Uno sguardo sul mondo inquieto
Uno
sguardo sul mondo inquieto.
La
diplomazia americana
come
dramma tragico.
Unz.com-
MICHAEL HUDSON –( LUGLIO 29, 2022)- ci dice:
Come
in una tragedia greca il cui protagonista determina proprio il destino che ha
cercato di evitare, il confronto USA/NATO con la Russia in Ucraina sta
ottenendo esattamente l'opposto dell'obiettivo americano di impedire a Cina,
Russia e ai loro alleati di agire indipendentemente dal controllo degli Stati
Uniti sulla loro politica commerciale e di investimento.
Nominando
la Cina come principale avversario a lungo termine dell'America, il piano
dell'amministrazione Biden era quello di dividere la Russia dalla Cina e quindi
paralizzare la vitalità militare ed economica della Cina.
Ma
l'effetto della diplomazia americana è stato quello di guidare Russia e Cina
insieme, unendosi con l'Iran, l'India e altri alleati. Per la prima volta dalla
Conferenza di Bandung delle Nazioni Non Allineate nel 1955, una massa critica è
in grado di essere reciprocamente autosufficiente per avviare il processo di
raggiungimento dell'indipendenza dalla diplomazia del dollaro.
Di
fronte alla prosperità industriale della Cina basata su investimenti pubblici
autofinanziati nei mercati socializzati, i funzionari statunitensi riconoscono
che per risolvere questa lotta ci vorranno alcuni decenni per svolgersi.
Armare
un regime ucraino per procura è solo una mossa di apertura per trasformare la
Guerra Fredda 2 (e potenzialmente / o addirittura la Terza Guerra Mondiale) in
una lotta per dividere il mondo in alleati e nemici per quanto riguarda il
fatto che i governi o il settore finanziario pianifichino l'economia e la
società mondiale.
Ciò
che viene eufemizzato come democrazia in stile americano è un'oligarchia
finanziaria che privatizza le infrastrutture di base, la sanità e l'istruzione.
L'alternativa
è quella che il presidente Biden chiama autocrazia, un'etichetta ostile per i governi abbastanza forti da
impedire a un'oligarchia globale in cerca di rendita di prendere il controllo.
La Cina è considerata autocratica per fornire
i bisogni di base a prezzi sovvenzionati invece di addebitare tutto ciò che il
mercato può sopportare.
Rendere
la sua economia mista a basso costo è chiamata "manipolazione del mercato", come se questa fosse una
brutta cosa che non è stata fatta dagli Stati Uniti, dalla Germania e da ogni
altra nazione industriale durante il loro decollo economico nel 19esimo e primi
anni '20esimo secolo.
Clausewitz
rese popolare l'assioma che la guerra è un'estensione degli interessi
nazionali, principalmente economici.
Gli
Stati Uniti vedono il loro interesse economico nel cercare di diffondere la
loro ideologia neoliberista a livello globale. L'obiettivo evangelistico è quello di
finanziarizzare e privatizzare le economie spostando la pianificazione dai
governi nazionali a un settore finanziario cosmopolita.
Ci
sarebbe poco bisogno di politica in un mondo del genere.
La
pianificazione economica si sposterebbe dalle capitali politiche nazionali ai centri finanziari, da Washington a Wall
Street, con satelliti nella City di Londra, nella Borsa di Parigi, Francoforte
e Tokyo.
Le
riunioni del consiglio di amministrazione della nuova oligarchia si terranno al World Economic Forum di Davos.
Finora
i servizi di infrastrutture pubbliche sarebbero stati privatizzati e valutati
abbastanza in alto da includere profitti (e in effetti, rendite
monopolistiche), finanziamento del debito e commissioni di gestione piuttosto
che essere sovvenzionati pubblicamente. Il servizio del debito e l'affitto
diventerebbero i principali costi generali per le famiglie, l'industria e i
governi.
La
spinta degli Stati Uniti a mantenere il loro potere unipolare di imporre
politiche finanziarie, commerciali e militari "America First" al
mondo comporta un'ostilità intrinseca verso tutti i paesi che cercano di
seguire i propri interessi nazionali.
Avendo
sempre meno da offrire sotto forma di reciproci guadagni economici, la politica
degli Stati Uniti minaccia sanzioni e ingerenza segreta in politica estera. Il sogno degli Stati Uniti prevede
una versione cinese di Boris Eltsin che sostituisca la leadership del Partito
Comunista della nazione e svenda il suo dominio pubblico al miglior offerente – presumibilmente dopo che una crisi
monetaria spazzerà via il potere d'acquisto interno proprio come è accaduto
nella Russia post-sovietica, lasciando la comunità finanziaria internazionale
come acquirenti.
La
Russia e il presidente Putin non possono essere perdonati per aver combattuto
contro le "riforme" degli Harvard Boys.
Questo
è il motivo per cui i funzionari statunitensi hanno pianificato come creare la
distruzione economica russa per (sperano) orchestrare una "rivoluzione
colorata" per riconquistare la Russia per il campo neoliberista del mondo. Questo è il carattere della "democrazia" e del
"libero mercato" giustapposti all'"autocrazia" della
crescita sovvenzionata dallo stato.
Come
ha spiegato il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov in una conferenza
stampa del 20 luglio 2022 in merito al violento colpo di stato dell'Ucraina nel
2014, gli
Stati Uniti e altri funzionari occidentali definiscono i colpi di stato
militari come “democratici” se sponsorizzati dagli Stati Uniti nella speranza
di promuovere politiche neoliberiste.
Ti
ricordi come si sono sviluppati gli eventi dopo il colpo di stato? I golpisti sputarono in faccia a
Germania, Francia e Polonia che erano i garanti dell'accordo con Viktor
Yanukovych.
Fu
calpestato la mattina dopo.
Questi
paesi europei non hanno fatto capolino – si sono riconciliati con questo. Un
paio di anni fa ho chiesto ai tedeschi e ai francesi cosa ne pensassero del
colpo di stato. Di cosa si trattava se non chiedevano che i golpisti rispettassero gli
accordi? Hanno risposto: "Questo è il costo del processo democratico". Non sto scherzando.
Incredibile: questi erano adulti che ricoprivano la carica di ministri degli
Esteri.
Questo
vocabolario del doppio pensiero riflette fino a che punto l'ideologia mainstream si è
evoluta dalla descrizione di Rosa Luxemburg un secolo fa della scelta di
civiltà che si poneva: barbarie o socialismo.
Gli
interessi e gli oneri contraddittori degli Stati Uniti e dell'Europa della
guerra in Ucraina.
Per
tornare alla visione di Clausewitz della guerra come un'estensione della
politica nazionale, gli interessi nazionali degli Stati Uniti divergono
nettamente da quelli dei suoi satelliti Nato.
Il complesso militare-industriale americano, i
settori petrolifero e agricolo ne stanno beneficiando, mentre gli interessi
industriali europei ne stanno soffrendo. Ciò è particolarmente vero in Germania
e in Italia a causa dei loro governi che bloccano le importazioni di gas North
Stream 2 e altre materie prime russe.
L'interruzione
delle catene di approvvigionamento mondiali di energia, cibo e minerali e la
conseguente inflazione dei prezzi (fornendo un ombrello per le rendite
monopolistiche da parte di fornitori non russi) ha imposto enormi tensioni
economiche agli alleati degli Stati Uniti in Europa e nel Sud del mondo.
Eppure l'economia statunitense ne sta
beneficiando, o almeno settori specifici dell'economia statunitense ne stanno
beneficiando. Come ha sottolineato Sergey Lavrov nella sua conferenza stampa
sopra citata: "L'economia europea è influenzata più di ogni altra cosa. Le statistiche mostrano che il 40%
dei danni causati dalle sanzioni è a carico dell'UE, mentre il danno agli Stati Uniti è
inferiore all'1%. Il tasso di cambio del dollaro è salito alle stelle contro
l'euro, che è precipitato alla parità con il dollaro e sembra destinato a scendere
ulteriormente verso gli 0,80 dollari che era una generazione fa. Il dominio degli Stati Uniti sull'Europa
è ulteriormente rafforzato dalle sanzioni commerciali contro il petrolio e il
gas russi. Gli
Stati Uniti sono un esportatore di GNL, le società statunitensi controllano il
commercio mondiale di petrolio e le aziende statunitensi sono i principali venditori
ed esportatori di cereali al mondo ora che la Russia è esclusa da molti mercati
esteri.
Una
rinascita della spesa militare europea – per l'offesa, non per la difesa
I
produttori di armi statunitensi non vedono l'ora di trarre profitto dalle
vendite di armi all'Europa occidentale, che si è quasi letteralmente disarmata
inviando i suoi carri armati e obici, munizioni e missili in Ucraina.
I
politici statunitensi sostengono una politica estera bellicosa per promuovere
fabbriche di armi che impiegano manodopera nei loro distretti elettorali.
E i
neoconservatori che dominano il Dipartimento di Stato e la CIA vedono la guerra
come un mezzo per affermare il dominio americano sull'economia mondiale, a
partire dai propri partner della NATO.
Il
problema con questa visione è che, sebbene i monopoli militari-industriali,
petroliferi e agricoli americani ne stiano beneficiando, il resto dell'economia
statunitense viene schiacciato dalle pressioni inflazionistiche derivanti dal
boicottaggio delle esportazioni russe di gas, grano e altre materie prime, e
l'enorme aumento del bilancio militare sarà usato come scusa per tagliare i
programmi di spesa sociale.
Anche questo è un problema per i membri
dell'Eurozona. Hanno promesso alla NATO di aumentare le loro spese militari al 2% del
loro PIL, e gli americani stanno sollecitando livelli molto più alti per
passare alla più recente gamma di armi. Quasi dimenticato è il dividendo della
pace che è stato promesso nel 1991 quando l'Unione Sovietica ha sciolto
l'alleanza del Patto di Varsavia, aspettandosi che anche la NATO avrebbe avuto
poche ragioni per esistere.
La
Russia non ha alcun interesse economico percepibile a montare una nuova
occupazione dell'Europa centrale.
Ciò
non offrirebbe alcun vantaggio alla Russia, come i suoi leader si resero conto
quando sciolsero la vecchia Unione Sovietica.
In
effetti, nessun paese industriale nel mondo di oggi può permettersi di mettere
in campo una fanteria per occupare un nemico.
Tutto
ciò che la NATO può fare è bombardare a distanza. Può distruggere, ma non occupare. Gli Stati Uniti lo hanno scoperto in
Serbia, Iraq, Libia, Siria e Afghanistan. E proprio come l'assassinio
dell'arciduca Ferdinando a Sarajevo (ora Bosnia-Erzegovina) scatenò la prima
guerra mondiale nel 1914, il bombardamento della NATO sulla Serbia confinante
può essere visto come gettare il guanto di sfida per trasformare la Guerra
Fredda 2 in una vera e propria Terza Guerra Mondiale. Ciò ha segnato il punto in cui la
NATO è diventata un'alleanza offensiva, non difensiva.
In che
modo ciò riflette gli interessi europei?
Perché
l'Europa dovrebbe riarmarsi, se l'unico effetto è quello di renderla un
bersaglio di rappresaglia in caso di ulteriori attacchi alla Russia?
Cosa
ha da guadagnare l'Europa nel diventare un cliente più grande per il complesso
militare-industriale americano? Deviare la spesa per ricostruire un esercito offensivo
– che non potrà mai essere utilizzato senza innescare una risposta atomica che
spazzerebbe via l'Europa – limiterà la spesa sociale necessaria per far fronte
ai problemi Covid di oggi e alla recessione economica.
L'unica
leva duratura che una nazione può offrire nel mondo di oggi è il commercio e il
trasferimento di tecnologia. L'Europa ha più di questo da offrire rispetto agli Stati
Uniti. Eppure
l'unica opposizione alla rinnovata spesa militare viene dai partiti di destra e
dal partito tedesco Linke. I partiti socialdemocratici, socialisti e laburisti europei
condividono l'ideologia neoliberista americana.
Le
sanzioni contro il gas russo rendono il carbone "il combustibile del
futuro".
L'impronta
di carbonio dei bombardamenti, della produzione di armi e delle basi militari è
sorprendentemente assente dalla discussione odierna sul riscaldamento globale e
sulla necessità di ridurre le emissioni di carbonio.
Il partito tedesco che si autodefinisce Verde
sta conducendo la campagna per le sanzioni contro l'importazione di petrolio e
gas russi, che
le utility elettriche stanno sostituendo con carbone polacco e persino lignite
tedesca.
Il
carbone sta diventando il "combustibile del futuro". Il suo prezzo sta anche
salendo vertiginosamente negli Stati Uniti, a beneficio delle compagnie
carbonifere americane.
In
contrasto con gli accordi del Club di Parigi per ridurre le emissioni di
carbonio, gli
Stati Uniti non hanno né la capacità politica né l'intenzione di unirsi allo
sforzo di conservazione. La Corte Suprema ha recentemente stabilito che il ramo
esecutivo non ha l'autorità di emettere regole energetiche a livello nazionale;
solo i
singoli stati possono farlo, a meno che il Congresso non approvi una legge
nazionale per ridurre i combustibili fossili.
Ciò
sembra improbabile in considerazione del fatto che diventare capo di una commissione
democratica del Senato e del Congresso richiede di essere un leader nell'aumentare
i contributi elettorali per il partito.
Joe Manchin, un miliardario della compagnia
carboniera,
guida tutti i senatori nel sostegno alla campagna delle industrie del petrolio
e del carbone, permettendogli di vincere l'asta del suo partito per la
presidenza della commissione energia e risorse naturali del Senato e bloccare
qualsiasi legislazione ambientale seriamente restrittiva.
Accanto
al petrolio, l'agricoltura è uno dei principali contributori alla bilancia dei
pagamenti degli Stati Uniti.
Bloccare la spedizione russa di cereali e
fertilizzanti minaccia di creare una crisi alimentare del Sud del mondo e una
crisi europea poiché il gas non è disponibile per produrre fertilizzanti
domestici.
La Russia è il più grande esportatore mondiale
di grano e anche di fertilizzanti, e le sue esportazioni di questi prodotti
sono state esentate dalle sanzioni della NATO.
Ma la
navigazione russa è stata bloccata dall'Ucraina che ha piazzato mine nelle
rotte marittime attraverso il Mar Nero per chiudere l'accesso al porto di
Odessa, sperando che il mondo avrebbe incolpato la Russia dell'imminente crisi
mondiale del grano e dell'energia invece delle sanzioni commerciali USA / NATO
imposte alla Russia. Nella sua conferenza stampa del 20 luglio 2022 Sergey Lavrov
ha mostrato l'ipocrisia del tentativo delle pubbliche relazioni di distorcere
le cose:
Per
molti mesi, ci hanno detto che la Russia era da biasimare per la crisi
alimentare perché le sanzioni non coprono cibo e fertilizzanti. Pertanto, la Russia non ha bisogno
di trovare modi per evitare le sanzioni e quindi dovrebbe commerciare perché
nessuno si frappone sulla sua strada. Ci è voluto molto tempo per spiegare
loro che, sebbene cibo e fertilizzanti non siano soggetti a sanzioni, il primo
e il secondo pacchetto di restrizioni occidentali hanno influenzato i costi di
trasporto, i premi assicurativi, i permessi per le navi russe che trasportano
queste merci per attraccare in porti stranieri e quelli per le navi straniere
che effettuano le stesse spedizioni nei porti russi.
Ci
stanno apertamente mentendo che questo non è vero e che spetta solo alla
Russia. Questo
è un gioco scorretto.
Il
trasporto di grano nel Mar Nero ha iniziato a riprendere, ma i paesi della NATO
hanno bloccato i pagamenti alla Russia in dollari, euro o valute di altri paesi
nell'orbita degli Stati Uniti.
I paesi in deficit alimentare che non possono
permettersi di pagare prezzi alimentari a livello di sofferenza affrontano
drastiche carenze, che saranno esacerbate quando saranno costretti a pagare i
loro debiti esteri denominati in dollari USA.
L'incombente crisi del carburante e del cibo promette
di spingere una nuova ondata di immigrati in Europa in cerca di sopravvivenza.
L'Europa è già stata inondata di rifugiati dai
bombardamenti della NATO e dal sostegno agli attacchi jihadisti contro la Libia
e i paesi produttori di petrolio del Vicino Oriente. La guerra per procura di quest'anno
in Ucraina e l'imposizione di sanzioni anti-russe è un perfetto esempio della
battuta di Henry Kissinger: "Può essere pericoloso essere il nemico
dell'America, ma essere amico dell'America è fatale".
Contraccolpo
dagli errori di calcolo USA/NATO.
La
diplomazia internazionale americana mira a dettare politiche finanziarie,
commerciali e militari che bloccheranno altri paesi nel debito del dollaro e
nella dipendenza commerciale impedendo loro di sviluppare alternative. Se questo fallisce, l'America cerca
di isolare i recalcitranti dalla sfera occidentale centrata sugli Stati Uniti.
La
diplomazia estera americana non si basa più sull'offerta di un guadagno
reciproco.
Ciò potrebbe essere rivendicato all'indomani della seconda guerra mondiale,
quando gli Stati Uniti erano in grado di offrire prestiti, aiuti esteri e
protezione militare contro l'occupazione – così come manifatture per
ricostruire economie dilaniate dalla guerra – ai governi in cambio della loro
accettazione di politiche commerciali e monetarie favorevoli agli esportatori e
agli investitori americani.
Ma oggi c'è solo la diplomazia belligerante di
minacciare di ferire le nazioni i cui governi socialisti rifiutano la spinta
neoliberista americana a privatizzare e svendere le loro risorse naturali e le
infrastrutture pubbliche.
Il
primo obiettivo è impedire a Russia e Cina di aiutarsi a vicenda.
Questa è la vecchia strategia imperiale di
divide et impera. Ridurre al minimo la capacità della Russia di sostenere la Cina
aprirebbe la strada agli Stati Uniti e all'Europa della NATO per imporre nuove
sanzioni commerciali alla Cina e per inviare jihadisti nella sua regione uigura
occidentale dello Xinjiang.
L'obiettivo
è quello di dissanguare l'inventario degli armamenti della Russia, uccidere abbastanza soldati e creare
abbastanza carenze e sofferenze russe non solo per indebolire la sua capacità
di aiutare la Cina, ma per spronare la sua popolazione a sostenere un cambio di
regime, una "rivoluzione colorata" sponsorizzata dagli americani. Il
sogno è quello di promuovere un leader simile a Eltsin amico della
"terapia" neoliberista che ha smantellato l'economia russa nel 1990.
Per
quanto sorprendente possa sembrare, gli strateghi statunitensi non hanno
previsto l'ovvia risposta dei paesi che si trovano insieme nel mirino delle
minacce militari ed economiche USA/NATO.
Il 19
luglio 2022, i presidenti di Russia e Iran si sono incontrati per annunciare la
loro cooperazione di fronte alla guerra delle sanzioni contro di loro. Ciò ha fatto seguito al precedente
incontro della Russia con il primo ministro indiano Modi.
In
quello che è stato caratterizzato come "spararsi sui propri piedi",
la diplomazia degli Stati Uniti sta guidando Russia, Cina, India e Iran
insieme, e in effetti per raggiungere l'Argentina e altri paesi per unirsi alla
banca BRICS-plus per proteggersi.
Gli
stessi Stati Uniti stanno ponendo fine allo standard del dollaro della finanza
internazionale.
L'amministrazione
Trump ha fatto un passo importante per cacciare i paesi dall'orbita del dollaro
nel novembre 2018, confiscando quasi $ 2 miliardi di azioni ufficiali dell'oro
del Venezuela detenute a Londra.
La
Banca d'Inghilterra ha messo queste riserve a disposizione di Juan Guaidó, il
politico marginale di destra scelto dagli Stati Uniti per sostituire il
presidente eletto del Venezuela come capo di stato. Questo è stato definito come
democratico, perché il cambio di regime ha promesso di introdurre il
"libero mercato" neoliberista che è considerato l'essenza della
definizione americana di democrazia per il mondo di oggi.
Questo
furto d'oro in realtà non è stata la prima confisca di questo tipo.
Il 14
novembre 1979, l'amministrazione Carter paralizzò i depositi bancari iraniani a
New York dopo che lo Scià fu rovesciato.
Questo
atto ha impedito all'Iran di pagare il suo servizio del debito estero
programmato, costringendolo al default.
Questa
è stata vista come un'azione eccezionale una tantum per quanto riguarda tutti
gli altri mercati finanziari. Ma ora che gli Stati Uniti sono l'autoproclamata
"nazione eccezionale", tali confische stanno diventando una nuova
norma nella diplomazia statunitense. Nessuno sa ancora cosa sia successo alle riserve auree della
Libia che Muammar Gheddafi aveva intenzione di utilizzare per sostenere
un'alternativa africana al dollaro.
E le riserve auree e altre riserve
dell'Afghanistan sono state semplicemente prese da Washington come pagamento
per il costo di "liberare" quel paese dal controllo russo sostenendo
i talebani.
Ma
quando l'amministrazione Biden e i suoi alleati della NATO hanno fatto un
accaparramento di risorse molto più grande di circa $ 300 miliardi di riserve
bancarie estere della Russia e partecipazioni in valuta nel marzo 2022, ha
ufficializzato una nuova epoca radicale nella diplomazia del dollaro.
Qualsiasi
nazione che segua politiche non ritenute nell'interesse del governo degli Stati
Uniti corre il rischio che le autorità statunitensi confischino le sue riserve
estere in banche o titoli statunitensi.
Questa
è stata una bandiera rossa che ha portato i paesi a temere di denominare il
loro commercio, i risparmi e il debito estero in dollari, e ad evitare di
utilizzare depositi bancari e titoli in dollari o euro come mezzo di pagamento.
Spingendo
altri paesi a pensare a come liberarsi dal sistema commerciale e monetario
mondiale centrato sugli Stati Uniti che è stato istituito nel 1945 con il FMI,
la Banca Mondiale e successivamente l'Organizzazione Mondiale del Commercio, le confische degli Stati Uniti hanno
accelerato la fine dello standard dei buoni del Tesoro degli Stati Uniti che ha
governato la finanza mondiale da quando gli Stati Uniti hanno abbandonato l'oro
nel 1971.
Da
quando la convertibilità del dollaro in oro è terminata nell'agosto 1971, la
dollarizzazione del commercio e degli investimenti mondiali ha creato la necessità per altri
paesi di detenere la maggior parte delle loro nuove riserve monetarie
internazionali in titoli del Tesoro degli Stati Uniti e depositi bancari. Come già notato, ciò consente agli
Stati Uniti di sequestrare depositi bancari esteri e obbligazioni denominate in
dollari USA.
Ancora
più importante, gli Stati Uniti possono creare e spendere IOU in dollari
nell'economia mondiale a volontà, senza limiti.
Non deve guadagnare potere di spesa
internazionale gestendo un surplus commerciale, come devono fare altri paesi. Il Tesoro degli Stati Uniti può
semplicemente stampare dollari elettronicamente per finanziare le sue spese
militari straniere e gli acquisti di risorse e società straniere. Ed essendo il "paese
eccezionale", non deve pagare questi debiti – che sono riconosciuti come
troppo grandi per essere pagati.
Le
partecipazioni in dollari esteri sono credito gratuito degli Stati Uniti agli
Stati Uniti, non richiedono il rimborso più di quanto ci si aspetti che i
dollari cartacei nei nostri portafogli vengano pagati (ritirandoli dalla
circolazione). Ciò che sembra essere così autodistruttivo riguardo alle sanzioni
economiche americane e alle confische delle riserve russe e di altre riserve
estere è che stanno accelerando la fine di questa corsa gratuita.
Contraccolpo
derivante dall'isolamento USA/NATO dei loro sistemi economici e monetari.
È
difficile vedere come spingere i paesi fuori dall'orbita economica degli Stati
Uniti serva
gli interessi nazionali degli Stati Uniti a lungo termine. Dividere il mondo in
due blocchi monetari limiterà la diplomazia del dollaro ai suoi alleati e
satelliti della NATO.
Il
contraccolpo che ora si sta svolgendo sulla scia della diplomazia statunitense
inizia con la sua politica anti-russa. L'imposizione di sanzioni commerciali
e monetarie avrebbe impedito ai consumatori e alle imprese russe di acquistare
le importazioni USA/NATO a cui si erano abituati. La confisca delle riserve di valuta
estera della Russia avrebbe dovuto far crollare il rublo, "trasformandolo
in macerie", come promesso dal presidente Biden.
L'imposizione di sanzioni contro
l'importazione di petrolio e gas russi in Europa avrebbe dovuto privare la
Russia dei proventi delle esportazioni, causando il crollo del rublo e
aumentando i prezzi delle importazioni (e quindi il costo della vita) per il
pubblico russo.
Invece, il blocco delle esportazioni russe ha
creato un'inflazione dei prezzi mondiali per petrolio e gas, aumentando drasticamente
i proventi delle esportazioni russe.
Esportava
meno gas ma guadagnava di più – e con dollari ed euro bloccati, la Russia ha
chiesto il pagamento delle sue esportazioni in rubli. Il suo tasso di cambio è salito
invece di crollare, consentendo alla Russia di ridurre i suoi tassi di
interesse.
Spingere
la Russia a inviare i suoi soldati nell'Ucraina orientale per difendere i
russofoni sotto attacco a Luhansk e Donetsk, insieme all'impatto previsto delle
conseguenti sanzioni occidentali, avrebbe dovuto far premere gli elettori russi
per un cambio di regime.
Ma come quasi sempre accade quando un paese o
un'etnia viene attaccata, i russi erano inorriditi dall'odio ucraino per i
parlanti di lingua russa e la cultura russa, e dalla russofobia dell'Occidente.
L'effetto
dei paesi occidentali che vietano la musica di compositori russi e i romanzi
russi dalle biblioteche – limitato dall'Inghilterra che vieta ai tennisti russi
dal torneo di Wimbledon – è stato quello di far sentire i russi sotto attacco
semplicemente per essere russi. Si sono radunati attorno al presidente Putin.
