L’ideologia globalista di una sola potenza non è realizzabile.
L’ideologia globalista di una
sola
potenza non è realizzabile.
L’ideologia
globalista dell’élite
di
Davos: conoscere
per intervenire.
rEvoluzione.unoeditori.com-
D'Andreta Mario-(18-aprile 2019)- ci dice:
Migliorare
la comprensione per pianificare il cambiamento.
I
risultati della ricerca sociale di orientamento costruttivista e psicoanalitico
evidenziano come il comportamento umano sia guidato dai significati condivisi
dell’esperienza sociale soggettiva (Blumer 1969, Mead 1934, Berger and Luckmann
1966, Moscovici 1961, Matte Blanco 1975, Carli 1993).
Questa
prospettiva di analisi dei fenomeni sociali può essere utilizzata per comprendere
i fattori culturali alla base dell’azione politica ed economica delle élite globali, che ci ha portato all’attuale stato
di crisi sociale, economica ed ambientale.
La
comprensione di questi significati, infatti, può consentire di identificare
possibili efficaci strategie di intervento per indurre un cambiamento mirato
dello status quo, orientato a sviluppare una maggiore democrazia nei processi
di governance globale, una maggiore giustizia economico-sociale e qualità della
vita, volte a rafforzare i processi di convivenza civile a livello globale.
Questo
tipo di conoscenza orientata all’intervento per il cambiamento, come
evidenziato dalla recente letteratura di matrice psicosociologica (Carli e
Paniccia 2002), può essere ottenuta attraverso l’analisi dei discorsi
socialmente prodotti intorno a temi di rilevanza collettiva, come in questo caso quello della globalizzazione, considerabile come il comune
orizzonte di senso (weltanschauung) che guida l’azione sociale nel mondo di
oggi.
Sulla base
di questi presupposti, ho condotto un’analisi del discorso sulla
globalizzazione del “World Economic Forum di Klaus Schwab”.
La
rappresentazione della globalizzazione nell‘élite di Davos che emerge da questa ricerca non
appare univoca e monolitica, ma piuttosto composta da quattro differenti
dimensioni culturali corrispondenti ai raggruppamenti (cluster) di parole dense ottenuti attraverso
l’analisi statistica dei testi in esame.
La
prima dimensione è caratterizzata dai seguenti elementi:
una
rappresentazione negativa dell’altro da sé come una massa anonima di persone
che agisce esclusivamente sulla base di fattori emotivi, invece che razionali, sulla base di parole dense quali
people e believe;
la
proposizione di tre principali frame simbolici per l’attribuzione di
significato alle esperienze di vita nell’era della globalizzazione, espressi
dalle parole
dense world, time e growth;
l’impatto
concreto che la globalizzazione ha sulla vita delle persone e soprattutto su
quella dei giovani (in relazione a parole dense quali impact e young people);
una
forma di pensiero basata sul determinismo genetico e una conoscenza pragmatica orientata
a prendere possesso della realtà attraverso la tecnologia (sulla base di parole dense quali engineer, think, history,
ready, accelerate, life, industry)
La
seconda dimensione ruota attorno ai seguenti tre aspetti:
la
speranza messianica nella dimensione della grandezza o grandiosità, espresse
dalle parole dense big e hope, in relazione a istituzioni finanziarie internazionali quali l’African
Development Bank e l’International Monetary Fund);
la
dinamica di dipendenza che queste istituzioni istituiscono con i loro
interlocutori, in funzione di un obbligo a pagare (in termini di “condizionalità” ed
interessi per restituire i prestiti ricevuti) che appare quasi come un dono
riparatore volto a placarne le possibili ritorsioni, rappresentate dalla minaccia
dell’inflazione e dell’imposizione di condizioni di vita al limite della
sopravvivenza (l’austerity), che tengono costantemente sotto pressione i paesi europei (in
relazione a parole dense quali stress, European countries, inflation, growth, strong,
pay, price, Greece, shock);
il
predominio del fattore economico nella definizione delle politiche pubbliche, secondo i dogmi del libero mercato
e del vantaggio personale (relativi a parole dense come policy, interest,
GDP, economy).
La
terza dimensione è focalizzata sui seguenti punti:
Il perseguimento del rafforzamento della capacità di
fornire, investire e gestire budget e fondi (relativo a parole dense come strengthen,
invest, budget, fund, manage, provide);
una visione distorta della competizione, basata sulla ricerca di condizioni di
privilegio per battere i propri concorrenti attraverso l’eliminazione di ogni
costrizione alla propria espansione, quali ad esempio le tasse, vissute come un’imposizione
autoritaria che limita la soddisfazione dei propri bisogni (legata alle parole dense competition, advantage,
need, tax);
la
conseguente esigenza di sviluppare un ordine sociale basato su un’idea di libertà
concepita come
assenza di restrizioni alla continua espansione e sviluppo di potere delle
élite, ai danni però dei suoi interlocutori,
rappresentati ad esempio da lavoratori posti in condizioni di sempre maggiore
precariato (espressa
dalle parole
dense freedom, forecast, rule¸boost, employee);
l’importanza
chiave degli strumenti cognitivi riguardo a capacità come percepire,
riconoscere, distinguere, scegliere e stabilire, nel perseguimento di questo
ideale di successo (relativi alle parole dense know, crisis, solve);
La
quarta dimensione comprende i seguenti elementi fondamentali:
il
ruolo delle istituzioni finanziarie sovranazionali (esemplificate in questo caso dall’Inter-American Development Bank
Group) nella
creazione di un nuovo tipo di colonialismo attraverso la pratica degli aiuti allo sviluppo, che di fatto si traduce in uno
scambio tra la condizione di sicurezza (psicologica, oltre che economica)
fornita ai paesi beneficiari (qui esemplificati dalla parola densa Latin America &
Caribbean)
mediante i
finanziamenti e la graduale espropriazione del potere politico ed economico di
questi ultimi, che li pone in una condizione di dipendenza e sudditanza (sempre psicologica,
oltre che economica) nei confronti dei propri finanziatori (in relazione alle parole dense sure,
respect¸establish, make decisions, benefit);
gli
effetti di schemi di finanziamento innovativi, come l’impact investment, che
pur essendo mirati a generare benefici sociali (insieme ai rendimenti finanziari), diventano di fatto un modo per
impossessarsi degli ultimi campi di intervento pubblico restanti quali il
welfare, la salute, l’istruzione e l’energia (relativi alle parole dense impact-investors, tool,
investor, finance, impact-investing);
la
necessità di integrare i paesi beneficiari degli aiuti allo sviluppo nel mito
di fare soldi nelle loro regioni, che però potrebbe anche essere letto come fare soldi attraverso le loro
regioni (rispetto
alle parole
dense making money e Regioni);
la
tendenza a interfacciarsi esclusivamente con l’élite imprenditoriale di questi
paesi,
quale strategia efficace per perseguire i propri obiettivi e tenersi al riparo dal
rischio di crisi (espressa dalle parole dense vis à vis, CEO, seek, approve, full, completely).
( La cultura dell’élite di Davos: tra
pretesa e adempimento.)
La
caratteristica centrale della cultura della globalizzazione dell’élite di Davos emersa da questa analisi è la carenza
di democrazia nei processi decisionali, sia a livello relazionale che
organizzativo.
A
livello relazionale, questo è espresso da specifici modelli di dinamiche
intersoggettive emozionali e motivazionali. Le prime si caratterizzano per i
seguenti elementi: la provocazione rappresentata dalla pretesa di imporre una
visione dogmatica della realtà, il controllo dell’adempimento degli obblighi che ne
derivano,
la sfiducia verso l’altro da sé (per la sua connotazione negativa ed il rischio di
mancato rimborso dei finanziamenti ricevuti), la preoccupazione e la lamentela
contro i limiti.
Queste
dinamiche emozionali rivelano un approccio alle relazioni sociali orientate al
possesso dell’altro piuttosto che a uno scambio produttivo e creativo con lui, che può essere letto come espressione
della paura nei confronti dell’altro e della sua ignota imprevedibilità,
derivante dalla sua rappresentazione come nemico.
Ciò
porta alla tendenza di tentare di trasformare l’altro sconosciuto in un amico
noto, dato per scontato e assimilato alle proprie categorie, nel tentativo di
eliminare la sua imprevedibilità ed il rischio delle sue possibili
manifestazioni di ostilità. Ciò, tuttavia, implica inevitabilmente la negazione delle
differenze e la perdita delle opportunità che esse offrono.
Lo
schema motivazionale risulta caratterizzato dalla prevalenza del bisogno di
potere come motivazione sociale dominante, articolata in tre dimensioni:
un modello gerarchico che contrappone l’élite
ai suoi interlocutori, la dimensione di grandiosità a chi spera in essa, gli
amministratori delegati ai lavoratori, i finanziatori ai beneficiari dei
finanziamenti; una dinamica polarizzata di appartenenza-esclusione dal sistema di potere, basata sulla dipendenza affettiva
verso l’altro (espressione del bisogno motivazionale di affiliazione nel modello di Mc
Clelland), indotta
dalla logica del sostegno finanziario ai programmi di sviluppo; ed una dinamica manipolativa basata
sulla contrapposizione tra apparenza e realtà, come evidenziato dal contrasto tra l’immagine positiva delle politiche
di assistenza allo sviluppo e l’espropriazione del potere politico ed economico
locale prodotto dalla sua logica esclusivamente finanziaria.
Per
quanto riguarda il livello organizzativo, la carenza di democrazia è espressa
da una concezione dogmatica e aprioristica delle istituzioni finanziarie
internazionali, radicata in una dimensione mitica che le fa percepire come
immutabili e poco inclini al cambiamento e al miglioramento.
Il funzionamento di queste organizzazioni appare infatti
basato quasi esclusivamente su un mandato sociale legato al rispetto di sistemi
di valori socialmente fondati, conformi ai loro fini, e su una funzione
sostitutiva nella fornitura dei loro servizi (aiuto allo sviluppo e gestione
delle crisi del debito sovrano), legata alla dimensione fortemente tecnocratica
che le caratterizza, in virtù della quale i tecnici (gli esperti) si
sostituiscono agli utenti dei loro servizi, espropriandoli del loro potere
decisionale. In tal modo, queste organizzazioni operano senza una vera committenza da
parte dei loro beneficiari e quindi non rispondono né sembrano ritenersi
responsabili delle esigenze, aspettative e obiettivi di questi ultimi, né
dell’efficacia dei servizi ad essi forniti.
(Cosa è possibile fare per cambiare
questo stato di cose?).
Sulla base di queste considerazioni, possono
essere ipotizzate diverse strategie di intervento per mutare lo scenario sin
qui evidenziato.
L’implementazione
di queste strategie richiede tuttavia un coinvolgimento attivo e responsabile
di tutti gli interlocutori delle élites globali. L’obiettivo principale legato alla
dimensione relazionale concerne la definizione e la messa in atto, in maniera
partecipativa, di nuove regole di gioco per la convivenza sociale che
consentano di contenere le possibili manifestazioni di ostilità entro la
relazione tra sistemi di appartenenza e l’ignota alterità dell’estraneo.
Questo
richiede di configurare l’altro non più come nemico o amico noto, ma come amico
sconosciuto,
da conoscere in una relazione di scambio reciproco, producendo creativamente
insieme per il bene comune.
Questo
modello di relazioni sociali permette di liberare il proprio potere creativo
(potere del fare), evitando il rischio di trasformare la propria eventuale
impotenza creativa e produttiva in forme di potere su qualcuno o qualcosa
(inteso come una forma di possesso).
Per
quanto riguarda la motivazione al potere, il passaggio da un modello
relazionale basato sul potere sull’altro a quello caratterizzato dallo scambio
produttivo con lui, consente di aggirare il modello gerarchico di relazione,
dirigendo l’attenzione su obiettivi e prodotti del rapporto con l’altro e sullo
sviluppo delle competenze necessarie per perseguirli in modo efficace.
Di
conseguenza, anche la dinamica dell’appartenenza, radicata nelle emozioni del
potere e dell’appartenenza, può cambiare, passando dal modello del possesso
dell’altro a quello dello scambio con l’altro.
In tal modo, superando il possesso dell’altro
come espressione dominante del potere, si possono anche contrastare le forme
manipolative del potere (come le attuali forme di assistenza allo sviluppo che
portano all’esproprio del potere locale), poiché il potere viene indirizzato
verso una più creativa costruzione del bene comune.
A
livello organizzativo, l’obiettivo principale del miglioramento riguarda il
passaggio da una logica di azione basata sull’adempimento ad una orientata ad
obiettivi e prodotti concordati, considerati come mezzi di verifica
dell’efficacia dell’azione sociale.
Ciò
consentirebbe di passare da una modalità organizzativa interamente basata sulla
legittimazione sociale ad una guidata dalla committenza di prodotti e servizi
verificabili da parte dei loro destinatari, in base alle loro esigenze e ai
loro obiettivi.
Di
conseguenza, i destinatari potrebbero aumentare il loro ruolo attivo nella
relazione con la funzione tecnica, che quindi potrebbe essere orientata ad
integrare il loro potere decisionale, facilitando lo sviluppo delle loro
competenze nel raggiungimento autonomo dei propri obiettivi.
Questo
richiede la messa in discussione, in modo sempre più dialettico e
argomentativo, del dogma della visione di sviluppo proposta dall’élite e di lavorare
sulla definizione e l’attuazione di ipotesi e modelli alternativi, ad esempio volti a re-inglobare
l’economia nella società e nella cultura, come proposto da Polanyi (1944) e
Granovetter (1985).
Per
promuovere questo processo di cambiamento della cultura organizzativa
dell’élite di Davos, è necessario, ad esempio, che i beneficiari delle istituzioni
finanziarie internazionali cambino il loro atteggiamento nei confronti di
queste organizzazioni, proponendosi come committenti che richiedono loro
servizi, sulla base di specifiche esigenze, obiettivi e prodotti attesi. Questi ultimi rappresentano,
infatti, i mezzi di verifica per valutare l’efficacia di queste organizzazioni
nel realizzare gli obiettivi proposti e promuovere il cambiamento ed il miglioramento
delle loro modalità di funzionamento. La precondizione per procedere
efficacemente in questa direzione è il cambiamento dell’immagine sociale degli
interlocutori dell’élite, superando la connotazione negativa ad essi attribuita
dall’élite con
la parola densa people, (etimologicamente riconducibile all’idea della classe infima
della popolazione), attraverso il recupero del senso della parola greca démos, che si
riferisce invece al potere di governo democratico dei cittadini.
Così
riconfigurati in termini di cittadinanza globale, gli interlocutori dell’élite
possono riacquistare autonomia decisionale e di autogoverno e promuovere la democratizzazione dal
basso dei sistemi politici di governo (in termini sia di democrazia partecipativa
che rappresentativa), in una prospettiva di costruzione collettiva e condivisa
del futuro comune.
Ciò
comporta il recupero del senso del bene pubblico, concepito come appartenente
alla collettività, in contrasto con il bene privato, che si riferisce a un
possesso esclusivo, che priva qualcuno di qualcosa.
Il
perseguimento di questo processo di trasformazione culturale richiede lo
sviluppo di competenze specifiche, orientate allo sviluppo di una cittadinanza
attiva e consapevole; il che può diventare anche l’obiettivo e il prodotto su cui
ricostruire il senso dello scopo sociale dell’educazione pubblica e della sua
efficacia produttiva.
Pecisazioni-
A e B.
A)-La
cultura dell’élite di Davos: tra pretesa e adempimento .
(DAVOS/SWITZERLAND,
28JAN06 – William J. Clinton, Founder, William Jefferson Clinton Foundation;
President of the United States (1993-2001), captured during the session ‘A
Conversation with’ at the Annual Meeting 2006 of the World Economic Forum in
Davos, Switzerland, January 28, 2006. Copyright by World Economic Forum
swiss-image.ch/Photo by Remy Steinegger.).
La
caratteristica centrale della cultura della globalizzazione dell’élite di Davos
emersa da questa analisi è la carenza di democrazia nei processi decisionali,
sia a livello relazionale che organizzativo.
A
livello relazionale, questo è espresso da specifici modelli di dinamiche
intersoggettive emozionali e motivazionali.
Le
prime si caratterizzano per i seguenti elementi: la provocazione rappresentata dalla
pretesa di imporre una visione dogmatica della realtà, il controllo
dell’adempimento degli obblighi che ne derivano, la sfiducia verso l’altro da
sé (per la sua connotazione negativa ed il rischio di mancato rimborso dei
finanziamenti ricevuti), la preoccupazione e la lamentela contro i limiti.
Queste
dinamiche emozionali rivelano un approccio alle relazioni sociali orientate al
possesso dell’altro piuttosto che a uno scambio produttivo e creativo con lui,
che può essere letto come espressione della paura nei confronti dell’altro e
della sua ignota imprevedibilità, derivante dalla sua rappresentazione come
nemico. Ciò porta alla tendenza di tentare di trasformare l’altro sconosciuto
in un amico noto, dato per scontato e assimilato alle proprie categorie, nel
tentativo di eliminare la sua imprevedibilità ed il rischio delle sue possibili
manifestazioni di ostilità. Ciò, tuttavia, implica inevitabilmente la negazione
delle differenze e la perdita delle opportunità che esse offrono.
Lo
schema motivazionale risulta caratterizzato dalla prevalenza del bisogno di
potere come motivazione sociale dominante, articolata in tre dimensioni: un
modello gerarchico che contrappone l’élite ai suoi interlocutori, la dimensione
di grandiosità a chi spera in essa, gli amministratori delegati ai lavoratori,
i finanziatori ai beneficiari dei finanziamenti; una dinamica polarizzata di
appartenenza/esclusione dal sistema di potere, basata sulla dipendenza
affettiva verso l’altro (espressione del bisogno motivazionale di affiliazione
nel modello di Mc Clelland), indotta dalla logica del sostegno finanziario ai
programmi di sviluppo; ed una dinamica manipolativa basata sulla
contrapposizione tra apparenza e realtà, come evidenziato dal contrasto tra
l’immagine positiva delle politiche di assistenza allo sviluppo e
l’espropriazione del potere politico ed economico locale prodotto dalla sua
logica esclusivamente finanziaria.
Per
quanto riguarda il livello organizzativo, la carenza di democrazia è espressa
da una concezione dogmatica e aprioristica delle istituzioni finanziarie
internazionali, radicata in una dimensione mitica che le fa percepire come
immutabili e poco inclini al cambiamento e al miglioramento. Il funzionamento
di queste organizzazioni appare infatti basato quasi esclusivamente su un
mandato sociale legato al rispetto di sistemi di valori socialmente fondati,
conformi ai loro fini, e su una funzione sostitutiva nella fornitura dei loro
servizi (aiuto allo sviluppo e gestione delle crisi del debito sovrano), legata
alla dimensione fortemente tecnocratica che le caratterizza, in virtù della
quale i tecnici (gli esperti) si sostituiscono agli utenti dei loro servizi,
espropriandoli del loro potere decisionale. In tal modo, queste organizzazioni
operano senza una vera committenza da parte dei loro beneficiari e quindi non
rispondono né sembrano ritenersi responsabili delle esigenze, aspettative e
obiettivi di questi ultimi, né dell’efficacia dei servizi ad essi forniti.
B)-
Cosa è possibile fare per cambiare questo stato di cose?
Sulla
base di queste considerazioni, possono essere ipotizzate diverse strategie di
intervento per mutare lo scenario sin qui evidenziato.
L’implementazione
di queste strategie richiede tuttavia un coinvolgimento attivo e responsabile
di tutti gli interlocutori delle élites globali. L’obiettivo principale legato
alla dimensione relazionale concerne la definizione e la messa in atto, in maniera
partecipativa, di nuove regole di gioco per la convivenza sociale che
consentano di contenere le possibili manifestazioni di ostilità entro la
relazione tra sistemi di appartenenza e l’ignota alterità dell’estraneo. Questo
richiede di configurare l’altro non più come nemico o amico noto, ma come amico
sconosciuto, da conoscere in una relazione di scambio reciproco, producendo
creativamente insieme per il bene comune. Questo modello di relazioni sociali
permette di liberare il proprio potere creativo (potere del fare), evitando il
rischio di trasformare la propria eventuale impotenza creativa e produttiva in
forme di potere su qualcuno o qualcosa (inteso come una forma di possesso). Per
quanto riguarda la motivazione al potere, il passaggio da un modello relazionale
basato sul potere sull’altro a quello caratterizzato dallo scambio produttivo
con lui, consente di aggirare il modello gerarchico di relazione, dirigendo
l’attenzione su obiettivi e prodotti del rapporto con l’altro e sullo sviluppo
delle competenze necessarie per perseguirli in modo efficace. Di conseguenza,
anche la dinamica dell’appartenenza, radicata nelle emozioni del potere e
dell’appartenenza, può cambiare, passando dal modello del possesso dell’altro a
quello dello scambio con l’altro. In tal modo, superando il possesso dell’altro
come espressione dominante del potere, si possono anche contrastare le forme
manipolative del potere (come le attuali forme di assistenza allo sviluppo che
portano all’esproprio del potere locale), poiché il potere viene indirizzato
verso una più creativa costruzione del bene comune.
A
livello organizzativo, l’obiettivo principale del miglioramento riguarda il
passaggio da una logica di azione basata sull’adempimento ad una orientata ad
obiettivi e prodotti concordati, considerati come mezzi di verifica
dell’efficacia dell’azione sociale. Ciò consentirebbe di passare da una
modalità organizzativa interamente basata sulla legittimazione sociale ad una
guidata dalla committenza di prodotti e servizi verificabili da parte dei loro
destinatari, in base alle loro esigenze e ai loro obiettivi. Di conseguenza, i
destinatari potrebbero aumentare il loro ruolo attivo nella relazione con la
funzione tecnica, che quindi potrebbe essere orientata ad integrare il loro
potere decisionale, facilitando lo sviluppo delle loro competenze nel
raggiungimento autonomo dei propri obiettivi. Questo richiede la messa in
discussione, in modo sempre più dialettico e argomentativo, del dogma della
visione di sviluppo proposta dall’élite e di lavorare sulla definizione e
l’attuazione di ipotesi e modelli alternativi, ad esempio volti a re-inglobare
l’economia nella società e nella cultura, come proposto da Polanyi (1944) e
Granovetter (1985).
Per
promuovere questo processo di cambiamento della cultura organizzativa
dell’élite di Davos, è necessario, ad esempio, che i beneficiari delle
istituzioni finanziarie internazionali cambino il loro atteggiamento nei
confronti di queste organizzazioni, proponendosi come committenti che
richiedono loro servizi, sulla base di specifiche esigenze, obiettivi e
prodotti attesi. Questi ultimi rappresentano, infatti, i mezzi di verifica per
valutare l’efficacia di queste organizzazioni nel realizzare gli obiettivi
proposti e promuovere il cambiamento ed il miglioramento delle loro modalità di
funzionamento. La precondizione per procedere efficacemente in questa direzione
è il cambiamento dell’immagine sociale degli interlocutori dell’élite,
superando la connotazione negativa ad essi attribuita dall’élite con la parola
densa people, (etimologicamente riconducibile all’idea della classe infima
della popolazione), attraverso il recupero del senso della parola greca démos,
che si riferisce invece al potere di governo democratico dei cittadini.
Così
riconfigurati in termini di cittadinanza globale, gli interlocutori dell’élite
possono riacquistare autonomia decisionale e di autogoverno e promuovere la
democratizzazione dal basso dei sistemi politici di governo (in termini sia di
democrazia partecipativa che rappresentativa), in una prospettiva di
costruzione collettiva e condivisa del futuro comune. Ciò comporta il recupero
del senso del bene pubblico, concepito come appartenente alla collettività, in
contrasto con il bene privato, che si riferisce a un possesso esclusivo, che
priva qualcuno di qualcosa. Il perseguimento di questo processo di
trasformazione culturale richiede lo sviluppo di competenze specifiche,
orientate allo sviluppo di una cittadinanza attiva e consapevole; il che può
diventare anche l’obiettivo e il prodotto su cui ricostruire il senso dello
scopo sociale dell’educazione pubblica e della sua efficacia produttiva.
La
fine dell'era Draghi.
Ilgiornale.it-Nicola
Porro- (11 Giugno 2022) – ci dice :
È
tramontata, finita l'era Draghi in Europa.
La
fine dell'era Draghi.
È
tramontata, finita l'era Draghi in Europa. L'ex presidente della Banca centrale,
oggi trasferitosi a Palazzo Chigi, aveva imposto una politica monetaria del
denaro facile.
Il
che, in soldoni, vuol dire stampare moneta facendo comprare alle banche
centrali titoli del debito pubblico e abbassare i tassi di interesse sotto zero. Si disse, allora, che, grazie a
questa politica, Draghi salvò la moneta unica.
Il suo
successore, la signora Lagarde, ha cambiato rotta. E lo ha fatto con un testacoda. Non solo ha detto che i tassi di
interesse, visti gli aumenti dei prezzi, devono risalire, la qual cosa era
ampiamente prevedibile.
Ha
fatto di più: non ha annunciato alcuna rete di protezione per la moneta unica,
nel caso riprendesse la speculazione. Questo «non detto» sta spaventando i
mercati.
Ieri
all'asta dei Bot, i titoli del nostro debito ad un anno, i tassi di interesse
sono schizzati dallo 0,1 per cento allo 0,9. Il differenziale (lo spread) tra i
nostri titoli a dieci anni e quelli tedeschi ha toccato quota 230 punti base:
nel senso che i nostri rendono il 2,3 per cento in più. La Borsa italiana ha fatto segnare il
crollo peggiore d'Europa, di circa il 5 per cento: ad affossarla non solo le
banche, zeppe di titoli di Stato che stanno perdendo valore, ma anche blue
chips come l'Eni, che dovrebbero invece beneficiare dei massimi del petrolio.La
morale è una sola: dopo le parole della Lagarde, è ritornato a soffiare in Europa il
pregiudizio sull'affidabilità dei conti pubblici italiani e sulla nostra
capacità di fare ancora debito. Insomma, è finito l'effetto Draghi e del suo
«whatever it takes».
Il
paradosso è che oggi Mario Draghi è a Palazzo Chigi. E secondo molti avrebbe dovuto
rappresentare una garanzia. Ieri i mercati non hanno ragionato così.
Un po'
per colpa nostra. In questi anni, anche con Super-Mario, abbiamo aumentato la
nostra spesa pubblica. Tra pochi giorni il governo Draghi elargirà un bonus da 200
euro a milioni di italiani, per 6,5 miliardi, che avrebbe potuto inventarsi anche
uno spendaccione della Prima Repubblica.
D'altra
parte la Bce ha cambiato maggioranza: i falchi comandano. E non hanno nessuna intenzione di
adottare un atterraggio morbido dalla politiche della vecchia gestione. Hanno fatto capire che sono più interessati
all'inflazione (il che non è ovviamente irragionevole, essendo questa la più
ingiusta delle tasse) che alla tenuta dei cosiddetti Paesi periferici (Italia
in primis).
Si
potrebbe dire molto sulla droga immessa sul mercato, da Draghi in poi, stampando
moneta come se non ci fosse un domani.
Quel
che è certo è che togliere ai drogati la merce tossica tutto in un botto e per
di più nel mezzo di una guerra, non è l'atteggiamento più corretto: a meno che non si voglia far crepare
il tossico.
LA
NUOVA POLITICA ESTERA
DELLA
RUSSIA, LA DOTTRINA PUTIN.
