Uno sguardo sul mondo inquieto

Uno sguardo sul mondo inquieto.

 

La diplomazia americana

come dramma tragico.

Unz.com- MICHAEL HUDSON –( LUGLIO 29, 2022)- ci dice:

 

Come in una tragedia greca il cui protagonista determina proprio il destino che ha cercato di evitare, il confronto USA/NATO con la Russia in Ucraina sta ottenendo esattamente l'opposto dell'obiettivo americano di impedire a Cina, Russia e ai loro alleati di agire indipendentemente dal controllo degli Stati Uniti sulla loro politica commerciale e di investimento.

Nominando la Cina come principale avversario a lungo termine dell'America, il piano dell'amministrazione Biden era quello di dividere la Russia dalla Cina e quindi paralizzare la vitalità militare ed economica della Cina.

Ma l'effetto della diplomazia americana è stato quello di guidare Russia e Cina insieme, unendosi con l'Iran, l'India e altri alleati. Per la prima volta dalla Conferenza di Bandung delle Nazioni Non Allineate nel 1955, una massa critica è in grado di essere reciprocamente autosufficiente per avviare il processo di raggiungimento dell'indipendenza dalla diplomazia del dollaro.

Di fronte alla prosperità industriale della Cina basata su investimenti pubblici autofinanziati nei mercati socializzati, i funzionari statunitensi riconoscono che per risolvere questa lotta ci vorranno alcuni decenni per svolgersi.

Armare un regime ucraino per procura è solo una mossa di apertura per trasformare la Guerra Fredda 2 (e potenzialmente / o addirittura la Terza Guerra Mondiale) in una lotta per dividere il mondo in alleati e nemici per quanto riguarda il fatto che i governi o il settore finanziario pianifichino l'economia e la società mondiale.

Ciò che viene eufemizzato come democrazia in stile americano è un'oligarchia finanziaria che privatizza le infrastrutture di base, la sanità e l'istruzione.

L'alternativa è quella che il presidente Biden chiama autocrazia, un'etichetta ostile per i governi abbastanza forti da impedire a un'oligarchia globale in cerca di rendita di prendere il controllo.

 La Cina è considerata autocratica per fornire i bisogni di base a prezzi sovvenzionati invece di addebitare tutto ciò che il mercato può sopportare.

Rendere la sua economia mista a basso costo è chiamata "manipolazione del mercato", come se questa fosse una brutta cosa che non è stata fatta dagli Stati Uniti, dalla Germania e da ogni altra nazione industriale durante il loro decollo economico nel 19esimo e primi anni '20esimo secolo.

Clausewitz rese popolare l'assioma che la guerra è un'estensione degli interessi nazionali, principalmente economici.

Gli Stati Uniti vedono il loro interesse economico nel cercare di diffondere la loro ideologia neoliberista a livello globale. L'obiettivo evangelistico è quello di finanziarizzare e privatizzare le economie spostando la pianificazione dai governi nazionali a un settore finanziario cosmopolita.

Ci sarebbe poco bisogno di politica in un mondo del genere.

La pianificazione economica si sposterebbe dalle capitali politiche nazionali  ai centri finanziari, da Washington a Wall Street, con satelliti nella City di Londra, nella Borsa di Parigi, Francoforte e Tokyo.

Le riunioni del consiglio di amministrazione della nuova oligarchia si terranno al World Economic Forum di Davos.

Finora i servizi di infrastrutture pubbliche sarebbero stati privatizzati e valutati abbastanza in alto da includere profitti (e in effetti, rendite monopolistiche), finanziamento del debito e commissioni di gestione piuttosto che essere sovvenzionati pubblicamente. Il servizio del debito e l'affitto diventerebbero i principali costi generali per le famiglie, l'industria e i governi.

La spinta degli Stati Uniti a mantenere il loro potere unipolare di imporre politiche finanziarie, commerciali e militari "America First" al mondo comporta un'ostilità intrinseca verso tutti i paesi che cercano di seguire i propri interessi nazionali.

Avendo sempre meno da offrire sotto forma di reciproci guadagni economici, la politica degli Stati Uniti minaccia sanzioni e ingerenza segreta in politica estera. Il sogno degli Stati Uniti prevede una versione cinese di Boris Eltsin che sostituisca la leadership del Partito Comunista della nazione e svenda il suo dominio pubblico al miglior offerente – presumibilmente dopo che una crisi monetaria spazzerà via il potere d'acquisto interno proprio come è accaduto nella Russia post-sovietica, lasciando la comunità finanziaria internazionale come acquirenti.

 

La Russia e il presidente Putin non possono essere perdonati per aver combattuto contro le "riforme" degli Harvard Boys.

Questo è il motivo per cui i funzionari statunitensi hanno pianificato come creare la distruzione economica russa per (sperano) orchestrare una "rivoluzione colorata" per riconquistare la Russia per il campo neoliberista del mondo. Questo è il carattere della "democrazia" e del "libero mercato" giustapposti all'"autocrazia" della crescita sovvenzionata dallo stato.

Come ha spiegato il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov in una conferenza stampa del 20 luglio 2022 in merito al violento colpo di stato dell'Ucraina nel 2014, gli Stati Uniti e altri funzionari occidentali definiscono i colpi di stato militari come “democratici” se sponsorizzati dagli Stati Uniti nella speranza di promuovere politiche neoliberiste.

Ti ricordi come si sono sviluppati gli eventi dopo il colpo di stato? I golpisti sputarono in faccia a Germania, Francia e Polonia che erano i garanti dell'accordo con Viktor Yanukovych.

Fu calpestato la mattina dopo.

Questi paesi europei non hanno fatto capolino – si sono riconciliati con questo. Un paio di anni fa ho chiesto ai tedeschi e ai francesi cosa ne pensassero del colpo di stato. Di cosa si trattava se non chiedevano che i golpisti rispettassero gli accordi? Hanno risposto: "Questo è il costo del processo democratico". Non sto scherzando. Incredibile: questi erano adulti che ricoprivano la carica di ministri degli Esteri.

Questo vocabolario del doppio pensiero riflette fino a che punto l'ideologia mainstream si è evoluta dalla descrizione di Rosa Luxemburg un secolo fa della scelta di civiltà che si poneva: barbarie o socialismo.

Gli interessi e gli oneri contraddittori degli Stati Uniti e dell'Europa della guerra in Ucraina.

Per tornare alla visione di Clausewitz della guerra come un'estensione della politica nazionale, gli interessi nazionali degli Stati Uniti divergono nettamente da quelli dei suoi satelliti Nato.

 Il complesso militare-industriale americano, i settori petrolifero e agricolo ne stanno beneficiando, mentre gli interessi industriali europei ne stanno soffrendo. Ciò è particolarmente vero in Germania e in Italia a causa dei loro governi che bloccano le importazioni di gas North Stream 2 e altre materie prime russe.

L'interruzione delle catene di approvvigionamento mondiali di energia, cibo e minerali e la conseguente inflazione dei prezzi (fornendo un ombrello per le rendite monopolistiche da parte di fornitori non russi) ha imposto enormi tensioni economiche agli alleati degli Stati Uniti in Europa e nel Sud del mondo.

 Eppure l'economia statunitense ne sta beneficiando, o almeno settori specifici dell'economia statunitense ne stanno beneficiando. Come ha sottolineato Sergey Lavrov nella sua conferenza stampa sopra citata: "L'economia europea è influenzata più di ogni altra cosa. Le statistiche mostrano che il 40% dei danni causati dalle sanzioni è a carico dell'UE, mentre il danno agli Stati Uniti è inferiore all'1%. Il tasso di cambio del dollaro è salito alle stelle contro l'euro, che è precipitato alla parità con il dollaro e sembra destinato a scendere ulteriormente verso gli 0,80 dollari che era una generazione fa. Il dominio degli Stati Uniti sull'Europa è ulteriormente rafforzato dalle sanzioni commerciali contro il petrolio e il gas russi. Gli Stati Uniti sono un esportatore di GNL, le società statunitensi controllano il commercio mondiale di petrolio e le aziende statunitensi sono i principali venditori ed esportatori di cereali al mondo ora che la Russia è esclusa da molti mercati esteri.

Una rinascita della spesa militare europea – per l'offesa, non per la difesa

I produttori di armi statunitensi non vedono l'ora di trarre profitto dalle vendite di armi all'Europa occidentale, che si è quasi letteralmente disarmata inviando i suoi carri armati e obici, munizioni e missili in Ucraina.

I politici statunitensi sostengono una politica estera bellicosa per promuovere fabbriche di armi che impiegano manodopera nei loro distretti elettorali.

E i neoconservatori che dominano il Dipartimento di Stato e la CIA vedono la guerra come un mezzo per affermare il dominio americano sull'economia mondiale, a partire dai propri partner della NATO.

Il problema con questa visione è che, sebbene i monopoli militari-industriali, petroliferi e agricoli americani ne stiano beneficiando, il resto dell'economia statunitense viene schiacciato dalle pressioni inflazionistiche derivanti dal boicottaggio delle esportazioni russe di gas, grano e altre materie prime, e l'enorme aumento del bilancio militare sarà usato come scusa per tagliare i programmi di spesa sociale.

 Anche questo è un problema per i membri dell'Eurozona. Hanno promesso alla NATO di aumentare le loro spese militari al 2% del loro PIL, e gli americani stanno sollecitando livelli molto più alti per passare alla più recente gamma di armi. Quasi dimenticato è il dividendo della pace che è stato promesso nel 1991 quando l'Unione Sovietica ha sciolto l'alleanza del Patto di Varsavia, aspettandosi che anche la NATO avrebbe avuto poche ragioni per esistere.

La Russia non ha alcun interesse economico percepibile a montare una nuova occupazione dell'Europa centrale.

Ciò non offrirebbe alcun vantaggio alla Russia, come i suoi leader si resero conto quando sciolsero la vecchia Unione Sovietica.

In effetti, nessun paese industriale nel mondo di oggi può permettersi di mettere in campo una fanteria per occupare un nemico.

Tutto ciò che la NATO può fare è bombardare a distanza. Può distruggere, ma non occupare. Gli Stati Uniti lo hanno scoperto in Serbia, Iraq, Libia, Siria e Afghanistan. E proprio come l'assassinio dell'arciduca Ferdinando a Sarajevo (ora Bosnia-Erzegovina) scatenò la prima guerra mondiale nel 1914, il bombardamento della NATO sulla Serbia confinante può essere visto come gettare il guanto di sfida per trasformare la Guerra Fredda 2 in una vera e propria Terza Guerra Mondiale. Ciò ha segnato il punto in cui la NATO è diventata un'alleanza offensiva, non difensiva.

In che modo ciò riflette gli interessi europei?

Perché l'Europa dovrebbe riarmarsi, se l'unico effetto è quello di renderla un bersaglio di rappresaglia in caso di ulteriori attacchi alla Russia?

Cosa ha da guadagnare l'Europa nel diventare un cliente più grande per il complesso militare-industriale americano? Deviare la spesa per ricostruire un esercito offensivo – che non potrà mai essere utilizzato senza innescare una risposta atomica che spazzerebbe via l'Europa – limiterà la spesa sociale necessaria per far fronte ai problemi Covid di oggi e alla recessione economica.

L'unica leva duratura che una nazione può offrire nel mondo di oggi è il commercio e il trasferimento di tecnologia. L'Europa ha più di questo da offrire rispetto agli Stati Uniti. Eppure l'unica opposizione alla rinnovata spesa militare viene dai partiti di destra e dal partito tedesco Linke. I partiti socialdemocratici, socialisti e laburisti europei condividono l'ideologia neoliberista americana.

Le sanzioni contro il gas russo rendono il carbone "il combustibile del futuro".

L'impronta di carbonio dei bombardamenti, della produzione di armi e delle basi militari è sorprendentemente assente dalla discussione odierna sul riscaldamento globale e sulla necessità di ridurre le emissioni di carbonio.

 Il partito tedesco che si autodefinisce Verde sta conducendo la campagna per le sanzioni contro l'importazione di petrolio e gas russi, che le utility elettriche stanno sostituendo con carbone polacco e persino lignite tedesca.

Il carbone sta diventando il "combustibile del futuro". Il suo prezzo sta anche salendo vertiginosamente negli Stati Uniti, a beneficio delle compagnie carbonifere americane.

In contrasto con gli accordi del Club di Parigi per ridurre le emissioni di carbonio, gli Stati Uniti non hanno né la capacità politica né l'intenzione di unirsi allo sforzo di conservazione. La Corte Suprema ha recentemente stabilito che il ramo esecutivo non ha l'autorità di emettere regole energetiche a livello nazionale; solo i singoli stati possono farlo, a meno che il Congresso non approvi una legge nazionale per ridurre i combustibili fossili.

Ciò sembra improbabile in considerazione del fatto che diventare capo di una commissione democratica del Senato e del Congresso richiede di essere un leader nell'aumentare i contributi elettorali per il partito.

 Joe Manchin, un miliardario della compagnia carboniera, guida tutti i senatori nel sostegno alla campagna delle industrie del petrolio e del carbone, permettendogli di vincere l'asta del suo partito per la presidenza della commissione energia e risorse naturali del Senato e bloccare qualsiasi legislazione ambientale seriamente restrittiva.

Accanto al petrolio, l'agricoltura è uno dei principali contributori alla bilancia dei pagamenti degli Stati Uniti.

 Bloccare la spedizione russa di cereali e fertilizzanti minaccia di creare una crisi alimentare del Sud del mondo e una crisi europea poiché il gas non è disponibile per produrre fertilizzanti domestici.

 La Russia è il più grande esportatore mondiale di grano e anche di fertilizzanti, e le sue esportazioni di questi prodotti sono state esentate dalle sanzioni della NATO.

Ma la navigazione russa è stata bloccata dall'Ucraina che ha piazzato mine nelle rotte marittime attraverso il Mar Nero per chiudere l'accesso al porto di Odessa, sperando che il mondo avrebbe incolpato la Russia dell'imminente crisi mondiale del grano e dell'energia invece delle sanzioni commerciali USA / NATO imposte alla Russia. Nella sua conferenza stampa del 20 luglio 2022 Sergey Lavrov ha mostrato l'ipocrisia del tentativo delle pubbliche relazioni di distorcere le cose:

Per molti mesi, ci hanno detto che la Russia era da biasimare per la crisi alimentare perché le sanzioni non coprono cibo e fertilizzanti. Pertanto, la Russia non ha bisogno di trovare modi per evitare le sanzioni e quindi dovrebbe commerciare perché nessuno si frappone sulla sua strada. Ci è voluto molto tempo per spiegare loro che, sebbene cibo e fertilizzanti non siano soggetti a sanzioni, il primo e il secondo pacchetto di restrizioni occidentali hanno influenzato i costi di trasporto, i premi assicurativi, i permessi per le navi russe che trasportano queste merci per attraccare in porti stranieri e quelli per le navi straniere che effettuano le stesse spedizioni nei porti russi.

Ci stanno apertamente mentendo che questo non è vero e che spetta solo alla Russia. Questo è un gioco scorretto.

Il trasporto di grano nel Mar Nero ha iniziato a riprendere, ma i paesi della NATO hanno bloccato i pagamenti alla Russia in dollari, euro o valute di altri paesi nell'orbita degli Stati Uniti.

 I paesi in deficit alimentare che non possono permettersi di pagare prezzi alimentari a livello di sofferenza affrontano drastiche carenze, che saranno esacerbate quando saranno costretti a pagare i loro debiti esteri denominati in dollari USA.

 L'incombente crisi del carburante e del cibo promette di spingere una nuova ondata di immigrati in Europa in cerca di sopravvivenza.

 L'Europa è già stata inondata di rifugiati dai bombardamenti della NATO e dal sostegno agli attacchi jihadisti contro la Libia e i paesi produttori di petrolio del Vicino Oriente. La guerra per procura di quest'anno in Ucraina e l'imposizione di sanzioni anti-russe è un perfetto esempio della battuta di Henry Kissinger: "Può essere pericoloso essere il nemico dell'America, ma essere amico dell'America è fatale".

Contraccolpo dagli errori di calcolo USA/NATO.

La diplomazia internazionale americana mira a dettare politiche finanziarie, commerciali e militari che bloccheranno altri paesi nel debito del dollaro e nella dipendenza commerciale impedendo loro di sviluppare alternative. Se questo fallisce, l'America cerca di isolare i recalcitranti dalla sfera occidentale centrata sugli Stati Uniti.

La diplomazia estera americana non si basa più sull'offerta di un guadagno reciproco. Ciò potrebbe essere rivendicato all'indomani della seconda guerra mondiale, quando gli Stati Uniti erano in grado di offrire prestiti, aiuti esteri e protezione militare contro l'occupazione – così come manifatture per ricostruire economie dilaniate dalla guerra – ai governi in cambio della loro accettazione di politiche commerciali e monetarie favorevoli agli esportatori e agli investitori americani.

 Ma oggi c'è solo la diplomazia belligerante di minacciare di ferire le nazioni i cui governi socialisti rifiutano la spinta neoliberista americana a privatizzare e svendere le loro risorse naturali e le infrastrutture pubbliche.

Il primo obiettivo è impedire a Russia e Cina di aiutarsi a vicenda.

 Questa è la vecchia strategia imperiale di divide et impera. Ridurre al minimo la capacità della Russia di sostenere la Cina aprirebbe la strada agli Stati Uniti e all'Europa della NATO per imporre nuove sanzioni commerciali alla Cina e per inviare jihadisti nella sua regione uigura occidentale dello Xinjiang.

L'obiettivo è quello di dissanguare l'inventario degli armamenti della Russia, uccidere abbastanza soldati e creare abbastanza carenze e sofferenze russe non solo per indebolire la sua capacità di aiutare la Cina, ma per spronare la sua popolazione a sostenere un cambio di regime, una "rivoluzione colorata" sponsorizzata dagli americani. Il sogno è quello di promuovere un leader simile a Eltsin amico della "terapia" neoliberista che ha smantellato l'economia russa nel 1990.

Per quanto sorprendente possa sembrare, gli strateghi statunitensi non hanno previsto l'ovvia risposta dei paesi che si trovano insieme nel mirino delle minacce militari ed economiche USA/NATO.

Il 19 luglio 2022, i presidenti di Russia e Iran si sono incontrati per annunciare la loro cooperazione di fronte alla guerra delle sanzioni contro di loro. Ciò ha fatto seguito al precedente incontro della Russia con il primo ministro indiano Modi.

In quello che è stato caratterizzato come "spararsi sui propri piedi", la diplomazia degli Stati Uniti sta guidando Russia, Cina, India e Iran insieme, e in effetti per raggiungere l'Argentina e altri paesi per unirsi alla banca BRICS-plus per proteggersi.

Gli stessi Stati Uniti stanno ponendo fine allo standard del dollaro della finanza internazionale.

L'amministrazione Trump ha fatto un passo importante per cacciare i paesi dall'orbita del dollaro nel novembre 2018, confiscando quasi $ 2 miliardi di azioni ufficiali dell'oro del Venezuela detenute a Londra.

La Banca d'Inghilterra ha messo queste riserve a disposizione di Juan Guaidó, il politico marginale di destra scelto dagli Stati Uniti per sostituire il presidente eletto del Venezuela come capo di stato. Questo è stato definito come democratico, perché il cambio di regime ha promesso di introdurre il "libero mercato" neoliberista che è considerato l'essenza della definizione americana di democrazia per il mondo di oggi.

Questo furto d'oro in realtà non è stata la prima confisca di questo tipo.

Il 14 novembre 1979, l'amministrazione Carter paralizzò i depositi bancari iraniani a New York dopo che lo Scià fu rovesciato.

Questo atto ha impedito all'Iran di pagare il suo servizio del debito estero programmato, costringendolo al default.

Questa è stata vista come un'azione eccezionale una tantum per quanto riguarda tutti gli altri mercati finanziari. Ma ora che gli Stati Uniti sono l'autoproclamata "nazione eccezionale", tali confische stanno diventando una nuova norma nella diplomazia statunitense. Nessuno sa ancora cosa sia successo alle riserve auree della Libia che Muammar Gheddafi aveva intenzione di utilizzare per sostenere un'alternativa africana al dollaro.

 E le riserve auree e altre riserve dell'Afghanistan sono state semplicemente prese da Washington come pagamento per il costo di "liberare" quel paese dal controllo russo sostenendo i talebani.

Ma quando l'amministrazione Biden e i suoi alleati della NATO hanno fatto un accaparramento di risorse molto più grande di circa $ 300 miliardi di riserve bancarie estere della Russia e partecipazioni in valuta nel marzo 2022, ha ufficializzato una nuova epoca radicale nella diplomazia del dollaro.

Qualsiasi nazione che segua politiche non ritenute nell'interesse del governo degli Stati Uniti corre il rischio che le autorità statunitensi confischino le sue riserve estere in banche o titoli statunitensi.

Questa è stata una bandiera rossa che ha portato i paesi a temere di denominare il loro commercio, i risparmi e il debito estero in dollari, e ad evitare di utilizzare depositi bancari e titoli in dollari o euro come mezzo di pagamento.

Spingendo altri paesi a pensare a come liberarsi dal sistema commerciale e monetario mondiale centrato sugli Stati Uniti che è stato istituito nel 1945 con il FMI, la Banca Mondiale e successivamente l'Organizzazione Mondiale del Commercio, le confische degli Stati Uniti hanno accelerato la fine dello standard dei buoni del Tesoro degli Stati Uniti che ha governato la finanza mondiale da quando gli Stati Uniti hanno abbandonato l'oro nel 1971.

Da quando la convertibilità del dollaro in oro è terminata nell'agosto 1971, la dollarizzazione del commercio e degli investimenti mondiali ha creato la necessità per altri paesi di detenere la maggior parte delle loro nuove riserve monetarie internazionali in titoli del Tesoro degli Stati Uniti e depositi bancari. Come già notato, ciò consente agli Stati Uniti di sequestrare depositi bancari esteri e obbligazioni denominate in dollari USA.

Ancora più importante, gli Stati Uniti possono creare e spendere IOU in dollari nell'economia mondiale a volontà, senza limiti.

 Non deve guadagnare potere di spesa internazionale gestendo un surplus commerciale, come devono fare altri paesi. Il Tesoro degli Stati Uniti può semplicemente stampare dollari elettronicamente per finanziare le sue spese militari straniere e gli acquisti di risorse e società straniere. Ed essendo il "paese eccezionale", non deve pagare questi debiti – che sono riconosciuti come troppo grandi per essere pagati.

Le partecipazioni in dollari esteri sono credito gratuito degli Stati Uniti agli Stati Uniti, non richiedono il rimborso più di quanto ci si aspetti che i dollari cartacei nei nostri portafogli vengano pagati (ritirandoli dalla circolazione). Ciò che sembra essere così autodistruttivo riguardo alle sanzioni economiche americane e alle confische delle riserve russe e di altre riserve estere è che stanno accelerando la fine di questa corsa gratuita.

Contraccolpo derivante dall'isolamento USA/NATO dei loro sistemi economici e monetari.

È difficile vedere come spingere i paesi fuori dall'orbita economica degli Stati Uniti serva gli interessi nazionali degli Stati Uniti a lungo termine. Dividere il mondo in due blocchi monetari limiterà la diplomazia del dollaro ai suoi alleati e satelliti della NATO.

Il contraccolpo che ora si sta svolgendo sulla scia della diplomazia statunitense inizia con la sua politica anti-russa. L'imposizione di sanzioni commerciali e monetarie avrebbe impedito ai consumatori e alle imprese russe di acquistare le importazioni USA/NATO a cui si erano abituati. La confisca delle riserve di valuta estera della Russia avrebbe dovuto far crollare il rublo, "trasformandolo in macerie", come promesso dal presidente Biden.

 L'imposizione di sanzioni contro l'importazione di petrolio e gas russi in Europa avrebbe dovuto privare la Russia dei proventi delle esportazioni, causando il crollo del rublo e aumentando i prezzi delle importazioni (e quindi il costo della vita) per il pubblico russo.

 Invece, il blocco delle esportazioni russe ha creato un'inflazione dei prezzi mondiali per petrolio e gas, aumentando drasticamente i proventi delle esportazioni russe.

Esportava meno gas ma guadagnava di più – e con dollari ed euro bloccati, la Russia ha chiesto il pagamento delle sue esportazioni in rubli. Il suo tasso di cambio è salito invece di crollare, consentendo alla Russia di ridurre i suoi tassi di interesse.

Spingere la Russia a inviare i suoi soldati nell'Ucraina orientale per difendere i russofoni sotto attacco a Luhansk e Donetsk, insieme all'impatto previsto delle conseguenti sanzioni occidentali, avrebbe dovuto far premere gli elettori russi per un cambio di regime.

 Ma come quasi sempre accade quando un paese o un'etnia viene attaccata, i russi erano inorriditi dall'odio ucraino per i parlanti di lingua russa e la cultura russa, e dalla russofobia dell'Occidente. L'effetto dei paesi occidentali che vietano la musica di compositori russi e i romanzi russi dalle biblioteche – limitato dall'Inghilterra che vieta ai tennisti russi dal torneo di Wimbledon – è stato quello di far sentire i russi sotto attacco semplicemente per essere russi. Si sono radunati attorno al presidente Putin.

