UN MONDO DILANIATO DALLO SCONTRO DI CIVILTA’.
UN MONDO DILANIATO DALLO SCONTRO DI
CIVILTA’.
“Scontro
di civiltà”: Samuel Huntington
aveva previsto tutto, nel 1996.
Visionetv.it-
Geoffrey Clarfield e Salim Mansur - (23 Marzo 2022 )- ci dice :
Nel
1996, il compianto Samuel Huntington (1927-2008), un rispettato professore di
Harvard, pubblicò “The Clash of Civilizations and the Remake of World Order”.
Questo
testo era la sua risposta al bestseller del 1992 di Francis Fukuyama, dal
titolo “La
fine della storia e l’ultimo uomo”. Entrambi i testi si focalizzavano su un possibile futuro
mondo del dopo Guerra Fredda.
Il
recente scoppio della guerra in Ucraina ci ha inevitabilmente riportato alla
mente il dibattito che si era svolto sulle due diverse di Fukuyama e
Huntington.
Per Fukuyama, la fine della Guerra Fredda è stata
anche la fine della Storia con la “S” maiuscola, quella nozione di storia guidata da conflitti
ideologici.
Dal
suo punto di vista, sebbene si verificassero ancora eventi problematici, questi
non avrebbero comunque ostacolato la
diffusione del mondo neoliberista( Liberal Dem Usa) basato sulle regole in termini di libertà,
democrazia, economia di mercato e secolarizzazione delle culture, tutto secondo
quanto riportato nell’esperienza americana.
Il
punto di vista di Huntington era meno ottimista.
Vedeva
la fine della Guerra Fredda come una transizione verso un mondo in cui le
divisioni tra le grandi potenze un tempo basate su ideologie politiche
sarebbero state sostituite dalle divisioni più durature della storia fondate su
culture e tradizioni religiose.
Huntington ha anche definito la civiltà come
l’identità culturale più ampia della storia.
Quindi,
Huntington prevedeva uno “scontro di civiltà” –
frase presa in prestito da Bernard Lewis, storico del Medio Oriente e
della civiltà islamica – che oscurava il futuro del nuovo secolo e anche del
millennio a venire.
Huntington
ha messo in guardia i colleghi americani, in particolare gli ottimisti come
Fukuyama:
“Nel
mondo emergente di conflitti etnici e scontri di civiltà, la sterminata fiducia
tutta occidentale nell’universalità della cultura occidentale soffre di tre
problemi:
è falsa, è immorale, ed è pericolosa” .” (Come lo è la nuova dottrina
divulgata dai “Liberal Dem Usa”.Ndr).
Ha
quindi aggiunto: “La
convinzione che i popoli non occidentali debbano adottare valori, istituzioni e
cultura occidentali è immorale, proprio per quello che sarebbe necessario
attuare per realizzarlo … L’imperialismo è la conseguenza logica necessaria
dell’universalismo”.
Gli
eventi hanno dimostrato che Huntington è stato di fatto profetico e ha
cancellato la rosea prospettiva di Fukuyama.
La
“guerra globale al terrorismo” è stata una risposta agli attacchi terroristici degli
estremisti islamici dell’11 settembre 2001, insieme all’argomentazione dei
neoconservatori secondo cui dobbiamo diffondere la democrazia e i valori americani
all’estero.
Questo
alla lunga si è trasformato in una guerra senza fine che travalicava i confini,
causa di dolore e sangue per le civiltà, proprio come aveva previsto Huntington.
La
stessa guerra globale al terrorismo ha vaporizzato il previsto “dividendo di pace” derivante dalla fine della Guerra
Fredda.
Infine, i nuovi scontri con la Russia hanno
innescato una guerra letale in Ucraina, attraverso la quale si percorre un
confine frammentato da est a ovest in Europa, riportando alla ribalta accresciute
tensioni di una Guerra Fredda che apparentemente non è mai finita.
Con
specifico riguardo al conflitto, il crollo dell’Unione Sovietica ha resuscitato
il passato della Russia pre-comunista come centro di civiltà della cristianità
ortodossa e Mosca come terza Roma.
L’Ucraina
indipendente, tuttavia, è un paese “dilaniato”.
Metà
della popolazione è etnicamente russa e, in quanto cristiana ortodossa, è
legata alla Russia; l’altra metà è composta da etnie miste e la sua affinità
culturale e storica risiede in Europa con la Russia occidentale.Non è ironico vedere in questa guerra
un vero e proprio conflitto di civiltà. Da un lato ci sono quegli ucraini che
cercano il sostegno dell’Occidente (UE e NATO) per difendere la loro identità
culturale percepita in termini di vero e proprio illuminismo di stampo
occidentale.
Dall’altra parte ci sono i russi che resistono
ai valori occidentali (Liberal Dem Usa) perché questi sovvertono la loro identità culturale
e il loro tenace cristianesimo ortodosso.
Con un
occhio agli eventi in Ucraina e al loro svolgersi come ad un microcosmo di uno
scisma in atto che coinvolge tutto il mondo, la tesi di Huntington è alquanto
limitata perché non ha esaminato gli effetti del decadimento interno delle
civiltà.
Ad
esempio, non ha considerato gli effetti degradanti sulla cultura americana che
Allan Bloom, nel 1987, ha esaminato invece
in “The
Closing of the American Mind”.
Né ha
preso in considerazione libri, come Amusing Ourselves to Death: Public
Discourse in the Age of Show Business (1984) di Neil Postman o The Culture of
Narcissism (1979) di Christopher Lasch, o il libro successivo di Lasch The
Revolt of the Elites and the Betrayal of Democracy (pubblicato postumo nel
1997).
Bloom,
Postman e Lasch descrivevano cosa succede quando una cultura inizia a smantellare i suoi
valori fondamentali e, di conseguenza, perde la sua vitalità spirituale.
In una cultura di questo tipo, dove le persone cercano
sempre più solo il piacere, i cittadini vivono per il momento, tagliati alla
deriva dal passato e indifferenti al proprio futuro.
Lasch scriveva quasi in stile burkeano: “Il narcisista non ha alcun interesse
per il futuro perché, in parte, ha anche poco interesse per il passato”.
Huntington
semplicemente non poteva immaginare che un Occidente (e un’America) sempre più
infedele, inetto, radicalmente secolarizzato e libertario potesse costituire un
pericolo maggiore di altre culture nell’allargare le divisioni di civiltà nel
mondo all’indomani della Guerra Fredda.
In
altre parole, non ha percepito che l’Occidente contemporaneo, culturalmente in
rovina e spiritualmente distrutto, non può fornire né guida morale, né guida
alcuna, agli altri qualora necessaria per prevenire lo scontro di civiltà.
Huntington
non aveva nemmeno ragione sul fatto che la cultura fondamentale dell’America basata sui
valori dell’Illuminismo fosse unica perché ha un fascino universale.
Ma
aveva ragione sul fatto che l’America, diffondendo la sua cultura (per quanto degradata), quando
sostenuta con la forza (difensiva o meno) a popoli non occidentali, avrebbe trasformato il suo eccezionalismo americano in ciò che si
definiva come imperialismo americano.
Almeno
negli ultimi vent’anni, gli americani avrebbero fatto bene a ricordare le
parole di
John Quincy Adams:
“(…)Ovunque
lo standard di libertà e indipendenza si dispiegheranno, lì ci sarà il cuore
dell’America, le sue benedizioni e le sue preghiere. Ma non vada all’estero in cerca di
mostri da distruggere. Essa è la sostenitrice della libertà e dell’indipendenza
di tutti. Lei è la campionessa e la vendicatrice solo di se stessa.(…)”
La
spinta degli Stati Uniti nei confronti dell’Ucraina affinché questa entrasse
nella NATO da un lato stava allargando
sconsideratamente il divario interno di un paese ormai “dilaniato”, mentre
dall’altro incitava in modo spaventoso
la Russia a invadere preventivamente il territorio per rendere nullo
quell’invito. Di conseguenza, la tragedia che si sta verificando in Ucraina ha molto a
che fare con il revanscismo russo, così come con l’arroganza americana che ha
reso il popolo, in particolare i suoi leader, non curanti non solo delle
preoccupazioni di Huntington, ma anche degli avvertimenti di George Washington
nel suo discorso di addio —un discorso che è molto più importante nel mondo del
dopo Guerra Fredda rispetto a quando fu pronunciato nel 1796.
Washington
ha avvertito: “L’Europa
ha una serie di interessi primari, che non sono legati a noi o se lo sono, lo
sono solo in maniera molto remota. Perciò si impegnerà in frequenti
controversie, le cui cause sono essenzialmente estranee a noi».
Inoltre:
“Perché mai dobbiamo intrecciare il nostro
destino con quello di qualsiasi parte d’Europa, impigliare la nostra pace e
prosperità nelle fatiche dell’ambizione, della rivalità, dell’interesse,
dell’umorismo o del capriccio che sono solo o principalmente europei? È parte della nostra politica stare
alla larga da alleanze permanenti, con qualsiasi parte del mondo straniero”.
La
lezione, quindi, che gli americani possono trarre dalla tragedia dell’Ucraina è
che, quando si verificano scontri lontani per ragioni estranee all’America, il
coinvolgimento americano può fare più male che bene.
Se gli
americani desiderano che gli altri prestino loro attenzione, devono essere fedeli nelle parole e
nei fatti ai valori fondamentali della loro cultura e quindi, solo in quel
caso, possono meritare l’ascolto degli altri gli altri.
(Geoffrey
Clarfield e Salim Mansur, traduzione Martina Giuntoli).
La
lunga strada verso
lo
scontro tra civiltà.
Lintellettualedissidente.it-
Emanuel Pietrobon- Nick Land-(29 luglio
2019)- ci dicono :
(Nick
Land- L’Illuminismo oscuro).
Occidente
scosso dal
ritorno dell'identitarismo
di destra,
grandi
potenze eurasiatiche che tentano di esportare il proprio modello di civiltà, lo spettro di un terrorismo
islamista infinito e l'affacciarsi del suprematismo bianco: Samuel Huntington aveva previsto
tutto?
Era il
1996 e lo scienziato politico e pensatore Samuel Huntington dava alle stampe
uno dei saggi di geopolitica più discussi dell’ultimo ventennio: “Lo scontro
delle civiltà e il nuovo ordine mondiale”.
Huntington credeva che nel 2000 il panorama
internazionale non sarebbe stato monopolizzato dallo scontro fra ideologie,
come nel secolo precedente, ma dal conflitto fra culture e civiltà diverse.
Il
declino dell’Occidente sarebbe stato causa di tensioni a livello globale,
spingendo le potenze principali del “resto del mondo” a fronteggiarsi per
l’estensione delle loro sfere di influenza – sfidando anche lo stesso
Occidente.
La
Russia avrebbe provato a riottenere il controllo, quantomeno indiretto, sui
territori posseduti in epoca zarista e sovietica, Cina e Giappone avrebbero
dato vita ad una nuova stagione di antagonismo per l’egemonia sull’Asia
orientale e meridionale, l’India avrebbe abbandonato definitivamente le vesti
di impero democratico multiculturale e multireligioso per dirigersi verso una
progressiva induizzazione esportata oltre confine, il mondo islamico sarebbe
stato scosso da una lotta intestina fra i principali paesi candidati al ruolo
di “guida di civiltà”, l’Africa non-araba avrebbe continuato ad essere dilaniata da
rivalità etno-nazionaliste, e l’Occidente avrebbe continuato a ergersi a poliziotto del
mondo, a lottare per l’esportazione di valori propri intesi come universali, guidando guerre e cambi di regime, dando vita ad un vortice di tensione
che presto o tardi avrebbe innescato una guerra tra civiltà.
Samuel
Huntington.
Futurologia
spicciola? All’epoca le previsioni del libro furono ampiamente schernite,
accusate di descrivere un mondo-bomba a orologeria esistente soltanto nella
mente dei neoconservatori americani eppure, all’indomani degli attentati
dell’11 settembre 2001, Huntington e la sua opera riemersero dall’oblìo:
il
primo diventando l’ospite più chiamato nei canali televisivi statunitensi, la
seconda tornando nuovamente tra i libri più venduti dell’anno.
Passano
gli anni e quello scenario cupo descritto da Huntington sembra stia
realizzandosi in gran parte del mondo.
In Occidente, il multiculturalismo palesa ormai tutti
i suoi limiti e si dirige verso l’implosione fra enclavi etniche, epidemie di
criminalità, rivolte urbane che esplodono periodicamente per i più disparati
motivi, dagli Stati Uniti alla Francia, toccando Svezia, Gran Bretagna e
Germania, coesistenza fra autoctoni e stranieri che diventa sempre più
difficile, spingendo entrambe le parti a rintanarsi nell’identitarismo.
Inoltre,
proprio come predetto da Huntington, Stati Uniti ed Unione Europea sono
sempre più distanti, e buona parte degli occidentali è disinteressata alla
tutela della propria identità, anzi segue ossessivamente mode esterofile,
facendo del cosmopolitismo un modus vivendi.
Il
mondo islamico è spaccato da una guerra per l’egemonia sulla umma: Iran e Arabia Saudita guidano lo
scontro, ma Egitto, Marocco, Turchia, Emirati Arabi Uniti, Qatar, a loro modo
perseguono agende parzialmente autonome dai blocchi di riferimento.
Lo
scontro è lungo la Mezzaluna fertile, ma l’obiettivo ultimo è la legittimità
agli occhi dei quasi due miliardi di fedeli che pregano rivolti verso la Terra
del Sigillo dei Profeti.
Tutto
il malessere per il colonialismo passato e l’imperialismo presente delle
potenze europee e degli Stati Uniti ha alimentato la diffusione capillare di
sentimenti antioccidentali, che hanno favorito l’emergere del terrorismo
islamista. Un
capitolo a parte merita la Turchia, il cui processo di occidentalizzazione
forzata è stato interrotto a tempo indefinito da Recep Tayyip Erdogan per
sposare un percorso identitario che può non piacere, ma che non è artificiale
perché realmente appartiene alla storia della civiltà turca.
La
Cina vuole smettere di servire passivamente la catena di produzione globale,
sfruttando il potere e la ricchezza acquisite negli ultimi trent’anni per dar
vita ad un nuovo ordine mondiale sino-centrico.
Il Giappone, sia per la storica rivalità con Pechino
che per il fatto di essere divenuto l’avamposto numero uno di Washington
nell’Asia orientale, sta gradualmente riprendendo un programma di
nazionalizzazione delle masse, per fronteggiare il mutamento di scenario.
La
nuova classe politica indiana punta a marginalizzare islam e cristianesimo, e
nel paese dilagano le violenze interreligiose, mentre si riaccende lo scontro
che si credeva sepolto con il Pakistan.
La
Russia sta effettivamente cercando di riesercitare il controllo su quel che fu
l’Unione Sovietica e, infine, nell’Africa subsahariana dilaniata dalle divisioni
interetniche l’epoca del nazionalismo nero panafricano sembra essere finita con
le morti di Thomas Sankara e Patrice Lumumba.
Lo
scontro delle civiltà è uno dei testi più controversi e incompresi della nostra
epoca, questo
è il motivo principale per cui si continua ad accusare il defunto politologo di
distopia apocalittica. Huntington credeva che le culture si sarebbero scontrate,
non i paesi. È il caso di approfondire proprio la questione occidentale.
Ad
esempio il Belgio è al tempo stesso culla dell’Unione Europea e fabbrica di
jihadisti, si alternano quartieri per la borghesia bianca, in giacca e
cravatta, cosmopolita e poliglotta, a ghetti come Molenbeek in cui proliferano imam radicali,
uomini in djellaba e donne col burqa, bande etniche, negozi con scritte in
lingua araba, due realtà semi-parallele che quando si incrociano, si scontrano.
Lo stesso accade nei Paesi Bassi, in Gran Bretagna, in Scandinavia, in Francia,
in Germania, e in altri paesi in cui l’utopia liberale ha egemonizzato il
panorama politico-culturale per decenni.
Molenbeek.
Il
recente emergere dei populismi di destra è, geopoliticamente parlando, legato
a lotte di potere intestine al mondo occidentale, ma è stato reso possibile proprio
dalla percezione popolare del fallimento dei progetti multiculturali e
anti-identitari.
Il
senso di colpa dell’uomo bianco, il melting-pot, la xenofilia e l’esoticismo,
hanno dato luogo ad una combinazione esplosiva, ampiamente predetta da
Huntington e che, secondo lui, avrebbe accelerato la caduta dell’Occidente
inteso come civiltà unica e distinta, rendendolo più vulnerabile agli sforzi
egemonici provenienti dal “resto del mondo”. Le follie del politicamente corretto
che si moltiplicano e si estremizzano con il passare del tempo sono un esempio
di ciò.
Secondo
la legge dei sistemi egemonici, quando il primato dell’attore 1 viene sfidato
da uno o più rivali, tendenzialmente l’attore 1 reagisce aumentando la propria
aggressività – accelerando, però, il proprio declino. È quanto sta accadendo all’Occidente:
frammentazione interna e capacità di proiettare la forza all’esterno sembrano
aver rinvigorito l’impegno internazionale, come palesato dalle guerre fredde e
per procura aperte dall’asse Washington-Bruxelles in ogni continente,
soprattutto contro Cina e Russia.
La
stessa retorica huntingtoniana è riapparsa nel linguaggio politico, dopo esser
dimenticata negli anni dell’era Obama. Ad esempio, figure-chiave
dell’amministrazione Trump, da John Bolton a Steve Bannon, a più riprese hanno
parlato di scontro di civiltà in riferimento all’impegno del paese contro Iran
e Cina.
Huntington
aveva messo in guardia l’Occidente, elaborando una primitiva teoria del
disimpegno che Stati Uniti ed Unione Europea avrebbero dovuto seguire per
evitare di alimentare tensioni pericolose nel mondo con potenze ormai capaci di
affrontare uno scontro aperto, come la Cina appunto, e spiegando anche cosa
fare per recuperare quell’orgoglio perduto legato ad un passato glorioso, ma
ripudiato.
(Emanuel
Pietrobon).
È un
vero scontro di civiltà.
Italiaoggi.it-
Alessandra Ricciardi - Loris Zanatta -(16-3-2022)- ci dice :
(Loris
Zanatta ordinario di storia all'Università di Bologna).
Siamo
nel bel mezzo di uno scontro tra civiltà. Non si tratta solo di difendere
confini e potere, non è solo una questione geopolitica, è molto di più».
Loris
Zanatta, professore ordinario di storia latino-americana dell'Università di
Bologna, è uno studioso dei movimenti populisti e dei loro leader, autore da
ultimo di Fidel Castro - l'ultimo re cattolico (Salerno editore) e Il populismo
gesuita: Peron, Fidel, Bergoglio (ed. Laterza).
Dice Zanatta: «Il peccato mortale commesso
dall'Ucraina non è l'aver chiesto l'adesione alla Nato, questa è la schiuma che
sta in cima alle onde, sotto le onde c'è l'occidentalizzazione degli ucraini,
l'aver abbandonato l'ortodossia russa per abbracciare il materialismo,
l'individualismo, il cosmopolitismo, virus pericolosi per la grande madre
Russia».
A cosa mira dunque Vladimir Putin?
«Attaccando l'Ucraina, Putin non difende solo un
confine fisico, ma l'essenza e la purezza della sua storia e della identità del
popolo russo. Questa almeno è la sua visione.
E
questo spiega», aggiunge Zanatta, «perché siamo nel bel mezzo di un conflitto
molto pericoloso, uno scontro di civiltà tra Occidente e Oriente, tra il mondo
secolarizzato e quello clericale dove fede e patria sono tutt'uno».
Le
simpatie che sono state riservate a Putin, spiega Zanatta, «derivano anche da
un substrato di valori che una volta erano appannaggio del mondo occidentale e
lo sono ancora della Chiesa cattolica».
Possibile
che Putin venga destituito dagli stessi russi?
«L'adesione al regime e ai valori che ne sono alla
base da parte del popolo russo è molto forte. Ma chissà, magari dopo 30 anni
dalla fine dell'Urss, e anche grazie agli scambi culturali e commerciali che ci
sono stati con l'Europa, i russi ci sorprenderanno, scopriremo che sono meno
russi di quanto noi pensiamo».
Domanda.
Non è la
guerra lampo che forse la stessa Russia si aspettava, i bombardamenti vanno
avanti e così la resistenza degli ucraini. Quali sono le mire di Putin?
Risposta.
L'attacco
a sangue freddo sferrato da Putin all'Ucraina non ha un motivo puramente
geopolitico, non vi è solo il timore che l'avanzata del blocco occidentale
possa mettere a repentaglio la propria sicurezza materiale, non si tratta
insomma solo di difendere confini e potere. Se fosse così sarebbe tutto più
razionale. Vi è molto di più. Ma se non partiamo da un'analisi storica non
possiamo collocare gli eventi nella loro prospettiva e capire quali siano le
vere mire di Putin: siamo nel bel mezzo di uno scontro di civiltà tra Oriente e
Occidente.
D. E qual è l'analisi?
R. La cultura orientale si è costruita
nella contrapposizione all'Occidente, in tal senso il populismo russo è molto
simile a quello latino-americano.
D. Cos'è l'Occidente a cui la Russia si
contrappone?
R. L'Occidente per i russi è
materialismo ed egoismo, a cui contrappongono spiritualismo e comunitarismo.
Andrebbero riletti e riascoltati i discorsi di Putin, quando dice che l'Occidente con «i
suoi pseudo valori», e si riferisce alle libertà individuali, alle libertà
sessuali, alle opzioni di genere, «minaccia la nostra cultura popolare, la
nostra tradizione morale e la nostra integrità».
Nelle
parole di Putin c'è in fondo il racconto della storia di tutti i populismi che
si sono costruiti ai margini dell'Occidente e in contrapposizione alla cultura
illuminista. Il fondamento ideale del regime di Putin è la tradizione
ortodossa, l'unione tra nazione e religione, tra Stato e Chiesa, ed era così anche ai tempi
dell'Unione sovietica, quando il comunismo era la religione della nazione.
(E adesso la religione globalista dell’élite Usa
, del Gender, del LGBT, Gay Pride , del
pensiero unico, del politicamente corretto ,del Cancel Culture … è il
credo dei neocon progressisti e dei Liberal Dem Usa !Ndr).
D. Il
leader ucraino Zelensky ha detto: dobbiamo ammettere che nella Nato non potremo
entrare. Rinunciare
all'adesione alla Nato e all'Unione europea basterà a Putin per far cessare
l'aggressione?
R. ll peccato mortale commesso
dall'Ucraina non è l'aver chiesto l'adesione alla Nato, questa è la schiuma che
sta in cima alle onde, sotto le onde c'è l'occidentalizzazione degli ucraini,
l'aver abbandonato l'ortodossia russa per abbracciare il materialismo,
l'individualismo, il cosmopolitismo, virus pericolosi per la grande madre
Russia.
Attaccando
l'Ucraina, Putin non difende solo un confine fisico, ma l'essenza e la purezza
della sua storia e della identità del popolo russo. Questo almeno è la sua visione.
E
questo spiega perché siamo nel bel mezzo di un conflitto molto pericoloso, uno
scontro tra civiltà, tra l'Occidente senza dio e senza patria, e l'Oriente, dove fede e patria
sono tutt'uno, tra un mondo dove esiste l'individuo e un altro dove esiste il
popolo. Tra
una società liberal Dem Usa e una società clerico-militare.
D. Quanto i russi stanno con lo zar
Putin?
R.