Le
sanzioni commerciali della NATO hanno catalizzato aiutato l'agricoltura e
l'industria russa a diventare più autosufficienti obbligando la Russia a
investire nella sostituzione delle importazioni.
Un successo agricolo ben pubblicizzato è stato quello
di sviluppare la propria produzione di formaggio per sostituire quella della
Lituania e di altri fornitori europei tra cui l’Italia.
La sua
produzione automobilistica e industriale è costretta a spostarsi dai marchi
tedeschi e altri marchi europei ai propri produttori cinesi. Il risultato è una perdita di mercati
per gli esportatori occidentali.
Nel
campo dei servizi finanziari, l'esclusione della Russia da parte della NATO dal
sistema di compensazione bancaria SWIFT non è riuscita a creare il caos dei
pagamenti previsto. La minaccia era stata così forte per così tanto tempo che
Russia e Cina avevano tutto il tempo per sviluppare il proprio sistema di
pagamenti. Ciò ha fornito loro una delle precondizioni per i loro piani di
dividere le loro economie da quelle dell'Occidente USA / NATO.
Come
le cose si sono rivelate, le sanzioni commerciali e monetarie contro la Russia
stanno imponendo i costi più pesanti all'Europa occidentale e probabilmente si
diffonderanno nel Sud del mondo, spingendoli a pensare se i loro interessi
economici risiedano nell'unirsi alla diplomazia del dollaro degli Stati Uniti.
L'interruzione
si fa sentire più seriamente in Germania, causando la chiusura di molte aziende
a causa della carenza di gas e altre materie prime.
Il rifiuto della Germania di autorizzare il
gasdotto North Stream 2 ha spinto la sua crisi energetica al culmine. Ciò ha sollevato la questione di
quanto a lungo i partiti politici tedeschi possano rimanere subordinati alle
politiche della Guerra Fredda della NATO a scapito dell'industria tedesca e
delle famiglie che affrontano forti aumenti dei costi del riscaldamento e
dell'elettricità.
Più
tempo ci vorrà per ripristinare il commercio con la Russia, più le economie europee soffriranno,
insieme alla cittadinanza in generale, e più il tasso di cambio dell'euro
diminuirà, stimolando l'inflazione in tutti i suoi paesi membri.
I paesi europei della NATO stanno perdendo non
solo i loro mercati di esportazione, ma le loro opportunità di
investimento per guadagnare dalla crescita molto più rapida dei paesi
eurasiatici la cui pianificazione governativa e resistenza alla
finanziarizzazione si è dimostrata molto più produttiva del modello
neoliberista USA / NATO.
È
difficile vedere come qualsiasi strategia diplomatica possa fare di più che
giocare per il tempo. Ciò implica vivere nel breve periodo, non nel lungo
periodo. Il
tempo sembra essere dalla parte della Russia, della Cina e delle alleanze
commerciali e di investimento che stanno negoziando per sostituire l'ordine
economico occidentale neoliberista.
Il
problema ultimo dell'America è la sua economia post-industriale neoliberista.
Il
fallimento e i contraccolpi della diplomazia statunitense sono il risultato di
problemi che vanno oltre la diplomazia stessa.
Il problema di fondo è l'impegno
dell'Occidente per il neoliberismo, la finanziarizzazione e la privatizzazione.
Invece del sussidio governativo dei costi di vita di
base necessari al lavoro, tutta la vita sociale viene resa parte del
"mercato" – un mercato dei "Chicago Boys" unicamente
thatcheriano in cui l'industria, l'agricoltura, l'edilizia abitativa e il
finanziamento sono deregolamentati e sempre più predatori, mentre sovvenzionano
pesantemente la valutazione dei beni finanziari e in cerca di rendita –
principalmente la ricchezza dell'uno per cento più ricco.
Il
reddito è ottenuto sempre più dalla ricerca di rendite finanziarie e
monopolistiche, e le fortune sono fatte da guadagni di "capitale"
indebitati per azioni, obbligazioni e immobili.
Le
società industriali statunitensi hanno mirato maggiormente a "creare
ricchezza" aumentando il prezzo delle loro azioni utilizzando oltre il 90%
dei loro profitti per riacquisti di azioni e pagamenti di dividendi invece di
investire in nuovi impianti di produzione e assumere più manodopera. Il risultato di investimenti di
capitale più lenti è quello di smantellare e cannibalizzare finanziariamente
l'industria aziendale al fine di produrre guadagni finanziari. E nella misura in cui le aziende
impiegano manodopera e creano una nuova produzione, viene fatto all'estero dove la
manodopera è più economica.
La
maggior parte del lavoro asiatico può permettersi di lavorare per salari più
bassi perché ha costi abitativi molto più bassi e non deve pagare il debito
dell'istruzione.
L'assistenza
sanitaria è un diritto pubblico, non una transazione di mercato
finanziarizzata, e le pensioni non sono pagate in anticipo dai salariati e dai
datori di lavoro, ma sono pubbliche. L'obiettivo in Cina, in particolare, è quello di
evitare che il settore rentier Finance, Insurance and Real Estate (FIRE) diventi un oneroso sovraccarico i cui interessi economici
differiscono da quelli di un governo socialista.
La
Cina tratta il denaro e le banche come un'utilità pubblica, da creare, spendere
e prestare per scopi che aiutano ad aumentare la produttività e gli standard di
vita (e sempre più a preservare l'ambiente). Rifiuta il modello neoliberista
sponsorizzato dagli Stati Uniti imposto dal FMI, dalla Banca Mondiale e
dall'Organizzazione Mondiale del Commercio.
La
frattura economica globale va ben oltre il conflitto della NATO con la Russia
in Ucraina. Quando l'amministrazione Biden è entrata in carica all'inizio del 2021,
Russia e Cina avevano già discusso della necessità di de-dollarizzare il loro
commercio estero e gli investimenti, utilizzando le proprie valute. Ciò comporta il salto quantico
dell'organizzazione di un nuovo istituto di compensazione dei pagamenti. La
pianificazione non era progredita oltre le grandi linee di come un tale sistema
avrebbe funzionato, ma la confisca statunitense delle riserve estere della Russia
ha reso urgente tale pianificazione, a partire da una banca BRICS-plus.
Un'alternativa
eurasiatica al FMI rimuoverà la sua capacità di imporre
"condizionalità" di austerità neoliberista per costringere i paesi a
ridurre i pagamenti al lavoro e dare priorità al pagamento dei loro creditori
stranieri al di sopra di nutrirsi e sviluppare le proprie economie.
Invece di estendere il nuovo credito internazionale
principalmente per pagare i debiti in dollari, farà parte di un processo di
nuovi investimenti reciproci in infrastrutture di base progettate per
accelerare la crescita economica e gli standard di vita.
Altre
istituzioni sono state progettate come Cina, Russia, Iran, India e i loro
potenziali alleati rappresentano una massa critica abbastanza grande da
"andare da soli", sulla base della propria ricchezza mineraria e del
potere manifatturiero.
La
politica di base degli Stati Uniti è stata quella di minacciare di
destabilizzare i paesi e forse bombardarli fino a quando non accetteranno di
adottare politiche neoliberiste e privatizzare il loro dominio pubblico.
Ma
affrontare Russia, Cina e Iran è un ordine di grandezza molto più alto.
La
NATO si è disarmata della capacità di condurre una guerra convenzionale
consegnando la sua fornitura di armi – certamente in gran parte obsolete – da
divorare in Ucraina.
In
ogni caso, nessuna democrazia nel mondo di oggi può imporre un progetto
militare per condurre una guerra terrestre convenzionale contro un avversario
significativo / maggiore.
Le proteste contro la guerra del Vietnam alla fine del
1960 hanno posto fine al progetto militare degli Stati Uniti, e l'unico modo
per conquistare davvero un paese è occuparlo nella guerra terrestre. Questa logica implica anche che la
Russia non è più in grado di invadere l'Europa occidentale di quanto i paesi
della NATO stiano inviando coscritti per combattere la Russia.
Ciò
lascia alle democrazie occidentali la capacità di combattere un solo tipo di
guerra: la guerra atomica – o almeno, i bombardamenti a distanza, come è stato
fatto in Afghanistan e nel Vicino Oriente, senza richiedere manodopera
occidentale.
Questa non è affatto diplomazia.
Si
tratta semplicemente di recitare il ruolo di demolitore.
Ma
questa è l'unica tattica che rimane a disposizione degli Stati Uniti e della
NATO in Europa. È sorprendentemente simile alla dinamica della tragedia greca, dove il
potere porta all'arroganza che è dannosa per gli altri e quindi alla fine
antisociale – e autodistruttiva alla fine.
Come
possono allora gli Stati Uniti mantenere il loro dominio mondiale?
Ha
deindustrializzato e accumulato debito pubblico estero ben oltre ogni modo
prevedibile di essere pagato.
Nel
frattempo, le sue banche e gli obbligazionisti chiedono che il Sud del mondo e
altri paesi paghino gli obbligazionisti in dollari stranieri di fronte alla
loro crisi commerciale derivante dall'impennata dei prezzi dell'energia e dei
prodotti alimentari causata dalla belligeranza anti-russa e anti-cinese
dell'America.
Questo doppio standard è una contraddizione interna di
base che va al cuore della visione del mondo occidentale neoliberista di oggi.(Ho descritto i possibili scenari per
risolvere questo conflitto nel mio recente libro The Destiny of Civilization:
Finance Capitalism, Industrial Capitalism or Socialism. Ora è stato anche
pubblicato in forma di e-book da Counterpunch Books.)
Orrore
nel Donbass:
Kiev Bombarda
Prigione.
Conoscenzealconfine.it-(
1 Agosto 2022)- Redazione- ci dice :
53
prigionieri Azov (nazisti) uccisi per impedire loro di testimoniare sui crimini
di guerra.
È una
storia orrenda quella che giunge dall’Ucraina. Resa agghiacciante dalle
immagini di un video solo per persone forti in cui si vedono monconi di piedi,
braccia, corpi smembrati o completamente bruciati: una distruzione totale
dentro a una prigione del Donbass.
“Le
forze di Kiev hanno bombardato un centro di detenzione che ospitava prigionieri
di guerra ucraini venerdì mattina per ‘minacciare’ le proprie truppe che
potrebbero voler arrendersi, ha affermato il ministero della Difesa russo”,
secondo quanto riportato da Russia Today.
“Un
gran numero di militari ucraini stanno volontariamente deponendo le armi e sono
a conoscenza del trattamento umano riservato ai prigionieri da parte russa”, ha
affermato il ministero, definendo l’attacco “oltraggioso”.
Le
autorità della Repubblica popolare di Donetsk (DPR) hanno affermato che il
bilancio delle vittime dell’attacco missilistico è salito a 53. Il viceministro dell’informazione
della DPR, Daniil Bezsonov, ha pubblicato un video tremendo sul suo canale
Telegram, che mostra più corpi mutilati e carbonizzati all’interno dell’edificio
distrutto.
Secondo
il ministero della Difesa russo e le autorità locali, le truppe ucraine hanno
utilizzato lanciarazzi multipli HIMARS forniti dagli Stati Uniti per colpire il
centro di detenzione vicino al villaggio di Yelenovka.
Il
ministero ha affermato che la struttura conteneva membri del battaglione Azov
ucraino, i cui combattenti si sono arresi alle forze russe e del Donbass
durante l’assedio dell’acciaieria Azovstal a Mariupol. Il battaglione è noto
perché include combattenti con opinioni nazionaliste e neonaziste.
Parlando
alla TV russa, Channel One, il capo della DPR Denis Pushilin, ha affermato che
gli ucraini hanno preso di mira “deliberatamente” il centro di detenzione per
uccidere i membri di Azov che avevano fornito testimonianze su possibili
crimini di guerra dai loro comandanti.
L’esercito
ucraino ha rilasciato una dichiarazione venerdì, accusando le truppe russe di
aver bombardato Yelenovka. Mosca avrebbe distrutto la prigione per addossare la
colpa a Kiev, oltre che per “nascondere la tortura dei prigionieri e le
esecuzioni”, afferma la dichiarazione.
Seguendo
la china della solita retorica di accuse false-flag più volte sbugiardate, in
un Tweet il ministro degli Esteri ucraino, Dmytro Kuleba, ha ovviamente
accusato Mosca: “La Russia ha commesso un altro crimine di guerra agghiacciante
bombardando una struttura correttiva nell’Olenivka occupata dove deteneva
prigionieri di guerra ucraini. Invito tutti i partner a condannare fermamente
questa brutale violazione del diritto umanitario internazionale e a riconoscere
la Russia come uno stato terrorista“.
In
molteplici occasioni, come l’attacco all’ospedale ed al teatro di Mariupol, ma
anche nel finto bombardamento all’asilo che indusse Kiev a riprendere gli
attacchi contro il Donbass, scatenando l’operazione militare del presidente
russo Vladimir Putin, abbiamo più volte evidenziato che le dichiarazioni del
governo ucraino sono satolle di menzogne e pertanto assai poco credibili anche
in quest’ultima circostanza.
(rt.com/russia/559831-ukraine-pow-missile-strike/)
(gospanews.net/2022/07/29/orrore-nel-donbass-kiev-bombarda-prigione-video-53-prigionieri-azov-uccisi-per-impedire-ai-nazisti-di-testimoniare-sui-crimini-di-guerra/).
Il
conflitto e l’ipocrisia: serve
un
nuovo soggetto politico, l’umanità.
Alzogliocchiversoilcielo.com-
Carlo Rovelli- Corriere della Sera-( 30 luglio 2022)-ci dice :
Raramente
mi sono sentito così lontano dalla retorica dei giornali. Forse
dall’adolescenza, e forse per lo stesso motivo: quando la gioventù si ribellava
d’istinto — prima ancora che a ingiustizia sociale, autoritarismo o vietnamiti
massacrati dal napalm — al dilagare dell’ipocrisia.
L’Occidente
si è lanciato a cantarsi come detentore dei valori, baluardo della libertà,
protettore dei deboli, garante della legalità, speranza per la pace.
Il peana su quanto siamo buoni e giusti mentre
gli «autocratici» sono infingardi è un coro all’unisono. La ferocia russa e
cinese è ostentata, ripetuta, declamata.
Mi
unirei al coro se fosse sincero.
Se
condannando un attacco a un Paese sovrano, aggiungessimo che ci impegniamo a
non fare più nulla di simile. Non fare quanto l’Occidente ha fatto in Afghanistan, Iraq,
Libia, Serbia, Yemen, Grenada, Panama… Con la partecipazione dell’Italia sono
stati invasi Iraq e Afghanistan che non avevano attaccato nessuno, causando un
milione di morti. Rivangare il passato non serve: ci impegniamo per il futuro?
Mi
unirei al coro contro il riconoscimento del Donbass che ha innescato la guerra
ucraina, se aggiungessimo che ci siamo sbagliati riconoscendo Slovenia e
Croazia, innescando la guerra civile Iugoslava.
O per
i bombardamenti su Kiev, dove la scusa era che Kiev massacrava il Donbass, se
la Nato si impegnasse a non fare più nulla di simile, come ha fatto bombardando
Belgrado, dove la scusa era che Belgrado massacrava il Kosovo.
Mi
unirei al coro contro la Russia che cerca di cambiare il regime di Kiev, se
l’Occidente si impegnasse a non fare più la stessa cosa, come ha fatto
abbattendo e destabilizzato governi democraticamente eletti dal Medio Oriente
al Sud America, dal Cile all’Algeria, dall’Egitto alla Palestina.
Mi
unirei al coro che si commuove per i profughi ucraini, se si commuovesse anche
per yemeniti, siriani, afghani e altri con pelle di tonalità diverse.
Ipocrisia
senza limiti.
I
giornali gridano sulle politiche «imperiali» di Cina e Russia. Il lupo e
l’agnello. La Cina non ha quasi soldati fuori dei suoi confini, se non in
missioni Onu.
La Russia ne ha a pochi chilometri, in Siria e
Transnistria. Gli americani hanno centomila soldati
in Europa, basi militari in Centro e Sud America, Africa, Asia, Pacifico,
Giappone, Corea… ovunque, eccetto in Ucraina dove stavano insediandosi.
Hanno
portaerei nel mare della Cina. Dalle coste cinesi si vedono navi da guerra Usa,
non si vedono navi da guerra cinesi da New York. Chi è l’impero? Si paventa,
non abbastanza, l’uso dell’atomica.
L’Occidente è l’unico ad averla usata. A guerra vinta,
per affermare il dominio con la violenza; nessun altro lo ha fatto. Si scrive che la Cina è aggressiva; non ha fatto
guerre dopo Corea e Vietnam; l’Occidente ne ha fatte in continuazione ovunque.
Chi è l’impero?
Il
Pentagono pubblica liste di persone uccise dai suoi droni nel mondo, molti
innocenti.
Il New
York Times è arrivato all’orrore di denunciare il fatto che i soldati che li
guidano non hanno supporto psicologico per lo stress di ammazzare innocenti. Lo
scandalo non è ammazzare innocenti, è che chi li ammazza non ha supporto
psicologico. L’impero assiro era arrivato a tale arroganza.
Ma i
nostri giornalisti ricordano indignati una persona uccisa anni fa a Londra dai
russi… Gli americani invocano la Corte Penale Internazionale, da cui hanno
sempre dichiarato che non si fanno giudicare. O la legalità internazionale,
quando le loro guerre sono condannate dall’Onu. Onu che la maggioranza del
mondo vorrebbe autorevole, ma Washington ostacola.
Sarei
in disaccordo, ma non mi sentirei disgustato, se sentissi «siamo forti, vogliamo
dominare con le armi per difendere il nostro privilegio». Non ci sarebbe ipocrisia e potremmo
discutere se sia una scelta intelligente. Se non sia più lungimirante
collaborare.
Non
fraintendetemi. Amo l’America, molto. Vi ho vissuto dieci anni e sono stato
cittadino Usa. Ne conosco splendori e orrori.
La brillantezza delle università, la vitalità
dell’economia, la miseria dei ghetti neri e bianchi, la violenza per noi
inconcepibile delle strade. Amo l’Europa, la civiltà, tolleranza e cautela
ereditate dalla devastazione della Guerra. Ma non posso non vedere il nostro
piccolo mondo ricco chiudersi su se stesso in un parossismo di ipocrisia.
Amo
anche Cina e lndia, di cui pure ho visto miserie e splendori. Ci perdiamo in chiacchiere su quale
sistema sia meglio, come dovessimo fare tutti la stessa cosa.
Il problema del mondo non è che un singolo sistema
politico debba essere adottato da tutti. Il problema del mondo è convivere,
rispettarsi, collaborare. Il problema del mondo è costruire un nuovo soggetto politico:
l’umanità, con le sue diversità.
Tanti
Paesi ce lo ripetono, non li ascoltiamo. Rifiutano le sanzioni contro la
Russia. Perfino di condannare la Russia. Perché? Perché vedono l’ipocrisia
dell’Occidente, che si sente libero di massacrare, e poi fa l’anima candida.
L’umanità
vorrebbe che i problemi reali, riscaldamento climatico, pandemie, povertà che
ricomincia a crescere, fossero affrontati insieme.
L’80% degli italiani non è favorevole
all’aumento delle spese militari. Considera l’emergenza climatica il problema grave. Il
direttore della Cia afferma in una intervista che cerca di convincere i
politici, che non ascoltano, della stessa cosa. Le persone ragionevoli sanno
che collaborare è meglio. L’Occidente rifiuta.
Vuole «avversari strategici», nemici, vuole
schiacciare gli altri. Ha le armi. L’Ucraina si potrebbe risolvere come la crisi
Iugoslava: con una separazione. Ma l’Occidente non vuole soluzioni, vuole fare male
alla Russia: non fa che ripeterlo.
Ora si
sente inquieto perché la Cina sta diventando ricca. La provoca, la accusa con pretesti (ce ne sono: scagli
la prima pietra chi è senza colpe). Cerca lo scontro.
Vorrebbe umiliarla militarmente prima che
cresca troppo. La classe dominante occidentale ci sta portando verso la terza
guerra mondiale.
Nelle
foto si allineano facce sorridenti dei leader occidentali, felici delle
portaerei, delle bombe atomiche, trilioni di dollari di armi, con cui si
potrebbero risolvere i guai del mondo, usati per rafforzare il dominio.
E tutto imbiancato da belle parole: democrazia,
libertà, rispetto dei confini, legalità.
Dietro,
come zombi, giornalisti, editorialisti e politici di stati vassalli come il
nostro, a ripetere. Sepolcri imbiancati. Su una scia di sangue di milioni di
morti straziati dalle nostre bombe. Da Hiroshima a Kabul, e continueranno.
“Che
la sera
ci
colga lottando.”
Odysseo.it-
Paolo Farina –(25 Luglio 2022)- ci dice :
Guglielmo
Minervini, un uomo, un politico, che ha lasciato il segno e che ci ha lasciato
troppo presto, soli 55 anni.
“Che
la sera ci colga lottando” ci immette senza fronzoli nella sua vita e nel suo
pensiero (e viceversa): come sarebbe piaciuto a lui. Come è nello stile di
Andrea Colasuonno.
“Che
la sera ci colga lottando”: un saggio, un racconto, una testimonianza. Mi sembra
che questi tre termini segnino un crescendo che ha nel martyrium la parola
chiave per cogliere la vita e l’impegno di Guglielmo Minervini.
Indagare
la vita e l’opera di Guglielmo Minervini ha significato sostanzialmente fare
una cosa: mettere ordine.
Minervini
è stato più di tutto un inquieto, ha avuto una vita purtroppo non lunga, ma
larga sì, ecco che scrivere di lui ha voluto dire cercare dei criteri
unificanti per delineare dei tracciati, senza perdersi al seguito della sua
erranza. Del resto l’idea del libro è nata proprio da questo: come racconto
Minervini a uno che non sa chi sia?
Gli
racconto del suo lavoro con don Tonino Bello? Ma non è stato solo questo. Gli
racconto della stagione dei sindaci? Ma non è stato solo questo. Gli racconto di Bollenti Spiriti?
Della politica generativa? Ma non è stato solo questo.
Il libro quindi è nato con l’idea di
raccontare in maniera non prolissa, ma puntuale, questa articolata figura. La figura di un uomo che è stato un
fine intellettuale, producendo un pensiero originale, e allo stesso tempo un
pragmatico attivista. Una figura, per questo, più unica che rara.
Dici
Guglielmo e pensi ad una straordinaria stagione di cambiamento, prima nella sua
Molfetta e poi in tutta la ragione Puglia, una stagione di Bollenti spiriti…
È
così. L’errore da non fare è quello di pensare a Minervini come a uno che ha
solo ideato una buona politica giovanile.
Bollenti
Spiriti oltre a essere un’ottima politica per i giovani, è il simbolo di un
metodo di governo. Minervini dunque ha ideato un metodo di governo – quello che
poi ha chiamato politica generativa – non solo dei programmi per i giovani. Questo deve essere chiaro
altrimenti non si comprende la portata della sua figura. È per questo che ha
senso oggi parlare di lui.
Perché
quel metodo di governo – sperimentato così efficacemente in Puglia negli anni
in cui Minervini è stato politicamente attivo – è poi stato accantonato come
una felice eccezione quando il suo ideatore ci ha lasciati.
E invece essendo un metodo, appunto, può
essere studiato e replicato, e deve esserlo, perché rappresenta la risposta a
un sacco di problemi che il mondo e la politica di oggi si trovano a dover
fronteggiare: la scarsità di risorse, la disaffezione verso la cosa pubblica da parte
dei cittadini, lo smarrimento di un’identità ben precisa per la sinistra, la
rassegnazione di un Sud che rinuncia a combattere le proprie battaglie.
La
parabola esistenziale e l’avventura politica di Guglielmo hanno puntualmente
sfatato una serie di stereotipi: intellettuale, ma senza mani in tasca; cattolico, ma
non bigotto; pacifista ma non irenico; ecologista ma non fondamentalista del
verde.
L’elenco
potrebbe continuare: tu cosa aggiungeresti?
Direi
meridionalista eppure cosmopolita. Minervini è stato forse l’ultimo dei meridionalisti
e nel libro provo a spiegare il perché. A qualunque cosa Minervini abbia
guardato, l’ha sempre fatto da Sud, dal Sud Italia inteso come uno dei Sud del
mondo.
Il suo
meridionalismo si è inserito nel solco di quello che nel libro ho chiamato
meridionalismo, ossia nel solco tracciato da Franco Cassano e dal suo pensiero
meridiano.
Non è
un caso che Cassano abbia scritto la prefazione del primo libro di Minervini
uscito nel 1997, “Mar Comune”. Eppure Minervini all’impianto teorico di Cassano ha
aggiunto del suo, producendo una visione meridionalista del tutto personale. Una delle tesi centrali del libro, è
che se Cassano con il pensiero meridiano ha prodotto “un pensiero per il Sud”,
Minervini, partendo da quello, ha invece prodotto “una politica per il Sud”.
Del
resto che cos’è la Politica Generativa se non una politica che tematizza la
frugalità, l’assenza di risorse, la scarsità? In questo senso non poteva che essere
una politica profondamente meridionale, eppur tuttavia non destinata solo al
Sud.
Ancora
due domande. La prima: Guglielmo e Don Tonino Bello…
Fu
come mettere insieme la miccia e la dinamite. Esplose tutto. Nel il libro c’è
il racconto molto bello raccolto da Franco De Palo – storico amico di Minervini
– del primo incontro fra loro.
Erano giovani ragazzi in procinto di partire
con il servizio civile, e lui un giovane vescovo appena arrivato in città.
Minervini
e De Palo suonarono alla porta dell’episcopio e all’uomo che aprì chiesero del
vescovo. Quello
disse loro di seguirlo. Arrivati in sala si sedette proprio sulla sedia
spettante al vescovo e disse “sono don Tonino, ditemi pure”.
Due
ore dopo tutti e tre erano in giro nella Cinquecento di don Tonino a cercare
una sede per quella che poi sarebbe diventata Casa per la Pace.
