IL PROGRESSISMO “LIBERAL” OCCIDENTALE.

 IL PROGRESSISMO “LIBERAL” OCCIDENTALE.

 

Il liberalismo non è progressismo.

Ilfoglio.it-Giulio Meotti- (22 giugno 2022)- ci dice :

    

“E ora più che mai va difeso dal grande assalto iconoclasta in corso”, scrive Douglas Murray sullo “Spectator”.

 

Il relativismo totalitario.

Questo articolo è stato pubblicato su Un Foglio Internazionale spunti e segnalazioni dalla stampa estera a cura di Giulio Meotti.

“Da qualche anno va di moda parlare della fine del liberalismo”, scrive Douglas Murray:

“Ma nei giorni in cui le folle devastano le città, le prove diventano sempre più schiaccianti. La crescente intolleranza verso la libertà di stampa, la difficoltà di confrontarsi, e il modo in cui gran parte dell’establishment britannico, inclusa la polizia, sente il bisogno di mostrare la propria vicinanza alla causa – come se avesse paura di finire dalla parte sbagliata – indicano qualcosa di più grande di una crisi di fiducia. Indicano una malattia profonda.

 Ogni giorno la rivoluzione culturale avanza; gli iconoclasti che hanno attaccato il Cenotafio e la statua di Churchill cercano nuovi modi per sfogare la propria rabbia.

L’università di Liverpool ha deciso che le residenze studentesche intitolate a Gladstone verranno rinominate dopo che i manifestanti hanno fatto notare che il padre dell’ex premier possedeva degli schiavi.

Ci troviamo di fronte alla morte dell’idea liberale.

Certo, il ‘liberalismo’ è sempre stato un termine ampio: la definizione è diventata ancora più vaga da quando gli americani l’hanno resa un sinonimo di ‘progressista’.

 Ma il liberalismo incorpora le fondamenta dell’ordine politico occidentale, tra cui l’uguaglianza, lo stato di diritto e la libertà – inclusa la libertà di espressione che permette alle buone idee di prevalere.

Negli ultimi anni, la sinistra ha accusato i politici di destra eletti dal popolo di volere cancellare la democrazia liberale.

 Ma in Gran Bretagna la più grande minaccia al liberalismo politico non arriva dalla destra conservatrice, ma dalla sinistra radicale.

 Nelle ultime settimane molte persone ben intenzionate hanno versato quasi un milione di sterline nelle casse di Black Lives Matter Uk, sperando di aiutare un movimento che avrebbe aiutato a sua volta i neri. Blm Uk descrive così i suoi obiettivi: ‘La distruzione dell’imperialismo, capitalismo, supremazia dei bianchi, patriarcato e strutture statali’.                                  Oltre a volere distruggere una minaccia inesistente (‘l’imperialismo’), questo gruppo intende fare precipitare l’economia e alterare i rapporti tra sessi (descritti come una forma di ‘patriarcato’).

Questo non è il liberalismo, ma un genere di radicalismo di estrema sinistra (nazi- bolscevismo. Ndr) che è diventato molto familiare di recente.

Anche i media hanno le loro colpe, avendo scelto di difendere questi episodi di violenza ed eliminare non solo chi dissente ma, come mostra il caso del New York Times, chiunque aiuta a pubblicare le idee di chi dissente.

Bari Weiss, uno degli ultimi liberali rimasti in quel giornale, ha spiegato la scorsa settimana che i giornalisti ultra quarantenni (così come molti altri) immaginavano che i giovani avrebbero condiviso le loro idee liberali.

Poi hanno scoperto che i ragazzi preferivano il ‘securitarismo’ al liberalismo, e ‘il diritto delle persone di sentirsi emotivamente e psicologicamente al sicuro ’ piuttosto che ‘i valori liberali come la libertà di stampa’.

 In realtà la divisione è ancora più grande, e oggi giorno riguarda quasi tutto. Se la mente liberale è curiosa, quella antiliberale è dogmatica.

Se la mente liberale è in grado di perdonare, quella antiliberale crede che un singolo errore sia necessario per ‘cancellarti’.

 E se la mente liberale ha ereditato l’idea che bisogna amare il prossimo, quella antiliberale scalpita per scagliare la prima pietra.

Anche l’analisi storica è molto diversa. I liberali comprendono che le persone fanno  sulla  base del pensiero prevalente nella loro epoca, e il compito degli storici è quello di guardare al passato con comprensione, nella speranza di essere a loro volta compresi. La mente libera disprezza questo ragionamento, e crede che chiunque sia nato prima dell’anno zero sia un bigotto.

I lettori dello “Spectator” da tempo hanno intuito ciò che sarebbe arrivando. Quando questa rivista ha raccontato gli Studenti Conformisti (Stepford Students in inglese, ndt ), ci è stato chiesto perché gli avessimo dato così tanta importanza – gli studenti sarebbero cresciuti.

E lo hanno fatto, però non sono cambiati affatto. I gesti simbolici delle grandi aziende – ad esempio, il numero crescente di addetti alla diversità – sono stati trattati con sufficienza.

Come ha scritto il giornalista americano Andrew Sullivan (lui stesso è stato messo a tacere), ‘oggi viviamo tutti in un campus’.

Passo dopo passo, il settore pubblico e privato britannico si sono impegnati a praticare delle idee quasi indistinguibili da quelle dei manifestanti che sono scesi in strada nelle ultime settimane. Questa etica pretende che la nostra società prenda parte a una serie di battaglie identitarie destinate a terminare, anziché sovvertire, ogni idea di tolleranza.

Questo problema nasce dai giovani che escono dall’università, dove imparano a odiare la nostra società.

 Credono che il nostro mondo sia segnato dall’oppressione di alcuni gruppi: una storia vergognosa e un presente vergognoso.

Oggi queste persone usano la loro retorica aggressiva per intimidire i loro superiori, costringere tutti a sposare il loro punto di vista e rendersi intoccabili. Come tutti i movimenti di successo, denunciano un problema reale.

 Le diseguaglianze esistono, in Gran Bretagna come in tutte le società. La gente ragionevole dissente su come risolvere questo problema. Ma i nuovi liberal radicali non condividono questa preoccupazione.

Per loro ogni forma di diseguaglianza (finanziaria, familiare, sociale, neurologica) è frutto dello stesso male: la discriminazione. Un problema da ‘affrontare’, ‘eliminare’ e di cui bisogna cancellare ogni traccia. C’è ancora molto lavoro da fare…

I giovani radicali stanno inconsapevolmente sovvertendo uno dei più grandi contributi al pensiero liberale: quell’aspirazione espressa da Martin Luther King mezzo secolo fa.

 Quando King parlava del bisogno di giudicare una persona dal contenuto del proprio carattere e non dal colore della pelle, stava svelando l’unica soluzione.

Un anno prima di morire, King disse in un discorso: ‘Saremo insoddisfatti finché non arriverà il giorno in cui nessuno urlerà Potere bianco, e in cui nessuno urlerà Potere nero, ma in cui tutti parleranno del potere di Dio e del potere degli uomini’.

I successori di King si sono sforzati per vanificare quel sogno. Per aggredire la supremazia dei bianchi hanno finito per riaffermare la supremazia dei neri.

E per compensare le sofferenze di molte persone morte pretendono degli enormi trasferimenti di denaro da un gruppo razziale all’altro.

In realtà stanno nuovamente dividendo la nostra società lungo linee razziali.                        Ogni movimento secondo cui ‘le cose vanno così male che dobbiamo distruggere tutto’ deve capire il costo di ciò che ci stiamo lasciando alle spalle.

E deve ricordare che è molto più facile distruggere che costruire. Le persone di ogni colore e provenienza sociale devono rispondere con un secco ma cortese ‘no’. Non solo perché le cose che tentano di distruggere sono le uniche in grado di tenerci insieme. Ma anche perché se tutto ciò che ci ha portato fin qui era così brutto, allora ciò in cui stiamo vivendo non sarebbe così eccezionalmente bello”.

 

 

 

Il relativismo totalitario.

Ilfoglio.it-  RAFFAELE ROMANELLI-(  24 GIU 2020)- ci dice :

    

Non solo le statue. Non si può restare silenti di fronte al processo sommario contro l’uomo bianco. Lettera agli storici contemporanei sulla deriva puritana nella cultura occidentale.

 

STATUE ABBATTUTE. OCCIDENTE con RAZZISMO all’ UNIVERSITÀ.

Lettera al presidente e al comitato direttivo della Sissco e al direttore del MdS.

Penso che la pressione di oggi sui simboli del passato chiami in causa il lavoro dello storico e che debba perciò richiamare l’attenzione della Sissco.

A meritare attenzione non sono tanto in se stessi il costume di distruggere, imbrattare, decapitare e rimuovere monumenti. Sono cose sempre avvenute da parte di movimenti collettivi, in fasi rivoluzionarie o eversive.

Gli storici semmai studiano questi fenomeni, come simmetricamente studiano l’erezione dei monumenti stessi, la glorificazione o la costruzione di miti. Oltre a studiarli, come docenti gli storici ne spiegano agli studenti il significato, li attrezzano a comprendere, capire, distinguere, contestualizzare, a prendere le distanze. Come è ovvio, hanno il dovere di non partecipare essi stessi alla furia iconoclasta, ma anche di non tacerne prudenti come il conformismo tante volte ha suggerito loro.

Siamo oggi in grado di tenere la barra al centro, senza sbandare? Di leggere ciò che sta succedendo? Penso che la Sissco, se vuole onorare le sue finalità istituzionali debba porsi oggi questi interrogativi.

Un caso tra i tanti dell’attuale iconoclastia mi aiuta ad entrare in argomento.

Mi riferisco alla richiesta di abbattimento delle statue erette a Cristoforo Colombo nelle due Americhe (già nel 2014 in Argentina la statua di Colombo è stata spostata dalla casa Rosada a un luogo più discreto) e all’abolizione del Columbus day negli Stati Uniti (oggi variamente rinominato Native Americans day, o Indigenous People’s day).

Colombo è additato come genocida e responsabile dei secoli di razzismo a seguire. Ovviamente non sono in questione le specifiche azioni di Colombo, del quale si citano lettere di dubbia autenticità, ma al quale comunque, studiandolo, potrebbero essere addebitati asservimento delle popolazioni, lavoro forzato e repressione brutale di rivolte per ordine suo o del fratello.

Il problema è un altro. Poiché con la “scoperta dell’America” Colombo ha aperto la via alle esplorazioni del continente, a lui simbolicamente possono essere fatti risalire tutti i crimini e le sopraffazioni che ne sono conseguiti.

Gli esponenti del pensiero unico hanno ormai posizioni accademiche apicali: emettono norme e programmano corsi universitari.

“Ho visto con i miei occhi dibattiti tra accademici nei quali a un certo punto uno squalifica gli argomenti dell’altro perché è bianco”.

E’ una imputazione simbolica, ma allo stesso tempo personale. Implica infatti la cancellazione della responsabilità personale oggettiva – uno dei capisaldi dello stato di diritto e dei diritti dell’uomo e del cittadino a favore di una responsabilità di gruppo, anzi di una oggettiva colpa di gruppo in cui il “gruppo” ha tratti storici (gli invasori) che presto trascendono in una dimensione genetica e razziale essendo sia le popolazioni amerindie, sia gli schiavi neri vittime della tratta di ceppo diverso dal bianco caucasico, o come altrimenti si voglia definire.

 Come già è accaduto al “popolo deicida”, il cui delitto originario insegue le generazioni attraverso i secoli, così i “bianchi” sono apriori corresponsabili dello sterminio dei nativi e della schiavitù dei neri, e lo è ogni singolo bianco, quali che siano i suoi gesti o le sue opinioni, per appartenenza di gruppo.

Esattamente come ciascun ebreo, o ciascuno zingaro. Non si tratta di propaganda volgare: ho visto dibattiti tra accademici nei quali ad un certo punto uno squalifica gli argomenti dell’altro perché è bianco.

È una catena logica che non ha fine. Di recente, dopo l’assassinio di George Floyd, Twitter è stato inondato di immagini nere in segno di solidarietà e di militanza, ma sono bastati due giorni perché qualcuno condannasse chi tra i bianchi aveva postato quell’immagine nera, gesto non consentito a chi, essendo bianco, è oggettivamente complice del crimine.

Colpa collettiva dunque.

 Non è certo una novità nella storia, che a volte si direbbe fatta di imputazioni collettive; senza riandare alla “leggenda nera” che ha colpito gli spagnoli nel Cinquecento, per rimanere nella contemporaneità si pensi alle colpe degli inglesi verso gli irlandesi, dei russi verso gli ucraini, ed ovviamente dell’intero popolo tedesco colpevole di sterminio.

 Il “gruppo” di cui stiamo ora parlando ha tutte le caratteristiche etniche, genetiche, che connotano il razzismo, e come tali, con tutte le conseguenze del caso, possono essere estese a molte altre identità di gruppo, anche il più minoritario. È questa la “identity politics” in cui i singoli perdono ogni identità personale.

Ci aiuti tutt’altro esempio, di questi giorni. Parlo del caso della scrittrice J.K.Rowling, oggetto di severe censure che l’accusano di “evidente “transfobia” per aver detto in una intervista – nella quale tra l’altro per la prima volta parlava di dolorose esperienze subite – che a suo parere l’appartenenza di genere ha una base biologica da non trascurare.

È noto che nel Regno Unito si è affermata la convinzione – già ratificata da alcune sentenze e oggetto di una proposta di legge – per la quale il genere non può essere “attribuito” e può derivare solo da una condizione soggettiva: si è, femmina, maschio o altro, ciò che si dichiara di essere.

Solo per i “cisessuali”, opposti ai “transessuali”, la propria identità corrisponde a quella di nascita.

È una scelta come ogni altra. Nei campus americani e canadesi i pronomi “he” o “she” – che appunto connotano una identità di genere – sono sostituiti dai “gender neutral” “they/them” o “ze/zem”; gli uni o gli altri, che siano i tradizionali he/she o quelli di nuova invenzione, possono essere usati solo se il soggetto lo consente, tanto che è invalso l’uso, nei cv come nelle intestazioni o nei badges, di far seguire al nome il pronome scelto (ad es. “Federico Romanelli, he/him”: con ciò ringrazio chi mi ha edotto su queste pratiche).

Non si tratta solo di “correttezza politica”, ma di vere regole, trasgredire le quali può comportare severe persecuzioni o discriminazioni. In Canada, “mis-gender”, ovvero attribuire un gender non gradito, è reato penale insieme ad altri “hate crimes”.

 

( J.K. Rowling ha scritto “If sex isn’t real, there’s no same-sex attraction. If sex isn’t real, the lived reality of women globally is erased. I know and love trans people, but erasing the concept of sex removes the ability of many to meaningfully discuss their lives. It isn’t hate to speak the truth”.)

Ecco, “It isn’t hate to speak the truth”. Scomponiamo questa frase. Intanto, segnala che speak può essere oggetto di hate.

 È qui in gioco un elemento cardine della civiltà occidentale (che sarà solo occidentale e quindi bianca e colpevole, ma è quella in cui viviamo noi storici, noi intellettuali, noi che studiamo e scriviamo e abbiamo dato vita alla SISSCo).

Abolire la libertà di parola in nome di “colpe collettive”, annullare l’individuo nel gruppo (di tipo fondamentalmente etnico, come si è detto) stigmatizzare l’espressione di una opinione, attenta alla radice stessa del nostro essere.

Ma leggiamo la frase completa. It isn’t hate to speak the truth, dice Rowling.

La verità che è colpa dire, in quel caso, è genetica, ovvero ha una base oggettiva di tipo scientifico (la constatazione che i sessi – non i generi – sono diversi e sono basilarmente due).

Ma è questa dimensione che – complice l’universo culturale post-strutturalista, postmoderno o culturalista – si tende a vanificare, oscurando la distinzione tra natura e cultura, tra opinioni, credenze e dati.

La biologia con gli studi sui cromosomi, lo studio della gravidanza extracorporea e la clonazione contribuiscono – o contribuiranno presto – a rendere opachi i confini.

Siamo dunque di fronte a un relativismo assoluto, assoluto nel senso che tutto è relativo/soggettivo, insensibile ai dati (ognuna/o ha diritto ad essere ciò che dice di essere, indipendentemente da ogni dato biologico, o magari con la connivenza di alcuni esperimenti biologici), ma assoluto anche nel senso che si impone come verità assoluta, come dogma, come apriori.

Diciamo allora meglio un relativismo totalitario, quasi un ossimoro in cui l’aggettivo vuole alludere esattamente alle tecniche della persecuzione totalitaria.

Con la tecnica della dissimulazione posso pensare, al massimo sussurrare a un amico ciò che ho appena negato (cosa che già presenta dei pericoli) ma non dire. Se dico, prevale il conformismo collettivo. Ed è quanto sta succedendo. Ogni giorno.

Oggi: un noto economista di Chicago ha criticato con sarcasmo le richieste da parte di Black Lives Matter di sciogliere i dipartimenti di polizia (defund the police).

Non conta ora il tema (che pure è assai interessante), ma le conseguenze: il docente, sospeso come direttore del Journal of Political Economy è invitato a dimettersi, i colleghi solidarizzano solo privatamente, mentre il New York Times scrive “ecco un altro uomo bianco privilegiato…”. In effetti, Harald Uhlig è bianco.

Dove sta succedendo tutto ciò?

Sta succedendo in tutti gli ambienti universitari americani, canadesi e britannici.

 Intolleranza giovanile, radicalismo di una società puritana, si potrebbe obbiettare. Anche da noi una volta nei vari contesti era pericoloso – fino al rischio della vita – essere “di destra” o alternativamente “di sinistra”. Una brutta stagione. Ma non si trattava di posizioni del tutto egemoniche.

Ed erano comunque posizioni politiche, di parte, rispetto ad altre parti, in contrapposizione a volte anche fisica, ma prevalentemente dialettica e appunto politica.

Nulla di tutto ciò nel caso di cui parliamo. Qui siamo in presenza di una neo verità unica, globale, dominante, alla quale ci si può sottrarre appunto solo con la dissimulazione, come nei regimi totalitari. Quanto poi al “giovanile”, attenzione. Poiché il fenomeno è ormai annoso, gli “esponenti del pensiero unico” hanno raggiunto posizioni accademiche apicali, da dove emettono norme, regolamenti, programmano piani di studio e corsi universitari (con attenzione anche ai bilanci, perché sono gli studenti a pagare le rette, ed è antieconomico contraddirli).

 Sono quelli che impongono le dimissioni a docenti che invocano la libertà di pensiero, mentre vanno ampliandosi gli spazi degli studi culturalisti anti occidentali, fino alla proposta di bandire lo studio dei classici greci, perché (li si suppone) bianchi e perciò tiranni.

Le loro poi sono posizioni apicali ormai non solo accademiche, che esondano nella politica e nell’amministrazione, in una contrapposizione radicale, violenta, tra siffatta “sinistra” e il “mondo di Trump”, dei “white supremacists” – per rimanere al caso americano, dove non è in atto il” confronto di opinioni che fonda la democrazia”, bensì uno “scontro tra due assoluti”.

Un radicalismo che forse ha base puritana, dicevo. È probabile, in effetti, che una qualche distinzione dovrebbe esser fatta tra l’universo settentrionale-protestante e quello latino-cattolico in cui ci muoviamo noi italiani.

 Il primo è implacabile, non conosce remissione e coinvolge con ossessione la dimensione intima e privata.

Nel secondo la gestione della colpa è diversa, ed ha maggior valore il pentimento e la confessione.

In generazioni che hanno vissuto fascismo, colonialismo, resistenza e repubblica, è comprensibile che molti li abbiano attraversati non sempre con la stessa coerenza; ma alle militanze colonialiste o repubblichine dei singoli si chiede l’ammissione della colpa, il pentimento (non essendoci stata né l’espiazione giudiziaria, né il confronto aperto, come quello tentato dalla sudafricana Commissione per la verità e la giustizia).

Fa comunque parte della nostra cultura l’implorazione del perdono del cielo pronunciata dal pontefice Giovanni Paolo II per l’intera vicenda della schiavitù e della tratta.

Ma queste distinzioni non ci siano di troppo conforto. Sono semmai dei dati da considerare, da studiare con la nostra perizia professionale, con la capacità di distinguere e di analizzare dati e documenti – come invito la Sissco a fare – ma che non ci consentono di chiudere gli occhi davanti al relativismo totalitario che ci circonda, e, temo, contamina.

 

 

 

Cosa ne facciamo del passato,

lo abbattiamo tutto?

La risposta in un libro.

Ilfoglio.it-  MAURO ZANON –( 10 GIU 2022)- ci dice:

  Pierre Vespertini parla al Foglio della “cancel culture:

 "Se si deve togliere dagli edifici pubblici ciò che è testimone di un’ingiustizia, allora si deve togliere tutto, perché ogni opera d’arte era a servizio del potere, che non era per niente democratico".

Perché non possiamo e non dobbiamo fare a meno della musica russa. La versione del Teatro alla Scala.

“Nelle scuole francesi epidemia di abiti islamici”. L'inchiesta dell'Opinion.

 

Parigi. La “cancel culture”, in occidente, non ha risparmiato nessuno: dalle statue abbattute in nome del Black Lives Matter ai libri riscritti per non urtare la sensibilità delle minoranze, dalla rimozione di quadri considerati “razzisti” agli avvisi di contenuto (trigger warning) prima di un film, di uno spettacolo o a teatro per le opere di Shakespeare.

Si può uscire da questa furia iconoclasta e trovare un equilibrio nel modo in cui affrontiamo il nostro passato e ci rapportiamo a esso, sfuggendo al manicheismo?

 Si deve, secondo il filosofo francese Pierre Vespertini, esperto di storia antica e ricercatore presso il Cnrs, che ha appena pubblicato “Que faire du passé? Réflexions sur la cancel culture” (Fayard).

“Il movimento della ‘cancel culture’, che sta sfidando la nostra ‘storia sacra’, oleografica, parte da premesse giuste.

È vero che la civiltà occidentale veicola pregiudizi orrendi: razzisti, misogini, antisemiti. Ma la soluzione proposta, quella della cancellazione o, a volte, della redenzione attraverso la riscrittura, mi sembra assurda e pericolosa. Occorre guardare in faccia il passato e decidere, caso per caso, come comportarsi”, dice al Foglio Vespertini.

