IL FUTURO DEL MONDO IN CUI DOBBIAMO VIVERE.

 IL FUTURO DEL MONDO IN CUI DOBBIAMO VIVERE.

 

TECNOLOGIA-Colpo di stato digitale.

Internazionale.it- Shoshana Zuboff- The New York Times USA-(8 luglio 2022)-

 

Vent’anni fa il governo degli Stati Uniti ha lasciato aperta la porta della democrazia, invitando le aziende tecnologiche della California a entrare.

Ha anche acceso un bel fuoco nel caminetto per dare il benvenuto.                                              Negli anni seguenti in quelle stanze si è fatta strada una società della sorveglianza: una visione sociale nata dalle esigenze distinte ma reciproche delle agenzie d’intelligence e delle aziende private di internet, entrambe incantate dal sogno di una raccolta totale delle informazioni.

Vent’anni dopo le fiamme sono dappertutto, e il 6 gennaio 2021, quando i sostenitori di Donald Trump hanno preso d’assalto il congresso degli Stati Uniti, l’incendio ha minacciato di abbattere la democrazia stessa.

Per quarantadue anni ho studiato il modo in cui le tecnologie digitali sono cresciute fino a diventare una forza economica che guida la nostra trasformazione in una civiltà dell’informazione. Negli ultimi due decenni ho osservato le conseguenze di questa imprevista alleanza politico-economica, assistendo alla mutazione di quelle giovani aziende in imperi della sorveglianza alimentati da sistemi globali di monitoraggio, analisi, personalizzazione e previsione dei comportamenti che ho chiamato capitalismo della sorveglianza.

 Forti delle loro capacità di sorveglianza e spinti dalla necessità di accumulare profitti, i nuovi imperi hanno architettato un colpo di stato cognitivo, basato su una concentrazione senza precedenti di informazioni sul nostro conto e sul potere incontrollato che deriva da questo patrimonio di conoscenza.

Nella civiltà dell’informazione le società vengono definite da una serie di questioni relative alla conoscenza: il modo in cui viene distribuita, l’autorità che governa la sua distribuzione e il potere che protegge quell’autorità.

Chi è che sa? Chi è che decide chi sa? Chi è che decide chi decide chi sa?

Ora i capitalisti della sorveglianza hanno in mano la risposta a ciascuna di queste domande, anche se non li abbiamo mai eletti per governarci.

Ed è questa l’essenza del colpo di stato cognitivo.                                                                         Queste persone rivendicano l’autorità di decidere chi detiene la conoscenza accampando diritti di proprietà sulle nostre informazioni personali, e difendono questa autorità con il potere di controllare sistemi e infrastrutture informativi di cruciale importanza.

Nei suoi aspetti più profondi e terribili, il tentativo di colpo di stato politico messo in atto da Trump dopo le elezioni del 2020 cavalca l’onda di questo golpe nascosto, portato avanti negli ultimi vent’anni dagli “anti-social network” che un tempo consideravamo delle forze di liberazione.

 Quando si è insediato alla presidenza, il 20 gennaio 2021, Joe Biden ha detto che “la democrazia ha vinto” e ha promesso di ridare al valore della verità il posto che gli spetta nella società democratica. Ma la democrazia e la verità resteranno comunque esposte a un gravissimo pericolo finché non sventeremo l’altro colpo di stato, quello del capitalismo della sorveglianza.

Questo golpe si articola in quattro fasi.

La prima è l’appropriazione dei diritti cognitivi, che pone le basi per tutto quello che viene dopo.

Il capitalismo della sorveglianza nasce nel momento in cui le aziende scoprono di poter accampare diritti sulla vita delle persone e di poterla usare come materia prima gratuita da cui estrarre dati comportamentali, che diventano una loro proprietà privata.

La seconda fase è segnata dal rapidissimo aumento della disuguaglianza cognitiva, cioè della differenza tra ciò che posso sapere io e ciò che si può sapere di me.

Nella terza fase, quella in cui ci troviamo oggi, assistiamo all’avvento del caos cognitivo, causato dall’amplificazione algoritmica finalizzata al profitto e dalla diffusione accuratamente personalizzata di informazioni false, in gran parte prodotte da strategie di disinformazione coordinate.                                                Tutto questo ha conseguenze sul mondo reale, perché frammenta la realtà condivisa, avvelena il discorso sociale, paralizza la politica democratica e a volte produce violenza e morte.

Nella quarta fase l’egemonia cognitiva diventa istituzionale.                          L’autorità democratica è scavalcata da un’autorità computazionale esercitata dal capitale privato della sorveglianza.

Le macchine sanno e i sistemi decidono, diretti e sostenuti dall’autorità illegittima e dal potere antidemocratico del capitale privato della sorveglianza.

Ciascuna di queste fasi si fonda sulla precedente. Il caos cognitivo prepara il terreno per l’egemonia cognitiva indebolendo la società democratica, come si è visto chiaramente nell’insurrezione del 6 gennaio.

Viviamo negli anni formativi della civiltà dell’informazione.

La nostra epoca è paragonabile alla prima fase dell’industrializzazione, quando i padroni avevano tutto il potere e i loro diritti di proprietà venivano prima di qualunque altra cosa.

 L’intollerabile verità della situazione attuale è che finora gli Stati Uniti e la maggior parte delle altre democrazie liberali hanno ceduto la proprietà e la gestione del mondo digitale al capitale privato della sorveglianza, che ormai si contende con la democrazia i diritti e i princìpi fondamentali che definiranno il nostro ordine sociale in questo secolo.

L’ultimo anno – segnato dalla pandemia e dall’autoritarismo di Trump – ha aggravato gli effetti del colpo di stato cognitivo, mettendo in luce il potenziale omicida degli anti-social network, anche prima dell’assalto al congresso del 6 gennaio.

Forse una maggiore consapevolezza di questo golpe in atto e della minaccia che rappresenta per le società democratiche ci costringerà finalmente a fare i conti con la scomoda verità che incombe su di noi da vent’anni.

Possiamo vivere in democrazia o possiamo vivere nella società della sorveglianza, non in entrambi i posti contemporaneamente.

Una società della sorveglianza democratica è impossibile a livello sia esistenziale sia politico. Per essere chiari: al centro di questa battaglia c’è l’anima della nostra civiltà dell’informazione. Diamo il benvenuto al prossimo decennio.

L’eccezione della sorveglianza.

La tragedia dell’11 settembre 2001 ha trasformato il dibattito a Washington, spostando l’attenzione dalla necessità di approvare leggi in difesa della privacy all’ossessione per la raccolta totale delle informazioni.

Le autorità si sono interessate alle tecnologie della sorveglianza che stavano prendendo forma nella Silicon Valley.                                            Come ha osservato Jack Balkin, professore di giurisprudenza a Yale, la comunità dell’intelligence avrebbe dovuto “affidarsi al settore privato per raccogliere e generare informazioni” in modo da aggirare vincoli costituzionali, legali o normativi: questioni che oggi sono d’importanza fondamentale.

Nel 2013 il direttore della sezione tecnologica della Cia spiegava che la missione del suo ufficio era “raccogliere tutto e conservarlo per sempre”, e riconosceva il ruolo delle grandi aziende del web – tra cui Google, Facebook, YouTube e Twitter, oltre alle compagnie telefoniche – nel renderla possibile.

 Le radici sovversive del capitalismo della sorveglianza sono inscritte in questa tacita dottrina dell’eccezionalismo della sorveglianza, con cui si aggira il controllo democratico e sostanzialmente si concede alle nuove multinazionali della rete il permesso di carpire l’esperienza umana e rappresentarla sotto forma di dati proprietari .(…).

 

 

 

CONTRO IL POTERE FOSSILE.

Chi fa da megafono ai negazionisti climatici.

Internazionale.it-Stella Levantesi- giornalista-(6 luglio 2022)- ci dice :

 

 

(Trentino-Alto Adige, 4 luglio 2022. Il ghiacciaio della Marmolada dopo il crollo).

Il Po è ai livelli più bassi degli ultimi settant’anni e la siccità, già preannunciata lo scorso inverno dall’assenza di piogge per quasi cento giorni, sta mettendo a rischio la risorsa più preziosa che abbiamo: l’acqua. La scienza del clima afferma che il cambiamento climatico può aumentare le probabilità e l’intensità dei fenomeni siccitosi. D’altronde non bisogna essere scienziati per unire i puntini: un mondo più caldo aumenterà la probabilità di siccità in alcune aree. E non solo di siccità. Le morti sulla Marmolada, il 3 luglio, sono conseguenza anche delle elevate temperature, ha affermato il climatologo Luca Mercalli: lo zero termico sopra i quattromila metri e la fusione accelerata del ghiacciaio hanno causato l’accumulo di acqua dentro un crepaccio favorendo il distacco.

Eppure, c’è chi ancora fa negazionismo climatico.

Nel panorama anglosassone a fare da cassa di risonanza a queste teorie ormai sono rimasti in pochi.

 Si tratta soprattutto di piattaforme conservatrici o ultraconservatrici come Fox News, il che non è una novità.                                                                                                             Quando sono altre piattaforme, meno schierate politicamente rispetto a Fox News, a fare disinformazione sulla crisi climatica, questo avviene attraverso le prospettive di compagnie o lobby fossili con interessi economici e politici, più che un negazionismo assoluto sul clima.

Questo tipo di contenuti suscita reazioni molto diffuse, soprattutto tra coloro che sono a conoscenza della scienza del clima e della necessità urgente di agire per ridurre le emissioni.

Poche settimane fa, per esempio, sul canale Cnbc è andato in onda un contenuto su Exxon Mobil che ha promosso il business della compagnia attraverso un’azione combinata di green-washing (cioè la strategia di comunicazione di alcune aziende che presentano come ecosostenibili le loro attività, cercando di occultarne l’impatto ambientale negativo) e fake news, ha denunciato l’autrice ed esperta di comunicazione sul clima Genevieve Guenther.

“Quanto vi ha pagato la Exxon?”, ha twittato Guenther.

Molti esperti, tra cui Robert Brulle, un noto sociologo che studia il negazionismo climatico da decenni, hanno reagito in modo simile.

 “Questo è un classico esempio di propaganda dei combustibili fossili. Ha tutte le caratteristiche della propaganda fuorviante: presentazione selettiva dei fatti, mancanza di prospettive critiche e presentazione unilaterale della prospettiva della Exxon Mobil”, ha affermato Brulle.

In Italia il pubblico riceve messaggi contraddittori che alimentano la prospettiva negazionista.

In Italia invece il negazionismo climatico è diffuso anche su piattaforme, canali e trasmissioni che vengono considerati in qualche modo autorevoli, e non solo da testate politicamente schierate a destra come succede nello scenario mediatico anglosassone.

Il risultato è che il pubblico riceve messaggi contraddittori che alimentano la prospettiva negazionista che, a sua volta, fa leva sugli stessi elementi ormai da decenni: instillare il dubbio sulla scienza del clima, creare confusione il più possibile e fare propaganda politica.

Solo poche settimane fa, in prima serata, durante il programma televisivo Carta bianca, è stato dato spazio e voce a posizioni negazioniste.

Nell’ultima settimana di giugno sul Mattino sono stati pubblicati due interventi. In uno l’intervistato ha potuto affermare, tra le altre cose, che i dati dell’Onu sono “sbagliati ed esageratamente caldi in partenza”, che le informazioni scientifiche sono “diffuse in maniera propagandistica” e che la Terra è calda per via di “cicli millenari e molte speculazioni”. Nell’altra intervista si affermava che “il caldo record non è una novità” ed è condizionato dall‘“influenza dei cicli solari”.

Che il cambiamento climatico sia colpa del Sole è una teoria che risale agli anni ottanta e novanta, ed è già stata dimostrata come falsa e rifiutata dall’Intergovernmental panel on climate change dell’Onu.

In un altro articolo pubblicato su Il Foglio, il 24 giugno, si è affermato “altro che siccità, la vera crisi dell’acqua in Italia è ideologica”.

 

Il 5 luglio, sulla prima pagina del Giornale ancora si legge il titolo, a proposito delle morti sulla Marmolada, “Gli sciacalli dei ghiacci” e la frase “i gretini strumentalizzano la strage”.

Il capovolgimento è una tecnica usata spesso dai negazionisti: accusano “l’altra parte” di un atteggiamento che loro per primi mettono in campo – in questo caso, la strumentalizzazione.

Anche l’anno scorso, quando il ciclone detto medicane (dalla fusione dei termini inglesi mediterranean hurricane, “uragano mediterraneo”) ha colpito la Sicilia, un negazionista climatico italiano aveva potuto affermare in tv che l’attività umana “non ha nulla a che fare” con il cambiamento climatico.

 Il negazionismo puntella ancora i contenuti di molte piattaforme mediatiche in Italia, in varie forme.

E, se non è aperto negazionismo, è minimizzazione: “la situazione non è poi così grave”, “fate allarmismo”, “ci adatteremo”.

Quest’ultima argomentazione sta diventando il mantra di chi, avendo capito che sostenere che “il cambiamento climatico non esiste” o che “la crisi climatica non è responsabilità antropica” è sempre più indifendibile, utilizza la capacità di adattamento per sminuire gli impatti della crisi climatica.

Inoltre questa argomentazione implica che l’impegno per attenuare gli effetti del cambiamento climatico è inutile e inquadra l’adattamento come “l’unica risposta possibile”, sostengono i ricercatori di “Discourses of climate delay”, un’analisi che prende in esame i ragionamenti utilizzati da chi ha interesse a procrastinare e rallentare l’azione sul clima.

(Sydney, Australia, 5 luglio 2022. Un’area residenziale colpita dalle alluvioni. - Loren Elliott, Reuters/ContrastoSydney, Australia, 5 luglio 2022. Un’area residenziale colpita dalle alluvioni). (Loren Elliott, Reuters/Contrasto).

Queste argomentazioni, promosse da alcune testate e trasmissioni, danno al pubblico la falsa percezione che ci sia incertezza sull’esistenza e sulla gravità della crisi climatica, e che il dibattito scientifico sul cambiamento climatico sia ancora in corso.

Il “falso equilibrio” dell’informazione non fa altro che reiterare e alimentare l’idea fuorviante che il cambiamento climatico, anche se esiste, non è poi così grave, che non riguarda l’Italia, che gli eventi meteorologici estremi e i fenomeni causati dall’aumento della temperatura come quelli che si stanno verificando in tutta la penisola e in molte altre aree del mondo non vi hanno nulla a che fare.

Ma come scrive l’ex presidente di Legambiente Roberto Della Seta su Twitter, il problema è alimentato anche dai “grandi media” che “commentano allarmati” gli effetti dei cambiamenti climatici e poi “ricominciano a dare voce” a chi vuole procrastinare sulla decarbonizzazione.

Il meccanismo è simile a quello di una cassa di risonanza: alcuni mezzi di comunicazione, promuovendo argomentazioni e prospettive negazioniste che non potrebbero essere più lontane dalla scienza e dai fatti, dando voce a chi offre argomentazioni per rallentare l’azione sul clima fungono da camera dell’eco e, nei casi più estremi, offrono una rappresentazione errata e fuorviante della realtà.

La differenza tra l’aperto negazionismo di alcuni individui e la propaganda e il green-washing dei combustibili fossili è che la seconda è più insidiosa e più difficile da riconoscere ma, in mancanza di dati sul cambiamento climatico, la prima può essere altrettanto dannosa.

È sempre più evidente che, in molti casi, anche quando si parla della crisi climatica come fattore che contribuisce a un fenomeno come la siccità, manca l’anello di collegamento fondamentale: il legame tra il cambiamento climatico e la sua causa principale, le emissioni prodotte dai combustibili fossili, dall’industria agroalimentare e da altri settori inquinanti. Il tema energetico, in molti casi, appare irrilevante se si parla di siccità o di razionamento dell’acqua.

Ma come si può costruire un dibattito costruttivo sulla crisi climatica e, di conseguenza, delle azioni concrete se le cause del problema vengono costantemente sminuite o ignorate?

Il cambiamento climatico è un moltiplicatore di minacce, quindi va a stratificarsi su vulnerabilità preesistenti e discriminazione strutturali.

Se la crisi climatica viene comunicata a compartimenti stagni, come può il pubblico comprenderne le implicazioni reali?

Se non si rendono chiari i collegamenti di causa-effetto come possono una cittadina o un cittadino comprendere che l’aumento dei prezzi del gas o dell’elettricità, per esempio, sono strettamente legati a come si comportano le aziende energetiche e di combustibili fossili che, a loro volta, sono strettamente legate alle emissioni e, quindi, al riscaldamento globale?

 Se si continua a promuovere il negazionismo e l’ostruzione all’azione per il clima come può un elettorato comprendere quanto è cruciale scegliere una candidata o un candidato politico che agisca concretamente e urgentemente per il clima?

 

Ecco il nocciolo della questione. Confondere le persone e distrarle dalla realtà delle cose le rende molto più vulnerabili alla disinformazione e al green-washing. E questo fa gioco alle aziende di combustibili fossili e a chi ha interesse a rallentare la transizione energetica ed ecologica. Se parte della disinformazione è conseguenza di superficialità e negligenza, un’altra parte è intenzionale e strategica, per ragioni ideologiche, economiche e politiche. Queste fanno leva anche su un’altra questione fondamentale che ha a che fare con dinamiche cognitive, più che comunicative o politiche: c’è un meccanismo di rimozione del la minaccia del cambiamento climatico, la quale non viene percepita come qualcosa di imminente e che avrà un effetto diffuso (anzi, che ha già un effetto diffuso), ma come un problema quasi astratto, lontano nel tempo e nello spazio, e che non ci toccherà mai da vicino.

Il tema viene quindi spesso trattato e percepito come un problema non problema, un fenomeno che esiste, ma viene dopo altri più importanti. Il risultato di questa dinamica è che ignora un fatto fondamentale: il cambiamento climatico è un moltiplicatore di minacce, quindi va a stratificarsi su vulnerabilità preesistenti e discriminazione strutturali che possono avere a che fare con la salute, la condizione socioeconomica o le disuguaglianze di genere, per esempio.

Lo spiegano bene Abbie Veitch e Khalil Shahyd nei loro articoli pubblicati più di due mesi fa, prima della decisione della corte suprema americana di abolire il diritto all’aborto: la crisi climatica è anche un problema di giustizia riproduttiva, la giustizia riproduttiva è giustizia climatica.

Sottolineare tutti questi nessi significa, innanzitutto, fare luce su più di cinquant’anni di scienza del clima che, volendo semplificare al massimo, si potrebbero riassumere così:

più emissioni = aumento della temperatura globale = aumento di frequenza e intensità di eventi meteorologici estremi. Il continuo procrastinare della politica e delle aziende ci ha già catapultati nel mezzo della crisi climatica e ci sta portando verso scenari di aumento della temperatura con conseguenze estremamente serie per gli ecosistemi, la vita e la salute degli esseri umani.

Ci sono continui dati a supporto di questo.

Tra i più recenti, un nuovo rapporto di oltre quaranta gruppi, pubblicato da Oil change international, ha rilevato che le principali compagnie petrolifere e del gas statunitensi ed europee, inclusa l’italiana Eni, “non riescono ancora a soddisfare il minimo indispensabile per allinearsi all’Accordo di Parigi”. Le promesse e gli impegni di queste aziende sono tutt’altro che credibili, conclude il rapporto, visto che stanno pianificando più di duecento progetti di espansione dei combustibili fossili da qui al 2025.

Ma finché l’informazione sulla crisi climatica non viene fatta in maniera accurata e costruttiva, le piattaforme mediatiche condivideranno parte del peso di questa responsabilità. E con questa, deve esserci anche la scelta di distanziarsi il più possibile da chi ha inquinato, continua a inquinare e fa di tutto per nasconderlo. Questo deve significare anche agire in maniera “scomoda”, come rifiutare finanziamenti o sponsorizzazioni.

 

All’opinione pubblica bisognerebbe fornire innanzitutto le basi della crisi climatica: cos’è, da cosa è causata e perché è un problema. Una volta chiarite le basi, che possono sembrare banali ma in moltissimi casi ancora mancano, sarebbe utile fornire gli strumenti per riconoscere la disinformazione e le strategie negazioniste o di ostruzione all’azione per il clima, in modo tale da poter distinguere un’informazione fattuale da una fabbricata e fuorviante. Infine, è necessario approfondire gli effetti della crisi climatica, non solo in termini fisici ma anche nelle interconnessioni con l’aspetto sociale, la politica, l’economia e così via.

Tutto questo va fatto tenendo a mente soprattutto un elemento: si deve fare affidamento su fonti autorevoli, su scienziati del clima, su esperti di comunicazione, su scienziati sociali con esperienza sul tema e su cittadini, lavoratori, attivisti che per primi stanno subendo gli effetti della crisi climatica, non su negazionisti che nel 2022 ancora promuovono idee come “è colpa del Sole” o su rappresentanti delle compagnie fossili che inquinano e nascondono la propria responsabilità nella crisi climatica da decenni.

La domanda non può più essere se e quando arriverà il cambiamento climatico. È già qui ed è già grave. Quanto ancora andranno avanti alcune piattaforme mediatiche a ospitare negazionisti climatici? Quanto ancora si continuerà a ignorare la responsabilità e l’azione di chi ha contribuito a causare la crisi climatica?

 Quanto tempo ancora verrà perso?

(EMERGENZA CLIMATICA).

 

 

 

 

ECONOMIA E DISUGUAGLIANZE.

Superare il gender gap sul lavoro:

cosa può fare lo stato, cosa fanno le aziende.

Agendadigitale.eu- Marie Chabanon- (08 Lug. 2022)- ci dice:

(CTO Data4 Group).

 

Cultura E Società Digitali.

L’ICT è un settore in crescita, ma spesso non per le donne: come favorire l’occupazione femminile in azienda, gli accordi per l’uguaglianza di genere, cosa può fare lo Stato, perché investire in formazione e cambiamento culturale

 

(gender gap - diversity - imprese al femminile).

Secondo un rapporto di The World Economic Forum, l’84% dei datori di lavoro sta accelerando i propri investimenti nel campo della digitalizzazione e automazione del lavoro, alimentando una tendenza all’avanguardia che nasconde tuttavia una realtà complessa.

