L’EMERGENZA è L’ENERGIA NON IL CLIMA.

 L’EMERGENZA è L’ENERGIA NON IL CLIMA.

 

Perché quella energetica

è una emergenza.

Linkiesta.it - Nicola Armaroli – (31 agosto 2021) - ci dice:

 

Non abbiamo più tempo.

Per preservare la biosfera e la stessa continuazione della civiltà moderna, la transizione verso fonti di energia ecosostenibili è diventata ormai una necessità inderogabile. Non sarà una passeggiata, ma possiamo farcela, se iniziamo a correre ora, spiega nel suo nuovo libro Nicola Armaroli, dirigente di ricerca al Consiglio Nazionale delle Ricerche.

Ogni secondo, nel mondo si bruciano 250 tonnellate di carbone, 180000 litri di petrolio e 125000 metri cubi di gas, immettendo – sempre ogni secondo – 1100 tonnellate di CO2. Ogni anno preleviamo dalle viscere della Terra 10 miliardi di tonnellate di carbonio fossile (petrolio, carbone e gas) e li disperdiamo in atmosfera sotto forma di 34 miliardi di tonnellate di CO2. Parrebbe un processo perfetto: bruciando combustibili otteniamo tanta energia e produciamo una sostanza innocua e addirittura commestibile per le piante.

Purtroppo, non è così: nel CO2 vi sono due impertinenti doppi legami chimici carbonio-ossigeno che assorbono i raggi infrarossi riemessi dalla Terra come calore, che viene così intrappolato. Inoltre, le piante riescono a mangiare solo metà del nostro CO2 di scarto; il resto si accumula inesorabilmente in atmosfera. In pratica, il nostro “rifiuto innocuo” intesse una sorta di coperta termica atmosferica e innesca un processo di riscaldamento globale artificiale: è l’effetto serra antropogenico, motore del cambiamento climatico.

 

Quei 2,3 kg di CO2 prodotti dal mio viaggio al supermercato hanno contribuito a inserire un minuscolo tassello nell’invisibile coperta termica che stiamo tessendo intorno alla Terra. Il CO2 che ho emesso si comporta, nei confronti dell’intero pianeta, come i vetri della mia auto sotto il sole cocente: impedisce alla radiazione infrarossa, riemessa dalla Terra, di perdersi nello spazio.

È un problema? No, è un problemaccio!

Tra l’altro le caratteristiche uniche del CO2 sono un ostacolo formidabile per gli scienziati: debbono convincere l’opinione pubblica di una minaccia totalmente invisibile come un virus, e che agisce in modo persino più subdolo di un virus. Non riempie in pochi giorni i reparti di terapia intensiva, ma uccide in silenzio, piano piano, mentre mina alla radice la termoregolazione del nostro meraviglioso pianeta.

La molecola di CO2 resta stabile per secoli nell’atmosfera, che invece si rimescola completamente in circa un anno. Risultato: la concentrazione di CO2 è uniforme su tutto il pianeta, è quindi sufficiente un unico luogo al mondo, ben localizzato e ben attrezzato, per misurarla. Questo luogo è il laboratorio della NOAA del governo degli Stati Uniti e si trova a Mauna Loa, sulle Isole Hawaii.

Le misure sono cominciate nel 1958 e, da allora, la concentrazione media annuale di CO2 in atmosfera è passata da 315 a 415 ppm: un aumento del 32%. 415 ppm significa che, preso un campione di un milione di molecole che compongono l’aria (ossigeno, azoto, argon, CO2, ecc.), 415 sono molecole di CO2. A questo punto la reazione tipica è: ma come è possibile che appena lo 0,0415% delle molecole disperse in aria possa causare un disastro?

 È chiaramente una bufala!

I conti però non lasciano scampo: il surplus di calore intrappolato dalle emissioni di gas serra legate alle attività umane (purtroppo non emettiamo solo CO2 ma anche tanto metano e altre perniciose molecole) è di circa 2 W/m2. Immaginate di piazzare una lampadina a incandescenza da 2 W – che dissipa oltre il 95% dell’energia come calore, infatti se la toccate vi bruciate – su ogni singolo metro quadro del pianeta. Questo può dare un’idea della gigantesca stufa che abbiamo acceso.

[…] A questo punto spero di aver persuaso anche il lettore più scettico che è necessario abbandonare, il più in fretta possibile, i combustibili fossili. È un’affermazione facile, che però si scontra con la dura realtà. Una realtà che vi racconterò da questa pagina in poi e che si chiama transizione energetica verso le fonti rinnovabili.

Sarà un processo lungo, estremamente complesso, pieno di grandi sfide, ma anche di enormi opportunità. Un processo che ci chiede di mettere da parte idee consolidate, perché non possiamo progettare il nostro futuro energetico (e non solo quello) con le idee vecchie che ci troviamo scolpite in testa: ne servono di completamente nuove.

Va detto però che non stiamo sperimentando una clamorosa novità: l’umanità è costantemente in transizione energetica da oltre 200 anni.

[…]

La Terra è davvero un posto speciale. Non bastasse la straordinaria combinazione di fattori che rendono questo angolo di Universo un’esplosione di vita, il nostro pianeta è letteralmente pieno e costantemente inondato da una quantità stupefacente di energia, riconducibile a 4 principali categorie. Sono le 4 carte che possiamo giocarci per la transizione energetica.

La prima, di gran lunga più rilevante in termini quantitativi, è l’energia solare che può essere sfruttata, attraverso varie tecnologie, sia direttamente (ad esempio, pannelli solari termici e fotovoltaici) che indirettamente (impianti eolici, idroelettrici, a biomasse, correnti marine: è sempre il Sole che in ultima analisi alimenta questi impianti!). L’energia solare viene considerata “rinnovabile” in quanto il Sole continuerà a illuminare la Terra per centinaia di milioni di anni, un periodo sostanzialmente infinito.

La seconda è l’energia nucleare da fissione di elementi chimici pesanti (ad esempio, uranio, non rinnovabile) o da fusione di elementi leggeri (deuterio e trizio, largamente disponibili, anche se il trizio va “fabbricato”).

 La terza è l’energia geotermica, ovvero il calore ad alta temperatura imbrigliato nel sottosuolo terrestre che in alcune regioni limitate del pianeta (come l’Islanda o la Toscana) giunge in prossimità della superficie, oppure quello a bassa temperatura, disponibile ovunque.

La quarta e ultima (anche in ordine di importanza) è l’energia di interazione gravitazionale (Terra-Luna e Terra-Sole) che in alcuni punti del pianeta, ad esempio nel nord della Francia, muove enormi masse di acqua (maree), che possono venire impiegate per produrre elettricità.

[…]

Tra le 4 carte che ci possiamo giocare, quella del Sole è la più importante sia in termini quantitativi che pratici.

[…] La cattiva notizia, però, è che l’energia solare oltre a essere relativamente diluita è anche discontinua su scala locale (ma non su scala globale, metà del pianeta è sempre illuminata!). In altre parole, quindi, non sarà mai possibile far funzionare un ospedale, infrastruttura ad altissimo consumo energetico, con l’energia solare che ne colpisce i tetti di giorno. Da questo si può capire che la prima sfida scientifica e tecnologica è quella di convogliare il gigantesco (e diluito) flusso di energia solare per utilizzarlo con “l’intensità” necessaria, ovunque richiesto, a cominciare da dove la domanda è molto alta: centri urbani e distretti industriali.

L’altro problema da risolvere è che l’energia solare, come tale, serve a poco: deve essere convertita e accumulata in energia utile di uso finale. Elettricità e combustibili, tanto per cambiare. E per produrre convertitori e accumulatori di energia rinnovabile (pannelli fotovoltaici, generatori eolici, batterie, collettori di calore, celle a combustibile, ecc.) occorrono risorse minerarie, che debbono essere reperite scavando la crosta terrestre, esattamente come è stato fatto per oltre due secoli coi combustibili fossili.

In altre parole, un mondo 100% rinnovabile sarà completamente diverso dall’attuale tranne che per un aspetto: dovremo continuare a scavare nel sottosuolo. Non più alla ricerca di petrolio, carbone e gas ma di risorse minerali per costruire i convertitori e gli accumulatori che rendono utilizzabile il gigantesco flusso solare che ci piove in testa.

Rassegniamoci: la transizione energetica non ci libera dalla necessità di utilizzare in modo intelligente e razionale le limitate risorse della meravigliosa prigione in cui siamo confinati, la Terra.

L’ATTACCO FINALE DEL NUOVO ORDINE MONDIALE

ALL’ITALIA E L’AUTUNNO CHE CAMBIERÀ

LA STORIA DEL MONDO.

Lacrunadellago.net­- Cesare Sacchetti – (3 settembre 2020) - ci dice:

 

 

L’attacco finale del Nuovo Ordine Mondiale all’Italia e l’autunno che cambierà la storia del mondo.

Lo scorso sabato sera c’era davvero una insolita fila di auto blu sotto casa di Mario Draghi.

I media non hanno reso noti i nomi dei personaggi che hanno preso parte all’inconsueta riunione, ma non è difficile immaginare che si sia trattato di figure di primissimo livello.

Quello che è accaduto nell’appartamento romano dell’ex governatore di Bankitalia assomiglia molto ad una anticamera di consultazioni da prossimo presidente del Consiglio in pectore.

Mario Draghi si muove e parla già come se fosse a palazzo Chigi.

Prima di questo incontro, l’uomo di Goldman Sachs aveva tenuto un discorso nel parterre annuale di Comunione e Liberazione, nel quale scagliava accuse contro chi “ha messo a rischio il futuro dei giovani”.

Se Draghi voleva davvero individuare il responsabile della vita di incertezze e di precarietà permanente nel quale la feroce applicazione delle dottrine ordo e neo liberali imposte da Bruxelles e dalla grande finanza internazionale hanno ridotto le giovani generazioni, non avrebbe dovuto fare altro che guardarsi allo specchio.

Draghi infatti è stato uno dei più feroci e spietati esecutori del piano economico del cosiddetto Nuovo Ordine Mondiale che partorì già negli anni’70 la deindustrializzazione dei decenni successivi attuata attraverso quell’ondata di privatizzazioni selvagge nella famigerata notte a bordo del panfilo Britannia, sul quale l’Italia veniva venduta e tradita dal suo establishment.

Ora, dopo Rimini, l’uomo che salvò l’euro e condannò la Grecia alla più grave devastazione economica mai vista dal dopoguerra, seppellita di debiti dagli organismi al servizio della finanza neoliberale, è tornato a parlare nuovamente e lo ha fatto in occasione del Congresso Europeo di Cardiologia.

Qui Draghi è stato ancora più esplicito.

Ha chiaramente detto che si uscirà dalla crisi da Covid solamente attraverso “il vaccino e con test di massa e tracciamento” che nella sua idea dovranno diventare la nuova normalità.

La sorveglianza di massa dunque sarà la caratteristica fondamentale di questo nuovo totalitarismo globale.

Ormai chi ha ancora il dono della ragione, non ha difficoltà a capire che il presunto pretesto della tutela sanitaria è solamente una facciata per partorire una società che sia esattamente quella disegnata dalle élite mondialiste.

Gli stessi che ipocritamente definiscono “negazionisti” coloro colpevoli solo di mostrare i numeri che continuano a ribadire che questo virus “letale” non fa altro che produrre asintomatici sani o tutt’al più dei raffreddori, sono gli stessi che nulla dicono sul fatto che la morbosa attenzione su un virus ormai spento e debole ha dirottato tutte le risorse dell’intera sanità italiana, ignorando tutti coloro che muoiono per altre malattie e che sono la stragrande maggioranza.

Appare ormai evidente che la crisi pandemica sia stata espressamente pensata, come predisse Jacques Attali uomo a stretto contatto con i vertici del mondialismo, per partorire un governo unico mondiale che esautori definitivamente le nazioni che dovranno lasciare il posto a questa nuova dittatura globale.

Draghi sa perfettamente queste cose, così come sa che è lui, e non Conte, l’uomo designato dalla gerarchia sovranazionale per portare l’Italia verso l’ultima fase del Nuovo Ordine Mondiale.

I segnali c’erano già tutti nei mesi scorsi, per chi li volesse cogliere. Prima del manifestarsi della cosiddetta “pandemia”, tra i palazzi di Montecitorio si faceva già insistentemente il nome di Draghi.

Il partito del governatore ha trovato terreno fertile prima nella Lega, quando Giorgetti prima e Salvini poi hanno espresso parole di elogi nei suoi confronti, è si è progressivamente esteso a tutto l’arco parlamentare fino a coinvolgere il M5S e il PD.

Draghi dietro le quinte ha tessuto pazientemente la sua tela e non sta facendo altro che aspettare che il corso degli eventi di questa crisi lo porti poi a palazzo Chigi.

Ad aggiungersi al già folto fronte che lo sostiene è giunto uno dei massimi esponenti del globalismo, ovvero Bergoglio che ha pensato bene di insignirlo di un prestigioso incarico presso l’Accademia delle Scienze Sociali.

Le élite hanno già iniziato a liberarsi di Conte.

Questo è un altro segnale da tenere in dovuto conto perché ciò significa che Giuseppe Conte, fino a pochi mesi fa sostenuto ardentemente dalla corrente anticattolica e filo-massonica vicina a Bergoglio, è stato praticamente scaricato.

I media, non a caso, hanno già iniziato a voltargli le spalle da un po’ di tempo a questa parte. D’incanto, si iniziano a vedere degli articoli fino ad un mese fa impensabili sul mainstream mediatico.

La Repubblica, con un tempismo che definire puntuale è riduttivo, ha fatto trapelare uno studio che sarebbe stato già nella disponibilità del governo dallo scorso febbraio, secondo il quale il coronavirus avrebbe potuto portare ad un collasso delle terapie intensive ed era pertanto raccomandabile istituire delle zone rosse subito. L’operazione che sta portando avanti il sistema è semplice, quanto diabolica. Si sta disfacendo di Conte accollandogli la responsabilità di non aver agito in tempo per fermare gli effetti del Covid.

In altre parole, si colgono i due classici piccioni con la stessa fava. Ci si libera di Conte che ormai in questa fase non serve più, bruciato per aver privato gli italiani della libertà e per aver portato il Paese al collasso economico, e al tempo stesso si continua a far credere alle masse che questo virus effettivamente sia letale, quando le autopsie realizzate dai medici a Bergamo e Milano hanno provato che non è state l’agente virale ad uccidere, ma le terapie sbagliate.

Ma se si indagasse su questa orribile verità, si dovrebbe mettere sotto inchiesta l’intero sistema sanitario italiano e i danni per l’establishment sarebbero probabilmente troppo rilevanti.

È molto più conveniente e funzionale continuare ad agitare lo spauracchio del virus mortale e dire che Conte non ha agito in tempo per fermarlo.

A quel punto, i media che prima difendevano compatti l’ex avvocato del popolo daranno in pasto l’allievo del cardinale Silvestrini alle masse mentre continueranno a preparare il terreno a Draghi.

Draghi e il Nuovo Ordine Mondiale non verranno prima di grandi disordini.

L’ex governatore della Bce però non entrerà in scena prima di grandi tumulti e violenze.

La massoneria segue una strategia precisa da secoli e crea volutamente delle situazioni di grandi sconvolgimenti per poi dare vita all’esito già prestabilito.

Ordo ab chaos, è difatti uno dei suoi motti preferiti.

Più passano i giorni, più si avvicina il momento in cui la bomba economica esploderà.

I media hanno provato a far credere, maldestramente, che il crollo del PIL del 12,8% di quest’anno sia il peggiore dal 1995, quando in realtà era dal 1945 che non si vedeva un crollo così devastante.

Il terrorismo sanitario è stato, in questo senso, semplicemente perfetto per provocare dei danni economici senza precedenti. Ha partorito una condizione da economia di guerra che sarà l’arma per mettere le masse con le spalle al muro e costringerle ad accettare il nuovo autoritarismo globale ordinato dalle élite.

Le crisi in questo gioco continuano ad essere l’anima di tutto. Sono i processi di cui si serve la cabala mondialista da molti decenni per avanzare a grandi passi verso il super-governo mondiale.

Il coronavirus ha questo obbiettivo finale e, nell’immaginario del mondialismo, dovrà cambiare il mondo e l’Italia, in particolare.

Questa nazione continua a giocare un ruolo fondamentale in questa guerra perché è la culla della cristianità, e il Nuovo Ordine Mondiale non potrà vedere la luce senza prima aver tolto dalla scena la religione fondata da Cristo.

Il mondialismo non è altro infatti che la negazione di Dio. è una tempesta di disvalori satanici che sta mandando al collasso la società sia sotto il profilo socio-economico, ma soprattutto sotto quello etico e spirituale.

Ancora più semplicemente, l’idea di costruire una nuova torre di Babele al di sopra delle nazioni è un atto di guerra a Dio.

Draghi dunque giunge in questa ultima fase nelle vesti di falso messia inviato dalla cabala globalista e avrà il compito di drenare il Paese delle sue ultime risorse vitali e condurlo verso gli Stati Uniti d’Europa, del tutto imprescindibili per consentire la nascita della dittatura mondiale.

Fu proprio uno dei massimi rappresentati dell’establishment internazionale a dirlo, ovvero Winston Churchill davanti ad una platea di cinquemila persone a Copehnagen nel lontano 1950.

In quell’occasione, l’ex primo ministro britannico disse chiaramente che “l’ordine mondiale autoritario dal potere assoluto è l’aspirazione finale” verso il quale bisogna tendere, ma per arrivare a questo è indispensabile unire l’Europa sotto la forma di un superstato.

Senza l’Italia a bordo, la realizzazione degli Stati Uniti d’Europa continuerà a restare una chimera.

Quello che sta per arrivare dunque è un periodo di grandi tumulti e disordini dovuti all’instabilità sociale ed economica accuratamente preparata da chi tira le fila dei governi in tutto il mondo, di fronte al quale le masse saranno in larga parte completamente impreparate.

Tutto questo porterà a favorire ancora di più il clima ideale di instabilità auspicato dalle élite per consegnare il Paese a Draghi e raffigurarlo come il “salvatore”.

Una volta giunti a quel punto, l’ex governatore della BCE porterà a termine il lavoro iniziato molti anni addietro sul panfilo Britannia.

La comprensione della natura spirituale della guerra in corso è fondamentale.

Sono in molti ormai a chiedersi cosa si può fare per provare almeno a contenere gli oscuri scenari di caos e violenza che aleggiano sopra l’Italia.

Se si comprende a fondo la vera natura del Nuovo Ordine Mondiale, non si può non comprendere la sua natura profondamente satanica.

È per questo che mai come ora temprare al meglio la propria corazza spirituale per farsi trovare il più pronti possibile a ciò che sta per arrivare.

Chi ha fede, sa che questo folle piano di dominio sul mondo e distruzione dell’umanità e delle sue identità nazionali non potrà non crollare.

Ci saranno dure prove davanti, ma chi resisterà fino in fondo e non cederà alle forze oscure, sarà ricompensato.

Se ci si ostina invece a guardare solamente al lato materialista o economicista del globalismo, non si riesce davvero a comprendere cosa c’è in ballo.

 

La crisi da Covid non serve alle grandi élite principalmente per fare i soldi. Chi sta ai massimi livelli ha in mano il sistema bancario e controlla la creazione stessa del denaro in maniera illimitata.

Sono i livelli inferiori della gerarchia che vogliono sfruttarla per arricchirsi, ma sempre attenendosi fedelmente all’agenda delle grandi famiglie di banchieri come Rothschild o Rockefeller.

è senz’altro auspicabile che i piani di questa gente vadano in fumo anche sotto il piano politico, attraverso l’intervento di quei politici, su tutti Trump e Putin, che non vogliono far inginocchiare le loro nazioni ai piedi di questa cabala.

Ma è comunque fondamentale continuare a coltivare il senso spirituale più profondo del momento storico che si sta attraversando.

Monsignor Viganò lo ha spiegato magistralmente in varie occasioni. Nella più recente ha risposto ad un giovane di 16 anni che chiedeva cosa fare di fronte a tanto male.

L’arcivescovo ha risposto al ragazzo che se si continua a vivere nella rettitudine del Signore, non ci sarà appuntamento o evento per il quale non si sarà pronti.

Quando il mondo sembra destinato a precipitare nell’oscurità più completa, è quella l’ora nella quale le anime che hanno creduto riescono ad accendere ancora un po’ di speranza e a donare nuovamente un po’ di luce al mondo.

Quel momento certamente arriverà, ma non prima di attraversare dei grandi sconvolgimenti che per essere affrontati richiederanno una forte tempra materiale e spirituale.

Chi ha compreso, aiuti chi ancora vuole e può essere aiutato.

è un momento storico senza precedenti per l’Italia e per il mondo. La massoneria è pronta a tutto pur di vedere realizzato il suo totalitarismo globale guidato da un tiranno che perseguiterà tutti coloro che gli si opporranno.Questi mesi saranno decisivi per comprendere se si è aperta la finestra tanto bramata dal Nuovo Ordine Mondiale oppure se il piano sarà sventato da contingenze di carattere politico ispirate probabilmente sempre dalla Provvidenza.

 

Questo scontro è un crocevia semplicemente fondamentale per la vita di tutti.

È il momento delle scelte, quelle importanti che cambiano veramente il destino di una persona.

Bisogna scegliere da che parte schierarsi e in un modo o nell’altro bisognerà essere pronti ad assumersi le proprie responsabilità in qualsiasi direzione si scelga di andare.

Chi deciderà di consegnare la propria vita nelle mani del mondialismo e di rinunciare alla sua umanità, dovrà risponderne se non davanti ai tribunali terreni, di fronte a quelli divini.

Chi sceglierà di non piegarsi, andrà incontro al suo calvario ma, se resisterà, sarà premiato.

Ora ognuno faccia la propria scelta.

Ora ognuno ha in mano il suo destino.

 

 

 

 

LE PROVE DEL GRAFENE NEI VACCINI:

IL PIANO PER UNO STERMINIO DI MASSA.

