Multilateralismo asiatico contro Globalismo occidentale .

 Il Multilateralismo  asiatico (rispettoso delle patrie e dei confini tra stati sovrani) contro il Globalismo occidentale indirizzato verso un governo unico totalitario mondiale .

 

 

 Il Comunismo Trionfa in USA e Unione Europa.

Marcotosatti.com- Marco Tosatti- Maurizio Milano-(3 Maggio 2022). Ci dicono :

 

 Carissimi Stilum Curiali, mi sembra interessante portare alla vostra attenzione questo articolo dell’Osservatorio Internazionale Cardinale Van THuan, che ringraziamo per la cortesia.

 Buona lettura e meditazione.

(Marco Tosatti).

 

Loa scorso 12 agosto, sulla Rivista “il Mulino” di Bologna è uscito un prezioso articolo, intitolato “Un nuovo statalismo climatico”, a firma di Paolo Gerbaudo, un sociologo esperto di comunicazione politica che dirige il Centro di Ricerca sulla Cultura Digitale al King’s College di Londra e si occupa di movimenti sociali, partiti, campagne elettorali e social media.

L’interesse dipende dal fatto che l’autore, in modo molto trasparente, “svela” l’iniziativa di superare il modello di economia di mercato, nella direzione di un nuovo statalismo, definito, appunto «statalismo climatico»; al quale, dopo le recenti modifiche, sembra convergere anche la Costituzione italiana.

La tesi di fondo è che l’economia di mercato è finita:

 il cosiddetto neoliberismo di Reagan e della Thatcher non corrisponderebbe più alle esigenze del nuovo mondo, perché l’emergenza climatica, che è globale, richiede inevitabilmente risposte globali.

 La premessa, che viene presa per certa, è la teoria del «riscaldamento globale di origine antropica» (l’acronimo inglese è “AGW”: Anthropogenic Global Warming), insieme al più ampio concetto di «cambiamento climatico» che ne deriverebbe. Tali analisi sono al centro dell’attività dell’”Intergovernmental Panel on Climate Change” (Ipcc), un’agenzia intergovernativa delle Nazioni Unite dedicata allo studio dell’impatto umano sul cambiamento del clima e sulle sue conseguenze.

Sulla teoria dell’AGW, mentre esiste un ampio consenso nella comunità politica internazionale non mancano invece critiche e riserve proprio all’interno della comunità scientifica: è significativo, per restare all’Italia, che nella famiglia Prodi l’AGW sia accettato dall’uomo politico Romano, mentre sia invece sconfessato dallo scienziato climatico suo fratello, il Prof. Franco, celebre studioso di fisica dell’atmosfera, meteorologia e climatologia, che rifiuta ogni allarmismo climatico affermando che le ipotesi dell’Onu sono «non del tutto disinteressate» e che «la scienza, oggi, non è in grado di dare indicazioni certe, perché la climatologia è una disciplina acerba», mettendo anche in guardia dal «rischio di mettere in pratica soluzioni non solo sbagliate, ma anche controproducenti».

Che la causa del riscaldamento globale degli ultimi decenni sia prevalentemente di origine antropica – anziché invece del tutto naturale, legata all’evoluzione dell’attività solare o a quella vulcanica, ad esempio – non è né dimostrabile né verificabile empiricamente, sia per la brevità del periodo in esame e l’elevata volatilità dei dati sia per l’estrema complessità dei fenomeni osservati.

Fasi cicliche di riscaldamento del pianeta, tra l’altro, sono documentate dai paleoclimatologi ben prima della Rivoluzione industriale e dell’inizio delle emissioni di gas serra di origine umana: per limitarci agli ultimi duemila anni, anche se limitatamente al nostro emisfero, l’“Optimum Climatico Romano” (250 a.C.-400 d.C.) e il “Periodo Caldo Medievale” (950-1.250 d.C.), che furono tra l’altro particolarmente propizi per lo sviluppo della civiltà umana.

 Argomenti certamente insufficienti, considerati da soli, perché il riscaldamento globale coinvolge ora l’intero pianeta; ma considerando che le previsioni catastrofistiche dei decenni passati sull’evoluzione del clima e sui conseguenti impatti sul pianeta e sull’uomo si sono poi rivelate erronee, sarebbe auspicabile una maggiore prudenza nell’individuazione delle cause e nella conseguente definizione di “scenari” allarmistici, come invece fa l’Ipcc. Tanto che la teoria dell’AGW è ritenuta fallace da moltissimi scienziati autorevoli, tra cui, sempre per restare al nostro Paese, i celebri Antonino Zichichi e Carlo Rubbia.

In conclusione, si può certamente affermare che “lo dice la politica”, molto meno che “lo dice la scienza”.

Non si può ridurre a negazionismo antiscientifico il dubitare della responsabilità esclusivamente o prevalentemente umana dietro fenomeni così complessi: ne consegue che la pretesa di volere a tutti i costi (è il caso di dirlo) abbassare la temperatura del pianeta, come si fa col climatizzatore dell’ufficio, appaia oltre che prometeica e irrealistica, anche imprudente e probabilmente insensata.

È ideologico, e non scientifico, considerare una teoria come se fosse una certezza dimostrata e verificabile empiricamente, e proporre scenari allarmistici per giustificare poi interventi di portata colossale, con gravi restrizioni alla libertà, ricadute inflazionistiche e costi astronomici, come riconosciuto anche da Bill Gates quando parla del cosiddetto green premium, l’extra-costo di 5mila miliardi di dollari annui per avviare la transizione ecologica verso un mondo “decarbonizzato”.

Presa per buona la premessa del cosiddetto “cambiamento climatico di origine antropica” – che è per definizione globale – e delle sue supposte conseguenze catastrofiche, è chiaro che anche la sovranità nazionale dovrebbe cedere il passo a una prospettiva di multilateralismo e di governance mondiale:

a problemi globali soluzioni globali, insomma.

 L’unica via d’uscita per evitare la catastrofe planetaria sarebbe quindi l’evoluzione dei sistemi sociali, economici e politici verso un New Normal in cui gli Stati nazionali, le Banche centrali, la comunità internazionale, l’ONU, le grandi imprese corporate, i grandi media globali, i think tank più importanti (come il World Economic Forum di Davos di Klaus Schwab ,il nuovo Hitler globalista  ) collaborano tra loro, accentrando risorse, decisioni e stabilendo le direttrici di sviluppo e le metriche a cui i piccoli dovranno attenersi.

Com’è noto, la “transizione ecologica” con la connessa pianificazione pubblica è uno dei punti centrali, anche se non il solo, dell’Agenda Onu 2030, del Build Back Betterdi Biden, del Green Deal europeo, dell’«iniziativa» del Great Reset.

 In altre parole, dopo decenni di misure legate a politiche di mercato che si sarebbero rilevate poco più che palliativi, ora il contrasto al cambiamento climatico richiederebbe una pianificazione a livello statale e sovranazionale: ciò spiega il consenso generalizzato per la teoria dell’AGW nella comunità politica e nei grandi gruppi economici e finanziari.

Per fugare ogni dubbio interpretativo, lascio la parola a quanto scrive Gerbaudo nell’articolo citato, commentando il Sixth Assessment Report dell’Ipcc dello scorso 9 agosto, dove si evidenzia che oramai siamo in ritardo nel frenare l’aumento della temperatura del pianeta rispetto agli obiettivi che erano stati presi, in particolare nell’accordo di Parigi sul clima del 2015.

A tal proposito, Gerbaudo afferma che «la prospettiva è quella di un pianeta dove sarà assai più difficile vivere.

E soprattutto dove sarà difficile vivere in pace, dato il modo in cui il cambiamento climatico rischia di generare ondate di rifugiati climatici e scatenare una competizione per le risorse.

Le parole di António Guterres segretario generale dell’Onu – “questo rapporto è una campana a morto per carbone e combustibili fossili, prima che distruggano il nostro pianeta” – più dure di quelle dei suoi predecessori, riflettono un crescente consenso nel mainstream politico ed economico rispetto alla necessità di accelerare sulla transizione. […]

In un tempo in cui il negazionismo sul clima è ormai marginalizzato alle lobby delle compagnie petrolifere e fanatici del mercato senza regole, c’è una forte massa critica che spinge per una transizione rapida. […] Ma non sarà certo il mercato, né un cambiamento degli stili di vita, a risolvere il problema epocale che abbiamo di fronte. Il cambiamento climatico è il classico problema per cui “non ci sono soluzioni di mercato»”.

Di fatto si è perso molto tempo utile sperando invano in tali soluzioni. Basti pensare al sistema europeo di scambio di quote di emissione di gas a effetto serra (Emissions Trading System), considerato da molti come un fallimento, visti anche i prezzi risibili per comprare diritto a inquinare.

[…] La logica di mercato e il meccanismo del prezzo su cui esso poggia non sono efficaci per un bene pubblico come il garantire un ambiente vivibile. Dopo decenni di egemonia neoliberista e credo nel “mercato che si autoregola” nelle scelte di politica climatica si stanno affacciando forme di interventismo statale a lungo abbandonate. Solo uno Stato interventista può mettere in campo il coordinamento strategico ad ampia scala e mobilitare le risorse necessarie a vincere la sfida».

«Durante la pandemia, abbiamo assistito a una mobilitazione statale senza precedenti negli ultimi decenni: lockdown, grandi campagne di vaccinazione e grandi piani di stimolo e investimento hanno ribaltato l’immaginario politico su cui si reggeva il neoliberismo.

Se alcuni fautori del libero mercato sperano che si tratti solo di una fase eccezionale prima del ritorno ai fasti degli anni Novanta e primi Duemila, è evidente che sono in corso cambiamenti strutturali nella sfera economica.                          Per diversi anni, se non decenni a venire, il mercato sarà di fatto sovrastato dall’ombra di grandi piani di investimento statale, come il Recovery Fund europeo e i programmi più ambiziosi lanciati dagli Stati Uniti. …]

Nel nuovo liberalismo progressista di Biden […] il mercato non è più visto come uno spazio autonomo ma come l’oggetto di decisioni politiche volte a dettarne il comportamento».

A fonte della «enorme “esternalità negativa” prodotta dal capitalismo globale […] la strada è un ritorno a una vera pianificazione democratica, in cui lo Stato fissa obiettivi regolativi che poi deve essere il mercato a raggiungere, piuttosto che intervenendo direttamente nella produzione.

 Tra tutti i cambiamenti a cui stiamo assistendo nelle policy sul clima forse quello più significativo è il ritorno della pianificazione.

 Basti pensare agli obiettivi sanciti da diversi Stati, dalla Cina agli Stati Uniti, che puntano a dimezzare le emissioni di anidride carbonica entro la fine del decennio o ai piani di vietare auto a diesel e benzina.

Il governo britannico ha stabilito che dal 2030 si potranno immatricolare solo auto a motore elettrico, mentre Joe Biden ha fissato un più modesto 50% a fine decennio. Per l’Unione europea l’obiettivo è di fermare la produzione di auto non elettriche entro il 2035. Assistiamo dunque a un ritorno della pianificazione [… che] fa il paio con un ritorno prepotente della politica industriale».

«Diversi politici nei Paesi occidentali, a partire dagli Stati Uniti sembrano aver cominciato ad accettare che solo un ritorno a un forte interventismo statale può sostenere lo sforzo colossale e garantire la celerità necessaria a evitare gli scenari più cupi tracciati dal rapporto Ipcc.

Ma senza dubbio ci saranno enormi resistenze […: occorrerà] coinvolgere direttamente la popolazione nelle decisioni sul futuro; affinché la pianificazione climatica sia vista non come una scelta tecnocratica, ma come frutto di decisioni democratiche e legittime. […]

 A giudicare dalle reazioni alle forme di direzione e controllo statale durante la pandemia con il proliferare di movimenti no-mask e no-vax il ritorno della pianificazione statale verrà visto da settori della popolazione come un’imposizione inaccettabile. Ma un’altra strada non c’è.

 Le soluzioni di mercato puro, come il mercato delle emissioni hanno fallito e il cambiamento individuale negli stili di vita non è sufficiente.

Per essere all’altezza della sfida che abbiamo di fronte occorre uno Stato pianificatore democratico che sappia approfittare dell’emergenza climatica anche come occasione per affrontare il problema ormai enorme della diseguaglianza sociale».

Più chiaro di così…occorre essere grati a Gerbaudo per avere descritto senza reticenze il progetto di transizione verso il “liberalismo progressista” soggiacente all’Agenda ONU 2030 e all’iniziativa del Great Reset, che molti bollano ancora come una delle tante conspiration theories, ovvero “teorie del complotto”.

Nella prospettiva “anti-sussidiaria” e dirigistica chiaramente evocata dall’autore, il tempo della libertà economica, dei privati, delle piccole e medie imprese è definitivamente tramontato, e le crisi sanitarie, climatiche ed energetiche sono viste come delle grandi opportunità, dei catalizzatori propizi al salto di paradigma dall’economia libera all’economia pianificata, dallo “shareholder capitalism” – per dirla con Klaus Schwab, leader del WEFdi Davos – allo “stakeholder capitalism del XXI° secolo”.

L’articolo di Gerbaudo è precedente all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia: al momento non è ancora chiaro se la guerra in atto e la conseguente destabilizzazione degli equilibri geopolitici, economici e finanziari pre-conflitto freneranno il progetto o addirittura, come si ripropone la Commissione Europea nel piano REPowerEU, saranno l’occasione per ulteriori accelerazioni.

 A tal proposito, il vicepresidente della Commissione, Franz Timmermans, ha dichiarato: «buttiamoci nelle energie rinnovabili alla velocità della luce […]. La guerra di Putin in Ucraina dimostra l’urgenza di accelerare la nostra transizione energetica pulita».

 

Occorre precisare che il “capitalismo occidentale” è molto differente da come viene dipinto dalla narrazione prevalente, che lo definisce turbocapitalismo, capitalismo selvaggio o neoliberismo,e lo condanna come iniquo perché caratterizzato da un “eccesso” di libertà dei privati.

 I sistemi economici moderni, compreso quello statunitense, sono invece caratterizzati da livelli di spesa pubblica, pressione fiscale e contributiva molto elevati, rigide regolamentazioni di vario tipo, con spazi di libertà per i piccoli assai modesti e in progressiva contrazione;

per di più, in particolare negli ultimi 10-15 anni, sono aumentate esponenzialmente le manipolazioni “politiche” del potere d’acquisto del denaro fiat ad opera delle Banche centrali, che hanno innescato forti dinamiche inflazionistiche, ai danni dei piccoli risparmiatori e dei titolari di redditi fissi.

 

 Il termine più corretto per qualificare il sistema “capitalistico” contemporaneo sarebbe quello di crony capitalism, capitalismo clientelare, con tendenza al “socialismo finanziario”.

 Ora si vorrebbe che tale modello – sicuramente fallimentare, ma per motivi opposti a quelli addotti dai critici di tale supposto neoliberismo – evolvesse, nel decennio in corso, verso quello che potremmo battezzare “socialismo liberale del XXI° secolo”.

Con l’obiettivo di uno sviluppo inclusivo, resiliente e, ovviamente, sostenibile: queste le parole d’ordine, con risorse e decisioni progressivamente accentrate in cabine di regìa sempre più alte.

La cifra di tale neocorporativismo tinto di verde è un nuovo contratto sociale caratterizzato da un’alleanza ancora più stretta tra il potere pubblico e i grandi gruppi privati, giustificata da uno “stato di eccezione” permanente: siamo entrati nell’era delle Nuove Politiche Economiche, ovviamente “democratiche” e accompagnate da una “grande narrazione” per creare il consenso necessario per giustificare gli enormi costi, sia in termini di benessere economico sia di libertà, richiesti da tale cambiamento epocale.

 Sacrifici pesanti e immediati ma che sarebbero giustificati dall’assenza di alternative e, ça va sans dire, dalla certezza di un “futuro migliore”.

Occorre essere molto grati a Paolo Gerbaudo. Green is the new Red: comunque la si pensi sulla teoria del riscaldamento globale “di origine antropica”, il progetto dello statalismo climatico e della pianificazione democratica adesso è davvero chiaro a tutti. Avrà successo? No, per almeno due ordini di motivi.

Innanzitutto, il reale è complesso e in continua evoluzione: nessun pianificatore centrale, per quanto “illuminato”, può quindi illudersi di disporre di tutte le informazioni rilevanti per prendere dall’alto e dal centro decisioni efficienti, efficaci e in tempi congrui; i piani sono infatti decisi a tavolino, non necessariamente da persone competenti o disinteressate, sulla scorta di informazioni parziali, datate e poi implementati nel tempo, mentre la realtà si modifica incessantemente, spesso in modo improvviso e imprevedibile: basti pensare alla guerra in Ucraina e alle conseguenze ignote ma profonde che comporterà sugli equilibri mondiali, a tutti i livelli.

Inoltre, progetti che si basino su un’antropologia distorta, e quindi su una sociologia rovesciata, sono destinati al fallimento finale per motivi “ontologici”, perché contrari all’ordine naturale delle cose.

Non senza produrre seri danni strada facendo, certamente, anche per lunghi anni: ed è il motivo per cui non dobbiamo stancarci di smascherarli e denunciarli, contrapponendo una “narrazione” vera alla “grande narrazione” ideologica del “pensiero unico” oggi dominante.

(Maurizio Milano).

 

 

Il multilateralismo aiuterà

la ripresa del mondo.

ilsole24ore. com -(4 febbraio 2021)- di Antonio Guterres, Ursula von der Leyen, Emmanuel Macron, Angela Merkel, Charles Michel e Macky Sall - ci dicono:

 

Un appello per una crescita economica più inclusiva, trainata da un commercio basato su regole condivise e standard elevati. È il futuro di un nuovo multilateralismo che non lasci indietro i più poveri, che non alimenti le diseguaglianze e anzi le riduca. La gravi crisi che abbiamo vissuto, la pandemia, il ritorno dei nazionalismi e dei sovranismi insegnano che per plasmare gli anni a venire sono necessarie scelte ambiziose. C’è un importante lavoro da compiere, la ricostruzione del consenso attorno a un ordine mondiale basato sullo stato di diritto. E sulla sostenibilità ambientale.

In questo senso gli impegni presi nella lotta al cambiamento climatico dovranno essere intensificati in vista della Conferenza internazionale di Glasgow (Cop26) a novembre.

 

Ucraina, ultime notizie. Stoltenberg, Nato non accetterà mai annessione Crimea. Tutti i civili evacuati da Azovstal

Nel settembre del 2000, 189 Paesi firmarono la “Dichiarazione del Millennio”, che definiva i principi della cooperazione internazionale per una nuova era di progressi verso obiettivi comuni. Uscendo dalla Guerra Fredda, eravamo convinti della nostra capacità di costruire un ordine multilaterale in grado di affrontare le grandi sfide dell’epoca: fame e povertà estrema, degrado ambientale, malattie, shock economici e la prevenzione dei conflitti. Nel settembre del 2015, gli stessi Paesi hanno rinnovato il proprio impegno verso l’ambizioso progetto di affrontare insieme le sfide globali, sottoscrivendo l’Agenda 2030 dell’Onu per lo sviluppo sostenibile.

Il nostro mondo ha conosciuto trend divergenti, che hanno portato a una maggiore prosperità a livello globale mentre le disuguaglianze permangono o aumentano. Le democrazie sono cresciute in concomitanza con una recrudescenza del nazionalismo e del protezionismo. Nel corso degli ultimi decenni, due gravi crisi hanno sconvolto le nostre società e indebolito le nostre politiche comuni, mettendo in discussione la nostra capacità di superare gli shock, affrontare le loro cause e garantire un futuro migliore alle generazioni a venire. Esse ci hanno anche ricordato quanto siamo dipendenti gli uni dagli altri.

Le crisi più gravi richiedono le decisioni più ambiziose per plasmare il futuro. Noi riteniamo che questa possa essere un’occasione per ricostruire un consenso intorno a un ordine internazionale basato sul multilateralismo e sullo stato di diritto attraverso una cooperazione, una solidarietà e un coordinamento efficienti. In tale ottica, siamo determinati a collaborare, insieme e al loro interno, con le Nazioni Unite, organizzazioni regionali, organismi intergovernativi come il G7 e il G20, e coalizioni ad hoc per affrontare le sfide globali di oggi e anche di domani.

Superare assieme il Covid-19.

La prima emergenza è quella sanitaria. La crisi legata alla Covid-19 rappresenta il banco di prova più importante per la solidarietà mondiale da generazioni a questa parte. Essa ci ha ricordato un dato di fatto: a fronte di una pandemia, la nostra catena della sicurezza sanitaria è forte solo quanto il sistema sanitario più debole. Un focolaio di Covid-19 in una parte del mondo rappresenta una minaccia per le persone e le economie dell’intero pianeta.

La pandemia esige una risposta internazionale forte e coordinata che intensifichi rapidamente l’accesso ai test, alle cure e ai vaccini, riconoscendo nell’immunizzazione estensiva un bene pubblico globale che deve essere reso disponibile e accessibile a tutti. A tale proposito, appoggiamo pienamente l’iniziativa globale Access to Covid-19 Tools (ACT) Accelerator, lanciata dall’Organizzazione mondiale della Sanità e dai partner del G20 lo scorso aprile.

Imparare dalla pandemia

Per adempiere alla sua missione, l’ACT-Accelerator ha urgente bisogno di un sostegno politico e finanziario più ampio. Da parte nostra, promuoviamo anche il libero flusso di dati tra organismi partner e la concessione volontaria di licenze per la proprietà intellettuale. Nel lungo termine, avremo bisogno anche di una valutazione indipendente ed esaustiva della nostra risposta per trarre ogni possibile insegnamento da questa pandemia e prepararci meglio per la prossima. L’Oms avrà un ruolo centrale in tale processo.

Economie più sostenibili.

L’emergenza riguarda anche l’ambiente. In vista della Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP26), che si terrà a Glasgow il prossimo novembre, dobbiamo intensificare gli sforzi per contrastare il cambiamento climatico e rendere le nostre economie più sostenibili. Entro l’inizio del 2021, i Paesi responsabili di oltre il 65% delle emissioni totali di gas serra avranno probabilmente assunto l’impegno di raggiungere l’ambizioso traguardo della neutralità carbonica.

 

Tutti i governi nazionali, le imprese, le città e le istituzioni finanziarie dovrebbero ora aderire alla coalizione globale per ridurre le emissioni di CO2 allo zero netto secondo quanto stabilito dall’accordo di Parigi, e cominciare ad attuare piani e politiche concreti.

La pandemia ha causato la peggiore crisi economica globale dai tempi della Seconda Guerra Mondiale. Il ritorno a un’economia globale forte e stabile è una priorità assoluta. Di fatto, l’attuale crisi sta minacciando di annullare i progressi realizzati nell’arco di due decenni per combattere la povertà e la disparità di genere. Le disuguaglianze stanno mettendo in pericolo le nostre democrazie minando la coesione sociale.

Globalizzazione e commercio

Non vi è dubbio che la globalizzazione e la cooperazione internazionale abbiano aiutato miliardi di persone a sottrarsi alla povertà; tuttavia, quasi metà della popolazione mondiale fatica ancora a soddisfare i bisogni primari. In molti Paesi, poi, il divario tra ricchi e poveri è divenuto insostenibile, le donne continuano a non godere di pari opportunità e molte persone hanno bisogno di essere rassicurate in merito ai benefici della globalizzazione.

 

Mentre aiutiamo le nostre economie a superare la peggiore recessione dal 1945, resta per noi una priorità principale garantire un libero scambio basato su regole condivise che funga da motore di una crescita inclusiva e sostenibile. Dobbiamo, quindi, rafforzare l’Organizzazione mondiale del commercio e sfruttare appieno il potenziale del commercio internazionale per la nostra ripresa economica. Allo stesso tempo, la tutela dell’ambiente e della salute, nonché degli standard sociali, va posta al centro dei nostri modelli economici garantendo altresì le condizioni necessarie per l’innovazione.

 

Aiuti ai Paesi in via di sviluppo.

Nel settembre del 2000, 189 Paesi firmarono la “Dichiarazione del Millennio”, che definiva i principi della cooperazione internazionale per una nuova era di progressi verso obiettivi comuni. Uscendo dalla Guerra Fredda, eravamo convinti della nostra capacità di costruire un ordine multilaterale in grado di affrontare le grandi sfide dell’epoca: fame e povertà estrema, degrado ambientale, malattie, shock economici e la prevenzione dei conflitti. Nel settembre del 2015, gli stessi Paesi hanno rinnovato il proprio impegno verso l’ambizioso progetto di affrontare insieme le sfide globali, sottoscrivendo l’Agenda 2030 dell’Onu per lo sviluppo sostenibile.

Il nostro mondo ha conosciuto trend divergenti, che hanno portato a una maggiore prosperità a livello globale mentre le disuguaglianze permangono o aumentano. Le democrazie sono cresciute in concomitanza con una recrudescenza del nazionalismo e del protezionismo. Nel corso degli ultimi decenni, due gravi crisi hanno sconvolto le nostre società e indebolito le nostre politiche comuni, mettendo in discussione la nostra capacità di superare gli shock, affrontare le loro cause e garantire un futuro migliore alle generazioni a venire. Esse ci hanno anche ricordato quanto siamo dipendenti gli uni dagli altri.

 

Le crisi più gravi richiedono le decisioni più ambiziose per plasmare il futuro. Noi riteniamo che questa possa essere un’occasione per ricostruire un consenso intorno a un ordine internazionale basato sul multilateralismo e sullo stato di diritto attraverso una cooperazione, una solidarietà e un coordinamento efficienti. In tale ottica, siamo determinati a collaborare, insieme e al loro interno, con le Nazioni Unite, organizzazioni regionali, organismi intergovernativi come il G7 e il G20, e coalizioni ad hoc per affrontare le sfide globali di oggi e anche di domani.

Superare assieme il Covid-19

La prima emergenza è quella sanitaria. La crisi legata alla Covid-19 rappresenta il banco di prova più importante per la solidarietà mondiale da generazioni a questa parte. Essa ci ha ricordato un dato di fatto: a fronte di una pandemia, la nostra catena della sicurezza sanitaria è forte solo quanto il sistema sanitario più debole. Un focolaio di Covid-19 in una parte del mondo rappresenta una minaccia per le persone e le economie dell’intero pianeta.

 

La pandemia esige una risposta internazionale forte e coordinata che intensifichi rapidamente l’accesso ai test, alle cure e ai vaccini, riconoscendo nell’immunizzazione estensiva un bene pubblico globale che deve essere reso disponibile e accessibile a tutti. A tale proposito, appoggiamo pienamente l’iniziativa globale Access to Covid-19 Tools (ACT) Accelerator, lanciata dall’Organizzazione mondiale della Sanità e dai partner del G20 lo scorso aprile.

 

Imparare dalla pandemia.

 

Per adempiere alla sua missione, l’ACT-Accelerator ha urgente bisogno di un sostegno politico e finanziario più ampio. Da parte nostra, promuoviamo anche il libero flusso di dati tra organismi partner e la concessione volontaria di licenze per la proprietà intellettuale. Nel lungo termine, avremo bisogno anche di una valutazione indipendente ed esaustiva della nostra risposta per trarre ogni possibile insegnamento da questa pandemia e prepararci meglio per la prossima. L’Oms avrà un ruolo centrale in tale processo.

