Multilateralismo asiatico contro Globalismo occidentale .
Il Multilateralismo asiatico (rispettoso delle patrie e dei confini tra stati sovrani) contro il Globalismo occidentale indirizzato verso un governo unico totalitario mondiale .
Il Comunismo Trionfa in USA e Unione Europa.
Marcotosatti.com-
Marco Tosatti- Maurizio Milano-(3 Maggio 2022). Ci dicono :
Carissimi Stilum Curiali, mi sembra
interessante portare alla vostra attenzione questo articolo dell’Osservatorio Internazionale
Cardinale Van THuan, che ringraziamo per la cortesia.
Buona lettura e meditazione.
(Marco
Tosatti).
Loa
scorso 12 agosto, sulla Rivista “il Mulino” di Bologna è uscito un prezioso
articolo, intitolato “Un nuovo statalismo climatico”, a firma di Paolo Gerbaudo, un sociologo esperto di comunicazione
politica che dirige il Centro di Ricerca sulla Cultura Digitale al King’s
College di Londra e si occupa di movimenti sociali, partiti, campagne
elettorali e social media.
L’interesse
dipende dal fatto che l’autore, in modo molto trasparente, “svela” l’iniziativa di superare il modello di economia di mercato, nella direzione di un nuovo
statalismo, definito, appunto «statalismo climatico»; al quale, dopo le recenti
modifiche, sembra convergere anche la Costituzione italiana.
La
tesi di fondo è che l’economia di mercato è finita:
il cosiddetto neoliberismo di Reagan e della Thatcher
non corrisponderebbe più alle esigenze del nuovo mondo, perché l’emergenza
climatica, che è globale, richiede inevitabilmente risposte globali.
La premessa, che viene presa per certa, è la teoria del «riscaldamento
globale di origine antropica» (l’acronimo inglese è “AGW”: Anthropogenic Global Warming),
insieme al più ampio concetto di «cambiamento climatico» che ne deriverebbe. Tali analisi
sono al centro dell’attività dell’”Intergovernmental Panel on Climate Change” (Ipcc),
un’agenzia intergovernativa delle Nazioni Unite dedicata allo studio
dell’impatto umano sul cambiamento del clima e sulle sue conseguenze.
Sulla
teoria dell’AGW, mentre esiste un ampio consenso nella comunità politica
internazionale non mancano invece critiche e riserve proprio all’interno della
comunità scientifica: è significativo, per restare all’Italia, che nella famiglia
Prodi l’AGW sia accettato dall’uomo politico Romano, mentre sia invece
sconfessato dallo scienziato climatico suo fratello, il Prof. Franco, celebre
studioso di fisica dell’atmosfera, meteorologia e climatologia, che rifiuta
ogni allarmismo climatico affermando che le ipotesi dell’Onu sono «non del
tutto disinteressate» e che «la scienza, oggi, non è in grado di dare
indicazioni certe, perché la climatologia è una disciplina acerba», mettendo
anche in guardia dal «rischio di mettere in pratica soluzioni non solo sbagliate,
ma anche controproducenti».
Che la
causa del riscaldamento globale degli ultimi decenni sia prevalentemente di
origine antropica – anziché invece del tutto naturale, legata all’evoluzione
dell’attività solare o a quella vulcanica, ad esempio – non è né dimostrabile
né verificabile empiricamente, sia per la brevità del periodo in esame e
l’elevata volatilità dei dati sia per l’estrema complessità dei fenomeni
osservati.
Fasi
cicliche di riscaldamento del pianeta, tra l’altro, sono documentate dai
paleoclimatologi ben prima della Rivoluzione industriale e dell’inizio delle
emissioni di gas serra di origine umana: per limitarci agli ultimi duemila
anni, anche se limitatamente al nostro emisfero, l’“Optimum Climatico Romano”
(250 a.C.-400 d.C.) e il “Periodo Caldo Medievale” (950-1.250 d.C.), che furono
tra l’altro particolarmente propizi per lo sviluppo della civiltà umana.
Argomenti certamente insufficienti,
considerati da soli, perché il riscaldamento globale coinvolge ora l’intero
pianeta;
ma considerando che le previsioni catastrofistiche dei decenni passati
sull’evoluzione del clima e sui conseguenti impatti sul pianeta e sull’uomo si
sono poi rivelate erronee, sarebbe auspicabile una maggiore prudenza
nell’individuazione delle cause e nella conseguente definizione di “scenari”
allarmistici, come invece fa l’Ipcc. Tanto che la teoria dell’AGW è ritenuta fallace da
moltissimi scienziati autorevoli, tra cui, sempre per restare al nostro Paese, i celebri
Antonino Zichichi e Carlo Rubbia.
In
conclusione, si può certamente affermare che “lo dice la politica”, molto meno
che “lo dice la scienza”.
Non si
può ridurre a negazionismo antiscientifico il dubitare della responsabilità
esclusivamente o prevalentemente umana dietro fenomeni così complessi: ne
consegue che la pretesa di volere a tutti i costi (è il caso di dirlo)
abbassare la temperatura del pianeta, come si fa col climatizzatore
dell’ufficio, appaia oltre che prometeica e irrealistica, anche imprudente e
probabilmente insensata.
È
ideologico, e non scientifico, considerare una teoria come se fosse una
certezza dimostrata e verificabile empiricamente, e proporre scenari allarmistici per
giustificare poi interventi di portata colossale, con gravi restrizioni alla
libertà, ricadute inflazionistiche e costi astronomici, come riconosciuto anche
da Bill Gates quando parla del cosiddetto green premium, l’extra-costo di 5mila
miliardi di dollari annui per avviare la transizione ecologica verso un mondo
“decarbonizzato”.
Presa
per buona la premessa del cosiddetto “cambiamento climatico di origine
antropica” – che è per definizione globale – e delle sue supposte conseguenze
catastrofiche, è chiaro che anche la sovranità nazionale dovrebbe cedere il
passo a una prospettiva di multilateralismo e di governance mondiale:
a
problemi globali soluzioni globali, insomma.
L’unica via d’uscita per evitare la catastrofe
planetaria sarebbe quindi l’evoluzione dei sistemi sociali, economici e
politici verso un New Normal in cui gli Stati nazionali, le Banche centrali, la comunità
internazionale, l’ONU, le grandi imprese corporate, i grandi media globali, i
think tank più importanti (come il World Economic Forum di Davos di Klaus Schwab ,il
nuovo Hitler globalista ) collaborano tra loro, accentrando
risorse, decisioni e stabilendo le direttrici di sviluppo e le metriche a cui i
piccoli dovranno attenersi.
Com’è
noto, la “transizione ecologica” con la connessa pianificazione pubblica è uno
dei punti centrali, anche se non il solo, dell’Agenda Onu 2030, del Build Back
Betterdi Biden, del Green Deal europeo, dell’«iniziativa» del Great Reset.
In altre parole, dopo decenni di misure legate
a politiche di mercato che si sarebbero rilevate poco più che palliativi, ora il contrasto al cambiamento
climatico richiederebbe una pianificazione a livello statale e sovranazionale: ciò spiega il consenso
generalizzato per la teoria dell’AGW nella comunità politica e nei grandi
gruppi economici e finanziari.
Per
fugare ogni dubbio interpretativo, lascio la parola a quanto scrive Gerbaudo
nell’articolo citato, commentando il Sixth Assessment Report dell’Ipcc dello
scorso 9 agosto, dove si evidenzia che oramai siamo in ritardo nel frenare l’aumento
della temperatura del pianeta rispetto agli obiettivi che erano stati presi, in
particolare nell’accordo di Parigi sul clima del 2015.
A tal
proposito, Gerbaudo afferma che «la prospettiva è quella di un pianeta dove
sarà assai più difficile vivere.
E
soprattutto dove sarà difficile vivere in pace, dato il modo in cui il
cambiamento climatico rischia di generare ondate di rifugiati climatici e
scatenare una competizione per le risorse.
Le
parole di António Guterres segretario generale dell’Onu – “questo rapporto è una campana a
morto per carbone e combustibili fossili, prima che distruggano il nostro
pianeta” – più dure di quelle dei suoi predecessori, riflettono un crescente
consenso nel mainstream politico ed economico rispetto alla necessità di
accelerare sulla transizione. […]
In un
tempo in cui il negazionismo sul clima è ormai marginalizzato alle lobby delle
compagnie petrolifere e fanatici del mercato senza regole, c’è una forte massa
critica che spinge per una transizione rapida. […] Ma non sarà certo il mercato,
né un cambiamento degli stili di vita, a risolvere il problema epocale che
abbiamo di fronte. Il cambiamento climatico è il classico problema per cui “non ci sono soluzioni di mercato»”.
Di
fatto si è perso molto tempo utile sperando invano in tali soluzioni. Basti
pensare al sistema europeo di scambio di quote di emissione di gas a effetto
serra (Emissions
Trading System), considerato da molti come un fallimento, visti anche i prezzi risibili
per comprare diritto a inquinare.
[…] La logica di mercato e il meccanismo
del prezzo su cui esso poggia non sono efficaci per un bene pubblico come il
garantire un ambiente vivibile. Dopo decenni di egemonia neoliberista e credo nel “mercato che si autoregola” nelle scelte di politica climatica si stanno affacciando forme
di interventismo statale a lungo abbandonate. Solo uno Stato interventista può
mettere in campo il coordinamento strategico ad ampia scala e mobilitare le
risorse necessarie a vincere la sfida».
«Durante
la pandemia, abbiamo assistito a una mobilitazione statale senza precedenti
negli ultimi decenni: lockdown, grandi campagne di vaccinazione e grandi piani di
stimolo e investimento
hanno ribaltato l’immaginario politico su cui si reggeva il neoliberismo.
Se
alcuni fautori del libero mercato sperano che si tratti solo di una fase
eccezionale prima del ritorno ai fasti degli anni Novanta e primi Duemila, è
evidente che sono in corso cambiamenti strutturali nella sfera economica. Per diversi anni, se non decenni a
venire, il mercato sarà di fatto sovrastato dall’ombra di grandi piani di
investimento statale, come il Recovery Fund europeo e i programmi più ambiziosi
lanciati dagli Stati Uniti. …]
Nel
nuovo liberalismo progressista di Biden […] il mercato non è più visto come uno
spazio autonomo ma come l’oggetto di decisioni politiche volte a dettarne il
comportamento».
A
fonte della «enorme “esternalità negativa” prodotta dal capitalismo globale […] la strada è un ritorno a una vera
pianificazione democratica, in cui lo Stato fissa obiettivi regolativi che poi deve
essere il mercato a raggiungere, piuttosto che intervenendo direttamente nella
produzione.
Tra tutti i cambiamenti a cui stiamo
assistendo nelle policy sul clima forse quello più significativo è il ritorno
della pianificazione.
Basti pensare agli obiettivi sanciti da
diversi Stati, dalla Cina agli Stati Uniti, che puntano a dimezzare le
emissioni di anidride carbonica entro la fine del decennio o ai piani di
vietare auto a diesel e benzina.
Il
governo britannico ha stabilito che dal 2030 si potranno immatricolare solo
auto a motore elettrico, mentre Joe Biden ha fissato un più modesto 50% a fine
decennio. Per l’Unione europea l’obiettivo è di
fermare la produzione di auto non elettriche entro il 2035. Assistiamo dunque a un ritorno della
pianificazione [… che] fa il paio con un ritorno prepotente della politica
industriale».
«Diversi
politici nei Paesi occidentali, a partire dagli Stati Uniti sembrano aver
cominciato ad accettare che solo un ritorno a un forte interventismo statale
può sostenere lo sforzo colossale e garantire la celerità necessaria a evitare
gli scenari più cupi tracciati dal rapporto Ipcc.
Ma
senza dubbio ci saranno enormi resistenze […: occorrerà] coinvolgere
direttamente la popolazione nelle decisioni sul futuro; affinché la pianificazione climatica
sia vista non come una scelta tecnocratica, ma come frutto di decisioni
democratiche e legittime. […]
A giudicare dalle reazioni alle forme di
direzione e controllo statale durante la pandemia con il proliferare di
movimenti no-mask e no-vax il ritorno della pianificazione statale verrà visto
da settori della popolazione come un’imposizione inaccettabile. Ma un’altra strada non c’è.
Le soluzioni di mercato puro, come il mercato
delle emissioni hanno fallito e il cambiamento individuale negli stili di vita
non è sufficiente.
Per
essere all’altezza della sfida che abbiamo di fronte occorre uno Stato pianificatore democratico che sappia approfittare
dell’emergenza climatica anche come occasione per affrontare il problema ormai
enorme della diseguaglianza sociale».
Più
chiaro di così…occorre essere grati a Gerbaudo per avere descritto senza reticenze
il progetto di transizione verso il “liberalismo progressista” soggiacente
all’Agenda ONU 2030 e all’iniziativa del Great Reset, che molti bollano ancora come una
delle tante conspiration theories, ovvero “teorie del complotto”.
Nella
prospettiva “anti-sussidiaria” e dirigistica chiaramente evocata dall’autore, il tempo della libertà economica,
dei privati, delle piccole e medie imprese è definitivamente tramontato, e le
crisi sanitarie, climatiche ed energetiche sono viste come delle grandi
opportunità, dei catalizzatori propizi al salto di paradigma dall’economia libera
all’economia pianificata, dallo “shareholder capitalism” – per dirla con Klaus
Schwab, leader del WEFdi Davos – allo “stakeholder capitalism del XXI° secolo”.
L’articolo
di Gerbaudo è precedente all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia: al momento non è ancora chiaro se la
guerra in atto e la conseguente destabilizzazione degli equilibri geopolitici,
economici e finanziari pre-conflitto freneranno il progetto o addirittura, come
si ripropone la Commissione Europea nel piano REPowerEU, saranno l’occasione
per ulteriori accelerazioni.
A tal proposito, il vicepresidente della
Commissione, Franz Timmermans, ha dichiarato: «buttiamoci nelle energie rinnovabili
alla velocità della luce […]. La guerra di Putin in Ucraina dimostra l’urgenza
di accelerare la nostra transizione energetica pulita».
Occorre
precisare che il “capitalismo occidentale” è molto differente da come viene dipinto dalla
narrazione prevalente, che lo definisce turbocapitalismo, capitalismo selvaggio o
neoliberismo,e lo condanna come iniquo perché caratterizzato da un “eccesso” di
libertà dei privati.
I sistemi economici moderni, compreso quello
statunitense, sono invece caratterizzati da livelli di spesa pubblica,
pressione fiscale e contributiva molto elevati, rigide regolamentazioni di
vario tipo, con spazi di libertà per i piccoli assai modesti e in progressiva
contrazione;
per di
più, in particolare negli ultimi 10-15 anni, sono aumentate esponenzialmente le
manipolazioni “politiche” del potere d’acquisto del denaro fiat ad opera delle
Banche centrali, che hanno innescato forti dinamiche inflazionistiche, ai danni
dei piccoli risparmiatori e dei titolari di redditi fissi.
Il termine più corretto per qualificare il
sistema “capitalistico” contemporaneo sarebbe quello di crony capitalism, capitalismo clientelare, con tendenza al “socialismo finanziario”.
Ora si vorrebbe che tale modello – sicuramente
fallimentare, ma per motivi opposti a quelli addotti dai critici di tale
supposto neoliberismo – evolvesse, nel decennio in corso, verso quello che
potremmo battezzare “socialismo liberale del XXI° secolo”.
Con
l’obiettivo di uno sviluppo inclusivo, resiliente e, ovviamente, sostenibile:
queste le parole d’ordine, con risorse e decisioni progressivamente accentrate
in cabine di regìa sempre più alte.
La
cifra di tale neocorporativismo tinto di verde è un nuovo contratto sociale
caratterizzato da un’alleanza ancora più stretta tra il potere pubblico e i
grandi gruppi privati, giustificata da uno “stato di eccezione” permanente:
siamo entrati nell’era delle Nuove Politiche Economiche, ovviamente
“democratiche” e accompagnate da una “grande narrazione” per creare il consenso
necessario per giustificare gli enormi costi, sia in termini di benessere
economico sia di libertà, richiesti da tale cambiamento epocale.
Sacrifici pesanti e immediati ma che sarebbero
giustificati dall’assenza di alternative e, ça va sans dire, dalla certezza di
un “futuro migliore”.
Occorre
essere molto grati a Paolo Gerbaudo. Green is the new Red: comunque la si pensi sulla teoria
del riscaldamento globale “di origine antropica”, il progetto dello statalismo
climatico e della pianificazione democratica adesso è davvero chiaro a tutti.
Avrà successo? No, per almeno due ordini di motivi.
Innanzitutto,
il reale è complesso e in continua evoluzione: nessun pianificatore centrale, per
quanto “illuminato”, può quindi illudersi di disporre di tutte le informazioni
rilevanti per prendere dall’alto e dal centro decisioni efficienti, efficaci e
in tempi congrui; i piani sono infatti decisi a tavolino, non necessariamente
da persone competenti o disinteressate, sulla scorta di informazioni parziali,
datate e poi implementati nel tempo, mentre la realtà si modifica
incessantemente, spesso in modo improvviso e imprevedibile: basti pensare alla guerra in Ucraina
e alle conseguenze ignote ma profonde che comporterà sugli equilibri mondiali,
a tutti i livelli.
Inoltre,
progetti che si basino su un’antropologia distorta, e quindi su una sociologia
rovesciata, sono destinati al fallimento finale per motivi “ontologici”, perché
contrari all’ordine naturale delle cose.
Non
senza produrre seri danni strada facendo, certamente, anche per lunghi anni: ed
è il motivo per cui non dobbiamo stancarci di smascherarli e denunciarli, contrapponendo una “narrazione” vera
alla “grande narrazione” ideologica del “pensiero unico” oggi dominante.
(Maurizio
Milano).
Il
multilateralismo aiuterà
la
ripresa del mondo.
ilsole24ore.
com -(4 febbraio 2021)- di Antonio Guterres, Ursula von der Leyen, Emmanuel
Macron, Angela Merkel, Charles Michel e Macky Sall - ci dicono:
Un
appello per una crescita economica più inclusiva, trainata da un commercio
basato su regole condivise e standard elevati. È il futuro di un nuovo
multilateralismo che non lasci indietro i più poveri, che non alimenti le
diseguaglianze e anzi le riduca. La gravi crisi che abbiamo vissuto, la
pandemia, il ritorno dei nazionalismi e dei sovranismi insegnano che per
plasmare gli anni a venire sono necessarie scelte ambiziose. C’è un importante
lavoro da compiere, la ricostruzione del consenso attorno a un ordine mondiale
basato sullo stato di diritto. E sulla sostenibilità ambientale.
In
questo senso gli impegni presi nella lotta al cambiamento climatico dovranno
essere intensificati in vista della Conferenza internazionale di Glasgow
(Cop26) a novembre.
Ucraina,
ultime notizie. Stoltenberg, Nato non accetterà mai annessione Crimea. Tutti i
civili evacuati da Azovstal
Nel
settembre del 2000, 189 Paesi firmarono la “Dichiarazione del Millennio”, che definiva i principi della
cooperazione internazionale per una nuova era di progressi verso obiettivi
comuni. Uscendo dalla Guerra Fredda, eravamo convinti della nostra capacità di
costruire un ordine multilaterale in grado di affrontare le grandi sfide
dell’epoca: fame e povertà estrema, degrado ambientale, malattie, shock
economici e la prevenzione dei conflitti. Nel settembre del 2015, gli stessi
Paesi hanno rinnovato il proprio impegno verso l’ambizioso progetto di
affrontare insieme le sfide globali, sottoscrivendo l’Agenda 2030 dell’Onu per
lo sviluppo sostenibile.
Il
nostro mondo ha conosciuto trend divergenti, che hanno portato a una maggiore
prosperità a livello globale mentre le disuguaglianze permangono o aumentano. Le democrazie sono cresciute in
concomitanza con una recrudescenza del nazionalismo e del protezionismo. Nel corso degli ultimi decenni, due
gravi crisi hanno sconvolto le nostre società e indebolito le nostre politiche
comuni, mettendo in discussione la nostra capacità di superare gli shock,
affrontare le loro cause e garantire un futuro migliore alle generazioni a
venire. Esse
ci hanno anche ricordato quanto siamo dipendenti gli uni dagli altri.
Le
crisi più gravi richiedono le decisioni più ambiziose per plasmare il futuro.
Noi riteniamo che questa possa essere un’occasione per ricostruire un consenso
intorno a un ordine internazionale basato sul multilateralismo e sullo stato di
diritto attraverso una cooperazione, una solidarietà e un coordinamento
efficienti. In tale ottica, siamo determinati a collaborare, insieme e al loro
interno, con le Nazioni Unite, organizzazioni regionali, organismi
intergovernativi come il G7 e il G20, e coalizioni ad hoc per affrontare le
sfide globali di oggi e anche di domani.
Superare
assieme il Covid-19.
La
prima emergenza è quella sanitaria. La crisi legata alla Covid-19 rappresenta il banco
di prova più importante per la solidarietà mondiale da generazioni a questa
parte. Essa ci ha ricordato un dato di fatto: a fronte di una pandemia, la nostra
catena della sicurezza sanitaria è forte solo quanto il sistema sanitario più
debole. Un focolaio di Covid-19 in una parte del mondo rappresenta una minaccia
per le persone e le economie dell’intero pianeta.
La
pandemia esige una risposta internazionale forte e coordinata che intensifichi
rapidamente l’accesso ai test, alle cure e ai vaccini, riconoscendo
nell’immunizzazione estensiva un bene pubblico globale che deve essere reso disponibile
e accessibile a tutti. A tale proposito, appoggiamo pienamente l’iniziativa globale
Access to Covid-19 Tools (ACT) Accelerator, lanciata dall’Organizzazione
mondiale della Sanità e dai partner del G20 lo scorso aprile.
Imparare
dalla pandemia
Per
adempiere alla sua missione, l’ACT-Accelerator ha urgente bisogno di un
sostegno politico e finanziario più ampio. Da parte nostra, promuoviamo anche
il libero flusso di dati tra organismi partner e la concessione volontaria di
licenze per la proprietà intellettuale. Nel lungo termine, avremo bisogno anche
di una valutazione indipendente ed esaustiva della nostra risposta per trarre
ogni possibile insegnamento da questa pandemia e prepararci meglio per la
prossima. L’Oms avrà un ruolo centrale in tale processo.
Economie
più sostenibili.
L’emergenza
riguarda anche l’ambiente. In vista della Conferenza delle Nazioni Unite sui
cambiamenti climatici (COP26), che si terrà a Glasgow il prossimo novembre,
dobbiamo intensificare gli sforzi per contrastare il cambiamento climatico e
rendere le nostre economie più sostenibili. Entro l’inizio del 2021, i Paesi
responsabili di oltre il 65% delle emissioni totali di gas serra avranno
probabilmente assunto l’impegno di raggiungere l’ambizioso traguardo della
neutralità carbonica.
Tutti
i governi nazionali, le imprese, le città e le istituzioni finanziarie
dovrebbero ora aderire alla coalizione globale per ridurre le emissioni di CO2
allo zero netto secondo quanto stabilito dall’accordo di Parigi, e cominciare
ad attuare piani e politiche concreti.
La
pandemia ha causato la peggiore crisi economica globale dai tempi della Seconda
Guerra Mondiale. Il ritorno a un’economia globale forte e stabile è una priorità
assoluta. Di fatto, l’attuale crisi sta minacciando di annullare i progressi
realizzati nell’arco di due decenni per combattere la povertà e la disparità di
genere. Le disuguaglianze stanno mettendo in pericolo le nostre democrazie
minando la coesione sociale.
Globalizzazione
e commercio
Non vi
è dubbio che la globalizzazione e la cooperazione internazionale abbiano
aiutato miliardi di persone a sottrarsi alla povertà; tuttavia, quasi metà
della popolazione mondiale fatica ancora a soddisfare i bisogni primari. In
molti Paesi, poi, il divario tra ricchi e poveri è divenuto insostenibile, le
donne continuano a non godere di pari opportunità e molte persone hanno bisogno
di essere rassicurate in merito ai benefici della globalizzazione.
Mentre
aiutiamo le nostre economie a superare la peggiore recessione dal 1945, resta
per noi una priorità principale garantire un libero scambio basato su regole
condivise che funga da motore di una crescita inclusiva e sostenibile.
Dobbiamo, quindi, rafforzare l’Organizzazione mondiale del commercio e
sfruttare appieno il potenziale del commercio internazionale per la nostra
ripresa economica. Allo stesso tempo, la tutela dell’ambiente e della salute,
nonché degli standard sociali, va posta al centro dei nostri modelli economici
garantendo altresì le condizioni necessarie per l’innovazione.
Aiuti
ai Paesi in via di sviluppo.
Nel
settembre del 2000, 189 Paesi firmarono la “Dichiarazione del Millennio”, che
definiva i principi della cooperazione internazionale per una nuova era di
progressi verso obiettivi comuni. Uscendo dalla Guerra Fredda, eravamo convinti
della nostra capacità di costruire un ordine multilaterale in grado di
affrontare le grandi sfide dell’epoca: fame e povertà estrema, degrado
ambientale, malattie, shock economici e la prevenzione dei conflitti. Nel settembre
del 2015, gli stessi Paesi hanno rinnovato il proprio impegno verso l’ambizioso
progetto di affrontare insieme le sfide globali, sottoscrivendo l’Agenda 2030
dell’Onu per lo sviluppo sostenibile.
Il
nostro mondo ha conosciuto trend divergenti, che hanno portato a una maggiore
prosperità a livello globale mentre le disuguaglianze permangono o aumentano.
Le democrazie sono cresciute in concomitanza con una recrudescenza del
nazionalismo e del protezionismo. Nel corso degli ultimi decenni, due gravi crisi
hanno sconvolto le nostre società e indebolito le nostre politiche comuni,
mettendo in discussione la nostra capacità di superare gli shock, affrontare le
loro cause e garantire un futuro migliore alle generazioni a venire. Esse ci
hanno anche ricordato quanto siamo dipendenti gli uni dagli altri.
Le
crisi più gravi richiedono le decisioni più ambiziose per plasmare il futuro.
Noi riteniamo che questa possa essere un’occasione per ricostruire un consenso
intorno a un ordine internazionale basato sul multilateralismo e sullo stato di
diritto attraverso una cooperazione, una solidarietà e un coordinamento
efficienti. In tale ottica, siamo determinati a collaborare, insieme e al loro
interno, con le Nazioni Unite, organizzazioni regionali, organismi intergovernativi
come il G7 e il G20, e coalizioni ad hoc per affrontare le sfide globali di
oggi e anche di domani.
Superare
assieme il Covid-19
La
prima emergenza è quella sanitaria. La crisi legata alla Covid-19 rappresenta
il banco di prova più importante per la solidarietà mondiale da generazioni a
questa parte. Essa ci ha ricordato un dato di fatto: a fronte di una pandemia,
la nostra catena della sicurezza sanitaria è forte solo quanto il sistema
sanitario più debole. Un focolaio di Covid-19 in una parte del mondo
rappresenta una minaccia per le persone e le economie dell’intero pianeta.
La
pandemia esige una risposta internazionale forte e coordinata che intensifichi
rapidamente l’accesso ai test, alle cure e ai vaccini, riconoscendo
nell’immunizzazione estensiva un bene pubblico globale che deve essere reso
disponibile e accessibile a tutti. A tale proposito, appoggiamo pienamente
l’iniziativa globale Access to Covid-19 Tools (ACT) Accelerator, lanciata
dall’Organizzazione mondiale della Sanità e dai partner del G20 lo scorso
aprile.
Imparare
dalla pandemia.
Per
adempiere alla sua missione, l’ACT-Accelerator ha urgente bisogno di un
sostegno politico e finanziario più ampio. Da parte nostra, promuoviamo anche
il libero flusso di dati tra organismi partner e la concessione volontaria di
licenze per la proprietà intellettuale. Nel lungo termine, avremo bisogno anche
di una valutazione indipendente ed esaustiva della nostra risposta per trarre
ogni possibile insegnamento da questa pandemia e prepararci meglio per la
prossima. L’Oms avrà un ruolo centrale in tale processo.