Nonostante l’esigenza crescente da parte delle imprese di reclutare profili tecnici, ancora oggi le discipline STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics) sono teatro di pregiudizi e stereotipizzazioni che precludono o non incoraggiano le donne a intraprendere la carriera in campo scientifico.

Come invertire questo divario?

 Accordi per l’uguaglianza: “Towards Zero gender gap” e “Women4Climate”.

In particolare, il settore dei data center, e più in generale il settore ICT, soffre di una carenza di talenti in un momento storico in cui emerge, più forte che mai, la necessità di assumere per far fronte alle sfide di uno sviluppo economico sostenibile e responsabile. Ma per una donna, accedere a questo tipo di posizioni risulta ancora ostico.

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E-mail aziendale.

In Italia, nel 2021, solo il 16,1% dei profili operanti nelle discipline STEM sono donne, anche se la situazione sta iniziando gradualmente a cambiare. Le statistiche Eurostat, infatti, sembrano dare qualche segnale incoraggiante: nel 2021, in Europa, quasi 74 milioni di persone sono occupate nel settore scientifico e tecnologico, con un aumento del 3% rispetto al 2020 e del 21% rispetto al 2011.

 

Le aziende leader del settore ICT hanno una grande responsabilità nel guidare questo cambiamento. L’azienda per cui lavoro, Data4, supporta fortemente la parità di genere nei ruoli chiave: quasi la metà delle posizioni senior della nostra organizzazione è occupato da donne.

Nel 2021, in occasione del G20 Women’s Forum di Milano, l’azienda ha sottoscritto gli impegni del documento “Towards Zero Gender Gap”, in base al quale, come organizzazione, adotteremo misure per assumere e promuovere le donne in modo equo sulla base delle conoscenze e dell’esperienza.

Il nostro Presidente ha firmato un impegno per l’uguaglianza tra donne e uomini, che comprende un altro aspetto molto importante, una retribuzione equa e paritaria.

È importante capire che le donne giocheranno sempre più un ruolo di primo piano nel settore digitale: per questo, sono anche firmataria del Women’s Forum Climate Commitment Charter, “Women4Climate”, che promuove le donne in posizioni di leadership, e alla guida di progetti a favore dell’ambiente.

ICT e gender gap: cosa può fare lo Stato.

Ma le aziende, da sole, non bastano. Oggi, un altro aspetto fondamentale per promuovere il cambiamento in Italia è la collaborazione tra pubblico e privato. Dobbiamo cambiare la visione della società per consentire alle donne di avere un impatto sull’ambiente che ci circonda, e per questo abbiamo bisogno della loro presenza e del loro impegno in posizioni di rilievo, sia nelle istituzioni pubbliche che in quelle private.

In quest’ottica, una soluzione importante è quella di perseguire una politica di parità tra donne e uomini: raggiungere il 20% di occupazione femminile nelle posizioni dirigenziali è essenziale per eliminare il cosiddetto “soffitto di cristallo”.

Lo Stato dovrebbe anche fornire adeguate tutele alle donne che vogliono affermarsi in più ruoli diversi nella vita, per cui sono necessarie norme giuridiche per proteggere le madri-lavoratrici: servono interventi atti a tutelare il posto di lavoro delle donne che scelgono di vivere l’esperienza della maternità e che vanno supportate con l’attuazione di programmi dedicati che permettano di continuare a lavorare rafforzando la fiducia nel fatto che ricoprire posizioni di responsabilità non può e non deve escludere lo sviluppo legittimo della sfera personale.

Per questo motivo sono molto soddisfatta nel leggere notizie come l’ultimo accordo europeo sulla direttiva relativa alle donne nei consigli di amministrazione delle società quotate: secondo la bozza, a partire dalla fine di giugno 2026, almeno il 40% dei membri del consiglio di amministrazione sarà costituito da donne. Queste iniziative ci danno modo di credere che la situazione delle donne nella società moderna cambierà.

ICT e gender gap: investire in formazione e cambiamento culturale.

In quest’ottica, un aspetto che non può passare inosservato, riguarda anche la formazione: le attività didattiche e la creazione di progetti che aumentino l’interesse degli studenti per la tecnologia sono fondamentali. Il problema, infatti, non sta sempre e solo nel non avere accesso a posizioni di responsabilità nelle aziende tecnologiche, ma nel fatto che solitamente le donne devono investire più tempo e sforzi per arrivarci.

In Italia, così come in molti altri Paesi d’Europa, è ancora considerato naturale che il CEO, il CTO o il CIO dell’azienda sia un uomo. Questi pregiudizi sono presenti tanto nel mondo del lavoro quanto all’interno delle famiglie e nelle scuole. È questa forma mentis che genera un ostacolo prima di tutto culturale al raggiungimento delle ambizioni personali di molte donne che finiscono per essere sfiduciate rispetto alle prospettive professionali che il mercato offre.

Uno dei miei obiettivi personali, oltre che professionali, è quindi di far conoscere alle giovani donne tutte le possibilità formative a loro disposizione, dai programmi accademici alle borse di studio e stage, alle iniziative di alternanza scuola-lavoro, che sono oggi più che mai necessarie.

Conclusioni.

Il mercato sta finalmente prendendo consapevolezza delle sfide che le giovani donne devono affrontare nelle professioni tecniche ed è fondamentale che il mondo dell’istruzione stia al passo, combattendo già durante gli anni della formazione l’approccio stereotipato alle professioni, che dovrebbero essere aperte a tutte le persone di talento e interessate, indipendentemente dal loro genere.

Per quanto mi riguarda, posso dire di conoscere bene il settore dei data center: so che in futuro crescerà ancora e genererà posti di lavoro interessanti. In quanto pilastri della trasformazione digitale, società leader come Data4 che operano nel settore, presentano oggi molte opportunità di sviluppo: se coinvolgiamo le donne nel processo di cambiamento fin dall’inizio, potremo procedere verso un mondo più equo, di cui anche l’industria ICT potrà beneficiare.

 

 

 

La nuova mobilità a Milano tra sharing,

tpl e auto meno inquinanti.

Parla l’assessora Arianna Censi.

Lifegate.it- Dario Zerbi- (9 -7-2022)- ci dice :

 

Milano è tra le città italiane più virtuose sul fronte della mobilità sostenibile .

Intervista all’assessora alla mobilità del comune: “Puntiamo forte sul trasporto pubblico, pronti incentivi per l’acquisto di veicoli ibridi ed elettrici”.

Il futuro della mobilità a Milano sarà all’insegna del trasporto pubblico locale. Un sistema che sarà ulteriormente rafforzato dalla linea 6 della metropolitana ma che dovrà necessariamente “dialogare” in maniera più efficace con le ferrovie regionali.

Ne è convinta l’assessora alla mobilità del comune, Arianna Censi, per la quale la riduzione del numero delle auto circolanti dovrà andare di pari passo con l’aumento dei veicoli meno inquinanti: per questo motivo è pronto un incentivo – legato al reddito – che si andrà a sommare a quello statale. E sono in arrivo nuove misure per favorire la mobilità condivisa, dalle bici ai monopattini in sharing, fino al car pooling.

 

Con l’obiettivo di rendere la città “carbon neutral” entro il 2050, alla fine del 2021 il Comune di Milano approvò il Piano Aria Clima.

 Tra gli obiettivi ci sono il dimezzamento della mobilità personale motorizzata e della superficie dei parcheggi su strada entro il 2030.

 Cosa risponde a chi sostiene che il Piano andrebbe rivisto, dal momento che si basa su dati del 2017?

Il Piano Aria Clima è frutto di un aggiornamento che tiene conto degli ultimi dati dell’Organizzazione mondiale della sanità sulla condizione di salute dei cittadini e, in particolare, sui danni legati agli effetti del cambiamento climatico. Posto che dal 2017 ad oggi la situazione, purtroppo, non è cambiata, il vero punto è che il quadro peggiora costantemente e l’arco temporale per intervenire si assottiglia. Oltretutto le situazioni più critiche emergono proprio dove è maggiore il concentramento di persone; e una città come Milano, da questo punto di vista, non è favorita nemmeno dalle condizioni climatiche. Di conseguenza dobbiamo muoverci bene e rapidamente, condividendo con i cittadini le ragioni di alcune misure, gli obiettivi e le strategie messe in campo per centrarli.

Come Amburgo sta immaginando una nuova mobilità (a guida autonoma).

A proposito di riduzione della mobilità motorizzata, come vi state muovendo?

L’obiettivo resta quello di una riduzione complessiva del numero di auto circolanti, favorendo al contempo lo sviluppo della mobilità ibrida, elettrica e nel prossimo futuro anche a idrogeno. Vogliamo poi aumentare lo spazio pubblico sulle carreggiate riducendo i parcheggi e spingere con ancora maggior decisione su bici, monopattini, sharing e pooling. Su quest’ultimo punto, in particolare, chi decide di condividere un mezzo può già usufruire gratuitamente dei parcheggi di interscambio e in futuro potrà godere di ulteriori vantaggi. In sostanza, fatto salvo il rispetto delle regole, la nostra idea è di puntare su schemi di premialità più che sulle sanzioni.

Il Comune di Milano lancerà un nuovo bando con incentivi alla rottamazione delle auto più inquinanti, che si sommerà agli incentivi statali e sarà legato all’Isee?

Nel bilancio del Comune sono presenti le risorse per erogare questo contributo, che sarà integrativo rispetto a quello statale. E confermo che la mia idea è di erogarlo in maniera inversamente proporzionale all’Isee, per favorire la diffusione di auto ibride ed elettriche anche tra le fasce di popolazione con minori disponibilità economiche.

C’è poi il grande tema del trasporto pubblico.

Come pensate di centrare l’obiettivo di aumentare del 30 per cento gli abbonamenti al tpl? E quando è importante, in una città come Milano, il “dialogo” con il sistema ferroviario regionale?

La premessa necessaria è che Milano ha un ottimo sistema di trasporto pubblico.

 Il nodo centrale è appunto la relazione con la Regione Lombardia e in particolare con Trenord. Questo perché non possiamo pensare che la metropolitana arrivi ovunque: più ci si allontana dal centro cittadino e più diminuisce la densità abitativa, meno la metropolitana diventa conveniente dal punto di vista economico.

 E qui entra in gioco il dialogo con il sistema ferroviario, la cui efficienza deve essere sempre più simile al sistema cittadino. Penso che dopo la sanità, il tema della mobilità sia il più importante per migliorare la qualità di vita delle persone: puntiamo ad aumentare gli abbonamenti al trasporto pubblico locale attraverso un’operazione di fidelizzazione e stiamo stringendo importanti convenzioni con i mobility manager delle aziende del territorio.

Aumentando gli abbonamenti – che, è bene ricordalo, costano meno di un euro al giorno – potremmo ottenere una serie di effetti benefici a cascata, a partire dalla riduzione delle auto nelle strade.

Sul fronte del trasporto pubblico locale, si punta a un aumento degli abbonamenti del 30 per cento .

Parlando ancora di tpl, il sindaco Sala ha annunciato che la M6 sarà “l’ultima metropolitana di Milano”. Come l’avete immaginata?

Per come l’abbiamo immaginata, la M6 risponderà al completamento della “circle line”. Servirà i Municipi 4, 5 e 8 che sono i più scoperti dal punto di vista del trasporto pubblico veloce; non “taglierà” la città ma sarà una linea di connessione con le altre cinque e, laddove possibile, con il servizio ferroviario regionale.

 Ciò nell’ottica di costruire una rete: accrescere la possibilità di connessione potenzia la qualità della fruizione di tutto il sistema nel suo complesso. A proposito di rete, i dati dimostrano l’importanza di bici e monopattini in sharing come mezzi di raccordo con il tpl, per completare il famoso “ultimo miglio”: chi li usa, generalmente è un fruitore stabile del trasporto pubblico.

 

Così Torino punta alla neutralità climatica entro il 2030. Parla l’assessora Chiara Foglietta.

Su monopattini e bici in sharing, però, non mancano le polemiche relative alla sicurezza, all’utilizzo improprio degli spazi e all’abbandono.

Posto che a noi basta un solo incidente o un singolo mezzo abbandonato per far scattare il campanello di allarme, a Milano la situazione è decisamente virtuosa rispetto al resto d’Italia e d’Europa, sia dal punto di vista dei fruitori che dei gestori privati del servizio.

 Lato nostro, stiamo facendo il possibile affinché tutto sia ordinato e disciplinato nel rispetto degli utenti della strada; con una delle società che si occupano dei mezzi in sharing, stiamo anche lavorando a una tecnologia che impedisca sia la circolazione dei mezzi sui marciapiedi, sia l’abbandono in zone non consentite.

Sempre più persone scelgono di muoversi in bicicletta, anche nelle grandi città come Milano .

Quanto e in che modo la pandemia ha contribuito a modificare le abitudini dei milanesi in tema di mobilità? I cittadini sono già tornati alle abitudini di un tempo, o alcuni nuovi fenomeni sono ormai irreversibili?

Ci sono alcuni elementi dai quali non torneremo più indietro: penso alla percezione dello spazio, del proprio tempo e del valore della propria salute, tutti aspetti rispetto ai quali la mobilità gioca un ruolo centrale.

 Senza dimenticare il ricorso ad alcuni giorni settimanali o mensili di smart working. Abbiamo notato un forte aumento degli spostamenti in bicicletta, che in molti casi sono diventati quotidiani. Il trasporto pubblico locale ha sofferto in maniera pesante gli effetti della pandemia, anche a causa di una narrazione sbagliata: si tratta invece di luoghi sicuri, presidiati e monitorati.

Una valutazione definitiva potremo farla solo a settembre con la riapertura delle scuole, ma sono certa che il tpl tornerà a crescere e a svolgere il suo ruolo fondamentale nel sistema della mobilità cittadina.

 

 

 

Dai pannelli solari alle batterie:

è la Cina la padrona assoluta

del cleantech.

Repubblica.it- Maurizio Ricci-(2 luglio 2022)- ci dice :

L'addio del settore auto a diesel e benzina e la crisi energetica legata a gas e petrolio spingono sempre di più verso motori elettrici ed energie alternative. Una partita che al momento vede Pechino come unico vincitore, forte di grandi investimenti. E il dominio può consentire al Paese di dettare le regole del settore.

Dal 2035, basta benzina o diesel, ha deciso l'Europa. La nostra auto sarà elettrica. E cinese, sottolinea cupamente il boss della Bmw. Non solo l'auto, peraltro. Il nostro futuro è, infatti, nelle mani della Cina.

O, per dirla con meno grancassa e più dettaglio, il cleantech - la tecnologia pulita, a cui affidiamo le speranze di evitare la catastrofe climatica – ha un padrone solo e il nome è scritto in caratteri cinesi.

 In un recente Eurobarometro  si indicava che il lento tramonto dei combustibili fossili ci avrebbe consegnato una geopolitica non meno squilibrata della attuale, con i materiali destinati a raccogliere l'eredità di gas e petrolio – dal litio alle terre rare, al cobalto all'idrogeno – concentrati in pochi paesi ugualmente lontani ed estranei: dal Congo alla Cina al Golfo Persico.

 Ma, se invece che ai materiali si guarda agli strumenti per utilizzarli, il panorama è ancor più netto e brutale: la tecnologia pulita è già oggi, praticamente un monopolio, gestito da aziende cinesi.

E' come se, nell'era del petrolio e del gas, avessimo dovuto prendere da Arabia saudita e Russia non solo benzina e metano, ma anche le auto e le caldaie. Questa, infatti, è la situazione per due pilastri della tecnologia pulita – pannelli solari e batterie per auto – e la distanza fra Cina, da una parte, Europa e Usa dall'altra, continua ad aumentare.

Il racconto che gli analisti di Wood Mackenzie fanno della catena di produzione dei pannelli solari non lascia dubbi.

Polisilicone, che è il materiale base dei pannelli: nel 2010 la Cina controllava il 42 per cento della sua produzione, oggi siamo al 78 per cento. Wafers, gli strati in cui è sistemato il polisilicone: fra il 2010 e il 2021, dal 78 al 98 per cento. Celle, dove vengono sistemati i wafers, dal 60 all'80 per cento. Per i pannelli assemblati e finiti la quota di mercato è rimasta la stessa, ma siamo al 66 per cento.

La situazione è praticamente identica per quanto riguarda il cuore delle auto elettriche: le batterie. Il 90 per cento del litio, il minerale usato per le batterie auto, viene processato in Cina, che copre anche il 90 per cento del mercato delle terre rare, quell'insieme di ossidi, magneti e metalli, cruciale per le batterie al litio.

 La conseguenza è che i tre quarti delle batterie per auto prodotte nel mondo, escono dalle fabbriche cinesi.

Questo dominio mondiale su pannelli e batterie è confermato dall'aggressività delle aziende cinesi negli investimenti.

Mentre i gruppi americani, australiani, coreani stanno mettendo insieme qualche centinaio di milioni di dollari da spendere nel cleantech, in questi mesi, tre sole aziende cinesi, attive rispettivamente nelle batterie, nel litio e nel cobalto stanno raccogliendo sui mercati finanziari, in buona misura da investitori occidentali, almeno 10 miliardi di dollari.

Le conseguenze le misureremo a breve.

Fra il 2021 e il 2025, la quota  delle aziende cinesi nel mercato globale di batterie rimarrà praticamente invariata, al 66 per cento. Ma, negli stessi quattro anni, il mercato complessivo sarà più che triplicato nelle dimensioni. Negli stessi anni, l'Europa, nonostante gli impegni pubblici, passerà solo dal 15 al 20 per cento del mercato e gli Usa dall'8 al 12 per cento.

Questo predominio può consentire ai cinesi di dettare gli standard tecnici del settore, aumentando ulteriormente il proprio vantaggio.

Come una volta per gli Stati Uniti, rispetto ai tanti concorrenti europei, il dominio cinese nasce, anzitutto, da un massiccio mercato interno che assicura un forte ritmo di domanda e il livello di produzione consente costi bassi. Le batterie cinesi hanno un costo di produzione di 60 dollari per kilowattora e il previsto triplicare della produzione lo farà scendere a 50 dollari.

Nel resto del mondo non esistono le stesse economie di scala e  il costo medio è di 78 dollari per kwh. In Europa, arriva a 120 dollari.

Le stesse case automobilistiche coreane,  che vivono fianco a fianco con giganti delle batterie come Samsung e Lg, per il 60 per cento usano batterie cinesi.

In termini di geopolitica, è una situazione che conosciamo. Pechino punta a fare della Cina l'Arabia saudita del cleantech, con il costo di produzione più basso e la quota di mercato più alta, esattamente come i sauditi con il petrolio.

 

 

 

"Bisogna diversificare la produzione

di pannelli solari per una

transizione energetica sicura."

Repubblica.it- Redazione- (07 LUGLIO 2022)- ci dice :

Lo sostiene l'Agenzia internazionale per l'energia in un nuovo report che rileva squilibri nelle catene di fornitura del fotovoltaico: l'80% della produzione avviene in Cina per tutte le principali fasi.

Per garantire una transizione sicura verso le emissioni nette zero sarà necessario un maggiore impegno per espandere e diversificare la produzione globale di pannelli solari, le cui catene di fornitura sono attualmente fortemente concentrate in Cina.

 È quanto dichiara l'Iea (Agenzia Internazionale per l'Energia) in un nuovo rapporto speciale dedicato alle rinnovabili e appena diffuso.

 Le politiche industriali e di innovazione cinesi, incentrate sull'espansione della produzione e dei mercati dei pannelli solari, hanno aiutato il fotovoltaico a diventare la tecnologia di produzione di energia elettrica più conveniente in molte parti del mondo.

Tuttavia, questo ha portato anche a squilibri nelle catene di fornitura del solare fotovoltaico, secondo il rapporto Iea sulle catene di fornitura globali del solare fotovoltaico, il primo studio di questo tipo dell'Agenzia.

Nell'ultimo decennio, la capacità produttiva globale di pannelli solari si è spostata sempre più dall'Europa, dal Giappone e dagli Stati Uniti verso la Cina, che ha assunto un ruolo guida in termini di investimenti e innovazione.

Secondo il rapporto, la quota della Cina in tutte le principali fasi di produzione dei pannelli solari supera oggi l'80% e per gli elementi chiave, tra cui il polisilicio e i wafer, è destinata a salire a oltre il 95% nei prossimi anni, sulla base dell'attuale capacità produttiva in costruzione.

ENERGIA.

Pannelli solari da balcone contro il caro bollette

di Fiammetta Cupellaro-07 Giugno 2022.

 

"La Cina ha contribuito in modo determinante ad abbassare i costi del solare fotovoltaico a livello mondiale, con molteplici vantaggi per la transizione verso l'energia pulita", ha dichiarato il direttore esecutivo dell'Iea Fatih Birol.

"Allo stesso tempo, il livello di concentrazione geografica nelle catene di fornitura globali pone anche potenziali sfide che i governi devono affrontare. L'accelerazione delle transizioni energetiche pulite in tutto il mondo metterà ulteriormente a dura prova queste catene di approvvigionamento per soddisfare la crescente domanda, ma ciò offre anche opportunità per altri Paesi e regioni di contribuire a diversificare la produzione e renderla più resiliente", ha aggiunto.

Per raggiungere gli obiettivi internazionali in materia di energia e clima è necessario che la diffusione globale del solare fotovoltaico cresca su una scala senza precedenti.

Ciò richiede a sua volta un'ulteriore espansione della capacità produttiva, sollevando preoccupazioni circa la capacità del mondo di sviluppare rapidamente catene di approvvigionamento resilienti. Ad esempio, le aggiunte annuali di capacità solare fotovoltaica ai sistemi elettrici di tutto il mondo devono più che quadruplicare entro il 2030 per essere in linea con il percorso dell'Iea per raggiungere le emissioni nette zero entro il 2050.

Re Rebaudengo, Elettricità Futura: "Entro il 2030, 85 Gigawatt di rinnovabili in più. Valgono 470 mila occupati"

di Luca Fraioli-22 Giugno 2022.

La capacità di produzione globale dei principali elementi costitutivi dei pannelli solari - polisilicio, lingotti, wafer, celle e moduli - dovrebbe più che raddoppiare entro il 2030 rispetto ai livelli attuali e gli impianti di produzione esistenti dovrebbero essere modernizzati.

