“LA SPERANZA E’ NECESSARIA PER VIVERE.”

 

“LA SPERANZA E’ NECESSARIA PER 

VIVERE.”

 

Addio auto elettrica: schiaffo a Davos  e ai Re del Covid.

Libreidee.org- Nicola Bizzi- (19/11/2021)- ci dice:

 

Se a Trieste contro i portuali sono bastati gli idranti, a Rotterdam la polizia ora s’è messa a sparare sui manifestanti.

Contrari all’adozione dell’ennesimo lockdown in arrivo, gli olandesi contestano il fallimento delle politiche Covid: l’83% della popolazione, nei Paesi Bassi, ha ricevuto ben due dosi – inutili, evidentemente – del siero genico sperimentale che i media chiamano ancora “vaccino”.

L’ultimo colpo di coda delle politiche “carcerarie” inaugurate nel 2020 col pretesto della sicurezza sanitaria – vedasi anche il caso dell’Austria, pronta a tornare a chiudere tutti in casa (contro il parere della stessa polizia austriaca) – avrebbe un preciso fondamento politico, reso evidente da un indizio: il tramonto dell’auto elettrica.

Tradotto: la sbandierata emergenza climatica – concepita come “secondo step” dell’emergenza generale permanente – non starebbe funzionando, come spauracchio.

 Di qui il ricorso ai “tempi supplementari” della crisi-1, quella tuttora presentata come “pandemica”.

Crisi sanitaria ormai palesemente smascherata: finiscono all’ospedale solo i pazienti che non vengono curati tempestivamente, a casa. E i “vaccini genici” – in Italia imposti con il ricatto, dal governo Draghi – non fornirebbero nessuna particolare protezione, oltre a non limitare affatto la circolazione del presunto virus.                             Comunque, secondo Nicola Bizzi, siamo vicini alle battute finali della tragica commedia inaugurata quasi due anni fa: l’incubo – più politico che sanitario – sarebbe destinato a terminare, non appena l’Ema dovesse finalmente approvare l’adozione dei nuovi farmaci (operazione che, a quanto pare, vedrebbe la Francia in pole position).

 Ipotesi e riflessioni offerte da Bizzi e da Matt Martini nella trasmissione “L’Orizzonte degli Eventi”, con Tom Bosco e un ospite come Davide Rossi, autore di un esplosivo pamphet sul ruolo della Fabian Society nella sovra-gestione delle recenti politiche emergenziali.

E’ Matt Martini a porre l’accento sul freschissimo fallimento, a Glashow, della conferenza Cop26 sul clima: nessun impegno vincolante, per i prossimi anni, grazie all’opposizione di paesi come Cina, India e Russia, indisponibili a recitare il copione “gretino” che punta il dito contro il riscaldamento, anziché sull’inquinamento, e in più imputa il “climate change” all’azione dell’uomo.                                                                                                                                          Non solo: in assenza di vere innovazioni tecnologiche, Volskwagen e Stellantis – questa la grande novità – rinunciano ufficialmente alla riconversione elettrica dell’automotive, vera e propria bandiera della “rivoluzione green” progettata dall’élite finanziaria che sogna la digitalizzazione totale del pianeta e il controllo definitivo su ogni aspetto della vita umana.                                                                                                                          Tra l’altro, l’adozione forzata dell’auto elettrica – rileva Martini – avrebbe posto fine al diritto alla mobilità, salvo che per i ricchi, dato l’altissimo costo dei veicoli elettrici.

Un vero e proprio bluff ecologico? Sono in molti, ormai, a sostenerlo: l’impatto ambientale di un veicolo elettrico (la produzione dell’energia necessaria a farlo muovere, senza contare la realizzazione e poi lo smaltimento delle batterie) sarebbe superiore a quello comportato dal tradizionale motore termico.

 Lo stesso Martini ricorda le posizioni assunte fin da subito da Toyota, contraria alla “rivoluzione” elettrica: costi immensi, senza una reale contropartita ambientale (se non per i grandi centri urbani: ma a che prezzo?). A ruota, è stata la Renault a chiarire che i costi dell’auto elettrica sarebbero stati letteralmente proibitivi: una vettura media sarebbe costata il doppio di un’auto tradizionale.                                                                   

Ora, la pietra tombale: i grandi costruttori europei (tedeschi, francesi e italiani) sembrano archiviare definitivamente l’auto elettrica, anche se l’Ue sperava di renderla pressoché obbligatoria entro il 2030.

 Per il cartello di Davos – osserva Martini – è la prima, storica sconfitta. E forse è anche per questo che, oggi, le pedine di quel club tornano a premere l’acceleratore sulla “dittatura sanitaria”.    

 

 

Meluzzi: accelerano, temono

che la strage diventi vistosa.

Librteidee.org-Alessandro Meluzzi -(19-11-2021

Personaggi come Umberto Galimberti e Giuliano Cazzola criminalizzano e patologizzano il dissenso, come ai tempi della psichiatria di Stato introdotta da Stalin?                                                                                                                                                          Credo che ci sia una grande strumentalità, e una serie di vantaggi sociali ed economici che derivano da questa parte in commedia, questa commedia tragicomica e grottesca alla quale siamo sottoposti tutti i giorni dai media mainstream.

 E credo ci sia anche un atteggiamento screziato di paranoia, a fronte di una patologia che ha una letalità bassissima. Però ricordo, a questi vecchi malvissuti, che chi pensa di poter sacrificare la libertà alla sicurezza, alla fine, non avrà né l’una né l’altra. Non avrà la sicurezza (non avrà “l’immortalità”), mentre alla libertà ha già rinunciato da tempo. E, avendo rinunciato alla libertà, ha rinunciato anche alla dignità, al poter andare con la propria faccia di fronte ad uno specchio al mattino (e di fronte al Tribunale della Storia, in tempi – ritengo – medio-brevi).

“Wired”, mi segnalano, scriveva di come si possono “combattere razzismo e xenofobia con la scienza”. E l’“Huffington Post” citava una ricerca sulla “stimolazione cerebrale non invasiva” per correggere “pregiudizi e stereotipi sociali”. Zombizzare le masse, all’interno di una società apparentemente utopistica ma in realtà distopica?

 

Una società pacificata, dove però le persone devono essere svuotate, sradicate, livellate? Io credo che Huxley, nel “Nuovo mondo”, nella divisione degli esseri umani tra alfa, beta, gamma, delta (ed epsilon, a cui è riservata solo la droga del “soma”, dell’appiattimento e dell’oblio), ancora più che in “1984” di Orwell, ci renda ragione di questo incubo collettivo. Un incubo che muove, fondamentalmente, da due motivazioni: il controllo di un’élite ristretta sulla maggioranza delle persone, e la spersonalizzazione degli individui (o addirittura la loro “de-personazione”) per farne dei robot controllati, dei dati algoritmici prevedibili.

In altre parole, l’obiettivo è eliminare quella libertà che caratterizza l’umano: come se ci fosse una presenza demoniaca che viene da un altrove, e che fa della specie umana una “variabile impazzita” della natura e del Creatore, che dev’essere cancellata e sostituita con un soggetto totalmente eterodiretto da una legge eterologa e da una  “eterotopia” che, appunto, Huxley ha descritto perfettamente, e che purtroppo sta entrando tragicamente fra noi; prima, attraverso forme di condizionamento legate alla “dittatura del politically correct”, poi attraverso tecnologie telematiche che non controllavano il gene, ma il “meme” della cultura (quindi lo smartphone, la dipendenza dalla HuxleyRete), e poi, alla fine, non più solo il “meme” della cultura, ma il gene del Dna, che dev’essere modificato eliminando la libertà dell’umano, riducendoci ad automi.

Questo è lo scenario che qualcuno ha consapevolmente concepito. Che gli riesca fino in fondo non è detto, perché esiste l’eterogenesi dei fini. E quindi, nonostante la pervasività di questo disegno, la sua efficacia e la sua efficienza, nonostante la sua spietatezza e la sua anti-umanità, nonostante il suo orrore, questa situazione ha prodotto dei livelli di elevata coscienza in una quantità di persone, su scala planetaria, come forse non mai.

E’ questa, la “variabile impazzita” della questione. E quindi, quel Tribunale della Storia potrebbe innescarsi anche di fronte a una variabile – impazzita e relativamente prevedibile: cioè il fatto che queste misure, anche le terapie immunologiche, producano effetti letteralmente devastanti, sulla salute delle masse. Tanto da arrivare poi a un passaparola (media o non media, controinformazione o meno, Rete o non Rete, coscienza nei media o non-coscienza nei media).

Se in ogni pianerottolo, in ogni famiglia, in ogni parentado, in ogni circolo di amici c’è qualcuno che ci lascia le penne, avendo pensato di conquistare l’immortalità, questo potrebbe produrre un contraccolpo dagli effetti imprevedibili. Su questo – io temo, tragicamente – si giocherà la partita. Siccome però la riduzione della popolazione generale (soprattutto l’eliminazione della fertilità, partendo dai bambini), secondo la Fondazione Bill & Melinda Gates è una delle finalità generali di questo orrendo disegno, io credo che – se non si sbrigano – le grandi masse umane potrebbero accorgersene: è per questo che accelerano.

Loro – ricordiamolo – hanno alcune finalità generali. Per esempio, la riduzione demografica: quindi una diminuzione della popolazione, partendo dai più giovani, anche attraverso progressive campagne di sterilizzazione. Lo diceva Bill Gates dieci anni fa: soltanto con una grande campagna vaccinale avremmo potuto abbassare l’incremento demografico.

In secondo luogo, hanno bisogno di un controllo algoritmico delle masse: quindi deve essere azzerata quella libertà dell’essere umano, che lo rende “simile a Dio”. Diceva Jacques Maritain: «Il Dio dei cristiani è stato così pazzo da voler essere amato da uomini come lui». E’ l’uomo che ha combinato sempre la dimensione dell’amore e del filantropismo. Bene: vogliono ridurci a una dimensione di consumi prevedibili, controllati, eterodiretti e “datizzati”. Per il momento, questo lo si fa con gli strumenti disponibili. Ma l’obiettivo finale – a detta dello stesso Bill Gates – è quello dell’innesto di un microchip transumano (o post-umano) per ridurre gli uomini a dei robot, possibilmente non-riproducentisi, non inquinanti, non autonomi, non-autogovernantisi, non imprevedibili. Questo pianeta, ridotto a una sorta di orrendo film di fantascienza, è lo scenario che si sta preparando (a detta degli stessi documenti di coloro che lo stanno attuando).

A non vederlo è soltanto la cecità di non vuole vedere, o di chi pensa che tutto questo abbia un contenuto filantropico, “verde”, come nel caso della follia dell’elettrificazione dell’automotive. Per caricare una batteria al litio, e poi smaltirla, si deve consumare molto più ossigeno, e liberare molta più anidride carbonica (e sostanze inquinanti) di quanto non accada con un motore diesel. Siamo quindi nella menzogna delle menzogne, laddove altre tecnologie veramente autonome – come l’idrogeno – vengono dilazionate e represse.

 Il problema fondamentale è il controllo, da parte di questa Cabala planetaria che, nella politica recente degli Usa – con l’efficienza del Deep State governato dalla setta “dem” – ha abbattuto Trump, che (con tutti i suoi difetti) aveva cercato di contrastare un disegno geopolitico nel quale tutta la manifattura dev’essere demandata alla Cina, e l’immensa plusvalenza prodotta dalla manifattura in Cina dev’essere investita in debito militare americano.

Questa doveva essere la divisione del lavoro, per il club dei Clinton e per gente che, come Obama, ha avuto il Nobel per la Pace scaricando poi nel mondo la maggior quantità di bombe dai tempi della Seconda Guerra Mondiale. Però le classi progressiste europee credono a queste balle: credono che Trump fosse cattivo, che Obama fosse buono, che lo “scorreggione” Biden (un fantoccio) e Kamala Harris fossero l’immagine del politically correct.

L’unica speranza geopolitica che oggi abbiamo è che i repubblicani vincano le elezioni di mid-term e che Obama e Biden possa fare lo speaker del Congresso al posto di quella strega abortista di Nancy Pelosi. Questo potrebbe creare qualche problema anche all’élite di casa nostra. Altrimenti, saremo schiacciati come scarafaggi.

Questi equilibri si giocano a livelli che, purtroppo, non sono né quelli dell’Italia, né quelli dell’Europa. Sul “lockdown per i non vaccinati”, il governo frenerà finché lo riterrà conveniente. Io credo che di qui alla primavera, cioè alle elezioni americane del mid-term, vedremo forme di repressione inimmaginabili. Credo che non si fermeranno soltanto al “lockdown per i non vaccinati”: il loro sogno è quello delle retate nelle case per riempire i capannoni per l’isolamento che hanno preparato, in Italia come in Australia. Quello, probabilmente, sarà il momento della latitanza. Come difendersi dalla tirannide? Io ho il pessimismo della ragione, ma anche – gramscianamente – l’ottimismo della volontà. Quindi ritengo che la battaglia vada fatta, fino alla fine, e penso che ci sia anche l’eterogenesi dei fini, e quindi nessuno può prevederne gli esiti: la partita va giocata fino in fondo, senza paura e con grande determinazione.

La durezza della mia analisi è quella che faceva dire, ai classici romani, “si vis pacem, para bellum”. Se vuoi la pace preparati alla guerra, sapendo che sarà la più sanguinaria che ci sia mai stata. E lo scenario è feroce: di fronte a questo tipo di situazione bisogna essere allertati, predisposti e preparati.

Ma i momenti feroci non sono mai mancati, nella storia. Credo che lo stesso grado di consapevolezza delle masse attuali ce l’avesse un ragazzo calabrese di vent’anni, trascinato nelle trincee dell’Isonzo nell’inverno del 1916. Credo che questa consapevolezza ce l’avessero coloro che subivano i bombardamenti nelle città italiane nel 1943-44. Penso che tutte le epoche abbiano avuto le loro Hiroshima, le loro Nagasaki, i loro Gulag, i loro campi di concentramento, i loro Buchenwald. La storia è sempre foriera di una dimensione che ha anche un aspetto tragico essenziale: e oggi, la tragedia si ammanta di salute, di buonsenso, di ecologismo, di protezione dalla malattia degli altri, di solidarismo.

Basta leggere le bestialità dette dall’“antipapa” Bergoglio, o da tanti altri che dovrebbero animare le agenzie della buona volontà, e invece rivelano questa visione veramente luciferina, nella sua finzione: un’esibizione di pubbliche virtù di fronte a orrendi vizi privati, nel quadro di un orrendo disegno di base.

Ciò detto, credo che le misure di autodifesa debbano essere la coscienza, la consapevolezza, il coraggio; la capacità di fare gruppo, di fare comunità, di avere relazioni protettive, affettive, di autenticità. E la capacità di amore, anche verso i propri nemici. Ho chiamato “vecchio malvissuto” il mio collega Galimberti. Ma, se proviamo a calarci empaticamente nei suoi panni, nelle sue fragilità, nella sua auto-valutazione, nella stima che ha di sé, nella paura per le sue condizioni (di vita e di carriera), allora comprendiamo anche perché dice le mostruosità che dice.

Non significa giustificarle, sia chiaro. Ma provare a guardare il mondo con gli occhi dell’altro, anche del proprio nemico, si chiama empatia. E per i cristiani diventa il grido di Gesù: «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno». E molti dei nostri persecutori – davvero – non sanno quello che fanno. Pensiamo anche che c’è un grande disegno, che gli orientali chiamano Dharma. E c’è una parola che Jung chiama “sincronicità”: è l’idea che, tra le cose che accadono, vi siano nessi che non sono né casuali né causali; misteriosamente, molte cose si collegano tra di loro in un disegno, generale e contemporaneamente personale, che i cristiani chiamano Provvidenza. Manzoni la descrive magistralmente, nella peste di Milano e nella narrazione dell’untore, parlando della Colonna Infame: esiste un grande disegno corale, che include anche gli altri, nel quale le nostre singole vite sono inserite: con un libero arbitrio, al quale non possiamo rinunciare mai, che ci fare dire “sì” o “no”, a qualsiasi cosa.

Noi abbiamo detto “no” a molte cose, a cui altri hanno detto “sì”. Non è un caso che siamo stati noi, a dirlo. Lo dico forse con un eccesso di provvidenzialismo giudaico-cristiano: ma forse chi ha detto “no” l’ha fatto perché è stato scelto, per farlo. Probabilmente, è stato scelto per testimoniare qualcosa che si rivelerà nella sua compiutezza solo quando questa pagina tragica e orribile della storia si sarà conclusa, cioè quando finalmente avremo capito per quale ragione – faticosamente, anche al prezzo della vita – abbiamo presidiato questa luce, nei confronti di un buio diabolico montante. Direi a tutti di formare un’eggregora di pensiero: quando le menti, le coscienze, le anime vibrano all’unisono, si mettono in connessione con i “cori angelici”, quelli che Dionigi l’Aeropagita, Dante, Tommaso d’Acquino o Papa Gregorio hanno descritto (il canto delle sfere celesti). E quindi ci mettono dentro una grande prospettiva di unione, di comunità, di forza, di speranza, di fede, e anche di amore.

Il diavolo, invece (dal greco “diabàllo”, dividere, che è il contrario di “sünbàllo”, mettere insieme) è colui che divide, che ci vuole isolati. Vuole dividere le persone dalle persone, l’uomo dalla donna, il maschio dalla femmina, il fratello dal fratello, il padre dal figlio e il figlio dal padre, le comunità dalle comunità, le nazioni dalle nazioni. L’idea di dividere è, paradossalmente, l’obiettivo fondamentale della globalizzazione: sembra fatta per unire, e invece è realizzata come con l’idea del costruttore della Torre di Babele.

Io credo che la globalizzazione sarà schiacciata dalla confusione delle lingue: alla fine, il caos travolgerà chi pensava di poter ridurre tutto a un algoritmo governato da un computer. Il nostro principale alleato, in questo momento, è il caos creativo della realtà, insieme all’irriducibilità e all’imprevedibilità delle cose umane. Ed è questo caos creativo e libero, che noi dobbiamo cavalcare.

Nella Sacra Scrittura, questo caos è la pagina opposta a quella della Torre di Babele: la Pentecoste. Dopo esser stati terrorizzati dalla morte del loro maestro, dopo averne visto la resurrezione (ma senza averla capita), gli apostoli escono dal cenacolo e, illuminati dallo Spirito Santo, parlano, capendosi perfettamente, pur provenendo da ogni angolo del Medio Oriente. Per poter difendere la libertà bisogna essere pronti anche ad “abbracciare la croce”: soltanto chi accetterà di testimoniare fino in fondo sarà salvato. Come dice il Libro dell’Apocalisse: si salverà soltanto chi non accetterà il “segno della Bestia” (il 666 messo sottopelle, senza il quale non si potrà né comprare né vendere, che poi è esattamente quello che oggi ci stanno imponendo). Ma ripeto: il pessimismo realistico che esprimo è il modo per essere ottimisti.

Hobbes, che parla del Leviatano e dell’“homo homini lupus” (e che quindi sembra un pensatore feroce, nei confronti della natura umana) è il padre – nella filosofia politica – di tutti i pensieri liberali. Rousseau, che è un ottimista nei confronti della natura dell’uomo, è il generatore di tutti i modelli giacobini e totalitari della storia. Quindi, essere pessimisti sugli esiti della contingenza che si sta attraversando, probabilmente, è il modo migliore per essere più umani. Essere stupidamente ottimisti, come tanti imbecilli che popolano il mainstream, è il segno invece di una ferocia che può diventare pericolosissima, per sé e per gli altri. E quindi, con questo “sentimento tragico della vita”, come avrebbe detto Miguel de Una Muno, dobbiamo accettare la sfida: chi, come noi, ha raggiunto questo livello di consapevolezza, deve testimoniarla per poi donarla, con amore, agli altri. A qualunque prezzo, a qualsiasi costo.

(Alessandro Meluzzi, dichiarazioni rilasciate il 18 novembre 2021 nella trasmissione “Politicamente Scorretto”, con Enrica Perucchietti, Gianluca Lamberti e Adrian Fiorelli, sul canale YouTube “Facciamo finta che”. Il professor Meluzzi è stato sospeso dall’esercizio della professione medica, come altri 250 sanitari di Torino, per essersi rifiutato di ricevere il siero genico sperimentale imposto come profilassi anti-Covid. Nella trasmissione è stato citato anche il valoroso dottor Riccardo Szumski, sindaco di Santa Lucia di Piave, appena radiato dall’Ordine dei Medici di Treviso per l’ostinazione dimostrata nel voler curare regolarmente da casa, e con pieno successo, i pazienti affetti da Covid).

  

 

 

“Mi sono appena laureata

 in un’università inglese: sono tutte guaste”

visionetv.it-Ramsha Afridi-(20-11-2021)- cidice:

L’istruzione superiore nel Regno Unito non si orienta più verso l’apertura mentale dello studente, ma verso l’indottrinamento e il rispetto delle ideologie che schiacciano lo sviluppo intellettuale e il dibattito.  Ecco perché diciamo che ha bisogno di una scossa, disperatamente.

 

Quando in questo senso si è parlato dell’Università di Austin, il mio primo pensiero è stato che il Regno Unito dovesse seguire l’esempio dell’America e lanciare la propria iniziativa contro il “risveglio” ( il movimento “woke”).

La nuova istituzione texana, dedicata alla ricerca della verità e della libertà di indagine, è stata lanciata dal presidente fondatore Pano Kanelos, insieme ai docenti Ayaan Hirisi Ali, Bari Weiss e Kathleen Stock.  Questo è esattamente ciò di cui abbiamo bisogno in Gran Bretagna.  

Lo so perché ho il dubbio onore di essere una neolaureata delle università britanniche, quindi so quanto si trovino in condizioni disperate.  Quando ho iniziato l’università credevo ingenuamente che il tempo speso lì mi avrebbe lasciato con una nuova prospettiva sul mondo;  quanto mi sbagliavo.  Quello che in effetti ho trovato, invece, è stata una cultura accademica che si preoccupava di tutto tranne che di trovare la verità.

Ho conseguito una laurea in relazioni internazionali e una laurea specialistica in giornalismo in due diverse università britanniche.  Durante la mia permanenza nel mondo accademico, ho assistito a un sistema guasto che prevedeva l’intimidazione degli anticonformisti, la discriminazione razziale mascherata da “quote di diversità” e la minaccia sempre imminente di censura per aver sostenuto il “pensiero sbagliato”.

Era evidente per me che la libertà accademica stava cessando di esistere.  In effetti, da studente, ho spesso temuto di esprimere le mie opinioni, visto che, come mi è stato detto una volta durante una lezione, il “pensiero corretto” è quello che conta, non la ricerca della verità. Fu allora che iniziò sul serio la mia disillusione nei confronti del mondo accademico.

Gli accademici e gli studenti britannici devono reagire se vogliono vedere un cambiamento culturale, e lo dico da ex studentessa che ha assistito in prima persona alle condizioni di questo sistema.  Ecco perché è fondamentale costruire un quadro legislativo forte per proteggere la libertà accademica dagli eccessi della sinistra culturale.

Accademici britannici come Kathleen Stock sono stati cacciati dal lavoro per una visione politicamente scorretta o semplicemente per aver affermato fatti biologicamente inattaccabili. Questa ossessione per il “controllo emotivo” ha da tempo preso il sopravvento nelle nostre istituzioni educative, limitando la possibilità del dissenso.

Ciò non sorprende, considerando che le nostre università stanno cercando di imporre contemporaneamente rigore accademico e inclusività;  due valori incompatibili.  Durante gli studi ho visto questi valori scontrarsi tragicamente all’università.  Durante un seminario ho visto degli studenti lavorare su un progetto, sostenendo che “il genere era un costrutto sociale”, mentre un altro ha negato che la biologia fosse un fattore nel determinare il genere. 

Entrambe ideologie marginali e progressiste (almeno, ovunque al di fuori di un’università).  Credevo che questa visione fosse palesemente assurda, ma mi sono ritrovata a mettere a tacere i miei principi per assecondare una minoranza militante di studenti che venivano visti come illuminati dal risveglio della nuova era.  All’epoca, mi chiedevo se altri studenti si sentissero allo stesso modo, purtroppo spinti alla stessa sottomissione.  Sul momento, L’ho liquidato come un incidente banale e isolato, mentre invece era solo l’inizio di una situazione che sarebbe solo peggiorata.  Più tardi, durante l’apice delle proteste del BLM, ho visto un certo numero di studenti preparare una petizione sulla necessità di assumere accademici provenienti da ambienti più “diversi”, nonostante la loro esperienza accademica o addirittura competenza, sostenendo che il mondo accademico era “troppo bianco”.

 

Alla fine, sostenevano “quote di diversità” imposte che, ironia della sorte, discriminavano i docenti a causa della loro razza.  Merito o talento non erano requisiti in questa visione del mondo, anzi sembravano quasi fossero ostacoli da superare in nome di questo attivismo autoritario.  L’ortodossia della sinistra liberale (Dem USA)era il paradigma ideologico dominante all’università e il pensiero eterodosso sarebbe stato accolto con immensa ostilità.  Garantire la conformità ideologica era la preoccupazione principale di queste istituzioni e ho capito molto rapidamente che per sopravvivere alla “cancellazione” e completare la mia istruzione, avrei dovuto censurare le mie convinzioni personali e politiche nel campus.

 I dati rivelano che l’autocensura è un fenomeno sempre più comune per molti studenti anticonformisti.  Un sondaggio di Survation per conto di ADF International, un’organizzazione di difesa legale basata sulla fede, ha rilevato che più di un quarto degli studenti si “autocensura” perché questi  temono che le loro opinioni si scontreranno con i valori  dei cosiddetti “risvegliati”, invece promossi dalla loro università.

Da studentessa, mi sono resa conto che il mondo accademico premiava la correttezza politica e non offriva spazio al pensiero critico. 

Ciò che è diventato ancora più chiaro è che le nostre istituzioni educative non erano più un luogo per pionieri che avevano nuove prospettive da offrire.  Ancora più deprimente, ho assistito a poco o nessun respingimento contro questa cultura totalitaria.  In effetti, è diventata una routine vedere persone accusate di essere “dannose”, “offensive” e persino “pericolose” per le loro opinioni.  Questo è il motivo per cui abbiamo bisogno di azioni per difendere i diritti di libertà di parola e la diversità di opinione.  Il lancio di nuove iniziative educative è un primo passo cruciale verso la correzione di questo sistema in frantumi, che sembra solo peggiorare.  Potrebbe anche spiegare perché le università del Regno Unito “affrontano una crisi per la perdita della fiducia della nazione”, secondo un documento pubblicato da Policy Exchange, un think tank di centrodestra.

Ciò che accade nell’istruzione, si diffonde in tutta la società.  Idee e credenze istituzionalizzate dalle università possono rapidamente farsi strada nel mondo di tutti i giorni, basta guardare quante persone hanno sentito parlare della teoria critica della razza ora rispetto a due anni fa.  Ecco perché è più importante che mai avere un serio incentivo nel cambiare l’istruzione superiore.

Quando ho finito i miei studi, non avevo imparato nulla di nuovo;  in effetti la mia esperienza somigliava più all’aver frequentato una fabbrica dell’indottrinamento, che serviva solo come estensione di una forza lavoro aziendale, e alla fine sputava un diploma come conferma della tua conformità al sistema.

La sovversione delle università ha portato a una visione del mondo basata sulla cultura del risentimento e sull’ideologia di sinistra (Dem Usa) che mira a indottrinare le persone al vittimismo, piuttosto che insegnare loro come pensare in modo indipendente.

