, a causa delle creazioni di nuove figure professionali legate alle energie rinnovabili, all’efficienza energetica e alla gestione dei rifiuti. In particolare, l'energia solare ha visto un aumento significativo di occupazione con circa 4,3 milioni di nuovi posti di lavoro creati a livello globale.

Gli aumenti maggiormente significativi di Green Jobs negli Stati Europei dal 2014 al 2021, sono stati registrati in Bulgaria (+104%), Lussemburgo (+78%) e Polonia (+52%). Sul fronte opposto Malta (-13%), Ungheria (-13%), Romania (-12%) e Finlandia (-8%), non sono riuscite a mantenere il passo, registrando un tasso negativo nella creazione di questi lavori.

I 5 Lavori Verdi Maggiormente Ricercati in Italia

Progettista o Installatore di impianti solari fotovoltaici.

Il settore del fotovoltaico è quello in maggiore espansione rispetto agli altri a causa dei numerosi incentivi e sgravi fiscali derivati dalla Strategia Energetica Nazionale.

 

Il suo lavoro consiste nel progettare e installare impianti che trasformano l'energia solare in energia elettrica tramite pannelli fotovoltaici. Si occupa della pianificazione tecnica, dell'installazione e della manutenzione degli impianti, rispettando le normative ambientali e di sicurezza.

 

Esperto in BioArchitettura e BioEdilizia.

Si occupa di progettare e costruire edifici seguendo principi ecologici e sostenibili. Utilizza materiali naturali o a basso impatto ambientale e progetta spazi che favoriscano il benessere degli abitanti e il rispetto dell'ambiente.

 

Eco-Avvocato.

È un avvocato specializzato in diritto ambientale. Si occupa di consulenze legali riguardanti questioni ambientali, normative ecologiche, e contenziosi su temi come inquinamento, risorse naturali, energia rinnovabile e sostenibilità.

Esperto in valutazioni ambientali VIA e VAS.

Figura specializzata in valutazioni d'impatto ambientale (VIA) e valutazioni ambientali strategiche (VAS). Il suo compito è quello di analizzare progetti e piani territoriali per capire e mitigare gli effetti negativi sull'ambiente, contribuendo a decisioni sostenibili da parte di enti pubblici e privati.

 

Energy Manager.

Gestisce e ottimizza l'uso dell'energia all'interno di aziende o enti pubblici. Si occupa di migliorare l'efficienza energetica, ridurre i consumi e i costi, e promuovere l'utilizzo di energie rinnovabili, contribuendo a una gestione più sostenibile delle risorse energetiche.

 

L'importanza dei Green Jobs per l'Economia e la Società.

Oltre a ridurre l'impatto ambientale, i Green Jobs sono essenziali per costruire un'economia più resiliente e inclusiva.

Secondo uno studio della Commissione Europea, l'economia verde ha contribuito a generare oltre 4,5 milioni di posti di lavoro nell’UE, con settori come quello del riciclo e della gestione dei rifiuti che hanno registrato una crescita continua.

La transizione verso un'economia verde è ormai inevitabile, e i governi e le aziende di tutto il mondo stanno investendo in maniera esponenziale per creare nuove opportunità di lavoro sostenibile.

Come riportato dal “World Economic Forum” però, i lavori verdi sono in aumento, ma i lavoratori con competenze ecologiche scarseggiano.

Solo una persona su otto sembra infatti avere “skills” adeguate a ricoprire ruoli di questo tipo.

In questo contesto dunque, è cruciale per i professionisti e i giovani in cerca di lavoro aggiornare le proprie “hard skills” e “soft skills” in settori legati alla sostenibilità per essere pronti ad affrontare le esigenze future del mercato del lavoro.

 

GUERRA O PACE,

MEMORANDUM PER TRUMP.

Inchiostronero.it – Redazione - Il Simplicissimus – (26-11-2024)

 

Ciò che è successo nell’ultima settimana segna una soglia terribile per la storia occidentale e del mondo:

la decisione di Washington di dare il via ai missili a lungo raggio sulla Russia, ordigni che sono controllati direttamente dalla Nato e il conseguente uso da parte russa di una nuova arma ipersonica che rende l’Europa totalmente indifesa, cambiano la natura della guerra in Ucraina trasformandola in guerra globale. Che è – mi scuso per la ripetizione – l’ultima risorsa del globalismo neoliberista per sopravvivere a sé stesso e alle proprie logiche di disuguaglianza.

La responsabilità di questo momento abissale – al contrario di quanto strillino i politici della domenica e i giornali fotocopiati – ricade interamente sugli Stati Uniti e sui suoi complici europei in realtà poco più che burattini infarciti di deliranti ideologismi, in un disperato tentativo di salvare un’egemonia che non esiste più nella realtà fattuale, nei rapporti di forza, nell’economia e nella tecnologia. La decisione della Corte penale internazionale, un mero strumento al servizio dell’Occidente, di emettere un mandato di arresto contro Netanyahu, dimostra che non è più possibile imporre all’intero ecumene umano stragi insensate senza perdere definitivamente la faccia.

 Solo un inutile e pavido bauscia come Salvini, tanto per restare in Italia, non l’ha capito.

