Quale futuro per il mondo?
Quale futuro per il mondo?
Distruggere
il Futuro dell’Italia?
Ci
Stiamo Riuscendo Benissimo!
Conoscenzealconfine.it
– (25 Novembre 2024) - Zela Satti – ci dice:
Come
distruggere il futuro di un paese: il nostro!
Ad
oltre due anni e mezzo dall’inizio del nuovo conflitto in Ucraina, l’Italia
continua a subire passivamente decisioni prese altrove, con un unico risultato:
stiamo
lavorando per distruggere il futuro del paese.
Le
guerre non si limitano a essere conflitti armati: sono strumenti per
ridisegnare equilibri di potere.
Questo ridisegno non riguarda solo la sfera
militare, ma soprattutto quella politico-economica.
Gli
scontri sul campo di battaglia rappresentano, in fondo, la manifestazione più
visibile di un gioco più ampio, dove gli attori principali – Stati Uniti,
Russia, Cina, Unione Europea, ma anche Israele e India – si confrontano per
ridefinire il controllo delle risorse, delle influenze e dei mercati.
La
guerra in Ucraina – a oltre due anni e mezzo dalla sua manifestazione più
virulenta – sta ricalibrando questi equilibri globali.
Ogni giorno, gli attori coinvolti giocano la
loro partita attraverso una combinazione di propaganda, decisioni economiche e
manovre militari.
La
tragedia delle vittime civili e dei territori devastati è reale, ma è anche
parte di questa dinamica complessiva, in cui la posta in gioco è la
riorganizzazione degli assetti economico-politici mondiali.
In
questo scenario, ci sono i “vasi di coccio”, tra cui l’Italia, che subiscono
passivamente gli effetti di queste scelte globali.
Ma
cosa significa concretamente per il nostro paese?
Le
conseguenze sono evidenti e rappresentano una seria minaccia per il nostro
futuro:
1. Un
paese sempre più povero.
Questa
guerra ci renderà più poveri, e non è un’ipotesi.
L’inflazione è impennata in questi ultimi 24
mesi mentre i salari sono fermi al palo. Il potere d’acquisto delle classi
lavoratrici, dei pensionati e dei giovani precari è in caduta libera.
È un attacco diretto al nostro tenore di vita.
2. I
risparmi bruciati dall’inflazione.
L’aumento
dei prezzi sta erodendo i risparmi degli italiani.
I fondi messi da parte con sacrificio stanno
perdendo valore rapidamente.
Quello
che un tempo era un “cuscinetto” economico per far fronte a emergenze o
incertezze ora vale sempre meno.
Paradossalmente,
coloro che gridavano al pericolo quando presunti populisti minacciavano i
risparmi degli italiani, oggi restano in silenzio mentre il governo, seguendo
fedelmente i diktat internazionali, contribuisce alla loro distruzione.
3. Il
sistema produttivo a rischio.
Il
tessuto industriale italiano sta subendo colpi pesanti. L’aumento dei costi
dell’energia rende le nostre aziende meno competitive sul mercato
internazionale, portando a una perdita di quote di mercato occupate da altre
economie. Inoltre, l’Italia ha perso un mercato importante come quello russo,
dove esportavamo prodotti chiave come macchinari, vino e moda.
Le
espressioni di ostilità del nostro governo verso Mosca hanno reso impossibile
un futuro recupero di questo mercato, danneggiando ulteriormente la nostra
economia.
4.
Dipendenza crescente dagli Stati Uniti.
Sebbene
si sperasse in un aumento delle esportazioni verso gli Stati Uniti, questa
guerra sta consolidando la nostra dipendenza economica e militare da
Washington.
L’intera
Europa, compresa l’Italia, è stata costretta ad accettare le sanzioni contro la
Russia sotto minaccia di ritorsioni economiche americane.
Tuttavia,
mentre le sanzioni penalizzano l’economia europea, offrono un vantaggio
strategico all’economia statunitense, che ne trae nuovo slancio.
E ora
con la presidenza Trump il quadro rischia di degenerare ulteriormente per il
Vecchio Continente, sempre più marginale nella visione di Washington.
5. Il
rallentamento dell’Europa.
La
Germania, locomotiva economica dell’Unione Europea, è in crisi profonda,
produttiva e politica che crea una miscela pericolosa di inflazione e
recessione:
la
cosiddetta “tempesta perfetta”.
Quello
che frena Berlino, in questo meccanismo europeo, frena anche l’Europa e dunque
l’Italia.
6. Una
UE sempre più militarizzata.
La
natura stessa dell’Unione Europea sta cambiando.
L’aumento vertiginoso delle spese militari e
il coinvolgimento diretto delle grandi industrie belliche, come evidenziato dal
rapporto ENAAT del 2023, mostrano una trasformazione inquietante.
Il
bilancio dell’UE si sta militarizzando, e questo avviene a scapito delle
politiche sociali ed economiche, che vengono invece ridimensionate.
7.
Debito buono o debito cattivo?
C’è
un’ipocrisia evidente nelle politiche economiche europee.
Gli
stessi funzionari che in passato hanno criticato duramente le spese per il
reddito di cittadinanza o le pensioni, non sembrano opporsi all’aumento
incontrollato delle spese militari.
Questo
viene considerato “debito buono”.
Le
vite umane, invece, sembrano avere valore solo in quanto strumentali al
profitto e all’accumulazione di capitale.
Stiamo
pagando un prezzo altissimo per decisioni che favoriscono altri, mentre i
lavoratori e le imprese italiane subiscono le conseguenze più gravi.
Lo diciamo, lo ripetiamo, lo sanno tutti, ma è
come se fossimo su un treno in corsa in cui nessuno ha il coraggio di tirare il
freno.
(Zela
Satti)
(kulturjam.it/politica-e-attualita/distruggere-il-futuro-dellitalia-ci-stiamo-riuscendo-benissimo/)
L’economia
di mercato, la globalizzazione
e
l’impotenza della politica.
Inschibboth.org - Elio Matassi – (30-5-2024) – ci
dice:
È
opinione diffusa che il capitalismo abbia trionfato sul socialismo.
Ma si tratta di una interpretazione della
contemporaneità sostanzialmente fuorviante, perché, in realtà, il trionfo è
dovuto in larga misura alla democrazia piuttosto che alla economia di mercato.
Qualora il capitalismo, trascendendo la politica,
diventasse un sistema ‘totalitario’, come di fatto sta avvenendo negli ultimi
dieci anni con le ricorrenti crisi finanziario-sistemiche, rischierebbe di
crollare a sua volta, in quanto in nessun ciclo della nostra storia recente –
eccezion fatta per il periodo degli anni Trenta – le disfunzioni dell’economia
provocate dal capitalismo globale sono state tanto gravi quanto lo sono oggi:
disoccupazione
crescente, crescita esponenziale dell’illegalità e povertà nei paesi
sviluppati, miseria insostenibile in molti paesi in via di sviluppo, incremento
delle diseguaglianze di reddito pro capite tra i paesi.
Il
capitalismo globale sta di fatto provocando un’alterazione profonda degli
equilibri internazionali con effetti devastanti sulla sostanza stessa della
democrazia.
È
doveroso precisare che ogni sistema economico non può aspirare a rappresentare
immediatamente – direttamente il sistema politico;
l’economia
di mercato non può esprimere, senza mediazione e controlli, un principio di
democrazia e che, pertanto, entro quest’ottica peculiare, possono sussistere
solo sistemi ‘spurii’.
Esistono
‘democrazie di mercato’ ma non ‘economie di mercato’.
Si
tratta di una differenza rilevante che tiene nel debito conto i due
contrapposti poli di riferimento che governano o che dovrebbero governare la
totalità sociale.
Da un
lato, il mercato esprime una vocazione individualistica, dall’altro, la
democrazia, costruita sul principio del suffragio universale, esprime quella
opposta.
Una
contraddizione che era stata percepita fin dalle origini dalla teoria politica
della Grecia antica.
Soltanto
la ricerca di un equilibrio tra queste due vocazioni contrapposte potrà
continuare a far vivere degnamente la democrazia.
Qualsiasi
lacerazione di tale equilibrio non può che risultare devastante per la
costruzione di un autentico assetto democratico.
All’interno
di tale campo di tensione, tuttavia, deve rimanere fermo quale quadro di
riferimento valoriale la priorità della democrazia sull’economia di mercato, in
altri termini, il principio economico dovrà essere subordinato alla democrazia e non
viceversa.
La
democrazia non può, infatti, essere considerata alla stregua di un semplice
sistema politico, rappresentando anche e soprattutto un sistema di valori,
mentre l’economia di mercato è semplicemente uno strumento che può risultare
compatibile con essa ma che, estremizzandosi, potrà diventare anche
incompatibile, come stanno dimostrando gli eventi degli ultimi anni.
Un
tale quadro analitico, per quanto elementare, consente di rimettere in
discussione due questioni strettamente interconnesse e molto dibattute nella
contemporaneità: l’economia di mercato e la globalizzazione, dove la prima è il motore
della seconda.
La
storia degli ultimi trent’anni può essere ricostruita in maniera plausibile con
una suggestiva allegoria di “Jean – Paul Fitoussi”, politologo ed economista
che insegna all’Institute d’”Etudes politiques di Parigi”, di cui presiede il
consiglio scientifico:
“Alla vigilia della globalizzazione, le
popolazioni europee si riuniscono in una stanza;
al suo
interno si colgono differenze di ricchezza, di reddito e di classi sociali;
ma
quali che siano le difficoltà della vita quotidiana, ciascuno è socialmente
integrato, ciascuno possiede un impiego e prevede un aumento del proprio
reddito lungo il corso della sua esistenza;
ciascuno, infine, è certo che i propri figli
avranno un futuro migliore.
Nell’arco di una sola notte, ecco la
globalizzazione.
Il giorno dopo, le stesse persone –
esattamente le stesse – si ritrovano nella medesima stanza;
alcune, in un numero esiguo si sono
considerevolmente arricchite;
altre,
un numero più elevato, hanno guadagnato molta sicurezza, sono più scaltre
perché hanno applicato il dogma che i primi hanno loro ordinato di predicare:
‘Non ci sono alternative’.
Una
parte non trascurabile della classe media ha perduto molto e piange per il
proprio avvenire e per i propri figli.
Una minoranza consistente è disoccupata o
ridotta in povertà.
Allora
i vincitori dicono ai vinti: ‘Siamo sinceramente desolati della sorte che vi è
toccata, ma le leggi della globalizzazione sono spietate, e bisogna che vi
adattiate rinunciando alle protezioni che vi restano.
Se volete che l’economia europea continui a
crescere, è necessario che accettiate una precarietà maggiore.
Questo
è il contratto sociale del futuro, quello che ci farà ritrovare la strada del
dinamismo’”.
L’”allegoria
di Fitoussi” rappresenta compiutamente il programma – progetto politico
dell’attuale blocco neopopulista, che governa il nostro paese, un programma –
progetto inaccettabile proprio sul piano della democrazia stessa.
Si tratta di un’allegoria molto efficace che
fa apparire la globalizzazione per ciò che essa è realmente:
un alibi, un discorso puramente retorico.
I vincitori, sapendo che i dadi del destino
sono caduti a loro favore, non vogliono più partecipare al sistema di
protezione sociale.
Si
tratta della stessa situazione in cui l’Europa e il mondo intero sembrano
essere caduti in una deriva senza ritorno.
In
Italia questi tratti comuni si presentano ancor più radicalizzati:
il duplice trionfo dell’individualismo è del “mercato
privo di regole” finisce con il limitare le ambizioni redistributive della
società (la resistenza del contribuente) e quelle interventiste del governo.
La
tutela fine a sé stessa del mercato, l’inasprimento degli obblighi imposti ai
governi nazionali, la riduzione progressiva delle pretese redistributive dei
governi sono tutti aspetti che stanno modificando in profondità ‘il sistema di
equità’ delle nostre società mediante il ritorno ad un principio ultraliberista
che entra in collisione con la stessa democrazia, indebolendone struttura e
finalità.
Il
processo di globalizzazione, concepito nella sua irreversibilità priva di
regole, rovescia quel principio di equità su cui era stata finora fondata la
democrazia:
prima, la democrazia e, solo in secondo luogo,
il mercato;
in questo caso vi è un autentico rovesciamento
prospettico che accresce il ruolo del mercato, svilendo quello della
democrazia, un fenomeno che attraversa ormai in profondità l’Europa e che
coinvolge in maniera particolare la situazione del nostro paese, un fenomeno
che ricade sotto la formula, ‘impotenza della politica’, descrivendo compiutamente in tutta
la sua regressività la presunta stagione politica del blocco neopopulista.
Il mutamento radicale del principio di equità
non deriva, infatti, da una decisione politica ma da una costrizione esterna
imposta alla democrazia in nome di un’efficacia solo presunta.
In tal modo l’attuale blocco neopopulista,
oggi al potere, rovescia il principio – sistema di equità, collocando al primo
posto il mercato e solo, al secondo, la democrazia.
Sembra ormai scontata l’equazione:
se la
globalizzazione genera vincitori e vinti, non si ha altra scelta se non quella
di premiare i vincitori con un ulteriore sovrappiù, un premio supplementare che
i perdenti devono loro.
Il che
dimostra in maniera inequivoca come la globalizzazione, interpretata quale
principio trascendentale di organizzazione, entri in rotta di collisione con il
fondamento stesso della democrazia.
Questa
diagnosi cerca di entrare nel merito di quello che sta accadendo nel nostro
sistema economico e delle risposte o, meglio, non – risposte che l’attuale
blocco neopopulista sta proponendo.
La
distruzione ormai sistematica con cui si sta legiferando contro il pubblico:
università, scuola, magistratura è ormai giunta ad un punto di non ritorno; di
contro, il crescente tasso di evasione fiscale che pesa sul nostro paese e che
si aggrava giorno dopo giorno in maniera esponenziale, lungi dall’essere
colpito e ridimensionato, viene addirittura incoraggiato.
La
politica economica del blocco neopopulista, per arrestare questa emorragia e
creare nuovo dinamismo, ha scelto come soluzione quella di abbassare le imposte
pagate sui redditi elevati, rafforzando ulteriormente le diseguaglianze e
distruggendo in maniera definitiva l’idea stessa della democrazia.
È
indispensabile rimuovere il discorso retorico di legittimazione di un
capitalismo liberista e dominante che considera democrazia e politica come
ostacoli per lo sviluppo, in netta contrapposizione con i fatti.
Quest’ideologia,
più mercantilistica che non globale, ha ormai pervaso nel profondo le linee –
guida dell’azione politica nostrana.
Il
blocco neopopulista, al cui interno cominciano a verificarsi le prime crepe,
sta di fatto minando progressivamente la democrazia;
stiamo
entrando progressivamente in una forma di democrazia sempre più autoritaria o,
meglio ancora, come suggerisce qualcuno, in una fase caratterizzabile dalla
formula, tutt’altro che paradossale, ‘democrazia senza democrazia’.
Fanno
pertanto sorridere dichiarazioni come quelle argomentate da Francis Fukuyama “sulla
democrazia liberale:
“la
democrazia liberale potrebbe, a lungo andare, venire sovvertita internamente
sia da un eccesso di “megalotimia” che da un eccesso di “isotimia”, cioè dal
desiderio fanatico di un riconoscimento paritario.
A mio
parere sarà la prima che alla fine costituirà la maggiore minaccia per la
democrazia.
Una
civiltà che indulge ad un’isotimia sfrenata, che cerca fanaticamente di
eliminare ogni manifestazione di riconoscimento ineguale, si troverà ben presto
a fare i conti con i limiti imposti dalla natura stessa”.
L’esaltazione conseguente dell’attività
imprenditoriale, “una forma regolata e sublimata di megalotimia”, in quanto
spinge un produttore a far meglio dei suoi rivali – competitori,
contestualizzata in un ambito psicologico – individuale non riesce a restituire
quello che sta accadendo realmente nella contemporaneità;
si
tratta di un’analisi, molto ‘datata’ che non approfondisce il versante del
super -capitalismo finanziario, della sua onnipotenza, della sua capacità
onnivora di impadronirsi dei mercati e di snaturarne il normale svolgimento.
Quando”
F. Fukuyama” afferma, “Il fatto che le nature più dotate ambiziose tendano a darsi
agli affari anziché alla vita politica e alle carriere militari, universitarie
o ecclesiastica fa parte del progetto stesso dei paesi capitalistici
democratici come gli Stati Uniti”, non riesce a rendersi conto che è venuto il momento di
una pausa di riflessione e che il progetto di un’attività imprenditoriale fine a se
stessa, incontrollata, è un progetto che può condurre, come di fatto sta
avvenendo dinnanzi ai nostri occhi, non allo sviluppo ma alla “graduale
consunzione della democrazia”.
Che
fine ha fatto la rivoluzione?
Balcanicaucaso.org
– (5-9-2024) - Vesna Janković - H-Alter - Boris Buden – ci dice:
“L’idea
di rivoluzione implica una concezione diversa della democrazia”.
Boris
Buden, scrittore, traduttore e attivista, parla a tutto tondo di rivoluzione,
resistenza, stato della democrazia, guerra e migrazioni nel "cosiddetto
Occidente."
Nell’ambito
della 17° edizione del “Subversive festival,” tenutasi di a luglio a Zagabria,
lei ha tenuto conferenza dal titolo “Nel vicolo cieco della critica
disarmata: Come abbiamo respinto l’idea di rivoluzione?”.
Nel
frattempo, si sono svolte le elezioni europee, da cui l’estrema destra, come
atteso, è uscita rafforzata.
Assistiamo ad un’escalation della guerra in
Ucraina e del conflitto israelo-palestinese, i cambiamenti climatici si stanno
intensificando, e la sinistra europea sembra smarrita.
In
questo contesto, come possiamo anche solo concepire la rivoluzione?
Non
sono un politico e non guido un partito rivoluzionario, quindi la domanda che
mi pongo è:
perché
abbiamo rinunciato all’idea di una svolta radicale e immediata in un momento,
come quello attuale, in cui i conflitti si stanno intensificando e lo spettro
di una catastrofe nucleare incombe sull’umanità, minacciando di distruggerla in
un batter d’occhio?
Un
momento in cui siamo anche alle prese con il riscaldamento globale, tanto che
la maggior parte degli scienziati climatici, anziché un aumento della
temperatura globale di 1,5°C rispetto ai livelli preindustriali – come
concordato a Parigi nel 2015 – prevede un aumento di 2,5°C, se non addirittura
di 3°C.
Se
queste previsioni si dovessero avverare, la vita sulla terra cambierebbe
drasticamente.
(Queste
previsioni sono prive di controprova scientifica. Tutto si basa su false
informazioni fasulle “accettate” da un mondo di finti scienziati del clima!
N.D.R)
Non
penso solo al caldo, ma soprattutto al fatto che due miliardi di persone
saranno costrette a lasciare la cosiddetta nicchia climatica dell’uomo, cioè
l’area in cui si è sviluppata la civiltà umana negli ultimi diecimila anni.
Quindi,
parliamo di migrazioni di massa, fame, conflitti politici, guerre per le
risorse naturali…
È
evidente che stiamo sprofondando nell’abisso e nessuno ha idea di come evitare
il disastro.
Si
discute invece di come vincere in Ucraina, anche se nessuno ha una risposta a
questo interrogativo.
Perché
abbiamo smesso di pensare la rivoluzione?
Nel
corso della conferenza ho esposto una serie di ragioni per cui l’idea di
rivoluzione è stata estirpata dalle nostre menti.
Non è
semplicemente scomparsa, è stata cancellata da una politica radicale e
controrivoluzionaria che viene portata avanti da molto tempo ormai, sin dalla
Rivoluzione d'ottobre.
L'interesse che muove questa politica, attuata
in modo sistematico, è la sopravvivenza dei rapporti capitalistici, o meglio la
sopravvivenza del capitalismo ad ogni costo, anche rischiando di distruggere
non solo l’ambiente, ma l’intera umanità.
L'idea
di rivoluzione implica anche una concezione diversa della democrazia che vada
oltre il concetto di liberaldemocrazia dei partiti, trascendendo tutte quelle
categorie che stanno crollando davanti ai nostri occhi, compresa la distinzione
– caratteristica della realpolitik – tra sinistra e destra.
La
guerra in Ucraina ne è un chiaro esempio.
Oggi la destra marcia sotto la bandiera della
pace e la sinistra incita alla guerra.
La
situazione è caotica, ma non per questo dobbiamo seguire la destra per
raggiungere la pace, né tanto meno dobbiamo seguire la sinistra per vincere la
guerra.
Si tratta di comprendere che l’attuale sistema di
democrazia capitalista – con i suoi partiti di sinistra, centristi e di destra
– non è capace di fermare la guerra né di creare i presupposti per una pace
duratura, anche solo limitandosi a seguire l’ideale della pace perpetua di
Kant.
La
questione guerra o pace è strettamente legata al nostro rapporto con la natura.
Per
salvare l’umanità non basta iniziare a rispettare la natura se, al contempo,
continuiamo a fare le guerre tra di noi.
Oggi
più che mai è chiaro che queste dinamiche sono interconnesse.
Pur
trovandoci di fronte a sfide enormi – si tratta letteralmente della
sopravvivenza dell’umanità – abbiamo nullificato le nostre capacità cognitive e
immaginative.
La
nostra immaginazione politica e sociale è del tutto impotente di fronte alla
scelta tra una sinistra che porta alla guerra fino all’ultimo uomo e una destra
che porta ad una pace che equivale al perpetuarsi della distruzione
capitalistica dell’ambiente e della società e a ulteriori violenze
nazionaliste, scioviniste e razziste contro gli “altri”.
Supponendo
che spetti alla sinistra avviare una svolta radicale, come commenta il fatto –
sottolineato da molti analisti – che la destra è riuscita a intercettare
meglio i bisogni di quelle classi sociali che un tempo costituivano il nocciolo
duro dell’elettorato di sinistra?
Quelli
che erano gli ideali tradizionali di sinistra – giustizia sociale, solidarietà,
pace, contestazione della guerra capitalista – oggi, assumendo una forma
distorta, appaiono come il risveglio del soppresso nelle politiche di destra
attraverso un nazionalismo, ossia un razzismo sempre più palese non solo a
livello degli stati nazionali, ma anche sotto forma di sovranità
post-nazionale, come in quel blocco identitario e normativo che chiamiamo
Occidente.
L’Occidente
è un concetto razzista che permette non solo la riproduzione sovranazionale dei
rapporti di egemonia e di dominio, ma anche la guerra per le risorse e una
gestione violenta delle conseguenze catastrofiche della globalizzazione
capitalista, conseguenze che si palesano, ad esempio, nel fenomeno migratorio.
Vediamo
che in Germania l’AfD e i partiti centristi – CDU e CSU – concordano sullo
smantellamento dello stato sociale e la sua trasformazione in quella che viene
chiamata “società fredda”, sforzandosi, insieme ai liberali, di portare a
termine il progetto della deregolamentazione neoliberista di ogni aspetto della
vita.
La
destra non è monolitica, ha molteplici progetti, però se oggi vive un’ascesa
senza precedenti è grazie alla sinistra e alla sua decisione di rinunciare
all’idea di una svolta e una critica radicale al capitalismo.
Quindi,
una rivoluzione, per avere successo, deve essere globale?
Esatto,
solo che oggi la dimensione globale è immersa nella fascinazione per la
geopolitica e per i blocchi identitari e normativi.
Non mi riferisco solo all’Occidente.
C’è
anche il cosiddetto “mondo russo”, visto come una sorta di alleanza,
altrettanto monolitica, dei cosiddetti paesi antioccidentali, poi la Cina,
l'Iran, ecc.
L’idea è quella di un mondo multipolare che dovrebbe
essere più giusto e più eguale.
Nessuno però mette in discussione il carattere
capitalista di questo mondo multipolare.
Forse
per questo la sinistra anticapitalista è totalmente estranea ai conflitti
attuali.
Sembra che il suo vecchio progetto di
internazionalismo non sia traducibile nel linguaggio della geopolitica
contemporanea, cioè della globalizzazione capitalista – unipolare, bipolare o
multipolare che sia.
D’altra
parte, la sinistra mainstream, i verdi e i socialdemocratici stanno ancora
cercando di cavalcare l’onda guerrafondaia dell’Occidente capitalista e
liberale, pretendendo di difendere la democrazia dalle cosiddette “autocrazie”
antioccidentali.
Questa sinistra si è schierata a fianco dei
suoi leader, “Biden” e “Netanyahu”, ed è pronta a seguirli fino all’Armageddon
nucleare.
Per la
sinistra mainstream è più facile innescare una terza guerra mondiale che
proporre un’idea politica per porre fine ai conflitti che infuriano in Ucraina
e Palestina.
Se
oggi è chiaro che il progetto di due stati separati, uno palestinese e l’altro
ebraico, non potrà mai essere realizzato, allora qual è l'alternativa?
La guerra fino alla distruzione di una delle
due identità contrapposte?
Il genocidio contro l’una o l’altra parte
coinvolta è davvero l’unica soluzione? Sembra di sì.
