UN MONDO DILANIATO DALLO SCONTRO DI CIVILTA’.

 UN MONDO DILANIATO DALLO SCONTRO DI 

CIVILTA’.

 

“Scontro di civiltà”: Samuel Huntington

 aveva previsto tutto, nel 1996.

Visionetv.it- Geoffrey Clarfield e Salim Mansur - (23 Marzo 2022 )- ci dice :

 

Nel 1996, il compianto Samuel Huntington (1927-2008), un rispettato professore di Harvard, pubblicò “The Clash of Civilizations and the Remake of World Order”.

Questo testo era la sua risposta al bestseller del 1992 di Francis Fukuyama, dal titolo “La fine della storia e l’ultimo uomo”. Entrambi i testi si focalizzavano su un possibile futuro mondo del dopo Guerra Fredda.

Il recente scoppio della guerra in Ucraina ci ha inevitabilmente riportato alla mente il dibattito che si era svolto sulle due diverse di Fukuyama e Huntington.

Per Fukuyama, la fine della Guerra Fredda è stata anche la fine della Storia con la “S” maiuscola, quella  nozione di storia guidata da conflitti ideologici.

Dal suo punto di vista, sebbene si verificassero ancora eventi problematici, questi non avrebbero comunque ostacolato  la diffusione del mondo neoliberista( Liberal Dem Usa) basato sulle regole in termini di libertà, democrazia, economia di mercato e secolarizzazione delle culture, tutto secondo quanto riportato nell’esperienza americana.

Il punto di vista di Huntington era meno ottimista.

Vedeva la fine della Guerra Fredda come una transizione verso un mondo in cui le divisioni tra le grandi potenze un tempo basate su ideologie politiche sarebbero state sostituite dalle divisioni più durature della storia fondate su culture e tradizioni religiose.

 Huntington ha anche definito la civiltà come l’identità culturale più ampia della storia.

Quindi, Huntington prevedeva uno “scontro di civiltà”   frase presa in prestito da Bernard Lewis, storico del Medio Oriente e della civiltà islamica – che oscurava il futuro del nuovo secolo e anche del millennio a venire.

Huntington ha messo in guardia i colleghi americani, in particolare gli ottimisti come Fukuyama:

“Nel mondo emergente di conflitti etnici e scontri di civiltà, la sterminata fiducia tutta occidentale nell’universalità della cultura occidentale soffre di tre problemi:

 è falsa, è immorale, ed è pericolosa” .” (Come lo è la nuova dottrina divulgata dai “Liberal Dem Usa”.Ndr).

Ha quindi aggiunto: “La convinzione che i popoli non occidentali debbano adottare valori, istituzioni e cultura occidentali è immorale, proprio per quello che sarebbe necessario attuare per realizzarlo … L’imperialismo è la conseguenza logica necessaria dell’universalismo”.

Gli eventi hanno dimostrato che Huntington è stato di fatto profetico e ha cancellato la rosea prospettiva di Fukuyama.

La “guerra globale al terrorismo” è stata una risposta agli attacchi terroristici degli estremisti islamici dell’11 settembre 2001, insieme all’argomentazione dei neoconservatori secondo cui dobbiamo diffondere la democrazia e i valori americani all’estero.

Questo alla lunga si è trasformato in una guerra senza fine che travalicava i confini, causa di dolore e sangue per le civiltà, proprio come aveva previsto Huntington.

La stessa guerra globale al terrorismo ha vaporizzato il previsto “dividendo di pace” derivante dalla fine della Guerra Fredda.

 Infine, i nuovi scontri con la Russia hanno innescato una guerra letale in Ucraina, attraverso la quale si percorre un confine frammentato da est a ovest in Europa, riportando alla ribalta accresciute tensioni di una Guerra Fredda che apparentemente non è mai finita.

Con specifico riguardo al conflitto, il crollo dell’Unione Sovietica ha resuscitato il passato della Russia pre-comunista come centro di civiltà della cristianità ortodossa e Mosca come terza Roma.

L’Ucraina indipendente, tuttavia, è un paese “dilaniato”.

Metà della popolazione è etnicamente russa e, in quanto cristiana ortodossa, è legata alla Russia; l’altra metà è composta da etnie miste e la sua affinità culturale e storica risiede in Europa con la Russia occidentale.Non è ironico vedere in questa guerra un vero e proprio conflitto di civiltà. Da un lato ci sono quegli ucraini che cercano il sostegno dell’Occidente (UE e NATO) per difendere la loro identità culturale percepita in termini di vero e proprio illuminismo di stampo occidentale.

 Dall’altra parte ci sono i russi che resistono ai valori occidentali (Liberal Dem Usa) perché questi sovvertono la loro identità culturale e il loro tenace cristianesimo ortodosso.

Con un occhio agli eventi in Ucraina e al loro svolgersi come ad un microcosmo di uno scisma in atto che coinvolge tutto il mondo, la tesi di Huntington è alquanto limitata perché non ha esaminato gli effetti del decadimento interno delle civiltà.

Ad esempio, non ha considerato gli effetti degradanti sulla cultura americana che Allan Bloom, nel 1987, ha esaminato invece  in “The Closing of the American Mind”.

Né ha preso in considerazione libri, come Amusing Ourselves to Death: Public Discourse in the Age of Show Business (1984) di Neil Postman o The Culture of Narcissism (1979) di Christopher Lasch, o il libro successivo di Lasch The Revolt of the Elites and the Betrayal of Democracy (pubblicato postumo nel 1997).

Bloom, Postman e Lasch descrivevano cosa succede quando una cultura inizia a smantellare i suoi valori fondamentali e, di conseguenza, perde la sua vitalità spirituale.

 In una cultura di questo tipo, dove le persone cercano sempre più solo il piacere, i cittadini vivono per il momento, tagliati alla deriva dal passato e indifferenti al proprio futuro.

 Lasch scriveva quasi in stile burkeano: “Il narcisista non ha alcun interesse per il futuro perché, in parte, ha anche poco interesse per il passato”.

Huntington semplicemente non poteva immaginare che un Occidente (e un’America) sempre più infedele, inetto, radicalmente secolarizzato e libertario potesse costituire un pericolo maggiore di altre culture nell’allargare le divisioni di civiltà nel mondo all’indomani della Guerra Fredda.

In altre parole, non ha percepito che l’Occidente contemporaneo, culturalmente in rovina e spiritualmente distrutto, non può fornire né guida morale, né guida alcuna, agli altri qualora necessaria per prevenire lo scontro di civiltà.

Huntington non aveva nemmeno ragione sul fatto che la cultura fondamentale dell’America basata sui valori dell’Illuminismo fosse unica perché ha un fascino universale.

Ma aveva ragione sul fatto che l’America, diffondendo la sua cultura (per quanto degradata), quando sostenuta con la forza (difensiva o meno) a popoli non occidentali, avrebbe trasformato  il suo eccezionalismo americano in ciò che si definiva come imperialismo americano.

Almeno negli ultimi vent’anni, gli americani avrebbero fatto bene a ricordare le parole di John Quincy Adams:

“(…)Ovunque lo standard di libertà e indipendenza si dispiegheranno, lì ci sarà il cuore dell’America, le sue benedizioni e le sue preghiere. Ma non vada all’estero in cerca di mostri da distruggere. Essa è la sostenitrice della libertà e dell’indipendenza di tutti. Lei è la campionessa e la vendicatrice solo di se stessa.(…)

La spinta degli Stati Uniti nei confronti dell’Ucraina affinché questa entrasse nella NATO  da un lato stava allargando sconsideratamente il divario interno di un paese ormai “dilaniato”, mentre dall’altro incitava  in modo spaventoso la Russia a invadere preventivamente il territorio per rendere nullo quell’invito. Di conseguenza, la tragedia che si sta verificando in Ucraina ha molto a che fare con il revanscismo russo, così come con l’arroganza americana che ha reso il popolo, in particolare i suoi leader, non curanti non solo delle preoccupazioni di Huntington, ma anche degli avvertimenti di George Washington nel suo discorso di addio —un discorso che è molto più importante nel mondo del dopo Guerra Fredda rispetto a quando fu pronunciato nel 1796.

Washington ha avvertito: “L’Europa ha una serie di interessi primari, che non sono legati a noi o se lo sono, lo sono solo in maniera molto remota. Perciò si impegnerà in frequenti controversie, le cui cause sono essenzialmente estranee a noi».

 Inoltre:

 “Perché mai dobbiamo intrecciare il nostro destino con quello di qualsiasi parte d’Europa, impigliare la nostra pace e prosperità nelle fatiche dell’ambizione, della rivalità, dell’interesse, dell’umorismo o del capriccio che sono solo o principalmente europei? È parte della nostra politica stare alla larga da alleanze permanenti, con qualsiasi parte del mondo straniero”.

La lezione, quindi, che gli americani possono trarre dalla tragedia dell’Ucraina è che, quando si verificano scontri lontani per ragioni estranee all’America, il coinvolgimento americano può fare più male che bene.

Se gli americani desiderano che gli altri prestino loro attenzione, devono essere fedeli nelle parole e nei fatti ai valori fondamentali della loro cultura e quindi, solo in quel caso, possono meritare l’ascolto degli altri gli altri.

(Geoffrey Clarfield e Salim Mansur, traduzione Martina Giuntoli).

 

 

 

 

 

La lunga strada verso

lo scontro tra civiltà.

Lintellettualedissidente.it- Emanuel Pietrobon-  Nick Land-(29 luglio 2019)- ci dicono :

(Nick Land- L’Illuminismo oscuro).

 

Occidente scosso dal ritorno dell'identitarismo di destra, grandi potenze eurasiatiche che tentano di esportare il proprio modello di civiltà, lo spettro di un terrorismo islamista infinito e l'affacciarsi del suprematismo bianco: Samuel Huntington aveva previsto tutto?

Era il 1996 e lo scienziato politico e pensatore Samuel Huntington dava alle stampe uno dei saggi di geopolitica più discussi dell’ultimo ventennio: “Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale”.

 Huntington credeva che nel 2000 il panorama internazionale non sarebbe stato monopolizzato dallo scontro fra ideologie, come nel secolo precedente, ma dal conflitto fra culture e civiltà diverse.

Il declino dell’Occidente sarebbe stato causa di tensioni a livello globale, spingendo le potenze principali del “resto del mondo” a fronteggiarsi per l’estensione delle loro sfere di influenza – sfidando anche lo stesso Occidente.

La Russia avrebbe provato a riottenere il controllo, quantomeno indiretto, sui territori posseduti in epoca zarista e sovietica, Cina e Giappone avrebbero dato vita ad una nuova stagione di antagonismo per l’egemonia sull’Asia orientale e meridionale, l’India avrebbe abbandonato definitivamente le vesti di impero democratico multiculturale e multireligioso per dirigersi verso una progressiva induizzazione esportata oltre confine, il mondo islamico sarebbe stato scosso da una lotta intestina fra i principali paesi candidati al ruolo di “guida di civiltà”, l’Africa non-araba avrebbe continuato ad essere dilaniata da rivalità etno-nazionaliste, e l’Occidente avrebbe continuato a ergersi a poliziotto del mondo, a lottare per l’esportazione di valori propri intesi come universali, guidando guerre e cambi di regime, dando vita ad un vortice di tensione che presto o tardi avrebbe innescato una guerra tra civiltà.

Samuel Huntington.

Futurologia spicciola? All’epoca le previsioni del libro furono ampiamente schernite, accusate di descrivere un mondo-bomba a orologeria esistente soltanto nella mente dei neoconservatori americani eppure, all’indomani degli attentati dell’11 settembre 2001, Huntington e la sua opera riemersero dall’oblìo:

il primo diventando l’ospite più chiamato nei canali televisivi statunitensi, la seconda tornando nuovamente tra i libri più venduti dell’anno.

 

Passano gli anni e quello scenario cupo descritto da Huntington sembra stia realizzandosi in gran parte del mondo.

 In Occidente, il multiculturalismo palesa ormai tutti i suoi limiti e si dirige verso l’implosione fra enclavi etniche, epidemie di criminalità, rivolte urbane che esplodono periodicamente per i più disparati motivi, dagli Stati Uniti alla Francia, toccando Svezia, Gran Bretagna e Germania, coesistenza fra autoctoni e stranieri che diventa sempre più difficile, spingendo entrambe le parti a rintanarsi nell’identitarismo.

Inoltre, proprio come predetto da Huntington, Stati Uniti ed Unione Europea sono sempre più distanti, e buona parte degli occidentali è disinteressata alla tutela della propria identità, anzi segue ossessivamente mode esterofile, facendo del cosmopolitismo un modus vivendi.

Il mondo islamico è spaccato da una guerra per l’egemonia sulla umma: Iran e Arabia Saudita guidano lo scontro, ma Egitto, Marocco, Turchia, Emirati Arabi Uniti, Qatar, a loro modo perseguono agende parzialmente autonome dai blocchi di riferimento.

Lo scontro è lungo la Mezzaluna fertile, ma l’obiettivo ultimo è la legittimità agli occhi dei quasi due miliardi di fedeli che pregano rivolti verso la Terra del Sigillo dei Profeti.

Tutto il malessere per il colonialismo passato e l’imperialismo presente delle potenze europee e degli Stati Uniti ha alimentato la diffusione capillare di sentimenti antioccidentali, che hanno favorito l’emergere del terrorismo islamista. Un capitolo a parte merita la Turchia, il cui processo di occidentalizzazione forzata è stato interrotto a tempo indefinito da Recep Tayyip Erdogan per sposare un percorso identitario che può non piacere, ma che non è artificiale perché realmente appartiene alla storia della civiltà turca.

La Cina vuole smettere di servire passivamente la catena di produzione globale, sfruttando il potere e la ricchezza acquisite negli ultimi trent’anni per dar vita ad un nuovo ordine mondiale sino-centrico.

 Il Giappone, sia per la storica rivalità con Pechino che per il fatto di essere divenuto l’avamposto numero uno di Washington nell’Asia orientale, sta gradualmente riprendendo un programma di nazionalizzazione delle masse, per fronteggiare il mutamento di scenario.

La nuova classe politica indiana punta a marginalizzare islam e cristianesimo, e nel paese dilagano le violenze interreligiose, mentre si riaccende lo scontro che si credeva sepolto con il Pakistan.

La Russia sta effettivamente cercando di riesercitare il controllo su quel che fu l’Unione Sovietica e, infine, nell’Africa subsahariana dilaniata dalle divisioni interetniche l’epoca del nazionalismo nero panafricano sembra essere finita con le morti di Thomas Sankara e Patrice Lumumba.

Lo scontro delle civiltà è uno dei testi più controversi e incompresi della nostra epoca, questo è il motivo principale per cui si continua ad accusare il defunto politologo di distopia apocalittica. Huntington credeva che le culture si sarebbero scontrate, non i paesi. È il caso di approfondire proprio la questione occidentale.

Ad esempio il Belgio è al tempo stesso culla dell’Unione Europea e fabbrica di jihadisti, si alternano quartieri per la borghesia bianca, in giacca e cravatta, cosmopolita e poliglotta, a ghetti come Molenbeek in cui proliferano imam radicali, uomini in djellaba e donne col burqa, bande etniche, negozi con scritte in lingua araba, due realtà semi-parallele che quando si incrociano, si scontrano. Lo stesso accade nei Paesi Bassi, in Gran Bretagna, in Scandinavia, in Francia, in Germania, e in altri paesi in cui l’utopia liberale ha egemonizzato il panorama politico-culturale per decenni.

Molenbeek.

Il recente emergere dei populismi di destra è, geopoliticamente parlando, legato a lotte di potere intestine al mondo occidentale, ma è stato reso possibile proprio dalla percezione popolare del fallimento dei progetti multiculturali e anti-identitari.

Il senso di colpa dell’uomo bianco, il melting-pot, la xenofilia e l’esoticismo, hanno dato luogo ad una combinazione esplosiva, ampiamente predetta da Huntington e che, secondo lui, avrebbe accelerato la caduta dell’Occidente inteso come civiltà unica e distinta, rendendolo più vulnerabile agli sforzi egemonici provenienti dal “resto del mondo”. Le follie del politicamente corretto che si moltiplicano e si estremizzano con il passare del tempo sono un esempio di ciò.

Secondo la legge dei sistemi egemonici, quando il primato dell’attore 1 viene sfidato da uno o più rivali, tendenzialmente l’attore 1 reagisce aumentando la propria aggressività – accelerando, però, il proprio declino. È quanto sta accadendo all’Occidente: frammentazione interna e capacità di proiettare la forza all’esterno sembrano aver rinvigorito l’impegno internazionale, come palesato dalle guerre fredde e per procura aperte dall’asse Washington-Bruxelles in ogni continente, soprattutto contro Cina e Russia.

La stessa retorica huntingtoniana è riapparsa nel linguaggio politico, dopo esser dimenticata negli anni dell’era Obama. Ad esempio, figure-chiave dell’amministrazione Trump, da John Bolton a Steve Bannon, a più riprese hanno parlato di scontro di civiltà in riferimento all’impegno del paese contro Iran e Cina.

Huntington aveva messo in guardia l’Occidente, elaborando una primitiva teoria del disimpegno che Stati Uniti ed Unione Europea avrebbero dovuto seguire per evitare di alimentare tensioni pericolose nel mondo con potenze ormai capaci di affrontare uno scontro aperto, come la Cina appunto, e spiegando anche cosa fare per recuperare quell’orgoglio perduto legato ad un passato glorioso, ma ripudiato.

(Emanuel Pietrobon).

 

 

 

 

È un vero scontro di civiltà.

Italiaoggi.it- Alessandra Ricciardi - Loris Zanatta -(16-3-2022)- ci dice :

(Loris Zanatta ordinario di storia all'Università di Bologna).

Siamo nel bel mezzo di uno scontro tra civiltà. Non si tratta solo di difendere confini e potere, non è solo una questione geopolitica, è molto di più».

Loris Zanatta, professore ordinario di storia latino-americana dell'Università di Bologna, è uno studioso dei movimenti populisti e dei loro leader, autore da ultimo di Fidel Castro - l'ultimo re cattolico (Salerno editore) e Il populismo gesuita: Peron, Fidel, Bergoglio (ed. Laterza).

 Dice Zanatta: «Il peccato mortale commesso dall'Ucraina non è l'aver chiesto l'adesione alla Nato, questa è la schiuma che sta in cima alle onde, sotto le onde c'è l'occidentalizzazione degli ucraini, l'aver abbandonato l'ortodossia russa per abbracciare il materialismo, l'individualismo, il cosmopolitismo, virus pericolosi per la grande madre Russia».

 A cosa mira dunque Vladimir Putin?

 «Attaccando l'Ucraina, Putin non difende solo un confine fisico, ma l'essenza e la purezza della sua storia e della identità del popolo russo. Questa almeno è la sua visione.

E questo spiega», aggiunge Zanatta, «perché siamo nel bel mezzo di un conflitto molto pericoloso, uno scontro di civiltà tra Occidente e Oriente, tra il mondo secolarizzato e quello clericale dove fede e patria sono tutt'uno».

Le simpatie che sono state riservate a Putin, spiega Zanatta, «derivano anche da un substrato di valori che una volta erano appannaggio del mondo occidentale e lo sono ancora della Chiesa cattolica».

Possibile che Putin venga destituito dagli stessi russi?

 «L'adesione al regime e ai valori che ne sono alla base da parte del popolo russo è molto forte. Ma chissà, magari dopo 30 anni dalla fine dell'Urss, e anche grazie agli scambi culturali e commerciali che ci sono stati con l'Europa, i russi ci sorprenderanno, scopriremo che sono meno russi di quanto noi pensiamo».

Domanda. Non è la guerra lampo che forse la stessa Russia si aspettava, i bombardamenti vanno avanti e così la resistenza degli ucraini. Quali sono le mire di Putin?

Risposta. L'attacco a sangue freddo sferrato da Putin all'Ucraina non ha un motivo puramente geopolitico, non vi è solo il timore che l'avanzata del blocco occidentale possa mettere a repentaglio la propria sicurezza materiale, non si tratta insomma solo di difendere confini e potere. Se fosse così sarebbe tutto più razionale. Vi è molto di più. Ma se non partiamo da un'analisi storica non possiamo collocare gli eventi nella loro prospettiva e capire quali siano le vere mire di Putin: siamo nel bel mezzo di uno scontro di civiltà tra Oriente e Occidente.

D. E qual è l'analisi?

R. La cultura orientale si è costruita nella contrapposizione all'Occidente, in tal senso il populismo russo è molto simile a quello latino-americano.

D. Cos'è l'Occidente a cui la Russia si contrappone?

R. L'Occidente per i russi è materialismo ed egoismo, a cui contrappongono spiritualismo e comunitarismo.

 Andrebbero riletti e riascoltati i discorsi di Putin, quando dice che l'Occidente con «i suoi pseudo valori», e si riferisce alle libertà individuali, alle libertà sessuali, alle opzioni di genere, «minaccia la nostra cultura popolare, la nostra tradizione morale e la nostra integrità».

Nelle parole di Putin c'è in fondo il racconto della storia di tutti i populismi che si sono costruiti ai margini dell'Occidente e in contrapposizione alla cultura illuminista. Il fondamento ideale del regime di Putin è la tradizione ortodossa, l'unione tra nazione e religione, tra Stato e Chiesa, ed era così anche ai tempi dell'Unione sovietica, quando il comunismo era la religione della nazione.

 (E adesso la religione globalista dell’élite Usa  , del Gender, del LGBT, Gay Pride , del pensiero unico, del politicamente corretto ,del Cancel Culture … è il credo  dei neocon progressisti e  dei Liberal Dem Usa !Ndr).

 

D. Il leader ucraino Zelensky ha detto: dobbiamo ammettere che nella Nato non potremo entrare. Rinunciare all'adesione alla Nato e all'Unione europea basterà a Putin per far cessare l'aggressione?

R. ll peccato mortale commesso dall'Ucraina non è l'aver chiesto l'adesione alla Nato, questa è la schiuma che sta in cima alle onde, sotto le onde c'è l'occidentalizzazione degli ucraini, l'aver abbandonato l'ortodossia russa per abbracciare il materialismo, l'individualismo, il cosmopolitismo, virus pericolosi per la grande madre Russia.

Attaccando l'Ucraina, Putin non difende solo un confine fisico, ma l'essenza e la purezza della sua storia e della identità del popolo russo. Questo almeno è la sua visione.

E questo spiega perché siamo nel bel mezzo di un conflitto molto pericoloso, uno scontro tra civiltà, tra l'Occidente senza dio e senza patria, e l'Oriente, dove fede e patria sono tutt'uno, tra un mondo dove esiste l'individuo e un altro dove esiste il popolo. Tra una società liberal Dem Usa  e una società clerico-militare.

D. Quanto i russi stanno con lo zar Putin?

R. Ancora molto, Putin è molto popolare, del resto, riutilizzando il motto di Adolf Hitler, se una è la patria, uno è il popolo, e su questo i russi non hanno dubbi, uno è anche il leader. C'è una visione organicistica anti liberale e anti illuminista nella cultura e nella religione russa. Ma chissà, magari dopo 30 anni dalla fine dell'Urss, e anche grazie agli scambi culturali e commerciali che ci sono stati nel frattempo con l'Europa, e che hanno aperto degli squarci in un mondo all'apparenza granitico, i russi ci sorprenderanno, scopriremo che sono oggi meno russi e più occidentali di quanto noi pensiamo. E questo potrà salvarci...

