Una rivoluzione non è più sufficiente

 

“Una rivoluzione non è  più sufficiente”.

 

Siamo già in un Regime Autoritario : i Tratti

distintivi si vedono tutti, gli Anticorpi no.

 

Conoscenzealconfine.it -Claudio Martinotti Doria -  Max Del Papa- ( 17 Dicembre 2021)- ci dicono:

 

Siamo già in un regime autoritario: i tratti distintivi si vedono tutti, gli anticorpi no. Il popolo italiano oltre che da cavia fungerà da utile idiota.

Il governo Draghi si è inventato di sana pianta uno stato d’emergenza che non è previsto nell’ordinamento giuridico nazionale, quindi si tratta di abuso di potere per legittimare un regime autoritario che mira a consolidare il proprio potere in maniera autoreferenziale impedendo le elezioni. Chi non vuole capirlo è complice oppure ottuso.

Ma non dobbiamo stupirci di questo andazzo spregiudicato e distopico in quanto il popolo italiano storicamente servile e conflittuale è culturalmente analfabeta funzionale, pertanto si presta facilmente alla manipolazione e al controllo, per questo motivo è stato scelto nel cosiddetto mondo occidentale il nostro paese come laboratorio sperimentale di ingegneria politica e sociale.

Il popolo italiano è abituato a considerarsi suddito anziché cittadino e a invocare concessioni e privilegi dall’autorità anziché difendere i propri diritti e la propria libertà.

 Ecco perché solo una parte minoritaria reagisce mentre la maggioranza subisce. Solo fra alcuni mesi quando la situazione economica si farà pesante e gravosa, anzi insostenibile, per una serie di concause che convergeranno in una specie di “tempesta perfetta”, forse solo allora reagiranno, ma sarà troppo tardi, il danno ormai sarà devastante e irreversibile, ormai la popolazione sarà stata depredata di tutto e ridotta in miseria.                                                        

Ma alcuni pensano che queste affermazioni siano deliranti. Ognuno si illude come meglio crede, salvo poi sbattere la faccia contro la realtà, che non fa sconti a nessuno, meno che mai agli sprovveduti.                                      (Cav. Dottor Claudio Martinotti Doria).

 Max Del Papa :

È il momento di prendere atto che in dittatura ci siamo già.                     Lo Stato democratico è archiviato, quello autoritario di stampo paternalistico è cosa fatta e teorizzata dai giuristi di servizio.                                    

Il Parlamento sopravvive in senso puramente formale, i partiti neanche provano più a difendere un ruolo di cerniera con i cittadini, sono uniti nella sudditanza verso un uomo solo, purtroppo in odor di provvidenza.

Lo stato emergenziale viene sistematicamente prorogato e senza andare per il sottile: si ammette tranquillamente che le procedure sono anomale, che vengono forzate per dare modo al capo del governo di diventare capo dello Stato e c’è chi ipotizza un accorpamento delle cariche che non si vide neanche sotto il fascismo.

I tratti distintivi del regime antidemocratico ci sono tutti:                               la paranoia, con cui stremare le componenti sociali; le misure proibitive per chi non si adegua, che sconfinano nei diritti fino a ieri intangibili;                              l’odio seminato ad arte, fedele alla regola del “divide et impera”; l’isteria con cui annichilire le eventuali resistenze; il ricatto e la demonizzazione dei dissidenti considerati irresponsabili e come tali disfattisti.

L’informazione è asservita, la menzogna sistematica, la propaganda inarrestabile.                                                                                                                                          I numeri, le statistiche vengono manipolati ad uso e consumo del potere, fatti e circostanze risultano o ingigantiti o negati a seconda della convenienza.                                          Guitti e figuranti si prestano alle più miserabili corvée, dire il falso, recitare il falso è ormai attività praticata alla luce del sole e perfino rivendicata. Dai notiziari ai varietà, niente sfugge al conformismo sanitario, al servilismo verso il potere.

Dello Stato etico, ovvero alienato, non mancano le liturgie:                            la “prima” alla Scala si è risolta in una sorta di referendum della sola élite in favore del mantenimento dello status quo e neppure un inevitabile focolaio ha creato imbarazzi di sorta: lo hanno scaricato subito sugli stracci, per dire le maestranze, nessuno ha chiesto se, in quell’assembramento di ricchi e di privilegiati, anche solo uno fosse veicolo del famigerato contagio: non sta bene dubitare di quelli che vivono bene, è sconveniente e sgraziato, gli “inferiori”, come il megadirettore di Fantozzi chiamava i sottoposti, debbono inchinarsi e scusarsi. Di cosa? Di esistere, di prendere bastonate, non solo metaforiche, di essere considerati unti e untori.

Tutto ciò che proibisce al popolo libero di subire, il regime lo concede a se stesso e fa in modo che si sappia: a Bruxelles non si parla di lasciapassare, se un inviato chiede a un parlamentare qualunque se sia vaccinato, se utilizzi il Green Pass, si sente ridere in faccia o minacciare. Una parlamentare di Forza Italia, partito sedicente liberale, si ritrae sui social carica di pacchi natalizi e chiede ai poveracci se possano fare lo stesso o se, da infami, da disgraziati, preferiscano boicottare l’economia.

Il mantenimento dello stato d’eccezione non ha niente di precauzionale, tende a blindare il regime in funzione di elargizioni già spartite a tavolino se mai arriveranno.                                                              E per simili obiettivi, del tutto politici (ma solo se si intende la politica come intrapresa finanziaria), non si esita a “estendere” le misure coercitive: l’emergenza allungata sine die, il Green Pass pure. Non ha funzionato? Diamogliene di più, alla fine si convinceranno. I vaccini non sono risolutivi? Moltiplicateglieli. Le reazioni avverse ci sono e preoccupano?

Basta smentire, basta negare l’evidenza. Le dittature hanno questo in comune, che non si curano degli effetti, pensano all’immediato, un carpe diem del tutto autoreferenziale.

Natale già abortito, disdette dal 60 al 90 per cento, 40-50 miliardi già bruciati nel commercio e nel turismo, ma le scadenze fiscali piombano inesorabili; i costi energetici sono fuori controllo, si parla di blackout, che sommato al lockdown è la morte civile, la “spoon river “senza ritorno, ma a nessuno sembra importare.                           La grande transizione energetica è demenziale: spendere dieci volte tanto oggi per restare al buio e al freddo, sperando di guadagnarci fra venti o trent’anni.

L’Unione europea impone misure sempre più allucinanti, sempre meno tollerabili e non lo fa per caso, sa che può permetterselo, che i singoli Paesi, in particolare l’Italia, non hanno la forza di ribellarsi e non ce l’hanno perché versano in una condizione di dittatura non più mascherata.

Poi si potrà dire che neppure la politica ha più responsabilità, che i regimi dei vari Paesi vengono decisi a tavolino dalle cancellerie europee e queste dall’andamento dei mercati finanziari, ma è un sottilizzare che non cambia le cose: la tutela dei diritti individuali è divenuta una esigenza perfino fastidiosa e chi osa pretenderla è percepito come un provocatore, un sovversivo.

C’è infine un aspetto decisivo che contraddistingue la dimensione autoritaria in atto: è l’uso spregiudicato della comunicazione, sfruttata secondo una strategia precisa e spietatamente efficace, forse non solo di matrice interna: dapprima circondando le rare voci contrarie, quindi stritolandole, poi delegittimandole, infine, una volta sputtanate, oscurandole.

La Rete, i social, propagandati quali veicoli di pluralismo, si sono rivelati strumenti di censura, morse mentali come per la rivoluzione verde iraniana, disinnescata grazie al controllo diffuso su Twitter.

 Si sentono cose incredibili: il dovere di “somministrare” le verità di Stato, l’elogio dello stato d’emergenza a vita senza alcun fondamento. E chi lo dice magari prende finanziamenti pubblici e non si fa scrupolo di risultare osceno:                                                                                                                       a vergognarsi è chiamato chi difende o rimpiange un’idea di libertà.

A forza di ripetere che eravamo in un Paese occidentale, europeo, di solida tradizione democratica, ci ritroviamo senza democrazia e, si direbbe, senza anticorpi: nessuno sembra avere un’idea di come porre fine a questo incubo e questa è la faccenda più agghiacciante.

Max Del Papa . (introduzione di Claudio Martinotti Doria – cavalieredimonferrato.it/).

(atlanticoquotidiano.it).

 

 

 

La parola” patria” un nervo scoperto

per il Pd, abituato a imporre

presidenti di parte e di partito.

Atlanticoquotidiano.it- Franco Carinci- (17 Dic. 2021)- ci dice:

Non credo si dovesse far fatica ad indovinare che cosa Giorgia Meloni intendesse col termine “patriota”, avendolo accompagnato con un doppio riferimento, positivo il primo, attento agli interessi nazionali, negativo il secondo, sprovvisto della tessera del Pd.

 Quest’ultimo è chiarissimo, dato che fa riferimento alla elezione dei due ultimi presidenti della Repubblica, Napolitano e Mattarella:

 l’uno, comunista della prima ora, come tale corresponsabile morale dell’intero percorso staliniano e post-staliniano del Pci, dall’apprezzamento del colpo di stato in Cecoslovacchia fino al soffocamento della rivolta in Ungheria; l’altro, dal lungo corso democristiano, approdato con lo scioglimento della Margherita nel Pd. Nessuno dei due, a prescindere dalla seconda elezione di Napolitano, figlio di un accordo preventivo col centrodestra, sì da far apparire alquanto ipocrita l’attuale rivendica di Letta di scegliere una persona accompagnata da una quasi unanimità, siffatta da richiamare la favola della volpe e l’uva, non essendosi oggi, almeno sulla carta, la possibilità di prescindere da Forza Italia, Lega, Fratelli d’Italia.

È la caduta dell’illusione di poter fare tutto da solo, coltivata ostinatamente, tanto che il vertice del Pd ha giustificato il suo no allo scioglimento anticipato del Parlamento, proprio perché l’attuale sembrava fino all’altro giorno assai più favorevole di quello pronosticato per il dopo elezioni politiche.

Sostenere che, a conti fatti, Napolitano e Mattarella sarebbero stati due presidenti super partes, è solo una opinione che non può dire confermata di per sé dal consenso popolare, che sempre si esprime per l’uomo seduto al Quirinale. Napolitano ha giocato sporco, non così Mattarella, che, però è responsabile dell’attuale ingorgo istituzionale, come da me sostenuto in un articolo precedente.

Dunque, per la Meloni aver in tasca la tessera del Pd significa non essere un patriota nel senso di avere a cuore gli interessi nazionali.

 Grande strepito nei mass media progressisti, che confermano di avere un nervo scoperto con riguardo alla stessa parola di patria, come una comunità unita dalla lingua, dalla tradizione, della cultura, qui da noi testimoniata da un imponente patrimonio monumentale e artistico, non comprensibile se non nell’alveo costituito dall’Impero di Roma e dal successivo primato del cristianesimo, niente più né meno di una unità nazionale figlia del Risorgimento.

Ieri, a tener banco era un internazionalismo sfociato in un terzomondismo di facciata, oggi un europeismo di maniera, in entrambi casi la patria come identità nazionale risulta una nozione priva di diritto di cittadinanza, tanto da averla evitata accuratamente, una espressione di destra, non per nulla cara alla lingua del regime fascista, sì da lasciarla in eredità alla destra.

Troppa grazia, una volta che la parola è stata riscoperta dal presidente Ciampi, c’è stata una sorta di volta faccia, con una forzatura tesa a distinguere patria e nazione, violandone la indissolubilità, recuperando il patriottismo e condannando il nazionalismo.

Ma anche quest’ultimo termine poteva riuscire eccessivo, ecco, dunque, trasformato in sovranismo, che di per sé vale antieuropeismo, inteso come contrasto all’esplicito disegno del Pd di recuperare spazio e credito in un potenziamento ipertrofico dello spazio europeo, gestito da una troika costituita da Italia, Francia Germania.

Ne rappresenta una conferma tutto il can can che si è fatto sull’emergere di Draghi come legittimo successore della Merkel, sì da risultare come un primus inter pares fra il cancelliere tedesco e il presidente francese, con il quale si è concluso il Trattato del Quirinale, tanto celebrato quanto poco o niente pubblicizzato nel suo contenuto.

Sovranismo, in quanto coniugato per la Polonia e l’Ungheria, porta con sé inevitabilmente l’accusa di negazione dello stato di diritto, con particolare riguardo alla indipendenza dei giudici e alla tutela dei diritti civili di nuova generazione. La prima accusa non gode al momento di grande fortuna, data la caduta di credibilità della nostra magistratura colpevole non solo di una incredibile durata dei processi, ma ancor più di una gestione politicizzata della giustizia; ma, comunque viene ancor mossa nei confronti di una destra che vorrebbe la distinzione di reclutamento e di carriera fra giudicanti e inquirenti, non che l’effettiva messa al bando delle correnti. La seconda accusa, invece, è mossa con gran battuta di cassa, con riguardo a diritti dati per scontati, come la libera coltivazione della cannabis, la soppressione del reato di omicidio del consenziente, la introduzione dell’identità di genere, tutte riforme più o meno condivisibili, ma espressione di un individualismo accentuato.

Tutto questo rigurgita nella messa sotto processo della Meloni, questa volta servendosi del suo ricorso al termine patriota, ma serve solo ad evidenziare ancor più lo sfondo, quale dato da un passato non ancora accantonato che di per sé la renderebbe poco e niente affidabile come presidente del Consiglio agli occhi dell’Ue, qui chiamata in causa nel meno nobile compito di far fallire tramite un boicottaggio finanziario una eventuale vittoria del centrodestra, con Fratelli d’Italia a far da traino.

 È quasi patetico il ricorrente tentativo del Pd e compagni di chiedere agli altri ossessivamente di fare i conti col proprio passato, quando essi non l’hanno mai fatto, limitandosi, prima, a rimuoverlo, facendolo partire da Berlinguer, che, alla vigilia del crollo dell’Unione Sovietica, era arrivato solo a ritenere esaurita la propulsione della rivoluzione del 1917; spingendosi, poi, a considerarlo completamente sanato dall’elezione di Napolitano, un vero e proprio comunista d’antan.

L’antifascismo è sempre stato la foglia di fico dietro cui i comunisti e i loro eredi hanno nascosto le loro pudenda, ma questo aveva un senso quando non potevano condividere apertamente il modello di democrazia occidentale, vis-à-vis delle c.d. democrazie progressiste imposte al di là della cortina di ferro.                                                                                      Oggi è divenuta una stanca nenia, volgarizzata in una serie di pamphlet dove il fascismo è scorporato dal suo contesto storico, fino a farne il carattere distintivo di un tipo lombrosiano, dotato di particolari caratteri fisionomici e caratteriali.                          Solo che quando tutto è fascismo, niente è fascismo, sì che oggi, l’attributo fascista è divenuto niente più che un epiteto, collegato a qualsiasi comportamento ritenuto aggressivo o semplicemente offensivo.

Dietro, c’è, però, l’ombra minacciosa di Silvio Berlusconi che, giorno dietro giorno, diventa da possibile, probabile, da probabile sempre più certa. L’ascesa alla presidenza dell’uomo di Arcore significherebbe un autentico dramma per tutta la sinistra, rivaluterebbe interamente la Seconda Repubblica da lui inaugurata, facendo scadere a propaganda faziosa e malevole la caccia condotta nei suoi confronti con a far da regista una procura milanese rivelatasi verminosa; ma renderebbe scontata la vittoria del centrodestra alle elezioni del 2023.                                                     Il fuoco di fila è in pieno corso, certo Berlusconi non è il migliore degli uomini, ma non certo un leader privo di un mitico cursus honoris, cui andrebbe riconosciuto almeno il merito di aver recuperato alla dialettica democratica la destra.

Ma si sa per la sinistra questo non è un merito, ma un demerito gigantesco, un ostacolo alla sua auspicata inesauribile egemonia, a cominciare proprio dalla nomina dei presidenti della Repubblica.

 

 

 

Un bilancio di 30 anni di Unione europea:

il dogmatismo all’origine di tutti i mali e fallimenti

atlanticoquotidiano.it- Fabrizio Borasi-(17 Dic. 2021)- ci dice:

Il 10 dicembre del 1991 – trent’anni or sono – nella città olandese Maastricht (sino ad allora famosa soprattutto per essere il luogo dove morì in battaglia il conte d’Artagnan che avrebbe ispirato A. Dumas padre) veniva raggiunto l’accordo sul Trattato che avrebbe messo fine alle tre Comunità europee istituite negli anni 50 e sulle loro ceneri avrebbe dato vita all’Unione europea.

 Le Comunità europee avevano contribuito (all’ombra della protezione militare fornita dalla Nato) a rendere praticamente inesistente il pericolo di un ulteriore conflitto armato tra i Paesi europei occidentali che erano stati protagonisti delle due guerre mondiali e, sfruttando prima gli aiuti postbellici e poi il rapporto privilegiato con i mercati americani, avevano consentito uno sviluppo senza precedenti del commercio intraeuropeo: in particolare il nostro Paese aveva raggiunto livelli di benessere, di istruzione e di vita sociale mai toccati in passato.

Guardando al nuovo scenario mondiale i leader europei in sostanza decisero che il modello della collaborazione internazionale tra stati indipendenti era da considerarsi inadeguato alla nuova epoca e scelsero di dare vita ad una struttura transnazionale, capace di sostituirsi alle decisioni dei singoli Paesi in maniera sempre più penetrante, e ciò in vista di una progressiva unificazione, in ipotesi prima monetaria ed economica e poi politica, che avrebbe dovuto portare alla creazione di un sistema federale, gli “Stati Uniti d’Europa”.  

L’Italia fu coinvolta pienamente in questo processo ed anzi ne fu influenzata in maniera decisiva: non per nulla (e molti storici collegano le due cose) il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica avvenne in sostanza in coincidenza con la firma ufficiale del Tratto di Maastricht (7 febbraio 1992). 

 Per una curiosa ironia della storia la delegazione italiana era guidata da Giulio Andreotti, colui che rappresentava l’incarnazione vivente della prima Repubblica, quasi che il vecchio mondo in tal modo passasse idealmente le consegne a quello nuovo.

A trent’anni di distanza ci si deve chiedere, manzonianamente, se è stata (ed è) vera gloria. Rispetto alla prima fase, quella basata sulle tre Comunità originarie, come si può valutare lo sviluppo dell’Unione nata a Maastricht, e sempre più formalmente rafforzata da una serie di modifiche dei Trattati?

Partiamo dal caso particolare del nostro Paese. Un altro dei protagonisti della prima Repubblica (almeno della sua fase finale) Bettino Craxi, a metà degli anni 80 nella sua veste di capo del governo si vantava nei confronti del primo ministro britannico Margareth Thatcher affermando che l’Italia aveva superato la Gran Bretagna a livello di produzione economica.                                                                                               Forse esagerava, forse non era tutt’oro quel che luccicava, ma il fatto stesso di accostare un Paese ancora agricolo pochi decenni prima alla patria della rivoluzione industriale la diceva lunga sullo sviluppo seguito in Italia al boom economico e che, sia pure “puntellato” in vario modo ancora perdurava.

Oggi i sudditi della regina Elisabetta II hanno lasciato l’Unione europea e da un lato ospitano la piazza finanziaria più importante d’Europa e dall’altro si avviano a diventare la maggiore potenza industriale del continente, superando la Germania, mentre il nostro Paese (purtroppo) è piombato in una crisi economica che già prima della pandemia era considerata la più grave del dopoguerra;

 l’emigrazione sempre più diffusa dei giovani (non solo dei “cervelli”, ma delle persone “comuni”) è lì a dimostrarlo impietosa. Né la situazione è migliorata a livello di vita civile e democratica.

Stendiamo pure un velo sulla gestione dell’epidemia, ma già da molti anni il ruolo dei governanti non elettivi, dei “tecnici”, molti dei quali legittimati nel loro ruolo dal servizio prestato nelle strutture dell’Unione europea, è diventato dominante e sempre più scelte e decisioni che riguardano la vita associata dei cittadini nonché i loro diritti individuali sono adottate senza un reale dibattito nelle assemblee legislative, che sono chiamate solo a dare una approvazione a posteriori che è quasi sempre poco più che formale.

Non è bello dirlo, ma la situazione nel nostro Paese è peggiorata dal 1991 non solo dal punto di vista economico, ma anche (cosa forse più grave) dal punto di vista della vita civile, sia per quanto riguarda il processo democratico che per quanto riguarda il rispetto dei diritti dei cittadini.

Se ci spostiamo sul piano generale, ragionando a livello continentale, le cose non sono migliori. L’Unione europea, sull’onda del crollo dei regimi comunisti ha inglobato in sé molti nuovi stati, rispetto al 1991, ma la coesione tra i suoi membri (vecchi e nuovi) si è decisamente indebolita, ed anzi si può dire che oggi i Paesi europei sono molto più divisi e in contrasto tra loro di quanto lo erano trent’anni fa.

 A parte l’uscita della Gran Bretagna – che ha rappresentato una grave perdita per un’Europa che vorrebbe essere “casa comune” di tutti i popoli – l’attuale Unione sembra sempre più dividersi (come la Gallia di Cesare) in tre parti, le quali sono contrapposte e per tanti versi “ostili” tra loro, ed hanno ciascuna un diverso modo di porsi di fronte alle regole e alle istituzioni comuni, moneta unica compresa (per i Paesi che si servono di essa).

Da un lato ci sono i Paesi nordici (Germania, Olanda; Paesi scandinavi e baltici, Irlanda) che stanno diventando sostanzialmente “indifferenti” rispetto all’Unione, dato che i loro rapporti economici (leggi esportazioni e importazioni) gravitano sempre più al di fuori della stessa (Stati Uniti, Cina, Asia in genere, Russia), e quando trattano le questioni comuni lo fanno quasi “dall’alto” di una posizione “sicura”, garantita dal fatto che il maggiore peso economico consente loro di condizionare in gran parte la formulazione delle regole giuridiche e la elaborazione delle decisioni politiche a livello continentale.

Privi di una tale forza contrattuale, e quindi da un lato dipendenti in maniera quasi totale dalle scelte degli organi dell’Unione e dall’altro incapaci di determinarne il contenuto, sono invece i Paesi meridionali compresa l’Italia e compresa sempre più la Francia, che si ritrovano privi in maniera crescente di una prospettiva di sviluppo economico e sociale autonomo e devono ricorrere alle “graziose” concessioni europee (approvate dai Paesi nordici) di finanziamenti, non per mantenersi alla pari di quelli, ma solo per non affondare del tutto in una crisi che rischia di portarli a livelli di vita economica e sociale di tipo non occidentale.

Infine ci sono i Paesi orientali (in particolare quelli del cosiddetto gruppo di Visegrád: Polonia, Ungheria, Cechia e Slovacchia), i quali, forti del fatto che rappresentano per gli altri Paesi europei sia dei mercati di esportazione che dei luoghi di conveniente delocalizzazione delle attività produttive, combattono una continua lotta con le istituzioni dell’Unione per adattare le decisioni comuni, limitandone la portata in relazione alle loro rispettive situazioni nazionali, ancora tutte caratterizzate peraltro da una situazione di minore sviluppo economico e sociale, eredità della passata soggezione ai regimi comunisti.

Circola la leggenda che gli uomini politici che approvarono il Trattato di Maastricht non lessero bene le sue clausole; è possibile, ma anche se fosse, sarebbe una cosa poco importante.

Forse è più giusto dire che prevalse allora la visione astratta e dogmatica della realizzazione a tutti i costi dell’Europa unita, vista quasi come il risultato di un processo inevitabile della storia che avrebbe condotto a una società perfetta, guidata da una élite di esperti (di economia, di sociologia, di scienze ambientali ecc.), e che proprio in questo consiste, ad avviso chi scrive, l’origine di tutti mali e degli insuccessi provocati dalla struttura sovranazionale, i quali hanno in parte compromesso le stesse realizzazioni degli anni precedenti portate avanti sotto le tre Comunità degli anni 50: si pensi solo alla grave diminuzione degli scambi commerciali intracomunitari.

 Né si vedono segnali di una modifica di questa impostazione che, così come la mitica Medusa trasformava in pietra gli esseri viventi, allo stesso modo trasforma in dogma tutte le idee anche quelle più valide con cui entra in contatto, e in tal modo le svuota del loro potenziale più grande, quello di fornire la base ad un dibattito empirico, democratico, e rispettoso delle posizioni contrarie e dei diritti di chi non le condivide.

L’introduzione e la gestione della moneta unica (una delle più grandi eredità del Trattato di Maastricht) sono state portate avanti in gran parte ignorando gli avvertimenti e le perplessità degli studiosi e degli esperti pratici di economia, e si sono basate su quello che gli psicologi sociali chiamano “pensiero di gruppo” (basato sulla ricerca del consenso unitario in vista di un obiettivo anziché sulla critica dei risultati e sul confronto tra idee opposte) diffuso tra le élites politiche ed finanziarie del Vecchio Continente.