La Gran Bretagna, più che mai, ha bisogno di una propria iniziativa educativa, dedicata alla libertà accademica e al rigoroso discorso intellettuale, per tutti coloro che sono stanchi e delusi da questo clima tossico (dem USA).

( Ramsha Afridi – traduzione di Martina Giuntoli ).  

 

 

 

 

 

 

 

FDA: per sapere la verità su Pfizer  bisogna aspettare il 2076.

Visionetv.it-Andrea Sartori-(19-11-2021)- ci dice:

 

“A pensar male si fa peccato, ma spesso ci si prende”. Questa la massima del divo Giulio Andreotti, e questa notizia fa proprio pensare male. La Food and Drugs Administration chiede di mantenere segreti i dati sul vaccino Pfizer fino al 2076.

Ohibò, se questi vaccini sono tanto sicuri, perché aspettare mezzo secolo per rendere pubblico tutto quello che sta accadendo? Forse perché qualcosina alla fine non torna?

La FDA ha ripetutamente promesso la massima trasparenza per quanto riguarda i vaccini per il COVID 19, addirittura promettendo un comitato di trasparenza per quanto riguarda i vaccini. Bene, proprio per via di queste promesse, ad agosto più di una trentina tra accademici, scienziati e professoroni delle più prestigiose università americane hanno richiesto tutte le informazioni riguardo il vaccino.

La risposta della FDA? Scena muta. Allora è stata persino intentata una causa da parte della “Public Health and Medical Professionals for Transparency” contro la FDA per richiedere le informazioni. Questo è accaduto nel mese di settembre. Da allora non si è avuta comunque alcuna notizia.

La FDA, invece, ha chiesto ad un giudice federale di poter aver tempo sino al 2076 per rilasciare tutte le informazioni sul vaccino Pfizer. La giustificazione è risibile: i dati sul vaccino, stando alla FDA, riempirebbero più di 329.000 pagine, e loro ne potrebbero produrre solo cinquecento al mese. Quindi il lavoro dovrebbe finire tra… cinquantacinque anni!

La FDA si giustifica poi dicendo che le 500 pagine al mese sono “coerenti con i programmi di elaborazione presenti nei tribunali di tutto il Paese nei casi contemplati dal Freedom of Information Act” e quindi se la prende coi querelanti per la richiesta giudicata pesante.

Una richiesta che invece pare assolutamente giustificata, trattandosi di farmaci e, come ben sa chi ha studiato il greco, “pharmakon” significa sia “veleno” che “medicina” perché il confine tra le due cose è estremamente labile. Il fatto che la FDA intenda rilasciare i documenti solo in una data così lontana, rende l’urgenza di sapere ancora più stringente.

Il caso Pfizergate sollevata dal British Medical Journal riguardo la falsificazione dei dati del vaccino rende la cosa ancora più sospetta. Talmente sospetta da dare una certezza quasi assoluta che questi signori hanno davvero qualcosa da nascondere. Il grosso guaio è che si va ad intaccare un giro d’affari talmente grosso, che arriva anche a toccare i nostri propagandisti televisivi del vaccino, che bisogna quantomeno prendere tempo, visto che il bubbone oramai è esploso.

Ai liberisti che sostenevano che la famosa “mano invisibile” avrebbe aggiustato tutto nel lungo periodo Lord John Maynard Keynes rispondeva ironicamente “nel lungo periodo siamo tutti morti”.

Passando dall’economia alla medicina, questa sembra la strategia della FDA: aspettare il lungo periodo, e che quindi siano tutti morti, per rilasciare quei dati che provano che non tutto sta andando per il verso giusto.

Sherlockianamente ci permettiamo di osservare come due indizi facciano una prova, e che lo scandalo Pfizergate sollevato dal British Medical Journal accoppiato alla FDA che non intende rilasciare i dati sino al 2076, facendo come Bertoldo che prese tempo con la scusa di scegliere lui l’albero sul quale farsi impiccare, ci mostra come qualcosa effettivamente non vada in tutta questa narrazione.

Così come, aggiungiamo, incolpare i no vax quando sono i Paesi più vaccinati al mondo quelli maggiormente colpiti dalle famose quarte ondate rende tutto più macchiettistico. Il re è nudo, ma non si vuole ammetterlo. Troppi affari e troppi equilibri di potere cadrebbero come castelli di carte. E questa caduta è solo rimandata. (ANDREA SARTORI).

 

 

 

 

 

Col “trattato del Quirinale”

la Francia  vuole conquistare l’Italia.

Visionetv.it- Arnaldo Vitangeli- ( 18-11-2021)- ci dice:

 

I trattati internazionali sono da sempre uno degli strumenti principali per ingabbiare la volontà popolare e imporre decisioni calate dall’alto ed immodificabili neppure tramite referendum.

Il Trattato di Maastricht è l’esempio più chiaro di come accordi fatti in ristrette conventicole, senza che il popolo sia informato in modo trasparente e possa esprimere o negare il proprio consenso, condizionano il destino del Paese nei decenni e rappresentano un limite fortissimo alla sovranità nazionale.

Anche il Trattato del Quirinale, come quello di Maastricht, è stato salutato dalla stampa come un grande successo e una straordinaria opportunità per “contare di più” in Europa, ma ciò che realmente prevede l’accordo, che dovrebbe essere firmato prossimamente, non è dato saperlo.

Sul contenuto dell’accordo c’è sempre stato uno stretto riserbo, solo recentemente sono circolate alcune bozze e a quanto pare c’è da preoccuparsi e già arrivano, da parte di illustri personaggi dell’establishment, allarmi e appelli a non firmare il trattato, che dovrebbe essere ratificato prima della fine dell’anno.

Francesco Forte, ex ministro delle Finanze e per il Coordinamento delle politiche comunitarie, sottolinea in una sua intervista su “il Sussidiario” come il trattato sia sbilanciato verso gli interessi francesi su cruciali questioni economiche e finanziarie. Forte fa notare come la Francia abbia “un’economia instabile e una finanza che sfrutta il risparmio italiano e lo usa per pagare i propri debiti”e afferma senza mezzi termini che “rapporti più stringenti tra Roma e Parigi possono crearci problemi dal punto di vista bancario, petrolifero e tecnologico”.

Insomma i francesi che hanno già fatto acquisti a man bassa tra i maggiori asset industriali e bancari italiani riuscendo, grazie a un diverso livello di golden share, a impedire il contrario, puntano a ulteriori acquisizioni.

A solleticare l’appetito dei “cugini d’oltralpe” è in particolar modo il settore tecnologico, che in l’Italia è notevolmente più sviluppato che in Francia, e il Trattato del Quirinale renderebbe ancora più facile per i francesi acquisire le nostre aziende strategiche.

Parigi punta a inglobare l’Italia all’interno della sua catena del valore, in modo da controbilanciare la potenza tedesca, soprattutto ora che la Germania sta evitando di rispettare le clausole del Trattato di Aquisgrana che avrebbe dovuto cementare ulteriormente l’asse tra Parigi e Berlino. Secondo l’economista Carlo Pelanda, più volte consulente di vari governi italiani, il rischio per l’Italia è quello di “un’auto-annessione alla Francia, industriale e strategica, edulcorata ma sostanziale”.

Nonostante i rischi certi e i vantaggi incerti e nonostante l’atteggiamento aggressivo e predatorio che la Francia ha avuto negli ultimi anni nei confronti del nostro Paese, sono in molti a spingere perché la firma avvenga al più presto. Tra questi un ruolo di primo piano lo ha il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in cui onore il trattato viene chiamato “del Quirinale”

Ma oltre all’inquilino del Colle più alto il “partito francese” ha in Italia un numero impressionante di iscritti e Parigi può utilizzare anche l’alto debito italiano e la vulnerabilità del nostro Paese nei mercati finanziari per fare pressione su di noi, anche grazia al ruolo della francese Lagarde nella BCE.

Torna ciclicamente il problema della classe dirigente italiana, troppo spesso più interessata ad assecondare interessi stranieri che a fare l’interesse nazionale; un problema storico che dura da secoli e che invece di risolversi peggiora e di cui il popolo italiano paga il prezzo salatissimo.

(ARNALDO VITANGELI).

 

 

 

 

 

Funzionicchia: 14 bambini si ammalano

 dopo il vaccino in California.

Visionetv.it-Andrea Sartori- (18-11-2021)- ci dice:

Mentre in Italia si parla di vaccinazione ai bambini, ecco che vediamo come “funzionicchia” la Pfizer sui bambini in Calfornia. Nel grande Stato americano almeno quattordici bambini sono risultati infetti dopo la vaccinazione.

L’ospedale pediatrico Sutter Health nella città californiana di Antioch ha emesso una dichiarazione secondo cui almeno quattordici piccoli pazienti hanno subito una somministrazione errata di diluente, ovvero il doppio della dose consigliata. E non sono certo stati benissimo, anzi.

Una genitrice di nome Denise Iserloth ha definito, ovviamente “inaccettabile” tutta la storia: “ti aspetti che i medici ti diano le dosi corrette”.

L’ospedale aveva detto che, non appena si erano accorti della scorretta somministrazione delle dosi, avevano avvertito i genitori. Denise, furiosa, aggiunge che l’avviso dell’ospedale è avvenuto ben dieci ore dopo la somministrazione e che suo figlio era crollato al suolo per ben due volte.

“Ai miei figli è stata somministrata una doppia dose di vaccino – ha continuato Denise – e non conosciamo gli effetti a lungo termine”.

Ed è quello che deve spaventare: se sui bambini gli effetti sono questi al momento, quali potranno essere gli effetti a lungo termine?

E purtroppo questo nemmeno é l’unico caso, anzi, in USA sta avvenendo una strage degli innocenti. Uno studio dei Centers for Disease Control and Prevention dello scorso 30 luglio riporta come a 397 bambini di età compresa tra i 12 e i 17 anni sia stata diagnosticata un’infiammazione cardiaca dopo aver ricevuto il vaccino Pfizer.

Da qualche giorno in Italia si è scatenata la caccia al “bambino untore” per spingere alla vaccinazione dei più piccoli, nonostante il parere contrario dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e i dubbi di Maurizio Bonati, capodipartimento all’Istituto “Mario Negri”. E invece Ricciardi pensa all’obbligo. Ma chi sono l’Oms e l’Istituto “Mario Negri” a petto di Walter Ricciardi, la star di immortali capolavori come “L’ultimo guappo”?

Il guaio è che Ricciardi e personaggi simili non si fermano non dico davanti a pareri un filino più autorevoli del loro, ma nemmeno davanti ai casi che arrivano dall’America di eventi avversi sui bambini. Ma persino la Food and Drugs Administration americana aveva avvisato i genitori di non vaccinare i bambini al di sotto dei dodici anni, almeno per ora.

Quel che sta avvenendo francamente ci preoccupa. Il Covid, come sottolineato anche di recente dal dottor Bonati,  è una malattia che interessa perlopiù le persone adulte, anzi, le persone anziane: sono loro i famosi “soggetti fragili”. A suo tempo la spagnola mietè vittime soprattutto tra le fasce più giovani già decimate dalla Prima Guerra Mondiale (eppure, nonostante una situazione assai più drammatica, il mondo non si fermò e l’epidemia si estinse in maniera naturale dopo un paio d’anni).

Oggi la cosa sarebbe stata meglio gestibile concentrandosi sui soggetti fragili e lasciando in pace i più giovani, per fortuna non toccati più di tanto. E invece si vuole arrivare all’abominio, per pura sete di denaro, di andare a vaccinare anche i piccoli, senza avere un’idea di quelle che potranno essere le reazioni avverse.

Sull’aumento dell’epidemia si può riscontrare, dai dati dell’Iss, che tra i nuovi casi di Covid 19 la maggioranza è fra i vaccinati con dose completa entro i sei mesi: Il 68 per cento nella fascia d’età fra i 12 e i 39 anni, il 72,8 per cento tra i 40 e i 59 anni e addirittura l’83,8 per cento nella fascia d’età fra i 60 e i 79 anni.

E quindi cosa facciamo? Vogliamo vaccinare anche i bambini quando non ce n’é bisogno? Quando anzi c’é il rischio di eventi avversi? Il caso americano deve far riflettere. Anche su alcuni personaggi che, per amor di denaro, consigliano il vaccino ai bambini. I bonifici superano i rischi. Se arriviamo a speculare sulla pelle dei bambini significa che abbiamo raggiunto il livello più grave di abiezione morale.

 

“Non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale, né suggerirò un tale consiglio” scriveva Ippocrate nel giuramento. Se lo ricordano, questi signori?

(ANDREA SARTORI).

 

 

 

 

 

Covid. L’Europa richiude, ma l’Italia resiste:

qualcuno si sta mettendo di traverso.

Visionetv.it-Debora Billi-(18-11-2021)- ci dice:

I titoloni si sprecano. Tutta l’Europa sta richiudendo, applicando coprifuochi, limitando le libertà dei cittadini: è tornato il Covid. Malgrado le vaccinazioni a tappeto, quelle che avrebbero “restituito la libertà”, si torna in prigione.

Lo fa Gibilterra, il Paese più immunizzato –si fa per dire– d’Europa, lo fa la vaccinatissima Irlanda, che col suo 90% di punturati impone il coprifuoco a mezzanotte; in Germania la Merkel (ma comanda ancora lei?) annuncia “numeri spaventosi” con 264 morti e 53mila contagiati, e ipotizza soluzioni drastiche che prontamente accoglieranno i media italiani: intervento dell’esercito, obbligo vaccinale esteso, nuovi lockdown per vaccinati e non. In Repubblica Ceca si proibisce ai non vaccinati l’accesso ad eventi e locali pubblici, in Belgio si chiudono palestre e discoteche e si torna allo smart working obbligato per 4 giorni a settimana.

I media italiani ci sguazzano. In tv, 24 ore al giorno si sviscerano e si discutono con entusiasmo i vari provvedimenti esteri, con l’idea di applicarli… tutti. Anche se nessun altro Paese pare averci imitato col green pass obbligatorio per lavorare, secondo il mainstream dovremmo adottare acriticamente ogni provvedimento estero, così, per spirito di emulazione. O per un semplice gusto sadico, che a questo punto è lecito sospettare alligni in tutta la stampa italiana che pare non vedere l’ora che gli italiani soffrano sempre di più.

Intanto, e non per la prima volta, il governo è continuamente costretto a smentire le ipotesi che i media anelanti le torture caldeggiano. Dopo Speranza che ha dovuto richiamare all’ordine gli esaltati che volevano lasciare i no vax a morire per strade, è la volta di Sileri che al TG2 esclude ogni ipotesi di lockdown per i non vaccinati. Grande delusione tra i kapò, che forse non hanno riflettuto sul fatto che i non vaccinati, in Italia, non possono neanche lavorare (a differenza di altri Paesi che vanterebbero tali “lockdown”).

Voci di corridoio poi confermano come il governo non abbia alcuna intenzione di togliere il tampone dal green pass, come sempre i media vorrebbero per imitare la formula 2G in uso in Germania e godersi così lo spettacolo dei non vaccinati che soffrono le pene dell’inferno ancora più di quanto già non facciano.

Come mai tanta resistenza alle pressioni mediatiche da parte del governo? Ha pietà di noi? Pare che non sia questo il punto. Sempre le solite voci di corridoio sussurrano che qualcuno si sia pesantemente messo di traverso, qualcuno a cui non si può dire di no: ovvero le Forze dell’Ordine. Come sappiamo, le nostre FFOO contano decine di migliaia di non vaccinati che al momento lavorano e vivono grazie al tampone, e che non hanno nessuna intenzione di cedere a Pfizer neanche sotto ricatto.

Provvedimenti drastici contro i no vax significherebbero vedere svuotarsi caserme e questure, e in un momento delicato come questo il governo ha assoluto bisogno della fedeltà dei suoi uomini. O forse qualcuno nelle alte sfere ha visto ciò che sta succedendo in Austria, dove il sindacato di Polizia ha annunciato che si unirà alle proteste anziché reprimerle.

“Fate come l’Austria”, insomma, deve essere suonato più come un incubo che come un invito.

(DEBORA BILLI).

 

 

 

 

Usa-Cina: cosa c’è dietro

al vertice fra Biden e Xi.

msn.com-First- Carlo Musilli -(20-11-2021)-ci dice:

L’intesa sul clima a margine della Cop 26, il primo colloquio dopo sette mesi fra i presidenti Joe Biden e Xi Jinping, ma anche nuove tensioni sul destino di Taiwan, con la minaccia americana di boicottare le Olimpiadi invernali di Pechino.

In pochi giorni la storia dei rapporti fra Stati Uniti e Cina si è arricchita di tanti capitoli, ma la svolta non è arrivata e gli scenari futuri sono avvolti dall’incertezza. «In realtà, Xi e Biden non hanno alcun interesse ad accelerare i tempi, soprattutto per la situazione politica negli Stati Uniti, che in questo momento è particolarmente fluida», spiega a FIRSTonline Stefano Silvestri, ex presidente dell’Istituto Affari Internazionali, di cui oggi è consigliere scientifico, e consulente per la politica estera di vari governi italiani. «Molto dipenderà dall’esito delle elezioni di medio termine al Congresso e al Senato, in agenda per l’anno prossimo, che rischiano di condizionare pesantemente la libertà di manovra di Biden e quindi l’orientamento di Washington nei confronti della Cina».

 

In questa fase, allora, che valore politico ha avuto la videochiamata fra Biden e Xi?

«Credo sia stato un incontro interlocutorio. Non sono stati raggiunti grandi accordi, ma non si è nemmeno arrivati alla rottura. I canali diplomatici sono rimasti aperti in vista di possibili intese future. Del resto, era un vertice complicato proprio per questo: bisognava portare avanti un dialogo, com’è necessario per ragioni economiche e ambientali, e nello stesso tempo non cedere sulle questioni di principio. Anzi, cercare di mantenere il punto: Biden sul problema della democrazia e sui diritti umani, Xi sull’opposizione alle interferenze estere e sulle ambizioni cinesi nei confronti di Taiwan. Le parti hanno comunque riconosciuto che trattare è possibile, anche se arrivare a un accordo sarà più semplice in alcuni ambiti che in altri».

In quale campo la prospettiva di un’intesa è più probabile?

«L’apertura sul clima è importante: c’è una disponibilità, perlomeno a parole, e quindi è possibile che si vada avanti. Il fatto che durante la conferenza di Glasgow l’opposizione più forte alle misure anti-carbone sia arrivata dall’India ha permesso alla Cina di non esporsi troppo, evitando di rompere il dialogo su questo fronte».

Si tratta di una posizione di facciata o è verosimile che si arrivi a un accordo operativo?

«Credo che con il tempo sia possibile ottenere qualcosa di più concreto. Il problema è che questo tipo di accordi deve fare i conti con la salvaguardia dello sviluppo economico. La Cina, in questo momento, deve recuperare i ritardi causati dalla pandemia, affrontare le conseguenze della bolla immobiliare e gestire il generale rallentamento del tasso di crescita, in parte inevitabile visto il ritmo tenuto in passato. Non dobbiamo mai dimenticare che in Cina ci sono ancora enormi sacche di povertà e forti disparità di reddito fra territori e classi sociali. È una situazione che rischia di diventare pericolosa anche sotto il profilo politico. Detto questo, la Cina è sicuramente favorevole a una qualche tipo di iniziativa in campo ambientale, perché i suoi cittadini patiscono molto gli effetti dell’inquinamento. Chiunque sia andato in Cina sa quanto possa essere pesante l’aria nelle città e quanto questo influisca sulla salute e sulla produttività della popolazione».

In quale ambito, invece, un accordo Usa-Cina le sembra impossibile?

«Alcuni argomenti non sono ancora affrontabili in modo serio, come il controllo degli armamenti. Se ne discute in questo periodo fra Stati Uniti e Russia, ma pesa l’assenza della Cina al tavolo delle trattative. Pechino sta rafforzando non solo gli armamenti convenzionali, ma anche quelli nucleari».

In ogni caso, dopo l’uscita di scena di Trump, possiamo dire che gli Stati Uniti hanno abbandonato l’isolazionismo e rilanciato la filosofia del multilateralismo?

«Sì, ed è un fatto sicuramente molto positivo per noi europei, ma è anche evidente che le nostre priorità sono diverse da quelle americane. Il problema numero uno della politica estera europea non è la Cina, ma la Russia. Non solo per quello che succede in Bielorussia, ma soprattutto per l’atteggiamento di Putin e i possibili sviluppi in Ucraina e in Georgia, oltre a quello che è già accaduto nel Caucaso fra Azerbaijan e Armenia».

In che modo il cambio di governo in Germania inciderà sui rapporti fra Europa e Russia?

«Il nuovo governo tedesco avrà al proprio interno due forze, i Liberali e i Verdi, che finora hanno avuto nei confronti di Mosca una posizione più dura rispetto a quella di Merkel. Se poi si considera la crisi fra Bielorussia e Polonia e il sostegno di Putin a Lukashenko, credo che difficilmente nel medio periodo Bruxelles metterà in discussione le sanzioni alla Russia. Ma su questo scenario pesa molto l’incertezza che regna intorno al futuro governo tedesco, di cui, in realtà, sappiamo ancora troppo poco».

 

 

 

Antivirali contro Covid. Quando arriveranno

le pillole di Merck e Pfizer: metodi e efficacia.

msn.com-Uffpost-Redazione-(19-11-2021)- ci dice:

“La struttura commissariale Covid-19, diretta dal generale Francesco Paolo Figliuolo, ha avuto mandato dal ministero della Salute, di acquisire un quantitativo pari a 50.000 cicli di trattamento di farmaci antivirali orali per covid per ciascuna tipologia di molnupiravir e paxlovid”, ossia le pillole anti-covid di Merck e Pfizer. E’ parere univoco che gli antivirali contro Covid siano un’arma necessaria per proseguire la battaglia al virus. “Non sostitutivi del vaccino, né risolutivi, ma un altro pezzo fondamentale” ci aveva detto il Professor Guido Rasi in una recente intervista ad HuffPost. Ma di cosa si tratta nello specifico?

Cosa sono le “pillole Contro covid.”

Ad oggi i “farmaci antivirali” più promettenti sono essenzialmente due: quelli prodotti dalla Merck e quelli prodotti dalla Pfizer. Le due pillole anti Covid si avvalgono di due principi attivi differenti: rispettivamente molnupiravir e paxlovid e sono importanti soprattutto perché si possono assumere per via orale. I farmaci usati oggi nella prima fase dell’infezione, quella in cui è importante frenare la replicazione di Sars-Cov2, sono l’antivirale Remdesivir e gli anticorpi monoclonali, che possono essere somministrati solo per endovena in ospedale, con tutte le difficoltà che questo comporta. Per questo pillole da assumere subito dopo tampone positivo, potrebbero davvero cambiare il volto a questa pandemia.

Quanto sono efficaci.

Sviluppata in uno studio clinico, la pillola di Pfizer, che sarà venduta con il marchio Paxlovid, è stata testata su un gruppo di volontari che hanno iniziato il trattamento entro tre giorni dallo sviluppo dei sintomi. Il beneficio del farmaco è stato tanto repentino, riducendo dell’85% i rischi di morte o ricovero, che il consiglio di esperti indipendente che ha affiancato la Pfizer ha consigliato di interrompere la sperimentazione. A confronto con Pfizer, la pillola della Merck aveva dimostrato una riduzione dei rischi del 50% se somministrata entro 5 giorni dall’insorgere dei sintomi.

Metodo di somministrazione.

Rispetto al trattamento con anticorpi monoclonali, somministrato per via endovenosa, le pillola Pfizer e Merck potranno essere comprate in farmacia. 30 pillole somministrate in 5 giorni, questo il trattamento, che include 10 pillole di ritonavir, un vecchio virus dell’HIV, che aiuta il farmaco Pfizer a rimanere attivo più a lungo nel corpo. Per la Merck, invece, il trattamento conta 40 pillole in cinque giorni.

A che punto è la loro approvazione e quando arriveranno in Italia.

Per quanto riguarda l’antivirale della Merck è già stato approvato dall’agenzia regolatoria del farmaco britannica (Mhra) il 4 novembre - in anticipo su chiunque altro in Europa - ed è in corso di valutazione da ottobre sia presso l’Ema (Agenzia europea per i medicinali) che presso l’Fda, la Food and Drug Administration americana. Tuttavia, Nicola Magrini, Presidente Aifa, ha fatto sapere che la disponibilità della pillola anticovid in Italia “ci potrebbe essere nelle settimane successive a Natale ma ci siamo attivati per poter prenotare questi due farmaci (sia molnupiravir che paxlovid, ndr) orali il prima possibile, avendo proceduto in accordi in tal senso in questi giorni”. Per quanto riguarda l’antivirale della Pfizer, invece, è stata di recente chiesta autorizzazione negli Stati Uniti. E’ leggermente in ritardo con i tempi rispetto alla Merck, ma nelle sperimentazioni ha mostrato dati di efficacia molto alti, evitando l’89% dei ricoveri nei volontari arruolati.

Pfizer e Merck cedono licenza ai Paesi in via di sviluppo.

Le due aziende hanno accettato che i paesi in via di sviluppo producano una versione generica a prezzi di costo, senza royalties, cioè presumibilmente a poche decine di dollari. Per evitare gli scandalosi squilibri nella distribuzione dei vaccini, le case produttrici delle pillole hanno ceduto la licenza di produzione a un’organizzazione che ha sede a Ginevra ed è legata alle Nazioni Unite: “Medicines Patent Pool”, che a sua volta permetterà di produrre il farmaco a basso costo per la distribuzione in 95 paesi.

 

 

 

I tre allarmi.

 msn.com-ilgiornale.it-Marcello Zacchè- (20-11-2021)- ci dice:

Se tre indizi fanno una prova, in questi giorni di metà autunno rischiamo di contare non una, ma molte prove del fatto che il motore della macchina draghiana non marci più a pieni giri. Stiamo parlando di economia. Che è poi la cifra su cui più si misura l'azione del governo.

 Ebbene, nella sola giornata di ieri sono suonati diversi allarmi, idealmente rumorosi come quelli che partono durante la notte da negozi o appartamenti. Primo allarme: la Borsa milanese, che ha perso più dell'1,1% per i contagi crescenti, risultando il listino peggiore d'Europa.

Secondo: nelle stesse ore il presidente della Banca centrale tedesca, Jens Weidmann, ha allertato il mercato su una imminente stretta dei tassi d'interesse. Terza sirena, quella della Banca d'Italia, che avverte: se la crescita perdesse slancio, l'Italia si scoprirebbe il Paese più vulnerabile.

Ma gli allarmi di ieri suonano all'interno di una cornice dove ci sono tre questioni minacciose: quella dell'inflazione, fenomeno che pensavamo aver dimenticato come una malattia estinta, ma che la crisi della globalizzazione post-pandemica ha prima riportato in vita, e poi spedito nelle nostre case attraverso i prezzi dei prodotti di consumo di base, più cari di un anno fa nell'ordine del 3%. Poi c'è il tema delle tasse, con la riattivazione delle cartelle esattoriali che riguardano milioni di famiglie e piccole imprese. E infine quello del lavoro, con il disallineamento tra chi lo cerca invano, e chi non riesce a trovare addetti specializzati.

