IDEOLOGIA AL POTERE- EMERGENZA ENERGIA.
IDEOLOGIA AL POTERE- EMERGENZA ENERGIA.
A Buon
Intenditor…
Conoscenzealconfine.it-(
9 Settembre 2022) - Lorenzo Sartié- ci dice:
Eni ha
bloccato il prezzo del gas con la Russia 10 anni fa. E continua a pagarlo a
quel prezzo. Però vi applica il prezzo determinato dalla borsa di Amsterdam.
Quindi
lo compra a 2 (come da contratto) e ve lo rivende a 30 (grazie alla borsa che è
pura speculazione). Eni con questo meccanismo ha avuto un utile di 7,3 miliardi
nei primi 6 mesi di quest’anno. Eni, inoltre, casualmente ha spostato la sede
legale in Olanda.
L’Eni
è una compartecipata statale al 30,62% (4 e rotti% ministero dell’economia e
finanze e 26 e rotti% Cassa Depositi e Prestiti). Quindi parte di quell’utile è
dello stato italiano, che non vuole ridarlo ai clienti (Cittadini e Imprese).
Altro che sforamento di bilancio e PNNR.
Non è
finita qui. La società che in borsa contratta il gas, fatalità… è americana.
Paga
il 3% di tasse in Olanda e il resto lo porta chissà dove. Però sta alzando artificiosamente il
prezzo del gas, in modo che i paesi europei siano costretti a comprare (al
triplo del prezzo) il gas americano (bontà loro, che mossi da “humana pietas”
ce lo vendono).
Come
vedete Putin non c’entra un tubo (scusate la battuta). Il vero nemico è in
Italia. Vi è già venuta una colica? Se volete continuo…
(Lorenzo
Sartié- t.me/Arruinas)
EMERGENZA
ENERGIA,
“OCCORRE
AGIRE SUBITO”.
Confcommercio.it-Redazione-(26
agosto 2022) -ci dice:
Da
Confcommercio appello a governo e forze politiche: “l’impennata dei costi si
abbatte sui bilanci, a rischio la prosecuzione delle attività in tante aziende
del terziario di mercato”. Fipe lancia la campagna "Bollette in
vetrina".
“L’impennata
dei costi energetici si abbatte sui bilanci delle imprese, mettendo a rischio
la prosecuzione delle attività in tante aziende del terziario di mercato”. È
per questo che Confcommercio chiede al Governo e a tutte le forze politiche
impegnate nel confronto elettorale di “agire subito per dare risposta ad una
vera e propria emergenza, rilanciando l’iniziativa in sede europea sul
cosiddetto Energy Recovery Fund e puntando alla fissazione di un tetto al
prezzo del gas e alla revisione delle regole e dei meccanismi di formazione del
prezzo dell’elettricità”. Questo già dalla conversione in legge del decreto ‘Aiuti bis’
“potenziando e rendendo più inclusivi i crediti d’imposta fruibili anche da
parte di non ‘energivori’ e non ‘gasivori’, scegliendo di destinare
all’abbattimento degli oneri generali di sistema il gettito derivante dalle
aste per l’assegnazione delle quote di emissione di Co2 e rafforzando le misure
contro il caro carburanti per il settore dell’autotrasporto”. Infine, secondo
la Confederazione, “è evidente l’urgenza di affrontare con determinazione,
nella prossima legislatura, i nodi della riforma della fiscalità energetica e
della riduzione strutturale del carico fiscale su trasporti e mobilità”.
Osservatorio
Confcommercio Energia: nel 2022 le imprese del terziario spenderanno in energia 24
miliardi di euro, più del doppio rispetto all’anno precedente.
Fipe-Confcommercio lancia la campagna "Bollette
in vetrina".
Un'operazione
di trasparenza a livello nazionale per mostrare ai cittadini e agli avventori
di bar e ristoranti quale è la situazione in cui le imprese sono costrette a
operare. È "Bollette in Vetrina": nei prossimi giorni i gestori dei
pubblici esercizi associati a Fipe-Confcommercio riceveranno una cornice da
appendere nei propri locali per mettere in bella vista le ultime bollette del
gas e dell'energia elettrica. Si tratta di bollette monstre, triplicate
rispetto a un anno fa a causa dell'impennata dei prezzi del gas.
Una
situazione che sta costringendo gli esercenti a dover scegliere tra gli aumenti
dei listini, finora assai modesti, e la sospensione dell'attività in attesa di
un intervento risolutivo da parte del Governo. "Questa iniziativa - spiega Aldo
Cursano, vicepresidente di Fipe - ha l'obiettivo di rendere trasparente cosa
sta succedendo oggi a chi gestisce un bar o un ristorante anche nel tentativo
di spiegare ai clienti perché stanno pagando il caffè un po' di più con il
rischio nei prossimi mesi di ulteriori aumenti. Con aumenti dei costi
dell'energia del 300% si lavora una pistola puntata alla tempia. Se il Governo non interviene o si
agisce sui listini o si sospende l'attività. Contiamo sulla sensibilità dei
cittadini e dei clienti perché fare lo scaricabarile dei costi è proprio quello
che non vorremmo fare. Per questo Fipe ha chiesto al Governo di potenziare
immediatamente il credito di imposta anche per le imprese non energivore e non
gasivore. Un credito di imposta del 15% per l'energia elettrica non è assolutamente
adeguato agli extra costi che le imprese stanno sostenendo ora. Occorre però
fare presto, altrimenti si rischia di innescare una spirale inflazionistica
destinata a gelare i consumi".
“Credito
d’imposta per la ristorazione, bene il ministro Garavaglia”.
“Le
preoccupazioni del ministro Garavaglia sul rischio che corre la prossima
stagione turistica per effetto degli aumenti esorbitanti della bolletta
energetica sono anche le nostre. La richiesta di un provvedimento urgente a favore
delle imprese della ristorazione per attenuare gli effetti degli aumenti non
solo va nella direzione da noi auspicata ma è la conferma che il settore è
fondamentale per il buon andamento del turismo del Paese.” Così Fipe-Confcommercio sulle
dichiarazioni del ministro del Turismo, Massimo Garavaglia.
Conftrasporto: “imprese con veicoli a metano
costrette allo stop”.
"Il
nostro settore si muove per il 95% con il gasolio e per il 5% con il gas. Ma
chi ha fatto investimenti su veicoli a gas metano oggi li ferma, perché non è
sostenibile questo aumento dei costi". Così il segretario generale di
Conftrasporto-Confcommercio, Pasquale Russo, spiegando che "mediamente il
costo del prodotto petrolifero, del gas in questo caso, vale il 30% dei costi
di un'impresa di trasporto. Quindi con un costo del gas quadruplicato abbiamo
un aumento complessivo di costi di esercizio di circa il 10-15%. È impossibile andare avanti per
imprese che lavorano a marginalità molto ridotta, come quelle del
trasporto". "Tutto l'aumento dei prodotti energetici – continua Russo
- impatta sul nostro settore. Insieme al gas c'è stato e continua ad esserci,
nonostante una riduzione delle accise, anche un costo molto elevato dei
carburanti. Un problema che ha avuto inizio ben prima dello scoppio della
guerra in Ucraina". "Bisogna continuare a sostenere il nostro settore con
interventi diretti, perché i costi sono troppo elevati per poter essere
scaricati sul mercato", afferma infine il segretario generale di
Conftrasporto-Confcommercio, chiedendo che si vada incontro "a tutte le
imprese, non soltanto quelle energivore e gasivore".
Fida:
“bollette quintuplicate, costo dell’energia fuori controllo”.
"Nel
nostro settore sono arrivate bollette quintuplicate rispetto alla norma. Chi
prima spendeva 5mila euro si è ritrovato con bollette da 25mila: considerando
che c'è l'azzeramento degli oneri di sistema si capisce che siamo davanti a un
costo fuori controllo della materia energetica". Parole della presidente
di Fida-Confcommercio, Donatella Prampolini, che aggiunge: “il nostro è un
settore con una bassissima marginalità. Se si è bravi si chiude il conto
economico, dopo aver pagato le tasse, con una percentuale al di sotto dell'1%
rispetto al fatturato. I costi energetici non hanno mai impattato più del 2% sui
nostri conti, ma oggi abbiamo su base mensile costi che arrivano al 10%".
"Da
qui alla fine dell'anno tutti gli aumenti che arriveranno dovranno essere
rigirati al consumatore ma non basterà, perché quando l'energia impatta sul
conto economico sopra il 5% non è sostenibile", continua Prampolini,
sottolineando la necessità per le aziende del settore di "un credito
d'imposta almeno pari a quello delle aziende energivore".
"Occorre
a livello europeo un tetto al prezzo del gas, finanziamenti ad hoc per pagare
le utenze, la proroga dell'azzeramento degli oneri di sistema, ma anche la
proroga di misure nate con il Covid, come il ripianamento delle perdite in
cinque anni, la possibilità di abbassare o azzerare gli ammortamenti. Come Fida
- conclude la presidente Fida - chiediamo di tassare in modo consistente gli
extraprofitti delle società energetiche".
Federazione
Moda Italia:
“urgente estendere il credito d’imposta ai negozi di abbigliamento, calzature,
pelletterie e accessori”.
“L’aumento
assolutamente insostenibile dei costi dell’energia colpisce veramente tutti i
comparti e in modo particolare quello del settore della Moda, che vede nelle
prospettive future una grave difficoltà nel poter mantenere posizioni
fondamentali all’interno dei centri storici e allo stesso tempo nella necessità
di tutelare centinaia di migliaia di posti di lavoro”. Così Giulio Felloni,
presidente nazionale di Federazione Moda Italia- Confcomercio, che prosegue:
“il nostro settore è uno snodo fondamentale della filiera del made in Italy.
La
forte preoccupazione arriva dai segnali non incoraggianti che provengono dai
nostri fornitori, con un aumento dei prezzi di circa il 15% che potrà essere
difficilmente sostenibile dal consumatore finale che vedrà, tra l’altro, ulteriormente
ridotta la propria capacità di spesa. Basti pensare che, così come denunciato
da Confcommercio, gli aumenti della spesa annuale tra luglio 2021 e luglio 2022
sono arrivati a toccare il 122% per l’elettricità e il 154% per il gas. Una
situazione che non potrà essere risolta con una serie di interventi a pioggia,
ma che richiede una precisa presa di coscienza e valutazione alle forze
politiche nel loro complesso”.
“Come
presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio – conclude Felloni – ritengo
che la strada intrapresa insieme al nostro presidente confederale, Carlo
Sangalli, sia un percorso che punta sì al dialogo ma che nel contempo
sottolinea con forza la improrogabile necessità di un intervento strutturale a
favore delle piccole e medie imprese che sono parte integrante ed essenziale
per la salvaguardia delle città e dei centri storici. Da chi ci verrà a governare ci
aspettiamo risposte adeguate, ma ora è urgente estendere e incrementare il
credito d’imposta anche alle nostre imprese del dettaglio moda che, pur non
essendo classificate come energivore e gasivore, necessitano di un aiuto
immediato per far fronte a costi sempre più importanti e margini sempre più
rosicati, ai limiti della sopravvivenza”.
Confcommercio
Salute:
“fin qui nessun aiuto, servono interventi immediati e strutturali”.
L’emergenza
legata al caro-energia investe anche il mondo del socio sanitario. Un settore
che, peraltro, deve continuare a mantenere, senza possibilità di interruzione,
uno standard di prestazioni e servizi efficiente e di grande qualità, data la
presa in carico di pazienti anziani e fragili.
L’allarme
arriva da Confcommercio Salute, Sanità e Cura, che sottolinea che “la quasi totalità delle strutture
che rappresentiamo ad oggi ha registrato aumenti consistenti delle utenze
energetiche a ridosso dell’ultimo quadrimestre dell’anno. Parliamo di costi in
bolletta raddoppiati nella maggior parte dei casi e in alcuni contesti
addirittura triplicati, che si sommano all’aumento delle spese generate da
diversi servizi fondamentali come, per esempio, quelli di ristorazione e
lavanderia”.
Un
quadro che si è concretizzato a margine di un biennio già complicatissimo, con
un’aggravante: “a differenza delle perdite del 2020 e 2021 legata principalmente alla
pandemia, in cui seppur a rilento sono arrivati aiuti, ad oggi per il 2022 non
sono previsti meccanismi compensativi a supporto del settore. Il sistema degli
aiuti oggi riguarda solo le imprese o le attività energivore e non considera il
socio sanitario. I rischi principali, per molti, sono due e vanno entrambi
assolutamente evitati: la chiusura di diverse realtà o il peggioramento della
qualità dei servizi”.
Da qui
le richieste di Confcommercio Salute al governo e alle forze politiche in vista
della tornata elettorale, sia contingenti che strutturali:
“urgono provvedimenti nell’immediato. Tra
questi – dice Pallavicini - c’è senz’altro la necessità di abbattere almeno
fino a fine anno le aliquote sull’energia elettrica al 10%, come per il gas,
soprattutto nell’ottica dell’arrivo della stagione invernale”. In parallelo,
per l’Associazione, occorre aprire un tavolo con le istituzioni per affrontare
il tema e avviare un’analisi strutturale del settore. “Le ultime attività
ispettive dei Nas a livello nazionale hanno infatti nuovamente riscontrato
preoccupanti inefficienze e violazioni in numerose strutture, che purtroppo
minano credibilità e immagine dell’intero settore. In questo contesto occorre
avviare al più presto un percorso che tuteli il privato accreditato di qualità:
assistere le persone in maniera adeguata è e deve rimanere la mission primaria
e per farlo occorre una progettazione sinergica a tutela di cittadini, famiglie
e operatori virtuosi”.
“Decontestualizzare
il problema del caro energia nel socio sanitario, con soli interventi di breve
periodo, ci pare miope. Il tema più grande, acuito dal nuovo aumento dei costi
delle materie prime, è legato alla necessità di stoppare il proliferare di un
mondo collaterale di strutture a basso costo e senza garanzie di qualità, che
hanno inquinato l’intero settore. Per questo riteniamo necessario sottolineare
due priorità: valorizzare di chi investe in qualità e sicurezza, anche sul
piano dei ristori; avviare e promuovere un cambio di paradigma nell’approccio
culturale e operativo verso il settore dei LEA. A partire proprio, per rimanere
al tema energia, dall’urgente e attuale tema dell’efficientamento energetico
delle strutture, intese come parte integrante del processo di transizione
ecologica del paese”, conclude Pallavicini.
Emergenza
energia,
incontro
tra le Regioni del Nord:
“Impatto
devastante”.
Iltorinese.it-Redazione-(30
agosto-2022) -ci dice:
40
MILIARDI DI EXTRA-COSTI. RISCHIO DI DEINDUSTRIALIZZAZIONE E MINACCIA ALLA
SICUREZZA NAZIONALE.
Incontro
dei Presidenti delle Confindustrie di Emilia-Romagna, Lombardia, Piemonte e
Veneto con gli assessori allo Sviluppo economico.
Si è svolto ieri un incontro straordinario tra i
Presidenti Annalisa Sassi (Confindustria Emilia-Romagna), Francesco Buzzella
(Confindustria Lombardia), Marco Gay (Confindustria Piemonte), Enrico Carraro
(Confindustria Veneto) e gli assessori allo Sviluppo Economico Vincenzo Colla
(Emilia-Romagna), Guido Guidesi (Lombardia), Andrea Tronzano (Piemonte) e
Roberto Marcato (Veneto).
Al centro
dell’incontro l’emergenza energetica che, in assenza di quelle misure di
contenimento dei prezzi richieste da mesi dalle imprese, sta paralizzando il
sistema industriale italiano con il forte rischio di deindustrializzare il
Paese mettendo a repentaglio la sicurezza e la tenuta sociale nazionale.
In
linea con l’appello del Presidente nazionale, Carlo Bonomi, si è sottolineato che la situazione
ha caratteri di straordinarietà e urgenza indifferibile, perché è impossibile
mantenere la produzione con un tale differenziale di costo rispetto ad altri
paesi (UE e extra UE) nostri competitor, con l’effetto di colpire non solo le
imprese esportatrici dirette, ma anche tutta la filiera produttiva, con un
effetto pesantemente negativo sulle piccole e medie imprese intermedie nella
filiera. Ulteriore effetto è l’annullamento del rilancio economico post
pandemia, in particolare nelle ricadute sui territori che vedono un’erosione
drammatica di competitività rispetto ad altri Paesi limitrofi. è chiaro ormai che ogni risorsa deve
essere destinata prioritariamente a questa emergenza.
I
rappresentanti delle Confindustrie delle quattro regioni hanno presentato agli
assessori i dati relativi agli incrementi dei costi energetici dal 2019 al 2022
nelle quattro regioni più importanti per il tessuto industriale italiano: dai
dati emerge che, mentre nel 2019 il totale dei costi di elettricità e gas
sostenuti dal settore industriale delle quattro regioni ammontava a circa 4,5
miliardi di Euro, nel 2022 gli extra-costi raggiungeranno – nell’ipotesi più
ottimistica rispetto all’andamento del prezzo – una quota pari a circa 36
miliardi di Euro che potrebbe essere addirittura superiore ai 41 miliardi nello
scenario di prezzo peggiore.
Con
una situazione del genere, le ricadute non saranno solo sulle imprese ma su
tutta la società, con evidenti effetti di tenuta sociale ed economica per i
lavoratori e le loro famiglie e per l’intero Paese.
Ferma
restando la necessità di definire, fin da subito, una programmazione energetica
nazionale con interventi e investimenti a medio-lungo termine in grado di
assicurare la sicurezza e la sostenibilità della produzione energetica e delle
forniture di gas, i Presidenti Sassi, Buzzella, Gay e Carraro hanno dichiarato
che le imprese non possono attendere un giorno di più quelle misure necessarie
a calmierare i prezzi di gas ed energia elettrica, tra cui:
1. Introduzione di un tetto al prezzo del gas
(europeo o nazionale).
2. Sospensione del meccanismo europeo che
prevede l’obbligo di acquisto di quote ETS a carico delle imprese.
3. Riforma del mercato elettrico e separazione
del meccanismo di formazione del prezzo dell’elettricità da quello del gas.
4. Misure per il contenimento dei costi delle
bollette con risorse nazionali ed europee.
5. Destinazione di una quota nazionale di
produzione da fonti rinnovabili a costo amministrato all’industria
manifatturiera.
Le Confindustrie di Emilia Romagna, Lombardia, Piemonte e Veneto, hanno
apprezzato la sensibilità e l’attenzione delle Regioni, che si sono trovate
concordi sulla gravità dell’emergenza e l’insostenibilità della situazione, e
al fine di evitare drammatiche ricadute economiche e sociali invitano tutte le
forze politiche – anche in questa fase di campagna elettorale – a sostenere con
decisione l’impegno del Governo in carica nella difficile trattativa con gli
altri Paesi a livello europeo per l’introduzione di un tetto al prezzo del gas.
Il tempo è ampiamente
scaduto e una decisione in sede UE in questo senso non è più differibile.
Emergenza
energia:
l’autunno
freddo è alle porte.
Otovo.it-
Camilla Antonioni- (10-9-2022) -ci dice:
Caro
bollette e aumento dei prezzi: bisogna agire subito. La stangata d’autunno:
aumento dei prezzi e caro bollette.
Il fotovoltaico
in aiuto alla crisi energetica.
L’autunno
è alle porte, e con lui è sempre più concreto lo scenario di crisi energetica
che ci si prospetta davanti agli occhi. Ormai è un argomento di discussione più
volte sondato: lo choc energetico e l’inflazione - sempre più inasprita
successivamente alla guerra scoppiata in Ucraina - stanno spianando la strada a
una stagione invernale in cui gli italiani dovranno affrontare i numerosi
rialzi delle bollette e dei costi della vita.
Numerose
sono state le iniziative per contrastare questa situazione di crisi. Molti
interventi in materia di finanza sostenibile, economia green e risparmio
energetico stanno cercando di tamponare le preoccupanti prospettive economiche
e finanziarie del nostro Paese per proseguire in questo percorso di transizione
energetica. È per questo motivo, infatti, che Confcommercio sta chiedendo
incessantemente al Governo e a tutte le forze politiche impegnate nel confronto
elettorale di agire prontamente per arginare questa emergenza rilanciando in
sede europea l’iniziativa sul cosiddetto Energy Recovery Fund. Un altro obiettivo, inoltre, è la
fissazione di un tetto al prezzo del gas congiuntamente alla revisione delle
regole e dei meccanismi di formazione del prezzo dell’elettricità.
In
questo articolo ti aiuteremo a fare un po’ di chiarezza in questo scenario
nebuloso di crisi energetica ed economica. Soprattutto cercheremo di farti
capire quanto la scelta di passare all’energia solare possa essere la soluzione
per contrastare i rincari in bolletta e per perseguire l’indipendenza
energetica.
Emergenza
energia: occorre agire subito.
È
arrivato da Confcommercio un appello al Governo e alle forze politiche per
contrastare il profondo scenario di crisi in cui sta versando il nostro Paese.
L’impennata dei costi, infatti, si sta abbattendo sui bilanci e ciò sta
mettendo a rischio la prosecuzione delle attività in molte aziende del
terziario di mercato.
Per
questo motivo è stata richiesta da parte di Confcommercio la prosecuzione e il
consolidamento in sede europea dell’Energy Recovery Fund, partendo già dalla
conversione in legge del decreto ‘Aiuti bis’ per potenziare e rendere più
incisivi i crediti d’imposta e scegliendo di destinare all’abbattimento degli
oneri generali di sistema il gettito derivante dalle aste per l’assegnazione
delle quote di emissione di CO2 e rafforzando le misure contro il caro
carburanti per il settore dell’autotrasporto.
La
stangata d’autunno: aumento dei prezzi e caro bollette.
Gli
italiani che tornano dalle vacanze e che dovranno approcciarsi alla stagione
invernale si ritroveranno costretti a fare i conti con la stangata d’autunno,
conseguenza disastrosa dell’inflazione che non accenna ad arretrare e dello
choc energetico.
La
crisi è capillarizzata in tutti i settori socio-economici della nostra realtà,
nessuno escluso. Per fare un esempio, basti pensare che per bere e mangiare -
dunque per l’acquisto di prodotti alimentari e bevande analcoliche - l’Unione
nazionale consumatori ha calcolato una stima di spesa di circa 155€ in più tra
settembre e novembre rispetto allo stesso periodo nel 2021. Per non parlare
delle bollette: per i clienti del mercato tutelato la bolletta della luce del
quarto trimestre ammonterà a circa 280€, contro i 200€ del corrispondente
periodo del 2021. Per il gas, invece, si passerà da 461€ a 588€, con un rialzo
pari a 127€. Incognita sul prezzo dei carburanti, poiché il taglio sulle accise
scadrà il 20 settembre
Vediamo
nel dettaglio i principali settori colpiti dalla crisi economica ed energetica.
Energia.
Allarme
per l’impennata del costo del gas, sempre più vicino a 350€/megawattora. Le
associazioni dei consumatori calcolano che, purtroppo, solo nel quarto
trimestre una famiglia tipo si ritroverà a pagare per le bollette di luce e gas
circa 200€ in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.
