IDEOLOGIA AL POTERE- EMERGENZA ENERGIA.

 IDEOLOGIA AL POTERE- EMERGENZA ENERGIA.

 

A Buon Intenditor…

Conoscenzealconfine.it-( 9 Settembre 2022) - Lorenzo Sartié- ci dice:

 

Eni ha bloccato il prezzo del gas con la Russia 10 anni fa. E continua a pagarlo a quel prezzo. Però vi applica il prezzo determinato dalla borsa di Amsterdam.

Quindi lo compra a 2 (come da contratto) e ve lo rivende a 30 (grazie alla borsa che è pura speculazione). Eni con questo meccanismo ha avuto un utile di 7,3 miliardi nei primi 6 mesi di quest’anno. Eni, inoltre, casualmente ha spostato la sede legale in Olanda.

L’Eni è una compartecipata statale al 30,62% (4 e rotti% ministero dell’economia e finanze e 26 e rotti% Cassa Depositi e Prestiti). Quindi parte di quell’utile è dello stato italiano, che non vuole ridarlo ai clienti (Cittadini e Imprese). Altro che sforamento di bilancio e PNNR.

Non è finita qui. La società che in borsa contratta il gas, fatalità… è americana.

Paga il 3% di tasse in Olanda e il resto lo porta chissà dove. Però sta alzando artificiosamente il prezzo del gas, in modo che i paesi europei siano costretti a comprare (al triplo del prezzo) il gas americano (bontà loro, che mossi da “humana pietas” ce lo vendono).

Come vedete Putin non c’entra un tubo (scusate la battuta). Il vero nemico è in Italia. Vi è già venuta una colica? Se volete continuo…

(Lorenzo Sartié- t.me/Arruinas)

 

 

 

EMERGENZA ENERGIA,

“OCCORRE AGIRE SUBITO”.

Confcommercio.it-Redazione-(26 agosto 2022) -ci dice:

 

Da Confcommercio appello a governo e forze politiche: “l’impennata dei costi si abbatte sui bilanci, a rischio la prosecuzione delle attività in tante aziende del terziario di mercato”. Fipe lancia la campagna "Bollette in vetrina".

“L’impennata dei costi energetici si abbatte sui bilanci delle imprese, mettendo a rischio la prosecuzione delle attività in tante aziende del terziario di mercato”. È per questo che Confcommercio chiede al Governo e a tutte le forze politiche impegnate nel confronto elettorale di “agire subito per dare risposta ad una vera e propria emergenza, rilanciando l’iniziativa in sede europea sul cosiddetto Energy Recovery Fund e puntando alla fissazione di un tetto al prezzo del gas e alla revisione delle regole e dei meccanismi di formazione del prezzo dell’elettricità”. Questo già dalla conversione in legge del decreto ‘Aiuti bis’ “potenziando e rendendo più inclusivi i crediti d’imposta fruibili anche da parte di non ‘energivori’ e non ‘gasivori’, scegliendo di destinare all’abbattimento degli oneri generali di sistema il gettito derivante dalle aste per l’assegnazione delle quote di emissione di Co2 e rafforzando le misure contro il caro carburanti per il settore dell’autotrasporto”. Infine, secondo la Confederazione, “è evidente l’urgenza di affrontare con determinazione, nella prossima legislatura, i nodi della riforma della fiscalità energetica e della riduzione strutturale del carico fiscale su trasporti e mobilità”.

Osservatorio Confcommercio Energia: nel 2022 le imprese del terziario spenderanno in energia 24 miliardi di euro, più del doppio rispetto all’anno precedente.

 Fipe-Confcommercio lancia la campagna "Bollette in vetrina".

Un'operazione di trasparenza a livello nazionale per mostrare ai cittadini e agli avventori di bar e ristoranti quale è la situazione in cui le imprese sono costrette a operare. È "Bollette in Vetrina": nei prossimi giorni i gestori dei pubblici esercizi associati a Fipe-Confcommercio riceveranno una cornice da appendere nei propri locali per mettere in bella vista le ultime bollette del gas e dell'energia elettrica. Si tratta di bollette monstre, triplicate rispetto a un anno fa a causa dell'impennata dei prezzi del gas.

 

Una situazione che sta costringendo gli esercenti a dover scegliere tra gli aumenti dei listini, finora assai modesti, e la sospensione dell'attività in attesa di un intervento risolutivo da parte del Governo. "Questa iniziativa - spiega Aldo Cursano, vicepresidente di Fipe - ha l'obiettivo di rendere trasparente cosa sta succedendo oggi a chi gestisce un bar o un ristorante anche nel tentativo di spiegare ai clienti perché stanno pagando il caffè un po' di più con il rischio nei prossimi mesi di ulteriori aumenti. Con aumenti dei costi dell'energia del 300% si lavora una pistola puntata alla tempia. Se il Governo non interviene o si agisce sui listini o si sospende l'attività. Contiamo sulla sensibilità dei cittadini e dei clienti perché fare lo scaricabarile dei costi è proprio quello che non vorremmo fare. Per questo Fipe ha chiesto al Governo di potenziare immediatamente il credito di imposta anche per le imprese non energivore e non gasivore. Un credito di imposta del 15% per l'energia elettrica non è assolutamente adeguato agli extra costi che le imprese stanno sostenendo ora. Occorre però fare presto, altrimenti si rischia di innescare una spirale inflazionistica destinata a gelare i consumi".

“Credito d’imposta per la ristorazione, bene il ministro Garavaglia”.

“Le preoccupazioni del ministro Garavaglia sul rischio che corre la prossima stagione turistica per effetto degli aumenti esorbitanti della bolletta energetica sono anche le nostre. La richiesta di un provvedimento urgente a favore delle imprese della ristorazione per attenuare gli effetti degli aumenti non solo va nella direzione da noi auspicata ma è la conferma che il settore è fondamentale per il buon andamento del turismo del Paese.” Così Fipe-Confcommercio sulle dichiarazioni del ministro del Turismo, Massimo Garavaglia.

 

Conftrasporto: “imprese con veicoli a metano costrette allo stop”.

"Il nostro settore si muove per il 95% con il gasolio e per il 5% con il gas. Ma chi ha fatto investimenti su veicoli a gas metano oggi li ferma, perché non è sostenibile questo aumento dei costi". Così il segretario generale di Conftrasporto-Confcommercio, Pasquale Russo, spiegando che "mediamente il costo del prodotto petrolifero, del gas in questo caso, vale il 30% dei costi di un'impresa di trasporto. Quindi con un costo del gas quadruplicato abbiamo un aumento complessivo di costi di esercizio di circa il 10-15%. È impossibile andare avanti per imprese che lavorano a marginalità molto ridotta, come quelle del trasporto". "Tutto l'aumento dei prodotti energetici – continua Russo - impatta sul nostro settore. Insieme al gas c'è stato e continua ad esserci, nonostante una riduzione delle accise, anche un costo molto elevato dei carburanti. Un problema che ha avuto inizio ben prima dello scoppio della guerra in Ucraina". "Bisogna continuare a sostenere il nostro settore con interventi diretti, perché i costi sono troppo elevati per poter essere scaricati sul mercato", afferma infine il segretario generale di Conftrasporto-Confcommercio, chiedendo che si vada incontro "a tutte le imprese, non soltanto quelle energivore e gasivore".

Fida: “bollette quintuplicate, costo dell’energia fuori controllo”.

"Nel nostro settore sono arrivate bollette quintuplicate rispetto alla norma. Chi prima spendeva 5mila euro si è ritrovato con bollette da 25mila: considerando che c'è l'azzeramento degli oneri di sistema si capisce che siamo davanti a un costo fuori controllo della materia energetica". Parole della presidente di Fida-Confcommercio, Donatella Prampolini, che aggiunge: “il nostro è un settore con una bassissima marginalità. Se si è bravi si chiude il conto economico, dopo aver pagato le tasse, con una percentuale al di sotto dell'1% rispetto al fatturato. I costi energetici non hanno mai impattato più del 2% sui nostri conti, ma oggi abbiamo su base mensile costi che arrivano al 10%".

"Da qui alla fine dell'anno tutti gli aumenti che arriveranno dovranno essere rigirati al consumatore ma non basterà, perché quando l'energia impatta sul conto economico sopra il 5% non è sostenibile", continua Prampolini, sottolineando la necessità per le aziende del settore di "un credito d'imposta almeno pari a quello delle aziende energivore".

"Occorre a livello europeo un tetto al prezzo del gas, finanziamenti ad hoc per pagare le utenze, la proroga dell'azzeramento degli oneri di sistema, ma anche la proroga di misure nate con il Covid, come il ripianamento delle perdite in cinque anni, la possibilità di abbassare o azzerare gli ammortamenti. Come Fida - conclude la presidente Fida - chiediamo di tassare in modo consistente gli extraprofitti delle società energetiche".

Federazione Moda Italia: “urgente estendere il credito d’imposta ai negozi di abbigliamento, calzature, pelletterie e accessori”.

“L’aumento assolutamente insostenibile dei costi dell’energia colpisce veramente tutti i comparti e in modo particolare quello del settore della Moda, che vede nelle prospettive future una grave difficoltà nel poter mantenere posizioni fondamentali all’interno dei centri storici e allo stesso tempo nella necessità di tutelare centinaia di migliaia di posti di lavoro”. Così Giulio Felloni, presidente nazionale di Federazione Moda Italia- Confcomercio, che prosegue: “il nostro settore è uno snodo fondamentale della filiera del made in Italy.

La forte preoccupazione arriva dai segnali non incoraggianti che provengono dai nostri fornitori, con un aumento dei prezzi di circa il 15% che potrà essere difficilmente sostenibile dal consumatore finale che vedrà, tra l’altro, ulteriormente ridotta la propria capacità di spesa. Basti pensare che, così come denunciato da Confcommercio, gli aumenti della spesa annuale tra luglio 2021 e luglio 2022 sono arrivati a toccare il 122% per l’elettricità e il 154% per il gas. Una situazione che non potrà essere risolta con una serie di interventi a pioggia, ma che richiede una precisa presa di coscienza e valutazione alle forze politiche nel loro complesso”.

“Come presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio – conclude Felloni – ritengo che la strada intrapresa insieme al nostro presidente confederale, Carlo Sangalli, sia un percorso che punta sì al dialogo ma che nel contempo sottolinea con forza la improrogabile necessità di un intervento strutturale a favore delle piccole e medie imprese che sono parte integrante ed essenziale per la salvaguardia delle città e dei centri storici. Da chi ci verrà a governare ci aspettiamo risposte adeguate, ma ora è urgente estendere e incrementare il credito d’imposta anche alle nostre imprese del dettaglio moda che, pur non essendo classificate come energivore e gasivore, necessitano di un aiuto immediato per far fronte a costi sempre più importanti e margini sempre più rosicati, ai limiti della sopravvivenza”.

Confcommercio Salute: “fin qui nessun aiuto, servono interventi immediati e strutturali”.

 

L’emergenza legata al caro-energia investe anche il mondo del socio sanitario. Un settore che, peraltro, deve continuare a mantenere, senza possibilità di interruzione, uno standard di prestazioni e servizi efficiente e di grande qualità, data la presa in carico di pazienti anziani e fragili.

L’allarme arriva da Confcommercio Salute, Sanità e Cura, che sottolinea che “la quasi totalità delle strutture che rappresentiamo ad oggi ha registrato aumenti consistenti delle utenze energetiche a ridosso dell’ultimo quadrimestre dell’anno. Parliamo di costi in bolletta raddoppiati nella maggior parte dei casi e in alcuni contesti addirittura triplicati, che si sommano all’aumento delle spese generate da diversi servizi fondamentali come, per esempio, quelli di ristorazione e lavanderia”.

Un quadro che si è concretizzato a margine di un biennio già complicatissimo, con un’aggravante: “a differenza delle perdite del 2020 e 2021 legata principalmente alla pandemia, in cui seppur a rilento sono arrivati aiuti, ad oggi per il 2022 non sono previsti meccanismi compensativi a supporto del settore. Il sistema degli aiuti oggi riguarda solo le imprese o le attività energivore e non considera il socio sanitario. I rischi principali, per molti, sono due e vanno entrambi assolutamente evitati: la chiusura di diverse realtà o il peggioramento della qualità dei servizi”.

 

Da qui le richieste di Confcommercio Salute al governo e alle forze politiche in vista della tornata elettorale, sia contingenti che strutturali:

 “urgono provvedimenti nell’immediato. Tra questi – dice Pallavicini - c’è senz’altro la necessità di abbattere almeno fino a fine anno le aliquote sull’energia elettrica al 10%, come per il gas, soprattutto nell’ottica dell’arrivo della stagione invernale”. In parallelo, per l’Associazione, occorre aprire un tavolo con le istituzioni per affrontare il tema e avviare un’analisi strutturale del settore. “Le ultime attività ispettive dei Nas a livello nazionale hanno infatti nuovamente riscontrato preoccupanti inefficienze e violazioni in numerose strutture, che purtroppo minano credibilità e immagine dell’intero settore. In questo contesto occorre avviare al più presto un percorso che tuteli il privato accreditato di qualità: assistere le persone in maniera adeguata è e deve rimanere la mission primaria e per farlo occorre una progettazione sinergica a tutela di cittadini, famiglie e operatori virtuosi”.

“Decontestualizzare il problema del caro energia nel socio sanitario, con soli interventi di breve periodo, ci pare miope. Il tema più grande, acuito dal nuovo aumento dei costi delle materie prime, è legato alla necessità di stoppare il proliferare di un mondo collaterale di strutture a basso costo e senza garanzie di qualità, che hanno inquinato l’intero settore. Per questo riteniamo necessario sottolineare due priorità: valorizzare di chi investe in qualità e sicurezza, anche sul piano dei ristori; avviare e promuovere un cambio di paradigma nell’approccio culturale e operativo verso il settore dei LEA. A partire proprio, per rimanere al tema energia, dall’urgente e attuale tema dell’efficientamento energetico delle strutture, intese come parte integrante del processo di transizione ecologica del paese”, conclude Pallavicini.

 

 

Emergenza energia, incontro

 tra le Regioni del Nord:

“Impatto devastante”.

Iltorinese.it-Redazione-(30 agosto-2022) -ci dice:

 

40 MILIARDI DI EXTRA-COSTI. RISCHIO DI DEINDUSTRIALIZZAZIONE E MINACCIA ALLA SICUREZZA NAZIONALE.

Incontro dei Presidenti delle Confindustrie di Emilia-Romagna, Lombardia, Piemonte e Veneto con gli assessori allo Sviluppo economico.

 Si è svolto ieri un incontro straordinario tra i Presidenti Annalisa Sassi (Confindustria Emilia-Romagna), Francesco Buzzella (Confindustria Lombardia), Marco Gay (Confindustria Piemonte), Enrico Carraro (Confindustria Veneto) e gli assessori allo Sviluppo Economico Vincenzo Colla (Emilia-Romagna), Guido Guidesi (Lombardia), Andrea Tronzano (Piemonte) e Roberto Marcato (Veneto).

Al centro dell’incontro l’emergenza energetica che, in assenza di quelle misure di contenimento dei prezzi richieste da mesi dalle imprese, sta paralizzando il sistema industriale italiano con il forte rischio di deindustrializzare il Paese mettendo a repentaglio la sicurezza e la tenuta sociale nazionale.

In linea con l’appello del Presidente nazionale, Carlo Bonomi, si è sottolineato che la situazione ha caratteri di straordinarietà e urgenza indifferibile, perché è impossibile mantenere la produzione con un tale differenziale di costo rispetto ad altri paesi (UE e extra UE) nostri competitor, con l’effetto di colpire non solo le imprese esportatrici dirette, ma anche tutta la filiera produttiva, con un effetto pesantemente negativo sulle piccole e medie imprese intermedie nella filiera. Ulteriore effetto è l’annullamento del rilancio economico post pandemia, in particolare nelle ricadute sui territori che vedono un’erosione drammatica di competitività rispetto ad altri Paesi limitrofi. è chiaro ormai che ogni risorsa deve essere destinata prioritariamente a questa emergenza.

I rappresentanti delle Confindustrie delle quattro regioni hanno presentato agli assessori i dati relativi agli incrementi dei costi energetici dal 2019 al 2022 nelle quattro regioni più importanti per il tessuto industriale italiano: dai dati emerge che, mentre nel 2019 il totale dei costi di elettricità e gas sostenuti dal settore industriale delle quattro regioni ammontava a circa 4,5 miliardi di Euro, nel 2022 gli extra-costi raggiungeranno – nell’ipotesi più ottimistica rispetto all’andamento del prezzo – una quota pari a circa 36 miliardi di Euro che potrebbe essere addirittura superiore ai 41 miliardi nello scenario di prezzo peggiore.

Con una situazione del genere, le ricadute non saranno solo sulle imprese ma su tutta la società, con evidenti effetti di tenuta sociale ed economica per i lavoratori e le loro famiglie e per l’intero Paese.

Ferma restando la necessità di definire, fin da subito, una programmazione energetica nazionale con interventi e investimenti a medio-lungo termine in grado di assicurare la sicurezza e la sostenibilità della produzione energetica e delle forniture di gas, i Presidenti Sassi, Buzzella, Gay e Carraro hanno dichiarato che le imprese non possono attendere un giorno di più quelle misure necessarie a calmierare i prezzi di gas ed energia elettrica, tra cui:

 

1.    Introduzione di un tetto al prezzo del gas (europeo o nazionale).

2.    Sospensione del meccanismo europeo che prevede l’obbligo di acquisto di quote ETS a carico delle imprese.

 

3.    Riforma del mercato elettrico e separazione del meccanismo di formazione del prezzo dell’elettricità da quello del gas.

4.    Misure per il contenimento dei costi delle bollette con risorse nazionali ed europee.

5.    Destinazione di una quota nazionale di produzione da fonti rinnovabili a costo amministrato all’industria manifatturiera.

 

 Le Confindustrie di Emilia Romagna, Lombardia, Piemonte e Veneto, hanno apprezzato la sensibilità e l’attenzione delle Regioni, che si sono trovate concordi sulla gravità dell’emergenza e l’insostenibilità della situazione, e al fine di evitare drammatiche ricadute economiche e sociali invitano tutte le forze politiche – anche in questa fase di campagna elettorale – a sostenere con decisione l’impegno del Governo in carica nella difficile trattativa con gli altri Paesi a livello europeo per l’introduzione di un tetto al prezzo del gas. Il tempo è ampiamente scaduto e una decisione in sede UE in questo senso non è più differibile.

 

 

 

 

Emergenza energia:

l’autunno freddo è alle porte.

 

Otovo.it- Camilla Antonioni- (10-9-2022) -ci dice:

 

Caro bollette e aumento dei prezzi: bisogna agire subito. La stangata d’autunno: aumento dei prezzi e caro bollette.

Il fotovoltaico in aiuto alla crisi energetica.

L’autunno è alle porte, e con lui è sempre più concreto lo scenario di crisi energetica che ci si prospetta davanti agli occhi. Ormai è un argomento di discussione più volte sondato: lo choc energetico e l’inflazione - sempre più inasprita successivamente alla guerra scoppiata in Ucraina - stanno spianando la strada a una stagione invernale in cui gli italiani dovranno affrontare i numerosi rialzi delle bollette e dei costi della vita.

Numerose sono state le iniziative per contrastare questa situazione di crisi. Molti interventi in materia di finanza sostenibile, economia green e risparmio energetico stanno cercando di tamponare le preoccupanti prospettive economiche e finanziarie del nostro Paese per proseguire in questo percorso di transizione energetica. È per questo motivo, infatti, che Confcommercio sta chiedendo incessantemente al Governo e a tutte le forze politiche impegnate nel confronto elettorale di agire prontamente per arginare questa emergenza rilanciando in sede europea l’iniziativa sul cosiddetto Energy Recovery Fund. Un altro obiettivo, inoltre, è la fissazione di un tetto al prezzo del gas congiuntamente alla revisione delle regole e dei meccanismi di formazione del prezzo dell’elettricità.

In questo articolo ti aiuteremo a fare un po’ di chiarezza in questo scenario nebuloso di crisi energetica ed economica. Soprattutto cercheremo di farti capire quanto la scelta di passare all’energia solare possa essere la soluzione per contrastare i rincari in bolletta e per perseguire l’indipendenza energetica.

Emergenza energia: occorre agire subito.

È arrivato da Confcommercio un appello al Governo e alle forze politiche per contrastare il profondo scenario di crisi in cui sta versando il nostro Paese. L’impennata dei costi, infatti, si sta abbattendo sui bilanci e ciò sta mettendo a rischio la prosecuzione delle attività in molte aziende del terziario di mercato.

Per questo motivo è stata richiesta da parte di Confcommercio la prosecuzione e il consolidamento in sede europea dell’Energy Recovery Fund, partendo già dalla conversione in legge del decreto ‘Aiuti bis’ per potenziare e rendere più incisivi i crediti d’imposta e scegliendo di destinare all’abbattimento degli oneri generali di sistema il gettito derivante dalle aste per l’assegnazione delle quote di emissione di CO2 e rafforzando le misure contro il caro carburanti per il settore dell’autotrasporto.

La stangata d’autunno: aumento dei prezzi e caro bollette.

Gli italiani che tornano dalle vacanze e che dovranno approcciarsi alla stagione invernale si ritroveranno costretti a fare i conti con la stangata d’autunno, conseguenza disastrosa dell’inflazione che non accenna ad arretrare e dello choc energetico.

La crisi è capillarizzata in tutti i settori socio-economici della nostra realtà, nessuno escluso. Per fare un esempio, basti pensare che per bere e mangiare - dunque per l’acquisto di prodotti alimentari e bevande analcoliche - l’Unione nazionale consumatori ha calcolato una stima di spesa di circa 155€ in più tra settembre e novembre rispetto allo stesso periodo nel 2021. Per non parlare delle bollette: per i clienti del mercato tutelato la bolletta della luce del quarto trimestre ammonterà a circa 280€, contro i 200€ del corrispondente periodo del 2021. Per il gas, invece, si passerà da 461€ a 588€, con un rialzo pari a 127€. Incognita sul prezzo dei carburanti, poiché il taglio sulle accise scadrà il 20 settembre

Vediamo nel dettaglio i principali settori colpiti dalla crisi economica ed energetica.

Energia.

Allarme per l’impennata del costo del gas, sempre più vicino a 350€/megawattora. Le associazioni dei consumatori calcolano che, purtroppo, solo nel quarto trimestre una famiglia tipo si ritroverà a pagare per le bollette di luce e gas circa 200€ in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.

