PROCESSO DI GLOBALIZZAZIONE.
PROCESSO DI GLOBALIZZAZIONE.
Le
origini della globalizzazione.
Lospiegone.com-
Edoardo Cicchella-(21 Gennaio 2021)- ci dice:
Cos’è
la globalizzazione? E quando è iniziata? Dare una risposta a questa domanda è
indubbiamente complicato, e il ventaglio delle potenziali risposte può
facilmente arrivare a coprire millenni di storia.
In
questa serie di articoli, tenteremo di inquadrare il fenomeno della
globalizzazione nella sua accezione più moderna, ovvero quella riguardante il
periodo storico durante il quale i costi di transazione e di trasporto si sono
ridotti a sufficienza per permettere scambi commerciali (e spostamenti fisici)
veloci e relativamente poco costosi.
Partendo
dalla definizione di globalizzazione, l’opinione generale è concorde nel
definire la globalizzazione “completa” solo nel caso in cui i prezzi delle
materie prime (note come commodities) convergano sugli stessi livelli su scala
mondiale. Questa condizione è chiamata “legge del prezzo unico” (Law of One
Price) ed è alla base di molti concetti di macro e microeconomia. Basandoci su
questa definizione, possiamo ritenerci oggi in una situazione di
globalizzazione quasi totale, considerando i mercati internazionali di
commodities (petrolio, oro, rame) i cui prezzi in dollari sono gli stessi in
ogni parte del mondo.
Le
grandi fasi della globalizzazione.
Se
consideriamo la globalizzazione in chiave “moderna”, come una vera integrazione
dell’economia attraverso i confini nazionali (tralasciando per il momento gli
avvenimenti recenti legati alla crisi del Covid e gli attriti tra Cina e Stati
Uniti), alcuni storici ed economisti dividono la sua storia in tre fasi, alle quali
una quarta può essere aggiunta per gli ultimi 20 anni.
La
prima fase iniziò nel 1600 circa e fu dominata dalle compagnie para-statali di
scambi commerciali, non ancora completamente capitaliste ma certamente
mercantiliste. Tra queste, la prima e più importante fu certamente la Compagnia
delle Indie Orientali, nota anche come VOC (Vereenigde Oostindische Compagnie)
e fondata nel 1602. Negli stessi anni, anche l’Inghilterra stava ponendo le
basi del proprio “Nuovo Mondo” con la fondazione della Colonia della Virginia
nel 1606. Ciononostante, per lungo tempo la Compagnia delle Indie Orientali
sarebbe rimasta la più grande organizzazione che diede una spinta decisa alla
globalizzazione, intesa come commercio internazionale (legale e non). Basti
pensare che la VOC raggiunse un valore attuale paragonabile alla somma delle
prime venti aziende di borsa per capitalizzazione.
Entrambe
le compagnie inglesi e olandesi si limitarono inizialmente ad importare spezie
e alcune materie prime vendute a carissimo prezzo in Europa, con costi di
trasporto ancora esorbitanti e grandi rischi collegati alla lunghezza e
difficoltà ambientali del viaggio. Per questo motivo, l’import di questi
materiali non ebbe inizialmente un grosso impatto sulla produzione locale
europea, che era concentrata su altri settori. I vantaggi di questi scambi
affluivano maggiormente alla parte più ricca della popolazione, che poteva
permettersi le merci più costose e che aveva la disponibilità economica di
investire nelle azioni delle Compagnie delle Indie stesse.
Vantaggio
Comparativo.
La
seconda fase invece comprende l’inizio degli scambi in beni di più largo
consumo, in industrie già presenti e sviluppate in Europa come quella tessile o
del grano. In questa fase, le teorie di distribuzione della produzione rispetto
ai vantaggi comparativi di uno Stato (secondo cui uno Stato dovrebbe
specializzarsi nel commercio di prodotti in cui ha un vantaggio in costi di
produzione, importando il resto dall’estero) presero piede assieme all’aumento
vertiginoso degli scambi globali guidato dagli imperi europei, in particolare
Inghilterra, Francia e Spagna, nel 1700 e 1800. Queste teorie di vantaggio
comparativo, che garantirono successivamente il premio Nobel a Heckscher e
Bertil Ohlin e sono tuttora studiate, promuovono lo scambio internazionale di
merci come favorevoli alla ricchezza globale in generale, paragonando gli
scambi commerciali alla cosiddetta marea che alza tutte le barche, seppure
alcune barche più di altre.
In
questo periodo, grandi investimenti pubblici come l’apertura del canale di Suez
nel 1869 e del canale di Panama nel 1914 contribuirono enormemente
all’espansione del commercio marittimo e all’integrazione delle economie
mondiali. Allo stesso tempo, l’invenzione del motore a vapore e le sue applicazioni
nel trasporto marittimo e di terra ebbero un impatto fondamentale sulla
riduzione dei costi, impatto paragonabile alla successiva introduzione del
motore a scoppio agli inizi del Novecento.
In
questa nuova ondata di globalizzazione, gli Stati più ricchi ebbero la
possibilità di specializzarsi in produzione di prodotti ad alto valore aggiunto
usando le materie prime (e a volte anche gli abitanti) delle nuove colonie in
Africa e America, per migliorare il tenore di vita della popolazione. È
difficile dare date precise per l’inizio e la fine di questa fase, anche se
possiamo collocarne l’inizio nei primi anni del 1800, con la fine del
mercantilismo delle Compagnie delle Indie, mentre la fine coincide grosso modo
con la conclusione della Seconda Guerra Mondiale.
Evoluzione
fino al presente.
La
terza fase cominciò invece con la vittoria degli Stati Uniti e dell’Unione
Sovietica nella Seconda Guerra Mondiale e il relativo disfacimento dei vecchi
Imperi Coloniali (inclusi quelli inglesi e francesi anche se si trovavano dal
lato dei vincitori). Con il trattato di Bretton Woods nel 1944, un nuovo
sistema globale con il dollaro al centro fece sì che il commercio e i prezzi
dei beni globali si armonizzassero ulteriormente, grazie alla convergenza di
molti sistemi monetari ora effettivamente “collegati” al valore della moneta
statunitense. Allo stesso tempo, la fondazione del Fondo Monetario
Internazionale e della Banca Mondiale (entrambe con base in America ma a
direzione più o meno internazionale), diedero una spinta importante al
movimento dei capitali e degli investimenti nei Paesi in via di sviluppo.
Infine,
una quarta fase della globalizzazione, con nuove dinamiche migratorie dal Sud-
Est all’Ovest del mondo, inizia in concomitanza con l’entrata della Cina nel
WTO (l’Organizzazione Internazionale del Commercio) nel 2001. In questa fase,
quella in cui ci troviamo tuttora, la crescita della Cina, della popolazione
mondiale nei Paesi in via di sviluppo e dell’uso della tecnologia ha portato a
grossi cambiamenti e ad un aumento generalizzato della globalizzazione, intesa
come scambio di beni e movimenti di persone.
Quali
sono o saranno i risultati di questi cambiamenti è oggetto di dibattito in
diversi ambiti, accademici e non. Tra i cambiamenti che possiamo già osservare,
è evidente lo spostamento del baricentro dell’economia mondiale da Ovest a Est,
con la proporzione del PIL mondiale prodotto dai Paesi più ricchi in netta
diminuzione. E’ anche evidente come ormai molti di questi Paesi abbiano di
fatto delegato la produzione manifatturiera in aree con un basso costo del
lavoro, con tutte le implicazioni strategiche e geopolitiche del caso (in
particolare nel caso della Cina).
Possibili
sviluppi.
Il
recente aumento della ricchezza globale, dalla rivoluzione industriale in
avanti, è chiaramente una causa diretta della globalizzazione, anche se con i
suoi vincitori e vinti. Tralasciando i recenti eventi legati alla crisi del
Covid, appare ormai evidente come la globalizzazione abbia favorito le
popolazioni in maniera iniqua, seppure rimane indubbio che la ricchezza globale
e il tenore di vita siano aumentati enormemente in generale negli ultimi 200
anni.
Le
grandi sfide di questo secolo, come la crescita del populismo di destra e di
sinistra in Occidente, la crescita vertiginosa della popolazione in Africa e
nel Sud-Est Asiatico e le sue conseguenze, il ruolo della Cina, l’aumento
dell’autoritarismo nel mondo e anche i cambiamenti climatici passano tutte
dalla globalizzazione, che quindi rimane un fenomeno fondamentale da studiare e
comprendere.
Il
radicale ripensamento sul
processo
di globalizzazione.
Huffingtonpost.it-Corrado
Ocone-(27-11-2021)- ci dice :
C’è
una connessione con e il dibattito che animò qualche anno fa la filosofia
italiana intorno all’alternativa fra postmodernismo e neorealismo?
C’è
una connessione fra il processo che in termini sociologici chiamiamo
globalizzazione e il dibattito che animò qualche anno fa la filosofia italiana
intorno all’alternativa fra postmodernismo e neorealismo? A prima vista,
sembrerebbe di no.
Mentre
il processo di globalizzazione è un fenomeno che, in modo approssimativo, suol
farsi iniziare dagli anni Ottanta del secolo scorso; la discussione sul
postmoderno e sul realismo concerne problemi filosofici vecchi come il mondo
(almeno quello occidentale): dal significato da dare alle idee di realtà e di
verità al rapporto fra l’io interpretante e l’oggetto interpretato. Eppure,
andando un po’ oltre le apparenze, senza nemmeno forzare più di tanto la mano,
si possono interpretare le idee postmoderniste (che avevano avuto in Italia in
Gianni Vattimo col suo pensiero debole il massimo interprete) e quelle neorealistiche (rappresentate da
Maurizio Ferraris), almeno per quel che concerne le loro conseguenze pratiche,
come due diversi, opposti ma speculari supporti alla mentalità globalista. La
quale, come ho già altre volte messo in evidenza, si è esplicitata in una
sostanziale messa in scacco della politica ad opera di due dispositivi
neutralizzanti del conflitto di cui uno
fondato su base eticistico-giuridica e l’altro su base economica.
Da qui
il trionfo di due opposte, ma appunto complementari, retoriche: la prima,
quella di un generico “dirittismo” a base politicamente corretta, cioè fatto di
difesa di identità particolari, e spesso organizzate, da proteggere perché
ritenute, poco importa se a torto o ragione, storicamente “discriminate”; la
seconda, di una sostanziale e acritica apologia non del mercato classico ma dei
mercati finanziari con le loro logiche transnazionali e il predominio in esso
sempre più evidente di imprese multinazionali più forti spesso dei singoli
Stati che dovrebbero normarle.
Cosa
c’entri col postmodernismo il “politicamente corretto” non è difficile capirlo:
se la realtà è una mia costruzione, se essa si svolge lungo l’asse di sempre
diversi e liberi “giochi linguistici”, è evidente che il suo referente ultimo è
un individuo narcisisticamente atteggiato e sradicato da ogni radice o
tradizione. Costui costruisce le proprie identità fluide scegliendo
capricciosamente in una sorta di supermercato delle idee o meglio dei gusti.
Idee tutte “deboli” per ché non più metafisicamente giustificabili. Una
situazione che poi è a ben vedere perfettamente funzionale alle logiche di
mercato basate su una sorta di primazia dell’individuo-consumatore. Esse per
giungere a buon fine hanno necessità non solo e non tanto di favorire
attraverso accorte operazioni di marketing le scelte del consumatore ma anche
di oggettivarle, standardizzarle, targettizzarle. E cosa se non un processo di
astratta oggettivazione, di realismo più o meno ingenui , fosse pure quello dei
dati (non a caso la prospettiva di Ferraris è evoluta in una teoria della
“documentalità”), può permettere queste operazioni e questa completa
disponibilità per noi del dato reale? Come si sa, la globalizzazione si è tanto
rapidamente affermata, negli ultimi decenni, quanto altrettanto precocemente ha
mostrato di essere soggetta a fattori di crisi non congiunturali ma
strutturali. Soprattutto dopo la recente pandemia, l’ultima e forse più
insidiosa delle crisi globali che abbiamo vissuto (e che annoverano fra le
altre anche quella terroristica e quella finanziaria legata alle bolle
speculative), il processo di globalizzazione viene ora radicalmente ripensato.
È inevitabile che anche tutte le ideologie che hanno fatto ad essa da supporto
sembrano essere entrate irrimediabilmente in crisi. Postmodernismo e
neorealismo, nella loro unilateralità, mostrano con chiarezza i limiti che
molti di noi avevano messo in evidenza già al momento del loro apparire.
(Quella
qui presentata è la traccia dell’intervento presentato al festival delle idee
Colloquia che si svolge questo fine settimana a Foggia e vede la
partecipazione, fra gli altri, di Michela Marzano, Alessandra Ghisleri, Corrado
Ocone, Ilaria Capitani: COLLOQUIA – Festival delle Idee Foggia ).
L’
OCCIDENTALIZZAZIONE DEL MONDO
E I
PROCESSI DI GLOBALIZZAZIONE .
Difesa.it-Redazione-(12-9-20219-
CI DICE :
Lo
sviluppo della tecnica e dell’industria in Europa e poi in America ha favorito,
assieme ad altri elementi delle società europee, una progressiva espansione dei
modelli di vita europei e poi americani nel mondo. Ma questa espansione si è
stabilizzata durante l’epoca delle conquiste coloniali, che hanno fornito ai
paesi ricchi materie prime e forza lavoro a prezzi bassi.
Con
l’estensione dell’economia e dei mercati si è lentamente diffuso anche un
insieme di credenze, costumi, modi di vita, valori, che avevano avuto origine
nella vecchia Europa. A questo processo ha anche contribuito la straordinaria
intensificazione dell’attività missionaria, che ha diffuso un elemento
assolutamente proprio del mondo europeo, il Cristianesimo, che non ha mancato
di portare con sé alcuni caratteri dell’Occidente.
Intanto,
l’insieme dell’umanità, a partire dall’800, si trovava a far fronte ad alcune
novità rilevanti, che avevano tutte il loro motore nella storia dell’Occidente:
1.
L’aumento demografico;
2. La
diffusione dell’urbanizzazione;
3. La
progressiva secolarizzazione e laicizzazione dell’azione sociale;
4.
L’aumento del lavoro salariato e la crescita di importanza dei mercati;
5. La
crescita straordinaria dei mezzi di comunicazione, per quantità e velocità
(telefono, radio, televisione, stampa, internet).
Tutto
ciò ha fatto sì che in pochi decenni si imponesse progressivamente un sistema
culturale sui generis, che lentamente ha raggiunto gli angoli del pianeta,
favorendo una relativa omogeneizzazione e uniformazione planetaria. I caratteri
di questa Western Culture possono essere così identificati:
1. Un
forte individualismo, accompagnato da una concezione competitiva della vita;
2. Un
orientamento apertamente materialista, secondo il quale gli oggetti, le cose, i
beni, sono più importanti delle persone;
3. Una
concezione della storia come “miglioramento continuo”, come “crescita senza
fine”, che potrà condurre – con il progresso della scienza e della tecnica – al
“regno dell’abbondanza per tutti”;
4. Una
fiducia estrema nella scienza e nella tecnica;
5. Una
presunzione, orgoglio, di essere la migliore società mai creata dall’uomo.
Questi
elementi, tra gli altri, sono stati portati per il mondo, e hanno costituito il
processo noto come occidentalizzazione del mondo. Le conquiste coloniali, con
le loro guerre di stabilizzazione del potere europeo, la conversione al
Cristianesimo di popoli diversi, la distruzione delle economie e delle culture
che spesso vi si è accompagnata, il disprezzo per i popoli diverse e le diverse
culture che non di rado è apparso con forza, sono stati sostenuti da due idee
chiave dell’Occidente: il concetto di progresso e quello di sviluppo. Un processo
“monistico”, di convergenza, ha quindi poco a poco sostituito il carattere
millenario di divergenza, multidimensionalità, poliedricità, pluralismo, che
aveva imperato tra le società
umane
fin dalla loro origine.
Ma non
bisogna pensare che il processo indicato sia concluso e che le differenze
culturali e sociali siano scomparse per sempre. Infatti, parallelamente al
processo di convergenza e uniformazione planetaria, che è sembrato ad alcuni
già quasi concluso, hanno cominciato a manifestarsi forme di reazione
contraria, movimenti in controtendenza, che hanno rivendicato identità e
caratteri propri, rielaborando forme antiche con stimoli nuovi. Alla
planetarizzazione ha cominciato ad opporsi, in alcune situazioni sociali
particolari, il fenomeno della ri-localizzazione, ricostruendo forme locali
autonome e indipendenti dalle tendenze planetarie. La rinascita di
vecchie-nuove identità, la produzione di vecchi-nuovi prodotti locali, ha
caratterizzato parte dello scenario contemporaneo.
Forme
di ibridazione, sincretismo, si sono manifestate recentemente.
Un
aspetto importante del processo descritto, della progressiva
occidentalizzazione del mondo, che è emerso negli ultimi decenni, è la
globalizzazione, che è genericamente intesa come la creazione di un unico
ambito planetario, globale, per la circolazione di beni e di informazioni. Gli
elementi che caratterizzano la globalizzazione sono dunque due:
1. La
diffusione, senza i limiti che una volta ne ostacolavano la circolazione nel
mondo intero (difficoltà di trasporto da un lato, e dogane o dazi dall’altro)
dei beni in un mercato unico; ma questa diffusione presuppone una
standardizzazione dei bisogni e dei gusti;
2. La
rapida crescita, intensificazione e potenziamento, dei messi di informazione;
La
circolazione dei beni e delle idee modifica la quotidianità della vita di
popoli lontani, e contribuisce alla progressiva uniformazione planetaria della quale
sopra si diceva. E’ evidente che ci sia un collegamento tra i beni e le
informazioni, per esempio, attraverso la pubblicità, che può anticipare
l’arrivo in un paese lontano dei beni prodotti in Occidente.
Si è
svolto recentemente un dibattito internazionale, sul problema se la
globalizzazione abbia caratteri positivi o negativi per l’umanità in generale,
e in particolare per i popoli delle regioni del Terzo Mondo. Non si può
dubitare che alcuni elementi del processo di diffusione e uniformazione nel mondo
di certi caratteri dell’Occidente sia positivo (le scoperte della medicina
moderna, la difesa dei diritti umani, le idee di eguaglianza, tra i sessi e tra
i gruppi sociali, e così via); si deve tuttavia osservare che in gran parte i
processi di globalizzazione rispondono ad esigenze, interessi (economici,
politici, militari) propri dei paesi ricchi del mondo. Infatti, la maggior
parte delle merci che girano per il mondo vengono dai paesi ricchi
dell’Occidente. Solo negli ultimi decenni l’ingresso prepotente della Cina e
dell’India nel mercato mondiale ha abbastanza cambiato il quadro. Ma sono la
maggior parte delle volte gli interessi dei paesi ricchi che determinano gli
interventi apparentemente favorevoli alle economie dei paesi poveri. Infatti,
il processo descritto porterà prima i beni provenienti dai lontani produttori
ricchi fino ai margini del pianeta.
Poi,
progressivamente, può essere più conveniente per un paese ricco di impiantare
una fabbrica dei beni che prima venivano prodotti lontano e trasportati a
migliaia di chilometri di distanza, nel paese povero.
Questa
strategia di investimento economico, che può apparire “generosa” e conveniente
per il paese che riceve la fabbrica, il più delle volte è determinata
dall’interesse dell’impresa europea o americana di produrre a più bassi costi
(il costo del lavoro in un paese povero è molto più basso), pagando meno tasse.
E’ il processo che viene definito di de-localizzazione della produzione.
Andrebbe di volta in volta verificato se prima, nel paese povero, non esisteva
già una industria dello stesso tipo, che è stata semplicemente sostituita da
quella di origine esterna. E andrebbe verificato se la mano d’opera locale
utilizzata non sia stata sottratta, per esempio, al lavoro agricolo, diminuendo
così l’autonomia alimentare della società locale.
Come
si vede, nella globalizzazione non tutto è fatto di “rose e fiori”.
C’è un
aspetto dei processi di globalizzazione che è stato meno studiato, quello
sociale e culturale. Infatti, a dispetto della uniformazione dei bisogni e dei
consumi, permangono in molti paesi le idee, i valori, i costumi sociali, della
società locale tradizionale, che vengono spesso rielaborati in forma originale
e sincretica.
CORONAVIRUS:
LA GLOBALIZZAZIONE è un pericolo ?
Fondazionefeltrinelli.it-Andrea
Califano- (5 marzo 2020)- ci dice:
Il
diffondersi dell’epidemia di coronavirus ha spinto governi, istituzioni
pubbliche in genere e attori privati a prendere severe misure di restrizione
alla libertà di movimento delle persone.
Che l’emergenza sia reale o meno, non rileva
ai fini di questo breve articolo; anzi, è interessante il paragone con la
presunta “emergenza
migratoria”
per mettere in evidenza alcuni punti.
Anche
in quel caso, vennero (e vengono, ogni qual volta lo si ritiene opportuno per i
più vari fini) prese misure di restrizione al movimento delle persone.
Naturalmente, rafforzando le barriere di ingresso ai Paesi dell’Unione Europea;
ma soprattutto, con l’annullamento di fatto della libertà di movimento
all’interno dell’area Schengen.
Assistiamo
invero in queste ore a un plastico raffronto tra i due casi: mentre gli
italiani vengono bloccati a bordo di aerei atterrati in lussureggianti atolli
tropicali, o turisti di ogni angolo del pianeta si trovano imprigionati a
Milano perché le compagnie hanno deciso di chiudere le rotte – evidentemente
perché non più profittevoli –, arrivano le violente (e disgustose) immagini
della guardia costiera greca che tenta di affondare i gommoni dei migranti in
fuga dalla guerra siriana.
Perché
allora nel caso del coronavirus in molti si stanno chiedendo se ci si trovi di
fronte a una messa in discussione della globalizzazione, mentre le frontiere
chiuse ai profughi non hanno mai suscitato tale domanda? Di che globalizzazione
stiamo parlando?
Credo
che la risposta stia nell’identificazione, promossa dalla narrazione
neoliberale (qui un emblematico esempio di queste ore) e diventata senso
comune, tra globalizzazione e benessere economico. E, allo stesso tempo, a una
correlata imprecisa interpretazione di cosa la globalizzazione effettivamente
sia.
Il coronavirus ha e avrà effetti sull’economia
(molti gli istituti che in questo momento stanno cercando di quantificarli:
esempio ne è il lavoro dell’OCSE); il coronavirus non ha invece il potere di
mutare lo stadio di sviluppo del sistema capitalistico mondiale, per semplicità
chiamato “globalizzazione”, e riassumibile in tre libertà fondamentali: di movimento di capitali, merci e
persone.
Come
argomentato più diffusamente in altre sedi, la “globalizzazione reale” si caratterizza soprattutto per la
completa libertà di movimento dei capitali – responsabile, tra le altre cose, della nostra dipendenza dalle
fabbriche cinesi, spiegata nelle prossime righe. Gli altri due pilastri, al
contrario, sono solo molto parzialmente realizzati, in particolare la libertà
di movimento delle persone. Quindi, il coronavirus, così come il blocco di
centinaia di migliaia di migranti alle frontiere dei Paesi industrializzati
(milioni, anno dopo anno), non mette la globalizzazione in pericolo: la
differenza tra i due casi sta solo nelle diverse conseguenze che questo ha
sull’economia dei Paesi industrializzati stessi, come ricordato in questo
approfondimento sull’emergenza sanitaria di questi giorni. L’articolo è emblematicamente
intitolato “può l’UE permettersi la chiusura dei confini?”, e alla domanda si
risponde che poteva sì permetterselo nel 2015 di fronte ai migranti, non può
permetterselo ora di fronte al virus.
Ci si
rende allora facilmente conto della natura fallace del discorso sulla
globalizzazione in pericolo. La globalizzazione non torna indietro perché si alza
qualche (momentanea) ulteriore barriera che si aggiunge ai molti muri che già
sono presenti in tutto il mondo per bloccare il libero movimento delle persone.
La
globalizzazione non è in pericolo, nonostante i pesanti effetti economici che
il coronavirus avrà su molti Paesi del mondo. Certo, la globalizzazione è lo
strumento di propagazione sia del virus che dei suoi deleteri effetti, o meglio
di accelerazione di tale propagazione, perché sempre nella storia dell’uomo le
epidemie si sono diffuse da un angolo all’altro del mondo. Ma analizzando come avviene questa
accelerazione, e come si diffondono i gravi effetti economici, si capisce che le
radici del sistema economico globale sono profonde e coinvolgono principalmente
altri elementi – in particolare produttivi – che ben più del turismo
definiscono il mondo (e il modo) in cui viviamo.
Infatti,
l’epidemia in corso, rispetto alla precedente epidemia comparabile, quella
della SARS del 2003, non solo sta avendo conseguenze più gravi sulla Cina, nella
quale il peso dei servizi sul totale dell’economia è cresciuto del 40% nel
periodo tra le due epidemie – e quella dei servizi è la componente più colpita
da questo tipo di evenienze; ma, dato il ruolo della Cina nella configurazione
capitalistica globale – la globalizzazione – avrà conseguenze ben più pesanti
anche sul resto dei Paesi.
E questo, naturalmente, a prescindere dagli
effetti diretti del virus in ogni singolo Paese. Si tratta di un aspetto messo
chiaramente in luce nella presentazione del report già citato che l’OCSE ha
fatto il 2 marzo: in particolare, occorre osservare il grafico che indica il ruolo della
Cina in alcune delle più importanti catene globali di valore (global value
chains): quella dell’elettronica e quella del settore automobilistico. In queste ultime, la Cina è
responsabile per la produzione, rispettivamente, del 27% e del 13% del valore
aggiunto dei beni intermedi prodotti.
