L’EMERGENZA è L’ENERGIA NON IL CLIMA.
L’EMERGENZA è L’ENERGIA NON IL CLIMA.
Perché
quella energetica
è una
emergenza.
Linkiesta.it
- Nicola Armaroli – (31 agosto 2021) - ci dice:
Non
abbiamo più tempo.
Per
preservare la biosfera e la stessa continuazione della civiltà moderna, la
transizione verso fonti di energia ecosostenibili è diventata ormai una
necessità inderogabile. Non sarà una passeggiata, ma possiamo farcela, se
iniziamo a correre ora, spiega nel suo nuovo libro Nicola Armaroli, dirigente
di ricerca al Consiglio Nazionale delle Ricerche.
Ogni
secondo, nel mondo si bruciano 250 tonnellate di carbone, 180000 litri di
petrolio e 125000 metri cubi di gas, immettendo – sempre ogni secondo – 1100
tonnellate di CO2. Ogni anno preleviamo dalle viscere della Terra 10 miliardi
di tonnellate di carbonio fossile (petrolio, carbone e gas) e li disperdiamo in
atmosfera sotto forma di 34 miliardi di tonnellate di CO2. Parrebbe un processo
perfetto: bruciando combustibili otteniamo tanta energia e produciamo una
sostanza innocua e addirittura commestibile per le piante.
Purtroppo,
non è così: nel CO2 vi sono due impertinenti doppi legami chimici
carbonio-ossigeno che assorbono i raggi infrarossi riemessi dalla Terra come
calore, che viene così intrappolato. Inoltre, le piante riescono a mangiare
solo metà del nostro CO2 di scarto; il resto si accumula inesorabilmente in
atmosfera. In pratica, il nostro “rifiuto innocuo” intesse una sorta di coperta
termica atmosferica e innesca un processo di riscaldamento globale artificiale:
è l’effetto serra antropogenico, motore del cambiamento climatico.
Quei
2,3 kg di CO2 prodotti dal mio viaggio al supermercato hanno contribuito a
inserire un minuscolo tassello nell’invisibile coperta termica che stiamo
tessendo intorno alla Terra. Il CO2 che ho emesso si comporta, nei confronti
dell’intero pianeta, come i vetri della mia auto sotto il sole cocente:
impedisce alla radiazione infrarossa, riemessa dalla Terra, di perdersi nello
spazio.
È un
problema? No, è un problemaccio!
Tra
l’altro le caratteristiche uniche del CO2 sono un ostacolo formidabile per gli
scienziati: debbono convincere l’opinione pubblica di una minaccia totalmente
invisibile come un virus, e che agisce in modo persino più subdolo di un virus.
Non riempie in pochi giorni i reparti di terapia intensiva, ma uccide in
silenzio, piano piano, mentre mina alla radice la termoregolazione del nostro
meraviglioso pianeta.
La
molecola di CO2 resta stabile per secoli nell’atmosfera, che invece si
rimescola completamente in circa un anno. Risultato: la concentrazione di CO2 è
uniforme su tutto il pianeta, è quindi sufficiente un unico luogo al mondo, ben
localizzato e ben attrezzato, per misurarla. Questo luogo è il laboratorio
della NOAA del governo degli Stati Uniti e si trova a Mauna Loa, sulle Isole
Hawaii.
Le
misure sono cominciate nel 1958 e, da allora, la concentrazione media annuale
di CO2 in atmosfera è passata da 315 a 415 ppm: un aumento del 32%. 415 ppm
significa che, preso un campione di un milione di molecole che compongono
l’aria (ossigeno, azoto, argon, CO2, ecc.), 415 sono molecole di CO2. A questo
punto la reazione tipica è: ma come è possibile che appena lo 0,0415% delle
molecole disperse in aria possa causare un disastro?
È chiaramente una bufala!
I
conti però non lasciano scampo: il surplus di calore intrappolato dalle
emissioni di gas serra legate alle attività umane (purtroppo non emettiamo solo
CO2 ma anche tanto metano e altre perniciose molecole) è di circa 2 W/m2.
Immaginate di piazzare una lampadina a incandescenza da 2 W – che dissipa oltre
il 95% dell’energia come calore, infatti se la toccate vi bruciate – su ogni
singolo metro quadro del pianeta. Questo può dare un’idea della gigantesca stufa
che abbiamo acceso.
[…] A
questo punto spero di aver persuaso anche il lettore più scettico che è
necessario abbandonare, il più in fretta possibile, i combustibili fossili. È
un’affermazione facile, che però si scontra con la dura realtà. Una realtà che
vi racconterò da questa pagina in poi e che si chiama transizione energetica
verso le fonti rinnovabili.
Sarà
un processo lungo, estremamente complesso, pieno di grandi sfide, ma anche di
enormi opportunità. Un processo che ci chiede di mettere da parte idee
consolidate, perché non possiamo progettare il nostro futuro energetico (e non
solo quello) con le idee vecchie che ci troviamo scolpite in testa: ne servono
di completamente nuove.
Va
detto però che non stiamo sperimentando una clamorosa novità: l’umanità è costantemente in
transizione energetica da oltre 200 anni.
[…]
La
Terra è davvero un posto speciale. Non bastasse la straordinaria combinazione
di fattori che rendono questo angolo di Universo un’esplosione di vita, il
nostro pianeta è letteralmente pieno e costantemente inondato da una quantità
stupefacente di energia, riconducibile a 4 principali categorie. Sono le 4
carte che possiamo giocarci per la transizione energetica.
La
prima, di gran lunga più rilevante in termini quantitativi, è l’energia solare
che può essere sfruttata, attraverso varie tecnologie, sia direttamente (ad
esempio, pannelli solari termici e fotovoltaici) che indirettamente (impianti
eolici, idroelettrici, a biomasse, correnti marine: è sempre il Sole che in ultima
analisi alimenta questi impianti!). L’energia solare viene considerata
“rinnovabile” in quanto il Sole continuerà a illuminare la Terra per centinaia
di milioni di anni, un periodo sostanzialmente infinito.
La
seconda è l’energia nucleare da fissione di elementi chimici pesanti (ad
esempio, uranio, non rinnovabile) o da fusione di elementi leggeri (deuterio e
trizio, largamente disponibili, anche se il trizio va “fabbricato”).
La terza è l’energia geotermica, ovvero il calore ad
alta temperatura imbrigliato nel sottosuolo terrestre che in alcune regioni
limitate del pianeta (come l’Islanda o la Toscana) giunge in prossimità della
superficie, oppure quello a bassa temperatura, disponibile ovunque.
La
quarta e ultima (anche in ordine di importanza) è l’energia di interazione
gravitazionale (Terra-Luna e Terra-Sole) che in alcuni punti del pianeta, ad
esempio nel nord della Francia, muove enormi masse di acqua (maree), che
possono venire impiegate per produrre elettricità.
[…]
Tra le
4 carte che ci possiamo giocare, quella del Sole è la più importante sia in
termini quantitativi che pratici.
