IL FUTURO DEL MONDO IN CUI DOBBIAMO VIVERE.
IL FUTURO DEL MONDO IN CUI DOBBIAMO VIVERE.
TECNOLOGIA-Colpo
di stato digitale.
Internazionale.it-
Shoshana
Zuboff- The New York Times USA-(8 luglio 2022)-
Vent’anni
fa il governo degli Stati Uniti ha lasciato aperta la porta della democrazia,
invitando le aziende tecnologiche della California a entrare.
Ha
anche acceso un bel fuoco nel caminetto per dare il benvenuto. Negli anni seguenti in quelle stanze
si è fatta strada una società della sorveglianza: una visione sociale nata
dalle esigenze distinte ma reciproche delle agenzie d’intelligence e delle
aziende private di internet, entrambe incantate dal sogno di una raccolta
totale delle informazioni.
Vent’anni
dopo le fiamme sono dappertutto, e il 6 gennaio 2021, quando i sostenitori di
Donald Trump hanno preso d’assalto il congresso degli Stati Uniti, l’incendio
ha minacciato di abbattere la democrazia stessa.
Per
quarantadue anni ho studiato il modo in cui le tecnologie digitali sono
cresciute fino a diventare una forza economica che guida la nostra
trasformazione in una civiltà dell’informazione. Negli ultimi due decenni ho
osservato le conseguenze di questa imprevista alleanza politico-economica,
assistendo alla mutazione di quelle giovani aziende in imperi della
sorveglianza alimentati da sistemi globali di monitoraggio, analisi,
personalizzazione e previsione dei comportamenti che ho chiamato capitalismo
della sorveglianza.
Forti delle loro capacità di sorveglianza e spinti
dalla necessità di accumulare profitti, i nuovi imperi hanno architettato un
colpo di stato cognitivo, basato su una concentrazione senza precedenti di
informazioni sul nostro conto e sul potere incontrollato che deriva da questo
patrimonio di conoscenza.
Nella
civiltà dell’informazione le società vengono definite da una serie di questioni
relative alla conoscenza: il modo in cui viene distribuita, l’autorità che governa la
sua distribuzione e il potere che protegge quell’autorità.
Chi è
che sa? Chi è che decide chi sa? Chi è che decide chi decide chi sa?
Ora i
capitalisti della sorveglianza hanno in mano la risposta a ciascuna di queste
domande, anche se non li abbiamo mai eletti per governarci.
Ed è
questa l’essenza del colpo di stato cognitivo. Queste persone rivendicano l’autorità
di decidere chi detiene la conoscenza accampando diritti di proprietà sulle nostre
informazioni personali, e difendono questa autorità con il potere di
controllare sistemi e infrastrutture informativi di cruciale importanza.
Nei
suoi aspetti più profondi e terribili, il tentativo di colpo di stato politico
messo in atto da Trump dopo le elezioni del 2020 cavalca l’onda di questo golpe
nascosto, portato avanti negli ultimi vent’anni dagli “anti-social network” che
un tempo consideravamo delle forze di liberazione.
Quando si è insediato alla presidenza, il 20 gennaio
2021, Joe Biden ha detto che “la democrazia ha vinto” e ha promesso di ridare
al valore della verità il posto che gli spetta nella società democratica. Ma la democrazia e la verità
resteranno comunque esposte a un gravissimo pericolo finché non sventeremo
l’altro colpo di stato, quello del capitalismo della sorveglianza.
Questo
golpe si articola in quattro fasi.
La
prima è
l’appropriazione dei diritti cognitivi, che pone le basi per tutto quello che
viene dopo.
Il
capitalismo della sorveglianza nasce nel momento in cui le aziende scoprono di
poter accampare diritti sulla vita delle persone e di poterla usare come
materia prima gratuita da cui estrarre dati comportamentali, che diventano una
loro proprietà privata.
La
seconda fase è segnata dal rapidissimo aumento della disuguaglianza cognitiva, cioè
della differenza tra ciò che posso sapere io e ciò che si può sapere di me.
Nella
terza fase,
quella in cui ci troviamo oggi, assistiamo all’avvento del caos cognitivo, causato dall’amplificazione
algoritmica finalizzata al profitto e dalla diffusione accuratamente
personalizzata di informazioni false, in gran parte prodotte da strategie di
disinformazione coordinate. Tutto questo ha conseguenze sul mondo reale, perché
frammenta la realtà condivisa, avvelena il discorso sociale, paralizza la
politica democratica e a volte produce violenza e morte.
Nella
quarta fase l’egemonia cognitiva diventa istituzionale. L’autorità democratica è scavalcata
da un’autorità computazionale esercitata dal capitale privato della
sorveglianza.
Le
macchine sanno e i sistemi decidono, diretti e sostenuti dall’autorità
illegittima e dal potere antidemocratico del capitale privato della
sorveglianza.
Ciascuna
di queste fasi si fonda sulla precedente. Il caos cognitivo prepara il terreno
per l’egemonia cognitiva indebolendo la società democratica, come si è visto
chiaramente nell’insurrezione del 6 gennaio.
Viviamo
negli anni formativi della civiltà dell’informazione.
La
nostra epoca è paragonabile alla prima fase dell’industrializzazione, quando i
padroni avevano tutto il potere e i loro diritti di proprietà venivano prima di
qualunque altra cosa.
L’intollerabile verità della situazione
attuale è che finora gli Stati Uniti e la maggior parte delle altre democrazie
liberali hanno ceduto la proprietà e la gestione del mondo digitale al capitale
privato della sorveglianza, che ormai si contende con la democrazia i diritti e
i princìpi fondamentali che definiranno il nostro ordine sociale in questo
secolo.
L’ultimo
anno – segnato dalla pandemia e dall’autoritarismo di Trump – ha aggravato gli
effetti del colpo di stato cognitivo, mettendo in luce il potenziale omicida
degli anti-social network, anche prima dell’assalto al congresso del 6 gennaio.
Forse
una maggiore consapevolezza di questo golpe in atto e della minaccia che
rappresenta per le società democratiche ci costringerà finalmente a fare i
conti con la scomoda verità che incombe su di noi da vent’anni.
Possiamo
vivere in democrazia o possiamo vivere nella società della sorveglianza, non in
entrambi i posti contemporaneamente.
Una
società della sorveglianza democratica è impossibile a livello sia esistenziale
sia politico. Per essere chiari: al centro di questa battaglia c’è l’anima della nostra
civiltà dell’informazione. Diamo il benvenuto al prossimo decennio.
L’eccezione
della sorveglianza.
La
tragedia dell’11 settembre 2001 ha trasformato il dibattito a Washington,
spostando l’attenzione dalla necessità di approvare leggi in difesa della
privacy all’ossessione per la raccolta totale delle informazioni.
Le
autorità si sono interessate alle tecnologie della sorveglianza che stavano
prendendo forma nella Silicon Valley. Come ha osservato Jack Balkin,
professore di giurisprudenza a Yale, la comunità dell’intelligence avrebbe
dovuto “affidarsi al settore privato per raccogliere e generare informazioni”
in modo da aggirare vincoli costituzionali, legali o normativi: questioni che
oggi sono d’importanza fondamentale.
Nel
2013 il direttore della sezione tecnologica della Cia spiegava che la missione
del suo ufficio era “raccogliere tutto e conservarlo per sempre”, e riconosceva
il ruolo delle grandi aziende del web – tra cui Google, Facebook, YouTube e
Twitter, oltre alle compagnie telefoniche – nel renderla possibile.
Le radici sovversive del capitalismo della
sorveglianza sono inscritte in questa tacita dottrina dell’eccezionalismo della
sorveglianza, con cui si aggira il controllo democratico e sostanzialmente si concede
alle nuove multinazionali della rete il permesso di carpire l’esperienza umana
e rappresentarla sotto forma di dati proprietari .(…).
CONTRO
IL POTERE FOSSILE.
Chi fa
da megafono ai negazionisti climatici.
Internazionale.it-Stella
Levantesi- giornalista-(6 luglio 2022)- ci dice :
(Trentino-Alto
Adige, 4 luglio 2022. Il ghiacciaio della Marmolada dopo il crollo).
Il Po
è ai livelli più bassi degli ultimi settant’anni e la siccità, già
preannunciata lo scorso inverno dall’assenza di piogge per quasi cento giorni,
sta mettendo a rischio la risorsa più preziosa che abbiamo: l’acqua. La scienza
del clima afferma che il cambiamento climatico può aumentare le probabilità e
l’intensità dei fenomeni siccitosi. D’altronde non bisogna essere scienziati
per unire i puntini: un mondo più caldo aumenterà la probabilità di siccità in
alcune aree. E non solo di siccità. Le morti sulla Marmolada, il 3 luglio, sono
conseguenza anche delle elevate temperature, ha affermato il climatologo Luca
Mercalli: lo zero termico sopra i quattromila metri e la fusione accelerata del
ghiacciaio hanno causato l’accumulo di acqua dentro un crepaccio favorendo il
distacco.
Eppure,
c’è chi ancora fa negazionismo climatico.
Nel
panorama anglosassone a fare da cassa di risonanza a queste teorie ormai sono
rimasti in pochi.
Si tratta soprattutto di piattaforme conservatrici o
ultraconservatrici come Fox News, il che non è una novità. Quando
sono altre piattaforme, meno schierate politicamente rispetto a Fox News, a
fare disinformazione sulla crisi climatica, questo avviene attraverso le prospettive
di compagnie o lobby fossili con interessi economici e politici, più che un
negazionismo assoluto sul clima.
Questo
tipo di contenuti suscita reazioni molto diffuse, soprattutto tra coloro che
sono a conoscenza della scienza del clima e della necessità urgente di agire
per ridurre le emissioni.
Poche
settimane fa, per esempio, sul canale Cnbc è andato in onda un contenuto su
Exxon Mobil che ha promosso il business della compagnia attraverso un’azione
combinata di green-washing (cioè la strategia di comunicazione di alcune
aziende che presentano come ecosostenibili le loro attività, cercando di
occultarne l’impatto ambientale negativo) e fake news, ha denunciato l’autrice
ed esperta di comunicazione sul clima Genevieve Guenther.
“Quanto
vi ha pagato la Exxon?”, ha twittato Guenther.
Molti
esperti, tra cui Robert Brulle, un noto sociologo che studia il negazionismo
climatico da decenni, hanno reagito in modo simile.
“Questo è un classico esempio di propaganda
dei combustibili fossili. Ha tutte le caratteristiche della propaganda
fuorviante: presentazione selettiva dei fatti, mancanza di prospettive critiche
e presentazione unilaterale della prospettiva della Exxon Mobil”, ha affermato
Brulle.
In
Italia il pubblico riceve messaggi contraddittori che alimentano la prospettiva
negazionista.
In
Italia invece il negazionismo climatico è diffuso anche su piattaforme, canali
e trasmissioni che vengono considerati in qualche modo autorevoli, e non solo
da testate politicamente schierate a destra come succede nello scenario
mediatico anglosassone.
Il
risultato è che il pubblico riceve messaggi contraddittori che alimentano la
prospettiva negazionista che, a sua volta, fa leva sugli stessi elementi ormai
da decenni: instillare il dubbio sulla scienza del clima, creare confusione il più
possibile e fare propaganda politica.
Solo
poche settimane fa, in prima serata, durante il programma televisivo Carta
bianca, è stato dato spazio e voce a posizioni negazioniste.
Nell’ultima
settimana di giugno sul Mattino sono stati pubblicati due interventi. In uno
l’intervistato ha potuto affermare, tra le altre cose, che i dati dell’Onu sono
“sbagliati ed esageratamente caldi in partenza”, che le informazioni
scientifiche sono “diffuse in maniera propagandistica” e che la Terra è calda
per via di “cicli millenari e molte speculazioni”. Nell’altra intervista si affermava
che “il
caldo record non è una novità” ed è condizionato dall‘“influenza dei cicli
solari”.
Che il
cambiamento climatico sia colpa del Sole è una teoria che risale agli anni
ottanta e novanta, ed è già stata dimostrata come falsa e rifiutata dall’Intergovernmental panel on
climate change dell’Onu.
In un
altro articolo pubblicato su Il Foglio, il 24 giugno, si è affermato “altro che siccità, la
vera crisi dell’acqua in Italia è ideologica”.
Il 5
luglio, sulla prima pagina del Giornale ancora si legge il titolo, a proposito
delle morti sulla Marmolada, “Gli sciacalli dei ghiacci” e la frase “i gretini
strumentalizzano la strage”.
Il
capovolgimento è una tecnica usata spesso dai negazionisti: accusano “l’altra
parte” di un atteggiamento che loro per primi mettono in campo – in questo
caso, la strumentalizzazione.
Anche
l’anno scorso, quando il ciclone detto medicane (dalla fusione dei termini
inglesi mediterranean hurricane, “uragano mediterraneo”) ha colpito la Sicilia,
un negazionista climatico italiano aveva potuto affermare in tv che l’attività
umana “non ha nulla a che fare” con il cambiamento climatico.
Il negazionismo puntella ancora i contenuti di
molte piattaforme mediatiche in Italia, in varie forme.
E, se
non è aperto negazionismo, è minimizzazione: “la situazione non è poi così grave”,
“fate allarmismo”, “ci adatteremo”.
Quest’ultima
argomentazione sta diventando il mantra di chi, avendo capito che sostenere che
“il
cambiamento climatico non esiste” o che “la crisi climatica non è
responsabilità antropica” è sempre più indifendibile, utilizza la capacità di
adattamento per sminuire gli impatti della crisi climatica.
Inoltre
questa argomentazione implica che l’impegno per attenuare gli effetti del
cambiamento climatico è inutile e inquadra l’adattamento come “l’unica risposta
possibile”, sostengono i ricercatori di “Discourses of climate delay”, un’analisi che prende in esame i
ragionamenti utilizzati da chi ha interesse a procrastinare e rallentare
l’azione sul clima.
(Sydney,
Australia, 5 luglio 2022. Un’area residenziale colpita dalle alluvioni. - Loren
Elliott, Reuters/ContrastoSydney, Australia, 5 luglio 2022. Un’area
residenziale colpita dalle alluvioni). (Loren Elliott, Reuters/Contrasto).
Queste
argomentazioni, promosse da alcune testate e trasmissioni, danno al pubblico la
falsa percezione che ci sia incertezza sull’esistenza e sulla gravità della
crisi climatica, e che il dibattito scientifico sul cambiamento climatico sia
ancora in corso.
Il
“falso equilibrio” dell’informazione non fa altro che reiterare e alimentare
l’idea fuorviante che il cambiamento climatico, anche se esiste, non è poi così
grave, che non riguarda l’Italia, che gli eventi meteorologici estremi e i fenomeni
causati dall’aumento della temperatura come quelli che si stanno verificando in
tutta la penisola e in molte altre aree del mondo non vi hanno nulla a che
fare.
Ma
come scrive l’ex presidente di Legambiente Roberto Della Seta su Twitter, il problema è alimentato anche dai
“grandi media” che “commentano allarmati” gli effetti dei cambiamenti climatici
e poi
“ricominciano a dare voce” a chi vuole procrastinare sulla decarbonizzazione.
Il
meccanismo è simile a quello di una cassa di risonanza: alcuni mezzi di comunicazione,
promuovendo argomentazioni e prospettive negazioniste che non potrebbero essere
più lontane dalla scienza e dai fatti, dando voce a chi offre argomentazioni
per rallentare l’azione sul clima fungono da camera dell’eco e, nei casi più
estremi, offrono una rappresentazione errata e fuorviante della realtà.
La
differenza tra l’aperto negazionismo di alcuni individui e la propaganda e il green-washing dei
combustibili fossili è che la seconda è più insidiosa e più difficile da
riconoscere ma, in mancanza di dati sul cambiamento climatico, la prima può
essere altrettanto dannosa.
È
sempre più evidente che, in molti casi, anche quando si parla della crisi
climatica come fattore che contribuisce a un fenomeno come la siccità, manca
l’anello di collegamento fondamentale: il legame tra il cambiamento
climatico e la sua causa principale, le emissioni prodotte dai combustibili
fossili, dall’industria agroalimentare e da altri settori inquinanti. Il tema energetico, in molti casi,
appare irrilevante se si parla di siccità o di razionamento dell’acqua.
Ma
come si può costruire un dibattito costruttivo sulla crisi climatica e, di
conseguenza, delle azioni concrete se le cause del problema vengono
costantemente sminuite o ignorate?
Il
cambiamento climatico è un moltiplicatore di minacce, quindi va a stratificarsi
su vulnerabilità preesistenti e discriminazione strutturali.
Se la
crisi climatica viene comunicata a compartimenti stagni, come può il pubblico
comprenderne le implicazioni reali?
Se non
si rendono chiari i collegamenti di causa-effetto come possono una cittadina o
un cittadino comprendere che l’aumento dei prezzi del gas o dell’elettricità,
per esempio, sono strettamente legati a come si comportano le aziende
energetiche e di combustibili fossili che, a loro volta, sono strettamente
legate alle emissioni e, quindi, al riscaldamento globale?
Se si continua a promuovere il negazionismo e
l’ostruzione all’azione per il clima come può un elettorato comprendere quanto
è cruciale scegliere una candidata o un candidato politico che agisca
concretamente e urgentemente per il clima?
Ecco
il nocciolo della questione. Confondere le persone e distrarle dalla realtà delle cose le
rende molto più vulnerabili alla disinformazione e al green-washing. E questo
fa gioco alle aziende di combustibili fossili e a chi ha interesse a rallentare
la transizione energetica ed ecologica. Se parte della disinformazione è
conseguenza di superficialità e negligenza, un’altra parte è intenzionale e
strategica, per ragioni ideologiche, economiche e politiche. Queste fanno leva
anche su un’altra questione fondamentale che ha a che fare con dinamiche cognitive,
più che comunicative o politiche: c’è un meccanismo di rimozione del la
minaccia del cambiamento climatico, la quale non viene percepita come qualcosa
di imminente e che avrà un effetto diffuso (anzi, che ha già un effetto
diffuso), ma come un problema quasi astratto, lontano nel tempo e nello spazio,
e che non ci toccherà mai da vicino.
Il
tema viene quindi spesso trattato e percepito come un problema non problema, un
fenomeno che esiste, ma viene dopo altri più importanti. Il risultato di questa
dinamica è che ignora un fatto fondamentale: il cambiamento climatico è un
moltiplicatore di minacce, quindi va a stratificarsi su vulnerabilità
preesistenti e discriminazione strutturali che possono avere a che fare con la
salute, la condizione socioeconomica o le disuguaglianze di genere, per esempio.
Lo
spiegano bene Abbie Veitch e Khalil Shahyd nei loro articoli pubblicati più di
due mesi fa, prima della decisione della corte suprema americana di abolire il
diritto all’aborto: la crisi climatica è anche un problema di giustizia
riproduttiva, la giustizia riproduttiva è giustizia climatica.
Sottolineare
tutti questi nessi significa, innanzitutto, fare luce su più di cinquant’anni
di scienza del clima che, volendo semplificare al massimo, si potrebbero riassumere
così:
più
emissioni = aumento della temperatura globale = aumento di frequenza e
intensità di eventi meteorologici estremi. Il continuo procrastinare della
politica e delle aziende ci ha già catapultati nel mezzo della crisi climatica
e ci sta portando verso scenari di aumento della temperatura con conseguenze
estremamente serie per gli ecosistemi, la vita e la salute degli esseri umani.
Ci
sono continui dati a supporto di questo.
Tra i
più recenti, un nuovo rapporto di oltre quaranta gruppi, pubblicato da Oil
change international, ha rilevato che le principali compagnie petrolifere e del
gas statunitensi ed europee, inclusa l’italiana Eni, “non riescono ancora a
soddisfare il minimo indispensabile per allinearsi all’Accordo di Parigi”. Le promesse e gli impegni di
queste aziende sono tutt’altro che credibili, conclude il rapporto, visto che stanno pianificando più di
duecento progetti di espansione dei combustibili fossili da qui al 2025.
Ma
finché l’informazione sulla crisi climatica non viene fatta in maniera accurata
e costruttiva, le piattaforme mediatiche condivideranno parte del peso di
questa responsabilità. E con questa, deve esserci anche la scelta di distanziarsi il
più possibile da chi ha inquinato, continua a inquinare e fa di tutto per
nasconderlo. Questo deve significare anche agire in maniera “scomoda”, come
rifiutare finanziamenti o sponsorizzazioni.
All’opinione
pubblica bisognerebbe fornire innanzitutto le basi della crisi climatica:
cos’è, da cosa è causata e perché è un problema. Una volta chiarite le basi, che
possono sembrare banali ma in moltissimi casi ancora mancano, sarebbe utile
fornire gli strumenti per riconoscere la disinformazione e le strategie
negazioniste o di ostruzione all’azione per il clima, in modo tale da poter
distinguere un’informazione fattuale da una fabbricata e fuorviante. Infine, è
necessario approfondire gli effetti della crisi climatica, non solo in termini
fisici ma anche nelle interconnessioni con l’aspetto sociale, la politica,
l’economia e così via.
Tutto
questo va fatto tenendo a mente soprattutto un elemento: si deve fare affidamento su fonti
autorevoli, su scienziati del clima, su esperti di comunicazione, su scienziati
sociali con esperienza sul tema e su cittadini, lavoratori, attivisti che per
primi stanno subendo gli effetti della crisi climatica, non su negazionisti che
nel 2022 ancora promuovono idee come “è colpa del Sole” o su rappresentanti
delle compagnie fossili che inquinano e nascondono la propria responsabilità
nella crisi climatica da decenni.
La
domanda non può più essere se e quando arriverà il cambiamento climatico. È già
qui ed è già grave. Quanto ancora andranno avanti alcune piattaforme mediatiche a
ospitare negazionisti climatici? Quanto ancora si continuerà a ignorare la
responsabilità e l’azione di chi ha contribuito a causare la crisi climatica?
Quanto tempo ancora verrà perso?
(EMERGENZA CLIMATICA).
ECONOMIA
E DISUGUAGLIANZE.
Superare
il gender gap sul lavoro:
cosa
può fare lo stato, cosa fanno le aziende.
Agendadigitale.eu-
Marie Chabanon- (08 Lug. 2022)- ci dice:
(CTO
Data4 Group).
Cultura
E Società Digitali.
L’ICT
è un settore in crescita, ma spesso non per le donne: come favorire
l’occupazione femminile in azienda, gli accordi per l’uguaglianza di genere,
cosa può fare lo Stato, perché investire in formazione e cambiamento culturale
(gender
gap - diversity - imprese al femminile).
Secondo
un rapporto di The World Economic Forum, l’84% dei datori di lavoro sta
accelerando i propri investimenti nel campo della digitalizzazione e
automazione del lavoro, alimentando una tendenza all’avanguardia che nasconde
tuttavia una realtà complessa.
