FINE DELLE SANZIONI ALLA RUSSIA.

 FINE DELLE SANZIONI ALLA RUSSIA.

 

 

Spiegazione delle sanzioni

UE nei confronti della Russia.

Consilium.europa.eu-Redazione- (16 agosto 2022) - ci dice:

 

Dopo il riconoscimento, da parte della Russia, delle zone non controllate dal governo delle regioni ucraine di Donetsk e Luhansk il 21 febbraio 2022 e l'invasione non provocata e ingiustificata dell'Ucraina il 24 febbraio 2022, l'UE ha imposto alla Russia una serie di nuove sanzioni.

Esse si aggiungono alle misure in vigore imposte alla Russia a partire dal 2014 a seguito dell'annessione della Crimea e della mancata attuazione degli accordi di Minsk.

Risposte alle seguenti domande:

quali sanzioni ha adottato finora l'UE, chi sono i destinatari delle sanzioni e in cosa consistono in pratica le sanzioni individuali?

cosa significano in pratica le misure restrittive contro le banche russe e la Banca centrale nazionale russa?

in cosa consistono le sanzioni per il trasporto aereo, stradale e marittimo?

che effetto hanno le misure dell'UE sugli scambi commerciali dell'UE con la Russia e che tipo di restrizioni all'importazione e all'esportazione sono in vigore?

le sanzioni dell'UE sono conformi al diritto internazionale e sono coordinate con altri partner?

Quali sanzioni ha adottato finora l'UE?

Da febbraio l'UE ha imposto alla Russia una serie di pacchetti di sanzioni, tra cui misure restrittive mirate (sanzioni individuali), sanzioni economiche e misure diplomatiche.

L'UE ha inoltre adottato sanzioni nei confronti della Bielorussia in risposta al suo coinvolgimento nell'invasione dell'Ucraina.

Le sanzioni economiche mirano a provocare gravi conseguenze per la Russia a causa delle sue azioni e a ostacolare efficacemente le capacità russe di proseguire l'aggressione.

Le sanzioni individuali riguardano le persone responsabili del sostegno, del finanziamento o dell'attuazione di azioni che compromettono l'integrità territoriale, la sovranità e l'indipendenza dell'Ucraina o le persone che traggono beneficio da tali azioni.

La risposta dell'UE all'invasione russa dell'Ucraina.

Chi sono i destinatari delle sanzioni?

In totale, tenendo conto anche delle precedenti sanzioni individuali imposte dopo l'annessione della Crimea nel 2014, l'UE ha sanzionato 108 entità e 1 214 persone. L'elenco comprende:

Vladimir Putin e Sergey Lavrov.

Il presidente della Russia, Vladimir Putin.

Il ministro degli Affari esteri della Russia, Sergey Lavrov.

L'ex presidente filorusso dell'Ucraina, Viktor Yanukovych.

Oligarchi legati al Cremlino, come Roman Abramovich.

351 membri della Duma di Stato russa (la camera bassa del parlamento) che il 15 febbraio 2022 hanno votato a favore del riconoscimento di Donetsk e Luhansk.

Membri del Consiglio di sicurezza nazionale.

Personalità politiche locali come il sindaco di Mosca.

Alti funzionari e militari.

Imprenditori di spicco (ossia persone attive nell'industria russa dell'acciaio e altre persone che forniscono allo Stato russo servizi finanziari, prodotti militari e tecnologie)

Propagandisti e attori della disinformazione.

Persone responsabili delle atrocità commesse a Bucha e a Mariupol.

Persone coinvolte nel reclutamento di mercenari siriani per combattere in Ucraina.

Familiari selezionati di alcune delle suddette persone.

Elenco delle persone ed entità oggetto delle misure restrittive dell'UE per azioni contro l'integrità territoriale dell'Ucraina (Gazzetta ufficiale dell'UE).

In cosa consistono in pratica le sanzioni individuali?

Le sanzioni nei confronti delle persone consistono in divieti di viaggio e congelamento dei beni. I divieti di viaggio impediscono alle persone inserite in elenco di entrare o transitare nel territorio dell'UE per via terrestre, aerea o marittima.

Il congelamento dei beni significa che tutti i conti appartenenti alle persone ed entità inserite in elenco nelle banche dell'UE sono congelati. È altresì vietato mettere a loro disposizione, direttamente o indirettamente, fondi o attività.

In questo modo si garantisce che il loro denaro non possa più essere utilizzato per sostenere il regime russo e che non possano cercare di trovare un rifugio sicuro nell'UE.

 

Come vengono sanzionati gli scambi commerciali dell'UE con la Russia?

Nel quadro delle sanzioni economiche, l'UE ha imposto alla Russia una serie di restrizioni all'importazione e all'esportazione. Ciò significa che le entità europee non possono vendere determinati prodotti alla Russia (restrizioni all'esportazione) e che le entità russe non sono autorizzate a vendere determinati prodotti all'UE (restrizioni all'importazione).

L'elenco dei prodotti vietati è concepito per massimizzare l'impatto negativo delle sanzioni sull'economia russa, limitando allo stesso tempo le conseguenze per le imprese e i cittadini dell'UE. Le restrizioni all'esportazione e all'importazione escludono i prodotti destinati principalmente al consumo e i prodotti dei settori sanitario, farmaceutico, alimentare e agricolo, al fine di non danneggiare la popolazione russa.

I divieti sono attuati dalle autorità doganali dell'UE.

In collaborazione con altri partner che condividono gli stessi principi, l'UE ha inoltre adottato una dichiarazione in cui si riserva il diritto di smettere di considerare la Russia una nazione più favorita nel quadro dell'OMC.

 L'UE ha deciso di agire in tal senso non mediante un aumento dei dazi doganali sulle importazioni, ma attraverso una serie di misure restrittive che comprendono il divieto di importare o esportare determinate merci.

L'UE e i suoi partner hanno inoltre sospeso tutti i lavori relativi all'adesione della Bielorussia all'OMC.

Quali merci non possono essere esportate dall'UE verso la Russia?

L'elenco dei prodotti sottoposti a sanzioni comprende, tra l'altro:

tecnologie d'avanguardia (ad esempio computer quantistici e semiconduttori avanzati, elettronica e software di alta gamma);

alcuni tipi di macchinari e attrezzature per il trasporto;

beni e tecnologie specifici necessari per la raffinazione del petrolio;

attrezzature, tecnologie e servizi per l'industria dell'energia;

beni e tecnologie per i settori aeronautico e spaziale (ad esempio aeromobili, pezzi di ricambio o qualsiasi tipo di equipaggiamento per aerei ed elicotteri, carboturbo);

prodotti per la navigazione marittima e tecnologie di radiocomunicazione;

una serie di beni a duplice uso (beni che potrebbero essere utilizzati per scopi sia civili che militari), quali droni e software per droni o dispositivi di cifratura;

beni di lusso (ad esempio automobili, orologi e gioielli di lusso);

Quali merci non possono essere importate dalla Russia verso l'UE?

L'elenco dei prodotti sottoposti a sanzioni comprende, tra l'altro:

petrolio greggio e prodotti petroliferi raffinati, con limitate eccezioni (con eliminazione graduale nel corso di 6-8 mesi);

carbone e altri combustibili fossili solidi (dato che i contratti esistenti prevedono un periodo di liquidazione, questa sanzione si applicherà a partire dall'agosto 2022);

oro, compresi i gioielli;

prodotti siderurgici;

legno, cemento e alcuni fertilizzanti;

prodotti ittici e liquori (ad esempio caviale, vodka);

In cosa consiste in pratica il divieto sulle importazioni di petrolio?

Una raffineria di petrolio con fuoco che fuoriesce da una tubazione. Sullo sfondo, un cielo blu con qualche nuvola.

Le restrizioni dell'UE riguarderanno quasi il 90% delle importazioni di petrolio russo in Europa - © AFP.

Nel giugno 2022 il Consiglio ha adottato un sesto pacchetto di sanzioni che, tra l'altro, vieta l'acquisto, l'importazione o il trasferimento di petrolio greggio e di alcuni prodotti petroliferi dalla Russia all'UE. Le restrizioni si applicheranno gradualmente: entro sei mesi per il petrolio greggio ed entro otto mesi per altri prodotti petroliferi raffinati.

È prevista un'eccezione temporanea per le importazioni di petrolio greggio fornito mediante oleodotto negli Stati membri dell'UE che, data la loro situazione geografica, soffrono di una dipendenza specifica dagli approvvigionamenti russi e non dispongono di opzioni alternative praticabili.

Inoltre, la Bulgaria e la Croazia nello specifico beneficeranno di deroghe temporanee riguardanti, rispettivamente, l'importazione di petrolio greggio russo trasportato per via marittima e di gasolio sotto vuoto.

Poiché la maggior parte del petrolio russo fornito all'UE è trasportato per via marittima, entro la fine dell'anno tali restrizioni copriranno quasi il 90% delle importazioni di petrolio russo in Europa, riducendo notevolmente i profitti commerciali della Russia.

Quali sono le sanzioni per il trasporto su strada?

L'UE ha vietato agli operatori del trasporto su strada russi e bielorussi di entrare nell'UE, anche per le merci in transito.

Tale sanzione mira a limitare la capacità dell'industria russa di acquisire beni chiave e a perturbare il commercio stradale da e verso la Russia. Tuttavia, i paesi dell'UE possono concedere deroghe per:

il trasporto di energia;

il trasporto di prodotti farmaceutici, medici, agricoli e alimentari;

finalità di aiuto umanitario;

trasporti connessi al funzionamento delle rappresentanze diplomatiche e consolari dell'UE e dei suoi paesi in Russia, o delle organizzazioni internazionali in Russia che godono di immunità in virtù del diritto internazionale;

il trasferimento o l'esportazione in Russia di beni culturali in prestito nel contesto della cooperazione culturale ufficiale con la Russia

Il divieto non riguarda i servizi postali e le merci in transito tra la regione di Kaliningrad e la Russia.

 

Cosa significano le sanzioni nel settore dell'aviazione?

Un aereo Aeroflot atterra in un aeroporto.

A tutti gli aeromobili russi è fatto divieto di sorvolare lo spazio aereo dell'UE - © AFP.

Nel febbraio 2022 l'UE ha vietato ai vettori russi di ogni tipo di accedere ai suoi aeroporti e di sorvolare il suo spazio aereo. Di conseguenza gli aerei immatricolati in Russia o altrove e presi a noleggio o in leasing da un cittadino o un'entità russa non possono atterrare in nessun aeroporto dell'UE e non possono sorvolare i paesi dell'UE. Sono inclusi nel divieto gli aerei privati, ad esempio i jet d'affari privati.

Inoltre, l'UE ha vietato l'esportazione verso la Russia di beni e tecnologie nei settori aeronautico e spaziale.

Sono vietati anche i servizi assicurativi, i servizi di manutenzione e l'assistenza tecnica connessi a tali beni e tecnologie. Gli Stati Uniti, il Canada e il Regno Unito hanno imposto restrizioni analoghe.

Di conseguenza le compagnie aeree russe non possono acquistare aeromobili, pezzi di ricambio o equipaggiamenti per la loro flotta e non possono effettuare le necessarie riparazioni o ispezioni tecniche. Poiché l'attuale flotta aerea commerciale russa è stata costruita per tre quarti nell'UE, negli USA o in Canada, con il tempo il divieto comporterà probabilmente il fermo operativo di una parte significativa della flotta russa dell'aviazione civile, anche per i voli nazionali.

Misure restrittive dell'UE nei confronti della Russia (Agenzia dell'Unione europea per la sicurezza aerea).

Quali sono le sanzioni per il trasporto marittimo?

L'UE ha chiuso i suoi porti all'intera flotta mercantile russa di oltre 2 800 navi. Questa misura non riguarda tuttavia le navi che trasportano:

energia;

prodotti farmaceutici, medici, agricoli e alimentari;

aiuti umanitari;

combustibile nucleare e altri beni necessari al funzionamento delle capacità nucleari a uso civile;

carbone (fino al 10 agosto 2022, dopo di che le importazioni di carbone nell'UE saranno vietate);

La misura non riguarda neppure le navi che necessitano di assistenza alla ricerca di riparo o le navi che fanno uno scalo di emergenza in un porto per motivi di sicurezza marittima o per salvare vite in mare.

Il divieto si applicherà invece alle navi che cercano di eludere le sanzioni cambiando la bandiera o l'immatricolazione russa con quella di un altro Stato. Le autorità portuali possono individuare un tentativo di cambiare bandiera o modificare l'immatricolazione controllando il numero IMO di una nave (il numero di identificazione unico assegnato per conto dell'Organizzazione marittima internazionale).

Cosa significa il blocco dell'accesso a SWIFT per le banche russe e bielorusse?

Il blocco impedisce a dieci banche russe e a quattro banche bielorusse di effettuare o ricevere pagamenti internazionali utilizzando SWIFT.

Simbolo di divieto con la bandiera russa davanti a una banca. Il testo "SWIFT" è visibile sulla facciata della banca.

Dieci banche russe e quattro banche bielorusse sono escluse dall'utilizzo di SWIFT.

SWIFT è un servizio di messaggistica che facilita sostanzialmente lo scambio di informazioni tra banche e altri istituti finanziari e che collega più di 11 000 entità in tutto il mondo.

Di conseguenza, queste banche non possono né ottenere valuta estera (poiché un trasferimento di valuta estera tra due banche è generalmente trattato come un trasferimento all'estero che coinvolge una banca intermediaria estera) né trasferire attività all'estero, il che si traduce in conseguenze negative per le economie russa e bielorussa.

Dal punto di vista tecnico, le banche potrebbero effettuare operazioni internazionali senza SWIFT, ma si tratta di un processo costoso e complesso che richiede fiducia reciproca tra gli istituti finanziari. Un processo di questo tipo riporta i pagamenti all'epoca in cui venivano utilizzati telefono e fax per confermare ogni operazione.

Cosa significano in pratica le sanzioni contro la Banca centrale nazionale russa?

L'Unione europea ha vietato tutte le operazioni con la Banca centrale nazionale russa relative alla gestione delle riserve e delle attività della Banca centrale russa. A seguito del congelamento dei beni della Banca centrale, quest'ultima non può più accedere alle attività detenute presso banche centrali e istituzioni private nell'UE.

Nel febbraio 2022 le riserve internazionali della Russia ammontavano a 643 miliardi di USD (579 miliardi di EUR). Disporre di riserve in valuta estera contribuisce, tra le altre cose, a mantenere stabile il tasso di cambio della valuta di un paese.

A causa del divieto di effettuare transazioni dall'UE e da altri paesi, si stima che più della metà delle riserve russe siano congelate. Il divieto è stato imposto anche da altri paesi (come gli Stati Uniti, il Canada e il Regno Unito) che detengono altresì una quota delle riserve estere della Russia.

Di conseguenza, la Russia non può utilizzare questa riserva di attività estere per fornire fondi alle sue banche e limitare così gli effetti di altre sanzioni. Anche le riserve auree detenute in Russia sembrano ora più difficili da vendere a causa delle sanzioni internazionali che colpiscono entità russe.

L'UE ha inoltre vietato la vendita, la fornitura, il trasferimento e l'esportazione in Russia di banconote denominate in euro. L'obiettivo è limitare l'accesso al contante in euro da parte del governo russo, della sua Banca centrale e delle persone fisiche o giuridiche in Russia al fine di evitare l'elusione delle sanzioni.

Sanzioni analoghe si applicano alla Bielorussia.

Perché l'UE ha sospeso le trasmissioni di cinque emittenti russe?

Da tempo la Federazione russa attua una sistematica campagna internazionale di disinformazione, manipolazione delle informazioni e distorsione dei fatti, nell'intento di rafforzare la sua strategia di destabilizzazione sia dei paesi limitrofi, che dell'UE e dei suoi Stati membri.

Un giornalista televisivo presenta le notizie. Il logo di Russia Today è proiettato sullo schermo dietro di lui.

La trasmissione nell'UE di cinque organi di informazione statali russi è sospesa - © AFP.

Per contrastare tale azione, l'UE ha sospeso le trasmissioni nell'Unione di cinque emittenti statali russe:

Sputnik;

Russia Today;

Rossiya RTR / RTR Planeta;

Rossiya 24 / Russia 24;

TV Centre International;

La Russia utilizza tutti questi organi di informazione pubblici per diffondere intenzionalmente propaganda e condurre campagne di disinformazione, anche in merito alla sua aggressione militare nei confronti dell'Ucraina.

Le restrizioni nei confronti di Sputnik e Russia Today (insieme alle loro controllate, quali RT English, RT Germany, RT France e RT Spanish) sono in vigore dal 2 marzo 2022, quelle imposte alle altre tre entità dal 4 giugno 2022.

Tali restrizioni riguardano tutti i mezzi di trasmissione e distribuzione negli Stati membri dell'UE o ad essi rivolti, compresi il cavo, il satellite, la televisione via Internet (IPTV), le piattaforme, i siti web e le app.

In linea con la Carta dei diritti fondamentali, queste misure non impediranno a tali organi di informazione e al loro personale di svolgere nell'UE altre attività oltre alla radiodiffusione, come la ricerca e le interviste.

L'UE coordina le sanzioni con altri partner?

Le sanzioni sono più efficaci se è coinvolta un'ampia gamma di partner internazionali. Nelle ultime settimane l'UE ha lavorato a stretto contatto con partner che condividono gli stessi principi, come gli Stati Uniti, al fine di coordinare le sanzioni.

L'UE collabora con il Gruppo della Banca mondiale, la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (BERS), l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economici (OCSE) e altri partner internazionali per impedire alla Russia di ottenere finanziamenti da tali istituzioni.

Per coordinare questo sforzo internazionale, la nuova task force REPO (Russian Elites, Proxies, and Oligarchs) consente all'UE di cooperare con i paesi del G7 — Canada, Francia, Germania, Italia, Giappone, Regno Unito e Stati Uniti — nonché con l'Australia, al fine di garantire l'applicazione delle sanzioni.

Sebbene l'UE collabori strettamente con molti partner, ciascuno di questi paesi terzi decide unilateralmente quali sanzioni imporre.

Le sanzioni dell'UE rientrano nel diritto internazionale?

Sì. Tutte le sanzioni dell'UE sono pienamente conformi agli obblighi derivanti dal diritto internazionale e rispettano i diritti umani e le libertà fondamentali.

Una volta raggiunto un accordo politico tra gli Stati membri dell'UE, il servizio europeo per l'azione esterna e/o la Commissione europea preparano i necessari atti giuridici, che sono presentati al Consiglio per adozione.

I regolamenti e le decisioni del Consiglio, in quanto atti giuridici di portata generale, sono vincolanti per qualsiasi persona o entità soggetta alla giurisdizione dell'UE, vale a dire qualsiasi persona o entità all'interno dell'UE, qualsiasi cittadino dell'UE in qualsiasi luogo e tutte le società e organizzazioni costituite a norma del diritto di uno Stato membro dell'UE.

 

 

 

Le sanzioni alla Russia stanno

funzionando? Cosa dicono i dati di Usa e Ue.

Europa.today.it- Dario Prestigiacomo –(23 agosto 2022) -ci dice:

 

Salvini ha messo in dubbio l'efficacia delle misure anti-Cremlino. Ma uno studio di Yale e un'analisi della Commissione europea lo smentiscono.

Vladimir Putin.

"Sulle sanzioni alla Russia bisogna guardare i numeri: l'avanzo commerciale della Russia è 70 miliardi di dollari, per la prima volta nella storia il sanzionato ci guadagna".

 Con queste parole, il leader della Lega Matteo Salvini ha riaperto il dibattito sull'efficacia delle misure punitive varate dai Paesi occidentali, in particolare Usa, Ue e Regno Unito, per colpire l'economia russa.                                               I dubbi, a dirla tutta, non sono solo del capo del Carroccio, un tempo tra i più fieri supporter di Vladimir Putin: in questi mesi, anche media internazionali non tacciabili di vicinanza al Cremlino e stimati economisti hanno sollevato perplessità circa il rapporto costi-benefici di tali sanzioni.

Tanto da spingere i fact-checker dell'Unione europea e degli Stati Uniti a difendere, dati alla mano, le misure prese.

L'ultimo studio che confermerebbe le gravi ripercussioni per l'economia russa delle sanzioni occidentali porta la firma della prestigiosa Università di Yale. Ed è stato fatto circolare sui social dall'Ambasciata Usa in Italia poco dopo le dichiarazioni di Salvini: "I fatti contro la fiction proposta dalla disinformazione russa", si legge in un tweet dell'Ambasciata. Vediamo allora punto per punto cosa indica lo studio di Yale.

I nodi al pettine nel lungo termine.

"Le sanzioni internazionali stanno avendo un potente effetto sull'economia russa - si legge sul sito del governo Usa, che cita lo studio di Yale - I fornitori di disinformazione del Cremlino spingono la narrativa secondo cui le sanzioni internazionali non hanno alcun effetto significativo sull'economia russa nonostante il fatto che anche il capo della banca centrale russa Elvira Nabiullina abbia ammesso che 'l'attività economica è in declino' e che 'la fine delle relazioni economiche avrà un impatto negativo a lungo termine'”. 

La Russia, scrive sempre Washington, "non ha la capacità di produrre versioni nazionali di prodotti che una volta aveva acquistato a livello internazionale. Per cercare di colmare questo divario, il presidente Putin ha persino tentato di legalizzare il furto di proprietà intellettuale da 'Paesi ostili"", come successo per esempio con il sequestro di aerei occidentali che ha permesso all'aviazione russa di avere ricambi per i suoi mezzi.

"Molti dei cittadini russi più talentuosi hanno lasciato il Paese in cerca di una vita migliore - prosegue il governo - I ricercatori stimano che centinaia di migliaia di accademici, lavoratori tecnologici, giornalisti, artisti, imprenditori e altri membri della forza lavoro qualificata abbiano lasciato la Russia dall'ulteriore invasione dell'Ucraina da parte del Cremlino nel febbraio 2022. Anche se la Russia potesse ricostruire la sua economia senza materiali provenienti dai Paesi che l'hanno sanzionata, la Russia ora non ha la forza lavoro necessaria per promuovere una crescita economica solida e dinamica".