[…] La
cattiva notizia, però, è che l’energia solare oltre a essere relativamente
diluita è anche discontinua su scala locale (ma non su scala globale, metà del
pianeta è sempre illuminata!). In altre parole, quindi, non sarà mai possibile
far funzionare un ospedale, infrastruttura ad altissimo consumo energetico, con
l’energia solare che ne colpisce i tetti di giorno. Da questo si può capire che
la prima sfida scientifica e tecnologica è quella di convogliare il gigantesco
(e diluito) flusso di energia solare per utilizzarlo con “l’intensità”
necessaria, ovunque richiesto, a cominciare da dove la domanda è molto alta:
centri urbani e distretti industriali.
L’altro
problema da risolvere è che l’energia solare, come tale, serve a poco: deve
essere convertita e accumulata in energia utile di uso finale. Elettricità e
combustibili, tanto per cambiare. E per produrre convertitori e accumulatori di energia
rinnovabile (pannelli fotovoltaici, generatori eolici, batterie, collettori di
calore, celle a combustibile, ecc.) occorrono risorse minerarie, che debbono
essere reperite scavando la crosta terrestre, esattamente come è stato fatto
per oltre due secoli coi combustibili fossili.
In
altre parole, un mondo 100% rinnovabile sarà completamente diverso dall’attuale
tranne che per un aspetto: dovremo continuare a scavare nel sottosuolo. Non più
alla ricerca di petrolio, carbone e gas ma di risorse minerali per costruire i
convertitori e gli accumulatori che rendono utilizzabile il gigantesco flusso
solare che ci piove in testa.
Rassegniamoci:
la transizione energetica non ci libera dalla necessità di utilizzare in modo
intelligente e razionale le limitate risorse della meravigliosa prigione in cui
siamo confinati, la Terra.
L’ATTACCO
FINALE DEL NUOVO ORDINE MONDIALE
ALL’ITALIA
E L’AUTUNNO CHE CAMBIERÀ
LA
STORIA DEL MONDO.
Lacrunadellago.net-
Cesare Sacchetti – (3 settembre 2020) - ci dice:
L’attacco
finale del Nuovo Ordine Mondiale all’Italia e l’autunno che cambierà la storia
del mondo.
Lo
scorso sabato sera c’era davvero una insolita fila di auto blu sotto casa di
Mario Draghi.
I
media non hanno reso noti i nomi dei personaggi che hanno preso parte
all’inconsueta riunione, ma non è difficile immaginare che si sia trattato di
figure di primissimo livello.
Quello
che è accaduto nell’appartamento romano dell’ex governatore di Bankitalia
assomiglia molto ad una anticamera di consultazioni da prossimo presidente del
Consiglio in pectore.
Mario
Draghi si muove e parla già come se fosse a palazzo Chigi.
Prima
di questo incontro, l’uomo di Goldman Sachs aveva tenuto un discorso nel
parterre annuale di Comunione e Liberazione, nel quale scagliava accuse contro
chi “ha messo a rischio il futuro dei giovani”.
Se
Draghi voleva davvero individuare il responsabile della vita di incertezze e di
precarietà permanente nel quale la feroce applicazione delle dottrine ordo e
neo liberali imposte da Bruxelles e dalla grande finanza internazionale hanno
ridotto le giovani generazioni, non avrebbe dovuto fare altro che guardarsi
allo specchio.
Draghi
infatti è stato uno dei più feroci e spietati esecutori del piano economico del
cosiddetto Nuovo Ordine Mondiale che partorì già negli anni’70 la
deindustrializzazione dei decenni successivi attuata attraverso quell’ondata di
privatizzazioni selvagge nella famigerata notte a bordo del panfilo Britannia,
sul quale l’Italia veniva venduta e tradita dal suo establishment.
Ora,
dopo Rimini, l’uomo che salvò l’euro e condannò la Grecia alla più grave
devastazione economica mai vista dal dopoguerra, seppellita di debiti dagli
organismi al servizio della finanza neoliberale, è tornato a parlare nuovamente
e lo ha fatto in occasione del Congresso Europeo di Cardiologia.
Qui
Draghi è stato ancora più esplicito.
Ha
chiaramente detto che si uscirà dalla crisi da Covid solamente attraverso “il
vaccino e con test di massa e tracciamento” che nella sua idea dovranno
diventare la nuova normalità.
La sorveglianza
di massa dunque sarà la caratteristica fondamentale di questo nuovo
totalitarismo globale.
Ormai
chi ha ancora il dono della ragione, non ha difficoltà a capire che il presunto pretesto della tutela
sanitaria è solamente una facciata per partorire una società che sia
esattamente quella disegnata dalle élite mondialiste.
Gli
stessi che ipocritamente definiscono “negazionisti” coloro colpevoli solo di
mostrare i numeri che continuano a ribadire che questo virus “letale” non fa
altro che produrre asintomatici sani o tutt’al più dei raffreddori, sono gli
stessi che nulla dicono sul fatto che la morbosa attenzione su un virus ormai
spento e debole ha dirottato tutte le risorse dell’intera sanità italiana,
ignorando tutti coloro che muoiono per altre malattie e che sono la stragrande
maggioranza.
Appare
ormai evidente che la crisi pandemica sia stata espressamente pensata, come
predisse Jacques Attali uomo a stretto contatto con i vertici del mondialismo,
per partorire un governo unico mondiale che esautori definitivamente le nazioni
che dovranno lasciare il posto a questa nuova dittatura globale.
Draghi
sa perfettamente queste cose, così come sa che è lui, e non Conte, l’uomo
designato dalla gerarchia sovranazionale per portare l’Italia verso l’ultima fase
del Nuovo Ordine Mondiale.
I
segnali c’erano già tutti nei mesi scorsi, per chi li volesse cogliere. Prima del manifestarsi della
cosiddetta “pandemia”, tra i palazzi di Montecitorio si faceva già
insistentemente il nome di Draghi.
Il
partito del governatore ha trovato terreno fertile prima nella Lega, quando
Giorgetti prima e Salvini poi hanno espresso parole di elogi nei suoi
confronti, è si è progressivamente esteso a tutto l’arco parlamentare fino a
coinvolgere il M5S e il PD.
Draghi
dietro le quinte ha tessuto pazientemente la sua tela e non sta facendo altro
che aspettare che il corso degli eventi di questa crisi lo porti poi a palazzo
Chigi.
Ad
aggiungersi al già folto fronte che lo sostiene è giunto uno dei massimi
esponenti del globalismo, ovvero Bergoglio che ha pensato bene di insignirlo di un
prestigioso incarico presso l’Accademia delle Scienze Sociali.
Le
élite hanno già iniziato a liberarsi di Conte.
Questo
è un altro segnale da tenere in dovuto conto perché ciò significa che Giuseppe
Conte, fino a pochi mesi fa sostenuto ardentemente dalla corrente anticattolica
e filo-massonica vicina a Bergoglio, è stato praticamente scaricato.
I
media, non a caso, hanno già iniziato a voltargli le spalle da un po’ di tempo
a questa parte. D’incanto, si iniziano a vedere degli articoli fino ad un mese
fa impensabili sul mainstream mediatico.
La
Repubblica, con un tempismo che definire puntuale è riduttivo, ha fatto
trapelare uno studio che sarebbe stato già nella disponibilità del governo
dallo scorso febbraio, secondo il quale il coronavirus avrebbe potuto portare
ad un collasso delle terapie intensive ed era pertanto raccomandabile istituire
delle zone rosse subito. L’operazione che sta portando avanti il sistema è semplice,
quanto diabolica. Si sta disfacendo di Conte accollandogli la responsabilità di
non aver agito in tempo per fermare gli effetti del Covid.
