“LA SPERANZA E’ NECESSARIA PER VIVERE.”
“LA SPERANZA E’ NECESSARIA PER
VIVERE.”
Addio
auto elettrica: schiaffo a Davos e ai Re del
Covid.
Libreidee.org-
Nicola Bizzi- (19/11/2021)- ci dice:
Se a
Trieste contro i portuali sono bastati gli idranti, a Rotterdam la polizia ora
s’è messa a sparare sui manifestanti.
Contrari
all’adozione dell’ennesimo lockdown in arrivo, gli olandesi contestano il
fallimento delle politiche Covid: l’83% della popolazione, nei Paesi Bassi, ha
ricevuto ben due dosi – inutili, evidentemente – del siero genico sperimentale
che i media chiamano ancora “vaccino”.
L’ultimo
colpo di coda delle politiche “carcerarie” inaugurate nel 2020 col pretesto
della sicurezza sanitaria – vedasi anche il caso dell’Austria, pronta a tornare
a chiudere tutti in casa (contro il parere della stessa polizia austriaca) –
avrebbe un preciso fondamento politico, reso evidente da un indizio: il
tramonto dell’auto elettrica.
Tradotto:
la sbandierata emergenza climatica – concepita come “secondo step”
dell’emergenza generale permanente – non starebbe funzionando, come
spauracchio.
Di qui il ricorso ai “tempi supplementari”
della crisi-1, quella tuttora presentata come “pandemica”.
Crisi
sanitaria ormai palesemente smascherata: finiscono all’ospedale solo i pazienti
che non vengono curati tempestivamente, a casa. E i “vaccini genici” – in Italia
imposti con il ricatto, dal governo Draghi – non fornirebbero nessuna
particolare protezione, oltre a non limitare affatto la circolazione del
presunto virus. Comunque, secondo Nicola Bizzi, siamo
vicini alle battute finali della tragica commedia inaugurata quasi due anni fa: l’incubo – più politico che sanitario
– sarebbe destinato a terminare, non appena l’Ema dovesse finalmente approvare
l’adozione dei nuovi farmaci (operazione che, a quanto pare, vedrebbe la Francia
in pole position).
Ipotesi e riflessioni offerte da Bizzi e da
Matt Martini nella trasmissione “L’Orizzonte degli Eventi”, con Tom Bosco e un
ospite come Davide Rossi, autore di un esplosivo pamphet sul ruolo della Fabian
Society nella sovra-gestione delle recenti politiche emergenziali.
E’
Matt Martini a porre l’accento sul freschissimo fallimento, a Glashow, della
conferenza Cop26 sul clima: nessun impegno vincolante, per i prossimi anni,
grazie all’opposizione di paesi come Cina, India e Russia, indisponibili a recitare il copione
“gretino” che punta il dito contro il riscaldamento, anziché sull’inquinamento,
e in più imputa il “climate change” all’azione dell’uomo.
Non solo: in assenza di vere innovazioni tecnologiche,
Volskwagen e Stellantis – questa la grande novità – rinunciano ufficialmente
alla riconversione elettrica dell’automotive, vera e propria bandiera della
“rivoluzione green” progettata dall’élite finanziaria che sogna la
digitalizzazione totale del pianeta e il controllo definitivo su ogni aspetto
della vita umana. Tra l’altro, l’adozione forzata
dell’auto elettrica – rileva Martini – avrebbe posto fine al diritto alla
mobilità, salvo che per i ricchi, dato l’altissimo costo dei veicoli elettrici.
Un
vero e proprio bluff ecologico? Sono in molti, ormai, a sostenerlo: l’impatto
ambientale di un veicolo elettrico (la produzione dell’energia necessaria a
farlo muovere, senza contare la realizzazione e poi lo smaltimento delle
batterie) sarebbe superiore a quello comportato dal tradizionale motore termico.
Lo stesso Martini ricorda le posizioni assunte
fin da subito da Toyota, contraria alla “rivoluzione” elettrica: costi immensi,
senza una reale contropartita ambientale (se non per i grandi centri urbani: ma
a che prezzo?). A ruota, è stata la Renault a chiarire che i costi dell’auto
elettrica sarebbero stati letteralmente proibitivi: una vettura media sarebbe
costata il doppio di un’auto tradizionale.
Ora,
la pietra tombale: i grandi costruttori europei (tedeschi, francesi e italiani) sembrano
archiviare definitivamente l’auto elettrica, anche se l’Ue sperava di renderla
pressoché obbligatoria entro il 2030.
Per il cartello di Davos – osserva Martini – è
la prima, storica sconfitta. E forse è anche per questo che, oggi, le pedine di
quel club tornano a premere l’acceleratore sulla “dittatura sanitaria”.
Meluzzi:
accelerano, temono
che la
strage diventi vistosa.
Librteidee.org-Alessandro
Meluzzi -(19-11-2021
Personaggi
come Umberto Galimberti e Giuliano Cazzola criminalizzano e patologizzano il
dissenso, come ai tempi della psichiatria di Stato introdotta da Stalin? Credo che ci sia una grande
strumentalità, e una serie di vantaggi sociali ed economici che derivano da
questa parte in commedia, questa commedia tragicomica e grottesca alla quale
siamo sottoposti tutti i giorni dai media mainstream.
E credo ci sia anche un atteggiamento
screziato di paranoia, a fronte di una patologia che ha una letalità bassissima. Però ricordo, a questi vecchi
malvissuti, che chi pensa di poter sacrificare la libertà alla sicurezza, alla fine,
non avrà né l’una né l’altra. Non avrà la sicurezza (non avrà “l’immortalità”), mentre
alla libertà ha già rinunciato da tempo. E, avendo rinunciato alla libertà, ha
rinunciato anche alla dignità, al poter andare con la propria faccia di fronte
ad uno specchio al mattino (e di fronte al Tribunale della Storia, in tempi –
ritengo – medio-brevi).
“Wired”, mi
segnalano, scriveva di come si possono “combattere razzismo e xenofobia con la
scienza”. E l’“Huffington Post” citava una ricerca sulla
“stimolazione cerebrale non invasiva” per correggere “pregiudizi e stereotipi
sociali”. Zombizzare le masse, all’interno di una società apparentemente utopistica
ma in realtà distopica?
Una
società pacificata, dove però le persone devono essere svuotate, sradicate,
livellate? Io credo che Huxley, nel “Nuovo mondo”, nella divisione degli esseri
umani tra alfa, beta, gamma, delta (ed epsilon, a cui è riservata solo la droga
del “soma”, dell’appiattimento e dell’oblio), ancora più che in “1984” di
Orwell, ci renda ragione di questo incubo collettivo. Un incubo che muove,
fondamentalmente, da due motivazioni: il controllo di un’élite ristretta
sulla maggioranza delle persone, e la spersonalizzazione degli individui (o
addirittura la loro “de-personazione”) per farne dei robot controllati, dei
dati algoritmici prevedibili.
In
altre parole, l’obiettivo è eliminare quella libertà che caratterizza l’umano: come se ci fosse una presenza
demoniaca che viene da un altrove, e che fa della specie umana una “variabile
impazzita” della natura e del Creatore, che dev’essere cancellata e sostituita
con un soggetto totalmente eterodiretto da una legge eterologa e da una “eterotopia” che, appunto, Huxley ha
descritto perfettamente, e che purtroppo sta entrando tragicamente fra noi; prima, attraverso forme di
condizionamento legate alla “dittatura del politically correct”, poi attraverso
tecnologie telematiche che non controllavano il gene, ma il “meme” della
cultura (quindi lo smartphone, la dipendenza dalla HuxleyRete), e poi, alla
fine, non più solo il “meme” della cultura, ma il gene del Dna, che dev’essere modificato eliminando
la libertà dell’umano, riducendoci ad automi.
Questo
è lo scenario che qualcuno ha consapevolmente concepito. Che gli riesca fino in
fondo non è detto, perché esiste l’eterogenesi dei fini. E quindi, nonostante
la pervasività di questo disegno, la sua efficacia e la sua efficienza,
nonostante la sua spietatezza e la sua anti-umanità, nonostante il suo orrore,
questa situazione ha prodotto dei livelli di elevata coscienza in una quantità
di persone, su scala planetaria, come forse non mai.
E’ questa,
la “variabile impazzita” della questione. E quindi, quel Tribunale della Storia
potrebbe innescarsi anche di fronte a una variabile – impazzita e relativamente
prevedibile: cioè il fatto che queste misure, anche le terapie immunologiche,
producano effetti letteralmente devastanti, sulla salute delle masse. Tanto da arrivare poi a un
passaparola (media o non media, controinformazione o meno, Rete o non Rete,
coscienza nei media o non-coscienza nei media).
Se in
ogni pianerottolo, in ogni famiglia, in ogni parentado, in ogni circolo di
amici c’è qualcuno che ci lascia le penne, avendo pensato di conquistare
l’immortalità, questo potrebbe produrre un contraccolpo dagli effetti
imprevedibili. Su questo – io temo, tragicamente – si giocherà la partita. Siccome però la riduzione della
popolazione generale (soprattutto l’eliminazione della fertilità, partendo dai
bambini), secondo la Fondazione Bill & Melinda Gates è una delle finalità
generali di questo orrendo disegno, io credo che – se non si sbrigano – le grandi
masse umane potrebbero accorgersene: è per questo che accelerano.
Loro –
ricordiamolo – hanno alcune finalità generali. Per esempio, la riduzione
demografica: quindi una diminuzione della popolazione, partendo dai più
giovani, anche attraverso progressive campagne di sterilizzazione. Lo diceva Bill Gates dieci anni fa:
soltanto con una grande campagna vaccinale avremmo potuto abbassare
l’incremento demografico.
In
secondo luogo, hanno bisogno di un controllo algoritmico delle masse: quindi
deve essere azzerata quella libertà dell’essere umano, che lo rende “simile a
Dio”. Diceva Jacques Maritain: «Il Dio dei cristiani è stato così pazzo da voler
essere amato da uomini come lui». E’ l’uomo che ha combinato sempre la dimensione
dell’amore e del filantropismo. Bene: vogliono ridurci a una dimensione di consumi
prevedibili, controllati, eterodiretti e “datizzati”. Per il momento, questo lo si fa
con gli strumenti disponibili. Ma l’obiettivo finale – a detta dello stesso Bill
Gates – è quello dell’innesto di un microchip transumano (o post-umano) per
ridurre gli uomini a dei robot, possibilmente non-riproducentisi, non inquinanti, non
autonomi, non-autogovernantisi, non imprevedibili. Questo pianeta, ridotto a
una sorta di orrendo film di fantascienza, è lo scenario che si sta preparando
(a detta degli stessi documenti di coloro che lo stanno attuando).
A non
vederlo è soltanto la cecità di non vuole vedere, o di chi pensa che tutto
questo abbia un contenuto filantropico, “verde”, come nel caso della follia dell’elettrificazione
dell’automotive. Per caricare una batteria al litio, e poi smaltirla, si deve consumare
molto più ossigeno, e liberare molta più anidride carbonica (e sostanze
inquinanti) di quanto non accada con un motore diesel. Siamo quindi nella menzogna delle
menzogne, laddove altre tecnologie veramente autonome – come l’idrogeno –
vengono dilazionate e represse.
Il problema fondamentale è il controllo, da parte di questa Cabala
planetaria che, nella politica recente degli Usa – con l’efficienza del Deep
State governato dalla setta “dem” – ha abbattuto Trump, che (con tutti i suoi
difetti) aveva cercato di contrastare un disegno geopolitico nel quale tutta la
manifattura dev’essere demandata alla Cina, e l’immensa plusvalenza prodotta
dalla manifattura in Cina dev’essere investita in debito militare americano.
Questa
doveva essere la divisione del lavoro, per il club dei Clinton e per gente che,
come Obama, ha avuto il Nobel per la Pace scaricando poi nel mondo la maggior
quantità di bombe dai tempi della Seconda Guerra Mondiale. Però le classi progressiste europee
credono a queste balle: credono che Trump fosse cattivo, che Obama fosse buono, che lo “scorreggione” Biden (un
fantoccio) e Kamala Harris fossero l’immagine del politically correct.
L’unica
speranza geopolitica che oggi abbiamo è che i repubblicani vincano le elezioni
di mid-term e che Obama e Biden possa fare lo speaker del Congresso al posto di
quella strega abortista di Nancy Pelosi. Questo potrebbe creare qualche
problema anche all’élite di casa nostra. Altrimenti, saremo schiacciati come
scarafaggi.
Questi
equilibri si giocano a livelli che, purtroppo, non sono né quelli dell’Italia,
né quelli dell’Europa. Sul “lockdown per i non vaccinati”, il governo frenerà finché
lo riterrà conveniente. Io credo che di qui alla primavera, cioè alle elezioni americane
del mid-term, vedremo forme di repressione inimmaginabili. Credo che non si fermeranno soltanto
al “lockdown per i non vaccinati”: il loro sogno è quello delle retate nelle
case per riempire i capannoni per l’isolamento che hanno preparato, in Italia
come in Australia. Quello, probabilmente, sarà il momento della latitanza. Come difendersi dalla tirannide? Io
ho il pessimismo della ragione, ma anche – gramscianamente – l’ottimismo della
volontà. Quindi
ritengo che la battaglia vada fatta, fino alla fine, e penso che ci sia anche
l’eterogenesi dei fini, e quindi nessuno può prevederne gli esiti: la partita va giocata fino in fondo,
senza paura e con grande determinazione.
La
durezza della mia analisi è quella che faceva dire, ai classici romani, “si vis pacem, para bellum”. Se vuoi la pace preparati alla
guerra, sapendo che sarà la più sanguinaria che ci sia mai stata. E lo scenario è feroce: di fronte a
questo tipo di situazione bisogna essere allertati, predisposti e preparati.
Ma i
momenti feroci non sono mai mancati, nella storia. Credo che lo stesso grado di
consapevolezza delle masse attuali ce l’avesse un ragazzo calabrese di
vent’anni, trascinato nelle trincee dell’Isonzo nell’inverno del 1916. Credo che questa consapevolezza ce
l’avessero coloro che subivano i bombardamenti nelle città italiane nel
1943-44. Penso
che tutte le epoche abbiano avuto le loro Hiroshima, le loro Nagasaki, i loro
Gulag, i loro campi di concentramento, i loro Buchenwald. La storia è sempre
foriera di una dimensione che ha anche un aspetto tragico essenziale: e oggi,
la tragedia si ammanta di salute, di buonsenso, di ecologismo, di protezione
dalla malattia degli altri, di solidarismo.
Basta
leggere le bestialità dette dall’“antipapa” Bergoglio, o da tanti altri che
dovrebbero animare le agenzie della buona volontà, e invece rivelano questa
visione veramente luciferina, nella sua finzione: un’esibizione di pubbliche
virtù di fronte a orrendi vizi privati, nel quadro di un orrendo disegno di
base.
Ciò
detto, credo che le misure di autodifesa debbano essere la coscienza, la
consapevolezza, il coraggio; la capacità di fare gruppo, di fare comunità, di
avere relazioni protettive, affettive, di autenticità. E la capacità di amore,
anche verso i propri nemici. Ho chiamato “vecchio malvissuto” il mio collega
Galimberti. Ma, se proviamo a calarci empaticamente nei suoi panni, nelle sue
fragilità, nella sua auto-valutazione, nella stima che ha di sé, nella paura
per le sue condizioni (di vita e di carriera), allora comprendiamo anche perché
dice le mostruosità che dice.
Non
significa giustificarle, sia chiaro. Ma provare a guardare il mondo con gli
occhi dell’altro, anche del proprio nemico, si chiama empatia. E per i cristiani diventa il grido di
Gesù: «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno». E molti dei nostri persecutori –
davvero – non sanno quello che fanno. Pensiamo anche che c’è un grande disegno,
che gli orientali chiamano Dharma. E c’è una parola che Jung chiama
“sincronicità”: è l’idea che, tra le cose che accadono, vi siano nessi che non
sono né casuali né causali; misteriosamente, molte cose si collegano tra di
loro in un disegno, generale e contemporaneamente personale, che i cristiani
chiamano Provvidenza. Manzoni la descrive magistralmente, nella peste di Milano e
nella narrazione dell’untore, parlando della Colonna Infame: esiste un grande
disegno corale, che include anche gli altri, nel quale le nostre singole vite
sono inserite: con un libero arbitrio, al quale non possiamo rinunciare mai,
che ci fare dire “sì” o “no”, a qualsiasi cosa.
Noi
abbiamo detto “no” a molte cose, a cui altri hanno detto “sì”. Non è un caso
che siamo stati noi, a dirlo. Lo dico forse con un eccesso di provvidenzialismo
giudaico-cristiano: ma forse chi ha detto “no” l’ha fatto perché è stato
scelto, per farlo. Probabilmente, è stato scelto per testimoniare qualcosa che
si rivelerà nella sua compiutezza solo quando questa pagina tragica e orribile
della storia si sarà conclusa, cioè quando finalmente avremo capito per quale
ragione – faticosamente, anche al prezzo della vita – abbiamo presidiato questa
luce, nei confronti di un buio diabolico montante. Direi a tutti di formare
un’eggregora di pensiero: quando le menti, le coscienze, le anime vibrano
all’unisono, si mettono in connessione con i “cori angelici”, quelli che
Dionigi l’Aeropagita, Dante, Tommaso d’Acquino o Papa Gregorio hanno descritto
(il canto delle sfere celesti). E quindi ci mettono dentro una grande
prospettiva di unione, di comunità, di forza, di speranza, di fede, e anche di
amore.
Il
diavolo, invece (dal greco “diabàllo”, dividere, che è il contrario di
“sünbàllo”, mettere insieme) è colui che divide, che ci vuole isolati. Vuole dividere le persone dalle
persone, l’uomo dalla donna, il maschio dalla femmina, il fratello dal
fratello, il padre dal figlio e il figlio dal padre, le comunità dalle
comunità, le nazioni dalle nazioni. L’idea di dividere è,
paradossalmente, l’obiettivo fondamentale della globalizzazione: sembra fatta per unire, e invece è
realizzata come con l’idea del costruttore della Torre di Babele.
Io
credo che la globalizzazione sarà schiacciata dalla confusione delle lingue:
alla fine, il caos travolgerà chi pensava di poter ridurre tutto a un algoritmo
governato da un computer. Il nostro principale alleato, in questo momento, è il
caos creativo della realtà, insieme all’irriducibilità e all’imprevedibilità
delle cose umane. Ed è questo caos creativo e libero, che noi dobbiamo
cavalcare.
Nella
Sacra Scrittura, questo caos è la pagina opposta a quella della Torre di
Babele: la Pentecoste. Dopo esser stati terrorizzati dalla morte del loro
maestro, dopo averne visto la resurrezione (ma senza averla capita), gli
apostoli escono dal cenacolo e, illuminati dallo Spirito Santo, parlano,
capendosi perfettamente, pur provenendo da ogni angolo del Medio Oriente. Per
poter difendere la libertà bisogna essere pronti anche ad “abbracciare la
croce”: soltanto chi accetterà di testimoniare fino in fondo sarà salvato. Come dice il Libro dell’Apocalisse:
si salverà soltanto chi non accetterà il “segno della Bestia” (il 666 messo
sottopelle, senza il quale non si potrà né comprare né vendere, che poi è
esattamente quello che oggi ci stanno imponendo). Ma ripeto: il pessimismo
realistico che esprimo è il modo per essere ottimisti.
Hobbes,
che parla del Leviatano e dell’“homo homini lupus” (e che quindi sembra un
pensatore feroce, nei confronti della natura umana) è il padre – nella
filosofia politica – di tutti i pensieri liberali. Rousseau, che è un ottimista nei
confronti della natura dell’uomo, è il generatore di tutti i modelli giacobini
e totalitari della storia. Quindi, essere pessimisti sugli esiti della contingenza che
si sta attraversando, probabilmente, è il modo migliore per essere più umani.
Essere stupidamente ottimisti, come tanti imbecilli che popolano il mainstream,
è il segno invece di una ferocia che può diventare pericolosissima, per sé e
per gli altri. E quindi, con questo “sentimento tragico della vita”, come avrebbe detto
Miguel de Una Muno, dobbiamo accettare la sfida: chi, come noi, ha raggiunto
questo livello di consapevolezza, deve testimoniarla per poi donarla, con
amore, agli altri. A qualunque prezzo, a qualsiasi costo.
(Alessandro
Meluzzi, dichiarazioni rilasciate il 18 novembre 2021 nella trasmissione
“Politicamente Scorretto”, con Enrica Perucchietti, Gianluca Lamberti e Adrian
Fiorelli, sul canale YouTube “Facciamo finta che”. Il professor Meluzzi è stato
sospeso dall’esercizio della professione medica, come altri 250 sanitari di
Torino, per essersi rifiutato di ricevere il siero genico sperimentale imposto
come profilassi anti-Covid. Nella trasmissione è stato citato anche il valoroso
dottor Riccardo Szumski, sindaco di Santa Lucia di Piave, appena radiato
dall’Ordine dei Medici di Treviso per l’ostinazione dimostrata nel voler curare
regolarmente da casa, e con pieno successo, i pazienti affetti da Covid).
“Mi
sono appena laureata
in un’università inglese: sono tutte guaste”
visionetv.it-Ramsha
Afridi-(20-11-2021)- cidice:
L’istruzione
superiore nel Regno Unito non si orienta più verso l’apertura mentale dello
studente, ma verso l’indottrinamento e il rispetto delle ideologie che schiacciano
lo sviluppo intellettuale e il dibattito.
Ecco perché diciamo che ha bisogno di una scossa, disperatamente.
Quando
in questo senso si è parlato dell’Università di Austin, il mio primo pensiero è
stato che il Regno Unito dovesse seguire l’esempio dell’America e lanciare la
propria iniziativa contro il “risveglio” ( il movimento “woke”).
La
nuova istituzione texana, dedicata alla ricerca della verità e della libertà di
indagine, è stata lanciata dal presidente fondatore Pano Kanelos, insieme ai
docenti Ayaan Hirisi Ali, Bari Weiss e Kathleen Stock.
Questo è esattamente ciò di cui abbiamo bisogno in Gran Bretagna.
Lo so
perché ho il dubbio onore di essere una neolaureata delle università
britanniche, quindi so quanto si trovino in condizioni disperate. Quando ho iniziato l’università credevo ingenuamente
che il tempo speso lì mi avrebbe lasciato con una nuova prospettiva sul
mondo; quanto mi sbagliavo. Quello che in effetti ho trovato, invece, è
stata una cultura accademica che si preoccupava di tutto tranne che di trovare
la verità.
Ho
conseguito una laurea in relazioni internazionali e una laurea specialistica in
giornalismo in due diverse università britanniche. Durante la mia permanenza nel mondo accademico, ho
assistito a un sistema guasto che prevedeva l’intimidazione degli
anticonformisti, la discriminazione razziale mascherata da “quote di diversità”
e la minaccia sempre imminente di censura per aver sostenuto il “pensiero
sbagliato”.
Era
evidente per me che la libertà accademica stava cessando di esistere.
In effetti, da studente, ho spesso temuto di esprimere le mie opinioni,
visto che, come mi è stato detto una volta durante una lezione, il “pensiero corretto” è quello che
conta, non la ricerca della verità. Fu allora che iniziò sul serio la mia
disillusione nei confronti del mondo accademico.
Gli
accademici e gli studenti britannici devono reagire se vogliono vedere un
cambiamento culturale, e lo dico da ex studentessa che ha assistito in prima
persona alle condizioni di questo sistema.
Ecco
perché è fondamentale costruire un quadro legislativo forte per proteggere la
libertà accademica dagli eccessi della sinistra culturale.
Accademici
britannici come Kathleen Stock sono stati cacciati dal lavoro per una visione
politicamente scorretta o semplicemente per aver affermato fatti biologicamente
inattaccabili. Questa ossessione per il “controllo emotivo” ha da tempo preso il sopravvento
nelle nostre istituzioni educative, limitando la possibilità del dissenso.
Ciò
non sorprende, considerando che le nostre università stanno cercando di imporre
contemporaneamente rigore accademico e inclusività; due valori incompatibili.
Durante gli studi ho visto questi valori scontrarsi tragicamente
all’università. Durante un seminario ho
visto degli studenti lavorare su un progetto, sostenendo che “il genere era un costrutto sociale”, mentre un altro ha negato che la biologia fosse un
fattore nel determinare il genere.
Entrambe
ideologie marginali e progressiste (almeno, ovunque al di fuori di
un’università). Credevo che questa visione fosse
palesemente assurda, ma mi sono ritrovata a mettere a tacere i miei principi per assecondare una minoranza
militante di studenti che venivano visti come illuminati dal risveglio della
nuova era. All’epoca, mi chiedevo se altri studenti si
sentissero allo stesso modo, purtroppo spinti alla stessa sottomissione. Sul momento, L’ho liquidato come un incidente banale e
isolato, mentre invece era solo l’inizio di una situazione che sarebbe solo
peggiorata. Più tardi, durante l’apice delle
proteste del BLM, ho visto un certo numero di studenti preparare una petizione
sulla necessità di assumere accademici provenienti da ambienti più “diversi”,
nonostante la loro esperienza accademica o addirittura competenza, sostenendo
che il mondo accademico era “troppo bianco”.
Alla
fine, sostenevano “quote di diversità” imposte che, ironia della sorte,
discriminavano i docenti a causa della loro razza.
Merito o talento non erano requisiti in questa visione del mondo, anzi sembravano quasi fossero
ostacoli da superare in nome di questo attivismo autoritario.
L’ortodossia della sinistra liberale (Dem USA)era il paradigma
ideologico dominante all’università e il pensiero eterodosso sarebbe stato
accolto con immensa ostilità. Garantire la conformità ideologica
era la preoccupazione principale di queste istituzioni e ho capito molto
rapidamente che per sopravvivere alla “cancellazione” e completare la mia
istruzione, avrei dovuto censurare le mie convinzioni personali e politiche nel
campus.
I dati rivelano che l’autocensura è un
fenomeno sempre più comune per molti studenti anticonformisti. Un sondaggio di Survation per conto di ADF
International, un’organizzazione di difesa legale basata sulla fede, ha rilevato che più
di un quarto degli studenti si “autocensura” perché questi temono che le loro opinioni si scontreranno
con i valori dei cosiddetti
“risvegliati”, invece promossi dalla loro università.
Da
studentessa, mi sono resa conto che il mondo accademico premiava la correttezza
politica e non offriva spazio al pensiero critico.
Ciò
che è diventato ancora più chiaro è che le nostre istituzioni educative non
erano più un luogo per pionieri che avevano nuove prospettive da offrire. Ancora più deprimente, ho assistito a poco o
nessun respingimento contro questa cultura totalitaria.
In effetti, è diventata una routine vedere persone accusate di essere
“dannose”, “offensive” e persino “pericolose” per le loro opinioni.
Questo è il motivo per cui abbiamo bisogno di azioni per difendere i
diritti di libertà di parola e la diversità di opinione. Il lancio di nuove iniziative educative è un primo
passo cruciale verso la correzione di questo sistema in frantumi, che sembra
solo peggiorare. Potrebbe anche spiegare perché le
università del Regno Unito “affrontano una crisi per la perdita della fiducia della
nazione”,
secondo un documento pubblicato da Policy Exchange, un think tank di centrodestra.
Ciò
che accade nell’istruzione, si diffonde in tutta la società. Idee e credenze istituzionalizzate dalle
università possono rapidamente farsi strada nel mondo di tutti i giorni, basta
guardare quante persone hanno sentito parlare della teoria critica della razza
ora rispetto a due anni fa. Ecco perché è più
importante che mai avere un serio incentivo nel cambiare l’istruzione
superiore.
Quando
ho finito i miei studi, non avevo imparato nulla di nuovo; in effetti la mia esperienza somigliava più
all’aver frequentato una fabbrica dell’indottrinamento, che serviva solo come
estensione di una forza lavoro aziendale, e alla fine sputava un diploma come
conferma della tua conformità al sistema.
La
sovversione delle università ha portato a una visione del mondo basata sulla
cultura del risentimento e sull’ideologia di sinistra (Dem Usa) che mira a
indottrinare le persone al vittimismo, piuttosto che insegnare loro come
pensare in modo indipendente.