Secondo Arera, i consumi medi di energia elettrica di una famiglia tipo si aggirano attorno ai 2700 kWh all’anno, per una potenza impegnata di 3 kWp. Per quanto riguarda il gas, invece, i consumi si aggirano attorno ai 1400 m3 annui. Ciò implica che - secondo uno studio dell’Unione nazionale dei consumatori - per i clienti del mercato tutelato la bolletta della luce del quarto trimestre 2022 ammonterà a 280€, contro i 200€ dell’anno precedente. Anche per il gas è prevista una bella impennata: la bolletta passerà da 461€ a 588€ con una stima di rialzo pari a 127€.

Trasporti.

È stato introdotto un nuovo taglio delle accise e IVA sul carburante per il periodo compreso dal 22 agosto al 20 settembre 2022, ma ora rimaniamo in attesa di una nuova proroga. Il decreto ‘Aiuti bis’ ha confermato le misure di sostegno già previste nei mesi scorsi per contrastare gli effetti economici della crisi.

I prezzi della pompa, però, continuano a destare preoccupazioni. Rispetto alle rilevazioni dell’anno scorso, oggi un litro di benzina costa oltre il 7% in più, mentre il diesel è aumentato del 19% circa.

Scuola.

Anche il settore educativo sta subendo le conseguenze della crisi; il caro energia si ripercuote su tutta la filiera dell’istruzione scolastica. La spesa sui libri scolastici, infatti, è destinata a salire di circa 1300€, in aumento complessivamente del 7% sul 2022.

 

Alla vigilia della ripresa dell’anno scolastico le famiglie dovranno fronteggiare il rincaro dei prezzi di diari, astucci, zaini, quaderni e penne. Tutti questi prodotti avranno un prezzo che risulterà aumentato mediamente del 7% rispetto al 2021.

Ristoranti e hotel.

Il settore della ristorazione è tra quelli più colpiti dalla crisi. Basti pensare che, a Roma, per un caffè espresso si pagheranno a settembre circa 20 centesimi in più - afferma il Fiepet-Confesercenti. Pasti più cari fino al 15% nei ristoranti e negli alberghi spunta addirittura la tassa energia: un addebito extra ai clienti per coprire le spese della luce e dell’aria condizionata. Per i bar si stima un possibile aggravio di spesa poco superiore al miliardo di euro.

È allarmante pensare che nel settore del terziario e del turismo la stangata energetica nei prossimi dodici mesi potrebbe arrivare a costare circa 11 miliardi di euro: una maxi-bolletta 8 miliardi più cara rispetto all’anno scorso (sempre secondo stime dei Confesercenti).

Supermercati.

Anche il carrello della spesa sta diventando sempre più caro. Secondi gli ultimi dati diffusi dall’Istat, a luglio 2022 i prezzi dei prodotti alimentari e delle bevande analcoliche sono cresciuti tendenzialmente del 10%, contro il 9% di giugno e il 7,4% di maggio. Se lo stesso trend fosse mantenuto anche per i mesi successivi si assisterebbe a un rialzo dell’11%, pari ovvero a un rincaro di circa 620€ su base annua per una famiglia tipo - una stangata autunnale di 155€.

Il fotovoltaico in aiuto alla crisi energetica.

La situazione appena descritta è davvero grave, ed è proprio per questo motivo che è fondamentale consapevolizzarsi in materia green e agire al più presto.

Passare al fotovoltaico è la soluzione ideale per dimezzare i costi in bolletta e rendersi sempre più indipendenti con il proprio autoconsumo per non sottostare al rincaro dei prezzi. Perseguire uno stile di vita sostenibile, adottare una mobilità sostenibile e installare pannelli solari sul proprio tetto di casa potrebbe davvero fare la differenza in questa grave condizione di crisi energetica ed economica e per contrastare il surriscaldamento globale.

L’energia solare, infatti, è una fonte rinnovabile a che fa bene all’ambiente poiché non produce emissioni di CO2 nell’atmosfera, e dunque contribuisce alla riduzione della carbon footprint. Con l’energia prodotta dai tuoi pannelli solari potrai alimentare tutte le utenze della tua abitazione - persino la tua macchina elettrica! - senza doverti preoccupare dei prezzi esorbitanti delle bollette.

 

 

 

 

L'"operazione militare limitata"

del Cremlino in Ucraina

è stata un errore strategico.

Unz.com- PAUL CRAIG ROBERTS-( SETTEMBRE 6, 2022) -ci dice:

 

La terza guerra mondiale sarà la conseguenza più probabile.

Odio sentire "Te l'avevo detto" ed eccomi qui a usare quelle parole.

Come i lettori sanno, sono stato preoccupato per molti anni che la tolleranza della Russia di insulti e provocazioni senza fine avrebbe continuato a incoraggiare sempre più e peggiori provocazioni fino a quando non saranno superate le linee rosse che si traducono in un conflitto diretto tra le due principali potenze nucleari. In tutti questi anni il Cremlino, incapace di capire, o di accettare, che il suo ruolo di nemico n. 1 di Washington era scolpito nella pietra, si affidò a una strategia di risposte da zero a minime per minare l'immagine di una Russia pericolosa e aggressiva pronta a restaurare l'impero sovietico.

Questa strategia diplomatica, come la strategia ucraina della Russia, è completamente fallita.

La disastrosa strategia ucraina del Cremlino è iniziata quando il Cremlino ha prestato più attenzione alle Olimpiadi di Sochi che al rovesciamento del governo ucraino da parte di Washington.

Gli errori del Cremlino sono stati messi su un percorso accelerato quando il Cremlino ha rifiutato la richiesta del Donbass di ricongiungersi con la Russia come l'ex provincia russa della Crimea.

Ciò ha lasciato i russi del Donbass, precedentemente parte della Russia, a subire persecuzioni da parte delle milizie naziste ucraine, bombardamenti di aree civili e occupazione parziale da parte delle forze ucraine dal 2014 fino al febbraio 2022, quando l'esercito russo ha iniziato a liberare il Donbass dalle forze ucraine al fine di prevenire un'invasione ucraina preparata delle repubbliche del Donbass.

Dopo aver aspettato 8 anni per agire, il Cremlino ora si trovava di fronte a un grande esercito occidentale addestrato ed equipaggiato più fanatici reggimenti nazisti.

Si sarebbe pensato che a quel punto il Cremlino avrebbe imparato dai suoi straordinari errori e si sarebbe reso conto che, alla fine, aveva bisogno di dimostrare di essere stato provocato. Senza alcun dubbio, ciò che è stato richiesto è stato un attacco russo che ha chiuso l'Ucraina, distruggendo il governo, tutte le infrastrutture civili e ponendo fine immediatamente al conflitto. Invece, il Cremlino ha aggravato i suoi errori.

Ha annunciato un intervento limitato, il cui scopo era quello di liberare le forze ucraine dal Donbass. Ha lasciato intatto il governo e le infrastrutture civili del suo nemico, consentendo così al suo nemico di resistere all'intervento a condizioni altamente favorevoli.

Per essere chiari, non c'è dubbio che i russi possono liberare il Donbass dalle forze ucraine e hanno quasi completato il compito. L'errore del Cremlino è stato quello di non rendersi conto che l'Occidente non avrebbe permesso che l'intervento fosse limitato.

Il Cremlino ha avvertito l'Occidente di interferire nell'operazione, dichiarando che se gli Stati Uniti e la NATO fossero stati coinvolti, la Russia avrebbe considerato quei paesi come "combattenti".

 Ma l'Occidente è stato coinvolto, lentamente e con attenzione in un primo momento per testare le acque e poi sempre più aggressivamente come quello che l'Occidente originariamente si aspettava sarebbe stato al massimo un conflitto di una settimana è ora al suo settimo mese con il Cremlino che parla di nuovo di negoziati con Zelensky e l'avanzata russa apparentemente in attesa.

Lungi dal trattare i paesi della NATO come combattenti, il Cremlino fornisce ancora energia all'Europa nella misura in cui l'Europa consente alla Russia di farlo.

 Alti funzionari russi hanno parlato come se dimostrare che la Russia è un fornitore di energia affidabile sia più importante della vita dei suoi soldati che combattono contro le forze occidentali addestrate ed equipaggiate dall'Ucraina fornite da paesi europei le cui industrie di armamenti funzionano con energia russa.

Avevo correttamente previsto che le mezze misure russe avrebbero comportato l'allargamento della guerra.

La correttezza della mia analisi è stata ora confermata da un rapporto di The Hill, una pubblicazione di Washington letta da addetti ai lavori. Il rapporto è intitolato: "Perché gli Stati Uniti stanno diventando più sfacciati con il loro sostegno all'Ucraina" e può essere letto qui: (thehill.com/policy/international/3627782-why-the-us-is-becoming-more-brazen-with-its-ukraine-support/)

Ecco la frase di apertura del rapporto e alcuni estratti:

"L'amministrazione Biden sta armando l'Ucraina con armi che possono causare gravi danni alle forze russe e, a differenza delle prime fasi della guerra, i funzionari statunitensi non sembrano preoccupati per la reazione di Mosca".

"Nel corso del tempo, l'amministrazione ha riconosciuto di poter fornire armi più grandi, più capaci, a lunga distanza e più pesanti agli ucraini e i russi non hanno reagito", ha detto l'ex ambasciatore degli Stati Uniti in Ucraina William Taylor a The Hill.

"I russi hanno bluffato e sbraitato, ma non sono stati provocati. E c'era preoccupazione [per questo] nell'amministrazione all'inizio – c'è ancora in una certa misura – ma la paura di provocare i russi è diminuita", ha aggiunto Taylor, che ora è con l'Istituto per la Pace degli Stati Uniti.

"'All'inizio siamo stati un po' più attenti... non sapendo se Putin avrebbe trovato e attaccato linee di rifornimento e convogli, non essendo sicuro se si sarebbe intensificato, e anche non essendo sicuro se l'Ucraina potesse usare ciò che abbiamo [dato] loro o resistere a lungo contro la Russia ", ha detto Michael O'Hanlon, analista militare presso il think tank Brookings Institution di Washington, DC.

"Da giugno, gli Stati Uniti hanno costantemente aumentato i sistemi missilistici di artiglieria ad alta mobilità nel paese, che i membri del servizio americano hanno addestrato le truppe ucraine a utilizzare in lotti.

Guardando al futuro, diversi rapporti hanno indicato che gli Stati Uniti prevedono di inviare presto munizioni di artiglieria a guida di precisione Excalibur – armi che possono viaggiare fino a 70 chilometri e aiuterebbero gli ucraini a colpire le posizioni e i posti di comando russi scavati.

"Parte del cambiamento nella messaggistica può essere attribuito al fatto che Kiev ha sfidato le aspettative internazionali e non è caduta rapidamente quando la Russia ha attaccato per la prima volta, secondo Nathan Sales, un ex funzionario del Dipartimento di Stato che più recentemente è stato sottosegretario ad interim per la sicurezza civile, la democrazia e i diritti umani".

Come ho detto, l'operazione limitata del Cremlino è stata vista in Occidente come una mezza misura che ha fornito all'Occidente l'opportunità di allargare la guerra.

 Ora, con l'avvicinarsi dell'inverno, il conflitto si sta allargando con spedizioni di potenti armi a lungo raggio in grado di attaccare Donbass, Crimea e altre parti della Russia dall'Ucraina occidentale che è stata risparmiata dall'invasione russa.

Come ho anche detto sarebbe il caso, allungando la guerra con le sue tattiche lente al fine di ridurre al minimo le vittime civili, un intento nobile, la Russia ha dato all'Occidente l'opportunità di caratterizzare l'intervento russo come a corto di vapore da munizioni esauste e alte perdite russe. L'immagine del fallimento russo ha avuto l'effetto che mi aspettavo di rendere l'Occidente più fiducioso sul suo ruolo di combattente. Ecco alcuni estratti dal rapporto di The Hill che confermano che:

"Un'altra parte dell'equazione: l'intelligence recente che indica che la Russia sta sentendo il pungiglione delle sanzioni imposte dall'Occidente e una forza di servizio militare che sta diminuendo di potere mentre la guerra si consuma.

 

"Il mese scorso, Reuters ha riferito che le principali compagnie aeree russe come Aeroflot hanno messo a terra i loro aerei in modo che possano essere spogliati per i pezzi di ricambio, prendendo componenti da alcuni dei loro aerei per mantenerne altri in grado di volare.

E di fronte alle perdite sul campo di battaglia, Putin il mese scorso ha cercato di aumentare il personale di combattimento della Russia di oltre 130.000 soldati eliminando il limite di età superiore per le nuove reclute e incoraggiando i prigionieri ad unirsi.

"I funzionari statunitensi pensano che lo sforzo sia 'improbabile che abbia successo'".

"Nel complesso, l'intelligence dipinge l'immagine di un paese [la Russia] che lotta per mantenere le proprie istituzioni, tanto meno per rispondere alle nazioni occidentali per aver aiutato l'Ucraina.

"Penso che l'istinto delle persone nei dipartimenti e nelle agenzie, in particolare lo Stato e la Difesa e la comunità dell'intelligence, penso che il loro istinto sia quello di essere più inclini in avanti e più aggressivi", ha detto un ex alto funzionario del governo.

"Abbiamo molto più spazio dalla nostra parte, penso, per intraprendere azioni che aiuteranno l'Ucraina senza avere ingiustificatamente paura di come Putin risponderà", hanno aggiunto.

Si può pensare che il Cremlino abbia commesso tutti questi errori perché non voleva spaventare di più l'Europa nella NATO dimostrando la sua abilità militare in una conquista alleggerita dell'Ucraina.

Ma sono le misure a metà strada della Russia che hanno dato alla Finlandia e alla Svezia la fiducia di aderire alla NATO in quanto non vedono alcuna minaccia per sé stessi dall'essere membri della NATO.

Un devastante colpo russo all'Ucraina avrebbe indotto tutta l'Europa a ripensare l'adesione alla NATO poiché nessun paese europeo vorrebbe affrontare la prospettiva di una guerra con la Russia. Invece, ciò che il Cremlino ha prodotto è un primo ministro britannico che è pronto a impegnare la Russia in una guerra nucleare e una NATO che intende mantenere il conflitto ucraino in corso.

Un lettore negligente o ostile potrebbe concludere dal mio articolo che sono un sostenitore del successo militare russo.

Al contrario, sono un sostenitore della minimizzazione del rischio di una guerra nucleare. Steven Cohen ed io siamo i due che fin dall'inizio hanno visto come l'interferenza di Washington in Ucraina con il rovesciamento del governo abbia tracciato un percorso che potrebbe finire nell'Armageddon nucleare.

Cohen è stato insultato dalla sua stessa sinistra liberale, e io sono stato dichiarato un "imbroglione agente di Putin".

La chiamata di nome che abbiamo sofferto ha dimostrato il nostro punto. Il mondo occidentale è cieco alle potenziali conseguenze delle sue provocazioni sulla Russia, e il Cremlino è cieco alle potenziali conseguenze della sua tolleranza delle provocazioni.

Come possiamo vedere, nessuna delle due parti è ancora arrivata a questa realizzazione. Il rapporto di Hill dimostra la correttezza della mia analisi della situazione e la mia previsione che il risultato sarebbe stato un allargamento della guerra e una maggiore probabilità di errori di calcolo che potrebbero portare a una guerra nucleare.

Il pensiero conforme

dell’Imbecille globale.

Marcelloveneziani.com-Marcello Veneziani-(18 novembre 2020) -ci dice:

 

A parte il corso permanente e intensivo di angoscia e terrore causa pandemia, ogni mattina, pomeriggio e sera, ovunque tu sei e a qualunque fonte d’informazione ti colleghi – video, radio, giornali, web ma anche film, concerti, omelie, lezioni a scuola o all’università, discorsi istituzionali – c’è un Imbecille Globale che ripete sempre lo stesso discorso:

“Abbattiamo i muri, niente più frontiere tra popoli, fedi, razze, sessi e omosessi, non più chiusure in nazioni, generi, famiglie, tradizioni ma aperti al mondo”.

Te lo dice come se stesse esprimendo un’acuta e insolita opinione personale, originale; finge di ribellarsi al conformismo della chiusura e al potere del fascismo (morto da 75 anni) mentre lui, che coraggioso, che spregiudicato, è aperto, non si conforma, ha la mente aperta, il cuore aperto, le braccia aperte, è cittadino del mondo.

 Sfida i potenti, lui, che forte.

Sta ripetendo all’infinito, da imbecille prestampato qual è, il Catechismo Precompilato dei Cretini Allineati al Canone del Tempo. Tutti per uno, uno per tutti. L’Imbecille è globale perché lui sa dove va il mondo e si sente cittadino del mondo. L’idiota planetario si moltiplica in mille versioni.

 

C’è l’Imbecille Cantante che dal palco, ispirato direttamente dal dio degli artisti, dichiara che lui canta contro tutti i muri e tutti i razzismi. Che eroe, sei tutti noi.

Poi vedi l’Imbecille Attore o Regista che dal podio lancia il suo messaggio originale e assai accorato, perfettamente uguale a quello del precedente cantautore, ma lui lo recita come se l’umanità l’ascoltasse per la prima volta dalla sua viva voce. “Io non amo i muri, non mi piace chi vuole alzare muri” Che bravo, che anticonformista.

Segue a ruota l’Imbecille Intellettuale, profeta e opinionista che per distinguersi dal volgo rozzo e ignorante, dichiara anche lui la Medesima Cosa, sui muri ci piscio, morte al razzismo, morte a Hitler (defunto sempre da 72 anni), viva l’accoglienza, i neri, i gay e i trans.

 L’Idiota Collettivo, versione ebete dell’Intellettuale Collettivo post-gramsciano, non pensa in proprio ma scarica l’app ideologica che genera risposte in automatico.

Poi c’è l’Imbecille a mezzo stampa o a mezzobusto che riscrive o recita ispirato l’identica pisciatina contro i Muri.

E poi c’è il Presidente o la Presidente, che in veste d’Imbecille Istituzionale, esprime lo stesso, identico Concetto, col piglio intrepido di chi sfida i Poteri Forti (ai cui piedi è accucciato o funge da zerbino).

Non c’è film, telefilm, concerto, spettacolo teatrale o sportivo, gag e omelia tv in cui non si ribadisca la lotta tra il Bene e il Male: Aperti e Filantropi contro Chiusi & Ottusi, Accoglienti contro Razzisti, Omofili contro Omofobi, Xenofili contro Xenofobi e Negrofobi. Voi quelli del Muro, noi quelli del Telepass. Le bestie da scacciare sono quasi sempre vaghe, anonime, mitologiche; e già, il male è sempre oscuro, cospira nel buio, non ha volto, solo maschere storiche o ridicole.  Ma il repertorio è ricco di bersagli, quasi tutti definiti sovranisti.

Tu senti uno, cambi canale e ne senti un altro idem, spegni la tv e senti alla radio un altro ma il Discorso è sempre quello, apri il giornale e leggi ancora l’Identica Opinione; a scuola idem con patate, all’Università peggio-mi-sento, i Palloni Gonfiati dai media compilano lo stesso Modello Unico.

 Nessuno di loro è sfiorato da dubbi, invece a te sorge un primo dubbio: è un’allucinazione o è sempre la stessa persona, l’Imbecille Globale, che cambia veste, fattezze e mansioni e ripete all’infinito l’Identico Discorso?

Segue un secondo dubbio: ricordo male o eravamo in democrazia, che vuol dire libertà e pluralismo, cioè opinioni libere e divergenti a confronto?

 Loro non credono alla Verità, sono relativisti, però guai a dissentire dal Discorso Obbligato con fervorino finale anti-Muro. Ma possibile che tutti la pensino allo stesso modo, conformi, allineati e omologati, e ritengano che la cosa più urgente e più importante del momento, il Messaggio Unisono da dare all’Umanità sia sempre quello?

 Allora ti sorge un terzo dubbio.

 E se l’Imbecille Globale a reti unificate fosse il Grande Fratello del nostro tempo? Se fosse lui il Portavoce multiplo del Non-Pensiero Unico, cioè del nuovo regime totalitario-globalitario?

 E se fosse proprio quell’Uniformità Totale e quel corale accodarsi la miseria prioritaria del nostro tempo?

Non so voi, ma io di quell’Imbecille Planetario che ripete il Discorso Unico e Identico all’Infinito, non ne posso più.

 

Ci salverà la scienza,

 anzi il miracolo.

Marcelloveneziani.com-Marcello Veneziani- (8 settembre 2022) -ci dice:

 

Più di mezzo secolo fa un filosofo venuto dall’idealismo e dal fascismo, allievo di Giovanni Gentile, capì che il mondo andava verso la globalizzazione; la scienza e la tecnica avrebbero preso il posto della filosofia e della politica.

Quel filosofo si chiamava Ugo Spirito e non fece in tempo a vedere avverarsi le sue previsioni perché morì alla fine degli anni settanta.

Ora è uscita una raccolta di suoi scritti giornalistici degli anni settanta, “L’avvenire della globalizzazione” (Luni editrice), a cura di Danilo Breschi che ha scritto pure un ampio saggio introduttivo. C’è tutto il pensiero ultimo di Spirito, antimetafisico, antireligioso, antiliberale, e c’è pure la sua errata previsione sulla globalizzazione scientista: non avrebbe liquidato l’individualismo e generato una società collettivista, almeno da noi in Occidente.

 Al contrario, l’unificazione del mondo si sposa a una società atomistica di masse solitarie e narcisiste; l’uniformità non ha generato l’avvento del collettivismo né uno Stato mondiale.

Spirito propose la filosofia come ricerca incessante, amore e problema. Il suo scientismo filosofico gli fece perdere la considerazione dei filosofi senza guadagnare quella degli scienziati e dei tecnocrati. Da emarginato finì i suoi anni, condannato, lui rivoluzionario, scientista, socialista e mondialista a trovare udienza nel mondo conservatore, antiscientista e nazionalista, e perfino cattolico tradizionale; scrisse pure un elogio dello Scià di Persia.

Anche in queste pagine Spirito critica la partitocrazia e la democrazia parlamentare e sostiene la corporazione proprietaria che propose in pieno fascismo, con l’appoggio di Mussolini, poi bocciata dal regime.

 Da anziano ipotizzò la rappresentanza per competenze tecnico-scientifiche al posto dei partiti. Lui umanista, fu teorico della tecnocrazia; lui idealista, si affidò alla scienza.