In
altre parole, si colgono i due classici piccioni con la stessa fava. Ci si
libera di Conte che ormai in questa fase non serve più, bruciato per aver
privato gli italiani della libertà e per aver portato il Paese al collasso
economico, e al tempo stesso si continua a far credere alle masse che questo
virus effettivamente sia letale, quando le autopsie realizzate dai medici a Bergamo e
Milano hanno provato che non è state l’agente virale ad uccidere, ma le terapie
sbagliate.
Ma se
si indagasse su questa orribile verità, si dovrebbe mettere sotto inchiesta
l’intero sistema sanitario italiano e i danni per l’establishment sarebbero
probabilmente troppo rilevanti.
È molto
più conveniente e funzionale continuare ad agitare lo spauracchio del virus
mortale e dire che Conte non ha agito in tempo per fermarlo.
A quel
punto, i media che prima difendevano compatti l’ex avvocato del popolo daranno
in pasto l’allievo del cardinale Silvestrini alle masse mentre continueranno a
preparare il terreno a Draghi.
Draghi
e il Nuovo Ordine Mondiale non verranno prima di grandi disordini.
L’ex
governatore della Bce però non entrerà in scena prima di grandi tumulti e
violenze.
La
massoneria segue una strategia precisa da secoli e crea volutamente delle
situazioni di grandi sconvolgimenti per poi dare vita all’esito già
prestabilito.
Ordo
ab chaos, è difatti uno dei suoi motti preferiti.
Più
passano i giorni, più si avvicina il momento in cui la bomba economica
esploderà.
I
media hanno provato a far credere, maldestramente, che il crollo del PIL del
12,8% di quest’anno sia il peggiore dal 1995, quando in realtà era dal 1945 che
non si vedeva un crollo così devastante.
Il
terrorismo sanitario è stato, in questo senso, semplicemente perfetto per
provocare dei danni economici senza precedenti. Ha partorito una condizione da
economia di guerra che sarà l’arma per mettere le masse con le spalle al muro e
costringerle ad accettare il nuovo autoritarismo globale ordinato dalle élite.
Le
crisi in questo gioco continuano ad essere l’anima di tutto. Sono i processi di
cui si serve la cabala mondialista da molti decenni per avanzare a grandi passi
verso il super-governo mondiale.
Il
coronavirus ha questo obbiettivo finale e, nell’immaginario del mondialismo,
dovrà cambiare il mondo e l’Italia, in particolare.
Questa
nazione continua a giocare un ruolo fondamentale in questa guerra perché è la
culla della cristianità, e il Nuovo Ordine Mondiale non potrà vedere la luce
senza prima aver tolto dalla scena la religione fondata da Cristo.
Il
mondialismo non è altro infatti che la negazione di Dio. è una tempesta di disvalori satanici
che sta mandando al collasso la società sia sotto il profilo socio-economico,
ma soprattutto sotto quello etico e spirituale.
Ancora
più semplicemente, l’idea di costruire una nuova torre di Babele al di sopra
delle nazioni è un atto di guerra a Dio.
Draghi
dunque giunge in questa ultima fase nelle vesti di falso messia inviato dalla
cabala globalista e avrà il compito di drenare il Paese delle sue ultime
risorse vitali e condurlo verso gli Stati Uniti d’Europa, del tutto
imprescindibili per consentire la nascita della dittatura mondiale.
Fu
proprio uno dei massimi rappresentati dell’establishment internazionale a
dirlo, ovvero Winston Churchill davanti ad una platea di cinquemila persone a
Copehnagen nel lontano 1950.
In
quell’occasione, l’ex primo ministro britannico disse chiaramente che “l’ordine
mondiale autoritario dal potere assoluto è l’aspirazione finale” verso il quale
bisogna tendere, ma per arrivare a questo è indispensabile unire l’Europa sotto
la forma di un superstato.
Senza
l’Italia a bordo, la realizzazione degli Stati Uniti d’Europa continuerà a
restare una chimera.
Quello
che sta per arrivare dunque è un periodo di grandi tumulti e disordini dovuti
all’instabilità sociale ed economica accuratamente preparata da chi tira le
fila dei governi in tutto il mondo, di fronte al quale le masse saranno in
larga parte completamente impreparate.
Tutto
questo porterà a favorire ancora di più il clima ideale di instabilità
auspicato dalle élite per consegnare il Paese a Draghi e raffigurarlo come il
“salvatore”.
Una
volta giunti a quel punto, l’ex governatore della BCE porterà a termine il
lavoro iniziato molti anni addietro sul panfilo Britannia.
La
comprensione della natura spirituale della guerra in corso è fondamentale.
Sono
in molti ormai a chiedersi cosa si può fare per provare almeno a contenere gli
oscuri scenari di caos e violenza che aleggiano sopra l’Italia.
Se si
comprende a fondo la vera natura del Nuovo Ordine Mondiale, non si può non
comprendere la sua natura profondamente satanica.
È per
questo che mai come ora temprare al meglio la propria corazza spirituale per
farsi trovare il più pronti possibile a ciò che sta per arrivare.
Chi ha
fede, sa che questo folle piano di dominio sul mondo e distruzione dell’umanità
e delle sue identità nazionali non potrà non crollare.
Ci
saranno dure prove davanti, ma chi resisterà fino in fondo e non cederà alle
forze oscure, sarà ricompensato.
Se ci
si ostina invece a guardare solamente al lato materialista o economicista del
globalismo, non si riesce davvero a comprendere cosa c’è in ballo.
La
crisi da Covid non serve alle grandi élite principalmente per fare i soldi. Chi
sta ai massimi livelli ha in mano il sistema bancario e controlla la creazione
stessa del denaro in maniera illimitata.
Sono i
livelli inferiori della gerarchia che vogliono sfruttarla per arricchirsi, ma sempre attenendosi fedelmente
all’agenda delle grandi famiglie di banchieri come Rothschild o Rockefeller.
è senz’altro auspicabile che i piani di
questa gente vadano in fumo anche sotto il piano politico, attraverso
l’intervento di quei politici, su tutti Trump e Putin, che non vogliono far
inginocchiare le loro nazioni ai piedi di questa cabala.
Ma è
comunque fondamentale continuare a coltivare il senso spirituale più profondo
del momento storico che si sta attraversando.
Monsignor
Viganò lo ha spiegato magistralmente in varie occasioni. Nella più recente ha
risposto ad un giovane di 16 anni che chiedeva cosa fare di fronte a tanto
male.
L’arcivescovo
ha risposto al ragazzo che se si continua a vivere nella rettitudine del
Signore, non ci sarà appuntamento o evento per il quale non si sarà pronti.
Quando
il mondo sembra destinato a precipitare nell’oscurità più completa, è quella
l’ora nella quale le anime che hanno creduto riescono ad accendere ancora un po’
di speranza e a donare nuovamente un po’ di luce al mondo.
Quel
momento certamente arriverà, ma non prima di attraversare dei grandi
sconvolgimenti che per essere affrontati richiederanno una forte tempra
materiale e spirituale.
Chi ha
compreso, aiuti chi ancora vuole e può essere aiutato.