 La stessa cosa sta avvenendo oggi: non si pensi solo (anche se pure questo fatto è in sé molto grave) ai progetti della Commissione europea di suggerire i nomi per i figli, ma soprattutto alle modifiche coercitive all’utilizzo delle fonti di energia elaborato dalla stessa Commissione, che porterebbe (anche qui contro l’opinione di gran parte degli studiosi delle scienze della terra, nonché di molti operatori pratici, alcuni di sincere convinzioni ambientaliste) addirittura ad eliminare, per le case e le automobili, quelle basate sul petrolio. I danni rischiano di essere peggiori di quelli causati dall’euro: un ulteriore arroccamento e autoisolamento dei Paesi nordici, una decadenza sociale difficilmente reversibile in quelli meridionali e una sempre più accesa conflittualità con quelli orientali.

A ben guardare il grosso male dell’Europa continentale non è stato il nazionalismo (molti nazionalisti erano dei sinceri liberali: si pensi ad esempio ad un Cavour, l’architetto dell’unità d’Italia): il grosso male è sempre stato il dogmatismo, perché la pretesa di conoscere la verità in anticipo porta a considerare inutile il processo democratico (perché decidere a maggioranza se è già tutto chiaro?), a calpestare i diritti individuali (coloro che non comprendono la verità vanno educati), e da ultimo anche a non riconoscere i fallimenti materiali (anche i risultati più avversi non possono scalfire le verità assolute: c’è sempre modo di giustificarli, magari affermando la tesi del “male peggiore evitato”).

L’integrazione e la collaborazione tra i popoli europei sono valori irrinunciabili, ma a parere di chi scrive sarebbe necessario che essi venissero per così dire “de-dogmatizzati”, resi empirici ed affidati alle decisioni democratiche “sovrane” dei cittadini delle diverse nazioni e non a quelle di élites burocratiche condizionate nelle loro scelte dalle posizioni degli stati più “forti” (come detto quelli nordici).

Forse i cittadini dei vari Paesi (compreso il nostro) potranno diventare “più europei” solo se ci saranno “meno” poteri affidati ai burocrati non eletti direttamente dal popolo e soprattutto “meno” dogmi nelle scelte delle classi dirigenti dell’Unione, anche se questo dovesse comportare la necessità (cosa che numerosi esperti, tra cui studiosi “esterni”, americani, indiani ecc. di economia e di politica sostengono) di rivedere e correggere molte delle istituzioni create sulla scia del Trattato di Maastricht, prima di tutte la moneta unica.

 

 

 

 

Il razzismo contro i bianchi dei cultori

del “wokism” e della “cancel culture”.

 Atlanticoquotidiano.it- Michele Marsonet-(16 Dic. 2021)- ci dice:

 

Tra i tanti complessi di colpa che affliggono l’Occidente in questo disgraziato periodo va senza dubbio annoverato quello del razzismo (o, per essere più precisi, del razzismo “bianco”).                                                                                                                      Gli Stati Uniti sono ormai preda di un delirio nato, guarda caso, negli atenei e negli istituti di istruzione superiore, che pretende di leggere la storia americana – e occidentale in genere – unicamente in termini razziali.

I cultori del politically correct e della cancel culture stanno compiendo sforzi degni di miglior causa per convincerci che le nostre società non sono affatto “aperte”, come si pensava.                                                                                                   Esse risulterebbero invece caratterizzate dal “peccato originale” del razzismo, e va da sé che si tratta di un peccato inespiabile. Possiamo soltanto piangere lacrime amare sul nostro passato ed esaltare senza posa altre civiltà immuni da crimini così nefandi.

Ma esistono davvero, o sono esistite in passato, civiltà simili? La risposta è un chiaro “no” se appena si legge la storia privi degli occhiali di comodo forniti dalla cancel culture.

Prendiamo come esempio l’Africa. Nonostante ciò che affermano molti missionari vicini al cattolicesimo di sinistra, i più grandi schiavisti del Continente Nero non sono stati affatto i cristiani, bensì gli islamici. Furono i mercanti di schiavi arabi a creare e poi ad espandere il fenomeno della schiavitù. Senza scordare che i suddetti mercanti non disdegnavano le razzie sulle coste europee per catturare schiavi cristiani.

Eppure non risulta che le nazioni islamiche siano afflitte dagli stessi complessi di colpa che turbano gli occidentali. Al contrario, rivendicano senza problemi la loro storia – incluso lo schiavismo – perché lo giudicano un segno di potenza espansiva che va piuttosto esaltato.

Inoltre le nazioni cristiane iniziarono ben presto a porre limitazioni al traffico degli schiavi, limitazioni spesso accompagnate da scomuniche papali. Nel mentre i mercanti di schiavi islamici continuavano ad arricchirsi mettendo ai ceppi intere tribù africane.                                                                            Nel loro caso nessuna autorità civile poneva limiti e nessuna autorità religiosa si sognava di comminare scomuniche. Segno, questo, di una diversa sensibilità umana che dovrebbe far riflettere i tanti rappresentanti del” wokismo” che siedono in cattedra in America e in Europa.

Mette poi conto notare che negli Usa si sta sempre più diffondendo un razzismo “alla rovescia”, coltivato dai neri ai danni dei bianchi. Come hanno giustamente rilevato parecchi giornali italiani, la grande stampa americana, con il New York Times in testa, enfatizza le violenze dei bianchi ai danni dei neri, ma non vale il contrario. Forse come espiazione del succitato “peccato originale”, si ritiene utile ignorare gli episodi d’intolleranza, e persino i crimini, degli afroamericani ai danni dei bianchi, e portare all’attenzione del grande pubblico soltanto quelli contrari. Lo ha notato, com’è noto, anche Federico Rampini, scrivendo dell’assassinio di un ricercatore italiano presso la Columbia University di New York.

Non pare, per nostra somma sventura, un fenomeno destinato ad esaurirsi in breve tempo, anche se alcuni fatti dovrebbero far riflettere gli intellettuali progressisti. Si pensi per esempio al fatto che le nazioni occidentali stanno facendo il possibile per fronteggiare le ondate di migranti che si riversano sui loro confini. E, in genere, li accolgono pur trattandosi di persone estranee ai valori e alla cultura dell’Occidente.

Nulla di simile accade nelle nazioni islamiche, spesso ricchissime, anche se si tratta di profughi che professano la loro stessa religione e le medesime abitudini di vita. Dobbiamo dunque vergognarci, come spesso ci invita a fare la massima autorità della Chiesa cattolica? A me non pare perché, anche in questo caso, è l’Occidente a impartire lezioni di civiltà ai suoi detrattori e ai loro complici intra moenia.

 

 

 

 

L’Ue sempre più Superstato etico:

meno libertà, più pianificazione socialista.

Atlanticoquotidiano.it- Matteo Bellini-(15 Dic. 2021)- ci dice:

 

Chi critica l’Unione europea è spesso visto da molti come poco credibile, destinato a mandare in rovina il proprio Paese con le sue velleità euroscettiche.                                                                                                                            Il grande problema sta forse nell’aver unito erroneamente l’euro-critica sovranista a quella liberale.                                                                                  Posto che entrambi gli atteggiamenti sono legittimi, spesso è il primo a prevalere e a racchiudere automaticamente anche il secondo.                                                                             Qualcuno potrebbe inoltre obiettare che, in fin dei conti, libertà e sovranità non siano poi così distanti. Concretamente però, si tratta di due valutazioni differenti dell’impianto europeo e che diffidano delle intenzioni dei poteri continentali per ragioni diverse.

Per chi, sul versante liberale, ritiene che l’Unione sia troppo burocratizzata e sempre più incline al centralismo, questo periodo sta offrendo un assist meraviglioso per sostenere le proprie ragioni.

Ci siamo ormai resi conto che l’Ue non vuole rimanere inerme davanti alle nuove religioni ambientaliste e identitarie che, purtroppo, arrivano da un’America in preda all’isteria culturale.

Alla luce delle ultime uscite a dir poco illuminanti della Commissione europea, è inevitabile che da molti fronti arrivino critiche risentite all’indirizzo di Bruxelles.

Già nelle scorse settimane, la reazione dell’opinione pubblica di fronte alla proposta di ridiscutere i termini adeguati alle festività natalizie, declinando alcuni riferimenti religiosi o simbolici in nome dell’ormai abusata “inclusività”, ha costretto i vertici dell’Ue ad un necessario dietrofront rispetto ad una spinta “riformatrice” non richiesta e altamente ridicola.

A questa farsa si è da poco aggiunta una bozza di direttiva che sa di pianificazione socialista e andrebbe ad impattare profondamente la condizione di milioni di famiglie in tutta Europa.

Il titolo che la riassume al meglio è quello di Carlo Lottieri su il Giornale: “Se Bruxelles impoverisce i più deboli”. Come riporta Lottieri, “dal 2027 non sarà possibile vendere né affittare gli immobili che consumano più energia: quelli inferiori alla classe E; e dal 2030 finiranno nella stessa situazione pure gli immobili in una classe inferiore alla C”.

I principali europeisti, spesso fintamente liberali, direbbero che non c’è alcun motivo di allarmarsi, visto che si parla di adeguamenti che verranno compiuti in futuro, ma che sono necessari al fine di garantire quella transizione ecologica imprescindibile per l’avvenire.

 Nessuno nega tale esigenza, ma siamo veramente sicuri che i luminari della transizione tengano conto delle difficoltà delle famiglie e delle imprese nell’adeguarsi ai paletti da loro imposti? Perché di imposizione si tratta, senza girarci troppo intorno.

Se dunque elencassimo tutte le altre brillanti trovate, risulterebbe evidente che questa Europa ha sempre meno connotati liberali e sempre più un’impostazione pianificatrice e socialista. Per non parlare poi del Pnrr che, per l’appunto, è un vero e proprio piano quinquennale, con obiettivi e impegni precisi.

Più si va avanti e più si delinea la sagoma di un Superstato etico che vorrebbe indirizzare il cambiamento, attuando misure che nel breve e nel lungo periodo avrebbero conseguenze non indifferenti sul tessuto sociale ed economico di molti Stati membri.

Ai tanti che, anche da destra, criticano l’Unione europea additandola come emblema del “liberismo selvaggio” e del “turbocapitalismo”, dovremmo perciò ricordare che nell’eccesso normativo e vessatorio dell’Unione non vi è nulla di liberista, bensì il suo contrario.

A chi invece pensa di confermare la propria matrice liberale nell’appoggio incondizionato a Bruxelles, è giunta l’ora di essere chiari: essere liberali non significa diventare automaticamente europeisti dagli occhi bendati.

Anzi, la critica più costruttiva all’Ue è sempre giunta da chi, con lungimiranza, ha cercato di concepire una comunità che tutelasse le libertà nella diversità, preferendola ad un’Unione armonizzatrice dall’inevitabile deriva statalista.

Del resto, se avessimo considerato i suggerimenti di Margaret Thatcher o di altri autorevoli liberali come il prof. Antonio Martino, il Continente sarebbe ben diverso da come si presenta oggi e la fiducia verso le istituzioni europee non sarebbe così vacillante. Proprio l’economista allievo di Milton Friedman ha chiarito che, di questo passo, sarà la stessa Ue ad auto indebolirsi e a rafforzare le velleità antieuropee per definizione, se non proverà ad imboccare una prospettiva diversa:

“Quanti credono nell’Europa devono avversare l’Ue e quanto ha fatto per screditare l’Europa. L’alternativa, niente affatto remota, è che gli antieuropeisti stravincano, spazzando via anche quello che di buono c’è nella costruzione europea”.

 

 

 

 

Stato d’emergenza: carta nella partita per il Colle

 e arma impropria per giustificare “poteri speciali.”

 Atlanticoquotidiano.it- Federico Punzi-(14 Dic. 2021)- i dice:

Stando alle ultime di ieri sera da Palazzo Chigi, il presidente del Consiglio Mario Draghi avrebbe deciso di prorogare lo stato di emergenza e oggi il Consiglio dei ministri dovrebbe assumere la decisione. Si parla di tre mesi, fino al 31 marzo, quindi oltre i due anni ad oggi consentiti dalla legge. Servirebbe dunque un adeguamento normativo.

Ma come abbiamo più volte sottolineato su Atlantico Quotidiano, sull’emergenza China virus si è giocata fin dall’inizio in Italia anche una partita politica: quella per la sopravvivenza della legislatura. 

 Non solo perché deputati e senatori restano aggrappati alla poltrona e agli emolumenti fino all’ultimo giorno utile. La sopravvivenza della legislatura era, ed è fondamentale per la tenuta dell’assetto di potere esistente: bisognava scongiurare a tutti i costi un’elezione anticipata, dalla quale sarebbe potuta uscire una maggioranza di destra in tempo utile per eleggersi, per la prima volta, un proprio presidente della Repubblica.                                                                                                                           Il China virus è stato in questo provvidenziale.

E qui arriviamo alla seconda, più grande partita che nelle ultime settimane si è sempre di più intrecciata con l’emergenza. Altro che contagi e terapie intensive, lo stato d’emergenza come carta da giocare nella partita per il Quirinale. E sappiamo bene che a dispetto di silenzi e retorica, sia il capo del governo dei “Competenti” che l’attuale presidente della Repubblica sono della partita.

Ormai nelle dichiarazioni quotidiane dei politici e nei retroscena dei giornali non si prova nemmeno più a dissimularlo: il dibattito sullo stato di emergenza non segue logiche sanitarie, ma squisitamente politiche.

L’emergenza allontana Mario Draghi dal Colle, quindi sono favorevoli alla proroga i partiti – il Pd su tutti – che lo vorrebbero inchiodato a Palazzo Chigi almeno fino al 2023.

 L’argomento è potentissimo, come ha già spiegato Musso: se siamo ancora in emergenza, allora Draghi non ha ancora completato il lavoro per il quale era stato chiamato a guidare il governo. L’emergenza ancora in corso suggerisce di mantenere l’attuale assetto, con Draghi a Chigi e Mattarella al Quirinale.

Draghi, ovviamente, al Colle vorrebbe andarci subito, quindi resiste. Come? La soluzione studiata nei giorni scorsi, ma a quanto pare naufragata, era di trasformare in ordinari gli strumenti e le strutture emergenziali, che quindi avrebbero potuto continuare ad operare anche senza una proroga formale dello stato di emergenza.

A questo proposito era uscito nei giorni scorsi su la Repubblica un retroscena piuttosto inquietante: struttura commissariale di Figliuolo da spostare sotto la Protezione civile ma con “pieni poteri”; avvalersi del Comando operativo interforze, al cui vertice sta per andare lo stesso Figliuolo, “per le operazioni sul campo”; misure straordinarie da ricondurre all’ordinario; mantenere il sistema a zone colorate, o decretare zone rosse, senza “l’ombrello dell’emergenza”.

Pare che ieri a Palazzo Chigi si siano arresi all’evidenza: risulterebbe, al momento, “non funzionalmente percorribile” il trasferimento della struttura commissariale guidata dal generale Figliuolo all’interno del Dipartimento della Protezione civile a causa delle “farraginosità non coerenti con i tempi di reazione necessari”.

Da qui la decisione di prorogare lo stato di emergenza, presa – tengono a precisare fonti di Palazzo Chigi – “senza condizionamenti dei partiti, ma solo in condivisione con il Cts”.

Una frase per smentire ciò che era apparso sempre più evidente dalle cronache e dai retroscena degli ultimi giorni, e cioè che la decisione di prorogare o meno lo stato di emergenza rispondesse a logiche politiche.                                                                                   Ma è una toppa peggiore del buco. I “condizionamenti dei partiti” fanno parte del gioco democratico, è con i partiti di maggioranza che la responsabilità politica della decisione andrebbe condivisa, mentre Draghi tiene a farci sapere che essa è condivisa solo con il Cts, un organo tecnico. Una “rivelazione” di estrema gravità.

Questo è il momento però di mettere a fuoco l’enorme equivoco sullo stato d’emergenza, che in questi due anni si è ingrossato a dismisura, in parte per l’ignoranza diffusa nella classe politica e nel circo dei media, su cui però qualcuno ha giocato con estrema spregiudicatezza.

La nostra Costituzione non prevede uno stato d’emergenza che assegni al governo “poteri speciali”.

Nel nostro ordinamento, lo stato di emergenza è previsto dal codice di protezione civile e serve unicamente alla Protezione civile e alle strutture commissariali eventualmente create ad hoc per adottare ordinanze in deroga, per esempio, al codice degli appalti (per superare le “farraginosità non coerenti con i tempi di reazione necessari”).

Bisogna distinguere dunque tra lo stato d’emergenza, che ha permesso alla struttura commissariale guidata prima da Arcuri poi da Figliuolo di operare agilmente, e le misure restrittive delle libertà fondamentali adottate dal governo Conte prima e da Draghi poi.

Queste ultime prescindono, dal punto di vista giuridico, dallo stato d’emergenza, ovvero si sarebbero potute adottare anche senza.

I lockdown, il coprifuoco, il sistema a zone colorate, il Green Pass basic e super, tutte le restrizioni non hanno bisogno della copertura giuridica di uno stato d’emergenza, ma di un decreto legge convertito in legge dal Parlamento entro 60 giorni.

 Questo è lo strumento che la Costituzione attribuisce al governo per governare le emergenze. E il primo vaglio di costituzionalità dei decreti legge spetta (o spetterebbe) al presidente della Repubblica che li firma, ma qui si aprirebbe un altro tema…

In pratica, nel nostro ordinamento lo stato di emergenza esiste a livello “amministrativo”, tanto che la legge prevede che sia deliberato dal Consiglio dei ministri, non dal Parlamento.

Tuttavia, è evidente che lo stato d’emergenza ha svolto in questi due anni anche una funzione politica. Può apparire paradossale, dal momento che non ne avrebbero avuto bisogno dal punto di vista giuridico, ma i governi stessi hanno promosso l’idea che le restrizioni, che fossero introdotte per Dpcm o per decreto legge, necessitassero dell’ombrello dello stato d’emergenza. In questo modo, sarebbero state più facilmente approvate dal Parlamento, sostenute dal sistema mediatico e digerite dall’opinione pubblica.

Prendete l’intervista di ieri del consulente del ministro Speranza, Walter Ricciardi. Titolo tra virgolette: “Urgenza da prorogare, a gennaio serviranno scelte forti”.

Ma per queste non serve lo stato d’emergenza del codice della protezione civile, “scelte forti” possono essere assunte con lo strumento ordinario previsto nei casi di necessità e urgenza: il decreto legge.

Nelle parole prima di Conte e poi di Draghi, dei loro ministri e dei media allineati, lo stato d’emergenza che per legge serve solo a rendere più agile le strutture della Protezione civile è stato usato come espressione evocativa di poteri speciali del governo, per giustificare ogni tipo di restrizione senza dover dare troppe spiegazioni, senza supportarle con dati e travolgendo il principio di proporzionalità.

Vitalba Azzollini è stata la prima, già questa estate, a spiegare come lo stato d’emergenza sia stato “snaturato” dal governo Draghi. Nella forma: a luglio, quando è stato prorogato per decreto legge (n. 105), anziché con delibera del Cdm.

E nella sostanza: nel decreto non si richiama più la legge alla base dello stato d’emergenza, il codice della protezione civile (decreto legislativo 1/2018). Non è questione di lana caprina ma di sostanza. In pratica, il governo Draghi in questo modo si è inventato di sana pianta uno stato d’emergenza che non è previsto nell’ordinamento, che resterebbe svincolato dalle regole di riferimento e dai paletti entro cui era stato concepito.

“Gli stessi rappresentanti delle istituzioni – osservava Azzollini – ormai parlano di stato di emergenza in modo improprio, cioè slegato dai vincoli sanciti della legge citata”, con il rischio che in futuro – ma lo vediamo già oggi – ci sia la più ampia discrezionalità nel dichiarare un’emergenza.

A tal punto da poter dichiarare o prorogare uno stato d’emergenza in ossequio ad un principio di “precauzione” che travolga tutti gli altri diritti, o trascorsi ormai due anni dalla comparsa del China virus, non più quindi un evento inatteso ma un problema con il quale convivere e da gestire con strumenti ordinari. Il rischio, paventato ieri da Roberto Pozzo, di uno stato di emergenza permanente senza emergenza, come nei regimi autoritari.

C’è di che preoccuparsi, dunque, a prescindere dalla proroga. È allarmante che sia stato snaturato lo stato d’emergenza a tal punto da far credere che giustifichi qualsiasi restrizione decisa dal governo.

 E ci sarebbe da preoccuparsi anche se non venisse prorogato, ma restassero in vigore i “pieni poteri” al commissario straordinario (“può adottare in via d’urgenza i provvedimenti necessari a fronteggiare ogni situazione eccezionale … in deroga a ogni disposizione vigente”), zone colorate e l’apartheid del Green Pass, “armi” che, si è ben capito, Draghi vorrebbe mantenere e rendere “ordinarie” sine die, a tempo indefinito.

Da uno stato d’emergenza ci troveremmo – e forse già ci troviamo – in uno stato d’eccezione…

 

 

 

 

No, non siamo in guerra. Peggio:

il rischio dell’emergenza permanente.

 Atlanticoquotidiano.it- Roberto Ezio Pozzo- (13 Dic. 2021)- ci dice:

Quello che la pandemia Covid-19 ha causato nel mondo intero può essere analizzato in diversi modi, ma certamente uno degli aspetti meno trattati dai media è l’impatto sulla società in generale e sui poteri statali in senso lato.

 Se, da sempre, dominava una mentalità massicciamente orientata a considerare i governanti quali unici artefici dei destini della gente comune qualcosa è davvero cambiato profondamente in questi ultimi due anni. Oggi impariamo che comanda un virus. Abituati a versare oceani d’inchiostro su come la politica internazionale stesse cambiando il mondo, ci siamo del tutto scordati che nel corso della storia, il mondo è stato più volte scosso e trasformato in profondità da grandi eventi imprevisti quali le guerre, le pestilenze, le carestie di grandi dimensioni.

 

Si potrebbe ben dire di essere stati, noi dell’attuale generazione, molto fortunati a non aver vissuto direttamente le guerre mondiali e di avere, tutt’al più, appreso dai giornali e dalla televisione quali enormi stravolgimenti stessero apportando le recenti carestie in parte di alcuni Continenti, come l’Africa, e buona parte della penisola indiana, ma, tuttavia, tali calamità nazionali non hanno mai interessato il mondo intero.

Il maledetto virus (forse) sfuggito ai laboratori cinesi poco più di due anni fa non pare avere precedenti storici per estensione e per la gravità dell’impatto sociale sulle popolazioni dell’intera Terra.

 Anche nelle ricorrenti grandi pestilenze, come le epidemie di colera, di febbre gialla, di spagnola dei tempi più recenti, nonostante un numero di vittime forse superiore, a quanto sia dato sapere, a quelle del coronavirus, vi sono stati allora Paesi, perlopiù isolati e non “contaminati” dalle popolazioni più evolute, che non hanno conosciuto niente di tutto ciò e la spiegazione è palmare: la limitatissima capacità di viaggiare e spostarsi di allora, assolutamente imparagonabile a quella di oggi. Sta di fatto, comunque, che ciò a cui assistiamo ancora quotidianamente, a fine 2021, ha una caratteristica sociale ben diversa e non ancora studiata a fondo dai sociologi e dai politologi.

Siamo alle prese con qualcosa che non ha risparmiato neppure le più sperdute isolette oceaniche e possiamo tristemente constatare oggi che non vi è nazione, non esiste politica nazionale né consesso di governanti che non abbia dovuto affrontare un male subdolo e potentissimo, contro il quale nessun armamento è minimamente efficace e nessuna politica interna o estera era davvero preparata ad affrontare con efficacia e prontezza.

Questo pare essere l’elemento di maggior spicco nell’attuale panorama mondiale: impreparazione, incertezza, sperimentazione accelerata, ricorso a procedure tipiche dello stato di guerra senza che alcuno l’abbia dichiarata sembrano oggi istituzionalizzate e socialmente accettate. Nemmeno le due guerre mondiali, che, non lo si dimentichi, ebbero una fase precursoria di qualche anno, vennero percepite come qualcosa di sconosciuto, gravissimo, letale e dall’incredibile propagabilità orizzontale.

In tempo di guerra vi è sempre stata qualche forma di ottimismo, sia a livello statale che individuale, per cui si pensava che presto sarebbe finita, con la vittoria di una delle parti belligeranti e mai come in tempo di guerra si è guardato all’inevitabile pace che ne sarebbe seguita. Gli studiosi della società hanno persino classificato la guerra come qualcosa d’immanente e connaturata all’indole umana oppure come una specie di perturbazione ciclica dello stato di relativa quiete tra i popoli, per non parlare delle concezioni più drastiche, come quella di Von Clausewitz (1780-1831) il quale sosteneva che “la guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi”.