La
Gran Bretagna, più che mai, ha bisogno di una propria iniziativa educativa,
dedicata alla libertà accademica e al rigoroso discorso intellettuale, per
tutti coloro che sono stanchi e delusi da questo clima tossico (dem USA).
(
Ramsha Afridi – traduzione di Martina Giuntoli ).
FDA:
per sapere la verità su Pfizer bisogna
aspettare il 2076.
Visionetv.it-Andrea
Sartori-(19-11-2021)- ci dice:
“A
pensar male si fa peccato, ma spesso ci si prende”. Questa la massima del divo
Giulio Andreotti, e questa notizia fa proprio pensare male. La Food and Drugs
Administration chiede di mantenere segreti i dati sul vaccino Pfizer fino al
2076.
Ohibò,
se questi vaccini sono tanto sicuri, perché aspettare mezzo secolo per rendere
pubblico tutto quello che sta accadendo? Forse perché qualcosina alla fine non
torna?
La FDA
ha ripetutamente promesso la massima trasparenza per quanto riguarda i vaccini
per il COVID 19, addirittura promettendo un comitato di trasparenza per quanto
riguarda i vaccini. Bene, proprio per via di queste promesse, ad agosto più di
una trentina tra accademici, scienziati e professoroni delle più prestigiose
università americane hanno richiesto tutte le informazioni riguardo il vaccino.
La
risposta della FDA? Scena muta. Allora è stata persino intentata una causa da parte della “Public Health and Medical
Professionals for Transparency” contro la FDA per richiedere le informazioni. Questo è accaduto nel mese di
settembre. Da allora non si è avuta comunque alcuna notizia.
La
FDA, invece, ha chiesto ad un giudice federale di poter aver tempo sino al 2076
per rilasciare tutte le informazioni sul vaccino Pfizer. La giustificazione è risibile: i dati
sul vaccino, stando alla FDA, riempirebbero più di 329.000 pagine, e loro ne
potrebbero produrre solo cinquecento al mese. Quindi il lavoro dovrebbe finire
tra… cinquantacinque anni!
La FDA
si giustifica poi dicendo che le 500 pagine al mese sono “coerenti con i
programmi di elaborazione presenti nei tribunali di tutto il Paese nei casi
contemplati dal Freedom of Information Act” e quindi se la prende coi
querelanti per la richiesta giudicata pesante.
Una
richiesta che invece pare assolutamente giustificata, trattandosi di farmaci e,
come ben sa chi ha studiato il greco, “pharmakon” significa sia “veleno” che
“medicina” perché il confine tra le due cose è estremamente labile. Il fatto che la FDA intenda
rilasciare i documenti solo in una data così lontana, rende l’urgenza di sapere
ancora più stringente.
Il
caso Pfizergate sollevata dal British Medical Journal riguardo la
falsificazione dei dati del vaccino rende la cosa ancora più sospetta. Talmente sospetta da dare una
certezza quasi assoluta che questi signori hanno davvero qualcosa da
nascondere. Il grosso guaio è che si va ad intaccare un giro d’affari talmente
grosso, che arriva anche a toccare i nostri propagandisti televisivi del
vaccino, che bisogna quantomeno prendere tempo, visto che il bubbone oramai è
esploso.
Ai
liberisti che sostenevano che la famosa “mano invisibile” avrebbe aggiustato
tutto nel lungo periodo Lord John Maynard Keynes rispondeva ironicamente “nel
lungo periodo siamo tutti morti”.
Passando
dall’economia alla medicina, questa sembra la strategia della FDA: aspettare il
lungo periodo, e che quindi siano tutti morti, per rilasciare quei dati che
provano che non tutto sta andando per il verso giusto.
Sherlockianamente
ci permettiamo di osservare come due indizi facciano una prova, e che lo scandalo Pfizergate
sollevato dal British Medical Journal accoppiato alla FDA che non intende
rilasciare i dati sino al 2076, facendo come Bertoldo che prese tempo con la scusa di
scegliere lui l’albero sul quale farsi impiccare, ci mostra come qualcosa
effettivamente non vada in tutta questa narrazione.
Così
come, aggiungiamo, incolpare i no vax quando sono i Paesi più vaccinati al mondo
quelli maggiormente colpiti dalle famose quarte ondate rende tutto più
macchiettistico. Il re è nudo, ma non si vuole ammetterlo. Troppi affari e
troppi equilibri di potere cadrebbero come castelli di carte. E questa caduta è
solo rimandata. (ANDREA SARTORI).
Col “trattato
del Quirinale”
la
Francia vuole conquistare l’Italia.
Visionetv.it-
Arnaldo Vitangeli- ( 18-11-2021)- ci dice:
I
trattati internazionali sono da sempre uno degli strumenti principali per
ingabbiare la volontà popolare e imporre decisioni calate dall’alto ed
immodificabili neppure tramite referendum.
Il
Trattato di Maastricht è l’esempio più chiaro di come accordi fatti in
ristrette conventicole, senza che il popolo sia informato in modo trasparente e
possa esprimere o negare il proprio consenso, condizionano il destino del Paese
nei decenni e rappresentano un limite fortissimo alla sovranità nazionale.
Anche
il Trattato del Quirinale, come quello di Maastricht, è stato salutato dalla stampa
come un grande successo e una straordinaria opportunità per “contare di più” in
Europa, ma ciò che realmente prevede l’accordo, che dovrebbe essere firmato
prossimamente, non è dato saperlo.
Sul
contenuto dell’accordo c’è sempre stato uno stretto riserbo, solo recentemente
sono circolate alcune bozze e a quanto pare c’è da preoccuparsi e già arrivano,
da parte di illustri personaggi dell’establishment, allarmi e appelli a non
firmare il trattato, che dovrebbe essere ratificato prima della fine dell’anno.
Francesco
Forte, ex ministro delle Finanze e per il Coordinamento delle politiche
comunitarie, sottolinea in una sua intervista su “il Sussidiario” come il
trattato sia sbilanciato verso gli interessi francesi su cruciali questioni
economiche e finanziarie. Forte fa notare come la Francia abbia “un’economia instabile
e una finanza che sfrutta il risparmio italiano e lo usa per pagare i propri
debiti”e afferma senza mezzi termini che “rapporti più stringenti tra Roma e
Parigi possono crearci problemi dal punto di vista bancario, petrolifero e
tecnologico”.
Insomma
i francesi che hanno già fatto acquisti a man bassa tra i maggiori asset
industriali e bancari italiani riuscendo, grazie a un diverso livello di golden
share, a impedire il contrario, puntano a ulteriori acquisizioni.
A
solleticare l’appetito dei “cugini d’oltralpe” è in particolar modo il settore
tecnologico, che in l’Italia è notevolmente più sviluppato che in Francia, e il Trattato del Quirinale
renderebbe ancora più facile per i francesi acquisire le nostre aziende
strategiche.
Parigi
punta a inglobare l’Italia all’interno della sua catena del valore, in modo da
controbilanciare la potenza tedesca, soprattutto ora che la Germania sta
evitando di rispettare le clausole del Trattato di Aquisgrana che avrebbe
dovuto cementare ulteriormente l’asse tra Parigi e Berlino. Secondo l’economista Carlo Pelanda,
più volte consulente di vari governi italiani, il rischio per l’Italia è quello di
“un’auto-annessione alla Francia, industriale e strategica, edulcorata ma
sostanziale”.
Nonostante
i rischi certi e i vantaggi incerti e nonostante l’atteggiamento aggressivo e
predatorio che la Francia ha avuto negli ultimi anni nei confronti del nostro
Paese, sono in molti a spingere perché la firma avvenga al più presto. Tra questi un ruolo di primo piano
lo ha il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in cui onore il
trattato viene chiamato “del Quirinale”
Ma
oltre all’inquilino del Colle più alto il “partito francese” ha in Italia un numero
impressionante di iscritti e Parigi può utilizzare anche l’alto debito italiano
e la vulnerabilità del nostro Paese nei mercati finanziari per fare pressione
su di noi, anche grazia al ruolo della francese Lagarde nella BCE.
Torna
ciclicamente il problema della classe dirigente italiana, troppo spesso più
interessata ad assecondare interessi stranieri che a fare l’interesse nazionale; un problema storico che dura da
secoli e che
invece di risolversi peggiora e di cui il popolo italiano paga il prezzo
salatissimo.
(ARNALDO
VITANGELI).
Funzionicchia:
14 bambini si ammalano
dopo il vaccino in California.
Visionetv.it-Andrea
Sartori- (18-11-2021)- ci dice:
Mentre
in Italia si parla di vaccinazione ai bambini, ecco che vediamo come “funzionicchia”
la Pfizer sui bambini in Calfornia. Nel grande Stato americano almeno
quattordici bambini sono risultati infetti dopo la vaccinazione.
L’ospedale
pediatrico Sutter Health nella città californiana di Antioch ha emesso una
dichiarazione secondo cui almeno quattordici piccoli pazienti hanno subito una
somministrazione errata di diluente, ovvero il doppio della dose consigliata. E
non sono certo stati benissimo, anzi.
Una
genitrice di nome Denise Iserloth ha definito, ovviamente “inaccettabile” tutta
la storia: “ti aspetti che i medici ti diano le dosi corrette”.
L’ospedale
aveva detto che, non appena si erano accorti della scorretta somministrazione
delle dosi, avevano avvertito i genitori. Denise, furiosa, aggiunge che
l’avviso dell’ospedale è avvenuto ben dieci ore dopo la somministrazione e che
suo figlio era crollato al suolo per ben due volte.
“Ai
miei figli è stata somministrata una doppia dose di vaccino – ha continuato
Denise – e
non conosciamo gli effetti a lungo termine”.
Ed è
quello che deve spaventare: se sui bambini gli effetti sono questi al momento, quali
potranno essere gli effetti a lungo termine?
E
purtroppo questo nemmeno é l’unico caso, anzi, in USA sta avvenendo una strage
degli innocenti. Uno studio dei Centers for Disease Control and Prevention dello scorso 30 luglio riporta come a
397 bambini di età compresa tra i 12 e i 17 anni sia stata diagnosticata
un’infiammazione cardiaca dopo aver ricevuto il vaccino Pfizer.
Da
qualche giorno in Italia si è scatenata la caccia al “bambino untore” per
spingere alla vaccinazione dei più piccoli, nonostante il parere contrario
dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e i dubbi di Maurizio Bonati,
capodipartimento all’Istituto “Mario Negri”. E invece Ricciardi pensa
all’obbligo. Ma chi sono l’Oms e l’Istituto “Mario Negri” a petto di Walter Ricciardi,
la star di immortali capolavori come “L’ultimo guappo”?
Il
guaio è che Ricciardi e personaggi simili non si fermano non dico davanti a
pareri un filino più autorevoli del loro, ma nemmeno davanti ai casi che
arrivano dall’America di eventi avversi sui bambini. Ma persino la Food and Drugs
Administration americana aveva avvisato i genitori di non vaccinare i bambini
al di sotto dei dodici anni, almeno per ora.
Quel
che sta avvenendo francamente ci preoccupa. Il Covid, come sottolineato anche di
recente dal dottor Bonati, è una
malattia che interessa perlopiù le persone adulte, anzi, le persone anziane:
sono loro i famosi “soggetti fragili”. A suo tempo la spagnola mietè
vittime soprattutto tra le fasce più giovani già decimate dalla Prima Guerra
Mondiale (eppure, nonostante una situazione assai più drammatica, il mondo non
si fermò e l’epidemia si estinse in maniera naturale dopo un paio d’anni).
Oggi
la cosa sarebbe stata meglio gestibile concentrandosi sui soggetti fragili e
lasciando in pace i più giovani, per fortuna non toccati più di tanto. E invece si vuole arrivare
all’abominio, per pura sete di denaro, di andare a vaccinare anche i
piccoli, senza avere un’idea di quelle che potranno essere le reazioni avverse.
Sull’aumento
dell’epidemia si può riscontrare, dai dati dell’Iss, che tra i nuovi casi di
Covid 19 la maggioranza è fra i vaccinati con dose completa entro i sei mesi:
Il 68 per cento nella fascia d’età fra i 12 e i 39 anni, il 72,8 per cento tra
i 40 e i 59 anni e addirittura l’83,8 per cento nella fascia d’età fra i 60 e i
79 anni.
E
quindi cosa facciamo? Vogliamo vaccinare anche i bambini quando non ce n’é bisogno?
Quando anzi c’é il rischio di eventi avversi? Il caso americano deve far
riflettere. Anche su alcuni personaggi che, per amor di denaro, consigliano il
vaccino ai bambini. I bonifici superano i rischi. Se arriviamo a speculare sulla
pelle dei bambini significa che abbiamo raggiunto il livello più grave di
abiezione morale.
“Non
somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale, né suggerirò
un tale consiglio” scriveva Ippocrate nel giuramento. Se lo ricordano, questi
signori?
(ANDREA
SARTORI).
Covid. L’Europa richiude, ma l’Italia
resiste:
qualcuno
si sta mettendo di traverso.
Visionetv.it-Debora
Billi-(18-11-2021)- ci dice:
I
titoloni si sprecano. Tutta l’Europa sta richiudendo, applicando coprifuochi,
limitando le libertà dei cittadini: è tornato il Covid. Malgrado le
vaccinazioni a tappeto, quelle che avrebbero “restituito la libertà”, si torna
in prigione.
Lo fa
Gibilterra, il Paese più immunizzato –si fa per dire– d’Europa, lo fa la
vaccinatissima Irlanda, che col suo 90% di punturati impone il coprifuoco a
mezzanotte; in Germania la Merkel (ma comanda ancora lei?) annuncia “numeri
spaventosi” con 264 morti e 53mila contagiati, e ipotizza soluzioni drastiche
che prontamente accoglieranno i media italiani: intervento dell’esercito,
obbligo vaccinale esteso, nuovi lockdown per vaccinati e non. In Repubblica
Ceca si proibisce ai non vaccinati l’accesso ad eventi e locali pubblici, in
Belgio si chiudono palestre e discoteche e si torna allo smart working
obbligato per 4 giorni a settimana.
I
media italiani ci sguazzano. In tv, 24 ore al giorno si sviscerano e si
discutono con entusiasmo i vari provvedimenti esteri, con l’idea di applicarli…
tutti. Anche
se nessun altro Paese pare averci imitato col green pass obbligatorio per
lavorare, secondo il mainstream dovremmo adottare acriticamente ogni
provvedimento estero, così, per spirito di emulazione. O per un semplice gusto sadico, che a
questo punto è lecito sospettare alligni in tutta la stampa italiana che pare
non vedere l’ora che gli italiani soffrano sempre di più.
Intanto,
e non per la prima volta, il governo è continuamente costretto a smentire le
ipotesi che i media anelanti le torture caldeggiano. Dopo Speranza che ha dovuto
richiamare all’ordine gli esaltati che volevano lasciare i no vax a morire per
strade, è la volta di Sileri che al TG2 esclude ogni ipotesi di lockdown per i
non vaccinati. Grande delusione tra i kapò, che forse non hanno riflettuto sul fatto che
i non vaccinati, in Italia, non possono neanche lavorare (a differenza di altri
Paesi che vanterebbero tali “lockdown”).
Voci
di corridoio poi confermano come il governo non abbia alcuna intenzione di
togliere il tampone dal green pass, come sempre i media vorrebbero per imitare
la formula 2G in uso in Germania e godersi così lo spettacolo dei non vaccinati che
soffrono le pene dell’inferno ancora più di quanto già non facciano.
Come
mai tanta resistenza alle pressioni mediatiche da parte del governo? Ha pietà
di noi? Pare che non sia questo il punto. Sempre le solite voci di corridoio
sussurrano che qualcuno si sia pesantemente messo di traverso, qualcuno a cui
non si può dire di no: ovvero le Forze dell’Ordine. Come sappiamo, le nostre FFOO
contano decine di migliaia di non vaccinati che al momento lavorano e vivono
grazie al tampone, e che non hanno nessuna intenzione di cedere a Pfizer
neanche sotto ricatto.
Provvedimenti
drastici contro i no vax significherebbero vedere svuotarsi caserme e questure,
e in un momento delicato come questo il governo ha assoluto bisogno della
fedeltà dei suoi uomini. O forse qualcuno nelle alte sfere ha visto ciò che sta
succedendo in Austria, dove il sindacato di Polizia ha annunciato che si unirà
alle proteste anziché reprimerle.
“Fate
come l’Austria”, insomma, deve essere suonato più come un incubo che come un
invito.
(DEBORA BILLI).
Usa-Cina: cosa c’è dietro
al
vertice fra Biden e Xi.
msn.com-First-
Carlo Musilli -(20-11-2021)-ci dice:
L’intesa
sul clima a margine della Cop 26, il primo colloquio dopo sette mesi fra i
presidenti Joe Biden e Xi Jinping, ma anche nuove tensioni sul destino di
Taiwan, con la minaccia americana di boicottare le Olimpiadi invernali di
Pechino.
In
pochi giorni la storia dei rapporti fra Stati Uniti e Cina si è arricchita di
tanti capitoli, ma la svolta non è arrivata e gli scenari futuri sono avvolti
dall’incertezza. «In realtà, Xi e Biden non hanno alcun interesse ad accelerare
i tempi, soprattutto per la situazione politica negli Stati Uniti, che in
questo momento è particolarmente fluida», spiega a FIRSTonline Stefano
Silvestri, ex presidente dell’Istituto Affari Internazionali, di cui oggi è
consigliere scientifico, e consulente per la politica estera di vari governi
italiani.
«Molto dipenderà dall’esito delle elezioni di medio termine al Congresso e al
Senato, in agenda per l’anno prossimo, che rischiano di condizionare
pesantemente la libertà di manovra di Biden e quindi l’orientamento di
Washington nei confronti della Cina».
In
questa fase, allora, che valore politico ha avuto la videochiamata fra Biden e
Xi?
«Credo
sia stato un incontro interlocutorio. Non sono stati raggiunti grandi accordi,
ma non si è nemmeno arrivati alla rottura. I canali diplomatici sono rimasti
aperti in vista di possibili intese future. Del resto, era un vertice
complicato proprio per questo: bisognava portare avanti un dialogo, com’è
necessario per ragioni economiche e ambientali, e nello stesso tempo non cedere sulle
questioni di principio. Anzi, cercare di mantenere il punto: Biden sul problema della democrazia e
sui diritti umani, Xi sull’opposizione alle interferenze estere e sulle
ambizioni cinesi nei confronti di Taiwan. Le parti hanno comunque
riconosciuto che trattare è possibile, anche se arrivare a un accordo sarà più
semplice in alcuni ambiti che in altri».
In
quale campo la prospettiva di un’intesa è più probabile?
«L’apertura
sul clima è importante: c’è una disponibilità, perlomeno a parole, e quindi è
possibile che si vada avanti. Il fatto che durante la conferenza di Glasgow
l’opposizione più forte alle misure anti-carbone sia arrivata dall’India ha
permesso alla Cina di non esporsi troppo, evitando di rompere il dialogo su
questo fronte».
Si
tratta di una posizione di facciata o è verosimile che si arrivi a un accordo
operativo?
«Credo
che con il tempo sia possibile ottenere qualcosa di più concreto. Il problema è
che questo tipo di accordi deve fare i conti con la salvaguardia dello sviluppo
economico.
La Cina,
in questo momento, deve recuperare i ritardi causati dalla pandemia, affrontare
le conseguenze della bolla immobiliare e gestire il generale rallentamento del
tasso di crescita, in parte inevitabile visto il ritmo tenuto in passato. Non dobbiamo mai dimenticare che in
Cina ci sono ancora enormi sacche di povertà e forti disparità di reddito fra
territori e classi sociali. È una situazione che rischia di diventare pericolosa anche
sotto il profilo politico. Detto questo, la Cina è sicuramente favorevole a una
qualche tipo di iniziativa in campo ambientale, perché i suoi cittadini
patiscono molto gli effetti dell’inquinamento. Chiunque sia andato in Cina sa quanto
possa essere pesante l’aria nelle città e quanto questo influisca sulla salute
e sulla produttività della popolazione».
In
quale ambito, invece, un accordo Usa-Cina le sembra impossibile?
«Alcuni
argomenti non sono ancora affrontabili in modo serio, come il controllo degli
armamenti.
Se ne discute in questo periodo fra Stati Uniti e Russia, ma pesa l’assenza
della Cina al tavolo delle trattative. Pechino sta rafforzando non solo gli
armamenti convenzionali, ma anche quelli nucleari».
In
ogni caso, dopo l’uscita di scena di Trump, possiamo dire che gli Stati Uniti
hanno abbandonato l’isolazionismo e rilanciato la filosofia del
multilateralismo?
«Sì,
ed è un fatto sicuramente molto positivo per noi europei, ma è anche evidente
che le nostre priorità sono diverse da quelle americane. Il problema numero uno della politica
estera europea non è la Cina, ma la Russia. Non solo per quello che succede in
Bielorussia, ma soprattutto per l’atteggiamento di Putin e i possibili sviluppi in
Ucraina e in Georgia, oltre a quello che è già accaduto nel Caucaso fra
Azerbaijan e Armenia».
In che
modo il cambio di governo in Germania inciderà sui rapporti fra Europa e
Russia?
«Il
nuovo governo tedesco avrà al proprio interno due forze, i Liberali e i Verdi,
che finora hanno avuto nei confronti di Mosca una posizione più dura rispetto a
quella di Merkel. Se poi si considera la crisi fra Bielorussia e Polonia e il
sostegno di Putin a Lukashenko, credo che difficilmente nel medio periodo
Bruxelles metterà in discussione le sanzioni alla Russia. Ma su questo scenario pesa molto
l’incertezza che regna intorno al futuro governo tedesco, di cui, in realtà,
sappiamo ancora troppo poco».
Antivirali
contro Covid. Quando arriveranno
le
pillole di Merck e Pfizer: metodi e efficacia.
msn.com-Uffpost-Redazione-(19-11-2021)-
ci dice:
“La
struttura commissariale Covid-19, diretta dal generale Francesco Paolo
Figliuolo, ha avuto mandato dal ministero della Salute, di acquisire un
quantitativo pari a 50.000 cicli di trattamento di farmaci antivirali orali per
covid per ciascuna tipologia di molnupiravir e paxlovid”, ossia le pillole
anti-covid di Merck e Pfizer. E’ parere univoco che gli antivirali contro Covid
siano un’arma necessaria per proseguire la battaglia al virus. “Non sostitutivi del vaccino, né
risolutivi, ma un altro pezzo fondamentale” ci aveva detto il Professor Guido
Rasi in una recente intervista ad HuffPost. Ma di cosa si tratta nello specifico?
Cosa
sono le “pillole Contro covid.”
Ad
oggi i “farmaci
antivirali”
più promettenti sono essenzialmente due: quelli prodotti dalla Merck e quelli
prodotti dalla Pfizer. Le due pillole anti Covid si avvalgono di due principi
attivi differenti: rispettivamente molnupiravir e paxlovid e sono importanti soprattutto perché
si possono assumere per via orale. I farmaci usati oggi nella prima fase
dell’infezione, quella in cui è importante frenare la replicazione di
Sars-Cov2, sono l’antivirale Remdesivir e gli anticorpi monoclonali, che possono essere somministrati solo per endovena in ospedale, con tutte le difficoltà che questo
comporta. Per
questo pillole da assumere subito dopo tampone positivo, potrebbero davvero
cambiare il volto a questa pandemia.
Quanto
sono efficaci.
Sviluppata
in uno studio clinico, la pillola di Pfizer, che sarà venduta con il marchio Paxlovid, è stata testata su un gruppo di
volontari che hanno iniziato il trattamento entro tre giorni dallo sviluppo dei
sintomi. Il
beneficio del farmaco è stato tanto repentino, riducendo dell’85% i rischi di
morte o ricovero, che il consiglio di esperti indipendente che ha affiancato la
Pfizer ha consigliato di interrompere la sperimentazione. A confronto con Pfizer, la pillola
della Merck aveva dimostrato una riduzione dei rischi del 50% se somministrata
entro 5 giorni dall’insorgere dei sintomi.
Metodo
di somministrazione.
Rispetto
al trattamento con anticorpi monoclonali, somministrato per via endovenosa, le
pillola Pfizer e Merck potranno essere comprate in farmacia. 30 pillole somministrate in 5
giorni, questo il trattamento, che include 10 pillole di ritonavir, un vecchio virus
dell’HIV, che aiuta il farmaco Pfizer a rimanere attivo più a lungo nel corpo. Per la Merck, invece, il
trattamento conta 40 pillole in cinque giorni.
A che
punto è la loro approvazione e quando arriveranno in Italia.
Per
quanto riguarda l’antivirale della Merck è già stato approvato dall’agenzia
regolatoria del farmaco britannica (Mhra) il 4 novembre - in anticipo su
chiunque altro in Europa - ed è in corso di valutazione da ottobre sia presso
l’Ema (Agenzia europea per i medicinali) che presso l’Fda, la Food and Drug
Administration americana. Tuttavia, Nicola Magrini, Presidente Aifa, ha fatto sapere
che la disponibilità della pillola anticovid in Italia “ci potrebbe essere nelle settimane
successive a Natale ma ci siamo attivati per poter prenotare questi due farmaci
(sia molnupiravir che paxlovid, ndr) orali il prima possibile, avendo proceduto
in accordi in tal senso in questi giorni”. Per quanto riguarda l’antivirale
della Pfizer, invece, è stata di recente chiesta autorizzazione negli Stati
Uniti. E’
leggermente in ritardo con i tempi rispetto alla Merck, ma nelle
sperimentazioni ha mostrato dati di efficacia molto alti, evitando l’89% dei
ricoveri nei volontari arruolati.
Pfizer
e Merck cedono licenza ai Paesi in via di sviluppo.
Le due
aziende hanno accettato che i paesi in via di sviluppo producano una versione
generica a prezzi di costo, senza royalties, cioè presumibilmente a poche
decine di dollari. Per evitare gli scandalosi squilibri nella distribuzione dei
vaccini, le case produttrici delle pillole hanno ceduto la licenza di
produzione a un’organizzazione che ha sede a Ginevra ed è legata alle Nazioni
Unite: “Medicines
Patent Pool”, che a sua volta permetterà di produrre il farmaco a basso costo
per la distribuzione in 95 paesi.
I tre
allarmi.
msn.com-ilgiornale.it-Marcello Zacchè- (20-11-2021)-
ci dice:
Se tre
indizi fanno una prova, in questi giorni di metà autunno rischiamo di contare
non una, ma molte prove del fatto che il motore della macchina draghiana non
marci più a pieni giri. Stiamo parlando di economia. Che è poi la cifra su cui
più si misura l'azione del governo.
Ebbene, nella sola giornata di ieri sono
suonati diversi allarmi, idealmente rumorosi come quelli che partono durante la
notte da negozi o appartamenti. Primo allarme: la Borsa milanese, che ha perso più
dell'1,1% per i contagi crescenti, risultando il listino peggiore d'Europa.
Secondo: nelle stesse ore il presidente della
Banca centrale tedesca, Jens Weidmann, ha allertato il mercato su una imminente
stretta dei tassi d'interesse. Terza sirena, quella della Banca d'Italia, che
avverte: se la crescita perdesse slancio, l'Italia si scoprirebbe il Paese più
vulnerabile.
Ma gli
allarmi di ieri suonano all'interno di una cornice dove ci sono tre questioni
minacciose: quella dell'inflazione, fenomeno che pensavamo aver dimenticato
come una malattia estinta, ma che la crisi della globalizzazione post-pandemica
ha prima riportato in vita, e poi spedito nelle nostre case attraverso i prezzi
dei prodotti di consumo di base, più cari di un anno fa nell'ordine del 3%. Poi
c'è il tema delle tasse, con la riattivazione delle cartelle esattoriali che
riguardano milioni di famiglie e piccole imprese. E infine quello del lavoro,
con il disallineamento tra chi lo cerca invano, e chi non riesce a trovare
addetti specializzati.
La
sinfonia di allarmi porta in un'unica direzione: il rallentamento della crescita.
Con il rischio che allo straordinario 2021 italiano (con il suo +6,2% di Pil)
faccia seguito un biennio che ci ricacci in fondo alla classifica europea. Per
scongiurare questa iattura il governo punta sull'avanzamento del Pnrr, il piano
per spendere 200 miliardi di fondi europei di qui al 2027. Ma questo è l'ultimo dei grandi
allarmi di questi giorni, perché si moltiplicano i segnali che il Pnrr si stia
incagliando sul territorio a causa del forte deficit di capacità amministrativa. La ripresa dei contagi non fa che
aggiungere ansia e paura che potrebbero presto invertire il segno delle
aspettative degli italiani, oggi ancora rivolte al bello.