Le relazioni commerciali.

I problemi per la Russia, secondo il governo Usa, riguardano anche le sue relazioni commerciali alternative a quelle con l'Occidente. "La Russia sta lottando per trovare nuovi fornitori e clienti per i beni che una volta aveva acquistato e venduto a livello globale. Dall'invasione russa dell'Ucraina nel febbraio 2022, le importazioni russe sono diminuite del 50%. Il Cremlino sta lottando per trovare nuove fonti per oggetti importanti che non è in grado di produrre". Cosa che sta avendo ripercussioni anche sul campo di battaglia poiché "la Russia utilizza microchip prelevati da frigoriferi e lavatrici nelle sue apparecchiature militari".

E la Cina?

"La Russia sta propagandando le sue relazioni commerciali con la Repubblica popolare cinese per compensare le carenze di importazioni ed esportazioni. In realtà, è una relazione ineguale poiché la Russia ha bisogno della (Cina, ndr) molto più di quanto la (Cina, ndr) abbia bisogno della Russia". A partire dal 2021, la Cina è diventata la principale fonte di importazioni della Russia; tuttavia, la Russia si è classificata solo come l'undicesimo maggior importatore di merci della Cina. Dopo la guerra, "le esportazioni della Cina verso la Russia sono diminuite di quasi il 50% dall'inizio dell'anno all'aprile 2022". 

L'oro del gas.

C'è poi la questione degli enormi profitti registrati dalla Russia con la vendita di gas e petrolio, un business che è alla base dell'avanzo commerciale record citato da Salvini.

 Lo studio di Yale ricorda come siano proprio i Paesi Ue a garantire questo business grazie ai loro acquisti, ma i problemi per Mosca arriveranno nel medio termine. Bruxelles ha già varato l'embargo sul petrolio.

Se dovesse fare lo stesso con il gas, per Mosca non sarà facile "passare ad altri acquirenti" perché "esportare grandi quantità di gas naturale in Paesi al di fuori dell'Europa non è un'opzione a breve o addirittura a medio termine per la Russia".

 Oltre il 90 percento del gas russo viene trasportato tramite gasdotti e la stragrande maggioranza dei gasdotti russi si collega ai mercati e alle raffinerie in Europa.

"La Russia avrebbe bisogno di costruire nuovi e costosi gasdotti o strutture marittime per aumentare significativamente le esportazioni di gas naturale in Asia", si legge ancora.

Il rublo.

Altro elemento su cui vertono le perplessità circa l'effetto delle sanzioni occidentali è il rublo: "Funzionari russi affermano che il rublo è la valuta più forte dell'anno, senza menzionare che il suo valore relativamente alto è dovuto agli estremi controlli sui capitali che la Russia ha emanato". Il governo Usa ricorda che "il Cremlino ha vietato ai cittadini di inviare denaro all'estero, sospeso le vendite di dollari delle banche, richiesto agli esportatori di scambiare l'80% dei loro guadagni in rubli e costretto le imprese a pagare il debito estero in rubli. Queste misure hanno sostenuto il valore del rublo forzando gli acquisti della valuta e vietando le vendite. Queste restrizioni finanziarie draconiane danneggiano sia le imprese che i cittadini russi". 

La qualità della vita.

Infine, la qualità della vita dei russi, che secondo il Cremlino è rimasta la stessa nonostante le sanzioni.

Gli Usa sottolineano che "oltre 1.000 aziende internazionali in una vasta gamma di settori hanno lasciato la Russia nel 2022, con il risultato che i cittadini russi non hanno più accesso a beni e servizi di cui godevano una volta. Ad esempio, Apple ha lasciato la Russia e i suoi prodotti non saranno più disponibili una volta esaurite le scorte esistenti". 

Vari dati mostrano "come il terribile stato dell'economia russa abbia un impatto negativo sulla vita dei cittadini russi medi".

L'inflazione nei settori dipendenti dalle importazioni, come elettrodomestici e servizi ospedalieri, è aumentata del 40-60%.

Nel maggio 2022, le vendite di auto nuove sono diminuite dell'84%, indicando che i consumatori in Russia non hanno la fiducia nell'economia per effettuare acquisti importanti.

 I rapporti indicano che la produzione interna russa in molti settori è stata gravemente interrotta, con effetti reali sui cittadini russi. Ad esempio, "le aziende russe hanno smesso di produrre airbag per auto o sistemi di frenatura antibloccaggio a causa della carenza di componenti necessari, mettendo a rischio i consumatori russi", conclude il governo Usa.

La versione dell'Ue.

Il fact-checking statunitense è in linea con quanto emerso poco tempo fa da un'analisi condotta dalla Commissione europea. Per Bruxelles, i 6 pacchetti di sanzioni varati dai suoi 27 Stati membri hanno provocato un danno all'economia russa e ai suoi oligarchi pari a circa 100 miliardi di euro. E determineranno un calo del Pil del 10,4% già nel 2022.

 

Stando a quanto hanno calcolato gli esperti della Commissione europea, in seguito alle restrizioni commerciali imposte a Mosca, le esportazioni verso l'Ue per il 2022 raggiungeranno un valore di 73 miliardi, meno della metà rispetto al volume del 2021. La "perdita" è di 85 miliardi, e gli esperti Ue ritengono improbabile che altri Paesi come la Cina possano compensare più di tanto tale calo nell'export.

A questa somma, si aggiungono i beni congelati ai russi, in particolare ai cosiddetti oligarchi, che ammonterebbero a un valore di circa 13,8 miliardi di euro. Anche le riserve della banca centrale russa, che valgono miliardi, non sono più accessibili. Inoltre, bisogna anche "conteggiare" gli effetti sulla popolazione: i sondaggi mostrano che i russi stanno cominciando a patire i problemi con l'aumento dei prezzi e temono una nuova economia di scarsità.

Finora, tali problemi sono stati affrontati con spirito nazionalistico, ossia come un sacrificio necessario per 'salvare la Patria'. Ma non è detto che il sentimento patriottico possa resistere a lungo senza portare a disagi sociali. Anche perché, si può fare a meno di beni di consumo occidentali, ma solo a patto che si trovino alternative: i problemi della catena di approvvigionamento e la mancanza di accesso a tecnologie straniere avanzate ostacoleranno sempre più "la produzione interna, gli investimenti e la crescita della produttività", scrive l'agenzia stampa tedesca Dpa citando lo studio della Commissione.

 

 

 

Sanzioni alla Russia, ecco

quanto Putin ci sta rimettendo.

Corriere.it- Milena Gabanelli e Simona Ravizza-(11 aprile 2022) - ci dicono:

 

Dal 24 febbraio le sanzioni verso la Russia sono emesse per tappe.

Prima il blocco delle transazioni con le banche, poi l’import-export strategico, poi il petrolio e il carbone verso Usa e Uk e, da agosto, per il carbone verso la Ue.

 Infine il blocco del debito sovrano tramite le banche americane.                                                          Ma quanto pesano davvero su Mosca le misure fatte scattare da Usa, Canada, Ue, Regno Unito, Svizzera, Islanda, Giappone, Corea del Sud, Singapore, Australia e Nuova Zelanda?

 Lo vediamo dopo aver consultato decine di database, statistiche internazionali, documenti dell’Ofac (l’Office of foreign assets control statunitense), della Commissione europea e con l’aiuto dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) e dell’Osservatorio conti pubblici italiani (Ocpi).

I Paesi che hanno adottato sanzioni contro la Russia sono 37, ma rappresentano il 59% del Pil mondiale.

Fra i 193 che non le applicano ci sono Cina, India, Emirati Arabi, Iran e Turchia.

Blocco delle transazioni.

Sospesa l’operatività con dieci banche russe su titoli, prestiti, investimenti, pagamento dei debiti e incasso dei crediti.

Si tratta di Sberbank, VTB, Gazprombank, Alfa Bank, Promsvyazbank, VEB, Otkritie, Rosselkhozbank, Sovcombank e Novikombank. Tutte insieme fanno all’incirca il 70% degli attivi del sistema bancario russo.                  Il Tesoro Usa stima che le banche russe effettuano transazioni in valuta estera per l’equivalente di circa 46 miliardi di dollari al giorno a livello globale, l’80% delle quali in dollari statunitensi, e che la stragrande maggioranza di quelle transazioni sia danneggiata dalle sanzioni. Poi c’è il blocco dello Swift, ossia la stringa alfanumerica da 8 a 11 caratteri dov’è specificata la banca e il Paese di provenienza, usato per velocizzare i pagamenti sui mercati internazionali. Questo blocco colpisce Rossiya, più altre sei banche già colpite dalla sospensione dell’operatività (VTB, Promsvyazbank, VEB, Otkritie, Sovcombank e Novikombank).

Sono escluse Sberbank e Gazprombank, autorizzate a incassare i pagamenti delle esportazioni di gas, petrolio, carbone (che consente quindi di far arrivare comunque quasi 1 miliardo di dollari al giorno).

Le riserve della Banca Centrale.

Le sanzioni hanno scatenato corse agli sportelli, fughe di capitali e fatto crollare il rublo. In risposta la Banca Centrale russa ha alzato il costo del denaro e messo mano alle riserve ufficiali che, in un mese, sono scese di 39 miliardi di dollari. Fino al 18 febbraio 2022 la Banca centrale aveva in pancia 643 miliardi di dollari, ora sono 604.

 Poca roba, perché anche qui le sanzioni hanno congelato il 60% delle riserve, e cioè la quota denominata in euro, dollari, sterline e yen, pari a circa 350 miliardi di dollari. Dal 24 marzo gli Usa hanno imposto lo stop anche sui 133 miliardi di riserve in oro. La Russia però può disporre della quota di riserve nelle valute dei Paesi non sanzionatori, tra cui la Cina con 83 miliardi in yuan. Per stringere la corda, dal 5 aprile, il Tesoro americano ha vietato alla Russia i pagamenti del debito sovrano con i suoi dollari presenti nelle banche Usa. Vuol dire che già il 27 maggio alla scadenza di una cedola da 101 milioni potrebbe aprirsi la procedura di fallimento dello Stato.

I danni dell’embargo.

L’embargo pesa anche sui Paesi sanzionatori che non possono più esportare in Russia tecnologia come semiconduttori, computer, laser, sensori, apparecchiature per la navigazione e le telecomunicazioni, ovvero tutto quello può essere utilizzato per scopi militari, nel settore dell’aviazione e nella raffinazione del petrolio.

Stop anche all’esportazione di logistica e beni di lusso, dall’alta moda ai profumi, gioielleria, dispositivi elettronici di valore superiore a 750 euro, auto sopra i 50.000 euro, orologi e loro parti, oggetti d’arte.

 Vietato dall’Ue invece l’import di ferro, acciaio, carbone, legno, materiale per l’edilizia, gomma. Usa e Uk hanno bloccato le loro importazioni di petrolio e carbone, che in tutto valgono complessivamente poco più di 12 miliardi. Mentre il carbone Ue ne vale 4,3.

Quanto pesa sulla Russia.

Dai calcoli dell’Ispi le sanzioni bloccano il 12% dell’import russo, che nel pre-pandemia valeva complessivamente 247 miliardi di dollari, e il 7% del suo export, equivalente a 427 miliardi di dollari.

 Da parte sua la Russia ha bloccato le forniture di grano, mais, fertilizzanti. L’impatto maggiore, invece, dovuto al mancato export e import lo subiscono i Paesi della Ue, anche considerando che le stesse misure sono applicate alla Bielorussia, in quanto Paese fiancheggiatore, e al Donbass, poiché si ritiene che gli acquisti vadano a finanziare la guerra. I più colpiti dal mancato import di siderurgia e gomma da Bielorussia e Donbass sono soprattutto Italia e Spagna, molto meno Francia e Germania.

Non mancano tentativi di raggirare l’embargo triangolando verso Paesi terzi: i dati doganali registrano ad esempio un improvviso aumento di export verso Armenia e Kazakistan proprio dei beni vietati.

 Si possono invece esportare in Russia tutti gli altri beni, da alimentari alla manifattura, ma l’economia di guerra ha ridotto la domanda con un impatto globale stimato in 30 miliardi (circa il 20%).

Chi se ne va e chi resta.

Dal database di Yale risulta che a oggi, su 773 aziende operative in Russia, se ne sono ritirate 252 fra cui colossi internazionali come Apple H&M, Ikea McDonald’s, Microsoft e Netflix e le quattro italiane Assicurazioni Generali, Eni, Ferragamo, Yoox. Hanno sospeso le attività in 237 fra cui le compagnie internazionali di container MSC, Maersk e CMA, e le italiane Ferrari, Iveco, Leonardo, Moncler e Prada. Hanno ridotto l’attività in 62 tra cui Enel, Ferrero e Pirelli. In 91 prendono tempo, come Barilla, De’ Longhi e Maire Tecnimont. Restano in 131: Acer, Auchan-Retail, Lenovo, e le 10 italiane Buzzi Unichem, Calzedonia, Campari, Cremonini Group, De Cecco, Geox, Intesa Sanpaolo, Menarini Group, UniCredit, Zegna Group.

I beni degli oligarchi.

Le liste di miliardari, politici e militari a cui congelare le proprietà sono disallineate. L’Ue ha stilato un elenco di 1.110 nomi, la Gran Bretagna di 989 nomi, gli Usa di 407. E quindi succede che fra i 20 oligarchi e funzionari più ricchi della Russia sanzionati da Ue e Regno Unito, ma non dagli Usa, ci sono l’industriale di fertilizzanti Andrey Igorevich Melnichenko, Roman Abramovich, il fondatore di Alfa-Bank Mikhail Fridman, il produttore di acciaio Viktor Rashnikov.

Sanzionato invece da Usa e Uk, ma non dall’Ue, c’è il produttore di materie prime Victor Vekselberg. Mentre nessuno dei tre ha sanzionato il presidente e principale azionista della società russa del gas Novatek Leonid Mikhelson e il magnate dell’acciaio Vladimir Lisin. Nessuna sanzione per il presidente del gigante petrolifero Lukoil Vagit Alekperov, considerato meno vicino a Putin del presidente di Rosneft Igor Sechin, che mira a prendersi Lukoil per diventare il padrone assoluto del petrolio russo (sanzionato sia da Ue e Uk che dagli Usa). Fra gli intoccati c’è infine il magnate dei metalli Vladimir Potanin, considerato dagli Stati Uniti tra i 210 individui strettamente associati al presidente russo.

La scelta di sanzionare alcuni e non altri è frutto di valutazioni politiche ed economiche dei singoli Paesi poiché, secondo quanto riportato da Forbes, il «predominio della Russia nelle esportazioni di petrolio, gas e materie prime ha collegato il destino dei produttori e delle imprese occidentali con quello delle imprese russe e dei loro proprietari, ovvero gli oligarchi».

Atlantic Council stima che oligarchi e funzionari nascondano nei paradisi fiscali circa 1 trilione di dollari (tanti quanti ne possiede l’intera popolazione russa), per cui scovare le loro proprietà non è facile. Nella Ue, ad oggi, sono stati congelati asset per 29 miliardi.

Espulso lo sport.

Sanzioni anche per il mondo dello sport e della cultura. Fuori atleti e squadre dalle gare olimpiche, di tennis, dal mondiale di calcio, dalla coppa del mondo di sci e mondiali juniores di nuoto. Si terranno fuori dalla Russia la finale di Champions League e il circuito del gran premio di Formula 1.

 

La partita cruciale alla fine può giocarla solo l’Unione Europea, decidendo se a farci più paura è la barbarie e la fine dello stato di diritto o un periodo di forte austerità.

Fuori dall’Eurovision 2022 e Warner Bros, Disney e Sony hanno sospeso l’uscita dei film nelle sale russe. Tirando le somme: le sanzioni nel loro complesso stanno isolando Mosca e provocando qualche danno alla sua economia, ma ampiamente compensato dall’export di idrocarburi di cui la Ue, e in particolare Italia e Germania, ha drammaticamente bisogno. La partita cruciale alla fine può giocarla solo l’Unione Europea, decidendo se a farci più paura è la barbarie e la fine dello stato di diritto o un periodo di forte austerità. Nella risposta la soluzione.

 

 

 

 

GLI EFFETTI ECONOMICI DELLE SANZIONI

IMPOSTE ALLA RUSSIA: UNA PRIMA VALUTAZIONE.

Sidiblog.org- Marco Lossani- (APRILE 13, 2022) -ci dice:

(Marco Lossani -Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano).

 

La valutazione dell’efficacia delle sanzioni costituisce un tema assai controverso, sia per gli economisti che per gli studiosi di relazioni internazionali.

In effetti le sanzioni si pongono a metà strada tra la politica e l’economia in quanto costituiscono uno degli strumenti con cui gli stati nazione realizzano l’economic and financial statecraft, l’insieme di interventi (di natura economico-finanziaria) utilizzati per perseguire obiettivi di politica estera soprattutto quando si è prossimi a condizioni di belligeranza.

Ex-ante, attraverso la minaccia credibile dell’imposizione di sanzioni – o della realizzazione di operazioni di boicottaggio o della sospensione di aiuti – uno o più stati-nazione (definiti sender) paventano di isolare commercialmente e/o finanziariamente un altro stato (definito target) al fine di azzerrare la probabilità di una sua attività bellica.

Ex-post, l’effettiva imposizione di sanzioni determina – attraverso l’isolamento commerciale e/o finanziario – un tale stato di deprivazione nel paese target da impedirgli la continuazione dello sforzo bellico, una volta che questo è stato avviato.

 L’esito di tale azione di coercizione è perciò non solo economico-finanziario, ma anche e soprattutto relativo alla sfera politica delle relazioni interne ed internazionali. In linea di principio, sanzioni efficaci sono in grado di alterare il capitale politico e la reputazione di cui gode il governo in carica del paese sanzionato influenzandone il potere negoziale sia nei confronti delle forze di opposizione interne che rispetto ai paesi sanzionatori.

L’idea delle sanzioni come arma per garantire la pace ovviamente non costituisce una novità. In tempi moderni può essere fatta risalire a Woodrow Wilson che ancora nel 1919 definiva lo stato di assoluto isolamento provocato dalle sanzioni come «qualcosa di ancora più tremendo della guerra stessa» (Mulder).

 Da quel momento le sanzioni diventano l’«arma economica» a disposizione degli stati liberali, così come riconosciuto dall’art. 16 del Patto della Società delle Nazioni.

 La pace – e l’ordine economico-liberale che l’accompagna – si fonderebbe infatti sul convincimento che le sanzioni costituiscano un credibile deterrente contro la guerra: la semplice minaccia di soffrire un profondo stato di deprivazione indotto dalle sanzioni spingerebbe gli stati-nazione a evitare qualsiasi conflitto.

Peraltro, lo stesso Woodrow Wilson non aveva mancato di sottolineare come la forza delle sanzioni derivasse non solo da una condizione di deprivazione economica, ma anche da una fondamentale sofferenza psicologica legata alla possibilità che – per effetto delle sanzioni e del conseguente isolamento – «è l’anima ad essere più avvelenata del corpo».

Ça va sans dire, che la realtà ha seguito una piega ben diversa.

Le sanzioni si sono dimostrate meno efficaci del previsto non solo ex-ante, come deterrente, ma anche ex-post, come effettivo fattore di costo (Hufbauer et al.; Felbermayr et al.), anche se con il trascorrere del tempo la loro capacità di incidere è andata via via accrescendosi (Van Bergeijk).

 Inoltre, persino la sofferenza psicologica risulta un fattore poco rilevante soprattutto all’interno di contesti segnati dalla presenza di regimi autocratici o dittatoriali.

L’uso massiccio di informazioni distorte da parte di diversi spin dictators (tra cui Putin, Erdogan e Orbán: v. Guriev e Treisman) ha consentito a questi di ottenere un ampio consenso popolare – altrimenti impossibile da raggiungere in condizione di libera informazione  generando nel contempo una percezione distorta della realtà che può non solo contenere il disagio psicologico indotto dalle eventuali sanzioni, ma addirittura condurre verso un sentimento di rivalsa – il cosiddetto rally-round-the-flag effect, tale per cui i gruppi domestici minacciati dalle sanzioni fanno  fronte compatto con il regime per opporsi alla minaccia esterna.

2. L’efficacia delle sanzioni: il quadro teorico.

 

In linea di principio, le sanzioni sono efficaci se effettivamente in grado di creare un effetto di isolamento. Il conseguimento di tale obiettivo richiede il soddisfacimento di almeno due condizioni. In primis una conoscenza dettagliata del tipo di interdipendenza – reale e finanziaria – tra il paese sanzionato e il resto del mondo. In secondo luogo, il coinvolgimento di un numero elevato di paesi sanzionatori, che limiti la possibilità per il paese target di aggirare le sanzioni intrattenendo relazioni economiche con paesi terzi (diversi dal target e dal sender).

In realtà, una corretta valutazione dell’efficacia delle sanzioni deve anche tenere conto – soprattutto al giorno d’oggi – di una interdipendenza complessa che rende la stima degli effetti delle sanzioni un’operazione davvero difficile (Jenkins).

Da un lato andrebbe valutata anche la presenza di effetti di retroazione, provocati da tali misure sugli stessi paesi sanzionatori (il caso dell’Europa dipendente dal gas russo è lampante).

Dall’altro, non andrebbe dimenticata la presenza di rilevanti effetti contagio sui mercati finanziari, che risentono della sempre maggior dimensione assunta dagli stock di attività finanziarie.

Per di più, va anche considerato come la globalizzazione abbia generato – attraverso la creazione di network reali e finanziari complessi e asimmetrici – una condizione di weaponized interdependence molto diversa tra paese e paese.