Secondo
Arera, i consumi medi di energia elettrica di una famiglia tipo si aggirano
attorno ai 2700 kWh all’anno, per una potenza impegnata di 3 kWp. Per quanto
riguarda il gas, invece, i consumi si aggirano attorno ai 1400 m3 annui. Ciò implica che - secondo uno studio
dell’Unione nazionale dei consumatori - per i clienti del mercato tutelato la
bolletta della luce del quarto trimestre 2022 ammonterà a 280€, contro i 200€
dell’anno precedente. Anche per il gas è prevista una bella impennata: la
bolletta passerà da 461€ a 588€ con una stima di rialzo pari a 127€.
Trasporti.
È
stato introdotto un nuovo taglio delle accise e IVA sul carburante per il
periodo compreso dal 22 agosto al 20 settembre 2022, ma ora rimaniamo in attesa
di una nuova proroga. Il decreto ‘Aiuti bis’ ha confermato le misure di sostegno
già previste nei mesi scorsi per contrastare gli effetti economici della crisi.
I
prezzi della pompa, però, continuano a destare preoccupazioni. Rispetto alle
rilevazioni dell’anno scorso, oggi un litro di benzina costa oltre il 7% in
più, mentre il diesel è aumentato del 19% circa.
Scuola.
Anche
il settore educativo sta subendo le conseguenze della crisi; il caro energia si
ripercuote su tutta la filiera dell’istruzione scolastica. La spesa sui libri scolastici,
infatti, è destinata a salire di circa 1300€, in aumento complessivamente del
7% sul 2022.
Alla
vigilia della ripresa dell’anno scolastico le famiglie dovranno fronteggiare il
rincaro dei prezzi di diari, astucci, zaini, quaderni e penne. Tutti questi
prodotti avranno un prezzo che risulterà aumentato mediamente del 7% rispetto
al 2021.
Ristoranti
e hotel.
Il
settore della ristorazione è tra quelli più colpiti dalla crisi. Basti pensare che, a Roma, per un
caffè espresso si pagheranno a settembre circa 20 centesimi in più - afferma il
Fiepet-Confesercenti. Pasti più cari fino al 15% nei ristoranti e negli alberghi
spunta addirittura la tassa energia: un addebito extra ai clienti per coprire
le spese della luce e dell’aria condizionata. Per i bar si stima un possibile
aggravio di spesa poco superiore al miliardo di euro.
È
allarmante pensare che nel settore del terziario e del turismo la stangata
energetica nei prossimi dodici mesi potrebbe arrivare a costare circa 11
miliardi di euro: una maxi-bolletta 8 miliardi più cara rispetto all’anno
scorso (sempre secondo stime dei Confesercenti).
Supermercati.
Anche
il carrello della spesa sta diventando sempre più caro. Secondi gli ultimi dati
diffusi dall’Istat, a luglio 2022 i prezzi dei prodotti alimentari e delle
bevande analcoliche sono cresciuti tendenzialmente del 10%, contro il 9% di
giugno e il 7,4% di maggio. Se lo stesso trend fosse mantenuto anche per i mesi
successivi si assisterebbe a un rialzo dell’11%, pari ovvero a un rincaro di
circa 620€ su base annua per una famiglia tipo - una stangata autunnale di
155€.
Il
fotovoltaico in aiuto alla crisi energetica.
La
situazione appena descritta è davvero grave, ed è proprio per questo motivo che
è fondamentale consapevolizzarsi in materia green e agire al più presto.
Passare
al fotovoltaico è la soluzione ideale per dimezzare i costi in bolletta e
rendersi sempre più indipendenti con il proprio autoconsumo per non sottostare
al rincaro dei prezzi. Perseguire uno stile di vita sostenibile, adottare una
mobilità sostenibile e installare pannelli solari sul proprio tetto di casa
potrebbe davvero fare la differenza in questa grave condizione di crisi
energetica ed economica e per contrastare il surriscaldamento globale.
L’energia
solare, infatti, è una fonte rinnovabile a che fa bene all’ambiente poiché non
produce emissioni di CO2 nell’atmosfera, e dunque contribuisce alla riduzione
della carbon footprint. Con l’energia prodotta dai tuoi pannelli solari potrai
alimentare tutte le utenze della tua abitazione - persino la tua macchina
elettrica! - senza doverti preoccupare dei prezzi esorbitanti delle bollette.
L'"operazione
militare limitata"
del
Cremlino in Ucraina
è
stata un errore strategico.
Unz.com-
PAUL CRAIG ROBERTS-( SETTEMBRE 6, 2022) -ci dice:
La
terza guerra mondiale sarà la conseguenza più probabile.
Odio
sentire "Te l'avevo detto" ed eccomi qui a usare quelle parole.
Come i
lettori sanno, sono stato preoccupato per molti anni che la tolleranza della
Russia di insulti e provocazioni senza fine avrebbe continuato a incoraggiare
sempre più e peggiori provocazioni fino a quando non saranno superate le linee
rosse che si traducono in un conflitto diretto tra le due principali potenze
nucleari. In
tutti questi anni il Cremlino, incapace di capire, o di accettare, che il suo
ruolo di nemico n. 1 di Washington era scolpito nella pietra, si affidò a una
strategia di risposte da zero a minime per minare l'immagine di una Russia
pericolosa e aggressiva pronta a restaurare l'impero sovietico.
Questa
strategia diplomatica, come la strategia ucraina della Russia, è completamente
fallita.
La
disastrosa strategia ucraina del Cremlino è iniziata quando il Cremlino ha
prestato più attenzione alle Olimpiadi di Sochi che al rovesciamento del
governo ucraino da parte di Washington.
Gli
errori del Cremlino sono stati messi su un percorso accelerato quando il
Cremlino ha rifiutato la richiesta del Donbass di ricongiungersi con la Russia
come l'ex provincia russa della Crimea.
Ciò ha
lasciato i russi del Donbass, precedentemente parte della Russia, a subire
persecuzioni da parte delle milizie naziste ucraine, bombardamenti di aree
civili e occupazione parziale da parte delle forze ucraine dal 2014 fino al
febbraio 2022, quando l'esercito russo ha iniziato a liberare il Donbass dalle
forze ucraine al fine di prevenire un'invasione ucraina preparata delle
repubbliche del Donbass.
Dopo
aver aspettato 8 anni per agire, il Cremlino ora si trovava di fronte a un
grande esercito occidentale addestrato ed equipaggiato più fanatici reggimenti
nazisti.
Si
sarebbe pensato che a quel punto il Cremlino avrebbe imparato dai suoi straordinari
errori e si sarebbe reso conto che, alla fine, aveva bisogno di dimostrare di
essere stato provocato. Senza alcun dubbio, ciò che è stato richiesto è stato
un attacco russo che ha chiuso l'Ucraina, distruggendo il governo, tutte le
infrastrutture civili e ponendo fine immediatamente al conflitto. Invece, il Cremlino ha aggravato i
suoi errori.
Ha
annunciato un intervento limitato, il cui scopo era quello di liberare le forze
ucraine dal Donbass. Ha lasciato intatto il governo e le infrastrutture civili
del suo nemico, consentendo così al suo nemico di resistere all'intervento a
condizioni altamente favorevoli.
Per
essere chiari, non c'è dubbio che i russi possono liberare il Donbass dalle
forze ucraine e hanno quasi completato il compito. L'errore del Cremlino è stato quello
di non rendersi conto che l'Occidente non avrebbe permesso che l'intervento
fosse limitato.
Il
Cremlino ha avvertito l'Occidente di interferire nell'operazione, dichiarando
che se gli Stati Uniti e la NATO fossero stati coinvolti, la Russia avrebbe
considerato quei paesi come "combattenti".
Ma l'Occidente è stato coinvolto, lentamente e
con attenzione in un primo momento per testare le acque e poi sempre più
aggressivamente come quello che l'Occidente originariamente si aspettava
sarebbe stato al massimo un conflitto di una settimana è ora al suo settimo
mese con il Cremlino che parla di nuovo di negoziati con Zelensky e l'avanzata
russa apparentemente in attesa.
Lungi
dal trattare i paesi della NATO come combattenti, il Cremlino fornisce ancora
energia all'Europa nella misura in cui l'Europa consente alla Russia di farlo.
Alti funzionari russi hanno parlato come se
dimostrare che la Russia è un fornitore di energia affidabile sia più
importante della vita dei suoi soldati che combattono contro le forze
occidentali addestrate ed equipaggiate dall'Ucraina fornite da paesi europei le
cui industrie di armamenti funzionano con energia russa.
Avevo
correttamente previsto che le mezze misure russe avrebbero comportato l'allargamento
della guerra.
La
correttezza della mia analisi è stata ora confermata da un rapporto di The
Hill, una pubblicazione di Washington letta da addetti ai lavori. Il rapporto è
intitolato: "Perché gli Stati Uniti stanno diventando più sfacciati con il loro
sostegno all'Ucraina" e può essere letto qui: (thehill.com/policy/international/3627782-why-the-us-is-becoming-more-brazen-with-its-ukraine-support/)
Ecco
la frase di apertura del rapporto e alcuni estratti:
"L'amministrazione
Biden sta armando l'Ucraina con armi che possono causare gravi danni alle forze
russe e, a differenza delle prime fasi della guerra, i funzionari statunitensi
non sembrano preoccupati per la reazione di Mosca".
"Nel
corso del tempo, l'amministrazione ha riconosciuto di poter fornire armi più
grandi, più capaci, a lunga distanza e più pesanti agli ucraini e i russi non
hanno reagito", ha detto l'ex ambasciatore degli Stati Uniti in Ucraina
William Taylor a The Hill.
"I
russi hanno bluffato e sbraitato, ma non sono stati provocati. E c'era
preoccupazione [per questo] nell'amministrazione all'inizio – c'è ancora in una
certa misura – ma la paura di provocare i russi è diminuita", ha aggiunto Taylor, che ora è con
l'Istituto per la Pace degli Stati Uniti.
"'All'inizio
siamo stati un po' più attenti... non sapendo se Putin avrebbe trovato e
attaccato linee di rifornimento e convogli, non essendo sicuro se si sarebbe
intensificato, e anche non essendo sicuro se l'Ucraina potesse usare ciò che
abbiamo [dato] loro o resistere a lungo contro la Russia ", ha detto Michael O'Hanlon,
analista militare presso il think tank Brookings Institution di Washington, DC.
"Da
giugno, gli Stati Uniti hanno costantemente aumentato i sistemi missilistici di
artiglieria ad alta mobilità nel paese, che i membri del servizio americano
hanno addestrato le truppe ucraine a utilizzare in lotti.
Guardando
al futuro, diversi rapporti hanno indicato che gli Stati Uniti prevedono di
inviare presto munizioni di artiglieria a guida di precisione Excalibur – armi
che possono viaggiare fino a 70 chilometri e aiuterebbero gli ucraini a colpire
le posizioni e i posti di comando russi scavati.
"Parte
del cambiamento nella messaggistica può essere attribuito al fatto che Kiev ha
sfidato le aspettative internazionali e non è caduta rapidamente quando la
Russia ha attaccato per la prima volta, secondo Nathan Sales, un ex funzionario
del Dipartimento di Stato che più recentemente è stato sottosegretario ad
interim per la sicurezza civile, la democrazia e i diritti umani".
Come
ho detto, l'operazione limitata del Cremlino è stata vista in Occidente come
una mezza misura che ha fornito all'Occidente l'opportunità di allargare la
guerra.
Ora, con l'avvicinarsi dell'inverno, il
conflitto si sta allargando con spedizioni di potenti armi a lungo raggio in
grado di attaccare Donbass, Crimea e altre parti della Russia dall'Ucraina
occidentale che è stata risparmiata dall'invasione russa.
Come ho
anche detto sarebbe il caso, allungando la guerra con le sue tattiche lente al
fine di ridurre al minimo le vittime civili, un intento nobile, la Russia ha
dato all'Occidente l'opportunità di caratterizzare l'intervento russo come a
corto di vapore da munizioni esauste e alte perdite russe. L'immagine del
fallimento russo ha avuto l'effetto che mi aspettavo di rendere l'Occidente più
fiducioso sul suo ruolo di combattente. Ecco alcuni estratti dal rapporto di
The Hill che confermano che:
"Un'altra
parte dell'equazione: l'intelligence recente che indica che la Russia sta
sentendo il pungiglione delle sanzioni imposte dall'Occidente e una forza di
servizio militare che sta diminuendo di potere mentre la guerra si consuma.
"Il
mese scorso, Reuters ha riferito che le principali compagnie aeree russe come
Aeroflot hanno messo a terra i loro aerei in modo che possano essere spogliati
per i pezzi di ricambio, prendendo componenti da alcuni dei loro aerei per
mantenerne altri in grado di volare.
E di
fronte alle perdite sul campo di battaglia, Putin il mese scorso ha cercato di
aumentare il personale di combattimento della Russia di oltre 130.000 soldati
eliminando il limite di età superiore per le nuove reclute e incoraggiando i
prigionieri ad unirsi.
"I
funzionari statunitensi pensano che lo sforzo sia 'improbabile che abbia
successo'".
"Nel
complesso, l'intelligence dipinge l'immagine di un paese [la Russia] che lotta
per mantenere le proprie istituzioni, tanto meno per rispondere alle nazioni
occidentali per aver aiutato l'Ucraina.
"Penso
che l'istinto delle persone nei dipartimenti e nelle agenzie, in particolare lo
Stato e la Difesa e la comunità dell'intelligence, penso che il loro istinto
sia quello di essere più inclini in avanti e più aggressivi", ha detto un
ex alto funzionario del governo.
"Abbiamo
molto più spazio dalla nostra parte, penso, per intraprendere azioni che
aiuteranno l'Ucraina senza avere ingiustificatamente paura di come Putin
risponderà", hanno aggiunto.
Si può
pensare che il Cremlino abbia commesso tutti questi errori perché non voleva
spaventare di più l'Europa nella NATO dimostrando la sua abilità militare in
una conquista alleggerita dell'Ucraina.
Ma
sono le misure a metà strada della Russia che hanno dato alla Finlandia e alla
Svezia la fiducia di aderire alla NATO in quanto non vedono alcuna minaccia per
sé stessi dall'essere membri della NATO.
Un
devastante colpo russo all'Ucraina avrebbe indotto tutta l'Europa a ripensare
l'adesione alla NATO poiché nessun paese europeo vorrebbe affrontare la
prospettiva di una guerra con la Russia. Invece, ciò che il Cremlino ha
prodotto è un primo ministro britannico che è pronto a impegnare la Russia in
una guerra nucleare e una NATO che intende mantenere il conflitto ucraino in
corso.
Un
lettore negligente o ostile potrebbe concludere dal mio articolo che sono un
sostenitore del successo militare russo.
Al
contrario, sono un sostenitore della minimizzazione del rischio di una guerra
nucleare. Steven
Cohen ed io siamo i due che fin dall'inizio hanno visto come l'interferenza di
Washington in Ucraina con il rovesciamento del governo abbia tracciato un
percorso che potrebbe finire nell'Armageddon nucleare.
Cohen
è stato insultato dalla sua stessa sinistra liberale, e io sono stato dichiarato un "imbroglione agente di Putin".
La
chiamata di nome che abbiamo sofferto ha dimostrato il nostro punto. Il mondo occidentale è cieco alle
potenziali conseguenze delle sue provocazioni sulla Russia, e il Cremlino è
cieco alle potenziali conseguenze della sua tolleranza delle provocazioni.
Come
possiamo vedere, nessuna delle due parti è ancora arrivata a questa
realizzazione. Il rapporto di Hill dimostra la correttezza della mia analisi della
situazione e la mia previsione che il risultato sarebbe stato un allargamento
della guerra e una maggiore probabilità di errori di calcolo che potrebbero
portare a una guerra nucleare.
Il
pensiero conforme
dell’Imbecille
globale.
Marcelloveneziani.com-Marcello
Veneziani-(18 novembre 2020) -ci dice:
A
parte il corso permanente e intensivo di angoscia e terrore causa pandemia,
ogni mattina, pomeriggio e sera, ovunque tu sei e a qualunque fonte
d’informazione ti colleghi – video, radio, giornali, web ma anche film,
concerti, omelie, lezioni a scuola o all’università, discorsi istituzionali – c’è un Imbecille Globale che ripete
sempre lo stesso discorso:
“Abbattiamo
i muri, niente più frontiere tra popoli, fedi, razze, sessi e omosessi, non più
chiusure in nazioni, generi, famiglie, tradizioni ma aperti al mondo”.
Te lo
dice come se stesse esprimendo un’acuta e insolita opinione personale,
originale; finge di ribellarsi al conformismo della chiusura e al potere del
fascismo (morto da 75 anni) mentre lui, che coraggioso, che spregiudicato, è
aperto, non si conforma, ha la mente aperta, il cuore aperto, le braccia
aperte, è cittadino del mondo.
Sfida i potenti, lui, che forte.
Sta
ripetendo all’infinito, da imbecille prestampato qual è, il Catechismo
Precompilato dei Cretini Allineati al Canone del Tempo. Tutti per uno, uno per
tutti. L’Imbecille è globale perché lui sa dove va il mondo e si sente
cittadino del mondo. L’idiota planetario si moltiplica in mille versioni.
C’è
l’Imbecille Cantante che dal palco, ispirato direttamente dal dio degli artisti,
dichiara che lui canta contro tutti i muri e tutti i razzismi. Che eroe, sei
tutti noi.
Poi
vedi l’Imbecille Attore o Regista che dal podio lancia il suo messaggio
originale e assai accorato, perfettamente uguale a quello del precedente
cantautore, ma lui lo recita come se l’umanità l’ascoltasse per la prima volta
dalla sua viva voce. “Io non amo i muri, non mi piace chi vuole alzare muri”
Che bravo, che anticonformista.
Segue
a ruota l’Imbecille Intellettuale, profeta e opinionista che per distinguersi
dal volgo rozzo e ignorante, dichiara anche lui la Medesima Cosa, sui muri ci
piscio, morte al razzismo, morte a Hitler (defunto sempre da 72 anni), viva
l’accoglienza, i neri, i gay e i trans.
L’Idiota Collettivo, versione ebete
dell’Intellettuale Collettivo post-gramsciano, non pensa in proprio ma scarica
l’app ideologica che genera risposte in automatico.
Poi
c’è l’Imbecille a mezzo stampa o a mezzobusto che riscrive o recita ispirato
l’identica pisciatina contro i Muri.
E poi
c’è il Presidente o la Presidente, che in veste d’Imbecille Istituzionale, esprime lo stesso, identico
Concetto, col piglio intrepido di chi sfida i Poteri Forti (ai cui piedi è
accucciato o funge da zerbino).
Non
c’è film, telefilm, concerto, spettacolo teatrale o sportivo, gag e omelia tv
in cui non si ribadisca la lotta tra il Bene e il Male: Aperti e Filantropi contro Chiusi
& Ottusi, Accoglienti contro Razzisti, Omofili contro Omofobi, Xenofili
contro Xenofobi e Negrofobi. Voi quelli del Muro, noi quelli del Telepass. Le bestie da scacciare sono quasi
sempre vaghe, anonime, mitologiche; e già, il male è sempre oscuro, cospira nel
buio, non ha volto, solo maschere storiche o ridicole. Ma il repertorio è ricco di bersagli, quasi
tutti definiti sovranisti.
Tu
senti uno, cambi canale e ne senti un altro idem, spegni la tv e senti alla
radio un altro ma il Discorso è sempre quello, apri il giornale e leggi ancora
l’Identica Opinione; a scuola idem con patate, all’Università peggio-mi-sento,
i Palloni Gonfiati dai media compilano lo stesso Modello Unico.
Nessuno di loro è sfiorato da dubbi, invece a te sorge un primo dubbio: è un’allucinazione o è sempre la
stessa persona, l’Imbecille Globale, che cambia veste, fattezze e mansioni e
ripete all’infinito l’Identico Discorso?
Segue
un secondo dubbio: ricordo
male o eravamo in democrazia, che vuol dire libertà e pluralismo, cioè opinioni
libere e divergenti a confronto?
Loro non credono alla Verità, sono relativisti, però
guai a dissentire dal Discorso Obbligato con fervorino finale anti-Muro. Ma possibile
che tutti la pensino allo stesso modo, conformi, allineati e omologati, e
ritengano che la cosa più urgente e più importante del momento, il Messaggio
Unisono da dare all’Umanità sia sempre quello?
Allora ti sorge un terzo dubbio.
E se l’Imbecille Globale a reti unificate
fosse il Grande Fratello del nostro tempo? Se fosse lui il Portavoce multiplo
del Non-Pensiero Unico, cioè del nuovo regime totalitario-globalitario?
E se fosse proprio quell’Uniformità Totale e quel
corale accodarsi la miseria prioritaria del nostro tempo?
Non so
voi, ma io di quell’Imbecille Planetario che ripete il Discorso Unico e
Identico all’Infinito, non ne posso più.
Ci
salverà la scienza,
anzi il miracolo.
Marcelloveneziani.com-Marcello
Veneziani- (8 settembre 2022) -ci dice:
Più di
mezzo secolo fa un filosofo venuto dall’idealismo e dal fascismo, allievo di
Giovanni Gentile, capì che il mondo andava verso la globalizzazione; la scienza
e la tecnica avrebbero preso il posto della filosofia e della politica.
Quel
filosofo si chiamava Ugo Spirito e non fece in tempo a vedere avverarsi le sue
previsioni perché morì alla fine degli anni settanta.
Ora è
uscita una raccolta di suoi scritti giornalistici degli anni settanta, “L’avvenire della globalizzazione”
(Luni editrice), a cura di Danilo Breschi che ha scritto pure un ampio saggio
introduttivo. C’è
tutto il pensiero ultimo di Spirito, antimetafisico, antireligioso,
antiliberale, e c’è pure la sua errata previsione sulla globalizzazione
scientista: non avrebbe liquidato l’individualismo e generato una società
collettivista, almeno da noi in Occidente.
Al contrario, l’unificazione del mondo si sposa a
una società atomistica di masse solitarie e narcisiste; l’uniformità non ha generato
l’avvento del collettivismo né uno Stato mondiale.
Spirito
propose la filosofia come ricerca incessante, amore e problema. Il suo scientismo filosofico gli fece
perdere la considerazione dei filosofi senza guadagnare quella degli scienziati
e dei tecnocrati. Da emarginato finì i suoi anni, condannato, lui rivoluzionario,
scientista, socialista e mondialista a trovare udienza nel mondo conservatore,
antiscientista e nazionalista, e perfino cattolico tradizionale; scrisse pure
un elogio dello Scià di Persia.
Anche
in queste pagine Spirito critica la partitocrazia e la democrazia parlamentare
e sostiene
la corporazione proprietaria che propose in pieno fascismo, con l’appoggio di Mussolini,
poi bocciata dal regime.
Da anziano ipotizzò la rappresentanza per
competenze tecnico-scientifiche al posto dei partiti. Lui umanista, fu teorico della
tecnocrazia; lui idealista, si affidò alla scienza.
Nel
clima della Contestazione, mentre dominava il dogma tutto è politica, Spirito
prefigurava al contrario la spoliticizzazione, il rifiuto dell’ideologia, il
trionfo della cibernetica e della bioingegneria.
