Una rivoluzione non è più sufficiente
“Una
rivoluzione non è più sufficiente”.
Siamo
già in un Regime Autoritario : i Tratti
distintivi
si vedono tutti, gli Anticorpi no.
Conoscenzealconfine.it
-Claudio Martinotti Doria - Max Del
Papa- ( 17 Dicembre 2021)- ci dicono:
Siamo
già in un regime autoritario: i tratti distintivi si vedono tutti, gli
anticorpi no. Il popolo italiano oltre che da cavia fungerà da utile idiota.
Il governo
Draghi si è inventato di sana pianta uno stato d’emergenza che non è previsto
nell’ordinamento giuridico nazionale, quindi si tratta di abuso di potere per legittimare un
regime autoritario che mira a consolidare il proprio potere in maniera autoreferenziale
impedendo le elezioni. Chi non vuole capirlo è complice oppure ottuso.
Ma non
dobbiamo stupirci di questo andazzo spregiudicato e distopico in quanto il
popolo italiano storicamente servile e conflittuale è culturalmente analfabeta
funzionale,
pertanto si presta facilmente alla manipolazione e al controllo, per questo motivo è stato scelto
nel cosiddetto mondo occidentale il nostro paese come laboratorio sperimentale di
ingegneria politica e sociale.
Il
popolo italiano è abituato a considerarsi suddito anziché cittadino e a invocare concessioni e privilegi
dall’autorità anziché difendere i propri diritti e la propria libertà.
Ecco perché solo una parte minoritaria reagisce mentre
la maggioranza subisce. Solo fra alcuni mesi quando la situazione economica si farà
pesante e gravosa, anzi insostenibile, per una serie di concause che
convergeranno in una specie di “tempesta perfetta”, forse solo allora reagiranno, ma
sarà troppo tardi, il danno ormai sarà devastante e irreversibile, ormai la popolazione sarà stata
depredata di tutto e ridotta in miseria.
Ma
alcuni pensano che queste affermazioni siano deliranti. Ognuno si illude come
meglio crede, salvo poi sbattere la faccia contro la realtà, che non fa sconti
a nessuno, meno che mai agli sprovveduti. (Cav. Dottor Claudio Martinotti Doria).
Max Del Papa :
È il
momento di prendere atto che in dittatura ci siamo già. Lo Stato democratico è archiviato,
quello autoritario di stampo paternalistico è cosa fatta e teorizzata dai
giuristi di servizio.
Il
Parlamento sopravvive in senso puramente formale, i partiti neanche provano più
a difendere un ruolo di cerniera con i cittadini, sono uniti nella sudditanza
verso un uomo solo, purtroppo in odor di provvidenza.
Lo
stato emergenziale viene sistematicamente prorogato e senza andare per il
sottile:
si ammette tranquillamente che le procedure sono anomale, che vengono forzate
per dare modo al capo del governo di diventare capo dello Stato e c’è chi
ipotizza un accorpamento delle cariche che non si vide neanche sotto il
fascismo.
I
tratti distintivi del regime antidemocratico ci sono tutti: la paranoia, con cui stremare le componenti
sociali; le
misure proibitive per chi non si adegua, che sconfinano nei diritti fino a
ieri intangibili; l’odio seminato ad arte, fedele alla
regola del “divide et impera”; l’isteria con cui annichilire le eventuali resistenze; il
ricatto e la demonizzazione dei dissidenti considerati irresponsabili e come
tali disfattisti.
L’informazione
è asservita, la menzogna sistematica, la propaganda inarrestabile.
I numeri, le statistiche vengono
manipolati ad uso e consumo del potere, fatti e circostanze risultano o
ingigantiti o negati a seconda della convenienza. Guitti e figuranti si prestano alle più miserabili
corvée, dire il falso, recitare il falso è ormai attività praticata alla luce
del sole e perfino rivendicata. Dai notiziari ai varietà, niente sfugge al conformismo
sanitario, al
servilismo verso il potere.
Dello
Stato etico, ovvero alienato, non mancano le liturgie: la “prima” alla
Scala si è risolta in una sorta di referendum della sola élite in favore del
mantenimento dello status quo e neppure un inevitabile focolaio ha creato
imbarazzi di sorta: lo hanno scaricato subito sugli stracci, per dire le
maestranze, nessuno ha chiesto se, in quell’assembramento di ricchi e di privilegiati,
anche solo uno fosse veicolo del famigerato contagio: non sta bene dubitare di quelli che
vivono bene, è sconveniente e sgraziato, gli “inferiori”, come il megadirettore
di Fantozzi chiamava i sottoposti, debbono inchinarsi e scusarsi. Di cosa? Di esistere, di prendere
bastonate, non solo metaforiche, di essere considerati unti e untori.
Tutto
ciò che proibisce al popolo libero di subire, il regime lo concede a se stesso
e fa in modo che si sappia: a Bruxelles non si parla di lasciapassare, se un
inviato chiede a un parlamentare qualunque se sia vaccinato, se utilizzi il
Green Pass, si sente ridere in faccia o minacciare. Una parlamentare di Forza Italia,
partito sedicente liberale, si ritrae sui social carica di pacchi natalizi e
chiede ai poveracci se possano fare lo stesso o se, da infami, da disgraziati, preferiscano
boicottare l’economia.
Il
mantenimento dello stato d’eccezione non ha niente di precauzionale, tende a
blindare il regime in funzione di elargizioni già spartite a tavolino se mai
arriveranno.
E per simili obiettivi, del tutto politici (ma
solo se si intende la politica come intrapresa finanziaria), non si esita a “estendere” le misure
coercitive: l’emergenza allungata sine die, il Green Pass pure. Non ha
funzionato? Diamogliene di più, alla fine si convinceranno. I vaccini non sono
risolutivi? Moltiplicateglieli. Le reazioni avverse ci sono e preoccupano?
Basta
smentire, basta negare l’evidenza. Le dittature hanno questo in comune, che non si
curano degli effetti, pensano all’immediato, un carpe diem del tutto
autoreferenziale.
Natale
già abortito, disdette dal 60 al 90 per cento, 40-50 miliardi già bruciati nel
commercio e nel turismo, ma le scadenze fiscali piombano inesorabili; i costi
energetici sono fuori controllo, si parla di blackout, che sommato al lockdown
è la morte civile, la “spoon river “senza ritorno, ma a nessuno sembra
importare. La grande transizione energetica è
demenziale:
spendere dieci volte tanto oggi per restare al buio e al freddo, sperando di guadagnarci fra venti o
trent’anni.
L’Unione
europea impone misure sempre più allucinanti, sempre meno tollerabili e non lo
fa per caso, sa che può permetterselo, che i singoli Paesi, in particolare
l’Italia, non hanno la forza di ribellarsi e non ce l’hanno perché versano in
una condizione di dittatura non più mascherata.
Poi si
potrà dire che neppure la politica ha più responsabilità, che i regimi dei vari
Paesi vengono decisi a tavolino dalle cancellerie europee e queste dall’andamento
dei mercati finanziari, ma è un sottilizzare che non cambia le cose: la tutela dei diritti individuali è
divenuta una esigenza perfino fastidiosa e chi osa pretenderla è percepito come
un provocatore, un sovversivo.
C’è
infine un aspetto decisivo che contraddistingue la dimensione autoritaria in
atto: è
l’uso spregiudicato della comunicazione, sfruttata secondo una strategia
precisa e spietatamente efficace, forse non solo di matrice interna: dapprima circondando le rare voci
contrarie, quindi stritolandole, poi delegittimandole, infine, una volta sputtanate,
oscurandole.
La
Rete, i social, propagandati quali veicoli di pluralismo, si sono rivelati strumenti di
censura, morse mentali come per la rivoluzione verde iraniana, disinnescata
grazie al controllo diffuso su Twitter.
Si sentono cose incredibili: il dovere di
“somministrare” le verità di Stato, l’elogio dello stato d’emergenza a vita
senza alcun fondamento. E chi lo dice magari prende finanziamenti pubblici e non
si fa scrupolo di risultare osceno: a
vergognarsi è chiamato chi difende o rimpiange un’idea di libertà.
A
forza di ripetere che eravamo in un Paese occidentale, europeo, di solida
tradizione democratica, ci ritroviamo senza democrazia e, si direbbe, senza anticorpi: nessuno sembra avere un’idea di
come porre fine a questo incubo e questa è la faccenda più agghiacciante.
Max Del Papa . (introduzione di Claudio Martinotti
Doria – cavalieredimonferrato.it/).
(atlanticoquotidiano.it).
La
parola” patria” un nervo scoperto
per il
Pd, abituato a imporre
presidenti
di parte e di partito.
Atlanticoquotidiano.it-
Franco Carinci- (17 Dic. 2021)- ci dice:
Non
credo si dovesse far fatica ad indovinare che cosa Giorgia Meloni intendesse
col termine “patriota”, avendolo accompagnato con un doppio riferimento,
positivo il primo, attento agli interessi nazionali, negativo il secondo,
sprovvisto della tessera del Pd.
Quest’ultimo è chiarissimo, dato che fa
riferimento alla elezione dei due ultimi presidenti della Repubblica,
Napolitano e Mattarella:
l’uno, comunista della prima ora, come tale corresponsabile morale
dell’intero percorso staliniano e post-staliniano del Pci, dall’apprezzamento
del colpo di stato in Cecoslovacchia fino al soffocamento della rivolta in
Ungheria; l’altro,
dal lungo corso democristiano, approdato con lo scioglimento della Margherita
nel Pd. Nessuno
dei due, a prescindere dalla seconda elezione di Napolitano, figlio di un
accordo preventivo col centrodestra, sì da far apparire alquanto ipocrita
l’attuale rivendica di Letta di scegliere una persona accompagnata da una quasi
unanimità, siffatta da richiamare la favola della volpe e l’uva, non essendosi oggi, almeno sulla
carta, la possibilità di prescindere da Forza Italia, Lega, Fratelli d’Italia.
È la
caduta dell’illusione di poter fare tutto da solo, coltivata ostinatamente,
tanto che il vertice del Pd ha giustificato il suo no allo scioglimento
anticipato del Parlamento, proprio perché l’attuale sembrava fino all’altro
giorno assai più favorevole di quello pronosticato per il dopo elezioni
politiche.
Sostenere
che, a conti fatti, Napolitano e Mattarella sarebbero stati due presidenti
super partes, è solo una opinione che non può dire confermata di per sé dal consenso
popolare, che sempre si esprime per l’uomo seduto al Quirinale. Napolitano ha giocato sporco, non
così Mattarella, che, però è responsabile dell’attuale ingorgo istituzionale,
come da me sostenuto in un articolo precedente.
Dunque,
per la Meloni aver in tasca la tessera del Pd significa non essere un patriota
nel senso di avere a cuore gli interessi nazionali.
Grande strepito nei mass media progressisti,
che confermano di avere un nervo scoperto con riguardo alla stessa parola di
patria,
come una comunità unita dalla lingua, dalla tradizione, della cultura, qui da
noi testimoniata da un imponente patrimonio monumentale e artistico, non
comprensibile se non nell’alveo costituito dall’Impero di Roma e dal successivo
primato del cristianesimo, niente più né meno di una unità nazionale figlia del
Risorgimento.
Ieri,
a tener banco era un internazionalismo sfociato in un terzomondismo di
facciata, oggi un europeismo di maniera, in entrambi casi la patria come
identità nazionale risulta una nozione priva di diritto di cittadinanza, tanto
da averla evitata accuratamente, una espressione di destra, non per nulla cara
alla lingua del regime fascista, sì da lasciarla in eredità alla destra.
Troppa
grazia, una volta che la parola è stata riscoperta dal presidente Ciampi, c’è
stata una sorta di volta faccia, con una forzatura tesa a distinguere patria e
nazione, violandone la indissolubilità, recuperando il patriottismo e
condannando il nazionalismo.
Ma
anche quest’ultimo termine poteva riuscire eccessivo, ecco, dunque, trasformato in sovranismo, che di per
sé vale antieuropeismo, inteso come contrasto all’esplicito disegno del Pd di
recuperare spazio e credito in un potenziamento ipertrofico dello spazio
europeo, gestito
da una troika costituita da Italia, Francia Germania.
Ne
rappresenta una conferma tutto il can can che si è fatto sull’emergere di
Draghi come legittimo successore della Merkel, sì da risultare come un primus
inter pares fra il cancelliere tedesco e il presidente francese, con il quale
si è concluso il Trattato del Quirinale, tanto celebrato quanto poco o niente pubblicizzato nel suo
contenuto.
Sovranismo, in quanto coniugato per la Polonia
e l’Ungheria, porta con sé inevitabilmente l’accusa di negazione dello stato di
diritto,
con particolare riguardo alla indipendenza dei giudici e alla tutela dei
diritti civili di nuova generazione. La prima accusa non gode al momento di grande
fortuna, data la caduta di credibilità della nostra magistratura colpevole non
solo di una incredibile durata dei processi, ma ancor più di una gestione politicizzata
della giustizia; ma, comunque viene ancor mossa nei confronti di una destra che
vorrebbe la distinzione di reclutamento e di carriera fra giudicanti e
inquirenti, non che l’effettiva messa al bando delle correnti. La seconda accusa, invece, è mossa
con gran battuta di cassa, con riguardo a diritti dati per scontati, come la
libera coltivazione della cannabis, la soppressione del reato di omicidio del
consenziente, la introduzione dell’identità di genere, tutte riforme più o meno
condivisibili, ma espressione di un individualismo accentuato.
Tutto
questo rigurgita nella messa sotto processo della Meloni, questa volta
servendosi del suo ricorso al termine patriota, ma serve solo ad evidenziare
ancor più lo sfondo, quale dato da un passato non ancora accantonato che di per
sé la renderebbe poco e niente affidabile come presidente del Consiglio agli
occhi dell’Ue, qui chiamata in causa nel meno nobile compito di far fallire
tramite un boicottaggio finanziario una eventuale vittoria del centrodestra,
con Fratelli d’Italia a far da traino.
È quasi patetico il ricorrente tentativo del
Pd e compagni di chiedere agli altri ossessivamente di fare i conti col proprio
passato, quando essi non l’hanno mai fatto, limitandosi, prima, a rimuoverlo,
facendolo partire da Berlinguer, che, alla vigilia del crollo dell’Unione
Sovietica, era arrivato solo a ritenere esaurita la propulsione della
rivoluzione del 1917; spingendosi, poi, a considerarlo completamente sanato
dall’elezione di Napolitano, un vero e proprio comunista d’antan.
L’antifascismo
è sempre stato la foglia di fico dietro cui i comunisti e i loro eredi hanno
nascosto le loro pudenda, ma questo aveva un senso quando non potevano condividere
apertamente il modello di democrazia occidentale, vis-à-vis delle c.d. democrazie
progressiste imposte al di là della cortina di ferro. Oggi è divenuta una
stanca nenia, volgarizzata in una serie di pamphlet dove il fascismo è
scorporato dal suo contesto storico, fino a farne il carattere distintivo di un
tipo lombrosiano, dotato di particolari caratteri fisionomici e caratteriali. Solo che quando tutto è fascismo, niente è
fascismo, sì che oggi, l’attributo fascista è divenuto niente più che un epiteto,
collegato a qualsiasi comportamento ritenuto aggressivo o semplicemente
offensivo.
Dietro,
c’è, però, l’ombra minacciosa di Silvio Berlusconi che, giorno dietro giorno,
diventa da possibile, probabile, da probabile sempre più certa. L’ascesa alla presidenza dell’uomo
di Arcore significherebbe un autentico dramma per tutta la sinistra, rivaluterebbe
interamente la Seconda Repubblica da lui inaugurata, facendo scadere a
propaganda faziosa e malevole la caccia condotta nei suoi confronti con a far
da regista una procura milanese rivelatasi verminosa; ma renderebbe scontata la vittoria
del centrodestra alle elezioni del 2023. Il fuoco di fila è in pieno corso,
certo Berlusconi non è il migliore degli uomini, ma non certo un leader privo
di un mitico cursus honoris, cui andrebbe riconosciuto almeno il merito di aver recuperato
alla dialettica democratica la destra.
Ma si
sa per la sinistra questo non è un merito, ma un demerito gigantesco, un
ostacolo alla sua auspicata inesauribile egemonia, a cominciare proprio dalla
nomina dei presidenti della Repubblica.
Un
bilancio di 30 anni di Unione europea:
il
dogmatismo all’origine di tutti i mali e fallimenti
atlanticoquotidiano.it-
Fabrizio Borasi-(17 Dic. 2021)- ci dice:
Il 10
dicembre del 1991 – trent’anni or sono – nella città olandese Maastricht (sino
ad allora famosa soprattutto per essere il luogo dove morì in battaglia il
conte d’Artagnan che avrebbe ispirato A. Dumas padre) veniva raggiunto
l’accordo sul Trattato che avrebbe messo fine alle tre Comunità europee
istituite negli anni 50 e sulle loro ceneri avrebbe dato vita all’Unione
europea.
Le Comunità europee avevano contribuito
(all’ombra della protezione militare fornita dalla Nato) a rendere praticamente
inesistente il pericolo di un ulteriore conflitto armato tra i Paesi europei
occidentali che erano stati protagonisti delle due guerre mondiali e,
sfruttando prima gli aiuti postbellici e poi il rapporto privilegiato con i
mercati americani, avevano consentito uno sviluppo senza precedenti del
commercio intraeuropeo: in particolare il nostro Paese aveva raggiunto livelli di
benessere, di istruzione e di vita sociale mai toccati in passato.
Guardando
al nuovo scenario mondiale i leader europei in sostanza decisero che il modello
della collaborazione internazionale tra stati indipendenti era da considerarsi
inadeguato alla nuova epoca e scelsero di dare vita ad una struttura
transnazionale, capace di sostituirsi alle decisioni dei singoli Paesi in
maniera sempre più penetrante, e ciò in vista di una progressiva unificazione, in
ipotesi prima monetaria ed economica e poi politica, che avrebbe dovuto portare
alla creazione di un sistema federale, gli “Stati Uniti d’Europa”.
L’Italia
fu coinvolta pienamente in questo processo ed anzi ne fu influenzata in maniera
decisiva: non per nulla (e molti storici collegano le due cose) il passaggio
dalla prima alla seconda Repubblica avvenne in sostanza in coincidenza con la
firma ufficiale del Tratto di Maastricht (7 febbraio 1992).
Per una curiosa ironia della storia la
delegazione italiana era guidata da Giulio Andreotti, colui che rappresentava
l’incarnazione vivente della prima Repubblica, quasi che il vecchio mondo in
tal modo passasse idealmente le consegne a quello nuovo.
A
trent’anni di distanza ci si deve chiedere, manzonianamente, se è stata (ed è)
vera gloria.
Rispetto alla prima fase, quella basata sulle tre Comunità originarie, come si
può valutare lo sviluppo dell’Unione nata a Maastricht, e sempre più
formalmente rafforzata da una serie di modifiche dei Trattati?
Partiamo
dal caso particolare del nostro Paese. Un altro dei protagonisti della prima
Repubblica (almeno della sua fase finale) Bettino Craxi, a metà degli anni 80
nella sua veste di capo del governo si vantava nei confronti del primo ministro
britannico Margareth Thatcher affermando che l’Italia aveva superato la Gran
Bretagna a livello di produzione economica. Forse esagerava, forse non era
tutt’oro quel che luccicava, ma il fatto stesso di accostare un Paese ancora
agricolo pochi decenni prima alla patria della rivoluzione industriale la
diceva lunga sullo sviluppo seguito in Italia al boom economico e che, sia pure
“puntellato” in vario modo ancora perdurava.
Oggi i
sudditi della regina Elisabetta II hanno lasciato l’Unione europea e da un lato
ospitano la piazza finanziaria più importante d’Europa e dall’altro si avviano
a diventare la maggiore potenza industriale del continente, superando la
Germania, mentre il nostro Paese (purtroppo) è piombato in una crisi economica
che già prima della pandemia era considerata la più grave del dopoguerra;
l’emigrazione sempre più diffusa dei giovani
(non solo dei “cervelli”, ma delle persone “comuni”) è lì a dimostrarlo
impietosa.
Né la situazione è migliorata a livello di vita civile e democratica.
Stendiamo
pure un velo sulla gestione dell’epidemia, ma già da molti anni il ruolo dei
governanti non elettivi, dei “tecnici”, molti dei quali legittimati nel loro
ruolo dal servizio prestato nelle strutture dell’Unione europea, è diventato
dominante e sempre più scelte e decisioni che riguardano la vita associata dei
cittadini nonché i loro diritti individuali sono adottate senza un reale
dibattito nelle assemblee legislative, che sono chiamate solo a dare una
approvazione a posteriori che è quasi sempre poco più che formale.
Non è
bello dirlo, ma la situazione nel nostro Paese è peggiorata dal 1991 non solo
dal punto di vista economico, ma anche (cosa forse più grave) dal punto di
vista della vita civile, sia per quanto riguarda il processo democratico che
per quanto riguarda il rispetto dei diritti dei cittadini.
Se ci
spostiamo sul piano generale, ragionando a livello continentale, le cose non
sono migliori. L’Unione europea, sull’onda del crollo dei regimi comunisti ha inglobato
in sé molti nuovi stati, rispetto al 1991, ma la coesione tra i suoi membri
(vecchi e nuovi) si è decisamente indebolita, ed anzi si può dire che oggi i
Paesi europei sono molto più divisi e in contrasto tra loro di quanto lo erano
trent’anni fa.
A parte l’uscita della Gran Bretagna – che ha
rappresentato una grave perdita per un’Europa che vorrebbe essere “casa comune”
di tutti i popoli – l’attuale Unione sembra sempre più dividersi (come la
Gallia di Cesare) in tre parti, le quali sono contrapposte e per tanti versi
“ostili” tra loro, ed hanno ciascuna un diverso modo di porsi di fronte alle
regole e alle istituzioni comuni, moneta unica compresa (per i Paesi che si
servono di essa).
Da un
lato ci sono i Paesi nordici (Germania, Olanda; Paesi scandinavi e baltici, Irlanda) che
stanno diventando sostanzialmente “indifferenti” rispetto all’Unione, dato che
i loro rapporti economici (leggi esportazioni e importazioni) gravitano sempre
più al di fuori della stessa (Stati Uniti, Cina, Asia in genere, Russia), e
quando trattano le questioni comuni lo fanno quasi “dall’alto” di una posizione
“sicura”, garantita dal fatto che il maggiore peso economico consente loro di
condizionare in gran parte la formulazione delle regole giuridiche e la
elaborazione delle decisioni politiche a livello continentale.
Privi
di una tale forza contrattuale, e quindi da un lato dipendenti in maniera quasi
totale dalle scelte degli organi dell’Unione e dall’altro incapaci di
determinarne il contenuto, sono invece i Paesi meridionali compresa l’Italia e compresa
sempre più la Francia, che si ritrovano privi in maniera crescente di una
prospettiva di sviluppo economico e sociale autonomo e devono ricorrere alle
“graziose” concessioni europee (approvate dai Paesi nordici) di finanziamenti,
non per mantenersi alla pari di quelli, ma solo per non affondare del tutto in
una crisi che rischia di portarli a livelli di vita economica e sociale di tipo
non occidentale.
Infine
ci sono i Paesi orientali (in particolare quelli del cosiddetto gruppo di Visegrád:
Polonia, Ungheria, Cechia e Slovacchia), i quali, forti del fatto che
rappresentano per gli altri Paesi europei sia dei mercati di esportazione che
dei luoghi di conveniente delocalizzazione delle attività produttive, combattono una continua lotta con le
istituzioni dell’Unione per adattare le decisioni comuni, limitandone la portata in relazione
alle loro rispettive situazioni nazionali, ancora tutte caratterizzate peraltro
da una situazione di minore sviluppo economico e sociale, eredità della passata
soggezione ai regimi comunisti.
Circola
la leggenda che gli uomini politici che approvarono il Trattato di Maastricht
non lessero bene le sue clausole; è possibile, ma anche se fosse, sarebbe una
cosa poco importante.
Forse
è più giusto dire che prevalse allora la visione astratta e dogmatica della
realizzazione a tutti i costi dell’Europa unita, vista quasi come il risultato
di un processo inevitabile della storia che avrebbe condotto a una società
perfetta, guidata da una élite di esperti (di economia, di sociologia, di
scienze ambientali ecc.), e che proprio in questo consiste, ad avviso chi
scrive, l’origine di tutti mali e degli insuccessi provocati dalla struttura
sovranazionale, i quali hanno in parte compromesso le stesse realizzazioni
degli anni precedenti portate avanti sotto le tre Comunità degli anni 50: si
pensi solo alla grave diminuzione degli scambi commerciali intracomunitari.
Né si vedono segnali di una modifica di questa
impostazione che, così come la mitica Medusa trasformava in pietra gli esseri
viventi, allo stesso modo trasforma in dogma tutte le idee anche quelle più
valide con cui entra in contatto, e in tal modo le svuota del loro potenziale
più grande, quello di fornire la base ad un dibattito empirico, democratico, e
rispettoso delle posizioni contrarie e dei diritti di chi non le condivide.
L’introduzione
e la gestione della moneta unica (una delle più grandi eredità del Trattato di
Maastricht) sono state portate avanti in gran parte ignorando gli avvertimenti
e le perplessità degli studiosi e degli esperti pratici di economia, e si sono
basate su quello che gli psicologi sociali chiamano “pensiero di gruppo”
(basato sulla ricerca del consenso unitario in vista di un obiettivo anziché
sulla critica dei risultati e sul confronto tra idee opposte) diffuso tra le
élites politiche ed finanziarie del Vecchio Continente.