Formatosi all’École normale supérieure e autore di un libro molto apprezzato su Lucrezio, “Lucrèce. Archéologie d’un classique européen” (Fayard), Vespertini, dal 2009 al 2012, è stato un allievo dell’École française di Roma, istituto d’eccellenza che si occupa di storia, archeologia e scienze sociali, e ha sede a Palazzo Farnese, residenza dell’ambasciatore francese in Italia.

A due chilometri di distanza, a Villa Medici, sede dell’Accademia di Francia a Roma, è scoppiata lo scorso autunno una polemica molto aspra con tema la “cancel culture”.

Alcuni borsisti dell’istituzione artistica francese hanno chiesto al direttore Sam Stourdzé di rimuovere i magnifici arazzi della “Teinture des Indes” perché “segnati dall’immaginario coloniale”, scatenando la protesta, sotto forma di lettera aperta (titolo: “Contre l’épuration”), di illustri storici dell’arte, curatori, scrittori e filosofi.

“Non ho seguito da vicino questo episodio, ma in maniera generale: se si deve togliere dagli edifici pubblici  ciò che è testimone di un’ingiustizia, allora si deve togliere tutto, perché ogni opera d’arte, nel passato, era a servizio del potere, e questo potere non era per niente, come si sa, democratico, progressista, etc.”, spiega al Foglio Vespertini, prima di aggiungere: “Andando fino in fondo in questa logica, si dovrebbero anche distruggere gli stessi edifici, monumenti di un ordine profondamente ingiusto: antisemita, coloniale, sessista, etc.

Ogni opera di cultura è un documento di barbarie, diceva Walter Benjamin.

Si pensi alla ‘Tortura dell’ebreo’ di Piero della Francesca, che ognuno può ammirare negli affreschi delle Storie della Vera Croce nella basilica di San Francesco ad Arezzo. O ancora all’allegoria della Sinagoga sul portone di Notre Dame.

 Cosa si fa con queste opere? È importante, ribadisco, guardare in faccia il passato, ed accettare anche il fatto che la bellezza non debba per forza essere morale. La ‘Tortura dell’ebreo’ di Piero della Francesca fa ribrezzo, eppure è bella”.

 Alcune inchieste apparse negli ultimi tempi sulla stampa parigina hanno mostrato che anche le università e i templi dell’eccellenza francese come Sciences Po sono permeabili alla cancel culture e all’ideologia woke in voga nei campus liberal Dem Usa americani.

L’Express, in particolare, in un articolo pubblicato nel marzo dello scorso anno, ha messo in luce fino a che punto queste nuove radicalità militanti, che mettono in discussione le libertà occidentali, si siano radicate nelle scuole dell’élite globalista occidentale.

“Sono certamente preoccupato dall’idea secondo cui la libertà di espressione sarebbe un valore da gettare nella pattumiera della storia, in quanto elemento dell’ordine ‘bianco’, maschilista, etc. – dice al Foglio Vespertini – Gli eccessi vanno combattuti e la libertà di espressione non si tocca”.

 

 

 

Progressismo.

It-wikipedia.org- l'enciclopedia libera- Redazione- (2-7- 2022) - ci dice:

 

Il progressismo è una filosofia politica che sostiene il mutamento della società attraverso l'attuazione di politiche riformiste ed innovatrici, perseguendo il progresso in campo sociale, politico ed economico. È una filosofia tipica delle politiche di sinistra.

(Si tratta di “sinistre radicali” ossia di “nazi- bolscevismo”. Ndr)

Reputando gli avanzamenti negli ambiti della scienza, della tecnologia, dello sviluppo economico e dell'organizzazione sociale vitali per il miglioramento della condizione umana, il progressismo divenne molto significativo in Europa nel XVIII e XIX secolo, durante i quali, sotto la spinta di movimenti culturali come l'illuminismo e il positivismo, cominciò a diffondersi la convinzione che il continente stesse dimostrando come le nazioni potessero progredire da condizioni incivili alla civiltà attraverso il rafforzamento delle basi della conoscenza empirica come fondamento della società. Figure cardinali dell'Illuminismo reputavano il progresso universalmente applicabile ad ogni contesto societario, e ritenevano che le idee a supporto dello stesso si sarebbero presto diffuse dall'Europa in tutto il globo.

Definizioni.

Nella storia politica il termine appare con la rivoluzione francese del 1789, portavoce delle politiche illuministe della borghesia francese.

Secondo la definizione di Tullio De Mauro, "un partito progressista (ma non radical nazi-bolscevico-ndr)  sostiene la possibilità del progresso e dell'evoluzione della società, ed è fautore di riforme che facilitino tale processo, in ambito politico – istituzionale, sociale, economico e civile".

I progressisti(non nazi-bolscevici- ndr), infatti mirano a modificare gli assetti politici, economici e sociali tramite riforme graduali, progressive; il minimo comune denominatore è rappresentato dall'illuminismo, dal positivismo, dall'evoluzionismo e da una visione razionale in ambito politico, sociale ed economico.

Si contrappone al conservatorismo della destra, che propugna una pratica politica conforme alla tradizione e ostile alle innovazioni, in particolare nell'ambito etico ed economico. Data questa contrapposizione, storicamente vengono definite progressiste molte forze politiche schierate a sinistra, anche se oggi vengono considerate progressiste anche quelle miranti ad una terza via (Third Way).Negli anni il progressismo (non nazi-bolscevico-ndr) è diventato anche sinonimo di socialismo liberale e, seppur nato con origini diverse, riformismo. La tendenza è quella di unire il pensiero liberale e della proprietà privata, con le garanzie sociali offerte dal socialismo democratico. All'interno del liberalismo i progressisti sono rappresentati dal liberalismo sociale, favorevoli al libero mercato ma pure all'intervento pubblico, riforme in campo politico e sociale, così come all'interno del socialismo democratico esiste una corrente destra di socialismo liberale, incarnata da Tony Blair e Gerhard Schröder, che mira alla costruzione di un centro progressista.

I progressisti si differenziano tanto dai conservatori, legati allo status quo, come dai liberisti puri, e propugnano un'economia basata sul libero mercato ma con una forte azione sociale dello stato, volta a migliorare le condizioni di vita di aziende e persone, tramite una giusta redistribuzione della ricchezza. Tuttavia sarebbe giusto dire che i progressisti più che ai conservatori si oppongono ai retrogradi (reazionari); frequenti i casi di esponenti progressisti rispettosi della tradizione e di esponenti conservatori liberali portatori di progresso. Il progressismo si contrappone pure alle politiche comuniste (nazi- bolsceviche), e in parte a quelle socialiste.

Tuttavia vale la pena ricordare che nel corso della storia del '900 a seguito di processi politici, economici e scientifici in nome del progresso o di una nuova umanità, terminati con gravi conseguenze, si è preferito sostituire il termine progresso e progressista con termini quali modernizzazione, rinnovamento e innovazione.

Nel mondo i leader più autorevoli di questo attuale movimento progressista (oggi nazi-bolscevico -ndr) sono stati John Fitzgerald Kennedy, Jimmy Carter, Tony Blair, Gerhard Schröder, Carlo Azeglio Ciampi, e vicini a queste posizioni oggi troviamo Barack Obama, Sonia Gandhi, Charles Kennedy, Jean Chrétien, José Luis Rodríguez Zapatero.

 

 

 

La sinistra liberal progressista

cancella l’idea stessa di sinistra.

Kulturjam.it- Vincenzo Costa-(26 Luglio 2022)- ci dice :

 

La sinistra liberal progressista cancella l'idea stessa di sinistra.

C’è oggi una sinistra liberal progressista che non ha niente a che fare con la propria storia e tradizione. Il suo Occidente non è Platone, Spinoza, il cristianesimo ma il mercato e il consumo.

La sinistra liberal progressista, blob che divora se stessa.

Io non credo che vi siano due sinistre, o che la sinistra sia divisa o si divida. Queste sciocchezze le lascerei ai giovani ecumenici perditempo.

Se c’è una cosa che questi mesi del conflitto ucraino hanno portato alla luce è che il termine sinistra è ormai un equivoco.

Non siamo davanti a varianti della sinistra, come poteva essere tra Berlinguer e Willy Brandt o Olaf Palme, tra comunisti, socialisti e socialdemocratici.

C’è oggi una “sinistra liberal progressista” (nazi-bolscevica-ndr) che non ha niente a che fare con quella tradizione nel suo complesso, una sinistra neoliberale che tutta la sinistra, in tutte le sue varianti, ha sempre combattuto e che ha chiamato “destra”.

Ad accomunarla è l’odio con tutto ciò che è storia e ha storia, un odio verso la vita che nelle tradizioni prende forme, evolve, cresce. Il disprezzo verso le comunità, il tentativo di imporre un individualismo è isola, pensando che esista una sola forma di legame, quello che produce il consumo.

Il suo Occidente non è Platone, Spinoza, il cristianesimo, la cultura Latina. Per loro l’identità dell’Occidente è il mercato e il consumo. La democrazia la immaginano senza popolo: una democrazia di élite che si credono illuminate e a cui i popoli dovrebbero affidarsi. La democrazia senza democrazia.

Costoro si sono semplicemente appropriati del termine sinistra per raccogliere voti.

Un’operazione radicata nel Progetto di Eugenio Scalfari, col sostegno di gente come Veltroni, che non si capisce bene cosa ci facesse dentro il Pci dato che aveva in odio tutta la sua cultura e la sua storia.

Si tengano il termine “sinistra”. Ma quel tentativo è arrivato alla sua fine. Perché era idiota, elitario, sordo verso la realtà. Ha devastato l’economia del paese, distrutto la sua cultura democratica.

Ora sta distruggendo l’economia dell’Europa, costruendo un mondo basato sull’equilibrio del terrore.

Non ci pensiamo più. Apriamo un’altra storia.

 

 

 

 

Sconfiggere il “liberal-progressismo”:

 i 12 insegnamenti di Orban.

centromachiavelli.com- Viktor Orban-(23-5-2022)- ci dice :

 

(Trascrizione del discorso di Viktor Orban in occasione dell’apertura della Conservative Political Action Conference di Budapest, il 19 maggio 2022.)

Signore e signori, cari amici americani e conservatori di tutto il mondo, vi do il benvenuto.

E un benvenuto speciale al mio amico Václav Klaus. Non è una sorpresa che sia l’uomo più intellettualmente coraggioso d’Europa, perché è ricco di anni; ma ciò che sorprende tutti è che sia ancora il più giovane e il più fresco tra noi. Caro Klaus, grazie per essere venuto e per essere qui con noi.

So che tutti voi meritate un discorso migliore di questo, ma sappiamo come non si possa nuotare o correre a tempo di record la mattina. Vi prego di tenerlo a mente mentre ascoltate le mie riflessioni.

Comunque, è bello avervi qui. Il tempismo è una felice coincidenza: un mese fa abbiamo ottenuto la quarta vittoria elettorale consecutiva, quattro giorni fa ho formato il mio quinto governo conservatore e cristiano e ora sono qui con voi.

 È sempre bello poter parlare tra amici, ed è particolarmente bello avere qualcosa con cui sostenere le proprie parole; e noi ungheresi sentiamo giustamente di avere qualcosa con cui sostenere le nostre parole.

Come hanno vinto i conservatori ungheresi.

Abbiamo fatto molta strada, amici miei. Negli anni Ottanta leggevamo ciò che accadeva negli Stati Uniti dai samizdat distribuiti illegalmente nell’ex blocco orientale; e ora eccoci qui, con l’Ungheria che ospita il più importante raduno politico del Partito Repubblicano, il Grand Old Party.

Ricordo bene come vi invidiassimo allora: invidiavamo la vostra cultura del dibattito democratico, la libertà con cui organizzavate gli affari pubblici in America; invidiavamo il vostro Presidente Reagan per il suo carisma, la sua grinta, la sua arguzia e le sue politiche – e, naturalmente, facevamo il tifo per lui.

Tutto ciò che avevamo noi erano i funzionari comunisti in abito grigio e il loro New-speak politico, un’atmosfera soffocante e senza speranza.

Cari amici americani: se avete visto la serie “Chernobyl”, potete avere un’idea di ciò di cui sto parlando.

Abbiamo avuto quaranta lunghi anni di quella roba. E oggi ospitiamo questo grande evento, per il quale vorrei ringraziare gli organizzatori – ma soprattutto voi, che ci onorate della vostra presenza. A nome di tutti gli ungheresi, ringrazio i nostri amici americani e quelli di altri Paesi per averci onorato e per essere venuti qui a Budapest.

Come posso contribuire all’incontro di oggi?

Forse raccontandovi come abbiamo vinto: come abbiamo sconfitto prima il regime comunista; poi come abbiamo sconfitto i progressisti; infine, più recentemente, come abbiamo sconfitto la “Sinistra liberal internazionale” quando ha unito le sue forze contro l’Ungheria nelle elezioni.

Ora vi dirò come li abbiamo sconfitti per la prima, seconda, terza, quarta e quinta volta – e come li sconfiggeremo ancora.

Come cantano i tifosi del Fradi [squadra di calcio del Ferencváros]: “Ancora, ancora, ancora, ancora, c’è ancora da segnare!”.

Vi racconterò come ferventi studenti universitari sono riusciti a smantellare una dittatura, poi a rompere l’egemonia sulle opinioni dei comunisti di ritorno e dei liberal, e come sono riusciti a porre fine al dominio dei progressisti nella vita pubblica.

 Vi racconterò come l’Ungheria sia diventata un bastione dei valori conservatori e cristiani in Europa.

 Invece del mio lungo discorso, naturalmente, lo stesso lo si potrebbe raccontare in modo breve e semplice.

Abbiamo imparato dal generale Patton come la battaglia faccia emergere tutto il meglio e rimuova tutto ciò che è basso. Questo vale anche per il campo di battaglia politico. Qui, amici miei, solo i migliori rimangono in piedi – o, in breve, la condizione ultima per la vittoria è che dobbiamo diventare i migliori. Si può vincere se si è i migliori.

La lotta contro il regime comunista.

Cominciamo col dire che voi, politici amanti del proprio Paese, vi trovate di fronte a un problema che noi ungheresi abbiamo già affrontato con successo. Questo problema – se non sbaglio, sia in America sia in Europa occidentale – è il dominio sulla vita pubblica da parte dei liberal-progressisti.

Il problema è che essi occupano le posizioni più importanti nelle istituzioni più importanti, che occupano le posizioni dominanti nei media e che producono tutte le opere di indottrinamento politico nella cultura alta come in quella di massa.

Loro – la Sinistra progressista – ci dicono cosa sia verità e cosa no, cosa sia giusto e cosa sbagliato. E come conservatori, il nostro destino è quello di sentirci nella vita pubblica del nostro Paese come Sting si sentiva a New York: uno “straniero legale”.

Questa era la situazione anche in Ungheria. Trent’anni fa, anche qui la Sinistra era al potere – e c’era persino una dittatura comunista. L’intera macchina dello Stato lavorava per rafforzare il potere dei comunisti. Per quanto possa sembrare strano, noi – e io – siamo cresciuti in un “mondo woke.”

Solo che allora la teoria critica della razza si chiamava “socialismo scientifico” e veniva insegnata all’università nello stesso modo in cui si insegna quella woke nel vostro Paese. Dittatura socialista quotidiana: ecco in cosa siamo cresciuti. Politicamente corretto, New-speak orwelliano, controllo statale dell’agone pubblico, espropriazione della proprietà privata e stigmatizzazione della Destra.

Sotto il comunismo si scherzava sul fatto se fosse possibile scherzare sotto il comunismo. La barzelletta immaginava che in Unione Sovietica si tenesse un concorso di barzellette politiche, alle seguenti condizioni: il concorrente che si fosse classificato terzo avrebbe vinto un viaggio tutto compreso in Siberia per due settimane, il secondo classificato per un anno e il vincitore per la vita.

L’alleanza liberali-postcomunisti e la riconquista conservatrice.

Se sentite che questa battuta stia diventando sempre più significativa per voi, è arrivato il momento di passare all’azione.

In ogni caso, ci siamo sollevati e alla fine degli anni ’80 abbiamo deciso di dire basta.

Volevamo riconquistare il nostro Paese e la nostra libertà; volevamo riconquistare la libertà della nostra Patria. I comunisti non ce lo hanno lasciato fare senza reagire: attacchi della polizia, divieti, intercettazioni, agenti statali infiltrati, minacce e ricatti.

Ma noi abbiamo perseverato e abbiamo vinto. Fuori i sovietici, abbattuti i comunisti. Pensavamo di aver finalmente ottenuto ciò che volevamo, ma ci sbagliavamo:

sotto la dittatura liberali e conservatori avevano stretto un patto anticomunista, ma alla prima successiva occasione i liberali si erano schierati con i comunisti.

Si è scoperto come in realtà fossero alleati naturali. Se non erro, questo tipo di alleanza peccaminosa si è vista anche negli Stati Uniti.

Summa summarum, la vita pubblica dopo le prime elezioni libere in Ungheria era dominata dai post-comunisti, dai liberali e dai progressisti, e la Destra ungherese si trovò spiazzata. Quando il mio amico Donald Trump ha vinto le elezioni presidenziali statunitensi nel 2016, una delle sue principali promesse riguardava la necessità di “prosciugare la palude”.

 Il Presidente Trump ha dei meriti innegabili, ma nonostante ciò non è stato rieletto nel 2020.

Ha fatto la stessa fine del nostro primo governo conservatore e cristiano nel 2002: abbiamo governato in modo eccellente – dopo tanti anni posso forse concedermi tanta immodestia – ma siamo stati trascinati dalla palude della sinistra ungherese.

 E poi, tra il 2002 e il 2010, abbiamo assistito a ciò che generalmente accade in queste circostanze: i socialisti hanno speso i soldi del popolo.

 L’Ungheria è sprofondata nel debito, l’economia è caduta in recessione, l’inflazione è andata fuori controllo, la disoccupazione è aumentata e la gente non è riuscita a pagare le bollette.

 Scoppiò la violenza di strada e i gruppi paramilitari si misero in marcia. È passato molto tempo, ma non dimentichiamolo: una serie di omicidi a sfondo etnico indignò l’opinione pubblica.

 La Sinistra aveva tagliato a tal punto le spese per la polizia da renderla incapace di mantenere anche solo una parvenza di ordine, con la legge che proteggeva i criminali piuttosto che le vittime.

Amici americani: penso abbiate visto qualcosa di simile. Le Scritture recitano come segue: “Ogni albero si riconosce dai suoi frutti”.

Ebbene, i frutti del governo progressista parlano da soli: rovina economica e violenza di strada.

Quando un governo di sinistra sale al potere, la storia finisce quasi sempre nello stesso modo. Ma, cari amici, nel 2002 abbiamo organizzato un movimento popolare e di resistenza intellettuale con le truppe che ci rimanevano dopo la sconfitta elettorale. Non abbiamo adottato un atteggiamento difensivo e non ci siamo rassegnati alla condizione di minoranza; abbiamo giocato per vincere e proclamato la Reconquista.

 L’Ungheria è il laboratorio in cui abbiamo testato l’antidoto al dominio dei progressisti.

 Il piano ebbe successo. Nel 2010 tornammo. Abbiamo lavorato per otto anni: passo dopo passo, mattone dopo mattone, abbiamo combattuto e costruito. La formula è completa.

 Abbiamo appeso il camice al chiodo, questa primavera l’Ungheria ha ricevuto la quarta dose e posso dire che il paziente è completamente guarito. Il farmaco è open-source, gratuito e comprende dodici punti – che ora condividerò con voi. A beneficio dei nostri amici stranieri, preciso che il dodici è il numero fortunato dei combattenti per la libertà ungheresi.

Le dodici regole per il successo.

Il primo punto della formula ungherese è giocare secondo le proprie regole. L’unico modo per vincere è rifiutare le soluzioni e i percorsi offerti dagli altri. Come diceva Churchill, avere dei nemici è un segno sicuro che si sta facendo qualcosa di giusto. Per questo non dobbiamo scoraggiarci se veniamo diffamati, se veniamo bollati come deplorevoli o se veniamo trattati all’estero come dei piantagrane. Anzi, sarebbe sospetto se non accadesse nulla di tutto ciò. Ricordate che chi gioca secondo le regole dell’avversario è destinato a perdere.

 

Il secondo punto: il conservatorismo nazionale in politica interna. La causa della nazione non è una questione di ideologia e nemmeno di tradizione. La ragione per cui le chiese e le famiglie devono essere sostenute è che sono i mattoni della nazione. Questo significa anche che bisogna stare dalla parte degli elettori. Abbiamo deciso di fermare l’immigrazione e di costruire il muro al confine meridionale perché gli ungheresi avevano detto di non volere immigrati clandestini. Dissero: “Viktor, costruisci quel muro!”. Tre mesi dopo la barriera di confine era in piedi.

Il segreto è non pensare troppo: la barriera ungherese è una semplice struttura rete metallica con rilevatori di movimento, torri di guardia e telecamere; ma questo è sufficiente, se la gente vuole proteggere il proprio Paese.

 Il tallone d’Achille dei progressisti è proprio quello di voler imporre i propri sogni alla società.

Ma per noi tale pericolo è anche un’opportunità, perché quando si tratta di questioni importanti, in realtà alla gente non piacciono i sogni della Sinistra. Bisogna trovare le questioni su cui la Sinistra è completamente fuori dalla realtà e metterle in evidenza, ma in un modo che possa essere compreso anche da chi non è uno scienziato.

Terzo punto: l’interesse nazionale in politica estera. I progressisti pensano sempre che la politica estera sia una battaglia di ideologie: una battaglia tra buoni e cattivi, in cui il corso della storia sarà deciso una volta per tutte.

Ma a mio avviso, cari amici, negli ultimi cento anni ci sono state almeno quattro di queste “grandi battaglie finali”. C’è qualcosa di sbagliato in tale concezione.

La nostra risposta dovrebbe essere una chiara e semplice antitesi ai progressisti: prima la nazione! Prima l’Ungheria! Prima l’America! Abbiamo bisogno di una politica estera basata sui nostri interessi.