Non a
torto Augusto Del Noce, che dialogò con lui in un memorabile libro sull’Eclissi
o tramonto dei valori tradizionali, individuò in lui l’anti-Marcuse.
Ma
sulle ceneri della Contestazione non nacque la rivoluzione scientista, semmai
il dominio neocapitalista che non supera la società borghese e individualista
ma la universalizza.
L’espansione
della tecnica, a suo dire, avrebbe provocato la fine dell’individualismo
borghese (come pensò su altri versanti Ernst Junger) e l’avvento dell’monocentrismo al posto
dell’egocentrismo.
Spirito
riteneva che i valori tradizionali e religiosi fossero incentrati sull’individualismo,
dunque liberandosi dalla società tradizionale la rivoluzione scientifica
avrebbe instaurato il collettivismo.
Invece
un tratto costitutivo della società tradizionale è il suo spirito comunitario,
solidale, antiegoistico. L’espansione della tecnica unita al benessere ha scatenato
l’individualismo planetario, o quantomeno occidentale, disintegrando le
comunità nel villaggio globale. Spirito pensava che l’uniformità, la
standardizzazione, avrebbero condotto per via tecno-scientifica al comunismo, a
cui “è vano pensare di sottrarsi”, come scrisse in Inizio di un’epoca. “Il mondo della politica – scrive
Spirito – deve gradualmente dissolversi e tradursi nel mondo della scienza, in
cui acquistare quel carattere di universalità che ancora gli manca”.
Anche
Gentile pur nel suo attualismo immanentistico non liquidò mai la tradizione e
il senso religioso.
Spirito
invece concepì il “suo”fascismo, il “suo”comunismo e il “suo” scientismo nel
segno del laicismo e dell’immanentismo radicale.
Anzi,
sul piano storico vide la fine del fascismo e dell’italo-comunismo
nell’abbraccio mortale con il cattolicesimo, irretito il primo dai Patti
Lateranensi e il secondo dal Compromesso storico nel segno del cattocomunismo.
Compromettersi
col cattolicesimo coincideva per lui con imborghesirsi e farsi conservatori.
Per lui l’antifascismo era la prosecuzione discendente e reazionaria del
fascismo: non a caso le basi della Costituzione sono il Concordato, il codice
Rocco e la Riforma Gentile (ma si potrebbero aggiungere anche le leggi
sull’ambiente di Bottai), di derivazione fascista.
Pur
auspicando il collettivismo, Spirito difese gelosamente il suo spirito
individuale: non a caso nella sua autobiografia, Memorie di un incosciente,
dedicò i capitoli al “mio” fascismo, al “mio” comunismo, al “mio”
problematicismo.
Altro
suo paradosso è aver considerato irreversibile il corso della storia ma di
essere poi andato sempre controcorrente. “Sono stato fatto dalla realtà” è la
confessione onesta e amara di Spirito; è la disfatta di ogni idealismo, a cui
però non seguì il suo adeguarsi ai tempi.
Sognò il
monocentrismo ma avvertì che “il mito del Superuomo può divenire una realtà
effettiva, con conseguenze inimmaginabili”.
Il
dominio delle oligarchie era un destino già scritto nell’espansione illimitata
della tecnica, gli avrebbe obiettato Heidegger.
Nei
suoi ultimi scritti, Spirito cedette all’amarezza e disse di “non avere più
nulla da insegnare…nulla da dire”. Si lasciò sfuggire perfino un’invocazione
metafisica o religiosa: “Non ci resta che il miracolo”, che precede di poco l’”ormai solo un dio ci può salvare” di Heidegger.
Il
tormento di Spirito fu colto da un papa intellettuale come Paolo VI che cercò
vanamente la conversione di Spirito e poi di Prezzolini, altro scettico
d’antico pelo. Spirito restò fedele al suo antico positivismo, e considerò la fede come
mito e superstizione.
In
questi scritti Spirito critica il femminismo e l’antifascismo, e confida che la
scienza ci salverà dall’inquinamento.
Troppa
fiducia mal riposta nella scienza. Infatti alla fine della vita Spirito confidò nelle
“sorprese” della storia e nell’attesa del miracolo.
(La
Verità-8 settembre 2022)
Ma i
temi caldi sono fuori
dalla
lotta per il potere.
Marcelloveneziani.com-
Marcello Veneziani- (6 settembre 2022) - ci dice:
Il
nostro sistema politico è un cane a sei zampe come la bestia simbolica della
nostra principale azienda di energia. E come il cane a sei zampe, lancia
fiamme dalla bocca come un drago. Da una parte Meloni, Salvini e Berlusconi (o la sua
controfigura Tajani) e dall’altra, in ranghi sparsi, Letta, Calenda e Conte. Li
abbiamo visti tutti insieme (Conte era collegato) a Cernobbio.
Sembra
che la partita in gioco sia una sorta di ordalia, di battaglia finale tra
opposte visioni del mondo.
Sembra,
ma non lo è.
Sul piano politico-elettorale, come abbiamo
scritto domenica scorsa, c’è un solo candidato politico a Palazzo Chigi,
Giorgia Meloni, e contro di lei gioca compatta, benché divisa, la Paura.
Ma sul
piano delle visioni politiche la realtà è molto diversa. Nell’arco degli ultimi
due anni sono venuti al pettine almeno quattro nodi cruciali che hanno spaccato
il nostro Paese.
Il
primo è sui vaccini, il green pass, la polarizzazione tra sì-vax, sempre e comunque, e
no-vax, o almeno non sempre e in ogni caso. Con varie sfumature e gradazioni,
nessuno dei sei ha davvero voglia di interrogarsi, non tanto per il passato
quanto per il futuro, sul determinismo vaccinista e sulla forbice danni-vantaggi
del lockdown.
E
nessuno ha voglia e interesse a rappresentare il dissenso radicale che in
questi anni è emerso nel nostro paese, su una linea che ci è costata in
rapporto alla popolazione un numero tra i più alti di vittime al mondo.
Il secondo
nodo è la guerra in Ucraina che spacca l’Italia in due, tra sostenitori della lezione da
dare alla Russia, ad ogni prezzo, anche il nostro tracollo economico; e
sostenitori della trattativa, bocciando le sanzioni che nuocciono a noi prima
che a Putin, e lo spingono a rinsaldare i suoi rapporti a Oriente, a partire
dalla Cina. Anche qui, a parte un mezzo, e ragionevole, dissenso di Salvini sulle
sanzioni, le forze politiche in campo non osano rimettere in discussione
l’affiliazione cieca, pronta e assoluta ai dettami della Nato e agli interessi
degli Stati Uniti.
Il tema non riguarda la benevolenza o la
malevolenza verso Putin ma il primato dei nostri interessi nazionali, europei e
mediterranei, unito alla prova sul campo che la nostra posizione antirussa non
è servita a fermare o frenare il conflitto, semmai a renderlo ancora più
lacerante e duraturo, con ricadute pazzesche su vari campi.
Il
terzo nodo, strettamente legato al precedente, è la nostra passiva e totale
remissione all’Europa che le sta sbagliando tutte e ora ci coinvolge in questa
drammatica escalation del caro energie.
Un’Europa imbelle e così autolesionista che è riuscita
a mettere in fila una serie di danni a sé stessa, fino a mortificare l’euro ed
esaltare il dollaro.
Ma
nessuno dei sei leader, salvo lievi spostamenti d’accento, osa criticare le
direttive europee e il dominio incapace dei suoi rappresentanti. Scomparsa dai radar è naturalmente
l’ipotesi di rimettere in discussione la nostra appartenenza a questa Unione
Europea, almeno così concepita e guidata.
Il
quarto nodo è la sintesi e il frutto dei precedenti e si riassume nel tema
emergenza economica ed energetica. Nessuno dei sei protagonisti si discosta dall’agenda
Draghi, nessuno osa rimettere in discussione il modello vigente, e tantomeno nessuno osa criticare il
capitalismo globale e i suoi profitti in questa situazione d’emergenza
sanitaria, militare ed economica.
Un po’
fanno scena Conte e i grillini, ma ricordandoci di quando erano al governo; è
solo fuoco di paglia per catturare i voti dei beneficiari del reddito di
cittadinanza. L’approccio alla crisi e all’emergenza economica ed energetica prevede
alcune differenze ma nessun salto, nessuna svolta; è tutto dentro i canoni dell’euro draghismo
e dell’ossequio ai giganti economici sovranazionali.
La
contrapposizione netta sul piano politico-elettorale diventa invece sostanziale
omogeneità nelle direttive di fondo e nella dipendenza dalle vecchie zie
sovranazionali. Sono tutti insider, cioè dentro il sistema.
Ci
sono poi gli outsider tra cui spiccano due forze, Italexit di Paragone e Italia sovrana
e popolare di Marco Rizzo e Ingroia.
Il
primo nome ci piace poco, ricorda le cliniche della morte in Svizzera; il secondo è meglio, però
quell’Ingroia… Essendo fuori dal sistema, non avendo possibilità di incidere
nelle politiche di governo, possono permettersi il lusso di essere contro, e di
interpretare quei quattro punti indicati in modo antagonistico rispetto al cane
a sei zampe.
Ma non
hanno alcuna possibilità di incidere perché ormai c’è una legge inesorabile del
potere:
puoi accedervi se sei dentro quel quadro e i suoi quattro lati, altrimenti vivi ai margini
raccogliendo consensi ribelli ma sterili.
è il nuovo voto di testimonianza,
libero sfogo e nient’altro. Peraltro le ragioni della ribellione differiscono
tra loro, neanche le due forze anzidette sono riuscite a riunirsi; e se
pensiamo per esempio alla destra radicale non la vedrei rappresentata da
nessuno dei due, per biografia e intendimenti dei leader. A quanto ammonta
questa fascia di dissenso?
Ragionando a spanne si tratta di almeno dieci
milioni di cittadini, alcuni concentrati su uno solo dei punti anzidetti. Si divideranno in più rivoli: quelli
che non andranno a votare, quelli che ripiegheranno sul male minore tra le sei
forze principali in campo, e quelli che si divideranno tra i due movimenti di
protesta o altri minori. Ma non influiranno sugli assetti futuri.
Il
problema è decidere se il voto serve per testimoniare un dissenso, sapendo che
non darà frutti, o per scegliere ciò che meno ci dispiace o almeno impedire che
vinca ciò che più ci dispiace. La partita del voto si può leggere almeno in due modi:
quella tra Meloni e la Paura, e quella tra insider e outsider, cioè dentro e
fuori dal sistema, sapendo che entrambi ci resteranno. Scelte ambedue comprensibili; la
prima è realista, la seconda è simbolica. Fate voi.
(La
Verità - 6 settembre 2022)
LE
ORIGINI DEL TOTALITARISMO.
Filosofico.net-
Hanna Arendt- a cura di Diego Fusaro- (10-10-2021) – ci dice:
Come
molte altre opere di grandi autori, anche " Le origini del totalitarismo
" della Arendt è comparsa in un momento politico-culturale (1951), data
centrale della guerra fredda che ne ha reso quasi obbligatoriamente unilaterali
la lettura e l'interpretazione.
L'assimilazione
di nazismo e stalinismo, infatti, impedì allora una lettura serena dell'opera
da parte dell'intellettualità di sinistra, per la quale la Arendt per molti
anni sarebbe rimasta l'esponente di un pensiero politico liberale e neo-conservatore.
In realtà le preferenze politiche della Arendt
andavano ad un tipo di società socialista vicina alle idee della Luxemburg e
alle tematiche consiliari, come sarebbe stato evidente qualche anno dopo.
L'opera, grande anche nel senso della
voluminosità (circa 700 pagine), individua i caratteri specifici del
totalitarismo dopo averne riscontrato le premesse nell'antisemitismo (studiato
nel periodo fra Otto e Novecento, specialmente in Francia con l'"affaire
Dreyfus") e nell'imperialismo, temi ai quali sono dedicati i due terzi
dell'opera.
Dal
confluire delle conseguenze dell'antisemitismo e dell'imperialismo in un
preciso momento storico (la crisi successiva alla prima guerra mondiale) è nato
il totalitarismo, con caratteri comuni sia nella Germania nazista sia
nell'Unione sovietica stalinista (del tutto marginale è l'attenzione rivolta al
fascismo italiano).
Il
totalitarismo è un fatto nuovo del nostro secolo, non assimilabile o
riducibile, secondo la Arendt, ai tradizionali regimi tirannici o dittatoriali.
Esso nasce dal tramonto della società
classista, nel senso che l'organizzazione delle singole classi lascia il posto
ad un indifferenziato raggrupparsi nelle masse, verso le quali operano
ristretti gruppi di élites, portatori delle tendenze totalitarie.
Tali
tendenze, dopo la vittoria politica sulle vecchie rappresentanze di classe,
realizzano il regime totalitario, che ha i suoi pilastri e nell'apparato
statale, nella polizia segreta e nei campi di concentramento nei quali si
rinchiudono e si annientano gli oppositori trasformati in nemici.
Attraverso
l'imposizione di una ideologia (razzismo, nazionalsocialismo, comunismo) e il
terrore, il totalitarismo, identifica se stesso con la natura, con la storia, e
tende ad affermarsi all'esterno con la guerra. Nulla di simile era apparso
prima: il totalitarismo è un fenomeno " essenzialmente diverso da altre
forme conosciute di oppressione politica come il dispotismo, la tirannide e la
dittatura.
Dovunque
è giunto al potere, esso ha creato istituzioni assolutamente nuove e distrutto
tutte le tradizioni sociali, giuridiche e politiche del paese. A prescindere
dalla specifica matrice nazionale e dalla particolare fonte ideologica, ha
trasformato le classi in masse, sostituito il sistema dei partiti non con la
dittatura del partito unico ma con un movimento di massa, trasferito il centro
del potere dall'esercito alla polizia e perseguito una politica estera
apertamente diretta al dominio del mondo ".
La
Arendt accentua, nelle pagine di considerazione teorica che concludono l'opera,
il ruolo nuovo svolto dalle ideologie, unite al terrore, nei regimi totalitari.
Le ideologie, con logica stringente, impongono una visione del mondo in cui le
idee incarnate nel regime totalitario vengono imposte come direttrici di un
cammino fatale, inevitabile, naturale e storico insieme.
In un
regime totalitario l'ideologia " è la logica di un'idea. La sua materia è
la storia a cui l' idea è applicata, il risultato di tale applicazione non è un
complesso di affermazioni su qualcosa che è, bensì lo svolgimento di un
processo che muta di continuo.
L'ideologia
tratta il corso degli avvenimenti come se seguisse la stessa legge
dell'esposizione logica della sua idea.
Essa
pretende di conoscere i misteri dell'intero processo storico - i segreti del
passato, l'intrico del presente, le incertezze del futuro - in virtù della
logica inerente alla sua idea ".
La
Arendt si pone, alla fine, una domanda: " quale esperienza di base nella
convivenza umana permea una forma di governo che ha la sua essenza nel terrore
e il suo principio d'azione nella logicità del pensiero ideologico? ".
La
risposta viene data individuando tale esperienza di base nell'isolamento dei singoli
nella sfera politica, corrispondente alla estraniazione nella sfera dei
rapporti sociali.
Quest'ultima,
in sostanza, sta alla base dell'isolamento sul piano politico, e quindi
costituisce la condizione generale dell'origine del totalitarismo.
"
Estraniazione, che è il terreno comune del terrore, l'essenza del regime
totalitario e, per l'ideologia, la preparazione degli esecutori e delle
vittime, è strettamente connessa allo sradicamento e alla superfluità che dopo
essere stati la maledizione delle masse moderne fin dall'inizio della
rivoluzione industriale, si sono aggravati col sorgere dell'imperialismo alla
fine del secolo scorso e con lo sfascio delle istituzioni politiche e delle
tradizioni sociali nella nostra epoca.
Essere
sradicati significa non avere un posto riconosciuto e garantito dagli altri;
essere superflui significa non appartenere al mondo ".
E
ancora: " quel che prepara così bene gli uomini moderni al dominio
totalitario estraniazione che da esperienza al limite, usualmente subita in
certe condizioni sociali marginali come la vecchiaia, è diventata un'esperienza
quotidiana delle masse crescenti nel nostro secolo.
L'inesorabile
processo in cui il totalitarismo inserisce le masse da esso organizzate appare
come un'evasione suicida da questa realtà " .
Risuonano
in questi passi gli echi di un pessimismo ebraico che negli anni '30 e '40
trovava manifestazione filosofica con tematiche non molto dissimili, in
Benjamin, in Horkheimer e in Adorno.
Le
tesi della Arendt, come quelle dei suoi amici appena citati, avranno ampia
diffusione, ma verranno anche ampiamente discusse nel dibattito teorico che ha
impegnato nei successivi decenni i pensatori politici europei e statunitensi.
Arendt si considerava una scopritrice di problemi attuali, ma i tre elementi
(antisemitismo, imperialismo e razzismo) in cui condensava la sua analisi,
erano ciascuno espressione di un problema, o di un insieme di problemi, per i
quali era stato il nazismo ad offrire, quando essi si erano "cristallizzati",
una "soluzione" tremenda.
Così,
l'alternativa metodologica scelta da Arendt fu quella di individuare gli
elementi principali del nazismo, risalire alle loro origini, e scoprire i
problemi politici reali alla loro base, " scopo del libro non è dare delle
risposte, bensì preparare il terreno ". Arendt presenta gli elementi del
nazismo e i problemi politici che ne stavano alla base. L'imperialismo, quello
che ha raggiunto il suo pieno sviluppo, cioè il totalitarismo, è visto come una
"amalgama" di certi elementi presenti in tutte le situazioni
politiche del tempo. Questi elementi sono l'antisemitismo, il decadimento dello
stato nazionale, il razzismo, l'espansionismo fine a sé stesso e l'alleanza fra
il capitale e le masse.
"
Dietro ciascuno di questi elementi si nasconde un problema irreale e irrisolto:
dietro l'antisemitismo, la questione ebraica; dietro il decadimento dello Stato
nazionale, il problema irrisolto di una nuova organizzazione dei popoli; dietro
il razzismo, il problema irrisolto di una nuova concezione del genere umano;
dietro l'espansionismo fine a sé stesso, il problema irrisolto di riorganizzare
un mondo che diventa sempre più piccolo, e che siamo costretti a dividere con
popoli la cui storia e le cui tradizioni sono estranee al mondo occidentale. La
grande attrazione esercitata dal totalitarismo si fondava sulla convinzione
diffusa, e spesso consapevole, che esso fosse in grado di dare una risposta a
tali problemi, e potesse quindi adempiere ai compiti della nostra epoca ".
In una
serie di lezioni tenute nel 1954 alla "New School for Social
Research" di New York, Arendt chiarisce l'immagine della
"cristallizzazione", con una dichiarazione metodologica che è assente
nelle stesure delle Origini del totalitarismo: " gli elementi del
totalitarismo costituiscono le sue origini, purché per origini non si intenda
cause.
La causalità, cioè il fattore di
determinazione di un processo di eventi, in cui un evento sempre ne causa un
altro e da esso può essere spiegato, è probabilmente una categoria totalmente
estranea e aberrante nel regno delle scienze storiche e politiche. […] Gli
elementi divengono l'origine di un evento se e quando si cristallizzano in
forme fisse e definite. Allora e solo allora, sarà possibile seguire
all'indietro la loro storia. L'evento illumina il suo stesso passato, ma non
può mai essere dedotto da esso ".
Gli
elementi del totalitarismo: secondo Arendt, quindi, il totalitarismo è composto
da "elementi" che si sono sviluppati precedentemente e si sono
"cristallizzati" in un nuovo fenomeno dopo la prima guerra mondiale.
Questi elementi forniscono la struttura nascosta del totalitarismo. L'impulso
all'espansione senza limiti era nelle sue origini un fenomeno economico,
qualcosa di inerente all'avanzata del capitalismo. Il capitalismo era impegnato
nella trasformazione della proprietà da stabile, fissa, in una ricchezza
mobile; la conseguenza fondamentale di questo processo fu quella di generare
sempre più ricchezza in un processo senza fine. Fino a che questo rimase un
fenomeno puramente economico esso era sì distruttivo, ma non catastrofico.
Il pericolo diventò " la trasformazione
di pratiche economiche in un nuovo tipo di politica della competizione
assassina e dell'espansione senza limiti ". Il significato dell'era
imperialista per Arendt è che l'imperativo di espandersi uscì dalla logica economica
e prese forza nelle istituzioni politiche.
Lo
stato-nazione fu fortemente messo in crisi dall'imperialismo. Dove
l'imperialismo dà spazio alle forze incontrollabili dell'espansione e della
conquista, lo stato-nazione è un'istituzione creata da individui, una struttura
civilizzata che fornisce un ordine legale e garantisce diritti, tramite i quali
l'individuo può essere legislatore e cittadino.
C'è una profonda tensione tra la nozione di
stato come garante di diritti, e l'idea della nazione come una comunità
esclusiva. Fin dalla nascita dello stato-nazione questo fatto creò difficoltà
per gli ebrei: infatti, l'ideale dei diritti umani non divenne fondamentale se
non dopo la prima guerra mondiale, e le conseguenze di essa sulle minoranze
nazionali e le persone senza patria ("displaced persons"). Il
capitolo delle "Origini" sul declino dello stato nazione, spiega
perché ci furono così pochi ostacoli al massacro degli ebrei, e dimostra la
necessità di costruire un nuovo ordine politico che non possa abolire diritti
civili e politici per un gruppo di persone.
Quello che il destino delle persone senza
patria ha dimostrato, così sostiene Arendt, è che i diritti umani universali
che sembravano appartenere agli individui, potevano solo essere reclamati da cittadini
di uno stato. Pertanto, per chi era fuori da questa categoria, i diritti
inalienabili della persona erano senza significato.
Ne sono un esempio gli ebrei che, non avendo
uno stato in cui identificarsi come popolo, ed un territorio definito in cui
poter vivere, sono stati privati, come apolidi, del diritto di cittadinanza, e
con esso di una tutela giuridica come soggetti di personalità. Il problema non
era quello di godere di un'eguaglianza di fatto davanti alla legge come
persone, ma la negazione del fondamentale diritto umano e cioè il "diritto
di avere diritti", che significa il diritto di appartenere ad una comunità
politica.
Arendt sottolinea che il razzismo non è una
forma di nazionalismo, ma, è in diversi modi, il suo opposto. Il nazionalismo
genuino è strettamente legato ad uno specifico territorio e una cultura, e
quindi alle azioni e traguardi raggiunti da particolari esseri umani.
La razza, al contrario, è un criterio
biologico, determinato dal territorio e dalla cultura, e si riferisce a
caratteristiche naturali fisiche. Dove le persone sono identificate per i loro
caratteri razziali innati, le differenze individuali e la responsabilità
individuale diventano irrilevanti: una persona semplicemente agisce come un
coro delle caratteristiche razziali di quella specie. Il determinismo razzista,
con la distinzione tra razze superiori e inferiori, fornisce una perfetta
giustificazione per la conquista imperialista e la sottomissione delle
popolazioni native.