Ancora molto, Putin è molto popolare, del resto, riutilizzando il motto di
Adolf Hitler, se una è la patria, uno è il popolo, e su questo i russi non
hanno dubbi, uno è anche il leader. C'è una visione organicistica anti liberale
e anti illuminista nella cultura e nella religione russa. Ma chissà, magari dopo 30 anni dalla
fine dell'Urss, e anche grazie agli scambi culturali e commerciali che ci sono
stati nel frattempo con l'Europa, e che hanno aperto degli squarci in un mondo
all'apparenza granitico, i russi ci sorprenderanno, scopriremo che sono oggi meno
russi e più occidentali di quanto noi pensiamo. E questo potrà salvarci...
D. Possibile che siano gli stessi russi
a destituire Putin?
R. Se la società russa è rimasta o
meno la stessa che ha nutrito Putin è difficile dirlo. La durata della guerra,
le conseguenze delle sanzioni e l'esito della guerra stessa potrebbero dare il
via a una rivoluzione interna, sempre che ve ne sia il lievito culturale di
partenza.
Certo, quanto più breve e trionfale sarà l'invasione, meno rischi di consenso interno
correrà Putin. Allo stesso zar tutto sommato conviene fare in fretta, non arrivare al
punto di dover apprendere che magari non sono solo gli ucraini che si sono
occidentalizzati ma pure i russi. È una grande incognita.
D. Questo Putin è lo stesso che veniva
ricevuto in Vaticano e che è stato interlocutore di governi e politici europei?
R. Sì,
anche se nessuno avrebbe pensato che sarebbe arrivato a tanto. Detto questo,
trovo che andare a scovare chi si faceva foto con Putin o fare il processo a
chi ha avuto rapporti con lui sia stupido oltre che manicheo.
Era il leader di una grande potenza con
cui era inevitabile avere interscambi
commerciali e culturali. Cosa diversa invece è aver additato il Putin decisionista a
leader di riferimento, aver elevato la Russia populista a modello da contrapporre a
un'Europa giudicata malata, individualista, senza valori.
D. A cosa imputa le simpatie riservate a
Putin?
R. C'è un substrato di valori -patria e
fede, per esempio- che una volta erano appannaggio del mondo occidentale e
ancora lo sono della Chiesa cattolica (non quella di Bergoglio.Ndr).
D. Papa Francesco ha duramente
condannato le giustificazioni del patriarca di Mosca Kirill, per cui in fondo
la guerra è a difesa dei valori contro un mondo consumistico dominato dai gay.
R. Ma non dimentichiamo che se oggi
Bergoglio condanna la guerra, e la giustificazione religiosa che ne ha dato il
patriarca di Mosca, lo stesso papa con Kirill ha firmato nel 2016 all'Avana,
sotto gli occhi di Raul Castro, una dichiarazione di intenti tra le due Chiese.
E due anni prima c'era stata l'invasione della Crimea... E questo è accaduto
non perché il Papa sia uomo di guerra, per carità, ma perché come tutti i populisti
del mondo latino-americano vede nell'Occidente una società malata da redimere.
D. La minaccia russa del ricorso
all'atomica è una minaccia reale?
R. Mi auguro di no, anche se non va
trascurata una considerazione anche di carattere umano per decifrare cosa è
pronto a fare Putin.
Nei
miei studi ho constatato come i leader populisti che hanno un potere assoluto,
da Fidel Castro a Saddam Hussein, finiscano per confondere il termine della
loro vita con la fine del mondo, hanno una visione apocalittica della storia
che fa perdere lucidità e ragionevolezza.
Prima
Biden, ora Macron, adesso
tocca
all’Italia fermare il bi-populismo.
Linkiesta.it-
Cristian Rocca - (25-4-2022)-ci dice :
Da
Washington a Parigi, passando per Kiev, lo scontro di civiltà tra “democrazia
liberal Dem Usa” e “modello autoritario”
è in pieno corso. Le società aperte stanno riconquistando terreno, ma noi ci
dobbiamo dare una mossa (cosa che parte della sinistra e del centro non hanno
ancora capito).
Prima
Joe Biden, ora Emmanuel Macron, è proprio una bella festa di Liberazione dal
fascismo populista quella che si celebra oggi.
Due
ampie vittorie popolari con cui finalmente la “democrazia liberal Dem Usa” ha
ripreso in mano il suo destino e, almeno temporaneamente, respinto le più
devastanti bordate globali dei nemici della società aperta del miliardario
Soros.
Dopo
gli anni delle tenebre, cominciati con la Brexit e continuati con Trump e poi
con la sconfitta del referendum renziano e l’ascesa dei movimenti eversivi di
destra e di sinistra in particolare nell’Italia del bi-populismo perfetto, il
fronte repubblicano e costituzionale dell’Occidente ha ripreso la guida del
mondo libero, minacciato da Vladimir Putin e dall’alleanza dei regimi
autoritari prima con gli hacker, gli aiuti ai partiti antisistema e la
manipolazione dell’opinione pubblica, grazie al bug digitale offerto dal
modello dì business dei social network, ma ora anche con i carri armati, il
genocidio e le minacce imperialiste e nucleari all’Ucraina e all’Europa.
La
partita è ancora lunga, ma mai come adesso possiamo davvero celebrare
felicemente la Liberazione, con il pensiero e le azioni rivolte ai partigiani ucraini che
stanno combattendo innanzitutto per la loro sopravvivenza, ma anche per noi.
Il
risultato finale di questo scontro di civiltà costituzionale è ancora in
bilico, in Ucraina e nel resto del mondo, ma immaginatevi questa guerra in
Europa con Trump alla Casa Bianca e con Marine in Paris, ovvero con il titolare
dei dossier kompromat nonché creditore di Le Pen ben coperto anche in Occidente
non solo nelle retrovie del Donbas.
Tra
due anni e mezzo si rivota in America e il prossimo anno tocca all’Italia,
salvata finora dalla bancarotta civile ed economica cui l’avrebbero trascinata
Conte, Salvini e Meloni, ovvero i sostenitori di Trump, Putin e Le Pen, per non
parlare dei disastri amministrativi e ideologici ai tempi del Covid, ma ancora
in attesa di una prova elettorale che possa cancellare l’onta del Parlamento
più putinista e trumpista e lepenista del mondo e la catastrofe morale di un
pezzo di sinistra deciso a rinnegare il valore della resistenza antifascista e
a capitolare strategicamente ai piedi dell’avvocato del populismo, uno che ha
mutilato il Parlamento, abbracciato la strategia imperialista cinese, flirtato
con l’antieuropeismo più imbecille e il sovranismo più violento e recentemente
incapace di scegliere tra Trump e Biden e tra Le Pen e Macron, essendo
chiaramente un sostenitore del Cialtrone in Chief e della neo, ex, post fascista
francese ma Casalino gli ha consigliato di non dirlo a voce alta.
Dopo
l’America e la Francia, e anche la Slovenia che ieri ha fermato l’uomo di Orbán
e Putin, adesso tocca all’Italia comportarsi da adulto, proprio perché siamo il
paese con la più alta concentrazione di populismo e con la più grottesca
assenza di un’alternativa elettorale credibile, seria e senza compromessi come
quella rappresentata da Biden e Macron a Washington e a Parigi.
Mancano
pochi mesi alle elezioni, ormai. Il Pd, l’unico partito costituzionale italiano
(ossia la copia del “Liberal Dem Usa”!), e Forza Italia dall’altra parte
continuano a inseguire i populisti di sinistra e di destra nonostante sia
chiaro che quelli che loro considerano alleati strategici sono nemici della
civiltà dei diritti.
I
movimenti liberal Dem Usa che invece hanno ben chiara la posta in gioco
continuano a litigare come adolescenti, mentre quelli socialisti combattono una
battaglia ideologica del secolo scorso contro il neoliberismo, non rendendosi
conto che gli schieramenti non sono più quelli da molto tempo e che oggi si può
stare soltanto di qua con la democrazia e la società aperta liberal Dem Usa o di là con i movimenti eversivi.
Stare
a discutere di neoliberismo o di presenza eccessiva dello Stato nell’economia,
senza capire che se non si difende lo stato di diritto non esistono né
politiche di giustizia sociale né libera intrapresa, equivale a dare una mano
ai populisti.
Enrico
Letta è stato il più lucido leader politico italiano nella crisi russa, che è
appunto la sfida finale tra la società dei diritti liberal dem Usa e le
tenebre, per questo è titolato più di altri a prendere l’iniziativa politica
per costruire il più ampio fronte costituzionale e repubblicano contro il bi-populismo
perfetto rappresentato dalla Lega, dai Cinquestelle, dalla Meloni e dai
volenterosi complici della sinistra e della destra illiberale, compresi quelli
che hanno tributato una surreale standing ovation a Conte al Congresso dei
dalemiani e dei bersaniani.
L’obiettivo
di un’iniziativa politica di questo tipo è mettere insieme tutti quelli che
hanno a cuore lo stato di diritto e poi sconfiggere i nemici della società
aperta (Liberal dem Usa) e rafforzare l’Europa e l’alleanza atlantica che ci
garantiscono la pace e la sicurezza sociale.
Lo
strumento è quello che da soli su questo giornale ripetiamo da due anni: adottare una legge elettorale
proporzionale per risparmiare all’Italia quella macabra roulette russa del
maggioritario al tempo del populismo – “o vince la “liberal DEM USA”
oppure ci arrendiamo a Putin, che bello la sera stessa del voto lo sapremo!” – e per scongiurare la pallottola
fatale alla tempia che i francesi domenica sera hanno schivato per miracolo.
Bullismo
mediatico e democratura.
Comune-info.net-
Giuseppe Giannini-(21 Aprile 2022)- ci dice :
Da
oltre due anni siamo sopraffatti da una escalation di comportamenti infantili
(ma fortunatamente del tutto estranei – per ora – ai bambini), segnati dalla
semplificazione, dalla denigrazione o demonizzazione a priori dell’altro-da-sé
e dalla prevaricazione, una sorta di pernicioso bullismo comunicativo o,
meglio, mediatico.
Accantonata
la guerra del virus, l’invasione ucraina di Putin non poteva che occupare tutta
la scena.
C’è una nuova grande, assoluta verità, nel superiore
interesse del mondo, da spacciare senza soluzioni di continuità, giorno dopo
giorno, 24 ore al giorno. Una specie di reality dell’orrore.
L’ultimissimo
grido in fatto di conflitto armato da schermi, quello inaugurato tanto tempo fa
in Iraq.
È uno dei segnali di quell’altro, più
generale, esperimento da laboratorio che stiamo vivendo.
Predrag Matvejevic, grande narratore delle
tragedie nazionaliste che hanno dilaniato trent’anni fa la ex Jugoslavia, lo avrebbe forse chiamato
democratura, con una crasi tra democrazia e dittatura che indica comunque un
ibrido regime formalmente costituzionale ma fatto oggetto di ripetute,
deformanti e sostanziali mutazioni autoritarie.
La
democrazia borghese, basata su un’architettura istituzionale caratterizzata
dalla separazione dei poteri, e in parte controbilanciata da contropoteri,
rappresentati per lo più dai corpi intermedi e dagli interessi emergenti nella
società civile, è in questi ultimi anni in forte crisi di legittimazione.
Sovente si è parlato di crisi dei partiti e
della rappresentanza, come di autoreferenzialità della politica. Assistiamo però ad un pericoloso
salto qualitativo, che mette in discussione gli stessi principi fondanti di
tale democrazia.
Un
sistema di valori, condiviso ed accettato dalla maggioranza che, l’emergenza
della pandemia e la guerra hanno deciso di sospendere. Fa specie, che le stesse forze che
formalmente si richiamano alle regole giuridiche inscritte nelle leggi e nella
Costituzione, siano le stesse che attraverso forzature le disattendono.
Stato
di emergenza e decretazione d’urgenza sono i tratti caratteristici di
questa sospensione, che trascinano la democrazia in un limbo.
Chiunque
solleva critiche e chiede una riflessione sull’opportunità delle misure
adottate (le restrizioni inconcludenti a carico dei non vaccinati, il ripudio
della guerra e la violazione dell’art. 11 Cost.) viene emarginato o
etichettato, a seconda delle circostanze, come no vax o filoputiniano. Il
confronto viene evitato e la dialettica non esiste.
Un
atteggiamento superbo e sprezzante da bulli del potere.
Sull’enfatizzazione
del bullismo si potrebbe discutere.
La
creazione di una apposita categoria non serve solo a governare i fenomeni
sociali devianti.
Lo
scopo sottointeso è quello di identificare con un nome proprio (e reprimere?)
atteggiamenti già presenti in seno alle società, ma che hanno assunto, per
qualche motivo, una dimensione epocale. È il segno dei tempi!
Dietro
questi comportamenti fastidiosi, volti a prevaricare l’altro, spesso si
nascondono frustrazioni non socializzate, competizioni che non si riescono a
sopportare.
Se
tali fenomeni hanno, in qualche modo, una loro ragione d’essere con riguardo ai
minori e al loro percorso di crescita, l’aspetto preoccupante è il
diffondersi dei comportamenti da bulli nel mondo degli adulti: nel mondo
lavorativo, forgiato sul modello escludente capitalistico, e in particolar modo
in quello della comunicazione.
Subiamo,
da due anni a questa parte, una recrudescenza del bullismo dei media.
Operatori
di tv e giornali, spesso per denigrare chi non la pensa allo stesso modo, o per
demonizzare gli avversari, utilizzano espressioni facciali e il linguaggio
tipico dei ragazzini impertinenti.
In
particolare, la narrazione pandemica ha visto nascere una grande alleanza tra
governi, poteri economici, il mondo della scienza e i media mainstream, con lo
scopo di diffondere la grande verità nel superiore interesse pubblico.
Adesso,
accantonata la guerra al virus, un nuovo conflitto, drammaticamente reale, si è
impadronito della scena.
Tutta
la terminologia della guerra è ritornata nel campo che più le compete.
Il
modo in cui i media ci raccontano questa guerra (ma non le altre) assume
un’importanza decisiva.
Dalla
prima Guerra del Golfo in poi il racconto delle vicende belliche è questione di
schermi e visualizzazioni.
Ora
l’invasione russa ci viene narrata 24 ore su 24, come se fossimo in un reality.
Oltre
a sollevare dubbi sulla attendibilità delle fonti, o su chi, senza vergogna, si
schiera da una parte, fomentando odi, invece di preferire il dialogo, è proprio la commistione tra reale e
virtuale che inquieta.
Ad
esempio, che senso ha trasmettere la serie tv con “l’eroe ucraino”, mentre in
quella terra imperversa una terribile guerra?
Perché
mandare filmati di un videogioco come
segnali dei bombardamenti? Vogliamo parlare dell’immagine presa da una fiction in cui
si vedono persone insanguinate? Oppure della foto che ritraeva una bimba siriana fatta
passare come proveniente da un ospedale ucraino?
Nessuno
nega le atrocità russe, bisognerebbe parlare anche dei crimini attuali del
battaglione Azov verso i disertori ucraini, o del razzismo istituzionalizzato
verso gli immigrati pachistani, afghani…, che incontrano difficoltà a scappare
dall’Ucraina.
Dare
luogo ad un immaginario con cui costruire a tavolino “i buoni”, concentrandosi
solo sulle barbarie dell’altro, tacendo degli altri aspetti – il contesto
geopolitico, le mire economiche, la mancanza di un pluralismo politico
all’interno dell’Ucraina…- non vuol dire
essere al servizio della democrazia.
Il
senso comune viene modellato sulle credenze. Le conoscenze o l’esperienza una
volta idonee a rappresentare la complessità della realtà vengono abbandonate,
perché il
mondo libero considera la guerra non un semplice incidente di percorso.
La
guerra in Ucraina, e prima il covid, sono le occasioni (lo shock) produttrici
di cambiamenti nelle relazioni fra le persone, le economie e gli Stati.
Il
potere ha sete di potere.
Ed ecco,
che lungi dal voler abolire la guerra, di pensarla come mezzo inidoneo a
risolvere le controversie, è la logica stessa della presenza delle armi a
contraddire queste istanze.
Le
lobby (farmaceutiche, militari, estrattive) stanno dietro al potere e il potere
cerca il consenso dei sottoposti.
Riprendono
piede le tendenze separatiste: l’orgoglio nazionale dell’una e dell’altra
parte; i
valori (?) occidentali imposti con la forza.
Mai
come ora, il fatto di dover individuare un nemico, che non si chiama più
comunismo o islam, ci fa correre il rischio di uno scontro di civiltà.
Tutto
ciò che è russo, le persone e le loro opere, viene escluso o boicottato.
Un
giorno ci interrogheremo sulle colpe di Dostoevskij.
La
vera posta in gioco è la sfera d’influenza oltre confine. E poi ci sono territori, dall’India
alla Cina, in cui vive mezzo mondo, e che nel gioco delle alleanze non sono
disposti a barattare tradizioni e culture o a vedersi ridotti ad un ruolo
subalterno nella competizione globale.
Se il
neo-zar Putin infarcisce la retorica di misticismo in nome della razza,
l’attore bipolare punta sulla spettacolarizzazione della morte.
La
morte diventa il sacrificio di un popolo resistente all’invasore, con l’illusione di entrare un giorno
a far parte di quella grande famiglia esportatrice della democrazia.(La democrazia come “Liberal Dem
Usa” è la fine della democrazia e l’inizio del “ NUOVO ORDINE MONDIALE” nella
dittatura !Ndr )
Nel
frattempo milioni di disperati fuggono, diventando merce pregiata anche in quei
Paesi famosi per i muri e l’intolleranza verso i migranti.
I
media di sistema puntano sull’emotività, attraverso il coinvolgimento dei sensi
dello spettatore. E, come accaduto con il covid, il racconto non stop della
guerra, con tanto di esperti e strateghi. Il paradosso è quello di
riscontrare atteggiamenti prudenti nei membri dell’esercito, gli unici che
sottolineano come l’utilizzo di determinate espressioni (il “dittatore”, il
“macellaio”) o la messa in atto di azioni di offesa (l’invio di armi, le sanzioni)
possano essere controproducenti.
Il
sangue, la distruzione, il terrore, e lo sviluppo degli scenari, giusto per
continuare a stressare gli utenti-ascoltatori. Allentare la morsa vorrebbe dire
perderne il controllo.
Chiunque
prova a fare una disamina degli eventi, senza preconcetti o condizionamenti
viene dileggiato e ridicolizzato. Emarginato e deriso.
Un
presidente del consiglio non eletto ( d’altronde l’Italia è abituata al
pilota automatico), che già in passato ha fatto sfoggio delle sue qualità non
politiche, utilizzando espressioni come dittatore riferito ad Erdogan
(immaginate in passato Andreotti o Craxi chiamare Pinochet, Gheddafi o Mubarak
in quel modo?), o quando afferma che chi non si vaccina sceglie di morire, oggi
arriva ad usare la metafora del condizionatore come strumento per raggiungere
la pace.
Mi
chiedo, ma un Paese con un uomo solo al comando, il famoso banchiere
dell’austerità, a cui tutti, – le forze partitiche, i grandi interessi
economici, il grosso dei media – sono asserviti, come si può definire se non un
regime? Dietro
la parvenza di una democrazia, con le sue formule e i suoi riti, prendono corpo
cambiamenti strutturali, decisioni senza confronto e falsità.
Ci
parlano di guerra di invasione e crimini
contro l’umanità, ma fanno finta di dimenticare delle guerre umanitarie (in ex
Jugoslavia, Irak e Afghanistan) prive di mandato internazionale o fondate su
prove inesistenti (le armi chimiche).
Si
scoprono autocrazie esistenti da tempo, e non si guarda agli altri regimi
(Turchia, Arabia Saudita, Egitto) o alle condizioni di oppressione ed apartheid
(i curdi, i palestinesi, le persecuzioni verso le tante minoranze etniche e
religiose).
Degli
altri conflitti decennali, in Siria, in Yemen o in Libia, nulla interessa, e di
quei migranti, che non sono bianchi indoeuropei, non si cura nessuno.
Mentre
si inviano armi, o il voto parlamentare decide per l’aumento delle spese
militari, c’è un Paese intero che a maggioranza è contro la guerra e non
condivide le scelte dell’esecutivo. (Ma cosa conta il Popolo in una dittatura moderna(falsa)
architettata da Klaus Schwab ? Ndr. ).
Invece
giornali e tv descrivono un’altra realtà, dove sembrano esserci fiducia e
consenso verso l’operato degli illuminati.
Insomma,
non si accettano critiche in democratura.
La
realtà della democrazia nella post-verità si fonda sul simulacro, sui simboli,
e ha bisogno di bulli.
E per
descrivere (e capire?) il potere i media utilizzano l’iper-realtà.
Ucraina: l’evacuazione dei
non
combattenti più difficile.
Lindro.it-Redazione-
(21-2-2022)- ci dice :
Anche
con la migliore pianificazione del mondo, un'invasione russa dell'Ucraina, se
dovesse accadere, provocherà immagini di caos, assicura Thomas S. Warrick, tra
coloro che da 20 anni segue per gli USA le così dette Non-combatant Evacuation Operation
(NEO).
La
Russia ha quasi il 75% delle sue forze convenzionali schierate contro
l’Ucraina, ha detto alla Galileus Web un funzionario statunitense vicino
all’intelligence americana.
«La
concentrazione delle forze a breve distanza dall’Ucraina è molto insolita e
parte del motivo per cui gli Stati Uniti ritengono che la Russia sia pronta ad
attaccare», afferma ‘CNN‘ .
E’ una
delle motivazioni che spingono gli Stati Uniti a dire di ritenere che
l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia potrebbe avvenire a giorni se
non a ore. Malgrado
affermino che useranno «ogni opportunità e ogni minuto» per dissuadere la
Russia dall’invasione, come dice il segretario di Stato, Antony Blinken.
Air
France e Lufthansa (comprese Swiss International Air Lines, Eurowings e Austrian
Airlines del gruppo di questa ultima) hanno deciso di sospendere i voli in
Ucraina. Una complicazione non da poco in questa fase.
Nei
giorni scorsi gli Stati Uniti, e poi a ruota molti Paesi occidentali, avevano
invitato i propri cittadini a lasciare l’Ucraina approfittando dei voli
commerciali ancora operativi e Jon Biden era stato perentorio, gli Stati Uniti non
avrebbero operato nessun volo speciale per portare fuori dall’Ucraina i propri
cittadini quando la situazione dovesse degenerare. Alcuni Paesi hanno evacuato il
personale diplomatico e le loro famiglie.
I
separatisti del Donbas, quelli delle Repubbliche popolari di Doneck e di
Lugansk, da venerdì stanno evacuando i propri civili verso la Russia.
La
domanda è: se
la situazione dovesse precipitare, i cittadini occidentali ancora presenti in
Ucraina come faranno uscire dall’Ucraina, se lo ritenessero opportuno?
A
porsi il problema, almeno per quanto riguarda gli Stati Uniti è Thomas S.
Warrick, consulente senior della Scowcroft Middle East Security Initiative
dell’Atlantic Council nei programmi per il Medio Oriente del Consiglio
Atlantico, e professionista della sicurezza nazionale americana che è stato
coinvolto nella maggior parte nelle Non-combatant Evacuation Operation
(NEO) statunitensi negli ultimi vent’anni, ed è stato vice segretario aggiunto
per la politica antiterrorismo presso il Dipartimento per la sicurezza interna
degli Stati Uniti.
«Le
operazioni di evacuazione dei non combattenti sono tra le operazioni non
letali, più complesse eseguite dagli Stati Uniti. Fanno appello alle capacità
militari, diplomatiche, umanitarie e di sicurezza interna degli Stati Uniti per
portare rapidamente in salvo i civili da una zona di guerra attiva o da un
disastro naturale, dando la priorità ai cittadini statunitensi e a quelli degli
alleati.