Economie
più sostenibili
L’emergenza
riguarda anche l’ambiente. In vista della Conferenza delle Nazioni Unite sui
cambiamenti climatici (COP26), che si terrà a Glasgow il prossimo novembre,
dobbiamo intensificare gli sforzi per contrastare il cambiamento climatico e
rendere le nostre economie più sostenibili. Entro l’inizio del 2021, i Paesi
responsabili di oltre il 65% delle emissioni totali di gas serra avranno
probabilmente assunto l’impegno di raggiungere l’ambizioso traguardo della
neutralità carbonica.
Tutti
i governi nazionali, le imprese, le città e le istituzioni finanziarie
dovrebbero ora aderire alla coalizione globale per ridurre le emissioni di CO2
allo zero netto secondo quanto stabilito dall’accordo di Parigi, e cominciare
ad attuare piani e politiche concreti.
La
pandemia ha causato la peggiore crisi economica globale dai tempi della Seconda
Guerra Mondiale. Il ritorno a un’economia globale forte e stabile è una
priorità assoluta. Di fatto, l’attuale crisi sta minacciando di annullare i
progressi realizzati nell’arco di due decenni per combattere la povertà e la
disparità di genere. Le disuguaglianze stanno mettendo in pericolo le nostre
democrazie minando la coesione sociale.
Globalizzazione
e commercio.
Non vi
è dubbio che la globalizzazione e la cooperazione internazionale abbiano
aiutato miliardi di persone a sottrarsi alla povertà; tuttavia, quasi metà
della popolazione mondiale fatica ancora a soddisfare i bisogni primari. In
molti Paesi, poi, il divario tra ricchi e poveri è divenuto insostenibile, le
donne continuano a non godere di pari opportunità e molte persone hanno bisogno
di essere rassicurate in merito ai benefici della globalizzazione.
Mentre
aiutiamo le nostre economie a superare la peggiore recessione dal 1945, resta
per noi una priorità principale garantire un libero scambio basato su regole
condivise che funga da motore di una crescita inclusiva e sostenibile.
Dobbiamo, quindi, rafforzare l’Organizzazione mondiale del commercio e
sfruttare appieno il potenziale del commercio internazionale per la nostra
ripresa economica. Allo stesso tempo, la tutela dell’ambiente e della salute,
nonché degli standard sociali, va posta al centro dei nostri modelli economici
garantendo altresì le condizioni necessarie per l’innovazione.
Aiuti
ai Paesi in via di sviluppo
Dobbiamo
fare in modo che la ripresa globale riguardi tutti. Ciò significa rafforzare il
nostro sostegno ai Paesi in via di sviluppo, soprattutto in Africa, sviluppando
e ampliando le partnership esistenti, come il Patto del G20 con l’Africa e
l’impegno del Gruppo a promuovere, insieme al Club di Parigi, l’iniziativa a
favore della sospensione del servizio del debito. È fondamentale dare ulteriore
supporto a questi Paesi per ridurre il loro indebitamento e garantire
finanziamenti sostenibili per le loro economie ricorrendo all’intera gamma
degli strumenti finanziari internazionali, come l’attività di riserva del Fondo
monetario internazionale, i diritti speciali di prelievo (DSP).
Gestire
le tecnologie
Lo
sviluppo delle nuove tecnologie ha rappresentato una risorsa preziosa per il
progresso e l’inclusione, avendo contribuito all’apertura e alla resilienza di
società, economie e Stati, ed essendosi dimostrato di vitale importanza durante
la pandemia. Eppure, quasi la metà della popolazione mondiale – e più della
metà delle donne e delle fanciulle sul pianeta – resta disconnessa dal web e
impossibilitata a usufruire dei loro vantaggi.
D’altro
canto, il significativo potere delle nuove tecnologie può essere utilizzato
impropriamente per limitare i diritti e le libertà dei cittadini, diffondere
odio o commettere gravi reati. Bisogna partire dalle iniziative esistenti,
quindi coinvolgere i soggetti interessati per regolamentare internet in modo
efficace allo scopo di creare un ambiente digitale sicuro, libero e aperto,
dove il flusso dei dati avvenga in un contesto affidabile.
I
benefici dovranno riflettersi in particolare sulle persone più svantaggiate
anche affrontando le sfide fiscali della digitalizzazione dell’economia e
combattendo una concorrenza fiscale dannosa.
Ripartire
dalla scuola.
Infine,
la crisi sanitaria ha interrotto il percorso educativo di milioni di bambini e
di studenti. Dobbiamo rispettare la promessa di fornire a tutti un’istruzione e
di mettere la prossima generazione nella condizione di acquisire le competenze
e le conoscenze scientifiche di base, nonché di comprendere le differenze
culturali, la tolleranza, l’accettazione del pluralismo e il rispetto della
libertà di coscienza. I bambini e i giovani sono il nostro futuro e la loro
educazione è fondamentale.
Un
multilateralismo inclusivo.
Per
vincere queste sfide, il multilateralismo non si traduce in un mero esercizio
diplomatico, ma è un orientamento in grado di forgiare un ordine mondiale, e un
modo ben definito di organizzare i rapporti internazionali sulla base della
cooperazione, dello stato di diritto, di azioni collettive e di principi
condivisi.
Anziché
mettere le civiltà e i valori l’uno contro l’altro, dobbiamo costruire un
multilateralismo più inclusivo, che rispetti le nostre differenze tanto quanto
i valori comuni sanciti dalla Dichiarazione universale dei diritti umani.
Il
mondo post Covid-19 non sarà più lo stesso di prima, perciò dobbiamo avvalerci
di sedi e opportunità diverse, come il Forum di Parigi sulla pace, per
impegnarci ad affrontare queste sfide con una visione chiara. Ai leader
politici, economici, religiosi e di pensiero giunga il nostro invito a unirsi a
questa conversazione globale.
Dobbiamo
fare in modo che la ripresa globale riguardi tutti. Ciò significa rafforzare il
nostro sostegno ai Paesi in via di sviluppo, soprattutto in Africa, sviluppando
e ampliando le partnership esistenti, come il Patto del G20 con l’Africa e
l’impegno del Gruppo a promuovere, insieme al Club di Parigi, l’iniziativa a
favore della sospensione del servizio del debito. È fondamentale dare ulteriore
supporto a questi Paesi per ridurre il loro indebitamento e garantire
finanziamenti sostenibili per le loro economie ricorrendo all’intera gamma
degli strumenti finanziari internazionali, come l’attività di riserva del Fondo
monetario internazionale, i diritti speciali di prelievo (DSP).
Gestire
le tecnologie
Lo sviluppo
delle nuove tecnologie ha rappresentato una risorsa preziosa per il progresso e
l’inclusione, avendo contribuito all’apertura e alla resilienza di società,
economie e Stati, ed essendosi dimostrato di vitale importanza durante la
pandemia. Eppure, quasi la metà della popolazione mondiale – e più della metà
delle donne e delle fanciulle sul pianeta – resta disconnessa dal web e
impossibilitata a usufruire dei loro vantaggi.
D’altro
canto, il significativo potere delle nuove tecnologie può essere utilizzato
impropriamente per limitare i diritti e le libertà dei cittadini, diffondere
odio o commettere gravi reati. Bisogna partire dalle iniziative esistenti,
quindi coinvolgere i soggetti interessati per regolamentare internet in modo
efficace allo scopo di creare un ambiente digitale sicuro, libero e aperto,
dove il flusso dei dati avvenga in un contesto affidabile.
I
benefici dovranno riflettersi in particolare sulle persone più svantaggiate
anche affrontando le sfide fiscali della digitalizzazione dell’economia e
combattendo una concorrenza fiscale dannosa.
Ripartire
dalla scuola
Infine,
la crisi sanitaria ha interrotto il percorso educativo di milioni di bambini e
di studenti. Dobbiamo rispettare la promessa di fornire a tutti un’istruzione e
di mettere la prossima generazione nella condizione di acquisire le competenze
e le conoscenze scientifiche di base, nonché di comprendere le differenze
culturali, la tolleranza, l’accettazione del pluralismo e il rispetto della
libertà di coscienza. I bambini e i giovani sono il nostro futuro e la loro
educazione è fondamentale.
Un
multilateralismo inclusivo
Per
vincere queste sfide, il multilateralismo non si traduce in un mero esercizio
diplomatico, ma è un orientamento in grado di forgiare un ordine mondiale, e un
modo ben definito di organizzare i rapporti internazionali sulla base della
cooperazione, dello stato di diritto, di azioni collettive e di principi
condivisi.
Anziché
mettere le civiltà e i valori l’uno contro l’altro, dobbiamo costruire un
multilateralismo più inclusivo, che rispetti le nostre differenze tanto quanto
i valori comuni sanciti dalla Dichiarazione universale dei diritti umani.
Il
mondo post Covid-19 non sarà più lo stesso di prima, perciò dobbiamo avvalerci
di sedi e opportunità diverse, come il Forum di Parigi sulla pace, per
impegnarci ad affrontare queste sfide con una visione chiara. Ai leader
politici, economici, religiosi e di pensiero giunga il nostro invito a unirsi a
questa conversazione globale.
LA
MORTE APPARENTE DEL GLOBALISMO.
Partecipare.net-
Americo Placido- (13-2 -2022)- ci dice :
Dicono
che Friedman è stato l’economista più influente dell’epoca contemporanea, forse
secondo solo a Keynes. Trent’anni fa la crisi ideologica provocata dalla caduta
del muro di Berlino e l’evidenza che il comunismo era morto e defunto (se mai
fosse stato comunismo quello vissuto nell’Unione Sovietica) ha creato il vuoto
necessario al dilagare del globalismo. E’ stato un fenomeno impressionante non
tanto nel pensiero di Destra, tradizionalmente liberista, che però ha saputo
riempire con ingordigia gli spazi che si erano aperti, ma nel pensiero e nelle
politiche della Sinistra, incapace di articolare analisi e proposte atte a
riformulare la critica all’economia capitalista e a recuperare lo spirito di un
socialismo realistico in grado di capire un mondo profondamente cambiato, rispetto
a quello industriale del secolo 20.
Il
cambio più profondo è stato il restringimento dell’interdipendenza. La velocità
impressionante delle comunicazioni fisiche e virtuali ha rimpicciolito il mondo
mettendo in una crisi mortale il suo assetto secolare basato sull’ipotesi che
potessero coesistere effettivamente centri di potere decisionale, indipendenti
ed autonomi; Stati effettivamente sovrani, in grado di risolvere da soli i
propri problemi.
Il
capitale ha capito subito le potenzialità di questa nuova prospettiva. Si è in
buona parte trasformato da produttivo a speculativo e finanziario. Ha
scavalcato confini e appartenenze nazionali. Si è organizzato in centri di
potere incontrollabili e monopolizzanti. La Politica ha perso i suoi protagonisti
tradizionali: Governi e Parlamenti, concentrandosi nelle mani dei Consiglieri
di Amministrazione di Società multinazionali (che meglio chiameremmo,
sovranazionali). A questo punto, la globalità era la grossa occasione per
aprire su scala mondiale l’arena della competitività senza esclusione di colpi.
La deregulation, che tanto piaceva a Friedman, divenne la fede cieca perfino
dei sindacati metalmeccanici. Il più forte avrebbe vinto e il darwinismo
economico avrebbe fatto il mondo più felice, facendo piazza pulita di poveri e
di infelici. A ciascuno il destino che si merita. Perché la meritocrazia è la
giustizia divina in una società con un solo obbiettivo: fare i ricchi più
ricchi, e chi non è d’accordo peggio per lui.
Ma la
sregolatezza è una bestia molto pericolosa. La competitività senza esclusione
di colpi raggiunge e supera facilmente le soglie della criminalità,
infischiandosi di precetti morali che non hanno mai arricchito nessuno. Il
mondo delle Banche, delle Compagnie Assicurative, delle Società farmaceutiche,
dei Brokers, dello Sport non sono che degli spiragli sul cinismo che motiva i
principali attori della nostra contemporaneità. Questi sono i veri untori delle
crisi pestilenziali che hanno provocato paurosi crolli finanziari ed economici
con conseguenze disastrose per le fasce di popolazione più deboli, nei Paesi
ricchi come nei più poveri.
Una
classe politica sopraffatta, ha cercato e cerca di recuperare il terreno
perduto agitando interessi ed orgogli nazionali. I populisti, come spesso
vengono chiamati, sono fieri e presuntuosi. Pretendono di convincere che
l’egoismo nazionale è un valore primordiale: ‘America first’, urla Trump,
mentre pensa ai suoi debiti col fisco. Ma fanno lo stesso, cambiando
dovutamente il soggetto, i demagoghi della Polonia, dell’Ungheria, dell’Italia,
della Germania, della Francia, del Regno dis-Unito. E’ un’epidemia di
nostalgici che rifiutano una realtà vera da tempo ma che oggi più che mai si
mostra con tutta la sua forza ed evidenza: il mondo è interdipendente e questa
interdipendenza è incontrollata.
Sotto
silenzio, quasi, è trascorso il 75mo anniversario delle Nazioni Unite. Guai a
considerare l’ONU un organismo sovranazionale. Sarebbe un errore fatale e che
offenderebbe gli impettiti e arroganti diplomatici dei Paesi potenti, primi tra
tutti quelli degli USA, le cui quote arretrate non c’è Segretario Generale che
sia capace di ottenerne il pagamento in modo soddisfacente. Trump è si è
coperto di ridicolo, tra le persone di buon senso, quando ha tentato di far
ricadere la colpa della pandemia del Covid-19 sulla Organizzazione Mondiale
della Sanità, una entità più vecchia delle stesse Nazioni Unite, di cui ora fa
parte con onore grazie a un passato pieno di successi importantissimi e che
hanno salvato l’Umanità da mali secolari. Un comportamento stupido, quello del
Presidente americano, ma significativo. Nonostante i suoi limiti è sorprendente
che l’ONU, non solo esista ancora ma continui a spiegare la sua azione in
favore di un maggiore equilibrio nell’accesso alle risorse essenziali da parte
di tutti i popoli. Certo, è vero che lo scopo primario dell’ONU è il
mantenimento della pace e invece le guerre nel mondo sono in drammatico
aumento: 378 i conflitti totali nel 2017, di cui 186 crisi violente e 20 guerre
ad alta intensità. Lo scorso anno si è registrato anche il record di spesa per
gli armamenti dalla Seconda guerra mondiale [www.globalist.it › world ›
2018/12/11]. Ma il peggioramento della situazione è dovuto soprattutto alla
grave confusione che le crisi di una globalizzazione selvaggia ha provocato
stimolando l’anacronistica risorgenza di nazionalismi fanatici e aggressivi.
L’abbandono
del multilateralismo da parte delle grandi potenze è l’errore più grave di
questo momento storico. Se persino l’Unione Europea sta contraddicendo lo
spettacolare progresso che non solo ha garantito il periodo di pace più lungo
della sua storia ma anche una prosperità mai sperata prima, da Paesi come
l’Italia, ciò vuol dire che una sorta di cecità sta avvilendo la Comunità internazionale.
Antonio
Guterres, l’attuale Segretario Generale delle Nazioni Unite, nel suo discorso
celebrativo del 75mo anniversario, ha pronunciato una frase che, c’è da
augurarsi, diventi memorabile: “In un mondo interconnesso, è giunto il momento
di riconoscere una semplice verità: la solidarietà si basa sui propri
interessi.”
Basta
con gli imperativi morali a cui nessuno ha mai dato retta. Qui si tratta di un
problema di intelligenza; di razionalità. America first un corno! Se il mondo
non si dà una regolata come si deve e al suo livello, cioè mondiale, le
catastrofi potranno essere di dimensioni tali da poter provocare a tutti danni
irreversibili. La pandemia del Coronavirus ha già fatto un milione di morti. Se
non si trova un vaccino le previsioni sono che questa cifra in pochi mesi
raddoppierà, mentre l’economia mondiale ostacolata dalle misure sanitarie
tornerà indietro di decenni, con crisi occupazionali e sociali spaventose che
già si profilano nei Paesi più colpiti. Logico sarebbe mettere assieme tutte le
risorse scientifiche e sanitarie; costruire una rete mondiale di collaborazione
per ottenere al più presto un risultato efficace. Invece gli Usa spiano i
laboratori tedeschi, i Francesi non vogliono partecipare al pool europeo e
Trump dà ordine di rubare stock di medicine già comprate in Cina dall’EU.
Intanto Putin annuncia con glacialità che i russi il vaccino ce l’hanno già e
ne faranno buon uso, naturalmente con gli amici loro. E’ la demenza mondiale!
Il
clima è l’altra prova dell’ottusità delle attuali classi politiche. Per anni si
cerca un accordo sulle emissioni Co2, finalmente se ne trova uno a Parigi
grazie anche all’impulso dell’allora Presidente americano, Obama. Poi arriva il
Primatista bianco Donald Trump e l’accordo va a farsi benedire. La giovanissima
Greta si è già stancata di viaggiare e usare il suo incanto di adolescente,
inutilmente. Moriremo avvelenati; e chi se ne frega!
Ma la
speranza è l’ultima a morire. La ragione potrebbe ancora avere la meglio sul
fanatismo e la stupidità. In tanti campi il progresso umano ha raggiunto
traguardi impensabili e meravigliosi. Per la prima volta nella storia
dell’umanità, i prodotti alimentari sono stati disponibili in quantità
sufficienti a nutrire i 7,7 miliardi che abitiamo il pianeta. Peccato solo che
si è trattato di pura statistica perché la famelica accumulazione dei ricchi ha
ancora permesso che ogni giorno muoiano di fame almeno 24mila persone.
Abbiamo
assoluto bisogno che questa interdipendenza smetta di essere incontrollata e
che si trovi un modo intelligente e quindi pacifico per costruire un nuovo
ordine internazionale. Nessuno potrà imporlo con la violenza se non si vuole
che tutto salti per aria. L’ONU e la sua saggia evoluzione sono una delle poche
speranze che ci rimangono. Ma l’ONU non è una persona e tantomeno un povero
Segretario Generale, scelto soprattutto se rispettoso delle grandi potenze. Le
Persone siamo noi. Noi dobbiamo cominciare a mobilitarci usando il nostro buon
senso e la nostra ragione. Usiamo la nostra testa; diciamo basta alle
propagande; verifichiamo le informazioni che ci propinano; non deleghiamo tutto
a delle classi dirigenti che attraverso la loro miopia solo vedono un futuro
troppo prossimo per costruire un progetto. Qualunque cosa accada nel mondo ci
riguarda e ci riguarda da vicino. Dobbiamo trovare la forma di partecipare e
farlo in modo informato e intelligente. Questo è il segno dei tempi. Benedetta
sia la pandemia se sarà servita a riconoscerlo.
Per un
nuovo ordine mondiale
La
relazione di Emanuele Fiano alla Direzione del 26 giugno 2020
Pubblicato
il 26 Giugno 2020 in Esteri
Uno
sguardo politico che si riprometta oggi di analizzare nel quadro
internazionale, il ruolo del nostro paese ed il posizionamento del nostro
Partito, non può in alcun modo prescindere da ciò che nel mondo è accaduto in
questo 2020. Questo non perché la
vicenda Covid, abbia rivoluzionato di già gli assetti globali nello scacchiere
internazionale, o non perché si siano fermati o riaccesi conflitti locali o
regionali in ragione della Pandemia, o neanche perché siano cambiati gli
equilibri di forza tra i grandi protagonisti; quanto piuttosto perché l’umanità
intera, ha potuto toccare con mano le molte fragilità che percorrono l’intero
globo; fragilità è termine che richiama bisogno di protezione, che se da un
lato ricorda il Protezionismo, di cui parleremo, non va assolutamente confuso
con questo, quella diposizione umana pretende da noi centralità nel nostro
agire, come domanda sociale, a cui rispondere non solo con scelte di tipo
assistenziale ovviamente, ma con un modello di sviluppo di crescita
complessiva; fragilità dunque che rischiano di cambiare quegli assetti come in
parte sta già avvenendo; fragilità imputabili ai diversi modelli sociali e
sanitari, ovvero risultanti dalla resistenza di molti sistemi e leadership alla
razionalità scientifica, oppure derivanti dalla percezione concreta della
dimensione che il rischio assume nella nostra vita quotidiana, qualora essa non
sia improntata, anche, ad una profonda rivisitazione degli stili di vita, dei
modelli di sviluppo e delle forme di relazione con l’evoluzione ambientale.
Dunque possiamo dire che nello scenario mondiale, la forza della Pandemia ha
portato alla consapevolezza di una grande fragilità del mondo, ad una grande richiesta
di protezione e ad una grande necessità di sviluppo complessivo.
Questa
crisi ha quindi anche una sua dimensione antropologica; l’epidemia che ha
minacciato la vita e la salute di miliardi di persone, che ha rivoluzionato le
abitudini e lo stile dei rapporti sociali, che ha cambiato non in modo
passeggero anche le forme del lavoro e dunque anche in parte la natura e la
qualità dei diritti da difendere, muterà in senso permanente le forme del
nostro stare nel mondo. E, oltre a questo, la sua dimensione economica è
risultata particolare: questa volta, rispetto al 2008 per esempio, la crisi
colpisce non già solo la dimensione finanziaria quanto piuttosto proprio
l’economia reale, modificando quindi nel concreto modelli di vita personale e
delle comunità, da quelle piccole a quelle nazionali e sovranazionali. Tanto
per fare un esempio, non sarebbe infatti forse arrivato questo cambiamento
delle politiche economiche europee senza lo scoppio tragico della
Pandemia. Qui una fragilità si è
trasformata in forza.
Purtuttavia,
vi sono, di fronte a questa drammatica cartina di tornasole globale, a questa
registrazione del cambiamento che stiamo attraversando, immani emergenze che
disegnano invece aspetti non mutati nello scenario mondiale.
Non
sono certamente mutati gli effetti di una globalizzazione economica che ha sì
meritatamente salvato dalla povertà masse ingenti di popolazione in questi
anni, un miliardo di persone si dice, in specie in alcuni grandi paesi, dato
che noi non vogliamo affatto dimenticare, ma il risultato di una crescita
affidata alla sola competizione totale, continua a risultare drammatico sia per
la crescita della diseguaglianza sociale, che della diseguaglianza per aree
geografiche, anche per gli effetti della mancanza di regole globali, come
ancora per la spinta al protezionismo di intere nazioni. Di questo, peraltro,
il conflitto commerciale e non solo, tra Usa e Cina è certamente la punta più
avanzata e preoccupante.
Nondimeno
lo sono le tendenze fortissime di molti paesi europei al protezionismo dei dazi
e delle dogane, la resistenza alle storiche novità delle politiche economiche
europee, la volontà di riesumare muri e confini fisici e immateriali.
Possiamo
dire anche, quindi, che l’esplosione della Pandemia, ed il suo andamento peculiare,
nazione per nazione, sia servita da riscontro del tasso di coincidenza tra
livello dei diritti umani e democratici in un paese, e capacità di gestione di
grandi emergenze sociali. Ancora adesso mentre ne parliamo, la differente
capacità di risposta complessiva di sistemi a Democrazia incerta o a rischio,
risulta eloquentemente minore rispetto ai paesi governati in piena democrazia.
Grandi paesi i cui regimi mostrano limiti evidenti e gravissimi nella difesa
della democrazia e dei diritti sono oggi messi in ginocchio dalla diffusione
endemica nel loro paese. Nuovo spunto per una riflessione generale sullo stato
di salute della Democrazia nel mondo, anche alla prova della Pandemia globale
che ci ha colpiti.
In
generale è sicuramente possibile dire che oltre alla débâcle, drammatica, che
attraversano molti singoli paesi, anche diverse istituzioni internazionali e
sovranazionali, hanno mostrato i limiti della loro capacità di governo globale.
Ma ne parlerò dopo.
Abbiamo
consegnato un documento del nostro gruppo di lavoro al Segretario (Piero
Fassino, Enzo Amendola, Marina Sereni, Lia Quartapelle, Alessandro Alfieri,
Andrea Romano, Brando Benifei, Simona Bonafè, Piero De Luca , Gianni Pittella e
Luciano Vecchi), dove per esteso vi sono l’insieme di queste brevi
considerazioni.
Aggiungo,
che la svolta che l’Europa sta percorrendo e per la quale vorrei ringraziare
certamente tutti i membri del nostro Governo che si occupano di politica estera
ed in particolare Enzo Amendola e Marina Sereni, nonché ovviamente il
Commissario europeo Gentiloni, e anche, certamente per i temi che tratteremo,
il Ministro Guerini, il cambiamento storico che essa potrebbe introdurre,
rafforzando l’Unione, la sua coesione e la sua prospettiva economica, la sua
politica sociale, il suo ruolo di baluardo democratico, possono riaffermarne il
ruolo mondiale, di cui il multilateralismo ha grande bisogno.
La
nostra posizione, saldamente ancorata all’Alleanza atlantica e al
multilateralismo, come ad una visione aperta dei mercati, dell’economia e del
libero scambio, tradizionalmente condivisa dai paesi del G8, così come dal
complesso dei paesi europei, non è più per molte forze politiche, oggi alla
guida o all’opposizione in molti paesi occidentali, la cifra della loro
impostazione politica.
Populismo,
sovranismo, nazionalismo, egoismo, protezionismo, costituiscono un asse di
riferimento politico-culturale, che va dagli Usa di Trump all’Ungheria di
Orban, e anche l’Italia che disegnerebbero Salvini e Meloni, qualora al
governo, rischierebbe una virata radicale in quella direzione. Non va per
questo sottovalutato il lavoro che dobbiamo contribuire a compiere perché
all’interno del PSE e anche dell’Alleanza progressista mondiale, la nostra
linea saldamente europeista e per una nuova Europa, divenga quella comune. A
noi ha fatto molta impressione scoprire come Partiti fratelli, appartenenti al
PSE, alla guida di paesi cosiddetti frugali, o comunque esistenti in quei
paesi, abbiano assunto le posizioni più ostili alla realizzazione del Recovery
Fund. Il che dimostra che per quei partiti fratelli conti di più l’appartenenza
nazionale piuttosto che l’ideale comune europeo. Una contraddizione in seno
all’ide di progresso a cui noi apparteniamo.
Più in
generale il nostro Partito dovrà favorire un’iniziativa politica affinché il
PSE esca dalla pura dimensione federativa per assumere quella di vero e proprio
Partito sovranazionale, asse portante di una nuova Europa. Ulteriore sforzo
andrà fatto, affinché il PSE sia capace di allargare il campo delle proprie
alleanze a forze diverse dello schieramento progressista, come gli
ambientalisti o altro.
Ho
scelto delle parole chiave per sintetizzare i punti salienti delle nostre
posizioni.
Per la
prima parola, metterei al primo posto della nostra scelta di politica
internazionale, che è anche carta d’identità del nostro stare nel mondo, l’idea
di una visione multilaterale che serva a rafforzare il profilo del nuovo ordine
mondiale a cui aspiriamo. C’è una necessità straordinaria di una visione
globale e multilaterale del nuovo ordine mondiale; particolarismi, nazionalismo
e debolezze, come anche quelle che l’Europa ha mostrato purtroppo negli ultimi
anni, fino alla svolta di questi mesi, hanno contribuito ad una paralisi di
questa visione multilaterale, con una pericolosa tendenza ad un neo bipolarismo
tra Usa e Cina, che mostra di per se i suoi limiti, ma che ha in più nella
Presidenza Usa, una costante ritrosia ad ogni forma di condivisione mondiale
delle scelte.
Non
possiamo dimenticare qui la decisione perlomeno annunciata da Trump di
sospendere i finanziamenti all’OMS, ( peraltro dopo molte altre parole sugli
accordi o sugli organismi internazionali) e anche dopo aver all’inizio
sostenuto che OMS faceva allarmismo, annuncio di Trump che pur se connesso ad
una iniziale giusta critica sui ritardi di azione di quella organizzazione e di
comunicazione da parte della Cina, porterebbe con sé conseguenze gravi sul
piano della condivisione mondiale delle politiche sanitarie.