Lacrunadellago.net- Cesare Sacchetti- (Set 14, 2022) -ci dice:

La storia del grafene nei sieri, impropriamente chiamati “vaccini”, è una storia proibita, occultata dalla cappa mediatica. Troppe sconvolgenti le conclusioni e troppo devastanti le conseguenze per coloro che hanno permesso che tali farmaci fossero distribuiti.

Tutto iniziò lo scorso anno quando il biologo spagnolo, il professor Pablo Campra dell’Università d’Almeria, rivelò i clamorosi risultati delle sue analisi sul vaccino Pfizer.

Il verdetto del microscopio parlò piuttosto chiaro. Nel siero c’era solo e soltanto una sostanza altamente tossica per il nostro organismo, il grafene.

A distanza di un anno da quelle sconcertanti conclusioni, giunge un’altra ricerca eseguita dalla dottoressa indiana Poormina Wagh. Prima che si mettano in moto le rotative delle menzogne mediatiche, è indispensabile precisare che la dottoressa Wagh ha un curriculum esteso nei rami della virologia e della immunologia.

La scienziata vanta due dottorati di ricerca in questi due campi presso l’università britannica della London School of Hygiene & Tropical Medicine e le sue pubblicazioni sono tutte visibili presso il sito Research Gate. L’immunologa indiana ha anche collaborato con l’ospedale pediatrico di Cincinnati. Si tratta di una scienziata a tutti gli effetti, ma ciò non impedirà ai professionisti della disinformazione di screditare la sua reputazione.

La dottoressa Wagh ha deciso di eseguire questa ricerca sul grafene nei sieri perché vuole cercare di far arrivare al grande pubblico la verità taciuta dai media saldamente prostrati al culto del vaccino.

Assieme ad un gruppo di ricercatori di tutto il mondo ha eseguito delle analisi su 2305 campioni di sieri di dodici differenti marche di vaccino. Nella lista ci sono le marche dei vaccini più distribuiti negli Stati Uniti e in Europa Occidentale quali Pfizer, Moderna, Astrazeneca e Johnson & Johnson. Ci sono anche vaccini cinesi come il Novavax e altri vaccini cubani.

Non risulta esserci il vaccino russo Sputnik sviluppato dall’istituto Gamaleya e quindi questo porta ad escludere che la Russia abbia messo nel suo preparato le sostanze che invece sono state trovate negli altri sieri.

 

Le conclusioni di questa ricerca così estesa sono concordanti e inquietanti al tempo stesso. Nulla di quanto dichiarato nei famigerati bugiardini risulta essere vero. Nei sieri Pfizer e Moderna non c’è né l’mRNA né la cosiddetta proteina Spike mentre in quelli di Astrazeneca e J&J non c’è l’adenovirus che avrebbe dovuto in teoria esserci.

In ogni singolo farmaco sono stati riscontrati ingredienti quali acqua, idrossido di alluminio, nano particelle metalliche e nano particelle di ossido di grafene.

Questi ingredienti non sono un composto che serve a prevenire un eventuale “contagio” del cosiddetto “COVID-19”.

Appare del tutto evidente che sono sostanze tossiche per il nostro organismo quali il grafene e l’idrossido di alluminio.

Una volta che questo composto entra nell’organismo di una persona inizia a fare il suo “lavoro”, che non è altro che quello di deteriorare il sistema immunitario di chi riceve il siero.

La dottoressa Wagh è piuttosto inequivocabile nelle sue conclusioni. Questi “vaccini” sono stati distribuiti come parte di un programma per giungere “ad un massiccio de-popolamento”.

Non appare esserci altro scopo considerati gli ingredienti utilizzati per sviluppare questi farmaci.

Stanno poi emergendo al tempo stesso altri elementi che sembrano confermare le conclusioni di queste analisi di laboratorio.

è il caso dell’imbalsamatore americano Richard Hirshman. Hirshman conosce il suo mestiere molto bene, da più di 20 anni. L’imbalsamatore ha raccontato al quotidiano americano “The Epoch Times” che nei cadaveri che ha avuto modo di trattare negli ultimi mesi ha riscontrato la presenza di una sostanza che né lui nei suoi colleghi hanno “mai visto” nel corso della loro carriera.Si tratta di “tessuti fibrosi bianchi” e ciò lascia pensare che potrebbe esserci qualche collegamento con le sostanze messe nei sieri, in particolar modo il grafene.

Il grafene può essere infatti sia di colore nero sia di colore bianco. Ma questa non è l’unica prova che avalla le conclusioni di Campra e della Wagh.

Proprio in Italia è stata condotta una ricerca da tre medici chirurgi, il dottor Franco Giovannini, il dottor Benzi Cipelli e il dottor Pisano, sul sangue delle persone che si sono sottoposte alla vaccinazione.

Anche in questo caso i risultati sono stati a dir poco sconvolgenti. Nella relazione che i tre medici hanno preparato viene riportato che nel sangue dei vaccinati ci “sono evidenti inclusioni presumibilmente grafeniche in mezzo a globuli rossi fortemente conglobati attorno alle particelle esogene.”

Saremmo in presenza di una mutazione vera e propria del sangue dei vaccinati che ha una composizione e caratteristiche diverse da quello normale di chi non ha invece ricevuto il siero.

Il mancato isolamento del virus.

Un altro aspetto fondamentale approfondito dalla scienziata indiana è quello che riguarda l’isolamento del coronavirus. L’isolamento è il principio della “emergenza” dal momento che senza di esso non si può determinare o meno l’esistenza di un virus.

La dottoressa Wash ha chiesto al Centro per la prevenzione e la cura delle malattie degli Stati Uniti, il famoso CDC, di fornire un campione isolato e purificato del virus, ma non c’è stato nulla da fare. Il CDC non è stato in grado di assecondate tale richiesta. Il virus isolato non appare.

Altri ancora hanno provato a chiedere prova dell’isolamento del virus come ha fatto la ricercatrice canadese, Christine Massey, che ha aperto un sito dedicato all’argomento nel quale mostra tutte le sue lettere alle differenti istituzioni sanitarie internazionali.

La Massey ha scritto alle autorità sanitarie canadesi, britanniche, americane ed europee ma nessuna di queste quando gli è stato chiesto di produrre un campione del virus isolato ha saputo darle una prova dell’isolamento del cosiddetto COVID-19.

A questo punto, è d’obbligo un interrogativo. Ci si chiede quali vaccini per prevenire il “contagio” contro il COVID-19 abbiano potuto sviluppare le case farmaceutiche se fino ad oggi il virus chiamato COVID-19 non risulta nemmeno essere stato isolato?

Ugur Sahin, il co-fondatore di BionTech, ha rivelato che il vaccino Pfizer fu concepito nel giro di poche ore a gennaio del 2020.

Ma un vaccino non si sviluppa di certo in poche ore e richiede anni di ricerche e diversi test. Soprattutto c’è da considerare un altro aspetto. In quel periodo ancora non c’era un vero e proprio panico “pandemico”. L’OMS non aveva nemmeno fatto la sua dichiarazione formale di “stato pandemico” che avverrà solamente l’11 marzo del 2020.

Ciò porta ad una unica conclusione. I “grandi” gruppi farmaceutici erano già all’opera prima per preparare questi sieri e le analisi di Pablo Campra e Poormina Wagh rivelano come lo scopo non fosse certo quello di migliorare o tutelare la salute pubblica.

Lo scopo non era altro che quello annunciato da Bill Gates nel 2010 ad una conferenza della serie TEDx.

Fu in quell’occasione che Gates disse che per ciò che riguarda la riduzione della popolazione mondiale “se fosse stato fatto un buon lavoro con i vaccini” tale numero avrebbe potuto essere ridotto del 10/15%.

E quindi si spiegano perfettamente gli investimenti milionari che il fondatore di Microsoft, l’uomo dei vaccini, ha fatto negli scorsi anni in questo campo.

Fu sempre Gates ad annunciare nel 2018, due anni prima dell’inizio della “emergenza COVID”, che il mondo avrebbe dovuto prepararsi ad un evento pandemico come se avesse dovuto “affrontare una guerra”.

La cosiddetta “pandemia” dunque non è mai stata tale. Si è trattato di una operazione studiata a tavolino e preparata meticolosamente per giungere alla società che uomini come Gates e i membri del club di Davos (con a capo Klaus Schwab) avevano in mente.

 

In questa società distopica, il numero della popolazione mondiale deve essere ridotto per essere conforme ai canoni della filosofia neomalthusiana sulla quale si fonda l’ideologia globalista.

L’esistenza stessa dell’uomo viene vista come una “minaccia” dai vertici di questi poteri che si connotano per il loro feroce odio nei confronti dell’umanità intera, considera alla stregua di un ammasso di “mangiatori inutili”, l’espressione coniata dal club di Roma finanziato dalla famiglia Rockefeller.

E in questa storia troviamo sempre questi nomi. Bill Gates, Rockefeller, Klaus Schwab e Jacques Attali. Troviamo i nomi di coloro che hanno concepito questo mondo.

Nessun placebo nei vaccini.

C’è poi un altro mito da sfatare diffuso da alcuni disinformatori, ovvero quello che siano stati inseriti dei placebo nei vari lotti vaccinali.

Nulla di tutto ciò è vero come ha spiegato la scienziata indiana nella sua relazione. Se alcuni vaccinati non avvertono per ora sintomi negativi è dovuto solo al fatto che in alcuni sieri la quantità di grafene è lievemente inferiore a quella riscontrata in altri.

La distribuzione di un siero con più o meno grafene rientra in quella che si può definire come una perversa roulette russa nella quale alcuni “fortunati” evitano patologie sull’immediato ma nessuno di questi scamperà ai gravi effetti collaterali nel lungo periodo.

La dottoressa Wagh spiega che l’aspettativa di vita di chi ha ricevuto tali sostanze anche in quantitativi minori rispetto ad altri si accorcia mediamente “dai 10 ai 15 anni”.

L’ulteriore somministrazione di seconde, terze o quarte dosi serve soltanto ad accelerare il processo di progressivo decadimento dell’organismo.

Tante più dosi entrano nei nostri corpi, tanto più essi vengono definitivamente compromessi da quelli che non possono essere che definiti come veleni per la nostra salute.

In tutto questo sconcertante disegno per attentare alla salute pubblica, l’unica nota “positiva” sembra essere quella che riguardano gli effetti collaterali dei sierati che, secondo la dottoressa Wagh, non possono essere trasmessi a coloro che non hanno fatto il siero.

L’organismo prova comunque ad espellere una parte delle sostanze tossiche che ha ricevuto ma quando queste escono dal corpo sono inerti e non possono arrecare danni a chi si trova a contatto con i sierati.

Queste sono dunque le verità che scienziati indipendenti stanno cercando di far arrivare al pubblico e che non sono riusciti ancora a trasmettere ad un ampio numero di persone.

Molti vaccinati ancora probabilmente ignorano che sono stati ingannati e frodati da un sistema che aveva detto loro che tali sieri erano sicuri.

Ed è quindi giunto il momento delle domande a coloro che in Italia hanno attuato la campagna vaccinale. È necessario chiedere conto di quanto accaduto ai governi Conte e Draghi che hanno promosso questi vaccini e hanno costretto le persone a ricevere nel loro corpo tali sostanze attraverso obblighi vaccinali e certificati verdi.

Gli italiani sono stati sottoposti ad una somministrazione di massa che i fatti esposti hanno rivelato essere null’altro che un deliberato tentativo di ridurre la popolazione italiana.

C’è da chiedere conto anche all’AIFA che ha autorizzato la distribuzione di questi micidiali preparati.

C’è da chiedere conto ai responsabili di quello che è stato un attentato alla salute pubblica degli italiani senza precedenti.

Il sangue di chi ha perduto e sta perdendo la vita in questa strage attende giustizia.

 

 

 

 

L’emergenza clima, tra ostacoli

economici e politici e una

nuova coscienza generazionale.

 

Micromega.net- Giorgio Pagano – (6-12-2021) – ci dice:

Il fallimento di Glasgow. La crisi della governance sovranazionale. Il legame tra questione sociale e ambientale. Il nucleare come arma di distrazione di massa. Perché la lotta contro la crisi climatica non è “romanticismo verde” ma messa in discussione del sistema economico dominante.

Anche Glasgow è stata una delusione. Una cosa è emersa in modo chiaro: per contenere il surriscaldamento terrestre a + 1,5 gradi entro il 2030, i governi dovrebbero cancellare da subito gli investimenti in carbone, petrolio e gas e concentrare gli investimenti sulle rinnovabili.

Ma questo cambiamento di rotta non c’è stato: nessuna decisione di rilievo in tal senso è stata presa. Il segno del fallimento della COP26 è stato l’emendamento proposto dall’India, e poi approvato pur di chiudere il negoziato, che ha sostituito la progressiva eliminazione del carbone con la sua riduzione.

Si può dire che, nonostante ciò, il carbone è rimasto la prima fonte energetica da eliminare nella lista.

E si può pur sempre considerare il documento congiunto Cina-Usa, anche se privo di contenuti significativi, come indice di quella collaborazione globale di cui ci sarebbe bisogno.

Ma, al netto di tutto ciò, la valutazione è che su ogni questione gli impegni sono stati troppo generici e le risorse stanziate insufficienti.

 

La presenza dell’Unione europea è stata anch’essa deludente. Nelle ultime settimane il “Green New Deal” è stato molto ridimensionato dall’orientamento prevalente a inserire nella tassonomia (per definire ciò che è “sostenibile”) il gas e il nucleare, nonché dal varo di una riforma della Pac (Politica agricola comune) che favorisce l’agrobusiness.

E l’Italia? Ha aderito alla coalizione di un piccolo gruppo di Paesi che si pone l’obiettivo di eliminare anche petrolio e gas, ma senza impegni precisi.

 In realtà ha spinto e sta spingendo, dentro l’Ue, per il gas e per il nucleare.

 Il Pniec (Piano nazionale integrato per l’energia e il clima) va aggiornato, le rinnovabili sono ferme. Mentre andrebbero fermate – ma non accade – le trivelle, le caldaie a gas, le automobili inquinanti.

Insomma, ha ragione Greta Thunberg: Glasgow è stato il “festival del green-washing”, dell’ecologismo di facciata. In ogni caso, anche se qualche passo avanti su qualche punto c’è stato, non si può non dire che è radicalmente insufficiente. E che è necessaria la protesta, risorsa politica inestimabile in una sfida come questa.

Tanto più che manca una governance sovranazionale e che tutti i suoi strumenti sono in crisi.

Non si vede come si possano aggiungere accordi seri in un’atmosfera di guerra fredda, in cui nessuno ascolta il Segretario generale dell’Onu e ogni Paese pensa a sé stesso.

Una leadership globale non c’è, e non può certo essere esercitata dagli Stati Uniti. L’abbiamo visto per la pandemia, lo vediamo per il clima: gli Stati Uniti sono un Paese diviso, che difetta in coerenza.

 Anche per questo il conflitto ingaggiato con la Cina è pericoloso. Quel piccolo segnale del documento congiunto a Glasgow va dunque valorizzato, perché è in controtendenza. La nostra società è troppo debole: nessuno può farcela da solo.

QUESTIONE SOCIALE E QUESTIONE AMBIENTALE:

SONO I PIÙ POVERI A PAGARE.

A Glasgow è emerso, e questo è un fatto positivo, il ruolo dei Paesi poveri, o meglio impoveriti. “I Paesi poveri come il nostro – ha detto il Presidente del Niger Mohamed Bazoum –, che non hanno alcuna responsabilità per il cambiamento climatico, sono quelli che oggi pagano il prezzo più alto al consumismo promosso da un modello di sviluppo che ha riservato pochissima attenzione ai popoli dei Paesi deboli, oltre che alle generazioni future”.

I Paesi impoveriti sono quelli che fanno il sacrificio maggiore, e sarà sempre peggio: dove è caldo sarà più caldo, dove piove pioverà di più, dove c’è marginalità si finirà ancor di più ai margini. Le dune del deserto avanzano nei villaggi subsahariani e la sabbia seppellisce le aree agricole e pastorali. Thomas Sankara, Presidente del Burkina Faso nei gloriosi anni 1983-1987, prima del suo assassinio, aveva studiato in Madagascar.

 Si impegnò per rinverdire il Sahel e diceva: “Se potessimo portare qui un po’ del verde malgascio…”. Ma ora nel sud dell’isola non piove da otto o dieci anni, sono rimasti i cactus ed è arrivata la carestia. L’Asia non è da meno: l’acqua del mare si innalza e invade i campi coltivati del Bangladesh, distruggendone la fertilità.

I Paesi ricchi fanno ben poco, è stato denunciato anche a Glasgow. Ma Stati Uniti e Unione europea hanno impedito l’istituzione del “Glasgow Facility on Loss and Damage”, l’organismo richiesto da 134 Paesi per garantire sostegno finanziario ai Paesi impoveriti. Così come non è stato preso alcun impegno sulla promessa del Fondo Verde di 100 miliardi di dollari all’anno a questi Paesi.

Sono risorse indispensabili non solo per la mitigazione del cambiamento climatico e per la conversione ecologica – dalla riforestazione alle energie rinnovabili – ma anche per l’adattamento, là dove il danno è ormai irreversibile: si pensi, per esempio, alla difesa delle aree costiere dall’innalzamento dei mari.

Mentre per i Paesi ricchi la crisi climatica è un problema di mitigazione, per i Paesi impoveriti è un dramma del presente. Lo scrive l’Unep (il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente) nel suo Adaption Gap Report 2021: “Un’azione tempestiva è imprescindibile perché i benefici della mitigazione arriveranno non prima del 2040, e in gran parte gli impatti previsti per i prossimi due decenni potranno essere ridotti solo con l’adattamento”.

I fondi sia per la mitigazione e la conversione ecologica che per l’adattamento vanno dunque aumentati in modo assai consistente. Ma la questione è anche un’altra: vanno pagati principalmente sotto forma di donazioni, in modo da non aumentare l’onere del debito pubblico dei Paesi impoveriti.

Questione ambientale e questione sociale si intrecciano dunque più che mai, perché sono i più poveri a pagare. Dobbiamo sostenere i Paesi impoveriti perché si sviluppino usando tecnologie e tecniche che non impattino sull’ambiente. Ma dobbiamo anche ridurre i nostri consumi. Secondo il Rapporto Oxfam sulle diseguaglianze climatiche nel 2030 le emissioni di CO2 in atmosfera prodotte dall’1% più ricco della popolazione mondiale saranno trenta volte superiori ai livelli sostenibili per limitare l’aumento delle temperature globali entro + 1,5 gradi. L’1% più ricco, cioè ottanta milioni di persone, tra meno di dieci anni sarà responsabile di ben il 16% delle emissioni globali, mentre nel 1990 rappresentava il 13% e nel 2015 il 15%. Se guardiamo al 10% più ricco del mondo, i dati sono di segno analogo. Non dobbiamo chiedere di mangiare meno carne all’Africa subsahariana, dove se ne consumano cinque chili all’anno, ma agli Usa, che sono a quota 125 chili pro capite. La conversione ecologica non è compatibile con l’idea della crescita illimitata, e presuppone un cambiamento profondo nei modi di produzione e di consumo e negli stili di vita. È conversione “strutturale” e “sovrastrutturale”, produttiva e personale.

IL METANO NON DA’ UNA MANO, ANZI.

Il gas naturale, combustibile fossile, produce la metà del riscaldamento globale (0,5%). La produzione energetica nazionale, se si fonderà sulla sostituzione del carbone con un altro combustibile fossile, continuerà a essere una fonte sostanziale di emissioni climalteranti.

Lo studio Climate analitycs sostiene che la dipendenza dal gas naturale, considerato dal Ministro Cingolani un alleato della “transizione ecologica”, non è compatibile con l’obiettivo del contributo dell’Italia a non superare 1,5 gradi.

Non è vero, dunque, che “il metano ci dà una mano”, anzi. Ma è possibile farne a meno? Certamente, ma bisognerebbe puntare davvero sulle rinnovabili: l’Italia non ha ancora politiche in atto per raggiungere l’obiettivo del 30% di rinnovabili entro il 2030. Cingolani vuole le centrali a gas per “garantire la potenza”. Dimentica di aggiungere “di picco”. Non c’è deficit di potenza di base in Italia dato che quella disponibile installata è di circa 115 GW contro una domanda massima di circa 60 TW (Fonte: Terna per il 2018). L’energia delle nuove centrali a gas può essere fornita mediante opportuni sistemi di accumulo, tra cui quello idraulico mediante pompaggio. L’Italia ha una grande capacità di accumulo da pompaggio, poco sfruttata. E altri impianti di accumulo possono essere realizzati in alcuni laghi. Dobbiamo investire nell’accumulo, invece che in nuove centrali a gas. Anche per favorire la penetrazione delle rinnovabili occorre incentivare i sistemi di accumulo, cioè le mega batterie che rilasciano parte della sovraproduzione rinnovabile nelle ore serali.

La ragione vera per cui ciò non succede è che si insiste sul gas per fruire delle sovvenzioni legate al capacity market, che paga la disponibilità a fornire energia in caso di temporanea carenza della rete. Basterebbe eliminare queste sovvenzioni, e puntare sugli accumuli e sulle rinnovabili. Come stanno facendo aziende private (una anche italiana) in alcuni Stati americani.

Ma Enel e soprattutto Eni hanno altre intenzioni. Come tutti i big del fossile in tutto il mondo. Negli ultimi tre anni le società petrolifere hanno investito 168 miliardi di dollari per esplorare nuovi giacimenti. Se tutti i tubi in progetto fossero posati e puntati verso il cielo, arriverebbero a metà strada tra la Terra e la Luna. Il 10% della produzione di Eni deriva dalle operazioni nell’Artico. Eni è anche in Mozambico, a Cabo Delgado. I danni, ambientali e sociali, sono enormi. Eppure Eni è dello Stato: ma conta più dello Stato e dei governi, che le delegano le decisioni in materia di politica energetica nazionale.

IL NUCLEARE, ARMA DI DISTRAZIONE DI MASSA.

Chi osteggia le rinnovabili propone il gas, ma anche il nucleare. Anche in questo caso c’è lo zampino dell’Eni, che nei giorni scorsi ha confermato ed esteso il suo investimento (360 milioni di dollari) nella società Cfs, che lavora nella fusione nucleare.