Scene
di sfollati americani, alleati e rifugiati in fuga da una possibile ulteriore
invasione russa dell’Ucraina causeranno indignazione e crepacuore. Come abbiamo visto con il ritiro
degli Stati Uniti dall’Afghanistan lo scorso agosto, alcuni media e partigiani
politici daranno la colpa ai loro sacchi da boxe politici preferiti. Questo
sarebbe sbagliato», afferma Thomas S. Warrick.
L’amministrazione
Biden ha pianificato le conseguenze di un’offensiva da novembre. Ma come
professionista della sicurezza nazionale che è stato coinvolto nella maggior
parte dei NEO statunitensi negli ultimi vent’anni, posso affermare con
sicurezza: anche
con la migliore pianificazione del mondo, un’invasione russa dell’Ucraina, se
dovesse accadere, provocherà immagini di caos».
«Da
qualche parte tra i settemila e i trentamila americani sono attualmente in
Ucraina e, sebbene sia stato detto loro di andarsene immediatamente, perché le
forze statunitensi non li evacueranno se la Russia invade, molti probabilmente
rimarranno fino a quando i carri armati inizieranno entrare, se i precedenti
NEO lo saranno una guida. Gli Stati Uniti hanno inviato seimila soldati in
Polonia per aiutare a ricevere gli americani.
Entro
poche ore dall’atterraggio di missili russi e dall’attraversamento dei carri
armati del confine, inizierà una migrazione di massa. Molti ucraini si
dirigeranno a ovest, probabilmente in un rigido clima invernale, verso l’Ucraina
occidentale, la Polonia, la Slovacchia, l’Ungheria e la Romania. La maggior
parte delle persone avrà solo i vestiti che indossa e ciò che può trasportare o
inserire in un’auto. Gli aeroporti chiuderanno, le strade saranno bloccate e le
forniture di benzina e diesel si esauriranno. Alcuni conducenti non avranno
altra scelta che abbandonare i loro veicoli sul ciglio della strada e le
consegne di cibo si interromperanno.
Niente
di tutto questo caos è specifico di un’evacuazione dall’Ucraina. Ma sarà più
impegnativo delle precedenti evacuazioni per cinque motivi», afferma Warrick.
«In
primo luogo, un’operazione militare russa chiuderà gli aeroporti ucraini,
soprattutto se include, come prevedono gli esperti del Consiglio Atlantico,
attacchi missilistici di precisione a lungo raggio. Se qualche aeroporto
rimanesse aperto, Putin probabilmente non sarebbe disposto ad abbattere un volo
di evacuazione statunitense durante un’offensiva russa, ma non si può escludere
l’incoscienza. Pertanto, la maggior parte delle persone cercherà di viaggiare via terra.
In
secondo luogo, il clima invernale complica le operazioni umanitarie. La neve e
il fango fanno sì che i veicoli civili si impantanino più di quelli militari. La maggior parte dei precedenti NEO
si sono verificati nei Paesi desertici o in estate, come durante l’invasione
russa della Georgia nel 2008.
Se le
temperature rimangono sotto lo zero, coloro che fuggono all’aperto corrono
rischi per la salute che le persone nei climi temperati non corrono. Ciò non
solo mette in pericolo la salute delle persone, ma minaccia anche la fornitura di
acqua e altri beni di prima necessità.
In
terzo luogo, è probabile che gli attacchi informatici russi, che avverranno di
concerto con un’offensiva di terra, chiuderanno gran parte, se non quasi tutte,
delle infrastrutture critiche dell’Ucraina. Gli impianti di trattamento delle
acque potrebbero vacillare, l’elettricità potrebbe essere interrotta e milioni
di persone sarebbero costrette a rifugiarsi sul posto se non si dirigessero a ovest.
In
quarto luogo, la campagna di disinformazione chiaramente documentata della
Russia potrebbe seminare disunione tra i partner occidentali nel tentativo di
rallentare o limitare la risposta occidentale. Negli Stati Uniti, la
disinformazione russa potrebbe costringere l’amministrazione a dedicare tempo a
ottenere un sostegno sufficiente dal Congresso per gli sforzi di assistenza.
Nel frattempo, la riluttanza di alcuni Paesi europei ad aiutare i rifugiati
ucraini potrebbe lasciare molti in gravi difficoltà o costringere il governo ucraino a
spendere scarse risorse per gli sfollati interni invece di difendere il
territorio ucraino dall’invasione delle truppe russe.
In
quinto luogo, gli Stati Uniti hanno subito una fuga di cervelli di competenze
quando si tratta di NEO. Le operazioni della scala richiesta per portare
migliaia di americani fuori dalla Polonia orientale sono relativamente rare.
Molti dei diplomatici e pianificatori statunitensi più esperti se ne sono
andati durante l’amministrazione Trump, quando la loro esperienza è stata
denigrata e molti si sono sentiti spinti a dimettersi».
Warrick
conclude precisando le azioni urgenti mentre si condurranno in salvo stranieri
e ucraini che voglio lasciare il Paese.
«Gli
aiuti umanitari dovranno affluire generosamente a milioni di ucraini i cui
mezzi di sussistenza saranno strappati fino a quando non potranno ristabilirsi.
I fondi mondiali per l’assistenza ai profughi sono già bassi a causa
dell’affrontare i bisogni dei profughi provenienti dalla Siria e dall’Afghanistan,
nonché dallo Yemen dilaniato dalla guerra. Qualsiasi parte dell’Ucraina non
sotto l’assalto o l’occupazione russa, ad esempio intorno alla città
occidentale di Leopoli, potrebbe fungere da punto di distribuzione del governo
ucraino per quegli aiuti. Stiamo, altresì, guardando alla prospettiva di tendopoli
nella Polonia orientale fino a quando migliaia di rifugiati non potranno essere
assimilati altrove. Queste popolazioni dovrebbero essere ricollocate il più
rapidamente possibile, perché mentre un’occupazione russa dell’Ucraina può
essere annullata, non sarà annullata dall’oggi al domani.
Da
parte loro, gli Stati Uniti dovranno accettare la propria quota di rifugiati,
come hanno già fatto molte volte. In effetti, la storia mostra che l’esperienza
americana è arricchita dai rifugiati che fuggono dall’oppressione per trovare
la libertà (“Liberal Dem Usa”. Ndr)».
COSI’
GLI USA HANNO PERSO
LA
LEADERSHIP MORALE.
Laverita.info-
Ettore Gotti Tedeschi - (27-4-2022 )- ci dice :
(Ndr.
Klaus Schwab ,produttore di armi atomiche in Sud Africa -in gran segreto-con i
suoi testi : la “Quarta rivoluzione
industriale”, “Il Grande Reset” e molti altri, di fatto è diventato il Capo
Assoluto della élite globalista
occidentale . I Paesi globalisti sono ormai comandati dagli uomini di Davos telecomandati da
Schwab. I suoi insegnamenti nefasti debbono essere diretti e percepiti per lo
sviluppo del” Nuovo ordine Mondiale” ,ossia il moderno “Quarto Reich millenario”.
Con le sue tesi geopolitiche ha gettato
le basi della possibile Terza Guerra
Mondiale . L’ élite globalista occidentale si comporta come Schwab ha indicato.
Ndr).
Ecco
cosa scrive Ettore Tedeschi :
“Così
gli Usa hanno perso la leadership morale. Dopo l’11 settembre , parte della
società americana ha reagito con ateismo e ideologia ,smarrendo la bussola. E’
da gennaio 2021 che molti osservatori si
chiedono quanto siano cambiati gli Stati
Uniti. E’ comprensibile che gli Usa di oggi non siano più “quelli di una volta “,almeno a memoria
storica della generazione che ha vissuto dalla fine della seconda guerra
mondiale .In modo esemplificativo e sintetico provo a proporre quattro fasi che possono
aiutare a spiegare l’evoluzione degli Usa.
1)- Una prima fase della guerra fredda
(1947-1991), post Yalta , dove gli Usa e il capitalismo american si
contrappongono alla minaccia del
comunismo (in alleanza con le religioni
cristiane ) , con presidenti del calibro di Kennedy , Nixon , Carter , Reagan ,
Bush senior .In questo periodo di guerra
fredda era consacrato al bilancio un 12 % -14 % del Pil in spese per la difesa.
Terminata la guerra fredda detta
percentuale del Pil scende a circa il 4 % , liberando un 10 % di risorse
economiche per sostenere una nuova globalizzazione economica.
2)-
Con detta globalizzazione economica accelerata e utopistica nelle scelte ,si
avvia una seconda fase di evoluzione degli Usa
(1993-2001) che produce anche le cause dello straordinario sviluppo
economico cinese. Questa fase si
conclude con l’attacco terroristico al Wtc e l’inizio della prudente
contrapposizione al terrorismo islamico
. Presidente per tutto questo periodo fu Bill Clinton.
3)-
Segue una terza fase ,conseguente al 11 settembre , di crisi soprattutto finanziaria dell’errato modello di
globalizzazione attuato e di inizio dei vari reset per cercarne le conseguenze.
Il
presidente dal 2001 al 2009 fu G.W. Bush Jr. Egli dovette affrontare la crisi
post attentato Wtc e l’esigenza di “drogare “ la crescita economica con i
sub-prime per accelerarla e assorbir le nuove necessarie spese per la nuova difesa. Dovette affrontare la
conseguentemente provocata crisi
finanziaria del 2007 -2008 e decidere il raddoppio del debito /Pil per salvare
le banche nazionalizzando il debito delle famiglie che era stato il vero motore della crescita
drogata ed insostenibile. E il ricollocamento di questo nuovo debito mise, come
sappiamo ,in gravi difficoltà l’Europa e Italia.
4)-
Una quarta fase , dal 2009 al 2017 ,con la presidenza di Barack Obama , inizia
con una serie di reset strategici piuttosto significativi, tutti improntati ad
un nuovo forte “progressismo” in materia etica e bioetica ( unioni civili, uso
di cannabis …) , ma soprattutto economica (ambientalismo e migrazionismo , riforma sanitaria …). Sotto Obama finisce
però anche l’incubo di Obama Bin Laden e si fanno accordi con gli ayatollah.
Detta quarta fase viene interrotta dal
2017 al 2021 con la presidenza Trump , che rimette tutto in discussione. Trump sembrò orientato a resettare i reset
precedenti , soprattutto a ridimensionare il ruolo della Nato che considerava
obsoleta (mancando forse i nemici storici che la giustificavano).Nel 2020 inizia
la pandemia Covid , con quello che è conseguito.
La
quarta fase resuscita però con la presidenza Biden , per essere completata post
Covid. Sembra essere la fase di reset
del capitalismo americano (ora
autodefinito “inclusivo “ e “sostenibile “) orientato alla transizione
energetica e tecnologica , dove il “nemico” da sfidare sta ad Est , in Oriente , in Cina.
E’ pertanto un po’ meglio comprensibile perché gli Usa
di oggi non possono essere quelli di ieri. I cosiddetti “nemici “ da fronteggiare sono
cambiati , il modello di globalizzazione , iniziato negli anni Settanta , è
fallito. Il potere economico geopolitico è completamene cambiato , 50 anni fa
l’Occidente controllava il 90 % circa del Pil mondiale , oggi circa il 45
%.Cinquanta anni fa il potere economico finanziario era in mano ad imprenditori , oggi è in mano a
fondi di investimento. Oggi c’è un vuoto di leadership preoccupante.
Riconosciamo che le soluzioni ai problemi sono state affrontate negli effetti e
non nelle cause con vari reset ,spesso
utopistici e taluni molto rischiosi , come quest’ultimo reset sul capitalismo ,
che ha concorso a creare alcuni problemi che stiamo soffrendo con la guerra in
corso in Ucraina. Tra questi reset ho
accennato a quello etico-morale ,merita attenzione visto che ha comportato
anche un cambiamento radicale e misterioso
della Chiesa Cattolica…
Dopo l’attentato terroristico di matrice islamica ,dell’11 settembre 2001 ,al WTE , fu
impressionante l’esplosione di autori e libri che inneggiavano all’ateismo
necessario alla civiltà occidentale .Ciò prendendo spunto evidentemente dall’attentato alle
torri gemelle ,ma estendendosi con naturalezza contro le religioni dogmatiche. Ne ricordo
qualcuno : Chris Hitchens , “Dio non è grande: come le religioni avvelenano ogni cosa ;
Richard Dawkins , “ La
delusione di Dio” ; “lo chiede Gesù
non possiamo non perdonarli”.
Epperò stan facendo un gran danno costoro , accidenti.
Premesso che non è chiaro quando mai il “ fornitore “ russo abbia
minacciato la UE , bisognerebbe che
qualcuno dica alla Ursula e a Frans che
il lodevole desiderio di aumentare l’efficienza nella disponibilità
dell’energia inevitabilmente comporterà un maggior uso della medesima.
Il proclama detto
sopra è inutilmente roboante perché basta un calcolo alla portata di Greta
Thunberg per concludere che , a parità di massa , bruciare idrogeno fornisce 2,5 volte
più energia che bruciare metano.
Ed il calcolo è quanto mai ozioso perché mentre il metano è disponibile bell’e
pronto all’uso , invece l’idrogeno non esiste sulla Terra.
Quanto all’affermazione che abbiamo qualificato totalmente priva di
senso , il fatto è che 2,5 Gmc di metano producono 15 TWh d’elettricità : non
ha importanza se sia elettricità da solare , da carbone , nucleare ,o
idroelettrico. Domanda spontanea : a
Bruxelles ci fanno o ci sono ? Proviamo allora
riformulare l’affermazione in modo che abbia senso:
“15 Twh /anno di
elettricità solare consentiranno di risparmiare 2,5 Gmc / anno di metano”.
Messa in questa
forma possiamo ora provare l’aritmetica
,disciplina ignota ai gretini , visto che han deciso di non andare a scuola.
Ora noi non sappiamo
a quanto i russi vendono il loro gas ai
distributori esteri, essendo la cosa un
segreto industriale , però alla borsa il
prezzo attuale ( certamente ben
superiore al prezzo che la Russia fa agli imprenditori ) si attesta , a star
larghi ,a Euro 1 /mc , cosicché 2,5 Gmc
per 20 anni ( che è la vita degli impianti solari) costerebbero 50 miliardi. Si badi che questo prezzo è 10 volte
superiore a quello di appena due anni
fa e che gli aumenti si sono avuti già a
cominciare dal gennaio 2021 , e per
ragioni speculative : Putin non c’entrava allora e non c’entra neanche
ora. Ma continuiamo l’aritmetica.
Per produrre 15 Twh/
anno d’elettricità col solare bisogna
installare 20 GW di fotovoltaico che a Euro
3 /watt fanno 60 miliardi , che
diventano 120 miliardi se gli impianti
si equipaggiano con sistemi di stoccaggio , necessari visto che abbiamo
il vizio di usare l’energia elettrica anche quando il sole non brilla.
Spendere ,subito,
120 miliardi per risparmiarne 50 in vent’anni non sembra ,a occhio e croce , una gran
furbata.
Dicevamo sopra non “
nonostante “ ma “grazie “.Nel 2000 non v’erano impianti eolici o fotovoltaici
in Europa. Gli zero watt d’allora per entrambi
son diventati oggi oltre 200 GW di eolico e quasi 200 GW di fotovoltaico
e , senza alcuna meraviglia ,non è stato possibile ridurre il consumo di gas in Europa : 5.500 TWh nel
2000 e 5.500 TWh nel 2020.
Infine ,se può
consolarli , di tutte le parole dette sopra
dai nostri fenomeni , mai quel “ precipitiamoci “ di Frans fu parola più azzeccata.
Scontro di civiltá.
Genteditalia.org-
Alfredo Luís Somoza- (17 Marzo 2022)- ci dice:
Per spiegare il
conflitto russo-ucraino si sta facendo spesso riferimento alle teorie di Samuel
Huntington, il politologo statunitense che nel 1993 contrappose il concetto di
“scontro delle civiltà” alle tesi del collega Francis Fukuyama, il teorico
della “fine della storia”.
Huntington non
credeva che la vittoria degli Stati Uniti sull’Unione Sovietica nella Guerra
Fredda avrebbe portato a un mondo unipolare nel quale mercato e democrazia
avrebbero prevalso per sempre; al contrario, ipotizzava che a breve si
sarebbero riaccesi scontri “tra civiltà”.
Nella sua idea di
civiltà, però, si mescolavano alcuni dati di fatto con molta fantasia.
Se è vero che esiste
un mondo fortemente influenzato dall’Islam sotto il profilo culturale, occorre
anche precisare che esso è politicamente disomogeneo; inoltre non è mai
esistita una “civiltà latinoamericana” se non nella visione stereotipata che
uno statunitense può avere del mondo che si sviluppa a sud del Río Bravo.
È però un altro il
punto sul quale Huntington ha operato una clamorosa forzatura: e cioè quando da una parte ha definito il concetto di
“Occidente” sulla base della ricchezza, e quindi includendovi il Giappone, e dall’altra ha definito un mondo cristiano ortodosso,
gravitante attorno alla Russia, su basi culturali.
La lettura della
geopolitica di Huntington è stata smentita più volte dalla storia recente. Il cosiddetto “mondo islamico” è stato sconvolto da
lotte intestine tra sciiti e sunniti, e tra Stati e movimenti jihadisti. Dell’inconsistenza del concetto di mondo
latinoamericano si è detto, e anche il “mondo africano” non è mai esistito. Soprattutto, il concetto di Occidente è ormai fuori
dalla storia.
La definizione
“Occidente” ha un preciso significato culturale, legato alle sue origini
storico-religiose: collocando Gerusalemme al centro del mondo, come a lungo
fecero i cristiani, Occidente era la collocazione geografica dell’Europa, terra
cristiana per eccellenza.
Ma l’Occidente di
cui parla la stampa internazionale, quando afferma che la guerra di Putin
all’Ucraina è una guerra “contro l’Occidente”, è altra cosa: una specie di club al quale si accede sulla base di
parametri variabili, in
base ora alla ricchezza, ora al sistema politico o alle libertà civili di cui
godono i popoli.
Possono dunque
essere “occidentali” i giapponesi, in grande maggioranza non cristiani e
geograficamente collocati in Estremo Oriente, così come lo sono l’America
Latina, anche quella indigena o affacciata sul Pacifico, e lo Stato ebraico di
Israele.
Nel primo caso
perché ricchi e democratici, nel secondo perché cristiana, nel terzo perché
popolato a maggioranza da cittadini di origine europea.
“Occidente” è quindi
un concetto che si può adattare alla bisogna, per spiegare qualsiasi cosa, e
soprattutto per affermare che esiste un consenso unanime, appunto tra i Paesi
“occidentali”, riguardo i valori di democrazia e libertà.
Dato che in realtà è
tutto da verificare, soprattutto perché del drappello considerato occidentale
fanno parte Stati che continuano a occupare territori non loro, che
discriminano minoranze etniche, che promuovono conflitti armati e vendono armi
senza preoccuparsi dell’utilizzo che ne farà l’acquirente, che usano il diritto di veto all’ONU per favorire gli
amici, sostenendo dittatori in giro per il mondo.
Non esistono infatti
blocchi valoriali: nemmeno
laddove vi sono profondi legami storico-culturali, come tra Ucraina e Russia.
Per questo motivo
Vladimir Putin non sta combattendo contro l’Occidente ma per garantirsi una
“cintura di sicurezza” attorno alle frontiere occidentali russe.
Principio
discutibile e senza dubbio perseguito con il metodo sbagliato, ma l’ultimo dei
pensieri di Putin, in queste ore, è quello di condurre una lotta nell’ambito di
uno scontro di civiltà.
Il mondo d’oggi, in realtà, è molto più
semplice di quello della Guerra Fredda, essendo venuta a mancare la componente
ideologica: lo scontro si riduce alla conquista, alla tutela e all’allargamento
del potere.
Non ci sono secondi
fini ideali o etici, solo equilibri da ricomporre o da ribaltare.
La vecchia idea di
Occidente nulla c’entra con l’uso che di questa parola si fa in tempi di guerra.
Soprattutto se si
considera che gli stessi Paesi occidentali, negli ultimi decenni, hanno usato
più volte la guerra come strumento di politica estera.
Putin combatte,
sbagliando metodo, per conservare la posizione di forza che il suo Paese si è
costruito negli anni in Europa orientale.
Non è un crociato
del “mondo ortodosso” e non sta combattendo l’Occidente, ma soltanto un Paese
più piccolo e debole del suo, che ha provato a essere indipendente e decidere
da solo.
Il nuovo scontro di civiltà.
Centroriformastato.it-
Ida Dominijanni - ( 4 Marzo 2022)- i dice :
All’alba del nono
giorno di guerra l’attacco delle truppe russe alla centrale nucleare
Zaporizhzhia rende meglio di qualunque altro dettaglio quale sia la posta della
partita globale, biopolitica prima che geopolitica, che si sta giocando in
Ucraina.
E il peggio deve
ancora venire, ha comunicato Macron cui Putin ha fatto presente che non intende
fermarsi finché non avrà conquistato l’intero paese.
Le regioni russe dell’est e del sud con gli
accessi al mare sono ormai in mano ai russi, a Mariupol mezzo milione di
abitanti sono intrappolati senza acqua e senza cibo, a nord-ovest Leopoli è
piena di profughi in fuga, più donne e bambini che uomini perché gli uomini
restano a combattere una battaglia di resistenza già persa.
L’esile negoziato in corso a Brest ha deciso
l’apertura di corridoi umanitari per favorire l’esodo dei civili, mentre la
colonna di 60 kilometri di carri russi continua la sua lenta ma inesorabile
avanzata su Kiev lungo il corso del Dnepr che in futuro potrebbe dividere
l’Ucraina fra un est russo e un ovest occidentale, com’era un tempo la
Germania: le stesse cose ritornano sempre, nella storia, come il rimosso
nell’inconscio.
Dev’essere per questo che tutti definiscono
questa in Ucraina “la prima
guerra nel cuore dell’Europa dopo più di settant’anni”, dimenticando clamorosamente che in Europa la guerra
era già tornata negli anni Novanta, in quella ex Jugoslavia che ha anticipato e
prefigurato tutte le guerre successive a base etnico-nazionalista sparse per il
mondo. Forse che la
Jugoslavia non era il cuore ma la periferia dell’Europa? O non sarà piuttosto
che nell’immaginario europeo, il cuore dell’Europa resta sempre lì, al confine
fra l’ex impero sovietico e l’Occidente democratico?
Lì, dove secondo gli
stessi che nell’89 decretavano “la fine della storia” oggi la storia
riprenderebbe in grande, quasi che in mezzo non ci fosse stato niente. Lì, dove
si sono convocati tutti i fantasmi che fino a ieri l’altro vagavano per l’est e
per l’ovest, e che ora muovono questa terribile resa dei conti di un trentennio
cominciato male e finito peggio. Che è la vera posta in gioco, reale e simbolica, della tragedia che si
sta consumando.
Hanno suscitato
indignazione e scandalo i due discorsi del 21 e del 24 febbraio con cui Putin
ha annunciato prima il riconoscimento ufficiale delle repubbliche separatiste
del Donbass e poi la sua “operazione militare speciale”, come l’ha chiamata
lui, in Ucraina.
Ne consiglierei
tuttavia la lettura integrale (il testo è facilmente reperibile in rete),
ammesso che sia ancora lecito cercare di capire perché accade quello che accade
senza essere tacciati di connivenza con il nemico.
Liquidati dai più come una litania del
risentimento, o come il delirio paranoico da sindrome di accerchiamento di un
uomo solo al comando provato dalla fobia del Covid, i due discorsi inanellano
alcuni dati di fatto incontrovertibili sull’estensione a est della Nato, sulle
guerre di aggressione perpetrate dall’Occidente dagli anni novanta in poi
(Kosovo, Iraq, Siria, Libia), e, più in generale, sullo “stato di euforia da
superiorità assoluta, una sorta di assolutismo di tipo moderno, per di più
sullo sfondo di un basso livello di cultura generale” che si è impossessato del
campo dei vincitori della Guerra fredda.
