PROCESSO DI GLOBALIZZAZIONE.

 PROCESSO DI GLOBALIZZAZIONE.

 

Le origini della globalizzazione.

Lospiegone.com- Edoardo Cicchella-(21 Gennaio 2021)- ci dice:

 

Cos’è la globalizzazione? E quando è iniziata? Dare una risposta a questa domanda è indubbiamente complicato, e il ventaglio delle potenziali risposte può facilmente arrivare a coprire millenni di storia.

In questa serie di articoli, tenteremo di inquadrare il fenomeno della globalizzazione nella sua accezione più moderna, ovvero quella riguardante il periodo storico durante il quale i costi di transazione e di trasporto si sono ridotti a sufficienza per permettere scambi commerciali (e spostamenti fisici) veloci e relativamente poco costosi.

Partendo dalla definizione di globalizzazione, l’opinione generale è concorde nel definire la globalizzazione “completa” solo nel caso in cui i prezzi delle materie prime (note come commodities) convergano sugli stessi livelli su scala mondiale. Questa condizione è chiamata “legge del prezzo unico” (Law of One Price) ed è alla base di molti concetti di macro e microeconomia. Basandoci su questa definizione, possiamo ritenerci oggi in una situazione di globalizzazione quasi totale, considerando i mercati internazionali di commodities (petrolio, oro, rame) i cui prezzi in dollari sono gli stessi in ogni parte del mondo.

Le grandi fasi della globalizzazione.

Se consideriamo la globalizzazione in chiave “moderna”, come una vera integrazione dell’economia attraverso i confini nazionali (tralasciando per il momento gli avvenimenti recenti legati alla crisi del Covid e gli attriti tra Cina e Stati Uniti), alcuni storici ed economisti dividono la sua storia in tre fasi, alle quali una quarta può essere aggiunta per gli ultimi 20 anni.

 

La prima fase iniziò nel 1600 circa e fu dominata dalle compagnie para-statali di scambi commerciali, non ancora completamente capitaliste ma certamente mercantiliste. Tra queste, la prima e più importante fu certamente la Compagnia delle Indie Orientali, nota anche come VOC (Vereenigde Oostindische Compagnie) e fondata nel 1602. Negli stessi anni, anche l’Inghilterra stava ponendo le basi del proprio “Nuovo Mondo” con la fondazione della Colonia della Virginia nel 1606. Ciononostante, per lungo tempo la Compagnia delle Indie Orientali sarebbe rimasta la più grande organizzazione che diede una spinta decisa alla globalizzazione, intesa come commercio internazionale (legale e non). Basti pensare che la VOC raggiunse un valore attuale paragonabile alla somma delle prime venti aziende di borsa per capitalizzazione.

Entrambe le compagnie inglesi e olandesi si limitarono inizialmente ad importare spezie e alcune materie prime vendute a carissimo prezzo in Europa, con costi di trasporto ancora esorbitanti e grandi rischi collegati alla lunghezza e difficoltà ambientali del viaggio. Per questo motivo, l’import di questi materiali non ebbe inizialmente un grosso impatto sulla produzione locale europea, che era concentrata su altri settori. I vantaggi di questi scambi affluivano maggiormente alla parte più ricca della popolazione, che poteva permettersi le merci più costose e che aveva la disponibilità economica di investire nelle azioni delle Compagnie delle Indie stesse.

Vantaggio Comparativo.

La seconda fase invece comprende l’inizio degli scambi in beni di più largo consumo, in industrie già presenti e sviluppate in Europa come quella tessile o del grano. In questa fase, le teorie di distribuzione della produzione rispetto ai vantaggi comparativi di uno Stato (secondo cui uno Stato dovrebbe specializzarsi nel commercio di prodotti in cui ha un vantaggio in costi di produzione, importando il resto dall’estero) presero piede assieme all’aumento vertiginoso degli scambi globali guidato dagli imperi europei, in particolare Inghilterra, Francia e Spagna, nel 1700 e 1800. Queste teorie di vantaggio comparativo, che garantirono successivamente il premio Nobel a Heckscher e Bertil Ohlin e sono tuttora studiate, promuovono lo scambio internazionale di merci come favorevoli alla ricchezza globale in generale, paragonando gli scambi commerciali alla cosiddetta marea che alza tutte le barche, seppure alcune barche più di altre.

 

In questo periodo, grandi investimenti pubblici come l’apertura del canale di Suez nel 1869 e del canale di Panama nel 1914 contribuirono enormemente all’espansione del commercio marittimo e all’integrazione delle economie mondiali. Allo stesso tempo, l’invenzione del motore a vapore e le sue applicazioni nel trasporto marittimo e di terra ebbero un impatto fondamentale sulla riduzione dei costi, impatto paragonabile alla successiva introduzione del motore a scoppio agli inizi del Novecento.

In questa nuova ondata di globalizzazione, gli Stati più ricchi ebbero la possibilità di specializzarsi in produzione di prodotti ad alto valore aggiunto usando le materie prime (e a volte anche gli abitanti) delle nuove colonie in Africa e America, per migliorare il tenore di vita della popolazione. È difficile dare date precise per l’inizio e la fine di questa fase, anche se possiamo collocarne l’inizio nei primi anni del 1800, con la fine del mercantilismo delle Compagnie delle Indie, mentre la fine coincide grosso modo con la conclusione della Seconda Guerra Mondiale.

Evoluzione fino al presente.

La terza fase cominciò invece con la vittoria degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica nella Seconda Guerra Mondiale e il relativo disfacimento dei vecchi Imperi Coloniali (inclusi quelli inglesi e francesi anche se si trovavano dal lato dei vincitori). Con il trattato di Bretton Woods nel 1944, un nuovo sistema globale con il dollaro al centro fece sì che il commercio e i prezzi dei beni globali si armonizzassero ulteriormente, grazie alla convergenza di molti sistemi monetari ora effettivamente “collegati” al valore della moneta statunitense. Allo stesso tempo, la fondazione del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale (entrambe con base in America ma a direzione più o meno internazionale), diedero una spinta importante al movimento dei capitali e degli investimenti nei Paesi in via di sviluppo.

Infine, una quarta fase della globalizzazione, con nuove dinamiche migratorie dal Sud- Est all’Ovest del mondo, inizia in concomitanza con l’entrata della Cina nel WTO (l’Organizzazione Internazionale del Commercio) nel 2001. In questa fase, quella in cui ci troviamo tuttora, la crescita della Cina, della popolazione mondiale nei Paesi in via di sviluppo e dell’uso della tecnologia ha portato a grossi cambiamenti e ad un aumento generalizzato della globalizzazione, intesa come scambio di beni e movimenti di persone.

Quali sono o saranno i risultati di questi cambiamenti è oggetto di dibattito in diversi ambiti, accademici e non. Tra i cambiamenti che possiamo già osservare, è evidente lo spostamento del baricentro dell’economia mondiale da Ovest a Est, con la proporzione del PIL mondiale prodotto dai Paesi più ricchi in netta diminuzione. E’ anche evidente come ormai molti di questi Paesi abbiano di fatto delegato la produzione manifatturiera in aree con un basso costo del lavoro, con tutte le implicazioni strategiche e geopolitiche del caso (in particolare nel caso della Cina).

Possibili sviluppi.

Il recente aumento della ricchezza globale, dalla rivoluzione industriale in avanti, è chiaramente una causa diretta della globalizzazione, anche se con i suoi vincitori e vinti. Tralasciando i recenti eventi legati alla crisi del Covid, appare ormai evidente come la globalizzazione abbia favorito le popolazioni in maniera iniqua, seppure rimane indubbio che la ricchezza globale e il tenore di vita siano aumentati enormemente in generale negli ultimi 200 anni.

Le grandi sfide di questo secolo, come la crescita del populismo di destra e di sinistra in Occidente, la crescita vertiginosa della popolazione in Africa e nel Sud-Est Asiatico e le sue conseguenze, il ruolo della Cina, l’aumento dell’autoritarismo nel mondo e anche i cambiamenti climatici passano tutte dalla globalizzazione, che quindi rimane un fenomeno fondamentale da studiare e comprendere.

 

 

 

Il radicale ripensamento sul

processo di globalizzazione.

Huffingtonpost.it-Corrado Ocone-(27-11-2021)- ci dice :

C’è una connessione con e il dibattito che animò qualche anno fa la filosofia italiana intorno all’alternativa fra postmodernismo e neorealismo?

C’è una connessione fra il processo che in termini sociologici chiamiamo globalizzazione e il dibattito che animò qualche anno fa la filosofia italiana intorno all’alternativa fra postmodernismo e neorealismo? A prima vista, sembrerebbe di no.

Mentre il processo di globalizzazione è un fenomeno che, in modo approssimativo, suol farsi iniziare dagli anni Ottanta del secolo scorso; la discussione sul postmoderno e sul realismo concerne problemi filosofici vecchi come il mondo (almeno quello occidentale): dal significato da dare alle idee di realtà e di verità al rapporto fra l’io interpretante e l’oggetto interpretato. Eppure, andando un po’ oltre le apparenze, senza nemmeno forzare più di tanto la mano, si possono interpretare le idee postmoderniste (che avevano avuto in Italia in Gianni Vattimo col suo pensiero debole il massimo interprete)  e quelle neorealistiche (rappresentate da Maurizio Ferraris), almeno per quel che concerne le loro conseguenze pratiche, come due diversi, opposti ma speculari supporti alla mentalità globalista. La quale, come ho già altre volte messo in evidenza, si è esplicitata in una sostanziale messa in scacco della politica ad opera di due dispositivi neutralizzanti del conflitto di  cui uno fondato su base eticistico-giuridica e l’altro su base economica.

Da qui il trionfo di due opposte, ma appunto complementari, retoriche: la prima, quella di un generico “dirittismo” a base politicamente corretta, cioè fatto di difesa di identità particolari, e spesso organizzate, da proteggere perché ritenute, poco importa se a torto o ragione, storicamente “discriminate”; la seconda, di una sostanziale e acritica apologia non del mercato classico ma dei mercati finanziari con le loro logiche transnazionali e il predominio in esso sempre più evidente di imprese multinazionali più forti spesso dei singoli Stati che dovrebbero normarle.

Cosa c’entri col postmodernismo il “politicamente corretto” non è difficile capirlo: se la realtà è una mia costruzione, se essa si svolge lungo l’asse di sempre diversi e liberi “giochi linguistici”, è evidente che il suo referente ultimo è un individuo narcisisticamente atteggiato e sradicato da ogni radice o tradizione. Costui costruisce le proprie identità fluide scegliendo capricciosamente in una sorta di supermercato delle idee o meglio dei gusti. Idee tutte “deboli” per ché non più metafisicamente giustificabili. Una situazione che poi è a ben vedere perfettamente funzionale alle logiche di mercato basate su una sorta di primazia dell’individuo-consumatore. Esse per giungere a buon fine hanno necessità non solo e non tanto di favorire attraverso accorte operazioni di marketing le scelte del consumatore ma anche di oggettivarle, standardizzarle, targettizzarle. E cosa se non un processo di astratta oggettivazione, di realismo più o meno ingenui , fosse pure quello dei dati (non a caso la prospettiva di Ferraris è evoluta in una teoria della “documentalità”), può permettere queste operazioni e questa completa disponibilità per noi del dato reale? Come si sa, la globalizzazione si è tanto rapidamente affermata, negli ultimi decenni, quanto altrettanto precocemente ha mostrato di essere soggetta a fattori di crisi non congiunturali ma strutturali. Soprattutto dopo la recente pandemia, l’ultima e forse più insidiosa delle crisi globali che abbiamo vissuto (e che annoverano fra le altre anche quella terroristica e quella finanziaria legata alle bolle speculative), il processo di globalizzazione viene ora radicalmente ripensato. È inevitabile che anche tutte le ideologie che hanno fatto ad essa da supporto sembrano essere entrate irrimediabilmente in crisi. Postmodernismo e neorealismo, nella loro unilateralità, mostrano con chiarezza i limiti che molti di noi avevano messo in evidenza già al momento del loro apparire.

(Quella qui presentata è la traccia dell’intervento presentato al festival delle idee Colloquia che si svolge questo fine settimana a Foggia e vede la partecipazione, fra gli altri, di Michela Marzano, Alessandra Ghisleri, Corrado Ocone, Ilaria Capitani: COLLOQUIA – Festival delle Idee Foggia ).

 

 

 

 

L’ OCCIDENTALIZZAZIONE DEL MONDO

E I PROCESSI DI GLOBALIZZAZIONE .

Difesa.it-Redazione-(12-9-20219- CI DICE :

Lo sviluppo della tecnica e dell’industria in Europa e poi in America ha favorito, assieme ad altri elementi delle società europee, una progressiva espansione dei modelli di vita europei e poi americani nel mondo. Ma questa espansione si è stabilizzata durante l’epoca delle conquiste coloniali, che hanno fornito ai paesi ricchi materie prime e forza lavoro a prezzi bassi.

Con l’estensione dell’economia e dei mercati si è lentamente diffuso anche un insieme di credenze, costumi, modi di vita, valori, che avevano avuto origine nella vecchia Europa. A questo processo ha anche contribuito la straordinaria intensificazione dell’attività missionaria, che ha diffuso un elemento assolutamente proprio del mondo europeo, il Cristianesimo, che non ha mancato di portare con sé alcuni caratteri dell’Occidente.

Intanto, l’insieme dell’umanità, a partire dall’800, si trovava a far fronte ad alcune novità rilevanti, che avevano tutte il loro motore nella storia dell’Occidente:

1. L’aumento demografico;

2. La diffusione dell’urbanizzazione;

3. La progressiva secolarizzazione e laicizzazione dell’azione sociale;

4. L’aumento del lavoro salariato e la crescita di importanza dei mercati;

5. La crescita straordinaria dei mezzi di comunicazione, per quantità e velocità (telefono, radio, televisione, stampa, internet).

Tutto ciò ha fatto sì che in pochi decenni si imponesse progressivamente un sistema culturale sui generis, che lentamente ha raggiunto gli angoli del pianeta, favorendo una relativa omogeneizzazione e uniformazione planetaria. I caratteri di questa Western Culture possono essere così identificati:

1. Un forte individualismo, accompagnato da una concezione competitiva della vita;

2. Un orientamento apertamente materialista, secondo il quale gli oggetti, le cose, i beni, sono più importanti delle persone;

3. Una concezione della storia come “miglioramento continuo”, come “crescita senza fine”, che potrà condurre – con il progresso della scienza e della tecnica – al “regno dell’abbondanza per tutti”;

4. Una fiducia estrema nella scienza e nella tecnica;

5. Una presunzione, orgoglio, di essere la migliore società mai creata dall’uomo.

Questi elementi, tra gli altri, sono stati portati per il mondo, e hanno costituito il processo noto come occidentalizzazione del mondo. Le conquiste coloniali, con le loro guerre di stabilizzazione del potere europeo, la conversione al Cristianesimo di popoli diversi, la distruzione delle economie e delle culture che spesso vi si è accompagnata, il disprezzo per i popoli diverse e le diverse culture che non di rado è apparso con forza, sono stati sostenuti da due idee chiave dell’Occidente: il concetto di progresso e quello di sviluppo. Un processo “monistico”, di convergenza, ha quindi poco a poco sostituito il carattere millenario di divergenza, multidimensionalità, poliedricità, pluralismo, che aveva imperato tra le società

umane fin dalla loro origine.

Ma non bisogna pensare che il processo indicato sia concluso e che le differenze culturali e sociali siano scomparse per sempre. Infatti, parallelamente al processo di convergenza e uniformazione planetaria, che è sembrato ad alcuni già quasi concluso, hanno cominciato a manifestarsi forme di reazione contraria, movimenti in controtendenza, che hanno rivendicato identità e caratteri propri, rielaborando forme antiche con stimoli nuovi. Alla planetarizzazione ha cominciato ad opporsi, in alcune situazioni sociali particolari, il fenomeno della ri-localizzazione, ricostruendo forme locali autonome e indipendenti dalle tendenze planetarie. La rinascita di vecchie-nuove identità, la produzione di vecchi-nuovi prodotti locali, ha caratterizzato parte dello scenario contemporaneo.

Forme di ibridazione, sincretismo, si sono manifestate recentemente.

Un aspetto importante del processo descritto, della progressiva occidentalizzazione del mondo, che è emerso negli ultimi decenni, è la globalizzazione, che è genericamente intesa come la creazione di un unico ambito planetario, globale, per la circolazione di beni e di informazioni. Gli elementi che caratterizzano la globalizzazione sono dunque due:

1. La diffusione, senza i limiti che una volta ne ostacolavano la circolazione nel mondo intero (difficoltà di trasporto da un lato, e dogane o dazi dall’altro) dei beni in un mercato unico; ma questa diffusione presuppone una standardizzazione dei bisogni e dei gusti;

2. La rapida crescita, intensificazione e potenziamento, dei messi di informazione;

La circolazione dei beni e delle idee modifica la quotidianità della vita di popoli lontani, e contribuisce alla progressiva uniformazione planetaria della quale sopra si diceva. E’ evidente che ci sia un collegamento tra i beni e le informazioni, per esempio, attraverso la pubblicità, che può anticipare l’arrivo in un paese lontano dei beni prodotti in Occidente.

Si è svolto recentemente un dibattito internazionale, sul problema se la globalizzazione abbia caratteri positivi o negativi per l’umanità in generale, e in particolare per i popoli delle regioni del Terzo Mondo. Non si può dubitare che alcuni elementi del processo di diffusione e uniformazione nel mondo di certi caratteri dell’Occidente sia positivo (le scoperte della medicina moderna, la difesa dei diritti umani, le idee di eguaglianza, tra i sessi e tra i gruppi sociali, e così via); si deve tuttavia osservare che in gran parte i processi di globalizzazione rispondono ad esigenze, interessi (economici, politici, militari) propri dei paesi ricchi del mondo. Infatti, la maggior parte delle merci che girano per il mondo vengono dai paesi ricchi dell’Occidente. Solo negli ultimi decenni l’ingresso prepotente della Cina e dell’India nel mercato mondiale ha abbastanza cambiato il quadro. Ma sono la maggior parte delle volte gli interessi dei paesi ricchi che determinano gli interventi apparentemente favorevoli alle economie dei paesi poveri. Infatti, il processo descritto porterà prima i beni provenienti dai lontani produttori ricchi fino ai margini del pianeta.

Poi, progressivamente, può essere più conveniente per un paese ricco di impiantare una fabbrica dei beni che prima venivano prodotti lontano e trasportati a migliaia di chilometri di distanza, nel paese povero.

Questa strategia di investimento economico, che può apparire “generosa” e conveniente per il paese che riceve la fabbrica, il più delle volte è determinata dall’interesse dell’impresa europea o americana di produrre a più bassi costi (il costo del lavoro in un paese povero è molto più basso), pagando meno tasse. E’ il processo che viene definito di de-localizzazione della produzione. Andrebbe di volta in volta verificato se prima, nel paese povero, non esisteva già una industria dello stesso tipo, che è stata semplicemente sostituita da quella di origine esterna. E andrebbe verificato se la mano d’opera locale utilizzata non sia stata sottratta, per esempio, al lavoro agricolo, diminuendo così l’autonomia alimentare della società locale.

Come si vede, nella globalizzazione non tutto è fatto di “rose e fiori”.

C’è un aspetto dei processi di globalizzazione che è stato meno studiato, quello sociale e culturale. Infatti, a dispetto della uniformazione dei bisogni e dei consumi, permangono in molti paesi le idee, i valori, i costumi sociali, della società locale tradizionale, che vengono spesso rielaborati in forma originale e sincretica.

 

 

 

CORONAVIRUS: LA GLOBALIZZAZIONE è un  pericolo ?

Fondazionefeltrinelli.it-Andrea Califano- (5 marzo 2020)- ci dice:

 

Il diffondersi dell’epidemia di coronavirus ha spinto governi, istituzioni pubbliche in genere e attori privati a prendere severe misure di restrizione alla libertà di movimento delle persone.

 Che l’emergenza sia reale o meno, non rileva ai fini di questo breve articolo; anzi, è interessante il paragone con la presunta “emergenza migratoria” per mettere in evidenza alcuni punti.

Anche in quel caso, vennero (e vengono, ogni qual volta lo si ritiene opportuno per i più vari fini) prese misure di restrizione al movimento delle persone. Naturalmente, rafforzando le barriere di ingresso ai Paesi dell’Unione Europea; ma soprattutto, con l’annullamento di fatto della libertà di movimento all’interno dell’area Schengen.

Assistiamo invero in queste ore a un plastico raffronto tra i due casi: mentre gli italiani vengono bloccati a bordo di aerei atterrati in lussureggianti atolli tropicali, o turisti di ogni angolo del pianeta si trovano imprigionati a Milano perché le compagnie hanno deciso di chiudere le rotte – evidentemente perché non più profittevoli –, arrivano le violente (e disgustose) immagini della guardia costiera greca che tenta di affondare i gommoni dei migranti in fuga dalla guerra siriana.

Perché allora nel caso del coronavirus in molti si stanno chiedendo se ci si trovi di fronte a una messa in discussione della globalizzazione, mentre le frontiere chiuse ai profughi non hanno mai suscitato tale domanda? Di che globalizzazione stiamo parlando?

Credo che la risposta stia nell’identificazione, promossa dalla narrazione neoliberale (qui un emblematico esempio di queste ore) e diventata senso comune, tra globalizzazione e benessere economico. E, allo stesso tempo, a una correlata imprecisa interpretazione di cosa la globalizzazione effettivamente sia.

 Il coronavirus ha e avrà effetti sull’economia (molti gli istituti che in questo momento stanno cercando di quantificarli: esempio ne è il lavoro dell’OCSE); il coronavirus non ha invece il potere di mutare lo stadio di sviluppo del sistema capitalistico mondiale, per semplicità chiamato “globalizzazione”, e riassumibile in tre libertà fondamentali: di movimento di capitali, merci e persone.

Come argomentato più diffusamente in altre sedi, la “globalizzazione reale” si caratterizza soprattutto per la completa libertà di movimento dei capitali – responsabile, tra le altre cose, della nostra dipendenza dalle fabbriche cinesi, spiegata nelle prossime righe. Gli altri due pilastri, al contrario, sono solo molto parzialmente realizzati, in particolare la libertà di movimento delle persone. Quindi, il coronavirus, così come il blocco di centinaia di migliaia di migranti alle frontiere dei Paesi industrializzati (milioni, anno dopo anno), non mette la globalizzazione in pericolo: la differenza tra i due casi sta solo nelle diverse conseguenze che questo ha sull’economia dei Paesi industrializzati stessi, come ricordato in questo approfondimento sull’emergenza sanitaria di questi giorni. L’articolo è emblematicamente intitolato “può l’UE permettersi la chiusura dei confini?”, e alla domanda si risponde che poteva sì permetterselo nel 2015 di fronte ai migranti, non può permetterselo ora di fronte al virus.

Ci si rende allora facilmente conto della natura fallace del discorso sulla globalizzazione in pericolo. La globalizzazione non torna indietro perché si alza qualche (momentanea) ulteriore barriera che si aggiunge ai molti muri che già sono presenti in tutto il mondo per bloccare il libero movimento delle persone. La globalizzazione non è in pericolo, nonostante i pesanti effetti economici che il coronavirus avrà su molti Paesi del mondo. Certo, la globalizzazione è lo strumento di propagazione sia del virus che dei suoi deleteri effetti, o meglio di accelerazione di tale propagazione, perché sempre nella storia dell’uomo le epidemie si sono diffuse da un angolo all’altro del mondo. Ma analizzando come avviene questa accelerazione, e come si diffondono i gravi effetti economici, si capisce che le radici del sistema economico globale sono profonde e coinvolgono principalmente altri elementi – in particolare produttivi – che ben più del turismo definiscono il mondo (e il modo) in cui viviamo.

Infatti, l’epidemia in corso, rispetto alla precedente epidemia comparabile, quella della SARS del 2003, non solo sta avendo conseguenze più gravi sulla Cina, nella quale il peso dei servizi sul totale dell’economia è cresciuto del 40% nel periodo tra le due epidemie – e quella dei servizi è la componente più colpita da questo tipo di evenienze; ma, dato il ruolo della Cina nella configurazione capitalistica globale – la globalizzazione – avrà conseguenze ben più pesanti anche sul resto dei Paesi.

 E questo, naturalmente, a prescindere dagli effetti diretti del virus in ogni singolo Paese. Si tratta di un aspetto messo chiaramente in luce nella presentazione del report già citato che l’OCSE ha fatto il 2 marzo: in particolare, occorre osservare il grafico che indica il ruolo della Cina in alcune delle più importanti catene globali di valore (global value chains): quella dell’elettronica e quella del settore automobilistico. In queste ultime, la Cina è responsabile per la produzione, rispettivamente, del 27% e del 13% del valore aggiunto dei beni intermedi prodotti.