Le sanzioni commerciali della NATO hanno catalizzato aiutato l'agricoltura e l'industria russa a diventare più autosufficienti obbligando la Russia a investire nella sostituzione delle importazioni.

 Un successo agricolo ben pubblicizzato è stato quello di sviluppare la propria produzione di formaggio per sostituire quella della Lituania e di altri fornitori europei tra cui l’Italia.

La sua produzione automobilistica e industriale è costretta a spostarsi dai marchi tedeschi e altri marchi europei ai propri produttori cinesi. Il risultato è una perdita di mercati per gli esportatori occidentali.

Nel campo dei servizi finanziari, l'esclusione della Russia da parte della NATO dal sistema di compensazione bancaria SWIFT non è riuscita a creare il caos dei pagamenti previsto. La minaccia era stata così forte per così tanto tempo che Russia e Cina avevano tutto il tempo per sviluppare il proprio sistema di pagamenti. Ciò ha fornito loro una delle precondizioni per i loro piani di dividere le loro economie da quelle dell'Occidente USA / NATO.

Come le cose si sono rivelate, le sanzioni commerciali e monetarie contro la Russia stanno imponendo i costi più pesanti all'Europa occidentale e probabilmente si diffonderanno nel Sud del mondo, spingendoli a pensare se i loro interessi economici risiedano nell'unirsi alla diplomazia del dollaro degli Stati Uniti.

L'interruzione si fa sentire più seriamente in Germania, causando la chiusura di molte aziende a causa della carenza di gas e altre materie prime.

 Il rifiuto della Germania di autorizzare il gasdotto North Stream 2 ha spinto la sua crisi energetica al culmine. Ciò ha sollevato la questione di quanto a lungo i partiti politici tedeschi possano rimanere subordinati alle politiche della Guerra Fredda della NATO a scapito dell'industria tedesca e delle famiglie che affrontano forti aumenti dei costi del riscaldamento e dell'elettricità.

Più tempo ci vorrà per ripristinare il commercio con la Russia, più le economie europee soffriranno, insieme alla cittadinanza in generale, e più il tasso di cambio dell'euro diminuirà, stimolando l'inflazione in tutti i suoi paesi membri.

 I paesi europei della NATO stanno perdendo non solo i loro mercati di esportazione, ma le loro opportunità di investimento per guadagnare dalla crescita molto più rapida dei paesi eurasiatici la cui pianificazione governativa e resistenza alla finanziarizzazione si è dimostrata molto più produttiva del modello neoliberista USA / NATO.

È difficile vedere come qualsiasi strategia diplomatica possa fare di più che giocare per il tempo. Ciò implica vivere nel breve periodo, non nel lungo periodo. Il tempo sembra essere dalla parte della Russia, della Cina e delle alleanze commerciali e di investimento che stanno negoziando per sostituire l'ordine economico occidentale neoliberista.

Il problema ultimo dell'America è la sua economia post-industriale neoliberista.

Il fallimento e i contraccolpi della diplomazia statunitense sono il risultato di problemi che vanno oltre la diplomazia stessa.

 Il problema di fondo è l'impegno dell'Occidente per il neoliberismo, la finanziarizzazione e la privatizzazione.

 Invece del sussidio governativo dei costi di vita di base necessari al lavoro, tutta la vita sociale viene resa parte del "mercato" – un mercato dei "Chicago Boys" unicamente thatcheriano in cui l'industria, l'agricoltura, l'edilizia abitativa e il finanziamento sono deregolamentati e sempre più predatori, mentre sovvenzionano pesantemente la valutazione dei beni finanziari e in cerca di rendita – principalmente la ricchezza dell'uno per cento più ricco.

Il reddito è ottenuto sempre più dalla ricerca di rendite finanziarie e monopolistiche, e le fortune sono fatte da guadagni di "capitale" indebitati per azioni, obbligazioni e immobili.

Le società industriali statunitensi hanno mirato maggiormente a "creare ricchezza" aumentando il prezzo delle loro azioni utilizzando oltre il 90% dei loro profitti per riacquisti di azioni e pagamenti di dividendi invece di investire in nuovi impianti di produzione e assumere più manodopera. Il risultato di investimenti di capitale più lenti è quello di smantellare e cannibalizzare finanziariamente l'industria aziendale al fine di produrre guadagni finanziari. E nella misura in cui le aziende impiegano manodopera e creano una nuova produzione, viene fatto all'estero dove la manodopera è più economica.

La maggior parte del lavoro asiatico può permettersi di lavorare per salari più bassi perché ha costi abitativi molto più bassi e non deve pagare il debito dell'istruzione.

L'assistenza sanitaria è un diritto pubblico, non una transazione di mercato finanziarizzata, e le pensioni non sono pagate in anticipo dai salariati e dai datori di lavoro, ma sono pubbliche. L'obiettivo in Cina, in particolare, è quello di evitare che il settore rentier Finance, Insurance and Real Estate (FIRE) diventi un oneroso sovraccarico i cui interessi economici differiscono da quelli di un governo socialista.

La Cina tratta il denaro e le banche come un'utilità pubblica, da creare, spendere e prestare per scopi che aiutano ad aumentare la produttività e gli standard di vita (e sempre più a preservare l'ambiente). Rifiuta il modello neoliberista sponsorizzato dagli Stati Uniti imposto dal FMI, dalla Banca Mondiale e dall'Organizzazione Mondiale del Commercio.

La frattura economica globale va ben oltre il conflitto della NATO con la Russia in Ucraina. Quando l'amministrazione Biden è entrata in carica all'inizio del 2021, Russia e Cina avevano già discusso della necessità di de-dollarizzare il loro commercio estero e gli investimenti, utilizzando le proprie valute. Ciò comporta il salto quantico dell'organizzazione di un nuovo istituto di compensazione dei pagamenti. La pianificazione non era progredita oltre le grandi linee di come un tale sistema avrebbe funzionato, ma la confisca statunitense delle riserve estere della Russia ha reso urgente tale pianificazione, a partire da una banca BRICS-plus.

Un'alternativa eurasiatica al FMI rimuoverà la sua capacità di imporre "condizionalità" di austerità neoliberista per costringere i paesi a ridurre i pagamenti al lavoro e dare priorità al pagamento dei loro creditori stranieri al di sopra di nutrirsi e sviluppare le proprie economie.

 Invece di estendere il nuovo credito internazionale principalmente per pagare i debiti in dollari, farà parte di un processo di nuovi investimenti reciproci in infrastrutture di base progettate per accelerare la crescita economica e gli standard di vita.

Altre istituzioni sono state progettate come Cina, Russia, Iran, India e i loro potenziali alleati rappresentano una massa critica abbastanza grande da "andare da soli", sulla base della propria ricchezza mineraria e del potere manifatturiero.

La politica di base degli Stati Uniti è stata quella di minacciare di destabilizzare i paesi e forse bombardarli fino a quando non accetteranno di adottare politiche neoliberiste e privatizzare il loro dominio pubblico.

Ma affrontare Russia, Cina e Iran è un ordine di grandezza molto più alto.

La NATO si è disarmata della capacità di condurre una guerra convenzionale consegnando la sua fornitura di armi – certamente in gran parte obsolete – da divorare in Ucraina.

In ogni caso, nessuna democrazia nel mondo di oggi può imporre un progetto militare per condurre una guerra terrestre convenzionale contro un avversario significativo / maggiore.

 Le proteste contro la guerra del Vietnam alla fine del 1960 hanno posto fine al progetto militare degli Stati Uniti, e l'unico modo per conquistare davvero un paese è occuparlo nella guerra terrestre. Questa logica implica anche che la Russia non è più in grado di invadere l'Europa occidentale di quanto i paesi della NATO stiano inviando coscritti per combattere la Russia.

Ciò lascia alle democrazie occidentali la capacità di combattere un solo tipo di guerra: la guerra atomica – o almeno, i bombardamenti a distanza, come è stato fatto in Afghanistan e nel Vicino Oriente, senza richiedere manodopera occidentale. Questa non è affatto diplomazia.

Si tratta semplicemente di recitare il ruolo di demolitore.

Ma questa è l'unica tattica che rimane a disposizione degli Stati Uniti e della NATO in Europa. È sorprendentemente simile alla dinamica della tragedia greca, dove il potere porta all'arroganza che è dannosa per gli altri e quindi alla fine antisociale – e autodistruttiva alla fine.

Come possono allora gli Stati Uniti mantenere il loro dominio mondiale?

Ha deindustrializzato e accumulato debito pubblico estero ben oltre ogni modo prevedibile di essere pagato.

Nel frattempo, le sue banche e gli obbligazionisti chiedono che il Sud del mondo e altri paesi paghino gli obbligazionisti in dollari stranieri di fronte alla loro crisi commerciale derivante dall'impennata dei prezzi dell'energia e dei prodotti alimentari causata dalla belligeranza anti-russa e anti-cinese dell'America.

 Questo doppio standard è una contraddizione interna di base che va al cuore della visione del mondo occidentale neoliberista di oggi.(Ho descritto i possibili scenari per risolvere questo conflitto nel mio recente libro The Destiny of Civilization: Finance Capitalism, Industrial Capitalism or Socialism. Ora è stato anche pubblicato in forma di e-book da Counterpunch Books.)

 

Orrore nel Donbass:

Kiev Bombarda Prigione.

 

Conoscenzealconfine.it-( 1 Agosto 2022)- Redazione- ci dice :

 

53 prigionieri Azov (nazisti) uccisi per impedire loro di testimoniare sui crimini di guerra.

È una storia orrenda quella che giunge dall’Ucraina. Resa agghiacciante dalle immagini di un video solo per persone forti in cui si vedono monconi di piedi, braccia, corpi smembrati o completamente bruciati: una distruzione totale dentro a una prigione del Donbass.

“Le forze di Kiev hanno bombardato un centro di detenzione che ospitava prigionieri di guerra ucraini venerdì mattina per ‘minacciare’ le proprie truppe che potrebbero voler arrendersi, ha affermato il ministero della Difesa russo”, secondo quanto riportato da Russia Today.

“Un gran numero di militari ucraini stanno volontariamente deponendo le armi e sono a conoscenza del trattamento umano riservato ai prigionieri da parte russa”, ha affermato il ministero, definendo l’attacco “oltraggioso”.

Le autorità della Repubblica popolare di Donetsk (DPR) hanno affermato che il bilancio delle vittime dell’attacco missilistico è salito a 53. Il viceministro dell’informazione della DPR, Daniil Bezsonov, ha pubblicato un video tremendo sul suo canale Telegram, che mostra più corpi mutilati e carbonizzati all’interno dell’edificio distrutto.

 

Secondo il ministero della Difesa russo e le autorità locali, le truppe ucraine hanno utilizzato lanciarazzi multipli HIMARS forniti dagli Stati Uniti per colpire il centro di detenzione vicino al villaggio di Yelenovka.

Il ministero ha affermato che la struttura conteneva membri del battaglione Azov ucraino, i cui combattenti si sono arresi alle forze russe e del Donbass durante l’assedio dell’acciaieria Azovstal a Mariupol. Il battaglione è noto perché include combattenti con opinioni nazionaliste e neonaziste.

Parlando alla TV russa, Channel One, il capo della DPR Denis Pushilin, ha affermato che gli ucraini hanno preso di mira “deliberatamente” il centro di detenzione per uccidere i membri di Azov che avevano fornito testimonianze su possibili crimini di guerra dai loro comandanti.

L’esercito ucraino ha rilasciato una dichiarazione venerdì, accusando le truppe russe di aver bombardato Yelenovka. Mosca avrebbe distrutto la prigione per addossare la colpa a Kiev, oltre che per “nascondere la tortura dei prigionieri e le esecuzioni”, afferma la dichiarazione.

Seguendo la china della solita retorica di accuse false-flag più volte sbugiardate, in un Tweet il ministro degli Esteri ucraino, Dmytro Kuleba, ha ovviamente accusato Mosca: “La Russia ha commesso un altro crimine di guerra agghiacciante bombardando una struttura correttiva nell’Olenivka occupata dove deteneva prigionieri di guerra ucraini. Invito tutti i partner a condannare fermamente questa brutale violazione del diritto umanitario internazionale e a riconoscere la Russia come uno stato terrorista“.

In molteplici occasioni, come l’attacco all’ospedale ed al teatro di Mariupol, ma anche nel finto bombardamento all’asilo che indusse Kiev a riprendere gli attacchi contro il Donbass, scatenando l’operazione militare del presidente russo Vladimir Putin, abbiamo più volte evidenziato che le dichiarazioni del governo ucraino sono satolle di menzogne e pertanto assai poco credibili anche in quest’ultima circostanza.

(rt.com/russia/559831-ukraine-pow-missile-strike/)

(gospanews.net/2022/07/29/orrore-nel-donbass-kiev-bombarda-prigione-video-53-prigionieri-azov-uccisi-per-impedire-ai-nazisti-di-testimoniare-sui-crimini-di-guerra/).

 

 

Il conflitto e l’ipocrisia: serve

un nuovo soggetto politico, l’umanità.

Alzogliocchiversoilcielo.com- Carlo Rovelli- Corriere della Sera-( 30 luglio 2022)-ci dice :

 

Raramente mi sono sentito così lontano dalla retorica dei giornali. Forse dall’adolescenza, e forse per lo stesso motivo: quando la gioventù si ribellava d’istinto — prima ancora che a ingiustizia sociale, autoritarismo o vietnamiti massacrati dal napalm — al dilagare dell’ipocrisia.

L’Occidente si è lanciato a cantarsi come detentore dei valori, baluardo della libertà, protettore dei deboli, garante della legalità, speranza per la pace.

 Il peana su quanto siamo buoni e giusti mentre gli «autocratici» sono infingardi è un coro all’unisono. La ferocia russa e cinese è ostentata, ripetuta, declamata.

Mi unirei al coro se fosse sincero.

Se condannando un attacco a un Paese sovrano, aggiungessimo che ci impegniamo a non fare più nulla di simile. Non fare quanto l’Occidente ha fatto in Afghanistan, Iraq, Libia, Serbia, Yemen, Grenada, Panama… Con la partecipazione dell’Italia sono stati invasi Iraq e Afghanistan che non avevano attaccato nessuno, causando un milione di morti. Rivangare il passato non serve: ci impegniamo per il futuro?

Mi unirei al coro contro il riconoscimento del Donbass che ha innescato la guerra ucraina, se aggiungessimo che ci siamo sbagliati riconoscendo Slovenia e Croazia, innescando la guerra civile Iugoslava.

O per i bombardamenti su Kiev, dove la scusa era che Kiev massacrava il Donbass, se la Nato si impegnasse a non fare più nulla di simile, come ha fatto bombardando Belgrado, dove la scusa era che Belgrado massacrava il Kosovo.

Mi unirei al coro contro la Russia che cerca di cambiare il regime di Kiev, se l’Occidente si impegnasse a non fare più la stessa cosa, come ha fatto abbattendo e destabilizzato governi democraticamente eletti dal Medio Oriente al Sud America, dal Cile all’Algeria, dall’Egitto alla Palestina.

Mi unirei al coro che si commuove per i profughi ucraini, se si commuovesse anche per yemeniti, siriani, afghani e altri con pelle di tonalità diverse.

Ipocrisia senza limiti.

I giornali gridano sulle politiche «imperiali» di Cina e Russia. Il lupo e l’agnello. La Cina non ha quasi soldati fuori dei suoi confini, se non in missioni Onu.

 La Russia ne ha a pochi chilometri, in Siria e Transnistria.                                                      Gli americani hanno centomila soldati in Europa, basi militari in Centro e Sud America, Africa, Asia, Pacifico, Giappone, Corea… ovunque, eccetto in Ucraina dove stavano insediandosi.

Hanno portaerei nel mare della Cina. Dalle coste cinesi si vedono navi da guerra Usa, non si vedono navi da guerra cinesi da New York. Chi è l’impero? Si paventa, non abbastanza, l’uso dell’atomica.

 L’Occidente è l’unico ad averla usata. A guerra vinta, per affermare il dominio con la violenza; nessun altro lo ha fatto.                                               Si scrive che la Cina è aggressiva; non ha fatto guerre dopo Corea e Vietnam; l’Occidente ne ha fatte in continuazione ovunque. Chi è l’impero?

Il Pentagono pubblica liste di persone uccise dai suoi droni nel mondo, molti innocenti.

Il New York Times è arrivato all’orrore di denunciare il fatto che i soldati che li guidano non hanno supporto psicologico per lo stress di ammazzare innocenti. Lo scandalo non è ammazzare innocenti, è che chi li ammazza non ha supporto psicologico. L’impero assiro era arrivato a tale arroganza.

Ma i nostri giornalisti ricordano indignati una persona uccisa anni fa a Londra dai russi… Gli americani invocano la Corte Penale Internazionale, da cui hanno sempre dichiarato che non si fanno giudicare. O la legalità internazionale, quando le loro guerre sono condannate dall’Onu. Onu che la maggioranza del mondo vorrebbe autorevole, ma Washington ostacola.

Sarei in disaccordo, ma non mi sentirei disgustato, se sentissi «siamo forti, vogliamo dominare con le armi per difendere il nostro privilegio». Non ci sarebbe ipocrisia e potremmo discutere se sia una scelta intelligente. Se non sia più lungimirante collaborare.

Non fraintendetemi. Amo l’America, molto. Vi ho vissuto dieci anni e sono stato cittadino Usa. Ne conosco splendori e orrori.

 La brillantezza delle università, la vitalità dell’economia, la miseria dei ghetti neri e bianchi, la violenza per noi inconcepibile delle strade. Amo l’Europa, la civiltà, tolleranza e cautela ereditate dalla devastazione della Guerra. Ma non posso non vedere il nostro piccolo mondo ricco chiudersi su se stesso in un parossismo di ipocrisia.

 

Amo anche Cina e lndia, di cui pure ho visto miserie e splendori. Ci perdiamo in chiacchiere su quale sistema sia meglio, come dovessimo fare tutti la stessa cosa.

 Il problema del mondo non è che un singolo sistema politico debba essere adottato da  tutti. Il problema del mondo è convivere, rispettarsi, collaborare. Il problema del mondo è costruire un nuovo soggetto politico: l’umanità, con le sue diversità.

Tanti Paesi ce lo ripetono, non li ascoltiamo. Rifiutano le sanzioni contro la Russia. Perfino di condannare la Russia. Perché? Perché vedono l’ipocrisia dell’Occidente, che si sente libero di massacrare, e poi fa l’anima candida.

L’umanità vorrebbe che i problemi reali, riscaldamento climatico, pandemie, povertà che ricomincia a crescere, fossero affrontati insieme.

 L’80% degli italiani non è favorevole all’aumento delle spese militari. Considera l’emergenza climatica il problema grave. Il direttore della Cia afferma in una intervista che cerca di convincere i politici, che non ascoltano, della stessa cosa. Le persone ragionevoli sanno che collaborare è meglio. L’Occidente rifiuta.

 Vuole «avversari strategici», nemici, vuole schiacciare gli altri. Ha le armi. L’Ucraina si potrebbe risolvere come la crisi Iugoslava: con una separazione. Ma l’Occidente non vuole soluzioni, vuole fare male alla Russia: non fa che ripeterlo.

Ora si sente inquieto perché la Cina sta diventando ricca.                                         La provoca, la accusa con pretesti (ce ne sono: scagli la prima pietra chi è senza colpe). Cerca lo scontro.

 Vorrebbe umiliarla militarmente prima che cresca troppo. La classe dominante occidentale ci sta portando verso la terza guerra mondiale.

Nelle foto si allineano facce sorridenti dei leader occidentali, felici delle portaerei, delle bombe atomiche, trilioni di dollari di armi, con cui si potrebbero risolvere i guai del mondo, usati per rafforzare il dominio.

 E tutto imbiancato da belle parole: democrazia, libertà, rispetto dei confini, legalità.

Dietro, come zombi, giornalisti, editorialisti e politici di stati vassalli come il nostro, a ripetere. Sepolcri imbiancati. Su una scia di sangue di milioni di morti straziati dalle nostre bombe. Da Hiroshima a Kabul, e continueranno.

 

 

 

“Che la sera

ci colga lottando.”

Odysseo.it- Paolo Farina –(25 Luglio 2022)- ci dice :

 

Guglielmo Minervini, un uomo, un politico, che ha lasciato il segno e che ci ha lasciato troppo presto, soli 55 anni.

“Che la sera ci colga lottando” ci immette senza fronzoli nella sua vita e nel suo pensiero (e viceversa): come sarebbe piaciuto a lui. Come è nello stile di Andrea Colasuonno.

“Che la sera ci colga lottando”: un saggio, un racconto, una testimonianza. Mi sembra che questi tre termini segnino un crescendo che ha nel martyrium la parola chiave per cogliere la vita e l’impegno di Guglielmo Minervini.

Indagare la vita e l’opera di Guglielmo Minervini ha significato sostanzialmente fare una cosa: mettere ordine.

Minervini è stato più di tutto un inquieto, ha avuto una vita purtroppo non lunga, ma larga sì, ecco che scrivere di lui ha voluto dire cercare dei criteri unificanti per delineare dei tracciati, senza perdersi al seguito della sua erranza. Del resto l’idea del libro è nata proprio da questo: come racconto Minervini a uno che non sa chi sia?

Gli racconto del suo lavoro con don Tonino Bello? Ma non è stato solo questo. Gli racconto della stagione dei sindaci? Ma non è stato solo questo. Gli racconto di Bollenti Spiriti? Della politica generativa? Ma non è stato solo questo.

 Il libro quindi è nato con l’idea di raccontare in maniera non prolissa, ma puntuale, questa articolata figura. La figura di un uomo che è stato un fine intellettuale, producendo un pensiero originale, e allo stesso tempo un pragmatico attivista. Una figura, per questo, più unica che rara.

Dici Guglielmo e pensi ad una straordinaria stagione di cambiamento, prima nella sua Molfetta e poi in tutta la ragione Puglia, una stagione di Bollenti spiriti…

È così. L’errore da non fare è quello di pensare a Minervini come a uno che ha solo ideato una buona politica giovanile.

Bollenti Spiriti oltre a essere un’ottima politica per i giovani, è il simbolo di un metodo di governo. Minervini dunque ha ideato un metodo di governo – quello che poi ha chiamato politica generativa – non solo dei programmi per i giovani. Questo deve essere chiaro altrimenti non si comprende la portata della sua figura. È per questo che ha senso oggi parlare di lui.

Perché quel metodo di governo – sperimentato così efficacemente in Puglia negli anni in cui Minervini è stato politicamente attivo – è poi stato accantonato come una felice eccezione quando il suo ideatore ci ha lasciati.

 E invece essendo un metodo, appunto, può essere studiato e replicato, e deve esserlo, perché rappresenta la risposta a un sacco di problemi che il mondo e la politica di oggi si trovano a dover fronteggiare: la scarsità di risorse, la disaffezione verso la cosa pubblica da parte dei cittadini, lo smarrimento di un’identità ben precisa per la sinistra, la rassegnazione di un Sud che rinuncia a combattere le proprie battaglie.

La parabola esistenziale e l’avventura politica di Guglielmo hanno puntualmente sfatato una serie di stereotipi: intellettuale, ma senza mani in tasca; cattolico, ma non bigotto; pacifista ma non irenico; ecologista ma non fondamentalista del verde.

L’elenco potrebbe continuare: tu cosa aggiungeresti?

Direi meridionalista eppure cosmopolita. Minervini è stato forse l’ultimo dei meridionalisti e nel libro provo a spiegare il perché. A qualunque cosa Minervini abbia guardato, l’ha sempre fatto da Sud, dal Sud Italia inteso come uno dei Sud del mondo.

Il suo meridionalismo si è inserito nel solco di quello che nel libro ho chiamato meridionalismo, ossia nel solco tracciato da Franco Cassano e dal suo pensiero meridiano.

Non è un caso che Cassano abbia scritto la prefazione del primo libro di Minervini uscito nel 1997, “Mar Comune”. Eppure Minervini all’impianto teorico di Cassano ha aggiunto del suo, producendo una visione meridionalista del tutto personale. Una delle tesi centrali del libro, è che se Cassano con il pensiero meridiano ha prodotto “un pensiero per il Sud”, Minervini, partendo da quello, ha invece prodotto “una politica per il Sud”.

Del resto che cos’è la Politica Generativa se non una politica che tematizza la frugalità, l’assenza di risorse, la scarsità? In questo senso non poteva che essere una politica profondamente meridionale, eppur tuttavia non destinata solo al Sud.

Ancora due domande. La prima: Guglielmo e Don Tonino Bello…

Fu come mettere insieme la miccia e la dinamite. Esplose tutto. Nel il libro c’è il racconto molto bello raccolto da Franco De Palo – storico amico di Minervini – del primo incontro fra loro.

 Erano giovani ragazzi in procinto di partire con il servizio civile, e lui un giovane vescovo appena arrivato in città.

Minervini e De Palo suonarono alla porta dell’episcopio e all’uomo che aprì chiesero del vescovo. Quello disse loro di seguirlo. Arrivati in sala si sedette proprio sulla sedia spettante al vescovo e disse “sono don Tonino, ditemi pure”.

Due ore dopo tutti e tre erano in giro nella Cinquecento di don Tonino a cercare una sede per quella che poi sarebbe diventata Casa per la Pace.