La stessa cosa sta avvenendo oggi: non si pensi
solo (anche se pure questo fatto è in sé molto grave) ai progetti della
Commissione europea di suggerire i nomi per i figli, ma soprattutto alle
modifiche coercitive all’utilizzo delle fonti di energia elaborato dalla stessa
Commissione, che porterebbe (anche qui contro l’opinione di gran parte degli
studiosi delle scienze della terra, nonché di molti operatori pratici, alcuni
di sincere convinzioni ambientaliste) addirittura ad eliminare, per le case e
le automobili, quelle basate sul petrolio. I danni rischiano di essere peggiori
di quelli causati dall’euro: un ulteriore arroccamento e autoisolamento dei
Paesi nordici, una decadenza sociale difficilmente reversibile in quelli
meridionali e una sempre più accesa conflittualità con quelli orientali.
A ben
guardare il grosso male dell’Europa continentale non è stato il nazionalismo
(molti nazionalisti erano dei sinceri liberali: si pensi ad esempio ad un
Cavour, l’architetto dell’unità d’Italia): il grosso male è sempre stato il
dogmatismo,
perché la pretesa di conoscere la verità in anticipo porta a considerare
inutile il processo democratico (perché decidere a maggioranza se è già tutto
chiaro?), a calpestare i diritti individuali (coloro che non comprendono la
verità vanno educati), e da ultimo anche a non riconoscere i fallimenti
materiali (anche i risultati più avversi non possono scalfire le verità
assolute: c’è sempre modo di giustificarli, magari affermando la tesi del “male
peggiore evitato”).
L’integrazione
e la collaborazione tra i popoli europei sono valori irrinunciabili, ma a parere di chi scrive sarebbe
necessario che essi venissero per così dire “de-dogmatizzati”, resi empirici ed
affidati alle decisioni democratiche “sovrane” dei cittadini delle diverse
nazioni e non a quelle di élites burocratiche condizionate nelle loro scelte
dalle posizioni degli stati più “forti” (come detto quelli nordici).
Forse
i cittadini dei vari Paesi (compreso il nostro) potranno diventare “più
europei” solo se ci saranno “meno” poteri affidati ai burocrati non eletti
direttamente dal popolo e soprattutto “meno” dogmi nelle scelte delle classi
dirigenti dell’Unione, anche se questo dovesse comportare la necessità (cosa
che numerosi esperti, tra cui studiosi “esterni”, americani, indiani ecc. di
economia e di politica sostengono) di rivedere e correggere molte delle istituzioni
create sulla scia del Trattato di Maastricht, prima di tutte la moneta unica.
Il
razzismo contro i bianchi dei cultori
del “wokism”
e della “cancel culture”.
Atlanticoquotidiano.it- Michele Marsonet-(16 Dic. 2021)-
ci dice:
Tra i
tanti complessi di colpa che affliggono l’Occidente in questo disgraziato
periodo va senza dubbio annoverato quello del razzismo (o, per essere più
precisi, del
razzismo “bianco”). Gli
Stati Uniti sono ormai preda di un delirio nato, guarda caso, negli atenei e
negli istituti di istruzione superiore, che pretende di leggere la storia
americana – e occidentale in genere – unicamente in termini razziali.
I
cultori del politically correct e della cancel culture stanno compiendo sforzi degni di
miglior causa per convincerci che le nostre società non sono affatto “aperte”, come si
pensava.
Esse risulterebbero invece
caratterizzate dal “peccato originale” del razzismo, e va da sé che si tratta
di un peccato inespiabile. Possiamo soltanto piangere lacrime amare sul nostro passato
ed
esaltare senza posa altre civiltà immuni da crimini così nefandi.
Ma
esistono davvero, o sono esistite in passato, civiltà simili? La risposta è un
chiaro “no” se appena si legge la storia privi degli occhiali di comodo forniti dalla
cancel
culture.
Prendiamo
come esempio l’Africa. Nonostante ciò che affermano molti missionari vicini al
cattolicesimo di sinistra, i più grandi schiavisti del Continente Nero non sono stati
affatto i cristiani, bensì gli islamici. Furono i mercanti di schiavi arabi
a creare e poi ad espandere il fenomeno della schiavitù. Senza scordare che i suddetti
mercanti non disdegnavano le razzie sulle coste europee per catturare schiavi
cristiani.
Eppure
non risulta che le nazioni islamiche siano afflitte dagli stessi complessi di
colpa che turbano gli occidentali. Al contrario, rivendicano senza problemi la loro
storia – incluso lo schiavismo – perché lo giudicano un segno di potenza
espansiva che va piuttosto esaltato.
Inoltre
le nazioni cristiane iniziarono ben presto a porre limitazioni al traffico
degli schiavi, limitazioni spesso accompagnate da scomuniche papali. Nel mentre i mercanti di schiavi
islamici continuavano ad arricchirsi mettendo ai ceppi intere tribù africane. Nel
loro caso nessuna autorità civile poneva limiti e nessuna autorità religiosa si
sognava di comminare scomuniche. Segno, questo, di una diversa sensibilità umana che
dovrebbe far riflettere i tanti rappresentanti del” wokismo” che siedono in cattedra in America e
in Europa.
Mette
poi conto notare che negli Usa si sta sempre più diffondendo un razzismo “alla
rovescia”, coltivato dai neri ai danni dei bianchi. Come hanno giustamente rilevato
parecchi giornali italiani, la grande stampa americana, con il New York Times in testa, enfatizza
le violenze dei bianchi ai danni dei neri, ma non vale il contrario. Forse come espiazione del succitato
“peccato originale”, si ritiene utile ignorare gli episodi d’intolleranza, e
persino i crimini, degli afroamericani ai danni dei bianchi, e portare
all’attenzione del grande pubblico soltanto quelli contrari. Lo ha notato,
com’è noto, anche Federico Rampini, scrivendo dell’assassinio di un ricercatore
italiano presso la Columbia University di New York.
Non
pare, per nostra somma sventura, un fenomeno destinato ad esaurirsi in breve
tempo, anche se alcuni fatti dovrebbero far riflettere gli intellettuali
progressisti. Si pensi per esempio al fatto che le nazioni occidentali stanno facendo
il possibile per fronteggiare le ondate di migranti che si riversano sui loro
confini. E, in genere, li accolgono pur trattandosi di persone estranee ai
valori e alla cultura dell’Occidente.
Nulla
di simile accade nelle nazioni islamiche, spesso ricchissime, anche se si
tratta di profughi che professano la loro stessa religione e le medesime
abitudini di vita. Dobbiamo dunque vergognarci, come spesso ci invita a fare la massima
autorità della Chiesa cattolica? A me non pare perché, anche in questo caso, è
l’Occidente a impartire lezioni di civiltà ai suoi detrattori e ai loro
complici intra moenia.
L’Ue
sempre più Superstato etico:
meno
libertà,
più pianificazione socialista.
Atlanticoquotidiano.it-
Matteo Bellini-(15 Dic. 2021)- ci dice:
Chi
critica l’Unione europea è spesso visto da molti come poco credibile, destinato a
mandare in rovina il proprio Paese con le sue velleità euroscettiche. Il grande problema sta forse
nell’aver unito erroneamente l’euro-critica sovranista a quella liberale. Posto
che entrambi gli atteggiamenti sono legittimi, spesso è il primo a prevalere e
a racchiudere automaticamente anche il secondo. Qualcuno potrebbe inoltre obiettare
che, in fin dei conti, libertà e sovranità non siano poi così distanti. Concretamente però, si tratta di
due valutazioni differenti dell’impianto europeo e che diffidano delle intenzioni dei poteri
continentali per ragioni diverse.
Per
chi, sul versante liberale, ritiene che l’Unione sia troppo burocratizzata e
sempre più incline al centralismo, questo periodo sta offrendo un assist meraviglioso
per sostenere le proprie ragioni.
Ci
siamo ormai resi conto che l’Ue non vuole rimanere inerme davanti alle nuove religioni
ambientaliste e identitarie che, purtroppo, arrivano da un’America in preda
all’isteria culturale.
Alla
luce delle ultime uscite a dir poco illuminanti della Commissione europea, è
inevitabile che da molti fronti arrivino critiche risentite all’indirizzo di
Bruxelles.
Già
nelle scorse settimane, la reazione dell’opinione pubblica di fronte alla
proposta di ridiscutere i termini adeguati alle festività natalizie, declinando
alcuni riferimenti religiosi o simbolici in nome dell’ormai abusata
“inclusività”, ha costretto i vertici dell’Ue ad un necessario dietrofront
rispetto ad una spinta “riformatrice” non richiesta e altamente ridicola.
A
questa farsa si è da poco aggiunta una bozza di direttiva che sa di
pianificazione socialista e andrebbe ad impattare profondamente la condizione
di milioni di famiglie in tutta Europa.
Il
titolo che la riassume al meglio è quello di Carlo Lottieri su il Giornale: “Se
Bruxelles impoverisce i più deboli”. Come riporta Lottieri, “dal 2027 non sarà
possibile vendere né affittare gli immobili che consumano più energia: quelli
inferiori alla classe E; e dal 2030 finiranno nella stessa situazione pure gli
immobili in una classe inferiore alla C”.
I principali
europeisti, spesso fintamente liberali, direbbero che non c’è alcun motivo di allarmarsi,
visto che si parla di adeguamenti che verranno compiuti in futuro, ma che sono
necessari al fine di garantire quella transizione ecologica imprescindibile per
l’avvenire.
Nessuno nega tale esigenza, ma siamo veramente sicuri
che i luminari della transizione tengano conto delle difficoltà delle famiglie
e delle imprese nell’adeguarsi ai paletti da loro imposti? Perché di imposizione si tratta,
senza girarci troppo intorno.
Se
dunque elencassimo tutte le altre brillanti trovate, risulterebbe evidente che
questa Europa ha sempre meno connotati liberali e sempre più un’impostazione
pianificatrice e socialista. Per non parlare poi del Pnrr che, per l’appunto, è un vero e proprio piano
quinquennale, con obiettivi e impegni precisi.
Più si
va avanti e più si delinea la sagoma di un Superstato etico che vorrebbe indirizzare il
cambiamento, attuando misure che nel breve e nel lungo periodo avrebbero
conseguenze non indifferenti sul tessuto sociale ed economico di molti Stati
membri.
Ai
tanti che, anche da destra, criticano l’Unione europea additandola come emblema
del “liberismo selvaggio” e del “turbocapitalismo”, dovremmo perciò ricordare
che nell’eccesso normativo e vessatorio dell’Unione non vi è nulla di
liberista, bensì il suo contrario.
A chi
invece pensa di confermare la propria matrice liberale nell’appoggio
incondizionato a Bruxelles, è giunta l’ora di essere chiari: essere liberali non significa
diventare automaticamente europeisti dagli occhi bendati.
Anzi,
la critica più costruttiva all’Ue è sempre giunta da chi, con lungimiranza, ha
cercato di concepire una comunità che tutelasse le libertà nella diversità, preferendola
ad un’Unione armonizzatrice dall’inevitabile deriva statalista.
Del
resto, se avessimo considerato i suggerimenti di Margaret Thatcher o di altri
autorevoli liberali come il prof. Antonio Martino, il Continente sarebbe ben
diverso da come si presenta oggi e la fiducia verso le istituzioni europee non
sarebbe così vacillante. Proprio l’economista allievo di Milton Friedman ha chiarito
che, di questo passo, sarà la stessa Ue ad auto indebolirsi e a rafforzare le
velleità antieuropee per definizione, se non proverà ad imboccare una
prospettiva diversa:
“Quanti
credono nell’Europa devono avversare l’Ue e quanto ha fatto per screditare
l’Europa.
L’alternativa, niente affatto remota, è che gli antieuropeisti stravincano,
spazzando via anche quello che di buono c’è nella costruzione europea”.
Stato
d’emergenza:
carta nella partita per il Colle
e arma impropria per giustificare “poteri
speciali.”
Atlanticoquotidiano.it- Federico Punzi-(14 Dic. 2021)-
i dice:
Stando
alle ultime di ieri sera da Palazzo Chigi, il presidente del Consiglio Mario
Draghi avrebbe deciso di prorogare lo stato di emergenza e oggi il Consiglio
dei ministri dovrebbe assumere la decisione. Si parla di tre mesi, fino al 31
marzo, quindi oltre i due anni ad oggi consentiti dalla legge. Servirebbe dunque un adeguamento
normativo.
Ma
come abbiamo più volte sottolineato su Atlantico Quotidiano, sull’emergenza
China virus si è giocata fin dall’inizio in Italia anche una partita politica: quella
per la sopravvivenza della legislatura.
Non solo perché deputati e senatori restano
aggrappati alla poltrona e agli emolumenti fino all’ultimo giorno utile. La
sopravvivenza della legislatura era, ed è fondamentale per la tenuta
dell’assetto di potere esistente: bisognava scongiurare a tutti i costi
un’elezione anticipata, dalla quale sarebbe potuta uscire una maggioranza di
destra in tempo utile per eleggersi, per la prima volta, un proprio presidente
della Repubblica.
Il
China virus è stato in questo provvidenziale.
E qui
arriviamo alla seconda, più grande partita che nelle ultime settimane si è
sempre di più intrecciata con l’emergenza. Altro che contagi e terapie intensive,
lo stato d’emergenza come carta da giocare nella partita per il Quirinale. E sappiamo bene che a dispetto di
silenzi e retorica, sia il capo del governo dei “Competenti” che l’attuale
presidente della Repubblica sono della partita.
Ormai
nelle dichiarazioni quotidiane dei politici e nei retroscena dei giornali non
si prova nemmeno più a dissimularlo: il dibattito sullo stato di emergenza
non segue logiche sanitarie, ma squisitamente politiche.
L’emergenza
allontana Mario Draghi dal Colle, quindi sono favorevoli alla proroga i partiti
– il Pd su tutti – che lo vorrebbero inchiodato a Palazzo Chigi almeno fino al
2023.
L’argomento è potentissimo, come ha già
spiegato Musso: se siamo ancora in emergenza, allora Draghi non ha ancora completato il
lavoro per il quale era stato chiamato a guidare il governo. L’emergenza ancora in corso
suggerisce di mantenere l’attuale assetto, con Draghi a Chigi e Mattarella al
Quirinale.
Draghi,
ovviamente, al Colle vorrebbe andarci subito, quindi resiste. Come? La soluzione studiata nei giorni
scorsi, ma a quanto pare naufragata, era di trasformare in ordinari gli strumenti e le
strutture emergenziali, che quindi avrebbero potuto continuare ad operare anche
senza una proroga formale dello stato di emergenza.
A
questo proposito era uscito nei giorni scorsi su la Repubblica un retroscena
piuttosto inquietante: struttura commissariale di Figliuolo da spostare sotto la
Protezione civile ma con “pieni poteri”; avvalersi del Comando operativo
interforze, al cui vertice sta per andare lo stesso Figliuolo, “per le
operazioni sul campo”; misure straordinarie da ricondurre all’ordinario;
mantenere il sistema a zone colorate, o decretare zone rosse, senza “l’ombrello
dell’emergenza”.
Pare
che ieri a Palazzo Chigi si siano arresi all’evidenza: risulterebbe, al momento, “non funzionalmente percorribile” il trasferimento della struttura
commissariale guidata dal generale Figliuolo all’interno del Dipartimento della
Protezione civile a causa delle “farraginosità non coerenti con i tempi di reazione
necessari”.
Da qui
la decisione di prorogare lo stato di emergenza, presa – tengono a precisare
fonti di Palazzo Chigi – “senza condizionamenti dei partiti, ma solo in
condivisione con il Cts”.
Una
frase per smentire ciò che era apparso sempre più evidente dalle cronache e dai
retroscena degli ultimi giorni, e cioè che la decisione di prorogare o meno lo
stato di emergenza rispondesse a logiche politiche. Ma è una toppa peggiore del buco. I
“condizionamenti dei partiti” fanno parte del gioco democratico, è con i
partiti di maggioranza che la responsabilità politica della decisione andrebbe
condivisa, mentre
Draghi tiene a farci sapere che essa è condivisa solo con il Cts, un organo
tecnico. Una “rivelazione” di estrema gravità.
Questo
è il momento però di mettere a fuoco l’enorme equivoco sullo stato d’emergenza, che in questi due anni si è
ingrossato a dismisura, in parte per l’ignoranza diffusa nella classe politica
e nel circo dei media, su cui però qualcuno ha giocato con estrema
spregiudicatezza.
La
nostra Costituzione non prevede uno stato d’emergenza che assegni al governo
“poteri speciali”.
Nel
nostro ordinamento, lo stato di emergenza è previsto dal codice di protezione
civile e serve unicamente alla Protezione civile e alle strutture commissariali
eventualmente create ad hoc per adottare ordinanze in deroga, per esempio, al
codice degli appalti (per superare le “farraginosità non coerenti con i tempi
di reazione necessari”).
Bisogna
distinguere dunque tra lo stato d’emergenza, che ha permesso alla struttura
commissariale guidata prima da Arcuri poi da Figliuolo di operare agilmente, e
le misure restrittive delle libertà fondamentali adottate dal governo Conte
prima e da Draghi poi.
Queste
ultime prescindono, dal punto di vista giuridico, dallo stato d’emergenza,
ovvero si sarebbero potute adottare anche senza.
I
lockdown, il coprifuoco, il sistema a zone colorate, il Green Pass basic e
super, tutte le restrizioni non hanno bisogno della copertura giuridica di uno
stato d’emergenza, ma di un decreto legge convertito in legge dal Parlamento
entro 60 giorni.
Questo è lo strumento che la Costituzione attribuisce
al governo per governare le emergenze. E il primo vaglio di costituzionalità
dei decreti legge spetta (o spetterebbe) al presidente della Repubblica che li
firma, ma qui si aprirebbe un altro tema…
In
pratica, nel nostro ordinamento lo stato di emergenza esiste a livello
“amministrativo”, tanto che la legge prevede che sia deliberato dal Consiglio
dei ministri, non dal Parlamento.
Tuttavia,
è evidente che lo stato d’emergenza ha svolto in questi due anni anche una
funzione politica. Può apparire paradossale, dal momento che non ne avrebbero
avuto bisogno dal punto di vista giuridico, ma i governi stessi hanno promosso
l’idea che le restrizioni, che fossero introdotte per Dpcm o per decreto legge,
necessitassero dell’ombrello dello stato d’emergenza. In questo modo, sarebbero
state più facilmente approvate dal Parlamento, sostenute dal sistema mediatico
e digerite dall’opinione pubblica.
Prendete
l’intervista di ieri del consulente del ministro Speranza, Walter Ricciardi.
Titolo tra virgolette: “Urgenza da prorogare, a gennaio serviranno scelte forti”.
Ma per
queste non serve lo stato d’emergenza del codice della protezione civile,
“scelte forti” possono essere assunte con lo strumento ordinario previsto nei
casi di necessità e urgenza: il decreto legge.
Nelle
parole prima di Conte e poi di Draghi, dei loro ministri e dei media allineati,
lo stato d’emergenza che per legge serve solo a rendere più agile le strutture
della Protezione civile è stato usato come espressione evocativa di poteri
speciali del governo, per giustificare ogni tipo di restrizione senza dover
dare troppe spiegazioni, senza supportarle con dati e travolgendo il principio
di proporzionalità.
Vitalba
Azzollini è stata la prima, già questa estate, a spiegare come lo stato d’emergenza
sia stato “snaturato” dal governo Draghi. Nella forma: a luglio, quando è
stato prorogato per decreto legge (n. 105), anziché con delibera del Cdm.
E
nella sostanza: nel decreto non si richiama più la legge alla base dello stato
d’emergenza, il codice della protezione civile (decreto legislativo 1/2018). Non è questione di lana caprina ma
di sostanza. In pratica, il governo Draghi in questo modo si è inventato di sana
pianta uno stato d’emergenza che non è previsto nell’ordinamento, che
resterebbe svincolato dalle regole di riferimento e dai paletti entro cui era
stato concepito.
“Gli
stessi rappresentanti delle istituzioni – osservava Azzollini – ormai parlano
di stato di emergenza in modo improprio, cioè slegato dai vincoli sanciti della
legge citata”, con il rischio che in futuro – ma lo vediamo già oggi – ci sia
la più ampia discrezionalità nel dichiarare un’emergenza.
A tal
punto da poter dichiarare o prorogare uno stato d’emergenza in ossequio ad un
principio di “precauzione” che travolga tutti gli altri diritti, o trascorsi
ormai due anni dalla comparsa del China virus, non più quindi un evento
inatteso ma un problema con il quale convivere e da gestire con strumenti
ordinari. Il
rischio, paventato ieri da Roberto Pozzo, di uno stato di emergenza permanente
senza emergenza, come nei regimi autoritari.
C’è di
che preoccuparsi, dunque, a prescindere dalla proroga. È allarmante che sia stato
snaturato lo stato d’emergenza a tal punto da far credere che giustifichi
qualsiasi restrizione decisa dal governo.
E ci sarebbe da preoccuparsi anche se non
venisse prorogato, ma restassero in vigore i “pieni poteri” al commissario
straordinario (“può adottare in via d’urgenza i provvedimenti necessari a
fronteggiare ogni situazione eccezionale … in deroga a ogni disposizione
vigente”), zone colorate e l’apartheid del Green Pass, “armi” che, si è ben
capito, Draghi vorrebbe mantenere e rendere “ordinarie” sine die, a tempo
indefinito.
Da uno
stato d’emergenza ci troveremmo – e forse già ci troviamo – in uno stato
d’eccezione…
No,
non siamo in guerra. Peggio:
il
rischio dell’emergenza permanente.
Atlanticoquotidiano.it- Roberto Ezio Pozzo- (13 Dic.
2021)- ci dice:
Quello
che la pandemia Covid-19 ha causato nel mondo intero può essere analizzato in
diversi modi, ma certamente uno degli aspetti meno trattati dai media è
l’impatto sulla società in generale e sui poteri statali in senso lato.
Se, da sempre, dominava una mentalità
massicciamente orientata a considerare i governanti quali unici artefici dei
destini della gente comune qualcosa è davvero cambiato profondamente in questi
ultimi due anni. Oggi impariamo che comanda un virus. Abituati a versare oceani d’inchiostro
su come la politica internazionale stesse cambiando il mondo, ci siamo del
tutto scordati che nel corso della storia, il mondo è stato più volte scosso e
trasformato in profondità da grandi eventi imprevisti quali le guerre, le
pestilenze, le carestie di grandi dimensioni.
Si
potrebbe ben dire di essere stati, noi dell’attuale generazione, molto
fortunati a non aver vissuto direttamente le guerre mondiali e di avere,
tutt’al più, appreso dai giornali e dalla televisione quali enormi
stravolgimenti stessero apportando le recenti carestie in parte di alcuni
Continenti, come l’Africa, e buona parte della penisola indiana, ma, tuttavia,
tali calamità nazionali non hanno mai interessato il mondo intero.
Il
maledetto virus (forse) sfuggito ai laboratori cinesi poco più di due anni fa
non pare avere precedenti storici per estensione e per la gravità dell’impatto
sociale sulle popolazioni dell’intera Terra.
Anche nelle ricorrenti grandi pestilenze, come
le epidemie di colera, di febbre gialla, di spagnola dei tempi più recenti,
nonostante un numero di vittime forse superiore, a quanto sia dato sapere, a
quelle del coronavirus, vi sono stati allora Paesi, perlopiù isolati e non
“contaminati” dalle popolazioni più evolute, che non hanno conosciuto niente di
tutto ciò e la spiegazione è palmare: la limitatissima capacità di viaggiare e
spostarsi di allora, assolutamente imparagonabile a quella di oggi. Sta di
fatto, comunque, che ciò a cui assistiamo ancora quotidianamente, a fine 2021,
ha una caratteristica sociale ben diversa e non ancora studiata a fondo dai
sociologi e dai politologi.
Siamo
alle prese con qualcosa che non ha risparmiato neppure le più sperdute isolette
oceaniche e possiamo tristemente constatare oggi che non vi è nazione, non
esiste politica nazionale né consesso di governanti che non abbia dovuto
affrontare un male subdolo e potentissimo, contro il quale nessun armamento è
minimamente efficace e nessuna politica interna o estera era davvero preparata
ad affrontare con efficacia e prontezza.
Questo
pare essere l’elemento di maggior spicco nell’attuale panorama mondiale: impreparazione, incertezza,
sperimentazione accelerata, ricorso a procedure tipiche dello stato di guerra
senza che alcuno l’abbia dichiarata sembrano oggi istituzionalizzate e
socialmente accettate. Nemmeno le due guerre mondiali, che, non lo si
dimentichi, ebbero una fase precursoria di qualche anno, vennero percepite come
qualcosa di sconosciuto, gravissimo, letale e dall’incredibile propagabilità
orizzontale.
In
tempo di guerra vi è sempre stata qualche forma di ottimismo, sia a livello
statale che individuale, per cui si pensava che presto sarebbe finita, con la
vittoria di una delle parti belligeranti e mai come in tempo di guerra si è
guardato all’inevitabile pace che ne sarebbe seguita. Gli studiosi della società hanno
persino classificato la guerra come qualcosa d’immanente e connaturata
all’indole umana oppure come una specie di perturbazione ciclica dello stato di
relativa quiete tra i popoli, per non parlare delle concezioni più drastiche,
come quella di Von Clausewitz (1780-1831) il quale sosteneva che “la guerra non
è che la continuazione della politica con altri mezzi”.