A costoro sfugge che il nucleare è innanzitutto impraticabile per questioni di tempi e di costi. Non a caso Stati Uniti e Francia, che hanno un’industria nucleare in attività, non riescono a costruire impianti.

Negli Stati Uniti il “rinascimento nucleare” fu lanciato da George W. Bush nel 2001. L’esito è stato fallimentare. A oggi nessun nuovo reattore è entrato in funzione, due sono ancora in costruzione a costi altissimi e altri due sono stati cancellati dopo ingenti spese, mentre l’azienda proprietaria della tecnologia Toshiba-Westinghouse è fallita nel 2017.

In Francia è fallita la Areva per la disastrosa costruzione, tuttora non ultimata, di un reattore a Olkiluoto in Finlandia. La francese Edf ha in costruzione un reattore in Francia, a Flamanville, i cui costi sono quintuplicati. Questi sono gli unici due reattori in costruzione in Europa: da circa quindici anni! Il nucleare ha quindi tempi incompatibili con la transizione e gli obiettivi climatici europei.

I tempi sono lunghi, i costi sono enormi, la sicurezza dagli incidenti non è garantita, lo smaltimento delle scorie è un rompicapo. Anziché usare armi di distrazione di massa, perché non concentrarsi su rinnovabili e sistemi di accumulo?

UNA NUOVA COSCIENZA GENERAZIONALE.

Forse la novità più importante di Glasgow è stata la manifestazione internazionale dei giovani provenienti da tutto il mondo. In testa al corteo c’erano gli ambientalisti africani e i rappresentanti delle comunità indigene. Il movimento è veramente globale e “decolonizzato”, non più soltanto bianco e occidentale. Solo il Sessantotto e il movimento alter-globalista di Seattle furono così globali e “terzomondisti”. Oggi come allora siamo di fronte a una mobilitazione collettiva che esige un rinnovamento culturale, spirituale ed etico e pone la necessità di creare un nuovo “senso comune”, una nuova moralità, un nuovo senso della vita. Ma diverso è il tema: la critica al capitalismo è per la manomissione che esso fa del clima. La politica non può intervenire sulla natura; al contrario, è la natura che decide come deve essere la politica e cosa essa deve fare. La pandemia ha amplificato ulteriormente questo profondo mutamento, che mette al centro la critica a un modello di sviluppo distruttivo dell’equilibrio tra uomo e natura.

 La lotta contro la crisi climatica non è dunque “romanticismo verde” ma messa in discussione del sistema economico dominante.

La spinta generazionale sulle scelte per l’ambiente può connettersi a una spinta per cambiare il lavoro e il sapere e separare anche questa volta i figli dai padri in una nuova rivolta etica. In un processo di autoformazione, autogoverno e conversione della propria vita che sia svolto in forma collettiva, casa per casa, tetto per tetto, strada per strada, campo per campo, fabbrica per fabbrica. In una “lunga marcia attraverso le istituzioni” che arrivi a imporre ai governi il cambio di rotta.

 

 

 

Come l’Europa si prepara

all’emergenza energetica.

Valigiablu.it- Angelo Romano – (12 Luglio 2022) – ci dice:

 

In un’intervista esclusiva al Guardian, il vicepresidente della Commissione Europea, Frans Timmermans, ha dichiarato che se l’Europa non terrà sotto controllo i prezzi dell’energia il prossimo inverno, sarà concreto il rischio di proteste e disordini civili.

 E questo potrebbe compromettere definitivamente gli obiettivi climatici. “Non raggiungeremo i nostri obiettivi se la mancanza di energia provocherà forti disordini nelle nostre società. Dobbiamo assicurarci che le persone non siano al freddo nel prossimo inverno”. In questo momento, è in buona sostanza il pensiero di Timmermans, è prioritaria la sicurezza energetica per mantenere le industrie funzionanti, anche se questo significa dover far ricorso al carbone.

In questa direzione sembra andare il voto della scorsa settimana del Parlamento Europeo sulla tassonomia verde. Con 278 voti favorevoli e 328 contrari, il Parlamento non ha posto il suo veto all’atto delegato sulla tassonomia europea che include gas naturale e nucleare tra le tecnologie sostenibili.

Secondo la proposta, gas naturale e nucleare saranno considerati verdi solo se utilizzati per la transizione dai combustibili fossili più sporchi come il carbone e il petrolio”, riporta il Financial Times.

 Il gas potrà essere classificato come un investimento sostenibile se le emissioni dirette sono limitate, “la stessa capacità energetica non può essere generata con fonti rinnovabili” e se sono in atto piani per passare alle energie rinnovabili o a “gas a basso contenuto di carbonio”.

L'energia nucleare può essere finanziata solo se rispetta determinati standard, tra cui quelli per lo smaltimento dei rifiuti radioattivi.

 

Per raggiungere la maggioranza assoluta necessaria per rigettare il provvedimento della Commissione Europea servivano 353 voti. Il voto del Parlamento – che, scrive Reuters, “spiana la strada alla proposta dell’Unione Europea per diventare legge, a meno che 20 dei 27 Stati membri non decidano di opporsi, cosa considerata molto improbabile” ha suscitato reazioni contrapposte tra i critici della proposta, secondo i quali la tassonomia nella sua attuale definizione non farà altro che prolungare la dipendenza dell’Europa dai combustibili fossili, e i sostenitori della misura, che la considerano un approccio pragmatico verso le energie rinnovabili, in un momento in cui l’UE cerca di svincolarsi dalle forniture russe.

Di questo avviso anche il Commissario europeo per i servizi finanziari che ha definito la misura “una proposta pragmatica per garantire che gli investimenti privati nel gas e nel nucleare, necessari per la nostra transizione energetica, soddisfino criteri rigorosi”.

Ma esperti, think tank e attivisti hanno detto che la legge scredita gli sforzi dell’UE per affermarsi come leader globale delle politiche climatiche. Altri paesi che hanno creato sistemi di etichettatura simili, tra cui Russia, Sudafrica e Bangladesh, hanno escluso il gas dall'elenco degli investimenti “verdi”, scrive sempre il Financial Times.

Molto critico il Guardian che ha titolato “‘Putin si sfrega le mani con gioia’ dopo che l'UE vota per classificare gas e nucleare come verdi”, riprendendo un tweet della deputata ucraina Inna Sovsun.

Gli interessi di parte sembrano aver preso il sopravvento. L’UE ha ora creato un pericoloso precedente che altri paesi potrebbero seguire”, ha commentato Johanne Schroeten, consulente politico del think tank sul clima E3G.

Bas Eickhout, vicepresidente della Commissione ambiente del Parlamento Europeo, ha parlato di “giorno nero per la transizione climatica ed energetica”. Secondo l’eurodeputato olandese, ora operazioni di green-washing rischiano di riuscire a ottenere finanziamenti nel settore energetico.

Così come è formulata, la tassonomia potrebbe scatenare una raffica di azioni legali, scrive Politico. Dopo il voto, Austria e Lussemburgo hanno dichiarato che avrebbero impugnato la legge presso la Corte di giustizia europea.

Diverse istituzioni finanziarie, tra cui la Banca Europea per gli Investimenti, hanno già dichiarato che probabilmente ignoreranno l’inclusione di gas e nucleare tra le fonti di energia sostenibili. “A nostro avviso, il gas fossile e il nucleare non dovrebbero avere accesso agli stessi finanziamenti a basso costo delle energie rinnovabili. Questo porterà inevitabilmente a sottrarre i finanziamenti per la transizione verde, rallentandone i progressi”, ha commentato Anders Schelde, responsabile degli investimenti del fondo pensione danese AkademikerPension.

Nel frattempo, il presidente russo Vladimir Putin ha minacciato “conseguenze catastrofiche” per i mercati energetici mondiali se i paesi occidentali imporranno ulteriori sanzioni a Mosca, riporta ancora il Financial Times. Parole che rendono sempre più concreto il timore che la Russia possa cercare di interrompere le forniture di greggio se i membri del G7 andranno avanti con il piano di limitare il prezzo del petrolio russo.

La Francia si sta preparando per affrontare questo scenario, ha detto il ministro delle Finanze francese Bruno Le Maire, riducendo i consumi energetici di imprese e famiglie e costruendo nuove infrastrutture di rigassificazione del gas naturale liquido proveniente da oltreoceano. Inoltre, riporta Reuters, “le aziende francesi ad alta intensità energetica stanno accelerando i piani di emergenza e convertendo le loro caldaie a gas per farle funzionare a petrolio, nel tentativo di evitare interruzioni nel caso in cui un'ulteriore riduzione delle forniture di gas russo porti a interruzioni di corrente”. Contestualmente, “il governo francese sta lavorando con Goldman Sachs e Société Générale per valutare come assumere il pieno controllo della società di servizi EDF” in modo tale da ristrutturare il gruppo, carico di debiti “a causa anche dei ritardi e sforamenti del budget per i nuovi i nuovi impianti nucleari in Francia e in Gran Bretagna e problemi di corrosione in alcuni dei suoi reattori obsoleti, che hanno pesantemente colpito il prezzo delle sue azioni negli ultimi mesi”, scrive il Guardian. Attualmente lo Stato possiede l’84% della società.

 

Non va meglio in Germania che si sta “preparando” a un’interruzione (potenzialmente permanente) del flusso di gas russo a partire dall’inizio di questa settimana, quando inizieranno i lavori di manutenzione del gasdotto Nord Stream 1. Si tratta di un evento annuale che richiede la chiusura dei rubinetti del gas per 10-14 giorni, spiega il Guardian. Per evitare danni peggiori il Canada consentirà “l’esportazione di attrezzature vitali per il principale gasdotto russo in Germania, eliminando un potenziale ostacolo alla ripresa delle forniture di gas all’Europa”. Attraverso un “un permesso limitato nel tempo e revocabile”, il Canada invierà una turbina in Germania che poi là consegnerà a Gazprom in Russia. In questo modo il Canada non avrà violato le sanzioni nei confronti della Russia e la Germania non rischierà di compromettere le forniture di gas necessarie per l’inverno, scongiurando lo “scenario da incubo” prospettato dal ministro dell’Economia tedesco Robert Habeck.

Intanto, l'azienda tedesca di servizi pubblici Uniper “ha formalmente chiesto un pacchetto di salvataggio a Berlino”. Una richiesta che “probabilmente porterà il governo a possedere una quota sostanziale dell'azienda sull'orlo dell'insolvenza a causa della drastica riduzione delle forniture di gas dalla Russia”, scrive il Financial Times. L'amministratore delegato di Uniper, Klaus-Dieter Maubach, ha avvertito le famiglie e le industrie tedesche di prepararsi a una “ondata enorme” di prezzi energetici più alti l'anno prossimo.

 

La scorsa settimana, la Camera alta del Parlamento tedesco ha approvato un pacchetto di leggi sull'energia che include nuovi obiettivi di espansione delle energie rinnovabili, strumenti di salvataggio per gli importatori di gas e il possibile ritorno delle unità a carbone e a petrolio nel mercato dell'energia. “Una decisione dolorosa ma necessaria”, ha commentato Habeck, suscitando le critiche dei gruppi ambientalisti secondo i quali un ipotetico ritorno a un'energia così fortemente inquinante è un compromesso eccessivo che potrebbe pregiudicare anche il raggiungimento degli obiettivi climatici più importanti. Tuttavia, intervenendo a un evento organizzato dall'Associazione per le energie rinnovabili, il cancelliere Olaf Scholz ha dichiarato che è ora di “mettere il turbo all'espansione delle energie rinnovabili”.

Nel Regno Unito, il governo britannico ha assegnato all'asta “contratti per differenza” (CfD) per quasi 11 gigawatt (GW) di capacità di energia rinnovabile, quasi il doppio della capacità ottenuta nella precedente tornata di aste. L'asta ha visto anche prezzi record per l'eolico offshore, “contribuendo a ridurre la dipendenza del paese dai prezzi volatili dei combustibili fossili e ad alleggerire le bollette future di case e imprese”, scrive Bloomberg. Tutti i progetti entreranno in funzione nei prossimi cinque anni, fino al 2026/27, e genereranno elettricità a un prezzo medio di 48 sterline per megawattora (MWh). Si tratta di un prezzo quattro volte inferiore rispetto all'attuale costo di gestione delle centrali a gas, pari a 196 sterline/MWh. Secondo un’analisi del sito britannico Carbon Brief, “i progetti pre-approvati genereranno 42 terawattora (TWh) di elettricità all'anno, sufficienti a soddisfare circa il 13% dell'attuale domanda del Regno Unito” ed entro la fine del decennio “faranno risparmiare ai consumatori circa 1,5 miliardi di sterline all'anno”, riducendo il costo delle bollette medie annuali di 58 sterline.

Il piano quinquennale della Cina per le energie rinnovabili.

Il nuovo piano cinese per le energie rinnovabili porterà a un picco anticipato delle emissioni? È quanto si chiede uno studio di Carbon Brief che ha analizzato il 14° piano quinquennale (FYP) per le energie rinnovabili, che delinea la tabella di marcia della Cina per il quinquennio 2021-2025.

 

L'impegno della Cina per il clima (il suo “contributo determinato a livello nazionale”, o NDC) mirava a 1.200 gigawatt (GW) di capacità di energia eolica e solare entro il 2030 e a soddisfare il 25% del consumo energetico con combustibili non fossili entro il 2030. Il raggiungimento di questi obiettivi dovrebbe garantire alla Cina di raggiungere il picco di emissioni di anidride carbonica (CO2) prima del 2030, ma di non completare il percorso verso la neutralità carbonica.

Sebbene non ci siano più obiettivi obbligatori di aumento della capacità di generazione, sotto alcuni aspetti, il nuovo piano è più ambizioso dei precedenti. Chiede infatti che almeno la metà dell'aumento della domanda di energia sia coperta dalle rinnovabili. Sulla base della crescita stimata della domanda e dell'espansione pianificata del nucleare e dell'idroelettrico, questo obiettivo significa che la generazione da eolico e solare debba aumentare di circa 150TWh all'anno tra il 2021 e il 2025, osserva Carbon Brief.

Inoltre, l'Amministrazione Nazionale dell'Energia ha annunciato che i permessi per le nuove centrali a carbone saranno rilasciati solo se i progetti sono complementari alle energie rinnovabili. Tuttavia, c'è ancora il rischio che la crescente capacità di produzione di carbone della Cina possa essere in contrasto con i suoi piani di decarbonizzazione del mix energetico.

Da quando la Cina ha inserito per la prima volta un obiettivo sulle rinnovabili nel suo piano energetico, nell'11° FYP, la maggior parte degli obiettivi quantitativi per lo sviluppo del settore ha registrato una sovra-performance, in particolare gli obiettivi di crescita della capacità totale di energia eolica e solare.

Gli investimenti nelle energie rinnovabili sono stati un importante motore economico in Cina e svolgeranno un ruolo ancora più significativo nel rilanciare l'economia rispetto al passato, in un momento in cui la Cina deve affrontare l'impatto economico della COVID-19 e le incertezze causate dalla crisi ucraina. Secondo l'Agenzia Internazionale per l'Energia (IEA), nel 2021 gli investimenti cinesi in energia pulita hanno rappresentato oltre il 30% del totale degli investimenti globali e questa tendenza è destinata a continuare. 

Il piano di adattamento del Bangladesh agli effetti della crisi climatica.

Reduce dalle “peggiori inondazioni a memoria d’uomo” che hanno costretto lo scorso giugno più 7 milioni di bangladesi a chiedere aiuto e riparo, il Bangladesh si appresta ad approvare il suo primo Piano nazionale di adattamento (PAN). L’obiettivo è presentarlo prima della prossima Conferenza delle Nazioni Unite sul clima che si terrà in Egitto a novembre.

Il piano, preparato dal Ministero dell'Ambiente, delle Foreste e dei Cambiamenti Climatici, propone una serie di iniziative e politiche fino al 2050 che mirano a rendere il paese meno vulnerabile agli impatti dei cambiamenti climatici intervenendo su infrastrutture, gestione dei fiumi e tempestività degli interventi.

La cementificazione delle strade ha fatto sì che ampie aree diventassero impermeabili ostacolando il drenaggio dell’acqua piovana in eccesso. Mentre la rapida erosione del terreno dovuta alla deforestazione e all’uso intensivo della terra ha causato la fuoriuscita di più sedimenti nei canali idrici del paese, riducendo la loro capacità di carico e rendendo più probabili le inondazioni.

Secondo la bozza del PAN, visionata dalla Thomson Reuters Foundation, lo sviluppo delle infrastrutture deve lasciare spazio al drenaggio delle inondazioni e dei fiumi, mentre nelle zone a rischio di inondazione sconsiglia la costruzione di case e attività commerciali.

Le persone costrette a vivere in queste zone dovrebbero utilizzare materiali da costruzione resistenti all'acqua, erigere dighe di gomma intorno alle loro case o costruire su palafitte per mantenere le loro abitazioni al di sopra del livello delle inondazioni, spiega Khaled Hasan, professore di Scienza dei disastri e di resilienza climatica all’Università di Dacca.

In secondo luogo, il Piano nazionale di adattamento contiene suggerimenti per un sistema di allerta più tempestivo ed efficace attraverso il coinvolgimento delle comunità locali nel processo di diffusione delle informazioni sui disastri imminenti.

Infine, il PAN invita il Bangladesh a cooperare con i paesi limitrofi (come l’India) non solo per la gestione dei fiumi ma anche per la condivisione di informazioni per le previsioni e i modelli climatici.

Cosa stanno facendo le città per affrontare le ondate di calore.

In queste settimane diverse città hanno attivato delle strategie per poter proteggere i cittadini dalle ondate di calore.

La capitale della Grecia, Atene, sta sperimentando un sistema per classificare le ondate di calore in base al livello di minaccia, proprio come avviene per gli uragani, ha dichiarato la sua Eleni Myrivili, consulente per la resilienza e la sostenibilità della città di Atene e per l’occasione “chief heat officer”. Attraverso un algoritmo che tiene conto delle previsioni meteorologiche e dei dati relativi alla mortalità negli anni passati in caso di ondate di calore, il sistema riesce a definire giorno per giorno il livello di rischio, spiega Myrivili.

A Tokyo, i funzionari stanno sperimentando gallerie del vento per aumentare il flusso d'aria nelle aree calde, mentre nelle piazze pubbliche di Tel Aviv è stato sperimentato l’uso di tende parasole in tessuto chiaro con pannelli solari che generano energia per illuminare le aree di notte, rendendole più sicure e fruibili 24 ore al giorno.

Città del Capo e Buenos Aires stanno installando tetti luminosi e altri sistemi di raffreddamento sugli edifici pubblici, mentre Kuala Lumpur sta studiando un sistema di “raffreddamento distrettuale” che utilizza energie rinnovabili e sistemi idrici naturali per pompare l'acqua di raffreddamento nelle case.

In alcune città australiane, gli operatori della Croce Rossa chiamano le persone vulnerabili nei giorni più caldi e inviano i servizi di emergenza se non ricevono risposta. In Spagna, alcuni Comuni hanno deciso di posizionare delle ambulanze in spiaggia in modo tale da poter intervenire immediatamente in caso di colpi di calore.

Anche il rafforzamento dei sistemi di approvvigionamento idrico ed elettrico di base - per mantenerli attivi durante le ondate di calore e dare alle persone gli strumenti necessari per rimanere più fresche –

sono cruciali per salvare vite umane. Alcune città stanno escogitando modi per ridurre l'umidità, un fattore di rischio aggiuntivo nelle ondate di calore, piantando specie arboree che assorbono più umidità nell'aria o rilasciano meno acqua dalle foglie.

Come il negazionismo climatico arriva nelle scuole grazie alle pressioni delle lobby dei combustibili fossili.

In una sala riunioni di Austin, in Texas, i membri del Consiglio di Stato per l'Educazione stanno decidendo se agli studenti di scienze di terza media debba essere chiesto di “descrivere le azioni per mitigare il cambiamento climatico”. Seduti al tavolo, però, non ci sono solo docenti. Ci sono anche avvocati della Shell Oil Company. La decisione viene messa ai voti. Hanno la meglio gli avvocati della Shell. La proposta non passa.

Un articolo di Scientific American racconta come i rappresentanti di società di combustibili fossili stiano facendo pressioni sui consigli scolastici del Texas per manipolare i contenuti dei corsi e dei libri di testo sul cambiamento climatico, dalla scuola dell’infanzia fino alla nostra scuola media. Una decisione che ha poi ricadute su tutto il paese, perché il Texas è uno dei maggiori acquirenti di libri di testo degli Stati Uniti e per questo motivo le sue politiche condizionano le scelte degli editori scolastici. “Non ho mai sentito nessuno dire esplicitamente: ‘Non possiamo parlare di ambientalismo a causa del Texas’. Ma in un certo senso lo sapevamo tutti. Tutti lo sapevano”, racconta a Scientific American un ex autore di libri di testo di Scienze.

La maggior parte degli americani è favorevole all’insegnamento a scuola della crisi climatica. Un sondaggio nazionale del 2019 condotto da NPR/Ipsos ha rilevato che quasi quattro intervistati su cinque - tra cui due repubblicani su tre - ritengono che gli alunni delle scuole debbano essere istruiti sul cambiamento climatico. Ma quando l'Agenzia per l'istruzione del Texas ha intervistato gli educatori scientifici di tutto lo Stato su cosa dovrebbe essere aggiunto agli standard, uno su quattro ha scritto chiedendo il cambiamento climatico o qualcosa di vicino, come le fonti alternative di energia. Nessuno ha chiesto più contenuti sui combustibili fossili.

Come ho appreso guardando 40 ore di audizioni in diretta e in archivio, esaminando decine di documenti pubblici e intervistando 15 persone coinvolte nel processo di definizione degli standard, i membri dell'industria dei combustibili fossili hanno partecipato a ogni fase del processo di adozione degli standard scientifici del Texas, lavorando per influenzare ciò che i bambini imparano a favore dell'industria”, spiega l’autrice dell’articolo Katie Worth.