D. Possibile che siano gli stessi russi a destituire Putin?

R. Se la società russa è rimasta o meno la stessa che ha nutrito Putin è difficile dirlo. La durata della guerra, le conseguenze delle sanzioni e l'esito della guerra stessa potrebbero dare il via a una rivoluzione interna, sempre che ve ne sia il lievito culturale di partenza.

 Certo, quanto più breve e trionfale sarà l'invasione, meno rischi di consenso interno correrà Putin. Allo stesso zar tutto sommato conviene fare in fretta, non arrivare al punto di dover apprendere che magari non sono solo gli ucraini che si sono occidentalizzati ma pure i russi. È una grande incognita.

D. Questo Putin è lo stesso che veniva ricevuto in Vaticano e che è stato interlocutore di governi e politici europei?

R. Sì, anche se nessuno avrebbe pensato che sarebbe arrivato a tanto. Detto questo, trovo che andare a scovare chi si faceva foto con Putin o fare il processo a chi ha avuto rapporti con lui sia stupido oltre che manicheo.

 Era il leader di una grande potenza con cui  era inevitabile avere interscambi commerciali e culturali. Cosa diversa invece è aver additato il Putin decisionista a leader di riferimento, aver elevato la Russia populista a modello da contrapporre a un'Europa giudicata malata, individualista, senza valori.

D. A cosa imputa le simpatie riservate a Putin?

R. C'è un substrato di valori -patria e fede, per esempio- che una volta erano appannaggio del mondo occidentale e ancora lo sono della Chiesa cattolica (non quella di Bergoglio.Ndr).

 

D. Papa Francesco ha duramente condannato le giustificazioni del patriarca di Mosca Kirill, per cui in fondo la guerra è a difesa dei valori contro un mondo consumistico dominato dai gay.

R. Ma non dimentichiamo che se oggi Bergoglio condanna la guerra, e la giustificazione religiosa che ne ha dato il patriarca di Mosca, lo stesso papa con Kirill ha firmato nel 2016 all'Avana, sotto gli occhi di Raul Castro, una dichiarazione di intenti tra le due Chiese. E due anni prima c'era stata l'invasione della Crimea... E questo è accaduto non perché il Papa sia uomo di guerra, per carità, ma perché come tutti i populisti del mondo latino-americano vede nell'Occidente una società malata da redimere.

D. La minaccia russa del ricorso all'atomica è una minaccia reale?

R. Mi auguro di no, anche se non va trascurata una considerazione anche di carattere umano per decifrare cosa è pronto a fare Putin.

Nei miei studi ho constatato come i leader populisti che hanno un potere assoluto, da Fidel Castro a Saddam Hussein, finiscano per confondere il termine della loro vita con la fine del mondo, hanno una visione apocalittica della storia che fa perdere lucidità e ragionevolezza.

 

 

Prima Biden, ora Macron, adesso

tocca all’Italia fermare il bi-populismo.

Linkiesta.it- Cristian Rocca - (25-4-2022)-ci dice :

 

Da Washington a Parigi, passando per Kiev, lo scontro di civiltà tra “democrazia liberal Dem Usa”  e “modello autoritario” è in pieno corso. Le società aperte stanno riconquistando terreno, ma noi ci dobbiamo dare una mossa (cosa che parte della sinistra e del centro non hanno ancora capito).

Prima Joe Biden, ora Emmanuel Macron, è proprio una bella festa di Liberazione dal fascismo populista quella che si celebra oggi.

Due ampie vittorie popolari con cui finalmente la “democrazia liberal Dem Usa” ha ripreso in mano il suo destino e, almeno temporaneamente, respinto le più devastanti bordate globali dei nemici della società aperta del miliardario Soros.

Dopo gli anni delle tenebre, cominciati con la Brexit e continuati con Trump e poi con la sconfitta del referendum renziano e l’ascesa dei movimenti eversivi di destra e di sinistra in particolare nell’Italia del bi-populismo perfetto, il fronte repubblicano e costituzionale dell’Occidente ha ripreso la guida del mondo libero, minacciato da Vladimir Putin e dall’alleanza dei regimi autoritari prima con gli hacker, gli aiuti ai partiti antisistema e la manipolazione dell’opinione pubblica, grazie al bug digitale offerto dal modello dì business dei social network, ma ora anche con i carri armati, il genocidio e le minacce imperialiste e nucleari all’Ucraina e all’Europa.

La partita è ancora lunga, ma mai come adesso possiamo davvero celebrare felicemente la Liberazione, con il pensiero e le azioni rivolte ai partigiani ucraini che stanno combattendo innanzitutto per la loro sopravvivenza, ma anche per noi.

Il risultato finale di questo scontro di civiltà costituzionale è ancora in bilico, in Ucraina e nel resto del mondo, ma immaginatevi questa guerra in Europa con Trump alla Casa Bianca e con Marine in Paris, ovvero con il titolare dei dossier kompromat nonché creditore di Le Pen ben coperto anche in Occidente non solo nelle retrovie del Donbas.

Tra due anni e mezzo si rivota in America e il prossimo anno tocca all’Italia, salvata finora dalla bancarotta civile ed economica cui l’avrebbero trascinata Conte, Salvini e Meloni, ovvero i sostenitori di Trump, Putin e Le Pen, per non parlare dei disastri amministrativi e ideologici ai tempi del Covid, ma ancora in attesa di una prova elettorale che possa cancellare l’onta del Parlamento più putinista e trumpista e lepenista del mondo e la catastrofe morale di un pezzo di sinistra deciso a rinnegare il valore della resistenza antifascista e a capitolare strategicamente ai piedi dell’avvocato del populismo, uno che ha mutilato il Parlamento, abbracciato la strategia imperialista cinese, flirtato con l’antieuropeismo più imbecille e il sovranismo più violento e recentemente incapace di scegliere tra Trump e Biden e tra Le Pen e Macron, essendo chiaramente un sostenitore del Cialtrone in Chief e della neo, ex, post fascista francese ma Casalino gli ha consigliato di non dirlo a voce alta.

Dopo l’America e la Francia, e anche la Slovenia che ieri ha fermato l’uomo di Orbán e Putin, adesso tocca all’Italia comportarsi da adulto, proprio perché siamo il paese con la più alta concentrazione di populismo e con la più grottesca assenza di un’alternativa elettorale credibile, seria e senza compromessi come quella rappresentata da Biden e Macron a Washington e a Parigi.

Mancano pochi mesi alle elezioni, ormai. Il Pd, l’unico partito costituzionale italiano (ossia la copia del “Liberal Dem Usa”!), e Forza Italia dall’altra parte continuano a inseguire i populisti di sinistra e di destra nonostante sia chiaro che quelli che loro considerano alleati strategici sono nemici della civiltà dei diritti.

 

I movimenti liberal Dem Usa che invece hanno ben chiara la posta in gioco continuano a litigare come adolescenti, mentre quelli socialisti combattono una battaglia ideologica del secolo scorso contro il neoliberismo, non rendendosi conto che gli schieramenti non sono più quelli da molto tempo e che oggi si può stare soltanto di qua con la democrazia e la società aperta liberal Dem Usa  o di là con i movimenti eversivi.

Stare a discutere di neoliberismo o di presenza eccessiva dello Stato nell’economia, senza capire che se non si difende lo stato di diritto non esistono né politiche di giustizia sociale né libera intrapresa, equivale a dare una mano ai populisti.

Enrico Letta è stato il più lucido leader politico italiano nella crisi russa, che è appunto la sfida finale tra la società dei diritti liberal dem Usa e le tenebre, per questo è titolato più di altri a prendere l’iniziativa politica per costruire il più ampio fronte costituzionale e repubblicano contro il bi-populismo perfetto rappresentato dalla Lega, dai Cinquestelle, dalla Meloni e dai volenterosi complici della sinistra e della destra illiberale, compresi quelli che hanno tributato una surreale standing ovation a Conte al Congresso dei dalemiani e dei bersaniani.

L’obiettivo di un’iniziativa politica di questo tipo è mettere insieme tutti quelli che hanno a cuore lo stato di diritto e poi sconfiggere i nemici della società aperta (Liberal dem Usa) e rafforzare l’Europa e l’alleanza atlantica che ci garantiscono la pace e la sicurezza sociale.

Lo strumento è quello che da soli su questo giornale ripetiamo da due anni: adottare una legge elettorale proporzionale per risparmiare all’Italia quella macabra roulette russa del maggioritario al tempo del populismo – “o vince la “liberal DEM USA” oppure ci arrendiamo a Putin, che bello la sera stessa del voto lo sapremo!” – e per scongiurare la pallottola fatale alla tempia che i francesi domenica sera hanno schivato per miracolo.

 

 

Bullismo mediatico e democratura.

Comune-info.net- Giuseppe Giannini-(21 Aprile 2022)- ci dice :

 

Da oltre due anni siamo sopraffatti da una escalation di comportamenti infantili (ma fortunatamente del tutto estranei – per ora – ai bambini), segnati dalla semplificazione, dalla denigrazione o demonizzazione a priori dell’altro-da-sé e dalla prevaricazione, una sorta di pernicioso bullismo comunicativo o, meglio, mediatico.

Accantonata la guerra del virus, l’invasione ucraina di Putin non poteva che occupare tutta la scena.

 C’è una nuova grande, assoluta verità, nel superiore interesse del mondo, da spacciare senza soluzioni di continuità, giorno dopo giorno, 24 ore al giorno. Una specie di reality dell’orrore.

L’ultimissimo grido in fatto di conflitto armato da schermi, quello inaugurato tanto tempo fa in Iraq.

 È uno dei segnali di quell’altro, più generale, esperimento da laboratorio che stiamo vivendo.

 Predrag Matvejevic, grande narratore delle tragedie nazionaliste che hanno dilaniato trent’anni fa la ex Jugoslavia, lo avrebbe forse chiamato democratura, con una crasi tra democrazia e dittatura che indica comunque un ibrido regime formalmente costituzionale ma fatto oggetto di ripetute, deformanti e sostanziali mutazioni autoritarie.

La democrazia borghese, basata su un’architettura istituzionale caratterizzata dalla separazione dei poteri, e in parte controbilanciata da contropoteri, rappresentati per lo più dai corpi intermedi e dagli interessi emergenti nella società civile, è in questi ultimi anni in forte crisi di legittimazione.

 Sovente si è parlato di crisi dei partiti e della rappresentanza, come di autoreferenzialità della politica. Assistiamo però ad un pericoloso salto qualitativo, che mette in discussione gli stessi principi fondanti di tale democrazia.

Un sistema di valori, condiviso ed accettato dalla maggioranza che, l’emergenza della pandemia e la guerra hanno deciso di sospendere. Fa specie, che le stesse forze che formalmente si richiamano alle regole giuridiche inscritte nelle leggi e nella Costituzione, siano le stesse che attraverso forzature le disattendono.

Stato di emergenza e decretazione d’urgenza sono i tratti caratteristici di questa sospensione, che trascinano la democrazia in un limbo.

Chiunque solleva critiche e chiede una riflessione sull’opportunità delle misure adottate (le restrizioni inconcludenti a carico dei non vaccinati, il ripudio della guerra e la violazione dell’art. 11 Cost.) viene emarginato o etichettato, a seconda delle circostanze, come no vax o filoputiniano. Il confronto viene evitato e la dialettica non esiste.

 

Un atteggiamento superbo e sprezzante da bulli del potere.

Sull’enfatizzazione del bullismo si potrebbe discutere.

La creazione di una apposita categoria non serve solo a governare i fenomeni sociali devianti.

Lo scopo sottointeso è quello di identificare con un nome proprio (e reprimere?) atteggiamenti già presenti in seno alle società, ma che hanno assunto, per qualche motivo, una dimensione epocale. È il segno dei tempi!

Dietro questi comportamenti fastidiosi, volti a prevaricare l’altro, spesso si nascondono frustrazioni non socializzate, competizioni che non si riescono a sopportare.

Se tali fenomeni hanno, in qualche modo, una loro ragione d’essere con riguardo ai minori e al loro percorso di crescita, l’aspetto preoccupante è il diffondersi dei comportamenti da bulli nel mondo degli adulti: nel mondo lavorativo, forgiato sul modello escludente capitalistico, e in particolar modo in quello della comunicazione.

Subiamo, da due anni a questa parte, una recrudescenza del bullismo dei media.

Operatori di tv e giornali, spesso per denigrare chi non la pensa allo stesso modo, o per demonizzare gli avversari, utilizzano espressioni facciali e il linguaggio tipico dei ragazzini impertinenti.

In particolare, la narrazione pandemica ha visto nascere una grande alleanza tra governi, poteri economici, il mondo della scienza e i media mainstream, con lo scopo di diffondere la grande verità nel superiore interesse pubblico.

Adesso, accantonata la guerra al virus, un nuovo conflitto, drammaticamente reale, si è impadronito della scena.

Tutta la terminologia della guerra è ritornata nel campo che più le compete.

Il modo in cui i media ci raccontano questa guerra (ma non le altre) assume un’importanza decisiva.

Dalla prima Guerra del Golfo in poi il racconto delle vicende belliche è questione di schermi e visualizzazioni.

Ora l’invasione russa ci viene narrata 24 ore su 24, come se fossimo in un reality.

Oltre a sollevare dubbi sulla attendibilità delle fonti, o su chi, senza vergogna, si schiera da una parte, fomentando odi, invece di preferire il dialogo, è proprio la commistione tra reale e virtuale che inquieta.

Ad esempio, che senso ha trasmettere la serie tv con “l’eroe ucraino”, mentre in quella terra imperversa una terribile guerra?

 

Perché mandare filmati di un videogioco  come segnali dei bombardamenti? Vogliamo parlare dell’immagine presa da una fiction in cui si vedono persone insanguinate? Oppure della foto che ritraeva una bimba siriana fatta passare come proveniente da un ospedale ucraino?

Nessuno nega le atrocità russe, bisognerebbe parlare anche dei crimini attuali del battaglione Azov verso i disertori ucraini, o del razzismo istituzionalizzato verso gli immigrati pachistani, afghani…, che incontrano difficoltà a scappare dall’Ucraina.

Dare luogo ad un immaginario con cui costruire a tavolino “i buoni”, concentrandosi solo sulle barbarie dell’altro, tacendo degli altri aspetti – il contesto geopolitico, le mire economiche, la mancanza di un pluralismo politico all’interno dell’Ucraina…-  non vuol dire essere al servizio della democrazia.

Il senso comune viene modellato sulle credenze. Le conoscenze o l’esperienza una volta idonee a rappresentare la complessità della realtà vengono abbandonate, perché il mondo libero considera la guerra non un semplice incidente di percorso.

La guerra in Ucraina, e prima il covid, sono le occasioni (lo shock) produttrici di cambiamenti nelle relazioni fra le persone, le economie e gli Stati.

Il potere ha sete di potere.

Ed ecco, che lungi dal voler abolire la guerra, di pensarla come mezzo inidoneo a risolvere le controversie, è la logica stessa della presenza delle armi a contraddire queste istanze.

Le lobby (farmaceutiche, militari, estrattive) stanno dietro al potere e il potere cerca il consenso dei sottoposti.

Riprendono piede le tendenze separatiste: l’orgoglio nazionale dell’una e dell’altra parte; i valori (?) occidentali imposti con la forza.

Mai come ora, il fatto di dover individuare un nemico, che non si chiama più comunismo o islam, ci fa correre il rischio di uno scontro di civiltà.

Tutto ciò che è russo, le persone e le loro opere, viene escluso o boicottato.

Un giorno ci interrogheremo sulle colpe di Dostoevskij.

La vera posta in gioco è la sfera d’influenza oltre confine. E poi ci sono territori, dall’India alla Cina, in cui vive mezzo mondo, e che nel gioco delle alleanze non sono disposti a barattare tradizioni e culture o a vedersi ridotti ad un ruolo subalterno nella competizione globale.

Se il neo-zar Putin infarcisce la retorica di misticismo in nome della razza, l’attore bipolare punta sulla spettacolarizzazione della morte.

La morte diventa il sacrificio di un popolo resistente all’invasore, con l’illusione di entrare un giorno a far parte di quella grande famiglia esportatrice della democrazia.(La democrazia come “Liberal Dem Usa” è la fine della democrazia e l’inizio del “ NUOVO ORDINE MONDIALE” nella dittatura !Ndr )

Nel frattempo milioni di disperati fuggono, diventando merce pregiata anche in quei Paesi famosi per i muri e l’intolleranza verso i migranti.

I media di sistema puntano sull’emotività, attraverso il coinvolgimento dei sensi dello spettatore. E, come accaduto con il covid, il racconto non stop della guerra, con tanto di esperti e strateghi. Il paradosso è quello di riscontrare atteggiamenti prudenti nei membri dell’esercito, gli unici che sottolineano come l’utilizzo di determinate espressioni (il “dittatore”, il “macellaio”) o la messa in atto di azioni di offesa (l’invio di armi, le sanzioni) possano essere controproducenti.

 

Il sangue, la distruzione, il terrore, e lo sviluppo degli scenari, giusto per continuare a stressare gli utenti-ascoltatori. Allentare la morsa vorrebbe dire perderne il controllo.

Chiunque prova a fare una disamina degli eventi, senza preconcetti o condizionamenti viene dileggiato e ridicolizzato. Emarginato e deriso.

Un presidente del consiglio non eletto ( d’altronde l’Italia è abituata al pilota automatico), che già in passato ha fatto sfoggio delle sue qualità non politiche, utilizzando espressioni come dittatore riferito ad Erdogan (immaginate in passato Andreotti o Craxi chiamare Pinochet, Gheddafi o Mubarak in quel modo?), o quando afferma che chi non si vaccina sceglie di morire, oggi arriva ad usare la metafora del condizionatore come strumento per raggiungere la pace.

Mi chiedo, ma un Paese con un uomo solo al comando, il famoso banchiere dell’austerità, a cui tutti, – le forze partitiche, i grandi interessi economici, il grosso dei media – sono asserviti, come si può definire se non un regime? Dietro la parvenza di una democrazia, con le sue formule e i suoi riti, prendono corpo cambiamenti strutturali, decisioni senza confronto e falsità.

Ci parlano di guerra di invasione e  crimini contro l’umanità, ma fanno finta di dimenticare delle guerre umanitarie (in ex Jugoslavia, Irak e Afghanistan) prive di mandato internazionale o fondate su prove inesistenti (le armi chimiche).

Si scoprono autocrazie esistenti da tempo, e non si guarda agli altri regimi (Turchia, Arabia Saudita, Egitto) o alle condizioni di oppressione ed apartheid (i curdi, i palestinesi, le persecuzioni verso le tante minoranze etniche e religiose).

Degli altri conflitti decennali, in Siria, in Yemen o in Libia, nulla interessa, e di quei migranti, che non sono bianchi indoeuropei, non si cura nessuno.

Mentre si inviano armi, o il voto parlamentare decide per l’aumento delle spese militari, c’è un Paese intero che a maggioranza è contro la guerra e non condivide le scelte dell’esecutivo. (Ma cosa conta il Popolo in una dittatura moderna(falsa) architettata da Klaus Schwab ? Ndr. ).

Invece giornali e tv descrivono un’altra realtà, dove sembrano esserci fiducia e consenso verso l’operato degli illuminati.

Insomma, non si accettano critiche in democratura.

La realtà della democrazia nella post-verità si fonda sul simulacro, sui simboli, e ha bisogno di bulli.

E per descrivere (e capire?) il potere i media utilizzano l’iper-realtà.

 

 

 

Ucraina: l’evacuazione dei

non combattenti più difficile.

Lindro.it-Redazione- (21-2-2022)- ci dice :

 

Anche con la migliore pianificazione del mondo, un'invasione russa dell'Ucraina, se dovesse accadere, provocherà immagini di caos, assicura Thomas S. Warrick, tra coloro che da 20 anni segue per gli USA le così dette Non-combatant Evacuation Operation (NEO).

La Russia ha quasi il 75% delle sue forze convenzionali schierate contro l’Ucraina, ha detto alla Galileus Web un funzionario statunitense vicino all’intelligence americana.

«La concentrazione delle forze a breve distanza dall’Ucraina è molto insolita e parte del motivo per cui gli Stati Uniti ritengono che la Russia sia pronta ad attaccare», afferma ‘CNN‘ .

E’ una delle motivazioni che spingono gli Stati Uniti a dire di ritenere che l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia potrebbe avvenire a giorni se non a ore. Malgrado affermino che useranno «ogni opportunità e ogni minuto» per dissuadere la Russia dall’invasione, come dice il segretario di Stato, Antony Blinken.

Air France e Lufthansa (comprese Swiss International Air Lines, Eurowings e Austrian Airlines del gruppo di questa ultima) hanno deciso di sospendere i voli in Ucraina. Una complicazione non da poco in questa fase.

Nei giorni scorsi gli Stati Uniti, e poi a ruota molti Paesi occidentali, avevano invitato i propri cittadini a lasciare l’Ucraina approfittando dei voli commerciali ancora operativi e Jon Biden era stato perentorio, gli Stati Uniti non avrebbero operato nessun volo speciale per portare fuori dall’Ucraina i propri cittadini quando la situazione dovesse degenerare. Alcuni Paesi hanno evacuato il personale diplomatico e le loro famiglie.

I separatisti del Donbas, quelli delle Repubbliche popolari di Doneck e di Lugansk, da venerdì stanno evacuando i propri civili verso la Russia.

La domanda è: se la situazione dovesse precipitare, i cittadini occidentali ancora presenti in Ucraina come faranno uscire dall’Ucraina, se lo ritenessero opportuno?

A porsi il problema, almeno per quanto riguarda gli Stati Uniti è Thomas S. Warrick, consulente senior della Scowcroft Middle East Security Initiative dell’Atlantic Council nei programmi per il Medio Oriente del Consiglio Atlantico, e professionista della sicurezza nazionale americana che è stato coinvolto nella maggior parte nelle Non-combatant Evacuation Operation (NEO) statunitensi negli ultimi vent’anni, ed è stato vice segretario aggiunto per la politica antiterrorismo presso il Dipartimento per la sicurezza interna degli Stati Uniti.

«Le operazioni di evacuazione dei non combattenti sono tra le operazioni non letali, più complesse eseguite dagli Stati Uniti. Fanno appello alle capacità militari, diplomatiche, umanitarie e di sicurezza interna degli Stati Uniti per portare rapidamente in salvo i civili da una zona di guerra attiva o da un disastro naturale, dando la priorità ai cittadini statunitensi e a quelli degli alleati.

Scene di sfollati americani, alleati e rifugiati in fuga da una possibile ulteriore invasione russa dell’Ucraina causeranno indignazione e crepacuore. Come abbiamo visto con il ritiro degli Stati Uniti dall’Afghanistan lo scorso agosto, alcuni media e partigiani politici daranno la colpa ai loro sacchi da boxe politici preferiti. Questo sarebbe sbagliato», afferma Thomas S. Warrick.