D’altra parte, chiunque abbia vissuto qualche anno ed abbia potuto o voluto aprire un libro di storia una qualche idea ha potuto farsela e certamente sono molti quelli che considerano genericamente non impossibile una guerra mondiale nel corso della propria esistenza.

Sia anche detto che delle guerre antiche o moderne sappiamo davvero tanto e che addirittura una guerra in corso si vede oggi dai satelliti e si ascolta in diretta dai media. Tutto ciò dovrebbe spingere a maggiore prudenza i troppi che, semplicisticamente, accomunano l’attuale pandemia ad una guerra. Sono fenomeni talmente diversi e non assimilabili da richiedere una mentalità e contromisure affatto diverse. Si ricorre, tristemente, al paragone con la guerra soltanto per giustificare e far digerire misure coattive e restrittive della libertà personale che un eterno e tacitamente rinnovabile stato d’emergenza giustificherebbe. E qui sta il vero vulnus inferto alla società civile.

Ciò che stiamo (più o meno) affrontando oggi, con la guerra ha pochissimo a che fare e metodi spiccatamente bellici possono essere inefficaci o addirittura controproducenti. D’altra parte, almeno in Italia, la voglia dell’”uomo forte”, magari in divisa, è cosa vecchia e ormai facente parte del nostro folclore, salvo poi gridare al colpo di stato imminente.

 Siamo fatti così: per anni abbiamo sputazzato sulle divise e sul grigioverde in genere ed oggi ci sciogliamo in canti patriottici sui balconi (molti dei quali abusivi) e riteniamo che un medagliatissimo generale comandante dell’ennesima  task force ci salverà dal virus, restituendoci la libertà di tornare a fare a cazzotti sugli spalti del calcio, ma senza mascherina, e di lasciare che i nostri ragazzi si sudino addosso l’un l’altro e si sbronzino in affollatissime discoteche come non ci fosse un domani.

Dire che vogliamo tutto ed il contrario di tutto è poco. Si continua a tirare in ballo la guerra per descrivere ciò che si fa (o non si fa) per combattere il mostriciattolo a forma di mina (unica lontana rassomiglianza con le cose della guerra).

Purtroppo per gli affezionati dei paragoni con la guerra, qui non vi sarà un vincitore né un’alleanza vittoriosa. Ne usciremo tutti sconfitti, e non intendo dire che moriremo tutti, anzi… ma temo che ciò che ci ha letteralmente travolto, come un rullo compressore impazzito, ci porterà a dichiarare, prima o poi, la fine dell’emergenza, di tornare ad una normalità che non sembra semplicissima, perché susciterà infinite dispute perlomeno a livello legale ed economico.

 Vedo, soprattutto, la difficoltà di stabilire quando o cosa possa ipoteticamente nuovamente instaurare uno stato d’emergenza nazionale, con relativa compressione di quelle libertà individuali che tanto abbiamo declamato con la “Costituzione più bella del mondo” alla mano.

Il timore non è del tutto infondato: e se succedesse che si applichi in futuro il ragionamento analogico esteso, quello del “come vi abbiamo recentemente imposto quello e questo per il bene comune, adesso v’imponiamo quest’altro ancora, per lo stesso motivo”?

Che San Green Pass (normale, rinforzato, corretto, potenziato o spaziale) ci aiuti! Ma stiamo rischiando tanto e a forza di paragoni impropri e ragionamenti analogici chissà che non si giustifichi un altro bello stato d’emergenza tra capo e collo, giusto per riaffermare il principio che siamo il Paese più democratico al mondo.

 

 

 

 

 

“La Fabian Society e la pandemia”:

ecco chi prova ad approfittare del Covid

per avanzare la sua agenda politica.

Atlanticoquotidiano.it- Recensioni-(23 Ott. 2021)-ci dice:

 

 Esistono società politiche molto più influenti dei partiti che siamo abituati a conoscere. Società che costituiscono una sorta di “stanza di compensazione” fra la politica, gli intellettuali, i giornalisti e il mondo dell’alta finanza internazionale.

Sono luoghi nei quali si progetta il futuro al riparo dalle piccole beghe quotidiane di palazzo e dalle competizioni elettorali. Il libro scritto da Davide Rossi (autore di vari articoli su Atlantico Quotidiano) “La Fabian Society e la pandemia”, pubblicato da Arianna Editrice, accende i riflettori su uno di questi circoli elitari, appunto la Fabian Society.

Il lavoro di ricerca è iniziato cercando di capire da quali ambienti arrivi e da quali logiche è mosso colui che, nel nostro Paese, ha gestito e sta gestendo politicamente l’emergenza sanitaria, ossia il ministro Roberto Speranza.

La Fabian Society e la pandemia. Come si arriva alla dittatura.

L’uomo che, inspiegabilmente, occupa il ministero chiave della sanità. Che ad un partito inesistente nel Paese e minuscolo in Parlamento quale è LEU (Liberi E Uguali), sia stato assegnato nel governo Conte 2 (quello formato da Pd, Cinque Stelle e appunto LEU) un posto di tale importanza è a dir poco strano. Incomprensibile, poi, che sia stato addirittura confermato nel successivo governo Draghi.

Mancato aggiornamento del piano pandemico, nessun potenziamento dei posti letto ospedalieri, protocollo sanitario anti-Covid che evita, in modo letale per tanti pazienti, le fondamentali cure domiciliari. Il “nostro” ministro della salute è stato capace solo di chiudere tutto, imperterrito.

Perché proprio lui? Abbiamo già visto che viene da una formazione politica numericamente irrilevante, non ha di suo un carisma o una forte personalità, non si è mai occupato di sanità in vita sua.

Insomma, apparentemente non c’è una ragione logica per la quale sia stato nominato in quel ruolo e ne sia stato confermato dopo la rovinosa gestione dell’emergenza.

Nel libro si ricorda come la John Hopkins University abbia certificato che l’Italia è il Paese al mondo con il più alto numero di morti per Covid per 100.000 abitanti. Un disastro, al quale sarebbe dovuta conseguire una cacciata con ignominia, ed invece ha avuto il premio e sta ancora lì.

 

Così, per comprendere, l’autore si è messo sulle tracce della carriera di Speranza e di quella del suo padrino politico, Massimo D’Alema. Sono emersi legami internazionali, rapporti di potere e di denaro ed intrecci imprevisti. Soprattutto, sono emersi collegamenti fra questi personaggi ed un mondo che da oltre cento anni cerca di condizionare la vita delle persone e persegue il controllo delle masse: quello appunto della Fabian Society.

Alcuni membri dell’elite vittoriana di fine ‘800, fra i quali lo scrittore e spiritista Frank Podmore e l’aristocratico Henry Hyde Campione, diedero vita alla Fabian Society. Questo nome, Fabian, è ispirato a Quinto Fabio Massimo il Temporeggiatore, il console romano noto per aver combattuto Annibale e per la sua tattica militare.

 Era detto il Temporeggiatore perché logorava le forze nemiche, evitando scontri in campo aperto, cercando invece una guerra tattica, fatta di atti di guerriglia, di nascondimenti, di avanzamenti e arretramenti. Un prendere tempo per arrivare a colpire in maniera decisiva solo al momento opportuno. In questo modo il generale romano riuscì a sconfiggere Annibale nella battaglia di Naraggara (presso Zama) nel 202 a.C. che mise fine alla Seconda Guerra Punica e segnò, in pratica, la irreparabile sconfitta dei Punici.

È esattamente questa, secondo l’autore, la via attraverso la quale i Fabiani intendono imporre una dittatura collettivistica, uno Stato socialista mondiale che stabilisca il nuovo ordine.

Vogliono instaurare un socialismo guidato da una ristretta aristocrazia del potere, ma non attraverso un atto rivoluzionario immediato quanto piuttosto attraverso il gradualismo, un prendere il potere un po’ alla volta, con riforme da attuare inserendosi man mano nei gangli delle istituzioni esistenti trasformandole, in modo quasi impercettibile, dall’interno.

 Solo quando si saranno realizzate le condizioni ottimali, allora occorrerà dare la zampata finale, colpire duro e se necessario usare anche la violenza per completare l’opera.

George Orwell, l’autore del romanzo distopico “1984”, era uno dei Fabiani più illustri. Quante volte, da quando è scoppiata la pandemia, lo avete sentito citare?

Forse è perché la spaventosa società del controllo da lui descritta in “1984” è quanto di più simile a quanto ci sta accadendo negli ultimi due anni.                                       Il socialismo tecnocratico, della sorveglianza e della manipolazione delle masse è quello che viene descritto da Orwell nelle sue opere ed è, come viene accuratamente spiegato da Rossi nel libro, l’ossessione dei Fabiani.

Un libro che ha due obiettivi. Il primo è quello di delineare il pensiero politico della Fabian attraverso alcuni cenni storici e verificando quali siano gli attuali uomini e le donne di potere che le afferiscono. Il secondo è di analizzare come e quanto la visione del mondo dei Fabiani coincida con quell’epocale tornante della storia nel quale ci è toccato di vivere: la drastica svolta autoritaria imposta al mondo occidentale attraverso l’utilizzo politico dell’emergenza Covid.

Sarebbe stato solo un esercizio culturale, per quanto interessante, quello di un mero approfondimento sulla storia e il potere della Fabian Society. Questo è invece anche un libro politico, che intende entrare e scavare nel pieno dell’attualità per evidenziare la concreta applicazione delle idee fabiane in questa gigantesca sospensione delle nostre libertà fondamentali.

L’autore si è determinato a scrivere questo libro proprio perché la realtà che stiamo vivendo è vicinissima, quasi coincidente, a quella progettata dai Fabiani fin dalla loro fondazione.

 

 

No alla reductio ad Hitlerum:

dalla caccia al non vaccinato

alla caccia a chiunque osi criticare.

Atlanticoquotidiano.it- Federico Punzi-(11 Ott. 2021)-ci dice:

 

Mai avremmo immaginato di sentirci così vicini alla Cgil come in queste ore. Vedere la propria sede (o abitazione) assaltata e saccheggiata è un dolore che nessuno, associazione o privato cittadino, dovrebbe mai provare. Una violenza inaudita, inaccettabile.

Peccato solo che quando ad essere assaltate o vandalizzate sono le sedi dei partiti di destra o i loro gazebi – e la lista degli attacchi, anche nelle recenti campagne elettorali, è piuttosto lunga – non ricorra la stessa indignazione, i leader della sinistra non accorrano a denunciare l’attacco alla democrazia e alla Costituzione a favore di telecamere, e i giornali mainstream se la cavino con un trafiletto in duecentesima pagina…

Noi siamo per la tolleranza zero nei confronti di qualsiasi forma di illegalità, anche delle devastazioni e delle aggressioni politiche solitamente tollerate dal Viminale, e ignorate o persino giustificate dalla sinistra e dai media “amici”.

Ma le violenze di sabato, ce lo ha ricordato Marco Gervasoni su Twitter, sono la dimostrazione di ciò che accade quando un movimento ha sufficiente massa critica ma non ha organizzazione e guida politica. Rischia di essere infiltrato e strumentalizzato da una frangia violenta alla ricerca di visibilità. E consapevolmente o meno, scatenando la legittima azione delle forze dell’ordine, le violenze finiscono per essere perfettamente funzionali alla difesa di ciò contro cui quel movimento si batte.

Sabato scorso, migliaia di manifestanti pacifici con molte ragioni dalla loro parte sono rientrati nella narrazione che li vorrebbe incasellare come minaccia eversiva. Che tutto sia dipeso da poche decine di violenti, che sia stato orchestrato ad arte o sia semplicemente capitato, poco conta: conta il risultato.

Certo, sorprende la facilità con cui da un lato hanno potuto agire gli assalitori della sede della Cgil – la cui presenza e pericolosità tra l’altro era ben nota alle autorità – quasi che la scelta fosse di lasciarli fare, dall’altro con cui i manifestanti venivano caricati e percossi dalle forze dell’ordine anche durante momenti pacifici.                                         A guidare l’assalto, persino un signore “daspato” e sottoposto a sorveglianza speciale, che non potrebbe nemmeno partecipare alle manifestazioni.

Né ci siamo fatti mancare lo strano personaggio che di frequente in queste situazioni di caos si vede nei filmati aggirarsi in borghese ora tra i manifestanti, ora dietro le file della polizia, a picchiare qualche malcapitato fermato.

E certo è che se fosse stata una delle tante manifestazioni della sinistra “no-tutto”, si sarebbe detto che le forze dell’ordine avrebbero dovuto innanzitutto difendere il diritto a manifestare dei tantissimi manifestanti pacifici dai pochi facinorosi provocatori.

Non sappiamo quanto ci sia di studiato a tavolino nella gestione dell’ordine pubblico di sabato scorso, ma sappiamo che da settimane, mesi, è questa la narrazione che il governo, il Viminale, gran parte delle forze politiche di maggioranza e dei media mainstream cercano di accreditare, per criminalizzare chi è contro l’obbligo di Green Pass e osa porre domande scomode: no-green pass uguale no-vax uguale fascisti. Quindi, per la proprietà transitiva, no-green pass uguale minaccia eversiva.

Una equivalenza che è chiaramente una impostura intellettuale, una delle tante e forse la più odiosa a cui ci è toccato assistere durante la gestione italiana della pandemia, ma che è purtroppo uscita rinvigorita dagli scontri di sabato, dopo il flop degli annunciati blocchi no-vax delle stazioni ferroviarie (ricordate?).

 

Nella narrazione mainstream si confonde strumentalmente tra vaccini e Green Pass, attribuendo a quest’ultimo i benefici dei primi. E coerentemente, chi è contrario all’obbligo e per la libertà di scelta viene bollato come no-vax. Ma si può essere a favore dei vaccini e contrari al Green Pass e agli obblighi. Come ha ricordato Daniele Capezzone, questa è esattamente la posizione dei più autorevoli quotidiani conservatori come Wall Street Journal e Telegraph, non pericolosi fascisti…

Il Green Pass non è il vaccino. È il vaccino a proteggere dal Covid, il Green Pass è uno strumento normativo per costringere le persone a vaccinarsi senza assumersi la responsabilità di un obbligo vaccinale e aggirando i paletti costituzionali entro cui un obbligo vaccinale dovrebbe inserirsi.

 E come tale, l’attuale estensione dell’obbligo di Green Pass, persino per lavorare, e persino da remoto, è una scelta tutta politica non solo criticabilissima, ma a cui riteniamo doveroso continuare a opporci. Con le armi della dialettica, della ragione, della libertà d’espressione, della legalità – almeno finché ci sarà consentito.

Ma dopo gli scontri di sabato, assistiamo ad un passo avanti ulteriore: dalla caccia al non vaccinato alla caccia a chiunque, a qualunque titolo, si permetta di avanzare dubbi sull’obbligo di Green Pass. La criminalizzazione non solo di chi non vuole vaccinarsi, di chi scende in piazza a manifestare, ma anche di chi si limita ad esprimere le sue opinioni.

“Chi ha dato copertura ideologica, filosofica, morale e politica a questa follia no green pass in buona fede, sappia che dopo oggi la presunzione di buona fede non vale più”, ha avvertito il giornalista Tommaso Labate con un tweet.

Vietato criticare, vietato dubitare e chiedere conto alle autorità della logica delle loro decisioni. Non basta vaccinarsi. Non basta obbedire. Bisogna anche credere e dimostrare di crederci. Credere, obbedire, vaccinarsi. Se si viene meno ad uno solo di questi imperativi, si rischia di venire accomunati ai violenti, di essere bollati come mandanti morali, come è capitato ieri sera persino a Vitalba Azzollini, una giurista che in punta di diritto non si stanca di sollevare dubbi e perplessità sulle misure governative anti-Covid, obbligo di Green Pass compreso, senza mai dire o scrivere una parola fuori posto e condannando la violenza in ogni forma. Ma non basta. Non basta mai, pretendono la sottomissione completa, il silenziamento di ogni critica.

Ieri sera, via Twitter, a partire da una vignetta mediocre e di cattivo gusto, Vitalba è stata senza mezzi termini accusata dal virologo Burioni, dal giornalista Rai Loquenzi e dal governatore dell’Emilia Romagna Bonaccini di fomentare, con i suoi articoli, i no-vax e quindi di essere pericolosa.

Alle sue repliche si è sentita chiedere da Bonaccini se per caso non abbia la coda di paglia.

Ora, pur essendo su sponde politiche diverse, non si può non riconoscere in Vitalba Azzollini, anche quando siamo in disaccordo, onestà e rigore intellettuale, studio e riflessione, ingredienti preziosi di un sano dibattito pubblico.

Ci accomuna oggi la preoccupazione per gli effetti delle degenerazioni normative anti-Covid sul nostro ordinamento, sulle nostre libertà e in generale sul rapporto Stato-cittadino. Per qualcuno si tratta di sofismi che disturbano i manovratori, per noi le questioni di diritto sono sostanza. Se si riduce tutto alla mera sopravvivenza, allora siamo bestie, non uomini. E questo sì, significa scendere al livello dei violenti.

Se proprio si vogliono cercare responsabilità morali, non si guardi solo a chi legittimamente e fondatamente critica l’obbligo di Green Pass, ma anche ai ministri che godono dei “costi psichici” inflitti, ai mesi di disprezzo e insulti (e menzogne) vomitati addosso ai non vaccinati. Dichiarazioni incendiarie che stanno facendo saltare i nervi a chi già vede fortemente compresse le proprie libertà, il diritto di seguire una lezione in presenza e persino di lavorare.

Ogni giorno, da mesi, sulla carta stampata, via social o dai salotti dei talk show, politici, virologi, giornalisti, persino operatori sanitari sparano a palle incatenate accuse e minacce verso chi non vuole vaccinarsi o semplicemente non ritiene giustificate le limitazioni imposte attraverso l’obbligo di Green Pass: chi li vorrebbe vedere morti o intubati, chi “chiusi in casa come sorci” o “perseguiti come mafiosi”, chi vorrebbe fargli pagare le cure, chi addirittura invoca Bava Beccaris (il generale noto per aver ordinato di sparare sulla folla per reprimere i moti di Milano del 1898), chi appunto si compiace dei “costi psichici” inflitti con la “genialata” del Green Pass.

Una vera e propria “campagna d’odio”. Dunque, non si può incolpare solo una parte del clima infame, della deriva pericolosa…

Basta guardare i dati delle vaccinazioni: l’Italia è tra i Paesi al mondo con le più alte percentuali di popolazione vaccinata (siamo sopra Francia, Germania, Regno Unito e molti altri Paesi europei che hanno rimosso ogni restrizione e obbligo di pass sanitario) e questo senza che l’estensione dell’obbligo di Green Pass abbia determinato rimbalzi significativi rispetto ad una dinamica inevitabilmente in rallentamento essendo ormai vaccinata la stragrande maggioranza degli italiani.

Si è deciso comunque di avvelenare il clima, di dividere gli italiani, introducendo una misura non necessaria, né dal punto di vista sanitario né per la campagna di vaccinazione, la cui unica logica sembra quella di cercare l’umiliazione e la sottomissione di una parte della popolazione

. La maggior parte dei Paesi europei con percentuali di vaccinati simili o inferiori alle nostre hanno riaperto tutto e senza pass. Ma qui ci viene ripetuto fino alla nausea – altra colossale menzogna – che il Green Pass è uno “strumento di libertà”. Certo, se per chi lo impone l’unica alternativa ad esso sarebbero le chiusure e la ricaduta dell’economia…

 

Eppure, se guardiamo al di fuori dei nostri confini, a guidare contromano in autostrada con il suo obbligo di Green Pass sembra il governo italiano.

In Italia “l’obbligo più esteso tra i maggiori Paesi occidentali”, titolava il Wall Street Journal, riferendosi all’obbligo con espressioni come “forza politica bruta” e “inutile accanimento”.

La cosa che ricorda di più il fascismo oggi in Italia è proprio l’obbligo di Green Pass, come ha scritto Zoe Strimpel sul Telegraph, altro che le manifestazioni no-vax…

“In Italia di recente mi sono trovata sconcertata dalla incessante applicazione di regole stupide e invasive. Alcune, ma non tutte, riguardavano il Green Pass del Paese, prova digitale dello status Covid che viene richiesto ovunque, dai treni ai vecchi musei polverosi. Ma quello che mi ha colpito è stato un mood generale di ‘documenti per favore’ per lavorare.

 Con questa rete pronta di esecutori militanti, accecati dal potere ritrovato, non ho potuto fare a meno di pensare al fascismo (o comunismo cinese) e all’effetto della sua influenza straordinariamente recente sui giorni nostri…”

 

 

 

(Quando gli assassini comandano una nazione …).

Operazione Sterminio - il piano per decimare

il sistema immunitario umano con un agente

 patogeno generato in laboratorio.

Unz.com- MIKE WHITNEY • (8 DICEMBRE 2021)- ci dice:

 

"Se qualcuno volesse uccidere una parte significativa della popolazione mondiale nei prossimi anni, i sistemi messi in atto in questo momento lo consentirebbero". Dr. Mike Yeadon, ex vicepresidente di Pfizer.

"E questo è lo spirito dell'anticristo, di cui avete sentito parlare sta arrivando; e ora è già nel mondo." 1 Giovanni 4:2–3

Domanda– Il vaccino Covid-19 danneggia il sistema immunitario?

Risposta– Lo fa. Compromette la capacità del corpo di combattere infezioni, virus e malattie.

Domanda– Se questo è vero, allora perché non sono morte più persone dopo essere state vaccinate?

Risposta– Non sono sicuro di cosa intendi? Il vaccino ha ucciso più persone di qualsiasi altro vaccino nella storia.

"Finora, negli Stati Uniti, il bilancio delle vittime è tre volte superiore al totale di tutti i vaccini negli ultimi 35 anni".     Questo è semplicemente sorprendente.                                                                                                    Abbiamo anche visto un costante aumento della mortalità per tutte le cause e delle morti in eccesso nei paesi che hanno lanciato campagne di vaccinazione di massa all'inizio dell'anno.                                                                                                                                                   A volte l'aumento è fino al 20% rispetto alla media quinquennale.                                                       Questo è un enorme picco di decessi, ed è in gran parte attribuibile al vaccino.                                                                                                                              Quindi, cosa intendi quando dici: "Perché non sono morte più persone"?                                            Ti aspettavi di vedere persone che stringevano i loro cuori e cadevano morte dopo essere stati colpiti?                                                                                                                                             Questa è una comprensione molto ingenua di come funziona l'iniezione.

(Vedi: "Decessi COVID prima e dopo i programmi di vaccinazione",You Tube).

Domanda– Tutto quello che sto dicendo è che la percentuale di persone che sono morte è piuttosto piccola rispetto alle decine di milioni che sono state vaccinate.

Risposta– E tutto quello che sto dicendo è che se il vaccino è un agente patogeno generato in laboratorio – e penso che lo sia – allora certamente non è stato progettato per uccidere le persone sul posto.       È stato progettato per produrre una reazione ritardata che erode gradualmente ma inesorabilmente la salute del vaccinato.

 In altre parole, il pieno impatto dei coaguli di sangue, del sanguinamento, dei problemi autoimmuni e di altre lesioni generate dal vaccino sarà pienamente sentito solo in un secondo momento attraverso l'aumento degli incidenti di infarti, ictus, malattie vascolari e persino cancro.     (Dai un'occhiata all'ultima tendenza delle presenze cardiache da parte dello Scottish Ambulance Service - questo è * in eccesso * al di sopra della norma 2018/19. Enorme picco in estate, 500 chiamate di ambulanza a settimana al di sopra del normale, principalmente di età compresa tra 15 e 64 anni. Si stava sistemando, poi si è ripreso dal tardo ottobre". Scottish Unity – Gruppo di Edimburgo).

Risposta– Il grafico sopra mostra perché i problemi cardiaci hanno raccolto molta attenzione ultimamente, ma il danno al sistema immunitario è ancora più preoccupante.

Domanda– Puoi spiegare cosa intendi senza diventare troppo tecnico?

Risposta– Posso fare di meglio. Posso darti una breve clip da un articolo che copre le ultime ricerche. Dai un'occhiata:

"Uno studio di laboratorio svedese (intitolato "SARS-CoV-2 Spike Impairs DNA Damage Repair and Inhibits V(D)J Recombination In Vitro",NIH) pubblicato a metà ottobre, ha scoperto che la proteina spike ... entra nel nucleo delle cellule e interferisce in modo significativo con le funzioni di riparazione del danno al DNA compromettendo l'immunità adattativa di una persona e forse incoraggiando la formazione di cellule tumorali.

 

"Meccanicamente, abbiamo scoperto che la proteina spike si localizza nel nucleo e inibisce la riparazione del danno al DNA", hanno scritto.       "I nostri risultati rivelano un potenziale meccanismo molecolare attraverso il quale la proteina spike potrebbe impedire l'immunità adattativa e sottolineare i potenziali effetti collaterali dei vaccini a base di spike a lunghezza intera".       ("Spike protein in COVID virus and shots indebolisce il sistema immunitario, può essere collegato al cancro: studio svedese",Lifesite News).