Nonostante
l’esigenza crescente da parte delle imprese di reclutare profili tecnici,
ancora oggi le discipline STEM (Science, Technology, Engineering and
Mathematics) sono teatro di pregiudizi e stereotipizzazioni che precludono o non
incoraggiano le donne a intraprendere la carriera in campo scientifico.
Come
invertire questo divario?
Accordi per l’uguaglianza: “Towards Zero
gender gap” e “Women4Climate”.
In
particolare, il settore dei data center, e più in generale il settore ICT,
soffre di una carenza di talenti in un momento storico in cui emerge, più forte
che mai, la necessità di assumere per far fronte alle sfide di uno sviluppo
economico sostenibile e responsabile. Ma per una donna, accedere a questo
tipo di posizioni risulta ancora ostico.
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cambia il Retail tra ecommerce, piccoli rivenditori e la spinta al cashless.
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aziendale.
In
Italia, nel 2021, solo il 16,1% dei profili operanti nelle discipline STEM sono
donne, anche se la situazione sta iniziando gradualmente a cambiare. Le
statistiche Eurostat, infatti, sembrano dare qualche segnale incoraggiante: nel
2021, in Europa, quasi 74 milioni di persone sono occupate nel settore
scientifico e tecnologico, con un aumento del 3% rispetto al 2020 e del 21% rispetto
al 2011.
Le
aziende leader del settore ICT hanno una grande responsabilità nel guidare
questo cambiamento. L’azienda per cui lavoro, Data4, supporta fortemente la
parità di genere nei ruoli chiave: quasi la metà delle posizioni senior della
nostra organizzazione è occupato da donne.
Nel
2021, in occasione del G20 Women’s Forum di Milano, l’azienda ha sottoscritto gli
impegni del documento “Towards Zero Gender Gap”, in base al quale, come
organizzazione, adotteremo misure per assumere e promuovere le donne in modo
equo sulla base delle conoscenze e dell’esperienza.
Il
nostro Presidente ha firmato un impegno per l’uguaglianza tra donne e uomini,
che comprende un altro aspetto molto importante, una retribuzione equa e
paritaria.
È
importante capire che le donne giocheranno sempre più un ruolo di primo piano
nel settore digitale: per questo, sono anche firmataria del Women’s Forum Climate Commitment
Charter, “Women4Climate”, che promuove le donne in posizioni di leadership, e alla
guida di progetti a favore dell’ambiente.
ICT e
gender gap: cosa può fare lo Stato.
Ma le
aziende, da sole, non bastano. Oggi, un altro aspetto fondamentale per promuovere il
cambiamento in Italia è la collaborazione tra pubblico e privato. Dobbiamo cambiare la visione della società
per consentire alle donne di avere un impatto sull’ambiente che ci circonda, e
per questo abbiamo bisogno della loro presenza e del loro impegno in posizioni
di rilievo, sia nelle istituzioni pubbliche che in quelle private.
In
quest’ottica, una soluzione importante è quella di perseguire una politica di
parità tra donne e uomini: raggiungere il 20% di occupazione femminile nelle posizioni
dirigenziali è essenziale per eliminare il cosiddetto “soffitto di cristallo”.
Lo
Stato dovrebbe anche fornire adeguate tutele alle donne che vogliono affermarsi
in più ruoli diversi nella vita, per cui sono necessarie norme giuridiche per
proteggere le madri-lavoratrici: servono interventi atti a tutelare il posto di
lavoro delle donne che scelgono di vivere l’esperienza della maternità e che
vanno supportate con l’attuazione di programmi dedicati che permettano di
continuare a lavorare rafforzando la fiducia nel fatto che ricoprire posizioni
di responsabilità non può e non deve escludere lo sviluppo legittimo della sfera
personale.
Per
questo motivo sono molto soddisfatta nel leggere notizie come l’ultimo accordo
europeo sulla direttiva relativa alle donne nei consigli di amministrazione
delle società quotate: secondo la bozza, a partire dalla fine di giugno 2026,
almeno il 40% dei membri del consiglio di amministrazione sarà costituito da
donne. Queste
iniziative ci danno modo di credere che la situazione delle donne nella società
moderna cambierà.
ICT e
gender gap: investire in formazione e cambiamento culturale.
In
quest’ottica, un aspetto che non può passare inosservato, riguarda anche la
formazione: le attività didattiche e la creazione di progetti che aumentino
l’interesse degli studenti per la tecnologia sono fondamentali. Il problema, infatti, non sta
sempre e solo nel non avere accesso a posizioni di responsabilità nelle aziende
tecnologiche, ma nel fatto che solitamente le donne devono investire più tempo e sforzi
per arrivarci.
In
Italia, così come in molti altri Paesi d’Europa, è ancora considerato naturale
che il CEO, il CTO o il CIO dell’azienda sia un uomo. Questi pregiudizi sono presenti tanto
nel mondo del lavoro quanto all’interno delle famiglie e nelle scuole. È questa forma mentis che genera un
ostacolo prima di tutto culturale al raggiungimento delle ambizioni personali
di molte donne che finiscono per essere sfiduciate rispetto alle prospettive
professionali che il mercato offre.
Uno
dei miei obiettivi personali, oltre che professionali, è quindi di far
conoscere alle giovani donne tutte le possibilità formative a loro
disposizione, dai programmi accademici alle borse di studio e stage, alle
iniziative di alternanza scuola-lavoro, che sono oggi più che mai necessarie.
Conclusioni.
Il
mercato sta finalmente prendendo consapevolezza delle sfide che le giovani
donne devono affrontare nelle professioni tecniche ed è fondamentale che il
mondo dell’istruzione stia al passo, combattendo già durante gli anni della
formazione l’approccio stereotipato alle professioni, che dovrebbero essere
aperte a tutte le persone di talento e interessate, indipendentemente dal loro
genere.
Per
quanto mi riguarda, posso dire di conoscere bene il settore dei data center: so che in futuro crescerà ancora e
genererà posti di lavoro interessanti. In quanto pilastri della trasformazione
digitale, società
leader come Data4 che operano nel settore, presentano oggi molte opportunità di
sviluppo: se coinvolgiamo le donne nel processo di cambiamento fin dall’inizio,
potremo procedere verso un mondo più equo, di cui anche l’industria ICT potrà
beneficiare.
La
nuova mobilità a Milano tra sharing,
tpl e
auto meno inquinanti.
Parla
l’assessora Arianna Censi.
Lifegate.it-
Dario Zerbi- (9 -7-2022)- ci dice :
Milano
è tra le città italiane più virtuose sul fronte della mobilità sostenibile .
Intervista
all’assessora alla mobilità del comune: “Puntiamo forte sul trasporto pubblico,
pronti incentivi per l’acquisto di veicoli ibridi ed elettrici”.
Il
futuro della mobilità a Milano sarà all’insegna del trasporto pubblico locale.
Un sistema che sarà ulteriormente rafforzato dalla linea 6 della metropolitana
ma che dovrà necessariamente “dialogare” in maniera più efficace con le
ferrovie regionali.
Ne è convinta
l’assessora alla mobilità del comune, Arianna Censi, per la quale la riduzione
del numero delle auto circolanti dovrà andare di pari passo con l’aumento dei
veicoli meno inquinanti: per questo motivo è pronto un incentivo – legato al
reddito – che si andrà a sommare a quello statale. E sono in arrivo nuove
misure per favorire la mobilità condivisa, dalle bici ai monopattini in
sharing, fino al car pooling.
Con
l’obiettivo di rendere la città “carbon neutral” entro il 2050, alla fine del
2021 il Comune di Milano approvò il Piano Aria Clima.
Tra gli obiettivi ci sono il dimezzamento
della mobilità personale motorizzata e della superficie dei parcheggi su strada
entro il 2030.
Cosa risponde a chi sostiene che il Piano andrebbe
rivisto, dal momento che si basa su dati del 2017?
Il
Piano Aria Clima è frutto di un aggiornamento che tiene conto degli ultimi dati
dell’Organizzazione mondiale della sanità sulla condizione di salute dei
cittadini e, in particolare, sui danni legati agli effetti del cambiamento
climatico. Posto che dal 2017 ad oggi la situazione, purtroppo, non è cambiata,
il vero punto è che il quadro peggiora costantemente e l’arco temporale per
intervenire si assottiglia. Oltretutto le situazioni più critiche emergono
proprio dove è maggiore il concentramento di persone; e una città come Milano,
da questo punto di vista, non è favorita nemmeno dalle condizioni climatiche. Di conseguenza dobbiamo muoverci bene
e rapidamente, condividendo con i cittadini le ragioni di alcune misure, gli
obiettivi e le strategie messe in campo per centrarli.
Come
Amburgo sta immaginando una nuova mobilità (a guida autonoma).
A
proposito di riduzione della mobilità motorizzata, come vi state muovendo?
L’obiettivo
resta quello di una riduzione complessiva del numero di auto circolanti,
favorendo al contempo lo sviluppo della mobilità ibrida, elettrica e nel
prossimo futuro anche a idrogeno. Vogliamo poi aumentare lo spazio pubblico sulle
carreggiate riducendo i parcheggi e spingere con ancora maggior decisione su bici,
monopattini, sharing e pooling. Su quest’ultimo punto, in particolare, chi
decide di condividere un mezzo può già usufruire gratuitamente dei parcheggi di
interscambio e in futuro potrà godere di ulteriori vantaggi. In sostanza, fatto salvo il rispetto
delle regole, la nostra idea è di puntare su schemi di premialità più che sulle
sanzioni.
Il
Comune di Milano lancerà un nuovo bando con incentivi alla rottamazione delle
auto più inquinanti, che si sommerà agli incentivi statali e sarà legato
all’Isee?
Nel
bilancio del Comune sono presenti le risorse per erogare questo contributo, che
sarà integrativo rispetto a quello statale. E confermo che la mia idea è di
erogarlo in maniera inversamente proporzionale all’Isee, per favorire la
diffusione di auto ibride ed elettriche anche tra le fasce di popolazione con
minori disponibilità economiche.
C’è
poi il grande tema del trasporto pubblico.
Come
pensate di centrare l’obiettivo di aumentare del 30 per cento gli abbonamenti
al tpl? E quando è importante, in una città come Milano, il “dialogo” con il
sistema ferroviario regionale?
La
premessa necessaria è che Milano ha un ottimo sistema di trasporto pubblico.
Il nodo centrale è appunto la relazione con la
Regione Lombardia e in particolare con Trenord. Questo perché non possiamo pensare
che la metropolitana arrivi ovunque: più ci si allontana dal centro cittadino e
più diminuisce la densità abitativa, meno la metropolitana diventa conveniente
dal punto di vista economico.
E qui entra in gioco il dialogo con il sistema
ferroviario, la cui efficienza deve essere sempre più simile al sistema
cittadino. Penso
che dopo la sanità, il tema della mobilità sia il più importante per migliorare
la qualità di vita delle persone: puntiamo ad aumentare gli abbonamenti al trasporto
pubblico locale attraverso un’operazione di fidelizzazione e stiamo stringendo importanti
convenzioni con i mobility manager delle aziende del territorio.
Aumentando
gli abbonamenti – che, è bene ricordalo, costano meno di un euro al giorno – potremmo
ottenere una serie di effetti benefici a cascata, a partire dalla riduzione
delle auto nelle strade.
Sul
fronte del trasporto pubblico locale, si punta a un aumento degli abbonamenti
del 30 per cento .
Parlando
ancora di tpl, il sindaco Sala ha annunciato che la M6 sarà “l’ultima
metropolitana di Milano”. Come l’avete immaginata?
Per
come l’abbiamo immaginata, la M6 risponderà al completamento della “circle
line”. Servirà
i Municipi 4, 5 e 8 che sono i più scoperti dal punto di vista del trasporto
pubblico veloce; non “taglierà” la città ma sarà una linea di connessione con
le altre cinque e, laddove possibile, con il servizio ferroviario regionale.
Ciò nell’ottica di costruire una rete:
accrescere la possibilità di connessione potenzia la qualità della fruizione di
tutto il sistema nel suo complesso. A proposito di rete, i dati
dimostrano l’importanza di bici e monopattini in sharing come mezzi di raccordo
con il tpl, per completare il famoso “ultimo miglio”: chi li usa, generalmente
è un fruitore stabile del trasporto pubblico.
Così
Torino punta alla neutralità climatica entro il 2030. Parla l’assessora Chiara
Foglietta.
Su
monopattini e bici in sharing, però, non mancano le polemiche relative alla
sicurezza, all’utilizzo improprio degli spazi e all’abbandono.
Posto
che a noi basta un solo incidente o un singolo mezzo abbandonato per far
scattare il campanello di allarme, a Milano la situazione è decisamente
virtuosa rispetto al resto d’Italia e d’Europa, sia dal punto di vista dei
fruitori che dei gestori privati del servizio.
Lato nostro, stiamo facendo il possibile
affinché tutto sia ordinato e disciplinato nel rispetto degli utenti della
strada; con
una delle società che si occupano dei mezzi in sharing, stiamo anche lavorando
a una tecnologia che impedisca sia la circolazione dei mezzi sui marciapiedi,
sia l’abbandono in zone non consentite.
Sempre
più persone scelgono di muoversi in bicicletta, anche nelle grandi città come
Milano .
Quanto
e in che modo la pandemia ha contribuito a modificare le abitudini dei milanesi
in tema di mobilità? I cittadini sono già tornati alle abitudini di un tempo, o
alcuni nuovi fenomeni sono ormai irreversibili?
Ci
sono alcuni elementi dai quali non torneremo più indietro: penso alla percezione dello spazio,
del proprio tempo e del valore della propria salute, tutti aspetti rispetto ai
quali la mobilità gioca un ruolo centrale.
Senza dimenticare il ricorso ad alcuni giorni
settimanali o mensili di smart working. Abbiamo notato un forte aumento degli
spostamenti in bicicletta, che in molti casi sono diventati quotidiani. Il trasporto pubblico locale ha
sofferto in maniera pesante gli effetti della pandemia, anche a causa di una
narrazione sbagliata: si tratta invece di luoghi sicuri, presidiati e
monitorati.
Una
valutazione definitiva potremo farla solo a settembre con la riapertura delle
scuole, ma sono certa che il tpl tornerà a crescere e a svolgere il suo ruolo
fondamentale nel sistema della mobilità cittadina.
Dai
pannelli solari alle batterie:
è la
Cina la padrona assoluta
del
cleantech.
Repubblica.it-
Maurizio Ricci-(2 luglio 2022)- ci dice :
L'addio
del settore auto a diesel e benzina e la crisi energetica legata a gas e
petrolio spingono sempre di più verso motori elettrici ed energie alternative.
Una partita che al momento vede Pechino come unico vincitore, forte di grandi
investimenti. E il dominio può consentire al Paese di dettare le regole del
settore.
Dal
2035, basta benzina o diesel, ha deciso l'Europa. La nostra auto sarà
elettrica. E cinese, sottolinea cupamente il boss della Bmw. Non solo l'auto,
peraltro. Il nostro futuro è, infatti, nelle mani della Cina.
O, per
dirla con meno grancassa e più dettaglio, il cleantech - la tecnologia pulita, a cui affidiamo le speranze di
evitare la catastrofe climatica – ha un padrone solo e il nome è scritto in
caratteri cinesi.
In un recente Eurobarometro si indicava che il lento tramonto dei
combustibili fossili ci avrebbe consegnato una geopolitica non meno squilibrata
della attuale, con i materiali destinati a raccogliere l'eredità di gas e
petrolio – dal litio alle terre rare, al cobalto all'idrogeno – concentrati in pochi paesi
ugualmente lontani ed estranei: dal Congo alla Cina al Golfo Persico.
Ma, se invece che ai materiali si guarda agli
strumenti per utilizzarli, il panorama è ancor più netto e brutale: la tecnologia pulita è già oggi,
praticamente un monopolio, gestito da aziende cinesi.
E'
come se, nell'era del petrolio e del gas, avessimo dovuto prendere da Arabia
saudita e Russia non solo benzina e metano, ma anche le auto e le caldaie.
Questa, infatti, è la situazione per due pilastri della tecnologia pulita –
pannelli solari e batterie per auto – e la distanza fra Cina, da una parte,
Europa e Usa dall'altra, continua ad aumentare.
Il
racconto che gli analisti di Wood Mackenzie fanno della catena di produzione
dei pannelli solari non lascia dubbi.
Polisilicone,
che è il materiale base dei pannelli: nel 2010 la Cina controllava il 42 per
cento della sua produzione, oggi siamo al 78 per cento. Wafers, gli strati in
cui è sistemato il polisilicone: fra il 2010 e il 2021, dal 78 al 98 per cento.
Celle, dove vengono sistemati i wafers, dal 60 all'80 per cento. Per i pannelli
assemblati e finiti la quota di mercato è rimasta la stessa, ma siamo al 66 per
cento.
La
situazione è praticamente identica per quanto riguarda il cuore delle auto
elettriche: le batterie. Il 90 per cento del litio, il minerale usato per le
batterie auto, viene processato in Cina, che copre anche il 90 per cento del
mercato delle terre rare, quell'insieme di ossidi, magneti e metalli, cruciale
per le batterie al litio.
La conseguenza è che i tre quarti delle batterie per
auto prodotte nel mondo, escono dalle fabbriche cinesi.
Questo
dominio mondiale su pannelli e batterie è confermato dall'aggressività delle
aziende cinesi negli investimenti.
Mentre
i gruppi americani, australiani, coreani stanno mettendo insieme qualche
centinaio di milioni di dollari da spendere nel cleantech, in questi mesi, tre
sole aziende cinesi, attive rispettivamente nelle batterie, nel litio e nel
cobalto stanno raccogliendo sui mercati finanziari, in buona misura da investitori
occidentali, almeno 10 miliardi di dollari.
Le
conseguenze le misureremo a breve.
Fra il
2021 e il 2025, la quota delle aziende
cinesi nel mercato globale di batterie rimarrà praticamente invariata, al 66
per cento.
Ma, negli stessi quattro anni, il mercato complessivo sarà più che triplicato
nelle dimensioni. Negli stessi anni, l'Europa, nonostante gli impegni pubblici,
passerà solo dal 15 al 20 per cento del mercato e gli Usa dall'8 al 12 per
cento.
Questo
predominio può consentire ai cinesi di dettare gli standard tecnici del
settore, aumentando ulteriormente il proprio vantaggio.
Come
una volta per gli Stati Uniti, rispetto ai tanti concorrenti europei, il
dominio cinese nasce, anzitutto, da un massiccio mercato interno che assicura
un forte ritmo di domanda e il livello di produzione consente costi bassi. Le batterie cinesi hanno un costo di
produzione di 60 dollari per kilowattora e il previsto triplicare della
produzione lo farà scendere a 50 dollari.
Nel
resto del mondo non esistono le stesse economie di scala e il costo medio è di 78 dollari per kwh. In
Europa, arriva a 120 dollari.
Le
stesse case automobilistiche coreane,
che vivono fianco a fianco con giganti delle batterie come Samsung e Lg,
per il 60 per cento usano batterie cinesi.
In
termini di geopolitica, è una situazione che conosciamo. Pechino punta a fare della Cina
l'Arabia saudita del cleantech, con il costo di produzione più basso e la quota
di mercato più alta, esattamente come i sauditi con il petrolio.
"Bisogna
diversificare la produzione
di
pannelli solari per una
transizione
energetica sicura."
Repubblica.it-
Redazione- (07 LUGLIO 2022)- ci dice :
Lo
sostiene l'Agenzia internazionale per l'energia in un nuovo report che rileva
squilibri nelle catene di fornitura del fotovoltaico: l'80% della produzione
avviene in Cina per tutte le principali fasi.
Per
garantire una transizione sicura verso le emissioni nette zero sarà necessario
un maggiore impegno per espandere e diversificare la produzione globale di
pannelli solari, le cui catene di fornitura sono attualmente fortemente
concentrate in Cina.
È quanto dichiara l'Iea (Agenzia
Internazionale per l'Energia) in un nuovo rapporto speciale dedicato alle
rinnovabili e appena diffuso.
Le politiche industriali e di innovazione cinesi,
incentrate sull'espansione della produzione e dei mercati dei pannelli solari,
hanno aiutato il fotovoltaico a diventare la tecnologia di produzione di
energia elettrica più conveniente in molte parti del mondo.
Tuttavia,
questo ha portato anche a squilibri nelle catene di fornitura del solare
fotovoltaico, secondo il rapporto Iea sulle catene di fornitura globali del solare
fotovoltaico, il primo studio di questo tipo dell'Agenzia.
Nell'ultimo
decennio, la capacità produttiva globale di pannelli solari si è spostata
sempre più dall'Europa, dal Giappone e dagli Stati Uniti verso la Cina, che ha
assunto un ruolo guida in termini di investimenti e innovazione.
Secondo
il rapporto, la quota della Cina in tutte le principali fasi di produzione dei
pannelli solari supera oggi l'80% e per gli elementi chiave, tra cui il polisilicio e i wafer, è destinata a salire a oltre il 95%
nei prossimi anni, sulla base dell'attuale capacità produttiva in costruzione.
ENERGIA.
Pannelli
solari da balcone contro il caro bollette
di
Fiammetta Cupellaro-07 Giugno 2022.
"La
Cina ha contribuito in modo determinante ad abbassare i costi del solare
fotovoltaico a livello mondiale, con molteplici vantaggi per la transizione
verso l'energia pulita", ha dichiarato il direttore esecutivo dell'Iea
Fatih Birol.
"Allo
stesso tempo, il livello di concentrazione geografica nelle catene di fornitura
globali pone anche potenziali sfide che i governi devono affrontare. L'accelerazione delle transizioni
energetiche pulite in tutto il mondo metterà ulteriormente a dura prova queste
catene di approvvigionamento per soddisfare la crescente domanda, ma ciò offre
anche opportunità per altri Paesi e regioni di contribuire a diversificare la
produzione e renderla più resiliente", ha aggiunto.
Per
raggiungere gli obiettivi internazionali in materia di energia e clima è
necessario che la diffusione globale del solare fotovoltaico cresca su una
scala senza precedenti.
Ciò
richiede a sua volta un'ulteriore espansione della capacità produttiva,
sollevando preoccupazioni circa la capacità del mondo di sviluppare rapidamente
catene di approvvigionamento resilienti. Ad esempio, le aggiunte annuali di
capacità solare fotovoltaica ai sistemi elettrici di tutto il mondo devono più
che quadruplicare entro il 2030 per essere in linea con il percorso dell'Iea
per raggiungere le emissioni nette zero entro il 2050.
Re
Rebaudengo, Elettricità Futura: "Entro il 2030, 85 Gigawatt di rinnovabili
in più. Valgono 470 mila occupati"
di
Luca Fraioli-22 Giugno 2022.
La
capacità di produzione globale dei principali elementi costitutivi dei pannelli
solari - polisilicio,
lingotti, wafer, celle e moduli - dovrebbe più che raddoppiare entro il 2030 rispetto
ai livelli attuali e gli impianti di produzione esistenti dovrebbero essere
modernizzati.