 I recenti contributi che hanno applicato la teoria dei network allo studio dell’odierno sistema globalizzato (Goldin e Mariathasan) dimostrano come alcuni network siano più centrali di altri.

 Ciò significa che gli stati nazione che hanno effettiva giurisdizione sui nodi più centrali dei network – come, ad esempio, gli USA – godono di un maggior potere sanzionatorio. Infine, non va neppure esclusa la possibilità che la stessa minaccia di sanzioni spinga alcuni paesi a perseguire una riduzione del loro grado di interdipendenza con il resto del mondo. Una volta raggiunto un sufficiente grado di isolamento, le sanzioni diventano evidentemente un’arma spuntata. Una lezione che la Russia di Putin sembra aver appreso abbastanza bene a partire dal 2014.

Dopo l’invasione della penisola di Crimea e l’imposizione di numerose sanzioni imposte nei suoi confronti da parte del mondo occidentale, la Russia ha avviato un chiaro processo di introversione – con la promozione dell’autosufficienza agricola, la riduzione del fabbisogno di finanziamenti esteri e una straordinaria accumulazione di riserve ufficiali.

Last but not least, una corretta valutazione dell’efficacia delle sanzioni richiede la considerazione sia delle sanzioni primarie, vale a dire delle restrizioni realizzate dai paesi sanzionatori (sender country) nei confronti del sanzionato (target country), che delle sanzioni secondarie.

 

Quanto a queste, si tratta di restrizioni raelizzate nei confronti di paesi/individui terzi che – pur non facendo parte né dei paesi sanzionatori né dei paesi sanzionati (tra cui Arabia Saudita, Argentina, Brasile, Cina, India, Indonesia, Israele, Messico, Sud Africa e Turchia) – possono subire gli effetti delle stesse sanzioni nel momento in cui vengono colti a realizzare con il target transazioni/operazioni vietate.

Ad esempio, nel caso specifico della Russia, i sanction busters potrebbero essere delle imprese cinesi che effettuano operazioni con controparti russe. In conseguenza di ciò, queste imprese cinesi verrebbero sanzionate attraverso l’esclusione da possibili transazioni svolte con controparti USA o UE.

Nel complesso, sanzioni efficaci sono in grado di impattare sul sistema economico-finanziario del paese target attraverso il canale commerciale (minor export e minor import di componenti, beni finiti e servizi), il canale finanziario (minori afflussi e deflussi di capitali) e il canale delle aspettative (diffusione di attese di deprezzamento del tasso di cambio e di fallimento di banche, imprese e dello stato sovrano tali da scatenare delle vere e proprie corse agli sportelli delle banche, o episodi di fire sale sui titoli emessi dalle banche dalle imprese o dal sovrano).

Il combinato disposto di tali effetti è dato da un sistema economico in grave difficoltà sia per quanto riguarda lo svolgimento dell’attività produttiva sia per quanto concerne il funzionamento dei mercati finanziari. Se le difficoltà sono estreme non è da escludersi uno scenario fatto di una gravissima recessione, che si accompagna a disoccupazione crescente e soprattutto a una crisi finanziaria che potrebbe assumere una forma triplice: valutaria, bancaria e sovrana. (Italia docet!)

3. La Russia nel sistema globale oggi.

Secondo l’ultimo rapporto del Fondo Monetario Internazionale, la Russia ha affrontato la pandemia in una condizione di bassa crescita, ma godendo di un quadro macroeconomico sostanzialmente robusto – fatto di un deficit e debito pubblico e di un debito estero a livelli minimi – e di un significativo spazio di manovra in ambito monetario, valutario e fiscale.

La modesta crescita russa di questi ultimi anni è il risultato sia di elementi strutturali – quali il basso grado di diversificazione di un’offerta fortemente incentrata sulla produzione di materie prime energetiche e l’associata scarsa dinamica della produttività fattoriale totale – che di fattori riconducibili alle sanzioni comminate dal blocco occidentale dopo l’invasione della Crimea. Le sanzioni non solo hanno indotto un effetto negativo sull’andamento del PIL, ma hanno anche contribuito ad alterare la dimensione geografica dell’interdipendenza – commerciale e finanziaria – con il resto del mondo.

 

Da un punto di vista geografico, l’insieme dei paesi dell’Unione Europea continua a costituire la più importante area di destinazione dell’export russo, anche se a livello di singolo paese il mercato di sbocco più importante è diventata la Cina, seguita da Regno Unito e Olanda.

La Cina è diventato anche il paese più rilevante come area di origine delle importazioni russe, seguita da Germania e USA. Peraltro, la Russia ha nel frattempo rafforzato i legami commerciali con paesi limitrofi quali Armenia, Bielorussia, Kazakhstan, e Kyrgyzstan che a partire dal 2010 hanno aderito (in momenti diversi) all’unione doganale definita dall’Eurasian Economic Union (EAEU).

Da un punto di vista merceologico, la Russia continua ad esportare soprattutto materie prime, per lo più costituite da petrolio e gas. Circa il 21% delle esportazioni mondiali di gas naturale sono russe (circa il 60% delle esportazioni di petrolio sono dirette verso l’Europa, mentre il 20% è venduto alla Cina; 40 % del gas naturale e 25% del petrolio greggio importato dai paesi dell’Unione Europea provengono dalla Russia), mentre quelle di petrolio coprono l’11% circa. 

 

Nel complesso l’import export – dopo la decisa flessione conosciuta nel biennio 2015-15 a causa delle sanzioni post-invasione della Crimea – ha generato un surplus commerciale pari a 80 mld. Dollari (corrispondenti al 5% del PIL) nel 2020.

L’avanzo commerciale – unito al modesto pagamento di interessi sulle passività finanziarie estere – ha messo il paese nella condizione di registrare continui avanzi nelle partite correnti (solo nel 2018 il surplus è stato pari al 7% del PIL) che hanno consentito non solo di azzerare il debito estero, ma addirittura di raggiungere una posizione creditrice verso il resto del mondo. Infatti, secondo le ultime stime fornite da Milesi Ferretti, alla fine di settembre 2021 l’entità delle attività verso l’estero era pari a 1.620 mld. di dollari, a fronte di passività verso l’estero equivalenti a 1.180 mld. Una condizione che in linea di principio espone fortemente un paese come la Russia alle sanzioni imposte dal mondo occidentale.

Il raggiungimento della condizione di paese creditore è da ricondurre a quanto accaduto dopo il 2014. Il combinato disposto di sanzioni e del deterioramento del quadro macroeconomico (associato al calo del prezzo del petrolio) ha spinto gli investitori stranieri a ridurre fortemente l’afflusso di capitali in Russia, mentre nel contempo la Banca Centrale russa dava l’avvio a una chiara politica di accumulazione di riserve ufficiali. Alla fine del gennaio 2022 lo stock di riserve superava i 630 mld. di dollari, pari a 1,7 il valore dell’import annuale di beni e servizi.

L’aspetto decisamente più interessante riguarda proprio la consistenza e la composizione dello stock di Riserve Ufficiali detenute dalla Banca Centrale russa. I continui avanzi di bilancia dei pagamenti hanno fatto sì che le riserve aumentassero sino a raggiungere i 630 mld. di valore equivalente a dollari, che costituiscono la voce più rilevante delle attività estere detenute dal sistema russo. Tuttavia, le attività denominate in dollari che ancora nel 2018 erano quasi la metà del del totale delle riserve, nel 2018 erano scese al 18% e alla fine del 2021 erano solo il 16% del totale. Al contrario le riserve in yuan che ancora nel 2016 pesavano meno del 5% ora hanno raggiunto il 14%; mentre quelle in euro sono circa un terzo del totale (mentre l’oro è di poco sopra al 20%).

 Dietro questo processo di “de-dollarizzazione” delle riserve vi è una deliberata scelta di politica estera che riflette ciò che Eichnegreen ha definito “Martian strategy”: vale a dire un approccio alla accumulazione e gestione delle riserve ufficiali non più guidato dalle relazioni commerciali e/o finanziarie (come è stato ed è ancora oggi per molti paesi) quanto piuttosto dalla considerazione di aspetti quali la sicurezza nazionale e le alleanze geopolitiche.

È interessante anche notare come la seconda voce più rilevante delle attività estere detenute dal sistema russo sia costituita dagli Investimenti Diretti Esteri (FDI, pari a circa 500 mld. Di dollari), la cui effettiva localizzazione è tuttavia di non semplice identificazione (Milesi Ferretti, cit.). La gran parte di questi FDI è infatti collocata a Cipro, un centro finanziario che serve sostanzialmente a nascondere la vera destinazione finale dell’operazione. Un aspetto di non poco conto quando si tratta di determinare l’effettiva capacità di sanzioni come la confisca o il congelamento di assets detenuti all’interno di particolari giurisdizioni.

4. Dalla teoria alla pratica: le sanzioni alla Russia.

Le sanzioni sono state applicate secondo una vera e propria escalation avviata a partire dagli ultimi giorni di febbraio 2022, quando le truppe dell’esercito russo hanno iniziato a concentrarsi lungo il confine con l’Ucraina.

  È opinione comune che il pacchetto di sanzioni introdotto da quel momento in avanti da USA, UE ed altri paesi costituisca il più duro e comprensivo insieme di misure multilaterali mai prese nei confronti di un importante, singolo stato nazione, a partire dall’inizio della Guerra Fredda.

 Le sanzioni imposte negli ultimi anni nei confronti di Iran, Venezuela, Corea del Nord e della stessa Russia (post-invasione della Crimea) sono solo una piccola parte di quanto è stato applicato nei confronti della Russia dopo il 24 febbraio 2022

 

Le sanzioni comminate si compongono di interventi di diversa natura (per elenco dettagliato e aggiornato dei quali si rinvia al Brookings Sanctions Tracker).  Vi sono provvedimenti che insistono direttamente sui flussi commerciali quali: divieti sull’esportazione di tecnologia e di altri beni e servizi sensibili verso la Russia; divieti sull’importazione di petrolio e gas russo (per il momento introdotti solo dal Governo USA e britannico); sospensione dell’applicazione della clausola di nazione più favorita (per il momento decisa solo dal Governo canadese).

Tuttavia, le principali sanzioni sono di carattere finanziario, quali: esclusione di buona parte di intermediari russi dal sistema di messagistica internazionale SWIFT; congelamento di attività (assets freezing) detenute dalla Banca centrale e da alcune banche commerciali russe; confisca di assets (reali e finanziari) di proprietà di oligarchi e di politici vicini a Putin.

1) Divieti sulle esportazioni. Sono stati introdotti controlli e divieti sulle esportazioni verso la Russia di prodotti considerati strategici per l’industria aerospaziale, marittima e della difesa.

L’obiettivo dichiarato di tali misure è ridurre e/o impedire l’accesso della Russia a input tecnologici di vitale importanza per lo svolgimento di numerose attività produttive.

Ad esempio, sono state vietate le esportazioni verso la Russia di semiconduttori che sono strategici non solo per l’Information and Communication Technology, ma anche per la produzione di materiale bellico.

Un aspetto importante non solo dal punto di vista economico ma anche geo-politico. Peraltro, l’Amministrazione Biden ha proibito anche le esportazioni di questi beni da parte di paesi terzi nel caso in cui per la loro produzione venga utilizzata tecnologia made in USA (come nel caso dei beni prodotti a Taiwan e Corea del Sud). A ciò si aggiunge una lunga lista di ulteriori divieti – cui ha aderito in taluni casi persino la neutrale Svizzera – quali ad esempio il divieto di vendere servizi assicurativi alle compagnie aeree russe (introdotto dal governo britannico).

2) Divieti sulle importazioni di petrolio e gas russo.

Essendo tra i maggiori esportatori di greggio e di gas naturale, la Russia è fortemente esposta alle conseguenze di un eventuale divieto a importare petrolio e gas introdotto dai paesi occidentali, in modo particolare dai paesi europei. Al tempo stesso, proprio la notevolissima dipendenza energetica nei confronti delle Russia sofferta da paesi come Germania e Italia rende l’introduzione di tale divieto una vera e propria arma a doppio taglio.

 La considerazione di questi aspetti consente di comprendere l’atteggiamento asimmetrico assunto da USA, UK e UE nei confronti della imposizione di divieti applicati alle importazioni di petrolio e gas russo.

Mentre gli USA e UK – che importano dalla Russia circa l’8% del loro import totale di greggio – pari a 8,5 mil di barili al giorno – hanno introdotto un divieto sulle importazioni di petrolio, la UE non è stata sinora in grado di fare altrettanto in conseguenza della sua fortissima dipendenza energetica, che ha spinto verso un atteggiamento interlocutorio.

Nella migliore delle ipotesi (e per certi versi in modo un poco irrealistico) si potrà pensare alla introduzione di una limitazione di questo tipo non prima della fine del 2023 quando le importazioni europee di petrolio e gas russo potrebbero essere state ridotte grazie alla maggior fornitura di gas liquido da parte degli USA.

3) Sospensione dell’applicazione della clausola della nazione più favorita. Unione Europea, Stati Uniti e gli altri Paesi del G7 hanno annunciato che non applicheranno alla Russia la clausola della nazione più favorita, la regola base dell’Organizzazione mondiale del commercio. In tal modo, questi paesi seguiranno il Canada che a partire dal 3 marzo ha iniziato a praticare tariffe del 35% sulle importazioni provenienti dalla Russia (e dalla Bielorussia, sanzionando così il suo coinvolgimento nell’invasione dell’Ucraina).

Tale misura comporterà dei costi non indifferenti per il sistema economico russo, le cui esportazioni verrebbero drasticamente ridotte in conseguenza del loro maggior costo. Ovviamente la fonte di maggior costo deriverebbe non tanto dalle minori esportazioni verso gli USA – la cui integrazione commerciale con la Russia è davvero molto limitata – quanto piuttosto dalle minori vendite verso la UE – che come già ricordato costituisce la più importante area di destinazione delle esportazioni russe.

4) De-swifting delle banche russe. Una mossa decisamente rilevante è costituita dal divieto – introdotto nei confronti di 7 intermediari bancari russi che rappresentano poco più di un quarto degli attivi del sistema bancario russo – di utilizzare il sistema di messagistica interbancaria internazionale SWIFT, che trasmette oltre 40 milioni di messaggio al giorno.

 

Tale decisione ha suscitato un dibattito non piccolo tra gli addetti ai lavori (e non) per diversi motivi. In primo luogo, molte delle banche coinvolte in tale provvedimento sono già soggette ad altre sanzioni che impediscono loro lo svolgimento di transazioni internazionali.                       È questo il caso di Sberbank che è già stata inibita dall’accedere a sistemi di clearing delle proprie transazioni su tutto il territorio USA.

 Inoltre, vi sono altri sistemi di messaggistica interbancaria a disposizione delle banche russe, come il sistema SPFS (sviluppato dai russi dopo le sanzioni che hanno seguito l’annessione della Crimea) o il sistema CIPS elaborato dai cinesi.

Tali sistemi, in linea di principio, consentirebbero di by-passare il provvedimento depotenziandone l’efficacia. Tuttavia, le opzioni  in realtà non esistono: l’utilizzo di SWIFT avviene infatti in ragione di costi decisamente inferiori a quelli di sistemi quali SPFS e CIPS, ragion per cui il mancato accesso a SWIFT costituisce una sanzione in grado di produrre costi davvero rilevanti.

5) Congelamento di assets di banche commerciali e della Banca centrale.

 L’Amministrazione USA ha provveduto a vietare qualsiasi transazione in dollari all’interno degli USA con alcune banche russe – ad esclusione delle tre principali banche (Sberbank, Gazprombank e VTB) – e a congelarne gli assets.

 Ma la decisione davvero sorprendente riguarda il congelamento delle reserve ufficiali di proprietà della Banca centrale russa, costituite da attività finanziarie custodite all’interno di un elevato numero di giurisdizioni diverse da quella russa – quali USA, Unione Europea, Regno Unito, Canada, Giappone, Australia e Svizzera. In linea di principio, le riserve – pur essendo assets fisicamente collocati all’interno di una giurisdizione estera – non sono espropriabili in quanto godono della cosiddetta foreign sovereign immunity, che garantisce una protezione pressochè assoluta. La decisione del febbraio scorso ha di fatto cancellato l’immunità sovrana goduta dalle riserve ufficiali.

Operativamente ciò significa che almeno la metà degli oltre 630 mld di equivalenti a dollari di riserve non sono utilizzabili dalla Banca Centrale per svolgere interventi sui mercati valutari.

 Solo le riserve in yuan cinesi, considerevolmente aumentate all’interno dell’armamentario valutario di proprietà della Banca Centrale russa, possono essere mobilizzate.

La misura è incisiva per due ordini di motivi. In primo luogo, essa riduce in modo sostanziale l’arsenale di strumenti a disposizione della Banca Centrale russa per condurre operazioni di stabilizzazione del tasso di cambio del rublo. Non casualmente all’indomani dell’annuncio di tale sanzione, la moneta russa ha perso più del 30% del suo valore, nonostante il fortissimo rialzo dei tassi di interesse portati dal 9,5 al 20%: nel complesso, il deprezzamento registrato dal rublo rispetto alle quotazioni di fine 2021 ha raggiunto il 50%.

 In secondo luogo, essa limita fortemente la capacità del paese di pagare importazioni fatturate in Dollari, qualora per effetto delle stesse sanzioni venissero a mancare introiti in valuta pregiata generati dalle residue esportazioni. Ciò che sembrava essere un’arma fondamentale nella costruzione della “Fortezza Russa” – l’accumulazione di Riserve Ufficiali che avevano assunto nel giro di pochi anni una dimensione consistente per qualsiasi metrica utilizzata – viene così fortemente depotenziata. Il famoso war chest risulta un’arma spuntata.

6) Confisca e congelamento di assets individuali.                                               Infine, sia l’Amministrazione USA che quella britannica e dell’Unione Europea hanno preso misure decisamente restrittive nei confronti di beni e attività finanziarie di proprietà di Putin, di politici – tra cui numerosi Ministri oltre che ampia parte dei membri della Duma – e di imprenditori/oligarchi considerati a lui vicini.

Nel complesso sono soggetti a restrizioni più di un migliaio di persone. Oltre ai provvedimenti volti a congelare la disponibilità degli assets, sono state irrogate misure che mirano a limitare la mobilità fisica dei singoli individui sanzionati. Con l’obiettivo ultimo di generare un crescente distanziamento tra gli oligarchi e la Presidenza russa.

 

5. Conseguenze delle sanzioni per la Russia

Il combinato disposto di sanzioni commerciali e finanziarie sta già chiaramente producendo delle conseguenze importanti per l’apparato produttivo e per il funzionamento del sistema economico-finanziario russo. In estrema sintesi, le sanzioni hanno determinato:

1) Crollo del rublo sui mercati valutari. La svalutazione ha raggiunto – nella fase più acuta della crisi – il 50% con evidenti impatti negativi sia sull’andamento dell’inflazione – per via della maggior componente importata – che sul tenore di vita delle classi meno abbienti – il cui paniere dei consumi risulta sostanzialmente più costoso. Il deprezzamento si è manifestato nonostante l’introduzione di controlli sui movimenti di capitale in uscita che avrebbero dovuto limitare la pressione al ribasso esercitata sul rublo e il forte incremento dei tassi di interesse.

2) Maggior livello dei tassi di interesse. Per contrastare la caduta verticale della quotazione del rublo la Banca Centrale ha dovuto reagire aumentando in modo sostanziale i tassi di policy, passati dal 9,5 al 20%. Ovviamente – come tipicamente avviene in occasione di questi episodi di crisi valutaria – la contromisura adottata costituisce una medicina dai forti effetti collaterali indesiderati. L’attività produttiva – già minata dalla mancata disponibilità di beni essenziali – è ulteriormente posta in difficoltà dalla scarsa disponibilità di credito erogato in ragione di tassi elevati.

3) Crollo del rating sovrano e quasi-default sovrano. Prima dell’invasione dell’Ucraina, la Russia veniva considerata un debitore tra i più affidabili.

Il giudizio positivo era il frutto della considerazione dell’elevata accumulazione di riserve, della notevole capacità di ottenere valuta pregiata attraverso l’esportazione di idrocarburi, ma soprattutto dell’assenza di debito estero.

 Lo scoppio del conflitto e il successivo varo di sanzioni ha alterato rapidamente il giudizio nei confronti del sovrano russo che è letteralmente crollato. Le principali agenzie di rating hanno portato la valutazione del merito di credito del sovrano russo allo status di junk. Contemporaneamente il prezzo delle obbligazioni sovrane russe denominate in rubli si è quasi azzerato (20 centesimi per dollaro), anticipando le possibili estreme conseguenze delle sanzioni e del conflitto sulla capacità di ripagare il debito e di onorare le cedole. In realtà ancora ai primi di marzo, il sovrano russo ha pagato le cedole in scadenza, onorando gli impegni assunti con la comunità finanziaria, anche se il pagamento non ha potuto raggiungere i creditori stranieri per via di una contro-misura imposta dal governo di Mosca.

4) Crisi di fiducia, corse agli sportelli e crollo del mercato azionario. Il deprezzamento del rublo, unito alle evidenti difficoltà produttive e al maggior livello dei tassi di interesse ha generato una sostanziale crisi di fiducia nei confronti del sistema russo in generale e di quello bancario in particolare. Da qui la spinta a convertire i depositi bancari in moneta circolante dando luogo alla più classica delle corse agli sportelli bancari e il tentativo di vendere le azioni di società quotate, ciò ha determinato un vero e proprio crollo del mercato di borsa, terminato solo con la temporanea chiusura del mercato stesso.

 

5) Difficoltà nello svolgimento dell’attività produttiva e di consumo. Numerose filiere, soprattutto quelle maggiormente e più direttamente coinvolte nel pacchetto di sanzioni, stanno andando incontro a crescenti difficoltà nel gestire il normale svolgimento dell’attività produttiva. Ciò comporta anche crescenti difficoltà a rifornire esercizi commerciali con beni di prima necessità. Da qui le code agli esercizi commerciali e i numerosi tentativi di accaparramento di beni sempre più scarsi.