 Non è sempre facile, perché il mondo della politica estera è spesso complicato. Prendiamo la guerra in corso al nostro confine. La Russia è l’aggressore e l’Ucraina la vittima. Condanniamo l’aggressore e aiutiamo la vittima dell’aggressione. Ma allo stesso tempo sappiamo che l’Ucraina non sta difendendo l’Ungheria. È un’idea insensata! L’Ungheria può essere difesa dalla NATO e dalle forze di difesa ungheresi. In proporzione alla nostra popolazione, abbiamo accolto il maggior numero di rifugiati e il popolo ungherese è felice di aiutare.

Sono felici di aiutare, gli ungheresi, ma non vogliono pagare il prezzo della guerra, perché non è la loro guerra e non trarrebbero alcun vantaggio da essa. Sanno bene che la guerra è accompagnata da sanzioni, inflazione dilagante e stagnazione economica; sanno che la guerra impoverisce sempre le persone. Non dobbiamo cedere alle voci delle sirene, per quanto allettanti possano sembrare. Il nostro obiettivo è ripristinare la pace, non continuare la guerra, perché questo è il nostro interesse nazionale. Prima l’Ungheria!

Quarto punto: dobbiamo avere i nostri media. Possiamo mostrare le idee folli della Sinistra progressista solo se abbiamo dei media che ci aiutano a farlo.

Le opinioni di sinistra sembrano essere maggioritarie solo quando i media contribuiscono ad amplificarle.

La radice del problema è che i moderni media occidentali si allineano alle opinioni della Sinistra. I giornalisti sono stati istruiti all’università da personaggi di sinistra progressista.

E non appena una figura conservatrice appare sui media, viene criticata, attaccata, diffamata e vilipesa.

Conosco la vecchia etica della democrazia occidentale, secondo la quale la politica di partito e la stampa devono essere separate. È così che dovrebbe essere. Ma, cari amici, i democratici negli Stati Uniti, per esempio, non rispettano queste regole.

 Provate a contare quanti media sono al servizio del Partito Democratico: CNN, New York Times, l’elenco continua – potrei continuare fino a notte fonda.

Naturalmente, anche il Grand Old Party ha dei media alleati, ma non possono competere con il dominio dei media da parte dei liberali. Il mio amico Tucker Carlson si staglia saldo e solitario.

Il suo programma ha gli ascolti più alti. Che cosa significa questo? Significa che ci dovrebbero essere programmi come il suo giorno e notte – o, come dite voi, 24×7.

Quinto punto: smascherare le intenzioni dell’avversario.

Come condizione per la vittoria, il sostegno dei media è necessario, ma non sufficiente. Dobbiamo anche abbattere i tabù. Forse non c’è bisogno di spiegarlo agli amici americani, perché quale demolitore di tabù è più grande del Presidente Donald Trump? Ma si può sempre alzare l’asticella: dobbiamo abbattere non solo i tabù di oggi, ma anche quelli di domani.

 Qui in Ungheria smascheriamo ciò che la Sinistra sta preparando prima ancora che agisca. All’inizio lo negheranno, ma il successo è ancora più dolce quando si scopre che abbiamo sempre avuto ragione. Per esempio, c’è la questione della propaganda LGBTQ rivolta ai bambini.

 Qui è ancora una novità, ma noi l’abbiamo già distrutta. Abbiamo portato la questione alla luce del sole e indetto un referendum. La stragrande maggioranza degli ungheresi ha rifiutato questa forma di sensibilizzazione dei bambini.

Rivelando tempestivamente ciò che la Sinistra stava preparando, li abbiamo costretti sulla difensiva e, quando hanno attaccato la nostra iniziativa, alla fine sono stati costretti ad ammettere la realtà del loro piano. Permettetemi di citare di nuovo il generale Patton: “Un buon piano, violentemente eseguito ora, è meglio di un piano perfetto eseguito la prossima settimana”.

Sesto punto: economia, economia, economia. Sappiamo tutti che la Sinistra vuole gestire l’economia secondo nozioni astratte.

Questa è una trappola per la Destra. Non cadeteci mai!

Quando siamo saliti al potere, abbiamo deciso che dovevamo perseguire solo politiche economiche che andassero a beneficio della maggioranza degli elettori.

 Qui in Ungheria abbiamo un motto a riguardo: “Anche chi non ha votato per noi finisce per stare meglio”.

 In questo siamo l’opposto dei progressisti: anche chi ha votato per loro sta peggio. In ultima analisi, la gente vuole posti di lavoro, non teorie economiche. La gente vuole fare un passo avanti nella vita e vuole per i propri figli una vita migliore rispetto a quella che ha avuto. Se un governo di destra non è in grado di offrire tutto questo, è destinato al fallimento.

 

Settimo punto: non lasciarsi spingere all’estremo. Dico questo perché teorie cospirative estreme si manifestano di tanto in tanto a destra, così come utopie estreme si manifestano regolarmente a sinistra.

Se guardiamo più a fondo, vediamo che in realtà la gente non vuole né l’una né l’altra cosa. Ma, cari amici, qual è la differenza tra la negazione della scienza da parte dell’estrema destra e la negazione della biologia da parte dei movimenti LGBTQ?

La risposta è semplice: non c’è alcuna differenza. Dobbiamo rendere a Cesare ciò che è di Cesare, a Dio ciò che è di Dio e alla scienza ciò che è della scienza.

Possiamo guadagnare un’immensa popolarità sui forum di Internet promuovendo teorie cospirative – e in effetti a volte c’è del vero in esse; ma in realtà ci alieneremo una gran parte dell’elettorato, ci ritroveremo ai margini e alla fine perderemo.

Ottavo punto: leggere ogni giorno. Un libro al giorno allontana la sconfitta. So che sembra strano. Non sono un accademico, ma il fatto è che nessuna invenzione ha ancora superato il libro come veicolo di comprensione e trasmissione delle idee.

Il mondo sta diventando sempre più complesso e dobbiamo dedicare del tempo alla sua comprensione. Io, per esempio, ogni settimana dedico un giorno intero alla lettura. La lettura ci aiuta anche a capire cosa pensano i nostri avversari e dove il loro pensiero è fallace. Se sappiamo questo, il resto è pura tecnica. Dobbiamo tradurre tutto ciò nel linguaggio dell’azione quotidiana e della comunicazione politica. È vero che lo spin doctor è una figura utile, ma la comprensione del problema deve essere fatta da noi politici.

Nono punto: avere fede. La mancanza di fede è pericolosa. Se non credete che ci sarà una resa dei conti finale e che sarete chiamati a rispondere delle vostre azioni davanti a Dio, penserete di poter fare tutto ciò che è in vostro potere.

 Incoraggiamo quindi i futuri giovani politici conservatori a impegnarsi nella fede. Inizialmente non la consideravo una priorità, ma ho imparato che se dedichiamo tempo alla nostra fede, il successo arriverà più facilmente. Sono stato membro del Parlamento per trentadue anni e sto iniziando il mio diciassettesimo anno come Primo Ministro. Ho ascoltato le parole del profeta Isaia, che ha detto: “Se non resterete saldi nella vostra fede, non resterete affatto in piedi”. In politica, cari amici, questa è la legge.

Decimo punto: fatevi degli amici. I nostri avversari, i liberali progressisti e i neomarxisti, hanno un’unità inesauribile: si coprono le spalle a vicenda.

Noi conservatori, invece, siamo capaci di litigare tra di noi anche per la più piccola questione. E poi ci stupiamo di come i nostri avversari ci mettano all’angolo.

Noi possediamo una certa raffinatezza intellettuale e ci preoccupiamo delle sfumature intellettuali.

Ma se vogliamo avere successo in politica, non dobbiamo mai guardare a ciò su cui non siamo d’accordo, ma piuttosto cercare i nostri punti in comune. Faccio un esempio. Il Vaticano è uno dei nostri più importanti alleati europei. È un alleato in quanto custode dei valori cristiani, nel sostegno alle famiglie, e insieme affermiamo che un padre è un uomo e una madre è una donna. Siamo uniti per la pace e per i rifugiati dall’Ucraina. Ma sulla migrazione illegale il nostro pensiero diverge. Non dobbiamo guardare alle questioni su cui possiamo impegnarci in dispute accese, ma cercare modi in cui possiamo lavorare insieme. Credetemi, se non lo facciamo, i nostri avversari ci daranno la caccia uno ad uno.

 

Undicesimo punto: costruire comunità. Amici miei, nel corso degli anni ho imparato che non c’è successo politico conservatore senza comunità funzionanti. Meno comunità ci sono e più le persone sono sole, più gli elettori vanno ai liberali; e più comunità ci sono, più voti otteniamo noi. È così semplice. Non c’è bisogno che ve lo spieghi: gli Stati Uniti hanno i club, le società e le comunità meglio funzionanti al mondo. Quello che dobbiamo capire è che un’entità politica deve comprendere queste comunità.

Infine, il dodicesimo punto: costruire istituzioni. Per una politica di successo, occorrono istituzioni e istituti. Che siano think tank, centri educativi, laboratori di talento, istituti di relazioni estere, organizzazioni giovanili o altro, devono avere un aspetto politico.

 Non dimentichiamo che i politici vanno e vengono, ma le istituzioni restano con noi per generazioni. Le istituzioni hanno la capacità di rinnovare intellettualmente la politica. Servono sempre nuove idee, nuovi pensieri e nuove persone. Se si esauriscono, noi esauriremo le munizioni e il nostro avversario non avrà pietà nel metterci al tappeto.

La nuova minaccia comunista che viene da occidente.

Il mondo intero sta subendo enormi cambiamenti. È strano ma vero che le ideologie distruttive del fascismo e del comunismo siano nate in Occidente.

Non avremmo mai pensato che i comunisti potessero tornare non solo dall’Est, ma anche dall’Ovest.

Ora vediamo che i progressisti stanno minacciando l’intera civiltà occidentale, e il vero pericolo non viene dall’esterno ma dall’interno.

Voi, cari amici americani, vi trovate di fronte a ciò negli Stati Uniti, mentre noi ci troviamo di fronte allo stesso nell’Unione Europea.

Abbiamo a che fare con le medesime persone: burocrati senza volto, ideologicamente preparati, che siedono a Washington DC e a Bruxelles. Liberali progressisti, neomarxisti inebriati dal sogno del benessere, al soldo di George Soros, sostenitori della società aperta. Vogliono abolire lo stile di vita occidentale che voi e noi amiamo tanto: quello per cui i vostri genitori hanno combattuto durante la Seconda Guerra Mondiale e la Guerra Fredda, e quello per cui noi abbiamo combattuto quando abbiamo cacciato i comunisti sovietici dall’Ungheria.

Dobbiamo riprendere la lotta, e in questa lotta possiamo avere successo solo se siamo uniti e organizzati.

 Dobbiamo riprenderci le istituzioni di Washington e Bruxelles. Dobbiamo trovare amici e alleati gli uni negli altri. Dobbiamo coordinare il movimento delle nostre truppe, perché abbiamo di fronte una grande sfida.

L’anno decisivo sarà il 2024: voi avrete le elezioni presidenziali e congressuali e noi le elezioni del Parlamento europeo.

 Queste due sedi definiranno i due fronti della battaglia che si combatte per la civiltà occidentale.

Oggi non controlliamo nessuna delle due. Eppure abbiamo bisogno di entrambe. Abbiamo due anni per prepararci. La lezione ungherese è che non esiste una pallottola d’argento. C’è solo il lavoro. Dobbiamo farlo. Usciamo e facciamolo! Grazie e buona fortuna!

(Viktor Orban-Primo Ministro dell'Ungheria, presidente del partito Fidesz.)

 

 

 

La Russia sospende le ispezioni

delle strutture militari

previste dal trattato START

msn.com-  news360-   Roberto De Luca – ( 8-8-2022)-ci dice :

 

Il Ministero degli Esteri russo ha confermato in un comunicato la temporanea esclusione delle sue strutture dalle ispezioni previste dal Trattato per la riduzione delle armi strategiche (START), firmato con gli Stati Uniti negli anni Novanta.

Mosca ha sostenuto che Washington sta cercando di usare le ispezioni per ottenere vantaggi unilaterali, denunciando al contempo il fatto che gli Stati Uniti stanno di fatto privando la Russia delle ispezioni alle strutture statunitensi.

"Il nostro obiettivo è eliminare questa situazione inaccettabile e garantire che tutti i meccanismi START operino in stretta conformità con i principi di parità e uguaglianza delle parti, come era implicito quando il trattato è stato concordato ed è entrato in vigore", ha dichiarato il ministero russo in un comunicato.

Il Ministero degli Esteri ha sottolineato che questo problema ha origine dal taglio delle comunicazioni aeree della Russia con gran parte delle potenze occidentali, compresi gli Stati Uniti, come misura sanzionatoria in risposta alla guerra in Ucraina. Mosca ha assicurato di aver portato la situazione all'attenzione dei suoi partner statunitensi, anche se afferma di non aver ricevuto risposta.

"Ulteriori difficoltà sorgono per gli ispettori russi e per i membri dell'equipaggio degli aerei russi che viaggiano verso gli Stati Uniti a causa dell'inasprimento (...) del regime dei visti nei Paesi di transito lungo le loro possibili rotte". Gli ispettori e gli equipaggi statunitensi non incontrano tali difficoltà", ha sottolineato la Russia.

A questo punto, Mosca ha optato per la decisione di escludere gli impianti da possibili ispezioni, in attesa che Washington decida di favorire una soluzione, senza la quale la Russia non prevede di riprendere i controlli sugli impianti.

Tuttavia, la parte russa non vede solo gli ostacoli alle sue ispezioni come il principale problema attuale, ma ritiene che anche altri fattori esterni, come "il rinnovato tasso di incidenza" del coronavirus negli Stati Uniti, siano un freno alla piena ripresa del Trattato START e non lo facciano "artificialmente".

 

"Nelle attuali circostanze, le parti dovrebbero abbandonare i tentativi deliberatamente controproducenti di accelerare artificialmente la ripresa delle attività di ispezione START e concentrarsi su uno studio completo di tutti i problemi esistenti in questo settore, la cui soluzione positiva consentirebbe di tornare alla piena attuazione di tutti i meccanismi di verifica del Trattato il prima possibile", ha osservato il Ministero degli Esteri russo.

Tuttavia, il governo russo ha sottolineato che la decisione è "temporanea" e che è "pienamente impegnato" a rispettare le disposizioni del Trattato START, che considera "lo strumento più importante per mantenere la sicurezza e la stabilità internazionale".

Lo START è stato firmato nel 1991 dagli allora leader degli Stati Uniti e dell'Unione Sovietica, George H.W. Bush e Mikhail Gorbaciov. Bush e Mikhail Gorbaciov. Nell'aprile 2010, l'accordo è stato sostituito dal trattato New START, firmato dagli allora leader statunitensi e russi, rispettivamente Barack Obama e Dmitry Medvedev.

L'accordo, attualmente in vigore grazie a un'estensione firmata nel 2021, scade nel 2026. Il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha espresso la volontà di negoziare un nuovo quadro di controllo degli armamenti che sostituisca quello attuale.

 

 

 

Addio all'Occidente” liberal “

ma non a quello liberale.

Ilgiornale.it -Carlo Lottieri –( 1 Gennaio 2018)- ci dice :

 

Nel mondo intero è in crisi il progressismo tipico dei «dem» americani. Vittima dello statalismo.

Con il suo nuovo libro su Il tramonto del liberalismo occidentale (Einaudi, pagg. XII-220, euro 17, traduzione di Chiara Melloni), Edward Luce obbliga a riflettere sul declino delle società di tradizione europea all'interno di un mondo globalizzato.

Dopo che tanti si erano illusi che la storia fosse finita e che presto l'intera umanità si sarebbe trovata a vivere entro istituzioni democratiche, come aveva profetizzato Francis Fukuyama, oggi ci troviamo in un quadro del tutto diverso.

La Russia di Putin e la Turchia di Erdogan sono attori di primo piano della scena internazionale, portatori di progetti che ben poco hanno a che fare con i nostri valori.

 La Cina sta crescendo a ritmi altissimi e sta aiutando l'intera Asia (e in parte perfino l'Africa) lungo la strada di uno sviluppo che, presto, potrebbe rendere marginale il peso delle economie occidentali.

 Da parte sua, America ed Europa sono attraversate da fenomeni di aperta ribellione verso l'establishment globalista (liberal Dem Usa e Ue-Ndr), come attestano la Brexit, l'elezione di Donald Trump e la stessa crisi tra Spagna e Catalogna.

A giudizio di Luce, tutto questo ci parla del tramonto del liberalismo, dove con tale termine si deve intendere qualcosa di assai più simile al progressismo dei democratici americani che non a quella filosofia politica volta a limitare l'intervento pubblico, la tassazione, la regolazione.

A declinare, insomma, è lo spirito neoilluminista che ha retto ogni decisione fondamentale assunta in Occidente negli ultimi settant'anni.

Le popolazioni di tradizione europea si scoprirebbero più povere e, per questo motivo, tenderebbero a isolarsi, dato che l'autore concorda con l'economista Branko Milanovic in merito al fatto che «la presente ondata della globalizzazione occidentale sta bloccando la crescita dei redditi delle classi medie del mondo ricco».

In realtà, le cose sono assai diverse.

Se la crescita è contenuta e a farne le spese è soprattutto la piccola borghesia, questo si deve a un'espansione dello Stato che mai si era vista nell'intera storia umana. (L’opera malefica di

Klaus Schwab è all’origine di tutto !Ndr)

Eppure un dato tanto macroscopico non è evocato in nessuna pagina di questo corposo saggio. Lo studioso inglese giustamente ci ricorda che molti occidentali, al momento di andare in pensione, «se la vedranno brutta». Purtroppo però egli non ha capito che ciò dipende dal fatto che l'Occidente ha statalizzato i sistemi previdenziali.

Il socialismo che nel 1989 è fallito a Oriente, prima o poi crollerà anche in Occidente, causando gravi sofferenze. Il guaio è che troppi intellettuali - basti leggere gli elogi rivolti a Bismarck e Lloyd George per le loro scelte «sociali» in campo previdenziale - non hanno compreso da dove provengono i problemi e quindi non sanno porre rimedio agli errori del passato.

Quindi l'Occidente non è in crisi a causa di Trump e neppure perché i cinesi saprebbero sfruttare la globalizzazione e gli scambi meglio di noi. Siamo in declino perché abbiamo smarrito quasi ogni legame con ciò che ci ha fatto grandi: con quel contesto istituzionale basato sulla proprietà che, proteggendo il libero mercato, ha favorito la Rivoluzione industriale e, di conseguenza, una formidabile espansione delle condizioni di vita.

 Per Luce, invece, gli Usa e la Germania, il Giappone e la Cina si sarebbero affermati grazie a politiche poste a protezione dell'industria detta «nascente», e non già nonostante quelle misure. Ma se si continua a pensare che l'apertura dei mercati sia un problema, difficilmente potremo avere un futuro.

Interprete di un liberalismo incoerente, Luce vede il suo mondo tramontare, ma non è detto che l'inabissarsi di ordini politici spesso più tolleranti a parole che nei fatti non offra prospettive interessanti.

Nei decenni del cosiddetto «Washington consensus», molti Paesi hanno adottato direttive che in qualche caso hanno allargato gli spazi di libertà, ma che hanno pure rafforzato spesa pubblica, welfare, tassazione e regolazione.

Oggi quegli schemi sono contestati da più parti.

Nel libro, dunque, il focus della riflessione è sulla sconfitta di quella visione che considera Trump «una minaccia mortale per tutte le più preziose qualità degli Stati Uniti»: un progressismo costruito sui vecchi partiti e sui sindacati, realtà declinanti ma ancora guardate con nostalgia.

Luce è certamente deluso dalla piega tecnocratica che ha segnato l'epoca di Tony Blair e Bill Clinton, ma non avverte come ogni Stato invasivo apra la strada a piccole minoranze sottilmente autoritarie. Eppure sono le politiche socialiste dei nostri welfare che hanno consegnato la società a ingegneri sociali senza valori (o con valori demoniaci come quelli scritti nei libri scritti da Klaus Schwab. Ndr).

Secondo Luce, in questi tempi di populismo staremmo lasciandoci alle spalle l'ottimismo di John Locke per recuperare il pessimismo di Thomas Hobbes. In verità, l'Occidente - specie oltre Atlantico - non è affatto morto e neppure morente. Basti pensare che, mentre si insiste in ogni momento sulla crescita dell'Asia, tutte le maggiori novità economiche degli ultimi anni (da Bitcoin a Facebook, da Airbnb a Uber, ecc.) vengono dall'America.

A dimostrazione che il declino statunitense è più un timore che un fatto. È però vero che la nostra politica è in crisi. In particolare, assistiamo a una crescente tensione fra un progressismo “liberal Dem Usa e Ue” avverso alla democrazia (e insofferente per le convinzioni della gente comune) e un'opinione pubblica avversa al “progressismo falso del globalismo Dem Usa e Ue”.

Ma solo allargando gli spazi di libertà potremo dare basi più solide alla convivenza civile e recuperare fiducia nel futuro.

 

 

 

Progressisti di tutto il mondo,

fatevi venire un’idea

Non è mica solo colpa del Pd,

i guai della sinistra sono globali.

Linkiesta.it- Christian Rocca – (28-12-2019 )- ci dice ;

Dall’Italia agli Stati Uniti, passando per la Gran Bretagna, il dibattito nel mondo democratico è sempre lo stesso: liberali contro socialisti. Ma mettiamoci comodi, finché c’è Trump alla Casa Bianca non prevarranno né gli uni né gli altri.

La sinistra mondiale (Liberal Dem Usa e Ue )è in piena crisi d’identità, dall’Italia agli Stati Uniti, passando da tutti i paesi europei. Non è ancora riuscita a trovare un modo di contrastare i populisti e i nazionalisti, ma nemmeno a risolvere gli ormai rilevanti problemi di personalità.

Che cos’è oggi la sinistra occidentale? Nessuno lo sa, nemmeno la sinistra occidentale. Dopo aver dominato la politica globale cavalcando globalizzazione e innovazione, il progressismo degli anni Novanta, cioè Tony Blair, Bill Clinton e i loro epigoni, è passato di moda perché si è dimostrato incapace di governare le diseguaglianze causate dalla rivoluzione digitale indicata da Klaus Schwab.