Perché
si tratta di un dato importante? Un aspetto fondamentale della globalizzazione, spinto
dagli ingenti flussi di investimenti di capitale all’estero, è proprio
l’integrazione produttiva in catene globali di valore, per cui è ben più
significativo concentrarsi sui beni intermedi piuttosto che sugli scambi
commerciali (questi ultimi, per altro, già in calo negli ultimi anni). Questi dati indicano quindi che se si
fermano le fabbriche in Cina (e Hubei, epicentro del coronavirus, è uno snodo
fondamentale della produzione industriale cinese e, appunto, mondiale), si
fermano anche nel resto del mondo. In che misura? Ad esempio, il 24% della produzione
di elettronica degli Stati Uniti è dipendente dai beni intermedi cinesi, il 14%
di quella dell’Unione Europea, l’8% di quella giapponese.
Se
l’economia funzionasse come postulato dall’ideologia dominante in accademia e,
spesso, nel sistema mediatico, sarebbe (stato) sufficiente diversificare la
provenienza di suddetti beni intermedi e ricollocare i nodi delle catene di
valore in altri Paesi del mondo. Oppure, se funzionasse come vorrebbe un certo
nazionalismo d’accatto, purtroppo ben affermato in molti Paesi del mondo,
sarebbe sufficiente riportare la produzione dentro i confini nazionali, dalla
sera alla mattina. Allora, in entrambi i casi – giornalisticamente parlando, nella versione liberista e in quella
sovranista –
la globalizzazione potrebbe effettivamente essere in pericolo, o comunque
soggetta a una profonda ridefinizione.
L’economia tuttavia, come ben sa chi ha fatto
piani pluridecennali di investimenti in Cina, per una portata economica
complessiva tale da disegnare i contorni delle catene internazionali di valore,
non funziona così, e la globalizzazione non verrà imbrigliata, ridimensionata,
né tornerà indietro nel giro di pochi giorni o mesi perché le fabbriche cinesi
lavorano momentaneamente a ritmi ridotti; ancor meno, perché i flussi
turistici sono improvvisamente caduti a picco. Il vero elemento qualificante della
globalizzazione, la libertà di movimento dei capitali, non viene intaccato
dalle misure straordinarie di contenimento del contagio, come esemplificato
dalla deteriore innovazione del CoronaToken.
Il sito del neonato strumento finanziario descrive
esplicitamente la moneta virtuale come un mezzo per speculare sulle morti
provocate dalla malattia: maggiore il numero di contagi, maggiore la ricchezza
accumulata dai detentori.
Potremo
considerare questa globalizzazione in pericolo solo quando verranno introdotte
forti misure di limitazione al movimento di capitali. E, da molti punti di vista, non
sarebbe una cattiva notizia: non a caso, “liberisti” e “sovranisti”, pur da prospettive
opposte, sono alleati nell’agitare lo spettro della fine della globalizzazione
identificando sempre il bersaglio sbagliato. Una volta i migranti, un’altra il
virus; altre
volte è stata la concorrenza sleale della Cina, l’ingerenza russa… Purché mai
si parli della incontrollata libera circolazione di capitali.
La
pandemia:
gli effetti sulla globalizzazione.
Traileoni.it-
Sergio Lazzaro-(25 aprile 2021)- ci dice:
Decine
di migliaia di veicoli fermi nelle aree di produzione dei principali marchi
automobilistici, requisizioni di lotti vaccinali destinati ad altri paesi, e
all'inizio della pandemia anche di materiale medico: sono solo alcune delle
conseguenze della situazione che tutt'ora viviamo, che ha messo in difficoltà
il modello della globalizzazione andando a colpire non solo il consumo, e
quindi la domanda, ma anche la produzione, impedendo alle supply chain che nel
corso degli ultimi trent'anni si sono andate costruendo un po' ovunque nel
mondo di funzionare correttamente .
Mascherine
e vaccini: la necessità di una produzione nazionale.
Esempio
principe le mascherine: l'anno scorso buona parte dei paesi occidentali si è
trovata in difficoltà, se non addirittura impossibilitata, nel rifornire il
proprio sistema sanitario e poi la popolazione civile, man mano che l'economia
veniva riaperta, di questo importante strumento di protezione personale.
Ragioni principali l'assenza di una capacità produttiva nazionale, e l'assoluta
saturazione di quelli localizzati in paesi come la Cina, già principale
esportatrice di questo bene. Fattori che hanno portato ad un aumento dei prezzi
(fino anche a +1200% +1200% ), come già detto in apertura, all'imposizione di
garanzia sulla loro circolazione internazionale da parte di numerosi stati.
Quest'ultimo
un aspetto che si sta ripetendo anche oggi con la distribuzione dei vaccini,
nel contesto italiano con la richiesta delle dosi prodotte da AstraZeneca e
destinato all'Australia e in quello più ampio europeo visto nel braccio di
ferro tra l'UE e la già nominata azienda farmaceutica, dove quest'ultima ha
confermato di essere in grado di fornire ai paesi del blocco solo meno di un
terzo delle dosi inizialmente promesse. Anche in questo caso l'assenza di una
produzione nazionale, o al minimo europea sufficiente a coprirne la domanda, si
è fatto sentire, costringendo a rallentare i programmi di vaccinazione e
introdurre brevi lockdown per contenere la diffusione del virus.
Semiconduttori:
come la pandemia sta cambiando il settore.
Governo
quello degli Stati Uniti che ha anche espresso da poco l'intenzione di mettere
a disposizione di investimenti legati alla produzione nazionale di
semiconduttori (la struttura alla base dell'unità di calcolo di qualsiasi
dispositivo elettronico) più di 50 miliardi di dollari , in aumento rispetto ai
37 previsti dal CHIPS for America Act e dall' American Foundries Act .
Cifra
questa da sommare a ulteriori 130 miliardi di dollari già annunciati da imprese
del settore quali Intel , TSMC e Samsungper la costruzione di nuove fonderie in
Arizona e Texas. L'offerta anche in questo caso si sta rivelando incapace di una domanda
aumentata notevolmente nel corso dello scorso anno; costretti in casa i consumatori
hanno incrementato la loro spesa in elettronica , fatto che ha spinto aziende
come Apple ad acquistare acquistano sempre più quote di produzione di
semiconduttori.
Il settore automobilistico invece, sulla base di proiezioni che
vedevano la domanda di veicoli diminuire ha nella maggior parte dei casi
cancellato parte degli ordini di processori, determinando la situazione che si
è data apertura e una perdita potenziale complessiva stimata intorno ai 60
miliardi di dollari per il settore. Alla base poi della decisione
dell'Biden vi è ovviamente anche una amministrazione di sicurezza nazionale: attualmente buona parte della
capacità produttiva si trova se non in Cina, in paesi ad essa vicini, e con la
corrente situazione in termini di tensioni commerciali la situazione che ci
potrebbero essere semiconduttori nell'approvvigionamento di azioni analoghe a
quelle degli Stati Uniti 2019, non è certo di non sorprendere, quindi la recente decisione del
Governo Draghi di negare l' acquisizione di Lpe SpA da parte di Shenzen Investment
Holdings Co.
Un'occasione
per imparare…
La
pandemia che ci troviamo fortunatamente ancora oggi a dover affrontare numerose
problematiche alla base della globalizzazione. Ha fatto comprendere come la rete
logistica deputata al trasporto dei beni da una parte all'altra del globo non è
affatto immune a eventuali rischi di interruzione o di pesanti rallentamenti,
ritenuti più teorici che reali prima del 2020; le difficoltà di reperimento da
parte delle principali compagnie di trasporti cinesi dei container necessari a
la domanda proveniente dall'occidente, e ancora più recentemente il blocco del
canale di Suez causato dalla porta container Ever Given ne sono esempio. La situazione scatenata dalla
pandemia ha reso quindi chiaro come la delocalizzazione non sempre porta a un
incremento dei profitti stabile e sufficiente a garantire un rendimento certo
per i propri investimenti, ed ha portato i paesi occidentali a riconoscere la
necessità di avere una produzione nazionale, anche se più costosa per quei beni
di importanza primaria per il funzionamento di un'economia, quali appunto i
semiconduttori, un mercato il cui valore complessivo è stato di circa 440
miliardi di dollari l'anno scorso
… E migliorare.
Sarebbe
comunque errato ritenere una soluzione consigliabile e fattibile tornare a un
sistema precedente alla globalizzazione; i problemi che ne nascerebbero, a
partire dalla ricostruzione del know-how per operare certe attività, e la
necessità di individuare nuove fonti di approvvigionamento per le materie
prime, oltreché la possibilità di vedere sempre più paesi condizioni politiche
competitive all'apparenza favorevoli per la propria nazione, ma nel concreto
deleterie. Agire
verso una revisione dell'attuale sistema economico globale non sono poi solo le
ragioni sopra elencate, ma anche la questione ambientale: è impensabile ridurre le emissioni
di anidride carbonica senza agire anche sui trasporti e sulle catene di valore
e produzione che sono alla base della globalizzazione.
(Sergio
Lazzaro).
GLOBALIZZAZIONE
, COS’È E
COME
HA
CAMBIATO IL MONDO DEL LAVORO.
Euroguidance.it-Redazione-(10-10-2021)-ci
dice:
La
globalizzazione è un processo di interdipendenza globale tra i popoli. E’ un
fenomeno in continua espansione e che prende piede con grande velocità. Punta a
unificare la sfera economica, ideologica, culturale, sociale, di tutti i paesi
del mondo.
Anche
gli effetti di questo processo si ripercuotono nel bene o nel male a livello
planetario ossia globale.
La
globalizzazione è un processo iniziato negli anni’80 nei paesi capitalisti che
diedero l’avvio ad un un sistema economico-politico mirato ad un grande
ampliamento della sfera economica privata su scala nazionale e internazionale,
incentivato dalla fine del sistema socialista in diversi paesi tra cui il più
importante l’Unione Sovietica e dalla diffusione, soprattutto all’inizio degli
anni ’90, delle nuove tecnologie informatiche nella vita quotidiana e nelle
attività economiche.
Ma è
sicuramente il campo economico- finanziario quello principale a cui si fa
riferimento quando si parla di globalizzazione: l’ampliamento delle opportunità
economiche su scala internazionale, in
particolare sulle condizioni di prezzo e costo, quindi il livellamento dei
prezzi e costi nella maniera più conveniente su scala internazionale.
MONDO
GLOBALIZZATO, PRO E CONTRO.
Come tutti fenomeni, anche quello della
globalizzazione porta con sè conseguenze positive e negative.
Sicuramente
l’accesso globale all’informazione e al sapere in generale è a vantaggio di
tutti quei paesi che fino ad ora non vi hanno avuto accesso. Questo porta con sé una migliore
fruizione della cultura e dello scambio tra i popoli ampliandone la conoscenza
attraverso diversi mezzi compresi il cinema, la musica, il cibo, il vestiario e
via dicendo. Questa messa in luce delle tante culture prima scarsamente
considerate, ne favorisce l’attenzione anche per quel che riguarda la questione
dei diritti umani, negati ancora in molti paesi e che tendono ad essere in
questo modo più tutelati e difesi. Così anche i diritti degli animali.
L’attenzione verso i paesi in via di sviluppo favorisce l’aiuto verso di loro
attraverso finanziamenti e missioni con lo scopo di migliorarne la loro qualità
della vita.
Di
controparte però, il mondo globalizzato porta delle conseguenze che non tutti
ritengono positive come il confine sempre più labile tra culture diverse che
andranno man mano a fondersi in una unica cultura dettata dal mercato, perdendo
la propria individualità, storia e bellezza.
Stessa sorte toccherà al mercato del cibo che
andrà via via sempre più verso quello economicamente più vantaggioso cioè il cibo spazzatura monopolio delle grandi catene che,
così come nel vestiario, tolgono rapidamente lavoro alle realtà più piccole e
locali che portano con sé tradizioni e qualità.
Il
mercato dei prestiti, poi, risulta un’arma a doppio taglio per quei paesi in via di sviluppo che
possono ottenere un prestito facilmente, ma senza avere troppe chance di
riuscire a ripagare il debito date le ferree regole sui tassi di interesse.
IL
MONDO DEL LAVORO OGGI.
Questa unificazione dei mercati a livello
mondiale portato dalla globalizzazione ha fortemente influenza e sta
influenzando tutt’ora il mondo del lavoro andando a peggiorare in tanti casi le
piccole realtà locali, i piccoli mercati e le zone rurali dei paesi meno
sviluppati. Gli stessi metodi tradizionali agricoli sono stati cambiati a favore dei
metodi di produzione tipici del sistema capitalistico che risultano più
produttivi e quindi economicamente più vantaggiosi senza tenere conto della
storia, della bellezza e della qualità delle realtà più piccole costrette a
soccombere per l’impossibilità di competere con un mercato tanto più forte.
Anche
lo sviluppo tecnologico ha ridotto fortemente la domanda nel mondo del lavoro
soprattutto per quello a bassa competenza aumentando quelli dove le qualità
richieste sono molte.
Il
basso costo del lavoro e i bassi oneri fiscali fanno si che le grandi aziende
decidano di spostarsi all’estero dove la pressione fiscale è inferiore piuttosto che investire nel proprio
paese dando origine alle delocalizzazione, quindi ad una diaspora di persone e
delle loro qualità che vanno, sì, ad arricchire il paese in cui andranno, ma
lasceranno il proprio sempre più povero. Questo implica anche la richiesta, da
parte dei datori di lavoro, di una maggiore flessibilità agli spostamenti da
parte dei dipendenti rendendoli sempre più precari, trattandoli più come merci
che come persone.
I
flussi migratori (a volte di interi popoli) dai paesi disagiati aumentano lo sfruttamento di manodopera verso tutti quei lavori considerati
“di fatica” spesso anche pericolosi, che difficilmente vengono occupati dai
lavoratori locali, finendo per incrementare il lavoro in nero, sottopagato e
che non tutela le persone, ma li mantiene in una condizione di disagio e senza
favorirne l’integrazione.
La
globalizzazione ai tempi del virus.
Sbilanciamoci.info-
Valeria Cirillo e Andrea Coveri-(22 Marzo 2020)-ci dice:
Economia e finanza, primo piano.
Tra i
paesi più colpiti dal Covid-19 vi sono proprio quelli con un ruolo centrale
lungo le catene globali del valore, che si trasformano ora in catene globali
del contagio economico tramite cui si diffonde la recessione. Uno studio
analizza le dinamiche della crisi. Riscoprendo il ruolo dell’attore pubblico.
Quali,
e quanto profonde, saranno le conseguenze economiche del COVID-19? Quanto
durerà la crisi economica e quanto sarà grave? Quali sono i meccanismi del
contagio economico? E, soprattutto, cosa possono fare i governi?
Sono
queste le domande al centro dell’e-book Economics in the Time of COVID-19 a
cura di Richard Baldwin e Beatrice Weder di Mauro (CEPR Press, 2020), entrambi
Professori di Economia Internazionale presso il Graduate Institute di Ginevra.
L’e-book è stato pubblicato da CEPR Press per VoxEU in tempi record: era già
on-line il 6 marzo ).
Il
COVID-19 si sta diffondendo rapidamente a livello globale ed è ormai chiaro –
sostengono gli autori – che abbia il potenziale per far deragliare l’economia
mondiale.
Tuttavia, sebbene le passate pandemie (dall’influenza asiatica nel 1957-58
all’influenza di Hong Kong nel 1968, dalla SARS nel 2002 fino alla più recente
influenza aviaria nel 2009 e MERS nel 2012) possano fornire una bussola per
tentare di prevederne gli esiti, la moderna configurazione dell’economia globale
e le peculiarità del COVID-19 rendono al momento estremamente difficile
produrre stime attendibili in merito al suo impatto economico.
Infatti,
come enfatizzato dagli autori, la natura del COVID-19 è caratterizzata da
elementi di forte incertezza che, al contrario del rischio, non è
modellizzabile (nella misura in cui non permette di conoscere gli scenari
possibili a cui potrebbe dare luogo e la probabilità di questi ultimi di
verificarsi). Inoltre, il COVID-19 è uno shock di offerta non paragonabile a precedenti
eventi catastrofici quali le crisi petrolifere degli anni Settanta o i
terremoti – si pensi a quello avvenuto in Giappone nel 2011. A differenza dei terremoti,
ad esempio, la diffusione del virus non è determinata dalla distanza
“dall’epicentro” – come dimostra l’esplosione di contagi in Lombardia quando
l’epicentro era la città di Wuhan nella provincia di Hubei in Cina.
Inizialmente
vi era chi aveva ipotizzato che il COVID-19 avrebbe determinato un improvviso
crollo della produzione cinese, seguito da una sua rapida ripresa non appena il
contagio si fosse arrestato. Si prevedeva, dunque, un effetto a “V”, ovvero una
crisi profonda, tagliente, ma breve e circoscritta alla Cina. Tale scenario
appare però al momento ben poco probabile a causa della rapida diffusione del
virus a livello internazionale.
In
particolare, Stati Uniti, Cina, Giappone, Germania, Regno Unito, Francia e
Italia sono tutti nella top ten dei paesi più colpiti e sono anche le economie
leader a livello mondiale, rappresentando da sole oltre il 60% del PIL globale,
il 65% della produzione manifatturiera e il 41% delle esportazioni
manifatturiere mondiali. “Quando queste economie starnutiscono, il resto del
mondo prenderà un raffreddore” – sostengono gli autori parafrasando un noto
aforisma.
Catene
globali del valore e canali di trasmissione del contagio.
Non è
tuttavia solo una questione di dimensioni delle economie coinvolte. Ancor più
importante è il fatto che nell’arco degli ultimi tre decenni l’estensione delle
filiere produttive su scala globale ha reso i destini di queste economie – in
particolare di Cina, Corea del Sud, Giappone, Germania e Stati Uniti –
strettamente legati tra loro. In altri termini, una serie di fattori di stampo
tecnologico, politico ed istituzionale ha incoraggiato le imprese a frammentare
a livello internazionale la loro filiera produttiva, promuovendo la
delocalizzazione di impianti industriali (si pensi alla crescita degli
investimenti diretti all’estero), l’esternalizzazione di ampie fasi della
produzione dei prodotti e il ricorso a fornitori indipendenti localizzati
all’estero per l’approvvigionamento di beni intermedi necessari al processo
produttivo.
Tra i
paesi maggiormente colpiti dal COVID-19 vi sono proprio gran parte delle
economie, Cina in testa, che svolgono un ruolo di enorme rilevanza lungo le
catene globali del valore, le quali si trasformano in questo contesto pandemico
in vere e proprie catene globali del contagio economico. In altri termini, la
sofisticata interconnessione delle strutture produttive dei diversi paesi a
livello internazionale fa sì che le catene globali del valore rappresentino i
canali privilegiati lungo cui si propaga il virus della recessione. Ne consegue
che i contraccolpi che stanno subendo in primis Cina, Corea del Sud e Italia
intaccano le catene di approvvigionamento di gran parte dei paesi del mondo,
producendo un rallentamento sincronizzato della produzione e, dunque, una
probabile recessione.
La
manifattura mondiale sarà scossa da un triplice colpo – tanto sul lato
dell’offerta quanto sul lato della domanda.
In
primo luogo, l’impatto del COVID-19 si manifesterà nell’interruzione diretta
della fornitura di beni. Si consideri ancora una volta che la pandemia ha
colpito profondamente il cuore produttivo del mondo, ossia l’Asia orientale e
in particolare la Cina, la cui produzione industriale è precipitata tra gennaio
e febbraio 2020 del 13,5% su base annua – si tratta del più grande calo della
produzione in Cina dall’inizio dell’era post-Deng Xiaoping, ossia degli ultimi
30 anni. La pandemia si sta inoltre diffondendo rapidamente negli Stati Uniti e
in Germania, due delle maggiori potenze industriali al mondo.
In
secondo luogo, vi sarà un effetto di amplificazione del contagio tramite le
catene di subforniture globali di beni intermedi, poiché anche i settori
manifatturieri dei paesi meno colpiti avranno difficoltà nell’acquisire
(importare) gli input intermedi necessari alla produzione domestica. La Cina,
ad esempio, svolge diverse fasi della produzione – in primis attività
manifatturiera e di assemblaggio – di una molteplicità di prodotti per ben noti
brand appartenenti a imprese multinazionali (come Apple) e grandi rivenditori
(come Walmart) operanti nei settori più disparati (dall’agricoltura al tessile,
dal settore automobilistico all’ICT, ecc.), importando ed esportando un’enorme
quantità di beni intermedi e semilavorati.
Ne
segue che la durata dell’interruzione delle filiere produttive transnazionali
dipenderà anche dalla capacità di diversificazione delle imprese importatrici,
oltre che dalla capacità di recupero della Cina stessa quale hub di produzione
su scala mondiale. Secondo gli autori, infatti, gli effetti sulla supply-chain
globale costituiranno la principale fonte di trasmissione e propagazione della
crisi a livello europeo e statunitense, seppur con le dovute eterogeneità
settoriali.
Il
rischio di un crollo della domanda effettiva.
Agli
shock dal lato dell’offerta si affiancherà uno shock dal lato della domanda.
Alcuni dei fattori capaci di innescare un crollo della domanda effettiva sono i
seguenti.
In
prima istanza, le misure intraprese allo scopo di contenere il virus, quali la
drastica riduzione della mobilità delle persone (la “quarantena”) e la chiusura
di svariati esercizi commerciali, oltre che di teatri, biblioteche, musei et
similia, comportano un’immediata riduzione dei consumi da parte delle famiglie. Tali consumi verranno in parte
posticipati e in parte, probabilmente, mai più effettuati. Gli effetti più
pesanti riguarderanno il settore dei servizi, in particolare quello dei
trasporti, del turismo e della ristorazione; ciò a ragione del fatto che, ad
esempio, è difficile immaginare che un viaggio o una cena al ristorante vengano
rimandati da parte delle famiglie.
In
seconda istanza, ci si può attendere che il forte rallentamento della
produzione generi un aumento del tasso di disoccupazione, il quale si tradurrà in una
riduzione del reddito disponibile di molti/e lavoratori e lavoratrici, a
partire da coloro che sono occupati su base temporanea, i cui contratti
potranno non essere rinnovati (aspetto questo non sufficientemente enfatizzato
nell’e-book).
A tal
proposito, se la riduzione del reddito disponibile dovesse interessare
prevalentemente le fasce meno abbienti della popolazione – quelle con una più
elevata propensione marginale al consumo – le conseguenze sui consumi aggregati
saranno ancora più rilevanti. Inoltre, quale conseguenza dell’incertezza dovuta
alla velocità e alla diffusione del contagio, è ragionevole attendersi da parte
delle famiglie un aumento della propensione al risparmio per fini
precauzionali, quale forma di tutela per un futuro a tinte fosche.
In
terza istanza, un minor utilizzo della capacità produttiva da parte delle
imprese potrebbe rendere più difficile per queste ultime ammortizzare i costi
fissi (un esempio banale è dato dalle spese di locazione degli immobili in cui
si svolge l’attività produttiva). Questo potrebbe comportare a sua volta un aumento del
costo per unità di prodotto e una riduzione del saggio di profitto e quindi
della spesa per investimenti da parte delle imprese.
Infine,
è ragionevole attendersi che la riduzione sincronizzata a livello globale di
consumi e investimenti porterà ad amplificare la contrazione del valore
aggiunto delle diverse economie, restringendo ulteriormente i mercati di sbocco
esteri e rallentando dunque la dinamica delle esportazioni nette.
Peggioramento
delle aspettative degli operatori finanziari e conseguenti ondate speculative
sui mercati dei titoli di borsa, interconnessione dei bilanci bancari a livello
transnazionale e, soprattutto, elevato indebitamento privato – soprattutto
delle imprese non finanziarie – possono rappresentare ulteriori meccanismi di
contagio economico in seguito a COVID-19. Meccanismi che potrebbero innescare
una violenta recessione su scala internazionale, ripetendo in parte quanto
avvenuto con la crisi economica globale esplosa nel 2008.
Infatti,
come dimostrato dalla Grande Recessione innescatasi nel 2007 negli Stati Uniti
e da lì propagatasi in tutto l’Occidente (e non solo), si tratta di meccanismi
che rendono la moderna struttura del capitalismo globale notevolmente
interconnessa e hanno dunque la capacità di amplificare gli effetti recessivi
della crisi.
Meglio
tardi che mai.
Le
conseguenze economiche della pandemia potrebbero generare un crollo globale
della produzione e mettere a dura prova i processi di globalizzazione in atto
negli ultimi decenni. Baldwin e Weder di Mauro sollecitano un deciso intervento da
parte dei governi e in particolare delle autorità di politica monetaria e
fiscale al fine di elaborare in tempi brevi piani di azione coordinati a
livello internazionale. A detta degli autori, lo scenario economico che si presenta
potrebbe in effetti configurarsi come una sorta di banco di prova per testare
la capacità di elaborare strategie comuni di azione in risposta a problemi
eminentemente globali.
Oggi
coronavirus, domani per esempio il cambiamento climatico. In particolare, riguardo
all’Europa, secondo gli autori la crisi richiederà flessibilità
nell’applicazione del Patto di Stabilità e Crescita e la necessità di
prepararsi per un eventuale piano di espansione fiscale concertato a livello
europeo. Infine, un rafforzamento del Fondo di solidarietà dell’Unione Europea
viene contemplato come una valida opzione.
In
questa fase, sembra dunque riconosciuto il ruolo strategico dell’attore
pubblico. Un ruolo importante nella gestione delle conseguenze socio-economiche
e, in primis, sanitarie della diffusione del COVID-19.