Don
Tonino sostanzialmente fece una scelta di campo: decise di stare non dalla parte della
classe dirigente della città – i notabili, i politici, gli imprenditori – ma dalla parte di giovani ragazzi strani agli occhi di
molti,
tutti concentrati a compiere la loro rivoluzione. È da questa scelta di campo
che poi scaturì tutto il resto.
INQUIETO
DILETTO: UNA LEZIONE
ONTOLOGICA
DI MASSIMO CACCIARI
SUL
TERRORE DESTATO DALL’ARTE.
Recensito.it-
Prof. Massimo Cacciari-Piero Baiamonte –(23-2-2022)- ci dice :
Roma –
Sabato 23 febbraio 2022, presso l’Auditorium MACRO ASILO, si è tenuta la lectio
magistralis del professor Massimo Cacciari sul tema “Arte e terrore”; un
dissidio inconciliabile ma assolutamente necessario sin dalla nascita della
tragedia.
Proprio
dal teatro greco è inevitabile che parta il focus sulla paventata
partecipazione dell’uomo al fenomeno artistico.
Leggendo
il celebre passo della Poetica di Aristotele, Cacciari ci ricorda la
definizione di tragedia: una mimesi - non intesa come semplice riproduzione
passiva - di un’azione che suscita fòbos ed éleos.
Un
duplice e ambivalente sentimento che il filosofo analizza in primis
linguisticamente per poter giungere a una concezione teoretica: la lingua come
angolazione unica e irripetibile sul mondo.
Da ciò l’attenzione sulla traduzione data dal
filosofo illuminista Gotthold Lessing di éleos – letteralmente “misericordia” –
in mitleid, un sentimento di piena con (“mit”) passione (“leid”).
Una
compassione intesa come partecipazione attiva dello spettatore, il théros, da
cui la parola teoria, ovvero osservazione critica e analitica della realtà.
Tutto
ciò, tuttavia, non può prescindere dal senso violento del fòbos che – come
spiegato dal filosofo veneziano – ha la stessa radice linguistica della parola
feùgo, io fuggo.
La
fuga è dovuta al terrore, che ricorda il tremore, ma ha affinità etimologiche
anche con il verbo greco trépein, il rivolgersi. Senza terrore autentico non può
esserci il trepein, il rivolgersi alla scena che osserviamo. Il dramma suscita una strana dialettica: un sentimento di repulsione e di
attrazione misericordiosa verso il destino dell’eroe, verso l’universale fato,
dato che la tragedia mette di fronte alla possibilità che la casa si rivolga
all’inospitalità, allo spaesante; “la negazione della dimora”, come afferma
Cacciari.
Da
questo possiamo desumere che la tragedia è il massimo esempio ontologico tra
arte e terrore.
Ma non
è sempre così. Il tema del terrore, evidente nel dramma classico, è presente come invito
alla compartecipazione al dolore da parte dell’arte, ma difficilmente
accettato. La
concinitas del bello nell’arte è solo una visione prettamente scolastica.
Il
professore invita a leggere attentamente le ultime pagine di Winckelmann per
notare la tensione drammatica nel suo rivolgersi all’arte classica, su cui già
si rifletteva con profonda inquietudine sin dalla sua origine.
A tal
proposito il filosofo introduce il Platone estetico, fonte inesauribile per
Hegel e Nietzsche, promotore del pensiero insormontabile sul conflitto tra arte
e filosofia.
Dalla disquisizione sull’estetica di Platone,
emerge una visione dell’arte trascendente al giudizio razionale, il logos
filosofico.
Le
arti per Platone sono ospiti illustri che non possono essere accolte nella
polis del filosofo. L’arte è straordinaria in quanto nasce da uno stato folle, un
trauma meraviglioso sorto da una mania poietikè, da una mimesi che non da
soluzione.
La
filosofia, invece, esige una soluzione, ha il dovere razionale di rispondere al
trauma generato dalla paura dell’arte.
Questo
dissidio è la palaia diafòra di cui si parla nel Simposio, l’antica questione: l’inganno dell’arte ci fa tremare
perché è fuori dall’ordinario. Questo, secondo Cacciari, è la più conturbante eredità
lasciata da Platone alla filosofia contemporanea; un inconciliabile topos fuori
dal tempo.
Proprio
per la sua natura topologica, anziché cronologica, il professore evidenzia
l’esigenza nel secolo XIX, quello del sublime quale momento del timore, di non
poter far a meno della lezione del Simposio.
Citando Nietzsche ed Hegel, apparentemente
agli antipodi nella linea rivoluzionaria del pensiero di quel secolo, riflette
sui diversi approcci dei due filosofi tedeschi alla via platonica.
Secondo
Cacciari, Nietzsche è l’unico che ha colto perfettamente la visione fallace
dell’arte espressa dal filosofo greco, il dissidio ontologico tra mimesi e
realtà, tra ciò che è e ciò che non è; non in termini parmenidei, ma
seguendo una linea trasversalmente opposta al logos filosofico: non si può essere contro la metafisica
senza essere artista.
L’inganno, lo straordinario e l’inquietante
vanno oltre il giudizio filosofico.
Audaci
e attuali considerazioni da chi scomparve nelle tenebre della follia.
Hegel, invece, comprende la storia dell’occidente di
liberarsi dall’impegno mimetico: l’arte romanza, intesa da Cacciari come
eredità dell'arte romanica, mostra la contraddizione, non la conciliazione, tra
umano e divino.
Ma la
più grande beffa della filosofia – sostiene il professore sulla scia del
filosofo tedesco – è credere di risolvere questo dissidio. L’arte ha a che fare con la morte,
con il trapasso tra l’idea e l’esistenza. Non si cristallizza né nel divino, né
nell’umano.
In
questo suo trapassare vive e rifugge da qualsiasi luce in un’eterna notte del mondo
in cui ognuno sta sospeso con lo sguardo penetrante e inquieto verso una
fantasmagoria di immagini.
Una
lezione rivelatrice di due archetipi diversi confluiti in un'unica e
irreversibile dialettica, aldilà delle esperienze e dei contesti differenti.
(Piero
Baiamonte) .
Abolire
i confini causerebbe
un
nuovo boom economico?
Wired.it-
Paolo Mossetti-(18-novembre 2019)- ci dice :
Non
solo molti intellettuali, ma anche tanti economisti si interrogano da anni
sull'opportunità di aprire le frontiere: per diverse voci fuori dal coro
significherebbe innanzitutto renderci tutti più ricchi.
L'esempio
più suggestivo dell'ipotesi di un mondo senza frontiere, come nella canzone di John Lennon,
lo aveva offerto un libro magico uscito nel 2017, in piena crisi migratoria in
Europa.
In Exit West, di Mohsin Hamid, si parla
d'amore e nomadismo attraverso un'invenzione fantasiosa: delle porte magiche
che, aprendosi nei punti più disparati (dagli armadi ai bagni di un bar) tele-trasportavano
ignari abitanti del Terzo mondo nel primo, scatenando guerre e mescolanze
culturali inaspettate.
Qualunque
sia la vostra posizione su un mondo no border – cioè completamente privo di
confini, intesi come istituzioni politiche ben prima che fisiche – non c'è
dubbio che le politiche attuali in tema di migrazioni siano inadatte a
realizzarlo.
Oggi
oltre 250 milioni di persone vivono in posti diversi da quelli in cui sono
nati, con un aumento di quasi il 50 per cento dal 2000 al 2018.Ma le nazioni continuano a essere
circondate da filo spinato: a volte letterale, come in Ungheria e Turchia,
altre volte metaforico, come nel canale di Sicilia, dove ogni anno centinaia di
innocenti periscono nel tentativo di attraversare il mare, respinti da un
continente che non riesce a gestire il fenomeno con una visione comune.
Nella
marea populista montante contro il cambiamento etnico e la politica dei porti
aperti,
diversi intellettuali si stanno interrogando, al contrario su come accogliere
un numero maggiore – anziché inferiore – di migranti, senza alterare
necessariamente la democrazia di casa propria.
In un
articolo pubblicato qualche giorno dalla rivista Foreign Policy, l'economista
libertariano Bryan Caplan ha proposto una tesi radicale: abbattere le barriere del tutto –
anziché semplicemente rendere la concessione di visti più semplice – favorirebbe una espansione istantanea
della ricchezza mondiale, per un valore nell'ordine di “migliaia di miliardi”
di euro.
L'idea
di fondo di Caplan, condivisa da molti economisti della famosa scuola di
Chicago, è che i lavoratori, emigrando da un paese povero verso uno ricco,
diventano più produttivi.
Vale a
dire che si inseriscono in un mercato lavorativo con più capitale disponibile,
compagnie private più efficienti e un sistema legale affidabile che tutela i
loro risparmi e i loro diritti.
Se si
tratta di lavoratori nei servizi, i migranti possono trovare clienti disposti a
pagare meglio. E con le stesse ore lavorate nella madrepatria guadagnano immensamente di
più, mettendo in circolazione con le proprie braccia più soldi per l'intera
comunità.
Secondo alcune stime fornite dall'Economist in una storia simile l'anno scorso,
più di due
terzi della ricchezza totale di un individuo dipende da dove egli è nato e
vissuto.
“È
innegabile che i confini aperti siano impopolari”, ammette Caplan. Eppure “meritano di essere popolari”. Perché, come ogni mutamento
sociale, l'immigrazione
pone delle sfide che però possono essere affrontate: la criminalità?
Se è
vero che l'88 per cento degli omicidi attribuibili al terrorismo negli Stati
Uniti da quando esistono le statistiche sono attribuibili a cittadini nati
all'estero, è anche vero che in rapporto si tratta di meno dell'1 per mille di
tutte le morti che avvengono ogni anno nel paese, e meno dell'1 per cento di
tutti gli omicidi.
È
insomma più facile essere uccisi da un incidente stradale che da un immigrato
passato dalla parte del crimine, ed più facile essere colpiti da un fulmine che
da un terrorista cresciuto altrove.
E l'influenza politica degli immigrati sugli
affari domestici?
Il problema semmai è il contrario: chi è nato all'estero – e soprattutto
chi è immigrato con basse qualifiche – tende a votare molto di meno degli altri
(appena il 12 % tra i low-skilled alle ultime elezioni presidenziali) e dunque,
il suo peso è ancora minimale.
Sbaglia,
spiegano i liberisti, chi immagina che un ristorante aperto da immigrati
haitiani in America sia un ristorante potenzialmente sottratto all'economia di
Haiti: perché, date le condizioni di lavoro e di investimento dei paesi poveri,
molto probabilmente quel ristorante non sarebbe stato aperto affatto.
Un'argomentazione
che non può non suscitare polemiche e accuse di paternalismo da parte di chi –
specialmente tra gli economisti più eterodossi, e anche nel mondo liberale ce
ne sono molti – sta cercando di rivalutare la formazione e il trattenimento di
capitale intellettuale nei paesi in difficoltà, e rivalutando l'importanza dei
confini nazionali per mitigare gli effetti più brutali della globalizzazione
(finendo, anche, per giustificare una più spietata politica dell'immigrazione e
dei dazi da parte dei nazionalisti come Trump).
L'altro
argomento a favore del no border, inutile dirlo, è di tipo essenzialmente
morale:
non c'è nessun merito a essere nati in Italia piuttosto che in Libia, e i paesi
ricchi hanno il dovere di includere gli altri nel loro privilegio.
Gli avversari degli open border non sono persuasi da
nessuno di questi argomenti, e votano in massa per partiti che promettono di
ridare ai propri cittadini più controllo sull'immigrazione (sia da un punto di
vista quantitativo che culturale).
Anche
se la loro società dovesse essere arricchita dai migranti, spiegano, i più
vulnerabili tra i propri connazionali finirebbero per soffrire, costretti a un gioco al ribasso sui
salari dai nuovi arrivati e a competere con questi ultimi per accaparrarsi case
a prezzi popolari, sussidi e benefit di altro tipo.
La
verità è che la maggior parte delle persone in Occidente non è radicalmente
contraria alla libertà di movimento, ma si trova in un terreno intermedio: in
un sondaggio recente, il 67 per cento dei britannici ha espresso la volontà che
i suoi connazionali e gli europei possano vivere e lavorare gli uni nei paesi
degli altri.
(twitter.com/jdportes/status/1194336599842144256).
In
Italia, da un sondaggio Demos pubblicato su La Repubblica si apprende che il 67
per cento degli italiani sarebbe favorevole allo” ius culturae”, vale a dire a una riforma della cittadinanza che
preveda criteri di assegnazione basati su parametri culturali – come l'istruzione dei bambini – e
non solo di "nascita".
Tra i
favorevoli l'80 per cento tra gli elettori della maggioranza Pd/M5s/Italia
Viva. Notevole anche il grande favore tra gli elettori di FI, mentre
l'elettorato leghista è spaccato a metà.
Il
segmento più inconvincibile, quello al quale sembra davvero impossibile da
persuadere all'ipotesi dei confini aperti, stando ai dati è quello dei
45-54enni che risiedono nel Nord-Est, che trent'anni fa si sono laureati o
hanno finito le scuole dell'obbligo pensando che il declino italiano sarebbe
stato soltanto passeggero e oggi votano Lega o Fratelli d'Italia.
Ovviamente
ci sono modi diversi di recepire la descrizione di ius culturae, ma la morale, forse, è che anche
senza essere a favore del “no border” ci sono margini per lavorare sul tema
dell'apertura, o perlomeno su cosa intendiamo per cittadinanza.
I
Paesi europei hanno diritto
di
costruire muri per
tutelare
i confini, dice l'Ue.
Agi.it-
Redazione-(8 ottobre 2021)- ci dice :
La
commissaria agli Affari interni dà ragione ai Paesi che vogliono arginare le
ondate di migranti, ma avverte: non potranno farlo usando i soldi dell'Unione.
AGI - "Gli Stati membri hanno il
diritto e la responsabilità di tutelare i loro confini. E si trovano nella
migliore posizione per decidere come farlo, fintanto che rispettano le regole dell’Unione.
Se uno Stato membro ritiene che sia necessario
costruire una recinzione, lo può fare e io non ho nulla da obiettare". Lo ha dichiarato la
commissaria europea agli Affari interni, Ylva Johannson, nella conferenza
stampa al termine del Consiglio Affari interni.
"Utilizzare fondi dell’Unione per
finanziare recinzioni anziché finanziare altre attività molto importanti questo
è un altro paio di maniche, ma qui parliamo di come spendere le risorse
limitate.
Ma gli Stati membri hanno possibilità e diritto di costruire queste recinzioni
e si trovano nella migliore posizione per decidere se ciò sia necessario oppure
no", ha aggiunto.
"Sono
d’accordo - ha ribadito - che bisogna rafforzare la protezione dei nostri
confini esterni. Devo dire che alcuni Stati membri hanno costruito delle strutture di
protezione e posso capirlo. Se bisogna utilizzare i fondi Ue per fare questo devo dire di
no".
"Io
ho presentato varie proposte per proteggere i confini esterni, per monitorarli,
nel Patto dell’Ue per le migrazioni e dell’Asilo. Abbiamo già trovato accordo su passi
importanti per proteggere meglio i confini esterni attraverso
l’interoperabilità. Quindi siamo abbastanza avanti, ci sono molte cose sul tavolo
che devono essere attuate per proteggere meglio i confini esterni", ha
sottolineato.
"Devo
dire che non abbiamo lo stesso parere su questo tema", con la commissaria
europea agli Affari interni, Ylva Johansson. Lo ha dichiarato Ales Hojs, ministro
dell'Interno della Slovenia (Paese che detiene la presidenza di turno dell'Ue), in merito
alla richiesta di dodici Paesi rivolta all'Ue di finanziare la costruzione di
barriere anti-migranti al confine esterno.
"Non abbiamo potuto firmare la lettera
come presidenza però ho sostenuto pubblicamente questa lettera", ha
spiegato.
"Devo dire che dopo il disastro del
2015, la Slovenia come Stato membro che non ha un confine esterno dell’Ue,
abbiamo deciso di creare delle strutture di protezione con i nostri fondi. Continueremo su questa strada in
futuro", ha evidenziato.
"Però su base annuale ci sono 40mila immigrati
irregolari nel confine interno dell’Ue. Questo vuol dire che la protezione dei
confini esterni non è efficiente. Il nostro compito è proteggere confini
esterni", ha insistito il ministro.
L'Ue
boccia i fermi delle navi
delle
ong fatti dall'Italia "senza prove."
Agi.it-Fabio
Greco –(01 agosto 2022)- ci dice :
La
vicenda nasce dai fermi delle imbarcazioni di Sea-Watch, che si era rivolta al
Tar. Quest'ultimo ha poi girato il tema alla Corte di Lussemburgo. La
Commissione europea all'Italia: "Applicate la sentenza".
AGI - Arriva dalla Corte di giustizia
europea una sentenza storica per il soccorso in mare dei migranti, e una
bocciatura per il governo italiano:
le
navi di organizzazioni umanitarie che conducono un'attività sistematica di
ricerca e soccorso possono essere sottoposte a controlli da parte dello Stato
di approdo, ma quest'ultimo può adottare provvedimenti di fermo soltanto in
caso di evidente pericolo per la sicurezza, la salute o l'ambiente, tutte
circostanze che vanno provate dallo Stato che adotta il provvedimento.
La
Corte di Lussemburgo si è pronunciata sul caso delle due navi Sea Watch 3 e Sea
Watch 4, oggetto di fermo ai porti di Palermo e di Porto Empedocle nell'estate
del 2020. Per
prendere tale provvedimento, le autorità italiane avrebbero dovuto dimostrare
"in maniera concreta e circostanziata, l'esistenza di indizi seri di un
pericolo per la salute, la sicurezza, le condizioni di lavoro a bordo o
l'ambiente". In ogni caso, "spetta al giudice del rinvio verificare
il rispetto di tali prescrizioni", ha aggiunto la Corte.
Le due
navi furono oggetto di ispezioni da parte delle capitanerie di porto, con la
motivazione che non erano certificate per l'attività di ricerca e soccorso in
mare e avevano imbarcato un numero di persone ampiamente superiore a quello
autorizzato.
Inoltre
le autorità portuali affermarono l'esistenza di carenze tecniche e operative
che comportavano un evidente pericolo per la sicurezza, la salute o l'ambiente
che richiedevano il fermo delle navi.
La Sea
Watch fece ricorso al Tar Sicilia per l'annullamento dei provvedimenti,
sostenendo che le capitanerie avrebbero violato i poteri di cui dispongono le
autorità dello Stato di approdo.
Il
Tar, a sua volta, si rivolse alla Corte, che, riunita in Grande Sezione, ha
ribadito l'importanza, anche nell'applicazione della direttiva 2009/16 sui
controlli nei porti, gli Stati membri "sono tenuti a rispettare...la
convenzione sul diritto del mare e la convenzione per la salvaguardia della
vita umana in mare".
"La
prima sancisce, in particolare, l'obbligo fondamentale di prestare soccorso
alle persone in pericolo o in difficoltà in mare. La seconda dispone - spiega la
Corte - che le persone che si trovano, a seguito di un'operazione di soccorso
in mare, a bordo di una nave, compresa una nave gestita da un'organizzazione umanitaria
quale la Sea Watch, non devono essere computate in sede di verifica del
rispetto delle norme di sicurezza in mare. Il numero di persone a bordo, anche
ampiamente superiore a quello autorizzato, non può dunque costituire, di per sè
solo, una ragione che giustifichi un controllo".
Una
volta che una nave umanitaria abbia completato lo sbarco o il trasbordo di tali
persone in un porto, lo Stato di approdo "può sottoporla a un'ispezione
diretta a controllare il rispetto delle norme di sicurezza in mare. A tal fine,
occorre però che tale Stato dimostri, in maniera concreta e circostanziata,
l'esistenza di indizi seri di un pericolo per la salute, la sicurezza, le
condizioni di lavoro a bordo o l'ambiente".
Quanto
all'estensione dei poteri dello Stato di approdo, la Corte rileva che "quest'ultimo ha diritto, per
dimostrare l'esistenza di indizi seri di un pericolo, di tenere conto del fatto
che navi classificate e certificate come navi da carico da parte dello Stato di
bandiera sono, in pratica, utilizzate per un'attività sistematica di ricerca e
soccorso di persone. Per contro, lo Stato di approdo non può imporre che venga
provato che tali navi dispongono di certificati diversi da quelli rilasciati
dallo Stato di bandiera o che esse rispettano tutte le prescrizioni applicabili
a una diversa classificazione. Peraltro, nel caso in cui l'ispezione riveli l'esistenza di
carenze, lo Stato di approdo può adottare le azioni correttive che ritenga
necessarie. Tuttavia, queste ultime devono, in ogni caso, essere adeguate,
necessarie e proporzionate. Lo Stato di approdo non può poi subordinare la revoca del
fermo di una nave alla condizione che tale nave disponga di certificati diversi
da quelli rilasciati dallo Stato di bandiera".
La
Commissione europea ha "preso atto della decisione della Corte di
giustizia dell'Ue", e sottolineato che i procedimenti dovranno ora
continuare al tribunale italiano che si è rivolto ai giudici Ue e
"spetterà all'Italia garantire l'applicazione della decisione".
La sentenza potrebbe aprire la strada per una
procedura d'infrazione a carico dell'Italia se il governo non darà attuazione,
come auspicato dalla Commissione Ue, alla decisione dei giudici di Lussemburgo,
spiega Fulvio Vassallo Paleologo, giurista, esperto dei diritti umani
all'Universita' di Palermo, in un articolo su a-dif.org, il sito
dell'Associazione diritti e frontiere.
"E
andranno risarciti - sottolinea - tutti i danni per l'ingiustificato fermo
amministrativo, protratto anche per mesi, ai danni delle navi delle Ong".
"In
tutti i casi di presunta immobilizzazione o di indebito ritardo - prosegue
Vassallo Paleologo - il proprietario o l'armatore della nave potrà provare i
danni subiti a causa del fermo amministrativo della nave.
Il
fermo amministrativo di una nave di una Ong, che avrebbe potuto operare
attività di ricerca e salvataggio nelle acque internazionali del Mediterraneo
centrale, può dunque configurare un danno grave ed irreparabile, tanto per le
Ong coinvolte, costrette a tenere ferme in porto navi dai costi giornalieri
comunque assai elevati, tenendo conto della natura non commerciale della loro
attività, basata sulla raccolta fondi tra i donatori e sul volontariato, e
soprattutto per le persone che tentano la traversata e che, ancora in questi
mesi, si possono trovare privati di una sia pur minima possibilità di soccorso
in alto mare, dopo che gli Stati competenti e l'Agenzia europea Frontex hanno
ritirato i loro assetti navali presenti in passato nelle acque internazionali
tra il Nord-Africa, Malta e la Sicilia".
"La
sentenza fornisce una base legale alle Ong e rappresenta una vittoria per il
soccorso in mare. Le navi potranno continuare a fare ciò che sanno e che devono
fare: soccorrere le persone e non rimanere bloccate in porto per decisioni
arbitrarie e pretestuose", afferma Sea-Watch.
"Per
mesi - ricorda la ong - Sea Watch3 e Sea Watch4 sono state trattenute per
controlli dello Stato di approdo con motivazioni assurde: certificazioni
mancanti e troppe persone soccorse. Nella sentenza di oggi, la Corte di
Giustizia Ue ha dichiarato che il salvataggio in mare è un dovere e i controlli
dello Stato di approdo non devono essere usati in modo arbitrario contro le ong
per trattenere le navi e impedire loro di svolgere il proprio lavoro".
L'Italia
"non può pretendere una certificazione che non esiste e che il numero di
persone salvate non è un motivo di fermo. I controlli dello Stato di approdo
devono essere effettuati quando previsto o con valida motivazione".
"Il
fatto che i controlli dello Stato di approdo vengano effettuati sulle navi
delle ong - aggiunge Sea Watch - è per noi un fatto positivo. Il loro scopo è quello di garantire
la sicurezza delle navi, che consideriamo molto importante. I controlli
arbitrari, invece, devono finire".
La
Corte di Giustizia dell'Unione Europea, spiega ancora Vassallo Paleologo, ha
"demolito due dei capisaldi delle motivazioni con cui le Capitanerie di
Porto su evidente indirizzo ministeriale, e con l'ausilio di una specifica
squadretta di ispettori, avevano ordinato il fermo amministrativo per diversi
mesi, a partire proprio da quell'anno, delle navi Sea Watch 3 e Sea Watch 4.
Nel
caso della Sea Watch 4 la nave era rimasta bloccata nel porto di Palermo
addirittura per sei mesi, e poteva ripartire soltanto nel mese di marzo del
2021".
"Per
i giudici europei, e secondo la logica del diritto, non disgiunta da un minimo
di umanità - continua - non possono essere considerati 'passeggeri' i naufraghi
che vengono soccorsi in mare, e le navi delle Ong non possono essere costrette a dotarsi di
ulteriori certificazioni dello Stato, che è obbligato a garantire il porto di
sbarco (Pos), certificazioni che in passato le autorità italiane hanno invece
richiesto a loro discrezione. Nel caso dell'Italia queste certificazioni non sono peraltro
previste neppure dai registri del naviglio civile ed erano frutto di richieste
arbitrarie da parte delle autorità amministrative".
"Dopo
i provvedimenti illegittimi di chiusura dei porti adottati da Salvini -
prosegue Vassallo Paleologo - quando occupava il Viminale (che adesso si vuole
"riprendere"), la gestione del ministro dell'interno Lamorgese,
ancora in carica per pochi mesi, si era caratterizzata proprio per l'adozione
sistematica di provvedimenti di fermo amministrativo delle navi civili che operavano
soccorsi nel Mediterraneo centrale.
Con
l'evidente scopo di dissuadere e di criminalizzare i soccorsi umanitari in
acque internazionali, in modo da lasciare spazio libero per gli interventi di
sequestro in alto mare, spacciati per soccorsi, operati dalle unità della
sedicente Guardia costiera libica, sostenuta dalle autorità italiane con
finanziamenti e missioni militari in Libia".