La ricetta, di fronte a interi settori della società rimasti indietro rispetto ad altri che invece hanno fatto enormi passi in avanti, è diventata ideologica: ancora più globalizzazione, ancora più innovazione, segnalando i grandi passi avanti fatti dall’umanità e dimenticando gli scompensi creati dalla grande redistribuzione della ricchezza.

La prima reazione è stata di rigetto, con gli elettori progressisti (liberal) occidentali in fuga e alla ricerca di qualcos’altro che di volta in volta è stato individuato nei movimenti demagogici e populisti non importa se di destra o di sinistra. La seconda reazione, più intellettuale, è stata quella di tornare indietro ad abbracciare politiche socialiste e socialdemocratiche, abbandonate alla fine degli anni Ottanta.

Oggi, da una parte ci sono i sempre più sparuti difensori del liberalismo sociale che gli avversari chiamano in modo sprezzante neoliberisti, assimilandolo agli avversari di destra, quando in fondo sono soltanto socialisti assaliti dalla realtà. Dall’altra ci sono i promotori di una specie di socialismo liberal Dem(Usa e Ue) del Ventunesimo secolo, una via di mezzo tra una parata di reduci dell’anticapitalismo e nuove generazioni alla conquista di maggiori “diritti sociali tutti ideologici (Woke).

La scena al momento è dominata da questi ultimi, i quali hanno vinto il dibattito interno in Francia, in Italia, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. Con risultati, però, non invidiabili, visto che perdono tutte le elezioni possibili.

Con l’eccezione della Francia, dove il presidente eletto è un “neoliberista”, e della Germania, dove resiste sempre meno Angela Merkel, al governo o pronti ad andarci in quasi tutto il mondo occidentale ci sono i populisti e i demagoghi, non i socialisti.

 L’inglese Jeremy Corbyn ha perso due elezioni, tre se si considerano pure le Europee, in pochi mesi: la prima contro una premier conservatrice debolissima, la seconda contro un elitario membro dell’establishment londinese che ha avuto la geniale idea di interpretare il ruolo di uomo del popolo globalista.

 Nonostante avversari non irresistibili, il socialismo di Corbyn ha regalato alla sinistra inglese la più grande scoppola elettorale in 90 anni. Va anche ricordato, per dare un quadro più ampio, che i laburisti britannici hanno perso otto delle undici elezioni generali. Le tre eccezioni sono quelle del New Labour di Tony Blair, il principe delle tenebre neoliberiste.

Non è controintuitivo, dunque, dire che in Gran Bretagna la sinistra vince solo quando è meno socialista e più liberale, meno old style e più moderna, sia adesso sia nei quattro decenni precedenti.

Negli Stati Uniti che si apprestano a scegliere lo sfidante di Donald Trump alle prossime elezioni presidenziali del novembre 2020, il dibattito è simile pur essendo diversi i punti di partenza. La svolta socialista impressa da Bernie Sanders prima, da Elizabeth Warren poi e adesso da Alexandria Ocasio Cortez (non candidata in questo ciclo elettorale perché non ha l’eta) sarebbe stata inconcepibile solo cinque anni fa, cosi come sarebbe stato inimmaginabile Donald Trump e molte altre cose che ormai sono all’ordine del giorno.

Ma da allora la curvatura progressista (ora liberal Dem Usa e Ue) è diventata mainstream, tanto che la notoriamente centrista Hillary Clinton alle elezioni del 2016 si è presentata con il programma economico e sociale più di sinistra della storia del Partito democratico.

E sì, ha perso anche lei. La tendenza americani è la stessa che si nota in Europa, ma gli obiettivi dichiarati da Sanders, Warren, Ocasio-Cortez, e con più moderazione dagli altri pretendenti, sono di buon senso perché non può essere considerato altro che di buon senso vivere con una copertura sanitaria universale, con l’aspettativa per la maternità e con un’istruzione a prezzi accessibili.

Anzi è proprio il fatto che queste cose non siano garantite nel paese più potente e ricco del mondo, negli anni venti del ventunesimo secolo, a essere considerato estremo e radicale.

Sanders è riuscito a imporre questi temi nel dibattito pubblico, Warren sta provando a far passare l’idea che si debbano tassare le grandi ricchezze (globaliste Dem Usa e Ue), Ocasio-Cortez mobilita le generazioni più giovani collegando le politiche di giustizia sociale a quelle in difesa del pianeta come promette l’ideologo Klaus Schwab .

Il rischio che tutti vedono, però, è quello di un’eccessiva radicalizzazione, esattamente come è successo in Gran Bretagna con Corbyn, tanto che un recente sondaggio pubblicato dal New York Times, a fronte di tanto parlare di sanità e di istruzione per tutti, ha svelato che soltanto un elettore democratico su quattro vorrebbe eliminare il sistema di assicurazioni sanitarie private in vigore da sempre e sostituirlo con un sistema di copertura pubblica, ovvero solo uno su quattro degli elettori democratici sono favorevole a quanto propongono Sanders, Warren e Ocasio Cortez. E solo uno su tre, sempre tra i democratici, vorrebbe rendere gratuita la retta universitaria a tutti gli americani, a prescindere dal reddito, un’altra idea sostenuta da Sanders e Warren.

Ecco spiegato perché in testa nei sondaggi nazionali e nei primi due stati dove si voterà a febbraio, l’Iowa e il New Hampshire, ci sono due candidati democratici centristi, più riformisti che rivoluzionari, il vecchio Joe Biden e il giovane Pete Buttigieg. Quest’ultimo, in particolare, propone un sistema sanitario misto, pubblico per chi lo vuole e privato per chi si trova bene con le assicurazioni, mentre vuole rendere gratuite le rette universitaria, con l’esclusione di chi se le può permettere. Biden sembra sentire il peso dei suoi anni e la freschezza di Buttigieg non riesce a proiettare sufficiente autorevolezza, così è sceso in campo l’ex sindaco di New York Mike Bloomberg, 77 anni, non un pivello, il quale pare sia pronto a spendere un miliardo di dollari del suo patrimonio personale per provare a vincere le primarie democratiche e poi battere Trump a novembre.

Il dibattito sulla sinistra, insomma, non si è ancora chiuso e probabilmente resterà aperto fino alle elezioni presidenziali americane perché chiunque vincerà le primarie, un rivoluzionario socialista o un riformista liberaldemocratico, sarà comunque l’esito della sfida finale con Trump a decidere quale sarà la nuova direzione della sinistra globale (falsa progressista Dem Usa e Ue) e anche quella nostra.

 

 

 

La sinistra ci instilla i propri

dogmi con paura e colpe.

Laverita.info- Stefano Pasetti - Lettera a Giordano -(9 agosto 2022) - ci dice:

 

 

La Verità continua a ragguagliarci su un aspetto sociologico, che è così subdolo e insidioso da sfuggire ai più: quello per cui i progressisti liberal dem Usa e Ue ci vogliono educare alla loro ideologia, instillando paure e sensi di colpa, con perenni stati di emergenza.

I comunisti hanno cambiato il pelo (sostituendo l’Ue e la Nato, finanza ed élite di comando al proletariato), ma non il vizio: allora si trattava di lotta al capitalismo e al clericalismo e di abolizione delle disuguaglianze, mentre ora si vuole creare un uomo nuovo (dettato da Klaus Schwab), soggetto ai dogmi scientifici, sanitari, ambientali e dei nuovi diritti, che non deve pensare, ma adeguarsi ad agende imposte non si sa da chi, da poteri occulti.

Agende fornite da Klaus Schwab, ossia di un establishment composto da poteri forti, di cui i “progressisti liberal dem” sono parte integrante, accettate dal mondo industriale globalista occidentale e anche ecclesiastico e delle quali i meno abbienti sono le prime vittime.

A quale titolo i falsi progressisti si sono arrogati il diritto di decidere sulle nostre sorti e quindi come deve essere la nostra società e il nostro futuro?

Che cosa possiamo fare per contrastare questo scenario da incubo?

 

 

 

 

 

 

 

Il gonzo progressista.

Puntocriticoblog.it- Mario Monaco –(16 Giugno 2021)- ci dice :   

 

 

Slavoj Zizek parlava di idiota liberale in riferimento ad un certo cosmopolitismo-multiculturalismo di impronta liberal in salsa americana che aveva improntato di sé il corso politico dell’America clintoniana, intriso di falsa coscienza, tracimato poi nell’Europa pre -moneta unica e nel resto del pianeta.

 

 Noi, più modestamente, parliamo di gonzi progressisti, in riferimento ad una categoria politico intellettuale che orbita nell’area del centrosinistra, residuo del “ceto medio riflessivo” di gin borgiana memoria, specializzato nell’abboccare ad ogni campagna “prodotta” da centrali statunitensi sui diritti umani usati come paravento dell’imperialismo a stelle e strisce.

 

Questo in politica estera. In politica interna il gonzo progressista abbocca, da due decenni almeno, alla narrazione dominante che spaccia per riforme evidenti controriforme in danno dei lavoratori, del ceto medio e dei pensionati, bevendosi senza un sussulto tutto l’armamentario della ristrutturazione capitalistica degli anni ’90 e 2000, riveduta e corretta per renderla glamour e cool, un capolavoro neoliberale passato per “progressismo”, anche grazie a torme di militanti e anziani elettori che credono ancora che il Pd sia il Pci di Berlinguer, che Letta sia un “compagno”, che il Jobs Act e le infinite norme sulla precarizzazione del lavoro non siano altro che un adeguamento della lotta di classe degli anni ’70.

 

Adesso, dopo il G7 andato in scena in Cornovaglia, nel quale gli sceneggiatori politici a libro paga delle classi dominanti hanno cercato di rendere simpatici i presunti grandi del pianeta con scenette penose, si è aperta la nuova frontiera del rinnovato Occidente bideniano: la nuova Guerra Fredda obiettivo Cina.

La Russia c’è sempre, ma in una parte minore, il vero Nemico oggi è la Cina del virus. Adesso è il momento, come per l’Iraq nel 2003, gli storytellers americani hanno lanciato le nuove parole d’ordine: è minacciata la minoranza iugura e il covid viene da un malefico laboratorio cinese, e subito il gonzo progressista parte lancia in resta per la nuova guerra democratica, nessuno potrà più vivere senza discussioni nei tinelli delle famiglie italiane sugli iuguri, tutti si accapiglieranno sui social sulla detta minoranza studiando fino all’ultimo dettaglio l’interessantissima storia.

 

E ’successo con la Jugoslavia, con l’Iraq, con l’Afghanistan, con la Siria, con la Libia, oggi è la volta della Cina, una trama fin troppo evidente di disinformazione unita a scopi politici nemmeno tanto nascosti, ma lui, il gonzo progressista, no, non capisce, per lui qualsiasi plot proveniente da oltreoceano è buono e giusto, ogni volta è sempre new frontier e new deal. Mai fare un ragionamento sulla necessità strategica, per gli Usa, di contenere la crescita del gigante cinese, con le buone e con le cattive, no, lui, il gonzo progressista crede solo agli ideali, dove c’è una minaccia alla democrazia, ai diritti, lì bisogna precipitarsi con l’elmetto.

 

Certo, ci sarebbero alcune questioncelle, ovvero che la guerra del 2003 contro l’Iraq era basata su fake news, che le guerre democratiche hanno destabilizzato intere aree del pianeta, distrutto stati, scatenato migrazioni, devastato territori e ambiente, ucciso centinaia di migliaia di persone, ma che saranno mai, per il Progressista Globale, in confronto con la realizzazione dell’Ideale Democratico?    

 

 

 

 

 

Anche l’establishment si accorge

della deriva illiberale della sinistra.

Tempi.it- Lorenzo Castellani ( 04/09/2021)- ci dice :

L'Economist denuncia le venature totalitarie del pensiero progressista sulle questioni etiche e sociali. I paradossi e i danni dell' “ideologia woke”.

 

L’ultima copertina dell’Economist è molto rappresentativa della deriva che il dibattito pubblico occidentale ha intrapreso negli ultimi anni.

Il numero s’intitola “The threat from the illiberal left” (la minaccia della sinistra illiberale) e mette in luce le venature totalitarie che attraversano il pensiero progressista.

Negli ultimi anni la sinistra si è mostrata sempre più intollerante sulle questioni etiche e sociali: aborto, genere, sessualità, storia, ambiente, scienza. Non c’è aspetto sul quale la radicalizzazione non si sia abbattuta e per la quale non vi sia stata una “lotta di civiltà” con quelle parti della popolazione che non intendevano abbracciare la “falsa verità progressista”.

 

Linguaggio è potere.

Queste battaglie, legittime in un agone politico democratico s’intenda, scontano due problemi di fondo. Il La copertina dell'Economist primo è che la sinistra intellettuale ha eretto una sorta di muro tra sè stessa e chi la pensa in maniera diversa.

Non è ammesso dialogo, riconoscimento, dibattito ma solo stigma sociale ed emarginazione per deficit di civiltà.

Non viene riconosciuta alcuna legittimità agli avversari e questo rende difficile far funzionare i meccanismi democratici.

 

La seconda è che dalla battaglia politica si è passati prima alla manipolazione linguistica e poi all’uso del potere per imporla.                   La cittadella intellettuale falsa progressista, estremamente ramificata nei media, nelle università, nelle grandi aziende, ha preteso di imporre un certo modo di parlare e comportarsi. E cerca di codificarlo in leggi, attraverso sanzioni e misure di “polizia”.

 

Un nuovo maccartismo.

Questo approccio apre la porta a due tipiche forme della politica progressista.

Si tratta della politica della perfezione e della politica dell’uniformità; ciascuna di queste due caratteristiche senza l’altra denota uno stile differente di fare politica. Nell’atteggiamento mentale del “progressista woke” non vi è spazio per il “meglio in determinate circostanze”, ma solamente per “il meglio”, perché la funzione della ragione è appunto quella di sormontare le circostanze.

E da questa politica della perfezione scaturisce la politica dell’uniformità: una disposizione che non riconosce le circostanze non può avere spazio per la varietà. Tutti devono credere, pensare e agire secondo la regola prescritta.

 

Questo nuovo maccartismo da sinistra, che insegue i nemici a suon di processi mediatici e culturali nei confronti dei non allineati, produce effetti distorsivi poiché non ammette più il pluralismo e la diversità di opinioni.

Al massimo, forse, tollera il silenzio e a volte nemmeno quello poiché c’è la pretesa dell’impegno su certi temi etici e sociali da parte di tutti coloro che fanno parte di una istituzione.

Basti vedere quanto le aziende multinazionali e digitali puntino sulla diffusione collettiva di idee progressiste woke e s’impegnino per silenziare, etichettare e bannare tutti quei pensieri, parole e idee che non rientrano nella loro soglia di tollerabilità.

 

Chi non si adegua perde il posto.

Naturalmente questo radicalismo intollerante non è equiparabile ai processi politici o ai campi di prigionia dei vecchi regimi totalitari, tuttavia le sanzioni sociali per chi in certi ambienti non si adegua a codici e linguaggi sono devastanti. Si rischia il posto di lavoro, la reputazione, la rispettabilità e il mancato riconoscimento del proprio valore. Ne risente anche la meritocrazia aperta soltanto a coloro che si adeguano alle teorie nichiliste del progressismo woke.

 

Eppure iniziano ad emergere dei paradossi inquietanti di cui anche un giornale di establishment come l’Economist inizia ad accorgersi.

Dopo anni passati a denunciare il pericolo da destra delle democrazie illiberali ci si è resi conto che ad essi si contrapponeva una cultura di sinistra altrettanto intollerante.

 

Il progressismo post-sovietico prometteva di sciogliere l’individuo da ogni vincolo tradizionale (famiglia, religione, nazione) in nome della lotta al potere patriarcale e autoritario.

Solo una protezione più solida delle minoranze avrebbe garantito pluralismo, democrazia e libertà per tutti. Peccato però che questa liberazione dell’individuo sia ricaduta in un sistema poliziesco ancor peggiore di quello delle autorità tradizionali.

 

Chi non parla, non si comporta e non si autodisciplina nei termini prescritti va incontro alla scomunica progressista, trova la scure delle nuove leggi e dei codici etici e resta vittima dell’aggressività di chi pretende di avere una opinione pubblica omogenea. Una promessa di libertà si è trasformata in una nuova polizia del pensiero di taglio giacobino.

 

L’accoppiata con l’ambientalismo radicale di Klaus Schwab.

In Europa, dove il credo woke e il politicamente corretto non sono ancora asfissianti quanto negli Stati Uniti, si profilano altri pericoli dovuti alla tradizione statuale e politica europea.

 Il progressismo nel Continente può accoppiarsi più agevolmente con il socialismo, con lo scientismo e con l’ambientalismo radicale nei prossimi anni aprendo la strada a una massiccia redistribuzione del reddito, alla pianificazione “razionale”, al dirigismo e alla iper-regolamentazione. Inoltre, si rischia che anche al dibattito economico, scientifico e ambientale si applichino gli schemi illiberali della discussione sulle questioni etiche. A quel punto tutti possono diventare potenzialmente dei “negazionisti” di qualche cosa.

Gli eredi di Bagehot, i redattori dell’Economist, hanno iniziato a fiutare il pericolo.

Quanto manca al passaggio dal progressismo woke al progressismo woke socialista?

Sarebbe un problema per tutti i ceti dirigenti del vecchio continente oltre che per la salute della democrazia liberale.

 

Senza una moderazione ideologica l’attuale sinistra rischia di combinare più danni della destra peggiore.

Quest’ultima è un fenomeno marginale, governa in pochi paesi occidentali ed è fortemente minoritaria nei media, nelle burocrazie e nelle università. La sinistra, al contrario, è egemone in questi ambienti e il potenziale pericolo di caduta in un regime distopico e poliziesco retto dai nuovi bigotti del progresso è ancor più preoccupante.

 

 

 

 

«Meloni fascista». Repubblica

non rinuncia al suo “rito tribale” preferito.

Tempi.it- LORENZO CASTELLANI-(9 AGOSTO 2022)- ci dice :

La campagna politico-culturale del quotidiano fondato da Scalfari è martellante. Prende di mira Fdi, evocando inesistenti spettri fascisti, per nascondere le magagne della sinistra.

 

Giorgia Meloni, leader di Fratelli d'Italia.

La campagna politico-culturale di Repubblica è martellante. Il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari ha preso di mira Fratelli d’Italia, probabile primo partito della destra, e la sua leader Giorgia Meloni con una evocazione continua dello spettro fascista.

 

Di fronte ad una sinistra divisa e senza nerbo narrativo Repubblica dà al suo pubblico ciò che vuole: sentirsi migliori di gran parte degli elettori, rassicurarsi di essere dalla parte giusta nonostante la debolezza del messaggio politico e il fallimento del campo largo, coltivare una ossessione per erigere le mura della cittadella della sinistra.

 

Nessuno crede allo spettro del fascismo.

Nessuno studioso serio crede allo spettro del fascismo semplicemente perché i fenomeni storici non possono essere staccati dal contesto.

Oggi non veniamo dalla prima guerra mondiale, non ci sono in giro masse di giovani disoccupati, armati e violenti, non veniamo dal biennio rosso, il suffragio universale non è stato introdotto pochi anni fa, Fratelli d’Italia non ha milizie né squadracce, Mattarella non è un re Savoia.

 

Senza contare che il partito della Meloni è nato e cresciuto nel contesto costituzionale, senza contestarne i fondamenti, ha rispettato il Parlamento, nell’ultimo anno e mezzo ha espresso una opposizione collaborativa con il governo guidato da Mario Draghi.

 

9 AGOSTO 2022.

Maurizio Lupi e Giovanni Toti.

Lupi: «Il centrodestra è unito da storia e valori comuni, il centrosinistra no»

 

 8 AGOSTO 2022.

Il “rito tribale” di Repubblica.

L’evocazione del fascismo è un rito tribale di Repubblica per chiamare a raccolta i suoi. Ciò non significa che la destra di Fratelli d’Italia a volte non peschi eccessivamente nella simbologia del passato o che continui ad utilizzare formule retoriche eccessivamente nazionaliste.

 

Ad ogni modo, come ha notato anche Massimo Cacciari, il pericolo fascismo non c’è e anche gli ultimi refoli di neofascismo si sono esauriti negli anni Settanta. Dunque, le casematte del potere, gli avamposti della cultura di sinistra, dispiegano una disperata strategia di mobilitazione mentre la coalizione si ingarbuglia.

 

Un governo di centrodestra può durare.

Parallelamente, gli emissari più raffinati dell’establishment progressista ventilano ipotesi che suonano più o meno in questo modo: perderemo le elezioni ma questa destra non riuscirà a governare in un contesto internazionale ed economico molto complicato. È davvero così?                    Ci sono sicuramente dei rischi: parte della classe politica di Fratelli d’Italia è inesperta; Silvio Berlusconi è anziano e il suo partito ristretto; Matteo Salvini è un leader in decadenza, appannato e sovraesposto; le due più grandi forze politiche della destra sono fuori dai partiti che governano l’Unione Europea e non hanno legami con i governanti degli altri grandi paesi. Servirà un lavoro paziente per guadagnare qualche credito internazionale.

Tuttavia, non è scritto da nessuna parte che la caduta di un governo di destra possa essere immediata. Il governo della destra potrà durare cinque mesi o cinque anni, dipenderà dai numeri in Parlamento, dagli attori politici e dalla situazione internazionale.

Il centrodestra dovrà scegliere tra la classica cooptazione politica e spartizione tra partiti oppure se avviarsi verso un esperimento diverso: politici e tecnici d’area insieme, orecchio ai suggerimenti di Draghi, collaborazione con Mattarella, politiche economiche che convincano i mercati. È un percorso più difficile, poiché presuppone unità politica e messa da parte delle gelosie e delle ambiguità sul fronte internazionale ma è anche la via più sicura per restare in sella a lungo.

 

Giorgia Meloni ha molto da lavorare.

Inoltre, non è scritto da nessuna parte che uno scenario difficile indebolisca un governo appena entrato in carica. Spesso le emergenze e le tensioni rafforzano gli esecutivi, anche in modo casuale e legato alle contingenze.

Per questo è bene che il centrodestra si prepari ad entrare nella scia del nuovo scenario di un vincolo Atlantico rafforzato, di processi di deglobalizzazione delle catene del valore e di inevitabile rafforzamento della politica economica europea. Non l’Italia contro l’Unione Europea, ma una Italia protagonista in Europa bilanciando vincolo esterno e obiettivi nazionali.