 

L’amministrazione Biden ha pianificato le conseguenze di un’offensiva da novembre. Ma come professionista della sicurezza nazionale che è stato coinvolto nella maggior parte dei NEO statunitensi negli ultimi vent’anni, posso affermare con sicurezza: anche con la migliore pianificazione del mondo, un’invasione russa dell’Ucraina, se dovesse accadere, provocherà immagini di caos».

«Da qualche parte tra i settemila e i trentamila americani sono attualmente in Ucraina e, sebbene sia stato detto loro di andarsene immediatamente, perché le forze statunitensi non li evacueranno se la Russia invade, molti probabilmente rimarranno fino a quando i carri armati inizieranno entrare, se i precedenti NEO lo saranno una guida. Gli Stati Uniti hanno inviato seimila soldati in Polonia per aiutare a ricevere gli americani.

Entro poche ore dall’atterraggio di missili russi e dall’attraversamento dei carri armati del confine, inizierà una migrazione di massa. Molti ucraini si dirigeranno a ovest, probabilmente in un rigido clima invernale, verso l’Ucraina occidentale, la Polonia, la Slovacchia, l’Ungheria e la Romania. La maggior parte delle persone avrà solo i vestiti che indossa e ciò che può trasportare o inserire in un’auto. Gli aeroporti chiuderanno, le strade saranno bloccate e le forniture di benzina e diesel si esauriranno. Alcuni conducenti non avranno altra scelta che abbandonare i loro veicoli sul ciglio della strada e le consegne di cibo si interromperanno.

Niente di tutto questo caos è specifico di un’evacuazione dall’Ucraina. Ma sarà più impegnativo delle precedenti evacuazioni per cinque motivi», afferma Warrick.

«In primo luogo, un’operazione militare russa chiuderà gli aeroporti ucraini, soprattutto se include, come prevedono gli esperti del Consiglio Atlantico, attacchi missilistici di precisione a lungo raggio. Se qualche aeroporto rimanesse aperto, Putin probabilmente non sarebbe disposto ad abbattere un volo di evacuazione statunitense durante un’offensiva russa, ma non si può escludere l’incoscienza. Pertanto, la maggior parte delle persone cercherà di viaggiare via terra.

In secondo luogo, il clima invernale complica le operazioni umanitarie. La neve e il fango fanno sì che i veicoli civili si impantanino più di quelli militari. La maggior parte dei precedenti NEO si sono verificati nei Paesi desertici o in estate, come durante l’invasione russa della Georgia nel 2008.

Se le temperature rimangono sotto lo zero, coloro che fuggono all’aperto corrono rischi per la salute che le persone nei climi temperati non corrono. Ciò non solo mette in pericolo la salute delle persone, ma minaccia anche la fornitura di acqua e altri beni di prima necessità.

In terzo luogo, è probabile che gli attacchi informatici russi, che avverranno di concerto con un’offensiva di terra, chiuderanno gran parte, se non quasi tutte, delle infrastrutture critiche dell’Ucraina. Gli impianti di trattamento delle acque potrebbero vacillare, l’elettricità potrebbe essere interrotta e milioni di persone sarebbero costrette a rifugiarsi sul posto se non si dirigessero a ovest.

In quarto luogo, la campagna di disinformazione chiaramente documentata della Russia potrebbe seminare disunione tra i partner occidentali nel tentativo di rallentare o limitare la risposta occidentale. Negli Stati Uniti, la disinformazione russa potrebbe costringere l’amministrazione a dedicare tempo a ottenere un sostegno sufficiente dal Congresso per gli sforzi di assistenza. Nel frattempo, la riluttanza di alcuni Paesi europei ad aiutare i rifugiati ucraini potrebbe lasciare molti in gravi difficoltà o costringere il governo ucraino a spendere scarse risorse per gli sfollati interni invece di difendere il territorio ucraino dall’invasione delle truppe russe.

In quinto luogo, gli Stati Uniti hanno subito una fuga di cervelli di competenze quando si tratta di NEO. Le operazioni della scala richiesta per portare migliaia di americani fuori dalla Polonia orientale sono relativamente rare. Molti dei diplomatici e pianificatori statunitensi più esperti se ne sono andati durante l’amministrazione Trump, quando la loro esperienza è stata denigrata e molti si sono sentiti spinti a dimettersi».

Warrick conclude precisando le azioni urgenti mentre si condurranno in salvo stranieri e ucraini che voglio lasciare il Paese.

«Gli aiuti umanitari dovranno affluire generosamente a milioni di ucraini i cui mezzi di sussistenza saranno strappati fino a quando non potranno ristabilirsi. I fondi mondiali per l’assistenza ai profughi sono già bassi a causa dell’affrontare i bisogni dei profughi provenienti dalla Siria e dall’Afghanistan, nonché dallo Yemen dilaniato dalla guerra. Qualsiasi parte dell’Ucraina non sotto l’assalto o l’occupazione russa, ad esempio intorno alla città occidentale di Leopoli, potrebbe fungere da punto di distribuzione del governo ucraino per quegli aiuti. Stiamo, altresì, guardando alla prospettiva di tendopoli nella Polonia orientale fino a quando migliaia di rifugiati non potranno essere assimilati altrove. Queste popolazioni dovrebbero essere ricollocate il più rapidamente possibile, perché mentre un’occupazione russa dell’Ucraina può essere annullata, non sarà annullata dall’oggi al domani.

Da parte loro, gli Stati Uniti dovranno accettare la propria quota di rifugiati, come hanno già fatto molte volte. In effetti, la storia mostra che l’esperienza americana è arricchita dai rifugiati che fuggono dall’oppressione per trovare la libertà (“Liberal Dem Usa”. Ndr)».

 

COSI’ GLI USA HANNO PERSO

LA LEADERSHIP MORALE.

Laverita.info- Ettore Gotti Tedeschi - (27-4-2022 )- ci dice :

 

(Ndr. Klaus Schwab ,produttore di armi atomiche in Sud Africa -in gran segreto-con i suoi testi :  la “Quarta rivoluzione industriale”, “Il Grande Reset” e molti altri, di fatto è diventato il Capo Assoluto della  élite globalista occidentale . I Paesi globalisti sono ormai comandati  dagli uomini di Davos telecomandati da Schwab. I suoi insegnamenti nefasti debbono essere diretti e percepiti per lo sviluppo del” Nuovo ordine Mondiale” ,ossia il moderno “Quarto Reich millenario”. Con le  sue tesi geopolitiche ha gettato le basi   della possibile Terza Guerra Mondiale . L’ élite globalista occidentale si comporta come Schwab ha indicato. Ndr).

 

Ecco cosa scrive Ettore Tedeschi :

“Così gli Usa hanno perso la leadership morale. Dopo l’11 settembre , parte della società americana ha reagito con ateismo e ideologia ,smarrendo la bussola. E’ da gennaio 2021 che molti  osservatori si chiedono quanto siano cambiati gli  Stati Uniti. E’ comprensibile che gli Usa di oggi non siano più  “quelli di una volta “,almeno a memoria storica della generazione che ha vissuto dalla fine della seconda guerra mondiale .In modo esemplificativo e sintetico    provo a proporre quattro fasi che possono aiutare a spiegare l’evoluzione degli Usa.

1)-  Una prima fase della guerra fredda (1947-1991), post Yalta , dove gli Usa e il capitalismo american si contrappongono   alla minaccia del comunismo  (in alleanza con le religioni cristiane ) , con presidenti del calibro di Kennedy , Nixon , Carter , Reagan , Bush senior .In questo periodo  di guerra fredda era consacrato al bilancio un 12 % -14 % del Pil in spese per la difesa. Terminata  la guerra fredda detta percentuale del Pil scende a circa il 4 % , liberando un 10 % di risorse economiche per sostenere una nuova globalizzazione economica.

2)- Con detta globalizzazione economica accelerata e utopistica nelle scelte ,si avvia una seconda fase di evoluzione degli Usa  (1993-2001) che produce anche le cause dello straordinario sviluppo economico cinese. Questa fase  si conclude con l’attacco terroristico al Wtc e l’inizio della prudente contrapposizione al terrorismo  islamico . Presidente per tutto questo periodo fu Bill Clinton.

3)- Segue una terza fase ,conseguente al 11 settembre , di crisi soprattutto  finanziaria dell’errato modello di globalizzazione attuato e di inizio dei vari reset  per cercarne le conseguenze.

Il presidente dal 2001 al 2009 fu G.W. Bush Jr. Egli dovette affrontare la crisi post attentato Wtc e l’esigenza di “drogare “ la crescita economica con i sub-prime per accelerarla e assorbir le nuove necessarie spese per  la nuova difesa. Dovette affrontare la conseguentemente  provocata crisi finanziaria del 2007 -2008 e decidere il raddoppio del debito /Pil per salvare le banche nazionalizzando il debito delle famiglie che  era stato il vero motore della crescita drogata ed insostenibile. E il ricollocamento di questo nuovo debito mise, come sappiamo ,in gravi difficoltà l’Europa e Italia.

4)- Una quarta fase , dal 2009 al 2017 ,con la presidenza di Barack Obama , inizia con una serie di reset strategici piuttosto significativi, tutti improntati ad un nuovo forte  “progressismo” in  materia etica e bioetica ( unioni civili, uso di cannabis …) , ma soprattutto economica (ambientalismo  e migrazionismo  , riforma sanitaria …). Sotto Obama finisce però anche l’incubo di Obama Bin Laden e si fanno accordi con gli ayatollah. Detta quarta fase  viene interrotta dal 2017 al 2021 con la presidenza Trump , che rimette  tutto in discussione. Trump  sembrò orientato a resettare i reset precedenti , soprattutto a ridimensionare il ruolo della Nato che considerava obsoleta (mancando forse i nemici storici che la giustificavano).Nel 2020 inizia la pandemia Covid , con quello che è conseguito.

La quarta fase resuscita però con la presidenza Biden , per essere completata post Covid.  Sembra essere la fase di reset del capitalismo americano  (ora autodefinito “inclusivo “ e “sostenibile “) orientato alla transizione energetica e tecnologica , dove il “nemico” da sfidare sta ad Est , in Oriente  , in Cina.

E’ pertanto un po’ meglio comprensibile perché gli Usa di oggi non possono essere quelli di ieri.  I cosiddetti “nemici “ da fronteggiare sono cambiati , il modello di globalizzazione , iniziato negli anni Settanta , è fallito. Il potere economico geopolitico  è completamene cambiato , 50 anni fa l’Occidente controllava il 90 % circa del Pil mondiale , oggi circa il 45 %.Cinquanta anni  fa il potere  economico finanziario  era in mano ad imprenditori , oggi è in mano a fondi di investimento. Oggi   c’è un vuoto di leadership preoccupante. Riconosciamo che le soluzioni ai problemi sono state affrontate negli effetti e non nelle cause con vari reset  ,spesso utopistici e taluni molto rischiosi , come quest’ultimo reset sul capitalismo , che ha concorso a creare alcuni problemi che stiamo soffrendo con la guerra in corso in Ucraina.  Tra questi reset ho accennato a quello etico-morale ,merita attenzione visto che ha comportato anche un cambiamento radicale e misterioso  della Chiesa Cattolica…

Dopo l’attentato terroristico di matrice islamica  ,dell’11 settembre 2001 ,al WTE , fu impressionante l’esplosione di autori e libri che inneggiavano all’ateismo necessario alla civiltà occidentale .Ciò prendendo  spunto evidentemente dall’attentato alle torri gemelle ,ma estendendosi con naturalezza  contro le religioni dogmatiche. Ne ricordo qualcuno : Chris Hitchens , “Dio non è grande: come le religioni  avvelenano ogni cosa ;

Richard Dawkins , “ La  delusione di Dio” ; “lo chiede Gesù  non possiamo non perdonarli”.

Epperò stan facendo un gran danno costoro , accidenti.

Premesso che non è chiaro  quando mai il “ fornitore “ russo abbia minacciato la UE , bisognerebbe  che qualcuno dica alla Ursula e a Frans  che il lodevole desiderio di aumentare l’efficienza nella disponibilità dell’energia inevitabilmente comporterà un maggior uso della medesima.

Il proclama detto sopra è inutilmente roboante perché basta un calcolo alla portata di Greta Thunberg  per concludere che , a  parità di massa , bruciare idrogeno fornisce  2,5 volte  più energia  che bruciare metano. Ed il calcolo è quanto mai ozioso perché mentre il metano è disponibile bell’e pronto all’uso , invece l’idrogeno non esiste sulla Terra.
Quanto  all’affermazione  che abbiamo qualificato totalmente priva di senso , il fatto è che 2,5 Gmc di metano producono 15 TWh d’elettricità : non ha importanza se sia elettricità da solare , da carbone , nucleare ,o idroelettrico. Domanda spontanea  : a Bruxelles ci fanno o ci sono ? Proviamo allora  riformulare l’affermazione in modo che abbia senso:

“15 Twh /anno di elettricità solare consentiranno di risparmiare 2,5 Gmc / anno di metano”.

Messa in questa forma  possiamo ora provare l’aritmetica ,disciplina ignota ai gretini , visto che han deciso di non andare a scuola.

Ora noi non sappiamo a quanto i russi  vendono il loro gas ai distributori esteri, essendo  la cosa un segreto industriale  , però alla borsa il prezzo  attuale ( certamente ben superiore al prezzo che la Russia fa agli imprenditori ) si attesta , a star larghi ,a   Euro 1 /mc , cosicché 2,5 Gmc per 20 anni ( che è la vita degli impianti solari) costerebbero  50 miliardi. Si badi che questo prezzo è 10 volte superiore  a quello di appena due anni fa  e che gli aumenti si sono avuti già a cominciare dal gennaio 2021 , e per  ragioni speculative : Putin non c’entrava allora e non c’entra neanche ora. Ma continuiamo l’aritmetica.

 

Per produrre 15 Twh/ anno d’elettricità col solare  bisogna installare 20 GW di fotovoltaico  che a Euro 3 /watt  fanno 60 miliardi , che diventano 120 miliardi se gli impianti  si equipaggiano con sistemi di stoccaggio , necessari visto che abbiamo il vizio di usare l’energia elettrica anche quando il sole non brilla.

Spendere ,subito, 120 miliardi  per risparmiarne  50 in vent’anni  non sembra ,a occhio e croce , una gran furbata.  

Dicevamo sopra non “ nonostante “ ma “grazie “.Nel 2000 non v’erano impianti eolici o fotovoltaici in Europa. Gli zero watt d’allora per entrambi  son diventati oggi oltre 200 GW di eolico e quasi 200 GW di fotovoltaico e , senza alcuna meraviglia ,non è stato possibile ridurre  il consumo di gas in Europa : 5.500 TWh nel 2000 e 5.500 TWh nel 2020.

Infine ,se può consolarli , di tutte le parole dette sopra  dai nostri fenomeni , mai quel “ precipitiamoci “ di Frans   fu parola più azzeccata.

 

 

 

 

 

 

Scontro di civiltá.

Genteditalia.org- Alfredo Luís Somoza- (17 Marzo 2022)- ci dice:  

 

 

Per spiegare il conflitto russo-ucraino si sta facendo spesso riferimento alle teorie di Samuel Huntington, il politologo statunitense che nel 1993 contrappose il concetto di “scontro delle civiltà” alle tesi del collega Francis Fukuyama, il teorico della “fine della storia”.

Huntington non credeva che la vittoria degli Stati Uniti sull’Unione Sovietica nella Guerra Fredda avrebbe portato a un mondo unipolare nel quale mercato e democrazia avrebbero prevalso per sempre; al contrario, ipotizzava che a breve si sarebbero riaccesi scontri “tra civiltà”.

Nella sua idea di civiltà, però, si mescolavano alcuni dati di fatto con molta fantasia.

 

Se è vero che esiste un mondo fortemente influenzato dall’Islam sotto il profilo culturale, occorre anche precisare che esso è politicamente disomogeneo; inoltre non è mai esistita una “civiltà latinoamericana” se non nella visione stereotipata che uno statunitense può avere del mondo che si sviluppa a sud del Río Bravo.

È però un altro il punto sul quale Huntington ha operato una clamorosa forzatura: e cioè quando da una parte ha definito il concetto di “Occidente” sulla base della ricchezza, e quindi includendovi il Giappone, e dall’altra ha definito un mondo cristiano ortodosso, gravitante attorno alla Russia, su basi culturali.

 

La lettura della geopolitica di Huntington è stata smentita più volte dalla storia recente. Il cosiddetto “mondo islamico” è stato sconvolto da lotte intestine tra sciiti e sunniti, e tra Stati e movimenti jihadisti. Dell’inconsistenza del concetto di mondo latinoamericano si è detto, e anche il “mondo africano” non è mai esistito. Soprattutto, il concetto di Occidente è ormai fuori dalla storia.

 

La definizione “Occidente” ha un preciso significato culturale, legato alle sue origini storico-religiose: collocando Gerusalemme al centro del mondo, come a lungo fecero i cristiani, Occidente era la collocazione geografica dell’Europa, terra cristiana per eccellenza.

Ma l’Occidente di cui parla la stampa internazionale, quando afferma che la guerra di Putin all’Ucraina è una guerra “contro l’Occidente”, è altra cosa: una specie di club al quale si accede sulla base di parametri variabili, in base ora alla ricchezza, ora al sistema politico o alle libertà civili di cui godono i popoli.

 

Possono dunque essere “occidentali” i giapponesi, in grande maggioranza non cristiani e geograficamente collocati in Estremo Oriente, così come lo sono l’America Latina, anche quella indigena o affacciata sul Pacifico, e lo Stato ebraico di Israele.

 

Nel primo caso perché ricchi e democratici, nel secondo perché cristiana, nel terzo perché popolato a maggioranza da cittadini di origine europea.

“Occidente” è quindi un concetto che si può adattare alla bisogna, per spiegare qualsiasi cosa, e soprattutto per affermare che esiste un consenso unanime, appunto tra i Paesi “occidentali”, riguardo i valori di democrazia e libertà.

Dato che in realtà è tutto da verificare, soprattutto perché del drappello considerato occidentale fanno parte Stati che continuano a occupare territori non loro, che discriminano minoranze etniche, che promuovono conflitti armati e vendono armi senza preoccuparsi dell’utilizzo che ne farà l’acquirente, che usano il diritto di veto all’ONU per favorire gli amici, sostenendo dittatori in giro per il mondo.

 

Non esistono infatti blocchi valoriali: nemmeno laddove vi sono profondi legami storico-culturali, come tra Ucraina e Russia.

Per questo motivo Vladimir Putin non sta combattendo contro l’Occidente ma per garantirsi una “cintura di sicurezza” attorno alle frontiere occidentali russe.

Principio discutibile e senza dubbio perseguito con il metodo sbagliato, ma l’ultimo dei pensieri di Putin, in queste ore, è quello di condurre una lotta nell’ambito di uno scontro di civiltà.

 Il mondo d’oggi, in realtà, è molto più semplice di quello della Guerra Fredda, essendo venuta a mancare la componente ideologica: lo scontro si riduce alla conquista, alla tutela e all’allargamento del potere.

Non ci sono secondi fini ideali o etici, solo equilibri da ricomporre o da ribaltare.

 

La vecchia idea di Occidente nulla c’entra con l’uso che di questa parola si fa in tempi di guerra.

Soprattutto se si considera che gli stessi Paesi occidentali, negli ultimi decenni, hanno usato più volte la guerra come strumento di politica estera.

Putin combatte, sbagliando metodo, per conservare la posizione di forza che il suo Paese si è costruito negli anni in Europa orientale.

Non è un crociato del “mondo ortodosso” e non sta combattendo l’Occidente, ma soltanto un Paese più piccolo e debole del suo, che ha provato a essere indipendente e decidere da solo.

 

 

 

 

Il nuovo scontro di civiltà.

 

Centroriformastato.it- Ida Dominijanni - ( 4 Marzo 2022)- i dice :

 

 

All’alba del nono giorno di guerra l’attacco delle truppe russe alla centrale nucleare Zaporizhzhia rende meglio di qualunque altro dettaglio quale sia la posta della partita globale, biopolitica prima che geopolitica, che si sta giocando in Ucraina.

E il peggio deve ancora venire, ha comunicato Macron cui Putin ha fatto presente che non intende fermarsi finché non avrà conquistato l’intero paese.

 

 Le regioni russe dell’est e del sud con gli accessi al mare sono ormai in mano ai russi, a Mariupol mezzo milione di abitanti sono intrappolati senza acqua e senza cibo, a nord-ovest Leopoli è piena di profughi in fuga, più donne e bambini che uomini perché gli uomini restano a combattere una battaglia di resistenza già persa.

 L’esile negoziato in corso a Brest ha deciso l’apertura di corridoi umanitari per favorire l’esodo dei civili, mentre la colonna di 60 kilometri di carri russi continua la sua lenta ma inesorabile avanzata su Kiev lungo il corso del Dnepr che in futuro potrebbe dividere l’Ucraina fra un est russo e un ovest occidentale, com’era un tempo la Germania: le stesse cose ritornano sempre, nella storia, come il rimosso nell’inconscio.

 Dev’essere per questo che tutti definiscono questa in Ucraina “la prima guerra nel cuore dell’Europa dopo più di settant’anni”, dimenticando clamorosamente che in Europa la guerra era già tornata negli anni Novanta, in quella ex Jugoslavia che ha anticipato e prefigurato tutte le guerre successive a base etnico-nazionalista sparse per il mondo. Forse che la Jugoslavia non era il cuore ma la periferia dell’Europa? O non sarà piuttosto che nell’immaginario europeo, il cuore dell’Europa resta sempre lì, al confine fra l’ex impero sovietico e l’Occidente democratico?

 

Lì, dove secondo gli stessi che nell’89 decretavano “la fine della storia” oggi la storia riprenderebbe in grande, quasi che in mezzo non ci fosse stato niente. Lì, dove si sono convocati tutti i fantasmi che fino a ieri l’altro vagavano per l’est e per l’ovest, e che ora muovono questa terribile resa dei conti di un trentennio cominciato male e finito peggio. Che è la vera posta in gioco, reale e simbolica, della tragedia che si sta consumando.

 

Hanno suscitato indignazione e scandalo i due discorsi del 21 e del 24 febbraio con cui Putin ha annunciato prima il riconoscimento ufficiale delle repubbliche separatiste del Donbass e poi la sua “operazione militare speciale”, come l’ha chiamata lui, in Ucraina.

Ne consiglierei tuttavia la lettura integrale (il testo è facilmente reperibile in rete), ammesso che sia ancora lecito cercare di capire perché accade quello che accade senza essere tacciati di connivenza con il nemico.

 

 Liquidati dai più come una litania del risentimento, o come il delirio paranoico da sindrome di accerchiamento di un uomo solo al comando provato dalla fobia del Covid, i due discorsi inanellano alcuni dati di fatto incontrovertibili sull’estensione a est della Nato, sulle guerre di aggressione perpetrate dall’Occidente dagli anni novanta in poi (Kosovo, Iraq, Siria, Libia), e, più in generale, sullo “stato di euforia da superiorità assoluta, una sorta di assolutismo di tipo moderno, per di più sullo sfondo di un basso livello di cultura generale” che si è impossessato del campo dei vincitori della Guerra fredda.

 

Ma al di là di questo merito, nonché della ricostruzione delle cause di lungo periodo della rinascita dei nazionalismi, a Est dopo la fine dell’Urss, ciò che colpisce nelle parole di Putin è la rivendicazione della dimensione storica come sfondo ineludibile del discorso politico.

