L’ideologia globalista di una sola potenza non è realizzabile.

 L’ideologia globalista di una

sola potenza non è realizzabile.

 

L’ideologia globalista dell’élite

di Davos: conoscere per intervenire.

rEvoluzione.unoeditori.com- D'Andreta Mario-(18-aprile 2019)- ci dice:

 

Migliorare la comprensione per pianificare il cambiamento.

I risultati della ricerca sociale di orientamento costruttivista e psicoanalitico evidenziano come il comportamento umano sia guidato dai significati condivisi dell’esperienza sociale soggettiva (Blumer 1969, Mead 1934, Berger and Luckmann 1966, Moscovici 1961, Matte Blanco 1975, Carli 1993).

Questa prospettiva di analisi dei fenomeni sociali può essere utilizzata per comprendere i fattori culturali alla base dell’azione politica ed economica delle élite globali, che ci ha portato all’attuale stato di crisi sociale, economica ed ambientale.

La comprensione di questi significati, infatti, può consentire di identificare possibili efficaci strategie di intervento per indurre un cambiamento mirato dello status quo, orientato a sviluppare una maggiore democrazia nei processi di governance globale, una maggiore giustizia economico-sociale e qualità della vita, volte a rafforzare i processi di convivenza civile a livello globale.

Questo tipo di conoscenza orientata all’intervento per il cambiamento, come evidenziato dalla recente letteratura di matrice psicosociologica (Carli e Paniccia 2002), può essere ottenuta attraverso l’analisi dei discorsi socialmente prodotti intorno a temi di rilevanza collettiva, come in questo caso quello della globalizzazione, considerabile come il comune orizzonte di senso (weltanschauung) che guida l’azione sociale nel mondo di oggi.

 

Sulla base di questi presupposti, ho condotto un’analisi del discorso sulla globalizzazione del “World Economic Forum di Klaus Schwab”.

La rappresentazione della globalizzazione nell‘élite di Davos che emerge da questa ricerca non appare univoca e monolitica, ma piuttosto composta da quattro differenti dimensioni culturali corrispondenti ai raggruppamenti (cluster) di parole dense ottenuti attraverso l’analisi statistica dei testi in esame.

 

La prima dimensione è caratterizzata dai seguenti elementi:

una rappresentazione negativa dell’altro da sé come una massa anonima di persone che agisce esclusivamente sulla base di fattori emotivi, invece che razionali, sulla base di parole dense quali people e believe;

la proposizione di tre principali frame simbolici per l’attribuzione di significato alle esperienze di vita nell’era della globalizzazione, espressi dalle parole dense world, time e growth;

l’impatto concreto che la globalizzazione ha sulla vita delle persone e soprattutto su quella dei giovani (in relazione a parole dense quali impact e young people);

una forma di pensiero basata sul determinismo genetico e una conoscenza pragmatica orientata a prendere possesso della realtà attraverso la tecnologia (sulla base di parole dense quali engineer, think, history, ready, accelerate, life, industry)

La seconda dimensione ruota attorno ai seguenti tre aspetti:

la speranza messianica nella dimensione della grandezza o grandiosità, espresse dalle parole dense big e hope, in relazione a istituzioni finanziarie internazionali quali l’African Development Bank e l’International Monetary Fund);

la dinamica di dipendenza che queste istituzioni istituiscono con i loro interlocutori, in funzione di un obbligo a pagare (in termini di “condizionalità” ed interessi per restituire i prestiti ricevuti) che appare quasi come un dono riparatore volto a placarne le possibili ritorsioni, rappresentate dalla minaccia dell’inflazione e dell’imposizione di condizioni di vita al limite della sopravvivenza (l’austerity), che tengono costantemente sotto pressione i paesi europei (in relazione a parole dense quali stress, European countries, inflation, growth, strong, pay, price, Greece, shock);

il predominio del fattore economico nella definizione delle politiche pubbliche, secondo i dogmi del libero mercato e del vantaggio personale (relativi a parole dense come policy, interest, GDP, economy).

La terza dimensione è focalizzata sui seguenti punti:

 

 Il perseguimento del rafforzamento della capacità di fornire, investire e gestire budget e fondi (relativo a parole dense come strengthen, invest, budget, fund, manage, provide);

 una visione distorta della competizione, basata sulla ricerca di condizioni di privilegio per battere i propri concorrenti attraverso l’eliminazione di ogni costrizione alla propria espansione, quali ad esempio le tasse, vissute come un’imposizione autoritaria che limita la soddisfazione dei propri bisogni (legata alle parole dense competition, advantage, need, tax);

la conseguente esigenza di sviluppare un ordine sociale basato su un’idea di libertà concepita come assenza di restrizioni alla continua espansione e sviluppo di potere delle élite, ai danni però dei suoi interlocutori, rappresentati ad esempio da lavoratori posti in condizioni di sempre maggiore precariato (espressa dalle parole dense freedom, forecast, rule¸boost, employee);

l’importanza chiave degli strumenti cognitivi riguardo a capacità come percepire, riconoscere, distinguere, scegliere e stabilire, nel perseguimento di questo ideale di successo (relativi alle parole dense know, crisis, solve);

La quarta dimensione comprende i seguenti elementi fondamentali:

il ruolo delle istituzioni finanziarie sovranazionali (esemplificate in questo caso dall’Inter-American Development Bank Group) nella creazione di un nuovo tipo di colonialismo attraverso la pratica degli aiuti allo sviluppo, che di fatto si traduce in uno scambio tra la condizione di sicurezza (psicologica, oltre che economica) fornita ai paesi beneficiari (qui esemplificati dalla parola densa Latin America & Caribbean) mediante i finanziamenti e la graduale espropriazione del potere politico ed economico di questi ultimi, che li pone in una condizione di dipendenza e sudditanza (sempre psicologica, oltre che economica) nei confronti dei propri finanziatori (in relazione alle parole dense sure, respect¸establish, make decisions, benefit);

gli effetti di schemi di finanziamento innovativi, come l’impact investment, che pur essendo mirati a generare benefici sociali (insieme ai rendimenti finanziari), diventano di fatto un modo per impossessarsi degli ultimi campi di intervento pubblico restanti quali il welfare, la salute, l’istruzione e l’energia (relativi alle parole dense impact-investors, tool, investor, finance, impact-investing);

la necessità di integrare i paesi beneficiari degli aiuti allo sviluppo nel mito di fare soldi nelle loro regioni, che però potrebbe anche essere letto come fare soldi attraverso le loro regioni (rispetto alle parole dense making money e Regioni);

la tendenza a interfacciarsi esclusivamente con l’élite imprenditoriale di questi paesi, quale strategia efficace per perseguire i propri obiettivi e tenersi al riparo dal rischio di crisi (espressa dalle parole dense vis à vis, CEO, seek, approve, full, completely).

( La cultura dell’élite di Davos: tra pretesa e adempimento.)

La caratteristica centrale della cultura della globalizzazione dell’élite di Davos emersa da questa analisi è la carenza di democrazia nei processi decisionali, sia a livello relazionale che organizzativo.

A livello relazionale, questo è espresso da specifici modelli di dinamiche intersoggettive emozionali e motivazionali. Le prime si caratterizzano per i seguenti elementi: la provocazione rappresentata dalla pretesa di imporre una visione dogmatica della realtà, il controllo dell’adempimento degli obblighi che ne derivano, la sfiducia verso l’altro da sé (per la sua connotazione negativa ed il rischio di mancato rimborso dei finanziamenti ricevuti), la preoccupazione e la lamentela contro i limiti.

Queste dinamiche emozionali rivelano un approccio alle relazioni sociali orientate al possesso dell’altro piuttosto che a uno scambio produttivo e creativo con lui, che può essere letto come espressione della paura nei confronti dell’altro e della sua ignota imprevedibilità, derivante dalla sua rappresentazione come nemico.

Ciò porta alla tendenza di tentare di trasformare l’altro sconosciuto in un amico noto, dato per scontato e assimilato alle proprie categorie, nel tentativo di eliminare la sua imprevedibilità ed il rischio delle sue possibili manifestazioni di ostilità. Ciò, tuttavia, implica inevitabilmente la negazione delle differenze e la perdita delle opportunità che esse offrono.

Lo schema motivazionale risulta caratterizzato dalla prevalenza del bisogno di potere come motivazione sociale dominante, articolata in tre dimensioni:

 un modello gerarchico che contrappone l’élite ai suoi interlocutori, la dimensione di grandiosità a chi spera in essa, gli amministratori delegati ai lavoratori, i finanziatori ai beneficiari dei finanziamenti; una dinamica polarizzata di appartenenza-esclusione dal sistema di potere, basata sulla dipendenza affettiva verso l’altro (espressione del bisogno motivazionale di affiliazione nel modello di Mc Clelland), indotta dalla logica del sostegno finanziario ai programmi di sviluppo; ed una dinamica manipolativa basata sulla contrapposizione tra apparenza e realtà, come evidenziato dal contrasto tra l’immagine positiva delle politiche di assistenza allo sviluppo e l’espropriazione del potere politico ed economico locale prodotto dalla sua logica esclusivamente finanziaria.

Per quanto riguarda il livello organizzativo, la carenza di democrazia è espressa da una concezione dogmatica e aprioristica delle istituzioni finanziarie internazionali, radicata in una dimensione mitica che le fa percepire come immutabili e poco inclini al cambiamento e al miglioramento.

 Il funzionamento di queste organizzazioni appare infatti basato quasi esclusivamente su un mandato sociale legato al rispetto di sistemi di valori socialmente fondati, conformi ai loro fini, e su una funzione sostitutiva nella fornitura dei loro servizi (aiuto allo sviluppo e gestione delle crisi del debito sovrano), legata alla dimensione fortemente tecnocratica che le caratterizza, in virtù della quale i tecnici (gli esperti) si sostituiscono agli utenti dei loro servizi, espropriandoli del loro potere decisionale. In tal modo, queste organizzazioni operano senza una vera committenza da parte dei loro beneficiari e quindi non rispondono né sembrano ritenersi responsabili delle esigenze, aspettative e obiettivi di questi ultimi, né dell’efficacia dei servizi ad essi forniti.

(Cosa è possibile fare per cambiare questo stato di cose?).

 Sulla base di queste considerazioni, possono essere ipotizzate diverse strategie di intervento per mutare lo scenario sin qui evidenziato.

L’implementazione di queste strategie richiede tuttavia un coinvolgimento attivo e responsabile di tutti gli interlocutori delle élites globali. L’obiettivo principale legato alla dimensione relazionale concerne la definizione e la messa in atto, in maniera partecipativa, di nuove regole di gioco per la convivenza sociale che consentano di contenere le possibili manifestazioni di ostilità entro la relazione tra sistemi di appartenenza e l’ignota alterità dell’estraneo.

Questo richiede di configurare l’altro non più come nemico o amico noto, ma come amico sconosciuto, da conoscere in una relazione di scambio reciproco, producendo creativamente insieme per il bene comune.

Questo modello di relazioni sociali permette di liberare il proprio potere creativo (potere del fare), evitando il rischio di trasformare la propria eventuale impotenza creativa e produttiva in forme di potere su qualcuno o qualcosa (inteso come una forma di possesso).

Per quanto riguarda la motivazione al potere, il passaggio da un modello relazionale basato sul potere sull’altro a quello caratterizzato dallo scambio produttivo con lui, consente di aggirare il modello gerarchico di relazione, dirigendo l’attenzione su obiettivi e prodotti del rapporto con l’altro e sullo sviluppo delle competenze necessarie per perseguirli in modo efficace.

Di conseguenza, anche la dinamica dell’appartenenza, radicata nelle emozioni del potere e dell’appartenenza, può cambiare, passando dal modello del possesso dell’altro a quello dello scambio con l’altro.

 In tal modo, superando il possesso dell’altro come espressione dominante del potere, si possono anche contrastare le forme manipolative del potere (come le attuali forme di assistenza allo sviluppo che portano all’esproprio del potere locale), poiché il potere viene indirizzato verso una più creativa costruzione del bene comune.

A livello organizzativo, l’obiettivo principale del miglioramento riguarda il passaggio da una logica di azione basata sull’adempimento ad una orientata ad obiettivi e prodotti concordati, considerati come mezzi di verifica dell’efficacia dell’azione sociale.

Ciò consentirebbe di passare da una modalità organizzativa interamente basata sulla legittimazione sociale ad una guidata dalla committenza di prodotti e servizi verificabili da parte dei loro destinatari, in base alle loro esigenze e ai loro obiettivi.

Di conseguenza, i destinatari potrebbero aumentare il loro ruolo attivo nella relazione con la funzione tecnica, che quindi potrebbe essere orientata ad integrare il loro potere decisionale, facilitando lo sviluppo delle loro competenze nel raggiungimento autonomo dei propri obiettivi.

Questo richiede la messa in discussione, in modo sempre più dialettico e argomentativo, del dogma della visione di sviluppo proposta dall’élite e di lavorare sulla definizione e l’attuazione di ipotesi e modelli alternativi, ad esempio volti a re-inglobare l’economia nella società e nella cultura, come proposto da Polanyi (1944) e Granovetter (1985).

 

Per promuovere questo processo di cambiamento della cultura organizzativa dell’élite di Davos, è necessario, ad esempio, che i beneficiari delle istituzioni finanziarie internazionali cambino il loro atteggiamento nei confronti di queste organizzazioni, proponendosi come committenti che richiedono loro servizi, sulla base di specifiche esigenze, obiettivi e prodotti attesi. Questi ultimi rappresentano, infatti, i mezzi di verifica per valutare l’efficacia di queste organizzazioni nel realizzare gli obiettivi proposti e promuovere il cambiamento ed il miglioramento delle loro modalità di funzionamento. La precondizione per procedere efficacemente in questa direzione è il cambiamento dell’immagine sociale degli interlocutori dell’élite, superando la connotazione negativa ad essi attribuita dall’élite con la parola densa people, (etimologicamente riconducibile all’idea della classe infima della popolazione), attraverso il recupero del senso della parola greca démos, che si riferisce invece al potere di governo democratico dei cittadini.

Così riconfigurati in termini di cittadinanza globale, gli interlocutori dell’élite possono riacquistare autonomia decisionale e di autogoverno e promuovere la democratizzazione dal basso dei sistemi politici di governo (in termini sia di democrazia partecipativa che rappresentativa), in una prospettiva di costruzione collettiva e condivisa del futuro comune.

Ciò comporta il recupero del senso del bene pubblico, concepito come appartenente alla collettività, in contrasto con il bene privato, che si riferisce a un possesso esclusivo, che priva qualcuno di qualcosa.

Il perseguimento di questo processo di trasformazione culturale richiede lo sviluppo di competenze specifiche, orientate allo sviluppo di una cittadinanza attiva e consapevole; il che può diventare anche l’obiettivo e il prodotto su cui ricostruire il senso dello scopo sociale dell’educazione pubblica e della sua efficacia produttiva.

 

Pecisazioni- A e B.

A)-La cultura dell’élite di Davos: tra pretesa e adempimento .

(DAVOS/SWITZERLAND, 28JAN06 – William J. Clinton, Founder, William Jefferson Clinton Foundation; President of the United States (1993-2001), captured during the session ‘A Conversation with’ at the Annual Meeting 2006 of the World Economic Forum in Davos, Switzerland, January 28, 2006. Copyright by World Economic Forum swiss-image.ch/Photo by Remy Steinegger.).

 

La caratteristica centrale della cultura della globalizzazione dell’élite di Davos emersa da questa analisi è la carenza di democrazia nei processi decisionali, sia a livello relazionale che organizzativo.

A livello relazionale, questo è espresso da specifici modelli di dinamiche intersoggettive emozionali e motivazionali.

Le prime si caratterizzano per i seguenti elementi: la provocazione rappresentata dalla pretesa di imporre una visione dogmatica della realtà, il controllo dell’adempimento degli obblighi che ne derivano, la sfiducia verso l’altro da sé (per la sua connotazione negativa ed il rischio di mancato rimborso dei finanziamenti ricevuti), la preoccupazione e la lamentela contro i limiti.

Queste dinamiche emozionali rivelano un approccio alle relazioni sociali orientate al possesso dell’altro piuttosto che a uno scambio produttivo e creativo con lui, che può essere letto come espressione della paura nei confronti dell’altro e della sua ignota imprevedibilità, derivante dalla sua rappresentazione come nemico. Ciò porta alla tendenza di tentare di trasformare l’altro sconosciuto in un amico noto, dato per scontato e assimilato alle proprie categorie, nel tentativo di eliminare la sua imprevedibilità ed il rischio delle sue possibili manifestazioni di ostilità. Ciò, tuttavia, implica inevitabilmente la negazione delle differenze e la perdita delle opportunità che esse offrono.

 

Lo schema motivazionale risulta caratterizzato dalla prevalenza del bisogno di potere come motivazione sociale dominante, articolata in tre dimensioni: un modello gerarchico che contrappone l’élite ai suoi interlocutori, la dimensione di grandiosità a chi spera in essa, gli amministratori delegati ai lavoratori, i finanziatori ai beneficiari dei finanziamenti; una dinamica polarizzata di appartenenza/esclusione dal sistema di potere, basata sulla dipendenza affettiva verso l’altro (espressione del bisogno motivazionale di affiliazione nel modello di Mc Clelland), indotta dalla logica del sostegno finanziario ai programmi di sviluppo; ed una dinamica manipolativa basata sulla contrapposizione tra apparenza e realtà, come evidenziato dal contrasto tra l’immagine positiva delle politiche di assistenza allo sviluppo e l’espropriazione del potere politico ed economico locale prodotto dalla sua logica esclusivamente finanziaria.

 

Per quanto riguarda il livello organizzativo, la carenza di democrazia è espressa da una concezione dogmatica e aprioristica delle istituzioni finanziarie internazionali, radicata in una dimensione mitica che le fa percepire come immutabili e poco inclini al cambiamento e al miglioramento. Il funzionamento di queste organizzazioni appare infatti basato quasi esclusivamente su un mandato sociale legato al rispetto di sistemi di valori socialmente fondati, conformi ai loro fini, e su una funzione sostitutiva nella fornitura dei loro servizi (aiuto allo sviluppo e gestione delle crisi del debito sovrano), legata alla dimensione fortemente tecnocratica che le caratterizza, in virtù della quale i tecnici (gli esperti) si sostituiscono agli utenti dei loro servizi, espropriandoli del loro potere decisionale. In tal modo, queste organizzazioni operano senza una vera committenza da parte dei loro beneficiari e quindi non rispondono né sembrano ritenersi responsabili delle esigenze, aspettative e obiettivi di questi ultimi, né dell’efficacia dei servizi ad essi forniti.

 

 

 

B)- Cosa è possibile fare per cambiare questo stato di cose?

Sulla base di queste considerazioni, possono essere ipotizzate diverse strategie di intervento per mutare lo scenario sin qui evidenziato.

L’implementazione di queste strategie richiede tuttavia un coinvolgimento attivo e responsabile di tutti gli interlocutori delle élites globali. L’obiettivo principale legato alla dimensione relazionale concerne la definizione e la messa in atto, in maniera partecipativa, di nuove regole di gioco per la convivenza sociale che consentano di contenere le possibili manifestazioni di ostilità entro la relazione tra sistemi di appartenenza e l’ignota alterità dell’estraneo. Questo richiede di configurare l’altro non più come nemico o amico noto, ma come amico sconosciuto, da conoscere in una relazione di scambio reciproco, producendo creativamente insieme per il bene comune. Questo modello di relazioni sociali permette di liberare il proprio potere creativo (potere del fare), evitando il rischio di trasformare la propria eventuale impotenza creativa e produttiva in forme di potere su qualcuno o qualcosa (inteso come una forma di possesso). Per quanto riguarda la motivazione al potere, il passaggio da un modello relazionale basato sul potere sull’altro a quello caratterizzato dallo scambio produttivo con lui, consente di aggirare il modello gerarchico di relazione, dirigendo l’attenzione su obiettivi e prodotti del rapporto con l’altro e sullo sviluppo delle competenze necessarie per perseguirli in modo efficace. Di conseguenza, anche la dinamica dell’appartenenza, radicata nelle emozioni del potere e dell’appartenenza, può cambiare, passando dal modello del possesso dell’altro a quello dello scambio con l’altro. In tal modo, superando il possesso dell’altro come espressione dominante del potere, si possono anche contrastare le forme manipolative del potere (come le attuali forme di assistenza allo sviluppo che portano all’esproprio del potere locale), poiché il potere viene indirizzato verso una più creativa costruzione del bene comune.

 

A livello organizzativo, l’obiettivo principale del miglioramento riguarda il passaggio da una logica di azione basata sull’adempimento ad una orientata ad obiettivi e prodotti concordati, considerati come mezzi di verifica dell’efficacia dell’azione sociale. Ciò consentirebbe di passare da una modalità organizzativa interamente basata sulla legittimazione sociale ad una guidata dalla committenza di prodotti e servizi verificabili da parte dei loro destinatari, in base alle loro esigenze e ai loro obiettivi. Di conseguenza, i destinatari potrebbero aumentare il loro ruolo attivo nella relazione con la funzione tecnica, che quindi potrebbe essere orientata ad integrare il loro potere decisionale, facilitando lo sviluppo delle loro competenze nel raggiungimento autonomo dei propri obiettivi. Questo richiede la messa in discussione, in modo sempre più dialettico e argomentativo, del dogma della visione di sviluppo proposta dall’élite e di lavorare sulla definizione e l’attuazione di ipotesi e modelli alternativi, ad esempio volti a re-inglobare l’economia nella società e nella cultura, come proposto da Polanyi (1944) e Granovetter (1985).

 

Per promuovere questo processo di cambiamento della cultura organizzativa dell’élite di Davos, è necessario, ad esempio, che i beneficiari delle istituzioni finanziarie internazionali cambino il loro atteggiamento nei confronti di queste organizzazioni, proponendosi come committenti che richiedono loro servizi, sulla base di specifiche esigenze, obiettivi e prodotti attesi. Questi ultimi rappresentano, infatti, i mezzi di verifica per valutare l’efficacia di queste organizzazioni nel realizzare gli obiettivi proposti e promuovere il cambiamento ed il miglioramento delle loro modalità di funzionamento. La precondizione per procedere efficacemente in questa direzione è il cambiamento dell’immagine sociale degli interlocutori dell’élite, superando la connotazione negativa ad essi attribuita dall’élite con la parola densa people, (etimologicamente riconducibile all’idea della classe infima della popolazione), attraverso il recupero del senso della parola greca démos, che si riferisce invece al potere di governo democratico dei cittadini.

 

Così riconfigurati in termini di cittadinanza globale, gli interlocutori dell’élite possono riacquistare autonomia decisionale e di autogoverno e promuovere la democratizzazione dal basso dei sistemi politici di governo (in termini sia di democrazia partecipativa che rappresentativa), in una prospettiva di costruzione collettiva e condivisa del futuro comune. Ciò comporta il recupero del senso del bene pubblico, concepito come appartenente alla collettività, in contrasto con il bene privato, che si riferisce a un possesso esclusivo, che priva qualcuno di qualcosa. Il perseguimento di questo processo di trasformazione culturale richiede lo sviluppo di competenze specifiche, orientate allo sviluppo di una cittadinanza attiva e consapevole; il che può diventare anche l’obiettivo e il prodotto su cui ricostruire il senso dello scopo sociale dell’educazione pubblica e della sua efficacia produttiva.

 

 

 

La fine dell'era Draghi.

Ilgiornale.it-Nicola Porro- (11 Giugno 2022) – ci dice :

È tramontata, finita l'era Draghi in Europa.

La fine dell'era Draghi.

È tramontata, finita l'era Draghi in Europa. L'ex presidente della Banca centrale, oggi trasferitosi a Palazzo Chigi, aveva imposto una politica monetaria del denaro facile.

Il che, in soldoni, vuol dire stampare moneta facendo comprare alle banche centrali titoli del debito pubblico e abbassare i tassi di interesse sotto zero. Si disse, allora, che, grazie a questa politica, Draghi salvò la moneta unica.

Il suo successore, la signora Lagarde, ha cambiato rotta. E lo ha fatto con un testacoda. Non solo ha detto che i tassi di interesse, visti gli aumenti dei prezzi, devono risalire, la qual cosa era ampiamente prevedibile.

Ha fatto di più: non ha annunciato alcuna rete di protezione per la moneta unica, nel caso riprendesse la speculazione. Questo «non detto» sta spaventando i mercati.

Ieri all'asta dei Bot, i titoli del nostro debito ad un anno, i tassi di interesse sono schizzati dallo 0,1 per cento allo 0,9. Il differenziale (lo spread) tra i nostri titoli a dieci anni e quelli tedeschi ha toccato quota 230 punti base: nel senso che i nostri rendono il 2,3 per cento in più. La Borsa italiana ha fatto segnare il crollo peggiore d'Europa, di circa il 5 per cento: ad affossarla non solo le banche, zeppe di titoli di Stato che stanno perdendo valore, ma anche blue chips come l'Eni, che dovrebbero invece beneficiare dei massimi del petrolio.La morale è una sola: dopo le parole della Lagarde, è ritornato a soffiare in Europa il pregiudizio sull'affidabilità dei conti pubblici italiani e sulla nostra capacità di fare ancora debito. Insomma, è finito l'effetto Draghi e del suo «whatever it takes».

Il paradosso è che oggi Mario Draghi è a Palazzo Chigi. E secondo molti avrebbe dovuto rappresentare una garanzia. Ieri i mercati non hanno ragionato così.

Un po' per colpa nostra. In questi anni, anche con Super-Mario, abbiamo aumentato la nostra spesa pubblica. Tra pochi giorni il governo Draghi elargirà un bonus da 200 euro a milioni di italiani, per 6,5 miliardi, che avrebbe potuto inventarsi anche uno spendaccione della Prima Repubblica.

 

D'altra parte la Bce ha cambiato maggioranza: i falchi comandano. E non hanno nessuna intenzione di adottare un atterraggio morbido dalla politiche della vecchia gestione. Hanno fatto capire che sono più interessati all'inflazione (il che non è ovviamente irragionevole, essendo questa la più ingiusta delle tasse) che alla tenuta dei cosiddetti Paesi periferici (Italia in primis).

Si potrebbe dire molto sulla droga immessa sul mercato, da Draghi in poi, stampando moneta come se non ci fosse un domani.

Quel che è certo è che togliere ai drogati la merce tossica tutto in un botto e per di più nel mezzo di una guerra, non è l'atteggiamento più corretto: a meno che non si voglia far crepare il tossico.

 

 

 

LA NUOVA POLITICA ESTERA

DELLA RUSSIA, LA DOTTRINA PUTIN.