Nonostante
l’implementazione delle politiche di austerità abbia portato in Europa e in
particolare in Italia a un profondo depotenziamento dell’attore pubblico – si
vedano gli incoraggiamenti verso il ricorso alla sanità privata e alla
riduzione del peso dello Stato in economia (Alesina, A. e Giavazzi, F., “Troppo
Stato in quell’agenda”, Corriere della Sera, 27 dicembre 2012) –, emerge oggi
la consapevolezza rispetto al ruolo strategico di quell’attore e di quei
servizi pubblici che si era pronti a “liberalizzare”.
Anche
fra economisti più “ortodossi” – quali gli autori dell’e-book – sembra insomma
farsi spazio l’idea che talvolta l’attore pubblico sia necessario e non solo in
virtù dei cosiddetti “fallimenti del mercato”, bensì per ragioni strategiche e
di benessere collettivo. Diremmo, dunque, meglio tardi che mai.
Il
collo di bottiglia della globalizzazione.
Jacobitalia.it-
Daniel Finn- Laleh Khalili-( 1 Aprile 2021)- ci dice:
Il
blocco del Canale di Suez ha ispirato mille meme e le sue conseguenze per
l'economia mondiale sono state gravi. Ma non c'è motivo di pensare che la sua
importanza economica e geopolitica stia per diminuire.
Il
blocco del Canale di Suez da parte della gigantesca portacontainer Ever Given
ha creato un ingorgo di centinaia di navi che trasportano merci per un valore
di miliardi di dollari. La compagnia di assicurazioni tedesca Allianz ha
stimato che il blocco del canale di una settimana sia costato all’economia
mondiale tra i 6 e i 10 miliardi di dollari.
Dalla
sua apertura nel 1869, il canale è stato un passaggio vitale per il commercio
mondiale. I principali sviluppi del capitalismo globale, dall’ascesa del Medio
Oriente come produttore di petrolio allo spostamento della produzione in
Estremo Oriente, hanno ulteriormente accresciuto la sua importanza. Il canale
ha già subito periodi di chiusura a causa di controversie politiche nella
regione e gli analisti si sono preoccupati della sua potenziale vulnerabilità
agli attacchi terroristici. Ma questa volta il blocco è dovuto a pura
incompetenza.
Laleh
Khalili, che insegna politica internazionale alla Queen Mary University di
Londra, è l’autrice di Sinews of War and Trade: Shipping and Capitalism in the
Arabian Peninsula. Parla con Jacobin della storia del canale e della sua
importanza per l’economia mondiale.
Come è
nato il Canale di Suez? Quale contesto economico e geopolitico consentì di
realizzare questo progetto?
La
costruzione del Canale di Suez nella seconda metà del diciannovesimo secolo ha
a che fare direttamente sia con le rivalità intra-europee – in particolare tra
Gran Bretagna e Francia – e ancora di più con l’intensificazione della
colonizzazione e dell’impero in Asia e Africa. È significativo che sia il canale che
la posa dei cavi telegrafici sottomarini fossero destinati a facilitare la
comunicazione tra le metropoli e le colonie. La forza lavoro ha costruito il
canale e innumerevoli migliaia di persone sono morte nel corso della sua
realizzazione (non diversamente dalla costruzione statunitense del Canale di
Panama qualche decennio dopo).
Tecnologicamente,
uno sviluppo importante è stato cruciale per lo sviluppo del canale e ha anche
beneficiato della costruzione del canale: con il posizionamento di motori a
vapore a bordo delle navi. Poiché
una nave a vela non può navigare lungo il canale quando soffiano i venti
trasversali, la sua apertura ha consolidato l’egemonia delle navi a carbone sui
velieri.
Non a
caso gli inglesi colonizzarono Aden, alla fine del Mar Rosso e a cavallo di Bab
al-Mandab, pochi decenni prima della costruzione del canale e lo trasformarono
in un’importante stazione di rifornimento di carbone, prima per le navi della
Compagnia delle Indie orientali e dopo per quelle dell’Ammiragliato e di altre
navi britanniche.
Ma il
canale non interessava solo il collegamento europeo con l’Asia e l’Africa. La
guerra civile degli Stati uniti, il blocco dei porti confederati da parte del
Nord e lo sciopero generale – come lo chiamava Du Bois – degli afroamericani
schiavi, che accelerarono alla fine della guerra e continuarono anche dopo,
fecero accrescere il rilievo economico del cotone che veniva dall’Egitto.
Come
ha scritto Roger Owen nel suo libro Cotton and the Egyptian Economy, alla fine
del diciannovesimo secolo il cotone era diventato il principale prodotto di
esportazione dell’Egitto. Il controllo sul cotone e l’incapacità dell’egiziano
Khedive di ripagare il debito per la costruzione del canale furono entrambi
fattori nella conquista militare britannica dell’Egitto nel 1882 e nel
controllo di fatto del canale.
Quale
struttura proprietaria venne adottata per il canale?
La
società di costruzione del canale era una società per azioni in cui i francesi
detenevano il maggior numero di titoli, ma gli inglesi avevano il controllo
effettivo su Suez. La Compagnia Universale del Canale Marittimo di Suez (o La
Compagnie Universelle du Canal Maritime de Suez) gestì il canale fino al 1956, quando Gamal Abdel Nasser lo
nazionalizzò nel corso di uno dei momenti più significativi della
decolonizzazione del secondo dopoguerra.
In
parte, la nazionalizzazione del canale da parte del governo di Nasser doveva
consentire all’Egitto di farsi carico delle tasse del canale per finanziare la
costruzione della diga di Assuan. Ma fu anche il segnale di quanto fosse diventato
importante il controllo sulle infrastrutture di trasporto. Solo pochi anni prima, quando il
primo ministro iraniano Muhammad Musaddiq aveva osato nazionalizzare le
partecipazioni della Anglo-Iranian Oil Company – ora Bp – nel suo paese, una
delle misure più efficaci usate per metterlo in ginocchio fu quella di impedire
il passaggio a qualsiasi petroliera che trasportava petrolio iraniano. Nasser prevedeva che il controllo del
canale gli avrebbe consentito un controllo del destino dell’Egitto come
nessun’altra misura avrebbe fatto.
Quale
fu l’esito per il canale della crisi di Suez e dell’attacco
anglo-franco-israeliano nel 1956 all’Egitto?
La
crisi di Suez è avvenuta nello stesso anno dell’invasione sovietica
dell’Ungheria, i due eventi sono profondamente collegati. Fu in parte per paura
di «perdere» l’Egitto sotto il controllo sovietico che il presidente Eisenhower
rimproverò i belligeranti tripartiti – Francia, Gran Bretagna e Israele – di
ritirarsi dall’Egitto. In un certo senso, la restaurazione dello Scià in Iran
del 1953 e la guerra del 1956 gettarono le basi per il passaggio imperiale in
Medio Oriente dalla Gran Bretagna agli Stati uniti, che arrivò alla fine
all’inizio degli anni Settanta.
Che
impatto ha avuto sul canale l’ascesa del Medio Oriente come principale fonte di
petrolio al mondo?
Ovviamente,
la scoperta del petrolio nel bacino del Golfo Persico/Arabico – Iran, Iraq e
penisola arabica – significava che uno dei prodotti primari che fluivano
attraverso il canale sarebbe stato il petrolio. Infatti, nel 1970, circa il
60-70% di tutto il carico marittimo era costituito da petrolio greggio e
prodotti petroliferi. Molto di quel petrolio, ovviamente, è stato trasportato
in Europa, dove la ricostruzione e la produzione industriale stavano decollando
nei decenni di ripresa del dopoguerra.
La
domanda può essere posta anche al contrario. La chiusura del canale nel 1958 ha
portato al dirottamento di queste petroliere intorno al Capo di Buona Speranza
e quindi ha incoraggiato il passaggio all’uso di vettori di greggio molto più
grandi per sfruttare le economie di scala.
La
guerra del 1967 e quello che ne è derivato come ha influenzato l’utilizzo del
Canale?
Sebbene
la chiusura del Canale di Suez a seguito della guerra del 1967 sia durata molto
più a lungo, fino al 1975, non ha avuto lo stesso tipo di effetti della
chiusura molto più breve del 1958. Una delle storie secondarie più interessanti
della chiusura del 1967, però, fu quella della Flotta Gialla: navi intrappolate
per anni nel canale nel Great Bitter Lake, così chiamate perché ricoperte dalla
sabbia gialla del Sahara. Ho scritto altrove sugli ulteriori effetti globali di
questo periodo di chiusura.
Che
effetti ha avuto sul Canale lo spostamento del potere economico – e soprattutto
manifatturiero – da ovest a est degli ultimi decenni?
Gli ha
dato maggiore importanza. Le chiusure del 1958 e del 1967-1975 portarono alla
ricerca del petrolio da parte delle potenze europee nell’Africa occidentale e
settentrionale, e il petrolio kazako e azero è arrivato facilmente in Europa
dalla fine della Guerra fredda. Di conseguenza, il petrolio mediorientale,
sebbene ancora importante, non era più il carico più significativo che
attraversava Suez. Le navi portacontainer che trasportano merci fabbricate in
Cina e nel resto dell’Asia orientale e sud-orientale adesso sono – almeno in
termini di valore economico – i carichi più importanti e preziosi che
attraversano il canale.
La
costruzione da parte della Cina di una rotta terrestre dalle sue regioni
costiere all’Europa attraverso l’Asia centrale ha messo in discussione il
futuro del Canale?
Non
credo proprio. I binari ad alta velocità attraversano la rotta terrestre
attraverso la massa eurasiatica. Questi treni veloci impiegano circa tre
settimane per andare dalla costa orientale della Cina a Budapest e poi ad
Amburgo e Rotterdam. Sono costosi da gestire, motivo per cui spesso trasportano
merci di alto valore e sensibili al fattore tempo, come computer e altri
articoli elettronici. Inoltre, le rotte terrestri della Nuova via della seta
della Cina attraversano diverse aree in cui i governanti del paese hanno
represso con la violenza le popolazioni locali, tra cui la popolazione uigura
dello Xinjiang.
Le
rotte marittime sono invece più lente, ma possono servire merci più voluminose
e meno sensibili al tempo. Il fatto che la Cina domini così completamente la top ten
dei porti container nel mondo dice qualcosa sull’importanza del trasporto
marittimo nella strategia economica del paese.
Che
effetti avrà il fiasco del Canale dei giorni scorsi sull’economia mondiale?
Sappiamo
che attualmente circa il 12% di tutte le merci scambiate a livello globale
passa attraverso il Canale e che questo rappresenta una delle rotte commerciali
più significative del pianeta, insieme a quelle transatlantiche e
transpacifiche. Ma la sua chiusura mostra anche quanto possa essere fragile
questo commercio: i produttori di auto just-in-time in Europa sono stati tra
quelli più colpiti dal blocco del Canale di quasi una settimana. Sapevamo già
che l’efficienza – che è il Sacro Graal dell’accumulazione di capitale – è
anche l’antitesi della solidità, il blocco lo ha reso ancora più evidente.
(Laleh
Khalili insegna politica internazionale alla Queen Mary University di Londra).
BlackRock:
la mano nera che
controlla
l’economia mondiale.
Money.it-
Massimiliano Carrà- (25/01/2019)- ci dice:
A fine
2018 da alcuni carteggi tra Wolfgang Schaeuble e Danièle Nouy è emerso il ruolo
avuto in occasione degli stress test bancari da parte di BlackRock. Al centro
del dibattito il ruolo dell’asset manager Usa e il conflitto di interesse avuto
nel duplice ruolo di esaminatore e azionista di molte banche sotto esame. Ecco
il pensiero di Valerio Malvezzi.
Un
carteggio svelato dal Sole 24 Ore a fine 2018 circa l’affidamento da parte
della BCE di un ruolo consulenziale nell’analisi degli stress test bancari a
BlackRock ha riportato al centro del dibattito la società californiana, maggior
asset manager al mondo.
Nel
corso dell’ultimo decennio, la creatura di Larry Fink è più volte intervenuta
in aiuto di diversi Stati europei per studiare i portafogli delle banche
pressate dalla crisi economica e proporre delle vie di uscita. Strada che molto spesso ha visto
BlackRock stessa intervenire nel capitale degli istituti di credito appena
analizzati.
Nonostante
il carteggio tra l’ex ministro delle finanze tedesco, Wolfgang Schaeuble, e
Danièle Nouy, responsabile della vigilanza della Banca Centrale Europea,
riportato dal giornale di Via Monterosa circa il costo e l’opportunità di
affidare a BlackRock gli stress test 2016, la BCE si è detta serena sulla scelta
etica compiuta ed ha assegnato anche gli stress test 2018 alla pietra nera
della finanza mondiale.
Chi è
BlackRock.
Nata
nel 1988 in California e con sede a New York, Blackrock è attualmente la più
importante società di investimento del mondo. Il patrimonio gestito è superiore
ai 6 trilioni di dollari. Per aver un’idea si tratta di un valore superiore
alla somma del PIL di Spagna e Francia. Oppure tre volte il debito pubblico
italiano.
Grazie
a questi capitali, negli anni è diventata il primo investitore straniero in
Europa. I suoi interessi sono trasversali, avendo partecipazioni in aziende del
mercato energetico, chimico, immobiliare, agroalimentare, dell’aeronautica e
dei trasporti e via dicendo. Tra i diversi settori non manca di certo quello bancario. Tra
gli azionisti di peso delle 10 più importanti banche del Vecchio Continente, il
nome della roccia nera figura sempre.
La
fortuna di BlackRock deriva dall’esplosione dei fondi ETF, che rappresentano il
72% del suo portafoglio, e dal gran successo avuto da Aladdin, software per la
gestione del rischio usato per proteggere le società dai cattivi investimenti e
ormai venduto in oltre 50 Paesi nel mondo.
Il
pensiero di Valerio Malvezzi.
Interrogandosi
sul possibile conflitto di interessi che vede come protagonista BlackRock,
Money.it ha intervistato Valerio Malvezzi, economista e fondatore di Win the
Bank. A
detta del Professore, «il sospetto che vi sia un grave conflitto di interessi
vi è».
Per
questo motivo "ho scritto una lettera aperta, che leggerò martedì prossimo
in Senato, perché è impossibile che una notizia come questa non viene ripresa da
tutte le emittenti nazionali. Poi saranno i magistrati o gli organi di controllo a
verificare se siamo di fronte a un caso di conflitto di interesse. A me, sicuramente, lascia basito
che la BCE non ha adoperato autonomamente, ma che invece, ha affidato il ruolo di effettuare
gli stress test a un ente privato in una situazione palese di conflitto di
interesse.
Inoltre, è assurdo che la BCE non abbia dato vita a un bando, ma si sia rivolta subito a
BlackRock”.
Il
dibattito sull’opportunità di affidare all’asset manager statunitense gli
stress test sulle principali banche europee, di cui come già ricordato in molti
casi ricopre il ruolo di azionista di rilievo, è stato al centro della
video-intervista che potete vedere.
Il
denaro governa il mondo,
ma chi
governa il denaro?
Gognablog.sherpa-gate.com-
Redazione-(26 Settembre 2019)- ci dice:
Il
potere incontrollato del denaro. Su questo quesito, affascinante quanto controverso,
si sono articolati nei giorni 1 e 2 ottobre 2010 i Colloqui di Dobbiaco 2010.
Alla luce della crisi finanziaria internazionale, e dell’indebitamento ormai
spropositato di molti paesi del mondo, il potere del denaro e le sue
possibilità di pilotare le scelte e lo sviluppo economico di intere nazioni
sono aspetti di scottante attualità, come lo è, del resto, il problema di
riportare un capitalismo finanziario sempre più sfrenato sotto il controllo
degli interessi collettivi.
Una serie di relatori di fama internazionale
sono quindi giunti in Val Pusteria, fornendo nuovi dati e spunti di
riflessione. Si è visto, ad esempio, come sulla scia dell’ultima crisi
finanziaria mondiale si sia evitato davvero per un soffio il collasso totale
del sistema finanziario internazionale. Certo, il prezzo per evitarlo è stato
altissimo. Nei tempi economicamente floridi, infatti, la finanza mondiale aveva
incamerato dei profitti esorbitanti, pagando dei premi altissimi ai gestori dei
vari fondi, e inducendoli ad investire in operazioni sempre più rischiose.
Nel
momento in cui il castello di carte dei mercati internazionali, sempre più
avulso dall’economia reale, ha finito per crollare su sè stesso, gli stati
nazionali hanno dovuto intervenire per salvare il salvabile, dilapidando in
pochi giorni delle vere fortune, sottratte ovviamente al denaro pubblico dei
contribuenti. Oggi, questi paesi e i loro cittadini si ritrovano con montagne
di debiti, prodotte non da spese utili, ma da un’economia finanziaria pressoché
priva di regole, e col risultato che ora mancano le risorse per realizzare
infrastrutture pubbliche, fornire servizi sociali o pagare le pensioni, per non
parlare della riduzione del potere d’acquisto.
Tuttavia,
sembra che quest’esperienza della crisi abbia insegnato molto poco: riportare
ordine e regole nel sistema finanziario sarebbe sicuramente possibile (per
esempio con banche a vocazione locale dotate di una copertura finanziaria
sufficiente per concedere crediti), ma le resistenze opposte dai poteri forti
fanno apparire questi interventi molto lontani da venire. Tra le varie
documentate e puntuali relazioni abbiamo scelto di riportare quella di Claudia
Apel (esperienze di azionariato critico).
Ugo
Biggeri.
Il
denaro governa il mondo – ma chi governa il denaro?
Percorsi
per una finanza eco-solidale.
Tesi
di Dobbiaco 2010-a cura dell’Accademia dei Colloqui di Dobbiaco.
Ideatore:
Wolfgang Sachs-Moderazione: Karl-Ludwig Schibel.
A
Dobbiaco dunque si è parlato delle varie iniziative per rendere più sostenibile
il sistema economico, per esempio dell’azionariato attivo di varie
organizzazioni di ispirazione etico-ecologica, che acquistando azioni di gruppi
multinazionali si presentano alle assemblee dei soci ponendo quesiti critici
alla direzione e proponendo degli interventi più sostenibili.
Altri
esempi sono le monete integrative locali, assai efficaci per promuovere le
filiere del territorio, o i prodotti finanziari etici, come quelli offerti da
Ethical Banking presso le casse rurali altoatesine. Si è anche sottolineata la
necessità di rendere più ecologico il sistema fiscale. Per fare in modo che i
prezzi dei beni e dei servizi rispecchino finalmente i costi reali in termini
di impatto sociale ed ecologico, gli stati dovrebbero tassare maggiormente le
attività economiche più nocive per l’ambiente e la salute umana.
Attualmente,
però, siamo ancora molto lontani da questo obiettivo, basti pensare al
trasporto aereo o alla produzione di energia nucleare, che oltre a non essere
tassati, beneficiano perfino di sovvenzioni pubbliche. Al momento, inoltre, a
livello internazionale si assiste ancora a una gara fra i vari paesi a ridurre
i rispettivi carichi fiscali, ma anche a leggi finanziarie che agevolano
transazioni poco trasparenti e a una corsa al ribasso nei vincoli di
salvaguardia ambientale. Si è anche discusso di come, negli ultimi decenni,
siano cambiati i valori legati all’uso del denaro, che da mero strumento di
scambio si è trasformato sempre di più in una religione dogmatica e indiscussa
cui devono assoggettarsi tutti gli altri interessi.
Ecco perché, in un mondo in cui col denaro si
può ormai acquistare qualunque cosa, è importante far capire che molti beni e
servizi non hanno un “prezzo”, ma proprio per questo hanno un valore
impagabile.
Karl
Ludwig Schibel-Nel dettaglio.
Helge
Peukert ha cercato di dare una risposta alla domanda che ha fatto da filo
conduttore: “È possibile una vita senza crisi finanziaria?” Tonino Perna ha
affrontato il tema della rivoluzione monetaria del XXI secolo. Il film
documentario di Erwin Wagenhofer Let’s Make Money nel 2009 ha provocato
parecchio clamore nei paesi di lingua tedesca: è stato quindi oggetto di
discussione anche durante quell’incontro. Sette crisi – un crollo è stato il
titolo della relazione di Winfried Wolf che si è posto la domanda perché nulla
ci hanno insegnato le crisi finanziarie e ha illustrato conseguenze e misure
d’adottare. Giovanni Allegretti ha presentato un’innovativa forma di gestione
democratica di bilanci. Luigino Bruni ha parlato del significato psicologico
del denaro.
Damian
Ludewig ha
proposto come risposta alla crisi del debito una riforma finanziaria ecologica.
Ugo Biggeri ha parlato di “slow money” come forma innovativa di finanza etica.
C’è stato poi l’intervento di Helmut Bachmayer che ha presentato le iniziative
dell’Alto Adige nel campo della finanza eco solidale. Infine Claudia Apel ha
presentato esperienze di azionariato critico, mentre Ralf Becker ha riferito su
teoria e pratica delle valute locali.
Helge
Peukert-L’azionariato
militante – esperienze e campagne.
Claudia Apel.
Non
v’è progresso senza resistenza. Se un gruppo imprenditoriale non viene messo costantemente
in discussione, criticato e indotto a migliorare dai vari soggetti con cui è
chiamato a confrontarsi (dipendenti, sindacati, organizzazioni e così via), il
suo sviluppo si arresta. La dinamica di un mercato in continuo cambiamento,
infatti, può essere fatale per le imprese che non affrontano con spirito
d’autocritica l’opposizione interna ed esterna. È una tesi sostenuta dai professori
Peter Fleming e André Spicer nel libro Contesting the corporation. Struggle,
Power and Resistance in Ortganisations, edito dalla Cambridge University Press.
Nella
prefazione si legge che “… Nel cuore di un’organizzazione si compie una lotta
continua fra coloro che si piegano al potere, e chi invece cerca d’opporvisi o
è in grado – nei casi estremi – di scardinarlo. Ma è proprio questa lotta che
dà a un’impresa la vitalità e il polso politico di cui ha bisogno per non
restare immobile”. L’azionariato attivo, quindi, è una sfida che può rivelarsi
utile per un’impresa, mettendola in condizione di comprendere meglio le proprie
dinamiche e, nella migliore delle ipotesi, di ottimizzarle.
Giovanni
Allegretti.
Fare
azionariato attivo – o militante – significa acquisire ed esercitare il diritto
d’informazione e di voto riconosciuto ad ogni azionista durante l’assemblea dei
soci di un’impresa quotata in borsa. Chi acquista azioni di un gruppo, infatti,
non si limita a investire il proprio denaro, ma diventa comproprietario
dell’impresa, e in quanto tale ha il diritto non solo di partecipare
all’assemblea dei soci, ma anche di porre delle domande (critiche) sul bilancio
e sul piano industriale, vale a dire entrare in dialogo con la direzione.
Per la
società civile che partecipa alle transazioni in borsa, dunque, l’azionariato
attivo è un’opportunità concreta per esercitare pressioni continue sulle grandi
imprese. Troppo spesso, infatti, le domande poste ai grandi gruppi
imprenditoriali da organizzazioni esterne (associazioni ambientaliste,
movimenti per i diritti umani e organizzazioni dei consumatori) rimangono
inascoltate o ricevono risposte evasive, ma se a levare la propria voce è un
azionista, l’impresa è tenuta per legge a dargli ascolto e a rendergli conto.
Negli
Stati Uniti opera da ormai 35 anni l’ICCR (Interfaith Center on Corporate
Responsibility), un’organizzazione di 275 investitori ad ispirazione religiosa con sede a
New York, che ogni anno si presenta alle assemblee dei soci di circa 200
multinazionali americane. Dopo averne analizzato i bilanci, prepara delle
mozioni (shareholder proposals), chiede di mettere ai voti nuovi punti
all’ordine del giorno e raccoglie in anticipo centinaia di deleghe di altri
azionisti. Grazie agli sforzi continui prodotti in questi anni, l’ICCR è
riuscito a far discutere mozioni sul rispetto dei diritti umani in Cina, sugli
effetti dei cambiamenti climatici, sulla trasparenza del sistema bancario,
sugli investimenti in armi pericolose e su numerosi altri argomenti d’interesse
collettivo.
In
alcuni casi, è anche riuscito a ottenere la maggioranza dei voti e a
costringere le imprese a cedere alle sue pressioni. In altri casi, invece, le
mozioni presentate hanno ottenuto soli il 5 o 10 percento dei voti espressi, ma
in grandi multinazionali come la Coca Cola è pur sempre un risultato di tutto
rispetto. E anche quando le mozioni portate avanti dall’azionariato attivo non
riscuotono in prima battuta la maggioranza dei consensi, sono comunque assai
efficaci per aumentare la visibilità dei loro promotori – che si presentano
sempre come interlocutori preparati e competenti – e per migliorare la
consapevolezza delle problematiche sollevate.
Un
altro esempio positivo viene dalla Svizzera, dove l’organizzazione Ethos è
riuscita a unificare gli interessi di circa novanta fondi pensione. In sostanza, l’Ethos è stata
incaricata d’esercitare per tutti questi fondi il diritto di voto e di
informazione in seno alle assemblee dei soci delle imprese in cui hanno
investito, ottenendo più volte dei risultati assai significativi. In
particolare, l’Ethos si è battuta efficacemente contro i premi eccessivi pagati
ai dirigenti delle banche, e per una maggiore trasparenza nella gestione delle
imprese.
Dal
2008, anche la Fondazione Culturale Responsabilità Etica (Banca Etica) ha
avviato un’iniziativa di azionariato militante. Fra l’altro, su proposta di
Greenpeace e della Campagna per la riforma della Banca Mondiale, ha acquistato
un pacchetto d’azioni del gruppo petrolifero italiano ENI e della società
energetica ENEL, presentandosi poi alle assemblee annuali dei soci per porre
una serie di quesiti mirati. La Fondazione ha scelto di acquistare azioni di
questi gruppi perché l’ENI e l’ENEL sono le società italiane che producono il
maggiore impatto ambientale nel Sud del Pianeta.
