IL PROGRESSISMO “LIBERAL” OCCIDENTALE.
IL PROGRESSISMO “LIBERAL” OCCIDENTALE.
Il
liberalismo non è progressismo.
Ilfoglio.it-Giulio
Meotti- (22 giugno 2022)- ci dice :
“E ora
più che mai va difeso dal grande assalto iconoclasta in corso”, scrive Douglas
Murray sullo “Spectator”.
Il
relativismo totalitario.
Questo
articolo è stato pubblicato su Un Foglio Internazionale spunti e segnalazioni
dalla stampa estera a cura di Giulio Meotti.
“Da
qualche anno va di moda parlare della fine del liberalismo”, scrive Douglas Murray:
“Ma
nei giorni in cui le folle devastano le città, le prove diventano sempre più
schiaccianti. La crescente intolleranza verso la libertà di stampa, la difficoltà
di confrontarsi, e il modo in cui gran parte dell’establishment britannico,
inclusa la polizia, sente il bisogno di mostrare la propria vicinanza alla
causa – come se avesse paura di finire dalla parte sbagliata – indicano
qualcosa di più grande di una crisi di fiducia. Indicano una malattia profonda.
Ogni giorno la rivoluzione culturale avanza; gli
iconoclasti che hanno attaccato il Cenotafio e la statua di Churchill cercano
nuovi modi per sfogare la propria rabbia.
L’università
di Liverpool ha deciso che le residenze studentesche intitolate a Gladstone
verranno rinominate dopo che i manifestanti hanno fatto notare che il padre
dell’ex premier possedeva degli schiavi.
Ci
troviamo di fronte alla morte dell’idea liberale.
Certo, il ‘liberalismo’ è sempre stato un termine ampio: la definizione è diventata ancora più
vaga da quando gli americani l’hanno resa un sinonimo di ‘progressista’.
Ma il liberalismo incorpora le fondamenta
dell’ordine politico occidentale, tra cui l’uguaglianza, lo stato di diritto e
la libertà – inclusa la libertà di espressione che permette alle buone idee di
prevalere.
Negli
ultimi anni, la sinistra ha accusato i politici di destra eletti dal popolo di
volere cancellare la democrazia liberale.
Ma in Gran Bretagna la più grande minaccia al
liberalismo politico non arriva dalla destra conservatrice, ma dalla sinistra
radicale.
Nelle ultime settimane molte persone ben
intenzionate hanno versato quasi un milione di sterline nelle casse di Black Lives Matter Uk, sperando di aiutare un movimento che
avrebbe aiutato a sua volta i neri. Blm Uk descrive così i suoi obiettivi: ‘La distruzione dell’imperialismo,
capitalismo, supremazia dei bianchi, patriarcato e strutture statali’. Oltre a volere distruggere una
minaccia inesistente (‘l’imperialismo’), questo gruppo intende fare precipitare
l’economia e alterare i rapporti tra sessi (descritti come una forma di
‘patriarcato’).
Questo
non è il liberalismo, ma un genere di radicalismo di estrema sinistra (nazi- bolscevismo. Ndr) che è diventato molto familiare di
recente.
Anche
i media hanno le loro colpe, avendo scelto di difendere questi episodi di
violenza ed eliminare non solo chi dissente ma, come mostra il caso del New
York Times, chiunque aiuta a pubblicare le idee di chi dissente.
Bari
Weiss, uno degli ultimi liberali rimasti in quel giornale, ha spiegato la
scorsa settimana che i giornalisti ultra quarantenni (così come molti altri)
immaginavano che i giovani avrebbero condiviso le loro idee liberali.
Poi
hanno scoperto che i ragazzi preferivano il ‘securitarismo’ al liberalismo, e ‘il diritto delle persone di sentirsi
emotivamente e psicologicamente al sicuro ’ piuttosto che ‘i valori liberali come
la libertà di stampa’.
In realtà la divisione è ancora più grande, e
oggi giorno riguarda quasi tutto. Se la mente liberale è curiosa, quella
antiliberale è dogmatica.
Se la
mente liberale è in grado di perdonare, quella antiliberale crede che un
singolo errore sia necessario per ‘cancellarti’.
E se la mente liberale ha ereditato l’idea che bisogna
amare il prossimo, quella antiliberale scalpita per scagliare la prima pietra.
Anche
l’analisi storica è molto diversa. I liberali comprendono che le persone fanno sulla base
del pensiero prevalente nella loro epoca, e il compito degli storici è quello
di guardare al passato con comprensione, nella speranza di essere a loro volta
compresi. La
mente libera disprezza questo ragionamento, e crede che chiunque sia nato prima
dell’anno zero sia un bigotto.
I
lettori dello “Spectator” da tempo hanno intuito ciò che sarebbe arrivando.
Quando questa rivista ha raccontato gli Studenti Conformisti (Stepford Students
in inglese, ndt ), ci è stato chiesto perché gli avessimo dato così tanta importanza
– gli studenti sarebbero cresciuti.
E lo
hanno fatto, però non sono cambiati affatto. I gesti simbolici delle grandi
aziende – ad esempio, il numero crescente di addetti alla diversità – sono
stati trattati con sufficienza.
Come
ha scritto il giornalista americano Andrew Sullivan (lui stesso è stato messo a
tacere), ‘oggi
viviamo tutti in un campus’.
Passo
dopo passo, il settore pubblico e privato britannico si sono impegnati a
praticare delle idee quasi indistinguibili da quelle dei manifestanti che sono
scesi in strada nelle ultime settimane. Questa etica pretende che la nostra
società prenda parte a una serie di battaglie identitarie destinate a
terminare, anziché sovvertire, ogni idea di tolleranza.
Questo
problema nasce dai giovani che escono dall’università, dove imparano a odiare
la nostra società.
Credono che il nostro mondo sia segnato
dall’oppressione di alcuni gruppi: una storia vergognosa e un presente
vergognoso.
Oggi
queste persone usano la loro retorica aggressiva per intimidire i loro
superiori, costringere tutti a sposare il loro punto di vista e rendersi
intoccabili. Come tutti i movimenti di successo, denunciano un problema reale.
Le diseguaglianze esistono, in Gran Bretagna
come in tutte le società. La gente ragionevole dissente su come risolvere
questo problema. Ma i nuovi liberal radicali non condividono questa preoccupazione.
Per
loro ogni forma di diseguaglianza (finanziaria, familiare, sociale,
neurologica) è frutto dello stesso male: la discriminazione. Un problema da ‘affrontare’,
‘eliminare’ e di cui bisogna cancellare ogni traccia. C’è ancora molto lavoro
da fare…
I
giovani radicali stanno inconsapevolmente sovvertendo uno dei più grandi
contributi al pensiero liberale: quell’aspirazione espressa da Martin Luther King
mezzo secolo fa.
Quando King parlava del bisogno di giudicare
una persona dal contenuto del proprio carattere e non dal colore della pelle,
stava svelando l’unica soluzione.
Un
anno prima di morire, King disse in un discorso: ‘Saremo insoddisfatti finché non
arriverà il giorno in cui nessuno urlerà Potere bianco, e in cui nessuno urlerà
Potere nero,
ma in cui tutti parleranno del potere di Dio e del potere degli uomini’.
I
successori di King si sono sforzati per vanificare quel sogno. Per aggredire la supremazia dei
bianchi hanno finito per riaffermare la supremazia dei neri.
E per
compensare le sofferenze di molte persone morte pretendono degli enormi
trasferimenti di denaro da un gruppo razziale all’altro.
In
realtà stanno nuovamente dividendo la nostra società lungo linee razziali. Ogni movimento secondo
cui ‘le
cose vanno così male che dobbiamo distruggere tutto’ deve capire il costo di
ciò che ci stiamo lasciando alle spalle.
E deve
ricordare che è molto più facile distruggere che costruire. Le persone di ogni colore e
provenienza sociale devono rispondere con un secco ma cortese ‘no’. Non solo perché le cose che tentano
di distruggere sono le uniche in grado di tenerci insieme. Ma anche perché se
tutto ciò che ci ha portato fin qui era così brutto, allora ciò in cui stiamo
vivendo non sarebbe così eccezionalmente bello”.
Il
relativismo totalitario.
Ilfoglio.it- RAFFAELE ROMANELLI-( 24 GIU 2020)- ci dice :
Non
solo le statue. Non si può restare silenti di fronte al processo sommario
contro l’uomo bianco. Lettera agli storici contemporanei sulla deriva puritana
nella cultura occidentale.
STATUE
ABBATTUTE. OCCIDENTE con RAZZISMO all’ UNIVERSITÀ.
Lettera
al presidente e al comitato direttivo della Sissco e al direttore del MdS.
Penso
che la pressione di oggi sui simboli del passato chiami in causa il lavoro
dello storico e che debba perciò richiamare l’attenzione della Sissco.
A
meritare attenzione non sono tanto in se stessi il costume di distruggere,
imbrattare, decapitare e rimuovere monumenti. Sono cose sempre avvenute da parte di
movimenti collettivi, in fasi rivoluzionarie o eversive.
Gli
storici semmai studiano questi fenomeni, come simmetricamente studiano
l’erezione dei monumenti stessi, la glorificazione o la costruzione di miti.
Oltre a studiarli, come docenti gli storici ne spiegano agli studenti il
significato, li attrezzano a comprendere, capire, distinguere,
contestualizzare, a prendere le distanze. Come è ovvio, hanno il dovere di non
partecipare essi stessi alla furia iconoclasta, ma anche di non tacerne
prudenti come il conformismo tante volte ha suggerito loro.
Siamo
oggi in grado di tenere la barra al centro, senza sbandare? Di leggere ciò che
sta succedendo? Penso che la Sissco, se vuole onorare le sue finalità istituzionali debba
porsi oggi questi interrogativi.
Un
caso tra i tanti dell’attuale iconoclastia mi aiuta ad entrare in argomento.
Mi
riferisco alla richiesta di abbattimento delle statue erette a Cristoforo
Colombo nelle due Americhe (già nel 2014 in Argentina la statua di Colombo è
stata spostata dalla casa Rosada a un luogo più discreto) e all’abolizione del
Columbus day negli Stati Uniti (oggi variamente rinominato Native Americans
day, o Indigenous People’s day).
Colombo
è additato come genocida e responsabile dei secoli di razzismo a seguire. Ovviamente non sono in questione le
specifiche azioni di Colombo, del quale si citano lettere di dubbia
autenticità, ma al quale comunque, studiandolo, potrebbero essere addebitati
asservimento delle popolazioni, lavoro forzato e repressione brutale di rivolte
per ordine suo o del fratello.
Il
problema è un altro. Poiché con la “scoperta dell’America” Colombo ha aperto la
via alle esplorazioni del continente, a lui simbolicamente possono essere fatti
risalire tutti i crimini e le sopraffazioni che ne sono conseguiti.
Gli
esponenti del pensiero unico hanno ormai posizioni accademiche apicali: emettono norme e
programmano corsi universitari.
“Ho
visto con i miei occhi dibattiti tra accademici nei quali a un certo punto uno
squalifica gli argomenti dell’altro perché è bianco”.
E’ una
imputazione simbolica, ma allo stesso tempo personale. Implica infatti la cancellazione
della responsabilità personale oggettiva – uno dei capisaldi dello stato di
diritto e dei diritti dell’uomo e del cittadino – a favore di una responsabilità di
gruppo, anzi di una oggettiva colpa di gruppo in cui il “gruppo” ha tratti
storici (gli invasori) che presto trascendono in una dimensione genetica e
razziale essendo sia le popolazioni amerindie, sia gli schiavi neri vittime
della tratta di ceppo diverso dal bianco caucasico, o come altrimenti si voglia
definire.
Come già è accaduto al “popolo deicida”, il cui delitto originario insegue
le generazioni attraverso i secoli, così i “bianchi” sono apriori
corresponsabili dello sterminio dei nativi e della schiavitù dei neri, e lo è ogni singolo bianco, quali
che siano i suoi gesti o le sue opinioni, per appartenenza di gruppo.
Esattamente
come ciascun ebreo, o ciascuno zingaro. Non si tratta di propaganda volgare: ho
visto dibattiti tra accademici nei quali ad un certo punto uno squalifica gli
argomenti dell’altro perché è bianco.
È una
catena logica che non ha fine. Di recente, dopo l’assassinio di George Floyd, Twitter è
stato inondato di immagini nere in segno di solidarietà e di militanza, ma sono bastati due giorni perché
qualcuno condannasse chi tra i bianchi aveva postato quell’immagine nera, gesto
non consentito a chi, essendo bianco, è oggettivamente complice del crimine.
Colpa
collettiva dunque.
Non è certo una novità nella storia, che a
volte si direbbe fatta di imputazioni collettive; senza riandare alla “leggenda nera”
che ha colpito gli spagnoli nel Cinquecento, per rimanere nella contemporaneità
si pensi alle colpe degli inglesi verso gli irlandesi, dei russi verso gli
ucraini, ed ovviamente dell’intero popolo tedesco colpevole di sterminio.
Il “gruppo” di cui stiamo ora parlando ha
tutte le caratteristiche etniche, genetiche, che connotano il razzismo, e come
tali, con tutte le conseguenze del caso, possono essere estese a molte altre
identità di gruppo, anche il più minoritario. È questa la “identity politics” in
cui i singoli perdono ogni identità personale.
Ci
aiuti tutt’altro esempio, di questi giorni. Parlo del caso della scrittrice
J.K.Rowling, oggetto di severe censure che l’accusano di “evidente “transfobia”
per aver detto in una intervista – nella quale tra l’altro per la prima volta
parlava di dolorose esperienze subite – che a suo parere l’appartenenza di
genere ha una base biologica da non trascurare.
È noto
che nel Regno Unito si è affermata la convinzione – già ratificata da alcune
sentenze e oggetto di una proposta di legge – per la quale il genere non può
essere “attribuito” e può derivare solo da una condizione soggettiva: si è,
femmina, maschio o altro, ciò che si dichiara di essere.
Solo
per i “cisessuali”, opposti ai “transessuali”, la propria identità corrisponde
a quella di nascita.
È una
scelta come ogni altra. Nei campus americani e canadesi i pronomi “he” o “she”
– che appunto connotano una identità di genere – sono sostituiti dai “gender
neutral” “they/them” o “ze/zem”; gli uni o gli altri, che siano i tradizionali he/she o
quelli di nuova invenzione, possono essere usati solo se il soggetto lo
consente, tanto che è invalso l’uso, nei cv come nelle intestazioni o nei
badges, di far seguire al nome il pronome scelto (ad es. “Federico Romanelli,
he/him”: con ciò ringrazio chi mi ha edotto su queste pratiche).
Non si
tratta solo di “correttezza politica”, ma di vere regole, trasgredire le quali
può comportare severe persecuzioni o discriminazioni. In Canada, “mis-gender”, ovvero
attribuire un gender non gradito, è reato penale insieme ad altri “hate
crimes”.
( J.K. Rowling ha scritto “If sex isn’t
real, there’s no same-sex attraction. If sex isn’t real, the lived reality of
women globally is erased. I know and love trans people, but erasing the concept
of sex removes the ability of many to meaningfully discuss their lives. It
isn’t hate to speak the truth”.)
Ecco,
“It isn’t hate to speak the truth”. Scomponiamo questa frase. Intanto, segnala che speak può essere
oggetto di hate.
È qui in gioco un elemento cardine della
civiltà occidentale (che sarà solo occidentale e quindi bianca e colpevole, ma è
quella in cui viviamo noi storici, noi intellettuali, noi che studiamo e
scriviamo e abbiamo dato vita alla SISSCo).
Abolire
la libertà di parola in nome di “colpe collettive”, annullare l’individuo nel
gruppo (di tipo fondamentalmente etnico, come si è detto) stigmatizzare
l’espressione di una opinione, attenta alla radice stessa del nostro essere.
Ma
leggiamo la frase completa. It isn’t hate to speak the truth, dice Rowling.
La
verità che è colpa dire, in quel caso, è genetica, ovvero ha una base oggettiva
di tipo scientifico (la constatazione che i sessi – non i generi – sono diversi e
sono basilarmente due).
Ma è
questa dimensione che – complice l’universo culturale post-strutturalista,
postmoderno o culturalista – si tende a vanificare, oscurando la distinzione
tra natura e cultura, tra opinioni, credenze e dati.
La
biologia con gli studi sui cromosomi, lo studio della gravidanza extracorporea
e la clonazione contribuiscono – o contribuiranno presto – a rendere opachi i
confini.
Siamo
dunque di fronte a un relativismo assoluto, assoluto nel senso che tutto è
relativo/soggettivo, insensibile ai dati (ognuna/o ha diritto ad essere ciò che
dice di essere, indipendentemente da ogni dato biologico, o magari con la
connivenza di alcuni esperimenti biologici), ma assoluto anche nel senso che si
impone come verità assoluta, come dogma, come apriori.
Diciamo
allora meglio un relativismo totalitario, quasi un ossimoro in cui
l’aggettivo vuole alludere esattamente alle tecniche della persecuzione
totalitaria.
Con la
tecnica della dissimulazione posso pensare, al massimo sussurrare a un amico
ciò che ho appena negato (cosa che già presenta dei pericoli) ma non dire. Se dico, prevale il conformismo
collettivo. Ed è quanto sta succedendo. Ogni giorno.
Oggi:
un noto economista di Chicago ha criticato con sarcasmo le richieste da parte
di Black
Lives Matter di sciogliere i dipartimenti di polizia (defund the police).
Non
conta ora il tema (che pure è assai interessante), ma le conseguenze: il docente, sospeso come direttore
del Journal of Political Economy è invitato a dimettersi, i colleghi
solidarizzano solo privatamente, mentre il New York Times scrive “ecco un altro uomo
bianco privilegiato…”. In effetti, Harald Uhlig è bianco.
Dove
sta succedendo tutto ciò?
Sta
succedendo in tutti gli ambienti universitari americani, canadesi e britannici.
Intolleranza giovanile, radicalismo di una
società puritana, si potrebbe obbiettare. Anche da noi una volta nei vari
contesti era pericoloso – fino al rischio della vita – essere “di destra” o
alternativamente “di sinistra”. Una brutta stagione. Ma non si trattava di
posizioni del tutto egemoniche.
Ed
erano comunque posizioni politiche, di parte, rispetto ad altre parti, in
contrapposizione a volte anche fisica, ma prevalentemente dialettica e appunto
politica.
Nulla
di tutto ciò nel caso di cui parliamo. Qui siamo in presenza di una neo verità
unica, globale, dominante, alla quale ci si può sottrarre appunto solo con la
dissimulazione, come nei regimi totalitari. Quanto poi al “giovanile”,
attenzione. Poiché il fenomeno è ormai annoso, gli “esponenti del pensiero unico”
hanno raggiunto posizioni accademiche apicali, da dove emettono norme,
regolamenti, programmano piani di studio e corsi universitari (con attenzione anche ai bilanci, perché sono gli studenti a pagare le
rette, ed è antieconomico contraddirli).
Sono quelli che impongono le dimissioni a docenti che
invocano la libertà di pensiero, mentre vanno ampliandosi gli spazi degli studi
culturalisti anti occidentali, fino alla proposta di bandire lo studio dei
classici greci, perché (li si suppone) bianchi e perciò tiranni.
Le
loro poi sono posizioni apicali ormai non solo accademiche, che esondano nella
politica e nell’amministrazione, in una contrapposizione radicale, violenta,
tra siffatta “sinistra” e il “mondo di Trump”, dei “white supremacists” – per
rimanere al caso americano, dove non è in atto il” confronto di opinioni che fonda la
democrazia”, bensì uno “scontro tra due assoluti”.
Un
radicalismo che forse ha base puritana, dicevo. È probabile, in effetti,
che una qualche distinzione dovrebbe esser fatta tra l’universo
settentrionale-protestante e quello latino-cattolico in cui ci muoviamo noi italiani.
Il primo è implacabile, non conosce remissione e
coinvolge con ossessione la dimensione intima e privata.
Nel
secondo la gestione della colpa è diversa, ed ha maggior valore il pentimento e
la confessione.
In
generazioni che hanno vissuto fascismo, colonialismo, resistenza e repubblica,
è comprensibile che molti li abbiano attraversati non sempre con la stessa
coerenza; ma
alle militanze colonialiste o repubblichine dei singoli si chiede l’ammissione
della colpa, il pentimento (non essendoci stata né l’espiazione giudiziaria, né
il confronto aperto, come quello tentato dalla sudafricana Commissione per la
verità e la giustizia).
Fa
comunque parte della nostra cultura l’implorazione del perdono del cielo
pronunciata dal pontefice Giovanni Paolo II per l’intera vicenda della
schiavitù e della tratta.
Ma
queste distinzioni non ci siano di troppo conforto. Sono semmai dei dati da considerare,
da studiare con la nostra perizia professionale, con la capacità di distinguere
e di analizzare dati e documenti – come invito la Sissco a fare – ma che non ci consentono di chiudere
gli occhi davanti al relativismo totalitario che ci circonda, e, temo,
contamina.
Cosa
ne facciamo del passato,
lo
abbattiamo tutto?
La
risposta in un libro.
Ilfoglio.it- MAURO ZANON –( 10 GIU 2022)- ci dice:
Pierre Vespertini parla al Foglio della “cancel culture”:
"Se si deve togliere dagli edifici pubblici ciò
che è testimone di un’ingiustizia, allora si deve togliere tutto, perché ogni
opera d’arte era a servizio del potere, che non era per niente democratico".
Perché
non possiamo e non dobbiamo fare a meno della musica russa. La versione del
Teatro alla Scala.
“Nelle
scuole francesi epidemia di abiti islamici”. L'inchiesta dell'Opinion.
Parigi.
La “cancel
culture”, in occidente, non ha risparmiato nessuno: dalle statue abbattute in
nome del Black Lives Matter ai libri riscritti per non urtare la sensibilità
delle minoranze, dalla rimozione di quadri considerati “razzisti” agli avvisi
di contenuto (trigger warning) prima di un film, di uno spettacolo o a teatro per
le opere di Shakespeare.
Si può
uscire da questa furia iconoclasta e trovare un equilibrio nel modo in cui
affrontiamo il nostro passato e ci rapportiamo a esso, sfuggendo al
manicheismo?
Si deve, secondo il filosofo francese Pierre Vespertini,
esperto di storia antica e ricercatore presso il Cnrs, che ha appena pubblicato
“Que faire du passé? Réflexions sur la cancel culture” (Fayard).
“Il
movimento della ‘cancel culture’, che sta sfidando la nostra ‘storia sacra’,
oleografica, parte da premesse giuste.