La sinfonia di allarmi porta in un'unica direzione: il rallentamento della crescita. Con il rischio che allo straordinario 2021 italiano (con il suo +6,2% di Pil) faccia seguito un biennio che ci ricacci in fondo alla classifica europea. Per scongiurare questa iattura il governo punta sull'avanzamento del Pnrr, il piano per spendere 200 miliardi di fondi europei di qui al 2027. Ma questo è l'ultimo dei grandi allarmi di questi giorni, perché si moltiplicano i segnali che il Pnrr si stia incagliando sul territorio a causa del forte deficit di capacità amministrativa. La ripresa dei contagi non fa che aggiungere ansia e paura che potrebbero presto invertire il segno delle aspettative degli italiani, oggi ancora rivolte al bello.

Di fronte a variabili fuori dal suo controllo, non c'è una ricetta per l'operato del governo. Ma di certo, togliere ogni incertezza sulla durata aiuterebbe a ridare forza alla sua azione. E ora ce ne sarebbe bisogno almeno quanto un anno fa.

 

 

 

 

Rivelato: i documenti mostrano che Bill Gates

ha donato 319 milioni di dollari ai  media.

Mintpressnews.com- Alan Macleod-(15 novembre 2021)- ci dice :

(Alan Macleod @AlanRMacLeod).

 

SEATTLE — Fino al suo recente disordinato divorzio, Bill Gates ha goduto di una sorta di pass gratuito nei media aziendali. Generalmente presentato come un nerd gentile che vuole salvare il mondo, il co-fondatore di Microsoft è stato persino battezzato senza ironia "Saint Bill" da The Guardian .

Mentre gli imperi mediatici di altri miliardari sono relativamente ben noti, la misura in cui il denaro di Gates sostiene il panorama dei media moderni non lo è. Dopo aver selezionato oltre 30.000 sovvenzioni individuali, MintPress può rivelare che la Bill and Melinda Gates Foundation (BMGF) ha effettuato donazioni per un valore di oltre 300 milioni di dollari per finanziare progetti mediatici.

I destinatari di questo denaro includono molte delle più importanti agenzie di stampa americane, tra cui CNN , NBC, NPR , PBS e The Atlantic . Gates sponsorizza anche una miriade di influenti organizzazioni straniere, tra cui BBC , The Guardian , The Financial Times e The Daily Telegraph nel Regno Unito; importanti giornali europei come Le Monde (Francia), Der Spiegel (Germania) ed El País (Spagna); così come grandi emittenti globali come Al-Jazeera .

Il denaro della Fondazione Gates destinato ai programmi per i media è stato suddiviso in una serie di sezioni, presentate in ordine numerico decrescente, e include un collegamento alla sovvenzione pertinente sul sito Web dell'organizzazione.

Premi direttamente ai media:

NPR- $ 24,663,066

The Guardian (incluso TheGuardian.org ) - $ 12.951.391  

Media pubblici a cascata - $ 10,895.016

Public Radio International (PRI.org/TheWorld.org) - $ 7,719,113

La conversazione - $ 6,664,271

Univision- $ 5,924,043

Der Spiegel (Germania)- $5.437.294      

Sindacato del progetto- $ 5,280,186

Settimana dell'istruzione - $ 4.898.240

WETA- $ 4.529.400

NBCUniversal Media- $ 4,373,500

Nation Media Group (Kenya) – $ 4.073.194

Le Monde (Francia) - $ 4.014.512

Bhekisisa (Sud Africa) – $ 3,990,182

El País – $ 3.968.184

BBC- $ 3.668.657

CNN- $ 3.600.000  

KCET- $ 3.520,703

Population Communications International (population.org) – $ 3,500,000

Il Daily Telegraph – $ 3,446.801

Chalkbeat – $ 2.672.491  

Il post dell'istruzione: $ 2,639,193

Rockhopper Productions (Regno Unito) – $2,480,392

Corporation for Public Broadcasting – $2,430.949

UpWorthy – $ 2,339.023

Financial Times – $2,309,845

Il 74 Media- $2,275.344

Texas Tribune- $2,317.163

Punch (Nigeria) – $2.175.675

Notizie in profondità – $ 1,612,122

L'Atlantico- $ 1.403.453

Minnesota Public Radio- $ 1,290,898

YR Media- $1.125.000

Il nuovo umanitario - $ 1.046.457

Sheger FM (Etiopia) – $ 1,004,600

Al-Jazeera- $ 1.000.000

ProPublica- $1.000.000

Media pubblici incrociati – $ 810.000

Rivista Grist- $ 750.000

Kurzgesagt – $ 570.000

Educational Broadcasting Corp - $ 506.504

Classica 98,1 – $ 500.000

PBS – $ 499.997

Gannett – $ 499.651

Posta e Guardian (Sud Africa) - $ 492.974

Inside Higher Ed.- $ 439,910

Giorno lavorativo (Nigeria) – $416.900

Medium.com – $ 412.000  

Nutopia- $ 350.000

Independent Television Broadcasting Inc. – $ 300.000

Independent Television Service, Inc. – $ 300.000

Caixin Media (Cina) – $ 250.000

Servizio di notizie del Pacifico - $ 225.000

Rivista nazionale - $ 220.638

Cronaca dell'istruzione superiore - $ 149.994

Belle e Wissell, Co. $ 100.000

Fiducia dei media - $ 100.000

Radio pubblica di New York – $ 77,290

KUOW - Radio pubblica di Puget Sound - $ 5,310

Insieme, queste donazioni ammontano a $ 166.216.526. Il denaro è generalmente diretto verso questioni vicine ai cuori di Gates. Ad esempio, la sovvenzione della CNN di $ 3,6 milioni è andata a "report[ing] sull'uguaglianza di genere con un focus particolare sui paesi meno sviluppati, producendo giornalismo sulle disuguaglianze quotidiane subite da donne e ragazze in tutto il mondo", mentre il Texas Tribune ha ricevuto milioni per "per aumentare la consapevolezza e l'impegno del pubblico sui problemi della riforma dell'istruzione in Texas". Dato che Bill è uno dei più ferventi sostenitori delle charter school , un cinico potrebbe interpretarlo come l'introduzione di propaganda pro-corporate della charter school nei media, mascherata da notizie oggettive.

La Gates Foundation ha anche donato quasi 63 milioni di dollari a enti di beneficenza strettamente allineati con i grandi media, tra cui quasi 53 milioni di dollari a BBC Media Action, oltre 9 milioni di dollari alla Fondazione Staying Alive di MTV e 1 milione di dollari al New York Times Neediest Causes Fund. Sebbene non finanzino specificamente il giornalismo, dovrebbero comunque essere notate le donazioni al braccio filantropico di un lettore multimediale.

Gates continua a sottoscrivere anche un'ampia rete di centri di giornalismo investigativo, per un totale di poco più di 38 milioni di dollari, più della metà dei quali è andata all'International Center for Journalists con sede a Washington per espandere e sviluppare i media africani.

Questi centri includono:

Centro internazionale per giornalisti - $ 20,436,938

Premium Times Center for Investigative Journalism (Nigeria) - $ 3,800,357

Il Pulitzer Center for Crisis Reporting – $2,432,552

Fondazione EurActiv Politech – $ 2.368.300

International Women's Media Foundation – $ 1.500.000

Centro per i rapporti investigativi - $ 1,446,639

Istituto InterMedia Survey – $ 1,297,545

Il Bureau of Investigative Journalism - $ 1.068.169

Rete di Internet – $ 985.126

Media Center del Consorzio di comunicazione – $ 858.000

Istituto per le notizie senza scopo di lucro - $ 650.021

L'Istituto Poynter per gli studi sui media- $ 382.997

Wole Soyinka Center for Investigative Journalism (Nigeria) – $ 360,211

Institute for Advanced Journalism Studies - $ 254,500

Forum globale per lo sviluppo dei media (Belgio) – $ 124.823

Mississippi Center for Investigative Reporting - $ 100.000

Oltre a ciò, la Fondazione Gates fornisce denaro ad associazioni di stampa e giornalismo per almeno 12 milioni di dollari. Ad esempio, la National Newspaper Publishers Association, un gruppo che rappresenta più di 200 punti vendita, ha ricevuto 3,2 milioni di dollari.

L'elenco di queste organizzazioni include:

Associazione degli scrittori dell'istruzione - $ 5,938.475

Associazione nazionale degli editori di giornali - $ 3.249.176

National Press Foundation- $ 1.916.172

Consiglio di notizie di Washington - $ 698,200

Fondazione American Society of News Editors – $ 250.000

Comitato dei giornalisti per la libertà di stampa - $ 25.000

Questo porta il nostro totale corrente fino a $ 216,4 milioni.

La fondazione mette anche i soldi per formare direttamente giornalisti in tutto il mondo, sotto forma di borse di studio, corsi e workshop. Oggi è possibile per un individuo formarsi come reporter grazie a una sovvenzione della Gates Foundation, trovare lavoro in un punto vendita finanziato da Gates e appartenere a un'associazione di stampa finanziata da Gates. Ciò è particolarmente vero per i giornalisti che lavorano nei settori della salute, dell'istruzione e dello sviluppo globale, quelli in cui lo stesso Gates è più attivo e dove è più necessario esaminare le azioni e le motivazioni del miliardario.

 

Le sovvenzioni della Fondazione Gates relative all'istruzione dei giornalisti includono:

Johns Hopkins University – $ 1,866,408

Teachers College, Columbia University- $ 1,462,500

Università della California Berkeley- $ 767,800       

Università Tsinghua (Cina) – $ 450.000

Università di Seattle – $ 414.524

Institute for Advanced Journalism Studies - $ 254,500  

Università di Rodi (Sudafrica) – $ 189.000

Montclair State University- $ 160,538

Fondazione dell'Università Pan-atlantica - $ 130.718

Organizzazione Mondiale della Sanità - $ 38,403

Il progetto Aftermath- $15.435

Il BMGF paga anche per una vasta gamma di campagne mediatiche specifiche in tutto il mondo. Ad esempio, dal 2014 ha donato 5,7 milioni di dollari alla Population Foundation of India per creare drammi che promuovono la salute sessuale e riproduttiva, con l'intento di aumentare i metodi di pianificazione familiare nell'Asia meridionale. Nel frattempo, ha stanziato oltre 3,5 milioni di dollari a un'organizzazione senegalese per sviluppare programmi radiofonici e contenuti online con informazioni sulla salute. I sostenitori considerano questo un aiuto per i media sottofinanziati in modo critico, mentre gli oppositori potrebbero considerarlo un caso di un miliardario che usa i suoi soldi per piantare le sue idee e opinioni nella stampa.

Progetti media supportati dalla Fondazione Gates:

Centro europeo di giornalismo – $ 20,060,048

Servizio universitario mondiale del Canada - $ 12.127.622

Storia ben raccontata limitata – $ 9,870,333

Solutions Journalism Inc.- $ 7,254.755  

Fondazione per l'industria dell'intrattenimento - $ 6.688.208  

Fondazione per la popolazione dell'India - $ 5,749,826 -

Media partecipanti – $ 3.914.207

Réseau Africain de l'Education pour la santé- $ 3,561,683

Nuova America – $ 3,405,859

Fondazione AllAfrica – $2,311,529

Passi internazionali – $2,208,265

Centro per l'avvocatura e la ricerca - $ 2,200,630

Il laboratorio del sesamo – $ 2.030.307

Panos Institute Africa occidentale – $ 1,809,850       

Open Cities Lab – $ 1,601,452  

Università di Harvard - $ 1,190,527

L'apprendimento conta - $ 1,078.048

L'Aaron Diamond Aids Research Center- $ 981.631

Thomson Media Foundation- $ 860.628

Media Center del Consorzio di comunicazione – $ 858.000

StoryThings- $ 799,536

Centro per le strategie rurali - $ 749.945

Il nuovo fondo di rischio - $ 700.000  

Helianthus Media – $ 575.064  

Università della California del sud- $ 550.000

Organizzazione Mondiale della Sanità- $ 530.095

Phi Delta Kappa Internazionale – $ 446.000

Ikana Media – $ 425.000

Fondazione Seattle – $ 305.000

IstruzioneNC – $ 300.000

Pechino Guokr Interactive – $ 300.000  

Upswell- $ 246.918

L'Accademia africana delle scienze - $ 208.708  

Alla ricerca di applicazioni moderne per la vera trasformazione (SMART) - $ 201.781

Bay Area Video Coalition- $ 190.000

Fondazione PowHERful – $ 185.953

Congresso PTA Florida di genitori e insegnanti - $ 150.000  

ProSocial – $ 100.000  

Università di Boston - $ 100.000

Centro nazionale per l'apprendimento delle famiglie - $ 100.000  

Development Media International – $ 100.000

Università Ahmadu Bello - $ 100.000

Società indonesiana di sanità elettronica e telemedicina - $ 100.000

The Filmmakers Collaborative – $ 50.000

Fondazione per la radiodiffusione pubblica in Georgia Inc. - $ 25.000  

SIFF – $ 13.000

Totale: $ 97,315,408

319,4 milioni di dollari e (molto) di più.

Sommati insieme, questi progetti mediatici sponsorizzati da Gates ammontano a un totale di 319,4 milioni di dollari. Tuttavia, ci sono evidenti carenze con questo elenco non esaustivo, il che significa che la cifra reale è senza dubbio molto più alta. Innanzitutto, non conta le sovvenzioni secondarie, ovvero denaro dato dai destinatari ai media di tutto il mondo. E mentre la Fondazione Gates promuove un'aria di apertura su se stessa, in realtà ci sono poche preziose informazioni pubbliche su ciò che accade ai soldi di ciascuna sovvenzione, tranne per una breve descrizione di una o due frasi scritta dalla fondazione stessa sul suo sito web . Sono state conteggiate solo le donazioni alle organizzazioni di stampa stesse oi progetti che potrebbero essere identificati dalle informazioni sul sito Web della Fondazione Gates come campagne mediatiche, il che significa che migliaia di sovvenzioni con qualche elemento mediatico non compaiono in questo elenco.

Un esempio calzante è la partnership del BMGF con ViacomCBS, la società che controlla CBS News , MTV, VH1, Nickelodeon e BET . I resoconti dei media all'epoca notarono che la Gates Foundation stava pagando il gigante dell'intrattenimento per inserire informazioni e PSA nella sua programmazione e che Gates era intervenuto per cambiare le trame in spettacoli popolari come ER e Law & Order: SVU.

Tuttavia, quando si controlla il database delle sovvenzioni di BMGF, "Viacom" e "CBS" non si trovano da nessuna parte, la probabile sovvenzione in questione (per un totale di oltre $ 6 milioni) descrive semplicemente il progetto come una "campagna di impegno pubblico volta a migliorare i tassi di diploma di scuola superiore e tassi di completamento post-secondari specificamente rivolti a genitori e studenti", il che significa che non è stato conteggiato nel totale ufficiale. Ci sono sicuramente molti altri esempi come questo. "Per un ente di beneficenza con privilegi fiscali che molto spesso strombazza l'importanza della trasparenza, è notevole quanto intensamente segreta la Fondazione Gates sia sui suoi flussi finanziari" , ha detto a” MintPress Tim Schwab” , uno dei pochi giornalisti investigativi che ha scrutato il miliardario della tecnologia .

Non sono inoltre incluse le sovvenzioni finalizzate alla produzione di articoli per riviste accademiche. Sebbene questi articoli non siano destinati al consumo di massa, costituiscono regolarmente la base per le storie sulla stampa tradizionale e aiutano a modellare le narrazioni su questioni chiave. La Gates Foundation ha donato in lungo e in largo a fonti accademiche, con almeno 13,6 milioni di dollari destinati alla creazione di contenuti per la prestigiosa rivista medica The Lancet .

E, naturalmente, anche i soldi dati alle università per progetti puramente di ricerca alla fine finiscono nelle riviste accademiche e, infine, a valle nei mass media. Gli accademici sono sottoposti a forti pressioni per stampare i loro risultati su riviste prestigiose; “pubblica o muori” è il mantra nei dipartimenti universitari. Pertanto, anche questo tipo di sovvenzioni ha un effetto sui nostri media. Né queste né le sovvenzioni che finanziano la stampa di libri o la creazione di siti web sono conteggiate nel totale, sebbene anch'esse siano forme di media.

Profilo basso, tentacoli lunghi.

Rispetto ad altri miliardari della tecnologia, Gates ha mantenuto il suo profilo di controller dei media relativamente basso. L' acquisto del Washington Post da parte del fondatore di Amazon Jeff Bezos per 250 milioni di dollari nel 2013 è stata una forma molto chiara e ovvia di influenza dei media, così come la creazione di First Look Media, la società proprietaria di The Intercept , da parte del fondatore di eBay Pierre Omidyar .

Nonostante volino di più sotto il radar, Gates e le sue aziende hanno accumulato una notevole influenza sui media. Ci affidiamo già a prodotti di proprietà di Microsoft per la comunicazione (es. Skype, Hotmail), i social media (LinkedIn) e l'intrattenimento (Microsoft XBox). Inoltre, l'hardware e il software che usiamo per comunicare vengono spesso gentilmente concessi dal 66enne Seattleite. Quante persone che leggono questo lo fanno su un telefono Microsoft Surface o Windows e lo fanno tramite il sistema operativo Windows? Non solo, Microsoft possiede partecipazioni in giganti dei media come Comcast e AT&T . E la "MS" in MSNBC sta per Microsoft.

I custodi di Media Gates.

Il fatto che la Fondazione Gates stia sottoscrivendo una fetta significativa del nostro ecosistema mediatico porta a seri problemi di obiettività. "Le sovvenzioni della fondazione alle organizzazioni dei media... sollevano ovvie domande sul conflitto di interessi: come possono essere imparziali i rapporti quando un attore importante tiene i cordoni della borsa?" ha scritto il “Seattle Times locale” di Gates nel 2011. Questo è stato prima che il giornale accettasse i soldi del BMGF per finanziare la sua sezione "laboratorio educativo".

La ricerca di Schwab ha scoperto che questo conflitto di interessi arriva fino in cima: due editorialisti del New York Times hanno scritto entusiasticamente per anni sulla Gates Foundation senza rivelare che lavorano anche per un gruppo - il Solutions Journalism Network - che, come mostrato sopra, ha ricevuto oltre 7 milioni di dollari dall'ente di beneficenza del miliardario tecnologico.

All'inizio di quest'anno, Schwab ha anche rifiutato di collaborare a una storia su COVAX per il Bureau of Investigative Journalism , sospettando che il denaro che Gates stava pompando nell'outlet avrebbe reso impossibile riferire con precisione su un argomento così vicino al cuore di Gates. Abbastanza sicuro, quando l'articolo è stato pubblicato il mese scorso, ha ripetuto l'affermazione che Gates aveva poco a che fare con il fallimento di COVAX, rispecchiando la posizione del BMGF e citandola dappertutto. Solo alla fine della storia di oltre 5.000 parole è emerso che l'organizzazione che difendeva pagava gli stipendi del suo personale.

“Non credo che Gates abbia detto al “Bureau of Investigative Journalism cosa scrivere”. Penso che l'FBI sapesse implicitamente, anche se inconsciamente, di dover trovare un modo per raccontare questa storia che non prendesse di mira il loro finanziatore. Gli effetti di distorsione dei conflitti finanziari sono complessi ma molto reali e affidabili", ha detto Schwab, descrivendolo come "un caso di studio sui pericoli del giornalismo finanziato da Gates".

“MintPress” ha anche contattato la Bill and Melinda Gates Foundation per un commento, ma non ha risposto.

Gates, che ha accumulato la sua fortuna costruendo un monopolio e proteggendo con zelo la sua proprietà intellettuale, è responsabile in modo significativo del fallimento del lancio del vaccino contro il coronavirus in tutto il mondo. A parte il fiasco COVAX, ha fatto pressioni sull'Università di Oxford perché non rendesse il suo vaccino finanziato pubblicamente open-source e disponibile a tutti gratuitamente, ma invece per collaborare con la società privata AstraZeneca, una decisione che ha significato che coloro che non potevano pagare sono stati bloccati dall'usarlo. Che Gates abbia fatto oltre 100 donazioni all'università, per un totale di centinaia di milioni di dollari, probabilmente ha avuto un ruolo nella decisione. Ad oggi, meno del 5%delle persone nei paesi a basso reddito ha ricevuto anche una sola dose di vaccino COVID. Il bilancio delle vittime di questo è immenso.

Sfortunatamente, molte di queste vere critiche a Gates e alla sua rete sono oscurate da teorie cospirative selvagge e false su cose come l'inserimento di microchip nei vaccini per controllare la popolazione. Ciò ha significato che le critiche autentiche del co-fondatore di Microsoft sono spesso demonetizzate e soppresse algoritmicamente, il che significa che i punti vendita sono fortemente dissuasi dal trattare l'argomento, sapendo che probabilmente perderanno denaro se lo fanno. La scarsità di controlli sul secondo individuo più ricco del mondo, a sua volta, alimenta stravaganti sospetti.

Gates se lo merita sicuramente. A parte i suoi legami profondi e potenzialmente decennali con il famigerato Jeffrey Epstein, i suoi tentativi di cambiare radicalmente la società africana e il suo investimento nel controverso gigante chimico Monsanto, è forse il motore chiave dietro il movimento delle scuole charter americane - un tentativo di sostanzialmente privatizzare il sistema educativo statunitense. Le charter school sono profondamente impopolari tra i sindacati degli insegnanti, che vedono il movimento come un tentativo di ridurre la loro autonomia e ridurre il controllo pubblico su come e cosa viene insegnato ai bambini.

Fino alla banca.

Nella maggior parte dei servizi, le donazioni di Gates sono generalmente presentate come gesti altruistici. Eppure molti hanno indicato i difetti intrinseci di questo modello, osservando che consentire ai miliardari di decidere cosa fare con i loro soldi consente loro di stabilire l'agenda pubblica, dando loro un enorme potere sulla società.

 "La filantropia può ed è utilizzata deliberatamente per distogliere l'attenzione dalle diverse forme di sfruttamento economico che sono alla base della disuguaglianza globale oggi", ha affermato Linsey McGoey , professoressa di sociologia presso l'Università dell'Essex, nel Regno Unito, e autrice di “No Such Thing as a Free Gift” : La Fondazione Gates e il prezzo della filantropia. Lei aggiunge:

Il nuovo "filantrocapitalismo" minaccia la democrazia aumentando il potere del settore aziendale a scapito delle organizzazioni del settore pubblico, che affrontano sempre più strette di bilancio, in parte remunerando eccessivamente le organizzazioni a scopo di lucro per fornire servizi pubblici che potrebbero essere forniti a un prezzo più basso senza coinvolgimento del settore privato”.

La carità, come ha osservato l'ex primo ministro britannico Clement Attlee, “è una cosa fredda e grigia senza amore. Se un uomo ricco vuole aiutare i poveri, dovrebbe pagare le tasse con gioia, non elargire soldi per capriccio”.

Niente di tutto ciò significa che le organizzazioni che ricevono i soldi di Gates - media o altro - siano irrimediabilmente corrotte, né che la Fondazione Gates non faccia del bene al mondo. Ma introduce un palese conflitto di interessi in base al quale le stesse istituzioni su cui facciamo affidamento per ritenere responsabile uno degli uomini più ricchi e potenti nella storia del pianeta vengono tranquillamente finanziate da lui. Questo conflitto di interessi è uno di quelli che i media aziendali hanno ampiamente cercato di ignorare, mentre il presunto filantropo altruista Gates continua a diventare più ricco, ridendo fino alla banca.

(Alan MacLeod  è Senior Staff Writer per MintPress News. Dopo aver completato il suo dottorato di ricerca nel 2017, ha pubblicato due libri:  Bad News From Venezuela: Twenty Years of Fake News e Misreporting  and  Propaganda in the Information Age: Still Manufacturing Consent , oltre a  una  serie  di  articoli accademici  . Ha anche contribuito a  FAIR.org ,  The Guardian ,  Salon ,  The Grayzone ,  Jacobin Magazine e Common Dreams .)

 

 

 

 

19 Novembre 2021-

(t.me/s/ Cesare Sacchetti)-(lacrunadellago.net)-

C'è qualcosa di strano sulla quale dovremmo soffermarci. Ivanka Trump è praticamente sparita. Il suo ultimo tweet risale al maggio scorso ed è il tweet nel quale si faceva vedere mentre riceveva il siero sperimentale. Da allora, silenzio assoluto. Tra i primi tre figli di Trump, Ivanka è l'unica che non manifesta il suo sostegno pubblico nei confronti del padre. Don Jr. e Eric non hanno mai smesso nemmeno per un istante di sostenere il movimento di liberazione dell'America dalla morsa della cabala. La sensazione è che ci sia una frattura piuttosto netta tra Ivanka e gli altri dovuta soprattutto al genero di Trump e marito di Ivanka stessa, Jared Kushner. Trump stesso si è più volte lamentato del fatto che la fedeltà di Kushner va più a Israele che agli Stati Uniti.

La lobby sionista neocon detesta profondamente Donald Trump perché Trump è stato il primo presidente a ordinare il ritiro delle truppe dal Medio Oriente togliendo così a Israele il contingente militare di cui aveva bisogno per intimidire e attaccare i suoi avversari. Se gli Stati Uniti hanno seminato caos e distruzione negli ultimi trent'anni in Medio Oriente è stato solo e soltanto per assicurare gli interessi di Israele e del disegno sionista di estendere i confini di questo Stato. Trump ha messo fine a questa condizione di asservimento completo degli USA ad Israele ed è questa la ragione per la quale è detestato soprattutto dai neocon. Quando qualcuno incautamente, e non di rado in malafede, accosta Trump al sionismo per via del genero Kushner dovrebbe tenere a mente una cosa. Il primo ad aver tramato contro Trump è stato proprio Jared Kushner. Trump non solo ha dovuto combattere contro il nemico esterno del deep state ma ha dovuto combattere contro coloro che stavano sotto il suo stesso tetto e che lo hanno pugnalato alle spalle.

(Cesare Sacchetti- November 19).

 

Cesare Sacchetti.

Ashley Etienne, direttore delle comunicazioni di Kamala Harris, ha abbandonato il suo incarico. Le tensioni dentro la presunta amministrazione Biden-Harris sono ormai al massimo. Gli uomini e le donne che compongono lo staff di Joe Biden e Kamala Harris stanno probabilmente iniziando a rendersi conto che nessuno dei due è effettivamente in carica e hanno iniziato ad abbandonare la nave che affonda. La sensazione è che stiamo assistendo al crollo della amministrazione fantoccio Biden che precede il prossimo ritorno di Trump.

(dailymail.co.uk/news/article-10218807/Kamala-Harris-comms-director-Ashley-Etienne-LEAVES-team.html)

 

Cesare Sacchetti.

Joe Biden subirà una colonscopia all'ospedale Walter Reed e durante la sua anestesia il potere verrà trasferito temporaneamente nelle mani del vicepresidente Kamala Harris. La conclusione più naturale che si potrebbe fare a questo punto è quella che sta per avverarsi il passaggio di consegne da Biden alla Harris. Tuttavia abbiamo visto elementi evidenti nel corso degli ultimi 10 mesi che scartano definitivamente questa tesi. Nè Joe Biden nè Kamala Harris sono mai entrati effettivamente in carica dallo scorso 20 gennaio. La stessa Harris piuttosto che manifestare l'intenzione di diventare Presidente ha fatto trapelare l'intenzione di abbandonare definitivamente questa amministrazione fantoccio.

Il suo staff si sta già dimettendo perché sa perfettamente che la Harris non diventerà mai il Presidente. Gli Stati Uniti vivono sospesi in un limbo dallo scorso 20 gennaio quando la firma da parte di Trump dell'atto contro le Insurrezioni ha trasferito temporaneamente il potere ai militari.