 

Economie più sostenibili

L’emergenza riguarda anche l’ambiente. In vista della Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP26), che si terrà a Glasgow il prossimo novembre, dobbiamo intensificare gli sforzi per contrastare il cambiamento climatico e rendere le nostre economie più sostenibili. Entro l’inizio del 2021, i Paesi responsabili di oltre il 65% delle emissioni totali di gas serra avranno probabilmente assunto l’impegno di raggiungere l’ambizioso traguardo della neutralità carbonica.

Tutti i governi nazionali, le imprese, le città e le istituzioni finanziarie dovrebbero ora aderire alla coalizione globale per ridurre le emissioni di CO2 allo zero netto secondo quanto stabilito dall’accordo di Parigi, e cominciare ad attuare piani e politiche concreti.

La pandemia ha causato la peggiore crisi economica globale dai tempi della Seconda Guerra Mondiale. Il ritorno a un’economia globale forte e stabile è una priorità assoluta. Di fatto, l’attuale crisi sta minacciando di annullare i progressi realizzati nell’arco di due decenni per combattere la povertà e la disparità di genere. Le disuguaglianze stanno mettendo in pericolo le nostre democrazie minando la coesione sociale.

Globalizzazione e commercio.

 

Non vi è dubbio che la globalizzazione e la cooperazione internazionale abbiano aiutato miliardi di persone a sottrarsi alla povertà; tuttavia, quasi metà della popolazione mondiale fatica ancora a soddisfare i bisogni primari. In molti Paesi, poi, il divario tra ricchi e poveri è divenuto insostenibile, le donne continuano a non godere di pari opportunità e molte persone hanno bisogno di essere rassicurate in merito ai benefici della globalizzazione.

Mentre aiutiamo le nostre economie a superare la peggiore recessione dal 1945, resta per noi una priorità principale garantire un libero scambio basato su regole condivise che funga da motore di una crescita inclusiva e sostenibile. Dobbiamo, quindi, rafforzare l’Organizzazione mondiale del commercio e sfruttare appieno il potenziale del commercio internazionale per la nostra ripresa economica. Allo stesso tempo, la tutela dell’ambiente e della salute, nonché degli standard sociali, va posta al centro dei nostri modelli economici garantendo altresì le condizioni necessarie per l’innovazione.

 

Aiuti ai Paesi in via di sviluppo

Dobbiamo fare in modo che la ripresa globale riguardi tutti. Ciò significa rafforzare il nostro sostegno ai Paesi in via di sviluppo, soprattutto in Africa, sviluppando e ampliando le partnership esistenti, come il Patto del G20 con l’Africa e l’impegno del Gruppo a promuovere, insieme al Club di Parigi, l’iniziativa a favore della sospensione del servizio del debito. È fondamentale dare ulteriore supporto a questi Paesi per ridurre il loro indebitamento e garantire finanziamenti sostenibili per le loro economie ricorrendo all’intera gamma degli strumenti finanziari internazionali, come l’attività di riserva del Fondo monetario internazionale, i diritti speciali di prelievo (DSP).

Gestire le tecnologie

Lo sviluppo delle nuove tecnologie ha rappresentato una risorsa preziosa per il progresso e l’inclusione, avendo contribuito all’apertura e alla resilienza di società, economie e Stati, ed essendosi dimostrato di vitale importanza durante la pandemia. Eppure, quasi la metà della popolazione mondiale – e più della metà delle donne e delle fanciulle sul pianeta – resta disconnessa dal web e impossibilitata a usufruire dei loro vantaggi.

 

D’altro canto, il significativo potere delle nuove tecnologie può essere utilizzato impropriamente per limitare i diritti e le libertà dei cittadini, diffondere odio o commettere gravi reati. Bisogna partire dalle iniziative esistenti, quindi coinvolgere i soggetti interessati per regolamentare internet in modo efficace allo scopo di creare un ambiente digitale sicuro, libero e aperto, dove il flusso dei dati avvenga in un contesto affidabile.

I benefici dovranno riflettersi in particolare sulle persone più svantaggiate anche affrontando le sfide fiscali della digitalizzazione dell’economia e combattendo una concorrenza fiscale dannosa.

Ripartire dalla scuola.

Infine, la crisi sanitaria ha interrotto il percorso educativo di milioni di bambini e di studenti. Dobbiamo rispettare la promessa di fornire a tutti un’istruzione e di mettere la prossima generazione nella condizione di acquisire le competenze e le conoscenze scientifiche di base, nonché di comprendere le differenze culturali, la tolleranza, l’accettazione del pluralismo e il rispetto della libertà di coscienza. I bambini e i giovani sono il nostro futuro e la loro educazione è fondamentale.

Un multilateralismo inclusivo.

Per vincere queste sfide, il multilateralismo non si traduce in un mero esercizio diplomatico, ma è un orientamento in grado di forgiare un ordine mondiale, e un modo ben definito di organizzare i rapporti internazionali sulla base della cooperazione, dello stato di diritto, di azioni collettive e di principi condivisi.

Anziché mettere le civiltà e i valori l’uno contro l’altro, dobbiamo costruire un multilateralismo più inclusivo, che rispetti le nostre differenze tanto quanto i valori comuni sanciti dalla Dichiarazione universale dei diritti umani.

Il mondo post Covid-19 non sarà più lo stesso di prima, perciò dobbiamo avvalerci di sedi e opportunità diverse, come il Forum di Parigi sulla pace, per impegnarci ad affrontare queste sfide con una visione chiara. Ai leader politici, economici, religiosi e di pensiero giunga il nostro invito a unirsi a questa conversazione globale.

Dobbiamo fare in modo che la ripresa globale riguardi tutti. Ciò significa rafforzare il nostro sostegno ai Paesi in via di sviluppo, soprattutto in Africa, sviluppando e ampliando le partnership esistenti, come il Patto del G20 con l’Africa e l’impegno del Gruppo a promuovere, insieme al Club di Parigi, l’iniziativa a favore della sospensione del servizio del debito. È fondamentale dare ulteriore supporto a questi Paesi per ridurre il loro indebitamento e garantire finanziamenti sostenibili per le loro economie ricorrendo all’intera gamma degli strumenti finanziari internazionali, come l’attività di riserva del Fondo monetario internazionale, i diritti speciali di prelievo (DSP).

 

Gestire le tecnologie

Lo sviluppo delle nuove tecnologie ha rappresentato una risorsa preziosa per il progresso e l’inclusione, avendo contribuito all’apertura e alla resilienza di società, economie e Stati, ed essendosi dimostrato di vitale importanza durante la pandemia. Eppure, quasi la metà della popolazione mondiale – e più della metà delle donne e delle fanciulle sul pianeta – resta disconnessa dal web e impossibilitata a usufruire dei loro vantaggi.

 

D’altro canto, il significativo potere delle nuove tecnologie può essere utilizzato impropriamente per limitare i diritti e le libertà dei cittadini, diffondere odio o commettere gravi reati. Bisogna partire dalle iniziative esistenti, quindi coinvolgere i soggetti interessati per regolamentare internet in modo efficace allo scopo di creare un ambiente digitale sicuro, libero e aperto, dove il flusso dei dati avvenga in un contesto affidabile.

I benefici dovranno riflettersi in particolare sulle persone più svantaggiate anche affrontando le sfide fiscali della digitalizzazione dell’economia e combattendo una concorrenza fiscale dannosa.

Ripartire dalla scuola

Infine, la crisi sanitaria ha interrotto il percorso educativo di milioni di bambini e di studenti. Dobbiamo rispettare la promessa di fornire a tutti un’istruzione e di mettere la prossima generazione nella condizione di acquisire le competenze e le conoscenze scientifiche di base, nonché di comprendere le differenze culturali, la tolleranza, l’accettazione del pluralismo e il rispetto della libertà di coscienza. I bambini e i giovani sono il nostro futuro e la loro educazione è fondamentale.

Un multilateralismo inclusivo

Per vincere queste sfide, il multilateralismo non si traduce in un mero esercizio diplomatico, ma è un orientamento in grado di forgiare un ordine mondiale, e un modo ben definito di organizzare i rapporti internazionali sulla base della cooperazione, dello stato di diritto, di azioni collettive e di principi condivisi.

 

Anziché mettere le civiltà e i valori l’uno contro l’altro, dobbiamo costruire un multilateralismo più inclusivo, che rispetti le nostre differenze tanto quanto i valori comuni sanciti dalla Dichiarazione universale dei diritti umani.

 

Il mondo post Covid-19 non sarà più lo stesso di prima, perciò dobbiamo avvalerci di sedi e opportunità diverse, come il Forum di Parigi sulla pace, per impegnarci ad affrontare queste sfide con una visione chiara. Ai leader politici, economici, religiosi e di pensiero giunga il nostro invito a unirsi a questa conversazione globale.

 

 

 

LA MORTE APPARENTE DEL GLOBALISMO.

Partecipare.net- Americo Placido- (13-2 -2022)- ci dice :

 

Dicono che Friedman è stato l’economista più influente dell’epoca contemporanea, forse secondo solo a Keynes. Trent’anni fa la crisi ideologica provocata dalla caduta del muro di Berlino e l’evidenza che il comunismo era morto e defunto (se mai fosse stato comunismo quello vissuto nell’Unione Sovietica) ha creato il vuoto necessario al dilagare del globalismo. E’ stato un fenomeno impressionante non tanto nel pensiero di Destra, tradizionalmente liberista, che però ha saputo riempire con ingordigia gli spazi che si erano aperti, ma nel pensiero e nelle politiche della Sinistra, incapace di articolare analisi e proposte atte a riformulare la critica all’economia capitalista e a recuperare lo spirito di un socialismo realistico in grado di capire un mondo profondamente cambiato, rispetto a quello industriale del secolo 20.

Il cambio più profondo è stato il restringimento dell’interdipendenza. La velocità impressionante delle comunicazioni fisiche e virtuali ha rimpicciolito il mondo mettendo in una crisi mortale il suo assetto secolare basato sull’ipotesi che potessero coesistere effettivamente centri di potere decisionale, indipendenti ed autonomi; Stati effettivamente sovrani, in grado di risolvere da soli i propri problemi.

Il capitale ha capito subito le potenzialità di questa nuova prospettiva. Si è in buona parte trasformato da produttivo a speculativo e finanziario. Ha scavalcato confini e appartenenze nazionali. Si è organizzato in centri di potere incontrollabili e monopolizzanti. La Politica ha perso i suoi protagonisti tradizionali: Governi e Parlamenti, concentrandosi nelle mani dei Consiglieri di Amministrazione di Società multinazionali (che meglio chiameremmo, sovranazionali). A questo punto, la globalità era la grossa occasione per aprire su scala mondiale l’arena della competitività senza esclusione di colpi. La deregulation, che tanto piaceva a Friedman, divenne la fede cieca perfino dei sindacati metalmeccanici. Il più forte avrebbe vinto e il darwinismo economico avrebbe fatto il mondo più felice, facendo piazza pulita di poveri e di infelici. A ciascuno il destino che si merita. Perché la meritocrazia è la giustizia divina in una società con un solo obbiettivo: fare i ricchi più ricchi, e chi non è d’accordo peggio per lui.

Ma la sregolatezza è una bestia molto pericolosa. La competitività senza esclusione di colpi raggiunge e supera facilmente le soglie della criminalità, infischiandosi di precetti morali che non hanno mai arricchito nessuno. Il mondo delle Banche, delle Compagnie Assicurative, delle Società farmaceutiche, dei Brokers, dello Sport non sono che degli spiragli sul cinismo che motiva i principali attori della nostra contemporaneità. Questi sono i veri untori delle crisi pestilenziali che hanno provocato paurosi crolli finanziari ed economici con conseguenze disastrose per le fasce di popolazione più deboli, nei Paesi ricchi come nei più poveri.

Una classe politica sopraffatta, ha cercato e cerca di recuperare il terreno perduto agitando interessi ed orgogli nazionali. I populisti, come spesso vengono chiamati, sono fieri e presuntuosi. Pretendono di convincere che l’egoismo nazionale è un valore primordiale: ‘America first’, urla Trump, mentre pensa ai suoi debiti col fisco. Ma fanno lo stesso, cambiando dovutamente il soggetto, i demagoghi della Polonia, dell’Ungheria, dell’Italia, della Germania, della Francia, del Regno dis-Unito. E’ un’epidemia di nostalgici che rifiutano una realtà vera da tempo ma che oggi più che mai si mostra con tutta la sua forza ed evidenza: il mondo è interdipendente e questa interdipendenza è incontrollata.

Sotto silenzio, quasi, è trascorso il 75mo anniversario delle Nazioni Unite. Guai a considerare l’ONU un organismo sovranazionale. Sarebbe un errore fatale e che offenderebbe gli impettiti e arroganti diplomatici dei Paesi potenti, primi tra tutti quelli degli USA, le cui quote arretrate non c’è Segretario Generale che sia capace di ottenerne il pagamento in modo soddisfacente. Trump è si è coperto di ridicolo, tra le persone di buon senso, quando ha tentato di far ricadere la colpa della pandemia del Covid-19 sulla Organizzazione Mondiale della Sanità, una entità più vecchia delle stesse Nazioni Unite, di cui ora fa parte con onore grazie a un passato pieno di successi importantissimi e che hanno salvato l’Umanità da mali secolari. Un comportamento stupido, quello del Presidente americano, ma significativo. Nonostante i suoi limiti è sorprendente che l’ONU, non solo esista ancora ma continui a spiegare la sua azione in favore di un maggiore equilibrio nell’accesso alle risorse essenziali da parte di tutti i popoli. Certo, è vero che lo scopo primario dell’ONU è il mantenimento della pace e invece le guerre nel mondo sono in drammatico aumento: 378 i conflitti totali nel 2017, di cui 186 crisi violente e 20 guerre ad alta intensità. Lo scorso anno si è registrato anche il record di spesa per gli armamenti dalla Seconda guerra mondiale [www.globalist.it › world › 2018/12/11]. Ma il peggioramento della situazione è dovuto soprattutto alla grave confusione che le crisi di una globalizzazione selvaggia ha provocato stimolando l’anacronistica risorgenza di nazionalismi fanatici e aggressivi.

L’abbandono del multilateralismo da parte delle grandi potenze è l’errore più grave di questo momento storico. Se persino l’Unione Europea sta contraddicendo lo spettacolare progresso che non solo ha garantito il periodo di pace più lungo della sua storia ma anche una prosperità mai sperata prima, da Paesi come l’Italia, ciò vuol dire che una sorta di cecità sta avvilendo la Comunità internazionale.

Antonio Guterres, l’attuale Segretario Generale delle Nazioni Unite, nel suo discorso celebrativo del 75mo anniversario, ha pronunciato una frase che, c’è da augurarsi, diventi memorabile: “In un mondo interconnesso, è giunto il momento di riconoscere una semplice verità: la solidarietà si basa sui propri interessi.”

Basta con gli imperativi morali a cui nessuno ha mai dato retta. Qui si tratta di un problema di intelligenza; di razionalità. America first un corno! Se il mondo non si dà una regolata come si deve e al suo livello, cioè mondiale, le catastrofi potranno essere di dimensioni tali da poter provocare a tutti danni irreversibili. La pandemia del Coronavirus ha già fatto un milione di morti. Se non si trova un vaccino le previsioni sono che questa cifra in pochi mesi raddoppierà, mentre l’economia mondiale ostacolata dalle misure sanitarie tornerà indietro di decenni, con crisi occupazionali e sociali spaventose che già si profilano nei Paesi più colpiti. Logico sarebbe mettere assieme tutte le risorse scientifiche e sanitarie; costruire una rete mondiale di collaborazione per ottenere al più presto un risultato efficace. Invece gli Usa spiano i laboratori tedeschi, i Francesi non vogliono partecipare al pool europeo e Trump dà ordine di rubare stock di medicine già comprate in Cina dall’EU. Intanto Putin annuncia con glacialità che i russi il vaccino ce l’hanno già e ne faranno buon uso, naturalmente con gli amici loro. E’ la demenza mondiale!

Il clima è l’altra prova dell’ottusità delle attuali classi politiche. Per anni si cerca un accordo sulle emissioni Co2, finalmente se ne trova uno a Parigi grazie anche all’impulso dell’allora Presidente americano, Obama. Poi arriva il Primatista bianco Donald Trump e l’accordo va a farsi benedire. La giovanissima Greta si è già stancata di viaggiare e usare il suo incanto di adolescente, inutilmente. Moriremo avvelenati; e chi se ne frega!

Ma la speranza è l’ultima a morire. La ragione potrebbe ancora avere la meglio sul fanatismo e la stupidità. In tanti campi il progresso umano ha raggiunto traguardi impensabili e meravigliosi. Per la prima volta nella storia dell’umanità, i prodotti alimentari sono stati disponibili in quantità sufficienti a nutrire i 7,7 miliardi che abitiamo il pianeta. Peccato solo che si è trattato di pura statistica perché la famelica accumulazione dei ricchi ha ancora permesso che ogni giorno muoiano di fame almeno 24mila persone.

Abbiamo assoluto bisogno che questa interdipendenza smetta di essere incontrollata e che si trovi un modo intelligente e quindi pacifico per costruire un nuovo ordine internazionale. Nessuno potrà imporlo con la violenza se non si vuole che tutto salti per aria. L’ONU e la sua saggia evoluzione sono una delle poche speranze che ci rimangono. Ma l’ONU non è una persona e tantomeno un povero Segretario Generale, scelto soprattutto se rispettoso delle grandi potenze. Le Persone siamo noi. Noi dobbiamo cominciare a mobilitarci usando il nostro buon senso e la nostra ragione. Usiamo la nostra testa; diciamo basta alle propagande; verifichiamo le informazioni che ci propinano; non deleghiamo tutto a delle classi dirigenti che attraverso la loro miopia solo vedono un futuro troppo prossimo per costruire un progetto. Qualunque cosa accada nel mondo ci riguarda e ci riguarda da vicino. Dobbiamo trovare la forma di partecipare e farlo in modo informato e intelligente. Questo è il segno dei tempi. Benedetta sia la pandemia se sarà servita a riconoscerlo.

 

Per un nuovo ordine mondiale

La relazione di Emanuele Fiano alla Direzione del 26 giugno 2020

 

 

Pubblicato il 26 Giugno 2020 in Esteri

 

Uno sguardo politico che si riprometta oggi di analizzare nel quadro internazionale, il ruolo del nostro paese ed il posizionamento del nostro Partito, non può in alcun modo prescindere da ciò che nel mondo è accaduto in questo 2020.  Questo non perché la vicenda Covid, abbia rivoluzionato di già gli assetti globali nello scacchiere internazionale, o non perché si siano fermati o riaccesi conflitti locali o regionali in ragione della Pandemia, o neanche perché siano cambiati gli equilibri di forza tra i grandi protagonisti; quanto piuttosto perché l’umanità intera, ha potuto toccare con mano le molte fragilità che percorrono l’intero globo; fragilità è termine che richiama bisogno di protezione, che se da un lato ricorda il Protezionismo, di cui parleremo, non va assolutamente confuso con questo, quella diposizione umana pretende da noi centralità nel nostro agire, come domanda sociale, a cui rispondere non solo con scelte di tipo assistenziale ovviamente, ma con un modello di sviluppo di crescita complessiva; fragilità dunque che rischiano di cambiare quegli assetti come in parte sta già avvenendo; fragilità imputabili ai diversi modelli sociali e sanitari, ovvero risultanti dalla resistenza di molti sistemi e leadership alla razionalità scientifica, oppure derivanti dalla percezione concreta della dimensione che il rischio assume nella nostra vita quotidiana, qualora essa non sia improntata, anche, ad una profonda rivisitazione degli stili di vita, dei modelli di sviluppo e delle forme di relazione con l’evoluzione ambientale. Dunque possiamo dire che nello scenario mondiale, la forza della Pandemia ha portato alla consapevolezza di una grande fragilità del mondo, ad una grande richiesta di protezione e ad una grande necessità di sviluppo complessivo.

 

 

 

Questa crisi ha quindi anche una sua dimensione antropologica; l’epidemia che ha minacciato la vita e la salute di miliardi di persone, che ha rivoluzionato le abitudini e lo stile dei rapporti sociali, che ha cambiato non in modo passeggero anche le forme del lavoro e dunque anche in parte la natura e la qualità dei diritti da difendere, muterà in senso permanente le forme del nostro stare nel mondo. E, oltre a questo, la sua dimensione economica è risultata particolare: questa volta, rispetto al 2008 per esempio, la crisi colpisce non già solo la dimensione finanziaria quanto piuttosto proprio l’economia reale, modificando quindi nel concreto modelli di vita personale e delle comunità, da quelle piccole a quelle nazionali e sovranazionali. Tanto per fare un esempio, non sarebbe infatti forse arrivato questo cambiamento delle politiche economiche europee senza lo scoppio tragico della Pandemia.   Qui una fragilità si è trasformata in forza.

Purtuttavia, vi sono, di fronte a questa drammatica cartina di tornasole globale, a questa registrazione del cambiamento che stiamo attraversando, immani emergenze che disegnano invece aspetti non mutati nello scenario mondiale.

Non sono certamente mutati gli effetti di una globalizzazione economica che ha sì meritatamente salvato dalla povertà masse ingenti di popolazione in questi anni, un miliardo di persone si dice, in specie in alcuni grandi paesi, dato che noi non vogliamo affatto dimenticare, ma il risultato di una crescita affidata alla sola competizione totale, continua a risultare drammatico sia per la crescita della diseguaglianza sociale, che della diseguaglianza per aree geografiche, anche per gli effetti della mancanza di regole globali, come ancora per la spinta al protezionismo di intere nazioni. Di questo, peraltro, il conflitto commerciale e non solo, tra Usa e Cina è certamente la punta più avanzata e preoccupante.

Nondimeno lo sono le tendenze fortissime di molti paesi europei al protezionismo dei dazi e delle dogane, la resistenza alle storiche novità delle politiche economiche europee, la volontà di riesumare muri e confini fisici e immateriali.

Possiamo dire anche, quindi, che l’esplosione della Pandemia, ed il suo andamento peculiare, nazione per nazione, sia servita da riscontro del tasso di coincidenza tra livello dei diritti umani e democratici in un paese, e capacità di gestione di grandi emergenze sociali. Ancora adesso mentre ne parliamo, la differente capacità di risposta complessiva di sistemi a Democrazia incerta o a rischio, risulta eloquentemente minore rispetto ai paesi governati in piena democrazia. Grandi paesi i cui regimi mostrano limiti evidenti e gravissimi nella difesa della democrazia e dei diritti sono oggi messi in ginocchio dalla diffusione endemica nel loro paese. Nuovo spunto per una riflessione generale sullo stato di salute della Democrazia nel mondo, anche alla prova della Pandemia globale che ci ha colpiti.

In generale è sicuramente possibile dire che oltre alla débâcle, drammatica, che attraversano molti singoli paesi, anche diverse istituzioni internazionali e sovranazionali, hanno mostrato i limiti della loro capacità di governo globale. Ma ne parlerò dopo.

Abbiamo consegnato un documento del nostro gruppo di lavoro al Segretario (Piero Fassino, Enzo Amendola, Marina Sereni, Lia Quartapelle, Alessandro Alfieri, Andrea Romano, Brando Benifei, Simona Bonafè, Piero De Luca , Gianni Pittella e Luciano Vecchi), dove per esteso vi sono l’insieme di queste brevi considerazioni.

Aggiungo, che la svolta che l’Europa sta percorrendo e per la quale vorrei ringraziare certamente tutti i membri del nostro Governo che si occupano di politica estera ed in particolare Enzo Amendola e Marina Sereni, nonché ovviamente il Commissario europeo Gentiloni, e anche, certamente per i temi che tratteremo, il Ministro Guerini, il cambiamento storico che essa potrebbe introdurre, rafforzando l’Unione, la sua coesione e la sua prospettiva economica, la sua politica sociale, il suo ruolo di baluardo democratico, possono riaffermarne il ruolo mondiale, di cui il multilateralismo ha grande bisogno.

La nostra posizione, saldamente ancorata all’Alleanza atlantica e al multilateralismo, come ad una visione aperta dei mercati, dell’economia e del libero scambio, tradizionalmente condivisa dai paesi del G8, così come dal complesso dei paesi europei, non è più per molte forze politiche, oggi alla guida o all’opposizione in molti paesi occidentali, la cifra della loro impostazione politica.

Populismo, sovranismo, nazionalismo, egoismo, protezionismo, costituiscono un asse di riferimento politico-culturale, che va dagli Usa di Trump all’Ungheria di Orban, e anche l’Italia che disegnerebbero Salvini e Meloni, qualora al governo, rischierebbe una virata radicale in quella direzione. Non va per questo sottovalutato il lavoro che dobbiamo contribuire a compiere perché all’interno del PSE e anche dell’Alleanza progressista mondiale, la nostra linea saldamente europeista e per una nuova Europa, divenga quella comune. A noi ha fatto molta impressione scoprire come Partiti fratelli, appartenenti al PSE, alla guida di paesi cosiddetti frugali, o comunque esistenti in quei paesi, abbiano assunto le posizioni più ostili alla realizzazione del Recovery Fund. Il che dimostra che per quei partiti fratelli conti di più l’appartenenza nazionale piuttosto che l’ideale comune europeo. Una contraddizione in seno all’ide di progresso a cui noi apparteniamo.

Più in generale il nostro Partito dovrà favorire un’iniziativa politica affinché il PSE esca dalla pura dimensione federativa per assumere quella di vero e proprio Partito sovranazionale, asse portante di una nuova Europa. Ulteriore sforzo andrà fatto, affinché il PSE sia capace di allargare il campo delle proprie alleanze a forze diverse dello schieramento progressista, come gli ambientalisti o altro.

Ho scelto delle parole chiave per sintetizzare i punti salienti delle nostre posizioni.

Per la prima parola, metterei al primo posto della nostra scelta di politica internazionale, che è anche carta d’identità del nostro stare nel mondo, l’idea di una visione multilaterale che serva a rafforzare il profilo del nuovo ordine mondiale a cui aspiriamo. C’è una necessità straordinaria di una visione globale e multilaterale del nuovo ordine mondiale; particolarismi, nazionalismo e debolezze, come anche quelle che l’Europa ha mostrato purtroppo negli ultimi anni, fino alla svolta di questi mesi, hanno contribuito ad una paralisi di questa visione multilaterale, con una pericolosa tendenza ad un neo bipolarismo tra Usa e Cina, che mostra di per se i suoi limiti, ma che ha in più nella Presidenza Usa, una costante ritrosia ad ogni forma di condivisione mondiale delle scelte.

Non possiamo dimenticare qui la decisione perlomeno annunciata da Trump di sospendere i finanziamenti all’OMS, ( peraltro dopo molte altre parole sugli accordi o sugli organismi internazionali) e anche dopo aver all’inizio sostenuto che OMS faceva allarmismo, annuncio di Trump che pur se connesso ad una iniziale giusta critica sui ritardi di azione di quella organizzazione e di comunicazione da parte della Cina, porterebbe con sé conseguenze gravi sul piano della condivisione mondiale delle politiche sanitarie.