La plebe è un precedente di quello che sarà la
massa per gli ebrei nel totalitarismo: i suoi rappresentanti sono "senza
mondo" perché hanno perso uno spazio stabile di riferimento, una identità,
non hanno aspettative da condividere con altri, non hanno prospettiva per
guardare il mondo, sono esposti alla manipolazione ideologica, vivono in una
condizione di sradicamento.
L'alleanza
tra il capitale e la plebe dimostra che il sottoproletariato può essere
facilmente reclutato per commettere atrocità (Arendt prende come riferimento la
descrizione di Conrad in "Cuore di tenebra"): la plebe era costituita
dagli " scarti di tutte le classi e tutti gli strati ", erano
avventurieri e cercatori d'oro asserviti dall'imperialismo, " scaraventati
fuori dalla società ", non credevano in nulla, potevano anzi indursi a
credere a ogni cosa, a qualsiasi cosa.
L'irresponsabilità
di questo nuovo strato e la corrispondente ritirata su tutte le questioni
morali, andava di pari passo con la possibilità della trasformazione della
democrazia borghese in un dispotismo: infatti la plebe era un prodotto diretto
della società borghese e quindi non separabile da essa.
La
spregiudicata politica di potenza poté essere attuata solo con l'aiuto di una
massa di persone prive di principi morali e perfettamente manipolabili. Nel
mondo irreale dell'Africa Nera non si assassinava un individuo se si uccideva
un indigeno, ma un sub-umano, una larva che suscitava solo il dubbio di
appartenere alla stessa comunità umana.
Qui il
riferimento alla Shoah è evidente: dove la plebe è servita all'imperialismo per
la sua brama di conquista, così la massa è servita al totalitarismo per i suoi
obiettivi di distruzione degli ebrei.
Arendt sostiene che l'antisemitismo venne
usato dal regime nazista come un "amalgamato re" per la costruzione
del totalitarismo, perché esso era legato ad ognuno degli elementi che aveva
identificato. La plebe, che odiava la società, alla quale non apparteneva più,
poté essere facilmente condotta a provare ostilità nei confronti di un gruppo
come gli ebrei che era metà fuori e metà dentro la società.
L'ideologia
razzista, in nome della quale i movimenti totalitari erano mobilitati, aveva
bisogno di un equivalente in Europa dei nativi d'Africa, e gli ebrei erano
adatti a tale ruolo. I movimenti totalitari avevano bisogno di demolire le mura
vacillanti dello stato-nazione per edificare nuovi imperi. Gli ebrei, che
avevano consolidato una loro identità senza territorio e uno stato, apparvero
come le uniche persone che, apparentemente, erano già organizzate come un corpo
politico razziale.
Gli
ebrei si erano disinteressati alla politica e al potere politico, e questo
disinteresse per la politica li aveva portati a non capire il pericolo enorme
che costituiva per loro l'antisemitismo moderno, e la forza distruttiva che
esso veicolava.
Gli
ebrei scambiarono a torto questo antisemitismo, che aveva radici economiche,
politiche, sociali, religiose e psicologiche, con il vecchio odio che
dall'antichità aveva generato i pogrom. Nessuno comprese che il problema a
questo punto era di tipo politico. Solo l'uguaglianza giuridica e politica
protegge gli individui e le nazionalità da discriminazioni e persecuzioni.
Promulgando
le leggi razziali di Norimberga, i nazisti crearono una "razza"
perché crearono un gruppo d'uomini privi di diritti e differenti sul piano
giuridico.
L'antisemitismo
del Novecento ha sostituito all'odio religioso di altri tempi il rifiuto della
differenza, il rifiuto di accordare il rispetto all'altro per le sue stesse
caratteristiche.
E tale rifiuto si maschera dietro il rispetto
della normalità, dietro il conformismo, ma può arrivare fino al caso estremo
della difesa biologica della razza.
La
sinistra fa paura:
Tra
aborto, gender, eutanasia, Covid, politicamente corretto, pensiero unico, cancel culture, ecc. (ossia tutto quanto già accade
nel mondo governativo” Dem Usa e Ue”)
Laverita.info-Boni
Castellane- (11 settembre 2022) – ci dice:
Per i
progressisti il pericolo è a destra. Ma le loro politiche nel mondo accentuano i fattori
disgreganti delle società.
La
sinistra grida al pericolo, ma dove domina fa molta paura.
In
tutto il mondo, quella cosa post marxista dal punto di vista economico che prende il nome di “Sinistra”, basa le proprie campagne
elettorali sull’ idea centrale di “pericolo”.
C’è
sempre il “rischio” che vincano gli altri, da Joe Biden a Enrico Letta, se loro
perdono le elezioni c’è il “pericolo fascista” che incombe. Come tutte le
conservatrici, la Sinistra sta implicitamente dicendo che questo mondo va
sostanzialmente bene così, si tratta solo di farlo governare dalle brave
persone (che sono loro) e se la Destra prova a cambiare qualcosa o a opporsi a
qualche narrazione allora, come nel miglior copione progressista, “si torna
indietro”.
Il
punto debole di questa narrazione non consiste tanto nella presunta superiorità
morale di coloro che dicono senza di loro tutto va in rovina – a questa cosa
non crede ormai più nessuno – quanto nel fatto che il “rischio”, il “pericolo”
sia sempre qualcosa di vago, non specificato.
Nel
caso italiano, ad esempio, molti raffinati intellettuali con la terza media
stanno sostenendo che se vincesse Giorgia Meloni “aborto e divorzio sarebbero a
rischio”.
Magari,
signora mia, ma al massimo si tratta di applicare una legge, la 194, per come è
stata scritta e non per come è diventata, cioè un metodo contraccettivo tra gli
altri.
Certo
che il concetto di “pericolo per la democrazia” è forte, serve infatti a
mobilitare gli indecisi, non a caso un disperato Biden lo sta usando in maniera
francamente caricaturale dicendo che Donald Trump va fatto tacere perché se rivincesse farebbe tacere gli altri.
Ma
riflettiamo sul concetto “pericolo”: cosa ci dicono le politiche attuate dalla
Sinistra del mondo negli ultimi anni?
In
Nuova Zelanda, Jacinda Arden dopo aver vaccinato il 96 % della popolazione ha pensato
bene di imporre il confinamento in casa per perseguire la politica “Zero Covid”
e arrestando chi usciva per manifestare contro le misure;
in
Canada, Justin
Trudeau ha bloccato i conti correnti di coloro che manifestavano contro le
restrizioni pandemiche, arrestando anche lui i manifestanti e comminando multe
fino a 30 mila dollari. E non si tratta solo della Pandemia: sempre in Canada,
proprio in questi giorni, la rivista scientifica “Lancet”, ha lanciato
l’allarme in riferimento alla nuova legge sull’eutanasia in base alla quale
potranno essere soggetti di eutanasia passiva tutti i disabili mentali e gli
affetti da demenza.
Negli
Stati Uniti, mentre la Corte Suprema fa chiarezza sull’aborto, in alcuni Stati
progressisti i liberal USA stanno avanzando proposte per l’aborto postnatale e per
prevedere la liberalizzazione del trattamento ormonale per il blocco della
pubertà negli adolescenti.
In
tutto il mondo la scuola e l’università sono sotto attacco del “movimento WOKE”, espressione della Sinistra
oltranzista, secondo il quale la storia antica non va studiata perché propone
modelli sbagliati, Shakespeare non va studiato perché i suoi personaggi sono omofobi e ogni
autore, prima di poter essere studiato, deve essere sottoposto a revisione.
Arrestano
gli insegnanti perché non si rivolgono agli studenti con i pronomi giusti,
prevedono, nei corsi universitari, quote specifiche destinate alle minoranze
LGBT indipendentemente dal grado di preparazione dei soggetti;
hanno
distrutto lo sport femminile facendo gareggiare le donne con gli uomini che
dicono di sentirsi donna.
E
queste sono solo alcune delle “conquiste” che la Sinistra, in tutto il mondo, è
riuscita ad ottenere negli ultimi anni, tutti provvedimenti accomunati da una
idea di umanità trasformata, artificiale ed in contrasto con il dato naturale,
tutte tappe di una precisa strategia di avvicinamento al “Nuovo mondo” contrassegnato dalla sorveglianza
digitale e dalla verità prestabilita e imposta dallo Stato.
Ora la
domanda é:
a
fronte di tutto ciò, quali sarebbero esattamente i” pericoli” rappresentati
dalla Destra?
Quelli
di cambiare qualcosa di questo elenco degli orrori?
L’impressione
è che il vero “rischio” per la Sinistra sia lo smascheramento del fatto che
essa rappresenta oggi il fattore disgregante della società, l’elemento pedagogico che impone
scelte forzate, contro la natura e contro la realtà, al fine di rimodellare
l’essenza stessa del tessuto sociale.
Una
vera e propria missione che, infatti, indica tutti coloro che vi si oppongono
come “pericoli”.
Gazzetta
Ufficiale: Decreto legge
conferisce
Poteri Speciali
al
Presidente del Consiglio!
Conoscenzealconfine.it-(11
Settembre 2022) - Augusto Sinagra-ci dice:
Si è
superata ogni misura. Estote Parati (“siate preparati”, “siate pronti”).
Nello
stordimento continuo della aberrante politica sanitaria del governo, della
guerra tra USA e Russia con la interposta persona del comico ucraino, l’Italia
che di fatto e giuridicamente ha dichiarato guerra alla Russia (e la cosa fa
più ridere che piangere) e le celebrazioni agiografiche della Signora
Elisabetta Windsor (ma in realtà una appartenente alla dinastia tedesca degli
Hannover), con dichiarazioni masochistiche che non tengono conto che da sempre
l’Inghilterra è stata nemica dell’Italia (e al riguardo basta leggere il libro
di Giovanni Fasanella “Il golpe inglese”, scritto sulla base di documenti
de-secretati degli archivi britannici), il rincoglionimento degli italiani, con
l’aiuto della Barbara Durso, ha raggiunto un livello forse irreversibile.
In
questo clima di voluto rincoglionimento per mezzo di organi di informazione
servili e venduti, è sfuggita l’apparizione in Gazzetta Ufficiale di un
Decreto-legge che conferisce poteri speciali al Presidente del Consiglio dei
Ministri, sulla base di una legge del 2012 che li prevede in materia societaria
per il comparto difesa e sicurezza e in materia di trasporti, comunicazioni e
altro.
E il
Capo dello Stato che firma tutto, ha firmato anche questo Decreto-Legge.
Il
primo motivo di allarme è che – contrariamente alla regola dell’entrata in
vigore dei DL il giorno dopo della pubblicazione in GU – per questo DL si dispone la entrata
in vigore per il giorno 24 settembre prossimo, fermo restando che il Decreto-Legge
datato agosto 2022 deve essere convertito in legge nei primi giorni del mese di
ottobre.
È
inspiegabile la data di entrata in vigore il giorno prima delle votazioni
politiche e ancor più è inspiegabile in che modo verranno esercitati i poteri
speciali che non sono definiti in alcun modo.
La
situazione è di gravissimo allarme politico ed è di una gravità assoluta. In più i poteri speciali,
riguardanti anche il settore energetico, vengono attribuiti in via di necessità
e urgenza (come è richiesto per i DL) ad un Presidente del Consiglio
dimissionario che, per obbligo costituzionale, dovrebbe occuparsi solo degli
affari correnti; e tali indefiniti poteri speciali vengono conferiti in un
momento in cui non vi è un Parlamento eletto ma un Parlamento disciolto e cioè
nel pieno di un vuoto politico e istituzionale.
Può
capitare di tutto… Si possono fare le più fosche previsioni ed ipotizzare le
peggiori cose. E questa sarebbe la democrazia e il rispetto della Costituzione. Nel
frattempo, i vertici delle FFAA guardano le stelle.
Di
quel che accadrà si renderà conto il Popolo italiano che, spero, vorrà uscire
presto dal suo torpore e reagire con ogni mezzo possibile.
(Articolo
del Prof. Augusto Sinagra – Professore ordinario di diritto delle Comunità
europee presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di
Roma “La Sapienza”. Avvocato patrocinante davanti alle Magistrature Superiori,
in ITALIA ed alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, a STRASBURGO.
imolaoggi.it/2022/09/10/gazzetta-ufficiale-decreto-legge-conferisce-poteri-speciali-al-presidente-del-consiglio/)
Donne
al potere sempre
più
ambiziose,
presto non si
accontenteranno
del ruolo di gregarie.
Ilfattoquotidiano.it-
Roberta Ravello-(25 aprile 2022) -ci dice:
Uno
studio recente di Ecpr – il consorzio europeo per la ricerca sulla scienza politica
avanzata – ha analizzato le simpatizzanti del partito femminista svedese, Fi
(Iniziativa Femminista), quello di maggior successo in Europa, cercando di
capirne l’orientamento.
I risultati hanno mostrato che le
simpatizzanti sono prevalentemente giovani, donne e altamente istruite, e
condividono non solo le opinioni femministe di Fi, ma anche l’ideologia di
sinistra del partito.
Analizzando
il voto, i motivi predominanti per le votanti sono ideologici, ma entrano in
gioco anche altre considerazioni come il desiderio di qualcosa di nuovo in
politica.
Le
ragioni per non votare per Fi, anche per le simpatizzanti, includono
considerazioni tattiche – il partito è visto come nuovo o troppo piccolo per
avere un impatto reale – ma anche scetticismo sul femminismo come ideologia del
partito a sé stante, giacché nel voto entrano in considerazione anche interessi
economici e sociali che non hanno genere.
Uno
studio simile, condotto in Usa, ha messo in luce come il Partito democratico
abbia mantenuto il suo vantaggio sulle donne elettrici, specialmente le donne
bianche istruite, le giovani e single, le lavoratrici.
I dati evidenziano come le donne votanti
preferiscono in generale le donne candidate più degli uomini. Tuttavia, molte
donne scelgono ancora il partito – e le sue politiche – sopra l’identità
sessuale della persona candidata.
Nella corsa del 2020, le donne hanno
costituito il 47% dei candidati democratici e il 23% dei candidati repubblicani
alla Camera in Usa. Il risultato è stato che delle 101 donne elette alla Camera
nel 2020, 88 sono state elette dal Partito democratico. Si è trattato di cifre
da record, nelle candidature, per entrambi i partiti.
La
situazione della rappresentanza di donne in politica sembra simile andando ad
analizzare le candidature italiane per le prossime politiche. Le donne sembrano
più presenti rispetto alle passate tornate elettorali. Va sottolineato un altro
dato emergente.
Sebbene le cariche di leadership siano ancora spesso
in mano a uomini, sono le donne sempre di più a fare la differenza nei
movimenti di base.
Ad
esempio, quasi nessuna differenza di genere appare nelle nuove forme di impegno
politico, come leggere, condividere e discutere di politica sui social media. Le donne stanno facendo passi da
gigante sugli uomini anche nelle campagne elettorali, come “risorsa” sia di
diffusione dei contenuti, che di raccolta fondi, firme e preferenze per i
partiti.
Le donne
insomma esercitano il potere politico dentro e fuori la cabina elettorale,
diventando sempre di più attrici centrali nelle elezioni. Naturalmente, le
donne non parlano con una sola voce o un solo partito, ma dal voto alla
mobilitazione alla donazione, la loro influenza e le loro preferenze sono
sempre più incisive per i risultati elettorali e, non diversamente da Svezia e
Usa, le donne istruite, lavoratrici, giovani, single e femministe mostrano una
preferenza per quei partiti sull’asse delle sinistre, che sono più impegnati
nelle lotte per il sociale, i diritti, l’ambiente e il clima.
Siamo
a un passo dal colmare il gap politico tra donne e uomini, in Italia come
altrove, giacché le donne, sempre più spesso, stanno incanalando la
frustrazione nella cooperazione, formando gruppi di solidarietà e facendo
campagne per fare eleggere le donne che sostengono.
In
conclusione, non solo le donne sono più interessate ad entrare in politica,
come dimostrano le elezioni di settembre prossimo che vedono molte candidate
nei diversi partiti, ma anche le loro ambizioni stanno crescendo. Presto non si accontenteranno più dei
ruoli di gregarie e punteranno alla leadership. Solo allora potremmo dire che
l’uguaglianza di genere in politica è stata raggiunta.
Il
nuovo volto del potere.
Legrandcontinent.eu-
Lorenzo Castellani-(30th Agosto 2021) -ci dice:
La
pandemia ha cambiato per sempre la natura del potere. All'indomani della crisi,
stanno emergendo tre scenari estremi: uno scenario burocratico e dirigista, un secondo
scenario "populista", o una profonda trasformazione delle strutture
di potere.
Il
potere è moto perpetuo. I suoi equilibri si modificano in continuazione. Mutano le
regole, i rapporti di forza, il sistema dei controlli, gli equilibri degli
interessi, le maggioranze e le minoranze, le violenze, le costrizioni. Ogni
giorno o quasi. Esistono però fasi della storia in cui questo moto, questo gran
ballo del potere, è particolarmente accelerato e vorticoso. Il nostro tempo
presente è uno di quei momenti.
La
pandemia ha reso più fisico il potere. Più vicino ai cittadini, più
protettivo e al tempo stesso più inquietante. Il potere è tornato a delimitare
uno spazio fisico che sembrava senza confini prossimi. Le case sono state
serrate per decreto, le persone chiuse dentro. Le attività economiche sospese,
erogati flussi di denaro pubblico per fermare le perdite. E poi ancora
dispositivi medici obbligatori, distanziamento sociale, quarantene,
prenotazioni obbligatorie, vaccinazioni di massa, tamponi. Gli individui si
sono trovati isolati dagli altri uomini, ma esposti come canne al vento
all’azione del potere amministrativo. L’uomo, e non soltanto lo Stato, è stato
costretto ad essere più disciplinato, pianificatore, burocratico.
Autocertificare,
attestare, dare comunicazione, certificare, codificare. La tecnologia, che già
sferzava nella nostra quotidianità, si è intimamente accoppiata con
l’amministrazione.
La
morsa della tenaglia tecno-amministrativa si è fatta più stretta all’ombra
della maschera paternalista dello Stato.
Tracciamento, prenotazioni, app, QR code.
L’automatismo della macchina al servizio della sanità pubblica e del nuovo
ordine pubblico.
Utile
dispositivo per debellare la malattia e impersonale meccanismo di
organizzazione. Terminale senza volto, pura spirito di funzione. Nuova scienza della polizia, se
questa la si intende nel suo antico significato tedesco (polizei), come potere
gestionale, regolatore degli affari interni e dell’economia. Potere
disciplinante e paternalista che perimetra il comportamento degli individui con
l’ordinanza e col decreto.
Il
potere, si diceva, si è fatto più fisico ma anche più impalpabile. La procedura ha travolto la
politica, l’algoritmo guida l’organizzazione sociale, le pratiche e i decreti
sostituiscono il legislatore.
Sono
volti vuoti ed inermi quelli che appaiono nelle televisioni, c’è molto più
potere nella struttura che nella leadership. È diventato chiaro quanto la
comunicazione ed il personalismo politico restino il fumo sovrastante mentre la
complessità di strutture interdipendenti sia il carbone ardente che serve per
arrostire la carne. La nostra vita quotidiana in questo prolungato stato di
eccezione dipende molto di più dal funzionario, sia medico, ingegnere o
informatico, o dall’impiegato dell’azienda sanitaria, che non da politici
impotenti oppure tremendamente impauriti.
La
straordinaria rivoluzione dell’informazione digitale degli ultimi anni aveva
celato l’illusione, oggi caduta, che la politica fosse ancora in grado di
prendere decisioni fondamentali per i destini umani e di mettere da parte o
almeno controllare i mastodontici apparati che governano le nostre vite.
Sistemi
tecno-burocratici in grado di condizionare anche la più politica tra le
attività umane: la guerra. Tendenza di recente rimarcata dalla “questione
afghana” e dagli errori informativi, organizzativi e logistici imputabili al
sistema americano, più che alla politica in sé, nella ritirata. Si può regredire senza traumi da
una burocrazia e da un esercito di taglia imperiale? Domanda centrale nel
futuro degli Stati Uniti d’America e del resto del mondo. Ma torniamo al punto.
La
pandemia ci ha ricordato che essere governati è anche e soprattutto essere
chiusi, tracciati, sorvegliati, controllati, certificati, distanziati, isolati.
La
domanda di sicurezza ha stretto gli ultimi bulloni residui del Leviatano. Ha
spazzato via tutte le membrane, come la famiglia, la scuola, il lavoro, le
associazioni, le chiese, che separavano l’uomo dal governo.
L’amministrazione delle cose si è sovrapposta
all’amministrazione delle persone. Mai si è arrivati così vicini negli ultimi decenni a
qualcosa di così simile allo Stato in guerra, ad un livello di interventismo
del potere pubblico nella vita privata così penetrante.
Potere
duro, che interviene, regola, dispone, autorizza, rinchiude, isola. Ma anche
potere che confonde e si nasconde. Rispondere alla domanda “chi ci governa?” è
sempre più difficile. Chiunque intuisce che la politica è solo un pezzo, e
oramai nemmeno quello più evidente, di un sistema di potere che si sposta.
Dai
territori fino ad oltre lo Stato, passando per multiple burocrazie, i comitati
tecnico-scientifici, le task force, le agenzie, gli istituti e numerosi altri
corpi amministrativi. La politica è ridotta a mera attività di regolazione dei rischi,
o meglio brancola nel buio alla ricerca di un irraggiungibile rischio zero.
In questa affannosa corsa spinge le strutture
verso la massima pianificazione. Pretende di annullare l’errore, di minimizzare
il danno, di controllare l’incontrollabile, di avere risposte dalla scienza che
spesso la stessa scienza non può dare.
Ma la
coperta è sempre corta: se si cerca di ridurre il danno sanitario ci si espone
a quello economico e viceversa, se si contiene il rischio pandemico ci si
espone a quello sociale, se si persegue una politica scientifica ci si ritrova
spogliati dai tecnici, mentre se si segue l’istinto politico puro ci si pone
come navigatori dilettanti esposti alla tempesta.
In
ogni scenario, una legittimazione politica già da lungo tempo precaria, interna
a quel regime che ancora chiamiamo democrazia, si indebolisce ulteriormente. Si
rivolgono le proprie preghiere al tecnico, alla scienza, all’amministratore, al
militare.
Questo
nuovo potere indurito, su cui la classe politica non ha potuto far altro che
mettere le mani con indecisione per affrontare l’emergenza, ha rotto le
illusioni di un ipotetico ritorno del politico.
L’idea
che la discussione pubblica e la rappresentanza possano tornare al centro della
scena è un’idea romantica, troppo romantica. Così come sembra eccessivamente
apocalittica l’idea di una guerra civile, reale o figurata, che possa
rivoluzionare le istituzioni.
I regimi politici del prossimo futuro si fonderanno
sempre più sulla amministrazione, sull’apparato scientifico-tecnologico,
sull’intreccio tra capitalismo pubblico e privato, sui centri di fabbricazione
della competenza e sempre meno sulla rappresentanza politica per come è stata
concepita e vissuta nei decenni passati. In questo senso, la pandemia ha
soltanto accelerato e reso evidente una tendenza di lungo periodo.