 

"Mentre i Paesi accelerano i loro sforzi per ridurre le emissioni, devono assicurarsi che la loro transizione verso un sistema energetico sostenibile sia costruita su basi sicure", ha dichiarato Birol. "Le catene di fornitura globali del solare fotovoltaico dovranno essere scalate in modo da garantire la loro resilienza, il loro costo e la loro sostenibilità", ha aggiunto.

IL FISCO VERDE.

Rinnovabili: con i bonus le batterie di accumulo sono (quasi) gratis.

di Antonella Donati-29 Giugno 2022.

 

I governi e le altre parti interessate di tutto il mondo hanno iniziato a prestare sempre più attenzione alle catene di approvvigionamento del solare fotovoltaico, poiché i prezzi elevati delle materie prime e le strozzature della catena di approvvigionamento hanno portato a un aumento di circa il 20% dei prezzi dei pannelli solari nell'ultimo anno.

Queste sfide - particolarmente evidenti nel mercato del polisilicio, un materiale chiave per la produzione di pannelli solari - hanno provocato ritardi nelle consegne di pannelli solari fotovoltaici in tutto il mondo e un aumento dei prezzi. Il rapporto speciale dell'Iea sostiene che queste sfide richiedono un'attenzione e un impegno ancora maggiori da parte dei responsabili politici per il futuro.

Il rapporto esamina le filiere del solare fotovoltaico dalle materie prime fino al prodotto finito, coprendo aree quali il consumo energetico, le emissioni, l'occupazione, i costi di produzione, gli investimenti, il commercio e la performance finanziaria. Si scopre, ad esempio, che la produzione ad alta intensità di energia elettrica del solare fotovoltaico è oggi alimentata per lo più da combustibili fossili, a causa del ruolo preponderante del carbone nelle zone della Cina in cui si concentra la produzione, ma che i pannelli solari devono ancora funzionare solo per quattro-otto mesi per compensare le loro emissioni di produzione.

Questo breve periodo di ammortamento si confronta con una durata media dei pannelli solari di circa 25-30 anni.

Secondo il rapporto, la crescente decarbonizzazione delle forniture di energia elettrica e una maggiore diversificazione delle catene di approvvigionamento del solare fotovoltaico dovrebbero contribuire a ridurre questa impronta in futuro.

 

IL FISCO VERDE

Lo sconto per il fotovoltaico da balcone vale anche per il condizionatore.

di Antonella Donati.15 Giugno 2022.

 

Poiché la diversificazione è una delle strategie chiave per ridurre i rischi della catena di fornitura a livello mondiale, il rapporto speciale valuta le opportunità e le sfide dello sviluppo delle catene di fornitura del solare fotovoltaico in termini di creazione di posti di lavoro, requisiti di investimento, costi di produzione, emissioni e riciclaggio.

Il rapporto rileva che i nuovi impianti di produzione del solare fotovoltaico lungo la catena di fornitura globale potrebbero attrarre investimenti per 120 miliardi di dollari entro il 2030.                             Il settore del solare fotovoltaico ha il potenziale per raddoppiare il numero di posti di lavoro nel settore manifatturiero, portandolo a 1 milione entro il 2030, con le aree a più alta intensità di lavoro nella produzione di moduli e celle.

Infine, il report della Iea riassume gli approcci politici adottati dai governi per sostenere la produzione nazionale di energia solare fotovoltaica ed evidenzia le aree di intervento prioritarie per migliorare la sicurezza dell'approvvigionamento e per affrontare sfide chiave come la sostenibilità ambientale e sociale, i rischi di investimento e la competitività dei costi.

 

 

 

Di Maio tesse la sua tela:

ecco il vero obiettivo.

 msn.com-ilgiornale.it- Francesco Curridori –(9-7-2022)- ci dice :

"Niente Papeete: la crisi sarebbe un favore a Putin". Così, ieri, il ministro Luigi Di Maio, pur senza mai nominarlo, ha avvertito Giuseppe Conte che questo non è proprio il momento migliore per far traballare l'esecutivo di Mario Draghi.

 

Di Maio tesse la sua tela: ecco il vero obiettivo.

Una crisi di governo "non permetterebbe all'Italia di prendere provvedimenti su bollette, benzina e gas", avverte il ministro degli Esteri che, nelle scorse settimane, è stato artefice di una scissione che ha portato avanti proprio per 'irrobustire' la maggioranza da eventuali velleità di Conte. Ma il leader del M5S sembra non escludere il voto contrario al Dl Aiuti in arrivo la settimana prossima in Senato: "Se da Draghi arriveranno dei no alle nostre proposte usciremo dal governo". Nel frattempo Di Maio continua a tessere la sua rete di potere tra le varie aziende di Stato. Tutte relazioni che, in vista della nascita di un vero e proprio soggetto politico che potrebbe avvenire a settembre, potrebbero risultare utili e decisive per le Politiche del 2023.

(Di Maio lascia i cinquestelle: «Il Movimento si è chiuso e non ha raggiunto la maturità»).

Entrando nel dettaglio, il Foglio ha scoperto che il 24 maggio scorso il cda di Simes, società partecipata al 76% da Cassa depositi e prestiti e da una serie di banche italiane e associazioni di imprenditori, ha confermato Pasquale Salzano, ex ambasciatore dell'Italia in Qatar, come presidente. Nel cda sono stati nominati anche l'armatore Guido Grimaldi e la vicepresidente di Confindustria per l'internazionalizzazione, Barbara Beltrame. Tutte figure che hanno un rapporto molto buono e stretto con Di Maio.

Nel cda di Cassa depositi e prestiti, invece, siede da un anno Fabiana Massa, che ricopre anche il ruolo di presidente del comitato Parti correlate.

In Ferrovie dello Stato troviamo Stefano Cuzzilla, presidente di Federmanager, che dal giugno 2021 è anche presidente del comitato governance, nomine e remunerazioni.

Dentro il cda di Ivimit, società controllata dal Mef che si occupa del patrimonio immobiliare pubblico, Di Maio può contare su Monica Scipione, mente in Sace sull'ambasciatore Ettore Sequi, segretario generale del ministero degli Esteri.

Qui, come consigliere d'amministrazione, vi è anche Vincenzo De Falco, un altro vicino al titolare della Farnesina.

 

 

 

Siccità ed emergenza acqua,

perché non puntiamo sui desalinizzatori?

Iconaclima.it- Redazione- (5-7-2022)- ci dice:

 

Stiamo vivendo forse uno dei più gravi episodi di siccità degli ultimi decenni: manca acqua, i ghiacciai si stanno ritirando e allora perché non puntiamo sui desalinizzatori?

La pochissima pioggia caduta negli ultimi 6 mesi ha messo in gravissima difficoltà soprattutto il Nord Italia.

All’appello, su tutto il territorio nazionale, mancano circa 40 miliardi di metri cubi di acqua (dati del rapporto mensile di Meteo Expert). E la condizione in cui ci troviamo è particolarmente grave anche per l’assenza di neve sulle nostre montagne già all’inizio della stagione estiva e per il grande caldo, che sta dando il colpo di grazia, aumentando l’evapotraspirazione, processo per cui l’acqua contenuta in piante, terreni e specchi di acqua si trasferisce in atmosfera.

I maggiori esperti mondiali da anni ci stanno dicendo che l’area del Mediterraneo, in particolare, sarà sempre più soggetta ad eventi del genere, con siccità prolungate, ondate di calore più intense e cambiamenti dell’andamento di piogge e nevicate.

Siamo una regione che andrà incontro ad una minore disponibilità d’acqua. Lo sappiamo, e se la politica non ha mai ascoltato il grido di allarme degli esperti, non può non vedere quello che sta succedendo. Non possiamo permetterci di andare avanti così: il “business as usual” non è una opzione.

Le anomalie delle provviste idriche stimate in Italia per il 2040 in uno scenario climatico ottimista. (World Resource Institute).

Dovremo fare fronte a una sempre minore disponibilità d’acqua: servono desalinizzatori.

Tra gli interventi principali per affrontare un futuro del genere, segnato da una costante diminuzione della disponibilità idrica, innanzitutto serve più manutenzione della rete, dove oggi disperdiamo quasi la metà dell’acqua a disposizione, e poi servono nuovi bacini per raccogliere acqua piovana e di fusione dei ghiacciai, e desalinizzatori.

Siamo circondati dal mare. Sarebbe illogico per noi, vista la crisi climatica, non cercare di prelevare e dissalare l’acqua marina. Molti Paesi già usano questa tecnologia per assicurarsi acqua specialmente durante i periodi più siccitosi: parliamo di Israele, degli Emirati Arabi, dell’Arabia Saudita, ma anche dell’Australia e della vicina Spagna.

A livello globale più di 300 milioni di persone fanno già affidamento sull’acqua proveniente da impianti di desalinizzazione.

Secondo il gruppo Webuild all’Italia servirebbero almeno 16 desalinizzatori: questo ci consentirebbe di far fronte alle emergenze e necessità del periodo estivo.

Con un investimento di circa 3 miliardi potremo produrre 1,6 miliardi di metri cubi d’acqua dolce al giorno. Per coprire, invece, il fabbisogno complessivo ne dovremmo costruire una ottantina. In Spagna ne hanno installati 765, con cui riescono a produrre 6 miliardi di metri cubi d’acqua. L’Italia è ferma a 400 milioni.

Siamo arrivati tardi, e questo ormai lo sappiamo, ma se la politica decidesse di investire in questa tecnologia basterebbero due anni per la loro costruzione ed entrata in funzione.

Attualmente però, il processo però di installazione di desalinizzatori in Italia è bloccato. La Legge Salvamare, al di là dei tanti meriti, ha stabilito che gli impianti di desalinizzazione destinati alla produzione di acqua per il consumo umano sono ammessi solo in casi eccezionali.

 Legge, tra l’altro, pubblicata lo scorso maggio, in piena emergenza siccità. Le eccezioni alla regola riguardano condizioni di “comprovata carenza idrica e in mancanza di fonti idrico compatibili alternative economicamente sostenibili”, nei casi in cui “gli impianti siano previsti nei piani di settore in materia di acque e in particolare nel piano d’ambito anche sulla base di un’analisi costi benefici” e solo dopo aver dimostrato “che siano stati effettuati gli opportuni interventi per ridurre significativamente le perdite della rete degli acquedotti e per la razionalizzazione dell’uso della risorsa idrica prevista dalla pianificazione di settore”. A questi paletti, segue quella della valutazione di impatto ambientale, e il fatto che le autorizzazioni non possono essere demandate come si è fatto finora alle regioni ma ad apposita commissione ministeriale per la concessione del Via. Un iter burocratico infinito che di fatto blocca ogni avanzamento in questo senso.

Le criticità legate al processo di desalinizzazione.

L’urgenza c’è, ma gli impatti ambientali dei dissalatori non sono sicuramente trascurabili, e quando ci decideremo a costruirli dovremo sicuramente prestare attenzione ai costi, all’uso di energia rinnovabile e al processo di smaltimento della salamoia.

Costi.

I desalinizzatori ovviamente comportano un costo maggiorato dell’acqua: l’acqua desalinizzata costa dai 2 ai 3 euro al metro cubo, contro gli 1,5 euro del costo attuale. Ma teniamo presente che in altri Paesi d’Europa, l’acqua costa anche di più1: in Francia l’acqua costa dai 2 ai 3,5 euro per metro cubo, in Germania dai 2,8 ai 4,5 euro al metro cubo, in Norvegia supera i 5 euro al metro cubo.

Energia

La crisi energetica potrebbe frenare la costruzione di nuovi dissalatori perché non stiamo puntando ancora sulle rinnovabili. I dissalatori funzionano attraverso due tecniche principali: la distillazione termica e l’osmosi inversa.

Gli impianti di desalinizzazione sono molto energivori: il processo di distillazione in particolare consuma fino a 6 kWh per ogni metro cubo di acqua, mentre il processo dell’osmosi inversa richiede circa 3-4 kWh per metro cubo di acqua potabile. Ad oggi bisogna dire che la maggior parte (64%3) dei grandi impianti di desalinizzazione in funzione utilizzano la tecnologia della distillazione termica.

Ma l’introduzione di nuove tecnologie ha permesso però di abbassare nettamente il consumo di energia di questi impianti, fino a 1 kWh per metro cubo. Si tratta di tecnologie innovative, che hanno bisogno ancora di un po’ di tempo per poter essere utilizzate su larga scala. Nel frattempo però, utilizzando energia rinnovabile per gli impianti di desalinizzazione ad osmosi inversa, ad esempio, potremmo però risparmiare e dimezzare le emissioni di CO2.

Ad esempio a Perth, in Australia, è in funzione il più grande impianto di desalinizzazione che utilizza solo energia rinnovabile, proveniente dall’impianto eolico distante circa 200 chilometri. Questo impianto produce 144 mila metri cubi di acqua al giorno.

Impatto ambientale.Gli impianti di desalinizzazione oggi hanno anche un impatto ambientale che non possiamo trascurare. Secondo uno studio dell’industria della desalinizzazione voluto dalle Nazioni Unite, i 16 mila impianti presenti a livello globale producono 1,5 litri di salamoia per ogni litro di acqua dolce. Metà della salamoia prodotta a livello globale arriva dal Medio Oriente, dagli impianti – principalmente con tecnologia di distillazione – di Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Kwait e Qatar.

Lo smaltimento di questo scarto di lavorazione spesso finisce direttamente in mare, destabilizzando profondamente l’ecosistema e creando un danno ambientale importante. Lo scarico in mare della salamoia aumenta la temperatura dell’acqua, la sua salinità e la torbidezza.

L’ambiente marino sicuramente ne soffre, con un maggior sviluppo di alghe e piccoli molluschi e una migrazione forzata dei pesci. Si tratta quindi di un aspetto a cui bisogna fare attenzione e a cui la ricerca ha già cercato alternative utili per trasformarlo da scarto a risorsa.

Serve un piano e una decisione politica.

Sicuramente la politica deve agire ora. Quello che stiamo vivendo è un assaggio di questo “nuovo clima”. L’Italia, così come altri Paesi del Mondo, deve investire oggi nell’adattamento del Paese ad un clima che è già cambiato. L’acqua, difatti, è uno dei principali punti chiave per la resilienza nel Pnrr.

Meno piogge, meno nevicate, temperature sempre più alte mettono a serio rischio il nostro approvvigionamento idrico. Non possiamo più contare sull’arrivo della pioggia o sulla fusione estiva della neve: tra qualche anno scompariranno addirittura i ghiacciai. Serve un intervento risoluto per evitare che quanto stiamo vivendo oggi si ripeta, con conseguenze sempre più disastrose.

Cosa stiamo aspettando?

 

 

16 no bullsh-t modi per vivere

una vita più interessante ed emozionante.

Icibsos.org- Redazione-Hack Spirit- (28-2-2022)- ci dice :

Il 21 ° secolo è probabilmente il momento più emozionante per l’umanità. Viviamo in un mondo di stimolazione senza fine-ci si sente come se ci fosse sempre qualcosa da fare.

Allora, come mai ti senti come la vita è , un pò  monotona e prevedibile?

Non è che tu voglia fare qualcosa di drastico o trasformare la tua vita in qualcosa di completamente nuovo.

Ma vuoi un’iniezione di eccitazione per rendere la vita un pò‘ più appagante.

La buona notizia è che ci sono cose che puoi fare per rendere la tua vita eccitante, completa e vibrante di nuovo.

Dopo tutto, ci sono sempre modi interessanti per riaccendere il tuo fuoco, che si tratti di grandi avventure o piccole correzioni alla tua routine.

In questo articolo, andremo oltre 16 modi per vivere una vita più interessante ed emozionante.

Andiamo.

Esci dalla tua zona di comfort.

Le zone di comfort si sentono sicure e protette. Questo è il motivo per cui la maggior parte delle persone rimangono nella loro zona di comfort senza mai veramente crescere o migliorare.

Ma indovinate un po’? Soggiornare nella vostra zona di comfort può anche essere davvero noioso.

Non si sperimenta o si impara nulla di nuovo.

Quindi, se vuoi davvero vivere una vita più eccitante e interessante, devi uscire dalla tua zona di comfort ogni tanto.

È davvero il modo più efficace per ravvivare la tua vita e crescere come persona.

E no, uscire dalla tua zona di comfort non significa che devi fare qualcosa di enorme o spaventoso.

Significa solo che fai qualcosa che non è normale per te che ti rende un pò nervoso.

Ad esempio, iniziare una conversazione con uno sconosciuto è un modo per uscire dalla tua zona di comfort.

O forse per te, è andare in bicicletta per lavorare invece di prendere i mezzi pubblici.

Piccole cose come questa sono ottimi modi per uscire dalla tua zona di comfort e vivere una vita più interessante.

Imposta alcuni mini-obiettivi.

I mini obiettivi sono un ottimo modo per farti muovere e creare qualche progresso nella tua vita.

Potrebbe essere obiettivi che si desidera raggiungere più di una settimana, un mese o anche un anno.

Potrebbe essere qualcosa di semplice come impostare un obiettivo settimanale per la quantità di km che si desidera eseguire, o forse un obiettivo giornaliero di imparare 5 parole in una nuova lingua.

Qualunque cosa sia, imposta quegli obiettivi e fatti muovere.

Più si tolgono piccoli obiettivi, più si raggiungono in un anno o anche 5 anni.

Viaggia in posti nuovi.

Certamente non è stato un grande anno per viaggiare, ma viaggiare non significa che devi andare da qualche parte a livello internazionale.

Potrebbe significare esplorare un nuovo parco o un’escursione.

Forse c’è un’area vicino a te dove puoi andare a osservare le stelle?

O forse c’è un nuovo caffè che puoi provare a cui non sei mai stato prima?

 

Se una volta alla settimana ti prefiggi l’obiettivo di esplorare un posto nuovo, inizierai sicuramente a vivere una vita più interessante.

Pensa di nuovo al futuro e aspira.

Che tu sia ancora a scuola o che tu sia nel bel mezzo della tua carriera, la vita ha uno strano modo di insegnarci a smettere di pensare a ciò che possiamo diventare.

Dobbiamo concentrarci tanto sullo studio per il test di domani, scrivere un rapporto per il prossimo incontro, o fare qualcosa che ora è la cosa più importante al mondo solo per i prossimi giorni, prima di passare a quel prossimo qualcosa.

Siamo così coinvolti nel prossimo test, nel prossimo documento, nel prossimo progetto, che ci dimentichiamo di pensare al vero futuro.

Il futuro dove le nostre vite sono radicalmente diverse; dove non solo abbiamo scalato lentamente la scala della carriera, ma abbiamo veramente costruito una vita che possiamo essere felici in tutti gli aspetti. Ci dimentichiamo di sognare.

Così sogno. Aspirare. Pensa a come può apparire la tua vita in un anno o due se fai le scelte migliori per te stesso.

Pensare in grande è una grande qualità di avere. Ma cos’altro ti rende unico ed eccezionale?

Per aiutarti a trovare la risposta, abbiamo creato un divertente quiz. Rispondi ad alcune domande personali e ti sveleremo qual è la tua personalità “superpotenza” e come puoi utilizzarla per vivere la tua vita migliore.

Smettere di aspettare che la vita accada.

La cosa circa il modo in cui la maggior parte di noi vivere la vita è che facciamo del nostro meglio per cadere in linea.

Diventare osservatori passivi del nostro successo, piuttosto che componenti attivi che spingono le nostre vite in avanti.

E non possiamo farne a meno; ci viene insegnato fin dalla tenera età: ci sediamo in classe, facciamo bene i test e passiamo al voto successivo.

 

Alla fine cadiamo in una carriera, facciamo il nostro lavoro e aspettiamo le nostre promozioni.

E mentre la vita passiva potrebbe essere sufficiente per costruire una vita decente, non è abbastanza per costruirne una di cui sei veramente entusiasta.

Stai insegnando a te stesso a non fare nulla al di là di ciò che ti viene detto; aspettare e sperare che un superiore abbia in mente le tue migliori intenzioni.

Vivi per te. Fare scelte con voi in mente, nient’altro. Spingiti in avanti e spingi avanti la tua vita.

Smetti di aspettare e smetti di darti l’opportunità di annoiarti, perché sei così impegnato a costruire la vita che vuoi.

Non psicanalizzarti.

Nessuno vuole una vita noiosa; tutti vogliamo svegliarci felici ed eccitati, vivere con passione e desiderio.

Ma noi stessi psych fuori il più delle volte, e convincerci che o non meritiamo le vite che vogliamo, o non possiamo raggiungere le vite che vogliamo.

Ma come fai a sapere se non ci provi davvero? Il proverbio popolare dice, ” Sparare per la luna; anche se si perde, si atterra tra le stelle.”

 

La vita non significa realizzare il tuo sogno, tanto quanto il viaggio non riguarda la destinazione.

Il viaggio riguarda il viaggio, il tentativo di realizzare il tuo sogno.

E vivere sapendo che hai provato ti darà mille volte più appagamento di vivere sapendo che non hai mai fatto.

Apprezza ogni singolo giorno e apprezza le piccole cose.

Ecco un esercizio che puoi fare a casa. Invece di concentrarsi sulle cose più grandi e le avventure incredibili, spostare la vostra attenzione su cose che sono già presenti nella vostra vita.

Questo include persone, eventi e circostanze attuali che già rendono la tua vita grande.

È così facile essere travolti dalla corrente e dare per scontate le cose che sono di fronte a te.

Inizi a guardare avanti invece di prenderti il tempo di apprezzare le cose che hai già attualmente.

Praticare la gratitudine è molto più semplice di quanto sembri.

Puoi iniziare questo esercizio elencando le cose per cui eri grato alla fine della giornata.

Trova cose nella tua vita che ti rendono felice, non importa quanto piccolo.

Potrebbe essere un buon pasto o anche solo il fatto che il tempo era bello oggi.

Ci sono molte cose nella tua vita in questo momento degne di attenzione e gratitudine – trovale e ti renderai immediatamente conto che la tua vita non è così noiosa come pensavi.

Non vivere la vita in attesa del prossimo evento

C’è una cosa come essere troppo lungimirante.

Se sei il tipo di persona che trova la felicità solo nella prossima cosa (il prossimo viaggio, il prossimo lavoro, la prossima volta che vedi i tuoi amici, la prossima pietra miliare nella tua vita), non troverai mai la pace nella tua vita.