Per
questo il cosiddetto Occidente, compresa la sua sinistra mainstream, avendo
accettato il genocidio come soluzione, sostiene la parte più forte affinché lo
faccia il prima possibile.
Lo
stesso vale per l’Ucraina.
L’Occidente
è pronto a difendere, fino all’ultimo ucraino, un ordine fondato sul diritto
internazionale, cioè sull’idea di sovranità degli stati nazione, pur avendo in
passato calpestato quell’idea ogni volta che se ne presentasse l’occasione,
ignorando il diritto internazionale e distruggendo l'ordine su di esso fondato.
Come possiamo fidarci di chi afferma che l’Occidente
vuole difendere i confini esistenti in Europa se quello stesso Occidente ha più
volte ridisegnato i confini?
Se è
vero che Putin e la sua cricca nazionalista e imperialista altro non sono che
una banda criminale, che ha iniziato questa guerra assurda, è anche vero che
non hanno fatto nulla che l’Occidente non abbia fatto prima.
Non vi
è alcuna differenza sostanziale tra quello che accade oggi in Ucraina e in
Palestina e quello che è accaduto in Iraq, Afghanistan e Siria.
Sono
tutte guerre di demarcazione definitiva tra i blocchi capitalisti, dove questi
ultimi stabiliscono i propri confini come luoghi di caos, illegalità,
devastazione economica, politica e morale, teatro di crimini e genocidi di cui
nessuno sarà chiamato a rispondere.
Da
anni ormai assistiamo ad una simile guerra di demarcazione anche ai confini
della Croazia, dove la destra croata ora vuole schierare l’esercito per fermare
i migranti.
Come
incidono le dinamiche globali sulla situazione nella nostra regione?
Quella
che noi chiamiamo regione altro non è che un groviglio di confini, uno spazio
tagliato in due da Schengen, cioè dalla frontiera tra l’UE e il resto del
mondo, poi ulteriormente diviso dai confini tra gli stati apparentemente
sovrani, e infine dai confini etnici, religiosi, linguistici e altri ancora.
In
questo caso non ha senso parlare di stati sovrani.
Tutti
i paesi della regione post-jugoslava sono relegati ad una posizione di
dipendenza neofeudale da istanze di potere superiore, sia che di tratti di
Bruxelles, membri potenti dell’UE (come la Germania), NATO, Stati Uniti o
quello che viene definito Occidente, anche se nessuno sa realmente cosa sia.
Nessuno
dei paesi della regione è economicamente indipendente. Può forse esserci
democrazia senza indipendenza?
Parliamo di una realtà che non è fondata su
alcun ordine, bensì sul disordine e sul caos.
Abbiamo due stati (e mezzo) albanesi con uno
status indefinito.
C’è l’ultimo rimasuglio della Macedonia, la
cui sopravvivenza viene messa in discussione da tutte le parti.
C’è
poi la Serbia che vuole compensare la perdita di una sua regione dividendo un
paese vicino e appropriandosi di una delle sue parti.
La
Bosnia Erzegovina può avere un futuro in mezzo a tutto questo caos?
Non
credo.
Parliamo
di un insieme di paesi in cui, come ho accennato prima, non vige alcun ordine,
bensì un regime che io chiamo “Pax Americana”, non solo perché tutte le
frontiere e le relazioni tra i popoli della regione sono state concordate negli
Stati Uniti, ma anche perché questo caos ricorda la situazione in Libia, Siria,
Iraq e Ucraina, paesi che non possono più essere considerati stati-nazione
funzionali.
Queste
nazioni non sono state “liberate” per permettere loro di essere sovrane, bensì
per un motivo diametralmente opposto, ossia per relegarle ad una posizione
subordinata nei rapporti neofeudali di dominio globale.
Questo
non è un ordine fondato sul diritto internazionale, è un bilanciamento tra
paura e potere in uno stato di violenza, temporaneamente sospesa, che potrebbe
esplodere nuovamente in qualsiasi momento.
Secondo
una delle interpretazioni che circolano, le guerre attualmente in corso
sarebbero frutto del desiderio degli Stati Uniti di mantenere l’egemonia, ormai
vacillante, a livello globale…
Magari
si trattasse di quella logica ciclica relativa alla nascita, l’ascesa e la
caduta dei grandi imperi, come quello romano.
Purtroppo, viviamo sotto la minaccia di una
guerra nucleare.
Non si
tratta del crollo di un impero che verrà soppiantato da un altro.
Quanto sta accadendo potrebbe rivelarsi “la
soluzione finale” per tutti noi.
Quanto
all’egemonia statunitense,” Immanuel Wallerstein” fa risalire l’inizio del
declino agli anni Settanta del secolo scorso.
Gli
USA sono stati l’unica potenza egemone solo nel periodo tra il 1945 e il 1970.
A
differenza di quanto credono in molti, il crollo dell’Unione sovietica e
dell’intero blocco orientale non ha portato al ripristino dell’egemonia degli
Stati Uniti che non solo sono stati colti impreparati dal crollo del comunismo,
ma nemmeno lo auspicavano.
Secondo
“Wallerstein”, la fine dell’Urss non ha fatto che indebolire ulteriormente gli
Stati Uniti, rafforzando il multipolarismo.
Questo
processo ha subito una forte accelerazione dopo il 2001 e il fallito intervento
militare di Bush in Iraq.
In fin
dei conti, gli USA sono una potenza militare che continua a perdere le guerre,
lasciando dietro di sé il caos.
Il Vietnam se l’è cavata anche bene, ma come
hanno ridotto l’Afghanistan e l’Iraq?
Che
fine farà l’Ucraina, che ha già subito danni irrimediabili?
Questo
non giustifica affatto Putin e la Russia, tutt’altro!
Putin
ha imparato fin troppo bene dall’esempio dell’Occidente, questo è l’aspetto più
preoccupante.
Tutto
quello che la Russia di Putin ha fatto in Ucraina, il cosiddetto Occidente lo
ha già fatto prima:
interventi militari che violano il diritto
internazionale, calpestano la sovranità e l’integrità territoriale di altri
stati, occupazioni illegittime, modifiche dei confini in Europa e non solo,
distruggendo interi paesi e l’ordine esistente basato sul diritto
internazionale.
E quando non li compie direttamente,
l’Occidente sostiene apertamente crimini di guerra, crimini contro l’umanità, e
persino potenziali genocidi.
In
questo contesto, qual è la posizione della “Corte internazionale di giustizia”
e del” Tribunale penale internazionale”, organismi che dovrebbero garantire la
giustizia internazionale?
Quando
la Corte penale internazionale ha emesso un mandato d’arresto contro Vladimir
Putin, accusato di aver deportato bambini ucraini in Russia, Gordon Brown, ex
primo ministro britannico e membro del Partito laburista, ha accolto con favore
la decisione della Corte, definendola un grande passo in avanti nella giustizia
internazionale, elogiando il Sudafrica per non aver invitato Putin ad un
incontro dei BRICS a Johannesburg.
Perché
oggi Brown non scrive qualcosa su Netanyahu?
Solo a
Gaza gli israeliani hanno ucciso quasi quattordicimila bambini e il Sudafrica
ha denunciato Israele per genocidio.
Oggi Gordon Brown e l’intero Occidente
tacciono.
Perché l’ex premier britannico non scrive qualcosa su
Biden che introduce, o minaccia sanzioni contro la Corte internazionale di
giustizia e il Tribunale penale internazionale dell’Aja?
Gli
Stati Uniti, come il resto dell’Occidente, in linea di massima sono
“impunibili” davanti ai tribunali internazionali.
Se non
c’è uguaglianza davanti ai tribunali, non può esserci nemmeno giustizia. Come ci possiamo aspettare che la
giustizia internazionale sia fatta da quelli che si pongono al di sopra delle
sue leggi e puniscono le sue istituzioni?
La
Russia di Putin, invece di contrastarla, sfrutta questa devastante logica
dell’ingiustizia per realizzare i propri interessi imperialisti.
“Se loro possono distruggere e uccidere
impunemente, lo possiamo fare anche noi”.
Non vi
è nulla di difensivo nell’invasione russa dell’Ucraina, né tanto meno si può
parlare di principi nel senso della difesa dell’ideale di un ordine mondiale
più giusto e multipolare.
Si tratta si mera distruzione, esteriore e
interiore.
Oggi
più che mai emerge l’ipocrisia dell’Occidente, in un momento in cui le
democrazie occidentali sono travolte dalla censura, accompagnata da una
recrudescenza del razzismo, non solo a destra.
Mi
viene in mente l’affermazione del socialista Josep Borrell sull’idilliaco
giardino europeo, circondato da una giungla.
Allo stesso tempo, i punti di vista del Sud globale –
che si differenziano in modo significativo dalle posizioni europee e americane
– sono assenti dai media.
Lei come commenta questa situazione?
Il
senso dell’importanza dell’Europa – che negli anni ‘90 era talmente forte che
sembrava che l’Europa fosse la soluzione a tutti i nostri problemi – è
completamente svanito.
Le nostre élite liberali sono le uniche a
invocare ancora uno “stato normale e ordinato” che secondo loro già esiste da
qualche parte in Europa e in Occidente, ad esempio in Germania.
Al
contempo, queste élite insistono sulla cosiddetta “differenza di civiltà”,
ossia sulla distinzione tra noi, persone civili, e i barbari, tra un’élite
destinata a governare e quelli che non sono capaci né meritano di governare
nemmeno se stessi.
L'idea
di transizione post-comunista, ossia di allargamento dell’UE ad est, segue
fedelmente il paradigma di quella “differenza di civiltà”, anziché il principio
di solidarietà e uguaglianza.
L’altra faccia di questo processo è la
cosiddetta accumulazione originaria del capitale, ovvero l’espropriazione e la
privatizzazione dei beni statali o – come nel caso dell’ex Jugoslavia – dei
beni comuni.
Dal
punto di vista politico, assistiamo al processo di instaurazione di rapporti
neofeudali, intesi come forma di sovranità post-nazionale, dove tutto il potere
è concentrato nelle mani delle élite burocratiche del centro, strategicamente
posizionate all’interno delle istituzioni, reali o fittizie, di potere globale,
da Bruxelles al Pentagono, dal Fondo monetario internazionale alla NATO,
passando per il presidente francese, il premier britannico, il ministro tedesco
delle Finanze e quello dell’Economia, fino al cosiddetto Occidente.
Il
rapporto tra gli stati nazionali delle periferie d’Europa, come la Croazia, e
le élite del centro è paragonabile al rapporto tra gli ex vassalli e i loro
signori feudali.
Per
quelli che aspettano ancora di entrare nell’UE, pensando che tale passo possa
risolvere tutti i loro problemi, l’Europa rappresenta ancora un ideale.
Un’Europa che non riesce più a ritrovare la
propria grandezza svanita, se non in quello sguardo acritico dall’esterno di
cui peraltro gode perversamente.
Se
centinaia di migliaia di cittadini ucraini muoiono per quella Europa e quella
NATO, allora forse l’Europa e la NATO davvero valgono qualcosa.
E cosa
otterranno dall’Europa e dalla NATO tutte quelle vedove e orfani quando
usciranno dalle macerie?
Un bel
niente.
È
proprio l’atteggiamento nei confronti della guerra in Ucraina a rispecchiare
tutta l’impotenza politica dell’Europa…
L'Europa
è ormai un ideale svanito, espulso dalla scena politica mondiale dal cosiddetto
“Occidente”, cioè da un soggetto oscuro coinvolto in una miriade di attività:
esporta
la democrazia, arma se stesso e gli altri, impone sanzioni, rovescia i regimi,
combatte le guerre.
Però
non conosciamo l’identità di questo soggetto.
Quando,
nell’aprile 2022, sembrava che la guerra potesse essere fermata – l’Ucraina e
la Russia erano ad un passo dal raggiungere un accordo di pace a Istanbul –
Boris Johnson, recatosi improvvisamente a Kyiv, avrebbe detto a Zelensky:
“The West is not yet ready for peace” [l’Occidente non è ancora pronto
per la pace].
Il problema non è la prontezza dell’Occidente
per la guerra o per la pace, ma chi ha legittimato Boris Johnson a parlare a
nome di un soggetto chiamato Occidente.
Lo
abbiamo forse scelto noi?
Chi ha
legittimato quell’uomo a parlare a nome di centinaia di milioni di persone?
Tutti i membri del suo governo lo consideravano un bugiardo e ciarlatano.
Dominic
Cummings, un suo ex consigliere, lo ha chiamato proprio così, definendo
l’Ucraina “un porcile corrotto”.
Io mi
chiedo: come
siamo arrivati al punto in cui i ciarlatani e i bugiardi, senza alcuna
legittimità democratica, decidono della vita e della morte di centinaia di
migliaia di persone?
È
questa la democrazia che Boris Johnson, come rappresentante dell’Occidente,
protegge dall’autocrate Putin?
Da
tempo ormai si parla – utilizzando un eufemismo – di “deficit democratico”
nell’UE.
Però
negli ultimi due anni la situazione è rapidamente deteriorata. Lei come vede
oggi la cosiddetta “democrazia occidentale”?
L'Occidente
non è una democrazia: la mera somma di democrazie parlamentari non è di per sé
una democrazia.
Quanto
alla giustizia, l’Occidente – come accennato prima – è un esempio di impunità
assoluta, può distruggere e uccidere impunemente.
Ma chi
gli ha dato il diritto di farlo?
Siamo
stati noi a dargli questo diritto attraverso un processo democratico?
I criminali di guerra dell’ex Jugoslavia, che
hanno scontato 10-15 anni di carcere per “bombardamenti indiscriminati”, ora
guardano cosa sta accadendo a Gaza e chiedono:
“Aspetta
un attimo, io non ho ucciso nemmeno un centinaio di bambini e ho scontato
quindici anni, e questi ne hanno ucciso diverse migliaia, e continuano a
uccidere, ma nessuno reagisce?”.
Quindi,
la nostra intera storia postbellica, basata sulla giustizia e sulla punizione
dei criminali di guerra, indipendentemente da quale parte stessero, è stata
cancellata.
Viviamo nell’illegalità, lasciati alla mercé della
volontà arbitraria dei potenti.
Tra
gli ospiti dell’edizione 2024 del “Subversive Festival “c’era anche “Angela
Davis secondo cui l’Europa vive ancora
nell’illusione di essere un continente bianco…
Se
l’Europa ancora considera sé stessa un continente bianco vuol dire che vive nel
passato.
L’Europa non ha un futuro come continente bianco, non
solo a causa dell’impossibilità di un rilancio demografico, ma anche per via
della provincializzazione di tutti gli aspetti della vita, compreso quello
economico.
L’Europa
non riesce più a tenere il passo con le altre regioni del mondo che stanno
progredendo tecnologicamente ed economicamente ad un ritmo molto più veloce.
Il
trauma di questa decadenza, perdita di superiorità, emarginazione e
provincializzazione politica è il serbatoio emozionale da cui la destra trae
energia per la sua propaganda razzista.
Però questo risentimento è autodistruttivo.
L’unico
possibile futuro dell’Europa è quello che trascende l’idea del “continente
bianco”.
Dopotutto,
il bianco non è il colore della pelle.
Il
bianco è potere, dominio, sfruttamento. È sinonimo di impunità e ingiustizia.
Questo è il punto.
Non è
assurdo che questa illusione persista nonostante l’Europa non possa
sopravvivere economicamente senza il lavoro migrante, come dimostra anche il
caso della Croazia?
L'Europa
di oggi non può sopravvivere senza l’immigrazione, e quindi senza la politica e
la biopolitica dei confini.
Non si tratta di chiudere i confini, come
pensa la destra che vorrebbe schierare l’esercito lungo le frontiere, seguendo
la logica della securitizzazione di ogni aspetto della vita sociale.
Le
frontiere sono un filtro, tutto dipende da chi le controlla e per quali
interessi, chi può passare e chi viene bloccato.
Del
resto, i confini tra bianco e non bianco, presenti ovunque in Europa, oltre a
stabilire le differenze culturali, regolano il rapporto tra lavoro e capitale,
cioè i rapporti di classe.
Sono i
luoghi in cui l’Europa esprime la sua aggressività e violenza passiva e attiva.
È lungo questi confini che l’Europa oggi porta avanti le sue guerre, non solo
in Ucraina, anche nei Balcani, in Libia, Siria, Iraq.
Qui
tutti i nostri sentimenti morali si sono affievoliti, a partire dal senso di
solidarietà, empatia e obbligo morale nei confronti delle persone in
difficoltà. Ormai siamo abituati alle immagini di migliaia di cadaveri che
galleggiano nel Mediterraneo.
Il
ruolo principale di Frontex non è quello di proteggere le frontiere europee,
bensì di normalizzare la violenza e la morte lungo queste frontiere.
Essendo
ormai anestetizzati dalle immagini dei cadaveri di bambini sulle coste
mediterranee dell’Europa, il massacro dei bambini a Gaza non ci sconvolge
affatto.
Del resto, non sono bambini bianchi.
Per
parafrasare” Krleža,” nemmeno i bambini sono tutti uguali.
L'Occidente
e l’Europa sono disposti a sacrificare altre centinaia di migliaia di ucraini,
pur non avendo alcuna chiara idea di come porre fine alla guerra.
Quando”
Annalena Baerbock,” ministra degli Esteri tedesca, ha invocato “la vittoria
definitiva” in Ucraina, nessuno le ha chiesto cosa intendesse concretamente.
Mandare
a morte due generazioni di giovani tedeschi, issare la bandiera dell’UE sul
Cremlino o cancellare la Russia dalla faccia della terra in una guerra
nucleare?
Abbiamo
dimenticato la lezione di Clausewitz, secondo cui la guerra è la continuazione
della politica con altri mezzi, e quindi deve avere un epilogo politico.
Quale?
Nell’interesse di chi?
Per
raggiungere una pace duratura o una legittimazione politica della logica
bellica della pulizia etnica, come accaduto nelle guerre jugoslave degli anni
Novanta?
Nessuno
sembra preoccuparsene.
Preoccupa
però la mancanza di un massiccio impegno civico per promuovere il dialogo e la
ricerca di una soluzione diplomatica?
Dove
sono le voci contro la guerra?
Prima
dell’inizio dell’invasione occidentale dell’Iraq – basata sulle menzogne del
Pentagono e della CIA, e sostenuta dai media come New York Times, Washington
Post, CNN e dalle big tech, tra cui AT&T, Google, Facebook, Microsoft – a
Londra si era tenuta la più grande manifestazione contro la guerra della storia
della Gran Bretagna.
I
cittadini avevano capito di essere stati ingannati, intuendo che sarebbe finita
male.
Ciononostante, le élite politiche, comprese
quelle della sinistra liberale, avevano spinto i loro popoli in una guerra che
si è conclusa con mezzo milione di vittime civili, la distruzione di un paese e
il caos politico che regna ancora sovrano.
“Anne
Applebaum”, storica e presunta esperta di Europa orientale e Russia – anche se
non è mai stata in Russia – ha promosso e pienamente sostenuto l’invasione
dell’Iraq nel 2003 e la politica interventista dei neoconservatori americani, e
oggi sostiene la guerra perenne dell’Occidente contro il presunto male.
Quest’anno” Applebaum” ha ricevuto due
riconoscimenti per la pace in Germania:
il
premio intitolato a “Carl von Ossetsky”, assegnato dalla città di Oldenburg, e
il Premio per la pace degli editori tedeschi.
La
realtà in cui viviamo – europea, occidentale e democratica – ha letteralmente
assunto una dimensione orwelliana.
L'Europa
e l’Occidente sono l’Oceania del romanzo “1984” di Orwell, con il suo slogan
principale: “La guerra è pace”.
Nel
corso della conferenza tenuta nell’ambito del “Subversive Festival”, lei ha
elaborato il concetto di resistenza giustapponendolo al movimento di
liberazione popolare jugoslavo.
Può spiegare meglio le differenze?
Oggi
l’idea di resistenza al fascismo domina il discorso sulla Seconda guerra
mondiale nello spazio post-jugoslavo.
Però
la verità è che da noi non c’è stata alcuna resistenza al fascismo.
Il 14 aprile del 1941 il Partito comunista
jugoslavo non aveva invitato alla resistenza al fascismo, bensì alla lotta di
liberazione popolare.
I
partigiani non si definivano un movimento di resistenza, nemmeno prima del 1942
quando si chiamavano NOV (Esercito di liberazione popolare) e POJ (Brigate
partigiane jugoslave).
Alla
fine del 1944 contavano 650mila combattenti, organizzati in cinquantadue
divisioni e quattro eserciti, controllando centinaia di chilometri lungo la
linea del fronte in una guerra tradizionale.
Quello partigiano non fu mai un movimento di
resistenza.
La
resistenza nacque solo dopo il 1945.
Nel
suo libro “Hrvatski pokret otpora” [Movimento di resistenza croato], lo storico
“Wolffy Krašić” si concentra in particolare sul movimento guidato da “Jakša
Kušan”.
Anche
Vjekoslav Maks Luburić aveva organizzato “la resistenza popolare croata”.
Qui
l’idea di resistenza non è basata sulla lotta antifascista, bensì sulla
riconciliazione tra fascisti e antifascisti.
In
parole povere, nell’area post jugoslava, il termine “resistenza” fa parte della
narrazione del revisionismo storico.
Oggi
in Serbia è diffusa l’idea che a opporsi al fascismo fossero i cetnici di “Draža
Mihailović”, non i partigiani.
A dire
il vero, anche nella politica ufficiale della memoria dell’UE, basata su tre
risoluzioni del Parlamento europeo, non c’è posto per i partigiani jugoslavi.
Anche
perché i partigiani della Jugoslavia, anziché opporre la resistenza ai
fascisti con l’intento di preservare l’ordine vigente prima dell’ascesa del
fascismo,
si battevano per una svolta sociale radicale e rivoluzionaria attraverso la
lotta di liberazione popolare.
Quando
nel Centro memoriale della resistenza tedesca a Berlino vediamo le immagini di
alcuni membri di quella resistenza in uniforme nazista – penso ad esempio a “Claus
von Stauffenberg” che aveva organizzato un attentato a Hitler – capiamo che
questo movimento non aveva tra i suoi obiettivi quello di cambiare la posizione
della donna nella società.
A
differenza del Fronte antifascista delle donne jugoslave (AFŽ), che era appunto
un “fronte”, non un movimento di resistenza, e contava due milioni di membri.
L'obiettivo
della Resistenza tedesca (Widerstand) era quello di raggiungere un accordo di
pace con gli alleati occidentali e proseguire la guerra contro l’Armata rossa.
“Otpor”
[resistenza] è anche il nome di un movimento serbo contro il regime di
Milošević, organizzato a Budapest dalla CIA.
Dopo
il 2000 questo movimento, per conto degli americani, ha svolto diverse attività
finalizzate ai cosiddetti “cambi di potere”, partecipando a rivoluzioni
colorate in una cinquantina di paesi in tutto il mondo.
Tutte
queste rivoluzioni sono fallite, come dimostra, tra l’altro, la guerra in
Ucraina.
Quindi,
il concetto di resistenza viene sfruttato principalmente dal revisionismo
storico allo scopo di intaccare, definitivamente e irrimediabilmente, l’idea di
rivoluzione.
Finora
ci è riuscito.
Che
fare invece delle rivoluzioni che divorano i propri figli?
Credo
che dobbiamo porci un altro interrogativo: come affrontare le controrivoluzioni
che sono riuscite a soffocare ogni rivoluzione?
Che
dire della controrivoluzione di Stalin che ha annullato tutte le conquiste
emancipatorie della Rivoluzione d’Ottobre?
E la
controrivoluzione dei poteri tecnocratici, come venivano chiamati nell’ex
Jugoslavia, che attraverso la Lega dei comunisti ha ostacolato e alla fine
distrutto l’idea e la pratica di autogestione?
O ancora le istituzioni finanziarie ed economiche
internazionali che, in nome della mano invisibile del mercato, hanno promosso
particolari interessi politici e ideologici, ostacolando ogni tentativo di
opporsi allo sfruttamento capitalista?
Invece
di rappresentare la rivoluzione come un mostro che divora sé stesso, in
contrapposizione ad un mondo normale, bello, ordinato e pacifico dove tutto
sarebbe perfetto se non fosse per quei matti di rivoluzionari che cercano di
cambiare le cose, dobbiamo affrontare la vera storia delle controrivoluzioni e
dei loro grandi successi.
Credo
che ormai non ci sia una sola idea rivoluzionaria che non sia stata intaccata
da queste controrivoluzioni.
Questo è il punto!
Quei
rivoluzionari che divorano i propri figli altro non sono che
controrivoluzionari.
A
spingermi a porre la domanda precedente è stata anche la nostra realtà locale a
Zagabria.
Tre
anni fa abbiamo assistito ad una piccola rivoluzione con cui il movimento
Možemo! è salito al potere, promuovendo il municipalismo, la partecipazione
civica e altre idee della sinistra verde.
Nel
frattempo però sembra che assistiamo (nuovamente) all’espressione della legge
ferrea dell’oligarchia di Michels…
Non
dobbiamo temere l’oligarchia del movimento Možemo!