"Mentre
i Paesi accelerano i loro sforzi per ridurre le emissioni, devono assicurarsi
che la loro transizione verso un sistema energetico sostenibile sia costruita
su basi sicure", ha dichiarato Birol. "Le catene di fornitura globali
del solare fotovoltaico dovranno essere scalate in modo da garantire la loro
resilienza, il loro costo e la loro sostenibilità", ha aggiunto.
IL
FISCO VERDE.
Rinnovabili:
con i bonus le batterie di accumulo sono (quasi) gratis.
di
Antonella Donati-29 Giugno 2022.
I
governi e le altre parti interessate di tutto il mondo hanno iniziato a
prestare sempre più attenzione alle catene di approvvigionamento del solare
fotovoltaico, poiché i prezzi elevati delle materie prime e le strozzature
della catena di approvvigionamento hanno portato a un aumento di circa il 20%
dei prezzi dei pannelli solari nell'ultimo anno.
Queste
sfide -
particolarmente evidenti nel mercato del polisilicio, un materiale chiave per la
produzione di pannelli solari - hanno provocato ritardi nelle consegne di pannelli solari
fotovoltaici in tutto il mondo e un aumento dei prezzi. Il rapporto speciale dell'Iea
sostiene che queste sfide richiedono un'attenzione e un impegno ancora maggiori
da parte dei responsabili politici per il futuro.
Il
rapporto esamina le filiere del solare fotovoltaico dalle materie prime fino al
prodotto finito, coprendo aree quali il consumo energetico, le emissioni,
l'occupazione, i costi di produzione, gli investimenti, il commercio e la
performance finanziaria. Si scopre, ad esempio, che la produzione ad alta intensità di
energia elettrica del solare fotovoltaico è oggi alimentata per lo più da
combustibili fossili, a causa del ruolo preponderante del carbone nelle zone
della Cina in cui si concentra la produzione, ma che i pannelli solari devono
ancora funzionare solo per quattro-otto mesi per compensare le loro emissioni
di produzione.
Questo
breve periodo di ammortamento si confronta con una durata media dei pannelli
solari di circa 25-30 anni.
Secondo
il rapporto, la crescente decarbonizzazione delle forniture di energia
elettrica e una maggiore diversificazione delle catene di approvvigionamento
del solare fotovoltaico dovrebbero contribuire a ridurre questa impronta in
futuro.
IL
FISCO VERDE
Lo
sconto per il fotovoltaico da balcone vale anche per il condizionatore.
di
Antonella Donati.15 Giugno 2022.
Poiché
la diversificazione è una delle strategie chiave per ridurre i rischi della
catena di fornitura a livello mondiale, il rapporto speciale valuta le
opportunità e le sfide dello sviluppo delle catene di fornitura del solare
fotovoltaico in termini di creazione di posti di lavoro, requisiti di
investimento, costi di produzione, emissioni e riciclaggio.
Il
rapporto rileva che i nuovi impianti di produzione del solare fotovoltaico
lungo la catena di fornitura globale potrebbero attrarre investimenti per 120
miliardi di dollari entro il 2030. Il settore del solare fotovoltaico ha il
potenziale per raddoppiare il numero di posti di lavoro nel settore
manifatturiero, portandolo a 1 milione entro il 2030, con le aree a più alta
intensità di lavoro nella produzione di moduli e celle.
Infine,
il report della Iea riassume gli approcci politici adottati dai governi per
sostenere la produzione nazionale di energia solare fotovoltaica ed evidenzia
le aree di intervento prioritarie per migliorare la sicurezza
dell'approvvigionamento e per affrontare sfide chiave come la sostenibilità
ambientale e sociale, i rischi di investimento e la competitività dei costi.
Di
Maio tesse la sua tela:
ecco
il vero obiettivo.
msn.com-ilgiornale.it- Francesco Curridori –(9-7-2022)-
ci dice :
"Niente
Papeete: la crisi sarebbe un favore a Putin". Così, ieri, il ministro
Luigi Di Maio, pur senza mai nominarlo, ha avvertito Giuseppe Conte che questo
non è proprio il momento migliore per far traballare l'esecutivo di Mario
Draghi.
Di
Maio tesse la sua tela: ecco il vero obiettivo.
Una
crisi di governo "non permetterebbe all'Italia di prendere provvedimenti
su bollette, benzina e gas", avverte il ministro degli Esteri che, nelle
scorse settimane, è stato artefice di una scissione che ha portato avanti
proprio per 'irrobustire' la maggioranza da eventuali velleità di Conte. Ma il leader del M5S sembra non
escludere il voto contrario al Dl Aiuti in arrivo la settimana prossima in
Senato: "Se da Draghi arriveranno dei no alle nostre proposte usciremo dal
governo".
Nel frattempo Di Maio continua a tessere la sua rete di potere tra le varie
aziende di Stato. Tutte relazioni che, in vista della nascita di un vero e
proprio soggetto politico che potrebbe avvenire a settembre, potrebbero
risultare utili e decisive per le Politiche del 2023.
(Di
Maio lascia i cinquestelle: «Il Movimento si è chiuso e non ha raggiunto la
maturità»).
Entrando
nel dettaglio, il Foglio ha scoperto che il 24 maggio scorso il cda di Simes,
società partecipata al 76% da Cassa depositi e prestiti e da una serie di
banche italiane e associazioni di imprenditori, ha confermato Pasquale Salzano,
ex ambasciatore dell'Italia in Qatar, come presidente. Nel cda sono stati nominati anche
l'armatore Guido Grimaldi e la vicepresidente di Confindustria per
l'internazionalizzazione, Barbara Beltrame. Tutte figure che hanno un rapporto
molto buono e stretto con Di Maio.
Nel
cda di Cassa depositi e prestiti, invece, siede da un anno Fabiana Massa, che
ricopre anche il ruolo di presidente del comitato Parti correlate.
In
Ferrovie dello Stato troviamo Stefano Cuzzilla, presidente di Federmanager, che
dal giugno 2021 è anche presidente del comitato governance, nomine e
remunerazioni.
Dentro
il cda di Ivimit, società controllata dal Mef che si occupa del patrimonio
immobiliare pubblico, Di Maio può contare su Monica Scipione, mente in Sace
sull'ambasciatore Ettore Sequi, segretario generale del ministero degli Esteri.
Qui,
come consigliere d'amministrazione, vi è anche Vincenzo De Falco, un altro
vicino al titolare della Farnesina.
Siccità
ed emergenza acqua,
perché
non puntiamo sui desalinizzatori?
Iconaclima.it-
Redazione- (5-7-2022)- ci dice:
Stiamo
vivendo forse uno dei più gravi episodi di siccità degli ultimi decenni: manca
acqua, i ghiacciai si stanno ritirando e allora perché non puntiamo sui
desalinizzatori?
La
pochissima pioggia caduta negli ultimi 6 mesi ha messo in gravissima difficoltà
soprattutto il Nord Italia.
All’appello,
su tutto il territorio nazionale, mancano circa 40 miliardi di metri cubi di
acqua (dati del rapporto mensile di Meteo Expert). E la condizione in cui ci
troviamo è particolarmente grave anche per l’assenza di neve sulle nostre montagne
già all’inizio della stagione estiva e per il grande caldo, che sta dando il
colpo di grazia, aumentando l’evapotraspirazione, processo per cui l’acqua
contenuta in piante, terreni e specchi di acqua si trasferisce in atmosfera.
I
maggiori esperti mondiali da anni ci stanno dicendo che l’area del
Mediterraneo, in particolare, sarà sempre più soggetta ad eventi del genere, con siccità
prolungate, ondate di calore più intense e cambiamenti dell’andamento di piogge
e nevicate.
Siamo
una regione che andrà incontro ad una minore disponibilità d’acqua. Lo
sappiamo, e se la politica non ha mai ascoltato il grido di allarme degli
esperti, non può non vedere quello che sta succedendo. Non possiamo permetterci
di andare avanti così: il “business as usual” non è una opzione.
Le
anomalie delle provviste idriche stimate in Italia per il 2040 in uno scenario
climatico ottimista. (World Resource Institute).
Dovremo
fare fronte a una sempre minore disponibilità d’acqua: servono desalinizzatori.
Tra
gli interventi principali per affrontare un futuro del genere, segnato da una
costante diminuzione della disponibilità idrica, innanzitutto serve più
manutenzione della rete, dove oggi disperdiamo quasi la metà dell’acqua a
disposizione, e poi servono nuovi bacini per raccogliere acqua piovana e di
fusione dei ghiacciai, e desalinizzatori.
Siamo
circondati dal mare. Sarebbe illogico per noi, vista la crisi climatica, non
cercare di prelevare e dissalare l’acqua marina. Molti Paesi già usano questa
tecnologia per assicurarsi acqua specialmente durante i periodi più siccitosi:
parliamo di Israele, degli Emirati Arabi, dell’Arabia Saudita, ma anche
dell’Australia e della vicina Spagna.
A
livello globale più di 300 milioni di persone fanno già affidamento sull’acqua
proveniente da impianti di desalinizzazione.
Secondo
il gruppo Webuild all’Italia servirebbero almeno 16 desalinizzatori: questo ci consentirebbe di far
fronte alle emergenze e necessità del periodo estivo.
Con un
investimento di circa 3 miliardi potremo produrre 1,6 miliardi di metri cubi
d’acqua dolce al giorno. Per coprire, invece, il fabbisogno complessivo ne dovremmo costruire
una ottantina. In Spagna ne hanno installati 765, con cui riescono a produrre 6 miliardi
di metri cubi d’acqua. L’Italia è ferma a 400 milioni.
Siamo
arrivati tardi, e questo ormai lo sappiamo, ma se la politica decidesse di
investire in questa tecnologia basterebbero due anni per la loro costruzione ed
entrata in funzione.
Attualmente
però, il processo però di installazione di desalinizzatori in Italia è
bloccato. La
Legge Salvamare, al di là dei tanti meriti, ha stabilito che gli impianti di
desalinizzazione destinati alla produzione di acqua per il consumo umano sono
ammessi solo in casi eccezionali.
Legge, tra l’altro, pubblicata lo scorso
maggio, in piena emergenza siccità. Le eccezioni alla regola riguardano
condizioni di “comprovata carenza idrica e in mancanza di fonti idrico compatibili
alternative economicamente sostenibili”, nei casi in cui “gli impianti siano previsti nei piani
di settore in materia di acque e in particolare nel piano d’ambito anche sulla
base di un’analisi costi benefici” e solo dopo aver dimostrato “che siano stati effettuati gli
opportuni interventi per ridurre significativamente le perdite della rete degli
acquedotti e per la razionalizzazione dell’uso della risorsa idrica prevista
dalla pianificazione di settore”. A questi paletti, segue quella della valutazione di
impatto ambientale, e il fatto che le autorizzazioni non possono essere
demandate come si è fatto finora alle regioni ma ad apposita commissione
ministeriale per la concessione del Via. Un iter burocratico infinito che di
fatto blocca ogni avanzamento in questo senso.
Le
criticità legate al processo di desalinizzazione.
L’urgenza
c’è, ma gli impatti ambientali dei dissalatori non sono sicuramente
trascurabili, e quando ci decideremo a costruirli dovremo sicuramente prestare
attenzione ai costi, all’uso di energia rinnovabile e al processo di
smaltimento della salamoia.
Costi.
I
desalinizzatori ovviamente comportano un costo maggiorato dell’acqua: l’acqua
desalinizzata costa dai 2 ai 3 euro al metro cubo, contro gli 1,5 euro del
costo attuale. Ma teniamo presente che in altri Paesi d’Europa, l’acqua costa anche di
più1: in Francia l’acqua costa dai 2 ai 3,5 euro per metro cubo, in Germania
dai 2,8 ai 4,5 euro al metro cubo, in Norvegia supera i 5 euro al metro cubo.
Energia
La
crisi energetica potrebbe frenare la costruzione di nuovi dissalatori perché
non stiamo puntando ancora sulle rinnovabili. I dissalatori funzionano attraverso
due tecniche principali: la distillazione termica e l’osmosi inversa.
Gli
impianti di desalinizzazione sono molto energivori: il processo di distillazione in
particolare consuma fino a 6 kWh per ogni metro cubo di acqua, mentre il
processo dell’osmosi inversa richiede circa 3-4 kWh per metro cubo di acqua
potabile. Ad
oggi bisogna dire che la maggior parte (64%3) dei grandi impianti di
desalinizzazione in funzione utilizzano la tecnologia della distillazione
termica.
Ma
l’introduzione di nuove tecnologie ha permesso però di abbassare nettamente il
consumo di energia di questi impianti, fino a 1 kWh per metro cubo. Si tratta
di tecnologie innovative, che hanno bisogno ancora di un po’ di tempo per poter
essere utilizzate su larga scala. Nel frattempo però, utilizzando energia rinnovabile
per gli impianti di desalinizzazione ad osmosi inversa, ad esempio, potremmo
però risparmiare e dimezzare le emissioni di CO2.
Ad
esempio a Perth, in Australia, è in funzione il più grande impianto di
desalinizzazione che utilizza solo energia rinnovabile, proveniente
dall’impianto eolico distante circa 200 chilometri. Questo impianto produce 144 mila
metri cubi di acqua al giorno.
Impatto
ambientale.Gli
impianti di desalinizzazione oggi hanno anche un impatto ambientale che non
possiamo trascurare. Secondo uno studio dell’industria della desalinizzazione
voluto dalle Nazioni Unite, i 16 mila impianti presenti a livello globale
producono 1,5 litri di salamoia per ogni litro di acqua dolce. Metà della salamoia prodotta a
livello globale arriva dal Medio Oriente, dagli impianti – principalmente con
tecnologia di distillazione – di Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Kwait e
Qatar.
Lo
smaltimento di questo scarto di lavorazione spesso finisce direttamente in
mare, destabilizzando profondamente l’ecosistema e creando un danno ambientale
importante.
Lo scarico in mare della salamoia aumenta la temperatura dell’acqua, la sua
salinità e la torbidezza.
L’ambiente
marino sicuramente ne soffre, con un maggior sviluppo di alghe e piccoli
molluschi e una migrazione forzata dei pesci. Si tratta quindi di un aspetto a cui
bisogna fare attenzione e a cui la ricerca ha già cercato alternative utili per
trasformarlo da scarto a risorsa.
Serve
un piano e una decisione politica.
Sicuramente
la politica deve agire ora. Quello che stiamo vivendo è un assaggio di questo
“nuovo clima”. L’Italia, così come altri Paesi del Mondo, deve investire oggi
nell’adattamento del Paese ad un clima che è già cambiato. L’acqua, difatti, è
uno dei principali punti chiave per la resilienza nel Pnrr.
Meno
piogge, meno nevicate, temperature sempre più alte mettono a serio rischio il
nostro approvvigionamento idrico. Non possiamo più contare sull’arrivo della
pioggia o sulla fusione estiva della neve: tra qualche anno scompariranno
addirittura i ghiacciai. Serve un intervento risoluto per evitare che quanto
stiamo vivendo oggi si ripeta, con conseguenze sempre più disastrose.
Cosa
stiamo aspettando?
16 no
bullsh-t modi per vivere
una
vita più interessante ed emozionante.
Icibsos.org-
Redazione-Hack Spirit- (28-2-2022)- ci dice :
Il 21
° secolo è probabilmente il momento più emozionante per l’umanità. Viviamo in
un mondo di stimolazione senza fine-ci si sente come se ci fosse sempre
qualcosa da fare.
Allora,
come mai ti senti come la vita è , un pò monotona e prevedibile?
Non è
che tu voglia fare qualcosa di drastico o trasformare la tua vita in qualcosa
di completamente nuovo.
Ma
vuoi un’iniezione di eccitazione per rendere la vita un pò‘ più appagante.
La
buona notizia è che ci sono cose che puoi fare per rendere la tua vita
eccitante, completa e vibrante di nuovo.
Dopo
tutto, ci sono sempre modi interessanti per riaccendere il tuo fuoco, che si
tratti di grandi avventure o piccole correzioni alla tua routine.
In
questo articolo, andremo oltre 16 modi per vivere una vita più interessante ed emozionante.
Andiamo.
Esci
dalla tua zona di comfort.
Le
zone di comfort si sentono sicure e protette. Questo è il motivo per cui la
maggior parte delle persone rimangono nella loro zona di comfort senza mai
veramente crescere o migliorare.
Ma
indovinate un po’? Soggiornare nella vostra zona di comfort può anche essere davvero
noioso.
Non si
sperimenta o si impara nulla di nuovo.
Quindi,
se vuoi davvero vivere una vita più eccitante e interessante, devi uscire dalla
tua zona di comfort ogni tanto.
È
davvero il modo più efficace per ravvivare la tua vita e crescere come persona.
E no,
uscire dalla tua zona di comfort non significa che devi fare qualcosa di enorme
o spaventoso.
Significa
solo che fai qualcosa che non è normale per te che ti rende un pò nervoso.
Ad
esempio, iniziare una conversazione con uno sconosciuto è un modo per uscire
dalla tua zona di comfort.
O
forse per te, è andare in bicicletta per lavorare invece di prendere i mezzi
pubblici.
Piccole
cose come questa sono ottimi modi per uscire dalla tua zona di comfort e vivere
una vita più interessante.
Imposta
alcuni mini-obiettivi.
I mini
obiettivi sono un ottimo modo per farti muovere e creare qualche progresso
nella tua vita.
Potrebbe
essere obiettivi che si desidera raggiungere più di una settimana, un mese o
anche un anno.
Potrebbe
essere qualcosa di semplice come impostare un obiettivo settimanale per la
quantità di km che si desidera eseguire, o forse un obiettivo giornaliero di
imparare 5 parole in una nuova lingua.
Qualunque
cosa sia, imposta quegli obiettivi e fatti muovere.
Più si
tolgono piccoli obiettivi, più si raggiungono in un anno o anche 5 anni.
Viaggia
in posti nuovi.
Certamente
non è stato un grande anno per viaggiare, ma viaggiare non significa che devi
andare da qualche parte a livello internazionale.
Potrebbe
significare esplorare un nuovo parco o un’escursione.
Forse
c’è un’area vicino a te dove puoi andare a osservare le stelle?
O
forse c’è un nuovo caffè che puoi provare a cui non sei mai stato prima?
Se una
volta alla settimana ti prefiggi l’obiettivo di esplorare un posto nuovo,
inizierai sicuramente a vivere una vita più interessante.
Pensa di
nuovo al futuro e aspira.
Che tu
sia ancora a scuola o che tu sia nel bel mezzo della tua carriera, la vita ha
uno strano modo di insegnarci a smettere di pensare a ciò che possiamo
diventare.
Dobbiamo
concentrarci tanto sullo studio per il test di domani, scrivere un rapporto per
il prossimo incontro, o fare qualcosa che ora è la cosa più importante al mondo
solo per i prossimi giorni, prima di passare a quel prossimo qualcosa.
Siamo
così coinvolti nel prossimo test, nel prossimo documento, nel prossimo
progetto, che ci dimentichiamo di pensare al vero futuro.
Il
futuro dove le nostre vite sono radicalmente diverse; dove non solo abbiamo
scalato lentamente la scala della carriera, ma abbiamo veramente costruito una
vita che possiamo essere felici in tutti gli aspetti. Ci dimentichiamo di
sognare.
Così
sogno. Aspirare. Pensa a come può apparire la tua vita in un anno o due se fai
le scelte migliori per te stesso.
Pensare
in grande è una grande qualità di avere. Ma cos’altro ti rende unico ed eccezionale?
Per
aiutarti a trovare la risposta, abbiamo creato un divertente quiz. Rispondi ad
alcune domande personali e ti sveleremo qual è la tua personalità
“superpotenza” e come puoi utilizzarla per vivere la tua vita migliore.
Smettere
di aspettare che la vita accada.
La
cosa circa il modo in cui la maggior parte di noi vivere la vita è che facciamo
del nostro meglio per cadere in linea.
Diventare
osservatori passivi del nostro successo, piuttosto che componenti attivi che
spingono le nostre vite in avanti.
E non
possiamo farne a meno; ci viene insegnato fin dalla tenera età: ci sediamo in
classe, facciamo bene i test e passiamo al voto successivo.
Alla
fine cadiamo in una carriera, facciamo il nostro lavoro e aspettiamo le nostre
promozioni.
E
mentre la vita passiva potrebbe essere sufficiente per costruire una vita
decente, non è abbastanza per costruirne una di cui sei veramente entusiasta.
Stai
insegnando a te stesso a non fare nulla al di là di ciò che ti viene detto; aspettare e sperare che un superiore
abbia in mente le tue migliori intenzioni.
Vivi
per te. Fare scelte con voi in mente, nient’altro. Spingiti in avanti e spingi avanti la
tua vita.
Smetti
di aspettare e smetti di darti l’opportunità di annoiarti, perché sei così
impegnato a costruire la vita che vuoi.
Non
psicanalizzarti.
Nessuno
vuole una vita noiosa; tutti vogliamo svegliarci felici ed eccitati, vivere con
passione e desiderio.
Ma noi
stessi psych fuori il più delle volte, e convincerci che o non meritiamo le
vite che vogliamo, o non possiamo raggiungere le vite che vogliamo.
Ma
come fai a sapere se non ci provi davvero? Il proverbio popolare dice, ” Sparare
per la luna; anche se si perde, si atterra tra le stelle.”
La
vita non significa realizzare il tuo sogno, tanto quanto il viaggio non
riguarda la destinazione.
Il
viaggio riguarda il viaggio, il tentativo di realizzare il tuo sogno.
E
vivere sapendo che hai provato ti darà mille volte più appagamento di vivere
sapendo che non hai mai fatto.
Apprezza
ogni singolo giorno e apprezza le piccole cose.
Ecco
un esercizio che puoi fare a casa. Invece di concentrarsi sulle cose più grandi
e le avventure incredibili, spostare la vostra attenzione su cose che sono già
presenti nella vostra vita.
Questo
include persone, eventi e circostanze attuali che già rendono la tua vita
grande.
È così
facile essere travolti dalla corrente e dare per scontate le cose che sono di
fronte a te.
Inizi
a guardare avanti invece di prenderti il tempo di apprezzare le cose che hai
già attualmente.
Praticare
la gratitudine è molto più semplice di quanto sembri.
Puoi
iniziare questo esercizio elencando le cose per cui eri grato alla fine della
giornata.
Trova
cose nella tua vita che ti rendono felice, non importa quanto piccolo.
Potrebbe
essere un buon pasto o anche solo il fatto che il tempo era bello oggi.
Ci
sono molte cose nella tua vita in questo momento degne di attenzione e
gratitudine – trovale e ti renderai immediatamente conto che la tua vita non è
così noiosa come pensavi.
Non
vivere la vita in attesa del prossimo evento
C’è
una cosa come essere troppo lungimirante.
Se sei
il tipo di persona che trova la felicità solo nella prossima cosa (il prossimo
viaggio, il prossimo lavoro, la prossima volta che vedi i tuoi amici, la
prossima pietra miliare nella tua vita), non troverai mai la pace nella tua
vita.