Difatti,
nella concretezza del potere quotidiano, regimi all’apice del proprio
auto-compiacimento liberale e democratico hanno avanzato la più grande
operazione di disciplinamento della popolazione che ci sia stata dalla fine
della Seconda guerra mondiale.
È in nome dell’emergenza che si è attivato il
torchio della banca centrale, liberati i bilanci dalla disciplina economica,
avviato il complesso scientifico-industriale, fermate le attività economiche,
risucchiate informazioni personali, ristrette le libertà, sovvertito il modo di
vivere comune.
Certamente
per necessità, quella di contenere il contagio, ma anche per l’enorme
difficoltà che le grandi comunità odierne hanno nel governare loro stesse. Una
sofisticazione tale, accoppiata ad una sempre più disfunzionale inflazione
burocratica e regolamentare, che per fronteggiare gli imprevisti domanda
soluzioni sempre più radicali e scarica una buona dose delle responsabilità dei
vertici politico-amministrativi sulla collettività. L’uomo occidentale credeva di
vivere in sistemi liquidi e flessibili ma con il cigno nero della pandemia ha
compreso di vivere in regimi solidi e molto rigidi. E dunque fragili come il cristallo. Il prezzo
per fronteggiare l’emergenza resta la inevitabile coercizione dello Stato
sull’individuo.
Dunque,
qual è il confine del potere nell’emergenza? E quanto a lungo uno
stato d’emergenza si può giustificare prima di trasformarsi in qualcosa di più
preoccupante?
Questa
appare la domanda fondamentale quando si guarda in faccia il nuovo volto del
potere. Fino a due anni fa si credeva a ragione di vivere in società libere. La
minaccia dalla pandemia ha imposto l’accettazione di momentanee restrizioni
della libertà di movimento, di produzione e consumo.
Davanti
alla malattia e alla morte vi sono state colpevolizzazione, controllo
reciproco, responsabilizzazione anche quando l’organizzazione sanitaria e della
sfera pubblica lasciavano a desiderare non per causa di gran parte dei
cittadini. Impaurita dal ritorno del contagio, gran parte della popolazione ha
diligentemente fatto la fila per i vaccini e ha mantenuto distanze e
precauzioni.
La
preoccupazione nei confronti di frange minoritarie di indisciplinati ha portato
ad accogliere il codice digitale, il certificato, il controllo esercitato da
soggetti pubblici e privati. Le libertà e i diritti costituzionali sono stati
compressi o, se si vuole essere meno drammatici, pesantemente riequilibrati tra
loro. Lo Stato, soprattutto in Europa, ha esercitato di fatto un potere
costituente. Quanto precario e temporaneo lo si capirà poi.
Tutto
questo ha trovato la sua legittimazione in nome di uno stato d’eccezione
momentaneo. Momentaneo. Ma fino a quando? Fino a che punto? Non c’è essere
umano abituato all’utilizzo del dubbio e della ragione che non sia assillato da
questa domanda di questi tempi.
Tutto tornerà “normale” come “prima”? Ma è
quasi impossibile riavvolgere il tempo una volta che il “normale” è stato
scavalcato dagli eventi. Si è discusso molto sulle trasformazioni di lunga
durata dell’economia a seguito della pandemia.
Molto meno si è riflettuto sulle potenziali
trasformazioni della politica.
Sembra
quasi che l’attuale classe dirigente occidentale abbia scelto di ignorare,
forse per esorcizzare il potenziale caos o le potenziali derive dispotiche, le conseguenze politiche che il
nuovo volto del potere potrà produrre.
Si
invoca spesso la rinascita del post-pandemia guardando al fiorire economico e
sociale del dopoguerra. Ma allora, dopo anni di morte e devastazione ben
peggiore, interi regimi politici e assetti sociali consolidati vennero
abbattuti. La ricostruzione ripartì tenendo il buono di ciò che c’era prima
della guerra e gettando tutto il resto.
Rifondando la società e scrivendo nuove
costituzioni.
Ma
allora la distruzione era stata tale da giustificare una ripartenza quasi da
zero. Lo scenario post-pandemico, se si esclude la variazione di paradigma
economico, appare assai meno innovativo. Non si scorgono all’orizzonte nuovi
contratti né nuovi patti sociali né una costituzione europea.
Sul
piano sociale, inutile girarci intorno, chi prima della pandemia aveva un
curriculum, un reddito e una posizione elevata uscirà ancor più rafforzato da
questo tempo eccezionale. L’impressione è che la distanza crescente tra gruppi
sociali è stata sia stata forse accelerata più che ridotta dalla pandemia e
dalle soluzioni politiche da essa scaturite. I sussidi non basteranno a rendere
più giuste né meno inquiete le nostre società.
Se lo
Stato è “di tutti i gelidi mostri il più gelido”, di ancor più tacita freddezza
è l’apparato tecnico-produttivo, il “capitalismo immateriale” dei tempi nostri.
Una totalità, in cui si dispongono e ordinano
le singole competenze, sicché neppure la specializzazione del sapere salva
l’individuo, ma lo conduce e racchiude all’interno di quella unità. Lo smart working, accelerato
dall’espansione virale, risponde alla logica della più rigida funzionalità: la
lontananza fisica esalta l’oggettività dell’apparato, che non ha bisogno di
alcun luogo, poiché è capace di raggiungerci in tutti i luoghi, o, meglio, di
sovrapporre il reale ed il virtuale. Mentre lo Stato pandemico disegna più
angusti confini fisici, l’apparato tecnico-produttivo sfrutta l’emergenza per
abolire la dimensione materiale dello spazio. Uno si mostra e delimita, l’altro
scompare e penetra.
Quasi
due anni di pandemia hanno mostrato paradossi che non si pensavano possibili.
Che l’origine del virus sia stata frutto del caso o di una Chernobyl biologica,
sorprende come il paese più indirettamente responsabile della pandemia sia
uscito rafforzato nell’immagine, nella leadership e nell’economia. Il dato reale
è che la Cina ha sfruttato la pandemia per ristrutturare la propria economia e
per cercare di dispiegare la propria politica di potenza.
Emerge
con sempre maggior chiarezza il “paradosso cinese”. È vero, come ha sottolineato Henry
Kissinger nel 2019, che siamo all’inizio di una nuova guerra fredda, eppure i
regimi politici occidentali sembrano avvicinarsi a quello di Pechino sul piano
politico ed economico. Due modelli in contrasto tra loro finiscono per
rassomigliarsi. Gli americani sono stati a lungo ossessionati da questa sindrome osmotica
per cui la guerra, reale o fredda, con altre potenze avrebbe trasformato gli
Stati Uniti in regimi simili a quelli sconfitti.
Durante
la guerra fredda, un tema ricorrente nelle analisi di progressisti e
conservatori era che stava maturando una sorta di convergenza, la quale faceva
assomigliare gli Stati Uniti, almeno per alcuni aspetti, al loro antagonista
sovietico.
Che
tutte le superpotenze nucleari sarebbero diventate Stati totalitari era stata,
ad esempio, la cupa profezia di George Orwell proprio nell’articolo in cui
inventava il termine “Guerra Fredda”. Un rischio poi nuovamente denunciato nel
celeberrimo romanzo 1984.
Ma una
preoccupazione simile aveva agitato i sogni anche di un presidente pragmatico
come Dwight Eisenhower, il quale aveva messo in guardia i cittadini, alla fine
della sua presidenza, sul pericolo del potere del “complesso
militare-industriale”.
Nel
Nuovo Stato Industriale (1967) invece, John Kenneth Galbraith sosteneva che la
pianificazione avrebbe inesorabilmente sostituito il libero mercato nel mondo
occidentale, proprio come aveva fatto nell’Unione Sovietica, a causa delle
esigenze della “produzione moderna su larga scala”. Inutile dire che timori e suggestioni
della classe intellettuale americana si sono rivelati o molto sbagliati oppure
si sono solo parzialmente realizzati.
Gli
Stati Uniti non sono diventati un paese collettivista né politicamente
illiberale. Il divario tra il sistema economico americano e quello sovietico è
solamente cresciuto nel tempo, non solo in termini di organizzazione ma anche
di prestazioni. Né si è materializzato l’incubo di Orwell: gli Stati Uniti e i
suoi alleati non sono degenerati in Oceania, uno stato totalitario
indistinguibile dall’Eurasia e dall’Asia.
Tuttavia,
la gestione della crisi pandemica da parte della leadership americana non si è
risolta nel tracciare una netta linea di demarcazione politica con la Cina, con
la quale le frizioni geopolitiche sono state in costante aumento negli ultimi
dieci anni.
Non
sono stati riaffermati principi come il libero mercato, la libertà di parola,
lo stato di diritto e la separazione dei poteri per mettere ulteriore distanza
tra il sistema americano e quello della Repubblica popolare cinese, basato sul
potere illimitato e incontestabile del partito comunista su ogni aspetto della
vita individuale.
Anzi,
sul piano economico gli Stati Uniti hanno seguito la via tracciata
dall’autoritarismo di Xi, fondata sul rilancio dei consumi interni e su
accresciuti stimoli fiscali (1 trilione di dollari). L’amministrazione Biden ha
varato prima l’American Rescue Plan (1.9 trilioni di dollari), poi l’American
Jobs Plan per potenziare le infrastrutture (2.2 trilioni) ed infine l’American
Families Plan (1.8 trilioni). Il costo totale di questi piani arriva a poco
meno di 6 trilioni di dollari, equivalente a oltre un quarto del PIL degli
Stati Uniti (sebbene la spesa per entrambi i piani Jobs e Families sia
distribuita su più anni). Pianificazione,
pianificazione, pianificazione come alla metà degli anni Sessanta a cui conseguì, è bene
ricordarlo, la disastrosa crisi del decennio successivo tra stagnazione e
inflazione.
I
repubblicani però sono nella posizione giusta per attaccare queste scelte di
politica economica, avendo incautamente legittimato sia il reddito di base
universale che la Modern Monetary Theory (MMT) con le misure di emergenza
approvate lo scorso anno.
Da
ultimo, ci sono senza dubbio argomenti ragionevoli a favore dei certificati
elettronici di vaccinazione (green pass) adottati da molti paesi occidentali,
così come sono esistiti precedenti storici per documenti simili.
Esiste,
tuttavia, un ovvio rischio che tali certificati possano trasformarsi in una
sorta di carta d’identità digitale, un sistema che la Cina ha iniziato a
utilizzare nel 2018 e che ha stretto ulteriormente il controllo del partito
sulla vita dei cittadini e ha ristretto le residue libertà dei “non conformi”.
Tutto
questo per dire che tanto le soluzioni sanitarie (lockdown, distanziamento,
pass vaccinali) quanto quelle economiche, fondate sul nuovo slancio
dell’interventismo statale, hanno avvicinato l’Occidente all’Oriente e al
modello di Pechino in particolare.
Tuttavia,
se per la natura genetica, autoritaria e monopolista, del regime cinese una
tale evoluzione può essere letta come espressione della volontà di potenza e
come un esercizio del politico attraverso mezzi tecnici al contrario per le
democrazie pluraliste, questa dinamica rischia di asciugare ulteriormente “il
politico” a favore di una inarrestabile razionalità tecnocratica capace di
fiorire sull’anomia degli individui, anomia rimpolpata proprio dall’isolamento
prodotto dalla pandemia.
Avvertiva Emanuel Mounier in” Che cos’è il personalismo?” (1948) che «l’organizzazione è un progresso
verso l’ordine, ma al di qua del punto in cui l’uomo si riduce a una funzione». Oltre quel punto vi è
l’alienazione dell’essere umano e l’inedia della società civile.
In
questo proliferare di paradossi ve ne è un ultimo che impressiona più degli
altri, e cioè l’omogeneità delle soluzioni adottate a livello globale nell’era
pandemica indipendentemente dalle costituzioni politiche e dalle tradizioni
culturali nazionali o regionali.
La
globalizzazione non è affatto in ritirata: gli ultimi anni ci hanno ingannato.
I
paradigmi tecnico-politici sono sempre più somiglianti ed estesi sul piano
spaziale. Vale per la sanità, per l’economia, per la tecnologia e per il
rapporto tra Stato e cittadini.
Seppure
i più avveduti avevano saputo scorgerne le premesse nelle scelte politiche ed
economiche di questi ultimi anni, nessuno avrebbe scommesso su una convergenza globale
così rapida e risolutiva intorno a nuovi paradigmi senza la pandemia.
La
differenza nella coloritura della medesima soluzione tra Occidente e Oriente è il verde, le politiche green, proposte dalla classe politica
occidentale per gestire un altro stato di emergenza che subentrerà, o meglio
appare già in compresenza, a quello pandemico.
Scelta che forse può fornire un orizzonte
escatologico, il desiderio di una terra più vivibile, sana e sostenibile, sia
con sfumature di destra che di sinistra, e meno “presentista” rispetto al mero
interventismo economico e che garantisce forse alla classe politica il pretesto per
uno Stato d’eccezione permanente funzionale all’infusione top-down, con una
sorta di «modernizzazione dall’alto», di riforme e al mantenimento della presa
sulle leve di comando. L’operazione, tuttavia, non appare priva di rischi
politici.
Il
primo è
che l’aspirazione ambientalista è per sua natura di matrice globale e, come è
noto, solo una parte del mondo, quella occidentale appunto, è disposta a
piegarsi ad una diversificazione di consumi e ad orientarsi verso nuove
tecnologie green.
Col
pericolo che alcuni paesi seguano una strada vanificata dal mancato impegno
degli altri nel rapportarsi con i cambiamenti globali. Il secondo rischio è quello della deriva tecnocratica,
con una letale combinazione tra la costruzione di un complesso
tecnologico-industriale-ambientale e politiche restrittive e costose per quella
parte di popolazione più periferica e più debole sul piano socio-economico.
In questo caso il timore è quello di avere da
un lato provvedimenti che andrebbero per gran parte a favore dei grandi attori
del capitalismo pubblico e privato, di imporre dirigisticamente una vulgata
pedantemente pedagogica e dei provvedimenti regolatori paternalistici ad una
popolazione per gran parte inerte e insensibile.
Una situazione che minerebbe probabilmente la
legittimazione politica del nuovo ambientalismo e che rischierebbe di non
attuare alcuna concreta azione di redistribuzione del reddito, dei pesi fiscali
e delle opportunità lavorative né di aprire nuovi spazi di mercato per le
piccole imprese.
La
ricostruzione di un nuovo ordine politico secondo differenti coordinate
potrebbe non essere, in definitiva, così semplice e lineare. Lo scrittore Michel Houellebecq ha
forse fiutato il pericolo meglio di ogni altro intellettuale, notando che «non
ci risveglieremo, dopo il distanziamento, in un mondo nuovo; sarà lo stesso, ma
un po’ peggiore».
È
noto, infatti, che un potere in moto perpetuo e vorticoso può distruggere un
certo ordine oppure rafforzarlo. Per ora il mondo del dopo Covid-19 rientra nella seconda
ipotesi. Tuttavia, così come non sono chiari i confini dell’emergenze, si
possono solo formulare plurimi scenari sulla politica post-pandemica. Tre sembrano i più probabili.
Il
primo è il rafforzamento della classe politica e burocratica attualmente al
governo. Con un potere più verticalizzato, dirigista, interventista.
Se
questo consolidamento sarà fragile ed illusorio si apriranno altri scenari, ma
se al contrario sarà più forte del previsto non è da scartare l’ipotesi di un
dispotismo tecnocratico. Il che non significa necessariamente dittature e
totalitarismi su modello del ventesimo secolo, ma un progressivo svuotamento
delle istituzioni rappresentative a vantaggio di quello burocratiche,
giudiziarie, economiche e tecnocratiche.
A cui
consegue una ridotta mobilità sociale, una maggiore chiusura dei circoli delle
élite, un mandarinato impolitico che gestisce il potere sul piano nazionale e
sovranazionale, l’impotenza di nuove forze politiche nel deviare i paradigmi
scelti da questi gruppi dirigenti apicali.
In
questo scenario i regimi politici occidentali si avvicinerebbero di più nella
forma a quelli asiatici.
Tuttavia,
la pericolosità del nostro tempo – denunciava un lucido e presciente Emanuel
Mounier nel 1948 – «non cerchiamola solo nei fascismi defunti. I tecnocratici di
tutti i partiti ci preparano un fascismo raffreddato, (…), una barbarie pulita
e ordinata, una pazzia lucida e impalpabile, verso la quale sarebbe meglio ora
volgere lo sguardo piuttosto che soddisfarci con poca fatica a condannare un
cadavere».
Il
pericolo maggiore, dunque, è quello di regimi occidentali trasformati in un
mandarinato burocratico e centralista, in cui lo spirito d’iniziativa
individuale e collettivo, la società civile, i beni comuni, le libertà positive
vengano mortificati e sacrificati sull’altare di nuovo dirigismo.
Il
secondo è, invece, un inaspettato ritorno del populismo (potremmo anche chiamarlo
“estremismo”) con sfumature di destra e di sinistra a seconda dei casi
nazionali. L’establishment
politico, burocratico, scientifico, esce debilitato dalla lunga pandemia e
delegittimato agli occhi di gran parte dell’opinione pubblica. Oggi questo scenario potrebbe
essere nascosto oltre la coltre prodotta dal volto del potere pandemico. Le coalizioni ampie, un potere
pubblico indurito, un ordine pubblico maggiormente presidiato, impediscono di
vedere il crescere della rabbia politica e sociale.
Ad un momentaneo riassorbimento del populismo
consegue un’esplosione che nel giro di pochi anni trascina in una crisi i regimi
politici occidentali. Qui l’ordine rafforzato dalla pandemia potrebbe essere
messo seriamente in discussione, ma senza sapere fino a che punto.
Potrebbe
aprirsi la via verso una metaforica guerra civile, conflitto di tutti contro
tutti. Oppure i populisti post-pandemici arrivati al potere potrebbero
semplicemente godere ed impossessarsi dei nuovi dispositivi di controllo e
dello stato d’eccezione dispiegati dall’attuale élite politica durante la
pandemia.
Sfruttare
la breccia aperta da chi è ha governato in questi anni. Ad oggi, sul
riacutizzarsi della febbre populista, sono possibili soltanto delle ipotesi.
Sappiamo però che potrebbe accadere e che potrebbe non essere saggio gettare
nel cestino questo scenario, per quanto oggi possa apparire improbabile.
Il
terzo scenario è quello in cui la politica riesce a tirare il freno di emergenza. La classe dirigente realizza quanto
delicato e fragile sia il sistema della libertà e quanto potenzialmente
pericoloso sia lo stato di emergenza permanente e la trappola dello “scivolamento monocratico”, con regimi per lo più nelle mani
di mandarini pubblici e privati. Si comprende che la polarizzazione e la
frammentazione sociale devono essere contenute per evitare il dispotismo oppure
il caos, e per questo si accetta di convivere con minoranze multiple senza
demonizzazioni o discriminazioni. La politica si decide a tracciare confini di
legittimazione dell’avversario meno stringenti di quelli odierni e riesce a
mantenere forme di riconoscimento reciproco pur nella contrapposizione tra
fazioni.
Ciò significa rinunciare al nazionalismo reazionario a destra ma anche agli
eccessi del progressismo scientista e pedagogico a sinistra.
Accettare che non possiamo più considerare la felicità
come conseguenza infallibile della scienza poiché altre forze operano, sotto la
patina dell’ordine civilizzato, inesplorate e selvagge. Per questo si deve
rifuggire il rassicurante porto del razionalismo, riscoprire l’uomo in tutte le
sue dimensioni e ricomporlo in tutta la sua ampiezza.
Bisogna evitare, al tempo stesso, la reductio ad nationem, impossibile e distruttiva in un
sistema politico debordante, interdipendente, reticolare e multilivello.
Il potere è dunque chiamato a creare nuove finzioni
legittimanti, idee o anche ideologie intorno a cui si ridisegni la scena
politica e nuovi momenti costituenti formalizzati e coinvolgenti, e nuove
realtà, legate all’evoluzione dello scenario internazionale. Il nostro precario
stato di eccezione resterebbe leggero, senza evoluzioni dispotiche o di rottura
costituzionale. La società si muoverebbe verso un New Deal economico e politico,
comunque non privo di problematiche e pur sempre portatore di conseguenze
indelebili nelle istituzioni, più che verso un pesante regime tecnocratico. Il potere eviterebbe la totale
spersonalizzazione verso cui sembra tendere. Le amministrazioni nazionali e
sovranazionali sarebbero costrette ad essere più aperte e responsabili verso i
cittadini.
Oggi
disponiamo di tecnologie e di tecniche di gestione dei dati che consentono di
padroneggiare situazioni estremamente complesse e, soprattutto, di avvicinare i
cittadini all’amministrazione e viceversa. Ciò non potrà continuare a
funzionare soltanto per il commercio e le relazioni sociali, ma diverrà
decisivo anche per portare le misure amministrative “a domicilio”, favorendo la
partecipazione attiva dei cittadini. Le forme politiche resteranno differenti
da quelle del passato, ma le democrazie liberali manterranno la loro sostanza
politica, giuridica e istituzionale. L’Unione Europea tornerà forse a
coltivare la speranza di un miraggio costituzionale che la consolidi e
riordini.
La
Pseudo-sinistra.
I
sinistrati al potere.
Ideologiasocialista.it-
Giandiego Marigo – (20 dicembre 2020) -ci dice:
La pseudo-sinistra
apre, di fatto, la strada ad un governo di destra. Gli prepara il terreno in
nome di una pandemia discutibile, certo esistente, ma comunque gestita nel
peggiore dei modi. Concede alla destra il dissenso, perde il contatto con i
bisogni. Rinnega sé stessa.
Premettiamo
che la situazione attuale (per esempio il contrasto fra Biden e Trump) è legata
ad un palese confronto interno all'élite mondiale. Uno scontro su tematiche
similari ma su metodologie differenti. The Great Reset è palese, chiaro per
tutti i gestori reali del potere mondialista, ma come questo si debba attuare,
così come, ad esempio, la tematica dello sfoltimento della popolazione mondiale
è oggetto di contrasto e discussione (anche armata se necessario).
Ma
sulle linee guida di questo cambiamento non vi è contrasto, piuttosto sul
vestito con il quale presentarlo al consenso (o meno) di un popolo ipnotizzato
e prono.
In
questo gioco l'area della pseudo-sinistra, quella che ironicamente molti
definiscono dei “sinistrati” ha operato una scelta, sciagurata, di campo.
In una
logica suicida, del meno peggio (per altro assolutamente discutibile e con
parametri del tutto arbitrari) si pone al fianco, anzi addirittura a difesa di
una delle fazioni interne all'élite, tradendo sé stessa e la propria origine
storica. Fa baluardo sul fronte del capitalismo azionario.
Ricordo
che chi scrive è un libertario ed ha quindi proprie opinioni su cosa significhi
alternativa di potere o socialismo e gli è concesso esprimerle su questa
rivista.
Scendiamo
quindi, dopo questa premessa, nell'analisi della contemporaneità, con uno
sguardo al mondo e l'attenzione necessaria al nostro paese. La scelta
sopracitata ha ripercussione ovvia nei comportamenti politici e sociali.