Perché si tratta di un dato importante? Un aspetto fondamentale della globalizzazione, spinto dagli ingenti flussi di investimenti di capitale all’estero, è proprio l’integrazione produttiva in catene globali di valore, per cui è ben più significativo concentrarsi sui beni intermedi piuttosto che sugli scambi commerciali (questi ultimi, per altro, già in calo negli ultimi anni). Questi dati indicano quindi che se si fermano le fabbriche in Cina (e Hubei, epicentro del coronavirus, è uno snodo fondamentale della produzione industriale cinese e, appunto, mondiale), si fermano anche nel resto del mondo. In che misura? Ad esempio, il 24% della produzione di elettronica degli Stati Uniti è dipendente dai beni intermedi cinesi, il 14% di quella dell’Unione Europea, l’8% di quella giapponese.

Se l’economia funzionasse come postulato dall’ideologia dominante in accademia e, spesso, nel sistema mediatico, sarebbe (stato) sufficiente diversificare la provenienza di suddetti beni intermedi e ricollocare i nodi delle catene di valore in altri Paesi del mondo. Oppure, se funzionasse come vorrebbe un certo nazionalismo d’accatto, purtroppo ben affermato in molti Paesi del mondo, sarebbe sufficiente riportare la produzione dentro i confini nazionali, dalla sera alla mattina. Allora, in entrambi i casi – giornalisticamente parlando, nella versione liberista e in quella sovranista – la globalizzazione potrebbe effettivamente essere in pericolo, o comunque soggetta a una profonda ridefinizione.

 L’economia tuttavia, come ben sa chi ha fatto piani pluridecennali di investimenti in Cina, per una portata economica complessiva tale da disegnare i contorni delle catene internazionali di valore, non funziona così, e la globalizzazione non verrà imbrigliata, ridimensionata, né tornerà indietro nel giro di pochi giorni o mesi perché le fabbriche cinesi lavorano momentaneamente a ritmi ridotti; ancor meno, perché i flussi turistici sono improvvisamente caduti a picco. Il vero elemento qualificante della globalizzazione, la libertà di movimento dei capitali, non viene intaccato dalle misure straordinarie di contenimento del contagio, come esemplificato dalla deteriore innovazione del CoronaToken.

 Il sito del neonato strumento finanziario descrive esplicitamente la moneta virtuale come un mezzo per speculare sulle morti provocate dalla malattia: maggiore il numero di contagi, maggiore la ricchezza accumulata dai detentori.

Potremo considerare questa globalizzazione in pericolo solo quando verranno introdotte forti misure di limitazione al movimento di capitali. E, da molti punti di vista, non sarebbe una cattiva notizia: non a caso, “liberisti” e “sovranisti”, pur da prospettive opposte, sono alleati nell’agitare lo spettro della fine della globalizzazione identificando sempre il bersaglio sbagliato. Una volta i migranti, un’altra il virus; altre volte è stata la concorrenza sleale della Cina, l’ingerenza russa… Purché mai si parli della incontrollata libera circolazione di capitali.

 

 

 

La pandemia: gli effetti sulla globalizzazione.

Traileoni.it- Sergio Lazzaro-(25 aprile 2021)- ci dice:

 

Decine di migliaia di veicoli fermi nelle aree di produzione dei principali marchi automobilistici, requisizioni di lotti vaccinali destinati ad altri paesi, e all'inizio della pandemia anche di materiale medico: sono solo alcune delle conseguenze della situazione che tutt'ora viviamo, che ha messo in difficoltà il modello della globalizzazione andando a colpire non solo il consumo, e quindi la domanda, ma anche la produzione, impedendo alle supply chain che nel corso degli ultimi trent'anni si sono andate costruendo un po' ovunque nel mondo di funzionare correttamente .

Mascherine e vaccini: la necessità di una produzione nazionale.

Esempio principe le mascherine: l'anno scorso buona parte dei paesi occidentali si è trovata in difficoltà, se non addirittura impossibilitata, nel rifornire il proprio sistema sanitario e poi la popolazione civile, man mano che l'economia veniva riaperta, di questo importante strumento di protezione personale. Ragioni principali l'assenza di una capacità produttiva nazionale, e l'assoluta saturazione di quelli localizzati in paesi come la Cina, già principale esportatrice di questo bene. Fattori che hanno portato ad un aumento dei prezzi (fino anche a +1200% +1200% ), come già detto in apertura, all'imposizione di garanzia sulla loro circolazione internazionale da parte di numerosi stati.

Quest'ultimo un aspetto che si sta ripetendo anche oggi con la distribuzione dei vaccini, nel contesto italiano con la richiesta delle dosi prodotte da AstraZeneca e destinato all'Australia e in quello più ampio europeo visto nel braccio di ferro tra l'UE e la già nominata azienda farmaceutica, dove quest'ultima ha confermato di essere in grado di fornire ai paesi del blocco solo meno di un terzo delle dosi inizialmente promesse. Anche in questo caso l'assenza di una produzione nazionale, o al minimo europea sufficiente a coprirne la domanda, si è fatto sentire, costringendo a rallentare i programmi di vaccinazione e introdurre brevi lockdown per contenere la diffusione del virus.

Semiconduttori: come la pandemia sta cambiando il settore.

Governo quello degli Stati Uniti che ha anche espresso da poco l'intenzione di mettere a disposizione di investimenti legati alla produzione nazionale di semiconduttori (la struttura alla base dell'unità di calcolo di qualsiasi dispositivo elettronico) più di 50 miliardi di dollari , in aumento rispetto ai 37 previsti dal CHIPS for America Act e dall' American Foundries Act .

Cifra questa da sommare a ulteriori 130 miliardi di dollari già annunciati da imprese del settore quali Intel , TSMC e Samsungper la costruzione di nuove fonderie in Arizona e Texas. L'offerta anche in questo caso si sta rivelando incapace di una domanda aumentata notevolmente nel corso dello scorso anno; costretti in casa i consumatori hanno incrementato la loro spesa in elettronica , fatto che ha spinto aziende come Apple ad acquistare acquistano sempre più quote di produzione di semiconduttori.

 Il settore automobilistico invece, sulla base di proiezioni che vedevano la domanda di veicoli diminuire ha nella maggior parte dei casi cancellato parte degli ordini di processori, determinando la situazione che si è data apertura e una perdita potenziale complessiva stimata intorno ai 60 miliardi di dollari per il settore. Alla base poi della decisione dell'Biden vi è ovviamente anche una amministrazione di sicurezza nazionale: attualmente buona parte della capacità produttiva si trova se non in Cina, in paesi ad essa vicini, e con la corrente situazione in termini di tensioni commerciali la situazione che ci potrebbero essere semiconduttori nell'approvvigionamento di azioni analoghe a quelle degli Stati Uniti 2019, non è certo di non sorprendere, quindi la recente decisione del Governo Draghi di negare l' acquisizione di Lpe SpA da parte di Shenzen Investment Holdings Co.

Un'occasione per imparare…

La pandemia che ci troviamo fortunatamente ancora oggi a dover affrontare numerose problematiche alla base della globalizzazione. Ha fatto comprendere come la rete logistica deputata al trasporto dei beni da una parte all'altra del globo non è affatto immune a eventuali rischi di interruzione o di pesanti rallentamenti, ritenuti più teorici che reali prima del 2020; le difficoltà di reperimento da parte delle principali compagnie di trasporti cinesi dei container necessari a la domanda proveniente dall'occidente, e ancora più recentemente il blocco del canale di Suez causato dalla porta container Ever Given ne sono esempio. La situazione scatenata dalla pandemia ha reso quindi chiaro come la delocalizzazione non sempre porta a un incremento dei profitti stabile e sufficiente a garantire un rendimento certo per i propri investimenti, ed ha portato i paesi occidentali a riconoscere la necessità di avere una produzione nazionale, anche se più costosa per quei beni di importanza primaria per il funzionamento di un'economia, quali appunto i semiconduttori, un mercato il cui valore complessivo è stato di circa 440 miliardi di dollari l'anno scorso

 … E migliorare.

Sarebbe comunque errato ritenere una soluzione consigliabile e fattibile tornare a un sistema precedente alla globalizzazione; i problemi che ne nascerebbero, a partire dalla ricostruzione del know-how per operare certe attività, e la necessità di individuare nuove fonti di approvvigionamento per le materie prime, oltreché la possibilità di vedere sempre più paesi condizioni politiche competitive all'apparenza favorevoli per la propria nazione, ma nel concreto deleterie. Agire verso una revisione dell'attuale sistema economico globale non sono poi solo le ragioni sopra elencate, ma anche la questione ambientale: è impensabile ridurre le emissioni di anidride carbonica senza agire anche sui trasporti e sulle catene di valore e produzione che sono alla base della globalizzazione.

(Sergio Lazzaro).

 

 

 

 

GLOBALIZZAZIONE , COS’È E COME

HA CAMBIATO IL MONDO DEL LAVORO.

Euroguidance.it-Redazione-(10-10-2021)-ci dice:

La globalizzazione è un processo di interdipendenza globale tra i popoli. E’ un fenomeno in continua espansione e che prende piede con grande velocità. Punta a unificare la sfera economica, ideologica, culturale, sociale, di tutti i paesi del mondo.

Anche gli effetti di questo processo si ripercuotono nel bene o nel male a livello planetario ossia globale.

La globalizzazione è un processo iniziato negli anni’80 nei paesi capitalisti che diedero l’avvio ad un un sistema economico-politico mirato ad un grande ampliamento della sfera economica privata su scala nazionale e internazionale, incentivato dalla fine del sistema socialista in diversi paesi tra cui il più importante l’Unione Sovietica e dalla diffusione, soprattutto all’inizio degli anni ’90, delle nuove tecnologie informatiche nella vita quotidiana e nelle attività economiche.

Ma è sicuramente il campo economico- finanziario quello principale a cui si fa riferimento quando si parla di globalizzazione: l’ampliamento delle opportunità economiche su scala internazionale,  in particolare sulle condizioni di prezzo e costo, quindi il livellamento dei prezzi e costi nella maniera più conveniente su scala internazionale.

MONDO GLOBALIZZATO, PRO E CONTRO.

 Come tutti fenomeni, anche quello della globalizzazione porta con sè conseguenze positive e negative.

Sicuramente l’accesso globale all’informazione e al sapere in generale è a vantaggio di tutti quei paesi che fino ad ora non vi hanno avuto accesso. Questo porta con sé una migliore fruizione della cultura e dello scambio tra i popoli ampliandone la conoscenza attraverso diversi mezzi compresi il cinema, la musica, il cibo, il vestiario e via dicendo. Questa messa in luce delle tante culture prima scarsamente considerate, ne favorisce l’attenzione anche per quel che riguarda la questione dei diritti umani, negati ancora in molti paesi e che tendono ad essere in questo modo più tutelati e difesi. Così anche i diritti degli animali. L’attenzione verso i paesi in via di sviluppo favorisce l’aiuto verso di loro attraverso finanziamenti e missioni con lo scopo di migliorarne la loro qualità della vita.

Di controparte però, il mondo globalizzato porta delle conseguenze che non tutti ritengono positive come il confine sempre più labile tra culture diverse che andranno man mano a fondersi in una unica cultura dettata dal mercato, perdendo la propria individualità, storia e bellezza.

 Stessa sorte toccherà al mercato del cibo che andrà via via sempre più verso quello economicamente più vantaggioso cioè il cibo spazzatura monopolio delle grandi catene che, così come nel vestiario, tolgono rapidamente lavoro alle realtà più piccole e locali che portano con sé tradizioni e qualità.

Il mercato dei prestiti, poi, risulta un’arma a doppio taglio per quei paesi in via di sviluppo che possono ottenere un prestito facilmente, ma senza avere troppe chance di riuscire a ripagare il debito date le ferree regole sui tassi di interesse.

IL MONDO DEL LAVORO OGGI.

 Questa unificazione dei mercati a livello mondiale portato dalla globalizzazione ha fortemente influenza e sta influenzando tutt’ora il mondo del lavoro andando a peggiorare in tanti casi le piccole realtà locali, i piccoli mercati e le zone rurali dei paesi meno sviluppati. Gli stessi metodi tradizionali agricoli sono stati cambiati a favore dei metodi di produzione tipici del sistema capitalistico che risultano più produttivi e quindi economicamente più vantaggiosi senza tenere conto della storia, della bellezza e della qualità delle realtà più piccole costrette a soccombere per l’impossibilità di competere con un mercato tanto più forte.

Anche lo sviluppo tecnologico ha ridotto fortemente la domanda nel mondo del lavoro soprattutto per quello a bassa competenza aumentando quelli dove le qualità richieste sono molte.

Il basso costo del lavoro e i bassi oneri fiscali fanno si che le grandi aziende decidano di spostarsi all’estero dove la pressione fiscale è inferiore piuttosto che investire nel proprio paese dando origine alle delocalizzazione, quindi ad una diaspora di persone e delle loro qualità che vanno, sì, ad arricchire il paese in cui andranno, ma lasceranno il proprio sempre più povero. Questo implica anche la richiesta, da parte dei datori di lavoro, di una maggiore flessibilità agli spostamenti da parte dei dipendenti rendendoli sempre più precari, trattandoli più come merci che come persone.

I flussi migratori (a volte di interi popoli) dai paesi disagiati  aumentano lo sfruttamento di manodopera verso tutti quei lavori considerati “di fatica” spesso anche pericolosi, che difficilmente vengono occupati dai lavoratori locali, finendo per incrementare il lavoro in nero, sottopagato e che non tutela le persone, ma li mantiene in una condizione di disagio e senza favorirne l’integrazione.

 

 

 

 

La globalizzazione ai tempi del virus.

Sbilanciamoci.info- Valeria Cirillo e Andrea Coveri-(22 Marzo 2020)-ci dice:

 

 Economia e finanza, primo piano.

Tra i paesi più colpiti dal Covid-19 vi sono proprio quelli con un ruolo centrale lungo le catene globali del valore, che si trasformano ora in catene globali del contagio economico tramite cui si diffonde la recessione. Uno studio analizza le dinamiche della crisi. Riscoprendo il ruolo dell’attore pubblico.

Quali, e quanto profonde, saranno le conseguenze economiche del COVID-19? Quanto durerà la crisi economica e quanto sarà grave? Quali sono i meccanismi del contagio economico? E, soprattutto, cosa possono fare i governi?

Sono queste le domande al centro dell’e-book Economics in the Time of COVID-19 a cura di Richard Baldwin e Beatrice Weder di Mauro (CEPR Press, 2020), entrambi Professori di Economia Internazionale presso il Graduate Institute di Ginevra. L’e-book è stato pubblicato da CEPR Press per VoxEU in tempi record: era già on-line il 6 marzo ).

Il COVID-19 si sta diffondendo rapidamente a livello globale ed è ormai chiaro – sostengono gli autori – che abbia il potenziale per far deragliare l’economia mondiale. Tuttavia, sebbene le passate pandemie (dall’influenza asiatica nel 1957-58 all’influenza di Hong Kong nel 1968, dalla SARS nel 2002 fino alla più recente influenza aviaria nel 2009 e MERS nel 2012) possano fornire una bussola per tentare di prevederne gli esiti, la moderna configurazione dell’economia globale e le peculiarità del COVID-19 rendono al momento estremamente difficile produrre stime attendibili in merito al suo impatto economico.

Infatti, come enfatizzato dagli autori, la natura del COVID-19 è caratterizzata da elementi di forte incertezza che, al contrario del rischio, non è modellizzabile (nella misura in cui non permette di conoscere gli scenari possibili a cui potrebbe dare luogo e la probabilità di questi ultimi di verificarsi). Inoltre, il COVID-19 è uno shock di offerta non paragonabile a precedenti eventi catastrofici quali le crisi petrolifere degli anni Settanta o i terremoti – si pensi a quello avvenuto in Giappone nel 2011.                     A differenza dei terremoti, ad esempio, la diffusione del virus non è determinata dalla distanza “dall’epicentro” – come dimostra l’esplosione di contagi in Lombardia quando l’epicentro era la città di Wuhan nella provincia di Hubei in Cina.

Inizialmente vi era chi aveva ipotizzato che il COVID-19 avrebbe determinato un improvviso crollo della produzione cinese, seguito da una sua rapida ripresa non appena il contagio si fosse arrestato. Si prevedeva, dunque, un effetto a “V”, ovvero una crisi profonda, tagliente, ma breve e circoscritta alla Cina. Tale scenario appare però al momento ben poco probabile a causa della rapida diffusione del virus a livello internazionale.

In particolare, Stati Uniti, Cina, Giappone, Germania, Regno Unito, Francia e Italia sono tutti nella top ten dei paesi più colpiti e sono anche le economie leader a livello mondiale, rappresentando da sole oltre il 60% del PIL globale, il 65% della produzione manifatturiera e il 41% delle esportazioni manifatturiere mondiali. “Quando queste economie starnutiscono, il resto del mondo prenderà un raffreddore” – sostengono gli autori parafrasando un noto aforisma.

Catene globali del valore e canali di trasmissione del contagio.

Non è tuttavia solo una questione di dimensioni delle economie coinvolte. Ancor più importante è il fatto che nell’arco degli ultimi tre decenni l’estensione delle filiere produttive su scala globale ha reso i destini di queste economie – in particolare di Cina, Corea del Sud, Giappone, Germania e Stati Uniti – strettamente legati tra loro. In altri termini, una serie di fattori di stampo tecnologico, politico ed istituzionale ha incoraggiato le imprese a frammentare a livello internazionale la loro filiera produttiva, promuovendo la delocalizzazione di impianti industriali (si pensi alla crescita degli investimenti diretti all’estero), l’esternalizzazione di ampie fasi della produzione dei prodotti e il ricorso a fornitori indipendenti localizzati all’estero per l’approvvigionamento di beni intermedi necessari al processo produttivo.

Tra i paesi maggiormente colpiti dal COVID-19 vi sono proprio gran parte delle economie, Cina in testa, che svolgono un ruolo di enorme rilevanza lungo le catene globali del valore, le quali si trasformano in questo contesto pandemico in vere e proprie catene globali del contagio economico. In altri termini, la sofisticata interconnessione delle strutture produttive dei diversi paesi a livello internazionale fa sì che le catene globali del valore rappresentino i canali privilegiati lungo cui si propaga il virus della recessione. Ne consegue che i contraccolpi che stanno subendo in primis Cina, Corea del Sud e Italia intaccano le catene di approvvigionamento di gran parte dei paesi del mondo, producendo un rallentamento sincronizzato della produzione e, dunque, una probabile recessione.

La manifattura mondiale sarà scossa da un triplice colpo – tanto sul lato dell’offerta quanto sul lato della domanda.

In primo luogo, l’impatto del COVID-19 si manifesterà nell’interruzione diretta della fornitura di beni. Si consideri ancora una volta che la pandemia ha colpito profondamente il cuore produttivo del mondo, ossia l’Asia orientale e in particolare la Cina, la cui produzione industriale è precipitata tra gennaio e febbraio 2020 del 13,5% su base annua – si tratta del più grande calo della produzione in Cina dall’inizio dell’era post-Deng Xiaoping, ossia degli ultimi 30 anni. La pandemia si sta inoltre diffondendo rapidamente negli Stati Uniti e in Germania, due delle maggiori potenze industriali al mondo.

In secondo luogo, vi sarà un effetto di amplificazione del contagio tramite le catene di subforniture globali di beni intermedi, poiché anche i settori manifatturieri dei paesi meno colpiti avranno difficoltà nell’acquisire (importare) gli input intermedi necessari alla produzione domestica. La Cina, ad esempio, svolge diverse fasi della produzione – in primis attività manifatturiera e di assemblaggio – di una molteplicità di prodotti per ben noti brand appartenenti a imprese multinazionali (come Apple) e grandi rivenditori (come Walmart) operanti nei settori più disparati (dall’agricoltura al tessile, dal settore automobilistico all’ICT, ecc.), importando ed esportando un’enorme quantità di beni intermedi e semilavorati.

Ne segue che la durata dell’interruzione delle filiere produttive transnazionali dipenderà anche dalla capacità di diversificazione delle imprese importatrici, oltre che dalla capacità di recupero della Cina stessa quale hub di produzione su scala mondiale. Secondo gli autori, infatti, gli effetti sulla supply-chain globale costituiranno la principale fonte di trasmissione e propagazione della crisi a livello europeo e statunitense, seppur con le dovute eterogeneità settoriali.

Il rischio di un crollo della domanda effettiva.

Agli shock dal lato dell’offerta si affiancherà uno shock dal lato della domanda. Alcuni dei fattori capaci di innescare un crollo della domanda effettiva sono i seguenti.

In prima istanza, le misure intraprese allo scopo di contenere il virus, quali la drastica riduzione della mobilità delle persone (la “quarantena”) e la chiusura di svariati esercizi commerciali, oltre che di teatri, biblioteche, musei et similia, comportano un’immediata riduzione dei consumi da parte delle famiglie. Tali consumi verranno in parte posticipati e in parte, probabilmente, mai più effettuati. Gli effetti più pesanti riguarderanno il settore dei servizi, in particolare quello dei trasporti, del turismo e della ristorazione; ciò a ragione del fatto che, ad esempio, è difficile immaginare che un viaggio o una cena al ristorante vengano rimandati da parte delle famiglie.

In seconda istanza, ci si può attendere che il forte rallentamento della produzione generi un aumento del tasso di disoccupazione, il quale si tradurrà in una riduzione del reddito disponibile di molti/e lavoratori e lavoratrici, a partire da coloro che sono occupati su base temporanea, i cui contratti potranno non essere rinnovati (aspetto questo non sufficientemente enfatizzato nell’e-book).

A tal proposito, se la riduzione del reddito disponibile dovesse interessare prevalentemente le fasce meno abbienti della popolazione – quelle con una più elevata propensione marginale al consumo – le conseguenze sui consumi aggregati saranno ancora più rilevanti. Inoltre, quale conseguenza dell’incertezza dovuta alla velocità e alla diffusione del contagio, è ragionevole attendersi da parte delle famiglie un aumento della propensione al risparmio per fini precauzionali, quale forma di tutela per un futuro a tinte fosche.

In terza istanza, un minor utilizzo della capacità produttiva da parte delle imprese potrebbe rendere più difficile per queste ultime ammortizzare i costi fissi (un esempio banale è dato dalle spese di locazione degli immobili in cui si svolge l’attività produttiva). Questo potrebbe comportare a sua volta un aumento del costo per unità di prodotto e una riduzione del saggio di profitto e quindi della spesa per investimenti da parte delle imprese.

Infine, è ragionevole attendersi che la riduzione sincronizzata a livello globale di consumi e investimenti porterà ad amplificare la contrazione del valore aggiunto delle diverse economie, restringendo ulteriormente i mercati di sbocco esteri e rallentando dunque la dinamica delle esportazioni nette.

Peggioramento delle aspettative degli operatori finanziari e conseguenti ondate speculative sui mercati dei titoli di borsa, interconnessione dei bilanci bancari a livello transnazionale e, soprattutto, elevato indebitamento privato – soprattutto delle imprese non finanziarie – possono rappresentare ulteriori meccanismi di contagio economico in seguito a COVID-19. Meccanismi che potrebbero innescare una violenta recessione su scala internazionale, ripetendo in parte quanto avvenuto con la crisi economica globale esplosa nel 2008.

Infatti, come dimostrato dalla Grande Recessione innescatasi nel 2007 negli Stati Uniti e da lì propagatasi in tutto l’Occidente (e non solo), si tratta di meccanismi che rendono la moderna struttura del capitalismo globale notevolmente interconnessa e hanno dunque la capacità di amplificare gli effetti recessivi della crisi.

Meglio tardi che mai.

Le conseguenze economiche della pandemia potrebbero generare un crollo globale della produzione e mettere a dura prova i processi di globalizzazione in atto negli ultimi decenni. Baldwin e Weder di Mauro sollecitano un deciso intervento da parte dei governi e in particolare delle autorità di politica monetaria e fiscale al fine di elaborare in tempi brevi piani di azione coordinati a livello internazionale. A detta degli autori, lo scenario economico che si presenta potrebbe in effetti configurarsi come una sorta di banco di prova per testare la capacità di elaborare strategie comuni di azione in risposta a problemi eminentemente globali.

Oggi coronavirus, domani per esempio il cambiamento climatico. In particolare, riguardo all’Europa, secondo gli autori la crisi richiederà flessibilità nell’applicazione del Patto di Stabilità e Crescita e la necessità di prepararsi per un eventuale piano di espansione fiscale concertato a livello europeo. Infine, un rafforzamento del Fondo di solidarietà dell’Unione Europea viene contemplato come una valida opzione.

In questa fase, sembra dunque riconosciuto il ruolo strategico dell’attore pubblico. Un ruolo importante nella gestione delle conseguenze socio-economiche e, in primis, sanitarie della diffusione del COVID-19.

Nonostante l’implementazione delle politiche di austerità abbia portato in Europa e in particolare in Italia a un profondo depotenziamento dell’attore pubblico – si vedano gli incoraggiamenti verso il ricorso alla sanità privata e alla riduzione del peso dello Stato in economia (Alesina, A. e Giavazzi, F., “Troppo Stato in quell’agenda”, Corriere della Sera, 27 dicembre 2012) –, emerge oggi la consapevolezza rispetto al ruolo strategico di quell’attore e di quei servizi pubblici che si era pronti a “liberalizzare”.