Don Tonino sostanzialmente fece una scelta di campo: decise di stare non dalla parte della classe dirigente della città – i notabili, i politici, gli imprenditori – ma dalla parte di giovani ragazzi strani agli occhi di molti, tutti concentrati a compiere la loro rivoluzione. È da questa scelta di campo che poi scaturì tutto il resto.

 

 

 

 

INQUIETO DILETTO: UNA LEZIONE

ONTOLOGICA DI MASSIMO CACCIARI

SUL TERRORE DESTATO DALL’ARTE.

Recensito.it- Prof. Massimo Cacciari-Piero Baiamonte –(23-2-2022)- ci dice :

 

Roma – Sabato 23 febbraio 2022, presso l’Auditorium MACRO ASILO, si è tenuta la lectio magistralis del professor Massimo Cacciari sul tema “Arte e terrore”; un dissidio inconciliabile ma assolutamente necessario sin dalla nascita della tragedia.

Proprio dal teatro greco è inevitabile che parta il focus sulla paventata partecipazione dell’uomo al fenomeno artistico.

Leggendo il celebre passo della Poetica di Aristotele, Cacciari ci ricorda la definizione di tragedia: una mimesi - non intesa come semplice riproduzione passiva - di un’azione che suscita fòbos ed éleos.

Un duplice e ambivalente sentimento che il filosofo analizza in primis linguisticamente per poter giungere a una concezione teoretica: la lingua come angolazione unica e irripetibile sul mondo.

 Da ciò l’attenzione sulla traduzione data dal filosofo illuminista Gotthold Lessing di éleos – letteralmente “misericordia” – in mitleid, un sentimento di piena con (“mit”) passione (“leid”).

Una compassione intesa come partecipazione attiva dello spettatore, il théros, da cui la parola teoria, ovvero osservazione critica e analitica della realtà.

Tutto ciò, tuttavia, non può prescindere dal senso violento del fòbos che – come spiegato dal filosofo veneziano – ha la stessa radice linguistica della parola feùgo, io fuggo.

La fuga è dovuta al terrore, che ricorda il tremore, ma ha affinità etimologiche anche con il verbo greco trépein, il rivolgersi. Senza terrore autentico non può esserci il trepein, il rivolgersi alla scena che osserviamo.                             Il dramma suscita una strana dialettica: un sentimento di repulsione e di attrazione misericordiosa verso il destino dell’eroe, verso l’universale fato, dato che la tragedia mette di fronte alla possibilità che la casa si rivolga all’inospitalità, allo spaesante; “la negazione della dimora”, come afferma Cacciari.

Da questo possiamo desumere che la tragedia è il massimo esempio ontologico tra arte e terrore.

Ma non è sempre così. Il tema del terrore, evidente nel dramma classico, è presente come invito alla compartecipazione al dolore da parte dell’arte, ma difficilmente accettato. La concinitas del bello nell’arte è solo una visione prettamente scolastica.

Il professore invita a leggere attentamente le ultime pagine di Winckelmann per notare la tensione drammatica nel suo rivolgersi all’arte classica, su cui già si rifletteva con profonda inquietudine sin dalla sua origine.

A tal proposito il filosofo introduce il Platone estetico, fonte inesauribile per Hegel e Nietzsche, promotore del pensiero insormontabile sul conflitto tra arte e filosofia.

 Dalla disquisizione sull’estetica di Platone, emerge una visione dell’arte trascendente al giudizio razionale, il logos filosofico.

Le arti per Platone sono ospiti illustri che non possono essere accolte nella polis del filosofo. L’arte è straordinaria in quanto nasce da uno stato folle, un trauma meraviglioso sorto da una mania poietikè, da una mimesi che non da soluzione.

La filosofia, invece, esige una soluzione, ha il dovere razionale di rispondere al trauma generato dalla paura dell’arte.

Questo dissidio è la palaia diafòra di cui si parla nel Simposio, l’antica questione: l’inganno dell’arte ci fa tremare perché è fuori dall’ordinario. Questo, secondo Cacciari, è la più conturbante eredità lasciata da Platone alla filosofia contemporanea; un inconciliabile topos fuori dal tempo.

Proprio per la sua natura topologica, anziché cronologica, il professore evidenzia l’esigenza nel secolo XIX, quello del sublime quale momento del timore, di non poter far a meno della lezione del Simposio.

 Citando Nietzsche ed Hegel, apparentemente agli antipodi nella linea rivoluzionaria del pensiero di quel secolo, riflette sui diversi approcci dei due filosofi tedeschi alla via platonica.

Secondo Cacciari, Nietzsche è l’unico che ha colto perfettamente la visione fallace dell’arte espressa dal filosofo greco, il dissidio ontologico tra mimesi e realtà, tra ciò che è e ciò che non è; non in termini parmenidei, ma seguendo una linea trasversalmente opposta al logos filosofico: non si può essere contro la metafisica senza essere artista.

 L’inganno, lo straordinario e l’inquietante vanno oltre il giudizio filosofico.

Audaci e attuali considerazioni da chi scomparve nelle tenebre della follia.

 Hegel, invece, comprende la storia dell’occidente di liberarsi dall’impegno mimetico: l’arte romanza, intesa da Cacciari come eredità dell'arte romanica, mostra la contraddizione, non la conciliazione, tra umano e divino.

Ma la più grande beffa della filosofia – sostiene il professore sulla scia del filosofo tedesco – è credere di risolvere questo dissidio. L’arte ha a che fare con la morte, con il trapasso tra l’idea e l’esistenza. Non si cristallizza né nel divino, né nell’umano.

In questo suo trapassare vive e rifugge da qualsiasi luce in un’eterna notte del mondo in cui ognuno sta sospeso con lo sguardo penetrante e inquieto verso una fantasmagoria di immagini.

Una lezione rivelatrice di due archetipi diversi confluiti in un'unica e irreversibile dialettica, aldilà delle esperienze e dei contesti differenti.

(Piero Baiamonte) .

 

 

Abolire i confini causerebbe

un nuovo boom economico?

Wired.it- Paolo Mossetti-(18-novembre 2019)- ci dice :

 

Non solo molti intellettuali, ma anche tanti economisti si interrogano da anni sull'opportunità di aprire le frontiere: per diverse voci fuori dal coro significherebbe innanzitutto renderci tutti più ricchi.

L'esempio più suggestivo dell'ipotesi di un mondo senza frontiere, come nella canzone di John Lennon, lo aveva offerto un libro magico uscito nel 2017, in piena crisi migratoria in Europa.

 In Exit West, di Mohsin Hamid, si parla d'amore e nomadismo attraverso un'invenzione fantasiosa: delle porte magiche che, aprendosi nei punti più disparati (dagli armadi ai bagni di un bar) tele-trasportavano ignari abitanti del Terzo mondo nel primo, scatenando guerre e mescolanze culturali inaspettate.

Qualunque sia la vostra posizione su un mondo no border – cioè completamente privo di confini, intesi come istituzioni politiche ben prima che fisiche – non c'è dubbio che le politiche attuali in tema di migrazioni siano inadatte a realizzarlo.

Oggi oltre 250 milioni di persone vivono in posti diversi da quelli in cui sono nati, con un aumento di quasi il 50 per cento dal 2000 al 2018.Ma le nazioni continuano a essere circondate da filo spinato: a volte letterale, come in Ungheria e Turchia, altre volte metaforico, come nel canale di Sicilia, dove ogni anno centinaia di innocenti periscono nel tentativo di attraversare il mare, respinti da un continente che non riesce a gestire il fenomeno con una visione comune.

Nella marea populista montante contro il cambiamento etnico e la politica dei porti aperti, diversi intellettuali si stanno interrogando, al contrario su come accogliere un numero maggiore – anziché inferiore – di migranti, senza alterare necessariamente la democrazia di casa propria.

In un articolo pubblicato qualche giorno dalla rivista Foreign Policy, l'economista libertariano Bryan Caplan ha proposto una tesi radicale: abbattere le barriere del tutto – anziché semplicemente rendere la concessione di visti più semplice – favorirebbe una espansione istantanea della ricchezza mondiale, per un valore nell'ordine di “migliaia di miliardi” di euro.

L'idea di fondo di Caplan, condivisa da molti economisti della famosa scuola di Chicago, è che i lavoratori, emigrando da un paese povero verso uno ricco, diventano più produttivi.

Vale a dire che si inseriscono in un mercato lavorativo con più capitale disponibile, compagnie private più efficienti e un sistema legale affidabile che tutela i loro risparmi e i loro diritti.

Se si tratta di lavoratori nei servizi, i migranti possono trovare clienti disposti a pagare meglio. E con le stesse ore lavorate nella madrepatria guadagnano immensamente di più, mettendo in circolazione con le proprie braccia più soldi per l'intera comunità. Secondo alcune stime fornite dall'Economist in una storia simile l'anno scorso, più di due terzi della ricchezza totale di un individuo dipende da dove egli è nato e vissuto.

“È innegabile che i confini aperti siano impopolari”, ammette Caplan. Eppure “meritano di essere popolari”. Perché, come ogni mutamento sociale, l'immigrazione pone delle sfide che però possono essere affrontate: la criminalità?

Se è vero che l'88 per cento degli omicidi attribuibili al terrorismo negli Stati Uniti da quando esistono le statistiche sono attribuibili a cittadini nati all'estero, è anche vero che in rapporto si tratta di meno dell'1 per mille di tutte le morti che avvengono ogni anno nel paese, e meno dell'1 per cento di tutti gli omicidi.

È insomma più facile essere uccisi da un incidente stradale che da un immigrato passato dalla parte del crimine, ed più facile essere colpiti da un fulmine che da un terrorista cresciuto altrove.

 E l'influenza politica degli immigrati sugli affari domestici?                           Il problema semmai è il contrario: chi è nato all'estero – e soprattutto chi è immigrato con basse qualifiche – tende a votare molto di meno degli altri (appena il 12 % tra i low-skilled alle ultime elezioni presidenziali) e dunque, il suo peso è ancora minimale.

Sbaglia, spiegano i liberisti, chi immagina che un ristorante aperto da immigrati haitiani in America sia un ristorante potenzialmente sottratto all'economia di Haiti: perché, date le condizioni di lavoro e di investimento dei paesi poveri, molto probabilmente quel ristorante non sarebbe stato aperto affatto.

Un'argomentazione che non può non suscitare polemiche e accuse di paternalismo da parte di chi – specialmente tra gli economisti più eterodossi, e anche nel mondo liberale ce ne sono molti – sta cercando di rivalutare la formazione e il trattenimento di capitale intellettuale nei paesi in difficoltà, e rivalutando l'importanza dei confini nazionali per mitigare gli effetti più brutali della globalizzazione (finendo, anche, per giustificare una più spietata politica dell'immigrazione e dei dazi da parte dei nazionalisti come Trump).

L'altro argomento a favore del no border, inutile dirlo, è di tipo essenzialmente morale: non c'è nessun merito a essere nati in Italia piuttosto che in Libia, e i paesi ricchi hanno il dovere di includere gli altri nel loro privilegio.

 Gli avversari degli open border non sono persuasi da nessuno di questi argomenti, e votano in massa per partiti che promettono di ridare ai propri cittadini più controllo sull'immigrazione (sia da un punto di vista quantitativo che culturale).

Anche se la loro società dovesse essere arricchita dai migranti, spiegano, i più vulnerabili tra i propri connazionali finirebbero per soffrire, costretti a un gioco al ribasso sui salari dai nuovi arrivati e a competere con questi ultimi per accaparrarsi case a prezzi popolari, sussidi e benefit di altro tipo.

La verità è che la maggior parte delle persone in Occidente non è radicalmente contraria alla libertà di movimento, ma si trova in un terreno intermedio: in un sondaggio recente, il 67 per cento dei britannici ha espresso la volontà che i suoi connazionali e gli europei possano vivere e lavorare gli uni nei paesi degli altri.

(twitter.com/jdportes/status/1194336599842144256).

In Italia, da un sondaggio Demos pubblicato su La Repubblica si apprende che il 67 per cento degli italiani sarebbe favorevole allo” ius culturae”, vale a dire a una riforma della cittadinanza che preveda criteri di assegnazione basati su parametri culturali – come l'istruzione dei bambini – e non solo di "nascita".

Tra i favorevoli l'80 per cento tra gli elettori della maggioranza Pd/M5s/Italia Viva. Notevole anche il grande favore tra gli elettori di FI, mentre l'elettorato leghista è spaccato a metà.

Il segmento più inconvincibile, quello al quale sembra davvero impossibile da persuadere all'ipotesi dei confini aperti, stando ai dati è quello dei 45-54enni che risiedono nel Nord-Est, che trent'anni fa si sono laureati o hanno finito le scuole dell'obbligo pensando che il declino italiano sarebbe stato soltanto passeggero e oggi votano Lega o Fratelli d'Italia.

Ovviamente ci sono modi diversi di recepire la descrizione di ius culturae, ma la morale, forse, è che anche senza essere a favore del “no border” ci sono margini per lavorare sul tema dell'apertura, o perlomeno su cosa intendiamo per cittadinanza.

 

 

 

 

I Paesi europei hanno diritto

di costruire muri per

tutelare i confini, dice l'Ue.

Agi.it- Redazione-(8 ottobre 2021)- ci dice :

 

La commissaria agli Affari interni dà ragione ai Paesi che vogliono arginare le ondate di migranti, ma avverte: non potranno farlo usando i soldi dell'Unione.

AGI - "Gli Stati membri hanno il diritto e la responsabilità di tutelare i loro confini. E si trovano nella migliore posizione per decidere come farlo, fintanto che  rispettano le regole dell’Unione.

 Se uno Stato membro ritiene che sia necessario costruire una recinzione, lo può fare e io non ho nulla da obiettare". Lo ha dichiarato la commissaria europea agli Affari interni, Ylva Johannson, nella conferenza stampa al termine del Consiglio Affari interni.   

"Utilizzare fondi dell’Unione per finanziare recinzioni anziché finanziare altre attività molto importanti questo è un altro paio di maniche, ma qui parliamo di come spendere le risorse limitate. Ma gli Stati membri hanno possibilità e diritto di costruire queste recinzioni e si trovano nella migliore posizione per decidere se ciò sia necessario oppure no", ha aggiunto.

"Sono d’accordo - ha ribadito - che bisogna rafforzare la protezione dei nostri confini esterni. Devo dire che alcuni Stati membri hanno costruito delle strutture di protezione e posso capirlo. Se bisogna utilizzare i fondi Ue per fare questo devo dire di no".

"Io ho presentato varie proposte per proteggere i confini esterni, per monitorarli, nel Patto dell’Ue per le migrazioni e dell’Asilo. Abbiamo già trovato accordo su passi importanti per proteggere meglio i confini esterni attraverso l’interoperabilità. Quindi siamo abbastanza avanti, ci sono molte cose sul tavolo che devono essere attuate per proteggere meglio i confini esterni", ha sottolineato.

"Devo dire che non abbiamo lo stesso parere su questo tema", con la commissaria europea agli Affari interni, Ylva Johansson. Lo ha dichiarato Ales Hojs, ministro dell'Interno della Slovenia (Paese che detiene la presidenza di turno dell'Ue), in merito alla richiesta di dodici Paesi rivolta all'Ue di finanziare la costruzione di barriere anti-migranti al confine esterno.

 "Non abbiamo potuto firmare la lettera come presidenza però ho sostenuto pubblicamente questa lettera", ha spiegato.

"Devo dire che dopo il disastro del 2015, la Slovenia come Stato membro che non ha un confine esterno dell’Ue, abbiamo deciso di creare delle strutture di protezione con i nostri fondi. Continueremo su questa strada in futuro", ha evidenziato.

 "Però su base annuale ci sono 40mila immigrati irregolari nel confine interno dell’Ue. Questo vuol dire che la protezione dei confini esterni non è efficiente. Il nostro compito è proteggere confini esterni", ha insistito il ministro.

 

 

 

L'Ue boccia i fermi delle navi

delle ong fatti dall'Italia "senza prove."

Agi.it-Fabio Greco –(01 agosto 2022)- ci dice :

 

La vicenda nasce dai fermi delle imbarcazioni di Sea-Watch, che si era rivolta al Tar. Quest'ultimo ha poi girato il tema alla Corte di Lussemburgo. La Commissione europea all'Italia: "Applicate la sentenza".

AGI - Arriva dalla Corte di giustizia europea una sentenza storica per il soccorso in mare dei migranti, e una bocciatura per il governo italiano:

le navi di organizzazioni umanitarie che conducono un'attività sistematica di ricerca e soccorso possono essere sottoposte a controlli da parte dello Stato di approdo, ma quest'ultimo può adottare provvedimenti di fermo soltanto in caso di evidente pericolo per la sicurezza, la salute o l'ambiente, tutte circostanze che vanno provate dallo Stato che adotta il provvedimento.

La Corte di Lussemburgo si è pronunciata sul caso delle due navi Sea Watch 3 e Sea Watch 4, oggetto di fermo ai porti di Palermo e di Porto Empedocle nell'estate del 2020. Per prendere tale provvedimento, le autorità italiane avrebbero dovuto dimostrare "in maniera concreta e circostanziata, l'esistenza di indizi seri di un pericolo per la salute, la sicurezza, le condizioni di lavoro a bordo o l'ambiente". In ogni caso, "spetta al giudice del rinvio verificare il rispetto di tali prescrizioni", ha aggiunto la Corte.

Le due navi furono oggetto di ispezioni da parte delle capitanerie di porto, con la motivazione che non erano certificate per l'attività di ricerca e soccorso in mare e avevano imbarcato un numero di persone ampiamente superiore a quello autorizzato.

Inoltre le autorità portuali affermarono l'esistenza di carenze tecniche e operative che comportavano un evidente pericolo per la sicurezza, la salute o l'ambiente che richiedevano il fermo delle navi.

La Sea Watch fece ricorso al Tar Sicilia per l'annullamento dei provvedimenti, sostenendo che le capitanerie avrebbero violato i poteri di cui dispongono le autorità dello Stato di approdo.

Il Tar, a sua volta, si rivolse alla Corte, che, riunita in Grande Sezione, ha ribadito l'importanza, anche nell'applicazione della direttiva 2009/16 sui controlli nei porti, gli Stati membri "sono tenuti a rispettare...la convenzione sul diritto del mare e la convenzione per la salvaguardia della vita umana in mare".

"La prima sancisce, in particolare, l'obbligo fondamentale di prestare soccorso alle persone in pericolo o in difficoltà in mare. La seconda dispone - spiega la Corte - che le persone che si trovano, a seguito di un'operazione di soccorso in mare, a bordo di una nave, compresa una nave gestita da un'organizzazione umanitaria quale la Sea Watch, non devono essere computate in sede di verifica del rispetto delle norme di sicurezza in mare. Il numero di persone a bordo, anche ampiamente superiore a quello autorizzato, non può dunque costituire, di per sè solo, una ragione che giustifichi un controllo".

Una volta che una nave umanitaria abbia completato lo sbarco o il trasbordo di tali persone in un porto, lo Stato di approdo "può sottoporla a un'ispezione diretta a controllare il rispetto delle norme di sicurezza in mare. A tal fine, occorre però che tale Stato dimostri, in maniera concreta e circostanziata, l'esistenza di indizi seri di un pericolo per la salute, la sicurezza, le condizioni di lavoro a bordo o l'ambiente".

Quanto all'estensione dei poteri dello Stato di approdo, la Corte rileva che "quest'ultimo ha diritto, per dimostrare l'esistenza di indizi seri di un pericolo, di tenere conto del fatto che navi classificate e certificate come navi da carico da parte dello Stato di bandiera sono, in pratica, utilizzate per un'attività sistematica di ricerca e soccorso di persone. Per contro, lo Stato di approdo non può imporre che venga provato che tali navi dispongono di certificati diversi da quelli rilasciati dallo Stato di bandiera o che esse rispettano tutte le prescrizioni applicabili a una diversa classificazione. Peraltro, nel caso in cui l'ispezione riveli l'esistenza di carenze, lo Stato di approdo può adottare le azioni correttive che ritenga necessarie. Tuttavia, queste ultime devono, in ogni caso, essere adeguate, necessarie e proporzionate. Lo Stato di approdo non può poi subordinare la revoca del fermo di una nave alla condizione che tale nave disponga di certificati diversi da quelli rilasciati dallo Stato di bandiera". 

La Commissione europea ha "preso atto della decisione della Corte di giustizia dell'Ue", e sottolineato che i procedimenti dovranno ora continuare al tribunale italiano che si è rivolto ai giudici Ue e "spetterà all'Italia garantire l'applicazione della decisione".

 La sentenza potrebbe aprire la strada per una procedura d'infrazione a carico dell'Italia se il governo non darà attuazione, come auspicato dalla Commissione Ue, alla decisione dei giudici di Lussemburgo, spiega Fulvio Vassallo Paleologo, giurista, esperto dei diritti umani all'Universita' di Palermo, in un articolo su a-dif.org, il sito dell'Associazione diritti e frontiere.

"E andranno risarciti - sottolinea - tutti i danni per l'ingiustificato fermo amministrativo, protratto anche per mesi, ai danni delle navi delle Ong".

"In tutti i casi di presunta immobilizzazione o di indebito ritardo - prosegue Vassallo Paleologo - il proprietario o l'armatore della nave potrà provare i danni subiti a causa del fermo amministrativo della nave.

Il fermo amministrativo di una nave di una Ong, che avrebbe potuto operare attività di ricerca e salvataggio nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale, può dunque configurare un danno grave ed irreparabile, tanto per le Ong coinvolte, costrette a tenere ferme in porto navi dai costi giornalieri comunque assai elevati, tenendo conto della natura non commerciale della loro attività, basata sulla raccolta fondi tra i donatori e sul volontariato, e soprattutto per le persone che tentano la traversata e che, ancora in questi mesi, si possono trovare privati di una sia pur minima possibilità di soccorso in alto mare, dopo che gli Stati competenti e l'Agenzia europea Frontex hanno ritirato i loro assetti navali presenti in passato nelle acque internazionali tra il Nord-Africa, Malta e la Sicilia".

"La sentenza fornisce una base legale alle Ong e rappresenta una vittoria per il soccorso in mare. Le navi potranno continuare a fare ciò che sanno e che devono fare: soccorrere le persone e non rimanere bloccate in porto per decisioni arbitrarie e pretestuose", afferma Sea-Watch.

"Per mesi - ricorda la ong - Sea Watch3 e Sea Watch4 sono state trattenute per controlli dello Stato di approdo con motivazioni assurde: certificazioni mancanti e troppe persone soccorse. Nella sentenza di oggi, la Corte di Giustizia Ue ha dichiarato che il salvataggio in mare è un dovere e i controlli dello Stato di approdo non devono essere usati in modo arbitrario contro le ong per trattenere le navi e impedire loro di svolgere il proprio lavoro".

L'Italia "non può pretendere una certificazione che non esiste e che il numero di persone salvate non è un motivo di fermo. I controlli dello Stato di approdo devono essere effettuati quando previsto o con valida motivazione".

"Il fatto che i controlli dello Stato di approdo vengano effettuati sulle navi delle ong - aggiunge Sea Watch - è per noi un fatto positivo. Il loro scopo è quello di garantire la sicurezza delle navi, che consideriamo molto importante. I controlli arbitrari, invece, devono finire".

La Corte di Giustizia dell'Unione Europea, spiega ancora Vassallo Paleologo, ha "demolito due dei capisaldi delle motivazioni con cui le Capitanerie di Porto su evidente indirizzo ministeriale, e con l'ausilio di una specifica squadretta di ispettori, avevano ordinato il fermo amministrativo per diversi mesi, a partire proprio da quell'anno, delle navi Sea Watch 3 e Sea Watch 4.

Nel caso della Sea Watch 4 la nave era rimasta bloccata nel porto di Palermo addirittura per sei mesi, e poteva ripartire soltanto nel mese di marzo del 2021".

"Per i giudici europei, e secondo la logica del diritto, non disgiunta da un minimo di umanità - continua - non possono essere considerati 'passeggeri' i naufraghi che vengono soccorsi in mare, e le navi delle Ong non possono essere costrette a dotarsi di ulteriori certificazioni dello Stato, che è obbligato a garantire il porto di sbarco (Pos), certificazioni che in passato le autorità italiane hanno invece richiesto a loro discrezione. Nel caso dell'Italia queste certificazioni non sono peraltro previste neppure dai registri del naviglio civile ed erano frutto di richieste arbitrarie da parte delle autorità amministrative".

"Dopo i provvedimenti illegittimi di chiusura dei porti adottati da Salvini - prosegue Vassallo Paleologo - quando occupava il Viminale (che adesso si vuole "riprendere"), la gestione del ministro dell'interno Lamorgese, ancora in carica per pochi mesi, si era caratterizzata proprio per l'adozione sistematica di provvedimenti di fermo amministrativo delle navi civili che operavano soccorsi nel Mediterraneo centrale.

Con l'evidente scopo di dissuadere e di criminalizzare i soccorsi umanitari in acque internazionali, in modo da lasciare spazio libero per gli interventi di sequestro in alto mare, spacciati per soccorsi, operati dalle unità della sedicente Guardia costiera libica, sostenuta dalle autorità italiane con finanziamenti e missioni militari in Libia".