D’altra
parte, chiunque abbia vissuto qualche anno ed abbia potuto o voluto aprire un
libro di storia una qualche idea ha potuto farsela e certamente sono molti
quelli che considerano genericamente non impossibile una guerra mondiale nel
corso della propria esistenza.
Sia
anche detto che delle guerre antiche o moderne sappiamo davvero tanto e che addirittura
una guerra in corso si vede oggi dai satelliti e si ascolta in diretta dai
media. Tutto ciò dovrebbe spingere a maggiore prudenza i troppi che,
semplicisticamente, accomunano l’attuale pandemia ad una guerra. Sono fenomeni
talmente diversi e non assimilabili da richiedere una mentalità e contromisure
affatto diverse. Si ricorre, tristemente, al paragone con la guerra soltanto per
giustificare e far digerire misure coattive e restrittive della libertà
personale che un eterno e tacitamente rinnovabile stato d’emergenza
giustificherebbe. E qui sta il vero vulnus inferto alla società civile.
Ciò
che stiamo (più o meno) affrontando oggi, con la guerra ha pochissimo a che
fare e metodi spiccatamente bellici possono essere inefficaci o addirittura
controproducenti. D’altra parte, almeno in Italia, la voglia dell’”uomo forte”,
magari in divisa, è cosa vecchia e ormai facente parte del nostro folclore,
salvo poi gridare al colpo di stato imminente.
Siamo fatti così: per anni abbiamo sputazzato
sulle divise e sul grigioverde in genere ed oggi ci sciogliamo in canti
patriottici sui balconi (molti dei quali abusivi) e riteniamo che un
medagliatissimo generale comandante dell’ennesima task force ci salverà dal virus, restituendoci
la libertà di tornare a fare a cazzotti sugli spalti del calcio, ma senza
mascherina, e di lasciare che i nostri ragazzi si sudino addosso l’un l’altro e
si sbronzino in affollatissime discoteche come non ci fosse un domani.
Dire
che vogliamo tutto ed il contrario di tutto è poco. Si continua a tirare in
ballo la guerra per descrivere ciò che si fa (o non si fa) per combattere il
mostriciattolo a forma di mina (unica lontana rassomiglianza con le cose della
guerra).
Purtroppo
per gli affezionati dei paragoni con la guerra, qui non vi sarà un vincitore né
un’alleanza vittoriosa. Ne usciremo tutti sconfitti, e non intendo dire che moriremo
tutti, anzi… ma temo che ciò che ci ha letteralmente travolto, come un rullo
compressore impazzito, ci porterà a dichiarare, prima o poi, la fine dell’emergenza,
di tornare ad una normalità che non sembra semplicissima, perché susciterà
infinite dispute perlomeno a livello legale ed economico.
Vedo, soprattutto, la difficoltà di stabilire
quando o cosa possa ipoteticamente nuovamente instaurare uno stato d’emergenza
nazionale, con relativa compressione di quelle libertà individuali che tanto
abbiamo declamato con la “Costituzione più bella del mondo” alla mano.
Il
timore non è del tutto infondato: e se succedesse che si applichi in futuro il
ragionamento analogico esteso, quello del “come vi abbiamo recentemente imposto
quello e questo per il bene comune, adesso v’imponiamo quest’altro ancora, per
lo stesso motivo”?
Che
San Green Pass (normale, rinforzato, corretto, potenziato o spaziale) ci aiuti!
Ma stiamo
rischiando tanto e a forza di paragoni impropri e ragionamenti analogici chissà
che non si giustifichi un altro bello stato d’emergenza tra capo e collo,
giusto per riaffermare il principio che siamo il Paese più democratico al
mondo.
“La
Fabian Society e la pandemia”:
ecco
chi prova ad approfittare del Covid
per
avanzare la sua agenda politica.
Atlanticoquotidiano.it-
Recensioni-(23 Ott. 2021)-ci dice:
Esistono società politiche molto più influenti
dei partiti che siamo abituati a conoscere. Società che costituiscono una sorta
di “stanza di compensazione” fra la politica, gli intellettuali, i giornalisti
e il mondo dell’alta finanza internazionale.
Sono
luoghi nei quali si progetta il futuro al riparo dalle piccole beghe quotidiane
di palazzo e dalle competizioni elettorali. Il libro scritto da Davide Rossi
(autore di vari articoli su Atlantico Quotidiano) “La Fabian Society e la pandemia”, pubblicato da Arianna Editrice,
accende i riflettori su uno di questi circoli elitari, appunto la Fabian
Society.
Il
lavoro di ricerca è iniziato cercando di capire da quali ambienti arrivi e da
quali logiche è mosso colui che, nel nostro Paese, ha gestito e sta gestendo
politicamente l’emergenza sanitaria, ossia il ministro Roberto Speranza.
La
Fabian Society e la pandemia. Come si arriva alla dittatura.
L’uomo
che, inspiegabilmente, occupa il ministero chiave della sanità. Che ad un partito inesistente nel
Paese e minuscolo in Parlamento quale è LEU (Liberi E Uguali), sia stato
assegnato nel governo Conte 2 (quello formato da Pd, Cinque Stelle e appunto
LEU) un posto di tale importanza è a dir poco strano. Incomprensibile, poi, che sia stato
addirittura confermato nel successivo governo Draghi.
Mancato
aggiornamento del piano pandemico, nessun potenziamento dei posti letto
ospedalieri, protocollo sanitario anti-Covid che evita, in modo letale per
tanti pazienti, le fondamentali cure domiciliari. Il “nostro” ministro della salute è
stato capace solo di chiudere tutto, imperterrito.
Perché
proprio lui? Abbiamo già visto che viene da una formazione politica
numericamente irrilevante, non ha di suo un carisma o una forte personalità,
non si è mai occupato di sanità in vita sua.
Insomma,
apparentemente non c’è una ragione logica per la quale sia stato nominato in
quel ruolo e ne sia stato confermato dopo la rovinosa gestione dell’emergenza.
Nel
libro si ricorda come la John Hopkins University abbia certificato che l’Italia
è il Paese al mondo con il più alto numero di morti per Covid per 100.000
abitanti. Un disastro, al quale sarebbe dovuta conseguire una cacciata con
ignominia, ed invece ha avuto il premio e sta ancora lì.
Così,
per comprendere, l’autore si è messo sulle tracce della carriera di Speranza e
di quella del suo padrino politico, Massimo D’Alema. Sono emersi legami internazionali,
rapporti di potere e di denaro ed intrecci imprevisti. Soprattutto, sono emersi
collegamenti fra questi personaggi ed un mondo che da oltre cento anni cerca di
condizionare la vita delle persone e persegue il controllo delle masse: quello
appunto della Fabian Society.
Alcuni
membri dell’elite vittoriana di fine ‘800, fra i quali lo scrittore e
spiritista Frank Podmore e l’aristocratico Henry Hyde Campione, diedero vita
alla Fabian Society. Questo nome, Fabian, è ispirato a Quinto Fabio Massimo il
Temporeggiatore, il console romano noto per aver combattuto Annibale e per la
sua tattica militare.
Era detto il Temporeggiatore perché logorava
le forze nemiche, evitando scontri in campo aperto, cercando invece una guerra
tattica, fatta di atti di guerriglia, di nascondimenti, di avanzamenti e
arretramenti. Un prendere tempo per arrivare a colpire in maniera decisiva solo al
momento opportuno. In questo modo il generale romano riuscì a sconfiggere
Annibale nella battaglia di Naraggara (presso Zama) nel 202 a.C. che mise fine
alla Seconda Guerra Punica e segnò, in pratica, la irreparabile sconfitta dei
Punici.
È
esattamente questa, secondo l’autore, la via attraverso la quale i Fabiani
intendono imporre una dittatura collettivistica, uno Stato socialista mondiale
che stabilisca il nuovo ordine.
Vogliono
instaurare un socialismo guidato da una ristretta aristocrazia del potere, ma non attraverso un atto
rivoluzionario immediato quanto piuttosto attraverso il gradualismo, un
prendere il potere un po’ alla volta, con riforme da attuare inserendosi man
mano nei gangli delle istituzioni esistenti trasformandole, in modo quasi
impercettibile, dall’interno.
Solo quando si saranno realizzate le
condizioni ottimali, allora occorrerà dare la zampata finale, colpire duro e se
necessario usare anche la violenza per completare l’opera.
George
Orwell, l’autore del romanzo distopico “1984”, era uno dei Fabiani più
illustri. Quante volte, da quando è scoppiata la pandemia, lo avete sentito
citare?
Forse
è perché la spaventosa società del controllo da lui descritta in “1984” è
quanto di più simile a quanto ci sta accadendo negli ultimi due anni. Il socialismo tecnocratico, della
sorveglianza e della manipolazione delle masse è quello che viene descritto da
Orwell nelle sue opere ed è, come viene accuratamente spiegato da Rossi nel
libro, l’ossessione dei Fabiani.
Un
libro che ha due obiettivi. Il primo è quello di delineare il pensiero politico della Fabian
attraverso alcuni cenni storici e verificando quali siano gli attuali uomini e
le donne di potere che le afferiscono. Il secondo è di analizzare come e quanto la
visione del mondo dei Fabiani coincida con quell’epocale tornante della storia
nel quale ci è toccato di vivere: la drastica svolta autoritaria imposta al mondo
occidentale attraverso l’utilizzo politico dell’emergenza Covid.
Sarebbe
stato solo un esercizio culturale, per quanto interessante, quello di un mero
approfondimento sulla storia e il potere della Fabian Society. Questo è invece anche un libro
politico, che intende entrare e scavare nel pieno dell’attualità per
evidenziare la concreta applicazione delle idee fabiane in questa gigantesca
sospensione delle nostre libertà fondamentali.
L’autore
si è determinato a scrivere questo libro proprio perché la realtà che stiamo
vivendo è vicinissima, quasi coincidente, a quella progettata dai Fabiani fin dalla
loro fondazione.
No
alla reductio ad Hitlerum:
dalla
caccia al non vaccinato
alla
caccia a chiunque osi criticare.
Atlanticoquotidiano.it-
Federico Punzi-(11 Ott. 2021)-ci dice:
Mai
avremmo immaginato di sentirci così vicini alla Cgil come in queste ore. Vedere
la propria sede (o abitazione) assaltata e saccheggiata è un dolore che
nessuno, associazione o privato cittadino, dovrebbe mai provare. Una violenza
inaudita, inaccettabile.
Peccato
solo che quando ad essere assaltate o vandalizzate sono le sedi dei partiti di
destra o i loro gazebi – e la lista degli attacchi, anche nelle recenti
campagne elettorali, è piuttosto lunga – non ricorra la stessa indignazione, i
leader della sinistra non accorrano a denunciare l’attacco alla democrazia e
alla Costituzione a favore di telecamere, e i giornali mainstream se la cavino
con un trafiletto in duecentesima pagina…
Noi
siamo per la tolleranza zero nei confronti di qualsiasi forma di illegalità,
anche delle devastazioni e delle aggressioni politiche solitamente tollerate
dal Viminale, e ignorate o persino giustificate dalla sinistra e dai media
“amici”.
Ma le
violenze di sabato, ce lo ha ricordato Marco Gervasoni su Twitter, sono la
dimostrazione di ciò che accade quando un movimento ha sufficiente massa
critica ma non ha organizzazione e guida politica. Rischia di essere infiltrato
e strumentalizzato da una frangia violenta alla ricerca di visibilità. E
consapevolmente o meno, scatenando la legittima azione delle forze dell’ordine,
le violenze finiscono per essere perfettamente funzionali alla difesa di ciò contro
cui quel movimento si batte.
Sabato
scorso, migliaia di manifestanti pacifici con molte ragioni dalla loro parte
sono rientrati nella narrazione che li vorrebbe incasellare come minaccia
eversiva. Che
tutto sia dipeso da poche decine di violenti, che sia stato orchestrato ad arte
o sia semplicemente capitato, poco conta: conta il risultato.
Certo,
sorprende la facilità con cui da un lato hanno potuto agire gli assalitori
della sede della Cgil – la cui presenza e pericolosità tra l’altro era ben nota
alle autorità – quasi che la scelta fosse di lasciarli fare, dall’altro con cui
i manifestanti venivano caricati e percossi dalle forze dell’ordine anche
durante momenti pacifici. A guidare l’assalto, persino un
signore “daspato” e sottoposto a sorveglianza speciale, che non potrebbe
nemmeno partecipare alle manifestazioni.
Né ci
siamo fatti mancare lo strano personaggio che di frequente in queste situazioni
di caos si vede nei filmati aggirarsi in borghese ora tra i manifestanti, ora
dietro le file della polizia, a picchiare qualche malcapitato fermato.
E
certo è che se fosse stata una delle tante manifestazioni della sinistra
“no-tutto”, si sarebbe detto che le forze dell’ordine avrebbero dovuto
innanzitutto difendere il diritto a manifestare dei tantissimi manifestanti
pacifici dai pochi facinorosi provocatori.
Non
sappiamo quanto ci sia di studiato a tavolino nella gestione dell’ordine
pubblico di sabato scorso, ma sappiamo che da settimane, mesi, è questa la
narrazione che il governo, il Viminale, gran parte delle forze politiche di
maggioranza e dei media mainstream cercano di accreditare, per criminalizzare
chi è contro l’obbligo di Green Pass e osa porre domande scomode: no-green pass uguale no-vax uguale
fascisti. Quindi, per la proprietà transitiva, no-green pass uguale minaccia
eversiva.
Una
equivalenza che è chiaramente una impostura intellettuale, una delle tante e
forse la più odiosa a cui ci è toccato assistere durante la gestione italiana
della pandemia, ma che è purtroppo uscita rinvigorita dagli scontri di sabato,
dopo il flop degli annunciati blocchi no-vax delle stazioni ferroviarie
(ricordate?).
Nella
narrazione mainstream si confonde strumentalmente tra vaccini e Green Pass,
attribuendo a quest’ultimo i benefici dei primi. E coerentemente, chi è contrario
all’obbligo e per la libertà di scelta viene bollato come no-vax. Ma si può essere a favore dei vaccini
e contrari al Green Pass e agli obblighi. Come ha ricordato Daniele
Capezzone, questa
è esattamente la posizione dei più autorevoli quotidiani conservatori come Wall
Street Journal e Telegraph, non pericolosi fascisti…
Il
Green Pass non è il vaccino. È il vaccino a proteggere dal Covid, il Green Pass è uno strumento normativo per
costringere le persone a vaccinarsi senza assumersi la responsabilità di un
obbligo vaccinale e aggirando i paletti costituzionali entro cui un obbligo vaccinale
dovrebbe inserirsi.
E come tale, l’attuale estensione dell’obbligo
di Green Pass, persino per lavorare, e persino da remoto, è una scelta tutta
politica non solo criticabilissima, ma a cui riteniamo doveroso continuare a
opporci.
Con le armi della dialettica, della ragione, della libertà d’espressione, della
legalità – almeno finché ci sarà consentito.
Ma
dopo gli scontri di sabato, assistiamo ad un passo avanti ulteriore: dalla caccia al non vaccinato alla
caccia a chiunque, a qualunque titolo, si permetta di avanzare dubbi
sull’obbligo di Green Pass. La criminalizzazione non solo di chi non vuole vaccinarsi,
di chi scende in piazza a manifestare, ma anche di chi si limita ad esprimere
le sue opinioni.
“Chi
ha dato copertura ideologica, filosofica, morale e politica a questa follia no
green pass in buona fede, sappia che dopo oggi la presunzione di buona fede non
vale più”, ha avvertito il giornalista Tommaso Labate con un tweet.
Vietato
criticare, vietato dubitare e chiedere conto alle autorità della logica delle
loro decisioni. Non basta vaccinarsi. Non basta obbedire. Bisogna anche credere
e dimostrare di crederci. Credere, obbedire, vaccinarsi. Se si viene meno ad
uno solo di questi imperativi, si rischia di venire accomunati ai violenti, di
essere bollati come mandanti morali, come è capitato ieri sera persino a
Vitalba Azzollini, una giurista che in punta di diritto non si stanca di
sollevare dubbi e perplessità sulle misure governative anti-Covid, obbligo di
Green Pass compreso, senza mai dire o scrivere una parola fuori posto e
condannando la violenza in ogni forma. Ma non basta. Non basta mai,
pretendono la sottomissione completa, il silenziamento di ogni critica.
Ieri
sera, via Twitter, a partire da una vignetta mediocre e di cattivo gusto,
Vitalba è stata senza mezzi termini accusata dal virologo Burioni, dal
giornalista Rai Loquenzi e dal governatore dell’Emilia Romagna Bonaccini di
fomentare, con i suoi articoli, i no-vax e quindi di essere pericolosa.
Alle
sue repliche si è sentita chiedere da Bonaccini se per caso non abbia la coda
di paglia.
Ora,
pur essendo su sponde politiche diverse, non si può non riconoscere in Vitalba
Azzollini, anche quando siamo in disaccordo, onestà e rigore intellettuale,
studio e riflessione, ingredienti preziosi di un sano dibattito pubblico.
Ci
accomuna oggi la preoccupazione per gli effetti delle degenerazioni normative
anti-Covid sul nostro ordinamento, sulle nostre libertà e in generale sul rapporto
Stato-cittadino. Per qualcuno si tratta di sofismi che disturbano i manovratori, per noi
le questioni di diritto sono sostanza. Se si riduce tutto alla mera
sopravvivenza, allora siamo bestie, non uomini. E questo sì, significa scendere
al livello dei violenti.
Se
proprio si vogliono cercare responsabilità morali, non si guardi solo a chi
legittimamente e fondatamente critica l’obbligo di Green Pass, ma anche ai
ministri che godono dei “costi psichici” inflitti, ai mesi di disprezzo e
insulti (e menzogne) vomitati addosso ai non vaccinati. Dichiarazioni incendiarie che stanno
facendo saltare i nervi a chi già vede fortemente compresse le proprie libertà,
il diritto di seguire una lezione in presenza e persino di lavorare.
Ogni
giorno, da mesi, sulla carta stampata, via social o dai salotti dei talk show,
politici, virologi, giornalisti, persino operatori sanitari sparano a palle
incatenate accuse e minacce verso chi non vuole vaccinarsi o semplicemente non
ritiene giustificate le limitazioni imposte attraverso l’obbligo di Green Pass:
chi li
vorrebbe vedere morti o intubati, chi “chiusi in casa come sorci” o “perseguiti
come mafiosi”, chi vorrebbe fargli pagare le cure, chi addirittura invoca Bava
Beccaris (il generale noto per aver ordinato di sparare sulla folla per
reprimere i moti di Milano del 1898), chi appunto si compiace dei “costi
psichici” inflitti con la “genialata” del Green Pass.
Una
vera e propria “campagna d’odio”. Dunque, non si può incolpare solo una parte del
clima infame, della deriva pericolosa…
Basta
guardare i dati delle vaccinazioni: l’Italia è tra i Paesi al mondo con le più
alte percentuali di popolazione vaccinata (siamo sopra Francia, Germania, Regno
Unito e molti altri Paesi europei che hanno rimosso ogni restrizione e obbligo
di pass sanitario) e questo senza che l’estensione dell’obbligo di Green Pass
abbia determinato rimbalzi significativi rispetto ad una dinamica
inevitabilmente in rallentamento essendo ormai vaccinata la stragrande
maggioranza degli italiani.
Si è
deciso comunque di avvelenare il clima, di dividere gli italiani, introducendo
una misura non necessaria, né dal punto di vista sanitario né per la campagna
di vaccinazione, la cui unica logica sembra quella di cercare l’umiliazione e
la sottomissione di una parte della popolazione
. La
maggior parte dei Paesi europei con percentuali di vaccinati simili o inferiori
alle nostre hanno riaperto tutto e senza pass. Ma qui ci viene ripetuto fino
alla nausea – altra colossale menzogna – che il Green Pass è uno “strumento di
libertà”.
Certo, se per chi lo impone l’unica alternativa ad esso sarebbero le chiusure e
la ricaduta dell’economia…
Eppure,
se guardiamo al di fuori dei nostri confini, a guidare contromano in autostrada
con il suo obbligo di Green Pass sembra il governo italiano.
In
Italia “l’obbligo più esteso tra i maggiori Paesi occidentali”, titolava il
Wall Street Journal, riferendosi all’obbligo con espressioni come “forza
politica bruta” e “inutile accanimento”.
La
cosa che ricorda di più il fascismo oggi in Italia è proprio l’obbligo di Green
Pass, come ha scritto Zoe Strimpel sul Telegraph, altro che le manifestazioni
no-vax…
“In
Italia di recente mi sono trovata sconcertata dalla incessante applicazione di
regole stupide e invasive. Alcune, ma non tutte, riguardavano il Green Pass del Paese,
prova digitale dello status Covid che viene richiesto ovunque, dai treni ai
vecchi musei polverosi. Ma quello che mi ha colpito è stato un mood generale di
‘documenti per favore’ per lavorare.
Con questa rete pronta di esecutori militanti,
accecati dal potere ritrovato, non ho potuto fare a meno di pensare al fascismo
(o
comunismo cinese) e all’effetto della sua influenza straordinariamente recente sui giorni
nostri…”
(Quando
gli assassini comandano una nazione …).
Operazione
Sterminio -
il piano per decimare
il
sistema immunitario umano con un agente
patogeno generato in laboratorio.
Unz.com-
MIKE WHITNEY • (8 DICEMBRE 2021)- ci dice:
"Se
qualcuno volesse uccidere una parte significativa della popolazione mondiale
nei prossimi anni, i sistemi messi in atto in questo momento lo
consentirebbero". Dr. Mike Yeadon, ex vicepresidente di Pfizer.
"E
questo è lo spirito dell'anticristo, di cui avete sentito parlare sta
arrivando; e ora è già nel mondo." 1 Giovanni 4:2–3
Domanda–
Il vaccino Covid-19 danneggia il sistema immunitario?
Risposta–
Lo fa. Compromette la capacità del corpo di combattere infezioni, virus e
malattie.
Domanda–
Se questo è vero, allora perché non sono morte più persone dopo essere state
vaccinate?
Risposta–
Non sono sicuro di cosa intendi? Il vaccino ha ucciso più persone di qualsiasi
altro vaccino nella storia.
"Finora,
negli Stati Uniti, il bilancio delle vittime è tre volte superiore al totale di
tutti i vaccini negli ultimi 35 anni".
Questo è semplicemente sorprendente.
Abbiamo anche visto un
costante aumento della mortalità per tutte le cause e delle morti in eccesso
nei paesi che hanno lanciato campagne di vaccinazione di massa all'inizio
dell'anno.
A
volte l'aumento è fino al 20% rispetto alla media quinquennale.
Questo è un enorme picco di decessi, ed è in gran parte attribuibile al
vaccino.
Quindi, cosa intendi quando dici: "Perché non sono morte più
persone"?
Ti aspettavi di
vedere persone che stringevano i loro cuori e cadevano morte dopo essere stati
colpiti?
Questa è una comprensione molto
ingenua di come funziona l'iniezione.
(Vedi:
"Decessi COVID prima e dopo i programmi di vaccinazione",You Tube).
Domanda–
Tutto quello che sto dicendo è che la percentuale di persone che sono morte è
piuttosto piccola rispetto alle decine di milioni che sono state vaccinate.
Risposta–
E tutto quello che sto dicendo è che se il vaccino è un agente patogeno
generato in laboratorio – e penso che lo sia – allora certamente non è stato
progettato per uccidere le persone sul posto. È stato progettato per produrre una
reazione ritardata che erode gradualmente ma inesorabilmente la salute del
vaccinato.
In altre parole, il pieno impatto dei coaguli
di sangue, del sanguinamento, dei problemi autoimmuni e di altre lesioni generate
dal vaccino sarà pienamente sentito solo in un secondo momento attraverso
l'aumento degli incidenti di infarti, ictus, malattie vascolari e persino
cancro. (Dai un'occhiata all'ultima
tendenza delle presenze cardiache da parte dello Scottish Ambulance Service -
questo è * in eccesso * al di sopra della norma 2018/19. Enorme picco in
estate, 500 chiamate di ambulanza a settimana al di sopra del normale,
principalmente di età compresa tra 15 e 64 anni. Si stava sistemando, poi si è
ripreso dal tardo ottobre". Scottish Unity – Gruppo di Edimburgo).
Risposta–
Il grafico sopra mostra perché i problemi cardiaci hanno raccolto molta
attenzione ultimamente, ma il danno al sistema immunitario è ancora più
preoccupante.
Domanda–
Puoi spiegare cosa intendi senza diventare troppo tecnico?
Risposta–
Posso fare di meglio. Posso darti una breve clip da un articolo che copre le
ultime ricerche. Dai un'occhiata:
"Uno
studio di laboratorio svedese (intitolato "SARS-CoV-2 Spike Impairs DNA
Damage Repair and Inhibits V(D)J Recombination In Vitro",NIH) pubblicato a
metà ottobre, ha scoperto che la proteina spike ... entra nel nucleo delle cellule e
interferisce in modo significativo con le funzioni di riparazione del danno al
DNA compromettendo l'immunità adattativa di una persona e forse incoraggiando
la formazione di cellule tumorali.
"Meccanicamente,
abbiamo scoperto che la proteina spike si localizza nel nucleo e inibisce la
riparazione del danno al DNA", hanno scritto. "I nostri risultati rivelano un
potenziale meccanismo molecolare attraverso il quale la proteina spike potrebbe
impedire l'immunità adattativa e sottolineare i potenziali effetti collaterali
dei vaccini a base di spike a lunghezza intera". ("Spike protein in COVID virus and
shots indebolisce il sistema immunitario, può essere collegato al cancro:
studio svedese",Lifesite News).