 

Nel complesso l’insieme di questi effetti determinerà una severa recessione nel 2022, con un forte aumento dei livelli di povertà unito a pesanti effetti redistributivi.

Se pochi giorni dopo lo scoppio della guerra e l’introduzione delle prime sanzioni, Goldman Sachs aveva previsto per il 2022 una riduzione del Pil russo vicina al 7%, le ultime stime prodotte dall’Institute for International Finance (Hilgenstock e Ribakova) parlano di una caduta di PIL almeno di 15 punti percentuali.

Ma quest’ultima previsione è probabilmente sbagliata per difetto e destinata ad accrescersi con il perdurare del conflitto, anche in conseguenza delle decisioni prese da un numero crescente di società straniere che hanno autonomamente deciso di annullare gli acquisti di beni russi o hanno optato per la chiusura delle loro attività sul territorio russo, implementando de facto una severa politica di self-sanctioning.

6. Conseguenze delle sanzioni (e del conflitto) per il resto del mondo.

Non meno importante sarà l’effetto – dovuto al combinato disposto di sanzioni e conflitto – sul  sistema economico internazionale, che si troverà a vivere le conseguenze di un nuovo shock stagflazionistico (come quello già sperimentato nel corso degli anni ’70, in conseguenza del forte rincaro del prezzo del petrolio) che si sovrappone alle conseguenze di uno scenario di de-globalizzazione (che accentua ed esaspera alcuni degli aspetti già posti in evidenza dalla materializzazione dello shock pandemico).

Il crescente isolamento della Russia (a causa delle sanzioni) e dell’Ucraina (a causa del conflitto) avrà importanti ripercussioni per l’economia internazionale attraverso diversi canali.

 In primis, a causa della minor fornitura di materie prime di cui la Russia è leader mondiale in diversi comparti: alluminio, nickel, rame, greggio, gas naturale; ma anche grano e molti altri generi alimentari – dai granchi al merluzzo congelato, per arrivare allo zucchero grezzo di barbabietola, come chiaramente evidenziato da Amighini.

In modo simile non va dimenticato che l’Ucraina vanta un ruolo fondamentale nella fornitura di gas rari – come neon, krypton and xenon — intensamente utilizzati nella produzione di semi-conduttori.

Tale contrazione dell’offerta si configura come il più classico degli shock negativi dal lato dell’offerta, capace di produrre un forte aumento delle quotazioni di diverse materie prime e di conseguenza del livello generale dei prezzi.

Il peso straordinariamente rilevante della Russia all’interno del mercato energetico ed alimentare pone inoltre seri problemi per numerosi paesi sia sul fronte della energy security (Germania e Italia su tutti) che della food security (come nel caso dell’Egitto e di numerosi paesi africani dell’area mediterranea che sono sostanzialmente dipendenti per il loro fabbisogno alimentare dalle importazioni di materie prime alimentari da Russia e Ucraina).

 Non casualmente molti analisti hanno già previsto una crisi umanitaria, con conseguente aumento di flussi migratori verso l’Europa. Infine, non va dimenticato come vi siano implicazioni di non poco conto anche per quanto concerne lo svolgimento dell’attività produttiva in diverse global value chain (GVCs), caratterizzate da un notevole impiego nelle fasi a monte di materie prime.

 Il rischio di ripetizione di una supply disruption dovuta alla replica di una sorta di China effect — legato alla eccessiva dipendenza di alcune GVCs da materie prime prodotte in Russia — è non piccolo (Foroohar).

Peraltro, il funzionamento delle GVCs – e non solo di quelle legate alle supply chains agricola ed energetica – sarà anche influenzato dalla crescente difficoltà a movimentare il traffico marittimo, già pesantemente colpito dalle misure di contenimento post-pandemia.

Due cifre bastano a far capire la dimensione e la natura del problema. 1 su 20 degli ufficiali imbarcati sulle navi mercantili è di nazionalità ucraina; e quasi il 13% del personale marittimo imbarcato sulle grandi navi commerciali proviene da Russia e Ucraina.

Nel complesso, ci si aspetta una riduzione del tasso di crescita dell’economia mondiale che potrebbe essere compreso tra 1 e 2 punti percentuali, per effetto di una caduta dei livelli di attività economica ben maggiore nella regione europea rispetto agli USA.

 Ad esempio, l’OCSE ha stimato in ragione di 1,4 punti percentuali la riduzione della crescita economica in Europa.

Si tratta però di una stima del tutto provvisoria e prudenziale che non considera i possibili effetti (ben più dirompenti) di un embargo europeo sulle importazioni di petrolio e gas russo. Contestualmente il tasso di inflazione – che già prima dell’invasione dell’Ucraina aveva raggiunto livelli mai sperimentati negli ultimi 20 anni sia in Europa che negli USA –   potrebbe accelerare in modo consistente. Secondo le stime prodotte da Ha e al., un incremento del prezzo del petrolio del 50% potrebbe contribuire – nell’arco di due anni – ad aumentare l’inflazione globale del 4,4% (riflettendo un peso dei prodotti energetici nel paniere dei consumi pari al 9% circa). Sui mercati verrebbero premiate le valute dei paesi considerati dei porti-sicuri (safe-haven) come il franco svizzero e i beni rifugio (come l’oro).

7. Esistono vie di fuga dalle sanzioni?

In realtà i primi a creare delle vie di fuga nei confronti delle sanzioni sono gli stessi paesi sanzionatori. Il già menzionato Office of Foreign Assets Control (OFAC) ha stilato una lunga serie di eccezioni, costituite da operazioni che possono comunque essere svolte con entità residenti in Russia, o con soggetti con esse coinvolti. Ad esempio, questo è il caso dell’incasso di interessi su titoli del debito sovrano russo; oppure il pagamento di esportazioni di alcuni prodotti agricoli o di apparati medicali.

La stessa Unione Europea è al centro della più notevole eccezione all’interno dell’ampio pacchetto sanzionatorio: quella costituita dai cosidetti energy carve-outs.

 Infatti, lo stesso sistema bancario russo inibito dallo svolgimento di numerose operazioni può compiere operazioni di incasso/pagamento riguardanti le transazioni con paesi europei di prodotti energetici russi.

Tutto ciò con l’evidente obiettivo di limitare le conseguenze negative per l’Europa innescate da un altrimenti possibile crollo dell’importazione di fonti di energia dalla Russia.

Oltre ai carve-outs concessi dal sender, vi sono da considerare le vie di fuga cercate dal target.

Ad esempio, il recente annuncio (non ancora supportato da decisione definitiva) di obbligare i “paesi ostili” (unfriendly countries) a pagare le importazioni di petrolio e gas usando rubli (solo le importazioni europee di gas russo valgono l’equivalente di 7-800 milioni di dollari al giorno) costituisce un primo tentativo – in chiara violazione dei termini contrattuali – per sfuggire alle conseguenze delle sanzioni applicate sugli stock di Riserve Ufficiali.

 In questo modo la tradizionale funzione di intervento sul mercato valutario svolta dalla Banca Centrale viene di fatto demandata agli stessi importatori che – concorrendo a sostenere artificiosamente la domanda di rubli su mercati – ne limitano l’eventuale deprezzamento.

In altre parole, la limitazione sull’uso degli stock verrebbe aggirata mediante delle contromisure che prevedono l’imposizione di nuove regole sui flussi e che di fatto scaricano il rischio di cambio sui paesi importatori. A partire dal 5 marzo 2022, infatti, era fatto obbligo per gli esportatori russi di convertire in rubli almeno l’80% degli incassi ottenuti in valuta pregiata.

Dopo questo provvedimento, le banche russe, le uniche in grado di fornire rubli al mercato, si trovano nella condizione obbligata di convertire in rubli il 100% di ciò che ottengono come valuta pregiata.

Qualora – proprio in conseguenza della maggior domanda di rubli generata dalla ridenominazione forzata dei contratti – il rublo si dovesse apprezzare sui mercati valutari, ciò corrisponderebbe a un maggior costo per i paesi importatori.

 Viceversa, nel caso di un ulteriore deprezzamento della moneta russa. Nel momento in cui scriviamo, la decisione di Putin di imporre ai “paesi ostili” l’utilizzo di rubli per pagare le loro importazioni di gas e petrolio, unito alla introduzione di pesanti controlli che limitano l’uscita dei capitali, ha fatto sì che la quotazione della valuta russa ritornasse sui livelli antecedenti il 24 febbraio (azzerando di fatto il pesante deprezzamento).

 

Un’altra possibile via di fuga è costituita dal tentativo di ripagare in rubli le cedole sui titoli del debito sovrano denominati in dollari. Mercoledì 16 marzo 2022 il Governo di Mosca avrebbe dovuto rimborsare 117 milioni di dollari per il pagamento di interessi su due cedole relative ad emissioni denominate in valuta USA. Tuttavia, nei giorni precedenti la scadenza, il governo russo aveva più volte evocato la possibilità (cui poi non ha dato seguito) di ripagare tali cedole in rubli, per effetto dell’artificial default indotto dalle sanzioni stesse.

 Infatti, rappresentanti del Governo di Mosca non avevano mancato di ribadire come tale decisione fosse da ritenersi «assolutamente corretta» visto e considerato che le misure di congelamento – applicate a più di metà delle riserve ufficiali detenute dalla Banca Centrale – costringevano il paese a usare i dollari disponibili solo per pagare le importazioni di beni strettamente necessari (quali alimentari e medicinali).

La questione è interessante anche perché rinvia alla possibilità che l’uso del rublo al posto del dollaro non venga assimilato a una condizione di default.

Un caso in verità possibile, in virtù del fatto che 6 delle 15 emissioni in dollari di titoli sovrani russi contengono una fayback cause che consentirebbe a Mosca di ripagare cedole e principale usando una valuta alternativa, vale a dire rubli (svalutati). Ciò significa che un’operazione di questo tipo – che concretamente produrrebbe nei portafogli degli investitori conseguenze simili a quelle di un default – tecnicamente potrebbe non essere considerata come tale.

 

Infine, non andrebbe sottovalutata la possibilità di aggirare le sanzioni attraverso l’uso di criptovalute, che facendo uso della blockchain tecnologi consentono il mantenimento dell’anonimato delle controparti coinvolte nelle transazioni (Danielsson; Flitter e Yaffe-Bellany).

Uno scenario che sembra essere del tutto realistico per due buoni motivi. Dal lato della domanda, va ricordato che le criptovalute tendono ad essere molto utilizzate proprio laddove i governi nazionali tendono ad ostacolarne l’uso (anche per motivi legati al venir meno della possibilità di realizzare uno stretto controllo sociale, come in Russia).

 Dal lato dell’offerta, perché i fornitori di criptovalute – in quanto strenui difensori di una visione estremamente liberale – si oppongono all’obbligo di dover congelare i conti correnti dei loro clienti russi.

8. Conclusioni

Le sanzioni – che dovrebbero costituire un potente deterrente ex-ante contro lo scoppio di una guerra – potrebbero almeno servire a ridurre la lunghezza del conflitto attraverso l’imposizione di una serie di costi ex-post insostenibili già nel breve-medio termine per il paese target. Anche se la storia mostra chiaramente come le sanzioni si siano sempre rivelate meno efficaci di quanto auspicato, in occasione dell’invasione dell’Ucraina il mondo occidentale le ha nuovamente utilizzate, facendo soprattutto ricorso a misure di carattere finanziario.

Tale scelta riflette la posizione di dominanza che il mondo occidentale – e più in particolare gli USA – continua ad avere all’interno del Sistema finanziario internazionale, che consente di poter fare leva su ciò che Steil e Litan hanno definito Financial Statencraft.

 Il rischio attuale è che tali sanzioni – pur essendo parte di un pacchetto che non ha eguali nella recente storia del sistema internazionale – non siano comunque in grado di fermare rapidamente il conflitto, che sinora è stato caratterizzato da una continua escalation nell’uso della forza militare. Il tempo dirà se e quanto efficace sarà stato l’apparato sanzionatorio posto in essere contro la Russia dopo il 24 febbraio 2022.

 

 

 

Presentato al Parlamento USA un disegno di legge repubblicano per togliere i finanziamenti al Forum di Davos creato da Klaus Schwab.

Laverita.info-Stefano Graziosi- (3 settembre 2022) -ci dice:

 

Klaus Schwab ha creato a Davos la culla del pensiero Dem Usa liberal, progressista, social-comunista-bolscevico e ora adottato come una religione terrena da tutti i Globalisti occidentali.

“Basta fondi da qualsiasi dipartimento di Stato Usa”.

Alcuni settori conservatori americani hanno dichiarato guerra al “Forum di Davos” e al suo creatore Klaus Schwab. Secondo quanto riporta il sito ufficiale del Congresso degli Stati Uniti, lo scorso 26 agosto 2022, i deputati repubblicani Scott Ferry, Tom Tiffany e Lauren Boebert hanno introdotto alla Camera dei rappresentanti un disegno di legge che punta a tagliare i finanziamenti americani al famoso “Forum Davos” svizzero. 

Non a caso, la norma si intitola “Defunt Davos Act”.

“Nessun fondo disponibile al Dipartimento di Stato, all’Agenzia per lo sviluppo internazionale degli Stati Uniti o a qualsiasi altro dipartimento o agenzia può essere utilizzato per fornire finanziamenti al Word economic forum”: questo è lo stringato testo del disegno di legge.

Fondato nel 1971 dall’ingegnere tedesco Klaus Schwab (la sua azienda costruisce   bombe atomiche in Sud Africa) il Forum -secondo il suo stesso sito Web – “coinvolge i principali leader politici globalisti occidentali, economici, culturali, e di altro tipo della società occidentale per dare forma alle agende globali, regionali e di settore, con i principi non democratici codificati anche nella “Quarta Rivoluzione Industriale” dettati da Klaus Schwab”.

“Il Forum si impegna i tutti i suoi sforzi per dimostrare l’imprenditorialità nell’interesse pubblico globale (sulla falsariga di quanto già in attuazione in Cina), mantenendo i più alti standard di governance. L’integrità morale e intellettuale è al centro di tutto ciò che fa”, si legge ancora. Questa realtà è tuttavia diventata nel tempo sempre più invisa a vari ambienti del conservatorismo statunitense, che la considerano più o meno smaccatamente orientato in senso liberal progressista social-comunista radicale, un consesso che, secondo i critici, mira a impostare una sbagliata idea della globalizzazione occidentale, poco attenta agli impatti socioeconomici negativi sulle classi meno abbienti.

Tra i vari leader presenti quest’anno alla kermesse, tenutasi lo scorso maggio 2022, figurava anche l’inviato speciale statunitense per il clima, John Kerry, che ha dialogato sul palco con l’omologo cinese, Xie Zhenhua. I due avevano firmato un’intesa in materia di ambientalismo al summit di Glasgow sul clima nel novembre del 2021: un’intesa tuttavia molto fumosa. Non è del resto un caso che in patria Kerry sia finito spesso nel mirino delle critiche dei repubblicani.

Questi ultimi lo hanno infatti accusato di cercare una distensione con Pechino in nome della cooperazione climatica, mettendo in secondo piano   le tensioni in corso sui diritti umani, commercio e problematiche geopolitiche. Senza poi trascurare che sulla sincerità degli impegni ambientali di Pechino circolano molti dubbi.

D’altronde, va anche rilevato che a Davos è stato dato, nel recente passato, non poco spazio a prospettive di ambientalismo piuttosto politicizzato: basi pensare a quando fu invitata, nel 2020, l’attivista svedese Greta Thunberg. Questo poi non vuol dire che tutto il Partito repubblicano sia contrario alla kermesse di Davos.

Secondo il sito dell’ambasciata statunitense in Svizzera, a maggio ha infatti preso parte all’evento una delegazione bipartisan di parlamentari americani. Resta tuttavia il fatto che alcune idee solitamente piuttosto popolari in questa convenzione non siano granché gradite all’Elefantino. Appena pochi giorni fa, l’influente commentatore televisivo conservatore Tucker Carlson ha criticato quella che ha definito “la gente di Davos” proprio per le sue idee in tema di ambientalismo.     

 

 

Le sanzioni anti Russia funzionano?

Cosa si dice alla Casa Bianca.

Startmag.it- Federico Punzi-(15 giugno 2022)- ci dice:

(Atlantico Quotidiano)

 

Funzionari della Casa Bianca citati da Bloomberg ora ammettono in privato che “il danno collaterale” delle sanzioni russe “è stato più ampio del previsto”.

Non che le sanzioni non abbiano avuto un serissimo impatto sull’economia russa, riconosciuto anche dalle massime autorità, come la governatrice della Banca centrale Nabiullina (“le condizioni per l’economia russa sono cambiate drammaticamente “)

E, d’altronde, lo ammettono implicitamente ogni volta che denunciano le sanzioni come “un atto di guerra” contro la Russia, bollando come “ostili” i Paesi che le hanno adottate, o che rispondono alle richieste dell’Occidente, per esempio sul grano ucraino, mettendo come prima condizione sul tavolo la revoca delle sanzioni.

Impatto incerto sulla Russia.

Il rublo sembra stabilizzato ed è difficile valutare le probabilità di un default della Russia, che nelle settimane passate veniva dato per imminente, o l’impatto reale delle sanzioni sulla operatività delle forze armate russe impegnate in Ucraina, che al momento non sembrano risentirne.

Le sanzioni occidentali hanno costretto Mosca ad avviare un processo di adattamento doloroso, che in pratica avrà l’effetto di rendere l’economia russa ancor più dipendente dall’esportazione di materie prime energetiche, isolata dal punto di vista finanziario, mentre dovrà fare a meno di importazioni ad alto contenuto tecnologico dai Paesi del G7, non facilmente reperibili altrove.

Un impoverimento che alla lunga non potrà non avere conseguenze nefaste in termini sia di condizioni di vita che di produzioni strategiche. Ma se l’obiettivo delle sanzioni – le più dure mai adottate nei confronti di un Paese come la Russia – era fermare la guerra, allora bisogna ammettere che ad oggi non stanno funzionando.

Di recente il presidente del Consiglio italiano Mario Draghi ha affermato, senza fornire spiegazioni, che il massimo impatto delle sanzioni sull’economia russa arriverà in estate, tra luglio e agosto. Vedremo, anche se per quella data Putin potrebbe aver raggiunto buona parte dei suoi obiettivi militari.

I danni collaterali per l’Occidente.

Tuttavia, comincia ad essere difficile negare che le sanzioni si stiano ritorcendo contro l’Occidente in misura pesante, mentre almeno un beneficio alla Russia lo stanno assicurando: i forzieri di Mosca sono stracolmi.

L’inflazione galoppante ha costretto la Fed e la Bce a virare rapidamente la politica monetaria, avviando un percorso di stretta sui tassi, tenuti fin troppo a lungo a zero. Una mossa necessaria che però ha inevitabilmente la controindicazione di frenare l’economia.

Ed è alto il rischio di un duplice contraccolpo politico: stanchezza delle opinioni pubbliche occidentali per le politiche di sostegno all’Ucraina e calo dei consensi ai governi promotori e artefici di tali politiche.

Difficile fare stime precise, gli aumenti dei prezzi non sono dovuti interamente alla guerra e alle sanzioni, l’ondata inflattiva era visibile già da mesi prima, ma funzionari della Casa Bianca citati da Bloomberg ora ammettono in privato che “il danno collaterale” delle sanzioni russe “è stato più ampio del previsto”.

E che inizialmente l’amministrazione Biden era convinta che esentare dalle sanzioni il settore energetico e quello alimentare avrebbe minimizzato gli effetti sull’inflazione in patria. E invece, osserva Bloomberg, gli americani si sono ritrovati con l’inflazione più alta degli ultimi 40 anni, spinta proprio da energia e cibo.

Record di introiti da petrolio e gas

A fronte dei danni collaterali maggiori del previsto per Washington, Mosca ha appena registrato un record assoluto di profitti petroliferi.

Le sanzioni sembrano contribuire a spingere i prezzi ai massimi storici per i consumatori occidentali, finanziando la macchina da guerra di Putin, mentre Cina e India acquistano a prezzi scontati.

Nei primi cento giorni di guerra, la Russia ha incassato un record di 93 miliardi di euro dalle sue esportazioni di petrolio, gas e carbone, secondo i dati del Center for Research on Energy and Clean Air, un centro di ricerca con sede a Helsinki, riportati dal New York Times. Circa due terzi di questi guadagni sono giunti dall’Unione europea.

Incassi “senza precedenti, perché i prezzi sono senza precedenti e i volumi delle esportazioni sono vicini ai livelli più alti mai registrati”, ha affermato la ricercatrice Lauri Myllyvirta. Secondo le stime del centro, le entrate superano quanto Mosca sta spendendo per la guerra in Ucraina.

E questo ancor prima degli effetti dell’embargo parziale sul greggio russo (solo quello consegnato via mare, tra l’altro per Mosca più facile da reindirizzare) deciso nei giorni scorsi dall’Ue.

La cosa bizzarra è che i rischi erano ben noti all’interno dell’amministrazione Usa. Il segretario al Tesoro Janet Yellen aveva avvertito che per effetto di un bando Ue Mosca avrebbe esportato una minore quantità di petrolio, ma a prezzi superiori. In realtà, secondo la ricerca citata dal NYT, i volumi di esportazione potrebbero addirittura non ridursi.

Gazprom taglia il gas.

L’Europa ha compiuto degli sforzi importanti per ridurre le sue importazioni di gas russo, acquistandone il 23 per cento in meno nei primi 100 giorni dell’invasione rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Tuttavia, le entrate di Gazprom sono rimaste circa il doppio rispetto all’anno precedente, grazie ai prezzi più elevati.

E proprio ieri Gazprom ha annunciato che ridurrà del 40 per cento il flusso di gas verso la Germania tramite il primo gasdotto Nord Stream, da 167 a 100 milioni di metri cubi al giorno.