Anche quando la tua vita è al suo meglio, sarai sempre alla ricerca di ciò che viene dopo. Questo tipo di mentalità è dannoso per le cose che hai già e attualmente costruito.

Invece, guarda cosa hai ora. Il piacere di sapere che tutto ciò che sta accadendo nella vostra vita è abbastanza buono, e il resto che seguirà sarebbe solo un bonus.

Scopri cose nuove da amare.

Una vita costruita sull’amore è una vita ben vissuta. Anche solo trovare una nuova cosa di cui innamorarsi (un nuovo libro, un nuovo animale domestico, una nuova ricetta, una nuova routine) è destinato a rivitalizzare di nuovo la tua vita.

E non deve essere niente di particolarmente grande. Basta trovare un nuovo spettacolo da guardare o nuova musica da ascoltare può essere estremamente eccitante.

Imparare a trovare gioia e amore nelle cose più semplici ti rende più eccitabile e per estensione la tua vita più eccitante.

Non sai da dove cominciare?

Cercare hobbisti online e influencer potrebbe aiutarti a capire cosa eccita le altre persone nella loro vita.

L’idea è di trovare queste persone felici e usarle come base per la tua scoperta delle cose che ami.

Non aver paura di reinventarti.

La noia come sentimento sottostante può significare molte cose.

Forse sei stanco della tua routine, forse sei desensibilizzato alle cose che provi ogni giorno.

Ma a volte è un po più grande di quello; a volte la noia è un segno che sei pronto per essere qualcuno di nuovo, diverso e migliore.

Se senti che la tua noia invade ogni aspetto della tua vita senza possibilità di eccitazione o rivitalizzazione, scava un pò più a fondo nella fonte della tua noia.

Sei annoiato perché non c’è niente da fare? O sei annoiato perché ti senti come se avessi fatto tutto ciò che può essere fatto?

Quando si arriva a un punto in cui la vita non si sente più eccitante, vale la pena chiedersi se è il momento di reinventarsi.

Le persone cambiano e crescono nel corso di molti anni, ma i nostri stili di vita non sempre riflettono i cambiamenti nella politica o nei valori.

Alla fine della giornata, ciò che potresti provare non è la noia ma una discordia tra chi sei ora e chi vuoi davvero essere.

Rimanere sano: Esercizio fisico, mangiare bene e dormire bene.

Sentirsi annoiato e svogliato? A volte stabilirsi in una routine è una sfida.

Intraprendi un viaggio che coinvolge nuove abitudini sane. Ogni giorno, impegnarsi a mangiare cibi sani, dormire alla stessa ora ogni giorno, e l’esercizio fisico.

Alla fine della giornata, il corpo è solo una macchina. I sentimenti di plateauing o noia potrebbero essere segnali chimici dal tuo cervello che ti dicono disperatamente che sta vivendo uno squilibrio.

Le persone che mangiano bene, dormono bene e si impegnano in un’attività fisica regolare sono molto più felici delle persone che non lo fanno.

Quando alimentate correttamente il vostro corpo e gli date gli stimoli giusti per crescere, è facile per il vostro cervello tradurre quelle sostanze chimiche di benessere in sentimenti di produttività e amore di sé.

La prossima volta che senti di dover reinventare la ruota per trovare un ò di felicità, considera di assicurarti che la ruota esista in primo luogo.

Saresti sorpreso dall’incredibile differenza che le buone abitudini possono fare nella tua vita.

Trova qualcosa per cui vivere che non ha nulla a che fare con te.

Non tutto ciò che fai deve essere per te. Può essere ancora più soddisfacente quando fai cose per altre persone.

Questo sembra diverso per tutti.

A volte è prendersi cura di una persona cara e assicurarsi che i loro bisogni di base siano curati.

Altre volte è volontariato per un’organizzazione i cui valori si allineano con i tuoi. Forse sta solo curando un giardino e badando alle tue nuove piante.

Eccitazione, amore, entusiasmo: queste cose crescono quando vengono condivise con gli altri.

Forse la noia che stai vivendo è solo un desiderio di trovare un significato, qualcosa di cui puoi essere appassionato.

 

Quando inizi a vivere la vita per qualcosa di diverso da te stesso, ti stai dando l’opportunità di sperimentare tutta l’ampiezza dell’esperienza umana e condividerla con persone al di fuori di te.

Impara ad amare il tuo silenzio.

Non tutte le forme di stagnazione sono cattive. A volte non c’è niente di nuovo nella tua vita e non è necessariamente una brutta cosa.

Troppe persone non possono stare in silenzio, sempre alla ricerca di stimoli esterni per rimanere felici.

Che si tratti di cercare nuove esperienze o riempire il calendario con eventi sociali, c’è il merito di imparare a godere il vostro silenzio.

Solo perché sei annoiato non significa che la tua vita sia noiosa; a volte non c’è niente da fare in questo momento, ma goditi la pace e la tranquillità.

Imparare a sedersi con il silenzio è un’abilità cruciale nel 21 ° secolo quando siamo costantemente bombardati da ping e distrazioni.

L’esposizione a troppa stimolazione può facilmente convincerci che la vita dovrebbe essere costantemente piena di cose nuove e sorprendenti.

Questo modo di vivere non solo è insostenibile, ma potrebbe anche generare problemi di concentrazione e chiarezza.

Espandere la tua vita e intraprendere nuove avventure va bene, ma se ritieni che questo sia l’unico modo per vivere, considera invece di imparare a sederti con il silenzio.

Taglia tutto il rumore.

Solo perché sei annoiato dalla vita non significa che non stai facendo nulla.

Hai ancora una moltitudine di attività che riempiono il tuo tempo, altrimenti staresti solo fissando le pareti 16 ore al giorno.

 

Un grosso errore che la maggior parte di noi fa è che vogliamo sistemare le nostre vite e cambiare il nostro atteggiamento, ma non vogliamo smettere di fare nessuna delle cose negative o improduttive che riempiono le nostre vite.

Pensiamo: “Dovrei iniziare ad allenarmi o cucinare per me stesso o leggere più spesso”, ma non ci rendiamo conto che aggiungere queste nuove attività alle nostre vite richiede di eliminare alcune delle cose attuali che già riempiono le nostre vite.

E quando ci troviamo di fronte alla scelta di fare una cosa nuova o di ricorrere alle nostre vecchie abitudini, troppo spesso scegliamo quest’ultima, perché è più facile.

Quindi tagliare il rumore, tagliare la spazzatura.

Se passi 2 ore ogni mattina sui social media prima di alzarti dal letto, è tempo di passare la mattinata a fare qualcos’altro. Le nostre vite sono fatte delle cose che facciamo.

Analizza le tue giornate: cosa stai facendo?

Ti ritrovi annoiato perché non stai lavorando verso nulla, ma non stai lavorando verso nulla perché non sai cosa fare.

Ma il tempo, sfortunatamente, continua indipendentemente dal fatto che lo stai usando o meno.

Quindi, per coloro che continuano a perdere le loro giornate senza fare nulla, è il momento di monitorare il vostro tempo il modo in cui spesso monitorare i nostri soldi: cosa stai spendendo su?

Inizia a essere attivamente consapevole del modo in cui trascorri le tue giornate.

I CEO e gli atleti di maggior successo nel mondo hanno le stesse 24 ore che hai, quindi perché realizzano così tanto mentre non realizzi nulla?

Valuta i tuoi minuti; sono la valuta della tua vita e sono l’unica cosa che non tornerai mai indietro.

Una volta che ti dai una visione a volo d’uccello del modo in cui sprechi il tuo tempo, smetterai di essere così spericolato con le tue ore.

 

Trackback alla tua felicità.

Non ti sei sempre sentito così. La maggior parte delle persone che si annoiano con la vita può ricordare un momento in cui erano più giovani, più felice, e più eccitato.

C’erano cose che sognavi di realizzare, luoghi che volevi esplorare e abilità che volevi imparare e padroneggiare.

Ma per un motivo o per un altro, non senti più il fuoco che ti spinge verso quelle cose. Allora, cos’e ‘ successo?

Prenditi il tempo per meditare e ripercorrere il tuo viaggio personale.

E non sarà sempre un singolo evento drammatico e significativo della vita. Il più delle volte, la nostra strada verso l’apatia è piena di buche che sentiamo a malapena, ma ci abbatte lentamente nel tempo.

Questi sentimenti sono spesso inosservati e non riconosciuti perché una parte di noi sente che ognuno di loro è troppo piccolo per preoccuparsi.

Ma pesano su di noi e rendono i nostri viaggi più pesanti, fino a quando non scegliamo di smettere completamente di muoverci, terminando i nostri viaggi molto prima che siano finiti.

 

 

 

Popolazione. Il Pianeta

sfora gli 8 miliardi

vipiu.it-Redazione-(11-7-2022)- ci dice :

 

La Terra sta per superare una tappa importante della sua lunga esistenza. Secondo gli ultimi dati demografici delle Nazioni Unite (ONU), pubblicati lunedì 11 luglio, in occasione della Giornata mondiale della popolazione, dal 15 novembre il pianeta sarà occupato da otto miliardi di persone.

Gli esseri umani non sono mai stati così numerosi.

Si tratta di un miliardo in più rispetto al 2010. Due miliardi in più rispetto al 1998. E cinque miliardi e mezzo in più rispetto al 1950.

La popolazione della Terra continua a crescere e c’è solo una “possibilità su due” che la tendenza si inverta prima della fine del secolo.

 Infatti, i demografi della Divisione Popolazione del Dipartimento per gli Affari Economici e Sociali delle Nazioni Unite ritengono “certo al 95%” che nel 2100 saremo tra gli 8,9 e i 12,4 miliardi di noi.

La soglia dei dieci miliardi potrebbe essere raggiunta già nel 2059 e quindi stabilizzare, secondo uno scenario “medio”, circa 10,4 miliardi di esseri umani negli anni ’80 del 2000.

Pertanto, il raggiungimento di un plateau massimo avverrebbe prima del previsto. “Si tratta di un elemento particolarmente interessante, perché, nel suo ultimo rapporto, pubblicato tre anni fa, l’ONU prevedeva la stabilizzazione demografica solo durante il XXII secolo”, sottolinea Gilles Pison, professore al Museo dell’Istituto Nazionale di Storia Naturale e consulente scientifico per l’Istituto Nazionale di Studi Demografici di Parigi. Questo scenario si spiega “principalmente” dal fatto che ogni donna partorisce sempre meno figli, sottolinea l’esperta: da 2,3 di oggi, il tasso di fertilità potrebbe scendere a 1,8 nel 2100, segnando “la fine del ricambio generazionale”.

Attese con impazienza sulle stime degli effetti demografici della pandemia di Covid-19 che ha colpito il pianeta negli ultimi due anni, le Nazioni Unite hanno collaborato con l’Organizzazione Mondiale della Sanità per redigere una nuova valutazione.

Mentre a novembre 2021 la stampa anglosassone anticipava la cifra di 17 milioni di morti, le due istituzioni internazionali stimano oggi che “l’eccesso di mortalità legato alla pandemia ha raggiunto i 14,9 milioni di persone nel periodo compreso tra il 1 gennaio 2020 e il 31 dicembre 2021” . Confermano così che la realtà potrebbe corrispondere a “quasi tre volte il numero dei decessi ufficialmente dichiarati”, che molti scienziati calcolavano da circa un anno.

Sapendo che, normalmente, 60 milioni di esseri umani muoiono ogni anno, ciò significherebbe che il Covid-19 ha fatto aumentare la mortalità di oltre il 12% per due anni.

L’Onu afferma che il bilancio complessivo delle vittime è “più alto negli uomini che nelle donne, negli anziani che nei giovani”.

“Interruzione temporanea.”

Alcuni temevano, all’inizio della pandemia, che i progressi degli ultimi decenni nella mortalità infantile potessero essere parzialmente cancellati. “I dati disponibili indicano che non ci sono state prove convincenti” in questo senso, ma la cautela è ancora d’obbligo. Gli effetti indiretti della crisi sanitaria sulla mortalità infantile possono effettivamente “prendere tempo per manifestarsi”, attraverso l’interruzione dei programmi di vaccinazione e nutrizione infantile di routine, o una maggiore insicurezza alimentare e la perdita di reddito familiare.

 

“La pandemia è stata uno shock per tutti e in tutti i continenti, ma, una volta passato questo shock, difficilmente influenzerà le tendenze demografiche generali. Non avrà alcun effetto a lungo termine sul numero di figli per donna, sulle pratiche coniugali o sulla contraccezione”, osserva Thomas Spoorenberg, uno dei redattori del rapporto delle Nazioni Unite.

 Per il momento, i contagi del virus SARS-CoV-2 hanno arrestato la progressione dell’aspettativa di vita alla nascita, in particolare in Asia meridionale, America Latina e Caraibi. Su scala mondiale ha addirittura “contribuito alla perdita di 1,7 anni” di speranza di vita tra il 2019 e il 2021, portandola a 71 anni, con le dovute precauzioni metodologiche, per la mancanza, talvolta, di dati precisi che hanno portato i demografi dell’ONU a metodi innovativi di estrapolazione.

Di passaggio, la pandemia ha allargato il divario tra uomini e donne, a vantaggio di queste ultime. Nel 2021 l’aspettativa di vita dei primi si attestava a 68,4 anni, quella dei secondi a 73,8 anni, con una differenza di 5,4 anni. Due anni prima, la differenza era di 5,2 anni. Tuttavia, nei paesi in cui il tasso di vaccinazione è alto, lo shock è già stato attutito poiché la mortalità è ora tornata ai valori pre-pandemia. Negli altri, ci vorranno ancora “da uno a tre anni” per tornare alla normalità.

 

Lo studio suggerisce che la popolazione globale potrebbe diminuire dal 2064.

Nell’Africa meridionale, ad esempio, il Covid-19 ha semplicemente “eliminato i guadagni di speranza di vita” dolorosamente ottenuti dopo i peggiori anni di AIDS: la speranza di vita alla nascita è scesa a 61,8 anni nel 2021. In questa fase, l’Onu non si avventura di stabilire un legame tra la pandemia e il rallentamento della crescita demografica mondiale, in quanto osservato dalla metà degli anni 1960-2020, e per la prima volta dal 1950, il tasso di crescita della popolazione è sceso al di sotto dell’1% annuo. Si prevede che questo tasso “continuerà a rallentare nei prossimi decenni e fino alla fine di questo secolo”.

Nei paesi ad alto reddito, il Covid-19 ha agito “come un’interruzione temporanea”. Ciò è particolarmente vero nei paesi ricchi con bassa fertilità. Nei paesi a basso e medio reddito, gli ultimi studi condotti “hanno mostrato pochi cambiamenti nel numero di gravidanze e nascite indesiderate”, nonostante la diffusione del coronavirus. Di conseguenza, nell’Africa subsahariana, la popolazione dovrebbe praticamente raddoppiare entro il 2050, grazie al mantenimento del tasso di fertilità a quasi tre figli per donna. Questa sola regione del mondo dovrebbe contribuire a “più della metà della crescita della popolazione mondiale” nei prossimi trent’anni.

 

Sconvolgimento in Asia.

Fino ad allora, e questo è uno dei momenti salienti delle nuove previsioni, le carte verranno rimescolate dal 2023 sul podio mondiale. Per la prima volta nella storia dell’umanità, l’India diventerà il Paese più popoloso del mondo, detronizzando una Cina che “si prevede un calo assoluto della sua popolazione a partire dal 2023”.

L’evento avverrà con quattro anni di anticipo rispetto al programma proposto nella precedente trasmissione statistica delle Nazioni Unite, a causa di una leggera correzione al rialzo dello slancio indiano e di una drammatica revisione al ribasso. Già, nel Regno di Mezzo, il numero di figli per donna è solo 1,18.

Attualmente, i due giganti asiatici sono testa a testa, ciascuno con 1,4 miliardi di abitanti. Nel 2050 gli indiani saranno 1.668 miliardi, i cinesi 1.317 miliardi. “È un terremoto che segnerà l’inizio di un declino irreversibile.

A metà del XIX secolo, un terzo dell’umanità viveva in Cina. Nel 2100 sarà solo il 10%, sottolinea Wang Feng, professore di sociologia all’Università di Irvine, in California. Le nuove previsioni dell’Onu sono più in linea con quelle della comunità scientifica rispetto alle precedenti e l’impatto sulle mentalità sarà enorme. Non solo i cinesi dovranno fare i conti con l’idea di non essere più i leader demografici, ma dovranno anche ammettere che il resto del mondo ora vede il proprio Paese come una potenza in declino.”

Un cambio di paradigma. L’incrocio delle curve indiana e cinese provocherà infatti uno sconvolgimento in questa regione del globo.

 Mentre ora ospita quasi un essere umano su tre, l’Asia orientale e sud-orientale dovrebbe essere soppiantata entro quindici anni dall’intera area composta dall’Asia centrale e dall’Asia meridionale.

Ciò è dovuto alla crescita demografica dell’India, ma anche a quella osservata in particolare in Pakistan, Paese che presto supererà l’Indonesia e si avvicinerà per numero di abitanti agli Stati Uniti, come in Africa Nigeria, Paese che dovrebbe salire al terzo gradino del podio della demografia mondiale di fine secolo.

Ciò avverrà anche se il subcontinente indiano, nel suo insieme, invierà i più grandi contingenti di migranti in tutto il mondo in cerca di lavoro. Tra il 2010 e il 2021, osservano gli esperti delle Nazioni Unite, il Pakistan ha visto crescere la sua diaspora di 16,5 milioni di persone. Stessa cosa, in misura minore, in Bangladesh, Nepal e Sri Lanka. Gli altri paesi colpiti dalle maggiori partenze, Siria, Venezuela, Birmania, sono stati colpiti dall’insicurezza e dalla guerra.

Tante donne quanti uomini nel 2050.

Un altro punto culminante del rapporto delle Nazioni Unite del 2022 è che gli uomini sono ancora la maggioranza (50,3%) nel mondo. Ma non per molto, poiché «nel 2050 il numero delle donne dovrebbe essere uguale a quello degli uomini». A parte queste due novità, l’India numero uno, le donne che presto saranno la maggioranza, si confermano diverse tendenze pesanti. In primo luogo, se ci sono sempre più esseri umani sulla Terra, questo nasconde ancora grandi disparità tra paesi, spesso legate al loro livello di sviluppo. Da un lato, la Repubblica Democratica del Congo e la Tanzania “dovrebbero registrare una rapida crescita” della loro popolazione, “tra il 2% e il 3% all’anno nel periodo 2022-2050”.

Dall’altro, “perdite del 20% o più dovrebbero verificarsi in Bulgaria, Lettonia, Lituania, Serbia e Ucraina”, prevede l’ONU. Nei prossimi tre decenni, una sessantina di paesi o regioni vedranno la loro popolazione “diminuire dell’1% o più” all’anno.

Due terzi dell’umanità ora vivono in un paese o in una regione in cui la fertilità è inferiore a 2,1 nascite per donna, il livello necessario affinché le popolazioni con bassa mortalità si stabilizzino a lungo termine. Si prevede che l’Europa e il Nord America “raggiungeranno il picco di popolazione e inizieranno a diminuire” alla fine degli anni ’30 del 2000, a causa dei livelli di fertilità costantemente bassi, inferiori a due nascite per donna dalla metà degli anni ’90, in  alcuni paesi.

Nel 2020, la Turchia ha ospitato il maggior numero di rifugiati e richiedenti asilo (quasi 4 milioni), davanti a Giordania, Palestina e Colombia. A questo proposito, il Covid-19 ha rallentato notevolmente gli spostamenti della popolazione, a causa della chiusura delle frontiere e della paralisi dei trasporti internazionali.

Avrebbe potuto dimezzare la migrazione netta degli ultimi due anni, stima l’ONU.

(Guillaume Delacroix su Le Monde del 11/07/2022).

 

 

 

 

"L’ansia climatica” dilaga tra i

giovani: riusciranno a superarla?

Nationalgeographic.it- RICHARD SCHIFFMAN-(11 LUG 2022)- ci dice :

I Millennials e la Generazione Z sono cresciuti in un pianeta diverso, che impone scelte più difficili, rispetto ai loro genitori. Accettare questo dato di fatto è il primo passo per evitare di lasciarsi sopraffare dall’angoscia.

L'ansia per le conseguenze generate dal riscaldamento della Terra ha determinato un divario crescente tra i giovani.

Katie Cielinski e Aaron Regunberg sono millennials. Ma si considerano neonati del cambiamento climatico.

Sono diventati maggiorenni quando il mondo stava appena aprendo gli occhi di fronte all'impatto catastrofico dell’uomo sull'ambiente.

CAMBIAMENTI CLIMATICI: I GHIACCIAI.

AMBIENTE - I GHIACCIAI.

Prima di sposarsi, nel 2017, la coppia ha lottato per quasi un decennio con il dilemma etico dell'opportunità di introdurre un altro essere umano su un pianeta già sovra-affollato. Katie sosteneva la necessità di crescere un alleato del clima, un individuo che avrebbe combattuto per un pianeta sano, ma Aaron temeva per il futuro che loro figlio avrebbe dovuto affrontare.

"Stiamo uscendo dalle condizioni climatiche stabili che hanno caratterizzato e sostenuto l'intero sviluppo della civiltà umana", afferma Aaron. "Questa è una catastrofe assolutamente unica nella vita della nostra specie, diversa da qualsiasi altra sfida che abbiamo dovuto affrontare in passato".

Ma i due coniugi non sono certo soli in questa battaglia. Secondo un sondaggio del 2020 pubblicato sulla rivista Climatic Change, il 60% circa degli americani tra i 27 e i 45 anni si preoccupa dell’impatto ambientale che una nuova nascita comporta.

 Lo stesso sondaggio ha anche rilevato che oltre il 96% dichiara di essere preoccupato per il benessere di un bambino in un mondo alterato dal clima.

L’ansia da crisi climatica è diffusa.

La scelta di avere o meno figli è solo una delle tante decisioni che definiranno la vita dei nati in questi ultimi decenni, in modi che i loro genitori e nonni non hanno mai nemmeno immaginato.

Un ventenne dovrebbe prendere in mano le redini della fattoria di famiglia nel Kansas occidentale mentre la prolungata siccità e la diminuzione delle riserve di acqua sotterranea stanno ridisegnando l'agricoltura di tutti gli Stati Uniti?