Cese-m.eu-
Sergey Karaganov-(3 Marzo 2022)- ci dice :
(Il
professor Sergey Karaganov, è il presidente onorario del Consiglio russo per la
politica estera e di difesa e supervisore accademico presso la School of
International Economics and Foreign Affairs Higher School of Economics (HSE) di
Mosca.).
Il
confronto di Mosca con la NATO è solo all’inizio.
Sembra
che la Russia sia entrata in una nuova era della sua politica estera: una fase di “distruzione costruttiva“, chiamiamola così, del precedente modello di relazioni
con l’Occidente.
Parti
di questo nuovo modo di pensare sono state viste negli ultimi 15 anni – a
partire dal famoso discorso di Monaco di Vladimir Putin nel 2007 – ma molto sta
diventando chiaro soltanto adesso.
Pur
mantenendo un atteggiamento ostinatamente difensivo, allo stesso tempo gli sforzi poco
brillanti per integrarsi nel sistema occidentale sono rimasti la tendenza
generale nella politica e nella retorica russa.
La
distruzione costruttiva non è aggressiva.
La
Russia sostiene che non attaccherà nessuno o lo farà saltare in aria.
Semplicemente non è necessario. Così come si presenta, il mondo
esterno offre alla Russia sempre più opportunità geopolitiche per lo sviluppo a
medio termine.
Con
una grande eccezione: l’espansione della NATO e l’inclusione formale o informale
dell’Ucraina rappresentano un rischio per la sicurezza del Paese; un rischio
che Mosca semplicemente non accetterà.
Al
momento, l’Occidente è sulla buona strada per un lento ma inevitabile
decadimento sia in termini di affari interni ed esterni, sia in campo economico.
Ed è proprio per questo che ha dato inizio a questa
nuova Guerra Fredda dopo quasi cinquecento anni di dominio della politica,
dell’economia e della cultura mondiale. Soprattutto dopo la sua vittoria
decisiva negli anni ’90 e metà degli anni 2000.Credo che molto probabilmente l’Occidente
perderà, abdicando dal ruolo di leader globale e diventando un partner più
ragionevole. In un secondo momento, non troppo presto, la Russia dovrà riequilibrare i
rapporti con una Cina amica sì, ma sempre più potente.
Attualmente,
l’Occidente cerca disperatamente di difendersi da questo con una retorica
aggressiva. Cerca di consolidarsi, giocando le sue ultime carte vincenti per
invertire questa tendenza. Una di quelle che sta cercando di usare per
danneggiare e neutralizzare la Russia è l’Ucraina.
È
importante impedire che questi tentativi convulsi si trasformino in una vera e
propria situazione di stallo e contrastare le attuali politiche degli Stati
Uniti e della NATO. Sono tentativi controproducenti e pericolosi, anche se
relativamente poco impegnativi per chi li inizia.
Dobbiamo
ancora convincere l’Occidente che sta solo facendo del male a sé stesso.
Un’altra
carta vincente da giocare è il ruolo dominante dell’Occidente nel sistema di
sicurezza euro-atlantico esistente; sistema istituito in un momento, a seguito
della Guerra Fredda, in cui la Russia era gravemente indebolita.
C’è del merito nel cancellare gradualmente
questo sistema, principalmente rifiutando di prendervi parte e rispettando le
sue regole obsolete, che per noi sono intrinsecamente svantaggiose.
Per la
Russia, la pista occidentale dovrebbe diventare secondaria rispetto alla sua
diplomazia eurasiatica. Il mantenimento di relazioni costruttive con i Paesi
della parte occidentale del continente può facilitare l’integrazione nella
Grande Eurasia per la Russia. Il vecchio sistema però è d’intralcio e quindi dovrebbe
essere smantellato.
Sarebbe
bello se avessimo più tempo per farlo. Ma la storia mostra che, dal crollo
dell’URSS avvenuto 30 anni fa, poche nazioni post-sovietiche sono riuscite a
diventare veramente indipendenti.
E
alcune potrebbero anche non arrivarci mai, per vari motivi. Questo è un
argomento per un’analisi futura.
In
questo momento, posso solo sottolineare l’ovvio: la maggior parte delle élite locali
non ha l’esperienza storica o culturale della costruzione dello Stato.
Non sono mai stati in grado di diventare il
fulcro della nazione, non hanno avuto abbastanza tempo per questo. Quando lo
spazio intellettuale e culturale condiviso è scomparso, ha danneggiato di più i
piccoli Paesi. Le nuove opportunità per costruire legami con l’Occidente non si sono
rivelate sostitutive. Coloro che si sono trovati al timone di tali nazioni
hanno venduto il loro Paese a proprio vantaggio, perché non c’era un’idea
nazionale per cui lottare.
La
maggior parte di questi paesi seguirà l’esempio degli Stati baltici, accettando il controllo esterno
oppure continuerà a perdere il controllo, cosa che in alcuni casi può essere
estremamente pericolosa.
La
domanda è: come
“unire” le nazioni nel modo più efficiente e vantaggioso per la Russia, tenendo
conto dell’esperienza zarista e sovietica, quando la sfera di influenza è stata
estesa oltre ogni ragionevole limite e poi tenuta insieme a spese del nucleo
Popoli russi?
Lasciamo
per un altro giorno la discussione sull'”unificazione” che la storia ci impone.
Questa
volta, concentriamoci sulla necessità oggettiva di prendere una decisione
difficile e adottare la politica della “distruzione costruttiva“.
Le
pietre miliari che abbiamo superato.
Oggi
assistiamo all’inizio
della quarta era della politica estera russa.La prima è iniziata alla fine degli
anni ’80, ed è stato un periodo di debolezza e delusioni. La nazione aveva perso la voglia di
combattere, la gente voleva credere alla democrazia e che l’Occidente sarebbe
venuto a salvarli.
Tutto finì nel 1999 dopo le prime ondate di
espansione della NATO, quando l’Occidente fece a pezzi ciò che restava della
Jugoslavia, viste dai russi come una pugnalata alle spalle.
Poi la
Russia ha iniziato ad alzarsi e ricostruire sempre più di nascosto, pur
apparendo amichevole e umile.
Il ritiro degli Stati Uniti dal Trattato ABM
ha segnalato l’intenzione di riconquistare il proprio dominio strategico,
quindi la Russia ancora al verde ha preso la decisione fatale di sviluppare
sistemi d’arma per sfidare le aspirazioni americane.
Il
discorso di Monaco, la guerra georgiana e la riforma dell’esercito, condotti nel mezzo di una crisi
economica globale che segnò la fine dell’imperialismo globalista liberale
occidentale (termine coniato da un eminente esperto di affari internazionali,
Richard Sakwa) ha segnato il nuovo obiettivo per la Russia in politica estera:
diventare ancora una volta una potenza mondiale leader in grado di difendere la
propria sovranità e i propri interessi.
A ciò sono seguiti gli eventi in Crimea, in
Siria, la formazione militare e il blocco dell’Occidente dall’interferire negli
affari interni della Russia, sradicando dal servizio pubblico coloro che hanno
collaborato con l’Occidente a svantaggio della loro patria, usando anche
magistralmente la reazione occidentale a quegli sviluppi. Man mano che le tensioni continuavano
a crescere, guardare all’Occidente e mantenervi risorse diventava sempre meno
redditizio.
L’incredibile
ascesa della Cina e il fatto di diventare alleati de facto con Pechino a
partire dagli anni 2010, il perno verso Est, e la crisi multidimensionale che ha
avvolto l’Occidente hanno portato a un grande cambiamento nell’equilibrio
politico e geoeconomico a favore della Russia.
Ciò è
particolarmente pronunciato in Europa.
Solo
un decennio fa, l’UE vedeva la Russia come una periferia arretrata e debole del
continente, un Paese che cercava di fare i conti con le grandi potenze.
Ora
sta cercando disperatamente di aggrapparsi all’indipendenza geopolitica e
geoeconomica che gli sta scivolando di mano.
Il
periodo del “ritorno alla grandezza” è terminato tra il 2017 e il 2018.
Successivamente,
la Russia ha raggiunto un punto fermo. La modernizzazione è continuata, ma
l’economia debole ha minacciato di negare i suoi risultati.
Le
persone (me compreso) erano frustrate, temendo che la Russia ancora una volta
avrebbe “strappato la sconfitta dalle fauci della vittoria“.
Ma
quello si è rivelato essere un altro periodo di crescita, principalmente in termini di
capacità di difesa.
L’ultimatum
che la Russia ha emesso agli Stati Uniti e alla NATO alla fine del 2021, chiedendo loro
di interrompere lo sviluppo di infrastrutture militari vicino ai confini russi
e l’espansione a Est, ha segnato l’inizio della “distruzione costruttiva“.
L’obiettivo non è semplicemente fermare la
debole, seppur pericolosissima inerzia della spinta geostrategica
dell’Occidente, ma anche iniziare a gettare le basi per un nuovo tipo di relazioni tra
Russia e Occidente, diverso da quello su cui ci siamo stabiliti negli anni ’90.
Le
capacità militari della Russia, il ritorno del senso di rettitudine morale, le
lezioni apprese dagli errori del passato e una stretta alleanza con la Cina
potrebbero significare che l’Occidente, che ha scelto il ruolo di avversario,
inizierà a essere ragionevole, anche se non sempre.
Tra un decennio o prima, spero, quindi, verrà
costruito un nuovo sistema di sicurezza e cooperazione internazionale che questa volta includerà l’intera
Grande Eurasia, e sarà basato sui principi delle Nazioni Unite e sul diritto
internazionale, non su “regole” unilaterali che l’Occidente ha cercato di
imporre al mondo negli ultimi decenni.
Correggere
gli errori.
Prima
di andare oltre, lasciatemi dire che ho un’ottima opinione della diplomazia
russa: è stata assolutamente brillante negli ultimi 25 anni. Mosca pur
ricevendo una mano debole, è comunque riuscita a giocare un’ottima partita. In
primo luogo, non ha permesso all’Occidente di “finirla”. La Russia ha mantenuto
il suo status formale di grande Paese, mantenendo l’appartenenza permanente al
Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e mantenendo arsenali nucleari. Poi
ha gradualmente migliorato la sua posizione globale facendo leva sui punti
deboli dei suoi rivali e sui punti di forza dei suoi partner.
Costruire
una forte amicizia con la Cina è stato un risultato importante. La Russia ha
alcuni vantaggi geopolitici che l’Unione Sovietica non aveva. A meno che,
ovviamente, non torni alle aspirazioni di diventare una superpotenza globale,
che alla fine ha rovinato l’URSS.
Tuttavia,
non dobbiamo dimenticare gli errori che abbiamo commesso per non ripeterli.
Sono state la nostra pigrizia, debolezza e inerzia burocratica che hanno contribuito
a creare e mantenere a galla il sistema ingiusto e instabile di sicurezza
europea che abbiamo oggi.
La
Carta di Parigi per una Nuova Europa, dalla bella formulazione, firmata nel
1990 conteneva una dichiarazione sulla libertà di associazione: i Paesi
potevano scegliere i loro alleati, cosa che sarebbe stata impossibile ai sensi
della Dichiarazione di Helsinki del 1975.
Poiché
a quel punto il Patto di Varsavia era in fermento, questa clausola significava
che la NATO sarebbe stata libera di espandersi. Questo è il documento a cui
tutti continuano a fare riferimento, anche in Russia.
Nel
1990, tuttavia, la NATO poteva almeno essere considerata un’organizzazione di
“difesa”. Da allora l’Alleanza e la maggior parte dei suoi membri hanno lanciato
una serie di campagne militari aggressive – contro i resti della Jugoslavia,
così come in Iraq e Libia.
Dopo
una chiacchierata a cuore aperto con Lech Walesa nel 1993, Boris Eltsin firmò
un documento in cui si affermava che la Russia “aveva compreso il piano della
Polonia di aderire alla NATO“.
Quando
Andrey Kozyrev, all’epoca ministro degli Esteri russo, venne a conoscenza dei
piani di espansione della NATO nel 1994, iniziò un processo di trattativa per
conto della Russia senza consultare il Presidente. L’altra parte lo ha preso
come un segno che la Russia era d’accordo con il concetto generale, dal momento
che stava cercando di negoziare condizioni accettabili.
Nel
1995 Mosca ha frenato, ma era troppo tardi: la diga è esplosa e ha spazzato via
ogni riserva sugli sforzi di espansione dell’Occidente.
Essendo
economicamente debole e completamente dipendente dall’Occidente, nel 1997 la
Russia ha firmato il Founding Act on Mutual Relations, Cooperation and Security
con la NATO. Mosca è stata in grado di ottenere alcune concessioni
dall’Occidente, come l’impegno a non schierare grandi unità militari nei nuovi
Stati membri.
La
NATO ha costantemente violato questo obbligo. Un altro accordo era di mantenere
questi territori liberi dalle armi nucleari. Gli Stati Uniti non l’avrebbero
comunque voluto, perché avevano cercato di prendere le distanze il più
possibile da un potenziale conflitto nucleare in Europa (malgrado i desideri
dei loro alleati), poiché questo scenario avrebbe senza dubbio causato un
attacco nucleare contro l’America. In realtà, il documento legittimava
l’espansione della NATO.
C’erano
altri errori, non così gravi, ma comunque estremamente dolorosi. La Russia ha
partecipato al programma Partnership for Peace, il cui unico scopo era far
sembrare che la NATO fosse pronta ad ascoltare Mosca, ma in realtà l’Alleanza
stava usando il progetto per giustificarne l’esistenza e l’ulteriore
espansione. Un altro passo falso frustrante è stato il nostro coinvolgimento
nel Consiglio NATO-Russia dopo l’aggressione in Jugoslavia. Gli argomenti
discussi a quel livello mancavano disperatamente di sostanza. Avrebbero dovuto
concentrarsi sulla questione veramente significativa: frenare l’espansione
dell’Alleanza e la costruzione delle sue infrastrutture militari vicino ai
confini russi. Purtroppo, questo non è mai arrivato all’ordine del giorno. Il
Consiglio ha continuato ad operare anche dopo che la maggior parte dei membri
della NATO ha iniziato una guerra in Iraq e poi in Libia nel 2011.
È
davvero un peccato che non abbiamo mai avuto il coraggio di dirlo apertamente:
la NATO era diventata un aggressore che ha commesso numerosi crimini di guerra.
Questa sarebbe stata una verità che fa riflettere per vari circoli politici in
Europa, come ad esempio in Finlandia e Svezia, dove alcuni stanno valutando i
vantaggi di entrare a far parte dell’Organizzazione. E tutti gli altri, del
resto, con il loro mantra sul fatto che la NATO sia un’alleanza di difesa e
deterrenza che deve essere ulteriormente consolidata in modo da poter resistere
contro nemici immaginari.
Capisco
quelli in Occidente che sono abituati al sistema esistente che consente agli
americani di acquistare l’obbedienza dei loro partner minori, e non solo in
termini di supporto militare, mentre questi alleati possono risparmiare sulle
spese di sicurezza vendendo parte della loro sovranità. Ma cosa ci guadagniamo
da questo sistema? Soprattutto ora che è diventato ovvio che genera e
intensifica il confronto ai nostri confini occidentali e nel mondo intero.
Il
blocco è una minaccia anche per i suoi membri. Pur provocando il confronto, in
realtà non garantisce protezione. Non è vero che l’articolo 5 del Trattato del
Nord Atlantico giustifichi la difesa collettiva se un alleato viene attaccato.
Questo articolo non dice che questo è automaticamente garantito. Conosco la
storia del blocco e le discussioni in America riguardo alla sua istituzione. So
per certo che gli Stati Uniti non dispiegheranno mai armi nucleari per
“proteggere” i loro alleati in caso di conflitto con uno Stato nucleare.
Anche
l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE) è
obsoleta. È dominata dalla NATO e dall’UE che utilizzano l’organizzazione per
trascinare il confronto e imporre i valori e gli standard politici occidentali
a tutti gli altri.
Fortunatamente,
questa politica sta diventando sempre meno efficace.
A metà
degli anni 2010 ho avuto la possibilità di lavorare con il Gruppo di eminenti
personalità dell’OSCE (che nome!), che avrebbe dovuto sviluppare un nuovo
mandato per l’Organizzazione. E se prima avevo i miei dubbi sull’efficacia
dell’OSCE, questa esperienza mi ha convinto che si tratta di un’istituzione
estremamente distruttiva.
È
un’organizzazione antiquata con la missione di preservare le cose obsolete.
Negli anni ’90 è servito come strumento per seppellire qualsiasi tentativo
compiuto dalla Russia o da altri per creare un sistema di sicurezza europeo
comune; negli anni 2000, il cosiddetto Processo di Corfù ha impantanato la
nuova iniziativa di sicurezza della Russia.
Praticamente
tutte le istituzioni delle Nazioni Unite sono state espulse dal continente,
compresa la Commissione economica per l’Europa delle Nazioni Unite, il
Consiglio per i diritti umani e il Consiglio di sicurezza. Un tempo l’OSCE era considerata
un’organizzazione utile che avrebbe promosso il sistema e i principi delle
Nazioni Unite in un subcontinente chiave. Questo non è successo.
Per
quanto riguarda la NATO, è molto chiaro cosa dobbiamo fare. Dobbiamo minare la
legittimità morale e politica del blocco e rifiutare qualsiasi partnership
istituzionale, poiché la sua controproduttività è evidente. Solo i militari
dovrebbero continuare a comunicare, ma come canale ausiliario che integri il
dialogo con il Dipartimento della Difesa e i Ministeri della Difesa delle
principali nazioni europee. Dopotutto, non è Bruxelles a prendere decisioni
strategicamente importanti.
La
stessa politica potrebbe essere adottata nei riguardi dell’OSCE. Sì, c’è una
differenza, perché anche se questa è un’organizzazione distruttiva, non ha mai
avviato guerre, destabilizzazione o uccisioni. Quindi dobbiamo ridurre al
minimo il nostro coinvolgimento in questo formato.
Alcuni
dicono che questo è l’unico contesto che offre al ministro degli Esteri russo
la possibilità di vedere i suoi omologhi. Quello non è vero.
L’ONU
può offrire un contesto ancora migliore. I colloqui bilaterali sono comunque
molto più efficaci, perché è più facile per il blocco dirottare l’agenda quando
c’è una folla. Anche l’invio di osservatori e forze di pace attraverso le
Nazioni Unite avrebbe molto più senso.
Il
formato limitato dell’articolo non mi consente di soffermarmi su politiche
specifiche per ciascuna organizzazione europea, come ad esempio il Consiglio
d’Europa. Ma definirei il principio generale in questo modo: collaboriamo dove
vediamo vantaggi per noi stessi e manteniamo le distanze altrimenti.
Trent’anni
nell’attuale sistema delle istituzioni europee hanno dimostrato che continuare
con esso sarebbe stato dannoso. La Russia non beneficia in alcun modo della
disposizione dell’Europa verso l’allevamento e l’escalation del confronto o
addirittura a rappresentare una minaccia militare per il subcontinente e il
mondo intero. In passato, potevamo sognare che l’Europa ci avrebbe aiutato a
rafforzare la sicurezza, nonché la modernizzazione politica ed economica.
Invece, stanno minando la sicurezza, quindi perché dovremmo copiare il sistema
politico disfunzionale e in deterioramento dell’Occidente? Abbiamo davvero
bisogno di questi nuovi valori che hanno adottato?
Dovremo
limitarne l’espansione rifiutando di cooperare all’interno di un sistema in
erosione. Si spera che, prendendo una posizione ferma e lasciando i nostri
vicini della civiltà dell’Occidente a se stessi, li aiuteremo davvero. Le élite
potrebbero tornare a una politica meno suicida che sarebbe più sicura per
tutti. Ovviamente, dobbiamo essere intelligenti nel toglierci dall’equazione e
assicurarci di ridurre al minimo i danni collaterali che inevitabilmente il
sistema in errore causerà. Ma mantenerlo nella sua forma attuale è
semplicemente pericoloso.
Politiche
per la Russia di domani
Mentre
l’ordine globale esistente continua a sgretolarsi, sembra che la via più
prudente per la Russia sia quella di restarne fuori il più a lungo possibile –
mettersi, cioè, al riparo tra le mura della sua “fortezza neo-isolazionista” e
occuparsi di questioni interne. Ma questa volta, la storia ci chiede di agire.
Molti dei miei suggerimenti riguardo all’approccio di politica estera che ho
provvisoriamente chiamato “distruzione costruttiva” emergono naturalmente
dall’analisi presentata sopra.
Non
c’è bisogno di interferire o cercare di influenzare le dinamiche interne
dell’Occidente, le cui élite sono abbastanza disperate da iniziare una nuova guerra
fredda contro la Russia. Quello che dovremmo fare invece è utilizzare vari
strumenti di politica estera, compresi quelli militari, per stabilire alcune
linee rosse. Nel frattempo, mentre il sistema occidentale continua a orientarsi
verso il degrado morale, politico ed economico, le potenze non occidentali (con
la Russia come attore principale) vedranno inevitabilmente rafforzarsi le loro
posizioni geopolitiche, geoeconomiche e geoideologiche.
I
nostri partner occidentali, prevedibilmente, cercano di reprimere le richieste
russe di garanzie di sicurezza e di sfruttare il processo diplomatico in corso
per prolungare la durata delle proprie istituzioni. Non c’è bisogno di
rinunciare al dialogo o alla cooperazione in materia di commercio, politica,
cultura, istruzione e sanità, ogni volta che è utile. Ma dobbiamo anche usare
il tempo che abbiamo per aumentare la pressione politico-militare, psicologica
e persino tecnico-militare – non tanto sull’Ucraina, il cui popolo è stato
trasformato in carne da cannone per una nuova Guerra Fredda – ma sull’Occidente
collettivo, per costringerlo a cambiare idea e a fare un passo indietro
rispetto alle politiche che ha perseguito negli ultimi decenni.
Non
c’è nulla da temere per l’escalation del confronto: abbiamo visto crescere le
tensioni anche mentre la Russia cercava di placare il mondo occidentale. Quello
che dovremmo fare è prepararci a un più forte respingimento da parte
dell’Occidente; inoltre, la Russia dovrebbe essere in grado di offrire al mondo
un’alternativa a lungo termine: un nuovo quadro politico basato sulla pace e
sulla cooperazione.
Naturalmente,
è utile ricordare di tanto in tanto ai nostri partner che esiste un’alternativa
reciprocamente vantaggiosa a tutto ciò.
Se la
Russia metterà in atto politiche ragionevoli ma decise (anche a livello
nazionale), supererà con successo (e in modo relativamente pacifico) l’ultima
ondata di ostilità occidentale. Come ho scritto prima, abbiamo buone
possibilità di vincere questa Guerra Fredda.
Ciò
che ispira anche l’ottimismo è il record passato della Russia: siamo riusciti
più di una volta a domare le ambizioni imperiali delle potenze straniere – per
il nostro bene e per il bene dell’umanità nel suo insieme. La Russia è stata in
grado di trasformare aspiranti imperi in vicini addomesticati e relativamente
innocui: la Svezia dopo la battaglia di Poltava, la Francia dopo Borodino, la
Germania dopo Stalingrado e Berlino.
Possiamo
trovare uno slogan per la nuova politica russa nei confronti dell’Occidente in
un verso di “Gli Sciti” di Alexander Blok, una poesia brillante che sembra
particolarmente attuale oggi:
“Unisciti
a noi, allora! Lascia la guerra e gli allarmi della guerra,
E
afferra la mano della pace e dell’amicizia.
Finché
c’è ancora tempo, compagni, abbassate le braccia!
Uniamoci
in vera fraternità!”
Nel
tentativo di sanare le nostre relazioni con l’Occidente (anche se ciò richiede
una medicina amara), dobbiamo ricordare che, sebbene culturalmente vicino a
noi, il mondo occidentale sta finendo il suo tempo. È essenzialmente in
“modalità di controllo dei danni”, cercando la cooperazione quando possibile.
Le vere prospettive e sfide del nostro presente e futuro risiedono nell’Est e
nel Sud. Prendere una linea più dura con le nazioni occidentali non deve distrarre
la Russia dal mantenere il suo perno verso Est. E abbiamo visto questo perno
rallentare negli ultimi due o tre anni, specialmente quando si tratta di
sviluppare territori al di là dei Monti Urali.
Non
dobbiamo permettere che l’Ucraina diventi una minaccia alla sicurezza per la
Russia. Detto questo, sarebbe controproducente spendervi troppe risorse
amministrative e politiche (per non dire economiche). La Russia deve imparare a
gestire attivamente questa situazione instabile, a mantenerla entro i limiti.
La maggior parte dell’Ucraina è stata sterilizzata dalla propria élite
antinazionale, corrotta dall’Occidente e infettata dal virus patogeno del
nazionalismo militante.
Sarebbe
molto più efficace investire in Oriente, nello sviluppo della Siberia. Creando
condizioni di lavoro e di vita favorevoli, attireremo non solo cittadini russi,
ma anche persone provenienti da altre parti dell’ex Impero russo, compresi gli
ucraini. Questi ultimi, storicamente, hanno contribuito moltissimo allo
sviluppo della Siberia.
Consentitemi
di ribadire un punto trattato in altri dei miei articoli: è stata
l’incorporazione della Siberia sotto Ivan il Terribile che ha reso la Russia
una grande potenza, non l’adesione dell’Ucraina sotto Aleksey Mikhaylovich,
noto con il soprannome di “il più pacifico”. È giunto il momento di smetterla
di ripetere l’affermazione falsa e così sorprendentemente polacca di Zbigniew
Brzezinski secondo cui la Russia non può essere una grande potenza senza
l’Ucraina. Il contrario è molto più vicino alla verità: la Russia non può
essere una grande potenza quando è gravata da un’Ucraina sempre più
ingombrante, un’entità politica creata da Lenin che in seguito si espanse verso
Ovest sotto Stalin.
Il
percorso più promettente per la Russia è lo sviluppo e il rafforzamento dei
legami con la Cina. Una partnership con Pechino moltiplicherà molte volte il
potenziale di entrambi i Paesi. Se l’Occidente continuerà con le sue politiche
amaramente ostili, non sarebbe irragionevole considerare un’alleanza temporanea
di difesa di cinque anni con la Cina.
Naturalmente
bisogna anche stare attenti a non avere le ‘vertigini di successo’ sulla pista
cinese, per non tornare al modello medievale del Regno di Mezzo della Cina,
cresciuto trasformando i suoi vicini in vassalli. Dovremmo aiutare Pechino in
ogni modo possibile per evitare che subisca una sconfitta anche momentanea
nella nuova Guerra Fredda scatenata dall’Occidente.
Questa
sconfitta indebolirebbe anche noi.
Inoltre,
sappiamo fin troppo bene in cosa si trasforma l’Occidente quando pensa di
vincere. Ci sono voluti alcuni duri rimedi per curare la sbornia dell’America
dopo che si era ubriacata di potere negli anni ’90.
Chiaramente,
una politica orientata all’Est non deve concentrarsi esclusivamente sulla Cina.
Sia l’Est che il Sud sono sempre più rilevanti nella politica, nell’economia e
nella cultura globali, il che è in parte dovuto al nostro indebolimento della
superiorità militare dell’Occidente, la fonte primaria dei suoi 500 anni di
egemonia.
Quando
arriverà il momento di stabilire un nuovo sistema di sicurezza europeo che
sostituisca quello esistente pericolosamente obsoleto, lo si dovrà fare nel
quadro di un più grande progetto eurasiatico. Nulla di utile può nascere dal
vecchio sistema euro-atlantico.
