LA PACE NEL MONDO E’ IN PERICOLO.
LA PACE NEL MONDO E’ IN PERICOLO.
Venti
di guerra alle porte dell’Europa,
il
movimento per la pace dov’è?
Micromega.net-
Daniele Nalbone-( 14 Febbraio 2022)- ci dice :
Il
fallimento del nuovo ordine mondiale e la crisi del movimento pacifista.
Intervista a Giulio Marcon, voce storica del pacifismo italiano e fondatore
della campagna Sbilanciamoci!
Sono
lontanissimi gli anni delle grandi mobilitazioni di piazza che cercarono di
difendere la popolazione dell’ex Jugoslavia e dell’Iraq dalle relative guerre.
Tante
le cause che hanno portato quel movimento a disperdersi.
“La
sinistra con l’elmetto“ è la definizione che Alessandro Marescotti, presidente
dell’associazione Peacelink, ha utilizzato per analizzare su MicroMega la crisi
del pacifismo a sessant’anni dalla prima marcia Perugia-Assisi promossa da Aldo
Capitini.
Pochi
mesi dopo, la situazione ucraina ci costringe a tornare sul tema.
Stavolta
lasciamo l’analisi a Giulio Marcon, fondatore della campagna Sbilanciamoci! e
nella precedente legislatura coordinatore dei “parlamentari per la pace” di cui
facevano parte oltre 70 deputati e senatori impegnati sui temi del disarmo e
della pace.
La
situazione che stiamo vivendo oggi, con il rischio di un conflitto bellico in
Europa Orientale, chiama inevitabilmente in causa il movimento pacifista.
Quello
che oggi vediamo palesarsi in Ucraina rappresenta in realtà un conflitto che va
avanti da molti anni, dagli anni Novanta.
Questo ci interroga in primis sul fallimento di un
ordine mondiale che speravamo democratico e che non si è mai realizzato: dopo
le fine della Guerra Fredda e dopo la scomparsa del blocco comunista, in quelle
aree si è continuato a vivere in situazioni di conflitti.
Lo scenario odierno è stato ampiamente previsto dai
pacifisti, ma evidentemente la mobilitazione del movimento non è stata adeguata
ai rischi che stiamo correndo.
Questa debolezza, però, questa “assenza” non è propria
solamente del movimento pacifista ma di tutti i movimenti che, diciamo
nell’ultimo decennio, hanno mostrato una difficoltà nell’organizzarsi rispetto
alle crisi che si sono susseguite.
Non parlerei quindi di crisi del movimento ma
di crisi “dei movimenti”.
Ora è
in corso il solito gioco, quelle delle responsabilità.
Come
in ogni conflitto, non c’è una parte che sta dalla parte giusta e una da quella
sbagliata.
Da un
lato il problema è il potere in mano agli oligarchi nella Russia
post-comunista, dall’altra le responsabilità degli Stati Uniti e della Nato che
hanno perseguito una politica di allargamento fino ai confini della Russia.
Cosa farebbero gli Stati Uniti se Messico o Canada
avessero fatto un’alleanza con la Russia di Putin?
Le
immagini delle bandiere per la pace nelle strade, sui balconi, ai tempi
dell’invasione statunitense dell’Iraq sono ormai impolverate. In Italia la colpa è davvero della
“sinistra con l’elmetto”?
La
colorita definizione di Marescotti è purtroppo azzeccata visto che il
cosiddetto centrosinistra, fin dagli anni Novanta, ha abbracciato politiche
interventiste che nulla hanno a che vedere con la cultura pacifista propria
della sinistra.
Il
problema è indubbio.
Detto
ciò, dopo quelle grandi mobilitazioni il movimento pacifista in Italia non è
scomparso ma si è riorganizzato sulla base delle tante esperienze locali,
particolari, specifiche.
Quello
che manca è la forza di risvegliarsi al momento opportuno, quando appunto c’è
da mobilitarsi contro la guerra. Servirebbe una mobilitazione di piazza contro il
rischio di questa guerra, è vero, ma l’assenza di un momento simile non deriva
assolutamente dalla sottovalutazione dei rischi, sia chiaro.
Il problema è nella deformazione generale della
società, del nostro Paese, negli ultimi anni che, ripeto, non riguarda solo il
movimento pacifista.
Questo è il risultato della crisi della
partecipazione, tanto politica quanto sociale: c’è un forte senso di sfiducia, la
sensazione che tanto non saremmo comunque ascoltati, che sarebbe impossibile
incidere, contare nelle crisi.
La
responsabilità quindi è della politica? O anche della politica?
Della
sordità della politica, sicuramente. Faccio un esempio che non riguarda il
pacifismo ma la campagna Sbilanciamoci!.
La campagna è nata venti anni fa con grande entusiasmo
e un enorme obiettivo: incidere nella legge di bilancio. Oggi questo lavoro non
lo facciamo più ma puntiamo tutto sulla sensibilizzazione, sull’educazione e
sulla promozione.
Abbiamo
rinunciato ad avere un qualsiasi rapporto con le istituzioni e la politica
perché è inutile pensare di affidare loro delle proposte di cambiamento.
Ecco, questa sfiducia ha colpito anche il
movimento pacifista anche se, ribadisco, ci sono in Italia tanti gruppi e tante
realtà in mobilitazione permanente.
Nemmeno
sulla questione “armi” si è riusciti in questi anni a creare un movimento in
grado di incidere. C’è poca sensibilizzazione sul tema. La gente è consapevole,
genericamente, che quello delle armi è un grande business, ma poco più.
Lavorando
sui territori in prima persona siamo riusciti, come Rete Disarmo, a far capire che spendere 25
miliardi di euro per degli F35, dei cacciabombardieri di assalto, fosse una
follia.
Questa
cosa la gente l’ha introiettata. Il problema però è la potenza di fuoco.
Non
c’è spazio sui media mainstream per queste tematiche. Anche qui, porto un
esempio: qualche anno fa il Corriere della Sera ha dedicato due pagine – non
pubblicitarie – a Leonardo, il principale produttore italiano di armi, parlando
di “Leonardo industria sostenibile”.
Sostenibile.
Un’azienda
che fabbrica e commercia armi, vendendole (anche) a regimi dittatoriali. Le
armi sono evidentemente un business che fa aprire tantissime porte, anche dal
punto di vista della comunicazione. Il tema della pace, per avere un simile spazio su un
giornale come il Corriere della Sera, dovrebbe essere portato in piazza da
almeno due milioni di persone.
L’Unione
Europea è nata avendo tra gli obiettivi quello di “contribuire alla pace”. Nel
2012 ha vinto anche il Nobel. Dieci anni dopo…
L’Ue
ha fallito nell’ex Jugoslavia e sta fallendo oggi. Finché non si doterà di una
vera politica estera, non soltanto formale, finché non agirà come organismo
veramente federale, non andrà da nessuna parte.
Soprattutto
se schiacciata, da un lato, dalla politica americana sempre più ondivaga, e
dall’altro dall’arroganza russa.
Ha
ragione Lucio Caracciolo quando descrive l’Ue come un vaso di coccio stretto in
mezzo tra l’avventurismo made in Usa e le politiche criminali di Putin.
In
tutto questo, sembra non ci sia nessuno interessato veramente alle sorti della
popolazione ucraina.
Ci
sono state tante realtà che in questi anni hanno portato avanti programmi di
aiuto in Ucraina, un moto dal basso simile a quello che c’è stato a suo tempo
nell’ex Jugoslavia.
Tante
ong, molte organizzazioni cattoliche sono impegnate in quei territori. E anche
in Donbass ci sono realtà, aderenti alle frange dell’estrema sinistra, che sono
state solidali con i secessionisti del Donbass. Chi non è interessato alla popolazione
ucraina non è quindi la gente, ma le grandi potenze in campo.
C’è
poi una questione che chiama ancora più direttamente in causa l’Unione Europea
e le Nazioni Unite: in Ucraina il 18% della popolazione è di lingua russa, una
percentuale che sale fino all’80 per cento nelle zone di frontiera. Nella
regione di Kiev il 25 percento della popolazione non si “sente” ucraina.
Questo è un problema che non può non essere
considerato visto che parliamo di una minoranza consistente della popolazione
che si sente “vicina” al Paese con il quale confina e lo stesso discorso vale
in altre nazioni europee dell’Europa Orientale. Sono cose con cui l’Ue e le Nazioni
Unite dovrebbero fare i conti. La tutela delle minoranze in questi Paesi è un
tema non più rimandabile, altrimenti la questione continuerà a essere benzina
su un fuoco su cui, di volta in volta, soffierà chi avrà interesse a farlo.
Un
esodo di donne e bambini:
podcast
di Valerio Nicolosi.
Micromega.net-
Daniele Nalbone -(16 Marzo 2022)- ci dice :
Alla
frontiera tra Ucraina e Romania si transita a piccoli gruppi. Gli uomini sono
pochissimi. Chi scappa è perché è stato esentato in passato dalla leva
militare.
Alle 6
del mattino il confine di Siret, tra Ucraina e Romania, riprende le sue attività.
Finisce il coprifuoco sul territorio ucraino e
le persone iniziano a riversarsi alla frontiera per evitare di restare bloccate
dalle code chilometriche.
Passano a gruppetti.
Ogni famiglia passa per conto suo.
Spesso
solo una mamma e uno o due bambini.
Quelli
che mancano all’appello sono gli uomini.
Chi
passa è perché è stato esentato in passato dalla leva militare: possono uscire
dal Paese perché non sono impiegabili in questa guerra.
Sono
pochissimi e non vogliono parlare, si sentono come privilegiati. Questo è un
esodo di donne e bambini.
Psicologi
per la pace di 20 Paesi a Putin:
"Ferma
la guerra o il popolo ti lascerà solo".
Ilgiorno.it-
Redazione- (11-3-2022)- ci dice :
Dall’Italia
alla Polonia, dagli Stati Uniti alla Norvegia, dall’India al Sudafrica, nella
lettera lo si invita a “smettere di bombardare e rimanere aperto alle
trattative."
(Guerra in Ucraina, l'analista:
"Ecco perché si rischiano effetti in tutto il mondo".
Putin
affonda il turismo "Disdette, non solo da Mosca").
“Presidente
Vladimir Putin, vorremmo condividere con lei le nostre conoscenze accademiche e
pratiche sulle conseguenze dell’inizio di una guerra per chi la istiga”.
Esordisce così un gruppo di psicologi di circa 20
Paesi (dall’Italia alla Polonia, dagli Stati Uniti alla Norvegia, dall’India e
al Sudafrica) nella lettera aperta da loro indirizzata al presidente russo per
invitarlo a “smettere immediatamente di bombardare e sparare” in Ucraina e
“rimanere aperto alle trattative”, riflettendo anche sull’effetto controproducente che
investe “i leader politici” che istigano a “una violenta lotta con forze
esterne”.
All’apparenza
questo può offrire “la prospettiva attraente che una tale situazione di
insicurezza e senso di minaccia accrescano l’identificazione nazionale dei
propri cittadini e l’ammirazione per un leader potente”.
Ma,
avvertono i firmatari, una quarantina fra cui figurano anche due esperti
italiani, “tali
effetti sono a breve termine”.
“Vengono
poi sostituiti da effetti negativi a medio e lungo termine” per colui che viene
percepito come “responsabile della guerra”.
Gli
specialisti elencano alcuni di questi effetti negativi:
“I
cittadini di entrambe le parti in guerra soffrono per l’isolamento nazionale”,
e questo crea insoddisfazione.
“Le guerre - continuano il gruppo degli ‘
Psicologi per la pace’ - creano gravi problemi economici, fino a veri e propri
crolli, su entrambi i fronti. E i cittadini in genere confrontano la loro
attuale situazione economica con quella prima dell’inizio del conflitto e
presto riconoscono che stanno perdendo terreno. I sentimenti di
privazione sono solitamente la base per la resistenza, la protesta e
rivoluzione contro le istituzioni statali esistenti, sia nel caso di persone
comuni che per le élite”.
C’è poi il nodo della disinformazione,
elencano gli esperti, e della necessità di costruire una narrazione sul
successo delle proprie truppe e sulle perdite dei nemici, oltre che sulla
“’superiorità’ morale del proprio gruppo”. Ma “la creazione di un tale mondo
consuma risorse e i leader finiscono in isolamento all’interno di una bolla” di
persone accondiscendenti, a rischio costante di essere smascherati. Alla fine
“le persone scopriranno chi è il responsabile dell’avvio della guerra, e di
tutte le conseguenti sofferenze, ferite e morte”.I processi descritti “generano spesso
un ricorso crescente all’uso del potere statale e alla repressione brutale” e quest’ultima “finisce con
aumentare il rifiuto, l’isolamento e il pericolo fisico dei leader politici
percepiti come responsabili”, avvertono gli psicologi che offrono anche la
visione di una possibile via d’uscita. “La raccomandazione primaria è quella
di smettere immediatamente di sparare, bombardare, combattere e uccidere”,
dicono gli esperti, e invitano Putin a “pensare a cosa si può ottenere alla
fine con questa violenza, per il popolo russo, così come per te personalmente”,
scrivono.
“Pensa ancora all’alternativa di una pacifica
convivenza con i Paesi vicini. Ripensa le condizioni minime per concludere un accordo di
pace duraturo e, soprattutto, rimani aperto alle trattative”, è il messaggio.
Summit
Ue-Cina. Von der Leyen:
"Pechino non interferisca con le nostre sanzioni."
Ilgiorno.it-Redazione-(1
aprile 2022)- ci dice :
Terminato
il vertice in videoconferenza. Il presidente Xi Jinping ha chiesto ai vertici
europei di adottare una politica "indipendente" nei confronti del suo
Paese.
(
Russia e Cina: sodali o nemici in tregua? Xi Jinping e l'aggressione
all'Ucraina
La
Cina rompe il silenzio: amicizia con la Russia solida.
"Pronti
a mediare sull'Ucraina".
Ucraina, Draghi: "Ue dialoghi con Cina,
non alimentare scontro Occidente-Russia".
L'ambasciatore di Taiwan: tutelare le
democrazie è interesse di tutti).
Bruxelles
- "Non è stato un summit sugli affari come al solito, siamo in guerra e
affrontiamo la minaccia alla sicurezza più grave dalla Seconda guerra
mondiale".
Sono
le parole con cui il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, ha
riassunto il vertice Ue-Cina che si è appena concluso.
"La
nostra priorità è fermare quanto prima questa guerra".
Il
summit ha previsto due round: il primo, in mattinata, con il premier Li Keqiang
da parte cinese e Michel e Ursula von der Leyen per la parte europea. La
seconda sessione, sempre in videoconferenza, con il presidente cinese Xi
Jinping. Sul tavolo, come detto, l'aggressione russa all'Ucraina e la posizione
finora ambivalente (per qualcuno ambigua) tenuta dalla Cina. E poi, ovviamente,
le sanzioni economiche dell'Europa contro Mosca e i rapporti tra Europa e Cina
stessa.
Le
richieste della Cina .
Xi
Jinping, nel summit virtuale Ue-Cina in corso oggi, ha chiesto ai vertici
europei di adottare una politica "indipendente" nei confronti della
Cina.
L'ha segnalato la portavoce del ministero
degli Esteri cinese Hua Chunying.
"Sottolineando
la coerenza e la continuità della politica Ue della Cina, il presidente Xi ha
chiesto all'Ue di formarsi una propria percezione della Cina, di adottare una
politica indipendente verso la Cina e di lavorare con la Cina per una sostenuta
crescita delle relazioni Cina-Ue", ha scritto Hua.
Il presidente cinese, Xi Jinping, chiede che
Cina e Unione Europea svolgano "un ruolo costruttivo" e fungano da
"fattore stabilizzante" nella "turbolenta situazione mondiale".
Le due
parti, ha aggiunto Xi citato dall'agenzia Xinhua durante l'incontro con la
presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, e con il presidente
del Consiglio europeo, Charles Michel, "devono rafforzare la comunicazione
sulle relazioni Cina-Ue e sulle principali questioni riguardanti la pace e lo sviluppo
globali".
Il
premier Li Keqiang, riporta la Dpa citando fonti diplomatiche cinesi, ha detto
a Michel e a Ursula von der Leyen che la Cina "è contraria alla divisione
in blocchi e a prendere parte" nella questione della guerra dichiarata
dalla Russia contro l'Ucraina.
(
Russia e Cina: sodali o nemici in tregua? Xi Jinping e l'aggressione russa
all'Ucraina).
La
posizione dell'Unione Europea.
Von
der Leyen, tra l'altro, ha puntato molto sui rapporti commerciali tra Cina e
Europa.
"E' in gioco la reputazione della Cina -
ha dichiarato la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, al
termine del vertice Ue-Cina -.
Si tratta di fiducia, affidabilità e decisioni
su investimenti a lungo termine.
Ogni
giorno gli scambi tra Ue e Cina ammontano a 2 miliardi di euro. Quelli tra Cina
e Russia a 330 milioni.
Nessuno
ha interesse a prolungare la guerra e a sconvolgere ulteriormente l'economia mondiale".
Michel
ha aggiunto: "La comunità internazionale, e in particolare Cina e Ue,
hanno una mutua responsabilità di usare la loro influenza e la diplomazia per
mettere fine alla guerra della Russia in Ucraina e all'associata crisi
umanitaria".
"Questa guerra minaccia la sicurezza ed
economia globale, non è nell'interesse né dell'Ue né della Cina, abbiamo
responsabilità come attori globali per la pace e la stabilità. Abbiamo chiesto alla Cina di
contribuire alla fine della guerra e non chiudere gli occhi davanti alle azioni
della Russia". "Ogni tentativo di aggirare le sanzioni o sostenere la
Russia prolungherà la guerra e non è nell'interesse del lungo termine". Sul tema è intervenuta anche von der
Leyen: "Abbiamo chiesto alla Cina se non il sostegno almeno di non
interferire con le nostre sanzioni" alla Russia.
"La
stragrande maggioranza dei membri delle Nazioni Unite è unita nel condannare
l'aggressione della Russia contro l'Ucraina, perché occorre rispettare il
diritto internazionale, la sovranità e l'integrità territoriale dell'Ucraina.
La Cina, in quanto membro permanente del
Consiglio di sicurezza dell'Onu, ha una responsabilità molto speciale, ne
abbiamo discusso molto francamente", ha aggiunto la presidente della
Commissione Europea Ursula Von der Leyen.
Di
fronte alla guerra scatenata dalla Russia contro l'Ucraina "l'equidistanza
non è sufficiente. L'impegno attivo per la pace è importante" ha detto
ancora Ursula von der Leyen.
"E
la Cina - ricorda von der Leyen - ha un'influenza sulla Russia. E quindi ci
aspettiamo che si assuma le sue responsabilità per mettere fine alla guerra.
Naturalmente
ci aspettiamo che la Cina, se non sostiene le sanzioni, faccia di tutto per non
interferire. Anche su questo siamo stati molto chiari", conclude.
Ogni
guerra è una guerra contro i bambini.
Huffingtonpost.it
- Daniela Fatarella- (21-3-2022)- ci dice :
L’Ucraina
è l’ultima in ordine cronologico. C'è quella in Siria, arrivata ormai al suo
undicesimo anno, o quella in Yemen, che si approssima al suo settimo
anniversario. (Per questo #ColtiviamoLaPace).
Una
bambina seduta sugli ultimi sedili di un pullman guarda l’autostrada che corre
veloce. Si gira e sorride al fratellino, accanto a lei. Con le dita fa il segno
del cuore. Si sente finalmente in salvo eppure porta con sé il dramma della
guerra, di una casa lasciata all’improvviso, la perdita delle persone care e
una vita tutta da ricostruire mentre il suo Paese, l’Ucraina, brucia nel fuoco.
Lei è
solo una dei tantissimi milioni di bambini che invece di vivere la loro
infanzia liberamente, sono costretti a lasciare tutto per scappare da conflitti
e violenze.
Scappa
dall’Ucraina, l’ultimo in ordine cronologico di una serie di guerre che hanno
visto i minori diventare vittime innocenti.
Ma
quella bambina non è diversa dai tanti che sono ogni giorno vittime del
conflitto in Siria, arrivato ormai al suo undicesimo anno, o a quello in Yemen,
che si approssima al suo settimo anniversario.
E quell’immagine ci riporta ai tanti bimbi che
in una calda estate abbiamo visto letteralmente lanciati al di là di un muro di
cinta a Kabul, per essere portati in salvo dalla recrudescenza del conflitto
afghano.
Ogni
guerra è una guerra contro i bambini, diceva Eglentyne Jebb, la fondatrice di
Save the Children.
La
guerra sta facendo a pezzi intere regioni e città del mondo, e travolge i
bambini, colpendoli per strada, nelle case, a scuola e negli ospedali, che
riduce in macerie. Già prima dell’escalation in Ucraina, 450 milioni di minori
vivevano in zone di conflitto, ora altri 6 milioni sono in grave pericolo
all’interno del paese, e quasi un milione e mezzo sono stati costretti a
fuggire dall’Ucraina per mettersi in salvo, spesso solo con le loro mamme o da
soli, se i genitori non ce li hanno più.
Le
guerre non accadono per caso, sono una chiara responsabilità degli adulti che
strappano la vita e la speranza ai più piccoli.
Come
fiori piegati dalla violenza, vengono uccisi, feriti, subiscono violenze, non
hanno cibo o non possono essere curati, non possono andare a scuola.
Solo coltivando la pace possiamo proteggere
davvero il loro futuro.
Dobbiamo
fare ogni sforzo possibile per dire basta alla guerra in Ucraina e negli altri
paesi in conflitto.
Questa
guerra, e le altre che non si fermano di fronte ad orrori inaccettabili, non
colpiscono i bambini solo con le armi dove esplodono, ma spandono a macchia
d’olio enormi crisi umanitarie intorno a loro, e gli effetti sull’economia
moltiplicano fame e povertà in ogni angolo del pianeta che a loro volta
strappano la vita e il futuro ai minori più vulnerabili. Coltivare la pace è
oggi l’unica possibilità di ricostruire il futuro dalle macerie.
Di
fronte alla guerra, che sta colpendo senza sosta da undici anni in Siria e da
sette in Yemen milioni di bambini, e che ora è esplosa con la stessa violenza
anche in Ucraina, abbiamo voluto fare un gesto simbolico per continuare a
sperare e chiedere che vi sia finalmente pace. Save the Children, insieme alla
cantante Noemi ha lanciato nei giorni scorsi una grande mobilitazione #ColtiviamoLaPace
per invitare tutti a coltivare la pace senza arrendersi.
Il
simbolo sono i fiori, e la chiamata per ognuno di noi è a moltiplicarli per
invadere lo spazio reale e virtuale intorno a sé, per dire che vogliamo
coltivare la pace e proteggere il diritto a vivere, crescere e studiare di
tutti quei bambini che la guerra invece travolge. La colonna sonora è la canzone
“Acciaio” che Noemi dedica oggi ai bambini in guerra, che sono come “fiori
d’acciaio” che “dentro agli angoli bui” in mezzo alle macerie vogliono vivere e
continuare a crescere.
“La
pace è un sogno che può diventare realtà, ma per costruirla bisogna essere
capaci di sognare”, diceva Nelson Mandela. Continuiamo ogni giorno a sognare la
pace per ogni bambino del mondo e non smettiamo di coltivarla mai.
Guerra
in Ucraina, Biden a Xi:
tenere
aperti i canali di comunicazione.
Putin:
«Avanti con i nostri piani».
Ilsole24ore.com
- Redazione- (18-3-2022) -ci dice :
Celebrando
l’ottavo anniversario dell’annessione della Crimea alla Russia Vladimir Putin
parla di «soldati eroici» e cita la Bibbia.
Biden: Xi usi la sua influenza per convincere
Putin a porre fine alla guerra.
Il
sindaco di Kiev denuncia: bombardate case, asili e una scuola.
Nuova
telefonata Macron-Putin.
Cina e
Stati Uniti cercano una difficile via d’uscita diplomatica dal conflitto in
Ucraina mentre Putin sceglie il bagno di folla per mostrare una Russia
determinata a proseguire la sua offensiva nonostante i palesi fallimenti dei
primi 22 giorni di «operazione speciale».
Xi: «Cina
e Usa hanno la responsabilità della pace mondiale».
Durante
l’atteso colloquio telefonico, Xi Jinping ha detto al presidente americano
Biden che «i conflitti non sono nell’interesse di nessuno» e che «pace e
sicurezza sono i tesori più preziosi della comunità internazionale. La crisi
ucraina, ha detto ancora Xi, «è qualcosa che non avremmo mai voluto vedere: gli
eventi mostrano ancora una volta che le relazioni tra Stati non possono
arrivare alla fase dello scontro».
Xi ha
anche aggiunto, parlando dei di Stati Uniti e Cina, che non solo «dobbiamo
guidare lo sviluppo delle relazioni bilaterali sulla strada giusta, ma dobbiamo
anche assumerci le nostre dovute responsabilità internazionali per compiere gli
sforzi per la pace e la tranquillità nel mondo».
Biden
a Xi, conseguenze se darete aiuto alla Russia.
Biden
ha chiesto al suo omologo cinese Xi Jinping di fare pressioni affinché usi la
sua influenza su Vladimir Putin per porre fine alla guerra.
E ha
ribadito che per la Cina ci saranno delle “implicazioni e conseguenze” se
aiuterà la Russia nella sua guerra contro l’Ucraina. Nella sua telefonata al presidente
cinese Xi Jinping, Joe Biden ha ribadito che «la politica Usa su Taiwan non è
cambiata e ha sottolineato che gli Stati Uniti continueranno ad opporsi ad
qualsiasi cambiamento dello status quo». Lo riferisce la Casa Bianca.
Il
presidente americano e il leader cinese hanno comunque convenuto
«sull’importanza di mantenere aperti i canali di comunicazione per gestire la
competizione tra i nostri due paesi» riferisce sempre la Casa Bianca.
Inoltre
Biden ha espresso a Xi Jinping «le preoccupazioni degli Stati Uniti che le false
informazioni diffuse da Mosca sulla presenza di armi chimiche in Ucraina
possano essere sfruttate come pretesto per un’operazione. E ha anche espresso la
preoccupazione per la eco che queste fake news possano avere». Lo ha rivelato
un alto funzionario della Casa Bianca a proposito del colloquio tra i due
leader.
Telefonata
Michel-Zelensky: verso fondo solidarietà per Kiev.
Oggi
si è svolta anche una telefonata tra il presidente del Consiglio europeo,
Charles Michel, e il presidente ucraino Volodymyr Zelensky. I due hanno «esplorato la creazione
di un Fondo di solidarietà per l’Ucraina che aiuterebbe il paese a sostenere i
suoi sforzi bellici». Lo si apprende da una fonte qualificata Ue.
La
proposta del Fondo «sarà discussa anche al Consiglio europeo della prossima
settimana». Al centro del colloquio è emersa la constatazione «che l’Ucraina ha
bisogno di accedere alla liquidità internazionale per finanziare le
importazioni di beni di prima necessità e di equipaggiamento militare», ha
concluso la fonte.
Putin
parla allo stadio: «Attueremo tutti i nostri piani».
Intanto
allo stadio Luzhniki di Mosca per celebrare l’ottavo anniversario
dell’annessione della Crimea alla Russia, ha parlato Vladimir Putin. «Abbiamo
fatto risorgere questi territori» della Crimea e «sappiamo esattamente cosa
fare adesso, come, a spese di chi, e attueremo tutti i nostri piani», ha detto.
«Sono
gli abitanti della Crimea che hanno fatto la scelta giusta, hanno messo un
ostacolo al nazionalismo e al nazismo, che continua ad esserci nel Donbass, con
operazioni punitive di quella popolazione. Sono stati vittime di attacchi aerei
ed è questo che noi chiamiamo genocidio. Evitarlo è l’obiettivo della nostra
operazione militare» in Ucraina, prosegue il presidente russo.
Che ha
citato anche la Bibbia: «Non c’è più grande amore che donare la propria anima per
gli amici». «I nostri soldati sono eroici, non sono mai stati così uniti», ha
detto ancora Putin.
Uno
stadio gremito ha accolto con un’ovazione il presidente russo sventolando
migliaia di bandiere russe e intonando cori di sostegno alla madre patria. Un
insolito bagno di folla per il leader del Cremlino, in cerca di sostegno
popolare per una guerra che si sta rivelando molto più difficile dei piani
disegnati a Mosca. Il mondo parallelo andato oggi in diretta sulle tv di tutto
il mondo ha mostrato un Putin trionfante davanti a un pubblico in festa, con
molte persone con la lettera Z, divenuta simbolo dell’invasione disegnata sulle
giacche.
Secondo
le testimonianze raccolte dal corrispondente della Bbc, molte delle persone
presenti alla manifestazione hanno dichiarato di lavorare nel settore pubblico
e che erano stati spinti a partecipare dai loro datori di lavoro. Un uomo che
lavora nella metropolitana di Mosca ci ha riferito che lui e altri dipendenti
erano stati costretti a partecipare alla manifestazione.
Intanto
il Cremlino riferisce che Vladimir Putin e Emmanuel Macron, «su iniziativa
della parte francese», hanno avuto oggi una conversazione telefonica, con «uno
scambio di opinioni» sulla situazione intorno all’Ucraina.
Il
discorso di Putin è stato anche teletrasmesso, ma chi voleva seguire le parole
del presidente russo da remoto ha avuto problemi: un «guasto tecnico sul server» che
gestiva la trasmissione ’per la Crimea’ dallo stadio di Mosca ha comportato un
improvviso stop alla trasmissione del discorso.