"A
partire dal 2020 la misura del fermo amministrativo è diventata lo strumento
ordinario di contrasto delle attività di ricerca e soccorso che le navi delle
Ong tentano ancora di operare nelle acque internazionali del Mediterraneo
centrale.
Tra il
9 ottobre e il 31 dicembre 2020 ben sei navi delle Ong risultavano bloccate in
porto per effetto di provvedimenti di fermo amministrativo (Sea Watch 3, Sea
Watch 4, Eleonore, Alan Kurdi, Ocean Viking e Louise Michel).
Le
informazioni su questi casi sono state sempre molto frammentarie. Ancora nel
corso del 2021 le misure di fermo amministrativo avevano colpito in modo
sistematico le navi delle Ong dopo l'ingresso in porto e lo sbarco dei
naufraghi".
(E poi
l’Europa ci impone di fornire di armi di offesa all’ Ucraina! Ndr.).
Verso
un europeismo?
Caspi.it-(3 luglio 2018)- Prof.Roberto
Castaldi-ci dice :
Direttore
ricerche del Centro Studi, formazione, comunicazione e sull'Unione Europea e la
governance globale, Prof. Associato di Filosofia politica, Direttore del Centro
di Ricerca sui processi di integrazione e governance multilivello
dell'Università e Campus, Presidente del Centro regionale Toscano del Movimento
Federalista Europeo, condirettore di Prospettive sul federalismo.
Ringrazio
Marco Piantini, che ha posto delle domande fondamentali per provare a pensare
un nuovo e più efficace europeismo. Spero che il suo contributo possa suscitare
di rilanciare, in grado di riflettere e la posizione europeista in Italia.
L'europeismo
ha avuto storicamente una forte connotazione federalista, legato italiano ad
Altiero Spinelli e alla sua profonda e ramificata influenza sulla classe
politica e più in generale sulla classe dirigente italiana.
Con la
sua attività politica (con la fondazione del Movimento Federalista Europeo e
l'interlocuzione prima con il Partito d'Azione, la DC, e poi con il PSI e il
PCI per portarli sulla linea europea, fino agli incarichi di Commissario e poi
di Europeo culturale e di ricerca (con la fondazione dell'Istituto Affari
Internazionali, del Mulino, e la spinta alla dell'Istituto Universitario
Europeo), e gli interventi nel dibattito pubblico e sui media, Spinelli ha
lavorato trasversalmente la classe dirigente e l'opinione pubblica italiana.
Molte
delle figure politiche legate all'europeismo hanno avuto rapporti diretti e
importanti con Spinelli. Dopo di lui nessun federalista è riuscito ad avere un
ruolo e ad esercitare un'influenza analoga. Ciò ha contribuito alla perdita di
consapevolezza europea nelle classi dirigenti italiane sia della fragilità
dell'Unione, che del fatto che la prospettiva sia indispensabile per la
stabilità italiana, per il nostro progresso civile e per far fronte ad alcune
debolezze strutturali che ci portiamo dietro da decenni.
Vale
la pena ricordare che il Manifesto di Ventotene si apre con l'analisi della
crisi della civiltà europea e dello stato nazionale. In “Machiavelli nel secolo
XX”, un saggio poco noto scritto sempre a Ventotene, Spinelli osserva che le
civiltà si fondano su leadership politiche che perseguono determinati valori e
li realizzano almeno attraverso istituzioni idonee.
Lo
Stato nazionale assoluto non era idoneo al consolidamento della democrazia, e
infatti nel periodo tra le due guerre vari regimi democratici erano stati
soppiantati da regime autoritari o addirittura totalitari. Il successo del processo di
integrazione europea nel garantire ritmo, stabilità e benessere ha in un certo
senso “salvato lo Stato nazionale” come sostiene Alan Milward.
Questo
ha permesso a molti di illudersi che la democrazia liberale e lo stato di
diritto siano conquiste irreversibili, che possono essere consolidati anche
solo a livello nazionale. Ciò che accade in Ungheria, Polonia - e in alcune uscite
del Ministro Salvini anche in Italia – ci mostra che non è così.
La
civiltà europea moderna ha imparato una serie di lezioni nel modo peggiore,
attraverso guerre, genocidi, crimini contro l'umanità. Il risultato è stato che l'Europa
ha un livello di tutela dei diritti umani e di sviluppo dello stato sociale più
avanzato delle altre aree del mondo. Oggi assistiamo a una regressione.
La
riflessione di Norbert Elias sui processi di civiltà e de-civilizzazione è
quanto mai attuale. I secondi si manifestano spesso in unità politiche ancora
forti ma in declino, che cercano in tal modo di mantenere o recuperare un ruolo
di grande potenza nel sistema internazionale. Nel mondo ormai conta solo gli Stati
di dimensione continentale. Perciò negli Stati nazionali europei si diffonde la
percezione di un declino inevitabile e irreversibile e si guarda ad un passato
idealizzato invece che al futuro.
Oggi
la scelta per gli europei è unirsi o perire.
Arnold Toynbee ricordava che le civiltà
ellenica e del Rinascimento si sono trovati nella stessa situazione di fronte
all'ascesa dell'Impero macedone e di quello romano, e dei primi Stati europei
moderni.
Non
hanno saputo superare le loro vecchie identità culturali e sono morte. Questa è
la posta in gioca del processo di unificazione europea: la sopravvivenza della
civiltà europea moderna, portatrice di una condivisione della sovranità valori
e di costruzione di istituzioni sovranazionali che potrebbe essere di grande
utilità per il mondo alle prese con sfide globali. Se l'Europa non
si unisce, il declino sarà irreversibile. E’ un dato che gli ordini politici storicamente si
diffondono quando hanno successo, per emulazione o per conquista.
Rispetto
al tema della narrazione europeista credo sia necessario riconoscere la
necessità di fondere quella dell'Europa-risorsa con quella dell'Europa-progetto.
L'europeismo
istituzionale parla dell'Europa come risorsa, mette in luce i successi e i
benefici dell'Unione e delle sue politiche. Ma quando la disoccupazione è al
20% l'utilità dell'Erasmus o delle soglie per l'inquinamento da polvere sottili
non fanno breccia. Il federalismo europeo parla dell'Europa come progetto,
ancora incompiuto e da realizzare, criticando i limiti dell'Unione attuale.
Ma
così facendo non ne valorizza il ruolo e i successivi oggettivi. Sottovaluta il
fatto che con la nascita dell'Europea e dell'euro per la maggior parte dei
cittadini l'Europa c'è, ed è quella esistente.
La narrazione federalista è necessaria perché
riconoscendo i limiti dell'UE attuale può entrare in sintonia con la percezione
sociale diffusa.
E
perché è in grado di spiegare le responsabilità degli Stati nazionali nelle
presunte mancanze dell'Unione. Ma ha bisogno di valorizzare maggiormente i
successi per poter essere convincente al fatto che una maggiore integrazione
Unione la condizione di possibilità per affrontare sia l'integrazione con i
grandi problemi contemporanei: sviluppo economico sostenibile da un punto di vista
sociale e ambientale, crisi geopolitiche e stabilizzazione dell'area di
vicinato, e quindi gestione dei flussi migratori.
Si
tratta di un compito pubblico difficile, anche perché la comunicazione è
dominata dal nazionalismo metodologico, giustamente criticato da Ulrich Beck. Qualunque cosa è considerata solo da
un punto di vista nazionale, anche quando quel punto di vista di coglierne il
senso e le dinamiche. Ma questo è il frutto della mancanza di superiorità delle
classi dirigenti politiche, economiche e culturali, e delle loro scelte. Che hanno
trovato comodo per decenni scaricare
sull'Europa la responsabilità di riforme indispensabili e nell'interesse di
lungo periodo del Paese, per non dover pagare un costo elettorale nel breve
periodo o doversi far carico di spiegare il senso e il beneficio di quelle
riforme. La
politica ha abdicato al ruolo di guida.
L'esempio
più lampante è l'Euro. La moneta unica ha portato immensi benefici all'Italia,
in termini di abbassamento dei tassi di interesse e quindi di riduzione del
costo del debito pubblico, ma anche di rilancio degli investimenti.
E ci
ha protetto dallo shock petrolifero seguito all'attacco alle Torri Gemelle. Ma
i cittadini si sono accorti della moneta unica non alla sua nascita il 1
gennaio 1999, ma solo all'avvio della sua circolazione fisica il 1 gennaio
2002, cioè subito dopo l'11 settembre, mentre il greggio volava da 18 fino a
oltre 140 dollari al barile, provocando un enorme aumento di costi di
produzione e trasporto e quindi dei prezzi di tutti i beni.
Che i
cittadini hanno erroneamente attribuito alla nuova moneta. Una concomitanza
nefasta ha rovinato la percezione sociale dall'euro, anche perché i media non
hanno spiegato che di una mera concomitanza si trattava.
In
Italia poi si è aggiunto il fatto che il governo Berlusconi e stato inserito in carica nel 2001 e ha abolito
l'obbligo del doppio prezzo gli osservatori sul “change over” scegliendo
deliberatamente di usare l'avvio della circolazione della moneta come strumento
di redistribuzione massiccia del reddito nazionale a danno di dipendenti e
pensionati e a favore di commercianti, industriali, partite iva - che potrebbe
variare i prezzi – e che considerava il suo eletto di riferimento.
Eppure
oggi Berlusconi blandisce i pensionati attaccando l'euro che ha fatto aumentare
i prezzi, sebbene si sia trattato di una sua scelta deliberata.
Al contempo il significato del profondo
dell'Euro non è stato compreso dalla classe dirigente italiana. Carlo A Ciampi
dal Quirina ha cercato di far comprendere le perdite dell'euro, purtroppo
incolta. L'ingresso nella moneta unica era l'iscrizione alla corsa, dava la
possibilità di partecipare alla gara, che da quel momento in poi si sarebbe
svolta attraverso l'aumento della competitività mediante le riforme, e
bisognava correre.
Noi abbiamo vissuto l'ingresso nella moneta
unica come la vittoria della gara. Al termine della quale si gode il meritato
riposo e si incassano i frutti: i benefici dell'euro sopra menzionati. Questo
atteggiamento è una delle ragioni del fatto che in Italia la produttività non
sia aumentata negli ultimi decenni, che è il problema economico più grave, e da
cui discendo gli altri di cui soffriamo.
Un
elemento di comune dell'europeismo – purtroppo in tutta Europa – è la sua
frammentazione. Anche negli ultimi anni sono nati ovunque movimenti e gruppi europeisti
in risposta alla rinascita del nazionalismo. Ma manca la capacità di coordinarsi
efficacemente tra loro per fare massa critica. Da questo punto di vista il
maggiore successo è stata la Marcia per l'Europa in occasione delle
celebrazioni dei 60 anni dei Trattati di Roma, che ha visto in particolare il
Movimento Federalista Europeo al centro di un'ampia rete.
Un
secondo elemento è anagrafico. I
campioni del nazionalismo sono relativi giovani – pensiamo a Salvini e Meloni –
quelli dell'Europeismo no. Con pochissime eccezioni gli europeisti visibili
sono anziani e i leader politici più giovani non sono associati all'europeismo,
con l'eccezione di Enrico Letta, che ora sta a Parigi. Questo dà l'assurda idea che l'Europa
sia un progetto del passato e il nazionalismo del futuro.
In realtà tutti i sondaggi europeisti che i giovani
sono più, ed esiste un gran numero di europeisti giovani nel mondo della
cultura e dell'associazionismo. Ma la competenza non va più di moda nella
comunicazione, e nei talk show si vedono solo politici e giornalisti, mentre le
voci europee non sembrano essere benvenute. I nazionalisti hanno anche avuto
l'accortezza di reclutare e mandare in TV persone.
Ciò è
anche dovuto ad un paradosso politico-comunicativo: le leggi si fanno al Parlamento
europeo. E i parlamentari europei il lunedì mattina partono da Bruxelles o
Strasburgo, per tornare il giovedì notte o il venerdì, secondo il calendario
dei lavori di quella settimana.
In sostanza non sono disponibili a Roma per le TV nei
giorni in cui si svolge la maggior parte delle trasmissioni di approfondimento
politico. Nel Parlamento italiano tutte le leggi importanti passano con
maxi-emendamento e fiducia sui testi governativi.
I parlamentari hanno dunque tutto il tempo di
andare in TV. I media ci dicono tutto di quel che succede nel Parlamento italiano, dove
non si decide quasi nulla; e nulla di quel che accade nel Parlamento europeo,
dove si decide molto di più in termini legislativi.
D'altronde
il modo in cui si fa politica e comunicazione politica oggi in Italia è
sgradevole. Non c'è una riflessione ed un'elaborazione culturale. Il gioco è a chi
urla di più, a chi la spara più grossa. Le organizzazioni europee non sono
state in grado di accettare la necessità di trasformare il loro modo di fare
politica per far fronte a questo degrado. Né di cambiare le priorità della loro
azione in termini di target. In passato la stragrande maggioranza dei cittadini
europeisti, c'era un europeismo diffuso. Ciò permetteva all'europeismo
organizzativo di concentrare la sua attività sulla classe politica. Oggi non è
più così. È necessario trovare modi efficaci di parlare ai cittadini e
all'opinione pubblica, oltre che alla classe dirigente.
Non
mancano le sperimentazioni in tal senso: ad esempio Daniela Martinelli e
Francesco Pigozzo hanno creato un musical sull'Unione Europea, che realizzato
nel quadro di molti progetti europei e seguito da un dibattito razionale con il
pubblico in sala ha coinvolto di migliaia di giovani negli ultimi anni,
suscitando entusiasmo e avvicinando il pubblico anche emotivamente al processo
di unificazione europea. Il musical offre peraltro una narrazione innovativa
non solo per l'uso della musica e dell'arte, ma proprio per la prospettiva
sovranazionale che propone. Ed è stato trasmesso con successo in televisione in
Toscana e da Rai 5 e Rai Scuola. Ma in assenza di adeguate sponde istituzionali
anche queste innovazioni di successo non riescono a divenire strutturali e
capillari.
In
certo il problema di leadership che affligge l'Europa in termini di un certo
campo i del governo dei Capi di Stato, e di trovare si manifesta anche nel
dell'europeismo, Spinelli non ha saputo trovare la leadership in grado di
coordinare la variegata europeista.
Questo
si manifesta anche nella ridotta capacità di individuare in anticipo le grandi
tendenze del processo e di facilitarne l'esito. L'UE è ormai un sistema di governo
multi-livello quasi-federale, seppure schizofrenico. Nel senso che su alcune materie ha
mantenuto una governance intergovernativa fondata sull'unanimità – difesa,
fiscalità, bilancio, riforma dei Trattati - o comunque sul veto per i Paesi più
grandi, come nel Meccanismo Europeo di Stabilità, dove l'hanno Francia e
Germania .
Su altre
– mercato unico, moneta, ambiente, commercio e in misura ridotta giustizia e
affari interni – ha una governance sovranazionale con un legislativo
bi-camerale (Parlamento e Consiglio dell'UE), un giudiziario federale (la Corte
di Giustizia) e una Banca Centrale federale (la Banca Centrale Europea), ma
mantiene un potere bi-cefalo diviso tra Commissione e Consiglio Europeo.
Molti
europei ritengono che la forma di governo ideale per un'Europa federale sia
quella parlamentare, con il rafforzamento ulteriore del processo degli
Spitzenkandidaten e della Commissione. Al contempo però il modo più rapido
per arrivare al rafforzamento dell'esecutivo europeo sarebbe probabilmente la
forma presidenziale con la fusione delle Presidenze della Commissione e del Consiglio
Europeo in un Presidente dell'Unione eletto direttamente dai cittadini europei,
preferibilmente a doppio turno.
Questa
opzione darebbe una forte legittimità democratica all'esecutivo europeo e
obbligherebbe i partiti europei a strutturarsi in modo più omogeneo e omogeneo.
Se anche una similitudine figura avesse inizialmente solo i poteri delle
attuali Presidenze.
È
evidente però che entrambe le opzioni implicano che sia l'UE il quadro
dell'istituzionale. Se si ritiene che questo sia possibile solo nel quadro
dell'Eurozona, non si può rivolgersi alla proposta di un Ministro del Tesoro
dell'Eurozona (anche vicepresidente della Commissione), incaricato di gestire
un bilancio fondato su una capacità fiscale e di prestito, che rafforzerebbe la
prospettiva di un governo parlamentare.
L'elezione
diretta di un Presidente dell'Unione sarebbe invece la scorciatoia
istituzionale per superare rapidamente sia i confini nazionali della lotta
politica che la discrasia attuale per cui le politiche vengono decise a livello
europeo, ma la lotta politica resta nazionale. È questa dicotomia che sta
contribuendo ad erodere le democrazie nazionali, e ad alimentare il
nazionalismo sovranista in salsa populista.
Ma
aldilà della visione dell'Europa futura, vi è una scadenza più immediata che
diventerà inevitabilmente lo scontro tra le forze europeiste e quelle
nazionaliste: le elezioni europee del 2019.
Inevitabilmente
esse diventeranno il momento dello scontro tra il nazionalismo in salsa
populista e la prospettiva europeista.
I
partiti sedicenti europeisti godono di una larga maggioranza nel Parlamento Europeo.
Ma non sfruttano l'attuale posizione di forza per riformare l'Unione,
sfruttando il potere di iniziativa di una riforma dei Trattati finalmente
concesso al Parlamento dal Trattato di Lisbona. Sono paralizzati dalla paura
che alle europee vincano i sovranisti. Così danno l'idea che l'Unione sia
irriformabile. In parte il problema dell'europeismo tradizionale è che in
passato poteva piccoli passi che non comportassero la creazione di una vera
sovranità europea – era asintotico rispetto alla Federazione: ci tendeva senza
raggiungerla mai. Ormai il processo di unificazione è andato così avanti, e le
sfide economiche e geopolitiche di fronte a noi sono talmente gravi, che o
l'europeismo diviene federalismo europeo o non ha senso.
Molti,
giustamente, notano che il freno è venuto soprattutto dal Partito Popolare
Europeo, che si ostina a tenere al suo interno partiti come Fidesz di Orban e
altre forze ormai con posizioni nazionaliste e di estrema destra: un po'
nell'illusione di poterle così controllare e ammorbidire, un po' per evitare
che vadano a rafforzare numericamente i gruppi ulteriormente anti-europei, un
po' per rimanere il primo gruppo al Parlamento Europeo con tutti i vantaggi che
ne derivano. Ma non vanno sottovalutate le resistenze presenti anche nel gruppo
Socialista e Democratico, in quello Liberal-democratico e nei Verdi, in cui
pure sono presenti partiti nazionali sostanzialmente sovranisti.
Tutto
ciò potrebbe aprire la strada ad un accordo tra Socialisti e Democratici da un
lato e Liberal-democratici dall'altro – e forse i Verdi - con l'apporto di
Macron e con un/a candidato/a comune alla Presidenza della Commissione europea
su una piattaforma popolare un europeo radicale, che potrebbe consentire di
battere il candidato per la Presidenza della Commissione. Sarebbe anche una
scelta coerente con il fatto che i grandi politici in realtà tendono a votare
insieme al Parlamento europeo su testi gruppi lungamente negoziare tra loro. Le
resistenze vengono a livello nazionale dove spesso le componenti nazionali dei
Gruppi europei sono invece in lotta tra loro, come nel caso dei Ciudadanos (che
fa parte del Gruppo liberal-democratico) e dei Socialisti spagnoli, o dei
socialisti francesi (quasi scomparsi in Francia .
Una
simile alleanza potrebbe farsi portavoce delle riforme necessarie ad un'Europa
solidale e che protegge dal punto di vista dello sviluppo economico,
dell'occupazione, del modello sociale europea, della lotta alla diseguaglianze,
valorizzando l'azione europea contro l'evasione e l 'elusione fiscale ad opera
delle multinazionali, piuttosto che le proposte per una carbon tax, una tassa
sulle operazioni finanziarie speculative, un'armonizzazione della base
imponibile per le aziende, uno strumento europeo contro la disoccupazione, ecc.
Se prevarrà la linea Merkel i Popolari europei potrebbero avere una linea
pro-europea soprattutto sul tema della difesa e della sicurezza, sulle attuali
timide posizioni sul resto. Potrebbe essere questo lo schema per le forze
europeiste per i sovranisti di destra e di sinistra.
Ma
nonostante tutti i limiti e le difficoltà, questa può essere “l'ora più bella”
dell'Europeismo. Secondo William Riker storicamente le federazioni per integrazione sono
formate solo di fronte a gravi minacce sul piano della sicurezza. L'Unione è circondata da crisi
geopolitiche, da est a sud, e dalle conseguenze in termini di flussi migratori
e di rifugiati. La minaccia del terrorismo e del cyber warfare incombe.
Gli
attacchi di Trump all'UE sono pressoché quotidiani ed è palese che agli USA non
interessa più la sicurezza europea. Un nuovo ordine mondiale si sta
plasmando in cui conta solo gli Stati di dimensioni continentali. Modelli
alternativi alla democrazia liberale si stanno proponendo dentro e fuori
l'Europa. Dall'unità politica dell'Europa dipende il futuro della democrazia
nel continente.
Una
nuova nebbia di guerra.
Legrandcontinent.EU-
Lorenzo Castellani-(15 -3-2022)- ci dice :
L'invasione
dell'Ucraina ci avvicina alla fine di un mondo, e ci allontana dalla fine
dell'interregno. La forma del nuovo ordine globale continua a delinearsi sotto
i nostri occhi, sempre più precisa, sempre più inquietante - fino alla prossima
crisi.
Cambio
di paradigma.
Qualche
mese fa su queste colonne ho cercato di descrivere il nuovo volto del potere
politico dopo gli effetti della pandemia di Covid-19. Su quella analisi oggi si
innesta il nuovo disordine mondiale, inveratosi in forma militare, prodotto dal
conflitto tra Russia e Ucraina.
Non si
tratta di una guerra come quelle che abbiamo vissuto negli ultimi trent’anni:
non è una guerra civile; non è una guerra terroristica; non è mossa da o verso
Stati falliti e precari; ma è una guerra nel cuore dell’Europa tra due paesi sovrani.
O, meglio, è un’invasione russa motivata da obiettivi
imperialistici, di potenza e di sicurezza. Il luogo della guerra, alle soglie
dei confini dell’Unione Europea, ed il tempo, dopo una lunga pandemia e
impetuosi cambiamenti economici, sociali e tecnologici, rendono lo spettro del
suo impatto particolarmente ampio anche se oggi non ne conosciamo l’esito.
Il
paradigma economico è mutato in modo inesorabile negli ultimi due anni,
consumando definitivamente un assetto che si era stabilito nel corso degli anni
Novanta e che ha iniziato il proprio processo di deterioramento già a partire
dalla crisi economica del 2008.
In tutto l’Occidente, politiche espansive dei
governi e delle banche centrali sono tornate alla ribalta.
Una
tendenza iniziata con la risposta americana, e obamiana, alla crisi del 2008 e
arrivata in Europa soltanto con il “whatever it takes” dell’allora governatore
della Banca Centrale Europea Mario Draghi.
La
pandemia ha accelerato questo processo di svolta, in Europa con il varo del PNRR e la
sospensione del patto di stabilità e negli Stati Uniti con un massiccio piano di stimoli
fiscali voluto dall’amministrazione Biden.
Il
mondo è entrato lentamente e di soppiatto in una nuova guerra fredda.
(LORENZO
CASTELLANI).
Questo
cambio di paradigma sfrutta la necessità di rispondere alla pandemia e alle sue
chiusure, ma s’inserisce anche in un contesto mutato della politica
internazionale.
Il mondo è entrato lentamente e di soppiatto
in una nuova guerra fredda. Politiche protezioniste americane inaugurate da Obama sono
proseguite con maggior vigore durante la travagliata presidenza di Donald Trump.
Esse sono dovute, in particolare modo, alla necessità
di fronteggiare lo sviluppo della potenza economica e tecnologica cinese da un
lato e a quella di fornire una risposta alle pressioni interne derivanti dalla
de-industrializzazione.
Tentativi
di reshoring, cioè di rimpatrio della produzione sul suolo americano, sono oramai in
corso da un quinquennio. Su questo c’è una continuità evidente tra
amministrazioni di colore diverse. Ad esse si accompagnano un maggior controllo degli
investimenti esteri sul suolo americano, politiche di protezione dell’arsenale
tecnologico e digitale della prima potenza occidentale.
Una
nuova guerra fredda.
Questa
postura anti-cinese degli Stati Uniti ha prodotto riflessi anche nel campo
europeo, basti pensare anche qui al controllo degli investimenti con le golden
rule e al controllo sull’approvvigionamento di tecnologie e sistemi di difesa.
Dunque, lo Stato, in tutto l’Occidente, si è
mostrato maggiormente interventista in tre aree: monetaria ed economica per rilanciare
la crescita; sicurezza, per controllare la scalata dell’influenza cinese;
welfare, al fine di ammorbidire un’opinione pubblica sfiancata dalla
stagnazione socio-economica e sedotta negli ultimi anni dalle sirene populiste,
anti-establishment e nazionaliste.
In
Europa, ciò ha determinato un rafforzamento delle istituzioni dell’Unione
Europea che hanno guadagnato una maggiore centralizzazione sul piano economico
e delle politiche pubbliche. Bruxelles pianifica e controlla di più rispetto al passato.
Il pacchetto del Next Generation EU nasce per
necessità economica e sociale di fronte allo shock pandemico, ma rappresenta
anche l’opportunità per un balzo in avanti a-simmetrico, poiché non
politico-costituzionale ma economico-funzionale, di un processo di integrazione
che si era arenato negli ultimi anni.
In questa dinamica si è innestato un
paradosso: l’establishment
europeo si è appropriato di soluzioni che fino a qualche anno fa appartenevano
a partiti di protesta ed intellettuali fuori dal mainstream oppure a correnti
minoritarie delle grandi formazioni di governo centriste.