L'industria dei combustibili fossili lavora da decenni per far arrivare il proprio messaggio agli studenti delle scuole. Le compagnie petrolifere finanziano regolarmente corsi di formazione per gli insegnanti, incentivati da forniture gratuite per le classi. Le organizzazioni del settore hanno speso milioni di dollari per produrre e distribuire piani didattici sull'energia. Una volta, racconta Worth, “ho visto un dipendente dell'industria petrolifera e del gas tenere una presentazione in PowerPoint in cui minimizzava la crisi climatica a una classe di studenti di seconda media”.

I libri di testo di scienze per le scuole medie più diffusi a livello nazionale trasmettono in modo più o meno sottile dubbi sul cambiamento climatico. In un libro di testo, presente nel 2018 in un quarto delle scuole medie nazionali, c’era scritto che “alcuni scienziati propongono che il riscaldamento globale sia dovuto a cicli climatici naturali”. In realtà, il numero di scienziati del clima a sostegno di questa teoria è praticamente pari a zero.

A tutto questo, poi, si aggiunge un altro elemento di iniquità. Il Texas non è l'unico grande acquirente di libri di testo. Altri grandi Stati, come la California, hanno adottato standard che invece seguono la scienza del clima. E così gli editori dei libri di testo creano una serie di prodotti da vendere in Texas e negli Stati negazionisti climatici e una seconda serie di prodotti per gli Stati che seguono gli standard della California. E così, negli Stati Uniti, la formazione su un tema centrale per il mondo moderno, il cambiamento climatico, cambia a seconda dello Stato in cui si vive.

 

 

 

Emergenza clima alla base di

numerosi blackout: cosa succede?

Rienergia.staffettaonline.com - ALBERTO BERIZZI – (28 GIUGNO 2022) – ci dice:

 (DIPARTIMENTO DI ENERGIA POLITECNICO DI MILANO).

 

È davanti a tutti noi, in questi giorni, la notizia frequente di interruzioni dell’alimentazione elettrica in molte delle nostre città. Tali interruzioni generano, nella migliore delle ipotesi, malumori tra i cittadini, ma spesso anche danni economici alle attività produttive. È quindi molto importante cercare di chiarire almeno quali siano le cause e se si possa in qualche misura mitigarne gli effetti negativi.

Innanzitutto, è necessario sgombrare il campo dall’idea che si tratti di un fenomeno di sistema: almeno per il momento, nonostante i problemi di approvvigionamento del gas e di scarsità di risorse idriche, il problema non è la mancanza di potenza generata. Di fatto le interruzioni, anche se frequenti, sono localizzate geograficamente e limitate ad alcune città o aree specifiche: non siamo di fronte a blackout nazionali, come quello del settembre 2003, che lasciò al buio tutto il paese.

Viceversa, le problematiche che conducono ai disservizi di questi giorni hanno la loro origine nel trasporto dell’energia elettrica ed in particolare nelle reti di distribuzione, cioè le reti in media e bassa tensione che, prelevando generalmente la potenza dalla rete di trasmissione nazionale, la distribuiscono in modo capillare agli utenti collegati.

Tali reti sono costituite da direttrici che si diramano radialmente dalle cabine (primarie o secondarie) fino alle diverse utenze. Le direttrici possono essere costituite da linee aeree, nelle zone meno densamente abitate, o in cavo interrato, soprattutto nelle città. E proprio i cavi interrati sembrano essere il punto critico e la sede della maggior parte dei guasti che stanno verificandosi in questi giorni. I cavi sono costituiti dal conduttore e da uno strato di isolante in materiale organico. Ogni conduttore, percorso da corrente, si scalda per effetto delle perdite Joule, e quindi innalza la propria temperatura. L’innalzamento della temperatura ha due conseguenze principali, ed è per questo che normalmente i cavi sono classificati secondo una temperatura massima ammissibile.

In primo luogo, l’aumento di temperatura è pericoloso non tanto per il conduttore in sé, quanto per l’isolante che gli sta attorno. Infatti, il materiale isolante è generalmente molto sensibile alla temperatura, che ha come effetto quello di ridurne la vita utile, ovvero la tenuta dielettrica, aumentando la probabilità di scarica elettrica verso terra, cioè di corto circuito; la legge che ne governa la vita utile attesa è la legge di Arrhenius, che evidenzia la dipendenza della vita utile dalla temperatura: ogni aumento significativo di temperatura del cavo, anche se per una durata limitata, causa una diminuzione della vita utile dell’isolante secondo una legge esponenziale.

 

Si comprende come sia estremamente importante allora limitare la temperatura dell’isolante, e ciò può aver luogo in due modi: limitando la fonte di calore, cioè il valore della corrente nel conduttore, che però è determinato dal carico elettrico, cioè dagli utenti e non è nel controllo diretto del distributore; oppure cercando di “smaltire” il calore generato dal conduttore in modo tale che l’aumento della temperatura sull’isolante sia limitato. Purtroppo, in questi giorni, le temperature ambiente elevate concorrono in senso peggiorativo da entrambi i punti di vista: da un lato, il consumo dei condizionatori che entrano in funzione per il raffrescamento degli ambienti raggiunge valori molto elevati, e quindi causa valori altrettanto elevati di corrente nei conduttori; dall’altro, l’elevato calore che così si genera non viene trasferito all’ambiente perché la temperatura ambiente elevata non lo consente.

Il risultato complessivo è che l’isolante dei cavi è sottoposto a temperature elevate, e quindi vede via via ridurre la propria vita utile e aumentare la probabilità di cedimento dell’isolamento e di guasto.

Un secondo aspetto importante è quello dei fenomeni di dilatazione termica dei cavi: la variazione significativa delle temperature comporta un continuo allungamento e accorciamento dei cavi, e questo costituisce uno stress di tipo meccanico sui giunti, ovvero sui punti in cui due spezzoni di cavi sono uniti per creare la continuità elettrica.

Le interruzioni che si verificano in questi giorni sono per lo più causate da guasti localizzati proprio nei suddetti giunti che, come ogni punto di congiunzione, rappresentano dei punti deboli nella conduttura elettrica: le potenziali cause sono state definite sopra e i rimedi possono appartenere al mondo della pianificazione (lungo periodo) oppure a quello dell’esercizio (breve periodo).

Per quanto riguarda il primo, la soluzione è semplicissima, ancorché costosa e di fatto inattuabile, se non parzialmente, in tempi brevi: l’opzione consiste nella sostituzione integrale dei cavi più obsoleti oppure con il maggior numero di giunti eventualmente presenti. Tuttavia, la sostituzione ha un costo per niente trascurabile, visto che i cavi stessi sono installati prevedendo una durata di più decine di anni, ed è difficile prevedere quale sia la loro durata residua.

Un’altra soluzione può fare riferimento alla diminuzione della sorgente di calore, cioè alla diminuzione della corrente transitante nel cavo. Un primo approccio potrebbe sfruttare i concetti sviluppati sotto il cappello delle Smart Grids, e potrebbe basarsi sul controllo intelligente di alcune utenze, in particolare i condizionatori i quali, sfruttando l’inerzia termica degli edifici, potrebbero essere controllati in modo centralizzato – senza diminuire il comfort delle persone – in modo tale da diminuire i picchi di corrente, a pari energia trasferita. Ciò necessiterebbe di sistemi di controllo che ad oggi non è possibile attuare in tempi brevi su larga scala. Una seconda opzione per ridurre le correnti è quella di potenziare sempre più la generazione distribuita, ad esempio fotovoltaico, cogenerazione, magari mediante l’incentivazione delle comunità energetiche, in modo da scaricare la rete elettrica, almeno nei momenti in cui il contributo di tale generazione sia significativo.

 

C’è una terza via, anch’essa attuabile fin d’ora, che potrebbe essere estremamente efficace: essa si basa sulla coscienza civica e sull’ educazione all’uso intelligente dell’energia: credo che tutti noi abbiamo sperimentato almeno una volta nella vita un uso scriteriato del condizionamento, con raffrescamento degli ambienti a temperature polari. Se solo imparassimo, tutti indistintamente, a pensare alle conseguenze di ogni nostra azione in termini di impatto sull’ambiente, se fossimo in grado di valorizzare l’energia nel modo corretto, ci sarebbero molte meno luci dimenticate accese, condizionatori con set point di temperatura troppo bassi, in altre parole meno sprechi di energia: dai i grandi numeri in gioco, tutto questo apporterebbe grandi benefici in termini di ridotte interruzioni elettriche (che riguardano ciascuno di noi, individualmente) e di minori consumi elettrici che, in questi ultimi mesi di carenza di gas naturale e di risorse idriche, non potrebbero che giovare al sistema energetico nazionale. E certamente non impatterebbero negativamente in modo significativo sulla qualità della nostra vita.

 

 

 

 

Una crisi tira (giù) l’altra.

L’eclissi dell’emergenza climatica.

Formiche.net- Erasmo D'Angelis – (17/07/2022) ci dice:

Il mondo brucia un record via l’altro con temperature medie globali sempre oltre la norma. Ma tra guerra, pandemia e inflazione l’emergenza climatica è già un lontano ricordo: un grave errore.

Do you remember i piani di mitigazione e di adattamento solennemente approvati ormai 7 anni or sono a Parigi dai 197 Paesi firmatari con le transizioni energetiche promesse? E poi l’ambizioso piano-apripista mondiale, quel BBB, il Build Back Better Act, il mega pacchetto dal valore da 2.000 a 3.500 miliardi di dollari con risposte alla crisi climatica, economica e sociale che avrebbe dovuto segnare la presidenza dI Joe Biden?

Beh, nella distrazione generale sul problema dei problemi, non solo il mondo torna all’incoscienza precedente ma, mentre le catastrofi prodotte dalla crisi climatica continuano a fare vittime e a costare un botto (nel 2021 oltre 300 miliardi di dollari con aumento di fame e carestie e profughi), la grande questione climatica che ci vede sull’orlo del precipizio senza vedere l’umanità decisa a reagire subito, è surclassata da altre emergenze – Covid, guerra di Putin, crisi energetiche -, e gli Usa sono oggi la cartina di tornasole del più clamoroso rischio del ritorno al passato.

L’illusione che le crisi climatiche siano passeggere ha infatti colpito 6 dei 9 giudici della Corte Suprema degli Stati Uniti che, non contenti di aver già soppresso il diritto delle donne all’interruzione volontaria della gravidanza, dopo aver mostrato tutta la loro inerzia contro le stragi da Far West delle armi, hanno negato il diritto a contrastare il riscaldamento globale ad una delle più autorevoli Autority scientifiche di protezione ambientale del mondo, l’ “Environmental Protection Agency”, la mitica Agenzia statunitense che ha fatto scuola ed è impegnata a ridurre le emissioni dei gas serra generate anche dalle centrali energetiche, e in particolare dalle più inquinanti, quelle a carbone.

L’ultima sentenza choc dell’Alta Corte ha fortemente limitato i suoi poteri e ha stabilito che solo il Congresso può varare norme con limitazioni di emissioni climalteranti, stracciando così platealmente anche le pagine migliori dell’agenda dell’amministrazione Biden, quella con la road map per obiettivi di riduzione delle emissioni a carbone fino allo zero entro il 2035 e con il dimezzamento di quelle da altre fonti fossili entro il 2050.

L’EPA, con analisi e proiezioni climatiche alla mano, aveva dimostrato che le centrali termoelettriche sono la seconda fonte di inquinamento climatico dopo il settore dei trasporti, segnalando gli Stati Uniti come secondo produttore mondiale di gas serra dopo la Cina. E ogni piano di riduzione passava necessariamente dal carbone.

La sentenza per Biden e per il clima è stata «devastante». Ma tant’è.

Lo scontro ambientale Democratici-Corte Suprema va avanti dai tempi di Obama che, dopo aver favorito l’accordo storico sul clima a Parigi il 12 dicembre 2015, provò a imporre più severi limiti per le emissioni di CO2 in ogni singolo Stato, obbligando le centrali elettriche a rispettarli e ad entrare in fase di transizione energetica, con più eolico e solare.

Il suo “Clean Power Plan” con la strategia energetica nazionale fu però stoppato nel 2016 dalla Corte Suprema, dopo la causa avviata nel dal West Virginia produttrice di carbone con altri 18 Stati repubblicani sostenuti delle grandi compagnie produttrici di carbone in nome della libertà di inquinare.

La strategia di Obama venne poi abrogata nel 2019 dal fiero negazionista climatico Donald Trump, fautore di norme ultra permissive. E con Biden è toccato alla maggioranza conservatrice di 6 giudici contro 3 rimettere nel mirino l’EPA e il piano-clima, sentenziando che non può e non deve fissare limiti generali alle emissioni delle centrali a carbone (il 20% della produzione di energia elettrica Usa e sempre più saldo sulla produzione mondiale per un 40% dell’energia producendo però oltre il 70% di gas serra).

La Casa Bianca protesta per “un’altra decisione devastante che mira a far tornare indietro il nostro paese”, e Biden fa sapere che potrebbe emanare un Executive Order, un provvedimento per re-indirizzare le politiche esecutive del governo federale, e che non esiterà ad usare tutto ciò che è in suo potere per proteggere la salute pubblica e affrontare la crisi ambientale.

Ma il fatto è che la svolta green anche negli Usa è più in salita che mai. Tanto più che prima dei giudici repubblicani era già arrivato il senatore democratico del West Virginia, Joe Manchin, che si è smarcato dalle scelte ambientali di Biden annunciando a sorpresa, dopo essersi impegnato a sostenerlo, che non voterà il Build Back Better, il clamoroso piano di protezione del clima e per il nuovo welfare.

Forte anche lui del sostegno della lobby dei produttori di carbone, Manchin il picconatore l’ha spiegata così a Fox News: “Non posso votare questa legge. Non posso proprio. Ho cercato in tutti i modi umanamente di trovare un motivo, ma non mi ha convinto. Questo è un no”, gelando il Presidente e il suo partito che puntavano tutto sul via libera al Piano prima di Natale, salvando la presidenza democratica. Manchin ha anche chiarito che non voterà nessuna legge che includa la tutela dell’ambiente tra i princìpi e, in un Senato spaccato a metà come una mela tra Dem e Repubblicani, il suo voto ha cambiato tutto.

Il piano clima di Biden ormai è saltato, a meno di un recupero in retromarcia del transfuga oppure del pronto soccorso di un improbabile votante transfuga repubblicano. Al momento però la nuova legislazione sociale e ambientale che i Democratici hanno già approvato alla Camera dopo mesi di dure polemiche e defatiganti negoziati, è out. Biden potrà affidarsi alle azioni esecutive per affrontare il cambiamento climatico, emanando nuove regole per l’Agenzia sugli inquinanti delle centrali elettriche a combustibili fossili e sulla limitazione delle vendite di petrolio e gas. Ma significa affrontare l’incognita di lunghe battaglie legali in tribunale.

Potrebbe dichiarare lo “stato di emergenza climatica” delineando una serie di azioni senza bisogno dell’approvazione del Congresso. Oppure non fare nulla e stralciare il piano-clima dal Build Back Better Act ammettendo platealmente di non essere stato in grado di convincere il suo senatore democratico dello stato del carbone, o un collega repubblicano, auto-affondando la sua legge presentata come la più grande speranza al mondo per affrontare la crisi climatica. Un voltafaccia clamoroso che nessuno si augura.

 

Con queste premesse, la pre-conferenza tecnica dell’Onu sul clima che si è svolta a Bonn il mese scorso per fare il punto dopo l’ultima COP26 di Glasgow e in preparazione della prossima COP27 di novembre a Sharm el-Sheikh in Egitto, ha visto gli sherpa dei 196 Paesi alquanto demoralizzati. La diplomazia climatica doveva riprendere il filo degli impegni presi nello storico accordo di Parigi nel taglio delle emissioni di CO2, ma ha preso atto dell’empasse. Nel frattempo le catastrofi prodotte dalla crisi climatica sono costate nel 2021 oltre 300 miliardi di dollari, mentre siccità e inondazioni sempre più estreme e imprevedibili aumentano fame e profughi climatici, e anche la nostra Penisola non sta troppo bene, intrappolata come è da due mesi nella bolla di calore più calda e con la siccità più dura del secolo.

Il mondo brucia un record via l’altro con temperature medie globali sempre oltre la norma. E se il “Global Stock take”, il processo di revisione e valutazione dell’attuazione dell’Accordo di Parigi e in particolare della finanza climatica appare al momento ancora senza target, anche l’appuntamento in Egitto rischia passi indietro sui dossier e sulle azioni per contenere l’aumento della temperatura globale a fine secolo a +1,5 o al massimo 2 gradi rispetto all’era preindustriale. Perché se il cambio di passo si vede, è come quello dei gamberi, all’indietro.

 

 

 

L’EMERGENZA è L’ENERGIA NON IL CLIMA:

questo errore può causare disastri.

Laverita.info- Franco Battaglia intervista Laszlo Szarka- (14 settembre 2022) -ci dicono:

 

Il geofisico ungherese: “La decarbornizzazione ha delle basi pseudoscientifiche ma è il dogma degli organismi internazionali. L’ideologia alla fine non vincerà.”

E’ un grande onore per me intervistare Laszlo Szarka , professore di geofisica all’università di Sopron, membro dell’Accademia delle scienze ungherese ( Asu) ed ex direttore del Centro di ricerca per l’astronomia e le scienze della terra. (…)

Professor Szarka, lei è un geofisico con eccezionale reputazione internazionale, la persona giusta cui porre domande sull’attuale politica climatica. Quale è il suo particolare campo di ricerca?

(La variazione di CO2 segue sempre quella della temperatura: come fa a esserne la causa?)

“Ho iniziato nel campo della geofisica della terra solida. Ma orma i da oltre 20 anni sono coinvolto nella ricerca in scienze ambientali, che è un campo che necessita di una forte componente geofisica.

Delle cose di cui vuol parlare, le dico subito che raggiungere il 100% di energia dalle rinnovabili è impossibile, non foss’altro per il fatto che nessun impianto rinnovabile è mai stato o sarà mai realizzato dall’energia eolica e solare.

Per costruire quegli impianti serve energia ad alta intensità e affidabile, che proviene solo da carbone, petrolio, gas naturale e nucleare, oltre che dall’energia idroelettrica, l’unica rinnovabile degna di nota”.

Quando è cominciato il suo scetticismo sull’emergenza climatica?

“Diversi anni prima dell’undicesima assemblea dell’Associazione internazionale di geomagnetismo e aeronomia (Aiga), tenutasi a Sopron, in Ungheria nel 2009.In qualità di presidente del comitato organizzatore locale ho incontrato molte persone, tra cui il presidente dell’Aiga, il professor Eigil Friis-Christensen, che illustrava la sua scoperta della correlazione tra cambiamento climatico, attività solare e raggi cosmici, cosa che coincideva con le conclusioni dei miei studi. Poi, in una disputa, a San Francisco, il noto fisco solare Willie Soon poneva una semplice domanda senza ottenere risposta:

sei fatti ci dicono che le variazioni della Co2 atmosferica seguono (e non precedono!) le variazioni di temperatura, come è possibile che la CO2 sia considerata la causa e la temperatura la conseguenza?

Infine, quando nel comitato ungherese dell’Anno internazionale del pianeta Terra ci interessavamo alla classificazione delle sfide che l’umanità deve affrontare, trovavo che l’ordine di priorità stabilito dallo statunitense Richard Smalley, premio Nobel per la chimica, era logico e perfetto:

1)-energia, 2) -acqua potabile, 3) - cibo, 4) - ambiente, 5) - problemi sociali (popolazione, salute, istruzione, cultura, eccetera).

Ogni elemento della lista è un prerequisito per risolvere gli elementi successivi. Quest’orine di priorità è in netto contrasto con gli Obiettivi di sviluppo (Oss) dell’Onu, oggi noti come Agenda 2030, che sono obiettivi confusi e fuorvianti: è intrinsecamente impossibile subordinare la politica energetica al clima, che è solo una piccola parte delle questioni ambientali.”

Conto di intervistare il grande Willie Soon. Come vede lei la scienza ambientale?

“Essendo la scienza del rapporto tra natura e uomo, a causa della componente uomo, essa è inevitabilmente anche una scienza sociale. L’ambiente è una selezione arbitraria del mondo naturale e i problemi ambientali non sono indipendenti dagli interessi umani. Ed è un dato di fatto che la scienza ambientale, con l’intera storia del cambiamento climatico al centro, è stata formata sin dalla sua nascita da precisi gruppi di interesse”.   

A chi pensa?

“Dalla fine degli anni Sessanta ritroviamo lo stesso nome in ogni tappa documentata. Si tratta di Maurice Strong, petroliere, diplomatico e faccendiere canadese che, pur privo di istruzione (abbandonò la scuola a 14 anni) divenne cionondimeno amministratore delegato di diverse compagnie, oltre che direttore dell’università della pace, fondata dall’Onu.

Principale organizzatore della prima Conferenza Onu sull’ambiente, Strong fu il padre dell’Ipcc, che a sua volta fu il motore della conferenza di Rio del 1992, ove nacque la Convenzione quadro dell’Onu sui cambiamenti climatici, che stabilì già allora di attribuire all’uomo ogni responsabilità”.

Strong moriva proprio nell’anno degli Accordi di Parigi sul clima…

Già. Gli Accordi di Parigi hanno messo in forma giuridicamente vincolante il tredicesimo Oss dell’Onu -azione per il clima. I governi si sono legati mani e piedi alla questione climatica, che è alla base pseudo-scientifica e ora anche legale, della carbonizzazione.                 

Questa, però, è una grande idiozia, perché nelle profondità della Terra ci sono condriti carbonacee e non è possibile impedire il degasaggio di CO2 dall’interno della terra nell’atmosfera.

Il passo successivo è stato il vertice dell’ONU sul clima del settembre 2019…

“Si, alla presenza di Greta Thunberg, che per quell’occasione attraversò in barca a vela l’Oceano. In quel vertice dichiararono che avrebbero “cambiato il mondo attraverso il proposito di controllarne il clima”.     

 Non molte persone si rendevano conto che queta volta la parola “cambiare” doveva essere presa sul serio: si iniziò una nuova fase verso l’attuazione della governance globale, prendendo a pretesto la presunta emergenza climatica.