Di
fronte a variabili fuori dal suo controllo, non c'è una ricetta per l'operato
del governo. Ma di certo, togliere ogni incertezza sulla durata aiuterebbe a
ridare forza alla sua azione. E ora ce ne sarebbe bisogno almeno quanto un anno
fa.
Rivelato: i documenti mostrano che Bill Gates
ha
donato 319
milioni di
dollari ai media.
Mintpressnews.com-
Alan Macleod-(15 novembre
2021)- ci dice :
(Alan
Macleod @AlanRMacLeod).
SEATTLE
— Fino al suo recente disordinato divorzio, Bill Gates ha goduto di una sorta
di pass gratuito nei media aziendali. Generalmente presentato come un nerd
gentile che vuole salvare il mondo, il co-fondatore di Microsoft è stato
persino battezzato senza ironia "Saint Bill" da The Guardian .
Mentre
gli imperi mediatici di altri miliardari sono relativamente ben noti, la misura
in cui il denaro di Gates sostiene il panorama dei media moderni non lo è. Dopo aver selezionato oltre 30.000
sovvenzioni individuali, MintPress può rivelare che la Bill and Melinda Gates Foundation
(BMGF) ha effettuato donazioni per un valore di oltre 300 milioni di dollari
per finanziare progetti mediatici.
I
destinatari di questo denaro includono molte delle più importanti agenzie di
stampa americane, tra cui CNN , NBC, NPR , PBS e The Atlantic . Gates
sponsorizza anche una miriade di influenti organizzazioni straniere, tra cui
BBC , The Guardian , The Financial Times e The Daily Telegraph nel Regno Unito;
importanti giornali europei come Le Monde (Francia), Der Spiegel (Germania) ed
El País (Spagna); così come grandi emittenti globali come Al-Jazeera .
Il
denaro della Fondazione Gates destinato ai programmi per i media è stato
suddiviso in una serie di sezioni, presentate in ordine numerico decrescente, e
include un collegamento alla sovvenzione pertinente sul sito Web
dell'organizzazione.
Premi
direttamente ai media:
NPR- $
24,663,066
The
Guardian (incluso TheGuardian.org ) - $ 12.951.391
Media
pubblici a cascata - $ 10,895.016
Public
Radio International (PRI.org/TheWorld.org) - $ 7,719,113
La
conversazione - $ 6,664,271
Univision-
$ 5,924,043
Der
Spiegel (Germania)- $5.437.294
Sindacato
del progetto- $ 5,280,186
Settimana
dell'istruzione - $ 4.898.240
WETA-
$ 4.529.400
NBCUniversal
Media- $ 4,373,500
Nation
Media Group (Kenya) – $ 4.073.194
Le
Monde (Francia) - $ 4.014.512
Bhekisisa
(Sud Africa) – $ 3,990,182
El
País – $ 3.968.184
BBC- $
3.668.657
CNN- $
3.600.000
KCET-
$ 3.520,703
Population
Communications International (population.org) – $ 3,500,000
Il
Daily Telegraph – $ 3,446.801
Chalkbeat
– $ 2.672.491
Il
post dell'istruzione: $ 2,639,193
Rockhopper
Productions (Regno Unito) – $2,480,392
Corporation
for Public Broadcasting – $2,430.949
UpWorthy
– $ 2,339.023
Financial
Times – $2,309,845
Il 74
Media- $2,275.344
Texas
Tribune- $2,317.163
Punch
(Nigeria) – $2.175.675
Notizie
in profondità – $ 1,612,122
L'Atlantico-
$ 1.403.453
Minnesota
Public Radio- $ 1,290,898
YR
Media- $1.125.000
Il
nuovo umanitario - $ 1.046.457
Sheger
FM (Etiopia) – $ 1,004,600
Al-Jazeera-
$ 1.000.000
ProPublica-
$1.000.000
Media
pubblici incrociati – $ 810.000
Rivista
Grist- $ 750.000
Kurzgesagt
– $ 570.000
Educational
Broadcasting Corp - $ 506.504
Classica
98,1 – $ 500.000
PBS –
$ 499.997
Gannett
– $ 499.651
Posta
e Guardian (Sud Africa) - $ 492.974
Inside
Higher Ed.- $ 439,910
Giorno
lavorativo (Nigeria) – $416.900
Medium.com
– $ 412.000
Nutopia-
$ 350.000
Independent
Television Broadcasting Inc. – $ 300.000
Independent
Television Service, Inc. – $ 300.000
Caixin
Media (Cina) – $ 250.000
Servizio
di notizie del Pacifico - $ 225.000
Rivista
nazionale - $ 220.638
Cronaca
dell'istruzione superiore - $ 149.994
Belle
e Wissell, Co. $ 100.000
Fiducia
dei media - $ 100.000
Radio
pubblica di New York – $ 77,290
KUOW -
Radio pubblica di Puget Sound - $ 5,310
Insieme,
queste donazioni ammontano a $ 166.216.526. Il denaro è generalmente diretto
verso questioni vicine ai cuori di Gates. Ad esempio, la sovvenzione della CNN
di $ 3,6 milioni è andata a "report[ing] sull'uguaglianza di genere con un focus
particolare sui paesi meno sviluppati, producendo giornalismo sulle
disuguaglianze quotidiane subite da donne e ragazze in tutto il mondo", mentre il Texas Tribune ha
ricevuto milioni per "per aumentare la consapevolezza e l'impegno del pubblico sui
problemi della riforma dell'istruzione in Texas". Dato che Bill è uno dei più ferventi
sostenitori delle charter school , un cinico potrebbe interpretarlo come l'introduzione di propaganda
pro-corporate della charter school nei media, mascherata da notizie oggettive.
La
Gates Foundation ha anche donato quasi 63 milioni di dollari a enti di
beneficenza strettamente allineati con i grandi media, tra cui quasi 53 milioni di dollari
a BBC Media Action, oltre 9 milioni di dollari alla Fondazione Staying Alive di
MTV e 1 milione di dollari al New York Times Neediest Causes Fund. Sebbene non finanzino specificamente
il giornalismo, dovrebbero comunque essere notate le donazioni al braccio filantropico
di un lettore multimediale.
Gates
continua a sottoscrivere anche un'ampia rete di centri di giornalismo
investigativo, per un totale di poco più di 38 milioni di dollari, più della
metà dei quali è andata all'International Center for Journalists con sede a Washington per espandere e
sviluppare i media africani.
Questi
centri includono:
Centro
internazionale per giornalisti - $ 20,436,938
Premium
Times Center for Investigative Journalism (Nigeria) - $ 3,800,357
Il
Pulitzer Center for Crisis Reporting – $2,432,552
Fondazione
EurActiv Politech – $ 2.368.300
International
Women's Media Foundation – $ 1.500.000
Centro
per i rapporti investigativi - $ 1,446,639
Istituto
InterMedia Survey – $ 1,297,545
Il
Bureau of Investigative Journalism - $ 1.068.169
Rete
di Internet – $ 985.126
Media
Center del Consorzio di comunicazione – $ 858.000
Istituto
per le notizie senza scopo di lucro - $ 650.021
L'Istituto
Poynter per gli studi sui media- $ 382.997
Wole
Soyinka Center for Investigative Journalism (Nigeria) – $ 360,211
Institute
for Advanced Journalism Studies - $ 254,500
Forum
globale per lo sviluppo dei media (Belgio) – $ 124.823
Mississippi
Center for Investigative Reporting - $ 100.000
Oltre
a ciò, la Fondazione Gates fornisce denaro ad associazioni di stampa e
giornalismo per almeno 12 milioni di dollari. Ad esempio, la National Newspaper
Publishers Association, un gruppo che rappresenta più di 200 punti vendita, ha
ricevuto 3,2 milioni di dollari.
L'elenco
di queste organizzazioni include:
Associazione
degli scrittori dell'istruzione - $ 5,938.475
Associazione
nazionale degli editori di giornali - $ 3.249.176
National
Press Foundation- $ 1.916.172
Consiglio
di notizie di Washington - $ 698,200
Fondazione
American Society of News Editors – $ 250.000
Comitato
dei giornalisti per la libertà di stampa - $ 25.000
Questo
porta il nostro totale corrente fino a $ 216,4 milioni.
La
fondazione mette anche i soldi per formare direttamente giornalisti in tutto il
mondo, sotto forma di borse di studio, corsi e workshop. Oggi è possibile per
un individuo formarsi come reporter grazie a una sovvenzione della Gates
Foundation, trovare lavoro in un punto vendita finanziato da Gates e
appartenere a un'associazione di stampa finanziata da Gates. Ciò è
particolarmente vero per i giornalisti che lavorano nei settori della salute,
dell'istruzione e dello sviluppo globale, quelli in cui lo stesso Gates è più
attivo e dove è più necessario esaminare le azioni e le motivazioni del
miliardario.
Le
sovvenzioni della Fondazione Gates relative all'istruzione dei giornalisti
includono:
Johns
Hopkins University – $ 1,866,408
Teachers
College, Columbia University- $ 1,462,500
Università
della California Berkeley- $ 767,800
Università
Tsinghua (Cina) – $ 450.000
Università
di Seattle – $ 414.524
Institute
for Advanced Journalism Studies - $ 254,500
Università
di Rodi (Sudafrica) – $ 189.000
Montclair
State University- $ 160,538
Fondazione
dell'Università Pan-atlantica - $ 130.718
Organizzazione
Mondiale della Sanità - $ 38,403
Il
progetto Aftermath- $15.435
Il
BMGF paga anche per una vasta gamma di campagne mediatiche specifiche in tutto
il mondo. Ad esempio, dal 2014 ha donato 5,7 milioni di dollari alla Population Foundation of India per creare drammi che promuovono la
salute sessuale e riproduttiva, con l'intento di aumentare i metodi di
pianificazione familiare nell'Asia meridionale. Nel frattempo, ha stanziato
oltre 3,5 milioni di dollari a un'organizzazione senegalese per sviluppare
programmi radiofonici e contenuti online con informazioni sulla salute. I
sostenitori considerano questo un aiuto per i media sottofinanziati in modo
critico, mentre gli oppositori potrebbero
considerarlo un caso di un miliardario che usa i suoi soldi per piantare le sue
idee e opinioni nella stampa.
Progetti
media supportati dalla Fondazione Gates:
Centro
europeo di giornalismo – $ 20,060,048
Servizio
universitario mondiale del Canada - $ 12.127.622
Storia
ben raccontata limitata – $ 9,870,333
Solutions
Journalism Inc.- $ 7,254.755
Fondazione
per l'industria dell'intrattenimento - $ 6.688.208
Fondazione
per la popolazione dell'India - $ 5,749,826 -
Media
partecipanti – $ 3.914.207
Réseau
Africain de l'Education pour la santé- $ 3,561,683
Nuova
America – $ 3,405,859
Fondazione
AllAfrica – $2,311,529
Passi
internazionali – $2,208,265
Centro
per l'avvocatura e la ricerca - $ 2,200,630
Il
laboratorio del sesamo – $ 2.030.307
Panos
Institute Africa occidentale – $ 1,809,850
Open
Cities Lab – $ 1,601,452
Università
di Harvard - $ 1,190,527
L'apprendimento
conta - $ 1,078.048
L'Aaron
Diamond Aids Research Center- $ 981.631
Thomson
Media Foundation- $ 860.628
Media
Center del Consorzio di comunicazione – $ 858.000
StoryThings-
$ 799,536
Centro
per le strategie rurali - $ 749.945
Il
nuovo fondo di rischio - $ 700.000
Helianthus
Media – $ 575.064
Università
della California del sud- $ 550.000
Organizzazione
Mondiale della Sanità- $ 530.095
Phi
Delta Kappa Internazionale – $ 446.000
Ikana
Media – $ 425.000
Fondazione
Seattle – $ 305.000
IstruzioneNC
– $ 300.000
Pechino
Guokr Interactive – $ 300.000
Upswell-
$ 246.918
L'Accademia
africana delle scienze - $ 208.708
Alla
ricerca di applicazioni moderne per la vera trasformazione (SMART) - $ 201.781
Bay
Area Video Coalition- $ 190.000
Fondazione
PowHERful – $ 185.953
Congresso
PTA Florida di genitori e insegnanti - $ 150.000
ProSocial
– $ 100.000
Università
di Boston - $ 100.000
Centro
nazionale per l'apprendimento delle famiglie - $ 100.000
Development
Media International – $ 100.000
Università
Ahmadu Bello - $ 100.000
Società
indonesiana di sanità elettronica e telemedicina - $ 100.000
The
Filmmakers Collaborative – $ 50.000
Fondazione
per la radiodiffusione pubblica in Georgia Inc. - $ 25.000
SIFF –
$ 13.000
Totale:
$ 97,315,408
319,4
milioni di dollari e (molto) di più.
Sommati
insieme, questi progetti mediatici sponsorizzati da Gates ammontano a un totale
di 319,4 milioni di dollari. Tuttavia, ci sono evidenti carenze con questo elenco non
esaustivo, il che significa che la cifra reale è senza dubbio molto più alta.
Innanzitutto, non conta le sovvenzioni secondarie, ovvero denaro dato dai
destinatari ai media di tutto il mondo. E mentre la Fondazione Gates promuove
un'aria di apertura su se stessa, in realtà ci sono poche preziose informazioni
pubbliche su ciò che accade ai soldi di ciascuna sovvenzione, tranne per una
breve descrizione di una o due frasi scritta dalla fondazione stessa sul suo
sito web . Sono state conteggiate solo le donazioni alle organizzazioni di
stampa stesse oi progetti che potrebbero essere identificati dalle informazioni
sul sito Web della Fondazione Gates come campagne mediatiche, il che significa
che migliaia di sovvenzioni con qualche elemento mediatico non compaiono in
questo elenco.
Un
esempio calzante è la partnership del BMGF con ViacomCBS, la società che
controlla CBS News , MTV, VH1, Nickelodeon e BET . I resoconti dei media
all'epoca notarono che la Gates Foundation stava pagando il gigante
dell'intrattenimento per inserire informazioni e PSA nella sua programmazione e
che Gates era intervenuto per cambiare le trame in spettacoli popolari come ER
e Law & Order: SVU.
Tuttavia,
quando si controlla il database delle sovvenzioni di BMGF, "Viacom" e
"CBS" non si trovano da nessuna parte, la probabile sovvenzione in
questione (per un totale di oltre $ 6 milioni) descrive semplicemente il
progetto come una "campagna di impegno pubblico volta a migliorare i tassi
di diploma di scuola superiore e tassi di completamento post-secondari
specificamente rivolti a genitori e studenti", il che significa che non è
stato conteggiato nel totale ufficiale. Ci sono sicuramente molti altri esempi
come questo. "Per un ente di beneficenza con privilegi fiscali che molto
spesso strombazza l'importanza della trasparenza, è notevole quanto intensamente
segreta la Fondazione Gates sia sui suoi flussi finanziari" , ha detto a”
MintPress Tim Schwab” , uno dei pochi giornalisti investigativi che ha scrutato
il miliardario della tecnologia .
Non
sono inoltre incluse le sovvenzioni finalizzate alla produzione di articoli per
riviste accademiche. Sebbene questi articoli non siano destinati al consumo di
massa, costituiscono regolarmente la base per le storie sulla stampa
tradizionale e aiutano a modellare le narrazioni su questioni chiave. La Gates Foundation ha donato in
lungo e in largo a fonti accademiche, con almeno 13,6 milioni di dollari
destinati alla creazione di contenuti per la prestigiosa rivista medica The Lancet .
E,
naturalmente, anche i soldi dati alle università per progetti puramente di
ricerca alla fine finiscono nelle riviste accademiche e, infine, a valle nei
mass media. Gli accademici sono sottoposti a forti pressioni per stampare i
loro risultati su riviste prestigiose; “pubblica o muori” è il mantra nei
dipartimenti universitari. Pertanto, anche questo tipo di sovvenzioni ha un
effetto sui nostri media. Né queste né le sovvenzioni che finanziano la stampa
di libri o la creazione di siti web sono conteggiate nel totale, sebbene
anch'esse siano forme di media.
Profilo
basso, tentacoli lunghi.
Rispetto
ad altri miliardari della tecnologia, Gates ha mantenuto il suo profilo di
controller dei media relativamente basso. L' acquisto del Washington Post da parte del fondatore di Amazon Jeff
Bezos per 250 milioni di dollari nel 2013 è stata una forma molto chiara e
ovvia di influenza dei media, così come la creazione di First Look Media, la
società proprietaria di The Intercept , da parte del fondatore di eBay Pierre Omidyar .
Nonostante
volino di più sotto il radar, Gates e le sue aziende hanno accumulato una
notevole influenza sui media. Ci affidiamo già a prodotti di proprietà di Microsoft per la
comunicazione (es. Skype, Hotmail), i social media (LinkedIn) e
l'intrattenimento (Microsoft XBox). Inoltre, l'hardware e il software che
usiamo per comunicare vengono spesso gentilmente concessi dal 66enne
Seattleite. Quante persone che leggono questo lo fanno su un telefono Microsoft
Surface o Windows e lo fanno tramite il sistema operativo Windows? Non solo, Microsoft possiede
partecipazioni in giganti dei media come Comcast e AT&T . E la
"MS" in MSNBC sta per Microsoft.
I
custodi di Media Gates.
Il
fatto che la Fondazione Gates stia sottoscrivendo una fetta significativa del
nostro ecosistema mediatico porta a seri problemi di obiettività. "Le sovvenzioni della fondazione alle
organizzazioni dei media... sollevano ovvie domande sul conflitto di interessi:
come
possono essere imparziali i rapporti quando un attore importante tiene i
cordoni della borsa?" ha scritto il “Seattle Times locale” di Gates nel
2011. Questo
è stato prima che il giornale accettasse i soldi del BMGF per finanziare la sua
sezione "laboratorio educativo".
La
ricerca di Schwab ha scoperto che questo conflitto di interessi arriva fino in
cima: due
editorialisti del New York Times hanno scritto entusiasticamente per anni sulla
Gates Foundation senza rivelare che lavorano anche per un gruppo - il Solutions
Journalism Network - che, come mostrato sopra, ha ricevuto oltre 7 milioni di
dollari dall'ente di beneficenza del miliardario tecnologico.
All'inizio
di quest'anno, Schwab ha anche rifiutato di collaborare a una storia su COVAX per il
Bureau of Investigative Journalism , sospettando che il denaro che Gates stava pompando
nell'outlet avrebbe reso impossibile riferire con precisione su un argomento così
vicino al cuore di Gates. Abbastanza sicuro, quando l'articolo è stato pubblicato il
mese scorso, ha ripetuto l'affermazione che Gates aveva poco a che fare con il
fallimento di COVAX, rispecchiando la posizione del BMGF e citandola
dappertutto.
Solo alla fine della storia di oltre 5.000 parole è emerso che l'organizzazione
che difendeva pagava gli stipendi del suo personale.
“Non
credo che Gates abbia detto al “Bureau of Investigative Journalism cosa
scrivere”.
Penso che l'FBI sapesse implicitamente, anche se inconsciamente, di dover trovare un modo per
raccontare questa storia che non prendesse di mira il loro finanziatore. Gli effetti di distorsione dei
conflitti finanziari sono complessi ma molto reali e affidabili", ha detto
Schwab, descrivendolo
come "un caso di studio sui pericoli del giornalismo finanziato da
Gates".
“MintPress”
ha anche contattato la Bill and Melinda Gates Foundation per un commento, ma
non ha risposto.
Gates,
che ha accumulato la sua fortuna costruendo un monopolio e proteggendo con zelo
la sua proprietà intellettuale, è responsabile in modo significativo del
fallimento del lancio del vaccino contro il coronavirus in tutto il mondo. A parte il fiasco COVAX, ha fatto
pressioni sull'Università di Oxford perché non rendesse il suo vaccino
finanziato pubblicamente open-source e disponibile a tutti gratuitamente, ma
invece per collaborare con la società privata AstraZeneca, una decisione che ha
significato che coloro che non potevano pagare sono stati bloccati dall'usarlo. Che Gates abbia fatto oltre 100
donazioni all'università, per un totale di centinaia di milioni di dollari,
probabilmente ha avuto un ruolo nella decisione. Ad oggi, meno del 5%delle
persone nei paesi a basso reddito ha ricevuto anche una sola dose di vaccino
COVID. Il bilancio delle vittime di questo è immenso.
Sfortunatamente,
molte di queste vere critiche a Gates e alla sua rete sono oscurate da teorie
cospirative selvagge e false su cose come l'inserimento di microchip nei
vaccini per controllare la popolazione. Ciò ha significato che le critiche
autentiche del co-fondatore di Microsoft sono spesso demonetizzate e soppresse
algoritmicamente, il che significa che i punti vendita sono fortemente dissuasi dal
trattare l'argomento, sapendo che probabilmente perderanno denaro se lo fanno.
La scarsità di controlli sul secondo individuo più ricco del mondo, a sua
volta, alimenta stravaganti sospetti.
Gates
se lo merita sicuramente. A parte i suoi legami profondi e potenzialmente decennali
con il
famigerato Jeffrey Epstein, i suoi tentativi di cambiare radicalmente la società
africana e il
suo investimento nel controverso gigante chimico Monsanto, è forse il motore
chiave dietro il movimento delle scuole charter americane - un tentativo di
sostanzialmente privatizzare il sistema educativo statunitense. Le charter school sono
profondamente impopolari tra i sindacati degli insegnanti, che vedono il
movimento come un tentativo di ridurre la loro autonomia e ridurre il controllo
pubblico su come e cosa viene insegnato ai bambini.
Fino
alla banca.
Nella
maggior parte dei servizi, le donazioni di Gates sono generalmente presentate
come gesti altruistici. Eppure molti hanno indicato i difetti intrinseci di questo
modello, osservando
che consentire ai miliardari di decidere cosa fare con i loro soldi consente
loro di stabilire l'agenda pubblica, dando loro un enorme potere sulla società.
"La filantropia può ed è utilizzata
deliberatamente per distogliere l'attenzione dalle diverse forme di
sfruttamento economico che sono alla base della disuguaglianza globale oggi", ha affermato Linsey McGoey ,
professoressa di sociologia presso l'Università dell'Essex, nel Regno Unito, e
autrice di “No Such Thing as a Free Gift” : La Fondazione Gates e il prezzo della
filantropia. Lei aggiunge:
Il
nuovo "filantrocapitalismo" minaccia la democrazia aumentando il potere del
settore aziendale a scapito delle organizzazioni del settore pubblico, che
affrontano sempre più strette di bilancio, in parte remunerando eccessivamente
le organizzazioni a scopo di lucro per fornire servizi pubblici che potrebbero
essere forniti a un prezzo più basso senza coinvolgimento del settore privato”.
La
carità, come ha osservato l'ex primo ministro britannico Clement Attlee, “è una
cosa fredda e grigia senza amore. Se un uomo ricco vuole aiutare i poveri,
dovrebbe pagare le tasse con gioia, non elargire soldi per capriccio”.
Niente
di tutto ciò significa che le organizzazioni che ricevono i soldi di Gates -
media o altro - siano irrimediabilmente corrotte, né che la Fondazione Gates
non faccia del bene al mondo. Ma introduce un palese conflitto di interessi in base al
quale le stesse istituzioni su cui facciamo affidamento per ritenere responsabile
uno degli uomini più ricchi e potenti nella storia del pianeta vengono
tranquillamente finanziate da lui. Questo conflitto di interessi è uno di quelli che i
media aziendali hanno ampiamente cercato di ignorare, mentre il presunto
filantropo altruista Gates continua a diventare più ricco, ridendo fino alla
banca.
(Alan
MacLeod è Senior Staff Writer per
MintPress News. Dopo aver completato il suo dottorato di ricerca nel 2017, ha
pubblicato due libri: Bad News From
Venezuela: Twenty Years of Fake News e Misreporting and
Propaganda in the Information Age: Still Manufacturing Consent , oltre
a una
serie di articoli accademici . Ha anche contribuito a FAIR.org ,
The Guardian , Salon , The Grayzone , Jacobin Magazine e Common Dreams .)
19 Novembre
2021-
(t.me/s/
Cesare Sacchetti)-(lacrunadellago.net)-
C'è
qualcosa di strano sulla quale dovremmo soffermarci. Ivanka Trump è
praticamente sparita. Il suo ultimo tweet risale al maggio scorso ed è il tweet
nel quale si faceva vedere mentre riceveva il siero sperimentale. Da allora, silenzio assoluto. Tra i primi tre figli di Trump,
Ivanka è l'unica che non manifesta il suo sostegno pubblico nei confronti del
padre. Don
Jr. e Eric non hanno mai smesso nemmeno per un istante di sostenere il
movimento di liberazione dell'America dalla morsa della cabala. La sensazione è che ci sia una
frattura piuttosto netta tra Ivanka e gli altri dovuta soprattutto al genero di
Trump e marito di Ivanka stessa, Jared Kushner. Trump stesso si è più volte lamentato
del fatto che la fedeltà di Kushner va più a Israele che agli Stati Uniti.
La
lobby sionista neocon detesta profondamente Donald Trump perché Trump è stato
il primo presidente a ordinare il ritiro delle truppe dal Medio Oriente
togliendo così a Israele il contingente militare di cui aveva bisogno per
intimidire e attaccare i suoi avversari. Se gli Stati Uniti hanno seminato
caos e distruzione negli ultimi trent'anni in Medio Oriente è stato solo e
soltanto per assicurare gli interessi di Israele e del disegno sionista di
estendere i confini di questo Stato. Trump ha messo fine a questa condizione di
asservimento completo degli USA ad Israele ed è questa la ragione per la quale
è detestato soprattutto dai neocon. Quando qualcuno incautamente, e non di rado in
malafede, accosta Trump al sionismo per via del genero Kushner dovrebbe tenere
a mente una cosa. Il primo ad aver tramato contro Trump è stato proprio Jared Kushner.
Trump non
solo ha dovuto combattere contro il nemico esterno del deep state ma ha dovuto
combattere contro coloro che stavano sotto il suo stesso tetto e che lo hanno
pugnalato alle spalle.
(Cesare
Sacchetti-
November
19).
Cesare
Sacchetti.
Ashley
Etienne, direttore delle comunicazioni di Kamala Harris, ha abbandonato il suo
incarico.
Le tensioni dentro la presunta amministrazione Biden-Harris sono ormai al
massimo. Gli
uomini e le donne che compongono lo staff di Joe Biden e Kamala Harris stanno
probabilmente iniziando a rendersi conto che nessuno dei due è effettivamente
in carica e hanno iniziato ad abbandonare la nave che affonda. La sensazione è che stiamo
assistendo al crollo della amministrazione fantoccio Biden che precede il
prossimo ritorno di Trump.
(dailymail.co.uk/news/article-10218807/Kamala-Harris-comms-director-Ashley-Etienne-LEAVES-team.html)
Cesare
Sacchetti.
Joe
Biden subirà una colonscopia all'ospedale Walter Reed e durante la sua
anestesia il potere verrà trasferito temporaneamente nelle mani del
vicepresidente Kamala Harris. La conclusione più naturale che si potrebbe fare a questo
punto è quella che sta per avverarsi il passaggio di consegne da Biden alla
Harris. Tuttavia abbiamo visto elementi evidenti nel corso degli ultimi 10 mesi
che scartano definitivamente questa tesi. Nè Joe Biden nè Kamala Harris sono
mai entrati effettivamente in carica dallo scorso 20 gennaio. La stessa Harris
piuttosto che manifestare l'intenzione di diventare Presidente ha fatto
trapelare l'intenzione di abbandonare definitivamente questa amministrazione
fantoccio.
Il suo
staff si sta già dimettendo perché sa perfettamente che la Harris non diventerà
mai il Presidente. Gli Stati Uniti vivono sospesi in un limbo dallo scorso 20 gennaio quando la firma da parte di Trump
dell'atto contro le Insurrezioni ha trasferito temporaneamente il potere ai
militari.