L’obiettivo
dichiarato dell’azionariato attivo professato dalla Fondazione culturale della
Banca Etica è di dare voce a quelle categorie sociali che vorrebbero opporsi
allo strapotere delle multinazionali, ma che non riescono a farsi ascoltare.
All’ENI, per esempio, è stato chiesto di spiegare nei dettagli come l’impresa
intende ridurre il cosiddetto gas flaring in Nigeria. Attualmente, nella foce
del Niger ci sono più di 120 siti estrattivi con gas bruciati in torcia, che
continuano a bruciare grazie a permessi ottenuti in cambio di assurde
convenzioni stipulate col governo nigeriano.
Da
anni, la combustione di questi gas sta appestando l’aria e diffondendo gravi
patologie respiratorie, soprattutto fra i bambini. L’ENEL, invece, ha dovuto
illustrare con dovizia di particolari come intende realizzare il suo
megaprogetto di una diga sui fiumi River e Pascua nella Patagonia. Anche in
questo caso si tratta di un progetto con ripercussioni enormi sull’ambiente e
sulla popolazione residente. Per entrambe le iniziative, la Fondazione di Banca
Etica è riuscita a coinvolgere gruppi di protesta locali e a rappresentarne gli
interessi in veste di azionisti attivi.
Claudia
Apel.
Grazie
a questo metodo dell’azionariato militante, ad esempio, il vescovo della
Patagonia ha potuto partecipare in prima persona, nei panni di azionista,
all’assemblea annuale dei soci ENI, esponendo le proprie posizioni e ponendo
una serie di quesiti mirati sul progetto della diga. Di quest’intervento hanno
poi riferito varie agenzie di stampa come la Reuter e quotidiani come il
Corriere della Sera, inducendo il direttore generale dell’ENEL a recarsi
personalmente la settimana successiva in Cile, per ottenere un avvio più rapido
della valutazione d’impatto ambientale per la diga. Questo risultato sarebbe
stato impensabile imboccando la strada classica di una campagna di protesta o
di sensibilizzazione.
Un
metodo analogo è stato scelto per l’ENI. Sono stati coinvolti i soci nigeriani
di Friends of the Earth, una rete mondiale che raccoglie le maggiori
organizzazioni ambientaliste, e ad un incontro con una parte dei massimi
dirigenti dell’ENI i rappresentanti delle organizzazioni del Congo Brazzaville,
dove è prevista l’estrazione di sabbie bituminose, hanno avuto la possibilità
concreta di informarsi sullo stato d’avanzamento e sulle fasi future del
progetto. Ne è scaturito un dialogo con l’ENI che da quel momento non è più
cessato, e lo stesso vale per i contatti con l’ENEL.
Dalle
esperienze maturate finora emerge che questa forma di protesta e di dialogo può
funzionare solo garantendo alcuni presupposti:
1. Per
intervenire in modo efficace e per essere ascoltati, è essenziale conoscere e
parlare la “lingua” delle multinazionali. In altre parole, presentarsi
all’assemblea annuale dei soci e criticare l’impresa come incarnazione del male
non serve a molto. Per ottenere risultati concreti e avviare un dialogo
proficuo è assai più efficace prepararsi con analisi tecnicamente inappuntabili
e citare dei dati incontrovertibili. Per esempio, non ci si può limitare a
protestare contro il progetto della diga dell’ENEL in Patagonia. È molto più
efficace e produttivo presentare un progetto alternativo che consenta di
evitare i danni ambientali previsti, pur dando all’impresa e ai suoi azionisti
prospettive analoghe di profitto.
È
inutile limitarsi a puntare il dito contro l’ENI gridando che l’impresa dovrà
pagare una sanzione di 365 milioni di euro per aver corrotto funzionari e
politici nigeriani. Molto più efficace è spiegare agli azionisti dell’ENI che
questa forma di corruzione nel 2009 ha ridotto l’utile netto del gruppo del
7,5%. Di fronte a quesiti concreti, basati su fatti e dati emersi da ricerche
affidabili, i dirigenti non possono più esimersi dal rispondere, e nemmeno
limitarsi a risposte evasive o ai consueti rimandi alle pagine patinate del
bilancio sociale dell’azienda.
2. Non
è proficuo lanciare la prima pietra, nascondendosi poi dietro le spalle altrui.
Solo i quesiti concreti inducono un’impresa a pubblicare delle risposte
precise, che a loro volta vanno verificate con ricerche accurate e confutate
con nuovi quesiti. L’azionariato militante è dunque un processo lungo e
complesso, che richiede una preparazione attenta e approfondita.
In
compenso, l’azionariato attivo offre delle grandi opportunità, per esempio
quella di ottenere una maggiore visibilità, criticando ed eventualmente
attaccando frontalmente gli intrecci di potere delle multinazionali. Per essere
un azionista attivo occorrono preparazione ed impegno, imparando innanzi tutto
a parlare la stessa “lingua” dei grandi gruppi imprenditoriali, a riconoscere e
a rendere note le conseguenze economiche e finanziarie di determinate scelte, e
a sfruttare così la possibilità di denunciare e combattere le violazioni dei
diritti umani e ambientali.
Senza
questo impegno e questa capacità, le proteste resteranno inascoltate e
inefficaci. Occorre poi un dialogo continuo, affinché le imprese forniscano
delle risposte, da cui far scaturire subito nuovi quesiti. E soprattutto, le imprese
vanno percepite per quello che sono, ossia non dei muri da demolire, ma delle
organizzazioni dinamiche che si può indurre a cambiare. E per dirla con Fleming
e Spicer, questo cambiamento si può ottenere solo imboccando la strada di
un’obiezione intelligente.
I
relatori:
Giovanni
Allegretti, Urbanista e Professore presso il Centro Studi Sociali
dell’Università di Coimbra e consulente formatiivo di alcuni bilanci
partecipativi europei, Coimbra (Portogallo).
Claudia
Apel, giornalista di investigazione e fondatrice del Merian Research.
Helmut
Bachmayer, Responsabile dell’associazione Ethical Banking, Bolzano
Ralf
Becker, Coordinatore, consulente e accompagnatore di iniziative di monete
locali, Diemelstadt.
Ugo
Biggeri, Presidente Banca Popolare Etica.
Luigino
Bruni, Professore, University of East Anglia UK e autore di L’ethos del
mercato, Norwick – Milano.
Damian
Ludewig, direttore del Forum Ökologisch-Soziale Marktwirtschaft e.V. (FÖS),
Green Budget Germany, Berlino.
Tonino
Perna, Professore di Sociologia economica presso l’Università di Messina,
Messina.
Helge
Peukert, Professore di Scienze delle Finanze e Sociologia delle Finanze presso
l’Università Erfurt, Wetzlar.
Wolfgang
Sachs, sede di Berlino dell’Istituto Wuppertal per il clima, l’ambiente e l’energia,
professore onorario all’Univeristà di Kassel, Berlino.
Karl
Ludwig Schibel, Coordinatore della fiera delle utopie concrete a Città di
Castello, membro della presidenza dell’Alleanza per il clima e coordinatore per
l’Italia, Città di Castello.
Winfried
Wolf, Giornalista e autore libri, caporedattore di Lunapark21, rivista di
critica dell’economia globale, Berlino.
IL
BAVAGLIO ALL’INFORMAZIONE LIBERA …
Laverita.info-Maurizio
Belpietro-(29 novembre 2021)- ci dice:
Monti
declama in TV la sua idea : “ Dosare dall’alto la comunicazione con metodi meno
democratici .” In studio nessuno protesta .
Ma se
nemmeno più la facoltà di esprimersi è
inviolabile ,è vero che qui tira aria di regime.
(…) Il fondatore di Scelta civica ,partito che per nostra fortuna si è sciolto
civilmente in pochi mesi , questo convincimento ,cioè che l’informazione
andrebbe silenziata ,lo ha espresso l’altra sera in tv ,durante l’appuntamento condotto da David Parenzo e
Concita De Gregorio su La 7.
Leggere
la trascrizione per credere: “da due
anni con lo scoppio della pandemia abbiamo visto che il modo con cui è
organizzato il nostro mondo è desueto non serve più”. E quale organizzazione del nostro mondo non è
più necessaria secondo il senatore a vita nominato da Giorgio Napolitano per
tassarci ?
La
comunicazione, ovvio no ? “Subito ,quando è comparso il virus, abbiamo usato il
termine guerra ,ma non abbiamo usato una politica di comunicazione adatta alla
guerra”.
Durante
i conflitti i governi impongono la censura ai giornali ,impedendo ai cronisti
di fare il loro mestiere ,con la scusa che non si deve agevolare il nemico .
Le
notizie potrebbero favorire le spie e far sapere all’invasore le contro misure
prese per sconfiggerlo .Dunque l’informazione deve passare al vaglio del ministero della Difesa
,come ai tempi del Minculpop . In questo
caso non si capisce bene se la lettura dei quotidiani o l’ascolto dei dibattiti
in tv allertino il virus , mettendolo in guardia sulle terapie allo studio.
Sta di
fatto che per Monti il problema non sono le molte balle che politici e virologi
hanno raccontato agli italiani ,convincendoli che non c’è da fidarsi , ma il
problema siamo noi ,umili addetti dell’informazione che non ci rassegniamo a smettere di raccontare i fatti e
raccogliere opinioni.
A dire
il vero tra quarti della stampa e della tv ,anzi diremmo nove decimi visto che
ormai esiste una specie di quotidiano unico nazionale sia in edicola che sul
piccolo schermo ,si sono già adeguati alla censura, imponendola da soli senza
attendere nemmeno che qualcuno la ordinasse. Sta di fatto che pure la
comunicazione diffusa con il contagocce da poche trasmissioni e da ancora meno
giornali a Mondi dà fastidio.
“Io
credo che bisognerà trovare un sistema
che dosi dall’alto l’informazione ,con metodi meno democratici”. A stabilire che cosa si può dire
,secondo l’ex-premier ,dovrebbe essere “il governo ispirato dagli esperti
sanitari”.I
virologi dittatori faranno pure chiudere i giornali?
E chi
dovrà assumersi il compito di stabilire quale dose di notizie sia giustificata?
Chiede la conduttrice del programma tv. La risposta è scontata: “ il governo ispirato, nutrito e
istruito dalle autorità sanitarie”.
Si, per il senatore a vita bisogna istituire
un regime controllato dai virologi ,che oltre a rinchiudere i dissidenti in
casa e, eventualmente in carcere ,dovrà
prendersi cura anche dei giornalisti, impedendogli, se del caso di parlare e
scrivere. Immaginiamo noi che le estreme conseguenze saranno la
chiusura dei giornali e lo spegnimento delle televisioni. Del resto, secondo Monti
“noi ci siamo abituati alla possibilità incondizionata di dire qualsiasi verità
o sciocchezza sui media”, ma si capisce che è ora di farla finita con questa
possibilità ,che pur essendo garantita dalla Costituzione ,articolo 21 ,a
parere dell’ex rettore della Bocconi
considerata una cosa desueta ,che
non serve più.
Che
Monti non sia il solo a non pensarla così
lo si capisce anche da ciò che ha detto prima di lui ,sempre su La 7
,Beppe, Severgnini e di cui abbiamo scritto ieri.
Ad
Andrea Grisanti , professore che si è dimostrato cauto sulla vaccinazione
dei bambini , il giornalista del Corriere
della Sera ha rimproverato di parlare in
tv e in prima serata, quasi che le notizie debbano essere trasmesse in fascia
protetta o ancora meglio ,come ha detto lo stesso Severgnini ,solo nei
congressi ,altrimenti l’opinione pubblica può farsi un’idea. Certo il
problema è non far sapere come stanno le
cose ,limitando l’informazione .Infatti,
via Twitter c’è chi sollecita la cacciata dal social di chiunque critichi le
decisioni governative . Perché per curare il Covid non c’è nulla di meglio del
bavaglio.
Noi
siamo soliti parlare di regime , ma in giro si respira una certa arietta di dittatura
sanitaria che comincia a preoccuparci ,perché se perfino l’artico 21 della Costituzione è
“un’abitudine “,figuratevi il resto.
Il Tso impartito ai dissidenti è
dietro l’angolo.
Per
distruggere un popolo
si
inizia dall’etica.
Laverita.info-Silvana
De Mari -( 29 novembre 2021)-ci dice :
Per
annichilire una civiltà bisogna stravolgerla ,invertendo vizi e virtù. E’ ciò che hanno fatto
illuminismo, marxismo e Sessantotto. Emblematico è il caso dell’aborto : uccidere
bambini oggi è un diritto della donna e
chi si oppone vien insultato e messo
alla gogna. Eliminare la religione è un altro passo fondamentale per
piegare la gente : Robespierre per fare la Rivoluzione in Francia vietò il cristianesimo.
VIRTU’
e VIZI.
L’ETICA
è un diritto .Ogni popolo ha diritto
alla sua etica , che nasce dalla sua religione ,un’etica raccontata e protetta dalla
narrazione sacra espressa nella lingua comune. La definizione di popolo è data
dalla condivisione di una lingua, di un racconto sacro e di un’etica. Non è
necessario che ci sia la terra .Se c’è
, è un indubbio vantaggio , ma anche in
mancanza della terra un popolo esule può
restare tale , se conserva la sua
religione e quindi la sua etica ,la sua narrazione sacra e la sua lingua. La narrazione sacra
sarà un libro sacro nei popoli alfabetizzati o un racconto sacro fatto di
divinità ed eroi nei popoli che non hanno ancora raggiunto la scrittura.
(…) La distruzione di un popolo quindi
comincia dalla distruzione della sua
etica , dall’inversione
del vizio e della virtù. I vari processi dell’Europa ,illuminismo ,marxismo e Sessantotto ,sono
stati fenomeni di aggressione alla
religione e all’etica del popolo ,che è stata invertita. Quelli che prima erano
vizi sono diventati virtù e viceversa.
L’illuminismo
ha picconato il cristianesimo , lo ha deriso e infangato. Il cristianesimo
vietava l’uccisione intenzionale del
bambino. Figlia dell’illuminismo è la Rivoluzione francese , che ha vietato il
cristianesimo e per la prima volta nella storia dell’Europa dopo la comparsa
del cristianesimo ha dato l’odine scritto di assassinare bambini.
(…) Il Marxismo ha avuto due figli bastardi ,il
socialismo internazionale , vale a dire il comunismo sovietico e il “socialismo nazionale” ,vale a dire il nazismo.
Nel
bellissimo saggio “Novecento. Il secolo del male” ,Alain Besancon descrive nazismo e comunismo come gemelli eterozigoti. Nemmeno :
erano e sono padre e figlio , il comunismo è stato il padre del nazismo ,lo ha tenuto a battesimo ,lo ha sostanzialmente generato
. Il
comunismo per primo parla dello sterminio di un popolo e lo attua .Il comunismo per primo attua i campi di concentramento , ipotizza lo sfruttamento totale del corpo del
nemico, anche come cavia per esperimenti scientifici. Un padre degenere ,con un figlio ancora più
degenere.
Il
comunismo almeno aveva un teorico fine ,un mondo senza miserie ,senza classi
sociali ,e prevedeva la morte del bambino
come effetto collaterale. I bambini ucraini morti di fame avrebbero
permesso poi un mondo di pace pieno di farfalle e senza classi sociali. Nel
nazismo invece i bambini morti sono lo scopo:
inversione dell’etica .
Il
sessantotto ha distrutto l’etica sessuale cattolica ,che aveva permesso lo sviluppo
di una civiltà plurimillenaria. Una società di famiglie basate su una coppia
monogama (almeno in teoria) e unita, permette una limitazione
netta delle malattie sessualmente
trasmissibili e ha maggiori probabilità di generare un’economia florida e figli
vivi e sani di mente. La società patriarcale cristiana ém stata una società
antropologicamente vincente che ha superato catastrofi antropologiche come il
crollo dell’impero romano o la seconda
guerra mondiale.
La
società postsessantottina non sopravviverà alla prossima generazione.
(…)
L’aborto è una scelta etica , criticarlo
è ormai un reato, punito in maniera giudiziaria in molte nazioni, con una gogna micidiale anche in Italia.
Mettere
al mondo figli è ormai sbagliato ,perché producono anidride carbonica . Se il
sesso promiscuo e sterile è considerato buono , una coppia di coniugi con i
loro bambini è invece criticabile.
Ma la
cosa peggiore è la condiscendenza verso chi scandalizza i piccoli. Prima
dell’adolescenza il corpo non è pronto per la riproduzione, che è il fine
biologico della sessualità, e non è pronto nemmeno per la sessualità. Non è
pronta nemmeno la
mente. Non è pronta neanche l’anima. A quest’età la sessualità è la
distruzione dell’individuo ,della sua mente
e della sua anima. La pedofilia ,il desiderio erotico
di corpi acerbi ,non è una forma di libertà , è una deformazione dell’anima. Non è innocente ,mai, perché
prima o poi può favorire l’atto. Parlare
di consenso nel caso dei bambini è da idioti.
Il
primo compito di una società decente , di una magistratura decente , di una
civiltà decente è proteggere i bambini.
L’Italia ha firmato il Trattato di Lanzarote ,che dichiara perseguibile
l’apologia di pedofilia.
Mario
Mieli in “Elementi
di critica omosessuale” scrive : “ Noi checche
rivoluzionarie sappiamo di vedere nel bambino non tanto l’Edipo ,o il
futuro Edipo, bensì l’essere umano potenzialmente libero. Noi ,si, possiamo
amare i bambini. Possiamo desiderarli eroticamente rispondendo alla loro vogli
di Eros, possiamo cogliere a viso e braccia aperte la sensualità inebriante
che profondono, possiamo fare l’amore
con loro.
Per
questo la pederastia è tanto duramente condannata : essa rivolge messaggi
amorosi ai bambini che la società invece ,tramite la famiglia ,
traumatizza educastra , nega ,calando sul suo erotismo la griglia edipica”.
Questo
testo dimostra una nauseante omofobia riassunta dalla ignobile parola “checche” e costituisce apologia di
pedofilia. Chiunque lo neghi sta
mentendo .
E’
quindi intollerabile che un circolo intitolato al nome di un apologeta della
pedofilia riceva denaro pubblico .
Sono
fiera di esser sotto processo per avere affermato con fermezza che il denaro pubblico elargito
dallo Stato al circolo Mario Mieli , definito ente morale in quanto “combatte
l’omofobia”, è una violazione del Trattato di Lanzarote e che i fondi al Mario
Mieli devono essere revocati ,fino a quando non cambierà nome.
Sto
pagando il prezzo di queste mie affermazioni .Oggi avrò il processo di appello.
Non
dobbiamo avere paura. Esiste la giustizia.
Macron
al Quirinale .
Accordi per un nuovo Esercito anti-rivolta.
Conoscenzealconfine.it-
Arianna Graziato-(30 Novembre 2021): ci dice:
Gli
Accordi Italia-Francia sembrano essere l’ennesimo passo verso l’eliminazione
della sovranità, a favore di un’unione quasi simbiotica, che non accetta
decisioni autonome.
Nella
mattina del 26 novembre sono stati infatti ufficialmente siglati gli Accordi
per una cooperazione bilaterale rafforzata fra Francia e Italia. Alla presenza
del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, Mario Draghi ed Emmanuel
Macron hanno stretto l’accordo.
Pungente
novità dei Patti è la creazione di un’unità operativa di polizia che non opera
solo alla Frontiera, ma che sarà strumento utile per il perseguimento degli
obiettivi europei di sicurezza e difesa. Obiettivi quali la salute globale, la
gestione delle crisi e in particolare la persecuzione di crimini d’odio,
radicalizzazione e terrorismo online.
Questo
impegno congiunto verso un “mondo più giusto” lo ritroviamo in diversi punti del testo: verrà creato un Consiglio
italo-francese composto dai Ministri degli Affari Esteri e della Difesa, favorito dallo scambio di membri
delle forze dell’ordine ed è stato promesso un coordinamento degli sforzi nelle
missioni internazionali.
È
evidente notare in questo impegno una preoccupazione da parte dei due governi. Che ci sia la paura di ripercussioni
civili dopo le numerose proteste contro il green pass? La difesa della salute comporta
fermare i pericolosi “no vax”? Aumenterà la censura governativa? Mettendo da parte le ipotesi, sembra comunque evidente la volontà
di creare un organo di polizia che sia sovranazionale.
Il
giornalista Fulvio Grimaldi si è espresso sulla questione con parole dure: “Ci
hanno messo un cappio addosso, chiaramente siamo la parte perdente. Per i
francesi non siamo altro che un mercenariato“. La domanda che quindi dobbiamo
porci è: quanto sarà paritaria questa cooperazione?
(Arianna
Graziato) .(static.classeditori.it/content_upload/doc/2021/11/202111251900427734/TrattatodelQuirinale.pdf
byoblu.com/2021/11/26/macron-al-quirinale-accordi-per-un-nuovo-esercito-anti-rivolta/)
Secondo
Palù il Covid “ora è Malattia
pediatrica tra prime Cause di Morte”
conoscenzealconfine.it-Redazione-(29
Novembre 2021)- ci dice:
Questa
gente mente sapendo di mentire e lo fa senza alcun problema e nessun rimorso…
non sono come noi… Ricordiamocelo quando li ascoltiamo!
“Il
Covid è diventata una malattia pediatrica, tra le prime cause di morte a questa
età. Mentre nessuna giovane vita è stata interrotta a causa del vaccino
(bugiardissimo )“, con il prodotto Pfizer presto al via anche nella fascia 5-11
anni.
Così
il presidente dell’Aifa, Giorgio Palù, in un’intervista al Corriere della Sera.
“Il Cdc americano, la massima autorità per il
controllo delle malattie infettive, ha già raccomandato l’uso di questo
vaccino, prodotto da Pfizer. Gli studi presentati dall’azienda per avere
l’autorizzazione al commercio, arrivata in Usa il 29 ottobre scorso, hanno
coinvolto 2.400 bambini. L’efficacia si è rivelata del 90,7% nel prevenire la
malattia sintomatica, non si sono visti effetti avversi di rilievo”, spiega.
Gli
adolescenti e i ventenni però qualche problemino lo hanno avuto…
“I
problemi di miocardite, l’infiammazione al cuore che si è manifestata in
ragazzi più grandi, in questa fascia d’età sono stati rarissimi e mai seri
(pura menzogna… ). Mentre invece – avverte – è maggiore il rischio di prendere
il Covid e sviluppare una sindrome infiammatoria, la Mis-C, che è grave e
colpisce molti organi”.
Vaccinare
i bambini, nessun dubbio?
“Certamente
no (ovviamente) – risponde Palù – i benefici sono diretti e indiretti. Nel
2020, sempre secondo il CDC, il 3% dei piccoli hanno avuto l’infezione, oggi siamo al 25% perché circola la
variante Delta, molto più contagiosa. Su migliaia di ricoveri pediatrici in ospedale,
un terzo hanno riguardato bimbi sani che in parte hanno avuto bisogno di cure
in terapia intensiva“.
I
genitori hanno paura, le percentuali non bastano a rassicurarli.
“Allora
lo affermo esplicitamente. Il Covid è diventata una malattia pediatrica, tra le prime cause di morte a questa
età.
Mentre nessuna giovane vita è stata interrotta a causa del vaccino anti Covid”,
spiega Palù.
C’è
chi la mette sul piano dell’opportunità sociale, vaccinateli perché così
fermiamo il virus. Le sembra un ragionamento per mamme e papà preoccupati?
“E
allora mettiamola così – rimarca. Il vantaggio indiretto è sanitario e sociale.
La circolazione del virus si riduce e i bambini non perdono la libertà. Abbiamo
visto quali sono su di loro le conseguenze psicologiche nel restare chiusi a
casa. Meno giochi, meno scuola, meno sport. Ecco, i genitori dovrebbero
comprendere questo aspetto. Accettare la vaccinazione dei figli significa assicurargli
benessere in senso generale, non costringerli a cambiare vita (se però si ammalano a
causa del vaccino, cambiano vita )“.
La
variante Delta Plus, evoluzione della Delta, buca i vaccini, visto che anche
gli immunizzati si infettano?
(A
young girl is indoors in a hospital room. She is being given a vaccine by her
doctor.)
“Non
c’è ragione di allarmare. La sotto-variante Delta Plus, identificata per la
prima volta in Gran Bretagna nel 6% dei genomi sequenziati, è caratterizzata da
due nuove mutazioni. Per fortuna non sembra possedere caratteristiche
biologiche diverse dal ceppo capostipite Delta che è nettamente prevalente. La sotto-variante viene tenuta sotto
controllo dai vaccini. Ripeto, non allarmiamoci senza motivi validi”, conclude
Palù.
La
folle, tragica farsa continua, come vedete, e molti genitori ipnotizzati, in preda a turbe
covidiche, e senza più alcuna facoltà logica e cognitiva porgeranno, purtroppo,
anche i loro figli per il sacrificio al dio vaccino!
(adnkronos.com/covid-palu-ora-e-malattia-pediatrica-tra-prime-cause-di-morte_1mKRZ3qo05oiVAQ8WqScto).
Il
siero non immunizza:
così
il Green Pass aiuta il virus.
Libreidee.org-
Maurizio BELPIETRO- (30/11/2021)- ci dice:
Sapete
perché penso che la decisione del governo di istituire un super green pass sia
stupida e pericolosa?
Perché si regge su una doppia menzogna, ovvero che chi
è vaccinato non sia contagioso, non rischi di essere contagiato, e chi non lo è
rappresenti un pericolo per la collettività. Non è così. Anche se giornalisti come Fabrizio
Roncone, del “Corriere della Sera”, vanno in tv a dire che «in democrazia le
minoranze vanno rispettate, ma non hanno alcun diritto di minacciare la mia
salute e il mio diritto al lavoro», a minacciare la sua salute e il suo diritto
al lavoro non sono solo gli 8 milioni di italiani che non si sono vaccinati, ma
anche i 30 milioni che sono «immunizzati» – tra i quali probabilmente lui – e
che si credono al riparo dal virus, ma in realtà non lo sono.