Nel clima della Contestazione, mentre dominava il dogma tutto è politica, Spirito prefigurava al contrario la spoliticizzazione, il rifiuto dell’ideologia, il trionfo della cibernetica e della bioingegneria.

Non a torto Augusto Del Noce, che dialogò con lui in un memorabile libro sull’Eclissi o tramonto dei valori tradizionali, individuò in lui l’anti-Marcuse.

Ma sulle ceneri della Contestazione non nacque la rivoluzione scientista, semmai il dominio neocapitalista che non supera la società borghese e individualista ma la universalizza.

L’espansione della tecnica, a suo dire, avrebbe provocato la fine dell’individualismo borghese (come pensò su altri versanti Ernst Junger) e l’avvento dell’monocentrismo al posto dell’egocentrismo.

Spirito riteneva che i valori tradizionali e religiosi fossero incentrati sull’individualismo, dunque liberandosi dalla società tradizionale la rivoluzione scientifica avrebbe instaurato il collettivismo.

Invece un tratto costitutivo della società tradizionale è il suo spirito comunitario, solidale, antiegoistico. L’espansione della tecnica unita al benessere ha scatenato l’individualismo planetario, o quantomeno occidentale, disintegrando le comunità nel villaggio globale. Spirito pensava che l’uniformità, la standardizzazione, avrebbero condotto per via tecno-scientifica al comunismo, a cui “è vano pensare di sottrarsi”, come scrisse in Inizio di un’epoca. “Il mondo della politica – scrive Spirito – deve gradualmente dissolversi e tradursi nel mondo della scienza, in cui acquistare quel carattere di universalità che ancora gli manca”.

Anche Gentile pur nel suo attualismo immanentistico non liquidò mai la tradizione e il senso religioso.

Spirito invece concepì il “suo”fascismo, il “suo”comunismo e il “suo” scientismo nel segno del laicismo e dell’immanentismo radicale.

Anzi, sul piano storico vide la fine del fascismo e dell’italo-comunismo nell’abbraccio mortale con il cattolicesimo, irretito il primo dai Patti Lateranensi e il secondo dal Compromesso storico nel segno del cattocomunismo.

Compromettersi col cattolicesimo coincideva per lui con imborghesirsi e farsi conservatori. Per lui l’antifascismo era la prosecuzione discendente e reazionaria del fascismo: non a caso le basi della Costituzione sono il Concordato, il codice Rocco e la Riforma Gentile (ma si potrebbero aggiungere anche le leggi sull’ambiente di Bottai), di derivazione fascista.

Pur auspicando il collettivismo, Spirito difese gelosamente il suo spirito individuale: non a caso nella sua autobiografia, Memorie di un incosciente, dedicò i capitoli al “mio” fascismo, al “mio” comunismo, al “mio” problematicismo.

Altro suo paradosso è aver considerato irreversibile il corso della storia ma di essere poi andato sempre controcorrente. “Sono stato fatto dalla realtà” è la confessione onesta e amara di Spirito; è la disfatta di ogni idealismo, a cui però non seguì il suo adeguarsi ai tempi.

Sognò il monocentrismo ma avvertì che “il mito del Superuomo può divenire una realtà effettiva, con conseguenze inimmaginabili”.

Il dominio delle oligarchie era un destino già scritto nell’espansione illimitata della tecnica, gli avrebbe obiettato Heidegger.

Nei suoi ultimi scritti, Spirito cedette all’amarezza e disse di “non avere più nulla da insegnare…nulla da dire”. Si lasciò sfuggire perfino un’invocazione metafisica o religiosa: “Non ci resta che il miracolo”, che precede di poco l’”ormai solo un dio ci può salvare” di Heidegger.

Il tormento di Spirito fu colto da un papa intellettuale come Paolo VI che cercò vanamente la conversione di Spirito e poi di Prezzolini, altro scettico d’antico pelo. Spirito restò fedele al suo antico positivismo, e considerò la fede come mito e superstizione.

In questi scritti Spirito critica il femminismo e l’antifascismo, e confida che la scienza ci salverà dall’inquinamento.

Troppa fiducia mal riposta nella scienza. Infatti alla fine della vita Spirito confidò nelle “sorprese” della storia e nell’attesa del miracolo.

(La Verità-8 settembre 2022)

 

 

 

Ma i temi caldi sono fuori

dalla lotta per il potere.

 

Marcelloveneziani.com- Marcello Veneziani- (6 settembre 2022) - ci dice:

Il nostro sistema politico è un cane a sei zampe come la bestia simbolica della nostra principale azienda di energia. E come il cane a sei zampe, lancia fiamme dalla bocca come un drago. Da una parte Meloni, Salvini e Berlusconi (o la sua controfigura Tajani) e dall’altra, in ranghi sparsi, Letta, Calenda e Conte. Li abbiamo visti tutti insieme (Conte era collegato) a Cernobbio.

Sembra che la partita in gioco sia una sorta di ordalia, di battaglia finale tra opposte visioni del mondo.

Sembra, ma non lo è.

 Sul piano politico-elettorale, come abbiamo scritto domenica scorsa, c’è un solo candidato politico a Palazzo Chigi, Giorgia Meloni, e contro di lei gioca compatta, benché divisa, la Paura.

Ma sul piano delle visioni politiche la realtà è molto diversa. Nell’arco degli ultimi due anni sono venuti al pettine almeno quattro nodi cruciali che hanno spaccato il nostro Paese.

Il primo è sui vaccini, il green pass, la polarizzazione tra sì-vax, sempre e comunque, e no-vax, o almeno non sempre e in ogni caso. Con varie sfumature e gradazioni, nessuno dei sei ha davvero voglia di interrogarsi, non tanto per il passato quanto per il futuro, sul determinismo vaccinista e sulla forbice danni-vantaggi del lockdown.

E nessuno ha voglia e interesse a rappresentare il dissenso radicale che in questi anni è emerso nel nostro paese, su una linea che ci è costata in rapporto alla popolazione un numero tra i più alti di vittime al mondo.

 

Il secondo nodo è la guerra in Ucraina che spacca l’Italia in due, tra sostenitori della lezione da dare alla Russia, ad ogni prezzo, anche il nostro tracollo economico; e sostenitori della trattativa, bocciando le sanzioni che nuocciono a noi prima che a Putin, e lo spingono a rinsaldare i suoi rapporti a Oriente, a partire dalla Cina. Anche qui, a parte un mezzo, e ragionevole, dissenso di Salvini sulle sanzioni, le forze politiche in campo non osano rimettere in discussione l’affiliazione cieca, pronta e assoluta ai dettami della Nato e agli interessi degli Stati Uniti.

 Il tema non riguarda la benevolenza o la malevolenza verso Putin ma il primato dei nostri interessi nazionali, europei e mediterranei, unito alla prova sul campo che la nostra posizione antirussa non è servita a fermare o frenare il conflitto, semmai a renderlo ancora più lacerante e duraturo, con ricadute pazzesche su vari campi.

Il terzo nodo, strettamente legato al precedente, è la nostra passiva e totale remissione all’Europa che le sta sbagliando tutte e ora ci coinvolge in questa drammatica escalation del caro energie.

 Un’Europa imbelle e così autolesionista che è riuscita a mettere in fila una serie di danni a sé stessa, fino a mortificare l’euro ed esaltare il dollaro.

Ma nessuno dei sei leader, salvo lievi spostamenti d’accento, osa criticare le direttive europee e il dominio incapace dei suoi rappresentanti. Scomparsa dai radar è naturalmente l’ipotesi di rimettere in discussione la nostra appartenenza a questa Unione Europea, almeno così concepita e guidata.

Il quarto nodo è la sintesi e il frutto dei precedenti e si riassume nel tema emergenza economica ed energetica. Nessuno dei sei protagonisti si discosta dall’agenda Draghi, nessuno osa rimettere in discussione il modello vigente, e tantomeno nessuno osa criticare il capitalismo globale e i suoi profitti in questa situazione d’emergenza sanitaria, militare ed economica.

Un po’ fanno scena Conte e i grillini, ma ricordandoci di quando erano al governo; è solo fuoco di paglia per catturare i voti dei beneficiari del reddito di cittadinanza. L’approccio alla crisi e all’emergenza economica ed energetica prevede alcune differenze ma nessun salto, nessuna svolta; è tutto dentro i canoni dell’euro draghismo e dell’ossequio ai giganti economici sovranazionali.

La contrapposizione netta sul piano politico-elettorale diventa invece sostanziale omogeneità nelle direttive di fondo e nella dipendenza dalle vecchie zie sovranazionali. Sono tutti insider, cioè dentro il sistema.

Ci sono poi gli outsider tra cui spiccano due forze, Italexit di Paragone e Italia sovrana e popolare di Marco Rizzo e Ingroia.

Il primo nome ci piace poco, ricorda le cliniche della morte in Svizzera; il secondo è meglio, però quell’Ingroia… Essendo fuori dal sistema, non avendo possibilità di incidere nelle politiche di governo, possono permettersi il lusso di essere contro, e di interpretare quei quattro punti indicati in modo antagonistico rispetto al cane a sei zampe.

Ma non hanno alcuna possibilità di incidere perché ormai c’è una legge inesorabile del potere: puoi accedervi se sei dentro quel quadro e i suoi quattro lati, altrimenti vivi ai margini raccogliendo consensi ribelli ma sterili.

 

è il nuovo voto di testimonianza, libero sfogo e nient’altro. Peraltro le ragioni della ribellione differiscono tra loro, neanche le due forze anzidette sono riuscite a riunirsi; e se pensiamo per esempio alla destra radicale non la vedrei rappresentata da nessuno dei due, per biografia e intendimenti dei leader. A quanto ammonta questa fascia di dissenso?

 Ragionando a spanne si tratta di almeno dieci milioni di cittadini, alcuni concentrati su uno solo dei punti anzidetti. Si divideranno in più rivoli: quelli che non andranno a votare, quelli che ripiegheranno sul male minore tra le sei forze principali in campo, e quelli che si divideranno tra i due movimenti di protesta o altri minori. Ma non influiranno sugli assetti futuri.

Il problema è decidere se il voto serve per testimoniare un dissenso, sapendo che non darà frutti, o per scegliere ciò che meno ci dispiace o almeno impedire che vinca ciò che più ci dispiace. La partita del voto si può leggere almeno in due modi: quella tra Meloni e la Paura, e quella tra insider e outsider, cioè dentro e fuori dal sistema, sapendo che entrambi ci resteranno. Scelte ambedue comprensibili; la prima è realista, la seconda è simbolica. Fate voi.

(La Verità - 6 settembre 2022)

 

 

 

LE ORIGINI DEL TOTALITARISMO.

Filosofico.net- Hanna Arendt- a cura di Diego Fusaro- (10-10-2021) – ci dice:

 

Come molte altre opere di grandi autori, anche " Le origini del totalitarismo " della Arendt è comparsa in un momento politico-culturale (1951), data centrale della guerra fredda che ne ha reso quasi obbligatoriamente unilaterali la lettura e l'interpretazione.

L'assimilazione di nazismo e stalinismo, infatti, impedì allora una lettura serena dell'opera da parte dell'intellettualità di sinistra, per la quale la Arendt per molti anni sarebbe rimasta l'esponente di un pensiero politico liberale e neo-conservatore.

 In realtà le preferenze politiche della Arendt andavano ad un tipo di società socialista vicina alle idee della Luxemburg e alle tematiche consiliari, come sarebbe stato evidente qualche anno dopo.

 L'opera, grande anche nel senso della voluminosità (circa 700 pagine), individua i caratteri specifici del totalitarismo dopo averne riscontrato le premesse nell'antisemitismo (studiato nel periodo fra Otto e Novecento, specialmente in Francia con l'"affaire Dreyfus") e nell'imperialismo, temi ai quali sono dedicati i due terzi dell'opera.

Dal confluire delle conseguenze dell'antisemitismo e dell'imperialismo in un preciso momento storico (la crisi successiva alla prima guerra mondiale) è nato il totalitarismo, con caratteri comuni sia nella Germania nazista sia nell'Unione sovietica stalinista (del tutto marginale è l'attenzione rivolta al fascismo italiano).

Il totalitarismo è un fatto nuovo del nostro secolo, non assimilabile o riducibile, secondo la Arendt, ai tradizionali regimi tirannici o dittatoriali.

 Esso nasce dal tramonto della società classista, nel senso che l'organizzazione delle singole classi lascia il posto ad un indifferenziato raggrupparsi nelle masse, verso le quali operano ristretti gruppi di élites, portatori delle tendenze totalitarie.

Tali tendenze, dopo la vittoria politica sulle vecchie rappresentanze di classe, realizzano il regime totalitario, che ha i suoi pilastri e nell'apparato statale, nella polizia segreta e nei campi di concentramento nei quali si rinchiudono e si annientano gli oppositori trasformati in nemici.

Attraverso l'imposizione di una ideologia (razzismo, nazionalsocialismo, comunismo) e il terrore, il totalitarismo, identifica se stesso con la natura, con la storia, e tende ad affermarsi all'esterno con la guerra. Nulla di simile era apparso prima: il totalitarismo è un fenomeno " essenzialmente diverso da altre forme conosciute di oppressione politica come il dispotismo, la tirannide e la dittatura.

Dovunque è giunto al potere, esso ha creato istituzioni assolutamente nuove e distrutto tutte le tradizioni sociali, giuridiche e politiche del paese. A prescindere dalla specifica matrice nazionale e dalla particolare fonte ideologica, ha trasformato le classi in masse, sostituito il sistema dei partiti non con la dittatura del partito unico ma con un movimento di massa, trasferito il centro del potere dall'esercito alla polizia e perseguito una politica estera apertamente diretta al dominio del mondo ".

La Arendt accentua, nelle pagine di considerazione teorica che concludono l'opera, il ruolo nuovo svolto dalle ideologie, unite al terrore, nei regimi totalitari. Le ideologie, con logica stringente, impongono una visione del mondo in cui le idee incarnate nel regime totalitario vengono imposte come direttrici di un cammino fatale, inevitabile, naturale e storico insieme.

In un regime totalitario l'ideologia " è la logica di un'idea. La sua materia è la storia a cui l' idea è applicata, il risultato di tale applicazione non è un complesso di affermazioni su qualcosa che è, bensì lo svolgimento di un processo che muta di continuo.

L'ideologia tratta il corso degli avvenimenti come se seguisse la stessa legge dell'esposizione logica della sua idea.

Essa pretende di conoscere i misteri dell'intero processo storico - i segreti del passato, l'intrico del presente, le incertezze del futuro - in virtù della logica inerente alla sua idea ".

La Arendt si pone, alla fine, una domanda: " quale esperienza di base nella convivenza umana permea una forma di governo che ha la sua essenza nel terrore e il suo principio d'azione nella logicità del pensiero ideologico? ".

La risposta viene data individuando tale esperienza di base nell'isolamento dei singoli nella sfera politica, corrispondente alla estraniazione nella sfera dei rapporti sociali.

Quest'ultima, in sostanza, sta alla base dell'isolamento sul piano politico, e quindi costituisce la condizione generale dell'origine del totalitarismo.

" Estraniazione, che è il terreno comune del terrore, l'essenza del regime totalitario e, per l'ideologia, la preparazione degli esecutori e delle vittime, è strettamente connessa allo sradicamento e alla superfluità che dopo essere stati la maledizione delle masse moderne fin dall'inizio della rivoluzione industriale, si sono aggravati col sorgere dell'imperialismo alla fine del secolo scorso e con lo sfascio delle istituzioni politiche e delle tradizioni sociali nella nostra epoca.

Essere sradicati significa non avere un posto riconosciuto e garantito dagli altri; essere superflui significa non appartenere al mondo ".

E ancora: " quel che prepara così bene gli uomini moderni al dominio totalitario estraniazione che da esperienza al limite, usualmente subita in certe condizioni sociali marginali come la vecchiaia, è diventata un'esperienza quotidiana delle masse crescenti nel nostro secolo.

L'inesorabile processo in cui il totalitarismo inserisce le masse da esso organizzate appare come un'evasione suicida da questa realtà " .

Risuonano in questi passi gli echi di un pessimismo ebraico che negli anni '30 e '40 trovava manifestazione filosofica con tematiche non molto dissimili, in Benjamin, in Horkheimer e in Adorno.

Le tesi della Arendt, come quelle dei suoi amici appena citati, avranno ampia diffusione, ma verranno anche ampiamente discusse nel dibattito teorico che ha impegnato nei successivi decenni i pensatori politici europei e statunitensi. Arendt si considerava una scopritrice di problemi attuali, ma i tre elementi (antisemitismo, imperialismo e razzismo) in cui condensava la sua analisi, erano ciascuno espressione di un problema, o di un insieme di problemi, per i quali era stato il nazismo ad offrire, quando essi si erano "cristallizzati", una "soluzione" tremenda.

Così, l'alternativa metodologica scelta da Arendt fu quella di individuare gli elementi principali del nazismo, risalire alle loro origini, e scoprire i problemi politici reali alla loro base, " scopo del libro non è dare delle risposte, bensì preparare il terreno ". Arendt presenta gli elementi del nazismo e i problemi politici che ne stavano alla base. L'imperialismo, quello che ha raggiunto il suo pieno sviluppo, cioè il totalitarismo, è visto come una "amalgama" di certi elementi presenti in tutte le situazioni politiche del tempo. Questi elementi sono l'antisemitismo, il decadimento dello stato nazionale, il razzismo, l'espansionismo fine a sé stesso e l'alleanza fra il capitale e le masse.

" Dietro ciascuno di questi elementi si nasconde un problema irreale e irrisolto: dietro l'antisemitismo, la questione ebraica; dietro il decadimento dello Stato nazionale, il problema irrisolto di una nuova organizzazione dei popoli; dietro il razzismo, il problema irrisolto di una nuova concezione del genere umano; dietro l'espansionismo fine a sé stesso, il problema irrisolto di riorganizzare un mondo che diventa sempre più piccolo, e che siamo costretti a dividere con popoli la cui storia e le cui tradizioni sono estranee al mondo occidentale. La grande attrazione esercitata dal totalitarismo si fondava sulla convinzione diffusa, e spesso consapevole, che esso fosse in grado di dare una risposta a tali problemi, e potesse quindi adempiere ai compiti della nostra epoca ".

In una serie di lezioni tenute nel 1954 alla "New School for Social Research" di New York, Arendt chiarisce l'immagine della "cristallizzazione", con una dichiarazione metodologica che è assente nelle stesure delle Origini del totalitarismo: " gli elementi del totalitarismo costituiscono le sue origini, purché per origini non si intenda cause.

 La causalità, cioè il fattore di determinazione di un processo di eventi, in cui un evento sempre ne causa un altro e da esso può essere spiegato, è probabilmente una categoria totalmente estranea e aberrante nel regno delle scienze storiche e politiche. […] Gli elementi divengono l'origine di un evento se e quando si cristallizzano in forme fisse e definite. Allora e solo allora, sarà possibile seguire all'indietro la loro storia. L'evento illumina il suo stesso passato, ma non può mai essere dedotto da esso ".

 

Gli elementi del totalitarismo: secondo Arendt, quindi, il totalitarismo è composto da "elementi" che si sono sviluppati precedentemente e si sono "cristallizzati" in un nuovo fenomeno dopo la prima guerra mondiale. Questi elementi forniscono la struttura nascosta del totalitarismo. L'impulso all'espansione senza limiti era nelle sue origini un fenomeno economico, qualcosa di inerente all'avanzata del capitalismo. Il capitalismo era impegnato nella trasformazione della proprietà da stabile, fissa, in una ricchezza mobile; la conseguenza fondamentale di questo processo fu quella di generare sempre più ricchezza in un processo senza fine. Fino a che questo rimase un fenomeno puramente economico esso era sì distruttivo, ma non catastrofico.

 Il pericolo diventò " la trasformazione di pratiche economiche in un nuovo tipo di politica della competizione assassina e dell'espansione senza limiti ". Il significato dell'era imperialista per Arendt è che l'imperativo di espandersi uscì dalla logica economica e prese forza nelle istituzioni politiche.

Lo stato-nazione fu fortemente messo in crisi dall'imperialismo. Dove l'imperialismo dà spazio alle forze incontrollabili dell'espansione e della conquista, lo stato-nazione è un'istituzione creata da individui, una struttura civilizzata che fornisce un ordine legale e garantisce diritti, tramite i quali l'individuo può essere legislatore e cittadino.

 C'è una profonda tensione tra la nozione di stato come garante di diritti, e l'idea della nazione come una comunità esclusiva. Fin dalla nascita dello stato-nazione questo fatto creò difficoltà per gli ebrei: infatti, l'ideale dei diritti umani non divenne fondamentale se non dopo la prima guerra mondiale, e le conseguenze di essa sulle minoranze nazionali e le persone senza patria ("displaced persons"). Il capitolo delle "Origini" sul declino dello stato nazione, spiega perché ci furono così pochi ostacoli al massacro degli ebrei, e dimostra la necessità di costruire un nuovo ordine politico che non possa abolire diritti civili e politici per un gruppo di persone.

 Quello che il destino delle persone senza patria ha dimostrato, così sostiene Arendt, è che i diritti umani universali che sembravano appartenere agli individui, potevano solo essere reclamati da cittadini di uno stato. Pertanto, per chi era fuori da questa categoria, i diritti inalienabili della persona erano senza significato.

 Ne sono un esempio gli ebrei che, non avendo uno stato in cui identificarsi come popolo, ed un territorio definito in cui poter vivere, sono stati privati, come apolidi, del diritto di cittadinanza, e con esso di una tutela giuridica come soggetti di personalità. Il problema non era quello di godere di un'eguaglianza di fatto davanti alla legge come persone, ma la negazione del fondamentale diritto umano e cioè il "diritto di avere diritti", che significa il diritto di appartenere ad una comunità politica.

 Arendt sottolinea che il razzismo non è una forma di nazionalismo, ma, è in diversi modi, il suo opposto. Il nazionalismo genuino è strettamente legato ad uno specifico territorio e una cultura, e quindi alle azioni e traguardi raggiunti da particolari esseri umani.

 La razza, al contrario, è un criterio biologico, determinato dal territorio e dalla cultura, e si riferisce a caratteristiche naturali fisiche. Dove le persone sono identificate per i loro caratteri razziali innati, le differenze individuali e la responsabilità individuale diventano irrilevanti: una persona semplicemente agisce come un coro delle caratteristiche razziali di quella specie. Il determinismo razzista, con la distinzione tra razze superiori e inferiori, fornisce una perfetta giustificazione per la conquista imperialista e la sottomissione delle popolazioni native.