 

Se questo scenario si materializzasse un eventuale governo di destra potrebbe stabilizzarsi piuttosto che scomporsi.

Per Giorgia Meloni ci sarebbe l’opportunità non solo di essere azionista di maggioranza del nuovo esecutivo, ma anche di poter lanciare forse un nuovo partito unico di destra.

È presto, le elezioni vanno prima vinte e le variabili in campo sono molte, non tutte controllabili dalla politica italiana. Tuttavia, alla sinistra piace raccontarsi delle storie per offuscare le proprie difficoltà. Queste narrazioni possono avere un fondamento di verità, ma possono anche essere del tutto smentite dalla realtà. Non sarebbe la prima volta.

 

 

 

 

 

Un conservatorismo per il XXI secolo?

Spazio politico e sfide obbligate.

Huffingtonpost.it- Luiss School of Government - Giovanni Orsina-(22 Dicembre 2021)-ci dice :

 

Radicalizzazione, sovranità nazionale, mercato. Cosa una politica conservatrice si trova oggi ad affrontare.

L’attualità politica europea, in Paesi chiave del continente come Italia, Francia e Germania, offre più di uno spunto per una riflessione aggiornata sulla traiettoria dei movimenti anti-establishment.

In questo Policy Brief muoveremo dall’ipotesi, in parte già argomentata altrove, che potrebbe essere in corso – il condizionale è d’obbligo – un processo di rientro della protesta cosiddetta “populista” contro la globalizzazione, che ha segnato l’ultimo decennio, nei ranghi di un’ideologia più strutturata e tradizionale quale quella conservatrice.

Questo fenomeno starebbe portando anche a un ripensamento della sinistra, e quindi alla ricomposizione in forme parzialmente rinnovate dello schema politico “classico”.

 

In Francia la campagna elettorale si è giocata finora, nella sconcertante assenza della sinistra, fra sfumature diverse di destra o centro-destra, dall’euro-tecnocratica alla populista, passando per la nazionalista: Macron, Pécresse, Le Pen, Zemmour. A dimostrazione del fatto che i nostri tempi sono in effetti segnati da una robusta domanda di conservazione.

 

In Germania la crisi dell’Unione Cristiano-Democratica (CDU) dipende anche dalla difficoltà, per un partito che è stato egemone e al potere per tanti anni, di rispondere a quella domanda e ai suoi profili inediti. Al contempo, però, quella crisi ha aperto lo spazio per la ricomposizione di un’alternativa di centro-sinistra – ossia, da un punto di vista sistemico, ha spinto in direzione bipolare.

 

In Italia, infine, i sovranisti, per quanto differenziati al loro interno, rimangono a tutt’oggi capaci insieme di rappresentare una parte assai significativa dell’elettorato, attualmente circa il 40% dei consensi tra Lega e Fratelli d’Italia. Proprio uno dei protagonisti di questo blocco, Fratelli d’Italia, di recente ha occupato per quasi una settimana il centro del dibattito politico nazionale con il suo tradizionale evento “Atreju”, significativamente intitolato quest’anno “Il Natale dei conservatori”.

Al di là di vari aspetti contingenti, dalla competizione con la Lega per la supremazia nel centrodestra all’approssimarsi dell’elezione del prossimo presidente della Repubblica, non è da escludere che tanto interesse nasca dal sospetto che le posizioni conservatrici che Giorgia Meloni vorrebbe rappresentare in Italia stiano in effetti disegnando una possibile via d’uscita dal “decennio populista” e un possibile fattore di ricomposizione della dialettica politica fra destra e sinistra.

L’inserimento ufficiale e ostentato del termine “conservatore” nel vocabolario politico di Fratelli d’Italia può essere letto come spia di una simile tensione.

 

Se questo è il contesto in cui ci troviamo, di seguito proverò ad approfondire due punti. Primo, non c’è dubbio – almeno in linea teorica – che oggi si aprano spazi politici potenzialmente ampi per una proposta conservatrice. Secondo, un progetto conservatore, specie in Italia, dovrebbe affrontare non poche sfide per riuscire ad affermarsi.

 

Di che cosa parliamo quando parliamo di conservatorismo.

 

È possibile sostenere che il conservatorismo abbia una robusta componente opportunistica e reattiva: è un pensiero del limite, del contrappeso, del riequilibrio, si fonda sullo scetticismo, sulla prudenza, sulla consapevolezza che la condizione umana ha dei confini stretti e impossibili da superare. Il suo obiettivo non è negare o eliminare il mutamento, ma temperarlo quando si fa troppo rapido o troppo radicale e mette in pericolo i sempre delicatissimi equilibri storici. Il conservatore è tendenzialmente pessimista: del cambiamento vede più facilmente i rischi delle opportunità; non lo avversa a priori, ma lo maneggia con estrema cautela.

 

C’è oggi la necessità storica di frenare e riequilibrare? Esiste lo spazio politico per raccogliere consenso su un programma di questo tipo? A mio avviso la necessità storica, e di conseguenza lo spazio politico, non mancano. Per almeno tre ragioni:

 

1. Nella stagione della tarda modernità (ossia, grosso modo, nell’ultimo mezzo secolo) abbiamo assistito a un’accelerazione oggettiva, e notevolissima, del ritmo del cambiamento storico. Che da ultimo non accenna a rallentare – anzi. Quest’accelerazione ha generato opportunità straordinarie e accresciuto notevolmente la nostra capacità di manipolare il nostro mondo. Tuttavia tale capacità, a causa  dei limiti invalicabili della condizione umana, non può che restare insoddisfacente. E le persone, allora, sono anche spaventate e sconcertate dal cambiamento: non vogliono rinunciare ai suoi frutti positivi, ma sono molto preoccupate dal senso di perdita di controllo che la trasformazione storica porta con sé.

 

2. A partire dai tardi anni Ottanta, e con un picco nel corso dei Novanta, si è affermata una cultura robustamente ottimistica (che potremmo definire “neo-panglossiana”) per la quale il cambiamento è sempre buono, va sempre abbracciato, e anzi affrettato più che si può.

Seguendo una simile cultura, la politica non si è data a riequilibrare il mutamento economico, sociale, tecnologico, ma, al contrario, a spingerlo ulteriormente in avanti. Questa cultura è entrata in crisi nel corso del primo decennio del ventunesimo secolo, aprendo lo spazio per uno Zeitgeist assai diverso.

 

3. Anche come conseguenza del neopanglossismo appena descritto, si è verificato un processo di radicalizzazione della cultura progressista che – pure in questo caso, con un’accelerazione notevole in questi ultimi anni – ne sta conducendo le propaggini estreme su sentieri molto distanti dal senso comune.

 

Questi tre processi hanno aperto spazi importanti a una reazione conservatrice. Più in positivo, l’integrazione del Pianeta sta riportando in superficie, in segmenti consistenti delle opinioni pubbliche occidentali, quello che in altra epoca Simone Weil ebbe a definire «il bisogno più importante e più misconosciuto dell’anima umana»: il radicamento.

 «Mediante la sua partecipazione reale, attiva e naturale all’esistenza di una collettività che conservi vivi certi tesori del passato e certi presentimenti del futuro», continua Weil, «l’essere umano ha una radice. Partecipazione naturale, cioè imposta automaticamente dal luogo, dalla nascita, dalla professione, dall’ambiente. Ad ogni essere umano occorrono radici multiple. Ha bisogno di ricevere quasi tutta la sua vita morale, intellettuale, spirituale tramite gli ambienti cui appartiene naturalmente».

 

Radicalizzazione, nazione e mercato:

le sfide di un conservatorismo contemporaneo.

 

Ciò detto, ci sono almeno tre sfide fondamentali che una politica conservatrice si trova oggi ad affrontare.

 

1. Reagendo alla radicalizzazione del progressismo, il conservatorismo rischia di radicalizzarsi a sua volta. Tanto più in un clima enfatico, isterico e polarizzato come quello attuale. Sarebbe un triplice errore. Innanzitutto, perché la misura e l’equilibrio, un’interpretazione non violenta del pessimismo scettico, appartengono alla tradizione conservatrice.

 Poi perché conservare oggi, in Italia, in Europa, negli Stati Uniti, significa conservare i valori dell’Occidente. Proteggerli anche dai loro stessi eccessi, certo – ma rispettandoli e salvaguardandoli.

 Nel ventunesimo secolo, insomma, il conservatorismo occidentale o è liberale, o non è.

Ma la degenerazione del “progressismo liberal Dem Usa e UE” è una conseguenza alquanto logica, seppure distorta, della nostra modernità, e non è facile sbarazzarsi dell’acqua sporca salvando il bambino.

 

Se il progressismo tende a degenerare in forme para-totalitarie, il conservatorismo rischia invece di degenerare in forme para-autoritarie: nell’un caso e nell’altro, non solo i valori occidentali sono in pericolo, ma le contraddizioni interne delle ideologie si fanno ingestibili.

Infine, il conservatorismo sbaglierebbe a radicalizzarsi perché ha perduto da lunga pezza il controllo delle “casematte” culturali di gramsciana memoria. Da quelle casematte il conservatorismo non sarà mai accettato come pienamente legittimo, s’intende, ma non è la stessa cosa, agli occhi dell’opinione pubblica, se la delegittimazione ha dei fondamenti oppure se è palesemente strumentale.

 

2. La seconda sfida ha a che vedere con la sovranità nazionale.

Come la proverbiale rana, la sovranità nazionale è stata bollita nella pentola della globalizzazione per più di quarant’anni, per lo meno a partire dalla fine degli anni Settanta.

 L’acqua ormai è rovente, e a questo punto l’estrazione dalla pentola del povero batrace, che è mezzo cotto, pone dei problemi immensi. Un conservatorismo che abbia a cuore il radicamento (e la democrazia) non può fare a meno di valorizzare la dimensione nazionale.

Deve però avere la consapevolezza che qualsiasi mossa de-globalizzante potrebbe avere effetti negativi considerevoli; che le nazioni sono ormai assai fragili e non facili da rivitalizzare; e che, nell’attuale situazione mondiale, ri-nazionalizzare potrebbe significare indebolire i valori occidentali.

 

Questo ragionamento vale ovviamente anche per l’Europa. L’Unione Europea è, da tempo ormai, in mezzo a un guado: troppo nazionale per quant’è comunitaria, troppo comunitaria per quant’è nazionale.

La soluzione federalista, sebbene politicamente assai debole e tutt’altro che semplice, ha il pregio della chiarezza. I conservatori che soluzione propongono?

Tornare indietro non è possibile: la sponda nazionale dalla quale siamo partiti nel 1951 ormai non c’è più. La soluzione confederale à la De Gaulle è anch’essa chiara e lineare in termini teorici, ma in pratica retrocedere rispetto ai molti passi che sono stati fatti negli ultimi decenni in direzione comunitaria sarebbe a questo punto assai difficile. Soprattutto se teniamo presenti le conseguenze della moneta unica.

 

La questione interroga con particolare forza i conservatori italiani: l’Italia è paese fondatore della Comunità europea, l’europeismo è una componente assai cospicua della sua tradizione di politica estera, e il Paese è costretto ma anche protetto dall’euro. La domanda cruciale in questo caso è: una più profonda integrazione europea non sarebbe – non in astratto, ma date le concrete condizioni storiche – nell’interesse nazionale italiano? Un conservatorismo italiano responsabile e di governo dovrebbe saper dare una risposta a questa domanda.

 

3. La terza e ultima sfida riguarda l’economia. Una prudente valorizzazione del mercato e dell’iniziativa economica individuale, scevra da fondamentalismi, non può che essere un elemento fondante del conservatorismo contemporaneo.

Soprattutto dopo la mutazione che lo ha interessato negli anni Ottanta del secolo scorso. Proprio quella mutazione però, proprio le contraddizioni che nel medio periodo ha mostrato il thatcherismo, evidenziano il punto: il mercato è un potentissimo dissolutore di radicamento. Forse il più potente che ci sia. Far convivere il radicamento con il mercato è la terza grande sfida alla quale il conservatorismo del XXI secolo è chiamato a rispondere.

 

 

 

 

L’insopportabile ipocrisia

dei “liberal progressisti” e

della “sinistra” occidentale.

E, ancora una volta: Cuba docet.

 

Cuba-si.ch- Edoardo Laudisi- (30-3-2022)-ci dice :

(lantidiplomatico.it/)

 

“Il vero rivoluzionario è guidato da grandi sentimenti d’amore.

è impossibile concepire un autentico rivoluzionario

che non abbia questa qualità.

Forse è proprio questo uno dei maggiori drammi del dirigente,

che deve unire a uno spirito appassionato una mente fredda,

e deve saper prendere le più dolorose decisioni

senza che un solo muscolo gli si contragga”.

(Ernesto “Che” Guevara, da “Il socialismo e l’uomo a Cuba”).

 

Chiunque si concentri sul linguaggio gender invece che sulle pari opportunità e trascuri la cultura e il senso di appartenenza della maggioranza della popolazione porta acqua al mulino della destra. (Sarah Wagenknecht).

 

Oggi la demenza, intesa come incapacità di comprendere il reale, è migrata in massa a sinistra. La sinistra liberal-progressista per essere più precisi. Quella che censura il divario sociale causato dall’asimmetria nella redistribuzione delle risorse operata dal mercato globale, usando l’arma di distrazione di massa dei conflitti identitari.

 

La parlamentare tedesca Sarah Wagenknecht è probabilmente una delle personalità politiche più intelligenti a livello europeo. Forse è per questo che il suo partito, die Linken (la sinistra) vuole espellerla.

 Sarah Wagenknecht, infatti, critica la linea liberal-progressista presa dal suo partito, accusandolo di aver abbandonato il conflitto sociale per abbracciare la causa delle politiche identitarie.

Non più lotte a sostegno dei ceti popolari quindi, ma relativismo culturale, abbandono di ogni visione universalista, censura del pensiero non conforme mediante il politically correct e cancel culture.

Con queste azioni la sinistra tedesca (e non solo! ndr) dimostra di soffrire di un male comune ormai a tutta la sinistra europea se non addirittura mondiale: una perdita pazzesca di intelligenza a livello collettivo.

 

Oggi la demenza, intesa come incapacità di comprendere il reale, è migrata in massa a sinistra.

C’è stato un tempo dove l’idiozia albergava soprattutto a destra.

 In Italia, p.es. erano i tempi mitici di Belluscone, come lo chiamò Franco Maresco nell’omonimo film, del poeta Bondi, bardo del berlusconismo più spinto, delle olgettine e della nipotina di Mubarak con tutta la corte dei miracoli che infestò il nostro paese per lustri.

L’italiano medio rimase appiccicato al doppiopetto del re mida di Arcore come una mosca alla carta moschicida. Attratto dal profumo di soldi e sesso e poi incollato per decenni al nastro della corruzione e malaffare elevati a vertigine gerarchica. Ogni ragionamento franava, ogni analisi critica finiva inesorabilmente in un punto morto, perfino le tabelline fallivano con i berluscones per i quali due per due faceva sempre e solo quello che diceva Silvio re.

 

Per tenere insieme questo baraccone i liberal-progressisti fanno il lavoro sporco servendosi dei peggiori strumenti delle destre: intolleranza verso i liberi pensatori, censura preventiva a botte di politically correct e mobbing contro i non allineati.

 

 Nell’impegno solerte di sostenere il grande capitale finanziario al quale si è venduta per un piatto di lenticchie, la sinistra liberal-progressista esalta il multietnico come se fosse un prodotto di marca da scegliere al supermercato, difende a spada tratta le migrazioni senza riuscire nemmeno nel più elementare dei ragionamenti che consisterebbe nel porre dei limiti ed esse distinguendo tra richiedenti asilo e immigrati economici, è incapace di riflettere sul modello di integrazione da adottare (multiculturalismo, transculturalismo, concetto di cultura guida ecc.) e gli strumenti necessari per realizzarla.

Non sa pensare, non sa analizzare, non sa spiegare, e quel che è peggio non sa comprendere il contemporaneo.

Per ovviare alle sue lacune devastanti, la sinistra liberal-progressista stende sulla realtà una cortina fumogena di moralismo ipocrita e sentimentaloide perfino peggiore di quello di certi cattolici reazionari degli anni Cinquanta.

 

Coltiva il vittimismo delle minoranze invece di stimolarne l’emancipazione anche dai loro retaggi culturali, ciarla di ius soli invece che di integrazione attraverso il diritto allo studio e al lavoro, di razzismo sistemico invece che di emancipazione e responsabilità individuale, di linguaggio gender neutral-inclusive invece che di eguaglianza sostanziale da realizzare in uno stato di diritto.

Dopo aver demolito i sistemi di welfare europei; non è stato Berlusconi ad abolire l’articolo 18 o a introdurre la flessibilità del lavoro che ha portato all’impoverimento degli italiani ma Renzi e Prodi, e in Germania non è stata Angela Merkel a introdurre l’Agenda 2010 che ha ridotto drasticamente le prestazioni sociali ma il socialdemocratico Gerhard Schröder, la sinistra liberal-progressista ciancia di Europa ed europeismo per nascondere la cruda realtà di un’Unione Europea che non si fonda su una costituzione democratica approvata dai cittadini, ma su contratti giuridico-finanziari (trattati di Maastricht e Lisbona) stipulati da pochi e cuciti su misura sulle esigenze di multinazionali, banche e società d’investimento finanziario come Blackrock.

 

 La donna a Cuba e nel socialismo: niente slogan, tanti fatti.

Per tenere insieme questo baraccone i liberal-progressisti fanno il lavoro sporco servendosi dei peggiori strumenti delle destre: intolleranza verso i liberi pensatori, censura preventiva a botte di politically correct e mobbing contro i non allineati.

Mentre i loro business partners, vale a dire grandi aziende, organizzazioni finanziarie internazionali e banche, colgono i frutti di tanta servile solerzia in termini di fiscal dumping, riduzione del lavoro dà diritto a privilegio concesso dai nuovi signorotti globali, concentrazione del potere esecutivo nelle mani di persone non democraticamente elette ma nominate da circoli privati.

 

“Ritengo sia una tragedia che la maggioranza dei partiti socialdemocratici e di sinistra abbia intrapreso la strada sbagliata del liberalismo di sinistra che, in teoria, distrugge la sinistra e aliena ampie fasce del suo elettorato.

Un’aberrazione che consolida il neoliberismo come orientamento politico, anche se da tempo ormai la popolazione chiede una politica diversa per un maggiore equilibrio sociale, per una regolamentazione ragionevole dei mercati finanziari e dell’economia digitale, per il rafforzamento dei diritti dei lavoratori e per una politica industriale intelligente orientata al mantenimento e alla promozione di una classe media forte.” Sarah Wagenknecht, Die Selbstgerechten (I giusti).

(Edoardo Laudisi.)

 

 

 

 

 

 

 

 

REALTA’ PARALLELA E REALTA’ DELLA GUERRA.

 

Italiaeilmondo.com-Roberto Buffagni -Giuseppe Germinario-(28-3-2022)- ci dice :

 

 

Nella prima parte,  ho sintetizzato i punti essenziali dall’operazione di guerra psicologica condotta dall’Occidente nell’ambito delle ostilità tra Russia e Ucraina, volta alla creazione di una vera e propria Realtà Parallela.

 

In questa seconda parte, delineo – anche qui, sintetizzando con la massima brevità – i fondamenti culturali e ideologici sui quali la campagna di guerra psicologica fa leva, e aggiungo alcune considerazioni. Ho già anticipato alcuni dei temi che qui toccherò.

 

I fondamenti culturali su cui fa leva la Realtà Parallela e che la rendono persuasiva per la maggioranza degli occidentali sono:

a) il liberal-progressismo

b) l’universalismo politico.

 

Liberal-progressismo. Il liberalismo si fonda sui “diritti inalienabili dell’individuo”.

Postula dunque che l’intera umanità è composta da individui, tutti eguali in quanto dotati dei medesimi “diritti inalienabili”.

 La relazione di interdipendenza tra l’individuo e gli altri individui, tra l’individuo e la comunità politica, tra l’individuo e la dimensione trascendente viene omessa o, nel linguaggio lacaniano, conclusa: anche perché famiglia, comunità politica, Dio sono le ragioni e le bandiere del primo avversario storico del liberalismo classico, l’alleanza Trono-Altare ossia la Cristianità europea.

 

Il liberalismo classico si propone di difendere i “diritti inalienabili dell’individuo” dall’intromissione dell’autorità statale ed ecclesiastica, e dunque intende limitare al massimo i poteri dello Stato, che idealmente deve divenire lo Stato “guardiano notturno”, il cui solo compito è la difesa della vita e della proprietà dei cittadini.

Dopo la vittoria contro i suoi avversari storici premoderni, il liberalismo si propone di realizzare nell’effettualità storica i “diritti inalienabili dell’individuo”, e ne affida il compito allo Stato, l’unico agente che disponga delle capacità tecniche e della forza coercitiva necessarie.

Gli Stati liberali dunque imprendono grandi campagnie di ingegneria sociale, volte a realizzare nell’effettualità storica i “diritti inalienabili dell’individuo”.

Questa opera di ingegneria sociale viene identificata con la promozione del “progresso dell’umanità”. La prima formulazione teorica coerente del progetto si deve al grande sociologo positivista francese Auguste Comte. Nasce il “liberal-progressismo”.

Dopo l’ancien régime, il liberalismo classico prima, il liberal-progressismo poi, incontrano un nuovo avversario storico: il movimento operaio, nelle sue varie manifestazioni politiche, dal socialismo democratico al comunismo marxista e poi leninista.

Le differenze di contenuto ideale tra liberalismo classico, liberal-progressismo, socialismo e comunismo sono profonde e note. Liberal-progressismo, socialismo e comunismo, però, concordano su tre punti: il ruolo dello Stato come primo agente della trasformazione sociale, il “progresso” come fine, e l’ampiezza globale del progetto ideale, storico e politico, che può e quindi deve interessare tutto il mondo e l’intera umanità.

Liberal-progressismo, socialismo e comunismo hanno infatti, nonostante le profonde differenze e l’asperrimo conflitto che li divide, un minimo comun denominatore: l’universalismo politico.

Universalismo politico.

 L’universalismo è una cosa sul piano delle idee, dei valori, della spiritualità.

 Il cristianesimo, per esempio, è universalista al 100%: “«Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal.3,28).