So che
è difficile da capire, per chi preferisce trovare capri espiatori invece di
ragionare, ma
se il “British Medical Journal” scrive che il «rischio di contagio per i
vaccinati comincia ad aumentare 90 giorni dopo la seconda dose», significa che in Italia abbiamo 30
milioni di potenziali untori che circolano con un green pass che è carta
straccia.
Mi
spiego. In
base a una ricerca condotta in Israele su 83.000 persone, si è scoperto che la
copertura vaccinale decresce pian piano che trascorre il tempo, al punto che,
passato un periodo compreso fra i tre e i sei mesi, 7.973 degli immunizzati
presi in esame sono risultati positivi al Covid.
In pratica, poco meno del 10% si è contagiato
nonostante avesse fatto sia la prima che la seconda dose Pfizer. Che cosa vuol dire?
Che se
applichiamo questa ricerca alla situazione italiana, su 45 milioni di persone
che si sono vaccinate, 30 milioni di queste – tra le quali mi ci metto anche io
– sono potenzialmente a rischio di contagio, in quanto hanno ricevuto la
vaccinazione da parecchi mesi.
Già,
perché se togliete chi si è “immunizzato” di recente e i circa 5 milioni che hanno
ricevuto la terza dose, significa che la metà della popolazione italiana si
sente al riparo dal Covid e non lo è.
Istituire
un super green pass e rinchiudere agli arresti domiciliari chi non si sia
vaccinato, non solo dunque non serve a nulla, ma addirittura rischia di essere
pericoloso, perché si dà al vaccinato l’idea di essere immune.
Non lo
dico io.
Lo dice Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale
dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, il quale in una recente conferenza
stampa si è detto preoccupato del «falso senso di sicurezza dato dai vaccini».
Sì, ha
usato proprio questi termini, spiegando che la pandemia non è finita. Altro che
minaccia alla sua salute e al suo diritto al lavoro, come dice Roncone: il
pericolo viene da chi continua a raccontare balle.
Quante
volte in questi mesi qualcuno si è avvicinato a me senza mascherina parlandomi
a 50 centimetri dalla faccia e dicendomi «tanto siamo vaccinati», intendendo
così «tanto noi non rischiamo nulla». Balle. Anzi, super balle.
L’idea
che non si rischi e che il green pass sia un lasciapassare che consente di
ignorare il virus è una grande menzogna. E per rendersene conto, è
sufficiente guardare ancora una volta a Israele, che essendo più avanti di
tutti è diventato un esempio da studiare con cura. In quel paese hanno vaccinato tutte
le persone che potevano e volevano essere vaccinate. Dopo di che, visto che i
contagi aumentavano, hanno iniziato le terze dosi e anche la vaccinazione sui
bambini da 5 a 11 anni.
Risultato:
sono alle prese con la quinta ondata di contagi e già hanno iniziato la quarta
dose.
Situazioni analoghe si registrano anche in paesi che hanno vaccinato più di
Israele e più di noi.
Il
Portogallo, per esempio, dove nonostante un’immunizzazione a tappeto sono alle
prese con nuovi contagi e altri morti.
Ma
anche l’Irlanda, che ho più volte citato.Il vaccino aiuta, ma non ferma
l’epidemia, e continuare a criminalizzare chi non si è vaccinato non serve a
niente se
non a confermare le proprie piccole o grandi insicurezze.
Lo ha
scritto su “Lancet” uno dei più importanti ricercatori, Gunter Kampf: quella
con cui siamo alle prese non è un’epidemia di non vaccinati. Un esempio?
Guardate
i decessi nel Regno Unito fra il 18 novembre e il 14 dicembre. Il 18,08% delle morti è avvenuto
fra persone non vaccinate, ma il 78,94% è stato registrato fra persone
vaccinate con due dosi.
È il
paradosso di Simpson?
Sì,
certo, ma andatelo a spiegare ai familiari di chi è andato al camposanto.
E ditegli anche che è solo colpa di quel 20%
di inglesi che non si è ancora rassegnato all’iniezione.
Andate
in quel paese e a quel paese. Voi e le vostre bugie.
(Maurizio
Belpietro).
Buenaventura
Durruti
e la
guerra aliena contro l’umano.
Libreidee.org-Giorgio
Cattaneo-(30/11/2021)-ci dice:
Errore
madornale, rimpiangere certi statisti del passato? Hanno fatto la storia,
d’accordo, ma per arrivare dove? O meglio: tanta nobiltà non sarebbe stata
degna di miglior causa?
Oppure:
è tutta colpa dei gestori occulti, sempre infinitamente più forti – alla
distanza – di qualunque eroe della democrazia?
Il cimitero dell’onore è sterminato: dai Kennedy a
Rabin, da Olof Palme a Nelson Mandela.
La foto di gruppo, oggi, sciorina invece i
volti arcigni o marmorei di Erdogan e Draghi, il minuetto vaticano di Bergoglio
e Macron, gli sbadigli del povero Joe Biden.
Sui
mestieranti italiani, uniti nell’abbraccio ecumenico emergenziale, non è
nemmeno il caso di dilungarsi. Di Maio votato da Renzi, Speranza sostenuto da
Salvini.
Un
piccolo presepe svuotato di tutto, mentre l’abisso inghiotte pace, giustizia e
sicurezza, travolgendo milioni di sventurati, abbandonati come bestiame al loro
destino.
Dal palazzo
calano politichette di bottega e manovrone europee, sincronizzate con le trame
zootecniche planetarie.
E intanto grandinano decreti-capestro di
sapore antico, pre-politico: paiono imparentati con la governance dell’Impero
Assiro, piuttosto che con le lussuose consuetudini degli ultimi settant’anni.
Dietro
le quinte, qua e là, affiora l’ombra di un’antica guerra per bande, tra
momentaneamente opposte consorterie di egemoni, ferocemente in lizza eppure
solidali quando serve. Luci e riflessi che si allungano fino
alle marionette dei teatrini nazionali, in religiosa attesa di ordini
superiori: inerti e tremebondi burattini, balbettanti anche davanti
all’apocalisse, nei giorni in cui decisero le divinità che fosse giunta l’ora
di metter fine, per sempre, alla relativa serenità delle ultime generazioni. Andava spalancato
un tritacarne senza precedenti, globalmente esteso, senza più l’ombra di
intermediazioni ragionevoli. Letteralmente, la fine di una civiltà: la sua
rottamazione.
Di
quanti esperimenti saremmo figli? Lo sa il cielo, direbbe il sentimento metafisico.
Ed è la connessione con il cielo –
evidentissima, ma mai apertamente ammessa – a poter vestire i panni del famoso
missing link. Tema ora affrontato persino da “Studio Aperto”, telegiornale
Mediaset: gli
scavi di Göbekli Tepe hanno portato in luce una scultura non equivocabile, la
nascita di una creatura umana partorita da una femmina che, di umano, non ha
niente.
E’ per
questo, che l’eventuale genio dominante (non-umano?) oggi non esita a sferrare
il suo attacco planetario contro ogni espressione dell’umanità? La storia – da
lontano – schiaccia il tempo, mette in fila gli eventi, li avvicina.
Da
quale preesistenza poteva scaturire la fierezza rivoluzionaria e disarmante di
un guerriero come Buenaventura Durruti, in mezzo alla mattanza iberica?
Neppure
un secolo ci separa da quelle vecchie foto. Quasi stentiamo a riconoscerle, dal
treno iper-veloce che ci porta al macero, regalandoci finalmente l’esatta
visione di come stanno davvero le cose.
(Giorgio
Cattaneo).
Focus.
Thibault Isabel :
“Chi pagherà la crisi coronavirus?
Le
classi popolari o la finanza mondiale?”
Barbadillo.it-
Thibault Isabel-(30 aprile 2020)- ci dice:
(traduzione
e intro di Francesco Marotta).
Coronavirus.
Dalle
pagine de l’Inactual.fr, la pubblicazione online, diretta da Thibault Isabel,
una ricognizione a tutto tondo del “momento storico” visto che la situazione in
Francia non è molto dissimile da quella italiana, arrivano suggerimenti utili
su cosa fare e sulle questioni che dobbiamo evitare, prima di sprofondare
definitivamente nel tourbillon agghiacciante della società neoliberale. Le
soluzioni ci sono, basta volerlo.
Thibault
Isabel è il Direttore editoriale del magazine online (linactuelle.fr/), nonché filosofo e pensatore che ha
già pubblicato anche in Italia innumerevoli saggi.
A tal
proposito, consigliamo la lettura di “Sesso e Genere. Uomini e donne nella
società liquida”, edito da Diana Edizioni, “Il campo del possibile. Sguardi
sulla modernità sociale, politica e culturale”, edito da Controcorrente
Edizioni.
(Per i
francofoni invece, è possibile acquistare direttamente sul sito de l’Inactualle
i suoi due ultimi lavori pubblicati in Francia, intitolati “Pierre-Joseph
Proudhon : L’anarchie sans le désordre” con la Prefazione di Michel Onfray e
“Manuel de sagesse païenne”. Il titolo originale dell’articolo è Thibault
Isabel: “Qui payera la crise? Les classes populaires ou la finance mondiale?”,
pubblicato il 29 aprile 2020, editoriale a cura del Nostro.)
Il
saggio di Thibault Isabel.
Il
piano di ripresa del governo per tirarci fuori dalla crisi costerà molto. Ma
chi dovrà pagare il conto? Abbiamo già visto in passato che è sempre ai
cittadini che i governi successivi chiedono sforzi. Thibault Isabel propone invece di
riconquistare la nostra sovranità politica ed economica per uscire dai dogmi
neoliberali e mettere a disposizione il settore finanziario, nonché le
multinazionali.
Lo
shock per l’economia mondiale causato dalla pandemia di Covid-19 è stato più
rapido e più grave della crisi finanziaria del 2008 o anche della Grande
Depressione del 1929. Nel corso di questi due episodi, i mercati azionari sono
crollati di almeno il 50%, i mercati del credito sono stati paralizzati da
fallimenti a cascata, i tassi di disoccupazione sono saliti oltre il 10% e il
PIL si è contratto a un tasso annualizzato del 10% o più. Questo processo ha
richiesto circa tre anni. Nel marzo 2020, ci sono volute solo tre settimane per
prevedere un esito altrettanto disastroso.
La
crisi del sistema.
Sarebbe
sbagliato analizzare la situazione pensando che questa crisi sia la conseguenza
esclusiva della pandemia di coronavirus. La pandemia è stata solo un fattore
scatenante, che è venuto a fermare la macchina già grippata del sistema
economico globale. Molti esperti ci avevano avvertito da tempo del rischio di
scoppio di bolle finanziarie, e le aberrazioni dei mercati si sono manifestate
quando, dopo una delirante sopravvalutazione degli attivi a gennaio, sono stati presi da un panico senza
precedenti all’annuncio delle prime misure di contenimento, vivendo una timida
rinascita solo quando sono stati annunciati nuovi interventi pubblici, come se
il settore privato si aspettasse ormai tutto dai governi per salvarlo.
Il
contesto è tanto più drammatico in quanto al costo intrinseco della crisi
economica e finanziaria si aggiungerà il costo della gestione della crisi
sanitaria.
Il
rilancio di un’economia, globale ferma da mesi, rappresenterà uno sforzo
titanico, mentre la maggior parte degli Stati è già pesantemente indebitata
dalla crisi del 2008, che non è stata ancora digerita dai conti pubblici
(mentre i mercati finanziari stanno di nuovo raccogliendo profitti favolosi da
diversi anni). Secondo le stime attuali, l’indebitamento dei principali Stati
occidentali aumenterà di circa il 25% nei prossimi tre anni.
Riformare
la finanza globale.
Da ciò
scaturiscono diverse osservazioni.
1/ Non
si può pensare di rilanciare le economie nazionali dopo la crisi senza
riformare radicalmente il sistema, che ha ampiamente dimostrato i suoi misfatti
aumentando le disuguaglianze sociali in modo esponenziale e testimoniando una
fragilità colpevole che penalizza l’economia reale, le piccole e medie imprese,
nonché i risparmi familiari.
2/ Nel
contesto di una globalizzazione galoppante, l’interconnessione delle economie è
diventata troppo forte, rendendo incontrollabili crisi di ogni tipo –
sanitarie, finanziarie, ecc.
3/ La
perdita della nostra sovranità industriale, concessa in nome del libero mercato
internazionale, non ha portato le opportunità economiche promesse e ci ha indebolito
per resistere ai cataclismi, come dimostra la nostra attuale incapacità di
produrre medicinali, maschere, respiratori in numero sufficiente.
“La corsa al consumo e al
produttivismo si combina con la speculazione per sfociare in uno stile di vita
che tutti sono sempre più d’accordo a trovare pericoloso e controproducente”.
4/ Il
sistema economico autorizza profitti privati giganteschi per le grandi fortune planetarie, ma
quando la situazione si deteriora, richiede l’intervento pubblico degli Stati,
e quindi dei contribuenti, per pagare gli errori del passato.
5/
Tutto questo porta anche ad una considerazione di ordine più filosofico: la corsa al consumo e al produttivismo
si combina con la speculazione per sfociare in uno stile di vita che tutti sono
sempre più d’accordo a trovare pericoloso e controproducente, poiché lo
specchio delle allodole della “crescita” e delle “buone cifre economiche” serve
solo alle classi agiate, mentre le classi popolari vedono le loro condizioni di
vita deteriorarsi a colpo d’occhio (minor potere d’acquisto per i beni di prima
necessità, lavoro precario, isolamento della Francia periferica, ecc.).
Dovremo
dimenticare le vecchie ricette.
Dovremo
ricostruire e non possiamo farlo allo stesso modo. In ogni caso, le vecchie soluzioni
non funzioneranno più, visto il poco spazio di manovra che ci rimane. Lo ha
annunciato lo stesso Emmanuel Macron il 16 marzo: «Vinceremo, ma questo periodo ci avrà
insegnato molto. Molte certezze e convinzioni saranno spazzate via e messe in
discussione».
Anche Dominique
Strauss-Kahn ha fatto il suo mea culpa, il 7 aprile, sulle colonne di Slate,
affermando che gli oppositori di lunga data della globalizzazione, finora
considerati «idealisti», «dottrinari» o «pessimisti», avevano in realtà «parzialmente
ragione», perché «è molto probabile che la crisi porti a forme di
delocalizzazione della produzione, regionale se non nazionale».
“Possiamo
ancora chiederci se dobbiamo fidarci di coloro che ci hanno messo al muro per
indicarci la strada giusta d’ora in poi.”
L’ammissione
del fallimento è coraggiosa, ma possiamo ancora chiederci se dobbiamo fidarci
di coloro che ci hanno messo al muro per indicarci la strada giusta da seguire
d’ora in poi. In ogni caso, i sostenitori del vecchio mondo cercheranno
soprattutto di salvare quello che ancora si può salvare di fronte all’evidente
fallimento del sistema che hanno messo in piedi.
La
pandemia ci offre un’opportunità unica di considerare una profonda
riprogettazione del nostro tessuto economico e sociale. Per di più, ci costringe a farlo.
Non ci sarà una via d’uscita comoda e noi eviteremo il peggio solo preparandoci
ora al cambiamento di rotta, con l’obiettivo di riorientare i risparmi delle
famiglie verso una spesa che costruisca un’economia utile e sostenibile. Resta da vedere come e, soprattutto,
chi pagherà il conto.
Chi
finanzierà il piano di rilancio dell’economia?
In
effetti, questo è il problema. Le belle dichiarazioni d’intenti dei globalisti
neoliberali, sia di sinistra che di destra, saranno presto finalizzate a far
ingoiare ai cittadini pillole molto amare, ai quali si chiederà di stringere la
cinghia per «riformare».
La
crisi che stiamo attraversando costituisce sia uno shock della domanda (le
famiglie consumano meno) sia uno shock dell’offerta (le aziende producono
meno). Per
farvi fronte, le misure messe in atto dal governo francese sono essenzialmente
keynesiane. Si tratta quindi di investire fondi pubblici per sostenere il consumo e
mantenere a galla la produzione. Queste misure sono più o meno condivise da tutti i
paesi europei e sostenute da un allentamento dei vincoli di bilancio del
Trattato di Maastricht.
“Le
politiche keynesiane, con il pretesto delle radici storiche di sinistra, in
realtà troppo spesso contribuiscono a trasformare il debito privato in debito
pubblico, vale a dire il debito dei cittadini”
Ma le
politiche keynesiane, con il pretesto delle radici storiche di sinistra, in
realtà troppo spesso contribuiscono a trasformare il debito privato in debito
pubblico, vale a dire il debito dei cittadini. Non sorprende, da questo punto di
vista, che Nicolas Sarkozy, anche se bollato a destra, ne abbia fatto un uso
massiccio durante la crisi del 2008. Ecco a che punto siamo: i mercati si affrettano a
speculare e, in caso di un fiasco generalizzato, aspettano benignamente che gli Stati
paghino il conto trasferendo il debito privato dal settore finanziario a quello
pubblico per evitare il fallimento del sistema.
Sostenere
le classi popolari e medie.
È
evidente che lo Stato deve ora organizzare un piano di rilancio; ma, se lo fa con i metodi abituali
dell’establishment, queste misure si tradurranno in ultima analisi con la
drastica riduzione dei servizi pubblici (vale a dire con la riduzione delle
spese), o con il rafforzamento delle imposte (vale a dire con l’aumento delle
entrate) o
attraverso l’inflazione (in particolare, nell’ipotesi in cui lo Stato stampi carta
moneta in grande quantità per limitare il costo del debito).
Nessuno
di questi scenari è auspicabile.
Se si
decide di limitare la spesa dello Stato, le classi popolari saranno le prime a
pagarne le conseguenze, poiché sono le principali beneficiarie della spesa
pubblica; e,
se si ricorre all’imposta o all’inflazione, saranno piuttosto le classi medie
che pagheranno il conto, poiché assumono la maggior parte dello sforzo fiscale e si
appoggiano sui loro risparmi familiari per evitare l’impoverimento – tuttavia, il risparmio dei francesi
sarebbe fortemente ridotto da una politica inflazionistica.
“Mettere le classi popolari e la
classi medie l’una contro l’altra è stata la strategia del partito di
Maastricht per decenni: si voleva far dimenticare che le uniche persone che non
pagano mai per le crisi sono quelle che le causano, cioè gli attori finanziari e le grandi
imprese”
Mettere
le classi popolari e la classi medie l’una contro l’altra è stata la strategia
del partito di Maastricht per decenni: si voleva far dimenticare che le uniche
persone che non pagano mai per le crisi sono quelle che le causano, cioè gli
attori finanziari e le grandi imprese. Ricordiamoci che l’inflazione
galoppante degli anni Trenta, dopo la crisi del 1929, fu per molti la causa
della rovina della classe media in Europa, soprattutto in Germania, e che
questa situazione traumatica portò alle calamità politiche che conosciamo: il
fascismo, le rivalità tra le nazioni e la seconda guerra mondiale.
L’unità del paese potrà dunque essere ottenuta solo se
le classi popolari e le classi medie sono esse stesse solidali di fronte alla
prova, e capiscono che hanno un avversario comune: il sistema bicefalo dei mercati
deregolamentati e dei mostri della globalizzazione, che rischiano di diventare
onnipotenti dopo la crisi, quando molte piccole e medie imprese dovranno chiudere i
battenti.
È allora che Amazon vincerà la scommessa; ed è questo che bisogna impedire.
Il
principio «chi
inquina paga» in economia.
Per
raggiungere questo obiettivo, tuttavia, non si può semplicemente rattoppare una
nave che sta imbarcando acqua da tutti i lati. Lo scafo dovrà essere ristrutturato
da cima a fondo. Così come applichiamo all’ecologia il principio chi «inquina paga»,
dovremo far pagare chi ha causato gli squilibri del sistema neoliberale
globalizzato.
Ciò
significa in particolare: tassare le transazioni finanziarie e i redditi del capitale,
istituire un’imposta universale per lottare contro l’espatrio fiscale, tassare
l’automazione del lavoro, aumentare l’importo della tassa Gafam sui servizi
digitali o tassare le grandi imprese per i costi ambientali delle loro
attività, non solo per salvare le casse dello Stato, ma anche per riorientare
il sistema di produzione e di consumo in un senso conforme all’equità e al bene
comune. Invece di curare semplicemente i sintomi, è tempo di attaccare le vere
radici del male.
“Così
come il principio «chi inquina paga» viene applicato all’ecologia, chi ha causato gli squilibri del
sistema neoliberale globalizzato deve essere fatto pagare”.
L’altra
domanda da porsi è quella del debito che sta per esplodere. Quanto più gli Stati si indebitano,
tanto più i tassi d’interesse del debito aumenteranno, tanto più gli operatori economici
perderanno fiducia nel futuro e limiteranno le loro spese e i loro investimenti. Le misure di rilancio non possono
che essere congiunturali: l’austerità tornerà molto rapidamente in primo piano,
obbligando i governi europei a chiudere i cordoni della borsa.
L’opzione
migliore sarà, quindi, quella di mettere in comune il debito degli Stati
europei per ridurre i tassi di interesse. Ma le tensioni emerse a marzo sugli
Eurobond rivelano profondi disaccordi tra i paesi del Sud (Francia, Italia,
Spagna), che li hanno sostenuti fin dall’inizio, e i paesi del Nord (Germania,
Olanda), che si sono rifiutati di sentirne parlare.
Essi beneficiano
della differenza dei tassi d’interesse tra le nazioni. Il meccanismo di
sfruttamento dei paesi più poveri da parte dei tedeschi e degli olandesi è alla
base della politica di austerità fiscale, le cui fondamenta sono state gettate
con il «grande mercato unico» alla fine degli anni Ottanta.
La
Germania approfitta inoltre della politica monetaria europea per favorire le
sue esportazioni ed i Paesi Bassi devono la loro prosperità alla loro politica
di paradiso fiscale. Allo stato attuale delle cose, quindi, l’ordine di Maastricht
pone i paesi europei sotto il controllo della Germania e dei suoi alleati
privilegiati.
Il
punto di vista della Francia profonda.
Naturalmente,
è inevitabile ricorrere temporaneamente al debito pubblico per finanziare il piano
di risanamento, poiché non esiste una cura miracolosa né denaro gratuito. Ma soprattutto bisogna cogliere
questa opportunità per riformare il sistema in modo che lo shock sociale della
globalizzazione possa essere meglio ammortizzato. La rivolta dei Gilet Gialli e della
Francia periferica, ampiamente sostenuta dall’opinione pubblica, ha dimostrato
che il Paese non voleva più le ricette politiche che erano state applicate per
decenni da tutti i partiti che condividevano il potere. La Francia profonda, senza la quale
nulla può essere ricostruito, non vuole più una politica neoliberale che
garantisca una sempre maggiore flessibilità alle grandi multinazionali; e non vuole più una semplice
politica di assistenza a breve termine, che porta all’indebitamento dello Stato
senza impedire lo smantellamento dei nostri servizi pubblici fondamentali.
“La
Francia profonda auspica che si lasci a ciascuno di noi la possibilità di
lavorare dignitosamente, in condizioni decenti, per un salario onorevole”.
La
Francia profonda auspica che si lasci a ciascuno di noi la possibilità di
lavorare dignitosamente, in condizioni decenti, per un salario onorevole.
Questo è stato molto chiaramente il messaggio dalle rotonde nell’inverno
2018-2019. Né
la destra né la sinistra degli ultimi trent’anni hanno preso sul serio questa
richiesta. E per una buona ragione: rompere con la logica dell’ipertrofia dei
mercati – i cui difetti non possono che essere dolorosamente tappati con
l’interminabile ipertrofia dell’aiuto sociale – richiederebbe allo stesso tempo
una riforma radicale del sistema economico che ci è stato imposto dopo gli
accordi di Maastricht.
In altre parole, la riabilitazione del nostro
tessuto economico di prossimità è possibile solo attraverso una presa di distanza
con l’Unione europea, per stabilire una cooperazione strategica continentale a
geometria variabile.
È in
questo modo, e solo in questo modo, che sarà possibile riprendere una politica
protezionistica di piena occupazione. Questa presa di distanza renderà
molto più facile il ricorso a sistemi di mutualizzazione dei debiti – in
mancanza di ciò, è vero che si può fare affidamento sull’economia tedesca per
sostenerla – ma segnerà, ancor più, la fine dei dogmi neoliberali che paralizzano ogni
rifondazione della nostra economia.
Riconquistare
la nostra indipendenza politica ed economica.
L’uscita
dalla pandemia sarà infatti salutare solo se approfitteremo dell’immenso
cantiere in corso per portare le riforme indispensabili ad una ripresa in mano
sovrana delle nostre capacità industriali e del nostro sistema finanziario. Tra le misure più urgenti, il
governo dovrà ovviamente sanare le ferite aperte dalla crisi, nazionalizzando
alcune imprese industriali per rilocalizzare la produzione di numerosi settori.
Probabilmente
sarà anche necessario nazionalizzare le banche in difficoltà, senza dimenticare
in seguito, di separare le banche di deposito e le banche d’affari, per evitare
l’inflazione di nuove bolle speculative e per proteggere più efficacemente il
risparmio. Alla
luce degli ammirevoli sforzi compiuti dal personale sanitario, diventerà
finalmente essenziale riabilitare l’ospedale pubblico, così come diventerà
essenziale riabilitare i servizi pubblici locali e i trasporti, che sono stati
trascurati per troppo tempo.
Più a
lungo termine, il nervo della guerra economica, per finanziare le riforme, sarà
quello di tassare chi beneficia maggiormente del sistema pagando meno tasse: i
grandi gruppi multinazionali.