La riduzione delle forniture, ha spiegato Gazprom, è dovuta alla “necessità di eseguire riparazioni” al gasdotto, ma “le attrezzature necessarie non sono state consegnate dal gruppo tedesco Siemens“. Siemens Energy ha confermato di aver effettuato la revisione di una turbina di Nord Stream 1, ma che “a causa delle sanzioni imposte dal Canada questa non può essere riconsegnata al cliente”.

L’Europa ha ridotto anche le sue importazioni di greggio russo (-18 per cento a maggio), ma il calo è stato compensato dall’India e dagli Emirati Arabi Uniti, il che non ha portato a nessuna variazione netta nei volumi delle esportazioni petrolifere russe.

Lo abbiamo ripetuto più volte su Atlantico Quotidiano l’unica sanzione efficace contro la Russia di Putin è aumentare la produzione di energia elettrica, tornando a investire in idrocarburi e nucleare, così da aumentare l’offerta globale e abbassare i prezzi, e ridurre la nostra dipendenza dalle forniture russe. Ma stiamo facendo l’opposto, inseguendo l’ideologia gretina della “transizione green”.

A rischio pure i dazi alla Cina.

L’inflazione potrebbe inoltre fare un’altra vittima eccellente: la politica dei dazi nei confronti della Cina adottata dall’amministrazione Trump e fino ad oggi mantenuta da Biden.

Secondo quanto riportato da Axios, infatti, il presidente Usa, “in una riunione della scorsa settimana nello Studio Ovale con i membri chiave del suo governo, ha indicato che sta propendendo per la rimozione di alcuni prodotti dall’elenco dei dazi cinesi dell’amministrazione Trump”, al fine di raffreddare l’inflazione.

E così non solo la Russia, anche la Cina trarrebbe indirettamente vantaggio dalle sanzioni occidentali contro Mosca.    

 

 

 

 

Perché alcune sanzioni fanno

più male all’Occidente.

Lavoce.info- RONY HAMAUI-( 10/06/2022) - INTERNAZIONALE-ci dice:

 

Le sanzioni alla Russia sono sacrosante, ma alcune decisioni sembrano irrazionali. Per esempio, la volontà statunitense di portare Mosca al default. Oppure la discussione sul pagamento in rubli del gas. Un po’ di pragmatismo sarebbe più utile dei proclami.

La spinta al default russo.

Non si è mai visto un paese andare in default sul debito in valuta quando il suo tasso di cambio si mantiene forte e le sue riserve valutarie sono consistenti.

Soprattutto, non si è mai visto un creditore fare di tutto per non farsi rimborsare un debito, specialmente da un acerrimo nemico.

Eppure, gli Stati Uniti si stanno adoperando perché la Russia non rimborsi le proprie obbligazioni in valuta estera e vada in default.

Questo nonostante le controparti russe non abbiano, già oggi, alcuna possibilità di accedere ai mercati finanziari internazionali. Certo, possono esserci motivi di natura morale o di propaganda politica per impedire a Vladimir Putin di rimborsare i propri debiti.

 Tuttavia, dopo aver bloccato le riserve internazionali russe, i beni degli oligarchi e sanzionato in ogni modo l’economia e il sistema finanziario russo, appare quanto mai difficile capire perché non si voglia che il governo russo rimborsi i quasi 38 miliardi di debiti in valuta estera emessi, imponendo così un’ingente perdita ai risparmiatori occidentali.

Ugualmente difficile è capire perché molte aziende occidentali siano costrette a nazionalizzare le loro attività in Russia e quindi di fatto a “regalarle” a Putin.

In alcuni casi queste aziende sono diventate non più profittevoli o difficili da gestire. In molti altri, tuttavia, sembra prevalere una logica per la quale non si debba a nessun costo lavorare in Russia. Nulla da dire da un punto di vista morale, anche se forse un po’ di sano pragmatismo sarebbe più utile agli interessi dell’Occidente.

Petrolio e gas.

Resta poi l’annoso problema del petrolio, su cui da settimane l’Unione europea si sta lacerando per cercare di proibire ai suoi membri di acquistarlo in Russia.

È tipicamente una commodity che viene scambiata sul mercato mondiale a un prezzo che, al di là dei costi di trasporto e di piccole differenze nella qualità, risulta sostanzialmente uniforme.

Così, ogni aumento dell’offerta o della domanda mondiale di petrolio, anche se solo attesa, provoca un’immediata riduzione o un aumento dei prezzi.

Certo, nel breve periodo, vi possono essere difficoltà ad allocare la produzione in maniera efficiente e ogni sanzione tende a ridurre l’offerta e far aumentare i prezzi.

 Tuttavia, se è vero che, nel medio periodo, l’Europa può fare a meno, a un certo costo, del petrolio russo e approvvigionarsi da altri paesi, è altrettanto vero che Mosca può vendere il suo oro nero sui mercati extra europei.

 Così, in definitiva, non appare affatto evidente che i maggiori costi sopportati dall’Europa per fare a meno del petrolio russo siano inferiori ai minori guadagni a cui la Russia dovrà rinunciare vendendolo a paesi terzi senza servirsi dell’efficiente sistema di oleodotti che collegano i suoi giacimenti ai consumatori dei paesi occidentali.

Ovviamente, la questione si sarebbe posta in maniera diversa se il numero di paesi che aderisce alle sanzioni fosse stato maggiore, ma con giganti energivori come la Cina e l’India che non hanno aderito all’embargo, la sua efficacia risulta piuttosto limitata, se non controproducente.

Così slogan come “l’Europa sta finanziando la guerra di Putin” appaiono quanto mai ingannevoli. Ma questo non vuol dire che non si debba diversificare gli approvvigionamenti energetici, anche perché domani potrebbe essere la Russia a tagliare i rifornimenti all’Europa.

Il ragionamento è un po’ meno vero nel caso del gas, che risulta più difficile e costoso da trasportare. Tuttavia, la logica sottostante non cambia, seppure nel breve periodo i costi di aggiustamento risultino molto più rilevanti.

Rimane poi il tema del pagamento in rubli del gas. Al di là di qualche piccola complicazione di natura burocratica e amministrativa, non c’è molta differenza fra pagare Gazprom in dollari o versare i dollari su un conto di Gazprom-bank che poi li trasforma in rubli e li gira a Gazprom.

Anche in questo caso un po’ di pragmatismo forse risparmierebbe al mondo occidentale qualche mal di pancia e soprattutto qualche miliardo di costo generato dalle tensioni che si osservano sui mercati. Come abbiamo visto nelle ultime settimane, appena l’Eni e altre compagnie petrolifere europee hanno deciso di far prevalere il buon senso, i prezzi del gas sono scesi e oggi si posizionano a un livello inferiore a quello osservato prima dell’invasione russa dell’Ucraina.

È vero che le guerre si combattono anche con i simboli, ma lasciamo la facile retorica agli uomini forti e ai dittatori. Purtroppo, come scriveva William Shakespeare nell’Otello, “È tutta colpa della Luna, quando si avvicina troppo alla Terra fa impazzire tutti” (atto V, scena II).    

 

 

 

 

Mosca: “Conseguenze disastrose

per l’economia globale per via

delle nuove sanzioni Ue”

agenzianova.com-Redazione-(22 Luglio 2022) -ci dice:

 

Fra le nuove misure europee, l’inserimento di Sberbank nella lista nera degli enti sanzionati e il divieto di acquisto, importazione o trasferimento di oro, sia indirettamente che indirettamente, prodotto in Russia.

Le conseguenze disastrose per l’economia globale per via delle sanzioni dell’Ue contro la Russia stanno diventando sempre più evidenti.

 Lo ha dichiarato ieri la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, sul proprio canale Telegram.

“Il 21 luglio il Consiglio Ue ha annunciato l’estensione di misure restrittive unilaterali illegittime nei confronti della Russia. Così, con ammirevole tenacia, l’Unione europea continua a spingersi in un vicolo cieco. Sullo sfondo dell’evidente futilità e inutilità della politica di pressione a lungo termine sulla Russia, le conseguenze disastrose delle sanzioni dell’Ue su vari segmenti dell’economia e della sicurezza globale, stanno diventando sempre più evidenti”, ha scritto Zakharova.

Nella giornata di ieri, il Consiglio dell’Ue ha adottato il nuovo pacchetto di sanzioni alla Russia, definito di mantenimento e allineamento.

Si tratta di un pacchetto minore di sanzioni, che va ad aggiornare e modificare, o allineare con le decisioni di Stati partner facenti parte del G7, le sanzioni adottate dall’Ue contro la Russia.

Fra le nuove misure, l’inserimento di Sberbank nella lista nera degli enti sanzionati.

 La decisione presa nei confronti della maggiore banca russa, già esclusa dal circuito Swift nelle passate sanzioni, congelerà i suoi asset in occidente e bloccherà completamente le sue transazioni nell’Unione europea.

Nelle nuove sanzioni è inserito anche il divieto di acquisto, importazione o trasferimento di oro, sia indirettamente che indirettamente, prodotto in Russia, anche se successivamente esportato in Paesi terzi.

Nella misura sono stati compresi anche i prodotti di gioielleria (ad esclusione di quelli di proprietà personali), che sembravano poter essere esclusi dalle sanzioni in un primo momento.

Al fine di evitare potenziali conseguenze negative per la sicurezza alimentare ed energetica nel mondo, l’Ue ha deciso di estendere l’esenzione dal divieto di effettuare transazioni con determinate entità statali, per quanto riguarda le transazioni di prodotti agricoli e il trasporto di petrolio verso Paesi terzi.

Più in generale, l’Unione si è impegnata ad evitare tutte le misure che potrebbero portare all’insicurezza alimentare globale.

 Inoltre, le nuove misure non impediscono a Paesi terzi, e ai loro cittadini che operano al di fuori dell’Ue, di acquistare prodotti farmaceutici o medici dalla Russia.

“Stiamo effettivamente vietando l’esportazione più significativa della Russia dopo l’energia, l’oro russo. Stiamo anche estendendo l’esenzione delle transazioni per i prodotti agricoli e il trasferimento di petrolio a Paesi terzi. Perché l’Ue sta facendo la sua parte per garantire che possiamo superare l’incombente crisi alimentare globale.

Spetta alla Russia smettere di bombardare i campi e i silos dell’Ucraina e di bloccare i porti del Mar Nero”, ha dichiarato Josep Borrell, Alto rappresentante Ue per la politica estera e di difesa.

 

 

 

Josep Borrell: “Le sanzioni contro

la Russia sta funzionando”

sardegnagol.eu- (16 Luglio 2022) - Gabriele Frongia-ci dice:

 

Stanno funzionando le sanzioni contro la Russia? Le iniziative ideate dall’UE stanno “colpendo duramente” Vladimir Putin e la sua oligarchia?

 Per l’Alto rappresentante dell’UE, Josep Borrell la risposta è assolutamente affermativa ma “bisogna avere pazienza strategica prima che producano gli effetti desiderati”.

Da quando la Russia ha iniziato l’invasione dell’Ucraina, l’UE ha adottato sei pacchetti di sanzioni contro Mosca e, allo stato attuale, si sta redigendo un nuovo provvedimento per allineare le sanzioni dell’UE a quelle degli alleati e partner del “G7″.

“Le nostre misure – ha ricordato Borrell – colpiscono già 1.200 individui e quasi 100 entità in Russia. Tali sanzioni sono state adottate in stretto coordinamento con i membri del G7 e il fatto che oltre quaranta altri Paesi le abbiano adottate ne accresce l’efficacia.

Una delle principali azioni adottate dall’UE riguarda l’interruzione dell’acquisto del 90% delle forniture petrolifere dalla Russia entro la fine del 2022, privando Mosca delle entrate corrispondenti ma, ricorda l’Alto rappresentante “la Russia è in grado di vendere il proprio petrolio ad altri mercati”, evidenziando però che “questo vantaggio è limitato dal fatto che la Russia è costretta a concedere sconti elevati su ogni barile – il petrolio russo viene venduto a circa 30 dollari in meno rispetto alla media globale -.

 Inoltre, prosegue Borrell, questo graduale embargo petrolifero e il ridimensionamento delle importazioni di gas, libera l’Europa dalla sua dipendenza energetica dalla Russia”.

Un’azione politica, quest’ultima, da sempre capace di rappresentare un freno verso le azioni aggressive di Mosca: “Questa dipendenza ha probabilmente giocato un ruolo importante nei calcoli iniziali di Putin in Ucraina. Potrebbe aver creduto che l’UE non avrebbe mai sanzionato seriamente la Russia perché troppo dipendente dall’energia. Questa è stata una valutazione erronea di Putin”.

Taglio dei rifornimenti che sta avendo, però, importanti ripercussioni e costi significativi per i Paesi UE: “Tuttavia – spiega Borrell – questo è il prezzo da pagare per difendere le nostre democrazie e il diritto internazionale”.

Le sanzioni, per diversi osservatori, non stanno però danneggiando l’economia russa.

Una interpretazione dubbia per l’esponente dell’UE: “Alcuni osservatori hanno sostenuto che non sono molto efficaci perché il tasso di cambio della valuta russa è molto alto. Il tasso di cambio del Rublo riflette semplicemente il fatto che la Russia ha un enorme squilibrio tra l’alto volume di esportazioni di petrolio e gas e il parallelo crollo delle importazioni che ha seguito le sanzioni. Questo surplus commerciale non è un segno di buona salute economica, soprattutto per un’economia come la Russia. Durante l’esportazione di materie prime non lavorate, la Russia deve importare molti prodotti di alto valore che, come risaputo, non produce.

Per i prodotti di tecnologia avanzata, la Russia dipende dall’Europa per oltre il 45%, dagli Stati Uniti per il 21% e dalla Cina solo per l’11%. La Russia può ovviamente cercare di limitare gli effetti delle sanzioni sostituendo le importazioni con prodotti nazionali. Ciò è stato fatto, non senza successo, nel settore agricolo dopo le sanzioni del 2014. Tuttavia, per i prodotti high-tech, la sostituzione delle importazioni è molto più difficile da mettere in pratica. Le sanzioni sulle importazioni di semiconduttori, ad esempio, hanno un impatto diretto sulle aziende russe che producono elettronica di consumo, computer, aeroplani, automobili o attrezzature militari. In questo campo, ovviamente cruciale nella guerra in Ucraina, le sanzioni limitano la capacità della Russia di produrre missili di precisione. Sul campo, l’esercito russo non fa molto uso di questo tipo di missili a guida di precisione, non per moderazione, ma per necessità, in quanto non ne ha abbastanza. Inoltre, l’azione dell’aviazione russa in Ucraina non ha registrato grandi risultati anche perché manca di munizioni a guida di precisione”.

Il settore automobilistico, prosegue Borrell, è un altro settore che risente molto degli effetti delle sanzioni. Quasi tutte le case produttrici straniere, infatti, hanno deciso di ritirarsi dalla Russia e lo scorso maggio la produzione è scesa del 97% rispetto al 2021: “Inoltre – afferma Borrell – le poche auto che le case produttrici russe producono ancora non avranno né airbag né cambio automatico”

 

La Russia, secondo l’UE, in quanto secondo produttore mondiale di petrolio, sta ancora guadagnando ingenti somme dalla vendita del suo petrolio in tutto il mondo, in particolare ai clienti asiatici e questo la aiuta a continuare a finanziare la guerra.

 Ma nel tempo l’industria petrolifera russa soffrirà non solo dell’abbandono degli operatori stranieri, ma anche della crescente difficoltà di accesso a tecnologie sofisticate come la perforazione orizzontale. Infatti, la capacità della Russia di mettere in produzione nuovi pozzi sarà limitata, il che comporterà un calo della produzione nel medio-lungo periodo secondo la proiezione dell’UE.

Infine, c’è l’industria aerea, che gioca un ruolo molto importante in un Paese così vasto. Circa 700 dei 1.100 aerei civili russi sono di origine straniera. La Russia dovrà sacrificare gran parte della sua flotta, per trovare pezzi di ricambio, in modo che i restanti aerei possano volare.

 Come ha scritto di recente Alexander Morozov, il capo del dipartimento di ricerca della Banca di Russia:” Le restrizioni porteranno a una diminuzione della sofisticazione tecnologica e ingegneristica e della produttività del lavoro nelle industrie sanzionate. Le industrie che si affidano alle più avanzate tecnologie estere e quelle con processi aziendali altamente digitalizzati rischiano di essere colpite più duramente di altre”.

Pro che non possono che aumentare guardando alla perdita di accesso ai mercati finanziari alla disconnessione della Russia con le maggiori reti di ricerca mondiali come ad esempio il CERN e alla massiccia fuga di cervelli delle élite russe con migliaia di professionisti altamente qualificati che hanno lasciato il Paese.

 

Una contrapposizione che, secondo l’Alto rappresentante, sta danneggiando anche gli alleati di Mosca: “Le sanzioni contro la Russia stanno penalizzando il suo commercio con i Paesi come la Cina. Anche se Pechino sembra voler fare gesti ideologici schierandosi con Mosca, rifiutandosi di condannare la sua invasione in Ucraina o riprendendo la narrativa russa sulla minaccia della NATO, nel complesso il Paese asiatico è piuttosto attento nell’aiutare la Russia a eludere le sanzioni UE.

 Mentre le sue importazioni dalla Russia sono aumentate (principalmente grazie a maggiori importazioni di energia), le esportazioni cinesi verso la Russia sono diminuite in proporzioni paragonabili a quelle dei Paesi occidentali. Anche se non lo ammette pubblicamente, la Cina è probabilmente preoccupata che questa guerra possa rafforzare la posizione degli Stati Uniti non solo in Europa ma anche in Asia, con il forte coinvolgimento di Paesi come Giappone e Corea del Sud nella risposta all’aggressione russa. Uno sviluppo strategico che la Cina non vuole”.

 

 

 

Putin: "Da sanzioni conseguenze

catastrofiche per mercato energia"

 adnkronos.com-Redazione-( 08 luglio 2022) - ci dice:

"Gli europei cercano di sostituire il gas russo? Il risultato sarà l'aumento dei prezzi per i consumatori".

Se l'Occidente e in particolare l'Europa andranno oltre sulla via delle sanzioni alla Russia vi saranno "conseguenze catastrofiche" per il mercato globale dell'energia. Vladimir Putin torna a minacciare l'Occidente in un incontro, trasmesso alla televisione russa, con suoi alti funzionari.

Ucraina, Putin: "Russia non ha ancora iniziato".

"Sappiamo che gli europei stanno cercando di sostituire le risorse energetiche russe - ha detto - comunque ci aspettiamo che il risultato di queste azioni sarà l'aumento dei prezzi del gas sul mercato e un aumento del costo dell'energia per i consumatori".

"Questo prova ancora una volta che le sanzioni alla Russia provocano molti più danni ai Paesi che le impongono - ha poi aggiunto il presidente russo - Un ulteriore uso delle sanzioni potrebbe portare a conseguenze ancora più severe, senza esagerazione, persino catastrofiche, per il mercato energetico globale".

Intanto il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha ribadito quanto detto ieri da Putin che ha sfidato l'Occidente affermando che ancora "non abbiamo iniziato nulla di serio" in Ucraina. "Il potenziale della Russia è così grande che solo una piccola porzione è stata usata per l'operazione speciale" ha dichiarato Peskov.

Sanzioni Russia, Letta: "Salvini è un pericolo per l'Italia".

(Adnkronos) - Matteo Salvini rilancia sulla modifica o addirittura l'eliminazione delle sanzioni alla Russia.

Lo fa prima a Fano: "E' l'unico caso al mondo in cui le sanzioni che dovrebbero fermare la Russia, mettere in ginocchio la Russia, invece, che punire i russi stanno punendo gli italiani. Quindi evidentemente qualcuno ha sbagliato i suoi conti".

Il segretario della Lega lo ripete su Twitter: "Le sanzioni stanno funzionando? No. A oggi chi è stato sanzionato sta guadagnando, mentre chi ha messo le sanzioni è in ginocchio. Evidentemente qualcuno in Europa sta sbagliando i conti: ripensare la strategia è fondamentale per salvare posti di lavoro e imprese in Italia".

Parole che scatenano la dura reazione del segretario del Partito democratico Enrico Letta, che su Twitter commenta il cinguettio di Salvini: "Credo che Putin non l'avrebbe detta meglio".

In serata poi, a Reggio Emilia, rincara la dose, coinvolgendo anche il resto del centrodestra:

"La coalizione, checché ne dica la Meloni, ha una scelta che è profondamente ambigua su una delle questioni oggi più importanti, quella dell'aggressione russa all'Ucraina. Salvini vicino a Putin, pro Putin, che sostiene le tesi di Putin, è un vero pericolo per il nostro paese".

Nuova stoccata di Letta dal palco della Festa di Reggio: "Evidentemente è una scelta che è contro di noi, e l'idea che diamo il governo del nostro paese in mano alle quinte colonne del putinismo in Italia, è un argomento in più per combattere fino alla fine, voto per voto, casa per casa, strada per strada".

Da Salvini prende le distanze Fratelli d'Italia.

 è il senatore Giovanbattista Fazzolari a dare l'altolà al segretario della Lega: "Decisioni come il sostegno all'Ucraina, l'invio di armi e le sanzioni, devono essere concordate con i partner occidentali, e l'Italia deve mantenere la compattezza dell'alleanza. è inimmaginabile - sottolinea il fedelissimo di Giorgia Meloni all'Adnkronos - che un governo sulla questione Ucraina segua una linea diversa da quella dei partner occidentali".

 Salvini vuole ripensare le sanzioni? "E' un auspicio da parte del leader della Lega, ma non potrà essere una linea di governo".

 

E se da Forza Italia il coordinatore nazionale Antonio Tajani, parla di "giuste sanzioni", spiegando che "la priorità è abbassare il costo dell'energia e lo si deve fare con un tetto europeo al prezzo del gas, ecco perché serve un'azione congiunta di tutta l'Unione per porre rimedio alle sanzioni giuste che sono state inflitte dall'Europa alla Federazione russa", la parte più "draghiana" del centrodestra non ha dubbi: nessun passo indietro sulle sanzioni.