 

 L’universale, eguale dignità di tutti i singoli uomini in quanto imagines Dei, però, non implica necessariamente la realizzazione nell’effettualità storica di questa eguaglianza, che è anzi un fine escatologico, non storico.

Le differenze tra i singoli, le culture, le lingue, i costumi permangono sino alla fine del mondo, come illustrato dal racconto biblico della Torre di Babele. In termini filosofico-teologici, la giustificazione del permanere delle differenze in tutto il tempo storico viene brillantemente articolata dal Dottore della Chiesa Nicola Cusano nel suo De docta ignorantia (1440):

“La verità non ha né gradi, né in più né in meno, e consiste in qualcosa di indivisibile. Perciò l’intelletto, che non è la verità, non riesce mai a comprenderla in maniera tanto precisa da non poterla comprendere in modo più preciso, all’infinito, ed ha con la verità un rapporto simile a quello del poligono col circolo: il poligono inscritto, quanti più angoli avrà, tanto più risulterà simile al circolo, ma non si renderà mai uguale ad esso, anche se moltiplicherà all’infinito i propri angoli, a meno che non si risolva in identità col circolo.”

Se tradotto sul piano politico, l’universalismo non può che incarnarsi in forze inevitabilmente particolaristiche: perché esistono solo quelle, nella realtà storica. Al tempo della Cristianità europea, si incarna nelle potenze cristiane che sconfiggono, conquistano e convertono a forza popolazioni non cristiane.

 

L’azione politica, infatti, implica sempre il conflitto con un avversario o un nemico (l’endiadi amico/nemico è l’essenza del Politico, secondo Schmitt e Freund).

Senza conflitto, senza nemico/avversario non c’è alcun bisogno di politica, basta l’amministrazione: “la casalinga” può dirigere lo Stato, come Lenin diceva sarebbe accaduto nell’utopia comunista.

A questa contraddizione insolubile si può (credere di) sfuggire solo postulando come certo e autoevidente l’accordo universale, se non presente almeno futuro, di tutta l’umanità.

Il progetto del liberal-progressismo è la realizzazione nell’effettualità storica dei “diritti inalienabili dell’individuo”.

Esso ritiene che l’intera umanità sia composta da individui, tutti eguali tra di loro in quanto dotati dei medesimi “diritti inalienabili”.

La relazione di interdipendenza tra l’individuo e gli altri individui, tra l’individuo e la comunità politica, tra l’individuo e la dimensione trascendente viene omessa. La logica interna del progetto liberal-progressista conduce dunque alla graduale affermazione di un “governo mondiale” liberal-progressista che garantisca e realizzi nell’effettualità storica i “diritti inalienabili” di tutti gli individui, in quanto tali componenti l’universale umanità.

 

Su questo progetto di “governo mondiale” il liberal-progressismo postula l’accordo, se non presente, almeno futuro, dell’intera umanità. Che altro potrebbero volere se non questo, gli individui, non appena gli venga fatto intendere quali sono i diritti inalienabili che gli appartengono, e il loro interesse a che siano realizzati storicamente per tutti loro?

 

La realizzazione storica di un “governo mondiale” porrebbe termine alla logica di potenza. La logica di potenza, infatti, ossia l’incessante conflitto tra entità politiche che, per garantire la propria sicurezza, inseguono la potenza e la supremazia, scaturisce dall’anarchia del sistema-mondo.

Sinora, nel mondo non è mai esistito un giudice terzo dotato della legittimazione e della forza di coercizione necessarie a comporre le controversie tra le potenze e garantire l’applicazione universale della giustizia.

 

Le potenze devono risolvere da sé, con la forza e l’astuzia – come “leoni” o “volpi” nella classificazione machiavelliana – le controversie che le contrappongono e generano i conflitti.

Il “giudice terzo” che pone termine alla logica di potenza e garantisce la giustizia universale può essere solo un “governo mondiale”.

 

In questa immagine utopica di fine della logica di potenza e realizzazione della concordia universalis si vede chiaro che l’universalismo politico è il minimo comun denominatore tra liberal-progressismo, socialismo e comunismo.

 Il futuro “governo mondiale” liberal-progressista, che pone termine alla logica di potenza, è analogo alla “uscita dalla preistoria dell’umanità” marxista e alla “casalinga che dirige lo Stato” leninista.

Come recita l’inno del movimento operaio otto e novecentesco, “Su, lottiamo! l’ideale/ nostro alfine sarà/l’Internazionale/ futura umanità!“.

Si tratta insomma di progetti utopistici, che trasferiscono sul piano storico fini escatologici; o casi di gnosticismo politico, nell’interpretazione del filosofo della politica Eric Voegelin.

 

Le correnti di pensiero e le culture politiche che risalgono vuoi al liberal-progressismo, vuoi al socialismo e al comunismo, le ideologie insomma genericamente definite “di sinistra” e “democratiche”, che sono largamente egemoni nell’Occidente, si incontrano dunque su questi punti fondamentali:

 a) progressismo

b) diritti inalienabili dell’individuo identici per tutta l’umanità

c) disvalore etico della logica di potenza

d) valore etico positivo della concordia universalis, e sua realizzabilità o a mezzo “governo mondiale” (liberal-progressismo) o a mezzo “uscita dalla preistoria dell’umanità” (comunismo).

 

Quanto esposto al punto precedente costituisce la condizione necessaria, anche se non sufficiente, perché risulti persuasiva l’operazione di guerra psicologica volta alla creazione di una Realtà Parallela di cui stiamo parlando.

 (Noto per inciso che la creazione di “realtà seconde” o, nella mia formulazione, “parallele”, è caratteristica di tutti gli gnosticismi politici, nell’interpretazione di Eric Voegelin; come illustrato plasticamente nel romanzo di Heimito von Doderer I demoni. Dalla cronaca del caposezione Geyrenhoff)

Dopo la vittoria sui fascismi prima, sul comunismo poi, il liberal-progressismo americano può fondare un ordine internazionale unipolare liberal-progressista, che, per sua logica interna, tende alla creazione di un governo mondiale a guida statunitense (“globalizzazione”) e si propone come obiettivi strategici il progresso dell’umanità, la realizzazione storica dei diritti inalienabili degli individui, la concordia universalis.

 

Gli ostacoli a questo progetto strategico – le differenze culturali ed etiche, i residui particolaristici e oscurantisti di precedenti e/o diverse culture, le sovranità statuali che vi si contrappongano, possono e dunque devono essere rimosse, con la persuasione (il “soft power”) o con la forza (lo “hard power”).

A giustificazione di questa azione uniformante e universalizzante e dei suoi costi umani, l’estrema, autoevidente, decisiva importanza del fine strategico ultimo: la realizzazione nell’effettualità storica della pace, della concordia universalis.

Gli Stati Uniti d’America, dunque, in quanto egemoni mondiali privi di competitori pari grado, e in quanto guide di questo maestoso progetto storico-ideale, rivestono anticipatamente, sin d’ora, il ruolo che sono destinati ad assumere in futuro, una volta compiuta l’opera: il ruolo di giudice terzo del mondo, garante della fine dei conflitti politici e della concordia universalis.

Ne consegue logicamente che chiunque, persona o Stato, si opponga agli Stati Uniti d’America, non è semplicemente un loro avversario o nemico politico, ma si rende responsabile di un gravissimo crimine contro l’umanità.

 

Egli viola infatti la sola legge – legge non ancora scritta, ma che un giorno destinato a sorgere sarà scritta nel diritto positivo e applicata nell’ effettualità storica – che possa por termine ai conflitti devastanti che per millenni hanno insanguinato il mondo, e inaugurare la pace, il progresso senza limiti dell’umanità, la concordia universalis.

 

In attesa di rivestire di fatto il ruolo di “giudice terzo del mondo”, gli Stati Uniti ne sono il “benign hegemon”. Queste persuasioni non sono, o non sono soltanto, banali travestimenti cinici della logica di potenza.

 

Gli Stati Uniti hanno creduto sinceramente in questo loro ruolo di destino e nella realizzabilità del grande progetto liberal-progressista. Lo dimostrano scelte strategiche quali la politica di “engagement” nei confronti della Cina. La ratio della politica di engagement USA con la Cina è il seguente: favorendo lo sviluppo economico cinese, trasformeremo la Cina in un paese liberal-progressista, dunque in un pacifico partner degli USA che collaborerà alla globalizzazione e pacificazione del mondo.

 

Secondo la logica di potenza, invece, con la disgregazione dell’URSS cessava ogni interesse statunitense all’alleanza con la Cina, che il presidente Nixon stipulò negli anni Settanta in funzione antisovietica. La scelta di favorire lo sviluppo economico della Cina è una scelta autolesionista, un errore strategico di prima grandezza perché la potenza economica è “potenza latente” destinata a trasformarsi in “potenza manifesta” ossia potenza militare: come è in effetti avvenuto.

 

Il sorgere di due grandi potenze, Cina e Russia, mette oggettivamente fine, nell’effettualità storica, all’ordine internazionale unipolare a guida statunitense.

 

Non mette però fine alla volontà statunitense di preservarlo e riaffermarlo; riaffermando, con esso, il proprio ruolo destinale di “giudice terzo del mondo” e il grande progetto ideologico e utopico che vi si collega.

 

Non è la logica di potenza a rendere intollerabile per gli Stati Uniti l’intervento militare russo in Ucraina. L’Ucraina è un interesse vitale russo, ma non lo è per gli Stati Uniti. La Russia non può usare l’Ucraina come “cancello” per espansioni imperiali ai danni degli alleati europei degli USA, perché entrerebbe in conflitto con la NATO e non dispone dei requisiti di potenza sufficienti per espansioni imperiali in Europa; dunque la Russia non minaccia l’egemonia statunitense sull’Europa.

 

L’intervento militare russo in Ucraina è assolutamente intollerabile per gli Stati Uniti perché manifesta la fine dell’ordine internazionale unipolare, e smentisce la pretesa statunitense di esser già, in nome del destino che incarnano, i giudici terzi del mondo.

 

Infatti, che giudice del mondo è mai, un giudice che non dispone della forza coercitiva necessaria per applicare le sue sentenze? È un “profeta disarmato”, come Machiavelli definì Gerolamo Savonarola.

 E gli Stati Uniti effettivamente non dispongono della forza coercitiva per applicare la loro sentenza di condanna della Russia, per l’unico motivo che la Russia dispone di seimila testate nucleari e, se attaccata dagli Stati Uniti, li può incenerire. Fiat iustitia, et pereat mundus?

 

La logica di potenza – l’antica, premoderna, oscurantista logica di potenza – incompatibile con il progresso dell’umanità, e con gli Stati uniti d’America suoi rappresentanti nel mondo, si mette di traverso, come pietra di scandalo, al grande progetto storico-ideologico di realizzazione della pace e della concordia universalis.

 

Perché l’intervento militare russo in Ucraina risponde esclusivamente alla logica di potenza. La Russia attacca l’Ucraina per difendersi da una potente alleanza militare straniera e impedire che essa si insedi ulteriormente ai suoi confini, al fine di garantire la propria sicurezza: e basta. L’azione russa è conforme alla logica di potenza perenne, come si esprime, ad esempio, nella dottrina Monroe.

 

 Attaccando l’Ucraina, la Russia non “ha ragione” e non afferma i “principi universali” che difendono gli Stati Uniti.

La Russia si limita ad avere “le sue ragioni” e i suoi interessi: interessi e ragioni particolari, parziali, propri, russi, ossia la difesa della sicurezza e dell’integrità statuale della Russia; e ovviamente, anche della differenza culturale del suo popolo. Queste ragioni e questi interessi russi confliggono con le ragioni e gli interessi ucraini (difesa della propria sovranità, indipendenza, integrità territoriale, differenza culturale) e l’esito del conflitto verrà deciso dalla forza e dall’astuzia, dalle “volpi” e dai “leoni” di Machiavelli.

 

Nella prima parte di questo scritto, distinguevo così la Realtà Parallela dalla realtà: “La Realtà Parallela è dove muoiono solo gli altri. La realtà è dove muori anche tu, dove muoio anche io.”

 

Nella realtà, gli Stati Uniti, giudice terzo del mondo incaricato dal destino di realizzarvi la concordia universalis, non possono applicare la sentenza di condanna che hanno emesso contro la Russia, perché morirebbero anch’essi.

Creano dunque una Realtà Parallela in cui questa condanna viene applicata, e dove muoiono solo gli altri: per esempio, gli ucraini; e forse anche gli europei.

Per concludere.

Per non lasciarsi catturare dalla Realtà Parallela bisogna rendersi conto che il maestoso progetto utopico di governo mondiale e realizzazione storica della concordia universalis è errato in radice, chiunque lo promuova e voglia incarnarlo.

 

Esso è una traslazione sul piano storico di un fine escatologico, la Città di Dio: ma la realizzazione della Città di Dio risponde a un’altra logica, la logica della Croce.

In essa, il confine tra il bene e il male non passa lungo le frontiere politiche, ma nel cuore di ogni uomo.

 In attesa della Città di Dio, compito della politica non è redimere il mondo ma “antivedere il peggio, e sventarlo” (Julien Freund): ossia, porre limiti all’ingiustizia e al male.

Per farlo, è indispensabile comprendere la logica di potenza, che continua a operare fino alla fine del mondo. Può anche essere utile la paura, l’umile paura di morire che provò anche Gesù Cristo nel Getsemani e sulla croce. Quando abbiamo paura di morire, possiamo star certi che siamo al cospetto della realtà.

 

 

 

 

 

 

Lo spettro della

sinistra illiberale.

Repubblica.it- Enrico Franceschini-(14 SETTEMBRE 2021)-ci dice:

 

 

È la tesi del britannico “The Economist”: il pericolo non sono solo le autocrazie e la destra populista, ma anche l’intolleranza e la “cancel culture” di parte dei progressisti. Un dibattito che coinvolge l’America.

 

LONDRA. Un fantasma si aggira per l'Occidente: lo spettro della "sinistra illiberale". A lanciare l'allarme è l'Economist, bibbia del liberalismo anglosassone e anche di quello mondiale, in quanto da almeno vent'anni settimanale non più soltanto britannico bensì globale. In un servizio apparso in copertina, il giornale che per i suoi conflitti d'interesse definì Silvio Berlusconi "indegno di governare" avverte che il liberalismo occidentale si trova ad affrontare una doppia minaccia: all'estero le superpotenze autocratiche quali Cina e Russia, che lo deridono come fonte di egoismo, decadenza e instabilità; in patria il populismo di destra e di sinistra, che lo contesta come presunto simbolo di elitismo. Le critiche di Xi e Putin sono un ipocrita riflesso del rifiuto a creare una società veramente libera e democratica in casa propria.

 

L'offensiva della destra populista in America e in Europa rimane la più pericolosa per la democrazia liberale, ma dopo avere raggiunto l'apice durante la presidenza di Donald Trump si sta screditando di fronte alla crisi del Covid con il suo ostinato rifiuto dell'evidenza scientifica.

"L'attacco da sinistra è più difficile da comprendere", ammonisce tuttavia l'autorevole pubblicazione londinese, in parte perché, particolarmente negli Stati Uniti, il termine "liberal" ha finito per includere una "sinistra illiberale".

 

 La terminologia inglese può suscitare confusione nel lettore italiano, perché "liberal" negli Usa è l'equivalente di "progressista", spesso utilizzato addirittura come un insulto dalla destra trumpiana, dunque differente dal nostro "liberale", che ha un significato decisamente più conservatore.

 A confondere ulteriormente le idee ha provveduto il termine "neo-liberal", traducibile come neo-liberale o neo-liberista, l'etichetta delle politiche di destra introdotte da Ronald Reagan e Margaret Thatcher negli anni Ottanta del secolo scorso. Infine c'è da considerare il liberalsocialismo, che in Italia ha ispirato i fratelli Rosselli e Gobetti, il Partito d'Azione e alcune delle menti migliori del dopoguerra, dal Mondo di Pannunzio al partito radicale.

 

Per chiarire ogni equivoco, quello che intende l'Economist (posseduto al 43% da Exor, che controlla anche Repubblica) con "sinistra illiberale" è l'atteggiamento dogmatico, intollerante, scettico nei confronti del mercato, votato alla purezza ideologica, incapace di riconoscere che anche la controparte può avere in determinate circostanze qualche ragione.

È un cocktail di opinioni da cui sbocciano fenomeni come la cancel culture, dove la legittima esigenza di condannare gli errori e gli orrori del passato rischia di riscrivere la storia dal punto di vista del presente, e gli eccessi del politicamente corretto.

 

Nel suo editoriale il settimanale non fa nomi specifici, ma traspare il riferimento alla svolta impressa da Jeremy Corbyn al partito laburista nel Regno Unito o alla rigidità talvolta manifestata dall'ala del partito democratico americano che fa riferimento alla deputata Alexandria Ocasio-Cortez (andata al Met Ball, il gran ballo annuale di beneficenza a New York, con una maglietta con la scritta "tax the rich", tassare i ricchi, sebbene in questo non ci sia nulla di illiberale).

 

"La società che mette l'eguaglianza prima della libertà finirà per non avere né l'una né l'altra" è il motto citato dall'Economist per chiarire dove sta il problema: parole di Milton Friedman, economista premio Nobel e padre del laissez-faire ovvero dell'antistatalismo, non proprio un riferimento della sinistra.

 Ma il dibattito sulla sinistra "illiberale" esiste da tempo: sull'altra sponda dell'oceano la denunciava già cinque anni fa il mensile Atlantic, ammonendo che il partito democratico, non opponendosi a chi vuole togliere diritto di parola agli avversari, cederà il controllo ai suoi elementi più estremi.

 

Richard Dawkins, biologo evoluzionista di Oxford e autore di bestseller in difesa dell'ateismo, la chiama "sinistra regressiva", accusandola per esempio di astenersi dal criticare anche le peggiori aberrazioni dell'Islam in nome del rispetto per la cultura di quella religione ("e allora io rispondo, al diavolo la cultura", dice il professore).

La definizione è entrata perfino nel linguaggio di una star di Hollywood come l'attore premio Oscar Matthew McConaughey, secondo il quale "la sinistra illiberale ha completamente abbandonato il tradizionale pensiero liberale, diventando condiscendente o arrogante verso il 50 per cento della popolazione che non ne condivide il progetto".

 

Qualcuno annovera nella sinistra illiberale anche la malaugurata dichiarazione che contribuì a fare perdere le elezioni del 2016 a Hillary Clinton, quando durante la campagna presidenziale la candidata democratica alla Casa Bianca definì dispregiativamente i sostenitori di Trump come appartenenti a un "basket of deplorables", un cestino dei deplorevoli, insomma tutti gentaglia, che a quel punto non avrebbero certo cambiato casacca votando per lei.

 Nella discussione, beninteso, c'è chi dice che a denunciare la presunta sinistra "illiberale" sono i difensori dello status quo e dei propri interessi: insomma la destra, cui farebbe gioco dipingere la sinistra come estremista e poco democratica.

 

L'Economist riconosce che pure i "liberal" (nell'accezione conservatrice o progressista) sbagliano: dopo il collasso del comunismo in Unione Sovietica e in Europa orientale hanno creduto che la storia fosse finita, come sentenziò il celebre saggio del sociologo Francis Fukuyama; dopo la crisi finanziaria del 2008 non hanno trattato la classe operaia con la dignità che meritava; e troppo spesso usano la meritocrazia come un alibi per mantenere i propri privilegi.

 

La conclusione della cover-story è che oggi troppi liberal di destra sono inclini a scegliere uno spudorato matrimonio di convenienza con i populisti e troppi liberal di sinistra minimizzano la presenza di un'ala intollerante nelle proprie file.

Se invece di unire le forze si dividono, è il monito finale, le due correnti del pensiero liberale lasceranno prosperare gli estremisti.

 

 

 

Polacchi e Ucraini:

il Genocidio Dimenticato.

 

Conoscenzealconfine.it-( 9 Agosto 2022) - Maurizia Leoncini Vecchi- ci dice :

 

In un momento in cui “non fa comodo” ricordare le radici naziste dell’Ucraina, il genocidio dei polacchi da parte degli ucraini durante la guerra mondiale è passato completamente sotto silenzio.

 

Mentre US, UK e UE, pur assorbiti dalle loro politiche interne, continuano ad inviare armi a Kiev (dove Zelensky non arresta le sue staliniane epurazioni) per foraggiare la guerra di logoramento contro la Russia, un fatto di non piccola importanza è sfuggito all’attenzione dei media.

 In “OGGI 7” del 6 marzo 2022 si era previsto che la migrazione in massa di popolazione ucraina verso la Polonia, avrebbe inevitabilmente riaperto ferite mai rimarginate. Così è stato.

 

Dall’anno 2016, l’11 luglio è, per i polacchi, il ‘giorno della memoria’, data in cui in tutto il Paese ed anche in ogni comunità e chiesa polacca su suolo estero si piange il genocidio che avvenne tra il 1939 e il 1945 (ma con particolare ferocia tra il 1943-44) in Ucraina, contro la popolazione di lingua polacca. 1.500 villaggi polacchi cessarono di esistere e le terre su cui fiorivano, rase al suolo, divennero proprietà ucraina.

 

Il Presidente Andrzej Duda ha commemorato la mattanza che ebbe luogo in Volhynia ed Est Galizia, e che raggiunse il suo apice l’11 luglio 1943, passato alla storia come ‘Domenica di sangue’.

Non si trattò di pulizia etnica, ma di genocidio volto a fare scomparire ogni traccia di esistenza di polacchi (ne furono assassinati da un minimo di 100.000 ad un massimo di 300.000) sul suolo ucraino.

 

Sono passati 79 anni, da allora e, ancora una volta (che ci sia ora la guerra poco cambia), l’Ucraina è rimasta arroccata sulle sue posizioni di sprezzante diniego che vorrebbero porre sullo stesso piano le vittime del più spaventoso e atroce massacro occorso durante la Seconda guerra mondiale e le vittime ucraine (tra 10.000 e 12.000 secondo i calcoli comuni per eccesso), cadute per mano di partigiani polacchi che cercarono di reagire (troppo tardi), salvando quel nulla che restava e vendicando i propri morti per quello che si poteva.