L’occasione
di questo spunto è utile anche per dire la nostra opinione sull’altro gigante
mondiale, la Cina: Il gigante cinese ha lanciato da anni una offensiva
geopolitica nei confronti dell’Europa, all’interno di una sua iniziativa più
vasta e volta a modificare l’ordine internazionale in senso più favorevole ai
propri interessi nazionali. Gli strumenti di tale offensiva sono insieme
commerciali e politici, ovvero quelli tipici di ogni strategia geopolitica ma
che nel caso cinese si tengono insieme in modo molto più stringente e
interconnesso. È una strategia che non va demonizzata, come pretende di fare la
destra sovranista in Europa e negli Stati Uniti mettendo in conto la
radicalizzazione dello scontro strategico e persino militare con Pechino, ma di
cui dobbiamo essere ben consapevoli. Perché l’obiettivo del regime cinese è
anche quello di conquistare il silenzio o la connivenza della comunità
internazionale sulle feroci e massicce violazioni dei diritti umani e civili di
cui esso è responsabile: all’interno dei confini nazionali cinesi e ovunque
arrivi il suo controllo di sicurezza (come nel caso di Hong Kong, dove Pechino
sta già violando gli accordi del 1997 ispirati al principio ‘un paese, due
sistemi”). Il nostro impegno, sulla base del valore universale che riconosciamo
al tema dei diritti umani e guardando all’obiettivo di preservare il dialogo
commerciale e politico con Pechino senza alcuna subalternità ai suoi disegni
strategici, dev’essere quello di impegnare la potenza cinese sul piano
multilaterale a tutti i livelli. Diversamente dalla strategia conflittuale
della destra sovranista, è solo l’ingaggio multilaterale con la Cina che rende
possibile sia difendere l’autonomia culturale e politica dell’Europa sia
lavorare per ottenere miglioramenti concreti nel rispetto dei diritti umani e
civili all’interno dei confini cinesi e nelle aree sottoposte ai suoi strumenti
di sicurezza.
E’
chiaro, tornando alla visione multilaterale, che non potrà esserci nessuna
ripresa senza una grande spinta alla cooperazione internazionale e
all’integrazione, aumentando risorse e compiti delle istituzioni
internazionali, coordinando le attività nel campo sanitario, della ricerca
medica, della prevenzione e della cura, condividendo risultati e rimedi,
sostenendo la mobilità globale delle persone, delle merci e della conoscenza.
Pensate al vaccino di Oxford, come emblema di questa visione, sviluppato in
Italia e Gran Bretagna, prodotto dall’azienda anglo-olandese AstraZeneca e
distribuita dall’indiana Serum. Detto questo sicuramente le culture e le
organizzazioni internazionaliste hanno mostrato anche i loro difetti, così come
l’ONU mostra i suoi limiti, cosi come altri organismi regionali come la Lega
Araba o il Nafta sembrano paralizzati da tensioni e conflitti
Si è
parlato negli ultimi anni, in alcune sedi, di fronte alla crescita delle
pulsioni isolazioniste, di fine della globalizzazione; a me non pare affatto,
credo invece che la sfida che ci attende sia quella di dare una guida
democratica e condivisa alla globalizzazione, un ordine al mondo globale, in una
direzione di salvaguardia del multilateralismo, come italiani e come europei.
C’è
una parola chiave nella tradizione di sinistra della politica internazionale,
questa parola è pace, è la seconda parola, la tradizione della sinistra e dei
riformismi a cui noi apparteniamo ha sempre frequentato questo termine come
stella polare. La pace è sviluppo, promozione dei diritti, dignità della
persona umana, regola di convivenza, giustizia, e benessere. La pace richiede
strategie globali. Non può essere solo enunciata.
Il
mondo, anche quello più vicino a noi conosce invece continui conflitti,
conflitti irrisolti, nuovi conflitti, secondo Acled dall’inizio dell’anno
abbiamo avuto 46675 eventi di scontro militare e non nel mondo, con 52898
morti, in diminuzione del 28% rispetto all’anno scorso. In un anno 110.000 eventi e 129.000 morti. Se
guardate la cartina dei conflitti in corso, vedrete esclusi dalla mappatura
l’Europa, a parte la Grecia, e il continente nord americano, nonché la Cina. Se
guardo dunque quella carta, nella quale l’Europa è bianca, ho la dimostrazione
lampante che la fondazione dell’Unione europea ha garantito ai suoi paesi, pace
e prosperità, e dunque che il ruolo storico di cooperazione ed integrazione
viene confermato dalla storia, non il contrario.
Noi
crediamo che solo il negoziato, il compromesso, il dialogo tra nemici, possano
garantire questo valore, che va difeso anche prendendo parte come l’Italia fa
con i propri militari e con le forme di cooperazione alle operazioni di
peacekeeping e peaceenforcing guidate dalle istituzioni internazionali, e
dall’ONU.
Noi
mettiamo nel nostro impegno per la pace tutto quello che riguarda lo sviluppo
personale e collettivo dell’essere umano, ciò significa investire nello
sviluppo globale e locale, garantire crescita, accessibilità, opportunità,
istruzione, tutto questo significa lavorare per la pace. Quando dico dialogo
con il nemico, intendo un valore molto chiaramente esplicitato dallo scrittore
israeliano Amos Oz. Perché la pace, ad ogni angolo del mondo si fa solo con il
nemico, con l’amico è inutile. Per questo noi dobbiamo recuperare l’idea di
compromesso, come enunciava Oz come valore positivo, fondante.
Per lo
scopo della pace noi dobbiamo promuovere uno sviluppo umano che consenta ad
ogni donna e uomo di vivere nella dignità nel rispetto dei suoi diritti e delle
sue aspirazioni. Sostenere lo sviluppo economico e sociale dei Paesi che
lottano per uscire dalla marginalità. Asserire con forza che ogni uomo e ogni
donna sono titolari di diritti irrinunciabili e inalienabili.
Il
mondo vive di una pluralità di identità, culture, tradizioni, religioni che
devono essere riconosciute e rispettate e le loro specificità non possono, mai,
essere invocate o utilizzate per violare o voler annientare la specificità
dell’altro, o per giustificare violazioni di diritti che appartengono ad ogni
persona in ogni luogo del mondo.
Vuol
dire allora che noi possiamo accettare qualsiasi forma di pensiero? No,
ovviamente, il perseguimento della pace, significa ovviamente anche combattere
ogni forma di discriminazione, violenta o meno, di razzismo, di ideologia della
separazione e della superiorità razziale, etnica o religiosa, e per
l’affermarsi della difesa della libertà secondo le regole consolidate della
Democrazia liberale. Lo ribadisco qui, perché la crisi di fiducia nella
Democrazia, che indico come terza parola, liberale, guida purtroppo oggi grandi
paesi del mondo, e l’appello alla Democrazia illiberale, e in alcuni casi anche
a forme pericolose di democrazia diretta,
e dunque ad un restringimento degli strumenti della rappresentanza,
della libera espressione del pensiero, della partecipazione popolare delegata,
va diffondendosi, purtroppo, come dimostrano le note affermazioni di Vladimir
Putin e di Orban per esempio, o la battaglia sull’indipendenza della
Magistratura polacca che si sta ancora combattendo proprio alla vigilia di
elezioni presidenziali.
Per il
mantenimento o il raggiungimento della pace serve però anche e sempre, come
dicevamo prima, la battaglia per una guida democratica alla globalizzazione,
dunque, visione multilaterale, pace, democrazia e diritti, sono ovviamente
legati, ed è questa la strada che contrasta anche la vena di chi vorrebbe
assenza di regole comuni, ovvero il protezionismo puro e semplice; per questo,
noi con convinzione, appoggiamo la strada che la comunità internazionale ha per
esempio intrapreso con il Protocollo di Kyoto e gli Accordi di Parigi per
affrontare il climate change; con il Tribunale Penale Internazionale per perseguire
genocidi e gravi violazioni dei diritti umani; con il Trattato di non
proliferazione nucleare per fermare la
corsa al riarmo; con i Trattati di Libero Scambio – come gli accordi negoziati
dalla UE con Giappone, Canada, Mercosul – per evitare guerre commerciali e
neoprotezionismi. Nella stessa direzione è indispensabile oggi riformare e
potenziare le istituzioni dedicate a grandi questioni globali: l’Organizzazione
mondiale del Commercio (WTO/OMC) per garantire regole e standard omogenei, per
assicurare mercati aperti e pari accessibilità, per contrastare ogni forma di
sleale concorrenza; l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) per una
tempestiva prevezione e lotta alle pandemie; l’Organizzazione Internazionale
del Lavoro (ILO/OIT) per una effettiva applicazione delle Convenzioni a tutela
dei diritti del lavoro e contro le troppe forme di dumping sociale. Non posso
però non dire qui, che ogni organismo di governo mondiale necessita con
evidenza di una riforma significativa del proprio funzionamento istituzionale.
Penso all’ONU, alle sue agenzie, al Consiglio di Sicurezza, e anche alle grandi
agenzie di controllo economico come FMI e Banca Mondiale che necessitano di
essere investite di un più chiaro e trasparente mandato orientato allo sviluppo
nel senso indicato prima.
C’è
purtroppo una quarta parola che va ricordata per articolare il nostro sguardo.
Guerra. Vicino a noi l’instabile mediterraneo allargato, continua ad offrire
purtroppo al mondo focolai pericolosi di guerra. Mentre nuovi protagonisti si
sono ormai insediati con forza nel quadrante, come Russia e Turchia. Il
conflitto in Siria di questi anni ha colpito più di metà della popolazione,
altrettanto si può dire per il conflitto in corso nello Yemen, parimenti
terribile con maggiori implicazioni dirette per l’Italia il conflitto in Libia,
ma uscendo dal Mediterraneo e rimanendo vicino all’Europa non possiamo
dimenticare lo scontro Russia/Ucraina, così come anche la minacciosa Iran
sempre pronta ad annunciare la volontà di annientamento di Israele, cosi come
l’irrisolto conflitto Israelo/Palestinese. (qui permettetemi una nota personale
io rimarrò sempre fedele alla storica formula cara agli accordi di Oslo di due
stati per due popoli, e due democrazie, con la linea del compromesso situata
nello scambio di territori in cambio di sicurezza, il mutuo riconoscimento dei
due diritti statuali e la rinuncia ad ogni forma di violenza, nella
consapevolezza che in quel territorio si scontrano due diritti e non un diritto
ed un torto)
Le
guerre civili, le instabilità politiche, che scuotono Mediterraneo e Medio
Oriente chiamano l’Europa ma anche noi direttamente, ad assumere un attivo
ruolo di pace.
Per
quanto riguarda la situazione in Libia noi dobbiamo affermare che
– non
esiste una soluzione militare alla crisi libica che solo potrà trovare
soluzione con gli strumenti del negoziato politico tra tutte le componenti
della società libica
–
l’Italia si riconosce nelle deliberazioni delle Nazioni Unite e sostiene
l’attività dei suoi inviati per una soluzione politica della crisi
–
l’Italia sostiene il Governo nazionale presieduto dal Primo ministro Serraj,
unico esecutivo riconosciuto dalle Nazioni Unite.
–
pieno sostegno deve essere assicurato alla missione europea Irini incaricata di
garantire il rispetto dell’embargo sulla fornitura di armi e strumenti bellici.
–
l’assistenza alla Guardia costiera libica deve essere finalizzata alla
formazione del personale in funzione del contrasto al traffico di esseri umani,
nel rispetto dei diritti umani e delle Convenzioni internazionali, e in
coordinamento con le stesse attività in materia affidate alla missione europea
Irini;
– In
questa direzione, preso atto della disponibilità del Governo libico di accordo
nazionale e della possibilità di avviare il negoziato il prossimo 2 luglio, e
anche alla luce delle mutate condizioni sul terreno, è per noi non rinviabile
la modifica del relativo Memorandum d’intesa stipulato tra Italia e Libia nel
2017.
– è
aspetto imprescindibile il rispetto dei diritti umani verso profughi e migranti
presenti in Libia e per questo i centri legali di permanenza devono essere
aperti al controllo dell’Unhcr e dell’Oim e I centri illegali devono essere
smantellati
–
corridoi umanitari vanno attivati immediatamente, con la collaborazione della
UE, per l’evacuazione e l’accoglienza di donne e bambini oggi trattenuti nei
centri di permanenza.
– va
sostenuta ogni iniziativa utile ad alleviare le sofferenze della popolazione
civile, come lo sminamento di edifici civili e del territorio a cui l’Italia è
pronta a concorrere
–
l’azione di ONG e organizzazioni umanitarie va riconosciuta come preziosa per
il salvataggio di vite umane, superando atteggiamenti e misure di profilo
puramente punitivo
Per
questo chiediamo al Governo di agire nei rapporti bilaterali, nelle sedi
multilaterali e nell’Unione Europea sulla base degli obiettivi sopraindicati.
E
dobbiamo altresì, in generale, dichiararci contrari ad atti unilaterali che
precludano una soluzione negoziata e condivisa del conflitto
israelo-palestinese; sostenere i movimenti di società civile che, dal Libano al
Sudan all’Algeria, rivendicano diritti e rigenerazione democratica; promuovere
pacificazione e stabilizzazione nel Corno d’Africa; dare stabilità all’Irak e
alla sua struttura plurinazionale e plurireligiosa;
questi
Conflitti e queste criticità richiedono il rilancio di una strategia
euromediterranea che offra ai Paesi del bacino sistemi preferenziali negli
scambi commerciali, promozione di investimenti, sostegno alla implementazione
di politiche sociali, accompagnamento nel rinnovamento delle istituzioni
democratiche e dello stato di diritto. E una politica condivisa dei flussi
migratori. In questo ambito va anche inserita la nostra relazione con l’Egitto
per il quale tema abbiamo proposto alla Direzione il seguente OdG.
Il Partito
Democratico,
ribadendo
che:
• la
difesa dei diritti umani in ogni luogo del mondo fa parte indissolubile della
nostra identità politica e dei principi base della nostra visione del mondo.
•
primaria e irrinunciabile è la ricerca della verità sulla morte di Giulio
Regeni.
•
altrettanto improrogabile è la scarcerazione di Patrick Zaki.
•
l’Egitto non può sottrarsi alla responsabilità di accertare la verità
giudiziaria sull’omicidio di Giulio Regeni e per questo serve un deciso cambio
di passo nella collaborazione da parte delle autorità egiziane.
L’Italia ha sin dal primo momento subordinato
ogni passo in avanti sul terreno politico diplomatico ad altrettanti passi
fatti sul terreno della collaborazione giudiziaria per individuare e colpire i
colpevoli.
·
Purtroppo con il precedente governo non c’ è stato nessun passo in avanti.
• la
ricerca della verità è responsabilità di tutti gli attori che possono
contribuire a fare luce sull’omicidio di Giulio Regeni, compreso il governo
britannico
•
imprescindibile è la ripresa immediata della collaborazione giudiziaria da
parte dell’Egitto, implementando le rogatorie internazionali per dar corso agli
interrogatori oltre ad ogni altro atto utile all’accertamento dei responsabili
dell’omicidio di Giulio Regeni ed al loro possibile giudizio in un regolare
processo a partire dall’incontro tra le procure che avverrà il prossimo 1
Luglio
· il
rapporto con il Governo di Al Sisi rientra in un quadro più generale di
relazioni con l’Egitto, Paese che gioca un ruolo di stabilizzazione del
Mediterraneo Orientale, nel contrasto al terrorismo, nelle politiche migratorie
ed energetiche.
Noi
non rinunceremo mai a qualsiasi atto utile alla consegna dei responsabili
dell’omicidio di Giulio Regeni alla giustizia
– il rispetto
dei diritti umani è valore fondativo dell’Unione Europea che deve considerare
proprio obiettivo l’accertamento della verità sul caso Regeni
–
impegna il Governo italiano ad attivarsi con la massima attenzione possibile,
anche attraverso il coinvolgimento della UE, per ottenere immediatamente atti
concreti per l’accertamento della verità sull’omicidio di Giulio Regeni e la
consegna dei suoi responsabili alla giustizia
–
impegna il PD a discutere con la maggioranza e il governo la possibile
sospensione degli accordi di fornitura militare in assenza di risposte
immediate e concrete sull’uccisione di Giulio Regeni.
(Emanuele
Fiano, Francesco Verducci, Anna Ascani, Nicola Oddati, Alessandro Alfieri,
Debora Serracchiani, Maurizio Martina, Mapi Pizzolante, Giuditta Pini)
La
proiezione mediterranea deve saldarsi ad una innovativa attenzione all’Africa,
che a fine secolo raggiungerà 4 miliardi di abitanti: il loro destino è una
delle grandi sfide del XXI secolo, resa ben evidente dell’attenzione che Cina,
India, Turchia, Brasile, Arabia Saudita e altri players dedicano al continente.
Ad
un’Africa percorsa da dinamiche di segno opposto – paesi ricchi di materie
prime con alti tassi di crescita e aree afflitte da fame, malattie endemiche,
degrado ambientale – l’Europa può offrire non solo i necessari investimenti
infrastrutturali, ma anche bisogni altrettanto essenziali: strutture educative
per una immensa popolazione giovanile; servizi sanitari e sociali, in primo
luogo per infanzia e donne; promozione di sistemi democratici stabili, apparati
pubblici affidabili, diritti civili e umani oggi spesso negati o oppressi;
sostegno a processi di cooperazione e integrazione regionali.
Così
come un Migration Compact Euro-Africano, promosso da Unione Europea e Unione
Africana, e accordi bilaterali tra paesi europei e paesi africani,
costituirebbero strumenti preziosi per una gestione condivisa dei flussi
migratori e per un efficace contrasto al traffico di esseri.
Europa,
Mediterraneo e Africa sono sempre più un unico cosmo investito da problemi
comuni e da interessi comuni che richiedono soluzioni comuni. A ciò deve dare
concretezza e visibilità un forte rafforzamento delle relazioni tra Unione
Europea e Unione Africana e una più rapida implementazione dell’Africa Plan lanciato
dalla UE.
Una
forma di conflitto particolarmente difficile da contrastare è quello
asimmetrico legato al terrorismo di matrice jihadista, alla vicenda del Daesh o
Isis, più in generale ad una riflessione sul rapporto tra Europa e mondo
arabo-islamico, o tra occidente e mondo arabo-islamico, riflessione alla quale
non voglio sfuggire, ma che volentieri tratterei in una sessione specifica. Non
penso di poter oggi trattare un argomento di tale portata anche se non penso si
possa omettere un ragionamento su questo
nel nostro Partito.
Quinta
parola: Europa.
Noi
siamo già, coerentemente e coscientemente dentro una nuova fase dell’Europa. Ce
lo dicono i risultati già raggiunti in questi mesi di trattative per gli
strumenti comuni di risposta alla crisi del Covid e quelli per i quali stiamo
lavorando.
Alle
spalle abbiamo un cammino di integrazione che ha consentito di realizzare
traguardi economici, sociali e politici che nessuna nazione da sola avrebbe
potuto realizzare.
L’integrazione
europea ci ha consentito i traguardi di cui abbiamo parlato, altrimenti
irraggiungibili.
Senza
l’euro – la seconda moneta del pianeta, utilizzata da 330 milioni di cittadini
di diciannove nazioni – e senza le politiche della Bce le economie dei paesi
più fragili, tra cui l’Italia, sarebbero state via via inesorabilmente erose
nella loro qualità e solidità dalle svalutazioni competitive.
Ci
sono molte cose di cui andare orgogliosi e che dobbiamo rivendicare ogni
qualvolta ci viene offerto il miraggio di un neonazionalismo miracoloso.
Dobbiamo essere orgogliosi degli accordi di Schengen, di norme comunitarie che
pongono l’Europa all’avanguardia nelle politiche ambientali, nel contrasto al
climate change, nella promozione delle energie rinnovabili e nella
valorizzazione delle biodiversità, dei fondi strutturali hanno consentito a
Regioni e a Comuni investimenti e coesione sociale, di Erasmus ha reso 9
milioni di ragazzi protagonisti della costruzione di una comune identità.
Della
cultura democratica europea è il principale bastione di tutela dei diritti
civili e umani e per il loro rispetto nei
troppi luoghi dove sono negati e repressi.
Sono
risultati straordinari che tuttavia non corrispondono all’immagine che della UE
ha una parte dei cittadini europei.
Una
percezione negativa di tipo simile, che questo continente ha già conosciuto,
quando la frustrazione di masse ingenti di europei, la loro paura del futuro,
la rabbia per la loro condizione li convinse a seguire pericolosi pifferai
magici criminali. Oggi quella percezione
è di nuovo legata alla misura della propria condizione materiale, alla
ristrettezza del proprio orizzonte, alla fragilità dei propri diritti, legati
anche alla rigidità delle politiche finanziarie e di bilancio dell’Unione
vissute come causa di bassa crescita e riduzione di lavoro, consentendo a
partiti populisti e movimenti antieuropei di accrescere i loro consensi facendo
della lotta all’integrazione europea la loro principale bandiera.
Noi
sappiamo che non è cosi, ma questo è lo sfondo. Che spiega buna parte del successo
dei populismi nazionalistici. Oggi e sempre.
Dalle
sue difficoltà l’Unione Europea non uscirà con meno Europa, ma soltanto con un
rilancio in avanti delle politiche di integrazione e un cambio di passo
radicale e visibile. Dopo l’Europa dei Trattati di Roma, dopo l’Europa di
Maastricht e dell’euro, serve una “terza fase costituente” dell’Unione Europea
( Stati uniti d’Europa ed elezione diretta del Presidente, da proporre al PSE)
che realizzi un salto di qualità nella integrazione, dia all’Unione un suo
profilo sovrano, accresca tempestività e efficacia delle sue politiche,
conquisti consenso e fiducia dei cittadini. Un salto di qualità che investa
ogni aspetto della vita della UE:
coesione e solidarietà siano pietra angolare
di ogni azione europea.
alla centralità degli equilibri di bilancio si
sostituisca una politica economica espansiva che promuova investimenti, crei
lavoro, riconosca flessibilità finanziaria, allenti vincoli stabiliti in
contesti passati
una vera Unione Economica: a euro e mercato
unico si accompagnino l’armonizzazione delle politiche fiscali e delle regole
di investimento, una vera unione bancaria, una politica europea della ricerca e
dell’innovazione tecnologica, un grande piano di modernizzazione
infrastrutturale nei trasporti, nell’energia, nel digitale, impegnativi
programmi europei di formazione. La riconversione ecologica della produzione e
dei consumi costituisca l’asse centrale di un nuovo modello di sviluppo green,
sostenibile e equo.
l’UE disponga di “risorse proprie”, attinte
non solo da un più alto contributo dei paesi membri al bilancio comunitario, ma
anche da forme di fiscalità – carbon tax, una web tax, prelievi sulle
transazioni finanziarie transnazionali e sulle attività svolte nei paradisi
fiscali – e ricorrendo al mercato dei capitali con l’emissione di eurobond
finalizzati a finanziare precisi programmi di investimento in Green economy,
alta formazione, infrastrutture strategiche, intelligenza artificiale.
gli effetti recessivi di Covid19 siano
affrontati con uno sforzo finanziario straordinario, rafforzando ulteriormente
i poteri di iniziativa della BCE e della BEI, utilizzando i Fondi MES senza
condizionalita’ e dando vita ad un Recovery Fund dotato di una ampia disponibilità
finanziaria.
promozione di biodiversità, valorizzazione
della tipicità dei prodotti, tutela della fertilità e rinnovabilità delle
colture caratterizzino la politica agricola comune
si dia centralità al pilastro sociale e ai
Fondi strutturali si accompagnino strumenti di tutela del lavoro – come Sure –
e armonizzazione delle politiche sanitarie, di assistenza sociale e di sostegno
a famiglie e persone fragili
l’Europa sia all’avanguardia nella ricerca
scientifica, nell’innovazione tecnologica e nelle nuove frontiere
dell’intelligenza artificiale
la libera circolazione solleciti l’adozione di
norme comuni sui diritti di cittadinanza
l’immigrazione non può essere affidato
soltanto alle singole politiche nazionali e si adottino comuni politiche di
asilo, accoglienza e integrazione e si armonizzino le politiche nazionali in
materia di cittadinanza e diritti
una effettiva Politica Estera e di Sicurezza
Comune, rafforzando il ruolo dell’Alto Rappresentante, superando il vincolo
dell’unanimita’, parlando con una sola voce e agendo con una sola mano per
essere attore globale e promotore di pace, soluzioni negoziate ai conflitti,
cooperazione economica e sociale, stabilità e sicurezza
una Politica comune di Difesa, con la
progressiva integrazione dei sistemi logistici, degli apparati militari,
dell’industria degli armamenti e dello spazio
alle sfide della competizione globale si
risponda con una politica commerciale europea – peraltro già oggi
comunitarizzata – che contribuisca a scambi e mercati effettivamente aperti e
con standard e accessibilità equivalenti.
Non
meno decisivo è superare la lontananza, e talora la estraneità, dei cittadini,
con riforme delle istituzioni europee attraverso relazione permanenti e
strutturate tra Parlamenti nazionali e Parlamento Europeo, l’elezione diretta
da parte dei cittadini del Presidente della Commissione, l’unificazione in
un’unica figura di Presidente della Commissione e Presidente del Consiglio
Europeo, la presentazione agli elettori di liste europee transnazionali.
Ineludibile
è affrontare il nodo della sovranità europea, riducendo la intergovernatività a
vantaggio di una maggiore comunitarizzazione e di un ruolo autonomo della
Commissione e di piena valorizzazione del Parlamento Europeo.
Un’Unione
più tempestiva ed efficace impone una visibile riforma dei suoi meccanismi di
decisione – superando il vincolo dell’unanimità -, una riduzione di
prescrizioni normative e apparati burocratici, una semplificazione di procedure
e un’effettiva attuazione dei principi di sussidiarietà’.
L’Eurozona
è oggi lo spazio economico e politico per un deciso salto in avanti nella messa
in comune di politiche strategiche, dotandolo di organi – quali un ministro
europeo dell’Economia – che diano sostanza a politiche comuni e integrate.
L’Eurozona sia il primo ampio e forte nucleo di un’Unione Europea che
progredisca nella sua unità politica – aperta anche a successive adesioni – e
mantenga all’orizzonte la prospettiva federale.
Infine,
si impone secondo me, una riflessione su di un’ultima parola, Occidente.
Non
devo chiarirvi che l’Italia è saldamente radicata nell’Occidente e nei suoi
valori di libertà, democrazia, giustizia e nel rapporto transatlantico da più
di sessant’anni rappresenta il pilastro fondamentale della comune identità
occidentale.
Agli
Stati Uniti e al Canada ci legano vincoli profondi: la presenza di forti e
riconosciute comunità di origine italiana; il sacrificio di migliaia di ragazzi
caduti in Europa per la nostra libertà; la comune appartenenza alla NATO,
presidio essenziale della libertà e della sicurezza europea; la comune
responsabilità, come membri del G7, di assumere insieme politiche concertate
per una globalizzazione regolata; l’impegno a ridefinire strategie per far
fronte a nuove sfide: il terrorismo, la cybersecurity, gli armamenti spaziali,
l’emergenza energetica, i conflitti commerciali.
Nonostante
l’amministrazione Trump ricorra a barriere protezionistiche, guardi all’Unione
Europeo come un concorrente più che come un alleato, manifesti disinteresse
verso la NATO, gli Stati Uniti restano partner economico e politico essenziale.
Così
come strategici sono i rapporti di collaborazione in campo scientifico, nella
ricerca, nelle nuove frontiere della tecnologia.
Un
mondo libero e giusto ha bisogno di un’America democratica, che rifugga dalla
tentazione di esercitare una leadership solitaria per essere invece attore di
politiche di cooperazione e di impegno multilaterale. E l’Italia vuole essere
in ciò un sicuro e leale alleato.
Saldi
e intensi sono i rapporti con il Canada, la cui multiculturalità consente
intensi rapporti economici, culturali e politici, resi oggi più solidi
dall’Accordo di Libero Scambio sottoscritto con l’Unione Europea, che offre
nuove e maggiori opportunità di interscambio e maggiori tutele alle esportazioni
e agli investimenti italiani nel Paese.
Questa
nostra stabile ed insostituibile appartenenza non ci deve impedire una
riflessione sui limiti dell’azione dell’Occidente nei confronti del mondo. E’
del ruolo dell’Occidente che vorrei parlarvi, c’è un tema di crisi
dell’egemonia dell’Occidente di cui bisognerebbe parlare, pur nella saldezza
della nostra appartenenza., poco più di un secolo fa l’Europa rappresentava il
25% della popolazione mondiale, oggi meno del 10. Verso il 7%. Verso il 2050
Europa Usa e Canada varranno il 12% della popolazione mondiale, l’Asia il 60%,
l’Africa il 20%. La nostra età media si avvicina ai 44 anni, in Asia 30, in
Africa 19. Nel 1980 la ricchezza del G7 era pari al alla metà della ricchezza
con tutti paesi europei del 65%. Oggi vale la meta e la Cina è passata dal 2 al
20%.