Cese-m.eu- Sergey Karaganov-(3 Marzo 2022)- ci dice :

(Il professor Sergey Karaganov, è il presidente onorario del Consiglio russo per la politica estera e di difesa e supervisore accademico presso la School of International Economics and Foreign Affairs Higher School of Economics (HSE) di Mosca.).

 

Il confronto di Mosca con la NATO è solo all’inizio.

Sembra che la Russia sia entrata in una nuova era della sua politica estera: una fase di “distruzione costruttiva“, chiamiamola così, del precedente modello di relazioni con l’Occidente.

Parti di questo nuovo modo di pensare sono state viste negli ultimi 15 anni – a partire dal famoso discorso di Monaco di Vladimir Putin nel 2007 – ma molto sta diventando chiaro soltanto adesso.

Pur mantenendo un atteggiamento ostinatamente difensivo, allo stesso tempo gli sforzi poco brillanti per integrarsi nel sistema occidentale sono rimasti la tendenza generale nella politica e nella retorica russa.

La distruzione costruttiva non è aggressiva.

La Russia sostiene che non attaccherà nessuno o lo farà saltare in aria.

 Semplicemente non è necessario. Così come si presenta, il mondo esterno offre alla Russia sempre più opportunità geopolitiche per lo sviluppo a medio termine.

Con una grande eccezione: l’espansione della NATO e l’inclusione formale o informale dell’Ucraina rappresentano un rischio per la sicurezza del Paese; un rischio che Mosca semplicemente non accetterà.

Al momento, l’Occidente è sulla buona strada per un lento ma inevitabile decadimento sia in termini di affari interni ed esterni, sia in campo economico.

 Ed è proprio per questo che ha dato inizio a questa nuova Guerra Fredda dopo quasi cinquecento anni di dominio della politica, dell’economia e della cultura mondiale. Soprattutto dopo la sua vittoria decisiva negli anni ’90 e metà degli anni 2000.Credo che molto probabilmente l’Occidente perderà, abdicando dal ruolo di leader globale e diventando un partner più ragionevole. In un secondo momento, non troppo presto, la Russia dovrà riequilibrare i rapporti con una Cina amica sì, ma sempre più potente.

Attualmente, l’Occidente cerca disperatamente di difendersi da questo con una retorica aggressiva. Cerca di consolidarsi, giocando le sue ultime carte vincenti per invertire questa tendenza. Una di quelle che sta cercando di usare per danneggiare e neutralizzare la Russia è l’Ucraina.

È importante impedire che questi tentativi convulsi si trasformino in una vera e propria situazione di stallo e contrastare le attuali politiche degli Stati Uniti e della NATO. Sono tentativi controproducenti e pericolosi, anche se relativamente poco impegnativi per chi li inizia.

Dobbiamo ancora convincere l’Occidente che sta solo facendo del male a sé stesso.

Un’altra carta vincente da giocare è il ruolo dominante dell’Occidente nel sistema di sicurezza euro-atlantico esistente; sistema istituito in un momento, a seguito della Guerra Fredda, in cui la Russia era gravemente indebolita.

 C’è del merito nel cancellare gradualmente questo sistema, principalmente rifiutando di prendervi parte e rispettando le sue regole obsolete, che per noi sono intrinsecamente svantaggiose.

Per la Russia, la pista occidentale dovrebbe diventare secondaria rispetto alla sua diplomazia eurasiatica. Il mantenimento di relazioni costruttive con i Paesi della parte occidentale del continente può facilitare l’integrazione nella Grande Eurasia per la Russia. Il vecchio sistema però è d’intralcio e quindi dovrebbe essere smantellato.

Sarebbe bello se avessimo più tempo per farlo. Ma la storia mostra che, dal crollo dell’URSS avvenuto 30 anni fa, poche nazioni post-sovietiche sono riuscite a diventare veramente indipendenti.

 

E alcune potrebbero anche non arrivarci mai, per vari motivi. Questo è un argomento per un’analisi futura.

In questo momento, posso solo sottolineare l’ovvio: la maggior parte delle élite locali non ha l’esperienza storica o culturale della costruzione dello Stato.

 Non sono mai stati in grado di diventare il fulcro della nazione, non hanno avuto abbastanza tempo per questo. Quando lo spazio intellettuale e culturale condiviso è scomparso, ha danneggiato di più i piccoli Paesi. Le nuove opportunità per costruire legami con l’Occidente non si sono rivelate sostitutive. Coloro che si sono trovati al timone di tali nazioni hanno venduto il loro Paese a proprio vantaggio, perché non c’era un’idea nazionale per cui lottare.

La maggior parte di questi paesi seguirà l’esempio degli Stati baltici, accettando il controllo esterno oppure continuerà a perdere il controllo, cosa che in alcuni casi può essere estremamente pericolosa.

La domanda è: come “unire” le nazioni nel modo più efficiente e vantaggioso per la Russia, tenendo conto dell’esperienza zarista e sovietica, quando la sfera di influenza è stata estesa oltre ogni ragionevole limite e poi tenuta insieme a spese del nucleo Popoli russi?

Lasciamo per un altro giorno la discussione sull'”unificazione” che la storia ci impone. Questa volta, concentriamoci sulla necessità oggettiva di prendere una decisione difficile e adottare la politica della “distruzione costruttiva“.

Le pietre miliari che abbiamo superato.

Oggi assistiamo all’inizio della quarta era della politica estera russa.La prima è iniziata alla fine degli anni ’80, ed è stato un periodo di debolezza e delusioni. La nazione aveva perso la voglia di combattere, la gente voleva credere alla democrazia e che l’Occidente sarebbe venuto a salvarli.

 Tutto finì nel 1999 dopo le prime ondate di espansione della NATO, quando l’Occidente fece a pezzi ciò che restava della Jugoslavia, viste dai russi come una pugnalata alle spalle.

Poi la Russia ha iniziato ad alzarsi e ricostruire sempre più di nascosto, pur apparendo amichevole e umile.

 Il ritiro degli Stati Uniti dal Trattato ABM ha segnalato l’intenzione di riconquistare il proprio dominio strategico, quindi la Russia ancora al verde ha preso la decisione fatale di sviluppare sistemi d’arma per sfidare le aspirazioni americane.

Il discorso di Monaco, la guerra georgiana e la riforma dell’esercito, condotti nel mezzo di una crisi economica globale che segnò la fine dell’imperialismo globalista liberale occidentale (termine coniato da un eminente esperto di affari internazionali, Richard Sakwa) ha segnato il nuovo obiettivo per la Russia in politica estera: diventare ancora una volta una potenza mondiale leader in grado di difendere la propria sovranità e i propri interessi.

 A ciò sono seguiti gli eventi in Crimea, in Siria, la formazione militare e il blocco dell’Occidente dall’interferire negli affari interni della Russia, sradicando dal servizio pubblico coloro che hanno collaborato con l’Occidente a svantaggio della loro patria, usando anche magistralmente la reazione occidentale a quegli sviluppi. Man mano che le tensioni continuavano a crescere, guardare all’Occidente e mantenervi risorse diventava sempre meno redditizio.

L’incredibile ascesa della Cina e il fatto di diventare alleati de facto con Pechino a partire dagli anni 2010, il perno verso Est, e la crisi multidimensionale che ha avvolto l’Occidente hanno portato a un grande cambiamento nell’equilibrio politico e geoeconomico a favore della Russia.

Ciò è particolarmente pronunciato in Europa.

Solo un decennio fa, l’UE vedeva la Russia come una periferia arretrata e debole del continente, un Paese che cercava di fare i conti con le grandi potenze.

Ora sta cercando disperatamente di aggrapparsi all’indipendenza geopolitica e geoeconomica che gli sta scivolando di mano.

Il periodo del “ritorno alla grandezza” è terminato tra il 2017 e il 2018.

Successivamente, la Russia ha raggiunto un punto fermo. La modernizzazione è continuata, ma l’economia debole ha minacciato di negare i suoi risultati.

Le persone (me compreso) erano frustrate, temendo che la Russia ancora una volta avrebbe “strappato la sconfitta dalle fauci della vittoria“.

Ma quello si è rivelato essere un altro periodo di crescita, principalmente in termini di capacità di difesa.

L’ultimatum che la Russia ha emesso agli Stati Uniti e alla NATO alla fine del 2021, chiedendo loro di interrompere lo sviluppo di infrastrutture militari vicino ai confini russi e l’espansione a Est, ha segnato l’inizio della “distruzione costruttiva“.

 L’obiettivo non è semplicemente fermare la debole, seppur pericolosissima inerzia della spinta geostrategica dell’Occidente, ma anche iniziare a gettare le basi per un nuovo tipo di relazioni tra Russia e Occidente, diverso da quello su cui ci siamo stabiliti negli anni ’90.

Le capacità militari della Russia, il ritorno del senso di rettitudine morale, le lezioni apprese dagli errori del passato e una stretta alleanza con la Cina potrebbero significare che l’Occidente, che ha scelto il ruolo di avversario, inizierà a essere ragionevole, anche se non sempre.

 Tra un decennio o prima, spero, quindi, verrà costruito un nuovo sistema di sicurezza e cooperazione internazionale che questa volta includerà l’intera Grande Eurasia, e sarà basato sui principi delle Nazioni Unite e sul diritto internazionale, non su “regole” unilaterali che l’Occidente ha cercato di imporre al mondo negli ultimi decenni.

Correggere gli errori.

 

Prima di andare oltre, lasciatemi dire che ho un’ottima opinione della diplomazia russa: è stata assolutamente brillante negli ultimi 25 anni. Mosca pur ricevendo una mano debole, è comunque riuscita a giocare un’ottima partita. In primo luogo, non ha permesso all’Occidente di “finirla”. La Russia ha mantenuto il suo status formale di grande Paese, mantenendo l’appartenenza permanente al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e mantenendo arsenali nucleari. Poi ha gradualmente migliorato la sua posizione globale facendo leva sui punti deboli dei suoi rivali e sui punti di forza dei suoi partner.

 

Costruire una forte amicizia con la Cina è stato un risultato importante. La Russia ha alcuni vantaggi geopolitici che l’Unione Sovietica non aveva. A meno che, ovviamente, non torni alle aspirazioni di diventare una superpotenza globale, che alla fine ha rovinato l’URSS.

 

Tuttavia, non dobbiamo dimenticare gli errori che abbiamo commesso per non ripeterli. Sono state la nostra pigrizia, debolezza e inerzia burocratica che hanno contribuito a creare e mantenere a galla il sistema ingiusto e instabile di sicurezza europea che abbiamo oggi.

 

La Carta di Parigi per una Nuova Europa, dalla bella formulazione, firmata nel 1990 conteneva una dichiarazione sulla libertà di associazione: i Paesi potevano scegliere i loro alleati, cosa che sarebbe stata impossibile ai sensi della Dichiarazione di Helsinki del 1975.

 

Poiché a quel punto il Patto di Varsavia era in fermento, questa clausola significava che la NATO sarebbe stata libera di espandersi. Questo è il documento a cui tutti continuano a fare riferimento, anche in Russia.

 

Nel 1990, tuttavia, la NATO poteva almeno essere considerata un’organizzazione di “difesa”. Da allora l’Alleanza e la maggior parte dei suoi membri hanno lanciato una serie di campagne militari aggressive – contro i resti della Jugoslavia, così come in Iraq e Libia.

 

Dopo una chiacchierata a cuore aperto con Lech Walesa nel 1993, Boris Eltsin firmò un documento in cui si affermava che la Russia “aveva compreso il piano della Polonia di aderire alla NATO“.

 

Quando Andrey Kozyrev, all’epoca ministro degli Esteri russo, venne a conoscenza dei piani di espansione della NATO nel 1994, iniziò un processo di trattativa per conto della Russia senza consultare il Presidente. L’altra parte lo ha preso come un segno che la Russia era d’accordo con il concetto generale, dal momento che stava cercando di negoziare condizioni accettabili.

 

Nel 1995 Mosca ha frenato, ma era troppo tardi: la diga è esplosa e ha spazzato via ogni riserva sugli sforzi di espansione dell’Occidente.

 

Essendo economicamente debole e completamente dipendente dall’Occidente, nel 1997 la Russia ha firmato il Founding Act on Mutual Relations, Cooperation and Security con la NATO. Mosca è stata in grado di ottenere alcune concessioni dall’Occidente, come l’impegno a non schierare grandi unità militari nei nuovi Stati membri.

 

La NATO ha costantemente violato questo obbligo. Un altro accordo era di mantenere questi territori liberi dalle armi nucleari. Gli Stati Uniti non l’avrebbero comunque voluto, perché avevano cercato di prendere le distanze il più possibile da un potenziale conflitto nucleare in Europa (malgrado i desideri dei loro alleati), poiché questo scenario avrebbe senza dubbio causato un attacco nucleare contro l’America. In realtà, il documento legittimava l’espansione della NATO.

 

C’erano altri errori, non così gravi, ma comunque estremamente dolorosi. La Russia ha partecipato al programma Partnership for Peace, il cui unico scopo era far sembrare che la NATO fosse pronta ad ascoltare Mosca, ma in realtà l’Alleanza stava usando il progetto per giustificarne l’esistenza e l’ulteriore espansione. Un altro passo falso frustrante è stato il nostro coinvolgimento nel Consiglio NATO-Russia dopo l’aggressione in Jugoslavia. Gli argomenti discussi a quel livello mancavano disperatamente di sostanza. Avrebbero dovuto concentrarsi sulla questione veramente significativa: frenare l’espansione dell’Alleanza e la costruzione delle sue infrastrutture militari vicino ai confini russi. Purtroppo, questo non è mai arrivato all’ordine del giorno. Il Consiglio ha continuato ad operare anche dopo che la maggior parte dei membri della NATO ha iniziato una guerra in Iraq e poi in Libia nel 2011.

 

È davvero un peccato che non abbiamo mai avuto il coraggio di dirlo apertamente: la NATO era diventata un aggressore che ha commesso numerosi crimini di guerra. Questa sarebbe stata una verità che fa riflettere per vari circoli politici in Europa, come ad esempio in Finlandia e Svezia, dove alcuni stanno valutando i vantaggi di entrare a far parte dell’Organizzazione. E tutti gli altri, del resto, con il loro mantra sul fatto che la NATO sia un’alleanza di difesa e deterrenza che deve essere ulteriormente consolidata in modo da poter resistere contro nemici immaginari.

 

Capisco quelli in Occidente che sono abituati al sistema esistente che consente agli americani di acquistare l’obbedienza dei loro partner minori, e non solo in termini di supporto militare, mentre questi alleati possono risparmiare sulle spese di sicurezza vendendo parte della loro sovranità. Ma cosa ci guadagniamo da questo sistema? Soprattutto ora che è diventato ovvio che genera e intensifica il confronto ai nostri confini occidentali e nel mondo intero.

 

Il blocco è una minaccia anche per i suoi membri. Pur provocando il confronto, in realtà non garantisce protezione. Non è vero che l’articolo 5 del Trattato del Nord Atlantico giustifichi la difesa collettiva se un alleato viene attaccato. Questo articolo non dice che questo è automaticamente garantito. Conosco la storia del blocco e le discussioni in America riguardo alla sua istituzione. So per certo che gli Stati Uniti non dispiegheranno mai armi nucleari per “proteggere” i loro alleati in caso di conflitto con uno Stato nucleare.

 

Anche l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE) è obsoleta. È dominata dalla NATO e dall’UE che utilizzano l’organizzazione per trascinare il confronto e imporre i valori e gli standard politici occidentali a tutti gli altri.

 

Fortunatamente, questa politica sta diventando sempre meno efficace.

 

A metà degli anni 2010 ho avuto la possibilità di lavorare con il Gruppo di eminenti personalità dell’OSCE (che nome!), che avrebbe dovuto sviluppare un nuovo mandato per l’Organizzazione. E se prima avevo i miei dubbi sull’efficacia dell’OSCE, questa esperienza mi ha convinto che si tratta di un’istituzione estremamente distruttiva.

 

È un’organizzazione antiquata con la missione di preservare le cose obsolete. Negli anni ’90 è servito come strumento per seppellire qualsiasi tentativo compiuto dalla Russia o da altri per creare un sistema di sicurezza europeo comune; negli anni 2000, il cosiddetto Processo di Corfù ha impantanato la nuova iniziativa di sicurezza della Russia.

 

Praticamente tutte le istituzioni delle Nazioni Unite sono state espulse dal continente, compresa la Commissione economica per l’Europa delle Nazioni Unite, il Consiglio per i diritti umani e il Consiglio di sicurezza. Un tempo l’OSCE era considerata un’organizzazione utile che avrebbe promosso il sistema e i principi delle Nazioni Unite in un subcontinente chiave. Questo non è successo.

 

Per quanto riguarda la NATO, è molto chiaro cosa dobbiamo fare. Dobbiamo minare la legittimità morale e politica del blocco e rifiutare qualsiasi partnership istituzionale, poiché la sua controproduttività è evidente. Solo i militari dovrebbero continuare a comunicare, ma come canale ausiliario che integri il dialogo con il Dipartimento della Difesa e i Ministeri della Difesa delle principali nazioni europee. Dopotutto, non è Bruxelles a prendere decisioni strategicamente importanti.

 

La stessa politica potrebbe essere adottata nei riguardi dell’OSCE. Sì, c’è una differenza, perché anche se questa è un’organizzazione distruttiva, non ha mai avviato guerre, destabilizzazione o uccisioni. Quindi dobbiamo ridurre al minimo il nostro coinvolgimento in questo formato.

 

Alcuni dicono che questo è l’unico contesto che offre al ministro degli Esteri russo la possibilità di vedere i suoi omologhi. Quello non è vero.

 

L’ONU può offrire un contesto ancora migliore. I colloqui bilaterali sono comunque molto più efficaci, perché è più facile per il blocco dirottare l’agenda quando c’è una folla. Anche l’invio di osservatori e forze di pace attraverso le Nazioni Unite avrebbe molto più senso.

 

Il formato limitato dell’articolo non mi consente di soffermarmi su politiche specifiche per ciascuna organizzazione europea, come ad esempio il Consiglio d’Europa. Ma definirei il principio generale in questo modo: collaboriamo dove vediamo vantaggi per noi stessi e manteniamo le distanze altrimenti.

 

Trent’anni nell’attuale sistema delle istituzioni europee hanno dimostrato che continuare con esso sarebbe stato dannoso. La Russia non beneficia in alcun modo della disposizione dell’Europa verso l’allevamento e l’escalation del confronto o addirittura a rappresentare una minaccia militare per il subcontinente e il mondo intero. In passato, potevamo sognare che l’Europa ci avrebbe aiutato a rafforzare la sicurezza, nonché la modernizzazione politica ed economica. Invece, stanno minando la sicurezza, quindi perché dovremmo copiare il sistema politico disfunzionale e in deterioramento dell’Occidente? Abbiamo davvero bisogno di questi nuovi valori che hanno adottato?

 

Dovremo limitarne l’espansione rifiutando di cooperare all’interno di un sistema in erosione. Si spera che, prendendo una posizione ferma e lasciando i nostri vicini della civiltà dell’Occidente a se stessi, li aiuteremo davvero. Le élite potrebbero tornare a una politica meno suicida che sarebbe più sicura per tutti. Ovviamente, dobbiamo essere intelligenti nel toglierci dall’equazione e assicurarci di ridurre al minimo i danni collaterali che inevitabilmente il sistema in errore causerà. Ma mantenerlo nella sua forma attuale è semplicemente pericoloso.

 

Politiche per la Russia di domani

 

Mentre l’ordine globale esistente continua a sgretolarsi, sembra che la via più prudente per la Russia sia quella di restarne fuori il più a lungo possibile – mettersi, cioè, al riparo tra le mura della sua “fortezza neo-isolazionista” e occuparsi di questioni interne. Ma questa volta, la storia ci chiede di agire. Molti dei miei suggerimenti riguardo all’approccio di politica estera che ho provvisoriamente chiamato “distruzione costruttiva” emergono naturalmente dall’analisi presentata sopra.

 

Non c’è bisogno di interferire o cercare di influenzare le dinamiche interne dell’Occidente, le cui élite sono abbastanza disperate da iniziare una nuova guerra fredda contro la Russia. Quello che dovremmo fare invece è utilizzare vari strumenti di politica estera, compresi quelli militari, per stabilire alcune linee rosse. Nel frattempo, mentre il sistema occidentale continua a orientarsi verso il degrado morale, politico ed economico, le potenze non occidentali (con la Russia come attore principale) vedranno inevitabilmente rafforzarsi le loro posizioni geopolitiche, geoeconomiche e geoideologiche.

 

I nostri partner occidentali, prevedibilmente, cercano di reprimere le richieste russe di garanzie di sicurezza e di sfruttare il processo diplomatico in corso per prolungare la durata delle proprie istituzioni. Non c’è bisogno di rinunciare al dialogo o alla cooperazione in materia di commercio, politica, cultura, istruzione e sanità, ogni volta che è utile. Ma dobbiamo anche usare il tempo che abbiamo per aumentare la pressione politico-militare, psicologica e persino tecnico-militare – non tanto sull’Ucraina, il cui popolo è stato trasformato in carne da cannone per una nuova Guerra Fredda – ma sull’Occidente collettivo, per costringerlo a cambiare idea e a fare un passo indietro rispetto alle politiche che ha perseguito negli ultimi decenni.

 

Non c’è nulla da temere per l’escalation del confronto: abbiamo visto crescere le tensioni anche mentre la Russia cercava di placare il mondo occidentale. Quello che dovremmo fare è prepararci a un più forte respingimento da parte dell’Occidente; inoltre, la Russia dovrebbe essere in grado di offrire al mondo un’alternativa a lungo termine: un nuovo quadro politico basato sulla pace e sulla cooperazione.

 

Naturalmente, è utile ricordare di tanto in tanto ai nostri partner che esiste un’alternativa reciprocamente vantaggiosa a tutto ciò.

 

Se la Russia metterà in atto politiche ragionevoli ma decise (anche a livello nazionale), supererà con successo (e in modo relativamente pacifico) l’ultima ondata di ostilità occidentale. Come ho scritto prima, abbiamo buone possibilità di vincere questa Guerra Fredda.

 

Ciò che ispira anche l’ottimismo è il record passato della Russia: siamo riusciti più di una volta a domare le ambizioni imperiali delle potenze straniere – per il nostro bene e per il bene dell’umanità nel suo insieme. La Russia è stata in grado di trasformare aspiranti imperi in vicini addomesticati e relativamente innocui: la Svezia dopo la battaglia di Poltava, la Francia dopo Borodino, la Germania dopo Stalingrado e Berlino.

 

Possiamo trovare uno slogan per la nuova politica russa nei confronti dell’Occidente in un verso di “Gli Sciti” di Alexander Blok, una poesia brillante che sembra particolarmente attuale oggi:

 

“Unisciti a noi, allora! Lascia la guerra e gli allarmi della guerra,

E afferra la mano della pace e dell’amicizia.

Finché c’è ancora tempo, compagni, abbassate le braccia!

Uniamoci in vera fraternità!”

 

Nel tentativo di sanare le nostre relazioni con l’Occidente (anche se ciò richiede una medicina amara), dobbiamo ricordare che, sebbene culturalmente vicino a noi, il mondo occidentale sta finendo il suo tempo. È essenzialmente in “modalità di controllo dei danni”, cercando la cooperazione quando possibile. Le vere prospettive e sfide del nostro presente e futuro risiedono nell’Est e nel Sud. Prendere una linea più dura con le nazioni occidentali non deve distrarre la Russia dal mantenere il suo perno verso Est. E abbiamo visto questo perno rallentare negli ultimi due o tre anni, specialmente quando si tratta di sviluppare territori al di là dei Monti Urali.

 

Non dobbiamo permettere che l’Ucraina diventi una minaccia alla sicurezza per la Russia. Detto questo, sarebbe controproducente spendervi troppe risorse amministrative e politiche (per non dire economiche). La Russia deve imparare a gestire attivamente questa situazione instabile, a mantenerla entro i limiti. La maggior parte dell’Ucraina è stata sterilizzata dalla propria élite antinazionale, corrotta dall’Occidente e infettata dal virus patogeno del nazionalismo militante.

 

Sarebbe molto più efficace investire in Oriente, nello sviluppo della Siberia. Creando condizioni di lavoro e di vita favorevoli, attireremo non solo cittadini russi, ma anche persone provenienti da altre parti dell’ex Impero russo, compresi gli ucraini. Questi ultimi, storicamente, hanno contribuito moltissimo allo sviluppo della Siberia.

 

Consentitemi di ribadire un punto trattato in altri dei miei articoli: è stata l’incorporazione della Siberia sotto Ivan il Terribile che ha reso la Russia una grande potenza, non l’adesione dell’Ucraina sotto Aleksey Mikhaylovich, noto con il soprannome di “il più pacifico”. È giunto il momento di smetterla di ripetere l’affermazione falsa e così sorprendentemente polacca di Zbigniew Brzezinski secondo cui la Russia non può essere una grande potenza senza l’Ucraina. Il contrario è molto più vicino alla verità: la Russia non può essere una grande potenza quando è gravata da un’Ucraina sempre più ingombrante, un’entità politica creata da Lenin che in seguito si espanse verso Ovest sotto Stalin.

 

Il percorso più promettente per la Russia è lo sviluppo e il rafforzamento dei legami con la Cina. Una partnership con Pechino moltiplicherà molte volte il potenziale di entrambi i Paesi. Se l’Occidente continuerà con le sue politiche amaramente ostili, non sarebbe irragionevole considerare un’alleanza temporanea di difesa di cinque anni con la Cina.

 

Naturalmente bisogna anche stare attenti a non avere le ‘vertigini di successo’ sulla pista cinese, per non tornare al modello medievale del Regno di Mezzo della Cina, cresciuto trasformando i suoi vicini in vassalli. Dovremmo aiutare Pechino in ogni modo possibile per evitare che subisca una sconfitta anche momentanea nella nuova Guerra Fredda scatenata dall’Occidente.

 

Questa sconfitta indebolirebbe anche noi.

 

Inoltre, sappiamo fin troppo bene in cosa si trasforma l’Occidente quando pensa di vincere. Ci sono voluti alcuni duri rimedi per curare la sbornia dell’America dopo che si era ubriacata di potere negli anni ’90.

 

Chiaramente, una politica orientata all’Est non deve concentrarsi esclusivamente sulla Cina. Sia l’Est che il Sud sono sempre più rilevanti nella politica, nell’economia e nella cultura globali, il che è in parte dovuto al nostro indebolimento della superiorità militare dell’Occidente, la fonte primaria dei suoi 500 anni di egemonia.

 

Quando arriverà il momento di stabilire un nuovo sistema di sicurezza europeo che sostituisca quello esistente pericolosamente obsoleto, lo si dovrà fare nel quadro di un più grande progetto eurasiatico. Nulla di utile può nascere dal vecchio sistema euro-atlantico.