È vero
che la civiltà occidentale veicola pregiudizi orrendi: razzisti, misogini,
antisemiti. Ma la soluzione proposta, quella della cancellazione o, a volte, della
redenzione attraverso la riscrittura, mi sembra assurda e pericolosa. Occorre guardare in faccia il passato
e decidere, caso per caso, come comportarsi”, dice al Foglio Vespertini.
Formatosi
all’École normale supérieure e autore di un libro molto apprezzato su Lucrezio,
“Lucrèce. Archéologie d’un classique européen” (Fayard), Vespertini, dal 2009
al 2012, è stato un allievo dell’École française di Roma, istituto d’eccellenza
che si occupa di storia, archeologia e scienze sociali, e ha sede a Palazzo
Farnese, residenza dell’ambasciatore francese in Italia.
A due
chilometri di distanza, a Villa Medici, sede dell’Accademia di Francia a Roma,
è scoppiata lo scorso autunno una polemica molto aspra con tema la “cancel culture”.
Alcuni
borsisti dell’istituzione artistica francese hanno chiesto al direttore Sam
Stourdzé di rimuovere i magnifici arazzi della “Teinture des Indes” perché
“segnati dall’immaginario coloniale”, scatenando la protesta, sotto forma di
lettera aperta (titolo: “Contre l’épuration”), di illustri storici dell’arte,
curatori, scrittori e filosofi.
“Non
ho seguito da vicino questo episodio, ma in maniera generale: se si deve
togliere dagli edifici pubblici ciò che
è testimone di un’ingiustizia, allora si deve togliere tutto, perché ogni opera
d’arte, nel passato, era a servizio del potere, e questo potere non era per
niente, come si sa, democratico, progressista, etc.”, spiega al Foglio Vespertini,
prima di aggiungere: “Andando fino in fondo in questa logica, si dovrebbero
anche distruggere gli stessi edifici, monumenti di un ordine profondamente
ingiusto: antisemita, coloniale, sessista, etc.
Ogni
opera di cultura è un documento di barbarie, diceva Walter Benjamin.
Si
pensi alla ‘Tortura dell’ebreo’ di Piero della Francesca, che ognuno può
ammirare negli affreschi delle Storie della Vera Croce nella basilica di San
Francesco ad Arezzo. O ancora all’allegoria della Sinagoga sul portone di Notre
Dame.
Cosa si fa con queste opere? È importante,
ribadisco, guardare in faccia il passato, ed accettare anche il fatto che la
bellezza non debba per forza essere morale. La ‘Tortura dell’ebreo’ di Piero
della Francesca fa ribrezzo, eppure è bella”.
Alcune inchieste apparse negli ultimi tempi sulla
stampa parigina hanno mostrato che anche le università e i templi
dell’eccellenza francese come Sciences Po sono permeabili alla cancel culture e all’ideologia woke in voga nei campus liberal Dem Usa americani.
L’Express,
in particolare, in un articolo pubblicato nel marzo dello scorso anno, ha messo
in luce fino a che punto queste nuove radicalità militanti, che mettono in discussione
le libertà occidentali, si siano radicate nelle scuole dell’élite globalista occidentale.
“Sono
certamente preoccupato dall’idea secondo cui la libertà di espressione sarebbe
un valore da gettare nella pattumiera della storia, in quanto elemento
dell’ordine ‘bianco’, maschilista, etc. – dice al Foglio Vespertini – Gli eccessi vanno combattuti e la
libertà di espressione non si tocca”.
Progressismo.
It-wikipedia.org-
l'enciclopedia libera- Redazione- (2-7- 2022) - ci dice:
Il
progressismo è una filosofia politica che sostiene il mutamento della società
attraverso l'attuazione di politiche riformiste ed innovatrici, perseguendo il
progresso in campo sociale, politico ed economico. È una filosofia tipica delle
politiche di sinistra.
(Si
tratta di “sinistre radicali” ossia di “nazi- bolscevismo”. Ndr)
Reputando
gli avanzamenti negli ambiti della scienza, della tecnologia, dello sviluppo
economico e dell'organizzazione sociale vitali per il miglioramento della
condizione umana, il progressismo divenne molto significativo in Europa nel
XVIII e XIX secolo, durante i quali, sotto la spinta di movimenti culturali
come l'illuminismo e il positivismo, cominciò a diffondersi la convinzione che
il continente stesse dimostrando come le nazioni potessero progredire da
condizioni incivili alla civiltà attraverso il rafforzamento delle basi della
conoscenza empirica come fondamento della società. Figure cardinali dell'Illuminismo
reputavano il progresso universalmente applicabile ad ogni contesto societario,
e ritenevano che le idee a supporto dello stesso si sarebbero presto diffuse
dall'Europa in tutto il globo.
Definizioni.
Nella
storia politica il termine appare con la rivoluzione francese del 1789,
portavoce delle politiche illuministe della borghesia francese.
Secondo
la definizione di Tullio De Mauro, "un partito progressista (ma non radical nazi-bolscevico-ndr) sostiene la possibilità del progresso e
dell'evoluzione della società, ed è fautore di riforme che facilitino tale
processo, in ambito politico – istituzionale, sociale, economico e
civile".
I progressisti(non nazi-bolscevici- ndr), infatti mirano a modificare gli
assetti politici, economici e sociali tramite riforme graduali, progressive; il
minimo comune denominatore è rappresentato dall'illuminismo, dal positivismo,
dall'evoluzionismo e da una visione razionale in ambito politico, sociale ed
economico.
Si
contrappone al conservatorismo della destra, che propugna una pratica politica
conforme alla tradizione e ostile alle innovazioni, in particolare nell'ambito
etico ed economico. Data questa contrapposizione, storicamente vengono definite
progressiste molte forze politiche schierate a sinistra, anche se oggi vengono
considerate progressiste anche quelle miranti ad una terza via (Third Way).Negli anni il progressismo (non nazi-bolscevico-ndr) è diventato anche sinonimo di
socialismo liberale e, seppur nato con origini diverse, riformismo. La tendenza è quella di unire il
pensiero liberale e della proprietà privata, con le garanzie sociali offerte
dal socialismo democratico. All'interno del liberalismo i progressisti sono
rappresentati dal liberalismo sociale, favorevoli al libero mercato ma pure
all'intervento pubblico, riforme in campo politico e sociale, così come
all'interno del socialismo democratico esiste una corrente destra di socialismo
liberale, incarnata da Tony Blair e Gerhard Schröder, che mira alla costruzione
di un centro progressista.
I
progressisti si differenziano tanto dai conservatori, legati allo status quo,
come dai liberisti puri, e propugnano un'economia basata sul libero mercato ma
con una forte azione sociale dello stato, volta a migliorare le condizioni di
vita di aziende e persone, tramite una giusta redistribuzione della ricchezza.
Tuttavia sarebbe giusto dire che i progressisti più che ai conservatori si
oppongono ai retrogradi (reazionari); frequenti i casi di esponenti
progressisti rispettosi della tradizione e di esponenti conservatori liberali
portatori di progresso. Il progressismo si contrappone pure alle politiche comuniste
(nazi-
bolsceviche),
e in parte a quelle socialiste.
Tuttavia
vale la pena ricordare che nel corso della storia del '900 a seguito di
processi politici, economici e scientifici in nome del progresso o di una nuova
umanità, terminati con gravi conseguenze, si è preferito sostituire il termine progresso
e progressista con termini quali modernizzazione, rinnovamento e innovazione.
Nel
mondo i leader più autorevoli di questo attuale movimento progressista (oggi nazi-bolscevico -ndr) sono stati John Fitzgerald Kennedy,
Jimmy Carter, Tony Blair, Gerhard Schröder, Carlo Azeglio Ciampi, e vicini a
queste posizioni oggi troviamo Barack Obama, Sonia Gandhi, Charles Kennedy,
Jean Chrétien, José Luis Rodríguez Zapatero.
La sinistra liberal progressista
cancella
l’idea stessa di sinistra.
Kulturjam.it-
Vincenzo Costa-(26 Luglio 2022)- ci dice :
La
sinistra liberal progressista cancella l'idea stessa di sinistra.
C’è
oggi una sinistra liberal progressista che non ha niente a che fare con la
propria storia e tradizione. Il suo Occidente non è Platone, Spinoza, il cristianesimo ma
il mercato e il consumo.
La
sinistra liberal progressista, blob che divora se stessa.
Io non
credo che vi siano due sinistre, o che la sinistra sia divisa o si divida.
Queste sciocchezze le lascerei ai giovani ecumenici perditempo.
Se c’è
una cosa che questi mesi del conflitto ucraino hanno portato alla luce è che il
termine sinistra è ormai un equivoco.
Non
siamo davanti a varianti della sinistra, come poteva essere tra Berlinguer e
Willy Brandt o Olaf Palme, tra comunisti, socialisti e socialdemocratici.
C’è
oggi una “sinistra liberal progressista” (nazi-bolscevica-ndr) che non ha niente a che fare con
quella tradizione nel suo complesso, una sinistra neoliberale che tutta la
sinistra, in tutte le sue varianti, ha sempre combattuto e che ha chiamato
“destra”.
Ad
accomunarla è l’odio con tutto ciò che è storia e ha storia, un odio verso la
vita che nelle tradizioni prende forme, evolve, cresce. Il disprezzo verso le comunità, il
tentativo di imporre un individualismo è isola, pensando che esista una sola
forma di legame, quello che produce il consumo.
Il suo
Occidente non è Platone, Spinoza, il cristianesimo, la cultura Latina. Per loro l’identità dell’Occidente è
il mercato e il consumo. La democrazia la immaginano senza popolo: una democrazia di
élite che si credono illuminate e a cui i popoli dovrebbero affidarsi. La
democrazia senza democrazia.
Costoro
si sono semplicemente appropriati del termine sinistra per raccogliere voti.
Un’operazione
radicata nel Progetto di Eugenio Scalfari, col sostegno di gente come Veltroni,
che non si
capisce bene cosa ci facesse dentro il Pci dato che aveva in odio tutta la sua
cultura e la sua storia.
Si
tengano il termine “sinistra”. Ma quel tentativo è arrivato alla sua fine. Perché era idiota, elitario, sordo
verso la realtà. Ha devastato l’economia del paese, distrutto la sua cultura democratica.
Ora
sta distruggendo l’economia dell’Europa, costruendo un mondo basato
sull’equilibrio del terrore.
Non ci
pensiamo più. Apriamo un’altra storia.
Sconfiggere
il “liberal-progressismo”:
i 12 insegnamenti di Orban.
centromachiavelli.com-
Viktor Orban-(23-5-2022)- ci dice :
(Trascrizione
del discorso di Viktor Orban in occasione dell’apertura della Conservative
Political Action Conference di Budapest, il 19 maggio 2022.)
Signore
e signori, cari amici americani e conservatori di tutto il mondo, vi do il
benvenuto.
E un
benvenuto speciale al mio amico Václav Klaus. Non è una sorpresa che sia l’uomo
più intellettualmente coraggioso d’Europa, perché è ricco di anni; ma ciò che
sorprende tutti è che sia ancora il più giovane e il più fresco tra noi. Caro
Klaus, grazie per essere venuto e per essere qui con noi.
So che
tutti voi meritate un discorso migliore di questo, ma sappiamo come non si
possa nuotare o correre a tempo di record la mattina. Vi prego di tenerlo a
mente mentre ascoltate le mie riflessioni.
Comunque,
è bello avervi qui. Il tempismo è una felice coincidenza: un mese fa abbiamo
ottenuto la quarta vittoria elettorale consecutiva, quattro giorni fa ho formato il mio
quinto governo conservatore e cristiano e ora sono qui con voi.
È sempre bello poter parlare tra amici, ed è
particolarmente bello avere qualcosa con cui sostenere le proprie parole; e noi
ungheresi sentiamo giustamente di avere qualcosa con cui sostenere le nostre
parole.
Come
hanno vinto i conservatori ungheresi.
Abbiamo
fatto molta strada, amici miei. Negli anni Ottanta leggevamo ciò che accadeva negli
Stati Uniti dai samizdat distribuiti illegalmente nell’ex blocco orientale; e
ora eccoci qui, con l’Ungheria che ospita il più importante raduno politico del
Partito Repubblicano, il Grand Old Party.
Ricordo
bene come vi invidiassimo allora: invidiavamo la vostra cultura del dibattito
democratico, la libertà con cui organizzavate gli affari pubblici in America;
invidiavamo il vostro Presidente Reagan per il suo carisma, la sua grinta, la
sua arguzia e le sue politiche – e, naturalmente, facevamo il tifo per lui.
Tutto
ciò che avevamo noi erano i funzionari comunisti in abito grigio e il loro New-speak
politico, un’atmosfera soffocante e senza speranza.
Cari
amici americani: se avete visto la serie “Chernobyl”, potete avere un’idea di ciò di cui
sto parlando.
Abbiamo
avuto quaranta lunghi anni di quella roba. E oggi ospitiamo questo grande
evento, per il quale vorrei ringraziare gli organizzatori – ma soprattutto voi,
che ci onorate della vostra presenza. A nome di tutti gli ungheresi,
ringrazio i nostri amici americani e quelli di altri Paesi per averci onorato e
per essere venuti qui a Budapest.
Come
posso contribuire all’incontro di oggi?
Forse
raccontandovi come abbiamo vinto: come abbiamo sconfitto prima il regime
comunista; poi
come abbiamo sconfitto i progressisti; infine, più recentemente, come abbiamo sconfitto la “Sinistra
liberal internazionale” quando ha unito le sue forze contro l’Ungheria nelle
elezioni.
Ora vi
dirò come li abbiamo sconfitti per la prima, seconda, terza, quarta e quinta
volta – e come li sconfiggeremo ancora.
Come
cantano i tifosi del Fradi [squadra di calcio del Ferencváros]: “Ancora, ancora, ancora, ancora, c’è
ancora da segnare!”.
Vi
racconterò come ferventi studenti universitari sono riusciti a smantellare una
dittatura, poi a rompere l’egemonia sulle opinioni dei comunisti di ritorno e
dei liberal, e come sono riusciti a porre fine al dominio dei progressisti
nella vita pubblica.
Vi racconterò come l’Ungheria sia diventata un
bastione dei valori conservatori e cristiani in Europa.
Invece del mio lungo discorso, naturalmente,
lo stesso lo si potrebbe raccontare in modo breve e semplice.
Abbiamo
imparato dal generale Patton come la battaglia faccia emergere tutto il meglio
e rimuova tutto ciò che è basso. Questo vale anche per il campo di battaglia
politico. Qui,
amici miei, solo i migliori rimangono in piedi – o, in breve, la condizione
ultima per la vittoria è che dobbiamo diventare i migliori. Si può vincere se
si è i migliori.
La
lotta contro il regime comunista.
Cominciamo
col dire che voi, politici amanti del proprio Paese, vi trovate di fronte a un
problema che noi ungheresi abbiamo già affrontato con successo. Questo problema – se non sbaglio, sia
in America sia in Europa occidentale – è il dominio sulla vita pubblica da
parte dei liberal-progressisti.
Il
problema è che essi occupano le posizioni più importanti nelle istituzioni più
importanti, che occupano le posizioni dominanti nei media e che producono tutte
le opere di indottrinamento politico nella cultura alta come in quella di massa.
Loro –
la Sinistra progressista – ci dicono cosa sia verità e cosa no, cosa sia giusto
e cosa sbagliato. E come conservatori, il nostro destino è quello di sentirci nella vita
pubblica del nostro Paese come Sting si sentiva a New York: uno “straniero legale”.
Questa
era la situazione anche in Ungheria. Trent’anni fa, anche qui la Sinistra
era al potere – e c’era persino una dittatura comunista. L’intera macchina dello Stato
lavorava per rafforzare il potere dei comunisti. Per quanto possa sembrare
strano, noi – e io – siamo cresciuti in un “mondo woke.”
Solo
che allora la teoria critica della razza si chiamava “socialismo scientifico” e
veniva insegnata all’università nello stesso modo in cui si insegna quella woke
nel vostro Paese. Dittatura
socialista quotidiana: ecco in cosa siamo cresciuti. Politicamente corretto, New-speak
orwelliano, controllo statale dell’agone pubblico, espropriazione della
proprietà privata e stigmatizzazione della Destra.
Sotto
il comunismo si scherzava sul fatto se fosse possibile scherzare sotto il
comunismo. La
barzelletta immaginava che in Unione Sovietica si tenesse un concorso di
barzellette politiche, alle seguenti condizioni: il concorrente che si fosse
classificato terzo avrebbe vinto un viaggio tutto compreso in Siberia per due
settimane, il secondo classificato per un anno e il vincitore per la vita.
L’alleanza
liberali-postcomunisti e la riconquista conservatrice.
Se
sentite che questa battuta stia diventando sempre più significativa per voi, è
arrivato il momento di passare all’azione.
In
ogni caso, ci siamo sollevati e alla fine degli anni ’80 abbiamo deciso di dire
basta.
Volevamo
riconquistare il nostro Paese e la nostra libertà; volevamo riconquistare la libertà
della nostra Patria. I comunisti non ce lo hanno lasciato fare senza reagire:
attacchi della polizia, divieti, intercettazioni, agenti statali infiltrati,
minacce e ricatti.
Ma noi
abbiamo perseverato e abbiamo vinto. Fuori i sovietici, abbattuti i comunisti.
Pensavamo di aver finalmente ottenuto ciò che volevamo, ma ci sbagliavamo:
sotto
la dittatura liberali e conservatori avevano stretto un patto anticomunista, ma alla prima successiva occasione i
liberali si erano schierati con i comunisti.
Si è
scoperto come in realtà fossero alleati naturali. Se non erro, questo tipo di alleanza
peccaminosa si è vista anche negli Stati Uniti.
Summa
summarum, la vita pubblica dopo le prime elezioni libere in Ungheria era
dominata dai post-comunisti, dai liberali e dai progressisti, e la Destra
ungherese si trovò spiazzata. Quando il mio amico Donald Trump ha vinto le elezioni
presidenziali statunitensi nel 2016, una delle sue principali promesse
riguardava la necessità di “prosciugare la palude”.
Il Presidente Trump ha dei meriti innegabili,
ma nonostante ciò non è stato rieletto nel 2020.
Ha
fatto la stessa fine del nostro primo governo conservatore e cristiano nel
2002: abbiamo governato in modo eccellente – dopo tanti anni posso forse
concedermi tanta immodestia – ma siamo stati trascinati dalla palude della
sinistra ungherese.
E poi, tra il 2002 e il 2010, abbiamo assistito a ciò
che generalmente accade in queste circostanze: i socialisti hanno speso i soldi
del popolo.
L’Ungheria è sprofondata nel debito, l’economia è
caduta in recessione, l’inflazione è andata fuori controllo, la disoccupazione
è aumentata e la gente non è riuscita a pagare le bollette.
Scoppiò la violenza di strada e i gruppi paramilitari
si misero in marcia. È passato molto tempo, ma non dimentichiamolo: una serie
di omicidi a sfondo etnico indignò l’opinione pubblica.
La Sinistra aveva tagliato a tal punto le
spese per la polizia da renderla incapace di mantenere anche solo una parvenza
di ordine, con
la legge che proteggeva i criminali piuttosto che le vittime.
Amici
americani: penso abbiate visto qualcosa di simile. Le Scritture recitano come
segue: “Ogni
albero si riconosce dai suoi frutti”.
Ebbene,
i frutti del governo progressista parlano da soli: rovina economica e violenza
di strada.
Quando
un governo di sinistra sale al potere, la storia finisce quasi sempre nello
stesso modo. Ma, cari amici, nel 2002 abbiamo organizzato un movimento popolare e di
resistenza intellettuale con le truppe che ci rimanevano dopo la sconfitta
elettorale. Non abbiamo adottato un atteggiamento difensivo e non ci siamo
rassegnati alla condizione di minoranza; abbiamo giocato per vincere e
proclamato la Reconquista.
L’Ungheria è il laboratorio in cui abbiamo
testato l’antidoto al dominio dei progressisti.
Il piano ebbe successo. Nel 2010 tornammo. Abbiamo
lavorato per otto anni: passo dopo passo, mattone dopo mattone, abbiamo
combattuto e costruito. La formula è completa.
Abbiamo appeso il camice al chiodo, questa
primavera l’Ungheria ha ricevuto la quarta dose e posso dire che il paziente è
completamente guarito. Il farmaco è open-source, gratuito e comprende dodici punti –
che ora condividerò con voi. A beneficio dei nostri amici stranieri, preciso
che il dodici è il numero fortunato dei combattenti per la libertà ungheresi.
Le
dodici regole per il successo.
Il
primo punto della formula ungherese è giocare secondo le proprie regole.
L’unico modo per vincere è rifiutare le soluzioni e i percorsi offerti dagli
altri. Come diceva Churchill, avere dei nemici è un segno sicuro che si sta
facendo qualcosa di giusto. Per questo non dobbiamo scoraggiarci se veniamo diffamati, se
veniamo bollati come deplorevoli o se veniamo trattati all’estero come dei
piantagrane.
Anzi, sarebbe sospetto se non accadesse nulla di tutto ciò. Ricordate che chi gioca secondo le
regole dell’avversario è destinato a perdere.
Il
secondo punto: il conservatorismo nazionale in politica interna. La causa della nazione non è una
questione di ideologia e nemmeno di tradizione. La ragione per cui le chiese e
le famiglie devono essere sostenute è che sono i mattoni della nazione. Questo significa anche che bisogna
stare dalla parte degli elettori. Abbiamo deciso di fermare l’immigrazione e di
costruire il muro al confine meridionale perché gli ungheresi avevano detto di
non volere immigrati clandestini. Dissero: “Viktor, costruisci quel muro!”. Tre mesi dopo la barriera di confine
era in piedi.
Il
segreto è non pensare troppo: la barriera ungherese è una semplice struttura
rete metallica con rilevatori di movimento, torri di guardia e telecamere; ma
questo è sufficiente, se la gente vuole proteggere il proprio Paese.
Il tallone d’Achille dei progressisti è proprio
quello di voler imporre i propri sogni alla società.
Ma per
noi tale pericolo è anche un’opportunità, perché quando si tratta di questioni
importanti, in realtà alla gente non piacciono i sogni della Sinistra. Bisogna trovare le questioni su cui
la Sinistra è completamente fuori dalla realtà e metterle in evidenza, ma in un
modo che possa essere compreso anche da chi non è uno scienziato.
Terzo
punto:
l’interesse nazionale in politica estera. I progressisti pensano sempre che
la politica estera sia una battaglia di ideologie: una battaglia tra buoni e
cattivi, in cui il corso della storia sarà deciso una volta per tutte.
Ma a
mio avviso, cari amici, negli ultimi cento anni ci sono state almeno quattro di
queste “grandi battaglie finali”. C’è qualcosa di sbagliato in tale concezione.