Il collegamento è saltato mentre il presidente
russo stava ancora parlando per riprendere subito dopo con immagini
dell’evento. Lo ha affermato il portavoce presidenziale Dmitry Peskov assicurando che
«fra pochi minuti l’intero discorso del Presidente sarà ripetuto». In effetti
il canale televisivo Russia 24 ha subito riproposto l’intervento del presidente
russo.
Tre
forti esplosioni in zona aeroporto a Leopoli.
Intanto
la guerra continua. Dopo l’incendio al mercato, Kharkiv continua a essere colpita
con pesanti bombardamenti e fuoco di artiglieria. E stanotte le sirene hanno
ricominciato a suonare anche in altre città, accompagnate dalla voce diffusa
dagli altoparlanti che ha chiesto ai cittadini di correre nei rifugi.
Nella
zona dell’aeroporto civile di Leopoli sono state avvertite tre forti
esplosioni. Il sindaco della città, Andriy Sadovy, in un messaggio Telegram ha
detto che è stata colpita una struttura dedicata alla riparazione degli aerei,
ma «non ci sono vittime», perché le attività erano state interrotte nei giorni
scorsi. Le
sirene hanno risuonato anche nelle regioni occidentali di Rivne, Volyn Ternopil
e Ivano-Frankivsk.
Nessun
morto nell’attacco al teatro-rifugio di Mariupol.
Non ha
causato morti ma un ferito grave il bombardamento di un teatro di Mariupol
condotto mercoledì dalle truppe russe. Lo ha riferito l’amministrazione
comunale della stessa città ucraina sul suo canale Telegram, riportando il
primo bilancio sul raid.
Decine
di morti, almeno 45, sono stati invece segnalati nella città meridionale di
Mykolaiv in seguito a un attacco missilistico contro alcune caserme
dell’esercito ucraino.
Lo riferisce la Bbc, aggiungendo che i soccorsi sono
sul posto. Le caserme venivano utilizzate per addestrare i soldati locali nella
città che ha frenato un’importante offensiva russa lungo la costa del Mar Nero,
ha riferito un inviato dell’emittente britannica.
Putin
parla con Scholz: «Da Kiev proposte irrealistiche».
Putin
ha avuto un colloquio telefonico con il cancelliere tedesco Olaf Scholz. Putin
ha detto a Scholz che la Russia è «pronta a una soluzione in linea con il suo
principale approccio», ma che Kiev sta cercando di «ritardare i negoziati,
presentando nuove proposte irrealistiche».
Il colloquio, secondo fonti del Cremlino,
«difficilmente si può definire amichevole»: la conversazione è stata, secondo
il portavoce Dmitri Peskov «piuttosto complicata ma comunque professionale». Nel tardo pomeriggio di oggi venerdì
è previsto un colloquio telefonico tra Putin e Macron: lo conferma una dichiarazione
dell’Eliseo.
Intelligence
Gb: Russia afflitta da problemi logistici.
Secondo
gli analisti dell’intelligence britannica, la Russia è stata costretta a
dirottare «un gran numero» di truppe per difendere le sue linee di rifornimento
piuttosto che continuare i suoi attacchi in Ucraina. Il ministero della Difesa del Regno
Unito, scrive il Guardian, ha recentemente pubblicato un rapporto
dell’Intelligence affermando che i problemi logistici continuano ad affliggere
la “vacillante” invasione russa dell’Ucraina.
S&P
taglia rating Russia a CC.
Oggi
il rating del debito russo in valuta estera a lungo termine è stato declassato
da S&P da CCC- a CC. Anche il rating del debito in valuta locale a lungo
termine è stato declassato da S&P a CC da CCC-. Entrambi rimangono sotto
osservazione con implicazioni negative.
«Ci risulta che gli investitori non
abbiano ricevuto il pagamento della cedola sugli eurobond denominati in dollari
statunitensi del governo russo quando il pagamento era dovuto il 16 marzo 2022,
a causa di difficoltà tecniche legate alle sanzioni internazionali», è il
commento di S&P riportato da Bloomberg.
Banca
centrale russa mantiene i tassi al 20%.
La
banca centrale russa ha mantenuto invariato il tasso di riferimento al 20% dopo
aver alzato i tassi di 10,5 punti percentuali a fine febbraio per far fronte al
forte impatto delle sanzioni imposte dalla comunità internazionale dopo che
Mosca ha invaso l’Ucraina.
La
banca ha affermato che il più recente aumento dei tassi «ha contribuito a
sostenere la stabilità finanziaria e ha impedito aumenti incontrollati dei
prezzi». La banca centrale ha osservato che l’economia del Paese «sta entrando
nella fase di una trasformazione strutturale su larga scala, che sarà
accompagnata da un periodo temporaneo ma inevitabile di aumento
dell’inflazione», ma ha affermato che la sua politica monetaria è impostata in
modo da «consentire un graduale adeguamento dell’economia alle nuove condizioni
e un ritorno dell’inflazione annua al 4% nel 2024».
La
governatrice della Banca centrale, Elvira Nabiullina, è stata confermata dal
Cremlino per un terzo mandato.
Dall’Australia
nuove sanzioni a banche e oligarchi russi.
Con
una dichiarazione del ministro degli Esteri Marise Payne, l’Australia ha
annunciato nuove sanzioni contro 11 banche ed enti governativi russi. Payne ha affermato che l’Australia
continuerà a lavorare per coordinare le sanzioni e per «vincolare i fondi per
la guerra illegale del presidente Putin».
Mosca
tiene il punto.
Mosca
precisa che la bozza del Financial Times su un accordo in 15 punti «è stata compilata
in modo errato», anche se sono temi in discussione. E rigetta la richiesta della Corte
internazionale di giustizia Onu dell’Aja di sospendere l’operazione in Ucraina.
Secondo
la portavoce del ministero degli Esteri russo Maria Zakharova, citata da Tass,
il fatto che i negoziati stiano continuando è però «un segno di progresso». A
frenare gli entusiasmi - accesi dopo la notizia del piano - era già stato il
ministro degli esteri ucraino, Dmytro Kuleba.
Oltre
due milioni i rifugiati arrivati in Polonia.
Intanto,
il numero di rifugiati ucraini arrivati in Polonia per fuggire dall’invasione
russa ha superato i due milioni. Lo riferiscono le guardie di frontiera
polacche. «Oggi
alle 9 il numero di rifugiati dall’Ucraina ha superato i due milioni. La
maggior parte di loro sono donne con bambini. I funzionari della guardia di
frontiera sono i primi polacchi ad aiutarli dopo che hanno attraversato il
confine», hanno scritto su Twitter.
La
soluzione necessaria.
Andreariccardi.it-
Redazione- (1-4-2022)- ci dice :
(Avvenire).
L’Italia
torna nella partita diplomatica.
«Presidente,
parliamo di pace», sono le prime parole
di Mario Draghi a Vladimir Putin nel colloquio telefonico dell’altro ieri.
Da due mesi non si parlavano. A fine febbraio
era saltato il viaggio del premier a Mosca per l’invasione russa.
Allora
non pochi si erano rammaricati che Draghi non avesse visto Putin, a differenza
degli altri grandi leader europei. Ad alcuni è apparsa passività. È nel
carattere di Draghi tenersi alla realtà: oggi quella dolorosa dell’invasione
dell’Ucraina.
Certo
il premier non si è illuso per una telefonata, pur lunga, ma ha ricominciato a
tessere un filo. Ha dichiarato: «Credo di aver notato un cambiamento, ma sono molto
cauto nell’interpretare questi segni perché è una situazione in evoluzione». In
poco tempo «è difficile capire».
Nella
conversazione è stata introdotta la parola “pace”, che sembrava bandita dal linguaggio
delle ultime settimane. Pace non è buonismo o filo-putinismo.
È e
deve restare l’obiettivo di fondo: pace per un’Ucraina libera e per nuovo
ordine in Europa dopo questa guerra, l’evento bellico più sconvolgente dopo il
1945 nel nostro continente e non solo.
Franco
Venturini, purtroppo scomparso l’altro ieri, era convinto che «c’è un
aggressore e un aggredito», ma scriveva: «la Russia che rischia di perdere in
Ucraina non va umiliata, va battuta con una pace degna».
Le
parole ferme e senza sterili asprezze di Draghi a Putin mostrano che non si
cerca necessariamente la guerra quando si aiuta l’Ucraina e si sanziona la
Russia.
L’Italia cerca la pace.
E la pace non passa dallo svendere l’Ucraina.
Va trovata però una soluzione di pace. Il tavolo negoziale, realizzato dal
governo di Ankara (quella turca, in ogni stagione e anche in questa, è una
grande diplomazia), non va sprezzato, perché il dialogo tra le parti è l’unica
via oggi percorribile. Certo, è duro negoziare, mentre in Ucraina si muore.
Ma un
negoziato non si fa in pochi giorni. Questa è la guerra. Certo restano
dubbi sulla volontà negoziale: una scelta chiara si vedrà con il “cessate il
fuoco”, che Draghi ha chiesto a Putin “al più presto”. Si vedrà anche con
l’abbassamento dei toni dei leader del mondo.
Sembra
interessante il commento del premier, giorni fa, al discorso di papa Francesco
sull’aumento delle spese militari e sulla guerra, che suonava critico anche
verso l’Italia. Qualcuno ha preso le parole di Draghi come espressioni d’occasionale
rispetto, ma hanno una sostanza: «Stiamo cercando la pace, io la sto cercando
veramente… avrò anch’io colloqui con Putin. Non siamo in guerra perché si segue
un destino bellico, si vuole la pace».
È
troppo dire che si profila un ruolo dell’Italia, anche come garante
dell’Ucraina in un eventuale accordo. Ma, in tempo di “guerra fredda”,
l’Italia, nella piena fedeltà atlantica, ha svolto un ruolo importante tra Est
e Ovest. Non solo la diplomazia informale di La Pira, ma anche il viaggio del
presidente Gronchi, democristiano, a Mosca nel 1960, primo capo di Stato
occidentale in Urss. Entrambi manco a dirlo – furono accusati di essere
«comunistelli di sacrestia». E il tic del disprezzo bellicista oggi, mutatis
mutandis, tende a ripetersi.
La
Francia e la Germania hanno dato il loro apporto alla politica europea,
l’Italia ha il dovere di farlo secondo la sua indole, che non è disimpegno o
pigrizia. Del resto, non dobbiamo dimenticare che, sullo sfondo di questa
guerra, sta la drammatica incognita dell’uso dell’arma nucleare: «si svegliano
gli spettri del passato», ha dichiarato il generale Graziano, uno che se ne
intende e ha la testa sulle spalle. Bisogna sperare fermamente che siano solo
spettri, ma esistono.
La
realtà principale oggi è la grande sofferenza degli ucraini. Anche chi scrive ha incontrato,
alla frontiera ucraina, tanti profughi: soprattutto donne, che portavano con sé
bambini, e anziani.
La
loro grande dignità colpisce.
Molte
non vogliono andare lontano, perché aspettano di tornare al più presto in
patria. Un vecchio contadino ucraino ha detto, addolorato e stupito: “Ma io che
male ho fatto ai russi? Mi sono sempre occupato dei campi e del bestiame”. La
guerra è sempre insensata. Questa particolarmente.
Perché
l’Unione Europea è l’unica
speranza che abbiamo contro
un
mondo di guerre e nazionalismi.
Fanpage.it-
Francesco Cancellato- (9-3-2022)- ci dice :
In un
mondo che si arma e di nazionalismi di ritorno, l’Unione Europea rappresenta
l’unico argine di pace e cooperazione. Ed è in questa direzione che deve
evolvere, se non vuole essere travolta.
C’è
una foto che parla più di mille articoli.
In quella foto ci sono una mamma e una figlia ucraine
che sorridono felici mentre mentre oltrepassano il confine tra Ucraina e
Polonia.
Dentro quel sorriso c’è sollievo. Il sollievo di aver
lasciato una terra devastata dalla guerra, per terre in cui la guerra non c’è.
Quella terra in cui non c’è la guerra si chiama Unione Europea e in questi
giorni in cui tutto sembra ripiombare dentro gli angoli più bui del Novecento –
il nazionalismo, l’imperialismo, la guerra fredda, l’incubo atomico – forse
dovremmo stringerci forte attorno alle eredità più preziosa del secolo breve:
la costruzione di uno spazio di pace nel cuore di un continente che fino ad
allora era stato il teatro delle più efferate guerre dell’umanità.
Quando
parliamo di spazio di pace, beninteso, non ci riferiamo solo al fatto che far
parte dell’Unione Europea è una specie di assicurazione contro la guerra, sia
perché l’Unione nasce affinché i Paesi membri non combattano tra loro, sia per
il mutuo soccorso che ciascuno dei Paesi membri accorderebbe a qualunque tra
loro fosse minacciato dall’esterno, sia perché a nessun Paese europeo verrebbe
in mente di invaderne altri, in virtù di una cultura della pace che appare
consustanziale all’idea stessa della bandiera con le dodici stelle.
Intendiamoci:
non tutto è oro quel che luccica e l‘indifferenza complice nei Balcani, le
scorribande francesi in Africa, così come la seconda guerra del Golfo e le
“bombe umanitarie” su Belgrado stanno lì a dire che non siamo un continente
senza macchie e senza colpe da espiare.
Ma dentro un mondo di potenze che si riarmano l’una
contro l’altra, l’Unione Europea rimane l’unica grande potenza geopolitica che
è tale senza avere una sua forza militare.
L’unica costantemente protesa al dialogo e
alla mediazione diplomatica, e lo dimostrano i contatti continui tra Macron e
Putin, così come il tentativo di Macron e Scholz di coinvolgere il presidente
cinese Xi Jinping nella soluzione della crisi ucraina.
L’unica
che prova a rispondere alle crisi del mondo con l’arma della cooperazione e
dell’aiuto reciproco – e la pandemia ne è un indizio -, l’unico reale antidoto ai
nazionalismi di ritorno che sembrano oggi riemergere con più forza che mai in
questo terzo decennio del ventunesimo secolo e a cui l’Unione Europea oppone un
modello diametralmente opposto.
Sappiamo
bene di non essere sempre all’altezza delle nostre ambizioni. Anzi, sono più le
volte che non lo siamo. Non lo siamo quando mettiamo il filo spinato tra Polonia e
Bielorussia, facendo morire al freddo centinaia di persone. Non lo siamo quando facciamo
accordi con dittatori come Erdogan per abbandonare là milioni di profughi
siriani. Non
lo siamo quando facciamo accordi con la Libia. Non lo siamo quando facciamo
della nostra diversità una fortezza.
Sono
gli occhi degli altri, di quella mamma e di quella bambina, di quelle persone
che sventolano la bandiera a dodici stelle come un vessillo di libertà, di
autodeterminazione e di pace, dei tiranni che temono l’europeismo quanto i
missili atomici – e infatti finanziano generosamente i partiti, i movimenti e
leghe affinché lo combattano – a dirci quanto questo esperimento politico possa
rappresentare la speranza di un mondo diverso, in cui si affrontano emergenze
come le pandemie, i cambiamenti climatici, i conflitti territoriali tutti
assieme, non gli uni contro gli altri.
Se
anche non vi rende orgogliosi l’Unione Europea così com’è oggi – e non
riusciamo a biasimarvi -, dobbiamo tuttavia essere consapevoli che questa
strana alchimia geopolitica – un accrocchio di ex potenze imperialiste e di
nemici storici, senza un esercito e senza un vero leader – è oggi l’unico, vero
argine contro il ritorno di un mondo dominato dai conflitti e dalle mire
egemoniche delle grandi superpotenze militari.
È per questo che è nata l’Unione Europea, in
fondo. Ed è per questo che oggi è fondamentale evolva in questa direzione.
(fanpage.it/esteri/perche-lunione-europea-e-lunica-speranza-che-abbiamo-contro-un-mondo-di-guerre-e-nazionalismi/--
fanpage.it/).
UCRAINA
ULTIME NOTIZIE .
La
Gran Bretagna continua a ‘respingere’
i
profughi ucraini – Il massacro di Bucha –
Gas
russo: la Germania ci ripensa.
Tvweb.it-
Redazione-(4 aprile 2022)- ci dice :
Ore
16.00 –4 aprile - Germania e gas russo – aggiornamento.
La
Germania non è attualmente in grado di fare a meno delle forniture di gas
russe, ha affermato lunedì il ministro delle finanze tedesco Christian Lindner.
“Dobbiamo prendere in considerazione sanzioni dure, ma a breve termine le
forniture di gas russe non sono sostituibili” e interromperle “ci danneggerebbe
più della Russia”, ha avvertito.
Ore
15.00 – Gran Bretagna.Paradossale situazione in Gran Bretagna dove il premier Boris
Johnson è uno dei più acerrimi nemici di Putin, con insistenti e battagliere
richieste di isolamento totale della Russia e annunci pro-Ucraina ma che dall’altro lato non
permette, di fatto, ai profughi ucraini di raggiungere il suo Paese.
Questo
l’ultimo tweet di Johnson, che appare stucchevole, se raffrontato alla politica
sui rifugiati della Gran Bretagna.
Il
Tweet: “Putin
non spezzerà mai lo spirito del popolo ucraino né conquisterà la sua patria.
L’Ucraina risorgerà e riprenderà il suo posto tra le nazioni libere e sovrane”, ha scritto su Twitter il primo
ministro britannico Boris Johnson.
La
situazione in Gran Bretagna.
Le famiglie
britanniche che si sono offerte volontarie per accogliere i rifugiati
dall’Ucraina devono affrontare il compito “straziante” di dire loro che non
possono ancora venire perché i visti non sono ancora stati concessi.
Gary
Gray, che gestisce l’organizzazione di volontari scothists.org, ha affermato che finora sono stati
concessi solo 270 visti “irrisori” per consentire a persone dall’Ucraina di
recarsi in Scozia.
E con
migliaia di scozzesi che si sono offerti di aprire la loro casa a coloro che
fuggono dalla guerra, ha detto che c’era “frustrazione” per il tempo necessario
per l’esecuzione delle scartoffie.
I suoi
commenti arrivano dopo che il primo ministro scozzese Nicola Sturgeon si è
lamentato venerdì che “il processo di traduzione delle domande in visti è
inaccettabilmente lento”.
PA
Media cita Gray dicendo al programma Good Morning Scotland di BBC Radio
Scotland:
Non
pensiamo che ce ne siano così tanti che sono potuti venire in Scozia. Queste
famiglie stanno fuggendo da una zona di guerra. Quello che userei come esempio
è il modo in cui l’Irlanda sta elaborando questo, stanno riuscendo a elaborare
le persone che vengono in Irlanda in 12 ore. Attualmente siamo in una
situazione da più di 12 giorni, ci sono persone che non hanno ottenuto l’approvazione
del visto e ricevono pochissime informazioni.
Gray
ha affermato che insistendo che le persone provenienti dall’Ucraina abbiano un
visto prima di entrare nel Regno Unito, il Ministero dell’Interno sta
“utilizzando la rotta di immigrazione esistente per una situazione di
emergenza”.
Ha
aggiunto: “Riteniamo
che non sia proprio appropriato per la situazione in cui ci troviamo. La parte
più difficile è dire alle famiglie in Ucraina ‘Mi dispiace, il visto non è
ancora stato approvato’. Questa è la parte più difficile, è straziante doverlo
dire a queste famiglie, semplicemente non è stato approvato a causa della
burocrazia”.
Oggi
un ministro del governo del Regno Unito ha detto a Sky News che riteneva che le
critiche alla velocità con cui il Regno Unito stava elaborando i rifugiati
dall’Ucraina fossero “un po’ dure”.
L’UNHCR
afferma che oltre quattro milioni di persone sono state sfollate all’estero
dopo essere fuggite dall’Ucraina da quando la Russia ha invaso il 24 febbraio.
Il governo del Regno Unito afferma di aver rilasciato circa 25.000 visti.
ORE
9.30 – ULTIME NOTIZIE.
L’Ucraina
ha accusato le forze russe di aver commesso crimini di guerra e un “massacro” a
Bucha , una città a soli 30 km a nord-ovest della capitale Kiev, dopo che
domenica sono stati trovati i corpi di civili ucraini disarmati e le fosse
comuni. Cadaveri
di civili – molti con le mani legate, ferite da arma da fuoco a distanza
ravvicinata e segni di tortura – sono stati trovati per le strade dopo che le
truppe ucraine hanno rivendicato la città.
I
pubblici ministeri ucraini hanno affermato di aver trovato 410 corpi nelle
città vicino a Kiev e 140 corpi sono stati esaminati domenica. La Russia ha negato le accuse
secondo cui le sue forze avevano ucciso civili mentre si ritirava dalle aree
del paese dilaniate dalla guerra.
Le
immagini satellitari di Bucha sembrano mostrare una trincea lunga circa 45
piedi scavata nel terreno di una chiesa dove è stata identificata una fossa
comune.
I
leader mondiali hanno condannato le uccisioni e chiesto indagini indipendenti.
Il presidente francese Emmanuel Macron, il segretario generale delle Nazioni
Unite António Guterres, il cancelliere tedesco Olaf Scholz, il primo ministro
britannico Boris Johnson e l’ambasciatore statunitense alle Nazioni Unite Linda
Thomas-Greenfield hanno tutti condannato pubblicamente le azioni della Russia.
Il
segretario di Stato americano, Antony Blinken, ha descritto gli omicidi come
“un pugno allo stomaco” e si è unito agli alleati occidentali nel giurare di
documentare le atrocità per responsabilizzare gli autori.
La
Russia ha descritto la situazione a Bucha come una “provocazione” dell’Ucraina
intesa a interrompere i colloqui di pace.
Il ministero degli Esteri del Cremlino ha
affermato che la Russia sta cercando una riunione del Consiglio di sicurezza
delle Nazioni Unite sulla questione.
Il suo
ministero della Difesa ha descritto le foto e i video come “un’altra esibizione in scena del
regime di Kiev”.
Dmitry Polyansky, vice rappresentante del Consiglio di
sicurezza delle Nazioni Unite della Russia, ha twittato domenica: “Alla luce dell’odiosa provocazione
dei radicali ucraini a Bucha, la Russia ha richiesto una riunione del Consiglio
di sicurezza delle Nazioni Unite lunedì 4 aprile”.
Il
presidente dell’Ucraina Volodymyr Zelenskiy ha condannato le forze russe come
“assassini”, “torturatori” e “stupratori” dopo che gli omicidi sono venuti alla
luce, descrivendo l’attacco ordinato dal Cremlino al suo paese come un
genocidio.
“Come
sono diventati anche loro macellai? … Hanno ucciso deliberatamente e con
piacere”, ha detto in un discorso nazionale alla fine di domenica. Ha promesso di indagare e
perseguire tutti i “crimini” russi in Ucraina .
Il
ministro degli esteri ucraino, Dymtro Kuleba, ha detto che Bucha è stato un
“massacro deliberato” mentre parlava domenica a Times Radio. Descrivendo la Russia come
“peggiore dell’Isis”, ha affermato che le forze russe erano colpevoli di
omicidi, torture, stupri e saccheggi. Ha anche esortato i paesi del G7 a
imporre immediatamente sanzioni “devastanti”.
Zelenskiy
ha criticato la “politica di concessioni alla Russia” dell’Occidente in vista
della guerra. Descrivendo la passata ricerca dell’adesione dell’Ucraina alla
Nato: “Hanno pensato che, rifiutando l’Ucraina, sarebbero stati in grado di
placare la Russia, di convincerla a rispettare l’Ucraina e a vivere normalmente
accanto a noi … Invito la signora Merkel e il signor Sarkozy a visitare Bucha e
guarda cosa ha portato la politica delle concessioni alla Russia in 14 anni.
Per vedere con i propri occhi gli uomini e le donne ucraini torturati”.
Le
forze russe hanno continuato i loro attacchi ad altre città ucraine. Sette persone sono morte e 34 sono
rimaste ferite dopo che una zona residenziale di Kharkiv è stata colpita
domenica, hanno detto i pubblici ministeri locali.
Almeno
il 70% di Chernihiv è stato distrutto dalle forze russe, ha affermato domenica
il sindaco della città . Vladyslav Atroshenko ha affermato che le “conseguenze”
degli attacchi sono state gravi e rispecchiano quelle di altre città gravemente
danneggiate in Ucraina come Bucha e Mariupol.
Le forze russe stanno continuando a “consolidare e
riorganizzare” la loro offensiva nel Donbas, mentre la cattura di Mariupol è un
“obiettivo chiave” dell’invasione russa , ha affermato il ministero della
Difesa britannico.
L’esercito
ucraino afferma che la Russia ha lanciato una “mobilitazione nascosta” di circa
60.000 soldati per ricostituire le unità perse in Ucraina, secondo il suo
ultimo rapporto operativo .
I
missili russi hanno colpito “infrastrutture critiche”, molto probabilmente un
deposito di carburante, vicino al porto meridionale ucraino di Odesa nelle
prime ore di domenica, ma non ci sono state vittime, hanno detto i funzionari
della città.
L’Unione
europea dovrebbe prendere in considerazione un divieto alle importazioni di gas
dalla Russia , ha affermato il ministro della Difesa tedesco Christine
Lambrecht.
L’enorme
portata della violenza sessuale subita da donne e ragazze in Ucraina ha iniziato
a emergere mentre le vittime raccontano gli abusi che hanno subito per mano dei
soldati russi.
L’
ufficio per i diritti umani delle Nazioni Unite afferma che ci sono state 3.455
vittime civili dall’inizio della guerra in Ucraina . La cifra include più di
1.400 morti e oltre 2.000 feriti, ma si ritiene che il numero effettivo sia
considerevolmente più alto, ha affermato l’agenzia in un rapporto pubblicato di
recente .
Zelenskiy
è apparso in un videomessaggio ai Grammy Awards , chiedendo agli spettatori di
“riempire il silenzio con la tua musica” e “dire la verità sulla guerra” sui
social network e in TV.
“Guardiano,
a che punto è la notte?”
Transform-italia.it-
Franco Ferrari-(23/03/2022)- ci dice :
La
guerra in Ucraina continua e, mentre faticosamente procedono anche le
trattative, sembra difficile vederne una conclusione a tempi brevi.
L’eventualità di un’escalation militare che allarghi i Paesi belligeranti
trasformando un conflitto locale in uno scontro di dimensioni mondiali non può
essere esclusa.
Si è
parlato da più parti, e con molta leggerezza, di una possibile terza guerra
mondiale, dimenticando che questa oltre ad essere la terza potrebbe essere
anche l’ultima e non certo perché aprirebbe all’umanità una prospettiva di pace
duratura, ma al contrario perché ne determinerebbe la fine.
In
questo passaggio difficile occorre guardare al di là del conflitto e della sua
evoluzione militare per collocarlo in un contesto più ampio, al fine di capire quali
sono le contraddizioni dal quale è maturato e i possibili scenari che si aprono
nel prossimo futuro.
Ovviamente
questo dipenderà anche dal suo esito, sia esso una soluzione frutto di una
trattativa (il finale più desiderabile da tutti i punti di vista), sia che esso
produca il successo militare di una delle due parti. O ancora che la guerra si prolunghi
nel tempo e si incancrenisca portando all’indebolimento di uno o di entrambi
gli Stati impegnati sul terreno militare.
Dalla
“fine della storia” al “conflitto delle civiltà”.
L’invasione
russa dell’Ucraina non nasce dal nulla, ma è ovviamente frutto di un processo
che deve essere fatto risalire al crollo dell’Urss e del blocco socialista in
Europa.
In quel momento si è affermato il predominio
del capitalismo liberale (e liberista), la cui espansione nel mondo sembrava
inarrestabile e i cui elementi fondamentali erano i seguenti:
1)- il
liberismo inteso non solo come strumento di politica economica ma come modo di
regolazione di tutte le relazioni sociali con un forte arretramento dell’azione
diretta dello Stato nell’economia;
2) -l’espansione
dell’economia capitalista a livello mondiale attraverso l’inglobamento di
quelle aree geografiche che ne erano rimaste escluse (non solo l’ex Unione
Sovietica, ma anche la Cina);
3) la diffusione di assetti politici basati
sulla democrazia come meccanismo di regolazione nella scelta competitiva delle
élite politiche;
3) il
primato assoluto degli Stati Uniti sul piano finanziario, economico, militare
ed anche ideologico come potenza egemone e di fatto regolatrice dell’ordine
mondiale.
Questa
fase è stata ben rappresentata, in termini di narrazione, dal testo di Francis Fukuyama sulla
“fine della storia”.
Il
capitalismo liberale aveva sconfitto il suo grande antagonista, il “comunismo” (ovvero il socialismo di Stato
nella forma assunta originariamente in Unione Sovietica) e, quasi sicuramente, essendo la il
sistema economico-sociale rivelatosi storicamente migliore, non avrebbe più
avuto competitori sulla scena globale.
In
questo contesto, il ruolo degli Stati Uniti è stato diversamente modulato, a
seconda delle tendenze politiche prevalenti, pur avendo punti fondamentali
comuni.
Dal lato repubblicano hanno prevalso i
“neoconservatori”, almeno fino alla vittoria di Trump, mentre dal lato
democratico i centristi con una visione “liberal-imperialista” (secondo la
definizione di Mearsheimer).
Vi sono differenze tra queste due correnti
ideologiche. I neoconservatori ritengono che gli Stati Uniti
debbano affermare il proprio primato senza farsi vincolare da schieramenti
ideologici precostituiti né dalle sedi istituzionali sovranazionali.
I “liberal-imperialisti”(ora “Liberal Dem Usa”
) sono maggiormente favorevoli a creare un fronte politico-ideologico a cui
porsi alla guida, accettando, in misura limitata, i vincoli che da esso
derivano.
Questa
fase unipolare è entrata progressivamente in crisi.