 

È evidente che il successo richiede lo sviluppo e la modernizzazione del potenziale economico, tecnologico e scientifico del Paese, tutti pilastri della potenza militare di un Paese, che rimane la spina dorsale della sovranità e della sicurezza di qualsiasi nazione. La Russia non può avere successo senza migliorare la qualità della vita per la maggior parte della sua popolazione: questo include prosperità generale, assistenza sanitaria, istruzione e ambiente.

 

La restrizione delle libertà politiche, inevitabile di fronte all’Occidente collettivo, non deve in alcun modo estendersi alla sfera intellettuale. Questo è difficile ma realizzabile. Per la parte della popolazione talentuosa e creativa che è pronta a servire il proprio Paese, dobbiamo preservare quanta più libertà intellettuale possibile. Lo sviluppo scientifico attraverso le “sharashka” in stile sovietico (laboratori di ricerca e sviluppo che operano all’interno del sistema dei campi di lavoro sovietici) non è qualcosa che funzionerebbe nel mondo moderno.

 

La libertà accresce i talenti del popolo russo e l’inventiva scorre nel nostro sangue. Anche in politica estera, la libertà dai vincoli ideologici di cui godiamo ci offre enormi vantaggi rispetto ai nostri vicini più chiusi. La storia ci insegna che la brutale restrizione della libertà di pensiero imposta dal regime comunista al suo popolo ha portato l’Unione Sovietica alla rovina. La conservazione della libertà personale è una condizione essenziale per lo sviluppo di qualsiasi nazione.

 

Se vogliamo crescere come società ed essere vittoriosi, è assolutamente vitale che sviluppiamo una spina dorsale spirituale: un’idea nazionale, un’ideologia che unisca e illumini la strada da seguire. È una verità fondamentale che le grandi nazioni non possono essere veramente grandi senza una tale idea al centro.

 

Questo fa parte della tragedia che ci è accaduta negli anni ’70 e ’80. Si spera che la resistenza delle élite dominanti al progresso di una nuova ideologia, radicata nei dolori dell’era comunista, stia cominciando a svanire. Il discorso di Vladimir Putin alla riunione annuale dell’ottobre 2021 del Valdai Discussion Club è stato un potente segnale rassicurante al riguardo.

 

Come il numero sempre crescente di filosofi e autori russi, ho avanzato la mia visione dell'”idea russa“.

 

Domande per il futuro

 

E ora discutiamo di un aspetto significativo, ma per lo più trascurato ma che deve essere affrontato, della nuova politica. Dobbiamo respingere e riformare il fondamento ideologico obsoleto e spesso dannoso delle nostre scienze sociali e della vita pubblica affinché questa nuova politica venga attuata, per non parlare del successo.

 

Ciò non significa che dobbiamo respingere ancora una volta i progressi nelle scienze politiche, nell’economia e negli affari esteri dei nostri predecessori. I bolscevichi hanno cercato di scaricare le idee sociali della Russia zarista – tutti sanno come è andata a finire. Noi abbiamo rifiutato il marxismo e ne siamo stati felici. Ora, stufi di altri principi, ci rendiamo conto che eravamo troppo impazienti. Marx, Engels e Lenin avevano idee solide nella loro teoria dell’imperialismo che potremmo usare.

 

Le scienze sociali che studiano i modi della vita pubblica e privata devono tener conto del contesto nazionale, per quanto inclusivo voglia apparire. Deriva dalla storia nazionale e, in definitiva, ha lo scopo di aiutare le nazioni e/o il loro governo e le élite. L’applicazione insensata di soluzioni valide da un Paese all’altro sono inutili e creano solo abomini.

 

Dobbiamo iniziare a lavorare per l’indipendenza intellettuale dopo aver raggiunto la sicurezza militare e la sovranità politica ed economica. Nel nuovo mondo, è obbligatorio raggiungere lo sviluppo ed esercitare influenza. Mikhail Remizov, un importante politologo russo, è stato il primo, per quanto ne so, a chiamare questa “decolonizzazione intellettuale“.

 

Dopo aver trascorso decenni all’ombra di un marxismo importato, abbiamo iniziato una transizione verso un’altra ideologia straniera di democrazia liberale nell’economia e nelle scienze politiche e, in una certa misura, anche nella politica estera e nella difesa.

 

Questo fascino non ci ha fatto bene: abbiamo perso terra, tecnologia e persone. A metà degli anni 2000, abbiamo iniziato ad esercitare la nostra sovranità, ma abbiamo dovuto fare affidamento sui nostri istinti piuttosto che su chiari principi scientifici e ideologici nazionali (di nuovo – non può essere altro).

 

Per illustrare questo punto, ecco alcune domande scelte a caso dalla mia lunghissima lista.

 

Inizierò con questioni esistenziali, puramente filosofiche.

 

Cosa viene prima negli esseri umani, lo spirito o la materia? E nel senso politico più banale, cosa guida le persone e gli Stati nel mondo moderno? Per i comunisti marxisti e liberali, la risposta è l’economia. Ricorda solo che fino a poco tempo fa si pensava che il famoso “È l’economia, stupido” di Bill Clinton fosse un assioma. Ma le persone cercano qualcosa di più grande quando il bisogno fondamentale di cibo è soddisfatto. Amore per la loro famiglia, la loro patria, desiderio di dignità nazionale, libertà personali, potere e fama.

 

La gerarchia dei bisogni ci è ben nota da quando Maslow la introdusse negli anni ’40 e ’50 nella sua famosa piramide. Il capitalismo moderno, tuttavia, l’ha distorta, costringendo il consumo in continua espansione attraverso i media tradizionali all’inizio e le reti digitali onnicomprensive in seguito, per ricchi e poveri, ciascuno secondo le proprie capacità.

 

Cosa possiamo fare quando il capitalismo moderno, privato di fondamenti morali o religiosi, incita al consumo illimitato, abbattendo i confini morali e geografici ed entra in conflitto con la natura, minacciando l’esistenza stessa della nostra specie? Noi russi capiamo meglio di chiunque altro che tentare di sbarazzarsi di imprenditori e capitalisti spinti dal desiderio di costruire ricchezza avrà conseguenze disastrose per la società e l’ambiente (il modello di economia socialista non era esattamente rispettoso dell’ambiente).

 

Cosa facciamo con gli ultimi valori del rifiuto della storia, della tua patria, del genere e delle convinzioni, così come dei movimenti LGBT aggressivi e ultrafemministi? Rispetto il diritto di seguirli, ma penso che siano post-umanisti.

 

Dovremmo trattare questo solo come un altro stadio dell’evoluzione sociale? Non credo.

 

Dovremmo cercare di allontanarlo, limitarne la diffusione e aspettare che la società sopravviva a questa epidemia morale? O dovremmo combatterlo attivamente, guidando la maggioranza dell’umanità che aderisce ai cosiddetti valori “conservatori” o, per dirla semplicemente, ai normali valori umani? Dovremmo entrare nella lotta intensificando un confronto già pericoloso con le élite occidentali?

 

Lo sviluppo tecnologico e l’aumento della produttività del lavoro hanno contribuito a sfamare la maggior parte delle persone, ma il mondo stesso è scivolato nell’anarchia e molti principi guida sono andati perduti a livello globale. I problemi di sicurezza, forse, stanno nuovamente prevalendo sull’economia. Gli strumenti militari e la volontà politica potrebbero prendere il comando d’ora in poi.

 

Che cos’è la deterrenza militare nel mondo moderno? È una minaccia causare danni alle risorse nazionali e individuali o alle risorse estere e alle infrastrutture dell’informazione a cui le élite occidentali di oggi sono così strettamente legate? Che ne sarà del mondo occidentale se questa infrastruttura verrà demolita?

 

E una domanda correlata: qual è la parità strategica di cui parliamo ancora oggi? È una sciocchezza straniera scelta dai leader sovietici che hanno risucchiato il loro popolo in una corsa agli armamenti estenuante a causa del loro complesso di inferiorità e della sindrome del 22 giugno 1941? Sembra che stiamo già rispondendo a questa domanda, anche se continuiamo a sfornare discorsi sull’uguaglianza e sulle misure simmetriche.

 

E qual è questo controllo degli armamenti che molti ritengono strumentale? È un tentativo di frenare la costosa corsa agli armamenti vantaggiosa per l’economia più ricca, di limitare il rischio di ostilità o qualcosa di più: uno strumento per legittimare la corsa, lo sviluppo delle armi e il processo di programmi non necessari sul tuo avversario? Non c’è una risposta ovvia a questo.

 

Ma torniamo alle domande più esistenziali.

 

La democrazia è davvero l’apice dello sviluppo politico? O è solo un altro strumento che aiuta le élite a controllare la società, se non stiamo parlando della pura democrazia di Aristotele (che ha anche alcuni limiti)? Ci sono molti strumenti che vanno e vengono man mano che la società e le condizioni cambiano. A volte li abbandoniamo solo per riportarli indietro quando è il momento giusto e c’è una richiesta esterna e interna per loro. Non sto chiedendo un autoritarismo illimitato o una monarchia. Penso che abbiamo già esagerato con la centralizzazione, soprattutto a livello di governo municipale. Ma se questo è solo uno strumento, non dovremmo smettere di fingere di lottare per la democrazia e metterlo in chiaro: vogliamo le libertà personali, una società prospera, sicurezza e dignità nazionale? Ma come giustifichiamo il potere al popolo allora?

 

Lo Stato è davvero destinato a morire, come credevano i marxisti e i globalisti liberali, sognando alleanze tra corporazioni transnazionali, Organizzazioni Non Governative internazionali (entrambe sono state nazionalizzate e privatizzate) e organismi politici sovranazionali? Vedremo per quanto tempo l’UE potrà sopravvivere nella sua forma attuale. Si noti che non voglio dire che non c’è motivo di unire gli sforzi nazionali per il bene superiore, come l’abbattimento di costose barriere doganali o l’introduzione di politiche ambientali congiunte. O non è meglio concentrarsi sullo sviluppo del proprio Stato e sul sostegno dei vicini ignorando i problemi globali creati da altri? Non ci daranno fastidio se agiamo in questo modo?

 

Qual è il ruolo della terra e dei territori? È una risorsa in diminuzione, un peso come si credeva solo di recente tra gli scienziati politici? O il più grande tesoro nazionale, soprattutto di fronte alla crisi ambientale, ai cambiamenti climatici, al crescente deficit di acqua e cibo in alcune regioni e alla totale mancanza in altre?

 

Cosa dovremmo fare allora con centinaia di milioni di pakistani, indiani, arabi e altri le cui terre potrebbero presto essere inabitabili? Dovremmo invitarli ora come hanno iniziato a fare gli Stati Uniti e l’Europa negli anni ’60, attirando i migranti per abbassare il costo del lavoro locale e minare i sindacati? O dovremmo prepararci a difendere i nostri territori dagli estranei? In tal caso, dovremmo abbandonare ogni speranza di sviluppare la democrazia, come mostra l’esperienza di Israele con la sua popolazione araba.

 

Lo sviluppo della robotica, che è attualmente in uno stato pietoso, aiuterebbe a compensare la mancanza di forza lavoro e a rendere nuovamente vivibili quei territori? Qual è il ruolo degli indigeni russi nel nostro Paese, considerando che il loro numero continuerà inevitabilmente a ridursi? Dato che i russi sono stati storicamente un popolo aperto, le prospettive potrebbero essere ottimistiche. Ma finora non è chiaro, come mostra l’esperienza di Israele con la sua popolazione araba.

 

Posso andare avanti all’infinito, soprattutto quando si tratta di economia. Queste domande devono essere poste ed è fondamentale trovare risposte il prima possibile per crescere ed essere al top. La Russia ha bisogno di una nuova economia politica, libera dai dogmi marxisti e liberali, ma qualcosa di più dell’attuale pragmatismo su cui si basa la nostra politica estera. Deve includere un idealismo orientato al futuro, una nuova ideologia russa che incorpori la nostra storia e le nostre tradizioni filosofiche. Questo fa eco alle idee avanzate dall’accademico Pavel Tsygankov.

 

Credo che questo sia l’obiettivo finale di tutte le nostre ricerche in materia di affari esteri, scienze politiche, economia e filosofia. Questo compito è al di là del difficile.

 

Possiamo continuare a contribuire alla nostra società e al nostro Paese solo rompendo i nostri vecchi schemi di pensiero. Ma per concludere con una nota ottimistica, ecco un pensiero umoristico: non è tempo di riconoscere che l’argomento dei nostri studi – affari esteri, politiche interne ed economia – è il risultato di un processo creativo che coinvolge masse e leader allo stesso modo? Riconoscere che è, in un certo senso, arte? In larga misura, sfida ogni spiegazione e deriva dall’intuizione e dal talento. E quindi siamo come esperti d’arte: ne parliamo, individuiamo tendenze e insegniamo agli artisti – alle masse e ai leader – la storia, che è loro utile. Spesso, però, ci perdiamo nel teorico, inventando idee avulse dalla realtà o distorcendola concentrandoci su frammenti separati.

 

A volte facciamo la storia: pensate a Evgeny Primakov o a Henry Kissinger. Hanno attinto alla loro conoscenza, esperienza personale, principi morali e intuizione. Mi piace l’idea di essere una specie di esperto d’arte, e credo che possa rendere un po’ più facile lo scoraggiante compito di rivedere i dogmi.

(Il professor Sergey Karaganov, è il presidente onorario del Consiglio russo per la politica estera e di difesa e supervisore accademico presso la School of International Economics and Foreign Affairs Higher School of Economics (HSE) di Mosca.)

 

 

IL 14° PIANO QUINQUENNALE

CINESE: OBIETTIVI E FINALITÀ.

cese-m.eu - Stefano Vernole-redazione- (14 Giugno 2022)- ci dice :

 

Un’economia più qualitativa.

Il Governo cinese ha pubblicato all’inizio del 2022 il suo programma per la competitività nell’economia digitale nell’ambito del XIV Piano quinquennale 2021-2025, che era stato approvato alla fine del 2021.

 

Il documento, diffuso dal Consiglio di Stato, pone l’obiettivo di una crescita del valore dell’industria digitale dal 7,8% del Pil nel 2020 al 10% del Pil nel 2025. Inoltre, la Cina punta ad avere entro il 2025 il 45% delle imprese industriali connesse a “piattaforme internet industriali”, rispetto al 14,7% attuale.

Questa transizione digitale dovrà dipanarsi in otto aree, tra le quali l’ottimizzazione e l’aggiornamento dell’infrastruttura digitale, la transizione digitale delle imprese e l’espansione della cooperazione internazionale nell’economia digitale.

Nello stesso tempo, Pechino punta a delineare un set di regolamentazioni nel campo dei flussi dei dati cross-border, della lotta ai monopoli, della diffusione della valuta digitale e della protezione della privacy.

Lo sviluppo digitale, secondo il documento, sarà centrale nella “riorganizzazione delle risorse globali”, nella “riforma dell’economia globale”, alterando la struttura delle economie e il “panorama competitivo globale”.

Il quattordicesimo Piano quinquennale cinese (PQ), che era stato rilasciato nelle linee guida dalle “Due Sessioni” (le sedute plenarie annuali della Conferenza politica consultiva del popolo e dell’Assemblea nazionale del popolo) a inizio marzo del 2021, contiene quindi importanti direttrici di riforma economica, sociale ed industriale che lasciano immaginare un quinquennio di grandi cambiamenti.

In esso sono contenute alcune novità che indicano un cambiamento di impostazione rispetto al passato e che confermano la volontà del Governo di Pechino di trasformare la propria società ed economia in ottica di qualità, dopo decenni di sviluppo estensivo. Per esempio, la mancata indicazione di fattori di crescita quantitativi come il PIL, introdotto per la prima volta nel settimo FYP (1986-1990), potrebbe confermare un diverso approccio politico, lasciando alle dinamiche di mercato il compito di determinare la crescita con una governance centrale nell’allocazione delle risorse. Mentre nella precedente edizione veniva stabilito un obiettivo di crescita annuale del 6,5%, il quattordicesimo Piano Quinquennale stabilisce semplicemente che gli obiettivi di espansione annuale devono essere ragionevoli e stabiliti a seconda delle circostanze.

Ciò non significa che il Governo cinese vi abbia rinunciato ma si sottintende che i responsabili della politica economica desiderino avere più ampi margini di manovra per allineare le proprie priorità a seconda degli sviluppi della situazione interna ed internazionale.

I temi relativi alla transizione energetica, riduzione delle emissioni di anidride carbonica spinta dell’economia circolare, rimangono centrali in modo trasversale, sebbene il quattordicesimo Piano Quinquennale non contenga ancora gli obiettivi ambiziosi che ci si sarebbe potuti aspettare dopo gli impegni presi dal Presidente Xi Jinping di raggiungere il picco di emissioni nel 2030 e la carbon neutrality nel 2060. Ciò è dovuto probabilmente ai necessari aggiustamenti strutturali derivanti dalla crisi mondiale delle materie prime e all’aumento esponenziale dei prezzi dell’energia.

Le principali priorità ambientali riguardano il miglioramento dell’efficienza energetica, l’espansione delle fonti di energia rinnovabile e la modernizzazione della rete di trasmissione e distribuzione.

Di conseguenza il Piano stabilisce la riduzione dei consumi di energia e le emissioni di biossido di carbonio per unità di PIL rispettivamente del 13,5% e del 18% per i prossimi cinque anni.

Allo stesso tempo, le fonti di energia rinnovabile (eolica, solare, idroelettrica e nucleare) dovrebbero aumentare al 20% del mix energetico rispetto al 16% del 2019.

A tal fine, la Cina ambisce a creare una rete nazionale di trasmissione intelligente che parta dalle province montagnose e scarsamente popolate dell’ovest e del nord-ovest verso le zone costiere densamente popolate e ad elevata domanda energetica.

Le basi energetiche delle regioni dell’ovest verrebbero affiancate da una rete di parchi eolici offshore e da dieci nuove centrali nucleari collocate lungo la costa orientale e meridionale.

I pilastri del Piano quinquennale sono: Circolazione Duale, Indipendenza Scientifica e Tecnologica, Nuova Urbanizzazione e Sviluppo Verde.

Il concetto di Dual Circulation (lanciato per la prima volta dal presidente Xi Jinping durante una sessione del Politburo nel maggio 2020) chiarisce la strategia per promuovere lo sviluppo economico basato sull’espansione del mercato interno ed in modo articolato sull’integrazione globale, confermando così impostazioni di politica economica già presenti nel tredicesimo PQ.

 Infatti, i concetti della Nuova Normalità incorporavano la necessità economica di incrementare il ruolo dei servizi e potenziare il consumo interno come elementi di crescita sebbene, da questo punto di vista, non siano stati raggiunti alcuni obiettivi del tredicesimo FYP, anche per l’impatto che nel 2020 ha avuto la pandemia.

Si tratta di un altro passo in linea con la Vision to 2035 che definisce obiettivi ambiziosi, prevedendo l’uscita della Cina dallo status di Paese in via di sviluppo con un PIL pro capite vicino ai 30.000 dollari.

Per quanto riguarda la circolazione esterna, si tratta di accelerare l’indipendenza del Paese dal punto di vista tecnologico, cercando di sfuggire alla tendenza al decoupling che, da diversi anni e sotto le spinte geopolitiche nordamericane, si sta affermando.

E’ comunque comprensibile che dopo le tensioni con gli Stati Uniti negli ultimi anni e le reciproche sanzioni – che hanno recentemente coinvolto anche l’Unione Europea – la Cina debba rafforzare la propria sicurezza anche dal punto di vista tecnologico, oltre che energetico ed alimentare (la lettura in ottica di sicurezza nazionale delle scelte del 14° PQ è indispensabile).

Un’altra direttiva importante – anch’essa per fronteggiare il decoupling tecnologico con l’Occidente è quella di promuovere l’autosufficienza nell’hardware e software di base, nei componenti elettronici fondamentali, nei materiali chiave e nelle apparecchiature di produzione, al fine di migliorare la sicurezza della catena di approvvigionamento in settori strategici come 5G, circuiti integrati, veicoli a nuova energia, intelligenza artificiale e internet industriale.

Secondo l’ultimo rapporto World Digital Competitiveness Ranking, gli Stati Uniti sono il Paese più competitivo del mondo da un punto di vista digitale dal 2018; nello stesso periodo, la Cina è salita di 15 posizioni, raggiungendo il quindicesimo posto della classifica.

L’agenzia “Bloomberg” ha anticipato che la Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti si starebbe preparando a varare il progetto di legge Innovation and competition act (approvato dal Senato USA nel giugno scorso), un provvedimento che include una serie di clausole per frenare lo sviluppo di tecnologie e imprese cinesi. Indipendentemente dai risultati raggiunti da Pechino, è evidente che gli ostacoli statunitensi stanno avendo l’effetto di accelerare la rincorsa tecnologica della Cina.

Questa considerazione porta all’altro punto chiave sugli obiettivi di indipendenza scientifica e tecnologica che sembra rappresentare il nuovo pilastro strategico per lo sviluppo nazionale. Già il programma Made in China 2025, – lanciato nel 2015 ed approfondito da In3act nel 2016-2017, conteneva tutti gli elementi per una trasformazione della base industriale e delle catene di fornitura da quantità a qualità, individuando dieci settori strategici in cui la Cina dovrebbe raggiungere autonomia, leadership globale e priorità tecnologiche a diversi stadi nel 2025, 2035 e 2049.

 

Per questo i nuovi obiettivi e le nuove strategie fissati dal quattordicesimo PQ, anche per evitare la middle income trap, sono gli stessi alla base del programma MiC2025, accelerati e reindirizzati nelle priorità alla luce delle tensioni geopolitiche degli ultimi anni soprattutto per i settori high-tech, microelettronica, Intelligenza Artificiale, sicurezza cibernetica, blockchain, big data, 6G3. Dal 2019, senza fare molta pubblicità, la Cina ha costruito una piattaforma che mira a facilitare l’implementazione della tecnologia blockchain per le aziende: si chiama Blockchain-based Service Network (BSN).

Il prodotto di BSN è rivolto alle aziende, in particolare a quelle che gestiscono infrastrutture di cloud computing, un processo che altrimenti potrebbe essere costoso e richiedere molto tempo. L’altro punto di forza della tecnologia cinese è che sta cercando di risolvere un problema difficile nel settore: l’interoperabilità – o far funzionare blockchain diverse tra loro. L’idea è che un’azienda o un governo possono utilizzare la piattaforma di BSN per distribuire facilmente applicazioni blockchain, senza incorrere in costi elevati.

L’approccio quantitativo rimane comunque anche nel quattordicesimo FYP.

Per esempio, l’obiettivo di raddoppiare il numero di brevetti di innovazione ad alto valore industriale per 10.000 persone da 6,3 (2020) a 12 (2025) e lo stesso per il valore aggiunto di Core Industries Digital Economy (7,8% nel 2020 vs 10% nel 2025). Se guardiamo alle innovazioni rivoluzionarie degli ultimi dieci anni nel campo della scienza e della tecnologia, la quota della Cina è ancora molto al di sotto delle quote dei suoi brevetti in quantità.

Il concetto di Nuova Urbanizzazione è già oggetto di discussione da anni e deve tener conto delle profonde trasformazioni economiche e sociali degli ultimi decenni (per es. la riduzione del tasso di povertà al di sotto del 5%). Il progressivo aumento del tasso di urbanizzazione pianificato (dal 60% nel 2020 al 65% nel 2025) rallentando flussi migratori interni con programmi di urbanizzazione delle aree rurali è un buon approccio ed è in linea con gli obiettivi di ridurre l’intensità energetica (quantità di energia necessaria per produrre un punto di PIL) in coerenza con gli obiettivi di decarbonizzazione.

 

Gli indirizzi della Nuova Urbanizzazione introducono enormi trasformazioni dei modelli economici per l’agricoltura ma anche per i settori dei servizi, aprendo così grandi opportunità di business.

 Tuttavia, il Piano non prevede un’ulteriore liberalizzazione del mercato fondiario, che potrebbe essere determinante per aumentare i redditi delle famiglie rurali, consentendo alla popolazione locale di affittare o vendere le proprie terre.

La liberalizzazione dell’assegnazione dei terreni avrebbe anche un enorme impatto sulla decarbonizzazione e in linea con le ambizioni di costruire un ecosistema qualitativo e non più quantitativo nella pianificazione urbana, nella qualità degli edifici, nel risparmio energetico e in generale nel contribuire a migliorare la qualità della vita delle persone. In ogni caso, gli intenti sono anche quelli di ridurre il divario tra le fasce di abitanti più ricche e quelle più povere, tra le aree rurali e quelle urbane, dopo che la Cina è stata sorprendentemente in grado di togliere dalla povertà la maggioranza della sua popolazione.

L’ultimo pilastro portante del 14° Piano Quinquennale è lo Sviluppo Verde, indicato come indispensabile per costruire una civiltà ecologica, così come indicato dagli obiettivi di decarbonizzazione.

Mentre viene riconosciuta la necessità di rafforzare la protezione ecologica e ambientale, i pochi dati inclusi nel 14° FYP (-13,5% intensità energetica in cinque anni; 18% intensità CO2 in cinque anni; tasso di copertura forestale, percentuale di giorni con buona qualità dell’aria nelle prefetture e oltre, percentuale della superficie dell’acqua raggiungendo il livello II e superiore) sono ancora timidi se confrontati con gli impegni verso la neutralità carbonica.

 Questo compito è lasciato ai diversi Ministeri ed Enti preposti (MEE, NDRC, NEA, MOHURD, etc.) che dovranno sviluppare i Piani di dettaglio anche in considerazione della difficile situazione congiunturale a livello globale (guerra/pandemia/rincaro delle materie prime e costi dell’energia).

In ogni caso, le deliberazioni del Consiglio di Stato forniscono indirizzi molto precisi per strutturare il percorso di trasformazione economica e sociale verso la carbon neutrality, anche con interessanti novità relative ad approcci olistici, in precedenza non presenti nelle pianificazioni di lungo termine. In tal senso la Camera di Commercio Europea in Cina ha visto accogliere molte delle raccomandazioni rilasciate negli scorsi anni per affrontare la transizione energetica in modo efficiente ed efficace, spingere per ulteriori aperture del mercato ed affrontare i temi di trasformazione con approcci top down.

La Cina e l’Europa hanno entrambe preso impegni formali con obiettivi stringenti verso la decarbonizzazione e stanno affrontando sfide senza precedenti nel rimodellare in modo completo i loro modelli economici lungo tutte le catene di valore e di fornitura, così come la vita quotidiana dei singoli individui. Ma la sfida è davvero senza precedenti.