La
nostra risposta dovrebbe essere una chiara e semplice antitesi ai progressisti: prima la nazione! Prima l’Ungheria!
Prima l’America! Abbiamo bisogno di una politica estera basata sui nostri interessi.
Non è sempre facile, perché il mondo della
politica estera è spesso complicato. Prendiamo la guerra in corso al
nostro confine. La Russia è l’aggressore e l’Ucraina la vittima. Condanniamo
l’aggressore e aiutiamo la vittima dell’aggressione. Ma allo stesso tempo
sappiamo che l’Ucraina non sta difendendo l’Ungheria. È un’idea insensata!
L’Ungheria può essere difesa dalla NATO e dalle forze di difesa ungheresi. In
proporzione alla nostra popolazione, abbiamo accolto il maggior numero di
rifugiati e il popolo ungherese è felice di aiutare.
Sono
felici di aiutare, gli ungheresi, ma non vogliono pagare il prezzo della
guerra, perché non è la loro guerra e non trarrebbero alcun vantaggio da essa. Sanno bene che la guerra è
accompagnata da sanzioni, inflazione dilagante e stagnazione economica; sanno
che la guerra impoverisce sempre le persone. Non dobbiamo cedere alle voci delle
sirene, per quanto allettanti possano sembrare. Il nostro obiettivo è ripristinare la
pace, non continuare la guerra, perché questo è il nostro interesse nazionale.
Prima l’Ungheria!
Quarto
punto:
dobbiamo avere i nostri media. Possiamo mostrare le idee folli della Sinistra
progressista solo se abbiamo dei media che ci aiutano a farlo.
Le
opinioni di sinistra sembrano essere maggioritarie solo quando i media
contribuiscono ad amplificarle.
La
radice del problema è che i moderni media occidentali si allineano alle
opinioni della Sinistra. I giornalisti sono stati istruiti all’università da
personaggi di sinistra progressista.
E non
appena una figura conservatrice appare sui media, viene criticata, attaccata,
diffamata e vilipesa.
Conosco
la vecchia etica della democrazia occidentale, secondo la quale la politica di
partito e la stampa devono essere separate. È così che dovrebbe essere. Ma,
cari amici, i democratici negli Stati Uniti, per esempio, non rispettano queste
regole.
Provate a contare quanti media sono al
servizio del Partito Democratico: CNN, New York Times, l’elenco continua –
potrei continuare fino a notte fonda.
Naturalmente,
anche il Grand Old Party ha dei media alleati, ma non possono competere con il
dominio dei media da parte dei liberali. Il mio amico Tucker Carlson si staglia saldo e
solitario.
Il suo
programma ha gli ascolti più alti. Che cosa significa questo? Significa che ci dovrebbero
essere programmi come il suo giorno e notte – o, come dite voi, 24×7.
Quinto
punto: smascherare le intenzioni dell’avversario.
Come
condizione per la vittoria, il sostegno dei media è necessario, ma non
sufficiente. Dobbiamo anche abbattere i tabù. Forse non c’è bisogno di spiegarlo agli
amici americani, perché quale demolitore di tabù è più grande del Presidente
Donald Trump? Ma si può sempre alzare l’asticella: dobbiamo abbattere non solo i tabù di
oggi, ma anche quelli di domani.
Qui in Ungheria smascheriamo ciò che la Sinistra sta
preparando prima ancora che agisca. All’inizio lo negheranno, ma il successo è ancora
più dolce quando si scopre che abbiamo sempre avuto ragione. Per esempio, c’è la questione della
propaganda LGBTQ rivolta ai bambini.
Qui è ancora una novità, ma noi l’abbiamo già
distrutta.
Abbiamo portato la questione alla luce del sole e indetto un referendum. La
stragrande maggioranza degli ungheresi ha rifiutato questa forma di
sensibilizzazione dei bambini.
Rivelando
tempestivamente ciò che la Sinistra stava preparando, li abbiamo costretti
sulla difensiva e, quando hanno attaccato la nostra iniziativa, alla fine sono
stati costretti ad ammettere la realtà del loro piano. Permettetemi di citare di nuovo il
generale Patton: “Un buon piano, violentemente eseguito ora, è meglio di un
piano perfetto eseguito la prossima settimana”.
Sesto
punto: economia, economia, economia. Sappiamo tutti che la Sinistra vuole
gestire l’economia secondo nozioni astratte.
Questa
è una trappola per la Destra. Non cadeteci mai!
Quando
siamo saliti al potere, abbiamo deciso che dovevamo perseguire solo politiche
economiche che andassero a beneficio della maggioranza degli elettori.
Qui in Ungheria abbiamo un motto a riguardo: “Anche chi non ha votato per noi
finisce per stare meglio”.
In questo siamo l’opposto dei progressisti: anche chi ha votato per loro sta
peggio. In
ultima analisi, la gente vuole posti di lavoro, non teorie economiche. La gente vuole fare un passo avanti
nella vita e vuole per i propri figli una vita migliore rispetto a quella che
ha avuto. Se
un governo di destra non è in grado di offrire tutto questo, è destinato al
fallimento.
Settimo
punto: non lasciarsi spingere all’estremo. Dico questo perché teorie
cospirative estreme si manifestano di tanto in tanto a destra, così come utopie
estreme si manifestano regolarmente a sinistra.
Se
guardiamo più a fondo, vediamo che in realtà la gente non vuole né l’una né l’altra
cosa. Ma,
cari amici, qual è la differenza tra la negazione della scienza da parte
dell’estrema destra e la negazione della biologia da parte dei movimenti LGBTQ?
La
risposta è semplice: non c’è alcuna differenza. Dobbiamo rendere a Cesare ciò che è
di Cesare, a Dio ciò che è di Dio e alla scienza ciò che è della scienza.
Possiamo
guadagnare un’immensa popolarità sui forum di Internet promuovendo teorie
cospirative – e in effetti a volte c’è del vero in esse; ma in realtà ci alieneremo una gran
parte dell’elettorato, ci ritroveremo ai margini e alla fine perderemo.
Ottavo
punto: leggere ogni giorno. Un libro al giorno allontana la sconfitta. So che sembra strano. Non sono un
accademico, ma il fatto è che nessuna invenzione ha ancora superato il libro
come veicolo di comprensione e trasmissione delle idee.
Il
mondo sta diventando sempre più complesso e dobbiamo dedicare del tempo alla
sua comprensione. Io, per esempio, ogni settimana dedico un giorno intero alla lettura. La lettura ci aiuta anche a capire
cosa pensano i nostri avversari e dove il loro pensiero è fallace. Se sappiamo questo, il resto è pura
tecnica. Dobbiamo
tradurre tutto ciò nel linguaggio dell’azione quotidiana e della comunicazione
politica.
È vero che lo spin doctor è una figura utile, ma la comprensione del problema deve
essere fatta da noi politici.
Nono
punto: avere fede. La mancanza di fede è pericolosa. Se non credete che ci sarà una resa
dei conti finale e che sarete chiamati a rispondere delle vostre azioni davanti
a Dio, penserete di poter fare tutto ciò che è in vostro potere.
Incoraggiamo quindi i futuri giovani politici
conservatori a impegnarsi nella fede. Inizialmente non la consideravo una
priorità, ma ho imparato che se dedichiamo tempo alla nostra fede, il successo
arriverà più facilmente. Sono stato membro del Parlamento per trentadue anni e sto
iniziando il mio diciassettesimo anno come Primo Ministro. Ho ascoltato le
parole del profeta Isaia, che ha detto: “Se non resterete saldi nella vostra
fede, non resterete affatto in piedi”. In politica, cari amici, questa è la
legge.
Decimo
punto: fatevi degli amici. I nostri avversari, i liberali progressisti e i neomarxisti,
hanno un’unità inesauribile: si coprono le spalle a vicenda.
Noi
conservatori, invece, siamo capaci di litigare tra di noi anche per la più
piccola questione. E poi ci stupiamo di come i nostri avversari ci mettano
all’angolo.
Noi
possediamo una certa raffinatezza intellettuale e ci preoccupiamo delle
sfumature intellettuali.
Ma se
vogliamo avere successo in politica, non dobbiamo mai guardare a ciò su cui non
siamo d’accordo, ma piuttosto cercare i nostri punti in comune. Faccio un esempio. Il Vaticano è uno dei nostri più
importanti alleati europei. È un alleato in quanto custode dei valori cristiani,
nel sostegno alle famiglie, e insieme affermiamo che un padre è un uomo e una
madre è una donna. Siamo uniti per la pace e per i rifugiati dall’Ucraina. Ma sulla migrazione illegale il
nostro pensiero diverge. Non dobbiamo guardare alle questioni su cui possiamo
impegnarci in dispute accese, ma cercare modi in cui possiamo lavorare insieme.
Credetemi,
se non lo facciamo, i nostri avversari ci daranno la caccia uno ad uno.
Undicesimo
punto: costruire comunità. Amici miei, nel corso degli anni ho imparato che non c’è
successo politico conservatore senza comunità funzionanti. Meno comunità ci sono e più le
persone sono sole, più gli elettori vanno ai liberali; e più comunità ci sono,
più voti otteniamo noi. È così semplice. Non c’è bisogno che ve lo spieghi: gli Stati
Uniti hanno i club, le società e le comunità meglio funzionanti al mondo. Quello che dobbiamo capire è che
un’entità politica deve comprendere queste comunità.
Infine,
il dodicesimo punto: costruire istituzioni. Per una politica di successo,
occorrono istituzioni e istituti. Che siano think tank, centri educativi, laboratori di
talento, istituti di relazioni estere, organizzazioni giovanili o altro, devono
avere un aspetto politico.
Non dimentichiamo che i politici vanno e vengono, ma
le istituzioni restano con noi per generazioni. Le istituzioni hanno la capacità di
rinnovare intellettualmente la politica. Servono sempre nuove idee, nuovi
pensieri e nuove persone. Se si esauriscono, noi esauriremo le munizioni e il
nostro avversario non avrà pietà nel metterci al tappeto.
La
nuova minaccia comunista che viene da occidente.
Il
mondo intero sta subendo enormi cambiamenti. È strano ma vero che le ideologie
distruttive del fascismo e del comunismo siano nate in Occidente.
Non
avremmo mai pensato che i comunisti potessero tornare non solo dall’Est, ma
anche dall’Ovest.
Ora
vediamo che i progressisti stanno minacciando l’intera civiltà occidentale, e
il vero pericolo non viene dall’esterno ma dall’interno.
Voi,
cari amici americani, vi trovate di fronte a ciò negli Stati Uniti, mentre noi
ci troviamo di fronte allo stesso nell’Unione Europea.
Abbiamo
a che fare con le medesime persone: burocrati senza volto, ideologicamente
preparati, che siedono a Washington DC e a Bruxelles. Liberali progressisti,
neomarxisti inebriati dal sogno del benessere, al soldo di George Soros,
sostenitori della società aperta. Vogliono abolire lo stile di vita occidentale
che voi e noi amiamo tanto: quello per cui i vostri genitori hanno combattuto
durante la Seconda Guerra Mondiale e la Guerra Fredda, e quello per cui noi
abbiamo combattuto quando abbiamo cacciato i comunisti sovietici dall’Ungheria.
Dobbiamo
riprendere la lotta, e in questa lotta possiamo avere successo solo se siamo
uniti e organizzati.
Dobbiamo riprenderci le istituzioni di Washington e
Bruxelles. Dobbiamo trovare amici e alleati gli uni negli altri. Dobbiamo
coordinare il movimento delle nostre truppe, perché abbiamo di fronte una
grande sfida.
L’anno
decisivo sarà il 2024: voi avrete le elezioni presidenziali e congressuali e
noi le elezioni del Parlamento europeo.
Queste due sedi definiranno i due fronti della
battaglia che si combatte per la civiltà occidentale.
Oggi
non controlliamo nessuna delle due. Eppure abbiamo bisogno di entrambe. Abbiamo
due anni per prepararci. La lezione ungherese è che non esiste una pallottola
d’argento. C’è solo il lavoro. Dobbiamo farlo. Usciamo e facciamolo! Grazie e
buona fortuna!
(Viktor
Orban-Primo Ministro dell'Ungheria, presidente del partito Fidesz.)
La
Russia sospende le ispezioni
delle
strutture militari
previste
dal trattato START
msn.com- news360-
Roberto De Luca – ( 8-8-2022)-ci dice :
Il
Ministero degli Esteri russo ha confermato in un comunicato la temporanea
esclusione delle sue strutture dalle ispezioni previste dal Trattato per la
riduzione delle armi strategiche (START), firmato con gli Stati Uniti negli
anni Novanta.
Mosca
ha sostenuto che Washington sta cercando di usare le ispezioni per ottenere
vantaggi unilaterali, denunciando al contempo il fatto che gli Stati Uniti
stanno di fatto privando la Russia delle ispezioni alle strutture statunitensi.
"Il
nostro obiettivo è eliminare questa situazione inaccettabile e garantire che
tutti i meccanismi START operino in stretta conformità con i principi di parità
e uguaglianza delle parti, come era implicito quando il trattato è stato
concordato ed è entrato in vigore", ha dichiarato il ministero russo in un
comunicato.
Il
Ministero degli Esteri ha sottolineato che questo problema ha origine dal
taglio delle comunicazioni aeree della Russia con gran parte delle potenze
occidentali, compresi gli Stati Uniti, come misura sanzionatoria in risposta
alla guerra in Ucraina. Mosca ha assicurato di aver portato la situazione
all'attenzione dei suoi partner statunitensi, anche se afferma di non aver
ricevuto risposta.
"Ulteriori
difficoltà sorgono per gli ispettori russi e per i membri dell'equipaggio degli
aerei russi che viaggiano verso gli Stati Uniti a causa dell'inasprimento (...)
del regime dei visti nei Paesi di transito lungo le loro possibili rotte".
Gli ispettori e gli equipaggi statunitensi non incontrano tali
difficoltà", ha sottolineato la Russia.
A
questo punto, Mosca ha optato per la decisione di escludere gli impianti da
possibili ispezioni, in attesa che Washington decida di favorire una soluzione,
senza la quale la Russia non prevede di riprendere i controlli sugli impianti.
Tuttavia,
la parte russa non vede solo gli ostacoli alle sue ispezioni come il principale
problema attuale, ma ritiene che anche altri fattori esterni, come "il rinnovato tasso di
incidenza" del coronavirus negli Stati Uniti, siano un freno alla piena ripresa del
Trattato START e non lo facciano "artificialmente".
"Nelle
attuali circostanze, le parti dovrebbero abbandonare i tentativi
deliberatamente controproducenti di accelerare artificialmente la ripresa delle
attività di ispezione START e concentrarsi su uno studio completo di tutti i
problemi esistenti in questo settore, la cui soluzione positiva consentirebbe
di tornare alla piena attuazione di tutti i meccanismi di verifica del Trattato
il prima possibile", ha osservato il Ministero degli Esteri russo.
Tuttavia,
il governo russo ha sottolineato che la decisione è "temporanea" e
che è "pienamente impegnato" a rispettare le disposizioni del
Trattato START, che considera "lo strumento più importante per mantenere
la sicurezza e la stabilità internazionale".
Lo
START è stato firmato nel 1991 dagli allora leader degli Stati Uniti e
dell'Unione Sovietica, George H.W. Bush e Mikhail Gorbaciov. Bush e Mikhail Gorbaciov.
Nell'aprile 2010, l'accordo è stato sostituito dal trattato New START, firmato
dagli allora leader statunitensi e russi, rispettivamente Barack Obama e Dmitry
Medvedev.
L'accordo,
attualmente in vigore grazie a un'estensione firmata nel 2021, scade nel 2026.
Il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha espresso la volontà di negoziare
un nuovo quadro di controllo degli armamenti che sostituisca quello attuale.
Addio
all'Occidente” liberal “
ma non
a quello liberale.
Ilgiornale.it
-Carlo Lottieri –( 1 Gennaio 2018)- ci dice :
Nel
mondo intero è in crisi il progressismo tipico dei «dem» americani. Vittima
dello statalismo.
Con il
suo nuovo libro su Il tramonto del liberalismo occidentale (Einaudi, pagg.
XII-220, euro 17, traduzione di Chiara Melloni), Edward Luce obbliga a
riflettere sul declino delle società di tradizione europea all'interno di un
mondo globalizzato.
Dopo
che tanti si erano illusi che la storia fosse finita e che presto l'intera
umanità si sarebbe trovata a vivere entro istituzioni democratiche, come aveva
profetizzato Francis Fukuyama, oggi ci troviamo in un quadro del tutto diverso.
La
Russia di Putin e la Turchia di Erdogan sono attori di primo piano della scena
internazionale, portatori di progetti che ben poco hanno a che fare con i
nostri valori.
La Cina sta crescendo a ritmi altissimi e sta
aiutando l'intera Asia (e in parte perfino l'Africa) lungo la strada di uno
sviluppo che, presto, potrebbe rendere marginale il peso delle economie
occidentali.
Da parte sua, America ed Europa sono
attraversate da fenomeni di aperta ribellione verso l'establishment globalista
(liberal
Dem Usa e Ue-Ndr), come attestano la Brexit, l'elezione di Donald Trump e la stessa crisi
tra Spagna e Catalogna.
A
giudizio di Luce, tutto questo ci parla del tramonto del liberalismo, dove con
tale termine si deve intendere qualcosa di assai più simile al progressismo dei
democratici americani che non a quella filosofia politica volta a limitare
l'intervento pubblico, la tassazione, la regolazione.
A
declinare, insomma, è lo spirito neoilluminista che ha retto ogni decisione
fondamentale assunta in Occidente negli ultimi settant'anni.
Le
popolazioni di tradizione europea si scoprirebbero più povere e, per questo
motivo, tenderebbero a isolarsi, dato che l'autore concorda con l'economista
Branko Milanovic in merito al fatto che «la presente ondata della
globalizzazione occidentale sta bloccando la crescita dei redditi delle classi
medie del mondo ricco».
In
realtà, le cose sono assai diverse.
Se la
crescita è contenuta e a farne le spese è soprattutto la piccola borghesia,
questo si deve a un'espansione dello Stato che mai si era vista nell'intera
storia umana. (L’opera
malefica di
Klaus
Schwab è all’origine di tutto !Ndr)
Eppure
un dato tanto macroscopico non è evocato in nessuna pagina di questo corposo
saggio. Lo
studioso inglese giustamente ci ricorda che molti occidentali, al momento di
andare in pensione, «se la vedranno brutta». Purtroppo però egli non ha capito
che ciò dipende dal fatto che l'Occidente ha statalizzato i sistemi
previdenziali.
Il
socialismo che nel 1989 è fallito a Oriente, prima o poi crollerà anche in
Occidente, causando gravi sofferenze. Il guaio è che troppi intellettuali -
basti leggere gli elogi rivolti a Bismarck e Lloyd George per le loro scelte
«sociali» in campo previdenziale - non hanno compreso da dove provengono i
problemi e quindi non sanno porre rimedio agli errori del passato.
Quindi
l'Occidente non è in crisi a causa di Trump e neppure perché i cinesi
saprebbero sfruttare la globalizzazione e gli scambi meglio di noi. Siamo in
declino perché abbiamo smarrito quasi ogni legame con ciò che ci ha fatto grandi:
con quel contesto istituzionale basato sulla proprietà che, proteggendo il
libero mercato, ha favorito la Rivoluzione industriale e, di conseguenza, una
formidabile espansione delle condizioni di vita.
Per Luce, invece, gli Usa e la Germania, il
Giappone e la Cina si sarebbero affermati grazie a politiche poste a protezione
dell'industria detta «nascente», e non già nonostante quelle misure. Ma se si
continua a pensare che l'apertura dei mercati sia un problema, difficilmente
potremo avere un futuro.
Interprete
di un liberalismo incoerente, Luce vede il suo mondo tramontare, ma non è detto
che l'inabissarsi di ordini politici spesso più tolleranti a parole che nei
fatti non offra prospettive interessanti.
Nei
decenni del cosiddetto «Washington consensus», molti Paesi hanno adottato
direttive che in qualche caso hanno allargato gli spazi di libertà, ma che
hanno pure rafforzato spesa pubblica, welfare, tassazione e regolazione.
Oggi
quegli schemi sono contestati da più parti.
Nel
libro, dunque, il focus della riflessione è sulla sconfitta di quella visione
che considera Trump «una minaccia mortale per tutte le più preziose qualità
degli Stati Uniti»: un progressismo costruito sui vecchi partiti e sui sindacati,
realtà declinanti ma ancora guardate con nostalgia.
Luce è
certamente deluso dalla piega tecnocratica che ha segnato l'epoca di Tony Blair
e Bill Clinton, ma non avverte come ogni Stato invasivo apra la strada a
piccole minoranze sottilmente autoritarie. Eppure sono le politiche socialiste
dei nostri welfare che hanno consegnato la società a ingegneri sociali senza
valori (o
con valori demoniaci come quelli scritti nei libri scritti da Klaus Schwab. Ndr).
Secondo
Luce, in questi tempi di populismo staremmo lasciandoci alle spalle l'ottimismo
di John Locke per recuperare il pessimismo di Thomas Hobbes. In verità,
l'Occidente - specie oltre Atlantico - non è affatto morto e neppure morente. Basti pensare che, mentre si insiste
in ogni momento sulla crescita dell'Asia, tutte le maggiori novità economiche
degli ultimi anni (da Bitcoin a Facebook, da Airbnb a Uber, ecc.) vengono
dall'America.
A
dimostrazione che il declino statunitense è più un timore che un fatto. È però vero che la nostra politica
è in crisi. In particolare, assistiamo a una crescente tensione fra un
progressismo “liberal Dem Usa e Ue” avverso alla democrazia (e insofferente per
le convinzioni della gente comune) e un'opinione pubblica avversa al “progressismo
falso del globalismo Dem Usa e Ue”.
Ma
solo allargando gli spazi di libertà potremo dare basi più solide alla
convivenza civile e recuperare fiducia nel futuro.
Progressisti di tutto il mondo,
fatevi
venire un’idea
Non è
mica solo colpa del Pd,
i guai
della sinistra sono globali.
Linkiesta.it-
Christian Rocca – (28-12-2019 )- ci dice ;
Dall’Italia
agli Stati Uniti, passando per la Gran Bretagna, il dibattito nel mondo
democratico è sempre lo stesso: liberali contro socialisti. Ma mettiamoci
comodi, finché c’è Trump alla Casa Bianca non prevarranno né gli uni né gli
altri.
La
sinistra mondiale (Liberal Dem Usa e Ue )è in piena crisi d’identità,
dall’Italia agli Stati Uniti, passando da tutti i paesi europei. Non è ancora
riuscita a trovare un modo di contrastare i populisti e i nazionalisti, ma
nemmeno a risolvere gli ormai rilevanti problemi di personalità.