Da
quel momento in poi, Biden e la Harris sono privi dei poteri effettivi previsti
dai loro ruoli. Quello che abbiamo visto è stato uno show nel quale Biden e
Harris si sono ritrovati a recitare la parte degli utili idioti. Personalmente credo che la
conclusione più probabile che possiamo aspettarci da questa storia è quella di un crollo
dell'amministrazione Biden e Kamala Harris attraverso dimissioni multiple.
(t.me/rtnews/15331).Cesare
Sacchetti.
CAOS
M5S/ “Conte ha chiuso, i grillini
esploderanno
durante l’elezione del Colle.”
Ilsussidiario.net-
int. Mauro Suttora-Federico Ferraù-(20-11-2021)- ci dicono:
Conte
non governa più M5s, le fronde interne parlano chiaro. Di Maio farà con lui
come ha fatto con Di Battista. Il Pd cerca di attrezzarsi.
Renzi
che dal palco della Leopolda esorta Fuortes a dare a Conte almeno Rai Gulp;
Spadafora (suo ex ministro) che dice di Conte “troppi errori, è un leader
debole che silenzia il dissenso”. L’ex premier è in crisi e ha scoperto che
guidare i 5 Stelle è più difficile che stare a palazzo Chigi.
Ma il
vero buco nero dello scenario politico saranno i voti pentastellati quando si
tratterà di eleggere il successore di Mattarella. Nel Pd lo hanno capito e
stanno affondando il colpo: Conte ha fallito, forse Di Maio farà meglio di lui.
Il commento a bruciapelo di Mauro Suttora, opinionista di HuffPost, già inviato
di Europeo e Oggi.
Conte:
"Rai, serve incontro con Draghi"/ "No a elezioni anticipate. Su
Grillo..."
Conte
appare in difficoltà. Quanto durerà?
I
grillini gli esploderanno in mano a gennaio, quando si voterà sul Quirinale.
Già oggi più di cento eletti, sui 300 entrati in parlamento nel 2018, non lo
seguono più. E fra due mesi quelli che obbediranno alle sue indicazioni per il
successore di Mattarella saranno ancora meno.
Giuseppe
Conte/ "Renzi? Coi suoi comportamenti smargiassi degrada l'etica
pubblica".
Spadafora
è stato durissimo con Conte: “Sulla Rai ha sbagliato tutto”, ha detto. Che
errori ha fatto?
Non si
può lottizzare per anni, incassare direttori – Carboni al Tg1, Di Mare a Rai3 –
e poi lamentarsi se in una lottizzazione prendi meno posti. Soprattutto se sei
un movimento nato proprio per eliminare la lottizzazione dei giornalisti Rai. È
come se un rapinatore protestasse perché i complici gli danno meno della sua
parte di refurtiva.
Sempre
Spadafora lo ha accusato di silenziare il dissenso interno. Di chi parliamo?
Dei
dimaiani e dei movimentisti, due delle tre correnti in cui sono divisi i
grillini.
I contiani decidono tutto da soli, anche l’annuncio del boicottaggio contro la
Rai è stato dato senza discuterne prima con gli altri. Ma il vero dramma, per loro, è che
stiamo commentando le parole di Spadafora: uno che fra i grillini non ha mai
contato niente.
Spadafora
vs Conte/ "È un leader debole che silenzia il dissenso."
Si
dice che Di Maio sulla Rai abbia fatto una trattativa personale. In ogni caso
senza ottenere grandi risultati. Cosa puoi dirci in proposito?
Non lo
so, ma visti i risultati il Pd ha messo nel sacco sia Conte che Di Maio.
Il
ministro degli Esteri che obiettivo ha? Prendere la guida di M5s dopo avere
logorato Conte?
Sì,
come ha già fatto con Di Battista. Sì è creato la sua corrente, è bravo,
giovane, lingua sciolta, cervello fino. Occupa da due anni la poltrona più
prestigiosa del governo dopo quella del premier, ha fatto inversione a U
rispetto al populismo e terzomondismo grillino. Quasi non si crede che ancora nel
2019 tifasse per i gilet gialli che mettevano a ferro e fuoco Parigi contro
Macron. È
stato lui a inventare Conte, proponendolo prima ministro e poi premier. Ma
Conte se l’è dimenticato, non gli è riconoscente. Il potere gli ha dato alla
testa.
A chi
risponderanno i voti dei 5 Stelle quando si tratterà di eleggere il presidente
della Repubblica?
Appunto:
non rispondono a nessuno. Irresponsabili, nel vero senso della parola. Nel senso che non rischiano nulla,
sanno che quasi nessuno di loro verrà rieletto. Mai, in 76 anni di Repubblica,
c’era stata una massa così grossa di centinaia di peones incontrollabili.
Il Pd
ha bastonato Conte sulla Rai, però i 5 Stelle a Letta servono. Non è chiaro
quanto gli serva Conte, a questo punto. Meglio Di Maio?
Ormai
siamo arrivati al capolinea. Letta ha sbagliato a umiliare i grillini nella
spartizione Rai. Quelli si sono incattiviti, perché hanno capito che in
politica nessuno regala niente a nessuno. E al Pd fa comodo ogni voto che
riuscirà a strappare al M5s nelle prossime elezioni.
Anche
Zanda ha apostrofato chi sta guidando i 5 Stelle. Cioè Conte.
Sì, ma
per i democratici è indifferente chi guidi i grillini. Conte è ancora il
politico più popolare dopo Draghi nei sondaggi, sta al 40%. Però non sarà lui il candidato
premier del centrosinistra, ormai il suo momento è passato.
Nasce
“Alternativa” di Pino Cabras: una sorta di ex M5s più stile gialloverde. Sono
contro il governo. “Il primo passo sarà non far eleggere Draghi presidente
Repubblica”, hanno dichiarato. Voteranno con il centrodestra?
Extra
ecclesia nulla salus: fuori dalla chiesa M5s non c’è alcuna salvezza per i
grillini. Soprattutto
per i carneadi come questo Cabras. L’unico ex che può sperare di raccattare un 5% è Di
Battista.
Gli altri si venderanno al miglior offerente: destra, sinistra, centro, è
indifferente. Uno
di loro ha appena resuscitato la falce e martello comunista, un altro Potere al
popolo, altri ancora si aggrappano al simbolo di Di Pietro. Spariranno tutti.
Una
tua previsione sul Colle?
Draghi.
O la Casellati, se riuscirà a continuare a non fare parlare di sé nelle
prossime settimane. Chi si espone si brucia, come nelle volate ciclistiche.
E
sulla legislatura?
Se i
parlamentari non perdessero la pensione se non raggiungono i quattro anni e
mezzo di mandato, non ci sarebbe alcun motivo per non votare a primavera. Questo Parlamento non è più rappresentativo,
i grillini e tanti altri sono solo morti che camminano: zombies.
(Federico
Ferraù).
LA
SPERANZA:
CHE COS’È PER L’UMANITÀ.
Mimesis-scenari.it- GIULIA CESARINI ARGIROFFO-(14 LUGLIO
2021)-ci dice:
FILOSOFIA
& SCIENZA .
Galimberti
(1999) in ambito psicologico definisce la speranza la fiducia nel futuro che
permane anche dopo insuccessi o vane aspettative e che dal punto di vista
psicologico funziona come difesa dalle conseguenze patologiche delle
frustrazioni.
In una
prospettiva di psicologia comportamentistica French, in “The Integration of
Behaviour” del 1952, ne distingue due tipologie, una speranza basata su
opportunità di soddisfazioni e una basata su ricordi di precedenti
soddisfazioni. Nello specifico, la prima stimolerebbe i meccanismi necessari ai
fini di una desiderata realizzazione, mentre la seconda si risolverebbe nella
semplice rappresentazione della soddisfazione anticipata, quindi della
fantasticheria e del sogno a occhi aperti.
In una
prospettiva di psicologia fenomenologica la speranza si configura come attesa,
desiderio e attività insieme, una delle modalità con cui il soggetto si rivolge
al futuro.
In proposito Minkowski (1933) scrive: “nella speranza, io vivo il divenire
nella stessa direzione dell’attesa, cioè nella direzione di avvenire-presente e
non nella direzione presente-avvenire. Quando spero, attendo la realizzazione
di quanto spero, vedo l’avvenire venire verso di me. La speranza va più lontano
nell’avvenire dell’attesa. Io non spero nulla né per l’istante presente né per
quello che immediatamente gli succede, ma per l’avvenire che si dispiega
dietro. Liberato
dalla morsa dell’avvenire immediato, vivo, nella speranza, un avvenire più
lontano, più ampio, pieno di promesse. E la ricchezza dell’avvenire si apre
adesso davanti a me”.
Boch
(1959) considera la speranza come una delle possibili chiavi di lettura della
filosofia della storia in quanto va oltre l’immediato futuro. Moltmann (1964)
interpreta la speranza come il substrato di ogni atteggiamento religioso perché
essa, citando le sue parole: “si fonda sulla differenza ontica tra ciò che è e
ciò che non è ancora”.
Non a
caso, per esempio nel Cristianesimo, la speranza è considerata una virtù
teologale che, secondo il Cattolicesimo, il credente aspira a raggiungere sia
con la visione beatifica di Dio cioè con l’attesa della sicura beatitudine
eterna sia con l’aiuto della grazia divina per poterla conseguire.
Di
solito la speranza è iconograficamente rappresentata con il colore verde
probabilmente perché è il colore della natura acerba che è in procinto di
germogliare e nel quale vengono riposte le aspettative future.
Come
fanno notare Cotrufo ed Ureña Bares (2018), la maggior parte degli autori
considera la speranza un’emozione secondaria o complessa o mista o
comportamentale o sociale, risultante da una combinazione di varie emozioni
primarie o di base che si sviluppano con la crescita dell’individuo e che
spesso sono anche frutto di influenze sociali o della comunità in cui la
persona vive.
Le
emozioni primarie o di base, in generale, sono considerate dalla maggior parte
degli studiosi innate e sono definite come processi neurofisiologici specifici
e pre-codificati che si sono evoluti in risposta ad adattamenti specifici ed a
stimoli ambientali importanti. La quasi totalità dei ricercatori considera emozioni
primarie la sorpresa, la paura, la gioia, la tristezza, il disgusto e la
rabbia. In particolare Damasio (1995) definisce le emozioni come l’innesco di
un perturbamento di un certo stato a causa di uno stimolo esterno, come
programmi di azione complessi ed in larga misura automatici messi a punto
durante l’evoluzione e che implicano azioni eseguite dal corpo, come per
esempio le espressioni facciali – conseguenza dello stimolo sensoriale.
Le
emozioni, elaborate soprattutto dall’amigdala che produce una risposta
inconscia, ci guidano nel mondo esterno, spesso anche senza un’apparente
spiegazione mentre i sentimenti sono successivi alle emozioni e sono coscienti
(nella maggior parte dei casi). In tale prospettiva la speranza, pur nascendo da
un’emozione secondaria si configurerebbe come un sentimento, infatti essa è
cosciente e può durare a lungo (mentre l’emozione di solito è breve). La componente mentale dei sentimenti
è incentrata sulla rielaborazione di immagini, esperienze, fatti e pensieri che
li alimentano. Alcuni autori invece ritengono che la speranza non possa essere
definita come emozione o come sentimento perché troppo complessa ed in tal
senso risulterebbe inclassificabile.
Come
fanno presente Szcześniak e Nderi (2010), la speranza per secoli è stata
considerata negativamente o trascurata. Ne è un caso esemplificativo il mito
greco di Pandora narrato da Esiodo in cui la speranza insieme ad altri mali
venne spedita sulla terra come un ingannevole dono degli dei per punire
l’umanità. La
cultura giudaico-cristiana invece la considerava per lo più in modo positivo ma
con un valore teologico trascendente, un dono divino in quanto intesa come la
fiducia degli uomini verso il Creatore. Per il resto la speranza è stata
trascurata dagli studiosi. Soltanto nella seconda metà del XX secolo la si
cominciò a prendere realmente in considerazione come riconducibile
all’esperienza quotidiana e ad analizzarla in tal senso. Molte sono state le
teorie proposte al riguardo.
La più
indicativa forse è la cosiddetta “teoria della speranza”, elaborata da Snyder
intorno alla metà degli anni Novanta del Novecento, che afferma: “la speranza è uno stato motivazionale
positivo che si basa sull’interazione tra il senso di successo nel produrre i
percorsi cognitivi o le strategie cognitive da utilizzare nel conseguire un
determinato fine desiderato e il senso di successo nel produrre l’energia
mentale nell’utilizzare tali percorsi o strategie per realizzare la finalità
desiderata”.
Essa è
caratterizzata da tre componenti: la percezione della propria capacità di prefigurare
le mete da perseguire (goals), i percorsi cognitivi da utilizzare nel
conseguirle (pathways) e la capacità di produrre l’energia mentale interiore che
attiva, orienta e mantiene il soggetto verso tali finalità desiderate (agency).
Ogni
persona è orientata intrinsecamente alle finalità per il proprio il futuro,
esse ce le rappresentiamo mentalmente, possono avere una diversa durata e sono
percepite da ogni individuo in maniera differente. Le strategie mentali sono frutto
della capacità mentale di pianificare una o più strategie plausibili per
realizzare mete desiderate e prefigurate, il che equivale all’auto-percezione
di se stessi nel saper progettare percorsi efficaci avendo sempre in mente
delle vie alternative per essere pronti a cambiare strada quando necessario.
L’energia mentale è la capacità di far fronte
agli impedimenti che possono sopraggiungere nel perseguimento delle finalità e
che si forgia con l’esperienza. Snyder ha dimostrato che chi ha un alto indice di
fiducia in sé supera in maniera migliore gli ostacoli rispetto a chi ha una
bassa autostima e riesce ad elaborare con maggiore facilità strategie
alternative per raggiungere le proprie mete. Inoltre sostiene che la speranza non
è innata ma che deve essere elaborata e coltivata in ogni individuo per
ottenere così anche un miglioramento della propria autostima e suggerisce
l’inserimento di questo procedimento in ambito educativo. Ulteriori ricerche
hanno confermato quanto affermato da questa teoria.
La
speranza viene definita dal vocabolario italiano come l’attesa fiduciosa di
qualcosa in cui si pensa che consista il proprio bene o di qualcosa che ci si
augura avvenga secondo i propri desideri. In particolare, come fanno notare
Quartu e Rossi (2012), può talvolta manifestarsi con un atteggiamento
baldanzoso, d’ottimismo e di faciloneria nei confronti della vita, tipico della
gioventù.
Esiste il modo di dire “giovanotto di belle speranze” che si riferisce a persone
effettivamente dotate dalle quali ci si aspettano risultati di successo ma che
tuttavia devono ancora essere messe alla prova.
Nella
teoria dei giochi la locuzione “speranza matematica” designa il prodotto del valore
associato al verificarsi di un determinato evento casuale per la probabilità
che accada l’evento stesso, ovvero il prodotto del guadagno possibile di un
giocatore per la probabilità che egli ha di realizzarlo.
In
statistica viene utilizzata l’espressione “speranza di vita” per indicare il numero di anni che,
secondo l’esperienza demografica di una nazione, restano da vivere in media ad
una popolazione di una data età. Un indicatore demografico di particolare rilievo è
quello della speranza di vita alla nascita (o durata media della vita) che nel
mondo sviluppato, grazie soprattutto ai miglioramenti nelle tecnologie mediche
ed ad altri fattori di progresso, è andata gradualmente aumentando facendo
purtroppo emergere le differenze e le disparità con i Paesi in via di sviluppo
che andrebbero colmate.
In
marina esiste l’espressione “ancora di speranza” per definire l’ancora di riserva di
un’imbarcazione che si tiene sistemata in coperta oppure in appositi pozzi e
che è pronta ad essere adoperata in caso di cattivo tempo o di eccezionale
necessità.
Molti
sono i proverbi, i detti e le locuzioni che hanno come oggetto la speranza
(taluni sono anche negativi) ma non è possibile elencarli tutti.
In
questo periodo così difficile per l’umanità a causa della pandemia da Covid-19
è quanto mai indispensabile sperare, non abbattersi, pensare che tutto
migliorerà e risorgerà al più presto o per lo meno augurarsi che questo possa
accadere quanto prima. Credere con ottimismo che il mondo riuscirà a risollevarsi,
come si suole dire, “oltre ogni speranza” ricordando le quanto mai
appropriate parole di Sciascia nel suo ultimo libro Una storia semplice del
1989: “[…]
non è la speranza l’ultima a morire, ma il morire è l’ultima speranza”.
Anatomia
della speranza di fronte alla malattia.
Vitaepensiero.it-
Harvard Jerome Groopman-(14.01.2021)- ci dice:
Recentemente
ristampato, Anatomia della speranza del medico e professore di Harvard Jerome
Groopman è un libro scritto nel 2006 che continua ad avere molto da dire al
tempo presente. Groopman ci accompagna al capezzale di persone sofferenti, in
bilico tra speranza e disperazione, volontà di reagire e cedimento di fronte al
dolore. Storie che offrono un nuovo e incoraggiante punto di vista sulla
speranza che, diversamente dal placido ottimismo dell'"andrà tutto
bene", vede la realtà per quello che è, senza nascondere o sminuire
ostacoli e difficoltà. Qui sotto un piccolo assaggio tratto dall'introduzione.
Perché
certe persone, benché gravemente malate, hanno speranza, e altre no? E la
speranza può cambiare il corso di una malattia, aiutando il paziente a
sconfiggerla?
Ho
cercato le risposte a queste domande nelle esperienze di alcuni straordinari
pazienti che ho curato negli ultimi trent’anni. Essi sono stati le mie guide in un
viaggio di esplorazione, partito dove la speranza era assente e approdato dove
perderla era impossibile. Nel corso del viaggio ho imparato la differenza tra vera e
falsa speranza. A volte ho creduto, con superficialità, che anche la falsa speranza fosse
giustificata. Altre, invece, di fronte ai miei pazienti che rivendicavano il
loro diritto a sperare, ho creduto, sbagliando di nuovo, che non fosse
ragionevole farlo. Ma loro hanno continuato a sperare anche se io non ne ero
capace, e sono guariti. Infine, una donna di grande fede mi ha mostrato che anche
quando sperare per il corpo è impossibile, si può sempre farlo per l’anima. Ogni malato che ho curato mi ha
guidato alla scoperta di una parte dell’‘anatomia della speranza’.
La
speranza è una delle nostre principali emozioni; tuttavia, definirla è spesso
difficile. Molti
confondono la speranza con l’ottimismo, cioè con la propensione a pensare che
«in un modo o in un altro, tutto si aggiusta». Ma la speranza è diversa
dall’ottimismo. Non nasce dalle sollecitazioni a ‘pensare positivo’ o
dall’ascolto di rosee previsioni. Diversamente dall’ottimismo, la speranza non ha
niente a che vedere con una percezione edulcorata della realtà. Anche se è impossibile dare della
speranza un’unica definizione esauriente, ne ho trovata una che mi sembra
riassumere bene ciò che, in proposito, ho imparato dai miei pazienti. La speranza è il sentimento
confortante che proviamo quando scorgiamo con l’occhio della mente il cammino
che può condurci a una condizione migliore. Inoltre, la speranza non nasconde né
sminuisce gli ostacoli e le insidie che incontriamo strada facendo. In altre parole, non bisogna
confondere speranza e illusione.
La
speranza ha buona vista, e così ci aiuta ad affrontare i momenti difficili e a
superarli. In tutti i miei pazienti, la speranza – quella autentica – si è
dimostrata non meno importante dei farmaci e delle terapie che ho usato per
curarli. Ma
per rendermene conto, ho dovuto giungere a una fase piuttosto avanzata della
mia vita professionale.
Al
tempo dell’università, quando seguivo le lezioni ma anche quando facevo pratica
nei reparti, i malati erano per me e gli altri studenti soprattutto
un’affascinante sfida intellettuale. La formulazione della diagnosi e
l’individuazione della terapia più efficace erano attività mentali molto simili
al lavoro dell’investigatore. Cercavamo nel passato del paziente e nella sua condizione
fisica attuale gli indizi sulla sua salute. Il retroterra familiare, le
esperienze lavorative, i viaggi, il modo di vivere e i rapporti personali erano
fonti di informazioni per risolvere l’enigma clinico.
La storia familiare forniva dati sulle
caratteristiche ereditarie che possono predisporre a questa o quella patologia; i precedenti lavorativi potevano
rivelare l’esposizione a composti cancerogeni e metalli nocivi; i viaggi suggerivano contatti con
microrganismi capaci di causare malattie esotiche, rare o assenti negli Stati
Uniti ma comuni in altre parti del mondo; le abitudini come fumare o bere
alcolici erano noti fattori di rischio per varie patologie, mentre i rapporti intimi erano
importanti in relazione a una serie di infezioni, dalla gonorrea alla sifilide,
all’HIV.
Risolvere
un caso clinico difficile e individuare la terapia più efficace è un esercizio
intellettuale estremamente gratificante; tuttavia, la ricostruzione del
retroterra e della storia personale del malato dà al medico l’opportunità di
indagare su un altro ‘mistero’: quello del ruolo della speranza e della disperazione
nell’equazione della guarigione.
Per
quasi tre decenni ho esercitato la professione di medico specializzato in
ematologia e oncologia, curando pazienti affetti da tumori, malattie del
sangue, HIV ed epatite C. Ho anche effettuato ricerche nel mio laboratorio,
studiando le alterazioni genetiche e proteiche che accompagnano queste
malattie. Ma
per molto tempo, al capezzale dei malati o seduto ai banconi del laboratorio,
ho sottovalutato l’impatto della speranza sulla salute dei miei pazienti. Infatti, anche se ovviamente non
ignoravo del tutto questo sentimento, era all’interpretazione degli esami di
laboratorio, delle immagini diagnostiche e delle biopsie che dedicavo quasi
tutta la mia attenzione. Ma le informazioni così ottenute, benché indispensabili alla
diagnosi e alla terapia, erano insufficienti. Quello che mancava andava imparato
con l’esperienza. Dovevo essere messo alla prova, non più in modo astratto, ma
avendo di fronte ostacoli reali, sia come medico sia come paziente.
Una
vasta letteratura popolare sostiene che le emozioni positive influenzano
l’organismo, nella salute come nella malattia. Si tratta, però, di una
letteratura in gran parte vaga e inconsistente, incline a scambiare i desideri
con la realtà. Nelle opere di questo tipo, la speranza è descritta come una specie di
panacea, capace da sola di liberarci da patologie di ogni genere. In quanto scienziato e persona
razionale, che ha imparato a ricostruire la sequenza del DNA e a studiare la
funzione delle proteine, ho cercato di evitare i trabocchetti di una visione mitica
della speranza e dei suoi effetti. Ma così facendo, ho finito col chiudere tale
sentimento fuori dalla porta e ho impedito alla mia intelligenza di comprendere
la sua importanza in quanto catalizzatore della guarigione.
Un’esperienza
personale mi ha aperto la mente. Per circa diciannove anni, dopo un intervento
chirurgico non riuscito alla colonna vertebrale, ho vissuto in un labirinto di
ridotte prestazioni fisiche e periodiche riacutizzazioni del dolore. Poi, grazie a una serie di
circostanze fortuite, ho trovato una via d’uscita. Mi sono sentito come se mi
avessero restituito la vita e ho capito che solo la speranza mi aveva permesso
di riprendermi. La speranza ritrovata mi aveva spinto a partecipare a un programma
terapeutico impegnativo e originale e fornito la determinazione necessaria a
portarlo a termine. Senza la speranza avrei trascorso il resto dei miei giorni
prigioniero della sofferenza. Ma ho avuto anche la sensazione che nel mio caso la
speranza avesse fatto di più che spingermi ad approfittare di un’occasione e a
non arrendermi. Sono convinto che essa abbia avuto effetti reali e profondi non
solo sul mio stato emotivo, ma anche su quello più propriamente fisico.
In
quanto uomo di scienza, non mi bastano le impressioni; perciò, ho intrapreso
un’indagine scientifica rivolta ad appurare se il sentimento vivificante della
speranza possa veramente contribuire alla guarigione. Ciò mi ha permesso di scoprire che
esiste una vera e propria biologia della speranza.
Ma
quale portata ha? Quali sono i suoi limiti? La scienza sta dimostrando che un
cambiamento dell’atteggiamento mentale è in grado di modificare la biochimica
cerebrale.
L’attesa fiduciosa – un aspetto chiave della speranza – può fungere da
antagonista del dolore, provocando la liberazione di sostanze, le endorfine e
le encefaline, che simulano l’effetto della morfina. In certi casi, la speranza può
influenzare profondamente anche fondamentali processi fisiologici, come la
respirazione, la circolazione del sangue e la locomozione. È quindi possibile immaginare che
durante la malattia, la speranza causi una specie di ‘effetto domino ’, una
reazione a catena in cui ogni singolo risultato biologico rende più probabile
il miglioramento. È un sentimento che ci trasforma in modo radicale, nello spirito e nel
corpo.
Cerco
la speranza ogni giorno, per i miei pazienti, per coloro che amo e per me
stesso. È
una ricerca ancora in corso. In queste pagine, narro quello che mi ha regalato
fin qui.
La
“vera vita” secondo François Jullien.
Daniele
Baron legge François Jullien.
Laterza.it-
Daniele Baron-(8 settembre 2021)- ci dice:
(
Filosofia e nuovi sentieri) .
«Un
mattino, quando il giorno non è ancora cominciato né ha dispiegato il suo corso
fatale, un dubbio si insinua in noi: la vita potrebbe essere tutt’altra
rispetto a quella che stiamo vivendo. Dubbio tanto insidioso quanto
vertiginoso, forse il più antico del mondo, sorto con il mondo stesso: la vita
che viviamo potrebbe non essere davvero la vita. Potremmo non avere nemmeno
cominciato a esplorarla. Potremmo non avere neppure iniziato a vivere veramente».
La
vita può essere oggetto di riflessione? Può essere un argomento per il
pensiero oppure è posta su un piano differente, nell’immediatezza, e il
pensiero per essere tale deve per forza astrarre dalla vita?
Ha
ragione chi dice: primum vivere, deinde philosophari?
Per il
filosofo e sinologo François Jullien la ricerca di quella che definisce la
“vera vita” è essenziale e urgente per ogni individuo, ma deve essere
intrapresa attraverso gli strumenti propri della filosofia, sgombrando il campo da tutta quella
pseudo-filosofia che al giorno d’oggi è tanto in voga.
Infatti,
molti tematizzano la vita senza sforzarsi di darne una definizione, come se
fosse ovvio ciò a cui si riferiscono o come se non fossero in grado di farlo;
il che rende i loro discorsi sulla vita delle nebulose, forse emozionanti e
poetiche, ma di certo non significative da un punto di vista concettuale. Oppure c’è di fa di questo tipo di
pensiero un mercato, come testimoniato dalla pletora di libri di successo che
affollano gli scaffali delle librerie, farciti di frasi di buon senso spacciate
per filosofia, libri di “auto aiuto” che commercializzano il tema della vita
con una trattazione superficiale per una ricerca della felicità.
La
riflessione sulla vita è un tema urgente e universale e il pregio del libro di
Jullien è proprio quello di costruire un percorso profondo e originale da un
punto di vista teoretico, ricollegando la tradizione occidentale con quella
orientale.
Jullien
parte da una constatazione molto semplice, come si è visto nella prima
citazione: a
ciascuno di noi capita un giorno o l’altro il dubbio di non vivere veramente o
per meglio dire di condurre quella che non è la vera vita. Il dubbio è tremendo, è come un
terremoto, perché mette in discussione tutto, fa crollare ogni certezza, è più
comodo e tranquillizzante obliterarlo.
Da qui
origina l’atteggiamento filosofico, dalla tematizzazione del dubbio che in
ognuno sorge sulla vera vita. Ciò è molto difficile perché «il paradosso fondamentale della vita,
infatti, è che essa non coincide originariamente con se stessa. Se “la vera
vita è assente” come ha detto Rimbaud con una formulazione divenuta decisiva,
ciò non dipende da qualche incidente o malessere personale […] ma dalla
capitale contraddizione che affligge la vita stessa» .
Se
l’essenza della vita è la mancanza di coincidenza con sé, con il passare del
tempo ogni persona avverte uno scarto tra la vita ordinaria, vincolata alla
ricerca della soddisfazione, e un’altra vita possibile, che sembra far
scivolare nell’illusione la prima.