Per le aziende italiane ed europee si aprono immense opportunità di business, in tutti i settori industriali e dei servizi in Cina, spinti dalle trasformazioni necessarie per raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione: in primis in tutti i settori delle filiere dell’energia, delle tecnologie di protezione ambientale, efficienza energetica, trasporti, nuovi processi e soluzioni.

La Cina deve affrontare sfide e investimenti senza precedenti verso la decarbonizzazione, perché i suoi obiettivi la obbligheranno a dismettere almeno 700 GW di centrali a carbone (paragonabile alla capacità di potenza totale installata in Europa) e ad eliminare diverse tonnellate di C02 all’anno, con investimenti stimati in 140 tn RMB in dieci anni.

Oltre a ribadire gli impegni presi – raggiungere il picco delle emissioni prima del 2030, la neutralità carbonica prima del 2060, e diminuire l’intensità carbonica del 65% entro il 2030 – Pechino rivendica i significativi risultati raggiunti negli ultimi anni.

A partire proprio dall’intensità carbonica: nel 2020 essa è diminuita del 18,8% rispetto al 2015 e del 48,4% sul 2005. Il suo calo si traduce in una riduzione totale di 5,8 miliardi di tonnellate di emissioni dal 2005 al 2020 e dimostra che la Cina ne ha ampiamente ribaltato la rapida crescita. L’energia prodotta da fonti non fossili si sta sviluppando rapidamente. Secondo calcoli preliminari, nel 2020, l’energia non fossile ha reso conto del 15,9% del consumo totale di energia, con un aumento di 8,5 punti percentuali rispetto al 2005.

La capacità totale di impianti installati per la generazione di energia non fossile rappresenta il 44,7% di quella totale, la capacità di fotovoltaico è aumentata di un fattore di oltre 3mila rispetto al 2005 e quella eolica di oltre 200.

La Cina sta anche riducendo rapidamente l’intensità del suo consumo di energia. Secondo calcoli preliminari, la riduzione fra il 2011 e il 2020 ha raggiunto il 28,7%, risultando fra le più veloci al mondo.

Lo scorso anno, il consumo totale di energia è rimasto inferiore ai 5 miliardi di tonnellate di carbone equivalente. La proporzione di carbone nel suo consumo totale è scesa dal 72,4% del 2005 al 56,8% del 2020. La nuova industria dell’energia è testimone di una forte crescita. La Cina, negli ultimi sei anni, è la prima al mondo per produzione e vendita di nuovi componenti per l’energia.

L’obiettivo della neutralità carbonica è stato incorporato nel programma di sviluppo economico e sociale complessivo del Paese, con l’adozione di un approccio olistico ed equilibrando le relazioni fra crescita economica e riduzione delle emissioni. Sono stati resi noti i cambiamenti significativi registrati in Cina grazie alla risposta varata in questi anni, in cui Pechino ha coordinato lo sviluppo economico con l’abbassamento dell’inquinamento, gestito una rivoluzione nella produzione e consumo di energia e una transizione industriale sulla base di emissioni ridotte, aumentato la capacità degli ecosistemi di assorbire carbonio, promosso stili di vita ecologici. La Cina ha formulato e attuato una varietà di strategie, regolamenti, politiche, standard e azioni, per rispondere agli obiettivi presi in risposta ai cambiamenti climatici.

Trattandosi di un Paese in via di sviluppo con una popolazione di 1,4 miliardi di persone, si devono affrontare problemi enormi, fra cui lo sviluppo economico, il miglioramento della qualità della vita dei suoi abitanti, il controllo dell’inquinamento e la protezione dell’ambiente.

 

Nel 2015 la Cina aveva fissato l’obiettivo di raggiungere il massimo delle emissioni intorno al 2030 al massimo e di fare tutti gli sforzi possibili per ottenerlo prima. Alla fine del 2019, la Cina aveva raggiunto il suo obiettivo per il 2020 in anticipo.

La Cina ha assunto, come “obiettivo vincolante”, il taglio dell’intensità del carbonio (il dato che misura la quantità di emissioni di gas a effetto serra per unità di Pil), del 18% dal 2020 al 2025. Tale impegno, preso nel Piano quinquennale per l’economia e lo sviluppo sociale, viene ribadito da Pechino, nel Libro bianco “Rispondere al cambiamento climatico: le politiche e le azioni della Cina”.

Come sta procedendo la programmazione economica cinese.

Nell’anno appena trascorso, la pandemia ha imperversato ancora in molti Paesi e la strada per la ripresa economica globale non può dirsi spianata.

Nel 2021, il Pil cinese ha superato 1,14 trilioni di yuan, segnando un incremento dell’8,1% su base annua, e si stima che il suo contributo alla crescita economica mondiale raggiungerà circa il 25%. Il numero di nuovi occupati ha superato i 12 milioni e l’aumento del reddito disponibile pro capite dei residenti è stato sostanzialmente in linea con la crescita economica, realizzando un buon avvio per il XIV Piano quinquennale e dando dimostrazione di una grande volontà di ripartenza.

La Cina lo scorso anno ha raggiunto i suoi obiettivi ambientali riducendo l’inquinamento e migliorando continuamente la qualità dell’acqua e dell’aria.

Liu Youbin, portavoce del Ministero dell’ecologia e dell’ambiente, ha infatti dichiarato durante una conferenza stampa di inizio anno che il Paese ha raggiunto tutti gli otto obiettivi vincolanti relativi alle emissioni di CO2 e alla qualità delle acque superficiali.

I progressi della Cina nella riduzione delle emissioni di CO2 per unità di PIL hanno soddisfatto i requisiti del 14° piano quinquennale (2021-2025), mentre la riduzione delle emissioni di quattro principali inquinanti, tra cui l’ossinitruro, ha raggiunto gli obiettivi annuali.

La quota di giorni con una buona qualità dell’aria nel 2021 è salita all’87,5%, in aumento di 0,5 punti percentuali rispetto all’anno precedente. La densità di PM2,5 è scesa del 9,1%, anno dopo anno, a 30 microgrammi per metro cubo.

Liu, in particolare, ha sottolineato il miglioramento della qualità dell’aria nella regione di Pechino-Tianjin-Hebei e nelle aree circostanti, inoltre ha aggiunto che la densità di PM2,5 della città è scesa da 89,5 microgrammi per metro cubo nel 2013 a 33 microgrammi nel 2021 e che i suoi giorni di significativo inquinamento atmosferico sono scesi da 58 a 8.

Il Paese ha pure riportato una migliore qualità delle acque superficiali. La proporzione di laghi e fiumi classificati da I a III ha raggiunto l’84,9%, indicando una tendenza al continuo miglioramento dell’ambiente ecologico (la qualità delle acque superficiali in Cina è suddivisa in cinque classi, la classe I è quella di più alta qualità).

 

Il fiume Yangtze, il più lungo della Cina, ha visto la qualità del suo corso d’acqua primario raggiungere la classe II per il secondo anno consecutivo nel 2021.

Al momento, la Cina sta accelerando la costruzione di un nuovo modello di sviluppo basato sull’alta qualità; ciò implica la costruzione di una catena di approvvigionamento stabile e di un mercato di consumi interni.

Osservando l’economia cinese, sono evidenti quattro fattori positivi.

In primo luogo, la resilienza della manifattura. La Cina dispone di un sistema industriale completo e di vantaggi competitivi complessivi in termini di strutture industriali, infrastrutture e risorse umane.

In secondo luogo, il Governo di Pechino insiste sull’innovazione come principale forza trainante dello sviluppo e, negli ultimi cinque anni, la spesa in ricerca e sviluppo ha avuto una crescita a doppia cifra. L’economia digitale ha dimostrato una forte vitalità ed è rapidamente affiorato un gran numero di nuovi formati e modelli.

 

In terzo luogo, con una popolazione di oltre 1,4 miliardi e un gruppo a medio reddito di oltre 400 milioni di persone, la Cina è il mercato più grande del mondo e sta gradualmente scoprendo e ampliando un potenziale di consumi senza precedenti.

In quarto luogo, il Piano prosegue nella promozione di misure di maggiore apertura, come la riduzione della lista delle restrizioni relative agli investimenti esteri. Lo scorso anno, il volume del commercio estero cinese ha superato per la prima volta i 6.000 miliardi di dollari, l’uso effettivo di capitali stranieri è stato superiore a 1.100 miliardi di dollari, segnando un nuovo record storico, e sono migliorate sia la portata che la qualità degli investimenti.

È innegabile che lo sviluppo economico cinese stia affrontando la triplice sfida della contrazione della domanda, dell’impatto dei rifornimenti e dell’indebolimento delle previsioni.

Come evitare rischi sistemici e raggiungere una crescita economica sana e sostenibile, sotto l’enorme pressione della stabilizzazione dell’economia e dell’adeguamento delle strutture, richiede ancora ardui sforzi. Il Governo di Pechino sta attuando una politica fiscale proattiva e una politica monetaria solida, aumentando i sostegni all’economia reale, in particolare alle micro, piccole e medie imprese, all’innovazione tecnologica e allo sviluppo verde.

La strategia della doppia circolazione si basa su un modello in cui la “circolazione interna” rappresenterà il perno prioritario delle politiche di sviluppo economico e la “circolazione internazionale” il suo complemento.

 Il fondamento logico è quello di promuovere maggiore crescita sostenibile nel lungo periodo, rendendo la Cina meno dipendente da fattori al di fuori del proprio controllo. Più in dettaglio, la circolazione interna implica riforme strutturali ed obiettivi dal lato della domanda e dell’offerta dell’economia cinese. Dal lato della domanda, l’obiettivo è di promuovere i consumi interni e di aumentare gli investimenti in specifici progetti infrastrutturali (ad es. protezione ambientale, digitalizzazione, decarbonizzazione, ecc.). Dal lato dell’offerta, l’obiettivo è di incoraggiare le imprese industriali cinesi a diventare meno dipendenti da forniture e approvvigionamenti dall’estero.

Allo stesso tempo, la circolazione internazionale significa che la Cina continuerà a promuovere i flussi esterni di merci e di capitali. Le esportazioni resteranno un driver addizionale di crescita, mentre proseguiranno le riforme per liberalizzare la bilancia dei pagamenti in conto capitale allo scopo di attirare investimenti diretti e rafforzare il mercato dei capitali.

Per raggiungere tali obiettivi, il Piano prevede la promozione di Pechino, Shanghai, dell’Area della Grande Baia e la capitale dell’Anhui , Hefei (centro di ricerca cinese per la fisica quantistica) in centri internazionali per la scienza e la tecnologia, assorbendo l’8% dei finanziamenti complessivi.

I cluster tecnologici regionali stanno giocando un ruolo sempre maggiore nella strategia di sviluppo economico della Cina. L’area di Jing-Jin-Ji che include la capitale Pechino, la città di Tianjin e la provincia dell’Hebei, o la Greater Bay Area o l’area del Delta del fiume Azzurro (Yangtze River), incentrata su Shanghai, rappresentano esempi di questa tendenza. Rispetto alle tradizionali zone economiche speciali, esse tenderanno a privilegiare un miglior coordinamento amministrativo tra municipalità adiacenti.

Il 14° Piano Quinquennale provvede ad incorporare queste iniziative nelle più ampie strategie a carattere regionale.

La cooperazione strategica macroregionale e internazionale.

Il Piano, che comprende la Silk Road Economic Belt e la 21st Century Maritime Silk Road, rievoca le suggestioni dell’antica Via della Seta, mirando a moltiplicare i collegamenti tra Europa, Russia e Asia, dal Medio Oriente fino all’area del Pacifico, tramite una serie di importanti opere infrastrutturali che interesseranno tutti i Paesi attraversati dalle due nuove rotte, una terrestre e una marittima. Agli obiettivi di politica estera del programma, si affiancano obiettivi di politica interna di riqualificazione e sviluppo delle aree rurali più arretrate nonché della promozione della cooperazione regionale.

Oltre a consolidare ed espandere i rapporti commerciali, grazie alla costruzione di strade, ferrovie, porti e reti di condutture, il Piano promuoverà lo sviluppo di nuove industrie, la cooperazione tra Paesi in tema di energia e la creazione di centri internazionali di ricerca scientifica.

 A supporto della Nuova Via della seta, è stata istituita l’Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB), con sede a Pechino, il cui obiettivo è quello di promuovere lo sviluppo economico sostenibile e la cooperazione regionale.

 L’AIIB, caratterizzata da un management snello, con tolleranza zero per la corruzione ed attento alle tematiche ambientali, concentra i propri sforzi sullo sviluppo delle infrastrutture e degli altri settori strategici, come energia, trasporti, telecomunicazioni, agricoltura, approvvigionamento idrico, assistenza sanitaria, tutela ambientale, urbanizzazione, logistica, ecc.

 Le sue funzioni includono la promozione di investimenti privati e pubblici nei settori elencati ed il supporto finanziario a tutti i Paesi membri ed agli organi ed alle agenzie internazionali in qualche modo coinvolte negli obiettivi generali del Piano (attualmente, i Paesi aderenti alla AIIB sono 102, tra cui l’Italia: cfr. Agenzia ICE).

Stando agli ultimi dati della Banca popolare di Cina, l’e-Yuan è già operativo per il 15% della popolazione, concentrata in dodici grandi città (tra le quali ci sono Pechino, Shanghai e Shenzen). A gennaio 2022 gli utenti che avevano effettuato almeno una transazione utilizzando l’e-Yuan erano 260 milioni. Secondo Cornelia Tremann, consulente indipendente e rappresentante del Senegal e del Gabon per la China Africa Advisory, la strategia del Governo di Pechino sarebbe quella di rendere lo Yuan digitale la piattaforma esclusiva negli scambi commerciali tra il continente africano e la Cina.

Uno yuan digitale potrebbe quindi facilitare e accelerare i flussi commerciali e finanziari interafricani e Cina-Africa.

Molte valute africane sono instabili e soggette a svalutazioni, la loro conversione in altre valute africane o nel dollaro statunitense può essere costosa e complicata. Anche se i Paesi africani non adottassero lo Yuan, la Cina potrebbe comunque sfruttare il suo radicamento nell’ecosistema finanziario africano per plasmarlo secondo i propri interessi economici.

 Pechino, in particolare, potrebbe esercitare il controllo sull’architettura finanziaria digitale dell’Africa, vendendo o noleggiando la tecnologia sottostante ai governi africani, per creare valute locali interoperabili esclusivamente con lo Yuan.

Il progetto della Greater Bay Area Initiative si pone l’obiettivo di creare un’area di integrazione economica tra le più importanti al mondo (alla stregua della Baia di San Francisco, della Greater New York o della Greater Tokyo), collegando Hong Kong, Macao e le città del Delta del Fiume delle Perle nel Guangdong, che possa accompagnare la trasformazione del modello di sviluppo della Cina dalla manifattura a basso costo al terziario avanzato.

Tale processo vede un importante hub nella città di Shenzhen, diventata uno dei centri tecnologici più avanzati al mondo. La regione interessata è anche al centro di una rete di filiere che collegano il Guangdong al resto del mondo, grazie alla solida base manifatturiera di cui dispone. Inoltre, la stessa zona beneficia del collegamento con il centro finanziario di Hong Kong e dei suoi settori tecnico-professionali di rilievo internazionale.

Yangtze River Economic Belt: il Piano interessa undici tra regioni e municipalità e coinvolge il settore dei servizi, le energie pulite e la modernizzazione dell’agricoltura. Le aree geografiche interessate sono Shanghai, le provincie Jiangsu, Zhejiang, Anhui, Jiangxi, Hubei, Hunan, Sichuan, la città di Chongqing, lo Yunnan e il Guizhou; tutte insieme rappresentano un quinto del territorio dell’intero Paese e seguono il corso del fiume più lungo della Cina.

La Cina si sta continuando ad impegnare concretamente per aprirsi al mercato internazionale e ad abbattere gradualmente le barriere che tradizionalmente la contraddistinguono e rendono complesso l’ingresso delle imprese straniere.

Tra i recenti accordi il più significativo è: Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP).

Il Partenariato Economico Globale Regionale è un accordo di libero scambio nella regione dell’Asia Pacifica tra i dieci Stati dell’ASEAN (Brunei, Cambogia, Indonesia, Laos, Malaysia, Myanmar, Filippine, Singapore, Thailandia e Vietnam) e cinque dei loro partner di libero scambio, Australia, Cina, Giappone, Nuova Zelanda e Corea del Sud.

 I 15 Paesi membri rappresentano circa il 30% della popolazione mondiale e del PIL, rendendolo il più grande blocco commerciale al mondo. Si tratta del primo accordo che vede insieme Cina, Giappone e Corea del Sud.

È stato firmato al vertice dell’ASEAN virtuale ospitato in Vietnam il 15 novembre 2020 e dovrebbe entrare in vigore entro due anni, dopo che sarà stato ratificato dai Paesi membri. L’accordo si propone di facilitare gli scambi e gli investimenti nella regione e contribuire alla crescita economica dell’area asiatica. L’accordo RCEP rafforza molto la posizione geopolitica della Cina determinando una crescita della propria influenza nell’economia mondiale.

Eu-China Comprehensive Investment Agreement (CAI): lanciato nel 2014, si propone di aumentare la qualità e la quantità degli investimenti reciproci tra Unione Europea e Cina, ritenuti attualmente al di sotto delle potenzialità da entrambe le parti. Il negoziato, concluso alla fine del 2020, sta subendo una fase di stallo indotto dall’emergere di contrasti di natura geopolitica evidenziati da Bruxelles sotto la spinta di Washington.

Le autorità doganali di Pechino hanno rilasciato lo scorso 9 maggio gli ultimi dati relativi all’interscambio commerciale della Cina nei primi quattro mesi del 2022. Questi dati riflettono l’impatto delle misure di lockdown implementate a Shanghai e in molte città del paese per contenere la diffusione della variante Omicron. Ad aprile, il totale dell’interscambio tra la Cina e il resto del mondo è stato pari a 494 miliardi di dollari, in contrazione dell’1,7 per cento rispetto a marzo 2022, e in aumento del 2,1 per cento rispetto all’aprile del 2021. Su base cumulata, il volume totale del commercio è stato pari a 1.976 miliardi di dollari, con un incremento del 10% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.

Il blocco della mobilità interna e le misure di contenimento hanno rallentato la crescita del commercio cinese, tuttavia, la Cina è riuscita a limitarne gli effetti mantenendo aperti i principali hub logistici e il porto di Shanghai, anche a fronte delle difficoltà operative.

Le esportazioni hanno raggiunto 1.094 miliardi di dollari, con una crescita del 12,5 per cento rispetto al 2021.

Il blocco dei Paesi del sud est asiatico rappresenta il principale partner della Cina con 289 miliardi di dollari di scambi, pari a quasi il 15% del commercio estero cinese.

 I rapporti bilaterali tra Cina e i singoli membri dell’Asean variano nei trend; il commercio con il Vietnam si è ridotto del 5%, mentre l’interscambio con Indonesia e Malesia ha raggiunto livelli record, con incrementi del 28 e 20%.

L’Unione Europea e gli Stati Uniti, che rappresentano il secondo e il terzo partner commerciale di Pechino, costituiscono il principale mercato per le esportazioni cinesi. I flussi tra Cina e Italia, pari a 26 miliardi di dollari nei primi quattro mesi del 2022, sono cresciuti del 16%, grazie all’incremento delle esportazioni cinesi.

L’interscambio tra Cina e Russia ha registrato un balzo del 26%, con le importazioni cinesi dalla Russia in crescita del 38%.

Numerosi gruppi industriali con impianti produttivi nelle aree coinvolte hanno subìto un blocco alle proprie attività riuscendo a riprendere verso la fine di aprile in base ai princìpi del cosiddetto close-loop management dei propri dipendenti.

Conclusioni.

Come il resto del mondo, la Cina sta osservando da vicino lo svolgersi dell’operazione militare speciale russa in Ucraina, preparandosi all’impatto dell’escalation delle sanzioni occidentali.

In qualità di principale partner commerciale di Russia e Ucraina, la Cina ha molto in gioco, soprattutto perché le nazioni in guerra partecipano entrambe alla Belt and Road Initiative, l’ambizioso piano cinese per far crescere il commercio globale con miliardi di dollari di investimenti e progetti infrastrutturali. Pericoli fisici, interruzioni di comunicazione e trasporto e le gravi incertezze finanziarie stanno già mettendo a dura prova i piani di investimento nella regione.

L’operazione speciale della Russia in Ucraina è destinata a influenzare drasticamente l’ordine economico globale. Andando avanti, la Cina deve valutare i venti contrari che sta affrontando, mentre ripensa a come procedere con il suo vasto piano infrastrutturale nei Paesi in guerra e nel resto del mondo.

Nel 2020, nonostante l’impatto economico e le interruzioni causate dalla pandemia globale, gli investimenti cinesi nei Paesi della BRI hanno mostrato resilienza con un aumento del 18,3% rispetto al 2019, secondo i dati del Ministero del Commercio cinese.

Nel 2021, il commercio tra la Cina e i Paesi della BRI ha rappresentato il 29,7% del commercio estero totale della Cina, raggiungendo 11,6 trilioni di yuan (1,83 trilioni di dollari USA), segnando un aumento del 23,6% rispetto all’anno precedente e raggiungendo il valore più alto in otto anni.

Anche gli investimenti totali della Cina in progetti stradali e infrastrutturali d’oltremare sono cresciuti del 15,3% per raggiungere 21,46 miliardi di dollari l’anno scorso, pari al 14,8% degli investimenti cinesi all’estero. Questi progetti di investimento abbracciano Singapore, Indonesia, Malesia, Vietnam, Emirati Arabi Uniti, Laos, Thailandia e altri Paesi.

L’anno scorso, le aziende cinesi hanno firmato 6.256 nuovi contratti di progetto in 60 Paesi della BRI, per un valore di 864,78 miliardi di yuan, che rappresentano più della metà dei progetti appena contratti delle aziende cinesi all’estero, mentre la Cina ha anche assorbito 11,25 miliardi di dollari di capitali stranieri dai Paesi lungo la rotta.

La Cina sta dando la priorità al controllo del rischio e alla prevenzione per la sua spinta BRI, secondo un rapporto che delinea le priorità per il 2022, pubblicato all’inizio di marzo dalla Commissione nazionale per lo sviluppo e la riforma. Lo Xinjiang nella regione dell’estremo ovest e la provincia del Fujian a est, così come il China-Europe Railway Express sono state individuate quali aree importanti.

La Cina ha anche affermato che porterà avanti la trasformazione verde e a basse emissioni di carbonio dei suoi progetti alimentati a carbone all’estero.Nonostante la propaganda occidentale, sempre più Paesi stanno ora sostenendo e abbracciando la visione di Xi Jinping di una “comunità di destino condivisa per tutta l’umanità”.

Durante il terzo simposio sullo sviluppo della BRI a Pechino il 19 novembre 2021, il presidente cinese ha affrontato le preoccupazioni su come continuare lo sviluppo di alta qualità della BRI di fronte agli attuali cambiamenti in patria e all’estero e ha delineato un nuovo visione di sviluppo basata sull’approfondimento della fiducia reciproca e del dialogo politico.

Sembra che lo sviluppo futuro della BRI si concentrerà sulla connettività pragmatica. Dovrebbe essere creata una migliore rete di connessione, che abbraccia i trasporti terrestri, marittimi e aerei, nonché il cyberspazio. Ci dovrebbe essere cooperazione sia nelle infrastrutture tradizionali che in quelle nuove e le regole e gli standard dovrebbero essere meglio allineati tra i Paesi partecipanti.

Dovrebbero essere compiuti sforzi più robusti per garantire catene industriali e di approvvigionamento stabili e promuovere la diversificazione delle fonti interna ed esterna. La cooperazione digitale tra i Paesi membri delle rotte BRI deve essere rafforzata e dovrebbero essere sviluppati modelli per raggiungere questo obiettivo.

È urgente trasformare ulteriormente il commercio elettronico insieme alla cooperazione internazionale nella protezione dei diritti di proprietà intellettuale. Inoltre, le grandi aziende cinesi dovrebbero essere incoraggiate ad assumersi maggiori responsabilità sociali nei Paesi ospitanti, contribuendo intensamente alla loro crescita, nel rispetto delle leggi e dei regolamenti locali.

La Cina ha sostenuto altre nazioni in via di sviluppo per accedere ai vaccini COVID-19 e costruire i loro sistemi sanitari. Pechino sta inoltre assistendo tutti i Paesi membri della BRI nella transizione verso l’energia pulita e lo sviluppo verde, promuovendo il rafforzamento delle capacità nello sviluppo a basse emissioni di carbonio. L’aumento nella circolazione della Nuova Via della Seta necessita di un ulteriore rafforzamento della prevenzione e del controllo dei rischi in tutto il vasto spettro. A livello nazionale, la Cina deve costruire una piattaforma di servizi di valutazione e allerta precoce per tutte le stagioni in grado di rilevare i potenziali rischi per i suoi programmi BRI all’estero su base regolare ed emettere avvisi prima di effettuare le sue scelte.

La Nuova Via della Seta è stata avviata per servire il popolo: una rigorosa diplomazia culturale è la necessità del momento per rafforzare i legami interpersonali e formare corridoi di conoscenza.

 

 

 

 

Trasformare le

differenze in opposizione.

Sinistrainrete.info- Anna Curcio intervista Maurizio Lazzarato-( 10-5-2022)- ci dice :

 

Con il discorso della guerra sullo sfondo, in questa intervista a partire dal suo nuovo libro “L’intollerabile presente, l’urgenza della rivoluzione”. “Classi e minoranze” (ombre corte 2022), Maurizio Lazzarato affronta alcuni dei nodi irrisolti dell’agire politico rivoluzionario.

In particolare, discute la necessità di ripensare il concetto di classe in relazione alla questione della razza e del genere.

Attinge da un archivio teorico-politico eterogeneo, eterodosso rispetto alla sua formazione, e mette a critica le micro-politiche della relazione e la (connessa) spoliticizzazione delle differenze per interrogare il pensiero strategico capace trasformare le differenze in opposizione.

 

L’intervista, che si sviluppa seguendo gli snodi tematici proposti dal titolo del libro, si apre discutendo del presente.

Cos’è che rende intollerabile il nostro presente?

Guerre e rivoluzione.

In una serie di articoli recenti pubblicati su questa rivista, hai discusso della guerra: un tema che nel libro fa da proscenio alla «catastrofe che si annuncia»; l’enunciato di questo presente intollerabile.

Quale rapporto esiste (oltre le evidenze della situazione in Ucraina) tra la guerra e il presente?

Nel 2016, insieme a Eric Alliez, abbiamo pubblicato” Wars and Capital” per ricordare e ricordarci quello che negli ultimi cinquant’anni anni sembravamo aver dimenticato: che non c’è Capitale senza lo Stato e senza la guerra tra stati e senza le guerre di classe, razza e sesso.