Anziché
un coccodrillo nella palude della democrazia croata, Možemo! sembra essere
preda di coccodrilli.
È già
finito tra le fauci delle corporazioni dei media che hanno deciso di togliergli
il potere, e ci riusciranno.
Credo
però che questa grande esperienza sperimentata da Možemo! non sia vana. È bene conoscere i veri limiti, non
solo i propri limiti, ma anche quelli di una democrazia parlamentare dei
partiti.
Qualcuno ne trarrà qualche lezione.
Forse
impareranno che non vale mai la pena sacrificare il radicalismo di sinistra per
conquistare le simpatie del centro.
Così come non ha senso percepire quel centro
come un’incarnazione della realtà, come un metro di giudizio della realtà
oggettiva.
È
proprio nell’identificarsi con una realtà senza alternative che il centro
dimostra la sua assurdità, il suo patologico oblio della realtà.
Non solo a Zagabria.
Il
campo largo centrista liberale, neoliberale e conservatore – paneuropeo e pan occidentale
– è l’estremista più pericoloso in questa storia post-democratica in cui ci
siamo avventurati insieme a Možemo!
Se non
ci porterà verso la Terza guerra mondiale, ci lascerà bruciare sotto il sole.
A chi
giovano le
euro-follie
green?
Labparlamento.it
- Giulio Viggiani – (02 Aprile 2023 ) – ci dice:
Case
green, aziende agricole green, frigoriferi green, caldaie green e, “of course”,
auto green.
Gli euro-deliri in salsa ecologica di
Commissione e Parlamento Ue hanno ormai assunto le sembianze di una furente
guerra ideologica di “gretina” memoria e, senza alcun criterio di razionalità e
senso della realtà, puntano a travolgere come un caterpillar la maggior parte
dei sistemi industriali e dei tessuti economico-sociali dei Paesi membri.
Ma
l’aspetto più paradossale di questa crociata, cavalcata e propagandata come un
dogma evangelico da tutti i media del mainstream, è che la palingenesi
climatica da presunte emissioni zero sarebbe a dir poco un miraggio, o meglio,
un vero e proprio inganno.
Ma
vediamo perché.
Il
piano “Fit for 55” presentato dalla Commissione presieduta da Ursula Von Der
Leyen, si è posto l’obiettivo di ridurre del 55% le emissioni di CO2 entro il
2030 e ha ordinato lo stop a tutte le auto diesel e a benzina nel 2035,
imponendo l’elettrificazione forzata del trasporto privato, con l’eccezione
delle vetture alimentate con carburanti sintetici per espressa volontà della
Germania e l’esclusione dei biocarburanti da scarti di origine vegetale e
animale, come, invece richiesto dal Governo italiano, nell’ottica di un
fantomatico e illusorio principio di “neutralità tecnologica”.
Oltre
al consueto trattamento di favore riservato dalle istituzioni comunitarie a
Berlino, è
l’ossessione per l’azzeramento dell’anidride carbonica l’assunto fallace che ha
originato una serie infinita di misure e obiettivi, i quali non solo rischiano
di essere sostanzialmente irrealizzabili, ma provocherebbero la
desertificazione di un settore industriale di eccellenza come quello dell’
automotive e la distruzione o quantomeno la devastazione del tessuto
economico-sociale di gran parte del Vecchio Continente.
La
“religione” dell’elettrico a tutti i costi metterebbe l’industria
dell’automobile continentale nelle mani del Dragone cinese.
Infatti, tutti i componenti indispensabili per
la produzione di batterie di auto a conduzione elettrica vengono dalla Cina,
anzi, dagli Stati africani che sono ormai dipendenti finanziariamente da
Pechino, dove vengono assemblati nelle centrali a carbone, notoriamente molto
inquinanti.
Inoltre, le aziende automobilistiche tedesche,
specialmente la Volkswagen, che avevano puntato fortemente in questa direzione, si
stanno accorgendo di non riuscire giocoforza a competere con i volumi di
produzione cinesi e hanno innestato una parziale retromarcia sul “full
electric”.
Quindi,
passare dalla dipendenza di approvvigionamento del gas dalla Russia a quella
dei componenti elettrici per auto dalla Cina non sembra essere una mossa
geopolitica particolarmente lungimirante e non migliorerebbe affatto la qualità
dell’aria che respiriamo, in quanto i Paesi emergenti, africani sudamericani e
asiatici, responsabili del maggior tasso di inquinamento a livello mondiale,
non rinuncerebbero a produrre energia con fonti fossili, rendendo vano ogni
sforzo europeo di un mondo a zero emissioni.
Un
altro aspetto critico da non sottovalutare riguarda il rischio di sovraccarico
che deriverebbe da una ricarica contestuale delle auto private alle colonnine
che andrebbero installate nelle strade delle nostre città, soprattutto nei
periodi estivi, in cui si fa largo uso dei condizionatori.
Un blackout generalizzato, infatti, si è
verificato in California poche settimane fa, per il numero eccessivo di mezzi
che stavano ricaricando le batterie durante la notte.
Batterie
che, ad oggi, non hanno una grande autonomia, sono molto costose e rendono
inaccessibili economicamente le vetture elettriche ad almeno l’80% della
popolazione italiana ed europea.
Anche
la filiera della componentistica per auto a motore endotermico, molto fiorente
in Italia, sarebbe costretta a tentare una complessa riconversione industriale
per poter sopravvivere, dato che le auto elettriche necessitano di un numero
molto inferiore di elementi rispetto a quelle tradizionali.
In
sintesi, solo in Italia, tra aziende e indotto potrebbero perdere il lavoro più
di 250.000 addetti del settore, con gravi ricadute economico-sociali.
Ma
siamo sicuri che alla base del Green Deal europeo ci siano soltanto motivazioni
ideologiche?
Non
sarebbe il caso di domandarsi semplicemente “cui prodest”?
Nell’ultimo decennio la grande finanza, con in prima
linea nomi come “Bill Gates” e “George Soros, ha deciso di investire cifre
considerevoli nella rivoluzione verde, per non rischiare un altro crollo
borsistico di proporzioni ancora più devastanti di quello originato dall’abuso
dei derivati e dei subprimes americani del 2007-2008 che poi si si tradusse
nella crisi dei debiti sovrani europei.
Basterebbe
indagare su quali società e multinazionali, legate a doppio filo con i partner
cinesi sotto il diretto o indiretto controllo governativo, hanno ricavato o
stanno ricavando i maggiori utili e profitti dal business green per fare due
più due e capire a chi conviene realmente questa forzata rivoluzione sistemica
dalle mille incognite.
Le stesse società che veicolano tramite ogni mezzo di
comunicazione il pensiero unico della catastrofe ecologica, che da decenni,
secondo le loro fallaci previsioni, avrebbe già dovuto distruggere il pianeta
terra a causa delle emissioni climalteranti.
Infine,
una considerazione di carattere storiografico e una di carattere scientifico:
conviene mettere a rischio il nostro modello sociale e mandare al macero una
delle nostre industrie di eccellenza senza migliorare realmente la qualità del
clima in cui viviamo?
Pensare che sia possibile costruire un sistema
produttivo avanzato e mantenere al contempo un benessere diffuso eliminando
completamente i fattori cosiddetti inquinanti è una pura utopia.
Un’utopia
che, per la teoria dei corsi e ricorsi storici di Giambattista Vico, assomiglia
sempre di più all’abbaglio e all’inganno ideologico più mastodontico del XX
secolo, il
comunismo, che mentre prometteva la liberazione dallo sfruttamento e una
società di liberi ed uguali, ha in realtà costruito il più longevo e disumano sistema
dittatoriale e di privazione e negazione della libertà umana della storia
contemporanea.
Non
vorremmo “svegliarci” nuovamente dopo 70 anni verso la fine di questo secolo e
dover ammettere che l’inquinamento non è stato eliminato ma la nostra società
del benessere, che ha bene o male salvaguardato ambiente e sviluppo economico,
non esiste più.
Nonostante
lo si spacci come un dato incontrovertibile, non esiste unanimità della scienza
e alcuna minima certezza che il cambiamento climatico, da sempre ciclico, sia
di origine antropica.
Pertanto,
appare quantomeno masochistico e autolesionistico scegliere deliberatamente di
disastrare il nostro sistema industriale ed economico-sociale, forzando una
transizione ecologica, o per meglio dire, “neurologica”, che, come un novello
Frankenstein, rischia di ritorcersi contro il suo stesso creatore.
Oggi
la società è un iniquo sistema
di
distruzione. Serve ripudiare
la
guerra per salvarla.
Altreeconomia.it
- Roberto Mancini — (1° Marzo 2024) – ci dice:
(Le
idee eretiche di Roberto Mancini)
Mentre
migliaia di bambine e di bambini vengono uccisi, esposti a ogni male, resi
orfani e travolti dalla disperazione, il mondo accoglie questa atrocità nella
sua normalità quotidiana.
È il
segno che è finito il tempo in cui la parola “società” poteva essere data per
scontata.
La
guerra o la società.
È l’alternativa di fronte a cui ci troviamo
oggi.
Un tempo si cercava una società migliore.
Ora dobbiamo agire semplicemente affinché la
società continui a esistere.
Il
sistema incrociato della guerra endemica (contro le donne, i giovani, i poveri,
i migranti, i salariati, la natura) e di quella esplosiva (non solo in
Palestina e in Ucraina, ma in molti altri luoghi del mondo) sfibra il tessuto
della convivenza sociale.
In
questa implosione della società sta segnando un culmine di necrofilia la
vendetta in atto da parte del governo guidato da Benjamin Netanyahu, che
massacra i palestinesi in nome della giustizia.
Mille
intellettuali ebrei, in un appello diffuso a inizio febbraio, hanno chiarito
che criticare la politica di Tel Aviv non significa essere antisemiti:
questo
ricatto ideologico per garantire immunità morale e impunità giuridica al
governo israeliano non ha la minima giustificazione.
Mentre
migliaia di bambine e di bambini vengono uccisi, esposti a ogni male, resi
orfani e travolti dalla disperazione, il mondo accoglie questa atrocità nella
sua normalità quotidiana.
È il segno che è finito il tempo in cui la
parola “società” poteva essere data per scontata.
Suona
surreale oggi la definizione che ne dava il filosofo statunitense “John Rawls”
designandola come “un equo sistema di cooperazione”. La società globale è un
iniquo sistema di distruzione.
E se gli uomini in prima linea si trasformano in armi,
moltissimi altri annegano nella rassegnazione e nel timore:
perdono
i sentimenti, le parole, i pensieri, la capacità di agire.
Dinanzi
al trionfo della guerra l’umanità diminuisce in tutti i sensi:
tende
a sparare o a sparire.
Bisogna
spezzare questa spirale.
Ritrovare
sentimenti, parole, pensieri, azioni, rendendosi presenti nella realtà del
mondo comune per attivare la pace.
Oltre
le solite, disperanti analisi geopolitiche, ci dice di più e libera energie
l’analisi storico-antropologica su come si è strutturato e ogni giorno si
ripete lo schema bellico tipico della mentalità dominante.
Questa
analisi indica che la guerra è la prima istituzione della civiltà del potere,
che è la radice della violenza e della sua istituzionalizzazione.
L’analisi etica aggiunge che non esiste la
guerra giusta:
va dis-istituita,
cioè va sradicata dai cuori, dalle menti, dalla cultura, dall’economia, dalla
politica.
Occorre
uscire dallo schema bellico in tutti i rapporti, da quelli interpersonali a
quelli internazionali.
Di
fronte al trionfo disumano della guerra l’umanità diminuisce in tutti i sensi.
E se
gli uomini in prima linea si trasformano in armi, moltissimi altri cadono nella
rassegnazione e nel timore.
Bisogna spezzare questa spirale.
I
processi essenziali per salvare la società sono questi.
Il primo: educare le persone e le comunità perché solo la loro
umanizzazione è la vera prevenzione delle guerre.
Occorre
poi risanare
le ferite storiche del passato nel rapporto tra i popoli promuovendo la
coscienza del futuro comune.
In
terzo luogo,
agire per ricostruire la politica, vissuta come cura della vita collettiva,
dotandola finalmente di istituzioni pensate per la pace.
Infine, bisogna trasformare il modello economico:
va
superata la logica del capitale, della competizione e della crescita per dare
ai popoli la sicurezza economica e alla natura la tutela dei suoi equilibri.
Di
tali processi ci deve interessare non l’ovvietà del fatto che sono difficili,
ma l’opportunità del fatto che sono tanto ampi da dare spazio all’iniziativa di
ciascuno di noi.
Le
azioni da sviluppare sono molte:
il lavoro educativo di liberazione delle nuove
generazioni;
la
controinformazione e la contestazione del bellicismo;
la
tessitura comunitaria della vita dei territori e l’ospitalità verso tutti gli
esclusi;
il
federalismo delle città del mondo, secondo l’intuizione di Giorgio La Pira;
la
costante pressione sulle forze politiche e sul governo perché operino per la
pace; la sensibilizzazione delle associazioni e dei movimenti sociali;
la
pratica del cosmopolitismo dal basso per affrontare ogni problema in modo
cooperativo, mai competitivo;
la
realizzazione di imprese etiche e di circuiti distributivi solidali.
Ormai
è evidente:
non si
può vivere né si può amare nessuno senza sperare nella guarigione del mondo, senza
credere nella pace, senza agire di conseguenza.
Un
Breve, ma Esaustivo,
Riassunto
della Truffa dell’AIDS.
Conoscenzealconfine.it
- (26 Novembre 2024) - Marco Dabizzi - ci dice:
Nessun
paziente con l’“AIDS” (sindrome da immunodeficienza acquisita) è mai stato
curato…
Nel
1981, un medico di Los Angeles descrisse cinque casi di grave deficienza
immunitaria, tutti tra uomini omosessuali che sniffavano “nitrito di amile”,
abusavano di altre droghe, “abusavano di antibiotici” e probabilmente
soffrivano di malnutrizione e malattie sessualmente trasmissibili.
Sarebbe
stato logico ipotizzare che questi gravi casi di immunodeficienza avessero
origini da tossine e stile di vita.
Affermare
questo però sarebbe equivalso a un’incriminazione dello stile di vita di questi
pazienti, cosa inammissibile politicamente, per via delle pressioni della lobby
omosessuale.
Si
dovette perciò trovare un’altra ipotesi e la soluzione fu inventarsi un
retrovirus.
I dati
scientifici a sostegno di questa ipotesi erano e, sorprendentemente, sono
ancora del tutto assenti.
Ma
l’assenza di dati e prove non ha mai bloccato una buona teoria, e l’interesse
istantaneo e appassionato dei ricercatori e delle istituzioni che si occupavano
di trovare un’origine virale per i tumori (senza successo da trent’anni…)
esplose immediatamente.
La
nuova malattia salvò praticamente tutti i laboratori per la ricerca virale e
l’AIDS diventò, quasi da un giorno all’altro, l’oggetto principale della
ricerca.
Questo
generò un enorme sostegno finanziario da parte di Big Pharma, più budget per il
CDC e il NIH, e nessuno dovette preoccuparsi dello stile di vita dei pazienti
che divennero subito vittime innocenti di questo orribile virus, presto
etichettato come HIV.
Qualche
decennio dopo, l’ipotesi dell’HIV/AIDS ha fallito completamente nel raggiungere
tre obiettivi principali, nonostante gli enormi finanziamenti per la ricerca
indirizzati esclusivamente a progetti basati su di essa.
1) Non
è mai stata trovata una cura per l’AIDS;
2) Non
sono mai state fatte previsioni epidemiologiche verificabili;
3) Non
è mai stato preparato con successo un vaccino contro l’HIV.
Al
contrario, sono stati utilizzati in modo irresponsabile farmaci altamente
tossici ma non curativi, (ovviamente non devono curare… poiché i morti servono
per mantenere viva la narrazione AIDS… la storiella è sempre la stessa… e col
covid abbiamo visto l’apoteosi di questo criminale modus operandi – (nota di conoscenzealconfine.it) con effetti collaterali frequenti e
letali.
Ma non
è mai stata osservata al microscopio elettronico una sola particella di HIV nel
sangue di pazienti che si suppone abbiano una carica virale elevata.
Ciononostante,
tutti i giornali e le riviste più importanti hanno mostrato attraenti immagini
computerizzate e colorate dell’HIV (come hanno poi fatto con il Covid), tutte
provenienti da colture cellulari di laboratorio, ma mai da un solo paziente con
AIDS.
Nonostante
questa incredibile omissione, il dogma dell’HIV/AIDS è ancora solidamente
radicato.
Decine
di migliaia di ricercatori e centinaia di grandi aziende farmaceutiche
continuano a realizzare enormi profitti basandosi sull’ipotesi dell’HIV.
E
nessun paziente con l’“AIDS” è mai stato curato.
(Marco
Dabizzi)
(miglioverde.eu/un-breve-ma-esaustivo-riassunto-della-truffa-dellaids/).
VIRUS
MANIA.
Conoscenzealconfine.it
- Stefano Scoglio, Torsten Engelbrecht, Dott. med. Claus Köhnlein, Dott. med.
Samantha Bailey – Libro – Macro Edizioni - (24 – 11 – 2024) – ci dicono:
Come
l'industria medica inventa continuamente epidemie facendo miliardi di dollari a
nostre spese.
(Corona/COVID-19,
Morbillo, Influenza suina, Cancro cervicale, Aviaria, SARS, BSE, Epatite C,
AIDS, Polio, Spagnola).
Questo
libro veicola un messaggio tragico, ma che, si spera, contribuirà alla
restaurazione di valori etici nella conduzione della ricerca sui virus, nelle
politiche di salute pubblica, nella comunicazione con i media e nelle attività
delle aziende farmaceutiche.
Se si
seguono le dichiarazioni pubbliche, si ha l'impressione che il mondo intero sia
costantemente afflitto da nuove e orribili malattie virali. L’ultima terribile
variante, il cosiddetto coronavirus SARS-CoV-2, ha dominato i titoli di tutti i
giornali.
Ma
anche prima del coronavirus l'opinione pubblica era continuamente terrorizzata
dalle notizie su morbillo, influenza suina, SARS, BSE, AIDS o poliomielite.
Tuttavia, questo caos virale ignora fatti scientifici
molto basilari: l'esistenza, la patogenicità e gli effetti mortali di questi
agenti non sono mai stati dimostrati.
L'establishment
medico e i media, suoi fedeli accoliti, sostengono che queste prove siano state
prodotte.
Ma
queste affermazioni sono altamente sospette perché la medicina moderna ha messo
da parte i metodi diretti per la prova dell’esistenza dei virus e utilizza
strumenti indiretti di dubbia validità come i test anticorpali e la reazione a
catena della polimerasi (PCR).
Gli
autori di Virus Mania, il giornalista Torsten Engelbrecht, il ricercatore
scientifico Stefano Scoglio (Ph.D.) e i medici di medicina interna Claus
Kohnlein (MD) e Samantha Bailey (MD), dimostrano che questi presunti virus
contagiosi sono in realtà particelle prodotte dalle cellule stesse come
conseguenza di alcuni fattori di stress quali farmaci e tossine.
Queste
particelle vengono poi identificate con test anticorpali e PCR e interpretate
come virus epidemici da medici che, da oltre 100 anni, vengono indottrinati
dalla teoria dei microbi mortali sconfitti solo da farmaci e vaccini.
Lo
scopo centrale di questo libro è quello di riportare la discussione ad un vero
dibattito scientifico e di ricondurre la medicina sulla strada di un'analisi
imparziale dei fatti.
Il
volume analizza esperimenti medici, studi clinici, statistiche e politiche
governative, in relazione a tutte le pseudo-epidemie e pseudo-pandemia
precedenti al Covid-19:
dalla
poliomielite all’AIDS; dall’epatite C alla BSE (encefalopatia spongiforme
bovina); dal SARS-Cov1 all’influenza aviaria (H5N1);
dall’influenza
suina al cancro della cervice; dall’influenza al morbillo e relativi vaccini;
fino alla truffa del Covid/SARS-Cov2 e dei test PCR falsati, e alla natura
iatrogenica delle morti etichettate come Covid.
Gli
autori esaminano tutte le possibili cause di malattia, come i farmaci e i
vaccini, lo stile di vita, i pesticidi, i metalli pesanti, l'inquinamento, lo
stress e gli alimenti trasformati (e talvolta geneticamente modificati).
Tutti
questi elementi possono danneggiare pesantemente il corpo degli esseri umani e
degli animali e persino ucciderli. E sono proprio questi i fattori che
tipicamente prevalgono dove vivono e lavorano le vittime dei presunti virus.
A
sostegno di queste affermazioni, gli autori citano decine di scienziati di
grande fama, tra cui i premi Nobel Kary Mullis, Barbara McClintock, Walter
Gilbert, Sir Frank Macfarlane Burnet e il microbiologo e vincitore del premio
Pulitzer Rene Dubos.
Il
libro presenta circa 1.100 riferimenti scientifici pertinenti.
L'argomento
di questo libro è di fondamentale importanza, tanto più ora che, dopo la tragica farsa del Covid, è ormai evidente a tutti che le aziende farmaceutiche, e i loro
scienziati, raccolgono enormi somme di denaro fingendo di combattere
inesistenti virus;
mentre
i media aumentano gli indici d'ascolto, e gli introiti pubblicitari, con la
diffusione di reportage sensazionalistici e terroristici sul pericolo virale.
Criteri
e “Rating ESG” nel quadro
del
principio di sostenibilità e della
correlata
transizione energetica.
Dirittobancario.it
- Marcello Condemi – (21 -giugno – 2023) – ci dice:
(Marcello Condemi, Professore
Straordinario di Diritto dell’Economia, Università di Roma – G.Marconi).
Nozione
e ragioni di una ordinata transizione energetica.
Sostenibilità
e criteri ESG nel quadro della ragionevole preminenza (rispetto agli altri) del
profilo di “governance”.
Cenni
sulla dimensione economico-finanziaria della sostenibilità.
L’assoluta
rilevanza del “Rating” quale strumento di misurazione degli adempimenti ESG.
La
tematica, del tutto trasversale, della primazia del diritto dell’Unione sul
diritto nazionale.
Conclusioni.
SOMMARIO:
Una
delle tematiche più attenzionate del periodo storico contemporaneo, tanto da
parte del mondo istituzionale, quanto anche dalla società civile, specialmente
a seguito dei tragici eventi geopolitici ed anche naturali, risulta essere
quella della transizione energetica.
Quanto
fin qui accaduto ed elaborato in sede normativa ed istituzionale, tuttavia, non
può (e non deve) ritenersi un definitivo approdo, e men che meno una “moda”
passeggera, quanto piuttosto solo una delle insopprimibili tappe di un lungo
percorso che dovrà accompagnarci per l’avvenire, volto a perseguire, attraverso
complessi ed articolati interventi in costante evoluzione, l’auspicato, quanto
difficile, obiettivo di assicurare condizioni di “sostenibilità” pienamente
compatibili con il soddisfacimento delle necessità del presente, senza, in
ragione di ciò, compromettere il soddisfacimento delle medesime in capo alle
generazioni future;
complessi
ed articolati interventi, questi, principalmente ed originariamente di
carattere normativo ed istituzionale, che tuttavia abbisognano della necessaria
ed efficace compresenza di un sentire comune da coniugarsi con una sana azione
imprenditoriale, spiccatamente improntata ai temi afferenti alla “sostenibilità”,
declinata cioè non solo nella più comunemente nota accezione ambientale, quanto anche con riferimento al
rispetto dell’ampia gamma di profili afferenti i diritti umani e le best
practice a livello di governance, tutti elementi riassumibili nell’acronimo “ESG”
(Enviormental, Social, Governance).
In questa prospettiva, il presente contributo,
oltre a tener conto delle più recenti e rilevanti iniziative, in particolare
legislative ed istituzionali in materia di “sostenibilità”, anche riconoscendo
l’enorme sforzo fin qui compiuto specie in chiave europea e, a cascata, sul
piano nazionale, focalizza l’attenzione
– in quanto fondamentale strumento di verifica e misurazione, a dispetto delle
diffusissime pratiche di greenwashing, della fedele e veritiera applicazione
della congerie di regole emanate e delle indicazioni istituzionali – sulle
modalità e sistemi (cc.dd. framework di rating), attraverso cui è possibile
misurare oggettivamente, attraverso parametri e criteri condivisi, il livello di “sostenibilità” (nel
senso sopra precisato) raggiunto dai soggetti destinatari della disciplina, ad
evidente beneficio di operatori, autorità, soggetti a vario titolo interessati
e, per tale via, dell’effettiva crescita “ESG” del complessivo sistema.
Con la
locuzione “transizione energetica” – ormai, per più ragioni, al centro del dibattito
economico e politico – s’intende, molto sinteticamente, il passaggio da una struttura
produttiva basata sulle fonti energetiche non rinnovabili, derivanti, in
particolar modo, da fonti combustibili fossili come gas naturale, petrolio e
carbone, ad una struttura produttiva basata su fonti rinnovabili, vale a dire
da fonti energetiche quali l’energia solare, l’energia eolica, l’energia
idroelettrica, l’energia mareomotrice;
fonti,
queste ultime, non soggette ad esaurimento, poiché oggetto, ancorché
utilizzate, di naturale reintegrazione in un arco temporale relativamente
breve.