Non è possibile aspettarsi che un vecchio rimbecillito come Biden e la sua amministrazione di cazzuti coglioni, possa in qualche modo fare marcia indietro, soprattutto perché non vuole, anzi spera che proprio una guerra ribalti il risultato elettorale.

 Tuttavia la situazione è arrivata a un punto tale che se anche la soglia non venisse varcata nei prossimi due mesi, lo stesso Trump avrebbe difficoltà a disinnescare questo infernale meccanismo.

 In ogni caso per una vera ricerca della pace egli dovrebbe tenere bene a mente alcune cose fondamentali che oggi sono molto più chiare rispetto alla sua precedente presidenza.

 Dovrebbe insomma fare un bagno di realtà.

 

La cosa fondamentale da cui partire è che l’America non è più così potente come una volta e la sua debolezza è oggi assai più manifesta del “destino” che fa parte della sua auto mitologia.

Tanto per dirne qualcuna:

dopo vent’anni di guerra i Talebani dominano incontrasti l’Afghanistan e hanno persino acquisito gigantesche quantità di armi moderne abbandonate dagli Usa, compresa l’aviazione.

 In Siria non sono riusciti a cacciare Assad e sostituirlo con un loro fantoccio.

 In Iraq sono letteralmente odiati e in tutto il Medio oriente c’è un graduale ridislocamento delle potenze locali, Arabia Saudita compresa.

 Gli Houthi hanno cacciato la marina degli Stati Uniti dal Mar Rosso.

 Persino il Niger ha mandato via gli americani e la Nato.

L’assegno in bianco concesso al sionismo ha alienato qualsiasi simpatia verso gli Usa e il dollaro sta perdendo sempre più terreno.

Ora, capisco la difficoltà di comprendere da parte di un americano nato e cresciuto dentro il paradigma dell’impero (persino i britannici sono restii a rendersi conto emotivamente di vivere ormai a Lilliput):

ma come si può pensare che se le portaerei non hanno intimorito gli Huthi, dovrebbero spaventare i cinesi?

Il fatto è che non solo gli Usa hanno perso l’appeal che avevano, ma non fanno più tanta paura, così che la carota è avvizzita e il bastone è diventato più corto: l’Ucraina è stata, per così dire, il momento della verità e ha smascherato le debolezze nascoste dietro le continue guerre coloniali contro Paesi assai più deboli.

Le armi americane che poi sono quelle della Nato si sono rivelate fragili, costosissime e prodotte in numero insufficiente.

Per di più si è evidenziato un gap soprattutto nel settore missilistico che non è tale solo nei confronti della Russia, ma anche della Cina, della Corea del Nord e adesso anche dell’Iran e dell’India.

Gli stessi generali del Pentagono da troppo tempo sono soltanto lobbisti dell’industria degli armamenti.

 Soltanto se Trump si renderà conto di queste realtà avrà la forza di cercare la pace invece dello scontro.

Oltre a questo c’è da tenere conto che dopo tutte le sanzioni comminate alla Russia essa è cresciuta economicamente molto più dei suoi avversari e odiatori tanto da essere diventata la quarta economia del pianeta in termini di Pil pro-capite come dice lo stesso Fmi.

 Perciò la cosa più saggia sarebbe lasciar perdere l’Ucraina come piattaforma per tentare l’assalto alla Russia:

queste logiche sono ormai quelle del passato e sarebbe anche bene chiedere scusa per l’inutile massacro generato.

 Oggi le cose stanno diversamente e se Trump vuole davvero cambiare rotta deve tenere a mentre tre cose:

che il potere mondiale si è spostato,

 che gli Usa e le sue colonie non sono nelle condizioni di cambiare questa realtà con la forza,

che la multipolarità è il futuro.

 

Trump ha quattro anni pieni per ribaltare le logiche dell’America unipolare che alla fine hanno danneggiato la sua stessa popolazione:

 non potrà più essere rieletto e dunque potrebbe modificare la narrazione imperiale e il suo endemico bellicismo, oltre che le realtà di potere interne andate fuori di testa e fuori controllo.

 Dubito che abbia il retroterra necessario per farlo, ma come si dice l’ultima a morire è la speranza.

 

 

 

 

«LA CRISI DELLA VERITÀ NELL’INFOSFERA»

  Inchiostronero.it - Salvatore Grandone  - (26-11-2024) – ci dice:

 

La crisi della verità nell’infosfera: come l’eccesso di informazioni e la manipolazione digitale minacciano la nostra capacità di distinguere il vero dal falso.

L’avvento dell’infosfera ha generato una trasformazione profonda nella relazione dell’uomo alla verità.

Indagare il mutamento in atto è importante per comprendere in che modo si stia evolvendo il nostro rapporto con noi stessi, con gli altri e con il mondo.

Nella storia della civiltà occidentale sono individuabili tre atteggiamenti antropologici nei confronti della verità: la rivelazione, l’adeguamento e la credenza.

 Intorno alla verità come rivelazione convergono le esperienze che riguardano l’ambito religioso, estetico e, in generale, la dimensione del vissuto che si struttura come un accogliere nel raccoglimento.