Con la prima guerra mondiale, le guerre si modificano radicalmente perché sono strettamente intrecciate con il capitale.

La guerra civile europea del XIX secolo, diventa «guerra civile mondiale» che, dopo quattro secoli di sfruttamento, libererà dal colonialismo i «popoli oppressi», mentre la guerra di Clausewitz (imposta da Napoleone come sbocco della rivoluzione francese) diventa «totale», insieme militare e non militare (coinvolgendo combattenti e non combattenti, l’economia e la società, la scienza e la tecnica).

 

L’economia e la guerra non sono tra loro in opposizione, come credeva il liberalismo del XIX secolo ma sono due facce della stessa medaglia, come si vede nella guerra attuale.

L’azione economica (blocco dei dispositivi finanziari, sanzioni, dazi, embargo sulle materie prime e sulle importazioni alimentari – che in Iraq hanno causato la morte di 500.000 bambini, un numero forse esagerato ma che la responsabile di questo eccidio, la «criminale di guerra» Madeleine Albright, non ha mai smentito) e l’azione armata sono complementari e integrate.

 

“Wars and Capital” non era che la prima parte di un lavoro che comprendeva, come suo opposto, la rivoluzione. Guerre e rivoluzione sono i due grandi rimossi dei movimenti politici del dopo Sessantotto, che hanno convissuto, tranne poche eccezioni, con un’idea pacificata del capitalismo, con l’illusione che i movimenti potessero svilupparsi senza confrontarsi con la natura distruttiva e guerrafondaia della macchina bicefala Stato-Capitale.

 Un’analisi concentrata sulla «produzione» allargata, in tutti i sensi (libidinale, affettiva, pulsionale, cognitiva, neuronale, ecc.), di per sé necessaria e utile, ma distaccata dalle lotte di classe, dall’imperialismo e dalla guerra; un’analisi con un’esagerata attenzione alle forme di vita, alla cura del sé (individuale e collettiva), sganciate dalla necessità di una lotta globale per sconfiggere la macchina Stato-Capitale, ci ha condotto all’impotenza attuale.

Il rifiuto di prendere in considerazione la guerra e le illusioni che ne sono derivate, sono una conseguenza della rimozione del concetto di classe, sostituito da «minoranze», «moltitudini», «popolazione»; concetti che dimostrano la loro debolezza quando il ciclo del capitale finisce come era cominciato, con la guerra e le guerre civili.

 

Per discutere l’urgenza della rivoluzione, nel primo capitolo del libro richiami il titolo di un documento politico di cui si è molto parlato all’indomani della stagione politica degli anni Settanta in Italia: Do you remember revolution?, per dire che «la domanda non ha prodotto nessuna risposta».

 La rivoluzione è sparita dall’orizzonte di possibilità della politica, soffocata nella contro rivoluzione neo-liberale(condotta da Klaus Schwab.Ndr) riassorbita nel gioco a somma zero del capitalismo contemporaneo.

 Qual è oggi, l’urgenza, di riportare la rivoluzione all’ordine del giorno? E cambiando prospettiva, quali sono le urgenze (per intendere quali nodi irrisolti) della rivoluzione?

Era la rivoluzione e la sua dinamica mondiale, impiantata all’est e al sud, che rendeva vincenti anche le lotte sul salario e sul welfare al nord. Nel libro sostituisco alla parola d’ordine operaista «prima la classe poi il capitale», un’altra che mi sembra più precisa e realista: «prima la rivoluzione poi il capitale».

Era la rivoluzione che, attaccandosi al capitalismo in quanto tale, e non a uno specifico e particolare rapporto di potere (di classe, razziale o sessuale), dava forza anche ai conflitti micro-politici.

Una volta sconfitta questa dinamica tutte le lotte si sono indebolite. Gli spazi di mobilizzazione nella medicina, nella psichiatria, in tutte le relazioni micro della politica sono andati restringendosi fino a scomparire. Lo spazio occupato da queste lotte non è rimasto vuoto ma è stato riempito dalla contro-rivoluzione.

 La macchina Stato–Capitale si è ripresa tutto quello che era stata costretta a concedere sotto la pressione della rivoluzione mondiale. E poi, è arrivata la guerra che ha blindato ogni possibilità di azione politica e diffuso un delirio guerriero che vorrebbe mobilitare le energie psichiche della società (altra caratteristica della guerra «totale» che funziona ancora oggi), per costruire le soggettività della guerra.

Io non so se un’altra rivoluzione sia possibile, ma se non si ricostruisce una politica che recuperi questa dinamica, resteremo sempre sulla difensiva, con l’incapacità anche di mantenere posizioni difensive.

Penso che, opporre la lotta generale contro la macchina Stato-Capitale alle lotte locali e micro-politiche, che riguardano relazioni di potere specifiche, ben rappresentato dal punto di vista di Michel Foucault, sia stata un grande errore politico.

Il filosofo francese incitava a «distogliersi da tutti quei progetti che pretendono di essere globali e radicali» e, al contrario, concentrarsi sulle «trasformazioni, anche parziali», «che concernono i nostri modi d’essere e di pensare, le relazioni d’autorità, i rapporti tra i sessi, il modo in cui percepiamo la follia o la malattia».

Una volta distrutti i progetti globali e radicali, i nostri modi di essere e di pensare micro sono stati pesantemente sconvolti. Non sembra infatti che abbiano beneficiato delle «trasformazioni parziali», e lo spazio del sapere e della vita è stato occupato da un conformismo, una volgarità e un egoismo che tendono continuamente a sfociare in nuove forme di fascismo, di razzismo, di sessismo e di guerra.

La questione della malattia è stata trasformata in industria della salute e la follia è tornata a essere una condizione di emarginazione, dopo che un secolo di rivoluzioni aveva creato le condizioni per estirparla dall’indigenza.

L’opposizione tra trasformazioni parziali e trasformazioni radicali e globali, tra rivoluzione politica e rivoluzione sociale, tra micro e macro politica, è un’illusione che non regge alla luce della storia degli ultimi cinquant’anni. È la causa principale della miseria politica e intellettuale del nostro tempo. C’è stata una specie di spoliticizzazione del capitalismo, in cui la guerra è sparita.

 

La posizione di estrema debolezza dei movimenti politici contemporanei si manifesta nell’incapacità di politicizzare la violenza della guerra. Il paragone con le prese di posizione politiche dei rivoluzionari di solo un secolo fa è impietoso. Per loro la guerra era il punto di partenza e di arrivo dello sviluppo della macchina Stato-Capitale in generale e di ogni ciclo d’accumulazione in particolare.

(Per quale motivo il Capo della “nuova rivoluzione industriale” borghese (ossia Klaus Schwab) è

anche il più grande costruttore privato di armi atomiche ?Ndr.).

Il capitalismo è un insieme di relazioni di potere che si esercitano sia su scala mondiale sia su scala sociale, tanto a livello micro quanto a livello macro. Questa dimensione generale non può essere messa da parte. È la guerra che ce la impone, per chi l’avesse dimenticato.

Classi e minoranze

Il sottotitolo del libro racchiude ciò che soprattutto vorrei discutere: le «classi», al plurale, nel rapporto con le «minoranze». Le classi di cui parli non sono marxianamente borghesia e proletariato ma la classe delle donne e quella degli uomini, la classe dei bianchi e quella dei non bianchi, in un rapporto che trascende la dialettica capitale-lavoro e in cui «le minoranze» – che come precisi sulla scorta del manifesto del “Combahee River Collective” «non escludono le classi» – agiscono trasversalmente attraverso la classe.

Questa idea di un rapporto tra classi al plurale è espressamente interrogata da una delle dieci ipotesi che fanno da ordito alla trama del libro, l’«ipotesi dei diversi modi di produzione», anticipata dall’«ipotesi della rifondazione del concetto di classe».

 Ora, se concordo pienamente sulla necessità di ripensare il concetto di classe che abbiamo ereditato dalla tradizione marxista e operaia (operaista compresa), per la sua incapacità di leggere – come la critica femminista e il pensiero radical nero hanno indicato – le forme dello sfruttamento del capitalismo contemporaneo e la più complessa articolazione degli spazi della soggettivazione politica rivoluzionaria, mi spiazza invece l’ipotesi di una molteplicità di modi di produzione soprattutto se, come opportunamente sottolinei, le minoranze, ovvero i soggetti che fanno esperienza di rapporti di minorità, agiscono trasversalmente alla classe.

Cosa intendi più precisamente con «diversi modi di produzione» e quali sono queste «classi»?

A partire dal dopo guerra, il più grande problema che la rivoluzione ha incontrato è stato la questione della molteplicità delle classi e dei soggetti politici. Se la questione emerge già con la conquista dell’America, è soltanto nel XX secolo che i processi di soggettivazione delle donne e dei colonizzati affermano la loro autonomia dal movimento operaio.

 

Questa molteplicità è stata al centro delle teorie critiche degli anni Sessanta e Settanta (le minoranze in Deleuze e Guattari, le «contro condotte» in Foucault, fino alla molteplicità di singolarità della «moltitudine» in Negri e Hardt): un passo avanti rispetto al marxismo ma anche molti passi indietro, perché implicano la rimozione del concetto di classe (e di conseguenza – lo ripeto – del concetto di guerre tra Stati e delle guerre di razza, sesso, classe).

In contro tendenza, il femminismo materialista francese ha pensato, sulla scia della definizione marxiana di capitale come rapporto sociale, il rapporto di potere degli uomini sulle donne come un rapporto di classe, un «rapporto sociale di sesso».

Non si tratta soltanto, come dice Fanon, di «distendere» il concetto per includervi le donne e i colonizzati. L’allargamento del concetto di classe mette in crisi la sua omogeneità, perché le classi sono costituite da minoranze (da una molteplicità di minoranze). Le classi sono nello stesso tempo unità e molteplicità: la classe operaia contiene delle minoranze sessuali e razziali, la classe delle donne contiene a sua volta un’altra molteplicità (donne ricche e povere, bianche, nere, indigene, eterosessuali, lesbiche, ecc.).

L’unità della classe non può mai essere totalizzante perché è sempre un gioco di opposizioni e di alleanze con «minoranze» anche esse organizzate in unità della stessa natura.

La differenza con altri femminismi è radicale: le femministe del salario al lavoro domestico rivendicano l’appartenenza delle donne alla «classe operaia», le femministe materialiste, affermano invece l’esistenza di diverse classi sfruttate e dominate in modo specifico.

Tale concetto della «classe» mi permette di criticare le politiche dell’identità nelle quali i differenti movimenti politici contemporanei sono sempre pronti a cadere: la classe delle donne, come la classe operaia in Marx, riesce nella sua rivoluzione soltanto se porta alla sua abolizione in quanto classe; il suo successo è garantito dalla scomparsa dell’assoggettamento «donna».

 Con l’accortezza di tener conto che le modalità dell’assoggettamento donna passano per il sesso, come passano per la razza gli assoggettamenti dei non bianchi e che quindi producono soggettivazioni eterogenee a quelle degli operai.

Questo femminismo, che esprime anche una grande estraneità dalla teoria della «differenza sessuale» italiana, non intende affermare l’eterogeneità della donna, ma abolire il rapporto uomo-donna, sopprimendo cioè anche la classe degli uomini, «non attraverso una pratica genocida ma politica».

Per cercare di capire qualcosa in questa molteplicità, invece di esaltarla, girando a vuoto come fanno molti, ho cercato di articolare insieme i concetti di classe e minoranza, riprendendo le posizioni del Combahee River Collective che mi sembrano molto significative in questo senso.

Queste femministe nere e lesbiche tengono insieme l’azione delle classi e delle minoranze: i dualismi capitale-lavoro, uomini-donne, bianchi-razzializzati sono dualismi di classe, sono reali e bisogna disfarli.

Non possono essere aggirati ma devono essere affrontati di petto. Quello che cambia è il come affrontarli.

Quanto ai «modi» di produzione, Marx stesso parlava di relazioni di potere «arcaiche» che provengono da modi di produzione precedenti – come il lavoro domestico e il patriarcato – che lo sviluppo del capitalismo avrebbe superato (Engels e Lenin, dixit).

Cosa che non è mai avvenuta perché i dualismi razziali e sessuali, che sono delle relazioni di potere non specificamente capitalistiche, si sono riprodotti e anche approfonditi. La guerra attuale li intensifica ulteriormente.

In realtà il capitalismo è l’ibridazione di una molteplicità di rapporti di potere, di differenti modi di produzione, di differenti modalità di assoggettamento.

 Il capitalismo non è un rapporto di potere puro (capitale/lavoro) e non è neanche un rapporto che si purifica nel corso del suo sviluppo per arrivare al confronto decisivo tra le due classi.

 Questa è stata un’illusione perniciosa del marxismo, ciò su cui è caduto. Anche in presenza di un alto sviluppo delle forze produttive, si riproducono rapporti di potere, temporalità, soggettivazione che non sono direttamente assimilabili al rapporto di Capitale, anche se questo li cattura, li sfrutta, li domina.

La definizione più pertinente di queste molteplicità è stata data da Ernst Bloch: «la contemporaneità del non contemporaneo» (che nel libro mi limito a nominare senza svilupparla come merita), con cui cerca di spiegare il successo del nazismo e la sconfitta del marxismo in Europa.

L’idea è quella di diversi gruppi sociali che vivono nelle stesso mondo (la Germania tra le due guerre) ma non nello stesso tempo; uno stesso mondo (il capitalismo) racchiude temporalità e rapporti di potere differenti, modi di vivere e lavorare (non «contemporanei»).

Il tempo del capitale, anche in una situazione di grande sviluppo delle forze produttive come in Germania in quegli anni, non riesce a sussumere tutti i tempi, tutte le forme di vita, gli immaginari, le soggettività e neanche vuole, perché il suo potere e il suo profitto si basa proprio su questi «differenziali».

Bloch fa l’esempio di tre gruppi sociali (i contadini, i giovani della classe media e i gruppi sociali in via di declassamento) ai quali non si può parlare come agli operai di fabbrica perché hanno «culture», linguaggi, modi di vita, pratiche lavorative differenti. I nazisti hanno trovato un vocabolario, dei segni, un immaginario per mistificare e nello stesso tempo organizzare il loro «disagio».

Il grande etnologo e studioso delle religioni Ernesto De Martino dice la stessa cosa rispetto al sud dell’Italia e del mondo. La «cultura», le forme di vita, le abitudini, le credenze, il lavoro, di queste classi non sono riducibili alla limpida purezza del rapporto capitale-lavoro.

Nel libro cerco di mostrare come i rivoluzionari nel sud del mondo abbiano, nella prima metà del XX secolo, riadattato la teoria marxista alla loro situazione (contadina), con un grande successo (hanno fatto le loro rivoluzioni).

Nella seconda metà dello stesso secolo la cosa è diventata più difficile. I colonizzati e le donne, il cui assoggettamento e le modalità del dominio e dello sfruttamento non sono direttamente riconducibili al rapporto capitale-lavoro, hanno rivendicato la loro piena autonomia dal movimento operaio, precisamente perché non teneva conto, né della specificità del loro sfruttamento e del loro essere dominati che passa attraverso la razza e il sesso, né delle modalità di soggettivazione e di organizzazione che non possono coincidere con quelle del movimento operaio.

Rivendicare la proprio autonomia dal movimento operaio e dal marxismo, come hanno fatto le donne e i colonizzati nella seconda metà del Novecento, non vuol dire però porsi al di fuori dei rapporti capitalistici, ovvero oltre la dialettica capitale-lavoro (che pur non risolve la condizione, e la contraddizione, di questi soggetti).

 Se è vero che il lavoro non basta più a spiegare la classe, è altrettanto vero che dismettere la classe vuol dire aprire alle derive identitarie e alla cattura capitalistica delle differenze, come vediamo di questi tempi.

 Piuttosto, come scrivi sulla scorta della riflessione del Combahee River Collective, «il capitalismo funziona integrando oppressioni»; Ernst Bloch, che richiami, ci ricorda che il capitalismo integra temporalità differenti, ma i «diversi modi di produzione» di cui parli non richiamano (non necessariamente) temporalità differenti ma piuttosto differenti rapporti sociali e comunque dentro un medesimo modo di produzione: il capitalismo….

 

Non li ho separati io i modi di produzione, sono i movimenti del dopo guerra che hanno imposto la rottura con il movimento operaio, con i partiti comunisti.

Io cerco di capire cosa voglia dire rivendicare autonomia di organizzazione, di decisione, di scelte politiche da parte delle donne e dei colonizzati. Si sono voluti separare a causa dei limiti teorici e politici del movimento operaio e del marxismo.

La rottura va interpretata come una chance per superare la sconfitta che la rivoluzione mondiale ha subito tra gli anni Sessanta e Settanta, quando il concetto di lotta di classe (capitale-lavoro) al singolare, ha mostrato tutti i suoi limiti.

Dal lavoro del femminismo materialista e del Combahee River Collective traggo l’idea che i rapporti di classe sono al tempo stesso dualistici e molteplici e tutti sono catturati e sfruttati dalla macchina Stato-Capitale.

Aggiungo poi che i dualismi razziali e sessuali hanno la stessa importanza del dualismo capitale-lavoro, sia dal punto di vista economico che politico. Inoltre, questi dualismi esprimono l’opposizione tra le classi e queste differenti classi sono composte da minoranze in cooperazione-conflitto tra loro.

 

La molteplicità conflittuale delle minoranze interne alla classe esiste da sempre. Ci sono state e ci sono ancora profonde differenze politiche, strategiche tra femministe nere e femministe bianche, tra donne etero e lesbiche, all’interno del femminismo.

 Aimé Cesaire, negli anni Cinquanta esce dal partito comunista perché rivendica per i neri una loro propria organizzazione, una loro propria politica.

 Ancora oggi in Francia i militanti de-coloniali si separano dalle organizzazioni della sinistra bianca. È questa dialettica che mi interessa.

La classe operaia si oppone al capitale secondo une logica dualista, ma per poter essere efficace, deve comporsi con una molteplicità di differenze (razziali, sessuali). Analogamente, la classe delle donne si oppone in maniera dualistica agli uomini, ma questa opposizione è costituita da una molteplicità (donne bianche, nere, ricche, proletarie, lesbiche, eterosessuali) che deve essere compresa e organizzata.

Tuttavia, come sostengono le femministe del Combahee River Collective, il capitale è un insieme di rapporti di potere (uomini/donne, bianchi/razzializzati, capitale/lavoro), un insieme di modi di produzione e un insieme di assoggettamenti.

Nessuna classe può pretendere di liberarsi da sola: la rivoluzione degli operai, la rivoluzione delle donne, la rivoluzione dei razzializzati sono impossibili, perché ciascuna di queste lotte attacca soltanto una delle relazioni di potere (sessuale, razziale, economica).

 La molteplicità degli sfruttamenti e delle dominazioni richiede delle lotte e delle forme di organizzazione specifiche, ma che in nessun modo possono richiudersi su se stesse.

 Se si limitano alla loro specificità rischiano di non portar a termine nemmeno la loro propria liberazione ( la Corte suprema degli Stati Uniti che ha annullato la libertà di scelta delle donne sull’aborto). Se attaccata solo su un fronte (femminismo, razzismo, classismo), la macchina Stato-Capitale resiste riprendendosi un poco alla volta gli spazi di libertà e le conquiste conseguite dai differenti movimenti. L’autonomia delle lotte delle donne e dei razzializzati è necessaria, ma non deve essere fine a se stessa.

 

Le classi contemporanee non possono agire come la classe operaia storica, poiché devono tener conto delle politiche e dell’organizzazione delle minoranze. Non possono pretendere di diventare soggetti rivoluzionari universali, né di costituire una soggettivazione egemonica. Gli assoggettamenti, come le soggettivazioni, sono molteplici e neutralizzano ogni tentativo di costituzione di un soggetto maggioritario. Il declino del partito e delle forme di organizzazione centralizzate (e identitarie) del movimento operaio è dovuto all’emergere di queste classi e di queste minoranze, che il marxismo poteva vedere solo come contraddizioni secondarie subordinate alla lotta capitale-lavoro.

I dualismi uomini-donne e bianchi-razzializzati impediscono la riproduzione di una semplificazione assimilabile allo scontro «finale» tra capitalisti e operai, capace di portare l’ostilità agli estremi (dualismo di potere).

Questa semplificazione, pur necessaria per battere la macchina Stato-Capitale, non è più realizzabile da una sola classe nelle forme che il marxismo aveva teorizzato.

Il modo di agire della macchina Stato-Capitale non è caratterizzato dall’omogeneizzazione, ma dalla differenziazione dei rapporti di potere, dei lavori, degli assoggettamenti.

Non è vero che il capitale opera passando sistematicamente dalla sussunzione formale (sfruttamento di relazioni produttive e di potere pre-capitaliste), alla sussunzione reale (sfruttamento di relazioni produttive e di potere che sono modellate secondo i metodi del capitale).

 Al contrario, produce lui stesso il sottosviluppo, il lavoro non salariato, il lavoro gratuito. Nello stesso momento in cui valorizza il lavoro astratto, deve necessariamente creare (o trovare) del lavoro non astratto. Riprendendo la teoria del lavoro gratuito di Jason Moore: se ci fosse solo lavoro astratto, se la sussunzione reale procedesse inesorabilmente, il tasso di profitto sarebbe destinato a cadere.

La differenziazione è quello che la mondializzazione produce e riproduce per mantenere alti i tassi di profitto. Il patriarcato, il lavoro domestico, l’eterosessualità non sono stati inventati dal Capitale, ma questo li integra nel suo modo di sfruttamento, creando une ibridazione che ne modifica certi aspetti ma ne conserva la sua forma arcaica (neo-arcaismo dicono felicemente Deleuze e Guattari).

 

È per questo che il razzismo e il sessismo, invece di essere superati dai rapporti propriamente capitalisti, sono dei dispositivi fondamentali della gestione di una nuova divisione interna tra nord e sud, strumenti di controllo del lavoro gratuito e delle soggettività che lo erogano. Lo Stato francese nasconde questa realtà sotto la foglia di fico della laicità e dell’opposizione tra civiltà. In realtà il razzismo e il sessismo sono dispositivi di classe.

Ora, il problema è che questa molteplicità articolata in classi e minoranze non ha ancora trovato una strategia per affermarsi in quanto molteplicità che nega, al tempo stesso, la macchina Stato-Capitale. Da quest’ultimo scontro si esce vincitori o vinti, non c’è riformismo che tenga (anche questo è stato constatato e confermato da cinquant’anni di contro rivoluzione).

La guerra dimostra chiaramente la debolezza politica dei movimenti. Rischiano di uscirne stritolati, di non giocare nessun ruolo nel nuovo ordine mondiale nascente, perché, a differenza dei movimenti del XX secolo, non hanno nessuna strategia globale per battere il capitale.

Differenze e opposizione.

Nell’ultima parte del libro, riprendendo la nota espressione di Carla Lonzi, richiami l’idea di un «soggetto imprevisto» che sappia misurarsi in questa relazione strategica tra classi e minoranze.

 È un soggetto «imprevisto» perché capace di far vivere simultaneamente negazione e affermazione, che sa fare della differenza di cui è espressione la minoranza un’opposizione (oltre l’affermazione). Enuncia la differenza e al contempo la nega. L’una o l’altra non sono abbastanza: «dopo aver riconosciuto le opposizioni e le “differenze”, … devono convertirsi in una coalizione contro il nemico esterno comune».

La questione è cruciale. Come mostri nel libro, le differenze, al pari delle minoranze, non sono sempre o necessariamente opposizione. Come fare delle differenze un’opposizione, come sottrarre le differenze alla cattura del capitale, resta il nodo politico oggi…

Le differenze devono diventare opposizioni. Bisogna lavorare politicamente perché diventino antagoniste, altrimenti saranno impotenti. Al fondo dei soggetti politici c’è l’opposizione.

A causa della molteplicità della composizione delle classi, a causa della loro eterogeneità il soggetto politico non è già dato (non gli basta passare dall’in se al per sé come la classe operaia), ma è un soggetto imprevisto, nel senso che bisogna inventarlo, costruirlo. Non preesiste all’azione del suo farsi, alla strategia che lo fa emergere.

La difficoltà consiste nel comporre questa molteplicità e condurre, contemporaneamente, una lotta per il superamento del capitalismo. È necessario un doppio pensiero strategico, per la molteplicità e per il dualismo di potere che quest’ultima deve instaurare con la macchina Stato-Capitale.

 

Le classi dominanti al pari delle classi oppresse si relazionano tra loro attraverso strategie di dominazione o di liberazione. È impossibile racchiudere la loro azione in un tutto, un sistema, una struttura, perché si tratta di rapporti di potere contingenti, provvisori, precari, aperti all’iniziativa politica, all’azione. La strategia non è né un progetto né un programma, ma una tecnica immanente alle lotte. Non è esercitata da un soggetto sovrano che precede la sua attuazione, perché essa è condizione del suo apparire. La dinamica della sua costituzione è data dal rifiuto, dall’opposizione, dalla negazione politica del suo nemico.

 

Nel capitalismo, le differenze non innescano un processo di differenziazione (per cui la differenza va differenziandosi) come crede ingenuamente una certa filosofia. Al contrario, le differenze si polarizzano e si oppongono con una intensità tale che, alla fine del ciclo di accumulazione, sfocia nella guerra.

 

L’immanenza del capitalismo rispetto alle lotte, è legata all’esaltazione, da parte delle teorie critiche, della differenza come alternativa politica all’opposizione e alla critica del negativo che ne consegue. La differenza sarebbe una affermazione assoluta che non ha bisogno di nessun negativo. Mi sembra invece che l’azione politica sia impossibile senza negazione, senza rifiuto, senza opposizione.

 Certo il negativo non va visto con gli occhiali della dialettica hegeliana ma la negazione va affermata. Si tratta di sostituire al pensiero dialettico un pensiero strategico, in cui il negativo non può mai essere «superato» dialetticamente ma attraverso uno scontro, una lotta che non contiene già il suo verdetto come vorrebbe la filosofia della storia.

La guerra è un esempio perfetto di scontro non dialettico, perché non c’è nessuna filosofia della storia che può decidere della vittoria o della sconfitta. L’esito della guerra dipende dal «caso» dei rapporti di forza, dalla capacità di costruirli, di gestirli, di imporli.

È sempre l’opposizione che interrompe il procedere della macchina Stato-Capitale, mai la differenza. Le differenze non minacciano mai i poteri stabiliti. Si potrebbe addirittura dire il contrario.

 Il Capitale favorisce differenze «negative» come il razzismo e il sessismo – e incoraggia a produrre differenze «positive» necessarie al consumo e alla produzione.