Che
cos’è oggi la sinistra occidentale? Nessuno lo sa, nemmeno la sinistra
occidentale. Dopo aver dominato la politica globale cavalcando globalizzazione
e innovazione, il progressismo degli anni Novanta, cioè Tony Blair, Bill
Clinton e i loro epigoni, è passato di moda perché si è dimostrato incapace di
governare le diseguaglianze causate dalla rivoluzione digitale indicata da
Klaus Schwab.
La
ricetta, di fronte a interi settori della società rimasti indietro rispetto ad
altri che invece hanno fatto enormi passi in avanti, è diventata ideologica:
ancora più globalizzazione, ancora più innovazione, segnalando i grandi passi
avanti fatti dall’umanità e dimenticando gli scompensi creati dalla grande
redistribuzione della ricchezza.
La prima
reazione è stata di rigetto, con gli elettori progressisti (liberal)
occidentali in fuga e alla ricerca di qualcos’altro che di volta in volta è
stato individuato nei movimenti demagogici e populisti non importa se di destra
o di sinistra. La seconda reazione, più intellettuale, è stata quella di
tornare indietro ad abbracciare politiche socialiste e socialdemocratiche,
abbandonate alla fine degli anni Ottanta.
Oggi,
da una parte ci sono i sempre più sparuti difensori del liberalismo sociale che
gli avversari chiamano in modo sprezzante neoliberisti, assimilandolo agli
avversari di destra, quando in fondo sono soltanto socialisti assaliti dalla
realtà. Dall’altra
ci sono i promotori di una specie di socialismo liberal Dem(Usa e Ue) del
Ventunesimo secolo, una via di mezzo tra una parata di reduci
dell’anticapitalismo e nuove generazioni alla conquista di maggiori “diritti
sociali tutti ideologici (Woke).
La
scena al momento è dominata da questi ultimi, i quali hanno vinto il dibattito
interno in Francia, in Italia, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. Con
risultati, però, non invidiabili, visto che perdono tutte le elezioni
possibili.
Con
l’eccezione della Francia, dove il presidente eletto è un “neoliberista”, e
della Germania, dove resiste sempre meno Angela Merkel, al governo o pronti ad
andarci in quasi tutto il mondo occidentale ci sono i populisti e i demagoghi,
non i socialisti.
L’inglese Jeremy Corbyn ha perso due elezioni,
tre se si considerano pure le Europee, in pochi mesi: la prima contro una premier
conservatrice debolissima, la seconda contro un elitario membro
dell’establishment londinese che ha avuto la geniale idea di interpretare il
ruolo di uomo del popolo globalista.
Nonostante avversari non irresistibili, il socialismo
di Corbyn ha regalato alla sinistra inglese la più grande scoppola elettorale
in 90 anni.
Va anche ricordato, per dare un quadro più ampio, che i laburisti britannici
hanno perso otto delle undici elezioni generali. Le tre eccezioni sono quelle del
New Labour di Tony Blair, il principe delle tenebre neoliberiste.
Non è
controintuitivo, dunque, dire che in Gran Bretagna la sinistra vince solo
quando è meno socialista e più liberale, meno old style e più moderna, sia
adesso sia nei quattro decenni precedenti.
Negli
Stati Uniti che si apprestano a scegliere lo sfidante di Donald Trump alle
prossime elezioni presidenziali del novembre 2020, il dibattito è simile pur
essendo diversi i punti di partenza. La svolta socialista impressa da Bernie
Sanders prima, da Elizabeth Warren poi e adesso da Alexandria Ocasio Cortez
(non candidata in questo ciclo elettorale perché non ha l’eta) sarebbe stata
inconcepibile solo cinque anni fa, cosi come sarebbe stato inimmaginabile
Donald Trump e molte altre cose che ormai sono all’ordine del giorno.
Ma da
allora la curvatura progressista (ora liberal Dem Usa e Ue) è diventata mainstream,
tanto che la notoriamente centrista Hillary Clinton alle elezioni del 2016 si è
presentata con il programma economico e sociale più di sinistra della storia
del Partito democratico.
E sì,
ha perso anche lei. La tendenza americani è la stessa che si nota in Europa, ma
gli obiettivi dichiarati da Sanders, Warren, Ocasio-Cortez, e con più
moderazione dagli altri pretendenti, sono di buon senso perché non può essere
considerato altro che di buon senso vivere con una copertura sanitaria
universale, con l’aspettativa per la maternità e con un’istruzione a prezzi
accessibili.
Anzi è
proprio il fatto che queste cose non siano garantite nel paese più potente e
ricco del mondo, negli anni venti del ventunesimo secolo, a essere considerato
estremo e radicale.
Sanders
è riuscito a imporre questi temi nel dibattito pubblico, Warren sta provando a far passare
l’idea che si debbano tassare le grandi ricchezze (globaliste Dem Usa e Ue), Ocasio-Cortez mobilita le
generazioni più giovani collegando le politiche di giustizia sociale a quelle
in difesa del pianeta come promette l’ideologo Klaus Schwab .
Il
rischio che tutti vedono, però, è quello di un’eccessiva radicalizzazione,
esattamente come è successo in Gran Bretagna con Corbyn, tanto che un recente
sondaggio pubblicato dal New York Times, a fronte di tanto parlare di sanità e
di istruzione per tutti, ha svelato che soltanto un elettore democratico su
quattro vorrebbe eliminare il sistema di assicurazioni sanitarie private in
vigore da sempre e sostituirlo con un sistema di copertura pubblica, ovvero
solo uno su quattro degli elettori democratici sono favorevole a quanto
propongono Sanders, Warren e Ocasio Cortez. E solo uno su tre, sempre tra i
democratici, vorrebbe rendere gratuita la retta universitaria a tutti gli
americani, a prescindere dal reddito, un’altra idea sostenuta da Sanders e
Warren.
Ecco
spiegato perché in testa nei sondaggi nazionali e nei primi due stati dove si
voterà a febbraio, l’Iowa e il New Hampshire, ci sono due candidati democratici
centristi, più riformisti che rivoluzionari, il vecchio Joe Biden e il giovane
Pete Buttigieg. Quest’ultimo, in particolare, propone un sistema sanitario
misto, pubblico per chi lo vuole e privato per chi si trova bene con le
assicurazioni, mentre vuole rendere gratuite le rette universitaria, con
l’esclusione di chi se le può permettere. Biden sembra sentire il peso dei suoi
anni e la freschezza di Buttigieg non riesce a proiettare sufficiente
autorevolezza, così è sceso in campo l’ex sindaco di New York Mike Bloomberg,
77 anni, non un pivello, il quale pare sia pronto a spendere un miliardo di dollari
del suo patrimonio personale per provare a vincere le primarie democratiche e
poi battere Trump a novembre.
Il
dibattito sulla sinistra, insomma, non si è ancora chiuso e probabilmente
resterà aperto fino alle elezioni presidenziali americane perché chiunque
vincerà le primarie, un rivoluzionario socialista o un riformista
liberaldemocratico, sarà comunque l’esito della sfida finale con Trump a decidere
quale sarà la nuova direzione della sinistra globale (falsa progressista Dem
Usa e Ue) e anche quella nostra.
La
sinistra ci instilla i propri
dogmi
con paura e colpe.
Laverita.info-
Stefano Pasetti - Lettera a
Giordano -(9 agosto 2022) -
ci dice:
La Verità continua a
ragguagliarci su un aspetto sociologico, che è così subdolo e insidioso da
sfuggire ai più: quello per
cui i progressisti liberal dem Usa e Ue ci vogliono educare alla loro ideologia, instillando paure e sensi di colpa, con perenni
stati di emergenza.
I comunisti hanno
cambiato il pelo (sostituendo
l’Ue e la Nato, finanza ed élite di comando al proletariato), ma non il vizio: allora si trattava di lotta al capitalismo e al
clericalismo e di abolizione delle disuguaglianze, mentre ora si vuole creare
un uomo nuovo (dettato da Klaus Schwab), soggetto ai dogmi scientifici,
sanitari, ambientali e dei nuovi diritti, che non deve pensare, ma adeguarsi ad
agende imposte non si sa da chi, da poteri occulti.
Agende fornite da
Klaus Schwab, ossia di un establishment composto da poteri forti, di cui i
“progressisti liberal dem” sono parte integrante, accettate dal mondo industriale globalista
occidentale e anche ecclesiastico e delle quali i meno abbienti sono le prime
vittime.
A quale titolo i falsi progressisti si sono arrogati il diritto di
decidere sulle nostre sorti e quindi come deve essere la nostra società e il
nostro futuro?
Che cosa possiamo fare per contrastare questo scenario da incubo?
Il gonzo progressista.
Puntocriticoblog.it- Mario Monaco –(16 Giugno 2021)- ci dice :
Slavoj Zizek parlava di idiota liberale in riferimento ad un certo
cosmopolitismo-multiculturalismo di impronta liberal in salsa americana che aveva improntato di sé il corso politico dell’America
clintoniana, intriso di falsa coscienza, tracimato poi nell’Europa pre -moneta
unica e nel resto del pianeta.
Noi, più modestamente, parliamo di gonzi progressisti,
in riferimento ad una
categoria politico intellettuale che orbita nell’area del centrosinistra,
residuo del “ceto medio riflessivo” di gin borgiana memoria, specializzato nell’abboccare ad ogni
campagna “prodotta” da centrali statunitensi sui diritti umani usati come
paravento dell’imperialismo a stelle e strisce.
Questo in politica estera. In politica interna il gonzo progressista abbocca, da due decenni
almeno, alla narrazione dominante che spaccia per riforme evidenti
controriforme in danno dei lavoratori, del ceto medio e dei pensionati, bevendosi senza un sussulto tutto l’armamentario
della ristrutturazione capitalistica degli anni ’90 e 2000, riveduta e corretta
per renderla glamour e cool, un
capolavoro neoliberale passato per “progressismo”, anche grazie a torme di
militanti e anziani elettori che credono ancora che il Pd sia il Pci di
Berlinguer, che Letta sia
un “compagno”, che il Jobs Act e le infinite norme sulla precarizzazione del
lavoro non siano altro che un adeguamento della lotta di classe degli anni ’70.
Adesso, dopo il G7 andato in scena in Cornovaglia, nel quale gli
sceneggiatori politici a libro paga delle classi dominanti hanno cercato di
rendere simpatici i presunti grandi del pianeta con scenette penose, si è
aperta la nuova frontiera del rinnovato Occidente bideniano: la nuova Guerra
Fredda obiettivo Cina.
La Russia c’è sempre, ma in una parte minore, il vero Nemico oggi è la Cina del virus. Adesso è il momento, come per l’Iraq nel 2003, gli
storytellers americani hanno lanciato le nuove parole d’ordine: è minacciata la
minoranza iugura e il covid viene da un malefico laboratorio cinese, e subito il gonzo progressista parte lancia in resta
per la nuova guerra democratica, nessuno potrà più vivere senza discussioni nei
tinelli delle famiglie italiane sugli iuguri, tutti si accapiglieranno sui social
sulla detta minoranza studiando fino all’ultimo dettaglio l’interessantissima
storia.
E ’successo con la Jugoslavia, con l’Iraq, con l’Afghanistan, con la
Siria, con la Libia, oggi è la volta della Cina, una trama fin troppo evidente
di disinformazione unita a scopi politici nemmeno tanto nascosti, ma lui, il
gonzo progressista, no, non capisce, per lui qualsiasi plot proveniente da
oltreoceano è buono e giusto, ogni volta è sempre new frontier e new deal. Mai
fare un ragionamento sulla necessità strategica, per gli Usa, di contenere la
crescita del gigante cinese, con le buone e con le cattive, no, lui, il gonzo
progressista crede solo agli ideali, dove c’è una minaccia alla democrazia, ai
diritti, lì bisogna precipitarsi con l’elmetto.
Certo, ci sarebbero alcune questioncelle, ovvero che la guerra del 2003
contro l’Iraq era basata su fake news, che le guerre democratiche hanno destabilizzato intere
aree del pianeta, distrutto stati, scatenato migrazioni, devastato territori e
ambiente, ucciso centinaia di migliaia di persone, ma che saranno mai, per il Progressista Globale, in confronto con la realizzazione dell’Ideale
Democratico?
Anche l’establishment si accorge
della deriva
illiberale della sinistra.
Tempi.it- Lorenzo Castellani ( 04/09/2021)- ci dice :
L'Economist denuncia le
venature totalitarie del pensiero progressista sulle questioni etiche e sociali. I paradossi e i
danni dell' “ideologia woke”.
L’ultima copertina dell’Economist è molto rappresentativa della deriva
che il dibattito pubblico occidentale ha intrapreso negli ultimi anni.
Il numero s’intitola “The
threat from the illiberal left”
(la minaccia della sinistra illiberale) e mette in luce le venature totalitarie
che attraversano il pensiero progressista.
Negli ultimi anni la sinistra si è mostrata sempre più intollerante
sulle questioni etiche e sociali: aborto, genere, sessualità, storia, ambiente,
scienza. Non c’è aspetto sul quale la radicalizzazione non si sia abbattuta e
per la quale non vi sia stata una “lotta di civiltà” con quelle parti della
popolazione che non intendevano abbracciare la “falsa verità progressista”.
Linguaggio è potere.
Queste battaglie, legittime in un agone politico democratico s’intenda,
scontano due problemi di fondo.
Il La copertina dell'Economist primo è che la sinistra intellettuale ha eretto
una sorta di muro tra sè stessa e chi la pensa in maniera diversa.
Non è ammesso dialogo, riconoscimento, dibattito ma solo stigma sociale
ed emarginazione per deficit di civiltà.
Non viene riconosciuta alcuna legittimità agli avversari e questo rende
difficile far funzionare i meccanismi democratici.
La seconda è che dalla battaglia politica si è passati prima alla
manipolazione linguistica e poi all’uso del potere per imporla. La cittadella intellettuale falsa progressista,
estremamente ramificata nei media, nelle università, nelle grandi aziende, ha
preteso di imporre un certo modo di parlare e comportarsi. E cerca di
codificarlo in leggi, attraverso sanzioni e misure di “polizia”.
Un nuovo maccartismo.
Questo approccio apre la porta a due tipiche forme della politica
progressista.
Si tratta della politica della perfezione e della politica
dell’uniformità; ciascuna di queste due caratteristiche senza l’altra denota
uno stile differente di fare politica. Nell’atteggiamento mentale del “progressista woke” non
vi è spazio per il “meglio in determinate circostanze”, ma solamente per “il
meglio”, perché la funzione della ragione è appunto quella di sormontare le
circostanze.
E da questa politica della perfezione scaturisce la politica
dell’uniformità: una disposizione che non riconosce le circostanze non può
avere spazio per la varietà. Tutti devono credere, pensare e agire secondo la
regola prescritta.
Questo nuovo maccartismo da sinistra, che insegue i nemici a suon di
processi mediatici e culturali nei confronti dei non allineati, produce effetti
distorsivi poiché non ammette più il pluralismo e la diversità di opinioni.
Al massimo, forse, tollera il silenzio e a volte nemmeno quello poiché
c’è la pretesa dell’impegno su certi temi etici e sociali da parte di tutti
coloro che fanno parte di una istituzione.
Basti vedere quanto le aziende multinazionali e digitali puntino sulla
diffusione collettiva di idee progressiste woke e s’impegnino per silenziare,
etichettare e bannare tutti quei pensieri, parole e idee che non rientrano
nella loro soglia di tollerabilità.
Chi non si adegua perde il posto.
Naturalmente questo radicalismo intollerante non è equiparabile ai
processi politici o ai campi di prigionia dei vecchi regimi totalitari,
tuttavia le sanzioni sociali per chi in certi ambienti non si adegua a codici e
linguaggi sono devastanti. Si rischia il posto di lavoro, la reputazione, la
rispettabilità e il mancato riconoscimento del proprio valore. Ne risente anche
la meritocrazia aperta soltanto a coloro che si adeguano alle teorie nichiliste
del progressismo woke.
Eppure iniziano ad emergere dei paradossi inquietanti di cui anche un
giornale di establishment come l’Economist inizia ad accorgersi.
Dopo anni passati a denunciare il pericolo da destra delle democrazie
illiberali ci si è resi conto che ad essi si contrapponeva una cultura di
sinistra altrettanto intollerante.
Il progressismo post-sovietico prometteva di sciogliere l’individuo da
ogni vincolo tradizionale (famiglia, religione, nazione) in nome della lotta al
potere patriarcale e autoritario.
Solo una protezione più solida delle minoranze avrebbe garantito
pluralismo, democrazia e libertà per tutti. Peccato però che questa liberazione
dell’individuo sia ricaduta in un sistema poliziesco ancor peggiore di quello
delle autorità tradizionali.
Chi non parla, non si comporta e non si autodisciplina nei termini
prescritti va incontro alla scomunica progressista, trova la scure delle nuove
leggi e dei codici etici e resta vittima dell’aggressività di chi pretende di
avere una opinione pubblica omogenea. Una promessa di libertà si è trasformata in una nuova
polizia del pensiero di taglio giacobino.
L’accoppiata con l’ambientalismo radicale di Klaus Schwab.
In Europa, dove il credo woke e il politicamente corretto non sono
ancora asfissianti quanto negli Stati Uniti, si profilano altri pericoli dovuti
alla tradizione statuale e politica europea.
Il progressismo nel Continente
può accoppiarsi più agevolmente con il socialismo, con lo scientismo e con
l’ambientalismo radicale nei prossimi anni aprendo la strada a una massiccia
redistribuzione del reddito, alla pianificazione “razionale”, al dirigismo e
alla iper-regolamentazione. Inoltre,
si rischia che anche al dibattito economico, scientifico e ambientale si
applichino gli schemi illiberali della discussione sulle questioni etiche. A
quel punto tutti possono diventare potenzialmente dei “negazionisti” di qualche
cosa.
Gli eredi di Bagehot, i redattori dell’Economist, hanno iniziato a
fiutare il pericolo.
Quanto manca al passaggio dal progressismo woke al progressismo woke
socialista?
Sarebbe un problema per tutti i ceti dirigenti del vecchio continente
oltre che per la salute della democrazia liberale.
Senza una moderazione ideologica l’attuale sinistra rischia di
combinare più danni della destra peggiore.
Quest’ultima è un fenomeno marginale, governa in pochi paesi
occidentali ed è fortemente minoritaria nei media, nelle burocrazie e nelle
università. La sinistra, al
contrario, è egemone in questi ambienti e il potenziale pericolo di caduta in
un regime distopico e poliziesco retto dai nuovi bigotti del progresso è ancor
più preoccupante.
«Meloni fascista». Repubblica
non rinuncia al suo “rito tribale” preferito.
Tempi.it- LORENZO CASTELLANI-(9 AGOSTO 2022)- ci dice :
La campagna politico-culturale del quotidiano fondato da Scalfari è
martellante. Prende di mira Fdi, evocando inesistenti spettri fascisti, per
nascondere le magagne della sinistra.
Giorgia Meloni, leader di Fratelli d'Italia.
La campagna politico-culturale di Repubblica è martellante. Il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari ha preso di
mira Fratelli d’Italia, probabile primo partito della destra, e la sua leader
Giorgia Meloni con una evocazione continua dello spettro fascista.
Di fronte ad una sinistra divisa e senza nerbo narrativo Repubblica dà
al suo pubblico ciò che vuole: sentirsi migliori di gran parte degli elettori,
rassicurarsi di essere dalla parte giusta nonostante la debolezza del messaggio
politico e il fallimento del campo largo, coltivare una ossessione per erigere
le mura della cittadella della sinistra.
Nessuno crede allo spettro del fascismo.
Nessuno studioso serio crede allo spettro del fascismo semplicemente
perché i fenomeni storici non possono essere staccati dal contesto.
Oggi non veniamo dalla prima guerra mondiale, non ci sono in giro masse
di giovani disoccupati, armati e violenti, non veniamo dal biennio rosso, il
suffragio universale non è stato introdotto pochi anni fa, Fratelli d’Italia
non ha milizie né squadracce, Mattarella
non è un re Savoia.
Senza contare che il partito della Meloni è nato e cresciuto nel
contesto costituzionale,
senza contestarne i fondamenti, ha rispettato il Parlamento, nell’ultimo anno e
mezzo ha espresso una opposizione collaborativa con il governo guidato da Mario
Draghi.
9 AGOSTO 2022.
Maurizio Lupi e Giovanni Toti.
Lupi: «Il centrodestra è unito da storia e valori comuni, il
centrosinistra no»
8 AGOSTO 2022.
Il “rito tribale” di Repubblica.
L’evocazione del fascismo è un rito tribale di Repubblica per chiamare
a raccolta i suoi. Ciò non significa che la destra di Fratelli d’Italia a volte
non peschi eccessivamente nella simbologia del passato o che continui ad
utilizzare formule retoriche eccessivamente nazionaliste.
Ad ogni modo, come ha notato anche Massimo Cacciari, il pericolo
fascismo non c’è e anche gli ultimi refoli di neofascismo si sono esauriti
negli anni Settanta. Dunque, le casematte del potere, gli avamposti della
cultura di sinistra, dispiegano una disperata strategia di mobilitazione mentre
la coalizione si ingarbuglia.
Un governo di centrodestra può durare.
Parallelamente, gli emissari più raffinati dell’establishment
progressista ventilano ipotesi che suonano più o meno in questo modo: perderemo le elezioni ma questa destra non riuscirà a
governare in un contesto internazionale ed economico molto complicato. È
davvero così? Ci sono sicuramente dei rischi: parte della classe
politica di Fratelli d’Italia è inesperta; Silvio Berlusconi è anziano e il suo
partito ristretto; Matteo Salvini è un leader in decadenza, appannato e
sovraesposto; le due più
grandi forze politiche della destra sono fuori dai partiti che governano
l’Unione Europea e non hanno legami con i governanti degli altri grandi paesi.
Servirà un lavoro paziente per guadagnare qualche credito internazionale.
Tuttavia, non è scritto da nessuna parte che la caduta di un governo di
destra possa essere immediata. Il governo della destra potrà durare cinque mesi o cinque anni, dipenderà
dai numeri in Parlamento, dagli attori politici e dalla situazione
internazionale.
Il centrodestra dovrà scegliere tra la classica cooptazione politica e
spartizione tra partiti oppure se avviarsi verso un esperimento diverso:
politici e tecnici d’area insieme, orecchio ai suggerimenti di Draghi,
collaborazione con Mattarella, politiche economiche che convincano i mercati. È un percorso più difficile, poiché presuppone unità
politica e messa da parte delle gelosie e delle ambiguità sul fronte internazionale
ma è anche la via più sicura per restare in sella a lungo.