 

Nel suo discorso, Duda ha ribadito che non vi è intento di vendetta nel volere che l’Ucraina riconosca l’orrore compiuto dalla propria gente; in questo momento la Polonia è contro l’invasione russa e accoglie i migranti ucraini, malgrado il sangue polacco versato per loro mano.

 

 Urge più che mai, anche per questo, tuttavia, ammettere la verità, riconoscerla e farla universalmente conoscere. Il Primo ministro Mateusz Morawiecki ha aggiunto che non ci può essere riconciliazione tra i due Paesi fino a quando il massacro della Volhynia non sarà commemorato e non vi sarà pace fino a quando anche l’ultima fossa sul suolo ucraino non sarà stata aperta (l’esumazione finora ha interessato solo un 10%).

 

Poco o nulla sappiamo noi, cittadine UE, del genocidio polacco compiuto dagli ucraini. Prima la copertura di Stalin, troppo impegnato a commettere i propri crimini per sollevare veli su quelli degli altri, poi, quasi contemporaneamente, la complicità degli USA che ossessionati alla fine del conflitto mondiale dal comunismo, protessero quanti più criminali ucraini poterono, portandoseli negli States per utilizzarli come canale di spionaggio privilegiato sul suolo dell’URSS.

 

Poca importanza che fossero nazisti, che avessero commesso atrocità, che fossero ricercati quali criminali di guerra, che fossero addirittura stati condannati a morte in contumacia. L’ala protettrice degli USA vegliava su di loro e mentre a Norimberga si celebrava il processo che avrebbe dovuto rendere giustizia dei crimini nazisti, i criminali nazisti ucraini trovavano falsi nomi e la protezione della CIA.

 

La guerra fredda, protrattasi fino alla caduta del muro di Berlino, giustificava ogni cosa, mentre il silenzio cadeva, pesantissimo, su di un genocidio che i libri di storia ignoravano ed era tramandato, come per tutte le tragedie che investono un popolo, di padre in figlio in attesa che ci fosse, per i morti, giustizia.

 

Dopo la fine dell’URSS, la verità ha iniziato a emergere e gli studi si sono susseguiti. La politica degli USA, tuttavia, volta all’espansione della NATO a Est e a programmare, tramite l’Ucraina, tensioni crescenti con la Russia, non ha favorito la ricerca degli studiosi.

 

Il ‘politicamente corretto’, che ha indotto nell’UE l’autocensura dei giornalisti, ha portato, in USA, all’autocensura addirittura di studiosi in precedenza meritevoli di avere, se pur molto parzialmente, affrontato comunque il problema del genocidio polacco.

 

Lo storico Timothy Snyder di Yale, ad esempio, autore di ‘Blood-lands’, malgrado avesse già in precedenza ridotto al minimo i crimini ucraini, si è affrettato, ora, apertasi la guerra in Ucraina, addirittura a ‘lavare’ anche quel poco che aveva documentato (wsws.org), giungendo a giustificare Bandera e facendone il simbolo dell’irredentismo ucraino, riemerso attraverso l’attuale dilagante nazismo (non dimentichiamo che partiti nazisti, nel cui programma vi è la pulizia etnica contro i russofoni, sono nel governo Zelensky).

 

Poco importa che a Bandera si debba un milione di ebrei uccisi e che al suo braccio destro, Mykola Lebed, siano da ascrivere almeno 37.000 polacchi massacrati. Lebed, protetto dalla CIA è fra i criminali che finirono i loro giorni, serenamente, negli USA, con incarichi di alto livello nei Servizi. Intanto, in Polonia, con fatica e dolore si è iniziata a scrivere la storia negata.

 

Nel 2000 è uscito un monumentale, documentatissimo lavoro ad opera di Wladyslaw e Ewa Siemaszko (‘Genocide committed by ukranian nationalists on the polish population of Volhynia during world war II 1939-45’), a tutt’oggi punto di riferimento obbligato per ogni studio (cfr. anche l’attuale ‘Genocidium Atrox’), che riprende importantissime testimonianze e quanti più documenti ancora esistenti, da cui è inequivocabile il progetto e l’attuazione del massacro.

 

Un ordine dell’OUN (Organizzazione dei nazionalisti di Bandera, ad oggi modello di riferimento in Ucraina) impone (inizi 1944): “Liquidate ogni traccia di polacchi. Distruggete tutti i muri di chiese polacche e di loro luoghi di culto. Distruggete i loro frutteti e campi e tutto di loro di modo che non esista più traccia del fatto che abbiano messo piede su questa terra… “. E ancora (16 aprile 1944): “Uccidete i polacchi senza pietà. Non deve esserne risparmiato uno solo. Questo anche nel caso dei matrimoni misti”.

 

Tra il 1919 e il 20 si era consumata ai confini polacchi, una guerra civile ucraino-polacca, conclusasi con la vittoria dei secondi e la costituzione della ‘Seconda Repubblica Polacca’, ma nulla poteva fare presumere che dopo più di 20 anni di convivenza, che pareva pacifica, gli ideali nazisti per la pura razza ucraina sarebbero giunti a compiere il più spaventoso genocidio, in quanto ad atrocità, che la Storia moderna registri.

A questo proposito, vale soffermarsi su quanto accadde, con particolare attenzione alla Volhynia e che pone tale mattanza al di fuori di qualsiasi ‘canone dell’orrore’ in cui lo sterminio di esseri umani possa ricadere (alcuni confronti li possiamo solo parzialmente dedurre dai resoconti delle stragi cosacche del XVII secolo e dal genocidio dei Serbi di Prebilovci, oltre 800 donne e bimbi, per mano Croata nel 1941).

 

La singolarità del genocidio polacco è nell’attiva partecipazione di tutta la popolazione ucraina della regione, armata con asce, coltelli, forconi (qualora le armi mancassero), nell’impedire ai polacchi di mettersi in salvo, nell’ostacolare ogni deportazione, negli attacchi sempre notturni, nell’organizzazione di assatanate donne rapaci e addirittura ragazzi e bambini istruiti a razziare e a infierire e finire i feriti. Tutto ciò nulla ha a che vedere con l’attiva partecipazione ucraina allo sterminio tedesco-nazista degli ebrei e degli ebrei polacchi, il che riveste un capitolo a parte.

 

L’Olocausto fu perpetrato da organizzazioni criminali in divisa (Einsotzgruppen der Sicherheitspolizei o Sicherheitsdiertst). Questo non avvenne, nel caso dei polacchi.

 Le truppe di Bandera, Bulba, Melnik addestrate dai tedeschi, non furono determinanti. Determinanti furono le migliaia e migliaia di contadini e locale ‘gente perbene’ che, nel delirio di massa di una pura razza ucraina, compirono le più bieche atrocità contro i propri vicini, incendiando villaggi, torturando e crocifiggendo, scuoiando e squartando, impalando (anche i neonati sulle baionette), facendo a pezzi corpi vivi a colpi d’ascia, stuprando, massacrando il ventre delle donne incinte, sventrando, bruciando vivi singolarmente e nei roghi collettivi e seppellendo vivi nelle cavità dei pozzi chiunque avesse sangue polacco nelle vene.

 

Speciale menzione va riservata alla sorte del coniuge polacco nei matrimoni misti e ai bambini nati dal matrimonio. Mai, in nessun genocidio, abbiamo il coniuge che massacra il proprio sposo, né l’assassinio dei propri bambini, unicamente rei di avere non puro sangue ucraino nelle vene. Perfino l’Olocausto non registra simile barbarie. Altro carattere particolare è che il genocidio polacco d’Ucraina non è eseguito da forze occupanti, ma da quegli ucraini che erano stati polacchi sotto la Seconda Repubblica di Polonia e che conservarono poi accuratamente i propri documenti (o usarono quelli dei morti) per servirsene nella fuga verso l’Ovest a fine guerra.

 

Inoltre, la distruzione totale dei villaggi, completamente rasi al suolo al punto da rendere non rintracciabile la loro esatta ubicazione, non trova riscontro in altri abomini.

Dopo il massacro di Wola Ostrowiecka il comandante locale Lysiy, poteva annunciare: “Abbiamo liquidato tutti i polacchi, dai più giovani ai più anziani. Abbiamo bruciato ogni cosa e ci siamo impossessati di ogni loro avere”. Questo è quanto le fonti (Siemaszko, Genocidium Atrox) registrano.

 

Certo vi furono anche eccezioni: ucraini che preferirono morire con la propria famiglia ‘mista’ o pagarono con la vita il rifiuto di partecipare alla mattanza, ma furono esempi rari come gocce di pioggia sull’Oceano del Male. I genocidi sono un peso enorme, sulla coscienza di un popolo. I tedeschi, tuttavia, seppero guardare al proprio orrore e chiedere perdono (Presidente Roman Herzog, Varsavia 1.8.1994) alla Polonia.

 

Così fecero i russi (Presidente Boris Yeltsin, 25.8.1993) che chiesero perdono per i 22.000 soldati polacchi prigionieri sterminati in Katyn e del cui massacro Stalin incolpò falsamente i tedeschi.

Non una sola parola, invece, è giunta dal popolo ucraino. Poroshenko, rispose con il disprezzo e bloccò le esumazioni. Un popolo che non sa chiedere un  perdono per la propria barbarie è un popolo che ha perso il contatto con la propria umanità e resta facile preda di recidive.

 

È quanto abbiamo visto accadere in Ucraina, su istigazione, questa volta, non tedesca, ma, più o meno indirettamente, statunitense.

 Il nazismo, la pura razza ucraina, gli eccidi del Donbass, le torture registrate nei documenti ONU e OSCE, fanno degli ucraini una popolazione complessa, che questa guerra e l’interessato sostegno degli USA e dell’UE non aiuta ad un confronto con il proprio passato.

 

Quello che vediamo in Zelensky è l’arroganza dell’impunità: non un passo verso Duda, l’11 luglio, giorno della memoria, e non una sola parola si è spesa nell’UE per chiedere giustizia per il genocidio polacco perpetrato dagli ucraini. I genocidi non vanno in prescrizione.

 

Portati davanti ai tribunali i loro massacri, ci sarebbe speranza, per il popolo ucraino, di guardare a un futuro non caratterizzato dall’apologia di nazismo, di una pura razza ucraina in nome della quale giustificare mattanze, mentre l’impunità lo rende facile preda di nuovi orrori (non dimentichiamo Odessa e la pulizia etnica iniziata da Poroschenko nel Donbass nel 2014 e proseguita fino all’intervento russo). Apologie e metodi sembrano sempre gli stessi.

 

L’UE, che tanto avrebbe potuto e potrebbe, tace, troppo impegnata a inviare armi che seminano morte e distruzione, dimostrandosi, ancora una volta, complice.

Su tutti noi pesa il giudizio della Storia che non conosce perdono.

 

(Maurizia Leoncini Vecchi- luogocomune.net/22-storia-e-cultura/6044-polacchi-e-ucraini-il-genocidio-dimenticato)

 

 

 

 

Elezioni 2022:

la Trappola Nascosta.

Conoscenzealconfine.it- ( 8 Agosto 2022)- Franco Del Moro : ci dice:

 

 

E così, dopo aver spaccato il popolo in due fronti contrapposti (obbedienti e resistenti), ora sono riusciti a frantumare anche il fronte della dissidenza che, evidentemente, cominciavano a temere.

 

Il dispositivo usato – le elezioni – era in effetti imprevedibile, anche se i più lungimiranti sapevano che prima o poi avrebbero trovato e sfruttato le nostre debolezze per farci inciampare lungo il cammino verso la liberazione.

Forse le dimissioni di Draghi, certo non casuali, erano state programmate proprio per il momento in cui l’onda del dissenso si sarebbe ingrossata troppo. Sapevano che la caduta del governo avrebbe generato una corsa al potere di tutte le correnti della resistenza, e che questa avrebbe causato proprio la dissoluzione dei legami di fratellanza che si erano venuti a creare e la perdita della visione comune.

 

Tutte le ragioni e tutte le posizioni prese dagli esponenti di queste correnti in vista delle elezioni (candidati, non candidati, pro voto, pro astensione…) sono legittime e sensate, ma quello che sfugge è il disegno complessivo, ovvero l’effetto che stanno ottenendo, che è proprio quello che volevano: una infuocata assemblea condominiale, dove i vicini di casa anziché unirsi in una visione comune si scontrano gli uni contro gli altri per questioni secondarie che amplificano i personalismi e le ambizioni nascoste.

 

Non erano riusciti a dividerci prima, sono riusciti a farlo adesso.

 

Con (l’apparente) crisi di governo hanno avvelenato il pozzo. Sappiamo bene che con le prossime elezioni non cambierà niente, i satrapi del governo andranno avanti con la loro agenda liberticida come se niente fosse successo; il potere, quello vero (dei globalisti occidentali capitanati da Klaus Schwab.Ndr) non verrà nemmeno scalfito dagli scrutini, qualunque sarà l’esito.

 

Ma noi non saremo più gli stessi di prima. Ne usciremo rancorosi e divisi. Ci siamo cascati, era una trappola ben nascosta, difficile da evitare. Facciamo tesoro di questa lezione, e cominciamo sin da adesso a pensare a un percorso di guarigione basato sul dialogo e sull’incontro, con o senza rappresentanza politica. O non ritroveremo mai più l’unità perduta.

 

(Franco Del Moro-100giornidaleoni.it/blog/elezioni-2022-la-trappola-nascosta/)

 

 

 

 

 

 

 

 

A Noi…

 

 

Conoscenzealconfine.it-( 8 Agosto 2022) - Francesco Polimeni- ci dice:

 

 

I purosangue, gli eletti dell’arca invisibile, gli unici che hanno saputo resistere quando tutto è affondato.

 

Anche se fossi poli-inoculato e con vaccinazione completa, ammirerei i purosangue per essere stati capaci di resistere alla più grande pressione mai vista, anche da parte di partner, genitori, figli, amici, colleghi e medici.

Le persone che sono state capaci di tale personalità, coraggio e capacità critica sono, senza dubbio, il meglio dell’umanità. Sono ovunque, di tutte le età, livello educativo, condizioni e idee. Sono di una pasta speciale, sono i soldati che ogni esercito di luce vorrebbe nelle sue file.

 

Sono i genitori che ogni bambino vorrebbe e i figli sognati da qualsiasi genitore. Sono esseri al di sopra della media delle loro società, sono l’essenza degli umani che hanno costruito tutte le culture e conquistato orizzonti. Sono lì, accanto a te, sembrano normali, ma sono dei supereroi.

 

Hanno fatto quello che altri non hanno potuto, sono stati l’albero che ha resistito all’uragano degli insulti, delle discriminazioni e dell’emarginazione sociale. E lo hanno fatto pensando di essere soli, credendo di essere gli unici.

 

Banditi dai tavoli delle loro famiglie a Natale, non si è mai visto niente di così crudele. Hanno perso il lavoro, hanno lasciato che le loro carriere affondassero, sono rimasti senza soldi… ma non gli importava. Hanno sopportato discriminazioni, segnalazioni, tradimenti e umiliazioni incommensurabili… ma hanno continuato.

 

Mai prima d’ora nell’umanità c’è stato un ‘casting’ simile, ora sappiamo chi sono i migliori sul pianeta Terra. Donne, uomini, vecchi, giovani, ricchi, poveri, di ogni razza o religione, i purosangue, gli eletti dell’arca invisibile, gli unici che hanno saputo resistere quando tutto è affondato.

 

Questi siete voi, avete superato una prova inconcepibile a cui molti tra i più duri marines, commando, berretti verdi, astronauti e geni non hanno saputo resistere. Siete fatti della stoffa dei più grandi che siano mai esistiti, quegli eroi che nascono tra le persone normali e che brillano nell’oscurità.”

 

Francesco Polimeni (youtube.com/channel/UC88FaBxNEXA6rVsbw3I0t5Q/videos)

(t.me/lealidelbrujo).

 

 

 

 

 

Differenza tra liberale

e progressista.

It.salwakinome.com- Redazione- (2-7- 2022)- ci dice :

 

 

Introduzione.

I termini liberale e progressista, entrambi hanno connotazione del libero pensiero, privo di conservatorismo, comunismo, pregiudizi e falsi orgoglio.

 L'ideologia dietro i termini è favorevole all'idea di modernità.

Le persone usano i termini per identificarsi con un marchio sociale che occupa una posizione stimata nella psiche sociale.

Diverse società concepiscono i termini in modo diverso, a seconda della struttura sociale e dei valori che prevalgono nella società particolare. Molte volte i termini sono usati in modo intercambiabile. Eppure esistono alcune differenze tra i due. Questo articolo è un tentativo di far luce su alcune delle differenze pronunciate tra i due.

 

Differenza nell'origine e nell'evoluzione.

Liberale.

 

Il termine liberale, si è evoluto dalla parola latina Liber fu usato per la prima volta nel 1375 per indicare le arti liberali come si adatterebbe ai pensieri liberi delle persone.

 L'idea di un pensiero liberale che era esistito tra poche persone nell'antica Grecia, iniziò a trovare il pubblico di massa durante la guerra civile inglese nel 1640 tra parlamentari e realisti sulla questione del modo di governare, che portò all'esecuzione del re Carlo I, esilio per il figlio re Carlo II e abolizione della monarchia con costituzione della prima ricchezza comune d'Inghilterra.

 

 Il movimento politico radicale guidato da i Livellatori fu determinante nel garantire il suffragio, la tolleranza religiosa e l'uguaglianza agli occhi della legge per il popolo d'Inghilterra.

John Locke (1632 - 1704), designato come il padre del liberalismo classico e famoso per il suo Teoria del contratto sociale fu il primo filosofo e pensatore politico inglese a dare una forma definitiva a queste idee liberali dei livellatori.

 Locke ha diffuso la nozione radicale secondo la quale il governo deve prendere il consenso dei governati per governare e il governo rimane legittimo fino a quando non ci sarà il consenso.

 

La gloriosa rivoluzione nell'Inghilterra del XVII secolo, che vide il sovvertimento dei re di Inghilterra, Scozia e Irlanda, solidificò l'idea del liberalismo. Durante il XVIII secolo, l'idea del liberalismo proliferò in molti paesi europei. Molte monarchie in tutta Europa erano minacciate dalla proliferazione della filosofia del liberalismo nella società borghese.

Baron de Montesquieu (1689 - 1755), il noto filosofo francese fu il paladino della filosofia del liberalismo con i suoi scritti che hanno avuto un'enorme influenza in Francia e fuori dalla Francia sul concetto prevalente sulla natura del governo.

L'idea del liberalismo passò attraverso l'era della rivoluzione americana alla fine del 1760 che culminò con l'istituzione della Costituzione degli Stati Uniti.

La rivoluzione francese del 1789 che ha portato alla presa della Bastiglia è considerata da molti storici famosi come il trionfo del liberalismo.

 

Nel XVIII secolo, diversi scrittori potenti e influenti come Charles Dickens, Thomas Carlyle e Matthew Arnold scrissero profusamente a sostegno del liberalismo sociale e contro le ingiustizie nella società. John Stuart Mill (1806-1873), noto economista, filosofo e pensatore politico britannico, fu un convinto sostenitore del liberalismo sociale.

 

Durante il diciannovesimo secolo molte parti dell'Europa e dell'America videro la nascita di governi con idee liberali. Le due guerre mondiali sono viste anche dagli storici come la vittoria degli stati con l'ideologia politica liberale.

La caduta del muro di Berlino e la disintegrazione del blocco sovietico hanno rafforzato la penetrazione delle idee liberali tra la massa. La maggior parte degli stati moderni nel mondo sono ora governati da partiti con un manifesto liberale.

 

Progressivo.

 

Il filosofo tedesco Immanuel Kant (1724 - 1804), noto anche come padre della filosofia moderna, si presume sia il primo scrittore a sollevare l'idea del progresso come il movimento dalla barbarie alla civiltà.

Nicolas de Condorcet (1743 - 1794) il famoso filosofo francese, matematico e politologo consolidò ulteriormente l'idea alla base del progressismo.

Durante il diciannovesimo e ventesimo secolo, molti scrittori e pensatori politici scrissero a favore del progressismo come base dell'economia moderna e della società.

Il filosofo tedesco Georg Wilhelm Friedrich (1770 - 1831) fu determinante nel diffondere l'idea di progressismo in tutta Europa, che in seguito influenzò Karl Marx nel plasmare la sua ideologia politica.

Nel diciannovesimo secolo, l'ascesa del capitalismo, l'ineguaglianza nel reddito tra le persone e i conflitti violenti tra capitalisti e classe operaia nel mondo occidentale hanno dato adito a una diffusa apprensione che il progresso sociale fosse soffocato dai capitalisti e dai governi filocapitalisti.

In Germania e in Inghilterra i governi hanno promulgato alcune misure progressive di assistenza sociale.

 Il periodo tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo è chiamato l'era progressista dell'America, quando il progressismo si trasformò dal movimento sociale in un movimento politico.

 

Era opinione diffusa in America che le malattie sociali come la povertà, l'analfabetismo, la violenza e altri mali potessero essere sradicati iniettando idee progressiste nei rapporti di istruzione e di lavoro. I presidenti americani Theodore Roosevelt e Woodrow Wilson hanno abbracciato la filosofia del progressismo. A poco a poco l'idea di progressismo si diffuse in Sud America, Europa e Asia.

 

Differenza nel concetto.

Liberale.

 

Liberale è una persona che sostiene l'idea di base del liberalismo che è "libertà e uguaglianza".

Poiché il liberalismo ha connotazioni diverse, anche il liberalismo. Una persona politicamente liberale può sostenere un partito politico liberale che è laico e non fa un manifesto elettorale per le questioni religiose.

Allo stesso modo una persona economicamente liberale può sostenere laizzes faire politica del governo quando si tratta di controllare il mercato.

Allo stesso modo una persona socialmente liberale può sostenere i matrimoni interreligiosi.

Tutti questi punti di vista tuttavia convergono nell'idea fondamentale della libertà e dell'uguaglianza per ogni essere umano, e nessuna forza istituzionale sarebbe permessa di ferire queste idee per il bene della pace e della dignità degli esseri umani.

 

 Un liberale a tutto tondo è colui che sostiene il laissez faire nel controllo del mercato, soccorrendo le aziende e sponsorizzando anche le ricerche delle compagnie farmaceutiche private su farmaci meno costosi con denaro dei contribuenti per quanto riguarda le politiche governative, le pratiche politiche laiche e l'elezione equa, nessuna interferenza nelle credenze e le pratiche religiose individuali, l'uguaglianza di genere in tutte le sfere della vita e, soprattutto, l'adesione al diritto e alla dignità umana.