 La plebe è un precedente di quello che sarà la massa per gli ebrei nel totalitarismo: i suoi rappresentanti sono "senza mondo" perché hanno perso uno spazio stabile di riferimento, una identità, non hanno aspettative da condividere con altri, non hanno prospettiva per guardare il mondo, sono esposti alla manipolazione ideologica, vivono in una condizione di sradicamento.

L'alleanza tra il capitale e la plebe dimostra che il sottoproletariato può essere facilmente reclutato per commettere atrocità (Arendt prende come riferimento la descrizione di Conrad in "Cuore di tenebra"): la plebe era costituita dagli " scarti di tutte le classi e tutti gli strati ", erano avventurieri e cercatori d'oro asserviti dall'imperialismo, " scaraventati fuori dalla società ", non credevano in nulla, potevano anzi indursi a credere a ogni cosa, a qualsiasi cosa.

L'irresponsabilità di questo nuovo strato e la corrispondente ritirata su tutte le questioni morali, andava di pari passo con la possibilità della trasformazione della democrazia borghese in un dispotismo: infatti la plebe era un prodotto diretto della società borghese e quindi non separabile da essa.

La spregiudicata politica di potenza poté essere attuata solo con l'aiuto di una massa di persone prive di principi morali e perfettamente manipolabili. Nel mondo irreale dell'Africa Nera non si assassinava un individuo se si uccideva un indigeno, ma un sub-umano, una larva che suscitava solo il dubbio di appartenere alla stessa comunità umana.

Qui il riferimento alla Shoah è evidente: dove la plebe è servita all'imperialismo per la sua brama di conquista, così la massa è servita al totalitarismo per i suoi obiettivi di distruzione degli ebrei.

 Arendt sostiene che l'antisemitismo venne usato dal regime nazista come un "amalgamato re" per la costruzione del totalitarismo, perché esso era legato ad ognuno degli elementi che aveva identificato. La plebe, che odiava la società, alla quale non apparteneva più, poté essere facilmente condotta a provare ostilità nei confronti di un gruppo come gli ebrei che era metà fuori e metà dentro la società.

L'ideologia razzista, in nome della quale i movimenti totalitari erano mobilitati, aveva bisogno di un equivalente in Europa dei nativi d'Africa, e gli ebrei erano adatti a tale ruolo. I movimenti totalitari avevano bisogno di demolire le mura vacillanti dello stato-nazione per edificare nuovi imperi. Gli ebrei, che avevano consolidato una loro identità senza territorio e uno stato, apparvero come le uniche persone che, apparentemente, erano già organizzate come un corpo politico razziale.

Gli ebrei si erano disinteressati alla politica e al potere politico, e questo disinteresse per la politica li aveva portati a non capire il pericolo enorme che costituiva per loro l'antisemitismo moderno, e la forza distruttiva che esso veicolava.

Gli ebrei scambiarono a torto questo antisemitismo, che aveva radici economiche, politiche, sociali, religiose e psicologiche, con il vecchio odio che dall'antichità aveva generato i pogrom. Nessuno comprese che il problema a questo punto era di tipo politico. Solo l'uguaglianza giuridica e politica protegge gli individui e le nazionalità da discriminazioni e persecuzioni.

Promulgando le leggi razziali di Norimberga, i nazisti crearono una "razza" perché crearono un gruppo d'uomini privi di diritti e differenti sul piano giuridico.

L'antisemitismo del Novecento ha sostituito all'odio religioso di altri tempi il rifiuto della differenza, il rifiuto di accordare il rispetto all'altro per le sue stesse caratteristiche.

 E tale rifiuto si maschera dietro il rispetto della normalità, dietro il conformismo, ma può arrivare fino al caso estremo della difesa biologica della razza.

 

 

 

La sinistra fa paura:

Tra aborto, gender, eutanasia, Covid, politicamente corretto, pensiero unico, cancel culture, ecc. (ossia tutto quanto già accade nel mondo governativo” Dem Usa e Ue”)

Laverita.info-Boni Castellane- (11 settembre 2022) – ci dice:

 

Per i progressisti il pericolo è a destra. Ma le loro politiche nel mondo accentuano i fattori disgreganti delle società.

La sinistra grida al pericolo, ma dove domina fa molta paura.

In tutto il mondo, quella cosa post marxista dal punto di vista economico che prende il nome di “Sinistra”, basa le proprie campagne elettorali sull’ idea centrale di “pericolo”.  

C’è sempre il “rischio” che vincano gli altri, da Joe Biden a Enrico Letta, se loro perdono le elezioni c’è il “pericolo fascista” che incombe. Come tutte le conservatrici, la Sinistra sta implicitamente dicendo che questo mondo va sostanzialmente bene così, si tratta solo di farlo governare dalle brave persone (che sono loro) e se la Destra prova a cambiare qualcosa o a opporsi a qualche narrazione allora, come nel miglior copione progressista, “si torna indietro”.

Il punto debole di questa narrazione non consiste tanto nella presunta superiorità morale di coloro che dicono senza di loro tutto va in rovina – a questa cosa non crede ormai più nessuno – quanto nel fatto che il “rischio”, il “pericolo” sia sempre qualcosa di vago, non specificato.

Nel caso italiano, ad esempio, molti raffinati intellettuali con la terza media stanno sostenendo che se vincesse Giorgia Meloni “aborto e divorzio sarebbero a rischio”.

Magari, signora mia, ma al massimo si tratta di applicare una legge, la 194, per come è stata scritta e non per come è diventata, cioè un metodo contraccettivo tra gli altri.

Certo che il concetto di “pericolo per la democrazia” è forte, serve infatti a mobilitare gli indecisi, non a caso un disperato Biden lo sta usando in maniera francamente caricaturale dicendo che Donald Trump va fatto tacere  perché se rivincesse farebbe tacere gli altri.

Ma riflettiamo sul concetto “pericolo”: cosa ci dicono le politiche attuate dalla Sinistra del mondo negli ultimi anni?

In Nuova Zelanda, Jacinda Arden dopo aver vaccinato il 96 % della popolazione ha pensato bene di imporre il confinamento in casa per perseguire la politica “Zero Covid” e arrestando chi usciva per manifestare contro le misure;

in Canada, Justin Trudeau ha bloccato i conti correnti di coloro che manifestavano contro le restrizioni pandemiche, arrestando anche lui i manifestanti e comminando multe fino a 30 mila dollari. E non si tratta solo della Pandemia: sempre in Canada, proprio in questi giorni, la rivista scientifica “Lancet”, ha lanciato l’allarme in riferimento alla nuova legge sull’eutanasia in base alla quale potranno essere soggetti di eutanasia passiva tutti i disabili mentali e gli affetti da demenza.

Negli Stati Uniti, mentre la Corte Suprema fa chiarezza sull’aborto, in alcuni Stati progressisti i liberal USA stanno avanzando proposte per l’aborto postnatale e per prevedere la liberalizzazione del trattamento ormonale per il blocco della pubertà negli adolescenti.

In tutto il mondo la scuola e l’università sono sotto attacco del “movimento WOKE”, espressione della Sinistra oltranzista, secondo il quale la storia antica non va studiata perché propone modelli sbagliati, Shakespeare non va studiato perché i suoi personaggi sono omofobi e ogni autore, prima di poter essere studiato, deve essere sottoposto a revisione.

Arrestano gli insegnanti perché non si rivolgono agli studenti con i pronomi giusti, prevedono, nei corsi universitari, quote specifiche destinate alle minoranze LGBT indipendentemente dal grado di preparazione dei soggetti;

hanno distrutto lo sport femminile facendo gareggiare le donne con gli uomini che dicono di sentirsi donna.

E queste sono solo alcune delle “conquiste” che la Sinistra, in tutto il mondo, è riuscita ad ottenere negli ultimi anni, tutti provvedimenti accomunati da una idea di umanità trasformata, artificiale ed in contrasto con il dato naturale, tutte tappe di una precisa strategia di avvicinamento al “Nuovo mondo” contrassegnato dalla sorveglianza digitale e dalla verità prestabilita e imposta dallo Stato.

Ora la domanda é:

a fronte di tutto ciò, quali sarebbero esattamente i” pericoli” rappresentati dalla Destra?

Quelli di cambiare qualcosa di questo elenco degli orrori?

L’impressione è che il vero “rischio” per la Sinistra sia lo smascheramento del fatto che essa rappresenta oggi il fattore disgregante della società, l’elemento pedagogico che impone scelte forzate, contro la natura e contro la realtà, al fine di rimodellare l’essenza stessa del tessuto sociale.

Una vera e propria missione che, infatti, indica tutti coloro che vi si oppongono come “pericoli”.   

        

       

              

Gazzetta Ufficiale: Decreto legge

conferisce Poteri Speciali

al Presidente del Consiglio!

 

Conoscenzealconfine.it-(11 Settembre 2022) - Augusto Sinagra-ci dice:

Si è superata ogni misura. Estote Parati (“siate preparati”, “siate pronti”).

Nello stordimento continuo della aberrante politica sanitaria del governo, della guerra tra USA e Russia con la interposta persona del comico ucraino, l’Italia che di fatto e giuridicamente ha dichiarato guerra alla Russia (e la cosa fa più ridere che piangere) e le celebrazioni agiografiche della Signora Elisabetta Windsor (ma in realtà una appartenente alla dinastia tedesca degli Hannover), con dichiarazioni masochistiche che non tengono conto che da sempre l’Inghilterra è stata nemica dell’Italia (e al riguardo basta leggere il libro di Giovanni Fasanella “Il golpe inglese”, scritto sulla base di documenti de-secretati degli archivi britannici), il rincoglionimento degli italiani, con l’aiuto della Barbara Durso, ha raggiunto un livello forse irreversibile.

In questo clima di voluto rincoglionimento per mezzo di organi di informazione servili e venduti, è sfuggita l’apparizione in Gazzetta Ufficiale di un Decreto-legge che conferisce poteri speciali al Presidente del Consiglio dei Ministri, sulla base di una legge del 2012 che li prevede in materia societaria per il comparto difesa e sicurezza e in materia di trasporti, comunicazioni e altro.

E il Capo dello Stato che firma tutto, ha firmato anche questo Decreto-Legge.

Il primo motivo di allarme è che – contrariamente alla regola dell’entrata in vigore dei DL il giorno dopo della pubblicazione in GU – per questo DL si dispone la entrata in vigore per il giorno 24 settembre prossimo, fermo restando che il Decreto-Legge datato agosto 2022 deve essere convertito in legge nei primi giorni del mese di ottobre.

È inspiegabile la data di entrata in vigore il giorno prima delle votazioni politiche e ancor più è inspiegabile in che modo verranno esercitati i poteri speciali che non sono definiti in alcun modo.

La situazione è di gravissimo allarme politico ed è di una gravità assoluta. In più i poteri speciali, riguardanti anche il settore energetico, vengono attribuiti in via di necessità e urgenza (come è richiesto per i DL) ad un Presidente del Consiglio dimissionario che, per obbligo costituzionale, dovrebbe occuparsi solo degli affari correnti; e tali indefiniti poteri speciali vengono conferiti in un momento in cui non vi è un Parlamento eletto ma un Parlamento disciolto e cioè nel pieno di un vuoto politico e istituzionale.

Può capitare di tutto… Si possono fare le più fosche previsioni ed ipotizzare le peggiori cose. E questa sarebbe la democrazia e il rispetto della Costituzione. Nel frattempo, i vertici delle FFAA guardano le stelle.

Di quel che accadrà si renderà conto il Popolo italiano che, spero, vorrà uscire presto dal suo torpore e reagire con ogni mezzo possibile.

(Articolo del Prof. Augusto Sinagra – Professore ordinario di diritto delle Comunità europee presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”. Avvocato patrocinante davanti alle Magistrature Superiori, in ITALIA ed alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, a STRASBURGO.

imolaoggi.it/2022/09/10/gazzetta-ufficiale-decreto-legge-conferisce-poteri-speciali-al-presidente-del-consiglio/)

 

 

 

 

Donne al potere sempre più

ambiziose, presto non si

accontenteranno del ruolo di gregarie.

Ilfattoquotidiano.it- Roberta Ravello-(25 aprile 2022) -ci dice:

 

Uno studio recente di Ecpr – il consorzio europeo per la ricerca sulla scienza politica avanzata – ha analizzato le simpatizzanti del partito femminista svedese, Fi (Iniziativa Femminista), quello di maggior successo in Europa, cercando di capirne l’orientamento.

 I risultati hanno mostrato che le simpatizzanti sono prevalentemente giovani, donne e altamente istruite, e condividono non solo le opinioni femministe di Fi, ma anche l’ideologia di sinistra del partito.

Analizzando il voto, i motivi predominanti per le votanti sono ideologici, ma entrano in gioco anche altre considerazioni come il desiderio di qualcosa di nuovo in politica.

Le ragioni per non votare per Fi, anche per le simpatizzanti, includono considerazioni tattiche – il partito è visto come nuovo o troppo piccolo per avere un impatto reale – ma anche scetticismo sul femminismo come ideologia del partito a sé stante, giacché nel voto entrano in considerazione anche interessi economici e sociali che non hanno genere.

Uno studio simile, condotto in Usa, ha messo in luce come il Partito democratico abbia mantenuto il suo vantaggio sulle donne elettrici, specialmente le donne bianche istruite, le giovani e single, le lavoratrici.

 I dati evidenziano come le donne votanti preferiscono in generale le donne candidate più degli uomini. Tuttavia, molte donne scelgono ancora il partito – e le sue politiche – sopra l’identità sessuale della persona candidata.

 Nella corsa del 2020, le donne hanno costituito il 47% dei candidati democratici e il 23% dei candidati repubblicani alla Camera in Usa. Il risultato è stato che delle 101 donne elette alla Camera nel 2020, 88 sono state elette dal Partito democratico. Si è trattato di cifre da record, nelle candidature, per entrambi i partiti.

La situazione della rappresentanza di donne in politica sembra simile andando ad analizzare le candidature italiane per le prossime politiche. Le donne sembrano più presenti rispetto alle passate tornate elettorali. Va sottolineato un altro dato emergente.

 Sebbene le cariche di leadership siano ancora spesso in mano a uomini, sono le donne sempre di più a fare la differenza nei movimenti di base.

Ad esempio, quasi nessuna differenza di genere appare nelle nuove forme di impegno politico, come leggere, condividere e discutere di politica sui social media. Le donne stanno facendo passi da gigante sugli uomini anche nelle campagne elettorali, come “risorsa” sia di diffusione dei contenuti, che di raccolta fondi, firme e preferenze per i partiti.

Le donne insomma esercitano il potere politico dentro e fuori la cabina elettorale, diventando sempre di più attrici centrali nelle elezioni. Naturalmente, le donne non parlano con una sola voce o un solo partito, ma dal voto alla mobilitazione alla donazione, la loro influenza e le loro preferenze sono sempre più incisive per i risultati elettorali e, non diversamente da Svezia e Usa, le donne istruite, lavoratrici, giovani, single e femministe mostrano una preferenza per quei partiti sull’asse delle sinistre, che sono più impegnati nelle lotte per il sociale, i diritti, l’ambiente e il clima.

Siamo a un passo dal colmare il gap politico tra donne e uomini, in Italia come altrove, giacché le donne, sempre più spesso, stanno incanalando la frustrazione nella cooperazione, formando gruppi di solidarietà e facendo campagne per fare eleggere le donne che sostengono.

In conclusione, non solo le donne sono più interessate ad entrare in politica, come dimostrano le elezioni di settembre prossimo che vedono molte candidate nei diversi partiti, ma anche le loro ambizioni stanno crescendo. Presto non si accontenteranno più dei ruoli di gregarie e punteranno alla leadership. Solo allora potremmo dire che l’uguaglianza di genere in politica è stata raggiunta.

 

 

 

Il nuovo volto del potere.

Legrandcontinent.eu- Lorenzo Castellani-(30th Agosto 2021) -ci dice:

 

La pandemia ha cambiato per sempre la natura del potere. All'indomani della crisi, stanno emergendo tre scenari estremi: uno scenario burocratico e dirigista, un secondo scenario "populista", o una profonda trasformazione delle strutture di potere.

Il potere è moto perpetuo. I suoi equilibri si modificano in continuazione. Mutano le regole, i rapporti di forza, il sistema dei controlli, gli equilibri degli interessi, le maggioranze e le minoranze, le violenze, le costrizioni. Ogni giorno o quasi. Esistono però fasi della storia in cui questo moto, questo gran ballo del potere, è particolarmente accelerato e vorticoso. Il nostro tempo presente è uno di quei momenti.

La pandemia ha reso più fisico il potere. Più vicino ai cittadini, più protettivo e al tempo stesso più inquietante. Il potere è tornato a delimitare uno spazio fisico che sembrava senza confini prossimi. Le case sono state serrate per decreto, le persone chiuse dentro. Le attività economiche sospese, erogati flussi di denaro pubblico per fermare le perdite. E poi ancora dispositivi medici obbligatori, distanziamento sociale, quarantene, prenotazioni obbligatorie, vaccinazioni di massa, tamponi. Gli individui si sono trovati isolati dagli altri uomini, ma esposti come canne al vento all’azione del potere amministrativo. L’uomo, e non soltanto lo Stato, è stato costretto ad essere più disciplinato, pianificatore, burocratico.

Autocertificare, attestare, dare comunicazione, certificare, codificare. La tecnologia, che già sferzava nella nostra quotidianità, si è intimamente accoppiata con l’amministrazione.

La morsa della tenaglia tecno-amministrativa si è fatta più stretta all’ombra della maschera paternalista dello Stato.

 Tracciamento, prenotazioni, app, QR code. L’automatismo della macchina al servizio della sanità pubblica e del nuovo ordine pubblico.

Utile dispositivo per debellare la malattia e impersonale meccanismo di organizzazione. Terminale senza volto, pura spirito di funzione. Nuova scienza della polizia, se questa la si intende nel suo antico significato tedesco (polizei), come potere gestionale, regolatore degli affari interni e dell’economia. Potere disciplinante e paternalista che perimetra il comportamento degli individui con l’ordinanza e col decreto.

Il potere, si diceva, si è fatto più fisico ma anche più impalpabile. La procedura ha travolto la politica, l’algoritmo guida l’organizzazione sociale, le pratiche e i decreti sostituiscono il legislatore.

Sono volti vuoti ed inermi quelli che appaiono nelle televisioni, c’è molto più potere nella struttura che nella leadership. È diventato chiaro quanto la comunicazione ed il personalismo politico restino il fumo sovrastante mentre la complessità di strutture interdipendenti sia il carbone ardente che serve per arrostire la carne. La nostra vita quotidiana in questo prolungato stato di eccezione dipende molto di più dal funzionario, sia medico, ingegnere o informatico, o dall’impiegato dell’azienda sanitaria, che non da politici impotenti oppure tremendamente impauriti.

La straordinaria rivoluzione dell’informazione digitale degli ultimi anni aveva celato l’illusione, oggi caduta, che la politica fosse ancora in grado di prendere decisioni fondamentali per i destini umani e di mettere da parte o almeno controllare i mastodontici apparati che governano le nostre vite.

Sistemi tecno-burocratici in grado di condizionare anche la più politica tra le attività umane: la guerra. Tendenza di recente rimarcata dalla “questione afghana” e dagli errori informativi, organizzativi e logistici imputabili al sistema americano, più che alla politica in sé, nella ritirata. Si può regredire senza traumi da una burocrazia e da un esercito di taglia imperiale? Domanda centrale nel futuro degli Stati Uniti d’America e del resto del mondo. Ma torniamo al punto.

La pandemia ci ha ricordato che essere governati è anche e soprattutto essere chiusi, tracciati, sorvegliati, controllati, certificati, distanziati, isolati.

La domanda di sicurezza ha stretto gli ultimi bulloni residui del Leviatano. Ha spazzato via tutte le membrane, come la famiglia, la scuola, il lavoro, le associazioni, le chiese, che separavano l’uomo dal governo.

 L’amministrazione delle cose si è sovrapposta all’amministrazione delle persone. Mai si è arrivati così vicini negli ultimi decenni a qualcosa di così simile allo Stato in guerra, ad un livello di interventismo del potere pubblico nella vita privata così penetrante.

Potere duro, che interviene, regola, dispone, autorizza, rinchiude, isola. Ma anche potere che confonde e si nasconde. Rispondere alla domanda “chi ci governa?” è sempre più difficile. Chiunque intuisce che la politica è solo un pezzo, e oramai nemmeno quello più evidente, di un sistema di potere che si sposta.

Dai territori fino ad oltre lo Stato, passando per multiple burocrazie, i comitati tecnico-scientifici, le task force, le agenzie, gli istituti e numerosi altri corpi amministrativi. La politica è ridotta a mera attività di regolazione dei rischi, o meglio brancola nel buio alla ricerca di un irraggiungibile rischio zero.

 In questa affannosa corsa spinge le strutture verso la massima pianificazione. Pretende di annullare l’errore, di minimizzare il danno, di controllare l’incontrollabile, di avere risposte dalla scienza che spesso la stessa scienza non può dare.

Ma la coperta è sempre corta: se si cerca di ridurre il danno sanitario ci si espone a quello economico e viceversa, se si contiene il rischio pandemico ci si espone a quello sociale, se si persegue una politica scientifica ci si ritrova spogliati dai tecnici, mentre se si segue l’istinto politico puro ci si pone come navigatori dilettanti esposti alla tempesta.

In ogni scenario, una legittimazione politica già da lungo tempo precaria, interna a quel regime che ancora chiamiamo democrazia, si indebolisce ulteriormente. Si rivolgono le proprie preghiere al tecnico, alla scienza, all’amministratore, al militare.

Questo nuovo potere indurito, su cui la classe politica non ha potuto far altro che mettere le mani con indecisione per affrontare l’emergenza, ha rotto le illusioni di un ipotetico ritorno del politico.

L’idea che la discussione pubblica e la rappresentanza possano tornare al centro della scena è un’idea romantica, troppo romantica. Così come sembra eccessivamente apocalittica l’idea di una guerra civile, reale o figurata, che possa rivoluzionare le istituzioni.

 I regimi politici del prossimo futuro si fonderanno sempre più sulla amministrazione, sull’apparato scientifico-tecnologico, sull’intreccio tra capitalismo pubblico e privato, sui centri di fabbricazione della competenza e sempre meno sulla rappresentanza politica per come è stata concepita e vissuta nei decenni passati. In questo senso, la pandemia ha soltanto accelerato e reso evidente una tendenza di lungo periodo.