Ciò che i ricercatori hanno scoperto è che la proteina spike blocca la produzione degli enzimi necessari per riparare il DNA rotto che, a sua volta, impedisce la "proliferazione" delle cellule B e T necessarie per combattere le infezioni.

Domanda– Puoi spiegarlo in un inglese semplice?

Risposta– Sicuro. Significa che il vaccino cortocircuita il sistema immunitario che spiana la strada a infezioni, malattie e morte precoce. Forse, pensi di poter avere una vita lunga e felice con un sistema immunitario disfunzionale, ma penso che ti sbagli.        Il sistema immunitario è lo scudo che ti protegge da tutti i tipi di virus, batteri e infezioni potenzialmente letali.                                                                                         Non è solo la prima linea di difesa, è l'unica linea di difesa. In assenza della piena protezione delle cellule B e T per combattere gli intrusi stranieri, le prospettive di sopravvivenza sono nel migliore dei casi minuscole.

Per sottolineare questo punto, guarda questo video del direttore funebre britannico, John O 'Looney, che ha fornito aggiornamenti regolari su ciò che sta vedendo sul campo 10 mesi dopo il lancio della vaccinazione. È un inquietante resoconto della catastrofe che ora si sta svolgendo davanti ai nostri occhi:

(30 secondi) "Quindi quello che stiamo vedendo è un numero innaturalmente elevato di morti a causa di infarto, ictus, aneurisma; e questi sono tutti il risultato della trombosi ... Embolie nei polmoni alle gambe, vari luoghi che stanno causando queste morti che sono ben documentati dai coroner locali e ben documentati in tutto il paese. E nessuno sembra essere preoccupato per l'allarmante aumento di (coaguli di sangue) che ho visto di più in quest'anno che negli ultimi 14 anni....

Questo è un tipo di morte che stiamo vedendo, l'altro tipo sono le persone che si stanno ammalando ora che il loro sistema immunitario finalmente si arrese. Quindi, hanno avuto i colpi di vaccino  forse 6 o 8 mesi fa, e ha mangiato il loro sistema immunitario, e ora stanno lottando per combattere cose come il comune raffreddore.                                                                                                                                        Quindi, siamo in inverno e ci sono raffreddori e influenza in giro e queste persone non possono combatterli.                                                                                                                                              Il governo è molto veloce a etichettarlo come "Omicron"... ma sono malati con il comune raffreddore.       Il loro sistema immunitario è decimato.                                                                                                                           È molto simile a un malato di cancro, che passa attraverso la chemioterapia e decima il loro sistema immunitario.     E devono stare molto attenti perché il comune raffreddore o l'influenza possono ucciderli.

E questo è quello che stiamo vedendo ora...

Sono passati quasi 12 mesi dall'inizio dei primi colpi(vaccini), quindi il loro sistema immunitario sta cadendo a pezzi; questa è la realtà ed è quello che sto vedendo. e non riescono più a sopportare un raffreddore. ... Quando sono andato alla riunione a Westminster a settembre, lo scienziato ha predetto che questo è ciò che sarebbe accaduto e, ecco, è quello che sta succedendo. La gente si ammala e muore..... È spaventoso". ("Omicron è 'danno da vaccino'; non è altro che questo." John Looney, Rumble).

Ha ragione? L'aumento delle vittime NON è un'altra ondata di Covid, ma gli effetti a catena di un'iniezione citotossica che colpisce il sistema immunitario lasciando milioni di persone indifese contro le infezioni e le malattie di routine?

Sembra fattibile e certamente si adatta all'agenda di spopolamento che richiede un ibrido biologico che non uccide il suo obiettivo a titolo definitivo, ma fondamentalmente smantella i sistemi di difesa critici che rendono possibile la sopravvivenza umana.

Mascherando una "proteina killer"come antigene innocuo, i nostri gestori della pandemia sono stati in grado di accedere ai flussi sanguigni di milioni di persone consentendo loro di inserire una bomba a orologeria che devasta le popolazioni cruciali di cellule T e B lasciando le vittime vulnerabili a qualsiasi insetto circoli nella popolazione.

Come osserva Looney, gli scienziati hanno avvertito di questo risultato quando è stata proposta per la prima volta la vaccinazione di massa. Naturalmente, le opinioni opposte sono state ignorate e censurate.    Ecco di più da un documento di ricerca pre-stampa sul server medRxiv. Aiuta a spiegare l'impatto del vaccino sul sistema immunitario:

"I ricercatori nei Paesi Bassi e in Germania hanno avvertito che Pfizer-BioNTech ... (COVID-19) il vaccino induce una complessa riprogrammazione delle risposte immunitarie innate che dovrebbero essere prese in considerazione nello sviluppo e nell'uso di vaccini a base di mRNA.... Dopo la vaccinazione, le cellule immunitarie innate hanno avuto una risposta ridotta al recettore toll-like 4 (TLR4), TLR7 e TLR8 – tutti ligandi che svolgono un ruolo importante nella risposta immunitaria alle infezioni virali.

"Diversi studi hanno dimostrato che le risposte immunitarie innate a lungo termine possono essere aumentate (immunità addestrata) o down-regolate (tolleranza immunitaria innata) dopo determinati vaccini o infezioni". ...

Questi risultati dimostrano collettivamente che gli effetti del vaccino BNT162b2 vanno oltre il sistema immunitario adattativo. Il vaccino BNT162b2 induce anche la riprogrammazione delle risposte immunitarie innate, e questo deve essere preso in considerazione". ... ("La ricerca suggerisce che il vaccino Pfizer-BioNTech COVID-19 riprogramma le risposte immunitarie innate", Rete New-Medical).

Quante persone sarebbero state vaccinate se avessero saputo che avrebbe riprogrammato il loro sistema immunitario?

Probabilmente, nessuno, motivo per cui i nostri funzionari della sanità pubblica non affrontano mai l'argomento.     Tutto ciò che devia anche leggermente dalla narrativa "i vaccini fanno bene" viene omesso dalla copertura mainstream e cancellato sui social media.

Ma le persone non hanno il diritto di sapere cosa sta succedendo, cosa viene iniettato nei loro corpi e quale impatto avrà sulla loro vita e salute?

Non è questo che si intende per "consenso informato" o è un'altra vittima della corsa a inoculare tutti i  7 miliardi delle  persone sul pianeta terra? Ecco una clip da una breve intervista con il patologo, Dr. Ryan Cole:

"Quando diamo questi colpi (inoculazioni), possiamo vedere i tipi di globuli bianchi nel corpo ... e hai una vasta gamma di cellule immunitarie che lavorano insieme per combattere i virus e tenere sotto controllo i tumori. Stiamo già vedendo i segnali in laboratorio di diminuzioni delle cellule T di importanza critica di cui hai bisogno ... nel tuo sistema immunitario innato.       Questi sono i Marines nel tuo corpo; combattere i virus che combattono il cancro.... Ma quello che stiamo vedendo in laboratorio dopo che le persone ottengono questi colpi (vaccini), stiamo vedendo un profilo molto preoccupante bloccato e basso di queste importanti cellule T killer che vuoi nel tuo corpo. (Celle CD8) E quello che fanno, è tenere sotto controllo tutti gli altri virus.

 

Cosa vedo in laboratorio? Sto vedendo un aumento dei virus della famiglia dell'herpes, sto vedendo l'herpes zoster, sto vedendo Mono, sto vedendo un enorme aumento del virus del papilloma umano ... Stiamo letteralmente indebolendo il sistema immunitario di questi individui.

Più preoccupante di tutto, c'è un modello di questi tipi di cellule immunitarie nel corpo che tengono sotto controllo il cancro. Dal 1 ° gennaio (in laboratorio) ho visto un aumento di 20 volte del cancro dell'endometrio rispetto a quello che vedo su base annuale. " ("Patologo Ryan N Cole della Mayo Clinic su ciò che stiamo vedendo nei risultati di laboratorio", Rumble; 2 minuti).

 

"Herpes, herpes zoster, Mono e persino il cancro!" Cosa diavolo sta succedendo? Questo non può essere vero, vero?

Sì, è vero; l'immunosoppressione porta a tutti i tipi di terribili esiti di salute. Alcuni lettori potrebbero ricordare come il vaccinologo canadese Dr Byram Bridle ha fatto affermazioni simili in un'intervista solo poche settimane fa. Ecco cosa ha detto:

"Quello che ho visto troppo sono le persone che avevano tumori che erano in remissione, o che erano ben controllati; i loro tumori sono andati completamente fuori controllo dopo aver ricevuto questo vaccino. E sappiamo che il vaccino provoca un calo del numero di cellule T, e quelle cellule T fanno parte del nostro sistema immunitario e fanno parte delle armi critiche che il nostro sistema immunitario ha per combattere le cellule tumorali; quindi c'è un potenziale meccanismo lì.

Tutto quello che posso dire è che ho avuto troppe persone che mi hanno contattato con questi rapporti perché mi sentissi a mio agio. Direi che questa è la mia più recente preoccupazione per la sicurezza, ed è anche quella che sarà la più sottostima nella base di dati avversi, perché se qualcuno ha avuto il cancro prima del vaccino, non c'è modo che i funzionari della sanità pubblica lo colleghino mai al vaccino". ("Dr Byram Bridle parla",Bitchute, :55 secondo voto).

 

Ancora una volta, quante persone avrebbero deciso di vaccinarsi se sapessero che potrebbe innescare una riacutizzazione di virus dormienti o tumori in remissione? Chi si assumerebbe questo rischio?

Ma non sanno che stanno correndo un rischio, lo fanno, perché non gli è stata detta la verità.                                                                                                                                            E la ragione per cui non è stata detta loro la verità è perché sono un bersaglio in una guerra di sterminio che viene condotta su di loro. A volte è molto difficile per le persone ammettere ciò che sanno essere la verità, ma la verità è chiara da vedere.

 I nostri manager della pandemia e i loro fanti nei media, nella sanità pubblica e nel governo vogliono farci del male, vogliono iniettarci una sostanza misteriosa che causerà il caos sul nostro sistema immunitario e accorcerà le nostre vite.

Questa non è solo una lotta per la libertà personale o l'autonomia corporea, è una battaglia per la sopravvivenza. Stiamo difendendo il nostro diritto alla vita. Ecco di più dall'immunologa virale Dr. Jessica Rose:

"Ci sono studi che escono ora, e ci sono ampi segni nei dati sugli eventi avversi, che questi prodotti (vaccini Covid) non solo immuno-modulano il sistema immunitario e causano iper-infiammazione; ci sono segni ora che stanno molto negativamente influenzare le popolazioni di cellule T CD8.                                                                                                     Per coloro che non lo sanno, questa è una pessima notizia. Finora è solo su poche persone, ma i dati non sembrano buoni finora.                                                                                  Queste cellule T sono le cosiddette "cellule killer".                                                                                                      Il loro lavoro... è quello di uccidere le cellule infettate viralmente che mostrano marcatori estranei sulla loro superficie.                                                                                                              Quindi, se queste popolazioni sono esaurite, allora questa è una pessima notizia, perché non abbiamo una popolazione di cellule nel sistema immunitario acquisito per rimuovere le cellule infettate viralmente. ...

 

Ci sono chiari segni che stanno iniziando ad emergere, che c'è una "sindrome da deficit di immunità" che si sta succedendo a seguito di questi prodotti (vaccini) A seguito di iperstimolazione ... Le cellule T sono (diminuite) e la presenza continua di iniezioni ripetute di una proteina citotossica... Non consiglierei mai e poi mai a qualcuno che è immuno-compromesso di avvicinarsi a queste cose, perché posso quasi garantirti che le tue condizioni peggioreranno.

 Un'altra cosa che stiamo vedendo in VAERS sono i tumori che escono dalla remissione e molti medici lo stanno segnalando sul campo. E – a proposito – questo non è mai successo prima, non su questa scala; nemmeno vicino ... Quindi, c'è qualcosa che sta succedendo qui che merita ulteriori indagini, e non sembra buono". ("L'immunologa virale Dr. Jessica Rose spiega le informazioni preoccupanti che emergono sull'immunità compromessa dei vaccinati", Odysee).

Riesci ancora a vedere il modello? Riesci a vedere come dicono tutti la stessa cosa? Perché, secondo te?

È perché è la verità, la verità pura e non verniciata.

Il punto che stiamo cercando di fare non può essere sopravvalutato: il vaccino è un'arma biologica artificiale generata in laboratorio che disabilita il sistema di difesa critico del corpo che aumenta la suscettibilità alle malattie di molti ordini di grandezza.  Con ogni iniezione aggiuntiva, si è meno in grado di montare una risposta sufficiente a infezioni di routine, influenza o virus. Ciò porterà a uno tsunami di malattie che probabilmente travolgerà il nostro sistema sanitario pubblico e farà precipitare il paese più in profondità nella crisi.

 È questo il piano? È questo che i nostri signori globalisti hanno in serbo per noi?

Vedremo. Ora dai un'occhiata a quest'ultima clip dal video del vaccinologo Geert Vanden Bossche:

 

"La prima cosa che vorrei sottolineare è che il Covid-19 non è una malattia delle persone sane.

Le persone che sono in buona salute hanno un sistema immunitario innato sano che può affrontare un certo numero di virus respiratori senza alcun problema.

Queste persone non solo sono protette contro la malattia, ma possono anche, in molti casi, prevenire l'infezione.   Queste sono persone che possono contribuire a sterilizzare l'immunità e all'immunità di gregge che è molto, molto importante.

Quindi, ascolta: mai, mai permettere a nessuno o qualcosa di interferire o sopprimere il tuo sistema immunitario innato.      Puoi fare un cattivo lavoro da solo conducendo una vita malsana, che sopprimerà la tua immunità innata, ma ancora peggio, sono gli anticorpi indotti dal vaccino che sopprimono la tua immunità innata.

 E questi anticorpi vaccinali non possono sostituirlo perché perdono la loro efficacia contro il virus e diventano sempre meno efficaci. In contrasto con gli anticorpi innati, non possono prevenire l'infezione, non possono sterilizzare il virus. Pertanto, contribuiscono all'immunità di gregge....

Se sopprimiamo questi anticorpi innati nei bambini, potrebbe portare a malattie autoimmuni.

Questo è un assoluto "No go". Non possiamo vaccinare i nostri figli con questi vaccini.                                                                                                                                                            La soppressione dell'immunità innata è già un problema tra i vaccinati, e in effetti avranno difficoltà a controllare una serie di malattie, non solo Covid-19, ma anche altre malattie ... e richiederà un cambiamento molto drammatico nelle strategie per aiutare i vaccinati – e il mio cuore va a loro – perché avranno bisogno di un trattamento esteso in molti casi.

... Potenziarli – il che significa dare loro una terza dose – è assolutamente folle, perché quello che farà, è aumentare la pressione immunitaria degli anticorpi vaccinali, sulla loro immunità innata. Quindi il potenziamento è un'assurdità assoluta; è pericoloso e non dovrebbe essere fatto....

Quindi, cosa ci dice la scienza? Ci dice che è l'immunità innata che ci proteggerà, non il vaccino". ("Geert Vanden Bossche sui vaccini e la soppressione dell'immunità innata", Rumble)

Quindi, ora sappiamo che – insieme ai coaguli di sangue, al sanguinamento, agli attacchi di cuore, agli ictus, alle malattie vascolari e neurologiche – il vaccino è anche progettato per eviscerare il sistema che ci protegge dalla malattia e dalla morte, il sistema immunitario. Quanto ci si deve essere immersi nella negazione per non vedere il male che ora è tra noi.

Vedi anche: Dr. Nathan Thompson - Il vaccino Covid induce l'autoimmunità, Odysee (odysee.com/@EndYourSlavery:8/My-Jaw-DROPPED-when-I-Tested-Someone's-Immune-System-After-the-2nd-Jab:d)

E questo: Sindrome da immunodeficienza acquisita da vaccino (VAIDS): 'Dovremmo anticipare di vedere questa erosione immunitaria più ampiamente'" Americas Frontline Doctors: (americasfrontlinedoctors.org/news/post/vaccine-acquired-immune-deficiency-syndrome-vaids-we-should-anticipate-seeing-this-immune-erosion-more-widely/).

 

 

 

Cambio di narrazione: ora non è più “colpa dei no vax”.

Il green pass non basterà più?

Visionetv.it-Don Quijote- (17- 12 -2021)- ci dice:

La narrazione televisiva è cambiata ieri, giovedì 16 dicembre. In due trasmissioni in prima serata – Otto e Mezzo di Lilli Gruber su La 7 e Diritto e Rovescio su Rete 4 – si è detto che i vaccinati possono contagiarsi, contagiare ed ammalarsi.

Addirittura durante Diritto e Rovescio il sottosegretario alla Salute Sileri ha affermato che l’attuale ondata di Covid non è colpa dei non vaccinati. Un dietrofront netto rispetto a quanto diceva neanche dieci giorni fa e rispetto a quanto hanno finora ripetuto politici e virostar.

Parallelamente, la prima parte di Otto e Mezzo si è occupata di Covid con l’immunologa Antonella Viola. Quest’ultima ha enunciato “papale papale” una cosa stranota ma che i grandi media hanno sempre cercato di nascondere sotto il tappeto: l’efficacia della vaccinazione si riduce nel giro di pochi mesi.

Qualche tempo fa Mediaset minacciava fuoco e fiamme contro la sua stessa Diritto e Rovescio e contro  Fuori dal Coro, accusati di scarso entusiasmo vaccinale. Lo faceva per adeguarsi alla narrazione dominante ed agevolare, si disse, il tentativo di Berlusconi di insediarsi al Quirinale.

Peraltro almeno già dall’estate scorsa ovunque – tranne sui giornaloni, nei talk show e nei discorsi di Draghi – si diceva a chiare lettere ciò che hanno detto nei talk show di ieri sera: che i vaccini perdono efficacia col tempo.  Cosa è cambiato? Un soprassalto natalizio di onestà? Una presa d’atto della pura realtà certificata addirittura dall’Istituto Superiore di Sanità? Magari… Ma magari preparano il terreno ad ulteriori restrizioni.

Depongono il questo senso sia l’obbligo di tampone negativo per entrare in Italia dall’estero (il vaccino ora non basta più) sia la sortita del presidente del Consiglio Superiore di Sanità, che sempre ieri ipotizzava il tampone anche ai vaccinati per partecipare a grandi eventi.

Dunque probabilmente è vicina una svolta nell’approccio gestionale all’epidemia. Probabilmente il green pass – da solo – non basterà per fare una vita normale: neanche in versione super. Burioni ora dovà pagare Netflix anche ai vaccinati.

(DON QUIJOTE).

 

 

FRA ANTICONFORMISMO E RIVOLUZIONE.

Bloccostudentesco.org- Bianca-( Nov 16, 2021)- ci dice:

Rivoluzione: una parola che sta scomparendo e che troppo spesso è usata a sproposito. Quanti oggi parlano di rivoluzione contro un sistema dominante colpevole di una qualche mancanza nei confronti di una certa categoria?

Tanti, o meglio dire, troppi. Noi sappiamo per certo che, per conto nostro, si può (in realtà si deve) parlare ancora di rivoluzione, ma la questione riguarda in maniera particolare chi si riempie la bocca di questa parola, abusandone e costituendo un’offesa a chi veramente ha combattuto, pagando anche con la vita, per un’idea.

Il concetto di rivoluzione, di fatto, si sta riducendo a un termine ripetuto da chi si crede più alternativo degli altri, dove “rivoluzione” è semplicemente una parola un po’ più forte di “cambiamento” che viene utilizzata per indicare ogni atto di ribellione che si definisce essere contro il sistema.

 Nell’attualità sembra essersi ormai snaturato e sembra aver perso quello slancio di rabbia e identità che caratterizzava la rivoluzione come motore rinnovatore del mondo. Quindi quale momento migliore di questo per fondarne nuovamente il significato?

Non è una gara a quale schieramento ideologico sia più o meno rivoluzionario. La risposta sta semplicemente nel rapporto di queste ideologie con l’attualità, come agiscono e come si sviluppano in rapporto a essa e al sistema dominante. È questa differenza che sancisce il limite fra la rivoluzione vera e propria e un mero anticonformismo individualista fine a sé stesso.

L’anticonformismo denigra il suo tempo etichettandolo come “fobico” e quindi lo rifiuta, se ne allontana, finendo inevitabilmente per isolarsi del tutto dal presente. Parla di attualità fino ad esasperarla (pensiamo alle tre famose paroline “ancora nel 2021…”), ma non cerca di comprenderla o non vuole farlo, vivendo nella speranzosa attesa di un futuro più inclusivo e radioso.

Al contrario la rivoluzione è protagonista assoluta del suo tempo: non ne prende le distanze, ma vuole ribaltarne gli attributi e far prevalere i propri. Non agisce in nome del progresso di un qualche “domani” ma vuole colpire subito, adesso, per vincere nella realtà effettiva. È una forza rinnovatrice capace di sostituire il pensiero dominante con una cultura e un’identità alternative, figlie del presente. È consapevole della propria volontà di potenza, perché pur vivendo nell’attualità riesce a vedere oltre a essa.

L’anticonformismo nasce invece da un atto di repulsione che è passivo e sterile, incolpando la realtà attuale della sua presunta inferiorità, assumendo spesso e volentieri degli atteggiamenti vittimistici dove più si è discriminati e “deboli”, più si è legittimati a ribellarsi contro il sistema. Per questo finisce inevitabilmente per dipendere dallo stesso sistema contro cui tanto si accanisce. Non potrà mai essere un’alternativa alla cultura dominante, ma sviluppa una sub-cultura che è un’appendice del pensiero unico.

Quindi, in parole povere, il tanto sovversivo anticonformismo non può esistere senza il pensiero dominante che propone di abbattere. Il solo esempio dei social è sufficiente per capire quanto la decantata ribellione di certi individui sia fine a sé stessa: la massima realizzazione della giustizia sociale diventa una bandierina colorata in più nella tastiera o la possibilità di cancellare un profilo per “incitamento all’odio” per il solo uso di una parola in un commento sotto a un post.

L’anticonformismo non si sottrae agli strumenti del sistema che critica ma li conforma alla sua fragile sensibilità, elemosinando il riconoscimento esterno del suo essere una minoranza. Vive di un’idea destinata a essere inevitabilmente sostituita dall’idea successiva più conforme alle nuove tendenze.

La rivoluzione, diversamente, si rifà a un pensare e non a un pensiero, a un metodo di azione che fa riferimento alla sua identità e non dipende da altri. Esiste appunto perché è nata contro e nonostante il sistema, ed è capace di affermarsi anche senza gli strumenti di quest’ultimo (com’è il rapporto fra la militanza politica e i social: questi ultimi sono un mezzo utile alla diffusione del nostro agire, senza che quest’ultimo dipenda da essi, che quindi non sono fondamentali per la politica da strada).

 

A fronte di tutto ciò, si potrebbe dire che le idee anticonformiste non solo sono destinate a morire, ma non sono mai state vive e non possono diventarlo;                                                                                                                                mentre la rivoluzione pur vivendo a pieno nella modernità rimane senza tempo e in continuo divenire. Ed ecco perché il primo, nonostante varie promesse di sollevamenti popolari, querele e minacce di avversari appesi qua e là, non potrà mai vincerla.

 

 

 

 

Perché una rivoluzione non violenta è possibile, anzi necessaria.

Opinioninonrichiesteblog.wordpress.com- Alberto Cassone-(28 giugno 2020)- ci dice :

 

In seguito alla rivoluzione bolscevica e alle successive rivoluzioni socialiste del Novecento, si è diffusa l’idea che i rivoluzionari, nel loro battersi contro l’oppressione, intendano sempre istituire un ordinamento politico completamente diverso dal precedente – e che tale ordinamento non possa non degenerare in una nuova oppressione. Entrambe le convinzioni sono, però, infondate – non nel senso che a volte, o spesso, tali previsioni non si realizzino, bensì nel senso che non è affatto vero che esse si realizzino sempre e necessariamente.

Prendiamo ad esempio le tre rivoluzioni fondative della civiltà “borghese”, ossia dell’ordine politico liberaldemocratico, vale a dire: quella inglese, quella americana e quella francese. Solamente quest’ultima mirava a istituire un nuovo ordinamento politico; vi riuscì, ma molto più gradualmente di quanto le cronache e i commenti pubblicati ai tempi del suo scoppio prevedessero; non portò a una nuova oppressione, anzi – per lo meno dal “nostro” punto di vista (di cittadini di stati nazionali a costituzione liberale) – condusse a un’emancipazione. Il breve periodo del terrore rivoluzionario va infatti compreso all’interno del lungo scontro tra restaurazione e rivoluzione, successivo al 1789, scontro che vide la seconda, infine, sostanzialmente prevalere. La figura storica di Napoleone incarnò, in questa dialettica tra oppressione ed emancipazione, un ruolo di compromesso e di sintesi.