Altrimenti,
qualsiasi cosa si faccia, qualunque siano i metodi che si applicheranno, saranno sempre le classi popolari e
le classi medie a pagarne il prezzo per prime.
È
impossibile lottare contro le aziende quasi monopolistiche che possono, in
qualsiasi momento, delocalizzare la maggior parte della loro produzione e che
scelgono di pagare le tasse nei Paesi Bassi o in Irlanda piuttosto che nei
territori dove vendono i loro prodotti.
“Il
nervo della guerra economica, per finanziare le riforme, sarà quello di tassare
chi beneficia maggiormente del sistema pagando meno tasse: i grandi gruppi
multinazionali.”
L’unica
arma degli Stati è il ricorso ai circuiti corti e al protezionismo. Non un protezionismo nazionalista
aggressivo volto a schiacciare i paesi rivali, come fanno allegramente gli
Stati Uniti e la Cina, ma un protezionismo concertato con eventuali alleati
europei.
Quanto
più questo protezionismo globale troverà sostegno presso i nostri partner,
tanto più sarà efficace di fronte agli assalti economici esterni, consentendo
anche collaborazioni fruttuose per grandi progetti comuni. Paradossalmente, questa politica
potrebbe anche dare nuovo slancio ad una certa idea dell’Europa, a margine
delle istituzioni esistenti.
L’obiettivo
finale sarà quello di liberare l’economia locale dalla concorrenza delle grandi
aziende internazionali.
Il capitalismo globalizzato, ha assunto una forma
talmente tentacolare che è arrivato a schiacciare gli ideali di libertà che
all’inizio erano serviti a legittimarlo: in fondo, chi può ora credere al mito
dell’uomo che si è fatto da sé, partendo dal nulla, che riesce a salire la
scala del successo fino a guadagnarsi una vita molto dignitosa?
Per ognuno di noi, al contrario, è diventato
straordinariamente difficile staccarci dalla nostra condizione originaria, proprio perché la ricchezza è sempre
più concentrata nelle mani di una minuscola minoranza di grandi fortune, e il sistema di mercato è diventato
una vasta struttura tecnocratica, di cui finiamo per essere gli accoliti, e alla quale i politici non osano più
nemmeno opporsi.
Speriamo
che, con la fine della crisi sanitaria, usciremo anche noi dalla crisi
democratico-economica del mondo neoliberale. In definitiva, questo dipende da
noi.(
Thibault Isabel).
Banca
Mondiale (World
Bank, WB).
Treccani.it-
Dizionario di Economia e Finanza-( 10-6-2021)- ci dice :
Banca
Mondiale (World Bank, WB) Istituto di
credito internazionale che finanzia l’investimento nei Paesi in via di sviluppo, fornendo anche assistenza tecnica.
Istituito nel 1944 per volontà della Conferenza delle Nazioni Unite, ha sede a
Washington e comprende due istituzioni, la Banca Internazionale per la
Ricostruzione e lo Sviluppo (➔ BIRS), fondata nel 1944, che si finanzia emettendo
obbligazioni, e l’Associazione
internazionale per lo sviluppo (➔ IDA, International Development Association), nata nel 1960,
che impiega fondi ottenuti dai Paesi più ricchi. La B. M. fa parte del Gruppo
Banca Mondiale (WBG) e include anche altri organismi: la Società finanziaria internazionale
(International Finance Corporation, IFC), che dal 1956 sostiene gli
investimenti nel settore privato, acquisendo partecipazioni azionarie, oltre
che concedendo prestiti; l’Agenzia multilaterale per le garanzie degli
investimenti (Multilateral Investment Guarantee Agency, MIGA), istituita nel
1988 per fornire garanzie sui rischi non commerciali, come quelli da esproprio,
al fine di proteggere e promuovere gli investimenti diretti esteri nei Paesi in
via di sviluppo; il Centro internazionale per la risoluzione dei conflitti
(International Centre for the Settlement of Investment Disputes, ICSID), che
dal 1966 assiste nella risoluzione delle controversie tra governi e investitori
privati stranieri.
L’operato
della Banca Mondiale. I Paesi supportati dalla B. M. si dividono in Paesi con
reddito pro capite medio (superiore a 995 dollari nel 2010), che ottengono
prestiti a lungo termine, e Paesi a reddito pro capite basso, che ricevono
donazioni e finanziamenti a condizioni più favorevoli di quelle di mercato.
L’assistenza della B.M. è condizionata al rispetto di specifici programmi di
sviluppo concordati con i Paesi riceventi, tra cui: una diagnosi dello stato di
povertà che si intende affrontare, la descrizione dei meccanismi partecipativi
messi in atto, le priorità politiche e i relativi costi, nonché il sistema che
si intende utilizzare per tenere sotto controllo i risultati e valutare
l’impatto del programma. La B. M. è stata periodicamente sottoposta a riforme
per snellirne struttura e procedure e per modificare i suoi meccanismi di
intervento, oltre che misurarne l’impatto. Ciò anche in risposta a critiche di
inefficacia e scarsa democraticità espresse rispetto ad alcune sue operazioni,
a causa di meccanismi decisionali che privilegiano i Paesi ricchi.
Nel
1996 è stata varata un’iniziativa per la riduzione del debito dei Paesi più
poveri, la
Heavily Indebted Poor Country (HIPC), subordinata alla presentazione di un
programma pluriennale di misure economiche e sociali, preparato in seguito a
consultazioni del governo con gruppi politici, settore privato e rappresentanti
della società civile. Dal 2006 è in corso un’altra iniziativa, la Multilateral
Debt Relief Initiative (MDRI), attraverso la quale tutti i Paesi che hanno
completato il percorso di aggiustamento previsto dall’HIPC ottengono la
cancellazione incondizionata del debito estero accumulato nei confronti della
B. M., del FMI e delle altre banche di sviluppo regionale. Secondo i dati di
fine 2009, il programma è stato avviato da 35 Paesi e concluso da 26;
l’assistenza fornita a questi Paesi rappresenta circa il 40% del loro PIL ai
prezzi del 2008. Dopo la completa attuazione delle politiche di riduzione, lo
stock del debito di tali Paesi sarà ridotto dell’80%.
Organi
di governo.
I due principali organi di governo della B. M. sono il consiglio dei
governatori (187, in rappresentanza di altrettanti Paesi membri) e il consiglio
dei direttori esecutivi (25), cui è delegata gran parte delle decisioni. Nel
consiglio dei direttori esecutivi, 8 membri rappresentano ciascuno il proprio
Paese (Arabia Saudita, Cina, Francia, Germania, Giappone, Regno Unito, Russia,
Stati Uniti), mentre gli altri 17 rappresentano gruppi di Paesi (l’Italia, per
es., fa anche le veci di Albania, Grecia, Malta, Portogallo, Repubblica di San
Marino e Timor Est). I voti sono proporzionali al peso dell’economia del Paese
su quella mondiale: nella BIRS, per es., gli Stati Uniti, il Giappone, la
Germania e l’Italia disponevano nel 2011 rispettivamente del 16,03%, del 9,59%,
del 4,39% e del 2,72% dei voti. Dal 2005 i Paesi più poveri, insieme all’India
e alla Cina, hanno iniziato a sollecitare la revisione dei diritti di voto,
visto il loro accresciuto peso nell’economia mondiale e, nella primavera del
2010, è stato approvato un aumento del loro potere di voto pari a 4,6 punti
percentuali, portandoli a pesare nel complesso il 47,2% del totale.
Fmi, nel 2020 record del debito mondiale:
226mila
miliardi di dollari.
Tg24.sky.it-Vitor
Gaspar- (13 ott. 2021)- ci dice :
(Getty).
Nell'ultimo
Fiscal Monitor i dati relativi all'anno del Covid. Secondo il Fondo monetario
internazionale si tratta dell'aumento più grande mai registrato. A pesare per il 90% le politiche di
sostegno delle economie più avanzate per contrastare gli effetti della pandemia.
Vitor
Gaspar, direttore del dipartimento Affari fiscali del Fondo monetario
internazionale (Fdmi) ha presentato durante il Fiscal Monitor di oggi le cifre
del debito mondiale registrato lo scorso anno: “Il debito di Governi, famiglie e
società non finanziarie ha raggiunto i 226mila miliardi di dollari nel 2020,
27mila miliardi sopra il livello del 2019”.
Si
tratta dell’aumento più grande mai registrato.È attraverso il calcolo del debito
che passa uno dei modi per misurare gli effetti della crisi causata dalla
pandemia da Covid-19 a livello mondiale.
(Il
"Grande divario finanziario".Chi sono i Nobel per l'economia: Boeri e
Moretti li raccontano.)
Come
spiegato da Gaspar, il 90% di quei 27mila miliardi di aumento deriva dalle
economie più avanzate, Cina compresa.
La
maggior parte del debito è stato generato dai Governi come misure di sostegno
per le popolazioni. I Paesi emergenti hanno pesato solo per il 7%. Il direttore
del Fondo lo chiama: “Grande divario finanziario”, cioè la diversa capacità di
reazione, nei sistemi sanitari, nelle vaccinazioni e negli aiuti economici a
persone e imprese. Quello che ne deriva è una ripresa sempre più diseguale.
La
maggior parte dei 16.900 miliardi di dollari di misure annunciate per
combattere la pandemia scadranno quest’anno, ma continueranno a produrre
effetti positivi.
Se si
considerano solo le manovre messe in campo da Washington, con l’American
Families Plan e l’American Jobs Plan, e da Bruxelles, con il Next-Generation-Eu,
queste potrebbero aggiungere al Pil globale circa 4.600 miliardi di dollari tra
il 2021 e il 2026. La ripresa economica sta stabilizzando il Pil, ma secondo Fmi
il debito pubblico resterà su livelli superiori a quelli previsti prima della
pandemia, attestandosi poco sotto il 100 per cento. Il debito pubblico italiano
è destinato a calare al 146,5%, mentre il deficit potrà tornare sotto al 3%
entro il 2024.
(I
prossimi obiettivi.G20 Afghanistan, dal vertice mandato all'Onu per la crisi
nel Paese).
Secondo
il Fondo, nel prossimo futuro la politica fiscale “deve rispondere
agilmente" alle sfide globali e "facilitare la trasformazione
dell'economia mondiale per renderla più produttiva, inclusiva, verde e
resiliente a future crisi sanitarie o di altro tipo".
Al
tempo stesso, però, sarà cruciale assicurare trasparenza e responsabilità in
modo da “fare
progressi verso gli obiettivi di sviluppo sostenibile”. Gaspar richiama così a una
cooperazione internazionale anche nel campo dei vaccini: la comunità internazionale ha dato
"un supporto prezioso" ai Paesi in via di sviluppo, ma "serve
fare di più su prestiti e iniziative come la cornice comune per la
cancellazione del debito del G20".
Il
«Grande reset»: dalla teoria del complotto
QAnon sulla «pandemia inventata»
alle opinioni di Freccero.
Open.online-
Juanne Pili e David Puente-(25 SETTEMBRE 2021)- ci dice:
Definita
anche Cabala, questa tesi cospirazionista sembra affascinare anche chi critica
il Green pass.
Il
Great reset è una proposta del World Economic Forum (WEF), presentata nel
maggio 2020 dal principe Carlo di Galles e dal tedesco Klaus Schwab, per
costruire una economia sostenibile per il post pandemia Covid-19. La sola idea
di un “grande piano” da parte delle élite mondiali di riformare il mondo
“creando una pandemia” è stata recepita come la prova dell’instaurazione del
cosiddetto Nuovo Ordine Mondiale (NWO). Il Great reset è così diventata una
delle teorie del complotto sostenute da vari personaggi, dal movimento di
estrema destra QAnon fino a intellettuali nostrani come Carlo Freccero.
La
teoria del complotto del Grande reset si ispira a una iniziativa reale del WEF,
fraintendendo le pubblicazioni di uno dei suoi membri, Klaus Schwab.
Carlo
Freccero cita Schwab facendo riferimento a un Grande reset, volto a creare o
amplificare la pandemia di Covid-19.
Schwab
non ha mai sostenuto nei suoi libri l’idea di inventare le epidemie a scopo
economico, né questo è il proposito del WEF.
Definita
anche Cabala, la teoria cospirativa del Great reset è parte dell’ideologia di
estrema destra che anima il movimento QAnon.
Freccero
non precisa chiaramente se le sue affermazioni sono critiche originali
all’iniziativa reale del WEF o se si rifà precisamente alla omonima teoria
cospirativa.
Analisi.
Ogni
anno si tiene un evento noto come Forum di Davos, dal nome della città svizzera
che lo ospita, a cura dell’organizzazione internazionale World Economic Forum.
All’evento partecipano economisti, scienziati, leader religiosi, imprenditori e
politici: tanto basta per essere considerati quella sorta di élite mal vista
dai complottisti. Basti pensare che tra gli invitati troviamo nomi odiati
dall’estrema destra come George Soros e Greta Thunberg, quest’ultima contestata da un
altro ospite dell’edizione del 2020: Donald Trump.
Secondo
Carlo Freccero, in una lettera pubblicata da La Stampa, il Green pass sarebbe organico al
Grande reset:
«È
destinato a diventare l’embrione della futura tessera di identificazione
digitale a cui mira il Grande Reset in via di attuazione. Per chi non sapesse di cosa si
tratta, rimando a due libri dell’economista Klaus Schwab “Covid 19 The Great
Reset” e “Quarta rivoluzione digitale”. Secondo Schwab la pandemia è
un’occasione irripetibile per conseguire il “Grande Reset” già illustrato nel
saggio “La
quarta rivoluzione industriale”. Tutto ciò è confermato dal progetto di Recovery Fund, che si pone come obiettivo lo stesso
obiettivo del “Grande Reset”. Credo che la nuova normalità in cui stiamo vivendo non finirà
coi vaccini, ma continuerà nel tempo, con la rivoluzione digitale e la
rivoluzione verde. Diciamo la verità: non è la pandemia ad avere causato la crisi economica. È piuttosto la crisi economica ad
avere causato la pandemia, o quanto meno, ad averla amplificata al fine di ultimare il
“Grande Reset”».
Freccero
ha recentemente sostenuto il referendum contro il Green pass, parlando di «élite che ci governano con la
paura». Si
tratta di una critica originale contro una reale iniziativa economico-politica,
oppure strizza l’occhio ai complottisti, che usano il medesimo termine per
teorizzare una cospirazione mondiale, volta a controllare le nostre vite? Risolvere questa ambiguità dovrebbe
essere compito dello stesso Freccero, onde evitare che tali affermazioni
vengano usate indebitamente per sostenere tesi cospirazioniste.
Carlo
Freccero, in risposta a un articolo di Massimo Gramellini sul Corriere della
Sera dal titolo «Il complotto dei Ricchi e Poveri», sostiene: «Nel mio intervento su il Fatto e
la Stampa io non esprimo giudizi sui contenuti [sul Great reset], ma faccio
presente che le soluzioni utopistiche del Wef, creative sino a rasentare la
fantascienza e ispirate al transumanesimo più spinto, richiederebbero, prima di
essere applicate ai popoli, il consenso informato ed il loro assenso.
In Democrazia e sino a prova contraria le decisioni
spetterebbero al popolo, soprattutto se riguardano l’integrità fisica dei
cittadini».
La
bufala sul libro di Klaus Schwab.
I
teorici del complotto fanno circolare anche screen decontestualizzati, con
passaggi dello stesso libro consigliato da Freccero «Covid-19: The Great Reset» di Klaus
Schwab.
L’autore è uno dei membri del WEF, per tanto il «Grande reset» a cui fa
riferimento appartiene al contesto originale, ma non conferma affatto l’idea
cospirazionista in base alla quale la pandemia sarebbe stata prodotta (o gonfiata) da
interessi economici di alcune élite.
Un
falso passaggio del libro di Schwab.
Proprio
i libri di Schwab vengono citati dai cospirazionisti per sostenere che
l’iniziativa del WEF è parte di un piano volto a «organizzare le epidemie». Ad esempio, circola una falsa
citazione del testo dove si attribuisce l’idea di voler eliminare almeno 4
miliardi di individui nel mondo entro il 2050 per mezzo di guerre militari ed
epidemiologiche, ma il testo non è presente nel libro di Schwab: si tratta di
un testo tratto dal libro Conspirators’ Hierarchy: The Story of the Committee
of 300 del 1992 di John Coleman.
La
Cabala dei Poteri forti.
Stando
a quanto riporta la BBC, Schwab è uno degli autori più fraintesi dai cospirazionisti
del Grande reset. In mezzo finisce anche il premier canadese Justin Trudeau, dalle cui dichiarazioni parte il
passa-parola nel web che ha portato alla teoria cospirazionista attuale.
«Ha
iniziato a fare tendenza a livello globale su Twitter la scorsa settimana,
quando un video dove il primo ministro canadese Justin Trudeau in una riunione
delle Nazioni Unite, ha affermando che la pandemia ha fornito un’opportunità per
un “reset”, è diventato virale – continua l’Emittente britannica -. Ciò ha suscitato nuovi sospetti da
parte delle persone, in Canada e oltre, che una cabala di leader globali stia
usando la pandemia per introdurre una serie di politiche socialiste e
ambientali dannose».
«Un
video di agosto, che ora ha quasi tre milioni di visualizzazioni su YouTube, crede che solo Donald Trump possa
sventare questo complotto segreto, che usa Covid-19 per mettere in ginocchio l’economia
statunitense in modo che possa iniziare il “reset” e le persone saranno
“accattonate” per i vaccini. Ma il suggerimento che i politici abbiano pianificato il
virus o lo stiano usando per distruggere il capitalismo è del tutto privo di
prove. Così
è anche l’idea che il World Economic Forum abbia l’autorità di dire ad altri
paesi cosa fare, o che stia coordinando una cabala segreta di leader mondiali».
Di
questa presunta Cabala (chiaro riferimento a pregiudizi antisemiti) si occupò
anche il
segretario del Cicap Massimo Polidoro che ne fa accenno in un video apparso
nel suo canale YouTube, nella prima puntata della sua serie su QAnon.
Quello
dove Polidoro spiega più in dettaglio, intitolato con uno dei motti più in uso
dai cospirazionisti per riferirsi al Grande reset – «Crolla cabala crolla!» – risulta ora rimosso per presunto
«bullismo», a seguito di massicce segnalazioni da parte dei «qanonisti». Polidoro ci conferma di essere
ancora in attesa di spiegazioni da parte della Piattaforma.
Nella
narrativa QAnon l’immagine distorta del Great reset si mischia ad altre, come
quella sull’adrenocromo, fantomatica droga delle élite estratta dai bambini,
nell’ambito di riti pedo-satanici.
L’idea
della pandemia “organizzata.”
Molti
sono i contenuti decontestualizzati per sostenere che la pandemia Covid-19
fosse un progetto organizzato dalle élite, come il caso del noto Event 201
citato durante un’interrogazione parlamentare di Sara Cunial. Ecco alcuni
esempi trattati da Open Fact-checking:
Bill e
Melinda Gates vogliono ridurre la popolazione attraverso il nuovo coronavirus?
Coronavirus.
L’intervento della deputata Sara Cunial e i numerosi complotti sul Covid-19 (e
non solo)
Il
nuovo Coronavirus è stato previsto in un libro sul dark web del 2019?
Il
video complottista che accusa gli americani: «Coronavirus: è stato il
“pipistrello”»
La
profezia di Bill Gates sul coronavirus nel 2015? No! Al contrario, è stato fin
troppo ottimista!
Coronavirus.
Luca Parmitano sapeva dell’epidemia a novembre 2019? No! Un errore di
comunicazione
A dare
manforte alla teoria del complotto, sostenendo che il virus sia opera degli
ideatori del Great reset, è un documentario francese dal titolo Hold-up. In
questo caso non si sostiene la teoria del virus creato nel laboratorio di
Wuhan, ma presso l’Istituto Pasteur in Francia.
Leggi:
Carlo
Freccero non si vaccina perché glielo ha detto Luc Montagnier
Non
solo vaccini: il delirio social dei due No Vax arrestati a Brescia, tra QAnon e
neonazismo
Ritrovata
in Svizzera Mia, la bimba che sua madre aveva fatto rapire da un gruppo di
QAnon
L’inchiesta
di PresaDiretta sulle «strade dell’odio», tra complottismo e squadrismo
digitale durante la pandemia di Covid-19
Telegram
è diventato il porto sicuro antisemita dei negazionisti dell’Olocausto e della
Covid-19
I
Proud Boys scaricano Trump, i QAnon cercano un nuovo eroe. Tutti i delusi (e
confusi) dall’Inauguration Day
Pizzagate,
complottisti manifestano davanti al Comet Ping Pong, teatro di un attentato nel
2016. Ma questa volta il proprietario reagisce
(Juanne
Pili e David Puente).
In
Onda, Carlo Freccero e
la “teoria del reset": il mondo è fallito.
La rivelazione sul vaccino e Montagnier.
Iltempo.it-Carlo
Freccero-(25 settembre 2021)- ci dice:
Carlo
Freccero firma il referendum contro il green pass e interviene negli studi di
“In Onda”, sabato 25 settembre per spiegare la sua teoria del reset. Il
giornalista, ex direttore di Rai 2, è ospite nel talk show preserale condotto
da Concita De Gregorio e David Parenzo, su La 7, per spiegare i motivi per i
quali ha deciso di aderire al referendum contro la certificazione verde. In
apertura i recenti scontri nelle piazze gremite di movimentisti anti-green
pass, Freccero esordisce bacchettando subito i due conduttori: “Io avessi fatto
il telegiornale avrei in qualche modo introdotto una pagina molto importante su
questo, c'è
stato un vice questore della Polizia di Stato a Roma che si chiama Nunzia
Alessandra Schilirò che sul palco ha detto 'La disobbedienza civile è un dovere
sacro quando lo Stato diventa dispotico', questa è la notizia esplosiva,
formidabile, commovente. Beh vuol dire che l’Italia sta cambiando e io sono
veramente felice”.
L'inizio
di un futuro distopico da incubo. Freccero e la paura del grande reset .
Poi
l’autore televisivo prosegue: “La pandemia crea una frattura nella storia, una volta
si diceva 'Avanti Cristo'/ 'Dopo Cristo' oggi si dice invece 'Avanti COVID-19'/
'Post COVID-19'. Cosa vuol dire questa
cosa? Che occorre resettare il mondo che è ormai fallito”.
Secondo
Freccero, dunque, non sarebbe stata la pandemia ad aver causato la crisi
economica “piuttosto
la crisi economica ad avere causato la pandemia, o quanto meno, ad averla
amplificata al fine di ultimare il ‘Grande Reset’”. L’ospite continua facendo sapere
il motivo che lo ha spinto ad aderire al referendum abrogativo contro il green
pass: “Per
me è uno strumento di controllo. Io faccio il referendum per un motivo molto
semplice perché voglio rispettare la Costituzione. L'articolo 3 della
Costituzione. Io non voglio che sia ci siano discriminazioni e la Costituzione
difende le minoranze, punto”.
Anche Freccero è vittima della fatidica
domanda dei conduttori: “Professore lei è vaccinato? Qual è la sua posizione in merito
ai vaccini?”.
“Se mi
sono vaccinato? Io ho parlato con Luc Montagnier (premio Nobel per la medicina,
nda) il 12 agosto a Firenze, il quale m'ha detto 'Ti consiglio di non farlo' e io non
l'ho fatto molto semplicemente. Quelli del referendum no-green pass e i no-vax sono
cose differenti, anzi vi dico una cosa molti no-vax si oppongono al referendum
perché anche il referendum è un pezzo del sistema”.
Covid:
il Great reset e la
connivenza del quarto potere.
Filodiritto.com-Lorenza
Morello- (30 Settembre 2021)- ci dice:
Il
Green Pass e il concetto di “luogo di lavoro”.
Che il
giornalismo d’inchiesta, soprattutto nel nostro paese sia in difficoltà è un
dato di fatto, e la pandemia ha peggiorato la situazione. Eppure il giornalismo è un potere,
per l’esattezza il “quarto potere”, volto a coadiuvare la democrazia che
si basa su tre poteri: legislativo, esecutivo e giudiziario. In altre parole, l’informazione
giornalistica dovrebbe essere la sentinella della democrazia.
Sta di
fatto però che, in una società in costante divenire dove i cambiamenti si
succedono con grande rapidità, anche i media sono soggetti a un’evoluzione,
soprattutto in tempi recenti. Il giornalismo sta quindi cambiando, ma ci sono principi
cardine che non possono in nessun caso essere soggetti ad “addomesticamenti”
dettati dalle circostanze.
Sempre
più spesso, però, i giornalisti, anziché cercare le notizie, usano le “veline”, vale a dire le
comunicazioni, in molti casi istituzionali, preconfezionate. Sempre più spesso le conferenze
stampa sono l’unica fonte di informazione e nel caso di quelle online (imposte
dal Covid) sovente senza possibilità di fare domande. I giornalisti quindi si limitano a
riportare dati e informazioni senza possibilità alcuna di approfondire (anche laddove volessero farlo, posto
che il dovere deontologico di approfondimento sancito dal TU dei doveri del
giornalista è ormai largamente disatteso, relegando per i motivi sopra detti la
professione di giornalista a quella di passacarte, senza soluzione di continuità).
“Lei
si preoccupa di quello che pensa la gente? Su questo argomento posso
illuminarla, io sono un'autorità su come far pensare la gente” diceva Orson Welles nel film Quarto
potere.
Ed
ecco ciò che è stato fatto per mesi tanto in ambito giornalistico quanto in
ambito medico (e sul cui tema le procure d’Italia traboccano di ricorsi): si è creato un pensiero unico e una
censura a chiunque volesse – semplicemente – andare un po’ più a fondo di tutto
ciò che ruota attorno al Covid.