«Quello
di cui ci si rende conto è che la vita che si conduceva prima e che si reputava
essere davvero la vita non era forse altro che una vita apparente, fittizia o
falsa: forse era solo una pseudo-vita in cui ci si teneva al sicuro – al riparo
– rispetto a ciò che la vita è effettivamente».
La
vera vita per molti pensatori, tuttavia, sembra essere assente da questo mondo,
ma raggiungibile Altrove; questa posizione metafisica, inaugurata da Platone ma
ripresa pur con sfumature differente in tutta la storia del nostro pensiero,
non è condivisa da Jullien.
«La
vera vita infatti non è la vita che sogna di essere perfetta, la vita
pienamente appagata, conforme all’idealità, la “vera vita” del platonismo, che si
richiama alla salvezza di Lassù, che trova la verità nell’Essere o in Dio» . Allo stesso tempo, Jullien mostra
come non si debba cadere nell’estremo opposto, nel vitalismo, in cui la vita
diviene valore di per sé nella sua autoaffermazione, come in Nietzsche. Infatti, se «la vera vita non è la
scoperta di un’altra vita che la metafisica proietta nell’al di là, non è
neppure un altro modo di vivere come quello predicato da Zarathustra» .
Per
Jullien occorre riuscire a elaborare quella che chiama una metafisica minima:
un pensiero che non si lasci all’esperienza dell’empirico, che oltrepassi la chiusura del mondo
e dell’esperienza senza però fare appello a un altro mondo o a un’altra
esperienza.
Un pensiero che è una critica alla nostra idea di sapienza, che ha prodotto uno
scarto tra conoscere ed esistere, tra vita e verità. Solo in questo modo si può
operare un ricongiungimento tra verità e vita e arrivare a riflettere in modo
esatto sulla vera vita.
Il
concetto di vera vita si tiene lontano da tutte le enunciazioni positive sulla
vita, proprio perché la vita non può essere definita senza incorrere in
equivoci e in dispute senza fine.
Un
capitolo molto denso e interessante dal titolo significativo Vite Perdute (cfr.
pp. 79-109) dell’opera di Jullien è dedicato all’analisi della non-vita che sembra
caratterizzare molte delle esistenze della nostra società contemporanea. Un’analisi approfondita della
non-vita, infatti, è in grado di farci capire come intraprendere il cammino
verso la vera vita.
Una vita perduta, la non-vita, è la vita rassegnata: quando ci si rassegna si è passivi,
non si è più aperti all’inaudito che porta con sé la vera vita, si perde la
speranza. In
un mondo dominato dal mercato, dove tutto è tecnicizzato, la vita si reifica,
vale a dire diventa cosa tra le cose, «la mia vita si è persa in quanto si è
alienata: è divenuta estranea a se stessa a causa del formidabile sfruttamento,
della dominazione, delle influenze o dei condizionamenti che essa subisce» .
L’alienazione
imposta dalla società, dai condizionamenti esterni della società capitalistica,
per Jullien corrisponde agli atteggiamenti esistenziali della rassegnazione e
dello sprofondamento.
Come
ci si può ribellare a questo stato di cose che ha prodotto la non-vita? Ciò che è certo per Jullien è che
questa situazione ci permette di intravedere cosa può essere la vera vita: la negazione della vita reificata.
«Ecco
che allora, per via negativa, la non rassegnazione ci sollecita a ribellarci
contro l’accettazione, compiuta con troppa facilità […]; il dis-occultamento ci
sollecita a de-concidere con il già-là instaurato dalla vita ripiegata
nell’adeguazione e condotta all’inverzia; la dis-alienazione ci sollecita a
ribellarci contro il fatto che la vita si sia lasciata espropriare da se stessa
[…]; la de-reificazione, infine, ci sollecita a rifiutare che la vita subisca
l’appiattimento allo stato di cosa» .
La
ribellione alla non-vita a cui si è ridotta la nostra vita avviene sempre per
uno stimolo esterno: «la vita può rimettersi in movimento, riacquistare il suo
slancio […] solo grazie ad un incitamento proveniente dall’esterno»), che ci fa capire che la vita
potrebbe essere tutt’altra cosa.
I capitoli
conclusivi sono dedicati a indicare al lettore quale potrebbe essere la vera
vita, con la precisazione che la vita non è oggetto insegnamento o
apprendimento, non si può “imparare a vivere”, non ci si può preparare a vivere, perché
nel vivere si è già sempre implicati, si può solo in senso profondo tentare di
vivere. La
vera vita non ha un’essenza, si può quindi solo definire negativamente, come
resistenza alla non-vita, alla pseudo-vita in cui la vita cede alla
rassegnazione, sprofonda, si aliena o si reifica. Tentare di vivere vuol dire in primo
luogo quindi resistere alla non-vita che s’infiltra.
«La
definizione migliore, la più esplicita e la più densa, di ciò che significa
vivere, nella sua contraddittorietà, potrà forse essere questa. Da una parte, vivere è
l’immediatezza, anzi la sola immediatezza possibile. Dall’altra, il vivere va
cercato, conquistato, tentato – bisogna “tentare di vivere”. È dunque
necessaria una mediazione incessante e prima di tutto da parte del pensiero che
deve spingerci a non cadere nella rassegnazione, a disseppellire, disallineare
e dereificare la vita. Questa interminabile mediazione è necessaria per avere
accesso all’immediatezza del vivere: la mediazione del no detto alla non-vita
per potersi elevare alla vita che vive» .
Quanta
energia serve
per vivere bene?
Qualeenergia.it-
Alessandro Codegoni-(7-2-2020)- ci dice:
Di
quanta energia avrebbero bisogno i più poveri del mondo per vivere una vita
dignitosa? E quale dovrebbe essere la soglia massima che non migliora lo
sviluppo umano? Con le rinnovabili ce la possiamo fare?
Una
delle obiezioni ricorrenti di chi nega cambiamento climatico e necessità di
cambiare il sistema energetico è questa: “con le rinnovabili non potremo mai
dare abbastanza energia ai poveri, così che escano dalla loro condizione”.
In
questi casi verrebbe voglia di rispondere “perché, con carbone, petrolio e gas,
ci si è riusciti?”.
Ma
bisogna riconoscere che questo tipo di argomentazioni tocca un punto importante
e trascurato: di quanta energia, non solo elettricità, carburanti e
combustibili, ma anche quella contenuta negli oggetti, dai frigoriferi alle
toilette, e nelle infrastrutture di base, dalle strade agli acquedotti,
avrebbero bisogno i più poveri del mondo per vivere una vita dignitosa?
Solo
una volta conosciuto questo livello, allora potremmo veramente valutare se sia
raggiungibile o meno dalla produzione energetica.
La
risposta alla domanda l’ha appena data, con un articolo su Nature Energy, il
professor Narasimha Rao, analista dei sistemi energetici per “l’International
Institute for Applied Systems Analysis” a Vienna.
«Abbiamo
calcolato quanta energia servirebbe per dare la possibilità a ognuno dei 3
miliardi di poveri, quelli che vivono con meno di 3 dollari al giorno, di
condurre una “vita decente”, intendendo con essa il raggiungimento di tutti gli
obbiettivi di sviluppo umano sostenibile previsti dall’Onu per il 2030:
dall’eliminare la malnutrizione al dare a tutti abitazioni di buona qualità,
dal garantire l’ educazione scolastica a maschi e femmine fino al provvedere
infrastrutture di comunicazione per muoversi, informarsi e condurre una vita
sociale», dice Rao.
Nel
calcolo sono stati quindi inclusi non solo i consumi diretti, ma anche quelli
necessari per la coltivazione di cibo per una dieta sana, produzione di oggetti
indispensabili a migliorare la vita, funzionamento dei trasporti pubblici e
costruzione di strade e scuole e così via.
«Applicando
questi criteri a India, Brasile e Sud Africa, tre paesi diversi per clima,
economia e situazione sociale, è risultato che per condurre una vita decente, agli
indiani poveri basterebbero 3.055 kWh pro-capite annui, ai sudafricani 4.500 e
ai brasiliani 6.100».
Consumi
bassissimi, se si considera che l’italiano medio usa ogni anno 35.000 kWh.
E
l’analisi risulta ancora più sorprendente se si considera che, in teoria, per
ottenere questa “vita decente” per tutti i poveri non ci sarebbe neanche
bisogno di aumentare l’attuale produzione energetica in quei tre paesi: i
consumi pro-capite sudafricani sono infatti già di 31.000 kWh annui, quelli
brasiliani di 17.000 e gli indiani di 7.000, mentre la media planetaria è di
21.000 kWh.
«Ovviamente
nel calcolo dei consumi energetici pro capite finiscono anche attività che non
ritornano ai cittadini locali, come l’energia assorbita da miniere, industria,
trasporti e agricoltura che lavorano per l’export», precisa Rao.
«E
poi, ancora più importante, c’è la disuguaglianza economica: anche in India,
Brasile e Sud Africa, moltissimi sono sopra e alcuni molto, molto più sopra dei
livelli della “vita decente”. Ma attenzione, i livelli che abbiamo calcolato, non sono il
massimo a cui tutti dovremmo aspirare, ma solo il minimo che dovrebbe essere
garantito a ogni umano sul pianeta».
E la
soglia massima di consumi energetici?
Ma
quale sarà, allora quel “livello massimo a cui aspirare”? Conoscerlo sarebbe fondamentale
per capire dove si stanno dirigendo i consumi energetici globali, soprattutto
ora che, secondo
gli economisti della Brookings Institution, oltre il 50% dell’umanità è ormai
“classe media” e quindi aspira a livelli di vita simili a quelli dei paesi
industrializzati.
Rao e
colleghi intendono quantificare quel livello in una futura ricerca, ma una sua
valutazione era già contenuta in uno studio del 2016 pubblicato su “Energy for
Sustainable Development”, da un gruppo di ricercatori coordinati dall’economista Iñaki
Arto, del Centro basco di studio del cambiamento climatico.
In
quel caso Arto e colleghi avevano incrociato due dati: il consumo di energia
pro capite delle varie nazioni e l’indice di sviluppo umano dell’Onu, o Hdi, che combina i livelli di reddito,
educazione, longevità, salute e socialità negli Stati, in un singolo numero che
varia da 0 a 1, con 1 indicante la “società perfetta”.
Per
ottenere dati sui consumi pro-capite più aderenti allo scopo dello studio, ai
consumi individuali per elettricità e combustibili, nella ricerca è stata
sommata anche l’energia contenuta negli oggetti e servizi che il cittadino
medio acquista durante l’anno, così che si possa vedere anche l’energia che
consumiamo attraverso le importazioni dall’estero: un indice chiamato “impronta
energetica”.
È
risultato che le nazioni che hanno basse impronte, hanno anche bassi Hdi, e che aumentando i consumi
energetici, vedono anche crescere in parallelo il loro Hdi, a dimostrazione di quanto l’energia
sia importante per lo sviluppo umano.
Questo
però non accade più in nazioni “sviluppate”, quelle cioè che hanno Hdi
superiori a 0,8 (l’Italia è a 0,88): per i loro cittadini medi, aumentare l’impronta energetica,
cioè consumare e comprare ancora di più, non serve molto a far crescere lo
sviluppo umano.
Così
si possono avere nazioni molto sviluppate, Hdi sopra 0,9, con consumi
energetici diversissimi: al giapponese medio, per esempio, bastano 54.000 kWh l’anno,
contro i 73.000 dello svedese medio e i 98.000 pro-capite dell’impronta pro
capite degli statunitensi, ma non si può dire che giapponesi o svedesi siano
“sottosviluppati” rispetto agli americani.
Inoltre,
a conferma che i consumi energetici da un certo livello di sviluppo in su non
sono più importanti per la qualità della vita, il fatto che negli ultimi anni
nelle nazioni con Hdi sopra gli 0,8, lo sviluppo umano è ancora cresciuto, nonostante una
diminuzione dell’impronta, grazie alla maggiore efficienza energetica e in
economie sempre meno basate sull’industria pesante.
«Tutto
questo ci indica che un’impronta energetica pro capite intorno ai 30.000 kWh,
cioè quella della Polonia, che ha un Hdi di 0,811 basta per portare a un soddisfacente
livello di sviluppo umano», conclude Arto.
Con
quale energia soddisfare i bisogni umani.
Ma
veramente potremo dare a tutti quell’energia, del 50% superiore all’attuale
media globale, agli 8 miliardi di abitanti del mondo, o, ancora più arduo, ai
10 miliardi previsti per il 2050?
Certamente
con l’80% di energia proveniente dai combustibili fossili attuale, come accade
oggi, no di certo: sfasceremmo il clima planetario. Ma la conversione alle fonti
rinnovabili offre una speranza di riuscirci.
Prima
di tutto perché produrre calore e movimento ad esempio con l’elettricità solare
è molto più efficiente che usando carbone, petrolio o gas. Secondo Mark
Jacobson dell’Università di Stanford, un mondo a energia 100% rinnovabile, ne
richiederebbe il 50% di meno a parità di servizi offerti.
Secondariamente,
perché la “offerta solare” è veramente immensa. Per produrre 30.000 kWh per 10
miliardi di persone, considerando 200 kWh l’anno di produzione per metro quadro
di pannello solare, servirebbero 1,5 milioni di kmq di terreno coperto da
moduli, pari
alla superficie di un sesto del deserto del Sahara. Se poi veramente servisse metà
energia rispetto ad oggi, ne “basterebbero” 750mila di kmq, cioè come la superficie del
Cile.
E
visto che, ovviamente, all’energia solare si affiancherebbero poi tutte le
altre fonti rinnovabili, sembra proprio che sia questa l’unica strada, veloce e
realistica, per dare abbastanza energia a tutti per condurre una buona vita.
LA
SPERANZA È UN’EMOZIONE …
Infermiereonline.org-
Mariana Ramona Marin-(24 agosto 2020)- ci dice :
(Infermiera
Cure palliative, Roma).
Ritrovarsi
in isolamento per covid 19 dopo un turno in Hospice, dopo una notte in cui hai
avuto un decesso e hai dovuto comunicare telefonicamente a una figlia che ha
appena perso il padre senza neanche avere la possibilità di dargli un ultimo
saluto.
È una
doccia fredda.
Ramona,
infermiera in cure palliative, pensavo di rimanere eroina fino in fondo senza
passare ciò che ho visto sotto miei occhi in tanti momenti al lavoro. Sai già a che cosa vai incontro non
solo clinicamente ma anche psicologicamente perché hai sempre avuto a che fare
con il dolore, dolore in tutti sensi della parola.
Sono
stata sempre molto attenta ai bisogni dei miei pazienti ma anche della
famiglia.
Ora
qui mi sto rendendo conto quanto sono simili questi bisogni, quante volte mi
sono trovata ad affrontare situazioni così… si molto simili perché qui non si
fa altro che gestire i sintomi nei casi più semplici, oppure usando protocolli
nelle fasi più difficili.
Protocolli
che noi delle cure palliative conosciamo perché con la morte abbiamo avuto
sempre a che fare.
Alleviare
la sofferenza e mantenere la dignità della persona fino alla fine è la nostra
filosofia esistenziale e di vita, ascoltare, accompagnare, mantenendo le
distanze, senza un tocco della mano, senza un sorriso, un abbraccio
confortante, un volto conosciuto, ormai neanche sguardi perché la paura si
percepisce ovunque.
Non
puoi rimanere inerte senza sapere almeno se quella persona ha qualcuno al
mondo: figli, mariti, mogli, genitori, sorelle, fratelli, amici, preoccupati,
senza sostegno, immersi nei pensieri del terrore.
Magari
come me ti trovi in un Paese che non è tuo e devi rassicurare con un filo di
voce chi sta lontano per proteggerlo, per non fare capire il tuo dolore e la
situazione nella quale ti trovi… e chi un cellulare non lo ha?
L’unico
modo di comunicazione, di rassicurazioni ma purtroppo anche di addii. Vi prego
non sottovalutare questo, sono dolori che ti segnano la vita!
Riflettere
su ogni colloquio avuto in Hospice… di supporto, comunicare una cattiva
notizia, assistere con dignità fino alla fine mantenere una buona qualità della
vita, dando vita ai giorni e non giorni alla vita, ora mi tocca provarlo su di
me, pensando ai miei bisogni e cercare la forza in ogni angolo di me stessa con
la speranza di tornare al più presto in corsia riportandomi anche questa
lezione e dare ancora di più.
Il
covid 19 e le cure palliative sono come due sorelle che vanno a braccetto,
rinforziamo questo rapporto così familiare, hanno la stessa anima, si respira
l’aria della sofferenza … alcuni giorni ti senti come un leone altri giorni
ormai pensi di essere arrivato a quel punto chiamato fine.
Inizi
a farti mentalmente mille scenari, ma quello più bello che frulla nella mente è
il momento che puoi finalmente uscire, respirare l’aria della primavera,
sdraiarti sopra l’erba e guardare il ballo delle foglie appena verdi… e
renderti conto che sei fortunato… che qualcuno lassù veglia su di te.
“Siamo
qui per aiutare a vivere la più alta qualità di vita e, quando non è più
possibile, per facilitare la più grande qualità di morte”.
La
speranza è un’emozione, e io di emozioni mi nutro, c’è la metterò tutta per
farcela!
E poi,
ritornando a mettere di nuovo quel camice provi quella sensazione strana
difficile da spiegare in parole…un misto di emozione e voglia di riprendere e tornare
alla normalità, ma in ogni movimento ti ritrovi a vivere quei momenti vissuti
lì, in quella stanza, ma dall’altra parte e sento l’ecco di ogni parola scritta
nel mio racconto.
Parole
che resteranno dentro a vita, uscite con dolore dal dolore, con sincerità dalla
paura.
Sono
tornata con quella voglia di donare soprattutto ciò che a me mi è mancato
perché, nessuno e niente mi toglierà il mio dono più prezioso, il sorriso.
Neanche
a te maledetta mascherina non ti temo, si può sorridere anche con gli occhi,
con le parole, pur per dare conforto e garantire un’alta qualità di vita…e non
solo.
La speranza
non è razionale
ma può cambiare il mondo.
Editorialedomani.it-
Martha C. Nussbaum-(15 settembre 2020)-ci dice:
"La
propensione alla speranza in tempi difficili sembra in qualche modo collegata
all’eventuale esito positivo, se esso si verifica. Se il paziente o la famiglia
abbandona la speranza (o espande erroneamente la speranza in un eccesso di
aspettative), ciò probabilmente significa che non verranno provate nuove
terapie”.
“La
speranza si espande verso l’esterno, la paura si contrae. Ma se contengono
sostanzialmente lo stesso concetto e se non sono le probabilità a fare la
differenza, che cosa distingue i pensieri e le attitudini della persona che
produce questa diversità di sentimenti?”
"La
speranza implica la visione di un mondo positivo che potrebbe realizzarsi e,
spesso almeno, le azioni legate al suo conseguimento. L’effetto placebo mostra
che, almeno in molte situazioni, pensare che si guarirà produce un reale
miglioramento”.
(Martha
C. Nussbaum è una delle più importanti filosofe viventi, insegna Law and Ethics
alla Law School della University of Chicago. Questo brano è tratto dal suo
nuovo libro appena pubblicato per il Mulino, La monarchia della paura, in
libreria da oggi).
Cos’è
la speranza? È un’emozione bizzarra. E stranamente, nonostante la sua
importanza, non è quasi mai discussa estesamente dai filosofi. Una concezione diffusa chiaramente
inadeguata è quella per cui la speranza implica il desiderio di un risultato,
sommato alla previsione che tale risultato sia abbastanza probabile.
Ciò è
sbagliato per tre motivi. Innanzitutto, la speranza in realtà non dipende dalla
nostra valutazione delle probabilità. La gente spera in un buon esito
medico per sé o per i propri cari anche quando la prognosi è fosca. Infatti, quando aumenta la probabilità di un
buon risultato, la speranza inizia a sembrare superflua e viene spesso
sostituita da allegre aspettative.
(La stessa cosa accade con la paura: quando
l’esito negativo si approssima alla certezza, la paura si trasforma in
disperazione o fatalismo o in un terrore che svuota la mente).
La propensione alla speranza in tempi difficili sembra
in qualche modo collegata all’eventuale esito positivo, se esso si verifica. Se il paziente o la famiglia
abbandona la speranza (o espande erroneamente la speranza in un eccesso di
aspettative), ciò probabilmente significa che non verranno provate nuove
terapie. Se
una nazione rinuncia alla speranza quando viene attaccata da un nemico potente,
non intraprenderà strategie coraggiose che alla fine potrebbero rivelarsi
vincenti. La connessione tra speranza e azione è importante.
ACCETTARE
L’IMPOTENZA.
Il
secondo problema inerente alla concezione legata al desiderio e alla
probabilità è che la speranza implica non solo il desiderio di qualcosa di
buono, ma una sua valutazione come bene importante, che vale la pena perseguire
(questa valutazione potrebbe essere sbagliata, quindi stiamo solo parlando di
ciò che la persona pensa). In questo momento desidero un cono gelato, ma non spero di
averne uno: è troppo banale, a mio avviso, per tale emozione. (Quando avevo 5
anni speravo in un gelato, perché nel mio mondo di bambina era davvero
importante! Anche gli adulti a volte sperano in cose davvero banali – per
esempio la vittoria della propria squadra del cuore – che però dentro di loro
assumono enorme importanza, come il bambino con il gelato.)
L’esempio
del gelato mi conduce a un ulteriore problema: la speranza, come la paura, comporta
sempre una significativa impotenza. In questo preciso momento desidero
una bottiglia d’acqua. E se avessi voglia di andare nel seminterrato dove si
trovano i distributori automatici ne prenderei una. Prima o poi lo farò. Ma non spero in
una bottiglia d’acqua: ciò significherebbe che in qualche modo non sono in
grado di procurarmela da sola, o che sono abituata a essere servita da persone
abbastanza inaffidabili.
Gli
antichi greci e romani avevano fatto propri tutti e tre questi punti, quindi
non commisero l’errore di definire la speranza in termini di desiderio e di
probabilità. Invece sostenevano che la speranza è parente stretta o il rovescio
della medaglia della paura.
Entrambe
implicano la valutazione di un risultato come molto importante, entrambe
implicano una grande incertezza sul risultato ed entrambe presuppongono una
buona misura di passività o di mancanza di controllo.
Pertanto
agli antichi la speranza non piaceva, per quanto concordassero nel ritenerla
gradevole: la speranza tradisce una mente troppo dipendente dalla fortuna.
«Cesserai di temere, se avrai finito di sperare», scrive Seneca. «Ambedue si
esprimono in un animo sospeso nell’incertezza, che attende con ansia il
futuro».
La
posizione stoica secondo cui dovremmo isolarci dagli shock dolorosi
disinteressandoci di ciò che sta al di fuori di noi rimuove troppe cose, non
lasciando sussistere alcun amore per la famiglia o il proprio paese, nulla che
renda la vita davvero degna di essere vissuta.
Ma se
lasciamo spazio all’amore profondo allora ci toccano le paure e le speranze, e
talvolta un profondo dolore. Quindi dovremmo respingere la rimozione stoica sia della
speranza sia della paura. Ma dovremmo riconoscere che gli stoici hanno ragione nel
considerarle parenti strette. Dove hai paura avrai speranza. Qual è, allora, la
differenza tra le due?
NON
SOLO DOLCI DELIZIE.
Gli
stoici chiamano le speranze «dolci delizie» e sanno che la paura è una
sensazione orribile. Usano anche metafore come «espansione» ed «elevazione» quando
si parla di speranza, mentre la paura va di pari passo con la «contrazione» e
il restringersi.
Anche
noi parliamo in questo modo: la speranza ha le ali, ha le piume come un
uccello, si libra verso l’alto. Le colonne sonore dei film horror sanno come suscitare la
paura. La
musica della speranza è totalmente diversa. (Penso alla delicata e adorabile
The Lark Ascending (1914) di Vaughan Williams, che esprime speranza per l’Europa
nei giorni pericolosi che hanno preceduto la Prima guerra mondiale. Ma c’è una
musica della speranza in ogni genere musicale.)
Le due
emozioni differiscono, chiaramente, nei sentimenti caratteristici che le
accompagnano e nel comportamento della persona che le sperimenta. La speranza
si espande verso l’esterno, la paura si contrae. Ma se contengono sostanzialmente lo
stesso concetto – vale a dire che un risultato stimato importante è incerto – e
se non sono le probabilità a fare la differenza, che cosa distingue i pensieri
e le attitudini della persona che produce (o sperimenta) questa diversità di
sentimenti? Sembra che la differenza stia nell’enfasi. È come il caso del bicchiere
mezzo vuoto e mezzo pieno. Il bicchiere è lo stesso, diverse sono l’enfasi e la
prospettiva.
Nella
paura ti concentri sul risultato negativo che può verificarsi. Nella speranza
ti concentri sul positivo. La filosofa Adrienne Martin nel suo libro How We Hope
aggiunge un aspetto molto importante. La speranza, sostiene Martin, è più
simile a una «sindrome» che a un semplice atteggiamento o a un’emozione:
include pensieri, immaginazione, preparativi per l’azione, persino azioni.
Non si
tratta in realtà di una peculiarità della speranza; anche la paura ha forti legami con
l’immaginazione e l’azione. Ma quali sono le azioni e i pensieri caratteristici della
speranza? Direi
che la speranza implica la visione di un mondo positivo che potrebbe
realizzarsi e, spesso almeno, le azioni legate al suo conseguimento.
Alcune
azioni potrebbero essere simili a quelle provocate dalla paura, poiché evitare
una possibilità negativa può essere molto simile a promuoverne una positiva. La paura del pericolo, quando è
proporzionata e sana, incoraggia strategie evasive che possono giovare alla
sicurezza e alla salute. Eppure esiste una differenza.
Un
paziente che ha molta paura può rimanerne paralizzato; un paziente fiducioso
può essere più energico nel cercare soluzioni. E forse, anche se sappiamo ancora
troppo poco in merito, la speranza in sé ha efficacia. L’effetto placebo mostra che, almeno
in molte situazioni, pensare che si guarirà produce un reale miglioramento. La
speranza non si basa su tali credenze probabilistiche, come ho detto, ma
potrebbe essere altrettanto efficace.
LA
SPERANZA PRATICA.
L’idea
di Martin sulla connessione tra speranza e azione positiva è potente, ma la
speranza non funziona sempre così. A volte la speranza è inerte e impotente e può
persino distrarre dalle attività utili. Nella vita accademica conosciamo
tutti persone che vivono nella speranza: sperano che un giorno scriveranno
qualcosa di buono, si immaginano a leggere un bell’articolo che hanno prodotto,
lo vedono stampato nelle pagine del Journal of Philosophy, ecc. Ma quel genere di cose può essere
un miraggio autoindulgente o addirittura sostituirsi al lavoro. In tali casi avremmo ragione a
preferire la persona che lavora senza alcun particolare atteggiamento emotivo
rispetto alla persona che indulge in emozioni e fantasticherie senza lavorare.
Dobbiamo
quindi distinguere – cosa che Martin non fa – tra quella che potremmo definire «speranza oziosa» e quella che potremmo chiamare «speranza pratica», che è saldamente legata e dà
energia all’impegno volto all’azione. E se di certo esiste la speranza oziosa, spesso la speranza può essere davvero
pratica: le belle immaginazioni e illusioni coinvolte nella speranza possono
stimolare all’azione verso l’obiettivo desiderato.
È
difficile mantenere l’impegno per una dura lotta senza tali pensieri e
sentimenti che diano energia. La differenza tra paura e speranza è labile. È come premere un interruttore: ora
il bicchiere sembra mezzo pieno. E spesso, anche se non sempre, queste immagini mentali
svolgono un’importante funzione pratica, preparandomi ad agire in direzione
dell’obiettivo desiderato e convincendomi che è a portata di mano.
Cosa
vuol dire “cancel culture.”
Ilpost.it-
Redazione-(12-5-2021)- ci dice:
Un'espressione
discussa da anni negli Stati Uniti sembra infine arrivata nel dibattito
italiano, spesso sovrapposta alla questione del “politicamente corretto.”
L’espressione
“cancel
culture”,
attorno alla quale da anni ruota un acceso e rilevante dibattito nel mondo
anglosassone, è entrata da qualche tempo nelle discussioni italiane in tv e sui
giornali, pur con una certa confusione che contribuisce a frequenti
incomprensioni.