 Precisamente lo sfondo che manca al discorso politico occidentale, che di spessore storico sarebbe supposto essere il più dotato.

 

 E che invece risponde all’aggressione di Putin usando – mirabile sintesi di un cinquantennio di ideologia neoliberale – solo il linguaggio dell’economia e della sicurezza: sanzioni e riarmo, nell’oblio – perfino teorizzato, come nel discorso alle camere di Mario Draghi – del passato che ha costruito, mattone dopo mattone, il presente.

 

Sia chiaro: lo sfondo e l’uso della storia non giustificano in alcun modo la mossa di Putin. L’invasione di uno Stato sovrano e confinante viola le basi del diritto internazionale, resuscita, a proposito di storia lunga, tutti i mostri del passato europeo, e si configura per di più, nelle stesse motivazioni che Putin ne dà, come una sorta di preemptive war, una guerra preventiva contro il pericolo eventuale di un’aggressione alla Russia da parte della Nato (i nemici assoluti sono spesso segretamente gemelli, e Putin evidentemente ha imparato qualcosa da George W. Bush).

 Nessuna ragione di lungo periodo esenta di un grammo di responsabilità la decisione con cui il presidente russo ha portato il mondo sull’orlo del precipizio.

Ma pare assai improbabile che dal precipizio le democrazie occidentali possano uscire senza aprire al proprio interno tre linee di ripensamento autocritico di un passato prossimo che invece tendono solo a rimuovere o a riconfermare.

 

La prima linea riguarda l’atroce sequenza di guerre con cui l’Occidente ha insanguinato l’epoca di pace che aveva annunciato alla fine della Guerra fredda, e che rischiano di costituire i precedenti formali, non solo le concause politiche, dello scenario che si va prefigurando in Europa.

 Dovrebbe balzare agli occhi l’analogia agghiacciante fra le motivazioni addotte da Putin a sostegno della minoranza russa in Ucraina e quelle che mossero il cosiddetto intervento umanitario della Nato a sostegno della minoranza kosovara in Serbia, con relativo bombardamento di Belgrado: e invece non un cenno se ne sente in specie nel Pd, erede del partito che fu il principale regista italiano di quella guerra, oggi abitato da una classe dirigente che sembra del tutto ignara della drammaticità di quella stagione e del tutto conforme alla narrativa trionfale del dopo-’89.

 

Dovrebbe risuonare come un monito sullo stato delle democrazie occidentali la madre di tutte le fake news e di tutte le post-truth politics, ovvero la gigantesca menzogna sulle presunte armi di distruzione di massa possedute da Saddam Hussein che giustificò la “guerra preventiva” in Iraq.

 

Soprattutto, dovrebbe portare un grammo di senno, questo sì preventivo, sullo scenario europeo prossimo venturo la scia di guerre civili, regimi instabili ed esodi migratori biblici lasciata dietro di sé dall’intera sequenza delle guerre post-89, tutte caratterizzate dall’intreccio micidiale di rivendicazioni nazional-sovraniste e rivendicazioni etnico-regionali che si ripropone oggi in Ucraina e rischia di riproporsi in un teatro europeo più vasto di quello ucraino.

 

E invece è proprio nella ripetizione nevrotica di quella dinamica che ci stiamo infilando, con il corredo sinistro di un soccorso armato alla resistenza ucraina fatto di contractors, appalti, privatizzazione dell’uso della forza – un film, anche questo, già visto in Iraq e in Siria, con le conseguenze che sappiamo.

 

La seconda linea di riflessione autocritica riguarda lo stato delle democrazie occidentali e quello connesso della costruzione europea. Oggi siamo tutti dalla parte dell’Ucraina, vittima di un’aggressione inammissibile, e da questa parte bisogna restare finché i carri armati russi resteranno in campo.

 

Ma nella retorica monotonale occidentale l’Ucraina è diventata in pochi attimi la trincea della difesa della democrazia tout court, anzi, per dirla con le parole di Joe Biden nel suo discorso sullo stato dell’Unione, la trincea del conflitto fondamentale del nostro tempo, che sarebbe quello fra democrazia e autocrazia.

 

Le élite democratiche americane sono impegnate da tempo a costruire questo frame narrativo, opposto e speculare all’attacco alla liberaldemocrazia occidentale portato avanti dalla concezione putiniana della cosiddetta “democrazia sovrana”.

 

 E se nella politica interna americana questo frame è servito a sconfiggere Trump, in politica estera è destinato a prendere il posto di quello sullo “scontro di civiltà” fra Occidente e Islam che ha tenuto banco per tutto il ventennio della war on terror successivo all’11 settembre.

 Ma dopo Trump, gli americani non possono non sapere che la linea di confine fra democrazie e autocrazie è diventata molto esile, e può essere scavalcata dagli autocrati che crescono all’interno delle democrazie occidentali, non soltanto al di fuori di esse.

 

E noi europei non possiamo non sapere che le tentazioni autocratiche e sovran-populiste sono cresciute, soprattutto ma non solo nei paesi ex-sovietici dell’est, parallelamente ai processi di crisi e de-democratizzazione dei paesi dell’ovest, e sovente per reazione alla delusione di un allargamento a est dell’Unione rivelatosi più un’annessione alla religione del mercato che un’integrazione del mosaico di culture e tradizioni del vecchio continente.

 

Anche da questa parte dell’oceano, il pericolo autocratico non viene solo dall’esterno, e la democrazia non può essere impugnata come una bandiera senza macchia e senza peccato.

 

Questo nodo lega il trentennio che abbiamo alle spalle al presente e al futuro dell’Unione europea e della sua collocazione nello scacchiere globale.

 Il rilancio dell’atlantismo da parte di Joe Biden appariva molto ambivalente già all’indomani della sua elezione: mentre riavvicinava le due sponde dell’Atlantico che Trump aveva allontanato, innalzava un nuovo muro fra l’Europa e le autocrazie orientali, chiamando la Ue a posizionarsi nettamente contro di esse.

 Già allora le voci più consapevoli spinsero infatti per un’Unione atlantista ma aperta verso Est e capace di porsi come ponte fra gli Stati uniti, la Russia e la Cina.

 

Complice la fine del cancellierato di Angela Merkel, nonché verosimilmente l’insediamento del governo Draghi in Italia, le cose hanno preso purtroppo un’altra piega. E oggi è più che inquietante il coro mainstream di soddisfazione che si leva per un compattamento europeo che fa propria la parola d’ordine americana del nuovo scontro di civiltà fra Occidente e Oriente, e avviene tutto sotto l’insegna della Nato, di sanzioni durissime che colpiranno Putin ma affosseranno la transizione energetica europea, di una politica di pura potenza, di un riarmo di cui la Germania si fa protagonista e che travolge persino la neutralità storica di paesi come la Finlandia.

 

Se si rafforza in questo modo, dopo aver clamorosamente mancato tutte le possibilità preventive di disinnescare politicamente la miccia che Putin stava accendendo, l’Unione europea finirà col fare le spese del ridisegno dell’ordine globale che si sta giocando nella guerra fra l’imperialismo russo e il nazionalismo ucraino.

 

Se in Ucraina non cessa il fuoco e l’Europa non inverte la rotta imboccando la strada della smilitarizzazione, il conflitto si estenderà in modo imprevedibile e i tempi si faranno durissimi per la specie umana.

 

Se le democrazie si compatteranno al loro interno sulla base dell’ennesima proclamazione dello stato d’emergenza, come già sta avvenendo in Italia, la credibilità della democrazia subirà un ennesimo e fatale colpo.

 Come sempre e mai come oggi, per incidere sullo scacchiere geopolitico il pacifismo deve alimentarsi di un conflitto politico aspro dentro casa, in primo luogo contro la militarizzazione del dibattito pubblico.

 

La crisi ucraina

e lo scontro di civiltà.

 Ilpensierostorico.com- Stefano Baruzzo-(2-4-2022)- ci dice :

 

(Stefano Baruzzo  è laureato in Scienze Politiche).

 

Recensione a

S.P. Huntington, “Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale”.

Pubblicato negli Stati Uniti nel 1996 il libro di Samuel Huntington suscitò ampia discussione, rilanciata dopo l’11 settembre 2001, che sembrava iniziare la “sfida” della civiltà islamica.

Il libro, fuori da quelle contingenze, offriva in realtà un paradigma delle relazioni internazionali post Guerra Fredda.

Esso conserva la sua attualità, in questo momento che vede una guerra in Europa tra Russia e Ucraina, tanto più utile per l’insufficienza di un’informazione mediatica che oscilla tra spettacolarizzazione della cronaca e funzione istituzionale.

 

Il paradigma di Huntington disegna un sistema internazionale dominato dal conflitto non tanto e solo tra gli Stati, compatte entità che agiscono in relazioni di potenza in un mondo anarchico, bensì da un conflitto tra diverse civiltà, unità «culturali» di lunga formazione definite da storia, stili e norme di vita comuni, soprattutto dall’identità religiosa. Tra di esse, Huntington distingue in Europa la civiltà “occidentale”, più precisamente euro-atlantica, da una civiltà russo-ortodossa, la cui identità religiosa cristiana deriva dalla tradizione orientale di Bisanzio.

 

Il confine tra queste due civiltà attraversa l’Ucraina, divisa tra una parte occidentale, cattolica uniate, di lingua ucraina e di forti sentimenti nazionali, che guarda all’Europa occidentale, e una orientale, russofona e ortodossa, che guarda alla Russia. Questa divisione è foriera di “conflitti di faglia”, tipici delle aree di contiguità tra le civiltà quando attraversano uno stesso Stato.

 

Huntington prefigurava tre possibili scenari del conflitto sulla faglia russo-ucraina che orientano ancora oggi le analisi.

 Lo scenario di una guerra diretta tra Russia e Ucraina era prefigurato dalla teoria realista dello scontro tra Stati-potenze spinti da reciproca paura per la propria sicurezza.

 John Mearsheimer nel 1993 riteneva «matura» una guerra con la conquista russa dell’Ucraina e propugnava il mantenimento di armi nucleari in Ucraina per deterrenza antirussa.

Huntington giudicava poco probabile questo primo scenario:

 «Si tratta di due popoli slavi, prevalentemente ortodossi che per secoli hanno mantenuto stretti rapporti e tra i quali i matrimoni misti sono oltremodo frequenti».

 Ne derivava l’indicazione di incoraggiare la cooperazione tra i due paesi, a garanzia della stessa indipendenza ucraina (l’Ucraina rinunciò nel 1994 alle atomiche).

 

Più realistica, secondo Huntington, la possibilità di una spaccatura del paese tra le due regioni, con l’orientale annessa o federata alla Russia. Ne conseguiva che «la creazione di un’Ucraina uniate orientata a Occidente sarebbe tuttavia possibile solo grazie a un forte ed efficace sostegno occidentale, che potrebbe giungere solo qualora i rapporti tra Russia e Occidente si deteriorassero come ai tempi della Guerra Fredda».

 

In sostanza, l’Ucraina Ovest entrerebbe nell’Ue e nella Nato, proprio ciò che la Russia di Putin non vuole. Huntington riteneva più probabile un terzo scenario, cioè che «l’Ucraina resti unita, resti un paese diviso, resti indipendente e sviluppi, in linea generale, legami di cooperazione con la Russia.

Una volta risolte le dispute relative alle armi nucleari e alle forze militari, le questioni più serie saranno di carattere economico e la loro risoluzione sarà facilitata da una cultura in parte comune e da stretti legami personali» (pp. 240-243).

Sul piano esplicativo, il paradigma dello scontro di civiltà conferma la sua attualità, poiché individua sulla faglia ucraina lo scontro in Europa.

 Sul piano previsionale, è comprensibile che nel momento dell’invasione russa la conclusione di Huntington appaia a dir poco ottimista, poiché sembra in atto il primo scenario.

 

Sembra, perché una guerra russo-ucraina jusqu’au bout, pur militarmente fattibile, porterebbe all’interno della Russia una regione in costante conflittualità proprio perché attraversata dalla faglia di civiltà. Inoltre, come si usa dire, tutte le guerre prima o poi finiscono.

 

 Resta un dopo da gestire e sul piano normativo (il da farsi) dalle lontane analisi di Huntington emergono indicazioni di attualità. Risolta la questione delle armi nucleari, le residue dispute su “forze militari” richiamano in sostanza la richiesta russa di neutralizzazione dell’Ucraina. Inoltre, il paradigma dello scontro di civiltà ha il vantaggio di estendersi sul periodo medio-lungo, non breve e contingente.

Esso avverte che i conflitti di faglia tendono a riproporsi, difficilmente trovano una composizione duratura e gli accordi tra i protagonisti sono tregue più che pace.

 

La consapevolezza di civiltà diverse in Europa suggerisce quindi la necessità di un accordo ampio con il riconoscimento alla Russia del ruolo di Stato guida del mondo ortodosso, accompagnato da trattati di associazione e non aggressione (pp. 357-358).

 

Oggi, anche il realista Mearsheimer pensa che Putin non voglia conquistare e integrare l’Ucraina in una più grande Russia e ritiene che ciò non sia neppure possibile.

Anche Mearsheimer pensa che «ci sia una seria possibilità che gli ucraini possano elaborare una sorta di modus vivendi con i russi» («The New Yorker», 1° marzo 2022).

 

Huntington ricorda che la Russia è un paese «in bilico», concorde sulla propria identità ma non sulla civiltà di appartenenza. La dialettica che attraversa la storia russa tra occidentalisti e slavofili, tra europeismo e originalità euroasiatica, resterà irrisolta, poiché è «un tratto inalienabile del carattere nazionale» (p. 206). Bisognerà conviverci e accettarla come una condizione da gestire, non un problema da risolvere.

 

Lo scontro delle civiltà suggerisce anche un’osservazione sull’entente cordiale tra Russia e Cina, nella quale alcuni commentatori vedono il possibile perno di un nuovo ordine mondiale. Può darsi.

 

Tuttavia, tra la civiltà russo-ortodossa e quella sinica-confuciana esistono differenze anche più marcate che tra la prima e quella occidentale.

 Inoltre la geopolitica prospetta un conflitto potenziale tra Russia e Cina anche più critico di quello con l’Occidente. Se la Russia non accetta concentrazioni di potenza a Ovest, nondimeno le teme a Oriente.

 

Gli avvicinamenti russo-cinesi sono spesso reazioni a vertenze con l’Occidente, mentre un asse russo-cinese di lungo periodo dipende dal grado di soddisfazione dei rapporti con l’Occidente ma anche «dall’ascesa della Cina a potenza egemone dell’Asia orientale e dalla conseguente minaccia per gli interessi russi da un punto di vista economico, demografico e militare» (p. 359).

 

Oggi, sul confine orientale russo preme l’esuberanza economica e demografica, unita a superiorità tecnologica e militare, di una Cina, Stato-guida di un’altra civiltà, che ha raggiunto lo status di potenza globale.

 

Approfitto, in chiusura, per aggiungere un richiamo a un “effetto collaterale” della guerra in Ucraina che mi pare non abbia richiamato la giusta attenzione: la decisione della Germania di un massiccio riarmo.

 La guerra in Ucraina ha offerto l’occasione alla Germania di superare il condizionamento del suo terribile passato e avviare la riabilitazione della propria potenza proporzionando la propria forza militare a quella economica.

 

 Non più gigante economico e nano politico, bensì in prospettiva gigante in toto. Un passo in fondo atteso, dopo la riunificazione. L’Ue, già scricchiolante dopo la Brexit, dovrà fronteggiare il fatto nuovo.

La Francia è diffidente, la Polonia teme la Germania non meno della Russia.

 

La Russia non avrà la Nato in Ucraina ma poco più in là troverà la rinata potenza dell’antica rivale europea. Qualche europeista dirà che questa è l’occasione di una nuova Ced, premessa degli Stati Uniti d’Europa. Forse.

 Ma la storia insegna le differenze, non le ripetizioni: allora la Ced era voluta dalla potenza egemone, oggi non credo che gli Usa saranno entusiasti della formazione di un blocco militare europeo che completi quello economico saldato da una moneta unica.

 

Nessun paradigma è completo e privo di limiti, ma ciascuno offre dei vantaggi. Quelli dello scontro di civiltà sono diversi.

 

Non è incompatibile con la teoria realista delle relazioni internazionali, ne amplia piuttosto la dimensione. Inoltre rispetta e richiede la lettura geopolitica dei rapporti internazionali. Infine, poiché ogni paradigma, oltre una funzione esplicativa, ha una funzione normativa, cioè oltre a spiegare i conflitti mira anche a suggerire le soluzioni, anche quello dello scontro delle civiltà non si sottrae a questo compito.

 

 La validità di un paradigma è misurata dalla sua capacità di rispondere alle domande che la realtà pone, ma anche dalle soluzioni che riesce a suggerire. Credo che il lavoro di Huntington, non solo in relazione alla crisi russo-ucraina, offra un contributo attuale su entrambi i piani e conservi ancora, a distanza di trent’anni, il rango di “livre de chevet” sul nuovo ordine mondiale post Guerra Fredda.

 

 

 

 

 

 

 

Ucraina: per provare

a capirci davvero.

Ilpensierostorico.com- Valentina Meliadò- (3 aprile 2022)- ci dice :

 

(Valentina Meliadò, giornalista e storica).

 

Basta retorica. Tutto questo spirito da battaglia finale armi in pugno elmetto in testa proprio non ci si addice.

 Siamo troppo smidollati, troppo viziati, troppo impegnati a neutralizzare parole e concetti, talmente sazi di libertà e diritti da inventarne di nuovi e di assurdi; siamo così stanchi, cinici, alla perenne ricerca di una giustificazione alla inconsistenza della nostra vita, così fieri del brodino culturale in cui abbiamo annegato dubbi e incertezze.

 

Sempre pronti a fingere che il mondo coincida con il nostro piccolo mondo, occupiamo lo spazio di un quartiere residenziale in una grande città, e improvvisamente non sembriamo contare di più. Questo siamo diventati noi, l’Occidente.

 

Era prevedibile. Da troppo tempo si insegna e si scrive che tutte le calamità umane e naturali del mondo siano riconducibili alle azioni dell’Occidente, che ci dobbiamo vergognare della nostra stessa civiltà e degli uomini che l’hanno resa grande, che  abbiamo il dovere morale di espiare colpe ataviche verso minoranze etniche e religiose che nei secoli abbiamo umiliato e calpestato, e che è necessario eliminare dal panorama scolastico e culturale libri, opere e monumenti emblematici della nostra civiltà.

 

Per non parlare di concetti quale patria, eroismo, identità nazionale. Il solo proferire queste parole poteva costare le accuse più nefande, o peggio una sospensione e un ammonimento dal mondo virtuale. La “correttezza politica” si è imposta quale bussola del pensiero occidentale, creando di fatto nell’azione politica enormi contraddizioni, e nella formazione culturale autentici buchi, profondi imbarazzi. Fino a ieri, però.

 

Perché appena i russi hanno messo piede in Ucraina ci siamo svegliati tutti atlantisti, filoamericani e soprattutto innocenti. Una unità di intenti e di visione che neanche l’11 settembre era stata in grado di provocare, anzi.

 

 Proprio coloro che più aspramente hanno criticato la dottrina dei neoconservatori americani di esportazione della democrazia, e ne hanno denunciato il fallimento parziale o totale in Afghanistan e in Iraq, sembrano oggi i più accaniti sostenitori di una guerra su vasta scala non solo al dittatore russo, ma anche alla cultura russa, passata e presente.

 

Un cortocircuito attribuibile solo al cambio di rotta della politica estera americana voluto dai “ liberal Dem Usa”  con la presidenza Obama, all’appoggio indiscriminato e superficiale alle velleità di cambio di regime in Africa settentrionale e in Medioriente con le Primavere arabe e la guerra siriana, i cui risultati, a dieci anni di distanza, sono lo sconvolgimento, prima, e l’abbandono, poi, di aree geografiche di prioritaria importanza per la leadership occidentale.

 

 Ma in Storia non esistono vuoti. La nostra debolezza, la confusione sul nostro stesso ruolo nel mondo sono state prontamente sostituite tanto in Africa quanto in Medioriente e nei Balcani da Cina, Russia e Turchia. Si può dire che il capolavoro occidentale degli ultimi anni sia stato ripristinare tre imperi e il loro raggio di influenza in un arco di tempo brevissimo, e che il nostro ruolo storico sia finito.

 

Basterebbe questo a spiegare l’insorgere di una guerra vera nel cuore dell’Europa, una di quelle che pensavamo di non vedere più, perché quelle che si combattono nel mondo sono in genere abbastanza lontane da poterle biasimare senza troppo disturbo.

 

 Questa invece è sulla soglia di casa nostra; questa è un pugno allo stomaco di un Occidente che da anni passeggia sulla Storia mentre altri la Storia la fanno, e la fanno come la vogliono loro, non come la vogliamo noi. Ora è facile sentirsi dalla parte giusta: c’è un paese invasore ed uno invaso, c’è un regime autoritario, da una parte, ed uno Stato democratico (o sufficientemente tale), dall’altro.

 

Nell’epoca delle semplificazioni fai da te, dei social che si scomodano a farti da debunker e ti spiegano come la devi pensare, chi puoi insultare e cosa scrivere per essere una persona civile sembra tutto ovvio: il dittatore Putin si è svegliato una mattina e ha deciso di invadere l’Ucraina.

Motivo?

 Psico-pazzia, delirio di potenza, nostalgia dell’impero russo, cattiveria pura.

 

Qualsiasi perplessità a riguardo è una chiara manifestazione di pro-putinismo. Peccato che la Storia sia ancora una volta lì, a mostrarsi in tutta la sua complessità, e che non ci sia affatto bisogno di essere pro o contro qualcuno per analizzare i fatti, o meglio, non è necessario coniugare la comprensione storica e politica degli eventi con il giudizio morale, che in questo caso è più che mai scontato.

 

La riduzione della complessità della realtà a sentenza pro o contro è forse una delle ragioni principali di questo conflitto.

 Il livello della discussione storica e politica si è degradato in questi anni fino a diventare nulla più che una tifoseria calcistica, una specie di derby della realtà che ha fatto strame della logica stessa, e i risultati si vedono soprattutto nella confusione culturale che regna sovrana, nell’accanimento di una informazione manichea che rasenta la propaganda etica.

 

Quel che è certo, è che siamo passati in soli venti anni da un clima di avvicinamento e collaborazione con il gigante russo ad una guerra calda nel cuore dell’Europa. Attribuire al solo Putin una simile giravolta è certamente comodo, ma oggettivamente fuorviante. L’Occidente ha le sue responsabilità storiche, e negarlo in questa improvvisa militanza senza se e senza ma pro Nato e pro democrazia non è più edificante dell’autolesionismo di ordinanza sbandierato fino a ieri.

 

Delle domande bisogna pur farsele: come ci siamo rapportati alla Russia dalla fine dell’Unione Sovietica in poi? È giusto che la Nato sia sopravvissuta alle sue ragioni storiche?

 

La dissoluzione di un impero è un evento pieno di incognite che va oltre la riconquista della libertà e dell’autodeterminazione dei popoli che lo componevano.