"A partire dal 2020 la misura del fermo amministrativo è diventata lo strumento ordinario di contrasto delle attività di ricerca e soccorso che le navi delle Ong tentano ancora di operare nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale.

Tra il 9 ottobre e il 31 dicembre 2020 ben sei navi delle Ong risultavano bloccate in porto per effetto di provvedimenti di fermo amministrativo (Sea Watch 3, Sea Watch 4, Eleonore, Alan Kurdi, Ocean Viking e Louise Michel).

Le informazioni su questi casi sono state sempre molto frammentarie. Ancora nel corso del 2021 le misure di fermo amministrativo avevano colpito in modo sistematico le navi delle Ong dopo l'ingresso in porto e lo sbarco dei naufraghi".

(E poi l’Europa ci impone di fornire di armi di offesa all’ Ucraina! Ndr.).

 

 

Verso un europeismo?

   Caspi.it-(3 luglio 2018)- Prof.Roberto Castaldi-ci dice :

Direttore ricerche del Centro Studi, formazione, comunicazione e sull'Unione Europea e la governance globale, Prof. Associato di Filosofia politica, Direttore del Centro di Ricerca sui processi di integrazione e governance multilivello dell'Università e Campus, Presidente del Centro regionale Toscano del Movimento Federalista Europeo, condirettore di Prospettive sul federalismo.

Ringrazio Marco Piantini, che ha posto delle domande fondamentali per provare a pensare un nuovo e più efficace europeismo. Spero che il suo contributo possa suscitare di rilanciare, in grado di riflettere e la posizione europeista in Italia.

 

L'europeismo ha avuto storicamente una forte connotazione federalista, legato italiano ad Altiero Spinelli e alla sua profonda e ramificata influenza sulla classe politica e più in generale sulla classe dirigente italiana.

Con la sua attività politica (con la fondazione del Movimento Federalista Europeo e l'interlocuzione prima con il Partito d'Azione, la DC, e poi con il PSI e il PCI per portarli sulla linea europea, fino agli incarichi di Commissario e poi di Europeo culturale e di ricerca (con la fondazione dell'Istituto Affari Internazionali, del Mulino, e la spinta alla dell'Istituto Universitario Europeo), e gli interventi nel dibattito pubblico e sui media, Spinelli ha lavorato trasversalmente la classe dirigente e l'opinione pubblica italiana.

Molte delle figure politiche legate all'europeismo hanno avuto rapporti diretti e importanti con Spinelli. Dopo di lui nessun federalista è riuscito ad avere un ruolo e ad esercitare un'influenza analoga. Ciò ha contribuito alla perdita di consapevolezza europea nelle classi dirigenti italiane sia della fragilità dell'Unione, che del fatto che la prospettiva sia indispensabile per la stabilità italiana, per il nostro progresso civile e per far fronte ad alcune debolezze strutturali che ci portiamo dietro da decenni.

Vale la pena ricordare che il Manifesto di Ventotene si apre con l'analisi della crisi della civiltà europea e dello stato nazionale. In “Machiavelli nel secolo XX”, un saggio poco noto scritto sempre a Ventotene, Spinelli osserva che le civiltà si fondano su leadership politiche che perseguono determinati valori e li realizzano almeno attraverso istituzioni idonee.

Lo Stato nazionale assoluto non era idoneo al consolidamento della democrazia, e infatti nel periodo tra le due guerre vari regimi democratici erano stati soppiantati da regime autoritari o addirittura totalitari. Il successo del processo di integrazione europea nel garantire ritmo, stabilità e benessere ha in un certo senso “salvato lo Stato nazionale” come sostiene Alan Milward.

Questo ha permesso a molti di illudersi che la democrazia liberale e lo stato di diritto siano conquiste irreversibili, che possono essere consolidati anche solo a livello nazionale. Ciò che accade in Ungheria, Polonia - e in alcune uscite del Ministro Salvini anche in Italia – ci mostra che non è così.

La civiltà europea moderna ha imparato una serie di lezioni nel modo peggiore, attraverso guerre, genocidi, crimini contro l'umanità. Il risultato è stato che l'Europa ha un livello di tutela dei diritti umani e di sviluppo dello stato sociale più avanzato delle altre aree del mondo. Oggi assistiamo a una regressione.

La riflessione di Norbert Elias sui processi di civiltà e de-civilizzazione è quanto mai attuale. I secondi si manifestano spesso in unità politiche ancora forti ma in declino, che cercano in tal modo di mantenere o recuperare un ruolo di grande potenza nel sistema internazionale. Nel mondo ormai conta solo gli Stati di dimensione continentale. Perciò negli Stati nazionali europei si diffonde la percezione di un declino inevitabile e irreversibile e si guarda ad un passato idealizzato invece che al futuro.

Oggi la scelta per gli europei è unirsi o perire.

 Arnold Toynbee ricordava che le civiltà ellenica e del Rinascimento si sono trovati nella stessa situazione di fronte all'ascesa dell'Impero macedone e di quello romano, e dei primi Stati europei moderni.

Non hanno saputo superare le loro vecchie identità culturali e sono morte. Questa è la posta in gioca del processo di unificazione europea: la sopravvivenza della civiltà europea moderna, portatrice di una condivisione della sovranità valori e di costruzione di istituzioni sovranazionali che potrebbe essere di grande utilità per il mondo alle prese con sfide globali.                               Se l'Europa non si unisce, il declino sarà irreversibile. E’ un  dato che gli ordini politici storicamente si diffondono quando hanno successo, per emulazione o per conquista.

Rispetto al tema della narrazione europeista credo sia necessario riconoscere la necessità di fondere quella dell'Europa-risorsa con quella dell'Europa-progetto.

L'europeismo istituzionale parla dell'Europa come risorsa, mette in luce i successi e i benefici dell'Unione e delle sue politiche. Ma quando la disoccupazione è al 20% l'utilità dell'Erasmus o delle soglie per l'inquinamento da polvere sottili non fanno breccia. Il federalismo europeo parla dell'Europa come progetto, ancora incompiuto e da realizzare, criticando i limiti dell'Unione attuale.

Ma così facendo non ne valorizza il ruolo e i successivi oggettivi. Sottovaluta il fatto che con la nascita dell'Europea e dell'euro per la maggior parte dei cittadini l'Europa c'è, ed è quella esistente.

 La narrazione federalista è necessaria perché riconoscendo i limiti dell'UE attuale può entrare in sintonia con la percezione sociale diffusa.

E perché è in grado di spiegare le responsabilità degli Stati nazionali nelle presunte mancanze dell'Unione. Ma ha bisogno di valorizzare maggiormente i successi per poter essere convincente al fatto che una maggiore integrazione Unione la condizione di possibilità per affrontare sia l'integrazione con i grandi problemi contemporanei: sviluppo economico sostenibile da un punto di vista sociale e ambientale, crisi geopolitiche e stabilizzazione dell'area di vicinato, e quindi gestione dei flussi migratori.

Si tratta di un compito pubblico difficile, anche perché la comunicazione è dominata dal nazionalismo metodologico, giustamente criticato da Ulrich Beck. Qualunque cosa è considerata solo da un punto di vista nazionale, anche quando quel punto di vista di coglierne il senso e le dinamiche. Ma questo è il frutto della mancanza di superiorità delle classi dirigenti politiche, economiche e culturali, e delle loro scelte. Che hanno trovato  comodo per decenni scaricare sull'Europa la responsabilità di riforme indispensabili e nell'interesse di lungo periodo del Paese, per non dover pagare un costo elettorale nel breve periodo o doversi far carico di spiegare il senso e il beneficio di quelle riforme. La politica ha abdicato al ruolo di guida.

L'esempio più lampante è l'Euro. La moneta unica ha portato immensi benefici all'Italia, in termini di abbassamento dei tassi di interesse e quindi di riduzione del costo del debito pubblico, ma anche di rilancio degli investimenti.

E ci ha protetto dallo shock petrolifero seguito all'attacco alle Torri Gemelle. Ma i cittadini si sono accorti della moneta unica non alla sua nascita il 1 gennaio 1999, ma solo all'avvio della sua circolazione fisica il 1 gennaio 2002, cioè subito dopo l'11 settembre, mentre il greggio volava da 18 fino a oltre 140 dollari al barile, provocando un enorme aumento di costi di produzione e trasporto e quindi dei prezzi di tutti i beni.

Che i cittadini hanno erroneamente attribuito alla nuova moneta. Una concomitanza nefasta ha rovinato la percezione sociale dall'euro, anche perché i media non hanno spiegato che di una mera concomitanza si trattava.

In Italia poi si è aggiunto il fatto che il governo Berlusconi e stato  inserito in carica nel 2001 e ha abolito l'obbligo del doppio prezzo gli osservatori sul “change over” scegliendo deliberatamente di usare l'avvio della circolazione della moneta come strumento di redistribuzione massiccia del reddito nazionale a danno di dipendenti e pensionati e a favore di commercianti, industriali, partite iva - che potrebbe variare i prezzi – e che considerava il suo eletto di riferimento.

Eppure oggi Berlusconi blandisce i pensionati attaccando l'euro che ha fatto aumentare i prezzi, sebbene si sia trattato di una sua scelta deliberata.

 Al contempo il significato del profondo dell'Euro non è stato compreso dalla classe dirigente italiana. Carlo A Ciampi dal Quirina ha cercato di far comprendere le perdite dell'euro, purtroppo incolta. L'ingresso nella moneta unica era l'iscrizione alla corsa, dava la possibilità di partecipare alla gara, che da quel momento in poi si sarebbe svolta attraverso l'aumento della competitività mediante le riforme, e bisognava correre.

 Noi abbiamo vissuto l'ingresso nella moneta unica come la vittoria della gara. Al termine della quale si gode il meritato riposo e si incassano i frutti: i benefici dell'euro sopra menzionati. Questo atteggiamento è una delle ragioni del fatto che in Italia la produttività non sia aumentata negli ultimi decenni, che è il problema economico più grave, e da cui discendo gli altri di cui soffriamo.

Un elemento di comune dell'europeismo – purtroppo in tutta Europa – è la sua frammentazione. Anche negli ultimi anni sono nati ovunque movimenti e gruppi europeisti in risposta alla rinascita del nazionalismo. Ma manca la capacità di coordinarsi efficacemente tra loro per fare massa critica. Da questo punto di vista il maggiore successo è stata la Marcia per l'Europa in occasione delle celebrazioni dei 60 anni dei Trattati di Roma, che ha visto in particolare il Movimento Federalista Europeo al centro di un'ampia rete.

Un secondo elemento  è anagrafico. I campioni del nazionalismo sono relativi giovani – pensiamo a Salvini e Meloni – quelli dell'Europeismo no. Con pochissime eccezioni gli europeisti visibili sono anziani e i leader politici più giovani non sono associati all'europeismo, con l'eccezione di Enrico Letta, che ora sta a Parigi. Questo dà l'assurda idea che l'Europa sia un progetto del passato e il nazionalismo del futuro.

 In realtà tutti i sondaggi europeisti che i giovani sono più, ed esiste un gran numero di europeisti giovani nel mondo della cultura e dell'associazionismo. Ma la competenza non va più di moda nella comunicazione, e nei talk show si vedono solo politici e giornalisti, mentre le voci europee non sembrano essere benvenute. I nazionalisti hanno anche avuto l'accortezza di reclutare e mandare in TV persone.   

Ciò è anche dovuto ad un paradosso politico-comunicativo: le leggi si fanno al Parlamento europeo. E i parlamentari europei il lunedì mattina partono da Bruxelles o Strasburgo, per tornare il giovedì notte o il venerdì, secondo il calendario dei lavori di quella settimana.

 In sostanza non sono disponibili a Roma per le TV nei giorni in cui si svolge la maggior parte delle trasmissioni di approfondimento politico. Nel Parlamento italiano tutte le leggi importanti passano con maxi-emendamento e fiducia sui testi governativi.

 I parlamentari hanno dunque tutto il tempo di andare in TV. I media ci dicono tutto di quel che succede nel Parlamento italiano, dove non si decide quasi nulla; e nulla di quel che accade nel Parlamento europeo, dove si decide molto di più in termini legislativi.

 

D'altronde il modo in cui si fa politica e comunicazione politica oggi in Italia è sgradevole. Non c'è una riflessione ed un'elaborazione culturale. Il gioco è a chi urla di più, a chi la spara più grossa. Le organizzazioni europee non sono state in grado di accettare la necessità di trasformare il loro modo di fare politica per far fronte a questo degrado. Né di cambiare le priorità della loro azione in termini di target. In passato la stragrande maggioranza dei cittadini europeisti, c'era un europeismo diffuso. Ciò permetteva all'europeismo organizzativo di concentrare la sua attività sulla classe politica. Oggi non è più così. È necessario trovare modi efficaci di parlare ai cittadini e all'opinione pubblica, oltre che alla classe dirigente.

Non mancano le sperimentazioni in tal senso: ad esempio Daniela Martinelli e Francesco Pigozzo hanno creato un musical sull'Unione Europea, che realizzato nel quadro di molti progetti europei e seguito da un dibattito razionale con il pubblico in sala ha coinvolto di migliaia di giovani negli ultimi anni, suscitando entusiasmo e avvicinando il pubblico anche emotivamente al processo di unificazione europea. Il musical offre peraltro una narrazione innovativa non solo per l'uso della musica e dell'arte, ma proprio per la prospettiva sovranazionale che propone. Ed è stato trasmesso con successo in televisione in Toscana e da Rai 5 e Rai Scuola. Ma in assenza di adeguate sponde istituzionali anche queste innovazioni di successo non riescono a divenire strutturali e capillari.

In certo il problema di leadership che affligge l'Europa in termini di un certo campo i del governo dei Capi di Stato, e di trovare si manifesta anche nel dell'europeismo, Spinelli non ha saputo trovare la leadership in grado di coordinare la variegata europeista.

Questo si manifesta anche nella ridotta capacità di individuare in anticipo le grandi tendenze del processo e di facilitarne l'esito. L'UE è ormai un sistema di governo multi-livello quasi-federale, seppure schizofrenico. Nel senso che su alcune materie ha mantenuto una governance intergovernativa fondata sull'unanimità – difesa, fiscalità, bilancio, riforma dei Trattati - o comunque sul veto per i Paesi più grandi, come nel Meccanismo Europeo di Stabilità, dove l'hanno Francia e Germania .

Su altre – mercato unico, moneta, ambiente, commercio e in misura ridotta giustizia e affari interni – ha una governance sovranazionale con un legislativo bi-camerale (Parlamento e Consiglio dell'UE), un giudiziario federale (la Corte di Giustizia) e una Banca Centrale federale (la Banca Centrale Europea), ma mantiene un potere bi-cefalo diviso tra Commissione e Consiglio Europeo.

Molti europei ritengono che la forma di governo ideale per un'Europa federale sia quella parlamentare, con il rafforzamento ulteriore del processo degli Spitzenkandidaten e della Commissione. Al contempo però il modo più rapido per arrivare al rafforzamento dell'esecutivo europeo sarebbe probabilmente la forma presidenziale con la fusione delle Presidenze della Commissione e del Consiglio Europeo in un Presidente dell'Unione eletto direttamente dai cittadini europei, preferibilmente a doppio turno.

Questa opzione darebbe una forte legittimità democratica all'esecutivo europeo e obbligherebbe i partiti europei a strutturarsi in modo più omogeneo e omogeneo. Se anche una similitudine figura avesse inizialmente solo i poteri delle attuali Presidenze.

È evidente però che entrambe le opzioni implicano che sia l'UE il quadro dell'istituzionale. Se si ritiene che questo sia possibile solo nel quadro dell'Eurozona, non si può rivolgersi alla proposta di un Ministro del Tesoro dell'Eurozona (anche vicepresidente della Commissione), incaricato di gestire un bilancio fondato su una capacità fiscale e di prestito, che rafforzerebbe la prospettiva di un governo parlamentare.

L'elezione diretta di un Presidente dell'Unione sarebbe invece la scorciatoia istituzionale per superare rapidamente sia i confini nazionali della lotta politica che la discrasia attuale per cui le politiche vengono decise a livello europeo, ma la lotta politica resta nazionale. È questa dicotomia che sta contribuendo ad erodere le democrazie nazionali, e ad alimentare il nazionalismo sovranista in salsa populista.

Ma aldilà della visione dell'Europa futura, vi è una scadenza più immediata che diventerà inevitabilmente lo scontro tra le forze europeiste e quelle nazionaliste: le elezioni europee del 2019.

Inevitabilmente esse diventeranno il momento dello scontro tra il nazionalismo in salsa populista e la prospettiva europeista.

I partiti sedicenti europeisti godono di  una larga maggioranza nel Parlamento Europeo. Ma non sfruttano l'attuale posizione di forza per riformare l'Unione, sfruttando il potere di iniziativa di una riforma dei Trattati finalmente concesso al Parlamento dal Trattato di Lisbona. Sono paralizzati dalla paura che alle europee vincano i sovranisti. Così danno l'idea che l'Unione sia irriformabile. In parte il problema dell'europeismo tradizionale è che in passato poteva piccoli passi che non comportassero la creazione di una vera sovranità europea – era asintotico rispetto alla Federazione: ci tendeva senza raggiungerla mai. Ormai il processo di unificazione è andato così avanti, e le sfide economiche e geopolitiche di fronte a noi sono talmente gravi, che o l'europeismo diviene federalismo europeo o non ha senso.

Molti, giustamente, notano che il freno è venuto soprattutto dal Partito Popolare Europeo, che si ostina a tenere al suo interno partiti come Fidesz di Orban e altre forze ormai con posizioni nazionaliste e di estrema destra: un po' nell'illusione di poterle così controllare e ammorbidire, un po' per evitare che vadano a rafforzare numericamente i gruppi ulteriormente anti-europei, un po' per rimanere il primo gruppo al Parlamento Europeo con tutti i vantaggi che ne derivano. Ma non vanno sottovalutate le resistenze presenti anche nel gruppo Socialista e Democratico, in quello Liberal-democratico e nei Verdi, in cui pure sono presenti partiti nazionali sostanzialmente sovranisti.

Tutto ciò potrebbe aprire la strada ad un accordo tra Socialisti e Democratici da un lato e Liberal-democratici dall'altro – e forse i Verdi - con l'apporto di Macron e con un/a candidato/a comune alla Presidenza della Commissione europea su una piattaforma popolare un europeo radicale, che potrebbe consentire di battere il candidato per la Presidenza della Commissione. Sarebbe anche una scelta coerente con il fatto che i grandi politici in realtà tendono a votare insieme al Parlamento europeo su testi gruppi lungamente negoziare tra loro. Le resistenze vengono a livello nazionale dove spesso le componenti nazionali dei Gruppi europei sono invece in lotta tra loro, come nel caso dei Ciudadanos (che fa parte del Gruppo liberal-democratico) e dei Socialisti spagnoli, o dei socialisti francesi (quasi scomparsi in Francia .

Una simile alleanza potrebbe farsi portavoce delle riforme necessarie ad un'Europa solidale e che protegge dal punto di vista dello sviluppo economico, dell'occupazione, del modello sociale europea, della lotta alla diseguaglianze, valorizzando l'azione europea contro l'evasione e l 'elusione fiscale ad opera delle multinazionali, piuttosto che le proposte per una carbon tax, una tassa sulle operazioni finanziarie speculative, un'armonizzazione della base imponibile per le aziende, uno strumento europeo contro la disoccupazione, ecc. Se prevarrà la linea Merkel i Popolari europei potrebbero avere una linea pro-europea soprattutto sul tema della difesa e della sicurezza, sulle attuali timide posizioni sul resto. Potrebbe essere questo lo schema per le forze europeiste per i sovranisti di destra e di sinistra.

Ma nonostante tutti i limiti e le difficoltà, questa può essere “l'ora più bella” dell'Europeismo. Secondo William Riker storicamente le federazioni per integrazione sono formate solo di fronte a gravi minacce sul piano della sicurezza. L'Unione è circondata da crisi geopolitiche, da est a sud, e dalle conseguenze in termini di flussi migratori e di rifugiati. La minaccia del terrorismo e del cyber warfare incombe.

Gli attacchi di Trump all'UE sono pressoché quotidiani ed è palese che agli USA non interessa più la sicurezza europea. Un nuovo ordine mondiale si sta plasmando in cui conta solo gli Stati di dimensioni continentali. Modelli alternativi alla democrazia liberale si stanno proponendo dentro e fuori l'Europa. Dall'unità politica dell'Europa dipende il futuro della democrazia nel continente.                                 

 

 

 

 

Una nuova nebbia di guerra.

Legrandcontinent.EU- Lorenzo Castellani-(15 -3-2022)- ci dice :

 

L'invasione dell'Ucraina ci avvicina alla fine di un mondo, e ci allontana dalla fine dell'interregno. La forma del nuovo ordine globale continua a delinearsi sotto i nostri occhi, sempre più precisa, sempre più inquietante - fino alla prossima crisi.                                                        

Cambio di paradigma.

Qualche mese fa su queste colonne ho cercato di descrivere il nuovo volto del potere politico dopo gli effetti della pandemia di Covid-19. Su quella analisi oggi si innesta il nuovo disordine mondiale, inveratosi in forma militare, prodotto dal conflitto tra Russia e Ucraina.

Non si tratta di una guerra come quelle che abbiamo vissuto negli ultimi trent’anni: non è una guerra civile; non è una guerra terroristica; non è mossa da o verso Stati falliti e precari; ma è una guerra nel cuore dell’Europa tra due paesi sovrani.

 O, meglio, è un’invasione russa motivata da obiettivi imperialistici, di potenza e di sicurezza. Il luogo della guerra, alle soglie dei confini dell’Unione Europea, ed il tempo, dopo una lunga pandemia e impetuosi cambiamenti economici, sociali e tecnologici, rendono lo spettro del suo impatto particolarmente ampio anche se oggi non ne conosciamo l’esito.

Il paradigma economico è mutato in modo inesorabile negli ultimi due anni, consumando definitivamente un assetto che si era stabilito nel corso degli anni Novanta e che ha iniziato il proprio processo di deterioramento già a partire dalla crisi economica del 2008.

 In tutto l’Occidente, politiche espansive dei governi e delle banche centrali sono tornate alla ribalta.

Una tendenza iniziata con la risposta americana, e obamiana, alla crisi del 2008 e arrivata in Europa soltanto con il “whatever it takes” dell’allora governatore della Banca Centrale Europea Mario Draghi.

La pandemia ha accelerato questo processo di svolta, in Europa con il varo del PNRR e la sospensione del patto di stabilità e negli Stati Uniti con un massiccio piano di stimoli fiscali voluto dall’amministrazione Biden.

Il mondo è entrato lentamente e di soppiatto in una nuova guerra fredda.

(LORENZO CASTELLANI).

Questo cambio di paradigma sfrutta la necessità di rispondere alla pandemia e alle sue chiusure, ma s’inserisce anche in un contesto mutato della politica internazionale.

 Il mondo è entrato lentamente e di soppiatto in una nuova guerra fredda. Politiche protezioniste americane inaugurate da Obama sono proseguite con maggior vigore durante la travagliata presidenza di Donald Trump.

 Esse sono dovute, in particolare modo, alla necessità di fronteggiare lo sviluppo della potenza economica e tecnologica cinese da un lato e a quella di fornire una risposta alle pressioni interne derivanti dalla de-industrializzazione.

Tentativi di reshoring, cioè di rimpatrio della produzione sul suolo americano, sono oramai in corso da un quinquennio. Su questo c’è una continuità evidente tra amministrazioni di colore diverse. Ad esse si accompagnano un maggior controllo degli investimenti esteri sul suolo americano, politiche di protezione dell’arsenale tecnologico e digitale della prima potenza occidentale.

Una nuova guerra fredda.

Questa postura anti-cinese degli Stati Uniti ha prodotto riflessi anche nel campo europeo, basti pensare anche qui al controllo degli investimenti con le golden rule e al controllo sull’approvvigionamento di tecnologie e sistemi di difesa.

 Dunque, lo Stato, in tutto l’Occidente, si è mostrato maggiormente interventista in tre aree: monetaria ed economica per rilanciare la crescita; sicurezza, per controllare la scalata dell’influenza cinese; welfare, al fine di ammorbidire un’opinione pubblica sfiancata dalla stagnazione socio-economica e sedotta negli ultimi anni dalle sirene populiste, anti-establishment e nazionaliste.

In Europa, ciò ha determinato un rafforzamento delle istituzioni dell’Unione Europea che hanno guadagnato una maggiore centralizzazione sul piano economico e delle politiche pubbliche. Bruxelles pianifica e controlla di più rispetto al passato.

 Il pacchetto del Next Generation EU nasce per necessità economica e sociale di fronte allo shock pandemico, ma rappresenta anche l’opportunità per un balzo in avanti a-simmetrico, poiché non politico-costituzionale ma economico-funzionale, di un processo di integrazione che si era arenato negli ultimi anni.

 In questa dinamica si è innestato un paradosso: l’establishment europeo si è appropriato di soluzioni che fino a qualche anno fa appartenevano a partiti di protesta ed intellettuali fuori dal mainstream oppure a correnti minoritarie delle grandi formazioni di governo centriste.