Ciò
che i ricercatori hanno scoperto è che la proteina spike blocca la produzione
degli enzimi necessari per riparare il DNA rotto che, a sua volta, impedisce la
"proliferazione" delle cellule B e T necessarie per combattere le
infezioni.
Domanda–
Puoi
spiegarlo in un inglese semplice?
Risposta–
Sicuro. Significa che il vaccino cortocircuita il sistema immunitario che
spiana la strada a infezioni, malattie e morte precoce. Forse, pensi di poter
avere una vita lunga e felice con un sistema immunitario disfunzionale, ma
penso che ti sbagli. Il sistema immunitario è lo scudo che
ti protegge da tutti i tipi di virus, batteri e infezioni potenzialmente letali.
Non è solo la prima linea di difesa, è l'unica linea di difesa. In
assenza della piena protezione delle cellule B e T per combattere gli intrusi
stranieri, le prospettive di sopravvivenza sono nel migliore dei casi
minuscole.
Per
sottolineare questo punto, guarda questo video del direttore funebre
britannico, John O 'Looney, che ha fornito aggiornamenti regolari su ciò che
sta vedendo sul campo 10 mesi dopo il lancio della vaccinazione. È un
inquietante resoconto della catastrofe che ora si sta svolgendo davanti ai
nostri occhi:
(30
secondi) "Quindi quello che stiamo vedendo è un numero innaturalmente
elevato di morti a causa di infarto, ictus, aneurisma; e questi sono tutti il
risultato della trombosi ... Embolie nei polmoni alle gambe, vari luoghi che
stanno causando queste morti che sono ben documentati dai coroner locali e ben
documentati in tutto il paese. E nessuno sembra essere preoccupato per
l'allarmante aumento di (coaguli di sangue) che ho visto di più in quest'anno
che negli ultimi 14 anni....
Questo
è un tipo di morte che stiamo vedendo, l'altro tipo sono le persone che si
stanno ammalando ora che il loro sistema immunitario finalmente si arrese.
Quindi, hanno avuto i colpi di vaccino forse 6 o 8 mesi fa, e ha mangiato il loro
sistema immunitario, e ora stanno lottando per combattere cose come il comune
raffreddore.
Quindi,
siamo in inverno e ci sono raffreddori e influenza in giro e queste persone non
possono combatterli.
Il
governo è molto veloce a etichettarlo come "Omicron"... ma sono malati con il comune raffreddore. Il loro sistema immunitario è
decimato.
È molto simile a un malato di cancro, che passa attraverso la
chemioterapia e decima il loro sistema immunitario. E devono stare molto attenti perché il
comune raffreddore o l'influenza possono ucciderli.
E
questo è quello che stiamo vedendo ora...
Sono
passati quasi 12 mesi dall'inizio dei primi colpi(vaccini), quindi il loro sistema
immunitario sta cadendo a pezzi; questa è la realtà ed è quello che sto
vedendo. e non riescono più a sopportare un raffreddore. ... Quando sono andato alla
riunione a Westminster a settembre, lo scienziato ha predetto che questo è ciò
che sarebbe accaduto e, ecco, è quello che sta succedendo. La gente si ammala e
muore..... È spaventoso". ("Omicron è 'danno da vaccino'; non è altro che
questo." John Looney, Rumble).
Ha
ragione? L'aumento delle vittime NON è un'altra ondata di Covid, ma gli effetti
a catena di un'iniezione citotossica che colpisce il sistema immunitario
lasciando milioni di persone indifese contro le infezioni e le malattie di
routine?
Sembra
fattibile e certamente si adatta all'agenda di spopolamento che richiede un
ibrido biologico che non uccide il suo obiettivo a titolo definitivo, ma
fondamentalmente smantella i sistemi di difesa critici che rendono possibile la
sopravvivenza umana.
Mascherando
una "proteina killer"come antigene innocuo, i nostri gestori della
pandemia sono stati in grado di accedere ai flussi sanguigni di milioni di
persone consentendo loro di inserire una bomba a orologeria che devasta le
popolazioni cruciali di cellule T e B lasciando le vittime vulnerabili a
qualsiasi insetto circoli nella popolazione.
Come
osserva Looney, gli scienziati hanno avvertito di questo risultato quando è
stata proposta per la prima volta la vaccinazione di massa. Naturalmente, le
opinioni opposte sono state ignorate e censurate. Ecco di più da un documento di ricerca
pre-stampa sul server medRxiv. Aiuta a spiegare l'impatto del vaccino sul
sistema immunitario:
"I
ricercatori nei Paesi Bassi e in Germania hanno avvertito che Pfizer-BioNTech
... (COVID-19) il vaccino induce una complessa riprogrammazione delle risposte
immunitarie innate che dovrebbero essere prese in considerazione nello sviluppo
e nell'uso di vaccini a base di mRNA.... Dopo la vaccinazione, le cellule
immunitarie innate hanno avuto una risposta ridotta al recettore toll-like 4
(TLR4), TLR7 e TLR8 – tutti ligandi che svolgono un ruolo importante nella
risposta immunitaria alle infezioni virali.
"Diversi
studi hanno dimostrato che le risposte immunitarie innate a lungo termine
possono essere aumentate (immunità addestrata) o down-regolate (tolleranza
immunitaria innata) dopo determinati vaccini o infezioni". ...
Questi
risultati dimostrano collettivamente che gli effetti del vaccino BNT162b2 vanno
oltre il sistema immunitario adattativo. Il vaccino BNT162b2 induce anche la
riprogrammazione delle risposte immunitarie innate, e questo deve essere preso
in considerazione". ... ("La ricerca suggerisce che il vaccino
Pfizer-BioNTech COVID-19 riprogramma le risposte immunitarie innate", Rete
New-Medical).
Quante
persone sarebbero state vaccinate se avessero saputo che avrebbe riprogrammato
il loro sistema immunitario?
Probabilmente,
nessuno, motivo per cui i nostri funzionari della sanità pubblica non
affrontano mai l'argomento. Tutto ciò che devia anche leggermente
dalla narrativa "i vaccini fanno bene" viene omesso dalla copertura
mainstream e cancellato sui social media.
Ma le
persone non hanno il diritto di sapere cosa sta succedendo, cosa viene
iniettato nei loro corpi e quale impatto avrà sulla loro vita e salute?
Non è
questo che si intende per "consenso informato" o è un'altra vittima
della corsa a inoculare tutti i 7
miliardi delle persone sul pianeta
terra? Ecco una clip da una breve intervista con il patologo, Dr. Ryan Cole:
"Quando
diamo questi colpi (inoculazioni), possiamo vedere i tipi di globuli bianchi
nel corpo ... e hai una vasta gamma di cellule immunitarie che lavorano insieme
per combattere i virus e tenere sotto controllo i tumori. Stiamo già vedendo i
segnali in laboratorio di diminuzioni delle cellule T di importanza critica di
cui hai bisogno ... nel tuo sistema immunitario innato. Questi sono i Marines nel tuo corpo;
combattere i virus che combattono il cancro.... Ma quello che stiamo vedendo in
laboratorio dopo che le persone ottengono questi colpi (vaccini), stiamo
vedendo un profilo molto preoccupante bloccato e basso di queste importanti cellule
T killer che vuoi nel tuo corpo. (Celle CD8) E quello che fanno, è tenere sotto
controllo tutti gli altri virus.
Cosa
vedo in laboratorio? Sto vedendo un aumento dei virus della famiglia
dell'herpes, sto vedendo l'herpes zoster, sto vedendo Mono, sto vedendo un
enorme aumento del virus del papilloma umano ... Stiamo letteralmente indebolendo il
sistema immunitario di questi individui.
Più
preoccupante di tutto, c'è un modello di questi tipi di cellule immunitarie nel
corpo che tengono sotto controllo il cancro. Dal 1 ° gennaio (in laboratorio)
ho visto un aumento di 20 volte del cancro dell'endometrio rispetto a quello
che vedo su base annuale. " ("Patologo Ryan N Cole della Mayo Clinic
su ciò che stiamo vedendo nei risultati di laboratorio", Rumble; 2
minuti).
"Herpes,
herpes zoster, Mono e persino il cancro!" Cosa diavolo sta succedendo?
Questo non può essere vero, vero?
Sì, è
vero; l'immunosoppressione porta a tutti i tipi di terribili esiti di salute.
Alcuni lettori potrebbero ricordare come il vaccinologo canadese Dr Byram
Bridle ha fatto affermazioni simili in un'intervista solo poche settimane fa.
Ecco cosa ha detto:
"Quello
che ho visto troppo sono le persone che avevano tumori che erano in remissione,
o che erano ben controllati; i loro tumori sono andati completamente fuori
controllo dopo aver ricevuto questo vaccino. E sappiamo che il vaccino provoca
un calo del numero di cellule T, e quelle cellule T fanno parte del nostro
sistema immunitario e fanno parte delle armi critiche che il nostro sistema
immunitario ha per combattere le cellule tumorali; quindi c'è un potenziale
meccanismo lì.
Tutto
quello che posso dire è che ho avuto troppe persone che mi hanno contattato con
questi rapporti perché mi sentissi a mio agio. Direi che questa è la mia più
recente preoccupazione per la sicurezza, ed è anche quella che sarà la più
sottostima nella base di dati avversi, perché se qualcuno ha avuto il cancro
prima del vaccino, non c'è modo che i funzionari della sanità pubblica lo
colleghino mai al vaccino". ("Dr Byram Bridle parla",Bitchute,
:55 secondo voto).
Ancora
una volta, quante persone avrebbero deciso di vaccinarsi se sapessero che
potrebbe innescare una riacutizzazione di virus dormienti o tumori in
remissione? Chi si assumerebbe questo rischio?
Ma non
sanno che stanno correndo un rischio, lo fanno, perché non gli è stata detta la
verità.
E la ragione per cui non è stata
detta loro la verità è perché sono un bersaglio in una guerra di sterminio che
viene condotta su di loro. A volte è molto difficile per le persone ammettere
ciò che sanno essere la verità, ma la verità è chiara da vedere.
I nostri manager della pandemia e i loro fanti
nei media, nella sanità pubblica e nel governo vogliono farci del male,
vogliono iniettarci una sostanza misteriosa che causerà il caos sul nostro
sistema immunitario e accorcerà le nostre vite.
Questa
non è solo una lotta per la libertà personale o l'autonomia corporea, è una
battaglia per la sopravvivenza. Stiamo difendendo il nostro diritto alla vita.
Ecco di più dall'immunologa virale Dr. Jessica Rose:
"Ci
sono studi che escono ora, e ci sono ampi segni nei dati sugli eventi avversi,
che questi prodotti (vaccini Covid) non solo immuno-modulano il sistema
immunitario e causano iper-infiammazione; ci sono segni ora che stanno molto
negativamente influenzare le popolazioni di cellule T CD8. Per
coloro che non lo sanno, questa è una pessima notizia. Finora è solo su poche
persone, ma i dati non sembrano buoni finora.
Queste cellule T sono
le cosiddette "cellule killer".
Il loro lavoro... è quello di uccidere le cellule infettate viralmente
che mostrano marcatori estranei sulla loro superficie.
Quindi, se queste popolazioni sono esaurite,
allora questa è una pessima notizia, perché non abbiamo una popolazione di
cellule nel sistema immunitario acquisito per rimuovere le cellule infettate
viralmente. ...
Ci
sono chiari segni che stanno iniziando ad emergere, che c'è una "sindrome
da deficit di immunità" che si sta succedendo a seguito di questi prodotti
(vaccini) A seguito di iperstimolazione ... Le cellule T sono (diminuite) e la
presenza continua di iniezioni ripetute di una proteina citotossica... Non
consiglierei mai e poi mai a qualcuno che è immuno-compromesso di avvicinarsi a
queste cose, perché posso quasi garantirti che le tue condizioni peggioreranno.
Un'altra cosa che stiamo vedendo in VAERS sono
i tumori che escono dalla remissione e molti medici lo stanno segnalando sul
campo. E – a proposito – questo non è mai successo prima, non su questa scala;
nemmeno vicino ... Quindi, c'è qualcosa che sta succedendo qui che merita
ulteriori indagini, e non sembra buono". ("L'immunologa virale Dr.
Jessica Rose spiega le informazioni preoccupanti che emergono sull'immunità
compromessa dei vaccinati", Odysee).
Riesci
ancora a vedere il modello? Riesci a vedere come dicono tutti la stessa cosa?
Perché, secondo te?
È
perché è la verità, la verità pura e non verniciata.
Il
punto che stiamo cercando di fare non può essere sopravvalutato: il vaccino è un'arma biologica
artificiale generata in laboratorio che disabilita il sistema di difesa critico
del corpo che aumenta la suscettibilità alle malattie di molti ordini di
grandezza. Con ogni iniezione
aggiuntiva, si è meno in grado di montare una risposta sufficiente a infezioni
di routine, influenza o virus. Ciò porterà a uno tsunami di malattie che
probabilmente travolgerà il nostro sistema sanitario pubblico e farà
precipitare il paese più in profondità nella crisi.
È questo il piano? È questo che i nostri
signori globalisti hanno in serbo per noi?
Vedremo.
Ora dai un'occhiata a quest'ultima clip dal video del vaccinologo Geert Vanden
Bossche:
"La
prima cosa che vorrei sottolineare è che il Covid-19 non è una malattia delle
persone sane.
Le
persone che sono in buona salute hanno un sistema immunitario innato sano che
può affrontare un certo numero di virus respiratori senza alcun problema.
Queste
persone non solo sono protette contro la malattia, ma possono anche, in molti
casi, prevenire l'infezione. Queste
sono persone che possono contribuire a sterilizzare l'immunità e all'immunità
di gregge che è molto, molto importante.
Quindi,
ascolta: mai, mai permettere a nessuno o qualcosa di interferire o sopprimere
il tuo sistema immunitario innato. Puoi
fare un cattivo lavoro da solo conducendo una vita malsana, che sopprimerà la
tua immunità innata, ma ancora peggio, sono gli anticorpi indotti dal vaccino
che sopprimono la tua immunità innata.
E questi anticorpi vaccinali non possono
sostituirlo perché perdono la loro efficacia contro il virus e diventano sempre
meno efficaci. In contrasto con gli anticorpi innati, non possono prevenire
l'infezione, non possono sterilizzare il virus. Pertanto, contribuiscono
all'immunità di gregge....
Se
sopprimiamo questi anticorpi innati nei bambini, potrebbe portare a malattie
autoimmuni.
Questo
è un assoluto "No go". Non possiamo vaccinare i nostri figli con
questi vaccini.
La soppressione dell'immunità innata è già un problema
tra i vaccinati, e in effetti avranno difficoltà a controllare una serie di malattie,
non solo Covid-19, ma anche altre malattie ... e richiederà un cambiamento
molto drammatico nelle strategie per aiutare i vaccinati – e il mio cuore va a
loro – perché avranno bisogno di un trattamento esteso in molti casi.
...
Potenziarli – il che significa dare loro una terza dose – è assolutamente
folle, perché quello che farà, è aumentare la pressione immunitaria degli
anticorpi vaccinali, sulla loro immunità innata. Quindi il potenziamento è
un'assurdità assoluta; è pericoloso e non dovrebbe essere fatto....
Quindi,
cosa ci dice la scienza? Ci dice che è l'immunità innata che ci proteggerà, non
il vaccino". ("Geert Vanden Bossche sui vaccini e la soppressione
dell'immunità innata", Rumble)
Quindi,
ora sappiamo che – insieme ai coaguli di sangue, al sanguinamento, agli
attacchi di cuore, agli ictus, alle malattie vascolari e neurologiche – il vaccino è anche progettato per
eviscerare il sistema che ci protegge dalla malattia e dalla morte, il sistema
immunitario. Quanto ci si deve essere immersi nella negazione per non vedere il male
che ora è tra noi.
Vedi
anche: Dr. Nathan Thompson - Il vaccino Covid induce l'autoimmunità, Odysee
(odysee.com/@EndYourSlavery:8/My-Jaw-DROPPED-when-I-Tested-Someone's-Immune-System-After-the-2nd-Jab:d)
E
questo: Sindrome da immunodeficienza acquisita da vaccino (VAIDS): 'Dovremmo
anticipare di vedere questa erosione immunitaria più ampiamente'" Americas
Frontline Doctors:
(americasfrontlinedoctors.org/news/post/vaccine-acquired-immune-deficiency-syndrome-vaids-we-should-anticipate-seeing-this-immune-erosion-more-widely/).
Cambio
di narrazione: ora non è più “colpa dei no vax”.
Il
green pass non basterà più?
Visionetv.it-Don
Quijote- (17- 12 -2021)- ci dice:
La
narrazione televisiva è cambiata ieri, giovedì 16 dicembre. In due trasmissioni
in prima serata – Otto e Mezzo di Lilli Gruber su La 7 e Diritto e Rovescio su
Rete 4 – si è detto che i vaccinati possono contagiarsi, contagiare ed
ammalarsi.
Addirittura
durante Diritto e Rovescio il sottosegretario alla Salute Sileri ha affermato
che l’attuale ondata di Covid non è colpa dei non vaccinati. Un dietrofront
netto rispetto a quanto diceva neanche dieci giorni fa e rispetto a quanto
hanno finora ripetuto politici e virostar.
Parallelamente,
la prima parte di Otto e Mezzo si è occupata di Covid con l’immunologa
Antonella Viola. Quest’ultima ha enunciato “papale papale” una cosa stranota ma
che i grandi media hanno sempre cercato di nascondere sotto il tappeto: l’efficacia della vaccinazione si
riduce nel giro di pochi mesi.
Qualche
tempo fa Mediaset minacciava fuoco e fiamme contro la sua stessa Diritto e
Rovescio e contro Fuori dal Coro,
accusati di scarso entusiasmo vaccinale. Lo faceva per adeguarsi alla
narrazione dominante ed agevolare, si disse, il tentativo di Berlusconi di
insediarsi al Quirinale.
Peraltro
almeno già dall’estate scorsa ovunque – tranne sui giornaloni, nei talk show e
nei discorsi di Draghi – si diceva a chiare lettere ciò che hanno detto nei
talk show di ieri sera: che i vaccini perdono efficacia col tempo. Cosa è cambiato? Un soprassalto natalizio di
onestà? Una presa d’atto della pura realtà certificata addirittura
dall’Istituto Superiore di Sanità? Magari… Ma magari preparano il terreno ad
ulteriori restrizioni.
Depongono
il questo senso sia l’obbligo di tampone negativo per entrare in Italia
dall’estero (il vaccino ora non basta più) sia la sortita del presidente del
Consiglio Superiore di Sanità, che sempre ieri ipotizzava il tampone anche ai
vaccinati per partecipare a grandi eventi.
Dunque
probabilmente è vicina una svolta nell’approccio gestionale all’epidemia.
Probabilmente il green pass – da solo – non basterà per fare una vita normale:
neanche in versione super. Burioni ora dovà pagare Netflix anche ai vaccinati.
(DON QUIJOTE).
FRA
ANTICONFORMISMO E RIVOLUZIONE.
Bloccostudentesco.org-
Bianca-( Nov 16, 2021)- ci dice:
Rivoluzione:
una parola che sta scomparendo e che troppo spesso è usata a sproposito. Quanti
oggi parlano di rivoluzione contro un sistema dominante colpevole di una
qualche mancanza nei confronti di una certa categoria?
Tanti,
o meglio dire, troppi. Noi sappiamo per certo che, per conto nostro, si può (in
realtà si deve) parlare ancora di rivoluzione, ma la questione riguarda in
maniera particolare chi si riempie la bocca di questa parola, abusandone e
costituendo un’offesa a chi veramente ha combattuto, pagando anche con la vita,
per un’idea.
Il
concetto di rivoluzione, di fatto, si sta riducendo a un termine ripetuto da
chi si crede più alternativo degli altri, dove “rivoluzione” è semplicemente
una parola un po’ più forte di “cambiamento” che viene utilizzata per indicare
ogni atto di ribellione che si definisce essere contro il sistema.
Nell’attualità sembra essersi ormai snaturato
e sembra aver perso quello slancio di rabbia e identità che caratterizzava la
rivoluzione come motore rinnovatore del mondo. Quindi quale momento migliore di
questo per fondarne nuovamente il significato?
Non è
una gara a quale schieramento ideologico sia più o meno rivoluzionario. La risposta sta semplicemente nel
rapporto di queste ideologie con l’attualità, come agiscono e come si
sviluppano in rapporto a essa e al sistema dominante. È questa differenza che sancisce il
limite fra la rivoluzione vera e propria e un mero anticonformismo
individualista fine a sé stesso.
L’anticonformismo
denigra il suo tempo etichettandolo come “fobico” e quindi lo rifiuta, se ne
allontana, finendo inevitabilmente per isolarsi del tutto dal presente. Parla
di attualità fino ad esasperarla (pensiamo alle tre famose paroline “ancora nel
2021…”), ma non cerca di comprenderla o non vuole farlo, vivendo nella
speranzosa attesa di un futuro più inclusivo e radioso.
Al
contrario la rivoluzione è protagonista assoluta del suo tempo: non ne prende
le distanze, ma vuole ribaltarne gli attributi e far prevalere i propri. Non agisce in nome del progresso di
un qualche “domani” ma vuole colpire subito, adesso, per vincere nella realtà
effettiva. È una forza rinnovatrice capace di sostituire il pensiero dominante
con una cultura e un’identità alternative, figlie del presente. È consapevole della propria volontà
di potenza, perché pur vivendo nell’attualità riesce a vedere oltre a essa.
L’anticonformismo
nasce invece da un atto di repulsione che è passivo e sterile, incolpando la
realtà attuale della sua presunta inferiorità, assumendo spesso e volentieri
degli atteggiamenti vittimistici dove più si è discriminati e “deboli”, più si
è legittimati a ribellarsi contro il sistema. Per questo finisce inevitabilmente
per dipendere dallo stesso sistema contro cui tanto si accanisce. Non potrà mai
essere un’alternativa alla cultura dominante, ma sviluppa una sub-cultura che è
un’appendice del pensiero unico.
Quindi,
in parole povere, il tanto sovversivo anticonformismo non può esistere senza il
pensiero dominante che propone di abbattere. Il solo esempio dei social è
sufficiente per capire quanto la decantata ribellione di certi individui sia
fine a sé stessa: la massima realizzazione della giustizia sociale diventa una bandierina
colorata in più nella tastiera o la possibilità di cancellare un profilo per “incitamento all’odio” per il solo uso di una parola in un
commento sotto a un post.
L’anticonformismo
non si sottrae agli strumenti del sistema che critica ma li conforma alla sua
fragile sensibilità, elemosinando il riconoscimento esterno del suo essere una
minoranza.
Vive di un’idea destinata a essere inevitabilmente sostituita dall’idea
successiva più conforme alle nuove tendenze.
La
rivoluzione, diversamente, si rifà a un pensare e non a un pensiero, a un
metodo di azione che fa riferimento alla sua identità e non dipende da altri. Esiste appunto perché è nata contro
e nonostante il sistema, ed è capace di affermarsi anche senza gli strumenti di
quest’ultimo (com’è il rapporto fra la militanza politica e i social: questi
ultimi sono un mezzo utile alla diffusione del nostro agire, senza che
quest’ultimo dipenda da essi, che quindi non sono fondamentali per la politica
da strada).
A
fronte di tutto ciò, si potrebbe dire che le idee anticonformiste non solo sono
destinate a morire, ma non sono mai state vive e non possono diventarlo; mentre
la rivoluzione pur vivendo a pieno nella modernità rimane senza tempo e in
continuo divenire. Ed ecco perché il primo, nonostante varie promesse di
sollevamenti popolari, querele e minacce di avversari appesi qua e là, non
potrà mai vincerla.
Perché
una rivoluzione non violenta è possibile, anzi necessaria.
Opinioninonrichiesteblog.wordpress.com-
Alberto Cassone-(28 giugno 2020)- ci dice :
In
seguito alla rivoluzione bolscevica e alle successive rivoluzioni socialiste
del Novecento, si è diffusa l’idea che i rivoluzionari, nel loro battersi
contro l’oppressione, intendano sempre istituire un ordinamento politico
completamente diverso dal precedente – e che tale ordinamento non possa non
degenerare in una nuova oppressione. Entrambe le convinzioni sono, però,
infondate – non nel senso che a volte, o spesso, tali previsioni non si
realizzino, bensì nel senso che non è affatto vero che esse si realizzino
sempre e necessariamente.
Prendiamo
ad esempio le tre rivoluzioni fondative della civiltà “borghese”, ossia
dell’ordine politico liberaldemocratico, vale a dire: quella inglese, quella americana e
quella francese. Solamente quest’ultima mirava a istituire un nuovo ordinamento
politico; vi riuscì, ma molto più gradualmente di quanto le cronache e i
commenti pubblicati ai tempi del suo scoppio prevedessero; non portò a una
nuova oppressione, anzi – per lo meno dal “nostro” punto di vista (di cittadini di stati nazionali a
costituzione liberale) – condusse a un’emancipazione. Il breve periodo del terrore
rivoluzionario va infatti compreso all’interno del lungo scontro tra
restaurazione e rivoluzione, successivo al 1789, scontro che vide la seconda,
infine, sostanzialmente prevalere. La figura storica di Napoleone incarnò, in questa
dialettica tra oppressione ed emancipazione, un ruolo di compromesso e di
sintesi.