Un neolaureato di Phoenix, città che nel 2019 ha registrato 103 giorni di temperature estreme e che nel 2050 assomiglierà sempre più a Baghdad, dovrebbe trasferirsi a nord in una regione più fresca? Una coppia di Virginia Beach dovrebbe accendere un mutuo trentennale per una casa situata in una pianura alluvionale?

Queste difficili scelte, unite alla crescente ansia per le conseguenze generate dal riscaldamento della Terra, hanno determinato un divario crescente tra i giovani, che osservano il loro futuro attraverso la lente del massiccio sconvolgimento climatico che li attende, e le generazioni più anziane, che invece non vivranno abbastanza a lungo da assistere al peggio.

"Tutti mi dicono che ho solo 16 anni e che è qualcosa di cui non devo preoccuparmi a questa età", racconta Seryn Kim, che vive a Brooklyn, New York. "Ma io sono cresciuta, come i miei amici, nel segno di un inesorabile conto alla rovescia".

I bambini coinvolti nella questione dei cambiamenti climatici saranno ben presto più numerosi di quelli che sono cresciuti prima che la crisi prendesse il sopravvento. E i sondaggi mostrano che i giovani sono molto più preoccupati dei loro parenti anziani, ma è difficile prevedere se questa popolazione in rapida espansione possa spingere il mondo ad agire con decisione e in tempo per ridurre le emissioni.

E il livello di ansia può essere travolgente. Più della metà dei 10.000 giovani intervistati in uno studio globale pubblicato su The Lancet concorda con l'affermazione: "L'umanità è condannata". Quasi la metà degli intervistati ha dichiarato che le preoccupazioni per lo stato del pianeta interferiscono con il sonno, la capacità di studiare, di giocare e divertirsi.

"Credo che questa sia una risposta sia alle catastrofi ambientali sia al fatto che adulti enormemente potenti antepongano, ancora e ancora, il ristretto interesse personale alla sopravvivenza collettiva", afferma Daniel Sherrell, 31 anni, attivista per il clima e scrittore.

"Ciò che ci ha sorpreso di più è scoprire quanto siano realmente spaventati questi giovani", afferma Caroline Hickman, psicoterapeuta britannica e autrice principale dello studio di The Lancet. "I bambini la prendono molto sul personale. È come se percepissero che quello che stiamo facendo alla natura lo stiamo facendo anche a loro".

Emergenze diverse.

Russell Behr, 17 anni, studente alla Saint Ann's School di Brooklyn, riflette in tutto e per tutto questo pensiero. Non si fida più del fatto che i leader mondiali prendano provvedimenti in tempo.

"Sento dire dagli insegnanti e da altri adulti: 'La mia generazione ha fatto un casino e ora tocca alla vostra rimediare'", racconta. E questo lo preoccupa, perché pensa che i più giovani non riusciranno a occupare posizioni di potere per cambiare le cose finché non sarà già troppo tardi.

Nel tentativo di consolarlo, la madre di Behr, Danielle Ausrotas, ha spiegato al ragazzo che ogni generazione ha affrontato le proprie sfide.

Guerre e tempi duri si sono succeduti regolarmente nel corso della storia americana. Da bambina, lei ha vissuto la minaccia di un potenziale attacco nucleare e ha partecipato a regolari esercitazioni di "mettiti al riparo" che consistevano nel nascondersi sotto i banchi di scuola.

Ma Russell vede una differenza fondamentale tra allora e oggi. "Durante la Guerra Fredda, le persone dovevano agire per peggiorare le cose, qualcuno doveva, ad esempio, lanciare un attacco", afferma. "Oggi, invece, il problema è la nostra inerzia".

Behr ha smesso di mangiare carne perché i bovini producono il potente gas serra metano. Utilizza sempre più spesso i mezzi pubblici. E partecipa anche a manifestazioni occasionali sul clima o a scioperi scolastici. Sta pensando di adottare un bambino piuttosto che averne uno suo, se mai si sposerà. Ma afferma anche che soffermandosi a riflettere troppo su ciò che lo aspetta, finirà per uccidere ogni sua ambizione.

"Ho sempre sognato di studiare storia e diventare insegnante", spiega. "Ma ora mi chiedo: cosa potrò dire, in futuro, a quei ragazzi su ciò che sta accadendo ora e sul perché non abbiamo fatto nulla?".

Trasformare l’angoscia ecologica in azione.

Emily Balcetis, docente di psicologia presso la New York University, ha osservato il divario generazionale crescere a casa sua in modi che l'hanno profondamente colpita. A 42 anni, ovvero con due anni in più del millennial più anziano, ancora ricorda la prima volta che apprese dalla tv della morte per fame degli orsi polari. Non riusciva a sopportare il programma e spense la TV, racconta, aggiungendo: "Credo che avessi una sorta di fase negazionista". Ora suo figlio, Matty, ha appreso all'asilo di queste stesse minacce per gli orsi polari.

Ma se negli anni '90 il tema del cambiamento climatico sembrava una questione fin troppo astratta per i bambini, i tempi ora sono cambiati, come Balcetis ha avuto modo di constatare una sera, quando ha messo in tavola la cena in un contenitore usa e getta e Matty è scoppiato in lacrime, gridando: "Mamma, non possiamo riutilizzare o riciclare questo piatto!".

"Quella reazione mi ha colpito molto", spiega la donna. "Io appartengo alla vecchia generazione che non ha mai provato questo tipo di angoscia". E Matty ha solo quattro anni.

In risposta ai giovani che si sentono sopraffatti, l'Università di Washington, a Bothell, offre un corso sul lutto ecologico, tenuto da Jennifer Atkinson. L'insegnante fornisce ai suoi studenti strumenti come rituali di elaborazione del lutto ed esercizi di mindfulness (consapevolezza) per aiutarli a gestire le loro emozioni. Il primo passo, dice, è riconoscere a fondo il proprio dolore.

"Un tempo l'estate rappresentava la grande ricompensa dopo l'interminabile e grigio inverno", ricorda Atkinson. "Ora questa aspettativa è stata compromessa dalla stagione degli incendi, in cui non si può nemmeno respirare all'aperto". A peggiorare ulteriormente le cose, la scorsa estate si è formata un'enorme cupola di calore sulla regione che ha portato a settimane con le temperature più alte mai registrate nel Pacifico nord-occidentale.

I suoi studenti provano un misto di "tristezza, paura e indignazione" per i cambiamenti che hanno visto nei loro 20 anni di vita, spiega Atkinson. Lei consiglia loro di non sottrarsi a queste "emozioni negative", che in realtà non sono affatto negative, ma bensì una sana risposta alla perdita.

"Il dolore ci permette di comprendere con chiarezza ciò che amiamo e non vogliamo perdere, e la rabbia ci motiva a lottare contro l'ingiustizia", spiega. "Io invito sempre i miei studenti a vedere questi sentimenti intensi come una sorta di superpotere che può essere incanalato per contribuire a costruire un mondo migliore".

Una delle studentesse della Atkinson, Tara Fisher, ha preso a cuore questo messaggio e ha deciso di dedicare la sua vita lavorativa ad aiutare persone traumatizzate dai disastri climatici. L'estate scorsa la Fisher si è offerta volontaria per aiutare i senzatetto di Seattle a trovare un alloggio per sfuggire al fumo e al caldo. Se c'è un lato positivo in questi eventi, spiega, è che le persone del mondo benestante ora comprendono che siamo tutti sulla stessa barca quando si tratta di questioni climatiche.

"E questo ci può insegnare a empatizzare con i paesi in via di sviluppo, le cui vite sono già devastate dal cambiamento climatico", afferma Fisher.

Giovani e impegnati.

Ma c'è una piccola notizia positiva a fronte di tutta quest’ansia. Negli Stati Uniti, i giovani più ansiosi sono anche i più fiduciosi di poter fare qualcosa in merito, afferma Alec Tyson, direttore associato del PEW Research Center, un laboratorio d’idee di Washington, D.C. I Millennials e gli adulti della Generazione Z - quelli nati dopo il 1996 - hanno mostrato alti livelli di impegno sul tema e si stanno dando molto da fare per vivere una vita più “verde”.

Hanno anche creato un formidabile movimento di protesta nel tentativo di spingere i governi ad agire. Nel 2019 milioni di giovani hanno partecipato a proteste che si sono svolte nello stesso giorno in tutto il mondo, da Sydney a New York a Mumbai, la maggiore città dell'India.

"Scioperare è più importante dell'istruzione perché, in futuro, potremmo non avere nemmeno più un motivo per quell'istruzione", afferma Anna Grace Hottinger, 19 anni, che ha insegnato ai suoi compagni di scuola come impegnarsi in favore della giustizia climatica.

La studentessa ha dato vita a una campagna per l'approvazione della prima legge nazionale sul Green New Deal nel suo Stato, il Minnesota, e sta anche portando avanti un sondaggio tra i suoi coetanei per scoprire l’impatto emotivo che tutto ciò ha su di loro. Secondo la Hottinger, farli parlare dei loro sentimenti e non reprimerli fa sentire i giovani più forti e meno soli.

La speranza è determinante.

Nel frattempo, Katie Cielinski e Aaron Regunberg vanno avanti con la loro vita. Hanno sciolto le loro incertezze e loro figlio, Asa, è nato nel marzo del 2021. Vivono a Providence, nel Rhode Island. Katie, avvocato, lavora come difensore d'ufficio. Aaron, che ha lavorato per quattro anni nella legislatura statale, si è laureato il mese scorso alla Harvard Law School. Dopo un tirocinio presso un giudice federale intende dedicarsi al diritto ambientale.

"Voglio che questa generazione abbia persone valide che combattono per ciò che è giusto", dice Katie, spiegando il motivo per cui sono diventati genitori.

"Ciò che alla fine mi ha convinto è stato capire che la lotta per un futuro vivibile non può riguardare solo la sopravvivenza e la stabilità", afferma Aaron. "Deve anche essere una lotta per evitare che il nostro mondo diventi un posto più povero, più buio, più solitario. Per me e Katie, abbracciare tutto questo significava dare alla luce nostro figlio e insegnargli tutto ciò che c'è da amare in questo mondo, e impegnare le nostre vite a lottare per lui e, prima o poi, stare al suo fianco e al fianco di ogni altro bambino che si troverà ad affrontare questo futuro incerto".

Asa, affermano, ha regalato loro una nuova prospettiva sul futuro.

"Prima lottavo regolarmente con l'attivismo e l’angoscia per la situazione climatica", racconta Aaron. "Ma da quando è nato Asa non ne ho mai più sofferto. Una volta che hai deciso di scommettere sulla possibilità di avere un futuro degno di essere vissuto, il nichilismo semplicemente non rappresenta più un'opzione percorribile".

 

 

 

Il cancelliere tedesco prevede

come sarà il mondo nel 2050.

Databaseitalia.it- Redazione-(4-7-2022)- ci dice :

Olaf Scholz afferma che emergerà un mondo multipolare con molti paesi influenti che perseguiranno i propri interessi.

Il mondo nel 2050 sarà multipolare, con molti paesi influenti, inclusa la Russia, che perseguiranno i propri interessi, quindi il ” grande compito ” per l’Occidente è “far funzionare questo”, ha detto domenica il cancelliere tedesco Olaf Scholz.

Parlando con CBS News, Scholz ha affermato che la cosa fondamentale ora è fare affari “con molti paesi in modo da poter convivere con una situazione in cui si presenteranno problemi”.

” Penso che il mondo in cui vivremo nel 2050 sarà multipolare “, ha aggiunto.

“Molti paesi saranno importanti. Gli Stati Uniti, la Russia, la Cina, l’Unione Europea e i paesi di questa Unione, ma anche l’Indonesia e l’India, o il Sud Africa, paesi del Sud America”.

Il cancelliere ha affermato che ” il grande compito ” ora è ” far funzionare tutto questo “, aggiungendo che ” il multipolare non è sufficiente. Multilaterale, lavorare insieme per un futuro migliore, questo è ciò a cui dovremmo puntare”.

Commentando il recente vertice della NATO, che ha identificato la Cina come una minaccia, Scholz ha affermato che la dichiarazione è pienamente in linea con la strategia da lui descritta.

Ha spiegato che significa solo che il blocco “ è consapevole dei problemi che potrebbero sorgere.

Scholz ha sottolineato che i membri della NATO sono democrazie e quindi non sono aggressivi ” verso il resto del mondo “, ma stanno semplicemente lavorando “per un mondo in cui l’aggressione non funziona”, aggiungendo che le democrazie rimangono “molto forti” perché sono sostenute dal popolo.

 

“Ma dovremmo essere chiari su queste minacce che stanno arrivando al nostro futuro. E questo viene dalle autocrazie… perché tendono ad essere aggressive”, ha detto.

Scholz considera il lancio dell’offensiva russa in Ucraina “un momento spartiacque della politica internazionale”. Prima di febbraio, ha detto, “ troppi nel mondo” speravano che il mondo moderno fosse diverso da quello del passato, quando “potenza e potere stavano decidendo sul futuro dei paesi e non sulle regole e sugli accordi che abbiamo tra stati.”

Da quei tempi, in passato, c’è stato “un accordo secondo il quale non dovrebbe esserci alcun tentativo di cambiare un territorio… di cambiare i confini, di invadere il vicino. E questo accordo è ora annullato da Putin”, ha detto.

Mosca afferma che la sua operazione militare era necessaria, poiché tutti i tentativi di raggiungere l’Occidente e di concordare garanzie di sicurezza erano falliti e, di conseguenza, l’esistenza stessa dello stato russo era minacciata.

Dopo il lancio dell’operazione in Ucraina, la Germania ha invertito la sua politica di lunga data di non fornire armi ai paesi in conflitto, per iniziare ad armare Kiev.

IL MONDO MULTIPOLARE .

Le osservazioni di Scholz, tuttavia, fanno eco alle recenti dichiarazioni del presidente russo Vladimir Putin. Intervenendo al Forum economico internazionale di San Pietroburgo, Putin ha affermato che dalla fine della Guerra Fredda sono emersi nuovi centri di potere e che hanno il diritto di proteggere i propri sistemi, modelli economici e sovranità.

Questi “cambiamenti tettonici davvero rivoluzionari nella geopolitica, nell’economia globale, nella sfera tecnologica, nell’intero sistema delle relazioni internazionali” sono “fondamentali, cardine e inesorabili”, ha affermato, aggiungendo che il “distacco dei leader di UE e USA dalla realtà” alla fine porterà al degrado.

Il quotidiano tedesco “Allgemeine Zeitung” ha recentemente  riferito che Cina e Russia vogliono che il gruppo di nazioni BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa) diventi un contrappeso al Gruppo dei Sette (G7), dominato dall’Occidente.

 

 

 

 

2050: MOBILITÀ A IMPATTO ZERO.

Greenweekfestival.it- Fabio Savelli- Renato  Mazzoncini-(10-7-2022)- ci dice :

(Corriere Buone Notizie).

 

«Le profezie avveranti – dice Renato Mazzoncini – sono quelle demografiche». Le aspettative di crescita della popolazione mondiale risultano sempre essere rispettate, verificando puntualmente le previsioni a decenni di distanza.

 Per ragionare sulla mobilità del futuro conviene partire da qui.

Da quanti siamo ora: poco meno di 8 miliardi. A quanti saremo tra trent’anni, nel 2050: 9,5 miliardi di persone.

Un differenziale di oltre un miliardo e mezzo, sostanzialmente trainato dal continente africano. Nel 2050 gran parte della popolazione globale vivrà in città.

Complice il trionfo dell’economia dei servizi «ogni giorno 200mila persone nel mondo lasciano le campagne».

È impensabile immaginare un’inversione, nonostante l’era di Internet teoricamente avrebbe dovuto cancellare le distanze perché consente la trasmissione dei dati più che incentivare la mobilità dei flussi.

Non è avvenuto.

Invece stiamo entrando nell’epoca delle megacity, megalopoli di 20-30 milioni di persone. In cui sarà determinante, per renderle vivibili e sostenibili, costruire un sistema integrato di treni ad alta velocità e reti metropolitane.

Sviluppando l’ultimo miglio, fino a casa, con bici, scooter e monopattini elettrici in condivisione grazie all’effetto della sharing economy che archivia il concetto di proprietà.

 L’obiettivo possibile .

Nel 2050 Mazzoncini ritiene sia possibile raggiungere un obiettivo che, al momento, sembra utopia: zero per cento di emissioni di anidride carbonica nella mobilità, ora responsabile di un quarto della quota di Co2 nel mondo.

 La spinta maggiore arriva dall’elettrico. Dovremo costruire 240 giga-factory (stile Tesla in Nevada) per la produzione di batterie, al costo di due miliardi l’una, capaci di coprire la domanda globale di 80 milioni di veicoli all’anno. Archivieremmo il motore a scoppio azzerando le emissioni.

Per farlo, spiega l’ex amministratore delegato di Ferrovie dello Stato e docente al Politecnico di Milano, a capo di una sessione di Cop25 a Madrid, dobbiamo partire da un presupposto che ora frena la transizione energetica per questioni geopolitiche.

 La Cina ha in concessione gran parte dei giacimenti di nickel e cobalto necessari per la realizzazione delle batterie.

Ha colonizzato il Congo, strappando contratti decennali di sfruttamento per la produzione di litio anche in Sud America.

 Ora controlla il 90 per cento delle materie prime necessarie per lo choc dell’elettrico. La ricerca Usa ed europea sta investendo per dis-intermediare il vantaggio cinese. Ibm sta lavorando su una batteria che farebbe a meno del Cobalto.

Verrebbe sostituito da materie prime ricavate dall’acqua di mare. Trovando un elemento di sostituzione il mondo andrà verso l’elettrico nell’ automotive, nell’elettrificazione di strade e ferrovie (accantonando anche per i convogli i motori a diesel). Andrà verso l’idrogeno nell’alimentazione di navi e traghetti.

Svilupperà impianti industriali e edifici con fonti rinnovabili comportando la decarbonizzazione dell’economia.

La mobilità risultante sarà a impatto zero se poi saremo in grado di potenziare gli investimenti infrastrutturali nella costruzione di reti ad alta velocità e metropolitane.

Un esempio illuminante è la città di Riad. Sei linee in pochi anni. Investimenti da capogiro trainati dai petrodollari.

Un esempio su larga scala è la Cina: ha costruito 25mila chilometri di linee ad alta velocità rivoluzionando le economie di scala globali nella produzione di materiale rotabile.

L’Italia, rileva Mazzoncini, avrebbe due straordinari vantaggi competitivi. Il primo tecnologico. La sofisticazione nell’offerta di competenze nel settore la converte in un benchmark globale.

Il secondo geografico.

Siamo una potenziale piattaforma logistica per l’Africa che necessita di investimenti infrastrutturali su tutti i segmenti: strade, ferrovie, porti, aeroporti, linee elettriche. «Converrebbe che andassimo noi lì, portando maestranze e tecnologie, più che intimorirci per i flussi migratori che impattano sulle nostre coste», suggerisce Mazzoncini. Una prospettiva rovesciata che dovremo saper cogliere.

Se solo concepissimo l’effetto moltiplicatore degli investimenti sull’economia dei flussi. L’Italia viaggia ormai a due velocità, come ha rivelato un recente rapporto di Legambiente. L’innovazione e la creazione di opportunità che sperimenta chi vive in città tagliate dall’alta velocità risulta frustrante per chi, soprattutto al Sud, è appeso ai tempi di percorrenza di fine Novecento.

Pur non annoverando mega-city globali, come quelle asiatiche, l’Italia avrebbe tutte le potenzialità per investire su una rete domestica di pendolini a lungo raggio permettendo di azzerare la quota di trasferimenti con l’aereo, molto più inquinante.

Qui Mazzoncini insiste: «Dovremo limitare gli spostamenti soltanto ai viaggi intercontinentali con velivoli alimentati con bio-fuel in modo da ridurre le emissioni, se l’alta velocità decollasse un po’ ovunque».

Incoraggiando anche il modello Hyper-loop, un sistema a capsule che teoricamente permetterebbe, ma le sperimentazioni sono in corso, di raggiungere 1.200 chilometri orari.

Tramite enormi tunnel dove spingere dei vagoni galleggianti all’interno di un cuscino d’aria compressa. Se ciò avvenisse la mobilità ne uscirebbe rivoluzionata.

 L’Italia ha un modello diffuso di città medio-piccole di derivazione medievale. Sarebbero connesse dall’alta velocità.

Una volta arrivati in stazione servirà investire sulla sharing economy che sta raggiungendo progressivamente una capacità critica di mercato tale da ridurre i prezzi del consumo on demand.

Monopattini o no.

 Ma Mazzoncini insiste sulla necessità di un forte cambiamento regolatorio. Con una diversa valutazione del concetto di rischio che al momento penalizza gli utenti nel rapporto con le compagnie assicurative. Se i regolamenti bloccano ancora l’uso diffuso dei monopattini è perché non è ancora chiaro come attribuire la responsabilità civile in caso di incidenti.

La ricetta potremmo definirla «olistica». Perché le assicurazioni non ragionano ancora in termini omni-comprensivi?

Considerando che il nostro smartphone ci geolocalizza costantemente non dovrebbe essere complicato costruire polizze a copertura dei rischi comprensive di tutte le modalità di spostamento che utilizziamo durante la giornata.

 Il gps già oggi ci dice se stiamo usando un monopattino, una bici, uno scooter, un’automobile e su quali distanze. Una volta costruita un’offerta diversa potremmo persino accogliere l’altra rivoluzione in arrivo: l’auto senza conducente. Il mondo nel 2050.

 

 

 

Innovazione e Qualità sono le Leve

Del Futuro per La Crescita Sostenibile

delle Filiere Agroalimentari.

Foodaffairs.it- Redazione-( 10-7-2022)- ci dice :

L’innovazione e la qualità sono i due fattori indispensabili per un futuro di crescita sostenibile delle filiere agroalimentari.

Questa – secondo Adnkronos – la sintesi dell’evento ‘L’innovazione per filiere agroalimentari sostenibili: strumenti, best practices, politiche a supporto, organizzato da Nomisma, in collaborazione con Philip Morris Italia e con il contributo scientifico di Food Trend Foundation.