"L'Italia deve continuare a dare il massimo sostegno all'Ucraina, senza se e senza ma. E l’Unione Europea non deve assolutamente fare nessun passo indietro sulle sanzioni, giuste e necessarie, ma aiutare le persone e le imprese a sostenere le conseguenze delle sanzioni", afferma il capo politico di Noi Moderati, Maurizio Lupi. "Vogliamo essere chiari: gli effetti di una spaccatura del fronte occidentale sarebbero devastanti per l’Italia e l'Europa e le conseguenze economiche e geopolitiche ben più gravi di quelle attuali. Si prosegua, dunque, senza tentennamenti, sulla via tracciata dal governo Draghi".

Gli fa eco il senatore Gaetano Quagliariello, coordinatore nazionale di 'Italia al Centro': "Un conflitto, convenzionale o non convenzionale che sia, non è mai un pranzo di gala. Non esistono sanzioni che aspirino ad essere efficaci che siano indolori per chi le impartisce. Dipende dal valore che si dà ai princìpi in cui si crede".

 

 

 

Sanzioni contro la Russia:

Bruxelles, abbiamo un problema.

Affarinternazionali.it- Alessandro Gili- Matteo Villa-(10 Maggio 2022) -ci dice:

Nella politica europea sulle sanzioni, c’è un paradosso. Un paradosso che abbiamo potuto tralasciare fino ad oggi, ma con il quale dovremo fare i conti. Lo illustra chiaramente un sondaggio, pubblicato la settimana scorsa, sulle opinioni dei cittadini europei sulla guerra in Ucraina.

Secondo la Flash Survey di Eurobarometro, l’85% degli europei si dichiara d’accordo con l’affermazione “l’Ue dovrebbe ridurre la propria dipendenza da gas e petrolio russi il prima possibile”. Allo stesso tempo, l’86% concorda con l’asserzione secondo cui “i crescenti prezzi dell’energia hanno un impatto significativo sul mio potere d’acquisto”.

Tradotto: Bruxelles, abbiamo un problema. Perché l’effetto della guerra e delle sanzioni comincia a farsi sentire in Europa. E anche se il sostegno alle sanzioni da parte dei cittadini europei sembra essere ancora molto elevato, potrebbe bastare poco perché cominci a diminuire; per diversi motivi.

Le sanzioni e l’opinione pubblica: tre fattori per capire.

C’è innanzitutto il fattore temporale. L’invasione è avvenuta oltre due mesi fa e, con il trascorrere dei giorni, il bombardamento quotidiano di notizie sulla guerra rischia progressivamente di sfumare in rumore di fondo. Accade sempre così, con tutti gli shock che subiscono gli esseri umani (guerre incluse): ci si abitua, ci si adatta, si va avanti. È difficile continuare a prestare la stessa attenzione di prima, soprattutto quando si tratta di eventi stressanti.

Paradossalmente, ci troviamo in questa situazione di guerra protratta (o, quantomeno, più lunga del previsto) proprio a causa dell’inatteso successo della resistenza ucraina. Il ritiro delle truppe russe dai dintorni di Kyiv e il loro riposizionamento nell’est del Paese fanno apparire la situazione meno tragica di quanto effettivamente sia, e in qualche modo più distante. Un conflitto che sembra andare verso lo stallo, che sembra allontanarsi anziché avvicinarsi, non è adatto a convincere i governi europei che si debba “fare presto”.

Il secondo fattore riguarda lo stato dell’economia europea. La guerra e le sanzioni, assieme al duro lockdown in Cina e alle politiche monetarie sempre più restrittive per frenare l’inflazione galoppante, stanno causando una frenata dell’economia mondiale.

Frenata molto accentuata soprattutto in Europa: nel primo trimestre 2022 l’Eurozona ha fatto segnare un misero +0,2% rispetto al trimestre precedente (“misero” considerando che ci troviamo ancora in piena ripresa post-pandemia), e l’Italia addirittura un -0,2%. Con gli effetti economici della guerra che diventano man mano tangibili e i consumatori europei già sotto pressione da mesi anche a causa degli alti prezzi dell’energia è sempre più difficile difendere la ratio economica – pur sempre esistente – delle sanzioni.

Il terzo fattore riguarda la forza delle sanzioni. Arrivati al sesto round, le sanzioni iniziano a fare sensibilmente più male anche a chi le impone. L’Europa ha già colpito i bersagli facili, adesso restano quelli molto complicati. Come le sanzioni sul settore energetico, in discussione proprio in queste ore.

Mentre sembra infatti più vicino l’accordo sul pacchetto che includerà l’embargo alle importazioni di petrolio greggio e prodotti petroliferi russi, è sufficiente qualche calcolo per capire che per massimizzarne l’impatto su Mosca ma minimizzare quello sugli europei occorrerebbe un attento disegno delle sanzioni e una gradualità che sul piano pratico sono di difficile realizzazione. La politica deve dare un messaggio, tornare a ribadire la volontà di punire il Cremlino per le sue azioni e per farlo non può dare l’impressione di volere attendere, anche quando potrebbe essere preferibile farlo. E sempre la politica, per chiarezza del messaggio e per la natura “a step” dei negoziati in Europa, preferisce un interruttore on/off a una gradualità che implica un costante monitoraggio e un periodico tornare sulle proprie decisioni.

L’embargo sul petrolio russo, che rappresenta il 27% delle importazioni totali europee, dovrebbe essere approvato nel corso dei prossimi giorni o settimane e potrebbe determinare aumenti di prezzo non ancora scontati dai mercati. In particolare, la previsione di sei mesi per il raggiungimento dell’indipendenza dal greggio russo e di un anno per i prodotti raffinati potrebbe ridurre le quantità esportate verso l’Europa ma determinare un aumento dei prezzi soprattutto in questo periodo transitorio, con la conseguenza che la Russia potrebbe addirittura arrivare a guadagnarci (o non perderci tanto quanto oggi, con le auto-sanzioni) mentre l’Europa potrebbe perderci anche molto (sia in termini di prezzo che di volumi).

Sanzioni, inflazione, economia.

Affinché le sanzioni siano efficaci, dovrebbero colpire in modo netto la controparte, riducendo al minimo gli effetti “collaterali” per chi le impone. Se questo non avvenisse, o se avvenisse il contrario, le sanzioni perderebbero la loro giustificazione primaria. Se, inoltre, i costi per gli europei dovessero aumentare troppo, diventando insostenibili per la società civile e per il tessuto produttivo, non potrebbe che crescere il dissenso nei confronti di tali misure, Si attiverebbe un circolo vizioso le cui conseguenze sono spesso difficili da controllare soprattutto in un contesto come quello attuale in cui la corsa dell’inflazione e i pacchetti di sostegno alle economie stanziati già a partire dalla crisi pandemica riducono gli ulteriori spazi di manovra fiscale a sostegno di famiglie e imprese da parte dei governi.

 

Questa prospettiva sarebbe pericolosa: rischierebbe di approfondire spaccature evidenti già oggi nel dibattito pubblico europeo, malgrado i governi abbiano invece dimostrato un’inattesa capacità di mantenere una linea politica comune di fronte all’aggressione russa in Ucraina. Non è inevitabile che ciò accada. Ma i governi europei dovrebbero riconoscere la necessità di affidarsi, nel disegno delle sanzioni sul petrolio russo, a “tecnici”. Ma, si sa, in tempi di guerra, emozioni e propaganda spesso prevalgono sul principio di realtà.

 

 

 

Russia a due velocità: l'export corre col gas

ma le sanzioni affondano la manifattura.

Repubblica.it - Carlotta Scozzari- (19 AGOSTO 2022) -ci dice:

 

Dal 2023 anche le esportazioni di beni energetici cominceranno a tirare il freno. Molti altri settori stanno già pagando dazio: i viaggi aerei domestici sono scesi dell'83% dall'inizio della guerra mentre sono diminuiti del 70% i volumi delle merci trasportate via aerea.

I dati economici sulla Russia raccontano di un Paese che corre a due velocità. Se, infatti, le esportazioni di gas e petrolio consentono al Pil, almeno per ora, di arretrare meno delle attese, al di fuori dell'export e soprattutto a causa delle conseguenze delle sanzioni occidentali, molti settori dell'economia arrancano.

Nei giorni scorsi, da un documento del ministero dell'Economia di Mosca citato da Reuters, è emerso che quest'anno il Paese di Vladimir Putin si aspetta di incassare dalla vendita all'estero di beni energetici, essenzialmente gas e petrolio, 337,5 miliardi di dollari, vale a dire il 38% in più del 2021.

È proprio questa la principale leva che consentirà al Pil russo, stando alle ultime previsioni governative, di ridursi meno del previsto quest'anno: del 4,2% rispetto al ben peggiore -7,8% stimato a maggio.

Addirittura, a un certo punto, lo stesso Cremlino aveva messo in guardia circa un possibile arretramento dell'economia di oltre il 12%, che avrebbe rappresentato la maggiore discesa del Pil russo dal collasso dell'Unione Sovietica e dalle sue conseguenze, negli anni Novanta.

 Oggi, come visto, le previsioni sono molto più rosee. La Russia prevede, però, che il periodo più cupo per l'economia possa arrivare nel primo trimestre del 2023, per poi ritornare ai livelli prima della guerra in Ucraina (provocata dall'invasione di Mosca risalente al 24 febbraio) entro la fine del 2025.

Gas, è allarme per l'autunno: sarà il primo banco di prova del nuovo governo.

(Luca Pagni -18 Agosto 2022)

Proprio dall'anno prossimo dovrebbe cominciare a farsi sentire l'embargo graduale deciso lo scorso giugno dall'Unione Europea sul greggio e sugli altri prodotti petroliferi raffinati.

Un embargo che finora ha, tuttavia, prodotto effetti limitati, anche per la capacità di Mosca di trovare sbocchi alternativi, come Cina, India e Turchia. Inoltre, la chiusura dei rubinetti del gas all'Europa decisa da Putin sta già riducendo le quantità di metano venduto dalla Russia, sebbene a prezzi maggiori.

 Sempre dal documento citato da Reuters, emerge infatti che il gas esportato dal colosso pubblico Gazprom quest'anno dovrebbe scendere a 170,4 miliardi di metri cubi, rispetto ai 185 stimati a maggio e ai 205,6 del 2021. Mentre il prezzo medio del gas esportato, nel 2022, dovrebbe più che raddoppiare a 730 dollari per 1.000 metri cubi, prima di scendere gradualmente entro la fine del 2025.

Una concomitanza di eventi che aiuta a capire perché le proiezioni russe sulle entrate dall'export di beni energetici vedano per il 2023 una contrazione a 255,8 miliardi di dollari, dai 337,5 come visto stimati per il 2022 e dai 244,2 miliardi dell'anno scorso.

C'è poi tutto il mondo economico al di fuori dell'export energetico.

Nell'ultima newsletter "The overshoot", Matthew C. Klein tira alcune somme, dopo avere letto gli ultimi dati, risalenti a fine luglio, pubblicati dall'agenzia statistica Rosstat e dalla Banca centrale russa.

 Ebbene, a giugno, la spesa al dettaglio segnala una discesa del 10% dall'inizio della guerra, tenendo conto dell'inflazione. La manifattura russa di lavatrici e frigoriferi ha accusato un colpo del 50% sempre da febbraio, mentre l'assemblaggio di auto è affondato del 90%, stando ai dati riportati da Klein. I viaggi aerei domestici sono scesi dell'83% mentre sono diminuiti del 70% i volumi delle merci trasportate via aerea.

Gas, Saipem tratta con la russa Novatek per uscire dai contratti del progetto Arctic Lng 2.

(Carlotta Scozzari-08 Agosto 2022)

 

Le sanzioni già in atto impediscono, infatti, alle compagnie aeree russe di acquistare aeromobili, pezzi di ricambio o equipaggiamenti per la loro flotta, così come di effettuare le necessarie riparazioni o ispezioni tecniche.

Dal momento che la flotta aerea commerciale russa è stata costruita per tre quarti nell'Ue, negli Stati Uniti o in Canada, la stessa Unione Europea fin da subito aveva previsto che, con il tempo, i divieti avrebbero probabilmente comportato il fermo operativo di una parte significativa dell'aviazione civile, anche per i voli nazionali. Più in generale, proprio nel quadro delle sanzioni, già dallo scorso aprile, le aziende italiane che hanno deciso di continuare a operare in Russia hanno parlato di tutta una serie di criticità ad andare avanti coi lavori.

Il produttore di cemento Buzzi Unicem, per esempio, aveva sottolineato le "notevoli difficoltà a reperire in loco diverse parti di ricambio e/o servizi di assistenza tecnica essenziali per la manutenzione e il buon funzionamento delle fabbriche".

 

 

 

IL SUICIDIO ECONOMICO E SOCIALE

DELL’EUROPA, PROVOCATO DAGLI STATI UNITI

E FAVORITO DAI LEADER EUROPEI.

Comedonchisciotte.org-Redazione- Markus – (02 Settembre 2022) – ci dice:   

 

A causa della stupidità della leadership politica europea, gli Stati Uniti sono riusciti ad indurla a commettere un suicidio economico e sociale.

L’8 febbraio 2022 Michael Hudson, professore di economia all’Università del Missouri, aveva scritto dell’imminente conflitto in Ucraina, che gli Stati Uniti stavano intenzionalmente provocando.

Michael Hudson: “I veri avversari dell’America sono gli Europei e gli altri alleati”:

Le sanzioni commerciali che i diplomatici statunitensi chiedono insistentemente ai loro alleati di imporre contro la Russia e la Cina mirano apparentemente a scoraggiare un aumento della mobilitazione militare. Ma una simile mobilitazione non può essere il principale obiettivo della Russia e della Cina.

Hanno molto più da guadagnare offrendo reciproci vantaggi economici all’Occidente. La questione di fondo è quindi se l’Europa si troverebbe avvantaggiata nel sostituire le esportazioni statunitensi con le forniture russe e cinesi e i relativi legami economici reciproci.

Ciò che preoccupa i diplomatici americani è che la Germania, le altre nazioni della NATO e i Paesi lungo il percorso della Belt and Road comprendano i vantaggi che si possono ottenere aprendo il commercio e gli investimenti in un clima di pace.

 Se non c’è un piano russo o cinese per invaderli o bombardarli, che bisogno c’è della NATO?

E se non c’è un rapporto intrinsecamente conflittuale, perché i Paesi stranieri dovrebbero sacrificare i propri interessi commerciali e finanziari affidandosi esclusivamente agli esportatori e agli investitori statunitensi?

Invece di una reale minaccia militare da parte di Russia e Cina, il problema per gli strateghi americani è l’assenza di tale minaccia. …

L’unico modo che rimane ai diplomatici statunitensi per bloccare il commercio europeo [con la Russia] è quello di spingere la Russia ad una risposta militare e poi sostenere che punire questa risposta è superiore a qualsiasi interesse economico esclusivamente nazionale.

Come aveva spiegato il sottosegretario di Stato per gli Affari politici, Victoria Nuland, in una conferenza stampa del Dipartimento di Stato il 27 gennaio: “Se la Russia invade l’Ucraina, in un modo o nell’altro, il Nord Stream 2 non andrà avanti.” Il problema è creare un incidente adeguatamente offensivo e dipingere la Russia come aggressore.

Provocare una guerra in Ucraina è stato facile, dato che la squadra dei cineasti che gestisce l’Ucraina era disposta a sacrificare il popolo e il Paese in una guerra senza speranza contro la Russia.

 L’attore e presidente ucraino Vladimir Zelensky aveva già annunciato che l’Ucraina avrebbe ripreso con la forza la Crimea e le repubbliche del Donbass che erano in mano alla resistenza ucraina allineata alla Russia.

Il 15 febbraio il professor John Mearsheimer aveva tenuto una conferenza (video) in cui aveva documentato come gli Stati Uniti avessero causato, e fossero responsabili, dell’intera crisi ucraina.

Fin dall’anno scorso circa metà dell’esercito ucraino era posizionato nel sud-est del Paese, sulla linea del cessate il fuoco con le repubbliche del Donbass. Il 17 febbraio aveva aperto un fuoco di artiglieria preparatorio contro le posizioni della resistenza. Nei giorni successivi il fuoco di sbarramento era aumentato costantemente.

Gli osservatori dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione (OSCE), posizionati sulla linea del fronte, avevano contato e documentato ogni colpo di artiglieria e avevano pubblicato una sintesi giornaliera sul proprio sito web. Dagli 80 colpi di artiglieria del 16 febbraio, gli attacchi si erano intensificati ogni giorno di più, fino a superare i 2.000 colpi il 22 febbraio.

Gli osservatori dell’OSCE avevano anche fornito le mappe dei luoghi in cui erano esplose le granate ( quella del 21 febbraio):

La maggior parte degli impatti era avvenuta in tre aree ad est della linea del cessate il fuoco, su posizioni tenute dalla resistenza. Chiunque abbia un po’ di conoscenze militari riconoscerà che queste intense campagne di artiglieria lungo assi distinti sono i preparativi per un attacco generale.

I leader delle repubbliche del Donbass e della Russia avevano dovuto reagire a questo attacco imminente. Il 19 febbraio la Repubblica Popolare di Donetsk e la Repubblica Popolare di Luhansk avevano chiesto aiuto al governo russo.

Da sole non avrebbero avuto alcuna possibilità di resistere all’esercito ucraino che gli Stati Uniti e i loro alleati avevano finanziato e potenziato fin dal 2015.

Fino a quel momento la Russia aveva insistito sul fatto che la RPD e la LNR facevano parte dell’Ucraina e che dovevano ricevere una sorta di autonomia, come previsto dagli accordi di Minsk.

Ora però doveva compiere passi necessari per rendere legale il proprio sostegno al Donbass. Il 21 febbraio la Russia aveva riconosciuto le Repubbliche come Stati indipendenti. Le tre parti avevano firmato accordi di cooperazione che includevano clausole per il supporto militare reciproco:

Il trattato della Russia con le Repubbliche popolari di Donetsk e Lugansk (DPR e LPR) prevede la concessione del diritto di costruire basi militari sul loro territorio e la fornitura di assistenza militare reciproca, ha dichiarato martedì il viceministro degli Esteri russo Andrey Rudenko alla sessione plenaria della Camera bassa del Parlamento.

“Un aspetto importante: il trattato stabilisce l’intenzione delle parti di interagire nel campo della politica estera, della protezione della sovranità e dell’integrità territoriale e della sicurezza, in particolare, attraverso la fornitura reciproca dell’assistenza necessaria, compresi gli aiuti militari, e la concessione del diritto di costruire, utilizzare e migliorare le infrastrutture militari e le basi militari sul proprio territorio,” ha sottolineato l’alto diplomatico russo.Con l’entrata in vigore degli accordi, l’aiuto militare russo contro l’attacco ucraino era diventato (almeno apparentemente) legale ai sensi dell’articolo 51 (autodifesa collettiva) della Carta delle Nazioni Unite.

Il 22 febbraio, quando nessun soldato russo aveva ancora messo piede sul suolo ucraino, gli Stati Uniti e i loro alleati avevano imposto durissime sanzioni economiche contro la Russia. Il Presidente Biden aveva riconosciuto che gli Stati Uniti si erano preparati da tempo a questa eventualità.

Negli ultimi mesi, ci siamo coordinati strettamente con i nostri alleati della NATO e con i nostri partner in Europa e nel mondo per preparare questa risposta. Abbiamo sempre detto, e l’ho detto in faccia a Putin un mese fa, più di un mese fa, che avremmo agito insieme nel momento in cui la Russia si fosse mossa contro l’Ucraina.

La Russia ha ora innegabilmente agito contro l’Ucraina dichiarando l’indipendenza di questi Stati.

Oggi, quindi, annuncio la prima tranche di sanzioni per imporre costi alla Russia in risposta alle sue azioni di ieri. Queste sanzioni sono state strettamente coordinate con i nostri alleati e i nostri partner e le renderemo ancora più severe se la Russia continuerà ad inasprire la situazione.

Il 24 febbraio 2022 le forze russe erano entrate in Ucraina per prevenire l’imminente attacco alle repubbliche del Donbass. (Il piano russo A consisteva nel fare pressione su Kiev affinché accettasse una rapida soluzione della crisi. Questo piano era fallito all’inizio di aprile dopo l’intervento di Boris Johnson a Kiev. La Russia era così passata al piano B, la smilitarizzazione dell’Ucraina).

Il governo tedesco aveva annunciato che il gasdotto Nord Stream II, tecnicamente pronto a trasportare il gas russo in Germania, non sarebbe stato avviato. Il 27 febbraio 2022 il cancelliere tedesco Olaf Scholz aveva tenuto davanti al Parlamento tedesco un discorso isterico e moraleggiante. Aveva accusato la Russia di aver rotto la pace in Europa.

L’accordo di Minsk, in base al quale l’Ucraina si era impegnata a federalizzare e a concedere una certa autonomia al Donbass, non era stato menzionato nemmeno una volta. La Germania e la Francia sono entrambe potenze garanti che, nel 2015, avevano sottoscritto l’accordo di Minsk ma che, in sette lunghi anni, hanno fatto ben poco per sollecitarne l’attuazione.

Invece di lavorare per un rapido cessate il fuoco e per rinnovare le relazioni economiche con la Russia, Scholz aveva condannato la Germania al suicidio economico.

Il 28 febbraio 2022 il professor Hudson aveva pubblicato un’altra profonda analisi della crisi: L’America ha sconfitto la Germania per la terza volta in un secolo: MIC, BARE e OGAM conquistano la NATO.