La
transizione energetica, sebbene riguardi in generale le nazioni dell’intero
globo, è tuttavia tematica di particolare interesse da parte dei paesi
sviluppati,
e segnatamente, per intuibili ragioni legate ai propri assetti produttivi,
delle più grandi economie del mondo: l’Italia è tra queste, attestandosi
su scala mondiale, con i suoi 2.228,2 miliardi di euro di PIL, all’ottavo
posto.
Le
molteplici ragioni che spingono gli Stati verso le “energie rinnovabili” sono di
ordine ambientale, economico e geopolitico.
Da un
punto di vista ambientale l’inquinamento, attraverso l’uso delle energie non
rinnovabili, si estrinseca, non solo con il ben noto (e dannoso)
contributo all’effetto serra e ai conseguenti fenomeni, derivanti da tale uso,
di “climate change”, ma anche attraverso casistiche di eventi particolarmente
dannosi per l’ambiente, quali, “ex multis”, i casi di sversamento in ambienti
naturali marittimi – accidentali o, in alcuni casi, anche volontari – di
petrolio ed altre sostanze altamente inquinanti.
Ragioni
economiche, poi, inducono a considerare l’ineluttabile futuro esaurimento delle
fonti non rinnovabili, quali i giacimenti petroliferi, carboniferi e di gas
naturale, oggetto di elevato e rapido consumo, tale da non poterne garantire il
rapido ripristino, essendo la formazione di tali fonti il frutto di centinaia
di milioni di anni di evoluzione del nostro pianeta.
Infine,
bisogna considerare, quale fattore di rilievo dell’attuale contesto
storico-politico, l’incerto scacchiere mondiale, aggravato, da ultimo, dalla
perdurante guerra Russo-Ucraina, che, oltre a prospettare il rischio di un
possibile ridisegno degli equilibri planetari, impone, in presenza dell’avvenuta impennata
dei prezzi delle materie energetiche, un’accelerazione verso la transizione
energetica, oltre che il ricorso a fornitori alternativi rispetto a quelli a
cui fino ad ora si è fatto ricorso.
Non è
in tale quadro, infatti, peregrino intravvedere un uso politico di gas e
petrolio da parte della Federazione Russa (e, sebbene in un diverso contesto,
anche da parte di altri Paesi), al fine, da un lato, di dissuadere il mondo
occidentale dal proseguire nell’adozione di misure sanzionatorie, dall’altra,
di garantire un afflusso di risorse economiche necessarie, non solo a garantire
la propria sopravvivenza, ma anche per proseguire lo sforzo bellico.
In
aggiunta alle complessità appena rappresentate, occorre evidenziare come
l’abbandono della Federazione Russa, quale partner principale nell’importazione
di materie prime connesse alle esigenze energetiche e la conseguente,
necessaria ricerca, in sostituzione di quest’ultima, di altri fornitori, potrebbero non essere pienamente
risolutive delle già menzionate problematiche geopolitiche.
Non
può sfuggire, difatti, come la maggioranza dei player commerciali nel settore
dell’approvvigionamento di fonti energetiche fossili non siano, in larga parte,
minimamente in linea con i valori che permeano gli ordinamenti europei, in
termini, “ex multis”, di rispetto dei diritti umani, in particolar modo delle
minoranze.
Basti citare, esemplificativamente, quali sono
i paesi che occupano le posizioni apicali della classifica, stilata dall’IEA
(International Energy Agency), per il 2020, con maggiore peso, a livello di
esportazione di gas naturale, su scala mondiale, per imbatterci in paesi
nazioni quali l’Algeria (8° posto con 47 miliardi di metri cubi), il
Turkmenistan (6° posto con 56 miliardi di metri cubi), il Qatar (2° posto con
127 miliardi di metri cubi) e la Russia che svetta con i suoi 230 miliardi di
metri cubi di gas naturale esportato.
Il
quadro di criticità appena rappresentato non diverge significativamente anche
con riguardo alle esportazioni di petrolio.
Ed infatti, in base ad un diverso rapporto
dell’IEA del 2020, tra i maggiori esportatori di petrolio al mondo si
annoverano il Kazakistan (8° posto con 70 milioni di tonnellate), il Kuwait (6°
posto con 102 milioni di tonnellate), gli Emirati Arabi Uniti (5° posto con 148
milioni di tonnellate), l’Iraq (3° posto con 195 milioni di tonnellate), la
Russia (2° posto con 269 milioni di tonnellate) e, altresì, l’Arabia Saudita,
che svetta con i suoi 352 milioni di tonnellate esportate.
Appare,
dunque, evidente come le maggiori fette di mercato in materia di fonti
energetiche combustibili siano detenute da nazioni che, all’interno della
comunità internazionale, sono note per non essere integerrime sul fronte della tutela
dei diritti umani, né tantomeno possono dirsi paesi con una radicata e stabile
organizzazione statale democratica, trattandosi invero, in alcuni casi, di nazioni rette da regimi dittatoriali
che sopprimono il dissenso con la violenza, in altri casi, di Stati connotati
da una rilevante instabilità politica, in altri casi ancora, di Stati che
militano in entrambe le casistiche summenzionate.
Di qui l’elevato rischio di ritrovarsi, in
conseguenza del totale affidamento delle proprie sorti energetiche a nazioni di
tal guisa, in circostanze geopolitiche analoghe a quelle già affrontate nel
presente periodo storico.
Nonostante
tutto ciò, le fonti combustili fossili, ancora oggi, continuano a costituire
oltre l’80% della base energetica per i consumi globali, e questo in quanto l’alternativa,
vale a dire la strada delle fonti rinnovabili, risulta ancora poco battuta, per
differenti motivazioni, legate sia a retaggi culturali, che vedono nelle fonti non
rinnovabili le uniche vere fonti di energia, sia agli aspetti connessi
all’aleatorietà delle fonti di energia rinnovabile, inscindibilmente collegati
alla disponibilità geografica della fonte (si pensi, solo con riguardo
all’energia mareomotrice, ad un’area territoriale priva di sbocchi sul mare o
bacini idrici, oltre che alle problematiche di limitata capacità di stoccaggio
di dette fonti energetiche).
Non è
da ignorare, infine, l’imponente dispendio economico legato al completamento di
siti idonei a carpire sufficiente energia da giustificare la rilevante spesa di
base ed anche il significativo impatto ambientale:
esempi,
a tale proposito, sono rappresentati dall’installazione di pale eoliche, le
quali possono variare le proprie dimensioni dai 20 ai 200 metri di altezza,
ovvero dalla costruzione di impianti subacquei che sfruttano l’energia
mareomotrice.
1.1.
Segue: Le iniziative legislative a supporto della transizione energetica
Nonostante
le molte difficoltà, la strada della transizione energetica appare, ormai,
ineluttabile, al fine di garantire uno sviluppo sostenibile, anche in termini di conformità con i criteri ESG (di cui, amplius, infra).
A tal
riguardo l’Italia si è dimostrata in prima linea, compiendo una pluralità di
scelte, ampiamente dimostrative dell’impegno assunto in questa direzione.
E’ meritevole di menzione, prima tra tutte, la
nuova formulazione, come riscritta dalla legge costituzionale 11 febbraio 2022,
n. 1 (recante “Modifiche agli articoli 9 e 41 della Costituzione in materia di tutela
dell’ambiente”), degli art. 9, comma 3, e 41, comma 2, Cost., con cui si prevede,
rispettivamente e significativamente, che la Repubblica «(t)utela
l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future
generazioni», e che l’iniziativa economica privata «(n)on può svolgersi in contrasto
con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla
sicurezza, alla libertà, alla dignità umana».
In
tale contesto di particolare attenzione alle tematiche energetiche ed
ambientali, risulta altresì degna di nota la costituzione del Ministero per la
Transizione Ecologica (già Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e
del mare) ed oggi Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica) a seguito dell’emanazione dell’art.
2, comma 1, del d.l. 1 marzo 2021, n. 22, convertito con modificazioni nella L.
22 aprile 2021, n. 55, recante “Disposizioni urgenti in materia di riordino
delle attribuzioni dei Ministeri”, tra le cui principali attribuzioni si
annoverano, ai sensi dell’art. 35, comma 2, lett. b) e c), del d.lgs, 30 luglio
1999, n. 300, così come modificato dal d.l. n. 22 del 2021, in particolare:
a) la
definizione degli obiettivi e delle linee di politica energetica e mineraria
nazionale;
b) l’autorizzazione di impianti di produzione
di energia di competenza statale, compresi quelli da fonti rinnovabili, anche
se ubicati in mare;
c) i piani e le misure in materia di
combustibili alternativi e delle relative reti e strutture di distribuzione per
la ricarica dei veicoli elettrici;
d) le
politiche per il contrasto dei cambiamenti climatici e per la finanza climatica
e sostenibile e il risparmio ambientale anche attraverso tecnologie per la
riduzione delle emissioni dei gas ad effetto serra.
Le
politiche che questo ministero è chiamato a perseguire risultano essere, tra
l’altro, strettamente funzionali al raggiungimento dei traguardi fissati dal PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e
Resilienza),
e segnatamente dalla “Missione 2”, vale a dire dalla missione inerente alla “Rivoluzione Verde e la transizione
ecologica”.
1.2.
Segue: Il ruolo dell’Europa nel quadro delle politiche energetiche.
L’Unione
Europea è indubbiamente la protagonista assoluta nel quadro della transizione
energetica:
essa infatti, non solo è stata la promotrice degli “Accordi
di Parigi sul clima “del 2016 (di cui si dirà, più dettagliatamente, infra), ma ne è anche,
nel novero dei soggetti firmatari, la più ligia e rispettosa.
Essa, inoltre, si è anche distinta per la
particolare attenzione dedicata a tale importante tematica, già a partire dal
2009, con l’adozione della Direttiva 2009/28/CE del 23 aprile 2009, “sulla promozione dell’uso
dell’energia da fonti rinnovabili, recante modifica e successiva abrogazione delle
direttive 2001/77/CE e 2003/30/CE”.
Tale
direttiva, nota anche come RED I (Renewable Energy Directive), assegna agli Stati l’obiettivo di
assicurare entro il 2020, da un lato, che una quota del 20% del consumo
energetico abbia ad oggetto fonti rinnovabili, dall’altro, che il 10% del
carburante utilizzato per i trasporti derivi da fonti rinnovabili.
La direttiva, inoltre, ha anche stabilito i
requisiti relativi alle metodologie che gli Stati membri avrebbero dovuto
applicare per il raggiungimento dei propri obiettivi.
Alla
RED I ha fatto seguito, nel 2018, la Direttiva UE 2018/2001 “sulla promozione
dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili”, c.d. RED II, con la quale le quote
target sopra citate sono state innalzate, rispettivamente, al 32 % e al 14%
entro il 2030, per poi essere riviste ulteriormente al rialzo nel luglio 2021,
portandole, sempre entro il 2030, rispettivamente, al 40% ed al 22%.
L’Unione
Europea, d’altra parte, ricopre un ruolo di prim’ordine non solo nell’ambito
della politica energetica euro unitaria, ma anche nel quadro delle politiche
nazionali attraverso la previsione di importanti incentivi finalizzati al
potenziamento della filiera di produzione delle energie rinnovabili nazionali,
tra i quali sono da annoverare i fondi stanziati nel Piano Nazionale di Ripresa
e Resilienza (PNRR).
Nonostante
tali pregevoli iniziative, l’UE, tuttavia, sconta l’assenza di una politica
comune relativa alle energie rinnovabili più longeva e meno frammentata, vale a
dire vincolante per tutti gli Sati membri, per via dell’inevitabile
disomogeneità derivante dal recepimento delle direttive da parte dei singoli
aderenti, circostanza che pone l’Unione in una posizione di non indipendenza dal punto
di vista energetico, non solo dal lato delle energie rinnovabili, ma anche dal
lato delle fonti da combustibili fossili.
La dipendenza dell’UE dalle importazioni di
Gas da parte della Federazione Russa, si attestava, nel 2022, attorno al 45%.
In considerazione di ciò, appare, dunque, improrogabile che si acceleri sul fronte della
transizione energetica affinché l’UE non debba dipendere, oltre che così
massicciamente, da paesi che non rispettano i valori fondanti dell’Unione, la cui obliterazione viene per di
più resa possibile dalle risorse finanziarie che la stessa Unione fa confluire attraverso l’acquisto delle risorse
combustibili fossili.
Sintomo
di questa urgente necessità è che l’UE non si stia muovendo esclusivamente dal
punto di vista legislativo, ma anche sul fronte commerciale e segnatamente della
fissazione di un price cap (dinamico e temporaneo) al prezzo del gas, ponendo così un freno alle
speculazioni che si sono verificate presso la Borsa di Amsterdam, che, come già
sopra segnalato, hanno più che decuplicato il prezzo del gas nell’arco di pochi
mesi.
Va
salutata, quindi, con favore l’adottata strategia dell’Unione a questo
rilevantissimo tema, oltre che con i richiamati interventi, anche in un’ottica
di destinazione di bilancio, avendo la Commissione dichiarato di voler destinare il 20%
del proprio bilancio al clima.
1.3.
Segue: Il ruolo delle PMI nel quadro della transizione energetica.
La
transizione energetica, sul piano nazionale, non può prescindere dal ruolo
centrale che in tale contesto deve riconoscersi alle PMI, le quali
rappresentano, secondo il rapporto ISTAT 2019, il 99,9% del totale delle
imprese operanti nel nostro paese, generando oltre il 70% del fatturato ed
impiegando oltre l’81% dei lavoratori, all’interno del sistema produttivo
italiano.
Di qui la necessità di sollecitare, cosa non
facile, il mondo delle PMI affinché esse si adeguino alle necessità nazionali,
considerando che, secondo quanto riferito dal report di AGI sull’impronta
ecologica delle PMI, circa il 70% dell’inquinamento complessivo è prodotto da
queste ultime.
Per la
identificazione delle PMI è necessario fare riferimento alla definizione
fornita (in conformità con l’art. 2 della raccomandazione della Commissione
europea 2003/361/CE del 6 maggio 2003), dall’art. 2, commi 1-3, del DM 18
aprile del 2005 del MISE, secondo cui «La categoria delle microimprese, delle
piccole imprese e delle medie imprese (complessivamente definita PMI) è
costituita da imprese che:
a)
hanno meno di 250 occupati, e
b) hanno un fatturato annuo non superiore a 50
milioni di euro, oppure un totale di bilancio annuo non superiore a 43 milioni
di euro.
2. Nell’ambito della categoria delle PMI, si
definisce piccola impresa l’impresa che: a) ha meno di 50 occupati, e
b) ha
un fatturato annuo oppure un totale di bilancio annuo non superiore a 10
milioni di euro.
3. Nell’ambito della categoria delle PMI, si
definisce microimpresa l’impresa che: a) ha meno di 10 occupati, e
b) ha un fatturato annuo oppure un totale di
bilancio annuo non superiore a 2 milioni di euro».
Il
ricorso a fonti energetiche rinnovabili comporta un notevole impegno economico,
da affrontare, per di più, in un contesto energetico in cui la fonte combustibile
fossile rappresenta ancora l’archetipo di normalità;
di qui la ragione per le microimprese – che,
sempre secondo il menzionato rapporto ISTAT 2019, risultano essere il 95,2%
delle imprese attive – di ritenere l’investimento in fonti energetiche rinnovabili
un obiettivo economicamente insostenibile, specie in un contesto economico
competitivo e contrassegnato da fattori di instabilità di vario genere, e,
sotto altro profilo, la scarsa rilevanza dell’apporto economico (ed
incentivante) fornito dal citato DM del 10 febbraio 2022, relativo alla sostenibilità
ed alla “svolta green” delle PMI, posto che, in base a quanto sancito dell’art.
3, comma 1, del DM medesimo, relativamente ai 677 milioni di euro stanziati ai
fini dell’adeguamento di tali realtà ai criteri di sostenibilità, non solo
almeno il 25% è riservato alle piccole e microimprese, ma il 63% circa
dell’intero stanziamento (pari a 427 milioni di euro) riguarda le entità presenti nel territorio del
mezzogiorno, florido, stando a quanto affermato dal summenzionato rapporto
ISTAT, in prevalenza, rispetto alle medie imprese, di piccole imprese e
microimprese.
Con
riguardo, in particolare, alla tematica della transizione energetica risulta
essere di fondamentale importanza l’art. 7, comma 1, lettere a) e c), del DM in
questione, secondo cui, tra le spese ammissibili, sono ricomprese quelle,
rispettivamente, per «macchinari, impianti e attrezzature» e «programmi
informatici e licenze correlati all’utilizzo dei beni materiali di cui alla
lettera a)».
I finanziamenti inoltre, nell’incentivare
l’istallazione di impianti funzionali alla produzione di energia rinnovabile,
ammettono che tra essi, ai sensi del punto 4 dell’allegato 3 al DM, si annoverino gli impianti di
produzione di energia termica o elettrica da fonte rinnovabile.
Sempre
nell’ottica di un pieno e rigoroso rispetto delle normative ambientali e con
l’obiettivo di favorire, senz’alcuna distorsione, la transizione energetica,
l’art 12 del DM sancisce che «(i)n ogni fase del procedimento il Ministero può effettuare,
anche per il tramite del soggetto gestore, controlli e ispezioni, anche a
campione, sulle iniziative agevolate, al fine di verificare le condizioni per
la fruizione e il mantenimento delle agevolazioni, nonché l’attuazione degli
interventi finanziati».
2.
Sostenibilità e criteri ESG nel quadro della ragionevole preminenza (rispetto
agli altri) del profilo di “governance”.
La
tematica della transizione energetica è intrinsecamente connessa allo sviluppo
sostenibile, il quale, secondo una definizione riscontrabile all’interno del
Rapporto Brundtland, della “World Commission on Environment and Development”
(WCED), 1987, altro non è se non lo sviluppo che «ensure that it meets the
needs of the present without compromising the ability of future generations to
meet their own needs».
Seguendo
questo tracciato, si assiste oggi all’affermazione di un modello di CSR
(Corporate Social Responsability) che trova le sue fondamenta nel modello del
“Triple Bottom Line” – anche denominato “sistema delle 3P” (People, Planet,
Profit) – elaborato negli anni ’90 da John Elkington, ad avviso del quale è
opportuno incoraggiare le imprese ad includere, all’interno della propria
rendicontazione contabile, non solo le performance di natura economica, ma
anche quelle sociali e ambientali.
Sintomo,
in particolare, della grande attenzione della comunità internazionale sono gli
SDG (Sustainable Development Goals), ratificati nel 2015 da tutti i 193 membri
dell’Organizzazione delle Nazioni Unite in quanto obiettivi comuni agli stessi,
i quali – come definiti dalle Nazioni Unite – si articolano in 17 obiettivi di
sviluppo sostenibile, a loro volta articolati in 169 traguardi specifici, da
raggiungere entro il 2030.
Sul
tema della sostenibilità sono di prioritario interesse tanto gli Accordi di Parigi del 2015 quanto
l’Agenda 2030 delle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile:
entrambi i documenti, infatti, mirano a ricercare il
perfetto connubio tra sostenibilità, pianeta ed economia:
l’accordo firmato a Parigi nel dicembre 2015
da 195 paesi, costituisce, in particolare, il primo accordo universale sul
clima mondiale per adattare e rafforzare la resilienza ai cambiamenti climatici
e per contenere il riscaldamento climatico a un valore ben inferiore a 2 gradi
centigradi.
La
sostenibilità e la transizione verso un’economia a basso contenuto di carbonio, più efficiente in termini di
risorse e circolare sono elementi fondamentali per garantire la competitività a
lungo termine dell’economia dell’UE.
Per
tale ragione, da molto tempo il tema della sostenibilità si trova al centro del
progetto dell’Unione Europea e i suoi trattati ne riconoscono le dimensioni sociale e
ambientale, così da favorire, garantendo la crescita economica, uno sviluppo
che soddisfi le esigenze delle generazioni presenti e future e la creazione allo
stesso tempo nuove opportunità di occupazione e investimento.
Ed è
appunto in una prospettiva di sviluppo sostenibile che vanno ad incasellarsi i
criteri ESG e lo studio della stessa tematica “ESG”, il quale impone, secondo una
logica giuridico-regolamentare, di definire tanto il significato dell’acronimo,
quanto l’esatta perimetrazione del contenuto delle singole aree che compongono
la menzionata tematica, avendo tuttavia presente che, in una ipotetica
ordinazione delle tre diverse aree tematiche, la Governance (rectius: il
profilo riguardante la lettera “G”) dovrebbe essere collocata quale prima
lettera dell’acronimo, nel presupposto che, per comune esperienza generale e
perciò anche con riguardo alla tematica di che trattasi, non vi è valutazione e scelta
gestionale, accurata o meno che sia, che non transiti da determinazioni
imputabili alla persona fisica preposta a ricoprire posizioni organiche.
Con
riguardo al primo profilo, la risposta è che l'acronimo “ESG” sta per “environmental,
social and governance” , mentre, con riguardo al secondo profilo, vale a dire
all'esatta perimetrazione dell'ampia materia, utili indicazioni si ricavano
dalla pagina web della Commissione Europea dedicata alla “Finanza sostenibile”
e segnatamente:
«La
finanza sostenibile si riferisce al processo di presa in considerazione di
considerazioni ambientali, sociali e di governance (ESG) quando si prendono
decisioni di investimento nel settore finanziario, portando a investimenti più a lungo
termine in attività e progetti economici sostenibili.
Le considerazioni ambientali potrebbero includere la
mitigazione e l'adattamento ai cambiamenti climatici, così come l'ambiente in
senso più ampio, ad esempio la conservazione della biodiversità, la prevenzione
dell'inquinamento e l'economia circolare.
Le
considerazioni sociali potrebbero riferirsi a questioni di disuguaglianza,
inclusività, relazioni di lavoro, investimenti nel capitale umano e nelle
comunità, così come questioni relative ai diritti umani.
La governance delle istituzioni pubbliche e private –
comprese le strutture gestionali, i rapporti con i dipendenti e la
remunerazione dei dirigenti – svolge un ruolo fondamentale nel garantire
l’inclusione di considerazioni sociali e ambientali nel processo decisionale».
Da qui l'idea, ai fini del presente
contributo, di attribuire all'acronimo “ESG” due accezioni, tra loro
complementari:
a) quale obiettivo a cui deve tendere l'agire
pubblico, imprenditoriale e dei cittadini (approccio orientato agli obiettivi);
b) quale set di criteri a cui parametrare
detto agire, al fine, da un lato, di incentivarlo, dall'altro, di contrastare,
anche attraverso forme di incentivazione, comportamenti e pratiche
incompatibili con il raggiungimento di detto obiettivo.
3.
Cenni sulla dimensione economico-finanziaria della sostenibilità.
L’attenzione
che le istituzioni, i mass media e financo la società civile rivolgono alla
tematica della sostenibilità, possiede oggi un peso considerevole;
non
deve pertanto stupire che, sempre più imprese, al fine di garantirsi un
vantaggio competitivo, fanno, almeno formalmente, della tematica della sostenibilità
un proprio vessillo, allo scopo di ottenere incentivi statali e, anche, di
acquisire nuove quote di mercato.
L’orientamento
in questione non riguarda, tuttavia, esclusivamente le imprese produttrici di
beni fisici, bensì, ed in maniera rilevante, anche i soggetti che operano nel
campo della finanza mobiliare.
In
relazione a tale ultimo profilo, giova considerare come l’Unione Europea, in
proposito, abbia adottato – nella piena consapevolezza che sono le imprese a
tracciare, nella realtà quotidiana, la strada verso l’obiettivo di un contesto
propriamente sostenibile – plurimi atti normativi.
Rileva,
in particolare, la seguente regolamentazione:
Regolamento
(UE) 2019/2088 “relativo all’informativa sulla sostenibilità nel settore dei
servizi finanziari” (c.d. SFDR);
Regolamento
Delegato (UE) 2021/1253 “che modifica il Regolamento Delegato (UE) 2017/565 per
quanto riguarda l’integrazione dei fattori, dei rischi e delle preferenze di
sostenibilità in taluni requisiti organizzativi e condizioni di esercizio delle
attività delle imprese di investimento”.
Il
Reg. 2019/2088, a cui si deve, tra l’altro, il merito di aver fornito una
definizione normativa di ”investimento sostenibile” attraverso l’art. 2,
paragrafo 17, si pone l’obiettivo, sancito all’art. 1 del medesimo, di
armonizzare la normativa in tema di «trasparenza per i partecipanti ai
mercati finanziari e i consulenti finanziari per quanto riguarda l’integrazione
dei rischi di sostenibilità e la considerazione degli effetti negativi per la
sostenibilità nei loro processi e nella comunicazione delle informazioni
connesse alla sostenibilità relative ai prodotti finanziari» attraverso la creazione di standard
comuni per la rendicontazione e la divulgazione di informazioni, sì da
orientare, in tale quadro, gli investitori verso una scelta più informata e
consapevole della tipologia di prodotto finanziario oggetto della propria
attenzione.