è un momento storico senza precedenti
per l’Italia e per il mondo. La massoneria è pronta a tutto pur di vedere realizzato il
suo totalitarismo globale guidato da un tiranno che perseguiterà tutti coloro
che gli si opporranno.Questi mesi saranno decisivi per comprendere se si è aperta
la finestra tanto bramata dal Nuovo Ordine Mondiale oppure se il piano sarà
sventato da contingenze di carattere politico ispirate probabilmente sempre
dalla Provvidenza.
Questo
scontro è un crocevia semplicemente fondamentale per la vita di tutti.
È il
momento delle scelte, quelle importanti che cambiano veramente il destino di
una persona.
Bisogna
scegliere da che parte schierarsi e in un modo o nell’altro bisognerà essere
pronti ad assumersi le proprie responsabilità in qualsiasi direzione si scelga
di andare.
Chi
deciderà di consegnare la propria vita nelle mani del mondialismo e di
rinunciare alla sua umanità, dovrà risponderne se non davanti ai tribunali
terreni, di fronte a quelli divini.
Chi
sceglierà di non piegarsi, andrà incontro al suo calvario ma, se resisterà,
sarà premiato.
Ora
ognuno faccia la propria scelta.
Ora
ognuno ha in mano il suo destino.
LE
PROVE DEL GRAFENE NEI VACCINI:
IL
PIANO PER UNO STERMINIO DI MASSA.
Lacrunadellago.net-
Cesare Sacchetti- (Set 14, 2022) -ci dice:
La
storia del grafene nei sieri, impropriamente chiamati “vaccini”, è una storia
proibita, occultata dalla cappa mediatica. Troppe sconvolgenti le conclusioni e
troppo devastanti le conseguenze per coloro che hanno permesso che tali farmaci
fossero distribuiti.
Tutto
iniziò lo scorso anno quando il biologo spagnolo, il professor Pablo Campra
dell’Università d’Almeria, rivelò i clamorosi risultati delle sue analisi sul
vaccino Pfizer.
Il
verdetto del microscopio parlò piuttosto chiaro. Nel siero c’era solo e soltanto una
sostanza altamente tossica per il nostro organismo, il grafene.
A
distanza di un anno da quelle sconcertanti conclusioni, giunge un’altra ricerca
eseguita dalla dottoressa indiana Poormina Wagh. Prima che si mettano in moto le
rotative delle menzogne mediatiche, è indispensabile precisare che la
dottoressa Wagh ha un curriculum esteso nei rami della virologia e della
immunologia.
La
scienziata vanta due dottorati di ricerca in questi due campi presso
l’università britannica della London School of Hygiene & Tropical Medicine
e le sue pubblicazioni sono tutte visibili presso il sito Research Gate.
L’immunologa indiana ha anche collaborato con l’ospedale pediatrico di
Cincinnati.
Si tratta di una scienziata a tutti gli effetti, ma ciò non impedirà ai
professionisti della disinformazione di screditare la sua reputazione.
La
dottoressa Wagh ha deciso di eseguire questa ricerca sul grafene nei sieri
perché vuole cercare di far arrivare al grande pubblico la verità taciuta dai
media saldamente prostrati al culto del vaccino.
Assieme
ad un gruppo di ricercatori di tutto il mondo ha eseguito delle analisi su 2305
campioni di sieri di dodici differenti marche di vaccino. Nella lista ci sono le marche dei
vaccini più distribuiti negli Stati Uniti e in Europa Occidentale quali Pfizer,
Moderna, Astrazeneca e Johnson & Johnson. Ci sono anche vaccini cinesi come
il Novavax e altri vaccini cubani.
Non
risulta esserci il vaccino russo Sputnik sviluppato dall’istituto Gamaleya e
quindi questo porta ad escludere che la Russia abbia messo nel suo preparato le
sostanze che invece sono state trovate negli altri sieri.
Le
conclusioni di questa ricerca così estesa sono concordanti e inquietanti al
tempo stesso. Nulla di quanto dichiarato nei famigerati bugiardini risulta
essere vero. Nei sieri Pfizer e Moderna non c’è né l’mRNA né la cosiddetta
proteina Spike mentre in quelli di Astrazeneca e J&J non c’è l’adenovirus
che avrebbe dovuto in teoria esserci.
In
ogni singolo farmaco sono stati riscontrati ingredienti quali acqua, idrossido
di alluminio, nano particelle metalliche e nano particelle di ossido di grafene.
Questi
ingredienti non sono un composto che serve a prevenire un eventuale “contagio”
del cosiddetto “COVID-19”.
Appare
del tutto evidente che sono sostanze tossiche per il nostro organismo quali il
grafene e l’idrossido di alluminio.
Una
volta che questo composto entra nell’organismo di una persona inizia a fare il
suo “lavoro”, che non è altro che quello di deteriorare il sistema immunitario di chi
riceve il siero.
La
dottoressa Wagh è piuttosto inequivocabile nelle sue conclusioni. Questi “vaccini” sono stati
distribuiti come parte di un programma per giungere “ad un massiccio de-popolamento”.
Non
appare esserci altro scopo considerati gli ingredienti utilizzati per
sviluppare questi farmaci.
Stanno
poi emergendo al tempo stesso altri elementi che sembrano confermare le
conclusioni di queste analisi di laboratorio.
è il caso dell’imbalsamatore americano
Richard Hirshman. Hirshman conosce il suo mestiere molto bene, da più di 20
anni. L’imbalsamatore
ha raccontato al quotidiano americano “The Epoch Times” che nei cadaveri che ha
avuto modo di trattare negli ultimi mesi ha riscontrato la presenza di una
sostanza che né lui nei suoi colleghi hanno “mai visto” nel corso della loro
carriera.Si
tratta di “tessuti fibrosi bianchi” e ciò lascia pensare che potrebbe esserci
qualche collegamento con le sostanze messe nei sieri, in particolar modo il
grafene.
Il
grafene può essere infatti sia di colore nero sia di colore bianco. Ma questa
non è l’unica prova che avalla le conclusioni di Campra e della Wagh.
Proprio
in Italia è stata condotta una ricerca da tre medici chirurgi, il dottor Franco
Giovannini, il dottor Benzi Cipelli e il dottor Pisano, sul sangue delle persone che si sono
sottoposte alla vaccinazione.
Anche
in questo caso i risultati sono stati a dir poco sconvolgenti. Nella relazione che i tre medici
hanno preparato viene riportato che nel sangue dei vaccinati ci “sono evidenti inclusioni
presumibilmente grafeniche in mezzo a globuli rossi fortemente conglobati
attorno alle particelle esogene.”
Saremmo
in presenza di una mutazione vera e propria del sangue dei vaccinati che ha una
composizione e caratteristiche diverse da quello normale di chi non ha invece
ricevuto il siero.
Il
mancato isolamento del virus.
Un
altro aspetto fondamentale approfondito dalla scienziata indiana è quello che
riguarda l’isolamento del coronavirus. L’isolamento è il principio della
“emergenza” dal momento che senza di esso non si può determinare o meno
l’esistenza di un virus.
La
dottoressa Wash ha chiesto al Centro per la prevenzione e la cura delle
malattie degli Stati Uniti, il famoso CDC, di fornire un campione isolato e
purificato del virus, ma non c’è stato nulla da fare. Il CDC non è stato in
grado di assecondate tale richiesta. Il virus isolato non appare.