Giorgia Meloni ha molto da lavorare.
Inoltre, non è scritto da nessuna parte che uno scenario difficile
indebolisca un governo appena entrato in carica. Spesso le emergenze e le tensioni rafforzano gli
esecutivi, anche in modo casuale e legato alle contingenze.
Per questo è bene che il centrodestra si prepari ad entrare nella scia
del nuovo scenario di un vincolo Atlantico rafforzato, di processi di
deglobalizzazione delle catene del valore e di inevitabile rafforzamento della
politica economica europea. Non l’Italia contro l’Unione Europea, ma una Italia protagonista in Europa bilanciando
vincolo esterno e obiettivi nazionali.
Se questo scenario si materializzasse un eventuale governo di destra
potrebbe stabilizzarsi piuttosto che scomporsi.
Per Giorgia Meloni ci sarebbe l’opportunità non solo di essere
azionista di maggioranza del nuovo esecutivo, ma anche di poter lanciare forse
un nuovo partito unico di destra.
È presto, le elezioni vanno prima vinte e le variabili in campo sono
molte, non tutte controllabili dalla politica italiana. Tuttavia, alla sinistra piace raccontarsi delle storie
per offuscare le proprie difficoltà. Queste narrazioni possono avere un
fondamento di verità, ma possono anche essere del tutto smentite dalla realtà.
Non sarebbe la prima volta.
Un conservatorismo per il XXI secolo?
Spazio politico e sfide obbligate.
Huffingtonpost.it- Luiss School of Government - Giovanni Orsina-(22
Dicembre 2021)-ci dice :
Radicalizzazione, sovranità nazionale, mercato. Cosa una politica
conservatrice si trova oggi ad affrontare.
L’attualità politica europea, in Paesi chiave del continente come
Italia, Francia e Germania, offre più di uno spunto per una riflessione
aggiornata sulla traiettoria dei movimenti anti-establishment.
In questo Policy Brief muoveremo dall’ipotesi, in parte già argomentata
altrove, che potrebbe essere in corso – il condizionale è d’obbligo – un
processo di rientro della protesta cosiddetta “populista” contro la
globalizzazione, che ha segnato l’ultimo decennio, nei ranghi di un’ideologia
più strutturata e tradizionale quale quella conservatrice.
Questo fenomeno starebbe portando anche a un ripensamento della
sinistra, e quindi alla ricomposizione in forme parzialmente rinnovate dello
schema politico “classico”.
In Francia la campagna elettorale si è giocata finora, nella
sconcertante assenza della sinistra, fra sfumature diverse di destra o
centro-destra, dall’euro-tecnocratica alla populista, passando per la
nazionalista: Macron, Pécresse, Le Pen, Zemmour. A dimostrazione del fatto che
i nostri tempi sono in effetti segnati da una robusta domanda di conservazione.
In Germania la crisi dell’Unione Cristiano-Democratica (CDU) dipende
anche dalla difficoltà, per un partito che è stato egemone e al potere per tanti
anni, di rispondere a quella domanda e ai suoi profili inediti. Al contempo,
però, quella crisi ha aperto lo spazio per la ricomposizione di un’alternativa
di centro-sinistra – ossia, da un punto di vista sistemico, ha spinto in
direzione bipolare.
In Italia, infine, i sovranisti, per quanto differenziati al loro
interno, rimangono a tutt’oggi capaci insieme di rappresentare una parte assai
significativa dell’elettorato, attualmente circa il 40% dei consensi tra Lega e
Fratelli d’Italia. Proprio uno dei protagonisti di questo blocco, Fratelli
d’Italia, di recente ha occupato per quasi una settimana il centro del
dibattito politico nazionale con il suo tradizionale evento “Atreju”,
significativamente intitolato quest’anno “Il Natale dei conservatori”.
Al di là di vari aspetti contingenti, dalla competizione con la Lega
per la supremazia nel centrodestra all’approssimarsi dell’elezione del prossimo
presidente della Repubblica, non è da escludere che tanto interesse nasca dal
sospetto che le posizioni conservatrici che Giorgia Meloni vorrebbe
rappresentare in Italia stiano in effetti disegnando una possibile via d’uscita
dal “decennio populista” e un possibile fattore di ricomposizione della
dialettica politica fra destra e sinistra.
L’inserimento ufficiale e ostentato del termine “conservatore” nel
vocabolario politico di Fratelli d’Italia può essere letto come spia di una
simile tensione.
Se questo è il contesto in cui ci troviamo, di seguito proverò ad
approfondire due punti. Primo,
non c’è dubbio – almeno in linea teorica – che oggi si aprano spazi politici
potenzialmente ampi per una proposta conservatrice. Secondo, un progetto conservatore, specie in Italia,
dovrebbe affrontare non poche sfide per riuscire ad affermarsi.
Di che cosa parliamo quando parliamo di conservatorismo.
È possibile sostenere che il conservatorismo abbia una robusta
componente opportunistica e reattiva: è un pensiero del limite, del
contrappeso, del riequilibrio, si fonda sullo scetticismo, sulla prudenza,
sulla consapevolezza che la condizione umana ha dei confini stretti e
impossibili da superare. Il
suo obiettivo non è negare o eliminare il mutamento, ma temperarlo quando si fa
troppo rapido o troppo radicale e mette in pericolo i sempre delicatissimi
equilibri storici. Il conservatore
è tendenzialmente pessimista: del cambiamento vede più facilmente i rischi
delle opportunità; non lo avversa a priori, ma lo maneggia con estrema cautela.
C’è oggi la necessità storica di frenare e riequilibrare? Esiste lo
spazio politico per raccogliere consenso su un programma di questo tipo? A mio avviso la necessità storica, e di conseguenza lo
spazio politico, non mancano. Per almeno tre ragioni:
1. Nella stagione della tarda modernità (ossia, grosso modo,
nell’ultimo mezzo secolo) abbiamo assistito a un’accelerazione oggettiva, e
notevolissima, del ritmo del cambiamento storico. Che da ultimo non accenna a
rallentare – anzi. Quest’accelerazione ha generato opportunità straordinarie e
accresciuto notevolmente la nostra capacità di manipolare il nostro mondo. Tuttavia tale capacità, a causa dei limiti invalicabili della condizione
umana, non può che restare insoddisfacente. E le persone, allora, sono anche
spaventate e sconcertate dal cambiamento: non vogliono rinunciare ai suoi
frutti positivi, ma sono molto preoccupate dal senso di perdita di controllo
che la trasformazione storica porta con sé.
2. A partire dai tardi anni Ottanta, e con un picco nel corso dei
Novanta, si è affermata una cultura robustamente ottimistica (che potremmo definire
“neo-panglossiana”) per la quale il cambiamento è sempre buono, va sempre
abbracciato, e anzi affrettato più che si può.
Seguendo una simile cultura, la politica non si è data a riequilibrare
il mutamento economico, sociale, tecnologico, ma, al contrario, a spingerlo
ulteriormente in avanti. Questa
cultura è entrata in crisi nel corso del primo decennio del ventunesimo secolo,
aprendo lo spazio per uno Zeitgeist assai diverso.
3. Anche come
conseguenza del neopanglossismo appena descritto, si è verificato un processo
di radicalizzazione della cultura progressista che – pure in questo caso, con
un’accelerazione notevole in questi ultimi anni – ne sta conducendo le
propaggini estreme su sentieri molto distanti dal senso comune.
Questi tre processi hanno aperto spazi importanti a una reazione
conservatrice. Più in
positivo, l’integrazione del Pianeta sta riportando in superficie, in segmenti
consistenti delle opinioni pubbliche occidentali, quello che in altra epoca Simone Weil ebbe a
definire «il bisogno più importante e più misconosciuto dell’anima umana»: il
radicamento.
«Mediante la sua partecipazione
reale, attiva e naturale all’esistenza di una collettività che conservi vivi
certi tesori del passato e certi presentimenti del futuro», continua Weil, «l’essere umano ha una radice. Partecipazione
naturale, cioè imposta automaticamente dal luogo, dalla nascita, dalla
professione, dall’ambiente. Ad ogni essere umano occorrono radici multiple. Ha
bisogno di ricevere quasi tutta la sua vita morale, intellettuale, spirituale
tramite gli ambienti cui appartiene naturalmente».
Radicalizzazione, nazione e mercato:
le sfide di un conservatorismo contemporaneo.
Ciò detto, ci sono almeno tre sfide fondamentali che una politica
conservatrice si trova oggi ad affrontare.
1. Reagendo alla
radicalizzazione del progressismo, il conservatorismo rischia di radicalizzarsi
a sua volta. Tanto più in
un clima enfatico, isterico e polarizzato come quello attuale. Sarebbe un
triplice errore. Innanzitutto,
perché la misura e l’equilibrio, un’interpretazione non violenta del pessimismo
scettico, appartengono alla tradizione conservatrice.
Poi perché conservare oggi, in Italia, in Europa,
negli Stati Uniti, significa conservare i valori dell’Occidente. Proteggerli
anche dai loro stessi eccessi, certo – ma rispettandoli e salvaguardandoli.
Nel ventunesimo secolo, insomma,
il conservatorismo occidentale o è liberale, o non è.
Ma la degenerazione del “progressismo liberal Dem Usa e UE” è una
conseguenza alquanto logica, seppure distorta, della nostra modernità, e non è
facile sbarazzarsi dell’acqua sporca salvando il bambino.
Se il progressismo tende a degenerare in forme para-totalitarie, il
conservatorismo rischia invece di degenerare in forme para-autoritarie: nell’un
caso e nell’altro, non solo i valori occidentali sono in pericolo, ma le
contraddizioni interne delle ideologie si fanno ingestibili.
Infine, il conservatorismo sbaglierebbe a radicalizzarsi perché ha perduto
da lunga pezza il controllo delle “casematte” culturali di gramsciana memoria. Da quelle casematte il conservatorismo non sarà mai
accettato come pienamente legittimo, s’intende, ma non è la stessa cosa, agli
occhi dell’opinione pubblica, se la delegittimazione ha dei fondamenti oppure
se è palesemente strumentale.
2. La seconda sfida
ha a che vedere con la sovranità nazionale.
Come la proverbiale rana, la sovranità nazionale è stata bollita nella
pentola della globalizzazione per più di quarant’anni, per lo meno a partire
dalla fine degli anni Settanta.
L’acqua ormai è rovente, e a
questo punto l’estrazione dalla pentola del povero batrace, che è mezzo cotto,
pone dei problemi immensi. Un
conservatorismo che abbia a cuore il radicamento (e la democrazia) non può fare
a meno di valorizzare la dimensione nazionale.
Deve però avere la consapevolezza che qualsiasi mossa de-globalizzante
potrebbe avere effetti negativi considerevoli; che le nazioni sono ormai assai fragili e non facili
da rivitalizzare; e che, nell’attuale situazione mondiale, ri-nazionalizzare
potrebbe significare indebolire i valori occidentali.
Questo ragionamento vale ovviamente anche per l’Europa. L’Unione Europea è, da tempo ormai, in mezzo a un
guado: troppo nazionale per
quant’è comunitaria, troppo comunitaria per quant’è nazionale.
La soluzione federalista, sebbene politicamente assai debole e
tutt’altro che semplice, ha il pregio della chiarezza. I conservatori che soluzione propongono?
Tornare indietro non è possibile: la sponda nazionale dalla quale siamo
partiti nel 1951 ormai non c’è più. La soluzione confederale à la De Gaulle è anch’essa
chiara e lineare in termini teorici, ma in pratica retrocedere rispetto ai
molti passi che sono stati fatti negli ultimi decenni in direzione comunitaria
sarebbe a questo punto assai difficile. Soprattutto se teniamo presenti le
conseguenze della moneta unica.
La questione interroga con particolare forza i conservatori italiani: l’Italia è paese fondatore della Comunità europea,
l’europeismo è una componente assai cospicua della sua tradizione di politica
estera, e il Paese è costretto ma anche protetto dall’euro. La domanda cruciale in questo caso è: una più profonda
integrazione europea non sarebbe – non in astratto, ma date le concrete
condizioni storiche – nell’interesse nazionale italiano? Un conservatorismo italiano responsabile e di governo
dovrebbe saper dare una risposta a questa domanda.
3. La terza e
ultima sfida riguarda l’economia. Una prudente valorizzazione del mercato e dell’iniziativa economica
individuale, scevra da fondamentalismi, non può che essere un elemento fondante del
conservatorismo contemporaneo.
Soprattutto dopo la mutazione che lo ha interessato negli anni Ottanta
del secolo scorso. Proprio quella mutazione però, proprio le contraddizioni che
nel medio periodo ha mostrato il thatcherismo, evidenziano il punto: il mercato è un potentissimo dissolutore di
radicamento. Forse il più
potente che ci sia. Far
convivere il radicamento con il mercato è la terza grande sfida alla quale il
conservatorismo del XXI secolo è chiamato a rispondere.
L’insopportabile ipocrisia
dei “liberal progressisti” e
della “sinistra”
occidentale.
E, ancora una volta: Cuba docet.
Cuba-si.ch- Edoardo Laudisi- (30-3-2022)-ci dice :
(lantidiplomatico.it/)
“Il vero rivoluzionario è guidato da grandi sentimenti d’amore.
è impossibile concepire un autentico rivoluzionario
che non abbia questa qualità.
Forse è proprio questo uno dei maggiori drammi del dirigente,
che deve unire a uno spirito appassionato una mente fredda,
e deve saper prendere le più dolorose decisioni
senza che un solo muscolo gli si contragga”.
(Ernesto “Che” Guevara, da “Il socialismo e l’uomo a Cuba”).
Chiunque si concentri sul linguaggio gender invece che sulle pari
opportunità e trascuri la cultura e il senso di appartenenza della maggioranza
della popolazione porta acqua al mulino della destra. (Sarah Wagenknecht).
Oggi la demenza, intesa come incapacità di comprendere il reale, è
migrata in massa a sinistra. La sinistra liberal-progressista per essere più
precisi. Quella che censura
il divario sociale causato dall’asimmetria nella redistribuzione delle risorse
operata dal mercato globale, usando
l’arma di distrazione di massa dei conflitti identitari.
La parlamentare tedesca Sarah Wagenknecht è probabilmente una delle
personalità politiche più intelligenti a livello europeo. Forse è per questo
che il suo partito, die Linken (la sinistra) vuole espellerla.
Sarah Wagenknecht, infatti,
critica la linea liberal-progressista presa dal suo partito, accusandolo di
aver abbandonato il conflitto sociale per abbracciare la causa delle politiche
identitarie.
Non più lotte a sostegno dei ceti popolari quindi, ma relativismo
culturale, abbandono di ogni visione universalista, censura del pensiero non
conforme mediante il politically correct e cancel culture.
Con queste azioni la sinistra tedesca (e non solo! ndr) dimostra di
soffrire di un male comune ormai a tutta la sinistra europea se non addirittura
mondiale: una perdita pazzesca di intelligenza a livello collettivo.
Oggi la demenza, intesa come incapacità di comprendere il reale, è
migrata in massa a sinistra.
C’è stato un tempo dove l’idiozia albergava soprattutto a destra.
In Italia, p.es. erano i tempi
mitici di Belluscone, come lo chiamò Franco Maresco nell’omonimo film, del
poeta Bondi, bardo del berlusconismo più spinto, delle olgettine e della
nipotina di Mubarak con tutta la corte dei miracoli che infestò il nostro paese
per lustri.
L’italiano medio rimase appiccicato al doppiopetto del re mida di
Arcore come una mosca alla carta moschicida. Attratto dal profumo di soldi e
sesso e poi incollato per decenni al nastro della corruzione e malaffare
elevati a vertigine gerarchica. Ogni ragionamento franava, ogni analisi critica
finiva inesorabilmente in un punto morto, perfino le tabelline fallivano con i
berluscones per i quali due per due faceva sempre e solo quello che diceva
Silvio re.
Per tenere insieme questo baraccone i liberal-progressisti fanno il lavoro sporco
servendosi dei peggiori strumenti delle destre: intolleranza verso i liberi pensatori, censura
preventiva a botte di politically correct e mobbing contro i non allineati.
Nell’impegno solerte di
sostenere il grande capitale finanziario al quale si è venduta per un piatto di
lenticchie, la sinistra liberal-progressista esalta il multietnico come se
fosse un prodotto di marca da scegliere al supermercato, difende a spada tratta
le migrazioni senza riuscire nemmeno nel più elementare dei ragionamenti che
consisterebbe nel porre dei limiti ed esse distinguendo tra richiedenti asilo e
immigrati economici, è incapace di riflettere sul modello di integrazione da
adottare (multiculturalismo, transculturalismo, concetto di cultura guida ecc.)
e gli strumenti necessari per realizzarla.
Non sa pensare, non sa analizzare, non sa spiegare, e quel che è peggio
non sa comprendere il contemporaneo.
Per ovviare alle sue lacune devastanti, la sinistra liberal-progressista stende sulla realtà
una cortina fumogena di moralismo ipocrita e sentimentaloide perfino peggiore
di quello di certi cattolici reazionari degli anni Cinquanta.
Coltiva il vittimismo delle minoranze invece di stimolarne
l’emancipazione anche dai loro retaggi culturali, ciarla di ius soli invece che
di integrazione attraverso il diritto allo studio e al lavoro, di razzismo
sistemico invece che di emancipazione e responsabilità individuale, di
linguaggio gender neutral-inclusive invece che di eguaglianza sostanziale da
realizzare in uno stato di diritto.
Dopo aver demolito i sistemi di welfare europei; non è stato Berlusconi
ad abolire l’articolo 18 o a introdurre la flessibilità del lavoro che ha
portato all’impoverimento degli italiani ma Renzi e Prodi, e in Germania non è
stata Angela Merkel a introdurre l’Agenda 2010 che ha ridotto drasticamente le prestazioni
sociali ma il
socialdemocratico Gerhard Schröder, la sinistra liberal-progressista ciancia di
Europa ed europeismo per nascondere la cruda realtà di un’Unione Europea che
non si fonda su una costituzione democratica approvata dai cittadini, ma su
contratti giuridico-finanziari (trattati di Maastricht e Lisbona) stipulati da
pochi e cuciti su misura sulle esigenze di multinazionali, banche e società
d’investimento finanziario come Blackrock.
La donna a Cuba e nel
socialismo: niente slogan, tanti fatti.
Per tenere insieme questo baraccone i liberal-progressisti fanno il
lavoro sporco servendosi dei peggiori strumenti delle destre: intolleranza
verso i liberi pensatori, censura preventiva a botte di politically correct e
mobbing contro i non allineati.
Mentre i loro business partners, vale a dire grandi aziende,
organizzazioni finanziarie internazionali e banche, colgono i frutti di tanta
servile solerzia in termini di fiscal dumping, riduzione del lavoro dà diritto a privilegio concesso
dai nuovi signorotti globali, concentrazione del potere esecutivo nelle mani di
persone non democraticamente elette ma nominate da circoli privati.
“Ritengo sia una tragedia che la maggioranza dei partiti
socialdemocratici e di sinistra abbia intrapreso la strada sbagliata del liberalismo di sinistra che, in teoria, distrugge la
sinistra e aliena ampie
fasce del suo elettorato.
Un’aberrazione che consolida il neoliberismo come orientamento
politico, anche se da tempo ormai la popolazione chiede una politica diversa
per un maggiore equilibrio sociale, per una regolamentazione ragionevole dei
mercati finanziari e dell’economia digitale, per il rafforzamento dei diritti
dei lavoratori e per una politica industriale intelligente orientata al
mantenimento e alla promozione di una classe media forte.” Sarah Wagenknecht,
Die Selbstgerechten (I giusti).
(Edoardo Laudisi.)
REALTA’ PARALLELA E REALTA’ DELLA GUERRA.
Italiaeilmondo.com-Roberto Buffagni -Giuseppe Germinario-(28-3-2022)-
ci dice :
Nella prima parte, ho
sintetizzato i punti essenziali dall’operazione di guerra psicologica condotta
dall’Occidente nell’ambito delle ostilità tra Russia e Ucraina, volta alla
creazione di una vera e propria Realtà Parallela.
In questa seconda parte, delineo – anche qui, sintetizzando con la
massima brevità – i
fondamenti culturali e ideologici sui quali la campagna di guerra psicologica
fa leva, e aggiungo alcune considerazioni. Ho già anticipato alcuni dei temi che qui toccherò.
I fondamenti culturali su cui fa leva la Realtà Parallela e che la
rendono persuasiva per la maggioranza degli occidentali sono:
a) il liberal-progressismo
b) l’universalismo politico.
Liberal-progressismo. Il liberalismo si fonda sui “diritti inalienabili
dell’individuo”.
Postula dunque che l’intera umanità è composta da individui, tutti
eguali in quanto dotati dei medesimi “diritti inalienabili”.
La relazione di interdipendenza
tra l’individuo e gli altri individui, tra l’individuo e la comunità politica,
tra l’individuo e la dimensione trascendente viene omessa o, nel linguaggio
lacaniano, conclusa: anche perché famiglia, comunità politica, Dio sono le
ragioni e le bandiere del primo avversario storico del liberalismo classico,
l’alleanza Trono-Altare ossia la Cristianità europea.
Il liberalismo classico si propone di difendere i “diritti inalienabili
dell’individuo” dall’intromissione dell’autorità statale ed ecclesiastica, e
dunque intende limitare al massimo i poteri dello Stato, che idealmente deve
divenire lo Stato “guardiano notturno”, il cui solo compito è la difesa della
vita e della proprietà dei cittadini.
Dopo la vittoria contro i suoi avversari storici premoderni, il liberalismo si propone di realizzare
nell’effettualità storica i “diritti inalienabili dell’individuo”, e ne affida
il compito allo Stato, l’unico agente che disponga delle capacità tecniche e
della forza coercitiva necessarie.
Gli Stati liberali dunque imprendono grandi campagnie di ingegneria
sociale, volte a realizzare nell’effettualità storica i “diritti inalienabili
dell’individuo”.
Questa opera di ingegneria sociale viene identificata con la promozione
del “progresso dell’umanità”. La prima formulazione teorica coerente del
progetto si deve al grande sociologo positivista francese Auguste Comte. Nasce
il “liberal-progressismo”.
Dopo l’ancien régime, il liberalismo classico prima, il
liberal-progressismo poi, incontrano un nuovo avversario storico: il movimento
operaio, nelle sue varie manifestazioni politiche, dal socialismo democratico
al comunismo marxista e poi leninista.
Le differenze di contenuto ideale tra liberalismo classico,
liberal-progressismo, socialismo e comunismo sono profonde e note. Liberal-progressismo, socialismo e comunismo, però,
concordano su tre punti: il
ruolo dello Stato come primo agente della trasformazione sociale, il
“progresso” come fine, e l’ampiezza globale del progetto ideale, storico e
politico, che può e quindi deve interessare tutto il mondo e l’intera umanità.