Difatti, nella concretezza del potere quotidiano, regimi all’apice del proprio auto-compiacimento liberale e democratico hanno avanzato la più grande operazione di disciplinamento della popolazione che ci sia stata dalla fine della Seconda guerra mondiale.

 È in nome dell’emergenza che si è attivato il torchio della banca centrale, liberati i bilanci dalla disciplina economica, avviato il complesso scientifico-industriale, fermate le attività economiche, risucchiate informazioni personali, ristrette le libertà, sovvertito il modo di vivere comune.

Certamente per necessità, quella di contenere il contagio, ma anche per l’enorme difficoltà che le grandi comunità odierne hanno nel governare loro stesse. Una sofisticazione tale, accoppiata ad una sempre più disfunzionale inflazione burocratica e regolamentare, che per fronteggiare gli imprevisti domanda soluzioni sempre più radicali e scarica una buona dose delle responsabilità dei vertici politico-amministrativi sulla collettività. L’uomo occidentale credeva di vivere in sistemi liquidi e flessibili ma con il cigno nero della pandemia ha compreso di vivere in regimi solidi e molto rigidi.  E dunque fragili come il cristallo. Il prezzo per fronteggiare l’emergenza resta la inevitabile coercizione dello Stato sull’individuo.

Dunque, qual è il confine del potere nell’emergenza?                           E quanto a lungo uno stato d’emergenza si può giustificare prima di trasformarsi in qualcosa di più preoccupante?

Questa appare la domanda fondamentale quando si guarda in faccia il nuovo volto del potere. Fino a due anni fa si credeva a ragione di vivere in società libere. La minaccia dalla pandemia ha imposto l’accettazione di momentanee restrizioni della libertà di movimento, di produzione e consumo.

Davanti alla malattia e alla morte vi sono state colpevolizzazione, controllo reciproco, responsabilizzazione anche quando l’organizzazione sanitaria e della sfera pubblica lasciavano a desiderare non per causa di gran parte dei cittadini. Impaurita dal ritorno del contagio, gran parte della popolazione ha diligentemente fatto la fila per i vaccini e ha mantenuto distanze e precauzioni.

La preoccupazione nei confronti di frange minoritarie di indisciplinati ha portato ad accogliere il codice digitale, il certificato, il controllo esercitato da soggetti pubblici e privati. Le libertà e i diritti costituzionali sono stati compressi o, se si vuole essere meno drammatici, pesantemente riequilibrati tra loro. Lo Stato, soprattutto in Europa, ha esercitato di fatto un potere costituente. Quanto precario e temporaneo lo si capirà poi.

Tutto questo ha trovato la sua legittimazione in nome di uno stato d’eccezione momentaneo. Momentaneo. Ma fino a quando? Fino a che punto? Non c’è essere umano abituato all’utilizzo del dubbio e della ragione che non sia assillato da questa domanda di questi tempi.

 Tutto tornerà “normale” come “prima”? Ma è quasi impossibile riavvolgere il tempo una volta che il “normale” è stato scavalcato dagli eventi. Si è discusso molto sulle trasformazioni di lunga durata dell’economia a seguito della pandemia.

 Molto meno si è riflettuto sulle potenziali trasformazioni della politica.

Sembra quasi che l’attuale classe dirigente occidentale abbia scelto di ignorare, forse per esorcizzare il potenziale caos o le potenziali derive dispotiche, le conseguenze politiche che il nuovo volto del potere potrà produrre.

Si invoca spesso la rinascita del post-pandemia guardando al fiorire economico e sociale del dopoguerra. Ma allora, dopo anni di morte e devastazione ben peggiore, interi regimi politici e assetti sociali consolidati vennero abbattuti. La ricostruzione ripartì tenendo il buono di ciò che c’era prima della guerra e gettando tutto il resto.

 Rifondando la società e scrivendo nuove costituzioni.

Ma allora la distruzione era stata tale da giustificare una ripartenza quasi da zero. Lo scenario post-pandemico, se si esclude la variazione di paradigma economico, appare assai meno innovativo. Non si scorgono all’orizzonte nuovi contratti né nuovi patti sociali né una costituzione europea.

Sul piano sociale, inutile girarci intorno, chi prima della pandemia aveva un curriculum, un reddito e una posizione elevata uscirà ancor più rafforzato da questo tempo eccezionale. L’impressione è che la distanza crescente tra gruppi sociali è stata sia stata forse accelerata più che ridotta dalla pandemia e dalle soluzioni politiche da essa scaturite. I sussidi non basteranno a rendere più giuste né meno inquiete le nostre società.

Se lo Stato è “di tutti i gelidi mostri il più gelido”, di ancor più tacita freddezza è l’apparato tecnico-produttivo, il “capitalismo immateriale” dei tempi nostri.

 Una totalità, in cui si dispongono e ordinano le singole competenze, sicché neppure la specializzazione del sapere salva l’individuo, ma lo conduce e racchiude all’interno di quella unità. Lo smart working, accelerato dall’espansione virale, risponde alla logica della più rigida funzionalità: la lontananza fisica esalta l’oggettività dell’apparato, che non ha bisogno di alcun luogo, poiché è capace di raggiungerci in tutti i luoghi, o, meglio, di sovrapporre il reale ed il virtuale. Mentre lo Stato pandemico disegna più angusti confini fisici, l’apparato tecnico-produttivo sfrutta l’emergenza per abolire la dimensione materiale dello spazio. Uno si mostra e delimita, l’altro scompare e penetra.

Quasi due anni di pandemia hanno mostrato paradossi che non si pensavano possibili. Che l’origine del virus sia stata frutto del caso o di una Chernobyl biologica, sorprende come il paese più indirettamente responsabile della pandemia sia uscito rafforzato nell’immagine, nella leadership e nell’economia. Il dato reale è che la Cina ha sfruttato la pandemia per ristrutturare la propria economia e per cercare di dispiegare la propria politica di potenza.

Emerge con sempre maggior chiarezza il “paradosso cinese”. È vero, come ha sottolineato Henry Kissinger nel 2019, che siamo all’inizio di una nuova guerra fredda, eppure i regimi politici occidentali sembrano avvicinarsi a quello di Pechino sul piano politico ed economico. Due modelli in contrasto tra loro finiscono per rassomigliarsi. Gli americani sono stati a lungo ossessionati da questa sindrome osmotica per cui la guerra, reale o fredda, con altre potenze avrebbe trasformato gli Stati Uniti in regimi simili a quelli sconfitti.

Durante la guerra fredda, un tema ricorrente nelle analisi di progressisti e conservatori era che stava maturando una sorta di convergenza, la quale faceva assomigliare gli Stati Uniti, almeno per alcuni aspetti, al loro antagonista sovietico.

Che tutte le superpotenze nucleari sarebbero diventate Stati totalitari era stata, ad esempio, la cupa profezia di George Orwell proprio nell’articolo in cui inventava il termine “Guerra Fredda”. Un rischio poi nuovamente denunciato nel celeberrimo romanzo 1984. 

Ma una preoccupazione simile aveva agitato i sogni anche di un presidente pragmatico come Dwight Eisenhower, il quale aveva messo in guardia i cittadini, alla fine della sua presidenza, sul pericolo del potere del “complesso militare-industriale”.

Nel Nuovo Stato Industriale (1967) invece, John Kenneth Galbraith sosteneva che la pianificazione avrebbe inesorabilmente sostituito il libero mercato nel mondo occidentale, proprio come aveva fatto nell’Unione Sovietica, a causa delle esigenze della “produzione moderna su larga scala”. Inutile dire che timori e suggestioni della classe intellettuale americana si sono rivelati o molto sbagliati oppure si sono solo parzialmente realizzati.

Gli Stati Uniti non sono diventati un paese collettivista né politicamente illiberale. Il divario tra il sistema economico americano e quello sovietico è solamente cresciuto nel tempo, non solo in termini di organizzazione ma anche di prestazioni. Né si è materializzato l’incubo di Orwell: gli Stati Uniti e i suoi alleati non sono degenerati in Oceania, uno stato totalitario indistinguibile dall’Eurasia e dall’Asia.

Tuttavia, la gestione della crisi pandemica da parte della leadership americana non si è risolta nel tracciare una netta linea di demarcazione politica con la Cina, con la quale le frizioni geopolitiche sono state in costante aumento negli ultimi dieci anni.

Non sono stati riaffermati principi come il libero mercato, la libertà di parola, lo stato di diritto e la separazione dei poteri per mettere ulteriore distanza tra il sistema americano e quello della Repubblica popolare cinese, basato sul potere illimitato e incontestabile del partito comunista su ogni aspetto della vita individuale.

Anzi, sul piano economico gli Stati Uniti hanno seguito la via tracciata dall’autoritarismo di Xi, fondata sul rilancio dei consumi interni e su accresciuti stimoli fiscali (1 trilione di dollari). L’amministrazione Biden ha varato prima l’American Rescue Plan (1.9 trilioni di dollari), poi l’American Jobs Plan per potenziare le infrastrutture (2.2 trilioni) ed infine l’American Families Plan (1.8 trilioni). Il costo totale di questi piani arriva a poco meno di 6 trilioni di dollari, equivalente a oltre un quarto del PIL degli Stati Uniti (sebbene la spesa per entrambi i piani Jobs e Families sia distribuita su più anni).  Pianificazione, pianificazione, pianificazione come alla metà degli anni Sessanta a cui conseguì, è bene ricordarlo, la disastrosa crisi del decennio successivo tra stagnazione e inflazione.

I repubblicani però sono nella posizione giusta per attaccare queste scelte di politica economica, avendo incautamente legittimato sia il reddito di base universale che la Modern Monetary Theory (MMT) con le misure di emergenza approvate lo scorso anno.

Da ultimo, ci sono senza dubbio argomenti ragionevoli a favore dei certificati elettronici di vaccinazione (green pass) adottati da molti paesi occidentali, così come sono esistiti precedenti storici per documenti simili.

Esiste, tuttavia, un ovvio rischio che tali certificati possano trasformarsi in una sorta di carta d’identità digitale, un sistema che la Cina ha iniziato a utilizzare nel 2018 e che ha stretto ulteriormente il controllo del partito sulla vita dei cittadini e ha ristretto le residue libertà dei “non conformi”.

Tutto questo per dire che tanto le soluzioni sanitarie (lockdown, distanziamento, pass vaccinali) quanto quelle economiche, fondate sul nuovo slancio dell’interventismo statale, hanno avvicinato l’Occidente all’Oriente e al modello di Pechino in particolare.

Tuttavia, se per la natura genetica, autoritaria e monopolista, del regime cinese una tale evoluzione può essere letta come espressione della volontà di potenza e come un esercizio del politico attraverso mezzi tecnici al contrario per le democrazie pluraliste, questa dinamica rischia di asciugare ulteriormente “il politico” a favore di una inarrestabile razionalità tecnocratica capace di fiorire sull’anomia degli individui, anomia rimpolpata proprio dall’isolamento prodotto dalla pandemia.

 Avvertiva Emanuel Mounier in” Che cos’è il personalismo?” (1948) che «l’organizzazione è un progresso verso l’ordine, ma al di qua del punto in cui l’uomo si riduce a una funzione». Oltre quel punto vi è l’alienazione dell’essere umano e l’inedia della società civile.

 

In questo proliferare di paradossi ve ne è un ultimo che impressiona più degli altri, e cioè l’omogeneità delle soluzioni adottate a livello globale nell’era pandemica indipendentemente dalle costituzioni politiche e dalle tradizioni culturali nazionali o regionali.

La globalizzazione non è affatto in ritirata: gli ultimi anni ci hanno ingannato.                             

I paradigmi tecnico-politici sono sempre più somiglianti ed estesi sul piano spaziale. Vale per la sanità, per l’economia, per la tecnologia e per il rapporto tra Stato e cittadini.

Seppure i più avveduti avevano saputo scorgerne le premesse nelle scelte politiche ed economiche di questi ultimi anni, nessuno avrebbe scommesso su una convergenza globale così rapida e risolutiva intorno a nuovi paradigmi senza la pandemia.

La differenza nella coloritura della medesima soluzione tra Occidente e Oriente è il verde, le politiche green, proposte dalla classe politica occidentale per gestire un altro stato di emergenza che subentrerà, o meglio appare già in compresenza, a quello pandemico.

 Scelta che forse può fornire un orizzonte escatologico, il desiderio di una terra più vivibile, sana e sostenibile, sia con sfumature di destra che di sinistra, e meno “presentista” rispetto al mero interventismo economico e che garantisce forse alla classe politica il pretesto per uno Stato d’eccezione permanente funzionale all’infusione top-down, con una sorta di «modernizzazione dall’alto», di riforme e al mantenimento della presa sulle leve di comando. L’operazione, tuttavia, non appare priva di rischi politici.

Il primo è che l’aspirazione ambientalista è per sua natura di matrice globale e, come è noto, solo una parte del mondo, quella occidentale appunto, è disposta a piegarsi ad una diversificazione di consumi e ad orientarsi verso nuove tecnologie green.

Col pericolo che alcuni paesi seguano una strada vanificata dal mancato impegno degli altri nel rapportarsi con i cambiamenti globali. Il secondo rischio è quello della deriva tecnocratica, con una letale combinazione tra la costruzione di un complesso tecnologico-industriale-ambientale e politiche restrittive e costose per quella parte di popolazione più periferica e più debole sul piano socio-economico.

 In questo caso il timore è quello di avere da un lato provvedimenti che andrebbero per gran parte a favore dei grandi attori del capitalismo pubblico e privato, di imporre dirigisticamente una vulgata pedantemente pedagogica e dei provvedimenti regolatori paternalistici ad una popolazione per gran parte inerte e insensibile.

 Una situazione che minerebbe probabilmente la legittimazione politica del nuovo ambientalismo e che rischierebbe di non attuare alcuna concreta azione di redistribuzione del reddito, dei pesi fiscali e delle opportunità lavorative né di aprire nuovi spazi di mercato per le piccole imprese.

La ricostruzione di un nuovo ordine politico secondo differenti coordinate potrebbe non essere, in definitiva, così semplice e lineare. Lo scrittore Michel Houellebecq ha forse fiutato il pericolo meglio di ogni altro intellettuale, notando che «non ci risveglieremo, dopo il distanziamento, in un mondo nuovo; sarà lo stesso, ma un po’ peggiore».

È noto, infatti, che un potere in moto perpetuo e vorticoso può distruggere un certo ordine oppure rafforzarlo. Per ora il mondo del dopo Covid-19 rientra nella seconda ipotesi. Tuttavia, così come non sono chiari i confini dell’emergenze, si possono solo formulare plurimi scenari sulla politica post-pandemica. Tre sembrano i più probabili.

Il primo è il rafforzamento della classe politica e burocratica attualmente al governo. Con un potere più verticalizzato, dirigista, interventista.

Se questo consolidamento sarà fragile ed illusorio si apriranno altri scenari, ma se al contrario sarà più forte del previsto non è da scartare l’ipotesi di un dispotismo tecnocratico. Il che non significa necessariamente dittature e totalitarismi su modello del ventesimo secolo, ma un progressivo svuotamento delle istituzioni rappresentative a vantaggio di quello burocratiche, giudiziarie, economiche e tecnocratiche.

A cui consegue una ridotta mobilità sociale, una maggiore chiusura dei circoli delle élite, un mandarinato impolitico che gestisce il potere sul piano nazionale e sovranazionale, l’impotenza di nuove forze politiche nel deviare i paradigmi scelti da questi gruppi dirigenti apicali.

In questo scenario i regimi politici occidentali si avvicinerebbero di più nella forma a quelli asiatici.

Tuttavia, la pericolosità del nostro tempo – denunciava un lucido e presciente Emanuel Mounier nel 1948 – «non cerchiamola solo nei fascismi defunti. I tecnocratici di tutti i partiti ci preparano un fascismo raffreddato, (…), una barbarie pulita e ordinata, una pazzia lucida e impalpabile, verso la quale sarebbe meglio ora volgere lo sguardo piuttosto che soddisfarci con poca fatica a condannare un cadavere».

Il pericolo maggiore, dunque, è quello di regimi occidentali trasformati in un mandarinato burocratico e centralista, in cui lo spirito d’iniziativa individuale e collettivo, la società civile, i beni comuni, le libertà positive vengano mortificati e sacrificati sull’altare di nuovo dirigismo.

 

Il secondo è, invece, un inaspettato ritorno del populismo (potremmo anche chiamarlo “estremismo”) con sfumature di destra e di sinistra a seconda dei casi nazionali. L’establishment politico, burocratico, scientifico, esce debilitato dalla lunga pandemia e delegittimato agli occhi di gran parte dell’opinione pubblica. Oggi questo scenario potrebbe essere nascosto oltre la coltre prodotta dal volto del potere pandemico. Le coalizioni ampie, un potere pubblico indurito, un ordine pubblico maggiormente presidiato, impediscono di vedere il crescere della rabbia politica e sociale.

 Ad un momentaneo riassorbimento del populismo consegue un’esplosione che nel giro di pochi anni trascina in una crisi i regimi politici occidentali. Qui l’ordine rafforzato dalla pandemia potrebbe essere messo seriamente in discussione, ma senza sapere fino a che punto.

Potrebbe aprirsi la via verso una metaforica guerra civile, conflitto di tutti contro tutti. Oppure i populisti post-pandemici arrivati al potere potrebbero semplicemente godere ed impossessarsi dei nuovi dispositivi di controllo e dello stato d’eccezione dispiegati dall’attuale élite politica durante la pandemia.

Sfruttare la breccia aperta da chi è ha governato in questi anni. Ad oggi, sul riacutizzarsi della febbre populista, sono possibili soltanto delle ipotesi. Sappiamo però che potrebbe accadere e che potrebbe non essere saggio gettare nel cestino questo scenario, per quanto oggi possa apparire improbabile.

 

Il terzo scenario è quello in cui la politica riesce a tirare il freno di emergenza. La classe dirigente realizza quanto delicato e fragile sia il sistema della libertà e quanto potenzialmente pericoloso sia lo stato di emergenza permanente e la trappola dello “scivolamento monocratico”, con regimi per lo più nelle mani di mandarini pubblici e privati. Si comprende che la polarizzazione e la frammentazione sociale devono essere contenute per evitare il dispotismo oppure il caos, e per questo si accetta di convivere con minoranze multiple senza demonizzazioni o discriminazioni. La politica si decide a tracciare confini di legittimazione dell’avversario meno stringenti di quelli odierni e riesce a mantenere forme di riconoscimento reciproco pur nella contrapposizione tra fazioni. Ciò significa rinunciare al nazionalismo reazionario a destra ma anche agli eccessi del progressismo scientista e pedagogico a sinistra.

 Accettare che non possiamo più considerare la felicità come conseguenza infallibile della scienza poiché altre forze operano, sotto la patina dell’ordine civilizzato, inesplorate e selvagge. Per questo si deve rifuggire il rassicurante porto del razionalismo, riscoprire l’uomo in tutte le sue dimensioni e ricomporlo in tutta la sua ampiezza.

 

Bisogna evitare, al tempo stesso, la reductio ad nationem, impossibile e distruttiva in un sistema politico debordante, interdipendente, reticolare e multilivello.

 Il potere è dunque chiamato a creare nuove finzioni legittimanti, idee o anche ideologie intorno a cui si ridisegni la scena politica e nuovi momenti costituenti formalizzati e coinvolgenti, e nuove realtà, legate all’evoluzione dello scenario internazionale. Il nostro precario stato di eccezione resterebbe leggero, senza evoluzioni dispotiche o di rottura costituzionale. La società si muoverebbe verso un New Deal economico e politico, comunque non privo di problematiche e pur sempre portatore di conseguenze indelebili nelle istituzioni, più che verso un pesante regime tecnocratico. Il potere eviterebbe la totale spersonalizzazione verso cui sembra tendere. Le amministrazioni nazionali e sovranazionali sarebbero costrette ad essere più aperte e responsabili verso i cittadini.

Oggi disponiamo di tecnologie e di tecniche di gestione dei dati che consentono di padroneggiare situazioni estremamente complesse e, soprattutto, di avvicinare i cittadini all’amministrazione e viceversa. Ciò non potrà continuare a funzionare soltanto per il commercio e le relazioni sociali, ma diverrà decisivo anche per portare le misure amministrative “a domicilio”, favorendo la partecipazione attiva dei cittadini. Le forme politiche resteranno differenti da quelle del passato, ma le democrazie liberali manterranno la loro sostanza politica, giuridica e istituzionale. L’Unione Europea tornerà forse a coltivare la speranza di un miraggio costituzionale che la consolidi e riordini.

 

 

 

 

 

La Pseudo-sinistra.

I sinistrati al potere.

Ideologiasocialista.it- Giandiego Marigo – (20 dicembre 2020) -ci dice:

 

La pseudo-sinistra apre, di fatto, la strada ad un governo di destra. Gli prepara il terreno in nome di una pandemia discutibile, certo esistente, ma comunque gestita nel peggiore dei modi. Concede alla destra il dissenso, perde il contatto con i bisogni. Rinnega sé stessa.

Premettiamo che la situazione attuale (per esempio il contrasto fra Biden e Trump) è legata ad un palese confronto interno all'élite mondiale. Uno scontro su tematiche similari ma su metodologie differenti. The Great Reset è palese, chiaro per tutti i gestori reali del potere mondialista, ma come questo si debba attuare, così come, ad esempio, la tematica dello sfoltimento della popolazione mondiale è oggetto di contrasto e discussione (anche armata se necessario).

Ma sulle linee guida di questo cambiamento non vi è contrasto, piuttosto sul vestito con il quale presentarlo al consenso (o meno) di un popolo ipnotizzato e prono.

In questo gioco l'area della pseudo-sinistra, quella che ironicamente molti definiscono dei “sinistrati” ha operato una scelta, sciagurata, di campo.

In una logica suicida, del meno peggio (per altro assolutamente discutibile e con parametri del tutto arbitrari) si pone al fianco, anzi addirittura a difesa di una delle fazioni interne all'élite, tradendo sé stessa e la propria origine storica. Fa baluardo sul fronte del capitalismo azionario.

Ricordo che chi scrive è un libertario ed ha quindi proprie opinioni su cosa significhi alternativa di potere o socialismo e gli è concesso esprimerle su questa rivista.

Scendiamo quindi, dopo questa premessa, nell'analisi della contemporaneità, con uno sguardo al mondo e l'attenzione necessaria al nostro paese. La scelta sopracitata ha ripercussione ovvia nei comportamenti politici e sociali.