La rivoluzione inglese condusse, anch’essa, a un nuovo ordinamento politico; ma ciò avvenne molto lentamente, poiché la Glorious Revolution era incentrata su una (certo, importantissima) questione particolare e non generale, ossia sullo spostamento dell’asse principale del potere dalla monarchia al parlamento, non su un’alterazione globale della costituzione del popolo inglese; un popolo che seppe dunque passare con estrema gradualità dal feudalesimo cristiano al capitalismo liberale, con pochi e brevi – ma bene assestati – scossoni. Certamente attraversò, con Oliver Cromwell, una fase segnata dall’oppressione; ma si trattò anche in quel caso di un periodo molto breve, non della creazione di un nuovo ordine sistematicamente oppressivo.

Infine, la rivoluzione statunitense: essa portò, è vero, all’eliminazione della presa dell’istituzione monarchica sul suolo americano; ma, dal punto di vista dei principi fondativi dell’ordinamento liberale – quei principi che già vigevano in Inghilterra, ossia tra i suoi nemici – essa non fece altro che consolidarli; né si può parlare, almeno fino alla prova di forza del governo federale durante la Guerra civile (ma probabilmente neanche in quel caso) di una degenerazione del nuovo ordinamento in un ordinamento nuovamente oppressivo.

Esiste anche una terza convinzione da sfatare: si crede che le rivoluzioni siano inevitabilmente violente, ma neanche questo è sempre vero – in particolare, è del tutto falso rispetto alla dimensione culturale presente (e spesso prevalente) in ogni autentica rivoluzione.  

Per limitarci all’Occidente, osserviamo come sia la rivoluzione cristiana che la rivoluzione umanistico-scientifica, tra loro distanti circa un millennio, si siano fatte strada pacificamente, certo incuneandosi in varchi lasciati aperti dalle violenze altrui – la caduta dell’impero romano nel caso di quella cristiana, lo scontro tra cattolici e protestanti nel caso di quella umanistico-scientifica – ma mai ricorrendo alla violenza, le violenze ispirate dalla Chiesa (come nei casi delle Crociate e dell’Inquisizione) e quelle ispirate dalla scienza e dalla tecnologia (come in quelli degli imperialismi razzisti del secolo scorso e del neocolonialismo tecnocratico odierno) essendo giunte ben dopo il completamento di tali rivoluzioni, né essendo le nuove oppressioni così create a queste direttamente imputabili. Piuttosto, entrambe le rivoluzioni possono lamentarsi di aver subito violenze e persecuzioni; nessuna delle due ha violenze e persecuzioni da confessare.

Le rivoluzioni culturali sono sempre graduali; la gradualità, che abbiamo visto all’opera in due delle tre rivoluzioni politiche trattate, ossia in quella francese e ancor di più in quella inglese, non va però sopravvalutata. Di per sé, essa non è affatto garanzia di non violenza, di assenza di degenerazioni oppressive e di buona riuscita dei progetti rivoluzionari; al contrario, la sua adozione consapevole, ossia il gradualismo, si situa all’estremo opposto della rivoluzione che vuole cambiare tutto subito e, così facendo, presenta rischi diversi ma altrettanto gravi, come ben vediamo nella costruzione per ora sostanzialmente fallimentare di una comunità politica europea. Del resto, una cosa è la gradualità di fatto con la quale gli ordinamenti politici inglese e francese passarono dal feudalesimo al capitalismo, altra cosa è l’adozione consapevole e programmatica di un’attitudine gradualistica.

Oggi, il popolo crede di governare, di poter scegliere liberamente i propri rappresentanti. Chiunque conosca la teoria politica e la storia sa bene – a meno che non sia in cattiva fede con sé stesso – che in una partitocrazia demagogica le cose non stanno mai veramente così; resta il fatto, però, che l’ideologia della democrazia rappresentativa regge ancora molto bene nell’immaginario collettivo.

Una rivoluzione non violenta, che non conduca all’oppressione, che non miri a cambiare tutto ma che non sia neanche vilmente gradualistica è dunque oggi più che mai necessaria, per due ragioni fondamentali:                                       la prima sta nell’urgenza di mettere paura ai potenti, di far loro capire che non crediamo né all’idea che le rivoluzioni siano sempre violente, totali e oppressive, né alla favola per cui il popolo sarebbe oggi padrone del proprio destino.

Dobbiamo inoltre dimostrare che il tecno-consumismo non ci ha ancora del tutto rimbambiti, che non siamo affatto contenti così, che non accettiamo di essere trattati come pupazzi, ossia come numeri, come dati, come “consumatori-produttori” dalla tecnocrazia economicistica.

Alcuni invocano la panacea della “meritocrazia” e sbandierano il vessillo dello “sviluppo sostenibile”; ma all’orizzonte scorgiamo, piuttosto, un avanzamento della mercato-crazia e dello sviluppismo, ossia del fanatismo della crescita;                                                                           il messaggio da mandare, attraverso la nostra rivoluzione, è che non abbiamo nessuna intenzione di continuare a vivere in una mercato-crazia tecnologica. Vogliamo invece vivere in una repubblica, un’autentica repubblica – partecipativa, solidale, ricca di qualità umanistiche. Non si tratta, dunque, di rivoluzionare l’attuale ordinamento politico, radendolo al suolo e ricostruendolo da zero, bensì di eliminare, o ridimensionare radicalmente, o ri-orientare in chiave comunitaria i suoi aspetti negativi (la proprietà privata, i partiti politici, la separazione troppo netta tra etica e politica, nonché di difenderne e valorizzarne quelli positivi (l’accento classicamente liberale sui diritti naturali e inalienabili è certamente fra questi), oltre che naturalmente di costruire, creativamente, qualcosa di nuovo.

Quale forma potrebbe, perciò, assumere una repubblica partecipativa e solidale? Ne ho parlato approfonditamente in due saggi, Alla ricerca della comunità solidale ed Economia, identità e repubblica.

(Alberto Cassone).

 

 

 

 

Il capitalismo non è il problema,

è la soluzione.

Filodiritto.com- Rainer Zitelmann-Libro-(14 luglio 2021)- ci dice:

 

PERCHÈ LEGGERE QUESTO LIBRO.

Rainer Zitelmann, storico tedesco noto a livello internazionale, accompagna il lettore in un viaggio attraverso i continenti e la storia recente per confutare il mantra “il mercato ha fallito, abbiamo bisogno di un maggiore intervento del governo” che i media e gli intellettuali ripetono senza posa fin dallo scoppio della crisi finanziaria del 2008.

Il capitalismo, spiega l’autore, ha risolto una serie enorme di problemi in tutto il mondo, e pure oggi ha più successo che mai. Per dimostrare questa tesi Zitelmann paragona le eclatanti differenze di sviluppo fra la Cina che si è aperta al mercato e la Cina ai tempi di Mao, tra la Germania occidentale e quella orientale, fra la Corea del Sud e quella Nord, tra il liberista Cile e il socialista Venezuela. Racconta poi il successo delle riforme di mercato in Inghilterra, negli Stati Uniti e in Svezia. Il libro è molto utile come promemoria per le nuove generazioni, che rischiano di perdere la consapevolezza del legame indissolubile che esiste tra la prosperità e la libertà economica.

Riassunto.

Il verdetto dell’esperienza storica.

Il collasso dei regimi comunisti alla fine degli anni ‘80 sembrava aver definitivamente dimostrato la superiorità del sistema capitalista, nel quale i mezzi di produzione sono posseduti privatamente e gli imprenditori producono i beni richiesti dai consumatori facendosi guidare dai prezzi di mercato, su quello socialista, nel quale i mezzi di produzione sono posseduti dallo Stato e le decisioni produttive vengono prese dai funzionari pubblici. In verità il risentimento anticapitalista non è mai scomparso del tutto, ed è ricomparso con particolare vigore dopo la crisi finanziaria del 2008, interpretata quasi unanimemente da politici, intellettuali e giornalisti come un fallimento del mercato rimediabile solo con l’intervento statale. Per molte persone, il termine “capitalismo” è tornato ad essere una parolaccia.

The Power of Capitalism è stato scritto per confutare questa visione errata, che rischia di minare le basi su cui si fonda la nostra prosperità. Il libro però non affronta l’argomento da un punto di vista teorico, ma analizza la storia economica degli ultimi ottant’anni con un approccio empirico. In nessun Paese, infatti, il capitalismo e il socialismo esistono in forma pura, tuttavia l’esperienza storica dimostra che un Paese è tanto più prospero quanto più libera è la sua economia. Non esistono eccezioni a questa regola.

Purtroppo sembra che tante persone siano incapaci di trarre conclusioni generali dall’esperienza storica. Malgrado i numerosi esempi di straordinaria prosperità portata dal capitalismo e il fallimento di ogni singola variante di socialismo testata in condizioni reali, molti ancora si rifiutano di imparare l’ovvia lezione. Perfino negli Stati Uniti troppi giovani si dichiarano attratti dal socialismo. Le loro uniche conoscenze storiche sull’argomento provengono da manuali scolastici che di solito affrontano molto superficialmente le ragioni del disastro politico ed economico dei regimi socialisti. A mano a mano che i loro fallimenti scompaiono dalla memoria vivente, le nuove generazioni rischiano di perdere la consapevolezza del legame indissolubile che esiste tra la prosperità e la libertà economica.

Cina: dalla carestia di massa alla potenza industriale.

La storia cinese dal dopoguerra a oggi è la più emblematica.                                   Quando Mao Zedong prese il potere nel 1949, decise di trasformare la Cina nel più avanzato esempio di socialismo. Nel 1957 proclamò il Grande Balzo in Avanti, un gigantesco piano di sviluppo accelerato del Paese attraverso la collettivizzazione integrale delle campagne. Nei villaggi di tutta la Cina fu abolito ogni tipo di proprietà privata, e i contadini furono costretti a lavorare nelle comuni. Queste misure portarono però, contrariamente alle attese, a un crollo verticale della produzione agricola e a una spaventosa carestia, probabilmente la peggiore della storia umana. Tra il 1958 e il 1962 morirono prematuramente circa 45 milioni di cinesi, per la fame o in conseguenza delle violenze che accompagnarono il processo di collettivizzazione. Alla fine Mao fu costretto a interrompere il Grande Balzo in Avanti, ma nel 1966 lanciò un’altra disastrosa campagna politica, la Rivoluzione Culturale, durante la quale milioni di persone accusate di propagandare idee borghesi furono umiliate in pubblico, torturate, spedite nei campi di lavoro o uccise.

I successori di Mao, dopo la sua morte nel 1976, compresero che, di fronte alla catastrofica situazione economica della Cina, occorreva cambiare rotta. «Più vedo il mondo – disse Deng Xiaoping di ritorno dai suoi numerosi viaggi all’estero che fece in quel periodo – più mi rendo conto di quanto siamo arretrati». I vertici del governo cinese tuttavia non si convertirono al capitalismo, e non approvarono alcun passaggio immediato dall’economia pianificata all’economia di mercato. Il processo di transizione si sviluppò invece dal basso in maniera informale. Nelle campagne i contadini reintrodussero di fatto la proprietà privata aggirando le leggi comuniste, e nel 1983 il processo di decollettivizzazione dell’agricoltura cinese poteva dirsi completato. Vi fu poi un grandioso processo di ascesa dei lavoratori autonomi tollerato dalle autorità. Milioni di cinesi si resero conto che svolgendo un business in proprio potevano accrescere i propri redditi e la propria libertà: un barbiere privato, infatti, guadagnava più di un medico chirurgo statale; un venditore ambulante più di uno scienziato nucleare.

Per far fronte ai tentativi di emigrazione di massa nella colonia britannica di Hong Kong, i cui redditi erano cento volte più alti, le autorità cinesi istituirono nei suoi dintorni delle Zone Economiche Speciali, nelle quali vigeva l’economia di mercato. Il successo fu clamoroso: il distretto di Shenzen, abitato da non più di 30.000 persone per lo più dedite alla pesca, divenne una gigantesca metropoli industriale con 12,5 milioni di abitanti il cui reddito era mediamente il triplo di quello del resto della Cina. Finalmente, nel 1992, il Partito Comunista Cinese proclamò la liceità dell’economia di mercato. In conseguenza di ciò, una fiumana di funzionari, insegnanti e ingegneri lasciò il posto pubblico per lavorare nel settore privato: solo in quell’anno diedero le dimissioni 120.000 dipendenti statali.

Oggi la Cina è diventata una potenza economica mondiale, e nel 2016 ha superato gli Usa e la Germania come maggior esportatore mondiale. Difficilmente però si può dare il merito di questi risultati ai suoi governanti. Le innovazioni economiche cruciali non furono concepite negli uffici del comitato centrale del partito, ma nelle teste di un numero imprecisato di agenti economici locali, che in molti casi sfidarono le regole ufficiali. Il miracolo economico cinese, spiega il professor Zhang Weiying di Pechino, è avvenuto malgrado la persistente influenza dello Stato, e non grazie ad essa.  

Africa: contro la povertà il capitalismo è meglio degli aiuti.

Il continente africano continua a dare di sé immagini contrastanti. Dal 1990 la povertà è scesa dal 56,8% al 42,7% della popolazione, ma ancora oggi c’è un 20% di africani che non si nutre in maniera adeguata. Per decenni gli aiuti dell’Occidente all’Africa sono stati visti come un obbligo morale per riparare i peccati del colonialismo, ma i risultati economici di queste politiche sono stati molto deludenti. L’economista zambiana Dambisa Moyo ha fatto notare che la povertà in Africa è cresciuta dall’11% al 66% tra il 1970 e il 1998, quando la politica degli aiuti dall’Africa raggiunse il suo apice.                                        Gli aiuti dall’estero generano corruzione e dipendenza, inibendo il funzionamento dell’economia di mercato.                                                                       I governi, infatti, usano gli aiuti allo sviluppo per sussidiare dei vasti e improduttivi settori pubblici.

Anche l’economista keniano James Shikwati ha affermato: «Se l’Occidente cancellasse gli aiuti, nessun africano comune se ne accorgerebbe. Solo i funzionari statali si sentirebbero colpiti. Gli aiuti allo sviluppo deprimono lo spirito imprenditoriale di cui abbiamo disperatamente bisogno. Per quanto possa sembrare assurdo, gli aiuti sono una delle ragioni dei problemi dell’Africa». Perfino la popstar Bono degli U2, che in passato aveva organizzato degli imponenti festival musicali per aiutare l’Africa, ha cambiato idea di fronte all’evidenza dei fatti, e nel 2013 ha dichiarato: «Il commercio e il capitalismo imprenditoriale tolgono dalla povertà più persone degli aiuti».

Nella classifica delle libertà economiche la maggioranza dei Paesi africani occupa posizioni molto basse. Malgrado ciò, negli ultimi anni l’Africa ha visto emergere una classe media di almeno 150 milioni di individui impegnati in attività imprenditoriali. Il più celebre è il sudanese Mo Ibrahim, il quale ha realizzato la più grande rivoluzione dalla fine del colonialismo diffondendo la telefonia mobile, la cui penetrazione è esplosa in un decennio dal 15% all’85% della popolazione africana. L’Africa ha bisogno soprattutto di esempi come questi. I giovani devono sognare di arricchirsi svolgendo attività produttive nel settore privato, invece che attraverso la corruzione nel settore pubblico.

Germania: con una Trabant non puoi sorpassare una Mercedes.

Dopo la seconda guerra mondiale la divisione in due parti della Germania ha permesso di testare, in un esperimento sociale su vasta scala, i due modelli economici alternativi, quello socialista e quello basato sul mercato. Nella parte orientale occupata dai sovietici il governo comunista instaurò un’economia di Stato attraverso la nazionalizzazione delle industrie e dell’agricoltura. Queste politiche provocarono gravi carenze dei beni di consumo, che spinsero i tedeschi orientali a rivoltarsi o ad emigrare verso ovest al ritmo di decine di migliaia di persone al mese. Nel 1953 una rivolta popolare causata dal malcontento venne repressa dai carri armati sovietici, che fecero dai 50 ai 100 morti. Nell’agosto del 1961 già 2,74 milioni di tedeschi orientali erano fuggiti in Germania Ovest. Per prevenire questa emorragia di popolazione le autorità della Germania orientale presero la decisione disperata di costruire un muro invalicabile tra Berlino Est e Berlino Ovest.

Nella Germania occidentale, fortunatamente, le cose erano andate molto meglio. Nel giugno 1948 il ministro dell’economia Ludwig Erhard, deciso a reintrodurre l’economia di mercato, prese la coraggiosa decisione di abolire di colpo, contro il parere delle forze d’occupazione alleate, tutti i controlli sui prezzi introdotti dal regime nazionalsocialista. Il risultato delle sue riforme liberiste fu uno dei più impressionanti miracoli economici della storia. Tra il 1948 e il 1960 il Pil aumentò mediamente del 9,3% all’anno, e dal 1961 al 1973 continuò ad aumentare del 3,5% all’anno. Contro ogni pronostico, un Paese completamente distrutto dalla guerra divenne una potenza economica mondiale.

Nel 1989, alla caduta del Muro di Berlino, le differenze tra le due Germanie erano abissali. Nel regime totalitario e poliziesco dell’est solo il 16% della popolazione, per lo più i funzionari privilegiati, possedeva il telefono, contro la quasi totalità dei tedeschi occidentali. Ma il simbolo più evidente della distanza tra i due modelli economici era l’industria automobilistica. Dopo un’attesa di 12-17 anni dalla prenotazione i tedeschi orientali potevano avere una Trabant, un’auto dal design deprimente dotata di un motore a due tempi con una potenza di soli 26 cavalli. Con una macchina del genere non puoi sperare di sorpassare una Mercedes.

Corea: i mercati sono più saggi di Kim Il-sung.

Come in Germania, anche in Corea la Guerra fredda ha prodotto la divisione del Paese in due diversi sistemi economici, comunista a nord e capitalista a sud. La Corea del Nord è sempre rimasta un Paese chiuso, totalitario, militarizzato e poverissimo, con un reddito pro-capite presunto di 583 dollari. Il Paese è stato spesso devastato dalle carestie. Nella più recente, avvenuta nel 1996, sono morte di fame secondo le cifre ufficiali 200mila persone (tre milioni secondo alcune agenzie umanitarie). Oggi il regime comunista, nel quale il culto della personalità del dittatore Kim Jong-un raggiunge livelli parossistici, rimane in piedi solo grazie a un permanente stato di emergenza e di assedio.

Eppure nel 1953, al termine della guerra provocata dall’invasione delle truppe comuniste, la Corea del Nord partiva avvantaggiata, dato che la Corea del Sud era un Paese agricolo completamente privo di risorse naturali. Tutti i depositi di minerali (ferro, oro, rame, piombo, zinco, grafite, molibdeno, calcare e marmo) si trovavano nel nord della penisola, mentre la Corea del Sud era uno dei paesi più poveri del mondo, con livelli di reddito analoghi all’Africa subsahariana. Solo all’inizio degli anni ‘60, con le riforme di mercato del padre del miracolo economico coreano, Park Chung-hee, l’economia cominciò a migliorare.

A seguito della crisi finanziaria del 1997-1998, la Corea del Sud ha liberalizzato il settore finanziario e bancario, aprendosi completamente agli investimenti esteri. Anche il sistema scolastico sudcoreano, uno dei migliori del mondo, si basa prevalentemente sul mercato: l’80% dell’istruzione superiore è privata, e ben otto università sudcoreane sono presenti nella classifica delle 100 università più innovative del mondo. Oggi i sudcoreani godono di un reddito pro-capite di 27.500 dollari, paragonabile a quello dei paesi europei. La Corea del Sud è l’ottavo maggior Paese esportatore del mondo, e marchi come Samsung, Hyundai e LG sono celebri a livello internazionale. Il confronto tra le due Coree rappresenta l’esempio più lampante del fallimento del socialismo e della potenza del capitalismo.

Le riforme di mercato della Thatcher e di Reagan.

Ogni tanto le economie di mercato hanno bisogno di essere rimesse in carreggiata con delle riforme radicali, perché le persone tendono a perdere di vista le cause della ricchezza e della povertà. È il caso del Regno Unito, un Paese che nel dopoguerra aveva preso una strada diversa rispetto all’Europa continentale. La vittoria del Partito Laburista alle elezioni del 1945 aveva dato il via a un massiccio programma di nazionalizzazioni, che non era stato messo in discussione dai governi conservatori successivi. In totale un quinto dell’economia britannica venne statalizzata. Come risultato, durante gli anni ‘50 e ‘60 la crescita dell’economia inglese fu più bassa rispetto a quella della Germania o di altri paesi europei. Negli anni ‘70 la situazione economica si fece davvero grave, al punto che l’Inghilterra veniva chiamata “il malato d’Europa”. I sindacati spadroneggiavano e la produttività era in picchiata. In quel decennio ci furono oltre 2000 scioperi all’anno, che portarono alla perdita di 13 milioni di giorni lavorativi.

Nel maggio del 1979 la vittoria elettorale del Partito Conservatore guidato da Margareth Thatcher segnò un netto cambiamento. La Thatcher aveva maturato idee liberali durante il disastro economico degli anni ‘70, ed era decisa a sfidare i sindacati. Le sue prime misure furono l’abolizione dei controlli sui prezzi, una politica monetaria disinflazionistica, l’abbassamento delle aliquote fiscali e la riduzione del debito pubblico, che calò dal 54,6% del 1980 al 40,1% del 1989. Nel suo secondo mandato privatizzò numerose compagnie statali come British Telecom, British Airways, British Petroleum, la Rolls Royce, la Jaguar, i cantieri navali, le case popolari e numerose aziende locali fornitrici di servizi. La produttività delle aziende privatizzate aumentò considerevolmente, con un conseguente calo dei prezzi: dieci anni dopo la privatizzazione, i prezzi delle telecomunicazioni si erano dimezzati. Queste riforme ebbero un tale successo da essere imitate da oltre cento paesi nel mondo, e proseguite negli anni ‘90 dal laburista Tony Blair.

Anche negli Stati Uniti l’economia si era deteriorata durante gli anni ’70 a causa degli alti livelli d’inflazione e disoccupazione, anche se non in maniera così grave come in Inghilterra.                              Nel novembre 1980 il repubblicano Ronald Reagan vinse a valanga le elezioni contro l’ex presidente democratico Jimmy Carter, e nel suo messaggio inaugurale presentò il suo programma con una frase molto chiara: “Il governo non è la soluzione dei nostri problemi, ma è il problema”. Anche Reagan abbassò le aliquote fiscali e adottò una politica disinflazionistica. I risultati non si fecero attendere.

Tra il 1983 e il 1989 la crescita economica fu mediamente del 3,8% all’anno, e alla fine del secondo mandato l’economia americana era più grande di un terzo rispetto all’inizio. Nello stesso periodo furono creati 17 milioni di nuovi posti di lavoro e il reddito medio aumentò di 4000 dollari a famiglia, dopo aver ristagnato negli otto anni precedenti.                                  Le entrate fiscali, malgrado il taglio delle aliquote (o meglio, grazie ad esse) aumentarono del 59% tra il 1981 e il 1989. Il sogno americano della mobilità sociale si avverò negli anni di Reagan: l’86% delle famiglie che nel 1981 facevano parte del quintile più povero salì nel 1990 al quintile più ricco. Grazie alle riforme reaganiane l’America tornò forte e fiduciosa di sé, in grado di vincere la Guerra fredda.

Perché i cileni sono più ricchi dei venezuelani?

Il tenore di vita dei cileni è oggi molto più alto di quello dei venezuelani. Non a caso, il Cile si trova al 20° posto su 180 paesi nella classifica 2018 delle libertà economiche, mentre il Venezuela è al penultimo posto, davanti solo alla Corea del nord e alle spalle perfino di Cuba. Mentre i cileni non sono mai stati così prosperi, i venezuelani soffrono per l’inflazione, il declino economico e l’oppressione politica. Eppure nei primi anni ’70 la situazione era opposta. I cileni si dibattevano in una terribile crisi economica mentre i venezuelani erano i più prosperi dell’America Latina: nel 1970 il Venezuela era il 20° Paese più ricco del mondo con un pil pro-capite poco inferiore a quello del Regno Unito.

Il 1998, con l’elezione a presidente di Hugo Chavez, può essere considerato l’anno dell’inizio della rovina. In quel periodo la sinistra mondiale aveva bisogno di una nuova figura di riferimento dopo la fine dei regimi comunisti, e per molti intellettuali occidentali Chavez divenne il messia del “socialismo del XXI secolo”.                                                                                                 Poiché la sua presidenza coincise con il picco del prezzo del petrolio di cui il Venezuela è ricchissimo, l’esperimento socialista partì in condizioni favorevoli.                    Ma oltre a distribuire le rendite petrolifere per acquisire il consenso, Chavez nazionalizzò buona parte dell’economia, preparando così le condizioni per il disastro economico.