Il
rischio più grave che io vedo è che l’Occidente viva una vecchiaia ingenerosa e
chiusa per cercare di riaffermare la propria potenza senza riuscirci. Così sarebbe se rinunciassimo ai nostri valori,
il mondo occidentale deve fare i conti con le nuove forze in campo in una
realtà nella quale non avremo più un ruolo dominante rilancino democrazia
libertà diritti, dobbiamo essere noi a civilizzare la globalizzazione. Lavorando per una guida democratica
del nuovo ordine mondiale.
Onu,
intervento del Presidente Draghi
al "Global Covid-19 Summit".
Governement.it-
Mario Draghi - (22 settembre 2021)-ci dice :
Il
Presidente del Consiglio, Mario Draghi, è intervenuto in videoconferenza alla
sessione conclusiva del “Global Covid-19 Summit: Ending the Pandemic and Building
Back Better Health Security to Prepare for the next”, organizzato nell’ambito della
76esima Assemblea generale delle Nazioni Unite.
Segretario
Blinken,
Signore
e Signori,
Vorrei
ringraziare il Segretario Blinken per aver presieduto questa riunione e per
avermi dato l'opportunità di condividere alcune osservazioni conclusive.
La
cooperazione globale è essenziale per porre fine a questa pandemia e prevenire
future emergenze sanitarie.
Il
Global Health Summit tenutosi lo scorso maggio a Roma è un buon esempio di ciò che
un efficace multilateralismo può ottenere.
Paesi
e aziende farmaceutiche hanno promesso dosi di vaccini e finanziamenti per i
paesi vulnerabili.E nella Dichiarazione di Roma ci siamo impegnati in una serie di
principi comuni per essere meglio preparati ad affrontare la prossima minaccia
per la salute.
Da
allora abbiamo fatto grandi progressi.
Più di
2,5 miliardi di persone sono completamente vaccinate in tutto il mondo.
E
quasi un miliardo in più sono in parte vaccinati.
Tuttavia,
come molti altri hanno notato in questa discussione, stiamo ancora assistendo a
grandi disuguaglianze nella disponibilità di vaccini in tutto il mondo.
I
meccanismi multilaterali, come ACT-Accelerator e COVAX, rimangono i modi più efficaci per
fornire vaccini in modo efficiente e per costruire la capacità necessaria per
somministrarli.
Dobbiamo
mantenere gli impegni che abbiamo fatto a questi programmi ed essere pronti a
farne di più generosi.
Dobbiamo
anche offrire un adeguato supporto logistico per garantire che i vaccini
raggiungano coloro che ne hanno più bisogno.
Perché,
con l'espansione della capacità produttiva, la sfida principale sarà come
trasportare i vaccini, non come produrli.
Al
Global Health Summit, l'Italia si è impegnata a donare 15 milioni di dosi entro
la fine dell'anno, principalmente attraverso COVAX.
Quasi
la metà di questi è già stata distribuita.
Oggi
sono lieto di annunciare che siamo pronti a triplicare i nostri sforzi.
Doneremo
30 milioni di dosi aggiuntive entro la fine dell'anno, raggiungendo i 45
milioni.
Mentre
lavoriamo per porre fine a questa pandemia, dobbiamo migliorare la nostra
preparazione per quelle future.
Abbiamo
bisogno di espandere la capacità di produzione dei vaccini e di tutti gli
strumenti medici nel mondo, e soprattutto nei paesi più vulnerabili.
Sosteniamo
il piano dell'Unione Europea di destinare 1 miliardo di euro per sviluppare una
serie di poli produttivi regionali in Africa e favorire il trasferimento
tecnologico.
Accogliamo
inoltre con favore la nuova agenda UE-USA per promuovere i nostri sforzi comuni
per la vaccinazione globale.
Uno
dei punti deboli della nostra risposta globale alla pandemia di Covid-19 è
stato l'insufficiente coordinamento tra le autorità sanitarie e
finanziarie.
In
qualità di Presidenza del G20, intendiamo istituire il Global Health and
Finance Board.
Questo
forum strutturato migliorerà la cooperazione globale nella governance e nel
finanziamento della prevenzione, preparazione e risposta alle pandemie.
Sosterrà
la collaborazione tra il G20, l'OMS, la Banca Mondiale e altre organizzazioni
internazionali.
Accogliamo
con favore la proposta statunitense di istituire un Fondo per intermediari
finanziari.
Questa
iniziativa sarebbe completamente complementare con il Global Health and Finance
Board.
La
salute è un bene pubblico globale e deve essere preservata ovunque.
Consentitemi
di ringraziare ancora il presidente Biden per la sua guida nella promozione di
questo evento.
Siate
certi che il prossimo vertice del G20 a Roma si baserà sui risultati di oggi.
Grazie.
Una
costituzione mondiale:
da
utopia a realtà?
Avvenire.it-
Vittorio Possenti - (23 aprile 2020)- ci dice :
(Juliana
Kozoski).
Ritorna
di attualità il tema di un governo mondiale, sorto subito dopo la guerra: il
bene comune universale non può essere assicurato da una responsabilità politica
frammentata. Un cammino però arduo.
Le gravi difficoltà planetarie, che non si
riducono a quelle attuali della pandemia, e che sono messe impietosamente allo
scoperto dal processo di globalizzazione dominato da tecnica e finanza, fanno
affiorare il tema assolutamente primario di un governo politico della famiglia
umana, in nome della comune umanità che non tollera discriminazioni, rifiuto
della solidarietà e della fratellanza. Riemergono le questioni dell’unità
politica mondiale, della pace perpetua, di istituzioni comuni aventi
responsabilità a raggio mondiale. Tra innumerevoli ostacoli avanza la
consapevolezza di un bene comune planetario dell’umanità e di beni comuni, che
devono esseri assicurati allo stesso livello: è l’immensa questione di
un’autorità politica mondiale o, come anche si dice, di una costituzione
mondiale.
Pochi
mesi fa si è formata in Italia l’associazione “Costituente terra” che persegue
tale obiettivo. Domenica 5 aprile l’inserto “La lettura” del “Corriere” ha
ospitato un articolo di Sabino Cassese dal titolo “Il sogno di una costituzione mondiale”, in cui l’attenzione si rivolge in
specie al tragitto politico e intellettuale di Giuseppe Antonio Borgese, che
dall’Italia si trasferì in Usa negli anni ’30.
Borgese
fece parte sin dall’inizio del comitato per la redazione di una costituzione
mondiale, presieduto dal presidente dell’università di Chicago, Robert Maynard
Hutchins, e composto da poco più di dieci membri che lavorò dal novembre 1945
al luglio 1947, preparando il progetto di una costituzione mondiale. Il gruppo
tenne rapporti con persone esterne tra cui Jacques Maritain e Luigi Sturzo. Il
testo fu pubblicato in varie lingue, e in italiano dalla Mondadori nel 1949, ma
non ebbe grande accoglienza: era già cominciata l’epoca della guerra fredda.
Il
lavoro non fu però inutile. Nel 1949 Maritain tenne alcune lezioni presso l’università
di Chicago che formarono poi L’uomo e lo Stato, uno dei classici del pensiero
politico novecentesco. In quest’opera l’autore dedica un capitolo a “Il problema dell’unificazione
politica del mondo” che si riassume negli obiettivi di una pace permanente, nel
superamento della sovranità degli Stati (severamente criticata) e nella
formazione di un’autorità politica mondiale, garante della pace e della giustizia
tra i popoli.
Non
presento qui l’elaborazione maritainiana, che si differenzia alquanto da quella
kantiana sulla pace perpetua. Mi interessa un altro elemento d’immenso rilievo:
nel promulgare nell’aprile 1963 l’enciclica Pacem in Terris , Giovanni XXIII
dedica profonda attenzione alla messa in opera di Poteri pubblici e Istituzioni
a raggio planetario. Nella parte IV del testo il papa scrive: «Il bene comune universale pone ora
problemi che non possono essere adeguatamente affrontati e risolti che ad opera
di Poteri pubblici aventi ampiezza, strutture e mezzi delle stesse proporzioni;
di Poteri
pubblici cioè che siano in grado di operare in modo efficiente su piano
mondiale.
Lo stesso ordine morale quindi domanda che tali Poteri vengano istituiti».
La prospettiva
è stata rilanciata da Benedetto XVI nell’enciclica Caritas in veritate (2009).
È impensabile che la soluzione ai problemi globali che sono ulteriormente
cresciuti possa essere trovata senza un grande progetto che conduca ad
un’autorità politica globale: «Urge la presenza di una vera Autorità politica
mondiale, quale è stata già tratteggiata dal mio Predecessore, il Beato
Giovanni XXIII. Una simile Autorità dovrà essere regolata dal diritto,
attenersi in modo coerente ai principi di sussidiarietà e di solidarietà,
essere ordinata alla realizzazione del bene comune, impegnarsi nella
realizzazione di un autentico sviluppo umano integrale ispirato ai valori della
carità nella verità. Tale Autorità inoltre dovrà essere da tutti ricono-
sciuta, godere di potere effettivo per garantire a ciascuno la sicurezza,
l’osservanza della giustizia, il rispetto dei diritti». Essa, che oltrepassa ma
non cancella il livello dello Stato e/o quello di unioni politiche regionali, è
necessaria in quanto esiste un bene comune universale che non può essere
assicurato da una responsabilità politica frammentata.
Questo
dislivello strutturale è forse la più grave causa del disordine mondiale. Il
cammino verso un’autorità politica mondiale, da non intendersi come un
Superstato e ancor meno come un impero mondiale, ma ricorrendo ai principi di
sussidiarietà e solidarietà, è un itinerario lungo e arduo. Nonostante tutto
dovrebbe imporsi se l’umanità globalizzata per il bene e il male, intenderà
sopravvivere. Intanto un certo cammino può essere compiuto, e già lo è stato, mediante la
creazione di organismi mondiali in campi fondamentali quali l’economia, la
salute, il commercio, il cibo: Fmi, Banca Mondiale, Wto, Oms, Fao ne sono
esempi, mentre sull’ambiente bisognerebbe procedere a istituirlo. Non ci si inganni però, in quanto
tali organismi spesso sono indirizzati dalle potenze dominanti. Il loro
arrancante e precario funzionamento, in specie durante le crisi più gravi, è
uno dei motivi della paura e della chiusura che colpiscono popoli e nazioni,
conducendoli al nazionalismo e al sovranismo sotto la spinta di capi politici
incapaci di guardare oltre.
Su
questi nuclei il compito dell’Europa dovrebbe essere primario e l’appello di
papa Francesco il giorno di Pasqua è chiaro. L’Europa è risorta dopo il 1945
grazie a un intento di unione per superare le rivalità passate: «È quanto mai urgente, soprattutto
nelle circostanze odierne, che tali rivalità non riprendano vigore, ma che
tutti si riconoscano parte di un’unica famiglia e si sostengano a vicenda. Oggi
l’Unione Europea ha di fronte a sé una sfida epocale, dalla quale dipenderà non
solo il suo futuro, ma quello del mondo intero».
Da
anni le ragioni del multilateralismo e dell’universalismo si sono gravemente
indebolite. Alcune frasi del discorso del presidente Trump all’assemblea generale
dell’Onu (24 settembre 2019) rappresentano il clima che si diffonde: «Il futuro non appartiene ai
globalisti. Il futuro appartiene ai patrioti. Il futuro appartiene alle nazioni
sovrane e indipendenti», chiaro invito a far pesare la propria forza sulle ragioni
dell’equilibrio, e rilancio del primato dello Stato nazionale. È dunque ancor
più necessario riprendere il progetto di un “costituzionalismo globale”, capace di creare istituzioni
sovranazionali, e infine mondiali, di garanzia. Esse avrebbero il compito di
controllare l’implementazione dei patti internazionali e del relativo diritto
in ambiti vitali come l’ambiente, la corsa agli armamenti, l’istruzione, i
diritti sociali, la lotta alle diseguaglianze, il contrasto alla tratta di
esseri umani e alla criminalità internazionale. Qualcosa di analogo ai compiti
svolti dall’Oms e dalla Fao nei loro campi rispettivi.
Jürgen
Habermas ha parlato di “politica interna del mondo” e in Italia Luigi Ferrajoli ha sostenuto che il costituzionalismo
ha un futuro solo se allargato oltre lo Stato. Le istituzioni di garanzia
perseguono infatti fini universali nei modi prestabiliti dalla legge e dal
diritto internazionali, e contribuiscono a limitare i poteri assoluti. Ma è proprio in questo campo che il
cammino è più arduo, poiché mancano quasi completamente leggi di attuazione e
di controllo, e il vecchio dogma della sovranità è lungi dall’essere superato.
Coronavirus
e teorie del complotto.
Un
vademecum e una lezione su #QAnon.
Wumingfoundation.com-
Wu Ming - (21-5-2020)- ci dice :
Da
quando, nel febbraio 2020, in Italia e poi nel resto d’Europa e dell’Occidente
è cominciata l’emergenza coronavirus, sempre più persone, sottoposte a un vero
e proprio bombardamento mediatico, hanno concluso che i mezzi d’informazione
mainstream erano inaffidabili. La narrazione predominante di quanto stava
accadendo è stata giudicata incongrua, strumentale, capziosa, organica a poteri
costituiti ed élites economiche non solo reticenti ma responsabili dello stato
in cui la pandemia aveva trovato i nostri sistemi socioeconomici.
Per i
movimenti anticapitalisti, quest’insoddisfazione diffusa – e fondata – nei
confronti dell’establishment politico-mediatico è stata in gran parte
un’occasione persa. Per vari motivi che non sono oggetto di quest’articolo, non
sono stati loro, non siamo stati noi a intercettarla.
Più
spesso, l’ha intercettata il cospirazionismo: il virus è stato prodotto in
laboratorio e diffuso intenzionalmente dalla Cina, o dalla Russia, o da Soros,
o da Bill Gates. Quest’ultimo manovra a piacimento l’OMS per «controllare il
mondo coi vaccini». Anzi, no, il virus si è diffuso per colpa del 5G. Anzi, no,
la pandemia è una creazione di una lobby satanista che in America controlla il
«deep state». Ecc. ecc.
I
complotti esistono, ma il capitalismo non è un Complotto.
Lo
abbiamo scritto tante volte: il cospirazionismo o complottismo è un grosso
problema per chi vuole criticare il capitalismo a ragion veduta e in modo
efficace. Lo
«stile paranoico» del complottismo è un potente dispositivo retorico che
incanala la rabbia sociale e le energie per un potenziale cambiamento verso
narrazioni diversive e intrinsecamente reazionarie, incentrate su capri
espiatori.
Un
conto è dire che l’emergenza coronavirus è stata gestita con gli strumenti che
nel frattempo il capitalismo aveva perfezionato: l’emergenza arriva dopo quarant’anni
di policy e governance neoliberale, ne prolunga molti fili, ne aggrava le
conseguenze, fa pagare tutto a chi già pagava, e i media – per come funzionano,
per gli interessi che rappresentano, per gli assetti proprietari che ne
plasmano l’orientamento – impongono narrazioni che fanno sembrare tutto ciò
“naturale”. «Le idee dominanti non sono altro che l’espressione ideale dei
rapporti materiali dominanti, sono i rapporti materiali dominanti presi come
idee» (Marx ed Engels, L’ideologia tedesca).
Ben
altro paio di maniche è immaginare che quest’emergenza sia stata programmata in
anticipo, che sia la messa in pratica di un Piano. Alcuni potenti si sarebbero
messi intorno a un tavolo con grande anticipo e avrebbero detto: «Inventiamo
una pandemia» o quantomeno «ecco come usare questa pandemia: facciamo X, Y e
Z». Da qui discenderebbe un Piano coerentissimo, che ha previsto tutto,
inesorabile e perfettamente messo in pratica dai poteri costituiti.
A
sostegno di tale visione, si dice che «questa pandemia era già stata prevista».
È lo stratagemma n.1 elencato da Arthur Schopenhauer nel suo L’arte di ottenere
ragione: «portare un’affermazione […] al di fuori dei suoi limiti naturali,
interpretarla nella maniera più generale possibile, prenderla nel senso più
ampio possibile ed esagerarla».
È
vero, gli addetti ai lavori sapevano che prima o poi ci sarebbe stata una nuova
pandemia, «Animal
Infections and The Next Human Pandemic» è addirittura il sottotitolo
originale del libro Spillover di David Quammen, uscito nel 2012. Tuttavia,
nessuno poteva conoscere in anticipo la morfologia del virus, l’eziologia del
Covid-19, le rotte esatte del contagio e il calendario della sua diffusione.
Narrazioni
come questa descrivono il capitalismo in modo caricaturale, come un sistema che
dipende in gran parte dalla volontà dei membri di una casta, ma il capitalismo
non è questo, è un modo di produzione che ha le sue logiche di fondo, i suoi
automatismi e meccanismi oggettivi. Non si è affermato per una congiura
di chicchessia, ma dopo una plurisecolare evoluzione storica, e funziona senza
che la classe dominante debba o possa prevedere e orchestrare tutto.
Che
esistano strategie capitalistiche è ovvio, e che alcuni complotti anche vasti
siano esistiti ed esistano è assodato. Gli esempi che saltano alla mente sono
la strategia della tensione, il complotto di Nixon che portò al Watergate, le
trame della P2, e addirittura – torsione di cui si sono occupati in modi
diversi Umberto Eco e Carlo Ginzburg – un complotto per far credere che
esistesse un Grande Complotto: la fabbricazione dei Protocolli dei Savi Anziani
di Sion da parte dell’Okhrana, la polizia segreta zarista.
In
fondo l’esistenza di questi servizi di intelligence non è altro che
un’istituzionalizzazione del complottare.
A ben
vedere, un complotto è qualcosa di molto semplice: se ne ha uno ogni volta che
più persone si mettono d’accordo per perseguire il proprio interesse a scapito
di altre, all’insaputa di queste ultime.
Dunque,
non si tratta di negare tout court l’esistenza dei complotti, sarebbe assurdo.
Si tratta di capire come disinnescare il cospirazionismo, forma mentis che non
solo vede la logica del complotto all’opera in ogni ambito, ma mette un Grande
Complotto al centro del funzionamento del sistema, esagerando il ruolo della
volontà nella storia – per giunta, una Volontà che tutto prevede e tutto
ottiene – e immaginando cabale o supercaste pressoché onnipotenti.
Sulla
distinzione tra i complotti reali – localizzati, imperfetti, contraddittori, “a
scadenza” – e il Complotto immaginato dal complottismo – perfetto,
coerentissimo, profetico, tentacolarissimo, illimitato, eterno – rimandiamo a
quanto scritto da Wu Ming 1 nell’inchiesta in due puntate apparsa su
Internazionale nell’autunno 2018. Nella seconda parte di quello scritto, si
riflette anche su come contrastare il complottismo in un modo che non si riduca
al debunking.
Due
fallacie logiche a cui ricorre il complottista.
L’abate
Augustin Barruel (1741-1820). Le sue teorie sulla Rivoluzione Francese come
esito di una cospirazione massonica ebbero grande diffusione e fortuna,
contribuendo a plasmare la leggenda del «complotto giudaico-massonico» e influenzando
tutto il pensiero reazionario a venire.
Il più
delle volte, chi critica l’approccio cospirazionista si sente rispondere in due
modi.
Il
primo è: «Stai col potere, che si è inventato l’accusa di “complottismo” e la
usa contro chiunque lo critichi!»
A
corollario di quest’affermazione, spesso si sente dire che l’espressione «conspiracy theory» l’avrebbe
inventata la CIA negli anni Sessanta. Si tratta di una leggenda urbana.
In quest’articolo si dimostra che il
primo utilizzo riscontrato – e già inteso con accezione negativa – dell’espressione «conspiracy
theory» risale addirittura al 1870.
Il
cospirazionismo non è un’invenzione dei suoi presunti avversari, ma una
mentalità e un insieme di retoriche e fallacie che esiste da secoli, da ben
prima che esistesse la CIA. Per fare un solo esempio, nel 1569 i servizi
segreti della Serenissima – e prima ancora l’opinione popolare – attribuirono a
un complotto dell’ebreo Giuseppe Nasi l’incendio dell’Arsenale di Venezia,
storia che raccontiamo nel nostro Altai.
Quasi
tutte le teorie del complotto moderne risalgono a un periodo che va da fine
XVIII secolo a inizio XIX. Il complotto degli Illuminati di Baviera, della massoneria,
degli ebrei… Sono tutte teorie nate per reazione all’Illuminismo e,
soprattutto, alla Rivoluzione francese, per descrivere quest’ultima come una
mera congiura. I tòpoi del complottismo risalgono a quella fase storica, da
allora abbiamo avuto quasi solo ricombinazioni.
Il
fatto che qualcuno definisca «cospirazionismo», «complottismo» o «teoria del
complotto» qualunque analisi scomoda o anche solo sgradita non dimostra in
alcun modo che l’accusa sia sempre falsa, né che non esistano la realtà e
mentalità che quei termini indicano. Dimostra solo che di quei termini si tende ad abusare, e semmai
conferma che il complottismo fornisce facili appigli a chi voglia sminuire o
denigrare il pensiero critico.
In
particolare, il complottismo intorbidisce le acque per chiunque voglia
denunciare complotti reali. Come scrive Enrico Voccia su Umanità Nova:
«denunciare
complotti a ogni piè sospinto porta all’effetto opposto […] scredita – agli
occhi della maggioranza – il tentativo di difendersi dai complotti reali.
Immaginate quanto sarebbe stata presa sul serio la campagna di
controinformazione [sulla strage di piazza Fontana] se questa fosse stata affogata
nel rumore di chi affermava che le nascenti BR erano formate da extraterrestri
in combutta col Mossad, di altri che sostenevano che Zapata era sopravvissuto
al tentativo di omicidio e che era diventato un agente della CIA e via di
questo passo.»
L’altra
risposta tipica è: «Non puoi dimostrare che non c’è un Piano!»
In
qualunque ambito discorsivo dove valga l’argomentazione logica – diritto,
storiografia, scienze sociali, scienze “dure” – l’onere della prova spetta a
chi fa un’asserzione. Il fatto che il complottista sfidi a dimostrare che non
c’è un piano – Argumentum ad ignorantiam – dimostra che il complottismo non rientra in quegli
ambiti. È chi pensa che ci sia un Piano che dovrebbe dimostrarlo portando
prove. E per «prove» non intendiamo semplici sospetti, collegamenti azzardati
ecc. Non bastano.
Per
noi, fino a prova contraria, basta e avanza la logica di fondo del sistema
capitalistico, il cui devastante funzionamento è sotto gli occhi di chiunque
non si rifiuti di vederlo.
Capitalismo
e pandemia.
Chuǎng.
Il carattere è la stilizzazione di un destriero che varca di forza un cancello.
Ha vari significati: «liberarsi», «sfondare», «attaccare», «andare alla
carica», ma anche «temprarsi» (passando attraverso dure esperienze).
Vi
sono dinamiche dell’economia capitalistica le cui responsabilità sono da tempo
attestate per quanto riguarda le grandi epidemie degli ultimi decenni. Già a
febbraio, nel Diario virale, abbiamo scritto:
«L’aviaria,
la Sars, la suina e prima ancora la BSE erano uscite dai gironi infernali
dell’industria zootecnica planetaria. In parole povere: dagli allevamenti
intensivi, per via di come gli animali erano trattati e, soprattutto, nutriti.
Ebola, Zika e West Nile erano venuti a contatto con gli umani per colpa della
deforestazione massiva e della distruzione di ecosistemi.»
La
deforestazione segue il land grabbing e precede ulteriori estensioni
dell’agrobusiness che servono a sostenere l’industria zootecnica mondiale. Un
terzo della produzione mondiale di cereali è destinato all’alimentazione dei
bovini. Questo processo ha creato le condizioni per tutti gli ultimi spillover,
o «salti di specie». Un riferimento importante è il libro del biologo Rob
Wallace Big Farms Make Big Flu. Che non a caso è citato anche dal collettivo
cinese Chuang nel suo densissimo saggio-inchiesta Social Contagion: lotta di
classe microbiologica in Cina.Dopo il «salto di specie», altre dinamiche dell’economia
capitalistica, relative alla globalizzazione e all’estensione delle metropoli e
megalopoli, creano le condizioni per la diffusione rapida del contagio.
Coronavirus
e QAnon.
In un
momento in cui ci sono effettive pressioni sugli scienziati e la ricerca
scientifica è più condizionata del solito – dall’urgenza, dalle pressioni
mediatiche, da lotte di consorteria – è facile per il complottista appellarsi
alla libertà della scienza e passare per paladino di quest’ultima. Quando ciò
accade, dobbiamo essere in grado di capirlo. E se non possiamo sempre farlo
grazie alla verità scientifica, il cui accertamento è ancora in corso d’opera,
possiamo farlo grazie alla forma narrativa di quel che dice.
Di
fronte a un discorso sul virus creato in un laboratorio e diffuso ad arte, più
che il ricorso a un’autorità scientifica in grado di escludere l’ipotesi in
base alla morfologia stessa del Sars-Cov-2, è il modo di raccontare quella storia
a farci riconoscere il complottismo e le sue fallacie logiche. Anche di fronte
a discorsi più “sfumati”, è l’impianto narratologico a metterci sul chi vive.
A
narratologia e retoriche del complottismo era dedicato l’intero corso –
nominalmente di Giornalismo culturale – tenuto da Wu Ming 1 all’Università Roma
2 (Tor Vergata) nell’anno accademico 2018-2019.
In
particolare, WM1 ha dedicato una lezione di due ore alla mega-teoria del
complotto nota come «QAnon». Nell’ultimo anno e mezzo ce ne siamo occupati
diverse volte: qui su Giap, su Internazionale e in varie conferenze in Italia e
all’estero. Lo abbiamo fatto anche perché in un certo senso siamo implicati,
questa vicenda ci coinvolge direttamente.
Tra
gli effetti indesiderati della pandemia e della relativa emergenza c’è stato
l’aumento – anche in Italia – del numero di persone che prestano fede alle
bufale targate QAnon e le diffondono. Secondo i seguaci di QAnon, la diffusione
del Sars-Cov-2 sarebbe un complotto della Cina e dei Democratici per distruggere
l’economia americana e impedire la rielezione di Donald Trump. Detta così è semplice, ma da lì
partono innumerevoli diramazioni e sottoteorie. Un meccanismo consueto, ma che
può frastornare chi non conosca QAnon.
Riteniamo
dunque utile mettere a disposizione quella lezione di un anno fa. Dove c’è
anche molta letteratura, basti dire che vi hanno un posto d’onore due romanzi.
Uno è Il pendolo di Foucault.
A suo
tempo, la lezione era stata caricata in due parti sul canale YouTube della Wu
Ming Foundation, oggi abbandonato dopo che abbiamo fatto degoogling. Erano
video privati, visibili solo da studentesse e studenti del corso. Li abbiamo
sbloccati e ve li riproponiamo.
Naturalmente,
com’è prassi su Giap, lo facciamo passando attraverso Invidio.us, interfaccia
che permette di vedere i video di YouTube senza pubblicità, senza tracciamento
né data mining, senza riproduzioni automatiche, playlist eterodirette, consigli
tossici dell’algoritmo, restrizioni per paese e quant’altro.
Per un
governo mondiale.
Ilbolive.unipd.it-Piro
Greco- Vittorio Possenti- (30 aprile 2020)-ci dicono :
In
termini ambientali, Johan Rockström e lo Stockholm Resilience Centre ne hanno
individuati ben nove di problemi planetari. In realtà lo scienziato svedese e il
suo centro parlano di planetary boundaries, di confini o, se volete, di soglie
da non superare (alcune sono già state superate): ma tant’è sono emergenze che
coinvolgono il mondo intero e che pretendono una soluzione se non unica, almeno
coordinata. Sull’esempio, per intenderci, di quel Protocollo di Montreal che ha
messo al bando in tutto il mondo, sia pure in maniera articolata nei modi e nel
tempo, le sostanze che aggrediscono l’ozono stratosferico. Non esiste nulla di
simile per gli altri planetary boundaries.