Anche
quando la tua vita è al suo meglio, sarai sempre alla ricerca di ciò che viene
dopo. Questo tipo di mentalità è dannoso per le cose che hai già e attualmente
costruito.
Invece,
guarda cosa hai ora. Il piacere di sapere che tutto ciò che sta accadendo nella
vostra vita è abbastanza buono, e il resto che seguirà sarebbe solo un bonus.
Scopri
cose nuove da amare.
Una
vita costruita sull’amore è una vita ben vissuta. Anche solo trovare una nuova cosa
di cui innamorarsi (un nuovo libro, un nuovo animale domestico, una nuova
ricetta, una nuova routine) è destinato a rivitalizzare di nuovo la tua vita.
E non
deve essere niente di particolarmente grande. Basta trovare un nuovo spettacolo
da guardare o nuova musica da ascoltare può essere estremamente eccitante.
Imparare
a trovare gioia e amore nelle cose più semplici ti rende più eccitabile e per
estensione la tua vita più eccitante.
Non
sai da dove cominciare?
Cercare
hobbisti online e influencer potrebbe aiutarti a capire cosa eccita le altre
persone nella loro vita.
L’idea
è di trovare queste persone felici e usarle come base per la tua scoperta delle
cose che ami.
Non
aver paura di reinventarti.
La
noia come sentimento sottostante può significare molte cose.
Forse
sei stanco della tua routine, forse sei desensibilizzato alle cose che provi
ogni giorno.
Ma a
volte è un po più grande di quello; a volte la noia è un segno che sei
pronto per essere qualcuno di nuovo, diverso e migliore.
Se
senti che la tua noia invade ogni aspetto della tua vita senza possibilità di
eccitazione o rivitalizzazione, scava un pò più a fondo nella fonte della tua
noia.
Sei
annoiato perché non c’è niente da fare? O sei annoiato perché ti senti come se
avessi fatto tutto ciò che può essere fatto?
Quando
si arriva a un punto in cui la vita non si sente più eccitante, vale la pena
chiedersi se è il momento di reinventarsi.
Le
persone cambiano e crescono nel corso di molti anni, ma i nostri stili di vita
non sempre riflettono i cambiamenti nella politica o nei valori.
Alla
fine della giornata, ciò che potresti provare non è la noia ma una discordia
tra chi sei ora e chi vuoi davvero essere.
Rimanere
sano: Esercizio fisico, mangiare bene e dormire bene.
Sentirsi
annoiato e svogliato? A volte stabilirsi in una routine è una sfida.
Intraprendi
un viaggio che coinvolge nuove abitudini sane. Ogni giorno, impegnarsi a mangiare
cibi sani, dormire alla stessa ora ogni giorno, e l’esercizio fisico.
Alla
fine della giornata, il corpo è solo una macchina. I sentimenti di plateauing o noia
potrebbero essere segnali chimici dal tuo cervello che ti dicono disperatamente
che sta vivendo uno squilibrio.
Le
persone che mangiano bene, dormono bene e si impegnano in un’attività fisica
regolare sono molto più felici delle persone che non lo fanno.
Quando
alimentate correttamente il vostro corpo e gli date gli stimoli giusti per
crescere, è facile per il vostro cervello tradurre quelle sostanze chimiche di
benessere in sentimenti di produttività e amore di sé.
La
prossima volta che senti di dover reinventare la ruota per trovare un ò di
felicità, considera di assicurarti che la ruota esista in primo luogo.
Saresti
sorpreso dall’incredibile differenza che le buone abitudini possono fare nella
tua vita.
Trova
qualcosa per cui vivere che non ha nulla a che fare con te.
Non
tutto ciò che fai deve essere per te. Può essere ancora più soddisfacente
quando fai cose per altre persone.
Questo
sembra diverso per tutti.
A
volte è prendersi cura di una persona cara e assicurarsi che i loro bisogni di
base siano curati.
Altre
volte è volontariato per un’organizzazione i cui valori si allineano con i tuoi.
Forse sta solo curando un giardino e badando alle tue nuove piante.
Eccitazione,
amore, entusiasmo: queste cose crescono quando vengono condivise con gli altri.
Forse
la noia che stai vivendo è solo un desiderio di trovare un significato,
qualcosa di cui puoi essere appassionato.
Quando
inizi a vivere la vita per qualcosa di diverso da te stesso, ti stai dando l’opportunità
di sperimentare tutta l’ampiezza dell’esperienza umana e condividerla con
persone al di fuori di te.
Impara
ad amare il tuo silenzio.
Non
tutte le forme di stagnazione sono cattive. A volte non c’è niente di nuovo
nella tua vita e non è necessariamente una brutta cosa.
Troppe
persone non possono stare in silenzio, sempre alla ricerca di stimoli esterni
per rimanere felici.
Che si
tratti di cercare nuove esperienze o riempire il calendario con eventi sociali,
c’è il merito di imparare a godere il vostro silenzio.
Solo
perché sei annoiato non significa che la tua vita sia noiosa; a volte non c’è
niente da fare in questo momento, ma goditi la pace e la tranquillità.
Imparare
a sedersi con il silenzio è un’abilità cruciale nel 21 ° secolo quando siamo
costantemente bombardati da ping e distrazioni.
L’esposizione
a troppa stimolazione può facilmente convincerci che la vita dovrebbe essere
costantemente piena di cose nuove e sorprendenti.
Questo
modo di vivere non solo è insostenibile, ma potrebbe anche generare problemi di
concentrazione e chiarezza.
Espandere
la tua vita e intraprendere nuove avventure va bene, ma se ritieni che questo
sia l’unico modo per vivere, considera invece di imparare a sederti con il
silenzio.
Taglia
tutto il rumore.
Solo
perché sei annoiato dalla vita non significa che non stai facendo nulla.
Hai
ancora una moltitudine di attività che riempiono il tuo tempo, altrimenti
staresti solo fissando le pareti 16 ore al giorno.
Un
grosso errore che la maggior parte di noi fa è che vogliamo sistemare le nostre
vite e cambiare il nostro atteggiamento, ma non vogliamo smettere di fare
nessuna delle cose negative o improduttive che riempiono le nostre vite.
Pensiamo:
“Dovrei iniziare ad allenarmi o cucinare per me stesso o leggere più spesso”,
ma non ci rendiamo conto che aggiungere queste nuove attività alle nostre vite
richiede di eliminare alcune delle cose attuali che già riempiono le nostre
vite.
E
quando ci troviamo di fronte alla scelta di fare una cosa nuova o di ricorrere
alle nostre vecchie abitudini, troppo spesso scegliamo quest’ultima, perché è
più facile.
Quindi
tagliare il rumore, tagliare la spazzatura.
Se
passi 2 ore ogni mattina sui social media prima di alzarti dal letto, è tempo
di passare la mattinata a fare qualcos’altro. Le nostre vite sono fatte delle cose
che facciamo.
Analizza
le tue giornate: cosa stai facendo?
Ti
ritrovi annoiato perché non stai lavorando verso nulla, ma non stai lavorando
verso nulla perché non sai cosa fare.
Ma il
tempo, sfortunatamente, continua indipendentemente dal fatto che lo stai usando
o meno.
Quindi,
per coloro che continuano a perdere le loro giornate senza fare nulla, è il
momento di monitorare il vostro tempo il modo in cui spesso monitorare i nostri
soldi: cosa stai spendendo su?
Inizia
a essere attivamente consapevole del modo in cui trascorri le tue giornate.
I CEO
e gli atleti di maggior successo nel mondo hanno le stesse 24 ore che hai,
quindi perché realizzano così tanto mentre non realizzi nulla?
Valuta
i tuoi minuti; sono la valuta della tua vita e sono l’unica cosa che non
tornerai mai indietro.
Una
volta che ti dai una visione a volo d’uccello del modo in cui sprechi il tuo
tempo, smetterai di essere così spericolato con le tue ore.
Trackback
alla tua felicità.
Non ti
sei sempre sentito così. La maggior parte delle persone che si annoiano con la vita
può ricordare un momento in cui erano più giovani, più felice, e più eccitato.
C’erano
cose che sognavi di realizzare, luoghi che volevi esplorare e abilità che
volevi imparare e padroneggiare.
Ma per
un motivo o per un altro, non senti più il fuoco che ti spinge verso quelle
cose. Allora, cos’e ‘ successo?
Prenditi
il tempo per meditare e ripercorrere il tuo viaggio personale.
E non
sarà sempre un singolo evento drammatico e significativo della vita. Il più delle volte, la nostra strada
verso l’apatia è piena di buche che sentiamo a malapena, ma ci abbatte
lentamente nel tempo.
Questi
sentimenti sono spesso inosservati e non riconosciuti perché una parte di noi
sente che ognuno di loro è troppo piccolo per preoccuparsi.
Ma
pesano su di noi e rendono i nostri viaggi più pesanti, fino a quando non
scegliamo di smettere completamente di muoverci, terminando i nostri viaggi
molto prima che siano finiti.
Popolazione.
Il Pianeta
sfora
gli 8 miliardi
vipiu.it-Redazione-(11-7-2022)-
ci dice :
La
Terra sta per superare una tappa importante della sua lunga esistenza. Secondo
gli ultimi dati demografici delle Nazioni Unite (ONU), pubblicati lunedì 11
luglio, in occasione della Giornata mondiale della popolazione, dal 15 novembre
il pianeta sarà occupato da otto miliardi di persone.
Gli
esseri umani non sono mai stati così numerosi.
Si
tratta di un miliardo in più rispetto al 2010. Due miliardi in più rispetto al
1998. E cinque miliardi e mezzo in più rispetto al 1950.
La
popolazione della Terra continua a crescere e c’è solo una “possibilità su due”
che la tendenza si inverta prima della fine del secolo.
Infatti, i demografi della Divisione
Popolazione del Dipartimento per gli Affari Economici e Sociali delle Nazioni
Unite ritengono “certo al 95%” che nel 2100 saremo tra gli 8,9 e i 12,4
miliardi di noi.
La
soglia dei dieci miliardi potrebbe essere raggiunta già nel 2059 e quindi
stabilizzare, secondo uno scenario “medio”, circa 10,4 miliardi di esseri umani
negli anni ’80 del 2000.
Pertanto,
il raggiungimento di un plateau massimo avverrebbe prima del previsto. “Si
tratta di un elemento particolarmente interessante, perché, nel suo ultimo
rapporto, pubblicato tre anni fa, l’ONU prevedeva la stabilizzazione
demografica solo durante il XXII secolo”, sottolinea Gilles Pison, professore
al Museo dell’Istituto Nazionale di Storia Naturale e consulente scientifico
per l’Istituto Nazionale di Studi Demografici di Parigi. Questo scenario si
spiega “principalmente” dal fatto che ogni donna partorisce sempre meno figli,
sottolinea l’esperta: da 2,3 di oggi, il tasso di fertilità potrebbe scendere a
1,8 nel 2100, segnando “la fine del ricambio generazionale”.
Attese
con impazienza sulle stime degli effetti demografici della pandemia di Covid-19
che ha colpito il pianeta negli ultimi due anni, le Nazioni Unite hanno
collaborato con l’Organizzazione Mondiale della Sanità per redigere una nuova
valutazione.
Mentre
a novembre 2021 la stampa anglosassone anticipava la cifra di 17 milioni di
morti, le due istituzioni internazionali stimano oggi che “l’eccesso di
mortalità legato alla pandemia ha raggiunto i 14,9 milioni di persone nel
periodo compreso tra il 1 gennaio 2020 e il 31 dicembre 2021” . Confermano così
che la realtà potrebbe corrispondere a “quasi tre volte il numero dei decessi
ufficialmente dichiarati”, che molti scienziati calcolavano da circa un anno.
Sapendo
che, normalmente, 60 milioni di esseri umani muoiono ogni anno, ciò
significherebbe che il Covid-19 ha fatto aumentare la mortalità di oltre il 12%
per due anni.
L’Onu
afferma che il bilancio complessivo delle vittime è “più alto negli uomini che
nelle donne, negli anziani che nei giovani”.
“Interruzione
temporanea.”
Alcuni
temevano, all’inizio della pandemia, che i progressi degli ultimi decenni nella
mortalità infantile potessero essere parzialmente cancellati. “I dati
disponibili indicano che non ci sono state prove convincenti” in questo senso,
ma la cautela è ancora d’obbligo. Gli effetti indiretti della crisi sanitaria sulla mortalità
infantile possono effettivamente “prendere tempo per manifestarsi”, attraverso
l’interruzione dei programmi di vaccinazione e nutrizione infantile di routine,
o una maggiore insicurezza alimentare e la perdita di reddito familiare.
“La
pandemia è stata uno shock per tutti e in tutti i continenti, ma, una volta
passato questo shock, difficilmente influenzerà le tendenze demografiche
generali. Non avrà alcun effetto a lungo termine sul numero di figli per donna,
sulle pratiche coniugali o sulla contraccezione”, osserva Thomas Spoorenberg,
uno dei redattori del rapporto delle Nazioni Unite.
Per il momento, i contagi del virus SARS-CoV-2
hanno arrestato la progressione dell’aspettativa di vita alla nascita, in
particolare in Asia meridionale, America Latina e Caraibi. Su scala mondiale ha addirittura
“contribuito alla perdita di 1,7 anni” di speranza di vita tra il 2019 e il
2021, portandola a 71 anni, con le dovute precauzioni metodologiche, per la
mancanza, talvolta, di dati precisi che hanno portato i demografi dell’ONU a
metodi innovativi di estrapolazione.
Di
passaggio, la pandemia ha allargato il divario tra uomini e donne, a vantaggio
di queste ultime. Nel 2021 l’aspettativa di vita dei primi si attestava a 68,4
anni, quella dei secondi a 73,8 anni, con una differenza di 5,4 anni. Due anni
prima, la differenza era di 5,2 anni. Tuttavia, nei paesi in cui il tasso di
vaccinazione è alto, lo shock è già stato attutito poiché la mortalità è ora
tornata ai valori pre-pandemia. Negli altri, ci vorranno ancora “da uno a tre
anni” per tornare alla normalità.
Lo
studio suggerisce che la popolazione globale potrebbe diminuire dal 2064.
Nell’Africa
meridionale, ad esempio, il Covid-19 ha semplicemente “eliminato i guadagni di
speranza di vita” dolorosamente ottenuti dopo i peggiori anni di AIDS: la
speranza di vita alla nascita è scesa a 61,8 anni nel 2021. In questa fase, l’Onu non si avventura
di stabilire un legame tra la pandemia e il rallentamento della crescita
demografica mondiale, in quanto osservato dalla metà degli anni 1960-2020, e
per la prima volta dal 1950, il tasso di crescita della popolazione è sceso al
di sotto dell’1% annuo. Si prevede che questo tasso “continuerà a rallentare
nei prossimi decenni e fino alla fine di questo secolo”.
Nei
paesi ad alto reddito, il Covid-19 ha agito “come un’interruzione temporanea”.
Ciò è particolarmente vero nei paesi ricchi con bassa fertilità. Nei paesi a
basso e medio reddito, gli ultimi studi condotti “hanno mostrato pochi
cambiamenti nel numero di gravidanze e nascite indesiderate”, nonostante la
diffusione del coronavirus. Di conseguenza, nell’Africa subsahariana, la popolazione
dovrebbe praticamente raddoppiare entro il 2050, grazie al mantenimento del
tasso di fertilità a quasi tre figli per donna. Questa sola regione del mondo
dovrebbe contribuire a “più della metà della crescita della popolazione
mondiale” nei prossimi trent’anni.
Sconvolgimento
in Asia.
Fino
ad allora, e questo è uno dei momenti salienti delle nuove previsioni, le carte
verranno rimescolate dal 2023 sul podio mondiale. Per la prima volta nella
storia dell’umanità, l’India diventerà il Paese più popoloso del mondo,
detronizzando una Cina che “si prevede un calo assoluto della sua popolazione a
partire dal 2023”.
L’evento
avverrà con quattro anni di anticipo rispetto al programma proposto nella
precedente trasmissione statistica delle Nazioni Unite, a causa di una leggera
correzione al rialzo dello slancio indiano e di una drammatica revisione al
ribasso. Già,
nel Regno di Mezzo, il numero di figli per donna è solo 1,18.
Attualmente,
i due giganti asiatici sono testa a testa, ciascuno con 1,4 miliardi di abitanti.
Nel 2050 gli indiani saranno 1.668 miliardi, i cinesi 1.317 miliardi. “È un
terremoto che segnerà l’inizio di un declino irreversibile.
A metà
del XIX secolo, un terzo dell’umanità viveva in Cina. Nel 2100 sarà solo il
10%, sottolinea Wang Feng, professore di sociologia all’Università di Irvine,
in California. Le nuove previsioni dell’Onu sono più in linea con quelle della comunità
scientifica rispetto alle precedenti e l’impatto sulle mentalità sarà enorme. Non solo i cinesi dovranno fare i
conti con l’idea di non essere più i leader demografici, ma dovranno anche ammettere che il
resto del mondo ora vede il proprio Paese come una potenza in declino.”
Un
cambio di paradigma. L’incrocio delle curve indiana e cinese provocherà infatti
uno sconvolgimento in questa regione del globo.
Mentre ora ospita quasi un essere umano su
tre, l’Asia orientale e sud-orientale dovrebbe essere soppiantata entro
quindici anni dall’intera area composta dall’Asia centrale e dall’Asia
meridionale.
Ciò è
dovuto alla crescita demografica dell’India, ma anche a quella osservata in
particolare in Pakistan, Paese che presto supererà l’Indonesia e si avvicinerà
per numero di abitanti agli Stati Uniti, come in Africa Nigeria, Paese che
dovrebbe salire al terzo gradino del podio della demografia mondiale di fine
secolo.
Ciò
avverrà anche se il subcontinente indiano, nel suo insieme, invierà i più
grandi contingenti di migranti in tutto il mondo in cerca di lavoro. Tra il 2010 e il 2021, osservano gli
esperti delle Nazioni Unite, il Pakistan ha visto crescere la sua diaspora di
16,5 milioni di persone. Stessa cosa, in misura minore, in Bangladesh, Nepal e
Sri Lanka. Gli altri paesi colpiti dalle maggiori partenze, Siria, Venezuela,
Birmania, sono stati colpiti dall’insicurezza e dalla guerra.
Tante
donne quanti uomini nel 2050.
Un
altro punto culminante del rapporto delle Nazioni Unite del 2022 è che gli
uomini sono ancora la maggioranza (50,3%) nel mondo. Ma non per molto, poiché «nel 2050 il
numero delle donne dovrebbe essere uguale a quello degli uomini». A parte queste due novità, l’India
numero uno, le donne che presto saranno la maggioranza, si confermano diverse
tendenze pesanti. In primo luogo, se ci sono sempre più esseri umani sulla
Terra, questo nasconde ancora grandi disparità tra paesi, spesso legate al loro
livello di sviluppo. Da un lato, la Repubblica Democratica del Congo e la
Tanzania “dovrebbero registrare una rapida crescita” della loro popolazione,
“tra il 2% e il 3% all’anno nel periodo 2022-2050”.
Dall’altro,
“perdite del 20% o più dovrebbero verificarsi in Bulgaria, Lettonia, Lituania,
Serbia e Ucraina”, prevede l’ONU. Nei prossimi tre decenni, una sessantina di paesi o
regioni vedranno la loro popolazione “diminuire dell’1% o più” all’anno.
Due
terzi dell’umanità ora vivono in un paese o in una regione in cui la fertilità
è inferiore a 2,1 nascite per donna, il livello necessario affinché le
popolazioni con bassa mortalità si stabilizzino a lungo termine. Si prevede che l’Europa e il Nord
America “raggiungeranno il picco di popolazione e inizieranno a diminuire” alla
fine degli anni ’30 del 2000, a causa dei livelli di fertilità costantemente
bassi, inferiori a due nascite per donna dalla metà degli anni ’90, in alcuni paesi.
Nel
2020, la Turchia ha ospitato il maggior numero di rifugiati e richiedenti asilo
(quasi 4 milioni), davanti a Giordania, Palestina e Colombia. A questo
proposito, il Covid-19 ha rallentato notevolmente gli spostamenti della
popolazione, a causa della chiusura delle frontiere e della paralisi dei
trasporti internazionali.
Avrebbe
potuto dimezzare la migrazione netta degli ultimi due anni, stima l’ONU.
(Guillaume
Delacroix su Le Monde del 11/07/2022).
"L’ansia
climatica” dilaga tra i
giovani:
riusciranno a superarla?
Nationalgeographic.it-
RICHARD SCHIFFMAN-(11 LUG 2022)- ci dice :
I
Millennials e la Generazione Z sono cresciuti in un pianeta diverso, che impone
scelte più difficili, rispetto ai loro genitori. Accettare questo dato di fatto
è il primo passo per evitare di lasciarsi sopraffare dall’angoscia.
L'ansia
per le conseguenze generate dal riscaldamento della Terra ha determinato un
divario crescente tra i giovani.
Katie
Cielinski e Aaron Regunberg sono millennials. Ma si considerano neonati del
cambiamento climatico.
Sono
diventati maggiorenni quando il mondo stava appena aprendo gli occhi di fronte
all'impatto catastrofico dell’uomo sull'ambiente.
CAMBIAMENTI
CLIMATICI: I GHIACCIAI.
AMBIENTE
- I GHIACCIAI.
Prima
di sposarsi, nel 2017, la coppia ha lottato per quasi un decennio con il
dilemma etico dell'opportunità di introdurre un altro essere umano su un
pianeta già sovra-affollato. Katie sosteneva la necessità di crescere un alleato del
clima, un individuo che avrebbe combattuto per un pianeta sano, ma Aaron temeva
per il futuro che loro figlio avrebbe dovuto affrontare.
"Stiamo
uscendo dalle condizioni climatiche stabili che hanno caratterizzato e
sostenuto l'intero sviluppo della civiltà umana", afferma Aaron.
"Questa è una catastrofe assolutamente unica nella vita della nostra
specie, diversa da qualsiasi altra sfida che abbiamo dovuto affrontare in
passato".
Ma i
due coniugi non sono certo soli in questa battaglia. Secondo un sondaggio del 2020
pubblicato sulla rivista Climatic Change, il 60% circa degli americani tra i 27
e i 45 anni si preoccupa dell’impatto ambientale che una nuova nascita comporta.
Lo stesso sondaggio ha anche rilevato che
oltre il 96% dichiara di essere preoccupato per il benessere di un bambino in
un mondo alterato dal clima.
L’ansia
da crisi climatica è diffusa.
La
scelta di avere o meno figli è solo una delle tante decisioni che definiranno
la vita dei nati in questi ultimi decenni, in modi che i loro genitori e nonni
non hanno mai nemmeno immaginato.