Un cambiamento di rotta che ha permesso ai partiti
moderati, spesso rinnovati nelle leadership e nella forma, basti pensare a
Macron o ai verdi tedeschi, di mantenere l’ordine politico e piegare le
pulsioni anti-europeiste.
Oggi, dunque,
i paesi europei sono maggiormente interdipendenti, ma all’interno di una
cornice economica e culturale differente. Anche se i due poli opposti faticano
ad ammetterlo si è di fatto giunti ad una integrazione tra europeismo e
sovranismo, soprattutto nei paesi dell’eurozona. Un compromesso necessario tra alto e
basso per la sopravvivenza dell’Unione e della classe dirigente europea. Nessuno oggi può con serietà pensare
disconnettersi dal sistema o rendersi totalmente indipendente dagli altri paesi
europei, ma al tempo stesso elementi di sovranità sono necessari per affrontare
incertezze economiche e insicurezze globali.
Ciò ha
delle implicazioni anche su altri fronti globali, come ad esempio quello della lotta al
cambiamento climatico. È oramai chiaro che la transizione ecologica non potrà
procedere ai ritmi immaginati dai governi occidentali, ma che servirà una
maggiore gradualità nel disegnare e attuare politiche green.
Se le
energie pulite continueranno ad essere finanziate, forme di pianificazione e
regolazione troppo aggressive sembrano destinate ad essere riposte nel
cassetto. I
rischi di approvvigionamento, la crisi energetica, l’inflazione, la potenziale
disoccupazione in alcuni settori industriali a causa delle politiche verdi e
ora la guerra costringono l’ideologia ambientalista ad un” redde rationem” con
la realtà presente. Al tempo stesso è anche vero che le nuove
fonti energetiche sono funzionali ad un disegno di emancipazione dei paesi
europei da fornitori esterni di gas e petrolio, propedeutiche ad un salto in
avanti dell’autonomia energetica europea. Serviranno anni di ricerca e
investimenti, ma lo sviluppo di nuove tecnologie verdi resterà una priorità in
ottica strategica prima che etica.
L’eccessiva dipendenza dalla Russia e dall’instabile
contesto medio-orientale non potrà che essere assottigliata attraverso una
graduale transizione verde e dal ripristino dell’energia nucleare.
L’establishment
europeo si è appropriato di soluzioni che fino a qualche anno fa appartenevano
a partiti di protesta ed intellettuali fuori dal mainstream.
(LORENZO
CASTELLANI).
Sul
piano interno, gli Stati sono stati costretti ad una regolazione minuziosa e
penetrante per fronteggiare la pandemia.
Restrizioni,
obblighi e nuovi poteri e istituzioni sono stati legittimati facendo leva sulla
paura della malattia.
Tanto
l’opinione pubblica quanto il potere politico istituzionalizzato sembrano
quindi già preparati per sopportare uno shock securitario legato al
deterioramento delle relazioni internazionali.
La pandemia ha mostrato quali meccanismi di
delegittimazione politica possono scattare di fronte all’emergenza, come il
discredito dei rappresentanti no-vax e una convergenza al centro per la
gestione dell’emergenza con lo smussarsi delle ali estreme.
Se si
guarda ai paesi europei, un evento di enorme impatto come la pandemia non
sembra aver più di tanto indebolito i governi che erano in carica o le
coalizioni sottostanti. In alcuni casi, al contrario, i governanti si sono
rafforzati. Anche in Italia, dove c’è stato un cambio di governo, si è formata
con relativa facilità e tranquillità una nuova maggioranza intorno a Draghi e
questo governo ha operato con un generalizzato sostegno nelle forze politiche e
nella popolazione.
In generale, insomma, l’emergenza ha, almeno
fino a questo momento, generato stabilità e cristallizzato gli equilibri. La guerra in Ucraina può
potenzialmente contribuire a rafforzare questa tendenza, a meno che le sue
spinte deflagratici non diventino tali da scatenare un conflitto mondiale nel
medio periodo.
Un’altra emergenza, ben più pericolosa della
pandemia, spingerà i governi ad un’ulteriore centralizzazione e ad una
rafforzata cooperazione internazionale con integrazione ulteriore delle
istituzioni comuni.
È
evidente nel caso europeo, ad esempio, che il Next Generation EU non potrà
che essere il punto di partenza di nuove politiche espansive e che il ritorno
alla disciplina di bilancio è sostanzialmente impraticabile.
Si
dovrà trovare un compromesso accettabile tra i fautori dell’austerità, ancora
influenti nell’establishment tedesco e nei paesi settentrionali, e chi vorrebbe
maggiore spesa pubblica a fronte di debiti pubblici in aumento costante.
È
probabile che il punto di caduta possa essere uno scorporo degli investimenti
in transizione ecologica, difesa e infrastrutture strategiche dalla
tradizionale disciplina bilancio. Una politica economica, insomma, che
s’inserisce in un nuovo contesto globale in cui si modificano costantemente i
poteri coinvolti.
Il conflitto ucraino pone infatti le basi per
una nuova militarizzazione dell’Europa di fronte al ritorno della guerra nel
continente dopo decenni di pace.
Il
potere militare era stato relegato in un angolo della mente europea,
rimpiazzato da quello politico, amministrativo ed economico, ma oggi torna a
far parte dell’architettura di potere del continente.
Le implicazioni socio-politiche saranno rilevanti:
alla paura della pandemia si passa a quella della guerra.
La domanda di sicurezza e di controllo verso
la politica da parte dell’opinione pubblica è verosimilmente destinata a
crescere e di conseguenza la richiesta di ricostruire uno “Stato protettore”.
Molto
dipenderà dalle forme di questa ri-militarizzazione, se avverrà cioè
interamente all’ombra della NATO, o se, invece, assumerà una forma autonoma
europea con un grado di coordinamento e integrazione tra eserciti che oggi è
ancora tutto da pianificare.
In ogni caso sembra di essere ad un punto di
svolta e la gestione di questa transizione militare sarà fondamentale per i
destini europei. Una ri-militarizzazione nazionale, cui segue il perseguimento degli
interessi sovrani, può determinare spinte disgregatrici dell’ordine europeo.
Al
contrario un rinsaldarsi della partnership euro-atlantica, con una maggiore
autonomia militare europea attraverso forme di coordinamento sovranazionale,
potrà integrare e connettere meglio la sicurezza e la difesa del continente e
del blocco occidentale.
Il
culmine del processo di istituzionalizzazione delle aggregazioni politiche
risiede da sempre nella creazione dell’esercito e della sua burocrazia. Soltanto ciò fornisce la
possibilità di continuare la politica con altri mezzi. L’Europa non è riuscita a crearli
perché fino a oggi ha ucciso la politica. Senza politica non esiste minaccia
della guerra e senza capacità di minacciare la guerra non esiste l’Europa come
soggetto delle relazioni internazionali. Di fronte alla paura del nemico,
belligerante sui confini dell’Unione, sembra potersi aprire una nuova finestra
di opportunità per l’avvio di un processo costituzionale europeo che superi il
mito funzionalista ed economicista oggi prevalente e proietti l’Unione verso un
futuro più intensamente politico, pur nelle sue forme istituzionali peculiari. Dalla ricostituzione politica del
potere militare passa il futuro del continente nel sistema di potere globale.
Senza
politica non esiste minaccia della guerra e senza capacità di minacciare la
guerra non esiste l’Europa come soggetto delle relazioni internazionali.
(LORENZO
CASTELLANI).
Di
fronte alla crisi ucraina la disciplina politica interna agli Stati, inoltre,
si intensificherà: per partiti o leader politici di simpatie filo-russe,
filo-cinesi o NATO-scettiche sarà più difficile arrivare al governo,
indipendentemente dallo schieramento di appartenenza.
Le
élite politiche moderate, europeiste e atlantiste – coadiuvate da quelle
economiche, finanziarie e amministrative – tenderanno ad essere più unite,
attratte da una forza centripeta. Gli spazi del pluralismo quasi inevitabilmente si
stringeranno, almeno fino a quando ci sarà un nemico minaccioso vicino ai paesi
europei.
Gli stati sembrano già attrezzati per entrare in
assetto semi-bellico. La storia mostra come la guerra reclami più esperti
settoriali, specialisti, scienziati, manager al governo, una eventualità che si
è già consolidata negli scorsi decenni e ancor di più con l’emergenza sanitaria.
La maggior spesa militare, la crescita
dell’allerta dell’intelligence, forme di controllo economico più stringente, un
ruolo sempre più decisivo delle banche centrali richiederanno ulteriori dosi di
tecnocrazia. I confini tra pubblico e privato diverranno più sfumati, con un
capitalismo politico rafforzato che negli ultimi anni si è già manifestato
nelle principali potenze.
Sul
piano globale, l’accorciamento delle” supply chain” e le difficoltà
nell’approvvigionamento delle materie prime dovute alla crescita della domanda
e alle tensioni geopolitiche costringeranno le economie nazionali a ridurre il
proprio raggio d’azione.
Un raggio non più completamente globale, ma regionale.
Ci
saranno settori che, soprattutto in Europa, saranno destinati a soffrire,
ridursi o trasformarsi. L’approvvigionamento energetico verrà progressivamente
diversificato ma per farlo ci sarà bisogno del sostegno dello Stato.
Il mondo sarà maggiormente ridotto in blocchi,
aggregazioni regionali sovranazionali, appunto, mentre alcuni Stati autoritari (come
Russia e Cina) vireranno verso forme semi-autarchiche.
Ciò
non significa un’automatica contrapposizione politica ed economica in blocchi
tra democrazie liberali e autoritarismi – poiché nel mezzo ci sono molte forme
ibride e posizioni geopolitiche specifiche – ma è possibile che l’ordine
globale si strutturi secondo criteri più imperialistici con un’aspra contesa
nelle aree di cesura e dalla debole istituzionalizzazione.
Nemico
attivo, nemico passivo.
La
consunzione definitiva dei rapporti con la Russia dell’Occidente, e la sua
definitiva svolta verso una politica di potenza imperialista aggressiva verso
l’Europa, incasella questa nazione nel campo del nemico attivo.
Ciò significa che il modello politico
putiniano, fondato su un autoritarismo centralizzato percepito come
conservatore da Occidente, difficilmente potrà più fungere da palese
ispirazione a partiti e movimenti culturali europei.
La fascinazione per un modello trasformatosi
apertamente in nemico è destinata ad affievolirsi e a sbarrare la strada ai
tentativi di legittimazione del sistema russo entro i sistemi politici europei.
Le leve d’influenza putiniane subiranno una battuta
d’arresto. Non resta quindi che un solo modello alternativo potente alla
democrazia liberale occidentale che è l’autoritarismo capitalista cinese.
Il
rapporto con la Cina è destinato a fare discutere ancora poiché oggi il regime
di Pechino – al contrario della Russia di Putin – riveste il ruolo di nemico
passivo.
Alcune frange dell’establishment intellettuale
e politico continueranno a guardare con interesse all’unico modello alternativo
alla democrazia liberale, che vuole porsi agli occhi occidentali come
roccaforte della meritocrazia, del progresso tecnologico e del successo
economico nascondendo la sua struttura totalitaria.
Almeno
sino a quando non ci sarà una tensione militare esplicita con l’Occidente,
pontieri con Pechino ed estimatori del suo modello organizzativo-decisionale
continueranno ad essere presenti nei nostri paesi con l’obiettivo di
sottolineare la moderazione e la razionalità del regime cinese per accrescerne
il soft power.
Non mancheranno, insomma, pezzi del sistema
occidentale che si dedicheranno a fare intelligenza, come succede oramai da
anni, con un nemico per ora freddo.
Il
rapporto con la Cina è destinato a fare discutere ancora poiché oggi il regime
di Pechino – al contrario della Russia di Putin – riveste il ruolo di nemico
passivo.
(LORENZO
CASTELLANI).
Da
ultimo ci sono i segni di un cambiamento culturale. Un certo realismo dovrebbe
tornare a prevalere sul liberalismo internazionalista. La guerra squarcia la
possibilità di regolare il mondo con il diritto e l’economia.
La legge è un’invenzione dell’umanità per frenare il
forte e tutelare il debole, ma la storia la sovverte di continuo.
Al
tempo stesso la politica non può ridursi a meccanica economica, pena
l’illusione di vedere un mondo piatto e raziocinante in superficie sottovalutando
il magma impetuoso dei suoi abissi.
Il
disordine e le tragedie prosperano quando viene meno la politica internazionale
fondata sull’arte della diplomazia, che stabilisce come si organizzano gli
spazi geopolitici del pianeta tra attori istituzionalizzati.
È ora
di chiudere il tempo dei trattati che, come quello di Minsk dimostra, hanno
impatto limitato o nullo. Sarà opportuno tornare presto a quel sistema di pensiero
neo-westfaliano, e alla sua conseguente prassi, immaginato da Henry Kissinger e
dimenticato negli ultimi due decenni di politica internazionale, dove si è
preferito distruggere la solidità istituzionale di alcune realtà a favore di
una spinta ideale disgregatrice incapace di produrre state-building e quindi
possibilità di ordine.
Solo
la politica, attraverso la diplomazia, può essere il preludio, o meglio la
condicio sine qua non, per siglare accordi militari, economici, spaziali
duraturi tra entità istituzionali solide.
Ciò
vale a maggior ragione in un sistema caratterizzato sempre di più da spinte
neo-imperiali in cui è opportuno segnare confini e cuscinetti tra zolle
tettoniche geopolitiche per preservare la pace.
Pare
avviarsi dunque alla conclusione definitiva la stagione di una cultura
ottimistica, saldatasi negli anni Novanta, che ha creduto in meccanismi
automatici impolitici e apolitici come garanzia nella produzione di progresso,
ordine e sicurezza.
Termini e concetti come difesa, confini, deterrenza,
sicurezza, interesse nazionale, alleanze militari torneranno ad animare le
nostre notti.
È un
mondo nuovo: più solido e duro all’interno, più aggressivo e bellicoso
all’esterno. Almeno fino a quando la prossima crisi non ne scuoterà ulteriormente
l’essenza.
“Dopo
l’Ucraina, serve un nuovo
piano
di ripresa”,
una
conversazione con Pascal Lamy.
Legrandcontinent.EU-(7-3-2022)-
Gilles Gressani- Pascal Lamy- ci dicono :
A
pochi giorni dal vertice di Versailles e una settimana dopo gli sconvolgimenti
nell'UE e il discorso di Olaf Scholz sulla difesa, abbiamo chiesto a Pascal
Lamy di proporre una diagnosi e indicare alcune prospettive.
Per
molto tempo è stato al centro della costruzione europea. Potrebbe aiutarci a
capire cosa sta cambiando dall’invasione russa dell’Ucraina? In pratica, cosa è
successo lo scorso fine settimana a Bruxelles?
Penso
che abbiamo vissuto un ulteriore passo nella trasformazione dell’Unione Europea
in una vera potenza. L’accordo che consente di finanziare a livello europeo 500
milioni di aiuti militari per sostenere l’esercito ucraino è un passo simbolico
molto importante. Se lasciamo da parte il simbolismo, il fatto più sorprendente
in questo processo è il pacchetto massiccio e senza precedenti di sanzioni
europee.
Putin
sta assediando Kiev, noi stiamo assediando l’economia russa, ovvero il suo
punto debole rispetto alla sua potenza militare. Le sanzioni contro il sistema
finanziario portano alla creazione di un rapporto di forza tra l’attacco
militare russo all’Ucraina e la risposta economica occidentale.
Pensa
che questa forma di risposta permetterà di cambiare concretamente i rapporti di
forza in Ucraina? Quali sono i rischi che spostando il campo di confronto si
finisca per innescare un processo di escalation?
Non
credo che Putin avrà il sopravvento in una lotta di questo tipo e credo che
alla lunga l’equilibrio di potere si sposterà dalla parte dell’Occidente. Sono
d’accordo con l’articolo di Jeangène -Vilmer, Putin ha già perso la guerra e
questo è il problema.
Non si
parla ancora abbastanza di come uscire dalla crisi, ma la questione è urgente.
O
Putin sarà rimosso dal potere da una destabilizzazione politica interna alla
Russia – il che sembra improbabile al momento – o gli si dovrà offrire una via
d’uscita una volta raggiunto il giusto equilibrio di potere. Nel frattempo, dovremo probabilmente
interrompere le importazioni di gas e petrolio russo, cosa che l’opinione
pubblica di diversi Stati membri, tra cui la Germania, comincia a chiedere a
gran voce.
Le
sanzioni contro il sistema finanziario portano alla creazione di un rapporto di
forza tra l’attacco militare russo all’Ucraina e la risposta economica
occidentale.
(PASCAL
LAMY)
Torniamo
per il momento all’Unione. Sta attraversando un “punto di svolta”?
Sì e
no. Non è ‘il’ momento che cambia tutto. Come mostra la vostra ultima mappa,
c’è una convergenza comunitaria senza precedenti su questioni puramente
westfaliane, ma non dobbiamo sognare!
L’uso di fondi del bilancio UE per la difesa
rimane proibito dai trattati. Sono quindi gli Stati membri che si impegnano a
inviare aiuti militari all’Ucraina nel quadro di un meccanismo europeo
extra-bilancio.
Fondamentalmente,
è come il piano di recupero europeo del 2020, che non è stato il momento
hamiltoniano che alcuni si aspettavano, ma ha rappresentato comunque un punto
di svolta. Siamo in una fase storica di una successione di eventi che segnano
il cammino dell’Unione verso il potere, nel senso gramsciano, e la
concretizzazione di una capacità europea di cui il famoso “whatever it takes”
di Draghi è un altro episodio chiave.
Ognuno
di questi tre passaggi sembra cortocircuitare dei tabù che avevano un rapporto
particolare con il ruolo della Germania…
In
effetti, in tutti e tre i momenti, è stata l’ancora tedesca a dover
intervenire, promuovendo l’evoluzione generale dell’Unione.
Quando,
nel 2012, Mario Draghi ha pronunciato la famosa frase “whatever it takes“, ha
superato le disposizioni del trattato di Maastricht sulla questione della
monetizzazione dei debiti pubblici nella zona euro, anche se i tedeschi avevano
esplicitamente richiesto questa garanzia per accettare il trattato.
Nel 2020, con il piano Next Generation EU, è stato un secondo tabù tedesco a
cadere, poiché
Angela Merkel aveva regolarmente detto che non avrebbe mai accettato un debito
comune europeo. La mattina di domenica scorsa, infine, un terzo tabù è caduto in Germania,
quando il cancelliere Scholz ha annunciato il rafforzamento militare del paese.
Come
spiega queste trasformazioni da parte della Germania?
Ognuno
di questi sviluppi è stato preparato da una serie di cambiamenti di narrazione.
Quando
Angela Merkel ha detto che con Donald Trump avremmo dovuto assumerci da soli la
responsabilità della nostra sicurezza, ha causato uno shock nello spazio
politico tedesco che ha preparato il discorso di Olaf Scholz. Il ministro federale dell’economia
e dell’energia, Peter Altmaier, ha reso possibile il passaggio dall’ideologia
di Bruxelles alla politica industriale…
Tutti
questi cambiamenti di narrazione, presi insieme, si muovono nella direzione di
una maggiore integrazione europea, con l’eccezione della Brexit, che però
potrebbe anche essere vista come un altro evento facilitatore.
Se
spingiamo l’analisi sulla Germania un po’ più avanti, vediamo che sono i
governi piuttosto di destra che hanno dovuto ingoiare l’eterodossia fiscale e
finanziaria, ed è un governo piuttosto di sinistra che sta uscendo
dall’ortodossia pacifista della Germania.
(PASCAL
LAMY)
Una
delle cose sorprendenti quando si legge il discorso di Olaf Scholz, ma che era
già presente nel contratto o nel pre-programma della coalizione tedesca, è che
ci si rende conto che parole come “autonomia” o “sovranità”, che sono state
respinte a priori due anni fa dalla presunta successora di Angela Merkel,
Annegret Kramp-Karrenbauer, sono ora al centro del software tedesco.
Non
c’è dubbio che il discorso di domenica mattina è un punto di svolta per la
Germania e quindi un’inflessione per l’Europa.
È un’inflessione
verso la Francia?
L’ideologia
francese sulla dinamica europea è sempre consistita nello scambiare il ricordo
della potenza nazionale con il progetto di trasmutazione di queste potenze
nazionali a livello europeo. Questa è una delle ragioni per cui De Gaulle vi aderì – e
anche per delle ragioni economiche che gli erano meno familiari.
L’idea
di una “Europa Grande Francia“, di un’Europa attraverso la quale la Francia
sarebbe diventata “Great Again“, è sempre esistita. È gollista, mitterrandiana e
macroniana. L’idea che il potere pubblico abbia un ruolo nell’economia, nella
società, che va al di là di ciò che prescrive l’ordoliberalismo, è sempre stata
francese.
Da
questo punto di vista, la Francia non si è mossa, è la Germania che si è
avvicinata, sotto la pressione degli eventi esterni, a una certa ideologia
francese dell’Europa.
Anche
la Francia però è cambiata molto, in questa dinamica…
Sì, è
così. Ciò che la Francia ha concesso in cambio dell’ordoliberalismo non è
affatto trascurabile, ed è stato fatto a dispetto della cultura francese, come
la politica della concorrenza nel Trattato di Roma. Quando i francesi hanno capito,
qualche decennio dopo, che il testo di un nuovo trattato costituzionale
conteneva la “concorrenza libera e non falsata”, hanno votato contro.
La
maggioranza dell’opinione pubblica pensava che questo fosse sbagliato, che
fosse il liberalismo in marcia. In realtà, era l’ordoliberalismo in marcia, e c’è una
differenza, che è ovvia quando si conosce un po’ la Germania, tra liberalismo e
ordoliberalismo.
Se
guardiamo al lungo termine, l’ancora francese si è spostata abbastanza verso
l’ordoliberalismo e l’ancora tedesca si è spostata molto verso un’Europa che è
costretta ad essere potente. Quando si legge il discorso di Scholz, si vede che non era
contento, che non prevedeva un futuro radioso per la Germania non appena avesse
intrapreso la strada del potere raddoppiando il suo bilancio militare. L’idea del suo discorso era
piuttosto “forse
avremmo dovuto, non l’abbiamo fatto, quindi ora dobbiamo”.
Questo
è più churchilliano che una fuga in avanti
à la Victor Hugo.
Se
guardiamo al lungo termine, l’ancora francese si è spostata abbastanza verso
l’ordoliberalismo e l’ancora tedesca si è spostata molto verso un’Europa che è
costretta ad essere potente.
Da qui
l’ironia molto francese di questi giorni del genere “hanno finalmente capito
quello che noi abbiamo sempre capito” – e che abbiamo continuato a dire ma
senza la capacità di trarne le conseguenze – cioè che gli europei dovevano
svegliarsi e capire che viviamo in un mondo brutale.
La
geopolitica passa dalle parole alle cose…
È vero
che finché la Germania era in pace con la Francia e la Russia, la dimensione
geopolitica era in gran parte scomparsa dall’universo ideologico tedesco, che
si era concentrato sull’economia. Lo shock del discorso di domenica mattina è che per la
prima volta dopo molto tempo, uno di questi due processi di pace si è
trasformato in una guerra potenziale.
Questa
è, secondo me, una tensione alla quale lo spazio politico tedesco reagirà. Non
credo che sia solo un altro discorso sul tema di un aumento costantemente
rimandato della spesa per la difesa. C’è molto da fare per rimilitarizzare correttamente
la Germania, non è solo mettendo 50 o 100 miliardi in più nel bilancio della
difesa che si addestrano i soldati. C’è bisogno di una cultura strategica
e di una capacità operativa. C’è una differenza tra la capacità di finanziare
le attrezzature e le prestazioni militari sul terreno.
Penso
che dobbiamo introdurre nella riflessione la dimensione della durata ed
esaminare il processo in cui ci troviamo e in cui abbiamo fatto un grande passo
avanti con la preparazione delle sanzioni e il discorso tedesco di domenica.
Potremmo
dire che l’Unione sta attraversando un “momento schmittiano“, caratterizzato
dalla comparsa improvvisa di un nemico comune nella massima intensità politica
della guerra? Questa politicizzazione non mira forse a trasformare l’aspetto
tecnocratico, a volte apolitico, della costruzione europea? La “commissione geopolitica” voluta
da Ursula von der Leyen potrebbe finire per prendere forma attraverso il
confronto con Putin?
La
presidente della Commissione è un ex ministro della difesa tedesco.
Ovviamente,
il simbolismo è forte quando parla di un “momento cruciale”. Anche qui, la
narrazione è probabilmente ancora un po’ in anticipo. Ma non è un problema essere in
anticipo sulla realtà, quando si esprime una speranza e ci si danno i mezzi per
andare avanti.
Personalmente,
credo che stiamo attraversando un Rubicone dopo l’altro, per così dire, verso
la potenza europea. Le circostanze particolari, legate all’invasione russa
dell’Ucraina, stanno producendo in un certo senso questa energia politica. Ma non sottovaluto l’energia
tecnocratica che ci è voluta per mettere in fila un pacchetto di sanzioni
europee con gli americani in un periodo di tempo così breve.
Stiamo
attraversando un Rubicone dopo l’altro verso la potenza europea. Le circostanze particolari, legate
all’invasione russa dell’Ucraina, stanno producendo in un certo senso questa
energia politica.
(PASCAL
LAMY).
Come
si spiega la velocità di questa reazione? Ci sono voluti anni per arrivare al
“whatever it takes” di Draghi, qualche settimana per arrivare al Recovery Plan,
qui sono bastati dei giorni…
Catturare
il manto della storia mentre passa! “Der Mantel der Geschichte ergreifen” disse
Kohl, citando Bismarck, al momento della caduta del Muro, quando tutti i suoi
consiglieri cercavano di dissuaderlo dall’allineare il marco orientale con
quello occidentale. Fino a venerdì, c’erano tensioni intorno alle posizioni di
Italia, Germania e Irlanda, che inizialmente avevano il riflesso di voler
preservare i loro interessi economici. E poi il mantello della storia è
passato.