Ma di
problemi planetari – ce ne stiamo accorgendo in queste settimana – ve ne sono
anche di natura sanitaria. Le pandemie, per definizione, interessano il mondo
intero e non conoscono confini, mentre pretendono soluzioni, ancora una volta,
unitarie e coordinate. Mentre a ogni livello – locale, nazionale, continentale,
globale – assistiamo a una frammentazione spinta all’insegna dell’”ognuno per
sé e Dio per tutti”.
E che
dire, poi, del ritorno al riarmo, compreso quello nucleare, che negli ultimi
trent’anni ha bruciato il “dividendo della pace” che qualcuno voleva
distribuire ai cittadini di tutto il mondo subito dopo il crollo dell’Unione
Sovietica e la possibilità di creare quella che Immanuel Kant chiamava la “pace
perpetua”, grazie a un governo mondiale capace di assicurare non la mancanza di
conflitti (che i conflitti sono il sale della dinamica sociale), ma di
conflitti armati almeno a livello delle nazioni?
Già,
il governo mondiale. Il solo accennarne appare come una fuga utopistica dalla realtà. Secondo alcuni, addirittura la
proposizione un incubo: una sorta di grande e corrotta e inefficiente dittatura
planetaria.
Eppure
negli ultimi giorni almeno quattro intellettuali italiani hanno ripreso il tema
su grandi giornali generalisti. Il primo è stato, a quanto ci risulta, il
costituzionalista nonché ex ministro Sabino Cassese, che su La lettura, inserto
culturale de Il Corriere della Sera, ha ricordato la figura di un giornalista
italiano, Giuseppe Antonio Borgese, che tra il 1945 e il 1947 si è posto alla
testa di un gruppo internazionale costituito da sei docenti dell’Università di
Chicago, tre delle università di Stanford, Cornell e Harvard, uno di Oxford e
uno di Toronto e, sulla base di approfondite discussioni, ha personalmente redatto
una “costituzione mondiale”, prevedendo tutte le articolazioni di una
democrazia formale compiuta: un governo, appunto; un parlamento rappresentativo
dell’intera popolazione del pianeta.
Appare
sempre più necessario lavorare a istituzioni globali di garanzia su ambiti
vitali come ambiente, istruzione, armamenti, diritti sociali, lotta alle
diseguaglianze.
Vittorio
Possenti
Il
tema è stato ripreso, poi, su L’Avvenire, da Vittorio Possenti, già docente di
filosofia politica presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Il cui articolo,
a commento dell’intervento di Cassese, inizia così: «Appare sempre più necessario lavorare
a istituzioni globali di garanzia su ambiti vitali come ambiente, istruzione,
armamenti, diritti sociali, lotta alle diseguaglianze».
Ancora,
con una conversazione pubblicata di nuovo su La lettura e intitolata,
esplicitamente, Per un governo del mondo, sono intervenuti Maurizio Ferrera,
docente di Scienza politica presso l’Università degli Studi di Milano, e Vinod
Aggarwal, che insegna Scienza politica presso l’Università di California a
Berkeley.
Dunque
non è da ingenui parlarne, del governo mondiale, in un momento in cui sembra
dominante il pensiero sovranista: prima gli americani, prima gli italiani, prima i
russi, prima i cinesi. Sono le “emergenze planetarie”, come le chiama il fisico
Antonino Zichichi, a imporre un pensiero centripeta mentre le nazioni del
pianeta Terra corrono via l’una dall’altra come schegge di materia dopo il Big
Bang. Sono i fatti tangibili che
interessano il pianeta intero – l’ambiente, la salute, la pace, le
disuguaglianze, i diritti umani – a chiedere con forza un intervento unitario e
coordinato tra gli stati e i popoli.
Il
virus SARS-CoV-2 si è diffuso in tutto il mondo contagiando milioni di persone
e uccidendone alcune centinaia di migliaia anche perché il mondo non lo ha
fronteggiato in maniera unitaria, leale e coordinata. Ognuno è andato per sé,
anche nella stessa Unione Europea, è il virus sta punendo tutti. Anzi, nel pieno della lotta, si è
tentato di svuotare di ogni funzione anche l’unico, timidissimo embrione di
governo mondiale della salute, l’Organizzazione Mondiale di Sanità.
Lo
stesso vale per altri embrioni di governo mondiale: come la Convenzione delle Nazioni Unite
sui Cambiamenti Climatici nell’ambito della quale non si riesce a ottenere un consenso
globale per contenere l’aumento della temperatura media del pianeta entro gli
1,5 °C o, almeno, entro i 2 °C, come sostengono gli scienziati se si vuole
evitare un’evoluzione catastrofica del clima globale.
Mentre
da decenni non fa un passo avanti verso il totale disarmo il TNP, il Trattato
di non proliferazione nucleare che si regge su una pericolosa asimmetria:
distinguendo tra chi ha ufficialmente l’atomica (USA, Russia, Cina, Regno Unito
e Francia) e tutti gli altri paesi firmatari. Questi ultimi, tutto sommato,
stanno rispettando l’obbligo a non dotarsi dell’arma, mentre i cinque
detentori, che pure si sono impegnati a disfarsene in tempi ragionevoli,
pensano a tutt’altro. Altri tre paesi non firmatari – India, Pakistan e Israele –
non hanno firmato il TNP, non per questo non costituiscono un problema.
Per
tutti questi problemi gli esperti del Bulletin of the Atomic Scientists hanno
portato le lancette del Doomsday Clock ad appena 100 secondi dalla mezzanotte.
Ovvero dalla catastrofe globale. Forse sono troppo pessimisti, questi
scienziati: ma le emergenze planetaria che essi indicano reali, concrete,
immanenti e per molti versi imminenti.
La
soluzione è, dunque, nel governo mondiale? E se sì, che razza di governo
dovrebbe essere, il “governo di tutto il mondo”?
L’idea
ha patri nobili e antichi. Pare che risalga già ai Romani. E ha avuto nobilissimi sostenitori.
Ne citiamo tre, tutti tedeschi, oltre al già ricordato Giuseppe Antonio Borgese
e agli accademici, quasi tutti americani, con cui ha collaborato: Immanuel
Kant, Albert Einstein e papa Benedetto XVI (al secolo, Joseph Aloisius
Ratzinger). Si tratta di persone certamente influenti, ma per cultura e
formazione molto diversi tra loro: un filosofo, un fisico, un religioso. Per
non fargli torto, dovremmo aggiungere anche l’attuale papa, Francesco (al
secolo Jorge Mario Bergoglio), ma rischieremmo di rompere la simmetria
disciplinare. O ricordare Jean-Jacques Rousseau, l’Abate si Saint-Pierre, Altiero
Spinelli o ancora Aldo Capitini, ma vale la motivazione di cui prima.
Un
governo mondiale è l’idea che ha attraversato e attraversa la mente di grandi
personalità della cultura.
Dunque,
Immanuel Kant. Nel 1795 scrive un libro Zum ewigen Frieden. Ein philosophischer
Entwurf, ovvero La pace perpetua, in cui riflette sul modo in cui raggiungere
questa auspicata condizione. Il grande filosofo di Königsberg per la verità non
parla in termini stretti di un governo a scala planetaria, ma piuttosto di
leali accordi di pace di tutti i paesi con tutti gli altri che non possono
essere violati. Kant propone anche il graduale, ma veloce scioglimento degli
eserciti permanenti.
Un’idea
che viene ripresa già nella prima parte del Novecento da Albert Einstein (non a
caso, perché il fisico ha letto già da giovanissimo Kant) che fonda il suo
pacifismo militante su due presupposti: lo scioglimento degli eserciti che
invito ai giovani a rifiutare la leva e la formazione, appunto, di un governo
mondiale.
Quanto
a Benedetto XVI, ecco cosa scrive nell’enciclica Caritas in veritate del 2009,
così come ce la ricorda Vittorio Possenti: «Urge la presenza di una vera Autorità
politica mondiale, quale è stata già tratteggiata dal mio Predecessore, il
Beato Giovanni XXIII. Una simile Autorità dovrà essere regolata dal diritto,
attenersi in modo coerente ai principi di sussidiarietà e di solidarietà,
essere ordinata alla realizzazione del bene comune, impegnarsi nella
realizzazione di un autentico sviluppo umano integrale ispirato ai valori della
carità nella verità. Tale Autorità inoltre dovrà essere da tutti riconosciuta,
godere di potere effettivo per garantire a ciascuno la sicurezza, l’osservanza
della giustizia, il rispetto dei diritti». Già, ci eravamo dimenticati di
Giovanni XXIII, il “papa buono”.
Un
governo mondiale, dunque, è l’idea che ha attraversato e attraversa la mente di
grandi personalità della cultura. Non può essere un’idea ingenua, frutto di un idealismo
staccato dalla realtà: perché ingenui non erano e non sono tutte le persone
citate.
D’altra
parte l’idea del governo mondiale, come ricorda Danilo Zolo, che ha insegnato
filosofia e sociologia del diritto presso l’Università di Firenze, in un libro
pubblicato nel 1995, Cosmopolis. Zolo, che era stato allievo di Giorgio La
Pira, criticava per la verità l’idea del governo mondiale. Però di questa idea
ha ricostruito la storia tangibile.
La
nascita degli stati moderni con l’affermazione della loro totale indipendenza –
allora dalla Chiesa e dall’Impero – è tutta europea e risale alla pace di
Westfalia del 1648 con cui viene posto termine alla disastrosa “guerra dei
trent’anni” (che si accompagnò, vale la pena ricordarlo, a una serie di
epidemie, tra cui quella di peste a Milano del 1630 così ben descritta da
Alessandro Manzoni). La pace tra i
popoli europei nelle intenzioni dei convenuti a Westfalia e, poi, nella prassi
dei decenni e secoli successivi fu mantenuta dall’equilibrio, altamente
instabile, di potenza. Lo stesso che – come equilibrio del terrore – ha
impedito una guerra nucleare tra USA e URSS negli anni della guerra che per
forza di cose era “fredda”. L’equilibrio nella seconda parte del Novecento – e
per certi versi anche ora – si reggeva sulla cosiddetta MAD, mutual assured destruction, la certezza della reciproca
distruzione che una guerra nucleare totale non avrebbe avuto alcun vincitore.
Tutti avrebbero perso. La stessa civiltà umana avrebbe subito un colpo mortale.
L’equilibrio
di potenza era (ed è) un più che mai instabile “equilibrio del terrore”.
L’instabilità
dell’”equilibrio di potenza” era presente alla mente di molti anche prima di
Westfalia. Basti citare Dante Alighieri (tra XIII e XIV secolo) o Carlo V (nel
XVI secolo) che hanno preconizzato, in forme diverse, l’idea di una monarchie
universelle, su cui hanno scritto filosofi di assoluto valore, come David Hume
e come Charles-Louis de Secondat, barone di La Brède e di Montesquieu, autore
nel 1734 di un trattato, appunto su La Monarchie universelle. Al grande
filosofo politico francese l’idea di un governo mondiale (la monarchia
universale) proprio non piaceva.
Tuttavia,
ci sono stati, negli ultimi due secoli, almeno tre tentativi di fondare una
pace più stabile e meglio regolata. Tre tentativi di fondare un timido “governo
mondiale”. Il primo risale al 1815 quando le potenze che hanno sconfitto
Napoleone Bonaparte – e, segnatamente, Austria, Gran Bretagna, Prussia e Russia
– danno vita alla Santa Alleanza: «Per il bene del mondo – si legge in un
documento fondativo della Santa Alleanza – [le potenze vincitrici si impegnano
a] prendere le misure più salutari per la tranquillità e la prosperità dei
popoli e per il mantenimento della pace tra gli Stati».
Tutto
questo sarebbe avvenuto mediante periodici incontri tra i rappresentanti di
questa sorta di federazione. Alla Santa Alleanza aderiscono un po’ tutte le
potenze europee minori, tranne lo Stato pontificio e, in Turchia, il Sultano.
Come rileva Danilo Zolo, per la prima volta nella storia europea e mondiale si
afferma e si esperisce il principio di una pacifica federazione internazionale,
aperta a tutti gli stati, anche se guidata dal direttorio delle quattro potenze
vincitrici.
La
Santa Alleanza raggiunse anche obiettivi rimarchevoli, come l’abolizione della
schiavitù. Ma l’equilibrio era appunto troppo instabile e nell’arco di un
decennio venne a termine.
La
stessa esigenza di evitare il caos e l’anarchia sulla scena internazionale che
aveva generato la Prima guerra mondiale e causato quasi venti milioni di morti
portò alla costituzione, nel 1920, della Società delle Nazioni a opera di
Francia, Gran Bretagna, Italia e Giappone e su ispirazione del presidente
americano Woodrow Wilson (che per questo ottenne il premio Nobel per la pace
già nel 1919). Sulla carta la Società delle Nazioni costituiva un “governo mondiale”
piuttosto spinto e articolato, con un’Assemblea, il parlamento mondiale
costituito dai rappresentanti di tutti gli stati membri; un Consiglio, una
sorta di potere esecutivo costituito dai rappresentanti di alcuni stati membri
permanenti e da altri nominati dall’Assemblea; un Segretariato permanente e
anche una Corte di Giustizia.
La
storia della Società delle Nazioni ci offre almeno due insegnamenti: ogni idea
del “governo mondiale” non può fondarsi sul dominio di pochi, né sul progetto
di mantenere lo status quo congelando ogni conflitto
La
Società delle Nazioni è l’istituzione più vicina al “governo mondiale” che sia
mai stata realizzata. Ma nel mezzo secolo successivo mostrò tutti i suoi limiti
perché, come sottolinea Danilo Zolo, aveva una visione troppo centralistica e
dunque sembrava designata a mantenere lo status quo. Progetto soprattutto di
marca francese che non teneva conto delle enormi asimmetrie create nei
confronti delle potenze sconfitte (la Germania) e anche di quelle nascenti
(l’Unione Sovietica).
La
storia della Società delle Nazioni ci offre almeno due insegnamenti: ogni idea del “governo mondiale”
non può fondarsi sul dominio di pochi (le potenze vincitrici di una guerra) né
sul progetto di mantenere lo status quo congelando ogni conflitto. Il “governo
mondiale” deve limitarsi (si fa per dire) a far sì che i conflitti si risolvano
in guerre guerreggiate e alla ricerca di soluzioni concordate ad alcuni
problemi di carattere universale. Un esempio di successo è la Terza Convenzione di
Ginevra del 1925, firmata da sedici stati, con cui si vieta l’uso anche in
guerra di armi chimiche.
Ma per
i suoi difetti intrinseci (compresa la mancanza del monopolio della forza) la
Società delle Nazioni non riuscì a impedire il proseguimento della “lunga
guerra civile” scoppiata in Europa nel 1914 e che si concluderà solo con la
sconfitta del nazifascismo nel 1945.
Già,
il 1945. Il 26 giugno di quell’anno in cui viene a termine la Seconda guerra
mondiale vengono tenute a battesimo le Nazioni Unite. Con gli stessi limiti
(anzi, con alcuni aggiuntivi) della Società delle Nazioni. Il potere di veto
che hanno di fatto le cinque potenze vincitrici (considerate più uguali degli
altri) nel Consiglio di Sicurezza ha avuto e ha tuttora un effetto
paralizzante. Nonostante le Nazioni Unite, la pace mondiale nel dopoguerra è
stata mantenuta dall’”equilibrio del terrore”. E quando l’URSS è finita, al
dominio dei due blocchi si è sostituita una frammentazione difficile da
governare. In ogni caso negli ultimi 75 anni non sono mancate guerre definite
locali e anche guerre combattute nel nome delle Nazioni Unite (in Corea, in
Irak, per esempio) ma dalla incerta legittimazione etica.
Le
Nazioni Unite non rappresentano certo un modello ideale di “governo mondiale”.
Tuttavia sarebbe un errore considerare la loro esistenza come irrilevante se
non addirittura dannosa. Esempi positivi della presenza, non facilmente sostituibile
delle Nazioni Unite, ne troviamo in molti campi: per esempio l’approvazione, il
10 dicembre 1948, della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo.
Le
Nazioni Unite non rappresentano certo un modello ideale di “governo mondiale”.
Tuttavia sarebbe un errore considerare la loro esistenza come irrilevante se
non addirittura dannosa
Ma
anche nei tre ambiti che abbiamo indicato all’inizio la presenza delle Nazioni
Unite si è rivelata preziosa: la salute, l’ambiente, le armi nucleari. Nel
primo caso ricordiamo l’Organizzazione Mondiale di Sanità (OMS) – un piccolo
governo mondiale della salute fondato in ambito ONU il 22 luglio 1946 ed
entrata in funzione due anni dopo. Nel caso dell’ambiente ricordiamo, oltre al
Protocollo di Montreal per l’ozono, le Convenzioni sui Cambiamenti del Clima e
sulla Biodiversità approvate a Rio de Janeiro nel 1992 (oltre a una serie
sterminata di altri trattati di cui non sempre abbiamo contezza). Per quanto
riguarda la pace al tempo delle armi nucleari, ricordiamo il TNP, il Trattato
di Non Proliferazione Nucleare, approvato dall'Assemblea generale dell'ONU il
primo luglio 1968.
L’OMS,
le Convenzioni sul clima e la biodiversità, il TNP sono esempi di un “governo
mondiale” limitato ad alcuni settori ben definiti.
Certo,
nessuna di queste iniziative è stata decisiva. Oggi la pandemia COVID-2019 si
diffonde nel mondo con gli stati che non seguono le direttive dell’OMS ma
reagiscono ognuno per sé (con evidenti disastri). Oggi si stenta ad applicare
le indicazioni drammatiche proposte dagli scienziati in sede di Convenzioni sul
clima e sulla biodiversità. Quanto al Trattato di Non Proliferazione è in una
condizione di congelamento di una condizione asimmetrica che non sta impedendo
neppure una nuova corsa al riarmo.
E
tuttavia proviamo a immaginare come sarebbe il mondo senza le Nazioni Unite. Un
mondo in cui esisterebbero 200 sistemi sanitari diversi tra loro, senza
programmi per esempio di vaccinazione universale (sarebbe mai stato eradicato
il vaiolo in un sistema diverso dalle Nazioni Unite?); un mondo che neppure si
accorgerebbe delle emergenze cambiamenti climatici ed erosione della
biodiversità; un mondo in cui ogni paese si sentirebbe libero di dotarsi di un
arsenale nucleare.
Ha,
dunque, più che mai ragione Vittorio Possenti: «Appare sempre più necessario
lavorare a istituzioni globali di garanzia su ambiti vitali come ambiente,
istruzione, armamenti, diritti sociali, lotta alle diseguaglianze». Non vogliamo chiamarlo governo,
utilizziamo un termine inglese che sembra più alla moda: governance.
Appare
sempre più necessario lavorare a istituzioni globali di garanzia su ambiti
vitali come ambiente, istruzione, armamenti, diritti sociali, lotta alle
diseguaglianze.
(Vittorio
Possenti).
Ce lo
insegna in questi giorni la pandemia: la mancanza di una governance
sufficientemente forte, con un certo potere decisionale, si risolve in un danno
per tutti i popoli e per tutti i cittadini del mondo. Riformiamo pure l’OMS, ma
nel senso di rafforzarla, non demolirla. Riformiamo pure la diplomazia
ecologica, me nel senso di avere un governo mondiale del clima e della
biodiversità e degli altri sette “confini planetari”. Riformiamo pure il TNP,
ma nel senso di rafforzarlo per arrivare in tempi certi al disarmo nucleare
totale.
Certo,
dobbiamo fare tutto questo conservando la democrazia. Rafforzando la democrazia
come bene universale. Non è semplice in un mondo in cui le dittature e le
democrature (le democrazie autoritarie) sembrano ritornare e persino avere, su
certuni, un certo appeal. Non è semplice se il sovranismo e il nazionalismo tornano a
essere coltivati da grandi masse.
Ma a
un “governo mondiale” o, se volete, a una governance globale, sia pure
ristretta a pochi, grandissimi problemi, è necessaria. Possiamo aderire alla
proposta centralistica di Giuseppe Antonio Borgese oppure a una proposta con
istituzioni molto più leggere, ma non possiamo sfuggire il problema: il mondo ha problemi globali, che
interessano tutti i cittadini del pianeta e, quindi, ha bisogno di un “governo
Mondiale”.
Utopia?
Forse.
Ma è grazie alle utopie di persone come Kant, Einstein, Spinelli che alcuni
tratti, magari piccoli e tortuosi, li abbiamo fatti per uscire dal caos
ingovernabile dell’”ognuno per sé” che porta a quel Bellum omnium contra omnes,
quella guerra di tutti contro tutti di cui parlava nel Seicento Thomas Hobbes.
E che indebolisce non solo l’umanità con i suoi conflitti interni, ma anche
l’umanità rispetto ai pericoli esterni, siano essi il clima o un virus.
Il
“Trattato sulle Pandemie” darà
all’OMS
le Chiavi del Governo Globale.
Conoscenzealconfine.it
- Kit Knightly-( 10 Maggio 2022)- ci dice :
Le
prime udienze pubbliche sul proposto “Trattato sulle pandemie” sono terminate e
il prossimo ciclo dovrebbe iniziare a metà giugno. Le clausole suggerite
incentiverebbero la segnalazione di eventuali “pandemie” e punirebbero le
nazioni in caso di “non conformità”.
Abbiamo
cercato di tenere la questione in prima pagina, proprio perché il mainstream è
così desideroso di ignorarla, mentre continua a sfornare “porno” di guerra e
propaganda di parte.
Quando
noi – ed altri – c’eravamo collegati alla pagina della presentazione pubblica,
c’era stata una tale risposta che il sito web dell’OMS si era bloccato per un
po’… o avevano fatto finta che si fosse bloccato, in modo che la gente
smettesse di inviare mail. In ogni caso, è stata una vittoria, malgrado
l’attuale scarsa copertura mediatica, per lo più relegata nelle metaforiche
pagine di fondo di internet e speriamo di poterla replicare in estate.
La
prospettiva si concentrerà sul cercare di rendere il trattato “abbastanza
forte” e garantire che i governi nazionali possano essere “ritenuti
responsabili”. Un articolo sul Telegraph del Regno Unito, del 12 aprile,
titola: “C’è il rischio reale che un trattato sulla pandemia possa essere
‘troppo annacquato’ per fermare nuove epidemie”. L’articolo si concentra su un
rapporto del Panel for a Global Public Health Convention (GPHC) e cita una
delle autrici del rapporto, Dame Barbara Stocking: “La nostra più grande paura
[…] è che sia troppo facile pensare che la responsabilità non sia importante.
Avere un trattato che non prevede alcun obbligo, beh, francamente allora non
avrebbe senso avere un trattato.”
Il
rapporto del GPHC continua dicendo che l’attuale regolamento sanitario
internazionale è “troppo debole e chiede la creazione di un nuovo organismo
internazionale ‘indipendente’ per valutare la preparazione dei governi e
rimproverare o lodare pubblicamente i Paesi, a seconda della loro conformità ad
una serie di requisiti concordati.”
Un
altro articolo, pubblicato dalla London School of Economics e firmato da alcuni
membri dell’Alleanza tedesca per il cambiamento climatico e la salute (KLUG),
spinge, in modo piuttosto sostenuto, l’idea di “responsabilità” e “conformità”:
“Affinché questo trattato sia incisivo, l’organizzazione che lo governa deve
avere il potere – politico o legale – di imporre la conformità”. Il pezzo si
rifà poi al rapporto delle Nazioni Unite del maggio 2021, per chiedere ancora
più poteri per l’OMS: “Nella sua forma attuale, l’OMS non possiede tali poteri
[…] Per andare avanti con il trattato, l’OMS ha quindi bisogno di essere
potenziata – finanziariamente e politicamente“.
Raccomanda
il coinvolgimento nei negoziati di “attori non statali” come la Banca Mondiale,
il Fondo Monetario Internazionale, l’Organizzazione Mondiale del Commercio e
l’Organizzazione Internazionale del Lavoro e suggerisce che il trattato offra
incentivi finanziari per la segnalazione tempestiva di “emergenze sanitarie”
[enfasi aggiunta]: “In caso di emergenza sanitaria dichiarata, le risorse
dovranno affluire ai Paesi in cui si sta verificando l’emergenza, innescando le
dovute risposte, come finanziamenti e supporto tecnico. Questi sono
particolarmente rilevanti per i Paesi a basso reddito, e potrebbero essere
utilizzati per incoraggiare e migliorare la condivisione tempestiva delle
informazioni da parte degli stati, rassicurandoli che non saranno soggetti a
sanzioni arbitrarie sul commercio e sui viaggi per la segnalazione [dell’emergenza],
ma che saranno invece dotati delle risorse finanziarie e tecniche necessarie
per rispondere efficacemente all’epidemia“.
Ma non
si fermano qui. Sollevano anche la questione della “punizione” per i Paesi che
dovessero “non conformarsi”: “[Il trattato dovrebbe possedere] un regime di
incentivi adattabile, [comprese] sanzioni intese come rimproveri pubblici,
sanzioni [propriamente] economiche o negazione di benefici”.
Traduciamo
questi suggerimenti dal burocratese:
– Se
segnalerete “focolai di malattia” in modo “tempestivo” otterrete le “risorse
finanziarie” per affrontarli.
– Se
non segnalerete i focolai di malattia o non seguirete le indicazioni dell’OMS,
perderete gli aiuti internazionali e dovrete affrontare embarghi commerciali e
sanzioni.
Prese
insieme, queste regole proposte incentiverebbero letteralmente la segnalazione
di possibili “focolai di malattia”. Lungi dal prevenire “future pandemie” le
incoraggerebbero attivamente.
I
governi nazionali che si rifiutassero di stare al gioco verrebbero puniti,
mentre quelli che si adeguassero verrebbero ricompensati. Non è una novità. Lo
abbiamo già visto con il Covid. Due Paesi africani – Burundi e Tanzania –
avevano presidenti che avevano bandito l’OMS dai loro stati e che si erano rifiutati
di assecondare la narrazione pandemica ufficiale. Entrambi i presidenti sono
morti inaspettatamente entro pochi mesi da quella decisione, per essere quindi
sostituiti da capi di stato che hanno immediatamente ribaltato le politiche
Covid dei loro predecessori.
Meno
di una settimana dopo la morte del presidente Pierre Nkurunziza (presidente
della Repubblica del Burundi, morto nel giugno del 2020), il FMI ha accettato
di condonare quasi 25 milioni di dollari del debito nazionale del Burund,i per
aiutare a combattere la “crisi” del Covid 19. Appena cinque mesi dopo la morte
del presidente John Magufuli, il nuovo governo della Tanzania ha ricevuto 600
milioni di dollari dal FMI per “affrontare la pandemia di Covid 19.”
È
abbastanza chiaro cos’è successo, vero? I globalisti hanno appoggiato i colpi
di stato e premiato i responsabili con aiuti internazionali. Le proposte per il
trattato sulle pandemie non farebbero altro che legittimare questo processo,
spostandolo dai canali occulti a quelli ufficiali.
Ora,
prima di discutere le implicazioni dei nuovi poteri, ricordiamoci del potere
che l’OMS già possiede:
–
L’Organizzazione Mondiale della Sanità è l’unica istituzione al mondo
autorizzata a dichiarare una “pandemia” o un’emergenza di salute pubblica di
interesse internazionale (PHEIC).
– Il
direttore generale dell’OMS – una posizione non eletta – è l’unico individuo
che ha il controllo di questo potere.
Abbiamo
già visto l’OMS abusare di questi poteri in passato per creare una falsa
pandemia dal nulla… e non sto parlando del Covid.
Prima
del 2008, l’OMS poteva dichiarare una pandemia influenzale solo se c’era “un
numero enorme di morti e di contagi” e se si era in presenza di un nuovo e
distinto sottotipo [virale]. Nel 2008, l’OMS aveva allentato la definizione di
“pandemia influenzale” rimuovendo queste due condizioni.
Come
era stato puntualizzato in una lettera del 2010 al British Medical Journal,
questi cambiamenti significavano che “molti virus dell’influenza stagionale ora
avrebbero potuto essere classificati come influenza pandemica”.