Rammento con precisione gli sviluppi, poiché a quel tempo nel mio discorso inaugurale di membro dell’Accademia delle scienze ungherese, titolato “Terra e uomo”, denunciavo le ossessioni irrealizzabili e le visioni antiumane che si prospettava di imporre all’umanità.

Ma la cosa non finiva lì:

seguirono gli incontri di Davos del Word economic forum (Wef) di Klaus Schwab e il Green new deal europeo, che si proponevano di “trasformare l’Europa nel primo continente climaticamente neutro”.

Infine, con l’avvento del Covid-19, Klaus Schwab, fondatore del Wef, pubblicava il libro COVID-19: THE GREAT RESET.

Così, la parola “trasformare” ha avuto il suo significato definitivo e nudo:

RESETTARE IL MONDO INTERO, un programma globale accolto con favore da molti importanti politici, tra cui il presidente della Commissione Eu.

C’è una totale coerenza, persino armonia, tra le espressioni dei documenti dell’ONU, della UE, del WEF, e dell’IPCC.

Infine, nel 2021 ci sono stati grandi sforzi per mettere il clima nell’agenda del Consiglio di sicurezza dell’ONU, ma Russia e India hanno votato contro e la Cina si è astenuta”.

 Dai media è quasi impossibile raccogliere tali informazioni.

il senso della realtà aiuta molto a capire le cose”.    

 Che tipo di politica ambientale ha in mente?

“Penso che il patriottismo debba essere la vera base della politica ambientale. Il grande filosofo e accademico inglese Roger Scruton (scomparso nel 2020, ndr) ha introdotto il concetto di oikofilia (amore per la casa).

La persona di tipo oikofilo si identifica con la famiglia il luogo di residenza, la nazione ed è fortemente radicato nel mondo reale, pur imperfetto. Tuttavia c’è anche chi preferisce vivere nel sogno di una società immaginata di persone che la pensano tutte allo stesso modo, e in casi estremi si può parlare di oikofobia, che è il rifiuto ideologico di amare la casa, sentimento presente nei movimenti verdi.

Costoro sono solo “utili idioti” dell’élite globale, stanno lavorando insieme al programma Great reset (di Klaus Schwab, noto costruttore di bombe atomiche in Sud Africa, ndr), ove la decarbonizzazione non è altro che il loro strumento più efficace.

Se non riconosciamo queste cose da subito, la UE crollerà”.  

Quale è in proposito, la posizione dei decisori politici in Ungheria?

“Alla conferenza di Azione politica conservatrice, tenutasi a Budapest nel maggio 2022, il presidente Viktor Orban disse una cosa monto importante:

“dobbiamo rendere a Cesare quel che di Cesare, a Dio quel che è di Dio, e alla scienza quel che è della scienza”.

Allora il nostro dovere di scienziati è semplice: allertare i responsabili politici che il “consenso scientifico” è un concetto antiscientifico, di origine tutta politica. Per fortuna la realtà fisica è dalla nostra parte, i castelli di carta basati sull’ideologia prima o poi crolleranno”.

 

 

 

Biopotere e biopolitica,

immunizzare la società

attraverso il controllo.

Aboutpharma.com- Redazione -(3 Agosto 2020)- ci dice:

 

La salute dell’essere umano è un affare di Stato. In tempo di Covid-19 il concetto di immunizzazione è tornato alla ribalta. Oggi tutta la società è in cerca di una difesa contro il nemico invisibile che viene da fuori e che ha messo (e continuerà a mettere) a dura prova le strutture e sovrastrutture sanitarie, politiche, economiche e sociali. La corsa a un vaccino globale ne è l’esempio ultimo, perché uno scudo contro il nuovo coronavirus deve pur essere trovato per ritornare, sempre che sia possibile, a una società che possa guardare avanti. Questa è almeno l’aspettativa dei governi e dell’establishment globale. Una comunità rigenerata, auto-conservata e immunizzata sia dal punto di vista sanitario che sociale apre nuovi dibattiti in tema di biopolitica e biopotere, ossia la capacità dello Stato di decidere della salute altrui e che si oppone al diritto di dare la morte (attraverso condanne capitali per esempio).

L’immunizzazione.

Il concetto nasce a cavallo tra XVII e XVIII secolo (tra cui la formulazione di “biocrazia” del filosofo Auguste Comte nel suo “Système de politique positive” negli anni ’50 dell’800 o con il termine che tutt’oggi usiamo coniato da Georges Bataille nel ‘900) e ha visto la sua più ampia costruzione teorica con il filosofo, storico e sociologo francese Michel Foucault negli anni ’70 del secolo scorso arricchendo il dibattito contemporaneo. A lui per esempio si deve una serie di ragionamenti sul cosiddetto “Piano Beveridge” del 1942 che è considerato tuttora il più grande intervento internazionale di salute pubblica durante il massacro per eccellenza rappresentato dalla Seconda guerra mondiale. Secondo Foucault, responsabile di questo intreccio di protezione e negazione della vita è stato l’incontro tra la biopolitica e il razzismo biologista, innescato dalla pretesa di una razza geneticamente perfetta e superiore a cui tendeva la politica, soprattutto nazista. Già il filosofo Thomas Hobbes (1588-1651), tuttavia, aveva considerato che la posta in gioco prioritaria della politica fosse costituita dall’esigenza di conservazione della vita rispetto ai rischi di morte violenta inerenti alle interrelazioni umane e anche Friedrich Nietzsche (1844-1900) aveva parlato di una sovrapposizione tra politica e vita. Se Foucault è uno dei massimi esponenti di questo filone di pensiero con il quale oggi ci ritroviamo obtorto collo ad avere a che fare, bisognerà attendere gli anni ’90 del secolo scorso per tornare a una disquisizione organica sul tema con i filosofi Giorgio Agamben, Toni Negri e Roberto Esposito. I conflitti etnici nei Balcani e in Africa centrale, le migrazioni, i nuovi programmi di salute pubblica dei governi e una sempre maggiore e diffusa sindrome della sicurezza hanno richiesto nuove riflessioni sul tema. E torniamo quindi all’immunizzazione di cui si è occupato lungamente proprio Esposito, professore ordinario di Filosofia Teoretica presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, nel suo libro “Immunitas” (2002, ma di recente riedito). AboutPharma and Medical Devices lo ha intervistato.

Immunizzazione e tutela della salute come strumento di biopotere. La pandemia sta accendendo conflitti tra gli Stati (es. Cina e Usa) e la disponibilità di vaccini e/o cure può scavare un solco sociale, economico e politico tra coloro che presto o tardi potranno o meno permettersele, anche all’interno dello stesso Occidente.

Quali rischi sta correndo l’umanità?

Non c’è dubbio che gravi rischi ci siano. Le procedure di immunizzazione e la protezione della salute sono sempre stati strumenti del biopotere a partire dall’inizio della stagione moderna. Foucault pone la genesi di questo processo alla fine del XVIII secolo, quando nascono le prime politiche urbanistiche, securitarie e mediche come forme di controllo sociale. Già in quella fase ospedali, manicomi, sanatori, insieme alle prigioni, costituiscono dispositivi per proteggere, ma anche per suddividere e inquadrare, le popolazioni all’interno di determinati spazi urbani. Foucault distingue tra le strategie di esclusione nelle forme residue di lebbra e di confinamento nei confronti della peste.

Anche a livello di politica internazionale ci sono delle evidenze…

Oggi questi processi di medicalizzazione hanno assunto una valenza anche geo-politica nel confronto e nello scontro tra grandi potenze continentali.

 La corsa al vaccino, soprattutto tra Usa e Cina, ma anche in altre parti del mondo, è significativa di questa implicazione. Già gli Stati Uniti si sono dichiarati disposti a comprare il vaccino da chi lo avesse prodotto per primo, usandolo anche come strumento di egemonia politica. E la Cina, se ne avesse la possibilità, farebbe probabilmente altrettanto, e con una trasparenza ancora minore. Ma anche in Europa si è già scatenata una competizione non soltanto economica tra gli Stati, e addirittura all’interno di essi, per il controllo delle risorse sanitarie. Tutto questo non può non avere effetti di disuguaglianza che preoccupano in una fase in cui sarebbe invece auspicabile mettere in comune gli sforzi di tutti.

Con quali strumenti politici e vincoli economici si possono controllare le derive del concetto secondo cui “chi controlla la salute controlla il mondo”?

È difficile evitare questa trasposizione dal piano medico-sanitario a quello economico-politico, dal momento che la stagione biopolitica che attualmente viviamo, e che tende a intensificarsi sempre di più, poggia proprio su questa interdipendenza immediata tra politica e vita biologica.

 Anche l’economia converge verso questa interrelazione, dal momento che la gestione della salute, pubblica e privata, è diventata essa stessa questione intrinsecamente politica e dunque biopolitica. Visto che non si può regredire a una fase precedente, che non è possibile saltare all’indietro, bisognerebbe aprire una stagione di biopolitica affermativa, dopo quella negativa, o addirittura “tanato-politica”, che abbiamo conosciuto soprattutto, ma non esclusivamente, nella prima metà del Novecento. Cosa può essere una biopolitica affermativa? Cosa si dovrebbe mettere al suo centro?

E le risposte?

Ad esempio, una battaglia contro le grandi industrie farmaceutiche per abbattere il costo di medicinali, protetti dai brevetti, soprattutto nelle aree più povere, in Africa e in Asia, dove la mortalità per malattie contagiose resta altissima. Ma anche costruire nuove strutture ospedaliere pubbliche gratuite, che nell’attuale situazione pandemica sono apparse assolutamente insufficienti.

Al concetto di immunità (da un punto di vista storico, filosofico e sociologico) ha dedicato buona parte della sua ricerca negli ultimi anni. Quali riflessioni le suggerisce ciò che sta accadendo con Covid-19?

Il termine stesso, oltre che la pratica, dell’immunità è al centro del linguaggio pandemico: dalle ‘patenti di immunità’ all’app ‘Immuni’, a tutte le misure di ‘distanziamento sociale’ (un’espressione curiosa perché il distanziamento non è mai sociale, ma sempre asociale), la questione dell’immunità si pone al centro di tutti i discorsi, biologici, medici, giuridici, informatici (si pensi ai virus dei computer).

L’immunizzazione sembra sempre più il perno intorno al quale ruota la nostra intera esperienza, reale e immaginaria, materiale e simbolica. Si tratta di una questione da esaminare con cura, distinguendo al suo interno tra livelli differenti. Da un lato un principio di immunizzazione è necessario in tutte le società. Nessun corpo, individuale o collettivo, resterebbe in vita senza un qualche sistema immunitario.

Ma bisogna interrogarsi sulla soglia cui esso può arrivare. Oltre la quale c’è il rischio di scivolare in una malattia autoimmune, allorché la protezione diventa tanto forte da distruggere lo stesso corpo che dovrebbe difendere. Per esempio parlare, come si è fatto soprattutto nel Regno Unito, di ‘immunità di gregge’ comporta questo rischio. L’immunità di gregge intenzionale presuppone, per potersi diffondere, la morte di una gran numero di persone, soprattutto le più deboli, condannate in partenza.

Michel Foucault parlava della medicina come strumento di controllo sociale che invade il campo della politica se intervengono ragioni sanitarie. C’è un limite da porre? E dove?

È difficile indicare in astratto dove porre il limite. Tutto dipende da circostanze temporali e spaziali, oltre che dalla violenza delle epidemie. In linea di principio si dovrebbe cercare di ridurre la sovrapposizione crescente tra politica e medicina, evitando sia di politicizzare la medicina (si pensi alle battaglie ‘geopolitiche’ tra scuole mediche contrapposte) sia di medicalizzare la politica. Una piena medicalizzazione della politica porterebbe a fare dei cittadini dei ‘pazienti’ potenziali, ad esempio patologizzando la devianza o l’insubordinazione sociale.

 

Che cosa si può fare dunque?

Bisognerebbe, ma mi pare stia avvenendo il contrario, che, dopo aver ascoltato i medici e tenuto in debito conto le loro previsioni (sempre piuttosto incerte), i politici prendessero le proprie decisioni. Ma ciò presupporrebbe ceti politici, preparati e coraggiosi, che al momento mancano nella maggioranza dei Paesi occidentali. Ciò determina il proliferare di commissioni tecniche, destinate a preparare progetti che poi quasi mai vengono attuati. Anche perché i politici tendono ad attuare soltanto misure che aumentano il loro consenso, anche a prescindere dalla loro effettiva utilità.

La recente pandemia sta evidenziando un processo secolare ma acuito negli ultimi anni: il progresso scientifico – per i suoi alti costi – sta creando una medicina sempre più selettiva ed enormi disuguaglianze proprio sulla salute. È l’effetto di un arretramento delle istituzioni pubbliche rispetto alla ricerca e sviluppo affidata al privato o cos’altro?

Credo che il problema sia più generale. Certo la privatizzazione delle strutture mediche non aiuta e sta di per sé generando enormi problemi, penso soprattutto agli Stati Uniti, dopo che è stata smantellata la riforma di Obama. Ma la questione riguarda l’intera macchina produttiva capitalistica, in cui anche il settore della salute deve prima di tutto generare profitti.

Ma un comparto predisposto a generare innanzitutto profitti è naturalmente portato a generare disuguaglianza. Ciò accade anche all’interno delle strutture sanitarie pubbliche, anche se in misura minore. Il problema è che è impossibile isolare un dato settore all’interno di un certo tipo di società. Vero è che al momento nessuno è in grado di proporre un modello alternativo di sviluppo sociale. Ciò non toglie che il problema esista e, prima o poi, vada affrontato con la massima energia.

 

Cosa sono biopotere e biopolitica.

Partendo dagli sviluppi tecnologici di oggigiorno e dalle innovazioni in campo medico, Andrea Vicini, professore di Teologia morale alla Pontificia facoltà teologica dell’Italia meridionale di Napoli, partendo da Foucault, spiega che la nozione di biopotere esamina le tecnologie che riguardano la vita umana dal punto di vista delle dinamiche di potere da esse generate accarezzando di conseguenza anche la nozione di biopolitica. Per biopolitica, quindi, si intendono tutte quelle pratiche attraverso cui viene esercitato il biopotere sui corpi fisici della comunità di riferimento. E la sanità non si esime. Il benessere fisico e la salute della popolazione diventano obiettivo diretto dell’agire politico che si trasforma in politica della salute o “noso-politica”.

Foucault parla chiaramente di medicinalizzazione degli individui e l’igiene pubblica, a partire dal XVIII, secolo diventa strumento di lotta alle epidemie attraverso interventi medici “autoritari” (nel senso che derivano da un’autorità costituita) e hanno effetti sugli individui. Inoltre, con una classe medica sempre più consapevole della propria importanza all’interno della società si va costituendo una sorta di sapere medico-amministrativo con cui indirizzare la popolazione a determinati comportamenti socio-sanitari.

Il nuovo assetto politico sulla paura di ammalarsi.

“Poiché la storia ci insegna che ogni fenomeno sociale ha o può avere implicazioni politiche, è opportuno registrare con attenzione il nuovo concetto che ha fatto oggi il suo ingresso nel lessico politico dell’Occidente: il distanziamento sociale”.

Inizia così un articolo del filosofo Giorgio Agamben del 6 aprile 2020 pubblicato sul sito della casa editrice Quodlibet. Il filosofo, in riferimento al confinamento e alla quarantena imposta dal governo, si chiede “che cosa potrebbe essere un ordinamento politico fondato su di esso” e “non si tratta soltanto di un’ipotesi puramente teorica, se è vero, come da più parti si comincia a dire, che l’attuale emergenza sanitaria può essere considerata come il laboratorio in cui si preparano i nuovi assetti politici e sociali che attendono l’umanità”.

Nel suo scritto, Agamben, trattando di distanziamento sociale, cita “Massa e potere” di Elias Canetti secondo cui la massa è dove il potere si fonda attraverso l’inversione della paura di essere toccati.

In poche parole, l’uomo teme di essere “toccato” da qualcuno di esterno dal suo involucro protettivo che è la massa, mentre ora, con le politiche di allontanamento, la massa viene formata da individui che si tengono a ogni costo a distanza l’uno dall’altro.

 

 

 

Biopolitica, il perché

di una scelta di percorso.

Comunitadiconnessioni.org- Fabrizio Urbani Neri-( 4 Febbraio 2022) - ci dice:

 

Oggi il potere non si accontenta più di condizionare le nostre menti, ma esige anche il controllo dei corpi, delle nostre emozioni, dei nostri comportamenti, finendo col dettare persino i nostri spostamenti, chi possiamo o non possiamo incontrare, in che zona ed a che ora. Oggi, il potere non è più ideologico, oggi è biopotere e la sua manifestazione è biopolitica. Per biopolitica si intendono, così, tutte quelle pratiche attraverso cui viene esercitato il biopotere sui corpi fisici della comunità di riferimento (singoli e collettività).

In tempo di Covid-19, secondo alcuni pensatori italiani, il concetto di biopolitica è divenuto centrale per capire le dinamiche del nostro tempo. E con tale pensiero la nostra Comunità intende confrontarsi quest’anno per esaminare e riflettere, non tanto se i divieti imposti debbano essere più o meno rigidi, quanto piuttosto se il modello di società e di gestione del potere politico che si sta delineando favorisca o meno la promozione della dignità della persona umana in ogni fase della vita e in ogni circostanza.

L’attualità del tema appare evidente. Con che cosa ciascuno di tutti noi ha avuto a che fare in questi mesi? Con regole e computer, con dpcm e realtà digitale; ogni angolo della nostra vita quotidiana, pubblica e privata, è stata conformata dall’ultimo decreto-legge o da quella ordinanza ministeriale ed ogni relazione, affettiva o lavorativa, filtrata da un clic, guidata da un link, consentita da una connessione digitale.

E se ogni uscita di casa è avvenuta laddove consentita dalle regole sul controllo pandemico, altrettanto può dirsi che ogni nostro passo nella rete è stato osservato, registrato, catalogato.

In pratica, la Vita (Bìos) è divenuta materia di controllo, di potere, di politica, appunto, e se, da un lato, le procedure legislative ed amministrative di protezione della salute sono divenuti i moderni strumenti del biopotere, non di meno ciò può dirsi per i big data ed il ruolo degli influencer nel campo digitale, al punto tale che non appare fuori contesto prevedere che il comportamento umano stia ormai diventando materia prevedibile, automatismo programmabile, perdendo, così, la sua ragione vera di essere al mondo, la sua creaturale unicità: il sale dell’irripetibilità di ciascuno di noi rischia di sciapirsi in questa curva del tempo.

Si staglia, allora, anche in questa fase storica, la figura dell’”uomo lacerato” della Gaudium et Spes, di una creatura, che aspira a una dimensione superiore di pace, di relazione universale, di verità e di amore e si vede al contempo compressa e resa piccola dai mille limiti imposti da una società che ne pretende il controllo, non solo, della mente, come accadeva nello ieri dell’ideologismo, ma anche del Bios, dell’energia vitale, nell’oggi del biopolitico. È per questi motivi che il percorso di formazione politica di quest’anno si apre opportunamente con due incontri, uno dal titolo “Biopolitica e Diritto”, l’altro dal titolo “Biopolitica ed influencer”, per offrire ai giovani che vi vorranno partecipare un luogo di confronto e di dialogo sulla sfida in atto nella società e nella politica.

Ci chiederemo con l’ausilio della Dottrina sociale della Chiesa:

-di quanta libertà ha bisogno l’uomo?

– quanto è libero oggi l’uomo?

-come si può integrare la libertà dell’uomo con l’attuale società digitale e medicalizzata?

-è possibile costruire una nuova dottrina del giusto rapporto tra bios e controllo politico (politica della salute) e tra bios e controllo sociale (dataismo della Rete)?

– in che modo è auspicabile che la biopolitica, anziché configurarsi come “congiura contro la vita”, assurga a strumento di liberazione per la persona, aprendo una stagione di biopolitica affermativa (ad esempio, favorendo la riduzione del costo dei farmaci, soprattutto nelle aree più povere del pianeta, oppure rivitalizzando il ruolo del parlamento e dei corpi intermedi, come le associazioni, perché più queste organizzazioni continuano a operare, più la nostra democrazia accumula forza per resistere a queste sfide)?

 

Dal momento che il nostro impegno è “pensare politicamente” i temi della democrazia alla luce dei principi costituzionali e dell’antropologia dell’umanesimo integrale, cercheremo, pertanto, lungo tale strada, di individuare, alla luce del nostro statuto costitutivo di cristiani consapevoli ed impegnati, la soglia al di là della quale la libertà di coscienza subisce la manipolazione ed esige tutela. Certo dalla globalizzazione indietro non si torna, e dalla pandemia bisogna difendersi con tutto quanto il sapere scientifico può mettere a disposizione, infine è ovvio che dipendiamo, ciascuno, ormai sistemicamente dal device personale (pc, cellulare, schermo tv) per vivere, lavorare, fare la spesa, ordinare un pasto, in altri termini, relazionarci col mondo esterno.

Ed è nondimeno difficile indicare in astratto dove porre il limite, il confine accettabile a questa inferenza; ci faremo, così, aiutare in questo percorso da illustri personalità del mondo politico ed accademico, nonché dal nostro collaudato metodo di discernimento (gli incontri, infatti, anche quest’anno, come da consuetudine,  saranno scanditi da un’Introduzione spirituale, dal Dialogo, come detto, con relatori esperti sui temi accennati, dai “Laboratori politici”, dove ciascun partecipante all’incontro darà il suo fattivo apporto per realizzare la sintesi della giornata di studio e di riflessione nella Discussione finale).

Ci proveremo, perché per noi essere cristiani non è una questione privata, ma è una vocazione all’impegno sociale, che ci invita a riversare i doni dello Spirito ricevuti per la costruzione di una realtà comunitaria e di cittadinanza, dove ciascuno possa sentirsi libero e solidale, a suo agio nel reciproco servizio, “per il benessere del paese” (Ger 29,7).

 

 

 

Più che la biopolitica dovremmo

temere la politica della morte.

Ilmanifesto.it- Filippo Barbera- (18 gennaio 2022) – ci dice:

 

NECROPOLITICA. Se la biopolitica si basa sul “fare”, sul controllo attivo e disciplinare, la necro-politica può basarsi sull’assenza di intervento che contempla la morte come esito socialmente accettabile.