È
evidente che il successo richiede lo sviluppo e la modernizzazione del
potenziale economico, tecnologico e scientifico del Paese, tutti pilastri della
potenza militare di un Paese, che rimane la spina dorsale della sovranità e
della sicurezza di qualsiasi nazione. La Russia non può avere successo senza
migliorare la qualità della vita per la maggior parte della sua popolazione:
questo include prosperità generale, assistenza sanitaria, istruzione e
ambiente.
La
restrizione delle libertà politiche, inevitabile di fronte all’Occidente
collettivo, non deve in alcun modo estendersi alla sfera intellettuale. Questo
è difficile ma realizzabile. Per la parte della popolazione talentuosa e
creativa che è pronta a servire il proprio Paese, dobbiamo preservare quanta
più libertà intellettuale possibile. Lo sviluppo scientifico attraverso le
“sharashka” in stile sovietico (laboratori di ricerca e sviluppo che operano
all’interno del sistema dei campi di lavoro sovietici) non è qualcosa che
funzionerebbe nel mondo moderno.
La
libertà accresce i talenti del popolo russo e l’inventiva scorre nel nostro
sangue. Anche in politica estera, la libertà dai vincoli ideologici di cui
godiamo ci offre enormi vantaggi rispetto ai nostri vicini più chiusi. La
storia ci insegna che la brutale restrizione della libertà di pensiero imposta
dal regime comunista al suo popolo ha portato l’Unione Sovietica alla rovina.
La conservazione della libertà personale è una condizione essenziale per lo
sviluppo di qualsiasi nazione.
Se
vogliamo crescere come società ed essere vittoriosi, è assolutamente vitale che
sviluppiamo una spina dorsale spirituale: un’idea nazionale, un’ideologia che
unisca e illumini la strada da seguire. È una verità fondamentale che le grandi
nazioni non possono essere veramente grandi senza una tale idea al centro.
Questo
fa parte della tragedia che ci è accaduta negli anni ’70 e ’80. Si spera che la
resistenza delle élite dominanti al progresso di una nuova ideologia, radicata
nei dolori dell’era comunista, stia cominciando a svanire. Il discorso di
Vladimir Putin alla riunione annuale dell’ottobre 2021 del Valdai Discussion
Club è stato un potente segnale rassicurante al riguardo.
Come
il numero sempre crescente di filosofi e autori russi, ho avanzato la mia
visione dell'”idea russa“.
Domande
per il futuro
E ora
discutiamo di un aspetto significativo, ma per lo più trascurato ma che deve
essere affrontato, della nuova politica. Dobbiamo respingere e riformare il
fondamento ideologico obsoleto e spesso dannoso delle nostre scienze sociali e
della vita pubblica affinché questa nuova politica venga attuata, per non
parlare del successo.
Ciò
non significa che dobbiamo respingere ancora una volta i progressi nelle
scienze politiche, nell’economia e negli affari esteri dei nostri predecessori.
I bolscevichi hanno cercato di scaricare le idee sociali della Russia zarista –
tutti sanno come è andata a finire. Noi abbiamo rifiutato il marxismo e ne
siamo stati felici. Ora, stufi di altri principi, ci rendiamo conto che eravamo
troppo impazienti. Marx, Engels e Lenin avevano idee solide nella loro teoria
dell’imperialismo che potremmo usare.
Le
scienze sociali che studiano i modi della vita pubblica e privata devono tener
conto del contesto nazionale, per quanto inclusivo voglia apparire. Deriva
dalla storia nazionale e, in definitiva, ha lo scopo di aiutare le nazioni e/o
il loro governo e le élite. L’applicazione insensata di soluzioni valide da un
Paese all’altro sono inutili e creano solo abomini.
Dobbiamo
iniziare a lavorare per l’indipendenza intellettuale dopo aver raggiunto la
sicurezza militare e la sovranità politica ed economica. Nel nuovo mondo, è
obbligatorio raggiungere lo sviluppo ed esercitare influenza. Mikhail Remizov,
un importante politologo russo, è stato il primo, per quanto ne so, a chiamare
questa “decolonizzazione intellettuale“.
Dopo
aver trascorso decenni all’ombra di un marxismo importato, abbiamo iniziato una
transizione verso un’altra ideologia straniera di democrazia liberale
nell’economia e nelle scienze politiche e, in una certa misura, anche nella
politica estera e nella difesa.
Questo
fascino non ci ha fatto bene: abbiamo perso terra, tecnologia e persone. A metà
degli anni 2000, abbiamo iniziato ad esercitare la nostra sovranità, ma abbiamo
dovuto fare affidamento sui nostri istinti piuttosto che su chiari principi
scientifici e ideologici nazionali (di nuovo – non può essere altro).
Per
illustrare questo punto, ecco alcune domande scelte a caso dalla mia
lunghissima lista.
Inizierò
con questioni esistenziali, puramente filosofiche.
Cosa
viene prima negli esseri umani, lo spirito o la materia? E nel senso politico
più banale, cosa guida le persone e gli Stati nel mondo moderno? Per i
comunisti marxisti e liberali, la risposta è l’economia. Ricorda solo che fino
a poco tempo fa si pensava che il famoso “È l’economia, stupido” di Bill
Clinton fosse un assioma. Ma le persone cercano qualcosa di più grande quando
il bisogno fondamentale di cibo è soddisfatto. Amore per la loro famiglia, la
loro patria, desiderio di dignità nazionale, libertà personali, potere e fama.
La
gerarchia dei bisogni ci è ben nota da quando Maslow la introdusse negli anni
’40 e ’50 nella sua famosa piramide. Il capitalismo moderno, tuttavia, l’ha
distorta, costringendo il consumo in continua espansione attraverso i media
tradizionali all’inizio e le reti digitali onnicomprensive in seguito, per
ricchi e poveri, ciascuno secondo le proprie capacità.
Cosa
possiamo fare quando il capitalismo moderno, privato di fondamenti morali o
religiosi, incita al consumo illimitato, abbattendo i confini morali e
geografici ed entra in conflitto con la natura, minacciando l’esistenza stessa
della nostra specie? Noi russi capiamo meglio di chiunque altro che tentare di
sbarazzarsi di imprenditori e capitalisti spinti dal desiderio di costruire
ricchezza avrà conseguenze disastrose per la società e l’ambiente (il modello
di economia socialista non era esattamente rispettoso dell’ambiente).
Cosa
facciamo con gli ultimi valori del rifiuto della storia, della tua patria, del
genere e delle convinzioni, così come dei movimenti LGBT aggressivi e
ultrafemministi? Rispetto il diritto di seguirli, ma penso che siano
post-umanisti.
Dovremmo
trattare questo solo come un altro stadio dell’evoluzione sociale? Non credo.
Dovremmo
cercare di allontanarlo, limitarne la diffusione e aspettare che la società
sopravviva a questa epidemia morale? O dovremmo combatterlo attivamente,
guidando la maggioranza dell’umanità che aderisce ai cosiddetti valori
“conservatori” o, per dirla semplicemente, ai normali valori umani? Dovremmo
entrare nella lotta intensificando un confronto già pericoloso con le élite
occidentali?
Lo
sviluppo tecnologico e l’aumento della produttività del lavoro hanno contribuito
a sfamare la maggior parte delle persone, ma il mondo stesso è scivolato
nell’anarchia e molti principi guida sono andati perduti a livello globale. I
problemi di sicurezza, forse, stanno nuovamente prevalendo sull’economia. Gli
strumenti militari e la volontà politica potrebbero prendere il comando d’ora
in poi.
Che
cos’è la deterrenza militare nel mondo moderno? È una minaccia causare danni
alle risorse nazionali e individuali o alle risorse estere e alle
infrastrutture dell’informazione a cui le élite occidentali di oggi sono così
strettamente legate? Che ne sarà del mondo occidentale se questa infrastruttura
verrà demolita?
E una
domanda correlata: qual è la parità strategica di cui parliamo ancora oggi? È
una sciocchezza straniera scelta dai leader sovietici che hanno risucchiato il
loro popolo in una corsa agli armamenti estenuante a causa del loro complesso
di inferiorità e della sindrome del 22 giugno 1941? Sembra che stiamo già
rispondendo a questa domanda, anche se continuiamo a sfornare discorsi
sull’uguaglianza e sulle misure simmetriche.
E qual
è questo controllo degli armamenti che molti ritengono strumentale? È un
tentativo di frenare la costosa corsa agli armamenti vantaggiosa per l’economia
più ricca, di limitare il rischio di ostilità o qualcosa di più: uno strumento
per legittimare la corsa, lo sviluppo delle armi e il processo di programmi non
necessari sul tuo avversario? Non c’è una risposta ovvia a questo.
Ma
torniamo alle domande più esistenziali.
La
democrazia è davvero l’apice dello sviluppo politico? O è solo un altro
strumento che aiuta le élite a controllare la società, se non stiamo parlando
della pura democrazia di Aristotele (che ha anche alcuni limiti)? Ci sono molti
strumenti che vanno e vengono man mano che la società e le condizioni cambiano.
A volte li abbandoniamo solo per riportarli indietro quando è il momento giusto
e c’è una richiesta esterna e interna per loro. Non sto chiedendo un
autoritarismo illimitato o una monarchia. Penso che abbiamo già esagerato con la
centralizzazione, soprattutto a livello di governo municipale. Ma se questo è
solo uno strumento, non dovremmo smettere di fingere di lottare per la
democrazia e metterlo in chiaro: vogliamo le libertà personali, una società
prospera, sicurezza e dignità nazionale? Ma come giustifichiamo il potere al
popolo allora?
Lo
Stato è davvero destinato a morire, come credevano i marxisti e i globalisti
liberali, sognando alleanze tra corporazioni transnazionali, Organizzazioni Non
Governative internazionali (entrambe sono state nazionalizzate e privatizzate)
e organismi politici sovranazionali? Vedremo per quanto tempo l’UE potrà
sopravvivere nella sua forma attuale. Si noti che non voglio dire che non c’è
motivo di unire gli sforzi nazionali per il bene superiore, come l’abbattimento
di costose barriere doganali o l’introduzione di politiche ambientali
congiunte. O non è meglio concentrarsi sullo sviluppo del proprio Stato e sul
sostegno dei vicini ignorando i problemi globali creati da altri? Non ci
daranno fastidio se agiamo in questo modo?
Qual è
il ruolo della terra e dei territori? È una risorsa in diminuzione, un peso
come si credeva solo di recente tra gli scienziati politici? O il più grande
tesoro nazionale, soprattutto di fronte alla crisi ambientale, ai cambiamenti
climatici, al crescente deficit di acqua e cibo in alcune regioni e alla totale
mancanza in altre?
Cosa
dovremmo fare allora con centinaia di milioni di pakistani, indiani, arabi e
altri le cui terre potrebbero presto essere inabitabili? Dovremmo invitarli ora
come hanno iniziato a fare gli Stati Uniti e l’Europa negli anni ’60, attirando
i migranti per abbassare il costo del lavoro locale e minare i sindacati? O
dovremmo prepararci a difendere i nostri territori dagli estranei? In tal caso,
dovremmo abbandonare ogni speranza di sviluppare la democrazia, come mostra
l’esperienza di Israele con la sua popolazione araba.
Lo
sviluppo della robotica, che è attualmente in uno stato pietoso, aiuterebbe a
compensare la mancanza di forza lavoro e a rendere nuovamente vivibili quei
territori? Qual è il ruolo degli indigeni russi nel nostro Paese, considerando
che il loro numero continuerà inevitabilmente a ridursi? Dato che i russi sono
stati storicamente un popolo aperto, le prospettive potrebbero essere
ottimistiche. Ma finora non è chiaro, come mostra l’esperienza di Israele con
la sua popolazione araba.
Posso
andare avanti all’infinito, soprattutto quando si tratta di economia. Queste
domande devono essere poste ed è fondamentale trovare risposte il prima
possibile per crescere ed essere al top. La Russia ha bisogno di una nuova
economia politica, libera dai dogmi marxisti e liberali, ma qualcosa di più
dell’attuale pragmatismo su cui si basa la nostra politica estera. Deve
includere un idealismo orientato al futuro, una nuova ideologia russa che
incorpori la nostra storia e le nostre tradizioni filosofiche. Questo fa eco
alle idee avanzate dall’accademico Pavel Tsygankov.
Credo
che questo sia l’obiettivo finale di tutte le nostre ricerche in materia di
affari esteri, scienze politiche, economia e filosofia. Questo compito è al di
là del difficile.
Possiamo
continuare a contribuire alla nostra società e al nostro Paese solo rompendo i
nostri vecchi schemi di pensiero. Ma per concludere con una nota ottimistica,
ecco un pensiero umoristico: non è tempo di riconoscere che l’argomento dei
nostri studi – affari esteri, politiche interne ed economia – è il risultato di
un processo creativo che coinvolge masse e leader allo stesso modo? Riconoscere
che è, in un certo senso, arte? In larga misura, sfida ogni spiegazione e
deriva dall’intuizione e dal talento. E quindi siamo come esperti d’arte: ne
parliamo, individuiamo tendenze e insegniamo agli artisti – alle masse e ai
leader – la storia, che è loro utile. Spesso, però, ci perdiamo nel teorico,
inventando idee avulse dalla realtà o distorcendola concentrandoci su frammenti
separati.
A
volte facciamo la storia: pensate a Evgeny Primakov o a Henry Kissinger. Hanno
attinto alla loro conoscenza, esperienza personale, principi morali e
intuizione. Mi piace l’idea di essere una specie di esperto d’arte, e credo che
possa rendere un po’ più facile lo scoraggiante compito di rivedere i dogmi.
(Il
professor Sergey Karaganov, è il presidente onorario del Consiglio russo per la
politica estera e di difesa e supervisore accademico presso la School of
International Economics and Foreign Affairs Higher School of Economics (HSE) di
Mosca.)
IL 14°
PIANO QUINQUENNALE
CINESE:
OBIETTIVI E FINALITÀ.
cese-m.eu
- Stefano Vernole-redazione- (14 Giugno 2022)- ci dice :
Un’economia
più qualitativa.
Il
Governo cinese ha pubblicato all’inizio del 2022 il suo programma per la
competitività nell’economia digitale nell’ambito del XIV Piano quinquennale
2021-2025, che era stato approvato alla fine del 2021.
Il
documento, diffuso dal Consiglio di Stato, pone l’obiettivo di una crescita del
valore dell’industria digitale dal 7,8% del Pil nel 2020 al 10% del Pil nel
2025. Inoltre, la Cina punta ad avere entro il 2025 il 45% delle imprese
industriali connesse a “piattaforme internet industriali”, rispetto al 14,7%
attuale.
Questa
transizione digitale dovrà dipanarsi in otto aree, tra le quali
l’ottimizzazione e l’aggiornamento dell’infrastruttura digitale, la transizione
digitale delle imprese e l’espansione della cooperazione internazionale
nell’economia digitale.
Nello
stesso tempo, Pechino punta a delineare un set di regolamentazioni nel campo dei flussi
dei dati cross-border, della lotta ai monopoli, della diffusione della valuta
digitale e della protezione della privacy.
Lo
sviluppo digitale, secondo il documento, sarà centrale nella “riorganizzazione
delle risorse globali”, nella “riforma dell’economia globale”, alterando la
struttura delle economie e il “panorama competitivo globale”.
Il
quattordicesimo Piano quinquennale cinese (PQ), che era stato rilasciato nelle
linee guida dalle “Due Sessioni” (le sedute plenarie annuali della Conferenza
politica consultiva del popolo e dell’Assemblea nazionale del popolo) a inizio
marzo del 2021, contiene quindi importanti direttrici di riforma economica, sociale ed
industriale che lasciano immaginare un quinquennio di grandi cambiamenti.
In
esso sono contenute alcune novità che indicano un cambiamento di impostazione
rispetto al passato e che confermano la volontà del Governo di Pechino di
trasformare la propria società ed economia in ottica di qualità, dopo decenni
di sviluppo estensivo. Per esempio, la mancata indicazione di fattori di crescita
quantitativi come il PIL, introdotto per la prima volta nel settimo FYP
(1986-1990), potrebbe confermare un diverso approccio politico, lasciando alle
dinamiche di mercato il compito di determinare la crescita con una governance
centrale nell’allocazione delle risorse. Mentre nella precedente edizione
veniva stabilito un obiettivo di crescita annuale del 6,5%, il quattordicesimo
Piano Quinquennale stabilisce semplicemente che gli obiettivi di espansione
annuale devono essere ragionevoli e stabiliti a seconda delle circostanze.
Ciò
non significa che il Governo cinese vi abbia rinunciato ma si sottintende che i
responsabili della politica economica desiderino avere più ampi margini di
manovra per allineare le proprie priorità a seconda degli sviluppi della
situazione interna ed internazionale.
I temi
relativi alla transizione energetica, riduzione delle emissioni di anidride
carbonica spinta dell’economia circolare, rimangono centrali in modo trasversale,
sebbene il quattordicesimo Piano Quinquennale non contenga ancora gli obiettivi
ambiziosi che ci si sarebbe potuti aspettare dopo gli impegni presi dal
Presidente Xi Jinping di raggiungere il picco di emissioni nel 2030 e la carbon
neutrality nel 2060. Ciò è dovuto probabilmente ai necessari aggiustamenti
strutturali derivanti dalla crisi mondiale delle materie prime e all’aumento
esponenziale dei prezzi dell’energia.
Le
principali priorità ambientali riguardano il miglioramento dell’efficienza
energetica, l’espansione delle fonti di energia rinnovabile e la
modernizzazione della rete di trasmissione e distribuzione.
Di
conseguenza il Piano stabilisce la riduzione dei consumi di energia e le
emissioni di biossido di carbonio per unità di PIL rispettivamente del 13,5% e
del 18% per i prossimi cinque anni.
Allo
stesso tempo, le fonti di energia rinnovabile (eolica, solare, idroelettrica e
nucleare) dovrebbero aumentare al 20% del mix energetico rispetto al 16% del
2019.
A tal
fine, la Cina ambisce a creare una rete nazionale di trasmissione intelligente
che parta dalle province montagnose e scarsamente popolate dell’ovest e del
nord-ovest verso le zone costiere densamente popolate e ad elevata domanda
energetica.
Le
basi energetiche delle regioni dell’ovest verrebbero affiancate da una rete di
parchi eolici offshore e da dieci nuove centrali nucleari collocate lungo la costa
orientale e meridionale.
I
pilastri del Piano quinquennale sono: Circolazione Duale, Indipendenza
Scientifica e Tecnologica, Nuova Urbanizzazione e Sviluppo Verde.
Il
concetto di Dual Circulation (lanciato per la prima volta dal presidente Xi Jinping
durante una sessione del Politburo nel maggio 2020) chiarisce la strategia per promuovere
lo sviluppo economico basato sull’espansione del mercato interno ed in modo
articolato sull’integrazione globale, confermando così impostazioni di politica
economica già presenti nel tredicesimo PQ.
Infatti, i concetti della Nuova Normalità
incorporavano la necessità economica di incrementare il ruolo dei servizi e
potenziare il consumo interno come elementi di crescita sebbene, da questo
punto di vista, non siano stati raggiunti alcuni obiettivi del tredicesimo FYP,
anche per l’impatto che nel 2020 ha avuto la pandemia.
Si
tratta di un altro passo in linea con la Vision to 2035 che definisce obiettivi ambiziosi, prevedendo l’uscita della Cina dallo
status di Paese in via di sviluppo con un PIL pro capite vicino ai 30.000
dollari.
Per
quanto riguarda la circolazione esterna, si tratta di accelerare l’indipendenza
del Paese dal punto di vista tecnologico, cercando di sfuggire alla tendenza al
decoupling che, da diversi anni e sotto le spinte geopolitiche nordamericane,
si sta affermando.
E’
comunque comprensibile che dopo le tensioni con gli Stati Uniti negli ultimi
anni e le reciproche sanzioni – che hanno recentemente coinvolto anche l’Unione
Europea – la
Cina debba rafforzare la propria sicurezza anche dal punto di vista
tecnologico, oltre che energetico ed alimentare (la lettura in ottica di sicurezza
nazionale delle scelte del 14° PQ è indispensabile).
Un’altra
direttiva importante – anch’essa per fronteggiare il decoupling tecnologico con
l’Occidente – è
quella di promuovere l’autosufficienza nell’hardware e software di base, nei
componenti elettronici fondamentali, nei materiali chiave e nelle
apparecchiature di produzione, al fine di migliorare la sicurezza della catena
di approvvigionamento in settori strategici come 5G, circuiti integrati,
veicoli a nuova energia, intelligenza artificiale e internet industriale.
Secondo
l’ultimo rapporto World Digital Competitiveness Ranking, gli Stati Uniti sono il Paese più
competitivo del mondo da un punto di vista digitale dal 2018; nello stesso periodo, la Cina è
salita di 15 posizioni, raggiungendo il quindicesimo posto della classifica.
L’agenzia
“Bloomberg” ha anticipato che la Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti si
starebbe preparando a varare il progetto di legge Innovation and competition act
(approvato dal Senato USA nel giugno scorso), un provvedimento che include una
serie di clausole per frenare lo sviluppo di tecnologie e imprese cinesi. Indipendentemente dai risultati
raggiunti da Pechino, è evidente che gli ostacoli statunitensi stanno avendo
l’effetto di accelerare la rincorsa tecnologica della Cina.
Questa
considerazione porta all’altro punto chiave sugli obiettivi di indipendenza
scientifica e tecnologica che sembra rappresentare il nuovo pilastro strategico
per lo sviluppo nazionale. Già il programma Made in China 2025, – lanciato nel 2015 ed
approfondito da In3act nel 2016-2017, conteneva tutti gli elementi per una
trasformazione della base industriale e delle catene di fornitura da quantità a
qualità, individuando
dieci settori strategici in cui la Cina dovrebbe raggiungere autonomia,
leadership globale e priorità tecnologiche a diversi stadi nel 2025, 2035 e
2049.
Per
questo i nuovi obiettivi e le nuove strategie fissati dal quattordicesimo PQ,
anche per evitare
la middle income trap, sono gli stessi alla base del programma MiC2025, accelerati e reindirizzati nelle
priorità alla luce delle tensioni geopolitiche degli ultimi anni soprattutto
per i settori high-tech, microelettronica, Intelligenza Artificiale, sicurezza
cibernetica, blockchain, big data, 6G3. Dal 2019, senza fare molta
pubblicità, la Cina ha costruito una piattaforma che mira a facilitare
l’implementazione della tecnologia blockchain per le aziende: si chiama
Blockchain-based Service Network (BSN).
Il
prodotto di BSN è rivolto alle aziende, in particolare a quelle che gestiscono
infrastrutture di cloud computing, un processo che altrimenti potrebbe essere costoso e
richiedere molto tempo. L’altro punto di forza della tecnologia cinese è che sta
cercando di risolvere un problema difficile nel settore: l’interoperabilità – o
far funzionare blockchain diverse tra loro. L’idea è che un’azienda o un governo
possono utilizzare la piattaforma di BSN per distribuire facilmente
applicazioni blockchain, senza incorrere in costi elevati.
L’approccio
quantitativo rimane comunque anche nel quattordicesimo FYP.
Per
esempio, l’obiettivo di raddoppiare il numero di brevetti di innovazione ad
alto valore industriale per 10.000 persone da 6,3 (2020) a 12 (2025) e lo
stesso per il valore aggiunto di Core Industries Digital Economy (7,8% nel 2020
vs 10% nel 2025). Se guardiamo alle innovazioni rivoluzionarie degli ultimi dieci
anni nel campo della scienza e della tecnologia, la quota della Cina è ancora
molto al di sotto delle quote dei suoi brevetti in quantità.
Il
concetto di Nuova Urbanizzazione è già oggetto di discussione da anni e deve tener
conto delle profonde trasformazioni economiche e sociali degli ultimi decenni
(per es. la riduzione del tasso di povertà al di sotto del 5%). Il progressivo aumento del tasso di
urbanizzazione pianificato (dal 60% nel 2020 al 65% nel 2025) rallentando
flussi migratori interni con programmi di urbanizzazione delle aree rurali è un
buon approccio ed è in linea con gli obiettivi di ridurre l’intensità
energetica (quantità di energia necessaria per produrre un punto di PIL) in
coerenza con gli obiettivi di decarbonizzazione.
Gli
indirizzi della Nuova Urbanizzazione introducono enormi trasformazioni dei
modelli economici per l’agricoltura ma anche per i settori dei servizi, aprendo
così grandi opportunità di business.
Tuttavia, il Piano non prevede un’ulteriore liberalizzazione
del mercato fondiario, che potrebbe essere determinante per aumentare i redditi
delle famiglie rurali, consentendo alla popolazione locale di affittare o
vendere le proprie terre.
La
liberalizzazione dell’assegnazione dei terreni avrebbe anche un enorme impatto
sulla decarbonizzazione e in linea con le ambizioni di costruire un ecosistema
qualitativo e non più quantitativo nella pianificazione urbana, nella qualità
degli edifici, nel risparmio energetico e in generale nel contribuire a migliorare
la qualità della vita delle persone. In ogni caso, gli intenti sono anche
quelli di ridurre il divario tra le fasce di abitanti più ricche e quelle più
povere, tra le aree rurali e quelle urbane, dopo che la Cina è stata
sorprendentemente in grado di togliere dalla povertà la maggioranza della sua
popolazione.
L’ultimo
pilastro portante del 14° Piano Quinquennale è lo Sviluppo Verde, indicato come
indispensabile per costruire una civiltà ecologica, così come indicato dagli
obiettivi di decarbonizzazione.
Mentre
viene riconosciuta la necessità di rafforzare la protezione ecologica e
ambientale, i pochi dati inclusi nel 14° FYP (-13,5% intensità energetica in
cinque anni; 18% intensità CO2 in cinque anni; tasso di copertura forestale, percentuale
di giorni con buona qualità dell’aria nelle prefetture e oltre, percentuale
della superficie dell’acqua raggiungendo il livello II e superiore) sono ancora
timidi se confrontati con gli impegni verso la neutralità carbonica.
Questo compito è lasciato ai diversi Ministeri
ed Enti preposti (MEE, NDRC, NEA, MOHURD, etc.) che dovranno sviluppare i Piani
di dettaglio anche in considerazione della difficile situazione congiunturale a
livello globale (guerra/pandemia/rincaro delle materie prime e costi
dell’energia).
In
ogni caso, le deliberazioni del Consiglio di Stato forniscono indirizzi molto
precisi per strutturare il percorso di trasformazione economica e sociale verso
la carbon neutrality, anche con interessanti novità relative ad approcci olistici,
in precedenza non presenti nelle pianificazioni di lungo termine. In tal senso la Camera di Commercio
Europea in Cina ha visto accogliere molte delle raccomandazioni rilasciate
negli scorsi anni per affrontare la transizione energetica in modo efficiente
ed efficace, spingere per ulteriori aperture del mercato ed affrontare i temi
di trasformazione con approcci top down.
La
Cina e l’Europa hanno entrambe preso impegni formali con obiettivi stringenti
verso la decarbonizzazione e stanno affrontando sfide senza precedenti nel rimodellare
in modo completo i loro modelli economici lungo tutte le catene di valore e di
fornitura, così come la vita quotidiana dei singoli individui. Ma la sfida è davvero senza
precedenti.
Per le
aziende italiane ed europee si aprono immense opportunità di business, in tutti
i settori industriali e dei servizi in Cina, spinti dalle trasformazioni
necessarie per raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione: in primis in
tutti i settori delle filiere dell’energia, delle tecnologie di protezione
ambientale, efficienza energetica, trasporti, nuovi processi e soluzioni.