Anche fra economisti più “ortodossi” – quali gli autori dell’e-book – sembra insomma farsi spazio l’idea che talvolta l’attore pubblico sia necessario e non solo in virtù dei cosiddetti “fallimenti del mercato”, bensì per ragioni strategiche e di benessere collettivo. Diremmo, dunque, meglio tardi che mai.

 

 

 

Il collo di bottiglia della globalizzazione.

Jacobitalia.it- Daniel Finn- Laleh Khalili-( 1 Aprile 2021)- ci dice:

 

Il blocco del Canale di Suez ha ispirato mille meme e le sue conseguenze per l'economia mondiale sono state gravi. Ma non c'è motivo di pensare che la sua importanza economica e geopolitica stia per diminuire.

Il blocco del Canale di Suez da parte della gigantesca portacontainer Ever Given ha creato un ingorgo di centinaia di navi che trasportano merci per un valore di miliardi di dollari. La compagnia di assicurazioni tedesca Allianz ha stimato che il blocco del canale di una settimana sia costato all’economia mondiale tra i 6 e i 10 miliardi di dollari.

Dalla sua apertura nel 1869, il canale è stato un passaggio vitale per il commercio mondiale. I principali sviluppi del capitalismo globale, dall’ascesa del Medio Oriente come produttore di petrolio allo spostamento della produzione in Estremo Oriente, hanno ulteriormente accresciuto la sua importanza. Il canale ha già subito periodi di chiusura a causa di controversie politiche nella regione e gli analisti si sono preoccupati della sua potenziale vulnerabilità agli attacchi terroristici. Ma questa volta il blocco è dovuto a pura incompetenza.

Laleh Khalili, che insegna politica internazionale alla Queen Mary University di Londra, è l’autrice di Sinews of War and Trade: Shipping and Capitalism in the Arabian Peninsula. Parla con Jacobin della storia del canale e della sua importanza per l’economia mondiale.

Come è nato il Canale di Suez? Quale contesto economico e geopolitico consentì di realizzare questo progetto?

La costruzione del Canale di Suez nella seconda metà del diciannovesimo secolo ha a che fare direttamente sia con le rivalità intra-europee – in particolare tra Gran Bretagna e Francia – e ancora di più con l’intensificazione della colonizzazione e dell’impero in Asia e Africa. È significativo che sia il canale che la posa dei cavi telegrafici sottomarini fossero destinati a facilitare la comunicazione tra le metropoli e le colonie. La forza lavoro ha costruito il canale e innumerevoli migliaia di persone sono morte nel corso della sua realizzazione (non diversamente dalla costruzione statunitense del Canale di Panama qualche decennio dopo).

Tecnologicamente, uno sviluppo importante è stato cruciale per lo sviluppo del canale e ha anche beneficiato della costruzione del canale: con il posizionamento di motori a vapore a bordo delle navi.                                                                                                      Poiché una nave a vela non può navigare lungo il canale quando soffiano i venti trasversali, la sua apertura ha consolidato l’egemonia delle navi a carbone sui velieri.

Non a caso gli inglesi colonizzarono Aden, alla fine del Mar Rosso e a cavallo di Bab al-Mandab, pochi decenni prima della costruzione del canale e lo trasformarono in un’importante stazione di rifornimento di carbone, prima per le navi della Compagnia delle Indie orientali e dopo per quelle dell’Ammiragliato e di altre navi britanniche.

Ma il canale non interessava solo il collegamento europeo con l’Asia e l’Africa. La guerra civile degli Stati uniti, il blocco dei porti confederati da parte del Nord e lo sciopero generale – come lo chiamava Du Bois – degli afroamericani schiavi, che accelerarono alla fine della guerra e continuarono anche dopo, fecero accrescere il rilievo economico del cotone che veniva dall’Egitto.

Come ha scritto Roger Owen nel suo libro Cotton and the Egyptian Economy, alla fine del diciannovesimo secolo il cotone era diventato il principale prodotto di esportazione dell’Egitto. Il controllo sul cotone e l’incapacità dell’egiziano Khedive di ripagare il debito per la costruzione del canale furono entrambi fattori nella conquista militare britannica dell’Egitto nel 1882 e nel controllo di fatto del canale.

Quale struttura proprietaria venne adottata per il canale?

La società di costruzione del canale era una società per azioni in cui i francesi detenevano il maggior numero di titoli, ma gli inglesi avevano il controllo effettivo su Suez. La Compagnia Universale del Canale Marittimo di Suez (o La Compagnie Universelle du Canal Maritime de Suez) gestì il canale fino al 1956, quando Gamal Abdel Nasser lo nazionalizzò nel corso di uno dei momenti più significativi della decolonizzazione del secondo dopoguerra.

In parte, la nazionalizzazione del canale da parte del governo di Nasser doveva consentire all’Egitto di farsi carico delle tasse del canale per finanziare la costruzione della diga di Assuan. Ma fu anche il segnale di quanto fosse diventato importante il controllo sulle infrastrutture di trasporto. Solo pochi anni prima, quando il primo ministro iraniano Muhammad Musaddiq aveva osato nazionalizzare le partecipazioni della Anglo-Iranian Oil Company – ora Bp – nel suo paese, una delle misure più efficaci usate per metterlo in ginocchio fu quella di impedire il passaggio a qualsiasi petroliera che trasportava petrolio iraniano. Nasser prevedeva che il controllo del canale gli avrebbe consentito un controllo del destino dell’Egitto come nessun’altra misura avrebbe fatto.

Quale fu l’esito per il canale della crisi di Suez e dell’attacco anglo-franco-israeliano nel 1956 all’Egitto?

La crisi di Suez è avvenuta nello stesso anno dell’invasione sovietica dell’Ungheria, i due eventi sono profondamente collegati. Fu in parte per paura di «perdere» l’Egitto sotto il controllo sovietico che il presidente Eisenhower rimproverò i belligeranti tripartiti – Francia, Gran Bretagna e Israele – di ritirarsi dall’Egitto. In un certo senso, la restaurazione dello Scià in Iran del 1953 e la guerra del 1956 gettarono le basi per il passaggio imperiale in Medio Oriente dalla Gran Bretagna agli Stati uniti, che arrivò alla fine all’inizio degli anni Settanta.

Che impatto ha avuto sul canale l’ascesa del Medio Oriente come principale fonte di petrolio al mondo?

Ovviamente, la scoperta del petrolio nel bacino del Golfo Persico/Arabico – Iran, Iraq e penisola arabica – significava che uno dei prodotti primari che fluivano attraverso il canale sarebbe stato il petrolio. Infatti, nel 1970, circa il 60-70% di tutto il carico marittimo era costituito da petrolio greggio e prodotti petroliferi. Molto di quel petrolio, ovviamente, è stato trasportato in Europa, dove la ricostruzione e la produzione industriale stavano decollando nei decenni di ripresa del dopoguerra.

La domanda può essere posta anche al contrario. La chiusura del canale nel 1958 ha portato al dirottamento di queste petroliere intorno al Capo di Buona Speranza e quindi ha incoraggiato il passaggio all’uso di vettori di greggio molto più grandi per sfruttare le economie di scala.

La guerra del 1967 e quello che ne è derivato come ha influenzato l’utilizzo del Canale?

Sebbene la chiusura del Canale di Suez a seguito della guerra del 1967 sia durata molto più a lungo, fino al 1975, non ha avuto lo stesso tipo di effetti della chiusura molto più breve del 1958. Una delle storie secondarie più interessanti della chiusura del 1967, però, fu quella della Flotta Gialla: navi intrappolate per anni nel canale nel Great Bitter Lake, così chiamate perché ricoperte dalla sabbia gialla del Sahara. Ho scritto altrove sugli ulteriori effetti globali di questo periodo di chiusura.

Che effetti ha avuto sul Canale lo spostamento del potere economico – e soprattutto manifatturiero – da ovest a est degli ultimi decenni?

Gli ha dato maggiore importanza. Le chiusure del 1958 e del 1967-1975 portarono alla ricerca del petrolio da parte delle potenze europee nell’Africa occidentale e settentrionale, e il petrolio kazako e azero è arrivato facilmente in Europa dalla fine della Guerra fredda. Di conseguenza, il petrolio mediorientale, sebbene ancora importante, non era più il carico più significativo che attraversava Suez. Le navi portacontainer che trasportano merci fabbricate in Cina e nel resto dell’Asia orientale e sud-orientale adesso sono – almeno in termini di valore economico – i carichi più importanti e preziosi che attraversano il canale.

La costruzione da parte della Cina di una rotta terrestre dalle sue regioni costiere all’Europa attraverso l’Asia centrale ha messo in discussione il futuro del Canale?

Non credo proprio. I binari ad alta velocità attraversano la rotta terrestre attraverso la massa eurasiatica. Questi treni veloci impiegano circa tre settimane per andare dalla costa orientale della Cina a Budapest e poi ad Amburgo e Rotterdam. Sono costosi da gestire, motivo per cui spesso trasportano merci di alto valore e sensibili al fattore tempo, come computer e altri articoli elettronici. Inoltre, le rotte terrestri della Nuova via della seta della Cina attraversano diverse aree in cui i governanti del paese hanno represso con la violenza le popolazioni locali, tra cui la popolazione uigura dello Xinjiang.

Le rotte marittime sono invece più lente, ma possono servire merci più voluminose e meno sensibili al tempo. Il fatto che la Cina domini così completamente la top ten dei porti container nel mondo dice qualcosa sull’importanza del trasporto marittimo nella strategia economica del paese.

Che effetti avrà il fiasco del Canale dei giorni scorsi sull’economia mondiale?

Sappiamo che attualmente circa il 12% di tutte le merci scambiate a livello globale passa attraverso il Canale e che questo rappresenta una delle rotte commerciali più significative del pianeta, insieme a quelle transatlantiche e transpacifiche. Ma la sua chiusura mostra anche quanto possa essere fragile questo commercio: i produttori di auto just-in-time in Europa sono stati tra quelli più colpiti dal blocco del Canale di quasi una settimana. Sapevamo già che l’efficienza – che è il Sacro Graal dell’accumulazione di capitale – è anche l’antitesi della solidità, il blocco lo ha reso ancora più evidente.

(Laleh Khalili insegna politica internazionale alla Queen Mary University di Londra).

 

 

BlackRock: la mano nera che

controlla l’economia mondiale.

Money.it- Massimiliano Carrà- (25/01/2019)- ci dice:

 

A fine 2018 da alcuni carteggi tra Wolfgang Schaeuble e Danièle Nouy è emerso il ruolo avuto in occasione degli stress test bancari da parte di BlackRock. Al centro del dibattito il ruolo dell’asset manager Usa e il conflitto di interesse avuto nel duplice ruolo di esaminatore e azionista di molte banche sotto esame. Ecco il pensiero di Valerio Malvezzi.

Un carteggio svelato dal Sole 24 Ore a fine 2018 circa l’affidamento da parte della BCE di un ruolo consulenziale nell’analisi degli stress test bancari a BlackRock ha riportato al centro del dibattito la società californiana, maggior asset manager al mondo.

Nel corso dell’ultimo decennio, la creatura di Larry Fink è più volte intervenuta in aiuto di diversi Stati europei per studiare i portafogli delle banche pressate dalla crisi economica e proporre delle vie di uscita. Strada che molto spesso ha visto BlackRock stessa intervenire nel capitale degli istituti di credito appena analizzati.

Nonostante il carteggio tra l’ex ministro delle finanze tedesco, Wolfgang Schaeuble, e Danièle Nouy, responsabile della vigilanza della Banca Centrale Europea, riportato dal giornale di Via Monterosa circa il costo e l’opportunità di affidare a BlackRock gli stress test 2016, la BCE si è detta serena sulla scelta etica compiuta ed ha assegnato anche gli stress test 2018 alla pietra nera della finanza mondiale.

Chi è BlackRock.

Nata nel 1988 in California e con sede a New York, Blackrock è attualmente la più importante società di investimento del mondo. Il patrimonio gestito è superiore ai 6 trilioni di dollari. Per aver un’idea si tratta di un valore superiore alla somma del PIL di Spagna e Francia. Oppure tre volte il debito pubblico italiano.

Grazie a questi capitali, negli anni è diventata il primo investitore straniero in Europa. I suoi interessi sono trasversali, avendo partecipazioni in aziende del mercato energetico, chimico, immobiliare, agroalimentare, dell’aeronautica e dei trasporti e via dicendo. Tra i diversi settori non manca di certo quello bancario. Tra gli azionisti di peso delle 10 più importanti banche del Vecchio Continente, il nome della roccia nera figura sempre.

La fortuna di BlackRock deriva dall’esplosione dei fondi ETF, che rappresentano il 72% del suo portafoglio, e dal gran successo avuto da Aladdin, software per la gestione del rischio usato per proteggere le società dai cattivi investimenti e ormai venduto in oltre 50 Paesi nel mondo.

Il pensiero di Valerio Malvezzi.

Interrogandosi sul possibile conflitto di interessi che vede come protagonista BlackRock, Money.it ha intervistato Valerio Malvezzi, economista e fondatore di Win the Bank. A detta del Professore, «il sospetto che vi sia un grave conflitto di interessi vi è».

Per questo motivo "ho scritto una lettera aperta, che leggerò martedì prossimo in Senato, perché è impossibile che una notizia come questa non viene ripresa da tutte le emittenti nazionali. Poi saranno i magistrati o gli organi di controllo a verificare se siamo di fronte a un caso di conflitto di interesse. A me, sicuramente, lascia basito che la BCE non ha adoperato autonomamente, ma che invece, ha affidato il ruolo di effettuare gli stress test a un ente privato in una situazione palese di conflitto di interesse. Inoltre, è assurdo che la BCE non abbia dato vita a un bando, ma si sia rivolta subito a BlackRock”.

Il dibattito sull’opportunità di affidare all’asset manager statunitense gli stress test sulle principali banche europee, di cui come già ricordato in molti casi ricopre il ruolo di azionista di rilievo, è stato al centro della video-intervista che potete vedere.

 

 

 

 

Il denaro governa il mondo,

ma chi governa il denaro?

Gognablog.sherpa-gate.com- Redazione-(26 Settembre 2019)- ci dice: 

 

Il potere incontrollato del denaro. Su questo quesito, affascinante quanto controverso, si sono articolati nei giorni 1 e 2 ottobre 2010 i Colloqui di Dobbiaco 2010. Alla luce della crisi finanziaria internazionale, e dell’indebitamento ormai spropositato di molti paesi del mondo, il potere del denaro e le sue possibilità di pilotare le scelte e lo sviluppo economico di intere nazioni sono aspetti di scottante attualità, come lo è, del resto, il problema di riportare un capitalismo finanziario sempre più sfrenato sotto il controllo degli interessi collettivi.

 Una serie di relatori di fama internazionale sono quindi giunti in Val Pusteria, fornendo nuovi dati e spunti di riflessione. Si è visto, ad esempio, come sulla scia dell’ultima crisi finanziaria mondiale si sia evitato davvero per un soffio il collasso totale del sistema finanziario internazionale. Certo, il prezzo per evitarlo è stato altissimo. Nei tempi economicamente floridi, infatti, la finanza mondiale aveva incamerato dei profitti esorbitanti, pagando dei premi altissimi ai gestori dei vari fondi, e inducendoli ad investire in operazioni sempre più rischiose.

Nel momento in cui il castello di carte dei mercati internazionali, sempre più avulso dall’economia reale, ha finito per crollare su sè stesso, gli stati nazionali hanno dovuto intervenire per salvare il salvabile, dilapidando in pochi giorni delle vere fortune, sottratte ovviamente al denaro pubblico dei contribuenti. Oggi, questi paesi e i loro cittadini si ritrovano con montagne di debiti, prodotte non da spese utili, ma da un’economia finanziaria pressoché priva di regole, e col risultato che ora mancano le risorse per realizzare infrastrutture pubbliche, fornire servizi sociali o pagare le pensioni, per non parlare della riduzione del potere d’acquisto.

Tuttavia, sembra che quest’esperienza della crisi abbia insegnato molto poco: riportare ordine e regole nel sistema finanziario sarebbe sicuramente possibile (per esempio con banche a vocazione locale dotate di una copertura finanziaria sufficiente per concedere crediti), ma le resistenze opposte dai poteri forti fanno apparire questi interventi molto lontani da venire. Tra le varie documentate e puntuali relazioni abbiamo scelto di riportare quella di Claudia Apel (esperienze di azionariato critico).

Ugo Biggeri.

Il denaro governa il mondo – ma chi governa il denaro?

Percorsi per una finanza eco-solidale.

Tesi di Dobbiaco 2010-a cura dell’Accademia dei Colloqui di Dobbiaco.

Ideatore: Wolfgang Sachs-Moderazione: Karl-Ludwig Schibel.

A Dobbiaco dunque si è parlato delle varie iniziative per rendere più sostenibile il sistema economico, per esempio dell’azionariato attivo di varie organizzazioni di ispirazione etico-ecologica, che acquistando azioni di gruppi multinazionali si presentano alle assemblee dei soci ponendo quesiti critici alla direzione e proponendo degli interventi più sostenibili.

Altri esempi sono le monete integrative locali, assai efficaci per promuovere le filiere del territorio, o i prodotti finanziari etici, come quelli offerti da Ethical Banking presso le casse rurali altoatesine. Si è anche sottolineata la necessità di rendere più ecologico il sistema fiscale. Per fare in modo che i prezzi dei beni e dei servizi rispecchino finalmente i costi reali in termini di impatto sociale ed ecologico, gli stati dovrebbero tassare maggiormente le attività economiche più nocive per l’ambiente e la salute umana.

Attualmente, però, siamo ancora molto lontani da questo obiettivo, basti pensare al trasporto aereo o alla produzione di energia nucleare, che oltre a non essere tassati, beneficiano perfino di sovvenzioni pubbliche. Al momento, inoltre, a livello internazionale si assiste ancora a una gara fra i vari paesi a ridurre i rispettivi carichi fiscali, ma anche a leggi finanziarie che agevolano transazioni poco trasparenti e a una corsa al ribasso nei vincoli di salvaguardia ambientale. Si è anche discusso di come, negli ultimi decenni, siano cambiati i valori legati all’uso del denaro, che da mero strumento di scambio si è trasformato sempre di più in una religione dogmatica e indiscussa cui devono assoggettarsi tutti gli altri interessi.

 Ecco perché, in un mondo in cui col denaro si può ormai acquistare qualunque cosa, è importante far capire che molti beni e servizi non hanno un “prezzo”, ma proprio per questo hanno un valore impagabile.

 

 

Karl Ludwig Schibel-Nel dettaglio.

Helge Peukert ha cercato di dare una risposta alla domanda che ha fatto da filo conduttore: “È possibile una vita senza crisi finanziaria?” Tonino Perna ha affrontato il tema della rivoluzione monetaria del XXI secolo. Il film documentario di Erwin Wagenhofer Let’s Make Money nel 2009 ha provocato parecchio clamore nei paesi di lingua tedesca: è stato quindi oggetto di discussione anche durante quell’incontro. Sette crisi – un crollo è stato il titolo della relazione di Winfried Wolf che si è posto la domanda perché nulla ci hanno insegnato le crisi finanziarie e ha illustrato conseguenze e misure d’adottare. Giovanni Allegretti ha presentato un’innovativa forma di gestione democratica di bilanci. Luigino Bruni ha parlato del significato psicologico del denaro.

Damian Ludewig ha proposto come risposta alla crisi del debito una riforma finanziaria ecologica. Ugo Biggeri ha parlato di “slow money” come forma innovativa di finanza etica. C’è stato poi l’intervento di Helmut Bachmayer che ha presentato le iniziative dell’Alto Adige nel campo della finanza eco solidale. Infine Claudia Apel ha presentato esperienze di azionariato critico, mentre Ralf Becker ha riferito su teoria e pratica delle valute locali.

Helge Peukert-L’azionariato militante – esperienze e campagne.

 Claudia Apel.

Non v’è progresso senza resistenza. Se un gruppo imprenditoriale non viene messo costantemente in discussione, criticato e indotto a migliorare dai vari soggetti con cui è chiamato a confrontarsi (dipendenti, sindacati, organizzazioni e così via), il suo sviluppo si arresta. La dinamica di un mercato in continuo cambiamento, infatti, può essere fatale per le imprese che non affrontano con spirito d’autocritica l’opposizione interna ed esterna. È una tesi sostenuta dai professori Peter Fleming e André Spicer nel libro Contesting the corporation. Struggle, Power and Resistance in Ortganisations, edito dalla Cambridge University Press.

Nella prefazione si legge che “… Nel cuore di un’organizzazione si compie una lotta continua fra coloro che si piegano al potere, e chi invece cerca d’opporvisi o è in grado – nei casi estremi – di scardinarlo. Ma è proprio questa lotta che dà a un’impresa la vitalità e il polso politico di cui ha bisogno per non restare immobile”. L’azionariato attivo, quindi, è una sfida che può rivelarsi utile per un’impresa, mettendola in condizione di comprendere meglio le proprie dinamiche e, nella migliore delle ipotesi, di ottimizzarle.

Giovanni Allegretti.

Fare azionariato attivo – o militante – significa acquisire ed esercitare il diritto d’informazione e di voto riconosciuto ad ogni azionista durante l’assemblea dei soci di un’impresa quotata in borsa. Chi acquista azioni di un gruppo, infatti, non si limita a investire il proprio denaro, ma diventa comproprietario dell’impresa, e in quanto tale ha il diritto non solo di partecipare all’assemblea dei soci, ma anche di porre delle domande (critiche) sul bilancio e sul piano industriale, vale a dire entrare in dialogo con la direzione.

Per la società civile che partecipa alle transazioni in borsa, dunque, l’azionariato attivo è un’opportunità concreta per esercitare pressioni continue sulle grandi imprese. Troppo spesso, infatti, le domande poste ai grandi gruppi imprenditoriali da organizzazioni esterne (associazioni ambientaliste, movimenti per i diritti umani e organizzazioni dei consumatori) rimangono inascoltate o ricevono risposte evasive, ma se a levare la propria voce è un azionista, l’impresa è tenuta per legge a dargli ascolto e a rendergli conto.

Negli Stati Uniti opera da ormai 35 anni l’ICCR (Interfaith Center on Corporate Responsibility), un’organizzazione di 275 investitori ad ispirazione religiosa con sede a New York, che ogni anno si presenta alle assemblee dei soci di circa 200 multinazionali americane. Dopo averne analizzato i bilanci, prepara delle mozioni (shareholder proposals), chiede di mettere ai voti nuovi punti all’ordine del giorno e raccoglie in anticipo centinaia di deleghe di altri azionisti. Grazie agli sforzi continui prodotti in questi anni, l’ICCR è riuscito a far discutere mozioni sul rispetto dei diritti umani in Cina, sugli effetti dei cambiamenti climatici, sulla trasparenza del sistema bancario, sugli investimenti in armi pericolose e su numerosi altri argomenti d’interesse collettivo.

In alcuni casi, è anche riuscito a ottenere la maggioranza dei voti e a costringere le imprese a cedere alle sue pressioni. In altri casi, invece, le mozioni presentate hanno ottenuto soli il 5 o 10 percento dei voti espressi, ma in grandi multinazionali come la Coca Cola è pur sempre un risultato di tutto rispetto. E anche quando le mozioni portate avanti dall’azionariato attivo non riscuotono in prima battuta la maggioranza dei consensi, sono comunque assai efficaci per aumentare la visibilità dei loro promotori – che si presentano sempre come interlocutori preparati e competenti – e per migliorare la consapevolezza delle problematiche sollevate.

Un altro esempio positivo viene dalla Svizzera, dove l’organizzazione Ethos è riuscita a unificare gli interessi di circa novanta fondi pensione. In sostanza, l’Ethos è stata incaricata d’esercitare per tutti questi fondi il diritto di voto e di informazione in seno alle assemblee dei soci delle imprese in cui hanno investito, ottenendo più volte dei risultati assai significativi. In particolare, l’Ethos si è battuta efficacemente contro i premi eccessivi pagati ai dirigenti delle banche, e per una maggiore trasparenza nella gestione delle imprese.

Dal 2008, anche la Fondazione Culturale Responsabilità Etica (Banca Etica) ha avviato un’iniziativa di azionariato militante. Fra l’altro, su proposta di Greenpeace e della Campagna per la riforma della Banca Mondiale, ha acquistato un pacchetto d’azioni del gruppo petrolifero italiano ENI e della società energetica ENEL, presentandosi poi alle assemblee annuali dei soci per porre una serie di quesiti mirati. La Fondazione ha scelto di acquistare azioni di questi gruppi perché l’ENI e l’ENEL sono le società italiane che producono il maggiore impatto ambientale nel Sud del Pianeta.