I nodi vennero al pettine dopo la sua morte nel 2013, sotto il successore Nicolas Maduro, che accelerò la statalizzazione delle attività economiche, i controlli dei prezzi e l’inflazione monetaria. La produzione crollò o si arrestò completamente, proprio mentre i prezzi del petrolio cominciarono a scendere. Gli effetti fatali delle politiche socialiste di Chavez divennero evidenti. I beni di consumo scomparvero dai negozi, e nel maggio del 2018 l’inflazione arrivò al 14.000%. Tra il 2015 e il 2016 la mortalità infantile è cresciuta del 33%, e il 73% della popolazione ha perso mediamente 8,7 chili di peso a causa della denutrizione. Per fronteggiare le crescenti proteste popolari, Maduro ha assunto poteri dittatoriali e abolito la libertà di stampa. Tra il 2013 e il 2017 il suo regime ha ucciso più 120 persone nella repressione delle manifestazioni anti-governative. Il “socialismo del XXI secolo” non sembra molto diverso, negli esiti, dai socialismi del secolo scorso.

 

Nel 1970 anche il Cile aveva preso questa china disastrosa.                              Il neoeletto Salvador Allende aveva instaurato un sistema marxista, nazionalizzando l’80% dell’economia, fissando i prezzi dei generi alimentari di base, collettivizzando l’agricoltura e aumentando la spesa pubblica e l’inflazione. L’economia collassò completamente, e vasti scioperi e proteste si diffusero in tutto il Cile. Nel settembre del 1973 l’esercito depose Allende, che si suicidò. Negli anni successivi la dittatura militare guidata dal generale Augusto Pinochet, pur essendo antidemocratica e fortemente repressiva nei confronti degli oppositori, adottò una politica economica sorprendentemente liberale consigliata da alcuni economisti dell’università di Chicago, i cosiddetti “Chicago boys”.

 

Le aziende nazionalizzate furono riprivatizzate, le tasse abbassate, l’inflazione crollò dal 600% nel 1973 al 9,5% del 1981, il tasso di crescita economica passò nello stesso periodo da –4,3% a +5,5% e le esportazioni triplicarono. I salari reali, che nel 1973 erano calati del 25%, nel 1981 erano aumentati del 9%. Negli ultimi trent’anni l’economia cilena è cresciuta a un tasso medio annuo vicino al 5%. Oggi il Cile vanta un pil pro-capite doppio di quello del Brasile ed è uno dei Paesi con l’economia più aperta e competitiva nel mondo.

Svezia: il mito del socialismo nordico.

La Svezia viene indicata spesso come un modello di socialismo di successo, ma non è corretto considerarla un Paese socialista. Grazie alle riforme liberali iniziate negli anni ‘90, la sua economia è una delle più orientate al mercato che vi siano al mondo: nella classifica mondiale 2018 delle libertà economiche si piazza al 15° posto, precedendo di molto la Corea del sud (27°) o la Germania (25°).  È vero che le imposte sul reddito sono ancora alte, malgrado siano state ridotte rispetto ai picchi dei decenni passati, ma le tasse sulle successioni, sui patrimoni e sui guadagni di capitale sono state abolite.

La Svezia era diventata un Paese prospero tra il 1870 e il 1936 grazie alla libertà economica e a una ridotta tassazione, che gli aveva assicurato una crescita media più elevata di qualsiasi altro Paese europeo. Nei decenni successivi il partito Socialdemocratico introdusse alcune politiche assistenziali, ma la vera e propria espansione vertiginosa del welfare state si ebbe negli anni ‘70 e ‘80.                                       In questo periodo la crescita economica della Svezia si ridusse notevolmente. Il programma socialdemocratico soffocò l’economia svedese, inducendo i suoi migliori imprenditori a emigrare all’estero, come il fondatore dell’Ikea Ingvar Kamprad, che furioso per la tassazione confiscatoria nel 1974 si trasferì in Svizzera, per ritornare in patria solo nel 2013. Anche la scrittrice Astrid Lindgren e il regista Ingmar Bergman subirono gravi soprusi dal fisco svedese.

A partire dal 1991 ci fu però una reazione agli eccessi del welfare state, che portò a una serie di riforme liberali. Le imposte sulle imprese furono ridotte dal 57% al 30%, e la percentuale della spesa pubblica sul pil scese, tra il 1990 e il 2012, dal 61,3% al 43,2%. Come risultato, dopo il 1991 la crescita economica svedese è stata più alta di quella della Germania, della Francia o dell’Italia, e oggi la Svezia è uno dei pochi Paesi al mondo che rispetterebbe i parametri di Maastricht. Non è più, se mai lo è stata, un modello socialista. 

Perché agli intellettuali non piace il capitalismo.

A dispetto di questi dati di fatto, l’avversione per il capitalismo rimane diffusissima tra gli intellettuali. Un fattore chiave di questa ostilità è l’incapacità di comprendere e accettare l’idea di ordine spontaneo. Il capitalismo infatti evolve spontaneamente dal basso, un po’ come il linguaggio, invece di essere decretato dall’alto. Il socialismo, essendo un costrutto teorico creato dalla mente e successivamente calato nella realtà, è molto più affine al modo di pensare degli intellettuali, per i quali è difficile immaginare che l’economia e la società possano funzionare senza essere progettate e guidate dagli esperti.

Vi è poi, da sempre, un elemento di invidia e di rivalità nei confronti degli uomini d’affari. Gli intellettuali non riescono ad accettare l’idea che il mercato possa retribuire più lautamente delle persone meno colte o meno eloquenti di loro. Ma la ragione principale del rifiuto del capitalismo è probabilmente un’altra: gli intellettuali sopravvalutano la conoscenza acquisita rispetto alla conoscenza implicita. Vi sono infatti due tipi di conoscenza: la prima è il risultato di un’acquisizione conscia e sistematica attraverso lo studio formale; la seconda è una conoscenza che si impara sul campo, ed è spesso difficilmente comunicabile. A questo tipo di conoscenza appartengono le abilità imprenditoriali, che non si possono imparare frequentando dei corsi accademici.

L’anticapitalismo rimane quindi il pilastro della religione secolare della grande maggioranza degli intellettuali. Si potrebbe dire che l’avversione per il mercato è l’atteggiamento che identifica il loro status di gruppo: nella critica al capitalismo si riconoscono l’un l’altro come membri della stessa comunità. Questo atteggiamento rivela l’elevato grado di conformismo del ceto intellettuale.

Appello urgente per riforme capitaliste.

Esistono molti libri che spiegano perché il capitalismo funziona. Per quanto siano interessanti, queste spiegazioni teoriche hanno giocato un ruolo minore in questo libro. La risposta alla domanda “Perché il capitalismo?” è molto semplice: perché funziona meglio degli altri sistemi economici. Naturalmente, vi sono delle ragioni dietro questo successo, ma sapere che qualcosa funziona è più importante di sapere perché funziona. In fin dei conti, siete felici di guidare la macchina o usare uno smartphone anche se non comprendete la tecnologia coinvolta.

Allo stesso modo, la gente può trarre beneficio del capitalismo anche se non ha mai sentito parlare di Smith, Mises, Hayek o Friedman. Non avete bisogno di leggere tanta teoria economica per decidere qual è il sistema migliore. È sufficiente che osserviate la storia economica, come fa questo libro. Da nessuna parte l’eccesso di libertà economica sta creando problemi, ma ci sono molti posti in cui è vero il contrario. Il mondo ha bisogno urgente di riforme capitaliste.

CITAZIONI RILEVANTI.

I doni del capitalismo all’umanità.

«Il capitalismo è la causa principale dell’aumento globale del tenore di vita su una scala senza precedenti nella storia dell’umanità prima dell’avvento dell’economia di mercato. L’umanità ha impiegato il 99,4% dei suoi 2,5 milioni di anni di storia per raggiungere un PIL pro capite di 90 dollari internazionali circa 15.000 anni fa (il dollaro internazionale è un’unità di calcolo basata sui livelli di potere d’acquisto nel 1990). C’è voluto un altro 0,59% della storia umana per raddoppiare il PIL globale a 180 dollari internazionali nel 1750. Tra il 1750 e il 2000 – in un periodo che rappresenta meno dello 0,01% del totale della storia umana – il PIL pro capite globale è cresciuto 37 volte fino a 6.600 dollari internazionali. In altre parole, il 97% della ricchezza totale creata nel corso della storia dell’umanità è stata prodotta in quei 250 anni.  L’aspettativa globale di vita è quasi triplicata nello stesso breve periodo di tempo, dato che era di soli 26 anni nel 1820. Niente di tutto questo si deve a un improvviso aumento dell’intelligenza o dell’industriosità umana. Il merito è del nuovo sistema economico emerso nei Paesi occidentali circa 200 anni fa, che si è dimostrato superiore a ogni altro sistema esistente prima o dopo di esso. È stato questo sistema basato sulla proprietà privata, l’imprenditoria, l’imparzialità dei prezzi e la concorrenza a rendere possibili i progressi economici e tecnologici senza precedenti degli ultimi 250 anni – un sistema che, pur con tutti i suoi successi, è ancora giovane e vulnerabile.»

Cosa dice la classifica annuale delle libertà economiche.

«La libertà economica avvantaggia quasi tutti. La ricerca ha dimostrato più volte che maggiore è la libertà economica, più ricca è l’economia. Le economie più libere hanno maggiori probabilità di far registrare elevati tassi di crescita economica e di aumentare i redditi per il 10% più povero della popolazione. Uno degli argomenti più convincenti in favore del capitalismo è che i paesi economicamente liberi hanno tassi di povertà più bassi, oltre ad essere stati in grado di ridurre la povertà più velocemente … È stato inoltre documentato che le economie più libere raramente sperimentano guerre civili. Esse godono inoltre di una maggiore stabilità politica, tassi di omicidio più bassi, meno violazioni dei diritti umani, livelli più bassi di militarizzazione e hanno popolazioni che si sentono più sicure.»

La crisi finanziaria non è stata causata dal capitalismo.

«La bolla dei prezzi immobiliari negli Stati Uniti e la crisi dell’Eurozona non hanno avuto niente a che fare con un “fallimento del mercato” o una crisi del capitalismo. Al contrario, entrambe sono state provocate dai politici e dei banchieri centrali.

I politici hanno provocato distorsioni nel mercato per perseguire progetti politici come l’aumento del tasso di proprietà delle abitazioni tra le minoranze, e hanno aumentato il debito pubblico in maniera irresponsabile. I governatori della Fed e della Bce hanno praticato politiche di continua riduzione dei tassi d’interesse annullando i naturali meccanismi del mercato ... Naturalmente, i politici e i banchieri centrali non accettano di essere ritenuti responsabili per la crisi finanziaria e dell’eurozona.

Come uno scippatore che urla “Al ladro!” per distogliere l’attenzione su di sé, costoro incolpano il “fallimento del mercato” o “il capitalismo sfrenato” ... Poiché la diagnosi delle cause è sbagliata, anche le terapie proposte sono errate. Se la crisi finanziaria è stata causata dai tassi d’interesse troppo bassi, dagli interventi nel mercato e dall’eccessivo indebitamento, come si può pensare che la giusta terapia consista in un’ulteriore riduzione dei tassi, più regolamentazioni del mercato e più deficit? …                                                                         Il settore finanziario è il più regolamentato di tutti, con l’esclusione forse solo della sanità. Il fatto che proprio le due aree dell’economia più regolamentate siano anche le più instabili dovrebbe far pensare gli anticapitalisti

 

Transizione ecologica, Ue alla svolta?

Ecco perché serve una “rivoluzione di sistema.”

Agendadigitale.eu- Annalisa Corrado- Gianluca Ruggieri-(19 Lug 2021)- ci dicono :

 

Sostenibilità Ambientale E Smart City.

L’accordo politico sulla legge europea sul clima è stato trovato, ma ora servono azioni concrete, anche in Italia, per recuperare il ritardo sulla transizione ecologica. Troppo poco è stato fatto, e il Pianeta non può più aspettare.                                                Tre libri per mettere le questioni in una prospettiva più a lungo termine.

Durante la formazione del Governo Draghi, lo scorso febbraio, il dibattito pubblico nel nostro Paese si concentrò (per qualche giorno) sulla transizione ecologica. L’introduzione del nuovo Ministero, affidato poi a Roberto Cingolani, fu l’occasione per portare all’attenzione un tema che in altri paesi era già piuttosto radicato nell’agone mediatico e politico.

Ma “Transizione ecologica” non è un termine neutro, né può essere semplicemente il nuovo nome da dare ad un ministero che in Italia ha contato sempre troppo poco: si tratta, piuttosto, di un processo di profondo e radicale cambiamento, che non riguarda solo la questione climatica e l’uscita il più rapida possibile dal sistema dei combustibili fossili, ma anche la drammatica perdita di biodiversità e di salute del pianeta, nonché le profonde disuguaglianze tra emisferi, generi, generazioni.                                            In discussione c’è, nella sua interezza, lo stesso modello di produzione e consumo, quello della crescita infinita basata sull’estrazione e il consumo di risorse, non solo energetiche.

In quest’ottica complessiva non può bastare “spostare” i profitti verso il green o invocare una qualche fantomatica tecnologia taumaturgica (anche perché le tecnologie, da sole, non bastano). È necessaria una “rivoluzione di sistema”, non solo per andare oltre la pandemia, ma anche per trasformare la società.

Dagli accordi di Parigi alla strategia ONU per lo sviluppo sostenibile: a che punto siamo?

Corti e tribunali chiedono ai Governi sforzi maggiori.

Legge europea sul clima: la svolta?

Transizione ecologica: tre libri sul tema.

Né si può fare diversamente se consideriamo l’accordo di Parigi del 2015. I suoi obiettivi sono estremamente ambiziosi: mantenere l’aumento della temperatura media globale del pianeta sotto i 2°C (rispetto ai valori precedenti all’era industriale), e fare di tutto per limitarlo a 1,5°C, significa infatti rivoluzionare interamente non solo il nostro sistema energetico, ma tutta la nostra economia e il nostro modo di vivere. E ciò che più conta: per fare tutto questo abbiamo solo pochi anni (30 per l’obiettivo ultimo di de-carbonizzazione, al 2050, ma molto meno di 10 per imprimere la giusta spinta ed evitare che si inneschino fenomeni in grado di accelerare ulteriormente il collasso climatico).

Tanto dagli accordi di Parigi, quanto dalla pubblicazione della strategia ONU per lo sviluppo sostenibile, declinata su 17 obiettivi, sono già passati quasi 6, preziosissimi, anni.

A che punto siamo? Il progetto scientifico indipendente e internazionale Climate Action Tracker monitora da sempre i progressi che i vari stati stanno realizzando nelle politiche climatiche. Secondo l’ultimo aggiornamento (di dicembre 2020) solo due Stati sembrano avere politiche in linea con l’obiettivo di contenere l’aumento della temperatura del pianeta entro i 1,5°C: Marocco e Gambia.

Altri sei Stati (tra cui le Filippine, l’Etiopia e l’India) hanno strategie in linea con l’obiettivo dei 2°C.

Nonostante gli enormi sforzi, anche recenti, l’Unione Europea al momento è bocciata. I suoi obiettivi di riduzione delle emissioni porterebbero infatti a un aumento di 3°C della temperatura globale (quando il solo atto di superare i 2°C sarebbe sufficiente a condannare intere aree del pianeta all’irreversibile inabitabilità per gli esseri umani, accelerando al contempo la sesta estinzione di massa).

Corti e tribunali chiedono ai Governi sforzi maggiori.

Non è quindi un caso se in diversi Paesi tribunali e corti supreme si sono espressi chiedendo ai rispettivi governi e parlamenti di adottare strategie molto più ambiziose di quelle attualmente implementate.

La Corte Costituzionale tedesca, ad esempio, lo scorso aprile ha chiesto al governo Merkel di modificare la legge sul clima, perché pur avendo come obiettivo la decarbonizzazione del paese entro il 2050, rimandava gran parte delle misure più rilevanti a dopo il 2030. In questo modo, secondo la Corte, il rischio è di gravare troppo sulle future generazioni, introducendo obblighi differiti che potrebbero tradursi in rilevanti riduzioni delle libertà personali «perché quasi tutti gli aspetti della vita umana sono ancora associati all’emissione di gas serra e quindi sono minacciati dalle restrizioni drastiche che si dovranno fare dopo il 2030».

Analoghe posizioni sono state espresse dal Tribunale amministrativo di Parigi a febbraio e prima ancora dalla Corte Suprema Olandese nel 2019. In tutti i casi i promotori dei ricorsi sono stati ONG e attivisti climatici.

Anche in Italia è stata presentata una analoga iniziativa dal basso con la campagna “Giudizio Universale”.

Legge europea sul clima: la svolta?

Ora, a livello europeo, il prossimo momento decisivo sarà l’approvazione della Legge europea sul clima per la quale è già stato trovato un accordo politico di alto profilo all’interno del Consiglio Europeo, che dovrà però essere tradotto in azioni concrete. Il pacchetto completo dovrebbe essere presentato a metà luglio e impegnerà tutti gli Stati membri, inclusa l’Italia.

Transizione ecologica: tre libri sul tema.

Uscendo dal dibattito quotidiano e provando a mettere le questioni in una prospettiva più a lungo termine, è interessante segnalare come nelle ultime settimane sono stati pubblicati tre libri dedicati a questi temi.

Federico M. Butera inquadra con grandissima lucidità la questione nel suo contesto scientifico generale, svelando le inter-connessioni tanto tra i pericolosi fenomeni innescati dagli esseri umani, solo apparentemente slegati tra loro, quanto tra questi e i sistemi politici, economici e sociali che abitiamo quotidianamente. “Affrontare la complessità. Per governare la transizione ecologica” pubblicato ad aprile da Edizioni Ambiente.

Scrive Butera: “Abbiamo profondamente alterato il metabolismo del super-organismo biosfera, e le manifestazioni di questa alterazione sono state, negli ultimi decenni, la sua febbre (il riscaldamento globale) e la progressiva perdita di biodiversità, che è il principale indicatore della salute degli ecosistemi. Sono due, dunque, i fenomeni, le malattie, che minacciano la stabilità del sistema Terra, e quindi la società umana: il riscaldamento globale e la perdita di biodiversità. E dobbiamo cercare di riportarli sotto controllo. Il tutto è complicato dal fatto che i due fenomeni sono fra loro connessi, ed entrambi incidono negativamente sulla sola cosa di cui non possiamo assolutamente fare a meno: il cibo; con l’aggravante che la produzione di cibo, a sua volta, è la causa principale della perdita di biodiversità e una delle cause del cambiamento climatico”.

Massimo Acanfora e Gianluca Ruggieri hanno invece curato per Altraeconomia “Che cos’è la transizione ecologica. Clima, ambiente, disuguaglianze sociali”.

Raccogliendo i contributi di 30 tra autrici e autori: docenti e ricercatori, giornalisti e filosofi che affrontano questioni dirimenti come il rapporto tra economia reale e quella finanziaria, il finanziamento della transizione attraverso fisco e debito, l’estrazione di risorse e la necessità di calmierare e rendere circolare la produzione industriale, la sottrazione continua di biodiversità, del capitale naturale ed agricolo, il suolo, l’aria e l’acqua; e poi estendono la riflessione a quale governance globale e locale sia desiderabile, a come affrontare la povertà energetica, dai Paesi in via di sviluppo alle nostre città e a come ridisegnare il linguaggio, auspicando una “decarbonizzazione” dell’immaginario. Un libro che racconta e interpreta la transizione ecologica con voci diverse e da ogni prospettiva: tracciando il quadro politico e normativo, affrontando di petto la questione climatica, con i grandi temi dell’energia e dei trasporti in primis, ma anche interpellando esperti di altre discipline, dalla finanza alla forestazione.

 

“Ricomporre i divari Politiche e progetti territoriali contro le disuguaglianze e per la transizione ecologica” curato da Alessandro Coppola, Matteo Del Fabbro, Arturo Lanzani, Gloria Pessina, Federico Zanfi e pubblicato da Il Mulino, raccoglie invece contributi di ambito accademico di descrizione di pratiche concrete già in atto o in programma per affrontare nei tanti territori italiani, ricchi di criticità e di potenzialità. Perché la transizione ecologica impatta sulla vita di tutti, e riguarda direttamente temi come l’abitare, le infrastrutture della vita quotidiana e la mobilità. Il lavoro, sintesi di progetti pluriennali, potrebbe diventare un utile manuale su come definire le politiche del “Next Generation EU “nel nostro paese.

 

 

 

Prontuario (e senso) di

una Rivoluzione culturale.

Thomasproject.net- Francesco Valacchi-(2-1-2021)- ci dice :

Nella storia della politica contemporanea un posto di rilievo è di certo occupato dagli eventi che occorsero nella Repubblica Popolare Cinese a partire dal 1964/65 anche se la storiografia delle date ufficiali ne fa risalire l’istante iniziale al maggio del 1966.

Il fenomeno, conosciuto in cinese come 文化大革命 (Wenhua Dageming), ovvero Grande rivoluzione della cultura, fu un sommovimento sociale, culturale e istituzionale che ebbe una vasta serie di obiettivi volti all’estremo cambiamento di una società (struttura sociale) a partire dalla visione culturale: una serie di obiettivi che brillò per eterogeneità.

 Si volle anche, molto probabilmente e in alcuni momenti, scuotere la struttura del Partito per rafforzare il potere di certi leader e affossarne altri ma, comunque, nell’alveo dell’intenzione di rivoluzionare la cultura di un paese-continente, partendo dal peso che la cultura aveva presso la classe dirigente del Partito nel compito di gestire le sorti cinesi.

La miccia fu accesa con l’intento del sovvertimento e del ritorno ai valori primari della rivoluzione comunista, con l’obiettivo di colpire l’establishment prima di una sua definitiva sclerotizzazione nell’assumere derive totalitarie che probabilmente Mao ed il gruppo della Rivoluzione culturale temevano, in quanto lo avevano visto verificarsi in Unione Sovietica.

 Il progetto era quello di evitare il processo di involuzione sociale che sembrava condannare la rivoluzione cinese (attraverso la burocratizzazione) alla nascita di una futura borghesia dedita alla stabilità capitalistica e quindi con l’intenzione di fermare la controrivoluzione o di mantenere vivo il progresso rivoluzionario. Non bisogna dimenticare la visione di Mao Zedong e del suo fedelissimo Chen Boda nel considerare le contraddizioni interne alle classi e gli scontri fra classi sociali e fazioni di esse come il motore dello sviluppo e dell’evoluzione e, pertanto, come l’ingrediente necessario ad ottenere quello sviluppo economico che il Partito perseguiva quantomeno dal 1 ottobre 1949.

Proprio Chen nel 1966 arrivò a paragonare le intenzioni e la realizzazione delle istanze delle Guardie Rosse (le milizie della Rivoluzione culturale) all’esperimento della Comune di Parigi, ma con un impatto ancora più profondo sulle coscienze del proletariato internazionale.[2] Forse proprio sulla profondità con la quale venne percepito il movimento delle Guardie rosse internazionalmente e non solo in Cina è opportuno far luce per comprendere il senso del fenomeno e la sua attuale opportunità. 

Rossana Rossanda nel 1968 sosteneva che nelle occupazioni e esperienze di contestazione studentesca si trovava sempre più spesso:

qualche cosa della rivoluzione culturale, piuttosto “sentita” immediatamente – il suo peso è, certo, determinante – che studiata; […]. Ma, come vedremo, il rapporto con i testi, anche quelli rivoluzionari, è bruciante e allusivo, ha poco a che fare con lo studio e la discussione e la citazione (di qui la scarsa fortuna dei gruppi “marxisti-leninisti”, nonostante la straordinaria fortuna della rivoluzione culturale), ma piuttosto con una adesione immediata all’essere e al fare, modi di riconoscersi e indicazione per la lotta, a costo – anzi, in grazia – di certe semplificazioni altrettanto manichee quanto mobilitatrici.

La tesi di Rossanda era così motivata in nome degli stimoli che la prassi rivoluzionaria riusciva a dare a centinaia di migliaia di giovani cinesi ormai d’esempio anche in Europa e in America.     Con il suo appello a <<sparare sul quartier generale>> il Grande Timoniere (Mao) scosse, certo anche con l’intento tattico di ottenere vantaggi di posizione politica all’interno del Partito, le coscienze di tanti che si pensavano ormai assorbiti da un “senso comune” sempre più filo-capitalista.