Un
passaggio importante è stato evidentemente l’attentato alle torri gemelle di
New York. In quel momento si è percepito che il potere unipolare poteva essere
messo in crisi da forme di guerra asimmetrica, ma soprattutto dall’emergere di
un soggetto che si basava sulla identificazione con una religione (interpretata
secondo una logica fondamentalista) e non direttamente statuale.
Si
trattava per altro di un pericolo assai relativo dal punto di vista militare,
ma che veniva percepito come la prova che in realtà non tutto il mondo era così
pronto ad accogliere a braccia aperte il nuovo assetto determinato da una
potenza egemone che si voleva “benigna” e benvoluta da tutti.
Il
cambio di narrazione ideologico ha portato al passaggio dalla “fine della
storia” di Fukuyama al “conflitto delle civiltà” di Samuel Huntington (da un
neoconservatore moderato e ottimista ad un conservatore reazionario e
pessimista).
Questa visione ha introdotto nell’analisi una visione
“essenzialista” (ovvero in cui si confrontano modi di essere irriducibili tra loro e
che tali sono destinati a restare per sempre) delle varie aree del mondo.
Queste
differenze non sarebbero riassorbibili nella diffusione progressiva e
inarrestabile del capitalismo liberale, come riteneva Fukuyama, ma aprono la
strada a nuovi conflitti, il che richiede evidentemente che il “nostro” modello
di civilizzazione debba necessariamente essere pronto a difendersi e a
presidiare i propri punti di forza.
Anche
se la lettura del conflitto di civiltà non è stata fatta propria da tutto l’establishment statunitense e
occidentale ha avuto un notevole importanza nel rendere meno ottimiste le classi
dominanti sulla propria capacità di governare il mondo a tutela dei propri
interessi (ovviamente
identificati con quelli dell’intera umanità).
La
crisi dell’ordine imperiale liberale (ora diventato” liberal Dem Usa” con
annesso il credo ideologico del “movimento Lgbt” ).
Su
quali versanti è andato in crisi l’”ordine imperiale liberale”? Direi
fondamentalmente su tutti.
Il
liberismo ha prodotto un’accentuazione delle differenze sociali anche nella
parte ricca del mondo e ha logorato le relazioni sociali essendo basato su una
visione fortemente individualista e competitiva dei rapporti umani,
individuando nel “mercato” l’unico principio regolatore.
La stessa globalizzazione, essendone in buona
parte la sua proiezione nella dimensione mondiale, se ha consentito il
progresso economico diffuso in alcune aree geografiche, dove però si è
mantenuto saldo il ruolo di direzione dello Stato seppure in forme autoritarie,
come in Cina, ha indebolito e precarizzato una buona parte dei ceti medi e di
quella che, con formula comunque discutibile, si sarebbe un tempo chiamata
“aristocrazia operaia”. La globalizzazione, come è stato detto, ha prodotto vincenti
e perdenti.
Oltre
a questo la globalizzazione ha avuto un altro effetto non del tutto previsto in
Occidente, l’ascesa economica di alcuni Paesi (anche qui soprattutto la Cina)
in misura tale da trasformarli in competitori e non più solo in soggetti periferici
e subordinati rispetto alla produzione mondiale di ricchezza.
E qui
soprattutto gli Stati Uniti hanno cominciato a ripensare la propria visione del
mondo, ben consapevoli che il proprio ruolo di potenza egemone è uno degli
elementi chiave della propria condizione di vita interna e del mantenimento
delle sue élite economiche.
Anche
sul piano degli assetti politico-istituzionali si è cominciato a parlare,
correttamente, di “post-democrazia” (Colin Crouch). Non solo la forma liberale del
capitalismo è andata restringendosi a livello globale, invertendo quel processo
di diffusione che sembrava inarrestabile, ma è andata anche svuotandosi
dall’interno.
Decisivo
in questo è stato lo sviluppo complessivo del capitalismo (liberismo e
globalizzazione) che ha sottratto alla “politica”, o almeno a quella espressa
dai poteri elettivi (governi, parlamenti, amministrazioni locali) la
possibilità di decidere su scelte fondamentali per la vita dei cittadini,
essendo queste sempre più spostate in sedi intergovernative, tecnocratiche,
delle grandi corporations multinazionali o nei poteri finanziari che si
esprimono attraverso quel soggetto imperscrutabile che viene identificato nei
“mercati”.
Restrizione dell’area decisionale unitamente ad
accrescimento delle ingiustizie sociali rappresentano una miscela per qualsiasi
forma di democrazia che non si trasformi in pura rappresentazione teatrale della
democrazia stessa.
Altro
elemento di cui si è ampiamente parlato (con opinioni diverse) è il declino del
primato americano come risultato di questi processi.
Sulla
portata effettiva di questo declino esistono valutazioni diverse. Certamente si riscontra una
consapevolezza collettiva nelle classi dominanti degli Stati Uniti seppure
espressa sul terreno politico in modi diversi.
Per Trump la parola d’ordine che indica una reazione alla tendenza
è sintetizzata nell’acronimo MAGA (Make America Great Again), rifare grande l’America, a cui Biden risponde con “l’America è
tornata”.
E si
tratta nel primo caso di un “isolazionismo aggressivo” nell’altro di un
tentativo di rilancio dell’ordine imperiale liberale, a direzione americana, ma
con basi strutturali molto più fragili.
In
questo senso l’affermazione meno vera contenuta nell’intervento di Draghi in
Parlamento in coda all’intervento di Zelensky è quella secondo la quale in Ucraina si starebbe difendendo “un
ordine multilaterale”, quando è del tutto evidente che è “il rifiuto della leadership americana
di accettare l’affermarsi di un ordine multilaterale mondiale “a costituire una
delle ragioni del conflitto.
Ora
per proseguire questo tentativo di analisi dovremo esaminare altri aspetti.
Il primo è come una serie di Stati hanno
reagito all’egemonia americana e come hanno contribuito a metterla in crisi.
Collegato
a questo vi è un secondo elemento importante: quali reazioni si sono prodotte
all’affermarsi del nuovo assetto globale post-sovietico?
A
grandi linee abbiamo avuto due momenti di segno molto diverso.
Il
primo è stato quello cosiddetto “no global” (o più correttamente
“altermondialista) che si è affiancato al movimento contro la guerra (la
“seconda potenza mondiale”).
Il secondo più duraturo è dato dalla ripresa
del nazionalismo a base etnica, quindi un nazionalismo regressivo e non
progressivo.
In questo processo trentennale, e nelle sue evoluzioni
e contraddizioni, si dovrà anche capire qual è stato il ruolo specifico della
guerra come strumento regolatore degli equilibri egemonici tra Stati e perché
non sia mai sparita dalla scena ed addirittura rischi di assumere ancora più
rilevanza.
(Franco
Ferrari).
Niente
è vero e tutto è possibile.
Il
freak show della “Commissione Dupre”.
Ilfoglio.it-
MANUEL PERUZZO-( 04 APR 2022) - ci dice
:
Dal
Covid alla guerra in Ucraina. Freccero, Cacciari, Orsini & Co. ci spiegano
la verità sui poteri forti, le manipolazioni delle élite mondiali, il coraggio
di avere la schiena drittissima (ma le idee stortissime).
La
televisione ha ormai perso ogni legame con la realtà, scriveva l’autore tv
Peter Pomerantsev in un bel libro di qualche anno fa sulla propaganda russa: “I fantocci parlano con ologrammi e
sono entrambi convinti di essere reali, dove niente è vero e tutto è possibile”.
Sembra
la
descrizione della Commissione Dupre: dove Freccero, Cacciari, Mattei sono ologrammi su
Zoom e Orsini e altri occupano lo spazio dei fantocci in un involontariamente comico
convegno.
Tutti
che ci spiegano la verità sui poteri forti, le manipolazioni delle élite
mondiali, il coraggio di avere la schiena drittissima (ma le idee stortissime),
passando dal Covid alla guerra in Ucraina, incredibilmente senza indossare lo
scolapasta.
Se solo
Putin avesse saputo quanti italiani sono disposti a creare verità alternative
gratis.
Poche cose servono a dar certezza alle
proprie idee come ascoltare gli sgamati della dietrologia, i giuliettachiesismi
di quelli a cui non la si fa, loro sì che sanno come stanno le cose “realmente”.
C’era Davide Tutino, il prof no vax coi capelli bianchi
un po’ Legolas un po’ Assange, recentemente denunciato e multato per essersi
tuffato nelle terme urlando insulti contro Draghi, in sciopero della fame “per il
diritto alla verità e la verità del diritto”, ha detto prima di scappare perché
aveva il treno.
C’era
Alessandro Orsini che veniva presentato come un “coraggioso intellettuale” (forse perché era vestito da mimo?)
che diceva di sé “Io sono un guerriero intellettuale”, ma anche lui doveva scappare perché
lo aspettava la moglie (era sabato, nessuno voleva rimanere).
Il
fotogiornalista Giorgio Bianchi, quello che certificava “Maidan era un colpo di stato di
stampo neonazista” e dice che la Nato ci ha fregato e Zelensky interpreta una parte.
Poi si
è collegato il Cappellaio Matto, Carlo Freccero, attaccato ai fogli del suo
discorso, sbagliando comunque tutti i nomi, come gli studenti durante gli esami
da remoto.
Il
tema era “propaganda
e censura”,
dove secondo
Freccero oggi non serve più censurare perché i poteri forti preferiscono la
propaganda per manipolarci.
“La
presa di parola del potere in prima persona spiega il buonismo di oggi e la
mancanza della violenza verbale nei confronti dei politici nei talk show
televisivi” e “chiunque dissenta è escluso dal corpo sociale”, dice Freccero a mezzo cast fisso
dei talk show e della Zanzara delle prossime settimane, dimostrando chiaramente
di non guardare la televisione.
Ci
dice che la propaganda nasce in America da Edward Bernays (non è così, ma se la propaganda
diffonde idee senza alcuna considerazione per la verità o l'accuratezza,
Freccero ce ne dà un ottimo esempio).
Poi salta ai congressi segreti Bilderberg, cita Storia
e coscienza di classe di Lukács e gli studi di psicologia delle folle di Le
Bon, la quarta rivoluzione industriale, il World Economic Forum come
piattaforma operativa per mettere in contatto le multinazionali, fino al
transumanesimo.
A
questo punto ci si è allontanati dal tema iniziale ma ci avverte che: “Esistono stanze virtuali in cui le
multinazionali farmaceutiche si incontrano in tempo reale per decidere il
nostro destino”. Cioè la finestra Zoom da cui parla anche lui.
La
parte in cui Freccero descrive la comunicazione di Zelensky come una
prosecuzione della fiction può essere una buona intuizione, sarebbe interessante
da studiare, ma poi aggiunge che “Interrogato sul fatto che avesse inserito nel
suo servizio lo spezzone di un noto videogioco, un redattore del Tg2 si è
giustificato dicendo che di questa guerra non esistono immagini reali per la
censura di Putin. Non sappiamo se sia vero”.
In
quale senso la censura di Putin c’entri con le immagini di guerra in Ucraina o i
filmati di videogiochi confusi per errore non lo so, ma per sapere che è falso che
manchino le immagini basta aprire Getty, Reuters, AP, Telegram. O guardare la
televisione, cosa che Freccero abbiamo capito si rifiuta di fare. “Io credo siano tutti in buona fede,
e questa è la cosa più terribile”, dice Carlo Freccero parlando dell’informazione
mainstream.
In
guerra la verità è la prima vittima, ma i nostri più sgamati debunker
infieriscono.
E
infatti il meglio, cioè il peggio, Freccero lo dà quando dice che esiste
materiale creato a scopo propagandistico, come “il bombardamento all’ospedale
pediatrico di Mariupol con l’influencer incinta, successivamente dichiarata
morta e ricomparsa poco dopo”. Ci fu effettivamente un errore di scambio di persona, tra le donne incinte c’era una morta
col suo bambino colpiti dalla fiction di Freccero.
Marianna
Vishegirskaya, quando fu fotografata insanguinata dalla Associated Press in
seguito a ciò che ha tutta l’aria d’essere un attacco aereo, era inizialmente
stata descritta dalle istituzioni russe come un’attrice che si fingeva incinta.
Ora in un’intervista evidentemente manipolata (il
montaggio è fatto parecchio male, dagli eredi del Kgb ci si poteva aspettare di
meglio) condivisa da account di Russian Mission in Geneva, intervistata da un
blogger russo in territorio occupato russo le fanno negare l’attacco aereo,
dire che non voleva essere filmata e che l’ospedale era usato dai militari
ucraini.
I primi due punti sono direttamente smentiti
da Associated Press che ha registrato le immagini e parlato con testimoni
oculari. Ma non importa: niente è vero, tutto è possibile è la lezione russa. E
anche italiana.
Nazionalismo economico e globalismo post-ideologico
ai tempi di Trump.
Economiaepolitica.it-
Denis V. Melnik - (31 Maggio 2017)- ci dice :
1.
Durante l’ultima campagna elettorale negli Stati Uniti, l’approccio mainstream
ha presentato le parole e le azioni di Trump come reazioni errate e puramente
impulsive di una persona emotivamente vulnerabile, “permalosa” e mentalmente
instabile. I suoi avversari hanno cercato di utilizzare quelle sue espressioni
per colpirlo intenzionalmente dando luogo ad una frenesia di tweets che, fra
l’altro, tentavano di fornire ulteriori prove dell’inadeguatezza di Trump
rispetto al ruolo per il quale si era candidato. Sarà stato un difetto
dell’approccio mainstream, un fallimento del meccanismo elettorale democratico,
oppure di qualcos’altro, ma ora Trump ricopre quel ruolo. Ed è ormai abbastanza
chiaro che le espressioni utilizzate durante la campagna elettorale
rappresentavano abbastanza bene quello che il tycoon intendeva fare. Quindi la
domanda è ora: in che misura Trump potrà attuare il suo programma?
Supponiamo
che né la leadership democratica, né la base hipster della “resistenza alla
tirannia” siano veramente desiderose o in grado di commemorare l’anniversario
della rivoluzione russa del 1917 con una vera sollevazione sul Potomac. Quindi,
per fermare Trump in modo legale, i democratici devono riconquistare la
maggioranza solida nel Congresso durante le elezioni di metà mandato del 2018
(per avere la base per un processo di impeachment in seguito). Molti fra coloro
che si annoverano fra i liberal del mondo sono sicuri che le ragioni per
avviare l’impeachment sono già a portata di mano. Se dividiamo le emozioni
dalle convinzioni, è chiaro che durante la sua carriera nel mondo degli affari
Trump non ha mai dato prova di avere un comportamento leggero riguardo la
copertura legale delle proprie azioni, mentre i ricordi dei processi
dell’impeachment di Nixon (e anche di Bill Clinton, sebbene questo ultimo sia
stato un po’ dimenticato dai democratici che aspirano ad una resistenza legale
a Trump) sono ancora lì per ricordare alcune possibili trappole.
Sicuramente
un fattore su cui contare è anche una forte opposizione a Trump da parte dello
stesso establishment repubblicano, ma le aspettative alimentate nei circoli
progressisti di una grande disgrazia repubblicana non si sono mai
materializzate. Al contrario, Trump ha realizzato un miracolo elettorale in cui
pochi repubblicani avrebbero potuto sperare. Il tycoon è stato infatti capace
di riunire una nuova coalizione elettorale. Questo è quanto sicuramente pesa
sulle preoccupazioni dei politici repubblicani standard (se si eccettuano
alcuni “cani sciolti”, sebbene imponenti), a meno che non comincino a percepire
che la coalizione di Trump non vi sia affatto. E come la tarda serata dell’8
novembre 2016 dovrebbe ricordare a qualsiasi politico perspicace, non solo i
“principi”, ma anche i sondaggi – il divino oracolo della politica moderna –
non costituiscono una realtà oggettiva a cui affidarsi. Contano i risultati
delle elezioni. Quindi, con una maggioranza repubblicana al Congresso e un
vasto potere esecutivo nel suo ufficio, ci sono due principali ipotesi su cui
basare le previsioni relative alla politica americana:
1)- le sue “gaffe”, i potenziali conflitti di
interesse e/o le ingiustizie accoppiate con la sua impopolarità nei sondaggi
potrebbero rovinare il suo ordine del giorno e la sua stessa presidenza – molto
probabilmente in tempi brevi; oppure,
2)- egli potrebbe continuare ad applicare le
politiche economiche annunciate durante la sua campagna elettorale almeno fino
al 2018 (come possibilità, anche fino al 2024). La prima ipotesi è
perfettamente in linea con il discorso mainstream che ha costantemente
sostenuto che Trump non avrebbe potuto vincere tutte le tappe necessarie per la
sua ascesa al potere. Ma noi optiamo per la seconda ipotesi, almeno per
curiosità. Cioè, supponiamo che l’amministrazione di Trump sia in possesso di
una leva per imporre la sua agenda.
2. Il
nazionalismo economico di Trump, considerato il ruolo dell’economia americana e
il peso della politica americana, è potenzialmente la parte più consistente
della sua agenda per l’ordine economico globale, che è emerso dopo la fine
delle due guerre mondiali e si è riformata con l’ascesa del consenso neoliberista
e la scomparsa del blocco socialista. Una consapevolezza diffusa, come rivela
la classe mondiale degli esperti, è che tutte le misure politiche che vanno
contro la razionalità economica sono destinate al fallimento e che il mondo di
Trump semplicemente non ha la possibilità di materializzarsi confrontandosi con
la realtà del mondo globalizzato.
Secondo
questo ragionamento, Trump si appella a sentimenti “anti-establishment”
talvolta comprensibili, ma fondamentalmente sbagliati, di alcuni gruppi sociali
colpiti dagli effetti culturali ed economici della globalizzazione (“coloro che
si sono perduti nella transizione”), ma la tendenza obiettiva è la
globalizzazione. In breve, la vittoria di Trump è concepibile, ma non il mondo
di Trump: mentre le radici del populismo sono facili da capire, i risultati
dell’attuazione di un programma populista sono destinati a essere rovinosi e di
breve durata. Il progresso è irreversibile: il mondo è globale.
3. Per
l’approccio mainstream (condiviso da molti, sia a destra che a sinistra degli
schieramenti politici), gli effetti economici della globalizzazione sono
rappresentati dalla teoria moderna del commercio internazionale, che può essere
sintetizzata come segue: nel lungo periodo un regime di libero scambio non può
che essere vantaggioso per tutti i paesi coinvolti. Nel lungo periodo, i
vantaggi comparati garantiscono che il regime di libero scambio sia un gioco
con una soluzione win-win: le economie sviluppate hanno accesso a risorse
economiche e materie prime ad un costo minore; quelle in via di sviluppo hanno
accesso a una quantità di capitali e prodotti (manifatturieri) superiori a
quelle che potrebbero produrre in un contesto di autarchia,che sarebbero invece
stati caratterizzati da un impiego relativamente maggiore di fattori
produttivi. In un regime di libero scambio, la differenza nei livelli di
salario provoca l’esternalizzazione della produzione da paesi con “lavoro
costoso” a paesi con “lavoro a buon mercato”. Così è garantita la convergenza
economica, che rende la globalizzazione efficace ed equa (ancora nel lungo
periodo).
Per
molti decenni, a partire dalla nascita delle teorie moderne dello sviluppo
economico negli anni ’50, molti studiosi hanno sostenuto che la partecipazione
delle economie in via di sviluppo nel mercato globale non avrebbe
necessariamente portato ad aumentare i suoi redditi (e, in generale, lo
sviluppo); alcuni di loro hanno persino osato usare il termine (oggi
imbastardito) “sfruttamento” per descrivere le relazioni tra economie
sviluppate e in vie di sviluppo. Questi studiosi sostenevano in un modo o
nell’altro che, al contrario di quanto affermava il mainstream, la
partecipazione nel mercato globale avrebbe riconfigurato la struttura
produttiva del paese in via di sviluppo attraverso la creazione dei settori
produttivi orientati esclusivamente all’esportazione e i cui partner
commerciali sarebbero stati soprattutto i grandi acquirenti internazionali,
piuttosto che le arretrate aree confinanti (il che non esclude l’esportazione
di materie prime o prodotti ad alta intensità di lavoro, o persino forza-lavoro
anche da quelle aree arretrate).
L’approccio
“eterodosso” allo sviluppo economico ebbe qualche influenza nelle idee e nelle
politiche economiche fino a quando non fu sommerso dalla marea del consenso
neoliberista degli anni ’80 e ’90 (Love 2005). Oggi, Trump e altri “economisti
nazionalisti” occidentali sostengono infatti che furono le economie occidentali
quelle “ingannate” con la diffusione del globalismo economico; e la base dei
loro successi elettorali si trova proprio in quelle aree delle loro economie
che non sono diventate global.
4. La
causa del globalismo neoliberista è stata perseguita per diversi decenni sotto
la sembianza dell’inevitabilità. A questo proposito, la crisi dei sistemi di
welfare, i disavanzi fiscali e i debiti accumulati, ecc. vengono solitamente
citati come le cause che hanno reso necessaria l’attuazione dell’agenda
neoliberista. Tuttavia erano in realtà degli effetti delle tendenze visibili
già negli anni settanta, se non prima.
L’outsourcing
della produzione e la creazione di “catene globali del valore” sono state
guidate non solo dalla possibilità di spostarsi verso tecniche produttive a
basso costo del lavoro. In molti casi un fattore di pari importanza (e in alcuni
casi il fattore principale) era ed è la possibilità di “ottimizzare” la
tassazione. “To go global”, sia in termini di profitti che di reddito
personale, spesso significa “andare in mare aperto”. Di conseguenza, l’onere
fiscale ricade su coloro che sono sfortunati remainers. Per assicurare i liberi
movimenti dei capitali, molti ostacoli (tra cui la politica monetaria sovrana)
sono stati smantellati in un modo o nell’altro. La mancanza di queste barriere,
abbinata alle moderne tecnologie della comunicazione, ha portato a creare un
unico mercato speculativo “che non dorme”, con capitali che continuano a
scorrere in tutto il mondo da New York a Tokyo e dopo a Londra per tornare a
New York.
Questo
mercato, che difficilmente può essere soggetto a qualsiasi controllo e
regolamentazione costante (quindi, difficilmente può essere soggetto a
fiscalità), produce continuamente enormi profitti per pochi e regolarmente
enormi perdite per tanti (che di solito in ultima istanza sono pagate dai
contribuenti di questa o di quella nazione in crisi). I debiti sovrani
(sostenuti in ultima istanza dal gettito fiscale o da “misure di austerità” da
attuare a livello nazionale) sono solo pezzettini di un gioco speculativo,
pezzettini tra gli altri assets del mercato internazionale. Come se l’iniquo
onere fiscale non fosse abbastanza per compromettere la produzione locale, gli
accordi di libero scambio attuati dagli anni ’90 hanno reso veramente
inevitabile la vittoria delle grandi imprese globali nei confronti degli stati
nazionali e dei produttori locali.
Con i
sistemi finanziari nazionali sottomessi alla finanza mondiale, e le economie
nazionali che si dividevano tra settori “avanzati” (capaci di competere a
livello mondiale) e settori “arretrati” (che rimangono locali), la forma assunta
dallo Stato nell’ultimo quarto del 20° secolo era sotto molti aspetti
antiquata. La vittima è la società che usava lo Stato come il mezzo per
arrivare ad avere un livello di vita dignitoso, fatto di speranze e di sogni da
raggiungere all’interno di comunità sostenibili che (almeno idealmente)
dovessero offrire incoraggiamento ai vincitori; rifugio e protezione ai malati,
ai giovani e ai disgraziati; e benessere per tutti.
Non
solo i settori economici e le regioni, ma anche i popoli si sono divisi tra i
vincitori sul mercato globale del “capitale umano”, da un lato, e il cast
globale dei miserabili, dall’altro, il cui unico difetto è quello di essere
bloccati nei loro luoghi e nelle loro occupazioni. Milioni di giovani studenti
in tutto il mondo stanno ottenendo la laurea in medicina, ingegneria,
tecnologie della informazione (non raramente rimborsati dai sistemi nazionali
di istruzione) con l’unica speranza di lasciare le loro terre per sempre.
Milioni e milioni partono senza alcuna speranza, per paura e disperazione.
Quelli fortunati che avranno successo sono quasi obbligati a provare quel
sentimento di non appartenenza alla nuova terra che li ospita. Coloro che
invece rimarranno sono quasi obbligati a sentire che le proprie speranze ed i
propri sogni sono inutili, che la loro vita nella loro terra natia non gli
appartiene.
L’ordine
neoliberista globale non ha bisogno di nazioni, comunità e reti di soccorso. Queste possono essere tollerate
(anche se in forma privatizzata e “ottimizzata”) nel caso di sistemi di
produzione diversificati ben integrati nel mercato globale – come mezzi per
mantenere la forza-lavoro locale. Sono un lusso eccessivo nel caso dei
mono-esportatori. Come dimostrano gli esempi recenti di alcune nazioni
esportatrici di petrolio, l’ordine neoliberista globale può ben usufruirne
senza che vi sia alcun apparato statale cui necessariamente riferirsi. Per il
mercato globale, un modo più economico è quello di avere un esercito di
mercenari che stiano lì per controllare e proteggere i pozzi e le condutture
petrolifere, con una varietà di tribù feudali che permettono alleanze a un
prezzo più conveniente rispetto ai precedenti accordi con gli eccentrici
dittatori ormai caduti.
5.
L’ansia accumulata si è manifestata di recente nel cuore dell’economia
mondiale. Non è che le sfide, politiche ed economiche, all’ordine globalizzato
non siano visibili altrove. È che il ragionamento che si sostiene, e che
abbraccia decisamente l’idea della globalizzazione neoliberista, è ancora
prodotto in Occidente. E ora, solo ora, troppe persone nella classe
transnazionale degli esperti ne condividono l’ansia. Tendono a personificare
Trump come il male. Ogni sua immagine nell’ufficio ovale è una sfida sgradevole
alla validità di quelle norme e di quei modelli su cui si basa l’autorità (e il
benessere) di quella classe. Il punto è comunque che lui, così come altri
politici che riuscirono o riusciranno a distruggere il discorso globalista e
progressista, hanno potuto cavalcare l’ondata di ansia generale. Ma quell’ansia
non è stata generata da lui.
Attualmente,
con le elezioni francesi e una nuova spirale di discorsi accusatori a Washigton
D.C. lo spirito liberista sta crescendo. Nel remake liberista de Il Trono di
Spade, Emmanuel il Bello sconfigge gloriosamente Marine la Pazza, si unisce a
Angela-improvvisamente-diventata-la Grande e, sostenuta dai partigiani
democratici, le loro forze avanzano per fare a pezzi Donald il Terribile (e per
salvare dalla prigionia di Milano Expo due compagni di guerra coraggiosi,
Barack il Saggio e Matteo il Petaloso).
Ma
anche se tutte le parti di questo scenario fossero poste in essere, le fonti
d’ansia che hanno generato l’onda del nazionalismo economico resterebbero in
atto. Hanno radici economiche. Il ritorno dei simpatici politici che dicono
parole simpatiche (e politicamente corrette) può solo sopprimere i sintomi per
un certo tempo, ma non può curare l’ansia.
6.
Alcuni giorni fa a Parigi, Macron ha proclamato il trionfo della nuova
(gloriosa) rivoluzione francese – e l’avvento del nuovo ordine post-ideologico
(«né di sinistra né di destra»). Per lungo tempo la Francia ha dettato tendenze
ideologiche per il resto del mondo. Questo annuncio, però, significa che non è
più così. Le idee della morte delle ideologie (e della fine della storia) sono
obsolete. Sono state sperimentate e rielaborate sin dai tempi di Clinton e
Blair. In questo caso il nuovo presidente francese può essere scusato per la
disattenzione, dato il disprezzo generale dei francesi per la cultura
anglosassone e la sua tenera età. Ma la Francia sta per esplorare gioiosamente
lo stesso percorso di rottamazione che la vicina Italia ha seguito (con tutto
il rispetto per il talentuoso Mr. Renzi) dal 1992-94: l’ordine politico in
frantumi, i partiti politici predominanti e i loro leader caduti in disgrazia e
gli aspiranti leader che costruiscono i loro nuovi partiti con i resti del
passato.
Tutto
ciò, insieme ad altri esempi di esperimenti post-ideologici, mostra che non
esiste una politica che non sia né di sinistra né di destra. Fondamentalmente
si tratta di una politica di destra in vesti neoliberiste (riforme
istituzionali, flessibilità, aumento del capitale umano, ecc.) con alcune
concessioni culturali alla sinistra progressista.
Sempre
negli ultimi decenni solo i membri dell’élite globalizzata (e dei loro
dipendenti culturali) si sono trovati al proprio agio con i mercati politici
“centristi”. Il risultato è stato la crescita dell’assenteismo elettorale. Ma la crisi
economica mondiale ha sconvolto lo status quo. Quello che oggi è abitualmente
definito come “populismo”, è in realtà il ritorno della politica “vecchio
stile”, in cui le ideologie rappresentano e canalizzano gli interessi
particolari nei conflitti economici e sociali.
L’ipotesi
più spiacevole dietro il terremoto rappresentato da Trump è che l’ansia in
questione non sia stata generata da alcuni fallimenti della globalizzazione
neoliberista nel breve periodo, ma piuttosto dal suo grande successo.
7. Le
politiche filo protezionistiche del nuovo nazionalismo economico occidentale in
crescita sono una minaccia per l’ordine economico globale stabilito? Sì, certamente lo sono. Se venissero
implementate, costituirebbero un esempio più chiaro di totale follia? Sì,
certamente – ma solo in un mondo che si regge sui modelli della teoria moderna
del commercio internazionale e, anche in questo caso, nel lungo periodo.