L’obiettivo dichiarato dell’azionariato attivo professato dalla Fondazione culturale della Banca Etica è di dare voce a quelle categorie sociali che vorrebbero opporsi allo strapotere delle multinazionali, ma che non riescono a farsi ascoltare. All’ENI, per esempio, è stato chiesto di spiegare nei dettagli come l’impresa intende ridurre il cosiddetto gas flaring in Nigeria. Attualmente, nella foce del Niger ci sono più di 120 siti estrattivi con gas bruciati in torcia, che continuano a bruciare grazie a permessi ottenuti in cambio di assurde convenzioni stipulate col governo nigeriano.

Da anni, la combustione di questi gas sta appestando l’aria e diffondendo gravi patologie respiratorie, soprattutto fra i bambini. L’ENEL, invece, ha dovuto illustrare con dovizia di particolari come intende realizzare il suo megaprogetto di una diga sui fiumi River e Pascua nella Patagonia. Anche in questo caso si tratta di un progetto con ripercussioni enormi sull’ambiente e sulla popolazione residente. Per entrambe le iniziative, la Fondazione di Banca Etica è riuscita a coinvolgere gruppi di protesta locali e a rappresentarne gli interessi in veste di azionisti attivi.

Claudia Apel.

Grazie a questo metodo dell’azionariato militante, ad esempio, il vescovo della Patagonia ha potuto partecipare in prima persona, nei panni di azionista, all’assemblea annuale dei soci ENI, esponendo le proprie posizioni e ponendo una serie di quesiti mirati sul progetto della diga. Di quest’intervento hanno poi riferito varie agenzie di stampa come la Reuter e quotidiani come il Corriere della Sera, inducendo il direttore generale dell’ENEL a recarsi personalmente la settimana successiva in Cile, per ottenere un avvio più rapido della valutazione d’impatto ambientale per la diga. Questo risultato sarebbe stato impensabile imboccando la strada classica di una campagna di protesta o di sensibilizzazione.

Un metodo analogo è stato scelto per l’ENI. Sono stati coinvolti i soci nigeriani di Friends of the Earth, una rete mondiale che raccoglie le maggiori organizzazioni ambientaliste, e ad un incontro con una parte dei massimi dirigenti dell’ENI i rappresentanti delle organizzazioni del Congo Brazzaville, dove è prevista l’estrazione di sabbie bituminose, hanno avuto la possibilità concreta di informarsi sullo stato d’avanzamento e sulle fasi future del progetto. Ne è scaturito un dialogo con l’ENI che da quel momento non è più cessato, e lo stesso vale per i contatti con l’ENEL.

Dalle esperienze maturate finora emerge che questa forma di protesta e di dialogo può funzionare solo garantendo alcuni presupposti:

1. Per intervenire in modo efficace e per essere ascoltati, è essenziale conoscere e parlare la “lingua” delle multinazionali. In altre parole, presentarsi all’assemblea annuale dei soci e criticare l’impresa come incarnazione del male non serve a molto. Per ottenere risultati concreti e avviare un dialogo proficuo è assai più efficace prepararsi con analisi tecnicamente inappuntabili e citare dei dati incontrovertibili. Per esempio, non ci si può limitare a protestare contro il progetto della diga dell’ENEL in Patagonia. È molto più efficace e produttivo presentare un progetto alternativo che consenta di evitare i danni ambientali previsti, pur dando all’impresa e ai suoi azionisti prospettive analoghe di profitto.

È inutile limitarsi a puntare il dito contro l’ENI gridando che l’impresa dovrà pagare una sanzione di 365 milioni di euro per aver corrotto funzionari e politici nigeriani. Molto più efficace è spiegare agli azionisti dell’ENI che questa forma di corruzione nel 2009 ha ridotto l’utile netto del gruppo del 7,5%. Di fronte a quesiti concreti, basati su fatti e dati emersi da ricerche affidabili, i dirigenti non possono più esimersi dal rispondere, e nemmeno limitarsi a risposte evasive o ai consueti rimandi alle pagine patinate del bilancio sociale dell’azienda.

 

 

2. Non è proficuo lanciare la prima pietra, nascondendosi poi dietro le spalle altrui. Solo i quesiti concreti inducono un’impresa a pubblicare delle risposte precise, che a loro volta vanno verificate con ricerche accurate e confutate con nuovi quesiti. L’azionariato militante è dunque un processo lungo e complesso, che richiede una preparazione attenta e approfondita.

In compenso, l’azionariato attivo offre delle grandi opportunità, per esempio quella di ottenere una maggiore visibilità, criticando ed eventualmente attaccando frontalmente gli intrecci di potere delle multinazionali. Per essere un azionista attivo occorrono preparazione ed impegno, imparando innanzi tutto a parlare la stessa “lingua” dei grandi gruppi imprenditoriali, a riconoscere e a rendere note le conseguenze economiche e finanziarie di determinate scelte, e a sfruttare così la possibilità di denunciare e combattere le violazioni dei diritti umani e ambientali.

Senza questo impegno e questa capacità, le proteste resteranno inascoltate e inefficaci. Occorre poi un dialogo continuo, affinché le imprese forniscano delle risposte, da cui far scaturire subito nuovi quesiti. E soprattutto, le imprese vanno percepite per quello che sono, ossia non dei muri da demolire, ma delle organizzazioni dinamiche che si può indurre a cambiare. E per dirla con Fleming e Spicer, questo cambiamento si può ottenere solo imboccando la strada di un’obiezione intelligente.

I relatori:

Giovanni Allegretti, Urbanista e Professore presso il Centro Studi Sociali dell’Università di Coimbra e consulente formatiivo di alcuni bilanci partecipativi europei, Coimbra (Portogallo).

Claudia Apel, giornalista di investigazione e fondatrice del Merian Research.

Helmut Bachmayer, Responsabile dell’associazione Ethical Banking, Bolzano

Ralf Becker, Coordinatore, consulente e accompagnatore di iniziative di monete locali, Diemelstadt.

Ugo Biggeri, Presidente Banca Popolare Etica.

Luigino Bruni, Professore, University of East Anglia UK e autore di L’ethos del mercato, Norwick – Milano.

Damian Ludewig, direttore del Forum Ökologisch-Soziale Marktwirtschaft e.V. (FÖS), Green Budget Germany, Berlino.

Tonino Perna, Professore di Sociologia economica presso l’Università di Messina, Messina.

Helge Peukert, Professore di Scienze delle Finanze e Sociologia delle Finanze presso l’Università Erfurt, Wetzlar.

Wolfgang Sachs, sede di Berlino dell’Istituto Wuppertal per il clima, l’ambiente e l’energia, professore onorario all’Univeristà di Kassel, Berlino.

Karl Ludwig Schibel, Coordinatore della fiera delle utopie concrete a Città di Castello, membro della presidenza dell’Alleanza per il clima e coordinatore per l’Italia, Città di Castello.

Winfried Wolf, Giornalista e autore libri, caporedattore di Lunapark21, rivista di critica dell’economia globale, Berlino.

 

IL BAVAGLIO ALL’INFORMAZIONE  LIBERA

Laverita.info-Maurizio Belpietro-(29 novembre 2021)- ci dice:

 

Monti declama in TV la sua idea : “ Dosare dall’alto la comunicazione con metodi meno democratici .” In studio nessuno protesta .

Ma se nemmeno più la facoltà  di esprimersi è inviolabile ,è vero che qui tira aria di regime.

(…) Il fondatore di Scelta civica  ,partito che per nostra fortuna si è sciolto civilmente in pochi mesi , questo convincimento ,cioè che l’informazione andrebbe silenziata ,lo ha espresso l’altra sera in tv ,durante  l’appuntamento condotto da David Parenzo e Concita De Gregorio su La 7.

Leggere la trascrizione per credere:  “da due anni con lo scoppio della pandemia abbiamo visto che il modo con cui è organizzato il nostro mondo è desueto non serve più”.  E quale organizzazione del nostro mondo non è più necessaria secondo il senatore a vita nominato da Giorgio Napolitano per tassarci ?

La comunicazione, ovvio no ? “Subito ,quando è comparso il virus, abbiamo usato il termine guerra ,ma non abbiamo usato una politica di comunicazione adatta alla guerra”.

Durante i conflitti i governi impongono la censura ai giornali ,impedendo ai cronisti di fare il loro mestiere ,con la scusa che non si deve agevolare il nemico .

Le notizie potrebbero favorire le spie e far sapere all’invasore le contro misure prese per sconfiggerlo .Dunque l’informazione deve  passare al vaglio del ministero della Difesa ,come ai tempi del  Minculpop . In questo caso non si capisce bene se la lettura dei quotidiani o l’ascolto dei dibattiti in tv allertino il virus , mettendolo in guardia sulle terapie allo studio.

Sta di fatto che per Monti il problema non sono le molte balle che politici e virologi hanno raccontato agli italiani ,convincendoli che non c’è da fidarsi , ma il problema siamo noi ,umili addetti dell’informazione che non ci rassegniamo  a smettere di raccontare i fatti e raccogliere opinioni.

A dire il vero tra quarti della stampa e della tv ,anzi diremmo nove decimi visto che ormai esiste una specie di quotidiano unico nazionale sia in edicola che sul piccolo schermo ,si sono già adeguati alla censura, imponendola da soli senza attendere nemmeno che qualcuno la ordinasse. Sta di fatto che pure la comunicazione diffusa con il contagocce da poche trasmissioni e da ancora meno giornali a Mondi dà fastidio.

“Io credo che  bisognerà trovare un sistema che dosi dall’alto l’informazione ,con metodi meno democratici”. A stabilire che cosa si può dire ,secondo l’ex-premier ,dovrebbe essere “il governo ispirato dagli esperti sanitari”.I virologi dittatori faranno pure chiudere i giornali?

E chi dovrà assumersi il compito di stabilire quale dose di notizie sia giustificata? Chiede la conduttrice del programma tv. La risposta è  scontata: “ il governo ispirato, nutrito e istruito dalle autorità sanitarie”.

Si, per il senatore a vita bisogna istituire un regime controllato dai virologi ,che oltre a rinchiudere i dissidenti in casa e, eventualmente  in carcere ,dovrà prendersi cura anche dei giornalisti, impedendogli, se del caso di parlare e scrivere. Immaginiamo noi che le estreme conseguenze   saranno la chiusura dei giornali e lo spegnimento delle televisioni. Del resto, secondo Monti “noi ci siamo abituati alla possibilità incondizionata di dire qualsiasi verità o sciocchezza sui media”, ma si capisce che è ora di farla finita con questa possibilità ,che pur essendo garantita dalla Costituzione ,articolo 21 ,a parere dell’ex rettore della Bocconi  considerata una cosa desueta  ,che non serve più.

Che Monti non sia il solo a non pensarla così  lo si capisce anche da ciò che ha detto prima di lui ,sempre su La 7 ,Beppe, Severgnini e di cui abbiamo scritto ieri.

Ad Andrea Grisanti , professore che si è dimostrato cauto sulla vaccinazione dei  bambini , il giornalista del Corriere della Sera  ha rimproverato di parlare in tv e in prima serata, quasi che le notizie debbano essere trasmesse in fascia protetta o ancora meglio ,come ha detto lo stesso Severgnini ,solo nei congressi ,altrimenti l’opinione pubblica può farsi un’idea. Certo il problema  è non far sapere come stanno le cose ,limitando  l’informazione .Infatti, via Twitter c’è chi sollecita la cacciata dal social di chiunque critichi le decisioni governative . Perché per curare il Covid non c’è nulla di meglio del bavaglio.

Noi siamo soliti parlare di regime , ma in giro si respira una certa arietta di  dittatura  sanitaria che comincia a preoccuparci ,perché se perfino l’artico 21 della Costituzione è “un’abitudine “,figuratevi il resto.

    Il Tso impartito ai dissidenti è dietro l’angolo.

 

 

 

 

Per distruggere un popolo

si inizia dall’etica.

Laverita.info-Silvana De Mari -( 29 novembre 2021)-ci dice :

 

Per annichilire una civiltà bisogna stravolgerla ,invertendo vizi e virtù.                  E’ ciò che hanno fatto illuminismo, marxismo e Sessantotto. Emblematico è il caso dell’aborto : uccidere bambini oggi è un diritto della donna  e chi si oppone  vien insultato e messo alla gogna.        Eliminare    la religione  è un altro passo fondamentale per piegare  la gente : Robespierre per  fare la Rivoluzione in Francia  vietò il cristianesimo.

VIRTU’ e VIZI.

L’ETICA è  un diritto .Ogni popolo ha diritto alla sua etica , che nasce dalla sua religione ,un’etica raccontata e protetta dalla narrazione sacra espressa nella lingua comune. La definizione di popolo è data dalla condivisione di una lingua, di un racconto sacro e di un’etica. Non è necessario  che ci sia la terra .Se c’è ,  è un indubbio vantaggio , ma anche in mancanza della terra  un popolo esule può restare  tale , se conserva la sua religione e quindi la sua etica ,la sua narrazione  sacra e la sua lingua. La narrazione sacra sarà un libro sacro nei popoli alfabetizzati o un racconto sacro fatto di divinità ed eroi nei popoli che non hanno ancora raggiunto la scrittura.

(…) La distruzione di un popolo quindi comincia dalla distruzione  della sua etica , dall’inversione del vizio e della virtù. I vari processi dell’Europa  ,illuminismo ,marxismo e Sessantotto ,sono stati fenomeni di aggressione  alla religione e all’etica del popolo ,che è stata invertita. Quelli che prima erano vizi sono diventati virtù e viceversa.

L’illuminismo ha picconato il cristianesimo , lo ha deriso e infangato. Il cristianesimo vietava l’uccisione  intenzionale del bambino. Figlia dell’illuminismo è la Rivoluzione francese , che ha vietato il cristianesimo e per la prima volta nella storia dell’Europa dopo la comparsa del cristianesimo ha dato l’odine scritto di                     assassinare bambini.  

(…) Il Marxismo ha avuto due figli bastardi ,il socialismo internazionale , vale  a dire il  comunismo sovietico  e il “socialismo nazionale” ,vale a dire il nazismo.

Nel bellissimo saggio “Novecento. Il secolo del male ,Alain Besancon descrive   nazismo e comunismo come gemelli eterozigoti. Nemmeno : erano e sono padre e figlio , il comunismo è stato il padre del nazismo ,lo ha  tenuto a battesimo   ,lo ha sostanzialmente   generato . Il comunismo per primo parla dello sterminio di un popolo e lo attua .Il comunismo  per primo attua i campi di concentramento  , ipotizza lo sfruttamento totale del corpo del nemico, anche come cavia per esperimenti scientifici. Un  padre degenere ,con un figlio ancora più degenere.

Il comunismo almeno aveva un teorico fine ,un mondo senza miserie ,senza classi sociali ,e prevedeva la morte del bambino  come effetto collaterale. I bambini ucraini morti di fame avrebbero permesso poi un mondo di pace pieno di farfalle e senza classi sociali. Nel nazismo   invece i bambini morti sono lo scopo: inversione dell’etica .

Il sessantotto ha distrutto l’etica sessuale cattolica ,che aveva permesso lo sviluppo di una civiltà plurimillenaria. Una società di famiglie basate su una coppia monogama  (almeno in  teoria) e unita, permette una limitazione netta delle  malattie sessualmente trasmissibili e ha maggiori probabilità di generare un’economia florida e figli vivi e sani di mente. La società patriarcale cristiana ém stata una società antropologicamente vincente che ha superato catastrofi antropologiche come il crollo dell’impero romano  o la seconda guerra mondiale.

La società postsessantottina non sopravviverà alla prossima generazione.

(…) L’aborto  è una scelta etica , criticarlo è ormai un reato, punito in maniera giudiziaria in molte nazioni, con una  gogna micidiale  anche in Italia.

Mettere al mondo figli è ormai sbagliato ,perché producono anidride carbonica . Se il sesso promiscuo e sterile è considerato buono , una coppia di coniugi con i loro bambini è invece criticabile.

Ma la cosa peggiore è la condiscendenza verso chi scandalizza i piccoli. Prima dell’adolescenza il corpo non è pronto per la riproduzione, che è il fine biologico della sessualità, e non è pronto nemmeno per la sessualità. Non è pronta                         nemmeno la mente. Non è pronta  neanche  l’anima. A quest’età la sessualità è la distruzione dell’individuo ,della sua mente  e della sua anima. La pedofilia ,il desiderio  erotico  di corpi acerbi ,non è una forma di libertà , è una deformazione  dell’anima. Non è innocente ,mai, perché prima o poi può favorire l’atto.  Parlare di consenso nel caso dei bambini è da idioti.

Il primo compito di una società decente , di una magistratura decente , di una civiltà decente  è proteggere i bambini. L’Italia ha firmato il Trattato di Lanzarote ,che dichiara perseguibile l’apologia di pedofilia.

Mario Mieli in “Elementi di critica omosessuale” scrive : “ Noi checche  rivoluzionarie sappiamo di vedere nel bambino non tanto l’Edipo ,o il futuro Edipo, bensì l’essere umano potenzialmente libero. Noi ,si, possiamo amare i bambini. Possiamo desiderarli eroticamente rispondendo alla loro vogli di Eros, possiamo cogliere a viso e braccia aperte la sensualità   inebriante  che profondono, possiamo fare l’amore  con loro.

Per questo la pederastia è tanto duramente condannata : essa rivolge messaggi amorosi  ai bambini  che la società invece ,tramite la famiglia , traumatizza educastra , nega ,calando sul suo erotismo la griglia edipica”.

Questo testo dimostra una nauseante omofobia riassunta dalla ignobile  parola “checche” e costituisce apologia di pedofilia. Chiunque lo neghi  sta mentendo .

E’ quindi intollerabile che un circolo intitolato al nome di un apologeta della pedofilia riceva denaro pubblico .

Sono fiera di esser sotto processo per avere affermato  con fermezza che il denaro pubblico elargito dallo Stato al circolo Mario Mieli , definito ente morale in quanto “combatte l’omofobia”, è una violazione del Trattato di Lanzarote e che i fondi al Mario Mieli devono essere revocati ,fino a quando non cambierà nome. 

Sto pagando il prezzo di queste mie affermazioni .Oggi avrò il processo di appello.

Non dobbiamo avere paura. Esiste la giustizia.    

 

Macron al Quirinale .

 Accordi per un nuovo Esercito anti-rivolta.

Conoscenzealconfine.it- Arianna Graziato-(30 Novembre 2021): ci dice:

 

Gli Accordi Italia-Francia sembrano essere l’ennesimo passo verso l’eliminazione della sovranità, a favore di un’unione quasi simbiotica, che non accetta decisioni autonome.

Nella mattina del 26 novembre sono stati infatti ufficialmente siglati gli Accordi per una cooperazione bilaterale rafforzata fra Francia e Italia. Alla presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, Mario Draghi ed Emmanuel Macron hanno stretto l’accordo.

Pungente novità dei Patti è la creazione di un’unità operativa di polizia che non opera solo alla Frontiera, ma che sarà strumento utile per il perseguimento degli obiettivi europei di sicurezza e difesa. Obiettivi quali la salute globale, la gestione delle crisi e in particolare la persecuzione di crimini d’odio, radicalizzazione e terrorismo online.

Questo impegno congiunto verso un “mondo più giusto” lo ritroviamo in diversi punti del testo: verrà creato un Consiglio italo-francese composto dai Ministri degli Affari Esteri e della Difesa, favorito dallo scambio di membri delle forze dell’ordine ed è stato promesso un coordinamento degli sforzi nelle missioni internazionali.

È evidente notare in questo impegno una preoccupazione da parte dei due governi. Che ci sia la paura di ripercussioni civili dopo le numerose proteste contro il green pass? La difesa della salute comporta fermare i pericolosi “no vax”? Aumenterà la censura governativa? Mettendo da parte le ipotesi, sembra comunque evidente la volontà di creare un organo di polizia che sia sovranazionale.

 

Il giornalista Fulvio Grimaldi si è espresso sulla questione con parole dure: “Ci hanno messo un cappio addosso, chiaramente siamo la parte perdente. Per i francesi non siamo altro che un mercenariato“. La domanda che quindi dobbiamo porci è: quanto sarà paritaria questa cooperazione?

(Arianna Graziato) .(static.classeditori.it/content_upload/doc/2021/11/202111251900427734/TrattatodelQuirinale.pdf

byoblu.com/2021/11/26/macron-al-quirinale-accordi-per-un-nuovo-esercito-anti-rivolta/)

 

 

 

 

Secondo Palù il Covid “ora è Malattia

 pediatrica tra prime Cause di Morte”

conoscenzealconfine.it-Redazione-(29 Novembre 2021)- ci dice:

Questa gente mente sapendo di mentire e lo fa senza alcun problema e nessun rimorso… non sono come noi… Ricordiamocelo quando li ascoltiamo!

“Il Covid è diventata una malattia pediatrica, tra le prime cause di morte a questa età. Mentre nessuna giovane vita è stata interrotta a causa del vaccino (bugiardissimo )“, con il prodotto Pfizer presto al via anche nella fascia 5-11 anni.

Così il presidente dell’Aifa, Giorgio Palù, in un’intervista al Corriere della Sera.

 “Il Cdc americano, la massima autorità per il controllo delle malattie infettive, ha già raccomandato l’uso di questo vaccino, prodotto da Pfizer. Gli studi presentati dall’azienda per avere l’autorizzazione al commercio, arrivata in Usa il 29 ottobre scorso, hanno coinvolto 2.400 bambini. L’efficacia si è rivelata del 90,7% nel prevenire la malattia sintomatica, non si sono visti effetti avversi di rilievo”, spiega.

Gli adolescenti e i ventenni però qualche problemino lo hanno avuto…

“I problemi di miocardite, l’infiammazione al cuore che si è manifestata in ragazzi più grandi, in questa fascia d’età sono stati rarissimi e mai seri (pura menzogna… ). Mentre invece – avverte – è maggiore il rischio di prendere il Covid e sviluppare una sindrome infiammatoria, la Mis-C, che è grave e colpisce molti organi”.

Vaccinare i bambini, nessun dubbio?

“Certamente no (ovviamente) – risponde Palù – i benefici sono diretti e indiretti. Nel 2020, sempre secondo il CDC, il 3% dei piccoli hanno avuto l’infezione, oggi siamo al 25% perché circola la variante Delta, molto più contagiosa. Su migliaia di ricoveri pediatrici in ospedale, un terzo hanno riguardato bimbi sani che in parte hanno avuto bisogno di cure in terapia intensiva“.

I genitori hanno paura, le percentuali non bastano a rassicurarli.

“Allora lo affermo esplicitamente. Il Covid è diventata una malattia pediatrica, tra le prime cause di morte a questa età. Mentre nessuna giovane vita è stata interrotta a causa del vaccino anti Covid”, spiega Palù.

C’è chi la mette sul piano dell’opportunità sociale, vaccinateli perché così fermiamo il virus. Le sembra un ragionamento per mamme e papà preoccupati?

“E allora mettiamola così – rimarca. Il vantaggio indiretto è sanitario e sociale. La circolazione del virus si riduce e i bambini non perdono la libertà. Abbiamo visto quali sono su di loro le conseguenze psicologiche nel restare chiusi a casa. Meno giochi, meno scuola, meno sport. Ecco, i genitori dovrebbero comprendere questo aspetto. Accettare la vaccinazione dei figli significa assicurargli benessere in senso generale, non costringerli a cambiare vita (se però si ammalano a causa del vaccino, cambiano vita )“.

La variante Delta Plus, evoluzione della Delta, buca i vaccini, visto che anche gli immunizzati si infettano?

(A young girl is indoors in a hospital room. She is being given a vaccine by her doctor.)

“Non c’è ragione di allarmare. La sotto-variante Delta Plus, identificata per la prima volta in Gran Bretagna nel 6% dei genomi sequenziati, è caratterizzata da due nuove mutazioni. Per fortuna non sembra possedere caratteristiche biologiche diverse dal ceppo capostipite Delta che è nettamente prevalente. La sotto-variante viene tenuta sotto controllo dai vaccini. Ripeto, non allarmiamoci senza motivi validi”, conclude Palù.

La folle, tragica farsa continua, come vedete, e molti genitori ipnotizzati, in preda a turbe covidiche, e senza più alcuna facoltà logica e cognitiva porgeranno, purtroppo, anche i loro figli per il sacrificio al dio vaccino!

(adnkronos.com/covid-palu-ora-e-malattia-pediatrica-tra-prime-cause-di-morte_1mKRZ3qo05oiVAQ8WqScto).

 

 

 

 

Il siero non immunizza:

così il Green Pass aiuta il virus.

Libreidee.org- Maurizio BELPIETRO- (30/11/2021)- ci dice:

Sapete perché penso che la decisione del governo di istituire un super green pass sia stupida e pericolosa?

 Perché si regge su una doppia menzogna, ovvero che chi è vaccinato non sia contagioso, non rischi di essere contagiato, e chi non lo è rappresenti un pericolo per la collettività. Non è così. Anche se giornalisti come Fabrizio Roncone, del “Corriere della Sera”, vanno in tv a dire che «in democrazia le minoranze vanno rispettate, ma non hanno alcun diritto di minacciare la mia salute e il mio diritto al lavoro», a minacciare la sua salute e il suo diritto al lavoro non sono solo gli 8 milioni di italiani che non si sono vaccinati, ma anche i 30 milioni che sono «immunizzati» – tra i quali probabilmente lui – e che si credono al riparo dal virus, ma in realtà non lo sono.