Il workshop, introdotto e moderato da Paolo De Castro, presidente del Comitato Scientifico di Nomisma, ha inteso approfondire attraverso importanti contributi di esperti e testimonianze di top manager di imprese, il ruolo che l’innovazione può avere nel rendere ‘sostenibili’, nei diversi risvolti economici, sociali ed ambientali, le filiere agroalimentari italiane.

Tra le case history di successo sono state illustrate quelle del pomodoro da industria e del tabacco, dove negli anni sono stati avviati importanti investimenti in innovazione, mediante accordi di filiera, finalizzati a garantire maggiore stabilità e sicurezze agli agricoltori.

Il contesto attuale caratterizzato dal conflitto russo-ucraino e dai continui shock sul mercato energetico e delle commodity, a cui si aggiungono gli obiettivi della transizione ecologica imposti dal Green Deal, rischiano di mettere a dura prova un sistema produttivo fortemente colpito da tensioni inflattive e difficoltà di approvvigionamento.

Secondo l’ultimo Eurobarometro, basato su un’indagine realizzata tra fine febbraio e marzo scorso, un cittadino europeo su due, quando si tratta di indicare le principali responsabilità attribuite agli agricoltori, mette al primo posto la produzione di cibo sostenibile e di alta qualità, mentre per un altro 26% diventa prioritaria la garanzia di fornitura costante di alimenti.

È quindi del tutto evidente che qualità dei prodotti agroalimentari, food security e sostenibilità devono procedere di pari passo, insieme a investimenti in innovazione per rendere le filiere italiane sempre più competitive e sostenibili.

Nel panorama italiano, molte filiere di per sé non sono autosufficienti. Posto pari a 100 l’indice di autosufficienza (misurato dal rapporto tra produzione e consumi), filiere come quella del frumento (sia tenero che duro), del mais, delle carni (sia bovine che suine), del latte sono tutte sotto tale valore.

Lo dimostra anche il trend nell’import di prodotti agricoli che negli ultimi venti anni è cresciuto di oltre l’80%, arrivando a toccare i 16,3 miliardi di euro nel 2021. Non si tratta però di un rischio di ‘food security’ per i consumatori italiani: le importazioni sono necessarie a garantire in via complementare una piena funzionalità di quelle catene del valore in grado di sostenere il nostro export di food &beverage e derivati del tabacco che nello stesso periodo è più che triplicato (+216%), passando da 14 a oltre 44 miliardi di euro.

“In uno scenario di guerra – spiega Paolo De Castro presidente del comitato scientifico Nomisma – i consumatori chiedono agli agricoltori cibi sostenibili e di qualità. Ma in Italia per alcune filiere non è autosufficiente; mi riferisco alle filiere relative all’ortaggio, lattiero caseario, orzo, carne suina e salumi, olio di oliva, mais carne bovina, frutta in guscio. Questo comporta una significativa dipendenza dall’estero soprattutto per rispondere ad una forte crescita dell’export di food &beverage e derivati del tabacco. L’innovazione ci salverà, ma in Italia ancora poche aziende agricole, solo l’11%, investe in innovazione”.

D’altronde, gli obiettivi indicati dall’Europa per una neutralità climatica impongono agli agricoltori riduzioni significative entro il 2030 nell’utilizzo di agrofarmaci e antibiotici (-50%) nonché di fertilizzanti (-20%).

 I target della strategia ‘Farm to fork’ collegata al Green Deal sono ambiziosi e non certo ‘a costo zero’ per l’agricoltura comunitaria, visto che anche lo stesso Centro di Ricerca della Commissione Europea (JRC) ha valutato come l’applicazione tout court di tali tagli nei mezzi tecnici potrebbe portare ad una riduzione della produzione agricola dell’Ue compresa tra il 10 e il 15% rispetto ai livelli attuali.

Per l’Italia è fondamentale garantire sicurezze alle proprie filiere e agli agricoltori perché, oltre a garantire l’approvvigionamento dei diversi prodotti agroalimentari, sono in grado di generare quel ‘valore’ richiesto dai consumatori di tutto il mondo, necessario a preservare la competitività dell’intero sistema agroalimentare nazionale. Di questo ne è convinto Stefano Vaccari, direttore generale del Crea che sottolinea come “in un momento complesso come quello attuale non dobbiamo dimenticare che l’agricoltura italiana è la prima d’Europa in termini di valore aggiunto.

Noi produciamo valore, non cibo. Questo significa che innovazione e formazione sono i naturali binari per correre sul mercato mondiale.

 Il Crea nel 2021 ha sviluppato oltre mille progetti di ricerca, tasselli potenti di crescita per l’agroalimentare. Abbiamo ora bisogno di concentrare gli sforzi della ricerca agricola su pochi, chiari campi di azione, come la genomica, l’agricoltura di precisione, la sostenibilità e le agroenergie.

Oggi le risorse pubbliche scientifiche, specie quelle del Pnrr, sono estremamente frammentate non governate dal mondo agricolo: su questo speriamo che vi sia un cambiamento di rotta”.

“Nei prossimi 12 mesi – avverte – non c’è nessun rischio di crisi alimentare a causa delle quantità prodotte, ma molti rischi sono dati dalle incertezze dei mercati finanziari”. Vaccari osserva poi che “il sostegno pubblico all’agricoltura italiana proviene soprattutto dall’Unione europea e meno dallo Stato e questo penalizza le aziende agricole che non riescono a organizzarsi con l’Ue”.

“La vera innovazione – sostiene – è potenziare le conoscenze dell’imprenditore, creare valore vuol dire più imprenditoria; per l’imprenditore agricolo vuole dire essere ancora più dinamico sul mercato. Avere anche più consapevolezza di diventare da custode del territorio a custode del ciclo di vita”.

 

“Proprio nel sistema mondiale attuale – sottolinea Alessandro Apolito capo servizio tecnico gabinetto di presidenza e segreteria generale Coldiretti – c’è bisogno di una corresponsabilità la cui parola chiave è filiera. Nel settore dei cereali, ad esempio, c’era un trend di decrescita che però da quando le aziende hanno creduto nelle filiere 100% italiane si è interrotto. Alla base della sostenibilità c’è, inoltre, il pilastro fondamentale che è il prezzo equo. Abbiamo un’opportunità importantissima con il Pnrr e secondo Coldiretti bisogna puntare sulla sovranità alimentare, energetica e su un migliore utilizzo dell’acqua”.

“La transizione ecologica – sottolinea – deve vedere protagonista tutto il settore agroalimentare. Per farlo è necessario continuare a sostenere gli investimenti delle aziende, puntando su innovazione e agricoltura 4.0 per ridurre l’uso delle risorse e aumentare la produttività.

I contratti di filiera del Pnrr vanno in questa direzione e Coldiretti, insieme a Filiera Italia, è pronta a presentare tanti progetti operativi e sostenibili”.

Rispetto a tali obiettivi, non mancano anche casi di successo che dimostrano come tali strumenti possono favorire la diffusione di processi innovativi in grado di permettere, al contempo, una sostenibilità a 360° (ambientale, sociale ed economica) per tutta la filiera.

E’ quello che ha illustrato al convegno Gianmarco Laviola, amministratore delegato di Princes industrie alimentari che ha dichiarato come “promuovere la sostenibilità nell’industria del pomodoro non significa solo introdurre tecnologie avanzate nelle nostre produzioni ma investire nel ruolo della filiera per dare prospettiva di crescita al comparto, soprattutto in un contesto di grandi tensioni internazionali e di pressione sui costi delle materie prime.

 Princes industrie alimentari si impegna in questa direzione per tutelare e sostenere il pomodoro etico e 100% made in Puglia in tutto il mondo, sia attraverso uno specifico e rivoluzionario accordo di filiera stretto con Coldiretti sia con iniziative concrete sviluppate con le rappresentanze dei lavoratori e le associazioni che combattono il fenomeno dello sfruttamento del lavoro”.

 

Un’altra interessante case history dove attraverso accordi di filiera si sono raggiunti obiettivi di sostenibilità e di innovazione volta a migliorare il prodotto agricolo verso le nuove esigenze del mercato e di conseguenza a generare quel valore riconosciuto ai prodotti italiani è quella del tabacco: la filiera del tabacco ha infatti l’opportunità di esplorare nuove soluzioni innovative, che permetteranno di intraprendere più velocemente il percorso di transizione ecologica e digitale, anche alla luce della nuova riforma della Pac e in linea con il nuovo Green deal europeo.

 

“I termini sostenibilità e transizione – afferma Cesare Trippella head of leaf Eu Philip Morris Italia – ora sono comuni ma 11 anni fa erano visti con molto scetticismo. Una filiera quella del tabacco innovativa che coinvolge 25mila lavoratori. Nel 2011 abbiamo cercato di ottimizzare al massimo la filiera con un verbale di intesa con il ministero dell’Agricoltura per garantire ai nostri produttori di avere la certezza del prodotto che verrà commercializzato”.

“Continuiamo – assicura – a mettere al centro il nostro impegno finalizzato ormai da tempo a garantire una visione di medio e lungo termine e investimenti sulla transizione eco-energetica e digitale, supportando la sostenibilità ecologica e sociale per una filiera ottimizzata ed efficiente, con al centro le persone. E’ importante investire sul capitale umano che vede il 60% costituito da donne. Stiamo facendo un corso per rimanere nella successione generazionale all’interno delle aziende di famiglia. Tutti i nostri campi sono geolocalizzati e la tracciabilità è un must della nostra attività e tutte le nostre aziende sono verificate periodicamente dai nostri tecnici”.

“In un contesto macroeconomico sempre più complesso e in continuo cambiamento – avverte Trippella – credo sia fondamentale garantire stabilità e certezze ai coltivatori e alle filiere agricole. Come Philip Morris, il nostro impegno verso la filiera tabacchicola guarda al futuro e lo abbiamo già dimostrato con il rinnovo degli accordi con il Mipaaf. La nostra azienda è all’avanguardia anche dal punto di vista degli investimenti per la transizione energetica, ecologica e digitale della filiera tabacchicola: in linea con la visione innovativa di un mondo senza fumo, Philip Morris Italia già dal 2011 ha intrapreso azioni strategiche volte a tali transizioni, ottenendo successi nella riduzione di CO2, nell’uso responsabile della risorsa idrica, nonché nella digitalizzazione della filiera”.

A livello politico Raffaele Nevi responsabile Agricoltura Forza Italia precisa di “essere preoccupato perché ho l’impressione che la guerra invece di farci riflettere e ripensare le nostre priorità fa proseguire come nulla fosse. L’Europa è strategica e fondamentale per l’agricoltura e c’è necessità di una strategia di lungo periodo e di costruire un nuovo recovery fund.

“Credo – aggiunge Mino Taricco capogruppo Partito Democratico nella IX Commissione permanente – Agricoltura e produzione agroalimentare al Senato – che il cambiamento di consapevolezza in atto sulla sostenibilità nelle sue varie forme rafforza il pensiero dei cittadini su questo argomento. Il tema delle filiere è una delle frontiere del futuro e il loro rafforzamento può essere davvero uno strumento per un salto di qualità. Questi temi sono centrali e all’ordine del giorno su cui stiamo lavorando in commissione e sui quali il nostro impegno rimarrà fortissimo”.

 

 

 

Trombe d’aria, alberi abbattuti e tetti volanti,

i nubifragi in Lombardia mostrano

l’altra faccia apocalittica del clima che cambia.

Greenme.it- (5 Luglio 2022)-  Rosita Cipolla-: ci dice:

 

Forti raffiche di vento, temporali e trombe d'aria: che sta avvenendo in Pianura Padana non è semplice "maltempo": è la conseguenza lampante della grave crisi climatica, con cui dobbiamo abituarci a convivere.

Sono immagini spaventose quelle che arrivano da diverse città della Lombardia, flagellata da intensi temporali, dopo giornate di caldo infernale: enormi alberi abbattuti dalle forti raffiche di vento, tetti di abitazioni scoperchiate e auto distrutte. Cremona, Mantova e Pavia sono state messe in ginocchio da un’ondata anomala di maltempo.

Scene quasi apocalittiche che si stanno verificando in piena estate. Soltanto in queste tre città sono state circa 200 gli interventi dei Vigili del Fuoco nella giornata di ieri.

A Cremona si è formata persino una grossa tromba d’aria, che ha provocato numerosi danni e spazzato via il tetto di un’abitazione di via Bergamo e i rami degli alberi, finiti poi sulle macchine che si trovavano in strada.

Diversi i disagi anche alla circolazione dei mezzi: a causa dei temporali è stata interrotta temporaneamente la linea ferroviaria fra Cremona e Parma. Proprio in queste ore i tecnici stanno lavorando per riattivare il servizio dei trasporti. Nel frattempo il sindaco di Cremona ha annunciato che chiederà l’attivazione dello stato di calamità.

Il peggio sembra passato, ma il maltempo proseguirà ancora nelle prossime ore, specialmente nell’area orientale della Lombardia. Per oggi, infatti, è stata confermata l’allerta gialla diramata dalla Protezione civile per rischio temporali.

Non va meglio in Emilia-Romagna, colpita da intense piogge e raffiche di vento fino a i 90 km/h che hanno causato danni e blackout in vari comuni, in particolare a Parma e Bologna. A rimetterci la vita anche un uomo, schiacciato dal peso del muro di una stalla, abbattuto dalla furia di una tromba d’aria. La tragedia si è consumata in un’azienda agricola di Besenzone, in provincia di Piacenza.

Non chiamiamolo semplicemente “maltempo”: è l’ennesimo campanello d’allarme degli stravolgimenti climatici.

In Pianura Padana il clima sembra essere impazzito. Si è passati dal caldo asfissiante e dall’assenza di piogge a violenti nubifragi e trombe d’aria. Maltempo? No, chiamare così questo fenomeno sarebbe riduttivo e fuorviante.

Ciò che stiamo vedendo è il campanello d’allarme (l’ennesimo!) della crisi climatica in atto, che in questo periodo ci sta facendo vivere sulla nostra pelle le sue conseguenze più catastrofiche: ondate di calore record, siccità, scioglimento dei ghiacciai (la tragedia avvenuta sulla Marmolada ne è un esempio lampante) e gli improvvisi temporali accompagnati dalle trombe d’aria, che sono sempre più frequenti nel nostro Paese. E purtroppo potrebbe essere solo l’antifona di un futuro ben più oscuro.

Di anno in anno, infatti, la situazione sta peggiorando e gli eventi meteorologici estremi sono destinati ad aumentare. Secondo i dati pubblicati lo scorso anno dall’Osservatorio Città Clima di Legambiente, dal  1° novembre del 2010 al 1° novembre del 2021 si sono registrati 1.118 eventi meteorologici estremi (+17,2% rispetto al precedente monitoraggio) e i comuni investiti da questi fenomeni sono stati 602 comuni, ben 95 in più rispetto allo scorso anno, mentre il bilancio è di 261 vittime. Crescono gli allagamenti, i danni provocati da trombe d’aria e dai periodi prolungati da siccità, ma anche le frane e le grandinate estreme.

Nel rapporto 2021 di Legambiente sono state individuate 14 aree del Paese dove si ripetono con maggiore intensità e frequenza alluvioni, trombe d’aria e ondate di calore. Si tratta di grandi aree urbane e di territori costieri dove la cronaca degli episodi di maltempo e dei danni è senza soluzione di continuità e per questo dovrebbe portare a un’attenzione prioritaria da parte delle politiche. – spiega l’associazione ambientalista – Ad intere città come Roma, Bari, Milano, Genova e Palermo, vanno aggiunti territori colpiti da eventi estremi ripetutamente e negli stessi luoghi.

Aree come la costa romagnola e nord delle Marche, con 42 casi, della Sicilia orientale e della costa agrigentina con 38 e 37 eventi estremi. In queste ultime due aree sono stati numerosi i record registrati nel corso del 2021: a Siracusa l’11 agosto, si è raggiunto il record europeo di 48,8 °C, nel catanese e siracusano in 48 ore si è registrata una quantità di pioggia pari ad un terzo di quella annuale. Inoltre, proprio questa parte dell’isola è stata teatro di devastazione a seguito del medicane Apollo. Colpita anche l’area metropolitana di Napoli dove si sono verificati 31 eventi estremi, mentre, tra gli altri territori, ci sono il Ponente ligure e la provincia di Cuneo, con 28 casi in tutto, il Salento, con 18 eventi di cui 12 casi di danni da trombe d’aria, la costa nord Toscana (17 eventi), il nord della Sardegna  ed il sud dell’isola con 9 casi.

In poche parole ci tocca prepararci ad eventi catastrofici sempre più ricorrenti, facendoci trovare pronti a gestire queste emergenze, che diventeranno la nostra nuova “normalità”.

 

 

 

Amitav Ghosh: “Davanti i cambiamenti

climatici c’è chi si muove come

uno zombie, dobbiamo svegliarli”.

Fanpage.it- Redazione- Amitav Ghosh- Martino Mazzonis e Angelo Loy – (8 luglio 2022)-ci dicono

Nel corso di un documentario sui cambiamenti climatici in Bangladesh Martino Mazzonis e Angelo Loy hanno incontrato lo scrittore Amitav Ghosh, lo scrittore originario del paese asiatico che si è occupato nella sua attività saggistica a lungo di questi temi.

Un’isola sul fiume Meghna nei pressi di Barisal, le piene del fiume, sempre più frequenti e imponenti stanno erodendo le sponde a ritmi mai visti.

Nel suo ultimo “The Nutmeg Course” (La maledizione della noce moscata) Amitav Ghosh trova le origini della crisi climatica nel violento sfruttamento della vita umana e dell'ambiente naturale da parte del colonialismo occidentale.

Proveniente da una famiglia originaria del Bangladesh e cresciuto a Calcutta, Ghosh racconta di come l’idea che la natura sia un luogo che produce merci da raccogliere e sfruttare in maniera massiccia cresca nel rapporto coloniale tra Occidente, Africa e Asia.

Il libro uscito lo scorso anno (La maledizione della noce moscata uscirà nell'autunno 2022 per Neri Pozza) e per questo, quando abbiamo cominciato a lavorare a “Gli Spaesati”, documentario sugli effetti del cambiamento climatico in Bangladesh, paese che ne subisce gli effetti devastanti già da diversi anni, abbiamo pensato a lui.

 

"Il cambiamento climatico è la cosa più grande che sia mai capitata alla specie umana. Dovrei chiudere gli occhi se non dovessi scriverne.  – racconta lo scrittore indiano – Nel senso più elementare del termine, la dinamica che sta alla base del cambiamento climatico deriva da un modello di economia estrattiva, che ha iniziato a imporsi a partire dal XVI e XVII secolo con il colonialismo.

 Il mio libro parte dalla storia della noce moscata che un tempo cresceva solo sulle isole Molucche: per appropriarsene, gli olandesi sterminarono la popolazione di quelle isole. C’era una merce con un ampio mercato e l’hanno presa. È il tipo di atteggiamento avuto dal colonialismo prima e da quel che è venuto dopo, l’uso dell’ambiente come di una merce. I risultati sono sotto i nostri occhi".

Lo scrittore indiano insiste sull’idea che per invertire la tendenza dovremmo smetterla di vivere su questo pianeta come se fossimo in un supermercato dove la merce è anche gratis, si passa, si prende quel che serve, si butta quel che non ci piace. Non è un discorso sulla “decrescita felice” ma la necessità di fare uno sforzo per trovare un equilibrio tra quel che consumiamo e quel che la natura è in grado di riprodurre.

 La preoccupazione di Ghosh sta anche nel mancato rispetto degli impegni presi nelle conferenze internazionali (“le risorse promesse per i paesi in difficoltà e senza risorse non sono arrivate”) e per la guerra:

gli eserciti sono una fonte di inquinamento devastante e gli effetti materiali di quanto succede in Ucraina (inflazione, energia, potenziale crisi alimentare) distoglie l’attenzione da quella che dovrebbe essere la nostra principale preoccupazione.

(fanpage.it/attualita/amivat-ghosh-davanti-i-cambiamenti-climatici-ce-chi-si-muove-come-uno-zombie-dobbiamo-svegliarli).

 

 

 

 

Riflessioni in libertà sulla

“nuova normalità.”

Pressenza.com- (10.07.22) - Eros Tetti- ci dice :

Cari amici e amiche, “Tornare alla normalità” è stata probabilmente la frase più usata negli ultimi due anni, un periodo molto intenso di iniziazione per tutta l’umanità. Cosa voglio dire?

 Voglio sottolineare il fatto che quello che credevamo la “normalità” era solamente un momento, una bolla, che abbiamo conosciuto negli ultimi decenni, soprattutto in occidente, lo sottolineo onde evitare di risultare etnocentrici. Questo passaggio pandemico, come abbiamo visto, ha scosso profondamente le coscienze di tutti noi generando anche molti deliri sociali, complottismi e cospirazionismi soprattutto tra chi ha faticato molto di più ad integrare quello che stava succedendo.

Ma infine tutti noi ci siamo trovati a cozzare con le nostre credenze, con le proiezioni future e con ciò che davamo per certo e scontato dovendo mettere tutto in discussione.

Questi effetti hanno ovviamente raggiunto come uno tsunami chi già era più fragile sia lavorativamente che economicamente, lasciando delle ferite molto profonde che richiederanno tutto l’impegno possibile per riuscire a sanarle se mai sarà possibile.

Ma finita, per modo di dire, la fase pandemica ci siamo trovati davanti ad una guerra sanguinaria alle porte dell’ Europa cosa, anch’essa, impensabile almeno fino a qualche anno fa e davanti ci attende una molesta inflazione mentre dobbiamo affrontare una mordente crisi climatica che, dopo averla nascosta sotto il tappeto, è oggi più ruggente e fuori controllo che mai.

Siamo davanti ad un paesaggio umano e sociale pazzesco, se non addirittura apocalittico, ma come possiamo porci davanti al divenire degli eventi?

Quali reazioni potranno caratterizzare le persone che ci stanno attorno? Io ne ho individuati in prevalenza tre tipologie, che con varie sfumature caratterizzano la nostra società attuale:

Chi fa finta di niente. Uno dei comportamenti più disarmanti e sconcertanti è quello di chi sceglie, assalito probabilmente dalla profonda paura del cambiamento o dalla più completa disconnessione, di fare finta che tutto stia andando come sempre e pertanto cerca di continuare, profondamente disorientato, a mettere in moto gli stessi ruoli e comportamenti che, in un mondo che si destruttura, funzioneranno sempre meno creando asfissia e panico.