In
ragione di tali obiettivi, vengono stabiliti appositi obblighi di trasparenza
tanto a livello di soggetto operante (c.d. entity level), quanto di prodotto
finanziario (c.d. product level), con particolare riferimento ai possibili profili
negativi in danno della sostenibilità.
Il
regolamento “SFDR” prevede, inoltre, la classificazione dei prodotti finanziari in due
categorie a seconda del livello di considerazione dei fattori di sostenibilità,
specificati ai sensi degli artt. 8, paragrafo 1, e 9, paragrafi 1-3, i quali
precisano rispettivamente:
«Se un
prodotto finanziario promuove, tra le altre caratteristiche, caratteristiche
ambientali o sociali, o una combinazione di tali caratteristiche, a condizione
che le imprese in cui gli investimenti sono effettuati rispettino prassi di
buona governance, le informazioni da comunicare a norma dell’articolo 6,
paragrafi 1 e 3, includono quanto segue:
a)
informazioni su come tali caratteristiche sono rispettate;
b)
qualora sia stato designato un indice come indice di riferimento, informazioni
che indichino se e in che modo tale indice è coerente con tali
caratteristiche»;
«Se un
prodotto finanziario ha come obiettivo investimenti sostenibili ed è stato
designato un indice come indice di riferimento, le informazioni da comunicare a
norma dell’articolo 6, paragrafi 1 e 3, sono accompagnate:
a) da informazioni che indicano in che modo
l’indice designato è in linea con detto obiettivo;
b) da
una spiegazione che indica perché ed in che modo l’indice designato in linea
con detto obiettivo differisce da un indice generale di mercato. S
e un
prodotto finanziario ha come obiettivo investimenti sostenibili e non è stato
designato alcun indice come indice di riferimento, le informazioni da
comunicare a norma dell’articolo 6, paragrafi 1 e 3, includono la spiegazione
del modo in cui è raggiunto tale obiettivo.
3. Se un prodotto finanziario ha come
obiettivo la riduzione delle emissioni di carbonio, le informazioni da comunicare a
norma dell’articolo 6, paragrafi 1 e 3, includono l’obiettivo di
un’esposizione a basse emissioni di carbonio in vista del conseguimento degli
obiettivi a lungo termine in materia di lotta al riscaldamento globale previsti
dall’accordo di Parigi».
Già da
una prima lettura, è possibile scorgere come gli strumenti di cui all’art. 8,
paragrafo 1 – nonostante presentino necessariamente profili di connessione ed
attenzione alle tematiche climatico-ambientali e/o sociali oltre che al
rispetto delle buone pratiche di governance – non vengano qualificati,
diversamente da quanto accade con riferimento agli strumenti di cui all’art 9,
paragrafi 1-3, come prodotti di investimento sostenibile, attesa la mancata
integrale rispondenza di tali strumenti al dettato di cui all’art. 2, paragrafo
17: per i prodotti di cui all’art. 8, paragrafo 1, non è, infatti, necessaria
una totale adesione ai profili ESG, risultando per essi sufficiente una mera
attenzione alle suddette tematiche; e ciò diversamente da quanto previsto ai
sensi dell’art. 9, paragrafi 1-3, che, facendo espresso riferimento alla
nozione di investimento sostenibile, richiama automaticamente l’omologa
definizione sopra menzionata. Di qui la ragione, legata al differente grado di
pervasività delle tematiche ESG, della distinzione tra strumenti di cui
all’art. 8, paragrafo 1, denominati “light green”, e strumenti di cui all’art.
9, paragrafi 1-3, definiti “dark green”.
Da un
primo esame delle evidenze di mercato, sembrerebbe emergere, allo stato, un
adeguamento tattico, da parte degli operatori, ai requisiti normativi ESG:
segnatamente, la maggioranza dei player operanti nel mercato italiano
sembrerebbe avere inserito i rischi di sostenibilità nei propri processi
decisionali attraverso l’adozione di soluzioni di rating provider terzi in
ambito ESG e/o di policy di esclusione di settori qualificabili come
“controversi”.
Con
riferimento, in particolare, alle citate classificazioni di cui agli artt. 8 e
9, sembrerebbero al momento presenti sul mercato diverse tipologie di
strumenti, prevalentemente “light green”, ma con una tendenza graduale verso
gli strumenti “dark green”.
Il
Reg. 2021/1253, invece, integra la normativa di riferimento in materia di
servizi di investimento, di cui alle disposizioni contenute nel Reg. 2017/565,
considerando le tematiche di sostenibilità, con l’obiettivo di aggiornare i
processi di consulenza e di tutela degli investitori, soprattutto attraverso
l’aggiornamento del processo di produzione e di gestione dei prodotti (c.d.
Product Governance).
Per i
prestatori di servizi di consulenza in materia di investimenti le principali
modifiche si traducono nell’esigenza di:
raccogliere
le preferenze di sostenibilità dei propri clienti, procedendo contestualmente
all’integrazione, con apposite domande a tema ESG, dei questionari di
profilatura MiFID;
aggiornare
i modelli di adeguatezza tramite la previsione di controlli aggiuntivi, atti a
verificare la corrispondenza tra le preferenze di sostenibilità raccolte e i
prodotti raccomandati;
estendere
il catalogo prodotti con particolare focus sui prodotti con caratteristiche
ESG.
Infine,
ad ulteriore conferma del ruolo di primaria rilevanza della normativa UE
(anche) nel settore di che trattasi, va menzionata la recente proposta di
direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio “relativa al dovere di diligenza
delle imprese ai fini della sostenibilità e che modifica la direttiva (UE)
2019/1937” del 23.2.2022, meglio conosciuta con il nome di “Corporate
Sustainability Due Diligence Directive (CSDD).
Essa
mira alla promozione, da parte delle imprese attive nel mercato europeo, di
pratiche finalizzate alla contribuzione dello sviluppo sostenibile nonché della
transizione economica e sociale attraverso la tutela dei diritti umani e
dell’ambiente; e ciò non solo da parte delle imprese con riferimento
all’attività da essa svolta, bensì anche con riguardo alle attività svolte
dalle proprie controllate, fino a risalire a tutta la” value chain” di cui sono
parte, individuando, quali destinatarie, società inquadrabili all’interno di
due macro-categorie:
grandi
e medie imprese europee;
imprese
extra-UE con un fatturato netto generato in UE superiore a Euro 150.000.000
nell’ultimo esercizio, ovvero, congiuntamente che (i) abbiano generato un
fatturato netto in UE superiore ad Euro 40.000.000, ma non superiore a Euro
150.000.000, di cui almeno il 50% generato in UE in uno o più settori ad
elevato impatto.
La
Direttiva prevederebbe, tra l’altro:
l’integrazione
di obblighi di diligenza nelle proprie politiche di gestione;
la
prevenzione o mitigazione di possibili impatti negativi futuri;
l’eliminazione
o, quantomeno, la marginalizzazione degli attuali impatti negativi;
la
pubblicazione delle informazioni relative agli obblighi di diligenza.
Sul
testo della proposta, in data 25.4.2023, si è espressa favorevolmente la
Commissione giuridica del Parlamento Europeo (c.d. JURI), incentrando la
propria attenzione, in particolare, sul profilo sanzionatorio e precisando,
come riportato sul sito dell’Europarlamento,
«Non-compliant
companies should be liable for damages and EU governments would establish
supervisory authorities with the power to impose sanctions. MEPs want fines to
be at least 5% of the net worldwide turnover and to ban non-compliant
third-country companies from public procurement».
La proposta di Direttiva ha poi, da ultimo,
visto avanzare il proprio iter procedimentale in direzione dell’emanazione, in
data 1° giugno 2023, di un documento (consultabile sul portale web del
Parlamento UE), approvato dal Parlamento Europeo medesimo in seduta plenaria,
con il quale questo, prendendo posizione relativamente al testo della proposta
di Direttiva, conferma quanto già in proposito espresso dalla Commissione
giuridica, affermando che
«…le
aziende saranno tenute a identificare e, se necessario, prevenire, porre fine o
mitigare, l’impatto negativo che le loro attività hanno su diritti umani e
ambiente, come il lavoro minorile, la schiavitù, lo sfruttamento del lavoro,
l’inquinamento, il degrado ambientale e la perdita di biodiversità. Inoltre,
dovranno monitorare e valutare l’impatto sui diritti umani e sull’ambiente dei
loro partner della catena del valore, compresi i fornitori, la vendita, la
distribuzione, il trasporto, lo stoccaggio, la gestione dei rifiuti e altre
aree. (…)
Le nuove norme prevedono anche che le imprese
collaborino e sostengano le persone colpite dalle loro azioni, compresi gli
attivisti per i diritti umani e l’ambiente, introducano un meccanismo di
reclamo e controllino regolarmente l’efficacia della loro politica di diligenza
dovuta.
Per
facilitare l’accesso degli investitori, le informazioni sulla politica della
diligenza dovuta di una società dovrebbero essere disponibili anche sul “Punto
unico d’accesso europeo” (ESAP). (…)».
4.
L’assoluta rilevanza del “Rating” quale strumento di misurazione degli
adempimenti ESG.
Al
fine di fornire ai criteri ESG effettiva rilevanza, è avvertita la necessità di
sviluppare specifici framework di rating relativi all’ambito in esame.
Dall’analisi dei principali rating ESG
disponibili, è stato possibile formulare quanto segue:
l’emersione
di considerazioni non strettamente finanziarie in ordine alla valutazione
aziendale è legata a un processo c.d.” investor-driven”:
in tale quadro, i rating ESG, pur nella loro
disomogeneità, hanno svolto un ruolo cruciale nel favorire la diffusione di
valutazioni di sostenibilità;
il
mercato dei framework di rating ESG è, attualmente, molto competitivo; di qui
lo stimolo, da parte di molte agenzie di rating, a sviluppare, con le evidenti
difficoltà in termini di disomogeneità del servizio offerto, il proprio
specifico modello di valutazione (nel 2018 si potevano contare più di 600
modelli di rating ESG a livello globale);
allo
scopo di consolidare e rendere più trasparenti ed attendibili le valutazioni
ESG, è di fondamentale importanza sviluppare standard quanto più oggettivi
possibile, al fine di guidare le società nella rendicontazione, sì da
permettere loro di fornire una trasparente e reale disclosure in merito alle
proprie performance ESG.
Emerge
quindi, la necessità di assicurare una corretta valutazione del grado di
allineamento ai criteri ESG, derivando da tale circostanza la possibilità, tra
l’altro, di:
collegare
gli obiettivi aziendali in tema ESG a parametri oggettivi, quantificabili e
misurabili, evitando fenomeni di greenwashing;
valutare
le performance di sostenibilità in termini realmente oggettivi a cui collegare
le remunerazioni dei vertici aziendali;
comparare
le performance e gli impatti ESG di società diverse;
migliorare
la disclosure delle informazioni ESG agli stakeholders di riferimento;
individuare
i rischi collegati ai fattori ESG attraverso la loro corretta misurazione e
rendicontazione;
agevolare
la rendicontazione delle performance ESG delle società target e di quelle in
portafoglio.
Tra
gli standard di rendicontazione utilizzati per la costruzione di questionari e
sistemi di valutazione (id est: di rating) su scala internazionale è possibile
individuare:
il
sistema GRI (Global Reporting Initiative):
lo standard maggiormente utilizzato dalle
imprese italiane nella rendicontazione non finanziaria;
si
tratta di un sistema con cui le imprese, attraverso un’analisi di materialità,
individuano i fattori centrali per la propria performance e i propri impatti
ESG sulla base di “un concetto di double materiality”, obbligando le imprese a
rendicontare non solo i fattori ESG che influenzano i risultati aziendali
(financial materiality), ma anche gli impatti dell’azienda stessa sulla società
e sull’ambiente (outward materiality);
il
sistema CDP (Carbon Disclosure Project):
si
tratta di un sistema sector-based globale che permette alle imprese di gestire
le informazioni riguardanti quattro aspetti del cambiamento climatico [id est:
(i) emissioni di GHG (Green House Gas: misura che esprime in CO2 equivalente il
totale delle emissioni di gas ad effetto serra associate direttamente o
indirettamente ad un prodotto, ad un’organizzazione o ad un servizio), (ii)
consumi energetici, rischio idrico esistente e futuro, (iii) valutazione delle
attività e delle materie prime legate alla deforestazione e (iv) valutazione
della catena produttiva];
il
sistema CDSB (Climate Disclosure Standards Board):
si
tratta di un framework di rendicontazione internazionale utilizzabile da
soggetti profit e non profit per il collegamento e l’integrazione delle
informazioni ambientali nella performance aziendale; tale sistema – che viene
principalmente utilizzato nel Regno Unito, in Giappone, in Sud Africa, in USA e
Corea del Sud – si concentra su dieci aree di rilievo (sicurezza del
consumatore, energia, finance, salute, industria, tecnologia, materiali,
servizi di telecomunicazione, servizi e prodotti);
il
sistema IR (Integrating Reporting):
quale
reporting integrato che, attraverso l’esame di sei forme di capitale (capitale
finanziario, capitale produttivo, capitale intellettuale, capitale umano,
capitale sociale e relazionale e capitale naturale), ha l’obiettivo di
dimostrare ai fornitori di capitale finanziario la capacità di
un’organizzazione a creare valore nel tempo;
il
sistema SASB (Sustainability Accounting Standards Board): attraverso tale sistema
l’accounting sostenibile – che si compone di cinque profili fondamentali
(Environment, Social Capital, Human Capital, Business Model & Innovation e
Leadership & Governance) – riflette la capacità di gestione degli impatti
sociali e ambientali di un’organizzazione.
Il
quadro appena rappresentato è, all’evidenza, alquanto complesso ed articolato:
allo
scopo di superare le citate difficoltà derivanti dall’utilizzo di un sistema
fortemente frammentato, le grandi standard-setter a livello globale, hanno
manifestato, nel settembre 2020, la necessità di collaborare al fine di definire
standard di rendicontazione ESG comuni, proponendosi l’obiettivo di soddisfare
le seguenti due fondamentali priorità:
stabilire
framework di reporting minimi, standardizzati e sector-agnostic, ovvero contenenti un set
di fattori comuni a tutte le società, che permettano una comparazione
trasversale delle performance ESG;
definire
un concetto di “materialità” idoneo ad integrare le diverse finalità
sottese ai cinque standard facendo ricorso al concetto di dynamic materiality,
che riflette la natura dei fattori di sostenibilità, il cui grado di interesse
(per utenti e stakeholders) e la cui influenza (sulle performance aziendali)
cambia nel tempo.
Tale
sforzo viene manifestamente riconosciuto ed apprezzato dall'International
Organization of Securities Commissions (IOSCO), la quale, all'interno del “ Report on International Work to
Develop a Global Assurance Framework for Sustainability-related Corporate
Reporting” dichiara
che
«
L'IOSCO è incoraggiata dalla tendenza degli emittenti a presentare le proprie
informative relative alla sostenibilità per una verifica indipendente. L'IOSCO
accoglie con favore il lavoro degli enti normativi verso standard di verifica
etica (inclusa l'indipendenza) professionali che si basano sui requisiti e sui
principi degli standard esistenti e che possono essere applicati a tutti i
framework di reporting. L'ulteriore sviluppo di un framework di verifica
globale fornirà spunti agli emittenti e ai fornitori di verifica mentre si
preparano per gli impegni di verifica e supportano una verifica coerente,
comparabile e affidabile sulle informazioni relative alla sostenibilità. (…)
L'IOSCO incoraggia un coinvolgimento
tempestivo con le iniziative degli enti normativi nell'intero ecosistema del
reporting sulla sostenibilità per supportare la prontezza ad applicare gli
standard finali di verifica ed etica (inclusa l'indipendenza) subito dopo la
loro finalizzazione alla fine del 2024, anche su base volontaria. (…)
L’IOSCO
incoraggia gli enti normativi a continuare a lavorare per sviluppare standard
di alta qualità in modo tempestivo e in conformità con un solido processo,
coinvolgendo le parti interessate per contribuire a sviluppare standard adatti
allo scopo e che soddisfino l’interesse pubblico».
L’UE,
il cui ruolo di leader nel settore si è già avuto modo di esplicitare, dopo
aver introdotto, con il Reg. UE 2020/852, un sistema di classificazione delle
attività sostenibili (c.d. “Tassonomia”, nel 2021 ha proposto l’adozione di
nuova Direttiva, denominata anche CSRD (Corporate Sustainability Reporting
Directive), approvata dal Consiglio dell’Unione Europea in data 28 novembre
2022 e trasposta nella Dir. (UE) 2022/2464 “che modifica il regolamento (UE) n.
537/2014, la direttiva 2004/109/CE, la direttiva 2006/43/CE e la direttiva
2013/34/UE per quanto riguarda l’informativa sulla sostenibilità delle
imprese”.
La
citata direttiva – che riguarda gli obblighi informativi in materia di
sostenibilità e che, tra l’altro, modifica la precedente Direttiva UE 2014/95
nota anche come Direttiva NFRD (Non-Financial Reporting Directive) – estende la
portata degli obblighi informativi a tutte le imprese di grandi dimensioni e
alle imprese quotate, imponendo, altresì, sia l’obbligo di certificazione delle
informazioni sulla sostenibilità sia uno specifico cronoprogramma per
l’adempimento di tali obblighi, che, in particolare, si applicheranno:
dal 1°
gennaio 2024 alle società già soggette alla direttiva sulla rendicontazione non
finanziaria;
dal 1°
gennaio 2025 alle grandi società che non sono attualmente soggette alla
direttiva sulla rendicontazione non finanziaria;
dal 1°
gennaio 2026 alle PMI quotate, agli istituti di credito di piccole dimensioni
(e non complessi) e alle imprese di assicurazione “captive”.
La
Direttiva, inoltre, prevede la standardizzazione del reporting non finanziario,
tramite l’adozione, a partire da ottobre 2022, di parametri di misurazione ESG
comuni a livello europeo, i quali – tenuto conto anche della definitiva
approvazione nel dicembre 2022, da parte dell’EFRAG (European Financial
Reporting Advisory Group)[30] degli ESRS (European Sustainability Reporting
Standard)[31] – si inquadrano in tre livelli:
indicatori
sector-agnostic, vale a dire indicatori comuni e obbligatori per tutte le imprese,
indipendentemente dal loro settore di appartenenza, che permettono la
comparazione in termini di sostenibilità, tra imprese e settori diversi;
indicatori
sector-specific, cioè indicatori specifici per i diversi settori, necessari per esaltare
la rilevanza di quanto riportato;
indicatori
entity-specific, idonei a riflettere la realtà del segnalante, posto che ogni ente
soggetto a reporting è il risultato di una combinazione di fattori differenti
da ogni altro soggetto, con rischi e opportunità specifici.
Va
segnalata, infine, la individuazione, da parte dell’ESG European Institute, di
22 fattori ricorrenti all’interno dei framework più utilizzati, con l’obiettivo
di proporne l’inserimento all’interno del livello sector-agonistic.
4.1.
Segue: Il ruolo delle Autorità Nazionali ed Europee.
Non
sfugge, dunque, la rilevanza della tematica dei rischi ambientali e in
particolare, del rating ESG, con riguardo, in via generale, a qualunque settore di
applicazione e, a fortiori, nel quadro delle attività bancarie e finanziarie.
Ne sono una dimostrazione le molteplici
dichiarazioni rese, in tale ultimo ambito, dalle principali autorità di
vigilanza di settore, sia nazionali, sia europee (BCE, EBA, ESAMA e BANCA
D’ITALIA).
La BCE, per di più, ha inserito il rischio
ambientale tra le priorità di vigilanza per il triennio 2022/2024, segnalando
«la visione della BCE in merito a una gestione sicura e prudente dei rischi
climatici e ambientali nell’ambito del quadro prudenziale vigente, (e)
descrivendo le sue aspettative riguardo a come gli enti dovrebbero tenere conto
di tali rischi (quali fattori determinanti per le categorie di rischi
preesistenti) nella formulazione e attuazione delle strategie aziendali e dei
sistemi di governance e di gestione dei rischi»;
la stessa sottolinea, inoltre, che «gli enti
dovrebbero accrescere la propria trasparenza rafforzando l’informativa sugli
aspetti climatici e ambientali».
In
tale contesto s’inserisce il Documento BCE pubblicato in data 23 gennaio 2023 e
denominato “Verso
indicatori statistici legati al clima” destinato «a supportare l’analisi delle
questioni legate al clima per il settore finanziario» e, anche, a «facilitare un dibattito
pubblico e di consentire un aperto scambio di opinioni (anche sugli aspetti
metodologici) con la comunità dei ricercatori e gli altri stakeholder su come
ottenere ulteriori progressi verso la derivazione di indicatori statistici».
La BCE
in tale Documento individua, in particolare, tre macrocategorie di indicatori:
indicatori
sperimentali di finanza sostenibile;
indicatori
analitici sulle emissioni di carbonio;
indicatori
analitici sui rischi fisici.
Per
quanto concerne i primi (indicatori di finanza sostenibile), essi «forniscono
una panoramica dell’emissione e della detenzione di strumenti di debito con
caratteristiche di sostenibilità da parte dei residenti nell’area dell’euro.
Questi indicatori forniscono informazioni sui
proventi raccolti per finanziare progetti sostenibili e quindi la transizione
verso un’economia a zero emissioni.
Questi dati dovrebbero portare trasparenza al
mercato e sono rilevanti per l’inclusione delle considerazioni sul cambiamento
climatico nella progettazione e nell’attuazione della politica monetaria della
BCE, nonché nell’analisi della stabilità economica e finanziaria.
Questo
set di dati è già piuttosto completo ed è pubblicato in via sperimentale.
I limiti rimanenti sono dovuti principalmente
alla mancanza di definizioni armonizzate e accettate a livello internazionale
di alcuni concetti».
Tali
indicatori concernono:
le
emissioni di titoli di debito sostenibili, i quali, a mente del Documento,
«sono rilasciati per area di emittenti al valore nominale e di mercato. La
ripartizione per classificazione di sostenibilità (verde, sociale, di
sostenibilità e legata alla sostenibilità) è disponibile solo per l’area
dell’euro e l’UE nel suo complesso. La ripartizione per settore di emissione e
per singolo Paese dell’area dell’euro è disponibile solo per i green bond; lo
stesso vale per le emissioni nette (transazioni finanziarie), che sono
disponibili solo per l’area dell’euro. I titoli sono considerati conformi ai
criteri di sostenibilità se etichettati come tali dall’emittente (cioè si
accetta un livello di garanzia debole). I nuovi aggregati sono disponibili con
frequenza mensile circa dieci giorni lavorativi dopo la fine del periodo di
riferimento (t+10)»;
la
detenzione di titoli di debito sostenibili, i quali, sempre a mente del
Documento,
«comprendono una ripartizione per
classificazione di sostenibilità per l’aggregato dell’area dell’euro (al valore
nominale e di mercato), compresa una ripartizione per area della controparte
emittente (area dell’euro, UE, resto del mondo).
Le
disaggregazioni per settore di detenzione e per singolo Paese dell’area
dell’euro sono disponibili solo per i “green bond”;
lo
stesso vale per le transazioni finanziarie, che sono disponibili solo per
l’area dell’euro.
In linea con gli indicatori sulle emissioni,
si accetta un livello di garanzia I nuovi aggregati saranno diffusi con
frequenza trimestrale a circa t+2 mesi».
Relativamente
agli indicatori analitici sulle emissioni di carbonio, la BCE precisa che essi «forniscono
informazioni sull’intensità di carbonio dei portafogli titoli e prestiti di
tali istituzioni finanziarie e contribuiscono quindi a valutare il ruolo del
settore nel finanziamento della transizione verso un’economia a zero emissioni
e i rischi correlati.
Gli indicatori forniscono informazioni
sull’esposizione delle banche nei confronti di controparti con un’elevata
dipendenza da modelli di business ad alta intensità di emissioni di carbonio.
Queste
informazioni sono importanti per valutare i rischi di transizione nel contesto
della politica monetaria, della stabilità finanziaria e della vigilanza
bancaria.
Tuttavia, il set di dati sottostante presenta
notevoli limiti, soprattutto in termini di copertura, poiché è stato compilato
utilizzando informazioni relative solo a un sottoinsieme delle esposizioni
totali in prestiti e titoli nell’area dell’euro.
Inoltre, i dati soffrono di incoerenze
intertemporali, poiché i tassi di copertura, e quindi la composizione del
campione, variano nel tempo e i valori nominali non sono corretti per gli
effetti dei prezzi e dei tassi di cambio.
Di conseguenza, gli indicatori devono essere
interpretati con cautela e considerati come un lavoro in corso e di natura
analitica».
Tali
indicatori si suddividono in:
indicatori sul finanziamento delle
attività ad alta intensità di carbonio, i quali «mirano a fornire
informazioni sul modo in cui il settore finanziario contribuisce al
finanziamento delle attività economiche ad alta emissione. A tal fine, si
esamina la quantità (quota) delle emissioni totali di carbonio delle imprese
non finanziarie che possono essere collegate alle istituzioni finanziarie in
base all’insieme di titoli e portafogli di prestiti identificabili.