 

La verità come adeguamento è alla base invece del discorso scientifico e dei “logoi” che mettono in gioco la dimensione fattuale. La riflessione sulla corrispondenza tra linguaggio, pensiero e realtà fa nascere l’argomentazione nelle sue molteplici forme, da quelle più rigorose e complesse a quelle più semplici e quotidiane.

 La verità come credenza fonda infine il discorso politico, nel senso che è quell’atteggiamento in cui l’impegno e la testimonianza attraverso l’azione sono essenziali.

 La verità come credenza è mostrata e agita, e, in quanto tale, genera e rompe legami, accorda, distingue, costituisce la società.

 Questi tre regimi della verità non si escludono a vicenda.

Anzi, coesistono e spesso si intrecciano in maniera quasi indistricabile.

 Ad esempio, per l’uomo di fede all’accoglimento della verità – che sopraggiunge all’inizio come rivelazione –, segue la testimonianza che genera tra gli uomini nuovi legami.

 Ma questa operazione “politica” fa spesso i conti con altri discorsi religiosi o a-religiosi.

 La rivelazione è così inserita in un discorso fattuale che argomenta la propria superiorità rispetto ad altri concorrenti.

La rivelazione si mette insomma alla prova e fa il suo ingresso nella verità come adeguamento.

 O ancora, un discorso scientifico può avere la sua origine in un’intuizione che si presenta come una sorta di rivelazione – si parla spesso in questo caso di serendipità.

Il discorso fattuale costruito sull’intuizione è in seguito mostrato e agito nella comunità scientifica.

Lo scienziato se ne fa portavoce e lo promuove.

Con l’avvento dell’infosfera questi tre regimi della verità sembrano entrati profondamente in crisi.

Indagare come stanno cambiando è importante, perché la nostra relazione alla verità definisce la nostra maniera di abitare il mondo.

Prima di indagare i tre regimi della verità e le loro variazioni, è opportuno soffermarsi sul concetto di infosfera.

Ne” La quarta rivoluzione” Luciano Floridi osserva come l’infosfera non coincida semplicemente con il cyberspazio:

«A un livello minimo, l’infosfera indica l’intero ambiente informazionale costituito da tutti gli enti informazionali, le loro proprietà, interazioni, processi e reciproche relazioni.

È un ambiente paragonabile al, ma al tempo stesso differente dal, cyberspazio, che è soltanto una sua regione, dal momento che l’infosfera include anche gli spazi d’informazione offline e analogici.

 A un livello massimo, l’infosfera è un concetto che può essere utilizzato anche come sinonimo di realtà, laddove interpretiamo quest’ultima in termini informazionali.

 In tal caso, l’idea è che ciò che è reale è informazionale e ciò che è informazionale è reale.

È in questa equivalenza che hanno origine alcune delle più profonde trasformazioni e delle sfide più rilevanti di cui faremo esperienza nel prossimo futuro riguardo alla tecnologia.

La transizione dall’analogico al digitale e la crescita esponenziale di spazi informazionali in cui trascorriamo sempre più tempo illustrano con massima evidenza il modo in cui le ICT stanno trasformando il mondo in un’infosfera

L’infosfera comprende i diversi spazi dell’informazione, di cui il cyberspazio è una regione.

Lo sviluppo però delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT), con la conseguente e sempre più marcata transizione dall’analogico al digitale, stanno trasformando l’intera realtà in un’infosfera.

Dalla rivelazione all’assoluta trasparenza.

La rivelazione è la verità che afferra all’improvviso il soggetto.

La sua temporalità è quella dell’evento, di un accadere che riconfigura l’esistenza. Il tempo della rivelazione è un appello che si rivolge alla “singolarità” – “singolarità” e “singolo” sono qui presi nell’accezione kierkegaardiana.

Sebbene associata all’ambito religioso, la verità come rivelazione incarna un’esperienza fondamentale dell’esistenza.

Gli stati emotivi intensi (ad esempio l’estremo dolore) sono spesso all’origine di rivelazioni.

Affinché la rivelazione possa darsi, è necessario che il soggetto sia in una situazione di raccoglimento.

La rivelazione chiama infatti il singolo che prova ad essere a contatto con il proprio io profondo e che non si limita quindi a esistere nella dimensione anonima e impersonale del «si» (cfr. Martin Heidegger, Essere e tempo) o dell’io superficiale (cfr. Henri Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza).

 Se non si ritorna costantemente “in” e “su” sé stessi, se la relazione al mondo non pone domande essenziali, la rivelazione è impossibile.

Senza singolarità nessuna rivelazione.

D’altra parte, affinché vi sia rivelazione non basta la singolarità, occorre anche che il mondo come orizzonte dei possibili abbia una profondità.

In altre parole, la profondità dell’io va di pari passo con quella del mondo.

Una rivelazione può darsi se la realtà cela misteri, ha segreti da rivelare, se quello che ci circonda soggiorna nella velatezza, tra aperto e nascondimento.

 È noto quanto un filosofo come “Heidegger” abbia insistito su questo aspetto della verità.

In un ciclo di lezioni dedicato a Eraclito afferma:

 

«Il termine nomina il sorgere, che dispiega la propria essenza ritornando in sé stesso.