Ma al di là di
questo merito, nonché della ricostruzione delle cause di lungo periodo della
rinascita dei nazionalismi, a Est dopo la fine dell’Urss, ciò che colpisce
nelle parole di Putin è la rivendicazione della dimensione storica come sfondo
ineludibile del discorso politico.
Precisamente lo sfondo che manca al discorso politico occidentale, che
di spessore storico sarebbe supposto essere il più dotato.
E che invece risponde all’aggressione di Putin
usando – mirabile sintesi di un cinquantennio di ideologia neoliberale – solo
il linguaggio dell’economia e della sicurezza: sanzioni e riarmo, nell’oblio –
perfino teorizzato, come nel discorso alle camere di Mario Draghi – del passato
che ha costruito, mattone dopo mattone, il presente.
Sia chiaro: lo
sfondo e l’uso della storia non giustificano in alcun modo la mossa di Putin.
L’invasione di uno Stato sovrano e confinante viola le basi del diritto
internazionale, resuscita, a proposito di storia lunga, tutti i mostri del
passato europeo, e si configura per di più, nelle stesse motivazioni che Putin
ne dà, come una sorta di preemptive war, una guerra preventiva contro il
pericolo eventuale di un’aggressione alla Russia da parte della Nato (i nemici
assoluti sono spesso segretamente gemelli, e Putin evidentemente ha imparato
qualcosa da George W. Bush).
Nessuna ragione di lungo periodo esenta di un
grammo di responsabilità la decisione con cui il presidente russo ha portato il
mondo sull’orlo del precipizio.
Ma pare assai improbabile
che dal precipizio le democrazie occidentali possano uscire senza aprire al
proprio interno tre linee di ripensamento autocritico di un passato prossimo
che invece tendono solo a rimuovere o a riconfermare.
La prima linea riguarda l’atroce sequenza di guerre con cui
l’Occidente ha insanguinato l’epoca di pace che aveva annunciato alla fine
della Guerra fredda, e che rischiano di costituire i precedenti formali, non
solo le concause politiche, dello scenario che si va prefigurando in Europa.
Dovrebbe balzare agli occhi l’analogia
agghiacciante fra le motivazioni addotte da Putin a sostegno della minoranza
russa in Ucraina e quelle che mossero il cosiddetto intervento umanitario della
Nato a sostegno della minoranza kosovara in Serbia, con relativo bombardamento
di Belgrado: e invece non un cenno se ne sente in specie nel Pd, erede del
partito che fu il principale regista italiano di quella guerra, oggi abitato da
una classe dirigente che sembra del tutto ignara della drammaticità di quella stagione
e del tutto conforme alla narrativa trionfale del dopo-’89.
Dovrebbe risuonare
come un monito sullo stato delle democrazie occidentali la madre di tutte le
fake news e di tutte le post-truth politics, ovvero la gigantesca menzogna
sulle presunte armi di distruzione di massa possedute da Saddam Hussein che
giustificò la “guerra preventiva” in Iraq.
Soprattutto,
dovrebbe portare un grammo di senno, questo sì preventivo, sullo scenario
europeo prossimo venturo la scia di guerre civili, regimi instabili ed esodi
migratori biblici lasciata dietro di sé dall’intera sequenza delle guerre
post-89, tutte caratterizzate dall’intreccio micidiale di rivendicazioni
nazional-sovraniste e rivendicazioni etnico-regionali che si ripropone oggi in
Ucraina e rischia di riproporsi in un teatro europeo più vasto di quello
ucraino.
E invece è proprio
nella ripetizione nevrotica di quella dinamica che ci stiamo infilando, con il
corredo sinistro di un soccorso armato alla resistenza ucraina fatto di
contractors, appalti, privatizzazione dell’uso della forza – un film, anche
questo, già visto in Iraq e in Siria, con le conseguenze che sappiamo.
La seconda linea di
riflessione autocritica riguarda
lo stato delle democrazie occidentali e quello connesso della costruzione europea.
Oggi siamo tutti dalla parte dell’Ucraina, vittima di un’aggressione
inammissibile, e da questa parte bisogna restare finché i carri armati russi
resteranno in campo.
Ma nella retorica
monotonale occidentale l’Ucraina è diventata in pochi attimi la trincea della
difesa della democrazia tout court, anzi, per dirla con le parole di Joe Biden
nel suo discorso sullo stato dell’Unione, la trincea del conflitto fondamentale
del nostro tempo, che sarebbe quello fra democrazia e autocrazia.
Le élite
democratiche americane sono impegnate da tempo a costruire questo frame
narrativo, opposto e speculare all’attacco alla liberaldemocrazia occidentale
portato avanti dalla concezione putiniana della cosiddetta “democrazia sovrana”.
E se nella politica interna americana questo frame è servito a
sconfiggere Trump, in politica estera è destinato a prendere il posto di quello
sullo “scontro di civiltà” fra Occidente e Islam che ha tenuto banco per tutto il
ventennio della war on
terror successivo all’11 settembre.
Ma dopo Trump, gli americani non possono non
sapere che la linea di confine fra democrazie e autocrazie è diventata molto
esile, e può essere scavalcata dagli autocrati che crescono all’interno delle
democrazie occidentali, non soltanto al di fuori di esse.
E noi europei non
possiamo non sapere che le tentazioni autocratiche e sovran-populiste sono
cresciute, soprattutto ma non solo nei paesi ex-sovietici dell’est,
parallelamente ai processi di crisi e de-democratizzazione dei paesi dell’ovest,
e sovente per reazione alla delusione di un allargamento a est dell’Unione
rivelatosi più un’annessione alla religione del mercato che un’integrazione del
mosaico di culture e tradizioni del vecchio continente.
Anche da questa
parte dell’oceano, il pericolo autocratico non viene solo dall’esterno, e la democrazia non può essere impugnata come una
bandiera senza macchia e senza peccato.
Questo nodo lega il
trentennio che abbiamo alle spalle al presente e al futuro dell’Unione europea
e della sua collocazione nello scacchiere globale.
Il rilancio dell’atlantismo da parte di Joe Biden appariva molto
ambivalente già all’indomani della sua elezione: mentre riavvicinava le due sponde dell’Atlantico che
Trump aveva allontanato, innalzava un nuovo muro fra l’Europa e le autocrazie
orientali, chiamando la Ue
a posizionarsi nettamente contro di esse.
Già allora le voci più consapevoli spinsero
infatti per un’Unione atlantista ma aperta verso Est e capace di porsi come ponte
fra gli Stati uniti, la Russia e la Cina.
Complice la fine del
cancellierato di Angela Merkel, nonché verosimilmente l’insediamento del
governo Draghi in Italia, le cose hanno preso purtroppo un’altra piega. E oggi è più che inquietante il coro mainstream di
soddisfazione che si leva per un compattamento europeo che fa propria la parola
d’ordine americana del nuovo scontro di civiltà fra Occidente e Oriente, e
avviene tutto sotto l’insegna della Nato, di sanzioni durissime che colpiranno
Putin ma affosseranno la transizione energetica europea, di una politica di
pura potenza, di un riarmo di cui la Germania si fa protagonista e che travolge
persino la neutralità storica di paesi come la Finlandia.
Se si rafforza in
questo modo, dopo aver clamorosamente mancato tutte le possibilità preventive
di disinnescare politicamente la miccia che Putin stava accendendo, l’Unione europea finirà col fare le spese del
ridisegno dell’ordine globale che si sta giocando nella guerra fra
l’imperialismo russo e il nazionalismo ucraino.
Se in Ucraina non
cessa il fuoco e l’Europa non inverte la rotta imboccando la strada della
smilitarizzazione, il conflitto si estenderà in modo imprevedibile e i tempi si
faranno durissimi per la specie umana.
Se le democrazie si
compatteranno al loro interno sulla base dell’ennesima proclamazione dello stato d’emergenza, come già sta avvenendo in Italia, la credibilità
della democrazia subirà un ennesimo e fatale colpo.
Come sempre e mai come oggi, per incidere sullo scacchiere geopolitico il pacifismo
deve alimentarsi di un conflitto politico aspro dentro casa, in primo luogo contro la militarizzazione del
dibattito pubblico.
La crisi ucraina
e lo scontro di
civiltà.
Ilpensierostorico.com- Stefano Baruzzo-(2-4-2022)- ci dice :
(Stefano
Baruzzo è laureato in Scienze Politiche).
Recensione a
S.P. Huntington, “Lo
scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale”.
Pubblicato negli
Stati Uniti nel 1996 il libro di Samuel Huntington suscitò ampia discussione,
rilanciata dopo l’11 settembre 2001, che sembrava iniziare la “sfida” della
civiltà islamica.
Il libro, fuori da
quelle contingenze, offriva in realtà un paradigma delle relazioni
internazionali post Guerra Fredda.
Esso conserva la sua
attualità, in questo momento che vede una guerra in Europa tra Russia e
Ucraina, tanto più utile per l’insufficienza di un’informazione mediatica che
oscilla tra spettacolarizzazione della cronaca e funzione istituzionale.
Il paradigma di
Huntington disegna un sistema internazionale dominato dal conflitto non tanto e
solo tra gli Stati, compatte entità che agiscono in relazioni di potenza in un
mondo anarchico, bensì da un conflitto tra diverse civiltà, unità «culturali»
di lunga formazione definite da storia, stili e norme di vita comuni,
soprattutto dall’identità religiosa. Tra di esse, Huntington distingue in Europa la civiltà
“occidentale”, più precisamente euro-atlantica, da una civiltà russo-ortodossa,
la cui identità religiosa cristiana deriva dalla tradizione orientale di
Bisanzio.
Il confine tra
queste due civiltà attraversa l’Ucraina, divisa tra una parte occidentale,
cattolica uniate, di lingua ucraina e di forti sentimenti nazionali, che guarda
all’Europa occidentale, e una orientale, russofona e ortodossa, che guarda alla
Russia. Questa divisione è
foriera di “conflitti di faglia”, tipici delle aree di contiguità tra le
civiltà quando attraversano uno stesso Stato.
Huntington
prefigurava tre possibili scenari del conflitto sulla faglia russo-ucraina che
orientano ancora oggi le analisi.
Lo scenario di una guerra diretta tra Russia e
Ucraina era prefigurato dalla teoria realista dello scontro tra Stati-potenze
spinti da reciproca paura per la propria sicurezza.
John Mearsheimer nel 1993 riteneva «matura»
una guerra con la conquista russa dell’Ucraina e propugnava il mantenimento di
armi nucleari in Ucraina per deterrenza antirussa.
Huntington giudicava
poco probabile questo primo scenario:
«Si tratta di due popoli slavi, prevalentemente ortodossi che per
secoli hanno mantenuto stretti rapporti e tra i quali i matrimoni misti sono
oltremodo frequenti».
Ne derivava l’indicazione di incoraggiare la cooperazione tra i due
paesi, a garanzia della stessa indipendenza ucraina (l’Ucraina rinunciò nel
1994 alle atomiche).
Più realistica,
secondo Huntington, la possibilità di una spaccatura del paese tra le due
regioni, con l’orientale annessa o federata alla Russia. Ne conseguiva che «la
creazione di un’Ucraina uniate orientata a Occidente sarebbe tuttavia possibile
solo grazie a un forte ed efficace sostegno occidentale, che potrebbe giungere
solo qualora i rapporti tra Russia e Occidente si deteriorassero come ai tempi
della Guerra Fredda».
In sostanza,
l’Ucraina Ovest entrerebbe nell’Ue e nella Nato, proprio ciò che la Russia di
Putin non vuole. Huntington
riteneva più probabile un terzo scenario, cioè che «l’Ucraina resti unita,
resti un paese diviso, resti indipendente e sviluppi, in linea generale, legami
di cooperazione con la Russia.
Una volta risolte le
dispute relative alle armi nucleari e alle forze militari, le questioni più
serie saranno di carattere economico e la loro risoluzione sarà facilitata da
una cultura in parte comune e da stretti legami personali» (pp. 240-243).
Sul piano
esplicativo, il paradigma dello scontro di civiltà conferma la sua attualità,
poiché individua sulla faglia ucraina lo scontro in Europa.
Sul piano previsionale, è comprensibile che
nel momento dell’invasione russa la conclusione di Huntington appaia a dir poco
ottimista, poiché sembra in atto il primo scenario.
Sembra, perché una
guerra russo-ucraina jusqu’au bout, pur militarmente fattibile, porterebbe
all’interno della Russia una regione in costante conflittualità proprio perché
attraversata dalla faglia di civiltà. Inoltre, come si usa dire, tutte le
guerre prima o poi finiscono.
Resta un dopo da gestire e sul piano normativo (il da farsi) dalle
lontane analisi di Huntington emergono indicazioni di attualità. Risolta la
questione delle armi nucleari, le residue dispute su “forze militari”
richiamano in sostanza la richiesta russa di neutralizzazione dell’Ucraina.
Inoltre, il paradigma dello scontro di civiltà ha il vantaggio di estendersi
sul periodo medio-lungo, non breve e contingente.
Esso avverte che i
conflitti di faglia tendono a riproporsi, difficilmente trovano una
composizione duratura e gli
accordi tra i protagonisti sono tregue più che pace.
La consapevolezza di
civiltà diverse in Europa suggerisce quindi la necessità di un accordo ampio
con il riconoscimento alla Russia del ruolo di Stato guida del mondo ortodosso,
accompagnato da trattati di associazione e non aggressione (pp. 357-358).
Oggi, anche il
realista Mearsheimer pensa che Putin non voglia conquistare e integrare
l’Ucraina in una più grande Russia e ritiene che ciò non sia neppure possibile.
Anche Mearsheimer
pensa che «ci sia una seria
possibilità che gli ucraini possano elaborare una sorta di modus vivendi con i
russi» («The New Yorker», 1° marzo 2022).
Huntington ricorda
che la Russia è un paese «in bilico», concorde sulla propria identità ma non
sulla civiltà di appartenenza.
La dialettica che attraversa la storia russa tra occidentalisti e slavofili,
tra europeismo e originalità euroasiatica, resterà irrisolta, poiché è «un tratto inalienabile
del carattere nazionale»
(p. 206). Bisognerà conviverci e accettarla come una condizione da gestire, non
un problema da risolvere.
Lo scontro delle
civiltà suggerisce anche un’osservazione sull’entente cordiale tra Russia e
Cina, nella quale alcuni commentatori vedono il possibile perno di un nuovo
ordine mondiale. Può darsi.
Tuttavia, tra la
civiltà russo-ortodossa e quella sinica-confuciana esistono differenze anche
più marcate che tra la prima e quella occidentale.
Inoltre la geopolitica prospetta un conflitto
potenziale tra Russia e Cina anche più critico di quello con l’Occidente. Se la
Russia non accetta concentrazioni di potenza a Ovest, nondimeno le teme a
Oriente.
Gli avvicinamenti
russo-cinesi sono spesso reazioni a vertenze con l’Occidente, mentre un asse
russo-cinese di lungo periodo dipende dal grado di soddisfazione dei rapporti
con l’Occidente ma anche «dall’ascesa della Cina a potenza egemone dell’Asia
orientale e dalla conseguente minaccia per gli interessi russi da un punto di
vista economico, demografico e militare» (p. 359).
Oggi, sul confine
orientale russo preme l’esuberanza economica e demografica, unita a superiorità
tecnologica e militare, di una Cina, Stato-guida di un’altra civiltà, che ha
raggiunto lo status di potenza globale.
Approfitto, in
chiusura, per aggiungere un richiamo a un “effetto collaterale” della guerra in
Ucraina che mi pare non abbia richiamato la giusta attenzione: la decisione della Germania di un massiccio riarmo.
La guerra in Ucraina ha offerto l’occasione
alla Germania di superare il condizionamento del suo terribile passato e
avviare la riabilitazione della propria potenza proporzionando la propria forza
militare a quella economica.
Non più gigante economico e nano politico,
bensì in prospettiva gigante in toto. Un passo in fondo atteso, dopo la
riunificazione. L’Ue, già
scricchiolante dopo la Brexit, dovrà fronteggiare il fatto nuovo.
La Francia è
diffidente, la Polonia teme la Germania non meno della Russia.
La Russia non avrà
la Nato in Ucraina ma poco più in là troverà la rinata potenza dell’antica
rivale europea. Qualche
europeista dirà che questa è l’occasione
di una nuova Ced, premessa degli Stati Uniti d’Europa. Forse.
Ma la storia insegna le differenze, non le
ripetizioni: allora la Ced
era voluta dalla potenza egemone, oggi non credo che gli Usa saranno entusiasti
della formazione di un blocco militare europeo che completi quello economico
saldato da una moneta unica.
Nessun paradigma è
completo e privo di limiti, ma ciascuno offre dei vantaggi. Quelli dello
scontro di civiltà sono diversi.
Non è incompatibile
con la teoria realista delle relazioni internazionali, ne amplia piuttosto la
dimensione. Inoltre rispetta e richiede la lettura geopolitica dei rapporti
internazionali. Infine, poiché ogni paradigma, oltre una funzione esplicativa,
ha una funzione normativa, cioè oltre a spiegare i conflitti mira anche a
suggerire le soluzioni, anche quello dello scontro delle civiltà non si sottrae
a questo compito.
La validità di un paradigma è misurata dalla
sua capacità di rispondere alle domande che la realtà pone, ma anche dalle soluzioni che riesce a suggerire. Credo che il lavoro di Huntington, non solo in
relazione alla crisi russo-ucraina, offra un contributo attuale su entrambi i
piani e conservi ancora, a distanza di trent’anni, il rango di “livre de chevet” sul nuovo
ordine mondiale post Guerra Fredda.
Ucraina: per provare
a capirci davvero.
Ilpensierostorico.com-
Valentina Meliadò- (3 aprile 2022)- ci dice :
(Valentina Meliadò,
giornalista e storica).
Basta retorica.
Tutto questo spirito da battaglia finale armi in pugno elmetto in testa proprio
non ci si addice.
Siamo troppo smidollati, troppo viziati,
troppo impegnati a neutralizzare parole e concetti, talmente sazi di libertà e
diritti da inventarne di nuovi e di assurdi; siamo così stanchi, cinici, alla
perenne ricerca di una giustificazione alla inconsistenza della nostra vita,
così fieri del brodino culturale in cui abbiamo annegato dubbi e incertezze.
Sempre pronti a
fingere che il mondo coincida con il nostro piccolo mondo, occupiamo lo spazio
di un quartiere residenziale in una grande città, e improvvisamente non
sembriamo contare di più. Questo siamo diventati noi, l’Occidente.
Era prevedibile. Da
troppo tempo si insegna e si scrive che tutte le calamità umane e naturali del
mondo siano riconducibili alle azioni dell’Occidente, che ci dobbiamo vergognare
della nostra stessa civiltà e degli uomini che l’hanno resa grande, che abbiamo il dovere morale di espiare colpe
ataviche verso minoranze etniche e religiose che nei secoli abbiamo umiliato e
calpestato, e che è necessario eliminare dal panorama scolastico e culturale
libri, opere e monumenti emblematici della nostra civiltà.
Per non parlare di
concetti quale patria, eroismo, identità nazionale. Il solo proferire queste parole poteva costare le
accuse più nefande, o peggio una sospensione e un ammonimento dal mondo
virtuale. La “correttezza
politica” si è imposta quale bussola del pensiero occidentale, creando di fatto
nell’azione politica enormi contraddizioni, e nella formazione culturale
autentici buchi, profondi imbarazzi. Fino a ieri, però.
Perché appena i
russi hanno messo piede in Ucraina ci siamo svegliati tutti atlantisti,
filoamericani e soprattutto innocenti. Una unità di intenti e di visione che neanche l’11
settembre era stata in grado di provocare, anzi.
Proprio coloro che più aspramente hanno
criticato la dottrina dei neoconservatori americani di esportazione della
democrazia, e ne hanno denunciato il fallimento parziale o totale in
Afghanistan e in Iraq, sembrano oggi i più accaniti sostenitori di una guerra
su vasta scala non solo al dittatore russo, ma anche alla cultura russa,
passata e presente.
Un cortocircuito
attribuibile solo al cambio di rotta della politica estera americana voluto dai
“ liberal Dem Usa” con la presidenza
Obama, all’appoggio indiscriminato e superficiale alle velleità di cambio di
regime in Africa settentrionale e in Medioriente con le Primavere arabe e la
guerra siriana, i cui risultati, a dieci anni di distanza, sono lo
sconvolgimento, prima, e l’abbandono, poi, di aree geografiche di prioritaria
importanza per la leadership occidentale.
Ma in Storia non esistono vuoti. La nostra debolezza, la
confusione sul nostro stesso ruolo nel mondo sono state prontamente sostituite
tanto in Africa quanto in Medioriente e nei Balcani da Cina, Russia e Turchia. Si può dire che il capolavoro occidentale degli ultimi
anni sia stato ripristinare tre imperi e il loro raggio di influenza in un arco
di tempo brevissimo, e che il nostro ruolo storico sia finito.
Basterebbe questo a
spiegare l’insorgere di una guerra vera nel cuore dell’Europa, una di quelle
che pensavamo di non vedere più, perché quelle che si combattono nel mondo sono
in genere abbastanza lontane da poterle biasimare senza troppo disturbo.
Questa invece è sulla soglia di casa nostra;
questa è un pugno allo stomaco di un Occidente che da anni passeggia sulla
Storia mentre altri la Storia la fanno, e la fanno come la vogliono loro, non
come la vogliamo noi. Ora è facile sentirsi dalla parte giusta: c’è un paese
invasore ed uno invaso, c’è un regime autoritario, da una parte, ed uno Stato
democratico (o sufficientemente tale), dall’altro.
Nell’epoca delle
semplificazioni fai da te, dei social che si scomodano a farti da debunker e ti
spiegano come la devi pensare, chi puoi insultare e cosa scrivere per essere
una persona civile sembra tutto ovvio: il dittatore Putin si è svegliato una mattina e ha
deciso di invadere l’Ucraina.
Motivo?
Psico-pazzia, delirio di potenza, nostalgia
dell’impero russo, cattiveria pura.
Qualsiasi
perplessità a riguardo è una chiara manifestazione di pro-putinismo. Peccato
che la Storia sia ancora una volta lì, a mostrarsi in tutta la sua complessità,
e che non ci sia affatto bisogno di essere pro o contro qualcuno per analizzare
i fatti, o meglio, non è necessario coniugare la comprensione storica e politica
degli eventi con il giudizio morale, che in questo caso è più che mai scontato.
La riduzione della
complessità della realtà a sentenza pro o contro è forse una delle ragioni
principali di questo conflitto.
Il livello della discussione storica e
politica si è degradato in questi anni fino a diventare nulla più che una
tifoseria calcistica, una specie di derby della realtà che ha fatto strame
della logica stessa, e i risultati si vedono soprattutto nella confusione
culturale che regna sovrana,
nell’accanimento di una informazione manichea che rasenta la propaganda etica.
Quel che è certo, è
che siamo passati in soli venti anni da un clima di avvicinamento e
collaborazione con il gigante russo ad una guerra calda nel cuore dell’Europa. Attribuire al solo Putin una simile giravolta è
certamente comodo, ma oggettivamente fuorviante. L’Occidente
ha le sue responsabilità storiche, e negarlo in questa improvvisa militanza
senza se e senza ma pro
Nato e pro democrazia non è
più edificante dell’autolesionismo di ordinanza sbandierato fino a ieri.