La
disponibilità di quella che chiamammo sinistra alla “discussione” anche
sindacale oltre che politica, sull'erosione dei diritti, sull'uniformazione al
ribasso, sulla modulazione in senso capitalistico della scomparsa graduale del
lavoro umano.
L'uso
smodato della repressione nelle fasi più acute del “Teatrino Pandemico”. La scelta stessa dell'uso di
metodologie oscure di convincimento e repressione, la scelta di aderire al
sistema della menzogna utilitaristica, l'ipotesi di controllo e censura
dell'informazione, la scelta dell'obbligatorietà di una determinata cura, tutto
questo ed altro ancora hanno snaturato il senso stesso dell'alternativa di
pseudo-sinistra. Collocandola nel campo dove oggi veleggia nel Grande Nulla
d'un centro inesistente.
La
scelta dell'impopolarità, a tratti persino teorizzata come unica strada di un
reale cambiamento, ha ridotto, sensibilmente e vistosamente, il consenso
elettorale (per quel che vale la farsa delle libere elezioni) dell'area e nel
caso della sinistra radicale, causato la sua scomparsa di fatto.
La
stupidità intrinseca di un'operazione liberal, che deprivato l'area dei suoi
motivi fondamentali riconducendola nel solco di una normalità manipolabile e
controllabile, ha creato i presupposti per una perdita di contatto dal dissenso
e dal malessere popolare.
Ormai i nostri sinistrati sono lontani dal
sentire reale della gente, persi in luoghi comuni generalizzanti, in stereotipi
da dozzina, in modelli preconfezionati di progressismo telecomandato.
Questa
distanza si misura nel consenso, non tanto e non solo elettorale, ma anche. C'è un motivo per cui la destra ed il
suo pensiero oggi attecchiscono molto più di ieri, c'è un motivo per cui le
piazze oggi non vedono la cosiddetta sinistra a guidarne i contenuti.
Giocando
poi con i livelli di partecipazione, c'è un motivo per cui oggi i governi a
partecipazione sinistrata si distinguono sul piano della repressione, della
incostituzionalità, della manipolazione, della vocazione alla guerra preventiva
(l'occhio al mondo).
C'è un
motivo per cui le scelte di questo governo non tengono alcun conto delle voci
dissidenti o addirittura della dialettica scientifica, C'è un motivo se i
diritti delle minoranze oggi sono derisi e vilipesi da quella stesa area che
per prima ne aveva cercato la garanzia.
Questi
motivi si riassumono nel mondialismo del Great Reset, ma non garantiscono
affatto che sia questa “Fazione” a resistere alla prossima tornata elettorale e
quindi ad attuarlo nei territori e nel piccolo (ricordiamo il contrasto inter-elitario
sulle metodologie). C'è un che di autolesionista e suicida in questa preparazione
del terreno ad una destra arrogante prossima ventura.
É
quasi certo questo avvicendamento e sarà pressoché impossibile arginarne la
vocazione repressiva, visto quello che si è accettato in nome della pandemia da
un governo con la partecipazione, sin troppo attiva, dei sinistrati. Si sta normalizzando l'uso
dell'arroganza del potere, consentendo l'abuso, aggirando, per quel che vale,
il parlamento e la sovranità popolare... sarà molto difficile impedirlo ad una
destra che queste azioni le farà esponenzialmente in modo più grave.
Non è
un caso che le maggiori perdite di diritti siano avvenute nei pressi di un
governo “presunto” progressista... è il gioco antico dei menscevichi, della socialdemocrazia liberal,
dell'isolamento armato dei libertari spagnoli, aggiornato all'oggi,
digitalizzato, robotizzato, industrializzato 4.0.
Il
ritorno dello Stato.
Intervista
a Paolo Gerbaudo.
Pandorarivista.it-
Giacomo Bottos – Paolo Gerbaudo – ( 28 giugno 2022)- ci dicono:
L’attuale
fase politica è segnata da un ampio dibattito sul ruolo dello Stato e
sull’importanza dell’intervento pubblico nell’affrontare i problemi connessi a
sfide globali di enorme portata, dal cambiamento climatico all’impatto della
diffusione delle tecnologie digitali e dalla pandemia agli shock geopolitici e
alle conseguenze dei nuovi assetti della globalizzazione.
All’interno
di tale dibattito si pone anche Controllare e proteggere.
Il ritorno dello Stato (nottetempo 2022), l’ultimo
libro di Paolo Gerbaudo che affronta il tema spaziando tra Europa e Stati Uniti
e soffermandosi
sulle sempre più diffuse contraddizioni nelle aspettative di sicurezza e
protezione che vengono oggi rivolte allo Stato.
(Paolo
Gerbaudo è sociologo e teorico politico alla Scuola Normale Superiore di Pisa e
al King’s College di Londra. Ha scritto per numerose testate italiane e
internazionali tra cui: «Domani», «El País», «Foreign Policy», «The Guardian»,
«The New Statesman». Tra le sue recenti pubblicazioni: The Great Recoil.
Politics after Populism and Pandemic (Verso Books 2021) e I partiti digitali.
L’organizzazione politica nell’era delle piattaforme --il Mulino 2020)
Il
libro sostiene che ci troviamo nel momento di passaggio tra due ere
ideologiche. Cos’è un’era ideologica? E quali fattori ne determinano l’inizio e
il tramonto?
Paolo
Gerbaudo: La storia della politica e del mondo delle idee è un processo di
continuo cambiamento; ma perché le cose cambino ci vuole molto tempo, spesso
decenni, e il processo di trasformazione procede non in modo lineare ma
discontinuo, con fasi relativamente stabili seguite da scossoni violenti. L’idea di ere ideologiche prende
spunto dalla teoria economica delle lunghe ondate, sviluppata inizialmente da
Kondratieff e poi ripresa in altri autori, come Schumpeter e poi Arrighi e
Wallerstein. L’idea è che ci sono dei cicli di accumulazione capitalista che
sono resi possibili dall’emergere di una nuova tecnologia che spalanca
opportunità di profitto che però vanno progressivamente a esaurirsi come
effetto di un processo di saturazione.
Un’era ideologica è l’equivalente nel mondo
delle idee e del dibattito politico. Anche lì ci sono cicli di circa
quarant’anni che si aprono con l’emergere di un nuovo assetto simbolico che si
installa al centro dell’agone politico e diventa egemonico, costringendo tutte
le forze politiche a posizionarsi dentro o fuori di esso, ma comunque rispetto
a esso.
Questo è stato il caso del liberalismo classico, poi
della socialdemocrazia e infine del neoliberismo. Il sorgere di un’era ideologica ha
luogo quando si hanno due condizioni: primo l’assetto ideologico precedente
deve essere in crisi, secondo deve esistere un nuovo sistema di idee che ha
capacità di riempire progressivamente il vuoto.
La
crisi di un’era ideologica avviene invece quando un determinato sistema di idee
ha perso la sua forza propulsiva ed entra in una crisi epistemica perché non è
più grado di spiegare la realtà e di prevedere il futuro.
Questo
pare in buon modo essere oggi la condizione del tardo neoliberismo, che apre le
porte all’emergere di un nuovo assetto ideologico che descrivo come
neostatalismo.
Si è
molto discusso sull’effettivo contenuto – e, da parte di alcuni – sulla legittimità
dell’espressione neoliberismo. Come si potrebbe definire questa espressione?
Paolo
Gerbaudo: Il termine neoliberismo è diventato negli ultimi decenni un termine
di comodo per riferirsi a un insieme di fenomeni tra loro strettamente
collegati.
Prima
di tutto,
l’emergere di una dottrina economica ostile all’intervento dello Stato e
fiduciosa nel potere autoregolativo del mercato (Hayek e Mises) e di stampo
monetarista (in particolare le teorie di Friedman sul legame tra inflazione e
massa monetaria).
Ma a questa dottrina economica si aggiunge anche una
filosofia politica promossa da figure come Popper che esprime un forte sospetto
per l’autorità e una fiducia nel commercio come forza civilizzatrice, un certo
ethos che valorizza l’iniziativa individuale, l’imprenditorialità e la
competizione.
Inoltre, il termine indica un certo regime di
accumulazione, quello che Boltanski e Chiapello hanno descritto come il “nuovo spirito del capitalismo” che punta a far saltare tutte le
precedenti unità economiche, a partire dalle imprese a integrazione verticale,
per seguire con le economie nazionali e il potere dei sindacati e dello Stato; il che indica anche che il
neoliberismo è un progetto politico che punta al riassetto del rapporto di
forza tra lavoratori e capitale.
Come
tutte le espressioni astratte e con capienza semantica, dunque, il neoliberismo
rischia di essere da un lato capace di sintesi e onnicomprensivo. La mia tesi è che oggi molti fenomeni
non sembrano più corrispondere in modo chiaro a questo schema; viviamo in un
mondo che è certamente ancora capitalista, ma in cui l’intervento dello Stato
che era ideologicamente un tabù per i neoliberisti è sempre più palese e in cui
alcune delle dinamiche che nutrivano il ciclo di accumulazione neoliberista, a
partire dalla globalizzazione e la cosiddetta “grande moderazione” – in
particolare bassa inflazione e stabilità macroeconomica – sembrano destinati a
esaurirsi.
Lo
Stato era davvero scomparso o eclissato? O piuttosto era mutata la sua modalità
d’azione?
Paolo
Gerbaudo: In
politica c’è sempre una differenza tra ideologia e pratica politica, il famoso
mare tra il dire e il fare.
Al contempo l’ideologia, nel senso neutrale di
sistema di idee, valori e credenze non è puramente un sistema di manipolazione e
oscuramento della realtà così come voleva il pensiero marxista nella sua visione
originale.
Al
contrario assistiamo a un continuo tira e molla tra discorso politico e pratica
politica, in cui divergere in maniera radicale nella pratica da quando si propone
a livello retorico può essere un utile escamotage ma ha dei costi politici. Questo vale anche per la complessa
relazione tra neoliberismo e Stato. Come hanno sostenuto diversi autori, tra cui Philip
Mirowski, il neoliberismo è un discorso a forma di cipolla con diversi livelli.
C’è un
discorso pubblico che è estremamente semplificato e che è smaccatamente
anti-statalista, lo vediamo ad esempio nelle dichiarazioni sentite ancora oggi
da parte di chi vuole fare passare che lo Stato sia per sua natura inefficiente
e sprecone e i dipendenti pubblici fannulloni.
Ma la
pratica del neoliberismo è sempre stata più complessa e ha fatto uso del potere
dello Stato per favorire il trionfo del mercato. Come ha sostenuto in Gran
Bretagna Andrew Gamble il thatcherismo era una politica che sosteneva il potere
di mercato ma grazie all’intervento di uno Stato forte, pronto a mobilitare la
polizia contro i sindacati e a lanciarsi in avventure militari come quella
delle Falkland.
Tuttavia,
lo Stato neoliberista era concepito come uno Stato privo di potere
discrezionale di intervento, ma votato puramente al sostegno e tuttalpiù alla
regolazione del mercato: lo stato arbitro di cui parlava Milton Friedman.
Quello a cui assistiamo oggi nell’era
neo-statalista è un’accettazione diffusa che sia la realtà dello Stato che la
necessità del presente comportano un ruolo molto più vasto e un interventismo
molto più spinto di quanto il neoliberismo era disposto ad accettare.
Come
in tutti i momenti di crisi e di implosione di una fase di globalizzazione
economica l’intervento dello Stato diventa imprescindibile tanto più per la
debolezza della società civile e della capacità della società di organizzarsi
autonomamente: si pensi alla debolezza contrattuale dei sindacati in un momento di alta
inflazione.
Per
quali ragioni la crisi del 2008 non ha immediatamente determinato un passaggio
a una nuova fase, ma piuttosto a un interregno?
Paolo
Gerbaudo: Di fatto il 2008 segna il punto di inizio di una lunga agonia,
descritta da Colin Crouch come la fase zombie del neoliberismo.
In
quel momento la condizione numero uno per una transizione ideologica si è già
in buona parte realizzata: l’ideologia egemonica ha esaurito la sua forza
propulsiva.
A
mancare invece è la condizione numero due di cui parlavo prima: l’esistenza,
seppur in forma embrionica di una nuova visione del mondo, un insieme di
proposte che possano riempire il vuoto ideologico aperto da tale crisi.
Già
dopo il 2008 si comincia a parlare della necessità di invertire la logica
dell’economia, ma quando si chiede quali politiche si debbano applicare in
pratica le risposte latitano; l’unica risposta che alla fine passa è uno stimolo monetario
con il famoso quantitative easing.
Ma a livello fiscale si procede con una austerità che
si rivela devastante per l’Occidente, portando gli Stati Uniti e tanto più
l’Europa al declino proprio mentre la Cina fa grandi investimenti anticiclici.
Ora in
qualche modo la lezione del fallimento dell’austerità sembra essere stata
appresa anche da parte delle élite che avevano sostenuto la stretta della
cinghia. Basti pensare all’economista, e consigliere economico del Governo
Draghi, Francesco
Giavazzi che se in passato era tra i teorizzatori della “austerità espansiva”, oggi, anche di fronte all’infiammarsi
dell’inflazione che ha ridato coraggio ai falchi monetaristi nelle banche
centrali, parla
del fatto che la soluzione non è ridurre il numeratore (il debito pubblico), ma
espandere il denominatore (il PIL).
Perché gli anni Dieci sono stati un decennio
populista? Il populismo è ora in crisi?
Paolo Gerbaudo:
Gli anni
Dieci sono stati il decennio populista come conseguenza diretta delle politiche
di austerità e del fatto che non ci sono state politiche redistributive.
I cittadini hanno avvertito, con buone ragioni, che la
classe politica aveva deciso di fare pagare i costi della crisi a loro invece
che a chi se lo poteva permettere, a partire dai ricchi e dall’alta classe
media.
Nell’assenza
di strutture di rappresentanza sociale e della debolezza dei sindacati, questo
malcontento si è manifestato da un lato in movimenti di destra che volevano
dare la colpa del declino economico e sociale agli immigrati, alle minoranze e
a un presunto complotto globalista volto a privare i popoli della loro identità
e delle loro tradizioni.
E dall’altro da movimenti della cosiddetta sinistra
populista, che puntavano a sopperire alla debolezza dei partiti
social-democratici spesso convertitisi alle ricette del “libero mercato”
attraverso mobilitazioni dal carattere plebiscitario-carismatico che facevano
leva su movimenti di protesta come quelli del 2011 e la loro “effervescenza
sociale” e su leadership personali come quella di Pablo Iglesias e Bernie
Sanders.
Ora in
parte quel momento sembra essersi esaurito, sia a destra che a sinistra. Questo è dovuto in parte al fatto che
l’effetto traumatico della crisi del 2008 è maturato in visioni più articolate,
in cui la costruzione di nuove identità adesso dà il passo allo sviluppo di
politiche più concrete, e lo sviluppo di coalizioni di interesse più coerenti,
che non possono più essere risolte semplicemente con l’appello al popolo
proprio del populismo.
Inoltre,
è dovuto al fatto che molti movimenti populisti hanno vinto e sono andati al
governo e spesso hanno messo in luce l’inconsistenza delle proprie proposte o
la necessità di trovare punti di mediazione con altre forze: questo ha un costo
politico forte per forze che si presentavano come di rottura contro
l’establishment.
Si
pensi alla traiettoria del Movimento 5 Stelle passato da dire che avrebbe
governato da solo e non avrebbe accettato alcun annacquamento delle proprie
proposte, a essere forza politica che ha partecipato a ben tre esecutivi
differenti.
Ma
anche Podemos in Spagna ha attraversato difficoltà simili stretto nell’alleanza
con il PSOE, mentre a destra Salvini è stato costretto a mille giravolte che
hanno fortemente intaccato le sue credenziali populiste.
Dal
populismo stiamo passando al neostatalismo sia a livello contenutistico, perché
si passa dalla creazione di identità popolari a diverse visioni di come usare
lo stato per fare l’interesse del popolo (o meglio dei diversi “popoli” che
ogni movimento mobilita) ma anche a livello stilistico, con un certo ritorno di
appeal per la competenza, la credibilità e la capacità di governare, specie
dopo la pandemia e la sempre più forte evidenza di caos sistemico, di fronte al
quale c’è domanda di “statisti”. Questo non toglie che, come paventato da Mario Draghi le
presenti difficoltà specie sul fronte dell’inflazione e dell’energia non
possano dare presto carburante a un nuovo ciclo populista.
Cosa
si intende per “grande contraccolpo”? In che modo questo riporta in primo piano
tre parole centrali nell’analisi del libro, sovranità, protezione e controllo?
Paolo
Gerbaudo:
Il
grande contraccolpo è la dinamica di implosione del neoliberismo e del sistema
geopolitico e geoeconomico della globalizzazione su cui tale ideologia si
reggeva.
Il neoliberismo era possibile nel contesto di un mondo
fatto di mercati aperti, con basse barriere doganali e flussi crescenti di commercio
e investimenti all’estero; tutte condizioni che adesso sembrano entrare in
crisi in un mondo sempre più diviso tra blocchi contrapposti e tra loro ostili.
L’illusione di un’economia separata dalla politica sta
venendo meno, mentre diviene più evidente quanto lo Stato continui a essere il
perno della società specie quando la sicurezza sociale, ambientale, economica e
oggi pure militare sono in forse.
Lo Stato non se ne è mai davvero andato via.
Semplicemente, durante la globalizzazione il suo ruolo era meno visibile perché
ridotto a una sorta di pilota automatico.
Oggi,
invece, la turbolenza macroeconomica e l’evidenza del rischio enorme comportato
dal cambiamento climatico costringono i governi a ricorrere all’interventismo
statale in tutte le sue forme; dalla politica fiscale, alla politica monetaria,
dal protezionismo commerciale alla politica industriale. L’inflazione sta già
portando a un controllo dei prezzi dell’energia, una politica che
tradizionalmente i neoliberisti avrebbero visto come il fumo negli occhi perché
distorce palesemente il “meccanismo del prezzo” da loro considerato come
centrale per la razionalità economica.
Sovranità,
protezione e controllo sono i tre volti della statualità che vengono alla luce
in questo contesto.
Sovranità
come supremazia della politica sull’economia; protezione come garanzia della
sopravvivenza dei sistemi economici e sociali che garantiscono la riproduzione
della società;
controllo come capacità di guidare e
organizzare la realtà sociale.
Si tratta
di domande sociali che diventano salienti di fronte all’incertezza e
all’insicurezza e che riguardano tutte le forze politiche, che danno a esse
risposte molto differenti, in base alla loro visione del mondo e agli interessi
che rappresentano.
Le domande sociali della nostra era sono in qualche
modo definite in partenza: non possiamo decidere le priorità del nostro tempo,
esse ci vengono affidate oggettivamente da una contingenza storica. Quello che
la politica può stabilire sono le risposte a tali domande.
In
cosa differiscono le diverse “versioni” possibili – di destra, di sinistra e di
centro – del neostatalismo?
Paolo
Gerbaudo: Abbiamo
tre neostatalismi diversi tra di loro, che competono per presentarsi come la
vera risposta credibile a questa contingenza.
Da un
lato abbiamo un neostatalismo di destra che descrivo anche come un
protezionismo proprietario: perché ciò che vuole proteggere è prima di tutto la
proprietà, le grandi e piccole ricchezze accumulate durante il periodo di
vacche grasse della globalizzazione, ora messe in pericolo dalla lunga fase
prima di stagnazione e oggi di vero e proprio declino in cui montano le domande
redistributive.
Per
fare questo la destra propone di alleare i ricchi con settori della classe
operaia nelle zone periferiche e rurali che si sentono traditi dalla classe
media intellettuale e che vedono gli immigrati come una minaccia per la loro
già precaria condizione.
Questo
è in sintesi la strategia politica di Giorgia Meloni in Italia, di Marine Le
Pen in Francia, e di Donald Trump e Ron DeSantis negli Stati Uniti: una politica che risponde alla paura
alimentando il terrore della “sostituzione” e del collasso di civiltà.
A
sinistra abbiamo invece un neostatalismo di stampo socialdemocratico radicale,
che propone di riportare alla ribalta le politiche dell’era keynesiana e
costruire un nuovo sistema di protezione integrale – economico, sociale e
ambientale – che metta fine alla corsa al ribasso della globalizzazione, alla
precarietà esistenziale a cui sono state condannate milioni di persone.
È la politica promossa dal ministro del lavoro
Yolanda Diaz in Spagna, da Bernie Sanders negli Stati Uniti, da Jean-Luc
Mélenchon in Francia, in cui la protezione va a braccetto con un recupero
dell’idea di pianificazione, termine odiatissimo dai neoliberisti: perché l’unico modo per salvare
l’economia dal caos è riprendere il controllo delle reti e delle imprese
strategiche.
Ma anche al centro assistiamo ad alcuni
aggiustamenti. Da un lato alcuni neoliberisti si sono radicalizzati adottando posizioni
apertamente libertarie, che giustificano le posizioni di monopolio e di rendita
in una logica dell’economia come legge della giungla.
Dall’altro
centristi come Biden hanno tentato di integrare alcune istanze
socialdemocratiche ma senza la decisione e risolutezza necessaria a vincere le
enormi resistenze che vengono dalle lobby neoliberiste, che non vogliono cedere
neppure un centimetro né un centesimo, pur sapendo che il rischio è una
vittoria schiacciante della destra nazionalista.
Quali
sono i principali rischi che si annidano nel passaggio che stiamo vivendo?
Quali invece le prospettive più auspicabili?
Paolo
Gerbaudo: Senza provare alcun gusto a fare la Cassandra, penso che ci dobbiamo
rendere conto della gravità della congiuntura storica in cui viviamo e
dell’assoluta inadeguatezza delle risposte politiche finora espresse dai
partiti mainstream.
È vero che l’emergere del neostatalismo, e la sua
progressiva accettazione presso alcuni settori sia del centrosinistra che del
centrodestra, riflette un certo grado di apprendimento rispetto al fallimento
dell’ideologia del “libero mercato” e la necessità di politiche che mettano un
freno quantomeno alle sue tendenze più palesemente distruttive.
Tuttavia,
la politica è ancora indecisa e lenta nel trarre le necessarie conclusioni
politiche. L’inflazione
galoppante e la crisi energetica stanno già avendo adesso conseguenze molto pesanti
presso lavoratori che escono da un decennio di sofferenza a causa delle
politiche di austerità e con salari che in Paesi come l’Italia hanno
addirittura perso terreno rispetto alla fine degli anni Novanta.
Che
cosa possiamo aspettarci se alcune famiglie saranno costrette a sacrificare
addirittura il riscaldamento?
I veri
riformisti dovrebbero approntare soluzioni radicali, ma al contempo pragmatiche
e necessarie, come quelle prese dopo la fine del Secondo conflitto mondiale.
Se le imprese energetiche applicano prezzi così alti
per l’energia rastrellando enormi profitti, il minimo è tassare tali profitti,
ma la soluzione vera è riportare tali compagnie sotto controllo pubblico, che è
il modo più logico per assicurare che facciano l’interesse pubblico e che la
loro azione sia votata a una transizione energetica che deve avvenire in tempi
molto brevi se vogliamo evitare un aumento catastrofico della temperatura del
pianeta.