Noterete
che ognuna delle tre pietre miliari che segnano il percorso della potenza
europea sono state causate da drammi esterni. La crisi dei subprime ha infettato
l’economia europea. Il Covid-19 ci ha infettato.
E
Putin vuole la guerra per infettare l’Europa. Ovviamente non è la tradizionale
macchina di compromesso europea tra i 27 che è stata la causa di queste
trasformazioni, ma possiamo vedere che sta imparando a reagire più rapidamente.
Uno spazio
politico diverso dal mondo westfaliano può così emergere. Spero solo che la
strada verso il potere europeo, e sarà ancora lunga, non sia sempre segnata da
disastri.
(PASCAL
LAMY).
Dovremmo
strutturare questo processo su base più istituzionale, per esempio rivedendo i
trattati?
Non
credo che siamo sull’orlo di un grande cambiamento istituzionale. Ognuno di
questi grandi momenti di inflessione ha avuto luogo su una “base istituzionale
uguale”. Come
Jacques Delors, mi ritengo più un “funzionalista”: prima il carro del
progresso, poi il bue istituzionale per tirarlo se necessario. Se questa guerra
dura, i danni collaterali per l’Europa e il mondo saranno significativi in
termini economici. È meglio iniziare con qualcosa di concreto, qualcosa che la gente
senta.
Da
dove cominciare?
Dobbiamo
pensare a due misure: un pacchetto economico comune simile a quello del 2020 per
ammortizzare lo shock energetico e inflazionistico;
e mettere sul tavolo un concetto di relazioni tra
Europa e Russia, al riparo dall‘ideologia putiniana, che considera il mondo
russo come l’ultimo faro della civiltà occidentale in un mondo decadente.
Dobbiamo
rivolgerci al popolo russo e dirgli che siamo pronti a collaborare in diversi
settori, tornando alla relazione Europa-Russia di vent’anni fa.
Ho
avuto l’opportunità nel 2004 di discutere con Vladimir Putin, quando stavamo
negoziando le condizioni per l’accesso della Russia all’OMC, un’integrazione avvenuta
con quasi dieci anni di ritardo a causa del veto americano.
All’epoca, eravamo d’accordo tra europei e
russi per lanciare una zona di libero scambio tra l’Unione europea e la Russia.
Vladimir
Putin stesso, contro il parere di alcuni dei suoi consiglieri, ha accettato, su
nostra richiesta, di firmare il protocollo di Kyoto. Questo fa parte di ciò che
l’Unione Europea, come potenza geopolitica emergente, dovrebbe essere in grado
di fare.
Bisogna
pensare a un nuovo piano di ripresa per questa nuova fase?
Credo
di sì. Dobbiamo prendere in considerazione il costo della guerra per l’economia
europea. I russi saranno i più colpiti da queste sanzioni, ma subito dopo
l’Unione europea è la più esposta alle conseguenze economiche di queste
sanzioni rispetto al resto del mondo, se non altro a causa dell’impennata del
prezzo dei combustibili fossili.
Esportiamo 90 miliardi di euro in Russia ogni anno.
Questo non è il grosso delle esportazioni europee, ma è importante per dei
settori redditizi, principalmente tedeschi. I nostri paesi saranno colpiti in
modo ineguale e dobbiamo quindi reagire in modo solidale.
Altrettanto
importante è allineare la traiettoria della nostra transizione climatica, la
decarbonizzazione, con quella di una maggiore autonomia energetica strategica, riducendo la nostra dipendenza dal
gas più rapidamente del previsto, il che implica una riorganizzazione del mix europeo
che sarà costosa, anche in termini di investimenti.
(PASCAL
LAMY).
La questione
dei rifugiati e, più in generale, il rapporto dell’Unione con le migrazioni
dovrebbero essere affrontati nel quadro di questo nuovo piano?
Sì, è
molto importante. Si stima che dovremo accogliere da uno a cinque milioni di
rifugiati. Si dà il caso che i paesi dell’est, che sono stati particolarmente
riluttanti ad accettare i rifugiati di origine musulmana, non hanno la stessa
reazione nei confronti degli ucraini.
Economicamente,
se Romania, Polonia e Ungheria accoglieranno queste popolazioni, sarà un
provvidenziale dividendo demografico per questi paesi, la cui paura
dell’immigrazione verso altre aree europee più privilegiate è stata molto ben
dimostrata da Ivan Krastev. Questa è una dimensione importante di ciò che
questo pacchetto dovrebbe fare.
Possiamo
anche temere delle conseguenze di questa guerra nei Balcani. La Russia potrebbe
anche spingersi al loro interno come risultato dello shock che ha creato, con
nuove tensioni e nuove implicazioni migratorie.
L’invasione
russa è un momento che obbliga tutti i paesi a prendere posizione.
Ci permette di vedere quali rapporti di potere
tettonici stanno prendendo forma in questo momento di interregno. La base dell’analisi geopolitica fino
al giorno prima dell’invasione dell’Ucraina era che la rivalità tra Cina e
Stati Uniti avrebbe strutturato gli anni 2020. È ancora vero? Come definirebbe
la configurazione geopolitica globale dopo l’invasione della Russia?
La
risposta alla vostra domanda è a Pechino. Le conseguenze geopolitiche globali
di questa guerra dipenderanno dall’atteggiamento della Cina, anche se non sono
sicuro che la mia analisi dell’attuale posizione cinese e di ciò che diventerà
sia quella giusta. Lo stesso vale per quello che mi dicono i miei amici cinesi.
Quello
che la Cina ha fatto nell’ultima settimana è simile al canottaggio.
Penso
che la situazione apra uno spazio importante per una Cina che voglia assumersi
le sue responsabilità nell’ordine internazionale e sia disposta a cogliere
questa opportunità di rimodellarlo, non a modo suo perché non ha mano
libera, ma è in una posizione potenziale per svolgere un ruolo di mediazione
che la storia le sta offrendo su un piatto d’argento.
(PASCAL
LAMY)
Finora,
la Cina ha beneficiato di questo ordine mondiale, anche nel WTO. Ma è rimasta
critica nei confronti dell’ordine internazionale, mentre evita di assumersi
responsabilità al di fuori di iniziative unilaterali come le Nuove Vie della
Seta o la Banca Asiatica per gli Investimenti.
La
Cina ha ora l’opportunità di farsi avanti e dire che può parlare sia con Putin
che con l’Occidente.
Naturalmente, questo presuppone che gli
americani considerino che la Cina possa parlare con loro, il che non è ovvio. In ogni caso, c’è una finestra di
opportunità, soprattutto se si considera che un’economia russa ostracizzata è
inevitabilmente nelle mani della Cina, soprattutto nel campo della
finanza.
Qual è
la sua scommessa?
La
Cina giocherà le sue carte secondo i propri interessi e la propria ideologia. Xi Jinping mi sembra, purtroppo, meno
razionale e più ideologico dei suoi predecessori, e potrebbe dare priorità alla
rivalità con gli americani e viceversa. Ma l’opportunità di profilarsi a
livello globale come “attore di pace e armonia”, per usare un concetto cinese,
è buona.
La
Cina, a un certo punto, si proporrà come arbitro, e se lo farà o no, quali
saranno le conseguenze? C’è, naturalmente, uno scenario in cui la Cina è
solidale con la Russia, uno scenario a cui non credo perché è troppo pericoloso
per il futuro dell’economia cinese, che è molto più aperta al mondo di quella
russa.
In
questa scommessa che lei sta facendo di un ottimismo sull’interpretazione della
Cina come una forza di stabilizzazione e ristrutturazione piuttosto che di
disorganizzazione e implosione dell’ordine internazionale, l’Unione Europea avrebbe interesse
ad impegnarsi nella discussione?
Naturalmente,
perché tutto quello che è stato detto prima su questo progresso europeo verso
la potenza, l’abbiamo detto in circostanze in cui la NATO ha recuperato tutta
la sua forza e tutta la sua brillantezza, e quindi, in un’atmosfera transatlantica
che sarà testata di nuovo se Trump o uno dei suoi equivalenti dovesse arrivare
al potere nel 2024 – cosa che potrebbe tranquillamente accadere.
Nella
nostra prima intervista, lei ha detto che l’Unione, per essere sovrana, deve
passare “dal cono al cilindro”. Pensa che questa operazione geometrica sia in
corso?
Sì, un
primo passo è stato fatto. Il cono europeo – la cui base è economica e il cui
apice è la guerra – si sta avvicinando al cilindro della sovranità, ma c’è
ancora molta strada da fare nel campo tecnologico, militare e concettuale, come
possiamo vedere con la famosa bussola strategica.
Siamo
ancora in un cono. Anche se il centro si sta allargando, la forma del cilindro non è stata
raggiunta. É ancora un po’ come una brioche, per restare alle metafore.
Quando
guardiamo alla difesa europea, ci sono ancora molte questioni da affrontare,
che si tratti del rapporto con la NATO o del ruolo del nucleare francese in
Europa.
Penso che ci sia ancora molta strada da fare
verso una difesa europea, ma l’aggressione russa in Ucraina dimostra che è
per l’ideologia della politica estera e
di sicurezza europea che passa l’azione militare.
La ragione per cui siamo stati in grado di
adottare sanzioni così forti contro la Russia, con l’unanimità di tutti i paesi
membri, compresa l’Ungheria di Viktor Orban, che è un grande amico di Vladimir
Putin, è a causa di un cambiamento nella percezione della minaccia russa.
Oggi,
non c’è dubbio tra gli europei che Vladimir Putin è un avversario dell’Europa e
dell’Occidente. Quindi c’è una percezione comune all’interno dell’Unione.
(PASCAL
LAMY).
Finalmente
sentiamo le stesse minacce, il che è necessario per sviluppare una politica di
sicurezza comune. Oggi, non c’è dubbio tra gli europei che Vladimir Putin è un
avversario dell’Europa e dell’Occidente. Quindi c’è una percezione comune
all’interno dell’Unione. È ancora in contraddizione con le capacità militari. È
un sistema interconnesso: una politica estera, all’interno di una politica di
sicurezza, all’interno di una politica di difesa.
Possiamo
vedere qui che queste politiche sono allineate nella stessa direzione, anche
nel caso di Svezia e Germania, che fino a poche settimane fa erano contrarie
all’invio di armi offensive in Ucraina. L’unità della percezione della
minaccia ha quindi permesso l’idea che la componente militare sta diventando
necessaria per la potenza europea. Per unirsi, gli europei devono condividere
non solo i sogni, ma anche gli incubi.
NB.(Il
Fondo europeo per la pace è uno strumento extra-bilancio e intergovernativo che
include l’assistenza militare come quella per l’Ucraina ma anche ATHENA per il
finanziamento dei costi comuni delle operazioni militari.).
Estrema
destra 2.0: dalla normalizzazione
alla
lotta per l’egemonia.
Legrandcontinent.EU-
Steven Forti-(24th Giugno 2022)- ci dice :
È
ormai fattuale: bisognerà continuare a fare i conti con la nuova estrema
destra. Fino a che, presto, non sarà più una novità sulla scena politica. Al
posto di stupirsi, a ogni tornata elettorale, dei risultati dei rappresentanti
di questa tendenza politica in Europa e di lamentarsi dello spostamento verso
destra del dibattito pubblico, Steven Forti si pone l’obiettivo di capire le
caratteristiche comuni di questi fenomeni politici.
È
ormai chiaro: la nuova estrema destra è entrata nello spazio politico, vi
resterà e bisognerà continuare a farci i conti.
I
risultati delle elezioni presidenziali francesi indicano inequivocabilmente che
quasi la metà degli elettori francesi vede in Marine Le Pen, leader del
Rassemblement National (RN), una valida opzione per la presidenza di uno dei
Paesi fondatori dell’Unione Europea.
Se il fronte repubblicano ha permesso a
Emmanuel Macron di rimanere all’Eliseo per altri cinque anni, Le Pen è riuscita
a liberarsi dello stigma dell’estremista, facilitata in questo dall’entrata in
scena, ancora più a destra, di Eric Zemmour. Sembra però un’ingenuità il fatto
che molti analisti e cittadini si rendano conto solo ora di tutto questo.
Come
sottolineato da Cas Mudde, la normalizzazione dell’estrema destra è avvenuta
ormai da tempo.
Secondo
il politologo olandese, con l’inizio del nuovo millennio siamo entrati nella
quarta fase dell’ultradestra, caratterizzata da un fenomeno di
de-marginalizzazione della nuova estrema destra.
Da
minoranza esclusa dalle istituzioni, o comunque relegata ai suoi margini,
questi gruppi sono diventati un attore politico radicato nei territori,
presente nei parlamenti e accettato da un’alta porzione della popolazione
elettorale.
Ovviamente l’Ungheria, governata da una
maggioranza assoluta facente capo a Viktor Orbán da ormai dodici anni – e la
stessa cosa è accaduta alle ultime elezioni, fatto che estenderà il periodo di
altri quattro anni, e la Polonia, dove il PiS è al potere da ormai due mandati,
sono i casi più emblematici e preoccupanti, ma l’Europa dell’Est non è
un’eccezione.
Dalla fine del secolo scorso, la nuova estrema
destra ha fatto il suo ingresso negli esecutivi di vari Paesi dell’Europa
occidentale. Non dimentichiamo che il Movimento Sociale Italiano, sul punto di
diventare Alleanza Nazionale, ha smesso di essere il polo escluso della
politica italiana già nel 1994, quando entrò al governo insieme a Forza Italia
e alla Lega Nord: nei due decenni successivi, la presenza dei post-fascisti di Fini e di
una Lega Nord sempre più estremista nel governo italiano, per non parlare dei
numerosi comuni e regioni da loro amministrati, è stata vissuta con una certa
“normalità” in Italia. Analogamente, nel 1999, l’FPÖ di Jörg Haider è entrato in
un governo di coalizione con i conservatori in Austria, forte del 26,9% di
preferenze ottenute alle precedenti elezioni.
Di
recente, si è vista una decisa accelerazione di questo fenomeno. Da un lato, la nuova estrema destra
è salita al potere in diversi Paesi: vittoria di Donald Trump negli Stati
Uniti nel 2016, coalizione FPÖ + ÖVP a Vienna, l’ascesa della Lega “modello Le
Pen” di Salvini e del M5S in Italia nel 2017 e 2018, vittoria di Bolsonaro in
Brasile nel 2018, per non parlare del fenomeno della Brexit nel Regno Unito.
Dall’
altro lato, l’avanzata elettorale di queste formazioni politiche è stata
capillare: nelle
elezioni europee del 2019, l’estrema destra è stata la prima forza in cinque
Paesi (Francia, Italia, Regno Unito, Polonia, Ungheria) e oggi, con l’eccezione
di Irlanda e Malta, è rappresentata in tutti i parlamenti nazionali del
continente, ottenendo percentuali di voti anche superiori al 20%.
Quella
che fino al 2018 veniva definita l'”eccezione iberica” si è sciolta come neve
al sole: Chega
è già il terzo partito in Portogallo e Vox è entrato di recente per la prima
volta in un governo regionale, quello della Castiglia e León, in coalizione con
il Partito Popolare. In sintesi, si tratta di un fenomeno diffuso in tutto il
mondo occidentale e che esiste da molto tempo.
Una
nuova o vecchia estrema destra?
Uno
dei punti principali del dibattito sulla nuova estrema destra riguarda la
terminologia, direttamente legato al rapporto con il fascismo nel periodo tra
le due guerre.
Sia nelle pubblicazioni accademiche che nei
media, si legge di una ridda di definizioni diverse tra loro utilizzate per parlare di Trump, Salvini, Orban
e persino di Abascal: destra radicale, populismo di destra, ultradestra,
estrema destra, populismo nazionalista, post-fascismo, neofascismo o,
semplicemente, fascismo. Si potrebbe pensare che un simile dibattito sia banale: non è così – sapere come chiamare le
cose è essenziale per comprenderle.
La mia
opinione è che ci troviamo di fronte a due notevoli ostacoli – i concetti di
fascismo e populismo – che ci impediscono di trovare una soluzione convincente
a questo problema.
In primo luogo, la nuova estrema destra è
diversa dal fenomeno storico del fascismo. Seguendo la definizione di Emilio
Gentile, il fascismo è stato un movimento politico e un’ideologia con una serie
di caratteristiche che non ritroviamo nel trumpismo, nella Lega, in Fidesz o
nel Rassemblement National: dall’uso della violenza come strumento politico
alla volontà di instaurare un regime totalitario monopartitico, dal progetto di
inquadrare le masse in grandi organizzazioni al presentarsi come rivoluzione
palingenetica volta a trasformare radicalmente la società e a creare nuovi
uomini e donne. Ciò non significa che non ci siano elementi di continuità tra queste
esperienze e quelle di oggi: tuttavia, il fascismo era semplicemente qualcosa
di diverso. Oggi i gruppi neofascisti e neonazisti esistono ancora, ma sono
fortemente minoritari.In parole povere, la nuova estrema destra non fa più il
saluto romano o va in giro con le croci uncinate tatuate sulle braccia: è diventata più presentabile, in
giacca e cravatta. Inoltre, dice di parlare la lingua della gente comune,
rifiutando l’etichetta fascista o estremista e accettando il sistema
democratico.
Si tratta di un aggiornamento dell’ideologia
fascista, iniziato almeno negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso. Una delle
figure chiave di questo processo è senza dubbio Alain de Benoist che, con il
gruppo francese della Nouvelle Droite, iniziò a elaborare un pensiero nuovo per
la cultura politica neofascista sulla base di una rilettura di Antonio Gramsci.
L’estrema destra ha deciso di mettere da parte
la lotta per il potere politico e di concentrarsi sulla guerra di posizione, in
senso gramsciano, per ottenere l’egemonia culturale. Eccone dunque individuata la
provenienza.
In
secondo luogo, il concetto di populismo non aiuta più di tanto a definire e
capire la nuova estrema destra. Negli ultimi decenni, si sono versati fiumi d’inchiostro su
questo concetto, divenuto una sorta di categoria pigliatutto per definire ciò che
fuoriesce dalle ideologie politiche tradizionali.
L’unico
accordo raggiunto riguarda proprio la “natura proteiforme” del populismo e il fatto che
si tratta di un concetto “essenzialmente controverso” e “politicamente
polemico”.
C’è chi lo vede come un’ideologia, anche se
scarna e sovrapponibile ad altre, come il nazionalismo o il socialismo, e chi
lo vede come uno stile retorico, un linguaggio o una strategia politica .
In mancanza di una definizione accademica
largamente condivisa, credo che la seconda interpretazione sia la più accurata.
Considerate
anche il fatto che il populismo viene ormai utilizzato in ogni circostanza. Se Le Pen, Mélénchon e anche Macron
sono tutti dei populisti, cosa ci dice questa definizione? Bisogna piuttosto considerarlo come
segno distintivo dei tempi in cui viviamo e dovremmo parlare, come hanno
sottolineato Marc Lazar e Ilvio Diamanti, di “popolocrazia “. Se quindi l’estrema destra utilizza
gli strumenti retorici e linguistici del populismo, lo stesso concetto di populismo non
ci aiuta a definirla e capirla meglio.
Questo
doppio ostacolo è stato superato da Cas Mudde e dalla sua definizione della
destra radicale.
Tuttavia,
la sua proposta rimane problematica: si può ritenere corretto l’uso dello
stesso aggettivo – radicale – come se ci fosse una sorta di simmetria tra le
nuove forze di estrema destra e di estrema sinistra, come Podemos, Syriza o La
France Insoumise? Personalmente, lo ritengo un errore:
la
sinistra radicale critica l’attuale sistema liberale, concentrandosi sui
problemi economici e chiedendo a gran voce un cambiamento dei modelli
neoliberali, senza però rimettere in dubbio i diritti garantiti dalle conquiste
democratiche.
Al contrario, spinge per ampliare e
approfondire questi diritti e per la riduzione delle disuguaglianze. Come sottolineato da Beatriz Acha Ugarte, ” è
possibile concepire una democrazia non pluralista? Possiamo definire
democratiche – anche se non nella loro ‘versione liberale’ – quelle forze che,
nel loro trattamento dell”altro” (immigrato, straniero), disprezzano il
principio democratico dell’uguaglianza?”.
E
aggiunge: “Non
si può rifiutare la democrazia liberale senza rifiutare anche la democrazia in
un modo o nell’altro”, quindi bisogna essere “cauti nel considerarle formazioni
democratiche, perché difendono un’ideologia dell’esclusione che è incompatibile
anche con la versione meramente procedurale” della democrazia .
Estrema
destra 2.0, una macro-categoria plurale.
Sulla
base delle precedenti considerazioni, ho proposto la definizione, un po’
provocatoria, di estrema destra 2.0.
Questo
concetto mette l’accento non solo sul fatto che Trump, Salvini e Le Pen siano
un fenomeno diverso dal fascismo, che presenta elementi di novità rispetto al
passato, ma anche su come le nuove tecnologie abbiano giocato un ruolo cruciale
nell’ascesa di queste forze politiche.
Inoltre, vorrei evidenziare quanto possa
essere utile avere una macro-categoria nella quale includere tutte queste
formazioni politiche dal momento che, sebbene esistano alcune differenze, esse hanno più cose in comune sotto
il profilo dei riferimenti ideologici che sotto il punto di vista delle
strategie politiche e di comunicazione.
Questa
definizione copre i partiti membri dei gruppi Identità e Democrazia (ID) e
Conservatori e Riformisti Europei (CRE) del Parlamento Europeo, ma anche al Fidesz ungherese, escluso di recente dal partito
popolare europeo (PPE).
Allo
stesso modo, può essere applicata a movimenti identitari simili o a fenomeni
sui generis come il trumpismo, il bolsonarismo o il Likud di Benjamin Netanyahu in
Israele.
Si
tratta di una macro-categoria che tuttavia non si applica ai tradizionali
partiti di destra – in genere membri del PPE – anche se in certi casi, come i
Tories britannici o il PP in Spagna, si può osservare ciò che Roger Eatwell e
Matthew Goodwin chiamano il “populismo nazionale leggero”, ossia un processo
più o meno intenso di nazionalismo di ultra-destra .
Allo
stesso modo, non appartengono a questa categoria partiti o movimenti politici
come Amenecer
Dorado, CasaPound o Hogar Social Madrid, così come le organizzazioni e associazioni
della natura di Combat 18, Lealtà e Azione o altri gruppi che si riuniscono in
dei network transnazionali come Blood&Honour che, dal momento che si
rifanno direttamente all’ideologia fascista e non rifiutano la violenza come
strumento politico, possono essere definiti neofascisti o neonazisti.
Ugualmente,
non rientrano in questa categoria i sistemi di governo e i partiti su cui
dominano Duterte
alle Filippine, Modi in India o Erdoğan in Turchia, poiché sono il prodotto di
esperienze realizzate in contesti politici e culturali molto diversi da quelli
occidentali: Duterte, Modi e Erdoğan, così come Putin, fanno parte di una
tendenza autoritaria che si riscontra su scala mondiale e che va oltre la
definizione dell’estrema destra 2.0.
Per
questi casi è appropriato rifarsi alla formula proposta da Steven Levitsky e
Lucan Way, quella di autoritarismo competitivo, ossia dei regimi che si basano
sulla pratica ricorrente di elezioni formalmente libere, ma non nella loro
realizzazione .
Tutte
le formazioni dell’estrema destra 2.0 hanno una serie di denominatori comuni,
ossia un insieme di riferimenti ideologici condivisi.
Questi
includono un forte nazionalismo, l’identitarismo o il nativismo, il recupero
della sovranità nazionale, una profonda critica del multilateralismo – e, in
Europa, un alto grado di euroscetticismo – la difesa dei valori conservatori,
la difesa della legge e dell’ordine, l’islamofobia, la visione
dell’immigrazione come “invasione”, la critica del multiculturalismo e delle
società aperte, l’anti-intellettualismo e un distanziamento formale dalle
esperienze passate del fascismo.
Ci sono anche altri elementi comuni: un
esasperato tatticismo per essere presenti e visibili sui media, l’uso delle nuove tecnologie e dei
social network per rendere virali i loro messaggi, profilare i dati dei
cittadini e contribuire ulteriormente alla polarizzazione della società creando
un clima da guerra culturale, la volontà di presentarsi come ribelli a un presunto sistema
egemonico di sinistra e alla dittatura progressista del politicamente corretto.
Quest’ultima
caratteristica è particolarmente interessante e la vediamo plasticamente
rappresentata in figure come l’influencer trumpiano Milo Yiannopoulos o l’economista paleo-libertario
argentino Javier Milei, che si distaccano dall’immagine classica di quelli che
siamo soliti considerare i rappresentanti dell’estrema destra tradizionale.
I nuovi estremisti di destra non solo sono diventati
più “presentabili”, ma cercano di appropriarsi di bandiere progressiste e di
sinistra – si pensi al concetto di libertà o a fenomeni come l’omo-nazionalismo
o l’eco-fascismo – in un momento storico segnato dalla confusione ideologica .
Inoltre, tutte queste formazioni politiche condividono obiettivi simili. In primo luogo, spostare verso destra
il dibattito pubblico, contribuendo allo scivolamento della finestra di Overton e
rendendo accettabili discorsi e narrazioni che fino a pochi ani fa non lo erano.
In secondo luogo, salire al potere per
instaurare una democrazia illiberale sulla falsariga di quanto fatto da Orbán. Oggi l’Ungheria non è una democrazia
a tutti gli effetti, ma un regime ibrido che si sta gradualmente spostando
verso l’autoritarismo .