L’occasione di questo spunto è utile anche per dire la nostra opinione sull’altro gigante mondiale, la Cina: Il gigante cinese ha lanciato da anni una offensiva geopolitica nei confronti dell’Europa, all’interno di una sua iniziativa più vasta e volta a modificare l’ordine internazionale in senso più favorevole ai propri interessi nazionali. Gli strumenti di tale offensiva sono insieme commerciali e politici, ovvero quelli tipici di ogni strategia geopolitica ma che nel caso cinese si tengono insieme in modo molto più stringente e interconnesso. È una strategia che non va demonizzata, come pretende di fare la destra sovranista in Europa e negli Stati Uniti mettendo in conto la radicalizzazione dello scontro strategico e persino militare con Pechino, ma di cui dobbiamo essere ben consapevoli. Perché l’obiettivo del regime cinese è anche quello di conquistare il silenzio o la connivenza della comunità internazionale sulle feroci e massicce violazioni dei diritti umani e civili di cui esso è responsabile: all’interno dei confini nazionali cinesi e ovunque arrivi il suo controllo di sicurezza (come nel caso di Hong Kong, dove Pechino sta già violando gli accordi del 1997 ispirati al principio ‘un paese, due sistemi”). Il nostro impegno, sulla base del valore universale che riconosciamo al tema dei diritti umani e guardando all’obiettivo di preservare il dialogo commerciale e politico con Pechino senza alcuna subalternità ai suoi disegni strategici, dev’essere quello di impegnare la potenza cinese sul piano multilaterale a tutti i livelli. Diversamente dalla strategia conflittuale della destra sovranista, è solo l’ingaggio multilaterale con la Cina che rende possibile sia difendere l’autonomia culturale e politica dell’Europa sia lavorare per ottenere miglioramenti concreti nel rispetto dei diritti umani e civili all’interno dei confini cinesi e nelle aree sottoposte ai suoi strumenti di sicurezza.

E’ chiaro, tornando alla visione multilaterale, che non potrà esserci nessuna ripresa senza una grande spinta alla cooperazione internazionale e all’integrazione, aumentando risorse e compiti delle istituzioni internazionali, coordinando le attività nel campo sanitario, della ricerca medica, della prevenzione e della cura, condividendo risultati e rimedi, sostenendo la mobilità globale delle persone, delle merci e della conoscenza. Pensate al vaccino di Oxford, come emblema di questa visione, sviluppato in Italia e Gran Bretagna, prodotto dall’azienda anglo-olandese AstraZeneca e distribuita dall’indiana Serum. Detto questo sicuramente le culture e le organizzazioni internazionaliste hanno mostrato anche i loro difetti, così come l’ONU mostra i suoi limiti, cosi come altri organismi regionali come la Lega Araba o il Nafta sembrano paralizzati da tensioni e conflitti

Si è parlato negli ultimi anni, in alcune sedi, di fronte alla crescita delle pulsioni isolazioniste, di fine della globalizzazione; a me non pare affatto, credo invece che la sfida che ci attende sia quella di dare una guida democratica e condivisa alla globalizzazione, un ordine al mondo globale, in una direzione di salvaguardia del multilateralismo, come italiani e come europei.

C’è una parola chiave nella tradizione di sinistra della politica internazionale, questa parola è pace, è la seconda parola, la tradizione della sinistra e dei riformismi a cui noi apparteniamo ha sempre frequentato questo termine come stella polare. La pace è sviluppo, promozione dei diritti, dignità della persona umana, regola di convivenza, giustizia, e benessere. La pace richiede strategie globali. Non può essere solo enunciata.

Il mondo, anche quello più vicino a noi conosce invece continui conflitti, conflitti irrisolti, nuovi conflitti, secondo Acled dall’inizio dell’anno abbiamo avuto 46675 eventi di scontro militare e non nel mondo, con 52898 morti, in diminuzione del 28% rispetto all’anno scorso.  In un anno 110.000 eventi e 129.000 morti. Se guardate la cartina dei conflitti in corso, vedrete esclusi dalla mappatura l’Europa, a parte la Grecia, e il continente nord americano, nonché la Cina. Se guardo dunque quella carta, nella quale l’Europa è bianca, ho la dimostrazione lampante che la fondazione dell’Unione europea ha garantito ai suoi paesi, pace e prosperità, e dunque che il ruolo storico di cooperazione ed integrazione viene confermato dalla storia, non il contrario.

Noi crediamo che solo il negoziato, il compromesso, il dialogo tra nemici, possano garantire questo valore, che va difeso anche prendendo parte come l’Italia fa con i propri militari e con le forme di cooperazione alle operazioni di peacekeeping e peaceenforcing guidate dalle istituzioni internazionali, e dall’ONU.

Noi mettiamo nel nostro impegno per la pace tutto quello che riguarda lo sviluppo personale e collettivo dell’essere umano, ciò significa investire nello sviluppo globale e locale, garantire crescita, accessibilità, opportunità, istruzione, tutto questo significa lavorare per la pace. Quando dico dialogo con il nemico, intendo un valore molto chiaramente esplicitato dallo scrittore israeliano Amos Oz. Perché la pace, ad ogni angolo del mondo si fa solo con il nemico, con l’amico è inutile. Per questo noi dobbiamo recuperare l’idea di compromesso, come enunciava Oz come valore positivo, fondante.

Per lo scopo della pace noi dobbiamo promuovere uno sviluppo umano che consenta ad ogni donna e uomo di vivere nella dignità nel rispetto dei suoi diritti e delle sue aspirazioni. Sostenere lo sviluppo economico e sociale dei Paesi che lottano per uscire dalla marginalità. Asserire con forza che ogni uomo e ogni donna sono titolari di diritti irrinunciabili e inalienabili.

Il mondo vive di una pluralità di identità, culture, tradizioni, religioni che devono essere riconosciute e rispettate e le loro specificità non possono, mai, essere invocate o utilizzate per violare o voler annientare la specificità dell’altro, o per giustificare violazioni di diritti che appartengono ad ogni persona in ogni luogo del mondo.

Vuol dire allora che noi possiamo accettare qualsiasi forma di pensiero? No, ovviamente, il perseguimento della pace, significa ovviamente anche combattere ogni forma di discriminazione, violenta o meno, di razzismo, di ideologia della separazione e della superiorità razziale, etnica o religiosa, e per l’affermarsi della difesa della libertà secondo le regole consolidate della Democrazia liberale. Lo ribadisco qui, perché la crisi di fiducia nella Democrazia, che indico come terza parola, liberale, guida purtroppo oggi grandi paesi del mondo, e l’appello alla Democrazia illiberale, e in alcuni casi anche a forme pericolose di democrazia diretta,  e dunque ad un restringimento degli strumenti della rappresentanza, della libera espressione del pensiero, della partecipazione popolare delegata, va diffondendosi, purtroppo, come dimostrano le note affermazioni di Vladimir Putin e di Orban per esempio, o la battaglia sull’indipendenza della Magistratura polacca che si sta ancora combattendo proprio alla vigilia di elezioni presidenziali.

Per il mantenimento o il raggiungimento della pace serve però anche e sempre, come dicevamo prima, la battaglia per una guida democratica alla globalizzazione, dunque, visione multilaterale, pace, democrazia e diritti, sono ovviamente legati, ed è questa la strada che contrasta anche la vena di chi vorrebbe assenza di regole comuni, ovvero il protezionismo puro e semplice; per questo, noi con convinzione, appoggiamo la strada che la comunità internazionale ha per esempio intrapreso con il Protocollo di Kyoto e gli Accordi di Parigi per affrontare il climate change; con il Tribunale Penale Internazionale per perseguire genocidi e gravi violazioni dei diritti umani; con il Trattato di non proliferazione nucleare per  fermare la corsa al riarmo; con i Trattati di Libero Scambio – come gli accordi negoziati dalla UE con Giappone, Canada, Mercosul – per evitare guerre commerciali e neoprotezionismi. Nella stessa direzione è indispensabile oggi riformare e potenziare le istituzioni dedicate a grandi questioni globali: l’Organizzazione mondiale del Commercio (WTO/OMC) per garantire regole e standard omogenei, per assicurare mercati aperti e pari accessibilità, per contrastare ogni forma di sleale concorrenza; l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) per una tempestiva prevezione e lotta alle pandemie; l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO/OIT) per una effettiva applicazione delle Convenzioni a tutela dei diritti del lavoro e contro le troppe forme di dumping sociale. Non posso però non dire qui, che ogni organismo di governo mondiale necessita con evidenza di una riforma significativa del proprio funzionamento istituzionale. Penso all’ONU, alle sue agenzie, al Consiglio di Sicurezza, e anche alle grandi agenzie di controllo economico come FMI e Banca Mondiale che necessitano di essere investite di un più chiaro e trasparente mandato orientato allo sviluppo nel senso indicato prima.

C’è purtroppo una quarta parola che va ricordata per articolare il nostro sguardo. Guerra. Vicino a noi l’instabile mediterraneo allargato, continua ad offrire purtroppo al mondo focolai pericolosi di guerra. Mentre nuovi protagonisti si sono ormai insediati con forza nel quadrante, come Russia e Turchia. Il conflitto in Siria di questi anni ha colpito più di metà della popolazione, altrettanto si può dire per il conflitto in corso nello Yemen, parimenti terribile con maggiori implicazioni dirette per l’Italia il conflitto in Libia, ma uscendo dal Mediterraneo e rimanendo vicino all’Europa non possiamo dimenticare lo scontro Russia/Ucraina, così come anche la minacciosa Iran sempre pronta ad annunciare la volontà di annientamento di Israele, cosi come l’irrisolto conflitto Israelo/Palestinese. (qui permettetemi una nota personale io rimarrò sempre fedele alla storica formula cara agli accordi di Oslo di due stati per due popoli, e due democrazie, con la linea del compromesso situata nello scambio di territori in cambio di sicurezza, il mutuo riconoscimento dei due diritti statuali e la rinuncia ad ogni forma di violenza, nella consapevolezza che in quel territorio si scontrano due diritti e non un diritto ed un torto)

Le guerre civili, le instabilità politiche, che scuotono Mediterraneo e Medio Oriente chiamano l’Europa ma anche noi direttamente, ad assumere un attivo ruolo di pace.

Per quanto riguarda la situazione in Libia noi dobbiamo affermare che

– non esiste una soluzione militare alla crisi libica che solo potrà trovare soluzione con gli strumenti del negoziato politico tra tutte le componenti della società libica

– l’Italia si riconosce nelle deliberazioni delle Nazioni Unite e sostiene l’attività dei suoi inviati per una soluzione politica della crisi

– l’Italia sostiene il Governo nazionale presieduto dal Primo ministro Serraj, unico esecutivo riconosciuto dalle Nazioni Unite.

– pieno sostegno deve essere assicurato alla missione europea Irini incaricata di garantire il rispetto dell’embargo sulla fornitura di armi e strumenti bellici.

– l’assistenza alla Guardia costiera libica deve essere finalizzata alla formazione del personale in funzione del contrasto al traffico di esseri umani, nel rispetto dei diritti umani e delle Convenzioni internazionali, e in coordinamento con le stesse attività in materia affidate alla missione europea Irini;

– In questa direzione, preso atto della disponibilità del Governo libico di accordo nazionale e della possibilità di avviare il negoziato il prossimo 2 luglio, e anche alla luce delle mutate condizioni sul terreno, è per noi non rinviabile la modifica del relativo Memorandum d’intesa stipulato tra Italia e Libia nel 2017.

– è aspetto imprescindibile il rispetto dei diritti umani verso profughi e migranti presenti in Libia e per questo i centri legali di permanenza devono essere aperti al controllo dell’Unhcr e dell’Oim e I centri illegali devono essere smantellati

– corridoi umanitari vanno attivati immediatamente, con la collaborazione della UE, per l’evacuazione e l’accoglienza di donne e bambini oggi trattenuti nei centri di permanenza.

– va sostenuta ogni iniziativa utile ad alleviare le sofferenze della popolazione civile, come lo sminamento di edifici civili e del territorio a cui l’Italia è pronta a concorrere

– l’azione di ONG e organizzazioni umanitarie va riconosciuta come preziosa per il salvataggio di vite umane, superando atteggiamenti e misure di profilo puramente punitivo

Per questo chiediamo al Governo di agire nei rapporti bilaterali, nelle sedi multilaterali e nell’Unione Europea sulla base degli obiettivi sopraindicati.

E dobbiamo altresì, in generale, dichiararci contrari ad atti unilaterali che precludano una soluzione negoziata e condivisa del conflitto israelo-palestinese; sostenere i movimenti di società civile che, dal Libano al Sudan all’Algeria, rivendicano diritti e rigenerazione democratica; promuovere pacificazione e stabilizzazione nel Corno d’Africa; dare stabilità all’Irak e alla sua struttura plurinazionale e plurireligiosa;

questi Conflitti e queste criticità richiedono il rilancio di una strategia euromediterranea che offra ai Paesi del bacino sistemi preferenziali negli scambi commerciali, promozione di investimenti, sostegno alla implementazione di politiche sociali, accompagnamento nel rinnovamento delle istituzioni democratiche e dello stato di diritto. E una politica condivisa dei flussi migratori. In questo ambito va anche inserita la nostra relazione con l’Egitto per il quale tema abbiamo proposto alla Direzione il seguente OdG.

Il Partito Democratico,

ribadendo che:

• la difesa dei diritti umani in ogni luogo del mondo fa parte indissolubile della nostra identità politica e dei principi base della nostra visione del mondo.

• primaria e irrinunciabile è la ricerca della verità sulla morte di Giulio Regeni.

• altrettanto improrogabile è la scarcerazione di Patrick Zaki.

• l’Egitto non può sottrarsi alla responsabilità di accertare la verità giudiziaria sull’omicidio di Giulio Regeni e per questo serve un deciso cambio di passo nella collaborazione da parte delle autorità egiziane.

 L’Italia ha sin dal primo momento subordinato ogni passo in avanti sul terreno politico diplomatico ad altrettanti passi fatti sul terreno della collaborazione giudiziaria per individuare e colpire i colpevoli.

· Purtroppo con il precedente governo non c’ è stato nessun passo in avanti.

 

• la ricerca della verità è responsabilità di tutti gli attori che possono contribuire a fare luce sull’omicidio di Giulio Regeni, compreso il governo britannico

• imprescindibile è la ripresa immediata della collaborazione giudiziaria da parte dell’Egitto, implementando le rogatorie internazionali per dar corso agli interrogatori oltre ad ogni altro atto utile all’accertamento dei responsabili dell’omicidio di Giulio Regeni ed al loro possibile giudizio in un regolare processo a partire dall’incontro tra le procure che avverrà il prossimo 1 Luglio

· il rapporto con il Governo di Al Sisi rientra in un quadro più generale di relazioni con l’Egitto, Paese che gioca un ruolo di stabilizzazione del Mediterraneo Orientale, nel contrasto al terrorismo, nelle politiche migratorie ed energetiche.

Noi non rinunceremo mai a qualsiasi atto utile alla consegna dei responsabili dell’omicidio di Giulio Regeni alla giustizia

– il rispetto dei diritti umani è valore fondativo dell’Unione Europea che deve considerare proprio obiettivo l’accertamento della verità sul caso Regeni

– impegna il Governo italiano ad attivarsi con la massima attenzione possibile, anche attraverso il coinvolgimento della UE, per ottenere immediatamente atti concreti per l’accertamento della verità sull’omicidio di Giulio Regeni e la consegna dei suoi responsabili alla giustizia

– impegna il PD a discutere con la maggioranza e il governo la possibile sospensione degli accordi di fornitura militare in assenza di risposte immediate e concrete sull’uccisione di Giulio Regeni.

(Emanuele Fiano, Francesco Verducci, Anna Ascani, Nicola Oddati, Alessandro Alfieri, Debora Serracchiani, Maurizio Martina, Mapi Pizzolante, Giuditta Pini)

 

La proiezione mediterranea deve saldarsi ad una innovativa attenzione all’Africa, che a fine secolo raggiungerà 4 miliardi di abitanti: il loro destino è una delle grandi sfide del XXI secolo, resa ben evidente dell’attenzione che Cina, India, Turchia, Brasile, Arabia Saudita e altri players dedicano al continente.

Ad un’Africa percorsa da dinamiche di segno opposto – paesi ricchi di materie prime con alti tassi di crescita e aree afflitte da fame, malattie endemiche, degrado ambientale – l’Europa può offrire non solo i necessari investimenti infrastrutturali, ma anche bisogni altrettanto essenziali: strutture educative per una immensa popolazione giovanile; servizi sanitari e sociali, in primo luogo per infanzia e donne; promozione di sistemi democratici stabili, apparati pubblici affidabili, diritti civili e umani oggi spesso negati o oppressi; sostegno a processi di cooperazione e integrazione regionali.

Così come un Migration Compact Euro-Africano, promosso da Unione Europea e Unione Africana, e accordi bilaterali tra paesi europei e paesi africani, costituirebbero strumenti preziosi per una gestione condivisa dei flussi migratori e per un efficace contrasto al traffico di esseri.

Europa, Mediterraneo e Africa sono sempre più un unico cosmo investito da problemi comuni e da interessi comuni che richiedono soluzioni comuni. A ciò deve dare concretezza e visibilità un forte rafforzamento delle relazioni tra Unione Europea e Unione Africana e una più rapida implementazione dell’Africa Plan lanciato dalla UE.

Una forma di conflitto particolarmente difficile da contrastare è quello asimmetrico legato al terrorismo di matrice jihadista, alla vicenda del Daesh o Isis, più in generale ad una riflessione sul rapporto tra Europa e mondo arabo-islamico, o tra occidente e mondo arabo-islamico, riflessione alla quale non voglio sfuggire, ma che volentieri tratterei in una sessione specifica. Non penso di poter oggi trattare un argomento di tale portata anche se non penso si possa omettere un ragionamento  su questo nel nostro Partito.

Quinta parola: Europa.

Noi siamo già, coerentemente e coscientemente dentro una nuova fase dell’Europa. Ce lo dicono i risultati già raggiunti in questi mesi di trattative per gli strumenti comuni di risposta alla crisi del Covid e quelli per i quali stiamo lavorando.

Alle spalle abbiamo un cammino di integrazione che ha consentito di realizzare traguardi economici, sociali e politici che nessuna nazione da sola avrebbe potuto realizzare.

L’integrazione europea ci ha consentito i traguardi di cui abbiamo parlato, altrimenti irraggiungibili.

Senza l’euro – la seconda moneta del pianeta, utilizzata da 330 milioni di cittadini di diciannove nazioni – e senza le politiche della Bce le economie dei paesi più fragili, tra cui l’Italia, sarebbero state via via inesorabilmente erose nella loro qualità e solidità dalle svalutazioni competitive.

Ci sono molte cose di cui andare orgogliosi e che dobbiamo rivendicare ogni qualvolta ci viene offerto il miraggio di un neonazionalismo miracoloso. Dobbiamo essere orgogliosi degli accordi di Schengen, di norme comunitarie che pongono l’Europa all’avanguardia nelle politiche ambientali, nel contrasto al climate change, nella promozione delle energie rinnovabili e nella valorizzazione delle biodiversità, dei fondi strutturali hanno consentito a Regioni e a Comuni investimenti e coesione sociale, di Erasmus ha reso 9 milioni di ragazzi protagonisti della costruzione di una comune identità.

Della cultura democratica europea è il principale bastione di tutela dei diritti civili e umani e per il loro rispetto nei  troppi luoghi dove sono negati e repressi.

Sono risultati straordinari che tuttavia non corrispondono all’immagine che della UE ha una parte dei cittadini europei.

Una percezione negativa di tipo simile, che questo continente ha già conosciuto, quando la frustrazione di masse ingenti di europei, la loro paura del futuro, la rabbia per la loro condizione li convinse a seguire pericolosi pifferai magici criminali.  Oggi quella percezione è di nuovo legata alla misura della propria condizione materiale, alla ristrettezza del proprio orizzonte, alla fragilità dei propri diritti, legati anche alla rigidità delle politiche finanziarie e di bilancio dell’Unione vissute come causa di bassa crescita e riduzione di lavoro, consentendo a partiti populisti e movimenti antieuropei di accrescere i loro consensi facendo della lotta all’integrazione europea la loro principale bandiera.

Noi sappiamo che non è cosi, ma questo è lo sfondo. Che spiega buna parte del successo dei populismi nazionalistici. Oggi e sempre.

Dalle sue difficoltà l’Unione Europea non uscirà con meno Europa, ma soltanto con un rilancio in avanti delle politiche di integrazione e un cambio di passo radicale e visibile. Dopo l’Europa dei Trattati di Roma, dopo l’Europa di Maastricht e dell’euro, serve una “terza fase costituente” dell’Unione Europea ( Stati uniti d’Europa ed elezione diretta del Presidente, da proporre al PSE) che realizzi un salto di qualità nella integrazione, dia all’Unione un suo profilo sovrano, accresca tempestività e efficacia delle sue politiche, conquisti consenso e fiducia dei cittadini. Un salto di qualità che investa ogni aspetto della vita della UE:

 coesione e solidarietà siano pietra angolare di ogni azione europea.

 

 alla centralità degli equilibri di bilancio si sostituisca una politica economica espansiva che promuova investimenti, crei lavoro, riconosca flessibilità finanziaria, allenti vincoli stabiliti in contesti passati

 

 una vera Unione Economica: a euro e mercato unico si accompagnino l’armonizzazione delle politiche fiscali e delle regole di investimento, una vera unione bancaria, una politica europea della ricerca e dell’innovazione tecnologica, un grande piano di modernizzazione infrastrutturale nei trasporti, nell’energia, nel digitale, impegnativi programmi europei di formazione. La riconversione ecologica della produzione e dei consumi costituisca l’asse centrale di un nuovo modello di sviluppo green, sostenibile e equo.

 

 l’UE disponga di “risorse proprie”, attinte non solo da un più alto contributo dei paesi membri al bilancio comunitario, ma anche da forme di fiscalità – carbon tax, una web tax, prelievi sulle transazioni finanziarie transnazionali e sulle attività svolte nei paradisi fiscali – e ricorrendo al mercato dei capitali con l’emissione di eurobond finalizzati a finanziare precisi programmi di investimento in Green economy, alta formazione, infrastrutture strategiche, intelligenza artificiale.

 gli effetti recessivi di Covid19 siano affrontati con uno sforzo finanziario straordinario, rafforzando ulteriormente i poteri di iniziativa della BCE e della BEI, utilizzando i Fondi MES senza condizionalita’ e dando vita ad un Recovery Fund dotato di una ampia disponibilità finanziaria.

 promozione di biodiversità, valorizzazione della tipicità dei prodotti, tutela della fertilità e rinnovabilità delle colture caratterizzino la politica agricola comune

 si dia centralità al pilastro sociale e ai Fondi strutturali si accompagnino strumenti di tutela del lavoro – come Sure – e armonizzazione delle politiche sanitarie, di assistenza sociale e di sostegno a famiglie e persone fragili

 l’Europa sia all’avanguardia nella ricerca scientifica, nell’innovazione tecnologica e nelle nuove frontiere dell’intelligenza artificiale

 la libera circolazione solleciti l’adozione di norme comuni sui diritti di cittadinanza

 l’immigrazione non può essere affidato soltanto alle singole politiche nazionali e si adottino comuni politiche di asilo, accoglienza e integrazione e si armonizzino le politiche nazionali in materia di cittadinanza e diritti

 una effettiva Politica Estera e di Sicurezza Comune, rafforzando il ruolo dell’Alto Rappresentante, superando il vincolo dell’unanimita’, parlando con una sola voce e agendo con una sola mano per essere attore globale e promotore di pace, soluzioni negoziate ai conflitti, cooperazione economica e sociale, stabilità e sicurezza

 una Politica comune di Difesa, con la progressiva integrazione dei sistemi logistici, degli apparati militari, dell’industria degli armamenti e dello spazio

 alle sfide della competizione globale si risponda con una politica commerciale europea – peraltro già oggi comunitarizzata – che contribuisca a scambi e mercati effettivamente aperti e con standard e accessibilità equivalenti.

Non meno decisivo è superare la lontananza, e talora la estraneità, dei cittadini, con riforme delle istituzioni europee attraverso relazione permanenti e strutturate tra Parlamenti nazionali e Parlamento Europeo, l’elezione diretta da parte dei cittadini del Presidente della Commissione, l’unificazione in un’unica figura di Presidente della Commissione e Presidente del Consiglio Europeo, la presentazione agli elettori di liste europee transnazionali.

Ineludibile è affrontare il nodo della sovranità europea, riducendo la intergovernatività a vantaggio di una maggiore comunitarizzazione e di un ruolo autonomo della Commissione e di piena valorizzazione del Parlamento Europeo.

Un’Unione più tempestiva ed efficace impone una visibile riforma dei suoi meccanismi di decisione – superando il vincolo dell’unanimità -, una riduzione di prescrizioni normative e apparati burocratici, una semplificazione di procedure e un’effettiva attuazione dei principi di sussidiarietà’.

L’Eurozona è oggi lo spazio economico e politico per un deciso salto in avanti nella messa in comune di politiche strategiche, dotandolo di organi – quali un ministro europeo dell’Economia – che diano sostanza a politiche comuni e integrate. L’Eurozona sia il primo ampio e forte nucleo di un’Unione Europea che progredisca nella sua unità politica – aperta anche a successive adesioni – e mantenga all’orizzonte la prospettiva federale.

Infine, si impone secondo me, una riflessione su di un’ultima parola, Occidente.

Non devo chiarirvi che l’Italia è saldamente radicata nell’Occidente e nei suoi valori di libertà, democrazia, giustizia e nel rapporto transatlantico da più di sessant’anni rappresenta il pilastro fondamentale della comune identità occidentale.

Agli Stati Uniti e al Canada ci legano vincoli profondi: la presenza di forti e riconosciute comunità di origine italiana; il sacrificio di migliaia di ragazzi caduti in Europa per la nostra libertà; la comune appartenenza alla NATO, presidio essenziale della libertà e della sicurezza europea; la comune responsabilità, come membri del G7, di assumere insieme politiche concertate per una globalizzazione regolata; l’impegno a ridefinire strategie per far fronte a nuove sfide: il terrorismo, la cybersecurity, gli armamenti spaziali, l’emergenza energetica, i conflitti commerciali.

Nonostante l’amministrazione Trump ricorra a barriere protezionistiche, guardi all’Unione Europeo come un concorrente più che come un alleato, manifesti disinteresse verso la NATO, gli Stati Uniti restano partner economico e politico essenziale.

Così come strategici sono i rapporti di collaborazione in campo scientifico, nella ricerca, nelle nuove frontiere della tecnologia.

Un mondo libero e giusto ha bisogno di un’America democratica, che rifugga dalla tentazione di esercitare una leadership solitaria per essere invece attore di politiche di cooperazione e di impegno multilaterale. E l’Italia vuole essere in ciò un sicuro e leale alleato.

Saldi e intensi sono i rapporti con il Canada, la cui multiculturalità consente intensi rapporti economici, culturali e politici, resi oggi più solidi dall’Accordo di Libero Scambio sottoscritto con l’Unione Europea, che offre nuove e maggiori opportunità di interscambio e maggiori tutele alle esportazioni e agli investimenti italiani nel Paese.

Questa nostra stabile ed insostituibile appartenenza non ci deve impedire una riflessione sui limiti dell’azione dell’Occidente nei confronti del mondo. E’ del ruolo dell’Occidente che vorrei parlarvi, c’è un tema di crisi dell’egemonia dell’Occidente di cui bisognerebbe parlare, pur nella saldezza della nostra appartenenza., poco più di un secolo fa l’Europa rappresentava il 25% della popolazione mondiale, oggi meno del 10. Verso il 7%. Verso il 2050 Europa Usa e Canada varranno il 12% della popolazione mondiale, l’Asia il 60%, l’Africa il 20%. La nostra età media si avvicina ai 44 anni, in Asia 30, in Africa 19. Nel 1980 la ricchezza del G7 era pari al alla metà della ricchezza con tutti paesi europei del 65%. Oggi vale la meta e la Cina è passata dal 2 al 20%.