Inoltre, di fronte all’inflazione galoppante e
a fronte della debolezza contrattuale dei sindacati se si vuole evitare la
prospettiva di rivolte il prossimo autunno è urgente reintrodurre la scala
mobile, garantendo aumenti generalizzati dei salari per compensare la perdita
di potere d’acquisto.
Nel contesto italiano è ridicolo che si continui a
dibattere del salario minimo come se fosse una proposta rinviabile, quando
siamo uno dei pochi Paesi europei a non averlo, e dato che potrebbe essere un
primo passo verso una misura come la scala mobile.
Infine,
il cambiamento climatico impone un’accelerazione nella trasformazione del
sistema energetico, dei trasporti, del sistema di produzione che può solo avvenire sotto
la spinta di un gigantesco intervento pubblico: solo con enormi investimenti
possiamo creare le reti e le infrastrutture necessarie per permettere anche
alle imprese private di scommettere sul futuro.
Non si
tratta di proposte da Soviet, ma sulla linea di figure come Roosevelt durante
il New Deal, il Labour nel dopoguerra o i nostri governi di centrosinistra
degli anni Sessanta e Settanta.
Se oggi tali proposte vengono viste come radicali è
solo frutto di una distorsione ottica prodotta da un radicale spostamento a
destra della politica economica durante l’era neoliberista.
È un
programma audace, ma l’alternativa è un ritorno del nazionalismo in forma
ancora più tossica di quella che abbiamo conosciuto durante gli anni Dieci. Una prospettiva che rischiamo di
vedere presto arrivare a compimento negli Stati Uniti dopo il fallimento della
Bidenomics.
La
posta in gioco è molto alta e i rischi incalcolabili. Ma questa congiuntura
offre anche la possibilità di recuperare una visione ambiziosa della politica
come costruzione cosciente del futuro, che i neoliberisti vedevano come un
viatico per l’autoritarismo.
Solo
pensando in grande, e recuperando l’idea di protezione sociale, di controllo
sull’economia e di democrazia che erano proprie dei grandi movimenti socialisti
e socialdemocratici del Novecento abbiamo un’opportunità per ribaltare la paura
oggi prevalente su ogni fronte in un desiderio disperato di cambiare la realtà.
(Giacomo
Bottos)
“Teoria
critica dell’Antropocene”
di Paolo Missiroli.
Pandorarivista.it-
Giulio Pennacchioni- Paolo Missiroli- (19 luglio 2022) -ci dicono:
(Recensione
a: Paolo Missiroli, Teoria critica dell’Antropocene. Vivere dopo la terra,
vivere nella terra, Mimesis, Milano-Udine 2022, pp. 140).
Oggi,
nell’epoca in cui la pandemia da Covid-19 ha stravolto le nostre vite e in cui
i rapporti dell’IPCC
(Intergovernmental Panel on Climate Change) diventano di anno in anno più
preoccupanti, viene sempre più spesso menzionata una parola: Antropocene.
Ma che
cos’è l’Antropocene? È solo il nome dell’attuale epoca geologica o è possibile
rintracciare in questo termine anche altri significati?
Fornire
un quadro complessivo del dibattito attorno al concetto di Antropocene è il
primo degli obiettivi del libro di Paolo Missiroli Teoria critica
dell’Antropocene, edito da Mimesis a febbraio 2022.
Già
dalle prime pagine, Paolo Missiroli fornisce da subito al lettore una
definizione minima di Antropocene, «tanto vaga quanto poco funzionale» (p. 12),
riportando brevemente i passaggi fondamentali delle due scienze in cui questo
concetto si è sviluppato: la climatologia e la geologia.
L’ambito
di studio di entrambe queste discipline è il Sistema Terra:
infatti
la scienza del Sistema Terra (Earth System Science), sviluppatasi a partire dalla fine
degli anni Settanta, è il solo quadro epistemologico a partire dal quale le due
scienze e il concetto di Antropocene possono darsi.
Nucleo
centrale dell’ESS è la seguente affermazione:
«Il Sistema Terra si comporta come un singolo sistema
auto-regolantesi composto da elementi fisici, chimici, biologici e umani, con
interazioni complesse tra queste stesse componenti».
Dal
punto di vista storico, è stato il meteorologo Paul Crutzen ad avviare il dibattito
sull’Antropocene, facendo iniziare quest’epoca geologica nel 1784, ossia l’anno in cui James Watt
brevettò la prima locomotiva a vapore della storia, andando così a porre le basi per quel
ciclo di emissioni di CO2 che prosegue ancora oggi. Premessa a tale posizione, molto
diffusa nel primo decennio del XXI secolo, è che l’Antropocene coincida con il
momento in cui l’uomo ha iniziato a influenzare la concentrazione in parti per
milione della CO2 nella stratosfera.
L’approccio propriamente climatologico è però
mutato verso un piano d’analisi geologico intorno al 2009, anno
dell’istituzione dell’Anthropocene Working Group (AWG).
Ponendosi
come scopo quello di riuscire a collocare l’Antropocene nella carta
cronostratigrafica, cioè «la rappresentazione dei vari “tempi” che il nostro pianeta
ha attraversato» (p. 13), ciò che i geologi dell’AWG hanno sostenuto è che sia possibile
determinare temporalmente questa epoca geologica attraverso i cambiamenti
provocati dalla stessa nel suolo terrestre.
Ed è
negli anni Cinquanta del XX secolo che il gruppo di ricerca ha collocato
l’inizio dell’Antropocene, nello specifico per via dell’uranio rilasciato dagli
esperimenti nucleari dell’epoca.
E lo stesso problema alla base degli studi di
Crutzen o dell’AWG, ovvero sull’origine di quest’epoca geologica, è quello a
cui Missiroli dedica le prime due sezioni del libro, nelle quali vengono
appunto ripercorsi i vari tentativi di rispondere alle domande: “Da dove viene l’Antropocene? Chi lo
ha causato? Quando comincia?”.
L’Antropocene prometeico.
Nella
prima parte di Teoria critica dell’Antropocene, Paolo Missiroli si occupa della
più diffusa fra le interpretazioni sull’origine della trasformazione
geologico-ecologica in atto, che si potrebbe designare con il nome di “discorso
prometeico” sull’Antropocene.
Chiarito che prometeismo è qui da intendere
nel senso che Herbert Marcuse attribuiva a questa parola, ovvero di «atteggiamento» (p.
31), di «pensiero che esprime la necessità, per l’umano, del dominio e della
trasformazione tecnica di tutto ciò che umano non è» (p. 31), che cosa si
intende con Antropocene prometeico?
Proprio
sulla base del significato di prometeico, in questa lettura l’Antropocene è
pensato come «l’epoca di un dominio pieno e incontrastato dell’umanità, intesa come un
tutto indistinto, sul pianeta Terra, ormai ridotto a oggetto manovrabile e
integralmente gestibile» (p. 32).
L’esito
pratico-politico dell’Antropocene prometeico coincide infatti perfettamente con
le proposte della geo-ingegneria, cioè quella scienza in cui l’ingegneria viene
applicata ai fenomeni geologici del Sistema Terra.
I
progetti principali della geo-ingegneria sono di due tipi: quelli volti a controllare le
radiazioni solari (Solar Radiation Management, SRM) e quelli che invece mirano
a rimuovere quantità ingenti di CO2 dall’atmosfera (CO2 Removal, CDR).
In
questa visione, l’epoca geologica in cui viviamo e a cui andiamo incontro, che
si compirà definitivamente solo con il dominio definitivo dell’uomo sulla
natura, viene definito «Buon antropocene».
A tal proposito, studio di riferimento è il lavoro di
Ted Nordhaus e Michael Shellenberger, del Breakthrough Institute – di cui sono
stati fondatori nel 2003 –, filosoficamente vicini a quelli corrente di
pensiero definita eco-modernismo.
L’Antropocene
è per Nordhaus e Shellenberger non soltanto la prova definitiva della distanza
ontologica fra la Terra e l’uomo, ma anche della capacità di quest’ultimo di
dominare e controllare la prima, trovando un equilibrio anche per i dieci
miliardi di individui previsti per la metà del XXI secolo.
Sarà
quindi nella sempre maggiore distanza dell’essere umano dalla Terra e nel
conseguente progresso tecnologico che si svilupperà la soluzione agli attuali
problemi ambientali.
Come
evidenziato da Missiroli, in questo approccio l’essere umano è inteso come
«serial killer ecologico» (p. 36): attività negatrice nei confronti della natura.
Si
prenda ad esempio la riflessione di Yuval Noah Harari (socio di Klaus Schwab),
le cui due più recenti opere Sapiens e Homo Deus sono la perfetta espressione
della modalità ingegneristica di pensare la natura.
L’intera storia dell’uomo vi è letta come «una storia
della colpa ecologica», perché l’homo sapiens è presentato come colui che
«imprime il movimento alla natura perché la distrugge per essenza, […]
antropologizzandola».
Facendo
riferimento anche ad altri autori, come Mark Lynas, Erle C. Ellis o ancora
Guido Chelazzi, un altro intento centrale del primo capitolo è mostrare come alla base
dell’idea di Antropocene prometeico vi sia una considerazione dell’Antropocene
come un’epoca che si realizzerà compiutamente solo quando l’homo sapiens
porterà a termine il processo di totale tecnicizzazione della Terra.
Complementare
a questa antropologia negativista dell’essere umano è un certo modo di
intendere lo spazio, «compatto e oggettivabile» (p. 45).
La
Terra dei progetti geo-ingegneristici appare infatti piatta, svuotata da ogni
profondità e da ogni resistenza. «Deve essere uno spazio piano, al fine di consentire
non solo il dispiegarsi della geo-ingegneria, ma anche, più in generale,
dell’azione dell’essere umano su di essa: suolo infinitamente appropriabile,
spazio privo di autonomia» (p. 45). Terra che prende così il nome di “globo”, cioè ciò che
citando Tim Ingold «può essere appropriato», che «può essere visto dall’alto al
fine di nascondere la complessità biologico-culturale degli ecosistemi».
L’immagine della Terra come blue marble (biglia blu)
della Navicella spaziale Apollo 17 è quindi ciò che serve a questa lettura
dell’Antropocene: la Terra è percepita come finita, basata su «una rete di
relazioni del tutto orizzontali» (p. 48) e perciò governabile tecnicamente,
sfera infinitamente manipolabile.
Il
globo, la blue marble, sono quindi immagini funzionali a quel processo di
riduzione della complessità della Terra, che rientra così del tutto all’interno
di quelle prospettive che affidano all’uomo il compito di gestirla.
Questa l’idea alla base di un progetto di
ricerca internazionale come Future Earth, in cui si tenta di coniugare l’ESS
(Earth System Science) con una prospettiva di intervento attivo sul clima
globale.
Premessa
infatti all’ESS non è soltanto l’idea del sistema Terra come sistema
auto-regolantesi a partire dalle interazioni interne fra i vari elementi che lo
compongono, ma anche quella di un homo sapiens autonomo da quel sistema e
perciò in grado di stravolgerlo.
Questa stessa idea è anche alla base anche del recente
libro di James Lovelock Novacene: lo scienziato ritiene possibile una gestione
integrale del Sistema Terra, totalmente controllato da macchine capaci di
sostituire quanto di naturale vi è all’interno dell’uomo stesso.
L’uomo
crea dunque l’Antropocene, la sua epoca geologica, il suo tempo, marcando in
tal modo la propria sostanziale differenza rispetto a quel tempo naturale (deep
time) che è invece il tempo geologico.
L’uomo moderno, dell’Antropocene, può al limite
convivere con quella storia naturale che lo precede, ma è ormai incolmabile la
sua distanza rispetto a questa.
Se
fino al XVIII secolo il tempo dell’uomo coincideva con quello circolare della
natura, ad esempio dell’alternarsi delle stagioni, poi, con la modernità, non è
stato più così.
Se prima l’historie, naturale e no, era pensata come
una rivoluzione, nel senso di ritorno all’origine, con l’irrompere della
modernità l’uomo ha cominciato a pensarsi sempre proiettato in avanti. Il tempo naturale, circolare, della
Historie, è infatti dai moderni sostituito da quella freccia in avanti che è il
tempo della Geschichte, la storia moderna.
Come
già rilevato da Reinhart Koselleck nel suo celebre Futuro passato, la storia
dei moderni è del tutto proiettata in avanti, totalmente umana, ontologicamente
diversa dal tempo della natura.
«Una freccia ab-soluta, del tutto
umana e del tutto moderna» (p. 55), riprendendo Stephen Jay Gould. Tempo solo umano,
dunque, non ancora realizzato e che potrebbe non realizzarsi nella forma di
quel miracolo geo-ingegneristico finora descritto, ma anche realizzarsi come
catastrofe.
Questa
l’idea alla base della collassologia, teoria sostenuta da autori come Roy Scranton,
Pablo Servigne o ancora Raphaël Stevens. Come sottolineato in Teoria critica
dell’Antropocene, se a ragione questi autori denunciano l’insostenibilità del
rapporto occidentale fra uomo e natura, totalmente basato sul dominio tecnico
del primo verso la seconda, al contempo evidenziano quello stesso vuoto tra
moderno e non-moderno tematizzato nella geo-ingegneria. Secondo quest’ultimo approccio,
l’uomo riuscirà a dominare la natura, mentre secondo i collassologi l’uomo sarà
dominato da questa. Tratto comune a entrambe le posizioni è però l’impossibilità
di una relazione fra le due parti.
L’Antropocene del Capitale.
Nel
secondo capitolo del volume, Paolo Missiroli fa chiarezza su quelle teorie
secondo cui è il modo di produzione capitalistico la causa principale delle
trasformazioni ecologiche in atto.
A
partire dal testo di Naomi Klein” This changes everything”, di cui il sottotitolo significativo
Capitalism
vs the Climate, fino ai movimenti globali sorti fra il 2018 e il 2019, il tema
dell’Antropocene permette di porre in evidenza la problematicità di una
convivenza fra il modo di produzione capitalistico, basato sulla crescita
illimitata, e la Terra, che invece illimitata non è.
Questo
tipo di analisi ha portato allo sviluppo della nozione di “Capitalocene”, emersa tra la fine degli anni Duemila
e i primi anni Dieci del XXI secolo, in contrapposizione all’idea di Antropocene prometeico.
Come evidenziato da Missiroli, merito
principale di Jason Moore – il più noto propugnatore di tale teoria – è stato
quello di evidenziare come il capitalismo sia una “ecologia mondo”, espressione con
cui si vuole indicare la totale riduzione della natura al fine del profitto.
In
questo senso, il capitalismo non ha un regime ecologico, ma è un regime
ecologico, rifiutando così quel dualismo fra natura e cultura della modernità
occidentale descritto da Bruno Latour.
Nel
Capitalocene, l’unica dimensione è quella dell’oikeios, cioè «la relazione
creativa, storica e dialettica tra, nonché dentro, le nature umana ed extra-umana».
Tesi di fondo di Jason Moore – condivisa in
parte anche da altri autori, come Achille Mbembe o Malcom Ferdinand – è che dunque dalla metà del XVI
secolo alla metà del XVIII si sia avviato un processo di sfruttamento del mondo
naturale che ha condotto all’attuale forma di produzione capitalistica
dominante.
Premessa
di questo processo, l’esistenza di una natura sfruttabile, considerata soltanto
in questo suo ruolo. Si tratta di uno sfruttamento, peraltro, non solo della
natura intesa come flora e fauna, ma anche degli stessi umani, i non-moderni, e
che ha condotto a quella brutalizzazione di questi ultimi spiegata da Achille
Mbembe nel suo Brutalisme, ossia l’effetto dell’imposizione del modello di vita
occidentale a popoli indigeni inizialmente estranei ai modi di produzione del
mondo moderno.
L’edificazione
di immense piantagioni nei territori colonizzati va infatti interpretata in
questo modo, così come l’enorme massa di uomini e donne impiegati nella
coltivazione delle stesse.
Ma il mondo è veramente totalmente a
disposizione dell’uomo occidentale capitalista?
Il limite intrinseco della realtà naturale è
quello che Jason Moore chiama «tendenza alla caduta del surplus ecologico» – e qui sta il grande merito della
sua teoria, pur non priva di nodi critici.
Missiroli
sottolinea infatti come Jason Moore manchi di considerare una delle
caratteristiche principali del sistema capitalistico, ovvero la sua capacità di
costituire continuamente nuove forme teorico-pratiche di appropriazione
dell’ecosistema terrestre.
Non a
caso, il
modello Green Economy, forma che il capitalismo ha oggi assunto, è ben consapevole
dei limiti intrinseci del Sistema Terra in continua trasformazione. Nell’ambito
della sua idea di ecologia-mondo, Jason Moore non riflette poi sul fatto che,
se non vi fosse una dimensione – quella naturale – separata da quella umana e
di cui potersi appropriare, non esisterebbe neppure il capitalismo.
Per
dirla attraverso un esempio già usato da Kenneth Pomeranz, se in Inghilterra
non fossero state presenti grandi quantità di carbone, o se sulla Terra non
fossero state presenti grandi quantità di petrolio, allora il capitalismo non
sarebbe neppure iniziato. Porre le due dimensioni sullo stesso livello è senza
dubbio un errore.
Proprio
la centralità dei combustibili fossili per lo sviluppo del modo di produzione
capitalistico, nonché per l’avvio dell’epoca antropocentrica, è al centro delle analisi di
Andreas Malm.
Come
emerge chiaramente in “Teoria critica dell’Antropocene”, l’obiettivo critico dell’autore
svedese è la vulgata secondo cui il carbone sarebbe stato scoperto alla fine
del Settecento e si sarebbe poi imposto autonomamente come fonte di energia
principale per ben due rivoluzioni industriali.
Malm
mostra infatti come al tempo l’energia più presente sul suolo inglese fosse
quella dello scorrere dei corsi d’acqua. Fu dunque una scelta politica quella
di affidarsi al carbone, «ontologicamente soggetto al capitalista», a
differenza della «località ineliminabile» dei corsi d’acqua.
Gli
stessi partecipanti alle lotte che scossero l’Inghilterra intorno alla metà
dell’Ottocento erano consapevoli di questo, nonché della sconvenienza da un
punto di vista economico che il carbone avrebbe comportato rispetto al modello
di produzione basato sui corsi d’acqua.
A
differenza di Moore, secondo cui il Capitalocene ha avuto inizio verso la
metà del XV secolo, Malm, ponendo i combustibili fossili al centro della storia
del capitalismo, ne colloca così l’origine negli ultimi due secoli.
Da un
punto di vista geologico, le difficoltà sono ancora maggiori: infatti soltanto
Simon L. Lewis e Lewis Mumford collocano l’Antropocene nel 1610, scegliendo una
data di inizio in qualche modo vicina al periodo individuato da Moore nelle sue
ricerche.
Secondo
Lewis e Mumford il 1610 è infatti l’anno in cui dallo studio di sei reperti
geologici raccolti in diversi luoghi del pianeta è possibile apprezzare l’Orbis
Spike, cioè il punto in assoluto più basso di una serie di indicatori
riconducibili all’attività umana sulla Terra (la concentrazione di CO2
nell’atmosfera, la temperatura della superficie del mare ecc.). Tuttavia, malgrado questa possibile
vicinanza, non bisogna dimenticare la profonda differenza fra le due ricerche,
storica quella di Moore e geologica quella di Lewis e Mumford. In conclusione,
pur non mancando i nodi controversi all’interno della teoria del Capitalocene,
quest’ultima ha comunque dei meriti. Nello specifico, se a Malm si deve di
aver rilevato l’esistenza di un’autonomia della Natura, non considerata secondo
l’idea di ecologia-mondo di Moore, a quest’ultimo va il merito di aver posto
l’accento sull’importanza del capitalismo nell’analisi delle varie concause che
hanno portato a questa nuova epoca geologica.
Per
una teoria critica dell’Antropocene.
Nella
terza sezione del libro Missiroli cambia invece il criterio attraverso cui
riflettere sull’Antropocene, riuscendo così a costruire una teoria critica di
questo concetto, che è l’altro obiettivo del volume.
Se
nell’idea di Antropocene prometeico o di Capitalocene si tentava di rispondere
alla domanda intorno all’origine di questa nuova epoca geologica, in
quest’ultima parte Missiroli intende invece rispondere alla domanda: “Che cosa ci rivela il fatto che siamo
in questa nuova epoca geologica?”.
Si
tratta insomma del problema della condizione, che seppur legata a doppio filo a
quello dell’origine, non coincide con esso. Ed è a partire dalle idee di Eva Horn
e Hannes Berthgaller che Missiroli inizia a rispondere alla domanda sulla
condizione di questa nuova epoca geologica.
Secondo
questi autori, vi sono due modalità attraverso cui viene concepito l’essere
umano. Da un lato quella eco-modernista, che, come intuibile dal nome stesso,
ricalca quell’antropologia negativista dell’essere umano sostanziale alla
visione prometeica dell’Antropocene; dall’altro quella del post-umanesimo
ecologico, dove l’essere umano è semplicemente visto come una delle parti
nell’insieme delle forze che compongono il Sistema Terra.
In
linea con quest’ultima visione dell’anthropos, anche Dipesh Chakrabarty
riflette attorno alla nozione di Antropocene, ma da un punto di vista storico.
L’idea fondamentale che attraversa i suoi testi è che la nozione di
Antropocene, lungi dal porre l’uomo al centro della narrazione, al contrario lo
decentri. Secondo
Chakrabarty, l’esistenza stessa di un “clima della storia” è la dimostrazione
che ogni storia che metta al centro l’umano – come nella visione di Harari, o
dei teorici del Capitalocene – debba essere anzitutto subordinata almeno alla
storia geologica del pianeta, in tal senso più grande, onnicomprensiva di tutte
le altre.
È
proprio a partire da questo rapporto – che Chakrabarty definisce di imminenza –
che la storia della Terra intrattiene con tutte le altre che è possibile
rifiutare l’idea secondo cui la specie umana possa prendere il controllo
integrale del Sistema Terra.
Recuperando
un concetto di Augustin Berque, si tratta di andare a recuperare la strutturale
geo-graficità dell’essere umano, cioè il suo essere in continuo rapporto con un
grande numero di altre storie non-umane.
Il
fatto che l’essere umano sia il principale fattore di influenza stratigrafica
rivela così il contrario esatto di quanto si sarebbe portati a pensare. Porre un primato dell’agency umana su
tutte le altre significa ignorare deliberatamente tutto il funzionamento della
scienza biologica.
Se
pure è vero che sono principalmente le azioni umane a modificare il clima del
pianeta, ciò non significa che l’uomo sia l’unico a possedere un’agency, né che
sia il signore del pianeta.
Non a
caso, quando l’IUGS (International Union of Geological Science) formalizza un qualsiasi periodo
geologico, non è interessata alle cause che nella sezione stratigrafica hanno
generato il punto di rottura.
Come chiarito da Missiroli, «l’Antropocene non è il momento di
controllo di un Globo da parte dell’uomo, bensì l’evento attraverso cui tale
appartenenza diviene il centro della vita storica dell’umanità stessa, pensata
in continuità con quello sfondo» (p. 102). L’Antropocene è dunque una convergenza
di molteplici storie: è Capitalocene; è Plantationcene (p. 103); è l’evoluzione biologica dei bovini e
del loro processo digestivo unito all’allevamento industriale. E tutte queste storie, tra loro
differenti, vanno pensate come autonome e, al tempo stesso, legate a quella
“più grande” dell’Antropocene. Su questo stesso piano di ragionamento si
pongono anche le riflessioni di Donna Haraway o del già citato Latour.