La
rivoluzione inglese condusse, anch’essa, a un nuovo ordinamento politico; ma ciò avvenne molto lentamente,
poiché la Glorious
Revolution era
incentrata su una (certo, importantissima) questione particolare e non
generale, ossia sullo spostamento dell’asse principale del potere dalla
monarchia al parlamento, non su un’alterazione globale della costituzione del
popolo inglese; un popolo che seppe dunque passare con estrema gradualità dal
feudalesimo cristiano al capitalismo liberale, con pochi e brevi – ma bene
assestati – scossoni. Certamente attraversò, con Oliver Cromwell, una fase segnata
dall’oppressione; ma si trattò anche in quel caso di un periodo molto breve, non della
creazione di un nuovo ordine sistematicamente oppressivo.
Infine,
la rivoluzione statunitense: essa portò, è vero, all’eliminazione della presa
dell’istituzione monarchica sul suolo americano; ma, dal punto di vista dei
principi fondativi dell’ordinamento liberale – quei principi che già vigevano
in Inghilterra, ossia tra i suoi nemici – essa non fece altro che consolidarli;
né si può parlare, almeno fino alla prova di forza del governo federale durante
la Guerra civile (ma probabilmente neanche in quel caso) di una degenerazione
del nuovo ordinamento in un ordinamento nuovamente oppressivo.
Esiste
anche una terza convinzione da sfatare: si crede che le rivoluzioni siano
inevitabilmente violente, ma neanche questo è sempre vero – in particolare, è
del tutto falso rispetto alla dimensione culturale presente (e spesso
prevalente) in ogni autentica rivoluzione.
Per
limitarci all’Occidente, osserviamo come sia la rivoluzione cristiana che la
rivoluzione umanistico-scientifica, tra loro distanti circa un millennio, si
siano fatte strada pacificamente, certo incuneandosi in varchi lasciati aperti
dalle violenze altrui – la caduta dell’impero romano nel caso di quella
cristiana, lo scontro tra cattolici e protestanti nel caso di quella
umanistico-scientifica – ma mai ricorrendo alla violenza, le violenze ispirate
dalla Chiesa (come nei casi delle Crociate e dell’Inquisizione) e quelle
ispirate dalla scienza e dalla tecnologia (come in quelli degli imperialismi
razzisti del secolo scorso e del neocolonialismo tecnocratico odierno) essendo
giunte ben dopo il completamento di tali rivoluzioni, né essendo le nuove
oppressioni così create a queste direttamente imputabili. Piuttosto, entrambe
le rivoluzioni possono lamentarsi di aver subito violenze e persecuzioni;
nessuna delle due ha violenze e persecuzioni da confessare.
Le
rivoluzioni culturali sono sempre graduali; la gradualità, che abbiamo visto
all’opera in due delle tre rivoluzioni politiche trattate, ossia in quella
francese e ancor di più in quella inglese, non va però sopravvalutata. Di per
sé, essa non è affatto garanzia di non violenza, di assenza di degenerazioni
oppressive e di buona riuscita dei progetti rivoluzionari; al contrario, la sua
adozione consapevole, ossia il gradualismo, si situa all’estremo opposto della
rivoluzione che vuole cambiare tutto subito e, così facendo, presenta rischi
diversi ma altrettanto gravi, come ben vediamo nella costruzione per ora
sostanzialmente fallimentare di una comunità politica europea. Del resto, una
cosa è la gradualità di fatto con la quale gli ordinamenti politici inglese e
francese passarono dal feudalesimo al capitalismo, altra cosa è l’adozione consapevole
e programmatica di un’attitudine gradualistica.
Oggi,
il popolo crede di governare, di poter scegliere liberamente i propri
rappresentanti. Chiunque conosca la teoria politica e la storia sa bene – a meno che
non sia in cattiva fede con sé stesso – che in una partitocrazia demagogica
le cose non stanno mai veramente così; resta il fatto, però, che
l’ideologia della democrazia rappresentativa regge ancora molto bene
nell’immaginario collettivo.
Una
rivoluzione non violenta, che non conduca all’oppressione, che non miri a
cambiare tutto ma che non sia neanche vilmente gradualistica è dunque oggi più
che mai necessaria, per due ragioni fondamentali: la prima sta nell’urgenza di mettere paura ai potenti, di far loro capire che non crediamo
né all’idea che le rivoluzioni siano sempre violente, totali e oppressive, né alla favola per cui il popolo
sarebbe oggi padrone del proprio destino.
Dobbiamo
inoltre dimostrare che il tecno-consumismo non ci ha ancora del tutto rimbambiti, che non siamo affatto contenti così, che non accettiamo di essere trattati
come pupazzi, ossia come numeri, come dati, come “consumatori-produttori” dalla
tecnocrazia economicistica.
Alcuni
invocano la panacea della “meritocrazia” e sbandierano il vessillo dello
“sviluppo sostenibile”; ma all’orizzonte scorgiamo, piuttosto, un avanzamento
della mercato-crazia e dello sviluppismo, ossia del fanatismo della crescita; il messaggio da mandare,
attraverso la nostra rivoluzione, è che non abbiamo nessuna intenzione di
continuare a vivere in una mercato-crazia tecnologica. Vogliamo invece vivere in una
repubblica, un’autentica repubblica – partecipativa, solidale, ricca di qualità
umanistiche.
Non si tratta, dunque, di rivoluzionare l’attuale ordinamento politico,
radendolo al suolo e ricostruendolo da zero, bensì di eliminare, o
ridimensionare radicalmente, o ri-orientare in chiave comunitaria i suoi aspetti
negativi (la proprietà privata, i partiti politici, la separazione troppo netta
tra etica e politica, nonché di difenderne e valorizzarne quelli positivi
(l’accento classicamente liberale sui diritti naturali e inalienabili è
certamente fra questi), oltre che naturalmente di costruire, creativamente,
qualcosa di nuovo.
Quale
forma potrebbe, perciò, assumere una repubblica partecipativa e solidale? Ne ho parlato approfonditamente in
due saggi, Alla ricerca della comunità solidale ed Economia, identità e
repubblica.
(Alberto
Cassone).
Il
capitalismo non è il problema,
è la
soluzione.
Filodiritto.com-
Rainer Zitelmann-Libro-(14 luglio 2021)- ci dice:
PERCHÈ
LEGGERE QUESTO LIBRO.
Rainer
Zitelmann, storico tedesco noto a livello internazionale, accompagna il lettore
in un viaggio attraverso i continenti e la storia recente per confutare il
mantra “il mercato ha fallito, abbiamo bisogno di un maggiore intervento del
governo” che i media e gli intellettuali ripetono senza posa fin dallo scoppio
della crisi finanziaria del 2008.
Il
capitalismo, spiega l’autore, ha risolto una serie enorme di problemi in tutto
il mondo, e pure oggi ha più successo che mai. Per dimostrare questa tesi
Zitelmann paragona le eclatanti differenze di sviluppo fra la Cina che si è
aperta al mercato e la Cina ai tempi di Mao, tra la Germania occidentale e
quella orientale, fra la Corea del Sud e quella Nord, tra il liberista Cile e
il socialista Venezuela. Racconta poi il successo delle riforme di mercato in
Inghilterra, negli Stati Uniti e in Svezia. Il libro è molto utile come
promemoria per le nuove generazioni, che rischiano di perdere la consapevolezza
del legame indissolubile che esiste tra la prosperità e la libertà economica.
Riassunto.
Il
verdetto dell’esperienza storica.
Il
collasso dei regimi comunisti alla fine degli anni ‘80 sembrava aver
definitivamente dimostrato la superiorità del sistema capitalista, nel quale i
mezzi di produzione sono posseduti privatamente e gli imprenditori producono i
beni richiesti dai consumatori facendosi guidare dai prezzi di mercato, su
quello socialista, nel quale i mezzi di produzione sono posseduti dallo Stato e
le decisioni produttive vengono prese dai funzionari pubblici. In verità il
risentimento anticapitalista non è mai scomparso del tutto, ed è ricomparso con
particolare vigore dopo la crisi finanziaria del 2008, interpretata quasi
unanimemente da politici, intellettuali e giornalisti come un fallimento del
mercato rimediabile solo con l’intervento statale. Per molte persone, il
termine “capitalismo” è tornato ad essere una parolaccia.
The
Power of Capitalism è stato scritto per confutare questa visione errata, che
rischia di minare le basi su cui si fonda la nostra prosperità. Il libro però
non affronta l’argomento da un punto di vista teorico, ma analizza la storia
economica degli ultimi ottant’anni con un approccio empirico. In nessun Paese,
infatti, il capitalismo e il socialismo esistono in forma pura, tuttavia l’esperienza
storica dimostra che un Paese è tanto più prospero quanto più libera è la sua
economia. Non esistono eccezioni a questa regola.
Purtroppo
sembra che tante persone siano incapaci di trarre conclusioni generali
dall’esperienza storica. Malgrado i numerosi esempi di straordinaria prosperità
portata dal capitalismo e il fallimento di ogni singola variante di socialismo
testata in condizioni reali, molti ancora si rifiutano di imparare l’ovvia
lezione. Perfino negli Stati Uniti troppi giovani si dichiarano attratti dal
socialismo. Le loro uniche conoscenze storiche sull’argomento provengono da
manuali scolastici che di solito affrontano molto superficialmente le ragioni
del disastro politico ed economico dei regimi socialisti. A mano a mano che i loro fallimenti
scompaiono dalla memoria vivente, le nuove generazioni rischiano di perdere la
consapevolezza del legame indissolubile che esiste tra la prosperità e la
libertà economica.
Cina:
dalla carestia di massa alla potenza industriale.
La
storia cinese dal dopoguerra a oggi è la più emblematica. Quando Mao
Zedong prese il potere nel 1949, decise di trasformare la Cina nel più avanzato
esempio di socialismo. Nel 1957 proclamò il Grande Balzo in Avanti, un
gigantesco piano di sviluppo accelerato del Paese attraverso la
collettivizzazione integrale delle campagne. Nei villaggi di tutta la Cina fu
abolito ogni tipo di proprietà privata, e i contadini furono costretti a
lavorare nelle comuni. Queste misure portarono però, contrariamente alle
attese, a un crollo verticale della produzione agricola e a una spaventosa
carestia, probabilmente la peggiore della storia umana. Tra il 1958 e il 1962
morirono prematuramente circa 45 milioni di cinesi, per la fame o in conseguenza
delle violenze che accompagnarono il processo di collettivizzazione. Alla fine Mao fu costretto a
interrompere il Grande Balzo in Avanti, ma nel 1966 lanciò un’altra disastrosa
campagna politica, la Rivoluzione Culturale, durante la quale milioni di persone
accusate di propagandare idee borghesi furono umiliate in pubblico, torturate,
spedite nei campi di lavoro o uccise.
I
successori di Mao, dopo la sua morte nel 1976, compresero che, di fronte alla
catastrofica situazione economica della Cina, occorreva cambiare rotta. «Più
vedo il mondo – disse Deng Xiaoping di ritorno dai suoi numerosi viaggi
all’estero che fece in quel periodo – più mi rendo conto di quanto siamo
arretrati». I vertici del governo cinese tuttavia non si convertirono al
capitalismo, e non approvarono alcun passaggio immediato dall’economia
pianificata all’economia di mercato. Il processo di transizione si sviluppò
invece dal basso in maniera informale. Nelle campagne i contadini
reintrodussero di fatto la proprietà privata aggirando le leggi comuniste, e
nel 1983 il processo di decollettivizzazione dell’agricoltura cinese poteva
dirsi completato. Vi fu poi un grandioso processo di ascesa dei lavoratori
autonomi tollerato dalle autorità. Milioni di cinesi si resero conto che svolgendo un business
in proprio potevano accrescere i propri redditi e la propria libertà: un
barbiere privato, infatti, guadagnava più di un medico chirurgo statale; un
venditore ambulante più di uno scienziato nucleare.
Per
far fronte ai tentativi di emigrazione di massa nella colonia britannica di
Hong Kong, i cui redditi erano cento volte più alti, le autorità cinesi
istituirono nei suoi dintorni delle Zone Economiche Speciali, nelle quali
vigeva l’economia di mercato. Il successo fu clamoroso: il distretto di Shenzen, abitato da
non più di 30.000 persone per lo più dedite alla pesca, divenne una gigantesca
metropoli industriale con 12,5 milioni di abitanti il cui reddito era
mediamente il triplo di quello del resto della Cina. Finalmente, nel 1992, il Partito
Comunista Cinese proclamò la liceità dell’economia di mercato. In conseguenza di ciò, una fiumana di
funzionari, insegnanti e ingegneri lasciò il posto pubblico per lavorare nel
settore privato: solo in quell’anno diedero le dimissioni 120.000 dipendenti
statali.
Oggi
la Cina è diventata una potenza economica mondiale, e nel 2016 ha superato gli
Usa e la Germania come maggior esportatore mondiale. Difficilmente però si può dare il
merito di questi risultati ai suoi governanti. Le innovazioni economiche
cruciali non furono concepite negli uffici del comitato centrale del partito,
ma nelle teste di un numero imprecisato di agenti economici locali, che in
molti casi sfidarono le regole ufficiali. Il miracolo economico cinese, spiega
il professor Zhang Weiying di Pechino, è avvenuto malgrado la persistente
influenza dello Stato, e non grazie ad essa.
Africa:
contro la povertà il capitalismo è meglio degli aiuti.
Il
continente africano continua a dare di sé immagini contrastanti. Dal 1990 la
povertà è scesa dal 56,8% al 42,7% della popolazione, ma ancora oggi c’è un 20%
di africani che non si nutre in maniera adeguata. Per decenni gli aiuti
dell’Occidente all’Africa sono stati visti come un obbligo morale per riparare
i peccati del colonialismo, ma i risultati economici di queste politiche sono
stati molto deludenti. L’economista zambiana Dambisa Moyo ha fatto notare che la
povertà in Africa è cresciuta dall’11% al 66% tra il 1970 e il 1998, quando la
politica degli aiuti dall’Africa raggiunse il suo apice. Gli aiuti dall’estero generano corruzione e
dipendenza, inibendo il funzionamento dell’economia di mercato. I governi, infatti, usano gli aiuti
allo sviluppo per sussidiare dei vasti e improduttivi settori pubblici.
Anche
l’economista keniano James Shikwati ha affermato: «Se l’Occidente cancellasse gli
aiuti, nessun africano comune se ne accorgerebbe. Solo i funzionari statali si
sentirebbero colpiti. Gli aiuti allo sviluppo deprimono lo spirito
imprenditoriale di cui abbiamo disperatamente bisogno. Per quanto possa
sembrare assurdo, gli aiuti sono una delle ragioni dei problemi dell’Africa». Perfino la popstar Bono degli U2,
che in passato aveva organizzato degli imponenti festival musicali per aiutare
l’Africa, ha cambiato idea di fronte all’evidenza dei fatti, e nel 2013 ha
dichiarato:
«Il commercio e il capitalismo imprenditoriale tolgono dalla povertà più
persone degli aiuti».
Nella
classifica delle libertà economiche la maggioranza dei Paesi africani occupa
posizioni molto basse. Malgrado ciò, negli ultimi anni l’Africa ha visto emergere una
classe media di almeno 150 milioni di individui impegnati in attività
imprenditoriali. Il più celebre è il sudanese Mo Ibrahim, il quale ha realizzato la più
grande rivoluzione dalla fine del colonialismo diffondendo la telefonia mobile,
la cui penetrazione è esplosa in un decennio dal 15% all’85% della popolazione
africana. L’Africa ha bisogno soprattutto di esempi come questi. I giovani devono sognare di
arricchirsi svolgendo attività produttive nel settore privato, invece che
attraverso la corruzione nel settore pubblico.
Germania:
con una Trabant non puoi sorpassare una Mercedes.
Dopo
la seconda guerra mondiale la divisione in due parti della Germania ha permesso
di testare, in un esperimento sociale su vasta scala, i due modelli economici alternativi,
quello socialista e quello basato sul mercato. Nella parte orientale occupata dai
sovietici il governo comunista instaurò un’economia di Stato attraverso la
nazionalizzazione delle industrie e dell’agricoltura. Queste politiche provocarono gravi
carenze dei beni di consumo, che spinsero i tedeschi orientali a rivoltarsi o
ad emigrare verso ovest al ritmo di decine di migliaia di persone al mese. Nel 1953 una rivolta popolare causata
dal malcontento venne repressa dai carri armati sovietici, che fecero dai 50 ai
100 morti. Nell’agosto
del 1961 già 2,74 milioni di tedeschi orientali erano fuggiti in Germania
Ovest. Per
prevenire questa emorragia di popolazione le autorità della Germania orientale
presero la decisione disperata di costruire un muro invalicabile tra Berlino
Est e Berlino Ovest.
Nella
Germania occidentale, fortunatamente, le cose erano andate molto meglio. Nel giugno 1948 il ministro
dell’economia Ludwig Erhard, deciso a reintrodurre l’economia di mercato, prese
la coraggiosa decisione di abolire di colpo, contro il parere delle forze
d’occupazione alleate, tutti i controlli sui prezzi introdotti dal regime
nazionalsocialista. Il risultato delle sue riforme liberiste fu uno dei più
impressionanti miracoli economici della storia. Tra il 1948 e il 1960 il Pil
aumentò mediamente del 9,3% all’anno, e dal 1961 al 1973 continuò ad aumentare
del 3,5% all’anno. Contro ogni pronostico, un Paese completamente distrutto
dalla guerra divenne una potenza economica mondiale.
Nel
1989, alla caduta del Muro di Berlino, le differenze tra le due Germanie erano
abissali.
Nel regime totalitario e poliziesco dell’est solo il 16% della popolazione, per
lo più i funzionari privilegiati, possedeva il telefono, contro la quasi
totalità dei tedeschi occidentali. Ma il simbolo più evidente della distanza
tra i due modelli economici era l’industria automobilistica. Dopo un’attesa di 12-17 anni dalla
prenotazione i tedeschi orientali potevano avere una Trabant, un’auto dal
design deprimente dotata di un motore a due tempi con una potenza di soli 26
cavalli. Con una macchina del genere non puoi sperare di sorpassare una
Mercedes.
Corea:
i mercati sono più saggi di Kim Il-sung.
Come
in Germania, anche in Corea la Guerra fredda ha prodotto la divisione del Paese
in due diversi sistemi economici, comunista a nord e capitalista a sud. La Corea del Nord è sempre rimasta un
Paese chiuso, totalitario, militarizzato e poverissimo, con un reddito
pro-capite presunto di 583 dollari. Il Paese è stato spesso devastato
dalle carestie. Nella più recente, avvenuta nel 1996, sono morte di fame
secondo le cifre ufficiali 200mila persone (tre milioni secondo alcune agenzie
umanitarie). Oggi il regime comunista, nel quale il culto della personalità del
dittatore Kim Jong-un raggiunge livelli parossistici, rimane in piedi solo grazie a un
permanente stato di emergenza e di assedio.
Eppure
nel 1953, al termine della guerra provocata dall’invasione delle truppe
comuniste, la Corea del Nord partiva avvantaggiata, dato che la Corea del Sud
era un Paese agricolo completamente privo di risorse naturali. Tutti i depositi
di minerali (ferro, oro, rame, piombo, zinco, grafite, molibdeno, calcare e
marmo) si trovavano nel nord della penisola, mentre la Corea del Sud era uno
dei paesi più poveri del mondo, con livelli di reddito analoghi all’Africa
subsahariana. Solo all’inizio degli anni ‘60, con le riforme di mercato del padre del
miracolo economico coreano, Park Chung-hee, l’economia cominciò a migliorare.
A
seguito della crisi finanziaria del 1997-1998, la Corea del Sud ha
liberalizzato il settore finanziario e bancario, aprendosi completamente agli
investimenti esteri. Anche il sistema scolastico sudcoreano, uno dei migliori
del mondo, si basa prevalentemente sul mercato: l’80% dell’istruzione superiore
è privata, e ben otto università sudcoreane sono presenti nella classifica
delle 100 università più innovative del mondo. Oggi i sudcoreani godono di un
reddito pro-capite di 27.500 dollari, paragonabile a quello dei paesi europei.
La Corea del Sud è l’ottavo maggior Paese esportatore del mondo, e marchi come
Samsung, Hyundai e LG sono celebri a livello internazionale. Il confronto tra
le due Coree rappresenta l’esempio più lampante del fallimento del socialismo e
della potenza del capitalismo.
Le
riforme di mercato della Thatcher e di Reagan.
Ogni
tanto le economie di mercato hanno bisogno di essere rimesse in carreggiata con
delle riforme radicali, perché le persone tendono a perdere di vista le cause
della ricchezza e della povertà. È il caso del Regno Unito, un Paese che nel dopoguerra
aveva preso una strada diversa rispetto all’Europa continentale. La vittoria del Partito Laburista
alle elezioni del 1945 aveva dato il via a un massiccio programma di
nazionalizzazioni, che non era stato messo in discussione dai governi
conservatori successivi. In totale un quinto dell’economia britannica venne
statalizzata. Come risultato, durante gli anni ‘50 e ‘60 la crescita dell’economia
inglese fu più bassa rispetto a quella della Germania o di altri paesi europei.
Negli anni
‘70 la situazione economica si fece davvero grave, al punto che l’Inghilterra
veniva chiamata “il malato d’Europa”. I sindacati spadroneggiavano e la
produttività era in picchiata. In quel decennio ci furono oltre 2000 scioperi
all’anno, che portarono alla perdita di 13 milioni di giorni lavorativi.
Nel
maggio del 1979 la vittoria elettorale del Partito Conservatore guidato da
Margareth Thatcher segnò un netto cambiamento. La Thatcher aveva maturato idee
liberali durante il disastro economico degli anni ‘70, ed era decisa a sfidare
i sindacati.
Le sue prime misure furono l’abolizione dei controlli sui prezzi, una politica
monetaria disinflazionistica, l’abbassamento delle aliquote fiscali e la
riduzione del debito pubblico, che calò dal 54,6% del 1980 al 40,1% del 1989. Nel suo secondo mandato privatizzò
numerose compagnie statali come British Telecom, British Airways, British
Petroleum, la Rolls Royce, la Jaguar, i cantieri navali, le case popolari e
numerose aziende locali fornitrici di servizi. La produttività delle aziende
privatizzate aumentò considerevolmente, con un conseguente calo dei prezzi:
dieci anni dopo la privatizzazione, i prezzi delle telecomunicazioni si erano
dimezzati.
Queste riforme ebbero un tale successo da essere imitate da oltre cento paesi
nel mondo, e proseguite negli anni ‘90 dal laburista Tony Blair.
Anche
negli Stati Uniti l’economia si era deteriorata durante gli anni ’70 a causa
degli alti livelli d’inflazione e disoccupazione, anche se non in maniera così
grave come in Inghilterra. Nel novembre 1980 il repubblicano Ronald
Reagan vinse a valanga le elezioni contro l’ex presidente democratico Jimmy
Carter, e nel suo messaggio inaugurale presentò il suo programma con una frase
molto chiara: “Il governo non è la soluzione dei nostri problemi, ma è il problema”. Anche Reagan abbassò le aliquote
fiscali e adottò una politica disinflazionistica. I risultati non si fecero
attendere.
Tra il
1983 e il 1989 la crescita economica fu mediamente del 3,8% all’anno, e alla
fine del secondo mandato l’economia americana era più grande di un terzo
rispetto all’inizio. Nello stesso periodo furono creati 17 milioni di nuovi
posti di lavoro e il reddito medio aumentò di 4000 dollari a famiglia, dopo
aver ristagnato negli otto anni precedenti. Le entrate fiscali,
malgrado il taglio delle aliquote (o meglio, grazie ad esse) aumentarono del
59% tra il 1981 e il 1989. Il sogno americano della mobilità sociale si avverò negli
anni di Reagan: l’86% delle famiglie che nel 1981 facevano parte del quintile
più povero salì nel 1990 al quintile più ricco. Grazie alle riforme reaganiane
l’America tornò forte e fiduciosa di sé, in grado di vincere la Guerra fredda.
Perché
i cileni sono più ricchi dei venezuelani?
Il
tenore di vita dei cileni è oggi molto più alto di quello dei venezuelani. Non
a caso, il Cile si trova al 20° posto su 180 paesi nella classifica 2018 delle
libertà economiche, mentre il Venezuela è al penultimo posto, davanti solo alla
Corea del nord e alle spalle perfino di Cuba. Mentre i cileni non sono mai stati
così prosperi, i venezuelani soffrono per l’inflazione, il declino economico e
l’oppressione politica. Eppure nei primi anni ’70 la situazione era opposta. I cileni si dibattevano in una
terribile crisi economica mentre i venezuelani erano i più prosperi
dell’America Latina: nel 1970 il Venezuela era il 20° Paese più ricco del mondo
con un pil pro-capite poco inferiore a quello del Regno Unito.
Il
1998, con l’elezione a presidente di Hugo Chavez, può essere considerato l’anno
dell’inizio della rovina. In quel periodo la sinistra mondiale aveva bisogno di una
nuova figura di riferimento dopo la fine dei regimi comunisti, e per molti intellettuali occidentali
Chavez divenne il messia del “socialismo del XXI secolo”.
Poiché la sua presidenza coincise
con il picco del prezzo del petrolio di cui il Venezuela è ricchissimo,
l’esperimento socialista partì in condizioni favorevoli. Ma oltre a distribuire le rendite petrolifere per
acquisire il consenso, Chavez nazionalizzò buona parte dell’economia,
preparando così le condizioni per il disastro economico.