La “cancel culture” è stata citata da vari opinionisti
per commentare la storia del “bacio non consensuale di Biancaneve”, o un monologo televisivo in cui i comici Pio e Amedeo hanno
rivendicato la libertà di riferirsi alle persone nere o gay con termini
ritenuti generalmente offensivi e discriminatori.
Come è
successo in parte anche all’estero, il dibattito sulla “cancel culture” si è sovrapposto
a quello sul cosiddetto “politicamente corretto”, un’espressione familiare a molte
più persone che però negli ultimi anni è arrivata a indicare un fenomeno molto
più complesso e sfaccettato di quello per cui era usata qualche decennio fa. È un discorso estesissimo che tiene
dentro un sacco di cose, dai libri ritirati dal commercio per le controversie
sui loro autori alle sempre più frequenti proteste sui social network quando in
tv vengono dette cose razziste o sessiste.
E che
ha al centro le nuove e sempre più diffuse sensibilità sui linguaggi da
adottare, sulle parole da evitare e su quelle invece da introdurre nel lessico
comune per essere più rispettosi delle cosiddette minoranze e delle persone in
generale.
Per
“cancel culture”, traducibile con “cultura della cancellazione”, negli Stati Uniti e in generale nel
mondo anglosassone si intende oggi quel fenomeno per cui gruppi più o meno
organizzati di persone esercitano pressioni su un datore di lavoro,
committente, collaboratore o socio perché punisca o interrompa i rapporti con
un dipendente o un partner professionale per via di certe cose che ha fatto,
detto o scritto. Non è detto che queste pressioni vengano necessariamente esercitate sui
social network, ma è molto spesso così.
In
origine, nel gergo dei social, l’espressione “cancelled” indicava una presa di posizione
prevalentemente personale riguardo a qualcuno che aveva detto o fatto qualcosa
ritenuto disdicevole. Negli anni Dieci guadagnò popolarità e iniziò a introdurre
nuove dinamiche nella responsabilizzazione dei personaggi famosi, e a dare
visibilità a posizioni provenienti da gruppi di persone che prima avevano meno
spazio nel dibattito.
Col
tempo però l’espressione “cancelled” assunse un significato diverso. Oggi viene
usata principalmente in quei casi in cui decine, centinaia o migliaia di utenti
scrivono a un’università, a un editore, a una casa di produzione
cinematografica o a un’azienda, chiedendo che un professore venga allontanato,
che il libro di uno scrittore non venga pubblicato, che un attore venga escluso
da un film o che un dirigente venga licenziato per un determinato motivo.
Questi
motivi possono essere vari, più o meno gravi, possono avere rilevanza penale oppure rientrare legalmente nella
libertà di espressione ma essere comunque considerati inaccettabili da chi
chiede provvedimenti, nel momento in cui provengono da persone con molta
visibilità o in posizione di potere. Talvolta queste pressioni non hanno
conseguenze, altre volte – e succede principalmente negli Stati Uniti – vengono
assecondate dal datore di lavoro coinvolto.
Uno
degli esempi di “cancel culture” più famosi riguarda il regista Woody Allen,
che negli anni Novanta fu notoriamente accusato dall’ex moglie Mia Farrow di
aver violentato la figlia adottiva Dylan. Nonostante le accuse fossero note
da decenni, e nonostante diverse indagini abbiano indicato l’assenza di prove, negli ultimi anni le rinnovate
campagne contro Allen hanno spinto Amazon ad annullare un importante accordo di
distribuzione per i suoi nuovi film, e la casa editrice Hachette a non fare
uscire la sua autobiografia “A proposito di niente” negli Stati Uniti. Se negli Stati Uniti le conseguenze
professionali per Allen sono state considerevoli, in Europa è successo in misura
molto minore: in generale è stata finora meno interessata da casi come questo.
Il
meccanismo alla base, insomma, è diverso dai più tradizionali boicottaggi, perché si manifesta non tanto nella
decisione collettiva di non comprare un libro o non pagare il biglietto di un
film al cinema, quanto nell’esplicita richiesta e nelle successive pressioni
affinché il libro o il film, per restare a questi esempi, vengano ritirati dal
commercio o dalla circolazione e diventino quindi non fruibili per tutti. Partecipare a questo tipo di
pressioni è molto più facile – basta un social network – e può farlo anche chi non è un
abituale consumatore di quel tipo di prodotto, categoria invece a cui è riservata
l’arma del boicottaggio tradizionale.
Spesso
però le cose assumono contorni più difficili da definire. Un esempio è la recente decisione
della casa editrice WW Norton and Company di ritirare una biografia di Philip
Roth scritta da Blake Bailey, su cui erano emerse accuse di abusi sessuali
(Einaudi ha deciso invece di procedere con la pubblicazione in Italia). Si è trattato nei fatti di una
decisione aziendale dovuta a un’analisi costi-benefici, che ha concluso che
tenerlo in commercio sarebbe stato un problema e avrebbe danneggiato l’immagine
della casa editrice. Ma in tanti ritengono sia stata anche questa una forma di
“cancel culture” preventiva, perché il clima culturale attuale rende decisioni
di questo tipo inevitabili, al di là dei giudizi sulle opere e in certi casi
(non quello di Bailey, ma per esempio quello di Allen) anche delle informazioni disponibili sulla
solidità delle accuse.
Questo
contesto ha un ruolo sempre più importante nelle decisioni aziendali o
editoriali, anche quando sono poi concretamente ascrivibili ai funzionamenti
del libero mercato. Ma del resto, non è un fenomeno di per sé nuovo che le
aziende si adattino alle sensibilità dei loro clienti, guidando di conseguenza
le loro decisioni. Questa ambiguità in ogni caso fa sì che, anche negli Stati
Uniti, sia oggetto di discussione quanto effettivamente la “cancel culture” sia un fenomeno
diffuso,
tra chi tende a vederla ovunque – anche nella semplice critica a un’opinione o
un comportamento altrui – e chi nega del tutto la sua esistenza.
Oltre
a quello dei media e dell’intrattenimento, in ogni caso, un campo in cui il
dibattito è particolarmente rilevante è quello accademico.
Negli
Stati Uniti, negli ultimi due o tre anni si sono verificati un certo numero di
casi di docenti o ricercatori licenziati – o che sono stati spinti alle
dimissioni – perché avevano detto qualcosa che i loro studenti avevano
giudicato inopportuno o discriminatorio, oppure perché avevano sostenuto
direttamente o indirettamente opinioni ritenute transfobiche o razziste,
secondo criteri però in molti casi quantomeno discutibili.
Spesso
i suddetti professori sono stati difesi da colleghi secondo cui le proteste
erano state pretestuose o esagerate, e sono in corso estese riflessioni sulla
possibilità che il clima raggiunto in certe università possa finire col fare
più danni che altro all’attività didattica e alla ricerca scientifica. In California, per fare un esempio,
un professore è stato sospeso per aver spiegato durante una lezione di
comunicazione aziendale il significato dell’intercalare cinese nei “ge”, il cui
suono ricorda un’espressione razzista in inglese.
Se ne
era parlato in mezzo ad altre cose in una ormai famosa e discussa lettera
aperta di accademici, intellettuali e scrittori alla rivista Harper’s Bazaar,
nel luglio del 2020.
Un
altro problema nell’inquadramento di questo contesto è la grande varietà di
fenomeni che sono gli sono stati più o meno correttamente associati: dalle pressioni rivolte verso i
personaggi pubblici affinché prendano le distanze da altri colleghi o conoscenti
accusati di qualcosa, fino alle proteste perché certe tracce o opere del
passato siano contestualizzate meglio per descriverne i loro aspetti
discriminatori, oppure in certi casi più estremi proprio eliminate (è un grande
capitolo a parte).
La
“cancel culture” ha critici a destra (praticamente tutta la destra) e anche a
sinistra, ma è rivendicata come strumento di attivismo e di lotta politica da
un popolare progressismo contemporaneo, soprattutto giovane e di matrice
statunitense, a cui si fa spesso riferimento con l’espressione woke (cioè, più o meno, “consapevole”),
usata soprattutto spregiativamente.
Chi
difende questo fenomeno, magari anche ammettendo che le sue manifestazioni
possano essere talvolta sbrigative e sommarie, sostiene sia un mezzo per
combattere le diseguaglianze razziali, di genere e anche economiche, e che
l’esistenza stessa di questa discussione dipenda da fattori positivi. E cioè che persone e gruppi che a
lungo non hanno avuto la possibilità di intervenire nel dibattito pubblico e
culturale stanno acquisendo crescenti spazi e influenza. E li stanno usando per fare pressioni
affinché chi ha avuto per decenni gli spazi e il potere subisca infine le
conseguenze di quelle parole e azioni che discriminano le minoranze.
Da
destra,
solitamente, le critiche sostengono che la “cancel culture” e tutto quello che si porta dietro
comporti gravi limitazioni alla libertà di espressione.
Molti
conservatori però hanno iniziato a usare l’espressione per descrivere pretestuosamente un
gran numero di rivendicazioni e proteste sui diritti civili, sfruttandola per sminuire e
liquidare molte questioni come capricci dei giovani progressisti.
Da
sinistra le
obiezioni sono invece più varie: spesso riguardano a loro volta la libertà
d’espressione, con un accento sul rischio di impoverire il dibattito
intellettuale stabilendo criteri troppo rigidi su quello che si può e non si
può dire, a prescindere dal contesto, o di travolgere sfumature e differenze. Ma possono anche riguardare i metodi
(quando per esempio sono violenti o intimidatori), i contenuti (quando le
polemiche sono pretestuose) oppure i concetti dietro alla “cancel culture”.
Un
ricorrente argomento mette in discussione per esempio l’idea che una singola
cosa detta o fatta, per quanto disdicevole, possa definire interamente una
persona e il suo futuro personale e professionale. Dato che, in certi casi, la persona
oggetto delle proteste perde la possibilità di svolgere il suo lavoro.
La
sovrapposizione dell’espressione “cancel culture” con il “politicamente corretto”, e una frequente confusione quando si
parla di questo dibattito, esiste negli Stati Uniti ed è ancora più accentuata
in Italia.
Il
vero dibattito che sembra essere in corso in questi giorni, per esempio, è
proprio quello che viene generalmente associato al concetto di “politicamente corretto”, un’espressione nata negli anni
Ottanta per descrivere un modo di esprimersi che sostituisse vecchi termini offensivi
con altri più rispettosi (“handicappato” e “disabile”, per esempio).
Un
approccio che è stato adottato come stile di comportamento e linguaggio più nel
mondo anglosassone che in molti paesi europei, Italia compresa. Politically correctness, abbreviato
spesso in PC, è un concetto al centro di discussioni anche negli Stati Uniti, pur
essendo secondo molti troppo superato e semplicistico per descrivere efficacemente il
grande dibattito di questi anni sulle questioni identitarie e sulle funzioni
della lingua nel mantenere e legittimare le diseguaglianze.
Le
discussioni che negli ultimi giorni si sono sviluppate tra i social network, le
pagine degli editoriali dei principali quotidiani e i programmi televisivi –
quella su Biancaneve e quella su Pio e Amedeo – non riguardavano tanto la
“cancellazione” di determinati personaggi, quanto la questione di ciò che
sarebbe opportuno dire, fare o rappresentare riguardo alle molte questioni su
cui stanno cambiando le sensibilità collettive, in un senso che include punti
di vista diversi da quello storicamente prevalente (bianco, maschile, eterosessuale,
cisgender).
È una
discussione che ha provocato estesi allarmi riguardo alla presunta “censura” imposta agli interessati. L’obiezione più comune è che
generalmente chi ne è interessato continua a disporre di programmi e pagine per
esprimersi – Pio e Amedeo hanno detto quello che volevano in prima serata su
uno dei canali più visti del paese – e che linguaggi discriminatori
continuano a essere tollerati e sdoganati in moltissimi contesti, dentro e
fuori dai media.
I
punti più rilevanti e interessanti del dibattito sono probabilmente più sfumati
e complessi. Uno dei principali riguarda la possibilità – già concreta per qualcuno,
potenziale per altri, e trascurabile per altri ancora – che la pretesa che chi
gode di visibilità sia più attento alle conseguenze di cosa fa e cosa dice sia
esercitata con metodi che finiscono per compromettere un dibattito produttivo e
sereno, spingendo
le persone a rinunciare a esprimere certi argomenti per il timore di sanzioni
sproporzionate e non giustificate.
Oppure
che la diffusa e urgente richiesta di un linguaggio pubblico più inclusivo e
rispettoso non sia accompagnata da un’efficace comunicazione delle sue ragioni
e dei suoi criteri. A lungo il dibattito in questione è stato infatti elitario,
riservato alle persone che lavorano nei media, a quelle più istruite oppure a
quelle più aggiornate sulla cultura anglosassone. Vista la consolidata rilevanza
internazionale della discussione, e visto che tutto lascia supporre che sarà
sempre più importante, in molti segnalano la necessità di comunicare e spiegare
meglio le posizioni e gli argomenti del “politicamente corretto”. Evitando insomma un approccio
rigidamente prescrittivo, per prevenire il rischio che la maggior parte delle persone
rimanga generalmente confusa, tendenzialmente scettica e quindi
conseguentemente esclusa dal dibattito.
Che
cos'è davvero la “cancel culture”
di cui avete letto in questi giorni.
Wired.it-Paolo
Mossetti-(17-8-2020)-ci dice:
La
lettera di Harper's sulla libertà di parola ha originato un dibattito anche in
Italia: ma se ne è parlato in modo impreciso, limitando il fenomeno a una serie
di “boicottaggi” di sinistra più e meno sacrosanti. La realtà è ben più
complessa.
Nel
bel mezzo di una pandemia e di una recessione mondiali, il principio della
libertà di parola è diventato il fulcro di una guerra culturale e politica tra
destra e sinistra.
La celebre lettera pubblicata dalla rivista americana
Harper's, firmata da circa 150 intellettuali tra cui Noam Chomsky, J.K.
Rowling, Salman Rushdie e Margaret Atwood, ha tentato di difendere la libertà
di parola, spiegando che non è una dottrina di destra – in quanto spesso
chiamata in causa da Donald Trump e sodali per giustificare a priori i loro
toni e contenuti – ma, al contrario, un principio bipartisan radicato in valori
condivisi.
E ottenuto al prezzo di guerre e rivolte sanguinose, che rimane negato in molte
parti del mondo e richiede una difesa costante, secondo i firmatari.
La
lettera ha scatenato una polemica internazionale, arrivata fino in Italia, che
si è concentrata su un fenomeno più specifico che ricomprende al suo interno la
libertà di pensiero: la cancel culture, la cultura della cancellazione, ovvero la tendenza
diventata molto diffusa in rete a rimuovere dalla produzione culturale persone
o aziende che si considerano colpevoli di aver sostenuto – anche in passato, o
con presunte singole azioni personali – valori contrari ai diritti delle
minoranze, alla parità di genere, all'uguaglianza e in generale al
politicamente corretto.
Seppur
la cancel
culture non
venga menzionata nel testo, sembra essere il suo vero bersaglio (del resto su
Harper's si fa riferimento, condannandolo, a “l'ostracismo e la pubblica
umiliazione”).
Si legge anche:
Rifiutiamo
ogni falsa scelta tra giustizia e libertà, che non possono esistere una senza
l'altra. Come scrittori abbiamo bisogno di una cultura che ci lascia spazio per
la sperimentazione, il prendersi rischi e anche il fare errori. Dobbiamo preservare la possibilità di
un disaccordo in buona fede.
Il
punto centrale della lettera giocava all'interno di un frame narrativo
considerato tradizionalmente di destra – nel senso che molti dei principali
critici di alcune derive di un'interpretazione massimalista del politicamente
corretto sono situati in quella parte politica – e quindi le critiche da essa
ricevute sono arrivate soprattutto da sinistra, e si possono suddividere
principalmente in quattro tipologie: la prima è che i firmatari della missiva
sarebbero sostanzialmente dei privilegiati, dei big che non sono mai stati
davvero cancellati da chicchessia (e che, anzi, sono sempre stati baciati da
ricche piattaforme, che gli garantiscono visibilità e ascolto).
La
seconda critica, sostenuta anche da socialisti democratici come Alexandria
Ocasio-Cortez, è che la lettera di Harper's non terrebbe conto delle voci
davvero marginalizzate per anni dal giornalismo mainstream e dall'editoria che
conta: ad
esempio gli attivisti pro-Palestina o anti-patriottici a ridosso dell'invasione
dell'Iraq, o semplicemente i poveri che raccontano la propria vita e le proprie
esigenze nella società capitalista.
La
terza accusa, forse la più fondata, è che i firmatari hanno parlato di una grande
tendenza sociale in atto, ma senza citare alcun esempio di reale censura, o
qualche dato a sostegno della loro tesi.
Infine, la quarta accusa, quella più
grave, è
di aver mescolato malignamente nozioni come “intolleranza” e “umiliazione pubblica” con il semplice chiedere conto agli
intellettuali delle loro opinioni e delle loro scelte presenti e passate: una strategia per zittire le critiche
future, insomma.
Che
cos'è la “cancel
culture”.
Il
problema di queste critiche è che condividono lo stesso problema della lettera
originale: non inquadrano bene il bersaglio. Perché il vero problema qui è che
nessuno ha ancora capito cosa si intende con cancel culture e soprattutto quali sono i limiti
dell'accettazione nel discorso pubblico che tutte le persone di buona volontà
dovrebbero sottoscrivere.
Loretta
Ross, un'attivista nera, ha fornito questa definizione: “Cancel culture” è quando "le
persone cercano di espellere chiunque non sia perfettamente d'accordo con loro,
piuttosto che rimanere concentrate su coloro che traggono profitto dalla
discriminazione e dall'ingiustizia”.
Per
estensione, aggiungiamo, è la pratica per fare pressione su una istituzione o una
società privata per sanzionare qualcuno che altri, soprattutto online,
segnalano o percepiscono come emotivamente e psicologicamente dannoso, per
qualcosa che ha detto o fatto in un passato più o meno prossimo, o durante una
discussione pubblica.
Ecco
gli elementi chiave della cultura della cancellazione, dunque, con tutte le sfumature e le
varianti che vogliamo aggiungerci: l'individuo o il gruppo che se ne fa interprete mette
pressione su una terza parte per imporre sanzioni sul presunto trasgressore. Si tratta di una definizione
contestabile quanto ci pare, ma che lascia maglie abbastanza larghe da poter
essere applicata non solo da parte degli ultimi della società verso i famosi, i
ricchi o i potenti, ma anche trasversalmente, nel basso verso il basso, in ambienti
culturali molto meno vistosi.
David
Shor, un analista della società di consulenza progressista “Civis Analytics”, è
stato licenziato poco dopo aver twittato una ricerca di Princeton che metteva
in discussione l'efficacia elettorale delle rivolte.
Il
fatto che i firmatari dell'appello di Harper's siano parte di una élite non
vuol dire che quel privilegio non possa essere usato per difendere chi non ce
l'ha ancora.
Si può credere o no alla buona fede di un firmatario quale David Frum, falco
ideologico dell'amministrazione di W. Bush, o a quella di Bari Weiss, ex firma
del New York Times che ha il grilletto facile sull'antisemitismo (e a sua volta
ha appena lamentato di essere stata, a suo dire, cancellata e costretta alle
dimissioni dal giornale per via delle sue opinioni conservatrici). Ma ciò non toglie nulla ai principi
in ballo, e alla discussione su una certa mentalità che, grazie soprattutto ai
social network, opera molto spesso contro gli intellettuali.
Del
resto, ben prima della lettera dei 150, di questo modo di interagire si parlava
anche negli ambienti della sinistra radicale: lo aveva fatto il filosofo e
ideologo Mark Fisher nel 2013, definendolo “castello dei vampiri”. Esso opera, secondo l'interpretazione
che ne ha dato nel 2017 la sociologa Francesca Coin, mettendo in atto una
specie di una “scomunica” e “pratiche di esclusione” e “abuso reciproco”,
assoldando “complici dal basso, incluso nei circoli del pensiero critico”.
Anziché
spostare continuamente il discorso sui senza voce che non godrebbero dei
privilegi del mercato delle idee di cui godono i firmatari (un'operazione che
non risponde alla denuncia nel merito) si potrebbe allora chiedere ai
risentiti dalla lettera di Harper's che si sono letti in questi giorni anche in
italiano se alcuni eccessi giacobini – leggi: chiedere a un ricercatore di
lasciare il suo posto di lavoro per il risultato di una ricerca – siano davvero il male necessario per
far avanzare le ragioni di quei subalterni di cui sopra, da un punto di vista
materiale e teorico.
Oppure
se, invece, stiamo rischiando di rimanere impantanati in una lotta perlopiù
simbolica che potrebbe essere, alla lunga, controproducente anche dal punto di
vista del radicalismo economico. Come scrive Helen Lewis su The Atlantic, se
hai a cuore le cause progressiste, devi diffidare dal capitalismo woke – cioè instancabilmente impegnato in
ogni causa sociale, anche con cancellazioni improvvise per salvare la faccia
col suo pubblico più pronto a mettere la mano agli hashtag – che le appoggia: “Esso agisce attivamente per
bloccarle, risucchia via l'energia e ci fa illudere del fatto che il
cambiamento stia avvenendo più velocemente di quanto stia facendo veramente”.
Indubbiamente,
la lettera di Harper's poteva provare a definire meglio i confini dello spazio
di dissenso che era disposta a tollerare. La sua vaghezza è forse stata
necessaria forse per mettere d'accordo tutti i sottoscrittori, molti dei quali
probabilmente animati da ipocrisia. Ma confondere “la cancel culture” con una forma di “boicottaggio promossa online con cui ci si dissocia da aziende o
celebrità che hanno manifestato comportamenti controversi od oltraggiosi”, come
ha fatto un articolo del blog Valigia Blu molto diffuso nei giorni scorsi, è
quanto di più lontano esista da un inquadramento onesto del dibattito.
Un
conto è boicottare un paese o un prodotto, un altro esercitare pressioni
affinché a un autore discusso venga tolto il dottorato senza un confronto
accademico
Un
conto è boicottare un paese, un prodotto, una star di cui siamo consumatori
abituali, decidendo di togliergli fondi ed esposizione per segnalare il
carattere riprovevole di un suo atto o esternazione. Ad esempio la campagna #MuteRKelly è
nata per boicottare un cantante milionario accusato di violenze sessuali e
pedofilia da prove schiaccianti; un conto è persino lanciare della
vernice rosa sulla statua di un giornalista messo lì come modello cittadino, nonostante fino all'ultimo abbia
rivendicato sornione lo sposalizio con una dodicenne e vari tentativi di
depistare la verità.
Una
cosa evidentemente diversa è invece esercitare pressioni affinché a un autore
dalle tesi controverse venga tolto il dottorato senza un robusto confronto
accademico; quando un produttore cinematografico o un editore rinunciano al
film o al libro già finito per paura dei forconi del web, come nel caso del
memoir di Woody Allen; quando una persona già proclamata innocente dai tribunali
viene esclusa dal dibattito secondo parametri di lesa morale da gruppi
accademici iper-politicizzati e molto spesso disinteressati a costruire una
tenda comune per le proprie idee.
Se
alla base di queste manifestazioni c'è una forte insofferenza per un confronto
pacato, un conto sono le reazioni a qualcosa che viene percepito come un
modello ingiusto – razzista, misogino o sessista – imposto dall'establishment;
un
altro paio di maniche è interpretare le affermazioni altrui sempre e
invariabilmente nel modo più imperdonabile, mobilitandosi per farle cancellare
alla ricerca di una purezza di difficile raggiungimento (se esiste, è difficile
che sia umana).
Un
discorso del genere si può fare anche per il #MeToo: se l'esclusione dal consesso civile
di Harvey
Weinstein è
stata cosa buona e giusta da qualunque lato lo si guardi, utilizzare le piattaforme social
network per lanciare accuse senza prove, magari su fatti lontani nel tempo, o
approfittare del mercato selvaggio del lavoro americano per chiedere lo scalpo
di carnefici veri e presunti è, nei fatti, un rischio: lo
è stato accusare l'attore Aziz Ansari, oggetto di un'accusa infamante per un
appuntamento che ha deluso le aspettative di una ragazza due anni fa. O, cambiando tema, si pensi al camionista Emmanuel
Cafferty, licenziato e mandato dallo psicanalista perché in una foto in cui era
stato ritratto per uno scherzo aveva fatto il segno ok con la mano, e il gesto
era stato prontamente scambiato per un saluto suprematista bianco.
“Un uomo può imparare dagli errori che fa” –
ha detto Cafferty – “ma cosa pensano che debba imparare da questa cosa? È come
essere colpito da un fulmine”.
In
Italia, un paese dove senatori che hanno citato i Protocolli dei Savi di Sion
sono ancora al loro posto, dove programmi tv che meravigliano gli stranieri
mettono scherzosamente contro “italiani” e “stranieri” con vallette seminude e
presentatori maschi in giacca e cravatta, dove professori universitari possono
lasciarsi andare a ogni tipo di violenza verbale sui social senza subire
conseguenze, può sembrare paradossale preoccuparsi della libertà di parola: da noi alcune defenestrazioni
sarebbero fantastiche, e lungamente attese. Ma il rischio di importare
passivamente alcune pratiche americane in Europa è quello di rendere il
cambiamento possibile soltanto su un piano simbolico, non separando il grano
dal loglio e alienando nel contempo un numero crescente di ipotetici alleati
per accelerare i progressi in campo sociale.
Come
ha ricordato l'autore Alessandro Lolli, il fatto che la” cancel culture “venga additata (da
almeno un decennio) “come il veleno che la sinistra di internet stava
inoculando nella società” non è un buon motivo per negarne l'esistenza.
È
ingenuo e profondamente scorretto sostenere che il fenomeno non sia altro che
un “diritto
alla critica”, un rendere responsabili le persone per le loro azioni. Soprattutto
quando questa responsabilizzazione da un lato è mediata da multinazionali doppiogiochiste
e dall'altro, tra le persone comuni, sovente manca di qualsiasi criterio di
proporzionalità. Parlare oggi, persino durante una pandemia, di cancellazioni, definirne i
confini, è il modo migliore per evitare che lo facciano altri. E anche quello per guardare più
spesso i nostri simili come esseri umani capaci di essere persuasi, piuttosto
che come nemici da punire.
Confusione
mainstream.
Non
c’è pensiero unico su cosa sia il pensiero unico.
Linkiesta.it-
Maurizio Stefanini-(21 ottobre 2021)- ci dice:
Da
Pippo Franco a Matteo Salvini fino a Papa Francesco, sono in molti a dire di
sapere cosa sia questa pericolosa dittatura culturale che impone alle persone cosa
pensare.
Alcuni
la definiscono neoliberista, altri statalista, altri ancora antifascista.
«Che
vi sia, ciascun lo dice; dove sia, nessun lo sa».
Quel che 290 anni fa Metastasio diceva della fede
degli amanti e dell’araba fenice, potremmo ora applicarlo al pensiero unico.
Chi vi
sia, ciascun lo dice. È una specie di pensiero unico, che vi sia un pensiero
unico: malvagio, per di più. Quale sia, è vero, in molti dicono di saperlo. Però qua il pensiero unico sul
pensiero unico viene meno, perché per ognuno è qualcosa di diverso.
Attingiamo,
rigorosamente a casaccio, dai media degli ultimi giorni. «Il pensiero unico c’è ed è quello
del neoliberismo», scrive ad esempio il 18 ottobre sul Fatto nientemeno che il Vice Presidente emerito della
Corte Costituzionale Paolo Maddalena.
Secondo
lui, «la
propaganda neoliberista ha talmente offuscato le menti degli italiani da
impedire non la manifestazione del pensiero, ma la stessa formazione di questo,
rendendo inutile addirittura l’articolo 21 della Costituzione per mancanza del
suo presupposto, cioè della pluralità di pensiero».
Si
potrebbe obiettare che semmai insistere a usare il termine «neoliberismo»
invece del corretto
«liberismo»
italiano, solo per stare dietro al calco di uno spagnolo «neoliberalismo», da noi arrivato attraverso
ambienti terzomondisti, potrebbe essere considerato indice di pigrizia mentale.