Il rischio più grave che io vedo è che l’Occidente viva una vecchiaia ingenerosa e chiusa per cercare di riaffermare la propria potenza senza riuscirci.  Così sarebbe se rinunciassimo ai nostri valori, il mondo occidentale deve fare i conti con le nuove forze in campo in una realtà nella quale non avremo più un ruolo dominante rilancino democrazia libertà diritti, dobbiamo essere noi a civilizzare la globalizzazione. Lavorando per una guida democratica del nuovo ordine mondiale.

 

 

 

 

Onu, intervento del Presidente Draghi

 al "Global Covid-19 Summit".

Governement.it- Mario Draghi - (22 settembre 2021)-ci dice :

 

Il Presidente del Consiglio, Mario Draghi, è intervenuto in videoconferenza alla sessione conclusiva del “Global Covid-19 Summit: Ending the Pandemic and Building Back Better Health Security to Prepare for the next”, organizzato nell’ambito della 76esima Assemblea generale delle Nazioni Unite.

Segretario Blinken,

Signore e Signori,

Vorrei ringraziare il Segretario Blinken per aver presieduto questa riunione e per avermi dato l'opportunità di condividere alcune osservazioni conclusive.

La cooperazione globale è essenziale per porre fine a questa pandemia e prevenire future emergenze sanitarie.

Il Global Health Summit tenutosi lo scorso maggio a Roma è un buon esempio di ciò che un efficace multilateralismo può ottenere.

Paesi e aziende farmaceutiche hanno promesso dosi di vaccini e finanziamenti per i paesi vulnerabili.E nella Dichiarazione di Roma ci siamo impegnati in una serie di principi comuni per essere meglio preparati ad affrontare la prossima minaccia per la salute.

Da allora abbiamo fatto grandi progressi.

Più di 2,5 miliardi di persone sono completamente vaccinate in tutto il mondo.

E quasi un miliardo in più sono in parte vaccinati.

Tuttavia, come molti altri hanno notato in questa discussione, stiamo ancora assistendo a grandi disuguaglianze nella disponibilità di vaccini in tutto il mondo.

I meccanismi multilaterali, come ACT-Accelerator e COVAX, rimangono i modi più efficaci per fornire vaccini in modo efficiente e per costruire la capacità necessaria per somministrarli.

Dobbiamo mantenere gli impegni che abbiamo fatto a questi programmi ed essere pronti a farne di più generosi.

Dobbiamo anche offrire un adeguato supporto logistico per garantire che i vaccini raggiungano coloro che ne hanno più bisogno.

Perché, con l'espansione della capacità produttiva, la sfida principale sarà come trasportare i vaccini, non come produrli.

Al Global Health Summit, l'Italia si è impegnata a donare 15 milioni di dosi entro la fine dell'anno, principalmente attraverso COVAX.

Quasi la metà di questi è già stata distribuita.

Oggi sono lieto di annunciare che siamo pronti a triplicare i nostri sforzi.

Doneremo 30 milioni di dosi aggiuntive entro la fine dell'anno, raggiungendo i 45 milioni.

Mentre lavoriamo per porre fine a questa pandemia, dobbiamo migliorare la nostra preparazione per quelle future.

Abbiamo bisogno di espandere la capacità di produzione dei vaccini e di tutti gli strumenti medici nel mondo, e soprattutto nei paesi più vulnerabili.

Sosteniamo il piano dell'Unione Europea di destinare 1 miliardo di euro per sviluppare una serie di poli produttivi regionali in Africa e favorire il trasferimento tecnologico.

Accogliamo inoltre con favore la nuova agenda UE-USA per promuovere i nostri sforzi comuni per la vaccinazione globale.

Uno dei punti deboli della nostra risposta globale alla pandemia di Covid-19 è stato l'insufficiente coordinamento tra le autorità sanitarie e finanziarie. 

In qualità di Presidenza del G20, intendiamo istituire il Global Health and Finance Board.

Questo forum strutturato migliorerà la cooperazione globale nella governance e nel finanziamento della prevenzione, preparazione e risposta alle pandemie.

Sosterrà la collaborazione tra il G20, l'OMS, la Banca Mondiale e altre organizzazioni internazionali. 

Accogliamo con favore la proposta statunitense di istituire un Fondo per intermediari finanziari.

Questa iniziativa sarebbe completamente complementare con il Global Health and Finance Board.

La salute è un bene pubblico globale e deve essere preservata ovunque.

Consentitemi di ringraziare ancora il presidente Biden per la sua guida nella promozione di questo evento.

Siate certi che il prossimo vertice del G20 a Roma si baserà sui risultati di oggi.

Grazie.

 

 

 

Una costituzione mondiale:

da utopia a realtà?

Avvenire.it- Vittorio Possenti - (23 aprile 2020)- ci dice :

(Juliana Kozoski).

Ritorna di attualità il tema di un governo mondiale, sorto subito dopo la guerra: il bene comune universale non può essere assicurato da una responsabilità politica frammentata. Un cammino però arduo.

 Le gravi difficoltà planetarie, che non si riducono a quelle attuali della pandemia, e che sono messe impietosamente allo scoperto dal processo di globalizzazione dominato da tecnica e finanza, fanno affiorare il tema assolutamente primario di un governo politico della famiglia umana, in nome della comune umanità che non tollera discriminazioni, rifiuto della solidarietà e della fratellanza. Riemergono le questioni dell’unità politica mondiale, della pace perpetua, di istituzioni comuni aventi responsabilità a raggio mondiale. Tra innumerevoli ostacoli avanza la consapevolezza di un bene comune planetario dell’umanità e di beni comuni, che devono esseri assicurati allo stesso livello: è l’immensa questione di un’autorità politica mondiale o, come anche si dice, di una costituzione mondiale.

Pochi mesi fa si è formata in Italia l’associazione “Costituente terra” che persegue tale obiettivo. Domenica 5 aprile l’inserto “La lettura” del “Corriere” ha ospitato un articolo di Sabino Cassese dal titolo “Il sogno di una costituzione mondiale”, in cui l’attenzione si rivolge in specie al tragitto politico e intellettuale di Giuseppe Antonio Borgese, che dall’Italia si trasferì in Usa negli anni ’30.

Borgese fece parte sin dall’inizio del comitato per la redazione di una costituzione mondiale, presieduto dal presidente dell’università di Chicago, Robert Maynard Hutchins, e composto da poco più di dieci membri che lavorò dal novembre 1945 al luglio 1947, preparando il progetto di una costituzione mondiale. Il gruppo tenne rapporti con persone esterne tra cui Jacques Maritain e Luigi Sturzo. Il testo fu pubblicato in varie lingue, e in italiano dalla Mondadori nel 1949, ma non ebbe grande accoglienza: era già cominciata l’epoca della guerra fredda.

Il lavoro non fu però inutile. Nel 1949 Maritain tenne alcune lezioni presso l’università di Chicago che formarono poi L’uomo e lo Stato, uno dei classici del pensiero politico novecentesco. In quest’opera l’autore dedica un capitolo a “Il problema dell’unificazione politica del mondo” che si riassume negli obiettivi di una pace permanente, nel superamento della sovranità degli Stati (severamente criticata) e nella formazione di un’autorità politica mondiale, garante della pace e della giustizia tra i popoli.

Non presento qui l’elaborazione maritainiana, che si differenzia alquanto da quella kantiana sulla pace perpetua. Mi interessa un altro elemento d’immenso rilievo: nel promulgare nell’aprile 1963 l’enciclica Pacem in Terris , Giovanni XXIII dedica profonda attenzione alla messa in opera di Poteri pubblici e Istituzioni a raggio planetario. Nella parte IV del testo il papa scrive: «Il bene comune universale pone ora problemi che non possono essere adeguatamente affrontati e risolti che ad opera di Poteri pubblici aventi ampiezza, strutture e mezzi delle stesse proporzioni; di Poteri pubblici cioè che siano in grado di operare in modo efficiente su piano mondiale. Lo stesso ordine morale quindi domanda che tali Poteri vengano istituiti».

La prospettiva è stata rilanciata da Benedetto XVI nell’enciclica Caritas in veritate (2009). È impensabile che la soluzione ai problemi globali che sono ulteriormente cresciuti possa essere trovata senza un grande progetto che conduca ad un’autorità politica globale: «Urge la presenza di una vera Autorità politica mondiale, quale è stata già tratteggiata dal mio Predecessore, il Beato Giovanni XXIII. Una simile Autorità dovrà essere regolata dal diritto, attenersi in modo coerente ai principi di sussidiarietà e di solidarietà, essere ordinata alla realizzazione del bene comune, impegnarsi nella realizzazione di un autentico sviluppo umano integrale ispirato ai valori della carità nella verità. Tale Autorità inoltre dovrà essere da tutti ricono- sciuta, godere di potere effettivo per garantire a ciascuno la sicurezza, l’osservanza della giustizia, il rispetto dei diritti». Essa, che oltrepassa ma non cancella il livello dello Stato e/o quello di unioni politiche regionali, è necessaria in quanto esiste un bene comune universale che non può essere assicurato da una responsabilità politica frammentata.

Questo dislivello strutturale è forse la più grave causa del disordine mondiale. Il cammino verso un’autorità politica mondiale, da non intendersi come un Superstato e ancor meno come un impero mondiale, ma ricorrendo ai principi di sussidiarietà e solidarietà, è un itinerario lungo e arduo. Nonostante tutto dovrebbe imporsi se l’umanità globalizzata per il bene e il male, intenderà sopravvivere. Intanto un certo cammino può essere compiuto, e già lo è stato, mediante la creazione di organismi mondiali in campi fondamentali quali l’economia, la salute, il commercio, il cibo: Fmi, Banca Mondiale, Wto, Oms, Fao ne sono esempi, mentre sull’ambiente bisognerebbe procedere a istituirlo. Non ci si inganni però, in quanto tali organismi spesso sono indirizzati dalle potenze dominanti. Il loro arrancante e precario funzionamento, in specie durante le crisi più gravi, è uno dei motivi della paura e della chiusura che colpiscono popoli e nazioni, conducendoli al nazionalismo e al sovranismo sotto la spinta di capi politici incapaci di guardare oltre.

Su questi nuclei il compito dell’Europa dovrebbe essere primario e l’appello di papa Francesco il giorno di Pasqua è chiaro. L’Europa è risorta dopo il 1945 grazie a un intento di unione per superare le rivalità passate: «È quanto mai urgente, soprattutto nelle circostanze odierne, che tali rivalità non riprendano vigore, ma che tutti si riconoscano parte di un’unica famiglia e si sostengano a vicenda. Oggi l’Unione Europea ha di fronte a sé una sfida epocale, dalla quale dipenderà non solo il suo futuro, ma quello del mondo intero».

 

Da anni le ragioni del multilateralismo e dell’universalismo si sono gravemente indebolite. Alcune frasi del discorso del presidente Trump all’assemblea generale dell’Onu (24 settembre 2019) rappresentano il clima che si diffonde: «Il futuro non appartiene ai globalisti. Il futuro appartiene ai patrioti. Il futuro appartiene alle nazioni sovrane e indipendenti», chiaro invito a far pesare la propria forza sulle ragioni dell’equilibrio, e rilancio del primato dello Stato nazionale. È dunque ancor più necessario riprendere il progetto di un “costituzionalismo globale”, capace di creare istituzioni sovranazionali, e infine mondiali, di garanzia. Esse avrebbero il compito di controllare l’implementazione dei patti internazionali e del relativo diritto in ambiti vitali come l’ambiente, la corsa agli armamenti, l’istruzione, i diritti sociali, la lotta alle diseguaglianze, il contrasto alla tratta di esseri umani e alla criminalità internazionale. Qualcosa di analogo ai compiti svolti dall’Oms e dalla Fao nei loro campi rispettivi.

Jürgen Habermas ha parlato di “politica interna del mondo” e in Italia Luigi Ferrajoli ha sostenuto che il costituzionalismo ha un futuro solo se allargato oltre lo Stato. Le istituzioni di garanzia perseguono infatti fini universali nei modi prestabiliti dalla legge e dal diritto internazionali, e contribuiscono a limitare i poteri assoluti. Ma è proprio in questo campo che il cammino è più arduo, poiché mancano quasi completamente leggi di attuazione e di controllo, e il vecchio dogma della sovranità è lungi dall’essere superato.

Coronavirus e teorie del complotto.

Un vademecum e una lezione su #QAnon.

Wumingfoundation.com- Wu Ming - (21-5-2020)- ci dice :

 

Da quando, nel febbraio 2020, in Italia e poi nel resto d’Europa e dell’Occidente è cominciata l’emergenza coronavirus, sempre più persone, sottoposte a un vero e proprio bombardamento mediatico, hanno concluso che i mezzi d’informazione mainstream erano inaffidabili. La narrazione predominante di quanto stava accadendo è stata giudicata incongrua, strumentale, capziosa, organica a poteri costituiti ed élites economiche non solo reticenti ma responsabili dello stato in cui la pandemia aveva trovato i nostri sistemi socioeconomici.

Per i movimenti anticapitalisti, quest’insoddisfazione diffusa – e fondata – nei confronti dell’establishment politico-mediatico è stata in gran parte un’occasione persa. Per vari motivi che non sono oggetto di quest’articolo, non sono stati loro, non siamo stati noi a intercettarla.

Più spesso, l’ha intercettata il cospirazionismo: il virus è stato prodotto in laboratorio e diffuso intenzionalmente dalla Cina, o dalla Russia, o da Soros, o da Bill Gates. Quest’ultimo manovra a piacimento l’OMS per «controllare il mondo coi vaccini». Anzi, no, il virus si è diffuso per colpa del 5G. Anzi, no, la pandemia è una creazione di una lobby satanista che in America controlla il «deep state». Ecc. ecc.

I complotti esistono, ma il capitalismo non è un Complotto.

Lo abbiamo scritto tante volte: il cospirazionismo o complottismo è un grosso problema per chi vuole criticare il capitalismo a ragion veduta e in modo efficace. Lo «stile paranoico» del complottismo è un potente dispositivo retorico che incanala la rabbia sociale e le energie per un potenziale cambiamento verso narrazioni diversive e intrinsecamente reazionarie, incentrate su capri espiatori.

Un conto è dire che l’emergenza coronavirus è stata gestita con gli strumenti che nel frattempo il capitalismo aveva perfezionato: l’emergenza arriva dopo quarant’anni di policy e governance neoliberale, ne prolunga molti fili, ne aggrava le conseguenze, fa pagare tutto a chi già pagava, e i media – per come funzionano, per gli interessi che rappresentano, per gli assetti proprietari che ne plasmano l’orientamento – impongono narrazioni che fanno sembrare tutto ciò “naturale”. «Le idee dominanti non sono altro che l’espressione ideale dei rapporti materiali dominanti, sono i rapporti materiali dominanti presi come idee» (Marx ed Engels, L’ideologia tedesca).

Ben altro paio di maniche è immaginare che quest’emergenza sia stata programmata in anticipo, che sia la messa in pratica di un Piano. Alcuni potenti si sarebbero messi intorno a un tavolo con grande anticipo e avrebbero detto: «Inventiamo una pandemia» o quantomeno «ecco come usare questa pandemia: facciamo X, Y e Z». Da qui discenderebbe un Piano coerentissimo, che ha previsto tutto, inesorabile e perfettamente messo in pratica dai poteri costituiti.

A sostegno di tale visione, si dice che «questa pandemia era già stata prevista». È lo stratagemma n.1 elencato da Arthur Schopenhauer nel suo L’arte di ottenere ragione: «portare un’affermazione […] al di fuori dei suoi limiti naturali, interpretarla nella maniera più generale possibile, prenderla nel senso più ampio possibile ed esagerarla».

È vero, gli addetti ai lavori sapevano che prima o poi ci sarebbe stata una nuova pandemia, «Animal Infections and The Next Human Pandemic» è addirittura il sottotitolo originale del libro Spillover di David Quammen, uscito nel 2012. Tuttavia, nessuno poteva conoscere in anticipo la morfologia del virus, l’eziologia del Covid-19, le rotte esatte del contagio e il calendario della sua diffusione.

Narrazioni come questa descrivono il capitalismo in modo caricaturale, come un sistema che dipende in gran parte dalla volontà dei membri di una casta, ma il capitalismo non è questo, è un modo di produzione che ha le sue logiche di fondo, i suoi automatismi e meccanismi oggettivi. Non si è affermato per una congiura di chicchessia, ma dopo una plurisecolare evoluzione storica, e funziona senza che la classe dominante debba o possa prevedere e orchestrare tutto.

Che esistano strategie capitalistiche è ovvio, e che alcuni complotti anche vasti siano esistiti ed esistano è assodato. Gli esempi che saltano alla mente sono la strategia della tensione, il complotto di Nixon che portò al Watergate, le trame della P2, e addirittura – torsione di cui si sono occupati in modi diversi Umberto Eco e Carlo Ginzburg – un complotto per far credere che esistesse un Grande Complotto: la fabbricazione dei Protocolli dei Savi Anziani di Sion da parte dell’Okhrana, la polizia segreta zarista.

In fondo l’esistenza di questi servizi di intelligence non è altro che un’istituzionalizzazione del complottare.

A ben vedere, un complotto è qualcosa di molto semplice: se ne ha uno ogni volta che più persone si mettono d’accordo per perseguire il proprio interesse a scapito di altre, all’insaputa di queste ultime.

Dunque, non si tratta di negare tout court l’esistenza dei complotti, sarebbe assurdo. Si tratta di capire come disinnescare il cospirazionismo, forma mentis che non solo vede la logica del complotto all’opera in ogni ambito, ma mette un Grande Complotto al centro del funzionamento del sistema, esagerando il ruolo della volontà nella storia – per giunta, una Volontà che tutto prevede e tutto ottiene – e immaginando cabale o supercaste pressoché onnipotenti.

Sulla distinzione tra i complotti reali – localizzati, imperfetti, contraddittori, “a scadenza” – e il Complotto immaginato dal complottismo – perfetto, coerentissimo, profetico, tentacolarissimo, illimitato, eterno – rimandiamo a quanto scritto da Wu Ming 1 nell’inchiesta in due puntate apparsa su Internazionale nell’autunno 2018. Nella seconda parte di quello scritto, si riflette anche su come contrastare il complottismo in un modo che non si riduca al debunking.

Due fallacie logiche a cui ricorre il complottista.

L’abate Augustin Barruel (1741-1820). Le sue teorie sulla Rivoluzione Francese come esito di una cospirazione massonica ebbero grande diffusione e fortuna, contribuendo a plasmare la leggenda del «complotto giudaico-massonico» e influenzando tutto il pensiero reazionario a venire.

Il più delle volte, chi critica l’approccio cospirazionista si sente rispondere in due modi.

Il primo è: «Stai col potere, che si è inventato l’accusa di “complottismo” e la usa contro chiunque lo critichi!»

A corollario di quest’affermazione, spesso si sente dire che l’espressione «conspiracy theory» l’avrebbe inventata la CIA negli anni Sessanta. Si tratta di una leggenda urbana. In  quest’articolo si dimostra che il primo utilizzo riscontrato – e già inteso con accezione negativa – dell’espressione «conspiracy theory» risale addirittura al 1870.

Il cospirazionismo non è un’invenzione dei suoi presunti avversari, ma una mentalità e un insieme di retoriche e fallacie che esiste da secoli, da ben prima che esistesse la CIA. Per fare un solo esempio, nel 1569 i servizi segreti della Serenissima – e prima ancora l’opinione popolare – attribuirono a un complotto dell’ebreo Giuseppe Nasi l’incendio dell’Arsenale di Venezia, storia che raccontiamo nel nostro Altai.

Quasi tutte le teorie del complotto moderne risalgono a un periodo che va da fine XVIII secolo a inizio XIX. Il complotto degli Illuminati di Baviera, della massoneria, degli ebrei… Sono tutte teorie nate per reazione all’Illuminismo e, soprattutto, alla Rivoluzione francese, per descrivere quest’ultima come una mera congiura. I tòpoi del complottismo risalgono a quella fase storica, da allora abbiamo avuto quasi solo ricombinazioni.

Il fatto che qualcuno definisca «cospirazionismo», «complottismo» o «teoria del complotto» qualunque analisi scomoda o anche solo sgradita non dimostra in alcun modo che l’accusa sia sempre falsa, né che non esistano la realtà e mentalità che quei termini indicano. Dimostra solo che  di quei termini si tende ad abusare, e semmai conferma che il complottismo fornisce facili appigli a chi voglia sminuire o denigrare il pensiero critico.

In particolare, il complottismo intorbidisce le acque per chiunque voglia denunciare complotti reali. Come scrive Enrico Voccia su Umanità Nova:

«denunciare complotti a ogni piè sospinto porta all’effetto opposto […] scredita – agli occhi della maggioranza – il tentativo di difendersi dai complotti reali. Immaginate quanto sarebbe stata presa sul serio la campagna di controinformazione [sulla strage di piazza Fontana] se questa fosse stata affogata nel rumore di chi affermava che le nascenti BR erano formate da extraterrestri in combutta col Mossad, di altri che sostenevano che Zapata era sopravvissuto al tentativo di omicidio e che era diventato un agente della CIA e via di questo passo.»

L’altra risposta tipica è: «Non puoi dimostrare che non c’è un Piano!»

In qualunque ambito discorsivo dove valga l’argomentazione logica – diritto, storiografia, scienze sociali, scienze “dure” – l’onere della prova spetta a chi fa un’asserzione. Il fatto che il complottista sfidi a dimostrare che non c’è un piano – Argumentum ad ignorantiam – dimostra che il complottismo non rientra in quegli ambiti. È chi pensa che ci sia un Piano che dovrebbe dimostrarlo portando prove. E per «prove» non intendiamo semplici sospetti, collegamenti azzardati ecc. Non bastano.

Per noi, fino a prova contraria, basta e avanza la logica di fondo del sistema capitalistico, il cui devastante funzionamento è sotto gli occhi di chiunque non si rifiuti di vederlo.

Capitalismo e pandemia.

Chuǎng. Il carattere è la stilizzazione di un destriero che varca di forza un cancello. Ha vari significati: «liberarsi», «sfondare», «attaccare», «andare alla carica», ma anche «temprarsi» (passando attraverso dure esperienze).

Vi sono dinamiche dell’economia capitalistica le cui responsabilità sono da tempo attestate per quanto riguarda le grandi epidemie degli ultimi decenni. Già a febbraio, nel Diario virale, abbiamo scritto:

«L’aviaria, la Sars, la suina e prima ancora la BSE erano uscite dai gironi infernali dell’industria zootecnica planetaria. In parole povere: dagli allevamenti intensivi, per via di come gli animali erano trattati e, soprattutto, nutriti. Ebola, Zika e West Nile erano venuti a contatto con gli umani per colpa della deforestazione massiva e della distruzione di ecosistemi.»

La deforestazione segue il land grabbing e precede ulteriori estensioni dell’agrobusiness che servono a sostenere l’industria zootecnica mondiale. Un terzo della produzione mondiale di cereali è destinato all’alimentazione dei bovini. Questo processo ha creato le condizioni per tutti gli ultimi spillover, o «salti di specie». Un riferimento importante è il libro del biologo Rob Wallace Big Farms Make Big Flu. Che non a caso è citato anche dal collettivo cinese Chuang nel suo densissimo saggio-inchiesta Social Contagion: lotta di classe microbiologica in Cina.Dopo il «salto di specie», altre dinamiche dell’economia capitalistica, relative alla globalizzazione e all’estensione delle metropoli e megalopoli, creano le condizioni per la diffusione rapida del contagio.

Coronavirus e QAnon.

In un momento in cui ci sono effettive pressioni sugli scienziati e la ricerca scientifica è più condizionata del solito – dall’urgenza, dalle pressioni mediatiche, da lotte di consorteria – è facile per il complottista appellarsi alla libertà della scienza e passare per paladino di quest’ultima. Quando ciò accade, dobbiamo essere in grado di capirlo. E se non possiamo sempre farlo grazie alla verità scientifica, il cui accertamento è ancora in corso d’opera, possiamo farlo grazie alla forma narrativa di quel che dice.

Di fronte a un discorso sul virus creato in un laboratorio e diffuso ad arte, più che il ricorso a un’autorità scientifica in grado di escludere l’ipotesi in base alla morfologia stessa del Sars-Cov-2, è il modo di raccontare quella storia a farci riconoscere il complottismo e le sue fallacie logiche. Anche di fronte a discorsi più “sfumati”, è l’impianto narratologico a metterci sul chi vive.

A narratologia e retoriche del complottismo era dedicato l’intero corso – nominalmente di Giornalismo culturale – tenuto da Wu Ming 1 all’Università Roma 2 (Tor Vergata) nell’anno accademico 2018-2019.

In particolare, WM1 ha dedicato una lezione di due ore alla mega-teoria del complotto nota come «QAnon». Nell’ultimo anno e mezzo ce ne siamo occupati diverse volte: qui su Giap, su Internazionale e in varie conferenze in Italia e all’estero. Lo abbiamo fatto anche perché in un certo senso siamo implicati, questa vicenda ci coinvolge direttamente.

Tra gli effetti indesiderati della pandemia e della relativa emergenza c’è stato l’aumento – anche in Italia – del numero di persone che prestano fede alle bufale targate QAnon e le diffondono. Secondo i seguaci di QAnon, la diffusione del Sars-Cov-2 sarebbe un complotto della Cina e dei Democratici per distruggere l’economia americana e impedire la rielezione di Donald Trump. Detta così è semplice, ma da lì partono innumerevoli diramazioni e sottoteorie. Un meccanismo consueto, ma che può frastornare chi non conosca QAnon.

Riteniamo dunque utile mettere a disposizione quella lezione di un anno fa. Dove c’è anche molta letteratura, basti dire che vi hanno un posto d’onore due romanzi. Uno è Il pendolo di Foucault.

A suo tempo, la lezione era stata caricata in due parti sul canale YouTube della Wu Ming Foundation, oggi abbandonato dopo che abbiamo fatto degoogling. Erano video privati, visibili solo da studentesse e studenti del corso. Li abbiamo sbloccati e ve li riproponiamo.

Naturalmente, com’è prassi su Giap, lo facciamo passando attraverso Invidio.us, interfaccia che permette di vedere i video di YouTube senza pubblicità, senza tracciamento né data mining, senza riproduzioni automatiche, playlist eterodirette, consigli tossici dell’algoritmo, restrizioni per paese e quant’altro.

 

 

 

 

Per un governo mondiale.

Ilbolive.unipd.it-Piro Greco- Vittorio Possenti- (30 aprile 2020)-ci dicono :

 

In termini ambientali, Johan Rockström e lo Stockholm Resilience Centre ne hanno individuati ben nove di problemi planetari. In realtà lo scienziato svedese e il suo centro parlano di planetary boundaries, di confini o, se volete, di soglie da non superare (alcune sono già state superate): ma tant’è sono emergenze che coinvolgono il mondo intero e che pretendono una soluzione se non unica, almeno coordinata. Sull’esempio, per intenderci, di quel Protocollo di Montreal che ha messo al bando in tutto il mondo, sia pure in maniera articolata nei modi e nel tempo, le sostanze che aggrediscono l’ozono stratosferico. Non esiste nulla di simile per gli altri planetary boundaries.