I seguenti indicatori sul finanziamento delle
attività ad alta intensità di carbonio possono essere utilizzati per valutare
l’evoluzione delle emissioni dei debitori/emittenti nel tempo prima (e in
preparazione) della transizione verso un’economia a zero emissioni»;
indicatori
sull’esposizione ai rischi di transizione, i quali sono «derivanti
dall’esposizione dei portafogli di prestiti e titoli ad attività economiche con
rischi elevati (emissioni).
Va notato che, in questa fase, tutti gli
indicatori rilevano solo le attività ad alta intensità di emissioni dei
debitori/emittenti stessi e non rilevano i rischi derivanti da modelli di
business basati su prodotti intermedi ad alta intensità di emissioni (cioè le
emissioni generate lungo la catena del valore).
L’esposizione viene valutata cogliendo
l’importo relativo del finanziamento delle attività economiche che potrebbero
essere interessate dalla transizione a zero A differenza degli indicatori
relativi al finanziamento di attività ad alta intensità di carbonio, questi
indicatori utilizzano il valore del portafoglio dei creditori come variabile di
standardizzazione, ossia assumono la prospettiva dell’investitore. Pertanto,
sebbene le metriche non possano essere intese come misure di rischio di per sé,
servono come metriche di esposizione che possono informare le valutazioni del
rischio».
Infine,
per quanto concerne gli indicatori analitici sui rischi fisici, essi sono
«utilizzati per quantificare i rischi fisici dovrebbero coprire il maggior
numero possibile di rischi naturali acuti.
Il presente rapporto si concentra su un
sottoinsieme di rischi selezionati sulla base (i) dell’importanza storica dei
rischi in Europa (ad esempio, dal 1980 al 2020 circa il 77% di tutti i costi
dei danni nell’UE28 sono stati causati da eventi meteorologici e idrologici) o
delle previsioni future (ad esempio, si prevede che i danni da stress idrico e
da incendi selvaggi aumenteranno nei prossimi decenni), e (ii) della qualità di
base dei dati su tali pericoli.
Alcuni
rischi, come le ondate di calore, che hanno un effetto più indiretto sulla
salute umana, non sono ancora inclusi in questa serie di indicatori».
Tali
indicatori concernono:
la
«(e)sposizione normalizzata al rischio (NEAR):
la
percentuale del portafoglio a rischio dove l’esposizione di ciascun
debitore/emittente è ponderata per un indice di rischio finanziario.
Questo rapporto mette in relazione le perdite
annue attese (EAL) con misure di performance finanziaria (ricavi) o di
dimensione aziendale (totale attivo).
L’EAL fornisce una stima del rischio che si
basa esplicitamente su danni monetari e consente aggregazioni tra i rischi,
cosa che non avviene per gli indicatori di punteggio.
Allo
stato attuale, la qualità e la disponibilità dei dati sottostanti non sono
sempre sufficienti per calcolare indicatori basati sull’EAL per tutti i
pericoli.
Tuttavia,
sono disponibili indicatori basati sull’EAL per le inondazioni costiere, le
inondazioni fluviali e le tempeste di vento»;
la
«(e)sposizione potenziale al rischio (PEAR):
la
percentuale del portafoglio esposta ai rischi fisici, basata sull’esposizione
finanziaria totale per tutte le entità che hanno un punteggio di rischio
superiore a zero (si veda il punto 3 per la scala di rischio).
Il PEAR offre un valore potenziale (“massimo”)
a integrazione del valore specifico fornito da NEAR. Gli indicatori basati
sulle esposizioni totali sono facili da interpretare e meno impegnativi da
calcolare, in quanto per il loro calcolo non sono necessari i dati di
vulnerabilità (analogamente ai punteggi di rischio riportati di seguito»;
i
«Punteggi di rischio (RS):
integrano
il PEAR suddividendo le esposizioni in categorie di livello di rischio e
indicano la percentuale del portafoglio associata a una specifica classe di
rischio da 0 (nessun rischio) a 5 (rischio molto elevato). I punteggi a livello
di capogruppo (quando più entità appartengono allo stesso gruppo) sono
calcolati utilizzando medie semplici».
L'Autorità
Bancaria Europea (EBA), dal canto suo, afferma che « L'EBA ha ricevuto diversi
mandati per valutare come includere i rischi ambientali, sociali e di
governance (ESG) nei tre pilastri del quadro prudenziale bancario.
Questo rapporto valuta la loro potenziale inclusione
nel Pilastro 2 fornendo definizioni comuni dei rischi ESG, elaborando le
disposizioni, i processi, i meccanismi e le strategie che devono essere
implementati dagli istituti di credito e dalle imprese di investimento (istituzioni)
per identificare, valutare e gestire i rischi ESG e raccomandando come i rischi
ESG dovrebbero essere inclusi nella revisione e valutazione di vigilanza
eseguite dalle autorità competenti.
Il rapporto si concentra sulla resilienza
delle istituzioni al potenziale impatto finanziario dei rischi ESG su diversi
orizzonti temporali, che deve essere attentamente valutata e garantita da
istituzioni e supervisori adottando una visione completa e lungimirante, nonché
azioni tempestive e proattive” ;
e
questo in quanto « I rischi ESG per le istituzioni sono definiti come rischi
che derivano dagli impatti attuali o prospettici dei fattori ESG sulle loro
controparti o attività investite, vale a dire i rischi derivanti dalle attività
principali delle istituzioni. I rischi ESG si materializzano attraverso le
categorie tradizionali di rischi finanziari (rischio di credito, rischio di
mercato, rischi operativi e reputazionali, rischi di liquidità e di
finanziamento).
Esistono vari metodi per la valutazione dei
rischi ESG sul mercato e questi sono in rapida evoluzione.
L'EBA ha identificato tre diversi approcci:
(i)
metodo di allineamento del portafoglio,
(ii) metodo del quadro di rischio (inclusa
l'analisi degli scenari) e
(iii) metodo dell'esposizione.
Questi
approcci servono agli obiettivi di valutazione dell'allineamento dei portafogli
delle istituzioni con obiettivi di sostenibilità globali o regionali o di
offrire approfondimenti sul rischio causato dalle esposizioni a (inclusi gli
investimenti in) determinate attività. L'EBA non prescrive l'uso di un
approccio particolare e vede il merito nell'applicazione di una combinazione di
approcci ».
Sul
mercato esistono vari metodi, in rapida evoluzione, per la valutazione dei
rischi ESG.
L’EBA,
al riguardo, ha individuato tre diversi approcci:
metodo
di allineamento del portafoglio;
metodo
del quadro di rischio (compresa l’analisi di scenario);
metodo
di esposizione.
I già
menzionati approcci perseguono, tutti, l’obiettivo di valutare l’allineamento
dei portafogli delle istituzioni con gli obiettivi di sostenibilità globali o
regionali o di offrire informazioni sul rischio causato dalle esposizioni
(inclusi gli investimenti) in determinate attività.
L’EBA
non prescrive l’uso di un approccio particolare, preferendo segnalare
l’opportunità che si applichino una combinazione di approcci.
Oltre
a ciò, è interessante osservare anche quanto indicato dall’EBA negli
“Orientamenti in materia di concessione e monitoraggio dei prestiti –
EBA/GL/2020/06”, adottati il 29 maggio 2020, e cioè che «(g)li enti dovrebbero
incorporare i fattori ESG e i rischi ad essi associati nella loro propensione
al rischio di credito, nelle politiche di gestione dei rischi e nelle politiche
e procedure relative al rischio di credito, adottando un approccio olistico.
Gli
enti dovrebbero tenere conto dei rischi associati ai fattori ESG per le
condizioni finanziarie dei mutuatari, e in particolare del potenziale impatto
dei fattori ambientali e del cambiamento climatico, nella loro propensione al
rischio di credito e nelle politiche e procedure ad esso relative.
I
rischi del cambiamento climatico per le performance finanziarie dei clienti
possono materializzarsi principalmente sotto forma di rischi fisici, come
quelli che derivano dagli effetti tangibili del cambiamento climatico, compresi
i rischi di responsabilità civile per aver contribuito al cambiamento climatico
stesso, o i rischi di transizione, ad esempio quelli che derivano dalla
transizione verso un’economia a basse emissioni di carbonio e resistente ai
cambiamenti climatici.
Inoltre, possono verificarsi altri rischi,
quali cambiamenti delle preferenze del mercato e dei consumatori e rischi
legali, che potrebbero influire sull’andamento delle attività sottostanti».
Occorre
altresì sottolineare che l’EBA ha, nel mese di dicembre 2022, pubblicato la
propria” road map”, con la quale, nel delineare gli obiettivi e il calendario
per l’esecuzione dei mandati e dei compiti rientranti nel perimetro ESG,
illustra i programmi della propria attività nei tre anni a venire, con
l’obiettivo di integrare le tematiche sui rischi ESG nel quadro bancario e
sostenere gli sforzi dell’UE per la realizzazione della transizione verso
un’economia più sostenibile.
La road map, nel quadro di taluni obbiettivi,
prevede, nell’arco temporale 2023-2025 e secondo un definito cronoprogramma,
l’emanazione di diversi provvedimenti.
Proseguendo,
in ambito UE, va segnalata la lettera ESMA 30-379-423, datata 28 gennaio 2021,
dell'allora suo Presidente alla Commissione Europea in cui si precisa quanto
segue.
« Vorrei affrontare la natura non
regolamentata e non supervisionata del mercato dei rating “ESG” e degli
strumenti di valutazione ESG e la necessità di abbinare la crescita della
domanda di questi prodotti con requisiti normativi appropriati per garantirne
la qualità e l'affidabilità. (…)
Per molti versi, la crescente rilevanza dei
rating ESG è emersa come risultato di sviluppi positivi in altre aree di
attenzione legislativa, in particolare l'obbligo per i partecipanti al mercato
di tenere conto in modo più sistematico dei fattori ESG nelle loro decisioni di
investimento e nei processi di gestione del rischio. (…)
Rispetto
ai rating del credito, i rating ESG mostrano livelli molto bassi di
correlazione tra i fornitori, il che comporta problemi lungo la catena del
valore degli investimenti.
La
prossima analisi dell'ESMA mostra infatti che ciò è problematico nel contesto
della costruzione del benchmark ESG, con la scelta del fornitore di rating ESG
che ha un impatto significativo sui componenti di tali indici.
Considerando
gli attuali trend di crescita in Europa negli investimenti sostenibili e nei
prodotti di investimento passivo come gli ETF, le misure volte a ridurre il
rischio di cattiva allocazione del capitale diventeranno cruciali per
facilitare la transizione verso un sistema finanziario più sostenibile.
Analogamente,
il fatto che le aziende in settori altamente inquinanti possano ottenere
punteggi ambientali elevati da alcuni fornitori di rating ESG può portare a
confusione negli investitori e sottolinea la necessità di una maggiore
trasparenza e dello sviluppo di definizioni standardizzate».
Nel
solco di tali orientamenti si è mossa anche la Banca d’Italia, la quale, in
data 8 aprile 2022, ha pubblicato il Documento recante “Aspettative di
vigilanza sui rischi climatici e ambientali” (nel prosieguo anche il
“Documento”), nel quale sono contenute, in sintesi, indicazioni, per gli
intermediari bancari e finanziari vigilati, relativamente all’integrazione dei
rischi climatici e ambientali nei sistemi di governo e controllo, nel modello
di business, nella strategia aziendale, nel sistema organizzativo e nei
processi operativi, nel sistema di gestione dei rischi e nell’informativa al
mercato.
L’Organo
di Vigilanza – dopo aver preliminarmente osservato che «(u)n modello di
crescita sostenibile si basa sulla piena integrazione dei fattori ambientali,
sociali e di governance (Environment, Social e Governance – ESG)” e che
«(q)uesta innovazione del paradigma della crescita economica tradizionale,
oramai al centro dell’agenda politica internazionale, può favorire un progresso
di lungo termine, resiliente agli shock esterni, ed è dunque essenziale per
poter gestire le trasformazioni che la società e il sistema economico si
troveranno a fronteggiare nei prossimi anni: gli effetti del cambiamento
climatico e delle politiche di decarbonizzazione; il degrado degli ecosistemi e
la perdita di biodiversità; la precarietà e la carenza di sicurezza sul mercato
del lavoro; i rischi legati a una bassa inclusione sociale e a una crescita
delle disuguaglianze» – afferma che «(l)a trasformazione in atto presenta
dunque nuove opportunità, così come nuovi rischi, per il settore finanziario»;
di qui, proseguendo, rileva che è «(…) importante che gli operatori
predispongano idonei presidi e sviluppino adeguate prassi per identificare,
misurare, monitorare e mitigare tali rischi (enfasi nostra), continuando a
garantire il necessario accesso al credito e assistendo le aziende impegnate
nel lungo e complesso processo di transizione con nuova finanza e adeguati
servizi di consulenza (…)»; «(…) (a)ltrettanto importante è la capacità di comunicare
adeguatamente l’integrazione dei rischi climatici e ambientali nel proprio
modello strategico e operativo».
Infine,
volendo ribadire nuovamente la strettissima connessione esistente tra il
perseguimento dei criteri ESG (e, per loro tramite, della sostenibilità) da un
lato, e l’armonizzazione dei sistemi di rating in materia ESG dall’altro, è
importante evidenziare quanto dichiarato dalla Commissione Europea in sede di
adozione del già menzionato “Sustainable Finance Package” (cfr., supra, sub
nota 28), latore di innovazioni non solo in ragione delle previste modifiche al
Reg. UE 2020/852, bensì anche per via della predisposizione del “Proposal for a Regulation of the
European Parliament and of the Council on the Transparency and Integrity of
Environmental, Social and Governance (ESG) rating activities”, avente ad oggetto una proposta di
Regolamento Europeo in materia di attività connesse al rating ESG.
Segnatamente,
sul sito web della Commissione Europea, è possibile apprendere – in linea con
quanto fin qui sostenuto e cioè che il rating rappresenta un imprescindibile
veicolo di corretto sviluppo dei fattori ESG – che
«ESG ratings play an important role in the EU
sustainable finance market as they provide information to investors and
financial institutions regarding, for example, investment strategies and risk
management on ESG factors. Today, the ESG ratings market currently suffers from
a lack of transparency and the Commission is proposing a Regulation to improve
the reliability and transparency of ESG ratings activities.
New
organisational principles and clear rules on the prevention of conflicts of
interest will increase the integrity of the operations of ESG rating providers.
These new rules will enable investors to make better informed decisions
regarding sustainable investments.
Moreover, the proposal will require that ESG
rating providers offering services to investors and companies in the EU be
authorised and supervised by the European Securities and Markets Authority
(ESMA).
This
will also ensure the quality and reliability of their services to protect
investors and ensure market integrity».
5. La
tematica, del tutto trasversale, della primazia del diritto dell’Unione sul
diritto nazionale.
Il
ruolo trainante ed insostituibile dell’Unione Europea nelle materie qui in
esame (transizione energetica e, più in generale, fattori e criteri ESG), è
legato all’indiscutibile, sebbene non formalizzato nei Trattati europei,
principio del primato del diritto europeo sulle leggi nazionali (c.d. “Primato”);
principio, questo, che tuttavia non deve
essere ritenuto totalizzante e, per ciò stesso, idoneo a scardinare i principi
ordinamentali degli Stati membri.
A tale riguardo occorre richiamare la c.d.
“teoria dei controlimiti”, la quale postula una vera e propria intangibilità,
financo ad opera della normativa sostanzialmente “costituzionale” euro unitaria,
dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale di uno Stato membro;
teoria, questa, che trova giustificazione
nella indiscutibile necessità di garantire la più ferrea salvaguardia di quei
diritti e valori identificativi dell’ordinamento costituzionale nazionale.
Relativamente
alla teoria su esposta è possibile riscontrare, da un lato, una frequente
affermazione in linea generale ed astratta ad opera delle Corti Costituzionali
degli Stati membri, dall’altro, una rarissima applicazione della stessa:
ad oggi si è assistito a sole due contestazioni del
diritto euro unitario, e sono i casi rappresentati dalla sentenza della Corte
Costituzionale Polacca del 7 ottobre 2021 e dalla sentenza della Corte
Costituzionale Tedesca del 5 maggio 2020 in merito alla legittimità del Piano
di acquisti di titoli di debito pubblico (PSPP) da parte della Bce.
Una
possibile applicazione della teoria dei controlimiti in ambito italiano si è
paventata, recentemente, a causa della vicenda “Taricco”, la quale, tuttavia,
si è conclusa, evitando dannose posizioni di contrasto, con un costruttivo
dialogo tra la Consulta e la CGUE.
Ad
affermare il principio cardine della “Primato è stata la Corte di Giustizia con
la nota sentenza del 15 luglio 1964 – Flaminia Costa contro E.N.E.L [Sentenza
della Corte del 15 luglio 1964, Flaminio Costa contro E.N.E.L., Causa 6-64
(edizione speciale inglese: 1964 00585)], in cui:
l’allora
Corte di giustizia europea (attualmente Corte di giustizia dell’Unione europea
(CGUE) ebbe a confermare il primato del diritto della Comunità economica
europea (CEE) [ora Unione europea (Unione)] rispetto alle leggi nazionali degli
Stati membri dell’Unione;
venne
stabilito un principio generale del diritto della Comunità (ora Unione),
secondo cui il primato, chiamato anche “preminenza” o “supremazia” del diritto
dell’Unione, garantisce la propria superiorità rispetto alle leggi nazionali
degli Stati membri;
si
affermò, infine, che il principio del primato è garanzia di protezione uniforme
dei cittadini in tutta l’Unione.
Nel
corso di una pronuncia pregiudiziale relativa al trattato CEE [(ora Trattato
sull’Unione europea e Trattato sul funzionamento dell’Unione europea del 13
dicembre 2007 — versione consolidata (GU C 202 del 7.6.2016, pag. 47)], la
Corte ebbe ad affermare quanto segue:
in
opposizione ai trattati internazionali ordinari, il trattato CEE ha istituito
un sistema giudiziario europeo che costituisce parte integrante dei sistemi
giudiziari degli Stati membri e che li vincola;
con
l’istituzione della CEE, gli Stati membri hanno trasferito i diritti e gli
obblighi derivanti dal trattato dal loro ordinamento giuridico nazionale a
quello della CEE, limitando la loro sovranità e creando un corpus normativo
vincolante perse stessi e i loro cittadini;
conseguentemente,
gli Stati membri non possono adottare leggi nazionali in contrasto con il
diritto dell’Unione senza rimettere in discussione la base giuridica
dell’Unione stessa; il diritto dell’Unione prevale sulle leggi nazionali.
Unitamente
alla sentenza in parola, sono da segnalare sentenze a questa precedenti e
successive.
Nel
1963, con sentenza del 5 febbraio, relativa alla causa C-26/62 (c.d. Sentenza
Van Gend & Loos la Corte di giustizia aveva già stabilito un principio
generale parimenti importante e integrativo del diritto dell’Unione, ovvero il principio dell’efficacia
diretta.
La
Corte chiarì, in seguito, l’ambito di applicazione del principio del primato
nella propria giurisprudenza,
applicandosi
essa a tutti gli atti dell’Unione in modo giuridicamente vincolante, laddove si
tratti di diritto primario (quali, i Trattati), di diritto derivato (direttive,
regolamenti, decisioni, ecc.) o di giurisprudenza della CGUE.
Condiziona
tutti gli atti nazionali:
a
prescindere dalla loro natura (atti, regolamenti, decisioni, ordinanze,
circolari, ecc.) o se sono emanati dai poteri esecutivi o legislativi di uno
Stato membro;
persino
se la loro adozione sia avvenuta dopo l’atto dell’Unione in questione
[(Amministrazione delle Finanze contro Simmenthal SpA, 1978) Sentenza della
Corte del 9 marzo 1978, Amministrazione delle Finanze dello Stato contro
Simmenthal SpA. Domanda di pronuncia pregiudiziale: Pretura di Susa — Italia.
Disapplicazione da parte del giudice nazionale di una legge in contrasto col
diritto comunitario. Causa 106/77 (raccolta della giurisprudenza 1978 00629)];
Comprese
le disposizioni di una costituzione nazionale in contrasto con il diritto
dell'Unione [( Internationale Handelsgesellschaft mbH contro punto di
importazione e deposito di cereali e mangimi, 1970 e Wunsch Handelsgesellschaft
contro Germania , 1984 , note rispettivamente come le sentenze Solange I e
Solange II ) Sentenza della Corte del 17 Fondata nel 1970, la Internationale
Handelsgesellschaft mbH controlla il punto di importazione e stoccaggio di
cereali e mangimi per animali. Domanda di pronuncia pregiudiziale : Tribunale
amministrativo di Francoforte sul Meno - Germania. Caso 11-70 (raccolta della
giurisprudenza 1970 01125)].
Sul
tema si riscontra, in ambito italiano, una florida giurisprudenza da parte
della Consulta.
Il
primo caso in cui la Corte Costituzionale viene in contatto con il tema in
esame si ha con la sent. 24 febbraio 1964, n. 14, con la quale si contesta la
primazia del diritto comunitario su quello nazionale.
Tale
orientamento muta già con le sentenze 18 dicembre 1973, n. 183 e 22 ottobre
1975, n. 232, con le quali, non solo si afferma la c.d. “Primato” della norma
comunitaria (attestando così quella “Diretta applicabilità” che tanto è cara al
diritto europeo), ma si censura direttamente la disciplina interna
incompatibile con la illegittimità costituzionale.
Tuttavia,
la pietra miliare per la conquista, da parte del diritto comunitario, del ruolo
centrale che riveste oggi, è rappresentata dalla sent. 5 giugno 1984 n. 170, per mezzo della quale viene concepita
l’automatica “disapplicazione della norma interna contrastante” ad opera del
giudice comune, vale a dire che, in presenza di un atto normativo europeo dotato di
diretta applicabilità, la disciplina nazionale non viene né annullata né
tantomeno abrogata, bensì solo relegata ad uno stato limbico in cui non produce
effetti giuridici nel caso di specie, potendoli però esprimere in altri
contesti, rimanendo a tutti gli effetti una norma valida:
condizione
essenziale affinché ciò possa verificarsi è che sussista una « impossibilità di pervenire, da parte
del giudice nazionale, a un’interpretazione delle disposizioni interne che sia
conforme alle prescrizioni del diritto dell’Unione» .
Una
precisazione terminologica a tale orientamento viene poi apportata dalla
sentenza dell’8 aprile 1991, n. 168, nella quale si afferma come sia
preferibile parlare di “non applicazione” piuttosto che di “disapplicazione”.
Nonostante
la presenza di plurime altre decisioni della Consulta sul tema, si ritiene
utile concludere questo rapido excursus storico con la sentenza del 2 aprile
2012, n. 86, con la quale viene riconosciuto un ruolo fondamentale al nuovo
art. 117, comma 1, Cost. (così come riscritto dalla c.d. “Riforma del Titolo
V”), quale
parametro normativo da utilizzare laddove si debbano censurare, ritenendole
illegittime, le norme interne contrastanti con gli atti euro unitari privi di
diretta applicabilità (tra cui, è bene ricordare, rientrano anche i Trattati
Istitutivi).
Occorre,
in ultima istanza, effettuare una precisazione: nonostante la strada maestra
percorsa nei confronti della normativa interna contrastante con gli atti euro unitari
direttamente applicabili sia la “non applicazione”, nulla vieta che la Consulta
possa espungere la norma interna dall’ordinamento, ritenendola in violazione
del parametro costituzionale rappresentato dagli artt. 11 e 117, comma 1, Cost.
In una
dichiarazione relativa al primato – allegata all’atto finale della Conferenza
intergovernativa che ha adottato il Trattato sul funzionamento dell’Unione
europea [Conferenza intergovernativa che ha adottato il trattato di Lisbona
firmato il 13 dicembre 2007; A. Dichiarazioni relative a disposizioni dei
trattati; 17. Dichiarazione relativa al primato (GU C 115 del 9.5.2008, pag.
344)] – la Conferenza:
ribadisce
il principio del primato del diritto dell’Unione rispetto al diritto nazionale;
evidenzia
il suo essere una pietra miliare del diritto dell’UE indipendentemente dal
fatto che non sia incluso nel trattato.
6.
Conclusioni.
Alla
luce di quanto fin qui illustrato ed argomentato, è, anzitutto, evidente che la
tematica ESG e la correlata transizione energetica – già oggi all’attenzione
della comunità internazionale – riguardando il futuro del pianeta,
continueranno ad accompagnarci anche negli anni a venire;
per
l’indiscutibile loro centralità, in quanto tematiche aventi impatto su un ampio
ventaglio di potenziali aree di interesse applicativo, condizioneranno
inevitabilmente, ancorché con un diverso grado di intensità, l’agire pubblico,
commerciale e personale della comunità globale.
Le
questioni e le iniziative trattate in queste brevi riflessioni, d’altro canto,
evidenziano l’assoluta centralità di dette tematiche, tale da richiedere, come
già ampiamente accaduto (e continuerà ad accadere), un ampio spiegamento di
mezzi, specie normativi, sia europei sia nazionali.