Delle domande
bisogna pur farsele: come ci siamo rapportati alla Russia dalla fine
dell’Unione Sovietica in poi? È giusto che la Nato sia sopravvissuta alle sue
ragioni storiche?
La dissoluzione di
un impero è un evento pieno di incognite che va oltre la riconquista della
libertà e dell’autodeterminazione dei popoli che lo componevano.
Dopo la caduta del
Muro di Berlino ha prevalso l’illusione di un Occidente libero e democratico in
rapida espansione, e l’appartenenza all’Unione Europea ed alla Nato è diventato
l’obiettivo principale, comprensibilmente, dei paesi che per decenni avevano
subìto il potere sovietico.
La Russia era
l’ombra di se stessa, mortificata politicamente, economicamente,
territorialmente, alle prese con i movimenti centripeti che caratterizzano la
dissoluzione di un impero tenuto insieme con il terrore. Le guerre balcaniche
avrebbero dovuto insegnare qualcosa in tal senso.
Putin, ex dirigente
del Kgb insediatosi al potere nel 2000, ha traghettato la Russia nel nuovo
millennio con i modi e la mentalità di un uomo cresciuto e formatosi in Unione
Sovietica, ma consapevole che quell’era fosse finita; si è barcamenato tra le
aperture politiche ed economiche necessarie a risollevare il paese e a
rilanciarne il ruolo nel mondo, e la brutalità dei vecchi metodi di conservazione
del potere, basti ricordare la morte di Aleksandr Litvinenko e Anna
Politkovskaja.
Nonostante questo,
forse più per volontà dell’ex presidente statunitense Bush junior e dell’ex
premier italiano Silvio Berlusconi che per una strategia a lungo termine
occidentale, nei primi anni del nuovo millennio la strada del ricongiungimento
alla storia, alla cultura e al destino europeo della Russia sembrava quantomeno
intrapresa.
Quello che è
accaduto dopo è lungo e complesso da analizzare, ma è un fatto che ad ogni
scossone politico ai suoi confini la Russia abbia reagito con poca diplomazia e
più esercito, il che non è una peculiarità di Putin, ma il modus operandi del
paese più grande del mondo che nella sua storia millenaria la democrazia non
l’ha mai conosciuta.
Georgia, Crimea e Ucraina (quest’ultima, in
particolare, perché il suo destino non è pressoché mai stato separato da quello
russo fino a trentuno anni fa) sono stati i confini caldi della Russia
occidentale e meridionale dopo la dissoluzione dell’Urss, quelli in cui la
presenza di cittadini russi e il desiderio di essere ricongiunti alla vecchia
madrepatria ha convissuto malamente con la voglia di tagliare i ponti e virare
nettamente verso Occidente, e quando questo è accaduto la Russia ha reagito
pesantemente.
Ma la guerra che si sta combattendo oggi non dipende né da questo né
dalla richiesta dell’Ucraina di ingresso nella Nato, che semmai è un pretesto.
Questa guerra è
“vecchia” di otto anni, è il secondo atto dell’annessione della Crimea, dei
disordini e delle violenze nel Donbass di cui stranamente non si è parlato e si
continua a non parlare. Davvero non sarebbe stato possibile evitare questo
conflitto affrontando prima il tema della frizione sempre più grave tra Ucraina
occidentale ed orientale dopo il colpo di Stato del 2014?
Perché gli Stati
Uniti addestrano da otto anni milizie ucraine, se non in previsione di una
guerra? Perché, come
ammesso da un membro del Congresso americano, proprio in un paese instabile
come l’Ucraina sono stati installati laboratori di ricerca batteriologica? Era
proprio necessario?
Sono domande, non
giustificazioni. Quelle che aiuterebbero a capire ieri, perché quelle dell’oggi
sono diverse, ma non meno stringenti.
Che strategia sta
seguendo l’Occidente in questa guerra? Qual è l’obiettivo finale?
Perché l’America di
Biden, che pure è geograficamente lontana e indipendente dal punto di vista
energetico rispetto all’Europa, egemonizza le decisioni sulle sanzioni ed
esaspera la discussione con insulti personali, minacce nucleari ed esortazioni
all’insurrezione tali da aver provocato la reazione dei leader europei, che
pure non hanno brillato per iniziativa e gestione della situazione?
Qual è l’interesse di una estensione del conflitto che potrebbe davvero
investire tutta l’Europa? Perché?
Davvero qualcuno a
Washington pensa che l’esasperazione delle sanzioni e delle minacce, unite al
prolungamento della guerra (sulla pelle dei civili ucraini) porterà al
rovesciamento in patria di Putin ed alla fine della sua era?
Ma soprattutto: che
follia è sperare nella destabilizzazione del più grande paese del mondo? Anche
prendendo in considerazione l’ipotesi che i russi si ribellino alle restrizioni
ed al loro leader e ne rovescino il governo, che si fa poi? Occupiamo la
Russia? Gliela diamo alle ex repubbliche sovietiche per consumare la loro
vendetta? La lasciamo in balia del vuoto di potere e dei disastri che questo
potrebbe provocare, in forme infinitamente più gravi di quanto accaduto in
Libia, tanto per fare un esempio? Che senso ha porsi di fronte ad un conflitto
regionale, per quanto grave, come ad una guerra mondiale?
Possibile che non
sia stato possibile per otto lunghi anni cercare una soluzione che
salvaguardasse l’unità territoriale ucraina ponendosi al contempo il problema
dei russi del Donbass? E
che all’inizio delle ostilità non ci fosse possibilità alcuna per l’Europa di
proporsi come mediatore?
Si dice che siano in
gioco i valori dell’Occidente, che Putin non si fermerà, ma io non sento meno
calpestati i miei valori quando ovunque nel mondo libertà e diritti civili
vengono negati, o quando viene lapidata una donna, o tutte le volte che un
fanatico o un dittatore si comporta come tale.
Io lo so che l’Occidente è una piccola oasi,
una riserva naturale che pensava di espandersi e invece tende a restringersi,
un gigante dai piedi d’argilla che alla prova dei fatti si è disarticolato
cercando solo di abbaiare più forte. Altro che unità, altro che forza.
La guerra in Ucraina
finirà, certo, quando i russi saranno disposti ad accettare una mezza vittoria
e gli ucraini una mezza sconfitta, o viceversa, e con un po’ di fortuna accadrà
prima che il resto del mondo ne sia irrimediabilmente coinvolto, ma tante cose
resteranno, e tante cambieranno.
Le macerie,
innanzitutto. I morti. I profughi, milioni di persone che sono state accolte in
modo encomiabile proprio da quei paesi dell’est Europa che tanto sono stati
criticati dalla Ue per il loro atteggiamento verso i migranti, e che oggi sono
in prima linea perché troppo recente è la loro riconquista di libertà per
poterla tradire e dimenticare, e troppo ipocrita è l’accoglienza dei buoni
sulle spalle degli altri.
Ma anche gli equilibri mondiali sono cambiati,
o forse sono solo divenuti più evidenti: l’Europa non conta niente. Più del parlarsi addosso non fa; non esiste una voce, una strategia o una decisione che
sia veramente e unicamente europea, e ad ogni crisi internazionale tende ad
accodarsi o a criticare gli Stati Uniti, a seconda dell’inquilino della Casa
Bianca.
L’America, in
oggettiva crisi di leadership mondiale dopo una serie impressionante di
fallimenti, ha identificato in Putin il nemico da abbattere, ma più che un
vantaggio economico (il contratto di fornitura di gas all’Europa) e la conferma
dell’inadeguatezza di Biden, non ha di certo ottenuto.
La Nato, con una reputazione e un budget
vecchi e impolverati, ha avuto i suoi cinque minuti di gloria, sì, ma le
perplessità sulla necessità di una espansione indefinita di una alleanza
militare (non politica) sulla soglia di casa dei russi restano tutte.
La Russia, che in
molti credono isolata e spacciata a suon di sanzioni, dovrà certamente
affrontare una serie di problemi interni, ma uscirà dalla crisi forte di
un’alleanza economica e politica molto più definita e definitiva con la Cina, e
ben consapevole che del mondo l’Occidente non è che una parte sempre più
inconsistente e dipendente, soprattutto l’Europa, che a scanso di urla e
proclami la guerra di Putin l’ha finanziata ogni giorno con la sua dipendenza
dal gas russo.
Indipendenza.
Questa è la chiave.
Che non è solo indipendenza fisica e politica, quella che vogliamo
salvaguardare in Ucraina, ma è soprattutto indipendenza energetica e produttiva.
Ecco la lezione che
avremmo dovuto imparare da due anni di Covid. Non c’è alcuna possibilità di esercitare
né leadership né deterrenza se di fronte ad una pandemia non siamo
autosufficienti nella produzione dei presidi sanitari, o nel mezzo di una
guerra dobbiamo temere che il nemico ci chiuda il rubinetto del gas.
Non siamo credibili
nel nostro corteggiare un determinato regime per farne fuori un altro, e l’Occidente rischia di essere surclassato.
Forse lo merita, e da un punto di vista storico potrebbe persino essere giusto,
ma, come ricordava Winston Churchill, la democrazia è la peggior forma di governo
eccezion fatta per tutte le forme sperimentate finora, e dunque dovremmo
cercare di tenercela stretta.
Lavorando molto su noi stessi, però, e cercando di restituire alla civiltà occidentale la
dignità e le ragioni che l’hanno resa grande e unica.
Secondo Renzi, Conte era filo Trump e
filo Putin e voleva
solo salvarsi la poltrona.
Linkiesta.it-Redazione-
(20 aprile 2022)- ci dice :
(Russia-gate
all’italiana).
Il segretario del
Copasir Ernesto Magorno chiederà un’audizione dell’ex premier in merito
all’incontro tra Barr e Vecchione di cui non era stata data comunicazione alle
agenzie di intelligence. «Sulla visita di Barr risponda lui», dice il leader di
Italia Viva.
«Non ne ero a
conoscenza». L’ex premier Giuseppe Conte nega ogni suo coinvolgimento
nell’incontro informale, rivelato da Repubblica, tra l’ex segretario alla
Giustizia americano William Barr e l’allora capo dei servizi segreti italiani
Gennaro Vecchione, avvenuto la sera del 15 agosto del 2019 a Roma.
Il presidente degli
Stati Uniti Donald Trump si era convinto che l’Italia fosse l’epicentro del
Russia-gate, un complotto ordito contro di lui tre anni prima, quando a palazzo
Chigi c’era Matteo Renzi, mirato a danneggiarlo divulgando la notizia delle
ingerenze russe nelle elezioni presidenziali vinte dal tycoon contro Hillary
Clinton. Trump avrebbe mandato per questo Barr a raccogliere informazioni a
Roma, trovando la collaborazione di Conte e dei servizi segreti italiani.
Il segretario del
Copasir Ernesto Magorno, di Italia Viva, chiederà un’audizione dell’ex premier
in merito all’incontro di cui non era stata data comunicazione alle agenzie di
intelligence. E intorno a
questa vicenda, si riaccende lo scontro tra Conte e Matteo Renzi.
Il leader di Italia
Viva in un’intervista alla Stampa definisce Conte «incompetente e incapace di
conoscere le regole del gioco». Secondo Renzi, «ci sono due Russia-gate.
Il primo riguarda la barzelletta per la quale
io e Obama avremmo fatto una truffa elettorale ai danni di Trump.
Il fatto che
qualcuno a Roma abbia dato credito a questa follia è ridicolo.
Colpisce che la
versione di Conte non collimi con lo scoop che ieri ha fatto Repubblica: o
Conte ha mentito al Copasir o Vecchione ha mentito a Conte.
Oppure tutti e due mentono agli italiani.
E poi c’è da chiarire la vicenda del presunto
spionaggio russo, su cui siamo gli unici a chiedere la commissione di inchiesta
sul Covid.
Ma i grillini non
vogliono che sia fatta luce, né su questo né sulle mascherine, chissà perché».
Nel giallo intorno
alla famosa missione russa in Italia nel marzo 2020, il Corriere aggiunge un
tassello: nell’elenco consegnato a Roma risultano 100 militari di Mosca in
visita in più rispetto alla lista contenuta nelle relazioni parlamentari.
Ufficialmente si
trattava di una missione umanitaria, ma la composizione del contingente
dimostra che in realtà erano tutti soldati e soltanto alcuni erano ufficiali
medici.
I militari guidati dal generale Sergey Kikot
indicati nella lista di chi doveva «prestare assistenza nella lotta contro
l’infezione da coronavirus» nel marzo del 2020 sono 230.
L’elenco fu allegato
dall’ambasciata di Mosca al testo dell’accordo tra il presidente Vladimir Putin
e Giuseppe Conte poi trasmesso alla Farnesina. Ma nelle relazioni parlamentari
risulta che in Italia sono stati registrati 130 nominativi. Qualcosa non torna.
«Sulla Russia tutti
attaccano, giustamente, Salvini per le magliette di Putin o gli striscioni in
piazza Rossa con scritto “Renzi a casa”.
Ma i 5 stelle avevano la stessa linea, basta
ricordare Di Stefano che oggi fa l’istituzionale viceministro e che allora attaccava l’Ucraina definendola “Stato
fantoccio della Nato”», dice Renzi.
«Poi c’è il tema Trump: l’atteggiamento di
Conte tra agosto e settembre 2019 non è tipico del capo di un governo. Barr doveva incontrare Bonafede, nessun altro. Capisco che magari, se avesse incontrato solo
Bonafede non sarebbe nemmeno venuto, ma questa è un’altra storia». Giuseppe Conte, secondo Renzi, «in quelle ore era
impegnato a salvare la poltrona».
E sugli aiuti russi
per il Covid «io la penso come Giorgio Gori, sindaco di Bergamo. In quella missione c’era qualcosa di strano e Conte
dovrebbe chiarire perché ha accettato quell’accordo con Putin», dice Renzi.
«Il mio giudizio su
Conte è notoriamente negativo, non solo per la politica estera», conclude
Renzi. «Perché sulla
politica estera non puoi proprio giudicarlo: ha fatto tutto e il contrario di
tutto. È stato sovranista e progressista, populista e democratico, filo Trump e
filo Putin. Puoi giudicare uno dalle sue idee, ma se quello cambia le idee ogni
mese che gli dici?»
Conte ieri ha
replicato un lungo post sui social, in cui tenta di gettare acqua sul fuoco.
Assicura «massima trasparenza» e di aver già detto tutto quello che sapeva
quando a ottobre è stato convocato in audizione al Copasir. L’ex premier
sostiene però di non aver «mai personalmente incontrato Barr, né nel corso di
incontri formali né nel corso di incontri conviviali».
Il fatto che alla
riunione ufficiale con l’intelligence italiana, nella sede dei servizi segreti
a piazza Dante, fosse seguita una cena informale, proprio a due passi dalla
casa di Conte, «è circostanza di cui non ero specificamente a conoscenza», assicura
il leader del Movimento Cinque Stelle.
Poi, contrattacca:
«È possibile che il senatore Renzi non abbia mai sentito il dovere di andare a
riferire al Copasir su questi suoi sospetti? Cosa teme, di dover poi rispondere
alle domande e di essere obbligato, per legge, a riferire tutta la verità?».
Renzi risponde e dice: «Sono sempre pronto a rispondere alle domande
del Copasir, ma sulla visita di Barr deve rispondere Conte e non io. Perché
le risposte deve darle chi aveva la delega ai servizi, non chi come me è la
parte lesa da uno stile istituzionale quanto meno discutibile.
A meno che non ci
sia qualcuno che pensa che davvero Obama e io abbiamo truffato le elezioni in
Connecticut o in Ohio. Nel
qual caso consiglio di farsi vedere da qualche specialista, possibilmente
bravo».
Lo scontro degli
stati-civiltà.
Grece-it.com -
Eduardo Zarelli-(24/01/2022)- ci dice :
(G.R.E.C.E.).
Cos’è la civiltà?
Perché nonostante
sia una delle parole più importanti del nostro lessico culturale induce a
significati difformi?
E perché pensando a
essa la identifichiamo unilateralmente con la occidentalizzazione del mondo, in
coerenza all’ideologia del progresso
e all’universalismo illuministico dei diritti individuali?
Eppure, due delle navi francesi utilizzate
nella tratta degli schiavi si chiamavano Jean-Jacques Rousseau e Contract
Social. Un’altra fu nominata Le Voltaire, si ritiene su espressa autorizzazione
del cosiddetto “libero pensatore”.
Secondo la tesi resa
celebre da Francis Fukuyama e da altri pensatori liberali contemporanei, la
fine della guerra fredda e il definitivo trionfo della democrazia liberale
avevano aperto una fase finale di conclusione della storia in quanto tale e
creato le condizioni per la costruzione di un “nuovo secolo americano” o
quantomeno occidentale.
Oggi, a trent’anni di distanza, quella tesi
appare evidentemente come una delle argomentazioni ideologiche che hanno supportato
e propagandato esclusivamente la globalizzazione della forma capitale.
La realtà delle
relazioni internazionali esprime il declino della potenza egemone, in un mondo
multipolare, in bilico tra l’unilateralismo aggressivo dell’Occidente a guida statunitense
e un auspicabile multilateralismo tra sovranità spaziali plurime e identità
culturali differenti.
Non solo l’ordine mondiale “liberal Dem Usa” è messo in discussione dall’ascesa di nuove
potenze regionali o globali (o aspiranti tali) – come la Cina, la Russia e
l’India, che rigettano più o meno esplicitamente l’universalismo occidentale,
sia in campo economico-politico che in campo culturale e morale – ma i valori
liberali sono in crisi anche nello stesso Occidente, come testimonia la
crescita di fenomeni populisti e illiberali su entrambe le sponde
dell’Atlantico.
L’argomentazione in
tema del filosofo politico Cristopher Coker – professore di Relazioni
internazionali alla London School of Economics – non può che risultare
parziale, ponendosi come ancillare del primato apolide occidentale, ma non di
meno si presta ad affrontare un tema determinante per interpretare il presente
e le dinamiche conflittuali che minano le aspettative tecnocratiche alla
uniformità mondiale del mercato globale.
Qual è il futuro
della civiltà (o meglio delle civiltà) nel mondo di oggi e di domani?
In tal senso,
l’autore coglie la
limitatezza del concetto di Stato-Nazione, prodotto genuino della modernità, per confrontarsi con gli “Stati-civiltà”:
spazi geopolitici,
cioè, che non solo si caratterizzano per una omogeneità culturale o etnica, ma
che si considerano ancor prima come delle vere e proprie civiltà a sé stanti,
profondamente diverse dalla civiltà occidentale, che viene vista come una minaccia
a sé e agli equilibri internazionali.
Coker si concentra
in particolare sui due paesi che più di chiunque altro rivendicano questo
titolo: la Cina di Xi
Jinping e la Russia di Vladimir Putin, ma affronta in forma estesa anche
l’India di Marendra Modi piuttosto che l’idea di sovranità statuali islamiche,
tra cui, il califfato.
Per ognuna di queste
realtà si sforza di tratteggiare la strumentalità dell’utilizzo della storia e
della cultura per legittimare politiche di potenza, ma proprio per questo non
può sottrarsi dall’evidenziare come esista una forma di suprematismo
occidentale che, nella modernità, le precede tutte: l’illusione dell’universalismo.
In tal senso omaggia – a posteriori – le tesi
del realista Samuel Huntington, che d’altronde con grande onestà intellettuale
scrisse nel suo notorio” Lo scontro di civiltà e il nuovo ordine mondiale “che
«nel mondo che emerge, un
mondo fatto di conflitti etnici e scontri di civiltà, la convinzione
occidentale dell’universalità della propria cultura comporta tre problemi: è
falsa, è immorale, è pericolosa. L’imperialismo è la conseguenza logica e
necessaria dell’universalismo».
Basti ricordare
storicamente che la Gran Bretagna, di cui è cittadino Cristopher Coker, ha aggredito, invaso, occupato 173 dei 193
membri delle Nazioni Unite, mentre all’oggi, nel mondo non occidentale,
consapevole che l’Occidente è in declino, caratterizzato dal materialismo
pratico e il relativismo nichilistico, riscoprono i loro valori culturali,
quando gli intellettuali occidentali, tra cui l’autore, si domandano se sia
legittimo parlare di civiltà piuttosto che di stati potenza.
Se i valori della civilizzazione cosmopolita liberale sono così
diffusi, è perché giacciono in superficie alla vita emotiva delle popolazioni,
molto meno radicati di quanto si illudano le élite metropolitane e cosmopolite.
La fede illuministica nell’umanesimo e nel
razionalismo non è in grado di spiegare la dinamica conflittuale del politico e
le forme identitarie dell’aggregazione sociale. Anzi, come scrive Pankaj Mishra ne L’età della rabbia
è proprio contro la falsa idea di «una civiltà fondata sul progresso graduale
sotto amministratori liberaldemocratici» che oggi si alimenta la frustrazione,
il risentimento e la insofferenza nel mondo.
All’inizio del XIX
secolo solo il 20 per cento della disuguaglianza globale era imputabile alla
collocazione geografica di un Paese. Non esisteva alcun posto sulla terra in cui il tenore
di vita della parte più ricca del mondo fosse più del doppio rispetto a quello
della parte più povera. Oggi il paese più ricco, il Qatar, vanta un reddito
pro capite 428 volte superiore a quello del Paese più povero, lo Zimbabwe.
D’altronde, Susan
Strange – già eminente collega dell’autore – ben apostrofò sprezzantemente come
“civiltà degli affari” quel club informale composto da multinazionali,
tecnocrati e istituzioni internazionali che nulla ha a che fare con una idea
persuasiva di civiltà, oggi divenuta una associazione anonima globalizzata di
banchieri e finanzieri che trascorrono il loro tempo nei business lounge degli
aeroporti, in attesa di partecipare alle riunioni del World Economic Forum di
Davos.
Questa classe
dirigente oligarchica è completamente indifferente alle ragioni sociali,
popolari e democratiche, ma è compiaciuta di sé, si ritiene portatrice di una
superiorità morale universale e politicamente corretta in nome di un
capitalismo “responsabile”, tutto proteso alla sostenibilità ambientale del suo
sviluppo illimitato e del wishful thinking tecnologico, logistico e digitale.
(Tutto quanto propagandato dal furbacchione Klaus
Schwab padrone del W.E.F. Ndr).
Alla luce di ciò, è
opportuno saper distinguere la Civiltà dalla civilizzazione. Questa opposizione
resta determinante per qualificare il concetto di cultura. Fin dal XVIII secolo
si sviluppa una ampia letteratura che esprime il confronto fra le consuetudini
radicate nella cultura occidentale europea e in quelle extraeuropee. Dalla memorialistica etnografica fino allo
strutturalismo antropologico di Claude Lévi-Strauss viene minata alla base
l’idea di una natura umana universale, e contribuito invece a rafforzare la
nozione per cui le forme di vita locali entro le quali avviene l’interazione
fra gli uomini ha un valore costitutivo e identitario per la cultura.
Questa curvatura
etnocentrica e differenzialista del concetto di trasmissione culturale
contribuirà a una riformulazione dei rapporti tra il concetto di cultura e
quello di civilizzazione.
“Cultura” (Kultur) e “civilizzazione” (Zivilisation)
sono idealtipi in base ai quali interpretare i processi storici di
modernizzazione. Nel
dibattito tedesco di fine secolo e inizio Novecento la coppia concettuale comunità (Gemeinschaft) e società (Gesellschaft) – coniata dal sociologo Ferdinand
Tönnies – diventerà la
chiave per comprendere le risonanze che emanano dalla coppia Kultur e Zivilisation.
Mentre la comunità è
un “organismo vivente”, la società deve essere intesa come un “aggregato e
prodotto meccanico” delle transazioni individuali. Nasce qui l’idea che la comunità e i rapporti
comunitari presuppongano omogeneità culturale, ovvero che l’espressione “società aperta” sia
contraddittoria e aporetica per l’identità collettiva.