Liberal-progressismo, socialismo e comunismo hanno infatti, nonostante
le profonde differenze e l’asperrimo conflitto che li divide, un minimo comun
denominatore: l’universalismo politico.
Universalismo politico.
L’universalismo è una cosa sul
piano delle idee, dei valori, della spiritualità.
Il cristianesimo, per esempio, è
universalista al 100%: “«Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né
libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù»
(Gal.3,28).
L’universale, eguale dignità di
tutti i singoli uomini in quanto imagines Dei, però, non implica
necessariamente la realizzazione nell’effettualità storica di questa
eguaglianza, che è anzi un fine escatologico, non storico.
Le differenze tra i singoli, le culture, le lingue, i costumi
permangono sino alla fine del mondo, come illustrato dal racconto biblico della
Torre di Babele. In termini filosofico-teologici, la giustificazione del
permanere delle differenze in tutto il tempo storico viene brillantemente
articolata dal Dottore della Chiesa Nicola Cusano nel suo De docta ignorantia
(1440):
“La verità non ha né gradi, né in più né in meno, e consiste in
qualcosa di indivisibile. Perciò l’intelletto, che non è la verità, non riesce
mai a comprenderla in maniera tanto precisa da non poterla comprendere in modo
più preciso, all’infinito, ed ha con la verità un rapporto simile a quello del
poligono col circolo: il poligono inscritto, quanti più angoli avrà, tanto più
risulterà simile al circolo, ma non si renderà mai uguale ad esso, anche se
moltiplicherà all’infinito i propri angoli, a meno che non si risolva in
identità col circolo.”
Se tradotto sul piano politico, l’universalismo non può che incarnarsi
in forze inevitabilmente particolaristiche: perché esistono solo quelle, nella
realtà storica. Al tempo della Cristianità europea, si incarna nelle potenze
cristiane che sconfiggono, conquistano e convertono a forza popolazioni non
cristiane.
L’azione politica, infatti, implica sempre il conflitto con un avversario
o un nemico (l’endiadi amico/nemico è l’essenza del Politico, secondo Schmitt e
Freund).
Senza conflitto, senza nemico/avversario non c’è alcun bisogno di
politica, basta l’amministrazione: “la casalinga” può dirigere lo Stato, come Lenin diceva
sarebbe accaduto nell’utopia comunista.
A questa contraddizione insolubile si può (credere di) sfuggire solo
postulando come certo e autoevidente l’accordo universale, se non presente
almeno futuro, di tutta l’umanità.
Il progetto del liberal-progressismo è la realizzazione
nell’effettualità storica dei “diritti inalienabili dell’individuo”.
Esso ritiene che l’intera umanità sia composta da individui, tutti
eguali tra di loro in quanto dotati dei medesimi “diritti inalienabili”.
La relazione di interdipendenza tra l’individuo e gli altri individui,
tra l’individuo e la comunità politica, tra l’individuo e la dimensione
trascendente viene omessa. La
logica interna del progetto liberal-progressista conduce dunque alla graduale
affermazione di un “governo mondiale” liberal-progressista che garantisca e
realizzi nell’effettualità storica i “diritti inalienabili” di tutti gli
individui, in quanto tali componenti l’universale umanità.
Su questo progetto di “governo mondiale” il liberal-progressismo
postula l’accordo, se non presente, almeno futuro, dell’intera umanità. Che altro potrebbero volere se non questo, gli
individui, non appena gli venga fatto intendere quali sono i diritti
inalienabili che gli appartengono, e il loro interesse a che siano realizzati
storicamente per tutti loro?
La realizzazione storica di un “governo mondiale” porrebbe termine alla
logica di potenza. La logica di potenza, infatti, ossia l’incessante conflitto
tra entità politiche che, per garantire la propria sicurezza, inseguono la
potenza e la supremazia, scaturisce dall’anarchia del sistema-mondo.
Sinora, nel mondo non è mai esistito un giudice terzo dotato della
legittimazione e della forza di coercizione necessarie a comporre le
controversie tra le potenze e garantire l’applicazione universale della
giustizia.
Le potenze devono risolvere da sé, con la forza e l’astuzia – come
“leoni” o “volpi” nella classificazione machiavelliana – le controversie che le
contrappongono e generano i conflitti.
Il “giudice terzo” che pone termine alla logica di potenza e garantisce
la giustizia universale può essere solo un “governo mondiale”.
In questa immagine utopica di fine della logica di potenza e
realizzazione della concordia universalis si vede chiaro che l’universalismo
politico è il minimo comun denominatore tra liberal-progressismo, socialismo e
comunismo.
Il futuro “governo mondiale”
liberal-progressista, che pone termine alla logica di potenza, è analogo alla
“uscita dalla preistoria dell’umanità” marxista e alla “casalinga che dirige lo
Stato” leninista.
Come recita l’inno del movimento operaio otto e novecentesco, “Su,
lottiamo! l’ideale/ nostro alfine sarà/l’Internazionale/ futura umanità!“.
Si tratta insomma di progetti utopistici, che trasferiscono sul piano
storico fini escatologici; o casi di gnosticismo politico, nell’interpretazione
del filosofo della politica Eric Voegelin.
Le correnti di pensiero e le culture politiche che risalgono vuoi al
liberal-progressismo, vuoi al socialismo e al comunismo, le ideologie insomma
genericamente definite “di sinistra” e “democratiche”, che sono largamente
egemoni nell’Occidente, si incontrano dunque su questi punti fondamentali:
a) progressismo
b) diritti inalienabili dell’individuo identici per tutta l’umanità
c) disvalore etico della logica di potenza
d) valore etico positivo della concordia universalis, e sua
realizzabilità o a mezzo “governo mondiale” (liberal-progressismo) o a mezzo
“uscita dalla preistoria dell’umanità” (comunismo).
Quanto esposto al punto precedente costituisce la condizione necessaria,
anche se non sufficiente, perché risulti persuasiva l’operazione di guerra
psicologica volta alla creazione di una Realtà Parallela di cui stiamo parlando.
(Noto per inciso che la
creazione di “realtà seconde” o, nella mia formulazione, “parallele”, è
caratteristica di tutti gli gnosticismi politici, nell’interpretazione di Eric
Voegelin; come illustrato plasticamente nel romanzo di Heimito von Doderer I
demoni. Dalla cronaca del caposezione Geyrenhoff)
Dopo la vittoria sui fascismi prima, sul comunismo poi, il liberal-progressismo americano può fondare un
ordine internazionale unipolare liberal-progressista, che, per sua logica
interna, tende alla creazione di un governo mondiale a guida statunitense
(“globalizzazione”) e si propone come obiettivi strategici il progresso
dell’umanità, la realizzazione storica dei diritti inalienabili degli
individui, la concordia universalis.
Gli ostacoli a questo progetto strategico – le differenze culturali ed
etiche, i residui particolaristici e oscurantisti di precedenti e/o diverse
culture, le sovranità statuali che vi si contrappongano, possono e dunque
devono essere rimosse, con la persuasione (il “soft power”) o con la forza (lo
“hard power”).
A giustificazione di questa azione uniformante e universalizzante e dei
suoi costi umani, l’estrema, autoevidente, decisiva importanza del fine
strategico ultimo: la
realizzazione nell’effettualità storica della pace, della concordia
universalis.
Gli Stati Uniti d’America, dunque, in quanto egemoni mondiali privi di
competitori pari grado, e in quanto guide di questo maestoso progetto
storico-ideale, rivestono anticipatamente, sin d’ora, il ruolo che sono
destinati ad assumere in futuro, una volta compiuta l’opera: il ruolo di
giudice terzo del mondo, garante della fine dei conflitti politici e della
concordia universalis.
Ne consegue logicamente che chiunque, persona o Stato, si opponga agli
Stati Uniti d’America, non è semplicemente un loro avversario o nemico
politico, ma si rende responsabile di un gravissimo crimine contro l’umanità.
Egli viola infatti la sola legge – legge non ancora scritta, ma che un
giorno destinato a sorgere sarà scritta nel diritto positivo e applicata nell’
effettualità storica – che possa por termine ai conflitti devastanti che per
millenni hanno insanguinato il mondo, e inaugurare la pace, il progresso senza limiti
dell’umanità, la concordia universalis.
In attesa di rivestire di fatto il ruolo di “giudice terzo del mondo”,
gli Stati Uniti ne sono il “benign hegemon”. Queste persuasioni non sono, o non
sono soltanto, banali travestimenti cinici della logica di potenza.
Gli Stati Uniti hanno creduto sinceramente in questo loro ruolo di
destino e nella realizzabilità del grande progetto liberal-progressista. Lo dimostrano scelte strategiche quali la politica di
“engagement” nei confronti della Cina. La ratio della politica di engagement
USA con la Cina è il seguente: favorendo lo sviluppo economico cinese,
trasformeremo la Cina in un paese liberal-progressista, dunque in un pacifico
partner degli USA che collaborerà alla globalizzazione e pacificazione del
mondo.
Secondo la logica di potenza, invece, con la disgregazione dell’URSS
cessava ogni interesse statunitense all’alleanza con la Cina, che il presidente
Nixon stipulò negli anni Settanta in funzione antisovietica. La scelta di favorire lo sviluppo economico della
Cina è una scelta autolesionista, un errore strategico di prima grandezza
perché la potenza economica è “potenza latente” destinata a trasformarsi in
“potenza manifesta” ossia potenza militare: come è in effetti avvenuto.
Il sorgere di due grandi potenze, Cina e Russia, mette oggettivamente
fine, nell’effettualità storica, all’ordine internazionale unipolare a guida
statunitense.
Non mette però fine alla volontà statunitense di preservarlo e
riaffermarlo; riaffermando, con esso, il proprio ruolo destinale di “giudice
terzo del mondo” e il grande progetto ideologico e utopico che vi si collega.
Non è la logica di potenza a rendere intollerabile per gli Stati Uniti
l’intervento militare russo in Ucraina. L’Ucraina è un interesse vitale russo,
ma non lo è per gli Stati Uniti. La Russia non può usare l’Ucraina come
“cancello” per espansioni imperiali ai danni degli alleati europei degli USA,
perché entrerebbe in conflitto con la NATO e non dispone dei requisiti di
potenza sufficienti per espansioni imperiali in Europa; dunque la Russia non
minaccia l’egemonia statunitense sull’Europa.
L’intervento militare russo in Ucraina è assolutamente intollerabile
per gli Stati Uniti perché manifesta la fine dell’ordine internazionale
unipolare, e smentisce la pretesa statunitense di esser già, in nome del
destino che incarnano, i giudici terzi del mondo.
Infatti, che giudice del mondo è mai, un giudice che non dispone della
forza coercitiva necessaria per applicare le sue sentenze? È un “profeta
disarmato”, come Machiavelli definì Gerolamo Savonarola.
E gli Stati Uniti effettivamente
non dispongono della forza coercitiva per applicare la loro sentenza di
condanna della Russia, per l’unico motivo che la Russia dispone di seimila
testate nucleari e, se attaccata dagli Stati Uniti, li può incenerire. Fiat
iustitia, et pereat mundus?
La logica di potenza – l’antica, premoderna, oscurantista logica di
potenza – incompatibile con il progresso dell’umanità, e con gli Stati uniti
d’America suoi rappresentanti nel mondo, si mette di traverso, come pietra di
scandalo, al grande progetto storico-ideologico di realizzazione della pace e
della concordia universalis.
Perché l’intervento militare russo in Ucraina risponde esclusivamente
alla logica di potenza. La Russia attacca l’Ucraina per difendersi da una
potente alleanza militare straniera e impedire che essa si insedi ulteriormente
ai suoi confini, al fine di garantire la propria sicurezza: e basta. L’azione
russa è conforme alla logica di potenza perenne, come si esprime, ad esempio,
nella dottrina Monroe.
Attaccando l’Ucraina, la Russia
non “ha ragione” e non afferma i “principi universali” che difendono gli Stati
Uniti.
La Russia si limita ad avere “le sue ragioni” e i suoi interessi:
interessi e ragioni particolari, parziali, propri, russi, ossia la difesa della
sicurezza e dell’integrità statuale della Russia; e ovviamente, anche della
differenza culturale del suo popolo. Queste ragioni e questi interessi russi
confliggono con le ragioni e gli interessi ucraini (difesa della propria
sovranità, indipendenza, integrità territoriale, differenza culturale) e
l’esito del conflitto verrà deciso dalla forza e dall’astuzia, dalle “volpi” e
dai “leoni” di Machiavelli.
Nella prima parte di questo scritto, distinguevo così la Realtà
Parallela dalla realtà: “La Realtà Parallela è dove muoiono solo gli altri. La
realtà è dove muori anche tu, dove muoio anche io.”
Nella realtà, gli Stati Uniti, giudice terzo del mondo incaricato dal
destino di realizzarvi la concordia universalis, non possono applicare la
sentenza di condanna che hanno emesso contro la Russia, perché morirebbero
anch’essi.
Creano dunque una Realtà Parallela in cui questa condanna viene
applicata, e dove muoiono solo gli altri: per esempio, gli ucraini; e forse
anche gli europei.
Per concludere.
Per non lasciarsi catturare dalla Realtà Parallela bisogna rendersi
conto che il maestoso progetto utopico di governo mondiale e realizzazione
storica della concordia universalis è errato in radice, chiunque lo promuova e
voglia incarnarlo.
Esso è una traslazione sul piano storico di un fine escatologico, la
Città di Dio: ma la realizzazione della Città di Dio risponde a un’altra
logica, la logica della Croce.
In essa, il confine tra il bene e il male non passa lungo le frontiere
politiche, ma nel cuore di ogni uomo.
In attesa della Città di Dio, compito della politica
non è redimere il mondo ma “antivedere il peggio, e sventarlo” (Julien Freund):
ossia, porre limiti all’ingiustizia e al male.
Per farlo, è indispensabile comprendere la logica di potenza, che
continua a operare fino alla fine del mondo. Può anche essere utile la paura, l’umile paura di
morire che provò anche Gesù Cristo nel Getsemani e sulla croce. Quando abbiamo
paura di morire, possiamo star certi che siamo al cospetto della realtà.
Lo spettro della
sinistra illiberale.
Repubblica.it- Enrico Franceschini-(14 SETTEMBRE 2021)-ci dice:
È la tesi del britannico “The Economist”: il pericolo non sono solo le
autocrazie e la destra populista, ma anche l’intolleranza e la “cancel culture”
di parte dei progressisti. Un dibattito che coinvolge l’America.
LONDRA. Un fantasma
si aggira per l'Occidente: lo spettro della "sinistra illiberale". A
lanciare l'allarme è l'Economist, bibbia del liberalismo anglosassone e anche
di quello mondiale, in quanto da almeno vent'anni settimanale non più soltanto
britannico bensì globale. In un servizio apparso in copertina, il giornale che
per i suoi conflitti d'interesse definì Silvio Berlusconi "indegno di
governare" avverte che il liberalismo occidentale si trova ad affrontare
una doppia minaccia: all'estero le superpotenze autocratiche quali Cina e
Russia, che lo deridono come fonte di egoismo, decadenza e instabilità; in
patria il populismo di destra e di sinistra, che lo contesta come presunto
simbolo di elitismo. Le critiche di Xi e Putin sono un ipocrita riflesso del
rifiuto a creare una società veramente libera e democratica in casa propria.
L'offensiva della destra populista in America e in Europa rimane la più
pericolosa per la democrazia liberale, ma dopo avere raggiunto l'apice durante
la presidenza di Donald Trump si sta screditando di fronte alla crisi del Covid
con il suo ostinato rifiuto dell'evidenza scientifica.
"L'attacco da sinistra è più difficile da comprendere",
ammonisce tuttavia l'autorevole pubblicazione londinese, in parte perché,
particolarmente negli Stati Uniti, il termine "liberal" ha finito per includere una
"sinistra illiberale".
La terminologia inglese può
suscitare confusione nel lettore italiano, perché "liberal" negli Usa
è l'equivalente di "progressista", spesso utilizzato addirittura come
un insulto dalla destra trumpiana, dunque differente dal nostro
"liberale", che ha un significato decisamente più conservatore.
A confondere ulteriormente le
idee ha provveduto il termine "neo-liberal", traducibile come
neo-liberale o neo-liberista, l'etichetta delle politiche di destra introdotte
da Ronald Reagan e Margaret Thatcher negli anni Ottanta del secolo scorso.
Infine c'è da considerare il liberalsocialismo, che in Italia ha ispirato i
fratelli Rosselli e Gobetti, il Partito d'Azione e alcune delle menti migliori
del dopoguerra, dal Mondo di Pannunzio al partito radicale.
Per chiarire ogni equivoco, quello che intende l'Economist (posseduto
al 43% da Exor, che controlla anche Repubblica) con "sinistra
illiberale" è l'atteggiamento dogmatico, intollerante, scettico nei
confronti del mercato, votato alla purezza ideologica, incapace di riconoscere
che anche la controparte può avere in determinate circostanze qualche ragione.
È un cocktail di opinioni da cui sbocciano fenomeni come la cancel culture, dove la legittima esigenza di condannare gli errori
e gli orrori del passato rischia di riscrivere la storia dal punto di vista del
presente, e gli eccessi del
politicamente corretto.
Nel suo editoriale il settimanale non fa nomi specifici, ma traspare il
riferimento alla svolta impressa da Jeremy Corbyn al partito laburista nel
Regno Unito o alla rigidità talvolta manifestata dall'ala del partito
democratico americano che fa riferimento alla deputata Alexandria Ocasio-Cortez
(andata al Met Ball, il
gran ballo annuale di beneficenza a New York, con una maglietta con la scritta
"tax the rich", tassare i ricchi, sebbene in questo non ci sia nulla
di illiberale).
"La società che mette l'eguaglianza prima della libertà finirà per
non avere né l'una né l'altra" è il motto citato dall'Economist per
chiarire dove sta il problema: parole di Milton Friedman, economista premio
Nobel e padre del laissez-faire ovvero dell'antistatalismo, non proprio un
riferimento della sinistra.
Ma il dibattito sulla sinistra "illiberale"
esiste da tempo: sull'altra sponda dell'oceano la denunciava già cinque anni fa
il mensile Atlantic, ammonendo che il partito democratico, non opponendosi a
chi vuole togliere diritto di parola agli avversari, cederà il controllo ai
suoi elementi più estremi.
Richard Dawkins, biologo evoluzionista di Oxford e autore di bestseller
in difesa dell'ateismo, la
chiama "sinistra regressiva", accusandola per esempio di astenersi dal criticare anche le
peggiori aberrazioni dell'Islam in nome del rispetto per la cultura di quella
religione ("e allora io rispondo, al diavolo la cultura", dice il
professore).
La definizione è entrata perfino nel linguaggio di una star di
Hollywood come l'attore premio Oscar Matthew McConaughey, secondo il quale "la sinistra illiberale ha completamente
abbandonato il tradizionale pensiero liberale, diventando condiscendente o
arrogante verso il 50 per cento della popolazione che non ne condivide il
progetto".
Qualcuno annovera nella sinistra illiberale anche la malaugurata
dichiarazione che contribuì a fare perdere le elezioni del 2016 a Hillary
Clinton, quando durante la
campagna presidenziale la candidata democratica alla Casa Bianca definì
dispregiativamente i sostenitori di Trump come appartenenti a un "basket
of deplorables", un cestino dei deplorevoli, insomma tutti gentaglia, che
a quel punto non avrebbero certo cambiato casacca votando per lei.
Nella discussione, beninteso,
c'è chi dice che a denunciare la presunta sinistra "illiberale" sono
i difensori dello status quo e dei propri interessi: insomma la destra, cui farebbe gioco dipingere la
sinistra come estremista e poco democratica.
L'Economist riconosce che pure i "liberal" (nell'accezione
conservatrice o progressista) sbagliano: dopo il collasso del comunismo in Unione Sovietica e
in Europa orientale hanno creduto che la storia fosse finita, come sentenziò il
celebre saggio del sociologo Francis Fukuyama; dopo la crisi finanziaria del
2008 non hanno trattato la classe operaia con la dignità che meritava; e troppo spesso usano la meritocrazia come un alibi
per mantenere i propri privilegi.
La conclusione della cover-story è che oggi troppi liberal di destra
sono inclini a scegliere uno spudorato matrimonio di convenienza con i
populisti e troppi liberal
di sinistra minimizzano la presenza di un'ala intollerante nelle proprie file.
Se invece di unire le forze si dividono, è il monito finale, le due
correnti del pensiero liberale lasceranno prosperare gli estremisti.
Polacchi e Ucraini:
il Genocidio Dimenticato.
Conoscenzealconfine.it-( 9 Agosto 2022) - Maurizia Leoncini Vecchi- ci
dice :
In un momento in cui “non fa comodo” ricordare le radici naziste dell’Ucraina,
il genocidio dei polacchi da parte degli ucraini durante la guerra mondiale è
passato completamente sotto silenzio.
Mentre US, UK e UE, pur assorbiti dalle loro politiche interne,
continuano ad inviare armi a Kiev (dove Zelensky non arresta le sue staliniane
epurazioni) per foraggiare la guerra di logoramento contro la Russia, un fatto
di non piccola importanza è sfuggito all’attenzione dei media.
In “OGGI 7” del 6 marzo 2022 si era previsto che la
migrazione in massa di popolazione ucraina verso la Polonia, avrebbe
inevitabilmente riaperto ferite mai rimarginate. Così è stato.
Dall’anno 2016, l’11 luglio è, per i polacchi, il ‘giorno della
memoria’, data in cui in tutto il Paese ed anche in ogni comunità e chiesa
polacca su suolo estero si piange il genocidio che avvenne tra il 1939 e il
1945 (ma con particolare ferocia tra il 1943-44) in Ucraina, contro la
popolazione di lingua polacca. 1.500 villaggi polacchi cessarono di esistere e
le terre su cui fiorivano, rase al suolo, divennero proprietà ucraina.
Il Presidente Andrzej Duda ha commemorato la mattanza che ebbe luogo in
Volhynia ed Est Galizia, e che raggiunse il suo apice l’11 luglio 1943, passato
alla storia come ‘Domenica
di sangue’.
Non si trattò di pulizia etnica, ma di genocidio volto a fare scomparire ogni traccia di esistenza di polacchi (ne
furono assassinati da un minimo di 100.000 ad un massimo di 300.000) sul suolo
ucraino.