Altri
ancora hanno provato a chiedere prova dell’isolamento del virus come ha fatto
la ricercatrice canadese, Christine Massey, che ha aperto un sito dedicato
all’argomento nel quale mostra tutte le sue lettere alle differenti istituzioni
sanitarie internazionali.
La
Massey ha scritto alle autorità sanitarie canadesi, britanniche, americane ed
europee ma nessuna di queste quando gli è stato chiesto di produrre un campione
del virus isolato ha saputo darle una prova dell’isolamento del cosiddetto
COVID-19.
A
questo punto, è d’obbligo un interrogativo. Ci si chiede quali vaccini per
prevenire il “contagio” contro il COVID-19 abbiano potuto sviluppare le case
farmaceutiche se fino ad oggi il virus chiamato COVID-19 non risulta nemmeno
essere stato isolato?
Ugur
Sahin, il co-fondatore di BionTech, ha rivelato che il vaccino Pfizer fu
concepito nel giro di poche ore a gennaio del 2020.
Ma un
vaccino non si sviluppa di certo in poche ore e richiede anni di ricerche e
diversi test. Soprattutto c’è da considerare un altro aspetto. In quel periodo ancora non c’era un
vero e proprio panico “pandemico”. L’OMS non aveva nemmeno fatto la sua dichiarazione
formale di “stato pandemico” che avverrà solamente l’11 marzo del 2020.
Ciò
porta ad una unica conclusione. I “grandi” gruppi farmaceutici erano già all’opera prima
per preparare questi sieri e le analisi di Pablo Campra e Poormina Wagh
rivelano come lo scopo non fosse certo quello di migliorare o tutelare la
salute pubblica.
Lo
scopo non era altro che quello annunciato da Bill Gates nel 2010 ad una
conferenza della serie TEDx.
Fu in
quell’occasione che Gates disse che per ciò che riguarda la riduzione della
popolazione mondiale “se fosse stato fatto un buon lavoro con i vaccini” tale
numero avrebbe potuto essere ridotto del 10/15%.
E
quindi si spiegano perfettamente gli investimenti milionari che il fondatore di
Microsoft, l’uomo dei vaccini, ha fatto negli scorsi anni in questo campo.
Fu
sempre Gates ad annunciare nel 2018, due anni prima dell’inizio della
“emergenza COVID”, che il mondo avrebbe dovuto prepararsi ad un evento
pandemico come se avesse dovuto “affrontare una guerra”.
La
cosiddetta “pandemia” dunque non è mai stata tale. Si è trattato di una operazione
studiata a tavolino e preparata meticolosamente per giungere alla società che
uomini come Gates e i membri del club di Davos (con a capo Klaus Schwab) avevano in mente.
In
questa società distopica, il numero della popolazione mondiale deve essere
ridotto per essere conforme ai canoni della filosofia neomalthusiana sulla
quale si fonda l’ideologia globalista.
L’esistenza
stessa dell’uomo viene vista come una “minaccia” dai vertici di questi poteri
che si connotano per il loro feroce odio nei confronti dell’umanità intera,
considera alla stregua di un ammasso di “mangiatori inutili”, l’espressione
coniata dal club di Roma finanziato dalla famiglia Rockefeller.
E in
questa storia troviamo sempre questi nomi. Bill Gates, Rockefeller, Klaus
Schwab e Jacques Attali. Troviamo i nomi di coloro che hanno concepito questo
mondo.
Nessun
placebo nei vaccini.
C’è
poi un altro mito da sfatare diffuso da alcuni disinformatori, ovvero quello
che siano stati inseriti dei placebo nei vari lotti vaccinali.
Nulla
di tutto ciò è vero come ha spiegato la scienziata indiana nella sua relazione.
Se alcuni
vaccinati non avvertono per ora sintomi negativi è dovuto solo al fatto che in
alcuni sieri la quantità di grafene è lievemente inferiore a quella riscontrata
in altri.
La
distribuzione di un siero con più o meno grafene rientra in quella che si può
definire come una perversa roulette russa nella quale alcuni “fortunati”
evitano patologie sull’immediato ma nessuno di questi scamperà ai gravi effetti
collaterali nel lungo periodo.
La
dottoressa Wagh spiega che l’aspettativa di vita di chi ha ricevuto tali
sostanze anche in quantitativi minori rispetto ad altri si accorcia mediamente
“dai 10 ai 15 anni”.
L’ulteriore
somministrazione di seconde, terze o quarte dosi serve soltanto ad accelerare
il processo di progressivo decadimento dell’organismo.
Tante
più dosi entrano nei nostri corpi, tanto più essi vengono definitivamente
compromessi da quelli che non possono essere che definiti come veleni per la
nostra salute.
In
tutto questo sconcertante disegno per attentare alla salute pubblica, l’unica
nota “positiva” sembra essere quella che riguardano gli effetti collaterali dei
sierati che, secondo la dottoressa Wagh, non possono essere trasmessi a coloro
che non hanno fatto il siero.
L’organismo
prova comunque ad espellere una parte delle sostanze tossiche che ha ricevuto
ma quando queste escono dal corpo sono inerti e non possono arrecare danni a
chi si trova a contatto con i sierati.
Queste
sono dunque le verità che scienziati indipendenti stanno cercando di far
arrivare al pubblico e che non sono riusciti ancora a trasmettere ad un ampio
numero di persone.
Molti
vaccinati ancora probabilmente ignorano che sono stati ingannati e frodati da
un sistema che aveva detto loro che tali sieri erano sicuri.
Ed è
quindi giunto il momento delle domande a coloro che in Italia hanno attuato la
campagna vaccinale. È necessario chiedere conto di quanto accaduto ai governi
Conte e Draghi che hanno promosso questi vaccini e hanno costretto le persone a
ricevere nel loro corpo tali sostanze attraverso obblighi vaccinali e
certificati verdi.
Gli
italiani sono stati sottoposti ad una somministrazione di massa che i fatti
esposti hanno rivelato essere null’altro che un deliberato tentativo di ridurre
la popolazione italiana.
C’è da
chiedere conto anche all’AIFA che ha autorizzato la distribuzione di questi
micidiali preparati.
C’è da
chiedere conto ai responsabili di quello che è stato un attentato alla salute
pubblica degli italiani senza precedenti.
Il
sangue di chi ha perduto e sta perdendo la vita in questa strage attende
giustizia.
L’emergenza
clima, tra ostacoli
economici
e politici e una
nuova
coscienza generazionale.
Micromega.net-
Giorgio Pagano – (6-12-2021) – ci dice:
Il
fallimento di Glasgow. La crisi della governance sovranazionale. Il legame tra
questione sociale e ambientale. Il nucleare come arma di distrazione di massa.
Perché la lotta contro la crisi climatica non è “romanticismo verde” ma messa
in discussione del sistema economico dominante.
Anche
Glasgow è stata una delusione. Una cosa è emersa in modo chiaro: per contenere
il surriscaldamento terrestre a + 1,5 gradi entro il 2030, i governi dovrebbero
cancellare da subito gli investimenti in carbone, petrolio e gas e concentrare
gli investimenti sulle rinnovabili.
Ma
questo cambiamento di rotta non c’è stato: nessuna decisione di rilievo in tal
senso è stata presa. Il segno del fallimento della COP26 è stato l’emendamento
proposto dall’India, e poi approvato pur di chiudere il negoziato, che ha
sostituito la progressiva eliminazione del carbone con la sua riduzione.