 Nell’unità originaria di questi due momenti dispiega la propria essenza la “physis, “nome iniziale greco di quel che noi chiamiamo “essere”.

Da un lato però nell’essenza del sorgere c’è il lasciar venir fuori, ossia il venir fuori nell’aperto:

 il disvelamento che in greco si dice “aletheia”.

E d’altro canto nell’essenza del ritornare in se stesso c’è il ritirarsi, il trattenere e il nascondimento, che però i Greci non nominano espressamente.

Questo non-nominare il disvelamento che si dispiega sulla base del nascondimento è una mancanza e una carenza dell’espressione linguistica, in cui si nasconde forse il mistero più profondo dell’essenza fondamentale del pensiero greco.»

 (Martin Heidegger, Eraclito)

 

Nei primi pensatori la “physis” è ciò che sorge, che si dischiude, che viene fuori all’aperto.

Questo movimento di apertura porta però sempre con sé un ritrarsi, un’eccedenza di nascondimento che preserva l’apertura della verità come” aletheia”.

Non è questa la sede per analizzare in dettaglio la riflessione di Heidegger sulla verità.

Quello che preme sottolineare è la necessità di una corrispondenza tra raccoglimento e accoglimento, tra il singolo e il mondo, affinché la verità come rivelazione possa accadere.

La singolarità così come la “physis”, pensata come darsi nel nascondimento, sono condizioni di possibilità della rivelazione.

 Ora, nell’infosfera entrambe tendono a sparire.

Il soggetto perde la sua singolarità:

ridotto a un insieme di dati è frammentato, indicizzato, integrato in relazioni algoritmiche che riducono il diverso all’uguale.

Allo stesso modo la realtà è suddivisa in ammassi di informazioni che la conducono in un’assoluta trasparenza, in una visibilità pornografica.

Con Han si può dire che:

«per principio, le informazioni non possono essere velate: sono per natura trasparenti.

Devono essere semplicemente lì presenti e rifiutano qualsiasi metafora, qualsiasi veste che le veli.

 Esse parlano chiaro e tondo.

In ciò si distinguono anche dal sapere, che ha la possibilità di ritrarsi nel segreto.

 Le informazioni seguono un principio del tutto diverso: sono orientate allo svelamento, alla verità ultima. Sono per natura pornografiche.» (Byung Chul Han, La salvezza del bello).

 

Se tutto diventa informazione, allora io e mondo sono scacchiati su un’assoluta trasparenza priva di profondità.

Nell’infosfera non è possibile alcuna rivelazione: accoglimento e raccoglimento sono cortocircuitati dal “chiaro” e “tondo”.

L’informazione dice tutto, è rumorosa, non consente l’ascolto attento.

Dove si dice tutto, non vi è più nulla da dire e nulla da ascoltare, nulla allora da accogliere.

 Dove tutto è immagine, dove le cose, i paesaggi, gli orizzonti sono big data, non vi è spazio per il sorgere e il ritrarsi.

Il divenire del mondo è ridotto a un anonimo flusso di informazioni “scrollabili”; e “scrollare” è l’unica azione rimasta a un soggetto disciolto in un pacchetto di informazioni tra infiniti pacchetti di informazioni.

Dalla verità come adeguamento alla positività indiscutibile dell’apparire.

La verità come adeguamento è alla base dei discorsi fattuali. Tra le formulazioni più note di questo atteggiamento nei confronti della verità è spesso citata quella di San Tommaso:

«Ogni conoscenza si attua per mezzo dell’assimilazione del soggetto conoscente alla cosa conosciuta, così che l’assimilazione è detta causa della conoscenza;

 per esempio, la vista conosce il colore, poiché si dispone secondo la specie del colore.

Dunque, il primo rapporto dell’ente con l’intelletto è che l’ente concordi con l’intelletto e questa concordanza è detta precisamente adeguazione della cosa e dell’intelletto e in ciò si realizza formalmente la natura del vero.

 Ed è questo, dunque, che il vero aggiunge all’ente, vale a dire la conformità o l’adeguazione della cosa e dell’intelletto e a questa conformità, com’è stato detto, consegue la conoscenza.

 E così, dunque, il ciò che è della cosa precede l’essenza della verità, mentre la conoscenza è un certo effetto della verità.»

 (S. Tommaso, Sulla verità).

 

Di questo importante testo si ritiene quasi sempre solo l’affermazione che la verità è l’adeguazione della cosa e dell’intelletto.

Ma nel passo sono anche indicate le condizioni di possibilità della verità come adeguamento.

La prima è una distanza tra soggetto conoscente e cosa:

affinché possa darsi l’“assimilazione” del soggetto conoscente alla cosa, tra i due vi deve essere uno scarto.

 La conoscenza si costruisce all’interno di uno spazio che dà luogo all’osservazione, all’interrogazione, alla verifica.

Tali operazioni abitano, nutrono e animano la distanza che fonda la verità come adeguamento.

Dalle parole di San Tommaso si può dedurre anche una seconda condizione di possibilità.

 «Il ciò che è della cosa precede l’essenza della verità».

 La verità come adeguamento si dà in un mondo di cose; le cose con la loro resistenza sono la condizione di possibilità della concordanza.