Ne sono testimonianza:
con riguardo alle iniziative poste in essere
in ambito nazionale, la significativa modifica degli art. 9, comma 3, e 41,
comma 2, della Carta Costituzionale e la stessa previsione, quale principale strumento
organizzativo-funzionale di sviluppo in ambito ESG, del Ministero per la
Transizione Ecologica (già “Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e
del mare” ed oggi “Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica”);
e, con riguardo al quadro sovranazionale, le
rilevanti, molteplici iniziative legislative da parte dell’Unione Europea, a
cui deve riconoscersi il merito di avere svolto – anche in ragione della primazia del
diritto dell’Unione sul diritto nazionale – un ruolo determinante nel quadro
ESG e della correlata transizione energetica, intesa, quest’ultima, quale
obiettivo strumentale al raggiungimento della piena sostenibilità [si ricordi,
a tale ultimo proposito, quanto sancito (tra le altre) dalle importanti direttive
2009/28/CE (RED I) e 2018/2001 (RED II) e si ricordino, anche, le numerose
iniziative e attività, poste in essere dall’UE, finalizzate al potenziamento
della filiera di produzione energetica rinnovabile, tra le quali sono da
annoverare le disponibilità finanziarie stanziate a sostegno del Piano
Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR)].
Di qui
la rilevanza, quale indiscutibile obiettivo, del principio di sostenibilità,
capace di orientare tanto le scelte di carattere economico-politico-normativo,
nazionali e sovranazionali (volendo rimanere ancorati al solo contesto
europeo), quanto le scelte di carattere commerciale e finanziario, oltre che
scientifiche e della società civile.
Ed è
in tale contesto di pervasività del principio di sostenibilità che
s’inquadrano, con l’obiettivo di garantire la più rapida ed efficace
applicazione di ogni pratica virtuosa, le diverse intese internazionali
sottoscritte, quali, in particolare, gli Accordi di Parigi del 2015, l’Agenda
2030 delle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile e le numerose normative
sovranazionali e nazionali in argomento, così come, a seguire, i ricordati,
notevoli sforzi profusi dall’Unione Europea, quale punto di riferimento
istituzionale nello scacchiere internazionale, nella costante emanazione delle
plurime normative di cui si è dato conto nel corso della presente, breve
trattazione; in tale quadro va segnalata, in particolare, la rilevanza, per il
suo forte impatto in termini di trasparenza, che assume, tra le altre,
l’informativa in materia di sostenibilità – al cui adempimento sono tenute le
imprese nei confronti dei consumatori/investitori – da ritenere un fattore,
oltre che di tutela dello stesso consumatore/investitore, anche di
sollecitazione, nei riguardi delle imprese più recalcitranti, ai fini del
adeguamento delle stesse ai principi e criteri in materia di sostenibilità.
La
tematica ESG, ad ulteriore conferma del suo multiforme e rilevante impatto in
molte e svariate aree di interesse privato e collettivo, trova, altresì, spazio
nell’imponente attività svolta dalle principali Autorità bancarie e
finanziarie, tanto a livello nazionale (BANCA D’ITALIA, CONSOB e IVASS), quanto
a livello europeo (EBA, EIOPA, ESMA e BCE); e ciò a testimonianza della sempre
maggiore attenzione all’immagine “green” da parte, non solo delle imprese che
operano nel settore della compravendita di prodotti fisici, ma anche delle
imprese impegnate nella prestazione di sevizi bancari e finanziari.
Gli
sforzi fin qui profusi rischiano, tuttavia, di perdere la loro efficacia ove
non si ponga, molto rapidamente, la necessaria attenzione, al pari di quanto
accaduto sul fronte delle innumerevoli iniziative e della copiosa elaborazione
normativa, alle metodologie di misurazione della sostenibilità, attesa,
all’evidenza, la stretta interrelazione, diretta e/o indiretta, tra gli
argomenti affrontati nelle presenti considerazioni, tutti legati da un comune
fil rouge, e la tematica, anch’essa centrale, dell’istituto del “rating”,
assolutamente indispensabile, come si è già sopra ripetutamente precisato, per
fornire, in applicazione dell’articolata disciplina (vigente e/o in divenire),
un idoneo strumento di misurazione dell’effettivo livello di conformità ai fattori
e criteri ESG da parte, in primo luogo, degli obbligati; effettivo livello di
conformità, questo, testimoniabile solo attraverso modelli di rating che, in
termini oggettivi, siano in grado di fornire indispensabili riferimenti
informativi e valutativi, per un verso, in ordine al livello di compliance ESG,
per altro verso, relativamente alla reale collocazione ESG, intesa quale
risultante dalla comparazione, non solo tra coloro che ne abbiano fatto uso, ma
anche tra coloro che siano stati oggetto, da parte di diversi operatori, di più
framework di rating.
Di qui
la necessità, da un lato, (i) di individuare criteri uniformi per
l’assegnazione del rating ESG ed anche, trattandosi di attività delicatissima,
di attentamente selezionare coloro che, sul mercato, già operano o si accingono
ad operare in tale specialistico segmento di attività; dall’altro, la (ii)
insostenibilità, a fini di chiarezza informativa, dell’attuale contesto di
mercato in cui coesiste un elevato numero di framework di rating ESG che, non
solo introducono elementi di confusione in ordine all’effettivo status del
soggetto obbligato, ma finiscono anche per favorire, attese le difficoltà
legate alla loro comparazione, coloro che, strumentalmente, ricorrono a dannose
pratiche di greenwashing.
Per
tali ragioni va scientificamente ed istituzionalmente sostenuto il lodevole
intento, condotto, come segnalato, dalle maggiori standard-setter a livello
globale, di definire standard di rendicontazione ESG comuni, al fine di
giungere, nel rispetto degli elementari principi di trasparenza e correttezza
ed a vantaggio dell’ordinato svolgimento delle attività economiche, ad una
maggiore (purché soddisfacente) armonizzazione dei framework di rating ESG, sì
da favorire puntuali e corrette informazioni sull’effettivo livello di
sostenibilità.
Una
migliore e soddisfacente armonizzazione degli standard di rendicontazione ESG
avrebbe, tuttavia, un benefico impatto anche in capo agli emittenti, trovandosi
essi, allo stato, nella scomoda posizione, da un lato, di doversi districare
nella difficile interpretazione della (talvolta non chiara), copiosa e
ininterrotta messe di disposizioni in materia, dall’altro, di dover apprestare
ogni opportuna cautela che li ripari da contestazioni potenzialmente
provenienti sia dagli investitori sia dalle Autorità.
L’oggettiva
difficoltà di misurazione del corretto allineamento da parte dei soggetti
obbligati ai fattori ESG, sotto altro profilo, è tematica di interesse anche
delle Autorità, trovandosi esse investite del difficile (e delicato) compito di
presidiare, istituzionalmente ed a beneficio dell’ordinato svolgimento delle
attività economiche, il puntuale rispetto, ai vari livelli, del complessivo (ed
articolato) quadro normativo in materia ESG; compito di presidio, questo, che
richiede improrogabilmente, anche per le Autorità, che si disponga di idonee
(ed oggettive) formule di misurazione delle performance ESG.
La
preoccupazione qui manifestata, in ordine alla necessità di intervenire presto
e normativamente sulla tematica del rating, ha recentemente trovato conforto
nelle considerazioni espresse dalla Commissione Europea, sopra richiamate
(cfr., in particolare, supra sub nota 28 e sub paragrafo 4.1.), che
accompagnano la pubblicazione, datata 13 giugno 2023, da parte del predetto
Organo, del “Proposal for a Regulation of the European Parliament and of the
Council on the Transparency and Integrity of Environmental, Social and
Governance (ESG) rating activities”, avente ad oggetto una proposta di
Regolamento Europeo in materia di attività connesse al rating ESG.
Green
Jobs - Come la sostenibilità
sta cambiando la domanda
di
lavoro globale.
Orienta.net
– (17/10/2024) – Redazione – ci dice:
Il
settore delle energie rinnovabili traina l'occupazione: e allora quali sono i 5
lavori verdi più richiesti in Italia?
E
perché investire nelle competenze sostenibili?
Cosa
sono i Green Jobs.
Negli
ultimi anni, il concetto di "Green Jobs" ha guadagnato terreno nel
dibattito globale sul futuro del lavoro e della sostenibilità. I Green Jobs, o
lavori verdi, nascono dal principio di gestione sostenibile delle imprese, e ne
fanno parte tutte quelle professioni che contribuiscono a ridurre l'impatto
ambientale delle attività umane, promuovendo un uso più efficiente delle
risorse, la protezione dell'ecosistema e la riduzione delle emissioni di
carbonio.
La
nascita di nuovi lavori verdi è strettamente collegata alla necessità di
affrontare le sfide del cambiamento climatico, tema molto a cuore all’ Unione
Europea col suo Green Deal, e le aziende di tutto il mondo stanno adattandosi a
modelli di business più sostenibili, creando nuove opportunità lavorative.
Il Tasso di Crescita dei Green Jobs.
Un
report realizzato dall’ European Environment Agency nel 2024, dimostra come
negli ultimi dieci anni l’occupazione nel settore di beni e servizi ambientali
dell’UE è cresciuta ad un ritmo più rapido rispetto al suo tasso di occupazione
complessivo, a causa delle creazioni di nuove figure professionali legate alle
energie rinnovabili, all’efficienza energetica e alla gestione dei rifiuti. In
particolare, l'energia solare ha visto un aumento significativo di occupazione
con circa 4,3 milioni di nuovi posti di lavoro creati a livello globale.
Gli
aumenti maggiormente significativi di Green Jobs negli Stati Europei dal 2014
al 2021, sono stati registrati in Bulgaria (+104%), Lussemburgo (+78%) e
Polonia (+52%). Sul fronte opposto Malta (-13%), Ungheria (-13%), Romania
(-12%) e Finlandia (-8%), non sono riuscite a mantenere il passo, registrando
un tasso negativo nella creazione di questi lavori.
I 5
Lavori Verdi Maggiormente Ricercati in Italia
Progettista
o Installatore di impianti solari fotovoltaici.
Il
settore del fotovoltaico è quello in maggiore espansione rispetto agli altri a
causa dei numerosi incentivi e sgravi fiscali derivati dalla Strategia
Energetica Nazionale.
Il suo
lavoro consiste nel progettare e installare impianti che trasformano l'energia
solare in energia elettrica tramite pannelli fotovoltaici. Si occupa della
pianificazione tecnica, dell'installazione e della manutenzione degli impianti,
rispettando le normative ambientali e di sicurezza.
Esperto
in BioArchitettura e BioEdilizia.
Si
occupa di progettare e costruire edifici seguendo principi ecologici e
sostenibili. Utilizza materiali naturali o a basso impatto ambientale e
progetta spazi che favoriscano il benessere degli abitanti e il rispetto
dell'ambiente.
Eco-Avvocato.
È un
avvocato specializzato in diritto ambientale. Si occupa di consulenze legali
riguardanti questioni ambientali, normative ecologiche, e contenziosi su temi
come inquinamento, risorse naturali, energia rinnovabile e sostenibilità.
Esperto
in valutazioni ambientali VIA e VAS.
Figura
specializzata in valutazioni d'impatto ambientale (VIA) e valutazioni
ambientali strategiche (VAS). Il suo compito è quello di analizzare progetti e
piani territoriali per capire e mitigare gli effetti negativi sull'ambiente,
contribuendo a decisioni sostenibili da parte di enti pubblici e privati.
Energy
Manager.
Gestisce
e ottimizza l'uso dell'energia all'interno di aziende o enti pubblici. Si
occupa di migliorare l'efficienza energetica, ridurre i consumi e i costi, e
promuovere l'utilizzo di energie rinnovabili, contribuendo a una gestione più
sostenibile delle risorse energetiche.
L'importanza
dei Green Jobs per l'Economia e la Società.
Oltre
a ridurre l'impatto ambientale, i Green Jobs sono essenziali per costruire
un'economia più resiliente e inclusiva.
Secondo
uno studio della Commissione Europea, l'economia verde ha contribuito a
generare oltre 4,5 milioni di posti di lavoro nell’UE, con settori come quello
del riciclo e della gestione dei rifiuti che hanno registrato una crescita
continua.
La
transizione verso un'economia verde è ormai inevitabile, e i governi e le
aziende di tutto il mondo stanno investendo in maniera esponenziale per creare
nuove opportunità di lavoro sostenibile.
Come
riportato dal “World Economic Forum” però, i lavori verdi sono in aumento, ma i
lavoratori con competenze ecologiche scarseggiano.
Solo
una persona su otto sembra infatti avere “skills” adeguate a ricoprire ruoli di
questo tipo.
In
questo contesto dunque, è cruciale per i professionisti e i giovani in cerca di
lavoro aggiornare le proprie “hard skills” e “soft skills” in settori legati
alla sostenibilità per essere pronti ad affrontare le esigenze future del
mercato del lavoro.
GUERRA
O PACE,
MEMORANDUM
PER TRUMP.
Inchiostronero.it
– Redazione - Il Simplicissimus – (26-11-2024)
Ciò
che è successo nell’ultima settimana segna una soglia terribile per la storia
occidentale e del mondo:
la
decisione di Washington di dare il via ai missili a lungo raggio sulla Russia,
ordigni che sono controllati direttamente dalla Nato e il conseguente uso da
parte russa di una nuova arma ipersonica che rende l’Europa totalmente
indifesa, cambiano la natura della guerra in Ucraina trasformandola in guerra
globale. Che è – mi scuso per la ripetizione – l’ultima risorsa del globalismo
neoliberista per sopravvivere a sé stesso e alle proprie logiche di
disuguaglianza.
La
responsabilità di questo momento abissale – al contrario di quanto strillino i
politici della domenica e i giornali fotocopiati – ricade interamente sugli
Stati Uniti e sui suoi complici europei in realtà poco più che burattini
infarciti di deliranti ideologismi, in un disperato tentativo di salvare
un’egemonia che non esiste più nella realtà fattuale, nei rapporti di forza,
nell’economia e nella tecnologia. La decisione della Corte penale
internazionale, un mero strumento al servizio dell’Occidente, di emettere un
mandato di arresto contro Netanyahu, dimostra che non è più possibile imporre
all’intero ecumene umano stragi insensate senza perdere definitivamente la
faccia.
Solo un inutile e pavido bauscia come Salvini, tanto
per restare in Italia, non l’ha capito.
Non è
possibile aspettarsi che un vecchio rimbecillito come Biden e la sua
amministrazione di cazzuti coglioni, possa in qualche modo fare marcia
indietro, soprattutto perché non vuole, anzi spera che proprio una guerra
ribalti il risultato elettorale.
Tuttavia la situazione è arrivata a un punto
tale che se anche la soglia non venisse varcata nei prossimi due mesi, lo
stesso Trump avrebbe difficoltà a disinnescare questo infernale meccanismo.
In ogni caso per una vera ricerca della pace
egli dovrebbe tenere bene a mente alcune cose fondamentali che oggi sono molto
più chiare rispetto alla sua precedente presidenza.
Dovrebbe insomma fare un bagno di realtà.
La
cosa fondamentale da cui partire è che l’America non è più così potente come
una volta e la sua debolezza è oggi assai più manifesta del “destino” che fa
parte della sua auto mitologia.
Tanto
per dirne qualcuna:
dopo
vent’anni di guerra i Talebani dominano incontrasti l’Afghanistan e hanno
persino acquisito gigantesche quantità di armi moderne abbandonate dagli Usa,
compresa l’aviazione.
In Siria non sono riusciti a cacciare Assad e
sostituirlo con un loro fantoccio.
In Iraq sono letteralmente odiati e in tutto il Medio
oriente c’è un graduale ridislocamento delle potenze locali, Arabia Saudita
compresa.
Gli Houthi hanno cacciato la marina degli
Stati Uniti dal Mar Rosso.
Persino il Niger ha mandato via gli americani
e la Nato.
L’assegno
in bianco concesso al sionismo ha alienato qualsiasi simpatia verso gli Usa e
il dollaro sta perdendo sempre più terreno.
Ora,
capisco la difficoltà di comprendere da parte di un americano nato e cresciuto
dentro il paradigma dell’impero (persino i britannici sono restii a rendersi
conto emotivamente di vivere ormai a Lilliput):
ma
come si può pensare che se le portaerei non hanno intimorito gli Huthi,
dovrebbero spaventare i cinesi?
Il
fatto è che non solo gli Usa hanno perso l’appeal che avevano, ma non fanno più
tanta paura, così che la carota è avvizzita e il bastone è diventato più corto:
l’Ucraina
è stata, per così dire, il momento della verità e ha smascherato le debolezze
nascoste dietro le continue guerre coloniali contro Paesi assai più deboli.
Le
armi americane che poi sono quelle della Nato si sono rivelate fragili,
costosissime e prodotte in numero insufficiente.
Per di
più si è evidenziato un gap soprattutto nel settore missilistico che non è tale
solo nei confronti della Russia, ma anche della Cina, della Corea del Nord e
adesso anche dell’Iran e dell’India.
Gli
stessi generali del Pentagono da troppo tempo sono soltanto lobbisti
dell’industria degli armamenti.
Soltanto se Trump si renderà conto di queste
realtà avrà la forza di cercare la pace invece dello scontro.
Oltre
a questo c’è da tenere conto che dopo tutte le sanzioni comminate alla Russia
essa è cresciuta economicamente molto più dei suoi avversari e odiatori tanto
da essere diventata la quarta economia del pianeta in termini di Pil pro-capite
come dice lo stesso Fmi.
Perciò la cosa più saggia sarebbe lasciar
perdere l’Ucraina come piattaforma per tentare l’assalto alla Russia:
queste
logiche sono ormai quelle del passato e sarebbe anche bene chiedere scusa per
l’inutile massacro generato.
Oggi le cose stanno diversamente e se Trump vuole
davvero cambiare rotta deve tenere a mentre tre cose:
che il
potere mondiale si è spostato,
che gli Usa e le sue colonie non sono nelle
condizioni di cambiare questa realtà con la forza,
che la
multipolarità è il futuro.
Trump
ha quattro anni pieni per ribaltare le logiche dell’America unipolare che alla
fine hanno danneggiato la sua stessa popolazione:
non potrà più essere rieletto e dunque
potrebbe modificare la narrazione imperiale e il suo endemico bellicismo, oltre
che le realtà di potere interne andate fuori di testa e fuori controllo.
Dubito che abbia il retroterra necessario per
farlo, ma come si dice l’ultima a morire è la speranza.
«LA
CRISI DELLA VERITÀ NELL’INFOSFERA»
Inchiostronero.it - Salvatore Grandone - (26-11-2024) – ci dice:
La
crisi della verità nell’infosfera: come l’eccesso di informazioni e la manipolazione
digitale minacciano la nostra capacità di distinguere il vero dal falso.
L’avvento
dell’infosfera ha generato una trasformazione profonda nella relazione
dell’uomo alla verità.
Indagare
il mutamento in atto è importante per comprendere in che modo si stia evolvendo
il nostro rapporto con noi stessi, con gli altri e con il mondo.
Nella
storia della civiltà occidentale sono individuabili tre atteggiamenti
antropologici nei confronti della verità: la rivelazione, l’adeguamento e la
credenza.
Intorno alla verità come rivelazione convergono le
esperienze che riguardano l’ambito religioso, estetico e, in generale, la
dimensione del vissuto che si struttura come un accogliere nel raccoglimento.
La
verità come adeguamento è alla base invece del discorso scientifico e dei “logoi”
che mettono in gioco la dimensione fattuale. La riflessione sulla
corrispondenza tra linguaggio, pensiero e realtà fa nascere l’argomentazione
nelle sue molteplici forme, da quelle più rigorose e complesse a quelle più
semplici e quotidiane.
La verità come credenza fonda infine il
discorso politico, nel senso che è quell’atteggiamento in cui l’impegno e la
testimonianza attraverso l’azione sono essenziali.
La verità come credenza è mostrata e agita, e,
in quanto tale, genera e rompe legami, accorda, distingue, costituisce la
società.
Questi tre regimi della verità non si
escludono a vicenda.
Anzi,
coesistono e spesso si intrecciano in maniera quasi indistricabile.
Ad esempio, per l’uomo di fede all’accoglimento della
verità – che sopraggiunge all’inizio come rivelazione –, segue la testimonianza
che genera tra gli uomini nuovi legami.
Ma questa operazione “politica” fa spesso i
conti con altri discorsi religiosi o a-religiosi.
La rivelazione è così inserita in un discorso
fattuale che argomenta la propria superiorità rispetto ad altri concorrenti.
La
rivelazione si mette insomma alla prova e fa il suo ingresso nella verità come
adeguamento.
O ancora, un discorso scientifico può avere la
sua origine in un’intuizione che si presenta come una sorta di rivelazione – si
parla spesso in questo caso di serendipità.
Il
discorso fattuale costruito sull’intuizione è in seguito mostrato e agito nella
comunità scientifica.
Lo
scienziato se ne fa portavoce e lo promuove.
Con
l’avvento dell’infosfera questi tre regimi della verità sembrano entrati
profondamente in crisi.
Indagare
come stanno cambiando è importante, perché la nostra relazione alla verità
definisce la nostra maniera di abitare il mondo.
Prima
di indagare i tre regimi della verità e le loro variazioni, è opportuno
soffermarsi sul concetto di infosfera.
Ne” La
quarta rivoluzione” Luciano Floridi osserva come l’infosfera non coincida
semplicemente con il cyberspazio:
«A un
livello minimo, l’infosfera indica l’intero ambiente informazionale costituito
da tutti gli enti informazionali, le loro proprietà, interazioni, processi e
reciproche relazioni.
È un
ambiente paragonabile al, ma al tempo stesso differente dal, cyberspazio, che è
soltanto una sua regione, dal momento che l’infosfera include anche gli spazi
d’informazione offline e analogici.
A un livello massimo, l’infosfera è un
concetto che può essere utilizzato anche come sinonimo di realtà, laddove
interpretiamo quest’ultima in termini informazionali.
In tal caso, l’idea è che ciò che è reale è
informazionale e ciò che è informazionale è reale.
È in
questa equivalenza che hanno origine alcune delle più profonde trasformazioni e
delle sfide più rilevanti di cui faremo esperienza nel prossimo futuro riguardo
alla tecnologia.
La
transizione dall’analogico al digitale e la crescita esponenziale di spazi
informazionali in cui trascorriamo sempre più tempo illustrano con massima
evidenza il modo in cui le ICT stanno trasformando il mondo in un’infosfera.»
L’infosfera
comprende i diversi spazi dell’informazione, di cui il cyberspazio è una
regione.
Lo
sviluppo però delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT),
con la conseguente e sempre più marcata transizione dall’analogico al digitale,
stanno trasformando l’intera realtà in un’infosfera.
Dalla
rivelazione all’assoluta trasparenza.
La
rivelazione è la verità che afferra all’improvviso il soggetto.
La sua
temporalità è quella dell’evento, di un accadere che riconfigura l’esistenza.
Il tempo della rivelazione è un appello che si rivolge alla “singolarità” –
“singolarità” e “singolo” sono qui presi nell’accezione kierkegaardiana.
Sebbene
associata all’ambito religioso, la verità come rivelazione incarna
un’esperienza fondamentale dell’esistenza.
Gli
stati emotivi intensi (ad esempio l’estremo dolore) sono spesso all’origine di
rivelazioni.
Affinché
la rivelazione possa darsi, è necessario che il soggetto sia in una situazione
di raccoglimento.
La
rivelazione chiama infatti il singolo che prova ad essere a contatto con il
proprio io profondo e che non si limita quindi a esistere nella dimensione
anonima e impersonale del «si» (cfr. Martin Heidegger, Essere e tempo) o
dell’io superficiale (cfr. Henri Bergson, Saggio sui dati immediati della
coscienza).
Se non si ritorna costantemente “in” e “su” sé
stessi, se la relazione al mondo non pone domande essenziali, la rivelazione è
impossibile.
Senza
singolarità nessuna rivelazione.
D’altra
parte, affinché vi sia rivelazione non basta la singolarità, occorre anche che
il mondo come orizzonte dei possibili abbia una profondità.
In
altre parole, la profondità dell’io va di pari passo con quella del mondo.
Una
rivelazione può darsi se la realtà cela misteri, ha segreti da rivelare, se
quello che ci circonda soggiorna nella velatezza, tra aperto e nascondimento.
È noto quanto un filosofo come “Heidegger”
abbia insistito su questo aspetto della verità.
In un
ciclo di lezioni dedicato a Eraclito afferma:
«Il
termine nomina il sorgere, che dispiega la propria essenza ritornando in sé
stesso.
Nell’unità originaria di questi due momenti
dispiega la propria essenza la “physis, “nome iniziale greco di quel che noi
chiamiamo “essere”.
Da un
lato però nell’essenza del sorgere c’è il lasciar venir fuori, ossia il venir
fuori nell’aperto:
il disvelamento che in greco si dice “aletheia”.
E
d’altro canto nell’essenza del ritornare in se stesso c’è il ritirarsi, il
trattenere e il nascondimento, che però i Greci non nominano espressamente.