 Quelli che stanno a guardare dalla finestra come scrisse Antonio Gramsci nel suo “odio gli indifferenti”.

Delirio profondo.

 Altro comportamento abbastanza diffuso è il delirio, il negazionismo oppure il complottismo dove molti immaginano pochi potenti che gestiscono ogni cosa: dal clima, alle pandemie, alla finanza globale.

Vivono come in un Grande Fratello cercando le chiavi di interpretazione di segnali e messaggi misteriosi per decifrare quello che succede e capire cosa succederà. Persone che non riescono ad accettare la realtà e che nostalgiche di Dio o degli Dei rimangono vittime di questa sindrome descritta benissimo da Karl Popper che la ritiene antica come il mondo!

Ovviamente nessuno nega le oligarchie, i gruppi di potere eccma si nega la loro capacità di gestire il mondo come, appunto, fossero delle divinità onniscienti, onnipotenti e onnipresenti.

Riprendere il proprio destino.

 C’è poi chi assiduamente cerca di cambiare le cose, magari anche sbagliando, di lottare affinché tutto vada per il meglio, impegnandosi duramente in prima persona, sentendosi spesso come a bordo di un affollato treno che sta andando verso un baratro e cercando di avvertire i passeggeri si ritrova spesso inascoltato. Perché d’altronde, come diceva Silo un noto filosofo argentino, “non si scherza col sonno dei vicini”.

Queste persone devono assolutamente assumere un dato certo, ovvero che siamo davanti ad una nuova normalità dove niente è come prima e che chi ti circonda spesso non ha gli strumenti o la forza per comprendere ed interpretare il momento attuale.

La nuova normalità, se vogliamo davvero chiamarla così, si tratta solo della vera normalità della vita che è sempre stata, fin dagli albori della nostra evoluzione, una ricerca di equilibrio in un sistema instabile che oggi è probabilmente altamente instabile, quello che dobbiamo fare è ricercare un “adattamento crescente” che ci consenta di vivere spingendo verso una profonda trasformazione del mondo che ci circonda.

E’ il momento in cui tutti noi prendiamo azione senza aspettare, partendo proprio dalle persone che abbiamo vicino, dalla difesa del nostro territorio, dal tornare ad essere umani e non più consumatori ipnotizzati da uno stile di vita obsoleto. Uno stile di vita che ormai ci va stretto e che ci sta soffocando, dobbiamo assumere profondamente il fatto che solo un cambio profondo del nostro stile di vita, della nostra economia, delle nostre abitudini ci porterà fuori da queste sabbie mobili che, lentamente, giorno dopo giorno, ci inghiottono.

Che ognuno si domandi profondamente cosa veramente conta, cosa è essenziale e cosa possiamo abbandonare perché qualcosa di sicuro dovremmo lasciare.

In questi anni di attività politica ho imparato che le persone ti votano se gli dici cosa si vogliono sentir dire e non se dici come stanno realmente le cose, nessuno vuol sentirsi dire che la crisi climatica che viviamo è forse irreversibile e che dobbiamo drasticamente cambiare stile di vita se vogliamo salvarci.

Tutti rivogliono indietro gli anni Novanta o i duemila, tutti vogliono indietro la normalità che se poi ci pensassero bene vorrei sapere se erano davvero felici oppure è solo il ricordo renderli più splendenti di quello che erano, forse anche allora eravamo infelici ma con più soldi per non pensarci.

Quindi andiamo avanti verso questa nuova normalità fatta di incertezze e di mistero che se poi guardiamo bene è la normalità della vita, questa cosa misteriosa che passiamo su questa sfera che chiamiamo Terra illuminata da un’altra sfera che chiamiamo Sole, granelli di sabbia in un infinito universo.

Forse questa “nuova normalità” potrebbe essere lo stimolo per ritrovare il senso più profondo della vita, tranquilli nessuna apocalisse ma una profonda metamorfosi che richiede impegno e celerità!

Chiudo affermando con forza la mia profonda fiducia nell’essere umano, nella sua capacità di costruire e cambiare il mondo, nel suo vibrare davanti a sentimenti profondi come l’amore, nel suo investigare attraverso l’arte e la scienza, nella sua capacità di risolvere i problemi e superare gli ostacoli che la vita da sempre ci ha posto.

Siamo i figli di coloro che millenni orsono si alzarono in piedi, controllarono l’energia per accelerare la propria evoluzione, diedero nomi a tutto ciò che li circondava, creatori di significati e senso, creatori di realtà.

 Siamo i figli di coloro che lottano da sempre per superare il dolore e la sofferenza nonostante i tanti tantissimi errori commessi.

Vedo questo essere umano pronto a superare la sua adolescenza per affrontare la sua maturità, pronto a creare quel paradiso perduto che è il sogno fondante di tutte le culture, quel paradiso non stava nel passato ma è la nitida visione del futuro che dobbiamo costruire.

 

 

Timore per il futuro dei giovani e necessità

di raccontare il territorio: presentati all’Accademia

i risultati del sondaggio “Felici, non troppo”.

Qdpnews.it- Arianna Ceschin- (9 LUGLIO 2022)- ci dice :

 

Timore per il futuro e necessità di comunicare meglio il territorio, preoccupazione per il costo della vita e per l’avvenire delle nuove generazioni: sono alcuni degli aspetti emersi nel corso del convegno “Felici, non troppo”, tenutosi giovedì sera al Teatro Accademia di Conegliano per presentare i risultati di un sondaggio promosso dall’amministrazione comunale al fine di comprendere quale sia “la qualità della vita nella percezione della popolazione dell’area coneglianese e della Marca trevigiana”.

L’appuntamento, condotto dal giornalista Dino Boffo, ha visto una consistente partecipazione di pubblico, comprese autorità regionali e dei territori comunali limitrofi, rappresentanti del mondo della scuola, dell’imprenditoria, degli ordini professionali, dell’associazionismo, del mondo bancario e religioso.

Presenti anche il vescovo Corrado Pizziolo, il viceprefetto Antonello Rocco Berton, il direttore generale dell’azienda sanitaria Ulss 2 Francesco Benazzi, mentre sono stati letti i saluti del governatore della Regione Veneto Luca Zaia.

“Nel nostro piccolo abbiamo voluto fare un’analisi seria”, ha affermato il primo cittadino Fabio Chies, aggiungendo che il 60,2% della popolazione ha più di 60 anni e che il 50,8% dei coneglianesi ha sempre vissuto in città, a fronte del 33,5% del dato relativo al territorio provinciale: “Il nostro territorio deve farsi delle domande di fronte alla presenza di problemi reali”.

L’analisi ha preso in esame non solo la città di Conegliano, ma l’area del coneglianese, ovvero anche i Comuni contermini. “Le percezioni determinano la nostra realtà – ha affermato Daniele Marini, docente dell’Università degli Studi di Padova e direttore scientifico di Research & Analysis – ed è la nostra percezione a fare la realtà. I due terzi degli intervistati sono contenti di vivere qui a Conegliano, contro il 50% dell’area esterna. C’è quindi uno strabismo tra il peso della realtà e il peso della situazione percepita”.

Dalla sua analisi è emerso quanto l’aspettativa per il futuro sia negativa: gli intervistati hanno considerato peggiorati gli aspetti legati alla possibilità di curare la propria salute, alla criminalità e all’inquinamento. Giudicati stabili gli ambiti della cultura e dei trasporti, migliorati invece i campi relativi alla velocità di internet e all’informazione sul territorio, secondo le persone coinvolte nel sondaggio.

Il futuro è quanto di più preoccupa gli intervistati e, in caso di imprevisti, la famiglia e gli amici sono le figure considerate più adatte per ricevere un aiuto, mentre solo il 20% degli intervistati cita in questo senso le parrocchie e le associazioni, all’ultimo posto si trovano i servizi comunali e lo Stato. Sono considerati utili i servizi di aiuto domestico e di carattere infermieristico domiciliare.

Tutti aspetti che sono stati poi argomentati all’interno di un dibattito tra i protagonisti del mondo imprenditoriale.

 “La nostra è una società seduta che vive di rendita, bisogna ripartire dalla bellezza del passato ereditato – ha osservato Maria Cristina Piovesana di Alf Group – Un Paese che guarda al futuro deve essere un Paese che si interroga: bisogna capire in primis che cosa desiderano i giovani”.

“Il ritorno al concetto di comunità e alla coprogettazione dei servizi” è quanto citato da Raffaella Da Ros (Cooperativa Insieme si può), secondo la quale è inoltre necessario “valorizzare i giovani e le loro competenze”.

Le aziende devono imparare a comunicare, anche a livello interno condividendo le strategie aziendali con i collaboratori, e a raccontarsi meglio”, è l’osservazione di Lara Caballini di Sassoferrato di Dersut Caffè, mentre secondo l’industriale Matteo Zoppas “non sono chiari gli obiettivi su quello che si vuole essere domani, bisogna prendere delle decisioni”.

“La nostra è una società in cui si fa fatica a discutere e ad affrontare i temi scomodi – ha affermato Chies alla fine del convegno – Non dobbiamo aver paura del cambiamento. I giovani non trovano la motivazione, perché si sentono esclusi e ognuno deve sentirsi realizzato”.

“Ogni tanto trovarci come stasera e parlarci fa bene a tutti – ha aggiunto – Abbiamo perso grandi opportunità, ma non possiamo perderne delle altre: dobbiamo esserci quando abbiamo opportunità di cambiare le cose.

Credo che questa sia la strada da intraprendere: trovare degli appuntamenti in cui ci troviamo tutti assieme per ragionare sul territorio. Ci saranno degli altri incontri: il territorio lo chiede e noi dobbiamo dare delle risposte”.

 

 

 

Vivere su Marte: ecco i problemi

che dovremo affrontare.

Wired.it- Redazione- (18-4-2021)- ci dice :

Marte è la prossima tappa per l’umanità nello spazio, ma prima di pensare davvero di viverci, ci sono alcuni problemi che dobbiamo risolvere. E non è detto che ci riusciremo.

Tra i grandi successi delle missioni marziane e i progetti a lungo termine delle agenzie spaziali pubbliche e private, Marte in questo periodo sembra più vicino che mai.

Anche i progetti di costruzione di basi lunari (come quella russo-cinese o quella del programma Artemis) fanno avvicinare l’idea di un possibile futuro interplanetario per la specie umana e, di riflesso, lo stesso Pianeta rosso.

Negli ultimi giorni si è per esempio molto parlato di Nüwa, la città marziana futuristica ideata dallo studio di design architettonico Abiboo insieme al gruppo di ricercatori Sonet per un concorso della Mars Society, l’ente che si propone di promuovere il futuro dell’umanità su Marte.

Per ipotizzare come potrebbe essere il primo insediamento umano su Marte, Abiboo e Sonet cercano soluzioni fantascientifiche – nel senso stretto del termine, ossia tenendo imbrigliata la fantasia con la scienza per creare ipotesi futuribili.

Nüwa sarebbe una città sulla Tempe Mensa, a sviluppo verticale nella roccia, in tunnel protetti dalla radiazione e dalle meteoriti. Sarebbe costruita integralmente con risorse locali e dipenderebbe dalla Terra solo in una fase iniziale.

 Dopodiché, sfruttando ciò che il pianeta ha da offrire, potrebbe diventare completamente autosufficiente e sostenibile.                               È un insieme di ipotesi per risolvere i problemi principali nella costruzione di un avamposto marziano: le radiazioni, l’estrazione di risorse, la produzione di cibo e acqua, la creazione di un ambiente artificiale che simuli le condizioni ambientali terrestri.

Colonie su Marte: un problema di radiazioni.

Marte è piccolo, troppo piccolo per aver mantenuto il calore interno necessario per la produzione di un campo magnetico planetario.

Inoltre, proprio poiché è piccolo, la sua debole gravità non è in grado di trattenere un’atmosfera densa, che sulla superficie risulta appena qualche centesimo dell’atmosfera terrestre.

 La combinazione di questi fattori, l’assenza di campo magnetico e la sottigliezza dell’atmosfera, fanno sì che chiunque si trovi sulla superficie del pianeta rosso sia soggetto al continuo bombardamento di raggi cosmici, quelle particelle cariche ed energetiche che provengono dal Sole o dallo spazio interstellare.

Non parliamo di poca radiazione: in uno studio del 2014 condotto con la strumentazione di Curiosity si è determinato che nel migliore dei casi, con un viaggio di sei mesi e una permanenza sul Pianeta rosso di poco più di un anno, la dose di radiazioni totali che un o una astronauta riceverebbe è di 1,01 sievert, più di venti volte maggiore di quella annua consentita per legge per chi lavora nell’industria nucleare.                                           Un eccesso di dose di radiazione significa l’aumento di incidenza di varie patologie e un’incrementata probabilità di sviluppare cellule tumorali, per cui una protezione dalla radiazione è un passo essenziale se vogliamo ipotizzare non solo una permanenza, ma anche un semplice viaggio di andata e ritorno da Marte.

(Il Radiation Assessment Detector è lo strumento di Curiosity dedicato allo studio dell'ambiente di radiazione.)

Oltre a ipotizzare una vita marziana sotterranea, per ridurre l’ingresso di radiazioni possiamo scegliere materiali più adatti alla schermatura. Ci sono vari materiali che si potrebbero usare a questo scopo, come il polietilene e alcuni materiali a base di boro e azoto, ma si potrebbe usare anche l’acqua, che in ogni caso gli astronauti dovranno avere, distribuendola in maniera strategica per schermare almeno in parte la radiazione: una soluzione di questo tipo richiede però la presenza di una sorgente di rifornimento continuo per l’oro blu.

L’acqua e il cibo su Marte.

In genere pensiamo a Marte come a un pianeta desertico, simile in qualche modo ai deserti iper-aridi terrestri come il Sahara o l’Atacama. Marte è in realtà molto più arido, molto più inospitale: il vapore acqueo in atmosfera è pochissimo e sulla superficie di Marte non può esistere acqua liquida.

 C’è una buona riserva di ghiaccio nelle calotte polari e al di sotto della superficie dove il ghiaccio è mescolato al terreno in una sorta di permafrost.

 Inoltre il ghiaccio si può trovare anche in alcune regioni particolarmente fredde che, pur non trovandosi ai poli, mantengono una bassa temperatura perché per esempio sempre in ombra.

In un modo o nell’altro quindi su Marte l’acqua, che serve anche per la produzione di carburante, si può ricavare.

Anche tenendo in considerazione sistemi di riciclaggio come quelli della Stazione spaziale internazionale, una base marziana deve necessariamente attenersi al vincolo di trovarsi in un luogo in cui l’acqua è facilmente reperibile.

(Korolev è un cratere nella regione polare nord di Marte ricco di ghiaccio d'acqua).

Per il cibo la questione è un po’ più complessa.

Dei rifornimenti di cibo simile a quello che gli astronauti mangiano sulla Iss potrebbero essere portati dalla Terra, ma una produzione autosufficiente sarebbe comunque necessaria: esclusi gli allevamenti di animali, che richiedono troppe risorse tra acqua, energia e mangime, occorre inventarsi qualche modo di coltivare vegetali.

Tra le coltivazioni più adatte al suolo marziano ci sono gli asparagi e gli spinaci (non le patate come in The Martian) e poi pomodori, funghi, cavoli, aglio e carote.

La coltivazione diretta sul suolo è complicata dalle radiazioni, dalla minore gravità e insolazione marziana, qualcosa che si potrebbe risolvere almeno in parte con delle serre pressurizzate, che però richiederebbero molta energia per funzionare.

Un’alternativa più pratica se le basi fossero sotterranee potrebbero essere le culture idroponiche o, meglio ancora, aeroponiche, ossia in cui l’acqua e i nutrienti sono forniti alle piante tramite nebbia.

 

(In The Martian le piante coltivate sono le patate, ma non sarebbero la coltivazione più adatta al terreno marziano. ).

Un ambiente terrestre su Marte.

Tralasciando ipotesi che, almeno nel breve termine, scavalcano la linea di demarcazione tra scienza e fantasia che riguardano la terra-formazione di Marte, all’interno di una eventuale base marziana sarà necessario ricostruire un ambiente il più possibile simile a quello terrestre.

 La temperatura media su Marte è di 63 gradi sotto lo zero, più bassa della media antartica, e l’escursione termica è fortissima tra la notte e il giorno: se mai costruiremo una base su Marte, la temperatura dovrà necessariamente essere tenuta sotto stretto controllo artificiale.

 

La coltivazione di piante, di per sé, può favorire la produzione di ossigeno a spese dell’anidride carbonica, controbilanciando gli scarti della respirazione umana.

Ma l’atmosfera di Marte è composta al 96 percento da anidride carbonica e l’ossigeno è presente in piccolissima parte.

Per questa ragione, ad esempio, sul rover Perseverance è stato inserito uno strumento, il Mars Oxygen Experiment, che ha l’obiettivo di estrarre dell’ossigeno dall’anidride carbonica marziana, lavorando con l’elettrochimica per separare le molecole di anidride carbonica in monossido di carbonio e in ossigeno. Uno strumento miniaturizzato che poi dovrebbe essere replicato in grande all’interno della base marziana.

Tra gli innumerevoli problemi che resterebbero ancora da nominare c’è per esempio quello della gravità, che su Marte è un terzo di quella terrestre e non sappiamo quali effetti ciò potrebbe avere sul corpo umano nel corso di un soggiorno prolungato.

O c’è quello delle violente tempeste di sabbia, che oscurano il cielo di tutto il pianeta per settimane o mesi e che, ancora una volta, costringerebbero a vivere nel sottosuolo.

Ci sono i pericoli per la psiche di persone costrette a periodi prolungati in un ambiente completamente artificiale.

Ma di fondo, per affrontare tutto ciò tra pericoli, costrizioni e difficoltà, c’è un problema di motivazione: come per l’Antartide o i fondali oceanici, ci sono ottime ragioni per pensare a modi di costruire delle basi scientifiche su Marte, ma per quale ragione dovremmo volere costruire delle vere e proprie città su un pianeta inospitale come Marte?

(Lo vuole fare la Cina per traportarvi i suoi nemici terrestri ! Ndr.).

 

Abitiamo in un mondo d’acqua

è tempo di abbandonare la Terra

e vivere il pianeta Oceano.

Corriere.it- Prof. Simone Regazzoni – (28 giu. 2022)- ci dice :

 

Abitiamo in un mondo d'acqua è tempo di abbandonare la Terra .

Sono le 10 e 39 Utc del 7 dicembre 1972, l’equipaggio dell’Apollo 17 si trova a quarantacinquemila chilometri di distanza dalla Terra, in viaggio verso la Luna

 Il solstizio d’inverno è vicino.

Il nostro pianeta è interamente illuminato dalla luce del Sole che si trova alle spalle degli astronauti. Un membro dell’equipaggio, probabilmente il geologo-astronauta Harrison Schmitt, scatta una foto a colori: ancora non lo sa, ma diventerà una fotografia epocale e uno spartiacque nella storia del pianeta.

 Per la prima volta la nostra dimora cosmica si vede allo specchio e diventa consapevole di ciò che è: una biglia blu, «Blue marble», come venne battezzata la foto.

Si tratta di una vera e propria rivoluzione nella nostra visione del mondo, che appare dominato non più dalla dimensione a noi familiare, quella Terra stabile, salda, sicura a partire da cui ci definiamo come «terrestri», ma dal blu dell’oceano che ricopre più del 70 per cento della superfice del pianeta , rappresenta il 99 per cento dello spazio biologicamente abitabile e ospita l’80 per cento delle specie viventi di cui un terzo restano sconosciute.

La foto scattata dall’Apollo 17 il 7 dicembre 1972 non è soltanto un documento storico della conquista dello spazio. Rappresenta anche l’immagine reale del nostro Pianeta: una biglia blu che ci fa vedere come gli Oceani coprano gran parte del globo: sono il 99 per cento dello spazio biologicamente abitabile. E ci invita a riflettere sul nostro futuro di uomini acquatici.

Solo chi aveva una profonda familiarità con l’oceano, come il baleniere letterato Herman Melville, ha potuto anticipare questa visione scrivendo in Moby-Dick : «Era una limpida giornata d’un azzurro acciaio. I firmamenti dell’aria e del mare a stento si riusciva a distinguerli in quel turchino onni-pervadente».

Ma perché, ci si potrebbe domandare, «Blue marble» è così importante? Perché l’azzurro, il blu, il «turchino onni-pervadente» si riappropriano del pianeta.

Perché da quel momento il pianeta è un po’ meno nostro, una Terra a misura d’uomo e del suo potere territoriale, e assume una sorta di autonomia vivente legata alla dimensione acquorea che ora lo definisce.

Certo, si sapeva già che l’oceano occupava più del 70 per cento della superfice terreste: ma per la prima volta questo numero si fa esperienza concreta, sensibile, consapevolezza carnale che ci spinge, passo- passo, al di là dei limiti del pianeta Terra. Non a caso alla fine degli Anni Settanta, la nuova sensibilità per l’ecologia ha prodotto un ripensamento dell’idea del pianeta, che è stato ribattezzato Gaia per metterne in evidenza la natura di organismo vivente.

(«Oceano, Filosofia del pianeta» di Simone Regazzoni, Ponte alle Grazie, è una riflessione sull’oceano, dai presocratici a Melville «Oceano, Filosofia del pianeta» di Simone Regazzoni, Ponte alle Grazie, è una riflessione sull’oceano, dai presocratici a Melville.)

Immersi nell’idrosfera.

Più recentemente, si è proposto di usare la parola «Terra» come nome proprio per tutti i viventi che hanno un’aria di famiglia perché legati a un’origine comune. Si tratta di passi importanti che tuttavia non colgono fino in fondo la portata ecologica inscritta in un ripensamento oceanico del pianeta. È tempo di prendere atto che il pianeta Terra è un’idea ristretta e antropocentrica di pianeta che ci ha condotti alla crisi ecologica attuale. Per quanto necessari, non sono sufficienti gli sforzi di tipo etico legati ai nostri comportamenti se vogliamo evitare che questa crisi diventi irreversibile. Dobbiamo entrare in un’altra dimensione del mondo e della vita sul pianeta, ripensando così il tutto e la nostra posizione di viventi umani in questo tutto .