In un commento al pezzo Yves Smith aveva riassunto:

Michael Hudson approfondisce il suo punto di vista su come il conflitto in Ucraina sia il risultato di forze molto più grandi, e non necessariamente quelle che avete in mente. Sostiene che la vera posta in gioco è impedire ai Paesi europei, in particolare alla Germania, di sviluppare legami economici più profondi con la Cina e la Russia.

Qui Hudson descrive il peso che i principali interessi degli Stati Uniti hanno sulla politica estera e come essi vedano il conflitto come un modo per tenere a bada una possibile caduta del loro status e del loro potere.

Il pezzo di Hudson è piuttosto lungo e approfondito.

L’idea degli Stati Uniti è quella di isolare l’Europa dal suo entroterra eurasiatico, di spostare le industrie europee negli Stati Uniti e di acquistare il resto a prezzi stracciati.

 

Per eliminare il Nord Stream II e indurre i Paesi europei a boicottare l’energia russa, gli Stati Uniti avevano promesso che avrebbero “dato una mano” vendendo il loro gas naturale liquefatto (piuttosto costoso) all’Europa.

Ma, quando in Europa i prezzi del gas naturale avevano iniziato a salire, le forze del libero mercato avevano iniziato a farli aumentare anche negli Stati Uniti.

 I prezzi elevati dell’energia minacciavano così di danneggiare Biden e di affossare i Democratici alle elezioni di metà termine.

Poi era accaduto un misterioso incidente:

Un’esplosione in un terminale di gas naturale liquefatto in Texas ha lasciato sconvolti i residenti nelle vicinanze e sta togliendo dal mercato una quantità sostanziale di carburante in un momento in cui la domanda globale è in aumento.

Freeport LNG sarà offline per almeno tre settimane, ha dichiarato giovedì la società, a seguito di un incendio nel suo impianto di esportazione.

Secondo Rystad Energy, la maggior parte delle esportazioni di Freeport LNG era destinata all’Europa. L’Europa potrebbe essere in grado di compensare il volume perso aumentando le forniture da altri impianti, ha dichiarato Emily McClain, vicepresidente di Rystad. L’Europa riceve circa il 45% del suo GNL dagli Stati Uniti, mentre il resto proviene da Russia, Qatar e altre fonti.

Tre settimane erano troppo poche per abbassare i prezzi del gas naturale statunitense. L’autorità di regolamentazione statunitense per tali impianti, la U.S. Pipeline and Hazardous Materials Safety Administration (PHMSA), era intervenuta prolungando il processo di riavvio:

Il secondo più grande impianto di esportazione di gas naturale liquefatto degli Stati Uniti, colpito da un incendio all’inizio del mese, non potrà essere riparato o riavviato fino a quando non avrà risolto i rischi per la sicurezza pubblica, ha dichiarato giovedì un funzionario dell’Amministrazione.

I futures sul gas naturale statunitense sono crollati del 15% giovedì a causa della notizia e del continuo accumulo di scorte, contribuendo ad un calo dei prezzi del 33% a giugno, il più grande calo mensile dal 2018.

“Il processo effettivo (di revisione, riparazione e approvazione) richiederà più di tre mesi, probabilmente da sei a 12 mesi,” ha dichiarato Alex Munton, direttore del settore gas e GNL presso la società di consulenza Rapidan Energy Group.

Si sono avute anche notizie di “problemi” improvvisi in altri impianti di GNL.

E non si tratta solo di gas naturale, gli Stati Uniti stanno trattenendo anche i derivati del petrolio, proprio mentre l’Europa ne ha bisogno:

L’amministrazione Biden sta avvertendo i raffinatori che potrebbe prendere “misure di emergenza” per affrontare le esportazioni di carburante, dato che nel Nord-Est le scorte di benzina e gasolio rimangono su livelli storicamente bassi.

In Europa, gli impianti di produzione di fertilizzanti hanno chiuso a causa dei prezzi troppo alti del gas naturale. Le fonderie di acciaio e alluminio seguono a ruota. Anche produzione del vetro è in grave pericolo.

In un lungo articolo di oggi Yves Smith analizza le conseguenze economiche e politiche per l’Europa. In aperta violazione della legge sui titoli di Betteridge scrive:

L’Europa verrà sconfitta prima dell’Ucraina?

Saremo così audaci da affermare che non solo la guerra delle sanzioni contro la Russia si è ritorta contro di noi in modo spettacolare, ma che i danni per l’Occidente, soprattutto per l’Europa, stanno aumentando rapidamente.

E questo non è il risultato dell’adozione di misure attive da parte della Russia, ma dei costi dovuti alla perdita o alla riduzione delle risorse chiave russe che si sommano nel tempo.

Quindi, a causa dell’intensità dello shock energetico, il calendario economico si sta muovendo più velocemente di quello militare.

A meno che l’Europa non si impegni in una grande correzione di rotta, e non vediamo come questo possa accadere, la crisi economica europea sembra destinata a diventare devastante prima che l’Ucraina sia formalmente sconfitta.

Come vedremo, se non si interviene (e, come spiegheremo, è difficile che possa essere fatto qualcosa di abbastanza significativo), questo shock sarà così grave che in Europa il risultato non sarà una recessione, ma una depressione.

In teoria, l’UE potrebbe tentare di ricucire i rapporti con la Russia. Ma il tempo per farlo è passato e non è solo per il fatto che troppi attori chiave europei, come Ursula von der Leyen e Robert Habeck, sono troppo impegnati nell’odio per la Russia per fare un passo indietro. Anche se a dicembre scorresse il sangue nelle strade, non verrebbero cacciati abbastanza velocemente.

Inoltre, l’Europa ha bruciato i ponti con la Russia ben oltre le sanzioni. Putin ha ripetutamente offerto all’UE l’opzione di utilizzare il Nord Stream 2. Anche se la Russia sta ora utilizzando metà della sua capacità [di pompaggio], potrebbe ancora sostituire completamente le forniture del precedente Nord Stream 1.

 Putin ha avvertito che questa opzione non sarebbe rimasta aperta così a lungo e che la Russia avrebbe iniziato ad utilizzare il resto dei volumi [non consegnati all’Europa].

L’esito sembra quindi inevitabile: molte imprese europee falliranno, con conseguente perdita di posti di lavoro, inadempienze nei prestiti alle imprese, perdita di entrate statali, pignoramenti.

E, con i governi che pensano di aver speso un po’ troppo liberamente con gli aiuti Covid, questi rifornimenti di emergenza [per cercare di ripristinare lo stoccaggio invernale] saranno troppo pochi per fare la differenza.

Ad un certo punto, la contrazione economica porterà ad una crisi finanziaria. Se il crollo sarà sufficientemente rapido, potrebbe essere il risultato sia di una perdita (ben giustificata) di fiducia quanto delle perdite e dei default registrati finora.

Gli Stati Uniti, per motivi puramente egoistici, hanno trascinato l’Europa, e in particolare la Germania, in una trappola che porterà alla sua distruzione economica e sociale.

Invece di riconoscere il pericolo e prendere le necessarie contromisure, i “leader” europei e tedeschi si sono impegnati a contribuire al processo.

La cosa migliore per l’Europa e la Germania sarebbe stata ovviamente evitare la crisi. Ciò è fallito per mancanza di intuito e di sforzi. Ma ora che l’Europa è in fondo al buco, i politici dovrebbero almeno smettere di scavare. È nell’ovvio interesse dell’Europa e soprattutto della Germania fare in modo che la crisi sia la più breve possibile.

Ma i pazzi che governano l’Europa continuano a fare il contrario:

La Germania continuerà a sostenere Kiev “per tutto il tempo necessario,” ha dichiarato lunedì il cancelliere Olaf Scholz, auspicando un allargamento dell’Unione Europea che comprenda anche Ucraina, Moldavia e Georgia.

Negli ultimi mesi la Germania ha subito un “cambiamento fondamentale” per quanto riguarda il suo sostegno militare all’Ucraina.

“Continueremo a fornire questo sostegno, in modo affidabile e, soprattutto, per tutto il tempo necessario,” ha detto al folto pubblico universitario.

In un discorso in Slovenia, la Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha fatto eco alla promessa fatta a Kiev “per tutto il tempo necessario,” invocando “un nuovo pensiero strategico” a sostegno dei valori europei.

Per come sembrano vederla questi “leader,” energia a prezzi accessibili, case riscaldate, cibo sufficiente, posti di lavoro e pensioni per i cittadini europei non fanno parte dei “valori europei” che intendono difendere.

Il crollo economico e finanziario dell’Europa sarà molto più rapido del cambiamento politico, ovviamente necessario, della sua leadership di terza scelta.

L’unico settore politico che non sarà danneggiato da tutto questo, almeno in Francia e Germania, è l’estrema destra. Anche questo è di per sé un pericolo.

(moonofalabama.org/2022/08/europes-economic-and-social-suicide-provoked-by-the-us-and-helped-along-by-europes-leaders.html#more)

LA GUERRA IN UCRAINA SEGNA

LA FINE DEL SECOLO AMERICANO.

Comedonchisciotte.org-Markus-(09 Giugno 2022) - Mark Whitney-unz.com- ci dice:

 

“La ferocia del confronto in Ucraina dimostra che stiamo parlando di molto più che del destino del regime di Kiev. È in gioco l’architettura dell’intero ordine mondiale.”

Sergei Naryshkin, Direttore dell’Intelligence Estera.

Ecco la riflessione del giorno sulla “valuta di riserva”: ogni dollaro USA è un assegno emesso su un conto che è scoperto di 30.000 miliardi di dollari.

È vero. La “piena fiducia e credito” del Tesoro statunitense è in gran parte un mito tenuto insieme da un quadro istituzionale che poggia su fondamenta fatte solo di sabbia.

 In effetti, il dollaro USA non vale la carta su cui è stampato; è un pagherò che naviga in un oceano di inchiostro rosso. L’unica cosa che impedisce all’USD di scomparire nell’etere è la fiducia dei creduloni che continuano ad accettarlo come moneta legale.

Ma perché la gente continua ad avere fiducia nel dollaro quando i suoi difetti sono noti a tutti?

Dopo tutto, il debito nazionale americano di 30.000 miliardi di dollari non è certo un segreto, né lo sono gli ulteriori 9.000 miliardi di dollari accumulati nel bilancio della Fed. Si tratta di un debito occulto di cui il popolo americano è completamente all’oscuro, ma di cui è comunque responsabile.

Per rispondere a questa domanda, dobbiamo esaminare come funziona il sistema e come il dollaro viene sostenuto dalle numerose istituzioni create dopo la Seconda Guerra Mondiale.

Queste istituzioni hanno consentito di portare avanti la più lunga e palese truffa della storia, lo scambio di manufatti sofisticati, materie prime e forza lavoro con foglietti di carta verde con sopra dei presidenti morti.

 Ci si può solo meravigliare della genialità delle élite che hanno ideato questa truffa e poi l’hanno imposta alle masse di tutto il mondo senza un minimo di protesta.

Naturalmente, il sistema è accompagnato da vari meccanismi applicativi che eliminano rapidamente chiunque cerchi di liberarsi dal dollaro o, Dio ci aiuti, di creare un sistema alternativo. (Basta pensare a Saddam Hussein e a Muammar Gheddafi). Ma il fatto è che – a parte il quadro istituzionale e lo spietato sterminio degli oppositori del dollaro – non c’è motivo per cui l’umanità debba rimanere legata ad una moneta che è sepolta sotto una montagna di debiti e il cui valore reale è praticamente inconoscibile.

Non è sempre stato così. C’è stato un tempo in cui il dollaro era la valuta più forte del mondo e meritava il suo posto in cima al mucchio. Dopo la Prima Guerra Mondiale, gli Stati Uniti erano i “proprietari della maggior parte dell’oro mondiale,” motivo per cui una delegazione internazionale “aveva deciso che le valute mondiali non sarebbero più state legate all’oro ma avrebbero potuto essere agganciate al dollaro statunitense, “perché il biglietto verde era, esso stesso, legato all’oro.” Ecco altre informazioni tratte da un articolo di Investopedia:

 

“L’accordo è noto come Accordo di Bretton Woods. Stabiliva l’autorità delle banche centrali, che avrebbero mantenuto tassi di cambio fissi tra le proprie valute e il dollaro. A loro volta, gli Stati Uniti avrebbero riscattato i dollari statunitensi in cambio di oro su richiesta….

Grazie all’Accordo di Bretton Woods, il dollaro statunitense era stato ufficialmente incoronato valuta di riserva mondiale e sostenuto dalle più grandi riserve auree del mondo. Al posto delle riserve auree, gli altri Paesi avevano accumulato riserve di dollari americani. Avendo bisogno di un luogo dove custodire i loro dollari, questi Paesi avevano iniziato ad acquistare titoli del Tesoro americano, che consideravano un deposito valutario sicuro.

La domanda di titoli del Tesoro, unita al deficit di spesa necessario per finanziare la guerra del Vietnam e i programmi interni della Great Society, aveva fatto sì che gli Stati Uniti inondassero il mercato di carta moneta….

La domanda di oro era stata tale che il presidente Richard Nixon era stato costretto ad intervenire e a svincolare il dollaro dall’oro, il che aveva portato ai tassi di cambio fluttuanti che esistono oggi. Anche se ci sono stati periodi di stagflazione, definita come alta inflazione e alta disoccupazione, il dollaro statunitense è rimasto la valuta di riserva del mondo.” (“Come il dollaro statunitense è diventato la valuta di riserva del mondo “, Investopedia)

Ma ora l’oro non c’è più e ciò che resta è un cumulo fumante di debiti. Allora, come mai il dollaro è riuscito a conservare il suo status di preminente valuta mondiale?

I sostenitori del sistema del dollaro vi diranno che è dovuto “alle dimensioni e alla forza dell’economia statunitense e al dominio dei mercati finanziari americani.” Ma è un’assurdità.

La verità è che lo status di valuta di riserva non ha nulla a che fare con “le dimensioni e la forza” dell’economia americana post-industriale da Paese del terzo mondo, orientata ai servizi e fondata su bolle speculative. Né ha nulla a che fare con la presunta sicurezza dei Buoni del Tesoro statunitensi” che, insieme al dollaro, sono la più grande truffa di Ponzi di tutti i tempi.

Il vero motivo per cui il dollaro è rimasto la prima valuta del mondo è la cartellizzazione delle Banche Centrali. Le Banche Centrali occidentali sono, di fatto, un monopolio gestito da una piccola cabala di avvoltoi che si coordinano e colludono sulla politica monetaria al fine di preservare la loro maniacale e mortifera presa sui mercati finanziari e sull’economia globale. È una mafia monetaria e, come aveva detto George Carlin: “Io e te non ne facciamo parte. Io e te non siamo nel grande club.” In conclusione: sono l’incessante manipolazione dei tassi di interesse, le indicazioni prospettiche e il Quantitative Easing (QE) che hanno mantenuto il dollaro nella sua elevata ma immeritata posizione.

Ma tutto questo sta per cambiare a causa della sconsiderata politica estera di Biden, che sta costringendo gli attori critici dell’economia globale a creare un proprio sistema alternativo.

Questa è una vera tragedia per l’Occidente, che ha goduto di un secolo di estrazione continua di ricchezza dal mondo in via di sviluppo.

 Ora – a causa delle sanzioni economiche contro la Russia – sta emergendo un ordine completamente nuovo, in cui il dollaro sarà sostituito dalle valute nazionali (elaborate attraverso un sistema di regolamento finanziario indipendente) negli accordi commerciali bilaterali, fino a quando – più avanti nel corso dell’anno – la Russia lancerà una moneta scambiata e sostenuta da materie prime che sarà utilizzata dai partner commerciali in Asia e Africa.

 In Aprile 2022, il furto delle riserve estere russe da parte di Washington aveva messo il turbo al processo in corso, ulteriormente accelerato dall’interdizione della Russia dai mercati esteri. In breve, le sanzioni e i boicottaggi economici degli Stati Uniti hanno ampliato di molti ordini di grandezza la zona senza il dollaro e hanno imposto la creazione di un nuovo ordine monetario.

Ma quanto è stupida una cosa del genere? Per decenni gli Stati Uniti hanno messo in atto una truffa in cui scambiavano la loro moneta-carta straccia per beni di valore reale (petrolio, manufatti e lavoro). (Ma ora la squadra di Biden ha eliminato del tutto questo sistema e ha diviso il mondo in campi in guerra tra loro.

Ma perché? Per punire la Russia, è così?

Sì, è così.

Ma se è così, non avremmo dovuto cercare di capire se le sanzioni avevano funzionato, prima di cambiare incautamente il sistema?

È troppo tardi. La guerra alla Russia è iniziata e i primi risultati si stanno già facendo sentire. Basta guardare il modo in cui abbiamo distrutto la valuta russa, il rublo. È scioccante!

Ecco lo scoop tratto da un articolo della CBS:

“Il rublo russo è la valuta che ha registrato la migliore performance al mondo quest’anno.”

Due mesi dopo essere scesa a meno di un centesimo di dollaro americano in seguito alle più rapide e dure sanzioni economiche della storia moderna, la valuta russa ha messo a segno una incredibile inversione di tendenza. Da gennaio, il rublo ha recuperato il 40% rispetto al dollaro.

Normalmente, un Paese che si trova a dover affrontare sanzioni internazionali e un grande conflitto militare vedrebbe la fuga degli investitori e un costante deflusso di capitali, che provocherebbe il crollo della sua valuta….

La capacità di resistenza del rublo significa che la Russia è in parte immune alle sanzioni economiche punitive imposte dalle nazioni occidentali dopo l’invasione dell’Ucraina…” (“Il rublo russo è la valuta più forte del mondo quest’anno,” CBS News).

Cosa? Vuol dire che, dopo tutto, l’attacco al rublo non ha funzionato?

Sembra proprio di sì. Ma questo non significa che le sanzioni siano un fallimento. Oh, no. Basta guardare l’effetto che hanno avuto sulle materie prime russe. I ricavi delle esportazioni sono scesi di molto, giusto? Ecco un altro estratto dal pezzo della CBS:

“I prezzi delle materie prime sono attualmente alle stelle e, anche se il volume delle esportazioni russe è diminuito a causa degli embarghi e delle sanzioni, l’aumento dei prezzi delle materie prime compensa ampiamente questi cali,” ha dichiarato Tatiana Orlova, economista capo dei mercati emergenti presso Oxford Economics.

La Russia ricava quasi 20 miliardi di dollari al mese dalle esportazioni di energia. Dalla fine di marzo, molti acquirenti stranieri hanno aderito alla richiesta di pagare l’energia in rubli, facendo salire il valore della valuta.” (“Il rublo russo è la valuta più forte del mondo quest’anno,” CBS News)

Mi sta prendendo in giro? Vuoi dire che il rublo si sta impennando e che Putin sta rastrellando soldi sulle materie prime come non mai?

Sì, e lo stesso vale per il surplus commerciale della Russia. Date un’occhiata a questo estratto di un articolo dell’Economist:

“Le esportazioni russe… hanno tenuto sorprendentemente bene, comprese quelle dirette in Occidente. Le sanzioni permettono di continuare a vendere petrolio e gas alla maggior parte del mondo senza interruzioni. E l’impennata dei prezzi dell’energia ha incrementato ulteriormente le entrate.

Di conseguenza, gli analisti prevedono che nei prossimi mesi il surplus commerciale della Russia raggiungerà livelli record. Secondo l’IIF [Institute of International Finance], nel 2022 l’avanzo delle partite correnti, che comprende il commercio e alcuni flussi finanziari, potrebbe raggiungere i 250 miliardi di dollari (il 15% del PIL dello scorso anno), più del doppio dei 120 miliardi di dollari registrati nel 2021. Secondo Vistesen, il fatto che le sanzioni abbiano incrementato il surplus commerciale della Russia, contribuendo così a finanziare la guerra, è deludente. La signora Ribakova ritiene che l’efficacia delle sanzioni finanziarie possa aver raggiunto i suoi limiti. La decisione di inasprire le sanzioni commerciali dovrebbe seguire a breve.

Ma tali misure potrebbero richiedere tempo per avere effetto. Anche se l’UE mettesse in pratica la sua proposta di vietare il petrolio russo, l’embargo verrebbe introdotto così lentamente che le importazioni di petrolio dalla Russia quest’anno diminuirebbero solo del 19%, secondo Liam Peach della società di consulenza Capital Economics.

 Il pieno impatto delle sanzioni si farebbe sentire solo all’inizio del 2023, quando Putin avrà accumulato miliardi per finanziare la sua guerra.” (“La Russia è sulla buona strada per un surplus commerciale record,” The Economist)

Mi spiego meglio: le sanzioni stanno effettivamente danneggiando gli Stati Uniti e aiutando la Russia, quindi gli esperti pensano che dovremmo imporre altre sanzioni? È così?

Esattamente. Ora che ci siamo dati la zappa su un piede gli esperti pensano che sarebbe saggio sparare anche all’altro.

Sono l’unico a essere colpito dalla follia di questa politica? Guardate questo pezzo tratto da un articolo di RT:

Nel 2022, la Russia potrebbe guadagnare la cifra record di 100 miliardi di dollari dalle vendite di gas ai Paesi europei a causa del forte aumento dei prezzi dell’energia, ha riportato questa settimana il quotidiano francese “Les Echos”, citando gli analisti di Citibank.

Secondo il quotidiano, le entrate previste dalle vendite di gas saranno quasi il doppio rispetto all’anno scorso. L’analisi non tiene conto dei profitti derivanti dalla vendita di altre materie prime russe, come petrolio, carbone e altri minerali.

Les Echos riporta che, nonostante le sanzioni e gli avvertimenti di un embargo totale sull’energia russa, i 27 Paesi dell’UE continuano ad inviare circa 200 milioni di dollari al giorno a Gazprom “. (“I ricavi del gas russo dovrebbero toccare nuovi massimi,” RT)

 

Quindi i ricavi delle vendite di gas e petrolio stanno letteralmente inondando le casse di Mosca come mai prima d’ora. Nel frattempo, i prezzi dell’energia nell’UE e in America sono saliti ai massimi da 40 anni.