La
Cina deve affrontare sfide e investimenti senza precedenti verso la
decarbonizzazione, perché i suoi obiettivi la obbligheranno a dismettere almeno 700 GW di
centrali a carbone (paragonabile alla capacità di potenza totale installata in
Europa) e ad eliminare diverse tonnellate di C02 all’anno, con investimenti
stimati in 140 tn RMB in dieci anni.
Oltre
a ribadire gli impegni presi – raggiungere il picco delle emissioni prima del
2030, la neutralità carbonica prima del 2060, e diminuire l’intensità carbonica
del 65% entro il 2030 – Pechino rivendica i significativi risultati raggiunti
negli ultimi anni.
A
partire proprio dall’intensità carbonica: nel 2020 essa è diminuita del 18,8%
rispetto al 2015 e del 48,4% sul 2005. Il suo calo si traduce in una riduzione
totale di 5,8 miliardi di tonnellate di emissioni dal 2005 al 2020 e dimostra
che la Cina ne ha ampiamente ribaltato la rapida crescita. L’energia prodotta da fonti non
fossili si sta sviluppando rapidamente. Secondo calcoli preliminari, nel 2020,
l’energia non fossile ha reso conto del 15,9% del consumo totale di energia,
con un aumento di 8,5 punti percentuali rispetto al 2005.
La
capacità totale di impianti installati per la generazione di energia non
fossile rappresenta il 44,7% di quella totale, la capacità di fotovoltaico è
aumentata di un fattore di oltre 3mila rispetto al 2005 e quella eolica di
oltre 200.
La
Cina sta anche riducendo rapidamente l’intensità del suo consumo di energia. Secondo calcoli preliminari, la
riduzione fra il 2011 e il 2020 ha raggiunto il 28,7%, risultando fra le più
veloci al mondo.
Lo
scorso anno, il consumo totale di energia è rimasto inferiore ai 5 miliardi di
tonnellate di carbone equivalente. La proporzione di carbone nel suo consumo
totale è scesa dal 72,4% del 2005 al 56,8% del 2020. La nuova industria dell’energia è
testimone di una forte crescita. La Cina, negli ultimi sei anni, è la prima al
mondo per produzione e vendita di nuovi componenti per l’energia.
L’obiettivo
della neutralità carbonica è stato incorporato nel programma di sviluppo
economico e sociale complessivo del Paese, con l’adozione di un approccio
olistico ed equilibrando le relazioni fra crescita economica e riduzione delle
emissioni. Sono
stati resi noti i cambiamenti significativi registrati in Cina grazie alla
risposta varata in questi anni, in cui Pechino ha coordinato lo sviluppo
economico con l’abbassamento dell’inquinamento, gestito una rivoluzione nella
produzione e consumo di energia e una transizione industriale sulla base di
emissioni ridotte, aumentato la capacità degli ecosistemi di assorbire
carbonio, promosso stili di vita ecologici. La Cina ha formulato e attuato una
varietà di strategie, regolamenti, politiche, standard e azioni, per rispondere
agli obiettivi presi in risposta ai cambiamenti climatici.
Trattandosi
di un Paese in via di sviluppo con una popolazione di 1,4 miliardi di persone,
si devono affrontare problemi enormi, fra cui lo sviluppo economico, il
miglioramento della qualità della vita dei suoi abitanti, il controllo
dell’inquinamento e la protezione dell’ambiente.
Nel
2015 la Cina aveva fissato l’obiettivo di raggiungere il massimo delle
emissioni intorno al 2030 al massimo e di fare tutti gli sforzi possibili per
ottenerlo prima. Alla fine del 2019, la Cina aveva raggiunto il suo obiettivo
per il 2020 in anticipo.
La
Cina ha assunto, come “obiettivo vincolante”, il taglio dell’intensità del
carbonio (il dato che misura la quantità di emissioni di gas a effetto serra
per unità di Pil), del 18% dal 2020 al 2025. Tale impegno, preso nel Piano
quinquennale per l’economia e lo sviluppo sociale, viene ribadito da Pechino,
nel Libro bianco “Rispondere al cambiamento climatico: le politiche e le azioni
della Cina”.
Come
sta procedendo la programmazione economica cinese.
Nell’anno
appena trascorso, la pandemia ha imperversato ancora in molti Paesi e la strada
per la ripresa economica globale non può dirsi spianata.
Nel
2021, il Pil cinese ha superato 1,14 trilioni di yuan, segnando un incremento
dell’8,1% su base annua, e si stima che il suo contributo alla crescita
economica mondiale raggiungerà circa il 25%. Il numero di nuovi occupati ha
superato i 12 milioni e l’aumento del reddito disponibile pro capite dei
residenti è stato sostanzialmente in linea con la crescita economica,
realizzando un buon avvio per il XIV Piano quinquennale e dando dimostrazione
di una grande volontà di ripartenza.
La
Cina lo scorso anno ha raggiunto i suoi obiettivi ambientali riducendo
l’inquinamento e migliorando continuamente la qualità dell’acqua e dell’aria.
Liu
Youbin, portavoce del Ministero dell’ecologia e dell’ambiente, ha infatti
dichiarato durante una conferenza stampa di inizio anno che il Paese ha raggiunto tutti gli
otto obiettivi vincolanti relativi alle emissioni di CO2 e alla qualità delle
acque superficiali.
I
progressi della Cina nella riduzione delle emissioni di CO2 per unità di PIL
hanno soddisfatto i requisiti del 14° piano quinquennale (2021-2025), mentre la
riduzione delle emissioni di quattro principali inquinanti, tra cui
l’ossinitruro, ha raggiunto gli obiettivi annuali.
La
quota di giorni con una buona qualità dell’aria nel 2021 è salita all’87,5%, in
aumento di 0,5 punti percentuali rispetto all’anno precedente. La densità di
PM2,5 è scesa del 9,1%, anno dopo anno, a 30 microgrammi per metro cubo.
Liu,
in particolare, ha sottolineato il miglioramento della qualità dell’aria nella
regione di Pechino-Tianjin-Hebei e nelle aree circostanti, inoltre ha aggiunto
che la densità di PM2,5 della città è scesa da 89,5 microgrammi per metro cubo
nel 2013 a 33 microgrammi nel 2021 e che i suoi giorni di significativo
inquinamento atmosferico sono scesi da 58 a 8.
Il
Paese ha pure riportato una migliore qualità delle acque superficiali. La proporzione di laghi e fiumi
classificati da I a III ha raggiunto l’84,9%, indicando una tendenza al
continuo miglioramento dell’ambiente ecologico (la qualità delle acque
superficiali in Cina è suddivisa in cinque classi, la classe I è quella di più
alta qualità).
Il
fiume Yangtze, il più lungo della Cina, ha visto la qualità del suo corso
d’acqua primario raggiungere la classe II per il secondo anno consecutivo nel
2021.
Al
momento, la Cina sta accelerando la costruzione di un nuovo modello di sviluppo
basato sull’alta qualità; ciò implica la costruzione di una catena di
approvvigionamento stabile e di un mercato di consumi interni.
Osservando
l’economia cinese, sono evidenti quattro fattori positivi.
In
primo luogo, la resilienza della manifattura. La Cina dispone di un sistema
industriale completo e di vantaggi competitivi complessivi in termini di
strutture industriali, infrastrutture e risorse umane.
In
secondo luogo, il Governo di Pechino insiste sull’innovazione come principale
forza trainante dello sviluppo e, negli ultimi cinque anni, la spesa in ricerca
e sviluppo ha avuto una crescita a doppia cifra. L’economia digitale ha dimostrato
una forte vitalità ed è rapidamente affiorato un gran numero di nuovi formati e
modelli.
In
terzo luogo, con una popolazione di oltre 1,4 miliardi e un gruppo a medio
reddito di oltre 400 milioni di persone, la Cina è il mercato più grande del
mondo e sta gradualmente scoprendo e ampliando un potenziale di consumi senza
precedenti.
In
quarto luogo, il Piano prosegue nella promozione di misure di maggiore
apertura, come la riduzione della lista delle restrizioni relative agli
investimenti esteri. Lo scorso anno, il volume del commercio estero cinese ha
superato per la prima volta i 6.000 miliardi di dollari, l’uso effettivo di
capitali stranieri è stato superiore a 1.100 miliardi di dollari, segnando un
nuovo record storico, e sono migliorate sia la portata che la qualità degli
investimenti.
È
innegabile che lo sviluppo economico cinese stia affrontando la triplice sfida
della contrazione della domanda, dell’impatto dei rifornimenti e
dell’indebolimento delle previsioni.
Come
evitare rischi sistemici e raggiungere una crescita economica sana e
sostenibile, sotto l’enorme pressione della stabilizzazione dell’economia e
dell’adeguamento delle strutture, richiede ancora ardui sforzi. Il Governo di Pechino sta attuando
una politica fiscale proattiva e una politica monetaria solida, aumentando i sostegni all’economia reale,
in particolare alle micro, piccole e medie imprese, all’innovazione tecnologica
e allo sviluppo verde.
La
strategia della doppia circolazione si basa su un modello in cui la
“circolazione interna” rappresenterà il perno prioritario delle politiche di
sviluppo economico e la “circolazione internazionale” il suo complemento.
Il fondamento logico è quello di promuovere
maggiore crescita sostenibile nel lungo periodo, rendendo la Cina meno
dipendente da fattori al di fuori del proprio controllo. Più in dettaglio, la circolazione
interna implica riforme strutturali ed obiettivi dal lato della domanda e
dell’offerta dell’economia cinese. Dal lato della domanda, l’obiettivo è di promuovere
i consumi interni e di aumentare gli investimenti in specifici progetti
infrastrutturali (ad es. protezione ambientale, digitalizzazione,
decarbonizzazione, ecc.). Dal lato dell’offerta, l’obiettivo è di incoraggiare le
imprese industriali cinesi a diventare meno dipendenti da forniture e
approvvigionamenti dall’estero.
Allo
stesso tempo, la circolazione internazionale significa che la Cina continuerà a
promuovere i flussi esterni di merci e di capitali. Le esportazioni resteranno un
driver addizionale di crescita, mentre proseguiranno le riforme per
liberalizzare la bilancia dei pagamenti in conto capitale allo scopo di
attirare investimenti diretti e rafforzare il mercato dei capitali.
Per
raggiungere tali obiettivi, il Piano prevede la promozione di Pechino,
Shanghai, dell’Area della Grande Baia e la capitale dell’Anhui , Hefei (centro
di ricerca cinese per la fisica quantistica) in centri internazionali per la
scienza e la tecnologia, assorbendo l’8% dei finanziamenti complessivi.
I
cluster tecnologici regionali stanno giocando un ruolo sempre maggiore nella
strategia di sviluppo economico della Cina. L’area di Jing-Jin-Ji che include
la capitale Pechino, la città di Tianjin e la provincia dell’Hebei, o la
Greater Bay Area o l’area del Delta del fiume Azzurro (Yangtze River),
incentrata su Shanghai, rappresentano esempi di questa tendenza. Rispetto alle tradizionali zone
economiche speciali, esse tenderanno a privilegiare un miglior coordinamento
amministrativo tra municipalità adiacenti.
Il 14°
Piano Quinquennale provvede ad incorporare queste iniziative nelle più ampie strategie
a carattere regionale.
La
cooperazione strategica macroregionale e internazionale.
Il
Piano, che comprende la Silk Road Economic Belt e la 21st Century Maritime Silk Road, rievoca le suggestioni dell’antica Via della Seta, mirando a moltiplicare i collegamenti tra
Europa, Russia e Asia, dal Medio Oriente fino all’area del Pacifico, tramite
una serie di importanti opere infrastrutturali che interesseranno tutti i Paesi
attraversati dalle due nuove rotte, una terrestre e una marittima. Agli obiettivi di politica estera del
programma, si affiancano obiettivi di politica interna di riqualificazione e
sviluppo delle aree rurali più arretrate nonché della promozione della
cooperazione regionale.
Oltre
a consolidare ed espandere i rapporti commerciali, grazie alla costruzione di
strade, ferrovie, porti e reti di condutture, il Piano promuoverà lo sviluppo
di nuove industrie, la cooperazione tra Paesi in tema di energia e la creazione
di centri internazionali di ricerca scientifica.
A supporto della Nuova Via della seta, è stata
istituita l’Asian
Infrastructure Investment Bank (AIIB), con sede a Pechino, il cui obiettivo è quello di
promuovere lo sviluppo economico sostenibile e la cooperazione regionale.
L’AIIB, caratterizzata da un management snello, con tolleranza
zero per la corruzione ed attento alle tematiche ambientali, concentra i propri
sforzi sullo sviluppo delle infrastrutture e degli altri settori strategici,
come energia, trasporti, telecomunicazioni, agricoltura, approvvigionamento
idrico, assistenza sanitaria, tutela ambientale, urbanizzazione, logistica, ecc.
Le sue funzioni includono la promozione di
investimenti privati e pubblici nei settori elencati ed il supporto finanziario
a tutti i Paesi membri ed agli organi ed alle agenzie internazionali in qualche
modo coinvolte negli obiettivi generali del Piano (attualmente, i Paesi aderenti alla
AIIB sono 102, tra cui l’Italia: cfr. Agenzia ICE).
Stando
agli ultimi dati della Banca popolare di Cina, l’e-Yuan è già operativo per il 15%
della popolazione, concentrata in dodici grandi città (tra le quali ci sono
Pechino, Shanghai e Shenzen). A gennaio 2022 gli utenti che avevano effettuato almeno
una transazione utilizzando l’e-Yuan erano 260 milioni. Secondo Cornelia Tremann, consulente
indipendente e rappresentante del Senegal e del Gabon per la China Africa
Advisory, la strategia del Governo di Pechino sarebbe quella di rendere lo Yuan
digitale la piattaforma esclusiva negli scambi commerciali tra il continente
africano e la Cina.
Uno
yuan digitale potrebbe quindi facilitare e accelerare i flussi commerciali e
finanziari interafricani e Cina-Africa.
Molte
valute africane sono instabili e soggette a svalutazioni, la loro conversione
in altre valute africane o nel dollaro statunitense può essere costosa e
complicata. Anche se i Paesi africani non adottassero lo Yuan, la Cina potrebbe
comunque sfruttare il suo radicamento nell’ecosistema finanziario africano per
plasmarlo secondo i propri interessi economici.
Pechino, in particolare, potrebbe esercitare il
controllo sull’architettura finanziaria digitale dell’Africa, vendendo o
noleggiando la tecnologia sottostante ai governi africani, per creare valute
locali interoperabili esclusivamente con lo Yuan.
Il
progetto della Greater Bay Area Initiative si pone l’obiettivo di creare un’area di integrazione economica tra
le più importanti al mondo (alla stregua della Baia di San Francisco, della Greater New
York o della Greater Tokyo), collegando Hong Kong, Macao e le città del Delta del Fiume
delle Perle nel Guangdong, che possa accompagnare la trasformazione del modello
di sviluppo della Cina dalla manifattura a basso costo al terziario avanzato.
Tale
processo vede un importante hub nella città di Shenzhen, diventata uno dei
centri tecnologici più avanzati al mondo. La regione interessata è anche al
centro di una rete di filiere che collegano il Guangdong al resto del mondo,
grazie alla solida base manifatturiera di cui dispone. Inoltre, la stessa zona beneficia del
collegamento con il centro finanziario di Hong Kong e dei suoi settori
tecnico-professionali di rilievo internazionale.
Yangtze
River Economic Belt: il Piano interessa undici tra regioni e municipalità e
coinvolge il settore dei servizi, le energie pulite e la modernizzazione
dell’agricoltura. Le aree geografiche interessate sono Shanghai, le provincie
Jiangsu, Zhejiang, Anhui, Jiangxi, Hubei, Hunan, Sichuan, la città di
Chongqing, lo Yunnan e il Guizhou; tutte insieme rappresentano un quinto del
territorio dell’intero Paese e seguono il corso del fiume più lungo della Cina.
La
Cina si sta continuando ad impegnare concretamente per aprirsi al mercato
internazionale e ad abbattere gradualmente le barriere che tradizionalmente la
contraddistinguono e rendono complesso l’ingresso delle imprese straniere.
Tra i
recenti accordi il più significativo è: Regional Comprehensive Economic
Partnership (RCEP).
Il
Partenariato Economico Globale Regionale è un accordo di libero scambio nella
regione dell’Asia Pacifica tra i dieci Stati dell’ASEAN (Brunei, Cambogia,
Indonesia, Laos, Malaysia, Myanmar, Filippine, Singapore, Thailandia e Vietnam)
e cinque dei loro partner di libero scambio, Australia, Cina, Giappone, Nuova
Zelanda e Corea del Sud.
I 15 Paesi membri rappresentano circa il 30%
della popolazione mondiale e del PIL, rendendolo il più grande blocco
commerciale al mondo. Si tratta del primo accordo che vede insieme Cina,
Giappone e Corea del Sud.
È
stato firmato al vertice dell’ASEAN virtuale ospitato in Vietnam il 15 novembre
2020 e dovrebbe entrare in vigore entro due anni, dopo che sarà stato
ratificato dai Paesi membri. L’accordo si propone di facilitare gli scambi e gli
investimenti nella regione e contribuire alla crescita economica dell’area
asiatica. L’accordo RCEP rafforza molto la posizione geopolitica della Cina
determinando una crescita della propria influenza nell’economia mondiale.
Eu-China
Comprehensive Investment Agreement (CAI): lanciato nel 2014, si propone di
aumentare la qualità e la quantità degli investimenti reciproci tra Unione Europea e Cina, ritenuti
attualmente al di sotto delle potenzialità da entrambe le parti. Il negoziato, concluso alla fine
del 2020, sta
subendo una fase di stallo indotto dall’emergere di contrasti di natura
geopolitica evidenziati da Bruxelles sotto la spinta di Washington.
Le
autorità doganali di Pechino hanno rilasciato lo scorso 9 maggio gli ultimi
dati relativi all’interscambio commerciale della Cina nei primi quattro mesi
del 2022. Questi
dati riflettono l’impatto delle misure di lockdown implementate a Shanghai e in
molte città del paese per contenere la diffusione della variante Omicron. Ad aprile, il totale
dell’interscambio tra la Cina e il resto del mondo è stato pari a 494 miliardi
di dollari, in contrazione dell’1,7 per cento rispetto a marzo 2022, e in
aumento del 2,1 per cento rispetto all’aprile del 2021. Su base cumulata, il volume totale
del commercio è stato pari a 1.976 miliardi di dollari, con un incremento del
10% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.
Il
blocco della mobilità interna e le misure di contenimento hanno rallentato la
crescita del commercio cinese, tuttavia, la Cina è riuscita a limitarne gli effetti
mantenendo aperti i principali hub logistici e il porto di Shanghai, anche a
fronte delle difficoltà operative.
Le
esportazioni hanno raggiunto 1.094 miliardi di dollari, con una crescita del
12,5 per cento rispetto al 2021.
Il
blocco dei Paesi del sud est asiatico rappresenta il principale partner
della Cina con 289 miliardi di dollari di scambi, pari a quasi il 15% del
commercio estero cinese.
I rapporti bilaterali tra Cina e i singoli
membri dell’Asean variano nei trend; il commercio con il Vietnam si è ridotto
del 5%, mentre l’interscambio con Indonesia e Malesia ha raggiunto livelli
record, con incrementi del 28 e 20%.
L’Unione
Europea e gli Stati Uniti, che rappresentano il secondo e il terzo partner
commerciale di Pechino, costituiscono il principale mercato per le esportazioni
cinesi. I flussi tra Cina e Italia, pari a 26 miliardi di dollari nei primi
quattro mesi del 2022, sono cresciuti del 16%, grazie all’incremento delle
esportazioni cinesi.
L’interscambio
tra Cina e Russia ha registrato un balzo del 26%, con le importazioni cinesi
dalla Russia in crescita del 38%.
Numerosi
gruppi industriali con impianti produttivi nelle aree coinvolte hanno subìto un
blocco alle proprie attività riuscendo a riprendere verso la fine di aprile in
base ai princìpi del cosiddetto close-loop management dei propri dipendenti.
Conclusioni.
Come
il resto del mondo, la Cina sta osservando da vicino lo svolgersi
dell’operazione militare speciale russa in Ucraina, preparandosi all’impatto
dell’escalation delle sanzioni occidentali.
In
qualità di principale partner commerciale di Russia e Ucraina, la Cina ha molto
in gioco, soprattutto perché le nazioni in guerra partecipano entrambe alla Belt and Road Initiative, l’ambizioso piano cinese per far
crescere il commercio globale con miliardi di dollari di investimenti e
progetti infrastrutturali. Pericoli fisici, interruzioni di comunicazione e trasporto e
le gravi incertezze finanziarie stanno già mettendo a dura prova i piani di
investimento nella regione.
L’operazione
speciale della Russia in Ucraina è destinata a influenzare drasticamente
l’ordine economico globale. Andando avanti, la Cina deve valutare i venti contrari che
sta affrontando, mentre ripensa a come procedere con il suo vasto piano
infrastrutturale nei Paesi in guerra e nel resto del mondo.
Nel
2020, nonostante l’impatto economico e le interruzioni causate dalla pandemia
globale, gli investimenti cinesi nei Paesi della BRI hanno mostrato resilienza
con un aumento del 18,3% rispetto al 2019, secondo i dati del Ministero del
Commercio cinese.
Nel
2021, il commercio tra la Cina e i Paesi della BRI ha rappresentato il 29,7%
del commercio estero totale della Cina, raggiungendo 11,6 trilioni di yuan
(1,83 trilioni di dollari USA), segnando un aumento del 23,6% rispetto all’anno
precedente e raggiungendo il valore più alto in otto anni.
Anche
gli investimenti totali della Cina in progetti stradali e infrastrutturali
d’oltremare sono cresciuti del 15,3% per raggiungere 21,46 miliardi di dollari
l’anno scorso, pari al 14,8% degli investimenti cinesi all’estero. Questi progetti di investimento
abbracciano Singapore, Indonesia, Malesia, Vietnam, Emirati Arabi Uniti, Laos,
Thailandia e altri Paesi.
L’anno
scorso, le aziende cinesi hanno firmato 6.256 nuovi contratti di progetto in 60
Paesi della BRI, per un valore di 864,78 miliardi di yuan, che rappresentano
più della metà dei progetti appena contratti delle aziende cinesi all’estero,
mentre la Cina ha anche assorbito 11,25 miliardi di dollari di capitali
stranieri dai Paesi lungo la rotta.
La
Cina sta dando la priorità al controllo del rischio e alla prevenzione per la
sua spinta BRI, secondo un rapporto che delinea le priorità per il 2022,
pubblicato all’inizio di marzo dalla Commissione nazionale per lo sviluppo e la
riforma. Lo Xinjiang nella regione dell’estremo ovest e la provincia del Fujian
a est, così come il China-Europe Railway Express sono state individuate quali
aree importanti.
La
Cina ha anche affermato che porterà avanti la trasformazione verde e a basse
emissioni di carbonio dei suoi progetti alimentati a carbone all’estero.Nonostante la propaganda occidentale,
sempre più Paesi stanno ora sostenendo e abbracciando la visione di Xi Jinping
di una “comunità di destino condivisa per tutta l’umanità”.
Durante
il terzo simposio sullo sviluppo della BRI a Pechino il 19 novembre 2021, il
presidente cinese ha affrontato le preoccupazioni su come continuare lo
sviluppo di alta qualità della BRI di fronte agli attuali cambiamenti in patria
e all’estero e ha delineato un nuovo visione di sviluppo basata
sull’approfondimento della fiducia reciproca e del dialogo politico.
Sembra
che lo sviluppo futuro della BRI si concentrerà sulla connettività pragmatica. Dovrebbe essere creata una migliore
rete di connessione, che abbraccia i trasporti terrestri, marittimi e aerei,
nonché il cyberspazio. Ci dovrebbe essere cooperazione sia nelle infrastrutture
tradizionali che in quelle nuove e le regole e gli standard dovrebbero essere
meglio allineati tra i Paesi partecipanti.
Dovrebbero
essere compiuti sforzi più robusti per garantire catene industriali e di
approvvigionamento stabili e promuovere la diversificazione delle fonti interna
ed esterna. La cooperazione digitale tra i Paesi membri delle rotte BRI deve
essere rafforzata e dovrebbero essere sviluppati modelli per raggiungere questo
obiettivo.
È
urgente trasformare ulteriormente il commercio elettronico insieme alla
cooperazione internazionale nella protezione dei diritti di proprietà
intellettuale. Inoltre, le grandi aziende cinesi dovrebbero essere incoraggiate ad
assumersi maggiori responsabilità sociali nei Paesi ospitanti, contribuendo
intensamente alla loro crescita, nel rispetto delle leggi e dei regolamenti
locali.
La
Cina ha sostenuto altre nazioni in via di sviluppo per accedere ai vaccini
COVID-19 e costruire i loro sistemi sanitari. Pechino sta inoltre assistendo tutti
i Paesi membri della BRI nella transizione verso l’energia pulita e lo sviluppo
verde, promuovendo il rafforzamento delle capacità nello sviluppo a basse
emissioni di carbonio. L’aumento nella circolazione della Nuova Via della Seta
necessita di un ulteriore rafforzamento della prevenzione e del controllo dei
rischi in tutto il vasto spettro. A livello nazionale, la Cina deve costruire una
piattaforma di servizi di valutazione e allerta precoce per tutte le stagioni
in grado di rilevare i potenziali rischi per i suoi programmi BRI all’estero su
base regolare ed emettere avvisi prima di effettuare le sue scelte.
La
Nuova Via della Seta è stata avviata per servire il popolo: una rigorosa
diplomazia culturale è la necessità del momento per rafforzare i legami
interpersonali e formare corridoi di conoscenza.
Trasformare
le
differenze
in opposizione.
Sinistrainrete.info-
Anna Curcio intervista Maurizio Lazzarato-( 10-5-2022)- ci dice :
Con il
discorso della guerra sullo sfondo, in questa intervista a partire dal suo
nuovo libro “L’intollerabile presente, l’urgenza della rivoluzione”. “Classi e
minoranze” (ombre corte 2022), Maurizio Lazzarato affronta alcuni dei nodi
irrisolti dell’agire politico rivoluzionario.
In
particolare, discute la necessità di ripensare il concetto di classe in
relazione alla questione della razza e del genere.
Attinge
da un archivio teorico-politico eterogeneo, eterodosso rispetto alla sua
formazione,
e mette a critica le micro-politiche della relazione e la (connessa)
spoliticizzazione delle differenze per interrogare il pensiero strategico
capace trasformare le differenze in opposizione.
L’intervista,
che si sviluppa seguendo gli snodi tematici proposti dal titolo del libro, si
apre discutendo del presente.
Cos’è
che rende intollerabile il nostro presente?
Guerre
e rivoluzione.
In una
serie di articoli recenti pubblicati su questa rivista, hai discusso della
guerra: un tema che nel libro fa da proscenio alla «catastrofe che si annuncia»; l’enunciato di questo presente
intollerabile.
Quale
rapporto esiste (oltre le evidenze della situazione in Ucraina) tra la guerra e
il presente?
Nel
2016, insieme a Eric Alliez, abbiamo pubblicato” Wars and Capital” per ricordare e ricordarci quello che
negli ultimi cinquant’anni anni sembravamo aver dimenticato: che non c’è Capitale senza lo Stato e
senza la guerra tra stati e senza le guerre di classe, razza e sesso.