Venne scalfita la razionalità della struttura sociale capitalista se una “innocua” nave cinese approdata a Genova ad agosto del 1967 ( la “Li Ming”) venne messa in quarantena dall’autorità portuale non per una infezione virale a bordo, ma semplicemente perché esponeva striscioni con proclami del tipo:

Sollevare una pietra per poi lasciarsela ricadere sui piedi, dice un proverbio cinese per definire il modo di agire di certi stupidi. I reazionari di ogni paese appartengono a questa categoria di stupidi.

Si voleva assolutamente impedire il contatto con i portatori delle idee del Libretto rosso. Michelangelo Antonioni nel breve narrato del suo documentario Chung Kuo (trascrizione superata dall’attuale forma pinyin di 中国, Cina), girato pochi anni dopo il termine della Rivoluzione culturale, affermava che:

La Rivoluzione culturale aveva sconvolto i sistemi di produzione, aveva dato la precedenza alla fedeltà politica più che alla competenza. Ora l’efficienza appare di nuovo come una meta da raggiungere pur senza rendere disumano il lavoro.

Forse Antonioni raccoglie in questi pochi secondi l’immagine che l’evento storico poteva aver impresso nell’opinione pubblica comune non fuorviata dalla pur forte propaganda politica legata ai “valori” del mondo occidentale. Un’enorme sommossa che aveva ribaltato l’obiettivo dell’organizzazione del lavoro: non più l’efficientamento ai fini di accumulazione del profitto, quanto al contrario l’accordo ai valori politici, intransigente sino all’irrazionalità.

 A ben vedere si tratta di una contraddizione in sé, almeno per la cultura moderna occidentale: “disumanizzare il lavoro” (così dice Antonioni) non per il sacro e razionale profitto quanto per il supremo fine ideologico (politico).

Una contraddizione impossibile da sanare se si voleva mantenere la centralità del pensiero occidentale e incomprensibile se si rinunciava a percepire il primo obiettivo dell’attacco rivoluzionario (pur ben chiarito nella definizione del fenomeno): la cultura nella sua accezione più generale.

Una delle testimonianze più dirette giunte in occidente è quella di John Collier dalle colonne di “New Left Review”. L’autore già nel 1968 tracciava la cronaca del fenomeno della Rivoluzione culturale dalle campagne della Cina comunista proprio dove si compivano le estreme conseguenze come le deportazioni per la rieducazione di quadri e dirigenti.

 Si trattava di un racconto eccezionale, di una visione embedded di quando e come avveniva l’attacco alla sovrastruttura culturale deviata, al sistema che diveniva sclerotizzato e al solo sospetto della corsa al capitale, come in una utopia assoluta.

Certo molti in occidente (per esorcizzare il fantasma dei rossi smagriti e ossessionati dalla Rivoluzione del modo di pensare) si affrettarono alla condanna su basi morali della disfatta dei valori di riferimento europei e americani (occidentali insomma): la crescita del PIL, l’acquisto dei beni di consumo e le politiche del benessere occidentale contrapposte alla terribile e disumana politica di controllo sociale di Pechino (barbara peraltro, è vero). E quindi il fenomeno è rappresentato da molta stampa ancora come un barbaro decadimento ma non da diversi sinologi e storici che quantomeno la considerano essenzialmente con  sguardo ancora interrogativo, come ben rappresentato dall’intervista a Jean-Luc Domenach su “FigaroVox” dell’attenta Eléonore de Vulpillieres, ma soprattutto come un qualcosa di inedito e forse ancora ineguagliato nei numeri e nella portata nel panorama politico: un sommovimento dal fine culturale, filosofico e politico che volle far leva principalmente sulla cultura delle masse e giunse a far interrogare il mondo intero quantomeno sulla possibilità delle direzioni da prendere.

Resta da contestualizzare e da vedere quale sia stato l’impatto della Rivoluzione culturale sul panorama politico sociale cinese di allora e da compiere l’inverso, eretico e per molti utopico processo: quale sarebbe il senso dell’attualizzazione della Rivoluzione culturale.

La Cina con le sue istituzioni, il Partito Comunista Cinese (PCC), i decisori politici e anche la stragrande maggioranza del popolo cinese ne uscirono stravolti. Coloro che seppero fare ammenda della loro reale o anche solo pretesa deriva capitalista furono riabilitati e molti, fortificati dall’esperienza, costituirono la spina dorsale del PCC che ha portato la Cina a subentrare al ciclo statunitense e la porterà molto presto ad assurgere prima potenza (almeno economica) mondiale.

 Deng Xiaoping e Jiang Zemin sono fra gli esempi più famosi di dirigenti del PCC colpiti, rieducati e riammessi ai vertici, vittime e beneficiari di una violenta pedagogia delle masse. Al contempo l’Esercito Popolare di Liberazione (EPL) assunse un ruolo perno che conserva senza dubbio ancora ai giorni nostri: la garanzia di legittimità e fedeltà alla dirigenza politica del PCC, assunta in cambio di un tacito contratto, pur accennato nel Preambolo della Costituzione del 1982,[8] che vede affiancati popolo e Forze armate nel compito della difesa della nazione e della salvaguardia della sua sovranità.

Si tratta essenzialmente di un sacro contratto inficiato solo dai tremendi fatti del 1989 a Pechino e corroborato dalla Costituzione del PCC. La figura di garante dell’ordine, al di là degli eccessi, venne declinata e dipinta proprio grazie al ruolo che ebbe l’esercito di milizia nel ristabilire l’ordine al termine del sommovimento.

Nonostante però il suo peso in Cina e all’estero la pagina della Rivoluzione culturale è stata rimossa per lungo periodo dalla narrativa del PCC e dall’immaginario cinese (e lo è anche oggi), forse proprio perché la dirigenza teme un’improvvida evocazione della Rivoluzione a spese del Partito odierno. L’attualità della narrativa ufficiale del Partito in Cina ha quasi completamente cancellato (ad eccezione di rarissimi addetti ai lavori) gli eventi della Rivoluzione. Pur sostenendo la figura di Mao e del grande lavoro di contestualizzazione ancora necessario dal punto di vista storico, rimane forse un solo dato certo: l’incommensurabilità della scienza politica cinese ai nostri occhi di occidentali.

Giunti al punto di considerare l’esaminata utopia e le sue categorie incommensurabili per il “senso comune” occidentale non resta altro che portarne il paradigma al qui e ora per comprenderne ulteriormente l’aspetto completamente rivoluzionario e attuale.

 La contingenza dell’emergenza sanitaria ha chiaramente messo in luce l’infima importanza concessa alla dimensione culturale sociale: in tutta Europa comitati di volenterosi legislatori o sedicenti esperti (tecnici medici e biologi) prima di ogni altro provvedimento si sono preoccupati di azzerare le funzioni educative e culturali, pur mantenendo alta la produttività industriale e commerciale.

E’ paradossale ma indicativo ad esempio che non sia stato mosso un singolo passo nella direzione di una comune ripresa dell’istruzione a livello europeo e che i prodotti di condivisione culturale (cinema e teatri ad esempio) siano stati azzerati senza troppi ragionamenti.

 L’ortodossia dei Trattati è, di nuovo, lo spaventapasseri che blocca ogni visionarietà e chiude ogni finestra sul futuro, dando voce ai populismi di vario genere mentre sarebbe opportuno, proprio adesso, in una condizione di emergenza, concedere più spazio alle politiche dell’Unione Europea al fine di ottenere una pronta comune risposta anche all’emergenza sanitaria.

Intanto il palcoscenico post-globale aveva già dimostrato, in maniera incontrovertibile, con le emergenze climatica, dell’immigrazione, economica e sanitaria verso il basso che la forma-stato ha quasi raggiunto il capolinea della sua vita tecnica e che, di conseguenza, molte organizzazioni internazionali basate sul consesso delle rappresentanze statali (verso l’alto) sono solo paradossali e risibili rappresentazioni di quello che potevano essere sino ai primi anni Duemila.

 La penosa prova data dalle Nazioni Unite e dalle sue subalterne agenzie nell’ultimo decennio sulle tematiche sopra citate è purtroppo eloquente (in particolare nell’amorfa gestione dell’emergenza climatica e dell’emergenza terroristica internazionale scaturita anche nel sedicente Stato islamico).

Nel contempo le organizzazioni governative regionali o intermedie (Unione Europea, ASEAN, Partito Comunista Cinese, OCS e OPEC ad esempio) sembrano davvero aver fatto il salto di qualità, globalizzando i loro mezzi e i loro fini, dimostrando di essere fra le autorità politiche in grado di affrontare la situazione contingente. Da tutto ciò la cultura e la percezione di massa sono spesso esenti, cristallizzate nell’eterno presente della realtà nazionale o internazionale.

Davanti a tanto è necessario, prima di qualsiasi cambiamento politico e di ordinamento sociale, il passo di una Rivoluzione di percezione delle scienze sociali che dia più vita allo studio di realtà ibride e inconsuete del panorama post-globale, come già avviene in ambiente accademico e ne diffonda la percezione (critica) verso la cultura di massa e dentro il “senso comune”. Una vera e propria Rivoluzione culturale per attaccare la sclerotizzazione della cultura di massa nella forma “statale versus internazionale” e  per cercare di imporre quantomeno una competenza politica e sociale di questi temi nel “senso comune”, nella cultura di massa riguardo tutto ciò che è nuovo.

La cultura della competenza e dell’approccio critico infatti altro non sono che l’antidoto al populismo, radicato nella pseudo-cultura del <<non so, non capisco, ci stanno prendendo in giro e non m’interessa>> tanto attaccato ad un’arida disciplina scientifica occidentale e la creazione di cultura che passa attraverso le scienze sociali.

Proprio questa è la Rivoluzione culturale che forse oggi andrebbe riproposta: l’elemento di rottura ed evoluzione rispetto alla stagnazione del presente, la rivoluzione della comprensione della realtà a partire dalla cultura dello spazio sociale e regionale che travalica il concetto di stato-nazione ma si ritrova nell’identità di essere biologico in relazione con altri esseri biologici come agenti sociali, come ha definito Pierre Bourdieu.]

Si tratta di una vera Rivoluzione che sarebbe opportuna in tutto l’occidente e che mira al riposizionamento al centro della cultura e della politica delle scienze sociali attuali e soprattutto quelle ancora da inventare.

 

 

 

 

Fisco più "leggero", rivoluzione anti-burocrazia

e business green: è l'Italia che cambia.

Impreseterritorio.org-Confartigianato-(15-11-2021)- ci dice:

 

CARTELLE DEL FISCO PIU’ LEGGERE: ARRIVA UN MILIARDO PER IL TAGLIO DEL 6%.

Lo scrive “Il Messaggero”: “Le cartelle esattoriali saranno più leggere. Il governo dal 2022 cancellerà l’aggio, il meccanismo di remunerazione dell’attività della Riscossione (attualmente al 6%) posto a carico del contribuente raggiunto da una lettera del fisco. La svolta arriva dopo una sentenza della Consulta che ha giudicato iniquo il vecchio sistema. Il vuoto finanziario sarà colmato da un trasferimento economico del peso di 995 milioni di euro verso le casse dell’agente della riscossione”. Saranno confermati, invece, sia il rimborso dei diritti degli atti di riscossione (attualmente di 5,88 euro a cartella), sia le spese di procedure di recupero.

Il cambio di passo prevede anche l’uso della tecnologia nel controllo e gestione delle pratiche. Nelle misure anti-crisi:

Saldo atto in 150 giorni. Il governo ha portato da 60 a 150 giorni il tempo per pagare le cartelle esattoriali ricevute dai contribuenti durante l’emergenza legata alla pandemia.

Rate più lunghe. Chi è decaduto nel periodo Covid dalla rateizzazione delle cartelle, può essere riammesso dal 31 ottobre 2021 con l’ulteriore aiuto di poter riprendere a pagare in 18 rate anziché in 10.

Riapertura dei termini. Remissione in termini anche per chi aveva piani relativi alla rottamazione o al saldo e stralcio. I contribuenti avranno tempo fino a fine novembre per saldare le scadenze di quest’anno.

LE INCOGNITE DELL’INFLAZIONE CHE CRESCE.

Inflazione.

Ogni tanto se ne parla perché tutti si chiedono, si legge su Repubblica, “se l’inflazione sia temporanea oppure rischi di diventare permanente”. Negli Stati Uniti, l’inflazione ha ormai superato il 6%; nell’Eurozona siamo al 3,4%. Il quotidiano analizza tre punti:

C’è il dubbio che non si tratti di “buona inflazione”, vale a dire dovuta al miglioramento dell’economia: attualmente la convinzione è che l’aumento dell’inflazione sia dovuto a motivi “cattivi”, ai prezzi delle materie prime, energia e cibo.

L’inflazione è più alta in Germania, oltre il 4%: i tedeschi considerano “la politica monetaria dell’euro eccessivamente espansiva”.                       Finora l’inflazione non ha reagito, ma cosa potrebbe accadere con tutta questa liquidità in circolazione?

L’inflazione “è come una bicicletta: è molto difficile rimanere in sella da fermi”. Un conto è annunciare di tollerare l’inflazione al 3 o 4 per cento; un altro è dimostrare di sapere tenere sotto controllo l’inflazione e tornare al target del 2%.

IL BUSINESS VERDE PIACE AI MECATI: IN ARRIVO UN FIUME DI DENARO.

Si legge su Repubblica che “le banche d’affari, i grandi fondi di investimento e le multinazionali” Green hanno deciso di scendere in campo in questa battaglia non, sia ben chiaro, per altruismo ma perché hanno capito che salvare il pianeta è un bel business”.

Infatti, “dal summit climatico di Parigi nel 2015, più di 2.200 miliardi di dollari sono stati spesi da aziende, fondi di investimento e governi pe rendere più efficiente l’energia generata da sole, vento e batteria”.

Così, le grandi istituzioni internazionali si sono impegnate a non finanziare più progetti basati sul carbone; banchieri e investitori “parlano delle redditizie prospettive di nuove industrie quali l’acciaio e l’idrogeno verdi” e gli investimenti sono “puliti”.

 I fondi legati all’Esg (environmental, social e governance), ovvero gli investimenti responsabili, nel 2025 raggiungeranno 53mila miliardi, quasi un terzo di tutti i patrimoni gestiti.

Ma dietro l’angolo c’è la pratica del green-washing, l’ambientalismo di facciata, che “in realtà non fa nulla ed è un problema serio e diffuso”.

AL VIA LA RIVOLUZIONE ANTI-BUROCRAZIA: CERTIFICATI GRATIS ONLINE PER TUTTI.

Anagrafe digitale.

Lo scrive “La Stampa”: “Da oggi, più di 66 milioni e mezzo di italiani potranno accedere all’Anagrafe Nazionale della Popolazione Residente (Anpr) sulla piattaforma (anagrafenazionale.gov.it) muniti dell’identità digitale Spid, della carta di identità elettronica (Cie) o della Carta nazionale servizi (Cns)”.

Il nuovo servizio permette di ottenere i certificati anagrafici online in maniera autonoma e gratuita, “senza dover pagare il bollo da 16 euro chiesto finora dai Comuni”.

 In tutto sono 14 i certificati che vengono resi disponibili da oggi, e che possono essere richiesti anche per un componente della propria famiglia: “Si va dal certificato di nascita a quello di matrimonio, dallo Stato civile sino ai certificati di unione civile e al contratto di Convivenza. Ma c’è ancora un nodo da sciogliere, ed è quello dello Spid: Codacons chiede che “sia gratis per tutti. Un invito ad intervenite sulle Poste che, da novembre, chiede 12 euro per il servizio di identificazione allo sportello che prima, invece, era gratis”.

 

 

 

 

Rivoluzione Facebook: il nuovo

nome dell’impero di Zuckerberg è Meta.

Tech.fanpage.it- Lorenzo Longhitano-(28 ottobre 2021)- ci dice:

 

Il nome del social network più frequentato nel mondo rimane sempre Facebook, ma a cambiare è il nome di quello che finora veniva chiamato semplicemente gruppo Facebook, ovvero l’azienda quotata in borsa che sviluppa e gestisce l’omonimo social e una miriade di altri prodotti tra i quali Instagram e WhatsApp.

Alla fine il nuovo nome di Facebook è ufficiale: Meta, che sta per meta-verso, ovvero il concetto che Zuckerberg intende rendere realtà da qui ai prossimi 10 anni.

Dopo giorni in cui si rincorrevano le voci di un nuovo battesimo per il gruppo fondato da Mark Zuckerberg, la conferma è arrivata in questi minuti con l'annuncio ufficiale da parte dello stesso fondatore durante l'evento Connect che si è concluso negli ultimi minuti.

L'annuncio di oggi era atteso a causa di indiscrezioni che dall'inizio della settimana raccontavano i massimi vertici dell'azienda al lavoro su un nuovo nome che potesse raccontare al meglio le nuove ambizioni di un conglomerato che ormai non si occupa più di social network, né tantomeno solo di Facebook.

 

Le anticipazioni dei giorni scorsi.

In effetti parlare di corrispondenza tra il gruppo guidato da Mark Zuckerberg nel 2021 e il social network che fondò nel suo dormitorio ad Harvard nel 2004 ormai è totalmente fuorviante.

 Da allora Facebook non solo è diventato una potenza globale a sé stante, ma l'azienda che ne gestisce le operazioni ha acquisito decine di altre realtà tecnologiche – dalla piattaforma Instagram alla messaggistica di WhatsApp passando per la realtà virtuale di Oculus – e presentato al pubblico altrettante nuove piattaforme come WhatsApp Pay e la miriade di prodotti interni a Instagram. All'interno del gruppo Facebook, il social Facebook insomma è ormai solo uno tra tanti prodotti, e neppure quello con le prospettive migliori.

Perché ora il gruppo Facebook si chiama Meta.

Era solo questione di tempo prima che l'azienda decidesse farsi rappresentare da un nome diverso da quello del social che attualmente cresce in modo meno spedito tra tutti quelli che gestisce. Quale dovesse essere questo nome, è qualcosa su cui i piani alti si sono interrogati a lungo: la questione del cambio era sul piatto da anni, anche se stando alle indiscrezioni raccolte più di recente è diventata pressante solamente negli ultimi due mesi; in particolare sembra che il numero uno di Facebook in persona, Mark Zuckerberg, sia stato fino all'ultimo momento dubbioso sulla decisione da prendere.

C'è già un'azienda che si chiama Meta, ma Zuckerberg non lo sapeva: "Dateci 20 milioni per il nome".

La decisione è infine caduta sulla direzione che ormai da mesi lo stesso Zuckerberg ha deciso di far prendere alle attività del suo gruppo, ovvero quella del meta-verso.

L'universo di esperienze in realtà virtuale che secondo il fondatore di Facebook accoglierà un miliardo di persone entro i prossimi dieci anni rappresenta così il futuro non solo di Facebook, ma anche un punto di convergenza per tutti gli attuali prodotti e servizi del gruppo — da Instagram a WhatsApp.

Il cambio di nome simboleggia una scommessa ambiziosa: significa che tutti gli sforzi della multinazionale saranno indirizzati alla costruzione di qualcosa le cui fondamenta sono a malapena state gettate;

se la visione di Zuckerberg si concretizzerà, non solo Facebook, ma anche gli attuali prodotti maggiormente di successo saranno un giorno spazzati via dal nuovo immaginato e annunciato ufficialmente in queste ore.

(tech.fanpage.it/rivoluzione-facebook-il-nuovo-nome-dellimpero-di-zuckerberg-e-meta/)-(tech.fanpage.it/).

 

 

 

 

Il mondo digitale non è sostenibile.

Iltascabile.com-Alessio Giacometti- (13-4-2021)-ci dice :

 

Tra emissioni, consumi, rifiuti e impronta ambientale, la rivoluzione informatica è sempre meno ecologica.

(Alessio Giacometti è nato a Padova nel 1992 e ha una laurea in Sociologia. Suoi testi sono stati pubblicati su Il Tascabile, la newsletter MEDUSA, Le Macchine Volanti, Singola e altre riviste.).

La  foto è del 1994: un giovane e intrepido Bill Gates si cala con fune e imbragatura in un bosco di abeti.                                                                                Nella mano sinistra tiene bene in vista un iridescente CD-ROM, la destra è poggiata su una pila di fogli di carta che pareggia in altezza il fusto degli alberi. Il messaggio del ragazzo che vuole portare un calcolatore elettronico su ogni scrivania d’America e del mondo non chiede spiegazioni: guardate quanta informazione ci sta in un disco compatto di memoria, quanta carta ci farà risparmiare l’archiviazione digitale dei dati informatici.

Basta già poca immaginazione per intravedere un futuro sfavillante in cui l’informazione, ormai quasi del tutto smaterializzata, viaggerà dal centro pulsante di un microchip fino allo schermo luminoso di un computer che potremo tenere in tasca. Alleggeriremo così la nostra impronta sull’ambiente, muoveremo i dati e non le cose, ci faremo efficienti e sostenibili. È la promessa spregiudicata di una rivoluzione digitale ed ecologica assieme.

A distanza di quasi trent’anni da quello scatto divenuto nel frattempo celebre, il savio e visionario Gates ama ancora farsi passare per guru della sostenibilità digitale, eppure la sua profezia pare essersi realizzata soltanto per metà.

La rivoluzione digitale si è in effetti compiuta, almeno in larga parte, mentre la crisi climatica è sempre lì che incombe, anzi: sempre più. Ridimensionato l’ottimismo acritico della prima ondata per l’innovazione digitale – già messo in discussione, su basi economiche e politiche, da autori come Evgeny Morozov – le cosiddette ICT (information and communications technologies) hanno alla fine deluso le aspettative più rosee di riduzione dell’impatto ambientale.

La moneta digitale non è altro che l’energia impiegata per produrla, e più ne viene estratta più calcoli (ed energia) sono necessari per generarne di ulteriore.

Negli anni, le tecnologie informatiche e digitali sono diventate, anzi, per certi versi, parte del problema.

Qualche dato: per fabbricare un computer si utilizzano 1,7 tonnellate di materiali, compresi 240 chili di combustibili fossili. Internet da sola succhia il 10% dell’elettricità mondiale e rispetto a dieci anni fa inquina sei volte di più, con un monte emissioni che eguaglia oggi quello dell’intero traffico aereo internazionale.

 Due ricerche su Google rilasciano anidride carbonica al pari di una teiera d’acqua portata a ebollizione, Netflix consuma da sé l’energia di 40mila abitazioni statunitensi.

Mezz’ora di streaming emette quanto dieci chilometri percorsi in automobile (secondo altre fonti, non più di un chilometro e mezzo ), mentre un solo ciclo di training linguistico di un algoritmo arriva invece a inquinare come cinque automobili termiche lungo il loro intero ciclo di vita.

Complessivamente, i consumi energetici dell’intelligenza artificiale raddoppiano ogni 3,4 mesi, e per risolvere in pochi secondi il cubo di Rubik a un algoritmo serve l’elettricità prodotta in un’ora da tre centrali nucleari.

Ci sono poi i videogiochi: complici la pandemia di coronavirus e le conseguenti restrizioni, il 2020 è stato un anno da record per l’industria videoludica, che nei soli Stati Uniti assorbe il 2,4% dell’elettricità domestica, più di quanto facciano congelatori e lavatrici, generando tante emissioni quante quelle di 55 milioni di automobili a motore termico.

Per ridurre consumi ed emissioni Sony e Microsoft hanno introdotto una modalità di utilizzo a risparmio energetico nella loro ultima generazione di console, rispettivamente, e tuttavia la sensazione è che l’intero settore stia rapidamente avanzando verso il più energivoro cloud gaming multipiattaforma.

C’è, infine e soprattutto, il problema della moneta digitale:                            allo stato attuale, l’impronta di carbonio di una singola transazione in Bitcoin equivale a quella di 680 operazioni Visa e di 51 ore di binge watching su YouTube.

Paradossalmente, estrarre un dollaro di Bitcoin richiede quattro volte più energia che fabbricarne uno in rame e tre volte uno in oro, con proporzioni solo un po’ migliori per altre criptovalute come Ethereum, Litecoin e Monero.

 Al netto di definizioni troppo contorte e cervellotiche per i non addetti ai lavori, la moneta digitale non è altro che l’energia impiegata per produrla, e più ne viene estratta più calcoli (ed energia) sono necessari per generarne di ulteriore, motivo per cui i siti di produzione tendono a fare marginalità recuperando il gas di torcia dall’attività di fracking del petrolio, oppure localizzandosi lì dove l’elettricità viene ricavata dal carbone e perciò venduta a prezzi competitivi – come accade in Cina, dove le emissioni del settore superano ormai quelle di intere nazioni come Repubblica Ceca e Qatar. I computer usati nel mining della criptovaluta si surriscaldano così tanto che per raffreddarli si ricorre a sistemi di ventilazione simili a quelli impiegati negli allevamenti intensivi di polli in batteria.

Mining è una delle rare metafore del lessico digitale che rimandano esplicitamente all’industria estrattiva, un po’ come quando si dice che i dati sono il nuovo petrolio.