I nodi
vennero al pettine dopo la sua morte nel 2013, sotto il successore Nicolas
Maduro, che accelerò la statalizzazione delle attività economiche, i controlli
dei prezzi e l’inflazione monetaria. La produzione crollò o si arrestò
completamente, proprio mentre i prezzi del petrolio cominciarono a scendere. Gli effetti fatali delle politiche
socialiste di Chavez divennero evidenti. I beni di consumo scomparvero dai
negozi, e nel maggio del 2018 l’inflazione arrivò al 14.000%. Tra il 2015 e il
2016 la mortalità infantile è cresciuta del 33%, e il 73% della popolazione ha
perso mediamente 8,7 chili di peso a causa della denutrizione. Per fronteggiare le crescenti
proteste popolari, Maduro ha assunto poteri dittatoriali e abolito la libertà
di stampa. Tra il 2013 e il 2017 il suo regime ha ucciso più 120 persone nella
repressione delle manifestazioni anti-governative. Il “socialismo del XXI secolo” non
sembra molto diverso, negli esiti, dai socialismi del secolo scorso.
Nel
1970 anche il Cile aveva preso questa china disastrosa. Il neoeletto
Salvador Allende aveva instaurato un sistema marxista, nazionalizzando l’80%
dell’economia, fissando i prezzi dei generi alimentari di base,
collettivizzando l’agricoltura e aumentando la spesa pubblica e l’inflazione. L’economia collassò completamente, e
vasti scioperi e proteste si diffusero in tutto il Cile. Nel settembre del 1973
l’esercito depose Allende, che si suicidò. Negli anni successivi la dittatura
militare guidata dal generale Augusto Pinochet, pur essendo antidemocratica e
fortemente repressiva nei confronti degli oppositori, adottò una politica economica
sorprendentemente liberale consigliata da alcuni economisti dell’università di
Chicago, i cosiddetti “Chicago boys”.
Le
aziende nazionalizzate furono riprivatizzate, le tasse abbassate, l’inflazione
crollò dal 600% nel 1973 al 9,5% del 1981, il tasso di crescita economica passò
nello stesso periodo da –4,3% a +5,5% e le esportazioni triplicarono. I salari reali, che nel 1973 erano
calati del 25%, nel 1981 erano aumentati del 9%. Negli ultimi trent’anni
l’economia cilena è cresciuta a un tasso medio annuo vicino al 5%. Oggi il Cile vanta un pil pro-capite
doppio di quello del Brasile ed è uno dei Paesi con l’economia più aperta e
competitiva nel mondo.
Svezia:
il mito del socialismo nordico.
La
Svezia viene indicata spesso come un modello di socialismo di successo, ma non
è corretto considerarla un Paese socialista. Grazie alle riforme liberali iniziate
negli anni ‘90, la sua economia è una delle più orientate al mercato che vi
siano al mondo: nella classifica mondiale 2018 delle libertà economiche si
piazza al 15° posto, precedendo di molto la Corea del sud (27°) o la Germania
(25°). È vero che le imposte sul reddito sono ancora
alte, malgrado siano state ridotte rispetto ai picchi dei decenni passati, ma le tasse sulle successioni, sui
patrimoni e sui guadagni di capitale sono state abolite.
La
Svezia era diventata un Paese prospero tra il 1870 e il 1936 grazie alla
libertà economica e a una ridotta tassazione, che gli aveva assicurato una
crescita media più elevata di qualsiasi altro Paese europeo. Nei decenni successivi il partito
Socialdemocratico introdusse alcune politiche assistenziali, ma la vera e propria espansione
vertiginosa del welfare state si ebbe negli anni ‘70 e ‘80. In questo
periodo la crescita economica della Svezia si ridusse notevolmente. Il programma socialdemocratico
soffocò l’economia svedese, inducendo i suoi migliori imprenditori a emigrare
all’estero, come il fondatore dell’Ikea Ingvar Kamprad, che furioso per la
tassazione confiscatoria nel 1974 si trasferì in Svizzera, per ritornare in
patria solo nel 2013. Anche la scrittrice Astrid Lindgren e il regista Ingmar
Bergman subirono gravi soprusi dal fisco svedese.
A
partire dal 1991 ci fu però una reazione agli eccessi del welfare state, che
portò a una serie di riforme liberali. Le imposte sulle imprese furono
ridotte dal 57% al 30%, e la percentuale della spesa pubblica sul pil scese,
tra il 1990 e il 2012, dal 61,3% al 43,2%. Come risultato, dopo il 1991 la
crescita economica svedese è stata più alta di quella della Germania, della
Francia o dell’Italia, e oggi la Svezia è uno dei pochi Paesi al mondo che
rispetterebbe i parametri di Maastricht. Non è più, se mai lo è stata, un
modello socialista.
Perché
agli intellettuali non piace il capitalismo.
A
dispetto di questi dati di fatto, l’avversione per il capitalismo rimane
diffusissima tra gli intellettuali. Un fattore chiave di questa ostilità
è l’incapacità di comprendere e accettare l’idea di ordine spontaneo. Il capitalismo infatti evolve
spontaneamente dal basso, un po’ come il linguaggio, invece di essere decretato
dall’alto. Il
socialismo, essendo un costrutto teorico creato dalla mente e successivamente
calato nella realtà, è molto più affine al modo di pensare degli intellettuali,
per i quali è difficile immaginare che l’economia e la società possano
funzionare senza essere progettate e guidate dagli esperti.
Vi è
poi, da sempre, un elemento di invidia e di rivalità nei confronti degli uomini
d’affari.
Gli intellettuali non riescono ad accettare l’idea che il mercato possa
retribuire più lautamente delle persone meno colte o meno eloquenti di loro. Ma la ragione principale del rifiuto
del capitalismo è probabilmente un’altra: gli intellettuali sopravvalutano la
conoscenza acquisita rispetto alla conoscenza implicita. Vi sono infatti due tipi di
conoscenza: la prima è il risultato di un’acquisizione conscia e sistematica
attraverso lo studio formale; la seconda è una conoscenza che si impara sul
campo, ed è spesso difficilmente comunicabile. A questo tipo di conoscenza
appartengono le abilità imprenditoriali, che non si possono imparare
frequentando dei corsi accademici.
L’anticapitalismo
rimane quindi il pilastro della religione secolare della grande maggioranza
degli intellettuali. Si potrebbe dire che l’avversione per il mercato è
l’atteggiamento che identifica il loro status di gruppo: nella critica al capitalismo si
riconoscono l’un l’altro come membri della stessa comunità. Questo
atteggiamento rivela l’elevato grado di conformismo del ceto intellettuale.
Appello
urgente per riforme capitaliste.
Esistono
molti libri che spiegano perché il capitalismo funziona. Per quanto siano interessanti,
queste spiegazioni teoriche hanno giocato un ruolo minore in questo libro. La risposta alla domanda “Perché il
capitalismo?” è molto semplice: perché funziona meglio degli altri sistemi
economici.
Naturalmente, vi sono delle ragioni dietro questo successo, ma sapere che
qualcosa funziona è più importante di sapere perché funziona. In fin dei conti, siete felici di
guidare la macchina o usare uno smartphone anche se non comprendete la
tecnologia coinvolta.
Allo
stesso modo, la gente può trarre beneficio del capitalismo anche se non ha mai
sentito parlare di Smith, Mises, Hayek o Friedman. Non avete bisogno di leggere tanta
teoria economica per decidere qual è il sistema migliore. È sufficiente che
osserviate la storia economica, come fa questo libro. Da nessuna parte l’eccesso di libertà
economica sta creando problemi, ma ci sono molti posti in cui è vero il
contrario. Il mondo ha bisogno urgente di riforme capitaliste.
CITAZIONI
RILEVANTI.
I doni
del capitalismo all’umanità.
«Il
capitalismo è la causa principale dell’aumento globale del tenore di vita su
una scala senza precedenti nella storia dell’umanità prima dell’avvento
dell’economia di mercato. L’umanità ha impiegato il 99,4% dei suoi 2,5 milioni
di anni di storia per raggiungere un PIL pro capite di 90 dollari
internazionali circa 15.000 anni fa (il dollaro internazionale è un’unità di
calcolo basata sui livelli di potere d’acquisto nel 1990). C’è voluto un altro
0,59% della storia umana per raddoppiare il PIL globale a 180 dollari
internazionali nel 1750. Tra il 1750 e il 2000 – in un periodo che rappresenta
meno dello 0,01% del totale della storia umana – il PIL pro capite globale è
cresciuto 37 volte fino a 6.600 dollari internazionali. In altre parole, il 97%
della ricchezza totale creata nel corso della storia dell’umanità è stata
prodotta in quei 250 anni. L’aspettativa
globale di vita è quasi triplicata nello stesso breve periodo di tempo, dato
che era di soli 26 anni nel 1820. Niente di tutto questo si deve a un improvviso
aumento dell’intelligenza o dell’industriosità umana. Il merito è del nuovo
sistema economico emerso nei Paesi occidentali circa 200 anni fa, che si è
dimostrato superiore a ogni altro sistema esistente prima o dopo di esso. È stato questo sistema basato sulla
proprietà privata, l’imprenditoria, l’imparzialità dei prezzi e la concorrenza
a rendere possibili i progressi economici e tecnologici senza precedenti degli
ultimi 250 anni – un sistema che, pur con tutti i suoi successi, è ancora
giovane e vulnerabile.»
Cosa
dice la classifica annuale delle libertà economiche.
«La
libertà economica avvantaggia quasi tutti. La ricerca ha dimostrato più volte
che maggiore è la libertà economica, più ricca è l’economia. Le economie più
libere hanno maggiori probabilità di far registrare elevati tassi di crescita
economica e di aumentare i redditi per il 10% più povero della popolazione. Uno
degli argomenti più convincenti in favore del capitalismo è che i paesi
economicamente liberi hanno tassi di povertà più bassi, oltre ad essere stati
in grado di ridurre la povertà più velocemente … È stato inoltre documentato
che le economie più libere raramente sperimentano guerre civili. Esse godono
inoltre di una maggiore stabilità politica, tassi di omicidio più bassi, meno
violazioni dei diritti umani, livelli più bassi di militarizzazione e hanno
popolazioni che si sentono più sicure.»
La
crisi finanziaria non è stata causata dal capitalismo.
«La
bolla dei prezzi immobiliari negli Stati Uniti e la crisi dell’Eurozona non
hanno avuto niente a che fare con un “fallimento del mercato” o una crisi del
capitalismo. Al contrario, entrambe sono state provocate dai politici e dei banchieri
centrali.
I
politici hanno provocato distorsioni nel mercato per perseguire progetti
politici come l’aumento del tasso di proprietà delle abitazioni tra le minoranze,
e hanno aumentato il debito pubblico in maniera irresponsabile. I governatori
della Fed e della Bce hanno praticato politiche di continua riduzione dei tassi
d’interesse annullando i naturali meccanismi del mercato ... Naturalmente, i politici e i banchieri
centrali non accettano di essere ritenuti responsabili per la crisi finanziaria
e dell’eurozona.
Come
uno scippatore che urla “Al ladro!” per distogliere l’attenzione su di sé,
costoro incolpano il “fallimento del mercato” o “il capitalismo sfrenato” ... Poiché la diagnosi delle cause è
sbagliata, anche le terapie proposte sono errate. Se la crisi finanziaria è stata
causata dai tassi d’interesse troppo bassi, dagli interventi nel mercato e
dall’eccessivo indebitamento, come si può pensare che la giusta terapia
consista in un’ulteriore riduzione dei tassi, più regolamentazioni del mercato
e più deficit? … Il settore finanziario è il più
regolamentato di tutti, con l’esclusione forse solo della sanità. Il fatto che
proprio le due aree dell’economia più regolamentate siano anche le più
instabili dovrebbe far pensare gli anticapitalisti.»
Transizione
ecologica, Ue alla svolta?
Ecco
perché serve una “rivoluzione di sistema.”
Agendadigitale.eu-
Annalisa Corrado- Gianluca Ruggieri-(19 Lug 2021)- ci dicono :
Sostenibilità
Ambientale E Smart City.
L’accordo
politico sulla legge europea sul clima è stato trovato, ma ora servono azioni concrete,
anche in Italia, per recuperare il ritardo sulla transizione ecologica. Troppo
poco è stato fatto, e il Pianeta non può più aspettare. Tre libri per mettere le questioni in una
prospettiva più a lungo termine.
Durante
la formazione del Governo Draghi, lo scorso febbraio, il dibattito pubblico nel
nostro Paese si concentrò (per qualche giorno) sulla transizione ecologica. L’introduzione del nuovo Ministero,
affidato poi a Roberto Cingolani, fu l’occasione per portare all’attenzione un
tema che in altri paesi era già piuttosto radicato nell’agone mediatico e
politico.
Ma
“Transizione ecologica” non è un termine neutro, né può essere semplicemente il
nuovo nome da dare ad un ministero che in Italia ha contato sempre troppo poco:
si tratta,
piuttosto, di un processo di profondo e radicale cambiamento, che non riguarda
solo la questione climatica e l’uscita il più rapida possibile dal sistema dei
combustibili fossili, ma anche la drammatica perdita di biodiversità e di
salute del pianeta, nonché le profonde disuguaglianze tra emisferi, generi,
generazioni. In
discussione c’è, nella sua interezza, lo stesso modello di produzione e
consumo, quello della crescita infinita basata sull’estrazione e il consumo di
risorse, non solo energetiche.
In
quest’ottica complessiva non può bastare “spostare” i profitti verso il green o
invocare una qualche fantomatica tecnologia taumaturgica (anche perché le
tecnologie, da sole, non bastano). È necessaria una “rivoluzione di sistema”, non solo
per andare oltre la pandemia, ma anche per trasformare la società.
Dagli
accordi di Parigi alla strategia ONU per lo sviluppo sostenibile: a che punto
siamo?
Corti
e tribunali chiedono ai Governi sforzi maggiori.
Legge
europea sul clima: la svolta?
Transizione
ecologica: tre libri sul tema.
Né si
può fare diversamente se consideriamo l’accordo di Parigi del 2015. I suoi obiettivi sono estremamente
ambiziosi: mantenere l’aumento della temperatura media globale del pianeta
sotto i 2°C (rispetto ai valori precedenti all’era industriale), e fare di
tutto per limitarlo a 1,5°C, significa infatti rivoluzionare interamente non
solo il nostro sistema energetico, ma tutta la nostra economia e il nostro modo
di vivere.
E ciò che più conta: per fare tutto questo abbiamo solo pochi anni (30 per
l’obiettivo ultimo di de-carbonizzazione, al 2050, ma molto meno di 10 per
imprimere la giusta spinta ed evitare che si inneschino fenomeni in grado di
accelerare ulteriormente il collasso climatico).
Tanto
dagli accordi di Parigi, quanto dalla pubblicazione della strategia ONU per lo
sviluppo sostenibile, declinata su 17 obiettivi, sono già passati quasi 6,
preziosissimi, anni.
A che
punto siamo? Il progetto scientifico indipendente e internazionale Climate Action Tracker monitora da sempre i progressi che i
vari stati stanno realizzando nelle politiche climatiche. Secondo l’ultimo
aggiornamento (di dicembre 2020) solo due Stati sembrano avere politiche in
linea con l’obiettivo di contenere l’aumento della temperatura del pianeta
entro i 1,5°C: Marocco e Gambia.
Altri
sei Stati (tra cui le Filippine, l’Etiopia e l’India) hanno strategie in linea
con l’obiettivo dei 2°C.
Nonostante
gli enormi sforzi, anche recenti, l’Unione Europea al momento è bocciata. I suoi obiettivi di riduzione delle
emissioni porterebbero infatti a un aumento di 3°C della temperatura globale
(quando il solo atto di superare i 2°C sarebbe sufficiente a condannare intere
aree del pianeta all’irreversibile inabitabilità per gli esseri umani,
accelerando al contempo la sesta estinzione di massa).
Corti
e tribunali chiedono ai Governi sforzi maggiori.
Non è
quindi un caso se in diversi Paesi tribunali e corti supreme si sono espressi
chiedendo ai rispettivi governi e parlamenti di adottare strategie molto più
ambiziose di quelle attualmente implementate.
La
Corte Costituzionale tedesca, ad esempio, lo scorso aprile ha chiesto al governo Merkel
di modificare la legge sul clima, perché pur avendo come obiettivo la
decarbonizzazione del paese entro il 2050, rimandava gran parte delle misure
più rilevanti a dopo il 2030. In questo modo, secondo la Corte, il rischio è di
gravare troppo sulle future generazioni, introducendo obblighi differiti che
potrebbero tradursi in rilevanti riduzioni delle libertà personali «perché
quasi tutti gli aspetti della vita umana sono ancora associati all’emissione di
gas serra e quindi sono minacciati dalle restrizioni drastiche che si dovranno
fare dopo il 2030».
Analoghe
posizioni sono state espresse dal Tribunale amministrativo di Parigi a febbraio e prima ancora dalla Corte Suprema Olandese nel 2019. In tutti i casi i promotori dei
ricorsi sono stati ONG e attivisti climatici.
Anche
in Italia è stata presentata una analoga iniziativa dal basso con la campagna “Giudizio
Universale”.
Legge
europea sul clima: la svolta?
Ora, a
livello europeo, il prossimo momento decisivo sarà l’approvazione della Legge europea sul clima per la quale è già stato trovato un
accordo politico di alto profilo all’interno del Consiglio Europeo, che dovrà
però essere tradotto in azioni concrete. Il pacchetto completo dovrebbe essere
presentato a metà luglio e impegnerà tutti gli Stati membri, inclusa l’Italia.
Transizione
ecologica: tre libri sul tema.
Uscendo
dal dibattito quotidiano e provando a mettere le questioni in una prospettiva più
a lungo termine, è interessante segnalare come nelle ultime settimane sono
stati pubblicati tre libri dedicati a questi temi.
Federico
M. Butera inquadra
con grandissima lucidità la questione nel suo contesto scientifico generale,
svelando le inter-connessioni tanto tra i pericolosi fenomeni innescati dagli
esseri umani, solo apparentemente slegati tra loro, quanto tra questi e i
sistemi politici, economici e sociali che abitiamo quotidianamente. “Affrontare la complessità. Per
governare la transizione ecologica” pubblicato ad aprile da Edizioni Ambiente.
Scrive
Butera: “Abbiamo profondamente alterato il metabolismo del super-organismo
biosfera, e le manifestazioni di questa alterazione sono state, negli ultimi
decenni, la sua febbre (il riscaldamento globale) e la progressiva perdita di
biodiversità, che è il principale indicatore della salute degli ecosistemi.
Sono due, dunque, i fenomeni, le malattie, che minacciano la stabilità del
sistema Terra, e quindi la società umana: il riscaldamento globale e la perdita
di biodiversità. E dobbiamo cercare di riportarli sotto controllo. Il tutto è
complicato dal fatto che i due fenomeni sono fra loro connessi, ed entrambi
incidono negativamente sulla sola cosa di cui non possiamo assolutamente fare a
meno: il cibo; con l’aggravante che la produzione di cibo, a sua volta, è la
causa principale della perdita di biodiversità e una delle cause del
cambiamento climatico”.
Massimo
Acanfora e Gianluca Ruggieri hanno invece curato per Altraeconomia “Che cos’è la transizione ecologica.
Clima, ambiente, disuguaglianze sociali”.
Raccogliendo
i contributi di 30 tra autrici e autori: docenti e ricercatori, giornalisti e
filosofi che affrontano questioni dirimenti come il rapporto tra economia reale
e quella finanziaria, il finanziamento della transizione attraverso fisco e
debito, l’estrazione di risorse e la necessità di calmierare e rendere
circolare la produzione industriale, la sottrazione continua di biodiversità,
del capitale naturale ed agricolo, il suolo, l’aria e l’acqua; e poi estendono
la riflessione a quale governance globale e locale sia desiderabile, a come
affrontare la povertà energetica, dai Paesi in via di sviluppo alle nostre
città e a come ridisegnare il linguaggio, auspicando una “decarbonizzazione”
dell’immaginario. Un libro che racconta e interpreta la transizione ecologica
con voci diverse e da ogni prospettiva: tracciando il quadro politico e
normativo, affrontando di petto la questione climatica, con i grandi temi
dell’energia e dei trasporti in primis, ma anche interpellando esperti di altre
discipline, dalla finanza alla forestazione.
“Ricomporre
i divari Politiche e progetti territoriali contro le disuguaglianze e per la
transizione ecologica” curato da Alessandro Coppola, Matteo Del Fabbro, Arturo Lanzani,
Gloria Pessina, Federico Zanfi e pubblicato da Il Mulino, raccoglie invece
contributi di ambito accademico di descrizione di pratiche concrete già in atto
o in programma per affrontare nei tanti territori italiani, ricchi di criticità
e di potenzialità. Perché la transizione ecologica impatta sulla vita di tutti,
e riguarda direttamente temi come l’abitare, le infrastrutture della vita
quotidiana e la mobilità. Il lavoro, sintesi di progetti pluriennali, potrebbe
diventare un utile manuale su come definire le politiche del “Next Generation
EU “nel nostro paese.
Prontuario
(e senso) di
una
Rivoluzione culturale.
Thomasproject.net-
Francesco Valacchi-(2-1-2021)- ci dice :
Nella
storia della politica contemporanea un posto di rilievo è di certo occupato
dagli eventi che occorsero nella Repubblica Popolare Cinese a partire dal
1964/65 anche se la storiografia delle date ufficiali ne fa risalire l’istante
iniziale al maggio del 1966.
Il
fenomeno, conosciuto in cinese come 文化大革命 (Wenhua Dageming), ovvero Grande rivoluzione della cultura,
fu un sommovimento sociale, culturale e istituzionale che ebbe una vasta serie
di obiettivi volti all’estremo cambiamento di una società (struttura sociale) a
partire dalla visione culturale: una serie di obiettivi che brillò per
eterogeneità.
Si volle anche, molto probabilmente e in
alcuni momenti, scuotere la struttura del Partito per rafforzare il potere di
certi leader e affossarne altri ma, comunque, nell’alveo dell’intenzione di
rivoluzionare la cultura di un paese-continente, partendo dal peso che la
cultura aveva presso la classe dirigente del Partito nel compito di gestire le
sorti cinesi.
La
miccia fu accesa con l’intento del sovvertimento e del ritorno ai valori
primari della rivoluzione comunista, con l’obiettivo di colpire l’establishment
prima di una sua definitiva sclerotizzazione nell’assumere derive totalitarie
che probabilmente Mao ed il gruppo della Rivoluzione culturale temevano, in
quanto lo avevano visto verificarsi in Unione Sovietica.
Il progetto era quello di evitare il processo
di involuzione sociale che sembrava condannare la rivoluzione cinese
(attraverso la burocratizzazione) alla nascita di una futura borghesia dedita
alla stabilità capitalistica e quindi con l’intenzione di fermare la
controrivoluzione o di mantenere vivo il progresso rivoluzionario. Non bisogna
dimenticare la visione di Mao Zedong e del suo fedelissimo Chen Boda nel
considerare le contraddizioni interne alle classi e gli scontri fra classi
sociali e fazioni di esse come il motore dello sviluppo e dell’evoluzione e,
pertanto, come l’ingrediente necessario ad ottenere quello sviluppo economico
che il Partito perseguiva quantomeno dal 1 ottobre 1949.
Proprio
Chen nel 1966 arrivò a paragonare le intenzioni e la realizzazione delle
istanze delle Guardie Rosse (le milizie della Rivoluzione culturale)
all’esperimento della Comune di Parigi, ma con un impatto ancora più profondo
sulle coscienze del proletariato internazionale.[2] Forse proprio sulla
profondità con la quale venne percepito il movimento delle Guardie rosse
internazionalmente e non solo in Cina è opportuno far luce per comprendere il
senso del fenomeno e la sua attuale opportunità.
Rossana
Rossanda nel 1968 sosteneva che nelle occupazioni e esperienze di contestazione
studentesca si trovava sempre più spesso:
qualche
cosa della rivoluzione culturale, piuttosto “sentita” immediatamente – il suo
peso è, certo, determinante – che studiata; […]. Ma, come vedremo, il rapporto
con i testi, anche quelli rivoluzionari, è bruciante e allusivo, ha poco a che
fare con lo studio e la discussione e la citazione (di qui la scarsa fortuna
dei gruppi “marxisti-leninisti”, nonostante la straordinaria fortuna della
rivoluzione culturale), ma piuttosto con una adesione immediata all’essere e al
fare, modi di riconoscersi e indicazione per la lotta, a costo – anzi, in
grazia – di certe semplificazioni altrettanto manichee quanto mobilitatrici.
La
tesi di Rossanda era così motivata in nome degli stimoli che la prassi
rivoluzionaria riusciva a dare a centinaia di migliaia di giovani cinesi ormai
d’esempio anche in Europa e in America.
Con il suo appello a <<sparare sul quartier generale>> il Grande Timoniere (Mao) scosse,
certo anche con l’intento tattico di ottenere vantaggi di posizione politica
all’interno del Partito, le coscienze di tanti che si pensavano ormai assorbiti da un
“senso comune” sempre più filo-capitalista.
Venne
scalfita la razionalità della struttura sociale capitalista se una “innocua”
nave cinese approdata a Genova ad agosto del 1967 ( la “Li Ming”) venne messa
in quarantena dall’autorità portuale non per una infezione virale a bordo, ma
semplicemente perché esponeva striscioni con proclami del tipo:
Sollevare
una pietra per poi lasciarsela ricadere sui piedi, dice un proverbio cinese per
definire il modo di agire di certi stupidi. I reazionari di ogni paese
appartengono a questa categoria di stupidi.