So che è difficile da capire, per chi preferisce trovare capri espiatori invece di ragionare, ma se il “British Medical Journal” scrive che il «rischio di contagio per i vaccinati comincia ad aumentare 90 giorni dopo la seconda dose», significa che in Italia abbiamo 30 milioni di potenziali untori che circolano con un green pass che è carta straccia.

Mi spiego. In base a una ricerca condotta in Israele su 83.000 persone, si è scoperto che la copertura vaccinale decresce pian piano che trascorre il tempo, al punto che, passato un periodo compreso fra i tre e i sei mesi, 7.973 degli immunizzati presi in esame sono risultati positivi al Covid.

 In pratica, poco meno del 10% si è contagiato nonostante avesse fatto sia la prima che la seconda dose Pfizer. Che cosa vuol dire?

Che se applichiamo questa ricerca alla situazione italiana, su 45 milioni di persone che si sono vaccinate, 30 milioni di queste – tra le quali mi ci metto anche io – sono potenzialmente a rischio di contagio, in quanto hanno ricevuto la vaccinazione da parecchi mesi.

Già, perché se togliete chi si è “immunizzato” di recente e i circa 5 milioni che hanno ricevuto la terza dose, significa che la metà della popolazione italiana si sente al riparo dal Covid e non lo è.

Istituire un super green pass e rinchiudere agli arresti domiciliari chi non si sia vaccinato, non solo dunque non serve a nulla, ma addirittura rischia di essere pericoloso, perché si dà al vaccinato l’idea di essere immune.

Non lo dico io.

 Lo dice Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, il quale in una recente conferenza stampa si è detto preoccupato del «falso senso di sicurezza dato dai vaccini».

Sì, ha usato proprio questi termini, spiegando che la pandemia non è finita. Altro che minaccia alla sua salute e al suo diritto al lavoro, come dice Roncone: il pericolo viene da chi continua a raccontare balle.

Quante volte in questi mesi qualcuno si è avvicinato a me senza mascherina parlandomi a 50 centimetri dalla faccia e dicendomi «tanto siamo vaccinati», intendendo così «tanto noi non rischiamo nulla». Balle. Anzi, super balle.

L’idea che non si rischi e che il green pass sia un lasciapassare che consente di ignorare il virus è una grande menzogna. E per rendersene conto, è sufficiente guardare ancora una volta a Israele, che essendo più avanti di tutti è diventato un esempio da studiare con cura. In quel paese hanno vaccinato tutte le persone che potevano e volevano essere vaccinate. Dopo di che, visto che i contagi aumentavano, hanno iniziato le terze dosi e anche la vaccinazione sui bambini da 5 a 11 anni.

Risultato: sono alle prese con la quinta ondata di contagi e già hanno iniziato la quarta dose. Situazioni analoghe si registrano anche in paesi che hanno vaccinato più di Israele e più di noi.

Il Portogallo, per esempio, dove nonostante un’immunizzazione a tappeto sono alle prese con nuovi contagi e altri morti.

Ma anche l’Irlanda, che ho più volte citato.Il vaccino aiuta, ma non ferma l’epidemia, e continuare a criminalizzare chi non si è vaccinato non serve a niente se non a confermare le proprie piccole o grandi insicurezze.

Lo ha scritto su “Lancet” uno dei più importanti ricercatori, Gunter Kampf: quella con cui siamo alle prese non è un’epidemia di non vaccinati. Un esempio?

Guardate i decessi nel Regno Unito fra il 18 novembre e il 14 dicembre. Il 18,08% delle morti è avvenuto fra persone non vaccinate, ma il 78,94% è stato registrato fra persone vaccinate con due dosi.

È il paradosso di Simpson?

Sì, certo, ma andatelo a spiegare ai familiari di chi è andato al camposanto.

 E ditegli anche che è solo colpa di quel 20% di inglesi che non si è ancora rassegnato all’iniezione.

Andate in quel paese e a quel paese. Voi e le vostre bugie.

(Maurizio Belpietro).

 

 

 

 

Buenaventura Durruti

e la guerra aliena contro l’umano.

Libreidee.org-Giorgio Cattaneo-(30/11/2021)-ci dice:

Errore madornale, rimpiangere certi statisti del passato? Hanno fatto la storia, d’accordo, ma per arrivare dove? O meglio: tanta nobiltà non sarebbe stata degna di miglior causa?

Oppure: è tutta colpa dei gestori occulti, sempre infinitamente più forti – alla distanza – di qualunque eroe della democrazia?

 Il cimitero dell’onore è sterminato: dai Kennedy a Rabin, da Olof Palme a Nelson Mandela.

 La foto di gruppo, oggi, sciorina invece i volti arcigni o marmorei di Erdogan e Draghi, il minuetto vaticano di Bergoglio e Macron, gli sbadigli del povero Joe Biden.

Sui mestieranti italiani, uniti nell’abbraccio ecumenico emergenziale, non è nemmeno il caso di dilungarsi. Di Maio votato da Renzi, Speranza sostenuto da Salvini.

Un piccolo presepe svuotato di tutto, mentre l’abisso inghiotte pace, giustizia e sicurezza, travolgendo milioni di sventurati, abbandonati come bestiame al loro destino.

Dal palazzo calano politichette di bottega e manovrone europee, sincronizzate con le trame zootecniche planetarie.

 E intanto grandinano decreti-capestro di sapore antico, pre-politico: paiono imparentati con la governance dell’Impero Assiro, piuttosto che con le lussuose consuetudini degli ultimi settant’anni.

Dietro le quinte, qua e là, affiora l’ombra di un’antica guerra per bande, tra momentaneamente opposte consorterie di egemoni, ferocemente in lizza eppure solidali quando serve.                                                                                                              Luci e riflessi che si allungano fino alle marionette dei teatrini nazionali, in religiosa attesa di ordini superiori: inerti e tremebondi burattini, balbettanti anche davanti all’apocalisse, nei giorni in cui decisero le divinità che fosse giunta l’ora di metter fine, per sempre, alla relativa serenità delle ultime generazioni.                                                                                                                           Andava spalancato un tritacarne senza precedenti, globalmente esteso, senza più l’ombra di intermediazioni ragionevoli. Letteralmente, la fine di una civiltà: la sua rottamazione.

Di quanti esperimenti saremmo figli? Lo sa il cielo, direbbe il sentimento metafisico.

 Ed è la connessione con il cielo – evidentissima, ma mai apertamente ammessa – a poter vestire i panni del famoso missing link. Tema ora affrontato persino da “Studio Aperto”, telegiornale Mediaset: gli scavi di Göbekli Tepe hanno portato in luce una scultura non equivocabile, la nascita di una creatura umana partorita da una femmina che, di umano, non ha niente.

E’ per questo, che l’eventuale genio dominante (non-umano?) oggi non esita a sferrare il suo attacco planetario contro ogni espressione dell’umanità? La storia – da lontano – schiaccia il tempo, mette in fila gli eventi, li avvicina.

Da quale preesistenza poteva scaturire la fierezza rivoluzionaria e disarmante di un guerriero come Buenaventura Durruti, in mezzo alla mattanza iberica?

Neppure un secolo ci separa da quelle vecchie foto. Quasi stentiamo a riconoscerle, dal treno iper-veloce che ci porta al macero, regalandoci finalmente l’esatta visione di come stanno davvero le cose.

(Giorgio Cattaneo).

 

 

 

 

 

Focus. Thibault Isabel :

 “Chi pagherà la crisi coronavirus?

Le classi popolari o la finanza mondiale?”

Barbadillo.it- Thibault Isabel-(30 aprile 2020)- ci dice:

(traduzione e intro di Francesco Marotta). 

Coronavirus.

Dalle pagine de l’Inactual.fr, la pubblicazione online, diretta da Thibault Isabel, una ricognizione a tutto tondo del “momento storico” visto che la situazione in Francia non è molto dissimile da quella italiana, arrivano suggerimenti utili su cosa fare e sulle questioni che dobbiamo evitare, prima di sprofondare definitivamente nel tourbillon agghiacciante della società neoliberale. Le soluzioni ci sono, basta volerlo.

Thibault Isabel è il Direttore editoriale del magazine online (linactuelle.fr/), nonché filosofo e pensatore che ha già pubblicato anche in Italia innumerevoli saggi.

A tal proposito, consigliamo la lettura di “Sesso e Genere. Uomini e donne nella società liquida”, edito da Diana Edizioni, “Il campo del possibile. Sguardi sulla modernità sociale, politica e culturale”, edito da Controcorrente Edizioni.

(Per i francofoni invece, è possibile acquistare direttamente sul sito de l’Inactualle i suoi due ultimi lavori pubblicati in Francia, intitolati “Pierre-Joseph Proudhon : L’anarchie sans le désordre” con la Prefazione di Michel Onfray e “Manuel de sagesse païenne”. Il titolo originale dell’articolo è Thibault Isabel: “Qui payera la crise? Les classes populaires ou la finance mondiale?”, pubblicato il 29 aprile 2020, editoriale a cura del Nostro.)

Il saggio di Thibault Isabel.

Il piano di ripresa del governo per tirarci fuori dalla crisi costerà molto. Ma chi dovrà pagare il conto? Abbiamo già visto in passato che è sempre ai cittadini che i governi successivi chiedono sforzi. Thibault Isabel propone invece di riconquistare la nostra sovranità politica ed economica per uscire dai dogmi neoliberali e mettere a disposizione il settore finanziario, nonché le multinazionali.

Lo shock per l’economia mondiale causato dalla pandemia di Covid-19 è stato più rapido e più grave della crisi finanziaria del 2008 o anche della Grande Depressione del 1929. Nel corso di questi due episodi, i mercati azionari sono crollati di almeno il 50%, i mercati del credito sono stati paralizzati da fallimenti a cascata, i tassi di disoccupazione sono saliti oltre il 10% e il PIL si è contratto a un tasso annualizzato del 10% o più. Questo processo ha richiesto circa tre anni. Nel marzo 2020, ci sono volute solo tre settimane per prevedere un esito altrettanto disastroso.

La crisi del sistema.

Sarebbe sbagliato analizzare la situazione pensando che questa crisi sia la conseguenza esclusiva della pandemia di coronavirus. La pandemia è stata solo un fattore scatenante, che è venuto a fermare la macchina già grippata del sistema economico globale. Molti esperti ci avevano avvertito da tempo del rischio di scoppio di bolle finanziarie, e le aberrazioni dei mercati si sono manifestate quando, dopo una delirante sopravvalutazione degli attivi a gennaio, sono stati presi da un panico senza precedenti all’annuncio delle prime misure di contenimento, vivendo una timida rinascita solo quando sono stati annunciati nuovi interventi pubblici, come se il settore privato si aspettasse ormai tutto dai governi per salvarlo.

Il contesto è tanto più drammatico in quanto al costo intrinseco della crisi economica e finanziaria si aggiungerà il costo della gestione della crisi sanitaria.

Il rilancio di un’economia, globale ferma da mesi, rappresenterà uno sforzo titanico, mentre la maggior parte degli Stati è già pesantemente indebitata dalla crisi del 2008, che non è stata ancora digerita dai conti pubblici (mentre i mercati finanziari stanno di nuovo raccogliendo profitti favolosi da diversi anni). Secondo le stime attuali, l’indebitamento dei principali Stati occidentali aumenterà di circa il 25% nei prossimi tre anni.

Riformare la finanza globale.

Da ciò scaturiscono diverse osservazioni.

1/ Non si può pensare di rilanciare le economie nazionali dopo la crisi senza riformare radicalmente il sistema, che ha ampiamente dimostrato i suoi misfatti aumentando le disuguaglianze sociali in modo esponenziale e testimoniando una fragilità colpevole che penalizza l’economia reale, le piccole e medie imprese, nonché i risparmi familiari.

2/ Nel contesto di una globalizzazione galoppante, l’interconnessione delle economie è diventata troppo forte, rendendo incontrollabili crisi di ogni tipo – sanitarie, finanziarie, ecc.

3/ La perdita della nostra sovranità industriale, concessa in nome del libero mercato internazionale, non ha portato le opportunità economiche promesse e ci ha indebolito per resistere ai cataclismi, come dimostra la nostra attuale incapacità di produrre medicinali, maschere, respiratori in numero sufficiente.

La corsa al consumo e al produttivismo si combina con la speculazione per sfociare in uno stile di vita che tutti sono sempre più d’accordo a trovare pericoloso e controproducente”.

4/ Il sistema economico autorizza profitti privati giganteschi per le grandi fortune planetarie, ma quando la situazione si deteriora, richiede l’intervento pubblico degli Stati, e quindi dei contribuenti, per pagare gli errori del passato.

5/ Tutto questo porta anche ad una considerazione di ordine più filosofico: la corsa al consumo e al produttivismo si combina con la speculazione per sfociare in uno stile di vita che tutti sono sempre più d’accordo a trovare pericoloso e controproducente, poiché lo specchio delle allodole della “crescita” e delle “buone cifre economiche” serve solo alle classi agiate, mentre le classi popolari vedono le loro condizioni di vita deteriorarsi a colpo d’occhio (minor potere d’acquisto per i beni di prima necessità, lavoro precario, isolamento della Francia periferica, ecc.).

Dovremo dimenticare le vecchie ricette.

Dovremo ricostruire e non possiamo farlo allo stesso modo. In ogni caso, le vecchie soluzioni non funzioneranno più, visto il poco spazio di manovra che ci rimane. Lo ha annunciato lo stesso Emmanuel Macron il 16 marzo: «Vinceremo, ma questo periodo ci avrà insegnato molto. Molte certezze e convinzioni saranno spazzate via e messe in discussione». Anche Dominique Strauss-Kahn ha fatto il suo mea culpa, il 7 aprile, sulle colonne di Slate, affermando che gli oppositori di lunga data della globalizzazione, finora considerati «idealisti», «dottrinari» o «pessimisti», avevano in realtà «parzialmente ragione», perché «è molto probabile che la crisi porti a forme di delocalizzazione della produzione, regionale se non nazionale».

“Possiamo ancora chiederci se dobbiamo fidarci di coloro che ci hanno messo al muro per indicarci la strada giusta d’ora in poi.”

L’ammissione del fallimento è coraggiosa, ma possiamo ancora chiederci se dobbiamo fidarci di coloro che ci hanno messo al muro per indicarci la strada giusta da seguire d’ora in poi. In ogni caso, i sostenitori del vecchio mondo cercheranno soprattutto di salvare quello che ancora si può salvare di fronte all’evidente fallimento del sistema che hanno messo in piedi.

La pandemia ci offre un’opportunità unica di considerare una profonda riprogettazione del nostro tessuto economico e sociale. Per di più, ci costringe a farlo. Non ci sarà una via d’uscita comoda e noi eviteremo il peggio solo preparandoci ora al cambiamento di rotta, con l’obiettivo di riorientare i risparmi delle famiglie verso una spesa che costruisca un’economia utile e sostenibile. Resta da vedere come e, soprattutto, chi pagherà il conto.

Chi finanzierà il piano di rilancio dell’economia?

In effetti, questo è il problema. Le belle dichiarazioni d’intenti dei globalisti neoliberali, sia di sinistra che di destra, saranno presto finalizzate a far ingoiare ai cittadini pillole molto amare, ai quali si chiederà di stringere la cinghia per «riformare».

La crisi che stiamo attraversando costituisce sia uno shock della domanda (le famiglie consumano meno) sia uno shock dell’offerta (le aziende producono meno). Per farvi fronte, le misure messe in atto dal governo francese sono essenzialmente keynesiane. Si tratta quindi di investire fondi pubblici per sostenere il consumo e mantenere a galla la produzione. Queste misure sono più o meno condivise da tutti i paesi europei e sostenute da un allentamento dei vincoli di bilancio del Trattato di Maastricht.

“Le politiche keynesiane, con il pretesto delle radici storiche di sinistra, in realtà troppo spesso contribuiscono a trasformare il debito privato in debito pubblico, vale a dire il debito dei cittadini”

Ma le politiche keynesiane, con il pretesto delle radici storiche di sinistra, in realtà troppo spesso contribuiscono a trasformare il debito privato in debito pubblico, vale a dire il debito dei cittadini. Non sorprende, da questo punto di vista, che Nicolas Sarkozy, anche se bollato a destra, ne abbia fatto un uso massiccio durante la crisi del 2008. Ecco a che punto siamo: i mercati si affrettano a speculare e, in caso di un fiasco generalizzato, aspettano benignamente che gli Stati paghino il conto trasferendo il debito privato dal settore finanziario a quello pubblico per evitare il fallimento del sistema.

Sostenere le classi popolari e medie.

È evidente che lo Stato deve ora organizzare un piano di rilancio; ma, se lo fa con i metodi abituali dell’establishment, queste misure si tradurranno in ultima analisi con la drastica riduzione dei servizi pubblici (vale a dire con la riduzione delle spese), o con il rafforzamento delle imposte (vale a dire con l’aumento delle entrate) o attraverso l’inflazione (in particolare, nell’ipotesi in cui lo Stato stampi carta moneta in grande quantità per limitare il costo del debito).

Nessuno di questi scenari è auspicabile.

Se si decide di limitare la spesa dello Stato, le classi popolari saranno le prime a pagarne le conseguenze, poiché sono le principali beneficiarie della spesa pubblica; e, se si ricorre all’imposta o all’inflazione, saranno piuttosto le classi medie che pagheranno il conto, poiché assumono la maggior parte dello sforzo fiscale e si appoggiano sui loro risparmi familiari per evitare l’impoverimento – tuttavia, il risparmio dei francesi sarebbe fortemente ridotto da una politica inflazionistica.

Mettere le classi popolari e la classi medie l’una contro l’altra è stata la strategia del partito di Maastricht per decenni: si voleva far dimenticare che le uniche persone che non pagano mai per le crisi sono quelle che le causano, cioè gli attori finanziari e le grandi imprese

Mettere le classi popolari e la classi medie l’una contro l’altra è stata la strategia del partito di Maastricht per decenni: si voleva far dimenticare che le uniche persone che non pagano mai per le crisi sono quelle che le causano, cioè gli attori finanziari e le grandi imprese. Ricordiamoci che l’inflazione galoppante degli anni Trenta, dopo la crisi del 1929, fu per molti la causa della rovina della classe media in Europa, soprattutto in Germania, e che questa situazione traumatica portò alle calamità politiche che conosciamo: il fascismo, le rivalità tra le nazioni e la seconda guerra mondiale.

 L’unità del paese potrà dunque essere ottenuta solo se le classi popolari e le classi medie sono esse stesse solidali di fronte alla prova, e capiscono che hanno un avversario comune: il sistema bicefalo dei mercati deregolamentati e dei mostri della globalizzazione, che rischiano di diventare onnipotenti dopo la crisi, quando molte piccole e medie imprese dovranno chiudere i battenti. È allora che Amazon vincerà la scommessa; ed è questo che bisogna impedire.

Il principio «chi inquina paga» in economia.

Per raggiungere questo obiettivo, tuttavia, non si può semplicemente rattoppare una nave che sta imbarcando acqua da tutti i lati. Lo scafo dovrà essere ristrutturato da cima a fondo. Così come applichiamo all’ecologia il principio chi «inquina paga», dovremo far pagare chi ha causato gli squilibri del sistema neoliberale globalizzato.

Ciò significa in particolare: tassare le transazioni finanziarie e i redditi del capitale, istituire un’imposta universale per lottare contro l’espatrio fiscale, tassare l’automazione del lavoro, aumentare l’importo della tassa Gafam sui servizi digitali o tassare le grandi imprese per i costi ambientali delle loro attività, non solo per salvare le casse dello Stato, ma anche per riorientare il sistema di produzione e di consumo in un senso conforme all’equità e al bene comune. Invece di curare semplicemente i sintomi, è tempo di attaccare le vere radici del male.

“Così come il principio «chi inquina paga» viene applicato all’ecologia, chi ha causato gli squilibri del sistema neoliberale globalizzato deve essere fatto pagare”.

L’altra domanda da porsi è quella del debito che sta per esplodere. Quanto più gli Stati si indebitano, tanto più i tassi d’interesse del debito aumenteranno, tanto più gli operatori economici perderanno fiducia nel futuro e limiteranno le loro spese e i loro investimenti. Le misure di rilancio non possono che essere congiunturali: l’austerità tornerà molto rapidamente in primo piano, obbligando i governi europei a chiudere i cordoni della borsa.

L’opzione migliore sarà, quindi, quella di mettere in comune il debito degli Stati europei per ridurre i tassi di interesse. Ma le tensioni emerse a marzo sugli Eurobond rivelano profondi disaccordi tra i paesi del Sud (Francia, Italia, Spagna), che li hanno sostenuti fin dall’inizio, e i paesi del Nord (Germania, Olanda), che si sono rifiutati di sentirne parlare.

Essi beneficiano della differenza dei tassi d’interesse tra le nazioni. Il meccanismo di sfruttamento dei paesi più poveri da parte dei tedeschi e degli olandesi è alla base della politica di austerità fiscale, le cui fondamenta sono state gettate con il «grande mercato unico» alla fine degli anni Ottanta.

La Germania approfitta inoltre della politica monetaria europea per favorire le sue esportazioni ed i Paesi Bassi devono la loro prosperità alla loro politica di paradiso fiscale. Allo stato attuale delle cose, quindi, l’ordine di Maastricht pone i paesi europei sotto il controllo della Germania e dei suoi alleati privilegiati.

Il punto di vista della Francia profonda.

Naturalmente, è inevitabile ricorrere temporaneamente al debito pubblico per finanziare il piano di risanamento, poiché non esiste una cura miracolosa né denaro gratuito. Ma soprattutto bisogna cogliere questa opportunità per riformare il sistema in modo che lo shock sociale della globalizzazione possa essere meglio ammortizzato. La rivolta dei Gilet Gialli e della Francia periferica, ampiamente sostenuta dall’opinione pubblica, ha dimostrato che il Paese non voleva più le ricette politiche che erano state applicate per decenni da tutti i partiti che condividevano il potere. La Francia profonda, senza la quale nulla può essere ricostruito, non vuole più una politica neoliberale che garantisca una sempre maggiore flessibilità alle grandi multinazionali; e non vuole più una semplice politica di assistenza a breve termine, che porta all’indebitamento dello Stato senza impedire lo smantellamento dei nostri servizi pubblici fondamentali.

“La Francia profonda auspica che si lasci a ciascuno di noi la possibilità di lavorare dignitosamente, in condizioni decenti, per un salario onorevole”.

La Francia profonda auspica che si lasci a ciascuno di noi la possibilità di lavorare dignitosamente, in condizioni decenti, per un salario onorevole. Questo è stato molto chiaramente il messaggio dalle rotonde nell’inverno 2018-2019. Né la destra né la sinistra degli ultimi trent’anni hanno preso sul serio questa richiesta. E per una buona ragione: rompere con la logica dell’ipertrofia dei mercati – i cui difetti non possono che essere dolorosamente tappati con l’interminabile ipertrofia dell’aiuto sociale – richiederebbe allo stesso tempo una riforma radicale del sistema economico che ci è stato imposto dopo gli accordi di Maastricht.

 In altre parole, la riabilitazione del nostro tessuto economico di prossimità è possibile solo attraverso una presa di distanza con l’Unione europea, per stabilire una cooperazione strategica continentale a geometria variabile.

È in questo modo, e solo in questo modo, che sarà possibile riprendere una politica protezionistica di piena occupazione. Questa presa di distanza renderà molto più facile il ricorso a sistemi di mutualizzazione dei debiti – in mancanza di ciò, è vero che si può fare affidamento sull’economia tedesca per sostenerla – ma segnerà, ancor più, la fine dei dogmi neoliberali che paralizzano ogni rifondazione della nostra economia.

Riconquistare la nostra indipendenza politica ed economica.

L’uscita dalla pandemia sarà infatti salutare solo se approfitteremo dell’immenso cantiere in corso per portare le riforme indispensabili ad una ripresa in mano sovrana delle nostre capacità industriali e del nostro sistema finanziario. Tra le misure più urgenti, il governo dovrà ovviamente sanare le ferite aperte dalla crisi, nazionalizzando alcune imprese industriali per rilocalizzare la produzione di numerosi settori. Probabilmente sarà anche necessario nazionalizzare le banche in difficoltà, senza dimenticare in seguito, di separare le banche di deposito e le banche d’affari, per evitare l’inflazione di nuove bolle speculative e per proteggere più efficacemente il risparmio. Alla luce degli ammirevoli sforzi compiuti dal personale sanitario, diventerà finalmente essenziale riabilitare l’ospedale pubblico, così come diventerà essenziale riabilitare i servizi pubblici locali e i trasporti, che sono stati trascurati per troppo tempo.

Più a lungo termine, il nervo della guerra economica, per finanziare le riforme, sarà quello di tassare chi beneficia maggiormente del sistema pagando meno tasse: i grandi gruppi multinazionali.