Dopo la caduta del Muro di Berlino ha prevalso l’illusione di un Occidente libero e democratico in rapida espansione, e l’appartenenza all’Unione Europea ed alla Nato è diventato l’obiettivo principale, comprensibilmente, dei paesi che per decenni avevano subìto il potere sovietico.

 

La Russia era l’ombra di se stessa, mortificata politicamente, economicamente, territorialmente, alle prese con i movimenti centripeti che caratterizzano la dissoluzione di un impero tenuto insieme con il terrore. Le guerre balcaniche avrebbero dovuto insegnare qualcosa in tal senso.

 

Putin, ex dirigente del Kgb insediatosi al potere nel 2000, ha traghettato la Russia nel nuovo millennio con i modi e la mentalità di un uomo cresciuto e formatosi in Unione Sovietica, ma consapevole che quell’era fosse finita; si è barcamenato tra le aperture politiche ed economiche necessarie a risollevare il paese e a rilanciarne il ruolo nel mondo, e la brutalità dei vecchi metodi di conservazione del potere, basti ricordare la morte di Aleksandr Litvinenko e Anna Politkovskaja.

 

Nonostante questo, forse più per volontà dell’ex presidente statunitense Bush junior e dell’ex premier italiano Silvio Berlusconi che per una strategia a lungo termine occidentale, nei primi anni del nuovo millennio la strada del ricongiungimento alla storia, alla cultura e al destino europeo della Russia sembrava quantomeno intrapresa.

 

Quello che è accaduto dopo è lungo e complesso da analizzare, ma è un fatto che ad ogni scossone politico ai suoi confini la Russia abbia reagito con poca diplomazia e più esercito, il che non è una peculiarità di Putin, ma il modus operandi del paese più grande del mondo che nella sua storia millenaria la democrazia non l’ha mai conosciuta.

 

 Georgia, Crimea e Ucraina (quest’ultima, in particolare, perché il suo destino non è pressoché mai stato separato da quello russo fino a trentuno anni fa) sono stati i confini caldi della Russia occidentale e meridionale dopo la dissoluzione dell’Urss, quelli in cui la presenza di cittadini russi e il desiderio di essere ricongiunti alla vecchia madrepatria ha convissuto malamente con la voglia di tagliare i ponti e virare nettamente verso Occidente, e quando questo è accaduto la Russia ha reagito pesantemente.

 

 Ma la guerra che si sta combattendo oggi non dipende né da questo né dalla richiesta dell’Ucraina di ingresso nella Nato, che semmai è un pretesto.

 

Questa guerra è “vecchia” di otto anni, è il secondo atto dell’annessione della Crimea, dei disordini e delle violenze nel Donbass di cui stranamente non si è parlato e si continua a non parlare. Davvero non sarebbe stato possibile evitare questo conflitto affrontando prima il tema della frizione sempre più grave tra Ucraina occidentale ed orientale dopo il colpo di Stato del 2014?

Perché gli Stati Uniti addestrano da otto anni milizie ucraine, se non in previsione di una guerra? Perché, come ammesso da un membro del Congresso americano, proprio in un paese instabile come l’Ucraina sono stati installati laboratori di ricerca batteriologica? Era proprio necessario?

 

Sono domande, non giustificazioni. Quelle che aiuterebbero a capire ieri, perché quelle dell’oggi sono diverse, ma non meno stringenti.

 

Che strategia sta seguendo l’Occidente in questa guerra? Qual è l’obiettivo finale?

Perché l’America di Biden, che pure è geograficamente lontana e indipendente dal punto di vista energetico rispetto all’Europa, egemonizza le decisioni sulle sanzioni ed esaspera la discussione con insulti personali, minacce nucleari ed esortazioni all’insurrezione tali da aver provocato la reazione dei leader europei, che pure non hanno brillato per iniziativa e gestione della situazione?

 Qual è l’interesse di una estensione del conflitto che potrebbe davvero investire tutta l’Europa? Perché?

 

Davvero qualcuno a Washington pensa che l’esasperazione delle sanzioni e delle minacce, unite al prolungamento della guerra (sulla pelle dei civili ucraini) porterà al rovesciamento in patria di Putin ed alla fine della sua era?

 

Ma soprattutto: che follia è sperare nella destabilizzazione del più grande paese del mondo? Anche prendendo in considerazione l’ipotesi che i russi si ribellino alle restrizioni ed al loro leader e ne rovescino il governo, che si fa poi? Occupiamo la Russia? Gliela diamo alle ex repubbliche sovietiche per consumare la loro vendetta? La lasciamo in balia del vuoto di potere e dei disastri che questo potrebbe provocare, in forme infinitamente più gravi di quanto accaduto in Libia, tanto per fare un esempio? Che senso ha porsi di fronte ad un conflitto regionale, per quanto grave, come ad una guerra mondiale?

Possibile che non sia stato possibile per otto lunghi anni cercare una soluzione che salvaguardasse l’unità territoriale ucraina ponendosi al contempo il problema dei russi del Donbass? E che all’inizio delle ostilità non ci fosse possibilità alcuna per l’Europa di proporsi come mediatore?

 

Si dice che siano in gioco i valori dell’Occidente, che Putin non si fermerà, ma io non sento meno calpestati i miei valori quando ovunque nel mondo libertà e diritti civili vengono negati, o quando viene lapidata una donna, o tutte le volte che un fanatico o un dittatore si comporta come tale.

 Io lo so che l’Occidente è una piccola oasi, una riserva naturale che pensava di espandersi e invece tende a restringersi, un gigante dai piedi d’argilla che alla prova dei fatti si è disarticolato cercando solo di abbaiare più forte. Altro che unità, altro che forza.

 

La guerra in Ucraina finirà, certo, quando i russi saranno disposti ad accettare una mezza vittoria e gli ucraini una mezza sconfitta, o viceversa, e con un po’ di fortuna accadrà prima che il resto del mondo ne sia irrimediabilmente coinvolto, ma tante cose resteranno, e tante cambieranno.

Le macerie, innanzitutto. I morti. I profughi, milioni di persone che sono state accolte in modo encomiabile proprio da quei paesi dell’est Europa che tanto sono stati criticati dalla Ue per il loro atteggiamento verso i migranti, e che oggi sono in prima linea perché troppo recente è la loro riconquista di libertà per poterla tradire e dimenticare, e troppo ipocrita è l’accoglienza dei buoni sulle spalle degli altri.

 

 Ma anche gli equilibri mondiali sono cambiati, o forse sono solo divenuti più evidenti: l’Europa non conta niente. Più del parlarsi addosso non fa; non esiste una voce, una strategia o una decisione che sia veramente e unicamente europea, e ad ogni crisi internazionale tende ad accodarsi o a criticare gli Stati Uniti, a seconda dell’inquilino della Casa Bianca.

 

L’America, in oggettiva crisi di leadership mondiale dopo una serie impressionante di fallimenti, ha identificato in Putin il nemico da abbattere, ma più che un vantaggio economico (il contratto di fornitura di gas all’Europa) e la conferma dell’inadeguatezza di Biden, non ha di certo ottenuto.

 

 La Nato, con una reputazione e un budget vecchi e impolverati, ha avuto i suoi cinque minuti di gloria, sì, ma le perplessità sulla necessità di una espansione indefinita di una alleanza militare (non politica) sulla soglia di casa dei russi restano tutte.

 

La Russia, che in molti credono isolata e spacciata a suon di sanzioni, dovrà certamente affrontare una serie di problemi interni, ma uscirà dalla crisi forte di un’alleanza economica e politica molto più definita e definitiva con la Cina, e ben consapevole che del mondo l’Occidente non è che una parte sempre più inconsistente e dipendente, soprattutto l’Europa, che a scanso di urla e proclami la guerra di Putin l’ha finanziata ogni giorno con la sua dipendenza dal gas russo.

 

Indipendenza.

Questa è la chiave. Che non è solo indipendenza fisica e politica, quella che vogliamo salvaguardare in Ucraina, ma è soprattutto indipendenza energetica e produttiva.

 

Ecco la lezione che avremmo dovuto imparare da due anni di Covid. Non c’è alcuna possibilità di esercitare né leadership né deterrenza se di fronte ad una pandemia non siamo autosufficienti nella produzione dei presidi sanitari, o nel mezzo di una guerra dobbiamo temere che il nemico ci chiuda il rubinetto del gas.

 

Non siamo credibili nel nostro corteggiare un determinato regime per farne fuori un altro, e l’Occidente rischia di essere surclassato. Forse lo merita, e da un punto di vista storico potrebbe persino essere giusto, ma, come ricordava Winston Churchill, la democrazia è la peggior forma di governo eccezion fatta per tutte le forme sperimentate finora, e dunque dovremmo cercare di tenercela stretta.

 Lavorando molto su noi stessi, però, e cercando di restituire alla civiltà occidentale la dignità e le ragioni che l’hanno resa grande e unica.

 

 

 

 

Secondo Renzi, Conte era filo Trump e

filo Putin e voleva solo salvarsi la poltrona.

 

Linkiesta.it-Redazione- (20 aprile 2022)- ci dice :

 

(Russia-gate all’italiana).

 

 

Il segretario del Copasir Ernesto Magorno chiederà un’audizione dell’ex premier in merito all’incontro tra Barr e Vecchione di cui non era stata data comunicazione alle agenzie di intelligence. «Sulla visita di Barr risponda lui», dice il leader di Italia Viva.

 

«Non ne ero a conoscenza». L’ex premier Giuseppe Conte nega ogni suo coinvolgimento nell’incontro informale, rivelato da Repubblica, tra l’ex segretario alla Giustizia americano William Barr e l’allora capo dei servizi segreti italiani Gennaro Vecchione, avvenuto la sera del 15 agosto del 2019 a Roma.

 

Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump si era convinto che l’Italia fosse l’epicentro del Russia-gate, un complotto ordito contro di lui tre anni prima, quando a palazzo Chigi c’era Matteo Renzi, mirato a danneggiarlo divulgando la notizia delle ingerenze russe nelle elezioni presidenziali vinte dal tycoon contro Hillary Clinton. Trump avrebbe mandato per questo Barr a raccogliere informazioni a Roma, trovando la collaborazione di Conte e dei servizi segreti italiani.

 

Il segretario del Copasir Ernesto Magorno, di Italia Viva, chiederà un’audizione dell’ex premier in merito all’incontro di cui non era stata data comunicazione alle agenzie di intelligence. E intorno a questa vicenda, si riaccende lo scontro tra Conte e Matteo Renzi.

 

Il leader di Italia Viva in un’intervista alla Stampa definisce Conte «incompetente e incapace di conoscere le regole del gioco». Secondo Renzi, «ci sono due Russia-gate.

 Il primo riguarda la barzelletta per la quale io e Obama avremmo fatto una truffa elettorale ai danni di Trump.

Il fatto che qualcuno a Roma abbia dato credito a questa follia è ridicolo.

Colpisce che la versione di Conte non collimi con lo scoop che ieri ha fatto Repubblica: o Conte ha mentito al Copasir o Vecchione ha mentito a Conte.

 Oppure tutti e due mentono agli italiani.

 E poi c’è da chiarire la vicenda del presunto spionaggio russo, su cui siamo gli unici a chiedere la commissione di inchiesta sul Covid.

Ma i grillini non vogliono che sia fatta luce, né su questo né sulle mascherine, chissà perché».

 

Nel giallo intorno alla famosa missione russa in Italia nel marzo 2020, il Corriere aggiunge un tassello: nell’elenco consegnato a Roma risultano 100 militari di Mosca in visita in più rispetto alla lista contenuta nelle relazioni parlamentari.

 

Ufficialmente si trattava di una missione umanitaria, ma la composizione del contingente dimostra che in realtà erano tutti soldati e soltanto alcuni erano ufficiali medici.

 I militari guidati dal generale Sergey Kikot indicati nella lista di chi doveva «prestare assistenza nella lotta contro l’infezione da coronavirus» nel marzo del 2020 sono 230.

L’elenco fu allegato dall’ambasciata di Mosca al testo dell’accordo tra il presidente Vladimir Putin e Giuseppe Conte poi trasmesso alla Farnesina. Ma nelle relazioni parlamentari risulta che in Italia sono stati registrati 130 nominativi. Qualcosa non torna.

 

«Sulla Russia tutti attaccano, giustamente, Salvini per le magliette di Putin o gli striscioni in piazza Rossa con scritto “Renzi a casa”.

 Ma i 5 stelle avevano la stessa linea, basta ricordare Di Stefano che oggi fa l’istituzionale viceministro e che allora attaccava l’Ucraina definendola “Stato fantoccio della Nato”», dice Renzi.

 «Poi c’è il tema Trump: l’atteggiamento di Conte tra agosto e settembre 2019 non è tipico del capo di un governo. Barr doveva incontrare Bonafede, nessun altro. Capisco che magari, se avesse incontrato solo Bonafede non sarebbe nemmeno venuto, ma questa è un’altra storia». Giuseppe Conte, secondo Renzi, «in quelle ore era impegnato a salvare la poltrona».

E sugli aiuti russi per il Covid «io la penso come Giorgio Gori, sindaco di Bergamo. In quella missione c’era qualcosa di strano e Conte dovrebbe chiarire perché ha accettato quell’accordo con Putin», dice Renzi.

«Il mio giudizio su Conte è notoriamente negativo, non solo per la politica estera», conclude Renzi. «Perché sulla politica estera non puoi proprio giudicarlo: ha fatto tutto e il contrario di tutto. È stato sovranista e progressista, populista e democratico, filo Trump e filo Putin. Puoi giudicare uno dalle sue idee, ma se quello cambia le idee ogni mese che gli dici?»

 

Conte ieri ha replicato un lungo post sui social, in cui tenta di gettare acqua sul fuoco. Assicura «massima trasparenza» e di aver già detto tutto quello che sapeva quando a ottobre è stato convocato in audizione al Copasir. L’ex premier sostiene però di non aver «mai personalmente incontrato Barr, né nel corso di incontri formali né nel corso di incontri conviviali».

 

Il fatto che alla riunione ufficiale con l’intelligence italiana, nella sede dei servizi segreti a piazza Dante, fosse seguita una cena informale, proprio a due passi dalla casa di Conte, «è circostanza di cui non ero specificamente a conoscenza», assicura il leader del Movimento Cinque Stelle.

 

Poi, contrattacca: «È possibile che il senatore Renzi non abbia mai sentito il dovere di andare a riferire al Copasir su questi suoi sospetti? Cosa teme, di dover poi rispondere alle domande e di essere obbligato, per legge, a riferire tutta la verità?».

 

Renzi risponde e dice: «Sono sempre pronto a rispondere alle domande del Copasir, ma sulla visita di Barr deve rispondere Conte e non io. Perché le risposte deve darle chi aveva la delega ai servizi, non chi come me è la parte lesa da uno stile istituzionale quanto meno discutibile.

 

A meno che non ci sia qualcuno che pensa che davvero Obama e io abbiamo truffato le elezioni in Connecticut o in Ohio. Nel qual caso consiglio di farsi vedere da qualche specialista, possibilmente bravo».

 

 

 

 

 

 

 

 

Lo scontro degli stati-civiltà.

Grece-it.com - Eduardo Zarelli-(24/01/2022)- ci dice :

 

(G.R.E.C.E.).

 

 

Cos’è la civiltà?

Perché nonostante sia una delle parole più importanti del nostro lessico culturale induce a significati difformi?

E perché pensando a essa la identifichiamo unilateralmente con la occidentalizzazione del mondo, in coerenza all’ideologia del progresso e all’universalismo illuministico dei diritti individuali?

 Eppure, due delle navi francesi utilizzate nella tratta degli schiavi si chiamavano Jean-Jacques Rousseau e Contract Social. Un’altra fu nominata Le Voltaire, si ritiene su espressa autorizzazione del cosiddetto “libero pensatore”.

 

Secondo la tesi resa celebre da Francis Fukuyama e da altri pensatori liberali contemporanei, la fine della guerra fredda e il definitivo trionfo della democrazia liberale avevano aperto una fase finale di conclusione della storia in quanto tale e creato le condizioni per la costruzione di un “nuovo secolo americano” o quantomeno occidentale.

 Oggi, a trent’anni di distanza, quella tesi appare evidentemente come una delle argomentazioni ideologiche che hanno supportato e propagandato esclusivamente la globalizzazione della forma capitale.

 

La realtà delle relazioni internazionali esprime il declino della potenza egemone, in un mondo multipolare, in bilico tra l’unilateralismo aggressivo dell’Occidente a guida statunitense e un auspicabile multilateralismo tra sovranità spaziali plurime e identità culturali differenti.

 

 Non solo l’ordine mondiale “liberal Dem Usa”  è messo in discussione dall’ascesa di nuove potenze regionali o globali (o aspiranti tali) – come la Cina, la Russia e l’India, che rigettano più o meno esplicitamente l’universalismo occidentale, sia in campo economico-politico che in campo culturale e morale – ma i valori liberali sono in crisi anche nello stesso Occidente, come testimonia la crescita di fenomeni populisti e illiberali su entrambe le sponde dell’Atlantico.

 

L’argomentazione in tema del filosofo politico Cristopher Coker – professore di Relazioni internazionali alla London School of Economics – non può che risultare parziale, ponendosi come ancillare del primato apolide occidentale, ma non di meno si presta ad affrontare un tema determinante per interpretare il presente e le dinamiche conflittuali che minano le aspettative tecnocratiche alla uniformità mondiale del mercato globale.

 

Qual è il futuro della civiltà (o meglio delle civiltà) nel mondo di oggi e di domani?

In tal senso, l’autore coglie la limitatezza del concetto di Stato-Nazione, prodotto genuino della modernità, per confrontarsi con gli “Stati-civiltà”:

spazi geopolitici, cioè, che non solo si caratterizzano per una omogeneità culturale o etnica, ma che si considerano ancor prima come delle vere e proprie civiltà a sé stanti, profondamente diverse dalla civiltà occidentale, che viene vista come una minaccia a sé e agli equilibri internazionali.

 

Coker si concentra in particolare sui due paesi che più di chiunque altro rivendicano questo titolo: la Cina di Xi Jinping e la Russia di Vladimir Putin, ma affronta in forma estesa anche l’India di Marendra Modi piuttosto che l’idea di sovranità statuali islamiche, tra cui, il califfato.

 

Per ognuna di queste realtà si sforza di tratteggiare la strumentalità dell’utilizzo della storia e della cultura per legittimare politiche di potenza, ma proprio per questo non può sottrarsi dall’evidenziare come esista una forma di suprematismo occidentale che, nella modernità, le precede tutte: l’illusione dell’universalismo.

 

 In tal senso omaggia – a posteriori – le tesi del realista Samuel Huntington, che d’altronde con grande onestà intellettuale scrisse nel suo notorio” Lo scontro di civiltà e il nuovo ordine mondiale “che «nel mondo che emerge, un mondo fatto di conflitti etnici e scontri di civiltà, la convinzione occidentale dell’universalità della propria cultura comporta tre problemi: è falsa, è immorale, è pericolosa. L’imperialismo è la conseguenza logica e necessaria dell’universalismo».

 

Basti ricordare storicamente che la Gran Bretagna, di cui è cittadino Cristopher Coker, ha aggredito, invaso, occupato 173 dei 193 membri delle Nazioni Unite, mentre all’oggi, nel mondo non occidentale, consapevole che l’Occidente è in declino, caratterizzato dal materialismo pratico e il relativismo nichilistico, riscoprono i loro valori culturali, quando gli intellettuali occidentali, tra cui l’autore, si domandano se sia legittimo parlare di civiltà piuttosto che di stati potenza.

 

 Se i valori della civilizzazione cosmopolita liberale sono così diffusi, è perché giacciono in superficie alla vita emotiva delle popolazioni, molto meno radicati di quanto si illudano le élite metropolitane e cosmopolite.

 

 La fede illuministica nell’umanesimo e nel razionalismo non è in grado di spiegare la dinamica conflittuale del politico e le forme identitarie dell’aggregazione sociale. Anzi, come scrive Pankaj Mishra ne L’età della rabbia è proprio contro la falsa idea di «una civiltà fondata sul progresso graduale sotto amministratori liberaldemocratici» che oggi si alimenta la frustrazione, il risentimento e la insofferenza nel mondo.

 

All’inizio del XIX secolo solo il 20 per cento della disuguaglianza globale era imputabile alla collocazione geografica di un Paese. Non esisteva alcun posto sulla terra in cui il tenore di vita della parte più ricca del mondo fosse più del doppio rispetto a quello della parte più povera. Oggi il paese più ricco, il Qatar, vanta un reddito pro capite 428 volte superiore a quello del Paese più povero, lo Zimbabwe.

 

D’altronde, Susan Strange – già eminente collega dell’autore – ben apostrofò sprezzantemente come “civiltà degli affari” quel club informale composto da multinazionali, tecnocrati e istituzioni internazionali che nulla ha a che fare con una idea persuasiva di civiltà, oggi divenuta una associazione anonima globalizzata di banchieri e finanzieri che trascorrono il loro tempo nei business lounge degli aeroporti, in attesa di partecipare alle riunioni del World Economic Forum di Davos.

 

Questa classe dirigente oligarchica è completamente indifferente alle ragioni sociali, popolari e democratiche, ma è compiaciuta di sé, si ritiene portatrice di una superiorità morale universale e politicamente corretta in nome di un capitalismo “responsabile”, tutto proteso alla sostenibilità ambientale del suo sviluppo illimitato e del wishful thinking tecnologico, logistico e digitale.

(Tutto quanto propagandato dal furbacchione Klaus Schwab padrone del W.E.F. Ndr).

Alla luce di ciò, è opportuno saper distinguere la Civiltà dalla civilizzazione. Questa opposizione resta determinante per qualificare il concetto di cultura. Fin dal XVIII secolo si sviluppa una ampia letteratura che esprime il confronto fra le consuetudini radicate nella cultura occidentale europea e in quelle extraeuropee. Dalla memorialistica etnografica fino allo strutturalismo antropologico di Claude Lévi-Strauss viene minata alla base l’idea di una natura umana universale, e contribuito invece a rafforzare la nozione per cui le forme di vita locali entro le quali avviene l’interazione fra gli uomini ha un valore costitutivo e identitario per la cultura.

 

Questa curvatura etnocentrica e differenzialista del concetto di trasmissione culturale contribuirà a una riformulazione dei rapporti tra il concetto di cultura e quello di civilizzazione.

 

Cultura” (Kultur) e “civilizzazione” (Zivilisation) sono idealtipi in base ai quali interpretare i processi storici di modernizzazione. Nel dibattito tedesco di fine secolo e inizio Novecento la coppia concettuale comunità (Gemeinschaft) e società (Gesellschaft) – coniata dal sociologo Ferdinand Tönnies – diventerà la chiave per comprendere le risonanze che emanano dalla coppia Kultur e Zivilisation.

 

Mentre la comunità è un “organismo vivente”, la società deve essere intesa come un “aggregato e prodotto meccanico” delle transazioni individuali. Nasce qui l’idea che la comunità e i rapporti comunitari presuppongano omogeneità culturale, ovvero che l’espressione “società aperta” sia contraddittoria e aporetica per l’identità collettiva.