Ma di problemi planetari – ce ne stiamo accorgendo in queste settimana – ve ne sono anche di natura sanitaria. Le pandemie, per definizione, interessano il mondo intero e non conoscono confini, mentre pretendono soluzioni, ancora una volta, unitarie e coordinate. Mentre a ogni livello – locale, nazionale, continentale, globale – assistiamo a una frammentazione spinta all’insegna dell’”ognuno per sé e Dio per tutti”.

E che dire, poi, del ritorno al riarmo, compreso quello nucleare, che negli ultimi trent’anni ha bruciato il “dividendo della pace” che qualcuno voleva distribuire ai cittadini di tutto il mondo subito dopo il crollo dell’Unione Sovietica e la possibilità di creare quella che Immanuel Kant chiamava la “pace perpetua”, grazie a un governo mondiale capace di assicurare non la mancanza di conflitti (che i conflitti sono il sale della dinamica sociale), ma di conflitti armati almeno a livello delle nazioni?

Già, il governo mondiale. Il solo accennarne appare come una fuga utopistica dalla realtà. Secondo alcuni, addirittura la proposizione un incubo: una sorta di grande e corrotta e inefficiente dittatura planetaria.

Eppure negli ultimi giorni almeno quattro intellettuali italiani hanno ripreso il tema su grandi giornali generalisti. Il primo è stato, a quanto ci risulta, il costituzionalista nonché ex ministro Sabino Cassese, che su La lettura, inserto culturale de Il Corriere della Sera, ha ricordato la figura di un giornalista italiano, Giuseppe Antonio Borgese, che tra il 1945 e il 1947 si è posto alla testa di un gruppo internazionale costituito da sei docenti dell’Università di Chicago, tre delle università di Stanford, Cornell e Harvard, uno di Oxford e uno di Toronto e, sulla base di approfondite discussioni, ha personalmente redatto una “costituzione mondiale”, prevedendo tutte le articolazioni di una democrazia formale compiuta: un governo, appunto; un parlamento rappresentativo dell’intera popolazione del pianeta.

Appare sempre più necessario lavorare a istituzioni globali di garanzia su ambiti vitali come ambiente, istruzione, armamenti, diritti sociali, lotta alle diseguaglianze.

Vittorio Possenti

Il tema è stato ripreso, poi, su L’Avvenire, da Vittorio Possenti, già docente di filosofia politica presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Il cui articolo, a commento dell’intervento di Cassese, inizia così: «Appare sempre più necessario lavorare a istituzioni globali di garanzia su ambiti vitali come ambiente, istruzione, armamenti, diritti sociali, lotta alle diseguaglianze».

Ancora, con una conversazione pubblicata di nuovo su La lettura e intitolata, esplicitamente, Per un governo del mondo, sono intervenuti Maurizio Ferrera, docente di Scienza politica presso l’Università degli Studi di Milano, e Vinod Aggarwal, che insegna Scienza politica presso l’Università di California a Berkeley.

Dunque non è da ingenui parlarne, del governo mondiale, in un momento in cui sembra dominante il pensiero sovranista: prima gli americani, prima gli italiani, prima i russi, prima i cinesi. Sono le “emergenze planetarie”, come le chiama il fisico Antonino Zichichi, a imporre un pensiero centripeta mentre le nazioni del pianeta Terra corrono via l’una dall’altra come schegge di materia dopo il Big Bang. Sono i fatti tangibili che interessano il pianeta intero – l’ambiente, la salute, la pace, le disuguaglianze, i diritti umani – a chiedere con forza un intervento unitario e coordinato tra gli stati e i popoli.

Il virus SARS-CoV-2 si è diffuso in tutto il mondo contagiando milioni di persone e uccidendone alcune centinaia di migliaia anche perché il mondo non lo ha fronteggiato in maniera unitaria, leale e coordinata. Ognuno è andato per sé, anche nella stessa Unione Europea, è il virus sta punendo tutti. Anzi, nel pieno della lotta, si è tentato di svuotare di ogni funzione anche l’unico, timidissimo embrione di governo mondiale della salute, l’Organizzazione Mondiale di Sanità.

Lo stesso vale per altri embrioni di governo mondiale: come la Convenzione delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici nell’ambito della quale non si riesce a ottenere un consenso globale per contenere l’aumento della temperatura media del pianeta entro gli 1,5 °C o, almeno, entro i 2 °C, come sostengono gli scienziati se si vuole evitare un’evoluzione catastrofica del clima globale.

Mentre da decenni non fa un passo avanti verso il totale disarmo il TNP, il Trattato di non proliferazione nucleare che si regge su una pericolosa asimmetria: distinguendo tra chi ha ufficialmente l’atomica (USA, Russia, Cina, Regno Unito e Francia) e tutti gli altri paesi firmatari. Questi ultimi, tutto sommato, stanno rispettando l’obbligo a non dotarsi dell’arma, mentre i cinque detentori, che pure si sono impegnati a disfarsene in tempi ragionevoli, pensano a tutt’altro. Altri tre paesi non firmatari – India, Pakistan e Israele – non hanno firmato il TNP, non per questo non costituiscono un problema.

Per tutti questi problemi gli esperti del Bulletin of the Atomic Scientists hanno portato le lancette del Doomsday Clock ad appena 100 secondi dalla mezzanotte. Ovvero dalla catastrofe globale. Forse sono troppo pessimisti, questi scienziati: ma le emergenze planetaria che essi indicano reali, concrete, immanenti e per molti versi imminenti.

La soluzione è, dunque, nel governo mondiale? E se sì, che razza di governo dovrebbe essere, il “governo di tutto il mondo”?

L’idea ha patri nobili e antichi. Pare che risalga già ai Romani. E ha avuto nobilissimi sostenitori. Ne citiamo tre, tutti tedeschi, oltre al già ricordato Giuseppe Antonio Borgese e agli accademici, quasi tutti americani, con cui ha collaborato: Immanuel Kant, Albert Einstein e papa Benedetto XVI (al secolo, Joseph Aloisius Ratzinger). Si tratta di persone certamente influenti, ma per cultura e formazione molto diversi tra loro: un filosofo, un fisico, un religioso. Per non fargli torto, dovremmo aggiungere anche l’attuale papa, Francesco (al secolo Jorge Mario Bergoglio), ma rischieremmo di rompere la simmetria disciplinare. O ricordare Jean-Jacques Rousseau, l’Abate si Saint-Pierre, Altiero Spinelli o ancora Aldo Capitini, ma vale la motivazione di cui prima.

Un governo mondiale è l’idea che ha attraversato e attraversa la mente di grandi personalità della cultura.

Dunque, Immanuel Kant. Nel 1795 scrive un libro Zum ewigen Frieden. Ein philosophischer Entwurf, ovvero La pace perpetua, in cui riflette sul modo in cui raggiungere questa auspicata condizione. Il grande filosofo di Königsberg per la verità non parla in termini stretti di un governo a scala planetaria, ma piuttosto di leali accordi di pace di tutti i paesi con tutti gli altri che non possono essere violati. Kant propone anche il graduale, ma veloce scioglimento degli eserciti permanenti.

Un’idea che viene ripresa già nella prima parte del Novecento da Albert Einstein (non a caso, perché il fisico ha letto già da giovanissimo Kant) che fonda il suo pacifismo militante su due presupposti: lo scioglimento degli eserciti che invito ai giovani a rifiutare la leva e la formazione, appunto, di un governo mondiale.

Quanto a Benedetto XVI, ecco cosa scrive nell’enciclica Caritas in veritate del 2009, così come ce la ricorda Vittorio Possenti: «Urge la presenza di una vera Autorità politica mondiale, quale è stata già tratteggiata dal mio Predecessore, il Beato Giovanni XXIII. Una simile Autorità dovrà essere regolata dal diritto, attenersi in modo coerente ai principi di sussidiarietà e di solidarietà, essere ordinata alla realizzazione del bene comune, impegnarsi nella realizzazione di un autentico sviluppo umano integrale ispirato ai valori della carità nella verità. Tale Autorità inoltre dovrà essere da tutti riconosciuta, godere di potere effettivo per garantire a ciascuno la sicurezza, l’osservanza della giustizia, il rispetto dei diritti». Già, ci eravamo dimenticati di Giovanni XXIII, il “papa buono”.

Un governo mondiale, dunque, è l’idea che ha attraversato e attraversa la mente di grandi personalità della cultura. Non può essere un’idea ingenua, frutto di un idealismo staccato dalla realtà: perché ingenui non erano e non sono tutte le persone citate.

 

D’altra parte l’idea del governo mondiale, come ricorda Danilo Zolo, che ha insegnato filosofia e sociologia del diritto presso l’Università di Firenze, in un libro pubblicato nel 1995, Cosmopolis. Zolo, che era stato allievo di Giorgio La Pira, criticava per la verità l’idea del governo mondiale. Però di questa idea ha ricostruito la storia tangibile.

La nascita degli stati moderni con l’affermazione della loro totale indipendenza – allora dalla Chiesa e dall’Impero – è tutta europea e risale alla pace di Westfalia del 1648 con cui viene posto termine alla disastrosa “guerra dei trent’anni” (che si accompagnò, vale la pena ricordarlo, a una serie di epidemie, tra cui quella di peste a Milano del 1630 così ben descritta da Alessandro Manzoni).  La pace tra i popoli europei nelle intenzioni dei convenuti a Westfalia e, poi, nella prassi dei decenni e secoli successivi fu mantenuta dall’equilibrio, altamente instabile, di potenza. Lo stesso che – come equilibrio del terrore – ha impedito una guerra nucleare tra USA e URSS negli anni della guerra che per forza di cose era “fredda”. L’equilibrio nella seconda parte del Novecento – e per certi versi anche ora – si reggeva sulla cosiddetta MAD, mutual assured destruction, la certezza della reciproca distruzione che una guerra nucleare totale non avrebbe avuto alcun vincitore. Tutti avrebbero perso. La stessa civiltà umana avrebbe subito un colpo mortale. L’equilibrio di potenza era (ed è) un più che mai instabile “equilibrio del terrore”.

L’instabilità dell’”equilibrio di potenza” era presente alla mente di molti anche prima di Westfalia. Basti citare Dante Alighieri (tra XIII e XIV secolo) o Carlo V (nel XVI secolo) che hanno preconizzato, in forme diverse, l’idea di una monarchie universelle, su cui hanno scritto filosofi di assoluto valore, come David Hume e come Charles-Louis de Secondat, barone di La Brède e di Montesquieu, autore nel 1734 di un trattato, appunto su La Monarchie universelle. Al grande filosofo politico francese l’idea di un governo mondiale (la monarchia universale) proprio non piaceva.

Tuttavia, ci sono stati, negli ultimi due secoli, almeno tre tentativi di fondare una pace più stabile e meglio regolata. Tre tentativi di fondare un timido “governo mondiale”. Il primo risale al 1815 quando le potenze che hanno sconfitto Napoleone Bonaparte – e, segnatamente, Austria, Gran Bretagna, Prussia e Russia – danno vita alla Santa Alleanza: «Per il bene del mondo – si legge in un documento fondativo della Santa Alleanza – [le potenze vincitrici si impegnano a] prendere le misure più salutari per la tranquillità e la prosperità dei popoli e per il mantenimento della pace tra gli Stati».

Tutto questo sarebbe avvenuto mediante periodici incontri tra i rappresentanti di questa sorta di federazione. Alla Santa Alleanza aderiscono un po’ tutte le potenze europee minori, tranne lo Stato pontificio e, in Turchia, il Sultano. Come rileva Danilo Zolo, per la prima volta nella storia europea e mondiale si afferma e si esperisce il principio di una pacifica federazione internazionale, aperta a tutti gli stati, anche se guidata dal direttorio delle quattro potenze vincitrici.

La Santa Alleanza raggiunse anche obiettivi rimarchevoli, come l’abolizione della schiavitù. Ma l’equilibrio era appunto troppo instabile e nell’arco di un decennio venne a termine.

La stessa esigenza di evitare il caos e l’anarchia sulla scena internazionale che aveva generato la Prima guerra mondiale e causato quasi venti milioni di morti portò alla costituzione, nel 1920, della Società delle Nazioni a opera di Francia, Gran Bretagna, Italia e Giappone e su ispirazione del presidente americano Woodrow Wilson (che per questo ottenne il premio Nobel per la pace già nel 1919). Sulla carta la Società delle Nazioni costituiva un “governo mondiale” piuttosto spinto e articolato, con un’Assemblea, il parlamento mondiale costituito dai rappresentanti di tutti gli stati membri; un Consiglio, una sorta di potere esecutivo costituito dai rappresentanti di alcuni stati membri permanenti e da altri nominati dall’Assemblea; un Segretariato permanente e anche una Corte di Giustizia.

La storia della Società delle Nazioni ci offre almeno due insegnamenti: ogni idea del “governo mondiale” non può fondarsi sul dominio di pochi, né sul progetto di mantenere lo status quo congelando ogni conflitto

La Società delle Nazioni è l’istituzione più vicina al “governo mondiale” che sia mai stata realizzata. Ma nel mezzo secolo successivo mostrò tutti i suoi limiti perché, come sottolinea Danilo Zolo, aveva una visione troppo centralistica e dunque sembrava designata a mantenere lo status quo. Progetto soprattutto di marca francese che non teneva conto delle enormi asimmetrie create nei confronti delle potenze sconfitte (la Germania) e anche di quelle nascenti (l’Unione Sovietica). 

La storia della Società delle Nazioni ci offre almeno due insegnamenti: ogni idea del “governo mondiale” non può fondarsi sul dominio di pochi (le potenze vincitrici di una guerra) né sul progetto di mantenere lo status quo congelando ogni conflitto. Il “governo mondiale” deve limitarsi (si fa per dire) a far sì che i conflitti si risolvano in guerre guerreggiate e alla ricerca di soluzioni concordate ad alcuni problemi di carattere universale. Un esempio di successo è la Terza Convenzione di Ginevra del 1925, firmata da sedici stati, con cui si vieta l’uso anche in guerra di armi chimiche.

Ma per i suoi difetti intrinseci (compresa la mancanza del monopolio della forza) la Società delle Nazioni non riuscì a impedire il proseguimento della “lunga guerra civile” scoppiata in Europa nel 1914 e che si concluderà solo con la sconfitta del nazifascismo nel 1945.

Già, il 1945. Il 26 giugno di quell’anno in cui viene a termine la Seconda guerra mondiale vengono tenute a battesimo le Nazioni Unite. Con gli stessi limiti (anzi, con alcuni aggiuntivi) della Società delle Nazioni. Il potere di veto che hanno di fatto le cinque potenze vincitrici (considerate più uguali degli altri) nel Consiglio di Sicurezza ha avuto e ha tuttora un effetto paralizzante. Nonostante le Nazioni Unite, la pace mondiale nel dopoguerra è stata mantenuta dall’”equilibrio del terrore”. E quando l’URSS è finita, al dominio dei due blocchi si è sostituita una frammentazione difficile da governare. In ogni caso negli ultimi 75 anni non sono mancate guerre definite locali e anche guerre combattute nel nome delle Nazioni Unite (in Corea, in Irak, per esempio) ma dalla incerta legittimazione etica.

Le Nazioni Unite non rappresentano certo un modello ideale di “governo mondiale”. Tuttavia sarebbe un errore considerare la loro esistenza come irrilevante se non addirittura dannosa. Esempi positivi della presenza, non facilmente sostituibile delle Nazioni Unite, ne troviamo in molti campi: per esempio l’approvazione, il 10 dicembre 1948, della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo.

Le Nazioni Unite non rappresentano certo un modello ideale di “governo mondiale”. Tuttavia sarebbe un errore considerare la loro esistenza come irrilevante se non addirittura dannosa

Ma anche nei tre ambiti che abbiamo indicato all’inizio la presenza delle Nazioni Unite si è rivelata preziosa: la salute, l’ambiente, le armi nucleari. Nel primo caso ricordiamo l’Organizzazione Mondiale di Sanità (OMS) – un piccolo governo mondiale della salute fondato in ambito ONU il 22 luglio 1946 ed entrata in funzione due anni dopo. Nel caso dell’ambiente ricordiamo, oltre al Protocollo di Montreal per l’ozono, le Convenzioni sui Cambiamenti del Clima e sulla Biodiversità approvate a Rio de Janeiro nel 1992 (oltre a una serie sterminata di altri trattati di cui non sempre abbiamo contezza). Per quanto riguarda la pace al tempo delle armi nucleari, ricordiamo il TNP, il Trattato di Non Proliferazione Nucleare, approvato dall'Assemblea generale dell'ONU il primo luglio 1968.

L’OMS, le Convenzioni sul clima e la biodiversità, il TNP sono esempi di un “governo mondiale” limitato ad alcuni settori ben definiti.

Certo, nessuna di queste iniziative è stata decisiva. Oggi la pandemia COVID-2019 si diffonde nel mondo con gli stati che non seguono le direttive dell’OMS ma reagiscono ognuno per sé (con evidenti disastri). Oggi si stenta ad applicare le indicazioni drammatiche proposte dagli scienziati in sede di Convenzioni sul clima e sulla biodiversità. Quanto al Trattato di Non Proliferazione è in una condizione di congelamento di una condizione asimmetrica che non sta impedendo neppure una nuova corsa al riarmo.

E tuttavia proviamo a immaginare come sarebbe il mondo senza le Nazioni Unite. Un mondo in cui esisterebbero 200 sistemi sanitari diversi tra loro, senza programmi per esempio di vaccinazione universale (sarebbe mai stato eradicato il vaiolo in un sistema diverso dalle Nazioni Unite?); un mondo che neppure si accorgerebbe delle emergenze cambiamenti climatici ed erosione della biodiversità; un mondo in cui ogni paese si sentirebbe libero di dotarsi di un arsenale nucleare.

Ha, dunque, più che mai ragione Vittorio Possenti: «Appare sempre più necessario lavorare a istituzioni globali di garanzia su ambiti vitali come ambiente, istruzione, armamenti, diritti sociali, lotta alle diseguaglianze». Non vogliamo chiamarlo governo, utilizziamo un termine inglese che sembra più alla moda: governance.

Appare sempre più necessario lavorare a istituzioni globali di garanzia su ambiti vitali come ambiente, istruzione, armamenti, diritti sociali, lotta alle diseguaglianze.

(Vittorio Possenti).

Ce lo insegna in questi giorni la pandemia: la mancanza di una governance sufficientemente forte, con un certo potere decisionale, si risolve in un danno per tutti i popoli e per tutti i cittadini del mondo. Riformiamo pure l’OMS, ma nel senso di rafforzarla, non demolirla. Riformiamo pure la diplomazia ecologica, me nel senso di avere un governo mondiale del clima e della biodiversità e degli altri sette “confini planetari”. Riformiamo pure il TNP, ma nel senso di rafforzarlo per arrivare in tempi certi al disarmo nucleare totale.

Certo, dobbiamo fare tutto questo conservando la democrazia. Rafforzando la democrazia come bene universale. Non è semplice in un mondo in cui le dittature e le democrature (le democrazie autoritarie) sembrano ritornare e persino avere, su certuni, un certo appeal. Non è semplice se il sovranismo e il nazionalismo tornano a essere coltivati da grandi masse.

Ma a un “governo mondiale” o, se volete, a una governance globale, sia pure ristretta a pochi, grandissimi problemi, è necessaria. Possiamo aderire alla proposta centralistica di Giuseppe Antonio Borgese oppure a una proposta con istituzioni molto più leggere, ma non possiamo sfuggire il problema: il mondo ha problemi globali, che interessano tutti i cittadini del pianeta e, quindi, ha bisogno di un “governo Mondiale”.

Utopia?

Forse. Ma è grazie alle utopie di persone come Kant, Einstein, Spinelli che alcuni tratti, magari piccoli e tortuosi, li abbiamo fatti per uscire dal caos ingovernabile dell’”ognuno per sé” che porta a quel Bellum omnium contra omnes, quella guerra di tutti contro tutti di cui parlava nel Seicento Thomas Hobbes. E che indebolisce non solo l’umanità con i suoi conflitti interni, ma anche l’umanità rispetto ai pericoli esterni, siano essi il clima o un virus. 

 

 

 

Il “Trattato sulle Pandemie” darà

all’OMS le Chiavi del Governo Globale.

Conoscenzealconfine.it -   Kit Knightly-( 10 Maggio 2022)- ci dice :

Le prime udienze pubbliche sul proposto “Trattato sulle pandemie” sono terminate e il prossimo ciclo dovrebbe iniziare a metà giugno. Le clausole suggerite incentiverebbero la segnalazione di eventuali “pandemie” e punirebbero le nazioni in caso di “non conformità”.

Abbiamo cercato di tenere la questione in prima pagina, proprio perché il mainstream è così desideroso di ignorarla, mentre continua a sfornare “porno” di guerra e propaganda di parte.

Quando noi – ed altri – c’eravamo collegati alla pagina della presentazione pubblica, c’era stata una tale risposta che il sito web dell’OMS si era bloccato per un po’… o avevano fatto finta che si fosse bloccato, in modo che la gente smettesse di inviare mail. In ogni caso, è stata una vittoria, malgrado l’attuale scarsa copertura mediatica, per lo più relegata nelle metaforiche pagine di fondo di internet e speriamo di poterla replicare in estate.

La prospettiva si concentrerà sul cercare di rendere il trattato “abbastanza forte” e garantire che i governi nazionali possano essere “ritenuti responsabili”. Un articolo sul Telegraph del Regno Unito, del 12 aprile, titola: “C’è il rischio reale che un trattato sulla pandemia possa essere ‘troppo annacquato’ per fermare nuove epidemie”. L’articolo si concentra su un rapporto del Panel for a Global Public Health Convention (GPHC) e cita una delle autrici del rapporto, Dame Barbara Stocking: “La nostra più grande paura […] è che sia troppo facile pensare che la responsabilità non sia importante. Avere un trattato che non prevede alcun obbligo, beh, francamente allora non avrebbe senso avere un trattato.”

Il rapporto del GPHC continua dicendo che l’attuale regolamento sanitario internazionale è “troppo debole e chiede la creazione di un nuovo organismo internazionale ‘indipendente’ per valutare la preparazione dei governi e rimproverare o lodare pubblicamente i Paesi, a seconda della loro conformità ad una serie di requisiti concordati.”

Un altro articolo, pubblicato dalla London School of Economics e firmato da alcuni membri dell’Alleanza tedesca per il cambiamento climatico e la salute (KLUG), spinge, in modo piuttosto sostenuto, l’idea di “responsabilità” e “conformità”: “Affinché questo trattato sia incisivo, l’organizzazione che lo governa deve avere il potere – politico o legale – di imporre la conformità”. Il pezzo si rifà poi al rapporto delle Nazioni Unite del maggio 2021, per chiedere ancora più poteri per l’OMS: “Nella sua forma attuale, l’OMS non possiede tali poteri […] Per andare avanti con il trattato, l’OMS ha quindi bisogno di essere potenziata – finanziariamente e politicamente“.

Raccomanda il coinvolgimento nei negoziati di “attori non statali” come la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, l’Organizzazione Mondiale del Commercio e l’Organizzazione Internazionale del Lavoro e suggerisce che il trattato offra incentivi finanziari per la segnalazione tempestiva di “emergenze sanitarie” [enfasi aggiunta]: “In caso di emergenza sanitaria dichiarata, le risorse dovranno affluire ai Paesi in cui si sta verificando l’emergenza, innescando le dovute risposte, come finanziamenti e supporto tecnico. Questi sono particolarmente rilevanti per i Paesi a basso reddito, e potrebbero essere utilizzati per incoraggiare e migliorare la condivisione tempestiva delle informazioni da parte degli stati, rassicurandoli che non saranno soggetti a sanzioni arbitrarie sul commercio e sui viaggi per la segnalazione [dell’emergenza], ma che saranno invece dotati delle risorse finanziarie e tecniche necessarie per rispondere efficacemente all’epidemia“.

Ma non si fermano qui. Sollevano anche la questione della “punizione” per i Paesi che dovessero “non conformarsi”: “[Il trattato dovrebbe possedere] un regime di incentivi adattabile, [comprese] sanzioni intese come rimproveri pubblici, sanzioni [propriamente] economiche o negazione di benefici”.

 

Traduciamo questi suggerimenti dal burocratese:

– Se segnalerete “focolai di malattia” in modo “tempestivo” otterrete le “risorse finanziarie” per affrontarli.

– Se non segnalerete i focolai di malattia o non seguirete le indicazioni dell’OMS, perderete gli aiuti internazionali e dovrete affrontare embarghi commerciali e sanzioni.

Prese insieme, queste regole proposte incentiverebbero letteralmente la segnalazione di possibili “focolai di malattia”. Lungi dal prevenire “future pandemie” le incoraggerebbero attivamente.

I governi nazionali che si rifiutassero di stare al gioco verrebbero puniti, mentre quelli che si adeguassero verrebbero ricompensati. Non è una novità. Lo abbiamo già visto con il Covid. Due Paesi africani – Burundi e Tanzania – avevano presidenti che avevano bandito l’OMS dai loro stati e che si erano rifiutati di assecondare la narrazione pandemica ufficiale. Entrambi i presidenti sono morti inaspettatamente entro pochi mesi da quella decisione, per essere quindi sostituiti da capi di stato che hanno immediatamente ribaltato le politiche Covid dei loro predecessori.

Meno di una settimana dopo la morte del presidente Pierre Nkurunziza (presidente della Repubblica del Burundi, morto nel giugno del 2020), il FMI ha accettato di condonare quasi 25 milioni di dollari del debito nazionale del Burund,i per aiutare a combattere la “crisi” del Covid 19. Appena cinque mesi dopo la morte del presidente John Magufuli, il nuovo governo della Tanzania ha ricevuto 600 milioni di dollari dal FMI per “affrontare la pandemia di Covid 19.”

È abbastanza chiaro cos’è successo, vero? I globalisti hanno appoggiato i colpi di stato e premiato i responsabili con aiuti internazionali. Le proposte per il trattato sulle pandemie non farebbero altro che legittimare questo processo, spostandolo dai canali occulti a quelli ufficiali.

 

Ora, prima di discutere le implicazioni dei nuovi poteri, ricordiamoci del potere che l’OMS già possiede:

– L’Organizzazione Mondiale della Sanità è l’unica istituzione al mondo autorizzata a dichiarare una “pandemia” o un’emergenza di salute pubblica di interesse internazionale (PHEIC).

– Il direttore generale dell’OMS – una posizione non eletta – è l’unico individuo che ha il controllo di questo potere.

Abbiamo già visto l’OMS abusare di questi poteri in passato per creare una falsa pandemia dal nulla… e non sto parlando del Covid.

Prima del 2008, l’OMS poteva dichiarare una pandemia influenzale solo se c’era “un numero enorme di morti e di contagi” e se si era in presenza di un nuovo e distinto sottotipo [virale]. Nel 2008, l’OMS aveva allentato la definizione di “pandemia influenzale” rimuovendo queste due condizioni.

Come era stato puntualizzato in una lettera del 2010 al British Medical Journal, questi cambiamenti significavano che “molti virus dell’influenza stagionale ora avrebbero potuto essere classificati come influenza pandemica”.