Se
l’OMS non avesse apportato questi cambiamenti, l’epidemia di “influenza suina”
del 2009 non avrebbe mai potuto essere chiamata pandemia e, probabilmente,
sarebbe passata senza fare notizia.Invece, decine di Paesi spesero milioni di
dollari per vaccini contro l’influenza suina di cui non avevano bisogno e che
non funzionavano, per combattere una “pandemia” che aveva provocato meno di
20.000 morti. Si era poi visto che molti dei responsabili che avevano
consigliato all’OMS di dichiarare l’influenza suina un’emergenza di salute
pubblica, erano legati finanziariamente ai produttori di vaccini.
Nonostante
questo esempio storico di palese corruzione, una clausola proposta del Trattato
sulle pandemie renderebbe ancora più facile dichiarare una PHEIC. Secondo il
rapporto del maggio 2021, “Covid19: Fate che sia l’ultima pandemia”: “Le future
dichiarazioni di una PHEIC da parte del direttore generale dell’OMS dovrebbero
essere basate sul ‘principio di precauzione’, laddove giustificato”.
Sì, il
trattato proposto potrebbe permettere al direttore generale dell’OMS di
dichiarare uno stato di emergenza globale per PREVENIRE una potenziale
pandemia, non in risposta ad una pandemia! Una sorta di risposta pandemica
pre-crimine.
Se a
questo aggiungiamo il proposto “aiuto finanziario” per le nazioni in via di
sviluppo che segnaleranno le “potenziali emergenze sanitarie” si può vedere
qual’è il loro intento – essenzialmente corrompere i governi del Terzo Mondo e
dare all’OMS il pretesto per dichiarare lo stato di emergenza.
Conosciamo
già gli altri punti chiave che probabilmente verranno inclusi nel Trattato
sulle pandemie. Quasi certamente cercheranno di introdurre i passaporti
internazionali per i vaccini e verseranno fondi nelle tasche di Big Pharma
affinchè produca “vaccini” sempre più velocemente e con ancora meno test di
sicurezza.
Ma
tutto questo impallidirebbe in confronto ai poteri legali che potrebbero essere
conferiti al direttore generale dell’OMS (o a qualsiasi nuovo organismo
“indipendente” che decidessero di creare) per punire, rimproverare o premiare i
governi nazionali.
Un
“Trattato sulle pandemie” che scavalca o annulla i governi nazionali o locali
consegnerebbe poteri sovranazionali ad un burocrate o ad un “esperto” non
eletto, che potrebbe esercitarli interamente a sua discrezione e con criteri
completamente soggettivi. Questa è la definizione stessa di globalismo
tecnocratico.
(Kit
Knightly-
off-guardian.org/2022/04/19/pandemic-treaty-will-hand-who-keys-to-global-government/).
(comedonchisciotte.org/il-trattato-sulle-pandemie-dara-alloms-le-chiavi-della-governance-globale/).
PRONTI
PER IL GREAT RESET?
LA LIBERTÀ TERAPEUTICA
È
L’ULTIMO DEI PROBLEMI!!
Blog-appuntamento-con-l-omeotapia.it-
Alberto Magnetti-(02/11/2020)- ci dice :
UNA
ÉLITE VUOLE SOTTOMETTERE L’UMANITÀ INTERA, IMPONENDO MISURE COERCITIVE CON CUI
LIMITARE DRASTICAMENTE LE LIBERTÀ DELLE PERSONE E DEI POPOLI.
Queste
le affermazioni inquietanti della LETTERA APERTA dell’Arcivescovo Carlo Maria
Viganò già Nunzio Apostolico negli Stati Uniti d’America.
al
Presidente degli Stati Uniti d’America Donald J. Trump
SIGNOR
PRESIDENTE,
mi consenta di rivolgermi a Lei, in
quest’ora in cui le sorti del mondo intero sono minacciate da una cospirazione
globale contro Dio e contro l’umanità. Le scrivo come Arcivescovo, come
Successore degli Apostoli, come ex-Nunzio apostolico negli Stati Uniti
d’America. Le scrivo nel silenzio delle autorità civili e religiose: voglia
accogliere queste mie parole come la «voce di uno che grida nel deserto» (Gv 1,
23).
Come ho avuto modo di scriverle
nella mia Lettera dello scorso Giugno, questo momento storico vede schierate le
forze del Male in una battaglia senza quartiere contro le forze del Bene; forze
del Male che sembrano potenti e organizzate dinanzi ai figli della Luce,
disorientati e disorganizzati, abbandonati dai loro capi temporali e
spirituali.
Sentiamo moltiplicarsi gli attacchi
di chi vuole demolire le basi stesse della società: la famiglia naturale, il rispetto per
la vita umana, l’amore per la Patria, la libertà di educazione e di impresa. Vediamo i capi delle Nazioni e i
leader religiosi assecondare questo suicidio della cultura occidentale e della sua anima
cristiana, mentre ai cittadini e ai credenti sono negati i diritti
fondamentali, in nome di un’emergenza sanitaria che sempre più si rivela come
strumentale all’instaurazione di una disumana tirannide senza volto.
GREAT
RESET.
Un piano globale, denominato Great
Reset, è in via di realizzazione. Ne è artefice un’élite che vuole sottomettere
l’umanità intera, imponendo misure coercitive con cui limitare drasticamente le
libertà delle persone e dei popoli. In alcune nazioni questo progetto è già stato
approvato e finanziato; in altre è ancora in uno stadio iniziale. Dietro i
leader mondiali, complici ed esecutori di questo progetto infernale, si celano
personaggi senza scrupoli che finanziano il World Economic Forum e l’Event
201, promuovendone l’agenda di Klaus Schwab.
Scopo del Great Reset è
l’imposizione di una dittatura sanitaria finalizzata all’imposizione di misure
liberticide, nascoste dietro allettanti promesse di assicurare un reddito
universale e di cancellare il debito dei singoli.
Prezzo
di queste concessioni del Fondo Monetario Internazionale dovrebbe essere la
rinuncia alla proprietà privata e l’adesione ad un programma di vaccinazione
Covid-19 e Covid-21 promosso da Bill Gates con la collaborazione dei principali
gruppi farmaceutici.
Aldilà degli enormi interessi economici che
muovono i promotori del Great Reset, l’imposizione della vaccinazione si
accompagnerà all’obbligo di un passaporto sanitario e di un ID digitale, con il
conseguente tracciamento dei contatti di tutta la popolazione mondiale. Chi non accetterà di sottoporsi a
queste misure verrà confinato in campi di detenzione o agli arresti domiciliari, e gli
verranno confiscati tutti i beni.
Signor Presidente, immagino che
questa notizia Le sia già nota: in alcuni Paesi, il Great Reset dovrebbe essere
attivato tra la fine di quest’anno e il primo trimestre del 2021.
A tal
scopo, sono previsti ulteriori lockdown, ufficialmente giustificati da una presunta
seconda e terza ondata della pandemia.
Ella
sa bene quali mezzi siano stati dispiegati per seminare il panico e legittimare
draconiane limitazioni delle libertà individuali, provocando ad arte una crisi
economica mondiale. Questa crisi serve per rendere irreversibile, nelle
intenzioni dei suoi artefici, il ricorso degli Stati al Great Reset, dando il
colpo di grazia a un mondo di cui si vuole cancellare completamente l’esistenza
e lo stesso ricordo.
Ma
questo mondo, Signor Presidente, porta con sé persone, affetti, istituzioni,
fede, cultura, tradizioni, ideali: persone e valori che non agiscono come
automi, che non obbediscono come macchine, perché dotate di un’anima e di un
cuore, perché legate tra loro da un vincolo spirituale che trae la propria
forza dall’alto, da quel Dio che i nostri avversari vogliono sfidare, come
all’inizio dei tempi fece Lucifero con il suo «non serviam».
Molti – lo sappiamo bene –
considerano con fastidio questo richiamo allo scontro tra Bene e Male, l’uso di
toni “apocalittici”, che secondo loro esasperano gli animi e acuiscono le
divisioni. Non
c’è da stupirsi che il nemico si senta scoperto proprio quando crede di aver
raggiunto indisturbato la cittadella da espugnare. C’è da stupirsi invece che non vi sia
nessuno a lanciare l’allarme. La reazione del deep state a chi denuncia il suo piano è
scomposta e incoerente, ma comprensibile. Proprio quando la complicità dei
media mainstream era riuscita a rendere quasi indolore e inosservato il passaggio al Nuovo Ordine
Mondiale, vengono alla luce inganni, scandali e crimini.
Fino a qualche mese fa, sminuire
come «complottisti» coloro che denunciavano quei piani terribili, che ora
vediamo compiersi fin nei minimi dettagli, era cosa facile. Nessuno, fino allo scorso febbraio,
avrebbe mai pensato che si sarebbe giunti, in tutte le nostre città, ad
arrestare i cittadini per il solo fatto di voler camminare per strada, di
respirare, di voler tenere aperto il proprio negozio, di andare a Messa la domenica.
Eppure
avviene in tutto il mondo, anche in quell’Italia da cartolina che molti
Americani considerano come un piccolo paese incantato, con i suoi antichi
monumenti, le sue chiese, le sue incantevoli città, i suoi caratteristici
villaggi.
E mentre i politici se ne stanno asserragliati nei loro palazzi a promulgare
decreti come dei satrapi persiani, le attività falliscono, chiudono i negozi,
si impedisce alla popolazione di vivere, di muoversi, di lavorare, di pregare. Le disastrose conseguenze psicologiche
di questa operazione si stanno già vedendo, ad iniziare dai suicidi di
imprenditori disperati, e dai nostri figli, segregati dagli amici e dai
compagni per seguire le lezioni davanti a un computer.
Nella Sacra Scrittura, San Paolo ci
parla di
«colui che si oppone» alla manifestazione del mistero dell’iniquità, il
kathèkon (2Tess
2, 6-7). In ambito religioso, questo ostacolo è la Chiesa e in particolare il
Papato; in ambito politico, è chi impedisce l’instaurazione del Nuovo Ordine Mondiale.
Come ormai è evidente, colui che
occupa la Sede di Pietro, fin dall’inizio ha tradito il proprio ruolo, per difendere e promuovere
l’ideologia globalista, assecondando l’agenda della deep church, che lo ha
scelto dal suo grembo.
Signor Presidente, Ella ha
chiaramente affermato di voler difendere la Nazione – One Nation under God, le libertà
fondamentali, i valori non negoziabili oggi negati e combattuti. È Lei, Caro Presidente, «colui che si oppone» al deep
state, all’assalto finale dei figli delle tenebre.
Per questo occorre che tutte le
persone di buona volontà si persuadano dell’importanza epocale delle imminenti
elezioni: non tanto per questo o quel punto del programma politico, quanto
piuttosto perché è l’ispirazione generale della Sua azione che meglio incarna –
in questo particolare contesto storico – quel mondo, quel nostro mondo, che si
vorrebbe cancellare a colpi di lockdown. Il Suo avversario è anche il nostro: è il Nemico del genere umano, colui
che è «omicida sin dal principio» (Gv 8, 44).
Attorno a Lei si riuniscono con
fiducia e coraggio coloro che La considerano l’ultimo presidio contro la
dittatura mondiale. L’alternativa è votare un personaggio manovrato dal deep
state, gravemente compromesso in scandali e corruzione, che farà agli Stati
Uniti ciò che Jorge Mario Bergoglio sta facendo alla Chiesa, il Primo Ministro
Conte all’Italia, il Presidente Macron alla Francia, il Primo Ministro Sanchez
alla Spagna, e via dicendo. La ricattabilità di Joe Biden – al pari di quella dei Prelati
del “cerchio magico” vaticano – consentirà di usarlo spregiudicatamente,
consentendo a poteri illegittimi di interferire nella politica interna e negli
equilibri internazionali. È evidente che chi lo manovra ha già pronto uno peggiore di
lui con cui sostituirlo non appena se ne presenterà l’occasione.
Eppure, in questo quadro desolante,
in questa avanzata apparentemente inesorabile del «Nemico invisibile», emerge
un elemento di speranza. L’avversario non sa amare, e non comprende che non basta
assicurare un reddito universale o cancellare i mutui per soggiogare le masse e
convincerle a farsi marchiare come capi di bestiame.
Questo
popolo, che per troppo tempo ha sopportato i soprusi di un potere odioso e
tirannico, sta riscoprendo di avere un’anima; sta comprendendo di non esser
disposto a barattare la propria libertà con l’omologazione e la cancellazione
della propria identità; sta iniziando a capire il valore dei legami familiari e
sociali, dei vincoli di fede e di cultura che uniscono le persone oneste. Questo Great Reset è destinato a
fallire perché chi lo ha pianificato non capisce che ci sono persone ancora
disposte a scendere nelle strade per difendere i propri diritti, per proteggere
i propri cari, per dare un futuro ai propri figli.
L’inumanità
livellatrice del progetto mondialista si infrangerà miseramente dinanzi
all’opposizione ferma e coraggiosa dei figli della Luce. Il nemico ha dalla sua
parte Satana, che non sa che odiare. Noi abbiamo dalla nostra parte il Signore
Onnipotente, il Dio degli eserciti schierati in battaglia, e la Santissima
Vergine, che schiaccerà il capo dell’antico Serpente. «Se Dio è per noi, chi
sarà contro di noi?» (Rm 8, 31).
Signor Presidente, Ella sa bene
quanto gli Stati Uniti d’America, in quest’ora cruciale, siano considerati
l’antemurale contro cui si è scatenata la guerra dichiarata dai fautori del
globalismo.
Riponga la Sua fiducia nel Signore, forte delle parole dell’Apostolo: «Posso
tutto in Colui che mi dà forza» (Fil 4, 13). Essere strumento della divina
Provvidenza è una grande responsabilità, alla quale corrisponderanno certamente
le grazie di stato necessarie, ardentemente implorate dai tanti che La
sostengono con le loro preghiere.
Con questo celeste auspicio e
l’assicurazione della mia preghiera per Lei, per la First Lady, e per i Suoi
collaboratori, di tutto cuore Le giunga la mia Benedizione.
God bless the United States of
America!
Yacht
e ville sequestrate agli oligarchi,
costi di manutenzione alle stelle:
il
governo pensa alla vendita.
Ilsole24ore.com-
Ivan Cimmarusti-(29 aprile 2022)-ci dice :
Gli
elevatissimi costi di gestione dei beni “congelati” in Italia agli oligarchi
russi agitano l’esecutivo: la spesa per la manutenzione sta lievitando a valori
allarmanti.
Ecco
lo yacht a Marina di Carrara che potrebbe essere di Putin.
I
punti chiave.
Allo
studio modifiche al decreto «sanzioni»
Il
caso dello yacht da 140 metri.
Il
nodo della manutenzione.
Bisogna decidere cosa fare di questi yacht e
ville di lusso da 953 milioni di euro, considerato che nei rendiconti della
Ragioneria dello Stato la spesa per la manutenzione sta lievitando a valori
allarmanti. Venderli o attuare il diritto di ritenzione - che consente allo
Stato di trattenere e disporre da subito di queste proprietà se i destinatari
delle misure non saldano il conto - sembrano le uniche soluzioni.
Per
questo il Governo sta valutando un aggiornamento del decreto legislativo
109/2007, la norma che attua in Italia le sanzioni disposte dall’Unione europea
nei confronti dei fedelissimi dello “zar” Vladimir Putin, finiti nella black
list Ue.
Allo
studio modifiche al decreto «sanzioni».
Il
problema di fondo è che il decreto 109 è stato emesso per arginare i rischi
connessi al finanziamento al terrorismo. Una norma che è sempre stata
utilizzata per “congelare” e affidare alla gestione dell’Agenzia del Demanio
beni, nella maggior parte dei casi, di modesta portata, come conti correnti o
piccole società: un’amministrazione poco dispendiosa, che in via residuale
consente anche la vendita. Ma le valutazioni giuridiche che si stanno svolgendo in
queste ore escludono che il decreto possa permettere la cessione di proprietà
di così alto valore: il rischio di ricorsi per milioni di euro è concreto.
In
questo senso il Governo vuole mettere mano al decreto: un aggiornamento che
permetta di non far ricadere sul bilancio dello Stato tutti questi costi, che
inevitabilmente rischierebbero di vanificare gli effetti dei “congelamenti”.
Una via, stando ai ragionamenti preliminari, potrebbe essere proprio il diritto
di Ritenzione, che consentirebbe all’Agenzia di amministrare questi beni con
più poteri e senza spese elevate, potendo anche venderli o affittarli.
Il caso
dello yacht da 140 metri.
Attualmente,
infatti, al Demanio si trovano a gestire una grana inaspettata. Uno yacht da
140 metri del valore di oltre 530 milioni di euro, come quello di Andrey
Melnichenko, non è questione da poco. A maggior ragione se si considera che i
panfili sono diversi, così come le ville e le residenze finora messe
sottochiave dopo gli accertamenti del Nucleo di polizia valutaria della Guardia
di finanza. Senza contare gli ulteriori “congelamenti” in arrivo, visto che
l’Italia è disseminata di proprietà riconducibili direttamente o attraverso
trust e società offshore a oligarchi.
Di
questo sono consapevoli anche al Comitato di sicurezza finanziaria (Csf),
informato costantemente con riunioni bisettimanali e incontri serrati dei
sottogruppi. Gli stanziamenti progressivi che sta chiedendo l’Agenzia hanno
acceso l’alert: il rischio che le sanzioni, varate per fiaccare economicamente
il cerchio finanziario del presidente russo, si trasformino in un conto salato
per gli italiani è concreto. Soprattutto perché nell’attuale disciplina del
109/2007, il bene deve essere restituito al proprietario nelle stesse
condizioni in cui era al momento del “congelamento”.
Il
nodo della manutenzione.
Ciò
vuol dire che si dovranno anticipare tutte le somme per la manutenzione
«mediante prelievo dai fondi stanziati sull’apposito capitolo di spesa del
bilancio dello Stato», si legge nella norma.
Per
fare un esempio con solo uno dei dieci “congelamenti” finora eseguiti, lo Stato
dovrà garantire la corretta manutenzione della villa da 17 milioni di euro in
Costa Smeralda di Alisher Usmanov, oligarca con un patrimonio stimato in 15,3
miliardi di euro, ritenuto dal Financial crimes enforcement network (FinCEN)
del Tesoro degli Stati Uniti un finanziatore dei consiglieri di Putin. Tutto
questo, fino a quando non saranno revocate le sanzioni e i beni saranno
restituiti. In tal caso il conto finale lo dovranno saldare gli oligarchi. Il
punto, però, è che non sono previste revoche, considerato che difficilmente
Putin farà marcia indietro sull’Ucraina.
Chi
sono gli oligarchi russi che
scappano
a Dubai per
sfuggire alle sanzioni.
Forbes.it
-staff di Forbes -(15-4-2022)- John Hyatt e Giacomo Tognini-ci dicono:
Mentre
milioni di rifugiati ucraini fuggono dal loro paese devastato dalla guerra
verso la Polonia e l’Europa occidentale, gli oligarchi russi fuggono su yacht
di lusso e jet privati verso un’altra destinazione: Dubai.
Spiazzati
dalle sanzioni e sgraditi in Occidente, i miliardari russi sono a caccia di
proprietà di lusso a Dubai, attirati dalle spiagge sfarzose dell’Emirato, dal
programma di visti flessibile e dalla neutralità promessa dal governo locale
sull’Ucraina. Ad affermarlo sono diversi broker immobiliari di Dubai, che hanno
mostrato proprietà a rappresentanti dei miliardari russi.
Stiamo
ricevendo crescenti richieste da oligarchi russi”, afferma Şerif Nadi Varlı, il
principale broker immobiliare di Vartur Real Estate, che ha uffici a Dubai e in
Turchia, altra destinazione molto popolare tra i ricchi russi che cercano di
sfuggire alle sanzioni. “Questo tipo di persone è alla ricerca di grandi
investimenti. Non si fidano a mantenere i loro beni nei paesi europei”.
“Abbiamo
visto, da parte degli oligarchi, un certo interesse non solo verso l’acquisto
di proprietà a Dubai, ma anche verso un trasferimento qui”, dice un altro
broker, che ha chiesto di rimanere anonimo perché teme di rompere gli accordi
di riservatezza. Un terzo agente immobiliare di Dubai (che a sua volta ha
chiesto di rimanere anonimo) afferma che la sua azienda ha lavorato con
“parecchi” miliardari russi alla ricerca di case.
Gli
oligarchi a Dubai si troveranno in compagnia di facce note. Almeno tre
miliardari russi e un altro magnate che ha perso da poco lo status di
miliardario possiedono già proprietà nella città-stato dell’emirato, secondo i
dati forniti dal Center for Advanced Defense Studies di Washington. Il magnate
dei fertilizzanti Dmitry Rybolovlev possiede una proprietà da 29,5 milioni di
dollari a Palm Jumeirah, un lussuoso arcipelago di isole artificiali a forma di
palma. I suoi ricchissimi vicini di casa includono Albert Avdolyan e sua moglie
Elena, che possiedono due proprietà per un valore complessivo di 19 milioni di
dollari, e Andrei Molchanov, che possiede una casa da 26,5 milioni. (Molchanov
è uscito dalla lista Forbes dei miliardari del mondo nel 2022). Pavel Durov, il
37enne fondatore dell’app di messaggistica Telegram, è un altro inquilino delle
isole.
I
nuovi aspiranti residenti di Dubai sembrano fare shopping in un mercato ancora
più costoso. La proprietà di maggiore valore offerta dalla Vartur di Nadi
Varlı, sempre a Palm Jumeirah, ha un prezzo base di 68 milioni di dollari. “Nel segmento del super lusso, abbiamo
assistito a transazioni folli, a prezzi che non avevamo mai visto prima”,
afferma Alexander von Sayn-Wittgenstein, amministratore delegato dell’agenzia di lusso Luxcapital, che
ha gestito l’acquisto di una casa da 76 milioni di dollari, sempre a Palm
Jumeirah, all’inizio di questa settimana.
I
broker che hanno parlato con Forbes hanno identificato diversi quartieri
popolari tra i ricchi acquirenti russi, oltre al famoso Palm Jumeirah. Jumeirah
Bay, un’isola artificiale di circa 550mila metri quadrati, dove le ville
costano fino a 30 milioni di dollari, è in cima alla lista. Altre destinazioni
comuni includono Emaar Beachfront, sede del grattacielo più alto del mondo, il
Burj Khalifa, e del secondo centro commerciale più grande del mondo, il Dubai
Mall. Anche Dubai Marina, che comprende la spiaggia commerciale e turistica La
Mer e il lussuoso complesso sul lungomare Jumeirah Beach Residence, ha
parecchio successo.
“I
grandi costruttori di Dubai mi dicono che i russi comprano parecchio e spesso”, dice Nadi Varli, che ha menzionato
Emaar Properties – il costruttore di Emaar Beachfront e Burj Khalifa – tra le
aziende che gestiscono le richieste dei ricchi russi.
I russi
che si trasferiscono a Dubai potrebbero voler approfittare del programma dei
“visti d’oro” degli Emirati Arabi Uniti, che permette di ottenere la residenza
a lungo termine agli stranieri che investono almeno dieci milioni di dirham
(2,7 milioni di dollari) in una società o in un fondo di investimento locale.
Gli
Emirati Arabi Uniti hanno liberalizzato il loro programma di visti all’inizio
del 2021, per incoraggiare “investitori, professionisti, talenti speciali e le
loro famiglie” a trasferirsi a Dubai. Inoltre, nel gennaio 2021 hanno
introdotto un programma di concessione di cittadinanza dietro investimento che
consente agli stranieri di acquisire la cittadinanza degli Emirati attraverso
investimenti in “proprietà”. Non è ancora chiaro, però, quanto i potenziali
cittadini debbano investire per ottenerla e di quali tipi di proprietà si
parli.
“È una
residenza a vita che ti viene concessa dal governo di Dubai ed è molto
conveniente per molti di questi ricchi russi”, afferma Abdullah Alajaji, ad di
Driven Properties, agenzia di intermediazione immobiliare di Dubai. La società
di Alajaji ha registrato un aumento del 71% del valore netto degli immobili
acquistati dai russi nel primo trimestre del 2022 rispetto allo stesso periodo
dell’anno precedente. “Molte delle persone con cui abbiamo lavorato erano
domiciliate a Londra, Lussemburgo, Svizzera e Israele e ora stanno cercando di
piantare le tende a Dubai”, afferma Alajaji. “Sia che si tratti della loro
attività, sia di spostare le loro famiglie e risiedere a Dubai”.
Nelle
ultime settimane, diversi yacht di proprietà di oligarchi russi si sono diretti
verso il porto di Dubai. Il superyacht Madame Gu, di proprietà dell’oligarca
dell’acciaio e membro della Duma Andrei Skoch, valutato 156 milioni di dollari
dagli esperti di VesselsValue, è stato visto per l’ultima volta a Dubai
all’inizio di marzo. Il superyacht da 90 metri Nirvana, appartenente al magnate
del nichel Vladimir Potanin, non sanzionato, e il Titan da 82 milioni di
dollari del magnate dell’acciaio Alexander Abramov sono attualmente ormeggiati
a Mina Rashid, un terminal crociere artificiale nella parte settentrionale
della città. I due superyacht sono ormeggiati uno accanto all’altro, secondo i
dati del servizio di tracciamento delle navi MarineTraffic. Due altri yacht di
proprietà di un oligarca, il Sea & Us di Anatoly Lomakin (58 milioni di
dollari) e l’Hermitage di Anatoly Sedykh (73 milioni di dollari), sono stati
visti per l’ultima volta a Dubai a marzo e aprile.
Il
terminal di Mina Rashid è di proprietà del governo di Dubai, che possiede anche
un altro porto turistico popolare tra i miliardari russi – Porto Montenegro a
Tivat, in Montenegro – attraverso la Investment Corporation di Dubai. Lo yacht
Solaris da 474 milioni di dollari di Roman Abramovich si è stabilito brevemente
a Porto Montenegro il 12 marzo prima di salpare per la Turchia, mentre il
Galactica Super Nova di Vagit Alekperov, magnate del petrolio e del gas, ha
lasciato il porto il 2 marzo.
Oltre
ai loro superyacht, gli oligarchi stanno anche portando i loro aerei privati
negli Emirati. Forbes ha trovato quattro jet collegati a miliardari russi
sanzionati, tra cui Abramovich, Arkady Rotenberg, Viktor Rashnikov e Mikhail
Gutseriev, che sono stati rintracciati l’ultima volta a Dubai o ad Abu Dhabi
nei mesi di febbraio e marzo. Il Boeing 787-8 Dreamliner di Abramovich,
registrato ad Aruba con il codice P4-Bdl, è stato visto l’ultima volta a Dubai
il 4 marzo, dopo un decollo da Mosca. I tre jet che sono stati registrati
l’ultima volta a Dubai sono atterrati a Dubai World Central (Dwc), l’aeroporto
più recente della città-stato, alternativo a Dubai International, dove atterra
la stragrande maggioranza dei voli di linea. Definito “l’aeroporto del futuro”
dalla società pubblica Dubai Airports, Dwc è ancora in fase di completamento e
gli unici voli passeggeri che attualmente riceve sembrano essere charter
stagionali offerti da quattro compagnie aeree russe, che partono da varie città
russe.
Non
sono solo i miliardari russi che affollano le coste di Dubai. Anche a chi è
“solo” ricco è stato vietato di viaggiare in Europa, e questo ha portato molti
a fare incetta di appartamenti a Dubai. Il numero di russi che possiedono
proprietà a Dubai a marzo è salito, soprattutto nella fascia di prezzo da
250mila a 500mila dollari, secondo i dati della società immobiliare di Dubai
Metropolitan Premium Properties, citati anche da diversi media russi.
(Metropolitan Premium Properties non ha risposto alla richiesta di commento di
Forbes). La domanda sta facendo aumentare i prezzi e frustrando alcuni
acquirenti: Ellada Gasanova, una popolare stilista russa, si è lamentata su Instagram
del costoso mercato immobiliare di Dubai, secondo quanto riportato dai media
russi locali. (State tranquilli: a quanto pare, Gasanova è riuscita a trovare
un appartamento).
Per
gli abitanti di Dubai, la recente ondata di acquirenti russi non è
sorprendente, data la storia di investimenti della Russia nell’Emirato.