Da quel momento in poi, Biden e la Harris sono privi dei poteri effettivi previsti dai loro ruoli. Quello che abbiamo visto è stato uno show nel quale Biden e Harris si sono ritrovati a recitare la parte degli utili idioti. Personalmente credo che la conclusione più probabile che possiamo aspettarci da questa storia è quella di un crollo dell'amministrazione Biden e Kamala Harris attraverso dimissioni multiple.

(t.me/rtnews/15331).Cesare Sacchetti.

 

 

 

 

CAOS M5S/ “Conte ha chiuso, i grillini

esploderanno durante l’elezione del Colle.”

Ilsussidiario.net- int. Mauro Suttora-Federico Ferraù-(20-11-2021)- ci dicono:

 

Conte non governa più M5s, le fronde interne parlano chiaro. Di Maio farà con lui come ha fatto con Di Battista. Il Pd cerca di attrezzarsi.

Renzi che dal palco della Leopolda esorta Fuortes a dare a Conte almeno Rai Gulp; Spadafora (suo ex ministro) che dice di Conte “troppi errori, è un leader debole che silenzia il dissenso”. L’ex premier è in crisi e ha scoperto che guidare i 5 Stelle è più difficile che stare a palazzo Chigi.

Ma il vero buco nero dello scenario politico saranno i voti pentastellati quando si tratterà di eleggere il successore di Mattarella. Nel Pd lo hanno capito e stanno affondando il colpo: Conte ha fallito, forse Di Maio farà meglio di lui. Il commento a bruciapelo di Mauro Suttora, opinionista di HuffPost, già inviato di Europeo e Oggi.

Conte: "Rai, serve incontro con Draghi"/ "No a elezioni anticipate. Su Grillo..."

Conte appare in difficoltà. Quanto durerà?

I grillini gli esploderanno in mano a gennaio, quando si voterà sul Quirinale. Già oggi più di cento eletti, sui 300 entrati in parlamento nel 2018, non lo seguono più. E fra due mesi quelli che obbediranno alle sue indicazioni per il successore di Mattarella saranno ancora meno.

Giuseppe Conte/ "Renzi? Coi suoi comportamenti smargiassi degrada l'etica pubblica".

Spadafora è stato durissimo con Conte: “Sulla Rai ha sbagliato tutto”, ha detto. Che errori ha fatto?

Non si può lottizzare per anni, incassare direttori – Carboni al Tg1, Di Mare a Rai3 – e poi lamentarsi se in una lottizzazione prendi meno posti. Soprattutto se sei un movimento nato proprio per eliminare la lottizzazione dei giornalisti Rai. È come se un rapinatore protestasse perché i complici gli danno meno della sua parte di refurtiva.

 

Sempre Spadafora lo ha accusato di silenziare il dissenso interno. Di chi parliamo?

Dei dimaiani e dei movimentisti, due delle tre correnti in cui sono divisi i grillini. I contiani decidono tutto da soli, anche l’annuncio del boicottaggio contro la Rai è stato dato senza discuterne prima con gli altri. Ma il vero dramma, per loro, è che stiamo commentando le parole di Spadafora: uno che fra i grillini non ha mai contato niente.

Spadafora vs Conte/ "È un leader debole che silenzia il dissenso."

Si dice che Di Maio sulla Rai abbia fatto una trattativa personale. In ogni caso senza ottenere grandi risultati. Cosa puoi dirci in proposito?

Non lo so, ma visti i risultati il Pd ha messo nel sacco sia Conte che Di Maio.

Il ministro degli Esteri che obiettivo ha? Prendere la guida di M5s dopo avere logorato Conte?

Sì, come ha già fatto con Di Battista. Sì è creato la sua corrente, è bravo, giovane, lingua sciolta, cervello fino. Occupa da due anni la poltrona più prestigiosa del governo dopo quella del premier, ha fatto inversione a U rispetto al populismo e terzomondismo grillino. Quasi non si crede che ancora nel 2019 tifasse per i gilet gialli che mettevano a ferro e fuoco Parigi contro Macron. È stato lui a inventare Conte, proponendolo prima ministro e poi premier. Ma Conte se l’è dimenticato, non gli è riconoscente. Il potere gli ha dato alla testa.

A chi risponderanno i voti dei 5 Stelle quando si tratterà di eleggere il presidente della Repubblica?

Appunto: non rispondono a nessuno. Irresponsabili, nel vero senso della parola. Nel senso che non rischiano nulla, sanno che quasi nessuno di loro verrà rieletto. Mai, in 76 anni di Repubblica, c’era stata una massa così grossa di centinaia di peones incontrollabili.

Il Pd ha bastonato Conte sulla Rai, però i 5 Stelle a Letta servono. Non è chiaro quanto gli serva Conte, a questo punto. Meglio Di Maio?

Ormai siamo arrivati al capolinea. Letta ha sbagliato a umiliare i grillini nella spartizione Rai. Quelli si sono incattiviti, perché hanno capito che in politica nessuno regala niente a nessuno. E al Pd fa comodo ogni voto che riuscirà a strappare al M5s nelle prossime elezioni.

Anche Zanda ha apostrofato chi sta guidando i 5 Stelle. Cioè Conte.

Sì, ma per i democratici è indifferente chi guidi i grillini. Conte è ancora il politico più popolare dopo Draghi nei sondaggi, sta al 40%. Però non sarà lui il candidato premier del centrosinistra, ormai il suo momento è passato.

Nasce “Alternativa” di Pino Cabras: una sorta di ex M5s più stile gialloverde. Sono contro il governo. “Il primo passo sarà non far eleggere Draghi presidente Repubblica”, hanno dichiarato. Voteranno con il centrodestra?

Extra ecclesia nulla salus: fuori dalla chiesa M5s non c’è alcuna salvezza per i grillini. Soprattutto per i carneadi come questo Cabras. L’unico ex che può sperare di raccattare un 5% è Di Battista. Gli altri si venderanno al miglior offerente: destra, sinistra, centro, è indifferente. Uno di loro ha appena resuscitato la falce e martello comunista, un altro Potere al popolo, altri ancora si aggrappano al simbolo di Di Pietro. Spariranno tutti.

Una tua previsione sul Colle?

Draghi. O la Casellati, se riuscirà a continuare a non fare parlare di sé nelle prossime settimane. Chi si espone si brucia, come nelle volate ciclistiche.

 

E sulla legislatura?

Se i parlamentari non perdessero la pensione se non raggiungono i quattro anni e mezzo di mandato, non ci sarebbe alcun motivo per non votare a primavera. Questo Parlamento non è più rappresentativo, i grillini e tanti altri sono solo morti che camminano: zombies.

(Federico Ferraù).

 

 

 

LA SPERANZA: CHE COS’È PER L’UMANITÀ.

Mimesis-scenari.it- GIULIA CESARINI ARGIROFFO-(14 LUGLIO 2021)-ci dice:

 

FILOSOFIA & SCIENZA .

Galimberti (1999) in ambito psicologico definisce la speranza la fiducia nel futuro che permane anche dopo insuccessi o vane aspettative e che dal punto di vista psicologico funziona come difesa dalle conseguenze patologiche delle frustrazioni.

In una prospettiva di psicologia comportamentistica French, in “The Integration of Behaviour” del 1952, ne distingue due tipologie, una speranza basata su opportunità di soddisfazioni e una basata su ricordi di precedenti soddisfazioni. Nello specifico, la prima stimolerebbe i meccanismi necessari ai fini di una desiderata realizzazione, mentre la seconda si risolverebbe nella semplice rappresentazione della soddisfazione anticipata, quindi della fantasticheria e del sogno a occhi aperti.

In una prospettiva di psicologia fenomenologica la speranza si configura come attesa, desiderio e attività insieme, una delle modalità con cui il soggetto si rivolge al futuro. In proposito Minkowski (1933) scrive: “nella speranza, io vivo il divenire nella stessa direzione dell’attesa, cioè nella direzione di avvenire-presente e non nella direzione presente-avvenire. Quando spero, attendo la realizzazione di quanto spero, vedo l’avvenire venire verso di me. La speranza va più lontano nell’avvenire dell’attesa. Io non spero nulla né per l’istante presente né per quello che immediatamente gli succede, ma per l’avvenire che si dispiega dietro. Liberato dalla morsa dell’avvenire immediato, vivo, nella speranza, un avvenire più lontano, più ampio, pieno di promesse. E la ricchezza dell’avvenire si apre adesso davanti a me”.

Boch (1959) considera la speranza come una delle possibili chiavi di lettura della filosofia della storia in quanto va oltre l’immediato futuro. Moltmann (1964) interpreta la speranza come il substrato di ogni atteggiamento religioso perché essa, citando le sue parole: “si fonda sulla differenza ontica tra ciò che è e ciò che non è ancora”.

Non a caso, per esempio nel Cristianesimo, la speranza è considerata una virtù teologale che, secondo il Cattolicesimo, il credente aspira a raggiungere sia con la visione beatifica di Dio cioè con l’attesa della sicura beatitudine eterna sia con l’aiuto della grazia divina per poterla conseguire.

Di solito la speranza è iconograficamente rappresentata con il colore verde probabilmente perché è il colore della natura acerba che è in procinto di germogliare e nel quale vengono riposte le aspettative future.

Come fanno notare Cotrufo ed Ureña Bares (2018), la maggior parte degli autori considera la speranza un’emozione secondaria o complessa o mista o comportamentale o sociale, risultante da una combinazione di varie emozioni primarie o di base che si sviluppano con la crescita dell’individuo e che spesso sono anche frutto di influenze sociali o della comunità in cui la persona vive.

Le emozioni primarie o di base, in generale, sono considerate dalla maggior parte degli studiosi innate e sono definite come processi neurofisiologici specifici e pre-codificati che si sono evoluti in risposta ad adattamenti specifici ed a stimoli ambientali importanti. La quasi totalità dei ricercatori considera emozioni primarie la sorpresa, la paura, la gioia, la tristezza, il disgusto e la rabbia. In particolare Damasio (1995) definisce le emozioni come l’innesco di un perturbamento di un certo stato a causa di uno stimolo esterno, come programmi di azione complessi ed in larga misura automatici messi a punto durante l’evoluzione e che implicano azioni eseguite dal corpo, come per esempio le espressioni facciali – conseguenza dello stimolo sensoriale.

Le emozioni, elaborate soprattutto dall’amigdala che produce una risposta inconscia, ci guidano nel mondo esterno, spesso anche senza un’apparente spiegazione mentre i sentimenti sono successivi alle emozioni e sono coscienti (nella maggior parte dei casi). In tale prospettiva la speranza, pur nascendo da un’emozione secondaria si configurerebbe come un sentimento, infatti essa è cosciente e può durare a lungo (mentre l’emozione di solito è breve). La componente mentale dei sentimenti è incentrata sulla rielaborazione di immagini, esperienze, fatti e pensieri che li alimentano. Alcuni autori invece ritengono che la speranza non possa essere definita come emozione o come sentimento perché troppo complessa ed in tal senso risulterebbe inclassificabile.

Come fanno presente Szcześniak e Nderi (2010), la speranza per secoli è stata considerata negativamente o trascurata. Ne è un caso esemplificativo il mito greco di Pandora narrato da Esiodo in cui la speranza insieme ad altri mali venne spedita sulla terra come un ingannevole dono degli dei per punire l’umanità. La cultura giudaico-cristiana invece la considerava per lo più in modo positivo ma con un valore teologico trascendente, un dono divino in quanto intesa come la fiducia degli uomini verso il Creatore. Per il resto la speranza è stata trascurata dagli studiosi. Soltanto nella seconda metà del XX secolo la si cominciò a prendere realmente in considerazione come riconducibile all’esperienza quotidiana e ad analizzarla in tal senso. Molte sono state le teorie proposte al riguardo.

La più indicativa forse è la cosiddetta “teoria della speranza”, elaborata da Snyder intorno alla metà degli anni Novanta del Novecento, che afferma: “la speranza è uno stato motivazionale positivo che si basa sull’interazione tra il senso di successo nel produrre i percorsi cognitivi o le strategie cognitive da utilizzare nel conseguire un determinato fine desiderato e il senso di successo nel produrre l’energia mentale nell’utilizzare tali percorsi o strategie per realizzare la finalità desiderata”.

Essa è caratterizzata da tre componenti: la percezione della propria capacità di prefigurare le mete da perseguire (goals), i percorsi cognitivi da utilizzare nel conseguirle (pathways) e la capacità di produrre l’energia mentale interiore che attiva, orienta e mantiene il soggetto verso tali finalità desiderate (agency). Ogni persona è orientata intrinsecamente alle finalità per il proprio il futuro, esse ce le rappresentiamo mentalmente, possono avere una diversa durata e sono percepite da ogni individuo in maniera differente. Le strategie mentali sono frutto della capacità mentale di pianificare una o più strategie plausibili per realizzare mete desiderate e prefigurate, il che equivale all’auto-percezione di se stessi nel saper progettare percorsi efficaci avendo sempre in mente delle vie alternative per essere pronti a cambiare strada quando necessario.

 L’energia mentale è la capacità di far fronte agli impedimenti che possono sopraggiungere nel perseguimento delle finalità e che si forgia con l’esperienza. Snyder ha dimostrato che chi ha un alto indice di fiducia in sé supera in maniera migliore gli ostacoli rispetto a chi ha una bassa autostima e riesce ad elaborare con maggiore facilità strategie alternative per raggiungere le proprie mete. Inoltre sostiene che la speranza non è innata ma che deve essere elaborata e coltivata in ogni individuo per ottenere così anche un miglioramento della propria autostima e suggerisce l’inserimento di questo procedimento in ambito educativo. Ulteriori ricerche hanno confermato quanto affermato da questa teoria.

La speranza viene definita dal vocabolario italiano come l’attesa fiduciosa di qualcosa in cui si pensa che consista il proprio bene o di qualcosa che ci si augura avvenga secondo i propri desideri. In particolare, come fanno notare Quartu e Rossi (2012), può talvolta manifestarsi con un atteggiamento baldanzoso, d’ottimismo e di faciloneria nei confronti della vita, tipico della gioventù. Esiste il modo di dire “giovanotto di belle speranze” che si riferisce a persone effettivamente dotate dalle quali ci si aspettano risultati di successo ma che tuttavia devono ancora essere messe alla prova.

Nella teoria dei giochi la locuzione “speranza matematica” designa il prodotto del valore associato al verificarsi di un determinato evento casuale per la probabilità che accada l’evento stesso, ovvero il prodotto del guadagno possibile di un giocatore per la probabilità che egli ha di realizzarlo.

In statistica viene utilizzata l’espressione “speranza di vita” per indicare il numero di anni che, secondo l’esperienza demografica di una nazione, restano da vivere in media ad una popolazione di una data età. Un indicatore demografico di particolare rilievo è quello della speranza di vita alla nascita (o durata media della vita) che nel mondo sviluppato, grazie soprattutto ai miglioramenti nelle tecnologie mediche ed ad altri fattori di progresso, è andata gradualmente aumentando facendo purtroppo emergere le differenze e le disparità con i Paesi in via di sviluppo che andrebbero colmate.

In marina esiste l’espressione “ancora di speranza” per definire l’ancora di riserva di un’imbarcazione che si tiene sistemata in coperta oppure in appositi pozzi e che è pronta ad essere adoperata in caso di cattivo tempo o di eccezionale necessità.

Molti sono i proverbi, i detti e le locuzioni che hanno come oggetto la speranza (taluni sono anche negativi) ma non è possibile elencarli tutti.

In questo periodo così difficile per l’umanità a causa della pandemia da Covid-19 è quanto mai indispensabile sperare, non abbattersi, pensare che tutto migliorerà e risorgerà al più presto o per lo meno augurarsi che questo possa accadere quanto prima. Credere con ottimismo che il mondo riuscirà a risollevarsi, come si suole dire, “oltre ogni speranza” ricordando le quanto mai appropriate parole di Sciascia nel suo ultimo libro Una storia semplice del 1989: “[…] non è la speranza l’ultima a morire, ma il morire è l’ultima speranza”.

 

 

 

Anatomia della speranza di fronte alla malattia.

Vitaepensiero.it- Harvard Jerome Groopman-(14.01.2021)- ci dice:

 

Recentemente ristampato, Anatomia della speranza del medico e professore di Harvard Jerome Groopman è un libro scritto nel 2006 che continua ad avere molto da dire al tempo presente. Groopman ci accompagna al capezzale di persone sofferenti, in bilico tra speranza e disperazione, volontà di reagire e cedimento di fronte al dolore. Storie che offrono un nuovo e incoraggiante punto di vista sulla speranza che, diversamente dal placido ottimismo dell'"andrà tutto bene", vede la realtà per quello che è, senza nascondere o sminuire ostacoli e difficoltà. Qui sotto un piccolo assaggio tratto dall'introduzione.

Perché certe persone, benché gravemente malate, hanno speranza, e altre no? E la speranza può cambiare il corso di una malattia, aiutando il paziente a sconfiggerla?

Ho cercato le risposte a queste domande nelle esperienze di alcuni straordinari pazienti che ho curato negli ultimi trent’anni. Essi sono stati le mie guide in un viaggio di esplorazione, partito dove la speranza era assente e approdato dove perderla era impossibile. Nel corso del viaggio ho imparato la differenza tra vera e falsa speranza. A volte ho creduto, con superficialità, che anche la falsa speranza fosse giustificata. Altre, invece, di fronte ai miei pazienti che rivendicavano il loro diritto a sperare, ho creduto, sbagliando di nuovo, che non fosse ragionevole farlo. Ma loro hanno continuato a sperare anche se io non ne ero capace, e sono guariti. Infine, una donna di grande fede mi ha mostrato che anche quando sperare per il corpo è impossibile, si può sempre farlo per l’anima. Ogni malato che ho curato mi ha guidato alla scoperta di una parte dell’‘anatomia della speranza’.

La speranza è una delle nostre principali emozioni; tuttavia, definirla è spesso difficile. Molti confondono la speranza con l’ottimismo, cioè con la propensione a pensare che «in un modo o in un altro, tutto si aggiusta». Ma la speranza è diversa dall’ottimismo. Non nasce dalle sollecitazioni a ‘pensare positivo’ o dall’ascolto di rosee previsioni. Diversamente dall’ottimismo, la speranza non ha niente a che vedere con una percezione edulcorata della realtà. Anche se è impossibile dare della speranza un’unica definizione esauriente, ne ho trovata una che mi sembra riassumere bene ciò che, in proposito, ho imparato dai miei pazienti. La speranza è il sentimento confortante che proviamo quando scorgiamo con l’occhio della mente il cammino che può condurci a una condizione migliore. Inoltre, la speranza non nasconde né sminuisce gli ostacoli e le insidie che incontriamo strada facendo. In altre parole, non bisogna confondere speranza e illusione.

La speranza ha buona vista, e così ci aiuta ad affrontare i momenti difficili e a superarli. In tutti i miei pazienti, la speranza – quella autentica – si è dimostrata non meno importante dei farmaci e delle terapie che ho usato per curarli. Ma per rendermene conto, ho dovuto giungere a una fase piuttosto avanzata della mia vita professionale.

Al tempo dell’università, quando seguivo le lezioni ma anche quando facevo pratica nei reparti, i malati erano per me e gli altri studenti soprattutto un’affascinante sfida intellettuale. La formulazione della diagnosi e l’individuazione della terapia più efficace erano attività mentali molto simili al lavoro dell’investigatore. Cercavamo nel passato del paziente e nella sua condizione fisica attuale gli indizi sulla sua salute. Il retroterra familiare, le esperienze lavorative, i viaggi, il modo di vivere e i rapporti personali erano fonti di informazioni per risolvere l’enigma clinico.

 La storia familiare forniva dati sulle caratteristiche ereditarie che possono predisporre a questa o quella patologia; i precedenti lavorativi potevano rivelare l’esposizione a composti cancerogeni e metalli nocivi; i viaggi suggerivano contatti con microrganismi capaci di causare malattie esotiche, rare o assenti negli Stati Uniti ma comuni in altre parti del mondo; le abitudini come fumare o bere alcolici erano noti fattori di rischio per varie patologie, mentre i rapporti intimi erano importanti in relazione a una serie di infezioni, dalla gonorrea alla sifilide, all’HIV.

Risolvere un caso clinico difficile e individuare la terapia più efficace è un esercizio intellettuale estremamente gratificante; tuttavia, la ricostruzione del retroterra e della storia personale del malato dà al medico l’opportunità di indagare su un altro ‘mistero’: quello del ruolo della speranza e della disperazione nell’equazione della guarigione.

Per quasi tre decenni ho esercitato la professione di medico specializzato in ematologia e oncologia, curando pazienti affetti da tumori, malattie del sangue, HIV ed epatite C. Ho anche effettuato ricerche nel mio laboratorio, studiando le alterazioni genetiche e proteiche che accompagnano queste malattie. Ma per molto tempo, al capezzale dei malati o seduto ai banconi del laboratorio, ho sottovalutato l’impatto della speranza sulla salute dei miei pazienti. Infatti, anche se ovviamente non ignoravo del tutto questo sentimento, era all’interpretazione degli esami di laboratorio, delle immagini diagnostiche e delle biopsie che dedicavo quasi tutta la mia attenzione. Ma le informazioni così ottenute, benché indispensabili alla diagnosi e alla terapia, erano insufficienti. Quello che mancava andava imparato con l’esperienza. Dovevo essere messo alla prova, non più in modo astratto, ma avendo di fronte ostacoli reali, sia come medico sia come paziente.

Una vasta letteratura popolare sostiene che le emozioni positive influenzano l’organismo, nella salute come nella malattia. Si tratta, però, di una letteratura in gran parte vaga e inconsistente, incline a scambiare i desideri con la realtà. Nelle opere di questo tipo, la speranza è descritta come una specie di panacea, capace da sola di liberarci da patologie di ogni genere. In quanto scienziato e persona razionale, che ha imparato a ricostruire la sequenza del DNA e a studiare la funzione delle proteine, ho cercato di evitare i trabocchetti di una visione mitica della speranza e dei suoi effetti. Ma così facendo, ho finito col chiudere tale sentimento fuori dalla porta e ho impedito alla mia intelligenza di comprendere la sua importanza in quanto catalizzatore della guarigione.

 

Un’esperienza personale mi ha aperto la mente. Per circa diciannove anni, dopo un intervento chirurgico non riuscito alla colonna vertebrale, ho vissuto in un labirinto di ridotte prestazioni fisiche e periodiche riacutizzazioni del dolore. Poi, grazie a una serie di circostanze fortuite, ho trovato una via d’uscita. Mi sono sentito come se mi avessero restituito la vita e ho capito che solo la speranza mi aveva permesso di riprendermi. La speranza ritrovata mi aveva spinto a partecipare a un programma terapeutico impegnativo e originale e fornito la determinazione necessaria a portarlo a termine. Senza la speranza avrei trascorso il resto dei miei giorni prigioniero della sofferenza. Ma ho avuto anche la sensazione che nel mio caso la speranza avesse fatto di più che spingermi ad approfittare di un’occasione e a non arrendermi. Sono convinto che essa abbia avuto effetti reali e profondi non solo sul mio stato emotivo, ma anche su quello più propriamente fisico.

In quanto uomo di scienza, non mi bastano le impressioni; perciò, ho intrapreso un’indagine scientifica rivolta ad appurare se il sentimento vivificante della speranza possa veramente contribuire alla guarigione. Ciò mi ha permesso di scoprire che esiste una vera e propria biologia della speranza.

Ma quale portata ha? Quali sono i suoi limiti? La scienza sta dimostrando che un cambiamento dell’atteggiamento mentale è in grado di modificare la biochimica cerebrale. L’attesa fiduciosa – un aspetto chiave della speranza – può fungere da antagonista del dolore, provocando la liberazione di sostanze, le endorfine e le encefaline, che simulano l’effetto della morfina. In certi casi, la speranza può influenzare profondamente anche fondamentali processi fisiologici, come la respirazione, la circolazione del sangue e la locomozione. È quindi possibile immaginare che durante la malattia, la speranza causi una specie di ‘effetto domino ’, una reazione a catena in cui ogni singolo risultato biologico rende più probabile il miglioramento. È un sentimento che ci trasforma in modo radicale, nello spirito e nel corpo.

Cerco la speranza ogni giorno, per i miei pazienti, per coloro che amo e per me stesso. È una ricerca ancora in corso. In queste pagine, narro quello che mi ha regalato fin qui.

 

 

 

La “vera vita” secondo François Jullien.

Daniele Baron legge François Jullien.

Laterza.it- Daniele Baron-(8 settembre 2021)- ci dice:

( Filosofia e nuovi sentieri) .

«Un mattino, quando il giorno non è ancora cominciato né ha dispiegato il suo corso fatale, un dubbio si insinua in noi: la vita potrebbe essere tutt’altra rispetto a quella che stiamo vivendo. Dubbio tanto insidioso quanto vertiginoso, forse il più antico del mondo, sorto con il mondo stesso: la vita che viviamo potrebbe non essere davvero la vita. Potremmo non avere nemmeno cominciato a esplorarla. Potremmo non avere neppure iniziato a vivere veramente».

La vita può essere oggetto di riflessione? Può essere un argomento per il pensiero oppure è posta su un piano differente, nell’immediatezza, e il pensiero per essere tale deve per forza astrarre dalla vita?

Ha ragione chi dice: primum vivere, deinde philosophari?

Per il filosofo e sinologo François Jullien la ricerca di quella che definisce la “vera vita” è essenziale e urgente per ogni individuo, ma deve essere intrapresa attraverso gli strumenti propri della filosofia, sgombrando il campo da tutta quella pseudo-filosofia che al giorno d’oggi è tanto in voga.

Infatti, molti tematizzano la vita senza sforzarsi di darne una definizione, come se fosse ovvio ciò a cui si riferiscono o come se non fossero in grado di farlo; il che rende i loro discorsi sulla vita delle nebulose, forse emozionanti e poetiche, ma di certo non significative da un punto di vista concettuale. Oppure c’è di fa di questo tipo di pensiero un mercato, come testimoniato dalla pletora di libri di successo che affollano gli scaffali delle librerie, farciti di frasi di buon senso spacciate per filosofia, libri di “auto aiuto” che commercializzano il tema della vita con una trattazione superficiale per una ricerca della felicità.

La riflessione sulla vita è un tema urgente e universale e il pregio del libro di Jullien è proprio quello di costruire un percorso profondo e originale da un punto di vista teoretico, ricollegando la tradizione occidentale con quella orientale.

Jullien parte da una constatazione molto semplice, come si è visto nella prima citazione: a ciascuno di noi capita un giorno o l’altro il dubbio di non vivere veramente o per meglio dire di condurre quella che non è la vera vita. Il dubbio è tremendo, è come un terremoto, perché mette in discussione tutto, fa crollare ogni certezza, è più comodo e tranquillizzante obliterarlo.

Da qui origina l’atteggiamento filosofico, dalla tematizzazione del dubbio che in ognuno sorge sulla vera vita. Ciò è molto difficile perché «il paradosso fondamentale della vita, infatti, è che essa non coincide originariamente con se stessa. Se “la vera vita è assente” come ha detto Rimbaud con una formulazione divenuta decisiva, ciò non dipende da qualche incidente o malessere personale […] ma dalla capitale contraddizione che affligge la vita stessa» .

Se l’essenza della vita è la mancanza di coincidenza con sé, con il passare del tempo ogni persona avverte uno scarto tra la vita ordinaria, vincolata alla ricerca della soddisfazione, e un’altra vita possibile, che sembra far scivolare nell’illusione la prima.