Diventa conseguente
quindi affermare che il trionfo della “civilizzazione” segna il contemporaneo
“tramonto della cultura”.
In Oswald Spengler, ne Il tramonto dell’Occidente, la Kultur (intesa qui come
complesso culturale proprio di un’intera civiltà) è identificata con il momento
di ascesa e di fioritura di una forma di vita, mentre la Zivilisation è, in
modo nuovamente negativo, tipica della fase di declino di quella forma di vita
o epoca storica, che ben
coglie l’invettiva di Michel Houellebecq quando scrive che «una civiltà che legalizza l’eutanasia perde ogni
diritto al rispetto»,
quindi di destino e senso storico.
Scrive Coker che le
civiltà sono le unità sociali più antiche e resilienti perché capaci di
adattarsi sempre ai tempi, preservando la loro essenza fondativa. Non
colonizzano il futuro ma si evolvono in esso. Le scienze olistiche descrivono
l’emergentismo alla base del vivente, “campi di forza” capaci di costante
interazione spazio-temporale, che plasmano i modelli adattivi.
In questo si distingue l’evoluzionismo
deterministico per caso e necessità rivendicato dal pensatore utilitarista
liberale, da una comprensione invece della evoluzione come forma e funzione. Se
aderisse a questa lettura del divenire, non soggiacerebbe all’ideologia del
progresso e non sovrapporrebbe l’universalismo all’universale.
Si immunizzerebbe
dal paradosso occidentale di rivendicare il relativismo solo come strumento
della propria egemonia cosmopolita, non accettando in realtà la differenza come
fisiologico rapporto con l’altro da sé.
Allora, in
controtendenza, vi è da cogliere l’opportunità nello squadernarsi dei rapporti
di forza internazionali e ribaltare il paradigma della modernità, cogliere come
le realtà altre che mettono in discussione il primato Occidentale pongono una
questione fondamentale: al
centro della politica mondiale vi sono le civiltà e non la volontà di potenza.
Tale dialettica
inverte l’autocompiacimento dei civilizzati come in realtà i barbari odierni,
agitatori del disordine e mercificazione mondiale, per cui la necessità ineludibile di un destino
metapolitico della civiltà europea scissa dalla deriva atlantica, ricettacolo
per inerzia di tramonto e decadenza.
Russia-Ucraina: la guerra è una tragedia
ma smentisce la
teoria dello
scontro di civiltà
di Huntington.
Firstonline.info-Ross
Douthat- (17 aprile 2022)- ci dice :
La riflessione di
Ross Douthat, di cui pubblichiamo la versione italiana, su una possibile
interpretazione degli scenari attuali alla luce di una delle maggiori teorie
politologiche degli ultimi 30 anni riapre la discussione sulle teorie di
Huntington.
Russia-Ucraina: la
guerra è una tragedia ma smentisce la teoria dello scontro di civiltà di
Huntington.
Ross Douthat è un
editorialista di orientamento conservatore dello staff giornalistico del “New
York Times”.
Ogni martedì il giornale pubblica un suo
commento nella pagina OP-ED.
Prima di unirsi allo
staff del “New York Times”. Douthat è stato senior editor a “The Atlantic”.
In questo intervento
egli discute l’applicabilità interpretativa delle tesi del politologo americano
Samuel Huntington al periodo che stiamo attraversando scaturito dal conflitto
tra Russia e Ucraina e alle sue cause e conseguenze.
In un libro importante
e giustamente famoso, Huntington avanzava la tesi che le fonti di conflitto nel
mondo uscito dalla guerra fredda non sarebbero state né ideologiche né
economiche, ma legate alla
cultura prodotta dalle diverse civiltà presenti sul pianeta.
Gli Stati nazionali
avrebbero continuato a essere i protagonisti del contesto mondiale, ma i
conflitti più importanti sarebbero scoppiati tra nazioni e gruppi di nazioni
appartenenti a differenti culture.
Lo scontro di
civiltà avrebbe così caratterizzato la scena mondiale.
“Le linee di faglia
tra le civiltà saranno le linee sulle quali si consumeranno le battaglie del
futuro”, concludeva Huntington.
L’articolo di Douthat – che pubblichiamo sotto
in versione italiana -discute in quale misura questa teoria può spiegare quello
che accade in Ucraina e le nuove dislocazioni internazionali che sono derivate
dal nuovo stato di cose. Una
riflessione che si può non condividere, ma che fa pensare.
L’equilibrio di
potere tra le civiltà.
Nel 1996 il
politologo americano Samuel Huntington ha elaborato delle tesi dirompenti sul
cammino del mondo dopo la guerra fredda. Osservava che la politica globale stava diventando non
solo “multipolare” ma “multicivilizzata”, con potenze in competizione che
stavano modernizzandosi lungo differenti linee culturali senza convergere, come
si tendeva a pensare all’epoca, verso il modello liberal-democratico
occidentale.
L’equilibrio di potere tra le civiltà si stava
trasformando e l’Occidente era in procinto di entrare in un periodo di progressivo
declino.
Stava emergendo un “ordine mondiale basato sulla civiltà” all’interno del quale le società “culturalmente affini” tendevano a raggrupparsi in alleanze o blocchi. E l’aspirante universalismo dell’Occidente stava
preparando il terreno per un conflitto prolungato con le civiltà alternative,
in particolare con la Cina e il mondo islamico.
Attualità della tesi
di Huntington.
Questa tesi era la
spina dorsale del libro di Huntington “Lo scontro delle civiltà e il nuovo
ordine mondiale” (trad. it. Garzanti 2000) che costituiva di fatto una
interpretazione alternativa alla “fine della storia” di Francis Fukuyama, che
propugnava una sua visione ottimistica della democrazia liberale come
l’orizzonte verso il quale le società del dopo guerra fredda stavano tendendo.
La tesi di
Huntington, un po’ lasciata in ombra nell’ultimo decennio, sta tornando ad
essere discussa sulla scia dell’aggressione di Putin all’Ucraina, accompagnata
dalla risposta sorprendentemente unitaria dell’Occidente e dalle reazioni
incerte di Cina e India.
Negli ultimi tempi
Huntington è sempre più citato sulla base della considerazione che Putin vuole
uno scontro di civiltà.
In realtà la tesi di
Huntington sembrano effettivamente messe in discussione e anche contraddette
dal tentativo di Putin di ripristinare una Grande Russia.
C’è davvero scontro
di civiltà in Ucraina?
Questo è l’argomento
sostenuto, per esempio, dallo studioso francese dell’Islam Olivier Roy in una
recente intervista a “Le Nouvel Observateur”. Roy parla della guerra in Ucraina
come “la prova definitiva (perché ne abbiamo molte altre) che la teoria dello
scontro di civiltà non funziona” – soprattutto perché Huntington ha ipotizzato
che i paesi di confessione cristiano-ortodossa difficilmente si sarebbero
scontrati in modo armato.
Qui invece abbiamo
la Russia di Putin che fa la guerra, e non è la prima volta, contro un vicino a
maggioranza cristiano-ortodossa, cioè una nazione di cultura ortodossa, anche
se ci sono delle enclave musulmane all’interno della Russia, si scontra con una
cultura del tutto simile anche nella sua origine.
… o c’è un scontro
di ideologie?
Scrivendo per la
nuova rivista “Compact”, che raccoglie sia radicali di sinistra che di destra,
Christopher Caldwell (autore di The Age of Entitlement: America Since the
Sixties, considerato dal “Wall Street Journal” il miglior libro di storia del
2020) accoglie parzialmente le tesi di Huntington sull’unità dei cristiani
ortodossi, ma motiva anche perché l’applicazione della tesi di Huntington al
momento che stiamo attraversando è da respingere.
Caldwell sostiene
che lo scontro di civiltà è stato un modello utile per comprendere gli eventi
negli ultimi 20 anni, ma ultimamente ci stiamo muovendo verso un mondo di
conflitti esplicitamente ideologici: da una parte c’è un’élite occidentale che predica un
vangelo universale di “neoliberalismo”(liberal Dem Usa) e di “wokeness”, e dall’altra ci sono regimi e
movimenti che stanno cercando di resistere a tale narrazione.
Questa è una lettura di destra del panorama mondiale, una lettura
ostile allo zelo missionario occidentale. Ma l’analisi di Caldwell assomiglia al popolare
argomento liberale che il mondo è sempre più diviso tra liberalismo e
autoritarismo, democrazia e autocrazia, piuttosto che diviso in poli multipli e
civiltà concorrenti.
Com’era 30 anni fa.
Tuttavia, entrambi
questi argomenti offrono un quadro interpretativo più debole di quello
tracciato da Huntington. Certo,
nessuna teoria elaborata un trentennio fa può essere una guida applicabile agli
affari mondiali di oggi. Ma se si vuole capire la direzione della politica
globale in questo momento, la tesi di Huntington è più rilevante che mai.
Per capirne il motivo, bisogna tornare indietro con la mente agli anni
immediatamente successivi alla pubblicazione del suo libro – la fine del
millennio, gli anni di Bush e l’inizio di Obama.
In quei giorni
l’analisi di Huntington era spesso richiamata per spiegare l’ascesa del
terrorismo jihadista e la resistenza islamista al potere dell’Occidente.
Ma la sua tesi
sembrava difficilmente estendibile a ogni altro teatro del mondo. Il potere
americano non sembrava essere ancora in declino. La Cina stava integrandosi con
il mondo occidentale e, in una certa misura, si stava liberalizzando e non
stava tracciando un proprio percorso egemonico di civiltà. La Russia del primo mandato di Putin sembrava aspirare
ad alleanze con l’America e l’Europa e a un certo tipo di normalità
democratica.
In India le forze
del nazionalismo indù non erano ancora così in ascesa. E anche nel mondo musulmano c’erano fermenti
democratici diffusi, dal Movimento Verde in Iran alla Primavera Araba, che
sembravano promettere rivoluzioni liberal-democratiche stile 1989 seguite da un
dislocamento verso l’Occidente.
I primi anni del XXI
secolo, in altre parole, hanno fornito una discreta quantità di casi circa
l’appeal universale esercitato dal capitalismo occidentale, dal liberal Dem Usa
e dalla democrazia, con l’opposizione
dichiarata a questi valori confinata ai margini: islamisti, critici di estrema
sinistra della globalizzazione, il governo della Corea del Nord.
La svolta dell’ultimo
decennio.
L’ultimo decennio,
d’altra parte, ha reso le previsioni di Huntington sul conflitto di civiltà
molto più cogenti. Non è
solo il fatto che il potere americano è chiaramente diminuito rispetto alle
nazioni rivali e concorrenti, o che gli sforzi dopo l’11 settembre per
diffondere i valori occidentali con la forza delle armi si sono spesso rivelati
un fallimento.
È il fatto che le divergenze tra le maggiori potenze mondiali hanno
seguito, in generale, il modello di civiltà che Huntington ha delineato. Abbiamo visto imporsi la meritocrazia monopartitica
cinese, lo zar senza corona di Putin, il trionfo post-primavera araba della
dittatura e della monarchia sul populismo religioso in Medio Oriente, il
nazionalismo Hindu che sta trasformando la democrazia indiana.
Queste non sono
tutte forme indistinguibili di “autocrazia“, ma sviluppi culturalmente distinti
che ben si adattano alla tipologia di Huntington, cioè alla ipotesi che
specifici connotati di civiltà si manifestino man mano che il potere
occidentale diminuisce, man mano che la potenza americana si ritira.
In modo molto
significativo, la regione nella quale questa recente tendenza è stata più
debole, e l’ondata di
democratizzazione post-guerra fredda più resistente, è l’America Latina, riguardo alla quale Huntington ha avuto qualche
incertezza sul fatto che meritasse una propria categoria di civiltà, o se
appartenesse a quella degli Stati Uniti e all’Europa occidentale. Ha scelto la
prima, ma la seconda sembra oggi più plausibile.
Non ci sono state
alleanze di civiltà, anzi…
Che dire poi delle
previsioni di Huntington sull’Ucraina, criticate da Roy e Caldwell?
Beh, lì ha sbagliato qualcosa, anche se ha
previsto con accuratezza la divisione interna all’Ucraina, cioè la divisione
tra l’est ortodosso e russofono e l’ovest più cattolico e di tendenza
occidentale, ma la sua
ipotesi che gli allineamenti di civiltà avrebbero prevalso su quelli nazionali
non è stata confermata dalla guerra di Putin, durante la quale l’Ucraina
orientale ha resistito ferocemente alla Russia.
Quell’esempio si
adatta a un modello più ampio. Nessuna delle grandi potenze non occidentali emergenti ha ancora
costruito vaste alleanze basate su affinità di civiltà, il che significa che
una delle grandi previsioni huntingtoniane sembra oggi piuttosto debole.
Egli immaginava, per
esempio, che una Cina in ascesa potesse essere in grado di integrare
pacificamente Taiwan e forse anche attrarre il Giappone nella sua sfera
d’influenza. Questo
scenario sembra altamente improbabile al momento. Invece, ovunque i paesi più piccoli siano in qualche
modo “lacerati”, per usare il suo linguaggio, tra qualche altra civiltà e
l’Occidente liberale, di
solito preferiscono l’alleanza con l’America ad un allineamento con Mosca o
Pechino.
L’Occidente
all’offensiva.
Questo è prova della
capacità di resistenza dell’Occidente e dei durevoli vantaggi offerti dagli
americani anche in un mondo multipolare.
Ma non significa che
il liberalismo sia pronto per un ritorno travolgente alla posizione che
occupava quando la forza dell’America era al suo apice.
Nessuna delle
reazioni ambigue e ambivalenti alla guerra di Putin al di fuori dell’alleanza
euro-americana suggerisce un’improvvisa primavera per l’ordine mondiale
liberal-internazionale.
E mentre gli aspetti
della fine della storia di Fukuyama si sono chiaramente diffusi oltre
l’Occidente liberale, a prevalere oggi è il lato più oscuro della visione
occidentale – il consumismo e l’anomia senza figli – piuttosto che l’idealismo
della democrazia e dei diritti umani.
Il conflitto in
Ucraina significa che l’esportazione della “wokeness” all’americana, per quanto
possa preoccupare Putin, non è pronta a diventare il punto focale di un nuovo
conflitto ideologico globale.
L’ambito “locale”
della “wokeness.
Al contrario, la
maggior parte della “wokeness” si rivolge verso l’interno e presenta un aspetto
campanilistico, rivela di essere una risposta specificamente occidentale e
specialmente anglo-americana alle delusioni del periodo neoliberale.
Piuttosto che
offrire un messaggio universale, i suoi slogan e le sue idee chiave hanno
davvero senso solo all’interno dell’America e dell’Europa – cosa potrebbe mai
significare “mettere in
discussione l’esser bianchi”
per la classe media di Mumbai o Giacarta o per le giovani élite del Bahrain o di Pechino?
Sembra un’ideologia fatta su misura per un’epoca di percepito declino
americano. Offre un programma di rinnovamento morale e spirituale, ma è anche
un modo per giustificare una certa mediocrità e un torpore perché, dopo tutto,
troppa attenzione all’eccellenza o alla competizione ha il sapore di supremazia
bianca.
Il significato della
wokeness.
È interessante
notare che le guerre di wokeness rivelano che Huntington potrebbe aver
sbagliato.
Il suo timore principale era che il mondo
occidentale in un’epoca di competizione tra civiltà avrebbe potuto abbandonare
la propria specificità culturale e che il multiculturalismo in particolare
sarebbe stato la sua rovina, addirittura che gli Stati Uniti potessero
frammentarsi in enclave di lingua inglese e spagnola sotto la pressione
dell’immigrazione di massa.
Alcune delle recenti
convergenze tra la politica nordamericana e quella latinoamericana come il
crescente appeal del populismo di destra e del socialismo negli Stati Uniti,
l’ascesa dell’evangelicalismo e del pentecostalismo in Sud America,
s’inseriscono in queste previsioni. Le battaglie sulla wokeness non sono necessariamente
un esempio di balcanizzazione etnica o di multiculturalismo finito oltre
misura.
La posta in gioco in
America.
Invece l’attuale
guerra culturale può effettivamente ridurre la polarizzazione etnica dei
partiti politici americani, spingendo alcune minoranze razziali verso destra,
per esempio, mentre fa riemergere alcune delle più antiche divisioni nella
politica anglo-americana.
I “woke” sembrano spesso gli eredi dei puritani del New England e dello
zelo utopico dello Yanketudine; i loro nemici sono spesso gli evangelici del
Sud e i cattolici conservatori e i discendenti libertari degli
scozzesi-irlandesi.
La posta in gioco di
queste dispute sono enormi: i fondamenti della nazione americana, la
Costituzione, l’interpretazione della guerra civile e dell’ideologia della
frontiera.
(Ross Douthat, “Yes,
There Is a Clash of Civilizations”, The “New York Times).
(Ross Douthat è
opinionista del “New York Times” dall’2009).
Putin ha scelto la
guerra a oltranza,
in Ucraina: «Si sente contro il mondo intero».
msn.com-Corriere
della sera -Paolo Valentino - (27-4-2022)- ci dice :
DAL NOSTRO
CORRISPONDENTE A BERLINO — «Tempo e pazienza. Pazienza e tempo. La Grande
Armata è ferita. Ma lo è mortalmente?» diceva il generale Kutuzov in «Guerra e
Pace».
Nella guerra in
Ucraina Vladimir Putin sembra pensarla allo stesso modo. Ma a differenza del grande generale zarista che
sconfisse Napoleone, questa volta lui non è l’aggredito, ma l’aggressore.
C’è stato uno
scontro nelle scorse settimane all’interno del Cremlino, sulla condotta della
guerra e sui suoi obiettivi.
Come ha rivelato al
Corriere il politologo D mitrij Suslov, che dirige un centro studi vicino al
governo .
Quella moderata, che
sostiene la necessità, dopo
aver ottenuto una «decisiva vittoria» in Donbass, di proporre all’Ucraina e
all’Occidente un accordo nei termini desiderati dalla Russia, che lascerebbe lo
status quo territoriale del 2014, quindi riconoscendo l’annessione della Crimea
e l’indipendenza delle Repubbliche di Donetsk e Lugansk, con il resto del Paese
vincolato alla neutralità e alla demilitarizzazione.
E quella
massimalista, che punta non
solo al Donbass ma mira a conquistare l’intera cintura sud-orientale, compresa
Odessa, in modo da privare l’Ucraina di ogni accesso al mare, e stabilendo sia
una continuità territoriale con la Crimea, sia un collegamento con la
Transinistria.
Un conflitto a
oltranza quindi, senza alcuna preoccupazione dei costi militari, politici ed
economici: «La scuola
massimalista – secondo Suslov – non ha paura di una guerra protratta, non cerca
alcun riconoscimento dall’Occidente, non pensa sia possibile vedere abolite o
ridotte le sanzioni».
L’impressione,
sostenuta da varie fonti, è che abbia vinto la linea dura.
Secondo quanto ha
scritto Putin è pronto ad andare avanti
in un conflitto di lunga durata, ben oltre l’obiettivo apparente, indicato di
recente dopo la rinuncia all’assedio di Kiev, di «liberare il Donbass».
Il quotidiano britannico cita una fonte
impegnata nei tentativi di negoziato, che ricorre alla metafora del judo, arte
nella quale Putin eccelle forte di una cintura nera, per spiegare il suo
approccio alla guerra.
È nel judo, infatti che Putin ha imparato il
kuzushi, la finta che tende a far perdere l’equilibrio fisico e mentale
all’avversario per poi rovesciarlo e farlo cadere spalle in giù.
Il kuzushi in questo
caso sarebbe l’attacco al Donbass. «È un tattico, un judoka. Ha una visione
distorta del mondo e gli scenari cambiano di continuo».
Le ultime notizie
sulla guerra in Ucraina.
La visione alterata
del mondo di Putin, secondo le fonti citate, deriva da una percezione
completamente falsata della realtà: poche o punte delle difficoltà segnalate
nei rapporti dal campo arriverebbero infatti al tavolo dello Zar, tutto viene
smussato o distorto da collaboratori zelanti per presentargli un quadro
favorevole della situazione.
All’evidenza, il risultato è che ormai Putin abbia scelto di continuare
a rilanciare, secondo una logica di approssimazioni successive: un obiettivo dopo l’altro, un tentativo di conquista
ne precede sempre uno nuovo, al momento in pectore.
La stessa retorica
ufficiale, dallo Zar al ministro degli Esteri Lavrov, è ormai apertamente
massimalista.
Il presidente ha
accusato i Paesi occidentali di fomentare il terrorismo sul territorio russo,
con la Cia addirittura impegnata a guidare i servizi ucraini in un tentativo di
attentato contro gli aedi televisivi del regime.
Il capo della
diplomazia evoca un giorno sì e un no il rischio di un conflitto nucleare con
l’Occidente e lo scenario di una Terza Guerra Mondiale. Mentre ogni tentativo
di riannodare un negoziato, da ultimo quello del segretario generale dell’Onu
Guterres, viene liquidato e quasi deriso.
L’idea di una trattativa è completamente sparita dalla scena mediatica,
il che segnala non solo una radicalizzazione del sentimento pubblico, ma
soprattutto un adeguamento alla realtà del campo. Il pieno controllo del
Sud-Est dell’Ucraina è ormai obiettivo conclamato.
I falchi del Cremlino, come Nikolai Patrushev,
segretario del Consiglio federale per la Sicurezza, evocano esplicitamente una
«frantumazione dell’Ucraina in diversi Stati» teorizzando la «conquista della
maggior quantità di territorio possibile».
Mentre il generale
Minnikaev dice che «tutto sommato, siamo in guerra contro il mondo intero», e
parla della necessità di aprirsi una strada fino alla Transnistria, l’enclave
russofono autoproclamatosi indipendente dalla Moldavia. Una serie di esplosioni
registrate su quel territorio ha già destato allarme.
Quanto durerà?
«Tutto il tempo necessario per poterlo vendere all’elettorato russo come una
vittoria»“, dice un anonimo miliardario russo al Financial Times. «Per il
momento – spiega la politologa Tatiana Stanovaia – Putin non vuole alcuna pace.
Non avendo potuto ottenere la caduta di Kiev, sceglie l’escalation. La conquista del Donbass e l’apertura di un corridoio verso la
Crimea sono per lui obiettivi minimi. Putin pensa che la Russia abbia il tempo, che la
Storia sia dalla sua parte e che il prezzo di sangue pagato sia ancora
accettabile. È pronto a combattere ancora a lungo, inviando segnale sempre più
minacciosi all'Occidente». Tempo e pazienza, appunto.
L’Approccio delle
Persone sulla Questione
Ucraina è essenzialmente Infantile.
Conoscenzealconfine.it-
(27 Aprile 2022)-DB- ci dice :
L’approccio che
hanno le persone sulla questione ucraina, ma in generale sulla politica e la
geopolitica, se è derivato da ciò che gli viene propinato da certe trasmissioni
e articoli, è essenzialmente infantile.
Navi, soldati, F35
in assetto 'combat ready': così l'Italia si prepara alla guerra.
In generale, si basa
tutto sulla dicotomia buono-cattivo, che rende molto facile orientare la
pubblica opinione a favore di una parte facendo leva sul sentimentalismo; senza
nemmeno particolari sforzi, basta spiattellare in prima pagina i morti e le
distruzioni causate dal “cattivo” ed il gioco è fatto.
Non occorrono
analisi e spiegazioni, anche perché non è l’interesse del sistema stesso farle
e darle, è più conveniente per esso lasciare la gente nell’ignoranza attraverso
una semplicissima logica binaria di “input” e “output”, come degli automi e
computer, meri esecutori di programmi.