Riportando le parole di Missiroli, «si potrebbe dire che l’homo sapiens è un animale intrinsecamente
eco-logico, cioè immaginabile solo in una rete di relazioni con umani e non
umani» (p. 109).
Non a
caso, lo stesso funzionamento della Terra non è spiegabile attraverso il
modello meccanicista di matrice cartesiana, ma si fonda proprio sulla
considerazione di queste continue interazioni fra elementi umani e non-umani.
Detto
in altro modo: ogni volta che un singolo elemento del Sistema Terra si
modifica, tutto il resto ne viene condizionato. Come scritto in Teoria critica dell’Antropocene, «la scienza del Sistema Terra si
fonda dunque su un’epistemologia dell’incertezza» (p. 115).
La
Terra possiede un lato nascosto, mai completamente oggettivabile
(prometeicamente) e mai totalmente dato allo sguardo di un soggetto. A conferma
di ciò, anche la pandemia da Covid-19: una delle molteplici reazioni
inaspettate del Sistema Terra che nell’Antropocene hanno già colpito e
colpiranno le società umane.
A
partire da queste scoperte dovute all’aver messo l’accento sulla condizione
piuttosto che sull’origine dell’Antropocene, Paolo Missiroli può infine
compiere quell’operazione annunciata nell’Introduzione del suo libro: farne una
teoria critica.
Se infatti da un lato non hanno alcun senso
gli appelli presenti nel dibattito pubblico per una “uscita dall’Antropocene”, dall’altro ciò non significa che
tale concetto non sia passibile di critica.
Se infatti è chiaro da un punto di vista geologico ed
ecologico che “uscire” dall’Antropocene sia impossibile, al contempo è proprio
su questa irreversibilità che Missiroli fonda la sua teoria critica.
Posto che quest’epoca geologica non è quella
dell’uomo serial killer ecologico, ma quella in cui il pianeta Terra reagisce
alla nostra agency, lo scopo della teoria critica di Missiroli è quello di
cercare di ristabilire un equilibrio fra gli uomini, i non-umani ela Terra,
tutti attori di quello sfondo inamovibile che è l’Antropocene stesso.
Lungi
dal predicare qualsiasi forma di primitivismo, si tratta di ristabilire la
giusta consapevolezza del rapporto fra l’essere umano e i non-umani,
ontologicamente.
Una
teoria critica, evidenziate le criticità dei rapporti fra mondo moderno e
naturale, fra modo di produzione capitalistico ed ecosistemi terrestri, non
potrà che basarsi su un criterio ontologico – su un rapporto di imminenza,
citando Chakrabarty.
Solo
in tal modo diviene possibile fotografare la nostra situazione storica, quella
dell’Antropocene, e distinguere fra il tentativo di dare al nostro mondo
storico una forma nuova, ecologica, e la perpetrazione di un modo di produzione
che ha già espresso tutta la sua potenzialità distruttiva.
Merito di questo libro l’aver tematizzato la
necessità per l’essere umano di istituire questa certa forma di Antropocene.
Concludendo
con le parole dell’autore, «una teoria critica dell’Antropocene non si propone
che di donare a questo movimento reale, nel suo abbattersi al contempo per
distruggere e istituire, un minimo di forza in più» (p. 138).
LE
IDEOLOGIE SONO MORTE
MA GLI
IDEALI NO.
È LA POLITICA CHE
PER
INTERESSE NON LI RAPPRESENTA PIÙ.
Thevision.com-
DANIELE FULVI- (1° FEBBRAIO 2021) - ci dice:
Nel
dibattito politico degli ultimi anni, viene dedicata un’attenzione sempre più
grande a posizioni cosiddette “post-ideologiche”, che mirano al superamento
delle contrapposizioni concettuali destra/sinistra, fascisti/comunisti e così
via, in nome di una politica più pragmatica e votata agli interessi reali dei
cittadini: quello che oggi è il mio peggior avversario politico, domani
potrebbe essere il mio alleato di governo.
In
questo scenario, un ruolo sempre più centrale viene giocato dai leader dei vari
partiti. La
loro vita sembra dipendere più dal volere dei loro capi – e dagli scranni che
occupano – piuttosto che dalla reale condivisione di ideali o di una
determinata visione del futuro.
A
partire dall’epoca del primo Berlusconi, il leader di un determinato partito o
schieramento ha rappresentato un elemento sempre più determinante ai fini del
voto:
da una trentina d’anni a questa parte, non si
vota più per appartenenza ideologica, ma in base al carisma del candidato a
guida di questa o quella lista. Su queste basi.
Beppe
Grillo già nel 2010 prendeva nettamente le distanze dagli schieramenti
tradizionali di destra e sinistra, definiti come “comitati d’affari”; e a
distanza di tre anni ribadiva il concetto sostenendo che il M5S fosse un
movimento di natura post-ideologica, lanciando il famoso mantra del “né di
destra né di sinistra”; infine, nel 2018 il comico genovese si è spinto ancora
oltre, arrivando a sostenere che il movimento da lui fondato fosse “la più
grande forza post-ideologica d’Europa”.
Visto
il successo in termini di consenso, anche i partiti storicamente schierati a
destra, ovvero la Lega e Fratelli d’Italia, hanno deciso di seguire l’esempio
della propaganda grillina.
Salvini,
ad esempio, nel 2015 definì l’antifascismo come “una roba da libri di storia”,
dal momento che l’ideologia fascista e quella comunista appartengono al passato
e non sono in grado di rappresentare le categorie politiche odierne.
Anche Giorgia Meloni non è da meno: da sempre, infatti, la leader di
FdI è impegnata nell’opera di normalizzazione e istituzionalizzazione del
fascismo, in nome proprio di quella politica post-ideologica che vorrebbe
superare posizioni faziose e “da tifoseria”.
Perfino
il successo elettorale di Trump nel 2016 è in parte dovuto al fatto che sia
stato presentato come un leader post-ideologico di un movimento che “trascende
le vecchie ideologie”. Infine, la recente crisi di governo nel nostro Paese, dettata
più dagli interessi individuali di singoli politici piuttosto che dalla genuina
passione per principi etici e politici, sembra essere un’ulteriore conferma
della validità delle posizioni post-ideologiche.
Infatti,
l’agenda politica dei vari leader di partito sembra basarsi sempre più sugli
interessi di potere dei singoli, anziché su una visione economica e sociale di
ampio respiro per il futuro.
Le
ideologie politiche che hanno caratterizzato il Novecento, dunque, sembrano
essersi eclissate in maniera definitiva, rimpiazzate dal trasformismo e
dall’individualismo.
Eppure,
il fatto che queste ideologie siano morte non significa che lo siano anche gli
ideali, soprattutto fra le nuove generazioni.
Mai come oggi si ha da un lato l’impressione
che la politica non segua più alcun ideale, ma muti in base all’occorrenza e
alla convenienza, dall’altro, però, al di fuori delle stanze del potere, si
stanno costruendo e stanno crescendo sempre più delle comunità fondate su
ideali molto forti. E nuovi ideali danno vita a nuove ideologie che si adattano
ai problemi del nostro tempo, nel tentativo di affrontarli e trovare una
soluzione, sulla base di un’etica e una visione del mondo condivise.
Proprio
in virtù di questa natura dinamica, non si può affermare che le ideologie siano
morte e che siano state definitivamente soppiantate da una sorta di nichilismo
etico e di cinico opportunismo.
Nel
dibattito politico quotidiano il concetto stesso di “ideologia” viene
interpretato in maniera superficiale e arbitraria: infatti, quando si accusa
qualcuno di avere una posizione ideologica, si intende dire che le sue idee e i
suoi discorsi sono astratti, teorici e fondati su pregiudizi.
In
realtà, però, l’ideologia è tutt’altra cosa: lungi dall’essere un insieme di
nozioni fumose e valide solo in ambito teorico, essa consiste precisamente in un
sistema di valori e coordinate concrete in base a cui gli esseri umani
orientano le proprie azioni nel mondo.
L’ideologia è quanto di più tangibile e pragmatico
esista, dato che rappresenta una sorta di prontuario a cui tutti noi ci
atteniamo più o meno fedelmente – e più o meno consapevolmente.
Per
dirla con il filosofo francese Althusser, l’ideologia è “un sistema di idee
solo in quanto è un sistema di rapporti sociali” e in quanto tale costituisce
la linfa vitale di ogni società.
Louis
Althusser.
Perciò,
parlare di epoca
post-ideologica significa da un lato avallare un luogo comune che produce solamente
cattiva politica (e cattivi politici), e dall’altro utilizzare un metro di
giudizio inadeguato a comprendere i tempi in cui viviamo.
Non è
vero che siccome le ideologie sono morte, allora c’è bisogno di politici
post-ideologici e spregiudicati; al contrario, è vero che siccome la classe
dirigente italiana non è in grado di rispondere alle esigenze e ai problemi
reali del Paese, poiché non ne comprende gli ideali, allora politici,
giornalisti e opinionisti vari – in mancanza di argomenti migliori –
giustificano tale atteggiamento sulla base di una presunta morte delle vecchie
ideologie.
Ma
sposare un’ideologia non significa necessariamente adottare dei pregiudizi o
accontentarsi di una visione pigra o utopica della realtà. Al contrario, spesso è proprio chi
è animato da ideali sinceri e da convinzioni etiche solide a realizzare i
cambiamenti più significativi in ambito politico e sociale.
La
retorica della morte delle ideologie ha come effetto ultimo quello di
allontanare i cittadini dalle istituzioni e dai processi decisionali, di fatto
accentrando il potere nelle mani dei leader più in voga. Perciò, risulta chiaro
come “trascendere le ideologie” o affermarne la fine non significa altro che
annientare il senso critico della popolazione prevenendo la reale necessità di
un cambiamento dei rapporti sociali.
In pratica, se si convincono tutti i cittadini
che le ideologie sono dei paraocchi che impediscono di vedere le cose in
maniera oggettiva, se non addirittura dei pesi morti di cui liberarsi, si ottiene come risultato sia la
creazione di una classe dirigente elitista e incapace di rapportarsi ai
cittadini, sia la subordinazione acritica del popolo a quella stessa classe
dirigente.
Facendo
un parallelo con il pensiero di Gramsci, possiamo dire che è esattamente in
questo modo che le classi dominanti costruiscono la loro egemonia. Come ci
spiega in maniera chiara ed efficace Alessandro Barbero, una classe diventa
dominante quando riesce a far sì che anche le altre classi accettino la sua
ideologia, ovvero il suo pensiero e la sua visione del mondo.
Perciò,
nel caso della situazione odierna, l’ideologia dominante è quella superficiale e
propagandistica secondo cui le ideologie sono morte e sepolte, rimpiazzate
dallo sprezzante pragmatismo dei politici contemporanei.
Tuttavia,
è altrettanto vero che quando l’ideologia dominante non corrisponde alla
realtà, si apre una frattura tra governanti e governati che diventa sempre più
insanabile e porta a inevitabili cambi di rotta nei rapporti sociali.
Alessandro
Barbero.
Gli
attuali movimenti politici per le questioni di genere, razziali e ambientali,
infatti, non fanno altro che dimostrare quanto questa frattura sia profonda ed
evidente, e che continuare a ignorarla in nome della presunta morte degli
ideali politici novecenteschi non fa che allontanare ancora di più la politica
dalla realtà dei fatti.
Non
solo tali movimenti mostrano come la narrazione diffusa dell’estinzione delle
ideologie sia un semplice strumento propagandistico e ingannevole, ma anche che
la costruzione di una società più giusta passi necessariamente per
l’istituzione di una nuova ideologia che stravolga i rapporti sociali
esistenti, sostituendoli con un nuovo ordine politico ed economico basato su
equità, inclusività e sostenibilità.
Ad
essere scomparsa dai radar, dunque, non è l’impostazione dell’azione politica
sulla base di valori etici, ma la buona politica che di tali valori si dovrebbe
nutrire.
Soprattutto
nelle nuove generazioni, è molto forte l’urgenza di implementare una visione
del mondo che si contrapponga a quella del capitalismo neoliberista, ormai in
profonda crisi.
Infatti, sebbene anche leader politici di primissimo
piano come Macron abbiano riconosciuto che il modello capitalista non funziona
più, in Italia sembra mancare quasi del tutto una riflessione lucida e realista
sulla possibilità di liberarsi dalla propaganda post-ideologica e di creare un
modello economico-sociale in grado di dare un futuro alle nuove generazioni e
al pianeta.
Tale
atteggiamento, però, non fa che allontanare la politica e le istituzioni dai
cittadini, creando
malcontento e aumentando il rischio di derive nazionaliste e neofasciste.
Emmanuel
Macron.
La soluzione,
dunque, consiste nell’abbandonare una volta per tutte l’impostazione
post-ideologica, che non risponde ad alcuna esigenza reale delle persone e non
fa che allargare la forbice tra la piazza e il Palazzo.
Per questo, bisogna ridare la giusta importanza alla
politica ispirata a sani ideali e valori non negoziabili, smettendola di
conferire un valore esclusivamente negativo al concetto di ideologia.
Senza
ideali fondati su solide basi etiche, infatti, non saremmo neanche in grado di
dare un senso al mondo, né di avere una prospettiva per il futuro.
La
piramide del potere comunista
cinese: il partito agli occhi del popolo.
Lospiegone.com-(21
Giugno 2020) - Lorenza Scaldaferri- ci dice:
Contrariamente
alle aspettative occidentali, essere parte del Partito Comunista Cinese non è
una moda ampiamente diffusa tra i cinesi.
Non
solo perché il percorso per il conseguimento della membership si è evoluto
diventando nel corso degli anni sempre più complesso, ma anche perché non tutti
vedono il PCC come l’unica alternativa per una vita migliore.
Naturalmente,
come spesso accade nel corso della storia, la concezione di un determinato
fenomeno cambia nel tempo.
La
prospettiva strategica cinese si basa sulla capacità di adattamento considerate
determinate circostanze. Anche in questo caso, la concezione del Partito da parte
della popolazione cinese si è trasformata in base alle inevitabili conseguenze
dettate dalla storia. Sebbene l’ideologia sia tuttora utilizzata come strumento
di legittimazione della classe politica al potere, stabilire l’effettivo supporto della
popolazione rimane una sfida.
L’alternativa
comunista pre-1949.
La
Cina degli inizi del XX secolo era un Paese frammentato, economicamente arretrato
e vittima dei trattati ineguali che garantivano privilegi territoriali alle
potenze straniere.
Un
esempio è il Trattato di Nanchino, firmato tra Cina e Gran Bretagna nel 1842,
che consentì l’apertura di alcuni porti cinesi al commercio estero e
l’introduzione del principio di extraterritorialità. I giovani intellettuali che
fondarono il Partito comunista cinese nel luglio del 1921, avevano come
obiettivo la costruzione di una società socialista e un cambiamento radicale
per la nazione. Il PCC nasce quindi come organizzazione di massa, che proponeva un
barlume di luce e di riscatto per un Paese dilaniato dalle guerre, impoverito e
al collasso.
Per
tutto il periodo rivoluzionario, il Partito veniva tendenzialmente considerato
come l’alternativa per la ricostruzione di un Paese prospero e moderno. Le numerose adesioni agli albori del
PCC confermano la visione positiva che il popolo cinese aveva del Partito.
Nel
1927 la membership del Partito raggiunse i 57 mila iscritti. Un altro fattore che spinse i cinesi
ad unirsi alla causa rivoluzionaria era l’idea di combattere contro un nemico
comune: lo straniero e l’imperialismo. Il sentimento anti-imperialista si
inasprì con lo scoppio della guerra sino-giapponese del 1937: in seguito all’invasione giapponese,
infatti, 598 mila cinesi aderirono al PCC.
Maoismo
tra privilegi e delusioni.
Con la
fondazione della Repubblica Popolare Cinese nel 1949, il PCC divenne un partito
a tutti gli effetti, con una maggiore istituzionalizzazione e
professionalizzazione dei membri. Il fine ultimo era di ricostruire una nuova
nazione dopo anni di caos.
La
costruzione del consenso in epoca maoista avvenne soprattutto grazie alla
propaganda comunista e il carisma indiscusso del leader. La proiezione di una
società ideale, egualitaria e prospera alimentava lo spirito rivoluzionario del
tempo.
Durante
l’epoca maoista, essere parte del PCC comportava numerosi vantaggi. Si aveva
una sicurezza dal punto di vista economico, lavorativo e sanitario.
L’educazione era accessibile a tutti, la ridistribuzione delle terre aveva
migliorato le condizioni di vita dei contadini.
Tuttavia
l’euforia dei primi anni della Repubblica Popolare Cinese (RPC) si affievolì
presto. Il
malcontento tra la popolazione cominciò a manifestarsi con il Grande Balzo in
Avanti e raggiunse il suo apice con la Rivoluzione Culturale (1966-1976).
Il
Grande Balzo in Avanti consisteva in un piano di riforme quinquennale lanciato da
Mao Zedong nel 1958. L’obiettivo principale era di portare la Cina fuori
dall’arretratezza economica. Errori di pianificazione, però, causarono l’effetto opposto:
miseria e oltre 40 milioni di morti.
Dopo
il fallimento del piano quinquennale, con l’avvio della Grande Rivoluzione
Culturale proletaria nel 1966, il Partito ambiva a colpire i responsabili del
disastro economico con l’accusa di aver perso di vista la causa rivoluzionaria.
Tuttavia,
il decennio che si protrae fino alla morte del leader Mao Zedong nel 1976, sarà
uno dei più bui della storia cinese caratterizzato da violenze fisiche e
psicologiche, un eccessivo culto della personalità del leader ed
estremizzazione ideologica.
La
legittimità del PCC era legata all’ideale rivoluzionario, alla lotta di classe,
ed era quasi garantita. Dopo la morte di Mao, però, l’eredità degli anni della
Rivoluzione Culturale porteranno Deng Xiaoping a reinventarsi strumenti per
mantenere viva la legittimità del Partito.
Modernizzazione
e avanzamento di carriera.
“Arricchirsi
è glorioso”.
Lo slogan lanciato da Deng Xiaoping smorza i toni e spiana la strada per l’economia
socialista di mercato dove l’arricchimento personale non è considerato
controrivoluzionario.
Il
partito si evolve ancora, rispondendo alle esigenze della nuova realtà cinese e
ai cambiamenti socio-economici sotto la leadership di Deng Xiaoping. Molti studiosi hanno osservato come
le riforme economiche degli anni Ottanta abbiano indebolito la fede politica
verso il Partito in favore dei vantaggi economici che esso garantiva.
Dopo
la morte di Mao, il PCC diventò un partito sempre più elitario, la legittimità
politica iniziò a sfumare in favore del progresso economico e tecnologico.
La
crescita economica fu supportata da un consenso popolare diffuso, ma allo
stesso tempo contribuì all’aumento delle disparità insite alla società cinese. Secondo alcuni ricercatori le ineguaglianze
economiche vengono accettate culturalmente dalla popolazione in base all’idea
chi è più ricco lo è perché ha lavorato più duramente.
Sotto
la leadership di Deng Xiaoping, la narrativa del Partito si orienta verso una
depoliticizzazione della morale rivoluzionaria e un ritorno alla centralità del
Partito. La
promozione del progresso materiale in simbiosi con il progresso spirituale apre
nuovi spazi a diversi strati della popolazione.
Servire
il popolo nella Cina contemporanea.
L’ideologia
confuciana è ritornata in auge con Xi Jinping, cosi come il nazionalismo.
Nell’ideologia confuciana è infatti l’individuo che
rispettando il proprio ruolo contribuisce al corretto funzionamento della
società.
Il Presidente Xi ha introdotto un nuovo
strumento per ripristinare la fiducia, intaccata da episodi di corruzione
interni al PCC prima della sua elezione a Segretario Generale nel 2012.
Merita
attenzione anche la scelta strategica di effettuare il primo discorso pubblico
come Segretario del PCC nel Museo Nazionale di Pechino durante l’allestimento
della mostra “La strada verso la rinascita”.
É in questa occasione che Xi promuove uno dei
punti cardine della sua politica: il Sogno Cinese. Esso racchiude gli interessi
del popolo cinese al fine di creare una società moderatamente prospera entro il
2021 e pienamente sviluppata entro il 2049.
Il
lancio del Sogno Cinese, la rinascita della nazione, rimarcano l’importanza
dell’individuo all’interno di un contesto.
La linea politica di Xi rievoca il passato glorioso
della Cina, ponendo l’accento sulle conseguenze positive che la realizzazione
del sogno cinese avrà sulla collettività. Ha ridato un ideale collettivo in cui
credere.
Il proliferare di attività di volontariato, la promozione del turismo “rosso” e
lo studio
delle teorie dei leader comunisti sono parte delle strategie di costruzione del
consenso tra la popolazione. Tuttavia, la maggior parte dei giovani mostra un
disinteresse verso la politica, vedendo il nuovo PCC come garante di vantaggi
economici e scalata sociale.
Per
quanto radioso possa sembrare il futuro proposto dal PCC, le disuguaglianze
sociali sono ancora presenti, così come la povertà, l’inquinamento e la
mancanza di tutele per i lavoratori migranti. Se da un lato il malcontento tra la
popolazione sia presente e ben controllato, dall’altro lato l’accesso a
internet offre la possibilità di esprimere la disapprovazione su piattaforme
non direttamente controllate dal Partito.
PCC:
il padre benevolo del popolo cinese.
Il
Partito non può dunque essere considerato un attore statico. Era rivoluzionario
quando la storia richiedeva una rivoluzione per una rinascita cinese. È diventato un partito di tecnocrati
per garantire l’attuazione delle riforme economiche per una Cina più moderna. Ha aperto le porte ad una nuova classe
sociale considerata controrivoluzionaria in precedenza, ossia gli imprenditori
privati. La
Cina di Xi Jinping è ormai nota per il crescente autoritarismo e una morsa
sempre più stretta sui cittadini. Eppure, il consenso tra la popolazione cinese non sembra
sgretolarsi.
Se da
un lato con l’apertura avviata da Deng, la fede politica sia passata per un
periodo in secondo piano, dall’altro il Partito viene ancora visto come custode degli
interessi del popolo. Per ripristinare la legittimità del PCC indebolita dagli
scandali che colpirono il Partito all’inizio del suo mandato, Xi utilizza le
campagne anti-corruzione e il ripristino della disciplina tra i membri.
I
cambiamenti socio-economici hanno indubbiamente influenzato la popolazione
cinese, rendendola anche più consapevole. La sfida che si ritrova ad affrontare
costantemente il Partito è il rinnovo degli strumenti per garantirne la
legittimità.
L’ideale
rivoluzionario non è più sufficiente, il successo economico neanche. Il
rapporto di fiducia tra il Partito e i suoi cittadini è di garantire gli
interessi del popolo per il conseguimento della rinascita della grande nazione
cinese.
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