Sono passati 79 anni, da allora e, ancora una volta (che ci sia ora la
guerra poco cambia), l’Ucraina è rimasta arroccata sulle sue posizioni di
sprezzante diniego che vorrebbero porre sullo stesso piano le vittime del più
spaventoso e atroce massacro occorso durante la Seconda guerra mondiale e le
vittime ucraine (tra 10.000 e 12.000 secondo i calcoli comuni per eccesso),
cadute per mano di partigiani polacchi che cercarono di reagire (troppo tardi),
salvando quel nulla che restava e vendicando i propri morti per quello che si
poteva.
Nel suo discorso, Duda ha ribadito che non vi è intento di vendetta nel
volere che l’Ucraina riconosca l’orrore compiuto dalla propria gente; in questo
momento la Polonia è contro l’invasione russa e accoglie i migranti ucraini,
malgrado il sangue polacco versato per loro mano.
Urge più che mai, anche per
questo, tuttavia, ammettere la verità, riconoscerla e farla universalmente
conoscere. Il Primo
ministro Mateusz Morawiecki ha aggiunto che non ci può essere riconciliazione
tra i due Paesi fino a quando il massacro della Volhynia non sarà commemorato e
non vi sarà pace fino a quando anche l’ultima fossa sul suolo ucraino non sarà
stata aperta (l’esumazione finora ha interessato solo un 10%).
Poco o nulla sappiamo noi, cittadine UE, del genocidio polacco compiuto
dagli ucraini. Prima la copertura di Stalin, troppo impegnato a commettere i
propri crimini per sollevare veli su quelli degli altri, poi, quasi
contemporaneamente, la complicità degli USA che ossessionati alla fine del
conflitto mondiale dal comunismo, protessero quanti più criminali ucraini
poterono, portandoseli negli States per utilizzarli come canale di spionaggio
privilegiato sul suolo dell’URSS.
Poca importanza che fossero nazisti, che avessero commesso atrocità,
che fossero ricercati quali criminali di guerra, che fossero addirittura stati
condannati a morte in contumacia. L’ala protettrice degli USA vegliava su di
loro e mentre a Norimberga si celebrava il processo che avrebbe dovuto rendere
giustizia dei crimini nazisti, i criminali nazisti ucraini trovavano falsi nomi
e la protezione della CIA.
La guerra fredda,
protrattasi fino alla caduta del muro di Berlino, giustificava ogni cosa, mentre il silenzio cadeva, pesantissimo, su di un
genocidio che i libri di storia ignoravano ed era tramandato, come per tutte le
tragedie che investono un popolo, di padre in figlio in attesa che ci fosse,
per i morti, giustizia.
Dopo la fine dell’URSS, la verità ha iniziato a emergere e gli studi si
sono susseguiti. La politica degli USA, tuttavia, volta all’espansione della
NATO a Est e a programmare, tramite l’Ucraina, tensioni crescenti con la
Russia, non ha favorito la ricerca degli studiosi.
Il ‘politicamente corretto’, che ha indotto nell’UE l’autocensura dei giornalisti, ha portato, in USA, all’autocensura addirittura di
studiosi in precedenza meritevoli di avere, se pur molto parzialmente,
affrontato comunque il problema del genocidio polacco.
Lo storico Timothy Snyder di Yale, ad esempio, autore di ‘Blood-lands’,
malgrado avesse già in precedenza ridotto al minimo i crimini ucraini, si è
affrettato, ora, apertasi la guerra in Ucraina, addirittura a ‘lavare’ anche
quel poco che aveva documentato (wsws.org),
giungendo a giustificare Bandera e facendone il simbolo dell’irredentismo
ucraino, riemerso attraverso l’attuale dilagante nazismo (non dimentichiamo che
partiti nazisti, nel cui programma vi è la pulizia etnica contro i russofoni,
sono nel governo Zelensky).
Poco importa che a Bandera si debba un milione di ebrei uccisi e che al
suo braccio destro, Mykola Lebed, siano da ascrivere almeno 37.000 polacchi
massacrati. Lebed, protetto dalla CIA è fra i criminali che finirono i loro
giorni, serenamente, negli USA, con incarichi di alto livello nei Servizi.
Intanto, in Polonia, con fatica e dolore si è iniziata a scrivere la storia
negata.
Nel 2000 è uscito un monumentale, documentatissimo lavoro ad opera di
Wladyslaw e Ewa Siemaszko (‘Genocide
committed by ukranian nationalists on the polish population of Volhynia during
world war II 1939-45’), a
tutt’oggi punto di riferimento obbligato per ogni studio (cfr. anche l’attuale ‘Genocidium Atrox’), che riprende importantissime testimonianze e quanti più documenti ancora
esistenti, da cui è inequivocabile il progetto e l’attuazione del massacro.
Un ordine dell’OUN (Organizzazione dei nazionalisti di Bandera, ad oggi
modello di riferimento in Ucraina) impone (inizi 1944): “Liquidate ogni traccia di polacchi. Distruggete tutti
i muri di chiese polacche e di loro luoghi di culto. Distruggete i loro
frutteti e campi e tutto di loro di modo che non esista più traccia del fatto
che abbiano messo piede su questa terra… “. E ancora (16 aprile 1944): “Uccidete i polacchi senza pietà. Non deve esserne
risparmiato uno solo. Questo anche nel caso dei matrimoni misti”.
Tra il 1919 e il 20 si era consumata ai confini polacchi, una guerra
civile ucraino-polacca, conclusasi con la vittoria dei secondi e la
costituzione della ‘Seconda Repubblica Polacca’, ma nulla poteva fare presumere
che dopo più di 20 anni di convivenza, che pareva pacifica, gli ideali nazisti per la pura razza ucraina sarebbero
giunti a compiere il più spaventoso genocidio, in quanto ad atrocità, che la
Storia moderna registri.
A questo proposito, vale soffermarsi su quanto accadde, con particolare
attenzione alla Volhynia e che pone tale mattanza al di fuori di qualsiasi
‘canone dell’orrore’ in cui lo sterminio di esseri umani possa ricadere (alcuni
confronti li possiamo solo parzialmente dedurre dai resoconti delle stragi
cosacche del XVII secolo e dal genocidio dei Serbi di Prebilovci, oltre 800
donne e bimbi, per mano Croata nel 1941).
La singolarità del genocidio polacco è nell’attiva partecipazione di
tutta la popolazione ucraina della regione, armata con asce, coltelli, forconi
(qualora le armi mancassero), nell’impedire ai polacchi di mettersi in salvo,
nell’ostacolare ogni deportazione, negli attacchi sempre notturni,
nell’organizzazione di assatanate donne rapaci e addirittura ragazzi e bambini
istruiti a razziare e a infierire e finire i feriti. Tutto ciò nulla ha a che vedere con l’attiva
partecipazione ucraina allo sterminio tedesco-nazista degli ebrei e degli ebrei
polacchi, il che riveste un capitolo a parte.
L’Olocausto fu perpetrato da organizzazioni criminali in divisa (Einsotzgruppen der Sicherheitspolizei o
Sicherheitsdiertst). Questo
non avvenne, nel caso dei polacchi.
Le truppe di Bandera, Bulba, Melnik addestrate dai
tedeschi, non furono determinanti. Determinanti furono le migliaia e migliaia di contadini e locale ‘gente
perbene’ che, nel delirio di massa di una pura razza ucraina, compirono le più
bieche atrocità contro i propri vicini, incendiando villaggi, torturando e
crocifiggendo, scuoiando e squartando, impalando (anche i neonati sulle
baionette), facendo a pezzi corpi vivi a colpi d’ascia, stuprando, massacrando
il ventre delle donne incinte, sventrando, bruciando vivi singolarmente e nei roghi
collettivi e seppellendo vivi nelle cavità dei pozzi chiunque avesse sangue
polacco nelle vene.
Speciale menzione va riservata alla sorte del coniuge polacco nei
matrimoni misti e ai bambini nati dal matrimonio. Mai, in nessun genocidio, abbiamo il coniuge che
massacra il proprio sposo, né l’assassinio dei propri bambini, unicamente rei
di avere non puro sangue ucraino nelle vene. Perfino l’Olocausto non registra simile barbarie. Altro carattere particolare è che il genocidio polacco
d’Ucraina non è eseguito da forze occupanti, ma da quegli ucraini che erano
stati polacchi sotto la Seconda Repubblica di Polonia e che conservarono poi
accuratamente i propri documenti (o usarono quelli dei morti) per servirsene
nella fuga verso l’Ovest a fine guerra.
Inoltre, la distruzione totale dei villaggi, completamente rasi al
suolo al punto da rendere non rintracciabile la loro esatta ubicazione, non
trova riscontro in altri abomini.
Dopo il massacro di Wola Ostrowiecka il comandante locale Lysiy, poteva
annunciare: “Abbiamo
liquidato tutti i polacchi, dai più giovani ai più anziani. Abbiamo bruciato ogni
cosa e ci siamo impossessati di ogni loro avere”. Questo è quanto le fonti (Siemaszko, Genocidium
Atrox) registrano.
Certo vi furono anche eccezioni: ucraini che preferirono morire con la propria famiglia
‘mista’ o pagarono con la vita il rifiuto di partecipare alla mattanza, ma
furono esempi rari come gocce di pioggia sull’Oceano del Male. I genocidi sono un peso enorme, sulla coscienza di
un popolo. I tedeschi,
tuttavia, seppero guardare al proprio orrore e chiedere perdono (Presidente
Roman Herzog, Varsavia 1.8.1994) alla Polonia.
Così fecero i russi (Presidente Boris Yeltsin, 25.8.1993) che chiesero
perdono per i 22.000 soldati polacchi prigionieri sterminati in Katyn e del cui
massacro Stalin incolpò falsamente i tedeschi.
Non una sola parola, invece, è giunta dal popolo ucraino. Poroshenko, rispose con il disprezzo e bloccò le
esumazioni. Un popolo che non sa chiedere un perdono per la propria barbarie è un popolo
che ha perso il contatto con la propria umanità e resta facile preda di
recidive.
È quanto abbiamo visto accadere in Ucraina, su istigazione, questa
volta, non tedesca, ma, più o meno indirettamente, statunitense.
Il nazismo, la pura razza
ucraina, gli eccidi del Donbass, le torture registrate nei documenti ONU e
OSCE, fanno degli ucraini una popolazione complessa, che questa guerra e
l’interessato sostegno degli USA e dell’UE non aiuta ad un confronto con il
proprio passato.
Quello che vediamo in Zelensky è l’arroganza dell’impunità: non un
passo verso Duda, l’11 luglio, giorno della memoria, e non una sola parola si è
spesa nell’UE per chiedere giustizia per il genocidio polacco perpetrato dagli
ucraini. I genocidi non vanno in prescrizione.
Portati davanti ai tribunali i loro massacri, ci sarebbe speranza, per
il popolo ucraino, di guardare a un futuro non caratterizzato dall’apologia di
nazismo, di una pura razza ucraina in nome della quale giustificare mattanze,
mentre l’impunità lo rende facile preda di nuovi orrori (non dimentichiamo
Odessa e la pulizia etnica iniziata da Poroschenko nel Donbass nel 2014 e
proseguita fino all’intervento russo). Apologie e metodi sembrano sempre gli
stessi.
L’UE, che tanto avrebbe potuto e potrebbe, tace, troppo impegnata a inviare armi che seminano morte e
distruzione, dimostrandosi,
ancora una volta, complice.
Su tutti noi pesa il giudizio della Storia che non conosce perdono.
(Maurizia Leoncini Vecchi- luogocomune.net/22-storia-e-cultura/6044-polacchi-e-ucraini-il-genocidio-dimenticato)
Elezioni 2022:
la Trappola Nascosta.
Conoscenzealconfine.it- ( 8 Agosto 2022)-
Franco Del Moro : ci dice:
E così, dopo aver spaccato il popolo in due fronti contrapposti
(obbedienti e resistenti), ora sono riusciti a frantumare anche il fronte della
dissidenza che, evidentemente, cominciavano a temere.
Il dispositivo usato – le elezioni – era in effetti imprevedibile,
anche se i più lungimiranti sapevano che prima o poi avrebbero trovato e
sfruttato le nostre debolezze per farci inciampare lungo il cammino verso la
liberazione.
Forse le dimissioni di Draghi, certo non casuali, erano state
programmate proprio per il momento in cui l’onda del dissenso si sarebbe
ingrossata troppo. Sapevano
che la caduta del governo avrebbe generato una corsa al potere di tutte le
correnti della resistenza, e che questa avrebbe causato proprio la dissoluzione
dei legami di fratellanza che si erano venuti a creare e la perdita della
visione comune.
Tutte le ragioni e tutte le posizioni prese dagli esponenti di queste
correnti in vista delle elezioni (candidati, non candidati, pro voto, pro
astensione…) sono legittime e sensate, ma quello che sfugge è il disegno
complessivo, ovvero l’effetto che stanno ottenendo, che è proprio quello che
volevano: una infuocata
assemblea condominiale, dove i vicini di casa anziché unirsi in una visione
comune si scontrano gli uni contro gli altri per questioni secondarie che
amplificano i personalismi e le ambizioni nascoste.
Non erano riusciti a dividerci prima, sono riusciti a farlo adesso.
Con (l’apparente) crisi di governo hanno avvelenato il pozzo. Sappiamo
bene che con le prossime elezioni non cambierà niente, i satrapi del governo
andranno avanti con la loro agenda liberticida come se niente fosse successo;
il potere, quello vero (dei
globalisti occidentali capitanati da Klaus Schwab.Ndr) non verrà nemmeno scalfito dagli scrutini, qualunque
sarà l’esito.
Ma noi non saremo più gli stessi di prima. Ne usciremo rancorosi e
divisi. Ci siamo cascati, era una trappola ben nascosta, difficile da evitare.
Facciamo tesoro di questa lezione, e cominciamo sin da adesso a pensare a un
percorso di guarigione basato sul dialogo e sull’incontro, con o senza
rappresentanza politica. O non ritroveremo mai più l’unità perduta.
(Franco Del Moro-100giornidaleoni.it/blog/elezioni-2022-la-trappola-nascosta/)
A Noi…
Conoscenzealconfine.it-( 8 Agosto 2022) - Francesco Polimeni- ci dice:
I purosangue, gli eletti dell’arca invisibile, gli unici che hanno
saputo resistere quando tutto è affondato.
Anche se fossi poli-inoculato e con vaccinazione completa, ammirerei i
purosangue per essere stati capaci di resistere alla più grande pressione mai
vista, anche da parte di partner, genitori, figli, amici, colleghi e medici.
Le persone che sono state capaci di tale personalità, coraggio e
capacità critica sono, senza dubbio, il meglio dell’umanità. Sono ovunque, di
tutte le età, livello educativo, condizioni e idee. Sono di una pasta speciale, sono i soldati che ogni
esercito di luce vorrebbe nelle sue file.
Sono i genitori che ogni bambino vorrebbe e i figli sognati da
qualsiasi genitore. Sono esseri al di sopra della media delle loro società,
sono l’essenza degli umani che hanno costruito tutte le culture e conquistato
orizzonti. Sono lì, accanto a te, sembrano normali, ma sono dei supereroi.
Hanno fatto quello che altri non hanno potuto, sono stati l’albero che
ha resistito all’uragano degli insulti, delle discriminazioni e
dell’emarginazione sociale. E lo hanno fatto pensando di essere soli, credendo
di essere gli unici.
Banditi dai tavoli delle loro famiglie a Natale, non si è mai visto
niente di così crudele. Hanno perso il lavoro, hanno lasciato che le loro
carriere affondassero, sono rimasti senza soldi… ma non gli importava. Hanno
sopportato discriminazioni, segnalazioni, tradimenti e umiliazioni
incommensurabili… ma hanno continuato.
Mai prima d’ora nell’umanità c’è stato un ‘casting’ simile, ora
sappiamo chi sono i migliori sul pianeta Terra. Donne, uomini, vecchi, giovani,
ricchi, poveri, di ogni razza o religione, i purosangue, gli eletti dell’arca
invisibile, gli unici che hanno saputo resistere quando tutto è affondato.
Questi siete voi, avete superato una prova inconcepibile a cui molti
tra i più duri marines, commando, berretti verdi, astronauti e geni non hanno
saputo resistere. Siete fatti della stoffa dei più grandi che siano mai
esistiti, quegli eroi che nascono tra le persone normali e che brillano
nell’oscurità.”
Francesco Polimeni (youtube.com/channel/UC88FaBxNEXA6rVsbw3I0t5Q/videos)
(t.me/lealidelbrujo).
Differenza tra liberale
e progressista.
It.salwakinome.com- Redazione- (2-7- 2022)- ci dice :
Introduzione.
I termini liberale e progressista, entrambi hanno connotazione del
libero pensiero, privo di conservatorismo, comunismo, pregiudizi e falsi
orgoglio.
L'ideologia dietro i termini è
favorevole all'idea di modernità.
Le persone usano i termini per identificarsi con un marchio sociale che
occupa una posizione stimata nella psiche sociale.
Diverse società concepiscono i termini in modo diverso, a seconda della
struttura sociale e dei valori che prevalgono nella società particolare. Molte
volte i termini sono usati in modo intercambiabile. Eppure esistono alcune
differenze tra i due. Questo
articolo è un tentativo di far luce su alcune delle differenze pronunciate tra
i due.
Differenza nell'origine e nell'evoluzione.
Liberale.
Il termine liberale, si è evoluto dalla parola latina Liber fu usato
per la prima volta nel 1375 per indicare le arti liberali come si adatterebbe
ai pensieri liberi delle persone.
L'idea di un pensiero liberale
che era esistito tra poche persone nell'antica Grecia, iniziò a trovare il
pubblico di massa durante la guerra civile inglese nel 1640 tra parlamentari e
realisti sulla questione del modo di governare, che portò all'esecuzione del re
Carlo I, esilio per il figlio re Carlo II e abolizione della monarchia con
costituzione della prima ricchezza comune d'Inghilterra.
Il movimento politico radicale
guidato da i Livellatori fu determinante nel garantire il suffragio, la
tolleranza religiosa e l'uguaglianza agli occhi della legge per il popolo
d'Inghilterra.
John Locke (1632 - 1704), designato come il padre del liberalismo
classico e famoso per il suo Teoria del contratto sociale fu il primo filosofo
e pensatore politico inglese a dare una forma definitiva a queste idee liberali
dei livellatori.
Locke ha diffuso la nozione radicale secondo la quale
il governo deve prendere il consenso dei governati per governare e il governo
rimane legittimo fino a quando non ci sarà il consenso.
La gloriosa rivoluzione nell'Inghilterra del XVII secolo, che vide il
sovvertimento dei re di Inghilterra, Scozia e Irlanda, solidificò l'idea del
liberalismo. Durante il
XVIII secolo, l'idea del liberalismo proliferò in molti paesi europei. Molte
monarchie in tutta Europa erano minacciate dalla proliferazione della filosofia
del liberalismo nella società borghese.
Baron de Montesquieu (1689 - 1755), il noto filosofo francese fu il
paladino della filosofia del liberalismo con i suoi scritti che hanno avuto
un'enorme influenza in Francia e fuori dalla Francia sul concetto prevalente
sulla natura del governo.
L'idea del liberalismo passò attraverso l'era della rivoluzione
americana alla fine del 1760 che culminò con l'istituzione della Costituzione
degli Stati Uniti.
La rivoluzione francese del 1789 che ha portato alla presa della
Bastiglia è considerata da molti storici famosi come il trionfo del liberalismo.
Nel XVIII secolo, diversi scrittori potenti e influenti come Charles
Dickens, Thomas Carlyle e Matthew Arnold scrissero profusamente a sostegno del
liberalismo sociale e contro le ingiustizie nella società. John Stuart Mill
(1806-1873), noto economista, filosofo e pensatore politico britannico, fu un
convinto sostenitore del liberalismo sociale.
Durante il diciannovesimo secolo molte parti dell'Europa e dell'America
videro la nascita di governi con idee liberali. Le due guerre mondiali sono
viste anche dagli storici come la vittoria degli stati con l'ideologia politica
liberale.
La caduta del muro di Berlino e la disintegrazione del blocco sovietico
hanno rafforzato la penetrazione delle idee liberali tra la massa. La maggior parte degli stati moderni nel mondo sono
ora governati da partiti con un manifesto liberale.
Progressivo.
Il filosofo tedesco Immanuel Kant (1724 - 1804), noto anche come padre
della filosofia moderna, si presume sia il primo scrittore a sollevare l'idea
del progresso come il movimento dalla barbarie alla civiltà.
Nicolas de Condorcet (1743 - 1794) il famoso filosofo francese,
matematico e politologo consolidò ulteriormente l'idea alla base del
progressismo.
Durante il diciannovesimo e ventesimo secolo, molti scrittori e
pensatori politici scrissero a favore del progressismo come base dell'economia
moderna e della società.
Il filosofo tedesco Georg Wilhelm Friedrich (1770 - 1831) fu
determinante nel diffondere l'idea di progressismo in tutta Europa, che in
seguito influenzò Karl Marx nel plasmare la sua ideologia politica.
Nel diciannovesimo secolo, l'ascesa del capitalismo, l'ineguaglianza
nel reddito tra le persone e i conflitti violenti tra capitalisti e classe
operaia nel mondo occidentale hanno dato adito a una diffusa apprensione che il
progresso sociale fosse soffocato dai capitalisti e dai governi filocapitalisti.
In Germania e in Inghilterra i governi hanno promulgato alcune misure
progressive di assistenza sociale.
Il periodo tra la fine del XIX e l'inizio del XX
secolo è chiamato l'era progressista dell'America, quando il progressismo si trasformò
dal movimento sociale in un movimento politico.
Era opinione diffusa in America che le malattie sociali come la
povertà, l'analfabetismo, la violenza e altri mali potessero essere sradicati
iniettando idee progressiste nei rapporti di istruzione e di lavoro. I presidenti americani Theodore Roosevelt e Woodrow
Wilson hanno abbracciato la filosofia del progressismo. A poco a poco l'idea di progressismo si diffuse in
Sud America, Europa e Asia.
Differenza nel concetto.
Liberale.
Liberale è una persona che sostiene l'idea di base del liberalismo che
è "libertà e uguaglianza".
Poiché il liberalismo ha connotazioni diverse, anche il liberalismo.
Una persona politicamente liberale può sostenere un partito politico liberale
che è laico e non fa un manifesto elettorale per le questioni religiose.
Allo stesso modo una persona economicamente liberale può sostenere
laizzes faire politica del governo quando si tratta di controllare il mercato.
Allo stesso modo una persona socialmente liberale può sostenere i
matrimoni interreligiosi.
Tutti questi punti di vista tuttavia convergono nell'idea fondamentale
della libertà e dell'uguaglianza per ogni essere umano, e nessuna forza
istituzionale sarebbe permessa di ferire queste idee per il bene della pace e
della dignità degli esseri umani.