Ciò che minaccia il Capitale è sempre la trasformazione delle differenze in opposizioni. Se non operano questo passaggio le differenze saranno spazzate via dalle guerre e dai fascismi.

 

(Maurizio Lazzarato, sociologo e filosofo, vive e lavora a Parigi dove svolge attività di ricerca sulle trasformazioni del lavoro e le nuove forme di movimenti sociali. Tra le sue pubblicazioni in lingua italiana: La fabbrica dell’uomo indebitato (2012) e Il governo dell’uomo indebitato (2013), Il capitalismo odia tutti (2019) pubblicati con successo presso DeriveApprodi.).

 

 

 

MANIFESTO DEL GRANDE RISVEGLIO.

CONTRO IL GRANDE RESET .

4pt.su- Alexander Dugin- (10-3-2022)- ci dice :

 

Il Grande Reset.

I cinque punti del Principe Carlo.

Nel 2020, al forum di Davos, il fondatore del forum Klaus Schwab e Carlo, il principe del Galles, hanno proclamato un nuovo corso per l’umanità, il Grande Reset.

Il piano, secondo il principe del Galles, consiste in cinque punti:

catturare l’immaginazione e la volontà dell’umanità – il cambiamento avverrà solo se la gente lo vuole davvero;

la ripresa economica deve indirizzare il mondo sulla via dell’occupazione, dei mezzi di sussistenza e di crescita sostenibili. Le strutture di stimolo di vecchia data che hanno avuto effetti perversi sul nostro ambiente planetario e sulla natura stessa devono essere reinventate;

i sistemi e i procedimenti devono essere riprogettati per far avanzare le transizioni a tasso zero a livello globale. La tariffazione del carbone può costituire una via cruciale per un mercato sostenibile;

la scienza, la tecnologia e l’innovazione devono essere rivitalizzate. L’umanità è sull’orlo di scoperte catalizzatrici che altereranno la nostra visione di ciò che è possibile e redditizio nel quadro di un futuro sostenibile;

gli investimenti devono essere riequilibrati. L’accelerazione degli investimenti verdi può offrire opportunità di lavoro nell’energia verde, nell’economia circolare e nella bioeconomia, nell’ecoturismo e nelle infrastrutture pubbliche verdi.

Il termine “sostenibile” rientra nel più importante concetto del Club di Roma: “sviluppo sostenibile”. Questa nozione si basa a sua volta su un’altra teoria – i “limiti della crescita”, secondo la quale la sovrappopolazione del pianeta ha raggiunto un punto critico (il che implica la necessità di ridurre il tasso di natalità).

Il fatto che la parola “sostenibile” sia usata nel contesto della pandemia da Covid-19, che, secondo alcuni analisti, dovrebbe portare al declino della popolazione, ha causato una reazione significativa a livello globale.

 

I punti principali del Grande Reset sono:

 

 il controllo della coscienza pubblica su scala globale, che è il cuore della “cancel culture” – l’introduzione della censura sulle reti controllate dai globalisti (punto 1);

 la transizione verso un’economia ecologica e il declino delle strutture industriali moderne (punti 2 e 5);

L’ingresso dell’umanità nel cosiddetto Quarto ordine economico (a cui è stata dedicata la precedente riunione di Davos), cioè la graduale sostituzione della forza lavoro con i cyborg e l’implementazione dell’intelligenza artificiale avanzata su scala globale (punto 3).

L’idea principale del “Grande Reset” è la prosecuzione della globalizzazione e il rafforzamento del globalismo in seguito a una serie di fallimenti: la presidenza conservatrice dell’antiglobalista Trump, la crescente influenza di un mondo multipolare – soprattutto di Cina e Russia, l’ascesa dei paesi islamici come Turchia, Iran, Pakistan, Arabia Saudita e il loro sottrarsi all’influenza dell’Occidente.

Al forum di Davos, i rappresentanti delle élite liberali globali hanno annunciato la mobilitazione delle loro strutture in previsione della presidenza di Biden e della vittoria dei democratici negli Stati Uniti, cosa che desideravano fortemente.

Implementazione.

Il segnavia dell’agenda globalista è la canzone di Jeff Smith “Build Back Better” (lo slogan della campagna di Joe Biden). Nel senso che dopo una serie di battute d’arresto (come un tifone o l’uragano Katrina), la gente (cioè i globalisti) ricostruisce infrastrutture migliori di quelle che aveva prima.

Il “Grande Reset” inizia con la vittoria di Biden.

I leader mondiali, i capi delle grandi corporazioni – Big Tech, Big Data, Big Finance, ecc. – si sono riuniti e mobilitati per sconfiggere i loro avversari – Trump, Putin, Xi Jinping, Erdogan, l’Ayatollah Khamenei, e così via. Per cominciare, si è cercato di strappare la vittoria a Trump usando nuove tecnologie – attraverso la “cattura dell’immaginazione” (punto 1), l’introduzione della censura su Internet, e la manipolazione del voto per corrispondenza.

L’arrivo di Biden alla Casa Bianca permette ai globalisti di passare alla fase successiva.

Questo influenzerà tutti i settori della vita – i globalisti riprendono il cammino da dove Trump e altri poli del nascente multipolarismo li avevano fermati. Ed è qui che il controllo mentale (attraverso la censura e la manipolazione dei social media, la sorveglianza totale e la raccolta di dati di tutti) e l’introduzione di nuove tecnologie giocano un ruolo chiave.

L’epidemia da Covid-19 è una scusa che giustifica tutto questo.  Con il pretesto dell’igiene sanitaria, il Grande Reset prevede di alterare drammaticamente le strutture di controllo delle élite globaliste sulla popolazione mondiale.

L’insediamento di Joe Biden e i decreti che ha già firmato (ribaltando praticamente tutte le decisioni di Trump) indicano che si è iniziato a mettere in atto il piano.

Nel suo discorso sul “nuovo” corso della politica estera degli Stati Uniti, Biden ha espresso le principali direzioni della politica globalista. Può sembrare “nuovo”, ma solo in parte, e solo in confronto alle politiche di Trump. Nel complesso, Biden ha semplicemente annunciato un ritorno al precedente vettore:

mettere gli interessi globali davanti agli interessi nazionali;

rafforzare le strutture del governo mondiale e i suoi rami sotto forma di organizzazioni e strutture economiche sovranazionali;

rafforzare il blocco NATO e la cooperazione con tutte le forze e i regimi globalisti;

promuovere e approfondire il rinnovamento democratico su scala globale, che in pratica si traduce in:

1) una escalation nelle relazioni con quei paesi e regimi che contrastano la globalizzazione americanocentrica – prima di tutto, Russia, Cina, Iran, Turchia, ecc;

2) una maggiore presenza militare degli Stati Uniti in Medio Oriente, Europa e Africa;

3) la proliferazione dell’instabilità e delle “rivoluzioni di colore”;

4) l’uso diffuso di “demonizzazione”, “de-platforming” e ostracismo della rete (cancel culture) contro tutti coloro che hanno opinioni diverse da quella globalista (sia all’estero che negli stessi Stati Uniti).

Così, la nuova leadership della Casa Bianca non solo non mostra la minima volontà di avere un dialogo alla pari con nessuno, ma si limita a serrare il proprio discorso liberale, che non tollera alcuna obiezione. Il globalismo sta entrando in una fase totalitaria. Questo rende più che probabile che scoppino nuove guerre, con un aumento del rischio di una Terza guerra mondiale.

La geopolitica del “Grande Reset”.

La globalista Foundation for Defence of Democracies, che esprime la posizione dei circoli neoconservatori statunitensi, ha recentemente pubblicato un rapporto che raccomanda a Biden che alcune delle posizioni di Trump – come una maggiore opposizione alla Cina e una maggiore pressione sull’Iran sono positive, e che Biden dovrebbe continuare a muoversi lungo questi assi in politica estera.

Gli autori del rapporto, invece, hanno condannato le azioni di politica estera di Trump come:

 

1) il lavoro teso alla disgregazione della NATO;

2) la riconciliazione con “leader totalitari” (cinese, nordcoreano, e russo);

3) un “cattivo” accordo con i talebani;

4) il ritiro delle truppe statunitensi dalla Siria.

 

Così, il “Grande Reset” in geopolitica si tradurrà in una combinazione di “promozione della democrazia” e “strategia aggressiva neoconservatrice di dominazione su larga scala”, che è il principale vettore della politica “neoconservatrice”.

Allo stesso tempo, viene consigliato a Biden di portare avanti e intensificare il contrasto all’ Iran e alla Cina, ma l’obiettivo principale dovrebbe essere la lotta alla Russia. E questo richiede il rafforzamento della NATO e l’espansione della presenza degli Stati Uniti in Medio Oriente e in Asia centrale.

Al pari di Trump, la Russia, la Cina, l’Iran e qualche altro paese islamico sono visti come i maggiori ostacoli.

In tal modo, i progetti ambientalisti (di klaus Schwab & C. Ndr.) e le innovazioni tecnologiche (prima fra tutte l’introduzione dell’intelligenza artificiale e della robotica) si combinano con l’ascesa di una politica militare aggressiva.

Una breve storia dell’ideologia liberale (Ossia l’attuale liberal Dem Usa, globalista.Ndr))

Il globalismo come culmine del Nominalismo.

Per capire chiaramente cosa rappresenta su base storica la vittoria di Biden e il “nuovo” corso di Washington verso il “Grande Reset”, bisogna considerare l’intera storia dell’ideologia liberale, a partire dalle sue radici. Solo così saremo in grado di capire la gravità della nostra situazione. La vittoria di Biden non è un episodio casuale, e l’annuncio di un contrattacco globalista non è semplicemente l’agonia di un progetto fallito. La faccenda è molto più seria. Biden e le forze alle sue spalle incarnano il culmine di un processo storico che è iniziato nel Medioevo, ha raggiunto la sua maturità nella Modernità con l’emergere della società capitalista, e che oggi sta raggiungendo la sua fase finale – quella delineata teoricamente da principio.

 

Le radici del sistema liberale (= capitalista) risalgono alla disputa scolastica sugli universali. Questa disputa divideva i teologi cattolici in due campi: alcuni riconoscevano l’esistenza dell’universale (specie, genere, universalia), mentre altri credevano solo in certe realtà concrete – individuali –, e interpretavano i loro nomi generalizzanti come sistemi convenzionali di classificazione puramente esterni, rappresentanti un “flatus vocis”. Coloro che erano convinti dell’esistenza dell’universale, della specie, attingevano alla tradizione classica di Platone e Aristotele. Essi vennero chiamati “realisti”, cioè coloro che riconoscevano la “realtà degli universalia”. Il rappresentante più importante dei “realisti” fu Tommaso d’Aquino e, in generale, la tradizione dei monaci domenicani.

 

I sostenitori dell’idea che solo le cose e gli esseri individuali sono reali vennero chiamati “nominalisti”, dal latino “nomen”. Il principio secondo cui “gli enti non debbono essere moltiplicati oltre il necessario” risale precisamente a uno dei principali difensori del “nominalismo”, il filosofo inglese William Occam. Prima ancora, le stesse idee erano state sostenute da Roscellino di Compiègne. Sebbene i “realisti” abbiano vinto la prima fase del conflitto e gli insegnamenti dei “nominalisti” siano stati anatemizzati, più tardi le strade della filosofia dell’Europa occidentale – specialmente dell’era moderna – furono tracciate da Occam.

 

Il “nominalismo” pose le basi del futuro liberalismo, sia ideologicamente che economicamente. Qui gli esseri umani erano visti solo come individui e nient’altro, e tutte le forme di identità collettiva (religione, classe, ecc.) dovevano essere abolite. Allo stesso modo, la cosa in sé era vista come proprietà privata assoluta, come una realtà concreta e distinta che poteva essere facilmente attribuita come bene di questo o quel proprietario individuale.

 

Il nominalismo prevalse prima di tutto in Inghilterra, si diffuse nei paesi protestanti e gradualmente divenne la principale matrice filosofica dell’era moderna – nella religione (relazioni individuali dell’uomo con Dio), nella scienza (atomismo e materialismo), nella politica (presupposti della democrazia borghese), nell’economia (mercato e proprietà privata), nell’etica (utilitarismo, individualismo, relativismo, pragmatismo), ecc.

 

Capitalismo: la prima fase.

Partendo dal nominalismo, possiamo tracciare tutto il percorso storico del liberalismo, da Roscellino e Occam fino a Soros e Biden. Per comodità, dividiamo questa storia in tre fasi.

 

La prima fase è stata l’introduzione del nominalismo nell’ambito della religione. L’identità collettiva della Chiesa, come intesa dal Cattolicesimo (e ancor più dall’Ortodossia), venne sostituita dai protestanti in quanto individui che potevano d’ora in poi interpretare le Scritture basandosi solo sul loro ragionamento e rifiutando qualsiasi tradizione. Così molti aspetti del Cristianesimo – i sacramenti, i miracoli, gli angeli, la ricompensa dopo la morte, l’apocalisse, ecc. – vennero riconsiderati e scartati poiché non soddisfacevano i “criteri razionali”.

 

La Chiesa come “corpo mistico di Cristo” è stata distrutta e sostituita da club di hobbisti nati dal libero consenso dal basso. Questo ha creato un gran numero di sette protestanti in disputa. In Europa e nella stessa Inghilterra, dove il nominalismo aveva prodotto i suoi frutti più consistenti, il processo fu in qualche modo attenuato, e i protestanti più accaniti si precipitarono nel Nuovo Mondo e vi stabilirono la loro società. Più tardi, in seguito all’affermazione del modello metropolitano, emersero gli Stati Uniti.

Parallelamente alla distruzione della Chiesa come “identità collettiva” (qualcosa di “comune”), iniziò lo smantellamento degli stati [ordini sociali medievali, NdT]. La gerarchia sociale di sacerdoti, aristocrazia e contadini fu sostituita da indefiniti “cittadini”, secondo il senso originale della parola “borghese”. La borghesia soppiantò tutti gli altri strati della società europea. Ma il borghese non era altro che la miglior espressione dell’“individuo”, un cittadino senza appartenenza clanistica, tribale o castale, ma detentore di proprietà privata. E questa nuova classe cominciò a ricostruire la società europea su nuove fondamenta.

Allo stesso tempo, anche l’unità sovranazionale rappresentata dalla Sede Papale e dall’Impero Romano d’Occidente – altra espressione di “identità collettiva” – fu abolita. Al suo posto si instaurò un ordine basato su Stati nazionali sovrani, una sorta di “individuo politico”. Un ordine che venne consolidato con la Pace di Westfalia al termine della guerra dei Trent’anni.

Così, dalla metà del XVII secolo, in Europa occidentale si era affermato un ordine nei suoi tratti principali borghese (detto altrimenti, il capitalismo).

La filosofia del nuovo ordine fu per molti versi anticipata da Thomas Hobbes e sviluppata da John Locke, David Hume e Immanuel Kant. Adam Smith applicò questi princìpi al campo economico, dando origine al liberalismo come ideologia economica. Di fatto, il capitalismo, basato sull’applicazione sistematica del nominalismo, divenne una coerente visione sistemica del mondo. Il senso della storia e del progresso era ormai quello di “liberare l’individuo da ogni forma di identità collettiva” e portare questo vettore al suo limite logico.

 

Nel Ventesimo secolo, grazie al periodo delle conquiste coloniali, il capitalismo originario dell’Europa occidentale è diventato una realtà globale. L’approccio nominalista ha prevalso nella scienza e nella cultura, nella politica e nell’economia, nel pensiero quotidiano dei popoli occidentali e di tutta l’umanità.

Il Ventesimo secolo e il trionfo della globalizzazione: la seconda fase.

Nel Ventesimo secolo, il capitalismo ha dovuto far fronte a una nuova sfida. Questa volta non si trattava di contrastare le usuali forme di identità collettiva – religiosa, di stato, castale, ecc. – ma teorie artificiali e anche moderne (come lo stesso liberalismo) che rifiutavano l’individualismo e lo contrastavano con nuove forme di identità collettiva (combinate concettualmente).

Socialisti, socialdemocratici e comunisti hanno contrastato i liberali con le identità di classe, chiamando i lavoratori di tutto il mondo a unirsi per rovesciare il potere della borghesia globale. Questa strategia si dimostrò efficace, e in alcuni grandi Paesi (anche se non in quelli industrializzati e occidentali come Karl Marx, il fondatore del comunismo, aveva preconizzato), nacquero rivoluzioni proletarie.

 

Parallelamente ai comunisti ebbe luogo, questa volta in Europa occidentale, la presa del potere da parte di forze caratterizzate da un estremo nazionalismo. Esse agivano in nome della “nazione” o di una “razza”, contrapponendo di nuovo l’individualismo liberale a qualcosa di “comune”, un qualche “essere collettivo”.

I nuovi oppositori del liberalismo non afferivano più all’onda inerziale del passato, come nelle fasi precedenti, ma erano latori di progetti modernisti sviluppati nello stesso Occidente. E tuttavia essi si basavano anche sul rifiuto dell’individualismo e del nominalismo. Questo venne ben compreso dai teorici del liberalismo (soprattutto da Hayek e dal suo discepolo Popper), che unirono “comunisti” e “fascisti” sotto il generico nome di “nemici della società aperta”, intraprendendo una serrata battaglia nei loro confronti.

Servendosi tatticamente della Russia sovietica, il capitalismo riuscì inizialmente ad avere la meglio sui regimi fascisti, e questo fu il risvolto ideologico della seconda guerra mondiale. La conseguente guerra fredda tra Est e Ovest alla fine degli anni Ottanta si concluse infine con la vittoria liberale sui comunisti.

 

Così, il progetto di liberazione dell’individuo da ogni forma di identità collettiva e il “progresso ideologico” come inteso dai liberali entrò in una nuova fase. Negli anni Novanta, i teorici liberali iniziarono a parlare della “fine della storia” (F. Fukuyama) e del “momento unipolare” (C. Krauthammer).

Questa si è rivelata una chiara evidenza dell’entrata del capitalismo nella sua fase più avanzata – la fase del globalismo. Infatti, è stato in questo momento che negli Stati Uniti ha trionfato la strategia globalista delle élite al potere, delineata nella Prima guerra mondiale dai Quattordici punti di Wilson, ma che alla fine della Guerra fredda accomunava le élite di entrambi i partiti – democratici e repubblicani, questi ultimi rappresentati principalmente dai “neoconservatori”.

Gender e Postumanesimo: la terza fase.

Dopo aver sconfitto il suo ultimo nemico ideologico, ossia il campo socialista, il capitalismo è giunto a un nodo cruciale. L’individualismo, il mercato, l’ideologia dei diritti umani, la democrazia e i valori occidentali hanno vinto su scala globale. Sembrerebbe che l’agenda sia compiuta – nessuno oppone più all’“individualismo” e al nominalismo un qualcosa di serio e sistematico.

A questo punto, il capitalismo entra nella sua terza fase. A ben vedere, dopo aver sconfitto il nemico esterno, i liberali hanno scoperto altre due forme di identità collettiva. Prima di tutto, il genere. In fondo, anche il genere è qualcosa di collettivo: sia maschile che femminile. Così il passo successivo è stato la distruzione del genere come qualcosa di oggettivo, essenziale e insostituibile.

 

Il genere doveva essere abolito, come tutte le altre forme di identità collettiva, già soppresse in precedenza. Da qui la politica di genere, la trasformazione della categoria di genere in qualcosa di “opzionale” e dipendente dalla scelta individuale. Anche qui abbiamo a che fare con lo stesso nominalismo: perché doppia entità? Una persona è una persona in quanto individuo, mentre il genere può essere scelto arbitrariamente, proprio come da tempo si sceglie la religione, la professione, la nazione e lo stile di vita.

 

Questo è diventato il principale programma dell’ideologia liberale negli anni Novanta, dopo la sconfitta dell’Unione Sovietica. Certo, oppositori esterni si ergevano sulla strada della politica di genere – quei Paesi che presentavano ancora resti della società tradizionale, i valori della famiglia, ecc. –, così come i circoli conservatori nello stesso Occidente. Combattere i conservatori e gli “omofobi”, cioè i difensori della visione tradizionale dell’esistenza dei sessi, è diventato il nuovo obiettivo degli aderenti al liberalismo progressista. Molte sinistre si sono unite a loro, sostituendo le politiche di genere e la difesa dell’immigrazione selvaggia alle precedenti istanze anticapitalistiche.

Con la riuscita istituzionalizzazione delle norme di genere e a seguito delle migrazioni di massa, che stanno atomizzando le popolazioni nello stesso Occidente (il che si adatta perfettamente a un’ideologia dei diritti umani che opera con l’individuo senza tener conto degli aspetti culturali, religiosi, sociali o nazionali), è diventato palese che ai liberali è rimasto un ultimo passo da fare: abolire l’essere umano.

Dopo tutto, anche quella umana è un’identità collettiva, il che vale a dire che essa è da superare, da abolire, da distruggere. Questo è ciò che esige il principio del nominalismo: una “persona” è solo un nome, un vuoto sussulto d’aria, una classificazione arbitraria e quindi sempre questionabile. Esiste solo l’individuo – umano o no, maschio o femmina, religioso o ateo, dipende dalla sua scelta.

Così, l’ultimo passo che rimane ai liberali, che hanno percorso secoli verso il loro obiettivo, è quello di sostituire gli umani, anche se parzialmente, con cyborg, reti di intelligenza artificiale e prodotti di ingegneria genetica. L’umano opzionale segue logicamente il genere opzionale.

Questa agenda è già abbastanza presagita dal post-umanesimo, dal postmodernismo e dal realismo speculativo in filosofia, e tecnologicamente sta diventando sempre più realistica di giorno in giorno.

I futurologi e i sostenitori dell’accelerazione del processo storico (accelerazionisti) guardano con fiducia al prossimo futuro, quando l’intelligenza artificiale sarà paragonabile, nei parametri di base, all’essere umano. Questo momento è chiamato la Singolarità. Il suo arrivo è previsto entro 10-20 anni.

 

L’ultima battaglia dei liberali.

Questo è il contesto in cui va collocata la vittoria di Biden negli Stati Uniti. Questo è il significato del “Grande Reset” o dello slogan “Build Back Better”.

 

Negli anni Duemila, i globalisti hanno affrontato una serie di problemi che non erano tanto ideologici quanto di natura “civilizzazionale”. Dalla fine degli anni Novanta, non ci sono state praticamente ideologie più o meno coerenti nel mondo in grado di sfidare il liberalismo, il capitalismo e il globalismo. Seppure in misura diversa, questi principi sono stati accettati da tutti o quasi. Tuttavia, l’attuazione del liberalismo e delle politiche di genere, così come l’abolizione degli Stati-nazione in favore di un governo mondiale, si è arenata su più fronti.

Tutto ciò è stato sempre più contrastato dalla Russia di Putin, dotata di armi nucleari e di una tradizione di storica opposizione all’Occidente, nonché da un certo numero di tradizioni conservatrici che si mantengono nella società.

 

La Cina, sebbene attivamente impegnata nella globalizzazione e nelle riforme liberali, non ha avuto fretta di applicarle al sistema politico, mantenendo il dominio del Partito Comunista e rifiutando la liberalizzazione politica.

Inoltre, sotto Xi Jinping, le tendenze nazionali nella politica cinese hanno cominciato a crescere. Pechino ha abilmente usato il “mondo aperto” per perseguire i suoi interessi nazionali e persino di civiltà. E questo non faceva parte dei piani dei globalisti.

I Paesi islamici hanno continuato la loro lotta contro l’occidentalizzazione e, nonostante i blocchi e le pressioni, hanno mantenuto (come l’Iran sciita) i loro regimi inconciliabilmente anti-occidentali e anti-liberali. Le politiche dei grandi Stati sunniti come la Turchia e il Pakistan sono diventate sempre più indipendenti dall’Occidente.

In Europa, un’ondata di populismo ha cominciato a sorgere quando è esploso il malcontento europeo autoctono per l’immigrazione di massa e le politiche di genere. Le élite politiche europee sono rimaste completamente subordinate alla strategia globalista, come si è visto al Forum di Davos nelle relazioni dei suoi teorici Schwab e del principe Carlo, ma le società stesse sono entrate in tensione e talvolta sono insorte sfociando in una rivolta diretta contro le autorità – come nel caso delle proteste dei “gilet gialli” in Francia. In alcuni luoghi, come l’Italia, la Germania o la Grecia, i partiti populisti si sono addirittura fatti strada in Parlamento.

Infine, nel 2016, negli stessi Stati Uniti, Donald Trump è riuscito a diventare Presidente, sottoponendo l’ideologia, le pratiche e gli obiettivi globalisti a una severa e diretta critica. Ed è stato sostenuto da circa la metà degli americani.

Tutte queste tendenze anti-globaliste agli occhi degli stessi globalisti non potevano che sommarsi andando a comporre un quadro inquietante: la storia degli ultimi secoli, con il suo progresso apparentemente ininterrotto dei nominalisti e dei liberali, veniva messa in discussione. Non si trattava semplicemente del disastro di questo o quel regime politico. Era la minaccia della fine del liberalismo in quanto tale.

Anche gli stessi teorici del globalismo sentivano che qualcosa non andava. Fukuyama, per esempio, ha abbandonato la sua tesi della “fine della storia” e ha suggerito ha suggerito di mantenere gli Stati nazionali sotto il dominio delle élite liberali per preparare meglio le masse alla trasformazione finale in post-umanità, sostenuta con metodi rigidi. Un altro globalista, Charles Krauthammer, ha dichiarato che il “momento unipolare” è finito e che le élite globaliste non sono riuscite a trarne vantaggio.

 

Questo è esattamente lo stato di panico e di quasi isterismo in cui i rappresentanti dell’élite globalista hanno trascorso gli ultimi quattro anni. Ed è per questo che la questione della rimozione di Trump come presidente degli Stati Uniti era una questione di vita o di morte per loro. Se Trump avesse mantenuto la sua carica, il fallimento della strategia globalista sarebbe stato irreversibile.

Ma Biden è riuscito – con le buone o con le cattive – a spodestare Trump e a demonizzare i suoi sostenitori. È qui che entra in gioco il Grande Reset. Non c’è davvero nulla di nuovo in esso – è una continuazione del principale vettore della civilizzazione europea occidentale in direzione del progresso, interpretato nello spirito dell’ideologia liberale e della filosofia nominalista. Non rimane invero molto da fare: liberare gli individui dalle ultime forme di identità collettiva – completare l’abolizione del genere e muoversi verso un paradigma post-umanista.

 

I progressi dell’alta tecnologia, l’integrazione delle società in social network strettamente controllati, come ormai emerge, da élite liberali in modo apertamente totalitario, e il perfezionamento delle modalità di tracciamento e influenza delle masse rendono il raggiungimento degli obiettivi liberali finali a portata di mano.