Se l’OMS non avesse apportato questi cambiamenti, l’epidemia di “influenza suina” del 2009 non avrebbe mai potuto essere chiamata pandemia e, probabilmente, sarebbe passata senza fare notizia.Invece, decine di Paesi spesero milioni di dollari per vaccini contro l’influenza suina di cui non avevano bisogno e che non funzionavano, per combattere una “pandemia” che aveva provocato meno di 20.000 morti. Si era poi visto che molti dei responsabili che avevano consigliato all’OMS di dichiarare l’influenza suina un’emergenza di salute pubblica, erano legati finanziariamente ai produttori di vaccini.

Nonostante questo esempio storico di palese corruzione, una clausola proposta del Trattato sulle pandemie renderebbe ancora più facile dichiarare una PHEIC. Secondo il rapporto del maggio 2021, “Covid19: Fate che sia l’ultima pandemia”: “Le future dichiarazioni di una PHEIC da parte del direttore generale dell’OMS dovrebbero essere basate sul ‘principio di precauzione’, laddove giustificato”.

Sì, il trattato proposto potrebbe permettere al direttore generale dell’OMS di dichiarare uno stato di emergenza globale per PREVENIRE una potenziale pandemia, non in risposta ad una pandemia! Una sorta di risposta pandemica pre-crimine.

Se a questo aggiungiamo il proposto “aiuto finanziario” per le nazioni in via di sviluppo che segnaleranno le “potenziali emergenze sanitarie” si può vedere qual’è il loro intento – essenzialmente corrompere i governi del Terzo Mondo e dare all’OMS il pretesto per dichiarare lo stato di emergenza.

Conosciamo già gli altri punti chiave che probabilmente verranno inclusi nel Trattato sulle pandemie. Quasi certamente cercheranno di introdurre i passaporti internazionali per i vaccini e verseranno fondi nelle tasche di Big Pharma affinchè produca “vaccini” sempre più velocemente e con ancora meno test di sicurezza.

Ma tutto questo impallidirebbe in confronto ai poteri legali che potrebbero essere conferiti al direttore generale dell’OMS (o a qualsiasi nuovo organismo “indipendente” che decidessero di creare) per punire, rimproverare o premiare i governi nazionali.

Un “Trattato sulle pandemie” che scavalca o annulla i governi nazionali o locali consegnerebbe poteri sovranazionali ad un burocrate o ad un “esperto” non eletto, che potrebbe esercitarli interamente a sua discrezione e con criteri completamente soggettivi. Questa è la definizione stessa di globalismo tecnocratico.

(Kit Knightly- off-guardian.org/2022/04/19/pandemic-treaty-will-hand-who-keys-to-global-government/).

(comedonchisciotte.org/il-trattato-sulle-pandemie-dara-alloms-le-chiavi-della-governance-globale/).

 

 

 

PRONTI PER IL GREAT RESET?

 LA LIBERTÀ TERAPEUTICA

È L’ULTIMO DEI PROBLEMI!!

Blog-appuntamento-con-l-omeotapia.it- Alberto Magnetti-(02/11/2020)- ci dice :

 

UNA ÉLITE VUOLE SOTTOMETTERE L’UMANITÀ INTERA, IMPONENDO MISURE COERCITIVE CON CUI LIMITARE DRASTICAMENTE LE LIBERTÀ DELLE PERSONE E DEI POPOLI.

Queste le affermazioni inquietanti della LETTERA APERTA dell’Arcivescovo Carlo Maria Viganò già Nunzio Apostolico negli Stati Uniti d’America.

 

al Presidente degli Stati Uniti d’America Donald J. Trump

 

SIGNOR PRESIDENTE,

            mi consenta di rivolgermi a Lei, in quest’ora in cui le sorti del mondo intero sono minacciate da una cospirazione globale contro Dio e contro l’umanità. Le scrivo come Arcivescovo, come Successore degli Apostoli, come ex-Nunzio apostolico negli Stati Uniti d’America. Le scrivo nel silenzio delle autorità civili e religiose: voglia accogliere queste mie parole come la «voce di uno che grida nel deserto» (Gv 1, 23).

            Come ho avuto modo di scriverle nella mia Lettera dello scorso Giugno, questo momento storico vede schierate le forze del Male in una battaglia senza quartiere contro le forze del Bene; forze del Male che sembrano potenti e organizzate dinanzi ai figli della Luce, disorientati e disorganizzati, abbandonati dai loro capi temporali e spirituali.

            Sentiamo moltiplicarsi gli attacchi di chi vuole demolire le basi stesse della società: la famiglia naturale, il rispetto per la vita umana, l’amore per la Patria, la libertà di educazione e di impresa. Vediamo i capi delle Nazioni e i leader religiosi assecondare questo suicidio della cultura occidentale e della sua anima cristiana, mentre ai cittadini e ai credenti sono negati i diritti fondamentali, in nome di un’emergenza sanitaria che sempre più si rivela come strumentale all’instaurazione di una disumana tirannide senza volto.

GREAT RESET.

            Un piano globale, denominato Great Reset, è in via di realizzazione. Ne è artefice un’élite che vuole sottomettere l’umanità intera, imponendo misure coercitive con cui limitare drasticamente le libertà delle persone e dei popoli. In alcune nazioni questo progetto è già stato approvato e finanziato; in altre è ancora in uno stadio iniziale. Dietro i leader mondiali, complici ed esecutori di questo progetto infernale, si celano personaggi senza scrupoli che finanziano il World Economic Forum e l’Event 201, promuovendone l’agenda di Klaus Schwab.

            Scopo del Great Reset è l’imposizione di una dittatura sanitaria finalizzata all’imposizione di misure liberticide, nascoste dietro allettanti promesse di assicurare un reddito universale e di cancellare il debito dei singoli.

Prezzo di queste concessioni del Fondo Monetario Internazionale dovrebbe essere la rinuncia alla proprietà privata e l’adesione ad un programma di vaccinazione Covid-19 e Covid-21 promosso da Bill Gates con la collaborazione dei principali gruppi farmaceutici.

 Aldilà degli enormi interessi economici che muovono i promotori del Great Reset, l’imposizione della vaccinazione si accompagnerà all’obbligo di un passaporto sanitario e di un ID digitale, con il conseguente tracciamento dei contatti di tutta la popolazione mondiale. Chi non accetterà di sottoporsi a queste misure verrà confinato in campi di detenzione o agli arresti domiciliari, e gli verranno confiscati tutti i beni.

            Signor Presidente, immagino che questa notizia Le sia già nota: in alcuni Paesi, il Great Reset dovrebbe essere attivato tra la fine di quest’anno e il primo trimestre del 2021.

A tal scopo, sono previsti ulteriori lockdown, ufficialmente giustificati da una presunta seconda e terza ondata della pandemia.

Ella sa bene quali mezzi siano stati dispiegati per seminare il panico e legittimare draconiane limitazioni delle libertà individuali, provocando ad arte una crisi economica mondiale. Questa crisi serve per rendere irreversibile, nelle intenzioni dei suoi artefici, il ricorso degli Stati al Great Reset, dando il colpo di grazia a un mondo di cui si vuole cancellare completamente l’esistenza e lo stesso ricordo.

Ma questo mondo, Signor Presidente, porta con sé persone, affetti, istituzioni, fede, cultura, tradizioni, ideali: persone e valori che non agiscono come automi, che non obbediscono come macchine, perché dotate di un’anima e di un cuore, perché legate tra loro da un vincolo spirituale che trae la propria forza dall’alto, da quel Dio che i nostri avversari vogliono sfidare, come all’inizio dei tempi fece Lucifero con il suo «non serviam».

            Molti – lo sappiamo bene – considerano con fastidio questo richiamo allo scontro tra Bene e Male, l’uso di toni “apocalittici”, che secondo loro esasperano gli animi e acuiscono le divisioni. Non c’è da stupirsi che il nemico si senta scoperto proprio quando crede di aver raggiunto indisturbato la cittadella da espugnare. C’è da stupirsi invece che non vi sia nessuno a lanciare l’allarme. La reazione del deep state a chi denuncia il suo piano è scomposta e incoerente, ma comprensibile. Proprio quando la complicità dei media mainstream era riuscita a rendere quasi indolore e inosservato il passaggio al Nuovo Ordine Mondiale, vengono alla luce inganni, scandali e crimini.

            Fino a qualche mese fa, sminuire come «complottisti» coloro che denunciavano quei piani terribili, che ora vediamo compiersi fin nei minimi dettagli, era cosa facile. Nessuno, fino allo scorso febbraio, avrebbe mai pensato che si sarebbe giunti, in tutte le nostre città, ad arrestare i cittadini per il solo fatto di voler camminare per strada, di respirare, di voler tenere aperto il proprio negozio, di andare a Messa la domenica.

Eppure avviene in tutto il mondo, anche in quell’Italia da cartolina che molti Americani considerano come un piccolo paese incantato, con i suoi antichi monumenti, le sue chiese, le sue incantevoli città, i suoi caratteristici villaggi. E mentre i politici se ne stanno asserragliati nei loro palazzi a promulgare decreti come dei satrapi persiani, le attività falliscono, chiudono i negozi, si impedisce alla popolazione di vivere, di muoversi, di lavorare, di pregare. Le disastrose conseguenze psicologiche di questa operazione si stanno già vedendo, ad iniziare dai suicidi di imprenditori disperati, e dai nostri figli, segregati dagli amici e dai compagni per seguire le lezioni davanti a un computer.

            Nella Sacra Scrittura, San Paolo ci parla di «colui che si oppone» alla manifestazione del mistero dell’iniquità, il kathèkon (2Tess 2, 6-7). In ambito religioso, questo ostacolo è la Chiesa e in particolare il Papato; in ambito politico, è chi impedisce l’instaurazione del Nuovo Ordine Mondiale.

            Come ormai è evidente, colui che occupa la Sede di Pietro, fin dall’inizio ha tradito il proprio ruolo, per difendere e promuovere l’ideologia globalista, assecondando l’agenda della deep church, che lo ha scelto dal suo grembo.

            Signor Presidente, Ella ha chiaramente affermato di voler difendere la Nazione – One Nation under God, le libertà fondamentali, i valori non negoziabili oggi negati e combattuti. È Lei, Caro Presidente, «colui che si oppone» al deep state, all’assalto finale dei figli delle tenebre.

            Per questo occorre che tutte le persone di buona volontà si persuadano dell’importanza epocale delle imminenti elezioni: non tanto per questo o quel punto del programma politico, quanto piuttosto perché è l’ispirazione generale della Sua azione che meglio incarna – in questo particolare contesto storico – quel mondo, quel nostro mondo, che si vorrebbe cancellare a colpi di lockdown. Il Suo avversario è anche il nostro: è il Nemico del genere umano, colui che è «omicida sin dal principio» (Gv 8, 44).

            Attorno a Lei si riuniscono con fiducia e coraggio coloro che La considerano l’ultimo presidio contro la dittatura mondiale. L’alternativa è votare un personaggio manovrato dal deep state, gravemente compromesso in scandali e corruzione, che farà agli Stati Uniti ciò che Jorge Mario Bergoglio sta facendo alla Chiesa, il Primo Ministro Conte all’Italia, il Presidente Macron alla Francia, il Primo Ministro Sanchez alla Spagna, e via dicendo. La ricattabilità di Joe Biden – al pari di quella dei Prelati del “cerchio magico” vaticano – consentirà di usarlo spregiudicatamente, consentendo a poteri illegittimi di interferire nella politica interna e negli equilibri internazionali. È evidente che chi lo manovra ha già pronto uno peggiore di lui con cui sostituirlo non appena se ne presenterà l’occasione.

            Eppure, in questo quadro desolante, in questa avanzata apparentemente inesorabile del «Nemico invisibile», emerge un elemento di speranza. L’avversario non sa amare, e non comprende che non basta assicurare un reddito universale o cancellare i mutui per soggiogare le masse e convincerle a farsi marchiare come capi di bestiame.

Questo popolo, che per troppo tempo ha sopportato i soprusi di un potere odioso e tirannico, sta riscoprendo di avere un’anima; sta comprendendo di non esser disposto a barattare la propria libertà con l’omologazione e la cancellazione della propria identità; sta iniziando a capire il valore dei legami familiari e sociali, dei vincoli di fede e di cultura che uniscono le persone oneste. Questo Great Reset è destinato a fallire perché chi lo ha pianificato non capisce che ci sono persone ancora disposte a scendere nelle strade per difendere i propri diritti, per proteggere i propri cari, per dare un futuro ai propri figli.

L’inumanità livellatrice del progetto mondialista si infrangerà miseramente dinanzi all’opposizione ferma e coraggiosa dei figli della Luce. Il nemico ha dalla sua parte Satana, che non sa che odiare. Noi abbiamo dalla nostra parte il Signore Onnipotente, il Dio degli eserciti schierati in battaglia, e la Santissima Vergine, che schiaccerà il capo dell’antico Serpente. «Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?» (Rm 8, 31). 

            Signor Presidente, Ella sa bene quanto gli Stati Uniti d’America, in quest’ora cruciale, siano considerati l’antemurale contro cui si è scatenata la guerra dichiarata dai fautori del globalismo. Riponga la Sua fiducia nel Signore, forte delle parole dell’Apostolo: «Posso tutto in Colui che mi dà forza» (Fil 4, 13). Essere strumento della divina Provvidenza è una grande responsabilità, alla quale corrisponderanno certamente le grazie di stato necessarie, ardentemente implorate dai tanti che La sostengono con le loro preghiere.

            Con questo celeste auspicio e l’assicurazione della mia preghiera per Lei, per la First Lady, e per i Suoi collaboratori, di tutto cuore Le giunga la mia Benedizione.

            God bless the United States of America!

 

 

 

 

Yacht e ville sequestrate agli oligarchi,

 costi di manutenzione alle stelle: 

il governo pensa alla vendita.

Ilsole24ore.com- Ivan Cimmarusti-(29 aprile 2022)-ci dice :

 

Gli elevatissimi costi di gestione dei beni “congelati” in Italia agli oligarchi russi agitano l’esecutivo: la spesa per la manutenzione sta lievitando a valori allarmanti.

Ecco lo yacht a Marina di Carrara che potrebbe essere di Putin.

I punti chiave.

Allo studio modifiche al decreto «sanzioni»

Il caso dello yacht da 140 metri.

Il nodo della manutenzione.

 Bisogna decidere cosa fare di questi yacht e ville di lusso da 953 milioni di euro, considerato che nei rendiconti della Ragioneria dello Stato la spesa per la manutenzione sta lievitando a valori allarmanti. Venderli o attuare il diritto di ritenzione - che consente allo Stato di trattenere e disporre da subito di queste proprietà se i destinatari delle misure non saldano il conto - sembrano le uniche soluzioni.

Per questo il Governo sta valutando un aggiornamento del decreto legislativo 109/2007, la norma che attua in Italia le sanzioni disposte dall’Unione europea nei confronti dei fedelissimi dello “zar” Vladimir Putin, finiti nella black list Ue.

Allo studio modifiche al decreto «sanzioni».

Il problema di fondo è che il decreto 109 è stato emesso per arginare i rischi connessi al finanziamento al terrorismo. Una norma che è sempre stata utilizzata per “congelare” e affidare alla gestione dell’Agenzia del Demanio beni, nella maggior parte dei casi, di modesta portata, come conti correnti o piccole società: un’amministrazione poco dispendiosa, che in via residuale consente anche la vendita. Ma le valutazioni giuridiche che si stanno svolgendo in queste ore escludono che il decreto possa permettere la cessione di proprietà di così alto valore: il rischio di ricorsi per milioni di euro è concreto.

 

In questo senso il Governo vuole mettere mano al decreto: un aggiornamento che permetta di non far ricadere sul bilancio dello Stato tutti questi costi, che inevitabilmente rischierebbero di vanificare gli effetti dei “congelamenti”. Una via, stando ai ragionamenti preliminari, potrebbe essere proprio il diritto di Ritenzione, che consentirebbe all’Agenzia di amministrare questi beni con più poteri e senza spese elevate, potendo anche venderli o affittarli.

Il caso dello yacht da 140 metri.

Attualmente, infatti, al Demanio si trovano a gestire una grana inaspettata. Uno yacht da 140 metri del valore di oltre 530 milioni di euro, come quello di Andrey Melnichenko, non è questione da poco. A maggior ragione se si considera che i panfili sono diversi, così come le ville e le residenze finora messe sottochiave dopo gli accertamenti del Nucleo di polizia valutaria della Guardia di finanza. Senza contare gli ulteriori “congelamenti” in arrivo, visto che l’Italia è disseminata di proprietà riconducibili direttamente o attraverso trust e società offshore a oligarchi.

Di questo sono consapevoli anche al Comitato di sicurezza finanziaria (Csf), informato costantemente con riunioni bisettimanali e incontri serrati dei sottogruppi. Gli stanziamenti progressivi che sta chiedendo l’Agenzia hanno acceso l’alert: il rischio che le sanzioni, varate per fiaccare economicamente il cerchio finanziario del presidente russo, si trasformino in un conto salato per gli italiani è concreto. Soprattutto perché nell’attuale disciplina del 109/2007, il bene deve essere restituito al proprietario nelle stesse condizioni in cui era al momento del “congelamento”.

Il nodo della manutenzione.

Ciò vuol dire che si dovranno anticipare tutte le somme per la manutenzione «mediante prelievo dai fondi stanziati sull’apposito capitolo di spesa del bilancio dello Stato», si legge nella norma.

Per fare un esempio con solo uno dei dieci “congelamenti” finora eseguiti, lo Stato dovrà garantire la corretta manutenzione della villa da 17 milioni di euro in Costa Smeralda di Alisher Usmanov, oligarca con un patrimonio stimato in 15,3 miliardi di euro, ritenuto dal Financial crimes enforcement network (FinCEN) del Tesoro degli Stati Uniti un finanziatore dei consiglieri di Putin. Tutto questo, fino a quando non saranno revocate le sanzioni e i beni saranno restituiti. In tal caso il conto finale lo dovranno saldare gli oligarchi. Il punto, però, è che non sono previste revoche, considerato che difficilmente Putin farà marcia indietro sull’Ucraina.

 

 

 

 

Chi sono gli oligarchi russi che

scappano a Dubai per

 sfuggire alle sanzioni.

 

Forbes.it -staff di Forbes -(15-4-2022)- John Hyatt e Giacomo Tognini-ci dicono:                                  

Mentre milioni di rifugiati ucraini fuggono dal loro paese devastato dalla guerra verso la Polonia e l’Europa occidentale, gli oligarchi russi fuggono su yacht di lusso e jet privati verso un’altra destinazione: Dubai.

Spiazzati dalle sanzioni e sgraditi in Occidente, i miliardari russi sono a caccia di proprietà di lusso a Dubai, attirati dalle spiagge sfarzose dell’Emirato, dal programma di visti flessibile e dalla neutralità promessa dal governo locale sull’Ucraina. Ad affermarlo sono diversi broker immobiliari di Dubai, che hanno mostrato proprietà a rappresentanti dei miliardari russi.

Stiamo ricevendo crescenti richieste da oligarchi russi”, afferma Şerif Nadi Varlı, il principale broker immobiliare di Vartur Real Estate, che ha uffici a Dubai e in Turchia, altra destinazione molto popolare tra i ricchi russi che cercano di sfuggire alle sanzioni. “Questo tipo di persone è alla ricerca di grandi investimenti. Non si fidano a mantenere i loro beni nei paesi europei”.

“Abbiamo visto, da parte degli oligarchi, un certo interesse non solo verso l’acquisto di proprietà a Dubai, ma anche verso un trasferimento qui”, dice un altro broker, che ha chiesto di rimanere anonimo perché teme di rompere gli accordi di riservatezza. Un terzo agente immobiliare di Dubai (che a sua volta ha chiesto di rimanere anonimo) afferma che la sua azienda ha lavorato con “parecchi” miliardari russi alla ricerca di case.

Gli oligarchi a Dubai si troveranno in compagnia di facce note. Almeno tre miliardari russi e un altro magnate che ha perso da poco lo status di miliardario possiedono già proprietà nella città-stato dell’emirato, secondo i dati forniti dal Center for Advanced Defense Studies di Washington. Il magnate dei fertilizzanti Dmitry Rybolovlev possiede una proprietà da 29,5 milioni di dollari a Palm Jumeirah, un lussuoso arcipelago di isole artificiali a forma di palma. I suoi ricchissimi vicini di casa includono Albert Avdolyan e sua moglie Elena, che possiedono due proprietà per un valore complessivo di 19 milioni di dollari, e Andrei Molchanov, che possiede una casa da 26,5 milioni. (Molchanov è uscito dalla lista Forbes dei miliardari del mondo nel 2022). Pavel Durov, il 37enne fondatore dell’app di messaggistica Telegram, è un altro inquilino delle isole.

I nuovi aspiranti residenti di Dubai sembrano fare shopping in un mercato ancora più costoso. La proprietà di maggiore valore offerta dalla Vartur di Nadi Varlı, sempre a Palm Jumeirah, ha un prezzo base di 68 milioni di dollari. “Nel segmento del super lusso, abbiamo assistito a transazioni folli, a prezzi che non avevamo mai visto prima”, afferma Alexander von Sayn-Wittgenstein, amministratore delegato dell’agenzia di lusso Luxcapital, che ha gestito l’acquisto di una casa da 76 milioni di dollari, sempre a Palm Jumeirah, all’inizio di questa settimana.

I broker che hanno parlato con Forbes hanno identificato diversi quartieri popolari tra i ricchi acquirenti russi, oltre al famoso Palm Jumeirah. Jumeirah Bay, un’isola artificiale di circa 550mila metri quadrati, dove le ville costano fino a 30 milioni di dollari, è in cima alla lista. Altre destinazioni comuni includono Emaar Beachfront, sede del grattacielo più alto del mondo, il Burj Khalifa, e del secondo centro commerciale più grande del mondo, il Dubai Mall. Anche Dubai Marina, che comprende la spiaggia commerciale e turistica La Mer e il lussuoso complesso sul lungomare Jumeirah Beach Residence, ha parecchio successo.

“I grandi costruttori di Dubai mi dicono che i russi comprano parecchio e spesso”, dice Nadi Varli, che ha menzionato Emaar Properties – il costruttore di Emaar Beachfront e Burj Khalifa – tra le aziende che gestiscono le richieste dei ricchi russi.

I russi che si trasferiscono a Dubai potrebbero voler approfittare del programma dei “visti d’oro” degli Emirati Arabi Uniti, che permette di ottenere la residenza a lungo termine agli stranieri che investono almeno dieci milioni di dirham (2,7 milioni di dollari) in una società o in un fondo di investimento locale.

Gli Emirati Arabi Uniti hanno liberalizzato il loro programma di visti all’inizio del 2021, per incoraggiare “investitori, professionisti, talenti speciali e le loro famiglie” a trasferirsi a Dubai. Inoltre, nel gennaio 2021 hanno introdotto un programma di concessione di cittadinanza dietro investimento che consente agli stranieri di acquisire la cittadinanza degli Emirati attraverso investimenti in “proprietà”. Non è ancora chiaro, però, quanto i potenziali cittadini debbano investire per ottenerla e di quali tipi di proprietà si parli.

“È una residenza a vita che ti viene concessa dal governo di Dubai ed è molto conveniente per molti di questi ricchi russi”, afferma Abdullah Alajaji, ad di Driven Properties, agenzia di intermediazione immobiliare di Dubai. La società di Alajaji ha registrato un aumento del 71% del valore netto degli immobili acquistati dai russi nel primo trimestre del 2022 rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. “Molte delle persone con cui abbiamo lavorato erano domiciliate a Londra, Lussemburgo, Svizzera e Israele e ora stanno cercando di piantare le tende a Dubai”, afferma Alajaji. “Sia che si tratti della loro attività, sia di spostare le loro famiglie e risiedere a Dubai”.

Nelle ultime settimane, diversi yacht di proprietà di oligarchi russi si sono diretti verso il porto di Dubai. Il superyacht Madame Gu, di proprietà dell’oligarca dell’acciaio e membro della Duma Andrei Skoch, valutato 156 milioni di dollari dagli esperti di VesselsValue, è stato visto per l’ultima volta a Dubai all’inizio di marzo. Il superyacht da 90 metri Nirvana, appartenente al magnate del nichel Vladimir Potanin, non sanzionato, e il Titan da 82 milioni di dollari del magnate dell’acciaio Alexander Abramov sono attualmente ormeggiati a Mina Rashid, un terminal crociere artificiale nella parte settentrionale della città. I due superyacht sono ormeggiati uno accanto all’altro, secondo i dati del servizio di tracciamento delle navi MarineTraffic. Due altri yacht di proprietà di un oligarca, il Sea & Us di Anatoly Lomakin (58 milioni di dollari) e l’Hermitage di Anatoly Sedykh (73 milioni di dollari), sono stati visti per l’ultima volta a Dubai a marzo e aprile.

Il terminal di Mina Rashid è di proprietà del governo di Dubai, che possiede anche un altro porto turistico popolare tra i miliardari russi – Porto Montenegro a Tivat, in Montenegro – attraverso la Investment Corporation di Dubai. Lo yacht Solaris da 474 milioni di dollari di Roman Abramovich si è stabilito brevemente a Porto Montenegro il 12 marzo prima di salpare per la Turchia, mentre il Galactica Super Nova di Vagit Alekperov, magnate del petrolio e del gas, ha lasciato il porto il 2 marzo.

Oltre ai loro superyacht, gli oligarchi stanno anche portando i loro aerei privati negli Emirati. Forbes ha trovato quattro jet collegati a miliardari russi sanzionati, tra cui Abramovich, Arkady Rotenberg, Viktor Rashnikov e Mikhail Gutseriev, che sono stati rintracciati l’ultima volta a Dubai o ad Abu Dhabi nei mesi di febbraio e marzo. Il Boeing 787-8 Dreamliner di Abramovich, registrato ad Aruba con il codice P4-Bdl, è stato visto l’ultima volta a Dubai il 4 marzo, dopo un decollo da Mosca. I tre jet che sono stati registrati l’ultima volta a Dubai sono atterrati a Dubai World Central (Dwc), l’aeroporto più recente della città-stato, alternativo a Dubai International, dove atterra la stragrande maggioranza dei voli di linea. Definito “l’aeroporto del futuro” dalla società pubblica Dubai Airports, Dwc è ancora in fase di completamento e gli unici voli passeggeri che attualmente riceve sembrano essere charter stagionali offerti da quattro compagnie aeree russe, che partono da varie città russe.

 

Non sono solo i miliardari russi che affollano le coste di Dubai. Anche a chi è “solo” ricco è stato vietato di viaggiare in Europa, e questo ha portato molti a fare incetta di appartamenti a Dubai. Il numero di russi che possiedono proprietà a Dubai a marzo è salito, soprattutto nella fascia di prezzo da 250mila a 500mila dollari, secondo i dati della società immobiliare di Dubai Metropolitan Premium Properties, citati anche da diversi media russi. (Metropolitan Premium Properties non ha risposto alla richiesta di commento di Forbes). La domanda sta facendo aumentare i prezzi e frustrando alcuni acquirenti: Ellada Gasanova, una popolare stilista russa, si è lamentata su Instagram del costoso mercato immobiliare di Dubai, secondo quanto riportato dai media russi locali. (State tranquilli: a quanto pare, Gasanova è riuscita a trovare un appartamento).

Per gli abitanti di Dubai, la recente ondata di acquirenti russi non è sorprendente, data la storia di investimenti della Russia nell’Emirato.