Tuttavia,
come diceva John Maynard Keynes, “nel lungo periodo siamo tutti morti. Gli
economisti svolgono un compito facile quanto inutile se in un periodo
burrascoso sono in grado di dirci che il mare sarà calmo soltanto molto tempo
dopo che la tempesta sarà passata.” (Keynes 1924, 80) Eppure, gli economisti sono riusciti
a bloccarsi in una professione perfettamente adatta proprio a fare osservazioni
imparziali sul lungo periodo, con molti di loro che beneficiano di incarichi a
tempo indeterminato, mentre molti altri sono “spettatori imparziali” in attesa,
che aspirano a quegli incarichi. Gli shock economici del mondo esterno sono
semplice onde, appena percepibili dal posto privilegiato cui gli economisti
(quasi esclusivamente) hanno accesso.
Il
problema (per l’economia mainstream) è che i politici non vedono il mondo se
non in una prospettiva di breve periodo: possono tentare di cavalcare l’onda
che gli economisti preferiscono ignorare e possono anche riuscire nel loro
intento di perseguire il potere, in barba all’ansia degli economisti. Tuttavia, questo non renderebbe il
mondo un posto migliore, ma richiederebbe che fossimo più ragionevoli, non
emotivi, nelle nostre considerazioni sulle possibili tendenze future. Per ora,
la tendenza al nazionalismo economico in tutto il mondo sembra essere forte e
persistente (anche se possiamo considerarlo irrazionale).
8. E in considerazione di un approccio
post-post-ideologico, vale la pena notare che il “populismo” della sinistra è
al di sotto del “populismo” della destra nelle democrazie occidentali (cfr Trump e Bernie Sanders, Le Pen e
Mélenchon). Podemos in Spagna ha guadagnato notevole successo elettorale, ma
non sembra essere sulla buona strada per ulteriori progressi. Sta ai lettori
italiani decidere quanto a sinistra si trova il populismo di Beppe Grillo.
L’unico successo elettorale della forza che può essere considerata un esempio
di sinistra “populista” è quello di Syriza di Tsipras in Grecia, e non è molto
ispiratore. Ci sono, sicuramente, molti fattori specifici a livello nazionale
per spiegare questa tendenza.
Ma la
persistenza della tendenza permette di supporre che, date le radici economiche
dell’attuale onda “populista”, la sinistra ha forse bisogno di scuotere la
vulgata “progressista” adottata nei decenni neoliberisti e di considerare con
attenzione alcuni “vecchi fondamentali” (si veda Barba, Pivetti 2016). Il
programma economico non può essere ridotto solo alla re-distribuzione. Se la
sinistra non è in grado di rivolgersi ai lavoratori moderni (da tempo
considerati scomparsi come classe) per proporre un programma di incremento della
produttività, dell’occupazione e dei redditi a livello nazionale, e invece
continua a perseguire una agenda essenzialmente globalista, sembra che la
sinistra non possa che perdere contro il “populismo” della destra.
Il
vero test all’ordine del giorno della
sinistra non
è il presunto defenestramento di Trump, e non è la sconfitta di Le Pen, ma la
sconfitta (molto probabile) di Corbyn quest’anno (non solo nei confronti dei
Tory di May, ma anche nei confronti del centrismo laburista). Ed è anche per questo vale la pena
riflettere sull’esperienza della sinistra italiana degli ultimi 25 anni.
DEI
TORTI E DELLE RAGIONI. MA DI CHI?
Sebastianoisaia.wordpress.com-
Sebastiano Isaia- (15/02/2022)- ci dice :
Nella
crisi ucraina ci sono torti da esecrare e punire e ragioni da difendere e
sostenere?
A mio
avviso la domanda è mal posta, e andrebbe riformulata come segue:
da
quale punto di vista si può parlare, in merito alla vicenda in questione e a
ogni altra questione di analoga natura, di torti e di ragioni?
Ebbene, dal punto di vista capitalistico-imperialistico
tutti gli attori della crisi ucraina hanno ragioni e interessi da difendere
legittimamente contro le ragioni e gli interessi difesi altrettanto
legittimamente dalla concorrenza.
Alle
ragioni e agli interessi che fanno capo a un lato della barricata, si
contrappongono le ragioni e gli interessi del lato opposto. Schierarsi da una delle due parti
del conflitto significa dunque difendere e sostenere le ragioni e gli interessi
di uno schieramento imperialistico contro le ragioni e gli interessi dello
schieramento concorrente.
Ovviamente
chi difende le ragioni e gli interessi di una delle due parti in conflitto non
può condividere questo ragionamento “ecumenico” e “astratto”, e difatti si
affretta a dimostrare, con argomenti di varia natura (storici, geopolitici,
economici, ideologici, ecc.), che l’imperialismo che egli sostiene ha ragione
mentre l’imperialismo che avversa ha torto: «Ma è così evidente!»
Non
c’è dubbio alcuno.
Tuttavia
occorre precisare che la cosa risulta evidente solo ponendosi dal punto di
vista del capitalismo, dell’imperialismo, della nazione, dello Stato, delle
classi dominanti. Assumendo questo particolare punto di vista, possiamo parlare dei torti
e delle ragioni dei russi piuttosto che degli americani, dei torti e delle
ragioni delle grandi nazioni piuttosto che delle piccole, e via di seguito.
Ancora
prima di scendere nel merito delle ragioni e dei torti che fanno capo ai
diversi attori della crisi in questione, occorre dunque chiarirne bene la
natura sociale e orientarsi di conseguenza sul piano della valutazione politica
e delle iniziative a essa adeguate.
In
generale, per capire quale siano le ragioni e gli interessi dell’imperialismo
statunitense e di quello europeo, ragioni e interessi che peraltro non
coincidono sempre tra loro (anzi, “collimano” sempre meno), basta leggere la
stampa cosiddetta mainstream, mentre per documentarsi circa le ragioni e gli
interessi della concorrenza (Russia, Cina, Iran, Venezuela, ecc.) bisogna
leggere la cosiddetta “stampa alternativa”, soprattutto quella che fa capo alla
– sempre cosiddetta – “sinistra antimperialista”, la quale conosce, ovviamente,
un solo imperialismo: quello occidentale in generale, e quello statunitense in
particolare.
Anche
quando si rifiuta di ammetterlo (per furbizia, per vergogna o per ignoranza),
questo “Campo Antimperialista” ha ereditato l’escrementizia ideologia
stalinista – con le sue diverse varianti nazionali: togliattismo, maoismo,
castrismo e così via.
A mio
modestissimo avviso, non si tratta di “compagni che sbagliano”: non si tratta
di compagni. Punto. Chi difende le ragioni di un polo imperialista contro il
polo concorrente non può essere considerato una parte della soluzione, ma una
parte del problema chiamato contesa inter imperialistica.
Invito
chi legge ad approcciare la crisi ucraina e ogni altro conflitto sistemico
(economico, tecnologico, scientifico, ideologico, ecc.) dalla prospettiva
anticapitalista, antimperialista e internazionalista che cerco di delineare con
i miei scritti.
Lungi
dal negare l’importanza di un approfondimento storico, geopolitico, economico e
ideologico delle “problematiche” (ad esempio, da qualche tempo ho ripreso a
studiare la storia della Russia, anche per capire il ruolo che hanno avuto Kiev
e l’Ucraina nel processo di formazione della nazione russa e dell’imperialismo
russo, dagli Zar a Stalin), intendo piuttosto proporre una prospettiva da cui
approcciare i problemi che sempre di nuovo nascono sul fondamento di questa
Società-Mondo, una realtà oltremodo disumana e disumanizzante.
Da
questa prospettiva solo le ragioni e gli interessi che fanno capo alle classi subalterne di tutto il pianeta
appaiono meritevoli di essere sostenute.
Vogliono
spingerci
alla
guerra civile?
Accademainuovaitalia.it.
-Francesco Lamendola- (30 agosto 2018)- ci dice :
Le scene che abbiano visto, attraverso i
servizi televisivi, a Rocca di Papa, in occasione delle manifestazioni e
contro-manifestazioni per l’arrivo dei cosiddetti migranti e sedicenti
profughi, in coda alla penosa vicenda della nave Diciotti e alla sua ancor più
desolante conclusione, non possono non lasciare fortemente pensoso chiunque
abbia a cuore, almeno un po’, la tenuta sociale del nostro Paese.
Avremmo
voluto dire “della nostra Patria”, ma si può? È ancora consentito?
Oppure
è diventata una parolaccia, tale da inibire qualunque possibilità di dialogo
con l’altra parte, quella che a sentir parlare di Patria, specie con la lettera
maiuscola, sbuffa, scalpita, s’inalbera, vede rosso e pensa immediatamente che
sia in atto una provocazione? Fascista, ben s’intende.
Ecco. Il vero problema sta qui, non nei
sedicenti profughi e sedicenti naufraghi: se questi ultimi sono diventati il
problema, è solo di riflesso; ma avrebbe anche potuto essere qualcos’altro. Il
vero problema è la spaccatura, la divisione, la incomunicabilità fra queste due
Italie che non si parlano, che non si sopportano, che non si accettano e che
considerano una specie di insulto il fatto che l’altra esista. Questa è la
situazione; altro che maturità democratica: non siamo nemmeno alla pura e
semplice accettazione reciproca.
C’è
voglia di sangue, di vedere il nemico scalciare nella polvere: gli italiani
che, a Rocca di Papa, si dicono antifascisti, e indicano gli altri con
disprezzo, chiamandoli quella roba lì, cioè esseri indegni di venir chiamati
persone, mentre i sedicenti profughi sono, evidentemente, qualcosa di più che
semplici persone, sono eroi, sono martiri, sono icone da adorare e venerare,
rappresentano il livello, veramente infimo, della dialettica ideologica in
Italia, oggi.
S’intende
che lo stesso ragionamento vale per i fanatici dello schieramento opposto, per
quelli che si definiscono fascisti, o che, pur senza definirsi tali, in realtà
vivono di nostalgia per un movimento che, qualunque giudizio se ne voglia dare
in sede storica, di fatto è morto e sepolto da oltre 70 anni, ossia da tre
generazioni.
Ma che
dire dei sedicenti antifascisti? Come si fa a essere contro qualcosa che è
scomparso da oltre 70 anni? Se gli uni vivono di sterili nostalgie, gli altri
vivono di sterile contrapposizione: la verità è che hanno bisogno di qualcuno
da odiare, da insultare, da desiderare morto, per placare la loro frustrazione
e per gratificare la loro smania di sentirsi moralmente migliori di tutti.
Il vecchio vizio della sinistra, che ora si
riflette puntualmente nei cattolici di sinistra: i primi della classe quando si
tratta di fare agli altri la morale, e i primi a odiare quando s’imbattono non
in qualche non cattolico, o in qualche anticattolico, ma in qualche cattolico
che non vede le cose come le vedono loro. Buonissimi odiatori, ma nello stesso
tempo infaticabili predicatori di pace, armonia, solidarietà, inclusione,
tolleranza, apertura: ingegneri che sanno gettare sempre ponti dappertutto, e
abbattere muri ovunque ne scorgano, ma solo a parole, perché, nei fatti, nessuno è bravo a erigere muri verso i propri
fratelli come lo sono essi.
La loro mentalità si riassume nel gesto di
quel prete che ospita i sedicenti profughi nella sua parrocchia, li porta in
piscina a divertirsi perché d’estate fa tanto caldo, chiude un occhio se
qualcuno di loro se ne va ai giardinetti a spacciare droga ai ragazzi italiani,
e definisce eccessivo il provvedimento del magistrato di trasferirlo altrove; e
appende un cartello sulla porta della sua chiesa con la scritta: Vietato
l’ingresso ai razzisti; tornate a casa vostra!
Così,
non solo proclamano il loro odio per gli italiani che non condividono la loro
idea di “accoglienza”; non solo escludono dalla chiesa, la loro, quei cattolici
che non vedono perché essa debba trasformarsi in una o.n.g. e smettere di
praticare la preghiera e parlare di conversione, di purezza, di grazia e di
peccato, di bene e di male, di inferno e paradiso, ma si prendono anche la
tremenda responsabilità di insegnare agli stranieri il grande segreto, che da
sempre ha messo l’Italia alla mercé di chi ha voluto prendersela: che nessuno
sa odiare il proprio vicino, il proprio collega, il proprio compaesano, come
sanno odiare gli italiani.
E
quando quello stesso prete scrive, indicando i suoi ospiti africani: Questa è
la mia patria, il messaggio che fa passare verso di loro è micidiale: io non ha
patria, sono pronto a rompere ogni relazione con i miei connazionali che
esprimano anche solo qualche perplessità sull’invasione mascherata che la
neo-chiesa bergogliana, sostenuta dai poteri forti della finanza e dalla solita
magistratura di sinistra (che non esita a porre un ministro sotto inchiesta per
aver difeso i confini dello Stato), sta portando avanti; la mia patria siete
voi: porte aperte a chiunque venga da fuori, che sia bisognoso o che faccia
finta di esserlo, e anche ai genitori, ai fratelli, ai parenti che vogliono
venire, per “ricongiungersi”, in realtà per curarsi i denti, il fegato, lo
stomaco, il cuore a spese della sanità italiana, trovare una casa a carico
dell’amministrazione pubblica italiana, mandare i figli a scuola a cura dell’istruzione pubblica italiana (con
buona pace di Boeri per il quale ci vogliono sempre più immigrati se si vuol
riuscire a pagare la pensione agli italiani).
Il messaggio dunque, è del tutto analogo a
quello dei vecchi marxisti duri e puri: noi non abbiamo patria, dicono i preti
di sinistra e i vescovi di strada; la nostra patria sono i “poveri”, è il
“popolo”; e i nostri nemici sono quelli che, in ogni luogo del mondo, si
oppongono alla rivoluzione. Infatti, costoro non sono che dei marxisti
travestiti. E non sono nemmeno cattolici, sia pure per finta, ma sono luterani
e se ne vantano: evviva i cinquecento anni dalla riforma di Lutero, dicono Bergoglio
e Galantino; evviva Lutero che ci è stato mandato dallo Spirito Santo! Uniscono
il pessimismo antropologico di Lutero, il libero arbitrio non esiste e l’umanità è una massa dannata,
con la soteriologia marxista: proletari di tutto il mondo, unitevi: la vostra
vittoria è scritta nel libro del destino!
Un bel
cocktail d’inferno, che non vorremmo bere neanche se fosse l’ultima bevanda
esistente al mondo e la nostra gola ardesse di sete. Le più brutte ideologie
della modernità, anzi, i loro peggiori cascami, i veleni e i liquami che si
spandono fuori dai loro cadaveri, le ideologie fallite, morte e sepolte, che
tornano a inebriare gli ultimi moicani inebriati dal fetore di putrefazione
delle loro carcasse: questo è che ciò che ribolle nell’animo degli ultimi
antifascisti, dei vescovi di strada e dei neo-preti inclusivi, accoglienti,
progressisti, buonisti e neo-modernisti.
Se
sapessero come sono brutti, come sono ridicoli, come sono sconci; se potessero
vedersi dal di fuori, e Dio regalasse loro, per non più di cinque minuti (oltre
non reggerebbero) il dono di vedere le cose non come hanno fatto finora, con il
paraocchi della loro balorda ideologia, ma come esse sono veramente, nei loro
colori reali, nei loro autentici odori. Avrebbero orrore di se stessi; capirebbero,
in un attimo, di non essere altro che dei mangiatori di cadaveri, dei parassiti
sociali che non hanno nulla da fare in mezzo ai loro simili.
(Il
cartello del "prete". Sono "buonissimi odiatori", ma nello
stesso tempo infaticabili predicatori di pace, armonia, solidarietà,
inclusione, tolleranza.)
Stando
al racconto che stanno facendo i mezzi d’informazione, tutti a libro paga dei
poteri finanziari mondialisti, oggi in Italia si confrontano due partiti, due
schieramenti: i liberisti e i sovranisti (o populisti, o razzisti, o fascisti,
o nazisti), come ci hanno mostrato anche nei oro servizi da Rocca di Papa.
Vogliono farci credere che l’Italia è spaccata
a metà, e che i sostenitori dell’una parte si confrontano, più o meno sullo
stesso terreno, con quelli dell’altra, anche se lasciano trasparire senza tanti
complessi che gli uni rappresentano il Bene, la virtù, il rispetto dei trattati
europei (ma da quando, per la sinistra, l’Europa è diventata una virtù, come lo
sono diventati, del resto, gli Stati Uniti, il capitalismo, lo stato d’Israele?
non l’abbiano capito; ci deve essere sfuggito qualcosa); gli altri
rappresentano il Male, l’egoismo, il filo spinato sui confini, le navi
umanitarie rimandate indietro, l’assurda pretesa delle plebi di ripristinare la
sovranità monetaria, per rientrare in effettivo possesso dei loro risparmi,
che, altrimenti, sono diventati di proprietà delle banche d’affari. In altre
parole: l’Antifascismo e il Fascismo.
Come
un tempo c’erano i guelfi e i ghibellini, poi i guelfi bianchi e i guelfi neri;
poi i filo-francesi e gli austriacanti; poi, come diceva Leopardi, sulla scia
della Batracomiomachia di Omero, le rane e i topi, così oggi ci sono gli
antifascisti, sol dell’avvenire, e i fascisti, incubo del passato. Solo che non
è così, e questa descrizione di quel che sta accadendo oggi in Italia, è
semplicemente ridicola.
Del testo, onestamente, come si fa a sostenere
che Calenda, Benetton, De Benedetti, Soros e la cricca di Bruxelles sono
progressisti, e stanno alla parte dei lavoratori?
Ci vuole una bella faccia tosta; se qualcuno
ci riesce, complimenti. Così come ci vuole uno stomaco molto forte per reggere
il patto del Nazareno e stare a guardare Renzi che, pur di far cadere il
governo giallo-verde, si mette d’accordo con Berlusconi, e infatti il tono dei
tre canali televisivi di Mediaset, quando si parla di migranti, di accoglienza,
ma anche di animalismo e unioni gay, è esattamente lo stesso del tono di Rai
Tre, quella comunista.
Del
resto, lo pensano e lo dicono: il loro mondo, è il Mondo Migliore. Dunque,
anch’essi, che ci abitano, sono i migliori: i migliori abitanti del migliore
dei mondi possibili. Il mondo che ha scoperto, sia pure con 50 anni di ritardo,
che Lutero aveva ragione (e infatti Pasolini scriveva le Lettere luterane nel
1975: quasi cinquant’anni fa). Dove stanno loro, noi comuni mortali non
possiamo arrivare: essi stanno nell’Amore, noi nel rancore; essi stanno nel
perdono, noi nella vendicatività; essi nel progresso, noi nell’immobilismo;
essi nella luce, noi nel brago della palude. Amen.
Dicevamo
che la narrazione dei media è completamente falsificata. A cominciare dai
rapporti di forza: non è vero che l’Italia è spaccata a metà, anche se così
vogliono far credere. È spaccata fra una netta maggioranza, che non vuole più
nemmeno sentir parlare di “accoglienza”, perché ha compreso che si tratta di
invasione, addirittura di auto-invasione, di islamizzazione e di sostituzione
della popolazione italiana con popolazioni africane e asiatiche, e una sparuta
minoranza.
Inoltre, mentre la maggioranza riflette il
sentire di quasi tutto il popolo italiano, perché anche chi non va a
manifestare è ormai convinto che bisogna dire ”no” ad ulteriori arrivi di
stranieri, il sentire della minoranza riflette solo gli interessi della élite
finanziaria e industriale da un lato, che gli arrivi li vuole per abbassare
sempre più il costo del lavoro, e dall’altro i cascami della cultura libertaria
sessantottesca: proibito proibire, la bellezza è nella strada, eccetera.
Sono
gli ultimi nipotini di Capanna, di don Milani e di Basaglia: quelli che stanno,
per principio, dalla parte dei più deboli, ma sono talmente presbiti da non
vedere i più deboli, e da scambiar per tali quelli che gridano più forte. I più
deboli, oggi, sono gli italiani delle fasce sociali più basse, che non hanno
speranza di trovare un lavoro e che sono costretti a vivere in periferie sempre
più degradate (ma ormai anche i centri storici lo sono), fra prostitute e
spacciatori, ladri e rapinatori d’ogni risma e d’ogni razza.
Che
per andare al lavoro, per andare in posta, per andare a ritirare la pensione o
per andare a prendere il treno, devono attraversare una terra di nessuno dove
la legge non esiste più, le forze dell’ordine non si fanno vedere, e
spadroneggiano delinquenti africani, asiatici e sudamericani, che si aggiungono
ai piccoli delinquenti, sbandati e problematici nostrani. Perché è indubbio che
il disordine sociale in cui viviamo alimenta le patologie da rifiuto, da
ribellione o da autismo; aumenta, cioè, in maniera esponenziale, il numero
delle persone che non riescono più ad adattarsi, a tenere il passo, a far buon
viso a cattivo gioco. E aumenta,
attualmente, il numero delle patologie depressive, delle malattie
psicosomatiche, dei suicidi. I progressisti al caviale, le magliette rosse con
il Rolex, gli scrittori di sinistra che vivono con la scorta, ma anche con
l’attico a New York, non ne sanno assolutamente nulla.
Quando
hanno finito il loro show davanti alla nave “sequestrata” dal ministro brutto e
cattivo, o davanti al centro di accoglienza dove arrivano i cosiddetti
migranti, e se ne tornano a casa, a convivere con le situazioni impossibili, a
doversi barricare in casa, ad aprire le saracinesche del negozio con il
batticuore, dopo aver già subito tre, quattro, cinque rapine, sono gli italiani
che vivono sul posto, non quelli col Rolex e l’attico, magari con due o tre
attici, uno a Milano, un altro a Londra, più quello di New York.
La
signora Boldrini, il segretario Martina, i Gad Lerner e i Roberto Saviano,
stranissimi alleati di preti come don Ciotti o padre Zanotelli, gli immigrati
li vedono solo quando vanno alle loro manifestazioni; per il resto, non sanno
che voglia dire dover convivere con essi nei quartieri sempre più sporchi,
insicuri e turbolenti.
Altro
che maturità democratica il livello della dialettica ideologica in Italia è
infimo e la narrazione dei media è completamente falsificata.
Il
problema è tutto qui. C’è un Italia che riversa il suo amore filantropico su
tutti, tranne che sui propri connazionali, e c’è una chiesa che vuole accogliere
e includere tutti, tranne i suoi fedeli; a domanda, non risponde, come il
signore argentino non ha risposto a quella giornalista che gli poneva la
domanda secca, se il memoriale Viganò dice il vero o no.
Questa
Italia è formata dall’1% della popolazione, ma ha dalla sua tutti i mass media,
tutti i magistrati e tutti gli intellettuali di peso, o quasi. E c’è l’altra Italia, quella della
gente comune, che viene costretta subire una politica antinazionale, suicida,
devastante, e che, per soprammercato, viene quotidianamente rimproverata,
insultati e accusata di esser razzista e populista. Strane accuse, specialmente
da quelle bocche. Le quali bocche non parlano più dell’imperialismo yankee, né
si lamentano dei crimini del sionismo, non denunciano più le malefatte dei
capitalisti, anzi: difendono i Benetton e la Società Autostrade, amano Soros,
vanno d’accordo perfino con Macron. Se l’Italia minoritaria vorrà di proseguire
su questa strada, imponendo alla stragrande maggioranza un destino che essa non
accetta, si andrà alla guerra civile. È questo che vogliono i signori del
Palazzo e i loro utili idioti che pontificano sempre?
( 30
Agosto 2018-Francesco Lamendola).
Per un
governo mondiale.
Ilbolive.unipd.it-
Pietro Greco -Vittorio Possenti- (30 aprile 2020)- ci dicono:
In
termini ambientali, Johan Rockström e lo Stockholm Resilience Centre ne hanno
individuati ben nove di problemi planetari.
In
realtà lo scienziato svedese e il suo centro parlano di planetary boundaries,
di confini o, se volete, di soglie da non superare (alcune sono già state
superate): ma tant’è sono emergenze che coinvolgono il mondo intero e che
pretendono una soluzione se non unica, almeno coordinata.
Sull’esempio, per intenderci, di quel
Protocollo di Montreal che ha messo al bando in tutto il mondo, sia pure in
maniera articolata nei modi e nel tempo, le sostanze che aggrediscono l’ozono
stratosferico. Non esiste nulla di simile per gli altri planetary boundaries.
Ma di
problemi planetari – ce ne stiamo accorgendo in queste settimana – ve ne sono
anche di natura sanitaria. Le pandemie, per definizione, interessano il mondo intero e
non conoscono confini, mentre pretendono soluzioni, ancora una volta, unitarie
e coordinate. Mentre a ogni livello – locale, nazionale, continentale, globale –
assistiamo a una frammentazione spinta all’insegna dell’”ognuno per sé e Dio
per tutti”.
E che
dire, poi, del ritorno al riarmo, compreso quello nucleare, che negli ultimi
trent’anni ha bruciato il “dividendo della pace” che qualcuno voleva
distribuire ai cittadini di tutto il mondo subito dopo il crollo dell’Unione
Sovietica e la possibilità di creare quella che Immanuel Kant chiamava la “pace
perpetua”, grazie a un governo mondiale capace di assicurare non la mancanza di
conflitti (che i conflitti sono il sale della dinamica sociale), ma di
conflitti armati almeno a livello delle nazioni?
Già,
il governo mondiale.
Il solo accennarne appare come una fuga
utopistica dalla realtà. Secondo alcuni, addirittura la proposizione un incubo:
una sorta
di grande e corrotta e inefficiente dittatura planetaria.
Eppure negli ultimi giorni almeno quattro
intellettuali italiani hanno ripreso il tema su grandi giornali generalisti. Il primo è stato, a quanto ci
risulta, il costituzionalista nonché ex ministro Sabino Cassese, che su La
lettura, inserto culturale de Il Corriere della Sera, ha ricordato la figura di
un giornalista italiano, Giuseppe Antonio Borgese, che tra il 1945 e il 1947 si
è posto alla testa di un gruppo internazionale costituito da sei docenti
dell’Università di Chicago, tre delle università di Stanford, Cornell e
Harvard, uno di Oxford e uno di Toronto e, sulla base di approfondite
discussioni, ha personalmente redatto una “costituzione mondiale”, prevedendo
tutte le articolazioni di una democrazia formale compiuta: un governo, appunto;
un parlamento rappresentativo dell’intera popolazione del pianeta.
Appare
sempre più necessario lavorare a istituzioni globali di garanzia su ambiti
vitali come ambiente, istruzione, armamenti, diritti sociali, lotta alle
diseguaglianze.
Vittorio
Possenti.
Il
tema è stato ripreso, poi, su L’Avvenire, da Vittorio Possenti, già docente di
filosofia politica presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Il cui articolo,
a commento dell’intervento di Cassese, inizia così: «Appare sempre più necessario
lavorare a istituzioni globali di garanzia su ambiti vitali come ambiente,
istruzione, armamenti, diritti sociali, lotta alle diseguaglianze».
Ancora,
con una conversazione pubblicata di nuovo su La lettura e intitolata,
esplicitamente, Per un governo del mondo, sono intervenuti Maurizio Ferrera, docente di Scienza
politica presso l’Università degli Studi di Milano, e Vinod Aggarwal, che
insegna Scienza politica presso l’Università di California a Berkeley.
Dunque
non è da ingenui parlarne, del governo mondiale, in un momento in cui sembra
dominante il pensiero sovranista: prima gli americani, prima gli italiani,
prima i russi, prima i cinesi.
Sono
le “emergenze planetarie”, come le chiama il fisico Antonino Zichichi, a
imporre un pensiero centripeta mentre le nazioni del pianeta Terra corrono via
l’una dall’altra come schegge di materia dopo il Big Bang. Sono i fatti tangibili che
interessano il pianeta intero – l’ambiente, la salute, la pace, le
disuguaglianze, i diritti umani – a chiedere con forza un intervento unitario e
coordinato tra gli stati e i popoli.
Il
virus SARS-CoV-2 si è diffuso in tutto il mondo contagiando milioni di persone
e uccidendone alcune centinaia di migliaia anche perché il mondo non lo ha
fronteggiato in maniera unitaria, leale e coordinata. Ognuno è andato per sé,
anche nella stessa Unione Europea, è il virus sta punendo tutti. Anzi, nel pieno della lotta, si è
tentato di svuotare di ogni funzione anche l’unico, timidissimo embrione di
governo mondiale della salute, l’Organizzazione Mondiale di Sanità.
Lo
stesso vale per altri embrioni di governo mondiale: come la Convenzione delle Nazioni Unite
sui Cambiamenti Climatici nell’ambito della quale non si riesce a ottenere un
consenso globale per contenere l’aumento della temperatura media del pianeta
entro gli 1,5 °C o, almeno, entro i 2 °C, come sostengono gli scienziati se si
vuole evitare un’evoluzione catastrofica del clima globale.
Mentre
da decenni non fa un passo avanti verso il totale disarmo il TNP, il Trattato
di non proliferazione nucleare che si regge su una pericolosa asimmetria:
distinguendo tra chi ha ufficialmente l’atomica (USA, Russia, Cina, Regno Unito
e Francia) e tutti gli altri paesi firmatari.
Questi ultimi, tutto sommato, stanno rispettando
l’obbligo a non dotarsi dell’arma, mentre i cinque detentori, che pure si sono
impegnati a disfarsene in tempi ragionevoli, pensano a tutt’altro. Altri tre
paesi non firmatari – India, Pakistan e Israele – non hanno firmato il TNP, non
per questo non costituiscono un problema.
Per
tutti questi problemi gli esperti del Bulletin of the Atomic Scientists hanno portato le lancette del Doomsday Clock ad appena 100 secondi dalla
mezzanotte. Ovvero dalla catastrofe globale. Forse sono troppo pessimisti,
questi scienziati: ma le emergenze planetaria che essi indicano reali, concrete,
immanenti e per molti versi imminenti.