«Quello di cui ci si rende conto è che la vita che si conduceva prima e che si reputava essere davvero la vita non era forse altro che una vita apparente, fittizia o falsa: forse era solo una pseudo-vita in cui ci si teneva al sicuro – al riparo – rispetto a ciò che la vita è effettivamente».

La vera vita per molti pensatori, tuttavia, sembra essere assente da questo mondo, ma raggiungibile Altrove; questa posizione metafisica, inaugurata da Platone ma ripresa pur con sfumature differente in tutta la storia del nostro pensiero, non è condivisa da Jullien.

«La vera vita infatti non è la vita che sogna di essere perfetta, la vita pienamente appagata, conforme all’idealità, la “vera vita” del platonismo, che si richiama alla salvezza di Lassù, che trova la verità nell’Essere o in Dio» . Allo stesso tempo, Jullien mostra come non si debba cadere nell’estremo opposto, nel vitalismo, in cui la vita diviene valore di per sé nella sua autoaffermazione, come in Nietzsche. Infatti, se «la vera vita non è la scoperta di un’altra vita che la metafisica proietta nell’al di là, non è neppure un altro modo di vivere come quello predicato da Zarathustra» .

Per Jullien occorre riuscire a elaborare quella che chiama una metafisica minima: un pensiero che non si lasci all’esperienza dell’empirico, che oltrepassi la chiusura del mondo e dell’esperienza senza però fare appello a un altro mondo o a un’altra esperienza. Un pensiero che è una critica alla nostra idea di sapienza, che ha prodotto uno scarto tra conoscere ed esistere, tra vita e verità. Solo in questo modo si può operare un ricongiungimento tra verità e vita e arrivare a riflettere in modo esatto sulla vera vita.

Il concetto di vera vita si tiene lontano da tutte le enunciazioni positive sulla vita, proprio perché la vita non può essere definita senza incorrere in equivoci e in dispute senza fine.

Un capitolo molto denso e interessante dal titolo significativo Vite Perdute (cfr. pp. 79-109) dell’opera di Jullien è dedicato all’analisi della non-vita che sembra caratterizzare molte delle esistenze della nostra società contemporanea. Un’analisi approfondita della non-vita, infatti, è in grado di farci capire come intraprendere il cammino verso la vera vita.

 Una vita perduta, la non-vita, è la vita rassegnata: quando ci si rassegna si è passivi, non si è più aperti all’inaudito che porta con sé la vera vita, si perde la speranza. In un mondo dominato dal mercato, dove tutto è tecnicizzato, la vita si reifica, vale a dire diventa cosa tra le cose, «la mia vita si è persa in quanto si è alienata: è divenuta estranea a se stessa a causa del formidabile sfruttamento, della dominazione, delle influenze o dei condizionamenti che essa subisce» .

L’alienazione imposta dalla società, dai condizionamenti esterni della società capitalistica, per Jullien corrisponde agli atteggiamenti esistenziali della rassegnazione e dello sprofondamento.

Come ci si può ribellare a questo stato di cose che ha prodotto la non-vita? Ciò che è certo per Jullien è che questa situazione ci permette di intravedere cosa può essere la vera vita: la negazione della vita reificata.

«Ecco che allora, per via negativa, la non rassegnazione ci sollecita a ribellarci contro l’accettazione, compiuta con troppa facilità […]; il dis-occultamento ci sollecita a de-concidere con il già-là instaurato dalla vita ripiegata nell’adeguazione e condotta all’inverzia; la dis-alienazione ci sollecita a ribellarci contro il fatto che la vita si sia lasciata espropriare da se stessa […]; la de-reificazione, infine, ci sollecita a rifiutare che la vita subisca l’appiattimento allo stato di cosa» .

La ribellione alla non-vita a cui si è ridotta la nostra vita avviene sempre per uno stimolo esterno: «la vita può rimettersi in movimento, riacquistare il suo slancio […] solo grazie ad un incitamento proveniente dall’esterno»), che ci fa capire che la vita potrebbe essere tutt’altra cosa.

I capitoli conclusivi sono dedicati a indicare al lettore quale potrebbe essere la vera vita, con la precisazione che la vita non è oggetto insegnamento o apprendimento, non si può “imparare a vivere”, non ci si può preparare a vivere, perché nel vivere si è già sempre implicati, si può solo in senso profondo tentare di vivere. La vera vita non ha un’essenza, si può quindi solo definire negativamente, come resistenza alla non-vita, alla pseudo-vita in cui la vita cede alla rassegnazione, sprofonda, si aliena o si reifica. Tentare di vivere vuol dire in primo luogo quindi resistere alla non-vita che s’infiltra.

«La definizione migliore, la più esplicita e la più densa, di ciò che significa vivere, nella sua contraddittorietà, potrà forse essere questa. Da una parte, vivere è l’immediatezza, anzi la sola immediatezza possibile. Dall’altra, il vivere va cercato, conquistato, tentato – bisogna “tentare di vivere”. È dunque necessaria una mediazione incessante e prima di tutto da parte del pensiero che deve spingerci a non cadere nella rassegnazione, a disseppellire, disallineare e dereificare la vita. Questa interminabile mediazione è necessaria per avere accesso all’immediatezza del vivere: la mediazione del no detto alla non-vita per potersi elevare alla vita che vive» .

 

 

 

Quanta energia serve per vivere bene?

Qualeenergia.it- Alessandro Codegoni-(7-2-2020)- ci dice:

 

Di quanta energia avrebbero bisogno i più poveri del mondo per vivere una vita dignitosa? E quale dovrebbe essere la soglia massima che non migliora lo sviluppo umano? Con le rinnovabili ce la possiamo fare?

Una delle obiezioni ricorrenti di chi nega cambiamento climatico e necessità di cambiare il sistema energetico è questa: “con le rinnovabili non potremo mai dare abbastanza energia ai poveri, così che escano dalla loro condizione”.

In questi casi verrebbe voglia di rispondere “perché, con carbone, petrolio e gas, ci si è riusciti?”.

Ma bisogna riconoscere che questo tipo di argomentazioni tocca un punto importante e trascurato: di quanta energia, non solo elettricità, carburanti e combustibili, ma anche quella contenuta negli oggetti, dai frigoriferi alle toilette, e nelle infrastrutture di base, dalle strade agli acquedotti, avrebbero bisogno i più poveri del mondo per vivere una vita dignitosa?

Solo una volta conosciuto questo livello, allora potremmo veramente valutare se sia raggiungibile o meno dalla produzione energetica.

La risposta alla domanda l’ha appena data, con un articolo su Nature Energy, il professor Narasimha Rao, analista dei sistemi energetici per “l’International Institute for Applied Systems Analysis” a Vienna.

«Abbiamo calcolato quanta energia servirebbe per dare la possibilità a ognuno dei 3 miliardi di poveri, quelli che vivono con meno di 3 dollari al giorno, di condurre una “vita decente”, intendendo con essa il raggiungimento di tutti gli obbiettivi di sviluppo umano sostenibile previsti dall’Onu per il 2030: dall’eliminare la malnutrizione al dare a tutti abitazioni di buona qualità, dal garantire l’ educazione scolastica a maschi e femmine fino al provvedere infrastrutture di comunicazione per muoversi, informarsi e condurre una vita sociale», dice Rao.

Nel calcolo sono stati quindi inclusi non solo i consumi diretti, ma anche quelli necessari per la coltivazione di cibo per una dieta sana, produzione di oggetti indispensabili a migliorare la vita, funzionamento dei trasporti pubblici e costruzione di strade e scuole e così via.

«Applicando questi criteri a India, Brasile e Sud Africa, tre paesi diversi per clima, economia e situazione sociale, è risultato che per condurre una vita decente, agli indiani poveri basterebbero 3.055 kWh pro-capite annui, ai sudafricani 4.500 e ai brasiliani 6.100».

Consumi bassissimi, se si considera che l’italiano medio usa ogni anno 35.000 kWh.

E l’analisi risulta ancora più sorprendente se si considera che, in teoria, per ottenere questa “vita decente” per tutti i poveri non ci sarebbe neanche bisogno di aumentare l’attuale produzione energetica in quei tre paesi: i consumi pro-capite sudafricani sono infatti già di 31.000 kWh annui, quelli brasiliani di 17.000 e gli indiani di 7.000, mentre la media planetaria è di 21.000 kWh.

«Ovviamente nel calcolo dei consumi energetici pro capite finiscono anche attività che non ritornano ai cittadini locali, come l’energia assorbita da miniere, industria, trasporti e agricoltura che lavorano per l’export», precisa Rao.

«E poi, ancora più importante, c’è la disuguaglianza economica: anche in India, Brasile e Sud Africa, moltissimi sono sopra e alcuni molto, molto più sopra dei livelli della “vita decente”. Ma attenzione, i livelli che abbiamo calcolato, non sono il massimo a cui tutti dovremmo aspirare, ma solo il minimo che dovrebbe essere garantito a ogni umano sul pianeta».

E la soglia massima di consumi energetici?

Ma quale sarà, allora quel “livello massimo a cui aspirare”? Conoscerlo sarebbe fondamentale per capire dove si stanno dirigendo i consumi energetici globali, soprattutto ora che, secondo gli economisti della Brookings Institution, oltre il 50% dell’umanità è ormai “classe media” e quindi aspira a livelli di vita simili a quelli dei paesi industrializzati.

Rao e colleghi intendono quantificare quel livello in una futura ricerca, ma una sua valutazione era già contenuta in uno studio del 2016 pubblicato su “Energy for Sustainable Development”, da un gruppo di ricercatori coordinati dall’economista Iñaki Arto, del Centro basco di studio del cambiamento climatico.

In quel caso Arto e colleghi avevano incrociato due dati: il consumo di energia pro capite delle varie nazioni e l’indice di sviluppo umano dell’Onu, o Hdi, che combina i livelli di reddito, educazione, longevità, salute e socialità negli Stati, in un singolo numero che varia da 0 a 1, con 1 indicante la “società perfetta”.

Per ottenere dati sui consumi pro-capite più aderenti allo scopo dello studio, ai consumi individuali per elettricità e combustibili, nella ricerca è stata sommata anche l’energia contenuta negli oggetti e servizi che il cittadino medio acquista durante l’anno, così che si possa vedere anche l’energia che consumiamo attraverso le importazioni dall’estero: un indice chiamato “impronta energetica”.

È risultato che le nazioni che hanno basse impronte, hanno anche bassi Hdi, e che aumentando i consumi energetici, vedono anche crescere in parallelo il loro Hdi, a dimostrazione di quanto l’energia sia importante per lo sviluppo umano.

Questo però non accade più in nazioni “sviluppate”, quelle cioè che hanno Hdi superiori a 0,8 (l’Italia è a 0,88): per i loro cittadini medi, aumentare l’impronta energetica, cioè consumare e comprare ancora di più, non serve molto a far crescere lo sviluppo umano.

Così si possono avere nazioni molto sviluppate, Hdi sopra 0,9, con consumi energetici diversissimi: al giapponese medio, per esempio, bastano 54.000 kWh l’anno, contro i 73.000 dello svedese medio e i 98.000 pro-capite dell’impronta pro capite degli statunitensi, ma non si può dire che giapponesi o svedesi siano “sottosviluppati” rispetto agli americani.

Inoltre, a conferma che i consumi energetici da un certo livello di sviluppo in su non sono più importanti per la qualità della vita, il fatto che negli ultimi anni nelle nazioni con Hdi sopra gli 0,8, lo sviluppo umano è ancora cresciuto, nonostante una diminuzione dell’impronta, grazie alla maggiore efficienza energetica e in economie sempre meno basate sull’industria pesante.

«Tutto questo ci indica che un’impronta energetica pro capite intorno ai 30.000 kWh, cioè quella della Polonia, che ha un Hdi di 0,811 basta per portare a un soddisfacente livello di sviluppo umano», conclude Arto.

Con quale energia soddisfare i bisogni umani.

Ma veramente potremo dare a tutti quell’energia, del 50% superiore all’attuale media globale, agli 8 miliardi di abitanti del mondo, o, ancora più arduo, ai 10 miliardi previsti per il 2050?

Certamente con l’80% di energia proveniente dai combustibili fossili attuale, come accade oggi, no di certo: sfasceremmo il clima planetario. Ma la conversione alle fonti rinnovabili offre una speranza di riuscirci.

Prima di tutto perché produrre calore e movimento ad esempio con l’elettricità solare è molto più efficiente che usando carbone, petrolio o gas. Secondo Mark Jacobson dell’Università di Stanford, un mondo a energia 100% rinnovabile, ne richiederebbe il 50% di meno a parità di servizi offerti.

 

Secondariamente, perché la “offerta solare” è veramente immensa. Per produrre 30.000 kWh per 10 miliardi di persone, considerando 200 kWh l’anno di produzione per metro quadro di pannello solare, servirebbero 1,5 milioni di kmq di terreno coperto da moduli, pari alla superficie di un sesto del deserto del Sahara. Se poi veramente servisse metà energia rispetto ad oggi, ne “basterebbero” 750mila di kmq, cioè come la superficie del Cile.

E visto che, ovviamente, all’energia solare si affiancherebbero poi tutte le altre fonti rinnovabili, sembra proprio che sia questa l’unica strada, veloce e realistica, per dare abbastanza energia a tutti per condurre una buona vita.

 

 

 

 

LA SPERANZA È UN’EMOZIONE …

Infermiereonline.org- Mariana Ramona Marin-(24 agosto 2020)- ci dice :

(Infermiera Cure palliative, Roma).

 

Ritrovarsi in isolamento per covid 19 dopo un turno in Hospice, dopo una notte in cui hai avuto un decesso e hai dovuto comunicare telefonicamente a una figlia che ha appena perso il padre senza neanche avere la possibilità di dargli un ultimo saluto.

È una doccia fredda.

Ramona, infermiera in cure palliative, pensavo di rimanere eroina fino in fondo senza passare ciò che ho visto sotto miei occhi in tanti momenti al lavoro. Sai già a che cosa vai incontro non solo clinicamente ma anche psicologicamente perché hai sempre avuto a che fare con il dolore, dolore in tutti sensi della parola.

 

Sono stata sempre molto attenta ai bisogni dei miei pazienti ma anche della famiglia.

Ora qui mi sto rendendo conto quanto sono simili questi bisogni, quante volte mi sono trovata ad affrontare situazioni così… si molto simili perché qui non si fa altro che gestire i sintomi nei casi più semplici, oppure usando protocolli nelle fasi più difficili.

Protocolli che noi delle cure palliative conosciamo perché con la morte abbiamo avuto sempre a che fare.

Alleviare la sofferenza e mantenere la dignità della persona fino alla fine è la nostra filosofia esistenziale e di vita, ascoltare, accompagnare, mantenendo le distanze, senza un tocco della mano, senza un sorriso, un abbraccio confortante, un volto conosciuto, ormai neanche sguardi perché la paura si percepisce ovunque.

Non puoi rimanere inerte senza sapere almeno se quella persona ha qualcuno al mondo: figli, mariti, mogli, genitori, sorelle, fratelli, amici, preoccupati, senza sostegno, immersi nei pensieri del terrore.

Magari come me ti trovi in un Paese che non è tuo e devi rassicurare con un filo di voce chi sta lontano per proteggerlo, per non fare capire il tuo dolore e la situazione nella quale ti trovi… e chi un cellulare non lo ha?

L’unico modo di comunicazione, di rassicurazioni ma purtroppo anche di addii. Vi prego non sottovalutare questo, sono dolori che ti segnano la vita!

Riflettere su ogni colloquio avuto in Hospice… di supporto, comunicare una cattiva notizia, assistere con dignità fino alla fine mantenere una buona qualità della vita, dando vita ai giorni e non giorni alla vita, ora mi tocca provarlo su di me, pensando ai miei bisogni e cercare la forza in ogni angolo di me stessa con la speranza di tornare al più presto in corsia riportandomi anche questa lezione e dare ancora di più.

Il covid 19 e le cure palliative sono come due sorelle che vanno a braccetto, rinforziamo questo rapporto così familiare, hanno la stessa anima, si respira l’aria della sofferenza … alcuni giorni ti senti come un leone altri giorni ormai pensi di essere arrivato a quel punto chiamato fine.

Inizi a farti mentalmente mille scenari, ma quello più bello che frulla nella mente è il momento che puoi finalmente uscire, respirare l’aria della primavera, sdraiarti sopra l’erba e guardare il ballo delle foglie appena verdi… e renderti conto che sei fortunato… che qualcuno lassù veglia su di te.

“Siamo qui per aiutare a vivere la più alta qualità di vita e, quando non è più possibile, per facilitare la più grande qualità di morte”.

La speranza è un’emozione, e io di emozioni mi nutro, c’è la metterò tutta per farcela!

E poi, ritornando a mettere di nuovo quel camice provi quella sensazione strana difficile da spiegare in parole…un misto di emozione e voglia di riprendere e tornare alla normalità, ma in ogni movimento ti ritrovi a vivere quei momenti vissuti lì, in quella stanza, ma dall’altra parte e sento l’ecco di ogni parola scritta nel mio racconto.

Parole che resteranno dentro a vita, uscite con dolore dal dolore, con sincerità dalla paura.

Sono tornata con quella voglia di donare soprattutto ciò che a me mi è mancato perché, nessuno e niente mi toglierà il mio dono più prezioso, il sorriso.

Neanche a te maledetta mascherina non ti temo, si può sorridere anche con gli occhi, con le parole, pur per dare conforto e garantire un’alta qualità di vita…e non solo.

 

 

 

La speranza non è razionale

 ma può cambiare il mondo.

Editorialedomani.it- Martha C. Nussbaum-(15 settembre 2020)-ci dice:

 

"La propensione alla speranza in tempi difficili sembra in qualche modo collegata all’eventuale esito positivo, se esso si verifica. Se il paziente o la famiglia abbandona la speranza (o espande erroneamente la speranza in un eccesso di aspettative), ciò probabilmente significa che non verranno provate nuove terapie”.

“La speranza si espande verso l’esterno, la paura si contrae. Ma se contengono sostanzialmente lo stesso concetto e se non sono le probabilità a fare la differenza, che cosa distingue i pensieri e le attitudini della persona che produce questa diversità di sentimenti?”

"La speranza implica la visione di un mondo positivo che potrebbe realizzarsi e, spesso almeno, le azioni legate al suo conseguimento. L’effetto placebo mostra che, almeno in molte situazioni, pensare che si guarirà produce un reale miglioramento”.

(Martha C. Nussbaum è una delle più importanti filosofe viventi, insegna Law and Ethics alla Law School della University of Chicago. Questo brano è tratto dal suo nuovo libro appena pubblicato per il Mulino, La monarchia della paura, in libreria da oggi).

Cos’è la speranza? È un’emozione bizzarra. E stranamente, nonostante la sua importanza, non è quasi mai discussa estesamente dai filosofi. Una concezione diffusa chiaramente inadeguata è quella per cui la speranza implica il desiderio di un risultato, sommato alla previsione che tale risultato sia abbastanza probabile.

Ciò è sbagliato per tre motivi. Innanzitutto, la speranza in realtà non dipende dalla nostra valutazione delle probabilità. La gente spera in un buon esito medico per sé o per i propri cari anche quando la prognosi è fosca. Infatti, quando aumenta la probabilità di un buon risultato, la speranza inizia a sembrare superflua e viene spesso sostituita da allegre aspettative.

 (La stessa cosa accade con la paura: quando l’esito negativo si approssima alla certezza, la paura si trasforma in disperazione o fatalismo o in un terrore che svuota la mente).

 La propensione alla speranza in tempi difficili sembra in qualche modo collegata all’eventuale esito positivo, se esso si verifica. Se il paziente o la famiglia abbandona la speranza (o espande erroneamente la speranza in un eccesso di aspettative), ciò probabilmente significa che non verranno provate nuove terapie. Se una nazione rinuncia alla speranza quando viene attaccata da un nemico potente, non intraprenderà strategie coraggiose che alla fine potrebbero rivelarsi vincenti. La connessione tra speranza e azione è importante.

ACCETTARE L’IMPOTENZA.

Il secondo problema inerente alla concezione legata al desiderio e alla probabilità è che la speranza implica non solo il desiderio di qualcosa di buono, ma una sua valutazione come bene importante, che vale la pena perseguire (questa valutazione potrebbe essere sbagliata, quindi stiamo solo parlando di ciò che la persona pensa). In questo momento desidero un cono gelato, ma non spero di averne uno: è troppo banale, a mio avviso, per tale emozione. (Quando avevo 5 anni speravo in un gelato, perché nel mio mondo di bambina era davvero importante! Anche gli adulti a volte sperano in cose davvero banali – per esempio la vittoria della propria squadra del cuore – che però dentro di loro assumono enorme importanza, come il bambino con il gelato.)

L’esempio del gelato mi conduce a un ulteriore problema: la speranza, come la paura, comporta sempre una significativa impotenza. In questo preciso momento desidero una bottiglia d’acqua. E se avessi voglia di andare nel seminterrato dove si trovano i distributori automatici ne prenderei una. Prima o poi lo farò. Ma non spero in una bottiglia d’acqua: ciò significherebbe che in qualche modo non sono in grado di procurarmela da sola, o che sono abituata a essere servita da persone abbastanza inaffidabili.

Gli antichi greci e romani avevano fatto propri tutti e tre questi punti, quindi non commisero l’errore di definire la speranza in termini di desiderio e di probabilità. Invece sostenevano che la speranza è parente stretta o il rovescio della medaglia della paura.

Entrambe implicano la valutazione di un risultato come molto importante, entrambe implicano una grande incertezza sul risultato ed entrambe presuppongono una buona misura di passività o di mancanza di controllo.

Pertanto agli antichi la speranza non piaceva, per quanto concordassero nel ritenerla gradevole: la speranza tradisce una mente troppo dipendente dalla fortuna. «Cesserai di temere, se avrai finito di sperare», scrive Seneca. «Ambedue si esprimono in un animo sospeso nell’incertezza, che attende con ansia il futuro».

La posizione stoica secondo cui dovremmo isolarci dagli shock dolorosi disinteressandoci di ciò che sta al di fuori di noi rimuove troppe cose, non lasciando sussistere alcun amore per la famiglia o il proprio paese, nulla che renda la vita davvero degna di essere vissuta.

Ma se lasciamo spazio all’amore profondo allora ci toccano le paure e le speranze, e talvolta un profondo dolore. Quindi dovremmo respingere la rimozione stoica sia della speranza sia della paura. Ma dovremmo riconoscere che gli stoici hanno ragione nel considerarle parenti strette. Dove hai paura avrai speranza. Qual è, allora, la differenza tra le due?

NON SOLO DOLCI DELIZIE.

Gli stoici chiamano le speranze «dolci delizie» e sanno che la paura è una sensazione orribile. Usano anche metafore come «espansione» ed «elevazione» quando si parla di speranza, mentre la paura va di pari passo con la «contrazione» e il restringersi.

Anche noi parliamo in questo modo: la speranza ha le ali, ha le piume come un uccello, si libra verso l’alto. Le colonne sonore dei film horror sanno come suscitare la paura. La musica della speranza è totalmente diversa. (Penso alla delicata e adorabile The Lark Ascending (1914) di Vaughan Williams, che esprime speranza per l’Europa nei giorni pericolosi che hanno preceduto la Prima guerra mondiale. Ma c’è una musica della speranza in ogni genere musicale.)

Le due emozioni differiscono, chiaramente, nei sentimenti caratteristici che le accompagnano e nel comportamento della persona che le sperimenta. La speranza si espande verso l’esterno, la paura si contrae. Ma se contengono sostanzialmente lo stesso concetto – vale a dire che un risultato stimato importante è incerto – e se non sono le probabilità a fare la differenza, che cosa distingue i pensieri e le attitudini della persona che produce (o sperimenta) questa diversità di sentimenti? Sembra che la differenza stia nell’enfasi. È come il caso del bicchiere mezzo vuoto e mezzo pieno. Il bicchiere è lo stesso, diverse sono l’enfasi e la prospettiva.

Nella paura ti concentri sul risultato negativo che può verificarsi. Nella speranza ti concentri sul positivo. La filosofa Adrienne Martin nel suo libro How We Hope aggiunge un aspetto molto importante. La speranza, sostiene Martin, è più simile a una «sindrome» che a un semplice atteggiamento o a un’emozione: include pensieri, immaginazione, preparativi per l’azione, persino azioni.

Non si tratta in realtà di una peculiarità della speranza; anche la paura ha forti legami con l’immaginazione e l’azione. Ma quali sono le azioni e i pensieri caratteristici della speranza? Direi che la speranza implica la visione di un mondo positivo che potrebbe realizzarsi e, spesso almeno, le azioni legate al suo conseguimento.

Alcune azioni potrebbero essere simili a quelle provocate dalla paura, poiché evitare una possibilità negativa può essere molto simile a promuoverne una positiva. La paura del pericolo, quando è proporzionata e sana, incoraggia strategie evasive che possono giovare alla sicurezza e alla salute. Eppure esiste una differenza.

Un paziente che ha molta paura può rimanerne paralizzato; un paziente fiducioso può essere più energico nel cercare soluzioni. E forse, anche se sappiamo ancora troppo poco in merito, la speranza in sé ha efficacia. L’effetto placebo mostra che, almeno in molte situazioni, pensare che si guarirà produce un reale miglioramento. La speranza non si basa su tali credenze probabilistiche, come ho detto, ma potrebbe essere altrettanto efficace.

LA SPERANZA PRATICA.

L’idea di Martin sulla connessione tra speranza e azione positiva è potente, ma la speranza non funziona sempre così. A volte la speranza è inerte e impotente e può persino distrarre dalle attività utili. Nella vita accademica conosciamo tutti persone che vivono nella speranza: sperano che un giorno scriveranno qualcosa di buono, si immaginano a leggere un bell’articolo che hanno prodotto, lo vedono stampato nelle pagine del Journal of Philosophy, ecc. Ma quel genere di cose può essere un miraggio autoindulgente o addirittura sostituirsi al lavoro. In tali casi avremmo ragione a preferire la persona che lavora senza alcun particolare atteggiamento emotivo rispetto alla persona che indulge in emozioni e fantasticherie senza lavorare.

Dobbiamo quindi distinguere – cosa che Martin non fa – tra quella che potremmo definire «speranza oziosa» e quella che potremmo chiamare «speranza pratica», che è saldamente legata e dà energia all’impegno volto all’azione. E se di certo esiste la speranza oziosa, spesso la speranza può essere davvero pratica: le belle immaginazioni e illusioni coinvolte nella speranza possono stimolare all’azione verso l’obiettivo desiderato.

È difficile mantenere l’impegno per una dura lotta senza tali pensieri e sentimenti che diano energia. La differenza tra paura e speranza è labile. È come premere un interruttore: ora il bicchiere sembra mezzo pieno. E spesso, anche se non sempre, queste immagini mentali svolgono un’importante funzione pratica, preparandomi ad agire in direzione dell’obiettivo desiderato e convincendomi che è a portata di mano.

 

 

 

Cosa vuol dire “cancel culture.”

Ilpost.it- Redazione-(12-5-2021)- ci dice:

 

Un'espressione discussa da anni negli Stati Uniti sembra infine arrivata nel dibattito italiano, spesso sovrapposta alla questione del “politicamente corretto.”

L’espressione “cancel culture”, attorno alla quale da anni ruota un acceso e rilevante dibattito nel mondo anglosassone, è entrata da qualche tempo nelle discussioni italiane in tv e sui giornali, pur con una certa confusione che contribuisce a frequenti incomprensioni.