Un
ventenne dovrebbe prendere in mano le redini della fattoria di famiglia nel
Kansas occidentale mentre la prolungata siccità e la diminuzione delle riserve
di acqua sotterranea stanno ridisegnando l'agricoltura di tutti gli Stati Uniti?
Un
neolaureato di Phoenix, città che nel 2019 ha registrato 103 giorni di
temperature estreme e che nel 2050 assomiglierà sempre più a Baghdad, dovrebbe
trasferirsi a nord in una regione più fresca? Una coppia di Virginia Beach
dovrebbe accendere un mutuo trentennale per una casa situata in una pianura
alluvionale?
Queste
difficili scelte, unite alla crescente ansia per le conseguenze generate dal
riscaldamento della Terra, hanno determinato un divario crescente tra i
giovani, che osservano il loro futuro attraverso la lente del massiccio sconvolgimento
climatico che li attende, e le generazioni più anziane, che invece non vivranno
abbastanza a lungo da assistere al peggio.
"Tutti
mi dicono che ho solo 16 anni e che è qualcosa di cui non devo preoccuparmi a
questa età", racconta Seryn Kim, che vive a Brooklyn, New York. "Ma
io sono cresciuta, come i miei amici, nel segno di un inesorabile conto alla
rovescia".
I
bambini coinvolti nella questione dei cambiamenti climatici saranno ben presto
più numerosi di quelli che sono cresciuti prima che la crisi prendesse il
sopravvento. E i sondaggi mostrano che i giovani sono molto più preoccupati dei loro
parenti anziani, ma è difficile prevedere se questa popolazione in rapida
espansione possa spingere il mondo ad agire con decisione e in tempo per
ridurre le emissioni.
E il
livello di ansia può essere travolgente. Più della metà dei 10.000 giovani
intervistati in uno studio globale pubblicato su The Lancet concorda con
l'affermazione: "L'umanità è condannata". Quasi la metà degli intervistati ha
dichiarato che le preoccupazioni per lo stato del pianeta interferiscono con il
sonno, la capacità di studiare, di giocare e divertirsi.
"Credo che questa sia una risposta sia
alle catastrofi ambientali sia al fatto che adulti enormemente potenti
antepongano, ancora e ancora, il ristretto interesse personale alla
sopravvivenza collettiva", afferma Daniel Sherrell, 31 anni, attivista per
il clima e scrittore.
"Ciò
che ci ha sorpreso di più è scoprire quanto siano realmente spaventati questi
giovani", afferma Caroline Hickman, psicoterapeuta britannica e autrice
principale dello studio di The Lancet. "I bambini la prendono molto
sul personale. È come se percepissero che quello che stiamo facendo alla natura
lo stiamo facendo anche a loro".
Emergenze
diverse.
Russell
Behr, 17 anni, studente alla Saint Ann's School di Brooklyn, riflette in tutto
e per tutto questo pensiero. Non si fida più del fatto che i leader mondiali prendano
provvedimenti in tempo.
"Sento
dire dagli insegnanti e da altri adulti: 'La mia generazione ha fatto un casino
e ora tocca alla vostra rimediare'", racconta. E questo lo preoccupa, perché pensa
che i più giovani non riusciranno a occupare posizioni di potere per cambiare
le cose finché non sarà già troppo tardi.
Nel
tentativo di consolarlo, la madre di Behr, Danielle Ausrotas, ha spiegato al
ragazzo che ogni generazione ha affrontato le proprie sfide.
Guerre
e tempi duri si sono succeduti regolarmente nel corso della storia americana. Da bambina, lei ha vissuto la
minaccia di un potenziale attacco nucleare e ha partecipato a regolari
esercitazioni di "mettiti al riparo" che consistevano nel nascondersi
sotto i banchi di scuola.
Ma
Russell vede una differenza fondamentale tra allora e oggi. "Durante la Guerra Fredda, le persone
dovevano agire per peggiorare le cose, qualcuno doveva, ad esempio, lanciare un
attacco", afferma. "Oggi, invece, il problema è la nostra
inerzia".
Behr
ha smesso di mangiare carne perché i bovini producono il potente gas serra
metano. Utilizza
sempre più spesso i mezzi pubblici. E partecipa anche a manifestazioni occasionali sul
clima o a scioperi scolastici. Sta pensando di adottare un bambino piuttosto che averne uno
suo, se mai si sposerà. Ma afferma anche che soffermandosi a riflettere troppo su ciò
che lo aspetta, finirà per uccidere ogni sua ambizione.
"Ho
sempre sognato di studiare storia e diventare insegnante", spiega.
"Ma ora mi chiedo: cosa potrò dire, in futuro, a quei ragazzi su ciò che
sta accadendo ora e sul perché non abbiamo fatto nulla?".
Trasformare
l’angoscia ecologica in azione.
Emily
Balcetis, docente di psicologia presso la New York University, ha osservato il
divario generazionale crescere a casa sua in modi che l'hanno profondamente
colpita. A
42 anni, ovvero con due anni in più del millennial più anziano, ancora ricorda
la prima volta che apprese dalla tv della morte per fame degli orsi polari. Non
riusciva a sopportare il programma e spense la TV, racconta, aggiungendo:
"Credo
che avessi una sorta di fase negazionista". Ora suo figlio, Matty, ha
appreso all'asilo di queste stesse minacce per gli orsi polari.
Ma se
negli anni '90 il tema del cambiamento climatico sembrava una questione fin
troppo astratta per i bambini, i tempi ora sono cambiati, come Balcetis ha avuto modo di
constatare una sera, quando ha messo in tavola la cena in un contenitore usa e
getta e Matty è scoppiato in lacrime, gridando: "Mamma, non possiamo
riutilizzare o riciclare questo piatto!".
"Quella
reazione mi ha colpito molto", spiega la donna. "Io appartengo alla
vecchia generazione che non ha mai provato questo tipo di angoscia". E Matty ha solo quattro anni.
In
risposta ai giovani che si sentono sopraffatti, l'Università di Washington, a
Bothell, offre un corso sul lutto ecologico, tenuto da Jennifer Atkinson. L'insegnante fornisce ai suoi
studenti strumenti come rituali di elaborazione del lutto ed esercizi di
mindfulness (consapevolezza) per aiutarli a gestire le loro emozioni. Il primo passo, dice, è riconoscere a
fondo il proprio dolore.
"Un
tempo l'estate rappresentava la grande ricompensa dopo l'interminabile e grigio
inverno", ricorda Atkinson. "Ora questa aspettativa è stata compromessa
dalla stagione degli incendi, in cui non si può nemmeno respirare
all'aperto". A peggiorare ulteriormente le cose, la scorsa estate si è
formata un'enorme cupola di calore sulla regione che ha portato a settimane con
le temperature più alte mai registrate nel Pacifico nord-occidentale.
I suoi
studenti provano un misto di "tristezza, paura e indignazione" per i
cambiamenti che hanno visto nei loro 20 anni di vita, spiega Atkinson. Lei
consiglia loro di non sottrarsi a queste "emozioni negative", che in
realtà non sono affatto negative, ma bensì una sana risposta alla perdita.
"Il
dolore ci permette di comprendere con chiarezza ciò che amiamo e non vogliamo
perdere, e la rabbia ci motiva a lottare contro l'ingiustizia", spiega. "Io invito sempre i miei
studenti a vedere questi sentimenti intensi come una sorta di superpotere che
può essere incanalato per contribuire a costruire un mondo migliore".
Una
delle studentesse della Atkinson, Tara Fisher, ha preso a cuore questo
messaggio e ha deciso di dedicare la sua vita lavorativa ad aiutare persone
traumatizzate dai disastri climatici. L'estate scorsa la Fisher si è
offerta volontaria per aiutare i senzatetto di Seattle a trovare un alloggio
per sfuggire al fumo e al caldo. Se c'è un lato positivo in questi eventi, spiega, è che le persone del mondo benestante
ora comprendono che siamo tutti sulla stessa barca quando si tratta di
questioni climatiche.
"E
questo ci può insegnare a empatizzare con i paesi in via di sviluppo, le cui
vite sono già devastate dal cambiamento climatico", afferma Fisher.
Giovani
e impegnati.
Ma c'è
una piccola notizia positiva a fronte di tutta quest’ansia. Negli Stati Uniti,
i giovani più ansiosi sono anche i più fiduciosi di poter fare qualcosa in
merito, afferma Alec Tyson, direttore associato del PEW Research Center, un
laboratorio d’idee di Washington, D.C. I Millennials e gli adulti della
Generazione Z - quelli nati dopo il 1996 - hanno mostrato alti livelli di
impegno sul tema e si stanno dando molto da fare per vivere una vita più
“verde”.
Hanno
anche creato un formidabile movimento di protesta nel tentativo di spingere i
governi ad agire. Nel 2019 milioni di giovani hanno partecipato a proteste che
si sono svolte nello stesso giorno in tutto il mondo, da Sydney a New York a
Mumbai, la maggiore città dell'India.
"Scioperare
è più importante dell'istruzione perché, in futuro, potremmo non avere nemmeno
più un motivo per quell'istruzione", afferma Anna Grace Hottinger, 19
anni, che ha insegnato ai suoi compagni di scuola come impegnarsi in favore
della giustizia climatica.
La
studentessa ha dato vita a una campagna per l'approvazione della prima legge
nazionale sul Green New Deal nel suo Stato, il Minnesota, e sta anche portando
avanti un sondaggio tra i suoi coetanei per scoprire l’impatto emotivo che
tutto ciò ha su di loro. Secondo la Hottinger, farli parlare dei loro
sentimenti e non reprimerli fa sentire i giovani più forti e meno soli.
La
speranza è determinante.
Nel
frattempo, Katie Cielinski e Aaron Regunberg vanno avanti con la loro vita.
Hanno sciolto le loro incertezze e loro figlio, Asa, è nato nel marzo del 2021.
Vivono a Providence, nel Rhode Island. Katie, avvocato, lavora come difensore
d'ufficio. Aaron, che ha lavorato per quattro anni nella legislatura statale,
si è laureato il mese scorso alla Harvard Law School. Dopo un tirocinio presso
un giudice federale intende dedicarsi al diritto ambientale.
"Voglio
che questa generazione abbia persone valide che combattono per ciò che è
giusto", dice Katie, spiegando il motivo per cui sono diventati genitori.
"Ciò
che alla fine mi ha convinto è stato capire che la lotta per un futuro vivibile
non può riguardare solo la sopravvivenza e la stabilità", afferma Aaron. "Deve anche essere una lotta
per evitare che il nostro mondo diventi un posto più povero, più buio, più
solitario. Per
me e Katie, abbracciare tutto questo significava dare alla luce nostro figlio e
insegnargli tutto ciò che c'è da amare in questo mondo, e impegnare le nostre
vite a lottare per lui e, prima o poi, stare al suo fianco e al fianco di ogni
altro bambino che si troverà ad affrontare questo futuro incerto".
Asa,
affermano, ha regalato loro una nuova prospettiva sul futuro.
"Prima
lottavo regolarmente con l'attivismo e l’angoscia per la situazione
climatica", racconta Aaron. "Ma da quando è nato Asa non ne ho mai più
sofferto. Una volta che hai deciso di scommettere sulla possibilità di avere un
futuro degno di essere vissuto, il nichilismo semplicemente non rappresenta più
un'opzione percorribile".
Il
cancelliere tedesco prevede
come
sarà il mondo nel 2050.
Databaseitalia.it-
Redazione-(4-7-2022)- ci dice :
Olaf
Scholz afferma che emergerà un mondo multipolare con molti paesi influenti che
perseguiranno i propri interessi.
Il
mondo nel 2050 sarà multipolare, con molti paesi influenti, inclusa la Russia,
che perseguiranno i propri interessi, quindi il ” grande compito ” per
l’Occidente è “far funzionare questo”, ha detto domenica il cancelliere tedesco
Olaf Scholz.
Parlando
con CBS News, Scholz ha affermato che la cosa fondamentale ora è fare affari “con molti paesi in modo da poter
convivere con una situazione in cui si presenteranno problemi”.
”
Penso che il mondo in cui vivremo nel 2050 sarà multipolare “, ha aggiunto.
“Molti
paesi saranno importanti. Gli Stati Uniti, la Russia, la Cina, l’Unione Europea
e i paesi di questa Unione, ma anche l’Indonesia e l’India, o il Sud Africa,
paesi del Sud America”.
Il
cancelliere ha affermato che ” il grande compito ” ora è ” far funzionare tutto
questo “, aggiungendo che ” il multipolare non è sufficiente. Multilaterale, lavorare insieme per un futuro
migliore, questo è ciò a cui dovremmo puntare”.
Commentando
il recente vertice della NATO, che ha identificato la Cina come una minaccia, Scholz ha affermato che la
dichiarazione è pienamente in linea con la strategia da lui descritta.
Ha
spiegato che significa solo che il blocco “ è consapevole dei problemi che
potrebbero sorgere.
Scholz
ha sottolineato che i membri della NATO sono democrazie e quindi non sono
aggressivi ” verso il resto del mondo “, ma stanno semplicemente lavorando “per
un mondo in cui l’aggressione non funziona”, aggiungendo che le democrazie
rimangono “molto forti” perché sono sostenute dal popolo.
“Ma
dovremmo essere chiari su queste minacce che stanno arrivando al nostro futuro.
E questo viene dalle autocrazie… perché tendono ad essere aggressive”, ha
detto.
Scholz
considera il lancio dell’offensiva russa in Ucraina “un momento spartiacque
della politica internazionale”. Prima di febbraio, ha detto, “ troppi nel
mondo” speravano che il mondo moderno fosse diverso da quello del passato,
quando “potenza e potere stavano decidendo sul futuro dei paesi e non sulle regole
e sugli accordi che abbiamo tra stati.”
Da
quei tempi, in passato, c’è stato “un accordo secondo il quale non dovrebbe esserci alcun
tentativo di cambiare un territorio… di cambiare i confini, di invadere il
vicino. E questo accordo è ora annullato da Putin”, ha detto.
Mosca
afferma che la sua operazione militare era necessaria, poiché tutti i tentativi di
raggiungere l’Occidente e di concordare garanzie di sicurezza erano falliti e,
di conseguenza, l’esistenza stessa dello stato russo era minacciata.
Dopo
il lancio dell’operazione in Ucraina, la Germania ha invertito la sua politica
di lunga data di non fornire armi ai paesi in conflitto, per iniziare ad armare
Kiev.
IL
MONDO MULTIPOLARE .
Le
osservazioni di Scholz, tuttavia, fanno eco alle recenti dichiarazioni del
presidente russo Vladimir Putin. Intervenendo al Forum economico internazionale di San
Pietroburgo, Putin ha affermato che dalla fine della Guerra Fredda sono emersi
nuovi centri di potere e che hanno il diritto di proteggere i propri sistemi,
modelli economici e sovranità.
Questi
“cambiamenti tettonici davvero rivoluzionari nella geopolitica, nell’economia
globale, nella sfera tecnologica, nell’intero sistema delle relazioni
internazionali” sono “fondamentali, cardine e inesorabili”, ha affermato,
aggiungendo che il “distacco dei leader di UE e USA dalla realtà” alla fine
porterà al degrado.
Il
quotidiano tedesco “Allgemeine Zeitung” ha recentemente riferito che Cina e Russia vogliono che il
gruppo di nazioni BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa) diventi un
contrappeso al Gruppo dei Sette (G7), dominato dall’Occidente.
2050:
MOBILITÀ A IMPATTO ZERO.
Greenweekfestival.it-
Fabio Savelli- Renato Mazzoncini-(10-7-2022)-
ci dice :
(Corriere
Buone Notizie).
«Le profezie avveranti – dice Renato
Mazzoncini – sono quelle demografiche». Le aspettative di crescita della
popolazione mondiale risultano sempre essere rispettate, verificando
puntualmente le previsioni a decenni di distanza.
Per ragionare sulla mobilità del futuro conviene
partire da qui.
Da
quanti siamo ora: poco meno di 8 miliardi. A quanti saremo tra trent’anni, nel
2050: 9,5 miliardi di persone.
Un
differenziale di oltre un miliardo e mezzo, sostanzialmente trainato dal
continente africano. Nel 2050 gran parte della popolazione globale vivrà in città.
Complice
il trionfo dell’economia dei servizi «ogni giorno 200mila persone nel mondo
lasciano le campagne».
È
impensabile immaginare un’inversione, nonostante l’era di Internet teoricamente
avrebbe dovuto cancellare le distanze perché consente la trasmissione dei dati
più che incentivare la mobilità dei flussi.
Non è
avvenuto.
Invece
stiamo entrando nell’epoca delle megacity, megalopoli di 20-30 milioni di
persone.
In cui sarà determinante, per renderle vivibili e sostenibili, costruire un
sistema integrato di treni ad alta velocità e reti metropolitane.
Sviluppando
l’ultimo miglio, fino a casa, con bici, scooter e monopattini elettrici in
condivisione grazie all’effetto della sharing economy che archivia il concetto
di proprietà.
L’obiettivo possibile .
Nel
2050 Mazzoncini ritiene sia possibile raggiungere un obiettivo che, al momento,
sembra utopia: zero per cento di emissioni di anidride carbonica nella mobilità, ora
responsabile di un quarto della quota di Co2 nel mondo.
La spinta maggiore arriva dall’elettrico.
Dovremo costruire 240 giga-factory (stile Tesla in Nevada) per la produzione di
batterie, al costo di due miliardi l’una, capaci di coprire la domanda globale
di 80 milioni di veicoli all’anno. Archivieremmo il motore a scoppio azzerando le
emissioni.
Per
farlo, spiega l’ex amministratore delegato di Ferrovie dello Stato e docente al
Politecnico di Milano, a capo di una sessione di Cop25 a Madrid, dobbiamo
partire da un presupposto che ora frena la transizione energetica per questioni
geopolitiche.
La Cina ha in concessione gran parte dei
giacimenti di nickel e cobalto necessari per la realizzazione delle batterie.
Ha
colonizzato il Congo, strappando contratti decennali di sfruttamento per la
produzione di litio anche in Sud America.
Ora controlla il 90 per cento delle materie
prime necessarie per lo choc dell’elettrico. La ricerca Usa ed europea sta
investendo per dis-intermediare il vantaggio cinese. Ibm sta lavorando su una batteria
che farebbe a meno del Cobalto.
Verrebbe
sostituito da materie prime ricavate dall’acqua di mare. Trovando un elemento di
sostituzione il mondo andrà verso l’elettrico nell’ automotive,
nell’elettrificazione di strade e ferrovie (accantonando anche per i convogli i
motori a diesel). Andrà verso l’idrogeno nell’alimentazione di navi e
traghetti.
Svilupperà
impianti industriali e edifici con fonti rinnovabili comportando la
decarbonizzazione dell’economia.
La
mobilità risultante sarà a impatto zero se poi saremo in grado di potenziare
gli investimenti infrastrutturali nella costruzione di reti ad alta velocità e
metropolitane.
Un
esempio illuminante è la città di Riad. Sei linee in pochi anni. Investimenti
da capogiro trainati dai petrodollari.
Un
esempio su larga scala è la Cina: ha costruito 25mila chilometri di linee ad
alta velocità rivoluzionando le economie di scala globali nella produzione di
materiale rotabile.
L’Italia,
rileva Mazzoncini, avrebbe due straordinari vantaggi competitivi. Il primo
tecnologico. La sofisticazione nell’offerta di competenze nel settore la converte in
un benchmark globale.
Il
secondo geografico.
Siamo
una potenziale piattaforma logistica per l’Africa che necessita di investimenti
infrastrutturali su tutti i segmenti: strade, ferrovie, porti, aeroporti, linee
elettriche. «Converrebbe che andassimo noi lì, portando maestranze e
tecnologie, più che intimorirci per i flussi migratori che impattano sulle
nostre coste», suggerisce Mazzoncini. Una prospettiva rovesciata che dovremo
saper cogliere.
Se
solo concepissimo l’effetto moltiplicatore degli investimenti sull’economia dei
flussi. L’Italia
viaggia ormai a due velocità, come ha rivelato un recente rapporto di Legambiente. L’innovazione e la creazione di
opportunità che sperimenta chi vive in città tagliate dall’alta velocità
risulta frustrante per chi, soprattutto al Sud, è appeso ai tempi di
percorrenza di fine Novecento.
Pur
non annoverando mega-city globali, come quelle asiatiche, l’Italia avrebbe
tutte le potenzialità per investire su una rete domestica di pendolini a lungo
raggio permettendo di azzerare la quota di trasferimenti con l’aereo, molto più
inquinante.
Qui
Mazzoncini insiste: «Dovremo limitare gli spostamenti soltanto ai viaggi
intercontinentali con velivoli alimentati con bio-fuel in modo da ridurre le
emissioni, se l’alta velocità decollasse un po’ ovunque».
Incoraggiando
anche il modello Hyper-loop, un sistema a capsule che teoricamente permetterebbe,
ma le sperimentazioni sono in corso, di raggiungere 1.200 chilometri orari.
Tramite
enormi tunnel dove spingere dei vagoni galleggianti all’interno di un cuscino
d’aria compressa. Se ciò avvenisse la mobilità ne uscirebbe rivoluzionata.
L’Italia ha un modello diffuso di città
medio-piccole di derivazione medievale. Sarebbero connesse dall’alta velocità.
Una
volta arrivati in stazione servirà investire sulla sharing economy che sta
raggiungendo progressivamente una capacità critica di mercato tale da ridurre i
prezzi del consumo on demand.
Monopattini
o no.
Ma Mazzoncini insiste sulla necessità di un forte
cambiamento regolatorio. Con una diversa valutazione del concetto di rischio
che al momento penalizza gli utenti nel rapporto con le compagnie assicurative.
Se i
regolamenti bloccano ancora l’uso diffuso dei monopattini è perché non è ancora
chiaro come attribuire la responsabilità civile in caso di incidenti.
La
ricetta potremmo definirla «olistica». Perché le assicurazioni non ragionano
ancora in termini omni-comprensivi?
Considerando
che il nostro smartphone ci geolocalizza costantemente non dovrebbe essere
complicato costruire polizze a copertura dei rischi comprensive di tutte le
modalità di spostamento che utilizziamo durante la giornata.
Il gps già oggi ci dice se stiamo usando un
monopattino, una bici, uno scooter, un’automobile e su quali distanze. Una volta costruita un’offerta
diversa potremmo persino accogliere l’altra rivoluzione in arrivo: l’auto senza
conducente. Il mondo nel 2050.
Innovazione
e Qualità sono le Leve
Del
Futuro per La Crescita Sostenibile
delle
Filiere Agroalimentari.
Foodaffairs.it-
Redazione-( 10-7-2022)- ci dice :
L’innovazione
e la qualità sono i due fattori indispensabili per un futuro di crescita
sostenibile delle filiere agroalimentari.
Questa
– secondo Adnkronos – la sintesi dell’evento ‘L’innovazione per filiere
agroalimentari sostenibili: strumenti, best practices, politiche a supporto,
organizzato da Nomisma, in collaborazione con Philip Morris Italia e con il
contributo scientifico di Food Trend Foundation.