La
soluzione è, dunque, nel governo mondiale? E se sì, che razza di governo
dovrebbe essere, il “governo di tutto il mondo”?
L’idea
ha patri nobili e antichi. Pare che risalga già ai Romani. E ha avuto
nobilissimi sostenitori. Ne citiamo tre, tutti tedeschi, oltre al già ricordato
Giuseppe Antonio Borgese e agli accademici, quasi tutti americani, con cui ha
collaborato: Immanuel Kant, Albert Einstein e papa Benedetto XVI (al secolo,
Joseph Aloisius Ratzinger).
Si
tratta di persone certamente influenti, ma per cultura e formazione molto
diversi tra loro: un filosofo, un fisico, un religioso. Per non fargli torto,
dovremmo aggiungere anche l’attuale papa, Francesco (al secolo Jorge Mario
Bergoglio), ma rischieremmo di rompere la simmetria disciplinare. O ricordare
Jean-Jacques Rousseau, l’Abate si Saint-Pierre, Altiero Spinelli o ancora Aldo
Capitini, ma vale la motivazione di cui prima.
Un
governo mondiale è l’idea che ha attraversato e attraversa la mente di grandi
personalità della cultura.
Dunque,
Immanuel Kant. Nel 1795 scrive un libro Zum ewigen Frieden. Ein
philosophischer Entwurf, ovvero La pace perpetua, in cui riflette sul modo in cui
raggiungere questa auspicata condizione. Il grande filosofo di Königsberg per
la verità non parla in termini stretti di un governo a scala planetaria, ma
piuttosto di leali accordi di pace di tutti i paesi con tutti gli altri che non
possono essere violati. Kant propone anche il graduale, ma veloce scioglimento degli
eserciti permanenti.
Un’idea
che viene ripresa già nella prima parte del Novecento da Albert Einstein (non a
caso, perché il fisico ha letto già da giovanissimo Kant) che fonda il suo
pacifismo militante su due presupposti: lo scioglimento degli eserciti che
invito ai giovani a rifiutare la leva e la formazione, appunto, di un governo
mondiale.
Quanto
a Benedetto XVI, ecco cosa scrive nell’enciclica Caritas in veritate del 2009,
così come ce la ricorda Vittorio Possenti: «Urge la presenza di una vera Autorità
politica mondiale, quale è stata già tratteggiata dal mio Predecessore, il
Beato Giovanni XXIII. Una simile Autorità dovrà essere regolata dal diritto,
attenersi in modo coerente ai principi di sussidiarietà e di solidarietà,
essere ordinata alla realizzazione del bene comune, impegnarsi nella
realizzazione di un autentico sviluppo umano integrale ispirato ai valori della
carità nella verità. Tale Autorità inoltre dovrà essere da tutti riconosciuta,
godere di potere effettivo per garantire a ciascuno la sicurezza, l’osservanza
della giustizia, il rispetto dei diritti». Già, ci eravamo dimenticati di
Giovanni XXIII, il “papa buono”.
Un
governo mondiale, dunque, è l’idea che ha attraversato e attraversa la mente di
grandi personalità della cultura. Non può essere un’idea ingenua, frutto di un idealismo
staccato dalla realtà: perché ingenui non erano e non sono tutte le persone citate.
D’altra
parte l’idea del governo mondiale, come ricorda Danilo Zolo, che ha insegnato
filosofia e sociologia del diritto presso l’Università di Firenze, in un libro
pubblicato nel 1995, Cosmopolis. Zolo, che era stato allievo di Giorgio La Pira, criticava
per la verità l’idea del governo mondiale. Però di questa idea ha ricostruito
la storia tangibile.
La
nascita degli stati moderni con l’affermazione della loro totale indipendenza –
allora dalla Chiesa e dall’Impero – è tutta europea e risale alla pace di
Westfalia del 1648 con cui viene posto termine alla disastrosa “guerra dei
trent’anni” (che si accompagnò, vale la pena ricordarlo, a una serie di
epidemie, tra cui quella di peste a Milano del 1630 così ben descritta da
Alessandro Manzoni).
La
pace tra i popoli europei nelle intenzioni dei convenuti a Westfalia e, poi,
nella prassi dei decenni e secoli successivi fu mantenuta dall’equilibrio,
altamente instabile, di potenza.
Lo stesso che – come equilibrio del terrore –
ha impedito una guerra nucleare tra USA e URSS negli anni della guerra che per
forza di cose era “fredda”.
L’equilibrio
nella seconda parte del Novecento – e per certi versi anche ora – si reggeva
sulla cosiddetta MAD, mutual assured destruction, la certezza della reciproca
distruzione che una guerra nucleare totale non avrebbe avuto alcun vincitore.
Tutti avrebbero perso. La stessa civiltà umana
avrebbe subito un colpo mortale. L’equilibrio di potenza era (ed è) un più che
mai instabile “equilibrio del terrore”.
L’instabilità
dell’”equilibrio di potenza” era presente alla mente di molti anche prima di
Westfalia. Basti citare Dante Alighieri (tra XIII e XIV secolo) o Carlo V (nel
XVI secolo) che hanno preconizzato, in forme diverse, l’idea di una monarchie
universelle, su cui hanno scritto filosofi di assoluto valore, come David Hume
e come Charles-Louis de Secondat, barone di La Brède e di Montesquieu, autore
nel 1734 di un trattato, appunto su La Monarchie universelle. Al grande
filosofo politico francese l’idea di un governo mondiale (la monarchia
universale) proprio non piaceva.
Tuttavia,
ci sono stati, negli ultimi due secoli, almeno tre tentativi di fondare una
pace più stabile e meglio regolata. Tre tentativi di fondare un timido “governo
mondiale”. Il primo risale al 1815 quando le potenze che hanno sconfitto
Napoleone Bonaparte – e, segnatamente, Austria, Gran Bretagna, Prussia e Russia
– danno vita alla Santa Alleanza: «Per il bene del mondo – si legge in un
documento fondativo della Santa Alleanza – [le potenze vincitrici si impegnano
a] prendere le misure più salutari per la tranquillità e la prosperità dei
popoli e per il mantenimento della pace tra gli Stati». Tutto questo sarebbe
avvenuto mediante periodici incontri tra i rappresentanti di questa sorta di
federazione. Alla Santa Alleanza aderiscono un po’ tutte le potenze europee
minori, tranne lo Stato pontificio e, in Turchia, il Sultano. Come rileva
Danilo Zolo, per la prima volta nella storia europea e mondiale si afferma e si
esperisce il principio di una pacifica federazione internazionale, aperta a
tutti gli stati, anche se guidata dal direttorio delle quattro potenze
vincitrici.
La
Santa Alleanza raggiunse anche obiettivi rimarchevoli, come l’abolizione della
schiavitù. Ma l’equilibrio era appunto troppo instabile e nell’arco di un
decennio venne a termine.
La
stessa esigenza di evitare il caos e l’anarchia sulla scena internazionale che
aveva generato la Prima guerra mondiale e causato quasi venti milioni di morti
portò alla costituzione, nel 1920, della Società delle Nazioni a opera di
Francia, Gran Bretagna, Italia e Giappone e su ispirazione del presidente
americano Woodrow Wilson (che per questo ottenne il premio Nobel per la pace
già nel 1919). Sulla carta la Società delle Nazioni costituiva un “governo mondiale”
piuttosto spinto e articolato, con un’Assemblea, il parlamento mondiale
costituito dai rappresentanti di tutti gli stati membri; un Consiglio, una
sorta di potere esecutivo costituito dai rappresentanti di alcuni stati membri
permanenti e da altri nominati dall’Assemblea; un Segretariato permanente e
anche una Corte di Giustizia.
La
storia della Società delle Nazioni ci offre almeno due insegnamenti: ogni idea
del “governo mondiale” non può fondarsi sul dominio di pochi, né sul progetto
di mantenere lo status quo congelando ogni conflitto.
La
Società delle Nazioni è l’istituzione più vicina al “governo mondiale” che sia
mai stata realizzata. Ma nel mezzo secolo successivo mostrò tutti i suoi limiti
perché, come sottolinea Danilo Zolo, aveva una visione troppo centralistica e
dunque sembrava designata a mantenere lo status quo. Progetto soprattutto di
marca francese che non teneva conto delle enormi asimmetrie create nei
confronti delle potenze sconfitte (la Germania) e anche di quelle nascenti
(l’Unione Sovietica).
La
storia della Società delle Nazioni ci offre almeno due insegnamenti: ogni idea del “governo mondiale” non
può fondarsi sul dominio di pochi (le potenze vincitrici di una guerra) né sul
progetto di mantenere lo status quo congelando ogni conflitto.
Il
“governo mondiale” deve limitarsi (si fa per dire) a far sì che i conflitti si
risolvano in guerre guerreggiate e alla ricerca di soluzioni concordate ad
alcuni problemi di carattere universale. Un esempio di successo è la Terza
Convenzione di Ginevra del 1925, firmata da sedici stati, con cui si vieta
l’uso anche in guerra di armi chimiche.
Ma per
i suoi difetti intrinseci (compresa la mancanza del monopolio della forza) la
Società delle Nazioni non riuscì a impedire il proseguimento della “lunga
guerra civile” scoppiata in Europa nel 1914 e che si concluderà solo con la
sconfitta del nazifascismo nel 1945.
Già,
il 1945. Il 26 giugno di quell’anno in cui viene a termine la Seconda guerra
mondiale vengono tenute a battesimo le Nazioni Unite. Con gli stessi limiti
(anzi, con alcuni aggiuntivi) della Società delle Nazioni. Il potere di veto
che hanno di fatto le cinque potenze vincitrici (considerate più uguali degli
altri) nel Consiglio di Sicurezza ha avuto e ha tuttora un effetto
paralizzante. Nonostante le Nazioni Unite, la pace mondiale nel dopoguerra è
stata mantenuta dall’”equilibrio del terrore”. E quando l’URSS è finita, al dominio
dei due blocchi si è sostituita una frammentazione difficile da governare. In
ogni caso negli ultimi 75 anni non sono mancate guerre definite locali e anche
guerre combattute nel nome delle Nazioni Unite (in Corea, in Irak, per esempio)
ma dalla incerta legittimazione etica.
Le
Nazioni Unite non rappresentano certo un modello ideale di “governo mondiale”. Tuttavia sarebbe un errore
considerare la loro esistenza come irrilevante se non addirittura dannosa.
Esempi positivi della presenza, non facilmente sostituibile delle Nazioni
Unite, ne troviamo in molti campi: per esempio l’approvazione, il 10 dicembre 1948, della
Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo.
Le
Nazioni Unite non rappresentano certo un modello ideale di “governo mondiale”.
Tuttavia sarebbe un errore considerare la loro esistenza come irrilevante se
non addirittura dannosa.
Ma
anche nei tre ambiti che abbiamo indicato all’inizio la presenza delle Nazioni
Unite si è rivelata preziosa: la salute, l’ambiente, le armi nucleari. Nel
primo caso ricordiamo l’Organizzazione Mondiale di Sanità (OMS) – un piccolo
governo mondiale della salute fondato in ambito ONU il 22 luglio 1946 ed
entrata in funzione due anni dopo. Nel caso dell’ambiente ricordiamo, oltre al
Protocollo di Montreal per l’ozono, le Convenzioni sui Cambiamenti del Clima e
sulla Biodiversità approvate a Rio de Janeiro nel 1992 (oltre a una serie
sterminata di altri trattati di cui non sempre abbiamo contezza). Per quanto
riguarda la pace al tempo delle armi nucleari, ricordiamo il TNP, il Trattato
di Non Proliferazione Nucleare, approvato dall'Assemblea generale dell'ONU il
primo luglio 1968.
L’OMS,
le Convenzioni sul clima e la biodiversità, il TNP sono esempi di un “governo
mondiale” limitato ad alcuni settori ben definiti.
Certo,
nessuna di queste iniziative è stata decisiva. Oggi la pandemia COVID-2019 si
diffonde nel mondo con gli stati che non seguono le direttive dell’OMS ma
reagiscono ognuno per sé (con evidenti disastri). Oggi si stenta ad applicare
le indicazioni drammatiche proposte dagli scienziati in sede di Convenzioni sul
clima e sulla biodiversità. Quanto al Trattato di Non Proliferazione è in una
condizione di congelamento di una condizione asimmetrica che non sta impedendo
neppure una nuova corsa al riarmo.
E
tuttavia proviamo a immaginare come sarebbe il mondo senza le Nazioni Unite. Un
mondo in cui esisterebbero 200 sistemi sanitari diversi tra loro, senza
programmi per esempio di vaccinazione universale (sarebbe mai stato eradicato
il vaiolo in un sistema diverso dalle Nazioni Unite?); un mondo che neppure si
accorgerebbe delle emergenze cambiamenti climatici ed erosione della
biodiversità; un mondo in cui ogni paese si sentirebbe libero di dotarsi di un
arsenale nucleare.
Ha,
dunque, più che mai ragione Vittorio Possenti: «Appare sempre più necessario
lavorare a istituzioni globali di garanzia su ambiti vitali come ambiente,
istruzione, armamenti, diritti sociali, lotta alle diseguaglianze». Non vogliamo chiamarlo governo,
utilizziamo un termine inglese che sembra più alla moda: governance.
Appare
sempre più necessario lavorare a istituzioni globali di garanzia su ambiti
vitali come ambiente, istruzione, armamenti, diritti sociali, lotta alle
diseguaglianze.
Vittorio
Possenti.
Ce lo
insegna in questi giorni la pandemia: la mancanza di una governance
sufficientemente forte, con un certo potere decisionale, si risolve in un danno
per tutti i popoli e per tutti i cittadini del mondo. Riformiamo pure l’OMS, ma
nel senso di rafforzarla, non demolirla. Riformiamo pure la diplomazia
ecologica, me nel senso di avere un governo mondiale del clima e della
biodiversità e degli altri sette “confini planetari”. Riformiamo pure il TNP,
ma nel senso di rafforzarlo per arrivare in tempi certi al disarmo nucleare
totale.
Certo,
dobbiamo fare tutto questo conservando la democrazia. Rafforzando la democrazia come bene
universale.
Non è semplice in un mondo in cui le dittature e le democrature (le democrazie
autoritarie) sembrano ritornare e persino avere, su certuni, un certo appeal. Non è semplice se il sovranismo e il
nazionalismo tornano a essere coltivati da grandi masse.
Ma a
un “governo mondiale” o, se volete, a una governance globale, sia pure
ristretta a pochi, grandissimi problemi, è necessaria. Possiamo aderire alla
proposta centralistica di Giuseppe Antonio Borgese oppure a una proposta con
istituzioni molto più leggere, ma non possiamo sfuggire il problema: il mondo ha problemi globali, che
interessano tutti i cittadini del pianeta e, quindi, ha bisogno di un “governo
Mondiale”.
Utopia?
Forse.
Ma è grazie alle utopie di persone come Kant, Einstein, Spinelli che alcuni
tratti, magari piccoli e tortuosi, li abbiamo fatti per uscire dal caos
ingovernabile dell’”ognuno per sé” che porta a quel Bellum omnium contra omnes,
quella guerra di tutti contro tutti di cui parlava nel Seicento Thomas Hobbes.
E che indebolisce non solo l’umanità con i suoi conflitti interni, ma anche
l’umanità rispetto ai pericoli esterni, siano essi il clima o un virus.
Granato
Horror Show: “Draghi dittatore,
Putin
argine contro
il Nuovo Ordine Mondiale:
combatte
per noi”.
Ilriformista.it-
Antonio Lamorte -( 23 Marzo 2022)- ci dice :
Granato
Horror Show: “Draghi dittatore, Putin argine contro il Nuovo Ordine Mondiale:
combatte per noi”.
Le
teorie della senatrice : dall'agenda globalista alla dittatura sanitaria.
Bianca
Laura Granato aveva “un impegno sul territorio, mica lo rimando per un
intervento da remoto senza contraddittorio”.
L’intervento
senza contraddittorio, violatore della par condicio, sbilanciato e fazioso, era
quello del Presidente
dell’Ucraina Volodymyr Zelensky, del Paese oggi al 28esimo giorno di guerra dopo
l’invasione scatenata dal Presidente della Russia Vladimir Putin lo scorso 24
febbraio come un’“operazione speciale” per denazificare il Paese.
Delle
sue posizioni a favore dell’“agenda” di Putin contro un “nuovo ordine mondiale”
l’onorevole aveva già parlato.
La
senatrice fa parte del Gruppo Misto. È entrata in parlamento con il Movimento 5
Stelle. È un’insegnate. Ha protestato sempre in maniera veemente contro il
Green Pass e ha minacciato a Palazzo Madama che “i crimini contro i No Vax
saranno vendicati”.
È stata censurata dalla Presidenza dell’aula. Le sue riflessioni sull’intervento in
aula di Zelensky, boicottato da diversi parlamentari, sono state riportate da
un’intervista al quotidiano La Stampa.
Le sue parole all’indomani di quelle di Vito
Petrocelli, Presidente della Commissione Esteri in Senato, che ha dichiarato
come non voterà per il decreto Ucraina, contrario all’invio di armi, neanche
più la fiducia all’esecutivo – “Questo governo ha deciso di inviare armi
all’Ucraina in guerra, rendendo di fatto l’Italia un paese co-belligerante” -,
e sollecitato i ministri del M5s a dimettersi – lui invece non ci pensa
proprio.
“Se
uno davvero è sotto le bombe non riesce nemmeno a collegarsi”, ha aggiunto
senza un filo di ironia Granato sull’intervento di Zelensky.
Il
Presidente ucraino sarebbe nel torto perché “ha fatto credere che Putin vuole
espandere il suo dominio oltre l’Ucraina. È inverosimile, mai avuto questo
sentore”. L’Unione Europea invece è telecomandata dagli Stati Uniti, Putin al
contrario “tutela l’integrità e la tradizione di quel mondo. E contrastare
l’agenda globalista che vuole attuare il nuovo ordine mondiale deciso nelle
segrete stanze per renderci schiavi”.
Putinisti
d’Italia, chi sono i parlamentari che daranno fortait a Zelensky in Parlamento:
i casi dei 5 Stelle e dei leghisti.
Il
fascino di Mosca sui grillini: “Alla Camera non solo Zelensky ma anche Putin…”
Entra
in Senato senza Green Pass, la protesta di Laura Granato e la decisione:
“Devono averlo tutti”.
Tutto
si tiene nelle teorie strampalate della senatrice: “C’è un legame. Il modo in cui è stata
affrontata la pandemia fa parte dell’agenda globalista. Il virus, i vaccini che
non sono nemmeno molto efficaci … È questo il modus operandi dell’impero
globale. Putin è un argine geopolitico” e non un dittatore, anche se “il suo è
un modo diverso di governare.
Draghi è un dittatore”. Proprio così, e la
controprova: “Il governo Draghi ha cancellato tutti i diritti basilari. Putin
non mi risulta abbia obbligato nessuno a vaccinarsi, una forma di rispetto che
Draghi non ha avuto”.
Al
canale Telegram “Dentro la notizia”, circa 120mila iscritti, Granato aveva
precedentemente detto – e anche qui senza un filo di ironia -, che: “Penso che Putin stia conducendo
un’importante battaglia non solo per la Russia ma per tutti noi.
Quindi
a lui dico: uniamo le forze. Ritengo che lo stia facendo perché non ha accettato l’agenda
globalista che è stata imposta pure a noi e a tutti gli stati dell’Unione
europea.
Quindi l’appello che mi sento di fargli è di
prendere in mano le redini di questa lotta comune, perché anche noi non
vogliamo stare all’agenda globalista che ci porterà a diventare gli schiavi del
terzo millennio.
E di
trovare una strategia nella quale possiamo entrare tutti, anche noi che
purtroppo siamo governati dalle propaggini di questa élite, che vuole rifilarci
questo nuovo ordine mondiale”.
(Antonio
Lamorte).
Tra
tecnologia e pandemia:
cos’è
il “Nuovo Ordine Mondiale” (NWO)?
Missioneparadiso.it-Miracoli
Anna- (6-5-2020 )-ci dice :
La
storia ci insegna che l'umanità si
evolve in modo significativo solo quando ha davvero paura, affermava Jacques
Attali, economista, saggista e banchiere francese, nella sua rubrica della
rivista L’Express il 3 maggio 2009.
Sempre
Attali, in un’altra intervista, aggiungeva: Una piccola pandemia
permetterà di instaurare un Governo
Mondiale. Affermazione
sostenuta da diverse testate giornalistiche: Coronavirus.
Questo
è il momento di gettare le basi per un
nuovo ordine mondiale sostiene Avvenire;
addirittura il Mattino scrive: nasce un nuovo ordine mondiale sotto il segno
dell’incertezza.
I sostenitori
della “teoria del Nuovo Ordine Mondiale” credono che un gruppo di potere oligarchico e
segreto si
adopererebbe per prendere il controllo di ogni paese del mondo in maniera
totalitaria per ottenere il dominio della Terra.
A capo di tutto vi sarebbe l’anticristo, i cui obiettivi saranno la
creazione di una unica moneta e un’unica religione mondiale, il controllo
mentale, che si otterrebbe mediante il cosiddetto progetto “Monarch”, la tracciabilità di ogni cittadino con microchip, la riduzione
della popolazione mondiale, la creazione di un unico governo mondiale
centralizzato e il controllo climatico. Questo desiderio di controllo ha
origini molto antiche, ma solo adesso la tecnologia alla portata dell’uomo
potrebbe permettere l’attuazione di tutto ciò. Il nostro mondo sembrerebbe
disseminato di simboli che sanciscono il potere massonico, come nel caso del dollaro
statunitense, che raffigura una Piramide con tredici gradini e sopra un occhio; la piramide è un noto simbolo della massoneria, mentre l’occhio
sarebbe il famoso "occhio che tutto vede", rappresentazione figurata
di Lucifero (portatore di luce).
Inoltre, sotto, si legge una celebre frase in
latino "Novus ordo seclorum”, ovvero Nuovo ordine mondiale.
Anche
eminenti uomini politici confermano questo, come possiamo constatare da due
interviste fatte a Giulio Carlo Tremonti, ex Ministro dell’economia, effettuate
nei programmi televisivi Porta a Porta e Piazza pulita. In una disamina sulla
globalizzazione, infatti, ha sostenuto che negli anni '90 a governare era una
setta di pazzi, gli Illuminati, che avrebbero deciso che il mondo doveva
cambiare e che si doveva disegnare un mondo nuovo.
Il
1989, secondo quanto dice Tremonti, rappresenterebbe l’anno zero; l’ anno in cui si unificano le cose
che servono per unificare: in America le ferrovie, in Europa le imposte sul valore
aggiunto hanno unificato la Germania, unificheranno la moneta, unificheranno la
vita degli altri.
Gli
Illuminati (conosciuti anche come gli Illuminati di Baviera o più precisamente
l'Ordine degli Illuminati) sono stati una società segreta nata in Baviera nel XVIII secolo.
Società che venne fondata in Germania
nel 1776 come alternativa alla massoneria e ne assunse una struttura analoga.
All’inizio i membri erano solo studenti universitari e il fondatore stesso era
professore di giurisprudenza. L’organizzazione della setta era simile a quella
massonica, aveva struttura piramidale e diversi gradi di iniziazione. Il
passaggio a un grado superiore richiedeva alcune prove che gli adepti dovevano
superare. Pian
piano stabilirono il loro obiettivo: creare un unico governo mondiale e un
Nuovo Ordine Mondiale (NWO), con a capo loro stessi per sottomettere il mondo e
la popolazione intera.
Alla
realizzazione di tale progetto prenderebbero parte anche l'ONU, il gruppo
Bilderberg e di Davos ( Klaus Schwab), gli Stati Uniti d'America, ma anche
molte famiglie potenti e influenti, quali i Rothschild, i Rockefeller, la JP
Morgan, la famiglia Du Pont, la famiglia Bush, il casato Windsor, così come i
monarchi europei, il Vaticano, e note organizzazioni internazionali quali la
Banca Mondiale, l'FMI (Fondo monetario internazionale), l'Unione europea, le
Nazioni Unite e la Nato .
La
pandemia,
quindi, rappresenterebbe un elemento chiave per poter innescare un progetto
simile, facendolo sembrare una soluzione: il celebre psicologo umanista Abraham
Maslow nel suo libro Motivazione e Personalità
sostiene:” I bisogni di sicurezza possono divenire assai urgenti sul piano
sociale, quando esistono reali minacce alla legge, all’ordine, all’ autorità o alla società” .
Ci si può aspettare che la minaccia di caos o
di nichilismo produca in quasi ogni essere umano una regressione dai bisogni più¹
alti ai bisogni più prepotenti di sicurezza. Una reazione comune, che
facilmente ci si può attendere, è la facile accettazione di un governo
dittatoriale o militare.
(Miracoli
Anna).
Cina,
la potenza mondiale
Che si erge
come nuovo modello.
Cosa comporta per il resto del mondo?
Missioneparadiso.it-
Redazione- (5-3-2021)- ci dice :
Un
professore cinese di economia, organico al PCC (Partito Comunista Cinese), ha
dichiarato in una conferenza ufficiale che, per merito delle potenze mondiali,
Trump è
stato messo definitivamente da parte.
Fox
News, canale televisivo statunitense, ha trovato il video e nel commentarlo ha
asserito che la Cina sta orientandosi e proiettandosi sempre più nella
cinesizzazione del mondo.
Infatti,
facendo riferimento alla registrazione, il giornalista americano ha affermato
che molti tra i rappresentanti più influenti degli Stati Uniti d'America
appoggiano con fervore il Paese comunista.
Tra
questi maggior rilievo hanno rivestito
figure di spicco quali Obama, Biden e suo figlio, membri dell’ élite
tradizionale e politica vicina a Wall Street, che ha un ruolo decisivo nelle
dinamiche internazionali.
Sono
pochi, infatti, a governare davvero il mondo e ad avere un'influenza tale da
poterlo modificare a loro piacimento.
Le
dinamiche del Great Reset di Klaus Schwab stanno prendendo forma velocemente in
seguito a situazioni e circostanze ad esso favorevole e tutto sembra confluire
verso un obiettivo comune: creare un'unica mentalità .
Il
modello del Paese comunista rispecchia alla perfezione i propositi del Nuovo
Ordine Mondiale; la cultura, infatti, si incentra su disciplina, ordine e
tecnologia.
Come
abbiamo visto, il governo cinese ha sfruttato l’emergenza sanitaria ricorrendo
a un’operazione di "soft power".
Secondo quanto affermato dallo scienziato
politico Joseph Nye, con questo termine si definisce la capacità di un Paese di influenzare la condotta di
altri non facendo ricorso alla propria autorità
bensì alla propria cultura, promuovendone i valori su scala globale.
Tali iniziative rientrano in una più¹ ampia
strategia mirata ad assicurare alla Cina un ruolo egemonico nel tempo.
Durante il secolo scorso gli Stati Uniti sono
stati in grado di diffondere nel mondo cultura, idee e modelli, arrivando a
quella che sappiamo essere stata l’americanizzazione.
A
oggi, anche se non formalmente, la Cina ha già
superato gli USA in termini economici, tecnologici e di sviluppo.
Il PIL
cinese é altissimo, nonostante nel resto del mondo sia crollato. Inoltre, nel
marzo 2019, l’Italia ha aderito alla Nuova Via della Seta, meglio conosciuta
come “Belt and Road Initiative” (BRI).
Secondo
quanto affermato dalla Banca Mondiale, l’obiettivo della Via della Seta é
migliorare la connettività tra i Paesi
su scala internazionale.
Pechino
mira a creare una rete di canali commerciali con l'apparente scopo di
implementare la cooperazione economica tra i Paesi che hanno aderito
all'iniziativa.
Vi
sono tuttavia diversi settori strategici come porti, tecnologia e
telecomunicazioni che inducono a guardare La Via della Seta sotto un altro
aspetto; questa difatti è stata più volte considerata uno strumento volto a
estendere il controllo cinese, non solo economico ma anche politico, all’estero;
non a caso il progetto in questione è stato definito il gioiello di politica
estera del Presidente cinese Xi Jinping.
Recentemente
la capitale cinese sta lavorando su un altro ambizioso programma che vede il
tramonto del contante in favore del nuovo Yen virtuale.
La Banca del Giappone aveva già dichiarato l'intenzione di sperimentare una
moneta digitale e adesso le autorità di
Tokyo promuovono i pagamenti cash-less ed evidenziano l’aumento di produttività dovuto alla transizione tecnologica.
Nel
tentativo di incentivare l’adozione dei pagamenti con moneta virtuale, più di
30 organizzazioni si sono unite per far sì che tale progetto diventi realtà in tutto in mondo.
Ma la
potenza mondiale cinese cinesizza anche e soprattutto le mentalità . La Cina è perfettamente compatibile
con i progetti della ristretta cerchia di élite e non andrà contro quanto perseguito dal Nuovo Ordine
Mondiale,
altrimenti si ritroverebbe ad affrontare importanti conseguenze; infatti, se si
dovessero bloccare le consistenti esportazioni cinesi all'estero, il Paese crollerebbe.
Inoltre,
il governo cinese ordina l'abolizione delle chiese e controlla il cristianesimo
con l'accusa che la religione possa sviare cittadini.
La fedeltà, infatti, deve andare solo allo
Stato.
E’
proibito parlare del ritorno di Gesù.
I
cristiani vengono reclusi, torturati e arrestati solo perché si incontrano e
pregano. Nonostante le difficoltà, sono circa 80 milioni i cinesi che
professano il cristianesimo e la maggior parte di questi movimenti continua a
crescere.