A San Tommaso bisogna aggiungere che le cose sono nodi di indeterminatezza; esse si sottraggono alle nostre domande e in questo sottrarsi le rendono possibili.

Ad esempio, una mela prima di essere un frutto con determinate caratteristiche, prima di essere un oggetto, è una cosa, un essere-là che si dà alla percezione e all’intelletto.

 I sensi la osservano, la tastano e la gustano; l’intelletto la concettualizza, la riconduce al simile.

 Ma nessuna percezione e cognizione potrà esaurire il suo essere cosa; resteranno sempre aperte nuove possibilità di adeguamento e di conoscenza.

Con la colonizzazione dell’analogico da parte del digitale la verità come adeguamento entra in crisi.

Vacillano le sue condizioni di possibilità.

 La distanza tra l’io e la realtà svanisce: soggetto conoscente e cosa sono appiattiti nell’unidimensionalità dell’infosfera.

L’assimilazione che prevede uno scarto è sostituita da un’informazione disponibile a uno sguardo anonimo che può solo guardare, non interrogare.

L’interrogazione è posta infatti da un soggetto, ma al soggetto è rimasta come unica opzione quella di seguire i suggerimenti che gli algoritmi elaborano in base alle preferenze indicizzate degli utenti.

Le domande e le risposte sono già date, comprese nei big data.

L’interrogazione è posta a una cosa, mentre nell’infosfera regnano le non-cose.

La cosa resiste e pre-esiste alle domande e alla conoscenza.

 Le cose si danno parzialmente nei decorsi percettivi, negli adombramenti.

Le non-cose sono informazioni che appaiano in una pura e autoreferenziale visibilità.

 Una mela della storia di Instagram non è più una cosa, piuttosto un pacchetto di informazioni.

La crisi della verità come adeguamento abolisce la stessa distinzione tra il vero e il falso.

 Lì dove non vi sono più soggetti e non vi sono più cose, non ha più senso parlare di vero e di falso.

 La diffusione delle fake news è il corollario di una società dell’informazione, in cui non vi è luogo per i discorsi fattuali.

Siamo di fronte a una nuova forma di nichilismo:

«Il nuovo nichilismo – nota ancora “Byung Chul Ha”n – è un fenomeno del XXI secolo.

 Appartiene alle distorsioni patologiche della società dell’informazione.

Nasce nel momento in cui perdiamo la fede nella verità stessa.

Nell’era delle fake news, della disinformazione e delle teorie del complotto, stiamo perdendo la realtà e le verità fattuali.

L’informazione circola ormai completamente scollegata dalla realtà, in uno spazio iperreale.

Si perde la fiducia nella fattualità.

Viviamo quindi in un universo de-fatticizzato.

 In definitiva scompare, con le verità fattuali, il mondo comune a cui potremmo riferirci nelle nostre azioni.»

(Byung Chul Han, “Infocrazia”).

La crisi dei discorsi sui fatti, sul vero e sul falso rende fragili le coordinate della ragione occidentale.

 Tutto è vero e falso, tutto è soggettivo e oggettivo.

 Il principio di identità crolla:

 A è A, ma anche B e C…Una nuova forma di oscurantismo è alle porte, ben peggiore di quella contro cui combattevano gli illuministi.

 Questi lottavano per allontanare con la ragione le tenebre delle superstizioni. Oggi, invece, la ragione dovrebbe contrastare una visibilità accecante e assordante che non lascia ombre.

Quale luce dovrebbe rischiarare ciò che tutto illumina?

 

La credenza disincarnata.

Il terzo tipo di verità, la credenza, è legata all’atteggiamento del “professare”.

 La verità come credenza è agita, incarnata con il proprio essere nel mondo.

Il soggetto si sforza di coincidere con la propria verità.

 Vi sono, certo, credenze più o meno sentite, ma nella sua forma originaria la credenza è una verità assunta con l’intero peso della singolarità.

La verità come credenza è intimamente connessa alla questione della parresia. Il soggetto che crede nella propria verità con tutto il suo essere la mostra e la dice.

 

È importante seguire in proposito le analisi di Michel Foucault:

 

«Mi è sembrato egualmente interessante analizzare, nelle sue condizioni e nelle sue forme, il tipo d’atto attraverso il quale il soggetto, dicendo la verità, si manifesta, e con questo intendo dire: si rappresenta a se stesso ed è riconosciuto dagli altri come un soggetto che dice la verità. […] Non soltanto è necessario che questa verità rappresenti il parere personale di chi parla; ma bisogna che chi parla la esprima non a fior di labbra, bensì come manifestazione reale di ciò che pensa: ed è in questo senso che egli sarà un parresiasta.

 Il parresiasta esprime la sua opinione, dice quel che pensa, firma, in qualche modo, la verità che egli stesso enuncia:

si lega a tale verità; a essa, perciò, si vincola e grazie a essa assume degli obblighi. […]

Perché ci sia parresia […] bisogna che il soggetto, esprimendo una verità che coincide con la sua opinione, con il suo pensiero, con la sua credenza, assuma un certo rischio:

 un rischio che riguarda la relazione con il suo interlocutore.