“Il
mercato immobiliare di Dubai ha sempre attirato molti investitori russi, che da
sempre sono tra i principali investitori negli Emirati Arabi Uniti”, afferma
Hamid Jaafri, ad della società di investimenti immobiliari One Investments. “Dubai ha storicamente beneficiato
dell’instabilità geopolitica, a causa del suo status di rifugio sicuro, e senza
dubbio la crisi tra Russia e Ucraina andrà a vantaggio di Dubai”.
Gli
Emirati Arabi Uniti non sono stati timidi nel loro rifiuto di sostenere le
sanzioni occidentali contro la Russia. Gli Emirati sono infatti, insieme a Cina
e India, uno dei tre paesi che si sono astenuti nella votazione del Consiglio
di sicurezza delle Nazioni Unite del 25 febbraio per condannare l’invasione
russa dell’Ucraina. Si sono poi astenuti anche il 7 aprile in una votazione
dell’Assemblea Generale per sospendere la Russia dal Consiglio per i Diritti
Umani delle Nazioni Unite. Il 4 marzo, la Financial action task force, un organo di
vigilanza sulla criminalità finanziaria con sede a Parigi, ha inserito gli
Emirati Arabi Uniti nella sua “lista grigia” di giurisdizioni che necessitano
un monitoraggio più accurato.
I
legami finanziari tra gli Emirati Arabi Uniti e la Russia sono profondi. Mubadala Investment Corporation, il
fondo di investimento sovrano degli Emirati Arabi Uniti, ha investito 3,6
miliardi di dollari in 50 società russe fino a oggi. Almeno due di questi
investimenti, del valore di quasi 400 milioni di dollari, sono legati a
miliardari russi sanzionati: a dicembre, Mubadala ha acquisito una
partecipazione dell’1,9% nel gigante petrolchimico Sibur, in parte di proprietà
degli oligarchi sanzionati Leonid Mikhelson e Gennady Timchenko. Forbes stima
che la quota ora valga circa 220 milioni di dollari, in calo rispetto ai circa
500 milioni di dollari al momento dell’acquisto, a causa dell’impatto delle
sanzioni sul rublo. A giugno, Mubadala ha speso 175 milioni di dollari per
acquistare il 2,6% di En+ Group, un’azienda di alluminio quotata in borsa il
cui maggiore azionista è il miliardario Oleg Deripaska. Ciò ha portato la
partecipazione di Mubadala in En+ Group fino al 2,86%. Ora la sua quota vale
circa 170 milioni di dollari, poiché le azioni della società sono scese.
In una
conferenza sugli investimenti a Dubai il 28 marzo, l’amministratore delegato di
Mubadala, Khaldoon Al Mubarak, ha affermato che il fondo “sospenderà gli
investimenti” in Russia. Tuttavia, l’afflusso di oligarchi in cerca di case di
lusso dimostra che gli Emirati continuano ad accogliere gli investimenti dei
più ricchi di Mosca.
La
Turchia accoglie gli oligarchi russi
e
diventa un rifugio per i loro capitali.
Linkiesta.it-
Eleonora Mongelli- Ali Yildiz- (5 aprile 2022)- ci dice :
Per
difendere il crollo della lira, Erdogan è disposto ad accogliere valute
straniere di qualsiasi tipo per aumentare il denaro nel circuito finanziario
del Paese, senza fare attenzione alla provenienza. Il tutto si traduce in un
aiuto al regime di Putin. Così Ankara diventa un mediatore inaffidabile nelle
trattative per la pace.
«Questo
è lo scontro tra lo stato di diritto e la legge delle armi, tra la democrazia e
l’autocrazia». Le parole pronunciate dalla presidente della Commissione europea von der
Leyen, il quinto giorno di invasione dell’Ucraina da parte della Federazione
Russa, non solo hanno interpretato l’orrore che stava vivendo Kiev in quei
giorni, ma anche lo scenario che si stava per delineare: quello che avrebbe
visto la comunità internazionale costretta a fare delle scelte per difendere
quello che le è più caro.
Nei
giorni immediatamente successivi all’invasione, un’alleanza composta da Unione
Europea, Stati Uniti, Regno Unito, Canada, Australia e Giappone ha adottato
sanzioni senza precedenti contro entità statali russe, istituzioni finanziarie
e contro l’élite del Cremlino e i suoi oligarchi, ritenuti corresponsabili
delle azioni criminali di Putin.
A rafforzare quest’azione si è aggiunta
l’istituzione della task force multilaterale REPO (Russian Elites, Proxies, and
Oligarchs),
con lo scopo di coordinare gli sforzi degli alleati per far rispettare le
sanzioni imposte.
La compattezza degli Stati democratici nel
rispondere con tali sanzioni ai crimini del Cremlino ha generato, senza nostra
sorpresa, critiche da parte di Paesi guidati da regimi autoritari. Dopotutto, che le sanzioni siano
temute dagli autocrati non è una novità, e che questi sappiano come allearsi
per offrire ai sanzionati una via di fuga, neanche.
La
Turchia ne è il primo esempio. Seppure sia membro della NATO, non ha mai
nascosto la sua posizione “critica” rispetto alle sanzioni nei confronti della
Russia.
Il ministro degli Esteri, Mevlüt Çavuşoğlu,
inizialmente si è limitato ad affermare che non era intenzione di Ankara unirsi
alle sanzioni internazionali per poi andare oltre dando addirittura il
benvenuto nel suo Paese a individui russi sanzionati, sia come turisti, sia
come investitori.
Ha
fatto quindi intendere che la Turchia sarebbe stata un rifugio sicuro per il
denaro russo. «Presentarsi come un attore neutrale o un mediatore equo tra le due parti
è stato l’atteggiamento di Ankara all’inizio di quasi tutte le crisi degli
ultimi dieci anni», dice Hasim Tekineş, un ex diplomatico turco. «Ma, quando la crisi degenera, il
presidente turco Erdoğan scommette e prende le parti di chi potrebbe offrirgli
un vantaggio, come ha fatto in Siria, Libia e Qatar».
Ankara
ha già dato dimostrazione, in passato, di prendere le parti di chi è stato
colpito da sanzioni internazionali, aiutandolo a eluderle per poi guadagnarci,
come nel caso Stati Uniti-Iran. Tra il 2012 e il 2016, la banca statale turca Halkbank
aiutò l’Iran a eludere le sanzioni statunitensi trasferendo segretamente 20
miliardi di dollari in fondi riservati al governo di Teheran.
Diversi
indizi lasciano pensare che anche oggi la Turchia abbia in mente un piano
simile per la Russia. L’editorialista filo-Erdoğan Abdulkadir Selvi lo scorso 8
marzo ha scritto che il presidente turco avrebbe suggerito a Putin, nel corso
di una telefonata, la creazione di una struttura commerciale trilaterale tra
Russia, Turchia e Cina che permetta di commerciare in oro, rubli, lire e yuan e
aggirare così le sanzioni sulla Russia.
Ad
avvalorare questa tesi sono gli stessi oligarchi russi sanzionati, i quali già
vedono la Turchia come un rifugio sicuro. Per esempio l’imprenditore ed ex
agente del Kgb Igor Sechin, che avrebbe detto al capitano del suo superyacht,
ora sequestrato in seguito alle sanzioni dell’Unione Europea, di lasciare la
costa francese e navigare verso la Turchia il più rapidamente possibile.
Anche
i media britannici riferiscono che il superyacht di lusso del noto oligarca
Roman Abramovich, sul quale in questi giorni aleggia il mistero di un possibile
avvelenamento, sia stato avvistato al largo della costa turca nelle scorse
settimane, mentre il mese scorso sarebbe stato visto a Istanbul anche il suo
jet privato.
La
preoccupazione per una Turchia pronta ad aiutare la Russia a eludere le
sanzioni sembra quindi fondata. Sia il mercato immobiliare sia quello finanziario del Paese
hanno registrato una notevole crescita di acquirenti russi nelle ultime
settimane. Parlando a Voice of America, Timothy Ash, giornalista e analista dei
mercati emergenti di base a Londra, ha detto: «Ci è stato riferito di un
aumento di richieste di nuovi conti bancari in Turchia da parte di russi,
presumibilmente per cercare di aggirare alcuni dei problemi che probabilmente
stanno incontrando».
L’attenzione
degli analisti si sta concentrando anche sulle aziende russe che cercano di
esportare o commerciare con la Russia e che si starebbero rivendendo come
entità turche.
Dopotutto,
la Turchia ha un disperato bisogno di valuta estera. Nel tentativo di
proteggere la lira turca, ha sperperato le sue riserve, raggiungendo nel
dicembre 2021 il livello più basso dal 2002, attestandosi a 8,63 miliardi di
dollari. Il governo non ha la volontà politica necessaria per combattere il
denaro illecito. Al contrario, avendo bisogno di 200 miliardi di dollari entro il 2022 per
rimborsare il suo debito estero, lo accoglie indipendentemente dalla fonte. L’obiettivo è di attirare valuta
estera e aumentare la quantità di denaro nel sistema finanziario del Paese e
per questo il Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) al governo da
anni, ha promulgato le leggi di amnistia fiscale nel 2008, 2013, 2016, 2018 e
2019. La
scadenza della legge del 2019 è stata prorogata più volte, e sarà in vigore
fino al 30 giugno 2022.
Secondo
questa norma, che è simile alle precedenti, tutto il denaro, l’oro, la valuta
estera, i titoli e gli altri strumenti del mercato dei capitali non dichiarati
in precedenza, detenuti all’estero o in Turchia, saranno considerati legittimi
se trasferiti in Turchia o se l’autorità fiscale sarà informata della loro
esistenza entro il 30 giugno 2022. I proprietari non saranno tenuti a fornire alcuna
spiegazione sull’origine dei beni e non saranno sottoposti a controlli fiscali
in relazione ai beni dichiarati. Questa amnistia è così vasta che elimina persino una
qualsiasi tassa per i beni portati dall’estero. Il denaro può essere portato
anche in una valigia.
Uno
scenario che diventa ancora più preoccupante se consideriamo l’inefficacia dei
meccanismi di due diligence del sistema bancario turco – la Turchia figura
nella lista grigia della Financial Action Task Force, un’organizzazione
intergovernativa volta a combattere il riciclaggio di denaro, il finanziamento
del terrorismo e il finanziamento della proliferazione delle armi di
distruzione di massa – e la debolezza istituzionale degli organi di
regolamentazione.
In
Turchia, l’Agenzia di regolamentazione e supervisione bancaria (BDDK) e il
Financial Crimes Investigation Board (MASAK) sono i principali responsabili
della regolamentazione e supervisione delle istituzioni finanziarie. Il MASAK
ha il compito di contrastare il riciclaggio di denaro. Tuttavia, la capacità
istituzionale e l’indipendenza di questi due organismi sono stati indeboliti
negli ultimi anni a causa dell’avversione del governo per la burocrazia. La
recente dichiarazione del ministro delle finanze, Nurettin Nebati, durante un
incontro con gli investitori stranieri, non lascia spazio a dubbi: «La cosa che meno mi piace è la
difficoltà che affrontano gli investitori a causa della legislazione e della
burocrazia. Elimineremo la burocrazia e cambieremo la legislazione. Su questo,
stiamo già avanzando».
Sfruttando
quindi le vulnerabilità economiche della Turchia e le leggi permissive, gli oligarchi russi possono mettere i
loro soldi al sicuro nel sistema finanziario del Paese, senza pagare alcuna
tassa o dover affrontare conseguenze legali. Basterà trovare un facilitatore nel
luogo, che potrà essere una qualsiasi persona fisica o giuridica con sede in
Turchia.
Di
sicuro, una Turchia che offre una via d’uscita agli individui colpiti dalle
sanzioni internazionali perché legati agli atroci crimini del Cremlino non può
più dirsi imparziale. Ha scelto di stare con gli altri regimi, ovvero dalla parte
dell’autocrazia. In questo senso in sede di negoziazioni l’Ucraina dovrà essere
cauta: la Russia ha molta influenza sulla Turchia ed è improbabile che questa
possa agire come un mediatore equo e neutrale.
Fine
della globalizzazione.
Ilgiornale.it-
Augusto Minzolini-(13 Marzo 2022)- ci dice:
Le
guerre, da che mondo è mondo, spazzano via convinzioni, calcoli e previsioni.
La guerra in Ucraina, se ce ne fosse stato bisogno, ha cancellato il mito della
globalizzazione.
Fine
della globalizzazione.
Vladimir Putin che fa quasi spallucce di
fronte alla decisione degli Stati Uniti di far fuori la Russia dal Fondo
monetario internazionale (Fmi) e dall'Organizzazione mondiale per il commercio
(Wto) è l'immagine di un cambio d'epoca: la verità è che essere espulso dal
mondo globalizzato non ha impaurito lo Zar al punto da obbligarlo a porre fine
alla guerra.
Forse
per l'Occidente, che ha confidato su questo processo per dominare il mondo o,
meglio, per
esportare la democrazia ed il suo stile di vita, è il tempo di un bilancio, visto
che il Paese più grande della terra ormai è «fuori». Per cui c'è da chiedersi: la
globalizzazione ha funzionato? È servita?
Sul
piano economico ha esaltato le big company, che hanno raggiunto dimensioni planetarie, non i
cittadini delle nazioni occidentali.
L'ultima
operazione, quella di tirar dentro la Cina, ha fatto la fortuna della Cina
stessa, non dei suoi interlocutori. L'obiettivo era quello di conquistare
il suo enorme mercato e, invece, è stato il Dragone a conquistare quello degli
altri Paesi.
Addirittura
la competizione ha dimostrato che il capitalismo di Stato (senza diritti
politici e sindacali) è più forte del capitalismo delle democrazie liberali.
Di
più: l'ingresso della Cina nel mondo globale non l'ha costretta neppure a
rispettare target igienico-sanitari (vedi Covid), né ad incrementare il tasso
di democrazia (chiedere agli studenti di Hong-Kong). Ciò che sta succedendo in
Russia nelle ultime settimane fotografa una situazione anche peggiore: basta
pensare agli arresti di massa; alla pena di 15 anni per chi racconta il Paese
senza rispettare le indicazioni del regime; alla fine di Aleksej Navalny.
La
globalizzazione non è servita, veniamo al tema cruciale, neppure a
salvaguardare la pace. Un mondo interdipendente dovrebbe risolvere in altro modo i
conflitti, non certo con le armi. La guerra in Ucraina è la dimostrazione del
fallimento.
Putin
se ne infischia al punto di trasformare il cuore dell'Europa in una nuova
Siria, importando addirittura jihadisti. Di più, confidando nella globalizzazione
l'Occidente si è fatto trovare impreparato. Specie l'Europa, che non ha un
esercito comune e patisce una dipendenza energetica rispetto al nemico del
momento. Se
non avesse puntato sulle relazioni, sui rapporti commerciali, sarebbe stata
sicuramente più attenta alla propria autonomia.
La
verità è che il processo di globalizzazione in Occidente ha seguito un solo
vangelo, il mercantilismo. Non ha chiesto ai nuovi interlocutori dei parametri minimi
di democrazia e libertà, ma si è preoccupato solo di aprire nuovi mercati
. Per
cui le autocrazie hanno preso, ma non hanno dato. Anzi, se fossero state
isolate, le loro contraddizioni sarebbero venute al pettine: in questo modo, invece, hanno
assorbito parte dello stile di vita occidentale per sedare i propri cittadini,
ma gli hanno negato i diritti.
Ragione
per cui la «globalizzazione» va ripensata totalmente, vanno introdotte delle
regole, degli obblighi per chi vuole entrare nel consesso dell'economia
internazionale per evitare che da speranza per imporre la democrazia
sull'autocrazia, non abbia come conseguenza il suo esatto contrario.
A
conti fatti quella di oggi offre poco sul piano dell'economia, della democrazia
e della pace.
Perché
non esiste un ordine mondiale
liberale.
L’analisi di Applebaum.
Startmag.it-
Redazione- (13 -4 -2022)- ci dice:
Perché
non esiste un ordine mondiale liberale.
Mentre
l’Occidente viveva felice nell’illusione del “Mai più”, la Russia lavorava per
potenziare le sue forze armate e la sua macchina di propaganda.
L’approfondimento di Anne Applebaum sull’Atlantic.
Nel
febbraio 1994, nella grande sala da ballo del municipio di Amburgo, in
Germania, il presidente dell’Estonia tenne un discorso straordinario. In piedi
davanti a un pubblico in abito da sera, Lennart Meri ha lodato i valori del
mondo democratico a cui l’Estonia aspirava allora ad aderire.
“La libertà di ogni individuo, la libertà
dell’economia e del commercio, così come la libertà della mente, della cultura
e della scienza, sono inseparabilmente interconnesse”, ha detto ai cittadini di
Amburgo. “Essi formano il prerequisito di una democrazia vitale”. Il suo paese,
avendo riconquistato l’indipendenza dall’Unione Sovietica tre anni prima,
credeva in questi valori: “Il popolo estone non ha mai abbandonato la sua fede in questa
libertà durante i decenni di oppressione totalitaria”.
Ma
Meri era anche andato a consegnare un avvertimento: la libertà in Estonia, e in Europa,
potrebbe presto essere minacciata. Il presidente russo Boris Eltsin e i circoli intorno
a lui stavano tornando al linguaggio dell’imperialismo, parlando della Russia come primus
inter pares – il primo tra uguali – dell’ex impero sovietico. Nel 1994, Mosca ribolliva già con il
linguaggio del risentimento, dell’aggressione e della nostalgia imperiale; lo
stato russo stava sviluppando una visione illiberale del mondo, e già allora si
preparava ad imporla. Meri ha invitato il mondo democratico a reagire: l’Occidente dovrebbe “rendere
enfaticamente chiaro alla leadership russa che un’altra espansione imperialista
non avrà alcuna possibilità”.
A
questo punto, il vicesindaco di San Pietroburgo, Vladimir Putin, si è alzato ed
è uscito dalla sala – scrive Anne Applebaum su The Atlantic.
Le
paure di Meri erano a quel tempo condivise in tutte le nazioni precedentemente
prigioniere dell’Europa centrale e orientale, ed erano abbastanza forti da
convincere i governi di Estonia, Polonia e altrove a fare una campagna per
l’ammissione alla NATO. Ebbero successo perché nessuno a Washington, Londra o Berlino
credeva che i nuovi membri fossero importanti.
L’Unione
Sovietica non c’era più, il vicesindaco di San Pietroburgo non era una persona
importante e l’Estonia non avrebbe mai avuto bisogno di essere difesa. Ecco perché né Bill Clinton né George
W. Bush hanno fatto molti tentativi per armare o rinforzare i nuovi membri
della NATO.
Solo nel 2014 l’amministrazione Obama ha finalmente collocato un piccolo numero
di truppe americane nella regione, in gran parte nel tentativo di rassicurare gli
alleati dopo la prima invasione russa in Ucraina.
Nessun’altra
parte del mondo occidentale ha sentito alcuna minaccia. Per 30 anni, le
compagnie petrolifere e del gas occidentali si sono ammassate in Russia,
associandosi con gli oligarchi russi che avevano apertamente rubato i beni che
controllavano.
Anche
le istituzioni finanziarie occidentali hanno fatto affari lucrativi in Russia,
istituendo sistemi per permettere a quegli stessi cleptocrati russi di
esportare il loro denaro rubato e tenerlo parcheggiato, in modo anonimo, in
proprietà e banche occidentali.
Ci
siamo convinti che non c’era nulla di male nell’arricchire i dittatori e i loro
compari. Il
commercio, immaginavamo, avrebbe trasformato i nostri partner commerciali. La
ricchezza avrebbe portato il liberalismo. Il capitalismo avrebbe portato la
democrazia e la democrazia avrebbe portato la pace.
Dopo
tutto, era già successo prima. Dopo il cataclisma del 1939-45, gli europei
avevano effettivamente abbandonato collettivamente le guerre di conquista
imperiale e territoriale. Avevano smesso di sognare di eliminarsi a vicenda.
Invece,
il continente che era stato la fonte delle due peggiori guerre che il mondo
avesse mai conosciuto ha creato l’Unione Europea, un’organizzazione progettata
per trovare soluzioni negoziate ai conflitti e promuovere la cooperazione, il
commercio e gli scambi.
A
causa della metamorfosi dell’Europa – e specialmente a causa della
straordinaria trasformazione della Germania da dittatura nazista a motore
dell’integrazione e della prosperità del continente – gli europei e gli
americani credevano di aver creato un insieme di regole che avrebbero
preservato la pace non solo nei loro continenti, ma alla fine nel mondo intero.
Questo
ordine mondiale liberale si basava sul mantra “Mai più”. Mai più ci sarebbe
stato un genocidio.
Mai
più grandi nazioni avrebbero cancellato nazioni più piccole dalla mappa. Mai
più saremmo stati ingannati da dittatori che usavano il linguaggio
dell’omicidio di massa. Almeno in Europa, avremmo saputo come reagire quando lo
avremmo sentito.
Ma
mentre noi vivevamo felicemente nell’illusione che “Mai più” significasse
qualcosa di reale, i leader della Russia, proprietari del più grande arsenale
nucleare del mondo, stavano ricostruendo un esercito e una macchina di
propaganda progettati per facilitare l’omicidio di massa, così come uno stato
mafioso controllato da un piccolo numero di uomini e che non assomigliava
affatto al capitalismo occidentale.
Per
molto tempo – troppo a lungo – i custodi dell’ordine mondiale liberale hanno
rifiutato di capire questi cambiamenti. Hanno distolto lo sguardo quando la
Russia ha “pacificato” la Cecenia uccidendo decine di migliaia di persone.
Quando la Russia ha bombardato scuole e
ospedali in Siria, i leader occidentali hanno deciso che quello non era un loro
problema. Quando
la Russia ha invaso l’Ucraina la prima volta, hanno trovato ragioni per non
preoccuparsi. Sicuramente Putin sarebbe stato soddisfatto dall’annessione della
Crimea. Quando
la Russia ha invaso l’Ucraina la seconda volta, occupando parte del Donbas,
erano sicuri che sarebbe stato abbastanza sensibile da fermarsi.
E
quando i russi, arricchitisi grazie alla cleptocrazia che abbiamo facilitato,
hanno comprato politici occidentali, finanziato movimenti estremisti di estrema
destra e condotto campagne di disinformazione durante le elezioni democratiche
americane ed europee, i leader americani ed europei si sono ancora rifiutati di
prenderli sul serio. Erano solo alcuni post su Facebook; e allora?
Non
credevamo di essere in guerra con la Russia. Credevamo, invece, di essere al
sicuro e liberi, protetti da trattati, da garanzie di confine e dalle norme e
regole dell’ordine mondiale liberale.
Con la
terza e più brutale invasione dell’Ucraina, la vacuità di queste convinzioni è
stata rivelata. Il presidente russo ha apertamente negato l’esistenza di uno
stato ucraino legittimo: “Russi e Ucraini”, disse, “erano un solo popolo, un
unico insieme”.
Il suo esercito ha preso di mira i civili, gli
ospedali e le scuole. La sua politica mirava a creare rifugiati per
destabilizzare l’Europa occidentale. “Mai più” si è rivelato uno slogan
vuoto mentre un piano genocida prendeva forma davanti ai nostri occhi, proprio
lungo il confine orientale dell’Unione Europea.
Altre
autocrazie ci guardano per vedere cosa faremo, perché la Russia non è l’unica
nazione al mondo che brama il territorio dei suoi vicini, che cerca di
distruggere intere popolazioni, che non si fa scrupoli ad usare la violenza di
massa.
La
Corea del Nord può attaccare la Corea del Sud in qualsiasi momento, e ha armi
nucleari che possono colpire il Giappone. La Cina cerca di eliminare gli
uiguri come gruppo etnico distinto e ha disegni imperiali su Taiwan.
Non
possiamo riportare l’orologio al 1994, per vedere cosa sarebbe successo se
avessimo ascoltato l’avvertimento di Lennart Meri. Ma possiamo affrontare il futuro con
onestà. Possiamo indicare le sfide e prepararci ad affrontarle.
Non
esiste un ordine mondiale liberale naturale, e non ci sono regole senza
qualcuno che le faccia rispettare. A meno che le democrazie non si difendano insieme,
le forze dell’autocrazia le distruggeranno. Sto usando la parola forze, al
plurale, deliberatamente.
Molti
politici americani preferirebbero comprensibilmente concentrarsi sulla
competizione a lungo termine con la Cina. Ma finché la Russia è governata da
Putin, anche la Russia è in guerra con noi.
Così come la Bielorussia, la Corea del Nord,
il Venezuela, l’Iran, il Nicaragua, l’Ungheria e potenzialmente molti altri.
Potremmo non voler competere con loro, o persino preoccuparci molto di loro. Ma
a loro importa di noi. Capiscono che il linguaggio della democrazia, della lotta
alla corruzione e della giustizia è pericoloso per la loro forma di potere
autocratico e sanno che quel linguaggio ha origine nel mondo democratico, il
nostro mondo.
Questa
lotta non è teorica. Richiede eserciti, strategie, armi e piani a lungo
termine. Richiede una cooperazione alleata molto più stretta, non solo in
Europa ma nel Pacifico, in Africa e in America Latina. La NATO non può più
operare come se un giorno le fosse richiesto di difendersi; ha bisogno di
iniziare a operare come durante la guerra fredda, partendo dal presupposto che
un’invasione potrebbe avvenire in qualsiasi momento.
La decisione della Germania di aumentare la spesa per
la difesa di 100 miliardi di euro è un buon inizio, così come la dichiarazione
della Danimarca che anche lei aumenterà la spesa per la difesa. Ma un coordinamento militare e di
intelligence più profondo potrebbe richiedere nuove istituzioni – forse una
legione europea volontaria, collegata all’Unione Europea, o un’alleanza baltica
che includa Svezia e Finlandia – e un pensiero diverso su dove e come investire
nella difesa europea e del Pacifico.
Se non
abbiamo mezzi per trasmettere i nostri messaggi al mondo autocratico, allora
nessuno li ascolterà.
Così
come dopo l’11 settembre abbiamo messo insieme il Dipartimento della Sicurezza
Nazionale da agenzie disparate, ora abbiamo bisogno di riunire le parti
disparate del governo degli Stati Uniti che pensano alla comunicazione, non per
fare propaganda ma per raggiungere più persone nel mondo con informazioni
migliori e per impedire alle autocrazie di distorcere questa conoscenza.
Perché non abbiamo costruito una stazione
televisiva in lingua russa per competere con la propaganda di Putin?
Perché
non possiamo produrre più programmi in mandarino o in uiguro?
Le nostre emittenti in lingua straniera –
Radio Free Europe/Radio Liberty, Radio Free Asia, Radio Martí a Cuba – hanno
bisogno non solo di soldi per la programmazione ma di un grande investimento
nella ricerca. Sappiamo molto poco del pubblico russo – cosa leggono, cosa
potrebbero essere desiderosi di imparare.
Anche
i finanziamenti per l’educazione e la cultura devono essere ripensati. Non
dovrebbe esserci un’università in lingua russa, a Vilnius o a Varsavia, per
ospitare tutti gli intellettuali e i pensatori che hanno appena lasciato Mosca?
Non
dovremmo spendere di più per l’istruzione in arabo, hindi, persiano? Molto di
ciò che passa per diplomazia culturale funziona con il pilota automatico. I programmi dovrebbero essere rifatti
per un’epoca diversa, una in cui, anche se il mondo è più conoscibile che mai,
le dittature cercano di nascondere questa conoscenza ai loro cittadini.
Il
commercio con gli autocrati promuove l’autocrazia, non la democrazia.
Il Congresso ha fatto alcuni progressi negli
ultimi mesi nella lotta contro la cleptocrazia globale, e l’amministrazione
Biden ha fatto bene a mettere la lotta alla corruzione al centro della sua
strategia politica. Ma possiamo andare molto oltre, perché non c’è ragione che
qualsiasi azienda, proprietà o trust sia tenuto anonimo. Ogni stato americano,
e ogni paese democratico, dovrebbe immediatamente rendere trasparente ogni
proprietà.
I
paradisi fiscali dovrebbero essere illegali. Le uniche persone che hanno
bisogno di tenere segrete le loro case, i loro affari e il loro reddito sono i
truffatori e gli evasori fiscali.