Il
workshop, introdotto e moderato da Paolo De Castro, presidente del Comitato
Scientifico di Nomisma, ha inteso approfondire attraverso importanti contributi di
esperti e testimonianze di top manager di imprese, il ruolo che l’innovazione
può avere nel rendere ‘sostenibili’, nei diversi risvolti economici, sociali ed
ambientali, le filiere agroalimentari italiane.
Tra le
case history di successo sono state illustrate quelle del pomodoro da industria
e del tabacco, dove negli anni sono stati avviati importanti investimenti in
innovazione, mediante accordi di filiera, finalizzati a garantire maggiore
stabilità e sicurezze agli agricoltori.
Il
contesto attuale caratterizzato dal conflitto russo-ucraino e dai continui
shock sul mercato energetico e delle commodity, a cui si aggiungono gli
obiettivi della transizione ecologica imposti dal Green Deal, rischiano di
mettere a dura prova un sistema produttivo fortemente colpito da tensioni
inflattive e difficoltà di approvvigionamento.
Secondo
l’ultimo Eurobarometro, basato su un’indagine realizzata tra fine febbraio e
marzo scorso, un cittadino europeo su due, quando si tratta di indicare le principali
responsabilità attribuite agli agricoltori, mette al primo posto la produzione
di cibo sostenibile e di alta qualità, mentre per un altro 26% diventa
prioritaria la garanzia di fornitura costante di alimenti.
È quindi
del tutto evidente che qualità dei prodotti agroalimentari, food security e
sostenibilità devono procedere di pari passo, insieme a investimenti in
innovazione per rendere le filiere italiane sempre più competitive e
sostenibili.
Nel
panorama italiano, molte filiere di per sé non sono autosufficienti. Posto pari
a 100 l’indice di autosufficienza (misurato dal rapporto tra produzione e
consumi), filiere come quella del frumento (sia tenero che duro), del mais,
delle carni (sia bovine che suine), del latte sono tutte sotto tale valore.
Lo
dimostra anche il trend nell’import di prodotti agricoli che negli ultimi venti
anni è cresciuto di oltre l’80%, arrivando a toccare i 16,3 miliardi di euro
nel 2021. Non si tratta però di un rischio di ‘food security’ per i consumatori
italiani: le importazioni sono necessarie a garantire in via complementare una
piena funzionalità di quelle catene del valore in grado di sostenere il nostro
export di food &beverage e derivati del tabacco che nello stesso periodo è
più che triplicato (+216%), passando da 14 a oltre 44 miliardi di euro.
“In
uno scenario di guerra – spiega Paolo De Castro presidente del comitato
scientifico Nomisma – i consumatori chiedono agli agricoltori cibi sostenibili
e di qualità. Ma in Italia per alcune filiere non è autosufficiente; mi riferisco alle filiere relative
all’ortaggio, lattiero caseario, orzo, carne suina e salumi, olio di oliva,
mais carne bovina, frutta in guscio. Questo comporta una significativa dipendenza dall’estero
soprattutto per rispondere ad una forte crescita dell’export di food &beverage
e derivati del tabacco. L’innovazione ci salverà, ma in Italia ancora poche aziende
agricole, solo l’11%, investe in innovazione”.
D’altronde,
gli
obiettivi indicati dall’Europa per una neutralità climatica impongono agli agricoltori riduzioni
significative entro il 2030 nell’utilizzo di agrofarmaci e antibiotici (-50%)
nonché di fertilizzanti (-20%).
I target della strategia ‘Farm to fork’ collegata al Green Deal
sono ambiziosi
e non certo ‘a costo zero’ per l’agricoltura comunitaria, visto che anche lo stesso Centro di
Ricerca della Commissione Europea (JRC) ha valutato come l’applicazione tout
court di tali tagli nei mezzi tecnici potrebbe portare ad una riduzione della produzione
agricola dell’Ue compresa tra il 10 e il 15% rispetto ai livelli attuali.
Per
l’Italia è fondamentale garantire sicurezze alle proprie filiere e agli
agricoltori perché, oltre a garantire l’approvvigionamento dei diversi prodotti
agroalimentari, sono in grado di generare quel ‘valore’ richiesto dai
consumatori di tutto il mondo, necessario a preservare la competitività
dell’intero sistema agroalimentare nazionale. Di questo ne è convinto Stefano
Vaccari, direttore generale del Crea che sottolinea come “in un momento
complesso come quello attuale non dobbiamo dimenticare che l’agricoltura
italiana è la prima d’Europa in termini di valore aggiunto.
Noi
produciamo valore, non cibo. Questo significa che innovazione e formazione sono i naturali
binari per correre sul mercato mondiale.
Il Crea nel 2021 ha sviluppato oltre mille
progetti di ricerca, tasselli potenti di crescita per l’agroalimentare. Abbiamo ora bisogno di concentrare
gli sforzi della ricerca agricola su pochi, chiari campi di azione, come la
genomica, l’agricoltura di precisione, la sostenibilità e le agroenergie.
Oggi
le risorse pubbliche scientifiche, specie quelle del Pnrr, sono estremamente
frammentate non governate dal mondo agricolo: su questo speriamo che vi sia un
cambiamento di rotta”.
“Nei
prossimi 12 mesi – avverte – non c’è nessun rischio di crisi alimentare a causa
delle quantità prodotte, ma molti rischi sono dati dalle incertezze dei mercati
finanziari”. Vaccari osserva poi che “il sostegno pubblico all’agricoltura italiana
proviene soprattutto dall’Unione europea e meno dallo Stato e questo penalizza
le aziende agricole che non riescono a organizzarsi con l’Ue”.
“La
vera innovazione – sostiene – è potenziare le conoscenze dell’imprenditore,
creare valore vuol dire più imprenditoria; per l’imprenditore agricolo vuole
dire essere ancora più dinamico sul mercato. Avere anche più consapevolezza di
diventare da custode del territorio a custode del ciclo di vita”.
“Proprio
nel sistema mondiale attuale – sottolinea Alessandro Apolito capo servizio
tecnico gabinetto di presidenza e segreteria generale Coldiretti – c’è bisogno
di una corresponsabilità la cui parola chiave è filiera. Nel settore dei cereali, ad esempio,
c’era un trend di decrescita che però da quando le aziende hanno creduto nelle
filiere 100% italiane si è interrotto. Alla base della sostenibilità c’è,
inoltre, il pilastro fondamentale che è il prezzo equo. Abbiamo un’opportunità
importantissima con il Pnrr e secondo Coldiretti bisogna puntare sulla
sovranità alimentare, energetica e su un migliore utilizzo dell’acqua”.
“La
transizione ecologica – sottolinea – deve vedere protagonista tutto il settore
agroalimentare. Per farlo è necessario continuare a sostenere gli investimenti delle
aziende, puntando
su innovazione e agricoltura 4.0 per ridurre l’uso delle risorse e aumentare la
produttività.
I
contratti di filiera del Pnrr vanno in questa direzione e Coldiretti, insieme a
Filiera Italia, è pronta a presentare tanti progetti operativi e sostenibili”.
Rispetto
a tali obiettivi, non mancano anche casi di successo che dimostrano come tali
strumenti possono favorire la diffusione di processi innovativi in grado di
permettere, al contempo, una sostenibilità a 360° (ambientale, sociale ed
economica) per tutta la filiera.
E’
quello che ha illustrato al convegno Gianmarco Laviola, amministratore delegato
di Princes industrie alimentari che ha dichiarato come “promuovere la
sostenibilità nell’industria del pomodoro non significa solo introdurre
tecnologie avanzate nelle nostre produzioni ma investire nel ruolo della
filiera per dare prospettiva di crescita al comparto, soprattutto in un
contesto di grandi tensioni internazionali e di pressione sui costi delle
materie prime.
Princes industrie alimentari si impegna in
questa direzione per tutelare e sostenere il pomodoro etico e 100% made in
Puglia in tutto il mondo, sia attraverso uno specifico e rivoluzionario accordo
di filiera stretto con Coldiretti sia con iniziative concrete sviluppate con le
rappresentanze dei lavoratori e le associazioni che combattono il fenomeno
dello sfruttamento del lavoro”.
Un’altra
interessante case history dove attraverso accordi di filiera si sono raggiunti
obiettivi di sostenibilità e di innovazione volta a migliorare il prodotto
agricolo verso le nuove esigenze del mercato e di conseguenza a generare quel
valore riconosciuto ai prodotti italiani è quella del tabacco: la filiera del
tabacco ha infatti l’opportunità di esplorare nuove soluzioni innovative, che
permetteranno di intraprendere più velocemente il percorso di transizione
ecologica e digitale, anche alla luce della nuova riforma della Pac e in linea
con il nuovo Green deal europeo.
“I
termini sostenibilità e transizione – afferma Cesare Trippella head of leaf Eu
Philip Morris Italia – ora sono comuni ma 11 anni fa erano visti con molto
scetticismo. Una filiera quella del tabacco innovativa che coinvolge 25mila
lavoratori. Nel 2011 abbiamo cercato di ottimizzare al massimo la filiera con
un verbale di intesa con il ministero dell’Agricoltura per garantire ai nostri
produttori di avere la certezza del prodotto che verrà commercializzato”.
“Continuiamo
– assicura – a mettere al centro il nostro impegno finalizzato ormai da tempo a
garantire una visione di medio e lungo termine e investimenti sulla transizione
eco-energetica e digitale, supportando la sostenibilità ecologica e sociale per
una filiera ottimizzata ed efficiente, con al centro le persone. E’ importante investire sul capitale
umano che vede il 60% costituito da donne. Stiamo facendo un corso per
rimanere nella successione generazionale all’interno delle aziende di famiglia.
Tutti i
nostri campi sono geolocalizzati e la tracciabilità è un must della nostra
attività e tutte le nostre aziende sono verificate periodicamente dai nostri tecnici”.
“In un
contesto macroeconomico sempre più complesso e in continuo cambiamento –
avverte Trippella – credo sia fondamentale garantire stabilità e certezze ai
coltivatori e alle filiere agricole. Come Philip Morris, il nostro impegno verso la
filiera tabacchicola guarda al futuro e lo abbiamo già dimostrato con il
rinnovo degli accordi con il Mipaaf. La nostra azienda è all’avanguardia
anche dal punto di vista degli investimenti per la transizione energetica,
ecologica e digitale della filiera tabacchicola: in linea con la visione
innovativa di un mondo senza fumo, Philip Morris Italia già dal 2011 ha
intrapreso azioni strategiche volte a tali transizioni, ottenendo successi
nella riduzione di CO2, nell’uso responsabile della risorsa idrica, nonché nella
digitalizzazione della filiera”.
A
livello politico Raffaele Nevi responsabile Agricoltura Forza Italia precisa di
“essere preoccupato perché ho l’impressione che la guerra invece di farci
riflettere e ripensare le nostre priorità fa proseguire come nulla fosse.
L’Europa è strategica e fondamentale per l’agricoltura e c’è necessità di una
strategia di lungo periodo e di costruire un nuovo recovery fund.
“Credo
– aggiunge Mino Taricco capogruppo Partito Democratico nella IX Commissione
permanente – Agricoltura e produzione agroalimentare al Senato – che il
cambiamento di consapevolezza in atto sulla sostenibilità nelle sue varie forme
rafforza il pensiero dei cittadini su questo argomento. Il tema delle filiere è una delle
frontiere del futuro e il loro rafforzamento può essere davvero uno strumento
per un salto di qualità. Questi temi sono centrali e all’ordine del giorno su
cui stiamo lavorando in commissione e sui quali il nostro impegno rimarrà
fortissimo”.
Trombe
d’aria, alberi abbattuti e tetti volanti,
i
nubifragi in Lombardia mostrano
l’altra
faccia apocalittica del clima che cambia.
Greenme.it-
(5 Luglio 2022)- Rosita Cipolla-: ci
dice:
Forti
raffiche di vento, temporali e trombe d'aria: che sta avvenendo in Pianura
Padana non è semplice "maltempo": è la conseguenza lampante della
grave crisi climatica, con cui dobbiamo abituarci a convivere.
Sono
immagini spaventose quelle che arrivano da diverse città della Lombardia,
flagellata da intensi temporali, dopo giornate di caldo infernale: enormi alberi abbattuti dalle forti
raffiche di vento, tetti di abitazioni scoperchiate e auto distrutte. Cremona, Mantova e Pavia sono state
messe in ginocchio da un’ondata anomala di maltempo.
Scene
quasi apocalittiche che si stanno verificando in piena estate. Soltanto in
queste tre città sono state circa 200 gli interventi dei Vigili del Fuoco nella
giornata di ieri.
A
Cremona si è formata persino una grossa tromba d’aria, che ha provocato
numerosi danni e spazzato via il tetto di un’abitazione di via Bergamo e i rami
degli alberi, finiti poi sulle macchine che si trovavano in strada.
Diversi
i disagi anche alla circolazione dei mezzi: a causa dei temporali è stata
interrotta temporaneamente la linea ferroviaria fra Cremona e Parma. Proprio in
queste ore i tecnici stanno lavorando per riattivare il servizio dei trasporti.
Nel
frattempo il sindaco di Cremona ha annunciato che chiederà l’attivazione dello
stato di calamità.
Il
peggio sembra passato, ma il maltempo proseguirà ancora nelle prossime ore,
specialmente nell’area orientale della Lombardia. Per oggi, infatti, è stata confermata
l’allerta gialla diramata dalla Protezione civile per rischio temporali.
Non va
meglio in Emilia-Romagna, colpita da intense piogge e raffiche di vento fino a
i 90 km/h che hanno causato danni e blackout in vari comuni, in particolare a
Parma e Bologna. A rimetterci la vita anche un uomo, schiacciato dal peso del muro di una
stalla, abbattuto dalla furia di una tromba d’aria. La tragedia si è consumata
in un’azienda agricola di Besenzone, in provincia di Piacenza.
Non
chiamiamolo semplicemente “maltempo”: è l’ennesimo campanello d’allarme degli
stravolgimenti climatici.
In
Pianura Padana il clima sembra essere impazzito. Si è passati dal caldo asfissiante e
dall’assenza di piogge a violenti nubifragi e trombe d’aria. Maltempo? No, chiamare così questo
fenomeno sarebbe riduttivo e fuorviante.
Ciò
che stiamo vedendo è il campanello d’allarme (l’ennesimo!) della crisi
climatica in atto, che in questo periodo ci sta facendo vivere sulla nostra
pelle le sue conseguenze più catastrofiche: ondate di calore record, siccità,
scioglimento dei ghiacciai (la tragedia avvenuta sulla Marmolada ne è un
esempio lampante) e gli improvvisi temporali accompagnati dalle trombe d’aria,
che sono sempre più frequenti nel nostro Paese. E purtroppo potrebbe essere
solo l’antifona di un futuro ben più oscuro.
Di
anno in anno, infatti, la situazione sta peggiorando e gli eventi meteorologici
estremi sono destinati ad aumentare. Secondo i dati pubblicati lo scorso anno
dall’Osservatorio Città Clima di Legambiente, dal 1° novembre del 2010 al 1° novembre del 2021
si sono registrati 1.118 eventi meteorologici estremi (+17,2% rispetto al
precedente monitoraggio) e i comuni investiti da questi fenomeni sono stati 602
comuni, ben 95 in più rispetto allo scorso anno, mentre il bilancio è di 261
vittime. Crescono
gli allagamenti, i danni provocati da trombe d’aria e dai periodi prolungati da
siccità, ma anche le frane e le grandinate estreme.
Nel
rapporto 2021 di Legambiente sono state individuate 14 aree del Paese dove si
ripetono con maggiore intensità e frequenza alluvioni, trombe d’aria e ondate
di calore. Si tratta di grandi aree urbane e di territori costieri dove la
cronaca degli episodi di maltempo e dei danni è senza soluzione di continuità e
per questo dovrebbe portare a un’attenzione prioritaria da parte delle
politiche. – spiega l’associazione ambientalista – Ad intere città come Roma, Bari,
Milano, Genova e Palermo, vanno aggiunti territori colpiti da eventi estremi
ripetutamente e negli stessi luoghi.
Aree
come la costa romagnola e nord delle Marche, con 42 casi, della Sicilia
orientale e della costa agrigentina con 38 e 37 eventi estremi. In queste
ultime due aree sono stati numerosi i record registrati nel corso del 2021: a
Siracusa l’11 agosto, si è raggiunto il record europeo di 48,8 °C, nel catanese
e siracusano in 48 ore si è registrata una quantità di pioggia pari ad un terzo
di quella annuale. Inoltre, proprio questa parte dell’isola è stata teatro di
devastazione a seguito del medicane Apollo. Colpita anche l’area metropolitana
di Napoli dove si sono verificati 31 eventi estremi, mentre, tra gli altri
territori, ci sono il Ponente ligure e la provincia di Cuneo, con 28 casi in
tutto, il Salento, con 18 eventi di cui 12 casi di danni da trombe d’aria, la
costa nord Toscana (17 eventi), il nord della Sardegna ed il sud dell’isola con 9 casi.
In
poche parole ci tocca prepararci ad eventi catastrofici sempre più ricorrenti,
facendoci trovare pronti a gestire queste emergenze, che diventeranno la nostra
nuova “normalità”.
Amitav
Ghosh: “Davanti i cambiamenti
climatici
c’è chi si muove come
uno
zombie, dobbiamo svegliarli”.
Fanpage.it-
Redazione- Amitav Ghosh- Martino Mazzonis e Angelo Loy – (8 luglio 2022)-ci
dicono
Nel
corso di un documentario sui cambiamenti climatici in Bangladesh Martino
Mazzonis e Angelo Loy hanno incontrato lo scrittore Amitav Ghosh, lo scrittore
originario del paese asiatico che si è occupato nella sua attività saggistica a
lungo di questi temi.
Un’isola
sul fiume Meghna nei pressi di Barisal, le piene del fiume, sempre più
frequenti e imponenti stanno erodendo le sponde a ritmi mai visti.
Nel
suo ultimo “The Nutmeg Course” (La maledizione della noce moscata) Amitav Ghosh
trova le origini della crisi climatica nel violento sfruttamento della vita
umana e dell'ambiente naturale da parte del colonialismo occidentale.
Proveniente
da una famiglia originaria del Bangladesh e cresciuto a Calcutta, Ghosh
racconta di come l’idea che la natura sia un luogo che produce merci da
raccogliere e sfruttare in maniera massiccia cresca nel rapporto coloniale tra
Occidente, Africa e Asia.
Il
libro uscito lo scorso anno (La maledizione della noce moscata uscirà
nell'autunno 2022 per Neri Pozza) e per questo, quando abbiamo cominciato a
lavorare a “Gli Spaesati”, documentario sugli effetti del cambiamento climatico
in Bangladesh, paese che ne subisce gli effetti devastanti già da diversi anni,
abbiamo pensato a lui.
"Il
cambiamento climatico è la cosa più grande che sia mai capitata alla specie
umana. Dovrei chiudere gli occhi se non dovessi scriverne. – racconta lo
scrittore indiano – Nel senso più elementare del termine, la dinamica che sta
alla base del cambiamento climatico deriva da un modello di economia
estrattiva, che ha iniziato a imporsi a partire dal XVI e XVII secolo con il
colonialismo.
Il mio libro parte dalla storia della noce
moscata che un tempo cresceva solo sulle isole Molucche: per appropriarsene, gli olandesi
sterminarono la popolazione di quelle isole. C’era una merce con un ampio
mercato e l’hanno presa. È il tipo di atteggiamento avuto dal colonialismo
prima e da quel che è venuto dopo, l’uso dell’ambiente come di una merce. I
risultati sono sotto i nostri occhi".
Lo
scrittore indiano insiste sull’idea che per invertire la tendenza dovremmo
smetterla di vivere su questo pianeta come se fossimo in un supermercato dove
la merce è anche gratis, si passa, si prende quel che serve, si butta quel che
non ci piace. Non è un discorso sulla “decrescita felice” ma la necessità di fare uno sforzo
per trovare un equilibrio tra quel che consumiamo e quel che la natura è in
grado di riprodurre.
La preoccupazione di Ghosh sta anche nel mancato
rispetto degli impegni presi nelle conferenze internazionali (“le risorse
promesse per i paesi in difficoltà e senza risorse non sono arrivate”) e per la
guerra:
gli
eserciti sono una fonte di inquinamento devastante e gli effetti materiali di
quanto succede in Ucraina (inflazione, energia, potenziale crisi alimentare)
distoglie l’attenzione da quella che dovrebbe essere la nostra principale
preoccupazione.
(fanpage.it/attualita/amivat-ghosh-davanti-i-cambiamenti-climatici-ce-chi-si-muove-come-uno-zombie-dobbiamo-svegliarli).
Riflessioni
in libertà sulla
“nuova
normalità.”
Pressenza.com-
(10.07.22) - Eros Tetti- ci dice :
Cari
amici e amiche, “Tornare alla normalità” è stata probabilmente la frase più
usata negli ultimi due anni, un periodo molto intenso di iniziazione per tutta
l’umanità. Cosa
voglio dire?
Voglio sottolineare il fatto che quello che credevamo
la “normalità” era solamente un momento, una bolla, che abbiamo conosciuto
negli ultimi decenni, soprattutto in occidente, lo sottolineo onde evitare di
risultare etnocentrici. Questo passaggio pandemico, come abbiamo visto, ha scosso
profondamente le coscienze di tutti noi generando anche molti deliri sociali,
complottismi e cospirazionismi soprattutto tra chi ha faticato molto di più ad
integrare quello che stava succedendo.
Ma
infine tutti noi ci siamo trovati a cozzare con le nostre credenze, con le
proiezioni future e con ciò che davamo per certo e scontato dovendo mettere
tutto in discussione.
Questi
effetti hanno ovviamente raggiunto come uno tsunami chi già era più fragile sia
lavorativamente che economicamente, lasciando delle ferite molto profonde che
richiederanno tutto l’impegno possibile per riuscire a sanarle se mai sarà
possibile.
Ma
finita, per modo di dire, la fase pandemica ci siamo trovati davanti ad una
guerra sanguinaria alle porte dell’ Europa cosa, anch’essa, impensabile almeno
fino a qualche anno fa e davanti ci attende una molesta inflazione mentre dobbiamo affrontare una
mordente crisi climatica che, dopo averla nascosta sotto il tappeto, è oggi più
ruggente e fuori controllo che mai.
Siamo
davanti ad un paesaggio umano e sociale pazzesco, se non addirittura
apocalittico, ma come possiamo porci davanti al divenire degli eventi?
Quali
reazioni potranno caratterizzare le persone che ci stanno attorno? Io ne ho
individuati in prevalenza tre tipologie, che con varie sfumature caratterizzano
la nostra società attuale:
Chi fa
finta di niente. Uno dei comportamenti più disarmanti e sconcertanti è quello di chi
sceglie, assalito probabilmente dalla profonda paura del cambiamento o dalla
più completa disconnessione, di fare finta che tutto stia andando come sempre e
pertanto cerca di continuare, profondamente disorientato, a mettere in moto gli
stessi ruoli e comportamenti che, in un mondo che si destruttura, funzioneranno
sempre meno creando asfissia e panico.