Con la
prima guerra mondiale, le guerre si modificano radicalmente perché sono
strettamente intrecciate con il capitale.
La
guerra civile europea del XIX secolo, diventa «guerra civile mondiale» che,
dopo quattro secoli di sfruttamento, libererà dal colonialismo i «popoli
oppressi», mentre la guerra di Clausewitz (imposta da Napoleone come sbocco
della rivoluzione francese) diventa «totale», insieme militare e non militare (coinvolgendo combattenti e non
combattenti, l’economia e la società, la scienza e la tecnica).
L’economia
e la guerra non sono tra loro in opposizione, come credeva il liberalismo del
XIX secolo ma sono due facce della stessa medaglia, come si vede nella guerra
attuale.
L’azione
economica (blocco
dei dispositivi finanziari, sanzioni, dazi, embargo sulle materie prime e sulle
importazioni alimentari – che in Iraq hanno causato la morte di 500.000
bambini, un numero forse esagerato ma che la responsabile di questo eccidio, la «criminale di guerra» Madeleine
Albright,
non ha mai smentito) e l’azione armata sono complementari e integrate.
“Wars
and Capital”
non era che la prima parte di un lavoro che comprendeva, come suo opposto, la
rivoluzione. Guerre e rivoluzione sono i due grandi rimossi dei movimenti politici del
dopo Sessantotto, che hanno convissuto, tranne poche eccezioni, con un’idea
pacificata del capitalismo, con l’illusione che i movimenti potessero
svilupparsi senza confrontarsi con la natura distruttiva e guerrafondaia della
macchina bicefala Stato-Capitale.
Un’analisi concentrata sulla «produzione»
allargata, in tutti i sensi (libidinale, affettiva, pulsionale, cognitiva,
neuronale, ecc.), di per sé necessaria e utile, ma distaccata dalle lotte di
classe, dall’imperialismo e dalla guerra; un’analisi con un’esagerata
attenzione alle forme di vita, alla cura del sé (individuale e collettiva),
sganciate dalla necessità di una lotta globale per sconfiggere la macchina
Stato-Capitale, ci ha condotto all’impotenza attuale.
Il
rifiuto di prendere in considerazione la guerra e le illusioni che ne sono
derivate, sono una conseguenza della rimozione del concetto di classe, sostituito da «minoranze»,
«moltitudini», «popolazione»; concetti che dimostrano la loro debolezza quando
il ciclo del capitale finisce come era cominciato, con la guerra e le guerre
civili.
Per
discutere l’urgenza della rivoluzione, nel primo capitolo del libro
richiami il titolo di un documento politico di cui si è molto parlato
all’indomani della stagione politica degli anni Settanta in Italia: Do you remember revolution?, per dire che «la domanda non ha prodotto nessuna
risposta».
La rivoluzione è sparita dall’orizzonte di
possibilità della politica, soffocata nella contro rivoluzione neo-liberale(condotta da Klaus Schwab.Ndr) riassorbita nel gioco a somma zero
del capitalismo contemporaneo.
Qual è oggi, l’urgenza, di riportare la
rivoluzione all’ordine del giorno? E cambiando prospettiva, quali sono le
urgenze (per intendere quali nodi irrisolti) della rivoluzione?
Era la
rivoluzione e la sua dinamica mondiale, impiantata all’est e al sud, che
rendeva vincenti anche le lotte sul salario e sul welfare al nord. Nel libro sostituisco alla parola
d’ordine operaista «prima la classe poi il capitale», un’altra che mi sembra
più precisa e realista: «prima la rivoluzione poi il capitale».
Era la
rivoluzione che, attaccandosi al capitalismo in quanto tale, e non a uno specifico e
particolare rapporto di potere (di classe, razziale o sessuale), dava forza anche ai conflitti
micro-politici.
Una
volta sconfitta questa dinamica tutte le lotte si sono indebolite. Gli spazi di
mobilizzazione nella medicina, nella psichiatria, in tutte le relazioni micro
della politica sono andati restringendosi fino a scomparire. Lo spazio occupato da queste lotte
non è rimasto vuoto ma è stato riempito dalla contro-rivoluzione.
La macchina Stato–Capitale si è ripresa tutto
quello che era stata costretta a concedere sotto la pressione della rivoluzione
mondiale. E poi, è arrivata la guerra che ha blindato ogni possibilità di
azione politica e diffuso un delirio guerriero che vorrebbe mobilitare le
energie psichiche della società (altra caratteristica della guerra «totale» che
funziona ancora oggi), per costruire le soggettività della guerra.
Io non
so se un’altra rivoluzione sia possibile, ma se non si ricostruisce una
politica che recuperi questa dinamica, resteremo sempre sulla difensiva, con
l’incapacità anche di mantenere posizioni difensive.
Penso
che, opporre la lotta generale contro la macchina Stato-Capitale alle lotte
locali e micro-politiche, che riguardano relazioni di potere specifiche, ben
rappresentato dal punto di vista di Michel Foucault, sia stata un grande errore
politico.
Il
filosofo francese incitava a «distogliersi da tutti quei progetti che
pretendono di essere globali e radicali» e, al contrario, concentrarsi sulle «trasformazioni, anche parziali», «che concernono i nostri modi
d’essere e di pensare, le relazioni d’autorità, i rapporti tra i sessi, il
modo in cui percepiamo la follia o la malattia».
Una
volta distrutti i progetti globali e radicali, i nostri modi di essere e di
pensare micro sono stati pesantemente sconvolti. Non sembra infatti che abbiano
beneficiato delle «trasformazioni parziali», e lo spazio del sapere e della
vita è stato occupato da un conformismo, una volgarità e un egoismo che tendono
continuamente a sfociare in nuove forme di fascismo, di razzismo, di sessismo e
di guerra.
La
questione della malattia è stata trasformata in industria della salute e la
follia è tornata a essere una condizione di emarginazione, dopo che un secolo
di rivoluzioni aveva creato le condizioni per estirparla dall’indigenza.
L’opposizione
tra trasformazioni parziali e trasformazioni radicali e globali, tra
rivoluzione politica e rivoluzione sociale, tra micro e macro politica, è
un’illusione che non regge alla luce della storia degli ultimi cinquant’anni. È la causa principale della miseria
politica e intellettuale del nostro tempo. C’è stata una specie di
spoliticizzazione del capitalismo, in cui la guerra è sparita.
La
posizione di estrema debolezza dei movimenti politici contemporanei si
manifesta nell’incapacità di politicizzare la violenza della guerra. Il paragone con le prese di
posizione politiche dei rivoluzionari di solo un secolo fa è impietoso. Per loro la guerra era il punto di
partenza e di arrivo dello sviluppo della macchina Stato-Capitale in generale e
di ogni ciclo d’accumulazione in particolare.
(Per quale motivo il Capo della “nuova
rivoluzione industriale” borghese (ossia Klaus Schwab) è
anche
il più grande costruttore privato di armi atomiche ?Ndr.).
Il
capitalismo è un insieme di relazioni di potere che si esercitano sia su scala
mondiale sia su scala sociale, tanto a livello micro quanto a livello macro.
Questa dimensione generale non può essere messa da parte. È la guerra che ce la impone, per chi
l’avesse dimenticato.
Classi
e minoranze
Il
sottotitolo del libro racchiude ciò che soprattutto vorrei discutere: le
«classi», al plurale, nel rapporto con le «minoranze». Le classi di cui parli non sono
marxianamente borghesia e proletariato ma la classe delle donne e quella degli
uomini, la classe dei bianchi e quella dei non bianchi, in un rapporto che
trascende la dialettica capitale-lavoro e in cui «le minoranze» – che come
precisi sulla scorta del manifesto del “Combahee River Collective” «non
escludono le classi» – agiscono trasversalmente attraverso la classe.
Questa
idea di un rapporto tra classi al plurale è espressamente interrogata da una
delle dieci ipotesi che fanno da ordito alla trama del libro, l’«ipotesi dei diversi modi di
produzione», anticipata dall’«ipotesi della rifondazione del concetto di
classe».
Ora, se concordo pienamente sulla necessità di
ripensare il concetto di classe che abbiamo ereditato dalla tradizione marxista
e operaia (operaista compresa), per la sua incapacità di leggere – come la
critica femminista e il pensiero radical nero hanno indicato – le forme dello
sfruttamento del capitalismo contemporaneo e la più complessa articolazione
degli spazi della soggettivazione politica rivoluzionaria, mi spiazza invece
l’ipotesi di una molteplicità di modi di produzione soprattutto se, come
opportunamente sottolinei, le minoranze, ovvero i soggetti che fanno esperienza
di rapporti di minorità, agiscono trasversalmente alla classe.
Cosa
intendi più precisamente con «diversi modi di produzione» e quali sono queste
«classi»?
A
partire dal dopo guerra, il più grande problema che la rivoluzione ha
incontrato è stato la questione della molteplicità delle classi e dei soggetti
politici. Se la questione emerge già con la conquista dell’America, è soltanto nel XX secolo che i processi
di soggettivazione delle donne e dei colonizzati affermano la loro autonomia
dal movimento operaio.
Questa
molteplicità è stata al centro delle teorie critiche degli anni Sessanta e
Settanta (le minoranze in Deleuze e Guattari, le «contro condotte» in Foucault,
fino alla molteplicità di singolarità della «moltitudine» in Negri e Hardt): un
passo avanti rispetto al marxismo ma anche molti passi indietro, perché
implicano la rimozione del concetto di classe (e di conseguenza – lo ripeto –
del concetto di guerre tra Stati e delle guerre di razza, sesso, classe).
In
contro tendenza, il femminismo materialista francese ha pensato, sulla scia
della definizione marxiana di capitale come rapporto sociale, il rapporto di potere degli uomini
sulle donne come un rapporto di classe, un «rapporto sociale di sesso».
Non si
tratta soltanto, come dice Fanon, di «distendere» il concetto per includervi le
donne e i colonizzati. L’allargamento del concetto di classe mette in crisi la sua
omogeneità, perché le classi sono costituite da minoranze (da una molteplicità
di minoranze). Le classi sono nello stesso tempo unità e molteplicità: la classe operaia contiene delle
minoranze sessuali e razziali, la classe delle donne contiene a sua volta
un’altra molteplicità (donne ricche e povere, bianche, nere, indigene,
eterosessuali, lesbiche, ecc.).
L’unità
della classe non può mai essere totalizzante perché è sempre un gioco di
opposizioni e di alleanze con «minoranze» anche esse organizzate in unità della
stessa natura.
La
differenza con altri femminismi è radicale: le femministe del salario al lavoro
domestico rivendicano l’appartenenza delle donne alla «classe operaia», le
femministe materialiste, affermano invece l’esistenza di diverse classi
sfruttate e dominate in modo specifico.
Tale
concetto della «classe» mi permette di criticare le politiche dell’identità
nelle quali i differenti movimenti politici contemporanei sono sempre pronti a
cadere: la
classe delle donne, come la classe operaia in Marx, riesce nella sua
rivoluzione soltanto se porta alla sua abolizione in quanto classe; il suo
successo è garantito dalla scomparsa dell’assoggettamento «donna».
Con l’accortezza di tener conto che le
modalità dell’assoggettamento donna passano per il sesso, come passano per la
razza gli assoggettamenti dei non bianchi e che quindi producono
soggettivazioni eterogenee a quelle degli operai.
Questo
femminismo, che esprime anche una grande estraneità dalla teoria della
«differenza sessuale» italiana, non intende affermare l’eterogeneità della donna,
ma abolire
il rapporto uomo-donna, sopprimendo cioè anche la classe degli uomini, «non
attraverso una pratica genocida ma politica».
Per
cercare di capire qualcosa in questa molteplicità, invece di esaltarla, girando
a vuoto come fanno molti, ho cercato di articolare insieme i concetti di classe
e minoranza, riprendendo le posizioni del Combahee River Collective che mi sembrano molto significative
in questo senso.
Queste
femministe nere e lesbiche tengono insieme l’azione delle classi e delle minoranze: i
dualismi capitale-lavoro, uomini-donne, bianchi-razzializzati sono dualismi di classe, sono reali e
bisogna disfarli.
Non
possono essere aggirati ma devono essere affrontati di petto. Quello che cambia è il come
affrontarli.
Quanto
ai «modi» di produzione, Marx stesso parlava di relazioni di potere «arcaiche»
che provengono da modi di produzione precedenti – come il lavoro domestico e il
patriarcato – che lo sviluppo del capitalismo avrebbe superato (Engels e Lenin,
dixit).
Cosa
che non è mai avvenuta perché i dualismi razziali e sessuali, che sono delle
relazioni di potere non specificamente capitalistiche, si sono riprodotti e
anche approfonditi. La guerra attuale li intensifica ulteriormente.
In
realtà il capitalismo è l’ibridazione di una molteplicità di rapporti di
potere, di differenti modi di produzione, di differenti modalità di
assoggettamento.
Il capitalismo non è un rapporto di potere puro (capitale/lavoro) e non è neanche un
rapporto che si purifica nel corso del suo sviluppo per arrivare al confronto
decisivo tra le due classi.
Questa è stata un’illusione perniciosa del
marxismo, ciò su cui è caduto. Anche in presenza di un alto sviluppo delle forze
produttive, si riproducono rapporti di potere, temporalità, soggettivazione che
non sono direttamente assimilabili al rapporto di Capitale, anche se questo li
cattura, li sfrutta, li domina.
La
definizione più pertinente di queste molteplicità è stata data da Ernst Bloch: «la contemporaneità del non
contemporaneo» (che nel libro mi limito a nominare senza svilupparla come merita), con cui cerca di spiegare il successo
del nazismo e la sconfitta del marxismo in Europa.
L’idea
è quella di diversi gruppi sociali che vivono nelle stesso mondo (la Germania
tra le due guerre) ma non nello stesso tempo; uno stesso mondo (il capitalismo)
racchiude temporalità e rapporti di potere differenti, modi di vivere e
lavorare (non «contemporanei»).
Il
tempo del capitale, anche in una situazione di grande sviluppo delle forze
produttive come in Germania in quegli anni, non riesce a sussumere tutti i
tempi, tutte le forme di vita, gli immaginari, le soggettività e neanche vuole,
perché il suo potere e il suo profitto si basa proprio su questi
«differenziali».
Bloch
fa l’esempio di tre gruppi sociali (i contadini, i giovani della classe media e
i gruppi sociali in via di declassamento) ai quali non si può parlare come agli
operai di fabbrica perché hanno «culture», linguaggi, modi di vita, pratiche
lavorative differenti. I nazisti hanno trovato un vocabolario, dei segni, un
immaginario per mistificare e nello stesso tempo organizzare il loro «disagio».
Il
grande etnologo e studioso delle religioni Ernesto De Martino dice la stessa
cosa rispetto al sud dell’Italia e del mondo. La «cultura», le forme di vita,
le abitudini, le credenze, il lavoro, di queste classi non sono riducibili alla
limpida purezza del rapporto capitale-lavoro.
Nel
libro cerco di mostrare come i rivoluzionari nel sud del mondo abbiano, nella
prima metà del XX secolo, riadattato la teoria marxista alla loro situazione
(contadina), con un grande successo (hanno fatto le loro rivoluzioni).
Nella
seconda metà dello stesso secolo la cosa è diventata più difficile. I colonizzati e le donne, il cui
assoggettamento e le modalità del dominio e dello sfruttamento non sono
direttamente riconducibili al rapporto capitale-lavoro, hanno rivendicato la
loro piena autonomia dal movimento operaio, precisamente perché non teneva
conto, né della specificità del loro sfruttamento e del loro essere dominati
che passa attraverso la razza e il sesso, né delle modalità di soggettivazione
e di organizzazione che non possono coincidere con quelle del movimento
operaio.
Rivendicare
la proprio autonomia dal movimento operaio e dal marxismo, come hanno fatto le
donne e i colonizzati nella seconda metà del Novecento, non vuol dire però porsi al di
fuori dei rapporti capitalistici, ovvero oltre la dialettica capitale-lavoro
(che pur non risolve la condizione, e la contraddizione, di questi soggetti).
Se è vero che il lavoro non basta più a
spiegare la classe, è altrettanto vero che dismettere la classe vuol dire
aprire alle derive identitarie e alla cattura capitalistica delle differenze,
come vediamo di questi tempi.
Piuttosto, come scrivi sulla scorta della
riflessione del Combahee River Collective, «il capitalismo funziona integrando oppressioni»; Ernst Bloch, che richiami, ci
ricorda che il capitalismo integra temporalità differenti, ma i «diversi modi di produzione» di cui parli non richiamano (non
necessariamente) temporalità differenti ma piuttosto differenti rapporti
sociali e comunque dentro un medesimo modo di produzione: il capitalismo….
Non li
ho separati io i modi di produzione, sono i movimenti del dopo guerra che hanno
imposto la rottura con il movimento operaio, con i partiti comunisti.
Io
cerco di capire cosa voglia dire rivendicare autonomia di organizzazione, di
decisione, di scelte politiche da parte delle donne e dei colonizzati. Si sono voluti separare a causa dei
limiti teorici e politici del movimento operaio e del marxismo.
La
rottura va interpretata come una chance per superare la sconfitta che la
rivoluzione mondiale ha subito tra gli anni Sessanta e Settanta, quando il
concetto di lotta di classe (capitale-lavoro) al singolare, ha mostrato tutti i
suoi limiti.
Dal
lavoro del femminismo materialista e del Combahee River Collective traggo l’idea che i rapporti di
classe sono al tempo stesso dualistici e molteplici e tutti sono catturati e
sfruttati dalla macchina Stato-Capitale.
Aggiungo
poi che i dualismi razziali e sessuali hanno la stessa importanza del dualismo
capitale-lavoro, sia dal punto di vista economico che politico. Inoltre, questi
dualismi esprimono l’opposizione tra le classi e queste differenti classi sono
composte da minoranze in cooperazione-conflitto tra loro.
La
molteplicità conflittuale delle minoranze interne alla classe esiste da sempre. Ci sono state e ci sono ancora
profonde differenze politiche, strategiche tra femministe nere e femministe
bianche, tra donne etero e lesbiche, all’interno del femminismo.
Aimé Cesaire, negli anni Cinquanta esce dal
partito comunista perché rivendica per i neri una loro propria organizzazione,
una loro propria politica.
Ancora oggi in Francia i militanti de-coloniali
si separano dalle organizzazioni della sinistra bianca. È questa dialettica che
mi interessa.
La
classe operaia si oppone al capitale secondo une logica dualista, ma per poter
essere efficace, deve comporsi con una molteplicità di differenze (razziali,
sessuali). Analogamente,
la classe delle donne si oppone in maniera dualistica agli uomini, ma questa
opposizione è costituita da una molteplicità (donne bianche, nere, ricche,
proletarie, lesbiche, eterosessuali) che deve essere compresa e organizzata.
Tuttavia, come sostengono le femministe del
Combahee River Collective, il capitale è un insieme di rapporti di potere
(uomini/donne, bianchi/razzializzati, capitale/lavoro), un insieme di modi di
produzione e un insieme di assoggettamenti.
Nessuna
classe può pretendere di liberarsi da sola: la rivoluzione degli operai, la
rivoluzione delle donne, la rivoluzione dei razzializzati sono impossibili,
perché ciascuna di queste lotte attacca soltanto una delle relazioni di potere
(sessuale, razziale, economica).
La molteplicità degli sfruttamenti e delle dominazioni
richiede delle lotte e delle forme di organizzazione specifiche, ma che in
nessun modo possono richiudersi su se stesse.
Se si limitano alla loro specificità rischiano
di non portar a termine nemmeno la loro propria liberazione ( la Corte suprema degli Stati Uniti
che ha annullato la libertà di scelta delle donne sull’aborto). Se attaccata solo su un fronte
(femminismo, razzismo, classismo), la macchina Stato-Capitale resiste riprendendosi un
poco alla volta gli spazi di libertà e le conquiste conseguite dai differenti
movimenti.
L’autonomia delle lotte delle donne e dei razzializzati è necessaria, ma non
deve essere fine a se stessa.
Le
classi contemporanee non possono agire come la classe operaia storica, poiché
devono tener conto delle politiche e dell’organizzazione delle minoranze. Non possono pretendere di diventare
soggetti rivoluzionari universali, né di costituire una soggettivazione
egemonica.
Gli assoggettamenti, come le soggettivazioni, sono molteplici e neutralizzano
ogni tentativo di costituzione di un soggetto maggioritario. Il declino del partito e delle forme
di organizzazione centralizzate (e identitarie) del movimento operaio è dovuto
all’emergere di queste classi e di queste minoranze, che il marxismo poteva vedere solo
come contraddizioni secondarie subordinate alla lotta capitale-lavoro.
I
dualismi uomini-donne e bianchi-razzializzati impediscono la riproduzione di
una semplificazione assimilabile allo scontro «finale» tra capitalisti e
operai, capace di portare l’ostilità agli estremi (dualismo di potere).
Questa
semplificazione, pur necessaria per battere la macchina Stato-Capitale, non è
più realizzabile da una sola classe nelle forme che il marxismo aveva
teorizzato.
Il modo
di agire della macchina Stato-Capitale non è caratterizzato
dall’omogeneizzazione, ma dalla differenziazione dei rapporti di potere, dei
lavori, degli assoggettamenti.
Non è
vero che il capitale opera passando sistematicamente dalla sussunzione formale (sfruttamento
di relazioni produttive e di potere pre-capitaliste), alla sussunzione reale
(sfruttamento di relazioni produttive e di potere che sono modellate secondo i
metodi del capitale).
Al contrario, produce lui stesso il
sottosviluppo, il lavoro non salariato, il lavoro gratuito. Nello stesso momento in cui
valorizza il lavoro astratto, deve necessariamente creare (o trovare) del
lavoro non astratto. Riprendendo la teoria del lavoro gratuito di Jason Moore:
se ci fosse solo lavoro astratto, se la sussunzione reale procedesse
inesorabilmente, il tasso di profitto sarebbe destinato a cadere.
La
differenziazione è quello che la mondializzazione produce e riproduce per
mantenere alti i tassi di profitto. Il patriarcato, il lavoro domestico, l’eterosessualità
non sono stati inventati dal Capitale, ma questo li integra nel suo modo di
sfruttamento, creando une ibridazione che ne modifica certi aspetti ma ne
conserva la sua forma arcaica (neo-arcaismo dicono felicemente Deleuze e
Guattari).
È per
questo che il razzismo e il sessismo, invece di essere superati dai rapporti
propriamente capitalisti, sono dei dispositivi fondamentali della gestione di
una nuova divisione interna tra nord e sud, strumenti di controllo del lavoro
gratuito e delle soggettività che lo erogano. Lo Stato francese nasconde questa
realtà sotto la foglia di fico della laicità e dell’opposizione tra civiltà. In
realtà il razzismo e il sessismo sono dispositivi di classe.
Ora,
il problema è che questa molteplicità articolata in classi e minoranze non ha
ancora trovato una strategia per affermarsi in quanto molteplicità che nega, al
tempo stesso, la macchina Stato-Capitale. Da quest’ultimo scontro si esce
vincitori o vinti, non c’è riformismo che tenga (anche questo è stato
constatato e confermato da cinquant’anni di contro rivoluzione).
La
guerra dimostra chiaramente la debolezza politica dei movimenti. Rischiano di uscirne stritolati, di
non giocare nessun ruolo nel nuovo ordine mondiale nascente, perché, a
differenza dei movimenti del XX secolo, non hanno nessuna strategia globale per
battere il capitale.
Differenze
e opposizione.
Nell’ultima
parte del libro, riprendendo la nota espressione di Carla Lonzi, richiami
l’idea di un «soggetto imprevisto» che sappia misurarsi in questa relazione
strategica tra classi e minoranze.
È un soggetto «imprevisto» perché capace di
far vivere simultaneamente negazione e affermazione, che sa fare della
differenza di cui è espressione la minoranza un’opposizione (oltre
l’affermazione). Enuncia la differenza e al contempo la nega. L’una o l’altra
non sono abbastanza: «dopo aver riconosciuto le opposizioni e le “differenze”,
… devono convertirsi in una coalizione contro il nemico esterno comune».
La
questione è cruciale. Come mostri nel libro, le differenze, al pari delle
minoranze, non sono sempre o necessariamente opposizione. Come fare delle differenze
un’opposizione, come sottrarre le differenze alla cattura del capitale, resta
il nodo politico oggi…
Le
differenze devono diventare opposizioni. Bisogna lavorare politicamente
perché diventino antagoniste, altrimenti saranno impotenti. Al fondo dei soggetti politici c’è
l’opposizione.
A
causa della molteplicità della composizione delle classi, a causa della loro
eterogeneità il soggetto politico non è già dato (non gli basta passare dall’in
se al per sé come la classe operaia), ma è un soggetto imprevisto, nel senso
che bisogna inventarlo, costruirlo. Non preesiste all’azione del suo farsi, alla
strategia che lo fa emergere.
La
difficoltà consiste nel comporre questa molteplicità e condurre,
contemporaneamente, una lotta per il superamento del capitalismo. È necessario un doppio pensiero
strategico, per la molteplicità e per il dualismo di potere che quest’ultima
deve instaurare con la macchina Stato-Capitale.
Le
classi dominanti al pari delle classi oppresse si relazionano tra loro
attraverso strategie di dominazione o di liberazione. È impossibile racchiudere la loro
azione in un tutto, un sistema, una struttura, perché si tratta di rapporti di
potere contingenti, provvisori, precari, aperti all’iniziativa politica,
all’azione. La strategia non è né un progetto né un programma, ma una tecnica
immanente alle lotte. Non è esercitata da un soggetto sovrano che precede la sua
attuazione, perché essa è condizione del suo apparire. La dinamica della sua costituzione è
data dal rifiuto, dall’opposizione, dalla negazione politica del suo nemico.
Nel
capitalismo, le differenze non innescano un processo di differenziazione (per
cui la differenza va differenziandosi) come crede ingenuamente una certa
filosofia. Al
contrario, le differenze si polarizzano e si oppongono con una intensità tale
che, alla fine del ciclo di accumulazione, sfocia nella guerra.
L’immanenza
del capitalismo rispetto alle lotte, è legata all’esaltazione, da parte delle
teorie critiche, della differenza come alternativa politica all’opposizione e
alla critica del negativo che ne consegue. La differenza sarebbe una
affermazione assoluta che non ha bisogno di nessun negativo. Mi sembra invece che l’azione
politica sia impossibile senza negazione, senza rifiuto, senza opposizione.
Certo il negativo non va visto con gli
occhiali della dialettica hegeliana ma la negazione va affermata. Si tratta di sostituire al pensiero
dialettico un pensiero strategico, in cui il negativo non può mai essere
«superato» dialetticamente ma attraverso uno scontro, una lotta che non
contiene già il suo verdetto come vorrebbe la filosofia della storia.
La
guerra è un esempio perfetto di scontro non dialettico, perché non c’è nessuna
filosofia della storia che può decidere della vittoria o della sconfitta. L’esito della guerra dipende dal
«caso» dei rapporti di forza, dalla capacità di costruirli, di gestirli, di
imporli.
È
sempre l’opposizione che interrompe il procedere della macchina Stato-Capitale,
mai la differenza. Le differenze non minacciano mai i poteri stabiliti. Si potrebbe addirittura dire il
contrario.
Il Capitale favorisce differenze «negative» come
il razzismo e il sessismo – e incoraggia a produrre differenze «positive»
necessarie al consumo e alla produzione.