La disponibilità di quella che chiamammo sinistra alla “discussione” anche sindacale oltre che politica, sull'erosione dei diritti, sull'uniformazione al ribasso, sulla modulazione in senso capitalistico della scomparsa graduale del lavoro umano.

L'uso smodato della repressione nelle fasi più acute del “Teatrino Pandemico”. La scelta stessa dell'uso di metodologie oscure di convincimento e repressione, la scelta di aderire al sistema della menzogna utilitaristica, l'ipotesi di controllo e censura dell'informazione, la scelta dell'obbligatorietà di una determinata cura, tutto questo ed altro ancora hanno snaturato il senso stesso dell'alternativa di pseudo-sinistra. Collocandola nel campo dove oggi veleggia nel Grande Nulla d'un centro inesistente.

La scelta dell'impopolarità, a tratti persino teorizzata come unica strada di un reale cambiamento, ha ridotto, sensibilmente e vistosamente, il consenso elettorale (per quel che vale la farsa delle libere elezioni) dell'area e nel caso della sinistra radicale, causato la sua scomparsa di fatto.

La stupidità intrinseca di un'operazione liberal, che deprivato l'area dei suoi motivi fondamentali riconducendola nel solco di una normalità manipolabile e controllabile, ha creato i presupposti per una perdita di contatto dal dissenso e dal malessere popolare.

 Ormai i nostri sinistrati sono lontani dal sentire reale della gente, persi in luoghi comuni generalizzanti, in stereotipi da dozzina, in modelli preconfezionati di progressismo telecomandato.

Questa distanza si misura nel consenso, non tanto e non solo elettorale, ma anche. C'è un motivo per cui la destra ed il suo pensiero oggi attecchiscono molto più di ieri, c'è un motivo per cui le piazze oggi non vedono la cosiddetta sinistra a guidarne i contenuti.

Giocando poi con i livelli di partecipazione, c'è un motivo per cui oggi i governi a partecipazione sinistrata si distinguono sul piano della repressione, della incostituzionalità, della manipolazione, della vocazione alla guerra preventiva (l'occhio al mondo).

C'è un motivo per cui le scelte di questo governo non tengono alcun conto delle voci dissidenti o addirittura della dialettica scientifica, C'è un motivo se i diritti delle minoranze oggi sono derisi e vilipesi da quella stesa area che per prima ne aveva cercato la garanzia.

Questi motivi si riassumono nel mondialismo del Great Reset, ma non garantiscono affatto che sia questa “Fazione” a resistere alla prossima tornata elettorale e quindi ad attuarlo nei territori e nel piccolo (ricordiamo il contrasto inter-elitario sulle metodologie). C'è un che di autolesionista e suicida in questa preparazione del terreno ad una destra arrogante prossima ventura.

É quasi certo questo avvicendamento e sarà pressoché impossibile arginarne la vocazione repressiva, visto quello che si è accettato in nome della pandemia da un governo con la partecipazione, sin troppo attiva, dei sinistrati. Si sta normalizzando l'uso dell'arroganza del potere, consentendo l'abuso, aggirando, per quel che vale, il parlamento e la sovranità popolare... sarà molto difficile impedirlo ad una destra che queste azioni le farà esponenzialmente in modo più grave.

Non è un caso che le maggiori perdite di diritti siano avvenute nei pressi di un governo “presunto” progressista... è il gioco antico dei menscevichi, della socialdemocrazia liberal, dell'isolamento armato dei libertari spagnoli, aggiornato all'oggi, digitalizzato, robotizzato, industrializzato 4.0.

 

 

Il ritorno dello Stato.

Intervista a Paolo Gerbaudo.

Pandorarivista.it- Giacomo Bottos – Paolo Gerbaudo – ( 28 giugno 2022)- ci dicono:

 

L’attuale fase politica è segnata da un ampio dibattito sul ruolo dello Stato e sull’importanza dell’intervento pubblico nell’affrontare i problemi connessi a sfide globali di enorme portata, dal cambiamento climatico all’impatto della diffusione delle tecnologie digitali e dalla pandemia agli shock geopolitici e alle conseguenze dei nuovi assetti della globalizzazione.

All’interno di tale dibattito si pone anche Controllare e proteggere.                                                   

 Il ritorno dello Stato (nottetempo 2022), l’ultimo libro di Paolo Gerbaudo che affronta il tema spaziando tra Europa e Stati Uniti e soffermandosi sulle sempre più diffuse contraddizioni nelle aspettative di sicurezza e protezione che vengono oggi rivolte allo Stato.

(Paolo Gerbaudo è sociologo e teorico politico alla Scuola Normale Superiore di Pisa e al King’s College di Londra. Ha scritto per numerose testate italiane e internazionali tra cui: «Domani», «El País», «Foreign Policy», «The Guardian», «The New Statesman». Tra le sue recenti pubblicazioni: The Great Recoil. Politics after Populism and Pandemic (Verso Books 2021) e I partiti digitali. L’organizzazione politica nell’era delle piattaforme --il Mulino 2020)

Il libro sostiene che ci troviamo nel momento di passaggio tra due ere ideologiche. Cos’è un’era ideologica? E quali fattori ne determinano l’inizio e il tramonto?

Paolo Gerbaudo: La storia della politica e del mondo delle idee è un processo di continuo cambiamento; ma perché le cose cambino ci vuole molto tempo, spesso decenni, e il processo di trasformazione procede non in modo lineare ma discontinuo, con fasi relativamente stabili seguite da scossoni violenti. L’idea di ere ideologiche prende spunto dalla teoria economica delle lunghe ondate, sviluppata inizialmente da Kondratieff e poi ripresa in altri autori, come Schumpeter e poi Arrighi e Wallerstein. L’idea è che ci sono dei cicli di accumulazione capitalista che sono resi possibili dall’emergere di una nuova tecnologia che spalanca opportunità di profitto che però vanno progressivamente a esaurirsi come effetto di un processo di saturazione.

 Un’era ideologica è l’equivalente nel mondo delle idee e del dibattito politico. Anche lì ci sono cicli di circa quarant’anni che si aprono con l’emergere di un nuovo assetto simbolico che si installa al centro dell’agone politico e diventa egemonico, costringendo tutte le forze politiche a posizionarsi dentro o fuori di esso, ma comunque rispetto a esso.

 Questo è stato il caso del liberalismo classico, poi della socialdemocrazia e infine del neoliberismo. Il sorgere di un’era ideologica ha luogo quando si hanno due condizioni: primo l’assetto ideologico precedente deve essere in crisi, secondo deve esistere un nuovo sistema di idee che ha capacità di riempire progressivamente il vuoto.

La crisi di un’era ideologica avviene invece quando un determinato sistema di idee ha perso la sua forza propulsiva ed entra in una crisi epistemica perché non è più grado di spiegare la realtà e di prevedere il futuro.

Questo pare in buon modo essere oggi la condizione del tardo neoliberismo, che apre le porte all’emergere di un nuovo assetto ideologico che descrivo come neostatalismo.

Si è molto discusso sull’effettivo contenuto – e, da parte di alcuni – sulla legittimità dell’espressione neoliberismo. Come si potrebbe definire questa espressione?

Paolo Gerbaudo: Il termine neoliberismo è diventato negli ultimi decenni un termine di comodo per riferirsi a un insieme di fenomeni tra loro strettamente collegati.

Prima di tutto, l’emergere di una dottrina economica ostile all’intervento dello Stato e fiduciosa nel potere autoregolativo del mercato (Hayek e Mises) e di stampo monetarista (in particolare le teorie di Friedman sul legame tra inflazione e massa monetaria).

 Ma a questa dottrina economica si aggiunge anche una filosofia politica promossa da figure come Popper che esprime un forte sospetto per l’autorità e una fiducia nel commercio come forza civilizzatrice, un certo ethos che valorizza l’iniziativa individuale, l’imprenditorialità e la competizione.

 Inoltre, il termine indica un certo regime di accumulazione, quello che Boltanski e Chiapello hanno descritto come il “nuovo spirito del capitalismo” che punta a far saltare tutte le precedenti unità economiche, a partire dalle imprese a integrazione verticale, per seguire con le economie nazionali e il potere dei sindacati e dello Stato; il che indica anche che il neoliberismo è un progetto politico che punta al riassetto del rapporto di forza tra lavoratori e capitale.

Come tutte le espressioni astratte e con capienza semantica, dunque, il neoliberismo rischia di essere da un lato capace di sintesi e onnicomprensivo. La mia tesi è che oggi molti fenomeni non sembrano più corrispondere in modo chiaro a questo schema; viviamo in un mondo che è certamente ancora capitalista, ma in cui l’intervento dello Stato che era ideologicamente un tabù per i neoliberisti è sempre più palese e in cui alcune delle dinamiche che nutrivano il ciclo di accumulazione neoliberista, a partire dalla globalizzazione e la cosiddetta “grande moderazione” – in particolare bassa inflazione e stabilità macroeconomica – sembrano destinati a esaurirsi.

Lo Stato era davvero scomparso o eclissato? O piuttosto era mutata la sua modalità d’azione?

Paolo Gerbaudo: In politica c’è sempre una differenza tra ideologia e pratica politica, il famoso mare tra il dire e il fare.

 Al contempo l’ideologia, nel senso neutrale di sistema di idee, valori e credenze non è puramente un sistema di manipolazione e oscuramento della realtà così come voleva il pensiero marxista nella sua visione originale.

Al contrario assistiamo a un continuo tira e molla tra discorso politico e pratica politica, in cui divergere in maniera radicale nella pratica da quando si propone a livello retorico può essere un utile escamotage ma ha dei costi politici. Questo vale anche per la complessa relazione tra neoliberismo e Stato. Come hanno sostenuto diversi autori, tra cui Philip Mirowski, il neoliberismo è un discorso a forma di cipolla con diversi livelli. C’è un discorso pubblico che è estremamente semplificato e che è smaccatamente anti-statalista, lo vediamo ad esempio nelle dichiarazioni sentite ancora oggi da parte di chi vuole fare passare che lo Stato sia per sua natura inefficiente e sprecone e i dipendenti pubblici fannulloni.

Ma la pratica del neoliberismo è sempre stata più complessa e ha fatto uso del potere dello Stato per favorire il trionfo del mercato. Come ha sostenuto in Gran Bretagna Andrew Gamble il thatcherismo era una politica che sosteneva il potere di mercato ma grazie all’intervento di uno Stato forte, pronto a mobilitare la polizia contro i sindacati e a lanciarsi in avventure militari come quella delle Falkland.

Tuttavia, lo Stato neoliberista era concepito come uno Stato privo di potere discrezionale di intervento, ma votato puramente al sostegno e tuttalpiù alla regolazione del mercato: lo stato arbitro di cui parlava Milton Friedman.

 Quello a cui assistiamo oggi nell’era neo-statalista è un’accettazione diffusa che sia la realtà dello Stato che la necessità del presente comportano un ruolo molto più vasto e un interventismo molto più spinto di quanto il neoliberismo era disposto ad accettare.

Come in tutti i momenti di crisi e di implosione di una fase di globalizzazione economica l’intervento dello Stato diventa imprescindibile tanto più per la debolezza della società civile e della capacità della società di organizzarsi autonomamente: si pensi alla debolezza contrattuale dei sindacati in un momento di alta inflazione.

Per quali ragioni la crisi del 2008 non ha immediatamente determinato un passaggio a una nuova fase, ma piuttosto a un interregno?

Paolo Gerbaudo: Di fatto il 2008 segna il punto di inizio di una lunga agonia, descritta da Colin Crouch come la fase zombie del neoliberismo.

In quel momento la condizione numero uno per una transizione ideologica si è già in buona parte realizzata: l’ideologia egemonica ha esaurito la sua forza propulsiva.

A mancare invece è la condizione numero due di cui parlavo prima: l’esistenza, seppur in forma embrionica di una nuova visione del mondo, un insieme di proposte che possano riempire il vuoto ideologico aperto da tale crisi.

Già dopo il 2008 si comincia a parlare della necessità di invertire la logica dell’economia, ma quando si chiede quali politiche si debbano applicare in pratica le risposte latitano; l’unica risposta che alla fine passa è uno stimolo monetario con il famoso quantitative easing.

 Ma a livello fiscale si procede con una austerità che si rivela devastante per l’Occidente, portando gli Stati Uniti e tanto più l’Europa al declino proprio mentre la Cina fa grandi investimenti anticiclici.

Ora in qualche modo la lezione del fallimento dell’austerità sembra essere stata appresa anche da parte delle élite che avevano sostenuto la stretta della cinghia. Basti pensare all’economista, e consigliere economico del Governo Draghi, Francesco Giavazzi che se in passato era tra i teorizzatori della “austerità espansiva”, oggi, anche di fronte all’infiammarsi dell’inflazione che ha ridato coraggio ai falchi monetaristi nelle banche centrali, parla del fatto che la soluzione non è ridurre il numeratore (il debito pubblico), ma espandere il denominatore (il PIL).

 Perché gli anni Dieci sono stati un decennio populista? Il populismo è ora in crisi?

 

Paolo Gerbaudo: Gli anni Dieci sono stati il decennio populista come conseguenza diretta delle politiche di austerità e del fatto che non ci sono state politiche redistributive.

 I cittadini hanno avvertito, con buone ragioni, che la classe politica aveva deciso di fare pagare i costi della crisi a loro invece che a chi se lo poteva permettere, a partire dai ricchi e dall’alta classe media.

Nell’assenza di strutture di rappresentanza sociale e della debolezza dei sindacati, questo malcontento si è manifestato da un lato in movimenti di destra che volevano dare la colpa del declino economico e sociale agli immigrati, alle minoranze e a un presunto complotto globalista volto a privare i popoli della loro identità e delle loro tradizioni.

 E dall’altro da movimenti della cosiddetta sinistra populista, che puntavano a sopperire alla debolezza dei partiti social-democratici spesso convertitisi alle ricette del “libero mercato” attraverso mobilitazioni dal carattere plebiscitario-carismatico che facevano leva su movimenti di protesta come quelli del 2011 e la loro “effervescenza sociale” e su leadership personali come quella di Pablo Iglesias e Bernie Sanders.

Ora in parte quel momento sembra essersi esaurito, sia a destra che a sinistra. Questo è dovuto in parte al fatto che l’effetto traumatico della crisi del 2008 è maturato in visioni più articolate, in cui la costruzione di nuove identità adesso dà il passo allo sviluppo di politiche più concrete, e lo sviluppo di coalizioni di interesse più coerenti, che non possono più essere risolte semplicemente con l’appello al popolo proprio del populismo.

Inoltre, è dovuto al fatto che molti movimenti populisti hanno vinto e sono andati al governo e spesso hanno messo in luce l’inconsistenza delle proprie proposte o la necessità di trovare punti di mediazione con altre forze: questo ha un costo politico forte per forze che si presentavano come di rottura contro l’establishment.

Si pensi alla traiettoria del Movimento 5 Stelle passato da dire che avrebbe governato da solo e non avrebbe accettato alcun annacquamento delle proprie proposte, a essere forza politica che ha partecipato a ben tre esecutivi differenti.

Ma anche Podemos in Spagna ha attraversato difficoltà simili stretto nell’alleanza con il PSOE, mentre a destra Salvini è stato costretto a mille giravolte che hanno fortemente intaccato le sue credenziali populiste.

Dal populismo stiamo passando al neostatalismo sia a livello contenutistico, perché si passa dalla creazione di identità popolari a diverse visioni di come usare lo stato per fare l’interesse del popolo (o meglio dei diversi “popoli” che ogni movimento mobilita) ma anche a livello stilistico, con un certo ritorno di appeal per la competenza, la credibilità e la capacità di governare, specie dopo la pandemia e la sempre più forte evidenza di caos sistemico, di fronte al quale c’è domanda di “statisti”. Questo non toglie che, come paventato da Mario Draghi le presenti difficoltà specie sul fronte dell’inflazione e dell’energia non possano dare presto carburante a un nuovo ciclo populista.

Cosa si intende per “grande contraccolpo”? In che modo questo riporta in primo piano tre parole centrali nell’analisi del libro, sovranità, protezione e controllo?

Paolo Gerbaudo:

Il grande contraccolpo è la dinamica di implosione del neoliberismo e del sistema geopolitico e geoeconomico della globalizzazione su cui tale ideologia si reggeva.

 Il neoliberismo era possibile nel contesto di un mondo fatto di mercati aperti, con basse barriere doganali e flussi crescenti di commercio e investimenti all’estero; tutte condizioni che adesso sembrano entrare in crisi in un mondo sempre più diviso tra blocchi contrapposti e tra loro ostili.

 L’illusione di un’economia separata dalla politica sta venendo meno, mentre diviene più evidente quanto lo Stato continui a essere il perno della società specie quando la sicurezza sociale, ambientale, economica e oggi pure militare sono in forse.

 Lo Stato non se ne è mai davvero andato via. Semplicemente, durante la globalizzazione il suo ruolo era meno visibile perché ridotto a una sorta di pilota automatico.

Oggi, invece, la turbolenza macroeconomica e l’evidenza del rischio enorme comportato dal cambiamento climatico costringono i governi a ricorrere all’interventismo statale in tutte le sue forme; dalla politica fiscale, alla politica monetaria, dal protezionismo commerciale alla politica industriale. L’inflazione sta già portando a un controllo dei prezzi dell’energia, una politica che tradizionalmente i neoliberisti avrebbero visto come il fumo negli occhi perché distorce palesemente il “meccanismo del prezzo” da loro considerato come centrale per la razionalità economica.

Sovranità, protezione e controllo sono i tre volti della statualità che vengono alla luce in questo contesto.

Sovranità come supremazia della politica sull’economia; protezione come garanzia della sopravvivenza dei sistemi economici e sociali che garantiscono la riproduzione della società;

controllo come capacità di guidare e organizzare la realtà sociale.

Si tratta di domande sociali che diventano salienti di fronte all’incertezza e all’insicurezza e che riguardano tutte le forze politiche, che danno a esse risposte molto differenti, in base alla loro visione del mondo e agli interessi che rappresentano.

 Le domande sociali della nostra era sono in qualche modo definite in partenza: non possiamo decidere le priorità del nostro tempo, esse ci vengono affidate oggettivamente da una contingenza storica. Quello che la politica può stabilire sono le risposte a tali domande.

In cosa differiscono le diverse “versioni” possibili – di destra, di sinistra e di centro – del neostatalismo?

Paolo Gerbaudo: Abbiamo tre neostatalismi diversi tra di loro, che competono per presentarsi come la vera risposta credibile a questa contingenza.

Da un lato abbiamo un neostatalismo di destra che descrivo anche come un protezionismo proprietario: perché ciò che vuole proteggere è prima di tutto la proprietà, le grandi e piccole ricchezze accumulate durante il periodo di vacche grasse della globalizzazione, ora messe in pericolo dalla lunga fase prima di stagnazione e oggi di vero e proprio declino in cui montano le domande redistributive.

Per fare questo la destra propone di alleare i ricchi con settori della classe operaia nelle zone periferiche e rurali che si sentono traditi dalla classe media intellettuale e che vedono gli immigrati come una minaccia per la loro già precaria condizione.

Questo è in sintesi la strategia politica di Giorgia Meloni in Italia, di Marine Le Pen in Francia, e di Donald Trump e Ron DeSantis negli Stati Uniti: una politica che risponde alla paura alimentando il terrore della “sostituzione” e del collasso di civiltà.

A sinistra abbiamo invece un neostatalismo di stampo socialdemocratico radicale, che propone di riportare alla ribalta le politiche dell’era keynesiana e costruire un nuovo sistema di protezione integrale – economico, sociale e ambientale – che metta fine alla corsa al ribasso della globalizzazione, alla precarietà esistenziale a cui sono state condannate milioni di persone.

 È la politica promossa dal ministro del lavoro Yolanda Diaz in Spagna, da Bernie Sanders negli Stati Uniti, da Jean-Luc Mélenchon in Francia, in cui la protezione va a braccetto con un recupero dell’idea di pianificazione, termine odiatissimo dai neoliberisti: perché l’unico modo per salvare l’economia dal caos è riprendere il controllo delle reti e delle imprese strategiche.

 Ma anche al centro assistiamo ad alcuni aggiustamenti. Da un lato alcuni neoliberisti si sono radicalizzati adottando posizioni apertamente libertarie, che giustificano le posizioni di monopolio e di rendita in una logica dell’economia come legge della giungla.

Dall’altro centristi come Biden hanno tentato di integrare alcune istanze socialdemocratiche ma senza la decisione e risolutezza necessaria a vincere le enormi resistenze che vengono dalle lobby neoliberiste, che non vogliono cedere neppure un centimetro né un centesimo, pur sapendo che il rischio è una vittoria schiacciante della destra nazionalista.

Quali sono i principali rischi che si annidano nel passaggio che stiamo vivendo? Quali invece le prospettive più auspicabili?

Paolo Gerbaudo: Senza provare alcun gusto a fare la Cassandra, penso che ci dobbiamo rendere conto della gravità della congiuntura storica in cui viviamo e dell’assoluta inadeguatezza delle risposte politiche finora espresse dai partiti mainstream.

 È vero che l’emergere del neostatalismo, e la sua progressiva accettazione presso alcuni settori sia del centrosinistra che del centrodestra, riflette un certo grado di apprendimento rispetto al fallimento dell’ideologia del “libero mercato” e la necessità di politiche che mettano un freno quantomeno alle sue tendenze più palesemente distruttive.

Tuttavia, la politica è ancora indecisa e lenta nel trarre le necessarie conclusioni politiche. L’inflazione galoppante e la crisi energetica stanno già avendo adesso conseguenze molto pesanti presso lavoratori che escono da un decennio di sofferenza a causa delle politiche di austerità e con salari che in Paesi come l’Italia hanno addirittura perso terreno rispetto alla fine degli anni Novanta.

Che cosa possiamo aspettarci se alcune famiglie saranno costrette a sacrificare addirittura il riscaldamento?

I veri riformisti dovrebbero approntare soluzioni radicali, ma al contempo pragmatiche e necessarie, come quelle prese dopo la fine del Secondo conflitto mondiale.

 Se le imprese energetiche applicano prezzi così alti per l’energia rastrellando enormi profitti, il minimo è tassare tali profitti, ma la soluzione vera è riportare tali compagnie sotto controllo pubblico, che è il modo più logico per assicurare che facciano l’interesse pubblico e che la loro azione sia votata a una transizione energetica che deve avvenire in tempi molto brevi se vogliamo evitare un aumento catastrofico della temperatura del pianeta.