La Cina, però , sogna di sradicare la
religione; secondo il PCC si deve essere devoti solo al proprio Paese, non c'è
spazio per Dio. Al fine di raggiungere tale scopo, si é deciso di riscrivere la Bibbia. In questo
modo i cittadini vengono "accontentati", messi a bada, dando loro
l'impressione di credere in qualcosa. Nella nuova Bibbia di Stato il
Vangelo viene modificato, Gesù è colui che scaglia la pietra e l'insegnamento
dell'amore viene meno perché stando alla religione del dragone, deve essere
sempre eseguita la pena ed esercitato il controllo delle masse.
Il
governo mondiale persegue degli obiettivi chiari: avere un'unica moneta,
un'unica religione, un unico pensiero, e la dittatura cinese risulta essere il
modello ideale, quello da imitare.
Dove
siamo arrivati.
Gognablog.sherpa-gate.com-
Lorenzo Merlo -(24 Febbraio 2022 )- ci dice :
La
linea è non destinare legittimità e dignità a chi non è allineato.
Ci
provo, ma non ci riesco. Provo a costruire un sistema che produca l’idea
contraria alla mia. È un po’ uno dei miei motivi frequenti al cospetto di ciò
che è diverso o contrario al mio pensiero. Di solito ci riesco. Magari impiego
un po’, ma poi arrivo a percorrere una linea che a mia volta mi permette di
affermare quanto avevo sentito sostenere da altri.
Non è
un appello ad essere empatici o di superficiale valore da sbandierare alla
prima occasione, ma a riconoscere quanto siamo fautori proprio della storia che
vorremmo migliorare. È un esercizio utile. Dare dignità al diverso, dare pari
legittimità, riconoscere la reciprocità delle nostre biografie è un gioco
sostanziale, relativo al tentativo di comprendere le scelte degli uomini, di
qualunque specie esse siano. Adatto a comprendere la verità dell’eterno ritorno. Un
circolo vizioso che fa perno su un punto di facile individuazione: la lettura del mondo secondo
interessi personali.
Per
dare pari dignità al diverso, è necessario astenersi dal farsi prevaricare
dalla propria moralità. È necessario prendere le distanze dal proprio sentimento
separatore. Emettere un giudizio, attribuire perciò delle proprietà a quanto crediamo
di vedere fuori da noi, ritenere perciò ci sia una realtà oggettivabile e
oggettivata è esattamente quanto impedisce la realizzazione del mio intento, la
cui sintesi potrebbe essere che il problema non è se una posizione è giusta o
sbagliata, se un fatto è vero o no, ma in che termini lo è vero e in quali non
lo è.
Tutte
le nostre posizioni sono arbitrarie e fanno capo alla nostra biografia.
Questa
è un deus ex machina che per sua natura sceglie dal volume infinito
dell’ipotetica realtà, dell’iperuranio direbbe Platone, i dati necessari alla
sua sopravvivenza. Li prende, li allinea e ne conclude una certa verità.
E un
procedimento del quale non si ha consapevolezza. Ne deriva un campo con le sue
regole, i suoi limiti e la sua verità. Che guarda a caso ben si addice a
sostenere noi stessi. È una modalità ineludibile, la cui consapevolezza o meno
genera però mondi diversi.
Non si
tratta però di ardire all’astensione del giudizio, quanto piuttosto di non
identificarsi in esso. Tutte le posizioni ci sono già: come sarebbe possibile che la
nostra abbia più ragione d’essere di quella affermata da altri?
Evitare di identificarci con il nostro
giudizio significa non concedere ad esso il diritto di sopraffazione.
Acquisire
le consapevolezze necessarie a riconoscere la centralità egoistica del cosmo,
la sua ermeneutica, la sua episteme, comporta un processo possibile a chiunque
sia motivato a questa ricerca, nonostante il nostro humus culturale non la
agevoli. In ogni caso, per certi aspetti, già lo pratichiamo. In esso risiede
il motivo per cui non ci puniamo, per le nostre mancanze di un tempo. Ne
comprendiamo invece le ragioni e semplicemente ne prendiamo – consciamente o
inconsciamente – le distanze. Come se il nostro io di allora non fosse più
quello di ora. Giustificare ciò che facevamo e credevamo ci è possibile in
quanto ricostruiamo la struttura di circostanze che ci ha condotto a certe scelte.
Nel medesimo modo tendiamo ad accettare i misfatti compiuti da altri. Con
queste modalità possiamo perciò riconoscere come allora e come ora, giocando su
campi differenti ai nostri differenti comportamenti, diamo, nel loro presente,
tutta la dignità e legittimità possibile. E quanto, al momento delle
affermazioni, sempre siamo in grado di difenderle, se necessario fino alla
sopraffazione di chi non la pensa come noi.
Dunque,
è sufficiente cercare nella nostra biografia, e nella relativa autoindulgenza,
per fare esperienza di cosa significhi riconoscere che l’autoreferenziale campo
in cui ci muoviamo non può avere maggior diritto su quelli dei movimenti
altrui; come
sia possibile realizzare la pari dignità tra noi e il prossimo. Se poi si ha l’interesse a
coltivare il tema, si arriva anche a vedere che l’altro da noi non è che un noi
in altro tempo, spazio e forma. Esattamente come eravamo noi quando facevamo cose che
ora aborriamo.
Il
processo di presa di coscienza in questione è di tipo evolutivo. In esso è
implicato un gradiente di benessere – tanto individuale, quanto sociale –
altrimenti precluso. Gradiente che viene meno quando ci sentiamo
obbligatoriamente impegnati a difendere le nostre verità, e, se necessario,
anche ad attaccare. La difesa di un’idea, di una scelta, di una posizione
impedisce il riconoscimento delle ragioni altrui, è il contrario dell’ascolto,
e mantiene il conflitto come standard di vita. E, con il conflitto, la sofferenza
che questo implica. Attivare il processo della reciprocità, smorza o annulla le
difese a priori che applichiamo alle nostre scelte, tendendo così a ridurre le
ragioni dei conflitti. Alza quindi lo standard del benessere, della serenità,
della forza.
Nonostante
la mia propensione a riconoscere in che termini è vera un’affermazione
contraria alla mia, questa volta mi trovo in difficoltà. La sola struttura che riesca a
ricreare, che comporti quanto mi sono sentito recentemente dire, è ancora un
giudizio: miseria. Mia e sua.
Ho
chiesto a un amico – corpo d’élite italiano, e forse più – che so pensarla
diversamente da me in merito a tutto, un commento su alcuni articoli che ben
rappresentavano la mia posizione su alcuni aspetti dell’attuale situazione
socio-politico-pandemico-sanitaria. Mi ha risposto che erano un elenco di
luoghi comuni, ha stigmatizzato il blog che li aveva pubblicati, ha fatto del
sarcasmo su una delle affermazioni presenti in uno degli articoli. Anch’essa
idonea a rappresentare la mia preoccupazione.
Quando
gli ho sottoposto gli articoli, pensavo avrebbe preso qualche affermazione in
essi contenuta per argomentare perché non la condividesse, perché fosse errata.
Speravo mi dicesse come in effetti stessero realmente le cose. Non l’ha fatto.
Non era la prima volta che risolveva in quel modo fuggitivo le mie richieste di
sue critiche. Dopo la sua risposta – chiamiamola così – vuota di argomenti, si può
concludere che quegli articoli, che per me erano tutto, per lui erano niente.
Non meritavano attenzione. Non contenevano una posizione da considerare se non
liquidandoli come va di moda ora, senza una ragione.
Erano
tutto perché esprimevano una posizione lontana ed estranea alla narrazione
governativa.
Esprimevano un pensiero che, invece di essere negato, quando non deriso o
totalmente travisato, avrebbe dovuto essere preso in considerazione in quella
narrazione, da quell’élite. Che se i narratori non si erano mai occupati di quelle
critiche, avrebbero dovuto esserne invece interessati.
Era
una considerazione che poggiava le sue basi sulla democrazia, sull’imparzialità
delle istituzioni, sul serio tentativo di ogni governo di tener contro di tutto
il popolo che comanda, sul semplice fatto che riferiva argomenti. Ma, a ben guardare, era una base
evanescente, quantomeno anacronistica e – ammesso sia mai esistita – ormai
antistorica.
Gli
articoli sottoposti al mio amico mi
parevano idonei per rappresentare dove eravamo arrivati con le politiche da lui
condivise, dal governo da lui sostenuto. A mezzo di quei pezzi avrei –
credevo – avuto modo di sentire come la Costituzione non sia stata scavalcata, perché non era stato utile e
necessario dire e sostenere menzogne sul vaccino e sulla tessera verde, sulla
loro efficacia, sulla loro durata, perché era stato giusto ridurre e
privatizzare il sistema sanitario, perché era stato giusto mentire sulla
mascherina all’aperto, sostenere la segregazione anche entro la propria città,
perché dopo le contraddizioni tra scienziati ed esperti non è stato considerato
necessario attuare ripensamenti sulle scelte compiute e sulla squadra del
Comitato Tecnico Scientifico, in che termini la stampa aveva fatto bene a divenire
passacarte, quanto era stato giusto e doveroso colpevolizzare chi voleva
legittimamente rinunciare ai rischi vaccinali, perché avevano fatto bene a
tacere su questi, perché era stata scelta oculata non ascoltare chi aveva
trovato cure efficaci, come mai, viste le esperienze delle guarigioni
domestiche, non hanno voluto agevolarle. Allungare questo elenco è tediare e chiunque
può considerevolmente implementarlo.
Per
comprendere il disinteresse del mio amico ad un dialogo sui punti critici
presenti negli articoli o ad esso riconducibili, era sufficiente cancellare la
legittimità della base su cui poggiavo la mia idea. Democrazia, Repubblica
parlamentare, Sovranità nazionale, Diritti inalienabili, Costituzione, sono
concetti obsoleti anche se si guardano bene dal sopprimerne i nomi.
A queste condizioni potevo comprendere la posizione
del mio amico. Per poter realmente liquidare un confronto, doveva affermare il campo in
cui Democrazia, Repubblica parlamentare, Sovranità nazionale, Diritti
inalienabili, Costituzione non hanno valore.
La
politica sta navigando in una direzione contraria alla rotta che ci avrebbe
condotti verso lidi più umanistici che questo malcontento profondo induce a
sperare.
Ha
scelto di solcare linee in mano ai potentati economico-finanziari. Stiamo perciò andando dove
l’individuo e la sua dignità non saranno che un dato utile o inutile al sistema
economico.
Gli
scartati saranno elemosinati con un sussidio ricattatorio.
Gli abili – a scadenza temporale – saranno
spremuti, e sostituiti a piacere. Alcuni saranno nobilitati con premi, destinati
soprattutto ad alimentare la loro superbia e il loro buonismo. Superbia nei confronti del fu
sottoproletariato, un tempo fascia minore, ora fascia sociale maggioritaria.
Buonismo, nei confronti della medesima fascia. La contraddizione tra il loro
sentimento e la loro facciata non li scompone: siamo sempre noi stessi e il
filo rosso della nostra biografia ce lo conferma.
Tanto
è vero che il processo evolutivo è affare individuale, così, per l’aspetto
politico, si può concludere che andremo a finire dove il potere della politica
vorrà. E non vuole intendere altro che non sia superbia e buonismo. La prima, perché sapranno dare dei
disadattati a chi non sta alle regole del loro campo, la seconda, si riterranno
i fautori di pensieri globalisti, i soli, a loro dire, necessari al bene
comune.
Vorrei
chiedere al mio amico ancora una cosa. Cosa pensa dell’editore, quello che
ha ritenuto opportuno pubblicare gli articoli che ha liquidato senza alcuna
dialettica e in poche parole: “Ho letto ma non vedo novità e non mi affaticherò
a fare l’esegesi di questi testi, prodotti da quel faro delle libertà che è
Arianna editore; insieme a truismi e a qualche fatto ci sono risciacqui di
luoghi comuni fra gli apoti”, se nel novero della sua rassegna stampa è inclusa
Il Corriere della Sera , il suo giornale.
Dopo
aver consultato il mio amico per un parere su quanto letto negli articoli che
gli segnalavo, ho visto Come un gatto in tangenziale. Se quanto scritto qui non
è chiaro, buona visione.
Ma è
populismo. Leggi “non conta nulla”.
Eh,
sì. Temo
risponda il mio amico.
Il
discorso del Primo Ministro Mateusz
Morawiecki
al Parlamento Europeo.
Gov.pl-
Cancelleria del Primo Ministro-(19.10.2021)- ci dice :
Dichiarazione
del primo ministro Mateusz Morawiecki
al
Parlamento europeo.
Signor
Presidente,
Onorevoli
deputati,
Oggi
mi faccio avanti a voi qua, nel Parlamento, per espandere sulla nostra
posizione in certe materie di base che ritengo fondamentali per il futuro
dell'Unione europea. Non solo quello di Polonia, ma proprio per il futuro della
nostra intera Unione.
Primum, parlerò delle crisi davanti a cui
si trova oggi L'Europa, e le quali affrontare oggi.
Secundum, parlerò degli standard e delle
regole – che devono sempre essere uguali per tutti – e del fatto che troppo
spesso non è il caso.
Tertium, presenterò un parere sulle regole
secondo cui nessun organo delle autorità pubbliche dovrebbe intraprendere delle
azioni per cui manchino delle basi legali.
Il
quarto punto del mio discorso riguarderà la sentenza del Tribunale costituzionale polacco –
e quello che questa sentenza ed altre sentenze simili comportano per l'Unione
europea. E
anche quanto importante è la diversità ed il rispetto reciproco.
E poi,
nel quinto
punto presenterò
la nostra veduta sul pluralismo costituzionale.
Poi
indicherò i gravi rischi per tutta la società che sorgono dall'applicazione
della Corte di giustizia dell'Unione europea che si verificano già in Polonia.
Finalmente,
riassumerò tutte le conclusioni e guarderò
il futuro, penso, con della speranza.
Partirò
dalla domanda fondamentale – dalle sfide decisive per il nostro futuro
condiviso. Onorevoli, le disuguaglianze sociali, crescenti costi della vita che colpiscono
tutti i cittadini europei, le minacce esterne, l'aumento del debito pubblico,
l'immigrazione irregolare e la crisi energetica che ingrandisce le sfide della
politica climatica alle tensioni sociali ed allungano l'elenco dei gravi
problemi.
La
crisi del debito sovrano ci ha, per la prima volta dopo la guerra, posto la
domanda se siamo in grado di assicurare una vita migliore alle generazioni
successive.
Intorno
alle nostre frontiere è presente sempre più tensione. Nel Sud, la pressione di
milioni di persone ha reso il bacino del Mediterraneo un luogo tragico.
All'Est, stiamo affrontando un'aggressiva politica russa, che arriva persino a
fare guerra per bloccare la scelta della via europea tra i paesi nella nostra
vicinanza.
Oggi
ci troviamo di fronte ad un'enorme crisi associata al gas ed all'energia. Il rapido aumento dei prezzi –
causato, tra l'altro, da azioni intenzionali di aziende russe – già oggi pone molte aziende in Europa
davanti alla scelta tra riduzioni di produzione e il trasferimento di costi ai
consumatori.
La scala di questa crisi può già nelle
settimane sconvolgere tutta l'Europa. Possono trovarsi in povertà e
scarsità a cause della crisi associata al gas e l'incontrollato dei costi in
tutta l'Europa. Dobbiamo anche tenere presente il rischio dell'effetto domino –
una crisi può causare nella cascata degli altri crolli.
Ogni
volta dico “noi” – perché non è possibile risolvere alcuno di questi problemi
da soli. Non tutti i hanno avuto un impatto sul mio paese in modo tanto
drammatico quanto sugli altri paesi dell'Unione europea. Ciò non cambia il fatto che li
ritengo tutti problemi “nostri”.
Ora
dirò qualche parola sul contributo di Polonia al nostro progetto condiviso.
L'integrazione
europea è per noi una scelta strategica e civilizzatrice.
Siamo
qua, qua è il nostro posto, e non stiamo andando da nessuna parte. Vogliamo rendere l'Europa di nuovo
forte, ambiziosa e coraggiosa. Per questo non guardiamo solo i profitti a breve
termine, ma anche quello che con l'Europa possiamo osare.
La
Polonia profitta dell'integrazione, soprattutto dello scambio commerciale nel
mercato comune europeo. Sono anche molto importanti i trasferimenti di tecnologie
ed i trasferimenti diretti. Ma la Polonia non è entrata nell'Unione europea a mani
vuote. Il processo d'integrazione economica con l'azienda ha le capacità
operative del mio paese, ma ha anche aperto delle possibilità enormi aziende ad
aziende tedesche, francesi o olandesi. Gli imprenditori di questi paesi
beneficiano moltissimo dell'espansione dell'Unione.
Basta
contare l'enorme deflusso di dividendi, profitti sugli interessi ed altri strumenti
finanziari dei paesi dell'Europa centrale, quelli meno affluenti – all'Europa
dell'Ovest, ai paesi più ricchi. Ci auguriamo, però, che in questa collaborazione non
vi siano dei perdenti, ma soltanto dei vincitori.
È
stata la Polonia ad essere la promotrice dell'ambizioso Fondo europeo per la
ripresa,
per rendere la reazione di oggi alle sfide della trasformazione climatica,
energetica e post pandemica una reazione adeguata alle esigenze. Perché la crescita economica sia
forte e dia della speranza dell'Europa, non lasciando soli ed indifesi contro
la globalizzazione milioni di bambini, donne e uomini. In queste materie noi ed
il Parlamento europeo parlavamo con una sola voce.
La
Polonia sostiene il Mercato unico europeo. Vogliamo l'autonomia strategica per
rafforzare i 27 paesi.
Pertanto
la Polonia o la Germania, la Cechia e gli altri paesi dell'Europa centrale
promuovono delle soluzioni per aumentare la competitività dell'economia europea
nello spirito di tutela delle quattro libertà fondamentali.
La
libertà di circolazione delle merci, dei servizi, dei capitali e delle persone.
Senza le attività di rifugi fiscali – qualcosa che, purtroppo, alcuni paesi
sostengono dell'Europa dell'Ovest fanno ancora, depredando in questo modo i
loro vicini. Sì, onorevoli colleghi – i rifugi fiscali tollerati
nell'Unione europea sono la sequestro del denaro dai più ricchi. È una cosa
giusta? È qualcosa che ci aiuta a migliorare la vita della classe media oi meno
facoltosi? È qualcosa che appartiene al catalogo dei valori europei? Ho dei
forti dubbi al riguardo .
La
Polonia e l'intera Europa centrale sono a favore di un'ambiziosa politica di
espansione che rafforzi l'Europa nell'area dei Balcani occidentali. Che
geograficamente, storicamente e strategicamente l'integrazione europea.
Vogliamo delle aspirazioni globali dell'Unione ed una forte politica di difesa
europea – in una struttura coerente a quella di NATO!
Oggi,
quando la frontiera orientale dell'Unione è soggetta ad un attacco organizzato
che sfrutta in modo cinico le migrazioni dal Medio Oriente per la
destabilizzazione, è la Polonia che dà all'Europa la sicurezza, costituendo
insieme alla Lituania ed alla Lettonia siamo una barriera che la protegge. E, rafforzando il nostro potenziale
nel campo di difesa, rafforzando la sicurezza dell'Unione europea nel senso più
tradizionale.
Oggi,
parlando a Voi, voglio ringraziare le forze polacche, lituane, lettone, e tutti
i paesi del Sud dell'Europa, la nostra Guardia di frontiera e le nostre forze
dell'ordine. Grazie dei vostri sforzi e del vostro professionismo nella protezione
delle frontiere dell'Unione!
La
sicurezza ha tante dimensioni. Oggi che l'aumento dei prezzi di gas è sentito da
tutti, si vede chiaramente quali possono essere i risultati di miopia nella
materia di sicurezza energetica. Già oggi la politica di Gazprom ed il consenso
per Nord Stream 2 si traducono a prezzi record di gas.
Quando
invece oggi negli Stati fondatori delle Comunità il livello di fiducia
nell'Unione è caduto a livelli storicamente bassi, come il 36% nella Francia,
in Polonia la fiducia nell'Europa rimane al livello più alto. Oltre l'85% dei cittadini polacchi
dice chiaramente: La Polonia è e rimarrà un membro dell'Unione. In Polonia, sia
il mio governo che la maggioranza parlamentare che lo sostiene sono parte di
quella maggioranza.
Ciò
non vuol dire che oggi i polacchi non hanno dei dubbi o non si preoccupino per la direzione dei cambiamenti nell'Europa. Questa inquietudine è visibile e,
purtroppo, giustificata.
Ho
parlato di quanto la Polonia ha contribuito all'Unione europea. Ma purtroppo si
continua a sentire della divisione tra i migliori e quelli peggiori. È troppo
spesso che ci troviamo in un'Europa di doppi standard. E ora dirò perché dobbiamo smetterla
con questo modello.
Oggi
tutti gli europei sperano che noi facciamo una sola cosa.
Vogliono
che noi affrontiamo le sfide create da crisi molteplici allo stesso tempo, non
affrontando invece l'uno l'altro, cercando per forza dei colpevoli – o, si
dovrebbe dire, quelli che colpevoli non sono, ma sono un bersaglio facile a cui
osare la colpa.
Purtroppo,
vedendo alcune pratiche nelle istituzioni dei cittadini, molti del nostro
continente oggi si interrogano:
questi
giudizi e membri dell'Unione estremamente decisioni diversi di Bruxelles e del
Lussemburgo nei confronti degli Stati, anche se assunti in circostanze simili,
rafforzano de facto la divisione tra i paesi della forte, vecchia e nuova
Unione, tra i forti ed i deboli, tra i ricchi ed i meno facoltosi – questa è
davvero uguaglianza?
Il far
finta che i problemi non esistano porta a dei risultati molto cattivi. I
cittadini non sono né ciechi ne sordi. Se i politici ed ufficiali compiacenti
non lo notano, perderanno pian piano la loro fiducia. E, insieme a loro la
fiducia dei cittadini perderanno le istituzioni. Questo sta già succedendo,
onorevoli colleghi.
La
politica si dovrebbe basare su principi. Il principio primario che seguiamo in
Polonia e che è alla base dell'Unione europea è quello della democrazia.
Pertanto
non possiamo tacere quando il nostro paese – anche in questa sala – viene
assegnato un ruolo in modo ingiusto e
parziale.Le
regole del gioco devono essere uguali per tutti. Le regole sono tali quali le
abbiamo stabilite nei trattati. È un obbligo di tutti osservarli – anche delle
istituzioni da questi trattati create. Questo è lo Stato di diritto.
È in
grado di agire ed espandere le competenze tramite il metodo di fatti. È inaccettabile imporre le proprie
decisioni sugli altri senza una base legale. Ed è ancora più inaccettabile di
impiegare a questo scopo la lingua di ricatto finanziario, di punizioni e di
parole ancora più radicali nei confronti di alcuni Stati.
Rigetto
la lingua fatta di minacce ed estorsioni. Non dò il mio consenso che i politici
ricattino e minaccino la Polonia. Che il ricatto divenga un metodo del fare la
politica nei confronti di Stati membri. Non è il modo in cui agire con le democrazie.
Siamo
un paese orgoglioso. La Polonia è una delle nazioni con le più lunghe storie di
essere uno Stato è dello sviluppo della democrazia.
Nel
ventesimo secolo, tre volte, con enormi sacrifici, abbiamo lottato per la
libertà dell'Europa e del mondo. Nel 1920, salvando Berlino e Parigi
dall'assalto bolscevico, poi nel 1939, andando come i primi alla lotta mortale
con i tedeschi, con il Terzo Reich, il che ha avuto un impatto sui risultati
della guerra – e poi, nel 1980, quando la “Solidarietà” ci ha dato la speranza
per sconfiggere un altro totalitarismo, il crudele sistema comunista. La
ricostruzione dell'Europa nel dopoguerra è stata possibile grazie al sacrificio
di molte nazioni, ma non tutte ne hanno potuto approfittare.
Onorevoli
colleghi. Ora qualche parola sullo Stato di diritto. Sullo Stato di diritto ci
si può dire molto, ed ognuno intenderà questa nozione in modo ad un certo grado
diverso. Ma
penso che la maggioranza di noi sia d'accordo che non ci si può parlare dello
Stato di diritto senza certe condizioni. Senza il principio della separazione
dei poteri, senza tribunali indipendenti, senza il principio che ogni stato abbia autorità in un ambito limitato di
competenze, o senza il rispetto per la gerarchia delle fonti di diritto.
Il
diritto dell'Unione europea precede quello degli Stati – fino al livello delle
leggi e nelle aree delle competenze concesse all'Unione. Questo principio vale
per tutti i paesi dell'Unione. Ma l'atto normativo fondamentale rimane la Costituzione.
Se le
istituzioni creano dei Trattati che superano le loro competenze, gli Stati
membri devono avere degli strumenti per reagire.
L'Unione
è un grande successo degli Stati europei. È una robusta alleanza economica,
politica e sociale. È la più potente e sviluppata organizzazione internazionale
nella storia. Ma l'Unione europea non è uno Stato. Gli Stati sono i 27 Stati membri
dell'Unione europea. Sono gli Stati che restano il “sovrano europeo “– sono i
“signori dei trattati” – e sono gli Stati che determinano l'ambito delle
competenze affidate, attribuite all'Unione europea.
Nei
trattati abbiamo affidato all'Unione un ambito di competenze molto ampio. Ma
quest'ambito non comprende tutto. Molti rami del diritto restano la competenza degli
Stati nazionali.
Non
abbiamo dei dubbi per quanto riguarda la precedenza del diritto europeo
rispetto alle leggi nazionali in tutte le aree dove gli Stati membri hanno
attribuito queste competenze all'Unione.
Però,
similmente alle Corti di molti altri paesi, il Tribunale costituzionale polacco
pone la domanda se il monopolio della Corte di giustizia sulla determinazione
delle confini reali di queste competenze sia una soluzione giusta.
Se il giudizio sulla determinazione di
quest'ambito entra nella sfera costituzionale, è anche necessario emettere una
questione per quanto la conformità di tali nuove competenze, specialmente
quando la Corte di giustizia continua a trarre dai trattati delle eventuali
competenze sempre più nuove per le istituzioni dell' Unione.
Non si
deve inserire nel trattato sull'Unione l'articolo 4 che dichiara il rispetto
dell'Unione per le strutture dei membri
politici e costituzionali degli Stati.
Non deve avere un senso inserirvi
l'articolo 5, dichiarante che l'Unione può agire solo nei limiti delle competenze ad
esso affidate e concesse.
Se
nessuno tranne la Corte di giustizia può esporre dei pareri in questa materia
delle condizioni costituzionali dell'ordine statale, questi articoli devono essere parte
entrambi privi di significato, sì, privilegio di significato!
Sono
consapevole del fatto che la recente sentenza del Tribunale costituzionale
polacco è divenuta un oggetto di fraintendimento essenziale. Non sono sorpresa che sia il caso –
se fossi io a sentire che un Tribunale costituzionale di un altro paese abbia
annullato i trattati dell'Unione, probabilmente sarei sorpresa pure io. Ma
proverei soprattutto a vedere quello che il Tribunale abbia dichiarato davvero.
E
anche oggi, ho chiesto la voce nel dibattito di oggi. Per presentarvi quello che è davvero
l'oggetto della disputa. Quindi non delle favole politicamente motivate di un
“polexit” o delle menzogne sulle presunte infrazioni sullo Stato di diritto.
Per
questo nella parte successiva del mio discorso vi voglio indicare i fatti. E,
per fare questo, il modo migliore sarà riferirsi direttamente ai contenuti
delle frasi. Ora presenterò alcune citazioni:
Nell'ordinamento
giuridico [dello Stato] la precedenza del diritto dell'Unione non si applica
alle disposizioni della Costituzione – è la Costituzione dello stato che sta
al vertice del sistema legale interno.
Il principio di precedenza del diritto
della comunità (...) non può invalidare nell'ordine giuridico dello Stato il
potere supremo della Costituzione dello stato .
La
Corte costituzionale può prendere la premessa ultra vires (...) e stabilire se
le azioni delle istituzioni dell'Unione europea sul principio di attribuzione
[delle competenze] qualora le istituzioni, organi ed agende dell'Unione europea
abbiano superato l' ambito delle loro competenze in modo da infrangere su
questo principio.
Come
risultato di tale decisione, gli atti ultra vires non si trovano sul territorio
di uno Stato membro.
La
costituzione competente vieta il trasferimento di un ambito che comporti che
uno Stato non si possa considerare uno Stato sovrano e democratico.
Alcune
altre citazioni salterò, per non toglier Vi troppo tempo. Passerò ancora alle
due ultime.
La
Costituzione è la legge fondamentale della Polonia rispetto a tutti gli accordi
internazionali che la vincolano, ivi compresi gli accordi sul trasferimento di
competenze in certe materie. La costituzione ha la precedenza di applicazione
sul territorio di Polonia.
E la
citazione finale:
Il
trasferimento di competenze all'Unione europea non può infrangere sul principio
di precedenza della Costituzione dello Stato o violare alcune disposizioni della stessa.
Vedo
passare sui vostri volti agitazione, signori. Capisco che qua, in Sala, non
siate d'accordo a tal riguardo, almeno questo. Ma non capisco per quale motivo
. Queste citazioni relative alle sentenze del Consiglio costituzionale
francese, della Corte suprema danese, della Corte costituzionale federale
tedesca. Ho
saltato le citazioni [dalle frasi] della Corte costituzionale italiana e del
Tribunale supremo spagnolo.
Le
citazioni dalle sentenze del Tribunale incaricato delle sentenze emesse nel
2005 e nel 2010. Dunque, quando la Polonia era già membro dell'Unione Europea. La dottrina che difendiamo oggi è ben
consolidata da anni.