 Un cambiamento di rotta che ha permesso ai partiti moderati, spesso rinnovati nelle leadership e nella forma, basti pensare a Macron o ai verdi tedeschi, di mantenere l’ordine politico e piegare le pulsioni anti-europeiste.

Oggi, dunque, i paesi europei sono maggiormente interdipendenti, ma all’interno di una cornice economica e culturale differente. Anche se i due poli opposti faticano ad ammetterlo si è di fatto giunti ad una integrazione tra europeismo e sovranismo, soprattutto nei paesi dell’eurozona.                               Un compromesso necessario tra alto e basso per la sopravvivenza dell’Unione e della classe dirigente europea. Nessuno oggi può con serietà pensare disconnettersi dal sistema o rendersi totalmente indipendente dagli altri paesi europei, ma al tempo stesso elementi di sovranità sono necessari per affrontare incertezze economiche e insicurezze globali.

Ciò ha delle implicazioni anche su altri fronti globali, come ad esempio quello della lotta al cambiamento climatico. È oramai chiaro che la transizione ecologica non potrà procedere ai ritmi immaginati dai governi occidentali, ma che servirà una maggiore gradualità nel disegnare e attuare politiche green.

Se le energie pulite continueranno ad essere finanziate, forme di pianificazione e regolazione troppo aggressive sembrano destinate ad essere riposte nel cassetto. I rischi di approvvigionamento, la crisi energetica, l’inflazione, la potenziale disoccupazione in alcuni settori industriali a causa delle politiche verdi e ora la guerra costringono l’ideologia ambientalista ad un” redde rationem” con la realtà presente.                                          Al tempo stesso è anche vero che le nuove fonti energetiche sono funzionali ad un disegno di emancipazione dei paesi europei da fornitori esterni di gas e petrolio, propedeutiche ad un salto in avanti dell’autonomia energetica europea. Serviranno anni di ricerca e investimenti, ma lo sviluppo di nuove tecnologie verdi resterà una priorità in ottica strategica prima che etica.

 L’eccessiva dipendenza dalla Russia e dall’instabile contesto medio-orientale non potrà che essere assottigliata attraverso una graduale transizione verde e dal ripristino dell’energia nucleare.

L’establishment europeo si è appropriato di soluzioni che fino a qualche anno fa appartenevano a partiti di protesta ed intellettuali fuori dal mainstream.

(LORENZO CASTELLANI).

Sul piano interno, gli Stati sono stati costretti ad una regolazione minuziosa e penetrante per fronteggiare la pandemia.

Restrizioni, obblighi e nuovi poteri e istituzioni sono stati legittimati facendo leva sulla paura della malattia.

Tanto l’opinione pubblica quanto il potere politico istituzionalizzato sembrano quindi già preparati per sopportare uno shock securitario legato al deterioramento delle relazioni internazionali.

 La pandemia ha mostrato quali meccanismi di delegittimazione politica possono scattare di fronte all’emergenza, come il discredito dei rappresentanti no-vax e una convergenza al centro per la gestione dell’emergenza con lo smussarsi delle ali estreme.

Se si guarda ai paesi europei, un evento di enorme impatto come la pandemia non sembra aver più di tanto indebolito i governi che erano in carica o le coalizioni sottostanti. In alcuni casi, al contrario, i governanti si sono rafforzati. Anche in Italia, dove c’è stato un cambio di governo, si è formata con relativa facilità e tranquillità una nuova maggioranza intorno a Draghi e questo governo ha operato con un generalizzato sostegno nelle forze politiche e nella popolazione.

 In generale, insomma, l’emergenza ha, almeno fino a questo momento, generato stabilità e cristallizzato gli equilibri. La guerra in Ucraina può potenzialmente contribuire a rafforzare questa tendenza, a meno che le sue spinte deflagratici non diventino tali da scatenare un conflitto mondiale nel medio periodo.

 Un’altra emergenza, ben più pericolosa della pandemia, spingerà i governi ad un’ulteriore centralizzazione e ad una rafforzata cooperazione internazionale con integrazione ulteriore delle istituzioni comuni.

È evidente nel caso europeo, ad esempio, che il Next Generation EU non potrà che essere il punto di partenza di nuove politiche espansive e che il ritorno alla disciplina di bilancio è sostanzialmente impraticabile.

Si dovrà trovare un compromesso accettabile tra i fautori dell’austerità, ancora influenti nell’establishment tedesco e nei paesi settentrionali, e chi vorrebbe maggiore spesa pubblica a fronte di debiti pubblici in aumento costante.

È probabile che il punto di caduta possa essere uno scorporo degli investimenti in transizione ecologica, difesa e infrastrutture strategiche dalla tradizionale disciplina bilancio. Una politica economica, insomma, che s’inserisce in un nuovo contesto globale in cui si modificano costantemente i poteri coinvolti.

 Il conflitto ucraino pone infatti le basi per una nuova militarizzazione dell’Europa di fronte al ritorno della guerra nel continente dopo decenni di pace.

Il potere militare era stato relegato in un angolo della mente europea, rimpiazzato da quello politico, amministrativo ed economico, ma oggi torna a far parte dell’architettura di potere del continente.

 Le implicazioni socio-politiche saranno rilevanti: alla paura della pandemia si passa a quella della guerra.

 La domanda di sicurezza e di controllo verso la politica da parte dell’opinione pubblica è verosimilmente destinata a crescere e di conseguenza la richiesta di ricostruire uno “Stato protettore”.

Molto dipenderà dalle forme di questa ri-militarizzazione, se avverrà cioè interamente all’ombra della NATO, o se, invece, assumerà una forma autonoma europea con un grado di coordinamento e integrazione tra eserciti che oggi è ancora tutto da pianificare.

 In ogni caso sembra di essere ad un punto di svolta e la gestione di questa transizione militare sarà fondamentale per i destini europei. Una ri-militarizzazione nazionale, cui segue il perseguimento degli interessi sovrani, può determinare spinte disgregatrici dell’ordine europeo.

Al contrario un rinsaldarsi della partnership euro-atlantica, con una maggiore autonomia militare europea attraverso forme di coordinamento sovranazionale, potrà integrare e connettere meglio la sicurezza e la difesa del continente e del blocco occidentale.

Il culmine del processo di istituzionalizzazione delle aggregazioni politiche risiede da sempre nella creazione dell’esercito e della sua burocrazia. Soltanto ciò fornisce la possibilità di continuare la politica con altri mezzi. L’Europa non è riuscita a crearli perché fino a oggi ha ucciso la politica. Senza politica non esiste minaccia della guerra e senza capacità di minacciare la guerra non esiste l’Europa come soggetto delle relazioni internazionali. Di fronte alla paura del nemico, belligerante sui confini dell’Unione, sembra potersi aprire una nuova finestra di opportunità per l’avvio di un processo costituzionale europeo che superi il mito funzionalista ed economicista oggi prevalente e proietti l’Unione verso un futuro più intensamente politico, pur nelle sue forme istituzionali peculiari. Dalla ricostituzione politica del potere militare passa il futuro del continente nel sistema di potere globale.

Senza politica non esiste minaccia della guerra e senza capacità di minacciare la guerra non esiste l’Europa come soggetto delle relazioni internazionali.

(LORENZO CASTELLANI).

Di fronte alla crisi ucraina la disciplina politica interna agli Stati, inoltre, si intensificherà: per partiti o leader politici di simpatie filo-russe, filo-cinesi o NATO-scettiche sarà più difficile arrivare al governo, indipendentemente dallo schieramento di appartenenza.

Le élite politiche moderate, europeiste e atlantiste – coadiuvate da quelle economiche, finanziarie e amministrative – tenderanno ad essere più unite, attratte da una forza centripeta. Gli spazi del pluralismo quasi inevitabilmente si stringeranno, almeno fino a quando ci sarà un nemico minaccioso vicino ai paesi europei.

 Gli stati sembrano già attrezzati per entrare in assetto semi-bellico. La storia mostra come la guerra reclami più esperti settoriali, specialisti, scienziati, manager al governo, una eventualità che si è già consolidata negli scorsi decenni e ancor di più con l’emergenza sanitaria.

 La maggior spesa militare, la crescita dell’allerta dell’intelligence, forme di controllo economico più stringente, un ruolo sempre più decisivo delle banche centrali richiederanno ulteriori dosi di tecnocrazia. I confini tra pubblico e privato diverranno più sfumati, con un capitalismo politico rafforzato che negli ultimi anni si è già manifestato nelle principali potenze.

Sul piano globale, l’accorciamento delle” supply chain” e le difficoltà nell’approvvigionamento delle materie prime dovute alla crescita della domanda e alle tensioni geopolitiche costringeranno le economie nazionali a ridurre il proprio raggio d’azione.

 Un raggio non più completamente globale, ma regionale.

Ci saranno settori che, soprattutto in Europa, saranno destinati a soffrire, ridursi o trasformarsi. L’approvvigionamento energetico verrà progressivamente diversificato ma per farlo ci sarà bisogno del sostegno dello Stato.

 Il mondo sarà maggiormente ridotto in blocchi, aggregazioni regionali sovranazionali, appunto, mentre alcuni Stati autoritari (come Russia e Cina) vireranno verso forme semi-autarchiche.

Ciò non significa un’automatica contrapposizione politica ed economica in blocchi tra democrazie liberali e autoritarismi – poiché nel mezzo ci sono molte forme ibride e posizioni geopolitiche specifiche – ma è possibile che l’ordine globale si strutturi secondo criteri più imperialistici con un’aspra contesa nelle aree di cesura e dalla debole istituzionalizzazione.

Nemico attivo, nemico passivo.

La consunzione definitiva dei rapporti con la Russia dell’Occidente, e la sua definitiva svolta verso una politica di potenza imperialista aggressiva verso l’Europa, incasella questa nazione nel campo del nemico attivo.

 Ciò significa che il modello politico putiniano, fondato su un autoritarismo centralizzato percepito come conservatore da Occidente, difficilmente potrà più fungere da palese ispirazione a partiti e movimenti culturali europei.

 La fascinazione per un modello trasformatosi apertamente in nemico è destinata ad affievolirsi e a sbarrare la strada ai tentativi di legittimazione del sistema russo entro i sistemi politici europei.

 Le leve d’influenza putiniane subiranno una battuta d’arresto. Non resta quindi che un solo modello alternativo potente alla democrazia liberale occidentale che è l’autoritarismo capitalista cinese.

Il rapporto con la Cina è destinato a fare discutere ancora poiché oggi il regime di Pechino – al contrario della Russia di Putin – riveste il ruolo di nemico passivo.

 Alcune frange dell’establishment intellettuale e politico continueranno a guardare con interesse all’unico modello alternativo alla democrazia liberale, che vuole porsi agli occhi occidentali come roccaforte della meritocrazia, del progresso tecnologico e del successo economico nascondendo la sua struttura totalitaria.

Almeno sino a quando non ci sarà una tensione militare esplicita con l’Occidente, pontieri con Pechino ed estimatori del suo modello organizzativo-decisionale continueranno ad essere presenti nei nostri paesi con l’obiettivo di sottolineare la moderazione e la razionalità del regime cinese per accrescerne il soft power.

 Non mancheranno, insomma, pezzi del sistema occidentale che si dedicheranno a fare intelligenza, come succede oramai da anni, con un nemico per ora freddo.

Il rapporto con la Cina è destinato a fare discutere ancora poiché oggi il regime di Pechino – al contrario della Russia di Putin – riveste il ruolo di nemico passivo.

(LORENZO CASTELLANI).

Da ultimo ci sono i segni di un cambiamento culturale. Un certo realismo dovrebbe tornare a prevalere sul liberalismo internazionalista. La guerra squarcia la possibilità di regolare il mondo con il diritto e l’economia.

 La legge è un’invenzione dell’umanità per frenare il forte e tutelare il debole, ma la storia la sovverte di continuo.

Al tempo stesso la politica non può ridursi a meccanica economica, pena l’illusione di vedere un mondo piatto e raziocinante in superficie sottovalutando il magma impetuoso dei suoi abissi.

Il disordine e le tragedie prosperano quando viene meno la politica internazionale fondata sull’arte della diplomazia, che stabilisce come si organizzano gli spazi geopolitici del pianeta tra attori istituzionalizzati.                   

È ora di chiudere il tempo dei trattati che, come quello di Minsk dimostra, hanno impatto limitato o nullo. Sarà opportuno tornare presto a quel sistema di pensiero neo-westfaliano, e alla sua conseguente prassi, immaginato da Henry Kissinger e dimenticato negli ultimi due decenni di politica internazionale, dove si è preferito distruggere la solidità istituzionale di alcune realtà a favore di una spinta ideale disgregatrice incapace di produrre state-building e quindi possibilità di ordine.

Solo la politica, attraverso la diplomazia, può essere il preludio, o meglio la condicio sine qua non, per siglare accordi militari, economici, spaziali duraturi tra entità istituzionali solide.

Ciò vale a maggior ragione in un sistema caratterizzato sempre di più da spinte neo-imperiali in cui è opportuno segnare confini e cuscinetti tra zolle tettoniche geopolitiche per preservare la pace.

Pare avviarsi dunque alla conclusione definitiva la stagione di una cultura ottimistica, saldatasi negli anni Novanta, che ha creduto in meccanismi automatici impolitici e apolitici come garanzia nella produzione di progresso, ordine e sicurezza.

 Termini e concetti come difesa, confini, deterrenza, sicurezza, interesse nazionale, alleanze militari torneranno ad animare le nostre notti.

È un mondo nuovo: più solido e duro all’interno, più aggressivo e bellicoso all’esterno. Almeno fino a quando la prossima crisi non ne scuoterà ulteriormente l’essenza.

 

 

 

“Dopo l’Ucraina, serve un nuovo

piano di ripresa”,

una conversazione con Pascal Lamy.

Legrandcontinent.EU-(7-3-2022)- Gilles Gressani- Pascal Lamy- ci dicono :

 

A pochi giorni dal vertice di Versailles e una settimana dopo gli sconvolgimenti nell'UE e il discorso di Olaf Scholz sulla difesa, abbiamo chiesto a Pascal Lamy di proporre una diagnosi e indicare alcune prospettive.

Per molto tempo è stato al centro della costruzione europea. Potrebbe aiutarci a capire cosa sta cambiando dall’invasione russa dell’Ucraina? In pratica, cosa è successo lo scorso fine settimana a Bruxelles?

Penso che abbiamo vissuto un ulteriore passo nella trasformazione dell’Unione Europea in una vera potenza. L’accordo che consente di finanziare a livello europeo 500 milioni di aiuti militari per sostenere l’esercito ucraino è un passo simbolico molto importante. Se lasciamo da parte il simbolismo, il fatto più sorprendente in questo processo è il pacchetto massiccio e senza precedenti di sanzioni europee.

 

Putin sta assediando Kiev, noi stiamo assediando l’economia russa, ovvero il suo punto debole rispetto alla sua potenza militare. Le sanzioni contro il sistema finanziario portano alla creazione di un rapporto di forza tra l’attacco militare russo all’Ucraina e la risposta economica occidentale.

Pensa che questa forma di risposta permetterà di cambiare concretamente i rapporti di forza in Ucraina? Quali sono i rischi che spostando il campo di confronto si finisca per innescare un processo di escalation?

Non credo che Putin avrà il sopravvento in una lotta di questo tipo e credo che alla lunga l’equilibrio di potere si sposterà dalla parte dell’Occidente. Sono d’accordo con l’articolo di Jeangène -Vilmer, Putin ha già perso la guerra e questo è il problema.

Non si parla ancora abbastanza di come uscire dalla crisi, ma la questione è urgente.

O Putin sarà rimosso dal potere da una destabilizzazione politica interna alla Russia – il che sembra improbabile al momento – o gli si dovrà offrire una via d’uscita una volta raggiunto il giusto equilibrio di potere. Nel frattempo, dovremo probabilmente interrompere le importazioni di gas e petrolio russo, cosa che l’opinione pubblica di diversi Stati membri, tra cui la Germania, comincia a chiedere a gran voce.

Le sanzioni contro il sistema finanziario portano alla creazione di un rapporto di forza tra l’attacco militare russo all’Ucraina e la risposta economica occidentale.

(PASCAL LAMY)

Torniamo per il momento all’Unione. Sta attraversando un “punto di svolta”?

Sì e no. Non è ‘il’ momento che cambia tutto. Come mostra la vostra ultima mappa, c’è una convergenza comunitaria senza precedenti su questioni puramente westfaliane, ma non dobbiamo sognare!

 L’uso di fondi del bilancio UE per la difesa rimane proibito dai trattati. Sono quindi gli Stati membri che si impegnano a inviare aiuti militari all’Ucraina nel quadro di un meccanismo europeo extra-bilancio.

Fondamentalmente, è come il piano di recupero europeo del 2020, che non è stato il momento hamiltoniano che alcuni si aspettavano, ma ha rappresentato comunque un punto di svolta. Siamo in una fase storica di una successione di eventi che segnano il cammino dell’Unione verso il potere, nel senso gramsciano, e la concretizzazione di una capacità europea di cui il famoso “whatever it takes” di Draghi è un altro episodio chiave.

Ognuno di questi tre passaggi sembra cortocircuitare dei tabù che avevano un rapporto particolare con il ruolo della Germania…

In effetti, in tutti e tre i momenti, è stata l’ancora tedesca a dover intervenire, promuovendo l’evoluzione generale dell’Unione.

Quando, nel 2012, Mario Draghi ha pronunciato la famosa frase “whatever it takes“, ha superato le disposizioni del trattato di Maastricht sulla questione della monetizzazione dei debiti pubblici nella zona euro, anche se i tedeschi avevano esplicitamente richiesto questa garanzia per accettare il trattato.

 Nel 2020, con il piano Next Generation EU, è stato un secondo tabù tedesco a cadere, poiché Angela Merkel aveva regolarmente detto che non avrebbe mai accettato un debito comune europeo. La mattina di domenica scorsa, infine, un terzo tabù è caduto in Germania, quando il cancelliere Scholz ha annunciato il rafforzamento militare del paese.

Come spiega queste trasformazioni da parte della Germania?

Ognuno di questi sviluppi è stato preparato da una serie di cambiamenti di narrazione. Quando Angela Merkel ha detto che con Donald Trump avremmo dovuto assumerci da soli la responsabilità della nostra sicurezza, ha causato uno shock nello spazio politico tedesco che ha preparato il discorso di Olaf Scholz. Il ministro federale dell’economia e dell’energia, Peter Altmaier, ha reso possibile il passaggio dall’ideologia di Bruxelles alla politica industriale…

Tutti questi cambiamenti di narrazione, presi insieme, si muovono nella direzione di una maggiore integrazione europea, con l’eccezione della Brexit, che però potrebbe anche essere vista come un altro evento facilitatore.

Se spingiamo l’analisi sulla Germania un po’ più avanti, vediamo che sono i governi piuttosto di destra che hanno dovuto ingoiare l’eterodossia fiscale e finanziaria, ed è un governo piuttosto di sinistra che sta uscendo dall’ortodossia pacifista della Germania.

(PASCAL LAMY)

Una delle cose sorprendenti quando si legge il discorso di Olaf Scholz, ma che era già presente nel contratto o nel pre-programma della coalizione tedesca, è che ci si rende conto che parole come “autonomia” o “sovranità”, che sono state respinte a priori due anni fa dalla presunta successora di Angela Merkel, Annegret Kramp-Karrenbauer, sono ora al centro del software tedesco.

Non c’è dubbio che il discorso di domenica mattina è un punto di svolta per la Germania e quindi un’inflessione per l’Europa.

È un’inflessione verso la Francia?

L’ideologia francese sulla dinamica europea è sempre consistita nello scambiare il ricordo della potenza nazionale con il progetto di trasmutazione di queste potenze nazionali a livello europeo. Questa è una delle ragioni per cui De Gaulle vi aderì – e anche per delle ragioni economiche che gli erano meno familiari.

L’idea di una “Europa Grande Francia“, di un’Europa attraverso la quale la Francia sarebbe diventata “Great Again“, è sempre esistita. È gollista, mitterrandiana e macroniana. L’idea che il potere pubblico abbia un ruolo nell’economia, nella società, che va al di là di ciò che prescrive l’ordoliberalismo, è sempre stata francese.

Da questo punto di vista, la Francia non si è mossa, è la Germania che si è avvicinata, sotto la pressione degli eventi esterni, a una certa ideologia francese dell’Europa.

Anche la Francia però è cambiata molto, in questa dinamica…

Sì, è così. Ciò che la Francia ha concesso in cambio dell’ordoliberalismo non è affatto trascurabile, ed è stato fatto a dispetto della cultura francese, come la politica della concorrenza nel Trattato di Roma. Quando i francesi hanno capito, qualche decennio dopo, che il testo di un nuovo trattato costituzionale conteneva la “concorrenza libera e non falsata”, hanno votato contro.

La maggioranza dell’opinione pubblica pensava che questo fosse sbagliato, che fosse il liberalismo in marcia. In realtà, era l’ordoliberalismo in marcia, e c’è una differenza, che è ovvia quando si conosce un po’ la Germania, tra liberalismo e ordoliberalismo.

Se guardiamo al lungo termine, l’ancora francese si è spostata abbastanza verso l’ordoliberalismo e l’ancora tedesca si è spostata molto verso un’Europa che è costretta ad essere potente. Quando si legge il discorso di Scholz, si vede che non era contento, che non prevedeva un futuro radioso per la Germania non appena avesse intrapreso la strada del potere raddoppiando il suo bilancio militare. L’idea del suo discorso era piuttosto “forse avremmo dovuto, non l’abbiamo fatto, quindi ora dobbiamo”.

Questo è più churchilliano che una fuga in avanti  à la Victor Hugo.

Se guardiamo al lungo termine, l’ancora francese si è spostata abbastanza verso l’ordoliberalismo e l’ancora tedesca si è spostata molto verso un’Europa che è costretta ad essere potente.

Da qui l’ironia molto francese di questi giorni del genere “hanno finalmente capito quello che noi abbiamo sempre capito” – e che abbiamo continuato a dire ma senza la capacità di trarne le conseguenze – cioè che gli europei dovevano svegliarsi e capire che viviamo in un mondo brutale.

La geopolitica passa dalle parole alle cose…

È vero che finché la Germania era in pace con la Francia e la Russia, la dimensione geopolitica era in gran parte scomparsa dall’universo ideologico tedesco, che si era concentrato sull’economia. Lo shock del discorso di domenica mattina è che per la prima volta dopo molto tempo, uno di questi due processi di pace si è trasformato in una guerra potenziale.

Questa è, secondo me, una tensione alla quale lo spazio politico tedesco reagirà. Non credo che sia solo un altro discorso sul tema di un aumento costantemente rimandato della spesa per la difesa. C’è molto da fare per rimilitarizzare correttamente la Germania, non è solo mettendo 50 o 100 miliardi in più nel bilancio della difesa che si addestrano i soldati. C’è bisogno di una cultura strategica e di una capacità operativa. C’è una differenza tra la capacità di finanziare le attrezzature e le prestazioni militari sul terreno.

Penso che dobbiamo introdurre nella riflessione la dimensione della durata ed esaminare il processo in cui ci troviamo e in cui abbiamo fatto un grande passo avanti con la preparazione delle sanzioni e il discorso tedesco di domenica.

Potremmo dire che l’Unione sta attraversando un “momento schmittiano“, caratterizzato dalla comparsa improvvisa di un nemico comune nella massima intensità politica della guerra? Questa politicizzazione non mira forse a trasformare l’aspetto tecnocratico, a volte apolitico, della costruzione europea? La “commissione geopolitica” voluta da Ursula von der Leyen potrebbe finire per prendere forma attraverso il confronto con Putin?

La presidente della Commissione è un ex ministro della difesa tedesco.

Ovviamente, il simbolismo è forte quando parla di un “momento cruciale”. Anche qui, la narrazione è probabilmente ancora un po’ in anticipo. Ma non è un problema essere in anticipo sulla realtà, quando si esprime una speranza e ci si danno i mezzi per andare avanti.

Personalmente, credo che stiamo attraversando un Rubicone dopo l’altro, per così dire, verso la potenza europea. Le circostanze particolari, legate all’invasione russa dell’Ucraina, stanno producendo in un certo senso questa energia politica. Ma non sottovaluto l’energia tecnocratica che ci è voluta per mettere in fila un pacchetto di sanzioni europee con gli americani in un periodo di tempo così breve.

Stiamo attraversando un Rubicone dopo l’altro verso la potenza europea. Le circostanze particolari, legate all’invasione russa dell’Ucraina, stanno producendo in un certo senso questa energia politica.

(PASCAL LAMY).

 

Come si spiega la velocità di questa reazione? Ci sono voluti anni per arrivare al “whatever it takes” di Draghi, qualche settimana per arrivare al Recovery Plan, qui sono bastati dei giorni…

 

Catturare il manto della storia mentre passa! “Der Mantel der Geschichte ergreifen” disse Kohl, citando Bismarck, al momento della caduta del Muro, quando tutti i suoi consiglieri cercavano di dissuaderlo dall’allineare il marco orientale con quello occidentale. Fino a venerdì, c’erano tensioni intorno alle posizioni di Italia, Germania e Irlanda, che inizialmente avevano il riflesso di voler preservare i loro interessi economici. E poi il mantello della storia è passato.