Altrimenti, qualsiasi cosa si faccia, qualunque siano i metodi che si applicheranno, saranno sempre le classi popolari e le classi medie a pagarne il prezzo per prime.

È impossibile lottare contro le aziende quasi monopolistiche che possono, in qualsiasi momento, delocalizzare la maggior parte della loro produzione e che scelgono di pagare le tasse nei Paesi Bassi o in Irlanda piuttosto che nei territori dove vendono i loro prodotti.

“Il nervo della guerra economica, per finanziare le riforme, sarà quello di tassare chi beneficia maggiormente del sistema pagando meno tasse: i grandi gruppi multinazionali.”

L’unica arma degli Stati è il ricorso ai circuiti corti e al protezionismo. Non un protezionismo nazionalista aggressivo volto a schiacciare i paesi rivali, come fanno allegramente gli Stati Uniti e la Cina, ma un protezionismo concertato con eventuali alleati europei.

Quanto più questo protezionismo globale troverà sostegno presso i nostri partner, tanto più sarà efficace di fronte agli assalti economici esterni, consentendo anche collaborazioni fruttuose per grandi progetti comuni. Paradossalmente, questa politica potrebbe anche dare nuovo slancio ad una certa idea dell’Europa, a margine delle istituzioni esistenti.

L’obiettivo finale sarà quello di liberare l’economia locale dalla concorrenza delle grandi aziende internazionali.

 Il capitalismo globalizzato, ha assunto una forma talmente tentacolare che è arrivato a schiacciare gli ideali di libertà che all’inizio erano serviti a legittimarlo: in fondo, chi può ora credere al mito dell’uomo che si è fatto da sé, partendo dal nulla, che riesce a salire la scala del successo fino a guadagnarsi una vita molto dignitosa?

 Per ognuno di noi, al contrario, è diventato straordinariamente difficile staccarci dalla nostra condizione originaria, proprio perché la ricchezza è sempre più concentrata nelle mani di una minuscola minoranza di grandi fortune, e il sistema di mercato è diventato una vasta struttura tecnocratica, di cui finiamo per essere gli accoliti, e alla quale i politici non osano più nemmeno opporsi.

Speriamo che, con la fine della crisi sanitaria, usciremo anche noi dalla crisi democratico-economica del mondo neoliberale. In definitiva, questo dipende da noi.( Thibault Isabel).

 

 

 

 

Banca Mondiale (World Bank, WB).

Treccani.it- Dizionario di Economia e Finanza-( 10-6-2021)- ci dice :

Banca Mondiale (World Bank, WB)  Istituto di credito internazionale che finanzia l’investimento nei Paesi in via di sviluppo, fornendo anche assistenza tecnica. Istituito nel 1944 per volontà della Conferenza delle Nazioni Unite, ha sede a Washington e comprende due istituzioni, la Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo ( BIRS), fondata nel 1944, che si finanzia emettendo obbligazioni, e lAssociazione internazionale per lo sviluppo ( IDA, International Development Association), nata nel 1960, che impiega fondi ottenuti dai Paesi più ricchi. La B. M. fa parte del Gruppo Banca Mondiale (WBG) e include anche altri organismi: la Società finanziaria internazionale (International Finance Corporation, IFC), che dal 1956 sostiene gli investimenti nel settore privato, acquisendo partecipazioni azionarie, oltre che concedendo prestiti; l’Agenzia multilaterale per le garanzie degli investimenti (Multilateral Investment Guarantee Agency, MIGA), istituita nel 1988 per fornire garanzie sui rischi non commerciali, come quelli da esproprio, al fine di proteggere e promuovere gli investimenti diretti esteri nei Paesi in via di sviluppo; il Centro internazionale per la risoluzione dei conflitti (International Centre for the Settlement of Investment Disputes, ICSID), che dal 1966 assiste nella risoluzione delle controversie tra governi e investitori privati stranieri.

L’operato della Banca Mondiale. I Paesi supportati dalla B. M. si dividono in Paesi con reddito pro capite medio (superiore a 995 dollari nel 2010), che ottengono prestiti a lungo termine, e Paesi a reddito pro capite basso, che ricevono donazioni e finanziamenti a condizioni più favorevoli di quelle di mercato. L’assistenza della B.M. è condizionata al rispetto di specifici programmi di sviluppo concordati con i Paesi riceventi, tra cui: una diagnosi dello stato di povertà che si intende affrontare, la descrizione dei meccanismi partecipativi messi in atto, le priorità politiche e i relativi costi, nonché il sistema che si intende utilizzare per tenere sotto controllo i risultati e valutare l’impatto del programma. La B. M. è stata periodicamente sottoposta a riforme per snellirne struttura e procedure e per modificare i suoi meccanismi di intervento, oltre che misurarne l’impatto. Ciò anche in risposta a critiche di inefficacia e scarsa democraticità espresse rispetto ad alcune sue operazioni, a causa di meccanismi decisionali che privilegiano i Paesi ricchi.

Nel 1996 è stata varata un’iniziativa per la riduzione del debito dei Paesi più poveri, la Heavily Indebted Poor Country (HIPC), subordinata alla presentazione di un programma pluriennale di misure economiche e sociali, preparato in seguito a consultazioni del governo con gruppi politici, settore privato e rappresentanti della società civile. Dal 2006 è in corso un’altra iniziativa, la Multilateral Debt Relief Initiative (MDRI), attraverso la quale tutti i Paesi che hanno completato il percorso di aggiustamento previsto dall’HIPC ottengono la cancellazione incondizionata del debito estero accumulato nei confronti della B. M., del FMI e delle altre banche di sviluppo regionale. Secondo i dati di fine 2009, il programma è stato avviato da 35 Paesi e concluso da 26; l’assistenza fornita a questi Paesi rappresenta circa il 40% del loro PIL ai prezzi del 2008. Dopo la completa attuazione delle politiche di riduzione, lo stock del debito di tali Paesi sarà ridotto dell’80%.

Organi di governo. I due principali organi di governo della B. M. sono il consiglio dei governatori (187, in rappresentanza di altrettanti Paesi membri) e il consiglio dei direttori esecutivi (25), cui è delegata gran parte delle decisioni. Nel consiglio dei direttori esecutivi, 8 membri rappresentano ciascuno il proprio Paese (Arabia Saudita, Cina, Francia, Germania, Giappone, Regno Unito, Russia, Stati Uniti), mentre gli altri 17 rappresentano gruppi di Paesi (l’Italia, per es., fa anche le veci di Albania, Grecia, Malta, Portogallo, Repubblica di San Marino e Timor Est). I voti sono proporzionali al peso dell’economia del Paese su quella mondiale: nella BIRS, per es., gli Stati Uniti, il Giappone, la Germania e l’Italia disponevano nel 2011 rispettivamente del 16,03%, del 9,59%, del 4,39% e del 2,72% dei voti. Dal 2005 i Paesi più poveri, insieme all’India e alla Cina, hanno iniziato a sollecitare la revisione dei diritti di voto, visto il loro accresciuto peso nell’economia mondiale e, nella primavera del 2010, è stato approvato un aumento del loro potere di voto pari a 4,6 punti percentuali, portandoli a pesare nel complesso il 47,2% del totale.

 

 

 

 

 

 

Fmi, nel 2020 record del debito mondiale:

226mila miliardi di dollari.

Tg24.sky.it-Vitor Gaspar- (13 ott. 2021)- ci dice :

(Getty).

Nell'ultimo Fiscal Monitor i dati relativi all'anno del Covid. Secondo il Fondo monetario internazionale si tratta dell'aumento più grande mai registrato. A pesare per il 90% le politiche di sostegno delle economie più avanzate per contrastare gli effetti della pandemia.

Vitor Gaspar, direttore del dipartimento Affari fiscali del Fondo monetario internazionale (Fdmi) ha presentato durante il Fiscal Monitor di oggi le cifre del debito mondiale registrato lo scorso anno: “Il debito di Governi, famiglie e società non finanziarie ha raggiunto i 226mila miliardi di dollari nel 2020, 27mila miliardi sopra il livello del 2019”.

Si tratta dell’aumento più grande mai registrato.È attraverso il calcolo del debito che passa uno dei modi per misurare gli effetti della crisi causata dalla pandemia da Covid-19 a livello mondiale.

(Il "Grande divario finanziario".Chi sono i Nobel per l'economia: Boeri e Moretti li raccontano.)

Come spiegato da Gaspar, il 90% di quei 27mila miliardi di aumento deriva dalle economie più avanzate, Cina compresa.

La maggior parte del debito è stato generato dai Governi come misure di sostegno per le popolazioni. I Paesi emergenti hanno pesato solo per il 7%. Il direttore del Fondo lo chiama: “Grande divario finanziario”, cioè la diversa capacità di reazione, nei sistemi sanitari, nelle vaccinazioni e negli aiuti economici a persone e imprese. Quello che ne deriva è una ripresa sempre più diseguale.

La maggior parte dei 16.900 miliardi di dollari di misure annunciate per combattere la pandemia scadranno quest’anno, ma continueranno a produrre effetti positivi.

Se si considerano solo le manovre messe in campo da Washington, con l’American Families Plan e l’American Jobs Plan, e da Bruxelles, con il Next-Generation-Eu, queste potrebbero aggiungere al Pil globale circa 4.600 miliardi di dollari tra il 2021 e il 2026. La ripresa economica sta stabilizzando il Pil, ma secondo Fmi il debito pubblico resterà su livelli superiori a quelli previsti prima della pandemia, attestandosi poco sotto il 100 per cento. Il debito pubblico italiano è destinato a calare al 146,5%, mentre il deficit potrà tornare sotto al 3% entro il 2024.

(I prossimi obiettivi.G20 Afghanistan, dal vertice mandato all'Onu per la crisi nel Paese).

Secondo il Fondo, nel prossimo futuro la politica fiscale “deve rispondere agilmente" alle sfide globali e "facilitare la trasformazione dell'economia mondiale per renderla più produttiva, inclusiva, verde e resiliente a future crisi sanitarie o di altro tipo".

Al tempo stesso, però, sarà cruciale assicurare trasparenza e responsabilità in modo da “fare progressi verso gli obiettivi di sviluppo sostenibile”. Gaspar richiama così a una cooperazione internazionale anche nel campo dei vaccini: la comunità internazionale ha dato "un supporto prezioso" ai Paesi in via di sviluppo, ma "serve fare di più su prestiti e iniziative come la cornice comune per la cancellazione del debito del G20".

 

 

 

 

Il «Grande reset»: dalla teoria del complotto

 QAnon sulla «pandemia inventata»

 alle opinioni di Freccero.

Open.online- Juanne Pili e David Puente-(25 SETTEMBRE 2021)- ci dice:

Definita anche Cabala, questa tesi cospirazionista sembra affascinare anche chi critica il Green pass.

Il Great reset è una proposta del World Economic Forum (WEF), presentata nel maggio 2020 dal principe Carlo di Galles e dal tedesco Klaus Schwab, per costruire una economia sostenibile per il post pandemia Covid-19. La sola idea di un “grande piano” da parte delle élite mondiali di riformare il mondo “creando una pandemia” è stata recepita come la prova dell’instaurazione del cosiddetto Nuovo Ordine Mondiale (NWO). Il Great reset è così diventata una delle teorie del complotto sostenute da vari personaggi, dal movimento di estrema destra QAnon fino a intellettuali nostrani come Carlo Freccero.

La teoria del complotto del Grande reset si ispira a una iniziativa reale del WEF, fraintendendo le pubblicazioni di uno dei suoi membri, Klaus Schwab.

Carlo Freccero cita Schwab facendo riferimento a un Grande reset, volto a creare o amplificare la pandemia di Covid-19.

Schwab non ha mai sostenuto nei suoi libri l’idea di inventare le epidemie a scopo economico, né questo è il proposito del WEF.

Definita anche Cabala, la teoria cospirativa del Great reset è parte dell’ideologia di estrema destra che anima il movimento QAnon.

Freccero non precisa chiaramente se le sue affermazioni sono critiche originali all’iniziativa reale del WEF o se si rifà precisamente alla omonima teoria cospirativa.

Analisi.

Ogni anno si tiene un evento noto come Forum di Davos, dal nome della città svizzera che lo ospita, a cura dell’organizzazione internazionale World Economic Forum. All’evento partecipano economisti, scienziati, leader religiosi, imprenditori e politici: tanto basta per essere considerati quella sorta di élite mal vista dai complottisti. Basti pensare che tra gli invitati troviamo nomi odiati dall’estrema destra come George Soros e Greta Thunberg, quest’ultima contestata da un altro ospite dell’edizione del 2020: Donald Trump.

Secondo Carlo Freccero, in una lettera pubblicata da La Stampa, il Green pass sarebbe organico al Grande reset:

«È destinato a diventare l’embrione della futura tessera di identificazione digitale a cui mira il Grande Reset in via di attuazione. Per chi non sapesse di cosa si tratta, rimando a due libri dell’economista Klaus Schwab “Covid 19 The Great Reset” e “Quarta rivoluzione digitale”. Secondo Schwab la pandemia è un’occasione irripetibile per conseguire il “Grande Reset” già illustrato nel saggio “La quarta rivoluzione industriale”. Tutto ciò è confermato dal progetto di Recovery Fund, che si pone come obiettivo lo stesso obiettivo del “Grande Reset”. Credo che la nuova normalità in cui stiamo vivendo non finirà coi vaccini, ma continuerà nel tempo, con la rivoluzione digitale e la rivoluzione verde. Diciamo la verità: non è la pandemia ad avere causato la crisi economica. È piuttosto la crisi economica ad avere causato la pandemia, o quanto meno, ad averla amplificata al fine di ultimare il “Grande Reset”».

Freccero ha recentemente sostenuto il referendum contro il Green pass, parlando di «élite che ci governano con la paura». Si tratta di una critica originale contro una reale iniziativa economico-politica, oppure strizza l’occhio ai complottisti, che usano il medesimo termine per teorizzare una cospirazione mondiale, volta a controllare le nostre vite? Risolvere questa ambiguità dovrebbe essere compito dello stesso Freccero, onde evitare che tali affermazioni vengano usate indebitamente per sostenere tesi cospirazioniste.

Carlo Freccero, in risposta a un articolo di Massimo Gramellini sul Corriere della Sera dal titolo «Il complotto dei Ricchi e Poveri», sostiene: «Nel mio intervento su il Fatto e la Stampa io non esprimo giudizi sui contenuti [sul Great reset], ma faccio presente che le soluzioni utopistiche del Wef, creative sino a rasentare la fantascienza e ispirate al transumanesimo più spinto, richiederebbero, prima di essere applicate ai popoli, il consenso informato ed il loro assenso.

 In Democrazia e sino a prova contraria le decisioni spetterebbero al popolo, soprattutto se riguardano l’integrità fisica dei cittadini».

La bufala sul libro di Klaus Schwab.

I teorici del complotto fanno circolare anche screen decontestualizzati, con passaggi dello stesso libro consigliato da Freccero «Covid-19: The Great Reset» di Klaus Schwab. L’autore è uno dei membri del WEF, per tanto il «Grande reset» a cui fa riferimento appartiene al contesto originale, ma non conferma affatto l’idea cospirazionista in base alla quale la pandemia sarebbe stata prodotta (o gonfiata) da interessi economici di alcune élite.

Un falso passaggio del libro di Schwab.

Proprio i libri di Schwab vengono citati dai cospirazionisti per sostenere che l’iniziativa del WEF è parte di un piano volto a «organizzare le epidemie». Ad esempio, circola una falsa citazione del testo dove si attribuisce l’idea di voler eliminare almeno 4 miliardi di individui nel mondo entro il 2050 per mezzo di guerre militari ed epidemiologiche, ma il testo non è presente nel libro di Schwab: si tratta di un testo tratto dal libro Conspirators’ Hierarchy: The Story of the Committee of 300 del 1992 di John Coleman.

La Cabala dei Poteri forti.

Stando a quanto riporta la BBC, Schwab è uno degli autori più fraintesi dai cospirazionisti del Grande reset. In mezzo finisce anche il premier canadese Justin Trudeau, dalle cui dichiarazioni parte il passa-parola nel web che ha portato alla teoria cospirazionista attuale.

«Ha iniziato a fare tendenza a livello globale su Twitter la scorsa settimana, quando un video dove il primo ministro canadese Justin Trudeau in una riunione delle Nazioni Unite, ha affermando che la pandemia ha fornito un’opportunità per un “reset”, è diventato virale – continua l’Emittente britannica -. Ciò ha suscitato nuovi sospetti da parte delle persone, in Canada e oltre, che una cabala di leader globali stia usando la pandemia per introdurre una serie di politiche socialiste e ambientali dannose».

«Un video di agosto, che ora ha quasi tre milioni di visualizzazioni su YouTube, crede che solo Donald Trump possa sventare questo complotto segreto, che usa Covid-19 per mettere in ginocchio l’economia statunitense in modo che possa iniziare il “reset” e le persone saranno “accattonate” per i vaccini. Ma il suggerimento che i politici abbiano pianificato il virus o lo stiano usando per distruggere il capitalismo è del tutto privo di prove. Così è anche l’idea che il World Economic Forum abbia l’autorità di dire ad altri paesi cosa fare, o che stia coordinando una cabala segreta di leader mondiali».

Di questa presunta Cabala (chiaro riferimento a pregiudizi antisemiti) si occupò anche il segretario del Cicap Massimo Polidoro che ne fa accenno in un video apparso nel suo canale YouTube, nella prima puntata della sua serie su QAnon.

Quello dove Polidoro spiega più in dettaglio, intitolato con uno dei motti più in uso dai cospirazionisti per riferirsi al Grande reset – «Crolla cabala crolla!» – risulta ora rimosso per presunto «bullismo», a seguito di massicce segnalazioni da parte dei «qanonisti». Polidoro ci conferma di essere ancora in attesa di spiegazioni da parte della Piattaforma.

Nella narrativa QAnon l’immagine distorta del Great reset si mischia ad altre, come quella sull’adrenocromo, fantomatica droga delle élite estratta dai bambini, nell’ambito di riti pedo-satanici.

L’idea della pandemia “organizzata.”

Molti sono i contenuti decontestualizzati per sostenere che la pandemia Covid-19 fosse un progetto organizzato dalle élite, come il caso del noto Event 201 citato durante un’interrogazione parlamentare di Sara Cunial. Ecco alcuni esempi trattati da Open Fact-checking:

Bill e Melinda Gates vogliono ridurre la popolazione attraverso il nuovo coronavirus?

Coronavirus. L’intervento della deputata Sara Cunial e i numerosi complotti sul Covid-19 (e non solo)

Il nuovo Coronavirus è stato previsto in un libro sul dark web del 2019?

Il video complottista che accusa gli americani: «Coronavirus: è stato il “pipistrello”»

La profezia di Bill Gates sul coronavirus nel 2015? No! Al contrario, è stato fin troppo ottimista!

Coronavirus. Luca Parmitano sapeva dell’epidemia a novembre 2019? No! Un errore di comunicazione

A dare manforte alla teoria del complotto, sostenendo che il virus sia opera degli ideatori del Great reset, è un documentario francese dal titolo Hold-up. In questo caso non si sostiene la teoria del virus creato nel laboratorio di Wuhan, ma presso l’Istituto Pasteur in Francia.

Leggi:

Carlo Freccero non si vaccina perché glielo ha detto Luc Montagnier

Non solo vaccini: il delirio social dei due No Vax arrestati a Brescia, tra QAnon e neonazismo

Ritrovata in Svizzera Mia, la bimba che sua madre aveva fatto rapire da un gruppo di QAnon

L’inchiesta di PresaDiretta sulle «strade dell’odio», tra complottismo e squadrismo digitale durante la pandemia di Covid-19

Telegram è diventato il porto sicuro antisemita dei negazionisti dell’Olocausto e della Covid-19

I Proud Boys scaricano Trump, i QAnon cercano un nuovo eroe. Tutti i delusi (e confusi) dall’Inauguration Day

Pizzagate, complottisti manifestano davanti al Comet Ping Pong, teatro di un attentato nel 2016. Ma questa volta il proprietario reagisce

(Juanne Pili e David Puente).

 

 

 

 

 

In Onda, Carlo Freccero e

 la “teoria del reset": il mondo è fallito.

 La rivelazione sul vaccino e Montagnier.

 

Iltempo.it-Carlo Freccero-(25 settembre 2021)- ci dice:

Carlo Freccero firma il referendum contro il green pass e interviene negli studi di “In Onda”, sabato 25 settembre per spiegare la sua teoria del reset. Il giornalista, ex direttore di Rai 2, è ospite nel talk show preserale condotto da Concita De Gregorio e David Parenzo, su La 7, per spiegare i motivi per i quali ha deciso di aderire al referendum contro la certificazione verde. In apertura i recenti scontri nelle piazze gremite di movimentisti anti-green pass, Freccero esordisce bacchettando subito i due conduttori: “Io avessi fatto il telegiornale avrei in qualche modo introdotto una pagina molto importante su questo, c'è stato un vice questore della Polizia di Stato a Roma che si chiama Nunzia Alessandra Schilirò che sul palco ha detto 'La disobbedienza civile è un dovere sacro quando lo Stato diventa dispotico', questa è la notizia esplosiva, formidabile, commovente. Beh vuol dire che l’Italia sta cambiando e io sono veramente felice”.

L'inizio di un futuro distopico da incubo. Freccero e la paura del grande reset .

Poi l’autore televisivo prosegue: “La pandemia crea una frattura nella storia, una volta si diceva 'Avanti Cristo'/ 'Dopo Cristo' oggi si dice invece 'Avanti COVID-19'/ 'Post COVID-19'.  Cosa vuol dire questa cosa? Che occorre resettare il mondo che è ormai fallito”.

Secondo Freccero, dunque, non sarebbe stata la pandemia ad aver causato la crisi economica “piuttosto la crisi economica ad avere causato la pandemia, o quanto meno, ad averla amplificata al fine di ultimare il ‘Grande Reset’”. L’ospite continua facendo sapere il motivo che lo ha spinto ad aderire al referendum abrogativo contro il green pass: “Per me è uno strumento di controllo. Io faccio il referendum per un motivo molto semplice perché voglio rispettare la Costituzione. L'articolo 3 della Costituzione. Io non voglio che sia ci siano discriminazioni e la Costituzione difende le minoranze, punto”.

 Anche Freccero è vittima della fatidica domanda dei conduttori: “Professore lei è vaccinato? Qual è la sua posizione in merito ai vaccini?”.

“Se mi sono vaccinato? Io ho parlato con Luc Montagnier (premio Nobel per la medicina, nda) il 12 agosto a Firenze, il quale m'ha detto 'Ti consiglio di non farlo' e io non l'ho fatto molto semplicemente. Quelli del referendum no-green pass e i no-vax sono cose differenti, anzi vi dico una cosa molti no-vax si oppongono al referendum perché anche il referendum è un pezzo del sistema”.

 

 

 

 

Covid: il Great reset e la

 connivenza del quarto potere.

Filodiritto.com-Lorenza Morello- (30 Settembre 2021)- ci dice:

 

Il Green Pass e il concetto di “luogo di lavoro”.

Che il giornalismo d’inchiesta, soprattutto nel nostro paese sia in difficoltà è un dato di fatto, e la pandemia ha peggiorato la situazione. Eppure il giornalismo è un potere, per l’esattezza il “quarto potere”, volto a coadiuvare la democrazia che si basa su tre poteri: legislativo, esecutivo e giudiziario. In altre parole, l’informazione giornalistica dovrebbe essere la sentinella della democrazia.

Sta di fatto però che, in una società in costante divenire dove i cambiamenti si succedono con grande rapidità, anche i media sono soggetti a un’evoluzione, soprattutto in tempi recenti. Il giornalismo sta quindi cambiando, ma ci sono principi cardine che non possono in nessun caso essere soggetti ad “addomesticamenti” dettati dalle circostanze.

Sempre più spesso, però, i giornalisti, anziché cercare le notizie, usano le “veline”, vale a dire le comunicazioni, in molti casi istituzionali, preconfezionate. Sempre più spesso le conferenze stampa sono l’unica fonte di informazione e nel caso di quelle online (imposte dal Covid) sovente senza possibilità di fare domande. I giornalisti quindi si limitano a riportare dati e informazioni senza possibilità alcuna di approfondire (anche laddove volessero farlo, posto che il dovere deontologico di approfondimento sancito dal TU dei doveri del giornalista è ormai largamente disatteso, relegando per i motivi sopra detti la professione di giornalista a quella di passacarte, senza soluzione di continuità).

“Lei si preoccupa di quello che pensa la gente? Su questo argomento posso illuminarla, io sono un'autorità su come far pensare la gente” diceva Orson Welles nel film Quarto potere.

Ed ecco ciò che è stato fatto per mesi tanto in ambito giornalistico quanto in ambito medico (e sul cui tema le procure d’Italia traboccano di ricorsi): si è creato un pensiero unico e una censura a chiunque volesse – semplicemente – andare un po’ più a fondo di tutto ciò che ruota attorno al Covid.