Ciò
che minaccia il Capitale è sempre la trasformazione delle differenze in
opposizioni. Se non operano questo passaggio le differenze saranno spazzate via
dalle guerre e dai fascismi.
(Maurizio
Lazzarato, sociologo e filosofo, vive e lavora a Parigi dove svolge attività di
ricerca sulle trasformazioni del lavoro e le nuove forme di movimenti sociali.
Tra le sue pubblicazioni in lingua italiana: La fabbrica dell’uomo indebitato
(2012) e Il governo dell’uomo indebitato (2013), Il capitalismo odia tutti
(2019) pubblicati con successo presso DeriveApprodi.).
MANIFESTO
DEL GRANDE RISVEGLIO.
CONTRO
IL GRANDE RESET .
4pt.su-
Alexander Dugin- (10-3-2022)- ci dice :
Il
Grande Reset.
I
cinque punti del Principe Carlo.
Nel
2020, al forum di Davos, il fondatore del forum Klaus Schwab e Carlo, il
principe del Galles, hanno proclamato un nuovo corso per l’umanità, il Grande
Reset.
Il
piano, secondo il principe del Galles, consiste in cinque punti:
catturare
l’immaginazione e la volontà dell’umanità – il cambiamento avverrà solo se la
gente lo vuole davvero;
la
ripresa economica deve indirizzare il mondo sulla via dell’occupazione, dei
mezzi di sussistenza e di crescita sostenibili. Le strutture di stimolo di
vecchia data che hanno avuto effetti perversi sul nostro ambiente planetario e
sulla natura stessa devono essere reinventate;
i
sistemi e i procedimenti devono essere riprogettati per far avanzare le
transizioni a tasso zero a livello globale. La tariffazione del carbone può
costituire una via cruciale per un mercato sostenibile;
la
scienza, la tecnologia e l’innovazione devono essere rivitalizzate. L’umanità è
sull’orlo di scoperte catalizzatrici che altereranno la nostra visione di ciò
che è possibile e redditizio nel quadro di un futuro sostenibile;
gli
investimenti devono essere riequilibrati. L’accelerazione degli investimenti
verdi può offrire opportunità di lavoro nell’energia verde, nell’economia
circolare e nella bioeconomia, nell’ecoturismo e nelle infrastrutture pubbliche
verdi.
Il
termine “sostenibile” rientra nel più importante concetto del Club di Roma:
“sviluppo sostenibile”. Questa nozione si basa a sua volta su un’altra teoria –
i “limiti della crescita”, secondo la quale la sovrappopolazione del pianeta ha
raggiunto un punto critico (il che implica la necessità di ridurre il tasso di
natalità).
Il
fatto che la parola “sostenibile” sia usata nel contesto della pandemia da
Covid-19, che, secondo alcuni analisti, dovrebbe portare al declino della
popolazione, ha causato una reazione significativa a livello globale.
I
punti principali del Grande Reset sono:
il controllo della coscienza pubblica su scala
globale, che è il cuore della “cancel culture” – l’introduzione della censura
sulle reti controllate dai globalisti (punto 1);
la transizione verso un’economia ecologica e
il declino delle strutture industriali moderne (punti 2 e 5);
L’ingresso
dell’umanità nel cosiddetto Quarto ordine economico (a cui è stata dedicata la
precedente riunione di Davos), cioè la graduale sostituzione della forza lavoro
con i cyborg e l’implementazione dell’intelligenza artificiale avanzata su
scala globale (punto 3).
L’idea
principale del “Grande Reset” è la prosecuzione della globalizzazione e il
rafforzamento del globalismo in seguito a una serie di fallimenti: la
presidenza conservatrice dell’antiglobalista Trump, la crescente influenza di
un mondo multipolare – soprattutto di Cina e Russia, l’ascesa dei paesi
islamici come Turchia, Iran, Pakistan, Arabia Saudita e il loro sottrarsi
all’influenza dell’Occidente.
Al
forum di Davos, i rappresentanti delle élite liberali globali hanno annunciato
la mobilitazione delle loro strutture in previsione della presidenza di Biden e
della vittoria dei democratici negli Stati Uniti, cosa che desideravano
fortemente.
Implementazione.
Il
segnavia dell’agenda globalista è la canzone di Jeff Smith “Build Back Better” (lo slogan della campagna di Joe
Biden). Nel senso che dopo una serie di battute d’arresto (come un tifone o
l’uragano Katrina), la gente (cioè i globalisti) ricostruisce infrastrutture
migliori di quelle che aveva prima.
Il
“Grande Reset” inizia con la vittoria di Biden.
I
leader mondiali, i capi delle grandi corporazioni – Big Tech, Big Data, Big
Finance, ecc. – si sono riuniti e mobilitati per sconfiggere i loro avversari –
Trump, Putin, Xi Jinping, Erdogan, l’Ayatollah Khamenei, e così via. Per
cominciare, si è cercato di strappare la vittoria a Trump usando nuove
tecnologie – attraverso la “cattura dell’immaginazione” (punto 1),
l’introduzione della censura su Internet, e la manipolazione del voto per
corrispondenza.
L’arrivo
di Biden alla Casa Bianca permette ai globalisti di passare alla fase
successiva.
Questo
influenzerà tutti i settori della vita – i globalisti riprendono il cammino da
dove Trump e altri poli del nascente multipolarismo li avevano fermati. Ed è
qui che il controllo mentale (attraverso la censura e la manipolazione dei
social media, la sorveglianza totale e la raccolta di dati di tutti) e
l’introduzione di nuove tecnologie giocano un ruolo chiave.
L’epidemia
da Covid-19 è una scusa che giustifica tutto questo. Con il pretesto dell’igiene sanitaria, il
Grande Reset prevede di alterare drammaticamente le strutture di controllo
delle élite globaliste sulla popolazione mondiale.
L’insediamento
di Joe Biden e i decreti che ha già firmato (ribaltando praticamente tutte le
decisioni di Trump) indicano che si è iniziato a mettere in atto il piano.
Nel
suo discorso sul “nuovo” corso della politica estera degli Stati Uniti, Biden
ha espresso le principali direzioni della politica globalista. Può sembrare
“nuovo”, ma solo in parte, e solo in confronto alle politiche di Trump. Nel
complesso, Biden ha semplicemente annunciato un ritorno al precedente vettore:
mettere
gli interessi globali davanti agli interessi nazionali;
rafforzare
le strutture del governo mondiale e i suoi rami sotto forma di organizzazioni e
strutture economiche sovranazionali;
rafforzare
il blocco NATO e la cooperazione con tutte le forze e i regimi globalisti;
promuovere
e approfondire il rinnovamento democratico su scala globale, che in pratica si traduce in:
1) una
escalation nelle relazioni con quei paesi e regimi che contrastano la
globalizzazione americanocentrica – prima di tutto, Russia, Cina, Iran,
Turchia, ecc;
2) una
maggiore presenza militare degli Stati Uniti in Medio Oriente, Europa e Africa;
3) la
proliferazione dell’instabilità e delle “rivoluzioni di colore”;
4)
l’uso diffuso di “demonizzazione”, “de-platforming” e ostracismo della rete
(cancel culture) contro tutti coloro che hanno opinioni diverse da quella
globalista (sia all’estero che negli stessi Stati Uniti).
Così,
la nuova leadership della Casa Bianca non solo non mostra la minima volontà di
avere un dialogo alla pari con nessuno, ma si limita a serrare il proprio
discorso liberale, che non tollera alcuna obiezione. Il globalismo sta entrando in una
fase totalitaria. Questo rende più che probabile che scoppino nuove guerre, con
un aumento del rischio di una Terza guerra mondiale.
La
geopolitica del “Grande Reset”.
La
globalista Foundation for Defence of Democracies, che esprime la posizione dei
circoli neoconservatori statunitensi, ha recentemente pubblicato un
rapporto che raccomanda a Biden che alcune delle posizioni di Trump – come una maggiore opposizione alla
Cina e una maggiore pressione sull’Iran sono positive, e che Biden dovrebbe continuare a
muoversi lungo questi assi in politica estera.
Gli
autori del rapporto, invece, hanno condannato le azioni di politica estera di
Trump come:
1) il
lavoro teso alla disgregazione della NATO;
2) la
riconciliazione con “leader totalitari” (cinese, nordcoreano, e russo);
3) un
“cattivo” accordo con i talebani;
4) il
ritiro delle truppe statunitensi dalla Siria.
Così,
il “Grande Reset” in geopolitica si tradurrà in una combinazione di “promozione
della democrazia” e “strategia aggressiva neoconservatrice di dominazione su
larga scala”, che è il principale vettore della politica “neoconservatrice”.
Allo
stesso tempo, viene consigliato a Biden di portare avanti e intensificare il
contrasto all’ Iran e alla Cina, ma l’obiettivo principale dovrebbe essere la
lotta alla Russia. E questo richiede il rafforzamento della NATO e l’espansione
della presenza degli Stati Uniti in Medio Oriente e in Asia centrale.
Al
pari di Trump, la Russia, la Cina, l’Iran e qualche altro paese islamico sono
visti come i maggiori ostacoli.
In tal
modo, i progetti ambientalisti (di klaus Schwab & C. Ndr.) e le innovazioni tecnologiche
(prima fra tutte l’introduzione dell’intelligenza artificiale e della robotica)
si combinano con l’ascesa di una politica militare aggressiva.
Una
breve storia dell’ideologia liberale (Ossia l’attuale liberal Dem Usa,
globalista.Ndr))
Il
globalismo come culmine del Nominalismo.
Per
capire chiaramente cosa rappresenta su base storica la vittoria di Biden e il
“nuovo” corso di Washington verso il “Grande Reset”, bisogna considerare
l’intera storia dell’ideologia liberale, a partire dalle sue radici. Solo così
saremo in grado di capire la gravità della nostra situazione. La vittoria di Biden non è un
episodio casuale, e l’annuncio di un contrattacco globalista non è
semplicemente l’agonia di un progetto fallito. La faccenda è molto più seria. Biden
e le forze alle sue spalle incarnano il culmine di un processo storico che è
iniziato nel Medioevo, ha raggiunto la sua maturità nella Modernità con
l’emergere della società capitalista, e che oggi sta raggiungendo la sua fase
finale – quella delineata teoricamente da principio.
Le
radici del sistema liberale (= capitalista) risalgono alla disputa scolastica
sugli universali. Questa disputa divideva i teologi cattolici in due campi:
alcuni riconoscevano l’esistenza dell’universale (specie, genere, universalia),
mentre altri credevano solo in certe realtà concrete – individuali –, e
interpretavano i loro nomi generalizzanti come sistemi convenzionali di
classificazione puramente esterni, rappresentanti un “flatus vocis”. Coloro che
erano convinti dell’esistenza dell’universale, della specie, attingevano alla
tradizione classica di Platone e Aristotele. Essi vennero chiamati “realisti”,
cioè coloro che riconoscevano la “realtà degli universalia”. Il rappresentante
più importante dei “realisti” fu Tommaso d’Aquino e, in generale, la tradizione
dei monaci domenicani.
I
sostenitori dell’idea che solo le cose e gli esseri individuali sono reali
vennero chiamati “nominalisti”, dal latino “nomen”. Il principio secondo cui
“gli enti non debbono essere moltiplicati oltre il necessario” risale
precisamente a uno dei principali difensori del “nominalismo”, il filosofo
inglese William Occam. Prima ancora, le stesse idee erano state sostenute da
Roscellino di Compiègne. Sebbene i “realisti” abbiano vinto la prima fase del
conflitto e gli insegnamenti dei “nominalisti” siano stati anatemizzati, più
tardi le strade della filosofia dell’Europa occidentale – specialmente dell’era
moderna – furono tracciate da Occam.
Il
“nominalismo” pose le basi del futuro liberalismo, sia ideologicamente che
economicamente. Qui gli esseri umani erano visti solo come individui e
nient’altro, e tutte le forme di identità collettiva (religione, classe, ecc.)
dovevano essere abolite. Allo stesso modo, la cosa in sé era vista come
proprietà privata assoluta, come una realtà concreta e distinta che poteva
essere facilmente attribuita come bene di questo o quel proprietario
individuale.
Il
nominalismo prevalse prima di tutto in Inghilterra, si diffuse nei paesi
protestanti e gradualmente divenne la principale matrice filosofica dell’era
moderna – nella religione (relazioni individuali dell’uomo con Dio), nella
scienza (atomismo e materialismo), nella politica (presupposti della democrazia
borghese), nell’economia (mercato e proprietà privata), nell’etica
(utilitarismo, individualismo, relativismo, pragmatismo), ecc.
Capitalismo:
la prima fase.
Partendo
dal nominalismo, possiamo tracciare tutto il percorso storico del liberalismo,
da Roscellino e Occam fino a Soros e Biden. Per comodità, dividiamo questa
storia in tre fasi.
La
prima fase è
stata l’introduzione del nominalismo nell’ambito della religione. L’identità
collettiva della Chiesa, come intesa dal Cattolicesimo (e ancor più
dall’Ortodossia), venne sostituita dai protestanti in quanto individui che
potevano d’ora in poi interpretare le Scritture basandosi solo sul loro
ragionamento e rifiutando qualsiasi tradizione. Così molti aspetti del
Cristianesimo – i sacramenti, i miracoli, gli angeli, la ricompensa dopo la
morte, l’apocalisse, ecc. – vennero riconsiderati e scartati poiché non
soddisfacevano i “criteri razionali”.
La
Chiesa come “corpo mistico di Cristo” è stata distrutta e sostituita da club di
hobbisti nati dal libero consenso dal basso. Questo ha creato un gran numero di
sette protestanti in disputa. In Europa e nella stessa Inghilterra, dove il
nominalismo aveva prodotto i suoi frutti più consistenti, il processo fu in
qualche modo attenuato, e i protestanti più accaniti si precipitarono nel Nuovo
Mondo e vi stabilirono la loro società. Più tardi, in seguito all’affermazione
del modello metropolitano, emersero gli Stati Uniti.
Parallelamente
alla distruzione della Chiesa come “identità collettiva” (qualcosa di
“comune”), iniziò lo smantellamento degli stati [ordini sociali medievali,
NdT]. La gerarchia sociale di sacerdoti, aristocrazia e contadini fu sostituita
da indefiniti “cittadini”, secondo il senso originale della parola “borghese”. La borghesia soppiantò tutti gli
altri strati della società europea. Ma il borghese non era altro che la miglior
espressione dell’“individuo”, un cittadino senza appartenenza clanistica, tribale o
castale, ma detentore di proprietà privata. E questa nuova classe cominciò a
ricostruire la società europea su nuove fondamenta.
Allo
stesso tempo, anche l’unità sovranazionale rappresentata dalla Sede Papale e
dall’Impero Romano d’Occidente – altra espressione di “identità collettiva” –
fu abolita. Al suo posto si instaurò un ordine basato su Stati nazionali sovrani, una
sorta di “individuo politico”. Un ordine che venne consolidato con la Pace di Westfalia
al termine della guerra dei Trent’anni.
Così,
dalla metà del XVII secolo, in Europa occidentale si era affermato un ordine
nei suoi tratti principali borghese (detto altrimenti, il capitalismo).
La
filosofia del nuovo ordine fu per molti versi anticipata da Thomas Hobbes e
sviluppata da John Locke, David Hume e Immanuel Kant. Adam Smith applicò questi
princìpi al campo economico, dando origine al liberalismo come ideologia
economica. Di fatto, il capitalismo, basato sull’applicazione sistematica del
nominalismo, divenne una coerente visione sistemica del mondo. Il senso della
storia e del progresso era ormai quello di “liberare l’individuo da ogni forma di
identità collettiva” e portare questo vettore al suo limite logico.
Nel
Ventesimo secolo, grazie al periodo delle conquiste coloniali, il capitalismo
originario dell’Europa occidentale è diventato una realtà globale. L’approccio
nominalista ha prevalso nella scienza e nella cultura, nella politica e
nell’economia, nel pensiero quotidiano dei popoli occidentali e di tutta
l’umanità.
Il
Ventesimo secolo e il trionfo della globalizzazione: la seconda fase.
Nel
Ventesimo secolo, il capitalismo ha dovuto far fronte a una nuova sfida. Questa
volta non si trattava di contrastare le usuali forme di identità collettiva –
religiosa, di stato, castale, ecc. – ma teorie artificiali e anche moderne
(come lo stesso liberalismo) che rifiutavano l’individualismo e lo
contrastavano con nuove forme di identità collettiva (combinate
concettualmente).
Socialisti,
socialdemocratici e comunisti hanno contrastato i liberali con le identità di
classe, chiamando i lavoratori di tutto il mondo a unirsi per rovesciare il
potere della borghesia globale. Questa strategia si dimostrò efficace, e in
alcuni grandi Paesi (anche se non in quelli industrializzati e occidentali come
Karl Marx, il fondatore del comunismo, aveva preconizzato), nacquero
rivoluzioni proletarie.
Parallelamente
ai comunisti ebbe luogo, questa volta in Europa occidentale, la presa del
potere da parte di forze caratterizzate da un estremo nazionalismo. Esse
agivano in nome della “nazione” o di una “razza”, contrapponendo di nuovo
l’individualismo liberale a qualcosa di “comune”, un qualche “essere
collettivo”.
I
nuovi oppositori del liberalismo non afferivano più all’onda inerziale del
passato, come nelle fasi precedenti, ma erano latori di progetti modernisti
sviluppati nello stesso Occidente. E tuttavia essi si basavano anche sul
rifiuto dell’individualismo e del nominalismo. Questo venne ben compreso dai
teorici del liberalismo (soprattutto da Hayek e dal suo discepolo Popper), che unirono “comunisti” e “fascisti”
sotto il generico nome di “nemici della società aperta”, intraprendendo una
serrata battaglia nei loro confronti.
Servendosi
tatticamente della Russia sovietica, il capitalismo riuscì inizialmente ad
avere la meglio sui regimi fascisti, e questo fu il risvolto ideologico della
seconda guerra mondiale. La conseguente guerra fredda tra Est e Ovest alla fine degli
anni Ottanta si concluse infine con la vittoria liberale sui comunisti.
Così,
il progetto di liberazione dell’individuo da ogni forma di identità collettiva
e il “progresso ideologico” come inteso dai liberali entrò in una nuova fase.
Negli anni Novanta, i teorici liberali iniziarono a parlare della “fine della
storia” (F. Fukuyama) e del “momento unipolare” (C. Krauthammer).
Questa
si è rivelata una chiara evidenza dell’entrata del capitalismo nella sua fase
più avanzata – la fase del globalismo. Infatti, è stato in questo momento
che negli
Stati Uniti ha trionfato la strategia globalista delle élite al potere, delineata nella Prima guerra
mondiale dai Quattordici punti di Wilson, ma che alla fine della Guerra fredda
accomunava le élite di entrambi i partiti – democratici e repubblicani, questi
ultimi rappresentati principalmente dai “neoconservatori”.
Gender
e Postumanesimo: la terza fase.
Dopo
aver sconfitto il suo ultimo nemico ideologico, ossia il campo socialista, il
capitalismo è giunto a un nodo cruciale. L’individualismo, il mercato,
l’ideologia dei diritti umani, la democrazia e i valori occidentali hanno vinto
su scala globale. Sembrerebbe che l’agenda sia compiuta – nessuno oppone più
all’“individualismo” e al nominalismo un qualcosa di serio e sistematico.
A
questo punto, il capitalismo entra nella sua terza fase. A ben vedere, dopo aver sconfitto
il nemico esterno, i liberali hanno scoperto altre due forme di identità
collettiva. Prima di tutto, il genere. In fondo, anche il genere è qualcosa di collettivo: sia maschile che femminile. Così il passo successivo è stato la
distruzione del genere come qualcosa di oggettivo, essenziale e insostituibile.
Il
genere doveva essere abolito, come tutte le altre forme di identità collettiva,
già soppresse in precedenza. Da qui la politica di genere, la trasformazione della
categoria di genere in qualcosa di “opzionale” e dipendente dalla scelta
individuale. Anche qui abbiamo a che fare con lo stesso nominalismo: perché
doppia entità? Una persona è una persona in quanto individuo, mentre il genere può
essere scelto arbitrariamente, proprio come da tempo si sceglie la religione,
la professione, la nazione e lo stile di vita.
Questo
è diventato il principale programma dell’ideologia liberale negli anni Novanta,
dopo la sconfitta dell’Unione Sovietica. Certo, oppositori esterni si
ergevano sulla strada della politica di genere – quei Paesi che presentavano ancora
resti della società tradizionale, i valori della famiglia, ecc. –, così come i circoli conservatori
nello stesso Occidente. Combattere i conservatori e gli “omofobi”, cioè i difensori
della visione tradizionale dell’esistenza dei sessi, è diventato il nuovo
obiettivo degli aderenti al liberalismo progressista. Molte sinistre si sono unite a
loro, sostituendo le politiche di genere e la difesa dell’immigrazione
selvaggia alle precedenti istanze anticapitalistiche.
Con la
riuscita istituzionalizzazione delle norme di genere e a seguito delle
migrazioni di massa, che stanno atomizzando le popolazioni nello stesso
Occidente (il che si adatta perfettamente a un’ideologia dei diritti umani che
opera con l’individuo senza tener conto degli aspetti culturali, religiosi,
sociali o nazionali), è diventato palese che ai liberali è rimasto un ultimo
passo da fare: abolire l’essere umano.
Dopo
tutto, anche quella umana è un’identità collettiva, il che vale a dire che essa
è da superare, da abolire, da distruggere. Questo è ciò che esige il principio
del nominalismo: una “persona” è solo un nome, un vuoto sussulto d’aria, una
classificazione arbitraria e quindi sempre questionabile. Esiste solo
l’individuo – umano o no, maschio o femmina, religioso o ateo, dipende dalla
sua scelta.
Così,
l’ultimo passo che rimane ai liberali, che hanno percorso secoli verso il loro
obiettivo, è quello di sostituire gli umani, anche se parzialmente, con cyborg,
reti di intelligenza artificiale e prodotti di ingegneria genetica. L’umano
opzionale segue logicamente il genere opzionale.
Questa
agenda è già abbastanza presagita dal post-umanesimo, dal postmodernismo e dal
realismo speculativo in filosofia, e tecnologicamente sta diventando sempre più
realistica di giorno in giorno.
I
futurologi e i sostenitori dell’accelerazione del processo storico
(accelerazionisti) guardano con fiducia al prossimo futuro, quando l’intelligenza artificiale
sarà paragonabile, nei parametri di base, all’essere umano. Questo momento è
chiamato la Singolarità. Il suo arrivo è previsto entro 10-20 anni.
L’ultima
battaglia dei liberali.
Questo
è il contesto in cui va collocata la vittoria di Biden negli Stati Uniti. Questo è il significato del “Grande
Reset” o dello slogan “Build Back Better”.
Negli
anni Duemila, i globalisti hanno affrontato una serie di problemi che non erano
tanto ideologici quanto di natura “civilizzazionale”. Dalla fine degli anni Novanta, non
ci sono state praticamente ideologie più o meno coerenti nel mondo in grado di
sfidare il liberalismo, il capitalismo e il globalismo. Seppure in misura diversa, questi
principi sono stati accettati da tutti o quasi. Tuttavia, l’attuazione del
liberalismo e delle politiche di genere, così come l’abolizione degli
Stati-nazione in favore di un governo mondiale, si è arenata su più fronti.
Tutto
ciò è stato sempre più contrastato dalla Russia di Putin, dotata di armi
nucleari e di una tradizione di storica opposizione all’Occidente, nonché da un certo numero di
tradizioni conservatrici che si mantengono nella società.
La
Cina, sebbene attivamente impegnata nella globalizzazione e nelle riforme
liberali, non ha avuto fretta di applicarle al sistema politico, mantenendo il dominio del Partito
Comunista e rifiutando la liberalizzazione politica.
Inoltre,
sotto Xi Jinping, le tendenze nazionali nella politica cinese hanno cominciato
a crescere. Pechino ha abilmente usato il “mondo aperto” per perseguire i suoi
interessi nazionali e persino di civiltà. E questo non faceva parte dei piani
dei globalisti.
I
Paesi islamici hanno continuato la loro lotta contro l’occidentalizzazione e, nonostante
i blocchi e le pressioni, hanno mantenuto (come l’Iran sciita) i loro regimi inconciliabilmente
anti-occidentali e anti-liberali. Le politiche dei grandi Stati sunniti come la Turchia
e il Pakistan sono diventate sempre più indipendenti dall’Occidente.
In
Europa, un’ondata di populismo ha cominciato a sorgere quando è esploso il
malcontento europeo autoctono per l’immigrazione di massa e le politiche di
genere. Le
élite politiche europee sono rimaste completamente subordinate alla strategia
globalista, come si è visto al Forum di Davos nelle relazioni dei suoi teorici
Schwab e del principe Carlo, ma le società stesse sono entrate in tensione e
talvolta sono insorte sfociando in una rivolta diretta contro le autorità – come
nel caso delle proteste dei “gilet gialli” in Francia. In alcuni luoghi, come
l’Italia, la Germania o la Grecia, i partiti populisti si sono addirittura
fatti strada in Parlamento.
Infine,
nel 2016, negli stessi Stati Uniti, Donald Trump è riuscito a diventare
Presidente, sottoponendo l’ideologia, le pratiche e gli obiettivi globalisti a una
severa e diretta critica. Ed è stato sostenuto da circa la metà degli
americani.
Tutte
queste tendenze anti-globaliste agli occhi degli stessi globalisti non potevano
che sommarsi andando a comporre un quadro inquietante: la storia degli ultimi secoli, con il
suo progresso apparentemente ininterrotto dei nominalisti e dei liberali,
veniva messa in discussione. Non si trattava semplicemente del disastro di questo o quel
regime politico. Era la minaccia della fine del liberalismo in quanto tale.
Anche
gli stessi teorici del globalismo sentivano che qualcosa non andava. Fukuyama,
per esempio, ha abbandonato la sua tesi della “fine della storia” e ha
suggerito ha suggerito di mantenere gli Stati nazionali sotto il dominio delle élite
liberali per preparare meglio le masse alla trasformazione finale in
post-umanità, sostenuta con metodi rigidi. Un altro globalista, Charles
Krauthammer, ha dichiarato che il “momento unipolare” è finito e che le élite globaliste non sono riuscite
a trarne vantaggio.
Questo
è esattamente lo stato di panico e di quasi isterismo in cui i rappresentanti
dell’élite globalista hanno trascorso gli ultimi quattro anni. Ed è per questo che la questione
della rimozione di Trump come presidente degli Stati Uniti era una questione di
vita o di morte per loro. Se Trump avesse mantenuto la sua carica, il fallimento
della strategia globalista sarebbe stato irreversibile.
Ma
Biden è riuscito – con le buone o con le cattive – a spodestare Trump e a
demonizzare i suoi sostenitori. È qui che entra in gioco il Grande Reset. Non c’è davvero nulla di nuovo in
esso – è
una continuazione del principale vettore della civilizzazione europea
occidentale in direzione del progresso, interpretato nello spirito
dell’ideologia liberale e della filosofia nominalista. Non rimane invero molto da fare:
liberare gli individui dalle ultime forme di identità collettiva – completare l’abolizione del genere e
muoversi verso un paradigma post-umanista.
I
progressi dell’alta tecnologia, l’integrazione delle società in social network
strettamente controllati, come ormai emerge, da élite liberali in modo
apertamente totalitario, e il perfezionamento delle modalità di tracciamento e
influenza delle masse rendono il raggiungimento degli obiettivi liberali finali
a portata di mano.