 La “cancel culture” è stata citata da vari opinionisti per commentare la storia del “bacio non consensuale di Biancaneve”, o un monologo televisivo in cui i comici Pio e Amedeo hanno rivendicato la libertà di riferirsi alle persone nere o gay con termini ritenuti generalmente offensivi e discriminatori.

Come è successo in parte anche all’estero, il dibattito sulla “cancel culture” si è sovrapposto a quello sul cosiddetto “politicamente corretto”, un’espressione familiare a molte più persone che però negli ultimi anni è arrivata a indicare un fenomeno molto più complesso e sfaccettato di quello per cui era usata qualche decennio fa. È un discorso estesissimo che tiene dentro un sacco di cose, dai libri ritirati dal commercio per le controversie sui loro autori alle sempre più frequenti proteste sui social network quando in tv vengono dette cose razziste o sessiste.

E che ha al centro le nuove e sempre più diffuse sensibilità sui linguaggi da adottare, sulle parole da evitare e su quelle invece da introdurre nel lessico comune per essere più rispettosi delle cosiddette minoranze e delle persone in generale.

Per “cancel culture”, traducibile con “cultura della cancellazione”, negli Stati Uniti e in generale nel mondo anglosassone si intende oggi quel fenomeno per cui gruppi più o meno organizzati di persone esercitano pressioni su un datore di lavoro, committente, collaboratore o socio perché punisca o interrompa i rapporti con un dipendente o un partner professionale per via di certe cose che ha fatto, detto o scritto. Non è detto che queste pressioni vengano necessariamente esercitate sui social network, ma è molto spesso così.

In origine, nel gergo dei social, l’espressione “cancelled” indicava una presa di posizione prevalentemente personale riguardo a qualcuno che aveva detto o fatto qualcosa ritenuto disdicevole. Negli anni Dieci guadagnò popolarità e iniziò a introdurre nuove dinamiche nella responsabilizzazione dei personaggi famosi, e a dare visibilità a posizioni provenienti da gruppi di persone che prima avevano meno spazio nel dibattito.

Col tempo però l’espressione “cancelled” assunse un significato diverso. Oggi viene usata principalmente in quei casi in cui decine, centinaia o migliaia di utenti scrivono a un’università, a un editore, a una casa di produzione cinematografica o a un’azienda, chiedendo che un professore venga allontanato, che il libro di uno scrittore non venga pubblicato, che un attore venga escluso da un film o che un dirigente venga licenziato per un determinato motivo.

Questi motivi possono essere vari, più o meno gravi, possono avere rilevanza penale oppure rientrare legalmente nella libertà di espressione ma essere comunque considerati inaccettabili da chi chiede provvedimenti, nel momento in cui provengono da persone con molta visibilità o in posizione di potere. Talvolta queste pressioni non hanno conseguenze, altre volte – e succede principalmente negli Stati Uniti – vengono assecondate dal datore di lavoro coinvolto.

Uno degli esempi di “cancel culture” più famosi riguarda il regista Woody Allen, che negli anni Novanta fu notoriamente accusato dall’ex moglie Mia Farrow di aver violentato la figlia adottiva Dylan. Nonostante le accuse fossero note da decenni, e nonostante diverse indagini abbiano indicato l’assenza di prove, negli ultimi anni le rinnovate campagne contro Allen hanno spinto Amazon ad annullare un importante accordo di distribuzione per i suoi nuovi film, e la casa editrice Hachette a non fare uscire la sua autobiografia “A proposito di niente” negli Stati Uniti. Se negli Stati Uniti le conseguenze professionali per Allen sono state considerevoli, in Europa è successo in misura molto minore: in generale è stata finora meno interessata da casi come questo.

Il meccanismo alla base, insomma, è diverso dai più tradizionali boicottaggi, perché si manifesta non tanto nella decisione collettiva di non comprare un libro o non pagare il biglietto di un film al cinema, quanto nell’esplicita richiesta e nelle successive pressioni affinché il libro o il film, per restare a questi esempi, vengano ritirati dal commercio o dalla circolazione e diventino quindi non fruibili per tutti. Partecipare a questo tipo di pressioni è molto più facile – basta un social network – e può farlo anche chi non è un abituale consumatore di quel tipo di prodotto, categoria invece a cui è riservata l’arma del boicottaggio tradizionale.

Spesso però le cose assumono contorni più difficili da definire. Un esempio è la recente decisione della casa editrice WW Norton and Company di ritirare una biografia di Philip Roth scritta da Blake Bailey, su cui erano emerse accuse di abusi sessuali (Einaudi ha deciso invece di procedere con la pubblicazione in Italia). Si è trattato nei fatti di una decisione aziendale dovuta a un’analisi costi-benefici, che ha concluso che tenerlo in commercio sarebbe stato un problema e avrebbe danneggiato l’immagine della casa editrice. Ma in tanti ritengono sia stata anche questa una forma di “cancel culture” preventiva, perché il clima culturale attuale rende decisioni di questo tipo inevitabili, al di là dei giudizi sulle opere e in certi casi (non quello di Bailey, ma per esempio quello di Allen)  anche delle informazioni disponibili sulla solidità delle accuse.

Questo contesto ha un ruolo sempre più importante nelle decisioni aziendali o editoriali, anche quando sono poi concretamente ascrivibili ai funzionamenti del libero mercato. Ma del resto, non è un fenomeno di per sé nuovo che le aziende si adattino alle sensibilità dei loro clienti, guidando di conseguenza le loro decisioni. Questa ambiguità in ogni caso fa sì che, anche negli Stati Uniti, sia oggetto di discussione quanto effettivamente la “cancel culture” sia un fenomeno diffuso, tra chi tende a vederla ovunque – anche nella semplice critica a un’opinione o un comportamento altrui – e chi nega del tutto la sua esistenza.

Oltre a quello dei media e dell’intrattenimento, in ogni caso, un campo in cui il dibattito è particolarmente rilevante è quello accademico.

Negli Stati Uniti, negli ultimi due o tre anni si sono verificati un certo numero di casi di docenti o ricercatori licenziati – o che sono stati spinti alle dimissioni – perché avevano detto qualcosa che i loro studenti avevano giudicato inopportuno o discriminatorio, oppure perché avevano sostenuto direttamente o indirettamente opinioni ritenute transfobiche o razziste, secondo criteri però in molti casi quantomeno discutibili.

Spesso i suddetti professori sono stati difesi da colleghi secondo cui le proteste erano state pretestuose o esagerate, e sono in corso estese riflessioni sulla possibilità che il clima raggiunto in certe università possa finire col fare più danni che altro all’attività didattica e alla ricerca scientifica. In California, per fare un esempio, un professore è stato sospeso per aver spiegato durante una lezione di comunicazione aziendale il significato dell’intercalare cinese nei “ge”, il cui suono ricorda un’espressione razzista in inglese.

Se ne era parlato in mezzo ad altre cose in una ormai famosa e discussa lettera aperta di accademici, intellettuali e scrittori alla rivista Harper’s Bazaar, nel luglio del 2020.

Un altro problema nell’inquadramento di questo contesto è la grande varietà di fenomeni che sono gli sono stati più o meno correttamente associati: dalle pressioni rivolte verso i personaggi pubblici affinché prendano le distanze da altri colleghi o conoscenti accusati di qualcosa, fino alle proteste perché certe tracce o opere del passato siano contestualizzate meglio per descriverne i loro aspetti discriminatori, oppure in certi casi più estremi proprio eliminate (è un grande capitolo a parte).

La “cancel culture” ha critici a destra (praticamente tutta la destra) e anche a sinistra, ma è rivendicata come strumento di attivismo e di lotta politica da un popolare progressismo contemporaneo, soprattutto giovane e di matrice statunitense, a cui si fa spesso riferimento con l’espressione woke (cioè, più o meno, “consapevole”), usata soprattutto spregiativamente.

Chi difende questo fenomeno, magari anche ammettendo che le sue manifestazioni possano essere talvolta sbrigative e sommarie, sostiene sia un mezzo per combattere le diseguaglianze razziali, di genere e anche economiche, e che l’esistenza stessa di questa discussione dipenda da fattori positivi. E cioè che persone e gruppi che a lungo non hanno avuto la possibilità di intervenire nel dibattito pubblico e culturale stanno acquisendo crescenti spazi e influenza. E li stanno usando per fare pressioni affinché chi ha avuto per decenni gli spazi e il potere subisca infine le conseguenze di quelle parole e azioni che discriminano le minoranze.

Da destra, solitamente, le critiche sostengono che la “cancel culture” e tutto quello che si porta dietro comporti gravi limitazioni alla libertà di espressione.

Molti conservatori però hanno iniziato a usare l’espressione per descrivere pretestuosamente un gran numero di rivendicazioni e proteste sui diritti civili, sfruttandola per sminuire e liquidare molte questioni come capricci dei giovani progressisti.

Da sinistra le obiezioni sono invece più varie: spesso riguardano a loro volta la libertà d’espressione, con un accento sul rischio di impoverire il dibattito intellettuale stabilendo criteri troppo rigidi su quello che si può e non si può dire, a prescindere dal contesto, o di travolgere sfumature e differenze. Ma possono anche riguardare i metodi (quando per esempio sono violenti o intimidatori), i contenuti (quando le polemiche sono pretestuose) oppure i concetti dietro alla “cancel culture”.

Un ricorrente argomento mette in discussione per esempio l’idea che una singola cosa detta o fatta, per quanto disdicevole, possa definire interamente una persona e il suo futuro personale e professionale. Dato che, in certi casi, la persona oggetto delle proteste perde la possibilità di svolgere il suo lavoro.

 

La sovrapposizione dell’espressione “cancel culture” con il “politicamente corretto”, e una frequente confusione quando si parla di questo dibattito, esiste negli Stati Uniti ed è ancora più accentuata in Italia.

Il vero dibattito che sembra essere in corso in questi giorni, per esempio, è proprio quello che viene generalmente associato al concetto di “politicamente corretto”, un’espressione nata negli anni Ottanta per descrivere un modo di esprimersi che sostituisse vecchi termini offensivi con altri più rispettosi (“handicappato” e “disabile”, per esempio).

Un approccio che è stato adottato come stile di comportamento e linguaggio più nel mondo anglosassone che in molti paesi europei, Italia compresa. Politically correctness, abbreviato spesso in PC, è un concetto al centro di discussioni anche negli Stati Uniti, pur essendo secondo molti troppo superato e semplicistico per descrivere efficacemente il grande dibattito di questi anni sulle questioni identitarie e sulle funzioni della lingua nel mantenere e legittimare le diseguaglianze.

Le discussioni che negli ultimi giorni si sono sviluppate tra i social network, le pagine degli editoriali dei principali quotidiani e i programmi televisivi – quella su Biancaneve e quella su Pio e Amedeo – non riguardavano tanto la “cancellazione” di determinati personaggi, quanto la questione di ciò che sarebbe opportuno dire, fare o rappresentare riguardo alle molte questioni su cui stanno cambiando le sensibilità collettive, in un senso che include punti di vista diversi da quello storicamente prevalente (bianco, maschile, eterosessuale, cisgender).

È una discussione che ha provocato estesi allarmi riguardo alla presunta “censura” imposta agli interessati. L’obiezione più comune è che generalmente chi ne è interessato continua a disporre di programmi e pagine per esprimersi – Pio e Amedeo hanno detto quello che volevano in prima serata su uno dei canali più visti del paese – e che linguaggi discriminatori continuano a essere tollerati e sdoganati in moltissimi contesti, dentro e fuori dai media.

I punti più rilevanti e interessanti del dibattito sono probabilmente più sfumati e complessi. Uno dei principali riguarda la possibilità – già concreta per qualcuno, potenziale per altri, e trascurabile per altri ancora – che la pretesa che chi gode di visibilità sia più attento alle conseguenze di cosa fa e cosa dice sia esercitata con metodi che finiscono per compromettere un dibattito produttivo e sereno, spingendo le persone a rinunciare a esprimere certi argomenti per il timore di sanzioni sproporzionate e non giustificate.

Oppure che la diffusa e urgente richiesta di un linguaggio pubblico più inclusivo e rispettoso non sia accompagnata da un’efficace comunicazione delle sue ragioni e dei suoi criteri. A lungo il dibattito in questione è stato infatti elitario, riservato alle persone che lavorano nei media, a quelle più istruite oppure a quelle più aggiornate sulla cultura anglosassone. Vista la consolidata rilevanza internazionale della discussione, e visto che tutto lascia supporre che sarà sempre più importante, in molti segnalano la necessità di comunicare e spiegare meglio le posizioni e gli argomenti del “politicamente corretto”. Evitando insomma un approccio rigidamente prescrittivo, per prevenire il rischio che la maggior parte delle persone rimanga generalmente confusa, tendenzialmente scettica e quindi conseguentemente esclusa dal dibattito.

 

 

 

Che cos'è davvero la “cancel culture”

 di cui avete letto in questi giorni.

Wired.it-Paolo Mossetti-(17-8-2020)-ci dice:

La lettera di Harper's sulla libertà di parola ha originato un dibattito anche in Italia: ma se ne è parlato in modo impreciso, limitando il fenomeno a una serie di “boicottaggi” di sinistra più e meno sacrosanti. La realtà è ben più complessa.

Nel bel mezzo di una pandemia e di una recessione mondiali, il principio della libertà di parola è diventato il fulcro di una guerra culturale e politica tra destra e sinistra.

 La celebre lettera pubblicata dalla rivista americana Harper's, firmata da circa 150 intellettuali tra cui Noam Chomsky, J.K. Rowling, Salman Rushdie e Margaret Atwood, ha tentato di difendere la libertà di parola, spiegando che non è una dottrina di destra – in quanto spesso chiamata in causa da Donald Trump e sodali per giustificare a priori i loro toni e contenuti – ma, al contrario, un principio bipartisan radicato in valori condivisi. E ottenuto al prezzo di guerre e rivolte sanguinose, che rimane negato in molte parti del mondo e richiede una difesa costante, secondo i firmatari.

La lettera ha scatenato una polemica internazionale, arrivata fino in Italia, che si è concentrata su un fenomeno più specifico che ricomprende al suo interno la libertà di pensiero: la cancel culture, la cultura della cancellazione, ovvero la tendenza diventata molto diffusa in rete a rimuovere dalla produzione culturale persone o aziende che si considerano colpevoli di aver sostenuto – anche in passato, o con presunte singole azioni personali – valori contrari ai diritti delle minoranze, alla parità di genere, all'uguaglianza e in generale al politicamente corretto.

Seppur la cancel culture non venga menzionata nel testo, sembra essere il suo vero bersaglio (del resto su Harper's si fa riferimento, condannandolo, a “l'ostracismo e la pubblica umiliazione”). Si legge anche:

Rifiutiamo ogni falsa scelta tra giustizia e libertà, che non possono esistere una senza l'altra. Come scrittori abbiamo bisogno di una cultura che ci lascia spazio per la sperimentazione, il prendersi rischi e anche il fare errori. Dobbiamo preservare la possibilità di un disaccordo in buona fede.

Il punto centrale della lettera giocava all'interno di un frame narrativo considerato tradizionalmente di destra – nel senso che molti dei principali critici di alcune derive di un'interpretazione massimalista del politicamente corretto sono situati in quella parte politica – e quindi le critiche da essa ricevute sono arrivate soprattutto da sinistra, e si possono suddividere principalmente in quattro tipologie:                    la prima è che i firmatari della missiva sarebbero sostanzialmente dei privilegiati, dei big che non sono mai stati davvero cancellati da chicchessia (e che, anzi, sono sempre stati baciati da ricche piattaforme, che gli garantiscono visibilità e ascolto).

La seconda critica, sostenuta anche da socialisti democratici come Alexandria Ocasio-Cortez, è che la lettera di Harper's non terrebbe conto delle voci davvero marginalizzate per anni dal giornalismo mainstream e dall'editoria che conta: ad esempio gli attivisti pro-Palestina o anti-patriottici a ridosso dell'invasione dell'Iraq, o semplicemente i poveri che raccontano la propria vita e le proprie esigenze nella società capitalista.

La terza accusa, forse la più fondata, è che i firmatari hanno parlato di una grande tendenza sociale in atto, ma senza citare alcun esempio di reale censura, o qualche dato a sostegno della loro tesi.                                                      Infine, la quarta accusa, quella più grave, è di aver mescolato malignamente nozioni come “intolleranza” e “umiliazione pubblica” con il semplice chiedere conto agli intellettuali delle loro opinioni e delle loro scelte presenti e passate: una strategia per zittire le critiche future, insomma.

Che cos'è la “cancel culture”.

Il problema di queste critiche è che condividono lo stesso problema della lettera originale: non inquadrano bene il bersaglio. Perché il vero problema qui è che nessuno ha ancora capito cosa si intende con cancel culture e soprattutto quali sono i limiti dell'accettazione nel discorso pubblico che tutte le persone di buona volontà dovrebbero sottoscrivere.

Loretta Ross, un'attivista nera, ha fornito questa definizione: “Cancel culture” è quando "le persone cercano di espellere chiunque non sia perfettamente d'accordo con loro, piuttosto che rimanere concentrate su coloro che traggono profitto dalla discriminazione e dall'ingiustizia”.

Per estensione, aggiungiamo, è la pratica per fare pressione su una istituzione o una società privata per sanzionare qualcuno che altri, soprattutto online, segnalano o percepiscono come emotivamente e psicologicamente dannoso, per qualcosa che ha detto o fatto in un passato più o meno prossimo, o durante una discussione pubblica.

Ecco gli elementi chiave della cultura della cancellazione, dunque, con tutte le sfumature e le varianti che vogliamo aggiungerci: l'individuo o il gruppo che se ne fa interprete mette pressione su una terza parte per imporre sanzioni sul presunto trasgressore. Si tratta di una definizione contestabile quanto ci pare, ma che lascia maglie abbastanza larghe da poter essere applicata non solo da parte degli ultimi della società verso i famosi, i ricchi o i potenti, ma anche trasversalmente, nel basso verso il basso, in ambienti culturali molto meno vistosi.

David Shor, un analista della società di consulenza progressista “Civis Analytics”, è stato licenziato poco dopo aver twittato una ricerca di Princeton che metteva in discussione l'efficacia elettorale delle rivolte.

Il fatto che i firmatari dell'appello di Harper's siano parte di una élite non vuol dire che quel privilegio non possa essere usato per difendere chi non ce l'ha ancora. Si può credere o no alla buona fede di un firmatario quale David Frum, falco ideologico dell'amministrazione di W. Bush, o a quella di Bari Weiss, ex firma del New York Times che ha il grilletto facile sull'antisemitismo (e a sua volta ha appena lamentato di essere stata, a suo dire, cancellata e costretta alle dimissioni dal giornale per via delle sue opinioni conservatrici). Ma ciò non toglie nulla ai principi in ballo, e alla discussione su una certa mentalità che, grazie soprattutto ai social network, opera molto spesso contro gli intellettuali.

Del resto, ben prima della lettera dei 150, di questo modo di interagire si parlava anche negli ambienti della sinistra radicale: lo aveva fatto il filosofo e ideologo Mark Fisher nel 2013, definendolo “castello dei vampiri”. Esso opera, secondo l'interpretazione che ne ha dato nel 2017 la sociologa Francesca Coin, mettendo in atto una specie di una “scomunica” e “pratiche di esclusione” e “abuso reciproco”, assoldando “complici dal basso, incluso nei circoli del pensiero critico”.

Anziché spostare continuamente il discorso sui senza voce che non godrebbero dei privilegi del mercato delle idee di cui godono i firmatari (un'operazione che non risponde alla denuncia nel merito) si potrebbe allora chiedere ai risentiti dalla lettera di Harper's che si sono letti in questi giorni anche in italiano se alcuni eccessi giacobini – leggi: chiedere a un ricercatore di lasciare il suo posto di lavoro per il risultato di una ricerca – siano davvero il male necessario per far avanzare le ragioni di quei subalterni di cui sopra, da un punto di vista materiale e teorico.

Oppure se, invece, stiamo rischiando di rimanere impantanati in una lotta perlopiù simbolica che potrebbe essere, alla lunga, controproducente anche dal punto di vista del radicalismo economico. Come scrive Helen Lewis su The Atlantic, se hai a cuore le cause progressiste, devi diffidare dal capitalismo woke – cioè instancabilmente impegnato in ogni causa sociale, anche con cancellazioni improvvise per salvare la faccia col suo pubblico più pronto a mettere la mano agli hashtag – che le appoggia: “Esso agisce attivamente per bloccarle, risucchia via l'energia e ci fa illudere del fatto che il cambiamento stia avvenendo più velocemente di quanto stia facendo veramente”.

Indubbiamente, la lettera di Harper's poteva provare a definire meglio i confini dello spazio di dissenso che era disposta a tollerare. La sua vaghezza è forse stata necessaria forse per mettere d'accordo tutti i sottoscrittori, molti dei quali probabilmente animati da ipocrisia.                            Ma confondere “la cancel culture” con una forma di “boicottaggio promossa online con cui ci si dissocia da aziende o celebrità che hanno manifestato comportamenti controversi od oltraggiosi”, come ha fatto un articolo del blog Valigia Blu molto diffuso nei giorni scorsi, è quanto di più lontano esista da un inquadramento onesto del dibattito.

Un conto è boicottare un paese o un prodotto, un altro esercitare pressioni affinché a un autore discusso venga tolto il dottorato senza un confronto accademico

Un conto è boicottare un paese, un prodotto, una star di cui siamo consumatori abituali, decidendo di togliergli fondi ed esposizione per segnalare il carattere riprovevole di un suo atto o esternazione. Ad esempio la campagna #MuteRKelly è nata per boicottare un cantante milionario accusato di violenze sessuali e pedofilia da prove schiaccianti;               un conto è persino lanciare della vernice rosa sulla statua di un giornalista messo lì come modello cittadino, nonostante fino all'ultimo abbia rivendicato sornione lo sposalizio con una dodicenne e vari tentativi di depistare la verità.

Una cosa evidentemente diversa è invece esercitare pressioni affinché a un autore dalle tesi controverse venga tolto il dottorato senza un robusto confronto accademico; quando un produttore cinematografico o un editore rinunciano al film o al libro già finito per paura dei forconi del web, come nel caso del memoir di Woody Allen; quando una persona già proclamata innocente dai tribunali viene esclusa dal dibattito secondo parametri di lesa morale da gruppi accademici iper-politicizzati e molto spesso disinteressati a costruire una tenda comune per le proprie idee.

Se alla base di queste manifestazioni c'è una forte insofferenza per un confronto pacato, un conto sono le reazioni a qualcosa che viene percepito come un modello ingiusto – razzista, misogino o sessista – imposto dall'establishment;

un altro paio di maniche è interpretare le affermazioni altrui sempre e invariabilmente nel modo più imperdonabile, mobilitandosi per farle cancellare alla ricerca di una purezza di difficile raggiungimento (se esiste, è difficile che sia umana).

Un discorso del genere si può fare anche per il #MeToo: se l'esclusione dal consesso civile di Harvey Weinstein è stata cosa buona e giusta da qualunque lato lo si guardi, utilizzare le piattaforme social network per lanciare accuse senza prove, magari su fatti lontani nel tempo, o approfittare del mercato selvaggio del lavoro americano per chiedere lo scalpo di carnefici veri e presunti è, nei fatti, un rischio:                                                                        lo è stato accusare l'attore Aziz Ansari, oggetto di un'accusa infamante per un appuntamento che ha deluso le aspettative di una ragazza due anni fa.                                   O, cambiando tema, si pensi al camionista Emmanuel Cafferty, licenziato e mandato dallo psicanalista perché in una foto in cui era stato ritratto per uno scherzo aveva fatto il segno ok con la mano, e il gesto era stato prontamente scambiato per un saluto suprematista bianco.

 “Un uomo può imparare dagli errori che fa” – ha detto Cafferty – “ma cosa pensano che debba imparare da questa cosa? È come essere colpito da un fulmine”.

 

In Italia, un paese dove senatori che hanno citato i Protocolli dei Savi di Sion sono ancora al loro posto, dove programmi tv che meravigliano gli stranieri mettono scherzosamente contro “italiani” e “stranieri” con vallette seminude e presentatori maschi in giacca e cravatta, dove professori universitari possono lasciarsi andare a ogni tipo di violenza verbale sui social senza subire conseguenze, può sembrare paradossale preoccuparsi della libertà di parola: da noi alcune defenestrazioni sarebbero fantastiche, e lungamente attese. Ma il rischio di importare passivamente alcune pratiche americane in Europa è quello di rendere il cambiamento possibile soltanto su un piano simbolico, non separando il grano dal loglio e alienando nel contempo un numero crescente di ipotetici alleati per accelerare i progressi in campo sociale.

Come ha ricordato l'autore Alessandro Lolli, il fatto che la” cancel culture “venga additata (da almeno un decennio) “come il veleno che la sinistra di internet stava inoculando nella società” non è un buon motivo per negarne l'esistenza.

È ingenuo e profondamente scorretto sostenere che il fenomeno non sia altro che un “diritto alla critica”, un rendere responsabili le persone per le loro azioni.                                                             Soprattutto quando questa responsabilizzazione da un lato è mediata da multinazionali doppiogiochiste e dall'altro, tra le persone comuni, sovente manca di qualsiasi criterio di proporzionalità. Parlare oggi, persino durante una pandemia, di cancellazioni, definirne i confini, è il modo migliore per evitare che lo facciano altri. E anche quello per guardare più spesso i nostri simili come esseri umani capaci di essere persuasi, piuttosto che come nemici da punire.

 

 

 

 

 

Confusione mainstream.

Non c’è pensiero unico su cosa sia il pensiero unico.

Linkiesta.it- Maurizio Stefanini-(21 ottobre 2021)- ci dice:

 

Da Pippo Franco a Matteo Salvini fino a Papa Francesco, sono in molti a dire di sapere cosa sia questa pericolosa dittatura culturale che impone alle persone cosa pensare.                                                                                                                                        Alcuni la definiscono neoliberista, altri statalista, altri ancora antifascista.

«Che vi sia, ciascun lo dice; dove sia, nessun lo sa».

 Quel che 290 anni fa Metastasio diceva della fede degli amanti e dell’araba fenice, potremmo ora applicarlo al pensiero unico.

Chi vi sia, ciascun lo dice. È una specie di pensiero unico, che vi sia un pensiero unico: malvagio, per di più. Quale sia, è vero, in molti dicono di saperlo. Però qua il pensiero unico sul pensiero unico viene meno, perché per ognuno è qualcosa di diverso.

Attingiamo, rigorosamente a casaccio, dai media degli ultimi giorni. «Il pensiero unico c’è ed è quello del neoliberismo», scrive ad esempio il 18 ottobre sul Fatto nientemeno che il Vice Presidente emerito della Corte Costituzionale Paolo Maddalena.

Secondo lui, «la propaganda neoliberista ha talmente offuscato le menti degli italiani da impedire non la manifestazione del pensiero, ma la stessa formazione di questo, rendendo inutile addirittura l’articolo 21 della Costituzione per mancanza del suo presupposto, cioè della pluralità di pensiero».

Si potrebbe obiettare che semmai insistere a usare il termine «neoliberismo» invece del corretto «liberismo» italiano, solo per stare dietro al calco di uno spagnolo «neoliberalismo», da noi arrivato attraverso ambienti terzomondisti, potrebbe essere considerato indice di pigrizia mentale.