Si può
dire che, nonostante ciò, il carbone è rimasto la prima fonte energetica da
eliminare nella lista.
E si
può pur sempre considerare il documento congiunto Cina-Usa, anche se privo di
contenuti significativi, come indice di quella collaborazione globale di cui ci
sarebbe bisogno.
Ma, al
netto di tutto ciò, la valutazione è che su ogni questione gli impegni sono
stati troppo generici e le risorse stanziate insufficienti.
La
presenza dell’Unione europea è stata anch’essa deludente. Nelle ultime settimane il “Green New Deal” è stato molto ridimensionato
dall’orientamento prevalente a inserire nella tassonomia (per definire ciò che è
“sostenibile”) il gas e il nucleare, nonché dal varo di una riforma della Pac
(Politica agricola comune) che favorisce l’agrobusiness.
E
l’Italia? Ha aderito alla coalizione di un piccolo gruppo di Paesi che si pone
l’obiettivo di eliminare anche petrolio e gas, ma senza impegni precisi.
In realtà ha spinto e sta spingendo, dentro
l’Ue, per il gas e per il nucleare.
Il Pniec (Piano nazionale integrato per
l’energia e il clima) va aggiornato, le rinnovabili sono ferme. Mentre andrebbero fermate – ma non
accade – le trivelle, le caldaie a gas, le automobili inquinanti.
Insomma,
ha ragione Greta Thunberg: Glasgow è stato il “festival del green-washing”,
dell’ecologismo di facciata. In ogni caso, anche se qualche passo avanti su qualche
punto c’è stato, non si può non dire che è radicalmente insufficiente. E che è
necessaria la protesta, risorsa politica inestimabile in una sfida come questa.
Tanto
più che manca una governance sovranazionale e che tutti i suoi strumenti sono
in crisi.
Non si
vede come si possano aggiungere accordi seri in un’atmosfera di guerra fredda,
in cui nessuno ascolta il Segretario generale dell’Onu e ogni Paese pensa a sé
stesso.
Una
leadership globale non c’è, e non può certo essere esercitata dagli Stati
Uniti. L’abbiamo
visto per la pandemia, lo vediamo per il clima: gli Stati Uniti sono un Paese diviso,
che difetta in coerenza.
Anche per questo il conflitto ingaggiato con la Cina è
pericoloso.
Quel piccolo segnale del documento congiunto a Glasgow va dunque valorizzato,
perché è in controtendenza. La nostra società è troppo debole: nessuno può farcela da
solo.
QUESTIONE
SOCIALE E QUESTIONE AMBIENTALE:
SONO I
PIÙ POVERI A PAGARE.
A
Glasgow è emerso, e questo è un fatto positivo, il ruolo dei Paesi poveri, o
meglio impoveriti. “I Paesi poveri come il nostro – ha detto il Presidente del
Niger Mohamed Bazoum –, che non hanno alcuna responsabilità per il cambiamento
climatico, sono quelli che oggi pagano il prezzo più alto al consumismo
promosso da un modello di sviluppo che ha riservato pochissima attenzione ai
popoli dei Paesi deboli, oltre che alle generazioni future”.
I
Paesi impoveriti sono quelli che fanno il sacrificio maggiore, e sarà sempre
peggio: dove è caldo sarà più caldo, dove piove pioverà di più, dove c’è
marginalità si finirà ancor di più ai margini. Le dune del deserto avanzano nei
villaggi subsahariani e la sabbia seppellisce le aree agricole e pastorali.
Thomas Sankara, Presidente del Burkina Faso nei gloriosi anni 1983-1987, prima
del suo assassinio, aveva studiato in Madagascar.
Si impegnò per rinverdire il Sahel e diceva:
“Se potessimo portare qui un po’ del verde malgascio…”. Ma ora nel sud
dell’isola non piove da otto o dieci anni, sono rimasti i cactus ed è arrivata
la carestia. L’Asia non è da meno: l’acqua del mare si innalza e invade i campi
coltivati del Bangladesh, distruggendone la fertilità.
I
Paesi ricchi fanno ben poco, è stato denunciato anche a Glasgow. Ma Stati Uniti
e Unione europea hanno impedito l’istituzione del “Glasgow Facility on Loss and Damage”, l’organismo richiesto da 134 Paesi
per garantire sostegno finanziario ai Paesi impoveriti. Così come non è stato
preso alcun impegno sulla promessa del Fondo Verde di 100 miliardi di dollari
all’anno a questi Paesi.
Sono
risorse indispensabili non solo per la mitigazione del cambiamento climatico e
per la conversione ecologica – dalla riforestazione alle energie rinnovabili –
ma anche per l’adattamento, là dove il danno è ormai irreversibile: si pensi,
per esempio, alla difesa delle aree costiere dall’innalzamento dei mari.
Mentre
per i Paesi ricchi la crisi climatica è un problema di mitigazione, per i Paesi
impoveriti è un dramma del presente. Lo scrive l’Unep (il Programma delle Nazioni Unite
per l’ambiente) nel suo Adaption Gap Report 2021: “Un’azione tempestiva è
imprescindibile perché i benefici della mitigazione arriveranno non prima del
2040, e in gran parte gli impatti previsti per i prossimi due decenni potranno
essere ridotti solo con l’adattamento”.
I
fondi sia per la mitigazione e la conversione ecologica che per l’adattamento
vanno dunque aumentati in modo assai consistente. Ma la questione è anche
un’altra: vanno pagati principalmente sotto forma di donazioni, in modo da non
aumentare l’onere del debito pubblico dei Paesi impoveriti.
Questione
ambientale e questione sociale si intrecciano dunque più che mai, perché sono i
più poveri a pagare. Dobbiamo sostenere i Paesi impoveriti perché si sviluppino
usando tecnologie e tecniche che non impattino sull’ambiente. Ma dobbiamo anche ridurre i nostri
consumi.
Secondo il Rapporto Oxfam sulle diseguaglianze climatiche nel 2030 le emissioni
di CO2 in atmosfera prodotte dall’1% più ricco della popolazione mondiale
saranno trenta volte superiori ai livelli sostenibili per limitare l’aumento
delle temperature globali entro + 1,5 gradi. L’1% più ricco, cioè ottanta
milioni di persone, tra meno di dieci anni sarà responsabile di ben il 16%
delle emissioni globali, mentre nel 1990 rappresentava il 13% e nel 2015 il
15%. Se guardiamo al 10% più ricco del mondo, i dati sono di segno analogo. Non dobbiamo chiedere di mangiare
meno carne all’Africa subsahariana, dove se ne consumano cinque chili all’anno,
ma agli Usa, che sono a quota 125 chili pro capite. La conversione ecologica non è
compatibile con l’idea della crescita illimitata, e presuppone un cambiamento
profondo nei modi di produzione e di consumo e negli stili di vita. È
conversione “strutturale” e “sovrastrutturale”, produttiva e personale.
IL
METANO NON DA’ UNA MANO, ANZI.
Il gas
naturale, combustibile fossile, produce la metà del riscaldamento globale
(0,5%). La produzione energetica nazionale, se si fonderà sulla sostituzione
del carbone con un altro combustibile fossile, continuerà a essere una fonte
sostanziale di emissioni climalteranti.