Ma per fare il salto decisivo, devono, repentinamente e senza più badare alle apparenze, spianare la strada alla finalizzazione della storia. E questo implica che la rimozione di Trump sia il segnale che dà il via all’attacco di tutti gli altri ostacoli.

Abbiamo così determinato la nostra posizione sul piano storico. E nel farlo, abbiamo ottenuto un quadro più completo di ciò che è il Grande Reset. Esso non è altro che l’inizio dell’“ultima battaglia”. I globalisti, nella loro lotta per il nominalismo, il liberalismo, la liberazione individuale e la società civile, si presentano come “guerrieri della luce”, che portano alle masse progresso, liberazione da migliaia di anni di pregiudizi, nuove possibilità – e forse anche l’immortalità fisica e le meraviglie dell’ingegneria genetica.

Chiunque si opponga a costoro è, ai loro occhi, parte delle “forze delle tenebre”. E secondo questa logica, i “nemici della società aperta” devono essere affrontati in tutta la loro severità. “Se il nemico non si arrende, sarà distrutto”. Il nemico è chiunque metta in discussione il liberalismo, il globalismo, l’individualismo, il nominalismo in tutte le loro manifestazioni. Questa è la nuova etica del liberalismo. Non c’è niente di personale. Tutti hanno il diritto di essere liberali, ma nessuno ha il diritto di essere altro.

 

Lo scisma negli Stati Uniti: il trumpismo e i suoi nemici.

Il nemico interno.

In un contesto più circoscritto rispetto al quadro generale della storia del liberalismo che va da Occam a Biden, l’eventuale vittoria di Trump nella battaglia per la Casa Bianca nell’inverno 2020-2021, così lacerante per i democratici in quanto tale, possederebbe anche un enorme significato ideologico. Questo ha a che fare primariamente con i processi che si stanno svolgendo all’interno della stessa società americana.

Il fatto è che dopo la caduta dell’Unione Sovietica e l’inizio del “momento unipolare” negli anni Novanta, il liberalismo globale non aveva avversari esterni.

Almeno, così sembrava all’epoca nel contesto della ottimistica prospettiva della “fine della storia”. Anche se tali previsioni si sono rivelate premature, Fukuyama non si è semplicemente chiesto se il futuro fosse arrivato – stava rigidamente attenendosi alla logica stessa dell’interpretazione liberale della storia, e così, con qualche rettifica, la sua analisi risultava generalmente corretta.

 

In effetti, le norme della democrazia liberale – il mercato, le elezioni, il capitalismo, il riconoscimento dei “diritti umani”, le norme della “società civile”, l’adozione di trasformazioni tecnocratiche, e il desiderio di abbracciare lo sviluppo e l’implementazione dell’alta tecnologia (specialmente quella digitale) – si erano in qualche modo affermate presso l’umanità intera. Se alcuni persistevano nella loro avversione alla globalizzazione, questo poteva essere visto come mera inerzia, come una riluttanza ad essere “benedetti” dal progresso liberale.

In altre parole, non si trattava di un’opposizione ideologica, ma solo di uno spiacevole contrattempo. Le differenze di civiltà sarebbero state gradualmente cancellate. L’adozione del capitalismo da parte della Cina, della Russia e del mondo islamico avrebbe prima o poi comportato processi di democratizzazione politica, l’indebolimento della sovranità nazionale, e avrebbe infine portato all’istituzione di un sistema planetario – un governo mondiale. Non era una questione di lotta ideologica, ma di tempo.

 

Fu in questo contesto che i globalisti fecero ulteriori passi per portare avanti il loro programma di base di abolizione di tutte le forme residue di identità collettiva. Questo ha comportato in primo luogo la politica di genere e l’intensificazione dei flussi migratori destinati a erodere definitivamente l’identità culturale delle stesse società occidentali – europee e americane. Così, la globalizzazione assestava il suo colpo più forte a se stessa.

In questo contesto, un “nemico interno” ha cominciato ad emergere nell’Occidente stesso. Stiamo parlando di tutte quelle forze che mal sopportavano la distruzione dell’identità sessuale, la demolizione dei resti della tradizione culturale (attraverso le migrazioni) e l’indebolimento della classe media. Anche gli orizzonti post-umanisti dell’imminente Singolarità e la sostituzione degli umani con l’Intelligenza Artificiale sono risultati sempre più preoccupanti.

E sul piano filosofico, non tutti gli intellettuali hanno accolto le conclusioni paradossali della Postmodernità e del realismo speculativo.

Inoltre, è emersa una chiara contraddizione tra le masse occidentali, che vivono nel contesto delle vecchie norme della Modernità, e le élite globaliste, che cercano a tutti i costi di accelerare il progresso sociale, culturale e tecnologico come inteso nell’ottica liberale(ossia come inteso dai “liberal Dem Usa progressisti globalisti”.Ndr.)

Così, un nuovo dualismo ideologico ha cominciato a prendere forma, questa volta all’interno dell’Occidente anziché all’esterno. I nemici della “società aperta” sono ora apparsi all’interno della stessa civilizzazione occidentale. Si è trattato di coloro che rifiutano gli obiettivi ultimi del liberalismo e non accettano le politiche di genere, le migrazioni di massa, o l’abolizione degli Stati nazionali e della sovranità.

Allo stesso tempo, tuttavia, questa crescente resistenza, genericamente indicata come “populismo” (o “populismo di destra”), attingeva alla stessa ideologia liberale – capitalismo e democrazia liberale – ma interpretava questi “valori” e “punti di riferimento” nella vecchia accezione piuttosto che nella nuova.

La libertà è stata concepita qui come la libertà di avere qualsiasi opinione, non solo quelle conformi alle norme della correttezza politica.

La democrazia è stata interpretata come governo della maggioranza.

 La libertà di cambiare genere andrebbe accompagnata alla libertà di rimanere fedeli ai valori della famiglia. La disponibilità ad accettare i migranti che esprimessero il desiderio e dimostrassero la loro capacità di integrarsi nelle società occidentali è stata strettamente differenziata dall’accettazione generalizzata di tutti senza distinzione, accompagnata da continue scuse ai nuovi arrivati per il loro passato coloniale.

Gradualmente, il “nemico interno” dei globalisti ha raggiunto proporzioni importanti e una grande influenza. La vecchia democrazia lanciava una sfida alla nuova.

Trump e la rivolta dei deplorables.

Tutto ciò è culminato nella vittoria di Donald Trump nel 2016. Trump ha costruito la sua campagna proprio su questa spaccatura della società americana. La candidata globalista, Hillary Clinton, ha incautamente chiamato i sostenitori di Trump, cioè il “nemico interno”, “deplorables”, cioè “patetici”, “deplorevoli”. I “deplorables” hanno risposto eleggendo Trump.

Così, la frattura all’interno della democrazia liberale è diventata un fatto politico e ideologico cruciale. Coloro che interpretavano la democrazia alla “vecchia maniera” (come dominio della maggioranza) non solo si sono ribellati alla nuova interpretazione (governo della minoranza diretta contro la maggioranza incline a prendere una posizione populista, intrisa di… beh, sì, certo, “fascismo” o “stalinismo”), ma sono riusciti a vincere e a portare il loro candidato alla Casa Bianca.

Trump, da parte sua, ha dichiarato la sua intenzione di “prosciugare la palude”, cioè di eliminare il liberalismo nella sua strategia globalista e di “rendere l’America di nuovo grande”.

Notate la parola “di nuovo”. Trump voleva tornare all’era degli Stati-nazione, fare una serie di passi contro la corrente della storia (come la intendevano i liberali). In altre parole, il “buon vecchio ieri” in opposizione al “globalista oggi” e al “post-umanista domani”.

I quattro anni successivi sono stati un vero incubo per i globalisti. I media controllati dai globalisti hanno accusato Trump di ogni possibile nefandezza – compreso il “lavorare per i russi” giacché anche i “russi” persistevano nel loro rifiuto del “brave new world”, sabotando le istituzioni sovranazionali – fino a e incluso il governo mondiale – e impedendo le sfilate dei gay pride.

Tutti gli oppositori della globalizzazione liberale sono stati logicamente raggruppati insieme, comprendendo non solo Putin, Xi Jinping, alcuni leader islamici, ma anche – pensate un po’! – il presidente degli Stati Uniti d’America, il numero uno del “mondo libero”.

Per i globalisti questo è stato un disastro.

Finché Trump non è stato deposto – attraverso le rivoluzioni colorate, i disordini architettati, i metodi fraudolenti di conteggio dei voti prima utilizzati solo contro altri Paesi e regimi – non potevano sentirsi a loro agio.

Solo dopo aver ripreso le redini della Casa Bianca, i globalisti hanno cominciato a rinsavire. E sono tornati alle… vecchie abitudini. Ma nel loro caso, “vecchio” (ricostruito) voleva dire tornare al “momento unipolare” – all’epoca pre-Trump.

Il trumpismo.

Trump ha cavalcato l’onda del populismo nel 2016 come nessun altro leader europeo è riuscito a fare. Egli è diventato così un simbolo dell’opposizione alla globalizzazione liberale.

Certo, non stiamo parlando di un’ideologia alternativa, ma semplicemente di una resistenza disperata alle ultime conclusioni derivanti dalla logica e persino dalla metafisica del liberalismo (e del nominalismo). Trump non ha affatto sfidato il capitalismo o la democrazia, ma solo le forme che avevano assunto nella loro ultima fase e la loro graduale e coerente attuazione. Ma anche questo è stato sufficiente a segnare una spaccatura fondamentale nella società americana.

 

È così che il fenomeno del “trumpismo” ha preso forma, superando per molti versi la dimensione della personalità stessa di Donald Trump. Trump ha giocato sull’onda della protesta anti-globalizzazione. Ma è chiaro che non era e non è una figura ideologica. Eppure, è stato intorno a lui che ha iniziato a formarsi un blocco di opposizione. La conservatrice americana Ann Coulter, autrice del libro In Trump we Trust, ha poi riformulato il suo credo nel “In Trumpism we trust”.

Non è tanto Trump stesso, quanto piuttosto la sua linea di opposizione ai globalisti, ad essere diventata il nucleo del trumpismo.

Nel suo ruolo di presidente, Trump non è stato sempre all’altezza del suo articolato compito. E non è stato in grado di realizzare nulla che fosse anche solo vicino a “prosciugare la palude” e sconfiggere il globalismo. Ma nonostante questo, è diventato un centro di attrazione per tutti coloro che erano consapevoli o semplicemente percepivano il pericolo proveniente dalle élite globaliste e dagli inseparabili rappresentanti di Big Finance e Big Tech.

 

Così, il nucleo del Trumpismo ha cominciato a prendere forma. L’intellettuale conservatore americano Steve Bannon ha giocato un ruolo importante in questo processo, mobilitando ampi segmenti di giovani e disparati movimenti conservatori a sostegno di Trump. Bannon stesso era ispirato da importanti autori antimodernisti come Julius Evola, e la sua opposizione al globalismo e al liberalismo aveva quindi radici più profonde.

Un ruolo importante nel trumpismo è stato giocato da coerenti paleo-conservatori – isolazionisti e nazionalisti – del calibro di Buchanan, Ron Paul, così come gli aderenti alla filosofia anti-liberale e anti-modernista (quindi, fondamentalmente anti-globalista) come Richard Weaver e Russell Kirk, che erano stati emarginati dai neocon (i globalisti di destra) sin dagli anni Ottanta.

 

La forza trainante della mobilitazione di massa dei “trumpisti” è stata l’organizzazione in rete QAnon, che ha espresso le sue critiche al liberalismo, ai democratici e ai globalisti sotto forma di teorie del complotto. Hanno diffuso un fiume di accuse e denunciato i globalisti di essere coinvolti in scandali sessuali, pedofilia, corruzione e satanismo.

Essendo poco inclini all’analisi filosofica e ideologica approfondita, i sostenitori di QAnon si sono limitati a formulare intuizioni sulla natura sinistra dell’ideologia liberale – resasi evidente nelle fasi finali della sua trionfante espansione sull’umanità. Parallelamente, QAnon ha esteso la sua influenza, ma allo stesso tempo ha impresso alla critica anti-liberale dei tratti grotteschi.

Sono stati i sostenitori di QAnon, in quanto avanguardia del populismo cospirativo di massa, a guidare le proteste del 6 gennaio, quando i supporter di Trump hanno preso d’assalto il Campidoglio indignati per il furto delle elezioni.

Non hanno raggiunto alcun obiettivo, se non dare a Biden e ai democratici un pretesto per demonizzare ulteriormente il “trumpismo” e tutti gli oppositori del globalismo, equiparando qualsiasi conservatore all’“estremismo”.

È seguita un’ondata di arresti, e i membri più convinti dei “Nuovi Democratici” hanno proposto che tutti i diritti sociali – compresa la possibilità di acquistare biglietti aerei – andrebbero revocati ai sostenitori di Trump.

 

Poiché i social media sono regolarmente monitorati dai sostenitori dell’élite liberale, raccogliere informazioni su quasi tutti i cittadini statunitensi e le loro preferenze politiche non è stato un problema.

Così, l’arrivo di Biden alla Casa Bianca implica che il liberalismo ha assunto caratteristiche apertamente totalitarie.

D’ora in poi, il trumpismo, il populismo, la difesa dei valori della famiglia, e ogni accenno di conservatorismo o di disaccordo con i principi del liberalismo globalista negli Stati Uniti sarà pressoché equivalente a un crimine – all’odio e al “fascismo”.

Eppure, il trumpismo non è scomparso con la vittoria di Biden. In un modo o nell’altro, ha ancora il consenso di coloro che hanno votato per Donald Trump nelle ultime elezioni – e sono più di 70 milioni di elettori.

È chiaro dunque che il “trumpismo” non finirà affatto con Trump. Metà della popolazione statunitense si è effettivamente trovata in una posizione di opposizione radicale, e i trumpisti più coerenti rappresentano il nucleo dell’underground anti-globalizzazione all’interno della cittadella del globalismo stesso.

Qualcosa di simile sta accadendo nei Paesi europei, dove i movimenti e i partiti populisti sono sempre più consapevoli di essere dissidenti privati di ogni diritto e soggetti a persecuzione ideologica sotto l’apparente dittatura globalista.

Non importa quanto i globalisti che hanno ripreso il potere negli Stati Uniti vogliano presentare i quattro anni precedenti come uno “sfortunato malinteso” e dichiarare la loro vittoria come il definitivo “ritorno alla normalità”, il quadro oggettivo è lontano dagli incantesimi tranquillizzanti della upper class globalista.

Non sono solo i Paesi con una diversa identità di civiltà a mobilitarsi contro di essa e contro la sua ideologia, ma questa volta anche metà della sua stessa popolazione, che gradualmente si rende conto della gravità della sua situazione e comincia a cercare un’alternativa ideologica.

Queste sono le circostanze nelle quali Biden è salito a capo degli Stati Uniti. Lo stesso suolo americano sta bruciando sotto i piedi dei globalisti.

 E questo dà alla “battaglia finale” una dimensione speciale, aggiuntiva. Non è l’Occidente contro l’Oriente, non gli USA e la NATO contro tutti gli altri, ma i liberali contro l’umanità – compreso quel segmento di umanità che si trova sul territorio dell’Occidente stesso, ma che si sta allontanando sempre più dalle proprie élite globaliste. Questo è ciò che definisce le condizioni di partenza di questa battaglia.

Individuum e dividuum.

Un altro punto essenziale deve essere chiarito. Abbiamo visto che tutta la storia del liberalismo consiste nella successiva liberazione dell’individuo da ogni forma di identità collettiva. Il punto conclusivo nel processo di questa attuazione logicamente perfetta del nominalismo sarà il passaggio al post-umanesimo e la probabile sostituzione dell’umanità con un’altra civilizzazione di macchine, questa volta postumana. Ecco a cosa porta il coerente individualismo, preso come qualcosa di assoluto.

Ma qui la filosofia liberale approda a un paradosso fondamentale. La liberazione dell’individuo dalla sua identità umana, alla quale le politiche di genere lo preparano trasformando consapevolmente e intenzionalmente l’essere umano in un mostro perverso, non può garantire che questo nuovo – progressista! – essere mantenga un carattere individuale.

Inoltre, lo sviluppo delle tecnologie informatiche in rete, l’ingegneria genetica e la stessa ontologia orientata agli oggetti, che rappresenta il culmine del postmodernismo, indicano chiaramente che il “nuovo essere” non sarà tanto un “animale” quanto una “macchina”.

È in questa prospettiva che verosimilmente si offriranno prospettive di “immortalità” sotto forma di conservazione artificiale dei ricordi personali (che sono abbastanza facili da simulare).

 

Così, l’individuo del futuro, come compimento di tutto il programma del liberalismo, sarà incapace di garantire proprio quello che è stato l’obiettivo principale del progresso liberale – cioè la sua individualità.

 L’essere liberale del futuro, anche in teoria, non è un individuum, qualcosa di “indivisibile”, ma piuttosto un “dividuum”, cioè qualcosa divisibile e composto da parti sostituibili. Tale è la macchina – essa è composta da una combinazione di parti.

Nella fisica teorica, si è passati da tempo dalla teoria degli “atomi” (cioè “unità di materia indivisibile”) alla teoria delle particelle, che sono concepite non come “parti di un tutto” ma come “parti senza un tutto”.

 Anche l’individuo nel suo insieme si scompone nelle parti che lo compongono, che possono essere riassemblate, ma che possono anche non essere assemblate, bensì utilizzate come bio-costruttori. Da qui le figure di mutanti, chimere e mostri che abbondano nella narrativa moderna, popolando le più immaginifiche (e quindi, in un certo senso, anticipatrici e persino pianificate) versioni del futuro.

I postmodernisti e i realisti speculativi hanno già preparato il terreno per tutto ciò, proponendo di sostituire il corpo umano inteso come qualcosa di intero con l’idea di un “parlamento di organi” (B. Latour). In questo modo, l’individuo – anche come unità biologica – diventerebbe qualcosa d’altro, mutando proprio nel momento in cui raggiunge la sua incarnazione assoluta.

 

Il progresso umano nell’interpretazione liberale finisce inevitabilmente con l’abolizione dell’umanità.

Questo è ciò che sospettano tutti coloro che intraprendono la lotta contro il globalismo e il liberalismo, anche se molto vagamente. Benché QAnon e le loro teorie cospirative anti-liberali distorcano la realtà limitandosi a presentare tratti sospetti e grotteschi che i liberali possono facilmente confutare, la realtà, se descritta in modo sobrio e oggettivo, risulta molto più spaventosa delle sue più allarmanti e mostruose premonizioni.

“Il Grande Reset” è effettivamente un piano per l’eliminazione dell’umanità.

 Perché questa è precisamente la conclusione a cui la linea del “progresso” liberalmente inteso conduce logicamente: sforzarsi di liberare l’individuo da tutte le forme di identità collettiva non può che non portare alla liberazione dell’individuo da se stesso.

 

Il Grande Risveglio.

Il Grande Risveglio: un grido nella notte.

Ci accostiamo adesso ad una tesi che rappresenta il diretto opposto del “Grande Reset”: la tesi del “Grande Risveglio”.

Questo slogan è stato proposto per la prima volta dagli antiglobalisti americani, come il conduttore del canale televisivo alternativo Infowars, Alex Jones, che ha subito la censura globalista e il de-platforming dai social network nella prima fase della presidenza Trump, e gli attivisti di QAnon.

 È importante che questo avvenga negli Stati Uniti, dove serpeggia una forte tensione tra le élite globaliste e i populisti che hanno avuto un loro uomo alla Presidenza, anche se per soli quattro anni ed irrigidito da ostacoli amministrativi e dai limiti dei propri orizzonti ideologici.

 

Privi di un solido bagaglio ideologico e filosofico, questi anti-globalisti sono stati tuttavia in grado di cogliere l’essenza dei più importanti processi in corso nel mondo moderno.

Il globalismo, il liberalismo e il Grande Reset, in quanto espressioni della determinazione delle élite liberali a portare a termine i loro piani con qualsiasi mezzo – compresa la dittatura vera e propria, la repressione su larga scala e le campagne di totale disinformazione – hanno incontrato una resistenza crescente e sempre più consapevole.

Alex Jones termina i suoi programmi con lo stesso grido di battaglia: “Voi siete la Resistenza!”.

 In questo caso, Alex Jones stesso o gli attivisti di QAnon non hanno visioni del mondo rigorosamente definite.

Da questo punto di vista, sono rappresentativi delle masse, gli stessi “deplorables” così tristemente umiliati da Hillary Clinton. Ciò che si sta risvegliando ora non è un campo di oppositori ideologici del liberalismo, nemici del capitalismo, o avversari ideologici della democrazia.

 Non sono nemmeno conservatori. Sono solo persone – persone in quanto tali, le più comuni e semplici. Ma... persone che vogliono essere e rimanere umane, disporre e conservare la loro libertà, il loro genere, la loro cultura, e legami vivi e concreti con la loro Patria, con il mondo che li circonda, con il popolo.

Il Grande Risveglio non attiene alle élite e agli intellettuali, ma al popolo, alle masse, alla gente in quanto tale. In questo caso, il risveglio non concerne un’analisi ideologica.

Si tratta di una reazione spontanea delle masse, scarsamente competenti sul piano filosofico, che si sono improvvisamente rese conto, come il bestiame davanti al macello, che il loro destino è già stato deciso dai loro governanti e che non c’è più posto per l’essere umano nel futuro.

Il Grande Risveglio è spontaneo, in gran parte inconscio, intuitivo e cieco. Non costituisce affatto uno sbocco di consapevolezza, di deduzione, di analisi storica profonda.

Come abbiamo visto nei filmati del Campidoglio, gli attivisti trumpiani e i rappresentanti di QAnon sembrano personaggi dei fumetti o supereroi della Marvel. Il complottismo è una malattia infantile dell’antiglobalismo. Ma, d’altra parte, è l’inizio di un processo storico fondamentale. È così che emerge il polo di opposizione al corso stesso della storia nel suo senso liberale.

Per questo la tesi del Grande Risveglio non deve essere frettolosamente intrisa di dettagli ideologici, sia che si tratti di conservatorismo fondamentale (compreso il conservatorismo religioso), di tradizionalismo, di critica marxista del capitale o di protesta anarchica fine a se stessa. Il Grande Risveglio è qualcosa di più organico, più spontaneo e allo stesso tempo tettonico. È così che l’umanità viene improvvisamente illuminata dalla coscienza della vicinanza alla sua fine imminente.

Ed è per questo che il Grande Risveglio è così importante. Ed è per questo che viene dall’interno degli Stati Uniti, quella civilizzazione dove il crepuscolo del liberalismo è più spinto. È un grido dal centro dell’inferno stesso, da quella zona dove il nero futuro è già in parte giunto.

 

Il Grande Risveglio è la risposta spontanea delle masse umane al Grande Reset.

 Naturalmente, si può essere scettici al riguardo. Le élite liberali, soprattutto oggi, controllano tutti i principali processi di civilizzazione. Controllano le finanze del mondo e possono fare qualsiasi cosa con esse, dall’emissione illimitata a qualsiasi manipolazione degli strumenti e delle strutture finanziarie. Nelle loro mani c’è l’intera macchina militare statunitense e la gestione degli alleati della NATO. Biden promette di rafforzare l’influenza di Washington in questa struttura, che negli ultimi anni si era quasi disintegrata.

Quasi tutti i giganti dell’alta tecnologia sono subordinati ai liberali – computer, iPhone, server, telefoni e reti sociali sono strettamente controllati da pochi monopolisti che sono membri del club globalista.

Questo significa che il Big Data, cioè l’intero corpo di informazioni su praticamente tutta la popolazione della terra, ha un proprietario e un padrone.

Tecnologia, centri scientifici, formazione, cultura, media, medicina e servizi sociali globali sono completamente nelle loro mani.

I liberali nei governi e nei circoli di potere sono membri organici di queste reti planetarie aventi tutte la stessa sede.

I servizi segreti dei Paesi occidentali e i loro agenti in altri regimi lavorano – reclutati o corrotti, costretti a collaborare o come volontari – per i globalisti.

Ci si chiede: come possono in questa situazione i sostenitori del “Grande Risveglio” ribellarsi al globalismo?

 Come – senza disporre di particolari risorse – possono affrontare efficacemente l’élite globale?

Quali armi usare? Quale strategia seguire?

 E, inoltre, su quale ideologia fare affidamento? – perché i liberali e i globalisti di tutto il mondo sono uniti e hanno un’idea comune, un obiettivo comune e una linea comune, mentre i loro avversari sono eterogenei non solo in società diverse, ma anche all’interno di una stessa società.

Naturalmente, queste contraddizioni nei ranghi dell’opposizione sono ulteriormente esacerbate dalle élite al potere, che sono abituate a dividere per dominare. Musulmani contro cristiani, sinistra contro destra, europei contro russi o cinesi, ecc.

 

Ma il Grande Risveglio sta avvenendo non a causa, bensì a dispetto di tutto questo. L’umanità stessa, l’uomo come eidos, l’uomo come comune, l’uomo come identità collettiva, e in tutte le sue forme, organica e artificiale, storica e innovativa, orientale e occidentale, si sta ribellando ai liberali.

Il Grande Risveglio è solo l’inizio. Non è ancora cominciato. Ma il fatto che abbia un nome, e che questo nome sia apparso proprio nell’epicentro delle trasformazioni ideologiche e storiche, negli Stati Uniti, sullo sfondo della drammatica sconfitta di Trump, della disperata presa del Campidoglio, e della crescente ondata di repressione liberale, poiché i globalisti non nascondono più la natura totalitaria della loro teoria e della loro pratica, è di grande (forse cruciale) importanza.

 

Il Grande Risveglio contro il “Grande Reset” è la rivolta dell’umanità contro le élite liberali al potere. Inoltre, è la ribellione dell’uomo contro il suo nemico secolare, il nemico della stessa razza umana.

Se c’è chi proclama il “Grande Risveglio”, per quanto ingenue possano sembrare le sue formule, questo significa già che non tutto è perduto, che un nocciolo di Resistenza sta maturando nelle masse, che queste cominciano a mobilitarsi. Da questo momento inizia la storia di una rivolta mondiale, una rivolta contro il Grande Reset e i suoi adepti.

Il Grande Risveglio è un lampo di coscienza alle soglie della Singolarità.

È l’ultima opportunità di prendere una decisione alternativa in merito al contenuto e alla direzione del futuro. La completa sostituzione degli esseri umani con nuove entità, nuove divinità, non può essere semplicemente imposta con la forza dall’alto. Le élite devono sedurre l’umanità, ottenere da essa un certo consenso, benché vago. Il Grande Risveglio richiede un deciso “No”!