 

Diventa conseguente quindi affermare che il trionfo della “civilizzazione” segna il contemporaneo “tramonto della cultura”. In Oswald Spengler, ne Il tramonto dell’Occidente, la Kultur (intesa qui come complesso culturale proprio di un’intera civiltà) è identificata con il momento di ascesa e di fioritura di una forma di vita, mentre la Zivilisation è, in modo nuovamente negativo, tipica della fase di declino di quella forma di vita o epoca storica, che ben coglie l’invettiva di Michel Houellebecq quando scrive che «una civiltà che legalizza l’eutanasia perde ogni diritto al rispetto», quindi di destino e senso storico.

 

Scrive Coker che le civiltà sono le unità sociali più antiche e resilienti perché capaci di adattarsi sempre ai tempi, preservando la loro essenza fondativa. Non colonizzano il futuro ma si evolvono in esso. Le scienze olistiche descrivono l’emergentismo alla base del vivente, “campi di forza” capaci di costante interazione spazio-temporale, che plasmano i modelli adattivi.

 

 In questo si distingue l’evoluzionismo deterministico per caso e necessità rivendicato dal pensatore utilitarista liberale, da una comprensione invece della evoluzione come forma e funzione. Se aderisse a questa lettura del divenire, non soggiacerebbe all’ideologia del progresso e non sovrapporrebbe l’universalismo all’universale.

 

Si immunizzerebbe dal paradosso occidentale di rivendicare il relativismo solo come strumento della propria egemonia cosmopolita, non accettando in realtà la differenza come fisiologico rapporto con l’altro da sé.

 

Allora, in controtendenza, vi è da cogliere l’opportunità nello squadernarsi dei rapporti di forza internazionali e ribaltare il paradigma della modernità, cogliere come le realtà altre che mettono in discussione il primato Occidentale pongono una questione fondamentale: al centro della politica mondiale vi sono le civiltà e non la volontà di potenza.

 

Tale dialettica inverte l’autocompiacimento dei civilizzati come in realtà i barbari odierni, agitatori del disordine e mercificazione mondiale, per cui la necessità ineludibile di un destino metapolitico della civiltà europea scissa dalla deriva atlantica, ricettacolo per inerzia di tramonto e decadenza.

 

 

 

 

 

 

Russia-Ucraina: la guerra è una tragedia

ma smentisce la teoria dello

scontro di civiltà di Huntington.

 

Firstonline.info-Ross Douthat- (17 aprile 2022)- ci dice :

 

 

La riflessione di Ross Douthat, di cui pubblichiamo la versione italiana, su una possibile interpretazione degli scenari attuali alla luce di una delle maggiori teorie politologiche degli ultimi 30 anni riapre la discussione sulle teorie di Huntington.

 

Russia-Ucraina: la guerra è una tragedia ma smentisce la teoria dello scontro di civiltà di Huntington.

Ross Douthat è un editorialista di orientamento conservatore dello staff giornalistico del “New York Times”.

 Ogni martedì il giornale pubblica un suo commento nella pagina OP-ED.

Prima di unirsi allo staff del “New York Times”. Douthat è stato senior editor a “The Atlantic”.

In questo intervento egli discute l’applicabilità interpretativa delle tesi del politologo americano Samuel Huntington al periodo che stiamo attraversando scaturito dal conflitto tra Russia e Ucraina e alle sue cause e conseguenze.

 

In un libro importante e giustamente famoso, Huntington avanzava la tesi che le fonti di conflitto nel mondo uscito dalla guerra fredda non sarebbero state né ideologiche né economiche, ma legate alla cultura prodotta dalle diverse civiltà presenti sul pianeta.

 

Gli Stati nazionali avrebbero continuato a essere i protagonisti del contesto mondiale, ma i conflitti più importanti sarebbero scoppiati tra nazioni e gruppi di nazioni appartenenti a differenti culture.

Lo scontro di civiltà avrebbe così caratterizzato la scena mondiale.

“Le linee di faglia tra le civiltà saranno le linee sulle quali si consumeranno le battaglie del futuro”, concludeva Huntington.

 L’articolo di Douthat – che pubblichiamo sotto in versione italiana -discute in quale misura questa teoria può spiegare quello che accade in Ucraina e le nuove dislocazioni internazionali che sono derivate dal nuovo stato di cose. Una riflessione che si può non condividere, ma che fa pensare.

 

L’equilibrio di potere tra le civiltà.

Nel 1996 il politologo americano Samuel Huntington ha elaborato delle tesi dirompenti sul cammino del mondo dopo la guerra fredda. Osservava che la politica globale stava diventando non solo “multipolare” ma “multicivilizzata”, con potenze in competizione che stavano modernizzandosi lungo differenti linee culturali senza convergere, come si tendeva a pensare all’epoca, verso il modello liberal-democratico occidentale.

 L’equilibrio di potere tra le civiltà si stava trasformando e l’Occidente era in procinto di entrare in un periodo di progressivo declino.

 

Stava emergendo un “ordine mondiale basato sulla civiltà” all’interno del quale le società “culturalmente affini” tendevano a raggrupparsi in alleanze o blocchi. E l’aspirante universalismo dell’Occidente stava preparando il terreno per un conflitto prolungato con le civiltà alternative, in particolare con la Cina e il mondo islamico.

 

Attualità della tesi di Huntington.

Questa tesi era la spina dorsale del libro di Huntington “Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale” (trad. it. Garzanti 2000) che costituiva di fatto una interpretazione alternativa alla “fine della storia” di Francis Fukuyama, che propugnava una sua visione ottimistica della democrazia liberale come l’orizzonte verso il quale le società del dopo guerra fredda stavano tendendo.

 

La tesi di Huntington, un po’ lasciata in ombra nell’ultimo decennio, sta tornando ad essere discussa sulla scia dell’aggressione di Putin all’Ucraina, accompagnata dalla risposta sorprendentemente unitaria dell’Occidente e dalle reazioni incerte di Cina e India.

Negli ultimi tempi Huntington è sempre più citato sulla base della considerazione che Putin vuole uno scontro di civiltà.

In realtà la tesi di Huntington sembrano effettivamente messe in discussione e anche contraddette dal tentativo di Putin di ripristinare una Grande Russia.

 

C’è davvero scontro di civiltà in Ucraina?

Questo è l’argomento sostenuto, per esempio, dallo studioso francese dell’Islam Olivier Roy in una recente intervista a “Le Nouvel Observateur”. Roy parla della guerra in Ucraina come “la prova definitiva (perché ne abbiamo molte altre) che la teoria dello scontro di civiltà non funziona” – soprattutto perché Huntington ha ipotizzato che i paesi di confessione cristiano-ortodossa difficilmente si sarebbero scontrati in modo armato.

 

Qui invece abbiamo la Russia di Putin che fa la guerra, e non è la prima volta, contro un vicino a maggioranza cristiano-ortodossa, cioè una nazione di cultura ortodossa, anche se ci sono delle enclave musulmane all’interno della Russia, si scontra con una cultura del tutto simile anche nella sua origine.

 

… o c’è un scontro di ideologie?

Scrivendo per la nuova rivista “Compact”, che raccoglie sia radicali di sinistra che di destra, Christopher Caldwell (autore di The Age of Entitlement: America Since the Sixties, considerato dal “Wall Street Journal” il miglior libro di storia del 2020) accoglie parzialmente le tesi di Huntington sull’unità dei cristiani ortodossi, ma motiva anche perché l’applicazione della tesi di Huntington al momento che stiamo attraversando è da respingere.

 

Caldwell sostiene che lo scontro di civiltà è stato un modello utile per comprendere gli eventi negli ultimi 20 anni, ma ultimamente ci stiamo muovendo verso un mondo di conflitti esplicitamente ideologici: da una parte c’è un’élite occidentale che predica un vangelo universale di “neoliberalismo”(liberal Dem Usa) e di “wokeness”, e dall’altra ci sono regimi e movimenti che stanno cercando di resistere a tale narrazione.

 

 Questa è una lettura di destra del panorama mondiale, una lettura ostile allo zelo missionario occidentale. Ma l’analisi di Caldwell assomiglia al popolare argomento liberale che il mondo è sempre più diviso tra liberalismo e autoritarismo, democrazia e autocrazia, piuttosto che diviso in poli multipli e civiltà concorrenti.

 

Com’era 30 anni fa.

 

Tuttavia, entrambi questi argomenti offrono un quadro interpretativo più debole di quello tracciato da Huntington. Certo, nessuna teoria elaborata un trentennio fa può essere una guida applicabile agli affari mondiali di oggi. Ma se si vuole capire la direzione della politica globale in questo momento, la tesi di Huntington è più rilevante che mai.

 

 Per capirne il motivo, bisogna tornare indietro con la mente agli anni immediatamente successivi alla pubblicazione del suo libro – la fine del millennio, gli anni di Bush e l’inizio di Obama.

 

In quei giorni l’analisi di Huntington era spesso richiamata per spiegare l’ascesa del terrorismo jihadista e la resistenza islamista al potere dell’Occidente.

Ma la sua tesi sembrava difficilmente estendibile a ogni altro teatro del mondo. Il potere americano non sembrava essere ancora in declino. La Cina stava integrandosi con il mondo occidentale e, in una certa misura, si stava liberalizzando e non stava tracciando un proprio percorso egemonico di civiltà. La Russia del primo mandato di Putin sembrava aspirare ad alleanze con l’America e l’Europa e a un certo tipo di normalità democratica.

 

In India le forze del nazionalismo indù non erano ancora così in ascesa. E anche nel mondo musulmano c’erano fermenti democratici diffusi, dal Movimento Verde in Iran alla Primavera Araba, che sembravano promettere rivoluzioni liberal-democratiche stile 1989 seguite da un dislocamento verso l’Occidente.

I primi anni del XXI secolo, in altre parole, hanno fornito una discreta quantità di casi circa l’appeal universale esercitato dal capitalismo occidentale, dal liberal Dem Usa  e dalla democrazia, con l’opposizione dichiarata a questi valori confinata ai margini: islamisti, critici di estrema sinistra della globalizzazione, il governo della Corea del Nord.

 

La svolta dell’ultimo decennio.

L’ultimo decennio, d’altra parte, ha reso le previsioni di Huntington sul conflitto di civiltà molto più cogenti. Non è solo il fatto che il potere americano è chiaramente diminuito rispetto alle nazioni rivali e concorrenti, o che gli sforzi dopo l’11 settembre per diffondere i valori occidentali con la forza delle armi si sono spesso rivelati un fallimento.

 

 È il fatto che le divergenze tra le maggiori potenze mondiali hanno seguito, in generale, il modello di civiltà che Huntington ha delineato. Abbiamo visto imporsi la meritocrazia monopartitica cinese, lo zar senza corona di Putin, il trionfo post-primavera araba della dittatura e della monarchia sul populismo religioso in Medio Oriente, il nazionalismo Hindu che sta trasformando la democrazia indiana.

 

Queste non sono tutte forme indistinguibili di “autocrazia“, ma sviluppi culturalmente distinti che ben si adattano alla tipologia di Huntington, cioè alla ipotesi che specifici connotati di civiltà si manifestino man mano che il potere occidentale diminuisce, man mano che la potenza americana si ritira.

 

In modo molto significativo, la regione nella quale questa recente tendenza è stata più debole, e l’ondata di democratizzazione post-guerra fredda più resistente, è l’America Latina, riguardo alla quale Huntington ha avuto qualche incertezza sul fatto che meritasse una propria categoria di civiltà, o se appartenesse a quella degli Stati Uniti e all’Europa occidentale. Ha scelto la prima, ma la seconda sembra oggi più plausibile.

 

Non ci sono state alleanze di civiltà, anzi…

Che dire poi delle previsioni di Huntington sull’Ucraina, criticate da Roy e Caldwell?

 Beh, lì ha sbagliato qualcosa, anche se ha previsto con accuratezza la divisione interna all’Ucraina, cioè la divisione tra l’est ortodosso e russofono e l’ovest più cattolico e di tendenza occidentale, ma la sua ipotesi che gli allineamenti di civiltà avrebbero prevalso su quelli nazionali non è stata confermata dalla guerra di Putin, durante la quale l’Ucraina orientale ha resistito ferocemente alla Russia.

 

Quell’esempio si adatta a un modello più ampio. Nessuna delle grandi potenze non occidentali emergenti ha ancora costruito vaste alleanze basate su affinità di civiltà, il che significa che una delle grandi previsioni huntingtoniane sembra oggi piuttosto debole.

 

Egli immaginava, per esempio, che una Cina in ascesa potesse essere in grado di integrare pacificamente Taiwan e forse anche attrarre il Giappone nella sua sfera d’influenza. Questo scenario sembra altamente improbabile al momento. Invece, ovunque i paesi più piccoli siano in qualche modo “lacerati”, per usare il suo linguaggio, tra qualche altra civiltà e l’Occidente liberale, di solito preferiscono l’alleanza con l’America ad un allineamento con Mosca o Pechino.

 

L’Occidente all’offensiva.

Questo è prova della capacità di resistenza dell’Occidente e dei durevoli vantaggi offerti dagli americani anche in un mondo multipolare.

Ma non significa che il liberalismo sia pronto per un ritorno travolgente alla posizione che occupava quando la forza dell’America era al suo apice.

Nessuna delle reazioni ambigue e ambivalenti alla guerra di Putin al di fuori dell’alleanza euro-americana suggerisce un’improvvisa primavera per l’ordine mondiale liberal-internazionale.

E mentre gli aspetti della fine della storia di Fukuyama si sono chiaramente diffusi oltre l’Occidente liberale, a prevalere oggi è il lato più oscuro della visione occidentale – il consumismo e l’anomia senza figli – piuttosto che l’idealismo della democrazia e dei diritti umani.

Il conflitto in Ucraina significa che l’esportazione della “wokeness” all’americana, per quanto possa preoccupare Putin, non è pronta a diventare il punto focale di un nuovo conflitto ideologico globale.

 

L’ambito “locale” della “wokeness.

Al contrario, la maggior parte della “wokeness” si rivolge verso l’interno e presenta un aspetto campanilistico, rivela di essere una risposta specificamente occidentale e specialmente anglo-americana alle delusioni del periodo neoliberale.

 

Piuttosto che offrire un messaggio universale, i suoi slogan e le sue idee chiave hanno davvero senso solo all’interno dell’America e dell’Europa – cosa potrebbe mai significare “mettere in discussione l’esser bianchi” per la classe media di Mumbai o Giacarta o per le giovani élite del Bahrain o di Pechino?

 Sembra un’ideologia fatta su misura per un’epoca di percepito declino americano. Offre un programma di rinnovamento morale e spirituale, ma è anche un modo per giustificare una certa mediocrità e un torpore perché, dopo tutto, troppa attenzione all’eccellenza o alla competizione ha il sapore di supremazia bianca.

 

Il significato della wokeness.

È interessante notare che le guerre di wokeness rivelano che Huntington potrebbe aver sbagliato.

 

 Il suo timore principale era che il mondo occidentale in un’epoca di competizione tra civiltà avrebbe potuto abbandonare la propria specificità culturale e che il multiculturalismo in particolare sarebbe stato la sua rovina, addirittura che gli Stati Uniti potessero frammentarsi in enclave di lingua inglese e spagnola sotto la pressione dell’immigrazione di massa.

 

Alcune delle recenti convergenze tra la politica nordamericana e quella latinoamericana come il crescente appeal del populismo di destra e del socialismo negli Stati Uniti, l’ascesa dell’evangelicalismo e del pentecostalismo in Sud America, s’inseriscono in queste previsioni. Le battaglie sulla wokeness non sono necessariamente un esempio di balcanizzazione etnica o di multiculturalismo finito oltre misura.

 

La posta in gioco in America.

Invece l’attuale guerra culturale può effettivamente ridurre la polarizzazione etnica dei partiti politici americani, spingendo alcune minoranze razziali verso destra, per esempio, mentre fa riemergere alcune delle più antiche divisioni nella politica anglo-americana.

 

 I “woke” sembrano spesso gli eredi dei puritani del New England e dello zelo utopico dello Yanketudine; i loro nemici sono spesso gli evangelici del Sud e i cattolici conservatori e i discendenti libertari degli scozzesi-irlandesi.

 

La posta in gioco di queste dispute sono enormi: i fondamenti della nazione americana, la Costituzione, l’interpretazione della guerra civile e dell’ideologia della frontiera.

 

(Ross Douthat, “Yes, There Is a Clash of Civilizations”, The “New York Times).

 

(Ross Douthat è opinionista del “New York Times” dall’2009).

 

 

 

 

 

 

 

Putin ha scelto la guerra a oltranza,

 in Ucraina: «Si sente contro il mondo intero».

msn.com-Corriere della sera -Paolo Valentino - (27-4-2022)- ci dice :

 

DAL NOSTRO CORRISPONDENTE A BERLINO — «Tempo e pazienza. Pazienza e tempo. La Grande Armata è ferita. Ma lo è mortalmente?» diceva il generale Kutuzov in «Guerra e Pace».

 

Nella guerra in Ucraina Vladimir Putin sembra pensarla allo stesso modo. Ma a differenza del grande generale zarista che sconfisse Napoleone, questa volta lui non è l’aggredito, ma l’aggressore.

 

C’è stato uno scontro nelle scorse settimane all’interno del Cremlino, sulla condotta della guerra e sui suoi obiettivi.

Come ha rivelato al Corriere il politologo D mitrij Suslov, che dirige un centro studi vicino al governo .

 

Quella moderata, che sostiene la necessità, dopo aver ottenuto una «decisiva vittoria» in Donbass, di proporre all’Ucraina e all’Occidente un accordo nei termini desiderati dalla Russia, che lascerebbe lo status quo territoriale del 2014, quindi riconoscendo l’annessione della Crimea e l’indipendenza delle Repubbliche di Donetsk e Lugansk, con il resto del Paese vincolato alla neutralità e alla demilitarizzazione.

 

E quella massimalista, che punta non solo al Donbass ma mira a conquistare l’intera cintura sud-orientale, compresa Odessa, in modo da privare l’Ucraina di ogni accesso al mare, e stabilendo sia una continuità territoriale con la Crimea, sia un collegamento con la Transinistria.

 

Un conflitto a oltranza quindi, senza alcuna preoccupazione dei costi militari, politici ed economici: «La scuola massimalista – secondo Suslov – non ha paura di una guerra protratta, non cerca alcun riconoscimento dall’Occidente, non pensa sia possibile vedere abolite o ridotte le sanzioni».

 

L’impressione, sostenuta da varie fonti, è che abbia vinto la linea dura.

Secondo quanto ha scritto  Putin è pronto ad andare avanti in un conflitto di lunga durata, ben oltre l’obiettivo apparente, indicato di recente dopo la rinuncia all’assedio di Kiev, di «liberare il Donbass».

 Il quotidiano britannico cita una fonte impegnata nei tentativi di negoziato, che ricorre alla metafora del judo, arte nella quale Putin eccelle forte di una cintura nera, per spiegare il suo approccio alla guerra.

 È nel judo, infatti che Putin ha imparato il kuzushi, la finta che tende a far perdere l’equilibrio fisico e mentale all’avversario per poi rovesciarlo e farlo cadere spalle in giù.

 

Il kuzushi in questo caso sarebbe l’attacco al Donbass. «È un tattico, un judoka. Ha una visione distorta del mondo e gli scenari cambiano di continuo».

 

Le ultime notizie sulla guerra in Ucraina.

 

La visione alterata del mondo di Putin, secondo le fonti citate, deriva da una percezione completamente falsata della realtà: poche o punte delle difficoltà segnalate nei rapporti dal campo arriverebbero infatti al tavolo dello Zar, tutto viene smussato o distorto da collaboratori zelanti per presentargli un quadro favorevole della situazione.

 All’evidenza, il risultato è che ormai Putin abbia scelto di continuare a rilanciare, secondo una logica di approssimazioni successive: un obiettivo dopo l’altro, un tentativo di conquista ne precede sempre uno nuovo, al momento in pectore.

 

La stessa retorica ufficiale, dallo Zar al ministro degli Esteri Lavrov, è ormai apertamente massimalista.

Il presidente ha accusato i Paesi occidentali di fomentare il terrorismo sul territorio russo, con la Cia addirittura impegnata a guidare i servizi ucraini in un tentativo di attentato contro gli aedi televisivi del regime.

 

Il capo della diplomazia evoca un giorno sì e un no il rischio di un conflitto nucleare con l’Occidente e lo scenario di una Terza Guerra Mondiale. Mentre ogni tentativo di riannodare un negoziato, da ultimo quello del segretario generale dell’Onu Guterres, viene liquidato e quasi deriso.

 L’idea di una trattativa è completamente sparita dalla scena mediatica, il che segnala non solo una radicalizzazione del sentimento pubblico, ma soprattutto un adeguamento alla realtà del campo. Il pieno controllo del Sud-Est dell’Ucraina è ormai obiettivo conclamato.

 

 I falchi del Cremlino, come Nikolai Patrushev, segretario del Consiglio federale per la Sicurezza, evocano esplicitamente una «frantumazione dell’Ucraina in diversi Stati» teorizzando la «conquista della maggior quantità di territorio possibile».

 

Mentre il generale Minnikaev dice che «tutto sommato, siamo in guerra contro il mondo intero», e parla della necessità di aprirsi una strada fino alla Transnistria, l’enclave russofono autoproclamatosi indipendente dalla Moldavia. Una serie di esplosioni registrate su quel territorio ha già destato allarme.

 

Quanto durerà? «Tutto il tempo necessario per poterlo vendere all’elettorato russo come una vittoria»“, dice un anonimo miliardario russo al Financial Times. «Per il momento – spiega la politologa Tatiana Stanovaia – Putin non vuole alcuna pace.

 

 Non avendo potuto ottenere la caduta di Kiev, sceglie l’escalation. La conquista del Donbass e l’apertura di un corridoio verso la Crimea sono per lui obiettivi minimi. Putin pensa che la Russia abbia il tempo, che la Storia sia dalla sua parte e che il prezzo di sangue pagato sia ancora accettabile. È pronto a combattere ancora a lungo, inviando segnale sempre più minacciosi all'Occidente». Tempo e pazienza, appunto.

 

 

 

 

 

 

 

L’Approccio delle Persone sulla Questione

Ucraina è essenzialmente Infantile.

 

Conoscenzealconfine.it- (27 Aprile 2022)-DB- ci dice :

 

 

L’approccio che hanno le persone sulla questione ucraina, ma in generale sulla politica e la geopolitica, se è derivato da ciò che gli viene propinato da certe trasmissioni e articoli, è essenzialmente infantile.

Navi, soldati, F35 in assetto 'combat ready': così l'Italia si prepara alla guerra.

 

In generale, si basa tutto sulla dicotomia buono-cattivo, che rende molto facile orientare la pubblica opinione a favore di una parte facendo leva sul sentimentalismo; senza nemmeno particolari sforzi, basta spiattellare in prima pagina i morti e le distruzioni causate dal “cattivo” ed il gioco è fatto.

 

Non occorrono analisi e spiegazioni, anche perché non è l’interesse del sistema stesso farle e darle, è più conveniente per esso lasciare la gente nell’ignoranza attraverso una semplicissima logica binaria di “input” e “output”, come degli automi e computer, meri esecutori di programmi.