Quelli che stanno a guardare dalla finestra
come scrisse Antonio Gramsci nel suo “odio gli indifferenti”.
Delirio
profondo.
Altro comportamento abbastanza diffuso è il
delirio, il negazionismo oppure il complottismo dove molti immaginano pochi
potenti che gestiscono ogni cosa: dal clima, alle pandemie, alla finanza
globale.
Vivono
come in un Grande Fratello cercando le chiavi di interpretazione di segnali e
messaggi misteriosi per decifrare quello che succede e capire cosa succederà. Persone che non riescono ad accettare
la realtà e che nostalgiche di Dio o degli Dei rimangono vittime di questa
sindrome descritta benissimo da Karl Popper che la ritiene antica come il
mondo!
Ovviamente
nessuno nega le oligarchie, i gruppi di potere ecc… ma si nega la loro capacità di
gestire il mondo come, appunto, fossero delle divinità onniscienti, onnipotenti
e onnipresenti.
Riprendere
il proprio destino.
C’è poi chi assiduamente cerca di cambiare le
cose, magari anche sbagliando, di lottare affinché tutto vada per il meglio,
impegnandosi duramente in prima persona, sentendosi spesso come a bordo di un
affollato treno che sta andando verso un baratro e cercando di avvertire i
passeggeri si ritrova spesso inascoltato. Perché d’altronde, come diceva Silo
un noto filosofo argentino, “non si scherza col sonno dei vicini”.
Queste
persone devono assolutamente assumere un dato certo, ovvero che siamo davanti
ad una nuova normalità dove niente è come prima e che chi ti circonda spesso
non ha gli strumenti o la forza per comprendere ed interpretare il momento
attuale.
La
nuova normalità, se vogliamo davvero chiamarla così, si tratta solo della vera normalità
della vita che è sempre stata, fin dagli albori della nostra evoluzione, una ricerca di equilibrio in un
sistema instabile che oggi è probabilmente altamente instabile, quello che
dobbiamo fare è ricercare un “adattamento crescente” che ci consenta di vivere
spingendo verso una profonda trasformazione del mondo che ci circonda.
E’ il
momento in cui tutti noi prendiamo azione senza aspettare, partendo proprio
dalle persone che abbiamo vicino, dalla difesa del nostro territorio, dal
tornare ad essere umani e non più consumatori ipnotizzati da uno stile di vita
obsoleto. Uno
stile di vita che ormai ci va stretto e che ci sta soffocando, dobbiamo
assumere profondamente il fatto che solo un cambio profondo del nostro stile di
vita, della nostra economia, delle nostre abitudini ci porterà fuori da queste
sabbie mobili che, lentamente, giorno dopo giorno, ci inghiottono.
Che
ognuno si domandi profondamente cosa veramente conta, cosa è essenziale e cosa possiamo
abbandonare perché qualcosa di sicuro dovremmo lasciare.
In questi
anni di attività politica ho imparato che le persone ti votano se gli dici cosa
si vogliono sentir dire e non se dici come stanno realmente le cose, nessuno
vuol sentirsi dire che la crisi climatica che viviamo è forse irreversibile e che
dobbiamo drasticamente cambiare stile di vita se vogliamo salvarci.
Tutti
rivogliono indietro gli anni Novanta o i duemila, tutti vogliono indietro la
normalità che se poi ci pensassero bene vorrei sapere se erano davvero felici
oppure è solo il ricordo renderli più splendenti di quello che erano, forse
anche allora eravamo infelici ma con più soldi per non pensarci.
Quindi
andiamo avanti verso questa nuova normalità fatta di incertezze e di mistero
che se poi guardiamo bene è la normalità della vita, questa cosa misteriosa che
passiamo su questa sfera che chiamiamo Terra illuminata da un’altra sfera che
chiamiamo Sole, granelli di sabbia in un infinito universo.
Forse
questa “nuova normalità” potrebbe essere lo stimolo per ritrovare il senso più
profondo della vita, tranquilli nessuna apocalisse ma una profonda metamorfosi che
richiede impegno e celerità!
Chiudo
affermando con forza la mia profonda fiducia nell’essere umano, nella sua
capacità di costruire e cambiare il mondo, nel suo vibrare davanti a sentimenti
profondi come l’amore, nel suo investigare attraverso l’arte e la scienza,
nella sua capacità di risolvere i problemi e superare gli ostacoli che la vita
da sempre ci ha posto.
Siamo
i figli di coloro che millenni orsono si alzarono in piedi, controllarono l’energia
per accelerare la propria evoluzione, diedero nomi a tutto ciò che li
circondava, creatori di significati e senso, creatori di realtà.
Siamo i figli di coloro che lottano da sempre per
superare il dolore e la sofferenza nonostante i tanti tantissimi errori
commessi.
Vedo
questo essere umano pronto a superare la sua adolescenza per affrontare la sua
maturità, pronto a creare quel paradiso perduto che è il sogno fondante di
tutte le culture, quel paradiso non stava nel passato ma è la nitida visione
del futuro che dobbiamo costruire.
Timore
per il futuro dei giovani e necessità
di
raccontare il territorio: presentati all’Accademia
i
risultati del sondaggio “Felici, non troppo”.
Qdpnews.it-
Arianna Ceschin- (9 LUGLIO 2022)- ci dice :
Timore
per il futuro e necessità di comunicare meglio il territorio, preoccupazione
per il costo della vita e per l’avvenire delle nuove generazioni: sono alcuni
degli aspetti emersi nel corso del convegno “Felici, non troppo”, tenutosi
giovedì sera al Teatro Accademia di Conegliano per presentare i risultati di un
sondaggio promosso dall’amministrazione comunale al fine di comprendere quale
sia “la qualità della vita nella percezione della popolazione dell’area
coneglianese e della Marca trevigiana”.
L’appuntamento,
condotto dal giornalista Dino Boffo, ha visto una consistente partecipazione di
pubblico, comprese autorità regionali e dei territori comunali limitrofi,
rappresentanti del mondo della scuola, dell’imprenditoria, degli ordini
professionali, dell’associazionismo, del mondo bancario e religioso.
Presenti
anche il vescovo Corrado Pizziolo, il viceprefetto Antonello Rocco Berton, il
direttore generale dell’azienda sanitaria Ulss 2 Francesco Benazzi, mentre sono
stati letti i saluti del governatore della Regione Veneto Luca Zaia.
“Nel
nostro piccolo abbiamo voluto fare un’analisi seria”, ha affermato il primo
cittadino Fabio Chies, aggiungendo che il 60,2% della popolazione ha più di 60
anni e che il 50,8% dei coneglianesi ha sempre vissuto in città, a fronte del
33,5% del dato relativo al territorio provinciale: “Il nostro territorio deve
farsi delle domande di fronte alla presenza di problemi reali”.
L’analisi
ha preso in esame non solo la città di Conegliano, ma l’area del coneglianese,
ovvero anche i Comuni contermini. “Le percezioni determinano la nostra realtà –
ha affermato Daniele Marini, docente dell’Università degli Studi di Padova e
direttore scientifico di Research & Analysis – ed è la nostra percezione a
fare la realtà. I due terzi degli intervistati sono contenti di vivere qui a
Conegliano, contro il 50% dell’area esterna. C’è quindi uno strabismo tra il peso
della realtà e il peso della situazione percepita”.
Dalla
sua analisi è emerso quanto l’aspettativa per il futuro sia negativa: gli intervistati hanno considerato
peggiorati gli aspetti legati alla possibilità di curare la propria salute,
alla criminalità e all’inquinamento. Giudicati stabili gli ambiti della cultura e dei
trasporti, migliorati invece i campi relativi alla velocità di internet e
all’informazione sul territorio, secondo le persone coinvolte nel sondaggio.
Il
futuro è quanto di più preoccupa gli intervistati e, in caso di imprevisti, la famiglia
e gli amici sono le figure considerate più adatte per ricevere un aiuto, mentre
solo il 20% degli intervistati cita in questo senso le parrocchie e le
associazioni, all’ultimo posto si trovano i servizi comunali e lo Stato. Sono
considerati utili i servizi di aiuto domestico e di carattere infermieristico
domiciliare.
Tutti
aspetti che sono stati poi argomentati all’interno di un dibattito tra i
protagonisti del mondo imprenditoriale.
“La nostra è una società seduta che vive di rendita,
bisogna ripartire dalla bellezza del passato ereditato – ha osservato Maria
Cristina Piovesana di Alf Group – Un Paese che guarda al futuro deve essere un
Paese che si interroga: bisogna capire in primis che cosa desiderano i
giovani”.
“Il
ritorno al concetto di comunità e alla coprogettazione dei servizi” è quanto
citato da Raffaella Da Ros (Cooperativa Insieme si può), secondo la quale è
inoltre necessario “valorizzare i giovani e le loro competenze”.
“Le aziende devono imparare a
comunicare, anche a livello interno condividendo le strategie aziendali con i
collaboratori, e a raccontarsi meglio”, è l’osservazione di Lara Caballini
di Sassoferrato di Dersut Caffè, mentre secondo l’industriale Matteo Zoppas “non sono
chiari gli obiettivi su quello che si vuole essere domani, bisogna prendere
delle decisioni”.
“La
nostra è una società in cui si fa fatica a discutere e ad affrontare i temi
scomodi – ha affermato Chies alla fine del convegno – Non dobbiamo aver paura del
cambiamento. I giovani non trovano la motivazione, perché si sentono esclusi e
ognuno deve sentirsi realizzato”.
“Ogni
tanto trovarci come stasera e parlarci fa bene a tutti – ha aggiunto – Abbiamo
perso grandi opportunità, ma non possiamo perderne delle altre: dobbiamo
esserci quando abbiamo opportunità di cambiare le cose.
Credo
che questa sia la strada da intraprendere: trovare degli appuntamenti in cui
ci troviamo tutti assieme per ragionare sul territorio. Ci saranno degli altri incontri: il territorio lo chiede e noi
dobbiamo dare delle risposte”.
Vivere
su Marte: ecco i problemi
che
dovremo affrontare.
Wired.it-
Redazione- (18-4-2021)- ci dice :
Marte
è la prossima tappa per l’umanità nello spazio, ma prima di pensare davvero di
viverci, ci sono alcuni problemi che dobbiamo risolvere. E non è detto che ci
riusciremo.
Tra i
grandi successi delle missioni marziane e i progetti a lungo termine delle
agenzie spaziali pubbliche e private, Marte in questo periodo sembra più vicino
che mai.
Anche
i progetti di costruzione di basi lunari (come quella russo-cinese o quella del
programma Artemis) fanno avvicinare l’idea di un possibile futuro
interplanetario per la specie umana e, di riflesso, lo stesso Pianeta rosso.
Negli
ultimi giorni si è per esempio molto parlato di Nüwa, la città marziana futuristica
ideata dallo studio di design architettonico Abiboo insieme al gruppo di
ricercatori Sonet per un concorso della Mars Society, l’ente che si propone di
promuovere il futuro dell’umanità su Marte.
Per
ipotizzare come potrebbe essere il primo insediamento umano su Marte, Abiboo e Sonet cercano soluzioni
fantascientifiche – nel senso stretto del termine, ossia tenendo imbrigliata la
fantasia con la scienza per creare ipotesi futuribili.
Nüwa
sarebbe una città sulla Tempe Mensa, a sviluppo verticale nella roccia, in
tunnel protetti dalla radiazione e dalle meteoriti. Sarebbe costruita integralmente con
risorse locali e dipenderebbe dalla Terra solo in una fase iniziale.
Dopodiché, sfruttando ciò che il pianeta ha da
offrire, potrebbe diventare completamente autosufficiente e sostenibile. È un insieme di
ipotesi per risolvere i problemi principali nella costruzione di un avamposto
marziano: le
radiazioni, l’estrazione di risorse, la produzione di cibo e acqua, la
creazione di un ambiente artificiale che simuli le condizioni ambientali
terrestri.
Colonie
su Marte: un problema di radiazioni.
Marte
è piccolo, troppo piccolo per aver mantenuto il calore interno necessario per
la produzione di un campo magnetico planetario.
Inoltre,
proprio poiché è piccolo, la sua debole gravità non è in grado di trattenere
un’atmosfera densa, che sulla superficie risulta appena qualche centesimo
dell’atmosfera terrestre.
La combinazione di questi fattori, l’assenza di campo
magnetico e la sottigliezza dell’atmosfera, fanno sì che chiunque si trovi
sulla superficie del pianeta rosso sia soggetto al continuo bombardamento di
raggi cosmici, quelle particelle cariche ed energetiche che provengono dal Sole
o dallo spazio interstellare.
Non
parliamo di poca radiazione: in uno studio del 2014 condotto con la strumentazione di
Curiosity si è determinato che nel migliore dei casi, con un viaggio di sei
mesi e una permanenza sul Pianeta rosso di poco più di un anno, la dose di radiazioni totali
che un o una astronauta riceverebbe è di 1,01 sievert, più di venti volte
maggiore di quella annua consentita per legge per chi lavora nell’industria
nucleare. Un eccesso di dose di radiazione significa
l’aumento di incidenza di varie patologie e un’incrementata probabilità di
sviluppare cellule tumorali, per cui una protezione dalla radiazione è un passo essenziale
se vogliamo ipotizzare non solo una permanenza, ma anche un semplice viaggio di
andata e ritorno da Marte.
(Il
Radiation Assessment Detector è lo strumento di Curiosity dedicato allo studio
dell'ambiente di radiazione.)
Oltre
a ipotizzare una vita marziana sotterranea, per ridurre l’ingresso di
radiazioni possiamo scegliere materiali più adatti alla schermatura. Ci sono
vari materiali che si potrebbero usare a questo scopo, come il polietilene e
alcuni materiali a base di boro e azoto, ma si potrebbe usare anche l’acqua,
che in ogni caso gli astronauti dovranno avere, distribuendola in maniera
strategica per schermare almeno in parte la radiazione: una soluzione di questo
tipo richiede però la presenza di una sorgente di rifornimento continuo per
l’oro blu.
L’acqua
e il cibo su Marte.
In
genere pensiamo a Marte come a un pianeta desertico, simile in qualche modo ai
deserti iper-aridi terrestri come il Sahara o l’Atacama. Marte è in realtà
molto più arido, molto più inospitale: il vapore acqueo in atmosfera è
pochissimo e sulla superficie di Marte non può esistere acqua liquida.
C’è una buona riserva di ghiaccio nelle
calotte polari e al di sotto della superficie dove il ghiaccio è mescolato al
terreno in una sorta di permafrost.
Inoltre il ghiaccio si può trovare anche in
alcune regioni particolarmente fredde che, pur non trovandosi ai poli,
mantengono una bassa temperatura perché per esempio sempre in ombra.
In un
modo o nell’altro quindi su Marte l’acqua, che serve anche per la produzione di
carburante, si può ricavare.
Anche
tenendo in considerazione sistemi di riciclaggio come quelli della Stazione
spaziale internazionale, una base marziana deve necessariamente attenersi al
vincolo di trovarsi in un luogo in cui l’acqua è facilmente reperibile.
(Korolev
è un cratere nella regione polare nord di Marte ricco di ghiaccio d'acqua).
Per il
cibo la questione è un po’ più complessa.
Dei
rifornimenti di cibo simile a quello che gli astronauti mangiano sulla Iss
potrebbero essere portati dalla Terra, ma una produzione autosufficiente
sarebbe comunque necessaria: esclusi gli allevamenti di animali, che richiedono
troppe risorse tra acqua, energia e mangime, occorre inventarsi qualche modo di
coltivare vegetali.
Tra le
coltivazioni più adatte al suolo marziano ci sono gli asparagi e gli spinaci (non le patate come in The Martian) e poi pomodori, funghi, cavoli,
aglio e carote.
La
coltivazione diretta sul suolo è complicata dalle radiazioni, dalla minore
gravità e insolazione marziana, qualcosa che si potrebbe risolvere almeno in
parte con delle serre pressurizzate, che però richiederebbero molta energia per
funzionare.
Un’alternativa
più pratica se le basi fossero sotterranee potrebbero essere le culture
idroponiche o, meglio ancora, aeroponiche, ossia in cui l’acqua e i nutrienti
sono forniti alle piante tramite nebbia.
(In
The Martian le piante coltivate sono le patate, ma non sarebbero la
coltivazione più adatta al terreno marziano. ).
Un
ambiente terrestre su Marte.
Tralasciando
ipotesi che, almeno nel breve termine, scavalcano la linea di demarcazione tra
scienza e fantasia che riguardano la terra-formazione di Marte, all’interno di
una eventuale base marziana sarà necessario ricostruire un ambiente il più
possibile simile a quello terrestre.
La temperatura media su Marte è di 63 gradi
sotto lo zero, più bassa della media antartica, e l’escursione termica è
fortissima tra la notte e il giorno: se mai costruiremo una base su Marte, la
temperatura dovrà necessariamente essere tenuta sotto stretto controllo
artificiale.
La
coltivazione di piante, di per sé, può favorire la produzione di ossigeno a
spese dell’anidride carbonica, controbilanciando gli scarti della respirazione
umana.
Ma
l’atmosfera di Marte è composta al 96 percento da anidride carbonica e
l’ossigeno è presente in piccolissima parte.
Per
questa ragione, ad esempio, sul rover Perseverance è stato inserito uno
strumento, il Mars Oxygen Experiment, che ha l’obiettivo di estrarre dell’ossigeno dall’anidride
carbonica marziana, lavorando con l’elettrochimica per separare le molecole di
anidride carbonica in monossido di carbonio e in ossigeno. Uno strumento miniaturizzato che poi
dovrebbe essere replicato in grande all’interno della base marziana.
Tra
gli innumerevoli problemi che resterebbero ancora da nominare c’è per esempio
quello della gravità, che su Marte è un terzo di quella terrestre e non
sappiamo quali effetti ciò potrebbe avere sul corpo umano nel corso di un
soggiorno prolungato.
O c’è
quello delle violente tempeste di sabbia, che oscurano il cielo di tutto il
pianeta per settimane o mesi e che, ancora una volta, costringerebbero a vivere
nel sottosuolo.
Ci
sono i pericoli per la psiche di persone costrette a periodi prolungati in un
ambiente completamente artificiale.
Ma di
fondo, per affrontare tutto ciò tra pericoli, costrizioni e difficoltà, c’è un
problema di motivazione: come per l’Antartide o i fondali oceanici, ci sono
ottime ragioni per pensare a modi di costruire delle basi scientifiche su
Marte, ma
per quale ragione dovremmo volere costruire delle vere e proprie città su un
pianeta inospitale come Marte?
(Lo
vuole fare la Cina per traportarvi i suoi nemici terrestri ! Ndr.).
Abitiamo
in un mondo d’acqua
è
tempo di abbandonare la Terra
e
vivere il pianeta Oceano.
Corriere.it-
Prof. Simone Regazzoni – (28 giu. 2022)- ci dice :
Abitiamo
in un mondo d'acqua è tempo di abbandonare la Terra .
Sono
le 10 e 39 Utc del 7 dicembre 1972, l’equipaggio dell’Apollo 17 si trova a
quarantacinquemila chilometri di distanza dalla Terra, in viaggio verso la Luna
Il solstizio d’inverno è vicino.
Il
nostro pianeta è interamente illuminato dalla luce del Sole che si trova alle
spalle degli astronauti. Un membro dell’equipaggio, probabilmente il
geologo-astronauta Harrison Schmitt, scatta una foto a colori: ancora non lo
sa, ma diventerà una fotografia epocale e uno spartiacque nella storia del
pianeta.
Per la prima volta la nostra dimora cosmica si
vede allo specchio e diventa consapevole di ciò che è: una biglia blu, «Blue marble», come
venne battezzata la foto.
Si
tratta di una vera e propria rivoluzione nella nostra visione del mondo, che
appare dominato non più dalla dimensione a noi familiare, quella Terra stabile,
salda, sicura a partire da cui ci definiamo come «terrestri», ma dal blu dell’oceano che ricopre
più del 70 per cento della superfice del pianeta , rappresenta il 99 per cento
dello spazio biologicamente abitabile e ospita l’80 per cento delle specie
viventi di cui un terzo restano sconosciute.
La
foto scattata dall’Apollo 17 il 7 dicembre 1972 non è soltanto un documento
storico della conquista dello spazio. Rappresenta anche l’immagine reale del
nostro Pianeta: una biglia blu che ci fa vedere come gli Oceani coprano gran
parte del globo: sono il 99 per cento dello spazio biologicamente abitabile. E
ci invita a riflettere sul nostro futuro di uomini acquatici.
Solo
chi aveva una profonda familiarità con l’oceano, come il baleniere letterato
Herman Melville, ha potuto anticipare questa visione scrivendo in Moby-Dick :
«Era una limpida giornata d’un azzurro acciaio. I firmamenti dell’aria e del
mare a stento si riusciva a distinguerli in quel turchino onni-pervadente».
Ma
perché, ci si potrebbe domandare, «Blue marble» è così importante? Perché
l’azzurro, il blu, il «turchino onni-pervadente» si riappropriano del pianeta.
Perché
da quel momento il pianeta è un po’ meno nostro, una Terra a misura d’uomo e
del suo potere territoriale, e assume una sorta di autonomia vivente legata
alla dimensione acquorea che ora lo definisce.
Certo,
si sapeva già che l’oceano occupava più del 70 per cento della superfice
terreste: ma per la prima volta questo numero si fa esperienza concreta,
sensibile, consapevolezza carnale che ci spinge, passo- passo, al di là dei
limiti del pianeta Terra. Non a caso alla fine degli Anni Settanta, la nuova
sensibilità per l’ecologia ha prodotto un ripensamento dell’idea del pianeta,
che è stato ribattezzato Gaia per metterne in evidenza la natura di organismo
vivente.
(«Oceano,
Filosofia del pianeta» di Simone Regazzoni, Ponte alle Grazie, è una
riflessione sull’oceano, dai presocratici a Melville «Oceano, Filosofia del
pianeta» di Simone Regazzoni, Ponte alle Grazie, è una riflessione sull’oceano,
dai presocratici a Melville.)
Immersi
nell’idrosfera.
Più
recentemente, si è proposto di usare la parola «Terra» come nome proprio per
tutti i viventi che hanno un’aria di famiglia perché legati a un’origine comune. Si tratta di passi importanti che
tuttavia non colgono fino in fondo la portata ecologica inscritta in un
ripensamento oceanico del pianeta. È tempo di prendere atto che il pianeta Terra è
un’idea ristretta e antropocentrica di pianeta che ci ha condotti alla crisi
ecologica attuale. Per quanto necessari, non sono sufficienti gli sforzi di tipo etico
legati ai nostri comportamenti se vogliamo evitare che questa crisi diventi
irreversibile. Dobbiamo entrare in un’altra dimensione del mondo e della vita
sul pianeta, ripensando così il tutto e la nostra posizione di viventi umani in
questo tutto .