 Inoltre, di fronte all’inflazione galoppante e a fronte della debolezza contrattuale dei sindacati se si vuole evitare la prospettiva di rivolte il prossimo autunno è urgente reintrodurre la scala mobile, garantendo aumenti generalizzati dei salari per compensare la perdita di potere d’acquisto.

 Nel contesto italiano è ridicolo che si continui a dibattere del salario minimo come se fosse una proposta rinviabile, quando siamo uno dei pochi Paesi europei a non averlo, e dato che potrebbe essere un primo passo verso una misura come la scala mobile.

Infine, il cambiamento climatico impone un’accelerazione nella trasformazione del sistema energetico, dei trasporti, del sistema di produzione che può solo avvenire sotto la spinta di un gigantesco intervento pubblico: solo con enormi investimenti possiamo creare le reti e le infrastrutture necessarie per permettere anche alle imprese private di scommettere sul futuro.

Non si tratta di proposte da Soviet, ma sulla linea di figure come Roosevelt durante il New Deal, il Labour nel dopoguerra o i nostri governi di centrosinistra degli anni Sessanta e Settanta.

 Se oggi tali proposte vengono viste come radicali è solo frutto di una distorsione ottica prodotta da un radicale spostamento a destra della politica economica durante l’era neoliberista.

È un programma audace, ma l’alternativa è un ritorno del nazionalismo in forma ancora più tossica di quella che abbiamo conosciuto durante gli anni Dieci. Una prospettiva che rischiamo di vedere presto arrivare a compimento negli Stati Uniti dopo il fallimento della Bidenomics.

La posta in gioco è molto alta e i rischi incalcolabili. Ma questa congiuntura offre anche la possibilità di recuperare una visione ambiziosa della politica come costruzione cosciente del futuro, che i neoliberisti vedevano come un viatico per l’autoritarismo.

Solo pensando in grande, e recuperando l’idea di protezione sociale, di controllo sull’economia e di democrazia che erano proprie dei grandi movimenti socialisti e socialdemocratici del Novecento abbiamo un’opportunità per ribaltare la paura oggi prevalente su ogni fronte in un desiderio disperato di cambiare la realtà.

(Giacomo Bottos)

 

 

 

 

“Teoria critica dell’Antropocene”

 di Paolo Missiroli.

Pandorarivista.it- Giulio Pennacchioni- Paolo Missiroli- (19 luglio 2022) -ci dicono:

 

(Recensione a: Paolo Missiroli, Teoria critica dell’Antropocene. Vivere dopo la terra, vivere nella terra, Mimesis, Milano-Udine 2022, pp. 140).

Oggi, nell’epoca in cui la pandemia da Covid-19 ha stravolto le nostre vite e in cui i rapporti dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) diventano di anno in anno più preoccupanti, viene sempre più spesso menzionata una parola: Antropocene.

Ma che cos’è l’Antropocene? È solo il nome dell’attuale epoca geologica o è possibile rintracciare in questo termine anche altri significati?

Fornire un quadro complessivo del dibattito attorno al concetto di Antropocene è il primo degli obiettivi del libro di Paolo Missiroli Teoria critica dell’Antropocene, edito da Mimesis a febbraio 2022.

Già dalle prime pagine, Paolo Missiroli fornisce da subito al lettore una definizione minima di Antropocene, «tanto vaga quanto poco funzionale» (p. 12), riportando brevemente i passaggi fondamentali delle due scienze in cui questo concetto si è sviluppato: la climatologia e la geologia.

L’ambito di studio di entrambe queste discipline è il Sistema Terra:

infatti la scienza del Sistema Terra (Earth System Science), sviluppatasi a partire dalla fine degli anni Settanta, è il solo quadro epistemologico a partire dal quale le due scienze e il concetto di Antropocene possono darsi.

Nucleo centrale dell’ESS è la seguente affermazione:

 «Il Sistema Terra si comporta come un singolo sistema auto-regolantesi composto da elementi fisici, chimici, biologici e umani, con interazioni complesse tra queste stesse componenti».

Dal punto di vista storico, è stato il meteorologo Paul Crutzen ad avviare il dibattito sull’Antropocene, facendo iniziare quest’epoca geologica nel 1784, ossia l’anno in cui James Watt brevettò la prima locomotiva a vapore della storia, andando così a porre le basi per quel ciclo di emissioni di CO2 che prosegue ancora oggi. Premessa a tale posizione, molto diffusa nel primo decennio del XXI secolo, è che l’Antropocene coincida con il momento in cui l’uomo ha iniziato a influenzare la concentrazione in parti per milione della CO2 nella stratosfera.

 L’approccio propriamente climatologico è però mutato verso un piano d’analisi geologico intorno al 2009, anno dell’istituzione dell’Anthropocene Working Group (AWG).

Ponendosi come scopo quello di riuscire a collocare l’Antropocene nella carta cronostratigrafica, cioè «la rappresentazione dei vari “tempi” che il nostro pianeta ha attraversato» (p. 13), ciò che i geologi dell’AWG hanno sostenuto è che sia possibile determinare temporalmente questa epoca geologica attraverso i cambiamenti provocati dalla stessa nel suolo terrestre.

Ed è negli anni Cinquanta del XX secolo che il gruppo di ricerca ha collocato l’inizio dell’Antropocene, nello specifico per via dell’uranio rilasciato dagli esperimenti nucleari dell’epoca.

 E lo stesso problema alla base degli studi di Crutzen o dell’AWG, ovvero sull’origine di quest’epoca geologica, è quello a cui Missiroli dedica le prime due sezioni del libro, nelle quali vengono appunto ripercorsi i vari tentativi di rispondere alle domande: “Da dove viene l’Antropocene? Chi lo ha causato? Quando comincia?”.

 

 L’Antropocene prometeico.

Nella prima parte di Teoria critica dell’Antropocene, Paolo Missiroli si occupa della più diffusa fra le interpretazioni sull’origine della trasformazione geologico-ecologica in atto, che si potrebbe designare con il nome di “discorso prometeico” sull’Antropocene.

 Chiarito che prometeismo è qui da intendere nel senso che Herbert Marcuse attribuiva a questa parola, ovvero di «atteggiamento» (p. 31), di «pensiero che esprime la necessità, per l’umano, del dominio e della trasformazione tecnica di tutto ciò che umano non è» (p. 31), che cosa si intende con Antropocene prometeico?

Proprio sulla base del significato di prometeico, in questa lettura l’Antropocene è pensato come «l’epoca di un dominio pieno e incontrastato dell’umanità, intesa come un tutto indistinto, sul pianeta Terra, ormai ridotto a oggetto manovrabile e integralmente gestibile» (p. 32).

L’esito pratico-politico dell’Antropocene prometeico coincide infatti perfettamente con le proposte della geo-ingegneria, cioè quella scienza in cui l’ingegneria viene applicata ai fenomeni geologici del Sistema Terra.

I progetti principali della geo-ingegneria sono di due tipi: quelli volti a controllare le radiazioni solari (Solar Radiation Management, SRM) e quelli che invece mirano a rimuovere quantità ingenti di CO2 dall’atmosfera (CO2 Removal, CDR).

In questa visione, l’epoca geologica in cui viviamo e a cui andiamo incontro, che si compirà definitivamente solo con il dominio definitivo dell’uomo sulla natura, viene definito «Buon antropocene».

 A tal proposito, studio di riferimento è il lavoro di Ted Nordhaus e Michael Shellenberger, del Breakthrough Institute – di cui sono stati fondatori nel 2003 –, filosoficamente vicini a quelli corrente di pensiero definita eco-modernismo.

L’Antropocene è per Nordhaus e Shellenberger non soltanto la prova definitiva della distanza ontologica fra la Terra e l’uomo, ma anche della capacità di quest’ultimo di dominare e controllare la prima, trovando un equilibrio anche per i dieci miliardi di individui previsti per la metà del XXI secolo.

Sarà quindi nella sempre maggiore distanza dell’essere umano dalla Terra e nel conseguente progresso tecnologico che si svilupperà la soluzione agli attuali problemi ambientali.

Come evidenziato da Missiroli, in questo approccio l’essere umano è inteso come «serial killer ecologico» (p. 36): attività negatrice nei confronti della natura.

Si prenda ad esempio la riflessione di Yuval Noah Harari (socio di Klaus Schwab), le cui due più recenti opere Sapiens e Homo Deus sono la perfetta espressione della modalità ingegneristica di pensare la natura.

 L’intera storia dell’uomo vi è letta come «una storia della colpa ecologica», perché l’homo sapiens è presentato come colui che «imprime il movimento alla natura perché la distrugge per essenza, […] antropologizzandola».

Facendo riferimento anche ad altri autori, come Mark Lynas, Erle C. Ellis o ancora Guido Chelazzi, un altro intento centrale del primo capitolo è mostrare come alla base dell’idea di Antropocene prometeico vi sia una considerazione dell’Antropocene come un’epoca che si realizzerà compiutamente solo quando l’homo sapiens porterà a termine il processo di totale tecnicizzazione della Terra.

 

Complementare a questa antropologia negativista dell’essere umano è un certo modo di intendere lo spazio, «compatto e oggettivabile» (p. 45).

La Terra dei progetti geo-ingegneristici appare infatti piatta, svuotata da ogni profondità e da ogni resistenza. «Deve essere uno spazio piano, al fine di consentire non solo il dispiegarsi della geo-ingegneria, ma anche, più in generale, dell’azione dell’essere umano su di essa: suolo infinitamente appropriabile, spazio privo di autonomia» (p. 45). Terra che prende così il nome di “globo”, cioè ciò che citando Tim Ingold «può essere appropriato», che «può essere visto dall’alto al fine di nascondere la complessità biologico-culturale degli ecosistemi».

 L’immagine della Terra come blue marble (biglia blu) della Navicella spaziale Apollo 17 è quindi ciò che serve a questa lettura dell’Antropocene: la Terra è percepita come finita, basata su «una rete di relazioni del tutto orizzontali» (p. 48) e perciò governabile tecnicamente, sfera infinitamente manipolabile.

Il globo, la blue marble, sono quindi immagini funzionali a quel processo di riduzione della complessità della Terra, che rientra così del tutto all’interno di quelle prospettive che affidano all’uomo il compito di gestirla.

 Questa l’idea alla base di un progetto di ricerca internazionale come Future Earth, in cui si tenta di coniugare l’ESS (Earth System Science) con una prospettiva di intervento attivo sul clima globale.

Premessa infatti all’ESS non è soltanto l’idea del sistema Terra come sistema auto-regolantesi a partire dalle interazioni interne fra i vari elementi che lo compongono, ma anche quella di un homo sapiens autonomo da quel sistema e perciò in grado di stravolgerlo.

 Questa stessa idea è anche alla base anche del recente libro di James Lovelock Novacene: lo scienziato ritiene possibile una gestione integrale del Sistema Terra, totalmente controllato da macchine capaci di sostituire quanto di naturale vi è all’interno dell’uomo stesso.

L’uomo crea dunque l’Antropocene, la sua epoca geologica, il suo tempo, marcando in tal modo la propria sostanziale differenza rispetto a quel tempo naturale (deep time) che è invece il tempo geologico.

 L’uomo moderno, dell’Antropocene, può al limite convivere con quella storia naturale che lo precede, ma è ormai incolmabile la sua distanza rispetto a questa.

Se fino al XVIII secolo il tempo dell’uomo coincideva con quello circolare della natura, ad esempio dell’alternarsi delle stagioni, poi, con la modernità, non è stato più così.

 Se prima l’historie, naturale e no, era pensata come una rivoluzione, nel senso di ritorno all’origine, con l’irrompere della modernità l’uomo ha cominciato a pensarsi sempre proiettato in avanti. Il tempo naturale, circolare, della Historie, è infatti dai moderni sostituito da quella freccia in avanti che è il tempo della Geschichte, la storia moderna.

Come già rilevato da Reinhart Koselleck nel suo celebre Futuro passato, la storia dei moderni è del tutto proiettata in avanti, totalmente umana, ontologicamente diversa dal tempo della natura.

«Una freccia ab-soluta, del tutto umana e del tutto moderna» (p. 55), riprendendo Stephen Jay Gould. Tempo solo umano, dunque, non ancora realizzato e che potrebbe non realizzarsi nella forma di quel miracolo geo-ingegneristico finora descritto, ma anche realizzarsi come catastrofe.

Questa l’idea alla base della collassologia, teoria sostenuta da autori come Roy Scranton, Pablo Servigne o ancora Raphaël Stevens. Come sottolineato in Teoria critica dell’Antropocene, se a ragione questi autori denunciano l’insostenibilità del rapporto occidentale fra uomo e natura, totalmente basato sul dominio tecnico del primo verso la seconda, al contempo evidenziano quello stesso vuoto tra moderno e non-moderno tematizzato nella geo-ingegneria. Secondo quest’ultimo approccio, l’uomo riuscirà a dominare la natura, mentre secondo i collassologi l’uomo sarà dominato da questa. Tratto comune a entrambe le posizioni è però l’impossibilità di una relazione fra le due parti.

 

 L’Antropocene del Capitale.

Nel secondo capitolo del volume, Paolo Missiroli fa chiarezza su quelle teorie secondo cui è il modo di produzione capitalistico la causa principale delle trasformazioni ecologiche in atto.

A partire dal testo di Naomi Klein” This changes everything”, di cui il sottotitolo significativo Capitalism vs the Climate, fino ai movimenti globali sorti fra il 2018 e il 2019, il tema dell’Antropocene permette di porre in evidenza la problematicità di una convivenza fra il modo di produzione capitalistico, basato sulla crescita illimitata, e la Terra, che invece illimitata non è.

Questo tipo di analisi ha portato allo sviluppo della nozione di “Capitalocene”, emersa tra la fine degli anni Duemila e i primi anni Dieci del XXI secolo, in contrapposizione all’idea di Antropocene prometeico.

 Come evidenziato da Missiroli, merito principale di Jason Moore – il più noto propugnatore di tale teoria – è stato quello di evidenziare come il capitalismo sia una “ecologia mondo”, espressione con cui si vuole indicare la totale riduzione della natura al fine del profitto.

In questo senso, il capitalismo non ha un regime ecologico, ma è un regime ecologico, rifiutando così quel dualismo fra natura e cultura della modernità occidentale descritto da Bruno Latour.

Nel Capitalocene, l’unica dimensione è quella dell’oikeios, cioè «la relazione creativa, storica e dialettica tra, nonché dentro, le nature umana ed extra-umana».

 Tesi di fondo di Jason Moore – condivisa in parte anche da altri autori, come Achille Mbembe o Malcom Ferdinand – è che dunque dalla metà del XVI secolo alla metà del XVIII si sia avviato un processo di sfruttamento del mondo naturale che ha condotto all’attuale forma di produzione capitalistica dominante.

Premessa di questo processo, l’esistenza di una natura sfruttabile, considerata soltanto in questo suo ruolo. Si tratta di uno sfruttamento, peraltro, non solo della natura intesa come flora e fauna, ma anche degli stessi umani, i non-moderni, e che ha condotto a quella brutalizzazione di questi ultimi spiegata da Achille Mbembe nel suo Brutalisme, ossia l’effetto dell’imposizione del modello di vita occidentale a popoli indigeni inizialmente estranei ai modi di produzione del mondo moderno.

L’edificazione di immense piantagioni nei territori colonizzati va infatti interpretata in questo modo, così come l’enorme massa di uomini e donne impiegati nella coltivazione delle stesse.

 Ma il mondo è veramente totalmente a disposizione dell’uomo occidentale capitalista?

 Il limite intrinseco della realtà naturale è quello che Jason Moore chiama «tendenza alla caduta del surplus ecologico» – e qui sta il grande merito della sua teoria, pur non priva di nodi critici.

Missiroli sottolinea infatti come Jason Moore manchi di considerare una delle caratteristiche principali del sistema capitalistico, ovvero la sua capacità di costituire continuamente nuove forme teorico-pratiche di appropriazione dell’ecosistema terrestre.

Non a caso, il modello Green Economy, forma che il capitalismo ha oggi assunto, è ben consapevole dei limiti intrinseci del Sistema Terra in continua trasformazione. Nell’ambito della sua idea di ecologia-mondo, Jason Moore non riflette poi sul fatto che, se non vi fosse una dimensione – quella naturale – separata da quella umana e di cui potersi appropriare, non esisterebbe neppure il capitalismo.

Per dirla attraverso un esempio già usato da Kenneth Pomeranz, se in Inghilterra non fossero state presenti grandi quantità di carbone, o se sulla Terra non fossero state presenti grandi quantità di petrolio, allora il capitalismo non sarebbe neppure iniziato. Porre le due dimensioni sullo stesso livello è senza dubbio un errore.

Proprio la centralità dei combustibili fossili per lo sviluppo del modo di produzione capitalistico, nonché per l’avvio dell’epoca antropocentrica, è al centro delle analisi di Andreas Malm.

Come emerge chiaramente in “Teoria critica dell’Antropocene”, l’obiettivo critico dell’autore svedese è la vulgata secondo cui il carbone sarebbe stato scoperto alla fine del Settecento e si sarebbe poi imposto autonomamente come fonte di energia principale per ben due rivoluzioni industriali.

Malm mostra infatti come al tempo l’energia più presente sul suolo inglese fosse quella dello scorrere dei corsi d’acqua. Fu dunque una scelta politica quella di affidarsi al carbone, «ontologicamente soggetto al capitalista», a differenza della «località ineliminabile» dei corsi d’acqua.

Gli stessi partecipanti alle lotte che scossero l’Inghilterra intorno alla metà dell’Ottocento erano consapevoli di questo, nonché della sconvenienza da un punto di vista economico che il carbone avrebbe comportato rispetto al modello di produzione basato sui corsi d’acqua.

A differenza di Moore, secondo cui il Capitalocene ha avuto inizio verso la metà del XV secolo, Malm, ponendo i combustibili fossili al centro della storia del capitalismo, ne colloca così l’origine negli ultimi due secoli.

Da un punto di vista geologico, le difficoltà sono ancora maggiori: infatti soltanto Simon L. Lewis e Lewis Mumford collocano l’Antropocene nel 1610, scegliendo una data di inizio in qualche modo vicina al periodo individuato da Moore nelle sue ricerche.

Secondo Lewis e Mumford il 1610 è infatti l’anno in cui dallo studio di sei reperti geologici raccolti in diversi luoghi del pianeta è possibile apprezzare l’Orbis Spike, cioè il punto in assoluto più basso di una serie di indicatori riconducibili all’attività umana sulla Terra (la concentrazione di CO2 nell’atmosfera, la temperatura della superficie del mare ecc.). Tuttavia, malgrado questa possibile vicinanza, non bisogna dimenticare la profonda differenza fra le due ricerche, storica quella di Moore e geologica quella di Lewis e Mumford. In conclusione, pur non mancando i nodi controversi all’interno della teoria del Capitalocene, quest’ultima ha comunque dei meriti. Nello specifico, se a Malm si deve di aver rilevato l’esistenza di un’autonomia della Natura, non considerata secondo l’idea di ecologia-mondo di Moore, a quest’ultimo va il merito di aver posto l’accento sull’importanza del capitalismo nell’analisi delle varie concause che hanno portato a questa nuova epoca geologica.

Per una teoria critica dell’Antropocene.

Nella terza sezione del libro Missiroli cambia invece il criterio attraverso cui riflettere sull’Antropocene, riuscendo così a costruire una teoria critica di questo concetto, che è l’altro obiettivo del volume.

Se nell’idea di Antropocene prometeico o di Capitalocene si tentava di rispondere alla domanda intorno all’origine di questa nuova epoca geologica, in quest’ultima parte Missiroli intende invece rispondere alla domanda: “Che cosa ci rivela il fatto che siamo in questa nuova epoca geologica?”.

Si tratta insomma del problema della condizione, che seppur legata a doppio filo a quello dell’origine, non coincide con esso. Ed è a partire dalle idee di Eva Horn e Hannes Berthgaller che Missiroli inizia a rispondere alla domanda sulla condizione di questa nuova epoca geologica.

Secondo questi autori, vi sono due modalità attraverso cui viene concepito l’essere umano. Da un lato quella eco-modernista, che, come intuibile dal nome stesso, ricalca quell’antropologia negativista dell’essere umano sostanziale alla visione prometeica dell’Antropocene; dall’altro quella del post-umanesimo ecologico, dove l’essere umano è semplicemente visto come una delle parti nell’insieme delle forze che compongono il Sistema Terra.

In linea con quest’ultima visione dell’anthropos, anche Dipesh Chakrabarty riflette attorno alla nozione di Antropocene, ma da un punto di vista storico. L’idea fondamentale che attraversa i suoi testi è che la nozione di Antropocene, lungi dal porre l’uomo al centro della narrazione, al contrario lo decentri. Secondo Chakrabarty, l’esistenza stessa di un “clima della storia” è la dimostrazione che ogni storia che metta al centro l’umano – come nella visione di Harari, o dei teorici del Capitalocene – debba essere anzitutto subordinata almeno alla storia geologica del pianeta, in tal senso più grande, onnicomprensiva di tutte le altre.

È proprio a partire da questo rapporto – che Chakrabarty definisce di imminenza – che la storia della Terra intrattiene con tutte le altre che è possibile rifiutare l’idea secondo cui la specie umana possa prendere il controllo integrale del Sistema Terra.

Recuperando un concetto di Augustin Berque, si tratta di andare a recuperare la strutturale geo-graficità dell’essere umano, cioè il suo essere in continuo rapporto con un grande numero di altre storie non-umane.

Il fatto che l’essere umano sia il principale fattore di influenza stratigrafica rivela così il contrario esatto di quanto si sarebbe portati a pensare. Porre un primato dell’agency umana su tutte le altre significa ignorare deliberatamente tutto il funzionamento della scienza biologica.

Se pure è vero che sono principalmente le azioni umane a modificare il clima del pianeta, ciò non significa che l’uomo sia l’unico a possedere un’agency, né che sia il signore del pianeta.

Non a caso, quando l’IUGS (International Union of Geological Science) formalizza un qualsiasi periodo geologico, non è interessata alle cause che nella sezione stratigrafica hanno generato il punto di rottura.