Un liberale a tutto tondo è colui che sostiene il laissez
faire nel controllo del mercato, soccorrendo le aziende e sponsorizzando anche
le ricerche delle compagnie farmaceutiche private su farmaci meno costosi con
denaro dei contribuenti per quanto riguarda le politiche governative, le pratiche politiche laiche e l'elezione equa,
nessuna interferenza nelle credenze e le pratiche religiose individuali,
l'uguaglianza di genere in tutte le sfere della vita e, soprattutto, l'adesione
al diritto e alla dignità umana.
Progressivo.
Progressivo è un'ideologia che riflette un atteggiamento più proattivo
da parte di chi lo sostiene. Una
persona progressista cercherebbe cambiamenti e riforme in tutte le sfere della
vita umana, sociale, politica, economica e personale. Una persona progressista si opporrà alle spese del
governo dai soldi dei contribuenti per salvare una società che affonda;
piuttosto suggerire che le attività della società dovrebbero essere altrimenti
utilizzate per produrre beni e servizi.
Allo stesso modo una persona progressista sosterrebbe la proposta di
finanziamenti governativi ai partiti politici per le elezioni e l'auditing dei
fondi dei partiti politici, abolirà il sussidio governativo e le riserve
classificate nell'istruzione.
Quando si parla di educazione, un progressista è una persona che
sosterrà l'educazione sessuale nei programmi scolastici.
Tutti questi punti di vista presi insieme equivalgono al concetto
sottostante di avanzamento o progresso della società umana. In generale, gli abbonati all'ideologia progressista
pensano e lavorano per la giustizia sociale, l'emancipazione della parte povera
e più debole della società, fornendo assistenza legale alle persone oppresse
dal governo e da altre forze organizzate. Una persona progressista crede che il
suo modo di pensare sia favorevole allo sviluppo sociale.
Sommario.
Il liberale è un concetto molto più vecchio rispetto al progressivo.
L'idea del liberalismo si è evoluta attraverso secoli e rivoluzioni;
l'idea di progressive è entrata in una luce calcarea dopo il rinascimento.
I progressisti assumono atteggiamenti più proattivi rispetto ai
liberali.
IL PROGRESSISTA POSTMODERNO.
Diacritica.it - Francesco Postorino – (25-2-2022)- ci dice :
Norberto Bobbio sostiene che il «liberalismo» è una determinata
concezione dello stato limitato sia per quel che riguarda i suoi poteri («stato
di diritto») sia rispetto alle sue funzioni («stato minimo»). Nel primo caso,
si contrappone alle ambizioni del legibus solutus – si pensi al Leviatano di
Hobbes −; nel secondo caso, il liberalismo contrasta la deriva interventista
dei poteri pubblici.
Le dichiarazioni dei diritti nella Virginia del 1776 e nella Francia
del 1789 traggono origine dalla lezione di John Locke elaborata un secolo
prima. L’individuo, suggerisce il padre del liberalismo moderno, dispone di tre
diritti naturali: il diritto alla vita, alla libertà e alla proprietà, «ai
quali, con il passaggio allo stato civile, non può rinunciare, e anzi il
governo, istituito con il contratto, ha come principale funzione quella di
garantirli». Tali diritti spettano al cittadino universale.
Il marxismo nasce nel corso dell’Ottocento anche in esplicita
contrapposizione alla figura illuministica del citoyen. Quest’ultimo, come
viene detto da Karl Marx nella Questione ebraica, non esiste nella realtà
effettuale. Crede di essere titolare di diritti eterni, ma nella terra delle
ingiustizie si ritrovano puntualmente sfruttati e sfruttatori: i primi appartengono
alla classe dei proletari, gli altri a quella dei borghesi. La libertà dei
«moderni», lascia intendere Marx, è una libertà cerimoniale che si condensa nei
cieli astratti e non sfiora la vita degli uomini-merce.
L’irruzione della questione sociale, scaturita dalla rivoluzione
industriale, ha aggiunto, in effetti, alla dicotomia che intercorre tra la
libertà degli «antichi» e quella dei «moderni» − illustrata, com’è noto, da
Benjamin Constant all’Ateneo reale di Parigi nel 1819 −, il divario filosofico,
storico e politico tra la libertà «negativa» e la libertà «positiva», “messe in
luce” da Isaiah Berlin ad Oxford nel 1958.
La libertà negativa,
accolta dal liberalismo tradizionale, si fonda sull’assenza di impedimenti
esterni (la libertà da); la
variante positiva sarà
elogiata, seppur ad oltranza, dai movimenti comunisti, collettivisti e
democratici (la libertà di).
Il filosofo John Stuart Mill, nel XIX secolo, cerca in proposito un
compromesso ideale e si rivela il precursore della corrente liberal grazie al
principio del neminem laedere, reimpostato in chiave liberale, e alla sua
«indignazione per le condizioni di ingiustizia sociale e di depravazione». Mill
vuole socializzare il liberalismo senza scivolare nel terreno
social-comunistico.
Il liberalismo sociale di Mill influenzerà Leonard Hobhouse e il suo
Liberalism del 1911. Quest’opera segnerebbe per certi versi l’inizio ufficiale
di una nuova ideologia: un liberalismo che non archivia le libertà tipicamente
liberali, anche se parimenti propugna con decisione l’intervento pubblico in
economia e nelle formazioni sociali.
Di qui la tensione tra un liberalismo conservatore e una sensibilità
liberal-progressista. Il primo, dal respiro «realista», s’intreccia sul piano storico con il patriottismo
risorgimentale, con l’anticomunismo, la Destra storica, esprime una preferenza «umanistica»
sulla cultura scientifica e, in futuro, aderirà a pieno titolo all’economia di
mercato.
La seconda, più «utopica», trova un riscontro nelle socialdemocrazie europee
e nel liberalsocialismo continentale, oltre che una ripresa significativa,
negli Stati Uniti, con la teoria della giustizia come equità esposta da John
Rawls nel suo A theory of justice del 1971, che avrebbe ispirato, per alcuni
studiosi, le scelte politiche del presidente di centro-sinistra Bill Clinton e
in generale della Third Way teorizzata da Anthony Giddens.
Su quest’ultimo punto, a dire il vero, pare molto più attendibile la
ricostruzione storico-critica di Serge Audier, secondo cui non vi sarebbe
stretta compatibilità tra il socialismo liberale europeo (o appunto la corrente
egalitaria di matrice rawlsiana) e la tradizione politica del riformismo
democratico sbocciato alla fine del secolo precedente. In ogni modo, Mill, Hobhouse e Rawls pongono in
diverse epoche le basi filosofiche della” prospettiva liberal”.
Marcello Veneziani è dell’avviso che l’approccio liberal si consegna all’ideale, al piano normativo di una
legge che s’intrufola per vie arbitrarie nel quotidiano. Il liberal, a suo parere, combina empirismo
metodologico e idealismo morale, offre un’opzione laburista e democratica «fino ad accogliere come compagni di strada anche i
radical e i comunisti»; si libera inoltre dai legami e punta tutto
«sull’emancipazione dell’individuo dai vincoli sociali, territoriali,
familiari, tradizionali».
All’indomani del Terzo millennio sembra, tuttavia, che sia svanito il sogno liberal intento a raddrizzare il legno storto dell’umanità. Alcuni socialisti riformisti contemporanei, come
Monique Canto-Sperber, salutano con viva soddisfazione il consolidamento
dell’economia e della cultura liberale in quanto «nous a débarrassés de l’utopie».
Kant, il messaggio illuminista e il senso musiliano della possibilità
si mostrano impotenti di fronte ad Hegel, Burke e le puntuali repliche della
storia.
L’utopista ha ceduto e la realtà ha vinto. Ha vinto l’idea che reputa improponibile non solo
il tentativo di affidare a un meccanismo giacobino il compito di far tabula
rasa, ma altresì la semplice
opportunità di revisionare l’ente e il mondo.
La tensione fra l’ideale e il reale, tra il dover essere e l’immanente
sembra, dunque, cancellata, con buona pace per la cultura liberal.
Pio XII denuncia la sfera del cambiamento, dichiarando che i ricchi e i
poveri ci sono sempre stati e sempre ci saranno. Questa «verità» non disturba la coscienza di un neo-progressista
che ha trovato asilo in una società inginocchiata alla morte di Dio. Se Dio muore, anche per la mente liberal, smette di
avere senso la dimensione sociale della vita. Il collettivo, l’insieme, il bisogno di offrire
narrazioni in favore del prossimo si sgretolano nel vasto oceano della
retorica.
Così emerge il politically correct, si galleggia nella superficie delle cose, si
riempiono gli spazi televisivi, si veste bene, si possiede lo yacht, si
rivendicano cospicue somme di denaro in nome del libero mercato, si inseguono i
modelli manovrati dal rito mediatico, si commercializzano beni dal significato morale.
Contemporaneamente , si fa fatica a incrociare, per dirla con Lévinas,
il volto «nudo» dell’altro, o quello che Habermas chiama «la persona dell’altro
(degli altri) nella sua specifica diversità».
Il liberal alberga
in un confuso pragmatismo che lo rende sempre più vicino ai centri di potere –
spesso s’identifica con essi – e distante dalle masse, dagli uomini al plurale,
da chi domanda con voce stanca sincere forme di tutela.
Il nuovo liberal non a caso familiarizza politicamente con i governi
moderati. Considera
superata la scelta di rilanciare la tematica della redistribuzione del reddito
e segue le mode, l’agenda liberista. Finge di ascoltare la sofferenza sociale perché
rincorre, anche lui, il vecchio modello del self made man.
Con l’annuncio profetico del Gott ist tot, viene meno l’empatia e irrompono il monologo, le
solitudini, la giungla della competitività. Si cessa di parlare e si è parlati da strutture e
sovrastrutture che celano la triste immagine del postmoderno.
Che il liberal,
come riferisce Raimondo Cubeddu, non accetti l’autonomia della sfera economica
da quella politica ed etica, e
le contrapponga «una concezione del mercato come organizzazione finalizzata al
conseguimento di obiettivi etico-politici (giustizia sociale)», non sembra più
attendibile.
«È giusto che vinca il più bravo!», esclama oramai dentro di sé quel
progressista che ha scoperto la meritocrazia e l’individualismo.
Piero Calamandrei si chiede
perché non dovrebbe essere logicamente permesso, senza con questo
toccare il sistema della libertà, inserire tra questi diritti di libertà che
sono condizioni a priori del regime liberale, l’affermazione di un minimum di
benessere economico considerato anch’esso come condizione perché i cittadini
possano partecipare liberamente alle lotte politiche.
Oggi questa pretesa rischia di non avere più senso logico e politico. Dietro l’impulso hobbesiano dell’homo homini lupus,
quasi tutto è permesso. La scuola di don Milani si rivela un insulto, un sentiero
pericoloso.
Il liberal, che sfrutta la mano
invisibile del mercato, diffida dell’egualitarismo. La retorica gli suggerisce la difesa formale della
scuola pubblica, solo che lui e i suoi figli dovranno educarsi in prestigiose
università private, coltivando diverse atmosfere.
La sua concezione cosmopolitica si piega a una lettura improntata
all’«io minimo», a quell’«io narcisista» che svuota di senso qualsiasi
contenuto, vivendo «giorno per giorno» senza alcun sentimento etico.
Egli si trova a proprio agio nei luoghi «innocenti» del nulla, ovvero
in una società liberale in cui, come scrive il marxista Jean-Claude Michéa, si
riconoscono solo le relazioni fondate sullo «scambio commerciale» e sul
«contratto giuridico», e dove il principio utilitaristico del do ut des ha
cancellato «l’incontro autentico e disinteressato».
Spezzando il categorico, l’universale, il «sapere narrativo», il
progressista postmoderno non riesce a vivificare il particolare: lo mortifica.
La crisi istituzionale dell’epistéme è sfociata nell’assassinio di Dio,
una morte che riflette sia la fine di un punto di riferimento sia
l’annientamento della persona e crea uno spazio di libertà pronto a
trasformarsi in un vuoto «che gli uomini, privati di una fede che dava senso
alle loro vite, non sono ancora capaci di colmare».
Il soggetto del liberal, infatti, non è più la «persona», nel senso
socratico e kantiano dell’espressione.
Non è l’individuo innalzato a
valore da Hobhouse o dalla corrente personalistica a cavallo tra le due guerre
mondiali, quella che in Francia scopre le tesi di Emmanuel Mounier e in Italia
la filosofia liberalsocialista del «lui» promossa da Guido Calogero.
Il suo protagonista è, al contrario, il Dasein di Heidegger,
l’Übermensch di Nietzsche, o qualunque superuomo che abbia distrutto dentro di
sé il tribunale kantiano della raison e, come un «fanciullo innocente» che
dondola in una «ruota ruotante da sola», riproponga una doxa ambientata nella
scuola sofista.
L’opinione non è più il momento di uno scambio guidato dalla
«persuasione», perché si è convertita in un «punto di vista» che si somma e si
giustappone ad altri in un circuito senza senso, allenato a rimuovere la
domanda (senza tempo) di Socrate e del suo allievo Jan Patočka. Così, il rispetto incondizionato per «il diritto degli
uomini» diviene elemento facoltativo per le attività di governo e si nullifica
entro le dinamiche neo-progressiste votate al senso del precario.
Il «punto di vista» si condensa nei labirinti della retorica, del
fittizio, litigando con le direttive etiche e, dunque, con quella linea di
demarcazione che divide lo spazio umanistico del possibile dal reale così
com’è. Il progressista ha bruciato questo confine premiando i processi «fenomenici»
della vita. Il noumeno non incanta più.
L’essenza che, ad esempio, Aldo Capitini identifica con l’universo
sovrasensibile della «compresenza» viene dal nonviolento inserita nell’«ultimo
presente» − quello che si muove al confine delicato tra la finzione del mondano
e la severità heideggeriana della morte – al fine di spegnere questa storia e
rilanciare il volto kantiano del Sollen, insediando un «nuovo presente».
Il progressista di oggi, per converso, ha spento la narrazione del tu
devi in nome del giuoco concorrenziale e delle ipotesi del «nulla». Egli,
coerentemente rimproverato dal proletariato, è divenuto «sterile e vuoto»,
consuma qualunque cosa e «finisce per consumare il consumatore, in una sorta di
eccitazione fine a se stessa».
Il liberal dovrebbe trovarsi in imbarazzo nel mondo delle ingiustizie,
della volontà di potenza, dell’ancien régime di ritorno e, invece, contribuisce
a beatificare tutte le sfumature del modo di produzione capitalistico.
Parafrasando Gilles Dauvé e Karl Nesic, si potrebbe dire che il vestito borghese del liberal
si servirebbe, inoltre, delle istituzioni democratiche allo scopo di impedire
la «riappropriazione collettiva delle condizioni di esistenza» e rinforzare il
divario sociale.
Guido de Ruggiero, un liberale molto liberal, afferma che l’uomo non
deve smettere di lottare fin quando permane l’ultimo privilegio. L’involontario seguace della Sorge cosmica ha
rinunciato al conflitto e ha «eletto il si a proprio “idolo”», assoggettandosi
a una «chiacchiera» esposta nel luogo dei consumi.
Non crediamo che i problemi del liberal siano la matrice illuminista,
la mancanza di un disegno comunitario o il rifiuto metodologico dello
storicismo hegeliano.
L’illuminismo non ha ucciso Dio, essiccando «la sorgente di tutti i
comandamenti e di tutti i limiti». Ha solo eliminato dogmi o valori precedenti.
La nuova prospettiva universalistica, emersa nel secolo dei lumi, non funge,
cioè, da necessario preludio a esiti nefasti quali la cultura dell’egoismo e
del solipsismo.
L’«ospite inquietante», profetizzato da Nietzsche, è il nuovo
spettacolo del non-senso istituito dall’uomo del disincanto: un individuo che, essendo «innocente», si colloca «al
di là del bene e del male».
Esemplificando con lieve
paradosso, si può aggiungere che − nella direzione nichilistica inverata dal liberal odierno − i principi umanistici dell’89 si intrecciano con il
teatro di Auschwitz, in quanto il bene e il male costituiscono il profilo
intrinseco, e mai discusso, di un ente precario gettato nel nulla.
In assenza di un «giudice», di un ruolo terzo (i luoghi della
coscienza) che sancisca senza tergiversare la vittoria del sentimento di
giustizia, l’uomo postmoderno si svincola dagli imperativi e si
deresponsabilizza nell’incontro con gli altri.
Vi è un Io (rigido) e un Tu (flessibile), mentre è sconfitto a priori
il Lui calogeriano. Il Tra, indicato con eloquenza da Martin Buber, si converte
in una resistenza inquietante, un ostacolo che preclude l’assoluto dominio sul
Tu.
Il pensiero illuminista, restio all’«ospite inquietante», se bagnato nel mare della storia,
può riscoprire il dono del rispetto e della dignità umana: le fonti dell’89.
Ciò dipende dalla fede, dal laico ritorno di Dio, del «giudice», di un
autentico Tra o, se vogliamo, di tutti quei valori che, in quanto tali, non si
lasciano imprigionare dal tempo o risucchiare dalla contingenza.
QUESTIONE TRANS: CAMBIO
DI VENTO TRA I PROGRESSISTI.
Feministpost.it – Marina Terragni- (23 giugno 2022)- ci dice :
Il "la" lo danno i democratici americani, ma anche nel resto
d'Occidente la trans-filia dei progressisti comincia a dare segni di cedimento.
Opportunismo elettoralistico, certo. Ma il cambiamento va registrato. Tenendo
gli occhi bene aperti.
Michele Serra è un amico e apprezzo molto che si sia assunto la
responsabilità di rompere il silenzio da sinistra -finalmente
-sull'insopportabile ingiustizia dei corpi maschili negli sport femminili (L'Amaca
sulla Repubblica ieri, 22 giugno), ingiustizia contro la quale lottiamo da
molto tempo (qui troverete un'infinità di testi su questo tema).
Un appunto, se possibile: avrei evitato di usare la definizione woke cisgender, imposta dal transattivismo, e nella quale la stragrande maggioranza delle donne del mondo,
atlete e non atlete, non intende riconoscersi.
Ancorché tardivo, visto che arriva dopo che le federazioni mondiali di
molti sport -dal ciclismo al nuoto al rugby e ora si attende l'atletica- hanno riconosciuto che i corpi maschili nelle
categorie femminili sono unfair (sleali), il segnale è molto interessante. Certo, se fosse arrivato prima si sarebbero
risparmiate molte sofferenze alle atlete e alle non atlete che si sono strette
intorno alla loro battaglia, ma meglio tardi che mai.
Il segnale è interessante perché insieme a molti altri segnali che
arrivano in simultanea ci dice che i progressisti e i liberal si stanno
finalmente rendendo conto che continuare a sposare acriticamente e
"correttamente" la
causa transattivista e queer li
porterà rapidamente a sbattere: per "rapidamente" intendo, per
esempio, le elezioni di midterm a novembre negli USA.
Il banco di prova è stata la Virginia, conquistata dai repubblicani nel
novembre scorso: il
conservatore Glenn Youngkin, ha raccontato proprio La Repubblica, ha vinto in
quanto «capace di rompere tutti i tabù democratici, liquidando la questione
transgender a scuola, la sessualità fluida, promettendo di chiudere i programmi
scolastici che si fondavano sull’analisi critica della teoria della razza».
Ad annunciare il cambio di rotta è scesa in campo nientemeno che
l'ex-segretaria di Stato e candidata alla presidenza Hillary Clinton in
un'intervista al Financial Times, frenando bruscamente sulle politiche
trans-friendly inaugurate dall’amministrazione Obama -detto trans-president- e perseguite con determinazione dal presidente Joe
Biden: uno tra suoi primissimi executive order, giorno 1 da neoeletto, era stata la riammissione delle atlete transgender nelle categorie sportive femminili, il che può dare
l’idea del peso politico della questione. Se
andiamo avanti per questa strada, ha detto in sostanza Hillary, ci giochiamo la
presidenza.
Altro indizio, il cambio di vento al New York Times, quotidiano dei
liberal USA: captando il malcontento dei lettori -che della trans-centralità e in generale del wokeism non ne possono più- in un
clamoroso editoriale pubblicato il 18 marzo scorso aveva ammesso il
«silenziamento sociale» e la «de-pluralizzazione»:
«La solida difesa della libertà di parola era un tempo
un ideale progressista» mentre oggi molti progressisti sono «diventati
intolleranti nei confronti delle persone che non sono d’accordo con loro»
assumendo atteggiamenti di ipocrisia e censura che per lungo tempo sono stati
tipici della destra.
Una delle questioni sulle quali il New York Times ha deciso di rompere
il silenzio è il dramma delle bambine e dei bambini gender non-conforming
-sempre di più- avviati precocemente alla transizione con la somministrazione
di puberty blocker e ormoni, scandalo medico che qualcuno ha paragonato alla
lobotomia del secolo scorso e che rappresenta una ferita aperta per il
manierismo trans-filico progressista (sempre Joe Biden, giusto un paio di mesi fa, aveva diffuso un documento a favore
dell'ormonizzazione dei minori contro il quale c'è stata la rivolta di migliaia
di pediatri americani).
Messi tutti insieme, questi segnali indicano il tentativo liberal
-verosimilmente tardivo- di cambiare strada, tentativo al quale fatalmente si
allineeranno, chi prima chi poi, i partiti progressisti di tutto l'Occidente.
PD compreso, che al
momento resta incagliato nell'insensatezza
dello "o Zan o morte" (scelta che priverà il Paese di una buona legge
contro l'omotransfobia: bastava ripescare il vecchio ddl Scalfarotto, come più
volte abbiamo detto, per trovare una maggioranza parlamentare: proposta
apprezzata solo da Italia Viva) e in una colpevole confusione sulle priorità in
agenda, malcelata da un dirittismo a costo zero.
Non si sa se essere contente oppure no: anni di battaglie a mani nude,
di umiliazioni, di marginalizzazione, di deplatformizzazione e di sprezzante
non-ascolto su un'infinità di questioni, dall'utero in affitto all'identità di
genere: andava bene confrontarsi perfino con Fedez e con le porno-influencer,
con noi mai.
E ora il muro invalicabile che abbiamo avuto davanti si sta riempiendo
di crepe, in gran parte per mere ragioni di opportunismo elettoralistico (e nel
caso dei media, di sopravvivenza: disdette di abbonamenti come se piovesse).
Ci toccherà assistere allo spettacolo di chi ci ha così tenacemente
ostacolato che tenta di andare all'incasso dei guadagni della nostra fatica.
Amen, quello che conta è il risultato. Ma conta anche tenere gli occhi bene aperti, non fare
un solo passo indietro, non rinunciare al proprio protagonismo, non cedere a
facili lusinghe. La strada è ancora lunga e accidentata.
(Marina Terragni).
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