Noterete che ognuna delle tre pietre miliari che segnano il percorso della potenza europea sono state causate da drammi esterni. La crisi dei subprime ha infettato l’economia europea. Il Covid-19 ci ha infettato.

E Putin vuole la guerra per infettare l’Europa. Ovviamente non è la tradizionale macchina di compromesso europea tra i 27 che è stata la causa di queste trasformazioni, ma possiamo vedere che sta imparando a reagire più rapidamente. Uno spazio politico diverso dal mondo westfaliano può così emergere. Spero solo che la strada verso il potere europeo, e sarà ancora lunga, non sia sempre segnata da disastri.

(PASCAL LAMY).

 

Dovremmo strutturare questo processo su base più istituzionale, per esempio rivedendo i trattati?

Non credo che siamo sull’orlo di un grande cambiamento istituzionale. Ognuno di questi grandi momenti di inflessione ha avuto luogo su una “base istituzionale uguale”. Come Jacques Delors, mi ritengo più un “funzionalista”: prima il carro del progresso, poi il bue istituzionale per tirarlo se necessario. Se questa guerra dura, i danni collaterali per l’Europa e il mondo saranno significativi in termini economici. È meglio iniziare con qualcosa di concreto, qualcosa che la gente senta.

Da dove cominciare?

Dobbiamo pensare a due misure: un pacchetto economico comune simile a quello del 2020 per ammortizzare lo shock energetico e inflazionistico;

 e mettere sul tavolo un concetto di relazioni tra Europa e Russia, al riparo dall‘ideologia putiniana, che considera il mondo russo come l’ultimo faro della civiltà occidentale in un mondo decadente.

Dobbiamo rivolgerci al popolo russo e dirgli che siamo pronti a collaborare in diversi settori, tornando alla relazione Europa-Russia di vent’anni fa.

Ho avuto l’opportunità nel 2004 di discutere con Vladimir Putin, quando stavamo negoziando le condizioni per l’accesso della Russia all’OMC, un’integrazione avvenuta con quasi dieci anni di ritardo a causa del veto americano.

 All’epoca, eravamo d’accordo tra europei e russi per lanciare una zona di libero scambio tra l’Unione europea e la Russia.

Vladimir Putin stesso, contro il parere di alcuni dei suoi consiglieri, ha accettato, su nostra richiesta, di firmare il protocollo di Kyoto. Questo fa parte di ciò che l’Unione Europea, come potenza geopolitica emergente, dovrebbe essere in grado di fare.

 

Bisogna pensare a un nuovo piano di ripresa per questa nuova fase?

 

Credo di sì. Dobbiamo prendere in considerazione il costo della guerra per l’economia europea. I russi saranno i più colpiti da queste sanzioni, ma subito dopo l’Unione europea è la più esposta alle conseguenze economiche di queste sanzioni rispetto al resto del mondo, se non altro a causa dell’impennata del prezzo dei combustibili fossili.

 Esportiamo 90 miliardi di euro in Russia ogni anno. Questo non è il grosso delle esportazioni europee, ma è importante per dei settori redditizi, principalmente tedeschi. I nostri paesi saranno colpiti in modo ineguale e dobbiamo quindi reagire in modo solidale.

 

Altrettanto importante è allineare la traiettoria della nostra transizione climatica, la decarbonizzazione, con quella di una maggiore autonomia energetica strategica, riducendo la nostra dipendenza dal gas più rapidamente del previsto, il che implica una riorganizzazione del mix europeo che sarà costosa, anche in termini di investimenti.

(PASCAL LAMY).

 

La questione dei rifugiati e, più in generale, il rapporto dell’Unione con le migrazioni dovrebbero essere affrontati nel quadro di questo nuovo piano?

 

Sì, è molto importante. Si stima che dovremo accogliere da uno a cinque milioni di rifugiati. Si dà il caso che i paesi dell’est, che sono stati particolarmente riluttanti ad accettare i rifugiati di origine musulmana, non hanno la stessa reazione nei confronti degli ucraini.

Economicamente, se Romania, Polonia e Ungheria accoglieranno queste popolazioni, sarà un provvidenziale dividendo demografico per questi paesi, la cui paura dell’immigrazione verso altre aree europee più privilegiate è stata molto ben dimostrata da Ivan Krastev. Questa è una dimensione importante di ciò che questo pacchetto dovrebbe fare.

Possiamo anche temere delle conseguenze di questa guerra nei Balcani. La Russia potrebbe anche spingersi al loro interno come risultato dello shock che ha creato, con nuove tensioni e nuove implicazioni migratorie.

L’invasione russa è un momento che obbliga tutti i paesi a prendere posizione.

 Ci permette di vedere quali rapporti di potere tettonici stanno prendendo forma in questo momento di interregno. La base dell’analisi geopolitica fino al giorno prima dell’invasione dell’Ucraina era che la rivalità tra Cina e Stati Uniti avrebbe strutturato gli anni 2020. È ancora vero? Come definirebbe la configurazione geopolitica globale dopo l’invasione della Russia?

 

La risposta alla vostra domanda è a Pechino. Le conseguenze geopolitiche globali di questa guerra dipenderanno dall’atteggiamento della Cina, anche se non sono sicuro che la mia analisi dell’attuale posizione cinese e di ciò che diventerà sia quella giusta. Lo stesso vale per quello che mi dicono i miei amici cinesi.

Quello che la Cina ha fatto nell’ultima settimana è simile al canottaggio.

Penso che la situazione apra uno spazio importante per una Cina che voglia assumersi le sue responsabilità nell’ordine internazionale e sia disposta a cogliere questa opportunità di rimodellarlo, non a modo suo perché non ha mano libera, ma è in una posizione potenziale per svolgere un ruolo di mediazione che la storia le sta offrendo su un piatto d’argento.

(PASCAL LAMY)

 

Finora, la Cina ha beneficiato di questo ordine mondiale, anche nel WTO. Ma è rimasta critica nei confronti dell’ordine internazionale, mentre evita di assumersi responsabilità al di fuori di iniziative unilaterali come le Nuove Vie della Seta o la Banca Asiatica per gli Investimenti.

La Cina ha ora l’opportunità di farsi avanti e dire che può parlare sia con Putin che con l’Occidente.

 Naturalmente, questo presuppone che gli americani considerino che la Cina possa parlare con loro, il che non è ovvio. In ogni caso, c’è una finestra di opportunità, soprattutto se si considera che un’economia russa ostracizzata è inevitabilmente nelle mani della Cina, soprattutto nel campo della finanza. 

Qual è la sua scommessa?

La Cina giocherà le sue carte secondo i propri interessi e la propria ideologia. Xi Jinping mi sembra, purtroppo, meno razionale e più ideologico dei suoi predecessori, e potrebbe dare priorità alla rivalità con gli americani e viceversa. Ma l’opportunità di profilarsi a livello globale come “attore di pace e armonia”, per usare un concetto cinese, è buona.

 

La Cina, a un certo punto, si proporrà come arbitro, e se lo farà o no, quali saranno le conseguenze? C’è, naturalmente, uno scenario in cui la Cina è solidale con la Russia, uno scenario a cui non credo perché è troppo pericoloso per il futuro dell’economia cinese, che è molto più aperta al mondo di quella russa.

In questa scommessa che lei sta facendo di un ottimismo sull’interpretazione della Cina come una forza di stabilizzazione e ristrutturazione piuttosto che di disorganizzazione e implosione dell’ordine internazionale, l’Unione Europea avrebbe interesse ad impegnarsi nella discussione?

Naturalmente, perché tutto quello che è stato detto prima su questo progresso europeo verso la potenza, l’abbiamo detto in circostanze in cui la NATO ha recuperato tutta la sua forza e tutta la sua brillantezza, e quindi, in un’atmosfera transatlantica che sarà testata di nuovo se Trump o uno dei suoi equivalenti dovesse arrivare al potere nel 2024 – cosa che potrebbe tranquillamente accadere.

Nella nostra prima intervista, lei ha detto che l’Unione, per essere sovrana, deve passare “dal cono al cilindro”. Pensa che questa operazione geometrica sia in corso?

Sì, un primo passo è stato fatto. Il cono europeo – la cui base è economica e il cui apice è la guerra – si sta avvicinando al cilindro della sovranità, ma c’è ancora molta strada da fare nel campo tecnologico, militare e concettuale, come possiamo vedere con la famosa bussola strategica.

Siamo ancora in un cono. Anche se il centro si sta allargando, la forma del cilindro non è stata raggiunta. É ancora un po’ come una brioche, per restare alle metafore.

Quando guardiamo alla difesa europea, ci sono ancora molte questioni da affrontare, che si tratti del rapporto con la NATO o del ruolo del nucleare francese in Europa.

 Penso che ci sia ancora molta strada da fare verso una difesa europea, ma l’aggressione russa in Ucraina dimostra che è per  l’ideologia della politica estera e di sicurezza europea che passa l’azione militare.

 La ragione per cui siamo stati in grado di adottare sanzioni così forti contro la Russia, con l’unanimità di tutti i paesi membri, compresa l’Ungheria di Viktor Orban, che è un grande amico di Vladimir Putin, è a causa di un cambiamento nella percezione della minaccia russa.

Oggi, non c’è dubbio tra gli europei che Vladimir Putin è un avversario dell’Europa e dell’Occidente. Quindi c’è una percezione comune all’interno dell’Unione.

(PASCAL LAMY).

 

Finalmente sentiamo le stesse minacce, il che è necessario per sviluppare una politica di sicurezza comune. Oggi, non c’è dubbio tra gli europei che Vladimir Putin è un avversario dell’Europa e dell’Occidente. Quindi c’è una percezione comune all’interno dell’Unione. È ancora in contraddizione con le capacità militari. È un sistema interconnesso: una politica estera, all’interno di una politica di sicurezza, all’interno di una politica di difesa.

Possiamo vedere qui che queste politiche sono allineate nella stessa direzione, anche nel caso di Svezia e Germania, che fino a poche settimane fa erano contrarie all’invio di armi offensive in Ucraina. L’unità della percezione della minaccia ha quindi permesso l’idea che la componente militare sta diventando necessaria per la potenza europea. Per unirsi, gli europei devono condividere non solo i sogni, ma anche gli incubi.

NB.(Il Fondo europeo per la pace è uno strumento extra-bilancio e intergovernativo che include l’assistenza militare come quella per l’Ucraina ma anche ATHENA per il finanziamento dei costi comuni delle operazioni militari.).

 

 

 

 

Estrema destra 2.0: dalla normalizzazione

alla lotta per l’egemonia.

Legrandcontinent.EU- Steven Forti-(24th Giugno 2022)- ci dice :

 

 

È ormai fattuale: bisognerà continuare a fare i conti con la nuova estrema destra. Fino a che, presto, non sarà più una novità sulla scena politica. Al posto di stupirsi, a ogni tornata elettorale, dei risultati dei rappresentanti di questa tendenza politica in Europa e di lamentarsi dello spostamento verso destra del dibattito pubblico, Steven Forti si pone l’obiettivo di capire le caratteristiche comuni di questi fenomeni politici.

  

È ormai chiaro: la nuova estrema destra è entrata nello spazio politico, vi resterà e bisognerà continuare a farci i conti.

I risultati delle elezioni presidenziali francesi indicano inequivocabilmente che quasi la metà degli elettori francesi vede in Marine Le Pen, leader del Rassemblement National (RN), una valida opzione per la presidenza di uno dei Paesi fondatori dell’Unione Europea.

 Se il fronte repubblicano ha permesso a Emmanuel Macron di rimanere all’Eliseo per altri cinque anni, Le Pen è riuscita a liberarsi dello stigma dell’estremista, facilitata in questo dall’entrata in scena, ancora più a destra, di Eric Zemmour. Sembra però un’ingenuità il fatto che molti analisti e cittadini si rendano conto solo ora di tutto questo.

 

Come sottolineato da Cas Mudde, la normalizzazione dell’estrema destra è avvenuta ormai da tempo.

Secondo il politologo olandese, con l’inizio del nuovo millennio siamo entrati nella quarta fase dell’ultradestra, caratterizzata da un fenomeno di de-marginalizzazione della nuova estrema destra.

Da minoranza esclusa dalle istituzioni, o comunque relegata ai suoi margini, questi gruppi sono diventati un attore politico radicato nei territori, presente nei parlamenti e accettato da un’alta porzione della popolazione elettorale.

 Ovviamente l’Ungheria, governata da una maggioranza assoluta facente capo a Viktor Orbán da ormai dodici anni – e la stessa cosa è accaduta alle ultime elezioni, fatto che estenderà il periodo di altri quattro anni, e la Polonia, dove il PiS è al potere da ormai due mandati, sono i casi più emblematici e preoccupanti, ma l’Europa dell’Est non è un’eccezione.

 Dalla fine del secolo scorso, la nuova estrema destra ha fatto il suo ingresso negli esecutivi di vari Paesi dell’Europa occidentale. Non dimentichiamo che il Movimento Sociale Italiano, sul punto di diventare Alleanza Nazionale, ha smesso di essere il polo escluso della politica italiana già nel 1994, quando entrò al governo insieme a Forza Italia e alla Lega Nord: nei due decenni successivi, la presenza dei post-fascisti di Fini e di una Lega Nord sempre più estremista nel governo italiano, per non parlare dei numerosi comuni e regioni da loro amministrati, è stata vissuta con una certa “normalità” in Italia. Analogamente, nel 1999, l’FPÖ di Jörg Haider è entrato in un governo di coalizione con i conservatori in Austria, forte del 26,9% di preferenze ottenute alle precedenti elezioni.

 

Di recente, si è vista una decisa accelerazione di questo fenomeno. Da un lato, la nuova estrema destra è salita al potere in diversi Paesi: vittoria di Donald Trump negli Stati Uniti nel 2016, coalizione FPÖ + ÖVP a Vienna, l’ascesa della Lega “modello Le Pen” di Salvini e del M5S in Italia nel 2017 e 2018, vittoria di Bolsonaro in Brasile nel 2018, per non parlare del fenomeno della Brexit nel Regno Unito.

Dall’ altro lato, l’avanzata elettorale di queste formazioni politiche è stata capillare: nelle elezioni europee del 2019, l’estrema destra è stata la prima forza in cinque Paesi (Francia, Italia, Regno Unito, Polonia, Ungheria) e oggi, con l’eccezione di Irlanda e Malta, è rappresentata in tutti i parlamenti nazionali del continente, ottenendo percentuali di voti anche superiori al 20%.

Quella che fino al 2018 veniva definita l'”eccezione iberica” si è sciolta come neve al sole: Chega è già il terzo partito in Portogallo e Vox è entrato di recente per la prima volta in un governo regionale, quello della Castiglia e León, in coalizione con il Partito Popolare. In sintesi, si tratta di un fenomeno diffuso in tutto il mondo occidentale e che esiste da molto tempo.

 

Una nuova o vecchia estrema destra?

Uno dei punti principali del dibattito sulla nuova estrema destra riguarda la terminologia, direttamente legato al rapporto con il fascismo nel periodo tra le due guerre.

 Sia nelle pubblicazioni accademiche che nei media, si legge di una ridda di definizioni diverse tra loro utilizzate per parlare di Trump, Salvini, Orban e persino di Abascal: destra radicale, populismo di destra, ultradestra, estrema destra, populismo nazionalista, post-fascismo, neofascismo o, semplicemente, fascismo. Si potrebbe pensare che un simile dibattito sia banale: non è così – sapere come chiamare le cose è essenziale per comprenderle.

 

La mia opinione è che ci troviamo di fronte a due notevoli ostacoli – i concetti di fascismo e populismo – che ci impediscono di trovare una soluzione convincente a questo problema.

 In primo luogo, la nuova estrema destra è diversa dal fenomeno storico del fascismo. Seguendo la definizione di Emilio Gentile, il fascismo è stato un movimento politico e un’ideologia con una serie di caratteristiche che non ritroviamo nel trumpismo, nella Lega, in Fidesz o nel Rassemblement National: dall’uso della violenza come strumento politico alla volontà di instaurare un regime totalitario monopartitico, dal progetto di inquadrare le masse in grandi organizzazioni al presentarsi come rivoluzione palingenetica volta a trasformare radicalmente la società e a creare nuovi uomini e donne. Ciò non significa che non ci siano elementi di continuità tra queste esperienze e quelle di oggi: tuttavia, il fascismo era semplicemente qualcosa di diverso. Oggi i gruppi neofascisti e neonazisti esistono ancora, ma sono fortemente minoritari.In parole povere, la nuova estrema destra non fa più il saluto romano o va in giro con le croci uncinate tatuate sulle braccia: è diventata più presentabile, in giacca e cravatta. Inoltre, dice di parlare la lingua della gente comune, rifiutando l’etichetta fascista o estremista e accettando il sistema democratico.

 Si tratta di un aggiornamento dell’ideologia fascista, iniziato almeno negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso. Una delle figure chiave di questo processo è senza dubbio Alain de Benoist che, con il gruppo francese della Nouvelle Droite, iniziò a elaborare un pensiero nuovo per la cultura politica neofascista sulla base di una rilettura di Antonio Gramsci.

 L’estrema destra ha deciso di mettere da parte la lotta per il potere politico e di concentrarsi sulla guerra di posizione, in senso gramsciano, per ottenere l’egemonia culturale. Eccone dunque individuata la provenienza.

 

In secondo luogo, il concetto di populismo non aiuta più di tanto a definire e capire la nuova estrema destra. Negli ultimi decenni, si sono versati fiumi d’inchiostro su questo concetto, divenuto una sorta di categoria pigliatutto per definire ciò che fuoriesce dalle ideologie politiche tradizionali.

L’unico accordo raggiunto riguarda proprio la “natura proteiforme” del populismo e il fatto che si tratta di un concetto “essenzialmente controverso” e “politicamente polemico”.

 C’è chi lo vede come un’ideologia, anche se scarna e sovrapponibile ad altre, come il nazionalismo o il socialismo, e chi lo vede come uno stile retorico, un linguaggio o una strategia politica .

 In mancanza di una definizione accademica largamente condivisa, credo che la seconda interpretazione sia la più accurata. Considerate anche il fatto che il populismo viene ormai utilizzato in ogni circostanza. Se Le Pen, Mélénchon e anche Macron sono tutti dei populisti, cosa ci dice questa definizione? Bisogna piuttosto considerarlo come segno distintivo dei tempi in cui viviamo e dovremmo parlare, come hanno sottolineato Marc Lazar e Ilvio Diamanti, di “popolocrazia “. Se quindi l’estrema destra utilizza gli strumenti retorici e linguistici del populismo, lo stesso concetto di populismo non ci aiuta a definirla e capirla meglio.

Questo doppio ostacolo è stato superato da Cas Mudde e dalla sua definizione della destra radicale.

Tuttavia, la sua proposta rimane problematica: si può ritenere corretto l’uso dello stesso aggettivo – radicale – come se ci fosse una sorta di simmetria tra le nuove forze di estrema destra e di estrema sinistra, come Podemos, Syriza o La France Insoumise? Personalmente, lo ritengo un errore:

la sinistra radicale critica l’attuale sistema liberale, concentrandosi sui problemi economici e chiedendo a gran voce un cambiamento dei modelli neoliberali, senza però rimettere in dubbio i diritti garantiti dalle conquiste democratiche.

 Al contrario, spinge per ampliare e approfondire questi diritti e per la riduzione delle disuguaglianze.  Come sottolineato da Beatriz Acha Ugarte, ” è possibile concepire una democrazia non pluralista? Possiamo definire democratiche – anche se non nella loro ‘versione liberale’ – quelle forze che, nel loro trattamento dell”altro” (immigrato, straniero), disprezzano il principio democratico dell’uguaglianza?”.

E aggiunge: “Non si può rifiutare la democrazia liberale senza rifiutare anche la democrazia in un modo o nell’altro”, quindi bisogna essere “cauti nel considerarle formazioni democratiche, perché difendono un’ideologia dell’esclusione che è incompatibile anche con la versione meramente procedurale” della democrazia .

 

Estrema destra 2.0, una macro-categoria plurale.

Sulla base delle precedenti considerazioni, ho proposto la definizione, un po’ provocatoria, di estrema destra 2.0.

Questo concetto mette l’accento non solo sul fatto che Trump, Salvini e Le Pen siano un fenomeno diverso dal fascismo, che presenta elementi di novità rispetto al passato, ma anche su come le nuove tecnologie abbiano giocato un ruolo cruciale nell’ascesa di queste forze politiche.

 Inoltre, vorrei evidenziare quanto possa essere utile avere una macro-categoria nella quale includere tutte queste formazioni politiche dal momento che, sebbene esistano alcune differenze, esse hanno più cose in comune sotto il profilo dei riferimenti ideologici che sotto il punto di vista delle strategie politiche e di comunicazione.

Questa definizione copre i partiti membri dei gruppi Identità e Democrazia (ID) e Conservatori e Riformisti Europei (CRE) del Parlamento Europeo, ma anche al Fidesz ungherese, escluso di recente dal partito popolare europeo (PPE).

Allo stesso modo, può essere applicata a movimenti identitari simili o a fenomeni sui generis come il trumpismo, il bolsonarismo o il Likud di Benjamin Netanyahu in Israele.

Si tratta di una macro-categoria che tuttavia non si applica ai tradizionali partiti di destra – in genere membri del PPE – anche se in certi casi, come i Tories britannici o il PP in Spagna, si può osservare ciò che Roger Eatwell e Matthew Goodwin chiamano il “populismo nazionale leggero”, ossia un processo più o meno intenso di nazionalismo di ultra-destra .

Allo stesso modo, non appartengono a questa categoria partiti o movimenti politici come Amenecer Dorado, CasaPound o Hogar Social Madrid, così come le organizzazioni e associazioni della natura di Combat 18, Lealtà e Azione o altri gruppi che si riuniscono in dei network transnazionali come Blood&Honour che, dal momento che si rifanno direttamente all’ideologia fascista e non rifiutano la violenza come strumento politico, possono essere definiti neofascisti o neonazisti.

Ugualmente, non rientrano in questa categoria i sistemi di governo e i partiti su cui dominano Duterte alle Filippine, Modi in India o Erdoğan in Turchia, poiché sono il prodotto di esperienze realizzate in contesti politici e culturali molto diversi da quelli occidentali: Duterte, Modi e Erdoğan, così come Putin, fanno parte di una tendenza autoritaria che si riscontra su scala mondiale e che va oltre la definizione dell’estrema destra 2.0.

Per questi casi è appropriato rifarsi alla formula proposta da Steven Levitsky e Lucan Way, quella di autoritarismo competitivo, ossia dei regimi che si basano sulla pratica ricorrente di elezioni formalmente libere, ma non nella loro realizzazione .

Tutte le formazioni dell’estrema destra 2.0 hanno una serie di denominatori comuni, ossia un insieme di riferimenti ideologici condivisi.

Questi includono un forte nazionalismo, l’identitarismo o il nativismo, il recupero della sovranità nazionale, una profonda critica del multilateralismo – e, in Europa, un alto grado di euroscetticismo – la difesa dei valori conservatori, la difesa della legge e dell’ordine, l’islamofobia, la visione dell’immigrazione come “invasione”, la critica del multiculturalismo e delle società aperte, l’anti-intellettualismo e un distanziamento formale dalle esperienze passate del fascismo.

 Ci sono anche altri elementi comuni: un esasperato tatticismo per essere presenti e visibili sui media, l’uso delle nuove tecnologie e dei social network per rendere virali i loro messaggi, profilare i dati dei cittadini e contribuire ulteriormente alla polarizzazione della società creando un clima da guerra culturale, la volontà di presentarsi come ribelli a un presunto sistema egemonico di sinistra e alla dittatura progressista del politicamente corretto.

Quest’ultima caratteristica è particolarmente interessante e la vediamo plasticamente rappresentata in figure come l’influencer trumpiano Milo Yiannopoulos o l’economista paleo-libertario argentino Javier Milei, che si distaccano dall’immagine classica di quelli che siamo soliti considerare i rappresentanti dell’estrema destra tradizionale.

 I nuovi estremisti di destra non solo sono diventati più “presentabili”, ma cercano di appropriarsi di bandiere progressiste e di sinistra – si pensi al concetto di libertà o a fenomeni come l’omo-nazionalismo o l’eco-fascismo – in un momento storico segnato dalla confusione ideologica . Inoltre, tutte queste formazioni politiche condividono obiettivi simili.                            In primo luogo, spostare verso destra il dibattito pubblico, contribuendo allo scivolamento della finestra di Overton e rendendo accettabili discorsi e narrazioni che fino a pochi ani fa non lo erano.

 In secondo luogo, salire al potere per instaurare una democrazia illiberale sulla falsariga di quanto fatto da Orbán. Oggi l’Ungheria non è una democrazia a tutti gli effetti, ma un regime ibrido che si sta gradualmente spostando verso l’autoritarismo .