Ma tant’è. Il fatto è che, secondo il ragionamento di Maddalena, manifestazione di «pensiero unico» sarebbero le proteste dei No Vax! Sì, proprio quelli secondo i quali invece sono Green Pass e vaccini l’imposizione di una «dittatura sanitaria», manifestazione di un «pensiero unico» Big Pharma che, anzi, in alcune interpretazioni sarebbe esso stesso frutto del «neoliberismo» dei padroni del mondo.

«Ciò è avvenuto al porto di Trieste, dove si manifestava, con poco approfondimento della realtà economico-sociale del momento, contro il Green Pass e dove sono arrivati in massa i No Vax, i No Green Pass, alcuni soggetti ammalati di protagonismo che vogliono sfruttare la situazione per emergere politicamente, nonché infiltrati di destra e di sinistra», continua Maddalena.

Dunque, secondo lui, «nel difetto di un pensiero chiaro e plurimo può avvenire di tutto, e a Trieste, una manifestazione dalle non chiare finalità, ha richiesto lo sgombero dei manifestanti medianti gli idranti della polizia. E così tutto è tornato come prima».

Per Maddalena i No Vax sono «pensiero unico» perché sono No Vax. Per i No Vax Maddalena è «pensiero unico» perché Pro Vax. Ma cosa c’entrano i No Vax con il «neoliberismo»?

Secondo Maddalena, «fatto gravissimo è che i politici, alla pari dei manifestanti, dimostrano di aver perso il discernimento e di essere vittime anch’essi, sia quelli della maggioranza che quelli dell’opposizione, di soggiacere alla pesantissima incombenza del pensiero unico dominante. È bene chiarire che tale pensiero ha occupato totalmente il settore dell’economia e si poggia sulla teoria neoliberista, che vuole (e lo sta facendo) trasferire le fonti di produzione di ricchezza nazionale dalla proprietà pubblica del popolo nelle mani di pochi speculatori, che devono agire in concorrenza tra loro, mentre viene vietato l’intervento dello Stato-Comunità, cioè del popolo, nell’economia. Insomma obiettivo del neoliberismo è l’eliminazione del popolo, il crollo dello Stato-Comunità, la distruzione del senso di solidarietà fra i cittadini, in modo che ci siano soltanto singoli produttori e singoli consumatori».

Da quel che si capisce, i No Vax sono «pensiero unico» perché protestano contro vaccini e Green Pass, piuttosto che contro le scelte «neoliberiste».                                                                                                                 «Mentre si protesta contro il Green Pass, ai lavoratori di un’azienda strategica quale la Whirlpool di Napoli vengono confermati i licenziamenti. La stessa sorte è avvenuta per i dipendenti di Alitalia».

Ma, appunto, Alitalia è a sua volta un simbolo anche per coloro secondo i quali il «pensiero unico» è piuttosto quello di uno statalismo e assistenzialismo per il quale anche dopo l’ennesima morte e trasfigurazione si continua a spendere per una compagnia di Stato.

«Alitalia è viva e spreca intorno a noi» è ad esempio il saluto dell’Aduc. «Alitalia, ma quanto mi costi!», è quello di Ulisse online. «Per 75 anni ha portato l’Italia nel mondo (ed è costata allo Stato 13 miliardi)», quello del Messaggero. «L’ossessione della politica italiana per l’era della compagnia troppo piccola per essere grande, e troppo cara per essere low cost, è costata 13 miliardi di euro allo Stato», ricorda anche l’Istituto Bruno Leoni proprio su Linkiesta.

Peraltro, Maddalena parla di «pensiero unico neoliberista» proprio nel momento in cui Biden e l’Unione Europea stanno stanziando somme in quantità per un massiccio intervento pubblico di risposta alla pandemia che si configura davvero come un ritorno al New Deal di Roosevelt.

Giusto un paio di anni fa, però, era stato il presidente messicano Andrés Manuel López Obrador a uscirsene che sarebbero «colpa del neoliberalismo» pure i femminicidi.

Né mancano una quantità, di analisi secondo le quali è colpa del «neoliberismo» o «neoliberalismo» pure il Covid: manco non fosse stato scatenato dalla mancanza di trasparenza di un regime comunista, ancorché “di mercato”!

Comunque secondo Andrea Bernaudo, candidato sindaco che per i Liberisti Italiani ha preso a Roma 1.046 voti, «noi liberisti in Italia ci sentiamo degli eretici rispetto al pensiero unico dominante statalista, socialista, corporativo e contro le libertà economiche». Ma, appunto, a riprova che poi per ognuno il «pensiero unico» è cosa diversa, sul Giornale Marco Gervasoni appioppa il termine alla fissazione dell’antifascismo.

O meglio, in realtà non è che la locuzione appare nell’articolo: una requisitoria contro «l’uso politico della storia, cioè propaganda, clava mediatica usata contro il centrodestra dal mainstream, che è quasi totalmente di sinistra», che magari potrebbe anche essere condivisibile, se si aggiungesse che spesso chi si lamenta per l’abuso dell’antifascismo nelle campagne elettorali finisce per dare del comunista in modo altrettanto isterico.

Però, appunto, ha pensato di ricorrere al termine il titolista. E probabilmente «mainstream» è davvero quello il modo migliore per tradurlo. «Il mainstream del pensiero unico» dice infatti direttamente qualcun altro. Chi? Il comunista Marco Rizzo, secondo cui questo «pensiero unico controlla l’Europa Unita».

Dunque, il «pensiero unico» oltre che neoliberista, statalista e antifascista può essere anche anticomunista. «Viviamo periodo cupo con pensiero unico», osserva anche Salvini. Stando anche il suo partito in un governo di larghissime intese, va letto come autocritica?

«In Europa la presenza di Dio è annacquata dal pensiero unico», dice pure Papa Francesco.                                                                                                            «L’Uaar si distingue dalla maggior parte delle religioni anche perché non aspira a “omogeneizzare” il pensiero dei suoi aderenti. Anzi, è contraria a ogni forma di pensiero unico, in qualsiasi campo lo si voglia imporre» gli risponde l’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionali.

«Vi svelo il pensiero unico della sinistra» è stata pure una chiave della campagna elettorale con cui Pippo Franco ha preso 32 voti. E, sempre pescando a caso, troviamo un duro attacco alla «economia capitalista, pensiero unico oggi dominante» da parte, non di un Centro Sociale, ma di Radio Radio: quella da cui veniva il candidato del centro-destra romano Enrico Michetti.

Su cui ancora ferve il dibattito: perché ha perso? Già. Perché?

 

 

 

Il regime del “pensiero unico”.

Ilgiornale.it- Marco Gervasoni-(10 Ottobre 2021)- ci dice:

 

Lo diciamo da docenti universitari di storia contemporanea: basta con tutta questa litania sul fascismo, sull'Italia che non avrebbe fatto i conti con il regime, sugli eredi del Duce a cui sarebbe chissà perché preclusa una candidatura: in una parola, su questo continuo guardare indietro.

 Tipico di un paese anagraficamente anziano, con élite vecchie anche mentalmente e in cui i giovani sono considerati delle fastidiose anomalie.

 Che poi non è neanche storia, questo continuo cianciare di fascismo, ma è uso politico della storia, cioè propaganda, clava mediatica usata contro il centrodestra dal mainstream, che è quasi totalmente di sinistra.

Inoltre pur con tutto il parlare di fascismo, nell'ultimo ventennio gli studi storici sul regime non hanno marcato nessuna evoluzione: più si strumentalizza il fascismo, meno lo si conosce.                                                                     Come non se ne può più della protervia di chi si erge a rilasciare patenti di antifascismo, ora soprattutto nei confronti di Giorgia Meloni e di Fratelli d'Italia.

Abbiamo già scritto giorni fa qui che possiamo dirci antifascisti in quanto anticomunisti: come Luigi Sturzo, Randolfo Pacciardi, Edgardo Sogno, Mario Scelba e tanti altri.                                                                      Ma l'intervista che Giorgia Meloni ha rilasciato ieri al Corriere della sera dovrebbe chiudere la questione. La presidente di Fratelli d'Italia ripete (sottolineiamo, ripete) la condanna del regime fascista già espresso tante volte, e pure sullo stesso giornale nel 2006.

Ha ripetuto che dentro Fratelli d'Italia non vi sono né antisemiti né neofascisti: e non basta qualche personaggio folcloristico ripreso dai video. Folclore per folclore, andiamo a vedere nelle sezioni del Pd in Toscana o in Emilia Romagna. Laddove esistono vie e busti dedicato a Lenin, e nessuno ha nulla da fiatare. Così come nessuna ha rimproverato Zingaretti perché in un suo libro del 2019 ha elogiato il regime sovietico: quello dei gulag, della censura, degli stermini.

 E vogliamo parlare di dirigenti come Pier Luigi Bersani, abbastanza maturi da aver fatto parte del Pci, per decenni finanziato dai regimi rossi, che peraltro puntavano i loro missili su di noi?

Se c'è qualcuno che dovrebbe invocare l'oblio della storia, dovrebbero essere i post comunisti. Per parafrasare il grande storico Marc Bloch sulla Rivoluzione francese, è il tempo di dire agli intellettuali «Fascisti, antifascisti noi vi chiediamo grazia: per pietà, diteci, semplicemente, cosa fu il fascismo».

E ai politici di sinistra chiediamo di entrare finalmente nel XXI secolo.

 

 

 

Politicamente corretto, le cinque varianti delle parole.

 

Repubblica.it- Luca Ricolfi-(31-ottobre 2021)- ci dice:

Come il linguaggio “giusto” si è trasformato in qualcosa di radicalmente diverso e assai più pericoloso per la convivenza democratica.

Quando, esattamente, sia nato il “politicamente corretto” nessuno lo sa. Sul dove, invece, siamo abbastanza sicuri della risposta: negli Stati Uniti.                          La sinistra americana, un tempo concentrata – come la nostra – sulla questione sociale, ossia sulle condizioni di lavoro e di vita dei ceti subalterni, a un certo punto, collocato tra le fine degli anni ’70 e i primi anni ’80, ha cominciato a occuparsi sempre più di altre faccende, come i diritti civili, la tutela delle minoranze, l’uso appropriato del linguaggio.                                                                                                 Lo specifico del politicamente corretto delle origini era proprio questo: riformare il linguaggio.

Questa posizione, profondamente idealistica e anti-marxista, condusse, nel giro di un decennio, a conferire una centralità assoluta ai problemi del linguaggio, e a creare un fossato fra la sensibilità dei ceti istruiti, urbanizzati, e tendenzialmente benestanti, e la massa dei comuni cittadini, impegnati con problemi più terra terra, tipo trovare un lavoro e sbarcare il lunario. Fu così che venne bandita la parola “negro” (sostituita con nero), e per decine di altre parole relativamente innocenti (come spazzino, bidello, handicappato, donna di servizio), vennero creati doppioni più o meno ridicoli, ipocriti o semplicemente astrusi: operatore ecologico, collaboratore scolastico, diversamente abile, collaboratrice familiare.

In Italia, che io ricordi, solo Natalia Ginzburg ebbe il coraggio e la lucidità di notare, fin dai primi anni ’80, l’ipocrisia e la natura anti-popolare di questa svolta linguistica, che non solo preferiva cambiare il linguaggio piuttosto che la realtà, ma creava una frattura fra linguaggio pubblico e linguaggio privato, fra l’élite dei virtuosi utenti della neo-lingua e i barbari che continuavano a chiamare le cose come si era fatto per secoli e secoli senza che nessuno si offendesse.

Ebbene, questa storia a noi può sembrare ancora attuale, ma è una storia del secolo scorso. Chi crede che, oggi, il politicamente corretto sia usare una parola giusta al posto di una sbagliata si è perso la parte più interessante del film. Un film che in Italia è ancora alle prime battute, ma in America è andato molto avanti, in un tripudio di scene estreme e di effetti speciali.

 

(La Crusca: schwa e asterisco? Meglio il maschile plurale-di Ilaria Zaffino-24 Settembre 2021).

Oggi il politicamente corretto si è trasformato in qualcosa di radicalmente diverso, e assai più pericoloso per la convivenza democratica. Il politicamente corretto di oggi sta al politicamente corretto delle origini come le varianti più recenti del virus stanno al virus originario (quello di Wuhan). Per capire perché dobbiamo individuare le mutazioni che, nel giro di un ventennio, lo hanno completamente trasformato.

La prima mutazione (da cui la variante alpha) è intervenuta all’inizio del XXI secolo, con Internet e la creazione del nuovo spazio pubblico dei social. Fino a ieri, per risentirti se uno ti chiama spazzino dovevi incontrare una persona in carne e ossa, e accorgerti della sua eventuale intenzione di offenderti. Oggi, se navighi su Internet o stai sui social, hai mille occasioni quotidiane per offendere e sentirti offeso. L’arena dei social, dove imperversano volgarità e offese alla grammatica, è un perfetto brodo di coltura delle suscettibilità individuali. Lo ha descritto benissimo Guia Soncini nel suo ultimo libro (L’era della suscettibilità, Marsilio). La variante alpha è la più trasmissibile.

 

La seconda mutazione (da cui la variante beta) è l’espansione della dottrina del “misgendering” in tutti gli ambiti.                                          

Che cos’è il misgendering? È chiamare qualcuno con un genere che non gli va, ad esempio maschile se è o si sente una donna (o viceversa); o plurale maschile (cari colleghi) se ci si riferisce a un collettivo misto. Secondo le versioni più demenziali della correttezza politica in materia di generi, assai diffuse nelle università americane, i professori dovrebbero chiedere ad ogni singolo allievo come preferisce essere indicato: he, she, zee, they, eccetera.

Gli epigoni meno dotati di senso del ridicolo, da qualche tempo attivi anche in Italia, aggiungono regole di comunicazione scritta tipo usare come carattere finale l’asterisco * (cari collegh*), la vocale u (gentilu ascoltatoru), o la cosiddetta schwa (?) (benvenut? in Italia) per essere più “inclusivi”, ovvero non escludere o offendere nessuno.

La nascita di codici di scrittura “corretti” procede, anche in Italia, in modo del tutto anarchico, in una Babele di autoproclamati legislatori del linguaggio, che si arrogano il diritto di dirci come dovremmo cambiare il nostro modo di esprimerci, non solo riguardo ai generi ma su qualsiasi cosa che possa offendere o turbare.

Università, istituzioni culturali, aziende, compagnie aeree, associazioni LGBT, spesso in disaccordo fra loro, fanno a gara e sfornare codici di parola cui tutti – se non vogliamo essere accusati di sessismo-razzismo-discriminazione – saremmo tenuti a adeguarci.

 

(Silvia Ferrara: "A colpi di vocali non si cambia la realtà". Maurizio Crosetti-28 Agosto 2021).

Fra i più deliranti di tali codici quelli emersi recentemente nell’industria delle comunicazioni audio e in ambito informatico. D’ora in poi un operaio, se non vuole essere accusato di sessismo, non potrà più parlare di jack maschio e jack femmina, e dovrà sostituire questi termini con spina e presa.

Quanto agli informatici, guai parlare di architettura master-slave, che evocherebbe il dramma della schiavitù. E guai pure a parlare di quantum supremacy (supremazia dei calcolatori quantistici su quelli tradizionali): la parola supremacy è proibita, perché rischia di evocare il suprematismo bianco.

La terza mutazione (da cui la variante gamma) è la cosiddetta cancel culture, secondo cui tutta l’arte e la letteratura, compresa quella del passato, andrebbe giudicata con i nostri attuali parametri etici, e censurata o distrutta ogniqualvolta vi si trovano espressioni, immagini, o segni potenzialmente capaci di turbare la sensibilità di qualcuno.

 Le case editrici si dotano di sensitivity readers, che passano al setaccio i manoscritti non per valutare il loro valore artistico, ma per vedere se contengono anche la minima traccia di idee che potrebbero urtare qualcuno.

Le statue dei grandi personaggi del passato vengono distrutte o imbrattate. I dipinti di Paul Gaugin vengono censurati perché il pittore aveva sposato una minorenne.

 Il finale della Carmen di Bizet viene capovolto, perché nel finale la protagonista viene uccisa da don Josè, e noi non ce la sentiamo di mettere in scena un femminicidio (ma un omicidio messo in atto da una donna sì).

La quarta mutazione (da cui la variante delta) è la discriminazione nei confronti dei non allineati.

Professori, scrittori, attori, dipendenti di aziende, comuni cittadini perdono il lavoro, o vengono sospesi, o vengono sanzionati, non perché abbiano commesso scorrettezze nell’esercizio della loro professione, ma perché in altri contesti, o in passato, hanno espresso idee non conformi al pensiero dell’élite dominante.

Non solo: nella politica delle assunzioni, in particolare nelle facoltà umanistiche, vengono esclusi gli studiosi non allineati all’ortodossia politica dominante.

 

(La lingua italiana non si cambia con l’asterisco. Simonetta Fiori-07 Agosto 2021).

 

La quinta mutazione (da cui la variante epsilon) è forse la più preoccupante.

È la cosiddetta identity politics.

 Un complesso di teorie, filosofie, rivendicazioni, secondo cui quel che conta veramente non è che persona sei ma a quale minoranza oppressa appartieni.

Da qui derivano le idee più strampalate, ad esempio che per tradurre un romanzo di una autrice nera tu debba essere nera (è successo).

 Che per parlare di donne tu debba essere donna; per parlare di omosessualità essere omosessuale; per parlare dell’Islam essere islamico; per parlare dell’Africa essere africano. Se osi parlare di qualcosa senza essere la cosa stessa sei accusato di «appropriazione culturale».

Ma da qui deriva, soprattutto, l’idea che nell’accesso a determinate posizioni non contino il talento, la preparazione, la competenza, le abilità, l’esperienza, ma che cosa hanno fatto i tuoi antenati.

Se sono maschi bianchi eterosessuali devi lasciare il passo a chi ha antenati più in linea con l’ideologia dominante.

Perché i discendenti delle minoranze doc hanno diritto a un risarcimento, e i discendenti dell’uomo bianco (anche se non hanno alcuna colpa) devono pagare per le colpe, vere o presunte, dei loro progenitori colonialisti, oppressori, schiavisti, in ogni caso privilegiati.

 

(Politicamente corretto. “Caro Maggiani l’asterisco è un diritto civile”.  Paolo Di Paolo-12 Luglio 2021.)

All’ideale dell’eguaglianza, generosamente perseguito da Martin Luther King, che pensava che tutte le differenze di razza, etnia, genere dovessero diventare irrilevanti, perché a contare dovevano essere solo le altre differenze (quelle che fanno di ogni individuo quel che è, con i suoi pregi e i suoi difetti), subentra l’idea opposta che solo le differenze di razza, etnia, genere contino.

Lo scopo delle grandi istituzioni educative, a partire dalle università, non è più promuovere la conoscenza e ricercare la verità, ma combattere le ingiustizie sociali, riequilibrando le diseguaglianze con azioni positive, che privilegiano determinate minoranze e penalizzano maggioranza e minoranze non protette, prescindendo dai meriti e dalle capacità di ogni individuo.

Così la parabola della “cultura liberal”(Dem Usa) si compie.

 L’ideale di Martin Luther King e di tanti leader illuminati del passato (compreso Barack Obama), sconfiggere le discriminazioni con l’eguaglianza, si capovolge nel suo contrario: instaurare l’eguaglianza attraverso le discriminazioni.

(Politicamente corretto. Maurizio Maggiani: "Io non sono un asterisco"- Maurizio Maggiani-05 Luglio 2021).

 

 

 

La dittatura del politicamente corretto.

Quasidi.com- Redazione-(09/10/2020 )-ci dice: 

Oggi non si può più dire nulla, il moralismo sta mortificando la libertà d’espressione, il bigottismo censura l’arte, il dialogo tra uomini e donne è diventato impossibile!

La dittatura del politicamente corretto ci sta soffocando tutti? Stiamo diventando vittime di un perbenismo linguistico che censura e omologa le nostre opinioni?

Ne parliamo nel nuovo episodio di Quasidì in cui partiamo, come sempre, dalle basi: cos’è davvero il politicamente corretto e quali effetti ha sulla nostra libertà di parola?

Trascrizione della puntata.È un calco dalla locuzione angloamericana politically correct.                                                                                    Nasce infatti in ambito statunitense, intorno agli anni 30 del Novecento ma assunse dimensioni significative soprattutto dagli anni 80 quando si riuscirono a sradicare delle consuetudini linguistiche ritenute offensive nei confronti delle minoranze (fu allora che, ad esempio, afroamericano sostituì la “n” word). Infatti la battaglia principale del politicamente corretto è proprio quella sulla lingua e su un uso più rispettoso del linguaggio.

Il politicamente corretto nasce quindi in un contesto progressista, di sinistra, e trova terreno fertile specialmente nei college americani in cui si propugnava l’idea dell’università come grande luogo di promozione della giustizia sociale.

 Proprio qui cominciarono a diffondersi dei precisi regolamenti verbali (gli speech codes) che sottoponevano a sanzioni amministrative tutti coloro che si fossero abbandonati a un linguaggio razzista, sessista, omofobo ecc

Leggiamo qualche esempio su Treccani. Sul piano economico e sociale i paesi del terzo mondo sono denominati in via di sviluppo, la ottimizzazione delle dimensioni aziendali o la ridistribuzione delle risorse umane sostituiscono il licenziamento di massa, le categorie svantaggiate come i poveri sono designate non abbienti, imprenditori si preferisce a padroni.

 In generale sono da evitare le forme non marcate dal punto di vista del genere (diritti della persona al posto di diritti dell’uomo); oppure espressioni tradizionalmente connotate in modo discriminatorio, ad esempio per quanto riguarda i nomi delle professioni (come bidello o becchino, a cui si dovrebbero preferire espressioni neutre come operatore scolastico e operatore cimiteriale).

È vero: certe forzature appaiono paradossali e anche ridicole nel loro tentativo di purificare in maniera coatta la lingua dei parlanti. Il linguista Arcangeli riporta dei casi eclatanti. “A Santa Cruz un amministratore dell’Università di California si è scagliato contro espressioni quali a nip in the air ‘un freddo pungente’ e a chink in one’s armor ‘un punto debole’ «perché contengono vocaboli che in altre accezioni esprimono disprezzo razziale».

Nell’inglese d’America, infatti, “nip” è termine denigratorio per ‘giapponese’, “chink “termine denigratorio per ‘cinese’. Sarebbe come se da noi, variatis variandis, qualcuno proponesse di bandire dall’uso una parola come finocchio soltanto perché in uno dei suoi significati è voce spregiativa per indicare un omosessuale”.

Il detrattore più famoso delle derive più ottuse del politicamente corretto è sicuramente il critico d’arte Robert Hughes che pubblica nel 1993 “La cultura del piagnisteo”. Secondo questa dottrina – mai apertamente enunciata ma ferocemente applicata –, tutto deve essere politicamente corretto: dai comportamenti sessuali ai gusti letterari, al modo di parlare, di vestirsi, di scrivere. Esisterebbe dunque un modo giusto di fare le cose, consistente anzitutto nell’adeguarsi ai desiderata di gruppi facinorosi e lamentosi d’ogni sorta, pronti a compattarsi in una maggioranza inquisitoria.

Un approccio più sistematico arriva invece dallo studioso Jonathan Friedman nel saggio “Politicamente corretto”. L’antropologo spiega: il politicamente corretto non è una questione di censura o ipocrisia linguistica, ma un più profondo fenomeno sociale, antropologico e politico.

E’ «una forma di comunicazione e di categorizzazione», un regime linguistico e sociale relativamente indipendente dall’orientamento politico, infatti è usato sia a destra sia a sinistra, quindi è una forma o una struttura, non un contenuto ideologico.

Secondo Friedman il politicamente corretto si basa sulla «cultura della vergogna» ovvero è un atteggiamento autocensorio di omologazione (non dico la parola x altrimenti gli altri mi marginalizzano e mi giudicano).

 Ma è anche connesso a un uso del linguaggio «associativo e classificatorio».

Citiamo qui un articolo di Daniele Lo Vetere che analizza molto da vicino l’opera di Friedman e che ci fa capire cosa s’intende per uso associativo e classificatorio del linguaggio.

Incerti sulla nostra identità e sulla posizione che gli altri hanno rispetto a noi, prima ancora che considerare quello che ci stanno dicendo e la loro intenzione, abbiamo bisogno di capire da che posizione parlino e quali scopi extra-linguistici perseguano: dobbiamo scoprire i segni della loro personalità o della loro appartenenza a un gruppo o a un’ideologia, e, con essi, il valore sociale e d’uso delle loro parole (…) Le parole non vengono più prese stricto sensu, ma sono associate ai concetti contigui, in orizzontale o in verticale, per creare categorie ed etichette generali entro cui sussumere una varietà di fenomeni.

 In questo modo, dire “forse gli immigrati sono troppi” sarà interpretato come “certamente gli immigrati sono troppi”, quindi “gli immigrati non mi piacciono”, quindi “sei razzista”.

Ecco cosa vuol dire uso associativo.

Cioè si associano espressioni, termini e appellativi a tratti ideologici, culturali e politici del parlante. Se uso certi termini vengo incasellato in un determinato ruolo. Se uso la parola zingaro, se uso la parola ebreo ecc..

Chiaramente questo è un problema perché la realtà è infinitamente più sfaccettata e soprattutto il linguaggio è molto più complicato. Prendiamo sempre ad esempio Arcangeli.

Tempo fa, nella veste di responsabile del progetto di un dizionario minimo di sinonimi commissionatomi proprio dall’Istituto Treccani, mi sorpresi a riflettere sulla scelta non molto felice di un mio redattore, che aveva ritenuto opportuno inserire tra i sinonimi di avaro il termine ebreo.

Optai decisamente per il depennamento e oggi rifarei, senza la minima esitazione, la medesima scelta. Ma il problema resta.              Sul piano sincronico, anzitutto: perché i dizionari dell’uso continuano a segnalare il termine ebreo nel significato di ‘avaro’ e in quello, semanticamente affine, di ‘usuraio’, nel migliore dei casi limitandosi ad accompagnare alla registrazione un giudizio morale.

 E sul piano diacronico, poi: perché lo stesso termine, negli stessi significati, è stato recepito dai nostri classici, da Foscolo a Carducci, ed è autorizzato dalla storia.

Sarebbero allora da censurare scrittori scomodissimi e controversi come Louis-Ferdinand Céline, un Fëdor Michajloviã Dostoevskij, un Guy de Maupassant e, naturalmente, un Thomas Stearns Eliot o un Ezra Loomis Pound”.

Non è semplice avere delle risposte definitive a problemi di questo tipo. Abbiamo capito che il punto focale del politicamente corretto è la sensibilità linguistica che si fa specchio di una sensibilità culturale, una sensibilità culturale in continuo mutamento.

Cosa succede allora oggi e perché si parla così insistentemente di censura e bigottismo? O addirittura di neolingua, con riferimenti inquietanti a 1984 e al Grande Fratello.

Cominciamo col dire che i talebani dell’anti-discriminazione rimangono comunque in minoranza rispetto a chi discrimina quindi il problema più grande al momento rimane sempre la discriminazione stessa.                                 Ancora oggi la quantità di contenuti a forte connotazione razzista che viene prodotta consapevolmente o meno è ancora sconvolgente.

 Soltanto negli ultimi mesi abbiamo discusso di black-face grazie all’abbronzatura del nostro Ministro degli Esteri, Luigi Di Maio ma anche in occasione di un’esibizione in diretta sulla Rai al Tale e quale show in cui hanno ben pensato di dipingere la faccia di una cantante bianca di nero.