Il Presidente del Brasile Jair Bolsonaro ha rappresentato l’emblema di una gestione della pandemia che ha privilegiato la morte rispetto alla vita.

Bolsonaro è stato il più radicale interprete della “necropolitica”, termine coniato dal filosofo camerunense Achille Mbembe nel suo saggio del 2003.

Se la biopolitica normalizza lo stato di emergenza attraverso l’esercizio del controllo sulle vite delle persone, la necro-politica può far leva sull’assenza di misure eccezionali – e quindi ricorrere a una normalità forzata – a fronte di una situazione emergenziale. Se la biopolitica si basa sul “fare”, sul controllo attivo e disciplinare, la necro-politica può basarsi sull’assenza di intervento che contempla la morte come esito socialmente accettabile.

Per questo, la necro-politica si deve basare sulla legittimazione politico-simbolica dell’esposizione al rischio di morte di particolari gruppi e individui. Qualcuno merita di morire, qualcuno può essere sacrificato, alcuni possono non essere curati.

“Gli anziani hanno già vissuto”, “i no-vax non meritano le cure”, “siamo disposti a sopportare qualche migliaio di morti per tornare a una vita normale”.

 La morte fisica diventa così un possibile e legittimo esito della scelta collettiva. Se la biopolitica tratta tutte le vite allo stesso modo e le persone come soggetti da controllare nella normalizzazione dell’emergenza, la necro-politica trasforma gruppi e individui in gerarchie di oggetti da ignorare fino alla morte, in nome della normalità forzata. Le vite assumono un diverso valore e alcune diventano sacrificabili.

 Per la necro-politica lo spettacolo deve continuare, a prescindere.

È, questa, l’opinione del politologo Yascha Mounk che, intervistato sul Corriere della Sera del 2 gennaio dichiara che “ci siamo abituati al fatto che la nostra vita implicherà più rischi nel 2022 rispetto al 2019, ma collettivamente e individualmente scegliamo che vivere in modo più normale valga la pena di correre quei rischi”.

Ma è anche l’opinione di noti virologi e medici, come di membri del Cts. La narrazione necessaria per legittimare questa scelta è puro azzardo, scommessa, roulette, compiuta sulla pelle dei sacrificabili o di coloro che sono classificati come “non meritevoli” e colpevoli.

La narrazione che supporta la necro-politica assume che Omicron è lieve, sebbene i dati non siano conclusivi; scommette sul fatto che gli ospedali non andranno in sovraccarico, nonostante la plausibilità di questo scenario. L’azzardo, appunto, è giocato sulla pelle dei fragili, persone non vaccinate e/o non vaccinabili, inclusi i malati che vedono procrastinate le cure o gli interventi per sovraccarico del sistema ospedaliero.

La stessa narrazione, poi, guarda solo ai costi delle strategie basate sulla cautela e non a quelli dell’accettazione dei rischi: azzardo che omette i danni da long-covid, condanna i no-vax a contagiarsi, non considera i dati sulle ospedalizzazioni dei bambini e lascia circolare il virus contro le raccomandazioni della scienza che invitano a contenerne la circolazione per scongiurare lo sviluppo di nuove varianti. Il blocco di interessi oggettivi che sostiene la sacrificabilità fisica di persone e gruppi è legato a doppio filo a quanti temono che la politica ritorni ad essere preminente rispetto all’impresa, ma anche a posizioni anarco-capitaliste e, tristemente, ai critici “da sinistra” dello stato di emergenza, che temono il controllo della vita dove, in realtà, ciò che dovrebbe preoccuparli è la politica della morte.

Alcune delle scelte passate del governo Draghi vanno nella stessa direzione, come la mancata introduzione del lavoro a distanza nella pubblica amministrazione. Ciò a testimonianza di un governo che guarda alla necro-politica come l’unica via rimasta verso la “normalità”, dopo aver omesso di attuare quegli interventi necessari (aerazione delle scuole, obbligo vaccinale, telelavoro) utili alla collettività nel lungo periodo, ma non al consenso immediato degli interessi consolidati e alla tenuta dei precari equilibri di una maggioranza posticcia.

Molto poteva essere realizzato, intervenendo sulle condizioni materiali della vita quotidiana e sui luoghi di lavoro, potenziando diritti e benessere.

Si è deciso di non farlo in nome di una strategia “only-vax” che lasciasse il resto inalterato e, ora, si scommette alla cieca sull’esito più favorevole, imponendo quella normalità che non si è stati in grado di assicurare per tempo e con lungimiranza.

 

 

 

La vocazione biopolitica

dello Stato moderno.

Opinione.it-Gaetano Masciullo – (13 ottobre 2021) – ci dice:

Il periodo di pandemia che stiamo vivendo ormai da quasi due anni può essere compreso meglio alla luce di un ramo di studi filosofici che prende il nome di biopolitica, al suo interno assai variegato.

È una disciplina che è nata nel secolo scorso, principalmente grazie a un filosofo francese, Michel Foucault, e che è arrivata anche in Italia tramite pensatori come Toni Negri oppure Giorgio Agamben, che ha fatto scalpore qualche tempo fa per alcuni suoi articoli pubblicati su alcuni quotidiani generalisti italiani.

Cosa è la biopolitica?

Citando Foucault, se il compito della politica un tempo era quello di decidere se lasciar vivere o far morire, con l’avvento e il rafforzamento dello Stato il compito della politica è diventato quello di far vivere o lasciar morire.

Quindi, com’è evidente, la dinamica tra vita e morte si è invertita. Nella biopolitica – appunto: “politica sulla vita” – lo Stato appare l’unico garante della vita umana, intesa in senso meramente biologico.

Ci sono quattro grandi ambiti della vita umana direttamente coinvolti dalla biopolitica:

la natalità (quindi la tendenza a controllare in qualche modo la fertilità, occupandosi anche di tematiche quali la sovrappopolazione); la morbilità (ossia il controllo della frequenza con cui determinate malattie si presentano tra la popolazione e questo è certamente l’aspetto che è emerso maggiormente in questo periodo); l’abilità (quindi controllo su tutti quegli eventi che compromettono l’abilità dei singoli: incidenti, disabilità, ma anche la vecchiaia e, in questo senso, le politiche previdenziali rappresentano una forma di biopolitica); l’ambiente (quindi tematiche connesse all’ecologismo: altro tema che diventa sempre più attuale).

La biopolitica nasce con lo Stato in età moderna.

Nel XVII secolo, la Francia assolutista, al fine di controllare in maniera capillare e sistematica l’igiene collettiva, istituì la polizia, termine che è poi rimasto nel lessico per indicare un organo armato dello Stato autorizzato a conservare l’ordine sociale.

 La celebre frase di Cicerone – Salus populorum suprema lex, “La salute del popolo è la legge suprema” – è divenuta da allora il motto del fare politica, dove la salute non è più quella integrale, come intendeva in realtà Cicerone, ma biologica, materiale.

Nel secolo scorso, il biopotere è stato il segno distintivo ma macabro dei grandi regimi totalitari.

 Foucault parla a proposito anche di tanato-politica (“politica della morte”): la purificazione della salute collettiva deve passare attraverso l’esclusione o addirittura la morte provocata di alcuni individui, come avvenne nel caso del nazionalsocialismo, ma anche del cosiddetto “socialismo reale” in Russia, dove gli avversari politici venivano tacciati non tramite la dialettica, bensì tramite la tecnica di psichiatrizzazione del nemico. L’opinione contraria, contraddittoria al potere, era così ridotta a una malattia da curare.

Non bisogna pensare tuttavia che la biopolitica sia qualcosa che non riguardi le democrazie cosiddette liberali contemporanee (ma che, in realtà, di liberale hanno ben poco, se non addirittura nulla).

 Secondo Giorgio Agamben, il sovrano è colui che decide dello “stato di eccezione” e, quindi, può imporre la legge e sospenderla a proprio piacimento e, con essa, la vita.

Da qui le polemiche che si sono presentate recentemente intorno alla sua figura, appunto perché Agamben ha voluto vedere nelle recenti politiche una manifestazione eminente della tendenza dello Stato, del potere sovrano, a decidere dello stato di eccezione.

C’è da dire anche che la biopolitica, negli ultimi tempi, ha visto una degenerazione “ideologica”: dalla critica foucaultiana della genesi statuale, secondo un metodo genealogico dal sapore fortemente nietzschiano, si è arrivati a teoria e giustificazione della vocazione totalitaria dello Stato (senza chiamarla esplicitamente così).

In seguito all’11 settembre, ad esempio, il filosofo Jacques Derrida – esponente di spicco del decostruzionismo, quella corrente filosofica che analizza il linguaggio per tentare di svuotarlo dei suoi significati metafisici – riprese i concetti foucaultiani per colpevolizzare la politica statunitense:

“Terrorismo significa necessariamente morte? Non si può terrorizzare senza uccidere? E poi, uccidere è necessariamente qualcosa di attivo?

 “Lasciar morire le persone”, non voler sapere che si stanno lasciando morire persone (centinaia di milioni di persone che muoiono di fame, Aids, assistenza sanitaria inadeguata), non può essere parte di una “più o meno” consapevole strategia terroristica consapevole e deliberata?” (Giovanna Borradori, Le Concept du 11 septembre. Dialogues avec Jacques Derrida et Jürgen Habermas, Paris: Galilée, 2004, pp. 162–3).

Per Derrida, lo Stato deve essere biopolitico: è grazie a esso che le persone vivono. Lo Stato fa vivere, come il dio mortale di hobbesiana memoria.

Una politica alternativa, che “lascia vivere e fa morire” – ossia che rispetta le libertà individuali, che affida le soluzioni sociali al libero mercato e amministra la giustizia nel caso in cui i diritti di proprietà siano violati – così com’è stata praticata, secondo varie forme, nell’Europa cristiana pre-moderna, diventerebbe addirittura una politica terroristica, persino più pericolosa di quella di Al-Qaeda.

Questa prospettiva, invero folle, deve essere ridimensionata. Gli studi di biopolitica risultano utili a comprendere la storia e dunque l’identità dello Stato moderno. Il quesito cui il problema va ridotto è il seguente: davvero la sicurezza è più importante della libertà?

E se anche la risposta dovesse essere affermativa, davvero bisogna delegare la sicurezza a una classe burocratica, cui diamo il nome di Stato, capace di esercitare la forza a proprio piacimento?

(Gaetano Masciullo)            

 

 

 

 

Super green pass e controllo dei corpi:

“Il corpo è una realtà bio-politica;

la medicina è una strategia bio-politica”

(M. Foucault).

Codice-rosso.net- Guy Van Stratten- (4 Dicembre 2021)- ci dice: 

 

In questo articolo cercheremo di proporre una lettura, il più possibile razionale e distaccata, delle dinamiche che stanno dietro all’introduzione del green pass e, più recentemente, del cosiddetto “super green pass”, introdotto in occasione delle festività natalizie, che tende a escludere chi non si è vaccinato da svariati spazi della vita civile e quotidiana.

Per farlo, come altre volte, non possiamo che rifarci alla “cassetta degli attrezzi” offerta da Michel Foucault utilizzandola nel modo più ‘neutro’ possibile, senza forzare in alcun modo il pensiero dello studioso né cercare, a ogni costo, di adattarlo – se così si può dire – alla delicata situazione contemporanea. Le osservazioni che seguono, infatti, non pretendono di avere la verità in tasca né di dire, dall’alto di uno scranno: “Le cose stanno così”. Sono, invece, appunto, delle osservazioni che, utilizzando come guida il pensiero di Foucault, intendono sollevare delle domande e porsi in discussione nonché, naturalmente, offrirsi a qualsiasi critica.

La prima idea che possiamo cogliere dal lucido pensiero del filosofo francese è che la medicina, nella società capitalistica, non possiede un carattere individualista e privato, bensì collettivo.

Tale medicina collettiva esercita sui corpi un controllo di tipo bio-politico. Così Foucault afferma in una conferenza tenuta a Rio De Janeiro nell’ottobre del 1974, poi uscita in rivista nel 1977, dal titolo “La nascita della medicina sociale”:

“Sostengo l’ipotesi che con il capitalismo non si sia passati da una medicina collettiva a una medicina privata ma che è avvenuto esattamente il contrario; il capitalismo che si sviluppa alla fine del XVIII secolo e all’inizio del XIX, ha innanzi tutto socializzato un primo oggetto, il corpo, in funzione della forza produttiva, della forza lavoro.

 Il controllo della società sugli individui non si effettua solo attraverso la coscienza o l’ideologia, ma anche nel corpo e con il corpo.

Per la società capitalista è il bio-politico a essere importante prima di tutto, il biologico, il somatico, il corporale. Il corpo è una realtà bio-politica; la medicina è una strategia bio-politica”.

Foucault propone un’interpretazione che va nella direzione opposta rispetto a quella offerta da altri studiosi, secondo la quale la medicina delle società antiche è collettiva mentre la medicina moderna, invece, è individuale e individualista. La medicina moderna, secondo lo studioso, è una pratica che si occupa dell’intero corpo sociale. Il sistema capitalistico, per il suo perfetto funzionamento, non può non tenere conto dello stato di salute del suo intero corpo sociale. Il primo oggetto che viene socializzato dal capitalismo è il corpo e viene socializzato esclusivamente in funzione della forza produttiva, della forza lavoro. È per difendere il corpo come forza lavoro che lo stato capitalista introduce dei provvedimenti di tipo restrittivo in occasione, ad esempio, di una epidemia oppure, come è il caso attuale, di una pandemia.

 Come Foucault afferma nella medesima conferenza, una direzione importante presa dalla medicina sociale è quella della forza lavoro e viene esaminata dallo studioso attraverso il modello inglese. Nelle città, i poveri e i lavoratori sono stati oggetto della medicalizzazione.

 Come viene osservato, “con l’epidemia di colera del 1832, che comincia a Parigi per diffondersi in tutta l’Europa, si cristallizzarono un insieme di paure politiche e sanitarie suscitate dalla popolazione proletaria o plebea”.

Da questo momento in poi si decise che la “coabitazione tra poveri e ricchi in un ambito urbano indifferenziato costituiva un pericolo sanitario e politico per la città”.

Viene così creata una vera e propria differenziazione tra poveri e ricchi per mezzo della creazione di quartieri per poveri e di quartieri per ricchi. I poveri vengono sentiti dallo stato come un elemento pericoloso per le classi sociali più ricche; al giorno d’oggi, la paura dello stato si concentra non sui poveri ma sui ‘non vaccinati’, come possibili conduttori di epidemia, i quali, per mezzo del “super green pass”, vengono di fatto separati da coloro che si sono vaccinati. Lo stesso provvedimento, come sappiamo, è stato recentemente preso con misure più drastiche in Germania e in Austria, nazioni che hanno predisposto un vero e proprio lockdown per i non vaccinati.

I provvedimenti dello Health Service attuati in Inghilterra sulla popolazione più povera per mezzo di un tempestivo intervento nei luoghi insalubri, della verifica delle vaccinazioni, dei registri delle malattie (pratiche che, ricorda Foucault, avevano come obiettivo il controllo delle classi sociali bisognose) hanno provocato nella seconda metà del XIX secolo “violenti fenomeni di reazione e di resistenza popolare, piccole insurrezioni anti-mediche”.

Tali pratiche messe in campo dalla medicina, organizzate come un controllo della popolazione più bisognosa, ha suscitato , non solo in Inghilterra, reazioni di protesta e di resistenza anti-medica.

Le proteste odierne contro il green pass e la vaccinazione non sono altro che le eredi contemporanee di queste forme di protesta che combattevano la medicalizzazione e rivendicavano il diritto alla vita, il diritto di ammalarsi, di curarsi e di morire secondo il proprio desiderio.

Questo desiderio di sottrarsi alla medicalizzazione è stato una delle caratteristiche principali di molteplici gruppi, religiosi e non, dalla fine del XIX secolo fino a oggi. Per cui non bisogna considerare le idee di questi movimenti come una sorta di residuo attuale di credenze arcaiche (se non, beninteso, in certi casi), quanto come una lotta politica “contro la medicalizzazione politicamente autoritaria, la socializzazione della medicina, il controllo medico che grava principalmente sulla popolazione povera”.

 C’è però un punto che merita di essere messo in rilievo: oggi non si tratta di un rifiuto ‘generico’ alla medicalizzazione; si tratta invece di un rifiuto a una medicalizzazione di emergenza sorta in seguito a una pandemia.

Le misure attuate, le vaccinazioni, i green pass, i lockdown per i non vaccinati sono pratiche emergenziali (e quindi, in teoria, destinate a sparire una volta che l’emergenza sarà finita) di fronte a una situazione particolarmente grave che investe la società. Per cui, la paura degli stati, di fronte a una situazione di emergenza, è ancora più forte.

Del resto, è lo stesso Foucault a ricordarci che in tutti i paesi europei esisteva, fin dal Medioevo, un “piano d’urgenza” che doveva essere applicato quando la peste o una malattia epidemica grave appariva in una città e che prevedeva diverse misure tra cui la quarantena, la sorveglianza casa per casa, la divisione in quartieri delle città, la disinfezione. Le grandi città – nota lo studioso – hanno provocato sempre una “serie di panici”, di paure legate alla possibile nascita e diffusione di epidemie.

 Il controllo autoritario dello stato per mezzo della medicina nasce quindi probabilmente da una paura che la società capitalistica ha introiettato come paura di non poter controllare adeguatamente, in caso di epidemia, i corpi degli individui intesi come forza lavoro.

Ecco, infatti, che uno dei più discussi provvedimenti, recentemente, è stato proprio l’introduzione del green pass sui posti di lavoro.

È importante, a questo punto, tornare a commentare la prima lunga citazione foucaultiana che è stata sopra riportata.

Con il capitalismo – dice Foucault – siamo passati a una medicina collettiva, una medicina che unisce il medico al malato e che tiene conto della dimensione globale e collettiva della società.

Si tratta quindi di una medicina che considera una collettività di individui e, come tale, è tenuta a salvaguardare il più possibile gli individui stessi. Quando, anche oggi, si parla di “bene comune”, di scelte attuate per preservare la collettività, non bisogna mai dimenticare che si tratta di una collettività all’interno di una società capitalistica.

 Quest’ultima ha creato questa dimensione collettiva, da un punto di vista medico, per socializzare il corpo in funzione del suo unico interesse: la forza produttiva, la forza lavoro.

 Se “per la società capitalista è il bio-politico a essere importante prima di tutto, il biologico, il somatico, il corporale”, lo è nella misura in cui il corpo stesso rappresenta unicamente una forza lavoro, un mezzo di produzione per accrescere le ricchezze del capitale. Il green pass e il “super green pass” sono strumenti bio-politici che agiscono direttamente sui corpi.

 Non sono strumenti che servono per controllare le ideologie o le coscienze, il loro controllo non prevede una ulteriore digitalizzazione dell’esistenza.

Il loro controllo non è quello spettrale e fantasmatico della digitalizzazione. Come afferma Gioacchino Toni in una nostra intervista, “colpisce che qualche ministro nostrano abbia parlato del Green Pass come della «più grande opera di digitalizzazione mai fatta» e colpisce ancor di più che tale affermazione sia stata presa per veritiera anche da ambiti conflittuali.

Basterebbe leggersi il volume Il capitalismo della sorveglianza (Luiss, 2019) di Shoshana Zuboff, che di certo non è un’estremista, riguardante l’universo “dentro gli schermi” ma anche il cosiddetto “Internet delle cose”, per rendersi conto che viviamo, già da qualche tempo, immersi in un sistema di sorveglianza digitale che ricorrendo a un immaginario orientato al conformismo ha saputo sfruttare al meglio la frenesia imposta dalla società della prestazione e della parcellizzazione dell’apprendimento”.

 Il green pass e il “super green pass” sono strumenti profondamente moderni che agiscono direttamente sui corpi per mezzo di un controllo bio-politico, biologico e corporale.

 Ecco perché “il corpo è una realtà bio-politica; la medicina è una strategia bio-politica”.

Concludendo la sua conferenza, Foucault afferma che nel XIX secolo, soprattutto in Inghilterra, compare “una medicina che consisteva principalmente in un controllo della salute e del corpo delle classi bisognose, perché esse fossero più adatte al lavoro e meno pericolose per le classi ricche”.

Adesso, quella stessa medicina, in una situazione di emergenza, in una società che non è paragonabile a quella del XIX secolo, consiste principalmente nel controllo del corpo degli individui (soprattutto di chi ha scelto di non vaccinarsi), intesi sempre come forza lavoro, perché non rappresentino un pericolo per l’intero corpo sociale, il quale è a sua volta composto dai corpi dei singoli.

(Guy van Stratten)

 

 

 

Stati di eccezione: biopolitica,

mobilità, sorveglianza.

Tuttaunaltrastoria.info - Stefano Portelli – (23 aprile 2022 )- ci dice :

 

Questa è la nostra seconda sessione, personalmente sono molto emozionato della riuscita della prima sessione, mi è sembrato che abbiamo parlato di cose fondamentali e ci sono state intuizioni importantissime. Dentro di me ho sentito dei nodi sciogliersi, degli altri nodi ricrearsi, dei collegamenti nuovi, delle idee geniali. Credo che veramente stiamo iniziando a toccare qualcosa di importante. In questa sessione, che abbiamo chiamato Stati di eccezione: biopolitica, mobilità,

sorveglianza, parleremo di una serie di questioni. Come avete capito la costruzione delle sessioni è arbitraria, noi abbiamo ricevuto tantissimi abstract, tantissime idee e proposte, e abbiamo cercato di costruire dei fili logici e tematici tra i vari temi. In questo, abbiamo in realtà inserito delle questioni abbastanza diverse tra loro, che però secondo me sono collegate da un filo logico abbastanza chiaro. Lo introduco con poche parole, poi passo la parola a Mimmo, che sarebbe il moderatore di questa sessione.