Tuttavia,
ci sono anche divergenze tra queste formazioni politiche: dall’agenda economica – ci sono gli ultra-liberali come Vox
o Chega e quelli come Le Pen che difendono il cosiddetto sciovinismo del
welfare, ai
valori –
nell’Europa meridionale e orientale, la posizione è molto più
ultra-conservatrice rispetto all’estrema destra olandese o scandinava, un po’ più aperta su temi come i
diritti LGTBI e l’aborto – o la geopolitica dove, come abbiamo visto negli
ultimi mesi, ci sono partiti russofili e partiti atlantisti. Forse bisognerebbe declinare il
concetto di estrema destra 2.0 al plurale e parlare di estreme destre 2.0: parafrasando lo storico Ricardo
Chueca, che ha studiato la Falange durante il regime franchista, ogni Paese dà
vita all’estrema destra di cui ha bisogno.
E si
può aggiungere che ogni estrema destra è il frutto delle culture politiche
esistenti in ogni contesto nazionale. Da ciò derivano le loro peculiarità,
che non impediscono di considerarli parte di una grande famiglia globale, poiché esistono anche reti
transnazionali che lavorano per rafforzare i legami esistenti, per sviluppare
un programma comune e per finanziare questi partiti politici.
Assisteremo
a una lotta per l’egemonia nello spazio dell’estrema destra?
Oggi è
chiaro che l’estrema destra ha raggiunto il suo primo obiettivo: si è normalizzata, non è più ai
margini dello spazio politico e sta spostando il dibattito pubblico sempre più
verso destra.
Questa
è già una realtà in tutti i Paesi occidentali. La questione ora non è tanto se
vorrà orientare i Paesi in cui governa o governerà verso sistemi democratici
illiberali – lo farà appena potrà, più o meno rapidamente, con più o meno
difficoltà – ma se è iniziata una lotta per l’egemonia nello spazio
dell’estrema destra e quali saranno le conseguenze .
In effetti, in diversi Paesi si è visto come i
principali partiti di estrema destra abbiano visto emergere dei concorrenti nel
proprio spazio politico e ideologico.
Il
caso francese è forse il più recente e, sebbene Le Pen abbia vinto al primo
turno contro Zemmour, la guerra potrebbe non essere finita.
Un
fenomeno simile si sta verificando anche nei Paesi Bassi, dove l’egemonia del
Partij voor de Vrijheid di Geert Wilders viene messa in discussione dal Forum
voor Democratie di Thierry Baudet, e in Danimarca, dove il Nye Borgerlige di
Pernille Vermund e lo Stram Kurs di Rasmus Paludan sono entrati in scena,
esercitando una pressione di destra sul Dansk Folkeparti.
Il caso più emblematico, tuttavia, è quello
dell’Italia, dove la Lega di Salvini sta combattendo aspramente con Fratelli
d’Italia di Giorgia Meloni, con entrambi i partiti che si contendono il
vantaggio intorno alla soglia del 20%.
La
questione ha anche una dimensione europea e internazionale.
La guerra in Ucraina ha ulteriormente
sconvolto il fragile equilibrio tra i vari partiti dell’estrema destra. Da anni Salvini cerca di diventare
maggioritario nel gruppo dei Conservatori e Riformisti europei, cosa che i
polacchi di PiS e Fratelli d’Italia rifiutano categoricamente.
L’uscita
di Orbán dal PPE ha rimescolato le carte in tavola e ora la Lega e Fidesz hanno
annunciato un accordo per creare un nuovo partito europeo che intende prendere
il posto del Partito Popolare.
La
vicenda potrebbe semplicemente concludersi con l’incorporazione di Fidesz in
Identità e Democrazia e il tentativo di seguire l’esempio di Le Pen nel
processo di de-demonizzazione presso l’opinione pubblica, oppure potrebbe
trasformarsi in un terremoto, con la creazione di un unico partito europeo di
estrema destra.
Sembra
che Kaczyński e Meloni non siano favorevoli – i loro rapporti con Orbán, anche
a causa delle posizioni pro-Putin del primo ministro ungherese, si sono
notevolmente raffreddati – ma Vox potrebbe aderire all’iniziativa.
I leader del Core Abascal di ECR erano a
Budapest per festeggiare la vittoria di Orbán il 3 aprile e hanno accompagnato
Le Pen al suo quartier generale la sera del secondo turno delle elezioni
presidenziali francesi. Insomma, la partita è ancora aperta e può riservare
sorprese.
Un
ultimo elemento da considerare è che i partiti tradizionali di destra sono
l’anello debole dei sistemi politici europei.
Stanno attraversando una grave crisi e non sanno come
affrontare l’arrivo a destra di partiti concorrenti. Se in Germania la CDU è riuscita a
arginare l’Alternative für Deutschland, in altri Paesi la destra, che si
definisce democratica e che è stata uno dei pilastri della costruzione
dell’Unione europea, si è alleata con l’estrema destra e ha fatto propri molti
dei suoi discorsi.
È quindi necessario aggiungere questo elemento
all’equazione, che potrebbe avere conseguenze importanti nel prossimo futuro. In poche parole, se l’estrema
destra riuscirà a superare le sue differenze e a unificarsi o almeno a
collaborare, attirando al contempo la destra tradizionale dalla sua parte, lo
scenario più probabile è quello di un’orbanizzazione dei vari Paesi e persino dell’Unione
Europea.
Non
bisogna dimenticare che trent’anni fa il primo ministro ungherese era un
liberale e che alla fine degli anni Ottanta ha ricevuto sovvenzioni dalla
fondazione di George Soros.
Superiamo
quindi una volta per tutte l’ingenuo stupore per i risultati ottenuti
dall’estrema destra 2.0 a ogni elezione e rendiamoci conto che la
normalizzazione di questi partiti e la diffusione del dibattito pubblico dei
loro discorsi sono ormai realtà.
È giunto il momento di concentrarsi
maggiormente sullo studio di questo fenomeno, di comprenderne le
caratteristiche inedite e le ragioni della sua ascesa e, come cittadini che
credono nei valori democratici, di lavorare per risolvere la crisi multilivello di cui
soffre la democrazia liberale e pluralista.
(E’
sorprendente immaginare come reale e possibile che si possa avverare la
prossima occupazione del mondo intero
-con il relativo stermino dell’umanità da parte della Globalizzazione Occidentale 2.0
-ossia la creazione di un Dominio totalitario voluto dalla cricca assassina
comandata da Klaus Schwab : e questo dovrebbe avvenire senza che i popoli della
terra- ancora liberi in nazioni sovrane- non si difendano in futuro tramite l’aiuto dell’opera delle forze
schierate a favore delle Destre nazionali e populiste 2.0!Ndr. ).
Quindici
anni dopo:
l’Unione
del futuro.
Legrandcontinent.EU-
Riccardo Perissich- (9th Giugno 2022)- ci dice :
Si
tratta di un paradosso ben conosciuto e collaudato: mentre sembra incapace di
produrre cambiamenti strutturali, l'Unione reagisce sempre meglio e più rapidamente alle
crisi. In
questa panoramica, Riccardo Perissich ripercorre le trasformazioni che
potrebbero delineare la forma dell'Europa dopo la guerra in Ucraina.
L’attuale
dibattito europeo presenta allo stesso tempo vigorosi appelli alla necessità di
nuovi progetti ambiziosi, per esempio nelle parole di Emmanuel Macron e Mario
Draghi, ma anche richiami alla prudenza da parte di numerosi governi.
L’Unione
Europea si trova quindi davanti a un trilemma. Le circostanze vorrebbero un
progresso deciso nell’integrazione. Tuttavia realizzare progressi
importanti con il consenso di tutti i membri diventa sempre più difficile. Allo stesso tempo però l’unità dei
27 è ancor più che per il passato un bene prezioso da proteggere. Come sempre, la fattibilità dei
progetti, allo stesso tempo ciò che è necessario e ciò che è fattibile,
dipenderà dall’evoluzione degli avvenimenti. È quindi da lì che bisogna
cominciare.
Nei
quindici anni che ci separano dalla crisi finanziaria, l’UE ha vissuto uno dei
suoi periodi di più intensa mutazione. Il decennio precedente che era
stato il teatro di due decisioni epocali come l’introduzione dell’euro e il
passaggio da 15 a 28 paesi membri; per quanto importanti, esse tuttavia erano annunciate
da tempo, il compimento di progetti e impegni presi in precedenza in seguito
alla caduta del muro di Berlino e alla dissoluzione dell’URSS.
Nulla
di quanto è successo più recentemente era stato programmato. Abbiamo dovuto
reagire agli avvenimenti e l’abbiamo fatto spesso in una situazione di
sostanziale vuoto giuridico e con istituzioni mal equipaggiate per far fronte a
crisi di quell’ampiezza. Dire che tutto ciò è successo sotto la guida di fatto di
Angela Merkel, Cancelliera del paese più importante dell’Unione, è solo in
parte una semplificazione. Il percorso effettuato riflette quindi il suo stile, ma più
in generale la prudenza con cui la Germania si muove solo dopo aver assicurato
un grado elevato di consenso interno e poi europeo.
È un modo di procedere che può creare
esasperazione e suggerire un’analogia con quanto Churchill diceva dell’America: “fanno la cosa giusta solo dopo
aver esaurito tutte le alternative”. D’altro canto, il consenso (interno ed europeo) così
acquisito si è poi dimostrato duraturo, in contrasto con gli ondeggiamenti
che hanno caratterizzato la politica europea di altri grandi paesi come la
Francia e l’Italia. La Germania ha anche introdotto nel dibattito europeo un
concetto di sacralità delle regole che è parte integrante del suo consenso
interno e riflette la volontà di esorcizzare un drammatico passato. L’altra caratteristica del percorso
effettuato è che l’UE è programmata fin dalla sua creazione per occuparsi delle
crisi quando avvengono ma non di affrontare i nodi sistemici che le
permetterebbero di prevedere e prevenire le crisi successive.
Gli
avvenimenti a cui mi riferisco sono noti. Intorno a Brexit ci sono due
narrative. Secondo
la prima, l’Europa ne risulta indebolita sul piano economico, politico e
militare. Inoltre è stato infranto il tabù della perennità. Secondo la seconda, Brexit ha effetti
positivi perché viene a mancare uno dei paesi che in passato si erano opposti
con più forza a una maggiore integrazione. Entrambe le interpretazioni sono
vere, ma devono anche essere relativizzate. L’opposizione britannica è spesso
servita di alibi alla resistenza di altri, ma non ha mai impedito progressi che
erano fortemente voluti da una maggioranza di paesi: per esempio Schengen e
l’euro.
Inoltre, Brexit ha rafforzato l’unità dei 27 e
accresciuto il senso di appartenenza anche di chi era tradizionalmente vicino
alle posizioni britanniche. D’altro canto però, l’assertività di questi paesi
(gli scandinavi e l’Olanda per esempio) è stata rafforzata dall’assenza del più
influente difensore del liberismo in economia e dell’atlantismo in politica
estera e ha dato loro quasi una “nuova missione” in seno all’UE. Brexit ha peraltro incoraggiato la
tesi di una inevitabile frattura, politica, culturale e addirittura valoriale,
fra il continente europeo e un mitico “mondo anglosassone”.
Tesi
che non ha però fondamento reale e sottovaluta sia quanto la Gran Bretagna sia
in realtà “europea”, sia quanto una parte importante dell’Europa, soprattutto a
nord ma anche a est, si senta vicina storicamente, politicamente e
culturalmente al mondo anglosassone. Detto questo, Brexit resta un cantiere incompiuto,
mal negoziato dal governo britannico e ancora mal digerito. Ciò non toglie che
l’UE e la Gran Bretagna hanno comunque bisogno l’una dell’altra.
La
seconda serie di avvenimenti riguarda la risposta alle ricorrenti crisi
economiche: prima quella finanziaria, poi quella dovuta alla pandemia, infine quella
che si annuncia in seguito alla guerra in Ucraina. È noto quanto il percorso sia stato
accidentato.
È cominciato con l’illusione che si potesse
fare interamente affidamento sulla sacralità e l’automatismo delle regole, per
poi proseguire con i gravi errori della “passeggiata di Deauville” fra Merkel e
Sarkozy, nella risposta accidentata e a momenti drammatica alla crisi greca, al
“Whatever it takes” di Mario Draghi, alla creazione del Meccanismo Europeo di
Stabilità (MES), all’ammissione da parte della Commissione Juncker che le
regole dovevano essere interpretate e applicate con flessibilità, alla sospensione delle regole stesse
durante la pandemia, fino al tabù infranto dell’indebitamento comune con il
Next Generation EU. Nessuna persona sana di mente potrebbe sostenere che la
risposta dell’Unione sia stata in ogni momento tempestiva e brillante. Tuttavia, l’UE e l’euro hanno tenuto
di fronte alla prova forse più difficile dall’inizio della costruzione europea.
A ciò si è
aggiunta la decisione di fare della transizione climatica il progetto destinato a definire la
strategia economica dell’UE per i prossimi anni.
Il
terzo avvenimento è la pandemia. In partenza, l’UE era sprovvista di competenze e
mandato chiaro in materia sanitaria. La risposta dell’Europa è stata
all’inizio confusa e frammentata con manifestazioni di egoismo nazionale che
hanno fatto temere il peggio. Poi, con sorprendente rapidità, la situazione è stata
raddrizzata, è stato varato un programma comune di sviluppo e
approvvigionamento di vaccini. Alla distanza, la risposta dell’Europa alla pandemia
non è stata peggiore e sotto vari aspetti è stata migliore di quella degli USA
e di molti paesi asiatici, Cina compresa.
Poi,
la crisi forse più importante di tutte, l’aggressione della Russia all’Ucraina.
Anche questa volta, la rapidità con cui si è trovata l’unità dell’Europa e
della NATO è sorprendente per quanto riguarda sia la durezza delle sanzioni sia
l’invio di armi sempre più pesanti. Infine, la crisi a cui è stata data la risposta più
insufficiente: quella di una pressione migratoria senza precedenti dall’Africa e dal
Medio Oriente. Per un’organizzazione che, secondo il suo creatore Jean Monnet, è
destinata a “progredire nelle crisi”, il minimo che si può dire è che siamo
stati ben serviti.
L’evoluzione
dell’UE non è stata solo guidata dagli avvenimenti così sommariamente
descritti, ma anche da un contesto internazionale profondamente mutato. La costruzione europea è il
prodotto più compiuto della concezione dei rapporti internazionali sviluppata
dagli Stati Uniti dopo la seconda guerra mondiale: quella di un mondo non dominato da
rapporti di forza, ma da un sistema di regole accettate e condivise. Un mondo “kantiano”, o se vogliamo
“post westfaliano”.
Questa visione del mondo coincideva con quella che
l’Europa aveva di sé stessa: una “potenza gentile”, nata da un desiderio di
pace, che non aveva bisogno di una grande forza militare e che poteva espandere
la sua influenza attraverso la sapiente elaborazione di regole. Regole che si sarebbero imposte per
la loro saggezza ed efficacia, ma anche perché erano la porta d’accesso al più
grande mercato del mondo. Poco importa se dietro questa concezione ci fosse una
notevole dose di diniego, dal momento che la difesa dell’Europa era stata di
fatto appaltata agli Stati Uniti.
L’UE
era così diventata il principale campione di un multilateralismo che non aveva
inventato, ma aveva fortemente contribuito a costruire. Al crollo del comunismo era seguito
un breve periodo di incontrastata egemonia americana, quindi occidentale, che
aveva portato con sé l’illusione che quell’ordine sarebbe presto diventato
globale. Sappiamo
che non è andata così.
Alcuni
errori strategici compiuti in Medio Oriente dagli Stati Uniti, la minaccia del
terrorismo islamico e soprattutto l’ascesa della Cina hanno profondamente modificato
la situazione. Questa diffusa situazione di instabilità ha permesso ad alcune potenze
intermedie (L’Iran, il Brasile, la Turchia e altre) di cercare di affermarsi
come attori autonomi. È un’evoluzione che ha anche avuto importanti ripercussioni
economiche, conducendo a una messa in discussione dei benefici della
globalizzazione, o quanto meno mostrarne i limiti e la fragilità.
Oggi,
chi vuole promuovere il multilateralismo è sulla difensiva. L’Europa, creatura
kantiana, si è così trovata confrontata a un mondo sempre più hobbesiano; una
sfida che per l’UE è, prima ancora che politica, quasi ontologica.
L’Europa
è ora costretta a trarre due conclusioni non facili da questo contesto
internazionale. La prima è che l’emergere di una potenza come la Cina, poco rispettosa
delle regole internazionali e campione di un capitalismo largamente sottoposto
alla politica, non consente più di separare le questioni economiche e
commerciali da quelle geopolitiche. Tanto più che anche gli Stati Uniti non esitano a usare a
fini politici la loro forza economica. La seconda è che l’Europa aveva
accumulato un notevole ritardo rispetto agli USA e alla Cina nella rivoluzione
digitale.
Questo
doppio risveglio ha introdotto nella narrativa europea alcuni concetti nuovi:
quello di dimensione geopolitica dell’azione dell’UE e quello di “autonomia
strategica”.
Il
secondo in particolare, lanciato nel dibattito da Emmanuel Macron, ha creato
allo stesso tempo grande interesse ma anche numerosi interrogativi. Parlare di “autonomia” europea o come
è anche stato fatto di “sovranità”, contiene una dose elevata di ambiguità.
La
moderna fisica quantistica ci dice che lo stato di una particella non può
essere determinato a priori, ma dipende da quando, come e chi la osserva. Così il concetto di autonomia europea
cambia a seconda che lo si guardi dall’interno o dall’esterno. Nel primo caso può voler dire che i
membri dell’UE devono essere capaci di esercitare la loro sovranità in comune. Nel secondo che bisogna essere
autonomi da qualcosa di diverso da noi. Questa seconda discussione si è
immediatamente concentrata sulle conseguenze per il rapporto con gli Stati
Uniti e con la NATO. Si tratta di una delle questioni più divisive del dibattito
europeo che ha il potenziale di paralizzare tutto il resto.
Sulla
base di quanto precede, è interessante ora vedere non tanto la bontà e i
difetti di ciò che è stato fatto, ma piuttosto quanto tutto ciò ha modificato i
rapporti di forza all’interno dell’UE, il suo modo di operare, i suoi interessi
strategici e la sua identità. Quei recenti, drammatici avvenimenti hanno tra
l’altro condotto a superare o addirittura a smentire un certo numero di analisi
su cui erano basati sia consensi dati per acquisiti, sia dissidi a volte
difficili da sanare.
La
prima questione riguarda i valori fondanti. L’Unione Europea è
un’organizzazione che comprende paesi che, pur con strutture costituzionali
diverse, condividono gli stessi valori democratici, liberali e il rispetto
dello stato di diritto. Tuttavia, non essendo una compiuta unione politica, non
dispone degli strumenti per imporne il rispetto dai suoi membri. Fino a tempi recenti ciò era
considerato implicito, al punto che il principio di supremazia del diritto
europeo su quelli nazionali era basato sul presupposto che la Corte di
Giustizia europea avrebbe “per definizione” rispettato nei suoi giudizi i
diritti fondamentali che sono alla base delle costituzioni degli stati membri. L’esperienza con i nuovi membri
dell’est ha scosso questo equilibrio. Il cammino verso una compiuta
democrazia liberale si è rivelato per alcuni di loro (Polonia e Ungheria ma non
solo) più accidentato del previsto. Ne sono risultate alcune gravi anomalie nel rispetto
ai principi dello stato di diritto che sono mal percepite dall’opinione
pubblica degli altri paesi la quale non capisce perché si possano sanzionare
mancanze molto meno gravi e non veri attentati alla democrazia. Il problema è che gli strumenti di
cui l’UE dispone per combattere le deviazioni sono molto deboli, essenzialmente
di natura finanziaria, e difficili da usare quando i paesi “devianti” sono più
d’uno.
La
seconda questione riguarda l’idea di un’Unione irrimediabilmente divisa da un
dissidio fra liberisti (o ordoliberisti) da una parte e keynesiani e
interventisti dall’altra; come è stato anche detto, fra cicale e formiche.
Questa supposta frattura, ha assunto il
carattere di una lacerazione nord-sud. A parte il fatto che fra il “liberismo”
e l’ordo-liberismo prevalente in Germania e in gran parte dell’Europa ci sono
colossali differenze e che i sacerdoti di Francoforte si trovano difficilmente a
loro agio a Chicago, la gestione concreta della crisi ha permesso di
de-ideologizzare il dibattito. Nessuno sembra più pensare che le regole siano per
definizione né sacre (come vorrebbero alcuni) né “stupide” (come le aveva
definite Romano Prodi, allora Presidente della Commissione). Inoltre la creazione di strumenti
di solidarietà come il MES e Next Generation EU, pur senza rappresentare il
“momento Hamiltoniano” rivendicato da alcuni, costituiscono un’innovazione di
cui nessuno può sottovalutare l’importanza. Allo stesso modo, affrontare il
ritardo che si è creato nella rivoluzione digitale e la contemporanea sfida di
un mondo in cui le regole multilaterali sono messe sempre più in discussione,
richiede un ruolo dell’intervento pubblico maggiore di quanto si considerava
auspicabile fino a poco tempo fa.
L’atteggiamento verso la globalizzazione, in
particolare a causa della fragilità delle filiere di produzione, è sottoposto a
revisione. Su queste questioni, tradizionalmente oggetto di forti
contestazioni, si constata una notevole convergenza anche fra due paesi
tradizionalmente su fronti opposti come Francia e Germania.
D’altro
canto, è anche chiara la percezione che fra le grandi aree economiche l’UE è
quella che più dipende dal commercio internazionale e non può quindi isolarsi
dal resto del mondo. Nonostante la sua dimensione e l’attrattiva del suo mercato,
non può nemmeno illudersi di poter regolare in piena libertà tecnologie che non
possiede.
Nessuno quindi pensa che ciò possa significare il ritorno a forme di politiche
industriali simili a quelle praticate in Francia, in Italia e altrove fino agli
anni ’80 del secolo scorso.
Le
questioni che seguono riguardano il superamento della distinzione fra
dimensione economica e strategica dell’integrazione; quindi il concetto di
Europa “geopolitica”, o di autonomia strategica. La politica estera, grande assente
nel disegno iniziale di Jean Monnet, ha fatto prepotentemente irruzione nel
dibattito europeo. Il caso più importante, quello che ci obbliga al più grande
ripensamento, sono i rapporti con la Russia alla luce dell’aggressione
all’Ucraina.
Dopo il crollo dell’URSS era prevalsa in
Occidente la speranza che anche la Russia potesse, se non diventare
compiutamente democratica e occidentale, almeno avere un’evoluzione compatibile
con un ordine europeo stabile e consensuale. Soprattutto dopo l’avvento di Putin
al potere i segnali di involuzione, troppo noti per enumerarli tutti si erano
moltiplicati.
Tuttavia
molti paesi europei, soprattutto Germania, Francia e Italia avevano preferito
decidere che il dialogo con Mosca restasse prioritario; sposavano così la teoria tedesca
del Wandel durch Handel, il cambiamento attraverso il commercio.
In altri termini, legare a noi la Russia sul
piano economico ne avrebbe facilitato un’evoluzione nella direzione auspicata. Ne è seguita una dipendenza massiccia
dalle importazioni di idrocarburi dalla Russia. In questa ottica, un’invasione
dell’Ucraina era considerata improbabile se non impossibile.
A
questa narrativa se ne contrapponeva un’altra, portata soprattutto dai paesi
baltici, dalla Polonia e da altri paesi dell’est. Secondo questa analisi gli
“aperturisti”, obnubilati dal loro illuminismo, avevano gravemente torto. La
deriva adottata da Putin aveva invece radici profonde.
L’obiettivo
era di ristabilire un’identità russa libera da corruzioni occidentali e basata
su un nazionalismo allo stesso tempo etnico, territoriale e religioso che si
rifaceva alle radici autocratiche, ortodosse e imperiali della storia russa.
L’ostilità
ai valori occidentali intesi come la principale minaccia al ritorno della
Russia alle sue radici, era quindi irriducibile. In questa ottica, la Russia non era
solo un partner difficile, ma una minaccia concreta. Ristabilire il controllo sulle
antiche repubbliche della Georgia, della Moldavia e soprattutto dell’Ucraina
non era solo un modo per ristabilire una sfera imperiale, ma anche per
difendersi dalla contaminazione da eventuali evoluzioni democratiche e
occidentali di quei popoli. Questo è del resto il vero senso dell’ossessiva, quasi
paranoica, opposizione all’allargamento della NATO.
La
risposta degli altri europei fu di comprendere i timori storici della Polonia e
degli altri, ma di considerarli anche con un po’ di condiscendenza
eccessivamente estremisti. Per calmare le loro paure, si favorì l’ingresso nella NATO e
nell’UE, ma per il resto continuò l’atteggiamento di diniego della minaccia. Persino Angela Merkel, che pure
aveva di Putin una visione molto lucida, scelse di non modificare
sostanzialmente la politica tedesca e europea. Nemmeno l’espansione della Russia nel
Medio Oriente, nel Mediterraneo e in Africa condusse a sostanziali ripensamenti. Questa risposta insufficiente,
concretizzata nella reazione velleitaria e ambigua alla richiesta di Ucraina e
Georgia di adesione alla NATO, consolidava la convinzione di Putin della
decadenza e divisione dell’occidente. D’altro canto gli permise di eccitare
ancor più i sentimenti nazionalisti all’interno con la tesi dell’accerchiamento
dovuto all’allargamento della NATO e delle umiliazioni inflitte alla Russia dai
vincitori della guerra fredda.
Oggi è
doveroso ammettere che la Polonia e i suoi amici avevano ragione e la maggior
parte degli altri paesi avevano torto. Il risultato è la guerra a cui stiamo
assistendo.
Non è qui il posto adatto per analizzarne gli sviluppi. Basterà costatare che la combinazione
delle insufficienze militari dell’esercito russo, delle terribili atrocità
commesse, della imprevista capacità di resistenza degli ucraini, e della
altrettanto sorprendente risposta unitaria dell’occidente e dell’Europa,
rendono un negoziato di pace molto improbabile nel prevedibile futuro.