È
tempo di abbandonare il pianeta Terra per immergerci nel flusso del pianeta
oceano. Una
mera fantasia per filosofi o scrittori? No, piuttosto un processo in corso di
cui prendere consapevolezza.
Che
cos’è un pianeta oceano.
Provate
a cercare sul sito della Nasa il nostro pianeta. Non troverete il buon vecchio
pianeta Terra, ma un “ocean world” o un “ocean planet” e questa spiegazione:
« La storia degli oceani è la storia della vita. Gli
oceani definiscono il nostro pianeta natale, coprendo la maggior parte della
superficie terrestre e governando il ciclo dell’acqua che domina la nostra
terra e atmosfera ».
La
stessa geografia, da diversi anni, ha cominciato a parlare del nostro pianeta
come di un «mondo d’acqua» decretando la necessità di una grande inversione
nella visione del mondo.
Quello
che potrebbe apparire come un semplice cambio di nome è in verità una
trasformazione della sostanza stessa delle cose. Che cos’è un pianeta oceano?
Non è
semplicemente il riconoscimento della centralità dell’oceano nella regolazione
del clima e nel mantenimento della vita sul nostro pianeta. È l’idea che la vita, in tutte le sue
forme, si trova immersa nel flusso oceanico che avvolge il tutto in una grande
bolla d’acqua che la scienza chiama “idrosfera”.
Gli
uomini, acquari viventi: le prospettive.
Non
solo infatti l’oceano occupa gran parte della superficie terrestre ma è alla
base del ciclo dell’acqua o ciclo idrologico che, come abbiamo studiato alle
elementari - per poi dimenticarlo in fretta - domina la terra e l’atmosfera.
Lo spiega benissimo Alok Jha nel suo Libro
dell’acqua pubblicato in Italia da Bollati Boringhieri: «L’idrosfera collega in modo
profondamente simbiotico il corpo fisico della terra e tutta la vita che la
abita. Anzi: dal punto di vista della biologia, gli oceani sono la Terra». La
vita tutta, sul nostro pianeta, vive dunque letteralmente immersa nell’oceano.
Vivere immersi nel pianeta oceano significa ripensare i viventi non come punti
separati su una superficie, ma come esseri in simbiosi in un flusso da cui sono
attraversati. Proviamo a rifletterci. Di cosa siamo fatti noi viventi umani? Il
principale costituente del nostro corpo è l’acqua e noi siamo parte del ciclo
dell’acqua . Siamo acquari viventi e la nostra carne è carne oceanica che
condividiamo con il tutto e che mutiamo continuamente. Inoltre se l’origine
della vita sul nostro pianeta è nell’oceano, ancora oggi prima di nascere
trascorriamo nove mesi di vita in un oceano interiore. Per questo lo psicanalista Sándor
Ferenczi poteva scrivere che «la madre è un simbolo e un sostituto parziale
dell’oceano».
Ripensare
la dimensione simbiotica delle diverse forme di vita.
Gli
antichi greci lo sapevano bene: la parola greca kyma significa al contempo “onda” e
“feto”.
Ecco cosa siamo. Siamo acqua che passa
attraverso nubi, piante, terra, altri viventi, laghi, fiumi, mari. Siamo
intensità di un grande flusso vitale .
Questo non significa cancellare o ridurre
l’importanza delle molteplici forme di vita in un’unica vita, ma ripensare la
dimensione simbiotica delle differenti forme di vita, al di là di ogni
gerarchia e separazione.
La
vita immersa nel pianeta oceano è vita comune. L’idea di rispetto o tutela della
natura al di fuori da questa dimensione di simbiosi oceanica rischia di essere
affidata alle buone intenzioni morali dei viventi umani che si prendono cura
della natura come proprio altro da salvare.
La
natura non ha bisogno del paternalismo arrogante dei viventi umani. Siamo noi
che dobbiamo andare al di là dei limiti dell’idea di uomo come essere separato
ed eccezionale che si erge sovrano sulla superficie della Terra.
La
forza che tiene insieme il mondo.
Oltre
l’uomo e l’Antropocene c’è la nascita del pianeta oceano. Non si tratta di qualcosa di
inedito.
La parola “oceano” custodisce in sé
quest’altra visione del mondo. Oceano, dal greco Okeanós , rinvia a un pensiero
antichissimo che ha preso forma tra Oriente e Occidente prima della nascita
della filosofia, prima degli stessi poemi omerici in cui Okeanós fa la sua
comparsa come divinità arcaica che tiene insieme, con la sua «enorme forza», il
mondo.
Oceano in origine, come ci spiega Aristotele,
era un grande fiume «composto di aria e di acqua che scorre in cerchio verso
l’alto e verso il basso, in circolo attorno alla terra».
È
quella che oggi chiamiamo idrosfera. Siamo davvero alla fine di un’epoca che ha pensato
il mondo come pianeta Terra.
Ma non
c’è nulla di apocalittico in tutto questo se sappiamo pensare questa fine come
nascita di un altro mondo al di là dei limiti della Terra e dell’Antropocene:
spazio dei viventi tutti in simbiosi come in un grande grembo materno.
Se
guardiamo attentamente la foto “Blue Marble” da cui siamo partiti è questo che
possiamo scorgere. Lo aveva visto bene Stanley Kubrick che nel finale di 2001
Odissea nello spazio mette in scena un feto perfettamente sviluppato, con gli
occhi aperti, alla deriva nello spazio, racchiuso in un sacco amniotico
permeato di luce azzurra.
Il
feto guarda il pianeta blu, di cui sembra avere quasi la stessa dimensione, la
stessa forma, gli stessi colori. Quel feto chiamato “bambino delle stelle” non è solo
la metamorfosi, la morte e la rinascita dell’astronauta David Bowman, ma
dell’intero pianeta. È questa nascita che oggi dobbiamo vivere.
Abitiamo
in un mondo d’acqua è tempo di abbandonare la Terra e vivere il pianeta Oceano.
(
Simone Regazzoni è un filosofo, allievo di Jacques Derrida, autore di diversi
saggi e romanzi. Ha insegnato all’Università Cattolica e a Pavia, è docente all’Istituto
di ricerca di psicoanalisi applicata e collabora con la Scuola Holden di Torino).
“Le
non cose” / Byung-Chul Han,
come
abbiamo smesso di vivere il reale.
Doppiozero.com
-Mauro Portello –(10 Maggio 2022)- ci dice :
“Mentre
tutto trema nel delirio del clima /e brama di uccidere maligna inventa // Rari
sono i luoghi in cui resistere”, diceva Andrea Zanzotto non molto tempo fa (Conglomerati, Mondadori, 2009).
Ancora
una volta il poeta, poco prima di andarsene, ci avvertiva alla sua maniera
ctonia, dicendoci che qui nel mondo che c’è dobbiamo resistere, almeno là dove
si può. Certo
le grandi crepe con cui il reale contemporaneo sta facendo i conti ne
annunciano una qualche trasformazione, ma non è ancora così chiaro contro quali
minacce dobbiamo resistere, in difesa di che cosa esattamente? Spesso la riappropriazione della
Physis (la primigenia corporeità naturale), a fronte delle incapacità del Nomos
(le leggi degli uomini), sembra essere una delle pulsioni dominanti, la forza
dell’una sembra prevalere sull’altro.
È
proprio analizzando il mondo che c’è che Byung-Chul Han indica nel recupero della naturalità
(dopo vedremo meglio) la strada maestra.
Il
“Günther Anders del XXI secolo” (Davide Sisto) lo fa da tempo e in modo sempre più
convincente. La coerenza delle sue analisi è come se volesse cercare una coerenza
nello stesso apparire sulla scena dei fenomeni. È un’analisi seria e come tale
pone dei dubbi importanti e proficui.
Con il
suo nuovo pamphlet giunge a descrivere una sorta di limite a cui la vita
odierna si sta esponendo:
Come abbiamo smesso di vivere il reale recita
l’inquietante sottotitolo di “Le non cose” appena uscito da Einaudi nella
traduzione di Simone Aglan- Buttazzi.
Piccola
divagazione:
l’altro giorno ho visto in uno di quei filmatini sugli animali che girano in
rete, che aiutano a capire meglio la questione.
Questi
giovani gatti guardavano sullo schermo del PC un cartone di Tom & Jerry che
giocavano a biliardo. Seguivano, ma senza impulso a partecipare alla dinamica
del cartone, neanche quando è comparso il topo. Erano lontani, senza nemmeno
l’odore (il più arcaico dei sensi) le sole immagini artificiali di un gatto e
di un topo non bastavano a stimolare un loro intervento, si accontentavano,
come dire, di un freddo interesse “intellettuale”.
Va da
sé che la loro percezione dei cartoni animati non era realistica, i gatti veri
non vedevano il gatto finto, né il topo, ma dei segni in movimento con un
sottofondo sonoro.
È una
sintesi un po’ grossolana che però, mi pare, aiuta a spiegare la condizione
umana del nostro tempo in cui la digitalizzazione ci spinge fuori dal mondo
concreto, rendendoci dei segni in movimento senza nemmeno l’odore, appunto,
astrazioni quantificate, profili calcolabili. Ego contro Io. Gatti finti contro
gatti veri.
Dice
Byung-Chul Han: “L’ordine terreno, l’ordine planetario, è costituito da cose che
assumono una forma durevole e creano un ambiente stabile, abitabile. […] Oggi all’ordine terreno subentra
l’ordine digitale. L’ordine digitale derealizza il mondo informatizzandolo” .
Tutto
diventa informazione, bruciando la stabilità delle cose. Siamo dediti alle informazioni e ai
dati. La libido abbandona le cose e si rivolge alle non-cose (viene in mente il
titolo di un libro di Valentino Zeichen -Ogni cosa / a ogni cosa / ha detto
addio).
La
conseguenza è l’“infomania”, un vero feticismo per informazioni e dati.
Non
solo, le cose
stesse diventano infomi nel momento in cui sono presidiate dalla informatizzazione
che le
trasforma in “agenti che elaborano informazioni”.
Così
invece che manipolare le cose “comunichiamo e interagiamo con infomi che a loro volta
agiscono e reagiscono”.
La
sintesi della nuova ontologia è lo smartphone, l’“entità fredda” che tutti ci
accomuna.
E la
vita umana, che per Martin Heidegger (costante riferimento di Han) ha come
tratto fondamentale il “superamento del cruccio”, viene sussunta in un’intelligenza
artificiale che tutto omogeneizza e appiana.
È così
che si crea la sensazione (sensazione!) di aver risolto i problemi terreni.
Come
se la cosa, che per Heidegger è l’emblema dell’ordine terreno e incarna la
vincolatezza, la fatticità dell’umana esistenza , nell’infosfera evaporasse in
una sorta di frigidità esistenziale.
È il
mondo del “phono sapiens”, più giocatore (homo ludens) che operaio (homo
faber).
Si
capisce subito quanto tutto questo possa propiziare la solitudine sociale, la
vita di ciascuno all’interno della propria bolla “ipersocial”, staccata dalla
corporeità dei contatti sociali concreti con tutte le fatali ricadute psichiche.
Lo
smartphone “è più che altro un oggetto narcisistico e autistico grazie al quale
si percepisce soprattutto sé stessi” .
L’esatto
contrario di ciò che per il bambino piccolo, dice l’autore richiamando Donald
Winnicott, sono il suo ciuccio o la sua coperta, degli “oggetti transizionali” che gli danno un senso di sicurezza e
con i quali si sente meno solo e più protetto, oggetti che in sé non
sembrerebbero dare forti stimoli ma che, invece, aiutano il bambino a
strutturare la sua attenzione verso la realtà.
Il
punto di rottura sta nella natura puramente additiva della digitalizzazione
che, al contrario di quella narrativa della memoria umana, si limita a mettere
in fila i dati e a conservarli così come sono stati inseriti, senza alcuna
elaborazione o trasformazione.
Come
nella FOTOGRAFIA di Barthes in “La camera chiara” a cui rinvia Han : la foto viva (della madre
morta) che prosegue il suo lavoro sensibile nella mente di chi la vede anche
dopo che l’occhio l’ha lasciata, un’immagine che non è semplice studium
(percezione dei dati di realtà), ma un generatore di senso attraverso il punctum, cioè
l’elemento emotivo “unico” che essa contiene e che produce un racconto, una
narrazione, e da fotografia diventa FOTOGRAFIA.
Ben al
di là della pura sequenzialità di un selfie fatto di momenti freddi per un
eterno presente.
Ma il
mondo non sono i dati immagazzinati, che rimangono sempre uguali, morti,
incapaci di costruire narrazioni come fa la memoria che è sempre viva e in
dialettica con la realtà.
D’altronde il pensiero stesso è in origine un
sentire, dice Heidegger, uno stato d’animo;
il
pathos è l’inizio del pensiero, l’intelligenza artificiale è apatica, senza passione . Le
dita servono solo a contare, a digitalizzare, appunto. Il pensiero è la mano, ed è
analogico, cioè collegato, analogo a.
“Ci
stiamo dirigendo – dice Han – verso un’epoca trans- e post- umana in cui la
vita altro non è che mero scambio di informazioni. […]
Umano
viene da humus, quindi dalla terra.
La
digitalizzazione è un passaggio coerente verso l’abolizione dell’humanum.
Probabile
che il futuro umano sia già segnato: l’essere umano si distrugge per
assolutizzarsi” .
E
questo sta avvenendo in un contesto neoliberista in cui l’individuo stesso è il
primo artefice del proprio sfruttamento economico. E allora? Allora, prosegue l’autore, bisogna riconquistare la dimensione
dell’altro, bisogna tornare ad ascoltare l’altro, uscire dalla bolla egotica e
aprirsi e capire che “si vede bene soltanto col cuore.
L’essenziale
non lo vedono, gli occhi”, come dice la volpe al Piccolo principe di Saint-Exupéry .
Dunque
recuperare la naturalità del silenzio, della capacità di ascolto, della
contemplazione, dell’ignoranza come spazio di crescita.
Rifiutare
la spazzatura informativa e comunicativa, acustica e visiva delle non-cose ed
esercitare quella che Nietzsche chiamava la ‘potenza negativa’ di “non reagire
subito a uno stimolo”, una forza che “rende lo spirito in grado di indugiare
nel silenzio e nella contemplazione, cioè nella profonda attenzione ”.
Quante
assonanze con il “rifiuto sul posto” di Bartleby lo scrivano che Jenny Odell mette al
centro della sua riflessione in “Come non fare niente” , libro assai consentaneo a quello
di Byung-Chul Han.
La
durezza della realtà odierna si sta facendo atrocemente sentire con la guerra
in Ucraina.
Il bagno di immagini e resoconti (personalmente mi rifiuto di entrare
nella discussione “è vero, non è vero” su cui si sta frantumando
irrimediabilmente il buonsenso di troppi, come se la guerra delle propagande
non fosse già in sé un orrore) ci costringe rapidamente a rivedere il nostro status di
mondo in (relativa) pace.
Con
una pandemia ancora in corso.
Scelga ognuno il termine che gli è più
congeniale: shock, trauma, frattura, sisma… Forse tutto ciò effettivamente ci sta
dicendo che abbiamo bisogno di riattivare la Physis, con il suo “potere
autonomo” di discernere per poter riprovare con il Nomos.
Il discorso,
tuttavia, è lungo e complesso: che cosa è (diventata) la corporeità, la naturalità,
anzi le naturalità con cui abbiamo a che fare? Pensiamo ad esempio alla
profonda trasformazione della cosiddetta “funzione alfa”, cioè la capacità che
la mente ha di elaborare gli elementi dell’esperienza mentale non ancora
comprensibili e che diventano fonte di grande tensione (vedi Marco Nicastro, “Le
nuove tecnologie ci rubano la mente”. Uno sguardo a partire da Wilfred
Bion).
La dematerializzazione può fornirci una ri-materializzazione?
Se gli
“odori”
sono quelli che vediamo nella gastronomia televisiva, a quale Physis dovremmo rivolgerci
per rivedere il Nomos?
“Rari
sono i luoghi in cui resistere”…
COLAO
VA GIU’ PIATTO :
controllo
cinese sugli italiani.
Laverita.info
-Claudio Antonelli- (12-7-2022)- ci dice :
Silenzio
sulle inquietanti affermazioni del Titolare della “Transizione Digitale”.
Se
qualche partito o un bel numero di
cittadini non ci metteranno la testa cercando
di intervenire, arriveremo ad avere un
Paese del tutto controllato dallo Stato e
ci toccherà pure offrire al ministro Vittorio Colao un prosecco.
Lui festeggerà
per aver “contribuito a costruire un
bell’impianto di lavoro e di vita collettiva , un sistema che funziona.
“Da
Draghi al Dragone”.
Colao
lancia lo Stato digitale cinese : “la tecnologia domini il sociale” .
(…)
Noi berremo per dimenticare il fatto di essere diventati identità digitali e
non essere più cittadini in carne e ossa. Pianeti e punti di vista opposti
accomunati forse soltanto dal bicchiere di prosecco. Che stando all’intervista
rilasciata dal ministro al quotidiano “il Foglio” da cui è tratto l’obiettivo
del 2027 con tanto di brindisi, è certo
la macchina statale sarà in grado di tracciare : chi l’ha venduto , a quanto e in
compagnia di ... è stato svuotato.
Lo
scenario che Colao va delineando sarebbe , infatti , inquietante se fosse
descritto dall’amministratore delegato di una grande azienda , è invece pericoloso
se a tracciare le linee guida è l’esponente
di un governo in carica .
Ancor
più pericoloso se l’esponente di governo
ci spiega che “non dobbiamo avere paura che la
tecnologia domini il sociale , perché essa è un grande aiuto”.
E dice tutto ciò senza scatenare un dibattito sul futuro della nostra
democrazia .
Sul
ruolo del governo in qualità di piattaforma digitale che eroga diritti e , in
quanto tale , non li riconosce in modo costituzionale .
Durante
il Covid abbiamo fatto le prime esperienze . Semaforo rosso o semaforo verde. Chi
era vaccinato poteva entrare e chi non lo era poteva solo rimanere fuori.
Eppure ,il senso del green pass e della blockchain
sottostante non è assolutamente stato colto dai partiti italiani.
Nessuno
, nemmeno nel centro destra , ha voluto aprire il vaso di Pandora e affrontare il
concetto di rappresentanza parlamentare e rappresentanza dei diritti in
generale in un futuro dominato dalla
pervasività digitale.
Noi ci
poniamo tutti questi interrogativi e chi tenta di azzerare il dibattito sul
nascere, tacciandolo di “complottismo”, ci tocca rispondere con i virgolettati dello stesso Colao.
“Ci
sono mille modi più semplici per far arrivare al cittadino le cose invece di
farlo muovere verso uffici e sottostare al rispetto di orari “, spiega nel colloquio con” Il Foglio”, lasciando intendere
che l’upgrade del digitale servirà a
vivere meglio.
Ci
siamo abituati all’idea che per ottenere ciò che ci spetta in base a regole definite bisogna presentare la famosa domanda. Ma se lo
Stato sa che una persona è in una specifica
situazione, ha una condizione abilitante,
perché dovrebbe essere il cittadino a
chiedere ciò di cui ha diritto invece di vederselo direttamente riconosciuto ?
Non faremo più chiedere il bonus celiaci , il bonus mamma : il bonus quel che
volete ,con quelle dichiarazioni un po' ridicole in cui una persona prova di essere
celiaca o di avere un bambino.
I fascicoli
sanitari si possono collegare a quelli delle amministrazioni finanziarie e la
partita si chiude ribaltando la logica per cui il cittadino deve chiedere e non
si tratta solo di digitalizzare.
Lo Stato
cambia e comincia a prendersi cura dei cittadini in quanto titolari di diritti”.
Stop e facciamo la prima valutazione .
Lo
Stato italiano dovrebbe prendersi cura dei cittadini ? Che significa ? In fase
di Pandemia , lo Stato italiano non è riuscito ad assumere infermieri nemmeno
avendo i soldi per farlo .Non è riuscito
a gestire le cure per i malati di Covid e ha vietato ai privati di
trovare soluzioni alternative efficaci , e quindi immaginiamo che il senso della
frase sia diverso dal suono delle parole .
Temiamo
che quel “prendersi cura “voglia dire erogare bonus e aiuti secondo criteri
decisi dalla politica per un bene collettivo. E ciò è socialdemocrazia ! Ciò
piace solo ai cosiddetti VERI LIBERALI
che fingono di essere tali ma sono soltanto comunisti che perseguono le finalità del comunismo tramite le parole chiave del capitalismo.
Il timore
di una tale deriva non è per nulla smorzato dal prosieguo dell’intervista.
“ Sono
tre i passaggi richiesti e cioè che tutti abbiano un cellulare in mano , che ci
siano i servizi e ci sia un cloud dove questo sistema gira .
Se
saldiamo questi tre passaggi abbiamo
creato un’Italia bellissima e una Europa altrettanto bella. Con tutto il rispetto
verso mi nostri grandi partner internazionali, vediamo che negli Stati Uniti c’è una società dura oltre che ,ora, tremendamente divisa al suo
interno , e la società cinese è altrettanto dura e molto competitiva: beh , l’Europa
ha l’opportunità di creare un modello che può essere molto attraente , un luogo
in cui crescere , studiare e lavorare e dove il rapporto tra Stato e cittadino è fatto di collaborazione ,coesione ,e tutto
questo è possibile grazie alla tecnologia digitale.
E qui
si impone il secondo stop e la seconda riflessione. Un esempio sui tutti. Il
fisco esercita sempre l’inversione dell’onere della prova.
Oggi
il contribuente si trova davanti a un giudice tributario o un funzionario.
Dibattere è certamente costoso, ma accessibile quasi a chiunque.
In
futuro la controparte sarà un algoritmo e dibattere sarà , se non impossibile,
infinitamente più oneroso. Per difendersi serviranno tanti soldi .O come accade in Cina sarà
impossibile.
Lascia
infatti basiti che un ministro della Repubblica italiana metta sullo stesso
piano il modello USA e quello cinese dove
gli Uiguri vengono tracciati grazie al riconoscimento facciale e poi incarcerati.
Non è ammissibile
che il Parlamento non chieda conto a Colao delle sue affermazioni.
Passi
non chiedere conto del reale calendario di assegnazione del MEGA BANDO DEL CLOUD ,quisquiglie rispetto alla triade, come la chiama Colao.
Qui c’è
in ballo il nostro futuro .Speriamo che il titolo dell’intervista non sia un
lapsus freudiano .
“ E non
farete più domande “ recita facendo
riferimento a quelle in carta bollata.
Ma a
unire i puntini viene da pensare l’allusione sia ad altro:
eliminare la possibilità di porre alcun tipo di interrogativi.
( Ed è
proprio quello che avviene oggi in Cina .Ndr.).
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