Ed ecco così esplodere i “morti di Covid” e sparire tutte le altre cause di morte (non si sono più contati i morti di infarto, di incidente stradale o di tumore) ma semplicemente nessuno ci ha più fatto caso, perché le trombe della morte squillavano all’apertura di ogni telegiornale o simili e la morte ha cambiato nome, diventando pressoché per tutti sinonimo di Covid.

Che poi i corpi venissero bruciati senza fare autopsie è un tema che, anziché far suonare i campanelli di allarme ai nostri connazionali, ha fatto chiudere le testate che con voce non dico critica ma almeno perplessa si sono permesse di sottolineare questa e le tante altre contraddizioni.

E così il popolo si è radicalmente spaccato in due: da un lato i “dubbiosi” che finiscono automaticamente catalogati come “no vax” perché avere anche solo un dubbio non è ammissibile e il confronto è assolutamente escluso se non con toni denigratori; e dall’altro “gli oltranzisti del pensiero dominante”, probabilmente braccati dalle proprie paure o plagiati da un credo forte che attendevano da tutta la vita di avere – perché evidentemente quello della squadra del cuore non bastava più – hanno preso come un dogma qualsiasi parola uscisse dai governanti di turno. Senza necessità di verifica.

“Chiudetevi in casa”, “uscite solo in certe fasce orarie”, “in piedi mettete la mascherina ma seduti non ce n’è bisogno” (che poi seduti si sia ancora più vicini che in piedi poco importa), per non parlare del vaccino che arriva scortato a -80° ma poi lo somministrano in una piazza assolata a +30° e nessuno nota il paradosso.

Perché “la tivvvù” dice che è così e basta.

E guai a chi, anche vaccinato, solleva dei dubbi o, peggio ancora, si ammala … complottista che non sei altro!

Già, complottista … non fosse che qualche sera fa, Carlo Freccero ha sdoganato un tema che ero certa, questi oltranzisti del potete e delle restrizioni avessero già affrontato nel segreto delle loro mura durante i periodi di clausura (perché, mi dicevo, se io sono riuscita a leggere tutte le fonti sia a favore che contro un certo tema e solo DOPO aver finito la mia analisi mi sono formata un mio personale convincimento, questi che urlano a gran voce il loro odio – con una veemenza mai vista – in faccia a chi la pensi diversamente avranno le loro ragioni, e anche loro certamente avranno letto le fonti che perorano un pensiero così come quelle contrarie).

Ricordiamo peraltro a tutti che “la scienza” che così in tanti invocano, è il risultato delle operazioni del pensiero, e il metodo scientifico è da sempre fondato sul confronto tra tesi diverse, esami di laboratorio, per arrivare ad una formulazione che abbia valore scientifico, appunto.

Ma che la medicina – oggi invocata a gran voce come sinonimo di scienza – non è una scienza esatta. E di comportamenti antiscientifici che hanno caratterizzato questi ultimi 18 mesi – tipo appunto negare le autopsie e bruciare i corpi, tipo la questione della temperatura del vaccino, il nesso causale che nei morti “di Covid” (o con Covid) c’è sempre e nelle morti da vaccino mai ecc. ecc. – saranno pieni i futuri libri di storia.

 

Ebbene, dicevamo appunto di Carlo Freccero, persona di chiara e indiscussa fama sui palinsesti degli ultimi 40 anni (ma lo stesso trattamento da vecchio imbecillemente è stato riservato anche a un premio Nobel come Montagnier quindi non c’è da stupirsi) che, con fare sornione e intelligente presenta alcune letture su cui ha posto attenzione negli ultimi mesi e tra queste cita Il Great reset, libro nato dalla omonima proposta del World Economic Forum (WEF), presentata nel maggio 2020 dal principe Carlo di Galles e dal tedesco Klaus Schwab, per costruire una economia sostenibile per il post pandemia Covid-19.

Ora, posto che il libro lo si trova facilmente in libreria o su internet non starò io qui a raccontarvi di cosa parla, visto che lo stesso Freccero per il solo aver palesato al mondo il fatto che quello scritto esiste si è sentito dare del complottista … direi che abbiamo ormai travalicato i margini del buonsenso e del buongusto. E agli amici (che ritenevo molto colti e informati) che hanno chiamato me dicendo “devo proprio leggerlo il libro di cui parla Freccero” rispondo che mi son cadute le braccia, oltre alla fiducia, perché per mesi vi siete permessi di insultare chiunque avesse una idea diversa dalla vostra e poi scopriamo che lo avete fatto senza nemmeno aver letto tutte le fonti possibili.

Ma chi è il vostro Guru, Topo Gigio? E noi che le idee ce le siamo formate ampiamente ma senza necessità di proselitismo (tanto è vero che la sottoscritta il libro lo ha letto mesi fa così come ne ha letti tanti altri ma non si è di certo permessa di farne un vessillo da propaganda tanto è vero che  non ho nemmeno mai consigliato a nessuno una lettura piuttosto che un’altra ma ho sempre solo detto che bisogna leggere ed ascoltare con senso critico tutto e poi formarsi un proprio convincimento) adesso possiamo finalmente dirvelo, tenete la vostra supponente arroganza a distanza di sicurezza da noi.

«Viviamo in strani tempi dove la letteratura è pubbliche relazioni, dove quel che si produce non conta, basta che venda, dove le relazioni sono virtuali, dove la conoscenza viene uccisa dall’informazione, dove le menzogne sono vendute come verità, dove la dittatura della mente domina la democrazia, dove i cittadini e le menzogne sono al centro dell’universo. La moralità è persa, tutti i criteri sono economici, l’economia mette fuori gioco l’etica e l’estetica... Dove può condurre questo credere solo nell’economia?

Che senso ha, oggi, la parola libertà? Tutto è così poco "libero".» ─ diceva così Tiziano Terzani, in Un’idea di destino (2014). Fortuna per lui che non può più sentire le invettive che – per non rischiare di mettervi in discussione scoprendo (sia mai!) di aver sbagliato – riversereste anche su di lui.

 

 

 

Il grande reset è nudo.

Comolive.it- Alberto Comuzzi-(27 agosto 2021)- ci dice:

Uno studio negli Stati Uniti rivela che le persone più diffidenti alla vaccinazione indiscriminata di massa sono le fasce di popolazione più colta.

(Il grafico dello studio pubblicato dalla Carnegie Mellon University).

Il direttore di Radio Maria, padre Livio Fanzaga, nel corso della sua lettura quotidiana dei giornali, avverte da tempo i propri ascoltatori che è in atto il reset (azzeramento dei popoli per un nuovo ordine mondiale) auspicato da alcune élite economiche (Rockefeller, Bill Gates, Rothschild, Soros & soci).

A suo avviso, però, il disegno di una globalizzazione amministrata da una oligarchia ristretta è destinata ad implodere davanti alla reazione di tanti diversi popoli. Klaus Schwab, fondatore del World Economic Forum che si tiene ogni anno a Davos, in Svizzera, al quale prendono parte i maggiori rappresentanti della finanza mondiale e i vertici delle più importanti multinazionali, ai primi sintomi della pandemia ha teorizzato che «nulla più sarebbe stato come prima», implicitamente confermando che l'umanità si avviava ad un nuovo ordine planetario.

A considerare che il reset sia ardentemente voluto da pochi "illuminati" uomini i quali dispongono di immense risorse economiche è anche suor Teresilla Krefta, direttore editoriale di Mimep Docete, una piccola ma ben strutturata casa editrice cattolica.

Anche la religiosa si sente in sintonia con padre Livio, convinta che il reset sia destinato a fallire perché non conforme al bene dell'umanità e quindi, in una visione cristiana, rassicurata dalla promessa che «le forze del male non prevarranno».

Certo è che gli effetti riscontrabili nel disgregare la famiglia, isolare le persone, limitare le libertà individuali, finora baluardo irrinunciabile della civiltà occidentale, sembrerebbero perfettamente calzanti con il più perfido disegno diabolico. Vale la pena ricordare che il termine "diavolo" deriva dal latino tardo diabŏlus, traduzione del termine greco diábolos, cioè "dividere", "colui che divide".

Sotto questo profilo è interessante notare ciò che sta accadendo, per esempio, in tema di vaccinazioni. Non v'è dubbio che in Italia sta crescendo una diatriba, fin troppo accesa, tra chi è favorevole e chi è contrario a vaccinarsi.

Non c'è categoria sociale o professionale (giovani e anziani, medici, farmacisti, infermieri, insegnanti, politici etc.) che, al proprio interno, non veda individui su posizioni contrastanti.

Desta comunque un certo stupore, che solleva più di un interrogativo, uno studio sulla diffidenza al vaccino in base al livello di istruzione negli Stati Uniti. Il lavoro, pubblicato a fine Luglio dalla Carnegie Mellon University, uno degli atenei più prestigiosi al mondo, conferma che i più restii a vaccinarsi sono i soggetti in possesso del Phd, paragonabile al nostro dottorato di ricerca. Il medesimo studio monitora anche l'andamento, da Gennaio a Maggio del 2021, di questa classifica.

Mentre i vari gruppi al di sotto del Phd (laurea di primo livello, frequenza universitaria senza laurea, diploma, scuola dell' obbligo) mostrano, nel tempo, una diminuzione di tale diffidenza – certamente dovuta alle pressioni mediatiche – gli appartenenti all'élite dell'istruzione hanno un indice di diffidenza costante. In pratica le persone più acculturate del pianeta sono il vero scoglio contro cui l'onda vaccinale corre il rischio di infrangersi.

Non è compito nostro dirimere una questione tanto complessa e dibattuta a livello internazionale, risulta però evidente che stiano segnando il passo i disegni di alcuni globalisti.

È largamente condivisa l'opinione che il mondo sia sottosopra dall'Ottobre 2019, da quando cioè da un laboratorio di Wuhan s'è diffuso un micidiale virus. La confortante voce della Chiesa è sempre più flebile, ma non mancano al suo interno coloro che incoraggiano a mantenere viva la speranza di vedere presto la luce in fondo al tunnel in cui si sarebbe cacciata buona parte dell'umanità.

Tra tante tribolazioni che inducono oggettivamente al pessimismo e alla disperazione, noi diamo fiducia all'ingenua proposta della Chiesa che, nonostante tutto, invita a confidare nel futuro. Preferiamo cioè "sbagliare" con la Chiesa piuttosto che avere ragione da soli.

 

 

 

Omicron, polemiche e sospetti

 aumentano i rischi.

 

Lastampa.it-Piero Bianucci-28 novembre 2021)- ci dice:

La nuova variante Covid doveva chiamarsi Xi, ma la coincidenza con il nome del presidente cinese è sembrata inopportuna. Come informare sulla pandemia? L’infettivologo Matteo Bassetti lamenta che l’Oms abbia dato la notizia ai giornali prima che gli scienziati potessero conoscere i dati.

(Letture per difendersi da fake news e complottismi.)

Su Omicron, l’ultima variante del Covid 19, la polemica incomincia dal nome. L’ha battezzata l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS, Ginevra) saltando due lettere dell’alfabeto greco, la Nu perché in inglese la pronuncia si confonde con “new” e la Xi “per non infastidire la Cina”, dice Matteo Bassetti, infettivologo all’ospedale San Martino di Genova.

 In effetti a Pechino Xi è un nome comune come da noi Rossi o Bianchi, ma soprattutto è il cognome del presidente Xi Jinping. Cosa più grave, aggiunge Bassetti, di Omicron i giornali hanno saputo – e scritto – prima che i dati scientifici fossero comunicati ai virologi. Questo modo di gestire le informazioni, conclude Bassetti, alimenta la confusione e quindi fa aumentare i rischi. Una fonte scientifica unica, autorevole e da tutti riconosciuta dovrebbe evitarlo.

Fonte centralizzata?

Il senatore a vita Mario Monti è d’accordo con Bassetti e va oltre. Guerre ed emergenze globali – dice – legittimano fonti di informazione centralizzate a livello planetario, ma nel caso del Covid esigono anche vaccini non gravati da brevetti per i paesi poveri che non possono permetterseli.

Non si tratta di generosità. Dalla loro salvezza dipende la nostra. Più il virus circola nei paesi poveri, più si moltiplicheranno le varianti, come insegna Omicron, emersa in Sudafrica perché lì hanno gli strumenti per cercarla, ma già prima diffusa in tutti i paesi sottosviluppati limitrofi: Mozambico, Botswana, Namibia, Malawi, Zimbabwe, Zambia. Conclusione: il Sudafrica, che ha reso un servizio al bene comune comunicando subito i dati della variante, è stato punito con la chiusura degli aeroporti, peraltro tardiva perché Omicron era già sbarcata in Italia e in vari paesi europei.

Pretesto da talk show.

Ieri a Torino in via Cernaia sfilava un migliaio di no-vax / non-green-pass. Gridavano “libertà”, come se la libertà fosse un loro fatto personale e non un fatto collettivo che esiste solo nella sicurezza sanitaria di tutti. Intanto va avanti la sarabanda dei media. Da mesi nei talk show serali si pesta l’acqua nel mortaio fino alla noia. Il vaccino esteso ai bambini ora all’esame degli organi competenti li ha rinvigoriti e non viene trattato come un tema scientifico serio ma come un nuovo pretesto per polarizzare le opinioni politiche e far salire gli ascolti. Omettendo i peggiori, non fanno eccezione, sia pure con sfumature diverse, Gruber, Annunziata, Floris, Ranucci, Formigli, Gabanelli. Si salva solo Fabio Fazio.

Due domande chiave.

La domanda è se la variante Omicron sia più contagiosa delle precedenti e se possa “bucare” la barriera del vaccino. Sul primo punto la risposta è sì: là dove compare diventa rapidamente maggioritaria soppiantando la Delta. Lo dimostra chiaramente il grafico in alto. Sul secondo punto si indaga: nel genoma di Omicron 32 mutazioni riguardano la proteina bersaglio dei vaccini, ci vorranno due settimane per capire come stanno le cose. Al momento la cosa certa è che, confrontando i dati attuali con quelli di un anno fa, il vaccino ha evitato almeno 22 mila morti. Se si incomincia a dire che i vaccini non servono, o sono una speculazione delle multinazionali, o che tanto vale non fare la terza dose in attesa che ne arrivi una versione aggiornata, le onoranze funebri avranno parecchio lavoro.

Una scorciatoia.

Contro i pregiudizi ideologici c’è poco da fare. Forse l’unico antidoto è farsi un po’ di cultura su due meccanismi: da un lato quello dei vaccini, dall’altro quello del complottismo. Ci vorrebbe una buona scuola (e non sempre l’abbiamo). In ogni caso, la scuola lavora su tempi di una o due generazioni. Imparare la storia delle pandemie, il funzionamento del sistema immunitario, l’evoluzione biologica, la genetica e la matematica statistica richiede anni di studio. Inoltre, contro la babele delle notizie (l’infodemia del web!), occorrerebbe conoscere gli strumenti e i trucchi della comunicazione, la psicologia di massa e la teoria delle reti che moltiplica e fa girare vertiginosamente i post. In un articolo come questo si può soltanto proporre una scorciatoia: qualche lettura per acquisire le informazioni di base e affinare il senso critico.

Troppo in fretta?

Un argomento diffuso anche tra le persone più razionali fa leva sulla velocità con cui sono arrivati i vaccini anti-Covid. Ci si può fidare di vaccini sviluppati in dieci mesi mentre normalmente sono necessari anni di lavoro? Sono i nostri bambini stanno per diventare cavie di un vaccino sperimentale?

Rino Rappuoli, uno degli esperti di vaccini più accreditati a livello internazionale, in un libro scritto con Lisa Vozza appena pubblicato da Zanichelli spiega in poche pagine ciò che non mi è mai capitato di sentire nelle centinaia di ore di talk show a cui siamo sottoposti. La velocità è frutto di tecnologie rivoluzionarie e di enormi investimenti ed è conseguenza di studi decennali su come l’RNA messaggero dirige la costruzione delle proteine. Dai vecchi vaccini “analogici” che agiscono allenando il nostro sistema immunitario con virus o batteri inattivati, siamo passati ai vaccini “digitali” resi possibili dalla biologia sintetica.

Dall’analogico al digitale.

“Questo tipo di vaccini – chiarisce Rappuoli – è denominato ‘digitale’ perché per la concezione, sviluppo e produzione occorrono soltanto informazioni che viaggiano su Internet e materiali non biologici ma di sintesi.

Da questo punto di vista il sistema di produzione dei vaccini cosiddetti ‘digitali’ è radicalmente diverso da quello con cui si sviluppano i vaccini più tradizionali, detti ‘analogici’, che richiedono invece di manipolare il germe e di farlo crescere in un fermentatore. L’altra grande differenza rispetto ai vaccini tradizionali è che in questo caso si inietta non un vaccino fatto e finito ma una serie di istruzioni (sotto forma di RNA messaggero) affinché le nostre cellule fabbrichino da sole il vaccino stesso”.

Intervenendo alla Settimana “Healthy Aging” organizzata all’inizio di novembre dalla Fondazione Ferrero, per dare un’idea di quanto importante sia questa conquista, Rappuoli ha evocato uno scenario fantascientifico: con la tecnologia a RNA messaggero, se scoppiasse una epidemia tra gli astronauti sbarcati su Marte, basterebbe inviare loro via radio un file con la sequenza del vaccino: la riceverebbero nel tempo-luce di qualche minuto, senza aspettare i nove mesi richiesti da un razzo per l’invio di un vaccino.

Accesso equo per i paesi poveri.

Sul piano economico e scientifico – ricorda Rappuoli – contribuisce alla salute globale la Bill & Melinda Gates Foundation insieme con l’Unicef, l’OMS e la Banca Mondiale dando vita alla Vaccine Alliance, una collaborazione internazionale pubblica, privata e non profit con l’obiettivo di dare un accesso equo ai vaccini nuovi o sottoutilizzati per i bambini che vivono nei paesi più poveri. Eppure, paradossalmente, i cospirazionisti accusano Bill Gates di aver creato e diffuso ad arte la pandemia (sia detto a margine: ben venga la beneficienza, in attesa di far pagare a lui, Bezos, Musk e compagni le giuste tasse nei paesi dove fanno enormi profitti).

Cento volte più delle cellule.

Sulle pandemie completa il discorso Giovanni Maga, direttore dell’Istituto di genetica molecolare dell’Università di Pavia, nella seconda edizione aggiornata di “Occhio al virus” (Zanichelli, 271 pagine, 14,30 euro). Scopriremo che le mutazioni sono il loro mestiere – dell’HIV se ne conoscono centomila, e ciò spiega come mai non esista ancora il suo vaccino - e che tutte le specie di piante e animali da tre miliardi di anni si evolvono in parallelo con queste minuscole strutture organiche al confine tra il vivente e l’inanimato: ognuno di noi porta a spasso sulla pelle e nel proprio corpo 100 volte più virus che cellule. Dal punto di vista numerico si deduce che al 99 per cento siamo aggregati di virus, per fortuna innocui. Questo articolo sui virus, in sostanza, è scritto da virus (conflitto di interessi?), io ci ho messo solo la firma, cioè l’uno per cento.

Quelli delle “scie chimiche”.

Passando agli argomenti cospirazionisti, c’è da segnalare che li esamina con intelligenza e documentazione Paolo Toselli nel saggio “Complottismi” (Editrice Bibliografica, 120 pagine, 9,90 euro). Tralasciamo i capitoli sui terrapiattisti, i negazionisti dello sbarco sulla Luna, gli alieni invasori nascosti tra di noi e i “rettiliani” sui quali si è arricchito il guru inglese David Icke.

Solo due chicche sulle famigerate “scie chimiche” prima di tornare alla pandemia: il Movimento 5 Stelle “organizzò una conferenza sulle scie chimiche a Modena, ma l’intervento di Beppe Grillo in persona ha fatto cancellare il simbolo e il patrocinio dell’iniziativa”; nel 2016 Adriana Poli Bortone (ex ministro di estrema destra in un governo Berlusconi) su Facebook avanzò “il sospetto che la malattia della Xylella che ha colpito i nostri ulivi sia dovuta alle scie chimiche che Usa scaricherebbero sul territorio italiano”.

Il mito del Grande Reset.

Negazionismo e complottismo sostengono o che il Covid non esiste o che è stato diffuso ad arte con fini di speculazione o di dominio. E’ il mito del Grande Reset e del nuovo Ordine Mondiale di cui parla il già citato David Icke. In Africa si è giunti ad accusare l’OMS “di avere in gran segreto contaminato con del veleno il ‘Covid Organics’, una bevanda a base di erbe e artemisia, lo stesso principio attivo dei farmaci antimalarici”.

Non si tratta solo del Red Ronnie imitato da Crozza. Curiosamente, spesso sono persone istruite a rilanciare su basi culturali queste idee neo-millenariste. Qualche giorno fa uno studioso di filosofia medievale autore di decine di libri e centinaia di pubblicazioni scriveva in una mail: “E’ suggestivo notare che tutti i 'resistenti' degli anni '70, hanno abbassato le brache al vaccino... dico 'abbassato le brache', perché quando il vaccino era inoculato nelle chiappe non dava i problemi di mobilità del braccio che sta dando a me, che a breve dovrò ricorrere a terapie medicali per evitare il blocco dell'articolazione. E’ un vaccino ad azione 'mirata': agli intellettuali 'blocca' gli strumenti di lavoro e spalanca gli scenari totalmente 'visuali' preconizzati in Fahrenheit 451”.

Identità gratificante.

“Dal punto di vista psicologico – spiega Toselli – l’adesione a queste teorie è anche una questione di connessione con gli altri. Con il confinamento le persone si sentono isolate, e la cospirazione ti consente di diventare un membro di una comunità, anche virtuale. Condividere queste teorie, che sfidano il discorso dominante, contribuisce a creare una identità gratificante, come espresso chiaramente in questo messaggio postato da un utente Facebook: ‘Ancora una volta toccherà a un piccolo manipolo di irriducibili tenere accesa la fiamma della consapevolezza, della libertà, dell’onore e della dignità. A caro prezzo, come sempre, ma questo è il destino degli eroi, indifferenti ai belati di chi, partecipando del gregge psichico creato dal nemico degli uomini, crede di salvarsi la vita’”.

Il leghista di Aviano.

Il vicesindaco leghista di Aviano (Pordenone) Michele Ghiglianovic ha diffuso innumerevoli post su questa linea: “Non fate il vaccino… metteranno di tutto dentro per farci diventare degli zombie”, “Ci sarà una vaccinazione globale che vi ucciderà”.

 A Bill Gates alludeva monsignor Carlo Viganò, ex nunzio apostolico negli Stati Uniti, che il 25 ottobre 2020 scrisse una lettera aperta a Trump avvertendolo che “è in corso un piano globale chiamato il Grande Reset. Il suo architetto è una élite globale che vuole dominare l’intera umanità, imponendo misure coercitive che limitano gravemente le libertà individuali (…) Dietro questo progetto ci sono personaggi senza scrupoli che finanziano il Forum Economico Mondiale”. Interpretazioni analoghe si trovano nell’intera storia delle pandemie. Basta pensare agli “untori” rappresentati da Manzoni nei Promessi sposi”. E’ facile immaginare quante fake news possano avere origine dal paradigma complottista nell’era del web.

Un microbo sulla Luna.

Chiudiamo con un’ultima lettura, “Piccoli geni. Alla scoperta dei microrganismi” (Hoepli, 148 pagine, 12,90 euro) del biotecnologo Stefano Bertacchi. La suggerisco perché fornisce una visione trasversale di tutto ciò che è piccolo ma importante (virus, protisti, batteri aerobi e anaerobi…) e ancora di più perché mi permette di smentire (rettificare) una informazione sbagliata (non una fake news) che anche io ho contribuito a diffondere. Nel novembre 1969 con la missione Apollo 12 “Pete” Conrad e Alan Bean sbarcarono nell’Oceanus Procellarum vicino al luogo dove quasi tre anni prima era scesa la sonda automatica Surveyor 3. I due astronauti ne smontarono alcune parti e le riportarono a terra, dove la Nasa le esaminò per valutare i danni prodotti dall’ambiente lunare. Nella camera fotografica i tecnici trovarono uno Streptococcus mitis, germe comunissimo e innocuo che tutti abbiamo sulle labbra e nel cavo orale. Al tempo del Surveyor le sonde non venivano sterilizzate prima della partenza, quindi non c’è da stupirsi che con la fotocamera abbiano viaggiato dei batteri. La cosa straordinaria è che lo Streptococcus mitis era vivo dopo tre anni di radiazioni cosmiche e sbalzi di temperatura da + 100 a – 120 °C.

La notizia fece il giro del mondo, finì in pubblicazioni scientifiche, sui giornali e in libri divulgativi, compresi i miei. La scoperta nel 1981 del Deinococcus radiodurans, che sopporta dosi di radiazioni 500 volte maggiori di quelle solitamente mortali, resero meno incredibile la vicenda dello Streptococcus reduce dall’Oceanus Procellarum. Solo indagini più recenti hanno accertato che la contaminazione della camera fotografica avvenne nel laboratorio della Nasa in seguito a manipolazioni maldestre. Ma la storia del microrganismo sopravvissuto per tre anni sulla Luna è così bella che sarà difficile ristabilire la verità.