Ma
tant’è. Il
fatto è che, secondo il ragionamento di Maddalena, manifestazione di «pensiero
unico» sarebbero le proteste dei No Vax! Sì, proprio quelli secondo i quali
invece sono
Green Pass e vaccini l’imposizione di una «dittatura sanitaria», manifestazione
di un «pensiero unico» Big Pharma che, anzi, in alcune interpretazioni sarebbe
esso stesso frutto del «neoliberismo» dei padroni del mondo.
«Ciò è
avvenuto al porto di Trieste, dove si manifestava, con poco approfondimento
della realtà economico-sociale del momento, contro il Green Pass e dove sono
arrivati in massa i No Vax, i No Green Pass, alcuni soggetti ammalati di
protagonismo che vogliono sfruttare la situazione per emergere politicamente,
nonché infiltrati di destra e di sinistra», continua Maddalena.
Dunque,
secondo lui, «nel difetto di un pensiero chiaro e plurimo può avvenire di tutto, e a Trieste,
una manifestazione dalle non chiare finalità, ha richiesto lo sgombero dei
manifestanti medianti gli idranti della polizia. E così tutto è tornato come
prima».
Per
Maddalena i No Vax sono «pensiero unico» perché sono No Vax. Per i No Vax
Maddalena è «pensiero unico» perché Pro Vax. Ma cosa c’entrano i No Vax con il
«neoliberismo»?
Secondo
Maddalena, «fatto
gravissimo è che i politici, alla pari dei manifestanti, dimostrano di aver
perso il discernimento e di essere vittime anch’essi, sia quelli della maggioranza che
quelli dell’opposizione, di soggiacere alla pesantissima incombenza del
pensiero unico dominante. È bene chiarire che tale pensiero ha occupato totalmente
il settore dell’economia e si poggia sulla teoria neoliberista, che vuole (e lo sta facendo) trasferire le fonti di produzione di
ricchezza nazionale dalla proprietà pubblica del popolo nelle mani di pochi
speculatori,
che devono agire in concorrenza tra loro, mentre viene vietato l’intervento
dello Stato-Comunità, cioè del popolo, nell’economia. Insomma obiettivo del neoliberismo è
l’eliminazione del popolo, il crollo dello Stato-Comunità, la distruzione del
senso di solidarietà fra i cittadini, in modo che ci siano soltanto singoli
produttori e singoli consumatori».
Da
quel che si capisce, i No Vax sono «pensiero unico» perché protestano contro
vaccini e Green Pass, piuttosto che contro le scelte «neoliberiste». «Mentre si protesta contro il Green
Pass, ai lavoratori di un’azienda strategica quale la Whirlpool di Napoli
vengono confermati i licenziamenti. La stessa sorte è avvenuta per i dipendenti
di Alitalia».
Ma,
appunto, Alitalia è a sua volta un simbolo anche per coloro secondo i quali il
«pensiero unico» è piuttosto quello di uno statalismo e assistenzialismo per il
quale anche dopo l’ennesima morte e trasfigurazione si continua a spendere per
una compagnia di Stato.
«Alitalia
è viva e spreca intorno a noi» è ad esempio il saluto dell’Aduc. «Alitalia, ma
quanto mi costi!», è quello di Ulisse online. «Per 75 anni ha portato l’Italia
nel mondo (ed è costata allo Stato 13 miliardi)», quello del Messaggero. «L’ossessione della politica italiana
per l’era della compagnia troppo piccola per essere grande, e troppo cara per
essere low cost, è costata 13 miliardi di euro allo Stato», ricorda anche
l’Istituto Bruno Leoni proprio su Linkiesta.
Peraltro,
Maddalena parla di «pensiero unico neoliberista» proprio nel momento in cui Biden e l’Unione Europea stanno
stanziando somme in quantità per un massiccio intervento pubblico di risposta
alla pandemia che si configura davvero come un ritorno al New Deal di
Roosevelt.
Giusto
un paio di anni fa, però, era stato il presidente messicano Andrés Manuel López
Obrador a uscirsene che sarebbero «colpa del neoliberalismo» pure i femminicidi.
Né
mancano una quantità, di analisi secondo le quali è colpa del «neoliberismo» o
«neoliberalismo» pure il Covid: manco non fosse stato scatenato dalla mancanza di trasparenza
di un regime comunista, ancorché “di mercato”!
Comunque
secondo Andrea Bernaudo, candidato sindaco che per i Liberisti Italiani ha
preso a Roma 1.046 voti, «noi liberisti in Italia ci sentiamo degli eretici rispetto al
pensiero unico dominante statalista, socialista, corporativo e contro le
libertà economiche». Ma, appunto, a riprova che poi per ognuno il «pensiero
unico» è cosa diversa, sul Giornale Marco Gervasoni appioppa il termine alla
fissazione dell’antifascismo.
O
meglio, in realtà non è che la locuzione appare nell’articolo: una requisitoria contro «l’uso
politico della storia, cioè propaganda, clava mediatica usata contro il
centrodestra dal mainstream, che è quasi totalmente di sinistra», che magari potrebbe anche essere
condivisibile, se si aggiungesse che spesso chi si lamenta per l’abuso dell’antifascismo
nelle campagne elettorali finisce per dare del comunista in modo altrettanto
isterico.
Però,
appunto, ha pensato di ricorrere al termine il titolista. E probabilmente
«mainstream» è davvero quello il modo migliore per tradurlo. «Il mainstream del pensiero unico»
dice infatti direttamente qualcun altro. Chi? Il comunista Marco Rizzo, secondo
cui questo «pensiero unico controlla l’Europa Unita».
Dunque,
il «pensiero unico» oltre che neoliberista, statalista e antifascista può
essere anche anticomunista. «Viviamo periodo cupo con pensiero unico», osserva anche
Salvini. Stando
anche il suo partito in un governo di larghissime intese, va letto come
autocritica?
«In
Europa la presenza di Dio è annacquata dal pensiero unico», dice pure Papa
Francesco.
«L’Uaar si distingue dalla
maggior parte delle religioni anche perché non aspira a “omogeneizzare” il
pensiero dei suoi aderenti. Anzi, è contraria a ogni forma di pensiero unico,
in qualsiasi campo lo si voglia imporre» gli risponde l’Unione degli Atei e
degli Agnostici Razionali.
«Vi svelo il pensiero unico della
sinistra» è stata pure una chiave della campagna elettorale con cui Pippo
Franco ha preso 32 voti. E, sempre pescando a caso, troviamo un duro attacco alla «economia capitalista, pensiero unico
oggi dominante» da parte, non di un Centro Sociale, ma di Radio Radio: quella da cui
veniva il candidato del centro-destra romano Enrico Michetti.
Su cui
ancora ferve il dibattito: perché ha perso? Già. Perché?
Il
regime del “pensiero unico”.
Ilgiornale.it-
Marco Gervasoni-(10 Ottobre 2021)- ci dice:
Lo diciamo
da docenti universitari di storia contemporanea: basta con tutta questa litania
sul fascismo, sull'Italia che non avrebbe fatto i conti con il regime, sugli
eredi del Duce a cui sarebbe chissà perché preclusa una candidatura: in una
parola, su questo continuo guardare indietro.
Tipico di un paese anagraficamente anziano,
con élite vecchie anche mentalmente e in cui i giovani sono considerati delle
fastidiose anomalie.
Che poi non è neanche storia, questo continuo
cianciare di fascismo, ma è uso politico della storia, cioè propaganda, clava
mediatica usata contro il centrodestra dal mainstream, che è quasi totalmente
di sinistra.
Inoltre
pur con tutto il parlare di fascismo, nell'ultimo ventennio gli studi storici
sul regime non hanno marcato nessuna evoluzione: più si strumentalizza il
fascismo, meno lo si conosce. Come non se ne può più della
protervia di chi si erge a rilasciare patenti di antifascismo, ora soprattutto
nei confronti di Giorgia Meloni e di Fratelli d'Italia.
Abbiamo
già scritto giorni fa qui che possiamo dirci antifascisti in quanto
anticomunisti: come Luigi Sturzo, Randolfo Pacciardi, Edgardo Sogno, Mario
Scelba e tanti altri. Ma l'intervista che Giorgia Meloni ha
rilasciato ieri al Corriere della sera dovrebbe chiudere la questione. La
presidente di Fratelli d'Italia ripete (sottolineiamo, ripete) la condanna del
regime fascista già espresso tante volte, e pure sullo stesso giornale nel 2006.
Ha
ripetuto che dentro Fratelli d'Italia non vi sono né antisemiti né neofascisti:
e non basta qualche personaggio folcloristico ripreso dai video. Folclore per
folclore, andiamo a vedere nelle sezioni del Pd in Toscana o in Emilia Romagna.
Laddove esistono vie e busti dedicato a Lenin, e nessuno ha nulla da fiatare.
Così come nessuna ha rimproverato Zingaretti perché in un suo libro del 2019 ha
elogiato il regime sovietico: quello dei gulag, della censura, degli stermini.
E vogliamo parlare di dirigenti come Pier Luigi
Bersani, abbastanza maturi da aver fatto parte del Pci, per decenni finanziato
dai regimi rossi, che peraltro puntavano i loro missili su di noi?
Se c'è
qualcuno che dovrebbe invocare l'oblio della storia, dovrebbero essere i post
comunisti. Per
parafrasare il grande storico Marc Bloch sulla Rivoluzione francese, è il tempo
di dire agli intellettuali «Fascisti, antifascisti noi vi chiediamo grazia: per
pietà, diteci, semplicemente, cosa fu il fascismo».
E ai
politici di sinistra chiediamo di entrare finalmente nel XXI secolo.
Politicamente
corretto,
le cinque varianti delle parole.
Repubblica.it-
Luca Ricolfi-(31-ottobre 2021)- ci dice:
Come
il linguaggio “giusto” si è trasformato in qualcosa di radicalmente diverso e
assai più pericoloso per la convivenza democratica.
Quando,
esattamente, sia nato il “politicamente corretto” nessuno lo sa. Sul dove, invece,
siamo abbastanza sicuri della risposta: negli Stati Uniti. La sinistra americana, un tempo
concentrata – come la nostra – sulla questione sociale, ossia sulle condizioni
di lavoro e di vita dei ceti subalterni, a un certo punto, collocato tra le
fine degli anni ’70 e i primi anni ’80, ha cominciato a occuparsi sempre più di
altre faccende, come i diritti civili, la tutela delle minoranze, l’uso
appropriato del linguaggio. Lo
specifico del politicamente corretto delle origini era proprio questo: riformare il linguaggio.
Questa
posizione, profondamente idealistica e anti-marxista, condusse, nel giro di un decennio, a conferire una centralità assoluta
ai problemi del linguaggio, e a creare un fossato fra la sensibilità dei ceti
istruiti, urbanizzati, e tendenzialmente benestanti, e la massa dei comuni cittadini, impegnati con problemi più terra
terra, tipo
trovare un lavoro e sbarcare il lunario. Fu così che venne bandita la parola “negro” (sostituita con nero), e per decine
di altre parole relativamente innocenti (come spazzino, bidello, handicappato,
donna di servizio), vennero creati doppioni più o meno ridicoli, ipocriti o
semplicemente astrusi: operatore ecologico, collaboratore scolastico, diversamente
abile, collaboratrice familiare.
In
Italia, che io ricordi, solo Natalia Ginzburg ebbe il coraggio e la lucidità di
notare, fin dai primi anni ’80, l’ipocrisia e la natura anti-popolare di questa
svolta linguistica, che non solo preferiva cambiare il linguaggio piuttosto che
la realtà, ma
creava una frattura fra linguaggio pubblico e linguaggio privato, fra l’élite dei virtuosi utenti della
neo-lingua e i barbari che continuavano a chiamare le cose come si era fatto
per secoli e secoli senza che nessuno si offendesse.
Ebbene,
questa storia a noi può sembrare ancora attuale, ma è una storia del secolo
scorso. Chi
crede che, oggi, il politicamente corretto sia usare una parola giusta al posto
di una sbagliata si è perso la parte più interessante del film. Un film che in Italia è ancora alle
prime battute, ma in America è andato molto avanti, in un tripudio di scene estreme e di
effetti speciali.
(La
Crusca: schwa e asterisco? Meglio il maschile plurale-di Ilaria Zaffino-24
Settembre 2021).
Oggi
il politicamente corretto si è trasformato in qualcosa di radicalmente diverso,
e assai più pericoloso per la convivenza democratica. Il politicamente corretto di oggi
sta al politicamente corretto delle origini come le varianti più recenti del
virus stanno al virus originario (quello di Wuhan). Per capire perché dobbiamo
individuare le mutazioni che, nel giro di un ventennio, lo hanno completamente
trasformato.
La
prima mutazione (da cui la variante alpha) è intervenuta all’inizio del XXI
secolo, con Internet e la creazione del nuovo spazio pubblico dei social. Fino a ieri, per risentirti se uno
ti chiama spazzino dovevi incontrare una persona in carne e ossa, e accorgerti
della sua eventuale intenzione di offenderti. Oggi, se navighi su Internet o stai
sui social, hai mille occasioni quotidiane per offendere e sentirti offeso. L’arena dei social, dove imperversano
volgarità e offese alla grammatica, è un perfetto brodo di coltura delle
suscettibilità individuali. Lo ha descritto benissimo Guia Soncini nel suo ultimo libro
(L’era
della suscettibilità, Marsilio). La variante alpha è la più trasmissibile.
La
seconda mutazione (da cui la variante beta) è l’espansione della dottrina del
“misgendering” in tutti gli ambiti.
Che
cos’è il misgendering? È chiamare qualcuno con un genere che non gli va, ad
esempio maschile se è o si sente una donna (o viceversa); o plurale maschile
(cari colleghi) se ci si riferisce a un collettivo misto. Secondo le versioni più demenziali
della correttezza politica in materia di generi, assai diffuse nelle università
americane,
i professori dovrebbero chiedere ad ogni singolo allievo come preferisce essere
indicato: he, she, zee, they, eccetera.
Gli
epigoni meno dotati di senso del ridicolo, da qualche tempo attivi anche in
Italia, aggiungono regole di comunicazione scritta tipo usare come carattere
finale l’asterisco * (cari collegh*), la vocale u (gentilu ascoltatoru), o la
cosiddetta schwa (?) (benvenut? in Italia) per essere più “inclusivi”, ovvero non escludere o offendere
nessuno.
La
nascita di codici di scrittura “corretti” procede, anche in Italia, in modo del
tutto anarchico, in una Babele di autoproclamati legislatori del linguaggio,
che si arrogano il diritto di dirci come dovremmo cambiare il nostro modo di
esprimerci, non solo riguardo ai generi ma su qualsiasi cosa che possa
offendere o turbare.
Università,
istituzioni culturali, aziende, compagnie aeree, associazioni LGBT, spesso in
disaccordo fra loro, fanno a gara e sfornare codici di parola cui tutti – se
non vogliamo essere accusati di sessismo-razzismo-discriminazione – saremmo
tenuti a adeguarci.
(Silvia
Ferrara: "A colpi di vocali non si cambia la realtà". Maurizio
Crosetti-28 Agosto 2021).
Fra i
più deliranti di tali codici quelli emersi recentemente nell’industria delle
comunicazioni audio e in ambito informatico. D’ora in poi un operaio, se non
vuole essere accusato di sessismo, non potrà più parlare di jack maschio e jack femmina, e dovrà sostituire questi termini con spina e presa.
Quanto
agli informatici, guai parlare di architettura master-slave, che evocherebbe il
dramma della schiavitù. E guai pure a parlare di quantum supremacy (supremazia dei calcolatori
quantistici su quelli tradizionali): la parola supremacy è proibita,
perché rischia di evocare il suprematismo bianco.
La
terza mutazione (da cui la variante gamma) è la cosiddetta cancel culture, secondo cui tutta l’arte e la
letteratura, compresa quella del passato, andrebbe giudicata con i nostri
attuali parametri etici, e censurata o distrutta ogniqualvolta vi si trovano
espressioni, immagini, o segni potenzialmente capaci di turbare la sensibilità
di qualcuno.
Le case editrici si dotano di sensitivity readers, che passano al setaccio i
manoscritti non per valutare il loro valore artistico, ma per vedere se contengono anche la
minima traccia di idee che potrebbero urtare qualcuno.
Le
statue dei grandi personaggi del passato vengono distrutte o imbrattate. I dipinti di Paul Gaugin vengono
censurati perché il pittore aveva sposato una minorenne.
Il finale della Carmen di Bizet viene
capovolto, perché nel finale la protagonista viene uccisa da don Josè, e noi
non ce la sentiamo di mettere in scena un femminicidio (ma un omicidio messo in
atto da una donna sì).
La
quarta mutazione (da cui la variante delta) è la discriminazione nei confronti
dei non allineati.
Professori,
scrittori, attori, dipendenti di aziende, comuni cittadini perdono il lavoro, o
vengono sospesi, o vengono sanzionati, non perché abbiano commesso scorrettezze
nell’esercizio della loro professione, ma perché in altri contesti, o in
passato, hanno espresso idee non conformi al pensiero dell’élite dominante.
Non
solo: nella politica delle assunzioni, in particolare nelle facoltà
umanistiche, vengono esclusi gli studiosi non allineati all’ortodossia politica
dominante.
(La
lingua italiana non si cambia con l’asterisco. Simonetta Fiori-07 Agosto 2021).
La
quinta mutazione (da cui la variante epsilon) è forse la più preoccupante.
È la
cosiddetta identity politics.
Un complesso di teorie, filosofie,
rivendicazioni, secondo cui quel che conta veramente non è che persona sei ma a quale minoranza oppressa appartieni.
Da qui
derivano le idee più strampalate, ad esempio che per tradurre un romanzo di una
autrice nera tu debba essere nera (è successo).
Che per parlare di donne tu debba essere
donna; per parlare di omosessualità essere omosessuale; per parlare dell’Islam
essere islamico; per parlare dell’Africa essere africano. Se osi parlare di
qualcosa senza essere la cosa stessa sei accusato di «appropriazione
culturale».
Ma da
qui deriva, soprattutto, l’idea che nell’accesso a determinate posizioni non
contino il talento, la preparazione, la competenza, le abilità, l’esperienza,
ma che cosa hanno fatto i tuoi antenati.
Se
sono maschi bianchi eterosessuali devi lasciare il passo a chi ha antenati più
in linea con l’ideologia dominante.
Perché
i discendenti delle minoranze doc hanno diritto a un risarcimento, e i
discendenti dell’uomo bianco (anche se non hanno alcuna colpa) devono pagare
per le colpe, vere o presunte, dei loro progenitori colonialisti, oppressori,
schiavisti, in ogni caso privilegiati.
(Politicamente
corretto. “Caro Maggiani l’asterisco è un diritto civile”. Paolo Di Paolo-12 Luglio 2021.)
All’ideale
dell’eguaglianza, generosamente perseguito da Martin Luther King, che pensava
che tutte le differenze di razza, etnia, genere dovessero diventare irrilevanti,
perché a contare dovevano essere solo le altre differenze (quelle che fanno di
ogni individuo quel che è, con i suoi pregi e i suoi difetti), subentra l’idea
opposta che solo le differenze di razza, etnia, genere contino.
Lo
scopo delle grandi istituzioni educative, a partire dalle università, non è più
promuovere la conoscenza e ricercare la verità, ma combattere le ingiustizie
sociali, riequilibrando le diseguaglianze con azioni positive, che privilegiano
determinate minoranze e penalizzano maggioranza e minoranze non protette,
prescindendo dai meriti e dalle capacità di ogni individuo.
Così
la parabola della “cultura liberal”(Dem Usa) si compie.
L’ideale di Martin Luther King e di tanti leader
illuminati del passato (compreso Barack Obama), sconfiggere le discriminazioni
con l’eguaglianza, si capovolge nel suo contrario: instaurare l’eguaglianza attraverso
le discriminazioni.
(Politicamente
corretto. Maurizio Maggiani: "Io non sono un asterisco"- Maurizio
Maggiani-05 Luglio 2021).
La
dittatura del
politicamente corretto.
Quasidi.com-
Redazione-(09/10/2020 )-ci dice:
Oggi
non si può più dire nulla, il moralismo sta mortificando la libertà
d’espressione, il bigottismo censura l’arte, il dialogo tra uomini e donne è
diventato impossibile!
La
dittatura del politicamente corretto ci sta soffocando tutti? Stiamo diventando
vittime di un perbenismo linguistico che censura e omologa le nostre opinioni?
Ne
parliamo nel nuovo episodio di Quasidì in cui partiamo, come sempre, dalle
basi: cos’è
davvero il politicamente corretto e quali effetti ha sulla nostra libertà di
parola?
Trascrizione
della puntata.È un calco dalla locuzione angloamericana politically correct. Nasce
infatti in ambito statunitense, intorno agli anni 30 del Novecento ma assunse
dimensioni significative soprattutto dagli anni 80 quando si riuscirono a
sradicare delle consuetudini linguistiche ritenute offensive nei confronti
delle minoranze (fu allora che, ad esempio, afroamericano sostituì la “n” word). Infatti la battaglia principale del
politicamente corretto è proprio quella sulla lingua e su un uso più rispettoso
del linguaggio.
Il politicamente
corretto nasce quindi in un contesto progressista, di sinistra, e trova terreno
fertile specialmente nei college americani in cui si propugnava l’idea
dell’università come grande luogo di promozione della giustizia sociale.
Proprio qui cominciarono a diffondersi dei precisi
regolamenti verbali (gli speech codes) che sottoponevano a sanzioni
amministrative tutti coloro che si fossero abbandonati a un linguaggio
razzista, sessista, omofobo ecc…
Leggiamo
qualche esempio su Treccani. Sul piano economico e sociale i paesi del terzo mondo sono
denominati in via di sviluppo, la ottimizzazione delle dimensioni aziendali o
la ridistribuzione delle risorse umane sostituiscono il licenziamento di massa,
le categorie svantaggiate come i poveri sono designate non abbienti,
imprenditori si preferisce a padroni.
In generale sono da evitare le forme non
marcate dal punto di vista del genere (diritti della persona al posto di
diritti dell’uomo); oppure espressioni tradizionalmente connotate in modo discriminatorio,
ad esempio
per quanto riguarda i nomi delle professioni (come bidello o becchino, a cui si
dovrebbero preferire espressioni neutre come operatore scolastico e operatore
cimiteriale).
È
vero: certe forzature appaiono paradossali e anche ridicole nel loro tentativo
di purificare in maniera coatta la lingua dei parlanti. Il linguista Arcangeli riporta dei
casi eclatanti. “A Santa Cruz un amministratore dell’Università di California si è
scagliato contro espressioni quali a nip in the air ‘un freddo pungente’ e a
chink in one’s armor ‘un punto debole’ «perché contengono vocaboli che in altre
accezioni esprimono disprezzo razziale».
Nell’inglese
d’America, infatti, “nip” è termine denigratorio per ‘giapponese’, “chink “termine denigratorio per ‘cinese’. Sarebbe come se da noi, variatis
variandis, qualcuno proponesse di bandire dall’uso una parola come finocchio soltanto perché in uno dei suoi
significati è voce spregiativa per indicare un omosessuale”.
Il
detrattore più famoso delle derive più ottuse del politicamente corretto è
sicuramente il critico d’arte Robert Hughes che pubblica nel 1993 “La cultura del piagnisteo”. Secondo questa dottrina – mai
apertamente enunciata ma ferocemente applicata –, tutto deve essere politicamente
corretto: dai comportamenti sessuali ai gusti letterari, al modo di parlare, di
vestirsi, di scrivere. Esisterebbe dunque un modo giusto di fare le cose,
consistente anzitutto nell’adeguarsi ai desiderata di gruppi facinorosi e
lamentosi d’ogni sorta, pronti a compattarsi in una maggioranza inquisitoria.
Un
approccio più sistematico arriva invece dallo studioso Jonathan Friedman nel
saggio “Politicamente corretto”. L’antropologo spiega: il politicamente corretto non è una
questione di censura o ipocrisia linguistica, ma un più profondo fenomeno sociale,
antropologico e politico.
E’
«una forma di comunicazione e di categorizzazione», un regime linguistico e
sociale relativamente indipendente dall’orientamento politico, infatti è usato
sia a destra sia a sinistra, quindi è una forma o una struttura, non un
contenuto ideologico.
Secondo
Friedman il politicamente corretto si basa sulla «cultura della vergogna» ovvero è un atteggiamento
autocensorio di omologazione (non dico la parola x altrimenti gli altri mi
marginalizzano e mi giudicano).
Ma è anche connesso a un uso del linguaggio «associativo
e classificatorio».
Citiamo
qui un articolo di Daniele Lo Vetere che analizza molto da vicino l’opera
di Friedman e che ci fa capire cosa s’intende per uso associativo e classificatorio
del linguaggio.
“Incerti sulla nostra identità e sulla
posizione che gli altri hanno rispetto a noi, prima ancora che considerare
quello che ci stanno dicendo e la loro intenzione, abbiamo bisogno di capire da
che posizione parlino e quali scopi extra-linguistici perseguano: dobbiamo scoprire i segni della loro
personalità o della loro appartenenza a un gruppo o a un’ideologia, e, con
essi, il valore sociale e d’uso delle loro parole (…) Le parole non vengono più
prese stricto sensu, ma sono associate ai concetti contigui, in orizzontale o
in verticale, per creare categorie ed etichette generali entro cui sussumere
una varietà di fenomeni.
In questo modo, dire “forse gli immigrati sono troppi” sarà interpretato come “certamente gli immigrati sono troppi”, quindi “gli immigrati non mi piacciono”,
quindi “sei razzista”.
Ecco
cosa vuol dire uso associativo.
Cioè
si associano espressioni, termini e appellativi a tratti ideologici, culturali
e politici del parlante. Se uso certi termini vengo incasellato in un determinato
ruolo. Se uso la parola zingaro, se uso la parola ebreo ecc..
Chiaramente
questo è un problema perché la realtà è infinitamente più sfaccettata e
soprattutto il linguaggio è molto più complicato. Prendiamo sempre ad esempio
Arcangeli.
“Tempo fa, nella veste di responsabile
del progetto di un dizionario minimo di sinonimi commissionatomi proprio
dall’Istituto Treccani, mi sorpresi a riflettere sulla scelta non molto felice
di un mio redattore, che aveva ritenuto opportuno inserire tra i sinonimi di
avaro il termine ebreo.
Optai
decisamente per il depennamento e oggi rifarei, senza la minima esitazione, la
medesima scelta. Ma il problema resta. Sul piano sincronico, anzitutto: perché i dizionari dell’uso
continuano a segnalare il termine ebreo nel significato di ‘avaro’ e in quello,
semanticamente affine, di ‘usuraio’, nel migliore dei casi limitandosi ad
accompagnare alla registrazione un giudizio morale.
E sul piano diacronico, poi: perché lo stesso termine, negli
stessi significati, è stato recepito dai nostri classici, da Foscolo a
Carducci, ed è autorizzato dalla storia.
Sarebbero
allora da censurare scrittori scomodissimi e controversi come Louis-Ferdinand
Céline, un Fëdor Michajloviã Dostoevskij, un Guy de Maupassant e, naturalmente,
un Thomas Stearns Eliot o un Ezra Loomis Pound”.
Non è
semplice avere delle risposte definitive a problemi di questo tipo. Abbiamo capito che il punto focale
del politicamente corretto è la sensibilità linguistica che si fa specchio di
una sensibilità culturale, una sensibilità culturale in continuo mutamento.
Cosa
succede allora oggi e perché si parla così insistentemente di censura e
bigottismo? O addirittura di neolingua, con riferimenti inquietanti a 1984 e al
Grande Fratello.
Cominciamo
col dire che i talebani dell’anti-discriminazione rimangono comunque in
minoranza rispetto a chi discrimina quindi il problema più grande al momento
rimane sempre la discriminazione stessa. Ancora oggi la quantità di contenuti
a forte connotazione razzista che viene prodotta consapevolmente o meno è
ancora sconvolgente.
Soltanto negli ultimi mesi abbiamo discusso di
black-face grazie all’abbronzatura del nostro Ministro degli Esteri, Luigi Di
Maio ma anche in occasione di un’esibizione in diretta sulla Rai al Tale e
quale show in cui hanno ben pensato di dipingere la faccia di una cantante
bianca di nero.