Lo
studio Climate
analitycs
sostiene che la dipendenza dal gas naturale, considerato dal Ministro Cingolani
un alleato della “transizione ecologica”, non è compatibile con l’obiettivo
del contributo dell’Italia a non superare 1,5 gradi.
Non è
vero, dunque, che “il metano ci dà una mano”, anzi. Ma è possibile farne a
meno? Certamente, ma bisognerebbe puntare davvero sulle rinnovabili: l’Italia
non ha ancora politiche in atto per raggiungere l’obiettivo del 30% di
rinnovabili entro il 2030. Cingolani vuole le centrali a gas per “garantire la
potenza”. Dimentica di aggiungere “di picco”. Non c’è deficit di potenza di
base in Italia dato che quella disponibile installata è di circa 115 GW contro
una domanda massima di circa 60 TW (Fonte: Terna per il 2018). L’energia delle
nuove centrali a gas può essere fornita mediante opportuni sistemi di accumulo,
tra cui quello idraulico mediante pompaggio. L’Italia ha una grande capacità di
accumulo da pompaggio, poco sfruttata. E altri impianti di accumulo possono
essere realizzati in alcuni laghi. Dobbiamo investire nell’accumulo, invece che
in nuove centrali a gas. Anche per favorire la penetrazione delle rinnovabili
occorre incentivare i sistemi di accumulo, cioè le mega batterie che rilasciano parte
della sovraproduzione rinnovabile nelle ore serali.
La
ragione vera per cui ciò non succede è che si insiste sul gas per fruire delle
sovvenzioni legate al capacity market, che paga la disponibilità a fornire energia in caso
di temporanea carenza della rete. Basterebbe eliminare queste sovvenzioni, e puntare
sugli accumuli e sulle rinnovabili. Come stanno facendo aziende private (una
anche italiana) in alcuni Stati americani.
Ma Enel
e soprattutto Eni hanno altre intenzioni. Come tutti i big del fossile in tutto
il mondo. Negli ultimi tre anni le società petrolifere hanno investito 168
miliardi di dollari per esplorare nuovi giacimenti. Se tutti i tubi in progetto fossero
posati e puntati verso il cielo, arriverebbero a metà strada tra la Terra e la
Luna. Il 10% della produzione di Eni deriva dalle operazioni nell’Artico. Eni è
anche in Mozambico, a Cabo Delgado. I danni, ambientali e sociali, sono enormi. Eppure
Eni è dello Stato: ma conta più dello Stato e dei governi, che le delegano le
decisioni in materia di politica energetica nazionale.
IL
NUCLEARE, ARMA DI DISTRAZIONE DI MASSA.
Chi
osteggia le rinnovabili propone il gas, ma anche il nucleare. Anche in questo caso c’è lo zampino
dell’Eni, che nei giorni scorsi ha confermato ed esteso il suo investimento
(360 milioni di dollari) nella società Cfs, che lavora nella fusione nucleare.
A
costoro sfugge che il nucleare è innanzitutto impraticabile per questioni di
tempi e di costi. Non a caso Stati Uniti e Francia, che hanno un’industria
nucleare in attività, non riescono a costruire impianti.
Negli
Stati Uniti il “rinascimento nucleare” fu lanciato da George W. Bush nel 2001.
L’esito è stato fallimentare. A oggi nessun nuovo reattore è entrato in funzione, due sono
ancora in costruzione a costi altissimi e altri due sono stati cancellati dopo
ingenti spese, mentre l’azienda proprietaria della tecnologia
Toshiba-Westinghouse è fallita nel 2017.
In
Francia è fallita la Areva per la disastrosa costruzione, tuttora non ultimata,
di un reattore a Olkiluoto in Finlandia. La francese Edf ha in costruzione un
reattore in Francia, a Flamanville, i cui costi sono quintuplicati. Questi sono
gli unici due reattori in costruzione in Europa: da circa quindici anni! Il
nucleare ha quindi tempi incompatibili con la transizione e gli obiettivi
climatici europei.
I
tempi sono lunghi, i costi sono enormi, la sicurezza dagli incidenti non è
garantita, lo smaltimento delle scorie è un rompicapo. Anziché usare armi di distrazione
di massa, perché non concentrarsi su rinnovabili e sistemi di accumulo?
UNA
NUOVA COSCIENZA GENERAZIONALE.
Forse
la novità più importante di Glasgow è stata la manifestazione internazionale
dei giovani provenienti da tutto il mondo. In testa al corteo c’erano gli
ambientalisti africani e i rappresentanti delle comunità indigene. Il movimento è veramente globale e
“decolonizzato”, non più soltanto bianco e occidentale. Solo il Sessantotto e
il movimento alter-globalista di Seattle furono così globali e “terzomondisti”.
Oggi come
allora siamo di fronte a una mobilitazione collettiva che esige un rinnovamento
culturale, spirituale ed etico e pone la necessità di creare un nuovo “senso
comune”, una nuova moralità, un nuovo senso della vita. Ma diverso è il tema: la critica al
capitalismo è per la manomissione che esso fa del clima. La politica non può intervenire sulla
natura; al contrario, è la natura che decide come deve essere la politica e
cosa essa deve fare. La pandemia ha amplificato ulteriormente questo profondo
mutamento, che mette al centro la critica a un modello di sviluppo distruttivo
dell’equilibrio tra uomo e natura.
La lotta contro la crisi climatica non è dunque
“romanticismo verde” ma messa in discussione del sistema economico dominante.
La
spinta generazionale sulle scelte per l’ambiente può connettersi a una spinta
per cambiare il lavoro e il sapere e separare anche questa volta i figli dai
padri in una nuova rivolta etica. In un processo di autoformazione, autogoverno e
conversione della propria vita che sia svolto in forma collettiva, casa per
casa, tetto per tetto, strada per strada, campo per campo, fabbrica per
fabbrica. In una “lunga marcia attraverso le istituzioni” che arrivi a imporre
ai governi il cambio di rotta.
Come
l’Europa si prepara
all’emergenza
energetica.
Valigiablu.it-
Angelo Romano – (12 Luglio 2022) – ci dice:
In
un’intervista esclusiva al Guardian, il vicepresidente della Commissione
Europea, Frans Timmermans, ha dichiarato che se l’Europa non terrà sotto controllo
i prezzi dell’energia il prossimo inverno, sarà concreto il rischio di proteste
e disordini civili.
E questo potrebbe compromettere definitivamente gli
obiettivi climatici. “Non raggiungeremo i nostri obiettivi se la mancanza di
energia provocherà forti disordini nelle nostre società. Dobbiamo assicurarci
che le persone non siano al freddo nel prossimo inverno”. In questo momento, è in buona sostanza il pensiero di
Timmermans, è prioritaria la sicurezza energetica per mantenere le industrie
funzionanti, anche se questo significa dover far ricorso al carbone.
In
questa direzione sembra andare il voto della scorsa settimana del Parlamento
Europeo sulla tassonomia verde. Con 278 voti favorevoli e 328 contrari, il Parlamento
non ha posto il suo veto all’atto delegato sulla tassonomia europea che include
gas naturale e nucleare tra le tecnologie sostenibili.
Secondo
la proposta, gas naturale e nucleare saranno considerati verdi solo se
utilizzati per la transizione dai combustibili fossili più sporchi come il
carbone e il petrolio”, riporta il Financial Times.