Ma per
fare il salto decisivo, devono, repentinamente e senza più badare alle
apparenze, spianare la strada alla finalizzazione della storia. E questo implica che la rimozione di
Trump sia il segnale che dà il via all’attacco di tutti gli altri ostacoli.
Abbiamo
così determinato la nostra posizione sul piano storico. E nel farlo, abbiamo
ottenuto un quadro più completo di ciò che è il Grande Reset. Esso non è altro che l’inizio
dell’“ultima battaglia”. I globalisti, nella loro lotta per il nominalismo, il
liberalismo, la liberazione individuale e la società civile, si presentano come
“guerrieri della luce”, che portano alle masse progresso, liberazione da migliaia
di anni di pregiudizi, nuove possibilità – e forse anche l’immortalità fisica e
le meraviglie dell’ingegneria genetica.
Chiunque
si opponga a costoro è, ai loro occhi, parte delle “forze delle tenebre”. E
secondo questa logica, i “nemici della società aperta” devono essere affrontati
in tutta la loro severità. “Se il nemico non si arrende, sarà distrutto”. Il nemico è chiunque metta in
discussione il liberalismo, il globalismo, l’individualismo, il nominalismo in
tutte le loro manifestazioni. Questa è la nuova etica del liberalismo. Non c’è niente di
personale. Tutti hanno il diritto di essere liberali, ma nessuno ha il diritto
di essere altro.
Lo
scisma negli Stati Uniti: il trumpismo e i suoi nemici.
Il
nemico interno.
In un
contesto più circoscritto rispetto al quadro generale della storia del
liberalismo che va da Occam a Biden, l’eventuale vittoria di Trump nella
battaglia per la Casa Bianca nell’inverno 2020-2021, così lacerante per i
democratici in quanto tale, possederebbe anche un enorme significato
ideologico. Questo ha a che fare primariamente con i processi che si stanno svolgendo
all’interno della stessa società americana.
Il
fatto è che dopo la caduta dell’Unione Sovietica e l’inizio del “momento
unipolare” negli anni Novanta, il liberalismo globale non aveva avversari
esterni.
Almeno,
così sembrava all’epoca nel contesto della ottimistica prospettiva della “fine
della storia”. Anche se tali previsioni si sono rivelate premature, Fukuyama
non si è semplicemente chiesto se il futuro fosse arrivato – stava rigidamente
attenendosi alla logica stessa dell’interpretazione liberale della storia, e
così, con qualche rettifica, la sua analisi risultava generalmente corretta.
In
effetti, le norme della democrazia liberale – il mercato, le elezioni, il
capitalismo, il riconoscimento dei “diritti umani”, le norme della “società
civile”, l’adozione di trasformazioni tecnocratiche, e il desiderio di
abbracciare lo sviluppo e l’implementazione dell’alta tecnologia (specialmente
quella digitale) – si erano in qualche modo affermate presso l’umanità intera. Se alcuni persistevano nella loro
avversione alla globalizzazione, questo poteva essere visto come mera inerzia,
come una riluttanza ad essere “benedetti” dal progresso liberale.
In
altre parole, non si trattava di un’opposizione ideologica, ma solo di uno
spiacevole contrattempo. Le differenze di civiltà sarebbero state gradualmente
cancellate. L’adozione del capitalismo da parte della Cina, della Russia e del
mondo islamico avrebbe prima o poi comportato processi di democratizzazione
politica, l’indebolimento della sovranità nazionale, e avrebbe infine portato
all’istituzione di un sistema planetario – un governo mondiale. Non era una
questione di lotta ideologica, ma di tempo.
Fu in
questo contesto che i globalisti fecero ulteriori passi per portare avanti il
loro programma di base di abolizione di tutte le forme residue di identità
collettiva.
Questo ha comportato in primo luogo la politica di genere e l’intensificazione
dei flussi migratori destinati a erodere definitivamente l’identità culturale
delle stesse società occidentali – europee e americane. Così, la globalizzazione assestava il
suo colpo più forte a se stessa.
In
questo contesto, un “nemico interno” ha cominciato ad emergere nell’Occidente
stesso.
Stiamo parlando di tutte quelle forze che mal sopportavano la distruzione
dell’identità sessuale, la demolizione dei resti della tradizione culturale
(attraverso le migrazioni) e l’indebolimento della classe media. Anche gli orizzonti post-umanisti
dell’imminente Singolarità e la sostituzione degli umani con l’Intelligenza
Artificiale sono risultati sempre più preoccupanti.
E sul
piano filosofico, non tutti gli intellettuali hanno accolto le conclusioni
paradossali della Postmodernità e del realismo speculativo.
Inoltre,
è emersa una chiara contraddizione tra le masse occidentali, che vivono nel
contesto delle vecchie norme della Modernità, e le élite globaliste, che cercano a
tutti i costi di accelerare il progresso sociale, culturale e tecnologico come
inteso nell’ottica liberale(ossia come inteso dai “liberal Dem Usa progressisti globalisti”.Ndr.)
Così,
un nuovo dualismo ideologico ha cominciato a prendere forma, questa volta
all’interno dell’Occidente anziché all’esterno. I nemici della “società aperta” sono
ora apparsi all’interno della stessa civilizzazione occidentale. Si è trattato di coloro che
rifiutano gli obiettivi ultimi del liberalismo e non accettano le politiche di genere,
le migrazioni di massa, o l’abolizione degli Stati nazionali e della sovranità.
Allo
stesso tempo, tuttavia, questa crescente resistenza, genericamente indicata
come “populismo” (o “populismo di destra”), attingeva alla stessa ideologia liberale – capitalismo e
democrazia liberale – ma interpretava questi “valori” e “punti di riferimento”
nella vecchia accezione piuttosto che nella nuova.
La
libertà è stata concepita qui come la libertà di avere qualsiasi opinione, non
solo quelle conformi alle norme della correttezza politica.
La
democrazia è stata interpretata come governo della maggioranza.
La libertà di cambiare genere andrebbe
accompagnata alla libertà di rimanere fedeli ai valori della famiglia. La disponibilità ad accettare i
migranti che esprimessero il desiderio e dimostrassero la loro capacità di
integrarsi nelle società occidentali è stata strettamente differenziata
dall’accettazione generalizzata di tutti senza distinzione, accompagnata da
continue scuse ai nuovi arrivati per il loro passato coloniale.
Gradualmente,
il “nemico interno” dei globalisti ha raggiunto proporzioni importanti e una
grande influenza. La vecchia democrazia lanciava una sfida alla nuova.
Trump
e la rivolta dei deplorables.
Tutto
ciò è culminato nella vittoria di Donald Trump nel 2016. Trump ha costruito la
sua campagna proprio su questa spaccatura della società americana. La candidata globalista, Hillary
Clinton, ha incautamente chiamato i sostenitori di Trump, cioè il “nemico
interno”, “deplorables”, cioè “patetici”, “deplorevoli”. I “deplorables” hanno
risposto eleggendo Trump.
Così,
la frattura all’interno della democrazia liberale è diventata un fatto politico
e ideologico cruciale. Coloro che interpretavano la democrazia alla “vecchia
maniera” (come dominio della maggioranza) non solo si sono ribellati alla nuova
interpretazione (governo della minoranza diretta contro la maggioranza incline
a prendere una posizione populista, intrisa di… beh, sì, certo, “fascismo” o
“stalinismo”), ma sono riusciti a vincere e a portare il loro candidato alla
Casa Bianca.
Trump,
da parte sua, ha dichiarato la sua intenzione di “prosciugare la palude”, cioè
di eliminare il liberalismo nella sua strategia globalista e di “rendere
l’America di nuovo grande”.
Notate
la parola “di nuovo”. Trump voleva tornare all’era degli Stati-nazione, fare una
serie di passi contro la corrente della storia (come la intendevano i
liberali). In altre parole, il “buon vecchio ieri” in opposizione al
“globalista oggi” e al “post-umanista domani”.
I
quattro anni successivi sono stati un vero incubo per i globalisti. I media controllati dai globalisti
hanno accusato Trump di ogni possibile nefandezza – compreso il “lavorare per i
russi” giacché anche i “russi” persistevano nel loro rifiuto del “brave new
world”, sabotando le istituzioni sovranazionali – fino a e incluso il governo
mondiale – e impedendo le sfilate dei gay pride.
Tutti
gli oppositori della globalizzazione liberale sono stati logicamente
raggruppati insieme, comprendendo non solo Putin, Xi Jinping, alcuni leader
islamici, ma anche – pensate un po’! – il presidente degli Stati Uniti
d’America, il numero uno del “mondo libero”.
Per i
globalisti questo è stato un disastro.
Finché
Trump non è stato deposto – attraverso le rivoluzioni colorate, i disordini
architettati, i metodi fraudolenti di conteggio dei voti prima utilizzati solo
contro altri Paesi e regimi – non potevano sentirsi a loro agio.
Solo
dopo aver ripreso le redini della Casa Bianca, i globalisti hanno cominciato a
rinsavire. E sono tornati alle… vecchie abitudini. Ma nel loro caso, “vecchio”
(ricostruito) voleva dire tornare al “momento unipolare” – all’epoca pre-Trump.
Il
trumpismo.
Trump
ha cavalcato l’onda del populismo nel 2016 come nessun altro leader europeo è
riuscito a fare. Egli è diventato così un simbolo dell’opposizione alla globalizzazione
liberale.
Certo,
non stiamo parlando di un’ideologia alternativa, ma semplicemente di una
resistenza disperata alle ultime conclusioni derivanti dalla logica e persino
dalla metafisica del liberalismo (e del nominalismo). Trump non ha affatto sfidato il
capitalismo o la democrazia, ma solo le forme che avevano assunto nella loro
ultima fase e la loro graduale e coerente attuazione. Ma anche questo è stato sufficiente
a segnare una spaccatura fondamentale nella società americana.
È così
che il fenomeno del “trumpismo” ha preso forma, superando per molti versi la
dimensione della personalità stessa di Donald Trump. Trump ha giocato sull’onda della
protesta anti-globalizzazione. Ma è chiaro che non era e non è una figura ideologica. Eppure, è stato intorno a lui che
ha iniziato a formarsi un blocco di opposizione. La conservatrice americana Ann
Coulter, autrice del libro In Trump we Trust, ha poi riformulato il suo credo
nel “In Trumpism we trust”.
Non è
tanto Trump stesso, quanto piuttosto la sua linea di opposizione ai globalisti,
ad essere diventata il nucleo del trumpismo.
Nel
suo ruolo di presidente, Trump non è stato sempre all’altezza del suo
articolato compito. E non è stato in grado di realizzare nulla che fosse anche
solo vicino a “prosciugare la palude” e sconfiggere il globalismo. Ma nonostante questo, è diventato
un centro di attrazione per tutti coloro che erano consapevoli o semplicemente percepivano il pericolo
proveniente dalle élite globaliste e dagli inseparabili rappresentanti di Big
Finance e Big Tech.
Così,
il nucleo del Trumpismo ha cominciato a prendere forma. L’intellettuale conservatore
americano Steve
Bannon ha
giocato un ruolo importante in questo processo, mobilitando ampi segmenti di giovani
e disparati movimenti conservatori a sostegno di Trump. Bannon stesso era ispirato da importanti autori antimodernisti come
Julius Evola, e la sua opposizione al globalismo e al liberalismo aveva quindi
radici più profonde.
Un
ruolo importante nel trumpismo è stato giocato da coerenti paleo-conservatori –
isolazionisti e nazionalisti – del calibro di Buchanan, Ron Paul, così come gli
aderenti alla filosofia anti-liberale e anti-modernista (quindi,
fondamentalmente anti-globalista) come Richard Weaver e Russell Kirk, che erano
stati emarginati dai neocon (i globalisti di destra) sin dagli anni Ottanta.
La
forza trainante della mobilitazione di massa dei “trumpisti” è stata
l’organizzazione in rete QAnon, che ha espresso le sue critiche al liberalismo, ai
democratici e ai globalisti sotto forma di teorie del complotto. Hanno diffuso un
fiume di accuse e denunciato i globalisti di essere coinvolti in scandali
sessuali, pedofilia, corruzione e satanismo.
Essendo
poco inclini all’analisi filosofica e ideologica approfondita, i sostenitori di
QAnon si
sono limitati a formulare intuizioni sulla natura sinistra dell’ideologia
liberale – resasi evidente nelle fasi finali della sua trionfante espansione
sull’umanità. Parallelamente, QAnon ha esteso la sua influenza, ma allo stesso tempo ha impresso alla
critica anti-liberale dei tratti grotteschi.
Sono
stati i sostenitori di QAnon, in quanto avanguardia del populismo cospirativo
di massa, a guidare le proteste del 6 gennaio, quando i supporter di Trump
hanno preso d’assalto il Campidoglio indignati per il furto delle elezioni.
Non
hanno raggiunto alcun obiettivo, se non dare a Biden e ai democratici un
pretesto per demonizzare ulteriormente il “trumpismo” e tutti gli oppositori
del globalismo, equiparando qualsiasi conservatore all’“estremismo”.
È
seguita un’ondata di arresti, e i membri più convinti dei “Nuovi Democratici”
hanno proposto che tutti i diritti sociali – compresa la possibilità di
acquistare biglietti aerei – andrebbero revocati ai sostenitori di Trump.
Poiché
i social media sono regolarmente monitorati dai sostenitori dell’élite
liberale, raccogliere informazioni su quasi tutti i cittadini statunitensi e le
loro preferenze politiche non è stato un problema.
Così,
l’arrivo di Biden alla Casa Bianca implica che il liberalismo ha assunto
caratteristiche apertamente totalitarie.
D’ora
in poi, il trumpismo, il populismo, la difesa dei valori della famiglia, e ogni
accenno di conservatorismo o di disaccordo con i principi del liberalismo
globalista negli Stati Uniti sarà pressoché equivalente a un crimine – all’odio
e al “fascismo”.
Eppure,
il trumpismo non è scomparso con la vittoria di Biden. In un modo o nell’altro, ha ancora il
consenso di coloro che hanno votato per Donald Trump nelle ultime elezioni – e
sono più di 70 milioni di elettori.
È
chiaro dunque che il “trumpismo” non finirà affatto con Trump. Metà della popolazione statunitense
si è effettivamente trovata in una posizione di opposizione radicale, e i trumpisti più coerenti
rappresentano il nucleo dell’underground anti-globalizzazione all’interno della
cittadella del globalismo stesso.
Qualcosa
di simile sta accadendo nei Paesi europei, dove i movimenti e i partiti
populisti sono
sempre più consapevoli di essere dissidenti privati di ogni diritto e soggetti
a persecuzione ideologica sotto l’apparente dittatura globalista.
Non
importa quanto i globalisti che hanno ripreso il potere negli Stati Uniti
vogliano presentare i quattro anni precedenti come uno “sfortunato malinteso” e
dichiarare la loro vittoria come il definitivo “ritorno alla normalità”, il quadro oggettivo è lontano dagli
incantesimi tranquillizzanti della upper class globalista.
Non
sono solo i Paesi con una diversa identità di civiltà a mobilitarsi contro di
essa e contro la sua ideologia, ma questa volta anche metà della sua stessa
popolazione, che gradualmente si rende conto della gravità della sua situazione
e comincia a cercare un’alternativa ideologica.
Queste
sono le circostanze nelle quali Biden è salito a capo degli Stati Uniti. Lo
stesso suolo americano sta bruciando sotto i piedi dei globalisti.
E questo dà alla “battaglia finale” una dimensione
speciale, aggiuntiva. Non è l’Occidente contro l’Oriente, non gli USA e la NATO
contro tutti gli altri, ma i liberali contro l’umanità – compreso quel segmento di
umanità che si trova sul territorio dell’Occidente stesso, ma che si sta
allontanando sempre più dalle proprie élite globaliste. Questo è ciò che
definisce le condizioni di partenza di questa battaglia.
Individuum
e dividuum.
Un
altro punto essenziale deve essere chiarito. Abbiamo visto che tutta la storia del
liberalismo consiste nella successiva liberazione dell’individuo da ogni forma
di identità collettiva. Il punto conclusivo nel processo di questa attuazione
logicamente perfetta del nominalismo sarà il passaggio al post-umanesimo e
la probabile sostituzione dell’umanità con un’altra civilizzazione di macchine,
questa volta postumana. Ecco a cosa porta il coerente individualismo, preso come
qualcosa di assoluto.
Ma qui
la filosofia liberale approda a un paradosso fondamentale. La liberazione dell’individuo dalla
sua identità umana, alla quale le politiche di genere lo preparano trasformando
consapevolmente e intenzionalmente l’essere umano in un mostro perverso, non può garantire che questo nuovo –
progressista! – essere mantenga un carattere individuale.
Inoltre,
lo sviluppo delle tecnologie informatiche in rete, l’ingegneria genetica e la
stessa ontologia orientata agli oggetti, che rappresenta il culmine del
postmodernismo, indicano chiaramente che il “nuovo essere” non sarà tanto un
“animale” quanto una “macchina”.
È in
questa prospettiva che verosimilmente si offriranno prospettive di
“immortalità” sotto forma di conservazione artificiale dei ricordi personali (che sono abbastanza facili da
simulare).
Così,
l’individuo del futuro, come compimento di tutto il programma del liberalismo,
sarà incapace di garantire proprio quello che è stato l’obiettivo principale
del progresso liberale – cioè la sua individualità.
L’essere liberale del futuro, anche in teoria,
non è un individuum, qualcosa di “indivisibile”, ma piuttosto un “dividuum”,
cioè qualcosa divisibile e composto da parti sostituibili. Tale è la macchina –
essa è composta da una combinazione di parti.
Nella
fisica teorica, si è passati da tempo dalla teoria degli “atomi” (cioè “unità
di materia indivisibile”) alla teoria delle particelle, che sono concepite non
come “parti di un tutto” ma come “parti senza un tutto”.
Anche l’individuo nel suo insieme si scompone
nelle parti che lo compongono, che possono essere riassemblate, ma che possono
anche non essere assemblate, bensì utilizzate come bio-costruttori. Da qui le figure di mutanti, chimere
e mostri che abbondano nella narrativa moderna, popolando le più immaginifiche
(e quindi, in un certo senso, anticipatrici e persino pianificate) versioni del
futuro.
I
postmodernisti e i realisti speculativi hanno già preparato il terreno per
tutto ciò, proponendo di sostituire il corpo umano inteso come qualcosa di
intero con l’idea di un “parlamento di organi” (B. Latour). In questo modo,
l’individuo – anche come unità biologica – diventerebbe qualcosa d’altro,
mutando proprio nel momento in cui raggiunge la sua incarnazione assoluta.
Il
progresso umano nell’interpretazione liberale finisce inevitabilmente con
l’abolizione dell’umanità.
Questo
è ciò che sospettano tutti coloro che intraprendono la lotta contro il
globalismo e il liberalismo, anche se molto vagamente. Benché QAnon e le loro
teorie cospirative anti-liberali distorcano la realtà limitandosi a presentare
tratti sospetti e grotteschi che i liberali possono facilmente confutare, la realtà, se descritta in modo
sobrio e oggettivo, risulta molto più spaventosa delle sue più allarmanti e
mostruose premonizioni.
“Il
Grande Reset” è effettivamente un piano per l’eliminazione dell’umanità.
Perché questa è precisamente la conclusione a cui la
linea del “progresso” liberalmente inteso conduce logicamente: sforzarsi di
liberare l’individuo da tutte le forme di identità collettiva non può che non
portare alla liberazione dell’individuo da se stesso.
Il
Grande Risveglio.
Il
Grande Risveglio: un grido nella notte.
Ci
accostiamo adesso ad una tesi che rappresenta il diretto opposto del “Grande
Reset”: la tesi del “Grande Risveglio”.
Questo
slogan è stato proposto per la prima volta dagli antiglobalisti americani, come
il conduttore del canale televisivo alternativo Infowars, Alex Jones, che ha
subito la censura globalista e il de-platforming dai social network nella prima
fase della presidenza Trump, e gli attivisti di QAnon.
È importante che questo avvenga negli Stati Uniti, dove serpeggia una forte tensione tra
le élite globaliste e i populisti che hanno avuto un loro uomo alla Presidenza, anche se
per soli quattro anni ed irrigidito da ostacoli amministrativi e dai limiti dei
propri orizzonti ideologici.
Privi
di un solido bagaglio ideologico e filosofico, questi anti-globalisti sono
stati tuttavia in grado di cogliere l’essenza dei più importanti processi in
corso nel mondo moderno.
Il
globalismo, il liberalismo e il Grande Reset, in quanto espressioni della
determinazione delle élite liberali a portare a termine i loro piani con
qualsiasi mezzo – compresa la dittatura vera e propria, la repressione su larga
scala e le campagne di totale disinformazione – hanno incontrato una resistenza
crescente e sempre più consapevole.
Alex
Jones termina i suoi programmi con lo stesso grido di battaglia: “Voi siete la Resistenza!”.
In questo caso, Alex Jones stesso o gli
attivisti di QAnon non hanno visioni del mondo rigorosamente definite.
Da
questo punto di vista, sono rappresentativi delle masse, gli stessi
“deplorables” così tristemente umiliati da Hillary Clinton. Ciò che si sta risvegliando ora non
è un campo di oppositori ideologici del liberalismo, nemici del capitalismo, o
avversari ideologici della democrazia.
Non sono nemmeno conservatori. Sono solo persone – persone in quanto
tali, le più comuni e semplici. Ma... persone che vogliono essere e rimanere
umane, disporre e conservare la loro libertà, il loro genere, la loro cultura,
e legami vivi e concreti con la loro Patria, con il mondo che li circonda, con
il popolo.
Il
Grande Risveglio non attiene alle élite e agli intellettuali, ma al popolo,
alle masse, alla gente in quanto tale. In questo caso, il risveglio non
concerne un’analisi ideologica.
Si
tratta di una reazione spontanea delle masse, scarsamente competenti sul piano
filosofico, che si sono improvvisamente rese conto, come il bestiame davanti al
macello, che
il loro destino è già stato deciso dai loro governanti e che non c’è più posto
per l’essere umano nel futuro.
Il
Grande Risveglio è spontaneo, in gran parte inconscio, intuitivo e cieco. Non costituisce affatto uno sbocco
di consapevolezza, di deduzione, di analisi storica profonda.
Come
abbiamo visto nei filmati del Campidoglio, gli attivisti trumpiani e i
rappresentanti di QAnon sembrano personaggi dei fumetti o supereroi della
Marvel. Il
complottismo è una malattia infantile dell’antiglobalismo. Ma, d’altra parte, è
l’inizio di un processo storico fondamentale. È così che emerge il polo di
opposizione al corso stesso della storia nel suo senso liberale.
Per
questo la tesi del Grande Risveglio non deve essere frettolosamente intrisa di
dettagli ideologici, sia che si tratti di conservatorismo fondamentale
(compreso il conservatorismo religioso), di tradizionalismo, di critica
marxista del capitale o di protesta anarchica fine a se stessa. Il Grande Risveglio è qualcosa di più
organico, più spontaneo e allo stesso tempo tettonico. È così che l’umanità
viene improvvisamente illuminata dalla coscienza della vicinanza alla sua fine
imminente.
Ed è
per questo che il Grande Risveglio è così importante. Ed è per questo che viene
dall’interno degli Stati Uniti, quella civilizzazione dove il crepuscolo del
liberalismo è più spinto. È un grido dal centro dell’inferno stesso, da quella zona
dove il nero futuro è già in parte giunto.
Il
Grande Risveglio è la risposta spontanea delle masse umane al Grande Reset.
Naturalmente, si può essere scettici al
riguardo. Le
élite liberali, soprattutto oggi, controllano tutti i principali processi di
civilizzazione. Controllano le finanze del mondo e possono fare qualsiasi cosa con esse,
dall’emissione illimitata a qualsiasi manipolazione degli strumenti e delle
strutture finanziarie. Nelle loro mani c’è l’intera macchina militare statunitense
e la gestione degli alleati della NATO. Biden promette di rafforzare l’influenza
di Washington in questa struttura, che negli ultimi anni si era quasi
disintegrata.
Quasi
tutti i giganti dell’alta tecnologia sono subordinati ai liberali – computer,
iPhone, server, telefoni e reti sociali sono strettamente controllati da pochi
monopolisti che sono membri del club globalista.
Questo
significa che il Big Data, cioè l’intero corpo di informazioni su praticamente
tutta la popolazione della terra, ha un proprietario e un padrone.
Tecnologia,
centri scientifici, formazione, cultura, media, medicina e servizi sociali
globali sono completamente nelle loro mani.
I
liberali nei governi e nei circoli di potere sono membri organici di queste
reti planetarie aventi tutte la stessa sede.
I
servizi segreti dei Paesi occidentali e i loro agenti in altri regimi lavorano
– reclutati o corrotti, costretti a collaborare o come volontari – per i
globalisti.
Ci si
chiede: come possono in questa situazione i sostenitori del “Grande Risveglio”
ribellarsi al globalismo?
Come – senza disporre di particolari risorse – possono
affrontare efficacemente l’élite globale?
Quali
armi usare? Quale strategia seguire?
E, inoltre, su quale ideologia fare
affidamento? – perché i liberali e i globalisti di tutto il mondo sono uniti e hanno
un’idea comune, un obiettivo comune e una linea comune, mentre i loro avversari
sono eterogenei non solo in società diverse, ma anche all’interno di una stessa
società.
Naturalmente,
queste contraddizioni nei ranghi dell’opposizione sono ulteriormente esacerbate
dalle élite al potere, che sono abituate a dividere per dominare. Musulmani contro cristiani,
sinistra contro destra, europei contro russi o cinesi, ecc.
Ma il
Grande Risveglio sta avvenendo non a causa, bensì a dispetto di tutto questo.
L’umanità stessa, l’uomo come eidos, l’uomo come comune, l’uomo come identità
collettiva, e in tutte le sue forme, organica e artificiale, storica e
innovativa, orientale e occidentale, si sta ribellando ai liberali.
Il
Grande Risveglio è solo l’inizio. Non è ancora cominciato. Ma il fatto che
abbia un nome, e che questo nome sia apparso proprio nell’epicentro delle
trasformazioni ideologiche e storiche, negli Stati Uniti, sullo sfondo della
drammatica sconfitta di Trump, della disperata presa del Campidoglio, e della
crescente ondata di repressione liberale, poiché i globalisti non nascondono
più la natura totalitaria della loro teoria e della loro pratica, è di grande
(forse cruciale) importanza.
Il
Grande Risveglio contro il “Grande Reset” è la rivolta dell’umanità contro le
élite liberali al potere. Inoltre, è la ribellione dell’uomo contro il suo
nemico secolare, il nemico della stessa razza umana.
Se c’è
chi proclama il “Grande Risveglio”, per quanto ingenue possano sembrare le sue
formule, questo significa già che non tutto è perduto, che un nocciolo di Resistenza sta
maturando nelle masse, che queste cominciano a mobilitarsi. Da questo momento inizia la storia
di una rivolta mondiale, una rivolta contro il Grande Reset e i suoi adepti.
Il
Grande Risveglio è un lampo di coscienza alle soglie della Singolarità.
È
l’ultima opportunità di prendere una decisione alternativa in merito al
contenuto e alla direzione del futuro. La completa sostituzione degli esseri
umani con nuove entità, nuove divinità, non può essere semplicemente imposta
con la forza dall’alto. Le élite devono sedurre l’umanità, ottenere da essa un
certo consenso, benché vago. Il Grande Risveglio richiede un deciso “No”!