 

Tuttavia, ci sono anche divergenze tra queste formazioni politiche: dall’agenda economica – ci sono gli ultra-liberali come Vox o Chega e quelli come Le Pen che difendono il cosiddetto sciovinismo del welfare, ai valori – nell’Europa meridionale e orientale, la posizione è molto più ultra-conservatrice rispetto all’estrema destra olandese o scandinava, un po’ più aperta su temi come i diritti LGTBI e l’aborto – o la geopolitica dove, come abbiamo visto negli ultimi mesi, ci sono partiti russofili e partiti atlantisti. Forse bisognerebbe declinare il concetto di estrema destra 2.0 al plurale e parlare di estreme destre 2.0: parafrasando lo storico Ricardo Chueca, che ha studiato la Falange durante il regime franchista, ogni Paese dà vita all’estrema destra di cui ha bisogno.

E si può aggiungere che ogni estrema destra è il frutto delle culture politiche esistenti in ogni contesto nazionale. Da ciò derivano le loro peculiarità, che non impediscono di considerarli parte di una grande famiglia globale, poiché esistono anche reti transnazionali che lavorano per rafforzare i legami esistenti, per sviluppare un programma comune e per finanziare questi partiti politici.

Assisteremo a una lotta per l’egemonia nello spazio dell’estrema destra?

Oggi è chiaro che l’estrema destra ha raggiunto il suo primo obiettivo: si è normalizzata, non è più ai margini dello spazio politico e sta spostando il dibattito pubblico sempre più verso destra.

Questa è già una realtà in tutti i Paesi occidentali. La questione ora non è tanto se vorrà orientare i Paesi in cui governa o governerà verso sistemi democratici illiberali – lo farà appena potrà, più o meno rapidamente, con più o meno difficoltà – ma se è iniziata una lotta per l’egemonia nello spazio dell’estrema destra e quali saranno le conseguenze .

 In effetti, in diversi Paesi si è visto come i principali partiti di estrema destra abbiano visto emergere dei concorrenti nel proprio spazio politico e ideologico.

Il caso francese è forse il più recente e, sebbene Le Pen abbia vinto al primo turno contro Zemmour, la guerra potrebbe non essere finita.

Un fenomeno simile si sta verificando anche nei Paesi Bassi, dove l’egemonia del Partij voor de Vrijheid di Geert Wilders viene messa in discussione dal Forum voor Democratie di Thierry Baudet, e in Danimarca, dove il Nye Borgerlige di Pernille Vermund e lo Stram Kurs di Rasmus Paludan sono entrati in scena, esercitando una pressione di destra sul Dansk Folkeparti.

 Il caso più emblematico, tuttavia, è quello dell’Italia, dove la Lega di Salvini sta combattendo aspramente con Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, con entrambi i partiti che si contendono il vantaggio intorno alla soglia del 20%.

La questione ha anche una dimensione europea e internazionale.

 La guerra in Ucraina ha ulteriormente sconvolto il fragile equilibrio tra i vari partiti dell’estrema destra. Da anni Salvini cerca di diventare maggioritario nel gruppo dei Conservatori e Riformisti europei, cosa che i polacchi di PiS e Fratelli d’Italia rifiutano categoricamente.

L’uscita di Orbán dal PPE ha rimescolato le carte in tavola e ora la Lega e Fidesz hanno annunciato un accordo per creare un nuovo partito europeo che intende prendere il posto del Partito Popolare.

La vicenda potrebbe semplicemente concludersi con l’incorporazione di Fidesz in Identità e Democrazia e il tentativo di seguire l’esempio di Le Pen nel processo di de-demonizzazione presso l’opinione pubblica, oppure potrebbe trasformarsi in un terremoto, con la creazione di un unico partito europeo di estrema destra.

Sembra che Kaczyński e Meloni non siano favorevoli – i loro rapporti con Orbán, anche a causa delle posizioni pro-Putin del primo ministro ungherese, si sono notevolmente raffreddati – ma Vox potrebbe aderire all’iniziativa.

 I leader del Core Abascal di ECR erano a Budapest per festeggiare la vittoria di Orbán il 3 aprile e hanno accompagnato Le Pen al suo quartier generale la sera del secondo turno delle elezioni presidenziali francesi. Insomma, la partita è ancora aperta e può riservare sorprese.

Un ultimo elemento da considerare è che i partiti tradizionali di destra sono l’anello debole dei sistemi politici europei.

 Stanno attraversando una grave crisi e non sanno come affrontare l’arrivo a destra di partiti concorrenti. Se in Germania la CDU è riuscita a arginare l’Alternative für Deutschland, in altri Paesi la destra, che si definisce democratica e che è stata uno dei pilastri della costruzione dell’Unione europea, si è alleata con l’estrema destra e ha fatto propri molti dei suoi discorsi.

 È quindi necessario aggiungere questo elemento all’equazione, che potrebbe avere conseguenze importanti nel prossimo futuro. In poche parole, se l’estrema destra riuscirà a superare le sue differenze e a unificarsi o almeno a collaborare, attirando al contempo la destra tradizionale dalla sua parte, lo scenario più probabile è quello di un’orbanizzazione dei vari Paesi e persino dell’Unione Europea.

Non bisogna dimenticare che trent’anni fa il primo ministro ungherese era un liberale e che alla fine degli anni Ottanta ha ricevuto sovvenzioni dalla fondazione di George Soros.

Superiamo quindi una volta per tutte l’ingenuo stupore per i risultati ottenuti dall’estrema destra 2.0 a ogni elezione e rendiamoci conto che la normalizzazione di questi partiti e la diffusione del dibattito pubblico dei loro discorsi sono ormai realtà.

 È giunto il momento di concentrarsi maggiormente sullo studio di questo fenomeno, di comprenderne le caratteristiche inedite e le ragioni della sua ascesa e, come cittadini che credono nei valori democratici, di lavorare per risolvere la crisi multilivello di cui soffre la democrazia liberale e pluralista.

(E’ sorprendente immaginare come reale e possibile che si possa avverare la prossima occupazione  del mondo intero -con il  relativo stermino dell’umanità  da parte della Globalizzazione Occidentale 2.0 -ossia la creazione di un Dominio totalitario voluto dalla cricca assassina comandata da Klaus Schwab : e questo dovrebbe avvenire senza che i popoli della terra- ancora liberi in nazioni sovrane-  non si difendano in futuro  tramite l’aiuto dell’opera delle forze schierate a favore delle Destre nazionali e populiste 2.0!Ndr. ).

 

 

 

 

Quindici anni dopo:

l’Unione del futuro.

Legrandcontinent.EU- Riccardo Perissich- (9th Giugno 2022)- ci dice :

 

Si tratta di un paradosso ben conosciuto e collaudato: mentre sembra incapace di produrre cambiamenti strutturali, l'Unione reagisce sempre meglio e più rapidamente alle crisi. In questa panoramica, Riccardo Perissich ripercorre le trasformazioni che potrebbero delineare la forma dell'Europa dopo la guerra in Ucraina.

L’attuale dibattito europeo presenta allo stesso tempo vigorosi appelli alla necessità di nuovi progetti ambiziosi, per esempio nelle parole di Emmanuel Macron e Mario Draghi, ma anche richiami alla prudenza da parte di numerosi governi.

L’Unione Europea si trova quindi davanti a un trilemma. Le circostanze vorrebbero un progresso deciso nell’integrazione. Tuttavia realizzare progressi importanti con il consenso di tutti i membri diventa sempre più difficile. Allo stesso tempo però l’unità dei 27 è ancor più che per il passato un bene prezioso da proteggere. Come sempre, la fattibilità dei progetti, allo stesso tempo ciò che è necessario e ciò che è fattibile, dipenderà dall’evoluzione degli avvenimenti. È quindi da lì che bisogna cominciare.

Nei quindici anni che ci separano dalla crisi finanziaria, l’UE ha vissuto uno dei suoi periodi di più intensa mutazione. Il decennio precedente che era stato il teatro di due decisioni epocali come l’introduzione dell’euro e il passaggio da 15 a 28 paesi membri; per quanto importanti, esse tuttavia erano annunciate da tempo, il compimento di progetti e impegni presi in precedenza in seguito alla caduta del muro di Berlino e alla dissoluzione dell’URSS.

Nulla di quanto è successo più recentemente era stato programmato. Abbiamo dovuto reagire agli avvenimenti e l’abbiamo fatto spesso in una situazione di sostanziale vuoto giuridico e con istituzioni mal equipaggiate per far fronte a crisi di quell’ampiezza. Dire che tutto ciò è successo sotto la guida di fatto di Angela Merkel, Cancelliera del paese più importante dell’Unione, è solo in parte una semplificazione. Il percorso effettuato riflette quindi il suo stile, ma più in generale la prudenza con cui la Germania si muove solo dopo aver assicurato un grado elevato di consenso interno e poi europeo.

 È un modo di procedere che può creare esasperazione e suggerire un’analogia con quanto Churchill diceva dell’America: “fanno la cosa giusta solo dopo aver esaurito tutte le alternative”. D’altro canto, il consenso (interno ed europeo) così acquisito si è poi dimostrato duraturo, in contrasto con gli ondeggiamenti che hanno caratterizzato la politica europea di altri grandi paesi come la Francia e l’Italia. La Germania ha anche introdotto nel dibattito europeo un concetto di sacralità delle regole che è parte integrante del suo consenso interno e riflette la volontà di esorcizzare un drammatico passato. L’altra caratteristica del percorso effettuato è che l’UE è programmata fin dalla sua creazione per occuparsi delle crisi quando avvengono ma non di affrontare i nodi sistemici che le permetterebbero di prevedere e prevenire le crisi successive.

Gli avvenimenti a cui mi riferisco sono noti. Intorno a Brexit ci sono due narrative. Secondo la prima, l’Europa ne risulta indebolita sul piano economico, politico e militare. Inoltre è stato infranto il tabù della perennità. Secondo la seconda, Brexit ha effetti positivi perché viene a mancare uno dei paesi che in passato si erano opposti con più forza a una maggiore integrazione. Entrambe le interpretazioni sono vere, ma devono anche essere relativizzate. L’opposizione britannica è spesso servita di alibi alla resistenza di altri, ma non ha mai impedito progressi che erano fortemente voluti da una maggioranza di paesi: per esempio Schengen e l’euro.

 Inoltre, Brexit ha rafforzato l’unità dei 27 e accresciuto il senso di appartenenza anche di chi era tradizionalmente vicino alle posizioni britanniche. D’altro canto però, l’assertività di questi paesi (gli scandinavi e l’Olanda per esempio) è stata rafforzata dall’assenza del più influente difensore del liberismo in economia e dell’atlantismo in politica estera e ha dato loro quasi una “nuova missione” in seno all’UE. Brexit ha peraltro incoraggiato la tesi di una inevitabile frattura, politica, culturale e addirittura valoriale, fra il continente europeo e un mitico “mondo anglosassone”.

Tesi che non ha però fondamento reale e sottovaluta sia quanto la Gran Bretagna sia in realtà “europea”, sia quanto una parte importante dell’Europa, soprattutto a nord ma anche a est, si senta vicina storicamente, politicamente e culturalmente al mondo anglosassone. Detto questo, Brexit resta un cantiere incompiuto, mal negoziato dal governo britannico e ancora mal digerito. Ciò non toglie che l’UE e la Gran Bretagna hanno comunque bisogno l’una dell’altra.

La seconda serie di avvenimenti riguarda la risposta alle ricorrenti crisi economiche: prima quella finanziaria, poi quella dovuta alla pandemia, infine quella che si annuncia in seguito alla guerra in Ucraina. È noto quanto il percorso sia stato accidentato.

 È cominciato con l’illusione che si potesse fare interamente affidamento sulla sacralità e l’automatismo delle regole, per poi proseguire con i gravi errori della “passeggiata di Deauville” fra Merkel e Sarkozy, nella risposta accidentata e a momenti drammatica alla crisi greca, al “Whatever it takes” di Mario Draghi, alla creazione del Meccanismo Europeo di Stabilità (MES), all’ammissione da parte della Commissione Juncker che le regole dovevano essere interpretate e applicate con flessibilità, alla sospensione delle regole stesse durante la pandemia, fino al tabù infranto dell’indebitamento comune con il Next Generation EU. Nessuna persona sana di mente potrebbe sostenere che la risposta dell’Unione sia stata in ogni momento tempestiva e brillante. Tuttavia, l’UE e l’euro hanno tenuto di fronte alla prova forse più difficile dall’inizio della costruzione europea. A ciò si è aggiunta la decisione di fare della transizione climatica il progetto destinato a definire la strategia economica dell’UE per i prossimi anni.

Il terzo avvenimento è la pandemia. In partenza, l’UE era sprovvista di competenze e mandato chiaro in materia sanitaria. La risposta dell’Europa è stata all’inizio confusa e frammentata con manifestazioni di egoismo nazionale che hanno fatto temere il peggio. Poi, con sorprendente rapidità, la situazione è stata raddrizzata, è stato varato un programma comune di sviluppo e approvvigionamento di vaccini. Alla distanza, la risposta dell’Europa alla pandemia non è stata peggiore e sotto vari aspetti è stata migliore di quella degli USA e di molti paesi asiatici, Cina compresa.

Poi, la crisi forse più importante di tutte, l’aggressione della Russia all’Ucraina. Anche questa volta, la rapidità con cui si è trovata l’unità dell’Europa e della NATO è sorprendente per quanto riguarda sia la durezza delle sanzioni sia l’invio di armi sempre più pesanti. Infine, la crisi a cui è stata data la risposta più insufficiente: quella di una pressione migratoria senza precedenti dall’Africa e dal Medio Oriente. Per un’organizzazione che, secondo il suo creatore Jean Monnet, è destinata a “progredire nelle crisi”, il minimo che si può dire è che siamo stati ben serviti.

 

L’evoluzione dell’UE non è stata solo guidata dagli avvenimenti così sommariamente descritti, ma anche da un contesto internazionale profondamente mutato. La costruzione europea è il prodotto più compiuto della concezione dei rapporti internazionali sviluppata dagli Stati Uniti dopo la seconda guerra mondiale: quella di un mondo non dominato da rapporti di forza, ma da un sistema di regole accettate e condivise. Un mondo “kantiano”, o se vogliamo “post westfaliano”.

 Questa visione del mondo coincideva con quella che l’Europa aveva di sé stessa: una “potenza gentile”, nata da un desiderio di pace, che non aveva bisogno di una grande forza militare e che poteva espandere la sua influenza attraverso la sapiente elaborazione di regole. Regole che si sarebbero imposte per la loro saggezza ed efficacia, ma anche perché erano la porta d’accesso al più grande mercato del mondo. Poco importa se dietro questa concezione ci fosse una notevole dose di diniego, dal momento che la difesa dell’Europa era stata di fatto appaltata agli Stati Uniti.

L’UE era così diventata il principale campione di un multilateralismo che non aveva inventato, ma aveva fortemente contribuito a costruire. Al crollo del comunismo era seguito un breve periodo di incontrastata egemonia americana, quindi occidentale, che aveva portato con sé l’illusione che quell’ordine sarebbe presto diventato globale. Sappiamo che non è andata così.

Alcuni errori strategici compiuti in Medio Oriente dagli Stati Uniti, la minaccia del terrorismo islamico e soprattutto l’ascesa della Cina hanno profondamente modificato la situazione. Questa diffusa situazione di instabilità ha permesso ad alcune potenze intermedie (L’Iran, il Brasile, la Turchia e altre) di cercare di affermarsi come attori autonomi. È un’evoluzione che ha anche avuto importanti ripercussioni economiche, conducendo a una messa in discussione dei benefici della globalizzazione, o quanto meno mostrarne i limiti e la fragilità.

Oggi, chi vuole promuovere il multilateralismo è sulla difensiva. L’Europa, creatura kantiana, si è così trovata confrontata a un mondo sempre più hobbesiano; una sfida che per l’UE è, prima ancora che politica, quasi ontologica.

 

L’Europa è ora costretta a trarre due conclusioni non facili da questo contesto internazionale. La prima è che l’emergere di una potenza come la Cina, poco rispettosa delle regole internazionali e campione di un capitalismo largamente sottoposto alla politica, non consente più di separare le questioni economiche e commerciali da quelle geopolitiche. Tanto più che anche gli Stati Uniti non esitano a usare a fini politici la loro forza economica. La seconda è che l’Europa aveva accumulato un notevole ritardo rispetto agli USA e alla Cina nella rivoluzione digitale.

 

Questo doppio risveglio ha introdotto nella narrativa europea alcuni concetti nuovi: quello di dimensione geopolitica dell’azione dell’UE e quello di “autonomia strategica”.

Il secondo in particolare, lanciato nel dibattito da Emmanuel Macron, ha creato allo stesso tempo grande interesse ma anche numerosi interrogativi. Parlare di “autonomia” europea o come è anche stato fatto di “sovranità”, contiene una dose elevata di ambiguità.

La moderna fisica quantistica ci dice che lo stato di una particella non può essere determinato a priori, ma dipende da quando, come e chi la osserva. Così il concetto di autonomia europea cambia a seconda che lo si guardi dall’interno o dall’esterno. Nel primo caso può voler dire che i membri dell’UE devono essere capaci di esercitare la loro sovranità in comune. Nel secondo che bisogna essere autonomi da qualcosa di diverso da noi. Questa seconda discussione si è immediatamente concentrata sulle conseguenze per il rapporto con gli Stati Uniti e con la NATO. Si tratta di una delle questioni più divisive del dibattito europeo che ha il potenziale di paralizzare tutto il resto.

Sulla base di quanto precede, è interessante ora vedere non tanto la bontà e i difetti di ciò che è stato fatto, ma piuttosto quanto tutto ciò ha modificato i rapporti di forza all’interno dell’UE, il suo modo di operare, i suoi interessi strategici e la sua identità. Quei recenti, drammatici avvenimenti hanno tra l’altro condotto a superare o addirittura a smentire un certo numero di analisi su cui erano basati sia consensi dati per acquisiti, sia dissidi a volte difficili da sanare.

 

La prima questione riguarda i valori fondanti. L’Unione Europea è un’organizzazione che comprende paesi che, pur con strutture costituzionali diverse, condividono gli stessi valori democratici, liberali e il rispetto dello stato di diritto. Tuttavia, non essendo una compiuta unione politica, non dispone degli strumenti per imporne il rispetto dai suoi membri. Fino a tempi recenti ciò era considerato implicito, al punto che il principio di supremazia del diritto europeo su quelli nazionali era basato sul presupposto che la Corte di Giustizia europea avrebbe “per definizione” rispettato nei suoi giudizi i diritti fondamentali che sono alla base delle costituzioni degli stati membri. L’esperienza con i nuovi membri dell’est ha scosso questo equilibrio. Il cammino verso una compiuta democrazia liberale si è rivelato per alcuni di loro (Polonia e Ungheria ma non solo) più accidentato del previsto. Ne sono risultate alcune gravi anomalie nel rispetto ai principi dello stato di diritto che sono mal percepite dall’opinione pubblica degli altri paesi la quale non capisce perché si possano sanzionare mancanze molto meno gravi e non veri attentati alla democrazia. Il problema è che gli strumenti di cui l’UE dispone per combattere le deviazioni sono molto deboli, essenzialmente di natura finanziaria, e difficili da usare quando i paesi “devianti” sono più d’uno.

La seconda questione riguarda l’idea di un’Unione irrimediabilmente divisa da un dissidio fra liberisti (o ordoliberisti) da una parte e keynesiani e interventisti dall’altra; come è stato anche detto, fra cicale e formiche.

 Questa supposta frattura, ha assunto il carattere di una lacerazione nord-sud. A parte il fatto che fra il “liberismo” e l’ordo-liberismo prevalente in Germania e in gran parte dell’Europa ci sono colossali differenze e che i sacerdoti di Francoforte si trovano difficilmente a loro agio a Chicago, la gestione concreta della crisi ha permesso di de-ideologizzare il dibattito. Nessuno sembra più pensare che le regole siano per definizione né sacre (come vorrebbero alcuni) né “stupide” (come le aveva definite Romano Prodi, allora Presidente della Commissione). Inoltre la creazione di strumenti di solidarietà come il MES e Next Generation EU, pur senza rappresentare il “momento Hamiltoniano” rivendicato da alcuni, costituiscono un’innovazione di cui nessuno può sottovalutare l’importanza. Allo stesso modo, affrontare il ritardo che si è creato nella rivoluzione digitale e la contemporanea sfida di un mondo in cui le regole multilaterali sono messe sempre più in discussione, richiede un ruolo dell’intervento pubblico maggiore di quanto si considerava auspicabile fino a poco tempo fa.

 L’atteggiamento verso la globalizzazione, in particolare a causa della fragilità delle filiere di produzione, è sottoposto a revisione. Su queste questioni, tradizionalmente oggetto di forti contestazioni, si constata una notevole convergenza anche fra due paesi tradizionalmente su fronti opposti come Francia e Germania.

D’altro canto, è anche chiara la percezione che fra le grandi aree economiche l’UE è quella che più dipende dal commercio internazionale e non può quindi isolarsi dal resto del mondo. Nonostante la sua dimensione e l’attrattiva del suo mercato, non può nemmeno illudersi di poter regolare in piena libertà tecnologie che non possiede. Nessuno quindi pensa che ciò possa significare il ritorno a forme di politiche industriali simili a quelle praticate in Francia, in Italia e altrove fino agli anni ’80 del secolo scorso.

Le questioni che seguono riguardano il superamento della distinzione fra dimensione economica e strategica dell’integrazione; quindi il concetto di Europa “geopolitica”, o di autonomia strategica. La politica estera, grande assente nel disegno iniziale di Jean Monnet, ha fatto prepotentemente irruzione nel dibattito europeo. Il caso più importante, quello che ci obbliga al più grande ripensamento, sono i rapporti con la Russia alla luce dell’aggressione all’Ucraina.

 Dopo il crollo dell’URSS era prevalsa in Occidente la speranza che anche la Russia potesse, se non diventare compiutamente democratica e occidentale, almeno avere un’evoluzione compatibile con un ordine europeo stabile e consensuale. Soprattutto dopo l’avvento di Putin al potere i segnali di involuzione, troppo noti per enumerarli tutti si erano moltiplicati.

Tuttavia molti paesi europei, soprattutto Germania, Francia e Italia avevano preferito decidere che il dialogo con Mosca restasse prioritario; sposavano così la teoria tedesca del Wandel durch Handel, il cambiamento attraverso il commercio.

 In altri termini, legare a noi la Russia sul piano economico ne avrebbe facilitato un’evoluzione nella direzione auspicata. Ne è seguita una dipendenza massiccia dalle importazioni di idrocarburi dalla Russia. In questa ottica, un’invasione dell’Ucraina era considerata improbabile se non impossibile.

A questa narrativa se ne contrapponeva un’altra, portata soprattutto dai paesi baltici, dalla Polonia e da altri paesi dell’est. Secondo questa analisi gli “aperturisti”, obnubilati dal loro illuminismo, avevano gravemente torto. La deriva adottata da Putin aveva invece radici profonde.

L’obiettivo era di ristabilire un’identità russa libera da corruzioni occidentali e basata su un nazionalismo allo stesso tempo etnico, territoriale e religioso che si rifaceva alle radici autocratiche, ortodosse e imperiali della storia russa.

L’ostilità ai valori occidentali intesi come la principale minaccia al ritorno della Russia alle sue radici, era quindi irriducibile. In questa ottica, la Russia non era solo un partner difficile, ma una minaccia concreta. Ristabilire il controllo sulle antiche repubbliche della Georgia, della Moldavia e soprattutto dell’Ucraina non era solo un modo per ristabilire una sfera imperiale, ma anche per difendersi dalla contaminazione da eventuali evoluzioni democratiche e occidentali di quei popoli. Questo è del resto il vero senso dell’ossessiva, quasi paranoica, opposizione all’allargamento della NATO. 

La risposta degli altri europei fu di comprendere i timori storici della Polonia e degli altri, ma di considerarli anche con un po’ di condiscendenza eccessivamente estremisti. Per calmare le loro paure, si favorì l’ingresso nella NATO e nell’UE, ma per il resto continuò l’atteggiamento di diniego della minaccia. Persino Angela Merkel, che pure aveva di Putin una visione molto lucida, scelse di non modificare sostanzialmente la politica tedesca e europea. Nemmeno l’espansione della Russia nel Medio Oriente, nel Mediterraneo e in Africa condusse a sostanziali ripensamenti. Questa risposta insufficiente, concretizzata nella reazione velleitaria e ambigua alla richiesta di Ucraina e Georgia di adesione alla NATO, consolidava la convinzione di Putin della decadenza e divisione dell’occidente. D’altro canto gli permise di eccitare ancor più i sentimenti nazionalisti all’interno con la tesi dell’accerchiamento dovuto all’allargamento della NATO e delle umiliazioni inflitte alla Russia dai vincitori della guerra fredda.

Oggi è doveroso ammettere che la Polonia e i suoi amici avevano ragione e la maggior parte degli altri paesi avevano torto. Il risultato è la guerra a cui stiamo assistendo. Non è qui il posto adatto per analizzarne gli sviluppi. Basterà costatare che la combinazione delle insufficienze militari dell’esercito russo, delle terribili atrocità commesse, della imprevista capacità di resistenza degli ucraini, e della altrettanto sorprendente risposta unitaria dell’occidente e dell’Europa, rendono un negoziato di pace molto improbabile nel prevedibile futuro.