 La maggior parte delle analogie – software, cloud, smartphone, chip… – evoca un immaginario eufemistico di efficienza, leggerezza e intangibilità che contribuisce a oscurare l’impatto reale delle ICT.

È stata soprattutto la miniaturizzazione dei processori a cambiare il modo in cui facciamo esperienza delle tecnologie digitali e della loro impronta ambientale. “Ingannati dalle dimensioni minuscole dei nostri apparecchi”, osserva Christina Gratorp in un articolo ripreso da Internazionale, “non ci fermiamo a riflettere sulla gigantesca industria che c’è dietro, sulle enormi quantità di risorse materiali che consumano quando li usiamo e sulle condizioni di lavoro di chi fornisce all’industria quelle risorse”.

Colossus ed Eniac, tra i primi calcolatori della storia, pesavano rispettivamente 5 e 27 tonnellate.

Oggi una persona su cinque tiene in mano uno smartphone che per capacità di elaborazione supera il computer con cui la NASA è riuscita a mandare il primo essere umano sulla Luna.

 Si deve all’introduzione del silicio nei circuiti integrati lo sviluppo stupefacente dei microprocessori, cominciato nel 1971 con il lancio di Intel 4004. Da allora la potenza di calcolo è effettivamente raddoppiata ogni diciotto mesi mantenendo inalterate le dimensioni dei microchip, ma quello che la Legge di Moore non racconta è che la materialità delle tecnologie digitali non è affatto scomparsa: è stata soltanto rimossa da sotto i nostri occhi.

Tutt’altro che nell’etere: per fare acquisti online o muovere messaggi in chat serve carburante, e se le fonti rinnovabili sono insufficienti occorre ricavare l’elettricità da gas e carbone.

Tutt’altro che nell’etere, internet scorre come petrolio negli oleodotti attraverso 1,2 milioni di chilometri di cavi che si snodano sui fondali oceanici.

Per fare acquisti online o muovere messaggi in chat serve carburante, e se le fonti rinnovabili sono insufficienti occorre ricavare l’elettricità da gas e carbone.

Memorizzare dati informatici necessita di capienti archivi materiali: non esiste alcuna “nuvola”, il cloud è soltanto un imponente computer che lavora a tutto spiano in un torrido e congestionato data center.

Così Gratorp: “per sua stessa natura il software consuma il mondo fisico, perché i bit non esistono senza gli atomi.                                               Anche se imparassimo a codificare meglio, a fare test più rigorosi e a riciclare di più, sarebbe fisicamente impossibile non consumare materia ed energia”.                            Che doccia fredda: le tecnologie digitali sono essenziali per ridurre le emissioni e frenare il riscaldamento globale, ma quello della loro presunta immaterialità e sostenibilità è solamente un mito, tanto diffuso quanto fuorviante.

Nuvole che grondano petrolio.

Misurare l’impronta ecologica dell’industria informatica e digitale è un’impresa laboriosa e scoraggiante: tolto il Cleaning Click Report di Greenpeace sono pochissimi altri i tentativi degni di nota, e tuttavia le Big Tech della Silicon Valley non mancano mai di dare sfoggio delle proprie ridotte emissioni.                                              Di recente Google, Microsoft e Apple si sono promesse carbon neutral entro il 2030, Amazon entro il 2040.

Qualche anno in più per installare pannelli fotovoltaici a sufficienza e le “sorelle” FAAMA (Facebook, Apple, Amazon, Microsoft e Alphabet) assicurano di farsi carbon negative: produrranno più energia pulita di quella che consumano e riassorbiranno le proprie emissioni storiche con tecnologie di stoccaggio dell’anidride carbonica.

 In futuro mail e chat verranno alimentate interamente con energia solare, i cloud saranno ottimizzati e de-carbonizzati, il green computing diventerà una consuetudine per una nuova generazione di programmatori. Le opache e discutibili compensazioni ambientali faranno il resto assieme ai massicci fondi di investimento per la sostenibilità, oggetto di una corsa filantropo-capitalistica a chi elargisce la cifra più alta. Peccato che in gioco ci sia il solito, irrisolto problema di sempre, ossia quello degli “effetti rimbalzo”: la domanda di servizi cresce più rapidamente del risparmio di energia che si riesce a ottenere efficientando le tecnologie.

Per farsi un’idea di quanto emettano i data center nei quali vengono archiviati i dati informatici è stato introdotto anni fa un indicatore, il power-usage effectiveness (PUE), che tuttavia misura l’efficienza dei server, non la loro impronta di carbonio. Sono variabili ben distinte: per assurdo, il supercalcolatore più efficiente del pianeta potrebbe essere alimentato con elettricità ricavata interamente dalla combustione del carbone – la fonte energetica più inquinante – come di fatto avviene in molti data center.

 Ce ne sono circa otto milioni in giro per il mondo, quelli di scala industriale sono poche centinaia. Facebook detiene i propri server, Netflix si appoggia invece a quelli di Amazon che nel settore del cloud computing controlla la fetta di mercato più grossa assieme a Microsoft e Google.

Dal 2010 la capacità di calcolo complessiva dei data center è cresciuta del 550% mentre i consumi di elettricità soltanto del 6%. L’impressione degli esperti è però che l’efficientamento dei server abbia ormai raggiunto il limite.

Per evitare la fusione dell’hardware surriscaldato dall’elaborazione dei dati si tenta oggi di incorporare nelle componenti elettroniche degli impianti miniaturizzati di raffreddamento a liquido.

Altrove si sperimentano soluzioni ancor più avveniristiche, come quella di far funzionare i chip con fotoni al posto dei normali elettroni, oppure quella di immagazzinare i dati informatici nel DNA batterico.

Facebook ha per ora risolto la faccenda del cooling delocalizzando parte delle proprie server farm nella gelida penisola scandinava, mentre Microsoft ha da poco ripescato gli 864 server del progetto sperimentale Natick, che punta a sfruttare le basse temperature degli abissi marini per raffreddare i processori.

Se il calore prodotto dai calcolatori non viene smaltito in qualche modo c’è infatti il rischio che le “nuvole” di dati vadano in fiamme: vedere per credere il recente incendio ad uno dei data center di Strasburgo del colosso informatico OVHcloud.

Nei prossimi anni serviranno nuovi data center e tantissima energia per alimentare, archiviare e mantenere in vita i dati su cui si regge l’intera infrastruttura digitale. Da dove la prenderemo?

Il fatto è che prima di quanto immaginiamo prenderanno piede tecnologie come il 5G, il quantum computing, l’intelligenza artificiale, la blockchain, le criptovalute, le stampanti 3D, l’internet delle cose, le auto a guida autonoma… Serviranno nuovi data center e tanta, tantissima energia per alimentare tutto questo, archiviare e mantenere in vita i dati su cui si regge l’intera infrastruttura digitale. Da dove la prenderemo?

I giganti dell’industria informatica sono già i principali client di elettricità al mondo, ma al momento non sembrano porsi seriamente il problema.

Resta oltretutto aperta la questione dell’effettiva utilità dei dati memorizzati nei server – pare che solo il 6% sia veramente in uso – e dell’impiego ambiguo dei supercalcolatori, che troppo spesso vengono messi al servizio delle aziende petrolifere ed estrattive.

Uno di questi computer ad alte prestazioni si trova in Italia, nella campagna pavese, e più precisamente al Green Data Center di Eni: è in questo centro di elaborazione dei big data che a inizio 2020 è entrato in funzione HPC-5, ancora nella top ten dei supercomputer più potenti ed energeticamente efficienti del pianeta. I suoi 70 petaflop di potenza – una capacità di calcolo da 52 milioni di miliardi di operazioni al secondo – lavorano in parte in progetti di ricerca sulle fonti rinnovabili, e in parte nella rilevazione di nuovi giacimenti di gas e petrolio.

Nel 2015 è stato proprio uno dei primi HPC del gruppo Eni a scovare il più grande giacimento di gas naturale del Mediterraneo, dimezzando così i tempi medi di localizzazione dei nuovi siti di estrazione.

Anche Amazon, Google e Microsoft cedono i propri servizi di punta ai giganti dell’industria fossile, motivo per cui Greenpeace parla apertamente di partnership che devastano il pianeta, di cloud che grondano petrolio.

Era forse questa la promessa di sostenibilità della rivoluzione informatica e digitale? Usiamo enormi quantità di energia per mettere in funzione i supercalcolatori, archiviare i dati e potenziare l’intelligenza artificiale, per poi mancare l’applicazione delle tecnologie digitali più sofisticate a questioni di pubblica utilità e urgenza come il riscaldamento globale.

Strozzati dai rifiuti elettronici.

In aperta contraddizione con la percezione di sostenibilità e immaterialità delle tecnologie digitali si pone anche il tema dei rifiuti elettronici, derivanti soprattutto dalla dismissione di smartphone, computer, periferiche e altre consumer elettronics.

Secondo il Global E-waste Monitor delle Nazioni Unite, nel 2019 sono stati prodotti 53,6 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici, oltre 7 chili per ogni abitante del pianeta – una cifra che cresce a un ritmo tre volte superiore a quello della popolazione mondiale.

Dove vanno a finire tanti apparecchi di scarto, di frequente gettati via ancora funzionanti e ben prima di aver concluso il ciclo di vita potenziale?

Sempre nel 2019 solo il 17% dell’e-waste è entrato in circuiti legali di riciclo, del resto si è perso traccia in discariche abusive in Africa e nel Sud-est asiatico. Qui, per accelerare il recupero dei metalli rari, le componenti plastiche dei rifiuti elettronici sono solitamente bruciate in roghi altamente inquinanti che disperdono nell’ambiente sostanze nocive come diossine, piombo, mercurio, cadmio.

Oggi le tecno-masse tossiche e obsolete vengono esportate nel Sud del mondo perché il riciclo sarebbe un processo altrimenti complesso e oneroso.

 Un singolo smartphone contiene 40 diversi elementi metallici, alcuni dei quali pregiati e riutilizzabili come stagno, tungsteno, tantalio e oro, ma dis-assemblare i circuiti elettronici è un’operazione inefficiente se comparata all’estrazione deregolamentata delle materie prime “vergini”.

Anche smaltire le batterie è difficile e inquinante, e ad oggi esistono soltanto due tecniche note: la pirometallurgia, che le fonde a temperature altissime, e l’idrometallurgia, che le discioglie in acidi iper-corrosivi. Proprio le batterie mostrano come sia tipico dell’industria digitale e informatica sviluppare tecnologie senza prestare alcuna attenzione al loro impatto ambientale, sacrificando la sostenibilità sull’altare della performance, dell’esperienza di consumo e della competitività sul mercato. La retorica dell’innovazione è tutta concentrata sulle prestazioni delle ICT, mai sulla loro capacità di essere riparate, riciclate, riutilizzate, rigenerate o – perché no – compostate.

All’obsolescenza tecnologica pianificata ci siamo ormai assuefatti, ne abbiamo tutti esperienza: i computer portatili che registrano la prima rottura fuori garanzia entro i primi tre o quattro anni di attività, la scocca di plastica degli ebook incollata in modo da rendere complicato aprirli e sostituirne la batteria, aziende che saldano le componenti interne dei propri device per avversarne la riparazione.

Insomma, prodotti che si guastano secondo programma e che vengono deliberatamente progettati per non essere aggiustati, anche perché le case madri non forniscono in genere alcuna istruzione in merito e le comunità di riparatori indipendenti sono costrette ad organizzarsi dal basso, spesso e volentieri osteggiate dai marchi produttori.

Il piccolo riparatore di smartphone Henrik Huesby, ad esempio, è stato citato a giudizio dalla Apple, una società da mille miliardi di dollari di capitalizzazione e 200 milioni di dispositivi venduti nel 2019, per aver riparato iPhone con schermi considerati contraffatti.

Apple, dal canto suo, è stata multata per aver introdotto aggiornamenti che rallentavano il funzionamento dei vecchi modelli di iPhone, una pratica che gli analisti hanno ribattezzato throttling, “strozzamento”.

È la nuova frontiera dell’obsolescenza indotta: non più un guasto precoce dei device a causa di difetti occulti, ma un sottile e pianificato disallineamento tra hardware e software che li rende di fatto inutilizzabili.

Mentre l’Unione Europea spinge per l’introduzione del diritto alla riparazione e per l’estensione della normativa sull’eco-design dagli elettrodomestici a smartphone, tablet e laptop, Apple ha dato negli ultimi anni un bel colpo di spugna alla propria immagine aziendale varando un vasto programma di iniziative “green”.

Ha iniziato a riciclare (in parte) i dispositivi dismessi e per quelli di nuova fabbricazione utilizza (in parte) materiali di recupero.

 Ha installato pannelli solari nei propri centri e indirizzato i fornitori a ridurre le emissioni.

I futuri modelli di iPhone saranno venduti senza adattatore per la ricarica e cuffie auricolari di modo da ridurre gli scarti elettronici – ma a quanto pare anche per abbattere il prezzo finale fatto lievitare dalle tecnologie di supporto al 5G.

All’obsolescenza tecnologica pianificata ci siamo ormai assuefatti: prodotti che si guastano secondo programma e che vengono deliberatamente progettati per non essere aggiustati.

Al tempo stesso, però, Apple resiste alle pressioni dell’Unione Europea per l’adozione del connettore USB-C come standard internazionale di ricarica e con la rimozione del jack audio ha inaugurato l’obsolescenza delle cuffie auricolari con cavo in favore del nuovo business dei sistemi wireless, ben più impattanti per via delle batterie incorporate.

Parafrasando la nota burrasca di Schumpeter, si potrebbe parlare di innovazioni che fanno “creazione distruttrice”, col danno all’ambiente mascherato ad arte da beneficio.

Tutto questo green-washing di Apple e delle altre Big Tech ha l’effetto di sviare l’attenzione dal punto centrale della questione: perché l’industria elettronica e digitale non si è mai fatta carico dei rifiuti che produce e dei problemi ambientali che causano i suoi prodotti?                                   In un’economia realmente sostenibile e circolare, ciò che inquina o non può essere riciclato, riparato e riutilizzato, dovrebbe essere riprogettato, altrimenti limitato nelle vendite e in ultima analisi bandito dal mercato.

Il mondo a portata di clic.

Come ha scritto Samanth Subramanian in un articolo del Guardian (tradotto in Italia da Internazionale), anche il commercio digitale ha aggravato sensibilmente il nostro impatto sull’ambiente.

Trasforma l’acquisto in un clic ed è come avere il mondo a domicilio, ti cambia radicalmente la percezione della realtà: “il grande inganno delle vendite al dettaglio online è stato spingerci a comprare sempre di più e a pensare sempre di meno, soprattutto a come arrivano gli acquisti a casa nostra”.

 Per resistere all’ultimo miglio critico, sballottati nei furgoni di consegna, i prodotti acquistati di comodo negli scaffali digitali richiedono un packaging decisamente più robusto: “aggiungere un millimetro di spessore al cartone per renderlo più resistente, se moltiplicato per centinaia di miliardi di scatole, può consumare un’intera foresta”.

Spesso, scartando il pacco recapitato da Amazon, si ha l’amara sensazione di aver comprato più spazzatura che prodotto. Così, anziché smaterializzata, la forma merce esce dai mercati virtuali appesantita da un sovrappiù di esternalità ambientali sotto forma di imballaggio.

Pure la logistica del commercio elettronico si rivela estremamente inefficiente dal punto di vista ambientale. I centri di smistamento consumano molto suolo e spesso fanno land grabbing, i furgoni semivuoti dei corrieri ingorgano le strade e inquinano l’aria, i servizi digitali di vendita non sono altro che la variante esasperata e iper-consumistica del commercio analogico.                                    Con internet possiamo consumare ad ogni ora del giorno e della notte, senza più nemmeno doverci alzare dalla sedia.

“L’idea di un pacco che compare miracolosamente davanti alla porta di casa è molto affascinante”, commenta Subramanian.                “Ci siamo abituati così in fretta ad accettarla da non capire veramente cosa comporta”.

 È indubbio che il commercio digitale ci regali un grande risparmio di tempo, ma come lo impieghiamo? Certo non impegnandoci a ridurre le nostre emissioni individuali, più probabilmente scrollando il feed di Facebook o le stories su Instagram. Internet ci libera il tempo, e poi ce lo sottrae.

 

Persino la logistica del commercio elettronico si sta rivelando estremamente inefficiente dal punto di vista ambientale.

Nel suo ultimo libro, I bisogni artificiali.                                                     Come uscire dal consumismo (ombre corte, 2021), il sociologo dell’ambiente Razmig Keucheyan fa notare che sì,

“Amazon sarà anche un gigante del digitale, ma le merci che distribuisce sono proprio questo: delle merci, dotate di una materialità concreta”.

 A conti fatti la digitalizzazione degli scambi non ha affatto ridotto la circolazione degli oggetti materiali, anzi.

Online si finisce per comprare più di quel che serve, si cede alla gratificazione immediata che azzera il tempo intercorso tra desiderio e acquisto, non si immagina minimamente quanta anidride carbonica possa accumulare la roba che mettiamo nel carrello virtuale.

 I prodotti acquistati con un clic nei mercati digitali viaggiano lungo le stesse rotte che le merci percorrono ormai da secoli, a bordo di navi portacontainer che solcano gli oceani bruciando oli combustibili pesanti.

È servito che uno di questi cargo si mettesse di traverso nel canale di Suez per accorgersi dell’assoluta insostenibilità del traffico mercantile globalizzato, che le tecnologie digitali mica hanno diminuito, ma al contrario fomentato.

Contro l’alienazione generata dall’obsolescenza dei prodotti digitali e dal commercio compulsivo online Keucheyan propone di estendere l’anticapitalismo agli oggetti.

“Il nostro problema oggi”, scrive, “è scongiurare la continua rivoluzione delle cose, interrompere la corsa precipitosa che sostituisce incessantemente l’ultimo gadget con uno nuovo, anch’esso subito colpito da obsolescenza e gettato come i suoi predecessori nei rifiuti della storia materiale”.

 Per rallentare l’oblio e l’incessante rinnovamento delle merci digitali serve emanciparle dalle esigenze capitalistiche dell’accumulazione, progettando beni che siano fin da principio più robusti, smontabili, modulari (ogni componente “deve essere utilizzabile e sostituibile separatamente”), interoperabili (“componenti e software devono essere tecnologicamente compatibili con quelli di altri marchi”) ed evolutivi (“incorporano nella loro progettazione le future evoluzioni tecnologiche”).

Emancipati sono quindi quei beni per i quali l’equilibrio di potere tra valore d’uso e valore di scambio torna a volgersi a favore del primo, come nel caso del Fair-phone, lo smartphone pensato dagli sviluppatori con l’intento di minimizzarne l’impatto ambientale e massimizzarne il ciclo di vita.

Per scardinare la dialettica tra il vecchio e il nuovo che fa da fondamento all’economia digitale servirebbe poi allungare la garanzia a copertura dei suoi prodotti, assecondando un desiderio di durabilità che è di per sé naturale nel consumatore medio.

“La garanzia non sembra granché”, suggerisce Keuchayan, “ma è una potente leva per la trasformazione economica e, di conseguenza, politica”. E aggiunge: “il passaggio a dieci anni [di garanzia] ci porterebbe in un altro mondo, la forma merce ne verrebbe sconvolta”.

 

La via della sostenibilità, secondo Razmig Keucheyan, passa per la pianificazione degli sviluppi tecnologici, il ritorno al valore d’uso delle cose, e la gestione etica del fine vita degli oggetti.

L’efficientamento tecnologico delle ICT farà indubbiamente il suo corso, i device impiegheranno sempre meno energia per unità di calcolo e continueranno perciò a moltiplicarsi, ma in ogni caso la tecnica non basterà a fermare da sola se stessa.

Per interrompere la crescita insostenibile delle tecnologie digitali c’è bisogno di misure politiche – come appunto l’estensione della garanzia legale – ambiziose e niente affatto scontate, eppure tutt’altro che implausibili. I

l 60% delle banche nazionali, ad esempio, sta prendendo in considerazione l’ingresso nel mercato delle criptovalute e il 14% sta già facendo dei test per riportare questa diramazione della tecnofinanza sotto il controllo dello stato: cosa che, al netto dei rischi di un’eccessiva centralizzazione, avrebbe almeno l’effetto di arginare la proliferazione speculativa dei miners privati e offrirebbe maggiori garanzie sul taglio obbligato delle emissioni per l’intero settore.

Simile negli intenti all’ipotesi di nazionalizzare la moneta digitale era la provocazione, lanciata qualche anno da Morozov, di “socializzare” i data center.

Server, supercalcolatori e big data sono infatti strumenti troppo potenti e importanti per rimanere in mano agli oligopoli digitali e servire al saggio di profitto del capitalismo data-centrico.

 Occorrerebbe trovare il coraggio politico di democratizzarli, metterli al servizio di una pianificazione economica e tecnologica internazionale che tenga finalmente conto della necessità di preservare quanto più possibile materia ed energia.

Pianificazione degli sviluppi tecnologici, ritorno al valore d’uso delle cose, socializzazione dei mezzi di produzione digitali e gestione etica del fine vita degli oggetti.

Secondo Keucheyan è questo quello che serve per far sì che alla rivoluzione digitale segua davvero anche quella ambientale. Un passaggio che nel mondo dell’industria informatica e dell’economia digitale in cerca di una difficile sostenibilità appare, a molti, ormai inevitabile.

 

 

Medico morto di Coronavirus, la mamma:

“Il vaccino non è stato sufficiente a salvargli la vita."

Romatoday.it- Mauro Cifelli-(24 settembre 2021)- ci dice:

 

Gianluigi Andrea Piegari aveva perso il papà in un incidente stradale quando era ancora un ragazzo. Lascia una compagna incinta di 5 mesi. "Il bambino porterà il cognome di mio figlio".

"Era vaccinato ma non è stato sufficiente a salvargli la vita".                                               Questo il pensiero di Silvana Suriano, mamma di Gianluigi Andrea Piegari, il medico di 36 anni morto in ospedale dopo aver contratto il Coronavirus.

Una morte inaspettata, arrivata mentre "svolgeva il lavoro più bello del mondo", come amava ripetere "Gigi", contagiato dopo un intervento in codice rosso ad un paziente positivo.

Vaccinato con Janssen, come spiega ancora la madre del dottore specializzato in chirurgia estetica, "bisogna però contestualizzare le varie situazioni. Considerare la virulenza del contagio. Non solo chi ha fatto Johnson & Johnson, ma anche chi è vaccinato con Pfizer o Astrazeneca può contrarre questo maledetto virus".

Il contagio a fine agosto.

Un "angelo della strada", come lo ricordano i colleghi del 118, che dal marzo del 2020 era in prima linea per soccorrere donne uomini dallo stesso virus che lo ha poi ucciso.

Proprio in questo contesto Gigi ha contratto il Coronavirus dopo un intervento a domicilio, a fine agosto, in una casa dove c'era un paziente positivo che non era a conoscenza della sua positività al Covid19.

Ricoverato al Columbus Gemelli, Gianluigi Andrea Piegari è venuto a mancare lo scorso 22 settembre, dopo circa un mese in cui ha lottato con tutte le sue forze in un letto del reparto di terapia intensiva.

Il ricordo: "Era un leader".

Sempre pronto ad intervenire per ogni emergenza incitando i colleghi al grido di "ragazzi diamo il meglio perché è il lavoro più bello del mondo", medici, infermieri ed autisti del 118, per cui aveva realizzato dei piccoli adesivi con scritto "Covid19 Veterani", lo ricordano come "un leader", che rimarcava sempre l'importanza del lavoro di squadra.

Padre di un bambino.

Nato e cresciuto ad Albano Laziale, dove aveva conosciuto e si era innamorato di Martina, la giovane compagna incinta di 5 mesi del figlio di Gianluigi, è la madre che spiega quanto questo bimbo "sia già un Piegari". "

Un destino crudele per la nostra famiglia che dopo la morte tragica di mio marito si trova ad affrontare una nuova disgrazia".                                                                   Era infatti il 2010 quando Gianluigi Piegari (che portava lo stesso nome del figlio a cui avevano dato anche il secondo nome Andrea),  perse la vita in un incidente stradale in sella alla sua moto.

"Una disgrazia che nonostante tutto aveva unito ancora di più la nostra famiglia". Zio di una nipotina di 5 anni, 'Gigi' "era felicissimo di diventare papà - racconta ancora la madre del medico 36enne -.

 Per questo nel momento in cui lo hanno ricoverato in ospedale ho subito pensato al futuro di mio nipote cominciando le pratiche per il riconoscimento del cognome del papà".

Martina e Gianluigi non erano infatti sposati "e questo in caso di decesso comporta tutta una serie di lungaggini burocratiche che stiamo affrontando".   "Un ultimo gesto d'amore, un atto dovuto per mio figlio".

(Se non si vaccinava  il  sistema immunitario  naturale  del suo corpo gli avrebbe salvato la vita! ).

(Un nota …disperata.).

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