Perché vi sia parresia, bisogna che chi dice la verità apra, introduca e affronti il rischio di ferire l’altro, di irritarlo, di farlo andare in collera e di provocare certi suoi comportamenti che possano spingersi fino alla violenza più estrema.» (M. Foucault, Il coraggio della verità)

 

Il “credente” – qui inteso come colui che è tutt’uno con la propria verità – ha il coraggio di dire la verità, assume il rischio nel dirla di «ferire l’altro, di irritarlo, di farlo andare in collera».

Nella sua forma più pura e autentica il credente è il parresiasta, e va ben distinto dal fanatico.

 Quest’ultimo vuole imporre la verità con la forza: nell’agire così mostra di non credere fino in fondo in ciò che testimonia.

Solo chi non crede nel potere della propria verità, verità da incarnare con l’esempio e con la coerenza tra pensiero e bios, desidera imporla.

L’imposizione è un segno di debolezza.

 Infatti, non è un caso che i parresiasti si siano sempre schierati contro ogni fanatismo politico e religioso.

 Un parresiasta per eccellenza nel mondo antico è Diogene il cinico, che non teme di dire la verità ai potenti.

 

La parresia ha una forte valenza politica, nel senso che l’agire del parresiasta risponde spesso all’esigenza di vero della città.

 Il parresiasta denuncia le ipocrisie del proprio tempo, soprattutto di chi governa celando gli interessi personali dietro un falso amore della giustizia.

Certo, la piena assunzione di una verità si può scontrare con le profondità di un io che non riesce a comprendersi, che si perde negli abissi della psiche.

Ma resta comunque la tensione verso l’autenticità, che si manifesta nella volontà di essere sinceri con sé e con gli altri.

 

Nell’infosfera la verità come credenza entra in crisi. In apparenza, l’infosfera è il regno della parresia, perché si dice tutto e ognuno si sente autorizzato a dire tutto – non dimentichiamo che l’etimologia del termine parresia è “dire tutto”.

D’altra parte, il “dire tutto” si risolve in una chiacchiera anonima, e spesso ostile, dove non si manifesta alcuna reale credenza.

Si dice tutto e il contrario di tutto, si crede a tutto e a niente.

 La credenza diventa l’adesione di un soggetto anonimo – ad esempio una community o semplici utenti che appongono un like – a un’opinione.

La sincerità e la parresia nella sua accezione positiva sono annullate. Non c’è io che possa difendere o testimoniare la verità.

 Nell’infosfera tutti gli io possono avere la stessa presunzione di “incarnare” il vero, e questo perché gli io sono tutti disincarnati.

 

Conclusione.

La colonizzazione dell’analogico da parte del digitale sta cambiando in modo radicale la relazione dell’uomo alla verità.

Si tratta di un mutamento antropologico epocale.

L’uomo si definisce nel suo rapporto alla verità, nella sua capacità di accoglierla, di argomentarla e di testimoniarla.

 Questi tre atteggiamenti fondamentali sembrano entrati in una crisi profonda e forse irreversibile.

Viene da chiedersi se, ben prima dei possibili scenari distopici prospettati dai transumanisti, la nostra epoca non sia già postumana, troppo postumana.

(Salvatore Grandone)

 

 

ELON MUSK, “X”, E LA

PITTIMA PROGRESSISTA.

Inchistronero.it - Roberto Pecchioli – (25-11-2024) – ci dice:

 

Pittima è sinonimo di impiastro, di persona uggiosa, irritante, che si attacca e non ti lascia più.

Il termine, di origine veneziana, designava s(oh…) pagati dai creditori per seguire i debitori, ricordando ossessivamente il debito.

I progressisti sono le pittime contemporanee e la stucchevole polemica montata contro Elon Musk e la sua rete sociale, “X”, ne è la dimostrazione evidente.

Poiché il magnate americano di origine sudafricana è un sostenitore di Trump, le pittime postmoderne – in particolare quelle del mondo dello spettacolo, gli influencer senza influenza – hanno dichiarato pubblicamente, con le consuete smorfie di indignazione e l’espressione da beghine scandalizzate, di abbandonare “X” chiudendo i rispettivi profili.

 In Italia spiccano attori noti soprattutto per il cognome – Alessandro Gassman– musicisti in crisi di ispirazione – Piero Pelù, Elio delle Storie Tese – dubbi monumenti della letteratura alla Saviano oltre ai prezzemolini della politica fucsia, rossa e rosé.

Non c’è dubbio che verranno imitati dai benpensanti e dalle benpensanti di ogni ordine e grado.

Musk se ne farà una ragione.

 

Buon pro gli faccia e pazienza se ci viene in mente soltanto lo sprezzante commento di Palmiro Togliatti affidato all’Unità allorché Elio Vittorini – intellettuale rosso scarlatto – dichiarò di abbandonare il potente PCI:

Vittorini se ne è andato, e soli ci ha lasciato.

 La questione delle pittime anti-Musk, tuttavia, merita qualcosa di più di una battuta.

 È l’esempio di una mentalità apertamente totalitaria dei sinistrati.

Non riusciamo a chiamarli diversamente:

strologano di democrazia, odiano la libertà.