“Il mercato immobiliare di Dubai ha sempre attirato molti investitori russi, che da sempre sono tra i principali investitori negli Emirati Arabi Uniti”, afferma Hamid Jaafri, ad della società di investimenti immobiliari One Investments. “Dubai ha storicamente beneficiato dell’instabilità geopolitica, a causa del suo status di rifugio sicuro, e senza dubbio la crisi tra Russia e Ucraina andrà a vantaggio di Dubai”.

Gli Emirati Arabi Uniti non sono stati timidi nel loro rifiuto di sostenere le sanzioni occidentali contro la Russia. Gli Emirati sono infatti, insieme a Cina e India, uno dei tre paesi che si sono astenuti nella votazione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite del 25 febbraio per condannare l’invasione russa dell’Ucraina. Si sono poi astenuti anche il 7 aprile in una votazione dell’Assemblea Generale per sospendere la Russia dal Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite. Il 4 marzo, la Financial action task force, un organo di vigilanza sulla criminalità finanziaria con sede a Parigi, ha inserito gli Emirati Arabi Uniti nella sua “lista grigia” di giurisdizioni che necessitano un monitoraggio più accurato.

I legami finanziari tra gli Emirati Arabi Uniti e la Russia sono profondi. Mubadala Investment Corporation, il fondo di investimento sovrano degli Emirati Arabi Uniti, ha investito 3,6 miliardi di dollari in 50 società russe fino a oggi. Almeno due di questi investimenti, del valore di quasi 400 milioni di dollari, sono legati a miliardari russi sanzionati: a dicembre, Mubadala ha acquisito una partecipazione dell’1,9% nel gigante petrolchimico Sibur, in parte di proprietà degli oligarchi sanzionati Leonid Mikhelson e Gennady Timchenko. Forbes stima che la quota ora valga circa 220 milioni di dollari, in calo rispetto ai circa 500 milioni di dollari al momento dell’acquisto, a causa dell’impatto delle sanzioni sul rublo. A giugno, Mubadala ha speso 175 milioni di dollari per acquistare il 2,6% di En+ Group, un’azienda di alluminio quotata in borsa il cui maggiore azionista è il miliardario Oleg Deripaska. Ciò ha portato la partecipazione di Mubadala in En+ Group fino al 2,86%. Ora la sua quota vale circa 170 milioni di dollari, poiché le azioni della società sono scese.

In una conferenza sugli investimenti a Dubai il 28 marzo, l’amministratore delegato di Mubadala, Khaldoon Al Mubarak, ha affermato che il fondo “sospenderà gli investimenti” in Russia. Tuttavia, l’afflusso di oligarchi in cerca di case di lusso dimostra che gli Emirati continuano ad accogliere gli investimenti dei più ricchi di Mosca.

 

 

 

 

La Turchia accoglie gli oligarchi russi

e diventa un rifugio per i loro capitali.

Linkiesta.it- Eleonora Mongelli- Ali Yildiz- (5 aprile 2022)- ci dice :

 

Per difendere il crollo della lira, Erdogan è disposto ad accogliere valute straniere di qualsiasi tipo per aumentare il denaro nel circuito finanziario del Paese, senza fare attenzione alla provenienza. Il tutto si traduce in un aiuto al regime di Putin. Così Ankara diventa un mediatore inaffidabile nelle trattative per la pace.

«Questo è lo scontro tra lo stato di diritto e la legge delle armi, tra la democrazia e l’autocrazia». Le parole pronunciate dalla presidente della Commissione europea von der Leyen, il quinto giorno di invasione dell’Ucraina da parte della Federazione Russa, non solo hanno interpretato l’orrore che stava vivendo Kiev in quei giorni, ma anche lo scenario che si stava per delineare: quello che avrebbe visto la comunità internazionale costretta a fare delle scelte per difendere quello che le è più caro.

Nei giorni immediatamente successivi all’invasione, un’alleanza composta da Unione Europea, Stati Uniti, Regno Unito, Canada, Australia e Giappone ha adottato sanzioni senza precedenti contro entità statali russe, istituzioni finanziarie e contro l’élite del Cremlino e i suoi oligarchi, ritenuti corresponsabili delle azioni criminali di Putin.

 A rafforzare quest’azione si è aggiunta l’istituzione della task force multilaterale REPO (Russian Elites, Proxies, and Oligarchs), con lo scopo di coordinare gli sforzi degli alleati per far rispettare le sanzioni imposte.

 La compattezza degli Stati democratici nel rispondere con tali sanzioni ai crimini del Cremlino ha generato, senza nostra sorpresa, critiche da parte di Paesi guidati da regimi autoritari. Dopotutto, che le sanzioni siano temute dagli autocrati non è una novità, e che questi sappiano come allearsi per offrire ai sanzionati una via di fuga, neanche.

La Turchia ne è il primo esempio. Seppure sia membro della NATO, non ha mai nascosto la sua posizione “critica” rispetto alle sanzioni nei confronti della Russia.

 Il ministro degli Esteri, Mevlüt Çavuşoğlu, inizialmente si è limitato ad affermare che non era intenzione di Ankara unirsi alle sanzioni internazionali per poi andare oltre dando addirittura il benvenuto nel suo Paese a individui russi sanzionati, sia come turisti, sia come investitori.

Ha fatto quindi intendere che la Turchia sarebbe stata un rifugio sicuro per il denaro russo. «Presentarsi come un attore neutrale o un mediatore equo tra le due parti è stato l’atteggiamento di Ankara all’inizio di quasi tutte le crisi degli ultimi dieci anni», dice Hasim Tekineş, un ex diplomatico turco. «Ma, quando la crisi degenera, il presidente turco Erdoğan scommette e prende le parti di chi potrebbe offrirgli un vantaggio, come ha fatto in Siria, Libia e Qatar».

Ankara ha già dato dimostrazione, in passato, di prendere le parti di chi è stato colpito da sanzioni internazionali, aiutandolo a eluderle per poi guadagnarci, come nel caso Stati Uniti-Iran. Tra il 2012 e il 2016, la banca statale turca Halkbank aiutò l’Iran a eludere le sanzioni statunitensi trasferendo segretamente 20 miliardi di dollari in fondi riservati al governo di Teheran.

Diversi indizi lasciano pensare che anche oggi la Turchia abbia in mente un piano simile per la Russia. L’editorialista filo-Erdoğan Abdulkadir Selvi lo scorso 8 marzo ha scritto che il presidente turco avrebbe suggerito a Putin, nel corso di una telefonata, la creazione di una struttura commerciale trilaterale tra Russia, Turchia e Cina che permetta di commerciare in oro, rubli, lire e yuan e aggirare così le sanzioni sulla Russia.

Ad avvalorare questa tesi sono gli stessi oligarchi russi sanzionati, i quali già vedono la Turchia come un rifugio sicuro. Per esempio l’imprenditore ed ex agente del Kgb Igor Sechin, che avrebbe detto al capitano del suo superyacht, ora sequestrato in seguito alle sanzioni dell’Unione Europea, di lasciare la costa francese e navigare verso la Turchia il più rapidamente possibile.

Anche i media britannici riferiscono che il superyacht di lusso del noto oligarca Roman Abramovich, sul quale in questi giorni aleggia il mistero di un possibile avvelenamento, sia stato avvistato al largo della costa turca nelle scorse settimane, mentre il mese scorso sarebbe stato visto a Istanbul anche il suo jet privato.

La preoccupazione per una Turchia pronta ad aiutare la Russia a eludere le sanzioni sembra quindi fondata. Sia il mercato immobiliare sia quello finanziario del Paese hanno registrato una notevole crescita di acquirenti russi nelle ultime settimane. Parlando a Voice of America, Timothy Ash, giornalista e analista dei mercati emergenti di base a Londra, ha detto: «Ci è stato riferito di un aumento di richieste di nuovi conti bancari in Turchia da parte di russi, presumibilmente per cercare di aggirare alcuni dei problemi che probabilmente stanno incontrando».

L’attenzione degli analisti si sta concentrando anche sulle aziende russe che cercano di esportare o commerciare con la Russia e che si starebbero rivendendo come entità turche.

Dopotutto, la Turchia ha un disperato bisogno di valuta estera. Nel tentativo di proteggere la lira turca, ha sperperato le sue riserve, raggiungendo nel dicembre 2021 il livello più basso dal 2002, attestandosi a 8,63 miliardi di dollari. Il governo non ha la volontà politica necessaria per combattere il denaro illecito. Al contrario, avendo bisogno di 200 miliardi di dollari entro il 2022 per rimborsare il suo debito estero, lo accoglie indipendentemente dalla fonte. L’obiettivo è di attirare valuta estera e aumentare la quantità di denaro nel sistema finanziario del Paese e per questo il Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) al governo da anni, ha promulgato le leggi di amnistia fiscale nel 2008, 2013, 2016, 2018 e 2019. La scadenza della legge del 2019 è stata prorogata più volte, e sarà in vigore fino al 30 giugno 2022.

Secondo questa norma, che è simile alle precedenti, tutto il denaro, l’oro, la valuta estera, i titoli e gli altri strumenti del mercato dei capitali non dichiarati in precedenza, detenuti all’estero o in Turchia, saranno considerati legittimi se trasferiti in Turchia o se l’autorità fiscale sarà informata della loro esistenza entro il 30 giugno 2022. I proprietari non saranno tenuti a fornire alcuna spiegazione sull’origine dei beni e non saranno sottoposti a controlli fiscali in relazione ai beni dichiarati. Questa amnistia è così vasta che elimina persino una qualsiasi tassa per i beni portati dall’estero. Il denaro può essere portato anche in una valigia.

Uno scenario che diventa ancora più preoccupante se consideriamo l’inefficacia dei meccanismi di due diligence del sistema bancario turco – la Turchia figura nella lista grigia della Financial Action Task Force, un’organizzazione intergovernativa volta a combattere il riciclaggio di denaro, il finanziamento del terrorismo e il finanziamento della proliferazione delle armi di distruzione di massa – e la debolezza istituzionale degli organi di regolamentazione.

In Turchia, l’Agenzia di regolamentazione e supervisione bancaria (BDDK) e il Financial Crimes Investigation Board (MASAK) sono i principali responsabili della regolamentazione e supervisione delle istituzioni finanziarie. Il MASAK ha il compito di contrastare il riciclaggio di denaro. Tuttavia, la capacità istituzionale e l’indipendenza di questi due organismi sono stati indeboliti negli ultimi anni a causa dell’avversione del governo per la burocrazia. La recente dichiarazione del ministro delle finanze, Nurettin Nebati, durante un incontro con gli investitori stranieri, non lascia spazio a dubbi: «La cosa che meno mi piace è la difficoltà che affrontano gli investitori a causa della legislazione e della burocrazia. Elimineremo la burocrazia e cambieremo la legislazione. Su questo, stiamo già avanzando».

Sfruttando quindi le vulnerabilità economiche della Turchia e le leggi permissive, gli oligarchi russi possono mettere i loro soldi al sicuro nel sistema finanziario del Paese, senza pagare alcuna tassa o dover affrontare conseguenze legali. Basterà trovare un facilitatore nel luogo, che potrà essere una qualsiasi persona fisica o giuridica con sede in Turchia.

Di sicuro, una Turchia che offre una via d’uscita agli individui colpiti dalle sanzioni internazionali perché legati agli atroci crimini del Cremlino non può più dirsi imparziale. Ha scelto di stare con gli altri regimi, ovvero dalla parte dell’autocrazia. In questo senso in sede di negoziazioni l’Ucraina dovrà essere cauta: la Russia ha molta influenza sulla Turchia ed è improbabile che questa possa agire come un mediatore equo e neutrale.

 

 

 

Fine della globalizzazione.

Ilgiornale.it- Augusto Minzolini-(13 Marzo 2022)- ci dice:

 

Le guerre, da che mondo è mondo, spazzano via convinzioni, calcoli e previsioni. La guerra in Ucraina, se ce ne fosse stato bisogno, ha cancellato il mito della globalizzazione.

 

Fine della globalizzazione.

 Vladimir Putin che fa quasi spallucce di fronte alla decisione degli Stati Uniti di far fuori la Russia dal Fondo monetario internazionale (Fmi) e dall'Organizzazione mondiale per il commercio (Wto) è l'immagine di un cambio d'epoca: la verità è che essere espulso dal mondo globalizzato non ha impaurito lo Zar al punto da obbligarlo a porre fine alla guerra.

Forse per l'Occidente, che ha confidato su questo processo per dominare il mondo o, meglio, per esportare la democrazia ed il suo stile di vita, è il tempo di un bilancio, visto che il Paese più grande della terra ormai è «fuori». Per cui c'è da chiedersi: la globalizzazione ha funzionato? È servita?

Sul piano economico ha esaltato le big company, che hanno raggiunto dimensioni planetarie, non i cittadini delle nazioni occidentali.

L'ultima operazione, quella di tirar dentro la Cina, ha fatto la fortuna della Cina stessa, non dei suoi interlocutori. L'obiettivo era quello di conquistare il suo enorme mercato e, invece, è stato il Dragone a conquistare quello degli altri Paesi.

Addirittura la competizione ha dimostrato che il capitalismo di Stato (senza diritti politici e sindacali) è più forte del capitalismo delle democrazie liberali.

Di più: l'ingresso della Cina nel mondo globale non l'ha costretta neppure a rispettare target igienico-sanitari (vedi Covid), né ad incrementare il tasso di democrazia (chiedere agli studenti di Hong-Kong). Ciò che sta succedendo in Russia nelle ultime settimane fotografa una situazione anche peggiore: basta pensare agli arresti di massa; alla pena di 15 anni per chi racconta il Paese senza rispettare le indicazioni del regime; alla fine di Aleksej Navalny.

La globalizzazione non è servita, veniamo al tema cruciale, neppure a salvaguardare la pace. Un mondo interdipendente dovrebbe risolvere in altro modo i conflitti, non certo con le armi. La guerra in Ucraina è la dimostrazione del fallimento.

Putin se ne infischia al punto di trasformare il cuore dell'Europa in una nuova Siria, importando addirittura jihadisti. Di più, confidando nella globalizzazione l'Occidente si è fatto trovare impreparato. Specie l'Europa, che non ha un esercito comune e patisce una dipendenza energetica rispetto al nemico del momento. Se non avesse puntato sulle relazioni, sui rapporti commerciali, sarebbe stata sicuramente più attenta alla propria autonomia.

La verità è che il processo di globalizzazione in Occidente ha seguito un solo vangelo, il mercantilismo. Non ha chiesto ai nuovi interlocutori dei parametri minimi di democrazia e libertà, ma si è preoccupato solo di aprire nuovi mercati

. Per cui le autocrazie hanno preso, ma non hanno dato. Anzi, se fossero state isolate, le loro contraddizioni sarebbero venute al pettine: in questo modo, invece, hanno assorbito parte dello stile di vita occidentale per sedare i propri cittadini, ma gli hanno negato i diritti.

Ragione per cui la «globalizzazione» va ripensata totalmente, vanno introdotte delle regole, degli obblighi per chi vuole entrare nel consesso dell'economia internazionale per evitare che da speranza per imporre la democrazia sull'autocrazia, non abbia come conseguenza il suo esatto contrario.

A conti fatti quella di oggi offre poco sul piano dell'economia, della democrazia e della pace.

 

 

Perché non esiste un ordine mondiale

liberale. L’analisi di Applebaum.

Startmag.it- Redazione- (13 -4 -2022)- ci dice:

 

Perché non esiste un ordine mondiale liberale.

Mentre l’Occidente viveva felice nell’illusione del “Mai più”, la Russia lavorava per potenziare le sue forze armate e la sua macchina di propaganda. L’approfondimento di Anne Applebaum sull’Atlantic.

Nel febbraio 1994, nella grande sala da ballo del municipio di Amburgo, in Germania, il presidente dell’Estonia tenne un discorso straordinario. In piedi davanti a un pubblico in abito da sera, Lennart Meri ha lodato i valori del mondo democratico a cui l’Estonia aspirava allora ad aderire.

 “La libertà di ogni individuo, la libertà dell’economia e del commercio, così come la libertà della mente, della cultura e della scienza, sono inseparabilmente interconnesse”, ha detto ai cittadini di Amburgo. “Essi formano il prerequisito di una democrazia vitale”. Il suo paese, avendo riconquistato l’indipendenza dall’Unione Sovietica tre anni prima, credeva in questi valori: “Il popolo estone non ha mai abbandonato la sua fede in questa libertà durante i decenni di oppressione totalitaria”.

Ma Meri era anche andato a consegnare un avvertimento: la libertà in Estonia, e in Europa, potrebbe presto essere minacciata. Il presidente russo Boris Eltsin e i circoli intorno a lui stavano tornando al linguaggio dell’imperialismo, parlando della Russia come primus inter pares – il primo tra uguali – dell’ex impero sovietico. Nel 1994, Mosca ribolliva già con il linguaggio del risentimento, dell’aggressione e della nostalgia imperiale; lo stato russo stava sviluppando una visione illiberale del mondo, e già allora si preparava ad imporla. Meri ha invitato il mondo democratico a reagire: l’Occidente dovrebbe “rendere enfaticamente chiaro alla leadership russa che un’altra espansione imperialista non avrà alcuna possibilità”.

A questo punto, il vicesindaco di San Pietroburgo, Vladimir Putin, si è alzato ed è uscito dalla sala – scrive Anne Applebaum su The Atlantic.

Le paure di Meri erano a quel tempo condivise in tutte le nazioni precedentemente prigioniere dell’Europa centrale e orientale, ed erano abbastanza forti da convincere i governi di Estonia, Polonia e altrove a fare una campagna per l’ammissione alla NATO. Ebbero successo perché nessuno a Washington, Londra o Berlino credeva che i nuovi membri fossero importanti.

L’Unione Sovietica non c’era più, il vicesindaco di San Pietroburgo non era una persona importante e l’Estonia non avrebbe mai avuto bisogno di essere difesa. Ecco perché né Bill Clinton né George W. Bush hanno fatto molti tentativi per armare o rinforzare i nuovi membri della NATO. Solo nel 2014 l’amministrazione Obama ha finalmente collocato un piccolo numero di truppe americane nella regione, in gran parte nel tentativo di rassicurare gli alleati dopo la prima invasione russa in Ucraina.

Nessun’altra parte del mondo occidentale ha sentito alcuna minaccia. Per 30 anni, le compagnie petrolifere e del gas occidentali si sono ammassate in Russia, associandosi con gli oligarchi russi che avevano apertamente rubato i beni che controllavano.

Anche le istituzioni finanziarie occidentali hanno fatto affari lucrativi in Russia, istituendo sistemi per permettere a quegli stessi cleptocrati russi di esportare il loro denaro rubato e tenerlo parcheggiato, in modo anonimo, in proprietà e banche occidentali.

Ci siamo convinti che non c’era nulla di male nell’arricchire i dittatori e i loro compari. Il commercio, immaginavamo, avrebbe trasformato i nostri partner commerciali. La ricchezza avrebbe portato il liberalismo. Il capitalismo avrebbe portato la democrazia e la democrazia avrebbe portato la pace.

Dopo tutto, era già successo prima. Dopo il cataclisma del 1939-45, gli europei avevano effettivamente abbandonato collettivamente le guerre di conquista imperiale e territoriale. Avevano smesso di sognare di eliminarsi a vicenda.

Invece, il continente che era stato la fonte delle due peggiori guerre che il mondo avesse mai conosciuto ha creato l’Unione Europea, un’organizzazione progettata per trovare soluzioni negoziate ai conflitti e promuovere la cooperazione, il commercio e gli scambi.

A causa della metamorfosi dell’Europa – e specialmente a causa della straordinaria trasformazione della Germania da dittatura nazista a motore dell’integrazione e della prosperità del continente – gli europei e gli americani credevano di aver creato un insieme di regole che avrebbero preservato la pace non solo nei loro continenti, ma alla fine nel mondo intero.

Questo ordine mondiale liberale si basava sul mantra “Mai più”. Mai più ci sarebbe stato un genocidio.

Mai più grandi nazioni avrebbero cancellato nazioni più piccole dalla mappa. Mai più saremmo stati ingannati da dittatori che usavano il linguaggio dell’omicidio di massa. Almeno in Europa, avremmo saputo come reagire quando lo avremmo sentito.

Ma mentre noi vivevamo felicemente nell’illusione che “Mai più” significasse qualcosa di reale, i leader della Russia, proprietari del più grande arsenale nucleare del mondo, stavano ricostruendo un esercito e una macchina di propaganda progettati per facilitare l’omicidio di massa, così come uno stato mafioso controllato da un piccolo numero di uomini e che non assomigliava affatto al capitalismo occidentale.

Per molto tempo – troppo a lungo – i custodi dell’ordine mondiale liberale hanno rifiutato di capire questi cambiamenti. Hanno distolto lo sguardo quando la Russia ha “pacificato” la Cecenia uccidendo decine di migliaia di persone.

 Quando la Russia ha bombardato scuole e ospedali in Siria, i leader occidentali hanno deciso che quello non era un loro problema. Quando la Russia ha invaso l’Ucraina la prima volta, hanno trovato ragioni per non preoccuparsi. Sicuramente Putin sarebbe stato soddisfatto dall’annessione della Crimea. Quando la Russia ha invaso l’Ucraina la seconda volta, occupando parte del Donbas, erano sicuri che sarebbe stato abbastanza sensibile da fermarsi.

E quando i russi, arricchitisi grazie alla cleptocrazia che abbiamo facilitato, hanno comprato politici occidentali, finanziato movimenti estremisti di estrema destra e condotto campagne di disinformazione durante le elezioni democratiche americane ed europee, i leader americani ed europei si sono ancora rifiutati di prenderli sul serio. Erano solo alcuni post su Facebook; e allora?

Non credevamo di essere in guerra con la Russia. Credevamo, invece, di essere al sicuro e liberi, protetti da trattati, da garanzie di confine e dalle norme e regole dell’ordine mondiale liberale.

Con la terza e più brutale invasione dell’Ucraina, la vacuità di queste convinzioni è stata rivelata. Il presidente russo ha apertamente negato l’esistenza di uno stato ucraino legittimo: “Russi e Ucraini”, disse, “erano un solo popolo, un unico insieme”.

 Il suo esercito ha preso di mira i civili, gli ospedali e le scuole. La sua politica mirava a creare rifugiati per destabilizzare l’Europa occidentale. “Mai più” si è rivelato uno slogan vuoto mentre un piano genocida prendeva forma davanti ai nostri occhi, proprio lungo il confine orientale dell’Unione Europea.

Altre autocrazie ci guardano per vedere cosa faremo, perché la Russia non è l’unica nazione al mondo che brama il territorio dei suoi vicini, che cerca di distruggere intere popolazioni, che non si fa scrupoli ad usare la violenza di massa.

La Corea del Nord può attaccare la Corea del Sud in qualsiasi momento, e ha armi nucleari che possono colpire il Giappone. La Cina cerca di eliminare gli uiguri come gruppo etnico distinto e ha disegni imperiali su Taiwan.

Non possiamo riportare l’orologio al 1994, per vedere cosa sarebbe successo se avessimo ascoltato l’avvertimento di Lennart Meri. Ma possiamo affrontare il futuro con onestà. Possiamo indicare le sfide e prepararci ad affrontarle.

Non esiste un ordine mondiale liberale naturale, e non ci sono regole senza qualcuno che le faccia rispettare. A meno che le democrazie non si difendano insieme, le forze dell’autocrazia le distruggeranno. Sto usando la parola forze, al plurale, deliberatamente.

Molti politici americani preferirebbero comprensibilmente concentrarsi sulla competizione a lungo termine con la Cina. Ma finché la Russia è governata da Putin, anche la Russia è in guerra con noi.

 Così come la Bielorussia, la Corea del Nord, il Venezuela, l’Iran, il Nicaragua, l’Ungheria e potenzialmente molti altri. Potremmo non voler competere con loro, o persino preoccuparci molto di loro. Ma a loro importa di noi. Capiscono che il linguaggio della democrazia, della lotta alla corruzione e della giustizia è pericoloso per la loro forma di potere autocratico e sanno che quel linguaggio ha origine nel mondo democratico, il nostro mondo.

Questa lotta non è teorica. Richiede eserciti, strategie, armi e piani a lungo termine. Richiede una cooperazione alleata molto più stretta, non solo in Europa ma nel Pacifico, in Africa e in America Latina. La NATO non può più operare come se un giorno le fosse richiesto di difendersi; ha bisogno di iniziare a operare come durante la guerra fredda, partendo dal presupposto che un’invasione potrebbe avvenire in qualsiasi momento.

 La decisione della Germania di aumentare la spesa per la difesa di 100 miliardi di euro è un buon inizio, così come la dichiarazione della Danimarca che anche lei aumenterà la spesa per la difesa. Ma un coordinamento militare e di intelligence più profondo potrebbe richiedere nuove istituzioni – forse una legione europea volontaria, collegata all’Unione Europea, o un’alleanza baltica che includa Svezia e Finlandia – e un pensiero diverso su dove e come investire nella difesa europea e del Pacifico.

 

Se non abbiamo mezzi per trasmettere i nostri messaggi al mondo autocratico, allora nessuno li ascolterà.

Così come dopo l’11 settembre abbiamo messo insieme il Dipartimento della Sicurezza Nazionale da agenzie disparate, ora abbiamo bisogno di riunire le parti disparate del governo degli Stati Uniti che pensano alla comunicazione, non per fare propaganda ma per raggiungere più persone nel mondo con informazioni migliori e per impedire alle autocrazie di distorcere questa conoscenza.

 Perché non abbiamo costruito una stazione televisiva in lingua russa per competere con la propaganda di Putin?

Perché non possiamo produrre più programmi in mandarino o in uiguro?

 Le nostre emittenti in lingua straniera – Radio Free Europe/Radio Liberty, Radio Free Asia, Radio Martí a Cuba – hanno bisogno non solo di soldi per la programmazione ma di un grande investimento nella ricerca. Sappiamo molto poco del pubblico russo – cosa leggono, cosa potrebbero essere desiderosi di imparare.

Anche i finanziamenti per l’educazione e la cultura devono essere ripensati. Non dovrebbe esserci un’università in lingua russa, a Vilnius o a Varsavia, per ospitare tutti gli intellettuali e i pensatori che hanno appena lasciato Mosca?

Non dovremmo spendere di più per l’istruzione in arabo, hindi, persiano? Molto di ciò che passa per diplomazia culturale funziona con il pilota automatico. I programmi dovrebbero essere rifatti per un’epoca diversa, una in cui, anche se il mondo è più conoscibile che mai, le dittature cercano di nascondere questa conoscenza ai loro cittadini.

Il commercio con gli autocrati promuove l’autocrazia, non la democrazia.

 Il Congresso ha fatto alcuni progressi negli ultimi mesi nella lotta contro la cleptocrazia globale, e l’amministrazione Biden ha fatto bene a mettere la lotta alla corruzione al centro della sua strategia politica. Ma possiamo andare molto oltre, perché non c’è ragione che qualsiasi azienda, proprietà o trust sia tenuto anonimo. Ogni stato americano, e ogni paese democratico, dovrebbe immediatamente rendere trasparente ogni proprietà.

I paradisi fiscali dovrebbero essere illegali. Le uniche persone che hanno bisogno di tenere segrete le loro case, i loro affari e il loro reddito sono i truffatori e gli evasori fiscali.