È tempo di abbandonare il pianeta Terra per immergerci nel flusso del pianeta oceano. Una mera fantasia per filosofi o scrittori? No, piuttosto un processo in corso di cui prendere consapevolezza.

Che cos’è un pianeta oceano.

Provate a cercare sul sito della Nasa il nostro pianeta. Non troverete il buon vecchio pianeta Terra, ma un “ocean world” o un “ocean planet” e questa spiegazione:

 « La storia degli oceani è la storia della vita. Gli oceani definiscono il nostro pianeta natale, coprendo la maggior parte della superficie terrestre e governando il ciclo dell’acqua che domina la nostra terra e atmosfera ».

La stessa geografia, da diversi anni, ha cominciato a parlare del nostro pianeta come di un «mondo d’acqua» decretando la necessità di una grande inversione nella visione del mondo.

Quello che potrebbe apparire come un semplice cambio di nome è in verità una trasformazione della sostanza stessa delle cose. Che cos’è un pianeta oceano?

Non è semplicemente il riconoscimento della centralità dell’oceano nella regolazione del clima e nel mantenimento della vita sul nostro pianeta. È l’idea che la vita, in tutte le sue forme, si trova immersa nel flusso oceanico che avvolge il tutto in una grande bolla d’acqua che la scienza chiama “idrosfera”.

 

Gli uomini, acquari viventi: le prospettive.

Non solo infatti l’oceano occupa gran parte della superficie terrestre ma è alla base del ciclo dell’acqua o ciclo idrologico che, come abbiamo studiato alle elementari - per poi dimenticarlo in fretta - domina la terra e l’atmosfera.

 Lo spiega benissimo Alok Jha nel suo Libro dell’acqua pubblicato in Italia da Bollati Boringhieri: «L’idrosfera collega in modo profondamente simbiotico il corpo fisico della terra e tutta la vita che la abita. Anzi: dal punto di vista della biologia, gli oceani sono la Terra». La vita tutta, sul nostro pianeta, vive dunque letteralmente immersa nell’oceano. Vivere immersi nel pianeta oceano significa ripensare i viventi non come punti separati su una superficie, ma come esseri in simbiosi in un flusso da cui sono attraversati. Proviamo a rifletterci. Di cosa siamo fatti noi viventi umani? Il principale costituente del nostro corpo è l’acqua e noi siamo parte del ciclo dell’acqua . Siamo acquari viventi e la nostra carne è carne oceanica che condividiamo con il tutto e che mutiamo continuamente. Inoltre se l’origine della vita sul nostro pianeta è nell’oceano, ancora oggi prima di nascere trascorriamo nove mesi di vita in un oceano interiore. Per questo lo psicanalista Sándor Ferenczi poteva scrivere che «la madre è un simbolo e un sostituto parziale dell’oceano».

Ripensare la dimensione simbiotica delle diverse forme di vita.

Gli antichi greci lo sapevano bene: la parola greca kyma significa al contempo “onda” e “feto”.

 Ecco cosa siamo. Siamo acqua che passa attraverso nubi, piante, terra, altri viventi, laghi, fiumi, mari. Siamo intensità di un grande flusso vitale .

 Questo non significa cancellare o ridurre l’importanza delle molteplici forme di vita in un’unica vita, ma ripensare la dimensione simbiotica delle differenti forme di vita, al di là di ogni gerarchia e separazione.

La vita immersa nel pianeta oceano è vita comune. L’idea di rispetto o tutela della natura al di fuori da questa dimensione di simbiosi oceanica rischia di essere affidata alle buone intenzioni morali dei viventi umani che si prendono cura della natura come proprio altro da salvare.

La natura non ha bisogno del paternalismo arrogante dei viventi umani. Siamo noi che dobbiamo andare al di là dei limiti dell’idea di uomo come essere separato ed eccezionale che si erge sovrano sulla superficie della Terra.

La forza che tiene insieme il mondo.

Oltre l’uomo e l’Antropocene c’è la nascita del pianeta oceano. Non si tratta di qualcosa di inedito.

 La parola “oceano” custodisce in sé quest’altra visione del mondo. Oceano, dal greco Okeanós , rinvia a un pensiero antichissimo che ha preso forma tra Oriente e Occidente prima della nascita della filosofia, prima degli stessi poemi omerici in cui Okeanós fa la sua comparsa come divinità arcaica che tiene insieme, con la sua «enorme forza», il mondo.

 Oceano in origine, come ci spiega Aristotele, era un grande fiume «composto di aria e di acqua che scorre in cerchio verso l’alto e verso il basso, in circolo attorno alla terra».

È quella che oggi chiamiamo idrosfera. Siamo davvero alla fine di un’epoca che ha pensato il mondo come pianeta Terra.

Ma non c’è nulla di apocalittico in tutto questo se sappiamo pensare questa fine come nascita di un altro mondo al di là dei limiti della Terra e dell’Antropocene: spazio dei viventi tutti in simbiosi come in un grande grembo materno.

Se guardiamo attentamente la foto “Blue Marble” da cui siamo partiti è questo che possiamo scorgere. Lo aveva visto bene Stanley Kubrick che nel finale di 2001 Odissea nello spazio mette in scena un feto perfettamente sviluppato, con gli occhi aperti, alla deriva nello spazio, racchiuso in un sacco amniotico permeato di luce azzurra.

Il feto guarda il pianeta blu, di cui sembra avere quasi la stessa dimensione, la stessa forma, gli stessi colori. Quel feto chiamato “bambino delle stelle” non è solo la metamorfosi, la morte e la rinascita dell’astronauta David Bowman, ma dell’intero pianeta. È questa nascita che oggi dobbiamo vivere.

Abitiamo in un mondo d’acqua è tempo di abbandonare la Terra e vivere il pianeta Oceano.

( Simone Regazzoni è un filosofo, allievo di Jacques Derrida, autore di diversi saggi e romanzi. Ha insegnato all’Università Cattolica e a Pavia, è docente all’Istituto di ricerca di psicoanalisi applicata e collabora con la Scuola Holden di Torino).

 

 

 

 

“Le non cose” / Byung-Chul Han,

come abbiamo smesso di vivere il reale.

Doppiozero.com -Mauro Portello –(10 Maggio 2022)- ci dice :

                                               

“Mentre tutto trema nel delirio del clima /e brama di uccidere maligna inventa // Rari sono i luoghi in cui resistere”, diceva Andrea Zanzotto non molto tempo fa (Conglomerati, Mondadori, 2009).

Ancora una volta il poeta, poco prima di andarsene, ci avvertiva alla sua maniera ctonia, dicendoci che qui nel mondo che c’è dobbiamo resistere, almeno là dove si può. Certo le grandi crepe con cui il reale contemporaneo sta facendo i conti ne annunciano una qualche trasformazione, ma non è ancora così chiaro contro quali minacce dobbiamo resistere, in difesa di che cosa esattamente? Spesso la riappropriazione della Physis (la primigenia corporeità naturale), a fronte delle incapacità del Nomos (le leggi degli uomini), sembra essere una delle pulsioni dominanti, la forza dell’una sembra prevalere sull’altro.

È proprio analizzando il mondo che c’è che Byung-Chul Han indica nel recupero della naturalità (dopo vedremo meglio) la strada maestra.

Il “Günther Anders del XXI secolo” (Davide Sisto) lo fa da tempo e in modo sempre più convincente. La coerenza delle sue analisi è come se volesse cercare una coerenza nello stesso apparire sulla scena dei fenomeni. È un’analisi seria e come tale pone dei dubbi importanti e proficui.

Con il suo nuovo pamphlet giunge a descrivere una sorta di limite a cui la vita odierna si sta esponendo:

 Come abbiamo smesso di vivere il reale recita l’inquietante sottotitolo di “Le non cose” appena uscito da Einaudi nella traduzione di Simone Aglan- Buttazzi.

Piccola divagazione: l’altro giorno ho visto in uno di quei filmatini sugli animali che girano in rete, che aiutano a capire meglio la questione.

Questi giovani gatti guardavano sullo schermo del PC un cartone di Tom & Jerry che giocavano a biliardo. Seguivano, ma senza impulso a partecipare alla dinamica del cartone, neanche quando è comparso il topo. Erano lontani, senza nemmeno l’odore (il più arcaico dei sensi) le sole immagini artificiali di un gatto e di un topo non bastavano a stimolare un loro intervento, si accontentavano, come dire, di un freddo interesse “intellettuale”.

Va da sé che la loro percezione dei cartoni animati non era realistica, i gatti veri non vedevano il gatto finto, né il topo, ma dei segni in movimento con un sottofondo sonoro.

È una sintesi un po’ grossolana che però, mi pare, aiuta a spiegare la condizione umana del nostro tempo in cui la digitalizzazione ci spinge fuori dal mondo concreto, rendendoci dei segni in movimento senza nemmeno l’odore, appunto, astrazioni quantificate, profili calcolabili. Ego contro Io. Gatti finti contro gatti veri.

Dice Byung-Chul Han: “L’ordine terreno, l’ordine planetario, è costituito da cose che assumono una forma durevole e creano un ambiente stabile, abitabile. […] Oggi all’ordine terreno subentra l’ordine digitale. L’ordine digitale derealizza il mondo informatizzandolo” .

Tutto diventa informazione, bruciando la stabilità delle cose. Siamo dediti alle informazioni e ai dati. La libido abbandona le cose e si rivolge alle non-cose (viene in mente il titolo di un libro di Valentino Zeichen -Ogni cosa / a ogni cosa / ha detto addio).

La conseguenza è l’“infomania”, un vero feticismo per informazioni e dati.

Non solo, le cose stesse diventano infomi nel momento in cui sono presidiate dalla informatizzazione che le trasforma in “agenti che elaborano informazioni”.

Così invece che manipolare le cose “comunichiamo e interagiamo con infomi che a loro volta agiscono e reagiscono”.

La sintesi della nuova ontologia è lo smartphone, l’“entità fredda” che tutti ci accomuna.

E la vita umana, che per Martin Heidegger (costante riferimento di Han) ha come tratto fondamentale il “superamento del cruccio”, viene sussunta in un’intelligenza artificiale che tutto omogeneizza e appiana.

È così che si crea la sensazione (sensazione!) di aver risolto i problemi terreni.

Come se la cosa, che per Heidegger è l’emblema dell’ordine terreno e incarna la vincolatezza, la fatticità dell’umana esistenza , nell’infosfera evaporasse in una sorta di frigidità esistenziale.

È il mondo del “phono sapiens”, più giocatore (homo ludens) che operaio (homo faber).

Si capisce subito quanto tutto questo possa propiziare la solitudine sociale, la vita di ciascuno all’interno della propria bolla “ipersocial”, staccata dalla corporeità dei contatti sociali concreti con tutte le fatali ricadute psichiche.

Lo smartphone “è più che altro un oggetto narcisistico e autistico grazie al quale si percepisce soprattutto sé stessi” .

L’esatto contrario di ciò che per il bambino piccolo, dice l’autore richiamando Donald Winnicott, sono il suo ciuccio o la sua coperta, degli “oggetti transizionali” che gli danno un senso di sicurezza e con i quali si sente meno solo e più protetto, oggetti che in sé non sembrerebbero dare forti stimoli ma che, invece, aiutano il bambino a strutturare la sua attenzione verso la realtà.

Il punto di rottura sta nella natura puramente additiva della digitalizzazione che, al contrario di quella narrativa della memoria umana, si limita a mettere in fila i dati e a conservarli così come sono stati inseriti, senza alcuna elaborazione o trasformazione.

Come nella FOTOGRAFIA di Barthes in “La camera chiara” a cui rinvia Han : la foto viva (della madre morta) che prosegue il suo lavoro sensibile nella mente di chi la vede anche dopo che l’occhio l’ha lasciata, un’immagine che non è semplice studium (percezione dei dati di realtà), ma un generatore di senso attraverso il punctum, cioè l’elemento emotivo “unico” che essa contiene e che produce un racconto, una narrazione, e da fotografia diventa FOTOGRAFIA.

Ben al di là della pura sequenzialità di un selfie fatto di momenti freddi per un eterno presente.

Ma il mondo non sono i dati immagazzinati, che rimangono sempre uguali, morti, incapaci di costruire narrazioni come fa la memoria che è sempre viva e in dialettica con la realtà.

 D’altronde il pensiero stesso è in origine un sentire, dice Heidegger, uno stato d’animo;

il pathos è l’inizio del pensiero, l’intelligenza artificiale è apatica, senza passione . Le dita servono solo a contare, a digitalizzare, appunto. Il pensiero è la mano, ed è analogico, cioè collegato, analogo a.

“Ci stiamo dirigendo – dice Han – verso un’epoca trans- e post- umana in cui la vita altro non è che mero scambio di informazioni. […]

Umano viene da humus, quindi dalla terra.

La digitalizzazione è un passaggio coerente verso l’abolizione dell’humanum.

Probabile che il futuro umano sia già segnato: l’essere umano si distrugge per assolutizzarsi” .

E questo sta avvenendo in un contesto neoliberista in cui l’individuo stesso è il primo artefice del proprio sfruttamento economico. E allora? Allora, prosegue l’autore, bisogna riconquistare la dimensione dell’altro, bisogna tornare ad ascoltare l’altro, uscire dalla bolla egotica e aprirsi e capire che “si vede bene soltanto col cuore.

L’essenziale non lo vedono, gli occhi”, come dice la volpe al Piccolo principe di Saint-Exupéry .

Dunque recuperare la naturalità del silenzio, della capacità di ascolto, della contemplazione, dell’ignoranza come spazio di crescita.

Rifiutare la spazzatura informativa e comunicativa, acustica e visiva delle non-cose ed esercitare quella che Nietzsche chiamava la ‘potenza negativa’ di “non reagire subito a uno stimolo”, una forza che “rende lo spirito in grado di indugiare nel silenzio e nella contemplazione, cioè nella profonda attenzione ”.

Quante assonanze con il “rifiuto sul posto” di Bartleby lo scrivano che Jenny Odell mette al centro della sua riflessione in “Come non fare niente” , libro assai consentaneo a quello di Byung-Chul Han.

La durezza della realtà odierna si sta facendo atrocemente sentire con la guerra in Ucraina.

 Il bagno di immagini e resoconti (personalmente mi rifiuto di entrare nella discussione “è vero, non è vero” su cui si sta frantumando irrimediabilmente il buonsenso di troppi, come se la guerra delle propagande non fosse già in sé un orrore) ci costringe rapidamente a rivedere il nostro status di mondo in (relativa) pace.

Con una pandemia ancora in corso.

 Scelga ognuno il termine che gli è più congeniale: shock, trauma, frattura, sisma… Forse tutto ciò effettivamente ci sta dicendo che abbiamo bisogno di riattivare la Physis, con il suo “potere autonomo” di discernere per poter riprovare con il Nomos.

Il discorso, tuttavia, è lungo e complesso: che cosa è (diventata) la corporeità, la naturalità, anzi le naturalità con cui abbiamo a che fare? Pensiamo ad esempio alla profonda trasformazione della cosiddetta “funzione alfa”, cioè la capacità che la mente ha di elaborare gli elementi dell’esperienza mentale non ancora comprensibili e che diventano fonte di grande tensione (vedi Marco Nicastro, “Le nuove tecnologie ci rubano la mente”. Uno sguardo a partire da Wilfred Bion).

 La dematerializzazione può fornirci una ri-materializzazione?

Se gli “odori” sono quelli che vediamo nella gastronomia televisiva, a quale Physis dovremmo rivolgerci per rivedere il Nomos?              

“Rari sono i luoghi in cui resistere”…

 

 

 

COLAO VA GIU’ PIATTO :

controllo cinese sugli italiani.

Laverita.info -Claudio Antonelli- (12-7-2022)- ci dice :

 

Silenzio sulle inquietanti affermazioni del Titolare della “Transizione Digitale”.

Se qualche partito  o un bel numero di cittadini non ci metteranno la testa  cercando di intervenire, arriveremo ad avere  un Paese del tutto controllato dallo Stato  e ci toccherà pure  offrire  al ministro Vittorio Colao un prosecco.

Lui festeggerà  per aver “contribuito a costruire un bell’impianto di lavoro e di vita collettiva , un sistema che funziona.

“Da Draghi al Dragone”.

Colao lancia lo Stato digitale cinese : “la tecnologia  domini il sociale” .

(…) Noi berremo per dimenticare il fatto di essere diventati identità digitali e non essere più cittadini in carne e ossa. Pianeti e punti di vista opposti accomunati forse soltanto dal bicchiere di prosecco. Che stando all’intervista rilasciata dal ministro al quotidiano “il Foglio” da cui è tratto l’obiettivo del 2027 con tanto  di brindisi, è certo la macchina statale sarà in grado di tracciare : chi l’ha venduto , a quanto e in compagnia di ... è stato svuotato.

Lo scenario che Colao va delineando sarebbe , infatti , inquietante se fosse descritto dall’amministratore delegato di una grande azienda , è invece pericoloso se a tracciare  le linee guida è l’esponente di un governo in carica .

Ancor più pericoloso se l’esponente  di governo ci spiega che “non dobbiamo avere paura    che la tecnologia domini il sociale , perché essa è un grande aiuto”.  E dice tutto ciò senza scatenare un dibattito sul futuro della nostra democrazia .

Sul ruolo del governo in qualità di piattaforma digitale che eroga diritti e , in quanto tale , non li riconosce in modo costituzionale .

Durante il Covid abbiamo fatto le prime esperienze . Semaforo rosso o semaforo verde. Chi era vaccinato poteva entrare e chi non lo era poteva solo rimanere fuori.

 Eppure ,il senso del green pass e della blockchain sottostante non è assolutamente stato colto dai partiti italiani.

Nessuno , nemmeno nel centro destra , ha voluto aprire il vaso di Pandora e affrontare il concetto di rappresentanza parlamentare e rappresentanza dei diritti in generale in un futuro  dominato dalla pervasività digitale.

Noi ci poniamo tutti questi interrogativi e chi tenta di azzerare il dibattito sul nascere, tacciandolo di “complottismo”, ci tocca rispondere  con i virgolettati dello stesso Colao.

“Ci sono mille modi più semplici per far arrivare al cittadino le cose invece di farlo muovere verso uffici e sottostare al rispetto di orari “, spiega  nel colloquio con” Il Foglio”, lasciando intendere  che l’upgrade del digitale servirà a vivere meglio.

Ci siamo abituati all’idea che per ottenere ciò che ci spetta  in base a regole definite  bisogna presentare la famosa domanda. Ma se lo Stato sa che una persona  è in una specifica  situazione, ha una condizione abilitante, perché dovrebbe essere il  cittadino a chiedere ciò di cui ha diritto invece di vederselo direttamente riconosciuto ? Non faremo più chiedere il bonus celiaci , il bonus mamma : il bonus quel che volete ,con quelle dichiarazioni un po' ridicole in cui una persona prova di essere celiaca o di avere un bambino.

I fascicoli sanitari si possono collegare a quelli delle amministrazioni finanziarie e la partita si chiude ribaltando la logica per cui il cittadino deve chiedere e non si tratta solo di digitalizzare.

Lo Stato cambia e comincia a prendersi cura dei cittadini in quanto titolari di diritti”. Stop e facciamo  la prima valutazione .

Lo Stato italiano dovrebbe prendersi cura dei cittadini ? Che significa ? In fase di Pandemia , lo Stato italiano non è riuscito ad assumere infermieri nemmeno avendo i soldi per farlo .Non è riuscito  a gestire le cure per i malati di Covid e ha vietato ai privati di trovare soluzioni alternative efficaci , e quindi immaginiamo che il senso della frase sia diverso dal suono delle parole .

Temiamo che quel “prendersi cura “voglia dire erogare bonus e aiuti secondo criteri decisi dalla politica per un bene collettivo. E ciò è socialdemocrazia ! Ciò piace solo ai cosiddetti VERI LIBERALI  che fingono di essere tali ma sono soltanto comunisti  che perseguono le finalità del comunismo  tramite le parole chiave  del capitalismo.

Il timore di una tale deriva non è per nulla smorzato  dal prosieguo dell’intervista.

“ Sono tre i passaggi richiesti e cioè che tutti abbiano un cellulare in mano , che ci siano i servizi e ci sia un cloud dove questo sistema gira .

Se saldiamo questi tre passaggi  abbiamo creato un’Italia bellissima e una Europa altrettanto bella. Con tutto il rispetto verso mi nostri grandi partner internazionali, vediamo che  negli Stati Uniti    c’è una società dura  oltre che ,ora, tremendamente divisa al suo interno , e la società cinese è altrettanto dura e molto competitiva: beh , l’Europa ha l’opportunità di creare un modello che può essere molto attraente , un luogo in cui crescere , studiare e lavorare e dove il rapporto tra Stato e cittadino  è fatto di collaborazione ,coesione ,e tutto questo è possibile grazie alla tecnologia digitale.

E qui si impone il secondo stop e la seconda riflessione. Un esempio sui tutti. Il fisco esercita sempre l’inversione dell’onere della prova.

Oggi il contribuente si trova davanti a un giudice tributario o un funzionario. Dibattere è certamente costoso, ma accessibile quasi a chiunque.

In futuro la controparte sarà un algoritmo e dibattere sarà , se non impossibile, infinitamente più oneroso. Per difendersi  serviranno tanti soldi .O come accade in Cina sarà impossibile.

Lascia infatti basiti che un ministro della Repubblica italiana metta sullo stesso piano  il modello USA e quello cinese dove gli Uiguri vengono tracciati grazie al riconoscimento facciale e poi incarcerati.

Non è ammissibile che il Parlamento non chieda conto a Colao delle sue affermazioni.

Passi non chiedere conto del reale calendario di assegnazione  del MEGA BANDO DEL CLOUD ,quisquiglie  rispetto alla triade, come la chiama Colao.

Qui c’è in ballo il nostro futuro .Speriamo che il titolo dell’intervista non sia un lapsus freudiano .

“ E non farete  più domande “ recita facendo riferimento a quelle in carta bollata.

Ma a unire i puntini  viene  da pensare l’allusione sia ad altro: eliminare la possibilità di porre alcun tipo di interrogativi.

( Ed è proprio quello che avviene oggi in Cina .Ndr.).

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