Secondo me la chiave è questa: nella sessione precedente abbiamo parlato molto di rottura delle frontiere disciplinari, della barriera che c’è tra i saperi, che costruisce dei saperi provinciali, chiusi, e che in qualche modo dobbiamo confrontare attraverso l’interdisciplinarietà. Però è evidente che “frontiera” è una metafora: le frontiere che dobbiamo rompere prima di tutto non sono quelle tra discipline, sono quelle sui territori. Qui ci sta innanzi tutto una questione di parcellizzazione della terra, prima ancora che di parcellizzazione delle frontiere del sapere, delle discipline del sapere.

Qui entra la questione della mobilità. È chiaro che siamo in un momento in cui non solo siamo stati rinchiusi nelle nostre case per mesi, [ma] siamo anche stati rinchiusi nei nostri paesi per molto tempo.

 Questa è una questione a cui forse io, perlomeno, non stavo dando l’importanza che merita, perché siamo abituati da sempre a fare battaglie sulla mobilità, contro le restrizioni alla mobilità. In questo momento le restrizioni alla mobilità ci colpiscono come prima colpivano molte altre persone. Io adesso, che mi ritrovo molto più chiuso nel mio paese di quanto fossi abituato (non mi sono mai mosso così poco come negli ultimi tempi), sto cominciando vagamente a capire come si possano sentire i miei amici, i miei informatori, le persone con cui lavoro in Marocco, che è una prigione in cui non è possibile spostarsi. Io non riesco a capire che cosa vuol dire vivere con la proibizione costante di attraversare le proprie frontiere nazionali. Lo comincio a intuire dopo un periodo di più o meno forzata chiusura in uno spazio territoriale. Questa, io credo, che sia una cosa importante perché le barriere alla mobilità e il governo della mobilità è uno degli strumenti fondamentali dell’estrazione di valore capitalista. Il capitalismo funziona – e da qui l’importanza del colonialismo da cui siamo partiti con Stefania stamattina – creando uno sviluppo diseguale, obbligando delle persone a muoversi e obbligando delle persone a non muoversi. È grazie al fatto che ci sono persone obbligate a venire a lavorare qui che si estrae un certo valore, è grazie al fatto che ci sono delle persone obbligate a rimanere lì che si estrae un’altra quantità di valore. Queste frontiere territoriali, che sono evidenti se le vediamo a livello della terra, sono più nascoste ma altrettanto potenti, creano altrettanto profitto, nella città. Io mi occupo di città, biopolitica, mobilità e sorveglianza non sono i miei temi, ma io non posso parlare di gentrificazione, di trasferimenti forzati (che sono i temi di cui mi occupo da sempre), di città, di produzione di valore immobiliare senza rendermi conto che la produzione del valore immobiliare si crea forzando alla mobilità alcune

persone e permettendo la libera circolazione di altre persone. Quindi il turismo, quindi gli sgomberi, gli sfratti: sono tutte forme di cessione della mobilità differenziata. La gestione della mobilità è chiave nel modo in cui funziona l’estrazione di profitto.

Quello che è interessante… e qui entra il termine biopolitica, che forse bisognerebbe definire ed è sempre molto difficile definirlo per chi non è esperto, io non sono un esperto di biopolitica, però in qualche modo è evidente che dall’Ottocento in poi si è sviluppata una forma di controllo sul territorio e sulla popolazione che non è un controllo proibitivo (“non si può fare”), ma è una forma di controllo positivo (“è preferibile fare, bisogna fare, la vita deve funzionare in questo modo”), prescrittivo.

C’è il discorso su come gli Stati costruiscono questo tipo di potere, che è un potere soprattutto sui flussi di spostamento interno e esterno, il controllo sulle frontiere, il controllo sugli spazi urbani, esso stesso legato di per sé alla questione medica, all’igienismo dell’Ottocento.

 È un tema su cui in Italia si è prodotta una riflessione critica molto importante, a livello proprio di diventare lo studio dello stato di eccezione – e quindi di un certo tipo di controllo sulla popolazione, sul territorio e sulla mobilità. [Questo studio] in Italia ha avuto uno dei suoi più grandi teorici che, paradossalmente, proprio nel momento in cui tutti questi strumenti di controllo venivano e in cui si attuava lo stato di eccezione più evidente delle nostre vite, è stato demonizzato come se fosse una canaglia nazionale: ovviamente sto parlando di Giorgio Agamben. È interessante che, in un paese in cui si è sviluppato un discorso teorico così grande sulla biopolitica e sullo stato d’eccezione, sia stato sperimentato questo tipo di controllo biopolitico e di stato d’eccezione nel silenzio pressoché totale di tutti quelli che s’erano costruiti le carriere sul concetto di biopolitica, di necro-politica, di stato d’eccezione. Questo, credo, è uno dei temi di cui si potrebbe parlare in questa tavola.

Il passaggio successivo – perché abbiamo degli interventi sulla digitalizzazione, sull’uso degli strumenti informatici – anche su questo è importante dirlo: tutto questo controllo, queste forme di controllo che vengono dall’Ottocento, di fatto, si stanno sviluppando attraverso gli strumenti digitali e gli strumenti informatici.

 Ora, io vengo da Indymedia Barcellona, ho passato praticamente la mia adolescenza in quell’esperimento di controinformazione che si chiamava Indymedia.

 Per noi la digitalizzazione e l’informatica era uno strumento di emancipazione: non solo dalla barriera territoriale (noi riuscivamo a usare… con questo sogno della rete libera, dell’open access, del software libero, noi sognavamo la liberazione dalla barriera territoriale), ma sognavamo anche la liberazione dalla barriera dell’individualità, dell’identità forzata, unica, che riconoscevamo come un prodotto borghese e capitalista.

Mi ricordo gli anni Novanta come un periodo in cui si rifletteva sulle identità multiple, sulla molteplicità – è da lì che viene Wu Ming. Tutto questo provoca sconcerto (forse solo per chi non se l’aspettava) nel momento in cui vediamo che questi stessi strumenti – che per noi erano strumenti di liberazione – sono stati totalmente cooptati, diventando 100%, o 99%, strumenti di governo dei flussi della mobilità, della territorializzazione, e delle barriere, delle frontiere.

Naturalmente il green pass non serve neanche nominarlo, è la conclusione di tutto questo processo, è chiaramente… o forse è l’inizio di un nuovo processo. Tutto questo porta a un’altra parte di questa tavola, che è tutto il discorso sulla sorveglianza, il passaggio da una sorveglianza di tipo quasi meccanico sull’attraversamento delle frontiere fisiche, a una sorveglianza di tipo di digitale anche su chi ha il permesso di attraversare le frontiere, ma che si ritrova altri ostacoli alla mobilità e comunque un controllo sempre presente sul movimento. Su questo credo che si può aggiungere qualche cosa.

 

 

 

Biopotere controllo delle masse:

fusione tra Biologia e politica.

Pianetaindaco.it- Redazione- (19 gennaio 2022) - ci dice:

Il biopotere è una tecnologia di regolazione che ha per oggetto il corpo-specie, la popolazione, tassi di malattia e statistici, ecc. In una prospettiva globale, intende creare analisi e politiche a livello macro, considerando i tassi di normalità per ogni specifico soggetto osservato.

POTERE DISCIPLINARE, POTERE SOVRANO.

Il 18° secolo fu il momento della generazione di un nuovo gruppo di potere. Un nuovo tipo di tecnologia del potere. Con meccanismi e tecniche diverse da quelle viste con il potere disciplinare o il potere sovrano. Michel Focault sconvolge la nozione classica di sovranità come potere basato sul diritto di lasciar vivere. Cioè di non trasferire in modo massiccio nella vita quotidiana con la creazione di norme. Ma di apparire nel momento decisivo della morte, nel momento del ritiro della vita con potere e autorità dal suo proprietario.

Tuttavia, dopo la nascita delle città, la crescita demografica e la concentrazione dei lavoratori, la vita vissuta diventa un elemento. E anche una condizione fondamentale per il mantenimento di produttività, già oggetto di lavoro dei meccanismi disciplinari nella nascente società disciplinare.

Un potere fatto nei corpi, nella disciplina dei piccoli movimenti, nella forza focalizzata sui dettagli, nella creazione di imposizione di norme. È completato da un potere che è supportato dalla vita biologica, dalle stime statistiche e dall’attenzione alla specie.

DALL’INDIVIDUO AL COLLETTIVO.

La vita biologica come oggetto principale di questa nuova tecnologia del potere sposta l’asse d’azione dall’individuo al collettivo, alla popolazione. Dall’atomo al tutto, dalla norma applicata all’individuo alla normalizzazione assunta dopo lo studio della popolazione. Non si tratta più solo di applicare norme per la disciplina individuale. È necessario comprendere dati e statistiche globali (come il tasso di mortalità) per concludere qual è il valore normale appropriato per una città.

In tal modo che un obiettivo ragionevole possa essere raggiunto secondo le medie considerate convenienti. “una certa inclinazione che porta a quella che si potrebbe chiamare la nazionalizzazione del biologico”, afferma Foucault.

La specie umana che ha bisogno di essere sorretta da un modo di farla vivere, da una forza, da una propulsore di vita basato su una buona amministrazione pubblica. Si può così rivedere la nozione di far morire e di far vivere. Ancora, fare della morte come diritto della spada, perché in relazione al potere sovrano. “Il diritto di uccidere è ciò che effettivamente racchiude in sé l’essenza stessa di questo diritto di vita e di morte”.

Uccidendo si esercita il diritto sulla vita. Far vivere è un “nuovo diritto, che non cancellerà il primo. Ma lo penetrerà, lo permeerà, lo modificherà, e che sarà un diritto, o meglio, un potere esattamente inverso. Il potere di fare vivere e lasciare morire.

L’OBIETTIVO DEL BIOPOTERE: FORMAZIONE DI UNA MASSA GLOBALE.

L’obiettivo del biopotere è la molteplicità degli uomini come formazione di una massa globale, di una popolazione stessa, che è soggetta agli effetti della vita. Dei processi che sono della specie e che si traducono in una media statistica: natalità, mortalità, produzione, malattia, ecc.

Il tipo di potere disciplinare introduce a: serie di sorveglianza, controlli, sguardi, scansioni diverse che permettono di scoprire, ancor prima che il ladro rubi, se ha intenzione di rubare, ecc.

E, dall’altra parte, la punizione non è semplicemente quel momento spettacolare, definitivo dell’impiccagione, della multa o dell’esilio. Ma sarà una pratica come la carcerazione, che impone tutta una serie di esercizi, lavoro, lavoro sul colpevole, trasformazione della forma. Semplicemente di quelle che si chiamano tecniche penitenziarie, lavoro coatto, moralizzazione, correzione, ecc.

L’obiettivo del biopotere è permettere che i dettami disciplinari siano comandati. Non c’è una norma applicata al corpo, ma una normalizzazione che dovrebbe essere il riferimento per le azioni biopolitiche. Ad esempio: quanto costa prevenire un determinato tipo di reato in una determinata regione della città? È vantaggioso per la pubblica amministrazione investire fondi nel controllo o nell’azzeramento di questo reato in particolare? È meglio scendere a un tasso di normalità già stabilito piuttosto che cercare di ridurlo a zero?

LA BIOPOLITICA DELLA SPECIE UMANA.

L’anatomo-politica del corpo umano, collocata nel Settecento, è completata, alla fine dello stesso secolo, da una biopolitica della specie umana. Uno sguardo globale.

Ancora una volta, questo aspetto globale costituisce il biopotere descritto come:

l’insieme di processi come la proporzione di nascite e morti, il tasso di riproduzione, la fecondità di una popolazione, ecc. Sono stati questi processi di nascita, mortalità, longevità che, proprio nella seconda metà del Settecento, insieme ad una serie di problemi economici e politici. Hanno costituito, credo, i primi oggetti di conoscenza e i primi bersagli di controllo di questa biopolitica.

Tutti i tipi di controllo biopolitico agiscono sotto forma di regolamenti. Il biopotere regola, il biopotere disegna regole per proporre la vita. La regolazione del biopotere è il suo farsi vivere. In quanto ogni regolazione proposta dai meccanismi biopolitici tende ad elevare le molteplicità amministrate alla media referenziale statisticamente stabilita. E al livello di normalità che ne è l’effetto.

Le pratiche biopolitiche, pur nel loro zelo per la segmentazione della popolazione, tendono a separare i problemi osservati per fasce, per tipologie, per target. La fame a sud è più accentuata che al nord? Causa un calo delle popolazioni nella regione settentrionale o nella regione meridionale? A quali generi e razze appartengono gli affamati e in quali proporzioni?

UNA NUOVA NORMALITA’.

Per Foucault non è la segmentazione a classificare il biopotere, ma il fatto che queste segmentazioni tendano a filtrare un determinato tipo di popolazione. A dettagliare la popolazione attraverso misure statistiche, una nuova normalità che verranno proposte come norma.

Si può ipotizzare che la via del biopotere sia quella dell’analisi-regolazione-normalizzazione. Una normalizzazione sulla specie che, nel dettaglio, viene portata agli organismi attraverso meccanismi disciplinari.

“Malattie più o meno difficili da debellare, che non vengono viste con le epidemie come le cause di morte più frequenti, ma come fattori permanenti. E così si curano. In sottrazioni di forze, riduzione dell’orario di lavoro, calo di energie, costi economici, sia per la produzione non realizzata che per il trattamento che potrebbe costare. Insomma, la malattia come fenomeno di popolazione. Non più come la morte che colpisce brutalmente la vita – è l’epidemia – ma come la morte permanente. Che si insinua nella vita, la corrode perennemente, la sminuisce e la indebolisce”.

È necessario comprendere dalla citazione precedente che il corpo è parte della regolazione biopolitica attraverso la sua partecipazione al tutto. Attraverso la sua permanenza in ogni momento nell’ambito della specie. Il corpo umano come corpo vivente, il corpo umano come oggetto biologico. Si passa dalla popolazione all’instaurarsi del normale. Dall’instaurarsi del normale alla pratica biopolitica sulla specie-corpo, cioè alla pratica di normalizzazione.

LA POPOLAZIONE COME PROBLEMA POLITICO.

L’oggetto della biopolitica è la popolazione come problema politico. “Come problema sia scientifico che politico, come problema biologico e come problema di potere. Pertanto, si occupa degli eventi casuali che accadono in una possibile popolazione in un dato periodo. Ciò che conta, quindi, è il calcolo delle previsioni, delle stime statistiche, delle misure globali.

Non ha il suo asse nell’individuo in quanto tale, lavora con le condizioni che promuovono o meno una determinata metrica biologica per portarla alla normalità. L’obiettivo è abbassare il tasso di morbilità (La frequenza percentuale di una malattia in una collettività), aumentare l’aspettativa di vita, ecc, , attraverso meccanismi regolatori di stabilità un equilibrio e un obiettivo.

Non si tratta quindi affatto di considerare l’individuo a livello di dettaglio, ma, al contrario, attraverso meccanismi globali, di agire in modo da ottenere stati globali di equilibrio, di regolarità. In breve, tenere conto della vita, dei processi biologici dell’uomo-specie e garantire che non siano disciplinati ma regolati”. (Regolare i processi biologici dell’uomo? È un po’ inquietante, cosa potrebbe significare?).

Lo spazio, il mezzo, il flusso. Tassi di morbilità, nascita, casuale, costante, controllabile. La definizione di norme attraverso indagini statistiche, mediche e politiche e la raccolta di informazioni per ogni segmento della società. Che è interessato dal problema specifico affrontato.

Tutti elementi che collocano l’individuo come colui che è colpito, che è contrastato per cause che salgono o scendono a ritmo determinato. La molteplicità traduce questa risultante di cause nei suoi numeri variabili, nei suoi diversi tassi di normalità. (Se abbiamo un dato tasso di morbilità per la popolazione totale, qual è questo tasso per ogni fascia di età?).

 

IL DISPREZZO PER LA SOGGETTIVITA’.

Un’apparente limitazione del biopotere e della biopolitica è l’apparente disprezzo per la soggettività. Il lavoro di Foucault sulla biopolitica e il biopotere quindi non è stato privo di critiche. Non solo nella misura in cui il suo lavoro in questo campo appare fugace e incompleto. Achille Mbembe, ad esempio, rileva la mancanza di contributo teorico di Foucault su come il biopotere viene messo in funzione nei sistemi di violenza e di dominio. Sviluppando così la sua nozione di necro-politica che nomina il decisionismo sovrano sulla morte. “Il potere e la capacità di dettare chi può vivere e chi deve morire.”

E, come sopra detto, la limitazione del biopotere sul disprezzo per la soggettività. Il soggetto biopolitico non è esplicitamente concepito all’interno dell’opera di Foucault. Ciò sembra limitante per comprendere il posto della biopolitica e del biopotere all’interno dell’opera di Foucault, in particolare data la sua affermazione nel 1982: “l’obiettivo del mio lavoro negli ultimi vent’anni è stato quello di creare una storia dei diversi modi con cui, nella nostra cultura, gli esseri umani sono diventati sudditi”.

Tuttavia, è in questo contesto che il biopotere e la biopolitica devono essere visti come cooperanti ad altre tecnologie del potere. (Potere repressivo e disciplinare). Tecnologie che operano più direttamente sul corpo e sulla soggettività.

IN CONCLUSIONE.

Il raggiungimento del biopotere consente allo stato di produrre categorie sociali e, in definitiva, di creare una società conforme alle norme che assicurano una “popolazione vitale”. Ovvero una comunità che aderisce a un’ideologia che mantiene e legittima lo Stato, una popolazione che è stata modellata nella forma desiderata dello Stato.

Attraverso il biopotere, i soggetti che seguono le norme della società possono essere fatti vivere ed essere investiti, ma quelli classificati come “anormali” saranno “lasciati morire”. Tutto ciò attraverso il disinvestimento e contemporaneamente attraverso il potere giuridico (Michel Foucault 1978).

 

 

Non solo a destra e non solo in Germania:

l’eugenetica tra razzismo e biopolitica.

It.pearson.com-Giovanni Borgognone –( 3-12-2019) – ci dice:

 

Le teorie eugenetiche sono state uno dei tratti più inquietanti delle politiche razziali della Germania nazionalsocialista. Per tale ragione, nel discorso pubblico esse vengono talvolta impropriamente associate in modo univoco alla cultura politica della destra estrema. In realtà, le origini dell’eugenetica emergono nell’alveo del progressismo americano d’inizio Novecento.

Le origini statunitensi dell’eugenetica.

Basate sull’assunto dell’ereditarietà delle differenze di intelligenza e di carattere, le teorie eugenetiche sono state, come è noto, uno dei tratti pseudoscientifici più inquietanti che hanno connotato le politiche razziali della Germania nazionalsocialista.

Per tale ragione, nel discorso pubblico esse vengono talvolta impropriamente associate in modo univoco alla cultura politica della destra estrema.

 In realtà, le indagini storiografiche hanno favorito una visione più complessa e sfaccettata delle origini dell’eugenetica e delle politiche sociali che essa ispirò.

 L’entusiasmo intellettuale suscitato dalle teorie eugenetiche, infatti, emerse innanzitutto negli Stati Uniti di inizio Novecento, nell’alveo culturale del progressismo americano.

 Fu quello il contesto in cui operò Charles Davenport (1866-1944), il più noto eugenista statunitense, fondatore nel 1910 dell’Eugenics Record Office, che rimase attivo fino al 1939.

Davenport era convinto che, al pari di tratti familiari quali il colore degli occhi e dei capelli e al pari dell’albinismo o dell’epilessia, anche il pauperismo e la criminalità fossero, in una certa misura, caratteri ereditari.

Il pauperismo, in particolare, era considerato una cronicizzazione della povertà che non poteva dipendere solo da cause ambientali, bensì anche da una strutturale incapacità di gestire le proprie risorse, la quale, a sua volta, era un evidente segno di inadeguatezza mentale.

Da queste tesi discendevano, nello scenario progressista statunitense, progetti di riforma sociale attraverso l’eugenetica:

 lo Stato infatti, secondo i sostenitori delle teorie eugenetiche, avrebbe dovuto applicarla ad esempio attraverso misure come la sterilizzazione o la segregazione per prevenire matrimoni “disgenici”, onde evitare la “degenerazione” della società.

Per molti scienziati sociali progressisti americani dell’epoca – sociologi, economisti, giuristi – l’eugenetica, dunque, rappresentava uno strumento tecnico-scientifico a disposizione del potere pubblico per “razionalizzare” lo sviluppo demografico.

Progressismo transatlantico.

Anche in Gran Bretagna, a ben vedere, il sostegno all’eugenetica si associò al riformismo.

Fu questo il caso della Fabian Society, movimento intellettuale di ispirazione socialdemocratica che esercitò, peraltro, un notevole ascendente sul progressismo americano. Significativamente, H.G. Wells, uno dei più importanti esponenti del “fabianesimo”, associava l’eugenetica all’opposizione al liberalismo e al laissez-faire individualistico sul piano della teoria economico-sociale; e Sidney Webb spiegava ai suoi lettori che l’eugenetica non aveva l’obiettivo di produrre “bambini belli” ma “buoni cittadini”.

In altre parole, per i fabiani britannici, così come per i progressisti americani, l’eugenetica rappresentava un’applicazione del social engineering necessaria per riformare la società e pianificarne uno sviluppo razionale.

Sul versante statunitense, il sociologo Lester Frank Ward, il quale, in generale, auspicava che grazie alle competenze sociologiche si potesse giungere a un “controllo scientifico delle forze sociali”, considerò opportuno, da questo punto di vista, intervenire pure per evitare che “difetti ereditari” e “deficienze mentali” si potessero liberamente trasmettere da una generazione all’altra.

Nuovamente, dunque, a una visione filosofico-politica improntata al laissez-faire, quella incentrata sulla mera “selezione naturale”, l’eugenetica prometteva di sostituire il progetto di una “selezione artificiale”, attuata sulla base di conoscenze scientifiche e in un’ottica di progresso sociale.

In tale prospettiva, un ruolo cruciale veniva riconosciuto, evidentemente, allo stato: lo stato, secondo il sociologo progressista Edward Ross, doveva diventare un’entità indipendente di direzione sociale, contro la “sregolatezza” degli interessi privati.