Abbiamo bisogno di un cambiamento drammatico e profondo nel nostro consumo di energia, e non solo a causa del cambiamento climatico. I miliardi di dollari che abbiamo inviato a Russia, Iran, Venezuela e Arabia Saudita hanno promosso alcuni dei peggiori e più corrotti dittatori del mondo.

La transizione dal petrolio e dal gas ad altre fonti di energia deve avvenire con molta più velocità e decisione. Ogni dollaro speso per il petrolio russo aiuta a finanziare l’artiglieria che spara sui civili ucraini.

Prendete sul serio la democrazia. Insegnatela, discutetela, miglioratela, difendetela. Forse non c’è un ordine mondiale liberale naturale, ma ci sono società liberali, paesi aperti e liberi che offrono alle persone una migliore possibilità di vivere una vita utile rispetto alle dittature chiuse. Non sono certo perfette; la nostra ha profondi difetti, profonde divisioni, terribili cicatrici storiche. Ma questa è una ragione in più per difenderli e proteggerli. Poche di esse sono esistite nel corso della storia umana; molte sono esistite per un certo periodo e poi sono fallite. Possono essere distrutte dall’esterno, ma anche dall’interno, da divisioni e demagoghi.

Forse, all’indomani di questa crisi, possiamo imparare qualcosa dagli ucraini. Da decenni combattiamo una guerra culturale tra valori liberali da una parte e forme muscolari di patriottismo dall’altra. Gli ucraini ci stanno mostrando un modo per avere entrambi.

Appena sono iniziati gli attacchi, hanno superato le loro numerose divisioni politiche, che non sono meno aspre delle nostre, e hanno preso le armi per combattere per la loro sovranità e la loro democrazia.

Hanno dimostrato che è possibile essere un patriota e un credente in una società aperta, che una democrazia può essere più forte e più feroce dei suoi avversari.

 Proprio perché non esiste un ordine mondiale liberale, nessuna norma e nessuna regola, dobbiamo lottare ferocemente per i valori e le speranze del liberalismo se vogliamo che le nostre società aperte continuino ad esistere.

 

Le utili risposte delle democrazie liberali.

 Corriere.it-  Goffredo Buccini- (2-5-2022)- ci dice :

 

 

Occorre un patto sociale a sostegno a chi non ha nulla. Ma la libertà può comportare sacrifici.

Il recente successo di Macron in Francia e quello, certo meno centrale in geopolitica ma comunque significativo, di Golob nella Slovenia finora sovranista sono stati due segnali incoraggianti per le democrazie liberali e per la Ue. Ma non devono alimentare, nei difficili mesi a venire, la pericolosa illusione dello scampato pericolo. Nella tenuta sociale delle nazioni europee il bicchiere è ancora vuoto almeno per metà di fronte al doppio impatto di pandemia e guerra, alle cadute del reddito, alla corsa dell’inflazione, ai costi dell’energia, a ulteriori e prevedibili ondate migratorie (ne saremo coinvolti noi italiani per primi, quando le carestie innescate dal conflitto anche economico spingeranno a nord decine di migliaia di africani). Il richiamo dell’uomo (o della donna) forte e, soprattutto, delle risposte semplificate rispetto alla complessità decisionale dei sistemi liberali è assai sensibile nelle nostre comunità. Come pure i fattori identitari, nostalgici ed emotivi che spingono a ciò che Bauman chiamava «retrotopia».

 

Colpiva, all’inizio dell’aggressione all’Ucraina, l’83% di russi che s’è schierato decisamente con Putin. Frutto della «disinformazia», ci siamo detti. In realtà, altre percentuali molto più vicine a noi devono farci riflettere. A fine 2019, e dunque prima della crisi da pandemia e con il governo dei due populismi nazionali appena caduto, il Censis rilevò che un italiano su due (48,2%) voleva un «uomo forte al potere» che non dovesse «preoccuparsi di Parlamento ed elezioni»; l’idea trovava più consensi tra operai (62%), persone meno istruite (62%) e con redditi bassi (56,4%) ed era spiegata dal Censis con «l’inefficacia della politica ed estraneità da essa», elementi che «aprono la strada a disponibilità che si pensavano riposte per sempre nella soffitta della storia», come l’attesa messianica di colui «che tutto risolve» (insomma, Salvini col suo appello ai «pieni poteri» di quell’estate, non aveva letto così male gli umori popolari, altro che abuso di mojito al Papeete: poi la mossa del cavallo di Matteo Renzi, con l’apertura a un governo Pd-M5S, lo ha spiazzato, cambiando gli eventi).

Nella Francia di cui abbiamo celebrato la saggezza il 24 aprile, i sondaggi preelettorali raccontavano che solo il 51% dei giovani considerava «molto importante vivere in un Paese democratico», quasi la metà del campione riteneva «comprensibile» la violenza politica contro gli eletti e uno su cinque «accettabile» la devastazione degli spazi pubblici (gilet gialli e rivolte nelle banlieue hanno almeno un 20% di tolleranza, dunque; astensionismo e voto alle estreme si spiegano anche così). Può andare peggio. Se il sondaggista Jerome Fourquet (istituto Ifop) su Le Figaro configurava correttamente il «clivage», la faglia aperta, tra due blocchi, fronte repubblicano e fronte sovranista, tra Francia agiata e colta e Francia popolare, mandando in archivio la dialettica classica tra destra e sinistra, è bene considerare di nuovo qualche cifra di casa nostra. Secondo l’Ufficio parlamentare di bilancio, la guerra nel 2022 è già costata all’Italia un punto di Pil (18/19 miliardi). L’ultimo rapporto Svimez fotografa tre milioni di italiani occupati ma poveri, con stipendi troppo bassi, concentrati al Sud. Se la guerra proseguisse a lungo, lo spettro della stagflazione non sarebbe fantasia.

Di fronte alle crisi innescate nel 2008-2010 da Lehman Brothers la risposta fu sbagliata, tutta virata al contenimento del debito pubblico. Così la dinamica esclusi/inclusi fu esplosiva politicamente dal 2016 in avanti, con la Brexit, la vittoria di Trump, la crescita di forze sovraniste nei principali Paesi europei, la già citata anomalia italiana del doppio populismo al governo con proposte esiziali per la nostra economia. Stavolta le banche centrali avranno di fronte un dilemma del diavolo tra inflazione e recessione, necessità di rialzare i tassi per contenere l’impennata dei prezzi e rischio di deprimere così ulteriormente un quadro che già tende alla depressione per cause belliche.

La prima risposta che le democrazie liberali devono preparare è, dunque, economica nel breve e nel medio termine. È assai invocato un patto sociale che garantisca sostegno a chi non ha e non conta nulla: ottimo, ma lo scatto deve essere visibile, quantificabile, tradursi in programmi (praticabili) che non lascino al populismo sovranista la bacchetta magica di soluzioni inattuabili, seducenti fin dentro alla cabina elettorale e devastanti a urne chiuse (fuori dall’Europa le piccole patrie da sole annegano nel mondo globale, i più colpiti di domani sarebbero proprio i più disagiati e frustrati di adesso; fuori dalla democrazia liberale i primi diritti a essere conculcati sarebbero proprio quelli di chi, oggi, si sente scarsamente rappresentato).

E tuttavia la seconda risposta, a medio e lungo termine, deve essere rivolta non ai portafogli ma, piuttosto, a ciò che sta appena sotto di essi: i cuori. Si tratta di spiegare che la democrazia può richiedere sacrifici, ben oltre la metafora del condizionatore usata da Draghi, come gli ucraini stanno mostrando al mondo. In uno splendido articolo su Atlantic, Anne Applebaum spiega che la vicenda ucraina, velo strappato dai nostri occhi, prova come non esista «un ordine liberale mondiale» e non esisteranno neppure «regole, se nessuno si batterà per sostenerle»: «Se le democrazie non si difenderanno tutte assieme, le forze dell’autocrazia le distruggeranno».

Applebaum propone una vera battaglia culturale che risponda colpo su colpo a quella ingaggiata dai sovranisti per le coscienze occidentali, dal potere cleptocratico russo che ha corrotto per un decennio politici e intellettuali nostrani tramutandoli in agenti di influenza più o meno consapevoli (il dibattito nei talk sulle responsabilità della guerra ne è un epifenomeno penoso ma significativo). Come?

Magari cominciando da un’università in lingua russa che a Vilnius o a Varsavia ospiti intellettuali fuggiti dal regime moscovita. Un posto nel quale, aggiungeremmo noi, disegnare contro la retrotopia, un Pantheon europeo.

Magari ricordando ai ragazzi chi furono Mazzini e Churchill. E cosa sognassero Jo Cox, la giovane parlamentare laburista uccisa alla vigilia della Brexit, e Pawel Adamowicz, il sindaco di Danzica che raccontava la propria città come un porto sempre aperto a chi arriva e fu assassinato a quattro mesi dal voto europeo del 2019: proprio quelle elezioni da cui venne il primo segnale di come l’ondata sovranista si possa arginare, con l’intelligenza e col coraggio.

 

 

 

La “ridotta” delle democrazie liberali.

Formiche.net- Giuseppe Pennisi -( 09/04/2022)-ci dice:

 

 La riflessione di Pennisi.

Trenta anni fa le democrazie liberali sembravano aver vinto la sfida contro i totalitarismi. Ma guardando al mondo intero e ai sistemi politici si può dire che la storia non è finita, parafrasando Francis Fukuyama e il suo saggio “The End of History” pubblicato poco prima della caduta del Muro di Berlino.

Nel gergo militare si definisce ridotta una fortificazione di minore importanza o comunque considerata secondaria. La ridotta generalmente non è mai isolata in un territorio, proprio in funzione della sua minore potenza, ma è utilizzata come parte integrante di un sistema difensivo più ampio, che il più delle volte affianca alle stesse ridotte delle roccaforti, dei castelli o dei muri di difesa. Vi potevano trovar riparo soldati o materiali bellici.

Il termine mi è venuto in mente pensando, mi si scusi il gioco di parole, a come sono ridotte le democrazie liberali che trenta anni fa parevano aver vinto la sfida contro i totalitarismi.

Quasi in contemporanea con il crollo del muro di Berlino, il politologo nippo-americano Francis Fukuyama pubblicò il saggio “The End of History”, sul settimanale The National Review.

 Era il nucleo di un libro che diventò un best seller quando nel 1992 venne pubblicato con il titolo “The End of History and the Last Man”. Fukuyama preconizzava che con il tracollo del comunismo e la vittoria della liberal-democrazia ci sarebbe stata la fine della storia, caratterizzata per decenni, ove non secoli, dal conflitto tra Occidente liberale ed Oriente totalitario (tale da avere ripercussioni in tutto il mondo).

 In risposta a “The End of History and the Last Man”, Samuel Huntington pubblicò, nel 1992, su Foreign Affairs il saggio “The Clash of Civilizations” destinato anche esso ad essere ampliato e a diventare un saggio di successo.

 

Ci si accorse che la “storia non era finita” con l’attacco alle Torri Gemelle e la successiva lotta al terrorismo che portò alle due guerre in Iraq, e quelle in Afghanistan, Siria, Libia e altri luoghi. Lontani comunque dai nostri occhi. Restavamo convinti che “la storia” fosse finita con la vittoria delle democrazie liberali, che restavano comunque il fulcro della modernizzazione e del futuro.

L’aggressione della Russia all’Ucraina e le interviste di Karaganov, Surgov, Dughin e degli altri ideologi della Nuova Russia alle principali testate italiane dovrebbe farci riflettere: nell’Europa dall’Atlantico agli Urali ci sono grandi Paesi che si nutrono di un etno-nazionalismo che ricorda Carl Schmitt e una passione per l’autocrazia appoggiata sulla religione che ricorda Joseph de Maistre.

Nella stessa Europa occidentale, ci sono Paesi che la settimana scorsa hanno eletto governi che si proclamano “democratici” ma “illiberali” o “non liberali”. Questo fine settimana si vota in Francia: i sondaggi alimentano molti dubbi sulla vittoria di chi vuole essere “democratico” e “liberale”.

Ai tempi di “The End of History and the Last Man” si pensava che l’integrazione economica internazionale (o globalizzazione) avrebbe fatto il resto: portato alla modernizzazione, e quindi alla liberal-democrazia, sulla spinta del progresso economico che il sistema comportava. Occorre dire che in quegli anni unicamente il Pontificio Consiglio Justitia et Pax si levò a dire che una “globalizzazione non gestita” avrebbe potuto fare più danni che altro.

Si aprì alla Cina l’Organizzazione Mondiale del Commercio, senza rendersi conto che sarebbe diventato uno strumento per impossessarsi di tecnologie e rendere ancora più stringente l’autoritarismo.

Due anni dopo, a Pratica di Mare si sancì la “svolta storica” della nascita del Consiglio Nato-Russia in cui si pensava che si sarebbe battuto insieme il terrorismo perché “le nazioni civili saranno unite per fronteggiare questo pericolo”. Nessuno o quasi pensava che coloro i quali si nutrono di un etno-nazionalismo che ricorda Carl Schmitt e una passione per l’autocrazia appoggiata sulla religione che rammenta Joseph de Maistre non avrebbero mai apprezzato la liberal democrazia.

Guardiamo rapidamente al resto del mondo, che, secondo Francis Fukuyama, avrebbe dovuto prendere la strada delle democrazie liberali. In America centrale e meridionale sono un fenomeno trascurabile. In Asia, la Cina è sempre più autoritaria e sempre più legata a Mosca (da “amicizia fraterna”). Paesi come la Federazione di Malesia che, negli ultimi decenni del secolo scorso, parevano avviarvici se ne stanno allontanando. La stessa India, che era una democrazia compiuta, non ha preso una posizione chiara e netta nella vicenda dell’aggressione della Federazione Russa nei confronti dell’Ucraina.

Sono certamente liberal-democratici i Paesi dell’Oceania (Giappone, Australia, Nuova Zelanda) ma non possono sbandierarne i principi al resto del mondo data la loro localizzazione.

 Sono una ridotta così come lo è l’Europa Occidentale che non essendosi data in oltre sessanta anni una politica di difesa comune, deve contare sul supporto degli Stati Uniti. E cantare una canzonetta di George M. Cohan, prolifico autore di commedie musicali, e protagonista di Broadway dal 1900 al 1942:

Overthere, overthere, there are yankees everywhere, everywhere! (“Laggiù, laggiù ci sono yankee dappertutto, dappertutto!) composta in occasione dell’intervento Usa della Prima guerra mondiale. Pochi giorni dopo la Rivoluzione russa e l’abdicazione dei Romanov.

 

Le due democrazie.

Huffigtonpost.it- Dino Cofrancesco-(01 Novembre 2021)- ci dice:

Alcune riflessioni a margine della non approvazione del ddl Zan.

Fa riflettere l’articolo di Marco Damilano, “Clima sovrano”, pubblicato da ‘L’Espresso’ il 31 ottobre u.s. Al di là della legittima polemica contro le destre, infatti, esso si richiama a una idea di democrazia liberale sicuramente rispettabile, ma molto diversa da quella teorizzata e praticata dai paesi euroatlantici che sulla sovranità del demos hanno fondato le istituzioni della libertà. Cito il lungo incipit:

 

“Con un voto segreto, autorizzato dalla presidente Maria Elisabetta Alber­ti Casellati, alle ore 13,30 di mercoledì 27 ottobre, l’aula del Senato ha affossato il disegno di legge sull’omofobia firmato dal deputato del Pd Alessan­dro Zan.

La stessa aula che quattro anni fa al termine della precedente legislatura, con altri rapporti di forza tra i partiti, non era riuscita ad approvare la legge sullo ius culturae.

 In comune tra le due sconfitte c’è l’indifferenza verso le persone, con le loro storie, i loro drammi, i loro volti, il loro desiderio di vivere.

La società va da una parte, il Parlamento dall’altra.

I sovranisti scelgono i diritti come terreno di scontro, i democratici non riescono ad avere la forza politica delle loro buone ragioni, oltre che quella numerica. Si offrono nuove, ottime ragioni alla sfiducia, alla mancanza di credibilità, alla delegittima­zione delle nostre istituzioni democratiche.

La democrazia è più fragile quando i cittadini si sentono traditi dalle aule rappresentative. Ad avvantaggiarsi, è il fronte della negazione.

Negano l’esistenza dei diritti delle persone Lgbtq+, degli immigrati, negano la pandemia e gli effetti del cambiamento climatico”. La retorica politica ha le sue regole (non esaltanti) e la critica durissima dell’avversario è una di queste ma bisogna stare attenti a non cadere in una delegittimazione degli avversari incompatibile con la democrazia come regime in cui partiti diversi si alternano al governo e all’opposizione.

Per Damilano, un apprezzato giornalista che si è formato negli ambienti della sinistra cattolica, la bocciatura del ddl Zan attesta sic et simpliciter “l’indifferenza verso le persone, con le loro storie, i loro drammi, i loro volti, il loro desiderio di vivere”.

E tuttavia quanti non negano affatto” l’esistenza dei diritti delle persone Lgbtq+, degli immigrati, la pandemia e gli effetti del cambiamento climatico”, ma ad esempio sarebbero stati anche d’accordo con lo spirito della legge respinta dal Senato purché se ne fossero depennati gli articoli 1, 4 e 7, difendono anch’essi (e ammettiamo pure, con deboli ragioni) valori da tutti condivisi come la libertà di opinione e il diritto di richiamarsi a una teoria antropologica sui sessi diversa dalla filosofia Zan.

In un magistrale articolo su ’Repubblica’, I diritti negati dall’ideologia’ del 29 u.s., Carlo Galli ha rilevato che “il ddl apre anche la porta, sia pure in via indiretta, all’ideologia gender, la cui essenza è politica.

Infatti, il nucleo più radicale delle sue formulazioni è che la civiltà occidentale è socialmente e culturalmente strutturata e istituzionalizzata in senso duale, binario, cioè intorno a due soli generi (maschile e femminile), che sono anche identità esistenziali e comportamentali.

A tale struttura binaria si oppone il diritto di libera scelta individuale del genere (e in alcuni casi anche del sesso, e sempre della sessualità e dell’affettività): si afferma così una fluidità indefinita delle identità, che dovrebbe frammentare la struttura binaria vigente.

Al di là del fatto che una parte del femminismo è ostile alle teorie gender perché, proiettate verso il superamento della logica binaria, rischiano di trascurare la presente disuguaglianza economica e sociale fra uomini e donne, alla (legittima) ideologia del ddl se ne è opposta un’altra - del centro-destra nella sua versione laica e moderata (distinta quindi dalle posizioni reazionarie e intolleranti, che sottotraccia sono pure rilevabili) -.

Qui si considerano i problemi di genere come questioni individuali, come casi eccezionali rispetto alla normalità, e le persone coinvolte come soggetti da tutelare nei loro diritti, ma da non considerare come leva per mettere in discussione l’assetto della società.

Sullo sfondo -discreta ma ferma, affidata alla Congregazione per la dottrina della fede -, c’è poi la posizione ufficiale della Chiesa fondata sulla Bibbia (“maschio e femmina li creò”, dice la Genesi): l’essere umano naturale, nei due sessi e nei due generi, è immagine di Dio, e quindi portatore di una essenza e di una dignità immodificabili. A questa posizione la Chiesa ha richiamato i politici cattolici. Insomma, uno scontro ideologico, e non da poco”.

Ma se questo è vero, indipendentemente dalle convinzioni che ciascuno di noi nutre in cuor suo, occorrerebbe prendere sul serio quel liberalismo pluralistico, teorizzato da Isaiah Berlin, che vede valori, interessi e idealità da una parte e dall’altra e che, in caso di conflitti tra Weltanschuungen irriducibili, cerca la via del compromesso e della tutela di diritti sui quali si trovano tutti d’accordo?

“Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me, disperde” (Matteo 12,30). In virtù di questa logica, discorsi equilibrati come quelli fatti da Luca Ricolfi e da altri politici e studiosi liberali diventano qualcosa di equivoco, che porta acqua (involontariamente?) al mulino della reazione e dell’oscurantismo.

Se ci si chiede, però, cosa ci sia dietro la tendenza di larga parte dell’intellighenzia italiana a vedere, da un lato, i Valori e, dall’altro, biechi interessi, inconfessabili pregiudizi, cinismo etico, si scopre che “Though this be madness, yet there is method in it” e che la madness è un prodotto di una concezione della democrazia che viene da lontano, dal momento giacobino della Rivoluzione francese.

 Quando si legge che la democrazia “è lo strumento inventato per riequilibrare le disuguaglianze, per garantire le libertà, per consentire a tutti di partecipare alla costruzione del bene comune”, se ne deduce che se questi obiettivi non vengono raggiunti il Transatlantico di Montecitorio, diventa “sempre più simile alla sua sinistra fama di corridoio dei passi perduti” sicché “ il popolo dei referendum e della democrazia diretta” si ritrova fuori dal Parlamento: non rimane che pensare, pertanto, a una “mobilitazione della società” a una “battaglia politica e culturale. Tutto il resto è una scorciatoia che produce una reazione ancora più minacciosa”. Insomma non uno ma cento, mille cortei per esprimere l’indignazione del ‘paese reale’ contro il paese legale - il Parlamento - che ne ha tradito le aspettative, non volendo rendere la filosofia Zan pedagogia di Stato.

 

A leggere certi slogan contro i partiti anti-Zan, vengono i brividi e il pensiero corre all’aula “sorda e grigia” che ‘quello lì’ avrebbe potuto trasformare in un bivacco di manipoli o all’esaltazione che Giovanni Gentile faceva degli artefici dell’unità nazionale “che quando si trattò di agire e di farla, questa Italia, sdegnarono il chiacchierio fazioso delle assemblee”; ma corre anche alla intramontabile ideologia italiana che vede nelle forze vive della società civile, nei movimenti per i diritti, nelle rivendicazioni delle minoranze reiette la rousseauiana volontà generale contrapposta alla effimera ‘volontà di tutti’ che si esprime nelle urne. In base a questa filosofia politica, ci sono Valori e Diritti universali di cui le classi dirigenti debbono farsi carico ovvero tradurre in leggi e in istituti, sotto pena di perdere ogni diritto al governo della società.

Va da sé che tali diritti e valori sono quelli dell’Illuminismo, depositario della Scienza e della Felicità dei popoli e che tutto ciò che ad essi si oppone va, tutt’al più tollerato, e qualora rispecchi il sentire della maggioranza va neutralizzato con una efficace politica di rieducazione collettiva, fatta anche di dimostrazioni di piazza, proteste, sit in (Una nota columnist, coerentemente, aveva proposto, nel caso di approvazione del ddl Zan, di non dare più sussidi statale alle scuole private gestite da religiosi che, contrari alla giornata contro l’omofobia, si fossero rifiutati di insegnare che i sessi non sono due come pretende la ‘Bibbia’!).

 

Sennonché, c’è un’altra visione della democrazia che non la vede come una freccia rossa che non deve mai arrestarsi giacché “chi si ferma è perduto”—come ripeteva uno degli alfieri della ‘democrazia sostanziale” nella sua versione “organizzata, centralizzata, autoritaria”, certo diversa da quella libertaria, dannunziana e sessantottesca ma come questa antiformalista e antiproceduralista. Ed è la visione che si potrebbe definire della ‘democrazia come registrazione’: registrazione dei desideri, delle aspettative, delle esigenze dei cittadini dettate da valori non necessariamente ‘progressisti’ ma egualmente rispettabili giacché sono quelli di cittadini, di persone, che su di essi hanno costruito la loro identità etico-sociale.

 E’ questo il suddetto ‘pluralismo preso sul serio’ e che non ha nulla a che vedere con la retorica pluralistica che apprezza solo la pluralità dei valori (ritenuti) buoni”. Per il primo, non c’è democrazia liberale senza un polo conservatore, che guarda al passato e vuole andare avanti preservandone, nella misura del possibili, le eredità e un polo innovatore che guarda all’avvenire e vuole sgomberare la strada, che da esso conduce, da tutte le catene lasciate dal ‘mondo di ieri’.

Per una parte rilevante dell’opinione pubblica, essere buoni democratici significa elaborare un progetto riformatore, battersi per una estensione indefinita dei diritti individuali e collettivi, in ogni campo .

 Nulla da eccepire purché si sia disposti poi a rispettare il verdetto della maggioranza degli elettori in disaccordo con gli innovatori. (Ovviamente non si parla qui di un governo reazionario deciso a violare le libertà politiche e civili giacché ci si troverebbe allora in una situazione rivoluzionaria dove solo il ricorso alla violenza potrebbe ristabilire le ‘regole del gioco’).

In non pochi ambienti accademici - e già nell’Ottocento - la democrazia procedurale evoca qualcosa di algido, la dittatura del numero, le regole che infiammano i cuori e illuminano le menti quanto un orario ferroviario o un manuale di istruzioni. E non meraviglia giacché, nel nostro paese, è difficile accettare l’idea che la fabbrica di valori sia nella società civile considerata in tutte le sue componenti; la fabbrica dei valori si trova, sì, nella società civile ma in quelle frange politicizzate che fanno da pendant alle masse amorfe, estranee ai grandi ideali della politica, zavorra a disposizione in ogni svolta autoritaria. Sono le minoranze consapevoli che fecero l’Italia nel Risorgimento, che invasero le piazze per chiedere l’intervento dell’Italia nella Grande Guerra, che parteciparono alla marcia su Roma e nel Sessantotto operarono una vera e propria ‘rivoluzione culturale’(di cui risentiamo ancora gli effetti). Per questo stile di pensiero, della legittimità politica non è depositario il popolo sovrano, né il Parlamento ma le ‘avanguardie’ che mediano tra il primo e il secondo.

Eppure continuiamo a dirci tutti liberali e tra i liberali, che leggono i classici del pensiero politico, non se ne trova uno che non esprima la sua grande ammirazione per Alexis de Tocqueville .Ma quanti poi hanno meditato davvero sulla Democrazia in America(1835) di cui riporto un brano inequivocabile? “I repubblicani negli Stati Uniti apprezzano i costumi, rispettano le credenze religiose, riconoscono ì diritti.

Essi professano l’opinione che un popolo deve essere morale, religioso e moderato in proporzione alla sua libertà. Ciò che si chiama repubblica negli Stati Uniti è il regno tranquillo della maggioranza. La maggioranza, dopo che ha avuto il tempo di riconoscersi e di constatare la propria esistenza, diviene la fonte comune dei poteri. |…|

Ma, in Europa, noi abbiamo fatto strane scoperte. La repubblica, secondo alcuni di noi, non è il governo della maggioranza, come si è creduto fino ad ora, è il governo di coloro che si fanno garanti e interpreti della maggioranza.

Non è il popolo che dirige in questa specie di governi, ma coloro che conoscono quale sia il vero bene del popolo felice distinzione che permette di agire in nome delle nazioni senza consultarle e di reclamare la loro riconoscenza calpestandole.

Il governo repubblicano del resto è il solo, al quale si debba riconoscere il diritto di fare tutto, e che possa disprezzare ciò che gli uomini hanno fino ad ora rispettato, dalle più alte leggi della morale fino alle elementari re-gole del senso comune. Si era pensato, fino ad ora, che il dispotismo fosse odioso, qualunque fosse-ro le sue forme. Ma si è scoperto ai giorni nostri che vi erano nel mondo tirannidi legittime e sante ingiustizie, purché fossero esercitate in nome del popolo “. E’ proprio il caso di parafrasare ; de nobis fabula narratur!

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