Questo
non-nominare il disvelamento che si dispiega sulla base del nascondimento è una
mancanza e una carenza dell’espressione linguistica, in cui si nasconde forse
il mistero più profondo dell’essenza fondamentale del pensiero greco.»
(Martin Heidegger, Eraclito)
Nei
primi pensatori la “physis” è ciò che sorge, che si dischiude, che viene fuori
all’aperto.
Questo
movimento di apertura porta però sempre con sé un ritrarsi, un’eccedenza di
nascondimento che preserva l’apertura della verità come” aletheia”.
Non è
questa la sede per analizzare in dettaglio la riflessione di Heidegger sulla
verità.
Quello
che preme sottolineare è la necessità di una corrispondenza tra raccoglimento e
accoglimento, tra il singolo e il mondo, affinché la verità come rivelazione
possa accadere.
La
singolarità così come la “physis”, pensata come darsi nel nascondimento, sono
condizioni di possibilità della rivelazione.
Ora, nell’infosfera entrambe tendono a
sparire.
Il
soggetto perde la sua singolarità:
ridotto
a un insieme di dati è frammentato, indicizzato, integrato in relazioni
algoritmiche che riducono il diverso all’uguale.
Allo
stesso modo la realtà è suddivisa in ammassi di informazioni che la conducono
in un’assoluta trasparenza, in una visibilità pornografica.
Con
Han si può dire che:
«per
principio, le informazioni non possono essere velate: sono per natura
trasparenti.
Devono
essere semplicemente lì presenti e rifiutano qualsiasi metafora, qualsiasi
veste che le veli.
Esse parlano chiaro e tondo.
In ciò
si distinguono anche dal sapere, che ha la possibilità di ritrarsi nel segreto.
Le informazioni seguono un principio del tutto
diverso: sono orientate allo svelamento, alla verità ultima. Sono per natura
pornografiche.» (Byung Chul Han, La salvezza del bello).
Se
tutto diventa informazione, allora io e mondo sono scacchiati su un’assoluta
trasparenza priva di profondità.
Nell’infosfera
non è possibile alcuna rivelazione: accoglimento e raccoglimento sono cortocircuitati
dal “chiaro” e “tondo”.
L’informazione
dice tutto, è rumorosa, non consente l’ascolto attento.
Dove
si dice tutto, non vi è più nulla da dire e nulla da ascoltare, nulla allora da
accogliere.
Dove tutto è immagine, dove le cose, i
paesaggi, gli
orizzonti sono big data, non vi è spazio per il sorgere e il ritrarsi.
Il
divenire del mondo è ridotto a un anonimo flusso di informazioni “scrollabili”;
e “scrollare” è l’unica azione rimasta a un soggetto disciolto in un pacchetto
di informazioni tra infiniti pacchetti di informazioni.
Dalla
verità come adeguamento alla positività indiscutibile dell’apparire.
La
verità come adeguamento è alla base dei discorsi fattuali. Tra le formulazioni
più note di questo atteggiamento nei confronti della verità è spesso citata
quella di San Tommaso:
«Ogni
conoscenza si attua per mezzo dell’assimilazione del soggetto conoscente alla
cosa conosciuta, così che l’assimilazione è detta causa della conoscenza;
per esempio, la vista conosce il colore,
poiché si dispone secondo la specie del colore.
Dunque,
il primo rapporto dell’ente con l’intelletto è che l’ente concordi con
l’intelletto e questa concordanza è detta precisamente adeguazione della cosa e
dell’intelletto e in ciò si realizza formalmente la natura del vero.
Ed è questo, dunque, che il vero aggiunge
all’ente, vale a dire la conformità o l’adeguazione della cosa e
dell’intelletto e a questa conformità, com’è stato detto, consegue la
conoscenza.
E così, dunque, il ciò che è della cosa precede
l’essenza della verità, mentre la conoscenza è un certo effetto della verità.»
(S. Tommaso, Sulla verità).
Di
questo importante testo si ritiene quasi sempre solo l’affermazione che la
verità è l’adeguazione della cosa e dell’intelletto.
Ma nel
passo sono anche indicate le condizioni di possibilità della verità come
adeguamento.
La
prima è una distanza tra soggetto conoscente e cosa:
affinché
possa darsi l’“assimilazione” del soggetto conoscente alla cosa, tra i due vi
deve essere uno scarto.
La conoscenza si costruisce all’interno di uno
spazio che dà luogo all’osservazione, all’interrogazione, alla verifica.
Tali
operazioni abitano, nutrono e animano la distanza che fonda la verità come
adeguamento.
Dalle
parole di San Tommaso si può dedurre anche una seconda condizione di
possibilità.
«Il ciò che è della cosa precede l’essenza
della verità».
La verità come adeguamento si dà in un mondo di cose;
le cose con la loro resistenza sono la condizione di possibilità della
concordanza.
A San
Tommaso bisogna aggiungere che le cose sono nodi di indeterminatezza; esse si
sottraggono alle nostre domande e in questo sottrarsi le rendono possibili.
Ad
esempio, una mela prima di essere un frutto con determinate caratteristiche,
prima di essere un oggetto, è una cosa, un essere-là che si dà alla percezione
e all’intelletto.
I sensi la osservano, la tastano e la gustano;
l’intelletto la concettualizza, la riconduce al simile.
Ma nessuna percezione e cognizione potrà esaurire il
suo essere cosa; resteranno sempre aperte nuove possibilità di adeguamento e di
conoscenza.
Con la
colonizzazione dell’analogico da parte del digitale la verità come adeguamento
entra in crisi.
Vacillano
le sue condizioni di possibilità.
La distanza tra l’io e la realtà svanisce: soggetto
conoscente e cosa sono appiattiti nell’unidimensionalità dell’infosfera.
L’assimilazione
che prevede uno scarto è sostituita da un’informazione disponibile a uno
sguardo anonimo che può solo guardare, non interrogare.
L’interrogazione
è posta infatti da un soggetto, ma al soggetto è rimasta come unica opzione
quella di seguire i suggerimenti che gli algoritmi elaborano in base alle
preferenze indicizzate degli utenti.
Le
domande e le risposte sono già date, comprese nei big data.
L’interrogazione
è posta a una cosa, mentre nell’infosfera regnano le non-cose.
La
cosa resiste e pre-esiste alle domande e alla conoscenza.
Le cose si danno parzialmente nei decorsi
percettivi, negli adombramenti.
Le
non-cose sono informazioni che appaiano in una pura e autoreferenziale
visibilità.
Una mela della storia di Instagram non è più
una cosa, piuttosto un pacchetto di informazioni.
La
crisi della verità come adeguamento abolisce la stessa distinzione tra il vero
e il falso.
Lì dove non vi sono più soggetti e non vi sono
più cose, non ha più senso parlare di vero e di falso.
La diffusione delle fake news è il corollario
di una società dell’informazione, in cui non vi è luogo per i discorsi
fattuali.
Siamo
di fronte a una nuova forma di nichilismo:
«Il
nuovo nichilismo – nota ancora “Byung Chul Ha”n – è un fenomeno del XXI secolo.
Appartiene alle distorsioni patologiche della
società dell’informazione.
Nasce
nel momento in cui perdiamo la fede nella verità stessa.
Nell’era
delle fake news, della disinformazione e delle teorie del complotto, stiamo
perdendo la realtà e le verità fattuali.
L’informazione
circola ormai completamente scollegata dalla realtà, in uno spazio iperreale.
Si
perde la fiducia nella fattualità.
Viviamo
quindi in un universo de-fatticizzato.
In definitiva scompare, con le verità
fattuali, il mondo comune a cui potremmo riferirci nelle nostre azioni.»
(Byung
Chul Han, “Infocrazia”).
La
crisi dei discorsi sui fatti, sul vero e sul falso rende fragili le coordinate
della ragione occidentale.
Tutto è vero e falso, tutto è soggettivo e oggettivo.
Il principio di identità crolla:
A è A, ma anche B e C…Una nuova forma di
oscurantismo è alle porte, ben peggiore di quella contro cui combattevano gli
illuministi.
Questi lottavano per allontanare con la
ragione le tenebre delle superstizioni. Oggi, invece, la ragione dovrebbe
contrastare una visibilità accecante e assordante che non lascia ombre.
Quale
luce dovrebbe rischiarare ciò che tutto illumina?
La
credenza disincarnata.
Il
terzo tipo di verità, la credenza, è legata all’atteggiamento del “professare”.
La verità come credenza è agita, incarnata con
il proprio essere nel mondo.
Il
soggetto si sforza di coincidere con la propria verità.
Vi sono, certo, credenze più o meno sentite,
ma nella sua forma originaria la credenza è una verità assunta con l’intero
peso della singolarità.
La
verità come credenza è intimamente connessa alla questione della parresia. Il
soggetto che crede nella propria verità con tutto il suo essere la mostra e la
dice.
È
importante seguire in proposito le analisi di Michel Foucault:
«Mi è
sembrato egualmente interessante analizzare, nelle sue condizioni e nelle sue
forme, il tipo d’atto attraverso il quale il soggetto, dicendo la verità, si
manifesta, e con questo intendo dire: si rappresenta a se stesso ed è
riconosciuto dagli altri come un soggetto che dice la verità. […] Non soltanto
è necessario che questa verità rappresenti il parere personale di chi parla; ma
bisogna che chi parla la esprima non a fior di labbra, bensì come
manifestazione reale di ciò che pensa: ed è in questo senso che egli sarà un
parresiasta.
Il parresiasta esprime la sua opinione, dice
quel che pensa, firma, in qualche modo, la verità che egli stesso enuncia:
si
lega a tale verità; a essa, perciò, si vincola e grazie a essa assume degli
obblighi. […]
Perché
ci sia parresia […] bisogna che il soggetto, esprimendo una verità che coincide
con la sua opinione, con il suo pensiero, con la sua credenza, assuma un certo
rischio:
un rischio che riguarda la relazione con il
suo interlocutore.
Perché
vi sia parresia, bisogna che chi dice la verità apra, introduca e affronti il
rischio di ferire l’altro, di irritarlo, di farlo andare in collera e di
provocare certi suoi comportamenti che possano spingersi fino alla violenza più
estrema.» (M. Foucault, Il coraggio della verità)
Il
“credente” – qui inteso come colui che è tutt’uno con la propria verità – ha il
coraggio di dire la verità, assume il rischio nel dirla di «ferire l’altro, di
irritarlo, di farlo andare in collera».
Nella
sua forma più pura e autentica il credente è il parresiasta, e va ben distinto
dal fanatico.
Quest’ultimo vuole imporre la verità con la
forza: nell’agire così mostra di non credere fino in fondo in ciò che
testimonia.
Solo
chi non crede nel potere della propria verità, verità da incarnare con
l’esempio e con la coerenza tra pensiero e bios, desidera imporla.
L’imposizione
è un segno di debolezza.
Infatti, non è un caso che i parresiasti si
siano sempre schierati contro ogni fanatismo politico e religioso.
Un parresiasta per eccellenza nel mondo antico
è Diogene il cinico, che non teme di dire la verità ai potenti.
La
parresia ha una forte valenza politica, nel senso che l’agire del parresiasta
risponde spesso all’esigenza di vero della città.
Il parresiasta denuncia le ipocrisie del
proprio tempo, soprattutto di chi governa celando gli interessi personali
dietro un falso amore della giustizia.
Certo,
la piena assunzione di una verità si può scontrare con le profondità di un io
che non riesce a comprendersi, che si perde negli abissi della psiche.
Ma
resta comunque la tensione verso l’autenticità, che si manifesta nella volontà
di essere sinceri con sé e con gli altri.
Nell’infosfera
la verità come credenza entra in crisi. In apparenza, l’infosfera è il regno della
parresia, perché si dice tutto e ognuno si sente autorizzato a dire tutto – non
dimentichiamo che l’etimologia del termine parresia è “dire tutto”.
D’altra
parte, il “dire tutto” si risolve in una chiacchiera anonima, e spesso ostile,
dove non si manifesta alcuna reale credenza.
Si
dice tutto e il contrario di tutto, si crede a tutto e a niente.
La credenza diventa l’adesione di un soggetto
anonimo – ad esempio una community o semplici utenti che appongono un like – a
un’opinione.
La
sincerità e la parresia nella sua accezione positiva sono annullate. Non c’è io
che possa difendere o testimoniare la verità.
Nell’infosfera tutti gli io possono avere la
stessa presunzione di “incarnare” il vero, e questo perché gli io sono tutti
disincarnati.
Conclusione.
La
colonizzazione dell’analogico da parte del digitale sta cambiando in modo
radicale la relazione dell’uomo alla verità.
Si
tratta di un mutamento antropologico epocale.
L’uomo
si definisce nel suo rapporto alla verità, nella sua capacità di accoglierla,
di argomentarla e di testimoniarla.
Questi tre atteggiamenti fondamentali sembrano
entrati in una crisi profonda e forse irreversibile.
Viene
da chiedersi se, ben prima dei possibili scenari distopici prospettati dai
transumanisti, la nostra epoca non sia già postumana, troppo postumana.
(Salvatore
Grandone)
ELON
MUSK, “X”, E LA
PITTIMA
PROGRESSISTA.
Inchistronero.it
- Roberto Pecchioli – (25-11-2024) – ci dice:
Pittima
è sinonimo di impiastro, di persona uggiosa, irritante, che si attacca e non ti
lascia più.
Il
termine, di origine veneziana, designava s(oh…) pagati dai creditori per
seguire i debitori, ricordando ossessivamente il debito.
I
progressisti sono le pittime contemporanee e la stucchevole polemica montata
contro Elon Musk e la sua rete sociale, “X”, ne è la dimostrazione evidente.
Poiché
il magnate americano di origine sudafricana è un sostenitore di Trump, le
pittime postmoderne – in particolare quelle del mondo dello spettacolo, gli
influencer senza influenza – hanno dichiarato pubblicamente, con le consuete
smorfie di indignazione e l’espressione da beghine scandalizzate, di
abbandonare “X” chiudendo i rispettivi profili.
In Italia spiccano attori noti soprattutto per
il cognome – Alessandro Gassman– musicisti in crisi di ispirazione – Piero
Pelù, Elio delle Storie Tese – dubbi monumenti della letteratura alla Saviano
oltre ai prezzemolini della politica fucsia, rossa e rosé.
Non
c’è dubbio che verranno imitati dai benpensanti e dalle benpensanti di ogni
ordine e grado.
Musk
se ne farà una ragione.
Buon
pro gli faccia e pazienza se ci viene in mente soltanto lo sprezzante commento
di Palmiro Togliatti affidato all’Unità allorché Elio Vittorini – intellettuale
rosso scarlatto – dichiarò di abbandonare il potente PCI:
Vittorini
se ne è andato, e soli ci ha lasciato.
La questione delle pittime anti-Musk,
tuttavia, merita qualcosa di più di una battuta.
È l’esempio di una mentalità apertamente totalitaria
dei sinistrati.
Non
riusciamo a chiamarli diversamente:
strologano
di democrazia, odiano la libertà.
“Twitter
“censurava contenuti e cacciava iscritti non in linea con il pensiero
politicamente corretto:
nessuno
dei vedovi progressisti ha fiatato.
Poi è
arrivato Musk e “X”, nuova denominazione di Twitter, e la rete sociale dei
cinguettii è tornata libera.
Masticano amaro perché odiano confrontarsi.
L’avversario
– per loro sempre nemico, malvagio, malintenzionato, l’orco o l’uomo nero delle
fiabe (regressione infantile?) – non è degno di un confronto, le sue idee sono
il male assoluto.
Il
manicheismo postmoderno degli Illuminati.
Facebook
ha ammesso, per bocca del suo padrone, “Zuckerberg”, di aver praticato la
censura in tempi di pandemia ma anche prima e dopo.
La
piattaforma del giovanotto con la maglietta grigia d’ordinanza è stata
l’inventrice della censura privatizzata – gran novità dell’ultimo decennio – ma
neanche questo ha convinto l’esercito della salvezza delle pittime a esprimere
dissenso per la libertà violata e il pluralismo negato.
Sono
multiculturali, tolleranti, aperti solo se la musica è gradita alle delicate
orecchie progressiste.
Ora
fuggono da “X”, dove hanno potuto liberamente esprimere critiche, pensieri,
visioni della vita, perché “Elon Musk” non è allineato con il fronte unico del
progresso, l’armata del bene in servizio permanente effettivo il cui simbolo è
la pittima veneziana in uniforme rossa.
Uniforme
è il termine appropriato per descrivere l’orizzonte dei progressisti: nessuna libertà è tollerata, nessuna
deviazione dal pensiero unico, ossia dall’unico pensiero che alberga nei loro
cervelli.
Sono
ammesse esclusivamente tonalità distinte dell’unica nota e sfumature della
tinta unita.
Moralisti,
puritani, ipocriti: la destra di ieri, la sinistra di oggi.
Trasbordo
delle idee e dei difetti.
Non bisogna sottovalutare le pittime: hanno la
forza dell’insistenza, come le mosche.
Vincono
nel modo più semplice, quasi inevitabile, ossia logorandoci.
Sono
prigionieri del presente quanto e più lo sono del passato certi reazionari.
Vanno
denunciati non per imbecillità ma per totalitarismo.
Scrive “Alain De Benoist” che i totalitarismi
si distinguono dalle dittature dal fatto che non pretendono solo di servire il
bene, ma anche di sradicare definitivamente il male.
“Mi
sun ‘na pittima rispettä E nu anâ ‘ngíu a cuntâ Che quandu a vittima l’è ‘n
strassé ghe dö du mæ”-” Fabrizio De Andrè”.
Se un
merito può essere attribuito alle reti sociali è quello di avere dato voce a
tutti, accettando di allargare il dibattito.
Non ha
senso pretendere che abbiano diritto di tribuna solo certe tesi, rinchiudendo
le altre nella censura travestita da supremazia etica.
Non servono a nulla le “camere dell’eco” amate dai
progressisti, dove ciascuno dà ragione a chi la pensa come lui.
La
libertà è collisione, contrasto.
Pòlemos
è padre di tutte le cose, di tutte re, diceva Eraclito.
Vietato:
dobbiamo
tutti dire, fare, pensare allo stesso modo, quello “giusto”, quello che va “nel
senso della storia”.
La
superstizione del progresso elevata a comandamento.
Dunque,
via da “X “perché è libera, perché “Elon Musk “dà voce a tutti ed è quindi un
nemico politico.
Nemico
assoluto, da estirpare: la teoria del partigiano di Carl Schmitt.
Se ragionassero in termini di etica,
dovrebbero ammettere che ben più pericoloso, specie per i giovani, è “Instagram”
con i suoi modelli di vita irraggiungibili, falsi, che generano negli utenti
l’ansia e la tristezza di considerarsi dei perdenti senza speranza.
Non
avranno quella vita, né faranno quei viaggi, né vivranno quegli amori.
Del
magnate trumpiano viene contestata la collocazione politica, non ciò che
davvero inquieta delle sue attività.
Cari
(si fa per dire) Gassman, Pelù e compagnia che chiudete sdegnati i profili su “X”,
nulla da dire – magari utilizzando lo spazio libero della rete sociale – sulla
circostanza che “Musk”, patron di” Neuralink”, vuole inserire nel cervello e
nel corpo microchip e altri apparati artificiali?
Può
servire a ripristinare talune funzioni psicofisiche perdute, ma la cruda realtà
è che qualcuno prende il controllo sul corpo e sul cervello altrui.
Inquietante,
ma regna il silenzio;
si tratta di progresso a prescindere, tanto
più che in quella direzione lavorano altri supermiliardari a voi più vicini,
come “Bill Gates”.
“NOVEL
FOOD”: ECCO COSA DOVREMO MANGIARE SECONDO GLI ECO-MONDIALISTI.
A
proposito, niente da dire sul cibo sintetico, sui grilli e la carne artificiale
(una
contraddizione in termini!) sulla transizione alimentare propugnata, ossia
imposta dal fondatore di Microsoft, gran finanziatore dei democratici americani
e delle ONG miliardarie, il potere privatizzato?
Con il petrolio controlli gli Stati, con il cibo
controlli le popolazioni.
Parola
di Henry Kissinger.
Assordante mutismo sul potere di “Big Pharma”
(Gates e Fink c’entrano, eccome) sulla medicalizzazione dell’esistenza,
sull’influenza immensa di “filantropi” come “George Soros”.
Ma
sono dei vostri, quindi miliardari buoni, animati dalle migliori intenzioni,
perfino in caso di guerra.
Il figlio di Soros, “Alexander,” stella
nascente del “Forum di Davos”, tanto progressista da avere “sposato” un uomo africano,
ha scritto che è una grande notizia l’autorizzazione di Biden all’Ucraina a
usare armi contro il territorio russo.
I progressisti si sono convertiti alla guerra.
Proprio
vero che Giove toglie la ragione a chi vuol rovinare.
Mattarella
visto da “Krancic”.
Adesso
ci sono bombe “buone” e forse satelliti cattivi.
Perché
non contestano a Musk di possedere una rete satellitare (Starlink) che può
decidere le sorti delle guerre, affittata al deep State?
No, il mostro è tale solo in quanto
sostenitore di Trump.
L’indignazione
ha raggiunto il massimo di decibel – in quanto a urla le pittime sono
imbattibili – quando Elon Musk ha attaccato i magistrati italiani sul tema
dell’immigrazione.
Lesa
maestà: chi tocca certi fili resta folgorato.
Nella
circostanza, il massimo dell’umorismo involontario è stato raggiunto dal
Quirinale, che ha parlato – senza nominare il magnate – di attacco alla
sovranità nazionale.
Come
se non fossimo una colonia dal 1943.
Anche in ciò destra e sinistra pari sono,
giacché “Donna Giorgia “applaude le ultime decisioni Usa (ci sono anche le mine
antiuomo, nel pacchetto ucraino) e destina alle armi più risorse di quelle
concesse ai pensionati.
Perché,
o pittime, non parlate di queste cose su “X”, liberamente, rinfacciando a Musk
la deriva transumana di certe sue attività?
Nell’era post-democratica abbondano le idee
vietate e i pochi spazi liberi vengono abbandonati.
Eppure,
un’idea vietata ha bisogno di coraggio, non di pittime che eccellono nella
lagna, nel conformismo e nell’ insopportabile moralismo invertito dei tempi
nostri.
Elon
Musk è tutt’altro che un modello, ma attaccare “X”, che ha restituito libertà
al panorama asfittico delle piattaforme social, significa confondere il
bersaglio.
Durante
le elezioni “X” ha battuto i record di traffico.
Con
buona pace dell’esercito del progresso, mette alla pari i conti (account) di
re, presidenti e comuni cittadini.
Ha il sistema di verifica dei fatti più
efficiente e onesto:
le note della sua comunità.
Quando”
X” era Twitter, la sinistra aveva il controllo, condizionava, bandiva e
sospendeva chi contravveniva i criteri del pensiero unico.
Da
quando Musk l’ha acquistata, ha ridotto i sistemi di censura;
di
conseguenza è la rete più libera e tollerante in cui la circolazione
dell’informazione ha immediatezza e diversità.
La
narrazione consiste ora nello sfuggire alle grinfie del mostro.
Dalle
stelle di Hollywood in giù è partita la futile gara di piagnucolare per quanto
si sentono frustrati o minacciati.
Eppure,
a differenza di Twitter, Musk non ha censurato alcun resoconto, né dei media né
delle persone.
Sono
liberi di dire quello che vogliono; di che si lamentano?
Del
fatto che sia consentita la discussione per smantellare le loro bugie.
Si crucciano perché Musk non li lascia giocare
da soli con carte truccate.
L’unica opinione ammessa è la loro: singolari
democratici.
“Bluesky”,
truffe di criptovaluta dopo il boom di utenti.
Molti
stanno migrando a Bluesky, creata dal fondatore di Twitter Jack Dorsey, altri a
Threads (Meta).
Gli
orfanelli del pensiero unico non sopportano la realtà, i dati, il dibattito
aperto, le informazioni che contraddicono le loro convinzioni.
Vogliono
spazi isolati “sicuri”, camere di risonanza a censura aperta, in modo che
studenti, lettori, elettori si aggrappino a un’unica opzione politica e
culturale. Soliloquio in coro.
Non hanno scrupoli ad ingannare le menti
deboli o confuse e tenere prigioniero un pubblico acritico, incapace di
obiezioni.
Sono
persuasi che chi non la pensa come loro non debba avere accesso alla bolla di
cui pretendono l’esclusiva.
Usano l’esplosione emotiva, lo scatto d’ira minaccioso
come arma di ricatto.
Si filmano mentre urlano, piangono e
scalciano, poi lo caricano in rete senza vergognarsi di mostrare le loro
miserie, convinti che li renda autentici.
Non sanno distinguere la sfera personale da
quella politica, né il dramma vero da una sconfitta elettorale.
Uno
dei fuggiaschi da” X” afferma che la rete di Elon Musk è diventata una cloaca.
Ma sono loro, gli insopportabili del progressismo indiscutibile, non
criticabile, le voci della fogna, le pittime lagnose messe a nudo dall’aria
fresca del pensiero libero.
(Roberto
PECCHIOLI)
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