Per
chi non lo sapesse la black-face – nata nel 19esimo secolo – consiste nel
truccarsi in modo marcatamente non realistico per assumere le sembianze
stilizzate e stereotipate di una persona nera, con un evidente intento
denigratorio.
Se ci
fosse veramente una dittatura, tutto questo sarebbe impossibile invece purtroppo ci
ritroviamo ogni giorno quando va bene a denunciare pubblicità sessiste e a
segnalare tweet di dubbio gusto intellettuale, quando va male a cercare di capire
perché ancora nel 2020 c’è bisogno di dire che black lives matter.
Chiarito
questo punto per cui no, non potete parlare di attacco feroce alla libertà
d’espressione se qualcuno vi dice di non usare appellativi ingiuriosi, possiamo
però cercare di capire gli aspetti più problematici e critici della
discriminazione. Perché sì, è vero che spesso si accusano le persone con troppa
superficialità quando è utile capire come e perché si usano certi termini e
spiegare perché non si dovrebbe invece di dire che no, non si usano e basta.
Partiamo
dal presupposto che l’avvento di Internet e dei social ha portato a un cambio
di paradigma epocale perché ha essenzialmente dato voce a chiunque e in
particolare ha facilitato l’esposizione di categorie e gruppi fino a quel
momento marginalizzati o per meglio dire invisibili, non rappresentati dalla
narrazione dominante.
Questo
ci ha giustamente esposto a sensibilità diverse e ci ha fatto ascoltare pareri
che prima erano silenziati. Un importante premessa infatti è che il politicamente
corretto fallisce quando vuole proteggere un gruppo di individui discriminanti,
senza nemmeno chiedere un parere al gruppo in questione.
Ad
esempio quando si parla di disabilità, si tende ad usare l’espressione diversamente abile – come da prescrizione per il
politicamente corretto – ma siamo sicuri che le persone disabili siano contente di
questa definizione?
Non basta che suoni bene o male o che sia un
termine neutro. E’ decisivo imparare ad ascoltare. Ecco perché spesso ci si indigna
quando si invitano solo uomini a parlare di sessismo, è recentemente successo
in occasione del Premio Strega. Vedi alla voce: Valeria Parrella e Corrado
Augias.
Non
possiamo decidere da soli cosa è giusto e cos’è sbagliato, cosa è offensivo e
cosa non lo è. Bisogna chiedere alle categorie in questione. A volte è meglio
sospendere il giudizio o informarsi bene. Il dubbio quindi è certamente un
buon metodo d’azione. Purtroppo assai poco diffuso, si preferisce essere subito
tranchant e un po’ giustizialisti, specialmente in Rete.
E’ un
po’ l’atteggiamento di condanna e indignazione della cancel culture ovvero la
pratica di considerare morto o comunque di cancellare un personaggio pubblico a
seguito di affermazioni controverse o dichiaratamente discriminatorie.
Uno degli esempi più recenti e importanti è
legato alla famosa scrittrice J.K. Rowling, autrice della saga di Harry Potter.
Rowling
ha infatti espresso attraverso Twitter che le donne transessuali non sono vere
donne, sostenendo quindi una posizione fortemente transfobica anche grazie ad
altri tweet simili.
Le
critiche non si sono giustamente fatte attendere e le azioni intraprese sono quelle tipiche della cancel culture, ovvero togliere qualsiasi forma di
supporto alla persona in questione.
Dopo
le affermazioni dell’autrice è stata pubblicata una lettera, durante l’estate
del 2020 appunto, in cui molte figure di spicco legate al mondo della cultura,
tra cui Rowling stessa, criticavano la cancel culture come un’azione che
impedisce la libera circolazione delle idee, di come possa essere praticamente
accostata a idee di censura vicine alla destra di Trump che rappresenta, cito
“una vera minaccia per la democrazia”. Insomma, qui mi arriva il ribaltone, il
rigiramento di frittata ideologica per eccellenza.
La
lettera non è lunghissima, ma quello che sottolinea è che oh però insomma, se
certe persone vengono boicottate o criticate per quello che hanno detto
insomma, siete dei fascisti che ci tappano la bocca e noi, dall’alto della
nostra posizione di favore, dovremmo pur poter dire quello che pensiamo senza
conseguenze.
Certo,
una mancanza di dibattito è ciò che può dividere una dittatura da una
democrazia e dobbiamo imparare a esprimerci ed evolverci restando all’interno
di un contesto di rispetto reciproco.
Nella
lettera vengono citati esempi di conseguenze reali pagati da professori, autori
e critici che perdono il lavoro, non vengono più coinvolti o vedono i loro libri
ritirati. Ad
dirittura
viene scritto che alcuni responsabili perdono le loro cariche lavorative per
quelli che a volte sono “just clumsy mistakes”, solo goffi errori.
La lettera prosegue nella più totale spocchia
e nell’affermazione di un elitismo senza pari quando si sottolinea che autori,
artisti e giornalisti possono perdere i propri mezzi di sostentamento se osano
esprimere opinioni lontane da quelle più comuni e che a causa di governi
repressivi e società intolleranti a pagarne le conseguenze saranno soggetti non
in potere e la stessa possibilità generale di partecipare democraticamente.
Inoltre
la propria opinione controversa in realtà spesso non è altro che il riflesso di
un privilegio o la difesa di una posizione di potere. Il che rende tutto ancora
più paradossale, considerando che si vuole difendere la libertà di essere
controcorrente quando da una posizione dominante e maggioritaria si critica una
minoranza sottorappresentata, come nel caso della Rowling. Questa lagna si conclude nel
peggiore dei modi affermando che, cito “in quanto autori abbiamo bisogno di
spazio per poter sperimentare, prendere dei rischi, e sbagliare.
ùAbbiamo bisogno di preservare la
possibilità di un dissenso in buona fede senza catastrofiche conseguenze
professionali”. Beh certo, allora io inizierò a guidare contromano in
autostrada dicendo che sto sperimentando un nuovo modo di affermare la mia
libertà personale e se verrò multate e arrestata sarà solo perché non capite le
mie necessità.
Una
cosa che mi hanno insegnato alle elementari e che mi ripeto come un mantra è: “La tua libertà finisce dove inizia la
libertà altrui”.
No,
cari miei autori, non potete pensare di essere le vittime sacrificali di una
censura che vi lega le mani, non si tratta di una mancanza di dibattito, ma
semplicemente della capacità di riconoscere che in alcuni casi non si tratta di
un’opinione, ma di un insulto.
Negare
a una persona transessuale la sua identità non va bene.
Escludere,
imporre un pensiero, limitare l’espressione e l’affermazione altrui non sono un
“clumsy
mistake” e
non possono astenersi da una reazione avversa. Se le idee espresse offendono
qualcuno, questi sono insulti e un dibattito diventa tale quando chi ha
affermato qualcosa di offensivo si mette in gioco per capire l’altro punto di
vista.
L’enorme
problema di questa lettera sta proprio qui, affermare che si dovrebbe
permettere un’espressione di idee monodirezionale, dall’autore al pubblico, che
non dovrebbe prevedere alcun tipo di critica, anche quando queste idee sono
errate.
A furia
di manipolare concetti liberali e democratici hanno distorto totalmente il
significato di libertà d’espressione, diventando a loro volta coloro che non
vogliono mettersi in discussione.
Rimane
il fatto che nei paesi anglosassoni il concetto di politically correct è molto
più sentito che in Italia ed è vero che c’è molta più pressione sulle figure di
pubblico interesse a rispettare certi standard di correttezza, anche e
soprattutto sul web.
C’è
quindi un generale senso di iper-sorveglianza quando ci si espone
pubblicamente? Certamente.
Si
nota anche una tendenza a “calling out” ovvero a smascherare certi atteggiamenti, cercando nel
passato digitale di una persona espressioni problematiche o scivoloni che
possano appunto portare a serie conseguenze pubbliche.
Questa
aggressività è seriamente dannosa e fa il paio con una fortissima tendenza alla
radicalizzazione politica. Radicalizzazione da entrambe le parti sia da parte
dei paladini del politicamente corretto sia da parte dei suoi detrattori.
Anzi,
esasperazione verso il politicamente corretto e violenza verbale potrebbero
essere due cose strettamente legate.
Una delle frasi simbolo della scorsa campagna
elettorale di Trump è stata:
“Penso che il grande problema di questo Paese sia il
dover essere politicamente corretti”.
E non è il solo ad avere questa opinione.
La
stessa idea la ritroviamo nella propaganda di Johnson, Putin, Bolsonaro, Meloni
e moltissimi altri…sapete cos’hanno in comune tutti questi personaggi? Hanno un
linguaggio discriminatorio.
Come
si legge in un articolo di The Vision: l’odio per il politicamente corretto spesso si accompagna a
una violenza verbale senza precedenti. Non vedere in questo una sorta di
rigurgito reazionario è difficile. Citiamo dall’articolo:
“Dagli attacchi alla Boldrini al
Vaffaday.
Questa esigenza di esprimersi senza filtri fa da contraltare, o più probabilmente nutre, la
violenza sul web, sulla cui pervasività non si dovrebbero avere più dubbi e che
fa sempre più spesso uso del lessico fascista. Questo ricorso solleva due
riflessioni: una, sul modo in cui si comunica sulla rete e il monitoraggio che i
social applicano ai contenuti, ma soprattutto un’altra, sulla sempre più
sdoganata memoria positiva del fascismo, che mette in discussione la storia
come finora è stata raccontata, al punto che Giorgia Meloni, leader di Fratelli
d’Italia, può chiedere di cancellare la festa della Liberazione, asserendo che
“il 25 aprile è divisivo”, e presupporre quasi senza tema di smentita di
generare un dibattito serio, se non persino una proposta da considerarsi
formalmente”.
Il
nocciolo della questione alla fine però rimane questo: è più importante la libertà di
esprimersi nei modi e nei termini che più ci piacciono o è più importante non
offendere le persone?
Lo
vediamo ogni giorno, le frasi discriminatorie stanno davvero generando delle
conseguenze.
Battute che vent’anni fa venivano considerate normali, oggi hanno smesso di far
ridere e anzi generano un’ondata di sdegno. E’ anche legittimo chiedersi se
queste battute abbiano mai fatto ridere. Chi dovrebbe ridere? Sicuramente non
le persone discriminate. La verità è che questo tipo di umorismo è sempre stato
discriminatorio solo che prima c’era silenzio, oggi invece c’è la libertà di
dire che no, non vanno bene.
Anche
perché una scrittura veramente satirica e ironica è capace di mettere al centro
delle riflessioni importanti, facendo ridere. Secondo voi è il caso di alcune
battute da spogliatoio che i detrattori del politicamente corretto difendono a
spada tratta? Diciamocelo chiaramente: le battute di cattivo gusto esistono e spesso
esprimono solo violenza e preconcetti che vanno condannati.
Più
sottile è il discorso quando si parla d’arte. Spesso si dice che il politicamente
corretto decontestualizza l’arte dal periodo storico che l’ha prodotta, in
particolare quando critica e mette al bando le rappresentazioni artistiche
discriminatorie come è successo recentemente con il caso di Via col Vento.
A ben
vedere,
1) nessuno ha messo al bando via col vento, è
stato momentaneamente rimosso dal catalogo HBO per avere il tempo di inserire
un disclaimer sull’opera, a seguito anche del momento storico che stiamo
vivendo e del
movimento black lives matter ,
2) la
decontestualizzazione sta propria nell’accettazione acritica delle opere d’arte.
Se si
accetta il sessismo e il razzismo dei classici del passato, ritenendolo un dato
neutro, è lì che avviene lo scollamento e la normalizzazione di dinamiche
ingiuste.
Un po’
come è successo con la statua di Montanelli a Milano che è stata più volte
oggetto di deturpamenti. Per chi non lo sapesse, Montanelli è stato un giornalista
italiano che durante la guerra d’Abissinia, ha comprato per 350 lire una
ragazza di circa dodici anni dal padre e l’ha forzata, come ha ammesso lui
stesso, ad avere rapporti sessuali. Per questo sulla base della statua – che è stata
imbrattata con vernice rosa – è stata riportata la scritta: fascista stupratore.
Anche
lì si è urlato al vandalismo e alla decontestualizzazione storica dicendo che
erano altri tempi e bisogna comprendere. Peccato che paradossalmente è proprio
l’imbrattamento dello statua che ha portato alla luce il contesto e il fatto
storico. Altrimenti la statua non contestualizza proprio niente, anzi, ha un
intento puramente celebrativo e cancella la storia stessa. Ed è anche il motivo per cui nei
secoli, ciclicamente, i popoli abbattono e danno fuoco alle statue. Per riportare la questione al centro.
Nel
panorama mediatico, sono tanti gli artisti e le figure pubbliche che commettono
“infrazioni” di questo tipo. Un esempio tra tanti è il caso Apu dei Simpson, un
personaggio indiano caratterizzato principalmente in base agli stereotipi di
questa popolazione e doppiato, per di più, da una persona bianca.
Nel
2017 uscì un documentario dal titolo “The problem with Apu”, il problema con Apu, scritto dal comico Hari Kondabolu il
quale afferma anche come da bambino fosse felice di vedersi rappresentato
grazie a uno degli unici personaggi indiani in televisione all’epoca, ma che in
seguito iniziò a capire come problematico.
A
gennaio del 2020 l’attore Hank Azaria, storico doppiatore di Apu, ha dichiarato
che non avrebbe più prestato la sua voce per la serie animata e che la
decisione era condivisa da tutti e che sembrava la cosa più corretta da fare. I
l
problema qui è stato di avere una versione della black-face che è, ricordiamo,
la rappresentazione di una cultura non bianca da parte di una persona bianca.
Si è
fatto in buona fede? Benissimo, ma riuscire a riconoscere il problema a un
certo punto ci permette di evolvere il nostro pensiero, la nostra cultura e
l’accettazione di una diversità.
Pare
che il personaggio, a detta del creatore Groening, non verrà eliminato dalla
serie, ma bisognerà capire quale sarà l’evoluzione. Come abbiamo detto il contesto in cui
vengono fatte certe cose non deve essere dimenticato, ma non può nemmeno essere
una scusa per giustificare le azioni e le decisioni attuali o, peggio, la
mancata consapevolezza che quanto fatto non fosse adeguato. Perché dubito che
qualche indiano non si sia sentito offeso anche vent’anni fa, quando pensavamo
tutti fosse ok raccontare delle persone in un determinato modo.
Le
iniziative di censura e boicottaggio condotte nel nome della lotta a
discriminazioni e ingiustizie sono ormai all’ordine del giorno, tenere il conto
dei casi è praticamente impossibile, negli stati uniti queste iniziative
vengono indicate con il termine de-platforming (nel contesto britannico
l’espressione più diffusa è invece no-platforming). Il rischio di queste forme
di attivismo è quello di abbracciare anche nei suoi aspetti più dogmatici
la cancel culture, che abbiamo citato prima: un modo di agire inflessibile e categorico
che mette alla pubblica gogna chiunque commetta un’infrazione.
E
diciamolo: quando hai criteri così rigidi e aspiri all’assoluta correttezza e
alla purezza, nessuno può considerarsi degno e all’altezza di questi ideali. Il
che significa che tutto potrebbe essere potenzialmente cancellato.
Separare
artista e opera d’arte a volte è impossibile ma eliminare dal canone alcuni
autori è una semplificazione concettuale altrettanto problematica. All’inizio di quest’anno, a
febbraio, sono sorte molte critiche in seguito all’assegnazione del premio
César (gli equivalenti francesi degli Oscar americani) al regista Roman Polanski, notoriamente
accusato di violenze sessuali su un’aspirante attrice allora tredicenne negli
anni 70.
Durante
l’annunciazione l’attrice Adèle Haenel ha abbandonato la sala in segno di
protesta dopo che nei mesi precedenti aveva raccontato di esser stata anche lei
molestata sessualmente a 12 anni da un altro regista, Christophe Ruggia.
Ad
abbandonare la sala è stata anche la regista Céline Sciamma. Dopo le accuse Polanski è fuggito in
Francia senza possibilità di essere estradato per via della cittadinanza francese.
Voi
continuereste ad andare dal vostro panettiere di fiducia sapendo che ha
commesso crimini di natura sessuale su delle minorenni? Ecco, questo dovrebbe essere più o
meno il ragionamento da applicare anche in casi di maggior rilievo culturale,
per quanto anche il pane sia fondamentale nella nostra società. E non possiamo sempre introiettare
egoisticamente un fatto spiacevole per mostrarci più sensibili, pensare sempre
a “e se fosse successo a me” rischia di rendere sterile e molto egoista una
sensibilità verso il prossimo che dovremmo allenarci a sviluppare a prescindere
dal nostro coinvolgimento diretto.
Paolo
Armelli commenta su Wired: “Se da una parte quel premio a Polanski è sacrosanto perché
premia l’artista e non l’uomo, il regista e non il molestatore, per lei – e
molte donne come lei – non è che la giustificazione di un sistema corrotto, di
una società che troppo spesso nasconde la testa sotto la sabbia e finge di non
vedere certi atteggiamenti, o che peggio li accetta, li incorpora, li dà per
scontati. I
l
premio a Polanski da Haenel non può che essere interpretato come l’assoluzione
all’abuso di potere, di uno scenario diffuso in cui un adulto e rispettato
regista può disporre a piacimento della giovane attrice inesperta che pende
dalle sue labbra.
Sempre
Haenel, nell’intervista in cui ha raccontato la sua storia ha detto: “Il mostro
non esiste. È della nostra società che si sta parlando. Dei nostri padri,
amici, fratelli. E finché faremo finta di non vederlo non potremo andare avanti”.
E
allora se il cinema nei suoi salotti finge di non vedere, usa l’arte come
giustificazione, si dichiara al di sopra di certe questioni, e continua a non voler prendere
alcuna posizione politica, ben vengano tutte le contestazioni”.
Vorrei
concludere citando uno studio statunitense che indaga la diversità etnica e
culturale degli artisti ospitati dai più importanti musei degli USA.
Lo studio è stato condotto da tre esperti di matematica e statistica e
tre esperti di storia dell’arte. I ricercatori hanno esaminato oltre 40.000 opere
d’arte nelle collezioni di 18 musei negli Stati Uniti e hanno stimato che l’85%
degli artisti rappresentati in queste collezioni sono bianchi e l’87% sono
uomini.
Chiaramente
molti si lamentano del fatto che per far posto a nuovi artisti in nome della
diversità, potrebbero finire nel dimenticatoio altri artisti fino a quel
momento esposti.
E’ curioso che ci si rammarica sempre per
quanti artisti uomini il mondo possa perdere a causa del femminismo e non a
quante artiste donne abbiamo perso nel corso dei secoli a causa del patriarcato. Quanti artiste e artisti sommersi
dal sessismo e dal razzismo abbiamo perduto? Questa non sembra una questione
molto interessante per i difensori dello status quo.
Il
problema non è che non si può più dire niente, il problema è che dovremmo
imparare a far dire ad altri qualcosa, che possa esprimere il loro disagio, le
loro difficoltà e le loro esigenze.
La
Teoria Gender?… esiste. Eccome se esiste!
Provitaefamiglia.it-
Luca Marcolivio-(23/07/2021)- ci dice:
Gender e sessualità - Gender e LGBT.
«La
teoria del gender non esiste». O anche, semplicemente, «il gender non esiste».
È uno dei tanti artifici retorici utilizzati
dagli ideologi
lgbt,
secondo l’ormai collaudato metodo del “negazionismo tattico”, del “gettare il sasso e nascondere la
mano”.
Un
distinguo ricorrente è proprio quello del disconoscimento di una vera ideologia
organica, gerarchica e militarizzata in stile marxista. Questa impostazione – affermano gli lgbt – sarebbe il frutto di un’ossessione
dei conservatori e dei cattolici, che vedono gender ovunque. Vi sarebbero, al limite, dei gender
studies, ovvero una pluralità di teorie, non tutte necessariamente univoche,
quasi a conferma della “spontaneità” del fenomeno e della sua parvenza
scientifica.
Su
questa lunghezza d’onda, troviamo un saggio che ha fatto discretamente scuola
negli ultimi tre anni: La crociata ‘anti-gender’ dal Vaticano alle manif pour tous
(Kaplan, 2018), a cura di Sara Garbagnoli e Massimo Prearo.
L’“originalità”
del testo è proprio nella sistematizzazione delle critiche ai propri avversari,
accanto alla quale, però, spicca la totale assenza di una difesa della
ragionevolezza delle proprie teorie. Già
un paio d’anni fa, Pro Vita & Famiglia aveva evidenziato come la Garbagnoli
muovesse al Vaticano un’accusa essenziale: proporre una «visione essenzialista e
gerarchica» dell’uomo e della donna, contrapposto alla rivoluzione femminista, che – con
una quarantina d’anni d’anticipo rispetto all’ondata lgbt – utilizzava il concetto di “genere”
per contestare le vere o presunte disuguaglianze e discriminazioni.
Nel
loro saggio, però, Garbagnoli e Prearo assumono una posizione ideologica in
senso stretto, in quanto riconoscono alla Chiesa «una lucida consapevolezza
della portata sovversiva del concetto di genere», che diffonde così «una visione del mondo diametralmente
opposta a quella difesa dal Vaticano».
Non si
soffermano, dunque, in argomentazioni sulla scientificità delle loro posizioni,
semmai
enfatizzano la «rivoluzione femminista e LGBTQI», contrapposta alle idee reazionarie
dei fascisti, dei sovranisti, della Chiesa, ecc.
Una
Chiesa che, in questa operazione di resistenza al nuovo, si avvale della
complicità di un’ampia fetta di laici, non ultime le cosiddette femministe
“trans-escludenti” o TERF.
Una
sorta di complotto, dunque, ordito dal Vaticano, assieme ai suoi occasionali
sodali. E
la presenza delle femministe da una parte e dall’altra della barricata? Un
incidente di percorso, la nemesi o i nodi che vengono al pettine?
In
attesa che Garbagnoli e Prearo sciolgano questo dubbio amletico, lanciando uno
sguardo sull’attualità, vediamo un ddl Zan portato avanti forzatamente in Parlamento, con metodi ai
limiti del legittimo, partiti arroccati su posizioni ottusamente intransigenti
e senatori che chiedono “liste di proscrizione” per i colleghi che ostacolano
la gioiosa macchina da guerra arcobaleno. Ma l’ideologia gender, niente paura,
non esiste…
«La teoria del gender danneggia le donne»:
Marty
erede di Roland Barthes mette in guardia l'Occidente.
Ilmessaggero.it-
Francesca Pierantozzi-(4 Settembre 2021)-ci dice:
«Il
gender è l'ultimo messaggio ideologico dell'Occidente al resto del mondo», ci
dice Eric Marty.
Docente
di letteratura contemporanea all'Università di Parigi, amico e editore delle
opere complete di Roland Barthes, l'ultimo erede dei grandi strutturalisti non
vuole fare polemiche - assicura - ma soltanto il suo lavoro, ovvero: «fare luce sulle cose».
E la cosa è altamente infiammabile: l'identità di genere, la sua teoria e
la sua storia.
«Dissociare
il sesso biologico e il genere è un gesto moderno - dice Marty Ma è bene sapere
che il sesso si può decostruire anche senza ricorrere al gender».
Eric
Marty sa bene di cosa parla: dell'identità di genere lui conosce la preistoria,
il mondo intellettuale francese degli anni '70-'80, quello di Lacan, Derrida,
Barthes cui si sono ispirati i teorizzatori moderni del gender, prima fra tutti
l'americana Judith Butler.
Un
concetto all'inizio astratto, spiega Marty, che ha finito con avere «forza di
legge, instaurando nuove regole morali e modificando addirittura il linguaggio
(cisgender, genderfluid)». Attenzione, mette in guardia Marty, perché un
messaggio in apparenza emancipatore può trasformarsi «in una nuova morale
dominante» in cui, come accade «dai tempi dei libertini del 18esimo secolo, nel
mirino c'è sempre la donna».
Davanti
a un certo attivismo LGBT lei parla di una nuova morale dominante. Alcuni movimenti femministi
rimproverano alla teoria gender di voler decostruire non il sesso biologico in
generale, ma il sesso femminile.
Che ne
pensa?
«Tutti i movimenti di trasgressione
delle norme sessuali hanno avuto nel mirino il femminile, dai libertini del
18esimo secolo fino ai moderni degli anni '70. Il fenomeno Trans lo conferma,
in quanto il trans MtF (Male to Female, geneticamente di sesso maschile ma con
un'identità di genere femminile) è il nuovo soggetto che dovrebbe togliere alla
donna nata donna qualsiasi autorità sul femminile.
Abbiamo
visto la virulenta campagna contro la scrittrice J.K. Rowling che ha voluto
mantenere una frontiera tra la donna e il trans in nome del fatto che la donna
ha le mestruazioni. Gli attivisti trans applicano la pratica del sorvegliare e
punire usando come arma l'accusa di transfobia.
La
volontà di emancipazione si trasforma allora nel suo opposto, in un vittimismo
a oltranza. Da questo punto di vista il mio lavoro, evidenziando la genealogia della
corrente gender, consente di decostruire la decostruzione del sesso».
Il suo
ultimo libro, Le sexe des Modernes (Il sesso dei Moderni), è forse la prima storia ragionata dell'idea di gender, del sesso come
identità, contrapposto al sesso biologico.
In che
modo sapere che l'idea di sesso ha una storia ci aiuta a capire meglio il
dibattito attuale?
«Il
mio libro parte dalla storia intellettuale della seconda metà del 20esimo
secolo fino ai giorni nostri e analizza da una parte il fenomeno gender e
dall'altro il pensiero di alcuni intellettuali, quasi tutti francesi, come
Lacan, Derrida, Deleuze, Barthes, Foucault. La corrente gender, frutto della
sintesi proposta dall'americana Judith Butler negli anni '90, ha, in effetti,
preso in un primo tempo come riferimento la cosiddetta French theory, poi se ne
è allontanata esprimendo ostilità nei confronti di questi intellettuali maschi,
bianchi ed elitari.
Era
necessario fare chiarezza su questa relazione ambigua tra lo spazio culturale
americano (luogo di nascita del concetto di genere) e lo spazio europeo, in
particolare francese, che ne costituiva la preistoria.
La nozione di genere è emersa in un contesto
storico preciso, quello di una rivalità culturale tra gli Stati Uniti e
l'Europa, e
dell'affermazione di una nuova superpotenza nello spazio culturale mondiale».
Un
nuovo spettro si aggira per l'Europa, lo spettro del sesso, scrive nel suo
libro. L'identità
di genere non potrebbe essere anche un messaggio di emancipazione?
«È
evidente che la teoria di genere ha una vocazione emancipatrice: si propone di
liberare gli individui dal determinismo biologico rendendo il sesso - maschio o
femmina - una costruzione sociale e lavorando a una fluidificazione delle norme
di genere, ampliando il ventaglio dei comportamenti.
Ma a
questo messaggio emancipatore accompagna una ridefinizione radicale dell'idea
stessa di emancipazione. La sua visione sociologica e comportamentalista rende
l'emancipazione un puro processo sociale d'interazioni, in cui le norme non
sono sovvertite dagli individui, ma a causa di processi di défaillance inerenti
alle norme stesse.
Un po'
complicato ma per Butler e per la teoria gender, l'individuo non conta, conta
il processo sociale».
Lei
sostiene con Foucault che passiamo da una società fondata sulla legge (quella
della differenza sessuale) a una società fondata sulla norma. Che significa?
«L'idea
di Foucault in base alla quale la nozione di norma deve sostituire quella di
legge per chiarire il funzionamento delle società moderne è un attacco diretto
ai suoi contemporanei e in particolare a Lacan. Per Lacan il sesso obbedisce a una
legge fondamentale: la proibizione dell'incesto che determina il complesso di
castrazione o il complesso di Edipo.
Per
Lacan il sesso è innanzitutto interdizione, mancanza, minaccia di privazione. Foucault contrappone a tutto ciò una
logica del vivente, una biopolitica definita da una riorganizzazione costante
della norma in una dimensione positiva e produttrice d'interazioni.
Per
Foucault si trattava di liquidare tutto quel restava di metafisico nello spazio
moderno. Potremmo
dire che questa realtà senza legge che ci governa aderisce perfettamente
all'idea di infinita fluidificazione delle norme di genere enunciata da Butler,
tanto più che per lei questa fluidificazione esiste proprio perché è implicita
nella norma».
Commenti
Posta un commento