Premesso questo, gli
Stati e soprattutto le grandi potenze, basano le loro scelte non su ciò che è
eticamente “giusto” o “sbagliato”, ma su ciò che è nell’interesse nazionale o
nell’interesse dei gruppi di potere che li governano.
Gli USA hanno
seminato guerre in mezzo mondo proprio per questo e hanno causato la crisi in
Ucraina in funzione dei loro interessi.
In tutto questo,
lasciando perdere “cinicamente” le lacrime e il sentimentalismo suscitati dagli
orrori della guerra, ma anche eventuali simpatie ed antipatie, bisogna
comprendere quali sono gli interessi nazionali dell’Italia.
La guerra in Ucraina
non la riguarda perché questa non è nemmeno formalmente sua alleata. La Russia
agendo in Ucraina non sta colpendo i nostri interessi nazionali, al contrario
di quello che hanno fatto i nostri “alleati” Francia, Inghilterra e Stati Uniti
in Libia, ad esempio, che si comportano come concorrenti e anche avversari.
La sfera di
influenza russa non comprende la nostra nazione, che ha culture, lingue e
religioni differenti, ma ciò non comporta alcuna ostilità. La Russia non è
nemmeno nostra concorrente nella ricerca di materie prime, anzi è un nostro
fornitore e non necessita nemmeno di estendere il proprio territorio visto che
il proprio è già sovradimensionato per la sua relativamente esigua popolazione.
Non ultima cosa per
importanza, bisogna ricordare che a Sigonella e in tante altre basi in Italia
ci sono gli yankees e non i cosacchi russi.
Sono gli interessi
angloamericani ad essere ostili ai nostri, questa è la verità e chi la nega o
la omette è un collaborazionista dei nemici della Patria, quelli veri.
(Articolo di DB- t.me/weltanschauungitaliaofficial).
Auto Elettriche: la Commissione Europea ha
Mentito
spudoratamente a 450 milioni di Europei.
Conoscenzealconfine.it
-( 26 Aprile 2022)- Redazione- ci dice :
IASTEC
(International Association of Sustainable Drivetrain and Vehicle Technology
Research) è un’organizzazione di scienziati, insegnanti e ingegneri europei
coinvolti nella “transizione” che le tecnologie di trasporto terrestre devono
subire per conformarsi alla transizione energetica decisa dall’Unione Europea.
In altre parole, la
voce più importante interessata da questa “transizione” è il trasporto
automobilistico.
La corsa a capofitto
verso l’ignoto si è accelerata negli ultimi anni dopo il “diesel-gate” e
l’apparizione di una serie di regole che restringono l’uso di veicoli a benzina
o diesel che non rispettano le nuove norme sulle emissioni di gas serra. Questi standard emessi dai funzionari della
Commissione europea non hanno altro scopo, tra l’altro poco velato, che
promuovere i veicoli elettrici.
Esaminando le linee
guida della Commissione, infatti, è diventato chiaro che i calcoli presentati
dalla Commissione per sostenere il caso dei veicoli elettrici sono sbagliati.
Questo è stato dimostrato in una lettera alla
Commissione europea da IASTEC, co-firmata da un gruppo di 12 accademici,
presieduti dal dottor Thomas Koch del Karlsruhe Institute of Technology.
È un po’ complicato
da capire, ma la Commissione ha sovrastimato di un fattore 3 la riduzione delle
emissioni di CO2 da parte delle auto “completamente elettriche”, senza tener
conto delle energie intermittenti come l’energia solare ed eolica nel calcolo
fatto da questi eminenti professori.
La Commissione ha
deliberatamente non incluso nelle sue affermazioni il fatto che molti
carburanti liquidi al carbonio contengono fino al 40% di carburante “verde”,
etanolo o oli vegetali.
Né la Commissione ha
tenuto conto dei miglioramenti tecnici dei motori a combustione interna per
funzionare correttamente con combustibili come il G40 o l’R33, che in teoria
producono meno CO2 di origine fossile, poiché una parte – fino al 40%, della
CO2 emessa – si dice sia “rinnovabile”.
Le decisioni prese
dalla Commissione, che tutti i paesi europei devono rispettare recependole
nella loro legislazione nazionale, sono quindi sbagliate. Ovviamente, poiché queste decisioni mirano a
proteggere il clima, devono essere applicate alla lettera.
Siamo quindi di
fronte a un’accozzaglia di bugie…
I tempi saranno duri
per molti europei quando scopriranno che la loro vecchia auto “diesel” sarà
tassata a tal punto da doverla cambiare, ma non avranno abbastanza denaro per
permettersi un’auto completamente elettrica.
Il prezzo di questi
veicoli (BEV nella lettera aperta inviata alla Commissione) aumenterà
inesorabilmente data la già prevista scarsità di cobalto e litio. L’industria automobilistica tradizionale scomparirà
per un’alternativa sconosciuta. Ecco a cosa è arrivata l’Unione Europea…
Puoi scaricare il
Documento Originale Ufficiale spedito da 12 accademici in relazione alla Truffa
perpetrata dall’Unione Europea, in formato PDF: (iastec.org/wp-content/uploads/2021/06/20210624-IASTEC-Letter.pdf).
(iastec.org-
toba60.com/auto-elettriche-la-commissione-europea-ha-mentito-spudoratamente-a-450-milioni-di-europei/).
Farsa Covid: Smantellata praticamente
ovunque, tranne che
in Italia!
Conoscenzealconfine.it-(
25 Aprile 2022)-Avv. Stefano Galeani- ci dice :
“La Verità ha un
passo lento, ma arriva sempre a destinazione”.
Chiunque abbia fatto
un giro in altri paesi europei durante queste vacanze pasquali non potrà non
chiedersi come mai la farsa Covid è stata smantellata praticamente ovunque,
tranne che in Italia.
Io credo che la
risposta sia piuttosto semplice e non abbia a che vedere soltanto con il grado
di sottomissione e di coglionaggine degli italiani (probabilmente unico al
mondo), nonostante sia indubbio che l’appecoramento del popolo abbia contribuito in maniera decisiva a tenerla in
piedi.
Per quanto oramai
sia chiaro che tutti i governi europei stessero seguendo un unico copione, e
che la regia fosse la medesima per tutti, nessun governo, per quanto asservito
e responsabile di crimini contro l’umanità (ora sappiamo che il lockdown lo è
stato), dovrà rispondere
dei reati agghiaccianti e di gravità inaudita di cui si è reso protagonista il governo italiano…(Klaus Schwab…ghigna soddisfatto. Nrd)
I fatti di Bergamo,
le cure negate, le autopsie vietate, il siero genico obbligatorio, il pass esteso
a tutti anche per lavorare, l’eliminazione fisica degli oppositori
(quest’ultima è soltanto una mia convinzione personale, ma troppe figure
scomode sono morte in circostanze misteriose in questi due anni), nessun altro
si è spinto tanto in là.
Ora quel che sperano
di fare è ritardare il più possibile il momento della verità… e nel frattempo
magari organizzare la fuga, chissà. Il castello di menzogne sta inesorabilmente
crollando, e loro lo sanno. Sanno che il tempo a disposizione ormai è poco,
pochissimo.
Perché se è vero che
“la verità ha un passo lento, ma arriva sempre a destinazione”, a questi maledetti assassini non resta che tentare il tutto per tutto, anche
continuare, unici in Europa, a perseverare nell’attuazione di un disegno diabolico che pare essere stato oramai accantonato da tutti.
Vanno avanti, costi quel che costi.
(Avv. Stefano
Galeani- t.me/lealidelbrujo).
1962-2022: dopo
sessant’anni il mondo
è di nuovo sull’orlo
di una catastrofe.
Lucidamente.com -
Giuseppe Licandro -( 3 Aprile 2022)- ci dice :
L’escalation della
guerra tra Russia e Ucraina potrebbe causare uno scontro nucleare tra le superpotenze.
Solo la diplomazia può evitare che ciò accada, come ci ha insegnato la lezione
della crisi dei missili di Cuba.
La guerra in Ucraina
– giunta come un macigno sulla testa dei popoli europei già provati da due anni
di pandemia – ha creato una forte tensione politico-militare a livello globale
che rischia di provocare una pericolosa escalation del conflitto. Una
situazione così grave non si registrava dall’ottobre 1962, quando la crisi dei
missili di Cuba portò il mondo sull’orlo di una guerra nucleare tra gli Stati
uniti e l’Unione sovietica.
Il 1° gennaio 1959
il dittatore Fulgencio Batista – che nel 1952 aveva preso il potere a Cuba con
un colpo di stato avallato dagli Stati Uniti – fu rovesciato dai guerriglieri
del Movimento 26 luglio, guidati da Fidel Castro ed Ernesto Guevara. Il nuovo
governo cubano realizzò ben presto la riforma agraria e pose fine ai privilegi
delle corporations statunitensi che – insieme alla mafia – controllavano
l’economia locale.
I rapporti tra Cuba e Usa, pertanto, si
deteriorarono e nel gennaio del 1961 si giunse alla rottura delle relazioni
diplomatiche tra i due stati. John Kennedy – da poco insediatosi alla Casa
bianca – diede il via libera a una spedizione militare per rovesciare il
governo di Castro, già predisposta dal suo predecessore Dwight Eisenhower.
Il 15 aprile 1961 otto bombardieri
statunitensi B-26 distrussero o danneggiarono vari aerei militari cubani
parcheggiati in alcuni aeroporti. Nelle prime ore del 17 aprile circa 1.500
esuli anticastristi, scortati dalla marina militare statunitense, sbarcarono
sulla spiaggia della Baia dei porci, ma, dopo due giorni di combattimenti,
furono sconfitti dai soldati cubani ( Alain
Charbonnier, Svelati i segreti della Baia dei Porci, in
gnosis.aisi.gov.it/gnosis/Start.nsf).
Il fallimento
dell’invasione rinsaldò l’alleanza di Cuba con l’Unione sovietica. Il 1° maggio
1961, infatti, venne proclamata la repubblica socialista cubana, mentre circa
un anno dopo l’Avana stipulò con Mosca un accordo di mutuo soccorso. Gli States
disposero allora l’embargo economico e finanziario nei confronti dell’isola
caraibica e diedero il via all’«Operazione mangusta», predisposta dalla Cia
(Central intelligence agency) americana con lo scopo di destabilizzare il
regime castrista con sabotaggi e attentati terroristici che, negli anni
seguenti, avrebbero provocato «3.478 morti e 2.099 invalidi», nonché «637
tentativi di eliminare Fidel»
(Giuseppe Trimarchi, Cuba
oggi, Città del Sole Edizioni).
La tensione tra le
due superpotenze era aumentata sensibilmente già nel 1960, quando la Nato aveva
installato in Puglia trenta missili Chrysler PGM-17 Jupiter, ai quali si erano
aggiunti nel 1961 altre quindici testate IRBM PGM-19 Jupiter, collocate in
Turchia.
Il governo sovietico – guidato da Nikita
Chruščëv – si sentì minacciato e, in modo sconsiderato, «cercò segretamente di ristabilire l’equilibrio
strategico piazzando missili nucleari a Cuba» (Joseph
Smith, La guerra fredda. 1945-1991, il Mulino).
Nel luglio 1962 si
svolse un incontro riservato tra Castro e Chruščëv, nel corso del quale si
stabilì di trasportare 140 testate nucleari sovietiche a Cuba.
Così, a settembre iniziarono i lavori di
costruzione di quaranta rampe di lancio per i missili sovietici SS-4 e SS-5.
Il 14 ottobre,
tuttavia, un volo di ricognizione eseguito da un U-2 (un aereo statunitense da
ricognizione ad alta quota dotato di fotocamere) svelò che nell’isola si
stavano edificando delle basi missilistiche. Kennedy, informato solo il 16
ottobre, costituì immediatamente un comitato esecutivo del Consiglio di
sicurezza nazionale (costituito da 13 membri) per discutere sulla strategia da
adottare.
Alcuni consiglieri
(Clarence Dillon, Paul Nitze, ecc.) volevano che gli Usa invadessero Cuba o
distruggessero le basi sovietiche con attacchi aerei; altri (Robert Kennedy,
Robert McNamara, ecc.) ritenevano invece possibile intavolare un negoziato per
convincere Chruščëv a desistere dai propri intenti.
Prevalse, infine,
una soluzione intermedia: il 22 ottobre, infatti, venne imposta una
“quarantena” per Cuba, che fu circondata da 90 navi da guerra, mentre 650 aerei
pattugliavano il mar dei Caraibi.
La sera del 22 ottobre Kennedy, tramite la radio e la tv, informò il
mondo di quanto stava avvenendo, scatenando un’ondata di panico a livello
globale.
Grandi
manifestazioni in favore della pace si tennero in molte nazioni: alla fine del
corteo di Milano, i poliziotti assaltarono con le camionette i manifestanti
confluiti in Piazza Duomo, investendo e uccidendo lo studente universitario
Giovanni Ardizzone ( Davide
Steccanella, 1962. La tragedia di un ragazzo che manifestava per la pace, in
repubblica.it).
Il 24 ottobre papa
Giovanni XXIII tenne un discorso alla Radio vaticana, esortando i contendenti a
evitare una guerra che poteva provocare «terribili conseguenze» .( Simone
Valtorta, 1962, quando il papa impedì l’olocausto nucleare).
Nello stesso giorno
alcune navi sovietiche si diressero verso Cuba, ma – quando ormai lo scontro
appariva imminente – Chruščëv ordinò loro di tornare indietro, aprendo le
trattative con Kennedy. Il 26 ottobre una nave da guerra statunitense sganciò
alcune bombe di avvertimento contro un sottomarino sovietico, armato di testate
nucleari, che era in rotta verso l’isola; il comandante del sottomarino – su
esplicita richiesta dell’ufficiale Vasilij Alexandrovič Archipov – non reagì
all’attacco e fece riemergere il sommergibile senza forzare il blocco navale ( Davide Falcioni, Chi è Vasili Alexandrovich
Arkhipov, l’uomo che salvò il mondo dalla catastrofe nucleare, in fanpage.it).
La tensione salì
nuovamente il 27 ottobre, allorché un U-2 statunitense fu abbattuto
dall’aviazione cubana durante un volo di ricognizione, ma il giorno dopo –
raggiunto l’accordo – Chruščëv annunciò a Radio Mosca di aver ordinato la
rimozione dei missili cubani. Gli Usa – a loro volta – rinunciarono a invadere
Cuba e smantellarono i missili in Puglia e Turchia, ponendo fine il 20 novembre
alla “quarantena” imposta all’isola.
Nel 1963 fu creata
una «linea rossa» tra il Cremlino e il Pentagono che, grazie all’invio di
messaggi tramite le telescriventi, permetteva ai leader delle superpotenze di
consultarsi rapidamente in caso di necessità. Tuttavia, l’esito fausto dei “13
giorni che sconvolsero il mondo” ( film Thirteen Days, 2000, del regista Roger Donaldson) non portò fortuna a tre dei suoi protagonisti.
Giovanni XXIII, già
sofferente per un tumore allo stomaco, morì il 3 giugno 1963; Kennedy fu ucciso
il 23 novembre 1963 a Dallas, in un attentato probabilmente organizzato dai
suoi nemici interni (
Atlantide presenta J.F.K. revisited: tutta la verità sul complotto, in
la7.it/atlantide); dopo la riunione del Presidium del Comitato centrale
del Partito comunista dell’Unione sovietica, tenutasi a Mosca il 13 ottobre 1964,
Chruščëv fu costretto a dimettersi da ogni incarico politico.
La paura di una
Terza guerra mondiale è tornata nel mondo dopo sessant’anni, allorché il 24
febbraio 2022 l’esercito dello “zar” Vladimir Putin ha invaso brutalmente e
pretestuosamente l’Ucraina.
L’aggressione russa non ha alcuna
giustificazione sul piano morale e la resistenza degli ucraini è pienamente
legittima. L’invasione,
tuttavia, ha una sua spiegazione in chiave geopolitica: la Russia, infatti, sta
tentando di ampliare la propria sfera d’influenza e di contenere l’espansione
della Nato verso l’Est europeo, iniziata nel 1997.
A tal proposito, ci
sembra importante ricordare ciò che ha scritto il generale Fabio Mini nel
saggio La via verso il disastro (Limes, n. 7, marzo 2022):
«Ormai sono anni che nella parte continentale
dell’Europa la Russia deve ingoiare i continui rospi forniti dagli americani e
dalla Nato. L’offensiva
Usa-Nato iniziata trent’anni fa, fatta di provocazioni, umiliazioni, erosione
di territori, destabilizzazione ai confini e sostegno all’eversione interna
deve essere affrontata anche sul piano della sicurezza e della potenza militare
[…]. In ogni caso è
necessaria una dose di grande lucidità e buon senso per uscire da una
situazione veramente grave».
Anche noi speriamo
che la lucidità e il buon senso prevalgano e che Putin e il presidente ucraino
Volodymyr Zelens’kyj – sulla falsariga di quanto fecero Chruščëv e Kennedy nel
1962 – trovino infine un’intesa e facciano cessare la guerra “fratricida” tra russi
e ucraini.
Ciò che ci fa più
paura, in questo drammatico frangente, è il malanimo di tanti guerrafondai
nostrani che inneggiano all’escalation militare, senza considerare le terribili
conseguenze di un ingresso della Nato nel conflitto ucraino ( Russia-Ucraina,
la carica degli editorialisti che vogliono la guerra mondiale: il tifo per la
no-flyzone e l’intervento Nato, in il fattoquotidiano.it).
Vorremo, al
contrario, ribadire le ragioni di chi auspica la pace, citando – in
conclusione – alcuni passi di una lettera di Sigmund Freud, inviata nel 1932 ad
Albert Einstein: «Perché ci
indigniamo contro la guerra, Lei e io e tanti altri, perché non la prendiamo
come una delle molte e penose calamità della vita? […] La risposta è: perché
ogni uomo ha diritto alla propria vita, perché la guerra annienta vite umane
piene di promesse, pone i vari individui in condizioni che li disonorano, li
costringe, contro la propria volontà, ad uccidere altri, distrugge preziosi
valori materiali, prodotto del lavoro umano, ed altre cose ancora» (Freud-Einstein,
Perché la guerra?, Bollati Boringhieri; vedi Mariella Arcudi, Riflessioni a due
contro la guerra).
(Giuseppe Licandro).
Il Governo
antitaliano.
Lucidamente.com -
Rino Tripodi -(3 Aprile 2022)- ci dice :
Il premier Draghi,
il Pd e i loro alleati indossano l’elmetto militare, mentre la stragrande
maggioranza dei cittadini è fortemente neutralista e pacifista. Così, tra
sanzioni che danneggiano soprattutto il Belpaese, rischi bellici e con la catastrofe
nucleare sullo sfondo, il potere rema contro i propri cittadini…
Il poliedrico,
grande scrittore, ma politicamente e umanamente ambiguo Curzio Malaparte (all’anagrafe
Curt Erich Suckert, Prato, 1898 – Roma, 1957), ebbe il vezzo di farsi chiamare l’Arcitaliano;
certo per narcisismo, forse per amor patrio, anche se oggi noi lo traduciamo
come simbolo di tutti i pregi e i difetti nazionali, tra i quali il
camaleontismo.
Così un altro scrittore toscano, Giordano
Bruno Guerri, nel raccontare il personaggio, ha intitolato il proprio libro sul
letterato pratese appunto L’arcitaliano. Vita di Curzio Malaparte (Bompiani).
Mario Draghi.
Se pavoneggiarsi da
“arcitaliano” può sembrare eccessivo, come definireste un Governo che fa di
tutto per rendere la vita impossibile ai propri cittadini e per remare contro
di loro?
Potrebbe andar bene
il termine antitaliano? Andiamo ai fatti.
Son trascorsi due anni di emergenza nazionale
pandemica, con risultati sanitari molto dubbi (leggi, tra gli altri, Epidemia
Covid-19: tutto quello che non ci dicono; Manganello, olio di ricino e confino…
Anzi, randellate, idranti, “vaccino” ed esclusione sociale; Autoritarismo
pandemico; Stupidario Covid; Due anni senza libertà).
Le conseguenze
negative, invece, sono certe: la crisi economica, l’impoverimento
delle famiglie, la
chiusura di quasi cinquantamila bar e ristoranti, di migliaia di piccole
aziende e partite Iva, nonché l’instaurazione di un clima sociale di sospetto e
odio…
A questo punto,
visti i disastri precedenti, è da supporre che la nuova emergenza, quella
bellica, scatenata dalla criminale invasione dell’Ucraina da parte della
Russia, verrà affrontata rispettando di più gli interessi nazionali.
E, invece, cosa ti
combina il presidente del Consiglio banchiere, tecnocrate e nominato dall’alto,
Mario Draghi? Indossa l’elmetto e impone – pena la caduta del governo; insomma,
come fosse la scelta più importante per l’esistenza e gli interessi italiani! –
l’aumento delle spese militari al 2% del Pil di una nazione che soffre decenni
di disoccupazione e crollo economico.
Quasi tutti i
parlamentari, dopo essersi genuflessi all’invadente discorso del chiacchierato
presidente ucraino Volodymyr Zelens’kyj, tenuto lo scorso 22 marzo in
videoconferenza alle Camere in seduta comune, approvano le successive dichiarazioni
bellicose del presidente degli Stati uniti Joe Biden e di Draghi, che
sovrespone l’Italia e la colloca in prima linea alle eventuali ritorsioni
russe, comprese quelle estreme, nucleari.
Tuttavia, lo
spettacolo più penoso è offerto dalle sinistre (ma il Partito
democratico-partito regime lo è?).
Esse hanno dimenticato le proprie radici primigenie pacifiste e non
interventiste, fornendo,
come negli ultimi anni di pandemia, uno spettacolo rivoltante di intolleranza e
pensiero oppressivo.
(Le conseguenze delle
radiazioni da bomba atomica a Hiroshima).
Intanto, la
propaganda di regime (tv, “giornaloni”, mondo della cultura a pensiero unico)
si è subito allineata alle posizioni estremiste Usa-Nato-Ue-Draghi-Pd (leggi
Guerra in tivù, penne armate che sparano contro i pacifisti).
Si sta ripetendo lo stesso copione visto nei
due anni (e non sembrano finiti) di emergenza pandemica: intolleranza,
disprezzo, criminalizzazione, linciaggio e derisione di chi, come nel caso del
virus e dei vaccini, ha qualche dubbio o pone qualche domanda…
È censurato persino
l’indignato messaggio pacifista di papa Bergoglio, il che dimostra che puoi
essere chiunque, ma, se non sei funzionale ai poteri forti, sei out.
Dopo anni nei quali
si è condannato non solo ogni nazionalismo, ma pure ogni patriottismo,
criminalizzandolo e derubricandolo come “sovranismo” e “fascismo”, ora monta la
retorica per interposta nazione del patriottismo e dei nuovi partigiani (quelli
del battaglione Azov, di coloritura neonazista?).
La viltà, come ha
scritto Francesco Borgonovo, di «mandare a morire gli ucraini in nome di una
libertà che non otterranno» (in LaVerità, 7 marzo 2022, p. 6), anche perché già
non vivono in un regime davvero liberaldemocratico.
Ma il patriottismo vale per gli altri, non per gli italiani stessi:
vogliamo ricordare i fiumani, istriani e dalmati abbandonati alla pulizia
etnica e all’esilio dopo la Seconda guerra mondiale?;
o l’espulsione degli
italiani dalla Libia nel 1970, con relativa confisca dei beni?;
o gli innumerevoli misteri e stragi che si
sono succedute sul nostro territorio durante la Prima Repubblica? Ancora: ma
dove sono le proteste degli studenti e dei giovani? Nell’epoca moderna essi sono sempre stati un movimento
contestatario dei governi. In
Italia, da quando i postcomunisti sono andati al potere, occupandolo
completamente, anche senza mai un chiaro voto popolare, giovani e studenti
egemonizzati devono scendere in piazza solo per i ridicoli venerdì della
Thunberg e per presunte discriminazioni nei confronti di minoranze che si son
fatte lobby.