Questa
non è però la fine della guerra, nemmeno la guerra stessa. Essa anzi non è
ancora iniziata. Ma è la possibilità di un tale inizio. Un nuovo inizio nella storia
dell’uomo.
Come
abbiamo visto, negli stessi Stati Uniti, gli oppositori del liberalismo – sia
Trump che i trumpisti – sono pronti a rifiutare l’ultima fase della democrazia
liberale, ma non pensano nemmeno a una critica completa del capitalismo. Difendono l’ieri e l’oggi contro un
domani incombente e minaccioso. Ma non possiedono un orizzonte ideologico
compiuto. Cercano di salvare lo stadio precedente della stessa democrazia
liberale, lo stesso capitalismo, dai suoi stadi più tardivi e avanzati. E
questo contiene di per sé una contraddizione.
Anche
la sinistra contemporanea ha dei limiti nella sua critica al capitalismo, sia
perché condivide una concezione materialista della storia (Marx condivideva la
necessità del capitalismo mondiale, che sperava sarebbe stato poi superato dal
proletariato mondiale), sia perché i movimenti socialista e comunista sono stati
recentemente occupati dai liberali e riorientati dalla guerra di classe contro
il capitalismo alla protezione dei migranti, delle minoranze sessuali e alla
lotta contro “fascisti” immaginari.
La
destra, per contro, è confinata nei suoi Stati-nazione e nelle sue culture, non
vedendo che i popoli di altre civiltà sono nella stessa disperata situazione.
Le nazioni borghesi emerse all’alba dell’era
moderna rappresentano un vestigio della civilizzazione borghese.
Questa civilizzazione oggi sta distruggendo e abolendo
ciò che essa stessa ha creato solo ieri, utilizzando nel frattempo tutte le
limitazioni dell’identità nazionale per mantenere l’umanità in uno stato
frammentato e conflittuale dal confronto che impedisce di affrontare i
globalisti.
Dunque,
esiste il Grande Risveglio, ma non ha ancora una base ideologica.
Se è
veramente storico, e non un fenomeno effimero e puramente periferico, allora ha
semplicemente bisogno di un fondamento – uno che vada oltre le ideologie
politiche esistenti che sono emerse in epoca moderna nello stesso Occidente. Rivolgersi a una qualsiasi di esse
significherebbe automaticamente ritrovarsi nella prigionia ideologica della
formazione del capitale.
Così,
nel cercare una piattaforma per il Grande Risveglio che è scoppiato negli Stati
Uniti, dobbiamo guardare oltre la società americana e la piuttosto breve storia
americana e guardare ad altre civiltà, soprattutto alle ideologie non
liberali della stessa Europa, per trovare ispirazione. Ma anche questo non basta, perché
parallelamente alla decostruzione del liberalismo, dobbiamo trovare appoggio nelle
diverse civiltà dell’umanità, tutt’altro che esaurite dall’Occidente da cui
proviene la principale minaccia e dove – a Davos, in Svizzera! – è stato
proclamato il
“Grande Reset”.
L’Internazionale
delle Nazioni contro l’Internazionale delle Elites.
Il
“Grande Reset” vuole rendere il mondo nuovamente unipolare per poi orientarsi verso una
non-polarità globalista, dove le élite diventeranno completamente
internazionali e la loro residenza sarà dispersa in tutto lo spazio del pianeta.
Questo è il motivo per cui il globalismo
comporta la fine degli stessi Stati Uniti come Paese, come Stato, come società.
Questo è
ciò che i trumpisti e i sostenitori del Grande Risveglio percepiscono, a volte
intuitivamente. Biden rappresenta una condanna per gli Stati Uniti. E poi per
tutti gli altri.
Di
conseguenza, per la salvezza delle persone, dei popoli e delle società, il Grande Risveglio deve prendere
avvio dal concetto di multipolarismo.
Non si tratta solo della salvezza
dell’Occidente in sé, e nemmeno della salvezza di tutti gli altri
dall’Occidente, ma della salvezza dell’umanità, occidentale e non occidentale, dalla
dittatura totalitaria delle élite capitaliste liberali.
E
questo non può essere fatto solo dai popoli dell’Ovest o dai popoli dell’Est.
Qui è necessario agire insieme. Il Grande Risveglio richiede un’internazionalizzazione
della lotta dei popoli contro l’internazionalizzazione delle élite.
Il
multipolarismo è il punto di riferimento più importante e la chiave della strategia del
Grande Risveglio. Solo facendo appello a tutte le nazioni, culture e civiltà dell’umanità
possiamo raccogliere forze sufficienti per opporci efficacemente al “Grande
Reset” e all’orientamento verso la Singolarità.
Ma in
questo caso l’intero quadro dell’inevitabile scontro finale risulta essere
molto meno disperato. Se diamo uno sguardo a tutto ciò che potrebbero diventare i
poli del Grande Risveglio, la situazione si presenta sotto una luce un po’ diversa.
L’Internazionale dei Popoli, una volta che cominciamo a pensare
in queste categorie, non risulta essere né un’utopia né un’astrazione. Inoltre, possiamo già vedere
facilmente un enorme potenziale e come questo possa essere sfruttato nella
lotta contro il “Grande Reset”.
Elenchiamo
brevemente le risorse su cui il Grande Risveglio può contare su scala globale.
La
guerra civile americana: la scelta del nostro campo.
Negli
Stati Uniti, abbiamo un appiglio nel trumpismo. Anche se Trump stesso ha perso,
questo non significa che lui stesso si sia lavato le mani, rassegnato a una
vittoria rubata, e che i suoi sostenitori – 70milioni di americani – si siano calmati e
abbiano dato per scontata la dittatura liberale.
Non è
così. Da
adesso in poi, un potente movimento sotterraneo antiglobalista sarà presente
negli stessi Stati Uniti, numeroso (metà della popolazione!), amareggiato e spinto a disprezzare il totalitarismo
liberale.
La distopia di 1984 di Orwell non è stata incarnata da
un regime comunista o fascista, ma si è inverata oggi in un regime liberale. Ma l’esperienza del comunismo
sovietico e persino della Germania nazista mostrano che la resistenza è sempre
possibile.
Oggi,
gli Stati Uniti sono essenzialmente in uno stato di guerra civile. I liberali-bolscevichi hanno preso il
potere, e
i loro oppositori sono stati sbattuti all’opposizione e sono sul punto di passare
all’illegalità. Un’opposizione di 70milioni di persone è una cosa seria. Certo, sono
sparpagliati e possono essere messi in crisi dalle incursioni punitive dei democratici e
dalla nuova tecnologia totalitaria dei Big Tech.
Ma è
troppo presto per liquidare il popolo americano. Chiaramente, esso ha ancora un certo
margine di forza, e metà della popolazione statunitense è pronta a difendere la
propria libertà individuale a qualsiasi costo.
E oggi
la questione è esattamente questa: Biden o la libertà. Naturalmente, i liberali cercheranno di abolire
il Secondo Emendamento e di disarmare la popolazione, che sta diventando sempre
meno fedele all’élite globalista.
È
probabile che i democratici cercheranno di abbattere lo stesso sistema
bipartitico introducendo un regime essenzialmente monopartitico, secondo lo
spirito dell’attuale stato della loro ideologia. Questo è liberal-bolscevismo.
Ma le
guerre civili non hanno mai un esito scontato. La storia è aperta, e la
vittoria di entrambe le parti è sempre possibile. Soprattutto se l’umanità si rende
conto di quanto sia importante l’opposizione americana per la vittoria
universale sul globalismo.
Non
importa cosa pensiamo degli Stati Uniti, di Trump e dei trumpisti, tutti noi dobbiamo semplicemente
sostenere il polo americano del Grande Risveglio.
Salvare
l’America dai globalisti, e quindi contribuire a renderla di nuovo grande, è il
nostro comune compito.
Il
populismo europeo: superare la destra e la sinistra.
L’ondata
di populismo anti-liberale non si placa nemmeno in Europa. Anche se il
globalista Macron è riuscito a contenere le violente proteste dei “Gilet Gialli” e i liberali italiani e tedeschi
hanno isolato e bloccato i partiti di destra e i loro leader dall’andare al
potere, questi processi sono inarrestabili. Il populismo esprime lo stesso Grande
Risveglio, solo sul suolo europeo e con una specificità europea.
Per
questo polo di resistenza, una nuova riflessione ideologica è estremamente
importante. Le società europee sono molto più attive ideologicamente di quelle
americane, e quindi le tradizioni della politica di destra e di sinistra – e le
loro contraddizioni intrinseche – sono molto più sentite.
Sono
proprio queste contraddizioni che le élite liberali stanno sfruttando per
mantenere il loro dominio nell’Unione Europea.
Il
fatto è che l’odio per i liberali in Europa sta crescendo contemporaneamente da
due versanti: la sinistra li vede come rappresentanti del grande capitale,
sfruttatori che hanno perso ogni decenza, e la destra li vede come provocatori
di una migrazione di massa artificiale, distruttori delle ultime vestigia dei
valori tradizionali, demolitori della cultura europea e seppellitori della
classe media.
Allo stesso tempo, per la maggior parte, sia i
populisti di destra che quelli di sinistra hanno messo da parte le ideologie
tradizionali che non rispondono più alle esigenze storiche, ed esprimono le loro opinioni in
forme nuove, talvolta contraddittorie e frammentarie.
Il
rifiuto delle ideologie del comunismo ortodosso e del nazionalismo è
generalmente positivo; dà ai populisti una nuova base molto più ampia. Ma è
anche la loro debolezza.
Tuttavia,
la cosa più fatale del populismo europeo non è tanto la sua de-ideologizzazione
quanto la
persistenza del profondo e reciproco rifiuto tra destra e sinistra che perdura
dalle epoche storiche precedenti.
L’emergere
di un polo europeo del Grande Risveglio deve comportare la risoluzione di
questi due compiti ideologici: il superamento definitivo del confine tra destra e
sinistra (cioè l’obbligatorio rifiuto dell’“antifascismo” artificioso di alcuni
e dell’“anticomunismo” artificioso di altri) e l’elevazione del populismo come
tale – il populismo integrale – a modello ideologico indipendente.
Il suo senso e il suo messaggio dovrebbero
consistere in
una critica radicale del liberalismo e del suo stadio più alto, il globalismo,
combinando allo stesso tempo la richiesta di giustizia sociale e la
conservazione dell’identità culturale tradizionale.
In
questo caso, il populismo europeo acquisirà anzitutto una massa critica che ad
oggi è fatalmente mancante, dato che i populisti di destra e di sinistra
sprecano tempo e sforzi per regolare i conti tra loro, e, in secondo luogo,
diventerà un polo importantissimo del Grande Risveglio.
La
Cina e la sua identità collettiva.
Gli
oppositori del Grande Reset hanno un altro significativo alleato: la Cina
contemporanea.
Certo, la Cina ha approfittato delle
opportunità offerte dalla globalizzazione per rafforzare l’economia della sua
società.
Ma la
Cina non ha accettato lo spirito stesso del globalismo, il liberalismo,
l’individualismo e il nominalismo dell’ideologia globalista.
La Cina ha preso dall’Occidente solo ciò che
l’ha resa più forte, ma ha rifiutato ciò che l’avrebbe resa più debole. Questo è un gioco pericoloso, ma
finora la Cina l’ha gestito con successo.
Infatti,
la Cina è una società tradizionale con migliaia di anni di storia e un’identità
stabile. E chiaramente intende rimanere tale in futuro. Questo è particolarmente chiaro
nelle politiche dell’attuale leader cinese, Xi Jinping. Egli è pronto a fare compromessi
tattici con l’Occidente, ma è inflessibile nel garantire che la sovranità e
l’indipendenza della Cina crescano e si rafforzino.
Che i
globalisti e Biden agiscano in solidarietà con la Cina è un mito.
Sì,
Trump ci ha creduto e Bannon lo ha detto, ma questo è il risultato di un
orizzonte geopolitico ristretto e di una profonda incomprensione dell’essenza
della civiltà cinese.
La Cina seguirà il proprio corso e rafforzerà
le strutture multipolari.
Di
fatto, la Cina è il polo più importante del Grande Risveglio, un aspetto che
diventerà chiaro se prendiamo come punto di partenza la necessità di
un’internazionalizzazione dei popoli.
La Cina è un popolo con una distinta identità
collettiva.
L’individualismo
cinese non esiste affatto, e se esiste, è un’anomalia culturale.
La
civiltà cinese è il trionfo del clan, del folk, dell’ordine e della struttura
su ogni individualità.
Naturalmente,
il Grande Risveglio non deve diventare cinese.
Non
deve essere affatto uniforme – perché ogni nazione, ogni cultura, ogni civiltà
ha il proprio spirito e il proprio eidos. L’umanità è diversa.
E la
sua unità può essere avvertita più acutamente solo quando si confronta con una
grave minaccia che incombe su tutti noi. E questo è precisamente ciò che
rappresenta il Grande Reset.
L’Islam
contro la globalizzazione.
Un
altro alleato del Grande Risveglio è costituito dai popoli della civiltà
islamica.
Che il
globalismo liberale e l’egemonia occidentale siano radicalmente rifiutati dalla
cultura islamica e dalla stessa religione islamica su cui tale cultura si basa
è ovvio.
Certo, durante il periodo coloniale e sotto il potere
e l’influenza economica dell’Occidente, alcuni Stati islamici si sono trovati
nell’orbita del capitalismo, ma praticamente in tutti i paesi islamici c’è un
rifiuto sostenuto e profondo del liberalismo e specialmente del moderno
liberalismo globalista.
Questo
si manifesta sia in forme estreme – il fondamentalismo islamico – sia in forme moderate. In alcuni casi, singoli movimenti
religiosi o politici si fanno portatori dell’iniziativa antiliberale, mentre in
altri casi lo Stato stesso si assume questa missione.
In
ogni caso, le società islamiche sono ideologicamente preparate per un’opposizione
sistematica e attiva alla globalizzazione liberale.
I
progetti del Grande Reset non contengono nulla, anche teoricamente, che possa
piacere ai musulmani. Ecco perché l’intero mondo islamico nel suo insieme
rappresenta un enorme polo del Grande Risveglio.
Tra i
paesi islamici, l’Iran sciita e la Turchia sunnita sono i più ostili alla
strategia globalista.
Va
detto che, se la motivazione principale che guida l’Iran è l’idea religiosa
dell’avvicinarsi della fine del mondo e dell’ultima battaglia, dove il nemico
principale – Dajjal – è chiaramente riconosciuto come l’Occidente, il
liberalismo e il globalismo, la Turchia è guidata più da considerazioni
pragmatiche, dal desiderio di rafforzare e preservare la sua sovranità
nazionale e garantire l’influenza turca in Medio Oriente e nel Mediterraneo
orientale.
La
politica di Erdogan di graduale allontanamento dalla NATO combina la tradizione
nazionale di Kemal Ataturk con il desiderio di giocare il ruolo di leader dei
musulmani sunniti, ma entrambi sono realizzabili solo in opposizione alla
globalizzazione liberale, che prevede la completa secolarizzazione delle società.
l’indebolimento (e, al limite, l’abolizione) degli
Stati nazionali, e nel frattempo la concessione dell’autonomia politica a
gruppi etnici minoritari, una mossa che sarebbe devastante per la Turchia a
causa del grande e piuttosto attivo fattore curdo.Il Pakistan sunnita, che esprime un’altra forma di
combinazione tra politiche nazionali e islamiche, si sta gradualmente distaccando dagli
Stati Uniti e dall’Occidente.
Anche
se i Paesi del Golfo sono più dipendenti dall’Occidente, uno sguardo più attento
all’Islam arabo, e ancor più all’Egitto, che è un altro Stato importante e
indipendente nel mondo islamico, rivela sistemi sociali che non hanno nulla a
che fare con l’agenda globalista e sono naturalmente predisposti a schierarsi
con il Grande Risveglio.
Quest’ultimo
viene ostacolato solo dalle contraddizioni tra gli stessi musulmani – non solo
tra sciiti e sunniti, ma anche conflitti regionali tra gli stessi singoli Stati
sunniti –, abilmente esacerbate dall’Occidente e dai centri di controllo
globalisti.
Il
contesto del Grande Risveglio potrebbe diventare anche una piattaforma
ideologica per l’unificazione del mondo islamico nel suo complesso, poiché
l’opposizione al “Grande Reset” è un imperativo incondizionato per pressoché
tutti i Paesi islamici. Questo è ciò che rende possibile assumere la strategia dei
globalisti e l’opposizione ad essa come denominatore comune. La consapevolezza della portata del
Grande Risveglio permetterebbe, entro certi limiti, di smorzare le
contraddizioni locali contribuendo alla formazione di un altro polo della
resistenza globale.
La
missione della Russia: essere in prima linea nel Grande Risveglio.
Infine,
il polo più importante del Grande Risveglio è costituito dalla Russia.
Nonostante il fatto che la Russia si sia in parte lasciata contagiare dalla
civilizzazione occidentale, attraverso la cultura illuminista durante il
periodo zarista, sotto i bolscevichi, e soprattutto dopo il 1991, in ogni fase
– nell’antichità come nel presente – l’identità profonda della società russa è
rimasta profondamente diffidente verso l’Occidente, specialmente verso il
liberalismo e la globalizzazione. Il nominalismo è profondamente estraneo al popolo
russo nelle sue stesse fondamenta.
L’identità
russa ha sempre dato la priorità al comune – il clan, il folk, il popolo, la
Chiesa, la tradizione, la nazione e l’autorità, e persino il comunismo ha
rappresentato – sebbene in senso artificiale, in termini di classe –
un’identità collettiva opposta all’individualismo borghese. I russi hanno ostinatamente rifiutato
e continuano a rifiutare il nominalismo in tutte le sue forme. E questa è una
piattaforma comune sia al periodo zarista che a quello sovietico.
Dopo
il fallito tentativo di integrazione nella comunità globale negli anni Novanta,
grazie al fallimento delle riforme liberali, la società russa si è ancora più
convinta di quanto il globalismo e gli atteggiamenti e princìpi
individualistici siano estranei ai russi.
Questo
è ciò che determina il sostegno generale al corso conservatore e sovranista di
Putin.
I russi rifiutano il “Grande Reset” sia da
destra che da sinistra – e questo, insieme alle tradizioni storiche,
all’identità collettiva e alla percezione della sovranità e della libertà
statuale come il valore più alto, non è una caratteristica momentanea, ma di
lungo periodo, che giace alle fondamenta della civiltà russa.
Il
rifiuto del liberalismo e della globalizzazione si è particolarmente accentuato
negli ultimi anni, poiché il liberalismo stesso ha rivelato le sue
caratteristiche profondamente repulsive alla coscienza russa.
Questo
ha giustificato una certa simpatia dei russi per Trump e un parallelo profondo
disgusto per i suoi avversari liberali.
Da
parte di Biden, l’atteggiamento verso la Russia è abbastanza simmetrico. Lui e
le élite globaliste in generale vedono la Russia come il principale avversario
di civiltà, che rifiuta ostinatamente di accettare il vettore del progressismo
liberale e difende ferocemente la sua sovranità politica e la sua identità.
Naturalmente,
anche la Russia di oggi non dispone di un’ideologia compiuta e coerente che
possa rappresentare una seria minaccia al Grande Reset. Inoltre, le élite liberali radicate
al vertice della società sono ancora forti e influenti in Russia, e le idee, le
teorie e i metodi liberali dominano ancora l’economia, l’istruzione, la cultura
e la scienza. Tutto questo indebolisce il potenziale della Russia, disorienta la
società e pone le basi per crescenti contraddizioni interne. Ma, nel complesso, la Russia è il più
importante – se non il principale! –
polo del Grande Risveglio.
Questo
è esattamente ciò a cui tutta la storia russa ha condotto, esprimendo la
intrinseca convinzione che i russi stanno affrontando qualcosa di grande e
decisivo nella drammatica situazione della Fine dei Tempi, la fine della
storia.
Ma è
proprio questa fine, nella sua versione peggiore, che il progetto del Grande
Reset implica. La vittoria del globalismo, del nominalismo e l’avvento della Singolarità
significherebbe il fallimento della missione storica russa, non solo nel futuro
ma anche nel passato.
Dopo
tutto, il senso della storia russa è stato diretto proprio verso il futuro, e
il passato è stato solo una preparazione per esso.
E in
questo futuro, che si sta vieppiù avvicinando, il ruolo della Russia non è solo
quello di prendere parte attiva al Grande Risveglio, ma anche di stare in prima linea,
proclamando l’imperativo dell’Internazionale dei Popoli nella lotta contro il
liberalismo, la piaga del XXI secolo.
Il
risveglio della Russia: un rinascimento imperiale.
Cosa
significa per la Russia in tali circostanze “risvegliarsi”? Significa
ripristinare pienamente la scala storica, geopolitica e di civiltà della Russia,
diventando
un polo del nuovo mondo multipolare.
La
Russia non è mai stata “solo un paese”, tanto meno “solo uno tra gli altri
paesi europei”. Nonostante tutta l’unità delle nostre radici con l’Europa, che risale
alla cultura greco-romana, la Russia in tutte le fasi della sua storia ha
seguito un suo percorso particolare.
Questo
ha avuto un impatto anche sulla nostra scelta ferma e incrollabile
dell’Ortodossia e in generale del bizantinismo, che ha determinato in gran
parte il nostro allontanamento dall’Europa occidentale, che ha scelto il
Cattolicesimo e poi il Protestantesimo.
Nell’epoca
moderna, questo stesso fattore di profonda sfiducia nell’Occidente si è
riflesso nel fatto che non siamo stati così intaccati dallo spirito stesso
della Modernità insito nel nominalismo, nell’individualismo e nel liberalismo.
E
anche quando abbiamo mutuato alcune dottrine e ideologie dall’Occidente, queste
erano spesso critiche, cioè contenevano in sé il rifiuto del principale paradigma di
sviluppo – liberal-capitalistico – della civiltà europea occidentale, che pure
era così prossima a noi.
L’identità
della Russia è stata anche molto influenzata dal vettore orientale – turanico. Come hanno dimostrato i filosofi
eurasiatici, tra cui il grande storico russo Lev Gumilev, la statualità mongola
di Gengis Khan ha rappresentato per la Russia un’importante esperienza di
organizzazione centralizzata di tipo imperiale, che ha largamente
predeterminato la nostra ascesa come Grande Potenza dal XV secolo, quando l’Orda
d’Oro crollò e la Russia moscovita si insediò nello spazio dell’Eurasia
nordorientale.
Questa
continuità con la geopolitica dell’Orda ha naturalmente portato alla potente
espansione delle epoche successive. Ad ogni svolta, la Russia ha difeso e
affermato non solo i suoi interessi, ma anche i suoi valori.
Così,
la Russia si è rivelata essere l’erede di due imperi che sono crollati
all’incirca nello stesso momento, nel XV secolo: l’impero bizantino e quello mongolo.
L’impero è diventato il nostro destino. Anche nel XX secolo, con tutto il
radicalismo delle riforme bolsceviche, la Russia è rimasta un impero contro
ogni previsione, questa volta sotto le spoglie dell’impero sovietico.
Ciò
significa che la nostra rinascita è inconcepibile senza il ritorno alla
missione imperiale, sancita nel nostro destino storico.
Questa
missione è diametralmente opposta al progetto globalista del “Grande Reset”. Ed è naturale aspettarsi che nel loro
slancio decisivo i globalisti faranno tutto ciò che è in loro potere per
impedire un Rinascimento Imperiale in Russia.
Proprio
di questo abbiamo bisogno: di un Rinascimento Imperiale.
Non
per imporre la nostra verità russa e ortodossa agli altri popoli, culture e
civiltà, ma
per far rivivere, fortificare e difendere la nostra identità e per aiutare gli
altri nel loro rinascimento, a fortificare e difendere la loro (per quanto è in nostro potere).
La
Russia non è l’unico bersaglio del “Grande Reset”, anche se per molti versi il
nostro Paese è il principale ostacolo all’esecuzione dei loro piani. Ma questa è la nostra missione –
essere il “Katéchon”, “colui che trattiene”, impedendo l’arrivo del Male finale
nel mondo.
Tuttavia,
agli occhi dei globalisti, anche le altre civiltà, culture e società
tradizionali sono da sottoporre a smantellamento, riformattazione e
trasformazione in una massa cosmopolita globale indifferenziata, e nel prossimo
futuro da sostituire con nuove – postumane – forme di vita, organismi,
meccanismi o loro ibridi.
Pertanto,
il risveglio imperiale della Russia è destinato ad essere un simbolo della
rivolta universale dei popoli e delle culture contro le élite liberali
globaliste.
Attraverso
la rinascita come impero, come impero ortodosso, la Russia sarà un esempio per gli
altri imperi – quello cinese, turco, persiano, arabo, indiano, così come quello
latinoamericano, africano… e quello europeo.
Invece del dominio di un unico “Impero”
globalista del Grande Reset, il risveglio russo dovrebbe coincidere con l’inizio di un’era
caratterizzata da molteplici Imperi, che riflettono e incarnano la ricchezza
delle umane culture, tradizioni, religioni e sistemi valoriali.
Verso
la vittoria del Grande Risveglio.
Se
aggiungiamo il trumpismo statunitense, il populismo europeo (sia di destra che
di sinistra), la Cina, il mondo islamico e la Russia, e prevediamo che a un
certo punto anche la grande civiltà indiana, l’America Latina e l’Africa, che
sta entrando in un altro ciclo di decolonizzazione, e tutti i popoli e le
culture dell’umanità in generale possano unirsi a questo campo, non abbiamo
semplici pedine marginali, sparse e confuse che cercano di opporsi alle potenti
élite liberali che stanno portando l’umanità al massacro finale, ma un vero e
proprio fronte che comprende attori di varie scale, dalle grandi potenze con
economie planetarie e armi nucleari alle influenti e numerose forze e correnti
politiche, religiose e sociali.
Il
potere dei globalisti, dopo tutto, si basa su insinuazioni e “miracoli neri”. Essi dominano non sulla base di un
potere reale, ma su illusioni, simulacri e immagini artificiali, che cercano
maniacalmente di instillare nelle menti degli uomini.
Del
resto, il Grande Reset è stato proclamato da un pugno di vecchi globalisti
degeneri e ansimanti sull’orlo della demenza (come lo stesso Biden, l’avvizzita
canaglia Soros, o il grasso borghese Schwab) e da una marmaglia marginale e pervertita
selezionata per illustrare le fulminee opportunità di carriera per tutti i
“deplorables”.
Naturalmente, hanno le borse e la stampa, i
truffatori di Wall Street e i drogati inventori della Silicon Valley che
lavorano per loro.
I disciplinati agenti dell’intelligence e gli
obbedienti generali dell’esercito sono subordinati a loro.
Ma
questo è trascurabile rispetto a tutta l’umanità, agli uomini di lavoro e di
pensiero, alla profondità delle istituzioni religiose e alla ricchezza
fondamentale delle culture.
Il
Grande Risveglio sta ad indicare che abbiamo carpito l’essenza di quella
strategia fatale, assassina e suicida del “progresso” come la intendono le
élite liberali globaliste.
E se la comprendiamo, allora siamo capaci di
spiegarla agli altri.
I risvegliati possono e devono risvegliare tutti gli
altri. E se riusciamo in questo, non solo il “Grande Reset” fallirà, ma un
giusto verdetto sarà emesso su coloro che hanno fatto della distruzione
dell’umanità, prima nello spirito e ora nel corpo, il loro scopo.
(Alexander
Dugin ).
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