Vale la
pena citare anche il professore Marek Safjan, ex presidente della Corte
costituzionale polacca, e oggi giudice della Corte di giustizia, - “In base alla Costituzione in vigore
non esiste alcun elemento a sostegno della tesi del primato del diritto comunitario
rispetto all'ordinamento nazionale nel suo complesso compreso le norme
costituzionali. Non esiste alcun elemento a sostegno! Conformemente al testo della
Costituzione stessa è la legge suprema della Repubblica di Polonia (articolo 8
paragrafo 1). Il suddetto regolamento contenuto nel paragrafo 2, articolo 91
comporta expressis verbis la disposizione comunitaria in caso di conflitto con
una norma legislativa, ma non è
applicabile ad una norma
costituzionale”.
Tale
posizione dei tribunali nazionali costituzionali non è una novità. Potrei
citare altre decine di sentenze dall'Italia, Spagna, Repubblica Ceca, Romania,
Lituania o da altri stati.
Sento
anche voci che alcune di queste frasi riguardano altri casi di minore
rilevanza. È la verità - ogni sentenza riguarda sempre un'altra cosa. Eppure - per l'amore di Dio! - hanno
una cosa in comune: confermano che i tribunali nazionali riconoscono il loro
diritto al controllo . Il diritto al controllo! Niente di più, niente di meno!
Al controllo se il diritto dell'Unione sia applicato nei limiti dei poteri ad
essa conferiti.
Adesso
dedico alcune riflessioni all'Unione come ambito di pluralismo
costituzionale.
Oh
Camera Alta (Consiglio d'Europa)! Ci sono paesi tra noi dove non esistono corti costituzionali
- e quelli dove esse esistono. Ci sono paesi dove la presenza dell'Unione Europea è
sancita dalla costituzione - e quelli dove non esiste. Ci sono paesi dove i giudici vengono
eletti dai politici democraticamente eletti - e quelli dove li eleggono degli
altri giudici.
Il
pluralismo costituzionale significa che esiste tra noi come regola istituzionale,
tra i nostri ordinamenti sufficienti, uno spazio per dialogo.
Tale
dialogo avviene anche tramite decisione dei giudici. In quale altro modo possono
comunicare i tribunali, sennò attraverso le loro sentenze? Non può essere
invece consentito impartire istruzioni e
ordini agli stati. Non su questo si basa l'Unione Europea.
Abbiamo
molte cose in comune, e vogliamo avere sempre di più in comune, però esistono
delle differenze tra di noi. Se vogliamo collaborare, dobbiamo accogliere l'esistenza di
queste differenze, le dobbiamo accettare, le dobbiamo rispettare.
L'Unione
non crollerà a causa dei nostri ordinamenti sufficienti e diversi. Funzioniamo
in questo modo da sette decadi. Magari un giorno, nel futuro, apporteremo delle
modifiche che ci permetteranno di avvicinare ancora di più la nostra
legislazione. Ma perché ciò possa avvenire, è necessaria una decisione degli
stati membri sovrani.
Oggi
possiamo adottare due misure - o consentire a tutti illegali tentativi al di
fuori del quadro dei limiti di limitare la sovranità dei paesi europei, la
Polonia, a un'estensione strisciante delle competenze delle istituzioni, come
la Corte di giustizia, a una “ rivoluzione silenziosa” che sta avvenendo non in
base a decisioni democratiche ma via decisioni giudiziarie - oppure dire: “No, miei cari!” - se
volete creare d'Europa un super stato senza nazioni, prima, però, dovete
ottenere l'approvazione di tutti i paesi e le società d'Europa.
Ripeto
un'altra volta: la Costituzione è la legge suprema della Repubblica di Polonia. Essa
supera altre fonti di legge. Nessun tribunale polacco, né il parlamento polacco
né il governo polacco, può abbandonare tale principio.
In
ogni caso, occorre sottolineare anche che la Corte polacca non ha mai, nemmeno
nell'ultima sentenza, affermato che le disposizioni del Trattato sull'Unione siano
complessivamente incompatibili con la Costituzione polacca. Al contrario! La
Polonia rispetta pienamente i trattati.
Ecco
perché la Corte polacca ha dichiarato l'incostituzionalità di
un'interpretazione molto specifica di alcune disposizioni del Trattato, a seguito di una recente
giurisprudenza della Corte di giustizia.
Al
fine di spiegare ciò passerò alla seconda parte del mio intervento, alle
minacce a tutto il sistema sociale, nel caso in cui lo status di un
giudice messo in discussione da un altro giudice.
Allora,
l'interpretazione della Corte di Lussemburgo, i giudici dei tribunali polacchi
diretti secondo il diritto applicabile al principio del solo primato sulle
disposizioni nazionali di rango legislativo - il che non solleva dubbio - ma anche a violare la Costituzione e
le sentenze della propria Corte costituzionale!
L'adozione
di tale interpretazione può portare quindi al riconoscimento che milioni di
sentenze emesse negli ultimi anni dai tribunali polacchi possono essere
arbitrariamente impugnate e migliaia di giudici possono essere destituiti dalle
loro funzioni. Milioni di sentenze!
Questa
situazione sarebbe contraria al principio di indipendenza, inamovibilità nonché
di stabilità e di certezza del diritto per via giurisprudenziale, il che è
sancito dalla Costituzione polacca.
Non vi rendete conto, signori, cosa può
comportare tali decisioni? Qualcuno di voi davvero vuole inserire in Polonia l'anarchia,
la confusione e l'illegalità?
Di
conseguenza, si verificherebbe un calo sostanzioso dello standard
costituzionale della tutela giurisdizionale dei cittadini polacchi nonché il
caos giuridico inimmaginabile.
Nessuno
stato sovrano può accettare una simile interpretazione. Un tale consenso significherebbe che
l'Unione ha smesso di essere un'unione di paesi liberi, uguali e sovrani; e che
essa stessa, tramite il metodo del fatto compiuto, e si trasformerebbe in un
organismo parastatale gestito a livello centrale, le cui istituzioni potrebbero
imporre alle loro “province” ciò che ritengono corretto. Per questo non c'è mai
stato il consenso.
Non è
questo che abbiamo concordato nei Trattati.
Vale
senz'altro la pena discutere se l'Unione deve cambiare. Se non dovrebbe essere
creato un budget più grande? Se non spendere di più per la sicurezza comune? Se
la spesa per la difesa non dovrebbe essere esclusa dalle procedure per disavanzi
pubblici eccessivi? La Polonia sta proponendo proprio questo!
Se non
rafforzare la nostra resilienza alle minacce ibride, agli attacchi informatici?
Non controllare meglio gli investimenti nei settori strategici dell'economia?
Come trasformare in modo equo ed efficace la trasformazione energetica e
climatica? Come rendere il nostro processo decisionale più efficace? Cosa fare per evitare che i nostri
cittadini si sentano sempre più alienati nell'Unione?
Pongo
queste domande, perché ritengo che le risposte saranno decisive per il futuro
dell'Unione.
Dovremmo
discutere di tutto questo.
Perché
il sovrano in questo caso può essere solo il demos (il popolo).
Adesso
dedicherò alcune riflessioni sulla questione dei limiti delle competenze dell'Unione e delle
sue istituzioni.
Le
decisioni importanti non dovrebbero essere prese modificando l'interpretazione
della legge.
Il
successo dell'integrazione europea era dovuto al fatto che il diritto era
derivato dai meccanismi che collegavano i nostri paesi in altri settori.
Il
tentativo di invertire questo modello di 180 gradi e di imporre l'integrazione
mediante i meccanismi possibili - è un allontanamento dai presupposti che sono
stati le fonti del successo delle Comunità europee.
Si
parla da anni del fenomeno del deficit democratico. E questo deficit sta
peggiorando.
Ciononostante,
non è mai stato così visibile come negli ultimi anni. Sempre più spesso è tramite
l'attivismo dei giudici che le decisioni vengono prese a porte chiuse e
confronta una minaccia per gli Stati membri.
Sempre più spesso queste decisioni vengono
prese da funzionari o giudici. Sempre più spesso - eseguite da una persona
sola. Sempre
più spesso, senza un fondamento evidente nei trattati, ma tramite la loro
interpretazione creativa. E questo senza alcun controllo effettivo. E questo
fenomeno è in crescita da anni.
Questo
processo oggi è arrivato a un punto tale che bisogna dire: basta. Le competenze
dell'Unione Europea hanno dei limiti. Non dobbiamo rimanere in silenzio quando
vengono oltrepassati.
Per
questo motivo diciamo SÌ all'universalismo europeo, e NO al centralismo
europeo.
Io,
come tutti voi signori in quest'aula, sono sottoposto ad un controllo
democratico. Tutti saremo giudicati in questo modo, e di tutte le nostre
azioni. Rappresento
il governo che è stato eletto nel 2015 e per la prima volta nella storia della
Polonia ha ottenuto una maggioranza indipendente. Per questo ha intrapreso un
ambizioso programma di riforme sociali.
E i
polacchi hanno deciso; alle elezioni successive del 2018, 2019, 2020 hanno
fatto una valutazione democratica del nostro governo. Con la più grande
affluenza alle urne nella storia, abbiamo ottenuto il più forte mandato
democratico della storia. In trent'anni nessun partito, nessun partito! aveva
ottenuto un risultato elettorale così rilevante come il partito “Diritto e
Giustizia” (Prawo i Sprawiedliwość). Ciononostante, non avendo nessun sostegno
dall'estero, né dal grande business, non avendo un quarto di questa influenza
sui media come i nostri concorrenti, che avevano sistemato la Polonia dopo il
89.
Stanno
arrivando a noi ammonimenti paternalistici sulla democrazia, sullo stato di
diritto, su come plasmare la nostra Patria, che facciamo le scelte sbagliate,
che siamo immaturi, che dobbiamo essere puniti, perché la nostra democrazia è a
quanto pare “giovane” - questa è una direzione disastrosa della narrazione
proposta da alcuni.
La
Polonia ha una lunga storia democratica. Anche una tradizione di solidarietà,
infatti.
Le
sanzioni, le repressioni di paesi economicamente più forti nei confronti dei
paesi che ancora oggi rimangono a lottare contro l'eredità di rimanere dalla
parte della cortina di ferro.
Tutti
dobbiamo ricordare le sue conseguenze.
La
Polonia rispetta le norme dell'Unione ma non si lascerà intimidire. La Polonia
partecipa al dialogo su questo argomento.
Per
migliorare il processo di tale dialogo, vale la pena promuovere modifiche
istituzionali. Per un dialogo durevole, in modo conforme al principio di checks
and balances, si può istituire una seconda camera della Corte di giustizia, che
sarà composta dai giudici nominati da tribunali costituzionali degli stati
membri.
Oggi vi presento, signori, questa proposta. La decisione ultima spetta al demos e
ai paesi, ma i tribunali dovrebbero avere una tale piattaforma per cercare un
denominatore comune.Concludendo, oh Camera Alta (Consiglio d'Europa)!, dobbiamo
rispondere anche ad una domanda, da dove proveniva la superiorità dell'Europa
nei secoli. Quale era il motivo per cui la civiltà europea era così forte.
La
storia risponde a questa domanda così: siamo diventati potenti, perché
eravamo il più vario continente del mondo. Niall Ferguson così: “I monolitici
imperi d'Oriente hanno soppresso l'innovazione, mentre nella regione montuosa e
percorsa dai fiumi dell'Eurasia occidentale scrive le numerose monarchie e le
città-stato comunicavano costantemente tra di loro”.
Dunque,
l'Europa ha vinto mantenendo l'equilibrio tra la competizione creativa e la
comunicazione. Tra la concorrenza e la collaborazione. Oggi di nuovo abbiamo
bisogno di entrambi.
Oh
Camera Alta (Consiglio d'Europa)! Voglio un Europa forte e grande. Una che
lotta per la giustizia, la solidarietà, le pari opportunità. L'Europa capace di opporsi ai regimi
autoritari.
L'Europa che punta sulle ultime soluzioni
economiche. L'Europa che rispetta la cultura e le tradizioni con cui è cresciuta.
L'Europa
che riconosce le sfide del futuro e lavora alle migliori soluzioni per tutto il
mondo.
È un
grande compito per noi. Per tutti noi, cari amici. Solo in questo modo i
cittadini europei saranno in se stessi la speranza per un domani migliore.
Troveranno
in sé la voglia di agire e di lottare. È un compito molto difficile. Ma lo
dobbiamo assumere. Assumiamolo insieme. Viva la Polonia, viva l'Unione Europea
degli stati sovrani, viva l'Europa, il posto più bello del mondo!
Vi
ringrazio.
Perché
non possiamo non dirci sovrani.
Asimmetrie.org-
Carlo Galli- intervento EMD 2019-(26 FEBBRAIO 2020)-ci dice :
(Trascrizione
rivista dall’autore della prolusione alla conferenza Euro, Mercati, Democrazia
2019 – Decommissioning EU, svoltasi a Pescara nei giorni 26 e 27 ottobre 2019.).
Buon
pomeriggio a tutti. Devo parecchi ringraziamenti ad Alberto Bagnai, al
presidente Ponti e a tutti coloro che hanno pensato che la mia presenza sarebbe
stata utile, oltre che naturalmente a voi che siete qui ad ascoltare.
Io
sono qui perché ho pubblicato un libro il cui titolo è Sovranità; libro relativamente facile,
divulgativo, che nasce dal fatto che – come studioso, molto più che come
politico – non mi sono per nulla sentito a mio agio con l’invenzione lessicale
del termine
«sovranismo» e con l’uso della parola «sovranista» come
un insulto.
E quindi ho messo in piedi una riflessione, il cui
contenuto in parte adesso vi consegno.
Dico
«in parte» perché nel libro vi sono molti passaggi storici e filosofici che non
è il caso di portare qui; però, alcune questioni è il caso di portarle per un
obiettivo – l’obiettivo fondamentale che in questa fase della mia esistenza io
mi pongo –: in questo Paese c’è una gravissima questione di egemonia culturale; detto
in un altro modo, c’è una gravissima questione di conformismo.
La
politica, se vorrà e saprà, potrà fare la sua battaglia, ma sicuramente la
intellettualità italiana dovrebbe fare la propria e secondo me non la sta
facendo – per una serie di motivi che non voglio neppure enumerare –. La cosa più importante oggi è fare
passare l’idea che è possibile un diverso punto di vista sulle cose
dell’Italia, dell’Europa e del mondo.
Un
«diverso punto di vista», ad esempio, rispetto al fatto che già questa frase mi
verrebbe contestata, perché potrebbe essere accusata di nascondere l’intento di
far nascere e rinascere, inventare, una ideologia nell’epoca in cui le
ideologie sono finite.
Ora,
questa non è l’epoca in cui tutte le ideologie sono finite.
È l’epoca in cui una ideologia ha vinto, e ha
giustamente permeato di sé tutti – con scarse eccezioni – gli ambiti della
riflessione, della comunicazione, dell’azione politica: è il neoliberismo.
Che
non è un dato di natura, ma un dato storico, economico, politico, che nasce da
alcuni interessi e da alcuni presupposti intellettuali, e ha avuto la capacità di
farsi passare per ovvio, naturale e post-ideologico. Dentro questo errore di valutazione
la prima a cadere è stata la sinistra, che ha creduto a molto di quello che il
neoliberismo raccontava di se stesso, lo ha fatto proprio e lo ha spacciato ai
cittadini, i quali poi, davanti alle contraddizioni intrinseche del modello
socio-economico-politico vittorioso, l’hanno ripudiata.
Questa
ideologia, che più delle altre nega di esserlo, opera inversioni; ad esempio,
il rapporto che essa pone fra sovranità e guerra oppure il rapporto che essa
pone fra Europa e pace.
Si
sostiene che la sovranità è portatrice di guerra. Ora, naturalmente, la sovranità consiste anche nel
decidere di fare la guerra, ma non solo.
In ogni caso, la sovranità è così poco in sé
portatrice di guerra che su ciò potremmo chiedere il parere di tutti i popoli
ai quali viene fatta la guerra proprio perché non sono sovrani. Certo, si possono fare guerre anche
contro Stati sovrani, però è più rischioso; se non si è sovrani si è più
largamente esposti alla guerra.
Quanto
poi al rapporto tra Europa e pace – «L’Europa ci ha dato settant’anni di pace»
(è l’intero sistema mediatico che lo dice) – si deve notare che questi anni
(non tutti di pace, peraltro – si ricordino l’Ulster o l’Alto Adige –) non ce
li ha dati l’Europa, se per Europa si intende la UE: ce li ha dati una
sconfitta clamorosa dell’Europa – che possiamo anche definire benedetta, dato
che cosa era in quel momento l’Europa, cioè la preda della Germania nazista –;
una sconfitta militare, che ha fatto dell’Europa non più il soggetto della
politica internazionale, ma l’oggetto: un oggetto posseduto dai due
vincitori extra-europei della Seconda guerra mondiale.
Nella
parte occidentale, così neutralizzata, alcuni attori credevano di essere Stati
nel senso pieno del termine – parlo della Francia e dell’Inghilterra –, ma
quando hanno provato a fare azioni sovrane in senso classico (1956, Suez) sono
stati rimandati a casa da USA e URSS, che stavano azzuffandosi per la questione
ungherese, ma che sono state concordi nel vietare agli europei di compiere
azioni sovrane.
In
quel contesto nasce, l’anno dopo, quello che allora si chiamava MEC, poi CEE e
poi, dopo il ’92, UE, come area di libero scambio, che non dava fastidio a
nessuno, e anzi faceva del bene a tutti (in modo disuguale, come sempre
avviene).
È
stato uno dei volani che hanno innescato nel nostro Paese il boom economico. La
UE nasce da una pace che non ha creato: nasce dalla pace creata – come tutte le
paci – dall’esito di una guerra.
Per
cui sentirsi dire «la UE ha portato la pace» è un’autentica barzelletta. La
pace l’ha portata in Europa occidentale la NATO, che ha fatto sì che non si
facessero la guerra tra di loro nemmeno la Grecia e la Turchia – che se la
sarebbero fatta certamente se la NATO non fosse esistita –.
Il
secondo dopoguerra è stato caratterizzato da un affievolimento – non dalla
scomparsa – della sovranità, tanto in Occidente quanto in Oriente. In Oriente molto sbrigativamente si
teorizzava la
«sovranità limitata»; in Occidente, più pudicamente, non lo si diceva in modo
aperto, però la «dottrina Brzezinski» qualcosa faceva capire, e poi c’erano le azioni pratiche,
più o meno coperte, che ribadivano brutalmente quelle condizioni insuperabili
per le quali vi erano alcuni partiti politici che mai e poi mai avrebbero
potuto prendere il potere, nemmeno se avessero avuto il 95% dei voti.
Certo, all’interno del contesto occidentale, il fatto
che le sovranità fossero abbastanza sopite non impediva che chi se ne sapeva
servire se ne servisse nei limiti del possibile – la Francia ha continuato a gestirsi
l’impero africano, ad esempio;
l’Italia
ha continuato a fare la cosa che sa fare meglio al mondo, cioè il doppio,
triplo gioco con arabi e israeliani (cosa, peraltro, utilissima a molti) –. Chi sa adoperare la sovranità, appena
può la adopera. Certo, la situazione non era più quella del 1914 o anche del 1939: la piena sovranità non c’era più. Non
si perdono le guerre mondiali gratis; da qualche parte il prezzo emerge.
Sovranità
(Mortati).
Ciò premesso,
basta prendere il Manuale di Diritto pubblico di Costantino Mortati, andare a
pagina 99 e seguenti, e leggere quelle tre-quattro pagine per togliersi alcune
cattive idee sulla sovranità.
Che
cos’è la sovranità? Mortati la definisce, prima di tutto, come indipendenza;
poi, come il fatto politico-giuridico del potere costituente; infine, come la
capacità di possedere la competenza delle competenze.
Indipendenza
è un concetto empirico: la Catalogna non è sovrana perché non è indipendente. Indipendenza vuol dire non avere
un’altra sovranità sopra di sé.
La
sovranità è, poi, il fatto politico-giuridico del potere costituente: questo è
il punto centrale , che ci consente di dire che la UE non è un soggetto
sovrano.
Sovranità
è la enorme energia che fa sì che sulle ceneri di un ordinamento ne venga
formato uno nuovo. Questo è il modo con cui la sovranità si manifesta. Non c’è
altro modo per valutare un soggetto sovrano che andare a vedere come è nato, la
sua origine. Si dirà che c’è qualche cosa di violento in questo. Ora, la politica è
precisamente quella dimensione che in prima – o in estrema – istanza fa i conti
col fatto che gli esseri umani non sono ordinati per natura, come possono
essere le formiche, ma gli ordini se li devono costruire. E per costruire un ordine si devono
fare i conti con la storia, cioè con gli ordini politici esistenti, che per
diversi motivi vanno a pezzi, vanno in crisi, non soddisfano più alcune
esigenze e vengono rimpiazzati da nuovi ordini.
La
sovranità ha all’origine una decisione, una rivoluzione, una guerra civile, una
guerra di liberazione, il collasso di un ordinamento.
Andate
con la vostra mente a cercare un esempio di sovranità che contraddica quello
che ho detto: non lo trovate. La nostra Costituzione, che definisce l’Italia come un
soggetto sovrano, non è forse nata dall’incrocio fra una guerra civile, una
guerra di liberazione e il collasso di un ordinamento?
Non
nasce forse da un impiego di energia politica quale mai più si è visto, e quale
la nostra stessa Costituzione nega si possa più dare? Il potere costituente è talmente
potente che, sulla base della nostra Costituzione, non può più essere attivato;
valgono solo i poteri costituiti.
La Costituzione nasce nel sangue; poteva andare diversamente, resta
il fatto che la nostra è una Costituzione orientata, come tutto ciò che nasce
da una guerra: ci sono i vincitori, ci sono i vinti – molto sta nel vedere come
tratti i vinti, naturalmente; se li escludi o se li includi (alle tue
condizioni) –. Le costituzioni sono uno sbocco di energia politica –
particolarmente, le costituzioni otto-novecentesche democratico-rivoluzionarie
–. Non c’è altro da dire su questo.
La
competenza delle competenze significa, poi, che la sovranità consiste nel
decidere chi fa che cosa all’interno delle istituzioni.
Alla
luce di tutto ciò, la UE non ha una Costituzione e non è un soggetto sovrano: è
un insieme di trattati, i cui signori sono gli Stati sovrani.
Con
questo non voglio dire che la UE non sia qualche cosa di assolutamente cogente,
anzi; la sua contraddizione di fondo è che è estremamente cogente e, al tempo
stesso, non è sovrana.
Se
fosse estremamente cogente e sovrana, vorrebbe dire che siamo all’interno di
una sorta di «superstato» europeo, come un napoletano nel 1861 si è trovato a
essere all’interno di qualche cosa che non era più il Regno delle Due Sicilie,
ma era lo Stato unitario italiano.
Lì
c’era una sovranità che si era formata e che si prendeva qualche responsabilità
(poche); non si fondava certo su una grande energia popolare, e tuttavia c’era
l’energia della guerra di conquista piemontese e c’era una egemonia
intellettuale – il pensiero del Risorgimento –. In ogni caso, quando una
sovranità funziona, cioè quando si è usciti dal momento magmatico generativo, e
ci si trova – diciamo così – in «tempi normali», la sovranità è un rapporto di
obbedienza e protezione: cioè, c’è il comando sovrano sui cittadini, che, a
loro volta, sono protetti da quel comando.
La
sovranità non c’è, in Unione Europea, perché l’Unione Europea non è nata
politicamente; quindi, non ha caratteristiche sovrane, tanto che il suo comando – la moneta unica, con tutto quello che
si porta dietro, e lo spazio giuridico unico (non in tutti gli ambiti) – non
corrisponde ad alcuna protezione.
Cioè
la UE comanda ai singoli Stati di costruire il loro bilancio sulla base dei
principi che la UE stessa impone (e che, certo, gli Stati hanno sottoscritto),
ma le conseguenze non le interessano, sono un problema dei singoli Stati.
Ma quando contraddice il principio di responsabilità,
il potere diventa dominio.
La
moneta unica è costruita in modo da dare la responsabilità delle sue
conseguenze agli Stati, che hanno il dovere di obbedire, e, se sono riottosi,
sono costretti ad obbedire – si veda la Grecia –. In ogni caso, meno che mai
hanno il diritto di determinare il contenuto del comando – le regole dell’euro
sono inalterabili –. Ecco perché siamo dentro un paradosso.
Non
voglio neppure iniziare a dimostrare che la UE non è un soggetto sovrano dal
punto di vista della capacità di agire sulla scena internazionale.
È del
tutto evidente: non riesce a imporre la propria volontà perché non ce l’ha; ha
le diverse volontà, i diversi interessi, degli Stati che la compongono (dei più
forti, almeno). Imprese politico-militari europee si contano sulle dita di una
mano.
Sovranità
(Galli).
Ora,
con un linguaggio che non è più quello di Mortati, ma è il mio: per parlare della sovranità bisogna
considerarla formata da tre diverse dimensioni geometriche.
Vi è
una dimensione che non è una dimensione, ma è un punto.
La
sovranità è un punto perché è il valore non negoziabile a cui è appeso l’intero
ordinamento.
Detto
in un altro modo, è la decisione che ha posto l’ordinamento e che lo difende,
anche scavalcandolo (in parte), oppure è un’altra decisione che lo abbatte e lo
sostituisce con un altro.
Nel
caso italiano qual è il valore non negoziabile su cui si fonda l’intero
ordinamento? Sono alcuni dei valori che stanno nei «Principi fondamentali» e
nelle “disposizioni transitorie e finali” della Costituzione; su tutti io
direi: l’antifascismo e lo Stato sociale.
Dove
per antifascismo si intende la lotta storica contro uno specifico
totalitarismo, e magari contro i rischi di altri totalitarismi, benché
l’antifascismo non vada utilizzato come arma polemica nella lotta partitica
quotidiana (non chiunque è nostro avversario è anche fascista o comunista –
altrimenti questi termini diventano asemantici e perdono la propria serietà –).
E poi
lo Stato sociale; o meglio, quanto è previsto dall’articolo 3, che dà alla
politica il compito di rimuovere gli ostacoli al pieno sviluppo della
personalità.
E qui
ci si doveva interrogare se il neoliberismo e l’ordoliberalismo – i paradigmi
economici che sorreggono la UE – e la loro interpretazione radicale, secondo la quale
la politica non deve interferire con la signoria del mercato, sono del tutto in
linea con lo spirito costituente.
Ma,
oltre che un punto, la sovranità è una figura geometrica. È l’ordinamento giuridico, che, per
definizione, ha dei confini. Fino a una certa linea vige il codice penale italiano, da
quel punto in poi vige il codice penale francese. «Dentro» e «fuori» sono gli
assi fondamentali del normale funzionamento della sovranità: «dentro» c’è la
pace, «fuori» c’è la possibilità della guerra; «dentro» ci sono i criminali,
«fuori» ci sono i nemici – senza possibilità di veder nascere all’interno un
nemico o di criminalizzare il nemico esterno –.
Va
ricordato ai più giovani che noi questa cosa l’abbiamo vissuta, sia durante la
guerra fredda – con la criminalizzazione del nemico esterno –, sia quando ci
siamo trovati in casa le BR, che volevano essere riconosciute come nemico
politico (cosa che non avvenne, e quindi rimasero nel loro status di
criminali).
E
infine la sovranità è un solido – e qui i giuristi mi diranno che io sconfino,
ovviamente –; cioè, è una società con la sua dialettica interna.
Il
soggetto politico sovrano esiste realmente, in carne e ossa: è un corpo
politico che dà la sostanza, la forma e l’orientamento della sovranità. In alcuni Stati sovrani comandano i
ricchi, altri sono popolari e democratici; alcuni godono di pace civile
all’interno, altri sono connotati da una forte dialettica socio-politica.
Questi
non sono accidenti della sovranità, sue variabili inessenziali: sono la sua
sostanza, senza la quale non si comprende neppure la sua forma. La sovranità nella storia non è mai
solo un punto, non è mai solo un ordinamento, ma è anche al tempo stesso un
solido.
Il
vero problema – non ci entro qui – è che queste, diciamo così, modalità di
esistenza della sovranità sono fra di loro sconnesse. Questo vuol dire che la sovranità non
può mai essere soltanto decisionistica, non può mai essere soltanto giuridificata,
e non può mai essere soltanto ridotta a un dato sociologico.
Qui
c’è davvero un elemento inquietante: la politica non può mai essere solo
giuridificata.
Essendo
qualche cosa di vivo, la sovranità non si manifesta sempre soltanto attraverso
contingenze riconducibili alla fattispecie – non si può tradurre tutto quello
che succede in norme –: ciò è inaccettabile per i giuristi, ma è la storia
politica reale.
Se la vita politica fosse tutta giuridificabile,
sarebbe come dire che è tutta tecnicizzabile o come dire che è tutta
economicizzabile; cioè, significherebbe sostenere che esiste da qualche parte
un principio di neutralizzazione totale delle dinamiche politiche.
Questo
è quello che ci viene fatto credere oggi, ed è esattamente ciò contro cui noi
insorgiamo, ciò che noi critichiamo. Perché il vestito, se il vestito è
unico, è sempre non-adatto; e il pensiero, se il pensiero è unico, non riesce
mai a pensare abbastanza.
Questo
fa parte del fatto che noi stiamo nella storia (non stiamo «fuori», «sopra»),
stiamo nella contingenza. Detto in un altro modo (e chiudo su questo punto), la
sovranità è un concetto, ma è un concetto esistenziale, non è un concetto puro
– il quadrato è un concetto puro (la figura geometrica in cui quattro lati sono
tutti uguali e quattro angoli sono di 90 gradi ciascuno: questo è un concetto
puro) –. La sovranità è un concetto esistenziale, cioè è l’espressione della
volontà di esistere come soggetto di un certo gruppo politico.