 

Premesso questo, gli Stati e soprattutto le grandi potenze, basano le loro scelte non su ciò che è eticamente “giusto” o “sbagliato”, ma su ciò che è nell’interesse nazionale o nell’interesse dei gruppi di potere che li governano.

 

Gli USA hanno seminato guerre in mezzo mondo proprio per questo e hanno causato la crisi in Ucraina in funzione dei loro interessi.

 

In tutto questo, lasciando perdere “cinicamente” le lacrime e il sentimentalismo suscitati dagli orrori della guerra, ma anche eventuali simpatie ed antipatie, bisogna comprendere quali sono gli interessi nazionali dell’Italia.

 

La guerra in Ucraina non la riguarda perché questa non è nemmeno formalmente sua alleata. La Russia agendo in Ucraina non sta colpendo i nostri interessi nazionali, al contrario di quello che hanno fatto i nostri “alleati” Francia, Inghilterra e Stati Uniti in Libia, ad esempio, che si comportano come concorrenti e anche avversari.

 

La sfera di influenza russa non comprende la nostra nazione, che ha culture, lingue e religioni differenti, ma ciò non comporta alcuna ostilità. La Russia non è nemmeno nostra concorrente nella ricerca di materie prime, anzi è un nostro fornitore e non necessita nemmeno di estendere il proprio territorio visto che il proprio è già sovradimensionato per la sua relativamente esigua popolazione.

 

Non ultima cosa per importanza, bisogna ricordare che a Sigonella e in tante altre basi in Italia ci sono gli yankees e non i cosacchi russi.

 

Sono gli interessi angloamericani ad essere ostili ai nostri, questa è la verità e chi la nega o la omette è un collaborazionista dei nemici della Patria, quelli veri.

(Articolo di DB- t.me/weltanschauungitaliaofficial).

 

 

 

 

 

 

Auto Elettriche: la Commissione Europea ha

Mentito spudoratamente a 450 milioni di Europei.

Conoscenzealconfine.it -( 26 Aprile 2022)- Redazione- ci dice :

 

IASTEC (International Association of Sustainable Drivetrain and Vehicle Technology Research) è un’organizzazione di scienziati, insegnanti e ingegneri europei coinvolti nella “transizione” che le tecnologie di trasporto terrestre devono subire per conformarsi alla transizione energetica decisa dall’Unione Europea.

 

In altre parole, la voce più importante interessata da questa “transizione” è il trasporto automobilistico.

La corsa a capofitto verso l’ignoto si è accelerata negli ultimi anni dopo il “diesel-gate” e l’apparizione di una serie di regole che restringono l’uso di veicoli a benzina o diesel che non rispettano le nuove norme sulle emissioni di gas serra. Questi standard emessi dai funzionari della Commissione europea non hanno altro scopo, tra l’altro poco velato, che promuovere i veicoli elettrici.

Esaminando le linee guida della Commissione, infatti, è diventato chiaro che i calcoli presentati dalla Commissione per sostenere il caso dei veicoli elettrici sono sbagliati.

 Questo è stato dimostrato in una lettera alla Commissione europea da IASTEC, co-firmata da un gruppo di 12 accademici, presieduti dal dottor Thomas Koch del Karlsruhe Institute of Technology.

È un po’ complicato da capire, ma la Commissione ha sovrastimato di un fattore 3 la riduzione delle emissioni di CO2 da parte delle auto “completamente elettriche”, senza tener conto delle energie intermittenti come l’energia solare ed eolica nel calcolo fatto da questi eminenti professori.

 

La Commissione ha deliberatamente non incluso nelle sue affermazioni il fatto che molti carburanti liquidi al carbonio contengono fino al 40% di carburante “verde”, etanolo o oli vegetali.

Né la Commissione ha tenuto conto dei miglioramenti tecnici dei motori a combustione interna per funzionare correttamente con combustibili come il G40 o l’R33, che in teoria producono meno CO2 di origine fossile, poiché una parte – fino al 40%, della CO2 emessa – si dice sia “rinnovabile”.

 

Le decisioni prese dalla Commissione, che tutti i paesi europei devono rispettare recependole nella loro legislazione nazionale, sono quindi sbagliate. Ovviamente, poiché queste decisioni mirano a proteggere il clima, devono essere applicate alla lettera.

 

Siamo quindi di fronte a un’accozzaglia di bugie…

 

I tempi saranno duri per molti europei quando scopriranno che la loro vecchia auto “diesel” sarà tassata a tal punto da doverla cambiare, ma non avranno abbastanza denaro per permettersi un’auto completamente elettrica.

Il prezzo di questi veicoli (BEV nella lettera aperta inviata alla Commissione) aumenterà inesorabilmente data la già prevista scarsità di cobalto e litio. L’industria automobilistica tradizionale scomparirà per un’alternativa sconosciuta. Ecco a cosa è arrivata l’Unione Europea…

 

Puoi scaricare il Documento Originale Ufficiale spedito da 12 accademici in relazione alla Truffa perpetrata dall’Unione Europea, in formato PDF: (iastec.org/wp-content/uploads/2021/06/20210624-IASTEC-Letter.pdf).

(iastec.org- toba60.com/auto-elettriche-la-commissione-europea-ha-mentito-spudoratamente-a-450-milioni-di-europei/).

 

 

 

 

 

 

Farsa Covid: Smantellata praticamente

ovunque, tranne che in Italia!

 

Conoscenzealconfine.it-( 25 Aprile 2022)-Avv. Stefano Galeani- ci dice :

 

“La Verità ha un passo lento, ma arriva sempre a destinazione”.

Chiunque abbia fatto un giro in altri paesi europei durante queste vacanze pasquali non potrà non chiedersi come mai la farsa Covid è stata smantellata praticamente ovunque, tranne che in Italia.

 

Io credo che la risposta sia piuttosto semplice e non abbia a che vedere soltanto con il grado di sottomissione e di coglionaggine degli italiani (probabilmente unico al mondo), nonostante sia indubbio che l’appecoramento del popolo abbia contribuito in maniera decisiva a tenerla in piedi.

 

Per quanto oramai sia chiaro che tutti i governi europei stessero seguendo un unico copione, e che la regia fosse la medesima per tutti, nessun governo, per quanto asservito e responsabile di crimini contro l’umanità (ora sappiamo che il lockdown lo è stato), dovrà rispondere dei reati agghiaccianti e di gravità inaudita di cui si è reso protagonista il governo italiano…(Klaus Schwab…ghigna soddisfatto. Nrd)

 

I fatti di Bergamo, le cure negate, le autopsie vietate, il siero genico obbligatorio, il pass esteso a tutti anche per lavorare, l’eliminazione fisica degli oppositori (quest’ultima è soltanto una mia convinzione personale, ma troppe figure scomode sono morte in circostanze misteriose in questi due anni), nessun altro si è spinto tanto in là.

 

Ora quel che sperano di fare è ritardare il più possibile il momento della verità… e nel frattempo magari organizzare la fuga, chissà. Il castello di menzogne sta inesorabilmente crollando, e loro lo sanno. Sanno che il tempo a disposizione ormai è poco, pochissimo.

Perché se è vero che “la verità ha un passo lento, ma arriva sempre a destinazione”, a questi maledetti assassini non resta che tentare il tutto per tutto, anche continuare, unici in Europa, a perseverare nell’attuazione di un disegno diabolico che pare essere stato oramai accantonato da tutti. Vanno avanti, costi quel che costi.

(Avv. Stefano Galeani- t.me/lealidelbrujo).

 

 

 

 

 

 

 

1962-2022: dopo sessant’anni il mondo

è di nuovo sull’orlo di una catastrofe.

Lucidamente.com - Giuseppe Licandro -( 3 Aprile 2022)- ci dice :

 

L’escalation della guerra tra Russia e Ucraina potrebbe causare uno scontro nucleare tra le superpotenze. Solo la diplomazia può evitare che ciò accada, come ci ha insegnato la lezione della crisi dei missili di Cuba.

 

La guerra in Ucraina – giunta come un macigno sulla testa dei popoli europei già provati da due anni di pandemia – ha creato una forte tensione politico-militare a livello globale che rischia di provocare una pericolosa escalation del conflitto. Una situazione così grave non si registrava dall’ottobre 1962, quando la crisi dei missili di Cuba portò il mondo sull’orlo di una guerra nucleare tra gli Stati uniti e l’Unione sovietica.

 

Il 1° gennaio 1959 il dittatore Fulgencio Batista – che nel 1952 aveva preso il potere a Cuba con un colpo di stato avallato dagli Stati Uniti – fu rovesciato dai guerriglieri del Movimento 26 luglio, guidati da Fidel Castro ed Ernesto Guevara. Il nuovo governo cubano realizzò ben presto la riforma agraria e pose fine ai privilegi delle corporations statunitensi che – insieme alla mafia – controllavano l’economia locale.

 

 I rapporti tra Cuba e Usa, pertanto, si deteriorarono e nel gennaio del 1961 si giunse alla rottura delle relazioni diplomatiche tra i due stati. John Kennedy – da poco insediatosi alla Casa bianca – diede il via libera a una spedizione militare per rovesciare il governo di Castro, già predisposta dal suo predecessore Dwight Eisenhower.

 

 Il 15 aprile 1961 otto bombardieri statunitensi B-26 distrussero o danneggiarono vari aerei militari cubani parcheggiati in alcuni aeroporti. Nelle prime ore del 17 aprile circa 1.500 esuli anticastristi, scortati dalla marina militare statunitense, sbarcarono sulla spiaggia della Baia dei porci, ma, dopo due giorni di combattimenti, furono sconfitti dai soldati cubani ( Alain Charbonnier, Svelati i segreti della Baia dei Porci, in gnosis.aisi.gov.it/gnosis/Start.nsf).

 

Il fallimento dell’invasione rinsaldò l’alleanza di Cuba con l’Unione sovietica. Il 1° maggio 1961, infatti, venne proclamata la repubblica socialista cubana, mentre circa un anno dopo l’Avana stipulò con Mosca un accordo di mutuo soccorso. Gli States disposero allora l’embargo economico e finanziario nei confronti dell’isola caraibica e diedero il via all’«Operazione mangusta», predisposta dalla Cia (Central intelligence agency) americana con lo scopo di destabilizzare il regime castrista con sabotaggi e attentati terroristici che, negli anni seguenti, avrebbero provocato «3.478 morti e 2.099 invalidi», nonché «637 tentativi di eliminare Fidel» (Giuseppe Trimarchi, Cuba oggi, Città del Sole Edizioni).

 

La tensione tra le due superpotenze era aumentata sensibilmente già nel 1960, quando la Nato aveva installato in Puglia trenta missili Chrysler PGM-17 Jupiter, ai quali si erano aggiunti nel 1961 altre quindici testate IRBM PGM-19 Jupiter, collocate in Turchia.

 

 Il governo sovietico – guidato da Nikita Chruščëv – si sentì minacciato e, in modo sconsiderato, «cercò segretamente di ristabilire l’equilibrio strategico piazzando missili nucleari a Cuba» (Joseph Smith, La guerra fredda. 1945-1991, il Mulino).

Nel luglio 1962 si svolse un incontro riservato tra Castro e Chruščëv, nel corso del quale si stabilì di trasportare 140 testate nucleari sovietiche a Cuba.

 Così, a settembre iniziarono i lavori di costruzione di quaranta rampe di lancio per i missili sovietici SS-4 e SS-5.

Il 14 ottobre, tuttavia, un volo di ricognizione eseguito da un U-2 (un aereo statunitense da ricognizione ad alta quota dotato di fotocamere) svelò che nell’isola si stavano edificando delle basi missilistiche. Kennedy, informato solo il 16 ottobre, costituì immediatamente un comitato esecutivo del Consiglio di sicurezza nazionale (costituito da 13 membri) per discutere sulla strategia da adottare.

 

Alcuni consiglieri (Clarence Dillon, Paul Nitze, ecc.) volevano che gli Usa invadessero Cuba o distruggessero le basi sovietiche con attacchi aerei; altri (Robert Kennedy, Robert McNamara, ecc.) ritenevano invece possibile intavolare un negoziato per convincere Chruščëv a desistere dai propri intenti.

 

Prevalse, infine, una soluzione intermedia: il 22 ottobre, infatti, venne imposta una “quarantena” per Cuba, che fu circondata da 90 navi da guerra, mentre 650 aerei pattugliavano il mar dei Caraibi.

 La sera del 22 ottobre Kennedy, tramite la radio e la tv, informò il mondo di quanto stava avvenendo, scatenando un’ondata di panico a livello globale.

Grandi manifestazioni in favore della pace si tennero in molte nazioni: alla fine del corteo di Milano, i poliziotti assaltarono con le camionette i manifestanti confluiti in Piazza Duomo, investendo e uccidendo lo studente universitario Giovanni Ardizzone ( Davide Steccanella, 1962. La tragedia di un ragazzo che manifestava per la pace, in repubblica.it).

 

Il 24 ottobre papa Giovanni XXIII tenne un discorso alla Radio vaticana, esortando i contendenti a evitare una guerra che poteva provocare «terribili conseguenze» .( Simone Valtorta, 1962, quando il papa impedì l’olocausto nucleare).

Nello stesso giorno alcune navi sovietiche si diressero verso Cuba, ma – quando ormai lo scontro appariva imminente – Chruščëv ordinò loro di tornare indietro, aprendo le trattative con Kennedy. Il 26 ottobre una nave da guerra statunitense sganciò alcune bombe di avvertimento contro un sottomarino sovietico, armato di testate nucleari, che era in rotta verso l’isola; il comandante del sottomarino – su esplicita richiesta dell’ufficiale Vasilij Alexandrovič Archipov – non reagì all’attacco e fece riemergere il sommergibile senza forzare il blocco navale ( Davide Falcioni, Chi è Vasili Alexandrovich Arkhipov, l’uomo che salvò il mondo dalla catastrofe nucleare, in fanpage.it).

La tensione salì nuovamente il 27 ottobre, allorché un U-2 statunitense fu abbattuto dall’aviazione cubana durante un volo di ricognizione, ma il giorno dopo – raggiunto l’accordo – Chruščëv annunciò a Radio Mosca di aver ordinato la rimozione dei missili cubani. Gli Usa – a loro volta – rinunciarono a invadere Cuba e smantellarono i missili in Puglia e Turchia, ponendo fine il 20 novembre alla “quarantena” imposta all’isola.

 

Nel 1963 fu creata una «linea rossa» tra il Cremlino e il Pentagono che, grazie all’invio di messaggi tramite le telescriventi, permetteva ai leader delle superpotenze di consultarsi rapidamente in caso di necessità. Tuttavia, l’esito fausto dei “13 giorni che sconvolsero il mondo” ( film Thirteen Days, 2000, del regista Roger Donaldson) non portò fortuna a tre dei suoi protagonisti.

 

Giovanni XXIII, già sofferente per un tumore allo stomaco, morì il 3 giugno 1963; Kennedy fu ucciso il 23 novembre 1963 a Dallas, in un attentato probabilmente organizzato dai suoi nemici interni ( Atlantide presenta J.F.K. revisited: tutta la verità sul complotto, in la7.it/atlantide); dopo la riunione del Presidium del Comitato centrale del Partito comunista dell’Unione sovietica, tenutasi a Mosca il 13 ottobre 1964, Chruščëv fu costretto a dimettersi da ogni incarico politico.

 

La paura di una Terza guerra mondiale è tornata nel mondo dopo sessant’anni, allorché il 24 febbraio 2022 l’esercito dello “zar” Vladimir Putin ha invaso brutalmente e pretestuosamente l’Ucraina.

 L’aggressione russa non ha alcuna giustificazione sul piano morale e la resistenza degli ucraini è pienamente legittima. L’invasione, tuttavia, ha una sua spiegazione in chiave geopolitica: la Russia, infatti, sta tentando di ampliare la propria sfera d’influenza e di contenere l’espansione della Nato verso l’Est europeo, iniziata nel 1997.

 

A tal proposito, ci sembra importante ricordare ciò che ha scritto il generale Fabio Mini nel saggio La via verso il disastro (Limes, n. 7, marzo 2022):

 «Ormai sono anni che nella parte continentale dell’Europa la Russia deve ingoiare i continui rospi forniti dagli americani e dalla Nato. L’offensiva Usa-Nato iniziata trent’anni fa, fatta di provocazioni, umiliazioni, erosione di territori, destabilizzazione ai confini e sostegno all’eversione interna deve essere affrontata anche sul piano della sicurezza e della potenza militare […]. In ogni caso è necessaria una dose di grande lucidità e buon senso per uscire da una situazione veramente grave».

 

Anche noi speriamo che la lucidità e il buon senso prevalgano e che Putin e il presidente ucraino Volodymyr Zelens’kyj – sulla falsariga di quanto fecero Chruščëv e Kennedy nel 1962 – trovino infine un’intesa e facciano cessare la guerra “fratricida” tra russi e ucraini.

 

Ciò che ci fa più paura, in questo drammatico frangente, è il malanimo di tanti guerrafondai nostrani che inneggiano all’escalation militare, senza considerare le terribili conseguenze di un ingresso della Nato nel conflitto ucraino ( Russia-Ucraina, la carica degli editorialisti che vogliono la guerra mondiale: il tifo per la no-flyzone e l’intervento Nato, in il fattoquotidiano.it).

 

Vorremo, al contrario, ribadire le ragioni di chi auspica la pace, citando – ­in conclusione – alcuni passi di una lettera di Sigmund Freud, inviata nel 1932 ad Albert Einstein: «Perché ci indigniamo contro la guerra, Lei e io e tanti altri, perché non la prendiamo come una delle molte e penose calamità della vita? […] La risposta è: perché ogni uomo ha diritto alla propria vita, perché la guerra annienta vite umane piene di promesse, pone i vari individui in condizioni che li disonorano, li costringe, contro la propria volontà, ad uccidere altri, distrugge preziosi valori materiali, prodotto del lavoro umano, ed altre cose ancora» (Freud-Einstein, Perché la guerra?, Bollati Boringhieri; vedi Mariella Arcudi, Riflessioni a due contro la guerra).

(Giuseppe Licandro).

 

 

 

 

 

 

Il Governo antitaliano.

Lucidamente.com - Rino Tripodi -(3 Aprile 2022)- ci dice :

 

 

Il premier Draghi, il Pd e i loro alleati indossano l’elmetto militare, mentre la stragrande maggioranza dei cittadini è fortemente neutralista e pacifista. Così, tra sanzioni che danneggiano soprattutto il Belpaese, rischi bellici e con la catastrofe nucleare sullo sfondo, il potere rema contro i propri cittadini…

 

Il poliedrico, grande scrittore, ma politicamente e umanamente ambiguo Curzio Malaparte (all’anagrafe Curt Erich Suckert, Prato, 1898 – Roma, 1957), ebbe il vezzo di farsi chiamare l’Arcitaliano; certo per narcisismo, forse per amor patrio, anche se oggi noi lo traduciamo come simbolo di tutti i pregi e i difetti nazionali, tra i quali il camaleontismo.

 Così un altro scrittore toscano, Giordano Bruno Guerri, nel raccontare il personaggio, ha intitolato il proprio libro sul letterato pratese appunto L’arcitaliano. Vita di Curzio Malaparte (Bompiani).

 

Mario Draghi.

Se pavoneggiarsi da “arcitaliano” può sembrare eccessivo, come definireste un Governo che fa di tutto per rendere la vita impossibile ai propri cittadini e per remare contro di loro?

Potrebbe andar bene il termine antitaliano? Andiamo ai fatti.

 

 Son trascorsi due anni di emergenza nazionale pandemica, con risultati sanitari molto dubbi (leggi, tra gli altri, Epidemia Covid-19: tutto quello che non ci dicono; Manganello, olio di ricino e confino… Anzi, randellate, idranti, “vaccino” ed esclusione sociale; Autoritarismo pandemico; Stupidario Covid; Due anni senza libertà).

 

Le conseguenze negative, invece, sono certe: la crisi economica, l’impoverimento

delle famiglie, la chiusura di quasi cinquantamila bar e ristoranti, di migliaia di piccole aziende e partite Iva, nonché l’instaurazione di un clima sociale di sospetto e odio…

 

A questo punto, visti i disastri precedenti, è da supporre che la nuova emergenza, quella bellica, scatenata dalla criminale invasione dell’Ucraina da parte della Russia, verrà affrontata rispettando di più gli interessi nazionali.

 

E, invece, cosa ti combina il presidente del Consiglio banchiere, tecnocrate e nominato dall’alto, Mario Draghi? Indossa l’elmetto e impone – pena la caduta del governo; insomma, come fosse la scelta più importante per l’esistenza e gli interessi italiani! – l’aumento delle spese militari al 2% del Pil di una nazione che soffre decenni di disoccupazione e crollo economico.

 

Quasi tutti i parlamentari, dopo essersi genuflessi all’invadente discorso del chiacchierato presidente ucraino Volodymyr Zelens’kyj, tenuto lo scorso 22 marzo in videoconferenza alle Camere in seduta comune, approvano le successive dichiarazioni bellicose del presidente degli Stati uniti Joe Biden e di Draghi, che sovrespone l’Italia e la colloca in prima linea alle eventuali ritorsioni russe, comprese quelle estreme, nucleari.

 

Tuttavia, lo spettacolo più penoso è offerto dalle sinistre (ma il Partito democratico-partito regime lo è?).

 Esse hanno dimenticato le proprie radici primigenie pacifiste e non interventiste, fornendo, come negli ultimi anni di pandemia, uno spettacolo rivoltante di intolleranza e pensiero oppressivo.

 

(Le conseguenze delle radiazioni da bomba atomica a Hiroshima).

Intanto, la propaganda di regime (tv, “giornaloni”, mondo della cultura a pensiero unico) si è subito allineata alle posizioni estremiste Usa-Nato-Ue-Draghi-Pd (leggi Guerra in tivù, penne armate che sparano contro i pacifisti).

 

 Si sta ripetendo lo stesso copione visto nei due anni (e non sembrano finiti) di emergenza pandemica: intolleranza, disprezzo, criminalizzazione, linciaggio e derisione di chi, come nel caso del virus e dei vaccini, ha qualche dubbio o pone qualche domanda…

È censurato persino l’indignato messaggio pacifista di papa Bergoglio, il che dimostra che puoi essere chiunque, ma, se non sei funzionale ai poteri forti, sei out.

Dopo anni nei quali si è condannato non solo ogni nazionalismo, ma pure ogni patriottismo, criminalizzandolo e derubricandolo come “sovranismo” e “fascismo”, ora monta la retorica per interposta nazione del patriottismo e dei nuovi partigiani (quelli del battaglione Azov, di coloritura neonazista?).

 

La viltà, come ha scritto Francesco Borgonovo, di «mandare a morire gli ucraini in nome di una libertà che non otterranno» (in LaVerità, 7 marzo 2022, p. 6), anche perché già non vivono in un regime davvero liberaldemocratico.

 

 Ma il patriottismo vale per gli altri, non per gli italiani stessi: vogliamo ricordare i fiumani, istriani e dalmati abbandonati alla pulizia etnica e all’esilio dopo la Seconda guerra mondiale?;

o l’espulsione degli italiani dalla Libia nel 1970, con relativa confisca dei beni?;

 o gli innumerevoli misteri e stragi che si sono succedute sul nostro territorio durante la Prima Repubblica? Ancora: ma dove sono le proteste degli studenti e dei giovani? Nell’epoca moderna essi sono sempre stati un movimento contestatario dei governi. In Italia, da quando i postcomunisti sono andati al potere, occupandolo completamente, anche senza mai un chiaro voto popolare, giovani e studenti egemonizzati devono scendere in piazza solo per i ridicoli venerdì della Thunberg e per presunte discriminazioni nei confronti di minoranze che si son fatte lobby.