Si
voleva assolutamente impedire il contatto con i portatori delle idee del
Libretto rosso. Michelangelo Antonioni nel breve narrato del suo documentario Chung Kuo
(trascrizione superata dall’attuale forma pinyin di 中国, Cina), girato pochi anni dopo il
termine della Rivoluzione culturale, affermava che:
La
Rivoluzione culturale aveva sconvolto i sistemi di produzione, aveva dato la
precedenza alla fedeltà politica più che alla competenza. Ora l’efficienza
appare di nuovo come una meta da raggiungere pur senza rendere disumano il
lavoro.
Forse
Antonioni raccoglie in questi pochi secondi l’immagine che l’evento storico
poteva aver impresso nell’opinione pubblica comune non fuorviata dalla pur
forte propaganda politica legata ai “valori” del mondo occidentale. Un’enorme sommossa che aveva ribaltato
l’obiettivo dell’organizzazione del lavoro: non più l’efficientamento ai fini
di accumulazione del profitto, quanto al contrario l’accordo ai valori
politici, intransigente sino all’irrazionalità.
A ben vedere si tratta di una contraddizione
in sé, almeno per la cultura moderna occidentale: “disumanizzare il lavoro” (così dice Antonioni) non per il sacro e razionale profitto
quanto per il supremo fine ideologico (politico).
Una
contraddizione impossibile da sanare se si voleva mantenere la centralità del
pensiero occidentale e incomprensibile se si rinunciava a percepire il primo
obiettivo dell’attacco rivoluzionario (pur ben chiarito nella definizione del
fenomeno): la
cultura nella sua accezione più generale.
Una
delle testimonianze più dirette giunte in occidente è quella di John Collier
dalle colonne di “New Left Review”. L’autore già nel 1968 tracciava la cronaca del
fenomeno della Rivoluzione culturale dalle campagne della Cina comunista
proprio dove si compivano le estreme conseguenze come le deportazioni per la
rieducazione di quadri e dirigenti.
Si trattava di un racconto eccezionale, di una
visione embedded di quando e come avveniva l’attacco alla sovrastruttura
culturale deviata, al sistema che diveniva sclerotizzato e al solo sospetto della corsa al
capitale, come in una utopia assoluta.
Certo
molti in occidente (per esorcizzare il fantasma dei rossi smagriti e
ossessionati dalla Rivoluzione del modo di pensare) si affrettarono alla
condanna su basi morali della disfatta dei valori di riferimento europei e
americani (occidentali insomma): la crescita del PIL, l’acquisto dei beni di
consumo e le politiche del benessere occidentale contrapposte alla terribile e
disumana politica di controllo sociale di Pechino (barbara peraltro, è vero). E quindi il fenomeno è rappresentato
da molta stampa ancora come un barbaro decadimento ma non da diversi sinologi e
storici che quantomeno la considerano essenzialmente con sguardo ancora interrogativo, come ben rappresentato
dall’intervista a Jean-Luc Domenach su “FigaroVox” dell’attenta Eléonore de
Vulpillieres, ma soprattutto come un qualcosa di inedito e forse ancora
ineguagliato nei numeri e nella portata nel panorama politico: un sommovimento
dal fine culturale, filosofico e politico che volle far leva principalmente
sulla cultura delle masse e giunse a far interrogare il mondo intero quantomeno
sulla possibilità delle direzioni da prendere.
Resta
da contestualizzare e da vedere quale sia stato l’impatto della Rivoluzione
culturale sul panorama politico sociale cinese di allora e da compiere
l’inverso, eretico e per molti utopico processo: quale sarebbe il senso
dell’attualizzazione della Rivoluzione culturale.
La
Cina con le sue istituzioni, il Partito Comunista Cinese (PCC), i decisori
politici e anche la stragrande maggioranza del popolo cinese ne uscirono
stravolti. Coloro
che seppero fare ammenda della loro reale o anche solo pretesa deriva
capitalista furono riabilitati e molti, fortificati dall’esperienza,
costituirono la spina dorsale del PCC che ha portato la Cina a subentrare al
ciclo statunitense e la porterà molto presto ad assurgere prima potenza (almeno
economica) mondiale.
Deng Xiaoping e Jiang Zemin sono fra gli esempi più
famosi di dirigenti del PCC colpiti, rieducati e riammessi ai vertici, vittime
e beneficiari di una violenta pedagogia delle masse. Al contempo l’Esercito
Popolare di Liberazione (EPL) assunse un ruolo perno che conserva senza dubbio
ancora ai giorni nostri: la garanzia di legittimità e fedeltà alla dirigenza
politica del PCC, assunta in cambio di un tacito contratto, pur accennato nel
Preambolo della Costituzione del 1982,[8] che vede affiancati popolo e Forze
armate nel compito della difesa della nazione e della salvaguardia della sua
sovranità.
Si
tratta essenzialmente di un sacro contratto inficiato solo dai tremendi fatti
del 1989 a Pechino e corroborato dalla Costituzione del PCC. La figura di
garante dell’ordine, al di là degli eccessi, venne declinata e dipinta proprio
grazie al ruolo che ebbe l’esercito di milizia nel ristabilire l’ordine al
termine del sommovimento.
Nonostante
però il suo peso in Cina e all’estero la pagina della Rivoluzione culturale è
stata rimossa per lungo periodo dalla narrativa del PCC e dall’immaginario
cinese (e lo è anche oggi), forse proprio perché la dirigenza teme
un’improvvida evocazione della Rivoluzione a spese del Partito odierno.
L’attualità della narrativa ufficiale del Partito in Cina ha quasi
completamente cancellato (ad eccezione di rarissimi addetti ai lavori) gli
eventi della Rivoluzione. Pur sostenendo la figura di Mao e del grande lavoro di
contestualizzazione ancora necessario dal punto di vista storico, rimane forse
un solo dato certo: l’incommensurabilità della scienza politica cinese ai
nostri occhi di occidentali.
Giunti
al punto di considerare l’esaminata utopia e le sue categorie incommensurabili
per il “senso comune” occidentale non resta altro che portarne il paradigma al
qui e ora per comprenderne ulteriormente l’aspetto completamente rivoluzionario
e attuale.
La contingenza dell’emergenza sanitaria ha
chiaramente messo in luce l’infima importanza concessa alla dimensione
culturale sociale: in tutta Europa comitati di volenterosi legislatori o
sedicenti esperti (tecnici medici e biologi) prima di ogni altro provvedimento
si sono preoccupati di azzerare le funzioni educative e culturali, pur
mantenendo alta la produttività industriale e commerciale.
E’
paradossale ma indicativo ad esempio che non sia stato mosso un singolo passo
nella direzione di una comune ripresa dell’istruzione a livello europeo e che i
prodotti di condivisione culturale (cinema e teatri ad esempio) siano stati
azzerati senza troppi ragionamenti.
L’ortodossia dei Trattati è, di nuovo, lo
spaventapasseri che blocca ogni visionarietà e chiude ogni finestra sul futuro,
dando voce ai populismi di vario genere mentre sarebbe opportuno, proprio
adesso, in una condizione di emergenza, concedere più spazio alle politiche
dell’Unione Europea al fine di ottenere una pronta comune risposta anche
all’emergenza sanitaria.
Intanto
il palcoscenico post-globale aveva già dimostrato, in maniera
incontrovertibile, con le emergenze climatica, dell’immigrazione, economica e
sanitaria verso il basso che la forma-stato ha quasi raggiunto il capolinea
della sua vita tecnica e che, di conseguenza, molte organizzazioni
internazionali basate sul consesso delle rappresentanze statali (verso l’alto)
sono solo paradossali e risibili rappresentazioni di quello che potevano essere
sino ai primi anni Duemila.
La penosa prova data dalle Nazioni Unite e
dalle sue subalterne agenzie nell’ultimo decennio sulle tematiche sopra citate
è purtroppo eloquente (in particolare nell’amorfa gestione dell’emergenza
climatica e dell’emergenza terroristica internazionale scaturita anche nel
sedicente Stato islamico).
Nel
contempo le organizzazioni governative regionali o intermedie (Unione Europea,
ASEAN, Partito Comunista Cinese, OCS e OPEC ad esempio) sembrano davvero aver
fatto il salto di qualità, globalizzando i loro mezzi e i loro fini,
dimostrando di essere fra le autorità politiche in grado di affrontare la
situazione contingente. Da tutto ciò la cultura e la percezione di massa sono spesso
esenti, cristallizzate nell’eterno presente della realtà nazionale o
internazionale.
Davanti
a tanto è necessario, prima di qualsiasi cambiamento politico e di ordinamento
sociale, il passo di una Rivoluzione di percezione delle scienze sociali che
dia più vita allo studio di realtà ibride e inconsuete del panorama
post-globale, come già avviene in ambiente accademico e ne diffonda la
percezione (critica) verso la cultura di massa e dentro il “senso comune”. Una vera e propria Rivoluzione
culturale per attaccare la sclerotizzazione della cultura di massa nella forma
“statale versus internazionale” e per
cercare di imporre quantomeno una competenza politica e sociale di questi temi
nel “senso comune”, nella cultura di massa riguardo tutto ciò che è nuovo.
La
cultura della competenza e dell’approccio critico infatti altro non sono che
l’antidoto al populismo, radicato nella pseudo-cultura del <<non so, non capisco, ci
stanno prendendo in giro e non m’interessa>> tanto attaccato ad un’arida
disciplina scientifica occidentale e la creazione di cultura che passa
attraverso le scienze sociali.
Proprio
questa è la Rivoluzione culturale che forse oggi andrebbe riproposta: l’elemento di rottura ed evoluzione
rispetto alla stagnazione del presente, la rivoluzione della comprensione
della realtà a partire dalla cultura dello spazio sociale e regionale che
travalica il concetto di stato-nazione ma si ritrova nell’identità di essere
biologico in relazione con altri esseri biologici come agenti sociali, come ha
definito Pierre Bourdieu.]
Si
tratta di una vera Rivoluzione che sarebbe opportuna in tutto l’occidente e che
mira al riposizionamento al centro della cultura e della politica delle scienze
sociali attuali e soprattutto quelle ancora da inventare.
Fisco
più "leggero", rivoluzione anti-burocrazia
e
business green: è l'Italia che cambia.
Impreseterritorio.org-Confartigianato-(15-11-2021)-
ci dice:
CARTELLE
DEL FISCO PIU’ LEGGERE: ARRIVA UN MILIARDO PER IL TAGLIO DEL 6%.
Lo
scrive “Il Messaggero”: “Le cartelle esattoriali saranno più leggere. Il
governo dal 2022 cancellerà l’aggio, il meccanismo di remunerazione
dell’attività della Riscossione (attualmente al 6%) posto a carico del
contribuente raggiunto da una lettera del fisco. La svolta arriva dopo una
sentenza della Consulta che ha giudicato iniquo il vecchio sistema. Il vuoto finanziario sarà colmato da
un trasferimento economico del peso di 995 milioni di euro verso le casse
dell’agente della riscossione”. Saranno confermati, invece, sia il rimborso dei
diritti degli atti di riscossione (attualmente di 5,88 euro a cartella), sia le
spese di procedure di recupero.
Il
cambio di passo prevede anche l’uso della tecnologia nel controllo e gestione
delle pratiche. Nelle misure anti-crisi:
Saldo
atto in 150 giorni. Il governo ha portato da 60 a 150 giorni il tempo per
pagare le cartelle esattoriali ricevute dai contribuenti durante l’emergenza
legata alla pandemia.
Rate
più lunghe. Chi è decaduto nel periodo Covid dalla rateizzazione delle
cartelle, può essere riammesso dal 31 ottobre 2021 con l’ulteriore aiuto di
poter riprendere a pagare in 18 rate anziché in 10.
Riapertura
dei termini. Remissione in termini anche per chi aveva piani relativi alla
rottamazione o al saldo e stralcio. I contribuenti avranno tempo fino a fine
novembre per saldare le scadenze di quest’anno.
LE
INCOGNITE DELL’INFLAZIONE CHE CRESCE.
Inflazione.
Ogni
tanto se ne parla perché tutti si chiedono, si legge su Repubblica, “se
l’inflazione sia temporanea oppure rischi di diventare permanente”. Negli Stati Uniti, l’inflazione ha
ormai superato il 6%; nell’Eurozona siamo al 3,4%. Il quotidiano analizza tre
punti:
C’è il
dubbio che non si tratti di “buona inflazione”, vale a dire dovuta al
miglioramento dell’economia: attualmente la convinzione è che l’aumento
dell’inflazione sia dovuto a motivi “cattivi”, ai prezzi delle materie prime,
energia e cibo.
L’inflazione
è più alta in Germania, oltre il 4%: i tedeschi considerano “la politica
monetaria dell’euro eccessivamente espansiva”. Finora l’inflazione non ha
reagito, ma cosa potrebbe accadere con tutta questa liquidità in circolazione?
L’inflazione
“è come una bicicletta: è molto difficile rimanere in sella da fermi”. Un conto
è annunciare di tollerare l’inflazione al 3 o 4 per cento; un altro è
dimostrare di sapere tenere sotto controllo l’inflazione e tornare al target
del 2%.
IL
BUSINESS VERDE PIACE AI MECATI: IN ARRIVO UN FIUME DI DENARO.
Si
legge su Repubblica che “le banche d’affari, i grandi fondi di investimento e le
multinazionali” Green
hanno
deciso di scendere in campo in questa battaglia non, sia ben chiaro, per
altruismo ma perché hanno capito che salvare il pianeta è un bel business”.
Infatti,
“dal summit
climatico di Parigi nel 2015, più di 2.200 miliardi di dollari sono stati spesi da
aziende, fondi di investimento e governi pe rendere più efficiente l’energia
generata da sole, vento e batteria”.
Così,
le grandi istituzioni internazionali si sono impegnate a non finanziare più
progetti basati sul carbone; banchieri e investitori “parlano delle redditizie
prospettive di nuove industrie quali l’acciaio e l’idrogeno verdi” e gli
investimenti sono “puliti”.
I fondi legati all’Esg (environmental, social e governance), ovvero gli investimenti
responsabili, nel 2025 raggiungeranno 53mila miliardi, quasi un terzo di tutti i
patrimoni gestiti.
Ma
dietro l’angolo c’è la pratica del green-washing, l’ambientalismo di facciata,
che “in realtà non fa nulla ed è un problema serio e diffuso”.
AL VIA
LA RIVOLUZIONE ANTI-BUROCRAZIA: CERTIFICATI GRATIS ONLINE PER TUTTI.
Anagrafe
digitale.
Lo
scrive “La Stampa”: “Da oggi, più di 66 milioni e mezzo di italiani potranno
accedere all’Anagrafe Nazionale della Popolazione Residente (Anpr) sulla
piattaforma (anagrafenazionale.gov.it) muniti dell’identità digitale Spid,
della carta di identità elettronica (Cie) o della Carta nazionale servizi (Cns)”.
Il
nuovo servizio permette di ottenere i certificati anagrafici online in maniera
autonoma e gratuita, “senza dover pagare il bollo da 16 euro chiesto finora dai
Comuni”.
In tutto sono 14 i certificati che vengono resi
disponibili da oggi, e che possono essere richiesti anche per un componente
della propria famiglia: “Si va dal certificato di nascita a quello di matrimonio,
dallo Stato civile sino ai certificati di unione civile e al contratto di
Convivenza. Ma c’è ancora un nodo da sciogliere, ed è quello dello Spid:
Codacons chiede che “sia gratis per tutti. Un invito ad intervenite sulle Poste
che, da novembre, chiede 12 euro per il servizio di identificazione allo
sportello che prima, invece, era gratis”.
Rivoluzione
Facebook: il nuovo
nome dell’impero di Zuckerberg è Meta.
Tech.fanpage.it-
Lorenzo Longhitano-(28 ottobre 2021)- ci dice:
Il
nome del social network più frequentato nel mondo rimane sempre Facebook, ma a
cambiare è il nome di quello che finora veniva chiamato semplicemente gruppo
Facebook, ovvero l’azienda quotata in borsa che sviluppa e gestisce l’omonimo
social e una miriade di altri prodotti tra i quali Instagram e WhatsApp.
Alla
fine il nuovo nome di Facebook è ufficiale: Meta, che sta per meta-verso, ovvero
il concetto che Zuckerberg intende rendere realtà da qui ai prossimi 10 anni.
Dopo
giorni in cui si rincorrevano le voci di un nuovo battesimo per il gruppo
fondato da Mark Zuckerberg, la conferma è arrivata in questi minuti con
l'annuncio ufficiale da parte dello stesso fondatore durante l'evento Connect
che si è concluso negli ultimi minuti.
L'annuncio
di oggi era atteso a causa di indiscrezioni che dall'inizio della settimana
raccontavano i massimi vertici dell'azienda al lavoro su un nuovo nome che
potesse raccontare al meglio le nuove ambizioni di un conglomerato che ormai non si occupa
più di social network, né tantomeno solo di Facebook.
Le
anticipazioni dei giorni scorsi.
In
effetti parlare di corrispondenza tra il gruppo guidato da Mark Zuckerberg nel
2021 e il social network che fondò nel suo dormitorio ad Harvard nel 2004 ormai
è totalmente fuorviante.
Da allora Facebook non solo è diventato una potenza
globale a sé stante, ma l'azienda che ne gestisce le operazioni ha acquisito
decine di altre realtà tecnologiche – dalla piattaforma Instagram alla
messaggistica di WhatsApp passando per la realtà virtuale di Oculus – e
presentato al pubblico altrettante nuove piattaforme come WhatsApp Pay e la
miriade di prodotti interni a Instagram. All'interno del gruppo Facebook, il
social Facebook insomma è ormai solo uno tra tanti prodotti, e neppure quello
con le prospettive migliori.
Perché
ora il gruppo Facebook si chiama Meta.
Era
solo questione di tempo prima che l'azienda decidesse farsi rappresentare da un
nome diverso da quello del social che attualmente cresce in modo meno spedito
tra tutti quelli che gestisce. Quale dovesse essere questo nome, è qualcosa su
cui i piani alti si sono interrogati a lungo: la questione del cambio era sul
piatto da anni, anche se stando alle indiscrezioni raccolte più di recente è
diventata pressante solamente negli ultimi due mesi; in particolare sembra che il numero
uno di Facebook in persona, Mark Zuckerberg, sia stato fino all'ultimo momento
dubbioso sulla decisione da prendere.
C'è
già un'azienda che si chiama Meta, ma Zuckerberg non lo sapeva: "Dateci 20
milioni per il nome".
La
decisione è infine caduta sulla direzione che ormai da mesi lo stesso
Zuckerberg ha deciso di far prendere alle attività del suo gruppo, ovvero
quella del meta-verso.
L'universo
di esperienze in realtà virtuale che secondo il fondatore di Facebook
accoglierà un miliardo di persone entro i prossimi dieci anni rappresenta così
il futuro non solo di Facebook, ma anche un punto di convergenza per tutti gli
attuali prodotti e servizi del gruppo — da Instagram a WhatsApp.
Il
cambio di nome simboleggia una scommessa ambiziosa: significa che tutti gli sforzi della
multinazionale saranno indirizzati alla costruzione di qualcosa le cui
fondamenta sono a malapena state gettate;
se la
visione di Zuckerberg si concretizzerà, non solo Facebook, ma anche gli attuali
prodotti maggiormente di successo saranno un giorno spazzati via dal nuovo
immaginato e annunciato ufficialmente in queste ore.
(tech.fanpage.it/rivoluzione-facebook-il-nuovo-nome-dellimpero-di-zuckerberg-e-meta/)-(tech.fanpage.it/).
Il
mondo digitale non è sostenibile.
Iltascabile.com-Alessio
Giacometti- (13-4-2021)-ci dice :
Tra
emissioni, consumi, rifiuti e impronta ambientale, la rivoluzione informatica è
sempre meno ecologica.
(Alessio Giacometti è nato a Padova nel 1992 e ha una
laurea in Sociologia. Suoi testi sono stati pubblicati su Il Tascabile, la
newsletter MEDUSA, Le Macchine Volanti, Singola e altre riviste.).
La foto è del 1994: un giovane e intrepido Bill
Gates si cala con fune e imbragatura in un bosco di abeti. Nella
mano sinistra tiene bene in vista un iridescente CD-ROM, la destra è poggiata
su una pila di fogli di carta che pareggia in altezza il fusto degli alberi. Il
messaggio del ragazzo che vuole portare un calcolatore elettronico su ogni
scrivania d’America e del mondo non chiede spiegazioni: guardate quanta informazione ci sta
in un disco compatto di memoria, quanta carta ci farà risparmiare
l’archiviazione digitale dei dati informatici.
Basta
già poca immaginazione per intravedere un futuro sfavillante in cui
l’informazione, ormai quasi del tutto smaterializzata, viaggerà dal centro
pulsante di un microchip fino allo schermo luminoso di un computer che potremo
tenere in tasca. Alleggeriremo così la nostra impronta sull’ambiente, muoveremo i dati e
non le cose, ci faremo efficienti e sostenibili. È la promessa spregiudicata di
una rivoluzione digitale ed ecologica assieme.
A
distanza di quasi trent’anni da quello scatto divenuto nel frattempo celebre,
il savio e visionario Gates ama ancora farsi passare per guru della
sostenibilità digitale, eppure la sua profezia pare essersi realizzata soltanto
per metà.
La
rivoluzione digitale si è in effetti compiuta, almeno in larga parte, mentre la
crisi climatica è sempre lì che incombe, anzi: sempre più. Ridimensionato
l’ottimismo acritico della prima ondata per l’innovazione digitale – già messo
in discussione, su basi economiche e politiche, da autori come Evgeny Morozov – le cosiddette ICT (information and
communications technologies) hanno alla fine deluso le aspettative più rosee di
riduzione dell’impatto ambientale.
La
moneta digitale non è altro che l’energia impiegata per produrla, e più ne
viene estratta più calcoli (ed energia) sono necessari per generarne di
ulteriore.
Negli
anni, le tecnologie informatiche e digitali sono diventate, anzi, per certi
versi, parte del problema.
Qualche
dato: per fabbricare un computer si utilizzano 1,7 tonnellate di materiali,
compresi 240 chili di combustibili fossili. Internet da sola succhia il 10%
dell’elettricità mondiale e rispetto a dieci anni fa inquina sei volte di più,
con un monte emissioni che eguaglia oggi quello dell’intero traffico aereo
internazionale.
Due ricerche su Google rilasciano anidride carbonica
al pari di una teiera d’acqua portata a ebollizione, Netflix consuma da sé
l’energia di 40mila abitazioni statunitensi.
Mezz’ora
di streaming emette quanto dieci chilometri percorsi in automobile (secondo
altre fonti, non più di un chilometro e mezzo ), mentre un solo ciclo di
training linguistico di un algoritmo arriva invece a inquinare come cinque
automobili termiche lungo il loro intero ciclo di vita.
Complessivamente,
i consumi energetici dell’intelligenza artificiale raddoppiano ogni 3,4 mesi, e
per risolvere in pochi secondi il cubo di Rubik a un algoritmo serve
l’elettricità prodotta in un’ora da tre centrali nucleari.
Ci
sono poi i videogiochi: complici la pandemia di coronavirus e le conseguenti
restrizioni, il 2020 è stato un anno da record per l’industria videoludica, che
nei soli Stati Uniti assorbe il 2,4% dell’elettricità domestica, più di quanto
facciano congelatori e lavatrici, generando tante emissioni quante quelle di 55
milioni di automobili a motore termico.
Per
ridurre consumi ed emissioni Sony e Microsoft hanno introdotto una modalità di
utilizzo a risparmio energetico nella loro ultima generazione di console,
rispettivamente, e tuttavia la sensazione è che l’intero settore stia
rapidamente avanzando verso il più energivoro cloud gaming multipiattaforma.
C’è,
infine e soprattutto, il problema della moneta digitale: allo stato attuale, l’impronta di carbonio di una
singola transazione in Bitcoin equivale a quella di 680 operazioni Visa e di 51
ore di binge watching su YouTube.
Paradossalmente,
estrarre un dollaro di Bitcoin richiede quattro volte più energia che
fabbricarne uno in rame e tre volte uno in oro, con proporzioni solo un po’
migliori per altre criptovalute come Ethereum, Litecoin e Monero.
Al netto di definizioni troppo contorte e
cervellotiche per i non addetti ai lavori, la moneta digitale non è altro che
l’energia impiegata per produrla, e più ne viene estratta più calcoli (ed
energia) sono necessari per generarne di ulteriore, motivo per cui i siti di
produzione tendono a fare marginalità recuperando il gas di torcia
dall’attività di fracking del petrolio, oppure localizzandosi lì dove
l’elettricità viene ricavata dal carbone e perciò venduta a prezzi competitivi
– come accade in Cina, dove le emissioni del settore superano ormai quelle di
intere nazioni come Repubblica Ceca e Qatar. I computer usati nel mining della
criptovaluta si surriscaldano così tanto che per raffreddarli si ricorre a
sistemi di ventilazione simili a quelli impiegati negli allevamenti intensivi
di polli in batteria.
Mining
è una delle rare metafore del lessico digitale che rimandano esplicitamente
all’industria estrattiva, un po’ come quando si dice che i dati sono il nuovo
petrolio.
La maggior parte delle analogie – software,
cloud, smartphone, chip… – evoca un immaginario eufemistico di efficienza,
leggerezza e intangibilità che contribuisce a oscurare l’impatto reale delle
ICT.