“Twitter “censurava contenuti e cacciava iscritti non in linea con il pensiero politicamente corretto:

nessuno dei vedovi progressisti ha fiatato.

Poi è arrivato Musk e “X”, nuova denominazione di Twitter, e la rete sociale dei cinguettii è tornata libera.

 Masticano amaro perché odiano confrontarsi.

L’avversario – per loro sempre nemico, malvagio, malintenzionato, l’orco o l’uomo nero delle fiabe (regressione infantile?) – non è degno di un confronto, le sue idee sono il male assoluto.

Il manicheismo postmoderno degli Illuminati.

Facebook ha ammesso, per bocca del suo padrone, “Zuckerberg”, di aver praticato la censura in tempi di pandemia ma anche prima e dopo.

La piattaforma del giovanotto con la maglietta grigia d’ordinanza è stata l’inventrice della censura privatizzata – gran novità dell’ultimo decennio – ma neanche questo ha convinto l’esercito della salvezza delle pittime a esprimere dissenso per la libertà violata e il pluralismo negato.

 

Sono multiculturali, tolleranti, aperti solo se la musica è gradita alle delicate orecchie progressiste.

Ora fuggono da “X”, dove hanno potuto liberamente esprimere critiche, pensieri, visioni della vita, perché “Elon Musk” non è allineato con il fronte unico del progresso, l’armata del bene in servizio permanente effettivo il cui simbolo è la pittima veneziana in uniforme rossa.

Uniforme è il termine appropriato per descrivere l’orizzonte dei progressisti: nessuna libertà è tollerata, nessuna deviazione dal pensiero unico, ossia dall’unico pensiero che alberga nei loro cervelli.

Sono ammesse esclusivamente tonalità distinte dell’unica nota e sfumature della tinta unita.

Moralisti, puritani, ipocriti: la destra di ieri, la sinistra di oggi.

Trasbordo delle idee e dei difetti.

 Non bisogna sottovalutare le pittime: hanno la forza dell’insistenza, come le mosche.

Vincono nel modo più semplice, quasi inevitabile, ossia logorandoci.

Sono prigionieri del presente quanto e più lo sono del passato certi reazionari.

Vanno denunciati non per imbecillità ma per totalitarismo.

 Scrive “Alain De Benoist” che i totalitarismi si distinguono dalle dittature dal fatto che non pretendono solo di servire il bene, ma anche di sradicare definitivamente il male.

 

“Mi sun ‘na pittima rispettä E nu anâ ‘ngíu a cuntâ Che quandu a vittima l’è ‘n strassé ghe dö du mæ”-” Fabrizio De Andrè”.

Se un merito può essere attribuito alle reti sociali è quello di avere dato voce a tutti, accettando di allargare il dibattito.

Non ha senso pretendere che abbiano diritto di tribuna solo certe tesi, rinchiudendo le altre nella censura travestita da supremazia etica.

 Non servono a nulla le “camere dell’eco” amate dai progressisti, dove ciascuno dà ragione a chi la pensa come lui.

La libertà è collisione, contrasto.

Pòlemos è padre di tutte le cose, di tutte re, diceva Eraclito.

Vietato:

dobbiamo tutti dire, fare, pensare allo stesso modo, quello “giusto”, quello che va “nel senso della storia”.

La superstizione del progresso elevata a comandamento.

Dunque, via da “X “perché è libera, perché “Elon Musk “dà voce a tutti ed è quindi un nemico politico.

Nemico assoluto, da estirpare: la teoria del partigiano di Carl Schmitt.

 Se ragionassero in termini di etica, dovrebbero ammettere che ben più pericoloso, specie per i giovani, è “Instagram” con i suoi modelli di vita irraggiungibili, falsi, che generano negli utenti l’ansia e la tristezza di considerarsi dei perdenti senza speranza.

Non avranno quella vita, né faranno quei viaggi, né vivranno quegli amori.

 

Del magnate trumpiano viene contestata la collocazione politica, non ciò che davvero inquieta delle sue attività.

Cari (si fa per dire) Gassman, Pelù e compagnia che chiudete sdegnati i profili su “X”, nulla da dire – magari utilizzando lo spazio libero della rete sociale – sulla circostanza che “Musk”, patron di” Neuralink”, vuole inserire nel cervello e nel corpo microchip e altri apparati artificiali?

Può servire a ripristinare talune funzioni psicofisiche perdute, ma la cruda realtà è che qualcuno prende il controllo sul corpo e sul cervello altrui.

Inquietante, ma regna il silenzio;

 si tratta di progresso a prescindere, tanto più che in quella direzione lavorano altri supermiliardari a voi più vicini, come “Bill Gates”.

 

“NOVEL FOOD”: ECCO COSA DOVREMO MANGIARE SECONDO GLI ECO-MONDIALISTI.

A proposito, niente da dire sul cibo sintetico, sui grilli e la carne artificiale (una contraddizione in termini!) sulla transizione alimentare propugnata, ossia imposta dal fondatore di Microsoft, gran finanziatore dei democratici americani e delle ONG miliardarie, il potere privatizzato?

 Con il petrolio controlli gli Stati, con il cibo controlli le popolazioni.