 

Questa non è però la fine della guerra, nemmeno la guerra stessa. Essa anzi non è ancora iniziata. Ma è la possibilità di un tale inizio. Un nuovo inizio nella storia dell’uomo.

Come abbiamo visto, negli stessi Stati Uniti, gli oppositori del liberalismo – sia Trump che i trumpisti – sono pronti a rifiutare l’ultima fase della democrazia liberale, ma non pensano nemmeno a una critica completa del capitalismo. Difendono l’ieri e l’oggi contro un domani incombente e minaccioso. Ma non possiedono un orizzonte ideologico compiuto. Cercano di salvare lo stadio precedente della stessa democrazia liberale, lo stesso capitalismo, dai suoi stadi più tardivi e avanzati. E questo contiene di per sé una contraddizione.

Anche la sinistra contemporanea ha dei limiti nella sua critica al capitalismo, sia perché condivide una concezione materialista della storia (Marx condivideva la necessità del capitalismo mondiale, che sperava sarebbe stato poi superato dal proletariato mondiale), sia perché i movimenti socialista e comunista sono stati recentemente occupati dai liberali e riorientati dalla guerra di classe contro il capitalismo alla protezione dei migranti, delle minoranze sessuali e alla lotta contro “fascisti” immaginari.

La destra, per contro, è confinata nei suoi Stati-nazione e nelle sue culture, non vedendo che i popoli di altre civiltà sono nella stessa disperata situazione.

 Le nazioni borghesi emerse all’alba dell’era moderna rappresentano un vestigio della civilizzazione borghese.

 Questa civilizzazione oggi sta distruggendo e abolendo ciò che essa stessa ha creato solo ieri, utilizzando nel frattempo tutte le limitazioni dell’identità nazionale per mantenere l’umanità in uno stato frammentato e conflittuale dal confronto che impedisce di affrontare i globalisti.

Dunque, esiste il Grande Risveglio, ma non ha ancora una base ideologica.

Se è veramente storico, e non un fenomeno effimero e puramente periferico, allora ha semplicemente bisogno di un fondamento – uno che vada oltre le ideologie politiche esistenti che sono emerse in epoca moderna nello stesso Occidente. Rivolgersi a una qualsiasi di esse significherebbe automaticamente ritrovarsi nella prigionia ideologica della formazione del capitale.

Così, nel cercare una piattaforma per il Grande Risveglio che è scoppiato negli Stati Uniti, dobbiamo guardare oltre la società americana e la piuttosto breve storia americana e guardare ad altre civiltà, soprattutto alle ideologie non liberali della stessa Europa, per trovare ispirazione. Ma anche questo non basta, perché parallelamente alla decostruzione del liberalismo, dobbiamo trovare appoggio nelle diverse civiltà dell’umanità, tutt’altro che esaurite dall’Occidente da cui proviene la principale minaccia e dove – a Davos, in Svizzera! – è stato proclamato il “Grande Reset”.

 

L’Internazionale delle Nazioni contro l’Internazionale delle Elites.

Il “Grande Reset” vuole rendere il mondo nuovamente unipolare per poi orientarsi verso una non-polarità globalista, dove le élite diventeranno completamente internazionali e la loro residenza sarà dispersa in tutto lo spazio del pianeta.

 Questo è il motivo per cui il globalismo comporta la fine degli stessi Stati Uniti come Paese, come Stato, come società. Questo è ciò che i trumpisti e i sostenitori del Grande Risveglio percepiscono, a volte intuitivamente. Biden rappresenta una condanna per gli Stati Uniti. E poi per tutti gli altri.

Di conseguenza, per la salvezza delle persone, dei popoli e delle società, il Grande Risveglio deve prendere avvio dal concetto di multipolarismo.

 Non si tratta solo della salvezza dell’Occidente in sé, e nemmeno della salvezza di tutti gli altri dall’Occidente, ma della salvezza dell’umanità, occidentale e non occidentale, dalla dittatura totalitaria delle élite capitaliste liberali.

E questo non può essere fatto solo dai popoli dell’Ovest o dai popoli dell’Est. Qui è necessario agire insieme. Il Grande Risveglio richiede un’internazionalizzazione della lotta dei popoli contro l’internazionalizzazione delle élite.

Il multipolarismo è il punto di riferimento più importante e la chiave della strategia del Grande Risveglio. Solo facendo appello a tutte le nazioni, culture e civiltà dell’umanità possiamo raccogliere forze sufficienti per opporci efficacemente al “Grande Reset” e all’orientamento verso la Singolarità.

Ma in questo caso l’intero quadro dell’inevitabile scontro finale risulta essere molto meno disperato. Se diamo uno sguardo a tutto ciò che potrebbero diventare i poli del Grande Risveglio, la situazione si presenta sotto una luce un po’ diversa.

 L’Internazionale dei Popoli, una volta che cominciamo a pensare in queste categorie, non risulta essere né un’utopia né un’astrazione. Inoltre, possiamo già vedere facilmente un enorme potenziale e come questo possa essere sfruttato nella lotta contro il “Grande Reset”.

Elenchiamo brevemente le risorse su cui il Grande Risveglio può contare su scala globale.

 

La guerra civile americana: la scelta del nostro campo.

Negli Stati Uniti, abbiamo un appiglio nel trumpismo. Anche se Trump stesso ha perso, questo non significa che lui stesso si sia lavato le mani, rassegnato a una vittoria rubata, e che i suoi sostenitori – 70milioni di americani – si siano calmati e abbiano dato per scontata la dittatura liberale.

Non è così. Da adesso in poi, un potente movimento sotterraneo antiglobalista sarà presente negli stessi Stati Uniti, numeroso (metà della popolazione!), amareggiato e spinto a disprezzare il totalitarismo liberale.

 La distopia di 1984 di Orwell non è stata incarnata da un regime comunista o fascista, ma si è inverata oggi in un regime liberale. Ma l’esperienza del comunismo sovietico e persino della Germania nazista mostrano che la resistenza è sempre possibile.

 

Oggi, gli Stati Uniti sono essenzialmente in uno stato di guerra civile. I liberali-bolscevichi hanno preso il potere, e i loro oppositori sono stati sbattuti all’opposizione e sono sul punto di passare all’illegalità. Un’opposizione di 70milioni di persone è una cosa seria. Certo, sono sparpagliati e possono essere messi in crisi dalle incursioni punitive dei democratici e dalla nuova tecnologia totalitaria dei Big Tech.

Ma è troppo presto per liquidare il popolo americano. Chiaramente, esso ha ancora un certo margine di forza, e metà della popolazione statunitense è pronta a difendere la propria libertà individuale a qualsiasi costo.

E oggi la questione è esattamente questa: Biden o la libertà. Naturalmente, i liberali cercheranno di abolire il Secondo Emendamento e di disarmare la popolazione, che sta diventando sempre meno fedele all’élite globalista.

È probabile che i democratici cercheranno di abbattere lo stesso sistema bipartitico introducendo un regime essenzialmente monopartitico, secondo lo spirito dell’attuale stato della loro ideologia. Questo è liberal-bolscevismo.

Ma le guerre civili non hanno mai un esito scontato. La storia è aperta, e la vittoria di entrambe le parti è sempre possibile. Soprattutto se l’umanità si rende conto di quanto sia importante l’opposizione americana per la vittoria universale sul globalismo.

Non importa cosa pensiamo degli Stati Uniti, di Trump e dei trumpisti, tutti noi dobbiamo semplicemente sostenere il polo americano del Grande Risveglio.

Salvare l’America dai globalisti, e quindi contribuire a renderla di nuovo grande, è il nostro comune compito.

Il populismo europeo: superare la destra e la sinistra.

L’ondata di populismo anti-liberale non si placa nemmeno in Europa. Anche se il globalista Macron è riuscito a contenere le violente proteste dei “Gilet Gialli” e i liberali italiani e tedeschi hanno isolato e bloccato i partiti di destra e i loro leader dall’andare al potere, questi processi sono inarrestabili. Il populismo esprime lo stesso Grande Risveglio, solo sul suolo europeo e con una specificità europea.

Per questo polo di resistenza, una nuova riflessione ideologica è estremamente importante. Le società europee sono molto più attive ideologicamente di quelle americane, e quindi le tradizioni della politica di destra e di sinistra – e le loro contraddizioni intrinseche – sono molto più sentite.

 

Sono proprio queste contraddizioni che le élite liberali stanno sfruttando per mantenere il loro dominio nell’Unione Europea.

Il fatto è che l’odio per i liberali in Europa sta crescendo contemporaneamente da due versanti: la sinistra li vede come rappresentanti del grande capitale, sfruttatori che hanno perso ogni decenza, e la destra li vede come provocatori di una migrazione di massa artificiale, distruttori delle ultime vestigia dei valori tradizionali, demolitori della cultura europea e seppellitori della classe media.

 Allo stesso tempo, per la maggior parte, sia i populisti di destra che quelli di sinistra hanno messo da parte le ideologie tradizionali che non rispondono più alle esigenze storiche, ed esprimono le loro opinioni in forme nuove, talvolta contraddittorie e frammentarie.

Il rifiuto delle ideologie del comunismo ortodosso e del nazionalismo è generalmente positivo; dà ai populisti una nuova base molto più ampia. Ma è anche la loro debolezza.

Tuttavia, la cosa più fatale del populismo europeo non è tanto la sua de-ideologizzazione quanto la persistenza del profondo e reciproco rifiuto tra destra e sinistra che perdura dalle epoche storiche precedenti.

L’emergere di un polo europeo del Grande Risveglio deve comportare la risoluzione di questi due compiti ideologici: il superamento definitivo del confine tra destra e sinistra (cioè l’obbligatorio rifiuto dell’“antifascismo” artificioso di alcuni e dell’“anticomunismo” artificioso di altri) e l’elevazione del populismo come tale – il populismo integrale – a modello ideologico indipendente.

 Il suo senso e il suo messaggio dovrebbero consistere in una critica radicale del liberalismo e del suo stadio più alto, il globalismo, combinando allo stesso tempo la richiesta di giustizia sociale e la conservazione dell’identità culturale tradizionale.

In questo caso, il populismo europeo acquisirà anzitutto una massa critica che ad oggi è fatalmente mancante, dato che i populisti di destra e di sinistra sprecano tempo e sforzi per regolare i conti tra loro, e, in secondo luogo, diventerà un polo importantissimo del Grande Risveglio.

La Cina e la sua identità collettiva.

Gli oppositori del Grande Reset hanno un altro significativo alleato: la Cina contemporanea.

 Certo, la Cina ha approfittato delle opportunità offerte dalla globalizzazione per rafforzare l’economia della sua società.

Ma la Cina non ha accettato lo spirito stesso del globalismo, il liberalismo, l’individualismo e il nominalismo dell’ideologia globalista.

 La Cina ha preso dall’Occidente solo ciò che l’ha resa più forte, ma ha rifiutato ciò che l’avrebbe resa più debole. Questo è un gioco pericoloso, ma finora la Cina l’ha gestito con successo.

 

Infatti, la Cina è una società tradizionale con migliaia di anni di storia e un’identità stabile. E chiaramente intende rimanere tale in futuro. Questo è particolarmente chiaro nelle politiche dell’attuale leader cinese, Xi Jinping. Egli è pronto a fare compromessi tattici con l’Occidente, ma è inflessibile nel garantire che la sovranità e l’indipendenza della Cina crescano e si rafforzino.

Che i globalisti e Biden agiscano in solidarietà con la Cina è un mito.

Sì, Trump ci ha creduto e Bannon lo ha detto, ma questo è il risultato di un orizzonte geopolitico ristretto e di una profonda incomprensione dell’essenza della civiltà cinese.

 La Cina seguirà il proprio corso e rafforzerà le strutture multipolari.

Di fatto, la Cina è il polo più importante del Grande Risveglio, un aspetto che diventerà chiaro se prendiamo come punto di partenza la necessità di un’internazionalizzazione dei popoli.

 La Cina è un popolo con una distinta identità collettiva. L’individualismo cinese non esiste affatto, e se esiste, è un’anomalia culturale.

La civiltà cinese è il trionfo del clan, del folk, dell’ordine e della struttura su ogni individualità.

Naturalmente, il Grande Risveglio non deve diventare cinese.

Non deve essere affatto uniforme – perché ogni nazione, ogni cultura, ogni civiltà ha il proprio spirito e il proprio eidos. L’umanità è diversa.

E la sua unità può essere avvertita più acutamente solo quando si confronta con una grave minaccia che incombe su tutti noi. E questo è precisamente ciò che rappresenta il Grande Reset.

 

L’Islam contro la globalizzazione.

Un altro alleato del Grande Risveglio è costituito dai popoli della civiltà islamica.

Che il globalismo liberale e l’egemonia occidentale siano radicalmente rifiutati dalla cultura islamica e dalla stessa religione islamica su cui tale cultura si basa è ovvio.

 Certo, durante il periodo coloniale e sotto il potere e l’influenza economica dell’Occidente, alcuni Stati islamici si sono trovati nell’orbita del capitalismo, ma praticamente in tutti i paesi islamici c’è un rifiuto sostenuto e profondo del liberalismo e specialmente del moderno liberalismo globalista.

Questo si manifesta sia in forme estreme – il fondamentalismo islamico – sia in forme moderate. In alcuni casi, singoli movimenti religiosi o politici si fanno portatori dell’iniziativa antiliberale, mentre in altri casi lo Stato stesso si assume questa missione.

In ogni caso, le società islamiche sono ideologicamente preparate per un’opposizione sistematica e attiva alla globalizzazione liberale.

I progetti del Grande Reset non contengono nulla, anche teoricamente, che possa piacere ai musulmani. Ecco perché l’intero mondo islamico nel suo insieme rappresenta un enorme polo del Grande Risveglio.

Tra i paesi islamici, l’Iran sciita e la Turchia sunnita sono i più ostili alla strategia globalista.

Va detto che, se la motivazione principale che guida l’Iran è l’idea religiosa dell’avvicinarsi della fine del mondo e dell’ultima battaglia, dove il nemico principale – Dajjal – è chiaramente riconosciuto come l’Occidente, il liberalismo e il globalismo, la Turchia è guidata più da considerazioni pragmatiche, dal desiderio di rafforzare e preservare la sua sovranità nazionale e garantire l’influenza turca in Medio Oriente e nel Mediterraneo orientale.

La politica di Erdogan di graduale allontanamento dalla NATO combina la tradizione nazionale di Kemal Ataturk con il desiderio di giocare il ruolo di leader dei musulmani sunniti, ma entrambi sono realizzabili solo in opposizione alla globalizzazione liberale, che prevede la completa secolarizzazione delle società.

 l’indebolimento (e, al limite, l’abolizione) degli Stati nazionali, e nel frattempo la concessione dell’autonomia politica a gruppi etnici minoritari, una mossa che sarebbe devastante per la Turchia a causa del grande e piuttosto attivo fattore curdo.Il Pakistan sunnita, che esprime un’altra forma di combinazione tra politiche nazionali e islamiche, si sta gradualmente distaccando dagli Stati Uniti e dall’Occidente.

Anche se i Paesi del Golfo sono più dipendenti dall’Occidente, uno sguardo più attento all’Islam arabo, e ancor più all’Egitto, che è un altro Stato importante e indipendente nel mondo islamico, rivela sistemi sociali che non hanno nulla a che fare con l’agenda globalista e sono naturalmente predisposti a schierarsi con il Grande Risveglio.

Quest’ultimo viene ostacolato solo dalle contraddizioni tra gli stessi musulmani – non solo tra sciiti e sunniti, ma anche conflitti regionali tra gli stessi singoli Stati sunniti –, abilmente esacerbate dall’Occidente e dai centri di controllo globalisti.

Il contesto del Grande Risveglio potrebbe diventare anche una piattaforma ideologica per l’unificazione del mondo islamico nel suo complesso, poiché l’opposizione al “Grande Reset” è un imperativo incondizionato per pressoché tutti i Paesi islamici. Questo è ciò che rende possibile assumere la strategia dei globalisti e l’opposizione ad essa come denominatore comune. La consapevolezza della portata del Grande Risveglio permetterebbe, entro certi limiti, di smorzare le contraddizioni locali contribuendo alla formazione di un altro polo della resistenza globale.

La missione della Russia: essere in prima linea nel Grande Risveglio.

Infine, il polo più importante del Grande Risveglio è costituito dalla Russia. Nonostante il fatto che la Russia si sia in parte lasciata contagiare dalla civilizzazione occidentale, attraverso la cultura illuminista durante il periodo zarista, sotto i bolscevichi, e soprattutto dopo il 1991, in ogni fase – nell’antichità come nel presente – l’identità profonda della società russa è rimasta profondamente diffidente verso l’Occidente, specialmente verso il liberalismo e la globalizzazione. Il nominalismo è profondamente estraneo al popolo russo nelle sue stesse fondamenta.

L’identità russa ha sempre dato la priorità al comune – il clan, il folk, il popolo, la Chiesa, la tradizione, la nazione e l’autorità, e persino il comunismo ha rappresentato – sebbene in senso artificiale, in termini di classe – un’identità collettiva opposta all’individualismo borghese. I russi hanno ostinatamente rifiutato e continuano a rifiutare il nominalismo in tutte le sue forme. E questa è una piattaforma comune sia al periodo zarista che a quello sovietico.

Dopo il fallito tentativo di integrazione nella comunità globale negli anni Novanta, grazie al fallimento delle riforme liberali, la società russa si è ancora più convinta di quanto il globalismo e gli atteggiamenti e princìpi individualistici siano estranei ai russi.

Questo è ciò che determina il sostegno generale al corso conservatore e sovranista di Putin.

 I russi rifiutano il “Grande Reset” sia da destra che da sinistra – e questo, insieme alle tradizioni storiche, all’identità collettiva e alla percezione della sovranità e della libertà statuale come il valore più alto, non è una caratteristica momentanea, ma di lungo periodo, che giace alle fondamenta della civiltà russa.

Il rifiuto del liberalismo e della globalizzazione si è particolarmente accentuato negli ultimi anni, poiché il liberalismo stesso ha rivelato le sue caratteristiche profondamente repulsive alla coscienza russa.

Questo ha giustificato una certa simpatia dei russi per Trump e un parallelo profondo disgusto per i suoi avversari liberali.

Da parte di Biden, l’atteggiamento verso la Russia è abbastanza simmetrico. Lui e le élite globaliste in generale vedono la Russia come il principale avversario di civiltà, che rifiuta ostinatamente di accettare il vettore del progressismo liberale e difende ferocemente la sua sovranità politica e la sua identità.

 

Naturalmente, anche la Russia di oggi non dispone di un’ideologia compiuta e coerente che possa rappresentare una seria minaccia al Grande Reset. Inoltre, le élite liberali radicate al vertice della società sono ancora forti e influenti in Russia, e le idee, le teorie e i metodi liberali dominano ancora l’economia, l’istruzione, la cultura e la scienza. Tutto questo indebolisce il potenziale della Russia, disorienta la società e pone le basi per crescenti contraddizioni interne. Ma, nel complesso, la Russia è il più importante – se non il principale!  – polo del Grande Risveglio.

Questo è esattamente ciò a cui tutta la storia russa ha condotto, esprimendo la intrinseca convinzione che i russi stanno affrontando qualcosa di grande e decisivo nella drammatica situazione della Fine dei Tempi, la fine della storia.

Ma è proprio questa fine, nella sua versione peggiore, che il progetto del Grande Reset implica. La vittoria del globalismo, del nominalismo e l’avvento della Singolarità significherebbe il fallimento della missione storica russa, non solo nel futuro ma anche nel passato.

Dopo tutto, il senso della storia russa è stato diretto proprio verso il futuro, e il passato è stato solo una preparazione per esso.

E in questo futuro, che si sta vieppiù avvicinando, il ruolo della Russia non è solo quello di prendere parte attiva al Grande Risveglio, ma anche di stare in prima linea, proclamando l’imperativo dell’Internazionale dei Popoli nella lotta contro il liberalismo, la piaga del XXI secolo.

Il risveglio della Russia: un rinascimento imperiale.

Cosa significa per la Russia in tali circostanze “risvegliarsi”? Significa ripristinare pienamente la scala storica, geopolitica e di civiltà della Russia, diventando un polo del nuovo mondo multipolare.

La Russia non è mai stata “solo un paese”, tanto meno “solo uno tra gli altri paesi europei”. Nonostante tutta l’unità delle nostre radici con l’Europa, che risale alla cultura greco-romana, la Russia in tutte le fasi della sua storia ha seguito un suo percorso particolare.

Questo ha avuto un impatto anche sulla nostra scelta ferma e incrollabile dell’Ortodossia e in generale del bizantinismo, che ha determinato in gran parte il nostro allontanamento dall’Europa occidentale, che ha scelto il Cattolicesimo e poi il Protestantesimo.

Nell’epoca moderna, questo stesso fattore di profonda sfiducia nell’Occidente si è riflesso nel fatto che non siamo stati così intaccati dallo spirito stesso della Modernità insito nel nominalismo, nell’individualismo e nel liberalismo.

E anche quando abbiamo mutuato alcune dottrine e ideologie dall’Occidente, queste erano spesso critiche, cioè contenevano in sé il rifiuto del principale paradigma di sviluppo – liberal-capitalistico – della civiltà europea occidentale, che pure era così prossima a noi.

L’identità della Russia è stata anche molto influenzata dal vettore orientale – turanico. Come hanno dimostrato i filosofi eurasiatici, tra cui il grande storico russo Lev Gumilev, la statualità mongola di Gengis Khan ha rappresentato per la Russia un’importante esperienza di organizzazione centralizzata di tipo imperiale, che ha largamente predeterminato la nostra ascesa come Grande Potenza dal XV secolo, quando l’Orda d’Oro crollò e la Russia moscovita si insediò nello spazio dell’Eurasia nordorientale.

Questa continuità con la geopolitica dell’Orda ha naturalmente portato alla potente espansione delle epoche successive. Ad ogni svolta, la Russia ha difeso e affermato non solo i suoi interessi, ma anche i suoi valori.

Così, la Russia si è rivelata essere l’erede di due imperi che sono crollati all’incirca nello stesso momento, nel XV secolo: l’impero bizantino e quello mongolo.

 L’impero è diventato il nostro destino. Anche nel XX secolo, con tutto il radicalismo delle riforme bolsceviche, la Russia è rimasta un impero contro ogni previsione, questa volta sotto le spoglie dell’impero sovietico.

Ciò significa che la nostra rinascita è inconcepibile senza il ritorno alla missione imperiale, sancita nel nostro destino storico.

Questa missione è diametralmente opposta al progetto globalista del “Grande Reset”. Ed è naturale aspettarsi che nel loro slancio decisivo i globalisti faranno tutto ciò che è in loro potere per impedire un Rinascimento Imperiale in Russia. 

Proprio di questo abbiamo bisogno: di un Rinascimento Imperiale.

Non per imporre la nostra verità russa e ortodossa agli altri popoli, culture e civiltà, ma per far rivivere, fortificare e difendere la nostra identità e per aiutare gli altri nel loro rinascimento, a fortificare e difendere la loro (per quanto è in nostro potere).

La Russia non è l’unico bersaglio del “Grande Reset”, anche se per molti versi il nostro Paese è il principale ostacolo all’esecuzione dei loro piani. Ma questa è la nostra missione – essere il “Katéchon”, “colui che trattiene”, impedendo l’arrivo del Male finale nel mondo.

 

Tuttavia, agli occhi dei globalisti, anche le altre civiltà, culture e società tradizionali sono da sottoporre a smantellamento, riformattazione e trasformazione in una massa cosmopolita globale indifferenziata, e nel prossimo futuro da sostituire con nuove – postumane – forme di vita, organismi, meccanismi o loro ibridi.

Pertanto, il risveglio imperiale della Russia è destinato ad essere un simbolo della rivolta universale dei popoli e delle culture contro le élite liberali globaliste.

Attraverso la rinascita come impero, come impero ortodosso, la Russia sarà un esempio per gli altri imperi – quello cinese, turco, persiano, arabo, indiano, così come quello latinoamericano, africano… e quello europeo.

 Invece del dominio di un unico “Impero” globalista del Grande Reset, il risveglio russo dovrebbe coincidere con l’inizio di un’era caratterizzata da molteplici Imperi, che riflettono e incarnano la ricchezza delle umane culture, tradizioni, religioni e sistemi valoriali.

Verso la vittoria del Grande Risveglio.

Se aggiungiamo il trumpismo statunitense, il populismo europeo (sia di destra che di sinistra), la Cina, il mondo islamico e la Russia, e prevediamo che a un certo punto anche la grande civiltà indiana, l’America Latina e l’Africa, che sta entrando in un altro ciclo di decolonizzazione, e tutti i popoli e le culture dell’umanità in generale possano unirsi a questo campo, non abbiamo semplici pedine marginali, sparse e confuse che cercano di opporsi alle potenti élite liberali che stanno portando l’umanità al massacro finale, ma un vero e proprio fronte che comprende attori di varie scale, dalle grandi potenze con economie planetarie e armi nucleari alle influenti e numerose forze e correnti politiche, religiose e sociali.

 

Il potere dei globalisti, dopo tutto, si basa su insinuazioni e “miracoli neri”. Essi dominano non sulla base di un potere reale, ma su illusioni, simulacri e immagini artificiali, che cercano maniacalmente di instillare nelle menti degli uomini.

 

Del resto, il Grande Reset è stato proclamato da un pugno di vecchi globalisti degeneri e ansimanti sull’orlo della demenza (come lo stesso Biden, l’avvizzita canaglia Soros, o il grasso borghese Schwab) e da una marmaglia marginale e pervertita selezionata per illustrare le fulminee opportunità di carriera per tutti i “deplorables”.

 Naturalmente, hanno le borse e la stampa, i truffatori di Wall Street e i drogati inventori della Silicon Valley che lavorano per loro.

 I disciplinati agenti dell’intelligence e gli obbedienti generali dell’esercito sono subordinati a loro.

Ma questo è trascurabile rispetto a tutta l’umanità, agli uomini di lavoro e di pensiero, alla profondità delle istituzioni religiose e alla ricchezza fondamentale delle culture.

Il Grande Risveglio sta ad indicare che abbiamo carpito l’essenza di quella strategia fatale, assassina e suicida del “progresso” come la intendono le élite liberali globaliste.

 E se la comprendiamo, allora siamo capaci di spiegarla agli altri.

 I risvegliati possono e devono risvegliare tutti gli altri. E se riusciamo in questo, non solo il “Grande Reset” fallirà, ma un giusto verdetto sarà emesso su coloro che hanno fatto della distruzione dell’umanità, prima nello spirito e ora nel corpo, il loro scopo.

(Alexander Dugin ).

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