 

Progressivo.

 

Progressivo è un'ideologia che riflette un atteggiamento più proattivo da parte di chi lo sostiene. Una persona progressista cercherebbe cambiamenti e riforme in tutte le sfere della vita umana, sociale, politica, economica e personale. Una persona progressista si opporrà alle spese del governo dai soldi dei contribuenti per salvare una società che affonda; piuttosto suggerire che le attività della società dovrebbero essere altrimenti utilizzate per produrre beni e servizi.

 

Allo stesso modo una persona progressista sosterrebbe la proposta di finanziamenti governativi ai partiti politici per le elezioni e l'auditing dei fondi dei partiti politici, abolirà il sussidio governativo e le riserve classificate nell'istruzione.

Quando si parla di educazione, un progressista è una persona che sosterrà l'educazione sessuale nei programmi scolastici.

Tutti questi punti di vista presi insieme equivalgono al concetto sottostante di avanzamento o progresso della società umana. In generale, gli abbonati all'ideologia progressista pensano e lavorano per la giustizia sociale, l'emancipazione della parte povera e più debole della società, fornendo assistenza legale alle persone oppresse dal governo e da altre forze organizzate. Una persona progressista crede che il suo modo di pensare sia favorevole allo sviluppo sociale.

Sommario.

Il liberale è un concetto molto più vecchio rispetto al progressivo.

L'idea del liberalismo si è evoluta attraverso secoli e rivoluzioni; l'idea di progressive è entrata in una luce calcarea dopo il rinascimento.

I progressisti assumono atteggiamenti più proattivi rispetto ai liberali.

 

 

 

 

 

 

IL PROGRESSISTA POSTMODERNO.

 

Diacritica.it - Francesco Postorino – (25-2-2022)- ci dice :

 

 

Norberto Bobbio sostiene che il «liberalismo» è una determinata concezione dello stato limitato sia per quel che riguarda i suoi poteri («stato di diritto») sia rispetto alle sue funzioni («stato minimo»). Nel primo caso, si contrappone alle ambizioni del legibus solutus – si pensi al Leviatano di Hobbes −; nel secondo caso, il liberalismo contrasta la deriva interventista dei poteri pubblici.

 

Le dichiarazioni dei diritti nella Virginia del 1776 e nella Francia del 1789 traggono origine dalla lezione di John Locke elaborata un secolo prima. L’individuo, suggerisce il padre del liberalismo moderno, dispone di tre diritti naturali: il diritto alla vita, alla libertà e alla proprietà, «ai quali, con il passaggio allo stato civile, non può rinunciare, e anzi il governo, istituito con il contratto, ha come principale funzione quella di garantirli». Tali diritti spettano al cittadino universale.

 

Il marxismo nasce nel corso dell’Ottocento anche in esplicita contrapposizione alla figura illuministica del citoyen. Quest’ultimo, come viene detto da Karl Marx nella Questione ebraica, non esiste nella realtà effettuale. Crede di essere titolare di diritti eterni, ma nella terra delle ingiustizie si ritrovano puntualmente sfruttati e sfruttatori: i primi appartengono alla classe dei proletari, gli altri a quella dei borghesi. La libertà dei «moderni», lascia intendere Marx, è una libertà cerimoniale che si condensa nei cieli astratti e non sfiora la vita degli uomini-merce.

 

L’irruzione della questione sociale, scaturita dalla rivoluzione industriale, ha aggiunto, in effetti, alla dicotomia che intercorre tra la libertà degli «antichi» e quella dei «moderni» − illustrata, com’è noto, da Benjamin Constant all’Ateneo reale di Parigi nel 1819 −, il divario filosofico, storico e politico tra la libertà «negativa» e la libertà «positiva», “messe in luce” da Isaiah Berlin ad Oxford nel 1958.

 

La libertà negativa, accolta dal liberalismo tradizionale, si fonda sull’assenza di impedimenti esterni (la libertà da); la variante positiva sarà elogiata, seppur ad oltranza, dai movimenti comunisti, collettivisti e democratici (la libertà di).

 

Il filosofo John Stuart Mill, nel XIX secolo, cerca in proposito un compromesso ideale e si rivela il precursore della corrente liberal grazie al principio del neminem laedere, reimpostato in chiave liberale, e alla sua «indignazione per le condizioni di ingiustizia sociale e di depravazione». Mill vuole socializzare il liberalismo senza scivolare nel terreno social-comunistico.

 

Il liberalismo sociale di Mill influenzerà Leonard Hobhouse e il suo Liberalism del 1911. Quest’opera segnerebbe per certi versi l’inizio ufficiale di una nuova ideologia: un liberalismo che non archivia le libertà tipicamente liberali, anche se parimenti propugna con decisione l’intervento pubblico in economia e nelle formazioni sociali.

 

Di qui la tensione tra un liberalismo conservatore e una sensibilità liberal-progressista. Il primo, dal respiro «realista», s’intreccia sul piano storico con il patriottismo risorgimentale, con l’anticomunismo, la Destra storica, esprime una preferenza «umanistica» sulla cultura scientifica e, in futuro, aderirà a pieno titolo all’economia di mercato.

 

La seconda, più «utopica», trova un riscontro nelle socialdemocrazie europee e nel liberalsocialismo continentale, oltre che una ripresa significativa, negli Stati Uniti, con la teoria della giustizia come equità esposta da John Rawls nel suo A theory of justice del 1971, che avrebbe ispirato, per alcuni studiosi, le scelte politiche del presidente di centro-sinistra Bill Clinton e in generale della Third Way teorizzata da Anthony Giddens.

Su quest’ultimo punto, a dire il vero, pare molto più attendibile la ricostruzione storico-critica di Serge Audier, secondo cui non vi sarebbe stretta compatibilità tra il socialismo liberale europeo (o appunto la corrente egalitaria di matrice rawlsiana) e la tradizione politica del riformismo democratico sbocciato alla fine del secolo precedente. In ogni modo, Mill, Hobhouse e Rawls pongono in diverse epoche le basi filosofiche della” prospettiva liberal”.

 

Marcello Veneziani è dell’avviso che l’approccio liberal si consegna all’ideale, al piano normativo di una legge che s’intrufola per vie arbitrarie nel quotidiano. Il liberal, a suo parere, combina empirismo metodologico e idealismo morale, offre un’opzione laburista e democratica «fino ad accogliere come compagni di strada anche i radical e i comunisti»; si libera inoltre dai legami e punta tutto «sull’emancipazione dell’individuo dai vincoli sociali, territoriali, familiari, tradizionali».

 

All’indomani del Terzo millennio sembra, tuttavia, che sia svanito il sogno liberal intento a raddrizzare il legno storto dell’umanità. Alcuni socialisti riformisti contemporanei, come Monique Canto-Sperber, salutano con viva soddisfazione il consolidamento dell’economia e della cultura liberale in quanto «nous a débarrassés de l’utopie».

 

Kant, il messaggio illuminista e il senso musiliano della possibilità si mostrano impotenti di fronte ad Hegel, Burke e le puntuali repliche della storia.

 

L’utopista ha ceduto e la realtà ha vinto. Ha vinto l’idea che reputa improponibile non solo il tentativo di affidare a un meccanismo giacobino il compito di far tabula rasa, ma altresì la semplice opportunità di revisionare l’ente e il mondo.

 

La tensione fra l’ideale e il reale, tra il dover essere e l’immanente sembra, dunque, cancellata, con buona pace per la cultura liberal.

 

Pio XII denuncia la sfera del cambiamento, dichiarando che i ricchi e i poveri ci sono sempre stati e sempre ci saranno. Questa «verità» non disturba la coscienza di un neo-progressista che ha trovato asilo in una società inginocchiata alla morte di Dio. Se Dio muore, anche per la mente liberal, smette di avere senso la dimensione sociale della vita. Il collettivo, l’insieme, il bisogno di offrire narrazioni in favore del prossimo si sgretolano nel vasto oceano della retorica.

 

Così emerge il politically correct, si galleggia nella superficie delle cose, si riempiono gli spazi televisivi, si veste bene, si possiede lo yacht, si rivendicano cospicue somme di denaro in nome del libero mercato, si inseguono i modelli manovrati dal rito mediatico, si commercializzano beni dal significato morale.

Contemporaneamente , si fa fatica a incrociare, per dirla con Lévinas, il volto «nudo» dell’altro, o quello che Habermas chiama «la persona dell’altro (degli altri) nella sua specifica diversità».

 

Il liberal alberga in un confuso pragmatismo che lo rende sempre più vicino ai centri di potere – spesso s’identifica con essi – e distante dalle masse, dagli uomini al plurale, da chi domanda con voce stanca sincere forme di tutela.

 

Il nuovo liberal non a caso familiarizza politicamente con i governi moderati. Considera superata la scelta di rilanciare la tematica della redistribuzione del reddito e segue le mode, l’agenda liberista. Finge di ascoltare la sofferenza sociale perché rincorre, anche lui, il vecchio modello del self made man.

 

Con l’annuncio profetico del Gott ist tot, viene meno l’empatia e irrompono il monologo, le solitudini, la giungla della competitività. Si cessa di parlare e si è parlati da strutture e sovrastrutture che celano la triste immagine del postmoderno.

Che il liberal, come riferisce Raimondo Cubeddu, non accetti l’autonomia della sfera economica da quella politica ed etica, e le contrapponga «una concezione del mercato come organizzazione finalizzata al conseguimento di obiettivi etico-politici (giustizia sociale)», non sembra più attendibile.

 

«È giusto che vinca il più bravo!», esclama oramai dentro di sé quel progressista che ha scoperto la meritocrazia e l’individualismo.

Piero Calamandrei si chiede

perché non dovrebbe essere logicamente permesso, senza con questo toccare il sistema della libertà, inserire tra questi diritti di libertà che sono condizioni a priori del regime liberale, l’affermazione di un minimum di benessere economico considerato anch’esso come condizione perché i cittadini possano partecipare liberamente alle lotte politiche.

 

Oggi questa pretesa rischia di non avere più senso logico e politico. Dietro l’impulso hobbesiano dell’homo homini lupus, quasi tutto è permesso. La scuola di don Milani si rivela un insulto, un sentiero pericoloso.

 Il liberal, che sfrutta la mano invisibile del mercato, diffida dell’egualitarismo. La retorica gli suggerisce la difesa formale della scuola pubblica, solo che lui e i suoi figli dovranno educarsi in prestigiose università private, coltivando diverse atmosfere.

 

La sua concezione cosmopolitica si piega a una lettura improntata all’«io minimo», a quell’«io narcisista» che svuota di senso qualsiasi contenuto, vivendo «giorno per giorno» senza alcun sentimento etico.

 

Egli si trova a proprio agio nei luoghi «innocenti» del nulla, ovvero in una società liberale in cui, come scrive il marxista Jean-Claude Michéa, si riconoscono solo le relazioni fondate sullo «scambio commerciale» e sul «contratto giuridico», e dove il principio utilitaristico del do ut des ha cancellato «l’incontro autentico e disinteressato».

 

Spezzando il categorico, l’universale, il «sapere narrativo», il progressista postmoderno non riesce a vivificare il particolare: lo mortifica.

La crisi istituzionale dell’epistéme è sfociata nell’assassinio di Dio, una morte che riflette sia la fine di un punto di riferimento sia l’annientamento della persona e crea uno spazio di libertà pronto a trasformarsi in un vuoto «che gli uomini, privati di una fede che dava senso alle loro vite, non sono ancora capaci di colmare».

 

Il soggetto del liberal, infatti, non è più la «persona», nel senso socratico e kantiano dell’espressione.

 Non è l’individuo innalzato a valore da Hobhouse o dalla corrente personalistica a cavallo tra le due guerre mondiali, quella che in Francia scopre le tesi di Emmanuel Mounier e in Italia la filosofia liberalsocialista del «lui» promossa da Guido Calogero.

Il suo protagonista è, al contrario, il Dasein di Heidegger, l’Übermensch di Nietzsche, o qualunque superuomo che abbia distrutto dentro di sé il tribunale kantiano della raison e, come un «fanciullo innocente» che dondola in una «ruota ruotante da sola», riproponga una doxa ambientata nella scuola sofista.

 

L’opinione non è più il momento di uno scambio guidato dalla «persuasione», perché si è convertita in un «punto di vista» che si somma e si giustappone ad altri in un circuito senza senso, allenato a rimuovere la domanda (senza tempo) di Socrate e del suo allievo Jan Patočka. Così, il rispetto incondizionato per «il diritto degli uomini» diviene elemento facoltativo per le attività di governo e si nullifica entro le dinamiche neo-progressiste votate al senso del precario.

 

Il «punto di vista» si condensa nei labirinti della retorica, del fittizio, litigando con le direttive etiche e, dunque, con quella linea di demarcazione che divide lo spazio umanistico del possibile dal reale così com’è. Il progressista ha bruciato questo confine premiando i processi «fenomenici» della vita. Il noumeno non incanta più.

 

L’essenza che, ad esempio, Aldo Capitini identifica con l’universo sovrasensibile della «compresenza» viene dal nonviolento inserita nell’«ultimo presente» − quello che si muove al confine delicato tra la finzione del mondano e la severità heideggeriana della morte – al fine di spegnere questa storia e rilanciare il volto kantiano del Sollen, insediando un «nuovo presente».

 

Il progressista di oggi, per converso, ha spento la narrazione del tu devi in nome del giuoco concorrenziale e delle ipotesi del «nulla». Egli, coerentemente rimproverato dal proletariato, è divenuto «sterile e vuoto», consuma qualunque cosa e «finisce per consumare il consumatore, in una sorta di eccitazione fine a se stessa».

 

Il liberal dovrebbe trovarsi in imbarazzo nel mondo delle ingiustizie, della volontà di potenza, dell’ancien régime di ritorno e, invece, contribuisce a beatificare tutte le sfumature del modo di produzione capitalistico.

Parafrasando Gilles Dauvé e Karl Nesic, si potrebbe dire che il vestito borghese del liberal si servirebbe, inoltre, delle istituzioni democratiche allo scopo di impedire la «riappropriazione collettiva delle condizioni di esistenza» e rinforzare il divario sociale.

 

Guido de Ruggiero, un liberale molto liberal, afferma che l’uomo non deve smettere di lottare fin quando permane l’ultimo privilegio. L’involontario seguace della Sorge cosmica ha rinunciato al conflitto e ha «eletto il si a proprio “idolo”», assoggettandosi a una «chiacchiera» esposta nel luogo dei consumi.

 

Non crediamo che i problemi del liberal siano la matrice illuminista, la mancanza di un disegno comunitario o il rifiuto metodologico dello storicismo hegeliano.

L’illuminismo non ha ucciso Dio, essiccando «la sorgente di tutti i comandamenti e di tutti i limiti». Ha solo eliminato dogmi o valori precedenti. La nuova prospettiva universalistica, emersa nel secolo dei lumi, non funge, cioè, da necessario preludio a esiti nefasti quali la cultura dell’egoismo e del solipsismo.

 

L’«ospite inquietante», profetizzato da Nietzsche, è il nuovo spettacolo del non-senso istituito dall’uomo del disincanto: un individuo che, essendo «innocente», si colloca «al di là del bene e del male».

 Esemplificando con lieve paradosso, si può aggiungere che − nella direzione nichilistica inverata dal liberal odierno − i principi umanistici dell’89 si intrecciano con il teatro di Auschwitz, in quanto il bene e il male costituiscono il profilo intrinseco, e mai discusso, di un ente precario gettato nel nulla.

 

In assenza di un «giudice», di un ruolo terzo (i luoghi della coscienza) che sancisca senza tergiversare la vittoria del sentimento di giustizia, l’uomo postmoderno si svincola dagli imperativi e si deresponsabilizza nell’incontro con gli altri.

 

Vi è un Io (rigido) e un Tu (flessibile), mentre è sconfitto a priori il Lui calogeriano. Il Tra, indicato con eloquenza da Martin Buber, si converte in una resistenza inquietante, un ostacolo che preclude l’assoluto dominio sul Tu.

 

Il pensiero illuminista, restio all’«ospite inquietante», se bagnato nel mare della storia, può riscoprire il dono del rispetto e della dignità umana: le fonti dell’89. Ciò dipende dalla fede, dal laico ritorno di Dio, del «giudice», di un autentico Tra o, se vogliamo, di tutti quei valori che, in quanto tali, non si lasciano imprigionare dal tempo o risucchiare dalla contingenza.

 

 

 

 

 

 

QUESTIONE TRANS: CAMBIO

DI VENTO TRA I PROGRESSISTI.

Feministpost.it – Marina Terragni- (23 giugno 2022)- ci dice :

 

 

Il "la" lo danno i democratici americani, ma anche nel resto d'Occidente la trans-filia dei progressisti comincia a dare segni di cedimento. Opportunismo elettoralistico, certo. Ma il cambiamento va registrato. Tenendo gli occhi bene aperti.

Michele Serra è un amico e apprezzo molto che si sia assunto la responsabilità di rompere il silenzio da sinistra -finalmente -sull'insopportabile ingiustizia dei corpi maschili negli sport femminili (L'Amaca sulla Repubblica ieri, 22 giugno), ingiustizia contro la quale lottiamo da molto tempo (qui troverete un'infinità di testi su questo tema).

Un appunto, se possibile: avrei evitato di usare la definizione woke cisgender, imposta dal transattivismo, e nella quale la stragrande maggioranza delle donne del mondo, atlete e non atlete, non intende riconoscersi.

 

Ancorché tardivo, visto che arriva dopo che le federazioni mondiali di molti sport -dal ciclismo al nuoto al rugby e ora si attende l'atletica- hanno riconosciuto che i corpi maschili nelle categorie femminili sono unfair (sleali), il segnale è molto interessante. Certo, se fosse arrivato prima si sarebbero risparmiate molte sofferenze alle atlete e alle non atlete che si sono strette intorno alla loro battaglia, ma meglio tardi che mai.

 

Il segnale è interessante perché insieme a molti altri segnali che arrivano in simultanea ci dice che i progressisti e i liberal si stanno finalmente rendendo conto che continuare a sposare acriticamente e "correttamente" la causa transattivista e queer li porterà rapidamente a sbattere: per "rapidamente" intendo, per esempio, le elezioni di midterm a novembre negli USA.

 

Il banco di prova è stata la Virginia, conquistata dai repubblicani nel novembre scorso: il conservatore Glenn Youngkin, ha raccontato proprio La Repubblica, ha vinto in quanto «capace di rompere tutti i tabù democratici, liquidando la questione transgender a scuola, la sessualità fluida, promettendo di chiudere i programmi scolastici che si fondavano sull’analisi critica della teoria della razza».

 

Ad annunciare il cambio di rotta è scesa in campo nientemeno che l'ex-segretaria di Stato e candidata alla presidenza Hillary Clinton in un'intervista al Financial Times, frenando bruscamente sulle politiche trans-friendly inaugurate dall’amministrazione Obama -detto trans-president- e perseguite con determinazione dal presidente Joe Biden: uno tra suoi primissimi executive order, giorno 1 da neoeletto, era stata la riammissione delle atlete transgender nelle categorie sportive femminili, il che può dare l’idea del peso politico della questione. Se andiamo avanti per questa strada, ha detto in sostanza Hillary, ci giochiamo la presidenza.

 

Altro indizio, il cambio di vento al New York Times, quotidiano dei liberal USA: captando il malcontento dei lettori -che della trans-centralità e in generale del wokeism non ne possono più- in un clamoroso editoriale pubblicato il 18 marzo scorso aveva ammesso il «silenziamento sociale» e la «de-pluralizzazione»:

 «La solida difesa della libertà di parola era un tempo un ideale progressista» mentre oggi molti progressisti sono «diventati intolleranti nei confronti delle persone che non sono d’accordo con loro» assumendo atteggiamenti di ipocrisia e censura che per lungo tempo sono stati tipici della destra.

 

Una delle questioni sulle quali il New York Times ha deciso di rompere il silenzio è il dramma delle bambine e dei bambini gender non-conforming -sempre di più- avviati precocemente alla transizione con la somministrazione di puberty blocker e ormoni, scandalo medico che qualcuno ha paragonato alla lobotomia del secolo scorso e che rappresenta una ferita aperta per il manierismo trans-filico progressista (sempre Joe Biden, giusto un paio di mesi fa, aveva diffuso un documento a favore dell'ormonizzazione dei minori contro il quale c'è stata la rivolta di migliaia di pediatri americani).

 

Messi tutti insieme, questi segnali indicano il tentativo liberal -verosimilmente tardivo- di cambiare strada, tentativo al quale fatalmente si allineeranno, chi prima chi poi, i partiti progressisti di tutto l'Occidente.

PD compreso, che al momento resta incagliato nell'insensatezza dello "o Zan o morte" (scelta che priverà il Paese di una buona legge contro l'omotransfobia: bastava ripescare il vecchio ddl Scalfarotto, come più volte abbiamo detto, per trovare una maggioranza parlamentare: proposta apprezzata solo da Italia Viva) e in una colpevole confusione sulle priorità in agenda, malcelata da un dirittismo a costo zero.

 

Non si sa se essere contente oppure no: anni di battaglie a mani nude, di umiliazioni, di marginalizzazione, di deplatformizzazione e di sprezzante non-ascolto su un'infinità di questioni, dall'utero in affitto all'identità di genere: andava bene confrontarsi perfino con Fedez e con le porno-influencer, con noi mai.

E ora il muro invalicabile che abbiamo avuto davanti si sta riempiendo di crepe, in gran parte per mere ragioni di opportunismo elettoralistico (e nel caso dei media, di sopravvivenza: disdette di abbonamenti come se piovesse).

 

Ci toccherà assistere allo spettacolo di chi ci ha così tenacemente ostacolato che tenta di andare all'incasso dei guadagni della nostra fatica.

Amen, quello che conta è il risultato. Ma conta anche tenere gli occhi bene aperti, non fare un solo passo indietro, non rinunciare al proprio protagonismo, non cedere a facili lusinghe. La strada è ancora lunga e accidentata.

(Marina Terragni).

 

 

 

Commenti

Post popolari in questo blog

Quale futuro per il mondo?

Co2 per produrre alimenti.

Caos e dazi.