È come fossero stati
lobotomizzati (avete notato
che sono stati e sono i più ligi a mettersi la mascherina all’aperto, anche se
da tempo non ve n’è più l’obbligo)?
Nonostante tutto
questo, i sondaggi dimostrano che la stragrande maggioranza degli italiani non
solo disapprova che il nostro Paese intervenga, ma addirittura anche che
spedisca armi all’Ucraina o aumenti le spese militari.
Intanto, paradossalmente, nulla è stato fatto
per incrementare la qualità del nostro Sistema sanitario, come si era promesso
in tempi di Covid (leggi , in questo stesso numero della nostra rivista).
Ora, una delle
credenze più diffuse è che i governi rispettino le opinioni dei propri
cittadini e favoriscano i loro interessi o, almeno, di una buona parte di loro.
Invece, da parecchio
tempo, in Italia, e non solo, esistono esecutivi che “decretano” contro il
proprio popolo, rispondendo solo agli interessi di cupole sovranazionali,
finanziarie, big tech, big pharma, il grande regista della distruzione
dell’umanità Klaus Schwab ecc.
Infatti, è evidente che le sanzioni promulgate
contro la Russia danneggino soprattutto gli italiani.
Ha, difatti, scritto Carlo Cambi (Il risiko
dei miliardi, in Panorama, 23 marzo 2022): «Se all’America non avere a disposizione il petrolio
siberiano non comporta disagio alcuno, il peso delle sanzioni alla Russia è
soprattutto a carico dell’Europa, e di Germania e Italia in particolare».
In tempi appena
trascorsi, prima dell’Ue, dei tre grandi poteri economici (risorse energetiche
e materie prime, moneta, capacità produttiva) il nostro Paese non disponeva
quasi del tutto del primo, ma gestiva il secondo e spopolava nel manifatturato.
Oggi gli si è via
via tolta la possibilità di operare strategicamente per ottenere accordi
vantaggiosi (vedi Libia sottratta alla nostra tradizionale influenza e
amicizia; ma, ancora prima, l’omicidio di Enrico Mattei) e di gestire la lira,
sostituita dall’euro (2002).
E, con l’ingresso della Cina nel Wto (2001),
con lo scopo di renderla la maggiore sede di delocalizzazioni occidentali e
produttrice di manufatti a basso costo, e le successive crisi economiche e la
pandemia, si sono affossate la competitività sul mercato e le capacità
produttive delle aziende tricolore.
Gli interessi
economici italiani e di tantissimi imprenditori e società tricolori andavano
tutti nella direzione del mantenimento dei buoni rapporti con la Russia e dei
redditizi scambi commerciali.
Tra l’altro,
l’esecutivo ha accettato non solo l’assurdità di sequestrare lussuosi yacht di
cittadini russi, ma di escludere pure i turisti, gli artisti e gli sportivi di
quel Paese (l’espulsione delle squadre russe – peraltro composte anche da stranieri
di altre nazionalità – dalle competizioni di ogni sport è orribile, visto lo
spirito universale delle attività sportive).
E di discriminare persino la cultura! Una
barbarie… Di certo, secondo Draghi e la sua maggioranza governativa, non
ricevere più risorse energetiche e altro dalla Russia e non esportarvi le
nostre merci Gusto&Lusso renderà felici gli italiani, così come eventuali
missili nucleari scagliati sulla penisola.
Statisti del calibro
di Alcide de Gasperi, Aldo Moro, Giulio Andreotti, Bettino Craxi, non erano
certo antiamericani o antiatlantisti, ma giocavano le proprie carte su più
tavoli, avendo a cuore gli interessi italiani.
Ma chi è oggi al potere nel nostro Paese di
chi cura gli interessi?
(Rino Tripodi).
«Vogliamo vivere!»
Lucidamente.com- Rino
Tripodi -( 3 Aprile 2022)- ci dice :
Ogni conflitto, non
solo quello in Ucraina, va fermato a ogni costo e non fomentato con
interventismi imperialistici, sanzioni e aumento di spese militari. Le sinistre
si snaturano e, per combattere lo stravolgimento della realtà imposto dai
poteri oppressivi, occorre tornare al vecchio slogan «né un uomo, né un soldo»
per la guerra.
Il titolo in
italiano era brutto e sbagliato. Ma alla fine Vogliamo vivere! è risultato di
un’efficacia commovente.
Stiamo facendo riferimento al capolavoro di
Ernst Lubitsch “To be or
not to be” (Usa, 1942), satira del nazismo girata in piena Seconda guerra
mondiale, emozionante, soprattutto se rivista dopo la scoperta di tutti gli
orrori hitleriani, alla pari de Il grande dittatore (1940) di Charlie Chaplin,
col suo splendido monologo.
Come spesso capitava
nel passato, la traduzione del titolo cinematografico nella nostra lingua,
allorquando la pellicola poté essere diffusa nella penisola, fu brutta e
infedele.
Tuttavia, col tempo,
ha acquisito un proprio valore davvero efficace.
«Vogliamo vivere!». Eh, sì, sembra banale, ma,
vedendo i tanti guerrafondai di queste settimane, non lo è: le persone comuni
desiderano innanzi tutto vivere e le guerre, tutte, anche quelle “giuste”,
seminano la morte, il dolore, la distruzione.
E quando, purtroppo, scoppia un conflitto
armato, come nel caso ucraino, occorre fermarlo a ogni costo. Anche perché esso è stato causato certamente dalla
bieca aggressività del dittatore russo Vladimir Putin, ma anche dalla cecità di
tutte le altre nazioni nei riguardi di una crisi che si protraeva da almeno otto anni, con decine di migliaia
di morti, nonché dal mancato rispetto da parte dell’Ucraina del Protocollo di
Minsk del 2014 (per avere un quadro complessivo, anche storico, della
situazione in quella fetta di Europa, sono preziosi i numeri 2 e 3 di febbraio
e marzo 2022 del mensile di Geopolitica Limes).
Come evitare la
guerra e le sue terribili conseguenze umane ed economiche (secondo
uno studio uscito sul Journal of Peace Research, se dal 1970 al 2014 non ci
fossero state guerre, il Pil globale sarebbe stato più alto del 12%)?
Si vis pacem, para pacem: le uniche modalità
sono la diplomazia, le trattative, i negoziati e i compromessi.
Così nel 1962 si è risolta la crisi cubana
(leggi al riguardo l’articolo di Giuseppe Licandro in questo stesso numero di
LucidaMente).
Marcello Veneziani (Chi decide l’ordine del
mondo?, in Panorama, 9 marzo 2022), ammette che «non c’è una soluzione ma un
compromesso realistico tra potenze, diritti, modelli, esigenze».
Pertanto,
l’intellettuale pugliese auspica, anche se con poche speranze, che si giunga ad
«accettare la pluralità del mondo e circoscrivere, riconoscere alcune aree
omogenee o spazi vitali – per dirla con la geopolitica, Carl Schmitt o più
recentemente Samuel Huntington: l’Europa, gli Stati uniti, l’America latina, la Russia, la Cina,
l’India, il Sud-Est asiatico, l’Africa, il Medio Oriente o civiltà islamica,
l’Australia.
Le grandi aree
naturalmente possono essere intese diversamente, ma queste dieci ci sembrano le
più indicative, a loro volta suddivise in altre aree minori. L’ordine mondiale non può che essere governato da
rappresentanti di queste dieci realtà principali.
Non è la soluzione
regina e le tensioni non sono certo evitate, ma l’unico criterio di
compromesso, l’unico
confine di garanzia non può che essere stabilito a partire da queste linee di
demarcazione».
«Nel caso Ucraina»,
conclude Veneziani, «non può essere la superpotenza americana a stabilire la
liceità di fagocitare a occidente l’Ucraina che già nel nome rispecchia il
travaglio del suo confine; e non può essere la Russia a imporre con la forza la
sua egemonia.
È necessario
riconoscere in queste terre di mezzo una dignitosa neutralità in modo che
l’Ucraina non diventi né Occidente, con le basi Nato sui confini con la Russia,
né diventi Stato satellite della Russia; ma uno Stato autonomo neutrale che
resti a separare l’Occidente e l’Oriente».
Al contrario, fin
dall’inizio e con una pericolosa escalation col passare del tempo, i possibili
interlocutori della Russia, quali Stati uniti, Nato, Unione europea, hanno
assunto un atteggiamento di chiusura verso il dialogo, aizzati in questo dal
discutibile presidente ucraino Volodymyr Zelens’kyj.
Così il ruolo di
mediatori è stato assunto da Turchia o Israele, mentre la Cina persegue i
propri interessi. Intendiamoci:
il discorso secondo il quale si sta combattendo una battaglia tra autoritarismo
e democrazie è una falsità.
Sia Russia sia Ucraina, nazioni peraltro, come la Bielorussia, appartenenti
alla stessa matrice etnico-religioso-linguistico-culturale, sono Paesi tutt’altro che liberali, nei quali
l’influenza di autocrati e mafie è rilevante.
Allora, la guerra putiniana e la risposta
aggressiva di Usa e alleati hanno soprattutto motivi economici.
Come quasi tutti i
conflitti armati, anche se non bisogna mai sottovalutare che possono esistere
cause anche di natura patriottica, idealistica, sociale, religiosa, culturale,
ecc. E, purtroppo, se si guarda alla Storia, le paci sono sempre state delle
brevi pause tra guerre continue.
La Russia ha tutto
l’interesse a mettere le mani sul Donbass ricco di risorse (carbone, gas
naturale, petrolio, industrie, grano e semi di girasole), oltre che a difendere
i russi al suo interno massacrati da soldati governativi e battaglioni
neonazisti. Comunque, le
economie dell’Unione europea e russa sono complementari. Pertanto, sono solo gli americani ad avere tutto
l’interesse a interrompere i rapporti commerciali, in continuo aumento, tra
nazioni europee e colosso euroasiatico, basati sullo scambio centrale risorse
energetiche e materie prime versus manufatti e tecnologie.
A subentrare nelle
forniture di petrolio e gas a prezzo ben maggiore sarebbero proprio loro. Dunque, la solita, sporca guerra, della quale pagano
il prezzo maggiore le persone comuni coinvolte nei teatri di battaglia.
Ma la novità è che a
fomentarla non sono tanto o soltanto i vecchi “nazionalisti” di un tempo,
disprezzati senza alcun distinguo, almeno quanto i “sovranisti”, dalle sinistre liberal Dem Usa dappertutto al potere nei cosiddetti “stati democratici” (peraltro da due anni senza libertà per “dittatura
sanitaria”), ma proprio i “progressisti”.
I quali, nonostante le tante belle affermazioni, si dimostrano
“razzisti” o, quanto meno, poco sensibili verso le altre etnie, quando si
tratta di massacri di serbi, libici, afghani, irakeni, siriani, yemeniti ecc.
ecc. e, ora, ucraini.
Allora, quali vite
contano (secondo gli slogan alla moda come Black lives matter)?
Nelle menti radical chic esiste una gerarchia che pone in alto neri americani,
gay o transgender, immigrati delle sponde sud del Mediterraneo, donne della jet
society che si dicono abusate; in basso e in fondo bianchi, maschi,
occidentali, eterosessuali, autoctoni, cristiani, malvagi per natura innata e
colpevoli di ogni abominio compiuto sul pianeta…
E chi muore per le guerre d’aggressione per interessi geostrategici ed
economici simili a quelle scatenate da Putin, ma a guida Usa e Nato (vedi Dal
1945 ad oggi 20-30 milioni gli uccisi dagli Usa)? Non conta nulla.
Paradossalmente, a
ricordare questa logica dei due pesi e delle due misure non sono stati
giornalisti, intellettuali o storici, ma i tifosi serbi della Stella Rossa di
Belgrado, peraltro tradizionalmente amici della Russia, coi loro striscioni
esposti lo scorso 17 marzo prima di una partita di Europa League, che
elencavano le decine e decine di invasioni statunitensi di Stati indipendenti e
sovrani .
Insomma, per
l’Occidente, i crimini di
guerra “amerikani” non esistono, valgono solo quelli altrui.
Anche perché, al
contrario che nell’Ucraina, le immagini dei cadaveri e delle distruzioni
provocate dagli “interventi umanitari” non vengono trasmesse in tv: dopo il
Vietnam, gli Usa ne hanno imposto la censura assoluta.
Come nel caso Covid,
i poteri forti, sostenuti dalla quasi totalità dei media asserviti, hanno
martellato le popolazioni con menzogne su menzogne, usando ancora l’arma
orwelliana dello stravolgimento del linguaggio e della criminalizzazione e
derisione dei dissidenti (un caso per tutti, quello del professor Alessandro Orsini).
Ha scritto Antonio
di Siena de l’AntiDiplomatico: «I nazisti sono diventanti patrioti; gli interventisti, pacifisti; i
mercenari, volontari; i civili, resistenza o terrorismo a seconda della
fazione. I colpi di stato
sono diventati rivoluzioni colorate; provocazioni belliche e sanzioni, diplomazia; guerre decennali,
sanguinose e con migliaia di morti, conflitti a bassa intensità; la guerra è diventata missione di pace; il dialogo e
l’equilibrio, una minaccia; il
diritto internazionale interpretabile a seconda dei casi. Ormai plasmano le
parole come plastilina, riscrivono la realtà di volta in volta, adattandola
alle esigenze come fosse il copione di un film non perfettamente riuscito. E molti, inebetiti dalla trama neanche troppo
originale, non riescono a staccare gli occhi dallo schermo ingozzandosi di
popcorn alla merda. Senza
nemmeno accorgersi del sapore, perché gli hanno detto che è cioccolata».
Aggiungeremmo che
quella che una volta era definita, senza mezzi termini, ideologia, ovvero
manipolatoria visione del mondo e della realtà, è oggi ribattezzata
«narrazione» nella neolingua che ci vogliono imporre, così come con i
neologismi «resilienza» o la schwa; in tal modo il potere intende ricostruire
una verità funzionale ai propri piani.
Non a caso, è stata
proprio il “nuovo Hitler” , la mente del Forum economico di Davos, Klaus Schwab
(guarda caso, “schwa”+b), a definire la narrazione «sforzo collaborativo dei principali pensatori del
mondo per modellare prospettive a lungo termine e co-creare una narrativa che
possa aiutare a guidare la creazione di una visione più resiliente, inclusiva e
sostenibile per il nostro futuro collettivo».
(Intanto Klaus
Schwab fabbrica bombe atomiche in gran segreto in Sud Africa ,e nessun governo
pensa di metterlo in catene per non nuocere al destino- da lui indicato nei
suoi scritti- per l’umanità intera!
Ndr).
Una fredda,
tecnocratica neolingua, quasi incomprensibile, da lavaggio del cervello.
Ed ecco, puntuale,
la nuova pubblicazione di Schwab (con Thierry Malleret): “The Great Narrative”.
For a better future.
E, nella narrazione
del potere, spedire armi è salvare vite umane e difendere a ogni costo una
cleptocrazia oligarchica è salvaguardare la libertà dell’Occidente.
Pensateci un po’:
sembra che si stia aggiungendo un altro fondamentale tassello alla
realizzazione del regime prefigurato da George Orwell nel suo 1984.
Dopo il controllo
sociale assoluto, la penuria economico-materiale a fronte di statistiche
falsificate sull’andamento dell’economia, l’odio quotidiano vero i dissidenti,
la delazione, la neolingua, le menzogne dei media asserviti al potere, la
cancel culture, ecco che si profila l’eterna guerra (o continuo stato di
conflitto) contro una potenza straniera, contro un nemico odioso e subumano
inventato a bella posta: nel romanzo dello scrittore scozzese Oceania contro
Eurasia ed Estasia;
nel nostro futuro
Usa-Nato-Ue contro Russia, Cina e magari mondo arabo.
Dalle menzogne della
neolingua ci si salva guardando la realtà con semplicità, senza “narrazioni”-ideologie, non ascoltando la martellante propaganda
massmediologica, e recuperando
le verità del passato.
Quindi, ricordando
ancora la vecchia posizione pacifista del socialista Andrea Costa: «Né un uomo, né un soldo» per la guerra.
(Rino Tripodi).
Se la Russia non
viene fermata metterà
in discussione
l’intero ordine mondiale.
Linkiesta.it- Alessandro
Cappelli- (28 aprile 2022)- ci dice :
L’invasione
dell’Ucraina non è solo una questione tra Mosca e Kiev. La guerra revisionista
di Putin è un assist a tutte le autocrazie che, in futuro, si sentiranno
legittimate ad attaccare i Paesi vicini nelle loro guerre di conquista.
«Sono orgoglioso di
annunciare che l’incontro di oggi diventerà un gruppo di contatto mensile
sull’autodifesa dell’Ucraina e sarà un mezzo per intensificare i nostri sforzi,
coordinare la nostra assistenza e concentrarci sul vincere la battaglia di oggi
e le battaglie future».
Dalla base aerea
statunitense di Ramstein, in Germania, il segretario alla Difesa statunitense
Lloyd Austin ha annunciato le nuove strategie per rafforzare le capacità
militari dell’Ucraina. Ma le sue parole vanno molto oltre il qui e ora.
La sensazione è che Austin parli di una sfida
globale e irrinunciabile, un possibile punto di non ritorno per il mondo
democratico e liberal Dem Usa: se non si vince oggi contro l’autoritarismo russo, domani sarà peggio, quindi si combatte oggi, si combatte domani, si
combatterà in futuro finché ci sarà bisogno per tutelare la “democrazia liberal
Dem Usa”.
L’invasione russa
dell’Ucraina mette in discussione l’equilibrio dell’ordine mondiale. È vero, il rispetto delle norme della sovranità
statale non è mai stato realmente impeccabile. Ma gli Stati hanno cercato di rispettare l’integrità
dei confini nazionali almeno secondo una linea di massima: si può dire che tra
tutte le minacce e le difficoltà che uno Stato deve affrontare nel XXI secolo,
un’invasione che voglia ridisegnarne i confini sia un’opzione piuttosto remota.
Ora, con l’invasione
della Russia, i principi, i valori e le norme di diritto internazionale che
tutelano gli Stati dall’eventualità di subire una guerra di conquista
territoriale viene messa alla prova nel modo più minaccioso e palese dai tempi
della Seconda guerra mondiale: la guerra in Ucraina ricorda un’era passata, più
violenta, un’era che Vladimir Putin non ha timore di rievocare.
«Ma se la comunità
globale consentirà alla Russia di prendere l’Ucraina, altri Stati potrebbero
pensare di usare più frequentemente la forza per mettere in discussione i
confini nazionali, e potrebbero scoppiare guerre, potrebbero essere
ripristinati gli imperi e sempre più Paesi potrebbero essere sull’orlo dell’estinzione»,
ha scritto Tanisha M. Fazal su Foreign Affairs.
Tra il 1816 e il
1945 gli Stati scomparivano dal planisfero al ritmo di uno ogni tre anni. Ma
già dalla metà del XX secolo la musica è cambiata. Durante la Guerra Fredda
l’idea della conquista territoriale non è stata rimossa del tutto, ma è
diventata sempre più debole.
Da un lato perché lo
sviluppo tecnologico bellico e i nuovi sistemi militari hanno cambiato i
conflitti e hanno reso sempre più rischioso un coinvolgimento in guerra. Dall’altro,
con la nascita delle Nazioni Unite, è cambiato il modo in cui gli Stati hanno
iniziato a interagire tra loro. E i Paesi indipendenti hanno assunto negli anni
impegni simili a quanto stabilito dalla Carta dell’Onu, creando organizzazioni
regionali – come la Lega araba e l’Organizzazione per l’unità africana – su
quegli stessi principi.
Non tutti hanno
rispettato quelle norme e quei valori per motivi nobili: alcuni Stati
semplicemente non hanno ambizioni territoriali, altri sanno che le controversie
sarebbero complicatissime da affrontare, altri hanno interesse nel preservare
la stabilità del sistema internazionale. Ma l’equilibrio, per quanto precario,
costruito in quegli anni ha limitato il ricorso alla guerra come strumento
offensivo e di conquista.
Con gli anni ‘90 e
la fine della Guerra Fredda, la battaglia ideologica si è risolta a favore
della visione occidentale, fatta
di democrazia liberal Dem Usa, stato di diritto e logiche di mercato. È la
“fine della storia” teorizzata da Francis Fukuyama. Naturalmente, la fine della
storia non ha significato assenza di guerra o conflitti in assoluto. Ma ha
contribuito a consolidare un ordine mondiale regolato da principi e valori che
– in buona sostanza – frenavano il ricorso a invasioni e ingerenze sul
territorio di altri Stati.
«L’invasione
dell’Ucraina da parte di Vladimir Putin vuol dire che l’incantesimo della fine
della storia è stato spezzato? La storia è ricominciata in chiave tragica, come ha detto il presidente
francese Emmanuel Macron? Siamo
giunti alla fine della fine della storia militare?», si domandava a inizio aprile Adam Tooze in un articolo
pubblicato su New Statesman.
Putin non ha mai
accettato la caduta dell’Unione Sovietica, non accetta che i valori fondanti
degli Stati Uniti e dei loro alleati possano definire l’ordine internazionale.
È per questo che,
con lui alla guida, il Cremlino si comporta come una potenza revisionista. Già nel 2007, alla Conferenza sulla sicurezza di
Monaco, annunciò la sua sfida all’Occidente: un anno dopo sarebbe arrivato
l’attacco alla Georgia, nel 2014 l’invasione della Crimea.
«Il leader della
Russia, proprietario del più grande arsenale nucleare del mondo, ha ricostruito un esercito e una macchina di
propaganda progettati per facilitare gli omicidi di massa. Troppo a lungo i custodi dell’ordine mondiale
liberal Dem Usa hanno distolto lo sguardo: quando la Russia ha “pacificato” la
Cecenia uccidendo decine di migliaia di persone, quando la Russia ha bombardato
scuole e ospedali in Siria, i leader occidentali hanno deciso che non era un
loro problema», scrive Anne
Applebaum sull’Atlantic, ricordandoci che non esiste un ordine mondiale
liberale naturale, e non esistono regole se non c’è qualcuno che le fa
rispettare.
E, a meno che le democrazie del mondo non si
difendano insieme, unite, le forze dell’autocrazia le distruggeranno.
C’è motivo di temere
che le ambizioni di Putin vadano ben oltre gli obiettivi di un regime change in
Ucraina o di prendere le repubbliche separatiste di Donetsk e Luhansk. Putin
sembra interessato a tornare alla Russia imperiale, una Russia che può
permettersi di muovere una guerra preventiva all’Occidente per paura di un
attacco che nessuno aveva programmato.
Ora, se la comunità
internazionale non frena la guerra voluta da Mosca, tutti gli Stati confinanti
con le grandi potenze – specialmente quelle che possono avere velleità
revisioniste – si sentiranno in pericolo.
È per questo motivo
che la guerra della Russia in Ucraina è molto più di un semplice scontro tra l’armata
del Cremlino e la difesa di Kiev.
«Farla passare
liscia a Putin – sono parole di Fazal su Foreign Affairs – significa rendere
milioni di civili più vulnerabili agli attacchi indiscriminati. In questo momento, gli effetti immediati della guerra
sono in gran parte limitati all’Ucraina, alla Russia e ai Paesi che accolgono i
rifugiati ucraini. Ma in
futuro tutti gli Stati farebbero bene a occuparsi con cura dei propri confini».
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