Ed
ecco così esplodere i “morti di Covid” e sparire tutte le altre cause di
morte (non si sono più contati i morti di infarto, di incidente stradale o di
tumore) ma
semplicemente nessuno ci ha più fatto caso, perché le trombe della morte
squillavano all’apertura di ogni telegiornale o simili e la morte ha cambiato
nome, diventando pressoché per tutti sinonimo di Covid.
Che
poi i corpi venissero bruciati senza fare autopsie è un tema che, anziché far
suonare i campanelli di allarme ai nostri connazionali, ha fatto chiudere le
testate che con voce non dico critica ma almeno perplessa si sono permesse di
sottolineare questa e le tante altre contraddizioni.
E così
il popolo si è radicalmente spaccato in due: da un lato i “dubbiosi” che finiscono automaticamente
catalogati come “no vax” perché avere anche solo un dubbio non è ammissibile e il confronto è
assolutamente escluso se non con toni denigratori; e dall’altro “gli oltranzisti del pensiero
dominante”,
probabilmente braccati dalle proprie paure o plagiati da un credo forte che
attendevano da tutta la vita di avere – perché evidentemente quello della
squadra del cuore non bastava più – hanno preso come un dogma qualsiasi parola uscisse
dai governanti di turno. Senza necessità di verifica.
“Chiudetevi
in casa”, “uscite solo in certe fasce orarie”, “in piedi mettete la mascherina
ma seduti non ce n’è bisogno” (che poi seduti si sia ancora più vicini che in piedi poco
importa), per
non parlare del vaccino che arriva scortato a -80° ma poi lo somministrano in
una piazza assolata a +30° e nessuno nota il paradosso.
Perché
“la tivvvù” dice che è così e basta.
E guai
a chi, anche vaccinato, solleva dei dubbi o, peggio ancora, si ammala …
complottista che non sei altro!
Già,
complottista … non fosse che qualche sera fa, Carlo Freccero ha sdoganato un
tema che ero certa, questi oltranzisti del potete e delle restrizioni avessero
già affrontato nel segreto delle loro mura durante i periodi di clausura (perché, mi dicevo, se io sono
riuscita a leggere tutte le fonti sia a favore che contro un certo tema e solo
DOPO aver finito la mia analisi mi sono formata un mio personale convincimento,
questi che urlano a gran voce il loro odio – con una veemenza mai vista – in
faccia a chi la pensi diversamente avranno le loro ragioni, e anche loro
certamente avranno letto le fonti che perorano un pensiero così come quelle
contrarie).
Ricordiamo
peraltro a tutti che “la scienza” che così in tanti invocano, è il risultato delle operazioni del
pensiero,
e il metodo scientifico è da sempre fondato sul confronto tra tesi diverse,
esami di laboratorio, per arrivare ad una formulazione che abbia valore
scientifico, appunto.
Ma che
la medicina – oggi invocata a gran voce come sinonimo di scienza – non è una
scienza esatta. E di comportamenti antiscientifici che hanno caratterizzato questi
ultimi 18 mesi – tipo appunto negare le autopsie e bruciare i corpi, tipo la
questione della temperatura del vaccino, il nesso causale che nei morti “di
Covid” (o con Covid) c’è sempre e nelle morti da vaccino mai ecc. ecc. –
saranno pieni i futuri libri di storia.
Ebbene,
dicevamo appunto di Carlo Freccero, persona di chiara e indiscussa fama sui
palinsesti degli ultimi 40 anni (ma lo stesso trattamento da vecchio imbecillemente è
stato riservato anche a un premio Nobel come Montagnier quindi non c’è da stupirsi) che, con fare sornione e
intelligente presenta alcune letture su cui ha posto attenzione negli ultimi
mesi e tra
queste cita Il Great reset, libro nato dalla omonima proposta del World
Economic Forum (WEF), presentata nel maggio 2020 dal principe Carlo di Galles e
dal tedesco Klaus Schwab, per costruire una economia sostenibile per il post
pandemia Covid-19.
Ora,
posto che il libro lo si trova facilmente in libreria o su internet non starò
io qui a raccontarvi di cosa parla, visto che lo stesso Freccero per il
solo aver palesato al mondo il fatto che quello scritto esiste si è sentito
dare del complottista … direi che abbiamo ormai travalicato i margini del buonsenso
e del buongusto. E agli amici (che ritenevo molto colti e informati) che hanno chiamato
me dicendo “devo proprio leggerlo il libro di cui parla Freccero” rispondo che mi son cadute le
braccia, oltre alla fiducia, perché per mesi vi siete permessi di insultare
chiunque avesse una idea diversa dalla vostra e poi scopriamo che lo avete
fatto senza nemmeno aver letto tutte le fonti possibili.
Ma chi
è il vostro Guru, Topo Gigio? E noi che le idee ce le siamo formate ampiamente ma senza
necessità di proselitismo (tanto è vero che la sottoscritta il libro lo ha
letto mesi fa così come ne ha letti tanti altri ma non si è di certo permessa
di farne un vessillo da propaganda tanto è vero che non ho nemmeno mai consigliato a nessuno una
lettura piuttosto che un’altra ma ho sempre solo detto che bisogna leggere ed
ascoltare con senso critico tutto e poi formarsi un proprio convincimento) adesso possiamo finalmente dirvelo,
tenete la vostra supponente arroganza a distanza di sicurezza da noi.
«Viviamo
in strani tempi dove la letteratura è pubbliche relazioni, dove quel che si
produce non conta, basta che venda, dove le relazioni sono virtuali, dove la conoscenza viene uccisa
dall’informazione, dove le menzogne sono vendute come verità, dove la dittatura
della mente domina la democrazia, dove i cittadini e le menzogne sono al centro
dell’universo. La moralità è persa, tutti i criteri sono economici, l’economia mette
fuori gioco l’etica e l’estetica... Dove può condurre questo credere solo
nell’economia?
Che
senso ha, oggi, la parola libertà? Tutto è così poco "libero".» ─
diceva così Tiziano Terzani, in Un’idea di destino (2014). Fortuna per lui che non può più
sentire le invettive che – per non rischiare di mettervi in discussione
scoprendo (sia mai!) di aver sbagliato – riversereste anche su di lui.
Il
grande reset è nudo.
Comolive.it-
Alberto Comuzzi-(27 agosto 2021)- ci dice:
Uno
studio negli Stati Uniti rivela che le persone più diffidenti alla vaccinazione
indiscriminata di massa sono le fasce di popolazione più colta.
(Il
grafico dello studio pubblicato dalla Carnegie Mellon University).
Il
direttore di Radio Maria, padre Livio Fanzaga, nel corso della sua lettura
quotidiana dei giornali, avverte da tempo i propri ascoltatori che è in atto il reset (azzeramento
dei popoli per un nuovo ordine mondiale) auspicato da alcune élite economiche
(Rockefeller, Bill Gates, Rothschild, Soros & soci).
A suo
avviso, però, il disegno di una globalizzazione amministrata da una oligarchia
ristretta è destinata ad implodere davanti alla reazione di tanti diversi
popoli. Klaus
Schwab, fondatore del World Economic Forum che si tiene ogni anno a Davos, in
Svizzera, al quale prendono parte i maggiori rappresentanti della finanza
mondiale e i vertici delle più importanti multinazionali, ai primi sintomi della pandemia ha
teorizzato che «nulla più sarebbe stato come prima», implicitamente confermando
che l'umanità si avviava ad un nuovo ordine planetario.
A
considerare che il reset sia ardentemente voluto da pochi
"illuminati" uomini i quali dispongono di immense risorse economiche
è anche suor Teresilla Krefta, direttore editoriale di Mimep Docete, una
piccola ma ben strutturata casa editrice cattolica.
Anche
la religiosa si sente in sintonia con padre Livio, convinta che il reset sia
destinato a fallire perché non conforme al bene dell'umanità e quindi, in una
visione cristiana, rassicurata dalla promessa che «le forze del male non
prevarranno».
Certo
è che gli effetti riscontrabili nel disgregare la famiglia, isolare le persone,
limitare le libertà individuali, finora baluardo irrinunciabile della civiltà
occidentale, sembrerebbero perfettamente calzanti con il più perfido disegno
diabolico.
Vale la pena ricordare che il termine "diavolo" deriva dal latino tardo diabŏlus, traduzione del termine greco diábolos, cioè "dividere", "colui che
divide".
Sotto
questo profilo è interessante notare ciò che sta accadendo, per esempio, in
tema di vaccinazioni. Non v'è dubbio che in Italia sta crescendo una diatriba, fin
troppo accesa, tra chi è favorevole e chi è contrario a vaccinarsi.
Non
c'è categoria sociale o professionale (giovani e anziani, medici, farmacisti,
infermieri, insegnanti, politici etc.) che, al proprio interno, non veda
individui su posizioni contrastanti.
Desta
comunque un certo stupore, che solleva più di un interrogativo, uno studio
sulla diffidenza al vaccino in base al livello di istruzione negli Stati Uniti.
Il lavoro,
pubblicato a fine Luglio dalla Carnegie Mellon University, uno degli atenei più
prestigiosi al mondo, conferma che i più restii a vaccinarsi sono i soggetti in
possesso del Phd, paragonabile al nostro dottorato di ricerca. Il medesimo studio monitora anche
l'andamento, da Gennaio a Maggio del 2021, di questa classifica.
Mentre
i vari gruppi al di sotto del Phd (laurea di primo livello, frequenza
universitaria senza laurea, diploma, scuola dell' obbligo) mostrano, nel tempo,
una diminuzione di tale diffidenza – certamente dovuta alle pressioni
mediatiche – gli appartenenti all'élite dell'istruzione hanno un indice di diffidenza
costante. In pratica le persone più acculturate
del pianeta sono il vero scoglio contro cui l'onda vaccinale corre il rischio
di infrangersi.
Non è
compito nostro dirimere una questione tanto complessa e dibattuta a livello
internazionale, risulta però evidente che stiano segnando il passo i disegni di
alcuni globalisti.
È
largamente condivisa l'opinione che il mondo sia sottosopra dall'Ottobre 2019,
da quando cioè da un laboratorio di Wuhan s'è diffuso un micidiale virus. La confortante voce della Chiesa è
sempre più flebile, ma non mancano al suo interno coloro che incoraggiano a
mantenere viva la speranza di vedere presto la luce in fondo al tunnel in cui
si sarebbe cacciata buona parte dell'umanità.
Tra
tante tribolazioni che inducono oggettivamente al pessimismo e alla
disperazione, noi diamo fiducia all'ingenua proposta della Chiesa che,
nonostante tutto, invita a confidare nel futuro. Preferiamo cioè "sbagliare"
con la Chiesa piuttosto che avere ragione da soli.
Omicron, polemiche e sospetti
aumentano i rischi.
Lastampa.it-Piero
Bianucci-28 novembre 2021)- ci dice:
La
nuova variante Covid doveva chiamarsi Xi, ma la coincidenza con il nome del
presidente cinese è sembrata inopportuna. Come informare sulla pandemia? L’infettivologo Matteo Bassetti
lamenta che l’Oms abbia dato la notizia ai giornali prima che gli scienziati
potessero conoscere i dati.
(Letture
per difendersi da fake news e complottismi.)
Su
Omicron, l’ultima variante del Covid 19, la polemica incomincia dal nome. L’ha battezzata l’Organizzazione
Mondiale della Sanità (OMS, Ginevra) saltando due lettere dell’alfabeto greco,
la Nu perché in inglese la pronuncia si confonde con “new” e la Xi “per non
infastidire la Cina”, dice Matteo Bassetti, infettivologo all’ospedale San
Martino di Genova.
In effetti a Pechino Xi è un nome comune come
da noi Rossi o Bianchi, ma soprattutto è il cognome del presidente Xi Jinping. Cosa più grave, aggiunge Bassetti, di
Omicron i giornali hanno saputo – e scritto – prima che i dati scientifici
fossero comunicati ai virologi. Questo modo di gestire le informazioni, conclude
Bassetti, alimenta
la confusione e quindi fa aumentare i rischi. Una fonte scientifica unica,
autorevole e da tutti riconosciuta dovrebbe evitarlo.
Fonte
centralizzata?
Il
senatore a vita Mario Monti è d’accordo con Bassetti e va oltre. Guerre ed emergenze globali – dice
– legittimano fonti di informazione centralizzate a livello planetario, ma nel caso del Covid esigono anche
vaccini non gravati da brevetti per i paesi poveri che non possono
permetterseli.
Non si
tratta di generosità. Dalla loro salvezza dipende la nostra. Più il virus circola nei paesi
poveri, più si moltiplicheranno le varianti, come insegna Omicron, emersa in
Sudafrica perché lì hanno gli strumenti per cercarla, ma già prima diffusa in
tutti i paesi sottosviluppati limitrofi: Mozambico, Botswana, Namibia, Malawi,
Zimbabwe, Zambia. Conclusione: il Sudafrica, che ha reso un servizio al bene comune
comunicando subito i dati della variante, è stato punito con la chiusura degli
aeroporti, peraltro tardiva perché Omicron era già sbarcata in Italia e in vari
paesi europei.
Pretesto
da talk show.
Ieri a
Torino in via Cernaia sfilava un migliaio di no-vax / non-green-pass. Gridavano “libertà”, come se la libertà
fosse un loro fatto personale e non un fatto collettivo che esiste solo nella
sicurezza sanitaria di tutti. Intanto va avanti la sarabanda dei media. Da mesi nei talk show serali si
pesta l’acqua nel mortaio fino alla noia. Il vaccino esteso ai bambini ora
all’esame degli organi competenti li ha rinvigoriti e non viene trattato come
un tema scientifico serio ma come un nuovo pretesto per polarizzare le opinioni
politiche e far salire gli ascolti. Omettendo i peggiori, non fanno eccezione, sia pure
con sfumature diverse, Gruber, Annunziata, Floris, Ranucci, Formigli, Gabanelli. Si salva solo Fabio Fazio.
Due
domande chiave.
La
domanda è se la variante Omicron sia più contagiosa delle precedenti e se possa
“bucare” la barriera del vaccino. Sul primo punto la risposta è sì: là dove
compare diventa rapidamente maggioritaria soppiantando la Delta. Lo dimostra
chiaramente il grafico in alto. Sul secondo punto si indaga: nel genoma di Omicron 32
mutazioni riguardano la proteina bersaglio dei vaccini, ci vorranno due
settimane per capire come stanno le cose. Al momento la cosa certa è che,
confrontando i dati attuali con quelli di un anno fa, il vaccino ha evitato
almeno 22 mila morti. Se si incomincia a dire che i vaccini non servono, o sono
una speculazione delle multinazionali, o che tanto vale non fare la terza dose
in attesa che ne arrivi una versione aggiornata, le onoranze funebri avranno
parecchio lavoro.
Una
scorciatoia.
Contro
i pregiudizi ideologici c’è poco da fare. Forse l’unico antidoto è farsi un po’
di cultura su due meccanismi: da un lato quello dei vaccini, dall’altro quello
del complottismo. Ci vorrebbe una buona scuola (e non sempre l’abbiamo). In
ogni caso, la scuola lavora su tempi di una o due generazioni. Imparare la storia delle pandemie, il
funzionamento del sistema immunitario, l’evoluzione biologica, la genetica e la
matematica statistica richiede anni di studio. Inoltre, contro la babele delle
notizie (l’infodemia del web!), occorrerebbe conoscere gli strumenti e i trucchi della
comunicazione, la psicologia di massa e la teoria delle reti che moltiplica e
fa girare vertiginosamente i post. In un articolo come questo si può soltanto proporre
una scorciatoia: qualche lettura per acquisire le informazioni di base e
affinare il senso critico.
Troppo
in fretta?
Un
argomento diffuso anche tra le persone più razionali fa leva sulla velocità con
cui sono arrivati i vaccini anti-Covid. Ci si può fidare di vaccini
sviluppati in dieci mesi mentre normalmente sono necessari anni di lavoro? Sono
i nostri bambini stanno per diventare cavie di un vaccino sperimentale?
Rino
Rappuoli,
uno degli esperti di vaccini più accreditati a livello internazionale, in un
libro scritto con Lisa Vozza appena pubblicato da Zanichelli spiega in poche pagine ciò
che non mi è mai capitato di sentire nelle centinaia di ore di talk show a cui
siamo sottoposti. La velocità è frutto di tecnologie rivoluzionarie e di enormi
investimenti ed è conseguenza di studi decennali su come l’RNA messaggero
dirige la costruzione delle proteine. Dai vecchi vaccini “analogici” che
agiscono allenando il nostro sistema immunitario con virus o batteri
inattivati, siamo passati ai vaccini “digitali” resi possibili dalla biologia
sintetica.
Dall’analogico
al digitale.
“Questo
tipo di vaccini – chiarisce Rappuoli – è denominato ‘digitale’ perché per la
concezione, sviluppo e produzione occorrono soltanto informazioni che viaggiano
su Internet e materiali non biologici ma di sintesi.
Da
questo punto di vista il sistema di produzione dei vaccini cosiddetti
‘digitali’ è radicalmente diverso da quello con cui si sviluppano i vaccini più
tradizionali, detti ‘analogici’, che richiedono invece di manipolare il germe e
di farlo crescere in un fermentatore. L’altra grande differenza rispetto
ai vaccini tradizionali è che in questo caso si inietta non un vaccino fatto e
finito ma una serie di istruzioni (sotto forma di RNA messaggero) affinché le nostre cellule
fabbrichino da sole il vaccino stesso”.
Intervenendo
alla Settimana “Healthy Aging” organizzata all’inizio di novembre dalla
Fondazione Ferrero, per dare un’idea di quanto importante sia questa conquista,
Rappuoli
ha evocato uno scenario fantascientifico: con la tecnologia a RNA messaggero,
se scoppiasse una epidemia tra gli astronauti sbarcati su Marte, basterebbe
inviare loro via radio un file con la sequenza del vaccino: la riceverebbero nel tempo-luce di
qualche minuto, senza aspettare i nove mesi richiesti da un razzo per l’invio
di un vaccino.
Accesso
equo per i paesi poveri.
Sul
piano economico e scientifico – ricorda Rappuoli – contribuisce alla salute
globale la Bill & Melinda Gates Foundation insieme con l’Unicef, l’OMS e la
Banca Mondiale dando vita alla Vaccine Alliance, una collaborazione internazionale pubblica,
privata e non profit con l’obiettivo di dare un accesso equo ai vaccini nuovi o
sottoutilizzati per i bambini che vivono nei paesi più poveri. Eppure, paradossalmente, i
cospirazionisti accusano Bill Gates di aver creato e diffuso ad arte la pandemia
(sia detto a margine: ben venga la beneficienza, in attesa di far pagare a lui,
Bezos, Musk e compagni le giuste tasse nei paesi dove fanno enormi profitti).
Cento
volte più delle cellule.
Sulle
pandemie completa il discorso Giovanni Maga, direttore dell’Istituto di
genetica molecolare dell’Università di Pavia, nella seconda edizione aggiornata
di “Occhio al virus” (Zanichelli, 271 pagine, 14,30 euro). Scopriremo che le mutazioni sono il
loro mestiere – dell’HIV se ne conoscono centomila, e ciò spiega come mai non
esista ancora il suo vaccino - e che tutte le specie di piante e animali da tre
miliardi di anni si evolvono in parallelo con queste minuscole strutture
organiche al confine tra il vivente e l’inanimato: ognuno di noi porta a spasso sulla
pelle e nel proprio corpo 100 volte più virus che cellule. Dal punto di vista numerico si deduce
che al 99 per cento siamo aggregati di virus, per fortuna innocui. Questo articolo sui virus, in
sostanza, è scritto da virus (conflitto di interessi?), io ci ho messo solo la
firma, cioè l’uno per cento.
Quelli
delle “scie chimiche”.
Passando
agli argomenti cospirazionisti, c’è da segnalare che li esamina con
intelligenza e documentazione Paolo Toselli nel saggio “Complottismi” (Editrice
Bibliografica, 120 pagine, 9,90 euro). Tralasciamo i capitoli sui
terrapiattisti, i negazionisti dello sbarco sulla Luna, gli alieni invasori
nascosti tra di noi e i “rettiliani” sui quali si è arricchito il guru inglese
David Icke.
Solo
due chicche sulle famigerate “scie chimiche” prima di tornare alla pandemia: il
Movimento 5 Stelle “organizzò una conferenza sulle scie chimiche a Modena, ma
l’intervento di Beppe Grillo in persona ha fatto cancellare il simbolo e il
patrocinio dell’iniziativa”; nel 2016 Adriana Poli Bortone (ex ministro di estrema destra
in un governo Berlusconi) su Facebook avanzò “il sospetto che la malattia della
Xylella che ha colpito i nostri ulivi sia dovuta alle scie chimiche che Usa
scaricherebbero sul territorio italiano”.
Il
mito del Grande Reset.
Negazionismo
e complottismo sostengono o che il Covid non esiste o che è stato diffuso ad
arte con fini di speculazione o di dominio. E’ il mito del Grande Reset e del
nuovo Ordine Mondiale di cui parla il già citato David Icke. In Africa si è giunti ad accusare
l’OMS “di avere in gran segreto contaminato con del veleno il ‘Covid Organics’, una bevanda a base di erbe e
artemisia, lo
stesso principio attivo dei farmaci antimalarici”.
Non si
tratta solo del Red Ronnie imitato da Crozza. Curiosamente, spesso sono persone
istruite a rilanciare su basi culturali queste idee neo-millenariste. Qualche giorno fa uno studioso di
filosofia medievale autore di decine di libri e centinaia di pubblicazioni
scriveva in una mail: “E’ suggestivo notare che tutti i 'resistenti' degli anni
'70, hanno abbassato le brache al vaccino... dico 'abbassato le brache', perché
quando il vaccino era inoculato nelle chiappe non dava i problemi di mobilità del
braccio che sta dando a me, che a breve dovrò ricorrere a terapie medicali per evitare il
blocco dell'articolazione. E’ un vaccino ad azione 'mirata': agli intellettuali 'blocca'
gli strumenti di lavoro e spalanca gli scenari totalmente 'visuali'
preconizzati in Fahrenheit 451”.
Identità
gratificante.
“Dal
punto di vista psicologico – spiega Toselli – l’adesione a queste teorie è
anche una questione di connessione con gli altri. Con il confinamento le persone si
sentono isolate, e la cospirazione ti consente di diventare un membro di una
comunità, anche virtuale. Condividere queste teorie, che sfidano il discorso dominante,
contribuisce a creare una identità gratificante, come espresso chiaramente in
questo messaggio postato da un utente Facebook: ‘Ancora una volta toccherà a un
piccolo manipolo di irriducibili tenere accesa la fiamma della consapevolezza,
della libertà, dell’onore e della dignità. A caro prezzo, come sempre, ma
questo è il destino degli eroi, indifferenti ai belati di chi, partecipando del gregge
psichico creato dal nemico degli uomini, crede di salvarsi la vita’”.
Il
leghista di Aviano.
Il
vicesindaco leghista di Aviano (Pordenone) Michele Ghiglianovic ha diffuso
innumerevoli post su questa linea: “Non fate il vaccino… metteranno di
tutto dentro per farci diventare degli zombie”, “Ci sarà una vaccinazione globale che
vi ucciderà”.
A Bill Gates alludeva monsignor Carlo Viganò,
ex nunzio apostolico negli Stati Uniti, che il 25 ottobre 2020 scrisse una
lettera aperta a Trump avvertendolo che “è in corso un piano globale chiamato
il Grande Reset. Il suo architetto è una élite globale che vuole dominare
l’intera umanità, imponendo misure coercitive che limitano gravemente le
libertà individuali (…) Dietro questo progetto ci sono personaggi senza
scrupoli che finanziano il Forum Economico Mondiale”. Interpretazioni analoghe si
trovano nell’intera storia delle pandemie. Basta pensare agli “untori” rappresentati
da Manzoni nei Promessi sposi”. E’ facile immaginare quante fake news possano
avere origine dal paradigma complottista nell’era del web.
Un
microbo sulla Luna.
Chiudiamo
con un’ultima lettura, “Piccoli geni. Alla scoperta dei microrganismi” (Hoepli,
148 pagine, 12,90 euro) del biotecnologo Stefano Bertacchi. La suggerisco
perché fornisce una visione trasversale di tutto ciò che è piccolo ma
importante (virus, protisti, batteri aerobi e anaerobi…) e ancora di più perché
mi permette di smentire (rettificare) una informazione sbagliata (non una fake
news) che anche io ho contribuito a diffondere. Nel novembre 1969 con la missione
Apollo 12 “Pete” Conrad e Alan Bean sbarcarono nell’Oceanus Procellarum vicino
al luogo dove quasi tre anni prima era scesa la sonda automatica Surveyor 3. I due astronauti ne smontarono
alcune parti e le riportarono a terra, dove la Nasa le esaminò per valutare i
danni prodotti dall’ambiente lunare. Nella camera fotografica i tecnici
trovarono uno Streptococcus mitis, germe comunissimo e innocuo che tutti
abbiamo sulle labbra e nel cavo orale. Al tempo del Surveyor le sonde non
venivano sterilizzate prima della partenza, quindi non c’è da stupirsi che con
la fotocamera abbiano viaggiato dei batteri. La cosa straordinaria è che lo
Streptococcus mitis era vivo dopo tre anni di radiazioni cosmiche e sbalzi di
temperatura da + 100 a – 120 °C.
La
notizia fece il giro del mondo, finì in pubblicazioni scientifiche, sui
giornali e in libri divulgativi, compresi i miei. La scoperta nel 1981 del Deinococcus
radiodurans, che sopporta dosi di radiazioni 500 volte maggiori di quelle
solitamente mortali, resero meno incredibile la vicenda dello Streptococcus
reduce dall’Oceanus Procellarum. Solo indagini più recenti hanno accertato che la contaminazione
della camera fotografica avvenne nel laboratorio della Nasa in seguito a
manipolazioni maldestre. Ma la storia del microrganismo sopravvissuto per tre anni
sulla Luna è così bella che sarà difficile ristabilire la verità.