È
stata soprattutto la miniaturizzazione dei processori a cambiare il modo in cui
facciamo esperienza delle tecnologie digitali e della loro impronta ambientale.
“Ingannati
dalle dimensioni minuscole dei nostri apparecchi”, osserva Christina Gratorp in
un articolo ripreso da Internazionale, “non ci fermiamo a riflettere sulla
gigantesca industria che c’è dietro, sulle enormi quantità di risorse materiali
che consumano quando li usiamo e sulle condizioni di lavoro di chi fornisce
all’industria quelle risorse”.
Colossus
ed Eniac, tra i primi calcolatori della storia, pesavano rispettivamente 5 e 27
tonnellate.
Oggi
una persona su cinque tiene in mano uno smartphone che per capacità di
elaborazione supera il computer con cui la NASA è riuscita a mandare il primo
essere umano sulla Luna.
Si deve all’introduzione del silicio nei circuiti
integrati lo sviluppo stupefacente dei microprocessori, cominciato nel 1971 con
il lancio di Intel 4004. Da allora la potenza di calcolo è effettivamente
raddoppiata ogni diciotto mesi mantenendo inalterate le dimensioni dei
microchip, ma
quello che la Legge di Moore non racconta è che la materialità delle tecnologie
digitali non è affatto scomparsa: è stata soltanto rimossa da sotto i nostri
occhi.
Tutt’altro
che nell’etere: per fare acquisti online o muovere messaggi in chat serve
carburante, e se le fonti rinnovabili sono insufficienti occorre ricavare
l’elettricità da gas e carbone.
Tutt’altro
che nell’etere, internet scorre come petrolio negli oleodotti attraverso 1,2
milioni di chilometri di cavi che si snodano sui fondali oceanici.
Per
fare acquisti online o muovere messaggi in chat serve carburante, e se le fonti
rinnovabili sono insufficienti occorre ricavare l’elettricità da gas e carbone.
Memorizzare
dati informatici necessita di capienti archivi materiali: non esiste alcuna
“nuvola”, il cloud è soltanto un imponente computer che lavora a tutto spiano
in un torrido e congestionato data center.
Così
Gratorp: “per sua stessa natura il software consuma il mondo fisico, perché i
bit non esistono senza gli atomi. Anche
se imparassimo a codificare meglio, a fare test più rigorosi e a riciclare di
più, sarebbe fisicamente impossibile non consumare materia ed energia”. Che doccia fredda: le tecnologie
digitali sono essenziali per ridurre le emissioni e frenare il riscaldamento
globale, ma quello della loro presunta immaterialità e sostenibilità è
solamente un mito, tanto diffuso quanto fuorviante.
Nuvole
che grondano petrolio.
Misurare
l’impronta ecologica dell’industria informatica e digitale è un’impresa
laboriosa e scoraggiante: tolto il Cleaning Click Report di Greenpeace sono
pochissimi altri i tentativi degni di nota, e tuttavia le Big Tech della
Silicon Valley non mancano mai di dare sfoggio delle proprie ridotte emissioni. Di recente Google, Microsoft e Apple
si sono promesse carbon neutral entro il 2030, Amazon entro il 2040.
Qualche
anno in più per installare pannelli fotovoltaici a sufficienza e le “sorelle”
FAAMA (Facebook, Apple, Amazon, Microsoft e Alphabet) assicurano di farsi
carbon negative: produrranno più energia pulita di quella che consumano e
riassorbiranno le proprie emissioni storiche con tecnologie di stoccaggio
dell’anidride carbonica.
In futuro mail e chat verranno alimentate
interamente con energia solare, i cloud saranno ottimizzati e de-carbonizzati,
il green computing diventerà una consuetudine per una nuova generazione di
programmatori. Le opache e discutibili compensazioni ambientali faranno il
resto assieme ai massicci fondi di investimento per la sostenibilità, oggetto
di una corsa filantropo-capitalistica a chi elargisce la cifra più alta. Peccato che in gioco ci sia il
solito, irrisolto problema di sempre, ossia quello degli “effetti rimbalzo”: la
domanda di servizi cresce più rapidamente del risparmio di energia che si
riesce a ottenere efficientando le tecnologie.
Per
farsi un’idea di quanto emettano i data center nei quali vengono archiviati i
dati informatici è stato introdotto anni fa un indicatore, il power-usage
effectiveness (PUE), che tuttavia misura l’efficienza dei server, non la loro
impronta di carbonio. Sono variabili ben distinte: per assurdo, il supercalcolatore
più efficiente del pianeta potrebbe essere alimentato con elettricità ricavata
interamente dalla combustione del carbone – la fonte energetica più inquinante
– come di fatto avviene in molti data center.
Ce ne sono circa otto milioni in giro per il mondo,
quelli di scala industriale sono poche centinaia. Facebook detiene i propri server,
Netflix si appoggia invece a quelli di Amazon che nel settore del cloud
computing controlla la fetta di mercato più grossa assieme a Microsoft e
Google.
Dal
2010 la capacità di calcolo complessiva dei data center è cresciuta del 550%
mentre i consumi di elettricità soltanto del 6%. L’impressione degli esperti è
però che l’efficientamento dei server abbia ormai raggiunto il limite.
Per
evitare la fusione dell’hardware surriscaldato dall’elaborazione dei dati si
tenta oggi di incorporare nelle componenti elettroniche degli impianti
miniaturizzati di raffreddamento a liquido.
Altrove
si sperimentano soluzioni ancor più avveniristiche, come quella di far
funzionare i chip con fotoni al posto dei normali elettroni, oppure quella di immagazzinare i
dati informatici nel DNA batterico.
Facebook
ha per ora risolto la faccenda del cooling delocalizzando parte delle proprie
server farm nella gelida penisola scandinava, mentre Microsoft ha da poco
ripescato gli 864 server del progetto sperimentale Natick, che punta a
sfruttare le basse temperature degli abissi marini per raffreddare i
processori.
Se il
calore prodotto dai calcolatori non viene smaltito in qualche modo c’è infatti
il rischio che le “nuvole” di dati vadano in fiamme: vedere per credere il
recente incendio ad uno dei data center di Strasburgo del colosso informatico
OVHcloud.
Nei
prossimi anni serviranno nuovi data center e tantissima energia per alimentare,
archiviare e mantenere in vita i dati su cui si regge l’intera infrastruttura
digitale. Da dove la prenderemo?
Il
fatto è che prima di quanto immaginiamo prenderanno piede tecnologie come il
5G, il quantum computing, l’intelligenza artificiale, la blockchain, le
criptovalute, le stampanti 3D, l’internet delle cose, le auto a guida autonoma…
Serviranno nuovi data center e tanta, tantissima energia per alimentare tutto
questo, archiviare e mantenere in vita i dati su cui si regge l’intera
infrastruttura digitale. Da dove la prenderemo?
I
giganti dell’industria informatica sono già i principali client di elettricità
al mondo, ma al momento non sembrano porsi seriamente il problema.
Resta
oltretutto aperta la questione dell’effettiva utilità dei dati memorizzati nei
server – pare che solo il 6% sia veramente in uso – e dell’impiego ambiguo dei
supercalcolatori, che troppo spesso vengono messi al servizio delle aziende
petrolifere ed estrattive.
Uno di
questi computer ad alte prestazioni si trova in Italia, nella campagna pavese,
e più precisamente al Green Data Center di Eni: è in questo centro di
elaborazione dei big data che a inizio 2020 è entrato in funzione HPC-5, ancora
nella top ten dei supercomputer più potenti ed energeticamente efficienti del
pianeta. I suoi 70 petaflop di potenza – una capacità di calcolo da 52 milioni
di miliardi di operazioni al secondo – lavorano in parte in progetti di ricerca
sulle fonti rinnovabili, e in parte nella rilevazione di nuovi giacimenti di
gas e petrolio.
Nel
2015 è stato proprio uno dei primi HPC del gruppo Eni a scovare il più grande
giacimento di gas naturale del Mediterraneo, dimezzando così i tempi medi di
localizzazione dei nuovi siti di estrazione.
Anche
Amazon, Google e Microsoft cedono i propri servizi di punta ai giganti
dell’industria fossile, motivo per cui Greenpeace parla apertamente di
partnership che devastano il pianeta, di cloud che grondano petrolio.
Era
forse questa la promessa di sostenibilità della rivoluzione informatica e
digitale? Usiamo
enormi quantità di energia per mettere in funzione i supercalcolatori,
archiviare i dati e potenziare l’intelligenza artificiale, per poi mancare l’applicazione delle
tecnologie digitali più sofisticate a questioni di pubblica utilità e urgenza
come il riscaldamento globale.
Strozzati
dai rifiuti elettronici.
In
aperta contraddizione con la percezione di sostenibilità e immaterialità delle
tecnologie digitali si pone anche il tema dei rifiuti elettronici, derivanti
soprattutto dalla dismissione di smartphone, computer, periferiche e altre
consumer elettronics.
Secondo
il Global E-waste Monitor delle Nazioni Unite, nel 2019 sono stati prodotti
53,6 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici, oltre 7 chili per ogni
abitante del pianeta – una cifra che cresce a un ritmo tre volte superiore a
quello della popolazione mondiale.
Dove
vanno a finire tanti apparecchi di scarto, di frequente gettati via ancora
funzionanti e ben prima di aver concluso il ciclo di vita potenziale?
Sempre
nel 2019 solo il 17% dell’e-waste è entrato in circuiti legali di riciclo, del
resto si è perso traccia in discariche abusive in Africa e nel Sud-est
asiatico. Qui, per accelerare il recupero dei metalli rari, le componenti
plastiche dei rifiuti elettronici sono solitamente bruciate in roghi altamente
inquinanti che disperdono nell’ambiente sostanze nocive come diossine, piombo,
mercurio, cadmio.
Oggi
le tecno-masse tossiche e obsolete vengono esportate nel Sud del mondo perché
il riciclo sarebbe un processo altrimenti complesso e oneroso.
Un singolo smartphone contiene 40 diversi
elementi metallici, alcuni dei quali pregiati e riutilizzabili come stagno,
tungsteno, tantalio e oro, ma dis-assemblare i circuiti elettronici è
un’operazione inefficiente se comparata all’estrazione deregolamentata delle
materie prime “vergini”.
Anche
smaltire le batterie è difficile e inquinante, e ad oggi esistono soltanto due
tecniche note: la pirometallurgia, che le fonde a temperature altissime, e l’idrometallurgia, che le discioglie in acidi
iper-corrosivi. Proprio le batterie mostrano come sia tipico dell’industria
digitale e informatica sviluppare tecnologie senza prestare alcuna attenzione
al loro impatto ambientale, sacrificando la sostenibilità sull’altare della
performance, dell’esperienza di consumo e della competitività sul mercato. La retorica dell’innovazione è tutta
concentrata sulle prestazioni delle ICT, mai sulla loro capacità di essere
riparate, riciclate, riutilizzate, rigenerate o – perché no – compostate.
All’obsolescenza
tecnologica pianificata ci siamo ormai assuefatti, ne abbiamo tutti esperienza:
i computer
portatili che registrano la prima rottura fuori garanzia entro i primi tre o
quattro anni di attività, la scocca di plastica degli ebook incollata in modo
da rendere complicato aprirli e sostituirne la batteria, aziende che saldano le
componenti interne dei propri device per avversarne la riparazione.
Insomma,
prodotti che si guastano secondo programma e che vengono deliberatamente
progettati per non essere aggiustati, anche perché le case madri non forniscono
in genere alcuna istruzione in merito e le comunità di riparatori indipendenti
sono costrette ad organizzarsi dal basso, spesso e volentieri osteggiate dai
marchi produttori.
Il
piccolo riparatore di smartphone Henrik Huesby, ad esempio, è stato citato a
giudizio dalla Apple, una società da mille miliardi di dollari di
capitalizzazione e 200 milioni di dispositivi venduti nel 2019, per aver
riparato iPhone con schermi considerati contraffatti.
Apple,
dal canto suo, è stata multata per aver introdotto aggiornamenti che rallentavano
il funzionamento dei vecchi modelli di iPhone, una pratica che gli analisti
hanno ribattezzato throttling, “strozzamento”.
È la
nuova frontiera dell’obsolescenza indotta: non più un guasto precoce dei device
a causa di difetti occulti, ma un sottile e pianificato disallineamento tra
hardware e software che li rende di fatto inutilizzabili.
Mentre
l’Unione Europea spinge per l’introduzione del diritto alla riparazione e per
l’estensione della normativa sull’eco-design dagli elettrodomestici a smartphone,
tablet e laptop, Apple ha dato negli ultimi anni un bel colpo di spugna alla
propria immagine aziendale varando un vasto programma di iniziative “green”.
Ha
iniziato a riciclare (in parte) i dispositivi dismessi e per quelli di nuova
fabbricazione utilizza (in parte) materiali di recupero.
Ha installato pannelli solari nei propri
centri e indirizzato i fornitori a ridurre le emissioni.
I
futuri modelli di iPhone saranno venduti senza adattatore per la ricarica e
cuffie auricolari di modo da ridurre gli scarti elettronici – ma a quanto pare
anche per abbattere il prezzo finale fatto lievitare dalle tecnologie di
supporto al 5G.
All’obsolescenza
tecnologica pianificata ci siamo ormai assuefatti: prodotti che si guastano
secondo programma e che vengono deliberatamente progettati per non essere
aggiustati.
Al
tempo stesso, però, Apple resiste alle pressioni dell’Unione Europea per
l’adozione del connettore USB-C come standard internazionale di ricarica e con
la rimozione del jack audio ha inaugurato l’obsolescenza delle cuffie
auricolari con cavo in favore del nuovo business dei sistemi wireless, ben più
impattanti per via delle batterie incorporate.
Parafrasando
la nota burrasca di Schumpeter, si potrebbe parlare di innovazioni che fanno
“creazione distruttrice”, col danno all’ambiente mascherato ad arte da
beneficio.
Tutto
questo green-washing di Apple e delle altre Big Tech ha l’effetto di sviare
l’attenzione dal punto centrale della questione: perché l’industria elettronica e
digitale non si è mai fatta carico dei rifiuti che produce e dei problemi
ambientali che causano i suoi prodotti? In un’economia realmente sostenibile
e circolare, ciò che inquina o non può essere riciclato, riparato e
riutilizzato, dovrebbe essere riprogettato, altrimenti limitato nelle vendite e
in ultima analisi bandito dal mercato.
Il
mondo a portata di clic.
Come
ha scritto Samanth Subramanian in un articolo del Guardian (tradotto in Italia
da Internazionale), anche il commercio digitale ha aggravato sensibilmente il
nostro impatto sull’ambiente.
Trasforma
l’acquisto in un clic ed è come avere il mondo a domicilio, ti cambia
radicalmente la percezione della realtà: “il grande inganno delle vendite al
dettaglio online è stato spingerci a comprare sempre di più e a pensare sempre
di meno, soprattutto a come arrivano gli acquisti a casa nostra”.
Per resistere all’ultimo miglio critico,
sballottati nei furgoni di consegna, i prodotti acquistati di comodo negli
scaffali digitali richiedono un packaging decisamente più robusto: “aggiungere un millimetro di spessore
al cartone per renderlo più resistente, se moltiplicato per centinaia di
miliardi di scatole, può consumare un’intera foresta”.
Spesso,
scartando il pacco recapitato da Amazon, si ha l’amara sensazione di aver
comprato più spazzatura che prodotto. Così, anziché smaterializzata, la
forma merce esce dai mercati virtuali appesantita da un sovrappiù di
esternalità ambientali sotto forma di imballaggio.
Pure
la logistica del commercio elettronico si rivela estremamente inefficiente dal
punto di vista ambientale. I centri di smistamento consumano molto suolo e spesso fanno
land grabbing, i furgoni semivuoti dei corrieri ingorgano le strade e inquinano
l’aria, i servizi digitali di vendita non sono altro che la variante esasperata
e iper-consumistica del commercio analogico. Con internet possiamo consumare ad
ogni ora del giorno e della notte, senza più nemmeno doverci alzare dalla
sedia.
“L’idea
di un pacco che compare miracolosamente davanti alla porta di casa è molto
affascinante”, commenta Subramanian. “Ci siamo abituati così in
fretta ad accettarla da non capire veramente cosa comporta”.
È indubbio che il commercio digitale ci regali
un grande risparmio di tempo, ma come lo impieghiamo? Certo non impegnandoci a
ridurre le nostre emissioni individuali, più probabilmente scrollando il feed
di Facebook o le stories su Instagram. Internet ci libera il tempo, e poi ce lo
sottrae.
Persino
la logistica del commercio elettronico si sta rivelando estremamente
inefficiente dal punto di vista ambientale.
Nel
suo ultimo libro, I bisogni artificiali. Come
uscire dal consumismo (ombre corte, 2021), il sociologo dell’ambiente Razmig
Keucheyan fa notare che sì,
“Amazon
sarà anche un gigante del digitale, ma le merci che distribuisce sono proprio
questo: delle merci, dotate di una materialità concreta”.
A conti fatti la digitalizzazione degli scambi non ha
affatto ridotto la circolazione degli oggetti materiali, anzi.
Online
si finisce per comprare più di quel che serve, si cede alla gratificazione
immediata che azzera il tempo intercorso tra desiderio e acquisto, non si
immagina minimamente quanta anidride carbonica possa accumulare la roba che
mettiamo nel carrello virtuale.
I prodotti acquistati con un clic nei mercati
digitali viaggiano lungo le stesse rotte che le merci percorrono ormai da
secoli, a bordo di navi portacontainer che solcano gli oceani bruciando oli
combustibili pesanti.
È
servito che uno di questi cargo si mettesse di traverso nel canale di Suez per
accorgersi dell’assoluta insostenibilità del traffico mercantile globalizzato,
che le tecnologie digitali mica hanno diminuito, ma al contrario fomentato.
Contro
l’alienazione generata dall’obsolescenza dei prodotti digitali e dal commercio
compulsivo online Keucheyan propone di estendere l’anticapitalismo agli oggetti.
“Il
nostro problema oggi”, scrive, “è scongiurare la continua rivoluzione delle
cose, interrompere la corsa precipitosa che sostituisce incessantemente
l’ultimo gadget con uno nuovo, anch’esso subito colpito da obsolescenza e
gettato come i suoi predecessori nei rifiuti della storia materiale”.
Per rallentare l’oblio e l’incessante rinnovamento
delle merci digitali serve emanciparle dalle esigenze capitalistiche
dell’accumulazione, progettando beni che siano fin da principio più robusti,
smontabili, modulari (ogni componente “deve essere utilizzabile e sostituibile
separatamente”), interoperabili (“componenti e software devono essere
tecnologicamente compatibili con quelli di altri marchi”) ed evolutivi
(“incorporano nella loro progettazione le future evoluzioni tecnologiche”).
Emancipati
sono quindi quei beni per i quali l’equilibrio di potere tra valore d’uso e
valore di scambio torna a volgersi a favore del primo, come nel caso del Fair-phone,
lo smartphone pensato dagli sviluppatori con l’intento di minimizzarne
l’impatto ambientale e massimizzarne il ciclo di vita.
Per
scardinare la dialettica tra il vecchio e il nuovo che fa da fondamento
all’economia digitale servirebbe poi allungare la garanzia a copertura dei suoi
prodotti, assecondando un desiderio di durabilità che è di per sé naturale nel
consumatore medio.
“La
garanzia non sembra granché”, suggerisce Keuchayan, “ma è una potente leva per
la trasformazione economica e, di conseguenza, politica”. E aggiunge: “il
passaggio a dieci anni [di garanzia] ci porterebbe in un altro mondo, la forma
merce ne verrebbe sconvolta”.
La via
della sostenibilità, secondo Razmig Keucheyan, passa per la pianificazione degli
sviluppi tecnologici, il ritorno al valore d’uso delle cose, e la gestione etica
del fine vita degli oggetti.
L’efficientamento
tecnologico delle ICT farà indubbiamente il suo corso, i device impiegheranno
sempre meno energia per unità di calcolo e continueranno perciò a
moltiplicarsi, ma in ogni caso la tecnica non basterà a fermare da sola se
stessa.
Per
interrompere la crescita insostenibile delle tecnologie digitali c’è bisogno di
misure politiche – come appunto l’estensione della garanzia legale – ambiziose
e niente affatto scontate, eppure tutt’altro che implausibili. I
l 60%
delle banche nazionali, ad esempio, sta prendendo in considerazione l’ingresso
nel mercato delle criptovalute e il 14% sta già facendo dei test per riportare
questa diramazione della tecnofinanza sotto il controllo dello stato: cosa che,
al netto dei rischi di un’eccessiva centralizzazione, avrebbe almeno l’effetto
di arginare la proliferazione speculativa dei miners privati e offrirebbe
maggiori garanzie sul taglio obbligato delle emissioni per l’intero settore.
Simile
negli intenti all’ipotesi di nazionalizzare la moneta digitale era la
provocazione, lanciata qualche anno da Morozov, di “socializzare” i data center.
Server,
supercalcolatori e big data sono infatti strumenti troppo potenti e importanti
per rimanere in mano agli oligopoli digitali e servire al saggio di profitto
del capitalismo data-centrico.
Occorrerebbe trovare il coraggio politico di democratizzarli,
metterli al servizio di una pianificazione economica e tecnologica
internazionale che tenga finalmente conto della necessità di preservare quanto
più possibile materia ed energia.
Pianificazione
degli sviluppi tecnologici, ritorno al valore d’uso delle cose, socializzazione
dei mezzi di produzione digitali e gestione etica del fine vita degli oggetti.
Secondo
Keucheyan è questo quello che serve per far sì che alla rivoluzione digitale
segua davvero anche quella ambientale. Un passaggio che nel mondo
dell’industria informatica e dell’economia digitale in cerca di una difficile
sostenibilità appare, a molti, ormai inevitabile.
Medico
morto di Coronavirus, la mamma:
“Il
vaccino non è stato sufficiente a salvargli la vita."
Romatoday.it-
Mauro Cifelli-(24 settembre 2021)- ci dice:
Gianluigi
Andrea Piegari aveva perso il papà in un incidente stradale quando era ancora
un ragazzo. Lascia una compagna incinta di 5 mesi. "Il bambino porterà il
cognome di mio figlio".
"Era
vaccinato ma non è stato sufficiente a salvargli la vita". Questo il pensiero di Silvana
Suriano, mamma di Gianluigi Andrea Piegari, il medico di 36 anni morto in
ospedale dopo aver contratto il Coronavirus.
Una
morte inaspettata, arrivata mentre "svolgeva il lavoro più bello del
mondo", come amava ripetere "Gigi", contagiato dopo un
intervento in codice rosso ad un paziente positivo.
Vaccinato
con Janssen, come spiega ancora la madre del dottore specializzato in chirurgia
estetica, "bisogna però contestualizzare le varie situazioni. Considerare
la virulenza del contagio. Non solo chi ha fatto Johnson & Johnson, ma
anche chi è vaccinato con Pfizer o Astrazeneca può contrarre questo maledetto
virus".
Il
contagio a fine agosto.
Un
"angelo della strada", come lo ricordano i colleghi del 118, che dal
marzo del 2020 era in prima linea per soccorrere donne uomini dallo stesso virus
che lo ha poi ucciso.
Proprio
in questo contesto Gigi ha contratto il Coronavirus dopo un intervento a
domicilio, a fine agosto, in una casa dove c'era un paziente positivo che non
era a conoscenza della sua positività al Covid19.
Ricoverato
al Columbus Gemelli, Gianluigi Andrea Piegari è venuto a mancare lo scorso 22
settembre, dopo circa un mese in cui ha lottato con tutte le sue forze in un
letto del reparto di terapia intensiva.
Il
ricordo: "Era un leader".
Sempre
pronto ad intervenire per ogni emergenza incitando i colleghi al grido di
"ragazzi diamo il meglio perché è il lavoro più bello del mondo",
medici, infermieri ed autisti del 118, per cui aveva realizzato dei piccoli
adesivi con scritto "Covid19 Veterani", lo ricordano come "un
leader", che rimarcava sempre l'importanza del lavoro di squadra.
Padre
di un bambino.
Nato e
cresciuto ad Albano Laziale, dove aveva conosciuto e si era innamorato di
Martina, la giovane compagna incinta di 5 mesi del figlio di Gianluigi, è la
madre che spiega quanto questo bimbo "sia già un Piegari". "
Un
destino crudele per la nostra famiglia che dopo la morte tragica di mio marito
si trova ad affrontare una nuova disgrazia". Era
infatti il 2010 quando Gianluigi Piegari (che portava lo stesso nome del figlio
a cui avevano dato anche il secondo nome Andrea), perse la vita in un incidente stradale in
sella alla sua moto.
"Una
disgrazia che nonostante tutto aveva unito ancora di più la nostra
famiglia". Zio di una nipotina di 5 anni, 'Gigi' "era felicissimo di
diventare papà - racconta ancora la madre del medico 36enne -.
Per questo nel momento in cui lo hanno
ricoverato in ospedale ho subito pensato al futuro di mio nipote cominciando le
pratiche per il riconoscimento del cognome del papà".
Martina
e Gianluigi non erano infatti sposati "e questo in caso di decesso
comporta tutta una serie di lungaggini burocratiche che stiamo
affrontando". "Un ultimo
gesto d'amore, un atto dovuto per mio figlio".
(Se non si vaccinava il sistema immunitario naturale del suo corpo gli avrebbe salvato la vita! ).
(Un nota …disperata.).
Commenti
Posta un commento