Riuscite a capire quanto sia controproducente questa politica?

L’UE sta sprofondando nella recessione, le catene di approvvigionamento sono state gravemente interrotte, la carenza di cibo sta lentamente emergendo e i prezzi di gas e petrolio sono alle stelle.

Secondo ogni standard oggettivo, le sanzioni non solo hanno fallito, ma si sono ritorte contro di noi in modo spettacolare. Biden e la sua squadra non riescono a vedere il danno che stanno facendo? Sono completamente avulsi dalla realtà?

Immaginate se gli Ucraini usassero le nuove batterie missilistiche inviate da Biden (HIMARS) per bombardare le città della Russia? E poi?

Putin si toglierebbe i guanti e chiuderebbe immediatamente il flusso di idrocarburi verso l’Europa. Questo è ciò che accadrà se Washington continuerà a inasprire i toni. Potete scommetterci.

 Se l'”Operazione militare speciale” della Russia diventerà improvvisamente una guerra, le luci in Europa si spegneranno, le case cominceranno a congelare, le fabbriche si fermeranno e il continente piomberà a capofitto in una lunga e dolorosa depressione.

Qualcuno a Washington pensa a queste cose o sono tutti così ubriachi dei loro ritagli di giornale da aver perso completamente il contatto con la realtà?

Ecco altre informazioni tratte da un altro articolo di RT:

“Anche se l’Occidente collettivo continua ad insistere – contro ogni realtà osservabile – che il conflitto in Ucraina sta andando bene per Kiev, i principali media sono sempre più a disagio con la situazione sul fronte economico. Sempre più osservatori ammettono che gli embarghi imposti dagli Stati Uniti e dai loro alleati non stanno schiacciando l’economia russa, come era nelle intenzioni iniziali, ma piuttosto la loro….

La Russia sta vincendo la guerra economica,” ha dichiarato giovedì Larry Elliott, redattore economico del Guardian. “Sono passati tre mesi da quando l’Occidente ha lanciato la sua guerra economica contro la Russia, e non sta andando secondo i piani. Al contrario, le cose stanno andando davvero male,” ha scritto

In un saggio del 30 maggio 2022, anche l’editorialista del Guardian Simon Jenkins aveva affermato che l’embargo era fallito…

Come sottolinea Jenkins, le sanzioni hanno, di fatto, aumentato il prezzo delle esportazioni russe, come il petrolio e il grano, arricchendo così Mosca, anziché impoverirla, e lasciando gli Europei a corto di gas e gli Africani senza cibo “. (“Mentre le sanzioni non funzionano e l’avanzata della Russia continua, i media occidentali cambiano tono sull’Ucraina,” RT)

Avete colto la parte in cui si dice che “la Russia ha vinto la guerra economica”? Cosa pensate che significhi in termini pratici?

Significa forse che il tentativo fallito di Washington di mantenere la sua egemonia globale “indebolendo” la Russia sta, in realtà, mettendo a dura prova l’Alleanza transatlantica e la NATO, e che tutto questo provocherà una ricalibrazione delle relazioni che, a sua volta, porterà ad un rifiuto totale del “sistema basato sulle regole”?

È questo il significato? L’Europa si separerà da Washington e lascerà l’America affondare nel suo oceano di 30.000 miliardi di dollari di inchiostro rosso?

Sì, è esattamente questo il significato.

 

L’abbuffata trentennale dello Zio Sam.

I fautori della guerra per procura di Washington non hanno idea della portata del loro errore o del danno che stanno infliggendo al loro stesso Paese.

La debacle ucraina è il culmine di 30 anni di interventi sanguinosi che ci hanno portato ad un punto di svolta in cui le sorti della nazione stanno per subire una drammatica inversione di tendenza. Con la riduzione della zona del dollaro, il tenore di vita precipiterà, la disoccupazione salirà alle stelle e l’economia entrerà in una spirale negativa.

Washington ha sottovalutato enormemente la propria vulnerabilità ad un catastrofico contraccolpo geopolitico che sta per portare il Nuovo Secolo Americano ad una fine rapida e straziante.

Un leader saggio farebbe tutto ciò che è in suo potere per riportarci indietro dal baratro.

(Mark Whitney- unz.com)

(unz.com/mwhitney/the-war-in-ukraine-marks-the-end-of-the-american-century/)

 

 

 

 

Non c’è transizione ecologica

senza democrazia energetica.

Economiacircolare.com- Samadhi Lipari- (29 Giugno 2022) -ci dice:

 

In un sistema economico lineare anche l’energia è strumento di potere. Ma nel mondo esistono già diversi modelli di produzione e distribuzione dell’energia più giusti, equi e compatibili con la vita sul Pianeta. Ecco cos'è la democrazia energetica e quanto è connessa con la transizione ecologica.

Resistere, riconquistare, ristrutturare. Non è la guerra il filo rosso tra queste parole. A tenerle insieme sono gli sforzi delle organizzazioni politiche, sindacali e sociali che si battono per un nuovo progetto di emancipazione, quello della democrazia energetica. Con teorizzazioni e pratiche collettive, e in contesti molto diversi nel mondo, pianificano, e spessissimo attuano, un modello di produzione e distribuzione dell’energia che pretendono più giusto, equo e compatibile con la vita sul pianeta di quello dominante. 

Se è ormai lecito parlare di un movimento transnazionale ispirato alle tre parole d’ordine, non è altrettanto facile rintracciarne le origini. Di certo, le radici affondano nelle lotte che sin dagli ultimi decenni del ‘900 denunciano quanto le discriminazioni di genere, razza e classe infliggano alle loro vittime anche peggiori rischi sanitari e ambientali.

Tra questi vi sono le contestazioni operaie contro le nocività sul posto di lavoro in Italia o quelle per la giustizia ambientale e razziale negli USA. Con la convinzione condivisa che il modello energetico dominante sia distruttivo, a esse si affiancano le mobilitazioni pacifiste e antinucleari. Ed è in questo contesto che si inizia a discutere di fonti rinnovabili.

Anche in seguito agli shock petroliferi degli anni ’70 e alla costante minaccia atomica della guerra fredda, le rinnovabili divengono necessarie anche perché alternative all’ordine guerresco, incerto e pericoloso del petrolio e dell’atomo.

Come nasce una democrazia energetica.

Il termine democrazia energetica è tuttavia abbastanza recente. A quanto pare, emerge nel contesto del movimento tedesco per la giustizia climatica, al Climate Camp di Lausitz del 2012.

Nello stesso anno sei federazioni sindacali internazionali formano una nuova organizzazione denominata “Sindacati per la democrazia energetica”, in seguito a una tavola rotonda coordinata a New York dalla fondazione Rosa Luxemburg, dal Global Labour Institute e dalla Cornell University.

“Una transizione veramente sostenibile – spiega il report finale – sarà resa possibile solamente se il potere [di decidere su essa] verrà tolto alle corporation, che perseguono esclusivamente il profitto, e trasferito ai cittadini ordinari e alle comunità”.

E ciò implica che “i lavoratori partecipino attivamente alle decisioni sulla produzione e l’uso dell’energia” ma anche che “l’energia sia riconosciuta come bene pubblico e diritto di base”.

Soltanto un’eresia nel desolante panorama di privatizzazioni, centralizzazione amministrativa e strapotere dei colossi energetico-finanziari che attanaglia la produzione e distribuzione di energia nonché le transizioni in giro per il mondo? Non per tutti. Di certo, non per i molti attivisti, politici e semplici cittadini che animano processi di cambiamento ispirandosi variamente a principi di partecipazione, inclusione, sostenibilità e libertà dal bisogno.

Cos’è quindi la democrazia energetica? E quanto è connessa con la transizione ecologica di cui così tanto si parla negli ultimi anni? Iniziamo a capirlo lasciandoci guidare dalle tre parole d’ordine.

Riconquistare e ristrutturare il diritto all’energia.

Nel segno del riconquistare e del ristrutturare alcune esperienze possono essere citate subito. Tutte sono accomunate dal tentativo di ripristinare forme di controllo pubblico – che non coincide con quello statale – sulla generazione, sul trasporto o sulla distribuzione di energia. Nella maggior parte dei casi, ciò coniuga l’esigenza di contrastare la povertà energetica, riducendo i costi finali, con quella di abbattere le emissioni, sfruttando al meglio le nuove possibilità, offerte dalle rinnovabili e da tecnologie come i sistemi di accumulo e le reti intelligenti, di decentrare e rendere più efficienti produzione, trasporto e distribuzione.

Tra i tanti esempi che è possibile citare subito, troviamo quello dei gruppi d’acquisto per l’energia attivi ormai da diversi anni in alcuni stati americani, tra cui la California, l’Ohio o New York. A differenza dei gruppi d’acquisto consentiti dalla legislazione nostrana, negli USA l’adesione è per lo più basata su una clausola di opt-out. Una volta che un gruppo d’acquisto sia stato istituito in un’area metropolitana o una contea, tramite referendum o deliberazione di organismi rappresentativi, i consumatori vengono automaticamente iscritti, potendo comunque decidere di uscire (opt-out) in seguito. Questo meccanismo assicura ai gruppi una platea di partecipanti incomparabilmente più larga di quelli con adesione volontaria (opt-in), ma anche una sostenibilità finanziaria tale da consentire di comprimere i prezzi dell’energia al dettaglio e investire in decarbonizzazione.

Un altro esempio calzante è l’ondata di ri-municipalizzazioni che sin dai primi anni 2000 in Germania ha riportato sotto controllo pubblico oltre un centinaio di contatti per il trasporto e la distribuzione di energia, sottraendoli spesso a una delle quattro grandi compagnie che controllano il settore energetico tedesco: E.ON, Vattenfall, RWE e EnBW.

Invertendo la tendenza alla privatizzazione dei due decenni precedenti, questi processi hanno interessato una grande varietà di contesti: dalle grandi città alle aree rurali estendendosi anche a scale regionali.

Uno dei casi più famosi è quello di Amburgo, dove nel 2009 il governo della città-stato decise di creare un fornitore di energia interamente pubblico, Hamburg Energie, con l’obiettivo dichiarato di produrre elettricità sempre più a basso tenore di carbonio e attraverso infrastrutture interamente municipali. Tuttavia, qualche anno più tardi, lo stesso governo si rifiutò di riportare sotto controllo pubblico le reti di trasporto e distribuzione di elettricità e gas. A esso si oppose una larga coalizione civica che nel 2013 riuscì a imporre la ri-pubblicizzazione della rete elettrica indicendo un referendum che vinse.

Resistere: il caso del Green New Eskom.

Venendo ora al resistere, un esame dei casi concreti e della letteratura specializzata indica chiaramente come oggetto ne sia principalmente il modello energetico neoliberale, fatto di privatizzazione, accentramento dei processi decisionali ed estrazione di profitto, consolidato con le fossili ma esteso ora alle rinnovabili – dove sempre più spesso le aziende che si occupano di installare pannelli fotovoltaici e parchi eolici sono aziende, quando non multinazionali, straniere che pagano poche tasse ai territori (Imu ridotte e zero royalties), con impianti che una volta installati necessitano di poco personale, quasi mai locale.

Limitandoci ai movimenti che esplicitamente si richiamano alla democrazia energetica, una campagna importante è sicuramente quella che in Sud Africa si batte per la riorganizzazione del fornitore pubblico di energia Eskom.

 La campagna per una Green New Eskom inizia nel 2019, quando il governo, con la giustificazione di far fronte alla pluriennale crisi finanziaria del colosso, diede il via alla sua scorporazione (unbundling), separandone i segmenti della produzione, trasporto e distribuzione in entità autonome. Fortemente raccomandato dalla Banca Mondiale, tale processo è opposto dalla Climate Justice Coalition (CJC), una larga coalizione di forze sociali e sindacali. Secondo la CJC, infatti, una volta spezzettata, Eskom – che produce circa il 95% dell’energia consumata in Sud Africa – potrà essere ceduta ad aziende multinazionali.

 Il sistema elettrico del paese sarebbe così irrimediabilmente privatizzato, con il rischio di vedere lievitare i costi per le fasce più deboli della popolazione, senza garantire adeguati investimenti per raggiungere quel 16% di popolazione ancora senza energia.

Proprio a partire dall’ambito del resistere, tuttavia, è possibile capire quanto sia importante identificare i modelli energetici che chiaramente non favoriscono maggiore democrazia, sia in termini distributivi che deliberativi.

 L’irrompere della guerra in Europa consente di fare qualche considerazione calzante. Lo scorso maggio la Commissione europea ha lanciato il maxi piano REPowerEu.

Nel tentativo di far fronte allo scenario energetico stravolto dall’invasione russa dell’Ucraina, il piano prospetta una strategia ambiziosa basata sull’efficienza e su una più rapida diffusione delle fonti rinnovabili.

Più prosaicamente però, nella mancanza di una vera e propria visione di lungo termine, il piano si concentra sul gas. Azioni e fondi sono per lo più diretti a mettere insieme un nuovo portafoglio di fornitori e sviluppare una rete infrastrutturale capace di trasportare primariamente GNL.

Democratizzare il regime energetico: un obiettivo sempre più lontano.

In questo tentativo affannato, REPower Eu sembra contrastare con le idee di color che vorrebbero democratizzare il regime energetico della Ue o quantomeno la sua filiera di approvvigionamento.

 Da un lato, per bocca della stessa presidente Ursula von der Leyen in un’intervista congiunta a Les Echos e Handlesblatt dello scorso 4 febbraio, la Commissione vuole “costruire il mondo di domani” come sistema di “democrazie che condividono le stesse idee con i loro partner”.

Dall’altro, la Ue guarda a partenariati energetici con democrazie problematiche come gli USA o regimi autoritari come il Qatar, l’Egitto o l’Azerbaijan. Non proprio un’armonia di idee, men che meno di valori.

La guerra ha reso ancor più lampante anche un’altra verità scomoda: la sovranità degli Stati è fortemente condizionata dalla sicurezza dell’approvvigionamento energetico.

La competizione tra superpotenze egemoni è infatti un ostacolo sostanziale alla capacità delle istituzioni sovrane delle potenze subordinate di imporre le proprie decisioni, anche quando queste ultime siano democraticamente determinate. I

n maniera esemplare, al neoincaricato cancelliere tedesco Olaf Scholz in visita a Washington lo scorso 7 febbraio, il presidente USA Joe Biden chiariva, senza alcuna remora, “se la Russia invade (l’Ucraina) non ci sarà più Nord Stream 2. Noi ci metteremo fine”.  Il destino del famigerato gasdotto è ormai arcinoto.

Oltre alle relazioni internazionali a essere fortemente influenzato è pure il dibattito interno. Se la sicurezza dell’approvvigionamento diviene rapidamente l’unica cosa che conta e soppianta la mitigazione della crisi climatica nelle priorità dei governi, appare assolutamente conseguenziale utilizzare GNL, che comporta emissioni in medie doppia rispetto al gas consumato fino ad oggi.

 O, ancora peggio dal punto di vista dei movimenti per la giustizia climatica, risulta accettabile aprire a un ritorno in grande stile del carbone, soprattutto in Italia e Germania, le cui economie dipendono di più dalle forniture di Gazprom, il principale distributore russo di energia.

È su questi temi che questa rubrica sulla democrazia energetica si svilupperà. E lo farà dialogando, attraverso analisi e interviste, con le persone impegnate a immaginarla e costruirla concretamente, anche opponendosi a sistemi energetici causa di sfruttamento, disparità ed esclusione.

 

 

 

 

I fondi del Pnrr e l’ingresso in Costituzione:

così le isole minori provano a diventare sostenibili.

Economiacircolare.com-Redazione-(3 settembre 2022) - ci dice:

A luglio le isole minori hanno fatto il proprio ingresso ufficiale nella Carta Costituzionale, attraverso l’aggiunta di un comma all’art.119. E intanto il MiTe destina loro 200 milioni di euro dal Pnrr. Basterà per risolvere gli atavici problemi?

Nella confusione generata dalla caduta del governo Draghi e dalla successiva (e caotica) campagna elettorale, la notizia sulle isole minori è passata inevitabilmente in secondo piano.

 Eppure a luglio, in un Parlamento che si accingeva a chiudere la propria esperienza, è passata in sordina la modifica all’art.119 della Costituzione che, appunto, ha inserito un comma in più in cui la Repubblica Italiana “riconosce le peculiarità delle Isole” e “promuove le misure necessarie a rimuovere gli svantaggi derivanti dall’insularità”.

Sin dalla scelta, in verità piuttosto infelice, di definirle “minori”, le 27 isole abitate (vanno escluse ovviamente Sicilia e Sardegna) sono da sempre considerate allo stesso tempo luogo di sperimentazioni ambientali e possibili modelli di circolarità. Le ridotte dimensioni, infatti, teoricamente si prestano meglio a implementare strategie virtuose che possono poi essere replicate su larga scala.

Eppure finora hanno prevalso i disagi, vale a dire gli “svantaggi derivanti dall’insularità” che sono stati riconosciuti dalla recente modifica costituzionale. Qualcosa però sembra che stia per cambiare.

Perché le isole minori hanno le potenzialità per essere non soltanto un luogo ad altissima densità turistica d’estate (e quasi abbandonate nel resto dell’anno) ma possono essere portatrici di cambiamenti significativi a livello ambientale e circolare.

Il Pnrr e le isole minori.

Inevitabile, anche per le isole minori, partire dai fondi del Pnrr, il più ingente investimento degli ultimi anni.

 A maggio il ministero della Transizione Ecologica ha annunciato che “sono 140 i progetti di sviluppo sostenibile presentati dai 13 Comuni delle 19 isole minori in risposta al bando PNRR Isole Verdi, chiuso il 22 aprile scorso. Gli interventi, per un valore complessivo di 200 milioni di euro, saranno finanziati con le risorse dell’Investimento 3.1 (M2C1) del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza”.

L’obiettivo della misura, si apprende ancora dal MiTE, è di “superare i problemi legati alla mancanza di connessione con la terraferma, quelli di efficientamento energetico, lo scarso approvvigionamento idrico e il complesso processo di gestione dei rifiuti, intervenendo in modo integrato e specifico in queste aree caratterizzate da un elevato potenziale di miglioramento in termini ambientali ed energetici e trasformando le piccole isole in laboratori per lo sviluppo di modelli 100% sostenibili”.

Altri provvedimenti più specifici sono stati poi elaborati dal Ministero delle Infrastrutture e della Mobilità sostenibile ad agosto: si va dal “contributo straordinario volto a compensare l’aumento dei costi del carburante” per i collegamenti con le isole minori della Sicilia alla possibilità di installare impianti di produzione di energia rinnovabili negli aeroporti delle isole minori “per favorire lo sviluppo delle comunità energetiche”. Può bastare?

Il report di Legambiente e i problemi irrisolti delle isole minori.

Ogni anno il report “Isole sostenibili”, realizzato da Legambiente e dall’Istituto sull’Inquinamento Atmosferico del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR-IIA) analizzando diversi studi di settore, monitora la situazione ambientale delle isole minori. Al 2022 i risultati sono ancora altalenanti: se da una parte “cresce nel complesso la raccolta differenziata”, dall’altra la diffusione delle rinnovabili viene giudicata “troppo lenta”, mentre “in stallo” restano mobilità sostenibile, depurazione e comparto idrico.

Anche il report di Legambiente e CNR si concentra dunque sul Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, “che ha portato attenzione e investimenti sulle isole e messo in moto progetti e iniziative che vanno osservati con attenzione e approfonditi”. Oltre ai 200 milioni espressamente destinati alle isole minori – le quali hanno concentrato le proprie attenzioni soprattutto sulla depurazione delle acque – un’altra opportunità per l’innovazione arriva indirettamente dai fondi del Pnrr per la digitalizzazione, gestito dal Mise.

“Next generation EU – si legge nel report – assegna infatti 45 milioni per collegare in banda ultra-larga le piccole isole italiane.

Dopo il primo bando di gennaio andato deserto, la gara da 45 milioni è andata in porto ed è stata vinta dalla società Elettra Tlc. Il piano per connettere le isole minori di Sicilia, Sardegna, Toscana, Lazio, Campania e Puglia con la banda ultra-larga è allo studio da anni, ma solo adesso ha trovato la ricaduta concreta.

 L’obiettivo è colmare il divario digitale con la terraferma, dotando anche le realtà più piccole e remote di connessioni veloci, resistenti e all’avanguardia. Tra le isole destinatarie del piano vi sono Favignana, Lipari, Lampedusa, Pantelleria, Ustica, Ponza, le Tremiti, l’Asinara e Ventotene”.

Leggendo dettagliatamente il dossier, la sensazione che se ne ricava è che da solo il Pnrr non basterà a risolvere i problemi atavici delle isole minori. L’inserimento delle stesse nella Costituzione in questo senso è un punto di partenza, a patto che non si ragioni in termini di interventi salvifici ma di nuovi approcci sistemici. Come può essere l’economia circolare.

“Molti progetti si stanno muovendo, ma come raccontano i numeri e le schede del rapporto, i ritardi da recuperare sono rilevanti e i cambiamenti procedono ancora troppo lentamente – si legge nel report – I problemi più rilevanti riguardano la depurazione (larga parte delle isole ancora incredibilmente manca di impianti o quelli presenti non sono sufficienti), il passaggio da una produzione energetica incentrata sulle fonti fossili (oggi sono vecchi e inquinanti impianti a gasolio a garantire la produzione elettrica) alle rinnovabili (troviamo i numeri più bassi d’Italia di diffusione e la crescita è ancora estremamente bassa), la gestione dei rifiuti (In molte isole non è ancora stato attivato il servizio di raccolta porta a porta e non sono presenti impianti di trattamento della frazione organica), la mobilità verso le isole (resa difficoltosa dalle condizioni meteorologiche dei mesi invernali) e all’interno delle isole (con modalità ancora poco sostenibili). Su tutti questi punti, i risultati sono altalenanti e i cambiamenti hanno velocità variabile”.

 

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