Chi
finanzia l'Organizzazione
Mondiale della Sanità.(OMS).
Ilblive.uniped.it-
Antonio Massariolo -(5-2-2021)- ci dice:
Il 21
gennaio scorso, un giorno dopo l’inizio della sua amministrazione, Joe Biden ha
firmato 17 ordini esecutivi.
Tra questi il neo Presidente degli Stati Uniti
ha voluto ribadire come la sua amministrazione voglia fare due importanti passi
indietro rispetto all’era Trump: sugli Accordi di Parigi e sull’Oms.
Questi sono solo due punti di un disegno più
grande ma rimangono due punti fondamentali. Gli Stati Uniti infatti sono dei
grandi contributori in entrambi i casi. Nel primo lo sono perché sono secondi nella
triste classifica di chi emette più CO2 in atmosfera, mentre nel caso dell’Oms lo sono perché di fatto rappresentano
uno degli Stati che donano più fondi di tutti all’Organizzazione Mondiale della
Sanità.
Come
si finanzia la World Health Organization .
La
World Health Organization, o Organizzazione Mondiale della Sanità
italianizzando, per finanziare un budget biennale di quasi 7 miliardi di dollari ha due
fonti principali: gli Stati membri che pagano le loro quote di adesione ed i contributi volontari che possono
arrivare sia dagli stessi Stati membri che da altri partner.
La
fetta più importante del budget arriva proprio dai contributi volontari
specifici, che raggiungono quasi i 4 miliardi e mezzo di dollari. Le altre entrate sono suddivise tra
i finanziamenti ai progetti (1 miliardo e 161 milioni di dollari), le quote,
cioè i contributi valutati in base al prodotto interno lordo di un Paese che
valgono 956 milioni di dollari, cioè il 14% del totale ed in maniera minore dai
contributi PIP, cioè i Pandemic Influenza Prepardness, che di fatto sono dei finanziamenti volti a migliorare,
rafforzare le capacità di risposta al momento di una pandemia (195 milioni di
dollari).
I
restanti circa 36 milioni di dollari arrivano sotto forma di contributi
volontari (VC), in gran parte da parte degli Stati membri e di altre organizzazioni delle Nazioni
Unite, organizzazioni intergovernative, fondazioni filantropiche, settore
privato e altre fonti.
Assessed
contributions.
Per
quanto riguarda i contributi calcolati sulla base del PIL dello Stato, quindi di fatto quelle che potremmo
chiamare quote di partecipazione all’OMS, gioco forza che ai primi posti ci
siano i Paesi più ricchi. Gli Stati Uniti, che hanno un prodotto interno lordo nominale di
oltre 20 mila miliardi di dollari contribuiscono con quasi 240 milioni di dollari
all’Organizzazione Mondiale della Sanità (236,911K). Segue la Cina che con un PIL di quasi 13 mila
miliardi di dollari “paga” una quota di poco meno di 130 milioni di dollari
(129,287K). L’Italia infine, con un PIL inferiore ai 2 mila miliardi è il settimo contributore per quota dell’OMS
(35,614 k).
Voluntary
contributions specified(VC).
I dati
che abbiamo visto fino ad ora quindi, contribuiscono solamente al 14% circa
del totale del budget OMS.
La maggior parte dei fondi (65,41%) arrivano infatti
da delle donazioni volontarie specifiche.
In
questo caso non solo gli Stati possono donare dei fondi, ed infatti vediamo come al primo
posto tra i grandi donatori ci sia una fondazione, la Bill & Melinda Gates
Foundation che
ogni biennio dona all’Organizzazione Mondiale della Sanità 551 milioni di
dollari (551,589K). Il secondo grande donatore è la Germania con 486 milioni di
dollari, seguita da Stati Uniti e Gran Bretagna, rispettivamente con 357 e 298
milioni di dollari.
Nei
primi dieci posti poi troviamo anche la GAVI Alliance, cioè l’organizzazione
internazionale creata nel 2000 per garantire l’accesso alle vaccinazioni alle aree
più povere del mondo, che dona all’OMS 246 milioni di dollari gran parte (66%)
incentrati appunto nel programma per garantire l’accesso ai servizi sanitari.
La
Commissione Europea è il sesto donatore con 212 milioni di dollari che vanno a finanziare
principalmente, per il 68% del totale, il programma che mira a rafforzare la
leadership, il coordinamento e il supporto operativo e ad aumentare l'accesso
ai servizi sanitari e nutrizionali essenziali nelle situazioni di emergenza
sanitaria.
Un
finanziamento che si concentra in particolar modo nell’area est del
Mediterraneo, ed in particolare su Libano (32%), Sudan (15%), Afghanistan
(14%), Giordania (9%) ed Iraq (6%). La donazione della Commissione Europea poi
si espande anche in altre 15 aree di intervento, che vanno dalla prevenzione
delle epidemie e pandemie (11%) all’eradicazione della poliomelite (4,5%),
dalla preparazione dei Paesi per affrontare le emergenze sanitarie alla
promozione di politiche sanitarie. Tutti i programmi che sono spiegati nel
dettaglio all’interno del sito dell’Organizzazione mondiale della sanità.
L’Italia.
L’Italia,
per quanto riguarda i programmi specifici, segue la linea della Commissione
Europea. Dei suoi 25 milioni di dollari di donazione la maggior parte è
destinata a finanziare il macro programma, del valore superiore ai 2 miliardi
di dollari, sull’aumentare l'accesso ai servizi sanitari e nutrizionali
essenziali nelle situazioni di emergenza sanitaria.
Altre
donazioni.
Una
piccola nota interessante. Tra gli enti che finanziano direttamente l’OMS troviamo anche la Regione Sicilia che, con
circa 300mila euro, supporta un più ampio programma da un miliardo di dollari
improntato a garantire l’accesso ai servizi sanitari essenziali. Scorrendo la tabella qui sopra si
possono leggere tutte le donazioni, dalle più grandi, appunto Bill & Melinda Gates Foundation, fino
alle più piccole che includono anche onlus o enti di istruzione come
l’Università di Copenhagen. Agli ultimi posti come donazioni volontarie specifiche
troviamo anche il Brasile con 4mila dollari che vanno ad aggiungersi alla
“quota” di poco meno di 32 milioni di dollari.
Altro
che decoupling, Wall Street
parte
alla conquista della Cina.
Forbes.it-
Tommaso Carboni-(27-10-2020)- ci dice:
Quel
matrimonio proprio non si doveva fare, e ormai lo dice apertamente anche Joe
Biden: lo
sfidante di Trump che voleva trasformare la Cina a suon di scambi commerciali,
oggi, agli sgoccioli della campagna elettorale, parla di dittatura
irreversibile e di minaccia esistenziale per gli Stati Uniti. Ma il divorzio è
davvero possibile? Ci sono diverse società americane, tra cui Google, Apple e
Microsoft, che stanno trasferendo la produzione in paesi limitrofi come Vietnam
e Thailandia, e pensano di spostarsi ancora più lontano, verso l’India, per
esempio. La
frattura nell’industria tecnologia quindi si allarga, considerando anche
l’ostruzionismo recente verso TikTok e Huawei.
Eppure,
la verità è che le due economie, americana e cinese, continuano a essere
fortemente dipendenti. Per farsi un’idea, l’anno scorso, nel pieno della guerra dei
dazi, 500 miliardi di dollari di merci hanno attraversato l’oceano Pacifico,
facendo la spola tra i due paesi. Resta notevole il deficit commerciale di Washington
nei confronti di Pechino- ad agosto, al massino degli ultimi due anni. E poi sottotraccia, nonostante la
retorica di dazi e blocchi agli investimenti, sta accadendo qualcos’altro di
davvero significativo: l’espansione di Wall Street nelle piazze finanziarie
cinesi.
Con
buona pace di Trump, Pechino sta attirando la ricca finanza americana con
liberalizzazioni e opportunità sorprendenti. BlackRock, Vanguard, JP Morgan,
Goldman Sachs, Morgan Stanley, American Express stanno tutti aumentando o
aprendo nuove attività in Cina. Quella di Wall Street, secondo gli esperti, non è
bramosia passeggera. E’ una scommessa a lungo termine che il baricentro della
finanza mondiale possa spostarsi, lentamente ma con continuità, nel lontano
oriente.
La
Cina ci sta mettendo del suo: da un paio d’anni ha molto allentato i vincoli che
tradizionalmente gravavano sul capitale straniero; prima le finanziarie estere
potevano partecipare a joint venture, ma solo con quote di minoranza; ora
invece è possibile acquisire una fetta maggioritaria e perfino l’intero
pacchetto azionario.
L’alta finanza americana s’è catapultata tipo
api sul miele. Goldman Sachs a marzo ha acquisito il 51%, quindi il controllo, del
capitale della sua sussidiaria che gestisce titoli cinesi; ha fatto lo stesso
Morgan Stanley; e lo scorso giugno è arrivato il via libera per JP Morgan:
amministrerà una società di futures interamente di sua proprietà,
l’investimento è di un miliardo di dollari.
Nei
servizi di carte di credito si sono mosse American Express, Visa e Mastercard.
E prima di loro PayPal: l’anno scorso ha comprato il 70% di GoPay ed è diventata la
prima piattaforma straniera a fornire servizi di pagamento online in Cina. Molto dinamici anche i grandi
gestori di patrimoni, BlackRock comincia a vendere fondi comuni di investimento,
mentre Vanguard ha deciso di spostare la sua sede asiatica a Shanghai.
Il
flusso di denaro è consistente. In un anno duecento miliardi di dollari di fondi esteri
investiti in azioni e obbligazioni cinesi. Il vantaggio per il momento sembra
reciproco. Ci
guadagna la Cina che ha bisogno di attirare capitali stranieri per finanziare
le sue società, ancora troppo dipendenti da prestiti bancari interni. E ci guadagna la finanza
internazionale. Perché la Cina al momento offre qualcosa di davvero raro: una grande economia in crescita e
tassi d’interesse più alti che nel resto del mondo, dove sono praticamente a
zero da diverso tempo.
E poi
ci sono in ballo aspetti strategici di più lungo corso. Uno riguarda l’enorme quantità di
soldi in mano ai correntisti bancari cinesi. Questi, secondo Oliver Wyman, colosso
americano della consulenza manageriale, nel 2023 avranno a disposizione per gli
investimenti 41 trilioni di dollari (erano 24 nel 2019). Per i gestori di patrimonio, anche
americani, si
tratta di un universo sterminato di potenziali clienti.
Insomma, la finanza globale se ne infischia della
guerra fredda. E se Trump prova a tagliare i finanziamenti delle società cinesi
cacciandole dai listini azionari americani (a dir la verità senza molto successo:
i collocamenti di aziende cinesi sono addirittura aumentati rispetto agli anni
di Obama),
Wall
Street il capitale lo porta direttamente in Cina, insieme alle tecniche più
sofisticate per gestirlo e farlo fruttare.
Il vero decoupling semmai c’è stato per gli investimenti
diretti cinesi nell’economia americana.
Un
crollo dell’88 per cento: dai 46,5 miliardi di dollari del 2016 ai 5,4 miliardi
del 2018. Questo
per via del nuovo regime di sorveglianza delle autorità statunitensi, ma anche
per i maggiori controlli sui capitali in uscita da parte di Pechino.
E
quindi cosa ci riserverà il futuro?
Una competizione feroce in settori chiave ad
alta tecnologia, come intelligenza artificiale e 5G. Qui l’obiettivo americano sarà frenare
l’influenza cinese e ridurre al minimo i rapporti tra i due paesi. Anche se
vincesse le elezioni il democratico Biden è probabile che ci si muova comunque
verso un mondo più diviso, che dovrà scegliere tra sistemi tecnologici diversi.
I dazi di Trump così potrebbero restare in piedi. I
due sfidanti del resto fanno a gara a chi si mostra più severo con i cinesi. “Bisogna separarsi”, ha detto Trump
pochi giorni fa.
“Se non facessimo business con la Cina non perderemmo
tutti questi soldi”. C’è un problema, però.
Le
aziende statunitensi ancora non hanno molta voglia di tornare a casa. Di
duecento società che operano in Cina solo il 4% è disposto a rimpatriare. Lo dice un sondaggio recente della
Camera di Commercio americana a Shanghai. E la grande maggioranza delle imprese
– oltre il 70% – non ha nessuna intenzione di spostarsi.
Alibaba
in crisi e patrimonio dimezzato
in 12
mesi: l’anno nero di Jack Ma.
Forbes.it-
Matteo Novarini - (23-11-2021)-ci dice:
Il 27
ottobre 2020, Jack Ma aveva un patrimonio di 66,6 miliardi di dollari: il
fondatore di Alibaba non era mai stato così ricco. Oggi – un anno, uno scontro con il
governo e una temporanea sparizione dalla vita pubblica più tardi – la sua
fortuna si è quasi dimezzata: l’ex uomo più ricco della Cina ha “perso” più di
28 miliardi.
Solo
nell’ultima settimana, Ma ha visto sfumare centinaia di milioni al giorno.
Mercoledì 17 novembre, infatti, Alibaba ha diffuso i numeri del terzo trimestre
del 2021. Le entrate – 31,1 miliardi di dollari – sono state giudicate
deludenti dai mercati, nonostante l’incremento del 29% rispetto allo stesso
periodo dell’anno scorso.
Il
giorno dopo l’annuncio, il titolo ha perso l’11%.
A
preoccupare sono soprattutto le prospettive future, dopo che la stessa società
ha ammesso che “il contesto normativo” potrebbe “colpire le sue attività”.
Jack
Ma e la battaglia con Xi Jinping.
Il
“contesto normativo” cui fa riferimento Alibaba è la stretta del presidente
cinese, Xi Jinping, contro le grandi aziende tecnologiche.
Una
mossa di cui proprio Jack Ma era stato una delle prime vittime.
Poco
dopo che la fortuna di Ma aveva raggiunto il suo apice, Pechino aveva bloccato
all’ultimo istante l’offerta pubblica iniziale (initial public offering, ipo)
di Ant Group, braccio finanziario di Alibaba, per cui era attesa una raccolta
record da 34,5 miliardi di dollari. Pochi giorni prima, Ma aveva
criticato in pubblico il sistema bancario cinese, a cui aveva attribuito una
mentalità da “banco dei pegni”.
Dopo
la sospensione dell’ipo, Ma era sparito dalla vita pubblica fino a fine
gennaio, aveva smesso di scrivere su Twitter e aveva abbandonato il ruolo di
giudice del suo stesso talent show, Africa’s Business Heroes.
In
aprile, l’antitrust cinese ha inflitto ad Alibaba la multa più alta della sua
storia – 18,2 miliardi di yuan, cioè 2,8 miliardi di dollari – per avere
abusato della sua posizione dominante e punito i commercianti che non vendevano
in via esclusiva sulle sue piattaforme.
L’ultimo
atto dello scontro risale a due mesi fa, quando il Financial Times ha
raccontato come Pechino abbia preteso la scissione di Alipay, la ‘super app’ di
pagamenti di Ant, e la creazione di un’applicazione separata per le attività di
prestiti. Una
mossa che, secondo fonti vicine al governo cinese citate dal Ft, aveva come obiettivo il controllo dei
dati di un miliardo di utenti.
Il
rallentamento della Cina.
Le
difficoltà di Alibaba e di Jack Ma si inseriscono nel generale rallentamento
dell’economia cinese. Nel terzo trimestre del 2021 il prodotto interno lordo è
cresciuto del 4,9% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente: un dato
inferiore al 5,2% previsto dagli analisti e al 7,9% del trimestre precedente. Oltre che, come spiega il Corriere
della sera, inferiore a quello dei “concorrenti occidentali che era abituata a
guardare da lontano”.
La
stretta sui grandi gruppi tecnologici ha riguardato, oltre ad Alibaba, anche
aziende come Tencent, Baidu e ByteDance (proprietaria di TikTok). Non è, però,
la sola ragione della frenata.
Pesano
infatti anche le difficoltà nelle forniture energetiche, che hanno indotto il
governo a imporre un taglio ai consumi delle industrie, i nuovi focolai di
Covid, che hanno portato tra l’altro ad annullare eventi come le maratone di
Wuhan e Pechino, e il caso Evergrande.
La
seconda società di sviluppo immobiliare del Paese è schiacciata da centinaia di
miliardi di dollari di debiti e non rappresenta un caso isolato.
Secondo
l’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi), “le difficoltà di Evergrande puntano i
riflettori sull’intero settore real estate cinese, che si ritrova in una bolla”.
L’analisi
prevede che la crisi “sarà, con ogni probabilità, arginata attraverso una
ristrutturazione parziale e ordinata a guida statale”.
Tuttavia,
“le proporzioni raggiunte dal settore immobiliare e gli squilibri finanziari
dei suoi principali attori evidenziano i profondi difetti del modello ‘build,
build, build’ (‘costruire, costruire, costruire’), che ha contribuito alla
straordinaria crescita dell’economia cinese e che oggi viene riconosciuto come
fonte di pericolo, dal punto di vista sia economico che sociale”.
Il
momento di Jack Ma.
Una
fotografia del momento di Alibaba, e di come la frenata dell’economia cinese
abbia interessato il gruppo, è data dall’ultimo Singles’ Day (l’anti-San
Valentino, ricorrenza commerciale molto popolare in Asia che celebra le persone
single). L’11
novembre – data composta da soli 1, 11/11 – Alibaba ha registrato vendite per
540 miliardi di yuan (84,5 miliardi di dollari). La cifra più alta di sempre,
che rappresenta però un incremento dell’8,4% soltanto rispetto allo scorso
anno: il più basso della storia.
Già a
giugno Forbes.com aveva pubblicato un articolo intitolato La triste fine di
Jack Ma Inc. “Ma era una celebrità mondiale, il cinese più famoso”, si legge. “Secondo
alcuni sondaggi, era più famoso di Xi Jinping al di fuori della Cina. Jack Ma
era Jeff Bezos, Elon Musk e Bill Gates concentrati in una sola persona. Era il
volto della nuova Cina”.
Una
fonte del Consiglio di Stato cinese ha paragonato l’intervento del governo
sugli affari di Ma all’operazione di “mettere le briglie a un cavallo”.
Ancora
Forbes, però, affermava che la metafora delle briglie “fatica a descrivere
questa orgia di distruzione di valore. Il ‘cavallo’ ha subito numerose
amputazioni, compiute con perizia dal governo cinese”.
Lo
scenario.
Certo,
Jack Ma, con un patrimonio di 38,2 miliardi di dollari, resta la quarta persona
più ricca della Cina e la 34esima più ricca del mondo.
Il
rallentamento della crescita dell’e-commerce cinese che ha colpito il suo
patrimonio negli ultimi giorni sembra però destinato a proseguire. Qualche settimana fa il South China
Morning Post (di proprietà della stessa Alibaba) riportava che “il tasso di
crescita del settore nei prossimi cinque anni dovrebbe essere solo un terzo di
quello dei cinque anni precedenti”, secondo il 14esimo piano quinquennale cinese
per l’e-commerce.
Tre
numeri riassumono il risultato di tutti questi fattori: il titolo di Alibaba ha perso il 58%
rispetto a quel 27 ottobre 2020, il 50,7% negli ultimi 12 mesi e il 41,6%
dall’inizio del 2021. E John Freeman, vicepresidente equity research della
società di ricerca Cfra, ha addirittura prospettato a Yahoo Finance “il
pericolo di un delisting”.
Vale a dire, la cancellazione del titolo dal
listino di Borsa.
Il
primo a pronunciare una profezia sinistra sul destino di Jack Ma, del resto, era
stato il diretto interessato. Cinque anni fa, Ma incontrò alcuni insegnanti della Cina
rurale e disse: “Credo che, tra le storie degli uomini più ricchi della Cina,
poche abbiano un lieto fine”.
Il re
dell’acqua minerale, Jack Ma
e il padre di TikTok:
chi
sono i 100 miliardari più ricchi della Cina.
Forbes.it-
Vittorio Mantovani-(4-11-2021)- ci dice :
È
stato l’anno del collasso di Evergrande e della stretta del governo contro i
colossi della tecnologia. Eppure, i miliardari cinesi non sono mai stati così
ricchi. Il totale dei patrimoni dei membri della nuova China’s 100 Richest di
Forbes è infatti di 1.480 miliardi di dollari: 150 in più rispetto allo scorso
anno.
Un
contributo significativo all’aumento, spiega Forbes.com, è arrivato da industrie legate alla
transizione energetica, come quello delle batterie agli ioni di litio. La Cina, il più grande mercato
mondiale per le automobili, è del resto anche il primo Paese al mondo per
vendite di veicoli elettrici.
Chi
sono i miliardari cinesi più ricchi.
La
persona più ricca della Cina è Zhong Shanshan, il re dell’acqua minerale, con
un patrimonio di 65,9 miliardi di dollari. Presidente e fondatore di Nongfu
Spring, Zhong ha visto la sua fortuna lievitare nel 2020: se ancora in primavera aveva un
patrimonio introno ai 2 miliardi, a ottobre aveva già superato i 50.
Una
crescita a cui ha contribuito poi, nel 2021, anche l’investimento in Beijing
Wantai Biological Pharmacy, azienda farmaceutica il cui titolo è salito del 76%
nell’ultimo anno. Al momento in cui questo articolo va online, Zhong è la 19esima persona più ricca
del mondo.
Al
secondo posto in classifica c’è Zhang Yiming, che grazie a TikTok ha guadagnato
più di tutti nell’ultimo anno: il suo patrimonio è passato da 27,7 a 59,4
miliardi di dollari. Zhang, 37 anni, è anche l’unico under 40 in classifica.
Il
podio è completato da Robin Zheng, presidente di un’azienda di batterie – Contemporary
Amperex Technology – che a maggio aveva già prodotto ben nove miliardari. Zheng ha un patrimonio di 50,8 miliardi
(erano 20,1 un anno fa).
Il
crollo di Jack Ma.
La
guerra del presidente cinese, Xi Jinping, alle grandi aziende tecnologiche è
costata miliardi ad alcuni di coloro che avevano dominato la classifica negli
anni scorsi.
Il caso Ant Group – il braccio finanziario di Alibaba la cui quotazione è stata
bloccata all’ultimo istante 12 mesi fa – ha fatto scivolare Jack Ma dal primo
al quinto posto. E il suo patrimonio si è ridotto da 65,6 a 41,5 miliardi.
Un
altro sconfitto di quest’anno è Ma Huateng, presidente e amministratore
delegato di Tencent. Dopo essere stato il più ricco del Paese per buona parte
del 2021, “Pony”
si è assestato infine al quarto posto. Il suo patrimonio è sceso da 55,2 a 49,1
miliardi di dollari.
Numeri
e record.
In
classifica compaiono in tutto dieci donne. La più ricca è Yang Huiyan,
undicesima in assoluto, proprietaria del 57% del gigante dell’immobiliare Country
Garden Holdings. Yang ha un patrimonio di 27,8 miliardi e, a 40 anni, è la seconda
persona più giovane della lista.
Il
miliardario più anziano in classifica è He Xiangjian, 79 anni, l’agricoltore
diventato re degli elettrodomestici, settimo con 32,1 miliardi di dollari.
Nessuno
tra i 100 cinesi più ricchi, dunque, ha 80 anni o più: un dato in controtendenza rispetto
al resto del mondo, dove 19 delle 100 persone più ricche sono over 80.
Nel
corso dell’anno, la spinta del governo di Pechino per la “prosperità comune” ha
portato molti miliardari a donare grosse cifre in beneficenza. Ciò nonostante, oltre alla somma di
tutti i patrimoni, si è alzata anche la soglia da raggiungere per entrare nella
China’s 100 Richest: quest’anno servivano 5,74 miliardi di dollari, contro i
5,03 del 2020.
La
classifica, spiega Forbes.com, è stata stilata sulla base di informazioni
ottenute dai diretti interessati e dalle loro famiglie, da analisti, da database privati e
da altre fonti. Il valore delle società non quotate è stato calcolato anche
tramite confronti con società simili presenti in Borsa. Tutti i patrimoni sono aggiornati al
15 ottobre 2021.
I 10
miliardari cinesi più ricchi.
Di
seguito la lista dei 10 cinesi più ricchi (tutte le cifre sono espresse in
dollari).
1 |
Zhong Shanshan
Patrimonio:
65,9 miliardi
Età:
66 anni
Fonte
di ricchezza: bevande, farmaci
2 |
Zhang Yiming
Patrimonio:
59,4 miliardi
Età:
37 anni
Fonte
di ricchezza: TikTok
3 |
Robin Zeng
Patrimonio:
50,8 miliardi
Età:
52 anni
Fonte
di ricchezza: batterie
Patrimonio:
49,1 miliardi
4 | Ma
Huateng
Età:
50 anni
Fonte
di ricchezza: internet
5 |
Jack Ma
Patrimonio:
41,5 miliardi
Età:
57 anni
Fonte
di ricchezza: e-commerce
6 |
Colin Zheng Huang
Patrimonio:
33,1 miliardi
Età:
41 anni
Fonte
di ricchezza: e-commerce
7 | He
Xiangjian
Patrimonio:
32,1 miliardi
Età:
79 anni
Fonte
di ricchezza: elettrodomestici
8 |
Wei Jianjun
Patrimonio:
31 miliardi
Età:
57 anni
Fonte
di ricchezza: automobili
9 |
William Lei Ding
Patrimonio:
30 miliardi
Età:
50 anni
Fonte
di ricchezza: giochi online
10 |
Wang Wei
Patrimonio:
28,8 miliardi
Età:
51 anni
Fonte
di ricchezza: servizi di consegne
(guardare la lista completa.)
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