Abbiamo
bisogno di un cambiamento drammatico e profondo nel nostro consumo di energia,
e non solo a causa del cambiamento climatico. I miliardi di dollari che abbiamo
inviato a Russia, Iran, Venezuela e Arabia Saudita hanno promosso alcuni dei
peggiori e più corrotti dittatori del mondo.
La
transizione dal petrolio e dal gas ad altre fonti di energia deve avvenire con
molta più velocità e decisione. Ogni dollaro speso per il petrolio russo aiuta a
finanziare l’artiglieria che spara sui civili ucraini.
Prendete
sul serio la democrazia. Insegnatela, discutetela, miglioratela, difendetela. Forse non c’è un ordine mondiale
liberale naturale, ma ci sono società liberali, paesi aperti e liberi che
offrono alle persone una migliore possibilità di vivere una vita utile rispetto
alle dittature chiuse. Non sono certo perfette; la nostra ha profondi difetti,
profonde divisioni, terribili cicatrici storiche. Ma questa è una ragione in
più per difenderli e proteggerli. Poche di esse sono esistite nel corso della storia
umana; molte sono esistite per un certo periodo e poi sono fallite. Possono
essere distrutte dall’esterno, ma anche dall’interno, da divisioni e demagoghi.
Forse,
all’indomani di questa crisi, possiamo imparare qualcosa dagli ucraini. Da decenni combattiamo una guerra
culturale tra valori liberali da una parte e forme muscolari di patriottismo
dall’altra.
Gli ucraini ci stanno mostrando un modo per avere entrambi.
Appena
sono iniziati gli attacchi, hanno superato le loro numerose divisioni
politiche, che non sono meno aspre delle nostre, e hanno preso le armi per
combattere per la loro sovranità e la loro democrazia.
Hanno
dimostrato che è possibile essere un patriota e un credente in una società
aperta, che una democrazia può essere più forte e più feroce dei suoi avversari.
Proprio perché non esiste un ordine mondiale liberale,
nessuna norma e nessuna regola, dobbiamo lottare ferocemente per i valori e le
speranze del liberalismo se vogliamo che le nostre società aperte continuino ad
esistere.
Le
utili risposte delle democrazie liberali.
Corriere.it- Goffredo Buccini- (2-5-2022)- ci dice :
Occorre
un patto sociale a sostegno a chi non ha nulla. Ma la libertà può comportare
sacrifici.
Il
recente successo di Macron in Francia e quello, certo meno centrale in
geopolitica ma comunque significativo, di Golob nella Slovenia finora
sovranista sono stati due segnali incoraggianti per le democrazie liberali e
per la Ue. Ma non devono alimentare, nei difficili mesi a venire, la pericolosa
illusione dello scampato pericolo. Nella tenuta sociale delle nazioni europee
il bicchiere è ancora vuoto almeno per metà di fronte al doppio impatto di
pandemia e guerra, alle cadute del reddito, alla corsa dell’inflazione, ai
costi dell’energia, a ulteriori e prevedibili ondate migratorie (ne saremo
coinvolti noi italiani per primi, quando le carestie innescate dal conflitto
anche economico spingeranno a nord decine di migliaia di africani). Il richiamo
dell’uomo (o della donna) forte e, soprattutto, delle risposte semplificate
rispetto alla complessità decisionale dei sistemi liberali è assai sensibile
nelle nostre comunità. Come pure i fattori identitari, nostalgici ed emotivi
che spingono a ciò che Bauman chiamava «retrotopia».
Colpiva,
all’inizio dell’aggressione all’Ucraina, l’83% di russi che s’è schierato
decisamente con Putin. Frutto della «disinformazia», ci siamo detti. In realtà,
altre percentuali molto più vicine a noi devono farci riflettere. A fine 2019,
e dunque prima della crisi da pandemia e con il governo dei due populismi
nazionali appena caduto, il Censis rilevò che un italiano su due (48,2%) voleva
un «uomo forte al potere» che non dovesse «preoccuparsi di Parlamento ed
elezioni»; l’idea trovava più consensi tra operai (62%), persone meno istruite
(62%) e con redditi bassi (56,4%) ed era spiegata dal Censis con «l’inefficacia
della politica ed estraneità da essa», elementi che «aprono la strada a
disponibilità che si pensavano riposte per sempre nella soffitta della storia»,
come l’attesa messianica di colui «che tutto risolve» (insomma, Salvini col suo
appello ai «pieni poteri» di quell’estate, non aveva letto così male gli umori
popolari, altro che abuso di mojito al Papeete: poi la mossa del cavallo di
Matteo Renzi, con l’apertura a un governo Pd-M5S, lo ha spiazzato, cambiando
gli eventi).
Nella
Francia di cui abbiamo celebrato la saggezza il 24 aprile, i sondaggi
preelettorali raccontavano che solo il 51% dei giovani considerava «molto
importante vivere in un Paese democratico», quasi la metà del campione riteneva
«comprensibile» la violenza politica contro gli eletti e uno su cinque
«accettabile» la devastazione degli spazi pubblici (gilet gialli e rivolte
nelle banlieue hanno almeno un 20% di tolleranza, dunque; astensionismo e voto
alle estreme si spiegano anche così). Può andare peggio. Se il sondaggista
Jerome Fourquet (istituto Ifop) su Le Figaro configurava correttamente il
«clivage», la faglia aperta, tra due blocchi, fronte repubblicano e fronte
sovranista, tra Francia agiata e colta e Francia popolare, mandando in archivio
la dialettica classica tra destra e sinistra, è bene considerare di nuovo
qualche cifra di casa nostra. Secondo l’Ufficio parlamentare di bilancio, la
guerra nel 2022 è già costata all’Italia un punto di Pil (18/19 miliardi).
L’ultimo rapporto Svimez fotografa tre milioni di italiani occupati ma poveri,
con stipendi troppo bassi, concentrati al Sud. Se la guerra proseguisse a
lungo, lo spettro della stagflazione non sarebbe fantasia.
Di
fronte alle crisi innescate nel 2008-2010 da Lehman Brothers la risposta fu
sbagliata, tutta virata al contenimento del debito pubblico. Così la dinamica
esclusi/inclusi fu esplosiva politicamente dal 2016 in avanti, con la Brexit,
la vittoria di Trump, la crescita di forze sovraniste nei principali Paesi
europei, la già citata anomalia italiana del doppio populismo al governo con
proposte esiziali per la nostra economia. Stavolta le banche centrali avranno
di fronte un dilemma del diavolo tra inflazione e recessione, necessità di
rialzare i tassi per contenere l’impennata dei prezzi e rischio di deprimere
così ulteriormente un quadro che già tende alla depressione per cause belliche.
La
prima risposta che le democrazie liberali devono preparare è, dunque, economica
nel breve e nel medio termine. È assai invocato un patto sociale che garantisca sostegno a
chi non ha e non conta nulla: ottimo, ma lo scatto deve essere visibile,
quantificabile, tradursi in programmi (praticabili) che non lascino al
populismo sovranista la bacchetta magica di soluzioni inattuabili, seducenti
fin dentro alla cabina elettorale e devastanti a urne chiuse (fuori dall’Europa
le piccole patrie da sole annegano nel mondo globale, i più colpiti di domani
sarebbero proprio i più disagiati e frustrati di adesso; fuori dalla democrazia
liberale i primi diritti a essere conculcati sarebbero proprio quelli di chi,
oggi, si sente scarsamente rappresentato).
E
tuttavia la seconda risposta, a medio e lungo termine, deve essere rivolta non
ai portafogli ma, piuttosto, a ciò che sta appena sotto di essi: i cuori. Si
tratta di spiegare che la democrazia può richiedere sacrifici, ben oltre la
metafora del condizionatore usata da Draghi, come gli ucraini stanno mostrando
al mondo. In
uno splendido articolo su Atlantic, Anne Applebaum spiega che la vicenda
ucraina, velo strappato dai nostri occhi, prova come non esista «un ordine
liberale mondiale» e non esisteranno neppure «regole, se nessuno si batterà per
sostenerle»: «Se le democrazie non si difenderanno tutte assieme, le forze
dell’autocrazia le distruggeranno».
Applebaum
propone una vera battaglia culturale che risponda colpo su colpo a quella
ingaggiata dai sovranisti per le coscienze occidentali, dal potere
cleptocratico russo che ha corrotto per un decennio politici e intellettuali nostrani
tramutandoli in agenti di influenza più o meno consapevoli (il dibattito nei
talk sulle responsabilità della guerra ne è un epifenomeno penoso ma
significativo). Come?
Magari
cominciando da un’università in lingua russa che a Vilnius o a Varsavia ospiti
intellettuali fuggiti dal regime moscovita. Un posto nel quale, aggiungeremmo
noi, disegnare contro la retrotopia, un Pantheon europeo.
Magari
ricordando ai ragazzi chi furono Mazzini e Churchill. E cosa sognassero Jo Cox,
la giovane parlamentare laburista uccisa alla vigilia della Brexit, e Pawel
Adamowicz, il sindaco di Danzica che raccontava la propria città come un porto
sempre aperto a chi arriva e fu assassinato a quattro mesi dal voto europeo del
2019: proprio
quelle elezioni da cui venne il primo segnale di come l’ondata sovranista si
possa arginare, con l’intelligenza e col coraggio.
La
“ridotta” delle democrazie liberali.
Formiche.net-
Giuseppe Pennisi -( 09/04/2022)-ci dice:
La riflessione di Pennisi.
Trenta
anni fa le democrazie liberali sembravano aver vinto la sfida contro i
totalitarismi. Ma guardando al mondo intero e ai sistemi politici si può dire
che la storia non è finita, parafrasando Francis Fukuyama e il suo saggio “The
End of History” pubblicato poco prima della caduta del Muro di Berlino.
Nel
gergo militare si definisce ridotta una fortificazione di minore importanza o
comunque considerata secondaria. La ridotta generalmente non è mai isolata in
un territorio, proprio in funzione della sua minore potenza, ma è utilizzata
come parte integrante di un sistema difensivo più ampio, che il più delle volte
affianca alle stesse ridotte delle roccaforti, dei castelli o dei muri di
difesa. Vi potevano trovar riparo soldati o materiali bellici.
Il
termine mi è venuto in mente pensando, mi si scusi il gioco di parole, a come
sono ridotte le democrazie liberali che trenta anni fa parevano aver vinto la
sfida contro i totalitarismi.
Quasi
in contemporanea con il crollo del muro di Berlino, il politologo
nippo-americano Francis Fukuyama pubblicò il saggio “The End of History”, sul
settimanale The National Review.
Era il nucleo di un libro che diventò un best
seller quando nel 1992 venne pubblicato con il titolo “The End of History and the Last Man”. Fukuyama preconizzava che con il
tracollo del comunismo e la vittoria della liberal-democrazia ci sarebbe stata
la fine della storia, caratterizzata per decenni, ove non secoli, dal conflitto
tra Occidente liberale ed Oriente totalitario (tale da avere ripercussioni in
tutto il mondo).
In risposta a “The End of History and the Last Man”,
Samuel Huntington pubblicò, nel 1992, su Foreign Affairs il saggio “The Clash of Civilizations” destinato anche esso ad essere
ampliato e a diventare un saggio di successo.
Ci si
accorse che la “storia non era finita” con l’attacco alle Torri Gemelle e la
successiva lotta al terrorismo che portò alle due guerre in Iraq, e quelle in
Afghanistan, Siria, Libia e altri luoghi. Lontani comunque dai nostri occhi.
Restavamo convinti che “la storia” fosse finita con la vittoria delle
democrazie liberali, che restavano comunque il fulcro della modernizzazione e
del futuro.
L’aggressione
della Russia all’Ucraina e le interviste di Karaganov, Surgov, Dughin e degli
altri ideologi della Nuova Russia alle principali testate italiane dovrebbe
farci riflettere: nell’Europa dall’Atlantico agli Urali ci sono grandi Paesi
che si nutrono di un etno-nazionalismo che ricorda Carl Schmitt e una passione
per l’autocrazia appoggiata sulla religione che ricorda Joseph de Maistre.
Nella
stessa Europa occidentale, ci sono Paesi che la settimana scorsa hanno eletto
governi che si proclamano “democratici” ma “illiberali” o “non liberali”. Questo fine settimana si vota in
Francia: i
sondaggi alimentano molti dubbi sulla vittoria di chi vuole essere
“democratico” e “liberale”.
Ai
tempi di “The
End of History and the Last Man” si pensava che l’integrazione economica
internazionale (o globalizzazione) avrebbe fatto il resto: portato alla modernizzazione, e
quindi alla liberal-democrazia, sulla spinta del progresso economico che il
sistema comportava. Occorre dire che in quegli anni unicamente il Pontificio Consiglio Justitia et
Pax si levò a dire che una “globalizzazione non gestita” avrebbe potuto fare
più danni che altro.
Si aprì
alla Cina l’Organizzazione Mondiale del Commercio, senza rendersi conto che
sarebbe diventato uno strumento per impossessarsi di tecnologie e rendere
ancora più stringente l’autoritarismo.
Due
anni dopo, a Pratica di Mare si sancì la “svolta storica” della nascita del
Consiglio Nato-Russia in cui si pensava che si sarebbe battuto insieme il
terrorismo perché “le nazioni civili saranno unite per fronteggiare questo
pericolo”.
Nessuno o
quasi pensava che coloro i quali si nutrono di un etno-nazionalismo che ricorda
Carl Schmitt e una passione per l’autocrazia appoggiata sulla religione che
rammenta Joseph de Maistre non avrebbero mai apprezzato la liberal democrazia.
Guardiamo
rapidamente al resto del mondo, che, secondo Francis Fukuyama, avrebbe dovuto
prendere la strada delle democrazie liberali. In America centrale e meridionale
sono un fenomeno trascurabile. In Asia, la Cina è sempre più autoritaria e sempre più
legata a Mosca (da “amicizia fraterna”). Paesi come la Federazione di Malesia
che, negli ultimi decenni del secolo scorso, parevano avviarvici se ne stanno
allontanando. La stessa India, che era una democrazia compiuta, non ha preso
una posizione chiara e netta nella vicenda dell’aggressione della Federazione
Russa nei confronti dell’Ucraina.
Sono
certamente liberal-democratici i Paesi dell’Oceania (Giappone, Australia, Nuova
Zelanda) ma non possono sbandierarne i principi al resto del mondo data la loro
localizzazione.
Sono una ridotta così come lo è l’Europa
Occidentale che non essendosi data in oltre sessanta anni una politica di
difesa comune, deve contare sul supporto degli Stati Uniti. E cantare una
canzonetta di George M. Cohan, prolifico autore di commedie musicali, e
protagonista di Broadway dal 1900 al 1942:
Overthere,
overthere, there are yankees everywhere, everywhere! (“Laggiù, laggiù ci sono
yankee dappertutto, dappertutto!) composta in occasione dell’intervento Usa
della Prima guerra mondiale. Pochi giorni dopo la Rivoluzione russa e l’abdicazione dei
Romanov.
Le due
democrazie.
Huffigtonpost.it- Dino Cofrancesco-(01 Novembre 2021)-
ci dice:
Alcune
riflessioni a margine della non approvazione del ddl Zan.
Fa
riflettere l’articolo di Marco Damilano, “Clima sovrano”, pubblicato da
‘L’Espresso’ il 31 ottobre u.s. Al di là della legittima polemica contro le
destre, infatti, esso si richiama a una idea di democrazia liberale sicuramente
rispettabile, ma molto diversa da quella teorizzata e praticata dai paesi
euroatlantici che sulla sovranità del demos hanno fondato le istituzioni della
libertà.
Cito il lungo incipit:
“Con
un voto segreto, autorizzato dalla presidente Maria Elisabetta Alberti
Casellati, alle ore 13,30 di mercoledì 27 ottobre, l’aula del Senato ha
affossato il disegno di legge sull’omofobia firmato dal deputato del Pd
Alessandro Zan.
La
stessa aula che quattro anni fa al termine della precedente legislatura, con
altri rapporti di forza tra i partiti, non era riuscita ad approvare la legge
sullo ius culturae.
In comune tra le due sconfitte c’è
l’indifferenza verso le persone, con le loro storie, i loro drammi, i loro
volti, il loro desiderio di vivere.
La
società va da una parte, il Parlamento dall’altra.
I
sovranisti scelgono i diritti come terreno di scontro, i democratici non
riescono ad avere la forza politica delle loro buone ragioni, oltre che quella
numerica. Si offrono nuove, ottime ragioni alla sfiducia, alla mancanza di
credibilità, alla delegittimazione delle nostre istituzioni democratiche.
La
democrazia è più fragile quando i cittadini si sentono traditi dalle aule
rappresentative. Ad avvantaggiarsi, è il fronte della negazione.
Negano
l’esistenza dei diritti delle persone Lgbtq+, degli immigrati, negano la
pandemia e gli effetti del cambiamento climatico”. La retorica politica ha le sue
regole (non esaltanti) e la critica durissima dell’avversario è una di queste
ma bisogna stare attenti a non cadere in una delegittimazione degli avversari
incompatibile con la democrazia come regime in cui partiti diversi si alternano
al governo e all’opposizione.
Per
Damilano, un apprezzato giornalista che si è formato negli ambienti della
sinistra cattolica, la bocciatura del ddl Zan attesta sic et simpliciter
“l’indifferenza verso le persone, con le loro storie, i loro drammi, i loro
volti, il loro desiderio di vivere”.
E
tuttavia quanti non negano affatto” l’esistenza dei diritti delle persone Lgbtq+, degli
immigrati, la pandemia e gli effetti del cambiamento climatico”, ma ad esempio sarebbero stati anche
d’accordo con lo spirito della legge respinta dal Senato purché se ne fossero
depennati gli articoli 1, 4 e 7, difendono anch’essi (e ammettiamo pure, con
deboli ragioni) valori da tutti condivisi come la libertà di opinione e il
diritto di richiamarsi a una teoria antropologica sui sessi diversa dalla
filosofia Zan.
In un
magistrale articolo su ’Repubblica’, I diritti negati dall’ideologia’ del 29
u.s., Carlo Galli ha rilevato che “il ddl apre anche la porta, sia pure in via indiretta,
all’ideologia gender, la cui essenza è politica.
Infatti,
il nucleo più radicale delle sue formulazioni è che la civiltà occidentale è
socialmente e culturalmente strutturata e istituzionalizzata in senso duale,
binario, cioè intorno a due soli generi (maschile e femminile), che sono anche
identità esistenziali e comportamentali.
A tale
struttura binaria si oppone il diritto di libera scelta individuale del genere
(e in alcuni casi anche del sesso, e sempre della sessualità e
dell’affettività): si afferma così una fluidità indefinita delle identità, che
dovrebbe frammentare la struttura binaria vigente.
Al di
là del fatto che una parte del femminismo è ostile alle teorie gender perché,
proiettate verso il superamento della logica binaria, rischiano di trascurare
la presente disuguaglianza economica e sociale fra uomini e donne, alla
(legittima) ideologia del ddl se ne è opposta un’altra - del centro-destra
nella sua versione laica e moderata (distinta quindi dalle posizioni
reazionarie e intolleranti, che sottotraccia sono pure rilevabili) -.
Qui si
considerano i problemi di genere come questioni individuali, come casi
eccezionali rispetto alla normalità, e le persone coinvolte come soggetti da
tutelare nei loro diritti, ma da non considerare come leva per mettere in
discussione l’assetto della società.
Sullo
sfondo -discreta ma ferma, affidata alla Congregazione per la dottrina della
fede -, c’è poi la posizione ufficiale della Chiesa fondata sulla Bibbia
(“maschio e femmina li creò”, dice la Genesi): l’essere umano naturale, nei due
sessi e nei due generi, è immagine di Dio, e quindi portatore di una essenza e
di una dignità immodificabili. A questa posizione la Chiesa ha richiamato i
politici cattolici. Insomma, uno scontro ideologico, e non da poco”.
Ma se
questo è vero, indipendentemente dalle convinzioni che ciascuno di noi nutre in
cuor suo, occorrerebbe prendere sul serio quel liberalismo pluralistico,
teorizzato da Isaiah Berlin, che vede valori, interessi e idealità da una parte
e dall’altra e che, in caso di conflitti tra Weltanschuungen irriducibili,
cerca la via del compromesso e della tutela di diritti sui quali si trovano
tutti d’accordo?
“Chi
non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me, disperde” (Matteo
12,30). In virtù di questa logica, discorsi equilibrati come quelli fatti da
Luca Ricolfi e da altri politici e studiosi liberali diventano qualcosa di
equivoco, che porta acqua (involontariamente?) al mulino della reazione e dell’oscurantismo.
Se ci
si chiede, però, cosa ci sia dietro la tendenza di larga parte
dell’intellighenzia italiana a vedere, da un lato, i Valori e, dall’altro, biechi
interessi, inconfessabili pregiudizi, cinismo etico, si scopre che “Though this
be madness, yet there is method in it” e che la madness è un prodotto di una
concezione della democrazia che viene da lontano, dal momento giacobino della
Rivoluzione francese.
Quando si legge che la democrazia “è lo
strumento inventato per riequilibrare le disuguaglianze, per garantire le
libertà, per consentire a tutti di partecipare alla costruzione del bene
comune”, se ne deduce che se questi obiettivi non vengono raggiunti il
Transatlantico di Montecitorio, diventa “sempre più simile alla sua sinistra
fama di corridoio dei passi perduti” sicché “ il popolo dei referendum e della
democrazia diretta” si ritrova fuori dal Parlamento: non rimane che pensare,
pertanto, a una “mobilitazione della società” a una “battaglia politica e
culturale. Tutto il resto è una scorciatoia che produce una reazione ancora più
minacciosa”. Insomma non uno ma cento, mille cortei per esprimere
l’indignazione del ‘paese reale’ contro il paese legale - il Parlamento - che
ne ha tradito le aspettative, non volendo rendere la filosofia Zan pedagogia di
Stato.
A
leggere certi slogan contro i partiti anti-Zan, vengono i brividi e il pensiero
corre all’aula “sorda e grigia” che ‘quello lì’ avrebbe potuto trasformare in
un bivacco di manipoli o all’esaltazione che Giovanni Gentile faceva degli
artefici dell’unità nazionale “che quando si trattò di agire e di farla, questa
Italia, sdegnarono il chiacchierio fazioso delle assemblee”; ma corre anche
alla intramontabile ideologia italiana che vede nelle forze vive della società
civile, nei movimenti per i diritti, nelle rivendicazioni delle minoranze
reiette la rousseauiana volontà generale contrapposta alla effimera ‘volontà di
tutti’ che si esprime nelle urne. In base a questa filosofia politica, ci sono
Valori e Diritti universali di cui le classi dirigenti debbono farsi carico
ovvero tradurre in leggi e in istituti, sotto pena di perdere ogni diritto al
governo della società.
Va da
sé che tali diritti e valori sono quelli dell’Illuminismo, depositario della
Scienza e della Felicità dei popoli e che tutto ciò che ad essi si oppone va,
tutt’al più tollerato, e qualora rispecchi il sentire della maggioranza va
neutralizzato con una efficace politica di rieducazione collettiva, fatta anche
di dimostrazioni di piazza, proteste, sit in (Una nota columnist,
coerentemente, aveva proposto, nel caso di approvazione del ddl Zan, di non
dare più sussidi statale alle scuole private gestite da religiosi che, contrari
alla giornata contro l’omofobia, si fossero rifiutati di insegnare che i sessi
non sono due come pretende la ‘Bibbia’!).
Sennonché,
c’è un’altra visione della democrazia che non la vede come una freccia rossa
che non deve mai arrestarsi giacché “chi si ferma è perduto”—come ripeteva uno
degli alfieri della ‘democrazia sostanziale” nella sua versione “organizzata,
centralizzata, autoritaria”, certo diversa da quella libertaria, dannunziana e
sessantottesca ma come questa antiformalista e antiproceduralista. Ed è la visione che si potrebbe
definire della ‘democrazia come registrazione’: registrazione dei desideri, delle
aspettative, delle esigenze dei cittadini dettate da valori non necessariamente
‘progressisti’ ma egualmente rispettabili giacché sono quelli di cittadini, di
persone, che su di essi hanno costruito la loro identità etico-sociale.
E’ questo il suddetto ‘pluralismo preso sul
serio’ e che non ha nulla a che vedere con la retorica pluralistica che
apprezza solo la pluralità dei valori (ritenuti) buoni”. Per il primo, non c’è democrazia
liberale senza un polo conservatore, che guarda al passato e vuole andare
avanti preservandone, nella misura del possibili, le eredità e un polo
innovatore che guarda all’avvenire e vuole sgomberare la strada, che da esso
conduce, da tutte le catene lasciate dal ‘mondo di ieri’.
Per
una parte rilevante dell’opinione pubblica, essere buoni democratici significa
elaborare un progetto riformatore, battersi per una estensione indefinita dei
diritti individuali e collettivi, in ogni campo .
Nulla da eccepire purché si sia disposti poi a
rispettare il verdetto della maggioranza degli elettori in disaccordo con gli
innovatori. (Ovviamente non si parla qui di un governo reazionario deciso a
violare le libertà politiche e civili giacché ci si troverebbe allora in una
situazione rivoluzionaria dove solo il ricorso alla violenza potrebbe
ristabilire le ‘regole del gioco’).
In non
pochi ambienti accademici - e già nell’Ottocento - la democrazia procedurale
evoca qualcosa di algido, la dittatura del numero, le regole che infiammano i
cuori e illuminano le menti quanto un orario ferroviario o un manuale di
istruzioni. E non meraviglia giacché, nel nostro paese, è difficile accettare l’idea
che la fabbrica di valori sia nella società civile considerata in tutte le sue
componenti; la fabbrica dei valori si trova, sì, nella società civile ma in
quelle frange politicizzate che fanno da pendant alle masse amorfe, estranee ai
grandi ideali della politica, zavorra a disposizione in ogni svolta
autoritaria. Sono le minoranze consapevoli che fecero l’Italia nel
Risorgimento, che invasero le piazze per chiedere l’intervento dell’Italia
nella Grande Guerra, che parteciparono alla marcia su Roma e nel Sessantotto
operarono una vera e propria ‘rivoluzione culturale’(di cui risentiamo ancora
gli effetti). Per questo stile di pensiero, della legittimità politica non è
depositario il popolo sovrano, né il Parlamento ma le ‘avanguardie’ che mediano
tra il primo e il secondo.
Eppure
continuiamo a dirci tutti liberali e tra i liberali, che leggono i classici del
pensiero politico, non se ne trova uno che non esprima la sua grande
ammirazione per Alexis de Tocqueville .Ma quanti poi hanno meditato davvero
sulla Democrazia in America(1835) di cui riporto un brano inequivocabile? “I
repubblicani negli Stati Uniti apprezzano i costumi, rispettano le credenze
religiose, riconoscono ì diritti.
Essi
professano l’opinione che un popolo deve essere morale, religioso e moderato in
proporzione alla sua libertà. Ciò che si chiama repubblica negli Stati Uniti è
il regno tranquillo della maggioranza. La maggioranza, dopo che ha avuto il
tempo di riconoscersi e di constatare la propria esistenza, diviene la fonte
comune dei poteri. |…|
Ma, in
Europa, noi abbiamo fatto strane scoperte. La repubblica, secondo alcuni di
noi, non è il governo della maggioranza, come si è creduto fino ad ora, è il governo di coloro che si fanno
garanti e interpreti della maggioranza.
Non è
il popolo che dirige in questa specie di governi, ma coloro che conoscono quale
sia il vero bene del popolo felice distinzione che permette di agire in nome delle
nazioni senza consultarle e di reclamare la loro riconoscenza calpestandole.
Il
governo repubblicano del resto è il solo, al quale si debba riconoscere il
diritto di fare tutto, e che possa disprezzare ciò che gli uomini hanno fino ad
ora rispettato, dalle più alte leggi della morale fino alle elementari re-gole
del senso comune. Si era pensato, fino ad ora, che il dispotismo fosse odioso,
qualunque fosse-ro le sue forme. Ma si è scoperto ai giorni nostri che vi erano nel
mondo tirannidi legittime e sante ingiustizie, purché fossero esercitate in
nome del popolo “. E’ proprio il caso di parafrasare ; de nobis fabula narratur!
Commenti
Posta un commento