È come fossero stati lobotomizzati (avete notato che sono stati e sono i più ligi a mettersi la mascherina all’aperto, anche se da tempo non ve n’è più l’obbligo)?

 

Nonostante tutto questo, i sondaggi dimostrano che la stragrande maggioranza degli italiani non solo disapprova che il nostro Paese intervenga, ma addirittura anche che spedisca armi all’Ucraina o aumenti le spese militari.

 

 Intanto, paradossalmente, nulla è stato fatto per incrementare la qualità del nostro Sistema sanitario, come si era promesso in tempi di Covid (leggi , in questo stesso numero della nostra rivista).

Ora, una delle credenze più diffuse è che i governi rispettino le opinioni dei propri cittadini e favoriscano i loro interessi o, almeno, di una buona parte di loro.

Invece, da parecchio tempo, in Italia, e non solo, esistono esecutivi che “decretano” contro il proprio popolo, rispondendo solo agli interessi di cupole sovranazionali, finanziarie, big tech, big pharma, il grande regista della distruzione dell’umanità Klaus Schwab ecc.

 Infatti, è evidente che le sanzioni promulgate contro la Russia danneggino soprattutto gli italiani.

 

 Ha, difatti, scritto Carlo Cambi (Il risiko dei miliardi, in Panorama, 23 marzo 2022): «Se all’America non avere a disposizione il petrolio siberiano non comporta disagio alcuno, il peso delle sanzioni alla Russia è soprattutto a carico dell’Europa, e di Germania e Italia in particolare».

In tempi appena trascorsi, prima dell’Ue, dei tre grandi poteri economici (risorse energetiche e materie prime, moneta, capacità produttiva) il nostro Paese non disponeva quasi del tutto del primo, ma gestiva il secondo e spopolava nel manifatturato.

 

Oggi gli si è via via tolta la possibilità di operare strategicamente per ottenere accordi vantaggiosi (vedi Libia sottratta alla nostra tradizionale influenza e amicizia; ma, ancora prima, l’omicidio di Enrico Mattei) e di gestire la lira, sostituita dall’euro (2002).

 E, con l’ingresso della Cina nel Wto (2001), con lo scopo di renderla la maggiore sede di delocalizzazioni occidentali e produttrice di manufatti a basso costo, e le successive crisi economiche e la pandemia, si sono affossate la competitività sul mercato e le capacità produttive delle aziende tricolore.

 

Gli interessi economici italiani e di tantissimi imprenditori e società tricolori andavano tutti nella direzione del mantenimento dei buoni rapporti con la Russia e dei redditizi scambi commerciali.

Tra l’altro, l’esecutivo ha accettato non solo l’assurdità di sequestrare lussuosi yacht di cittadini russi, ma di escludere pure i turisti, gli artisti e gli sportivi di quel Paese (l’espulsione delle squadre russe – peraltro composte anche da stranieri di altre nazionalità – dalle competizioni di ogni sport è orribile, visto lo spirito universale delle attività sportive).

 

 E di discriminare persino la cultura! Una barbarie… Di certo, secondo Draghi e la sua maggioranza governativa, non ricevere più risorse energetiche e altro dalla Russia e non esportarvi le nostre merci Gusto&Lusso renderà felici gli italiani, così come eventuali missili nucleari scagliati sulla penisola.

 

Statisti del calibro di Alcide de Gasperi, Aldo Moro, Giulio Andreotti, Bettino Craxi, non erano certo antiamericani o antiatlantisti, ma giocavano le proprie carte su più tavoli, avendo a cuore gli interessi italiani.

 Ma chi è oggi al potere nel nostro Paese di chi cura gli interessi?

(Rino Tripodi).

 

 

«Vogliamo vivere!»

Lucidamente.com- Rino Tripodi -( 3 Aprile 2022)- ci dice :

 

Ogni conflitto, non solo quello in Ucraina, va fermato a ogni costo e non fomentato con interventismi imperialistici, sanzioni e aumento di spese militari. Le sinistre si snaturano e, per combattere lo stravolgimento della realtà imposto dai poteri oppressivi, occorre tornare al vecchio slogan «né un uomo, né un soldo» per la guerra.

 

Il titolo in italiano era brutto e sbagliato. Ma alla fine Vogliamo vivere! è risultato di un’efficacia commovente.

 Stiamo facendo riferimento al capolavoro di Ernst Lubitsch “To be or not to be” (Usa, 1942), satira del nazismo girata in piena Seconda guerra mondiale, emozionante, soprattutto se rivista dopo la scoperta di tutti gli orrori hitleriani, alla pari de Il grande dittatore (1940) di Charlie Chaplin, col suo splendido monologo.

 

Come spesso capitava nel passato, la traduzione del titolo cinematografico nella nostra lingua, allorquando la pellicola poté essere diffusa nella penisola, fu brutta e infedele.

Tuttavia, col tempo, ha acquisito un proprio valore davvero efficace.

 «Vogliamo vivere!». Eh, sì, sembra banale, ma, vedendo i tanti guerrafondai di queste settimane, non lo è: le persone comuni desiderano innanzi tutto vivere e le guerre, tutte, anche quelle “giuste”, seminano la morte, il dolore, la distruzione.

 

 E quando, purtroppo, scoppia un conflitto armato, come nel caso ucraino, occorre fermarlo a ogni costo. Anche perché esso è stato causato certamente dalla bieca aggressività del dittatore russo Vladimir Putin, ma anche dalla cecità di tutte le altre nazioni nei riguardi di una crisi che si protraeva da almeno otto anni, con decine di migliaia di morti, nonché dal mancato rispetto da parte dell’Ucraina del Protocollo di Minsk del 2014 (per avere un quadro complessivo, anche storico, della situazione in quella fetta di Europa, sono preziosi i numeri 2 e 3 di febbraio e marzo 2022 del mensile di Geopolitica Limes).

 

Come evitare la guerra e le sue terribili conseguenze umane ed economiche (secondo uno studio uscito sul Journal of Peace Research, se dal 1970 al 2014 non ci fossero state guerre, il Pil globale sarebbe stato più alto del 12%)?

 

 Si vis pacem, para pacem: le uniche modalità sono la diplomazia, le trattative, i negoziati e i compromessi.

 Così nel 1962 si è risolta la crisi cubana (leggi al riguardo l’articolo di Giuseppe Licandro in questo stesso numero di LucidaMente).

 Marcello Veneziani (Chi decide l’ordine del mondo?, in Panorama, 9 marzo 2022), ammette che «non c’è una soluzione ma un compromesso realistico tra potenze, diritti, modelli, esigenze».

 

Pertanto, l’intellettuale pugliese auspica, anche se con poche speranze, che si giunga ad «accettare la pluralità del mondo e circoscrivere, riconoscere alcune aree omogenee o spazi vitali – per dirla con la geopolitica, Carl Schmitt o più recentemente Samuel Huntington: l’Europa, gli Stati uniti, l’America latina, la Russia, la Cina, l’India, il Sud-Est asiatico, l’Africa, il Medio Oriente o civiltà islamica, l’Australia.

 

Le grandi aree naturalmente possono essere intese diversamente, ma queste dieci ci sembrano le più indicative, a loro volta suddivise in altre aree minori. L’ordine mondiale non può che essere governato da rappresentanti di queste dieci realtà principali.

Non è la soluzione regina e le tensioni non sono certo evitate, ma l’unico criterio di compromesso, l’unico confine di garanzia non può che essere stabilito a partire da queste linee di demarcazione».

«Nel caso Ucraina», conclude Veneziani, «non può essere la superpotenza americana a stabilire la liceità di fagocitare a occidente l’Ucraina che già nel nome rispecchia il travaglio del suo confine; e non può essere la Russia a imporre con la forza la sua egemonia.

 

È necessario riconoscere in queste terre di mezzo una dignitosa neutralità in modo che l’Ucraina non diventi né Occidente, con le basi Nato sui confini con la Russia, né diventi Stato satellite della Russia; ma uno Stato autonomo neutrale che resti a separare l’Occidente e l’Oriente».

 

Al contrario, fin dall’inizio e con una pericolosa escalation col passare del tempo, i possibili interlocutori della Russia, quali Stati uniti, Nato, Unione europea, hanno assunto un atteggiamento di chiusura verso il dialogo, aizzati in questo dal discutibile presidente ucraino Volodymyr Zelens’kyj.

 

Così il ruolo di mediatori è stato assunto da Turchia o Israele, mentre la Cina persegue i propri interessi. Intendiamoci: il discorso secondo il quale si sta combattendo una battaglia tra autoritarismo e democrazie è una falsità. Sia Russia sia Ucraina, nazioni peraltro, come la Bielorussia, appartenenti alla stessa matrice etnico-religioso-linguistico-culturale, sono Paesi tutt’altro che liberali, nei quali l’influenza di autocrati e mafie è rilevante.

 Allora, la guerra putiniana e la risposta aggressiva di Usa e alleati hanno soprattutto motivi economici.

Come quasi tutti i conflitti armati, anche se non bisogna mai sottovalutare che possono esistere cause anche di natura patriottica, idealistica, sociale, religiosa, culturale, ecc. E, purtroppo, se si guarda alla Storia, le paci sono sempre state delle brevi pause tra guerre continue.

 

La Russia ha tutto l’interesse a mettere le mani sul Donbass ricco di risorse (carbone, gas naturale, petrolio, industrie, grano e semi di girasole), oltre che a difendere i russi al suo interno massacrati da soldati governativi e battaglioni neonazisti. Comunque, le economie dell’Unione europea e russa sono complementari. Pertanto, sono solo gli americani ad avere tutto l’interesse a interrompere i rapporti commerciali, in continuo aumento, tra nazioni europee e colosso euroasiatico, basati sullo scambio centrale risorse energetiche e materie prime versus manufatti e tecnologie.

A subentrare nelle forniture di petrolio e gas a prezzo ben maggiore sarebbero proprio loro. Dunque, la solita, sporca guerra, della quale pagano il prezzo maggiore le persone comuni coinvolte nei teatri di battaglia.

 

Ma la novità è che a fomentarla non sono tanto o soltanto i vecchi “nazionalisti” di un tempo, disprezzati senza alcun distinguo, almeno quanto i “sovranisti”, dalle sinistre liberal Dem Usa dappertutto al potere nei cosiddetti “stati democratici” (peraltro da due anni senza libertà per “dittatura sanitaria”), ma proprio i “progressisti”.

 

 I quali, nonostante le tante belle affermazioni, si dimostrano “razzisti” o, quanto meno, poco sensibili verso le altre etnie, quando si tratta di massacri di serbi, libici, afghani, irakeni, siriani, yemeniti ecc. ecc. e, ora, ucraini.

 

Allora, quali vite contano (secondo gli slogan alla moda come Black lives matter)?

Nelle menti radical chic esiste una gerarchia che pone in alto neri americani, gay o transgender, immigrati delle sponde sud del Mediterraneo, donne della jet society che si dicono abusate; in basso e in fondo bianchi, maschi, occidentali, eterosessuali, autoctoni, cristiani, malvagi per natura innata e colpevoli di ogni abominio compiuto sul pianeta…

 E chi muore per le guerre d’aggressione per interessi geostrategici ed economici simili a quelle scatenate da Putin, ma a guida Usa e Nato (vedi Dal 1945 ad oggi 20-30 milioni gli uccisi dagli Usa)? Non conta nulla.

Paradossalmente, a ricordare questa logica dei due pesi e delle due misure non sono stati giornalisti, intellettuali o storici, ma i tifosi serbi della Stella Rossa di Belgrado, peraltro tradizionalmente amici della Russia, coi loro striscioni esposti lo scorso 17 marzo prima di una partita di Europa League, che elencavano le decine e decine di invasioni statunitensi di Stati indipendenti e sovrani .

Insomma, per l’Occidente, i crimini di guerra “amerikani” non esistono, valgono solo quelli altrui.

Anche perché, al contrario che nell’Ucraina, le immagini dei cadaveri e delle distruzioni provocate dagli “interventi umanitari” non vengono trasmesse in tv: dopo il Vietnam, gli Usa ne hanno imposto la censura assoluta.

 

Come nel caso Covid, i poteri forti, sostenuti dalla quasi totalità dei media asserviti, hanno martellato le popolazioni con menzogne su menzogne, usando ancora l’arma orwelliana dello stravolgimento del linguaggio e della criminalizzazione e derisione dei dissidenti (un caso per tutti, quello del professor Alessandro Orsini).

Ha scritto Antonio di Siena de l’AntiDiplomatico: «I nazisti sono diventanti patrioti; gli interventisti, pacifisti; i mercenari, volontari; i civili, resistenza o terrorismo a seconda della fazione. I colpi di stato sono diventati rivoluzioni colorate; provocazioni belliche e sanzioni, diplomazia; guerre decennali, sanguinose e con migliaia di morti, conflitti a bassa intensità; la guerra è diventata missione di pace; il dialogo e l’equilibrio, una minaccia; il diritto internazionale interpretabile a seconda dei casi. Ormai plasmano le parole come plastilina, riscrivono la realtà di volta in volta, adattandola alle esigenze come fosse il copione di un film non perfettamente riuscito. E molti, inebetiti dalla trama neanche troppo originale, non riescono a staccare gli occhi dallo schermo ingozzandosi di popcorn alla merda. Senza nemmeno accorgersi del sapore, perché gli hanno detto che è cioccolata».

 

Aggiungeremmo che quella che una volta era definita, senza mezzi termini, ideologia, ovvero manipolatoria visione del mondo e della realtà, è oggi ribattezzata «narrazione» nella neolingua che ci vogliono imporre, così come con i neologismi «resilienza» o la schwa; in tal modo il potere intende ricostruire una verità funzionale ai propri piani.

 

Non a caso, è stata proprio il “nuovo Hitler” , la mente del Forum economico di Davos, Klaus Schwab (guarda caso, “schwa”+b), a definire la narrazione «sforzo collaborativo dei principali pensatori del mondo per modellare prospettive a lungo termine e co-creare una narrativa che possa aiutare a guidare la creazione di una visione più resiliente, inclusiva e sostenibile per il nostro futuro collettivo».

(Intanto Klaus Schwab fabbrica bombe atomiche in gran segreto in Sud Africa ,e nessun governo pensa di metterlo in catene per non nuocere al destino- da lui indicato nei suoi scritti-  per l’umanità intera! Ndr).

Una fredda, tecnocratica neolingua, quasi incomprensibile, da lavaggio del cervello.

Ed ecco, puntuale, la nuova pubblicazione di Schwab (con Thierry Malleret): “The Great Narrative”. For a better future.

 

E, nella narrazione del potere, spedire armi è salvare vite umane e difendere a ogni costo una cleptocrazia oligarchica è salvaguardare la libertà dell’Occidente.

Pensateci un po’: sembra che si stia aggiungendo un altro fondamentale tassello alla realizzazione del regime prefigurato da George Orwell nel suo 1984.

Dopo il controllo sociale assoluto, la penuria economico-materiale a fronte di statistiche falsificate sull’andamento dell’economia, l’odio quotidiano vero i dissidenti, la delazione, la neolingua, le menzogne dei media asserviti al potere, la cancel culture, ecco che si profila l’eterna guerra (o continuo stato di conflitto) contro una potenza straniera, contro un nemico odioso e subumano inventato a bella posta: nel romanzo dello scrittore scozzese Oceania contro Eurasia ed Estasia;

nel nostro futuro Usa-Nato-Ue contro Russia, Cina e magari mondo arabo.

Dalle menzogne della neolingua ci si salva guardando la realtà con semplicità, senza “narrazioni”-ideologie, non ascoltando la martellante propaganda massmediologica, e recuperando le verità del passato.

Quindi, ricordando ancora la vecchia posizione pacifista del socialista Andrea Costa: «Né un uomo, né un soldo» per la guerra.

(Rino Tripodi).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Se la Russia non viene fermata metterà

in discussione l’intero ordine mondiale.

 

Linkiesta.it- Alessandro Cappelli- (28 aprile 2022)- ci dice :

L’invasione dell’Ucraina non è solo una questione tra Mosca e Kiev. La guerra revisionista di Putin è un assist a tutte le autocrazie che, in futuro, si sentiranno legittimate ad attaccare i Paesi vicini nelle loro guerre di conquista.

 

«Sono orgoglioso di annunciare che l’incontro di oggi diventerà un gruppo di contatto mensile sull’autodifesa dell’Ucraina e sarà un mezzo per intensificare i nostri sforzi, coordinare la nostra assistenza e concentrarci sul vincere la battaglia di oggi e le battaglie future».

 

Dalla base aerea statunitense di Ramstein, in Germania, il segretario alla Difesa statunitense Lloyd Austin ha annunciato le nuove strategie per rafforzare le capacità militari dell’Ucraina. Ma le sue parole vanno molto oltre il qui e ora.

 La sensazione è che Austin parli di una sfida globale e irrinunciabile, un possibile punto di non ritorno per il mondo democratico e liberal Dem Usa: se non si vince oggi contro l’autoritarismo russo, domani sarà peggio, quindi si combatte oggi, si combatte domani, si combatterà in futuro finché ci sarà bisogno per tutelare la “democrazia liberal Dem Usa”.

 

L’invasione russa dell’Ucraina mette in discussione l’equilibrio dell’ordine mondiale. È vero, il rispetto delle norme della sovranità statale non è mai stato realmente impeccabile. Ma gli Stati hanno cercato di rispettare l’integrità dei confini nazionali almeno secondo una linea di massima: si può dire che tra tutte le minacce e le difficoltà che uno Stato deve affrontare nel XXI secolo, un’invasione che voglia ridisegnarne i confini sia un’opzione piuttosto remota.

 

Ora, con l’invasione della Russia, i principi, i valori e le norme di diritto internazionale che tutelano gli Stati dall’eventualità di subire una guerra di conquista territoriale viene messa alla prova nel modo più minaccioso e palese dai tempi della Seconda guerra mondiale: la guerra in Ucraina ricorda un’era passata, più violenta, un’era che Vladimir Putin non ha timore di rievocare.

 

«Ma se la comunità globale consentirà alla Russia di prendere l’Ucraina, altri Stati potrebbero pensare di usare più frequentemente la forza per mettere in discussione i confini nazionali, e potrebbero scoppiare guerre, potrebbero essere ripristinati gli imperi e sempre più Paesi potrebbero essere sull’orlo dell’estinzione», ha scritto Tanisha M. Fazal su Foreign Affairs.

 

Tra il 1816 e il 1945 gli Stati scomparivano dal planisfero al ritmo di uno ogni tre anni. Ma già dalla metà del XX secolo la musica è cambiata. Durante la Guerra Fredda l’idea della conquista territoriale non è stata rimossa del tutto, ma è diventata sempre più debole.

 

Da un lato perché lo sviluppo tecnologico bellico e i nuovi sistemi militari hanno cambiato i conflitti e hanno reso sempre più rischioso un coinvolgimento in guerra. Dall’altro, con la nascita delle Nazioni Unite, è cambiato il modo in cui gli Stati hanno iniziato a interagire tra loro. E i Paesi indipendenti hanno assunto negli anni impegni simili a quanto stabilito dalla Carta dell’Onu, creando organizzazioni regionali – come la Lega araba e l’Organizzazione per l’unità africana – su quegli stessi principi.

 

Non tutti hanno rispettato quelle norme e quei valori per motivi nobili: alcuni Stati semplicemente non hanno ambizioni territoriali, altri sanno che le controversie sarebbero complicatissime da affrontare, altri hanno interesse nel preservare la stabilità del sistema internazionale. Ma l’equilibrio, per quanto precario, costruito in quegli anni ha limitato il ricorso alla guerra come strumento offensivo e di conquista.

 

Con gli anni ‘90 e la fine della Guerra Fredda, la battaglia ideologica si è risolta a favore della visione occidentale, fatta di democrazia liberal Dem Usa, stato di diritto e logiche di mercato. È la “fine della storia” teorizzata da Francis Fukuyama. Naturalmente, la fine della storia non ha significato assenza di guerra o conflitti in assoluto. Ma ha contribuito a consolidare un ordine mondiale regolato da principi e valori che – in buona sostanza – frenavano il ricorso a invasioni e ingerenze sul territorio di altri Stati.

 

«L’invasione dell’Ucraina da parte di Vladimir Putin vuol dire che l’incantesimo della fine della storia è stato spezzato? La storia è ricominciata in chiave tragica, come ha detto il presidente francese Emmanuel Macron? Siamo giunti alla fine della fine della storia militare?», si domandava a inizio aprile Adam Tooze in un articolo pubblicato su New Statesman.

 

Putin non ha mai accettato la caduta dell’Unione Sovietica, non accetta che i valori fondanti degli Stati Uniti e dei loro alleati possano definire l’ordine internazionale.

È per questo che, con lui alla guida, il Cremlino si comporta come una potenza revisionista. Già nel 2007, alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco, annunciò la sua sfida all’Occidente: un anno dopo sarebbe arrivato l’attacco alla Georgia, nel 2014 l’invasione della Crimea.

 

«Il leader della Russia, proprietario del più grande arsenale nucleare del mondo, ha ricostruito un esercito e una macchina di propaganda progettati per facilitare gli omicidi di massa. Troppo a lungo i custodi dell’ordine mondiale liberal Dem Usa hanno distolto lo sguardo: quando la Russia ha “pacificato” la Cecenia uccidendo decine di migliaia di persone, quando la Russia ha bombardato scuole e ospedali in Siria, i leader occidentali hanno deciso che non era un loro problema», scrive Anne Applebaum sull’Atlantic, ricordandoci che non esiste un ordine mondiale liberale naturale, e non esistono regole se non c’è qualcuno che le fa rispettare.

 E, a meno che le democrazie del mondo non si difendano insieme, unite, le forze dell’autocrazia le distruggeranno.

 

C’è motivo di temere che le ambizioni di Putin vadano ben oltre gli obiettivi di un regime change in Ucraina o di prendere le repubbliche separatiste di Donetsk e Luhansk. Putin sembra interessato a tornare alla Russia imperiale, una Russia che può permettersi di muovere una guerra preventiva all’Occidente per paura di un attacco che nessuno aveva programmato.

 

Ora, se la comunità internazionale non frena la guerra voluta da Mosca, tutti gli Stati confinanti con le grandi potenze – specialmente quelle che possono avere velleità revisioniste – si sentiranno in pericolo.

 

È per questo motivo che la guerra della Russia in Ucraina è molto più di un semplice scontro tra l’armata del Cremlino e la difesa di Kiev.

«Farla passare liscia a Putin – sono parole di Fazal su Foreign Affairs – significa rendere milioni di civili più vulnerabili agli attacchi indiscriminati. In questo momento, gli effetti immediati della guerra sono in gran parte limitati all’Ucraina, alla Russia e ai Paesi che accolgono i rifugiati ucraini. Ma in futuro tutti gli Stati farebbero bene a occuparsi con cura dei propri confini».

 

 

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