Resta
la possibilità di una tregua provvisoria e precaria, inevitabilmente seguita da
una lungo periodo di tensione che da molti punti di vista sarà non dissimile
dalla guerra fredda. La prospettiva di un nuovo e condiviso sistema di sicurezza
europea, è realisticamente tramontata. Per questo sarà necessario che
cambi quello che è diventato l’equivalente russo del Sonderweg tedesco,
l’ossessiva ricerca di un’identità speciale distinta e in opposizione
all’occidente. Permane però, come ai tempi della guerra fredda la necessità di un
sistema di regole del gioco condivise per evitare che il conflitto latente si
trasformi in conflitto aperto.
Ne
discendono un certo numero di conseguenze. Putin è stato fermato, oltre che
dall’eroismo degli ucraini e dai suoi stessi errori, dall’unità dell’occidente. Il rapporto fra NATO e autonomia
europea ne risulta profondamente modificato. È infatti stato dimostrato aldilà di
ogni possibile dubbio che non esiste, oggi e per un avvenire prevedibile, una
risposta militare efficace dell’Europa al di fuori della NATO. Uno sviluppo confermato e
rafforzato dalla storica decisione di Finlandia e Svezia di aderire
all’alleanza. È stata comunque clamorosamente smentita la favola di un’America che
voltava le spalle all’Europa per pensare solo al Pacifico. D’altro canto però si è anche visto
che l’unità dell’Europa è indispensabile per rafforzare l’efficacia della
risposta occidentale. Il mantenimento dell’impegno americano in Europa dipende oggi
anche da un concreto rafforzamento dell’impegno europeo. Senza l’UE, sanzioni
di quella portata non sarebbero state possibili.
Se
l’unità dell’occidente è dunque fondamentale, nasce spontanea la domanda se il
tempo giochi a favore nostro o di Putin. A medio termine, gioca sicuramente
a nostro favore. Le sanzioni mostrano infatti di avere pesanti effetti sull’economia russa
e quindi anche sulla sua capacità militare. A breve termine la risposta è meno
certa, anche perché le sanzioni hanno bisogno di tempo per operare e una
sconfitta militare della Russia sul campo non è ipotizzabile. Il consenso intorno alla strategia
adottata dall’occidente è al momento solido, anche perché in assenza di serie
prospettive di tregua non ha alternative. Tuttavia la situazione in alcuni
paesi importanti come l’Italia e la Francia è fragile a causa di una forte
polarizzazione politica interna. Anche la posizione tedesca presenta ancora
elementi di incertezza. Assistiamo quindi al paradosso di paesi che, pur
sostanzialmente sulla stessa linea, adottano retoriche pubbliche a volte
divergenti e comunque ambigue. Ciò è visibile soprattutto in Italia e in Francia, ma anche
in Germania. Adattare il discorso alle condizioni politiche locali fa parte del
realismo politico. In questo caso tuttavia, l’opinione pubblica può essere
indotta a dubitare dell’unità dell’occidente, o addirittura a convincersi che
l’ostacolo alla tregua sta da noi e non a Mosca. Un cedimento del consenso interno in
alcune importanti nazioni europee avrebbe effetti potenzialmente devastanti non
solo per l’unità dell’Europa, ma anche per le prospettive della sicurezza e
della pace.
L’unità dell’occidente è quindi oggi un bene supremo da preservare, sia per
convincere Putin dell’inanità delle sue minacce, sia per consolidare il
consenso della nostra opinione pubblica. È uno sforzo che richiede da parte di
tutti collaborazione nel linguaggio e nei comportamenti.
Il
principale pericolo per il mantenimento dell’unità dell’occidente e
dell’Europa, il fattore che più di altri può compromettere il consenso interno,
è di natura economica e sociale.
Il
conflitto ci impone allo stesso tempo di accelerare il disimpegno dalla
dipendenza dagli idrocarburi russi e la transizione climatica, ma senza
compromettere le fragili possibilità di ripresa economica che si intravedevano
prima della crisi. Si tratta di una sfida, aggravata da forti tensioni
inflazioniste, che richiede un impegno eccezionale nazionale e collettivo dei
paesi europei. L’architettura stessa del governo della moneta e dell’economia ne sarà
condizionata.
Un’altra
conseguenza del conflitto è di aver posto in termini nuovi il problema dello
sforzo specificamente europeo per la difesa comune. In questo caso, il principale
attore di cambiamento è la Germania che ha annunciato una Zeitenwende, una
svolta epocale nel suo atteggiamento verso le spese militari.
Questa
svolta, sia pure accompagnata da esitazioni e ambiguità tipiche del
funzionamento del sistema politico tedesco, permette per la prima volta di dare
un senso concreto e urgente alla prospettiva di una difesa europea. Prospettiva tanto più concreta che
la svolta tedesca vuole esplicitamente conciliare impegni europei e impegni
atlantici. Anche
in questo caso, la tecnologia ha cambiato i termini della questione. Per gli europei non si tratta tanto o
solo di costruire in comune qualche aereo o qualche sottomarino, ma di
prepararsi a conflitti ibridi che smentiscono l’antico detto di Cicerone: inter pacem et bellum nihil medium,
non c’è nulla fra la pace e la guerra. Conflitti quindi che possono
rappresentare un continuo fra disinformazione, provocazioni di varia natura,
sanzioni economiche, hackeraggio, uso militare delle tecnologie spaziali e
dell’intelligenza artificiale, fino all’uso delle tecnologie militari classiche e
dell’arma nucleare. Una prospettiva che modifica profondamente anche il
concetto di deterrenza.
Molto
è stato scritto sul fatto che la NATO ha riunito importanti alleati fuori delle
sue frontiere (Giappone, Australia e altri ancora), ma che un gran numero di
paesi emergenti hanno dichiarato la loro neutralità. Questo fenomeno è in realtà
naturale e comprensibile. Anche durante la guerra fredda gran parte dell’umanità era
neutrale.
Essere neutrali in questo caso non vuol dire schierarsi a favore della Russia e
tanto meno della Cina; semplicemente, questa “non è la loro guerra”.
Tra
l’altro le motivazioni di questa posizione sono molto dissimili, per esempio
fra asiatici, africani o latino americani. Ciò non toglie che si tratta di
motivazioni di cui dobbiamo tenere conto, per esempio facendo il massimo sforzo
per far fronte alla penuria alimentare che il conflitto ucraino rischia di
provocare in parti dell’Africa.
Di
particolare importanza sono le motivazioni dei pasi asiatici, per esempio
dell’India, che sono naturalmente determinate più che dal conflitto in sé dal
ruolo della Cina. Per molti paesi dell’area e per gli Stati Uniti, il conflitto in
Ucraina è anche una metafora del problema di Taiwan. L’alleanza fra la Russia e
la Cina non è stata provocata da noi. È il prodotto della naturale
convergenza fra due grandi paesi la cui politica è nutrita da un forte
nazionalismo, dal rifiuto dei valori occidentali e dalla volontà di sovvertire
l’ordine e le regole che l’occidente ha stabilito nel corso dei decenni
passati.
La convergenza è quindi basata su ragioni
oggettive.
La “questione cinese” rappresenta il fallimento dell’altra grande illusione di
un mondo che, grazie a commerci liberi e aperti, si riunirebbe facilmente
attorno al multilateralismo e ai valori occidentali.
Tuttavia gli interessi di due attori come
Russia e Cina che sono peraltro in un rapporto molto squilibrato fra loro,
coincidono solo in parte. La prova è che il sostegno cinese all’aggressione russa è
stato finora poco più che verbale e alcuni sperano che la Cina possa avere un
ruolo attivo nella ricerca di una tregua. La realtà è che per molti attori
asiatici e per gli americani, il confronto con la Cina resta la sfida che
caratterizzerà più di ogni altra il corso del secolo. Per quanto riguarda l’Europa, una
conseguenza importante è che non possiamo più considerare i teatri europeo e
asiatico come completamente distinti. Non possiamo nemmeno continuare a
considerare la “questione cinese” sotto un angolo unicamente economico e
commerciale. Ciò si aggiunge alla lista dei dinieghi europei che devono essere
superati; ciò vale soprattutto per la Germania, ma non solo. Ugualmente velleitaria sarebbe la
tentazione di volersi porre come mediatori fra Cina e USA. Realizzare una
politica unitaria verso la Cina è però ancora più difficile che verso la
Russia.
Un’altra
conseguenza del conflitto in Ucraina è il flusso di qualche milione di
rifugiati, in prevalenza donne e bambini, verso l’Europa. Si tratta di cifre senza precedenti,
come senza precedenti è la reazione di apertura e di accoglienza di molti
membri dell’UE. Resta da vedere se questa grande manifestazione di solidarietà che
contrasta con il permanente atteggiamento di chiusura verso l’immigrazione
dall’Africa e dal Medio Oriente, faciliterà il raggiungimento di un maggiore
consenso europeo sulla politica migratoria.
Le
questioni che precedono hanno in comune la caratteristica di porre in termini
nuovi problemi che già esistevano e di porre tutte con forza la necessità di un
rapporto stretto con gli Stati Uniti, allo stesso tempo sul piano strategico ed
economico.
Fra le due rive dell’Atlantico ci sono inevitabili
divergenze di percezione e di interessi contingenti, ma esse si manifestano
all’interno di una sostanziale convergenza strategica allo stesso tempo sui
valori e sugli interessi. Le condizioni attuali dei rapporti transatlantici sono le
migliori da moltissimo tempo. Lo sforzo di dialogo dell’amministrazione Biden è
innegabile. Anche la politica francese, forse il partner europeo più difficile da
questo punto di visto ha subito una notevole evoluzione. È interessante esaminare
l’evoluzione della retorica macroniana, dalla constatazione di “morte
cerebrale” della NATO fino a una gestione della crisi ucraina in sostanziale
coordinamento con gli alleati.
Tuttavia
permane in Europa una forte diffidenza verso l’affidabilità degli USA,
alimentata dall’esperienza traumatica della presidenza Trump, ma anche da incertezze
o errori della politica americana che datano da ben prima di Trump. Il timore di un secondo Trump è a
volte agitato da parte dei nemici europei dell’unità occidentale come una
profezia di cui in fondo si auspica la liberatoria realizzazione.
Speculare
a tutto ciò è una diffusa diffidenza americana verso l’affidabilità degli
alleati europei. Si tratta quindi di convincere gli americani che non potranno affrontare
il mondo turbolento che si prepara senza l’apporto europeo. Per gli europei si tratta invece di
capire che autonomia non vuol dire distacco, ma piuttosto l’emancipazione di un
partner diventato adulto. Sul piano economico, entrambi i partner dovrebbero prendere
coscienza che, mentre la tendenza alla globalizzazione resterà forte, un certo
grado di disconnessione tecnologica dalla Cina è ineluttabile ed è del resto
già in atto.
Né gli USA, né l’Europa, né i nostri alleati in Asia
sono in grado di realizzare da soli la regolamentazione di cui internet ha
bisogno o la riorganizzazione delle filiere di produzione e approvvigionamento
di alcune componenti critiche. Una vera convergenza strategica non sarà né facile né
automatica. Per realizzarla e mantenerla ci vorrà un costante sforzo di dialogo
e di volontà politica. Sviluppando anche strumenti di coordinamento permanente che
in parte si stanno creando come per esempio il “Trade and Technology Council”, ma che per il momento esistono in
modo solo parziale.
Ciascuna
delle sfide di cui abbiamo parlato porrebbe di per sé problemi formidabili a un
sistema fragile e imperfetto come quello dell’UE. Tutte insieme possono
sembrare insormontabili. Esse sono però largamente interconnesse: affrontarne
una aiuterà a trattare le altre. Se l’evoluzione degli avvenimenti ha profondamente
modificato i termini di molti problemi e rende possibili convergenze prima
considerate impossibili, bisogna ora vedere quanto l’UE sia preparata a
rispondere concretamente a tutte queste sfide. La prima risposta spontanea è
negativa. La struttura istituzionale resta barocca e poco comprensibile
dall’opinione pubblica e troppe decisioni importanti richiedono il consenso
unanime degli stati membri. In queste condizioni, realizzare in tempi rapidi un
consenso a 27 è spesso estremamente difficile.
Una
difficoltà spesso sottovalutata è l’assenza di un vero dibattito politico
europeo. Mai
come oggi sarebbe necessario non solo che le autorità spieghino senza
compiacenza la verità all’opinione pubblica, ma anche che lo facciano in modo
coerente con i partner europei. La “Convenzione” che si è appena conclusa e che ha
organizzato il dibattito fra qualche centinaio di cittadini europei,
costituisce un tentativo generoso e utile, ma dimostra anche i limiti
dell’esercizio. È stato detto che gli Stati Uniti hanno cominciato a esistere come
entità politica solo nei primi decenni dell’800, quando la tecnologia ha reso
possibili la stampa di giornali a grande diffusione.
Oggi
la tecnologia non è certo un problema. Il principale ostacolo al dibattito
transnazionale sono le barriere linguistiche che rafforzano il carattere
nazionale della politica. Quel tanto di dibattito transnazionale che pure esiste è per
definizione limitato a un’élite. Per esempio, sarà necessario spiegare in modo coerente
all’opinione pubblica le ragioni e i limiti della nostra politica di contrasto
all’aggressione russa, ma anche che accelerare il disimpegno dalla dipendenza
dagli idrocarburi russi, richiede qualche arbitrato difficile con la strategia
di transizione climatica.
Ciò è tanto più importante dal momento che la
guerra attuale avviene in parte anche sul terreno dell’informazione e della
disinformazione. Il modo con cui si sviluppa il confronto politico in Europa è anche
molto diverso. In alcuni paesi, soprattutto a sud e in quelli in cui la
politica è più polarizzata, le questioni tendono a essere discusse in termini
di alternative radicali, di cambi di paradigma. In altri, soprattutto a nord, le
scelte sono discusse in termini di cambiamenti incrementali. Abbiamo assistito
a una campagna elettorale francese che contrapponeva radicali scelte di
società, preceduta da una campagna elettorale tedesca in cui Scholz, candidato
dell’opposizione, si presentava come un continuatore… di Angela Merkel con la
quale peraltro governava fino a prima delle elezioni.
Tutto
ciò conduce a riaprire una discussione sulle istituzioni europee che era sopita
dopo il fallimento dei referendum francese e olandese sul progetto di
“costituzione”.
Le
questioni da discutere sono molte, ma la più importante è sicuramente quella
dell’esigenza di unanimità che ancora esiste per materie importanti come la
politica estera, la difesa e la fiscalità.
Leader importanti come Macron e Draghi ne
hanno ufficialmente chiesto l’abbandono. La difficoltà più grande in Europa
resta sempre quella di riunire una maggioranza, ma è innegabile che il diritto
di veto può paralizzare o comunque ritardare decisioni importanti.
Basti
pensare ai problemi ora posti dall’Ungheria. In un’organizzazione come l’UE che
riunisce stati sovrani prevarrà sempre il riflesso di ricercare il consenso, ma
la possibilità concreta di votare cambia completamente la strategia negoziale
di tutti gli attori perché spinge ad anticipare la ricerca dei compromessi che
consentono di far parte di un’eventuale maggioranza.
Questa riforma sarebbe quindi altamente
auspicabile ed è bene che la discussione cominci. Bisogna tuttavia essere coscienti che
le prospettive di progresso a breve termine sono modeste. Non solo la questione
è per definizione controversa, ma la reticenza a lanciarsi in una nuova
operazione di riforma dei trattati è ancora molto diffusa. Non si tratta solo di cattiva
volontà. Alcune
delle materie per cui si dovrebbe poter votare, sono vicine al cuore della
sovranità dei nostri paesi.
Anche
se non ottimali e a volte complicati da attuare, i modi per aggirare i veti
esistono e ne conosciamo diversi esempi. Alcuni sono molto importanti, come
Schengen e l’euro.
E’ una
pratica di cui sono state date definizioni diverse; le più comuni sono
geometria variabile e differenziazione. Almeno finché l’UE non avrà
raggiunto una forma stabile di unione politica compiuta, questo resterà uno dei
percorsi principali per far progredire l’integrazione: l’azione di avanguardie
che mostrano il cammino, pronte in seguito ad accogliere i ritardatari. Tuttavia, l’esperienza di Brexit
dovrebbe averci insegnato che la pratica della geometria variabile è per
definizione precaria, difficile da gestire e non può durare eternamente. Prima
o poi, la scelta fra ricomposizione e rottura non potrà essere evitata.
Le
cose si complicano quando si vuole trasformare questo modo di procedere, da
pragmatico in strutturale.
È la teoria dei cosiddetti “cerchi
concentrici” per cui i paesi membri dell’UE si raggrupperebbero in cerchi
caratterizzati, dall’esterno verso l’interno, da gradi maggiori d’integrazione;
ognuno essendo dotato di una propria struttura istituzionale, aperta ma
distinta. Ne parliamo qui perché alcuni ne hanno voluto vedere tracce nel
discorso di Macron a Strasburgo. Si tratta di un’idea intellettualmente
attraente, ma densa di pericoli che possono condurre a gravi fratture.
Per
prima cosa, l’idea di cerchi concentrici non corrisponde alla realtà delle
cose.
Se
prendiamo quelli più importanti, Schengen, l’euro, le cooperazioni rafforzate
in materia di difesa, definire un nucleo centrale sulla base di uno di essi
sarebbe impossibile perché, se di cerchi si tratta, essi si intersecano
piuttosto che sovrapporsi. Inoltre, la gestione del mercato unico, che per definizione
dovrebbe comprendere l’intero cerchio esterno dei 27, non è una zona di libero
scambio che funziona da sola, ma un insieme integrato cha ha bisogno di essere
governato politicamente, giuridicamente e finanziariamente.
La sua
gestione non è facilmente separabile da, per esempio, quella dell’euro o dalla
decisione di applicare sanzioni economiche a paesi ostili. Se non si vuole che
l’Unione vada incontro a fratture insanabili, è quindi necessario che la
differenziazione sia gestita da una struttura istituzionale unitaria.
Ci
sono però ragioni più profonde che incitano alla prudenza. L’Unione ha bisogno di un motore. Per molto tempo si è pensato che
dovesse essere la coppia franco-tedesca. Essa resta essenziale, ma ormai lungi
dall’essere sufficiente.
Tutto
il sistema è diventato politicamente molto più complesso e sarebbe pericoloso
sottovalutare le spinte centrifughe. Sappiamo tutti che durante la crisi
dell’euro si è creata una forte tensione nord-sud. Sappiamo anche che molti a
nord delle Alpi hanno a lungo pensato che un euro liberato dal peso delle
cicale meridionali sarebbe stato più stabile e sicuro.
La
svolta è avvenuta quando, posti di fronte a un dilemma concreto, si è deciso di
resistere alla tentazione che pure esisteva di escludere la Grecia dall’euro.
Oggi, uno dei pochi punti di consenso unanime a proposito del governo
dell’economia è che le soluzioni e i compromessi devono tener conto degli
interessi e delle esigenze, non solo di tutti i membri dell’euro ma anche di
quelli che ancora non ne fanno parte. Il senso politico della recente
presentazione di un documento ispano-olandese non è sfuggito a nessuno. Non sarà facile, ma alcuni sviluppi fanno pensare che
una nuova iniziativa volta a finanziare in comune la risposta alle nuove sfide
come la transizione energetica e il rinnovato sforzo a rafforzare la difesa
europea, possa maturare in tempi non troppo lunghi.
La
dimensione est/ovest è più complicata. A suo tempo tutti giudicarono
l’allargamento a est come il naturale complemento della fine della guerra
fredda e il ricongiungimento in nome della democrazia di due parti dell’Europa
artificialmente separate. Mentre sul piano economico l’operazione può essere
considerata un successo, sul piano politico il cammino è stato molto più
accidentato. Il modo tradizionale e un po’ burocratico con cui era stato affrontato il
processo di allargamento, aveva sottovalutato le difficoltà politiche di
integrazione per popoli la cui tradizione democratica era più fragile e recente
di quella della parte occidentale del continente. Popoli inoltre per cui il
nazionalismo non era tanto percepito come un male da superare, ma spesso come
un valore da conservare perché simbolo di una libertà ritrovata.
Ci
eravamo dimenticati che quell’arco di popoli che va dal Baltico all’Adriatico è
il luogo in cui sono nate due guerre mondiali e avvenuti alcuni degli orrori
più atroci della nostra storia. Una storia la loro condizionata da un costante conflitto
fra il mondo germanico, quello ottomano e quello russo.
Quando
abbiamo scoperto che l’integrazione era molto più complicata del previsto,
abbiamo ascoltato le spiegazioni di alcuni intellettuali come Ivan Krastev che
cercavano di educarci alla complessità e alle contraddizioni delle vicende di
quei popoli e ai pericoli che rappresentavano anche per noi occidentali, ma lo
abbiamo fatto con condiscendenza e un po’ di fastidio.
In fondo, ci dicevamo, quella gente deve solo
adeguarsi. Ci siamo comportati come in Italia quei piemontesi e lombardi che,
dopo il 1860, hanno creduto che l’impresa di Garibaldi volesse solo dire una
nazione più grande e non anche profondamente diversa. L’aggressione russa all’Ucraina suona
il risveglio. Non è più possibile concepire una politica verso la Russia, oggi
il nostro principale test di politica estera, senza prendere pienamente in
conto ciò che pensano i baltici, la Polonia, altri paesi dell’est e anche gli
scandinavi.
Una
difficoltà dello stesso genere si presenta per la gestione della lunga lista di
paesi nei Balcani occidentali, a cui si aggiungono ora Ucraina, Moldavia e
Georgia, che sono candidati all’adesione.
Non
c’è dubbio che la lezione degli errori compiuti nell’ultimo allargamento debba
essere oggetto di attenta riflessione. I tempi interminabili obbiettivamente
richiesti dalla complessità dei problemi concreti, si scontrano con aspettative
emotive sempre più forti che rischiano di produrre ingranaggi infernali che non
consentono di affrontare i problemi più importanti che sono quelli politici.
Un paio di anni fa, su iniziativa della
Francia, si era deciso di adottare un metodo diverso, più flessibile e
progressivo che mettesse in primo piano la gestione politica dell’adesione e
rendesse possibile graduare le forme di appartenenza all’UE secondo il grado di
maturazione politica ed economica. Un processo allo stesso tempo incentivante e
reversibile. Era sicuramente la strada giusta.
Nel
discorso di Strasburgo, Macron ha proposto di dare a ciò anche una veste
istituzionale con la creazione di una forma di “Comunità politica”, una specie
di cerchio esterno dell’UE.
Il valore simbolico di questa proposta, che in
Italia è formulata anche da Enrico Letta, è innegabile. Prima di intraprendere quella strada
vale però la pena di chiederci quali sono i reali vantaggi di sovrapporre una
struttura istituzionale comune a un processo politico necessariamente differenziato.
All’atto
pratico, essa rischia di essere la tipica “cattiva buona idea” e di comportare
più inconvenienti che vantaggi. Un’istituzione richiede una lunga discussione sulle sue
strutture e rischia rapidamente di diventare una macchina pesante e
burocratica.
L’esperienza della “Unione del Mediterraneo” avrebbe
dovuto insegnarci qualcosa. Più seri sono i rischi politici. I paesi candidati sono
quasi tutti in condizioni, con aspirazioni e problemi molto diversi fra loro. Un’istituzione comune contiene
implicitamente la domanda di gestirli in modo unitario e coordinato.
Bastano
due esempi per illustrare i pericoli. Cosa si fa con la Turchia, paese
importantissimo ma sappiamo quanto difficile per l’Europa? La sua candidatura è forse la più
antica, ma tutti da Ankara a Stoccolma sanno che non ha ormai nessuna
probabilità di arrivare a compimento. Come è possibile mettere nella stessa
istituzione, che si vuole per definizione “politica”, l’Ucraina e la Serbia storicamente
alleata e ancora oggi molto vicina alla Russia?
Abbiamo
detto che la coppia franco-tedesca resta essenziale per fare avanzare l’Europa.
Dopo un lungo periodo di un processo guidato dalla prudenza tedesca, un po’ di
decisionismo francese non guasta.
Tuttavia
la leadership non richiede solo di indicare gli obiettivi, ma anche e
soprattutto acquisire il consenso per realizzarli. Bisogna prendere atto che la
difficoltà di conciliare il valore supremo dell’unità dei 27 con la possibilità
di permettere ad alcune avanguardie di progredire, è più grande che in passato.
La crisi dell’euro ha fatto riscoprire la
necessità di dare spazio anche ad altri grandi paesi come l’Italia e la Spagna;
ma anche questo non basta. Come abbiamo detto, la crisi ucraina rende impossibile una
politica estera in cui la Polonia e i baltici non abbiano un ruolo centrale. Questa nuova centralità della
Polonia, obiettivamente non facile da gestire, comporta però il vantaggio di
introdurre un cuneo importante fra Polonia e Ungheria, i due principali problemi per la
questione dello stato di diritto.
Non è
ormai nemmeno più possibile pensare solo in termini di “grandi paesi”.
Aggregazioni come il gruppo dei cosiddetti “frugali” che va dall’Olanda agli
scandinavi fino all’Austria, non è solo come alcuni pensano con fastidio e
disprezzo un’escrescenza del rigorismo tedesco, ma la manifestazione di una
volontà di esistere. A fronte di questa complessità, si leggono invece sui media
analisi di suprema arroganza che, riferendosi a Germania, Francia, Italia e
Spagna, parlano “dell’Europa che conta”.
La
prudenza tedesca nell’era di Angela Merkel era a volte eccessiva, ma era anche
ispirata dalla consapevolezza imposta dalla storia e dalla geografia di quanto
sia necessario tener conto di tutte le variabili del gioco europeo. Sarebbe bene che un po’ di questo
senso della complessità attraversasse il Reno e le Alpi per approdare anche a
Parigi e a Roma. In Europa, la leadership è come uno spazzaneve. In caso di forte nevicata, se lo
spazzaneve non c’è o va troppo lentamente, la neve si accumulerà e la strada
resterà bloccata. Se
però la velocità con cui lo spazzaneve si muove è superiore alla potenza con
cui riesce e a liberare il terreno, resterà intrappolato lui stesso.
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