 

Chi finanzia l'Organizzazione

 Mondiale della Sanità.(OMS).

Ilblive.uniped.it- Antonio Massariolo -(5-2-2021)- ci dice: 

Il 21 gennaio scorso, un giorno dopo l’inizio della sua amministrazione, Joe Biden ha firmato 17 ordini esecutivi.

 Tra questi il neo Presidente degli Stati Uniti ha voluto ribadire come la sua amministrazione voglia fare due importanti passi indietro rispetto all’era Trump: sugli Accordi di Parigi e sull’Oms.

 Questi sono solo due punti di un disegno più grande ma rimangono due punti fondamentali. Gli Stati Uniti infatti sono dei grandi contributori in entrambi i casi. Nel primo lo sono perché sono secondi nella triste classifica di chi emette più CO2 in atmosfera, mentre nel caso dell’Oms lo sono perché di fatto rappresentano uno degli Stati che donano più fondi di tutti all’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Come si finanzia la World Health Organization .

La World Health Organization, o Organizzazione Mondiale della Sanità italianizzando, per finanziare un budget biennale di quasi 7 miliardi di dollari ha due fonti principali: gli Stati membri che pagano le loro quote di adesione ed i contributi volontari che possono arrivare sia dagli stessi Stati membri che da altri partner.

 

La fetta più importante del budget arriva proprio dai contributi volontari specifici, che raggiungono quasi i 4 miliardi e mezzo di dollari. Le altre entrate sono suddivise tra i finanziamenti ai progetti (1 miliardo e 161 milioni di dollari), le quote, cioè i contributi valutati in base al prodotto interno lordo di un Paese che valgono 956 milioni di dollari, cioè il 14% del totale ed in maniera minore dai contributi PIP, cioè i Pandemic Influenza Prepardness, che di fatto sono dei finanziamenti volti a migliorare, rafforzare le capacità di risposta al momento di una pandemia (195 milioni di dollari).

I restanti circa 36 milioni di dollari arrivano sotto forma di contributi volontari (VC), in gran parte da parte degli Stati membri e di altre organizzazioni delle Nazioni Unite, organizzazioni intergovernative, fondazioni filantropiche, settore privato e altre fonti.

Assessed contributions.

Per quanto riguarda i contributi calcolati sulla base del PIL dello Stato, quindi di fatto quelle che potremmo chiamare quote di partecipazione all’OMS, gioco forza che ai primi posti ci siano i Paesi più ricchi. Gli Stati Uniti, che hanno un prodotto interno lordo nominale di oltre 20 mila miliardi di dollari contribuiscono con quasi 240 milioni di dollari all’Organizzazione Mondiale della Sanità (236,911K). Segue la Cina che con un PIL di quasi 13 mila miliardi di dollari “paga” una quota di poco meno di 130 milioni di dollari (129,287K). L’Italia infine, con un PIL inferiore ai 2 mila miliardi è il  settimo contributore per quota dell’OMS (35,614 k).

Voluntary contributions specified(VC).

I dati che abbiamo visto fino ad ora quindi, contribuiscono solamente al 14% circa del totale del budget OMS.

 La maggior parte dei fondi (65,41%) arrivano infatti da delle donazioni volontarie specifiche.

In questo caso non solo gli Stati possono donare dei fondi, ed infatti vediamo come al primo posto tra i grandi donatori ci sia una fondazione, la Bill & Melinda Gates Foundation che ogni biennio dona all’Organizzazione Mondiale della Sanità 551 milioni di dollari (551,589K). Il secondo grande donatore è la Germania con 486 milioni di dollari, seguita da Stati Uniti e Gran Bretagna, rispettivamente con 357 e 298 milioni di dollari.

Nei primi dieci posti poi troviamo anche la GAVI Alliance, cioè l’organizzazione internazionale creata nel 2000 per garantire l’accesso alle vaccinazioni alle aree più povere del mondo, che dona all’OMS 246 milioni di dollari gran parte (66%) incentrati appunto nel programma per garantire l’accesso ai servizi sanitari.

La Commissione Europea è il sesto donatore con 212 milioni di dollari che vanno a finanziare principalmente, per il 68% del totale, il programma che mira a rafforzare la leadership, il coordinamento e il supporto operativo e ad aumentare l'accesso ai servizi sanitari e nutrizionali essenziali nelle situazioni di emergenza sanitaria.

Un finanziamento che si concentra in particolar modo nell’area est del Mediterraneo, ed in particolare su Libano (32%), Sudan (15%), Afghanistan (14%), Giordania (9%) ed Iraq (6%). La donazione della Commissione Europea poi si espande anche in altre 15 aree di intervento, che vanno dalla prevenzione delle epidemie e pandemie (11%) all’eradicazione della poliomelite (4,5%), dalla preparazione dei Paesi per affrontare le emergenze sanitarie alla promozione di politiche sanitarie. Tutti i programmi che sono spiegati nel dettaglio all’interno del sito dell’Organizzazione mondiale della sanità.

L’Italia.

L’Italia, per quanto riguarda i programmi specifici, segue la linea della Commissione Europea. Dei suoi 25 milioni di dollari di donazione la maggior parte è destinata a finanziare il macro programma, del valore superiore ai 2 miliardi di dollari, sull’aumentare l'accesso ai servizi sanitari e nutrizionali essenziali nelle situazioni di emergenza sanitaria.

Altre donazioni.

Una piccola nota interessante. Tra gli enti che finanziano direttamente l’OMS  troviamo anche la Regione Sicilia che, con circa 300mila euro, supporta un più ampio programma da un miliardo di dollari improntato a garantire l’accesso ai servizi sanitari essenziali. Scorrendo la tabella qui sopra si possono leggere tutte le donazioni, dalle più grandi, appunto  Bill & Melinda Gates Foundation, fino alle più piccole che includono anche onlus o enti di istruzione come l’Università di Copenhagen. Agli ultimi posti come donazioni volontarie specifiche troviamo anche il Brasile con 4mila dollari che vanno ad aggiungersi alla “quota” di poco meno di 32 milioni di dollari.

 

 

 

 

Altro che decoupling, Wall Street

parte alla conquista della Cina.

Forbes.it- Tommaso Carboni-(27-10-2020)- ci dice:

 

Quel matrimonio proprio non si doveva fare, e ormai lo dice apertamente anche Joe Biden: lo sfidante di Trump che voleva trasformare la Cina a suon di scambi commerciali, oggi, agli sgoccioli della campagna elettorale, parla di dittatura irreversibile e di minaccia esistenziale per gli Stati Uniti. Ma il divorzio è davvero possibile? Ci sono diverse società americane, tra cui Google, Apple e Microsoft, che stanno trasferendo la produzione in paesi limitrofi come Vietnam e Thailandia, e pensano di spostarsi ancora più lontano, verso l’India, per esempio. La frattura nell’industria tecnologia quindi si allarga, considerando anche l’ostruzionismo recente verso TikTok e Huawei.

Eppure, la verità è che le due economie, americana e cinese, continuano a essere fortemente dipendenti. Per farsi un’idea, l’anno scorso, nel pieno della guerra dei dazi, 500 miliardi di dollari di merci hanno attraversato l’oceano Pacifico, facendo la spola tra i due paesi. Resta notevole il deficit commerciale di Washington nei confronti di Pechino- ad agosto, al massino degli ultimi due anni. E poi sottotraccia, nonostante la retorica di dazi e blocchi agli investimenti, sta accadendo qualcos’altro di davvero significativo: l’espansione di Wall Street nelle piazze finanziarie cinesi.

Con buona pace di Trump, Pechino sta attirando la ricca finanza americana con liberalizzazioni e opportunità sorprendenti. BlackRock, Vanguard, JP Morgan, Goldman Sachs, Morgan Stanley, American Express stanno tutti aumentando o aprendo nuove attività in Cina. Quella di Wall Street, secondo gli esperti, non è bramosia passeggera. E’ una scommessa a lungo termine che il baricentro della finanza mondiale possa spostarsi, lentamente ma con continuità, nel lontano oriente.

La Cina ci sta mettendo del suo: da un paio d’anni ha molto allentato i vincoli che tradizionalmente gravavano sul capitale straniero; prima le finanziarie estere potevano partecipare a joint venture, ma solo con quote di minoranza; ora invece è possibile acquisire una fetta maggioritaria e perfino l’intero pacchetto azionario.

 L’alta finanza americana s’è catapultata tipo api sul miele. Goldman Sachs a marzo ha acquisito il 51%, quindi il controllo, del capitale della sua sussidiaria che gestisce titoli cinesi; ha fatto lo stesso Morgan Stanley; e lo scorso giugno è arrivato il via libera per JP Morgan: amministrerà una società di futures interamente di sua proprietà, l’investimento è di un miliardo di dollari.

Nei servizi di carte di credito si sono mosse American Express, Visa e Mastercard. E prima di loro PayPal: l’anno scorso ha comprato il 70% di GoPay ed è diventata la prima piattaforma straniera a fornire servizi di pagamento online in Cina. Molto dinamici anche i grandi gestori di patrimoni, BlackRock comincia a vendere fondi comuni di investimento, mentre Vanguard ha deciso di spostare la sua sede asiatica a Shanghai.

Il flusso di denaro è consistente. In un anno duecento miliardi di dollari di fondi esteri investiti in azioni e obbligazioni cinesi. Il vantaggio per il momento sembra reciproco. Ci guadagna la Cina che ha bisogno di attirare capitali stranieri per finanziare le sue società, ancora troppo dipendenti da prestiti bancari interni. E ci guadagna la finanza internazionale. Perché la Cina al momento offre qualcosa di davvero raro: una grande economia in crescita e tassi d’interesse più alti che nel resto del mondo, dove sono praticamente a zero da diverso tempo.

E poi ci sono in ballo aspetti strategici di più lungo corso. Uno riguarda l’enorme quantità di soldi in mano ai correntisti bancari cinesi. Questi, secondo Oliver Wyman, colosso americano della consulenza manageriale, nel 2023 avranno a disposizione per gli investimenti 41 trilioni di dollari (erano 24 nel 2019). Per i gestori di patrimonio, anche americani, si tratta di un universo sterminato di potenziali clienti.

 Insomma, la finanza globale se ne infischia della guerra fredda. E se Trump prova a tagliare i finanziamenti delle società cinesi cacciandole dai listini azionari americani (a dir la verità senza molto successo: i collocamenti di aziende cinesi sono addirittura aumentati rispetto agli anni di Obama), Wall Street il capitale lo porta direttamente in Cina, insieme alle tecniche più sofisticate per gestirlo e farlo fruttare.

 Il vero decoupling semmai c’è stato per gli investimenti diretti cinesi nell’economia americana.

Un crollo dell’88 per cento: dai 46,5 miliardi di dollari del 2016 ai 5,4 miliardi del 2018. Questo per via del nuovo regime di sorveglianza delle autorità statunitensi, ma anche per i maggiori controlli sui capitali in uscita da parte di Pechino.

 

E quindi cosa ci riserverà il futuro?

 Una competizione feroce in settori chiave ad alta tecnologia, come intelligenza artificiale e 5G. Qui l’obiettivo americano sarà frenare l’influenza cinese e ridurre al minimo i rapporti tra i due paesi. Anche se vincesse le elezioni il democratico Biden è probabile che ci si muova comunque verso un mondo più diviso, che dovrà scegliere tra sistemi tecnologici diversi.

 I dazi di Trump così potrebbero restare in piedi. I due sfidanti del resto fanno a gara a chi si mostra più severo con i cinesi. “Bisogna separarsi”, ha detto Trump pochi giorni fa.

 “Se non facessimo business con la Cina non perderemmo tutti questi soldi”. C’è un problema, però.

Le aziende statunitensi ancora non hanno molta voglia di tornare a casa. Di duecento società che operano in Cina solo il 4% è disposto a rimpatriare. Lo dice un sondaggio recente della Camera di Commercio americana a Shanghai. E la grande maggioranza delle imprese – oltre il 70% – non ha nessuna intenzione di spostarsi.

 

 

 

 

Alibaba in crisi e patrimonio dimezzato

in 12 mesi: l’anno nero di Jack Ma.

Forbes.it- Matteo Novarini -   (23-11-2021)-ci dice:

Il 27 ottobre 2020, Jack Ma aveva un patrimonio di 66,6 miliardi di dollari: il fondatore di Alibaba non era mai stato così ricco. Oggi – un anno, uno scontro con il governo e una temporanea sparizione dalla vita pubblica più tardi – la sua fortuna si è quasi dimezzata: l’ex uomo più ricco della Cina ha “perso” più di 28 miliardi.

Solo nell’ultima settimana, Ma ha visto sfumare centinaia di milioni al giorno. Mercoledì 17 novembre, infatti, Alibaba ha diffuso i numeri del terzo trimestre del 2021. Le entrate – 31,1 miliardi di dollari – sono state giudicate deludenti dai mercati, nonostante l’incremento del 29% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso.

Il giorno dopo l’annuncio, il titolo ha perso l’11%.

A preoccupare sono soprattutto le prospettive future, dopo che la stessa società ha ammesso che “il contesto normativo” potrebbe “colpire le sue attività”.

Jack Ma e la battaglia con Xi Jinping.

Il “contesto normativo” cui fa riferimento Alibaba è la stretta del presidente cinese, Xi Jinping, contro le grandi aziende tecnologiche.

Una mossa di cui proprio Jack Ma era stato una delle prime vittime.

Poco dopo che la fortuna di Ma aveva raggiunto il suo apice, Pechino aveva bloccato all’ultimo istante l’offerta pubblica iniziale (initial public offering, ipo) di Ant Group, braccio finanziario di Alibaba, per cui era attesa una raccolta record da 34,5 miliardi di dollari. Pochi giorni prima, Ma aveva criticato in pubblico il sistema bancario cinese, a cui aveva attribuito una mentalità da “banco dei pegni”.

Dopo la sospensione dell’ipo, Ma era sparito dalla vita pubblica fino a fine gennaio, aveva smesso di scrivere su Twitter e aveva abbandonato il ruolo di giudice del suo stesso talent show, Africa’s Business Heroes.

In aprile, l’antitrust cinese ha inflitto ad Alibaba la multa più alta della sua storia – 18,2 miliardi di yuan, cioè 2,8 miliardi di dollari – per avere abusato della sua posizione dominante e punito i commercianti che non vendevano in via esclusiva sulle sue piattaforme.

L’ultimo atto dello scontro risale a due mesi fa, quando il Financial Times ha raccontato come Pechino abbia preteso la scissione di Alipay, la ‘super app’ di pagamenti di Ant, e la creazione di un’applicazione separata per le attività di prestiti. Una mossa che, secondo fonti vicine al governo cinese citate dal Ft, aveva come obiettivo il controllo dei dati di un miliardo di utenti.

Il rallentamento della Cina.

Le difficoltà di Alibaba e di Jack Ma si inseriscono nel generale rallentamento dell’economia cinese. Nel terzo trimestre del 2021 il prodotto interno lordo è cresciuto del 4,9% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente: un dato inferiore al 5,2% previsto dagli analisti e al 7,9% del trimestre precedente. Oltre che, come spiega il Corriere della sera, inferiore a quello dei “concorrenti occidentali che era abituata a guardare da lontano”.

La stretta sui grandi gruppi tecnologici ha riguardato, oltre ad Alibaba, anche aziende come Tencent, Baidu e ByteDance (proprietaria di TikTok). Non è, però, la sola ragione della frenata.

Pesano infatti anche le difficoltà nelle forniture energetiche, che hanno indotto il governo a imporre un taglio ai consumi delle industrie, i nuovi focolai di Covid, che hanno portato tra l’altro ad annullare eventi come le maratone di Wuhan e Pechino, e il caso Evergrande.

La seconda società di sviluppo immobiliare del Paese è schiacciata da centinaia di miliardi di dollari di debiti e non rappresenta un caso isolato.

Secondo l’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi), “le difficoltà di Evergrande puntano i riflettori sull’intero settore real estate cinese, che si ritrova in una bolla”.

L’analisi prevede che la crisi “sarà, con ogni probabilità, arginata attraverso una ristrutturazione parziale e ordinata a guida statale”.

Tuttavia, “le proporzioni raggiunte dal settore immobiliare e gli squilibri finanziari dei suoi principali attori evidenziano i profondi difetti del modello ‘build, build, build’ (‘costruire, costruire, costruire’), che ha contribuito alla straordinaria crescita dell’economia cinese e che oggi viene riconosciuto come fonte di pericolo, dal punto di vista sia economico che sociale”.

Il momento di Jack Ma.

Una fotografia del momento di Alibaba, e di come la frenata dell’economia cinese abbia interessato il gruppo, è data dall’ultimo Singles’ Day (l’anti-San Valentino, ricorrenza commerciale molto popolare in Asia che celebra le persone single). L’11 novembre – data composta da soli 1, 11/11 – Alibaba ha registrato vendite per 540 miliardi di yuan (84,5 miliardi di dollari). La cifra più alta di sempre, che rappresenta però un incremento dell’8,4% soltanto rispetto allo scorso anno: il più basso della storia.

Già a giugno Forbes.com aveva pubblicato un articolo intitolato La triste fine di Jack Ma Inc. “Ma era una celebrità mondiale, il cinese più famoso”, si legge. “Secondo alcuni sondaggi, era più famoso di Xi Jinping al di fuori della Cina. Jack Ma era Jeff Bezos, Elon Musk e Bill Gates concentrati in una sola persona. Era il volto della nuova Cina”.

Una fonte del Consiglio di Stato cinese ha paragonato l’intervento del governo sugli affari di Ma all’operazione di “mettere le briglie a un cavallo”.

Ancora Forbes, però, affermava che la metafora delle briglie “fatica a descrivere questa orgia di distruzione di valore. Il ‘cavallo’ ha subito numerose amputazioni, compiute con perizia dal governo cinese”.

Lo scenario.

Certo, Jack Ma, con un patrimonio di 38,2 miliardi di dollari, resta la quarta persona più ricca della Cina e la 34esima più ricca del mondo.

Il rallentamento della crescita dell’e-commerce cinese che ha colpito il suo patrimonio negli ultimi giorni sembra però destinato a proseguire. Qualche settimana fa il South China Morning Post (di proprietà della stessa Alibaba) riportava che “il tasso di crescita del settore nei prossimi cinque anni dovrebbe essere solo un terzo di quello dei cinque anni precedenti”, secondo il 14esimo piano quinquennale cinese per l’e-commerce.

Tre numeri riassumono il risultato di tutti questi fattori: il titolo di Alibaba ha perso il 58% rispetto a quel 27 ottobre 2020, il 50,7% negli ultimi 12 mesi e il 41,6% dall’inizio del 2021. E John Freeman, vicepresidente equity research della società di ricerca Cfra, ha addirittura prospettato a Yahoo Finance “il pericolo di un delisting”.

 Vale a dire, la cancellazione del titolo dal listino di Borsa.

Il primo a pronunciare una profezia sinistra sul destino di Jack Ma, del resto, era stato il diretto interessato. Cinque anni fa, Ma incontrò alcuni insegnanti della Cina rurale e disse: “Credo che, tra le storie degli uomini più ricchi della Cina, poche abbiano un lieto fine”.

 

 

 

 

 

Il re dell’acqua minerale, Jack Ma

 e il padre di TikTok:

chi sono i 100 miliardari più ricchi della Cina.

Forbes.it- Vittorio Mantovani-(4-11-2021)- ci dice :

È stato l’anno del collasso di Evergrande e della stretta del governo contro i colossi della tecnologia. Eppure, i miliardari cinesi non sono mai stati così ricchi. Il totale dei patrimoni dei membri della nuova China’s 100 Richest di Forbes è infatti di 1.480 miliardi di dollari: 150 in più rispetto allo scorso anno.

Un contributo significativo all’aumento, spiega Forbes.com, è arrivato da industrie legate alla transizione energetica, come quello delle batterie agli ioni di litio. La Cina, il più grande mercato mondiale per le automobili, è del resto anche il primo Paese al mondo per vendite di veicoli elettrici.

Chi sono i miliardari cinesi più ricchi.

La persona più ricca della Cina è Zhong Shanshan, il re dell’acqua minerale, con un patrimonio di 65,9 miliardi di dollari. Presidente e fondatore di Nongfu Spring, Zhong ha visto la sua fortuna lievitare nel 2020: se ancora in primavera aveva un patrimonio introno ai 2 miliardi, a ottobre aveva già superato i 50.

Una crescita a cui ha contribuito poi, nel 2021, anche l’investimento in Beijing Wantai Biological Pharmacy, azienda farmaceutica il cui titolo è salito del 76% nell’ultimo anno. Al momento in cui questo articolo va online, Zhong è la 19esima persona più ricca del mondo.

Al secondo posto in classifica c’è Zhang Yiming, che grazie a TikTok ha guadagnato più di tutti nell’ultimo anno: il suo patrimonio è passato da 27,7 a 59,4 miliardi di dollari. Zhang, 37 anni, è anche l’unico under 40 in classifica.

Il podio è completato da Robin Zheng, presidente di un’azienda di batterie – Contemporary Amperex Technology – che a maggio aveva già prodotto ben nove miliardari. Zheng ha un patrimonio di 50,8 miliardi (erano 20,1 un anno fa).

Il crollo di Jack Ma.

La guerra del presidente cinese, Xi Jinping, alle grandi aziende tecnologiche è costata miliardi ad alcuni di coloro che avevano dominato la classifica negli anni scorsi. Il caso Ant Group – il braccio finanziario di Alibaba la cui quotazione è stata bloccata all’ultimo istante 12 mesi fa – ha fatto scivolare Jack Ma dal primo al quinto posto. E il suo patrimonio si è ridotto da 65,6 a 41,5 miliardi.

Un altro sconfitto di quest’anno è Ma Huateng, presidente e amministratore delegato di Tencent. Dopo essere stato il più ricco del Paese per buona parte del 2021, “Pony” si è assestato infine al quarto posto. Il suo patrimonio è sceso da 55,2 a 49,1 miliardi di dollari.

Numeri e record.

In classifica compaiono in tutto dieci donne. La più ricca è Yang Huiyan, undicesima in assoluto, proprietaria del 57% del gigante dell’immobiliare Country Garden Holdings. Yang ha un patrimonio di 27,8 miliardi e, a 40 anni, è la seconda persona più giovane della lista.

Il miliardario più anziano in classifica è He Xiangjian, 79 anni, l’agricoltore diventato re degli elettrodomestici, settimo con 32,1 miliardi di dollari.

Nessuno tra i 100 cinesi più ricchi, dunque, ha 80 anni o più: un dato in controtendenza rispetto al resto del mondo, dove 19 delle 100 persone più ricche sono over 80.

Nel corso dell’anno, la spinta del governo di Pechino per la “prosperità comune” ha portato molti miliardari a donare grosse cifre in beneficenza. Ciò nonostante, oltre alla somma di tutti i patrimoni, si è alzata anche la soglia da raggiungere per entrare nella China’s 100 Richest: quest’anno servivano 5,74 miliardi di dollari, contro i 5,03 del 2020.

La classifica, spiega Forbes.com, è stata stilata sulla base di informazioni ottenute dai diretti interessati e dalle loro famiglie, da analisti, da database privati e da altre fonti. Il valore delle società non quotate è stato calcolato anche tramite confronti con società simili presenti in Borsa. Tutti i patrimoni sono aggiornati al 15 ottobre 2021.

I 10 miliardari cinesi più ricchi.

Di seguito la lista dei 10 cinesi più ricchi (tutte le cifre sono espresse in dollari).

 

1 | Zhong Shanshan

Patrimonio: 65,9 miliardi

Età: 66 anni

Fonte di ricchezza: bevande, farmaci

2 | Zhang Yiming

Patrimonio: 59,4 miliardi

Età: 37 anni

Fonte di ricchezza: TikTok

3 | Robin Zeng

Patrimonio: 50,8 miliardi

Età: 52 anni

Fonte di ricchezza: batterie

 

Patrimonio: 49,1 miliardi

4 | Ma Huateng

Età: 50 anni

Fonte di ricchezza: internet

5 | Jack Ma

Patrimonio: 41,5 miliardi

Età: 57 anni

Fonte di ricchezza: e-commerce

6 | Colin Zheng Huang

Patrimonio: 33,1 miliardi

Età: 41 anni

Fonte di ricchezza: e-commerce

7 | He Xiangjian

Patrimonio: 32,1 miliardi

Età: 79 anni

Fonte di ricchezza: elettrodomestici

8 | Wei Jianjun

Patrimonio: 31 miliardi

Età: 57 anni

Fonte di ricchezza: automobili

9 | William Lei Ding

Patrimonio: 30 miliardi

Età: 50 anni

Fonte di ricchezza: giochi online

10 | Wang Wei

Patrimonio: 28,8 miliardi

Età: 51 anni

Fonte di ricchezza: servizi di consegne

 (guardare la lista completa.)

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