 Come chiarito da Missiroli, «l’Antropocene non è il momento di controllo di un Globo da parte dell’uomo, bensì l’evento attraverso cui tale appartenenza diviene il centro della vita storica dell’umanità stessa, pensata in continuità con quello sfondo» (p. 102). L’Antropocene è dunque una convergenza di molteplici storie: è Capitalocene; è Plantationcene (p. 103); è l’evoluzione biologica dei bovini e del loro processo digestivo unito all’allevamento industriale. E tutte queste storie, tra loro differenti, vanno pensate come autonome e, al tempo stesso, legate a quella “più grande” dell’Antropocene. Su questo stesso piano di ragionamento si pongono anche le riflessioni di Donna Haraway o del già citato Latour. Riportando le parole di Missiroli, «si potrebbe dire che l’homo sapiens è un animale intrinsecamente eco-logico, cioè immaginabile solo in una rete di relazioni con umani e non umani» (p. 109).

Non a caso, lo stesso funzionamento della Terra non è spiegabile attraverso il modello meccanicista di matrice cartesiana, ma si fonda proprio sulla considerazione di queste continue interazioni fra elementi umani e non-umani.

Detto in altro modo: ogni volta che un singolo elemento del Sistema Terra si modifica, tutto il resto ne viene condizionato. Come scritto in Teoria critica dell’Antropocene, «la scienza del Sistema Terra si fonda dunque su un’epistemologia dell’incertezza» (p. 115).

La Terra possiede un lato nascosto, mai completamente oggettivabile (prometeicamente) e mai totalmente dato allo sguardo di un soggetto. A conferma di ciò, anche la pandemia da Covid-19: una delle molteplici reazioni inaspettate del Sistema Terra che nell’Antropocene hanno già colpito e colpiranno le società umane.

A partire da queste scoperte dovute all’aver messo l’accento sulla condizione piuttosto che sull’origine dell’Antropocene, Paolo Missiroli può infine compiere quell’operazione annunciata nell’Introduzione del suo libro: farne una teoria critica.

 Se infatti da un lato non hanno alcun senso gli appelli presenti nel dibattito pubblico per una “uscita dall’Antropocene”, dall’altro ciò non significa che tale concetto non sia passibile di critica.

 Se infatti è chiaro da un punto di vista geologico ed ecologico che “uscire” dall’Antropocene sia impossibile, al contempo è proprio su questa irreversibilità che Missiroli fonda la sua teoria critica.

 Posto che quest’epoca geologica non è quella dell’uomo serial killer ecologico, ma quella in cui il pianeta Terra reagisce alla nostra agency, lo scopo della teoria critica di Missiroli è quello di cercare di ristabilire un equilibrio fra gli uomini, i non-umani ela Terra, tutti attori di quello sfondo inamovibile che è l’Antropocene stesso.

Lungi dal predicare qualsiasi forma di primitivismo, si tratta di ristabilire la giusta consapevolezza del rapporto fra l’essere umano e i non-umani, ontologicamente.

Una teoria critica, evidenziate le criticità dei rapporti fra mondo moderno e naturale, fra modo di produzione capitalistico ed ecosistemi terrestri, non potrà che basarsi su un criterio ontologico – su un rapporto di imminenza, citando Chakrabarty.

Solo in tal modo diviene possibile fotografare la nostra situazione storica, quella dell’Antropocene, e distinguere fra il tentativo di dare al nostro mondo storico una forma nuova, ecologica, e la perpetrazione di un modo di produzione che ha già espresso tutta la sua potenzialità distruttiva.

 Merito di questo libro l’aver tematizzato la necessità per l’essere umano di istituire questa certa forma di Antropocene.

Concludendo con le parole dell’autore, «una teoria critica dell’Antropocene non si propone che di donare a questo movimento reale, nel suo abbattersi al contempo per distruggere e istituire, un minimo di forza in più» (p. 138).

 

 

 

 

LE IDEOLOGIE SONO MORTE

MA GLI IDEALI NO. È LA POLITICA CHE

PER INTERESSE NON LI RAPPRESENTA PIÙ.

Thevision.com- DANIELE FULVI- (1° FEBBRAIO 2021) - ci dice:

Nel dibattito politico degli ultimi anni, viene dedicata un’attenzione sempre più grande a posizioni cosiddette “post-ideologiche”, che mirano al superamento delle contrapposizioni concettuali destra/sinistra, fascisti/comunisti e così via, in nome di una politica più pragmatica e votata agli interessi reali dei cittadini: quello che oggi è il mio peggior avversario politico, domani potrebbe essere il mio alleato di governo.

In questo scenario, un ruolo sempre più centrale viene giocato dai leader dei vari partiti. La loro vita sembra dipendere più dal volere dei loro capi – e dagli scranni che occupano – piuttosto che dalla reale condivisione di ideali o di una determinata visione del futuro.

A partire dall’epoca del primo Berlusconi, il leader di un determinato partito o schieramento ha rappresentato un elemento sempre più determinante ai fini del voto:

 da una trentina d’anni a questa parte, non si vota più per appartenenza ideologica, ma in base al carisma del candidato a guida di questa o quella lista. Su queste basi.

Beppe Grillo già nel 2010 prendeva nettamente le distanze dagli schieramenti tradizionali di destra e sinistra, definiti come “comitati d’affari”; e a distanza di tre anni ribadiva il concetto sostenendo che il M5S fosse un movimento di natura post-ideologica, lanciando il famoso mantra del “né di destra né di sinistra”; infine, nel 2018 il comico genovese si è spinto ancora oltre, arrivando a sostenere che il movimento da lui fondato fosse “la più grande forza post-ideologica d’Europa”.

Visto il successo in termini di consenso, anche i partiti storicamente schierati a destra, ovvero la Lega e Fratelli d’Italia, hanno deciso di seguire l’esempio della propaganda grillina.

Salvini, ad esempio, nel 2015 definì l’antifascismo come “una roba da libri di storia”, dal momento che l’ideologia fascista e quella comunista appartengono al passato e non sono in grado di rappresentare le categorie politiche odierne.

 Anche Giorgia Meloni non è da meno: da sempre, infatti, la leader di FdI è impegnata nell’opera di normalizzazione e istituzionalizzazione del fascismo, in nome proprio di quella politica post-ideologica che vorrebbe superare posizioni faziose e “da tifoseria”.

Perfino il successo elettorale di Trump nel 2016 è in parte dovuto al fatto che sia stato presentato come un leader post-ideologico di un movimento che “trascende le vecchie ideologie”. Infine, la recente crisi di governo nel nostro Paese, dettata più dagli interessi individuali di singoli politici piuttosto che dalla genuina passione per principi etici e politici, sembra essere un’ulteriore conferma della validità delle posizioni post-ideologiche.

Infatti, l’agenda politica dei vari leader di partito sembra basarsi sempre più sugli interessi di potere dei singoli, anziché su una visione economica e sociale di ampio respiro per il futuro.

Le ideologie politiche che hanno caratterizzato il Novecento, dunque, sembrano essersi eclissate in maniera definitiva, rimpiazzate dal trasformismo e dall’individualismo.

Eppure, il fatto che queste ideologie siano morte non significa che lo siano anche gli ideali, soprattutto fra le nuove generazioni.

 Mai come oggi si ha da un lato l’impressione che la politica non segua più alcun ideale, ma muti in base all’occorrenza e alla convenienza, dall’altro, però, al di fuori delle stanze del potere, si stanno costruendo e stanno crescendo sempre più delle comunità fondate su ideali molto forti. E nuovi ideali danno vita a nuove ideologie che si adattano ai problemi del nostro tempo, nel tentativo di affrontarli e trovare una soluzione, sulla base di un’etica e una visione del mondo condivise.

Proprio in virtù di questa natura dinamica, non si può affermare che le ideologie siano morte e che siano state definitivamente soppiantate da una sorta di nichilismo etico e di cinico opportunismo.

Nel dibattito politico quotidiano il concetto stesso di “ideologia” viene interpretato in maniera superficiale e arbitraria: infatti, quando si accusa qualcuno di avere una posizione ideologica, si intende dire che le sue idee e i suoi discorsi sono astratti, teorici e fondati su pregiudizi.

In realtà, però, l’ideologia è tutt’altra cosa: lungi dall’essere un insieme di nozioni fumose e valide solo in ambito teorico, essa consiste precisamente in un sistema di valori e coordinate concrete in base a cui gli esseri umani orientano le proprie azioni nel mondo.

 L’ideologia è quanto di più tangibile e pragmatico esista, dato che rappresenta una sorta di prontuario a cui tutti noi ci atteniamo più o meno fedelmente – e più o meno consapevolmente.

Per dirla con il filosofo francese Althusser, l’ideologia è “un sistema di idee solo in quanto è un sistema di rapporti sociali” e in quanto tale costituisce la linfa vitale di ogni società.

Louis Althusser.

Perciò, parlare di epoca post-ideologica significa da un lato avallare un luogo comune che produce solamente cattiva politica (e cattivi politici), e dall’altro utilizzare un metro di giudizio inadeguato a comprendere i tempi in cui viviamo.

Non è vero che siccome le ideologie sono morte, allora c’è bisogno di politici post-ideologici e spregiudicati; al contrario, è vero che siccome la classe dirigente italiana non è in grado di rispondere alle esigenze e ai problemi reali del Paese, poiché non ne comprende gli ideali, allora politici, giornalisti e opinionisti vari – in mancanza di argomenti migliori – giustificano tale atteggiamento sulla base di una presunta morte delle vecchie ideologie.

Ma sposare un’ideologia non significa necessariamente adottare dei pregiudizi o accontentarsi di una visione pigra o utopica della realtà. Al contrario, spesso è proprio chi è animato da ideali sinceri e da convinzioni etiche solide a realizzare i cambiamenti più significativi in ambito politico e sociale.

La retorica della morte delle ideologie ha come effetto ultimo quello di allontanare i cittadini dalle istituzioni e dai processi decisionali, di fatto accentrando il potere nelle mani dei leader più in voga. Perciò, risulta chiaro come “trascendere le ideologie” o affermarne la fine non significa altro che annientare il senso critico della popolazione prevenendo la reale necessità di un cambiamento dei rapporti sociali.

 In pratica, se si convincono tutti i cittadini che le ideologie sono dei paraocchi che impediscono di vedere le cose in maniera oggettiva, se non addirittura dei pesi morti di cui liberarsi, si ottiene come risultato sia la creazione di una classe dirigente elitista e incapace di rapportarsi ai cittadini, sia la subordinazione acritica del popolo a quella stessa classe dirigente.

Facendo un parallelo con il pensiero di Gramsci, possiamo dire che è esattamente in questo modo che le classi dominanti costruiscono la loro egemonia. Come ci spiega in maniera chiara ed efficace Alessandro Barbero, una classe diventa dominante quando riesce a far sì che anche le altre classi accettino la sua ideologia, ovvero il suo pensiero e la sua visione del mondo.

Perciò, nel caso della situazione odierna, l’ideologia dominante è quella superficiale e propagandistica secondo cui le ideologie sono morte e sepolte, rimpiazzate dallo sprezzante pragmatismo dei politici contemporanei.

Tuttavia, è altrettanto vero che quando l’ideologia dominante non corrisponde alla realtà, si apre una frattura tra governanti e governati che diventa sempre più insanabile e porta a inevitabili cambi di rotta nei rapporti sociali.

Alessandro Barbero.

Gli attuali movimenti politici per le questioni di genere, razziali e ambientali, infatti, non fanno altro che dimostrare quanto questa frattura sia profonda ed evidente, e che continuare a ignorarla in nome della presunta morte degli ideali politici novecenteschi non fa che allontanare ancora di più la politica dalla realtà dei fatti.

Non solo tali movimenti mostrano come la narrazione diffusa dell’estinzione delle ideologie sia un semplice strumento propagandistico e ingannevole, ma anche che la costruzione di una società più giusta passi necessariamente per l’istituzione di una nuova ideologia che stravolga i rapporti sociali esistenti, sostituendoli con un nuovo ordine politico ed economico basato su equità, inclusività e sostenibilità.

Ad essere scomparsa dai radar, dunque, non è l’impostazione dell’azione politica sulla base di valori etici, ma la buona politica che di tali valori si dovrebbe nutrire.

Soprattutto nelle nuove generazioni, è molto forte l’urgenza di implementare una visione del mondo che si contrapponga a quella del capitalismo neoliberista, ormai in profonda crisi.

 Infatti, sebbene anche leader politici di primissimo piano come Macron abbiano riconosciuto che il modello capitalista non funziona più, in Italia sembra mancare quasi del tutto una riflessione lucida e realista sulla possibilità di liberarsi dalla propaganda post-ideologica e di creare un modello economico-sociale in grado di dare un futuro alle nuove generazioni e al pianeta.

Tale atteggiamento, però, non fa che allontanare la politica e le istituzioni dai cittadini, creando malcontento e aumentando il rischio di derive nazionaliste e neofasciste.

Emmanuel Macron.

La soluzione, dunque, consiste nell’abbandonare una volta per tutte l’impostazione post-ideologica, che non risponde ad alcuna esigenza reale delle persone e non fa che allargare la forbice tra la piazza e il Palazzo.

 Per questo, bisogna ridare la giusta importanza alla politica ispirata a sani ideali e valori non negoziabili, smettendola di conferire un valore esclusivamente negativo al concetto di ideologia.

Senza ideali fondati su solide basi etiche, infatti, non saremmo neanche in grado di dare un senso al mondo, né di avere una prospettiva per il futuro.

 

 

 

La piramide del potere comunista

cinese: il partito agli occhi del popolo.

Lospiegone.com-(21 Giugno 2020) - Lorenza Scaldaferri- ci dice:

 

Contrariamente alle aspettative occidentali, essere parte del Partito Comunista Cinese non è una moda ampiamente diffusa tra i cinesi.

Non solo perché il percorso per il conseguimento della membership si è evoluto diventando nel corso degli anni sempre più complesso, ma anche perché non tutti vedono il PCC come l’unica alternativa per una vita migliore.

Naturalmente, come spesso accade nel corso della storia, la concezione di un determinato fenomeno cambia nel tempo.

La prospettiva strategica cinese si basa sulla capacità di adattamento considerate determinate circostanze. Anche in questo caso, la concezione del Partito da parte della popolazione cinese si è trasformata in base alle inevitabili conseguenze dettate dalla storia. Sebbene l’ideologia sia tuttora utilizzata come strumento di legittimazione della classe politica al potere, stabilire l’effettivo supporto della popolazione rimane una sfida.

L’alternativa comunista pre-1949.

La Cina degli inizi del XX secolo era un Paese frammentato, economicamente arretrato e vittima dei trattati ineguali che garantivano privilegi territoriali alle potenze straniere. 

Un esempio è il Trattato di Nanchino, firmato tra Cina e Gran Bretagna nel 1842, che consentì l’apertura di alcuni porti cinesi al commercio estero e l’introduzione del principio di extraterritorialità. I giovani intellettuali che fondarono il Partito comunista cinese nel luglio del 1921, avevano come obiettivo la costruzione di una società socialista e un cambiamento radicale per la nazione. Il PCC nasce quindi come organizzazione di massa, che proponeva un barlume di luce e di riscatto per un Paese dilaniato dalle guerre, impoverito e al collasso.

Per tutto il periodo rivoluzionario, il Partito veniva tendenzialmente considerato come l’alternativa per la ricostruzione di un Paese prospero e moderno.                                   Le numerose adesioni agli albori del PCC confermano la visione positiva che il popolo cinese aveva del Partito.

Nel 1927 la membership del Partito raggiunse i 57 mila iscritti. Un altro fattore che spinse i cinesi ad unirsi alla causa rivoluzionaria era l’idea di combattere contro un nemico comune: lo straniero e l’imperialismo. Il sentimento anti-imperialista si inasprì con lo scoppio della guerra sino-giapponese del 1937: in seguito all’invasione giapponese, infatti, 598 mila cinesi aderirono al PCC. 

Maoismo tra privilegi e delusioni.

Con la fondazione della Repubblica Popolare Cinese nel 1949, il PCC divenne un partito a tutti gli effetti, con una maggiore istituzionalizzazione e professionalizzazione dei membri. Il fine ultimo era di ricostruire una nuova nazione dopo anni di caos.

La costruzione del consenso in epoca maoista avvenne soprattutto grazie alla propaganda comunista e il carisma indiscusso del leader. La proiezione di una società ideale, egualitaria e prospera alimentava lo spirito rivoluzionario del tempo.

Durante l’epoca maoista, essere parte del PCC comportava numerosi vantaggi. Si aveva una sicurezza dal punto di vista economico, lavorativo e sanitario. L’educazione era accessibile a tutti, la ridistribuzione delle terre aveva migliorato le condizioni di vita dei contadini.

Tuttavia l’euforia dei primi anni della Repubblica Popolare Cinese (RPC) si affievolì presto. Il malcontento tra la popolazione cominciò a manifestarsi con il Grande Balzo in Avanti e raggiunse il suo apice con la Rivoluzione Culturale (1966-1976).

Il Grande Balzo in Avanti consisteva in un piano di riforme quinquennale lanciato da Mao Zedong nel 1958. L’obiettivo principale era di portare la Cina fuori dall’arretratezza economica. Errori di pianificazione, però, causarono l’effetto opposto: miseria e oltre 40 milioni di morti.

Dopo il fallimento del piano quinquennale, con l’avvio della Grande Rivoluzione Culturale proletaria nel 1966, il Partito ambiva a colpire i responsabili del disastro economico con l’accusa di aver perso di vista la causa rivoluzionaria. Tuttavia, il decennio che si protrae fino alla morte del leader Mao Zedong nel 1976, sarà uno dei più bui della storia cinese caratterizzato da violenze fisiche e psicologiche, un eccessivo culto della personalità del leader ed estremizzazione ideologica. 

La legittimità del PCC era legata all’ideale rivoluzionario, alla lotta di classe, ed era quasi garantita. Dopo la morte di Mao, però, l’eredità degli anni della Rivoluzione Culturale porteranno Deng Xiaoping a reinventarsi strumenti per mantenere viva la legittimità del Partito.

Modernizzazione e avanzamento di carriera.

“Arricchirsi è glorioso”. Lo slogan lanciato da Deng Xiaoping smorza i toni e spiana la strada per l’economia socialista di mercato dove l’arricchimento personale non è considerato controrivoluzionario.

Il partito si evolve ancora, rispondendo alle esigenze della nuova realtà cinese e ai cambiamenti socio-economici sotto la leadership di Deng Xiaoping. Molti studiosi hanno osservato come le riforme economiche degli anni Ottanta abbiano indebolito la fede politica verso il Partito in favore dei vantaggi economici che esso garantiva.

Dopo la morte di Mao, il PCC diventò un partito sempre più elitario, la legittimità politica iniziò a sfumare in favore del progresso economico e tecnologico.

La crescita economica fu supportata da un consenso popolare diffuso, ma allo stesso tempo contribuì all’aumento delle disparità insite alla società cinese.  Secondo alcuni ricercatori le ineguaglianze economiche vengono accettate culturalmente dalla popolazione in base all’idea chi è più ricco lo è perché ha lavorato più duramente.

Sotto la leadership di Deng Xiaoping, la narrativa del Partito si orienta verso una depoliticizzazione della morale rivoluzionaria e un ritorno alla centralità del Partito. La promozione del progresso materiale in simbiosi con il progresso spirituale apre nuovi spazi a diversi strati della popolazione.

Servire il popolo nella Cina contemporanea.

L’ideologia confuciana è ritornata in auge con Xi Jinping, cosi come il nazionalismo.

 Nell’ideologia confuciana è infatti l’individuo che rispettando il proprio ruolo contribuisce al corretto funzionamento della società.

 Il Presidente Xi ha introdotto un nuovo strumento per ripristinare la fiducia, intaccata da episodi di corruzione interni al PCC prima della sua elezione a Segretario Generale nel 2012.

Merita attenzione anche la scelta strategica di effettuare il primo discorso pubblico come Segretario del PCC nel Museo Nazionale di Pechino durante l’allestimento della mostra “La strada verso la rinascita”.

 É in questa occasione che Xi promuove uno dei punti cardine della sua politica: il Sogno Cinese. Esso racchiude gli interessi del popolo cinese al fine di creare una società moderatamente prospera entro il 2021 e pienamente sviluppata entro il 2049.

Il lancio del Sogno Cinese, la rinascita della nazione, rimarcano l’importanza dell’individuo all’interno di un contesto.

 La linea politica di Xi rievoca il passato glorioso della Cina, ponendo l’accento sulle conseguenze positive che la realizzazione del sogno cinese avrà sulla collettività. Ha ridato un ideale collettivo in cui credere. Il proliferare di attività di volontariato, la promozione del turismo “rosso” e lo studio delle teorie dei leader comunisti sono parte delle strategie di costruzione del consenso tra la popolazione. Tuttavia, la maggior parte dei giovani mostra un disinteresse verso la politica, vedendo il nuovo PCC come garante di vantaggi economici e scalata sociale.

Per quanto radioso possa sembrare il futuro proposto dal PCC, le disuguaglianze sociali sono ancora presenti, così come la povertà, l’inquinamento e la mancanza di tutele per i lavoratori migranti. Se da un lato il malcontento tra la popolazione sia presente e ben controllato, dall’altro lato l’accesso a internet offre la possibilità di esprimere la disapprovazione su piattaforme non direttamente controllate dal Partito.

PCC: il padre benevolo del popolo cinese.

Il Partito non può dunque essere considerato un attore statico. Era rivoluzionario quando la storia richiedeva una rivoluzione per una rinascita cinese. È diventato un partito di tecnocrati per garantire l’attuazione delle riforme economiche per una Cina più moderna. Ha aperto le porte ad una nuova classe sociale considerata controrivoluzionaria in precedenza, ossia gli imprenditori privati. La Cina di Xi Jinping è ormai nota per il crescente autoritarismo e una morsa sempre più stretta sui cittadini. Eppure, il consenso tra la popolazione cinese non sembra sgretolarsi.

Se da un lato con l’apertura avviata da Deng, la fede politica sia passata per un periodo in secondo piano, dall’altro il Partito viene ancora visto come custode degli interessi del popolo. Per ripristinare la legittimità del PCC indebolita dagli scandali che colpirono il Partito all’inizio del suo mandato, Xi utilizza le campagne anti-corruzione e il ripristino della disciplina tra i membri.

I cambiamenti socio-economici hanno indubbiamente influenzato la popolazione cinese, rendendola anche più consapevole. La sfida che si ritrova ad affrontare costantemente il Partito è il rinnovo degli strumenti per garantirne la legittimità.

L’ideale rivoluzionario non è più sufficiente, il successo economico neanche. Il rapporto di fiducia tra il Partito e i suoi cittadini è di garantire gli interessi del popolo per il conseguimento della rinascita della grande nazione cinese.

 

 

 

Commenti

Post popolari in questo blog

Quale futuro per il mondo?

Co2 per produrre alimenti.

Caos e dazi.