Ed
«esistere» significa esporsi alla contingenza, al rischio. Allora, se
ragioniamo così diventa una cosa estremamente seria. Cerchiamo di capire dai palestinesi o
dai curdi o dai somali o dai libici che cosa vuol dire sovranità. Esistono? No,
non esistono come soggetto politico; esistono come singoli individui, come
bande, come tribù, ma non esistono come soggetti sovrani.
Gli
avversari della sovranità.
Ora,
perché stiamo qui a riflettere sull’abbiccì di ogni pensiero giuridico di
diritto pubblico o di storia del pensiero politico o di storia politica? Perché
sprechiamo il nostro tempo prezioso nel pensare ciò che è già stato pensato?
Perché è un po’ di anni che ci dicono che nulla di tutto ciò è più vero; che
tutto ciò è preistoria, fascismo, grettezza d’animo; che fa venire il
cambiamento di clima – questa l’ho letta davvero: il sovranismo produce il cambiamento
climatico –. Chi dice ciò? Chi sono gli avversari della sovranità? Eccone
alcuni.
Il
singolo individuo, che, in teoria, l’ha prodotta attraverso le forme del
contratto politico moderno; però, nella realtà storica ha sempre trovato nella
sovranità un limite – anche se sa che senza quel limite egli, individuo, non
avrebbe la vita sicura; come diceva Thomas Hobbes: noi ci mettiamo insieme per godere
in sicurezza dei frutti della nostra industria. Il Leviatano sarà una triste
realtà, però senza di lui le cose vanno peggio –. L’individuo, quindi, prova a
indebolire la sovranità: è il liberalismo.
Poi –
ben più potenti – ci sono fattori universalistici, che detestano la sovranità
in quanto essa vive di limiti, di confini, di determinazioni; questi sono: il
diritto, che non è soltanto il diritto interno, ma è anche il diritto
internazionale; la morale – è difficile rinunciare all’idea di una morale
universale –; l’economia capitalistica moderna – la quale nasce dentro lo
Stato, custodita allevata, protetta, nutrita, salvaguardata dallo Stato, ma la
sua vocazione è globale; non da adesso, da sempre –.
Allora,
pensate a quello che veniva detto quando vi era un altro ministro dell’Interno,
che bloccava i porti: da una parte c’era la tesi «io difendo i confini»;
dall’altra c’era la tesi «i confini non vanno difesi perché vi sono valori
universali che sono superiori ai valori particolari».
E
tutto ciò veniva argomentato, quando lo era, attraverso iniezioni potentissime
di emozione, cioè di casi singoli, emblematici. Poi, veniva argomentato attraverso la
moralità: «È immorale comportarsi così». Ma anche attraverso l’economia: «Ci
fanno comodo i migranti». E infine attraverso il diritto, tanto interno quanto
internazionale: l’universale contro il particolare, la norma contro la decisione. A questi si aggiunge, poi,
l’argomento principe: l’antitesi vecchio-nuovo. «Tu sei vecchio, vecchissimo, morto…
tutta questa roba andava bene nell’800, ma adesso c’è la globalizzazione».
Ora,
se per globalizzazione si intende il fatto che 350 milioni di cinesi sono stati
messi al lavoro e hanno distrutto le classi operaie occidentali, da una parte,
e, dall’altra, hanno fatto della Cina la fabbrica del mondo, certo che la
globalizzazione c’è.
Se per globalizzazione si intende il fatto che le
amministrazioni di sinistra statunitensi ed europee hanno deregolato i
meccanismi di allocazione delle risorse finanziarie a livello mondiale, per cui
chiunque abbia dei soldi li può spostare in un decimo di secondo qua e là come
vuole, è vero.
Da ciò
discende forse che il mondo è diventato privo dell’«esterno», cioè che la
logica sovrana dell’«interno-esterno» non vale più? Ne siamo certi?
Forse che non esiste un capitalismo cinese diverso dal
capitalismo statunitense? Forse che non esiste la proiezione di potenza verso l’esterno
di una serie notevolissima di entità politiche?
Ma non
sono soltanto Cina, USA, Russia; di Stati che fanno politica internazionale,
cioè proiettano in modo strategico la propria potenza militare ed economica, ce
ne sono parecchi: Israele, Turchia, Giappone (sul piano militare no, ma sul
piano economico c’è, eccome), India, Brasile, fra un po’ ci sarà la Nigeria.
Descrivere
il mondo globalizzato come un mondo privo di centri di potere sovrano è
veramente dire il falso.
Ho
letto poco tempo fa l’articolo sul Corriere della Sera di un ex ambasciatore il
quale, dopo aver fatto una analisi corretta del contesto internazionale, diceva
sconsolato «ma
guarda tu com’è possibile che il mondo sia tutto pieno di sovranismi».
Ma non
sarebbe bastato dire «guarda tu come è normale che il mondo sia tutto pieno di
sovranità»? Chi è che va a spiegare a qualunque Stato che non è uno Stato
sovrano… tranne che a noi. Noi stiamo riuscendo nell’impresa di creare la non-sovranità
in un Paese solo, come Stalin aveva creato il comunismo in un Paese solo.
La
verità è che le dinamiche economiche globali esistono, e non si sovrappongono
perfettamente alle dinamiche politiche sovrane (per definizione, parziali): i grandi centri di potere politico
non governano pienamente l’economia globale, ma la intercettano, la deviano, se
ne servono e ne sono a loro volta utilizzati. La sovranità, oggi, esiste in un
ambiente esterno ancora più difficile che in passato; ma non sta morendo, non è
in rovina.
Cenni
di storia economica.
Noi
siamo vissuti dal secondo dopoguerra dentro il sistema di Bretton Woods (1944),
che era un sistema a trazione americana, a egemonia intellettuale molto
all’ingrosso keynesiana, e sicuramente fondato sugli Stati.
Questo
sistema è andato in crisi per un motivo essenzialmente esogeno, cioè il fatto
che il barile di petrolio è passato in poche settimane da quattro a ottanta
dollari. Inoltre,
gli americani avevano fatto un’inflazione mostruosa per la guerra in Vietnam,
per cui era nata una situazione ingestibile col paradigma keynesiano, cioè la
stagflazione.
Chi ha
qualche anno ricorderà che Andreatta emetteva bond al 22% perché c’era
l’inflazione al 20.
Ciò è male, ovviamente, e a ciò è seguita una
cura da cavallo, cioè la nascita, la messa in pratica di un paradigma economico
che era nato tra l’Otto e il Novecento, cioè il marginalismo austriaco, tenuto di riserva nei grandi
dipartimenti economici anglosassoni, rispolverato alla bisogna – premio Nobel a
Hayek, che ne è il grande sistematore, nel ’74; in parallelo, mano libera ai
«Chicago Boys» per mettere ordine in Cile –. Mentre il modello keynesiano – mi
perdonino gli economisti – ha un nemico che è la disoccupazione, il nuovo
modello (che tanto nuovo appunto non è) ha invece un altro nemico, l’inflazione,
e lo debella, perché è un modello deflattivo: ci devono essere pochi soldi in giro,
e quei soldi devono essere prevalentemente nelle tasche di pochi.
Perché
ci siano pochi soldi l’economia non deve funzionare con la domanda interna, ma
con le esportazioni; non ci devono essere alti salari, né, quindi, conflitto
sociale, e dunque è necessario che il conflitto sociale venga, da una parte,
criminalizzato, dall’altra giudicato obsoleto («Siamo tutti nella stessa
barca»). Questo
modello economico implica che il fattore centrale del sistema economico non
stia più nel lavoro, ma nel consumo; cioè è un’economia dell’offerta.
All’inizio
tutto ciò passa – dapprima nel mondo anglofono – perché i poteri forti di
questo pianeta lo fanno passare, cioè si cominciano a fare politiche di questo
tipo.
Poi,
passa perché viene fatto piacere, perché è tutto costruito sulla esaltazione
della capacità imprenditoriale di ciascun singolo; cioè, detto in un altro
modo, stimola il desiderio: mentre l’altro modello, precedente, era dopotutto fondato
sopra la disciplina, sopra la previsione del futuro – «lavora duro oggi perché
domani tuo figlio starà meglio» –, qui invece si dice «sii un avventuriero,
godi, consuma, mettiti alla prova, segui il tuo sogno, sii te stesso…». Chi è
giovane ha sentito solo questo modo di ragionare, fino alle parole del papa
supremo: «Stay hungry, stay foolish».
Voi
capite: te lo fanno piacere, soprattutto se il tutto è condito dalle campagne
gestite dai giornalisti dei grandi giornali di proprietà dei grandi
capitalisti, campagne contro i partiti politici, contro i corpi intermedi,
contro i sindacati.
L’obiettivo
è che la società sia priva di divisioni strutturali (classi); che sia, come si
dice, «liquida», un magma indistinto di individui, tutti controllati,
controllabili, valutati, valutabili, e la logica del capitale deve estendersi
su tutta la società.
Nessuna
isola, nessuna eccezione, nessuna riserva indiana – tra un po’ dovrai pagare
anche quando vai a fare la comunione –. Di sicuro siamo tutti mercificati.
Che
cosa è costruirsi un curriculum – cosa a cui i giovani sono tenuti, mentre
quelli della mia età non sapevano nemmeno che cosa fosse –? È mettersi addosso
un’etichetta, garantire la tracciabilità della merce.
Che
cosa è il turismo di massa se non la trasformazione delle città in scenari, in
quinte di uno spettacolo, in merci urbane? Nulla e nessuno deve resistere alla
potenza del capitale.
Che
cos’è l’idea che i vecchi non devono votare perché sono economicamente non
propensi al rischio?
Si dirà «ma quella era una provocazione». Il
dramma agghiacciante sono le risposte di quelli che non sono d’accordo – «I
vecchi sono economicamente utili» –.
Ecco
che cos’è egemonia: tradurre la cittadinanza in utilità economica, e poi
discutere se una persona è economicamente utile o no. Egemonia è questo, e chi non l’ha –
invece di dire «il terreno di gioco lo metto io» – accetta il terreno di gioco
di un altro; dissente sui particolari, ma non sul principio generale. D
a
quando in qua si valuta la cittadinanza sulla base della capacità economica? Dal Dreiklassenwahlrecht di
Humboldt (siamo in Prussia, all’epoca delle riforme dopo la sconfitta di Jena,
1808-1809), quando il terzo più alto in reddito eleggeva un terzo
dell’assemblea, per cui uno Junker aveva milioni di voti, mentre il suo
contadino ne aveva uno. I voti si pesano e si contano, qui.
La
prima ondata mondialista negli anni ’90 era giocata sul registro euforico: «Sii
te stesso, segui il tuo sogno, fai debiti». Dopo il 2008 ha preso un’altra
tinta ed è diventata: «Come ti sei permesso di fare debiti; maledetto
peccatore, morirai per questo».
In
questa forma di capitalismo la ricchezza si presenta in forma «liquida»,
finanziaria; il sistema fa accumulazione attraverso le bolle: ogni tanto le
bolle scoppiano e molti restano bruciati.
Da un
punto di vista sociologico, poi, le sue dinamiche sono orientate, lo abbiamo
già detto, alla distruzione delle differenze: dei partiti, che sono differenze
organizzate; dei sindacati; dei ceti, prima di tutto il ceto medio, soprattutto
quel ceto di disgraziati, come i professori universitari, i professionisti,
gente che credeva di essere indipendente per «Besitz und Kultur», proprietà e
cultura, e adesso scopre di essere dipendente come l’ultimo dei salariati:
«Credevi di avere una certa pensione? Io te la abbasso. Credevi di avere uno
status sociale? E io te lo tolgo.
Credevi
di avere diritto alla considerazione della Repubblica perché insegni, perché
sostieni intellettualmente questo Paese? Abbasso i professoroni! Viva
l’ignoranza!» (l’esaltazione della società del sapere, del ruolo centrale della
ricerca per lo sviluppo, è la riduzione del sapere a specialismo settoriale,
con divieto assoluto che il sapere assuma un ruolo critico).
La distruzione del ceto medio è uno degli
obiettivi sociologici fondamentali del neoliberismo, che – torno a dire – vuole
una società di atomi scollegati fra di loro, e semmai collegati soltanto a
internet e a Facebook. Naturalmente, a questo livellamento corrisponde una
crescente disuguaglianza fra la massa dei poveri e la minoranza dei ricchi.
Nel
frattempo, le promesse disattese sono state tante e così amare le disillusioni,
che nel crollo del paradigma economico – nel crollo delle speranze che da esso
erano state veicolate – è stata travolta anche la democrazia, la fiducia del
popolo nelle istituzioni democratiche.
Quella
complessa congerie di istituzioni, di processi, ma anche di valori, che si
assommano nella democrazia liberale rappresentativa è in grave difficoltà
perché è troppo stabilmente associata al modello economico che l’ha
schiacciata, l’ha stravolta, l’ha fatta diventare una postdemocrazia.
La
protesta (che le forze dell’establishment classificano come populista e
sovranista, perché è una richiesta di protezione del popolo allo Stato, che
difenda la società dalle incontrollate dinamiche economiche sovranazionali) si
manifesta non solo contro il paradigma economico ma – anzi più spesso – contro
le sue istituzioni politiche, che quello stesso paradigma ha svuotato e reso
praticamente risibili.
Tutto
il mondo, oggi, conosce una serie di focolai di rivolte violente, ma al tempo
stesso non bene indirizzate, contro lo status quo; tutto il mondo, dal Cile a
Hong Kong, da Barcellona a Parigi, eccetera. Questo sistema non regge, non è più
considerato vitale, vivibile. La globalizzazione è dunque contraddetta nel suo
presupposto fondamentale – cioè l’arricchimento generale attraverso
l’individualismo – dal fatto che le società che hanno subito più potentemente
la globalizzazione sono società in rivolta. Inoltre, la globalizzazione è
contraddetta dal già ricordato pluralismo politico mondiale.
Europa
e Italia.
In
Europa, ed eccoci al punto, non ci siamo dati soltanto un modello neoliberista;
ci siamo dati un modello ordoliberista. L’ordoliberismo è una variante del
neoliberismo, che tra l’altro si è definito esso stesso neoliberismo fino a
che, a un certo punto, ha cominciato a chiamarsi ordoliberalismo perché uno dei suoi
fondatori, Walter Eucken, ha fondato una rivista che si chiamava «Ordo».
Si
tratta dell’«economia sociale di mercato» tedesca. Ora, da settant’anni ai tedeschi le
cose vanno spesso più bene che male – e l’ordoliberalismo li ha tirati
fuori in qualche modo dal disastro del 1945 –.
Però,
ha dei presupposti molto cogenti. È diverso dal modello neoliberista
essenzialmente per questo: mentre il neoliberismo crede che nel migliore dei mondi
possibili non ci sia politica, perché il mercato si autosostiene, si
autogiustifica, e solo in questo basso mondo è necessaria la politica (ma solo
perché faccia riforme antisociali e filomercato), al contrario,
l’ordoliberalismo pensa il mercato come qualche cosa di fragile, bisognoso del
continuo intervento della politica, a partire dalla grande decisione politica
che lo instaura. Il mercato deve essere costituzionalizzato, deve diventare un pezzo di
costituzione.
Oltre
a ciò, gli ordoliberisti condividono l’idea che i prezzi si formano attraverso
la concorrenza, e che la politica qui non deve entrare.
Qual è
quindi l’intervento della politica? Sostanzialmente, deve prevenire o
neutralizzare il conflitto sociale.
Idea comune al neoliberismo, certo, ma
sorretta qui dal vecchio organicismo tedesco. L’ordoliberismo esprime una visione
organica della società ed è stato anche considerato una delle dottrine
economiche della Chiesa cattolica, tanto è legato all’idea – antichissima,
peraltro – della società come corpo, per cui tutti gli organi devono volersi
bene gli uni con gli altri. Vietatissima la parola conflitto, quindi.
I sindacati devono essere incorporati dentro le
imprese, le ali estreme vanno tagliate: per cui, fuori i nazisti, poniamo, e
fuori i comunisti. E poi? E poi lo Stato non deve fare debiti, che generano
inflazione (l’atavico timore dei tedeschi), e deve impedire che nascano
cartelli fra le imprese e che i sindacati ostacolino l’armonica composizione dei
prezzi.
I
salari, sempre, devono essere bassi – voi potreste dire «I tedeschi hanno
salari alti»: in realtà, hanno salari che sono molto inferiori a quello che
potrebbero essere –.
L’ordoliberalismo è un’idea e una pratica della
società, non solo dell’economia.
L’economia, nel suo complesso, non è trainata dalla
domanda interna, ma dalle esportazioni.
Il che
genera un problema di saturazione dei mercati, che si è già manifestato;
inoltre, ovviamente, a un certo punto le pratiche neo-mercantiliste (e il
relativo surplus della bilancia commerciale) disturbano qualcuno (nello
specifico, gli americani).
Infine,
la Germania di oggi attua un ordoliberalismo dimezzato, perché il solito
socialista – Schröder – fra il 2003 e 2004 ha fatto un paio di riforme che
hanno drasticamente ridotto l’elemento di Stato sociale presente in senso
organico nella costituzione materiale tedesca, introducendo i mini-jobs, per
cui anche in Germania c’è gente che campa con 400 euro al mese.
Ora,
l’euro è il marco. È fatto allo stesso modo, risponde alla stesse logiche, alla stessa
filosofia politico-economica – l’ordoliberismo –.
I
tedeschi non lo volevano fare; fino a quando i francesi non l’hanno chiesto
come contropartita del permesso di fare la riunificazione.
La quale
a sua volta ha in sé degli enormi problemi, come ci insegna Giacché – ma questa
è un’altra storia –. L’euro nasce, sostanzialmente, per due motivi: costituire un
baluardo che non faccia travolgere i Paesi della UE dalle dinamiche globali; e
tenere la Germania attaccata all’Europa, dato che la Germania ha sempre avuto
la tendenza a spostarsi verso la neutralità (io non sono antitedesco: la mia
cultura è tedesca).
Inoltre,
la Germania è oggi un Paese democratico; però, è un Paese fuori scala rispetto
agli altri Stati europei, benché abbia perduto un terzo del suo territorio; e
poi, è ben organizzato (certo, ha problemi all’interno – chi non ne ha? –
perché non hanno investito in casa propria); è molto popoloso.
Ora, i
tedeschi hanno sempre detto «almeno il marco ce lo lasciate: non fa male a
nessuno, anzi». E quando hanno detto «d’accordo, rinunciamo al marco e facciamo
la moneta comune», lo hanno detto soltanto perché l’euro era uguale al marco e
perché, benché moneta unica, non era collegata ai bilanci dei singoli Stati.
Cioè,
la tesi tedesca è: «Non è che abbiamo la moneta unica e abbiamo un bilancio
unico dell’eurozona, così noi ci dobbiamo prendere anche i debiti degli
italiani; gli italiani si tengano i loro debiti e facciano la loro politica
economica in modo tale da poter rimanere dentro l’euro».
Dall’euro
la Germania ha tratto grandi benefici: ha svalutato un po’ il suo marco troppo
forte; ha attratto capitali; ha potuto gestire l’euro senza difficoltà, perché
rispondeva al suo tradizionale modello economico; si è potuta adattare al
contesto globale in una posizione di forza (il suo surplus commerciale lo
dimostra); si è potuta costruire un’area economica assai robusta nel Centro
Europa, fino al Nord-Italia; ha potuto dividere l’eurozona in Paesi creditori e
Paesi debitori. Ma ora tutto ciò è a rischio; il grande gioco è giunto al capolinea.
Ecco,
dopo un lungo periplo ci siamo arrivati. E allora diciamo che la questione
della sovranità si pone – in un senso o nell’altro –. Infatti, l’affievolirsi della
logica bipolare mondiale ha riportato alla luce le antiche sovranità europee,
proprio mentre, in parallelo, queste tentavano di dare vita, con la UE e
l’euro, a un’entità sovranazionale; che però non è risultata sovrana, né
vitale, perché le è mancato l’impulso politico costituente.
E
quindi la UE oggi funziona col metodo intergovernativo, ovvero attraverso il
diverso peso che hanno, inevitabilmente, le diverse sovranità.
Ma
proprio per ciò l’Italia non può restare in questa posizione intermedia: avere
dell’euro tutto il peso (anche il vantaggio della stabilità dei prezzi, certo),
tutti gli obblighi economici e sociali, e dovere far fronte ai suoi obblighi da
sola. Qualcosa si deve muovere.
Certo,
il movimento è possibile, in via teorica, anche verso la creazione di una «più
stretta Unione»; si tratterebbe della creazione di una sovranità federale,
sovra-statuale: gli Stati Uniti d’Europa.
Grandi investimenti in «economia verde»,
grande generosità nella condivisione del debito – almeno quello futuro –;
grande rafforzamento della dimensione comunitaria della governance; grande
integrazione delle forze armate e dei concetti strategici; nuovo ruolo politico
del Parlamento, con possibilità di ridiscutere il modello economico.
Rispetto
a questa ipotesi, però, ci vuole realismo; non basta evocarla come un mito. Si deve comprendere che a ciò è
necessario un immenso potere costituente, una mobilitazione politica
continentale, rispetto alla quale i «sovranisti», i reazionari, sono proprio
gli attuali ceti dirigenti delle singole entità statali nazionali – sicuramente
delle più forti –. Ma è quasi inutile parlarne; di volontà politica unitaria su
scala continentale non c’è traccia: la Francia non diventerà come la
California, né la Germania come il Texas.
In alternativa
a questo salto in avanti c’è il non far nulla, o quasi; dentro la UE, una
parvenza di buona volontà, quando non costa nulla, e molta attenzione agli
interessi nazionali.
Da
parte italiana, la ricerca di qualche deroga alle durezze dell’euro, che non
modificherà la nostra cronica mancanza di fondi da investire nei molti fronti
scoperti (Università, scuola, ricerca, infrastrutture, sanità, pubblica
amministrazione) e che non ci farà uscire dalla posizione di fanalino di coda
nella crescita economica (dentro un’area, quella dell’euro, che a livello
mondiale è quella che cresce meno) e di spazio aperto a ogni scorreria dei
capitali stranieri. Un lento declino, insomma, dell’economia, della politica,
della democrazia.
Oppure,
c’è come ulteriore alternativa una nuova immissione d’energia intorno ai
problemi reali del Paese – teorici e pratici –. Un’energia che non vuol dire
immediatamente «usciamo dall’euro», «riprendiamoci la sovranità monetaria, e
ogni altra», con mossa unilaterale.
Vuol dire che la prima cosa da fare è
costruire un discorso scientifico, storico, politico, economico, che non sia
coincidente con la auto-narrazione dell’establishment.
Che
non sia costellato di divieti, di ricatti moralistici, di intimazioni al
silenzio, di slogan, di banalità, di falsificazioni storiche, e di partiti
presi. Un discorso che non si collochi all’interno dell’egemonia
dell’establishment, che non parta dall’intimidatoria domanda «dove pensi di
andare col debito pubblico che ti ritrovi?».
Un discorso che veda il debito non come il
nostro problema principale ma come il risultato di una serie di atti politici,
e certo non come un castigo divino inesorabile.
Io do
il mio contributo in questa direzione: voglio che le parole siano dette in un
altro modo, voglio che i concetti siano espressi in un altro modo, voglio che i
fatti siano visti da un altro punto di vista. Un punto di vista realistico.
E
allora, cominciamo col dire che l’Italia non è mai stata una potenza di vertice
in Europa. Siamo
sempre stati in serie A – ma sempre a rischio retrocessione –. Siamo nati
centosessant’anni fa senza capitali, senza alfabetizzazione, senza popolo,
senza vera unità economica, con istituzioni deboli, con un apparato
amministrativo zoppicante; ma dopo venticinque anni già volevamo fare un impero
coloniale oltremare.
Stavamo
in piedi solo perché avevamo i capitali inglesi e francesi, però ci
accoglievano – un po’ sottogamba – nel concerto delle potenze. E che cosa
facevamo?
Cercavamo
un rapporto privilegiato con la Germania, e lo abbiamo sempre avuto: siamo
complementari, sotto tanti profili. Poi, quando la Germania ci spingeva a fare
cose eccessive o per noi dannose, sia pure a prezzo di figuracce e di tragedie
riuscivamo a cambiare bandiera. Non sarà bello, ma la politica internazionale non è
fatta da boy scout; è fatta da soggetti che vogliono sopravvivere.
In
ogni caso, i nostri problemi sono mutati, ma non sono stati superati: debole
statualità e debole capitalismo ci perseguitano anche oggi.
Ma
l’euro quei problemi non li risolve, forse li esaspera. Allora, in generale un
rapporto forte con la Germania per l’Italia è opportuno; ripeto, siamo
complementari.
Ma in quel rapporto che oggi è non solo un
rapporto fra Stati, ma un rapporto fra parti della UE che hanno anche moneta
comune, dobbiamo portare più sovranità.
Sovranità
non vuol dire che noi crediamo di essere grossi, ricchi e potenti come la
Germania, e che come questa possiamo essere egemonici nella UE e nell’euro: non
possiamo, e basta.
E non vuol dire neppure esser «sovranisti» –
cioè xenofobi, reazionari, chiusi, provinciali –. Vuol dire che dobbiamo avere
(riconquistare) un margine di manovra per riuscire a calcolare il nostro
interesse nazionale, sulla base di un’analisi lucida e realistica del contesto
interno e internazionale.
Noi
non abbiamo mai avuto nella nostra storia un «vincolo esterno» così cogente,
stringente, ineluttabile, come l’euro.
Ci siamo legati le mani senza ritorno, e non è
stato un legarsi le mani solo economico: sposando l’euro si sposa
l’ordoliberalismo, cioè il concetto che l’economia non funziona sulla base
della domanda; che i salari devono essere bassi; che la cosa più importante di
questo mondo è il pareggio di bilancio, e lo si mette perfino in Costituzione.
Abbiamo
sposato una bella serie di vincoli e di problemi; ci siamo costruiti una
gabbia, ci siamo chiusi dentro e abbiamo buttato via la chiave. L’euro è divenuto il destino,
l’ineluttabile, l’incontrovertibile. Cioè è qualche cosa che non può essere
discusso; è il punto archimedico della sovranità.
Perché
l’abbiamo fatto? Perché la nostra borghesia nei suoi personaggi di punta
(Carli, Ciampi, Andreatta, Prodi, eccetera) ha pensato che l’Italia è un Paese
difficile, ingovernabile, in mano a politici che tendono a fare clientelismo.
Ed ecco le due mosse per uscire dall’impasse:
la prima è il «divorzio» fra il Tesoro e la Banca d’Italia – la lettera di Andreatta
a Ciampi nel 1981 – (in realtà si tratta di uno sviluppo dell’adesione italiana
allo SME del 1979) che rientra in una strategia anti-inflazionistica, e che ha
avuto come esito la trasformazione dell’inflazione in debito (lo Stato non può
farsi comperare il debito dalla Banca d’Italia, e quindi crea debito verso i
mercati finanziari); di quella strategia fa parte anche la lotta contro la
scala mobile – insomma, l’armamentario neoliberista all’attacco, l’inizio del
progressivo sottofinanziamento dello Stato sociale, che è l’impresa storica
della seconda e (finora) della terza repubblica.
La
seconda mossa è l’ingresso nell’euro, come sviluppo dello SME. Sostanzialmente
è passata l’idea che la sovranità come concetto esistenziale, come modo
d’essere nel mondo in quanto popolo che esiste politicamente, è un’idea
obsoleta: si sta al mondo per far tornare i conti economici pubblici e per far
incrementare a dismisura gli introiti privati di quelle minoranze che
dall’ordoliberalismo stanno guadagnando.
Ecco,
parlare di sovranità davvero vuol dire parlare di democrazia oggi. Sovranità è
democrazia oggi, perché significa porsi la domanda sul come fa un popolo a
essere signore del proprio destino; e ciò non vuol dire vivere in una bolla
senza vedere come funziona il mondo, ma vuol dire non accettare l’idea che
tutto è già stato deciso, e che, come diceva la signora Thatcher, «non c’è
alternativa».
Se la
storia, negli anni Ottanta, andava in una direzione, oggi – anche alla luce dei
problemi che da quelle decisioni sono sorti – deve essere possibile pensare che
si possano prendere nuove decisioni: ponderate, naturalmente, perché è in gioco
il futuro del Paese, le nostre ricchezze, i nostri risparmi –. Sovranità è riprendere il volante,
non accettare più il pilota automatico.
Democrazia
è non solo l’ordinato svolgimento del processo politico, non è soltanto lo
Stato sociale: è tenere aperta la discussione e la praticabilità dei fini della
politica.
Noi, invece, abbiamo ricevuto tutto già fatto,
preconfezionato: i fini e i mezzi ci sono già stati consegnati, non si deve
fare altro che obbedire – per di più, a un sistema intrinsecamente instabile e
pericoloso –.
Non è
una prospettiva da popolo libero, da donne e uomini liberi. Parlare di
sovranità vuol dire parlare di questo, entrare nell’ordine d’idee che sul
presente e sul futuro si può democraticamente riflettere.
Chi
non ti lascia parlare di sovranità o non sa nulla oppure la sa troppo lunga. Fu
detto che chi parla di umanità ti vuole ingannare; oggi posso dire che chi
parla di Europa, e non ammette che si parli di sovranità, ti vuole dominare.
(CARLO
GALLI, professore ordinario di Storia delle Dottrine Politiche presso
l’Università degli Studi di Bologna).
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