Resta la possibilità di una tregua provvisoria e precaria, inevitabilmente seguita da una lungo periodo di tensione che da molti punti di vista sarà non dissimile dalla guerra fredda. La prospettiva di un nuovo e condiviso sistema di sicurezza europea, è realisticamente tramontata. Per questo sarà necessario che cambi quello che è diventato l’equivalente russo del Sonderweg tedesco, l’ossessiva ricerca di un’identità speciale distinta e in opposizione all’occidente. Permane però, come ai tempi della guerra fredda la necessità di un sistema di regole del gioco condivise per evitare che il conflitto latente si trasformi in conflitto aperto.

Ne discendono un certo numero di conseguenze. Putin è stato fermato, oltre che dall’eroismo degli ucraini e dai suoi stessi errori, dall’unità dell’occidente. Il rapporto fra NATO e autonomia europea ne risulta profondamente modificato. È infatti stato dimostrato aldilà di ogni possibile dubbio che non esiste, oggi e per un avvenire prevedibile, una risposta militare efficace dell’Europa al di fuori della NATO. Uno sviluppo confermato e rafforzato dalla storica decisione di Finlandia e Svezia di aderire all’alleanza. È stata comunque clamorosamente smentita la favola di un’America che voltava le spalle all’Europa per pensare solo al Pacifico. D’altro canto però si è anche visto che l’unità dell’Europa è indispensabile per rafforzare l’efficacia della risposta occidentale. Il mantenimento dell’impegno americano in Europa dipende oggi anche da un concreto rafforzamento dell’impegno europeo. Senza l’UE, sanzioni di quella portata non sarebbero state possibili.

Se l’unità dell’occidente è dunque fondamentale, nasce spontanea la domanda se il tempo giochi a favore nostro o di Putin. A medio termine, gioca sicuramente a nostro favore. Le sanzioni mostrano infatti di avere pesanti effetti sull’economia russa e quindi anche sulla sua capacità militare. A breve termine la risposta è meno certa, anche perché le sanzioni hanno bisogno di tempo per operare e una sconfitta militare della Russia sul campo non è ipotizzabile. Il consenso intorno alla strategia adottata dall’occidente è al momento solido, anche perché in assenza di serie prospettive di tregua non ha alternative. Tuttavia la situazione in alcuni paesi importanti come l’Italia e la Francia è fragile a causa di una forte polarizzazione politica interna. Anche la posizione tedesca presenta ancora elementi di incertezza. Assistiamo quindi al paradosso di paesi che, pur sostanzialmente sulla stessa linea, adottano retoriche pubbliche a volte divergenti e comunque ambigue. Ciò è visibile soprattutto in Italia e in Francia, ma anche in Germania. Adattare il discorso alle condizioni politiche locali fa parte del realismo politico. In questo caso tuttavia, l’opinione pubblica può essere indotta a dubitare dell’unità dell’occidente, o addirittura a convincersi che l’ostacolo alla tregua sta da noi e non a Mosca. Un cedimento del consenso interno in alcune importanti nazioni europee avrebbe effetti potenzialmente devastanti non solo per l’unità dell’Europa, ma anche per le prospettive della sicurezza e della pace. L’unità dell’occidente è quindi oggi un bene supremo da preservare, sia per convincere Putin dell’inanità delle sue minacce, sia per consolidare il consenso della nostra opinione pubblica. È uno sforzo che richiede da parte di tutti collaborazione nel linguaggio e nei comportamenti.

Il principale pericolo per il mantenimento dell’unità dell’occidente e dell’Europa, il fattore che più di altri può compromettere il consenso interno, è di natura economica e sociale.

Il conflitto ci impone allo stesso tempo di accelerare il disimpegno dalla dipendenza dagli idrocarburi russi e la transizione climatica, ma senza compromettere le fragili possibilità di ripresa economica che si intravedevano prima della crisi. Si tratta di una sfida, aggravata da forti tensioni inflazioniste, che richiede un impegno eccezionale nazionale e collettivo dei paesi europei. L’architettura stessa del governo della moneta e dell’economia ne sarà condizionata.

Un’altra conseguenza del conflitto è di aver posto in termini nuovi il problema dello sforzo specificamente europeo per la difesa comune. In questo caso, il principale attore di cambiamento è la Germania che ha annunciato una Zeitenwende, una svolta epocale nel suo atteggiamento verso le spese militari.

Questa svolta, sia pure accompagnata da esitazioni e ambiguità tipiche del funzionamento del sistema politico tedesco, permette per la prima volta di dare un senso concreto e urgente alla prospettiva di una difesa europea. Prospettiva tanto più concreta che la svolta tedesca vuole esplicitamente conciliare impegni europei e impegni atlantici. Anche in questo caso, la tecnologia ha cambiato i termini della questione. Per gli europei non si tratta tanto o solo di costruire in comune qualche aereo o qualche sottomarino, ma di prepararsi a conflitti ibridi che smentiscono l’antico detto di Cicerone: inter pacem et bellum nihil medium, non c’è nulla fra la pace e la guerra. Conflitti quindi che possono rappresentare un continuo fra disinformazione, provocazioni di varia natura, sanzioni economiche, hackeraggio, uso militare delle tecnologie spaziali e dell’intelligenza artificiale, fino all’uso delle tecnologie militari classiche e dell’arma nucleare. Una prospettiva che modifica profondamente anche il concetto di deterrenza.

Molto è stato scritto sul fatto che la NATO ha riunito importanti alleati fuori delle sue frontiere (Giappone, Australia e altri ancora), ma che un gran numero di paesi emergenti hanno dichiarato la loro neutralità. Questo fenomeno è in realtà naturale e comprensibile. Anche durante la guerra fredda gran parte dell’umanità era neutrale. Essere neutrali in questo caso non vuol dire schierarsi a favore della Russia e tanto meno della Cina; semplicemente, questa “non è la loro guerra”.

Tra l’altro le motivazioni di questa posizione sono molto dissimili, per esempio fra asiatici, africani o latino americani. Ciò non toglie che si tratta di motivazioni di cui dobbiamo tenere conto, per esempio facendo il massimo sforzo per far fronte alla penuria alimentare che il conflitto ucraino rischia di provocare in parti dell’Africa.

Di particolare importanza sono le motivazioni dei pasi asiatici, per esempio dell’India, che sono naturalmente determinate più che dal conflitto in sé dal ruolo della Cina. Per molti paesi dell’area e per gli Stati Uniti, il conflitto in Ucraina è anche una metafora del problema di Taiwan. L’alleanza fra la Russia e la Cina non è stata provocata da noi. È il prodotto della naturale convergenza fra due grandi paesi la cui politica è nutrita da un forte nazionalismo, dal rifiuto dei valori occidentali e dalla volontà di sovvertire l’ordine e le regole che l’occidente ha stabilito nel corso dei decenni passati.

 La convergenza è quindi basata su ragioni oggettive. La “questione cinese” rappresenta il fallimento dell’altra grande illusione di un mondo che, grazie a commerci liberi e aperti, si riunirebbe facilmente attorno al multilateralismo e ai valori occidentali.

 Tuttavia gli interessi di due attori come Russia e Cina che sono peraltro in un rapporto molto squilibrato fra loro, coincidono solo in parte. La prova è che il sostegno cinese all’aggressione russa è stato finora poco più che verbale e alcuni sperano che la Cina possa avere un ruolo attivo nella ricerca di una tregua. La realtà è che per molti attori asiatici e per gli americani, il confronto con la Cina resta la sfida che caratterizzerà più di ogni altra il corso del secolo. Per quanto riguarda l’Europa, una conseguenza importante è che non possiamo più considerare i teatri europeo e asiatico come completamente distinti. Non possiamo nemmeno continuare a considerare la “questione cinese” sotto un angolo unicamente economico e commerciale. Ciò si aggiunge alla lista dei dinieghi europei che devono essere superati; ciò vale soprattutto per la Germania, ma non solo. Ugualmente velleitaria sarebbe la tentazione di volersi porre come mediatori fra Cina e USA. Realizzare una politica unitaria verso la Cina è però ancora più difficile che verso la Russia.

Un’altra conseguenza del conflitto in Ucraina è il flusso di qualche milione di rifugiati, in prevalenza donne e bambini, verso l’Europa.                          Si tratta di cifre senza precedenti, come senza precedenti è la reazione di apertura e di accoglienza di molti membri dell’UE. Resta da vedere se questa grande manifestazione di solidarietà che contrasta con il permanente atteggiamento di chiusura verso l’immigrazione dall’Africa e dal Medio Oriente, faciliterà il raggiungimento di un maggiore consenso europeo sulla politica migratoria.

Le questioni che precedono hanno in comune la caratteristica di porre in termini nuovi problemi che già esistevano e di porre tutte con forza la necessità di un rapporto stretto con gli Stati Uniti, allo stesso tempo sul piano strategico ed economico.

 Fra le due rive dell’Atlantico ci sono inevitabili divergenze di percezione e di interessi contingenti, ma esse si manifestano all’interno di una sostanziale convergenza strategica allo stesso tempo sui valori e sugli interessi. Le condizioni attuali dei rapporti transatlantici sono le migliori da moltissimo tempo. Lo sforzo di dialogo dell’amministrazione Biden è innegabile. Anche la politica francese, forse il partner europeo più difficile da questo punto di visto ha subito una notevole evoluzione. È interessante esaminare l’evoluzione della retorica macroniana, dalla constatazione di “morte cerebrale” della NATO fino a una gestione della crisi ucraina in sostanziale coordinamento con gli alleati.

Tuttavia permane in Europa una forte diffidenza verso l’affidabilità degli USA, alimentata dall’esperienza traumatica della presidenza Trump, ma anche da incertezze o errori della politica americana che datano da ben prima di Trump. Il timore di un secondo Trump è a volte agitato da parte dei nemici europei dell’unità occidentale come una profezia di cui in fondo si auspica la liberatoria realizzazione.

Speculare a tutto ciò è una diffusa diffidenza americana verso l’affidabilità degli alleati europei. Si tratta quindi di convincere gli americani che non potranno affrontare il mondo turbolento che si prepara senza l’apporto europeo. Per gli europei si tratta invece di capire che autonomia non vuol dire distacco, ma piuttosto l’emancipazione di un partner diventato adulto. Sul piano economico, entrambi i partner dovrebbero prendere coscienza che, mentre la tendenza alla globalizzazione resterà forte, un certo grado di disconnessione tecnologica dalla Cina è ineluttabile ed è del resto già in atto.

 Né gli USA, né l’Europa, né i nostri alleati in Asia sono in grado di realizzare da soli la regolamentazione di cui internet ha bisogno o la riorganizzazione delle filiere di produzione e approvvigionamento di alcune componenti critiche. Una vera convergenza strategica non sarà né facile né automatica. Per realizzarla e mantenerla ci vorrà un costante sforzo di dialogo e di volontà politica. Sviluppando anche strumenti di coordinamento permanente che in parte si stanno creando come per esempio il “Trade and Technology Council”, ma che per il momento esistono in modo solo parziale. 

Ciascuna delle sfide di cui abbiamo parlato porrebbe di per sé problemi formidabili a un sistema fragile e imperfetto come quello dell’UE. Tutte insieme possono sembrare insormontabili. Esse sono però largamente interconnesse: affrontarne una aiuterà a trattare le altre. Se l’evoluzione degli avvenimenti ha profondamente modificato i termini di molti problemi e rende possibili convergenze prima considerate impossibili, bisogna ora vedere quanto l’UE sia preparata a rispondere concretamente a tutte queste sfide. La prima risposta spontanea è negativa. La struttura istituzionale resta barocca e poco comprensibile dall’opinione pubblica e troppe decisioni importanti richiedono il consenso unanime degli stati membri. In queste condizioni, realizzare in tempi rapidi un consenso a 27 è spesso estremamente difficile.

Una difficoltà spesso sottovalutata è l’assenza di un vero dibattito politico europeo. Mai come oggi sarebbe necessario non solo che le autorità spieghino senza compiacenza la verità all’opinione pubblica, ma anche che lo facciano in modo coerente con i partner europei. La “Convenzione” che si è appena conclusa e che ha organizzato il dibattito fra qualche centinaio di cittadini europei, costituisce un tentativo generoso e utile, ma dimostra anche i limiti dell’esercizio. È stato detto che gli Stati Uniti hanno cominciato a esistere come entità politica solo nei primi decenni dell’800, quando la tecnologia ha reso possibili la stampa di giornali a grande diffusione.

Oggi la tecnologia non è certo un problema. Il principale ostacolo al dibattito transnazionale sono le barriere linguistiche che rafforzano il carattere nazionale della politica. Quel tanto di dibattito transnazionale che pure esiste è per definizione limitato a un’élite. Per esempio, sarà necessario spiegare in modo coerente all’opinione pubblica le ragioni e i limiti della nostra politica di contrasto all’aggressione russa, ma anche che accelerare il disimpegno dalla dipendenza dagli idrocarburi russi, richiede qualche arbitrato difficile con la strategia di transizione climatica.

 Ciò è tanto più importante dal momento che la guerra attuale avviene in parte anche sul terreno dell’informazione e della disinformazione. Il modo con cui si sviluppa il confronto politico in Europa è anche molto diverso. In alcuni paesi, soprattutto a sud e in quelli in cui la politica è più polarizzata, le questioni tendono a essere discusse in termini di alternative radicali, di cambi di paradigma. In altri, soprattutto a nord, le scelte sono discusse in termini di cambiamenti incrementali. Abbiamo assistito a una campagna elettorale francese che contrapponeva radicali scelte di società, preceduta da una campagna elettorale tedesca in cui Scholz, candidato dell’opposizione, si presentava come un continuatore… di Angela Merkel con la quale peraltro governava fino a prima delle elezioni.

Tutto ciò conduce a riaprire una discussione sulle istituzioni europee che era sopita dopo il fallimento dei referendum francese e olandese sul progetto di “costituzione”.

Le questioni da discutere sono molte, ma la più importante è sicuramente quella dell’esigenza di unanimità che ancora esiste per materie importanti come la politica estera, la difesa e la fiscalità.

 Leader importanti come Macron e Draghi ne hanno ufficialmente chiesto l’abbandono. La difficoltà più grande in Europa resta sempre quella di riunire una maggioranza, ma è innegabile che il diritto di veto può paralizzare o comunque ritardare decisioni importanti.

Basti pensare ai problemi ora posti dall’Ungheria. In un’organizzazione come l’UE che riunisce stati sovrani prevarrà sempre il riflesso di ricercare il consenso, ma la possibilità concreta di votare cambia completamente la strategia negoziale di tutti gli attori perché spinge ad anticipare la ricerca dei compromessi che consentono di far parte di un’eventuale maggioranza.

 Questa riforma sarebbe quindi altamente auspicabile ed è bene che la discussione cominci. Bisogna tuttavia essere coscienti che le prospettive di progresso a breve termine sono modeste. Non solo la questione è per definizione controversa, ma la reticenza a lanciarsi in una nuova operazione di riforma dei trattati è ancora molto diffusa. Non si tratta solo di cattiva volontà. Alcune delle materie per cui si dovrebbe poter votare, sono vicine al cuore della sovranità dei nostri paesi.

Anche se non ottimali e a volte complicati da attuare, i modi per aggirare i veti esistono e ne conosciamo diversi esempi. Alcuni sono molto importanti, come Schengen e l’euro.

E’ una pratica di cui sono state date definizioni diverse; le più comuni sono geometria variabile e differenziazione. Almeno finché l’UE non avrà raggiunto una forma stabile di unione politica compiuta, questo resterà uno dei percorsi principali per far progredire l’integrazione: l’azione di avanguardie che mostrano il cammino, pronte in seguito ad accogliere i ritardatari. Tuttavia, l’esperienza di Brexit dovrebbe averci insegnato che la pratica della geometria variabile è per definizione precaria, difficile da gestire e non può durare eternamente. Prima o poi, la scelta fra ricomposizione e rottura non potrà essere evitata.

 

Le cose si complicano quando si vuole trasformare questo modo di procedere, da pragmatico in strutturale.

 È la teoria dei cosiddetti “cerchi concentrici” per cui i paesi membri dell’UE si raggrupperebbero in cerchi caratterizzati, dall’esterno verso l’interno, da gradi maggiori d’integrazione; ognuno essendo dotato di una propria struttura istituzionale, aperta ma distinta. Ne parliamo qui perché alcuni ne hanno voluto vedere tracce nel discorso di Macron a Strasburgo. Si tratta di un’idea intellettualmente attraente, ma densa di pericoli che possono condurre a gravi fratture.

Per prima cosa, l’idea di cerchi concentrici non corrisponde alla realtà delle cose.

Se prendiamo quelli più importanti, Schengen, l’euro, le cooperazioni rafforzate in materia di difesa, definire un nucleo centrale sulla base di uno di essi sarebbe impossibile perché, se di cerchi si tratta, essi si intersecano piuttosto che sovrapporsi. Inoltre, la gestione del mercato unico, che per definizione dovrebbe comprendere l’intero cerchio esterno dei 27, non è una zona di libero scambio che funziona da sola, ma un insieme integrato cha ha bisogno di essere governato politicamente, giuridicamente e finanziariamente.

La sua gestione non è facilmente separabile da, per esempio, quella dell’euro o dalla decisione di applicare sanzioni economiche a paesi ostili. Se non si vuole che l’Unione vada incontro a fratture insanabili, è quindi necessario che la differenziazione sia gestita da una struttura istituzionale unitaria.

Ci sono però ragioni più profonde che incitano alla prudenza. L’Unione ha bisogno di un motore. Per molto tempo si è pensato che dovesse essere la coppia franco-tedesca. Essa resta essenziale, ma ormai lungi dall’essere sufficiente.

Tutto il sistema è diventato politicamente molto più complesso e sarebbe pericoloso sottovalutare le spinte centrifughe. Sappiamo tutti che durante la crisi dell’euro si è creata una forte tensione nord-sud. Sappiamo anche che molti a nord delle Alpi hanno a lungo pensato che un euro liberato dal peso delle cicale meridionali sarebbe stato più stabile e sicuro.

La svolta è avvenuta quando, posti di fronte a un dilemma concreto, si è deciso di resistere alla tentazione che pure esisteva di escludere la Grecia dall’euro. Oggi, uno dei pochi punti di consenso unanime a proposito del governo dell’economia è che le soluzioni e i compromessi devono tener conto degli interessi e delle esigenze, non solo di tutti i membri dell’euro ma anche di quelli che ancora non ne fanno parte. Il senso politico della recente presentazione di un documento ispano-olandese non è sfuggito a nessuno. Non sarà facile, ma alcuni sviluppi fanno pensare che una nuova iniziativa volta a finanziare in comune la risposta alle nuove sfide come la transizione energetica e il rinnovato sforzo a rafforzare la difesa europea, possa maturare in tempi non troppo lunghi.

La dimensione est/ovest è più complicata. A suo tempo tutti giudicarono l’allargamento a est come il naturale complemento della fine della guerra fredda e il ricongiungimento in nome della democrazia di due parti dell’Europa artificialmente separate. Mentre sul piano economico l’operazione può essere considerata un successo, sul piano politico il cammino è stato molto più accidentato. Il modo tradizionale e un po’ burocratico con cui era stato affrontato il processo di allargamento, aveva sottovalutato le difficoltà politiche di integrazione per popoli la cui tradizione democratica era più fragile e recente di quella della parte occidentale del continente. Popoli inoltre per cui il nazionalismo non era tanto percepito come un male da superare, ma spesso come un valore da conservare perché simbolo di una libertà ritrovata.

Ci eravamo dimenticati che quell’arco di popoli che va dal Baltico all’Adriatico è il luogo in cui sono nate due guerre mondiali e avvenuti alcuni degli orrori più atroci della nostra storia. Una storia la loro condizionata da un costante conflitto fra il mondo germanico, quello ottomano e quello russo.

Quando abbiamo scoperto che l’integrazione era molto più complicata del previsto, abbiamo ascoltato le spiegazioni di alcuni intellettuali come Ivan Krastev che cercavano di educarci alla complessità e alle contraddizioni delle vicende di quei popoli e ai pericoli che rappresentavano anche per noi occidentali, ma lo abbiamo fatto con condiscendenza e un po’ di fastidio.

 In fondo, ci dicevamo, quella gente deve solo adeguarsi. Ci siamo comportati come in Italia quei piemontesi e lombardi che, dopo il 1860, hanno creduto che l’impresa di Garibaldi volesse solo dire una nazione più grande e non anche profondamente diversa. L’aggressione russa all’Ucraina suona il risveglio. Non è più possibile concepire una politica verso la Russia, oggi il nostro principale test di politica estera, senza prendere pienamente in conto ciò che pensano i baltici, la Polonia, altri paesi dell’est e anche gli scandinavi.

Una difficoltà dello stesso genere si presenta per la gestione della lunga lista di paesi nei Balcani occidentali, a cui si aggiungono ora Ucraina, Moldavia e Georgia, che sono candidati all’adesione.

Non c’è dubbio che la lezione degli errori compiuti nell’ultimo allargamento debba essere oggetto di attenta riflessione. I tempi interminabili obbiettivamente richiesti dalla complessità dei problemi concreti, si scontrano con aspettative emotive sempre più forti che rischiano di produrre ingranaggi infernali che non consentono di affrontare i problemi più importanti che sono quelli politici.

 Un paio di anni fa, su iniziativa della Francia, si era deciso di adottare un metodo diverso, più flessibile e progressivo che mettesse in primo piano la gestione politica dell’adesione e rendesse possibile graduare le forme di appartenenza all’UE secondo il grado di maturazione politica ed economica. Un processo allo stesso tempo incentivante e reversibile. Era sicuramente la strada giusta.

 

Nel discorso di Strasburgo, Macron ha proposto di dare a ciò anche una veste istituzionale con la creazione di una forma di “Comunità politica”, una specie di cerchio esterno dell’UE.

 Il valore simbolico di questa proposta, che in Italia è formulata anche da Enrico Letta, è innegabile. Prima di intraprendere quella strada vale però la pena di chiederci quali sono i reali vantaggi di sovrapporre una struttura istituzionale comune a un processo politico necessariamente differenziato.

All’atto pratico, essa rischia di essere la tipica “cattiva buona idea” e di comportare più inconvenienti che vantaggi. Un’istituzione richiede una lunga discussione sulle sue strutture e rischia rapidamente di diventare una macchina pesante e burocratica.

 L’esperienza della “Unione del Mediterraneo” avrebbe dovuto insegnarci qualcosa. Più seri sono i rischi politici. I paesi candidati sono quasi tutti in condizioni, con aspirazioni e problemi molto diversi fra loro. Un’istituzione comune contiene implicitamente la domanda di gestirli in modo unitario e coordinato.

Bastano due esempi per illustrare i pericoli. Cosa si fa con la Turchia, paese importantissimo ma sappiamo quanto difficile per l’Europa? La sua candidatura è forse la più antica, ma tutti da Ankara a Stoccolma sanno che non ha ormai nessuna probabilità di arrivare a compimento. Come è possibile mettere nella stessa istituzione, che si vuole per definizione “politica”, l’Ucraina e la Serbia storicamente alleata e ancora oggi molto vicina alla Russia?

Abbiamo detto che la coppia franco-tedesca resta essenziale per fare avanzare l’Europa. Dopo un lungo periodo di un processo guidato dalla prudenza tedesca, un po’ di decisionismo francese non guasta.

Tuttavia la leadership non richiede solo di indicare gli obiettivi, ma anche e soprattutto acquisire il consenso per realizzarli. Bisogna prendere atto che la difficoltà di conciliare il valore supremo dell’unità dei 27 con la possibilità di permettere ad alcune avanguardie di progredire, è più grande che in passato.

 La crisi dell’euro ha fatto riscoprire la necessità di dare spazio anche ad altri grandi paesi come l’Italia e la Spagna; ma anche questo non basta. Come abbiamo detto, la crisi ucraina rende impossibile una politica estera in cui la Polonia e i baltici non abbiano un ruolo centrale. Questa nuova centralità della Polonia, obiettivamente non facile da gestire, comporta però il vantaggio di introdurre un cuneo importante fra Polonia e Ungheria, i due principali problemi per la questione dello stato di diritto.

 

Non è ormai nemmeno più possibile pensare solo in termini di “grandi paesi”. Aggregazioni come il gruppo dei cosiddetti “frugali” che va dall’Olanda agli scandinavi fino all’Austria, non è solo come alcuni pensano con fastidio e disprezzo un’escrescenza del rigorismo tedesco, ma la manifestazione di una volontà di esistere. A fronte di questa complessità, si leggono invece sui media analisi di suprema arroganza che, riferendosi a Germania, Francia, Italia e Spagna, parlano “dell’Europa che conta”. 

La prudenza tedesca nell’era di Angela Merkel era a volte eccessiva, ma era anche ispirata dalla consapevolezza imposta dalla storia e dalla geografia di quanto sia necessario tener conto di tutte le variabili del gioco europeo. Sarebbe bene che un po’ di questo senso della complessità attraversasse il Reno e le Alpi per approdare anche a Parigi e a Roma. In Europa, la leadership è come uno spazzaneve. In caso di forte nevicata, se lo spazzaneve non c’è o va troppo lentamente, la neve si accumulerà e la strada resterà bloccata. Se però la velocità con cui lo spazzaneve si muove è superiore alla potenza con cui riesce e a liberare il terreno, resterà intrappolato lui stesso.

  

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