Parola di Henry Kissinger.

 Assordante mutismo sul potere di “Big Pharma” (Gates e Fink c’entrano, eccome) sulla medicalizzazione dell’esistenza, sull’influenza immensa di “filantropi” come “George Soros”.

Ma sono dei vostri, quindi miliardari buoni, animati dalle migliori intenzioni, perfino in caso di guerra.

 Il figlio di Soros, “Alexander,” stella nascente del “Forum di Davos”, tanto progressista da avere “sposato” un uomo africano, ha scritto che è una grande notizia l’autorizzazione di Biden all’Ucraina a usare armi contro il territorio russo.

 I progressisti si sono convertiti alla guerra.

Proprio vero che Giove toglie la ragione a chi vuol rovinare.

 

Mattarella visto da “Krancic”.

Adesso ci sono bombe “buone” e forse satelliti cattivi.

Perché non contestano a Musk di possedere una rete satellitare (Starlink) che può decidere le sorti delle guerre, affittata al deep State?

  No, il mostro è tale solo in quanto sostenitore di Trump.

L’indignazione ha raggiunto il massimo di decibel – in quanto a urla le pittime sono imbattibili – quando Elon Musk ha attaccato i magistrati italiani sul tema dell’immigrazione.

Lesa maestà: chi tocca certi fili resta folgorato.

Nella circostanza, il massimo dell’umorismo involontario è stato raggiunto dal Quirinale, che ha parlato – senza nominare il magnate – di attacco alla sovranità nazionale.

Come se non fossimo una colonia dal 1943.

 Anche in ciò destra e sinistra pari sono, giacché “Donna Giorgia “applaude le ultime decisioni Usa (ci sono anche le mine antiuomo, nel pacchetto ucraino) e destina alle armi più risorse di quelle concesse ai pensionati.

Perché, o pittime, non parlate di queste cose su “X”, liberamente, rinfacciando a Musk la deriva transumana di certe sue attività?

 Nell’era post-democratica abbondano le idee vietate e i pochi spazi liberi vengono abbandonati.

Eppure, un’idea vietata ha bisogno di coraggio, non di pittime che eccellono nella lagna, nel conformismo e nell’ insopportabile moralismo invertito dei tempi nostri.

Elon Musk è tutt’altro che un modello, ma attaccare “X”, che ha restituito libertà al panorama asfittico delle piattaforme social, significa confondere il bersaglio.

 

Durante le elezioni “X” ha battuto i record di traffico.

Con buona pace dell’esercito del progresso, mette alla pari i conti (account) di re, presidenti e comuni cittadini.

 Ha il sistema di verifica dei fatti più efficiente e onesto:

 le note della sua comunità.

Quando” X” era Twitter, la sinistra aveva il controllo, condizionava, bandiva e sospendeva chi contravveniva i criteri del pensiero unico.

Da quando Musk l’ha acquistata, ha ridotto i sistemi di censura;

di conseguenza è la rete più libera e tollerante in cui la circolazione dell’informazione ha immediatezza e diversità.

La narrazione consiste ora nello sfuggire alle grinfie del mostro.

Dalle stelle di Hollywood in giù è partita la futile gara di piagnucolare per quanto si sentono frustrati o minacciati.

Eppure, a differenza di Twitter, Musk non ha censurato alcun resoconto, né dei media né delle persone.

Sono liberi di dire quello che vogliono; di che si lamentano?

Del fatto che sia consentita la discussione per smantellare le loro bugie.

 Si crucciano perché Musk non li lascia giocare da soli con carte truccate.

 L’unica opinione ammessa è la loro: singolari democratici.

 

“Bluesky”, truffe di criptovaluta dopo il boom di utenti.

Molti stanno migrando a Bluesky, creata dal fondatore di Twitter Jack Dorsey, altri a Threads (Meta).

Gli orfanelli del pensiero unico non sopportano la realtà, i dati, il dibattito aperto, le informazioni che contraddicono le loro convinzioni.

Vogliono spazi isolati “sicuri”, camere di risonanza a censura aperta, in modo che studenti, lettori, elettori si aggrappino a un’unica opzione politica e culturale. Soliloquio in coro.

 Non hanno scrupoli ad ingannare le menti deboli o confuse e tenere prigioniero un pubblico acritico, incapace di obiezioni.

Sono persuasi che chi non la pensa come loro non debba avere accesso alla bolla di cui pretendono l’esclusiva.

 Usano l’esplosione emotiva, lo scatto d’ira minaccioso come arma di ricatto.

 Si filmano mentre urlano, piangono e scalciano, poi lo caricano in rete senza vergognarsi di mostrare le loro miserie, convinti che li renda autentici.

 Non sanno distinguere la sfera personale da quella politica, né il dramma vero da una sconfitta elettorale.

Uno dei fuggiaschi da” X” afferma che la rete di Elon Musk è diventata una cloaca. Ma sono loro, gli insopportabili del progressismo indiscutibile, non criticabile, le voci della fogna, le pittime lagnose messe a nudo dall’aria fresca del pensiero libero.

(Roberto PECCHIOLI)

Commenti

Post popolari in questo blog

La truffa in politica.

Co2 per produrre alimenti.