La società statunitense dell’epoca era attraversata da grandi dibattiti sull’immigrazione: i nuovi migranti di fine Ottocento e primo Novecento non erano più, infatti, quelli provenienti dalle isole britanniche, dalla Germania o comunque dalle aree più sviluppate d’Europa, bensì erano quelli poveri e privi di istruzione provenienti da paesi più “arretrati”, come l’Italia, la Polonia, la Russia.

In questo quadro, i progressisti invocavano forme di controllo sociale da parte dello stato, temendo gli effetti di degenerazione derivanti dalla crescente presenza di cittadini considerati “inadatti” (unfit).

Anche i dibattiti tra gli economisti furono connotati da questo tipo di preoccupazioni, espresse, sul piano del mondo del lavoro, con termini come “razze da basso salario” (low wage races) e “residuo industriale” (industrial residuum).

E nuovamente le soluzioni “eugeniche” includevano misure come l’isolamento e la sterilizzazione di quanti erano ritenuti unfit di fronte alle esigenze dello sviluppo economico del paese. Tornando alla Gran Bretagna, ancora nel ’45 l’economista John Maynard Keynes, per i riformisti e i progressisti un’icona della scienza economica a livello transatlantico, compariva nel board of directors della British Eugenic Society.

La popolarizzazione dell’eugenetica.

Negli Stati Uniti l’eugenetica ebbe larghissima diffusione e ispirò le legislazioni sociali di molti stati.

Nel New Jersey, ad esempio, un convinto assertore della necessità di misure eugenetiche fu il governatore e futuro presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson, il quale promosse la creazione di una Commissione esaminatrice per i “deboli di mente” (feeble-minded fu un altro termine, accanto ad unfit, molto adoperato in quel contesto). Nel 1911 Wilson firmò una legge in base alla quale lo stato del New Jersey avrebbe potuto determinare quando la procreazione fosse auspicabile o meno.

Nel 1921 nacque un’organizzazione ufficiale americana di eugenetica, che quattro anni dopo assunse il nome di American Eugenics Society. Obiettivo dei lavori promossi dal suo comitato scientifico era lo studio dell’intelligenza, nell’ottica della preservazione della “salute razziale”. In particolare, il problema di fondo era nuovamente rappresentato dall’ereditarietà della “debolezza mentale”.

La Society, attraverso stampa periodica, conferenze, mostre, libri, volle contribuire alla popolarizzazione dell’eugenetica. Tra gli argomenti propagandistici adoperati vi era quello secondo cui ogni 15 secondi 100 dollari degli americani servivano per prendersi cura di persone dotate di “cattiva eredità”, mentre una persona con un patrimonio ereditario di qualità elevata nasceva solo ogni 7 minuti e mezzo.

Una delle sezioni dell’American Eugenics Society era dedicata alla prevenzione del crimine.

Se ne occupava, in particolare, il giudice Harry Olson, specializzato nello studio del profilo psicologico del criminale, sulla base delle teorie antropologiche di Cesare Lombroso (1835-1909). Il medico italiano, a fine Ottocento, aveva cercato di mettere a fuoco le anomalie e gli atavismi (la ricomparsa di tratti somatici o psichici presenti in antenati e scomparsi per alcune generazioni) che, a suo avviso, determinavano i comportamenti sociali devianti, considerati, pertanto, effetti di patologie ereditarie. Tra le soluzioni proposte dal giudice Olson per combattere la loro diffusione vi era la segregazione in colonie rurali, in modo che gli individui affetti da tali “patologie” non potessero diffondere i loro tratti ereditari nelle generazioni sociali future.

Nelle scuole di tutto il paese, intanto, venivano introdotti corsi di eugenetica.

Anche qui fu attiva la American Eugenics Society.

Nell’educazione, peraltro, i messaggi ispirati all’eugenetica erano continui: dai sermoni religiosi, che raccomandavano i matrimoni dei migliori con i migliori, ai libri di testo di biologia, nei quali non mancava un capitolo dedicato alle teorie eugenetiche.

 Nelle classi furono introdotti, inoltre, i test di intelligenza: molti specialisti di esami psicometrici, infatti, sostenevano che le misurazioni del “quoziente di intelligenza” rivelassero un substrato genetico ereditario e dessero, pertanto, preziose indicazioni anche per la selezione di futuri genitori.

Questo tipo di esami fu somministrato nelle scuole pubbliche, nell’esercito e nei punti di raccolta degli immigrati come Ellis Island.

Alle spalle vi erano sempre, dunque, i timori per un possibile race suicide, in assenza di regolamentazioni demografiche, pericolo segnalato da Edward Ross già in un volume del 1907, Sin and Society, con la prefazione del presidente statunitense Theodore Roosevelt, anch’egli preoccupato per la conservazione della “razza americana”.

Nel 1933 provvedimenti ispirati all’eugenetica come la sterilizzazione di individui a cui fosse stata diagnosticata una “demenza ereditaria” erano oramai stati introdotti in una trentina di stati; più di 16.000 persone erano state sterilizzate.

Iniziative del genere, a ben vedere, proseguirono ben oltre la Seconda guerra mondiale, giungendo fino agli anni settanta.

 Le idee e le pratiche eugenetiche statunitensi, fin dagli anni venti e trenta, suscitarono grande attenzione in varie parti del mondo.

Furono riprese in Canada, in America latina, in Scandinavia. Da un lato, furono osservate con interesse, ovviamente, da parte della Germania nazista, dall’altro rientrarono anche nell’orizzonte ideale del welfare state scandinavo: in Svezia, tra il 1935 e il 1975, sarebbero state sterilizzate più di 60.000 persone, sulla base di una legislazione considerata “socialdemocratica”.

Eugenetica e biopolitica.

L’eugenetica e le aspirazioni a forme di razionalizzazione sociale dei primi decenni del Novecento rientrarono nei più generali progetti “scientistici” e “tecnocratici” che connotarono il progressismo dell’epoca.

Propulsore iniziale fu, dunque, il riformismo progressista ispirato agli ideali di pianificazione e controllo sociale da parte di un’expertise statale, nell’epoca del tramonto dell’ideologia liberale ottocentesca basata sul laissez-faire.

La civiltà moderna sembrava avere oramai rimosso, in ampia misura, gli ostacoli naturali alla crescita della popolazione: per la modernizzazione e la razionalizzazione sociale, a questo punto, molti riformisti ritennero necessario il ricorso a “tecniche” per la salute sociale.

 Al di là della connessione con i progetti razziali della Germania nazista, dunque, la parabola dell’eugenetica mostra la sperimentazione di principi e dispositivi non dissimili da quelli che il filosofo francese Michel Foucault (1926-1984) ha messo a fuoco attraverso la nozione di “biopolitica”, a partire dalla necessità di “difendere la società” e dal “primato della popolazione sul singolo individuo”.

È questo un aspetto cruciale, per Foucault, delle declinazioni del potere dello stato nell’epoca della tarda modernità:

 esso non si limita al disciplinamento ma si preoccupa dell’ottimizzazione e della massimalizzazione della sfera biologica.

 Lo stato diventa, in ultima analisi, gestore della popolazione.

 In tale prospettiva, Foucault osserva come, a ben vedere, non vi sia “alcun modo di funzionamento moderno dello stato che, a un certo punto, a un certo limite e in certe condizioni non sia passato attraverso il razzismo”.

Se per un verso il nazismo, in quest’ottica, ha fatto propria la logica estrema della biopolitica, per altro verso essa era, però, già inscritta in esperienze come quella dell’eugenetica progressista.

 

 

 

Dal Covid alla crisi energetica,

“l’arma definitiva” per il controllo.

Saranno tempi “bui”.

Ilparagone.it- Nicky Ionfrida – (14/09/2022) - ci dice:

Dopo che la von Der Leyen ha usato più volte l’espressione «appiattire la curva» a proposito dei consumi di gas e luce, sembra che le autorità europee ora si facciamo molti meno problemi nel parlare apertamente di “lockdown energetico”. Questo secondo capitolo delle chiusure forzate mostra alcune analogie ed alcune diversità con il primo. Le espone La Verità, in un articolo pubblicato oggi.

Come successo con il Covid, anche questa volta la causa scatenante della crisi energetica non è chiara ed incontrovertibile:

ancora oggi si discute sull’origine del virus, ed anche per la crisi energetica non c’è una causa prima ben definita.

La guerra in Ucraina sicuramente è stata la “benzina sul fuoco” ma i prezzi avevano già iniziato a lievitare già qualche 7mese prima. Inoltre, la Russia continua a vendere il gas allo stesso prezzo, tanto è vero che l’Ungheria ha fatto un accordo separato per comprarlo direttamente da Mosca, senza passare per la Borsa di Amsterdam.

 È proprio la casa della speculazione olandese, infatti, ad essere la vera generatrice del caos energetico, unitamente all’abominio dell’aver correlato i costi delle materie prime del TTF (Title Transfert Facility), facendo sì che la disponibilità delle materie prime necessarie al sostentamento delle nazioni venisse subordinata alla speculazione finanziaria internazionale.

Esattamente come per il Covid, dunque, il problema sarebbe la speculazione, paragonabile alla libera circolazione del virus, alla quale occorre porre rimedio chiudendo i rubinetti delle case e chiudendo le aziende «per un po’» – come ha detto il ministro tedesco dell’Economia, Robert Habeck -, applicando il «distanziamento sociale» ai nostri consumi quotidiani.

Come col Covid, le misure studiate dagli “esperti” per superare il problema sono le stesse a causare i maggiori danni collaterali, e come successo durante il duro periodo più nero della pandemia, si additano come “complottisti” coloro i quali si pongono qualche logica domanda.

 Iniziamo addirittura ad avere qualche limpida occasione di vedere improbabili esperti televisivi spiegare come il freddo possa addirittura giovare alla nostra salute, mentre si deve ancora arrivare al punto di sentir chiamare “no watts” quelli che si opporranno, dandogli la colpa del fatto che se le misure non funzionano è perché costoro usano troppo gas dalle sette alle otto.

Ma ci sono anche delle nette diversità tra il lockdown da Covid ed il lockdown energetico.

Per citare La Verità, “il controllo biopolitico sulla vita delle persone si fa meno odioso, meno discriminante, meno irrazionale ma più impersonale ed inesorabile”.

 Dunque, a fronte di un vaccino obbligatorio che si poteva comunque non fare in cambio del proprio lavoro, della propria vita sociale e della propria dignità, un eventuale “lockdown energetico”, motivato questa volta dall’ineluttabilità di una guerra causata e sostenuta dalle élite, non lascia alcuna possibilità di scelta: se si useranno troppa luce e gas semplicemente cesserà l’erogazione o diminuirà nei modi e nei tempi stabiliti dall’autorità.

Il merito (o la colpa) di questo inevitabile destino è da attribuire ai «contatori intelligenti».

 Starà ai singoli cittadini organizzare le loro nuove vite austere nei limiti di ciò che lo Stato concederà loro.

Se col Covid la minaccia era di perdere il lavoro e di essere espulsi dalla società civile, in questo caso il distacco di luce e gas farà sì che buona parte degli italiani si trovino a fare la vita dei senzatetto.

Il fatto che anche questo scenario sia stato largamente anticipato in tempi non sospetti dalle speculazioni dei soliti “complottisti”, è senza alcun dubbio il banale frutto di una fortuna sfacciata. Oppure no?

 

 

 

 

 

Il declino della democrazia liberale

Usa tradita dalla “trappola del denaro”.

Ilsussidiario.net- Paolo Raffone – (16.09.2022) – ci dice:

 

Negli Usa la relazione tra ordine liberale e democrazia è stata deliberatamente interrotta con conseguenze devastanti per il resto del mondo.

È importante mettere in evidenza la struttura della repubblica americana, nata premoderna ed oligarchica attorno ad un arcaico principio di libertà che stenta ancora oggi ad evolvere in chiave moderna.

Nella Costituzione americana è assente la parola democrazia, ma si sancisce il principio della separazione dei poteri, principalmente per limitare i poteri del governo federale.

Un complicato sistema elettorale è strutturato per evitare la sovranità popolare che è meglio “interpretata” attraverso procedure locali, quindi asimmetriche a livello nazionale, che garantiscono il settlement tra gli interessi oligarchici che poi si riflettono nel governo federale.

Insomma, una repubblica imperiale dei dominanti – autoproclamatisi “We the people” – che con la guerra crearono il primo surplus per la governance imperiale americana. Metodo che, ripetuto più volte, ha portato al dominio mondiale americano.

La repubblica americana è tuttora un’aristocrazia strutturale velata da un manto democratico offerto dalla garanzia di alcuni diritti fondamentali (definizione legale) e dallo svolgimento regolare di elezioni (definizione procedurale).

Un modello di società narcisista, perché fondato su una somma di individui – che colloca il giusto (right) prima del bene (good) – in cui l’obbligo morale è puramente contrattuale e trova espressione formalistica nel “politicamente corretto” (politically correct).

 È una società nichilista – costruitasi attraverso la disgregazione delle antimoderne strutture sociali – per cui la decontestualizzazione del soggetto è il fondamento della libertà che deve essergli garantita dalla massima deregolamentazione, cioè dallo smantellamento delle istituzioni e delle leggi comuni.

È una società guidata dalla messianica certezza nell’ottimismo del progresso economico (American Dream) che integra l’inevitabilità del divario sociale e dove i miliardari filantropi sono i “fiduciari per i poveri” che non sanno “come spendere i soldi”. Gli Stati Uniti d’America sono strutturalmente un mix di liberismo totale e paternalistica magnanimità.

Nonostante l’opportunistica retorica della libertà, gli Stati Uniti sono una democrazia egoista, perché spudoratamente “estrattiva” della ricchezza e del benessere altrui.

La relazione teleologica (neo)liberale alla prova del capitalismo.

Si analizza il rapporto teleologico tra l’ordine liberale e la democrazia americana per cui lo Stato è autolimitato alle questioni politico-sociali e di sicurezza (Imperium – “rule of states”), mentre gli interessi economici sono gestiti in modo autonomo ed esclusivo dalle élite capitalistiche (Dominium – “rule of property”).

Ciò ha un duplice scopo: da un lato, la sterilizzazione del conflitto sociale attraverso la dialettica politica, e dall’altro, stabilire una dinamica di “adattamenti concordati” (settlement) tra gli interessi dello Stato e quelli economici, con il primo che deve garantire la “custodia esclusiva” (encasement) dei secondi. È il cuore del pensiero neoliberale.

Nelle varie fasi capitalistiche – scarsità, abbondanza e progressismo – la relazione teleologica ha assolto la sua funzione, approdando all’alleanza “mercato-democrazia”.

Un’alleanza tattica e teleologica ma asimmetrica, che ha caratterizzato un’era che fu rilanciata da Frank Delano Roosevelt e che durò fino alla fine degli anni 60 (The Thirty Glorious Years).

Fu il regno della quantità contrapposto a quello della qualità. D’altra parte, il capitalismo è una grande fiera delle vanità che si nutre di invidia sociale e promette lusso e agiatezza per tutti che senza paura interiorizzano l’omologazione dei desideri, dei sentimenti e delle passioni.

Con gli anni 70 si concluse definitivamente l’era degli Imperi europei, dando luogo ad una frammentazione globale che mise in pericolo l’egemonia americana.

Trovando difficile, nel nuovo contesto, preservare la relazione teleologica, i neoliberali della scuola di Chicago, deviando dalle concezioni dei colleghi mitteleuropei, organizzarono una virulenta reazione, una vendetta contro le richieste della maggioranza del mondo – “la detronizzazione della politica” – che culminò nel ’79 con il Volcker Shock, che diede il colpo finale alle domande di giustizia redistributiva e costrinse molti governi ad abbandonare gli esperimenti socialdemocratici della gestione del mercato mediante l’intervento pubblico.

Determinati a difendere con ogni mezzo il commercio mondiale (free trade), i neoliberali misero le basi per un laboratorio sistemico normativo (system design) su scala globale. Si disegnava un nuovo sistema, non più internazionale ma globale, incentrato sulla finanza la cui gestione e governance veniva elevata ad un livello superiore rispetto agli Stati nazione.

Gli anni 70 segnarono una rottura profonda con il precedente pensiero positivista, (neo)liberale e democratico, mettendo in crisi, a partire dagli anni 80, la relazione teleologica.

Come in cibernetica, non si ragionava più in termini di “ordine”, bensì in quello di “sistemi” che possono essere sviluppati e modificati per renderli ottimali. Il sistema è il tutto che prevale sulle singolarità che devono adattarsi ai bisogni dell’insieme (structural adjustment).

Secondo questa concezione, esiste una gerarchia multilivello di regole: quelle incoscienti, regole fisiologiche istintive, che sono relativamente costanti; quelle inconsce o derivate dalla tradizione; e, quelle sovraordinate alle prime due, un livello “leggero” di regole adottate deliberatamente o modificate per raggiungere dei risultati previsti.

Queste ultime regole sono il risultato di una volontaria applicazione razionale, che pertanto dobbiamo obbligarci a rispettare. Così si affermò il principio di sopranazionalità che era stato pensato già negli anni 20-30 in opposizione ai nascenti totalitarismi europei.

La convinzione era che solo un’economia di mercato libera di operare e affrancata da regole nazionali offrisse una soluzione “pacifica” ai gravi squilibri che si prospettavano nel futuro prossimo.

L’asimmetria nel rapporto teleologico tra ordine (sistema) neoliberale e democrazia è divenuta sempre più palese, molto marcata nel mondo anglosassone, e in particolare in quello americano, dove la riduzione della macroeconomia a calcolo matematico impressiona i politici, ma crea danni enormi perché si fonda su teorie di aspettative razionali e di mercati perfetti, che nella realtà sono inesistenti.

Un’asimmetria che mette in profonda crisi – di legittimità e di credibilità – la democrazia e l’ordine sociale sia negli Stati Uniti d’America sia in Europa.

 Un’asimmetria che mina alla base anche il pensiero neoliberale – orfano del rapporto teleologico – che dopo l’iniziale “ubriacatura” della deregolamentazione e della globalizzazione, dalla fine del millennio non ha più saputo dare risposte credibili e sostenibili, lasciando la società priva di speranza e in preda alla paura.

Rianimare il rapporto teleologico riesumando il New Deal in vario modo è stato, come sappiamo, di poca efficacia rispetto alla potenza sovrastatale del capitale finanziario.

Rottura concettuale del rapporto teleologico e crisi del (neo)liberalismo.

Si analizza la destrutturazione della concezione moderna del mondo, quella lineare, in due ambiti gerarchicamente ordinati:

 supra, il capitale/mercato si mitizza attraverso archetipi custoditi da una nuova oligarchia finanziaria che si sovrappone agli Stati, alle nazioni, e alla vita delle persone;

 infra, gli Stati/nazioni accettano attivamente la privatizzazione del bene comune e quindi del modello di organizzazione sociale democratico e della sovranità popolare.

La relazione teleologica tra ordine liberale e democrazia è stata deliberatamente e strategicamente interrotta (decoupling) con l’adozione di misure atte a soddisfare gli appetiti capitalistici delle origini, ma, a partire dagli anni 80, con mezzi enormemente potenziati. La vita umana ha subìto una mercificazione generalizzata (human capital), incentrata sul credito e sulla paura, e il mondo è sistematicamente depredato e interamente finalizzato alla fruttificazione del capitale finanziario.

Abbandonata l’epoca valoriale della disciplina tayloriana e fordista che era compensata dalla speranza offerta dallo Stato, la democrazia americana è sussunta nel biopotere del capitalismo ordoliberale che con il controllo attraverso un mix di dispositivi – tecnologie, monetarismo e finanza – assumerà l’effettivo governo sulle popolazioni nel mondo.

La “trappola del denaro” facile ha trasformato gli Stati in clienti dell’industria finanziaria che ha potuto facilmente imporre criteri di riassicurazione governativa rispetto alla sostenibilità dei crediti emessi, mettendo le basi per la crisi finanziaria – e del neoliberalismo – esplosa dieci anni dopo, nel 2008.  È stato così che le élite, e non le masse, hanno tradito la democrazia.

Infatti, è durante la presidenza Obama che la sentenza “citizens united” (2010) ha trasformato la “repubblica oligarchica” americana in “repubblica corporativa”, annullando tutti i limiti che vietavano alle corporations, comprese le organizzazioni senza scopo di lucro, e i sindacati di investire in campagne elettorali.

Il potere mercantile, divenuto finanziario, è prevalso e ha acquisito quello politico e il sistema neoliberale è stato costellato da un susseguirsi concatenato di crisi sociali, politiche, finanziarie e geopolitiche.

Il primo segnale fu l’onda di ritorno del post-colonialismo reazionario (11 settembre) al quale si è risposto, ancora una volta, con la guerra come surplus per la governance imperiale americana.

 Uno schema ripetutosi nuovamente in Iraq, e poi in Siria, senza capire che si trattava di una crisi di “riequilibrio geopolitico” del controllo biopolitico, cioè di governance, che dimostrava l’instabilità strutturale sistemica dell’unilateralismo americano.

Si poteva capire già allora che il sistema neoliberale era ormai entrato in uno stato di confusione e che occorreva ripensare tutto per vincere sul capitale finanziario e sul suo perverso connubio con il terrorismo e la paura.

La guerra è diventata costituente e soggettivante nelle nostre società e nell’ordine liberale?

È drammatico che dopo l’esplosione planetaria della pandemia nel 2020 sia la concorrenza mercantile e il biopotere della finanza a dettare le soluzioni in un mix di reazionarismo culturale, smarrimento istituzionale e trovate propagandistiche. La retorica del maggio 2020 sui “vaccini bene comune” è rimasta solo un annuncio.

Pensare che il “bene comune” possa essere garantito e gestito dai filantrocapitalisti di Davos (a capo dei quali vi è Klaus Schwab, ndr) è drammaticamente sbagliato.

Alla retorica della “guerra al virus” si è sovrapposta la più reale “guerra dei brevetti” (property) che il nuovo potere plutocratico tecno-bio-finanziario sta lanciando sull’umanità. Un biopotere epistemico e ontologico, che sussume, imprigionandolo, lo spirito.

La “retrotopia” caratterizza la vita, i valori sociali, culturali, e civili. Una serissima minaccia per la democrazia e per il rapporto teleologico senza il quale il neoliberalismo fallisce, aprendo a scenari terrificanti perché totalizzanti.

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