Per chi non lo sapesse la black-face – nata nel 19esimo secolo – consiste nel truccarsi in modo marcatamente non realistico per assumere le sembianze stilizzate e stereotipate di una persona nera, con un evidente intento denigratorio.  

Se ci fosse veramente una dittatura, tutto questo sarebbe impossibile invece purtroppo ci ritroviamo ogni giorno quando va bene a denunciare pubblicità sessiste e a segnalare tweet di dubbio gusto intellettuale, quando va male a cercare di capire perché ancora nel 2020 c’è bisogno di dire che black lives matter.

Chiarito questo punto per cui no, non potete parlare di attacco feroce alla libertà d’espressione se qualcuno vi dice di non usare appellativi ingiuriosi, possiamo però cercare di capire gli aspetti più problematici e critici della discriminazione. Perché sì, è vero che spesso si accusano le persone con troppa superficialità quando è utile capire come e perché si usano certi termini e spiegare perché non si dovrebbe invece di dire che no, non si usano e basta.

Partiamo dal presupposto che l’avvento di Internet e dei social ha portato a un cambio di paradigma epocale perché ha essenzialmente dato voce a chiunque e in particolare ha facilitato l’esposizione di categorie e gruppi fino a quel momento marginalizzati o per meglio dire invisibili, non rappresentati dalla narrazione dominante.

Questo ci ha giustamente esposto a sensibilità diverse e ci ha fatto ascoltare pareri che prima erano silenziati. Un importante premessa infatti è che il politicamente corretto fallisce quando vuole proteggere un gruppo di individui discriminanti, senza nemmeno chiedere un parere al gruppo in questione.

Ad esempio quando si parla di disabilità, si tende ad usare l’espressione diversamente abile – come da prescrizione per il politicamente corretto – ma siamo sicuri che le persone disabili siano contente di questa definizione?

 Non basta che suoni bene o male o che sia un termine neutro. E’ decisivo imparare ad ascoltare. Ecco perché spesso ci si indigna quando si invitano solo uomini a parlare di sessismo, è recentemente successo in occasione del Premio Strega. Vedi alla voce: Valeria Parrella e Corrado Augias.

Non possiamo decidere da soli cosa è giusto e cos’è sbagliato, cosa è offensivo e cosa non lo è. Bisogna chiedere alle categorie in questione. A volte è meglio sospendere il giudizio o informarsi bene. Il dubbio quindi è certamente un buon metodo d’azione. Purtroppo assai poco diffuso, si preferisce essere subito tranchant e un po’ giustizialisti, specialmente in Rete.

E’ un po’ l’atteggiamento di condanna e indignazione della cancel culture ovvero la pratica di considerare morto o comunque di cancellare un personaggio pubblico a seguito di affermazioni controverse o dichiaratamente discriminatorie.

 Uno degli esempi più recenti e importanti è legato alla famosa scrittrice J.K. Rowling, autrice della saga di Harry Potter.

Rowling ha infatti espresso attraverso Twitter che le donne transessuali non sono vere donne, sostenendo quindi una posizione fortemente transfobica anche grazie ad altri tweet simili.

Le critiche non si sono giustamente fatte attendere e le azioni intraprese sono quelle tipiche della cancel culture, ovvero togliere qualsiasi forma di supporto alla persona in questione.

Dopo le affermazioni dell’autrice è stata pubblicata una lettera, durante l’estate del 2020 appunto, in cui molte figure di spicco legate al mondo della cultura, tra cui Rowling stessa, criticavano la cancel culture come un’azione che impedisce la libera circolazione delle idee, di come possa essere praticamente accostata a idee di censura vicine alla destra di Trump che rappresenta, cito “una vera minaccia per la democrazia”. Insomma, qui mi arriva il ribaltone, il rigiramento di frittata ideologica per eccellenza.

La lettera non è lunghissima, ma quello che sottolinea è che oh però insomma, se certe persone vengono boicottate o criticate per quello che hanno detto insomma, siete dei fascisti che ci tappano la bocca e noi, dall’alto della nostra posizione di favore, dovremmo pur poter dire quello che pensiamo senza conseguenze.

Certo, una mancanza di dibattito è ciò che può dividere una dittatura da una democrazia e dobbiamo imparare a esprimerci ed evolverci restando all’interno di un contesto di rispetto reciproco.

Nella lettera vengono citati esempi di conseguenze reali pagati da professori, autori e critici che perdono il lavoro, non vengono più coinvolti o vedono i loro libri ritirati. Ad

dirittura viene scritto che alcuni responsabili perdono le loro cariche lavorative per quelli che a volte sono “just clumsy mistakes”, solo goffi errori.

 La lettera prosegue nella più totale spocchia e nell’affermazione di un elitismo senza pari quando si sottolinea che autori, artisti e giornalisti possono perdere i propri mezzi di sostentamento se osano esprimere opinioni lontane da quelle più comuni e che a causa di governi repressivi e società intolleranti a pagarne le conseguenze saranno soggetti non in potere e la stessa possibilità generale di partecipare democraticamente.

Inoltre la propria opinione controversa in realtà spesso non è altro che il riflesso di un privilegio o la difesa di una posizione di potere. Il che rende tutto ancora più paradossale, considerando che si vuole difendere la libertà di essere controcorrente quando da una posizione dominante e maggioritaria si critica una minoranza sottorappresentata, come nel caso della Rowling. Questa lagna si conclude nel peggiore dei modi affermando che, cito “in quanto autori abbiamo bisogno di spazio per poter sperimentare, prendere dei rischi, e sbagliare.

ùAbbiamo bisogno di preservare la possibilità di un dissenso in buona fede senza catastrofiche conseguenze professionali”. Beh certo, allora io inizierò a guidare contromano in autostrada dicendo che sto sperimentando un nuovo modo di affermare la mia libertà personale e se verrò multate e arrestata sarà solo perché non capite le mie necessità.

Una cosa che mi hanno insegnato alle elementari e che mi ripeto come un mantra è: “La tua libertà finisce dove inizia la libertà altrui”.

No, cari miei autori, non potete pensare di essere le vittime sacrificali di una censura che vi lega le mani, non si tratta di una mancanza di dibattito, ma semplicemente della capacità di riconoscere che in alcuni casi non si tratta di un’opinione, ma di un insulto.

Negare a una persona transessuale la sua identità non va bene.

Escludere, imporre un pensiero, limitare l’espressione e l’affermazione altrui non sono un “clumsy mistake” e non possono astenersi da una reazione avversa. Se le idee espresse offendono qualcuno, questi sono insulti e un dibattito diventa tale quando chi ha affermato qualcosa di offensivo si mette in gioco per capire l’altro punto di vista.

L’enorme problema di questa lettera sta proprio qui, affermare che si dovrebbe permettere un’espressione di idee monodirezionale, dall’autore al pubblico, che non dovrebbe prevedere alcun tipo di critica, anche quando queste idee sono errate.

A furia di manipolare concetti liberali e democratici hanno distorto totalmente il significato di libertà d’espressione, diventando a loro volta coloro che non vogliono mettersi in discussione.

 

Rimane il fatto che nei paesi anglosassoni il concetto di politically correct è molto più sentito che in Italia ed è vero che c’è molta più pressione sulle figure di pubblico interesse a rispettare certi standard di correttezza, anche e soprattutto sul web.

C’è quindi un generale senso di iper-sorveglianza quando ci si espone pubblicamente? Certamente.

Si nota anche una tendenza a “calling out” ovvero a smascherare certi atteggiamenti, cercando nel passato digitale di una persona espressioni problematiche o scivoloni che possano appunto portare a serie conseguenze pubbliche.

Questa aggressività è seriamente dannosa e fa il paio con una fortissima tendenza alla radicalizzazione politica. Radicalizzazione da entrambe le parti sia da parte dei paladini del politicamente corretto sia da parte dei suoi detrattori.

Anzi, esasperazione verso il politicamente corretto e violenza verbale potrebbero essere due cose strettamente legate.

 Una delle frasi simbolo della scorsa campagna elettorale di Trump è stata:

 “Penso che il grande problema di questo Paese sia il dover essere politicamente corretti”.

 E non è il solo ad avere questa opinione.

La stessa idea la ritroviamo nella propaganda di Johnson, Putin, Bolsonaro, Meloni e moltissimi altri…sapete cos’hanno in comune tutti questi personaggi? Hanno un linguaggio discriminatorio.

Come si legge in un articolo di The Vision: l’odio per il politicamente corretto spesso si accompagna a una violenza verbale senza precedenti. Non vedere in questo una sorta di rigurgito reazionario è difficile. Citiamo dall’articolo:

Dagli attacchi alla Boldrini al Vaffaday. Questa esigenza di esprimersi senza filtri fa da contraltare, o più probabilmente nutre, la violenza sul web, sulla cui pervasività non si dovrebbero avere più dubbi e che fa sempre più spesso uso del lessico fascista.                                      Questo ricorso solleva due riflessioni: una, sul modo in cui si comunica sulla rete e il monitoraggio che i social applicano ai contenuti, ma soprattutto un’altra, sulla sempre più sdoganata memoria positiva del fascismo, che mette in discussione la storia come finora è stata raccontata, al punto che Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, può chiedere di cancellare la festa della Liberazione, asserendo che “il 25 aprile è divisivo”, e presupporre quasi senza tema di smentita di generare un dibattito serio, se non persino una proposta da considerarsi formalmente”.

Il nocciolo della questione alla fine però rimane questo: è più importante la libertà di esprimersi nei modi e nei termini che più ci piacciono o è più importante non offendere le persone?

Lo vediamo ogni giorno, le frasi discriminatorie stanno davvero generando delle conseguenze. Battute che vent’anni fa venivano considerate normali, oggi hanno smesso di far ridere e anzi generano un’ondata di sdegno. E’ anche legittimo chiedersi se queste battute abbiano mai fatto ridere. Chi dovrebbe ridere? Sicuramente non le persone discriminate. La verità è che questo tipo di umorismo è sempre stato discriminatorio solo che prima c’era silenzio, oggi invece c’è la libertà di dire che no, non vanno bene.

Anche perché una scrittura veramente satirica e ironica è capace di mettere al centro delle riflessioni importanti, facendo ridere. Secondo voi è il caso di alcune battute da spogliatoio che i detrattori del politicamente corretto difendono a spada tratta? Diciamocelo chiaramente: le battute di cattivo gusto esistono e spesso esprimono solo violenza e preconcetti che vanno condannati.

 

Più sottile è il discorso quando si parla d’arte. Spesso si dice che il politicamente corretto decontestualizza l’arte dal periodo storico che l’ha prodotta, in particolare quando critica e mette al bando le rappresentazioni artistiche discriminatorie come è successo recentemente con il caso di Via col Vento. 

A ben vedere,

 1) nessuno ha messo al bando via col vento, è stato momentaneamente rimosso dal catalogo HBO per avere il tempo di inserire un disclaimer sull’opera, a seguito anche del momento storico che stiamo vivendo e del movimento black lives matter ,

2) la decontestualizzazione sta propria nell’accettazione acritica delle opere d’arte. Se si accetta il sessismo e il razzismo dei classici del passato, ritenendolo un dato neutro, è lì che avviene lo scollamento e la normalizzazione di dinamiche ingiuste.

Un po’ come è successo con la statua di Montanelli a Milano che è stata più volte oggetto di deturpamenti. Per chi non lo sapesse, Montanelli è stato un giornalista italiano che durante la guerra d’Abissinia, ha comprato per 350 lire una ragazza di circa dodici anni dal padre e l’ha forzata, come ha ammesso lui stesso, ad avere rapporti sessuali. Per questo sulla base della statua – che è stata imbrattata con vernice rosa – è stata riportata la scritta: fascista stupratore.

Anche lì si è urlato al vandalismo e alla decontestualizzazione storica dicendo che erano altri tempi e bisogna comprendere. Peccato che paradossalmente è proprio l’imbrattamento dello statua che ha portato alla luce il contesto e il fatto storico. Altrimenti la statua non contestualizza proprio niente, anzi, ha un intento puramente celebrativo e cancella la storia stessa. Ed è anche il motivo per cui nei secoli, ciclicamente, i popoli abbattono e danno fuoco alle statue. Per riportare la questione al centro.

 

Nel panorama mediatico, sono tanti gli artisti e le figure pubbliche che commettono “infrazioni” di questo tipo. Un esempio tra tanti è il caso Apu dei Simpson, un personaggio indiano caratterizzato principalmente in base agli stereotipi di questa popolazione e doppiato, per di più, da una persona bianca.

Nel 2017 uscì un documentario dal titolo “The problem with Apu”, il problema con Apu, scritto dal comico Hari Kondabolu il quale afferma anche come da bambino fosse felice di vedersi rappresentato grazie a uno degli unici personaggi indiani in televisione all’epoca, ma che in seguito iniziò a capire come problematico.

A gennaio del 2020 l’attore Hank Azaria, storico doppiatore di Apu, ha dichiarato che non avrebbe più prestato la sua voce per la serie animata e che la decisione era condivisa da tutti e che sembrava la cosa più corretta da fare. I

l problema qui è stato di avere una versione della black-face che è, ricordiamo, la rappresentazione di una cultura non bianca da parte di una persona bianca.

Si è fatto in buona fede? Benissimo, ma riuscire a riconoscere il problema a un certo punto ci permette di evolvere il nostro pensiero, la nostra cultura e l’accettazione di una diversità.

Pare che il personaggio, a detta del creatore Groening, non verrà eliminato dalla serie, ma bisognerà capire quale sarà l’evoluzione. Come abbiamo detto il contesto in cui vengono fatte certe cose non deve essere dimenticato, ma non può nemmeno essere una scusa per giustificare le azioni e le decisioni attuali o, peggio, la mancata consapevolezza che quanto fatto non fosse adeguato. Perché dubito che qualche indiano non si sia sentito offeso anche vent’anni fa, quando pensavamo tutti fosse ok raccontare delle persone in un determinato modo.

Le iniziative di censura e boicottaggio condotte nel nome della lotta a discriminazioni e ingiustizie sono ormai all’ordine del giorno, tenere il conto dei casi è praticamente impossibile, negli stati uniti queste iniziative vengono indicate con il termine de-platforming (nel contesto britannico l’espressione più diffusa è invece no-platforming). Il rischio di queste forme di attivismo è quello di abbracciare anche nei suoi aspetti più dogmatici la cancel culture, che abbiamo citato prima: un modo di agire inflessibile e categorico che mette alla pubblica gogna chiunque commetta un’infrazione.

E diciamolo: quando hai criteri così rigidi e aspiri all’assoluta correttezza e alla purezza, nessuno può considerarsi degno e all’altezza di questi ideali. Il che significa che tutto potrebbe essere potenzialmente cancellato. 

Separare artista e opera d’arte a volte è impossibile ma eliminare dal canone alcuni autori è una semplificazione concettuale altrettanto problematica. All’inizio di quest’anno, a febbraio, sono sorte molte critiche in seguito all’assegnazione del premio César (gli equivalenti francesi degli Oscar americani) al regista Roman Polanski, notoriamente accusato di violenze sessuali su un’aspirante attrice allora tredicenne negli anni 70.

Durante l’annunciazione l’attrice Adèle Haenel ha abbandonato la sala in segno di protesta dopo che nei mesi precedenti aveva raccontato di esser stata anche lei molestata sessualmente a 12 anni da un altro regista, Christophe Ruggia.

Ad abbandonare la sala è stata anche la regista Céline Sciamma. Dopo le accuse Polanski è fuggito in Francia senza possibilità di essere estradato per via della cittadinanza francese.

Voi continuereste ad andare dal vostro panettiere di fiducia sapendo che ha commesso crimini di natura sessuale su delle minorenni? Ecco, questo dovrebbe essere più o meno il ragionamento da applicare anche in casi di maggior rilievo culturale, per quanto anche il pane sia fondamentale nella nostra società. E non possiamo sempre introiettare egoisticamente un fatto spiacevole per mostrarci più sensibili, pensare sempre a “e se fosse successo a me” rischia di rendere sterile e molto egoista una sensibilità verso il prossimo che dovremmo allenarci a sviluppare a prescindere dal nostro coinvolgimento diretto.

 

Paolo Armelli commenta su Wired: “Se da una parte quel premio a Polanski è sacrosanto perché premia l’artista e non l’uomo, il regista e non il molestatore, per lei – e molte donne come lei – non è che la giustificazione di un sistema corrotto, di una società che troppo spesso nasconde la testa sotto la sabbia e finge di non vedere certi atteggiamenti, o che peggio li accetta, li incorpora, li dà per scontati. I

l premio a Polanski da Haenel non può che essere interpretato come l’assoluzione all’abuso di potere, di uno scenario diffuso in cui un adulto e rispettato regista può disporre a piacimento della giovane attrice inesperta che pende dalle sue labbra.

Sempre Haenel, nell’intervista in cui ha raccontato la sua storia ha detto: “Il mostro non esiste. È della nostra società che si sta parlando. Dei nostri padri, amici, fratelli. E finché faremo finta di non vederlo non potremo andare avanti”.

E allora se il cinema nei suoi salotti finge di non vedere, usa l’arte come giustificazione, si dichiara al di sopra di certe questioni, e continua a non voler prendere alcuna posizione politica, ben vengano tutte le contestazioni”.

Vorrei concludere citando uno studio statunitense che indaga la diversità etnica e culturale degli artisti ospitati dai più importanti musei degli USA.  Lo studio è stato condotto da tre esperti di matematica e statistica e tre esperti di storia dell’arte. I ricercatori hanno esaminato oltre 40.000 opere d’arte nelle collezioni di 18 musei negli Stati Uniti e hanno stimato che l’85% degli artisti rappresentati in queste collezioni sono bianchi e l’87% sono uomini.

Chiaramente molti si lamentano del fatto che per far posto a nuovi artisti in nome della diversità, potrebbero finire nel dimenticatoio altri artisti fino a quel momento esposti.

 E’ curioso che ci si rammarica sempre per quanti artisti uomini il mondo possa perdere a causa del femminismo e non a quante artiste donne abbiamo perso nel corso dei secoli a causa del patriarcato. Quanti artiste e artisti sommersi dal sessismo e dal razzismo abbiamo perduto? Questa non sembra una questione molto interessante per i difensori dello status quo.

Il problema non è che non si può più dire niente, il problema è che dovremmo imparare a far dire ad altri qualcosa, che possa esprimere il loro disagio, le loro difficoltà e le loro esigenze.

 

 

 

 

La Teoria Gender?… esiste. Eccome se esiste!

Provitaefamiglia.it- Luca Marcolivio-(23/07/2021)- ci dice:

 Gender e sessualità - Gender e LGBT.

«La teoria del gender non esiste». O anche, semplicemente, «il gender non esiste».

 È uno dei tanti artifici retorici utilizzati dagli ideologi lgbt, secondo l’ormai collaudato metodo del “negazionismo tattico”, del “gettare il sasso e nascondere la mano”.

Un distinguo ricorrente è proprio quello del disconoscimento di una vera ideologia organica, gerarchica e militarizzata in stile marxista. Questa impostazione – affermano gli lgbt – sarebbe il frutto di un’ossessione dei conservatori e dei cattolici, che vedono gender ovunque.                          Vi sarebbero, al limite, dei gender studies, ovvero una pluralità di teorie, non tutte necessariamente univoche, quasi a conferma della “spontaneità” del fenomeno e della sua parvenza scientifica.

Su questa lunghezza d’onda, troviamo un saggio che ha fatto discretamente scuola negli ultimi tre anni: La crociata ‘anti-gender’ dal Vaticano alle manif pour tous (Kaplan, 2018), a cura di Sara Garbagnoli e Massimo Prearo.

L’“originalità” del testo è proprio nella sistematizzazione delle critiche ai propri avversari, accanto alla quale, però, spicca la totale assenza di una difesa della ragionevolezza delle proprie teorie.                                                                                                    Già un paio d’anni fa, Pro Vita & Famiglia aveva evidenziato come la Garbagnoli muovesse al Vaticano un’accusa essenziale: proporre una «visione essenzialista e gerarchica» dell’uomo e della donna, contrapposto alla rivoluzione femminista, che – con una quarantina d’anni d’anticipo rispetto all’ondata lgbt – utilizzava il concetto di “genere” per contestare le vere o presunte disuguaglianze e discriminazioni.

Nel loro saggio, però, Garbagnoli e Prearo assumono una posizione ideologica in senso stretto, in quanto riconoscono alla Chiesa «una lucida consapevolezza della portata sovversiva del concetto di genere», che diffonde così «una visione del mondo diametralmente opposta a quella difesa dal Vaticano».

Non si soffermano, dunque, in argomentazioni sulla scientificità delle loro posizioni, semmai enfatizzano la «rivoluzione femminista e LGBTQI», contrapposta alle idee reazionarie dei fascisti, dei sovranisti, della Chiesa, ecc.

Una Chiesa che, in questa operazione di resistenza al nuovo, si avvale della complicità di un’ampia fetta di laici, non ultime le cosiddette femministe “trans-escludenti” o TERF.

Una sorta di complotto, dunque, ordito dal Vaticano, assieme ai suoi occasionali sodali. E la presenza delle femministe da una parte e dall’altra della barricata? Un incidente di percorso, la nemesi o i nodi che vengono al pettine?

In attesa che Garbagnoli e Prearo sciolgano questo dubbio amletico, lanciando uno sguardo sull’attualità, vediamo un ddl Zan portato avanti forzatamente in Parlamento, con metodi ai limiti del legittimo, partiti arroccati su posizioni ottusamente intransigenti e senatori che chiedono “liste di proscrizione” per i colleghi che ostacolano la gioiosa macchina da guerra arcobaleno. Ma l’ideologia gender, niente paura, non esiste…

 

 

 

 

«La teoria del gender danneggia le donne»:

Marty erede di Roland Barthes mette in guardia l'Occidente.

Ilmessaggero.it- Francesca Pierantozzi-(4 Settembre 2021)-ci dice:

«Il gender è l'ultimo messaggio ideologico dell'Occidente al resto del mondo», ci dice Eric Marty.

Docente di letteratura contemporanea all'Università di Parigi, amico e editore delle opere complete di Roland Barthes, l'ultimo erede dei grandi strutturalisti non vuole fare polemiche - assicura - ma soltanto il suo lavoro, ovvero: «fare luce sulle cose».

 E la cosa è altamente infiammabile: l'identità di genere, la sua teoria e la sua storia.

«Dissociare il sesso biologico e il genere è un gesto moderno - dice Marty Ma è bene sapere che il sesso si può decostruire anche senza ricorrere al gender».

Eric Marty sa bene di cosa parla: dell'identità di genere lui conosce la preistoria, il mondo intellettuale francese degli anni '70-'80, quello di Lacan, Derrida, Barthes cui si sono ispirati i teorizzatori moderni del gender, prima fra tutti l'americana Judith Butler.

Un concetto all'inizio astratto, spiega Marty, che ha finito con avere «forza di legge, instaurando nuove regole morali e modificando addirittura il linguaggio (cisgender, genderfluid)». Attenzione, mette in guardia Marty, perché un messaggio in apparenza emancipatore può trasformarsi «in una nuova morale dominante» in cui, come accade «dai tempi dei libertini del 18esimo secolo, nel mirino c'è sempre la donna».

Davanti a un certo attivismo LGBT lei parla di una nuova morale dominante. Alcuni movimenti femministi rimproverano alla teoria gender di voler decostruire non il sesso biologico in generale, ma il sesso femminile.

Che ne pensa?

«Tutti i movimenti di trasgressione delle norme sessuali hanno avuto nel mirino il femminile, dai libertini del 18esimo secolo fino ai moderni degli anni '70. Il fenomeno Trans lo conferma, in quanto il trans MtF (Male to Female, geneticamente di sesso maschile ma con un'identità di genere femminile) è il nuovo soggetto che dovrebbe togliere alla donna nata donna qualsiasi autorità sul femminile.

Abbiamo visto la virulenta campagna contro la scrittrice J.K. Rowling che ha voluto mantenere una frontiera tra la donna e il trans in nome del fatto che la donna ha le mestruazioni. Gli attivisti trans applicano la pratica del sorvegliare e punire usando come arma l'accusa di transfobia.

La volontà di emancipazione si trasforma allora nel suo opposto, in un vittimismo a oltranza. Da questo punto di vista il mio lavoro, evidenziando la genealogia della corrente gender, consente di decostruire la decostruzione del sesso».

Il suo ultimo libro, Le sexe des Modernes (Il sesso dei Moderni), è forse la prima storia ragionata dell'idea di gender, del sesso come identità, contrapposto al sesso biologico.

In che modo sapere che l'idea di sesso ha una storia ci aiuta a capire meglio il dibattito attuale?

«Il mio libro parte dalla storia intellettuale della seconda metà del 20esimo secolo fino ai giorni nostri e analizza da una parte il fenomeno gender e dall'altro il pensiero di alcuni intellettuali, quasi tutti francesi, come Lacan, Derrida, Deleuze, Barthes, Foucault. La corrente gender, frutto della sintesi proposta dall'americana Judith Butler negli anni '90, ha, in effetti, preso in un primo tempo come riferimento la cosiddetta French theory, poi se ne è allontanata esprimendo ostilità nei confronti di questi intellettuali maschi, bianchi ed elitari.

Era necessario fare chiarezza su questa relazione ambigua tra lo spazio culturale americano (luogo di nascita del concetto di genere) e lo spazio europeo, in particolare francese, che ne costituiva la preistoria.

 La nozione di genere è emersa in un contesto storico preciso, quello di una rivalità culturale tra gli Stati Uniti e l'Europa, e dell'affermazione di una nuova superpotenza nello spazio culturale mondiale».

Un nuovo spettro si aggira per l'Europa, lo spettro del sesso, scrive nel suo libro. L'identità di genere non potrebbe essere anche un messaggio di emancipazione?

«È evidente che la teoria di genere ha una vocazione emancipatrice: si propone di liberare gli individui dal determinismo biologico rendendo il sesso - maschio o femmina - una costruzione sociale e lavorando a una fluidificazione delle norme di genere, ampliando il ventaglio dei comportamenti.

Ma a questo messaggio emancipatore accompagna una ridefinizione radicale dell'idea stessa di emancipazione. La sua visione sociologica e comportamentalista rende l'emancipazione un puro processo sociale d'interazioni, in cui le norme non sono sovvertite dagli individui, ma a causa di processi di défaillance inerenti alle norme stesse.

Un po' complicato ma per Butler e per la teoria gender, l'individuo non conta, conta il processo sociale».

Lei sostiene con Foucault che passiamo da una società fondata sulla legge (quella della differenza sessuale) a una società fondata sulla norma. Che significa?

«L'idea di Foucault in base alla quale la nozione di norma deve sostituire quella di legge per chiarire il funzionamento delle società moderne è un attacco diretto ai suoi contemporanei e in particolare a Lacan. Per Lacan il sesso obbedisce a una legge fondamentale: la proibizione dell'incesto che determina il complesso di castrazione o il complesso di Edipo.

Per Lacan il sesso è innanzitutto interdizione, mancanza, minaccia di privazione. Foucault contrappone a tutto ciò una logica del vivente, una biopolitica definita da una riorganizzazione costante della norma in una dimensione positiva e produttrice d'interazioni.

Per Foucault si trattava di liquidare tutto quel restava di metafisico nello spazio moderno. Potremmo dire che questa realtà senza legge che ci governa aderisce perfettamente all'idea di infinita fluidificazione delle norme di genere enunciata da Butler, tanto più che per lei questa fluidificazione esiste proprio perché è implicita nella norma».

 

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