Il gas potrà essere classificato come un
investimento sostenibile se le emissioni dirette sono limitate, “la stessa
capacità energetica non può essere generata con fonti rinnovabili” e se sono in
atto piani per passare alle energie rinnovabili o a “gas a basso contenuto di
carbonio”.
L'energia
nucleare può essere finanziata solo se rispetta determinati standard, tra cui
quelli per lo smaltimento dei rifiuti radioattivi.
Per
raggiungere la maggioranza assoluta necessaria per rigettare il provvedimento
della Commissione Europea servivano 353 voti. Il voto del Parlamento – che,
scrive Reuters, “spiana la strada alla proposta dell’Unione Europea per diventare legge, a
meno che 20 dei 27 Stati membri non decidano di opporsi, cosa considerata molto
improbabile” – ha
suscitato reazioni contrapposte tra i critici della proposta, secondo i quali
la tassonomia nella sua attuale definizione non farà altro che prolungare la
dipendenza dell’Europa dai combustibili fossili, e i sostenitori della misura,
che la considerano un approccio pragmatico verso le energie rinnovabili, in un momento in cui l’UE cerca di
svincolarsi dalle forniture russe.
Di
questo avviso anche il Commissario europeo per i servizi finanziari che ha
definito la misura “una proposta pragmatica per garantire che gli investimenti
privati nel gas e nel nucleare, necessari per la nostra transizione energetica,
soddisfino criteri rigorosi”.
Ma
esperti, think tank e attivisti hanno detto che la legge scredita gli sforzi
dell’UE per affermarsi come leader globale delle politiche climatiche. Altri paesi che hanno creato
sistemi di etichettatura simili, tra cui Russia, Sudafrica e Bangladesh, hanno
escluso il gas dall'elenco degli investimenti “verdi”, scrive sempre il
Financial Times.
Molto
critico il Guardian che ha titolato “‘Putin si sfrega le mani con gioia’
dopo che l'UE vota per classificare gas e nucleare come verdi”, riprendendo un
tweet della deputata ucraina Inna Sovsun.
“Gli interessi di parte sembrano aver
preso il sopravvento. L’UE ha ora creato un pericoloso precedente che altri
paesi potrebbero seguire”, ha commentato Johanne Schroeten, consulente politico
del think tank sul clima E3G.
Bas
Eickhout, vicepresidente della Commissione ambiente del Parlamento Europeo, ha parlato di “giorno nero per la
transizione climatica ed energetica”. Secondo l’eurodeputato olandese, ora operazioni di green-washing
rischiano di riuscire a ottenere finanziamenti nel settore energetico.
Così
come è formulata, la tassonomia potrebbe scatenare una raffica di azioni
legali, scrive Politico. Dopo il voto, Austria e Lussemburgo hanno dichiarato che
avrebbero impugnato la legge presso la Corte di giustizia europea.
Diverse
istituzioni finanziarie, tra cui la Banca Europea per gli Investimenti, hanno
già dichiarato che probabilmente ignoreranno l’inclusione di gas e nucleare tra
le fonti di energia sostenibili. “A nostro avviso, il gas fossile e il nucleare non
dovrebbero avere accesso agli stessi finanziamenti a basso costo delle energie
rinnovabili. Questo porterà inevitabilmente a sottrarre i finanziamenti per la
transizione verde, rallentandone i progressi”, ha commentato Anders Schelde,
responsabile degli investimenti del fondo pensione danese AkademikerPension.
Nel
frattempo, il presidente russo Vladimir Putin ha minacciato “conseguenze
catastrofiche” per i mercati energetici mondiali se i paesi occidentali
imporranno ulteriori sanzioni a Mosca, riporta ancora il Financial Times. Parole che rendono sempre più
concreto il timore che la Russia possa cercare di interrompere le forniture di
greggio se i membri del G7 andranno avanti con il piano di limitare il prezzo
del petrolio russo.
La
Francia si sta preparando per affrontare questo scenario, ha detto il ministro
delle Finanze francese Bruno Le Maire, riducendo i consumi energetici di
imprese e famiglie e costruendo nuove infrastrutture di rigassificazione del
gas naturale liquido proveniente da oltreoceano. Inoltre, riporta Reuters, “le aziende
francesi ad alta intensità energetica stanno accelerando i piani di emergenza e
convertendo le loro caldaie a gas per farle funzionare a petrolio, nel
tentativo di evitare interruzioni nel caso in cui un'ulteriore riduzione delle
forniture di gas russo porti a interruzioni di corrente”. Contestualmente, “il governo
francese sta lavorando con Goldman Sachs e Société Générale per valutare come
assumere il pieno controllo della società di servizi EDF” in modo tale da
ristrutturare il gruppo, carico di debiti “a causa anche dei ritardi e
sforamenti del budget per i nuovi i nuovi impianti nucleari in Francia e in
Gran Bretagna e problemi di corrosione in alcuni dei suoi reattori obsoleti,
che hanno pesantemente colpito il prezzo delle sue azioni negli ultimi mesi”,
scrive il Guardian. Attualmente lo Stato possiede l’84% della società.
Non va
meglio in Germania che si sta “preparando” a un’interruzione (potenzialmente
permanente) del flusso di gas russo a partire dall’inizio di questa settimana,
quando inizieranno i lavori di manutenzione del gasdotto Nord Stream 1. Si
tratta di un evento annuale che richiede la chiusura dei rubinetti del gas per
10-14 giorni, spiega il Guardian. Per evitare danni peggiori il Canada
consentirà “l’esportazione di attrezzature vitali per il principale gasdotto
russo in Germania, eliminando un potenziale ostacolo alla ripresa delle
forniture di gas all’Europa”. Attraverso un “un permesso limitato nel tempo e revocabile”,
il Canada invierà una turbina in Germania che poi là consegnerà a Gazprom in
Russia. In
questo modo il Canada non avrà violato le sanzioni nei confronti della Russia e
la Germania non rischierà di compromettere le forniture di gas necessarie per
l’inverno, scongiurando
lo “scenario da incubo” prospettato dal ministro dell’Economia tedesco Robert
Habeck.
Intanto,
l'azienda
tedesca di servizi pubblici Uniper “ha formalmente chiesto un pacchetto di
salvataggio a Berlino”. Una richiesta che “probabilmente porterà il governo a
possedere una quota sostanziale dell'azienda sull'orlo dell'insolvenza a causa
della drastica riduzione delle forniture di gas dalla Russia”, scrive il
Financial Times. L'amministratore delegato di Uniper, Klaus-Dieter Maubach, ha avvertito
le famiglie e le industrie tedesche di prepararsi a una “ondata enorme” di
prezzi energetici più alti l'anno prossimo.
La
scorsa settimana, la Camera alta del Parlamento tedesco ha approvato un
pacchetto di leggi sull'energia che include nuovi obiettivi di espansione delle
energie rinnovabili, strumenti di salvataggio per gli importatori di gas e il
possibile ritorno delle unità a carbone e a petrolio nel mercato dell'energia. “Una decisione dolorosa ma
necessaria”, ha commentato Habeck, suscitando le critiche dei gruppi
ambientalisti secondo i quali un ipotetico ritorno a un'energia così fortemente
inquinante è un compromesso eccessivo che potrebbe pregiudicare anche il
raggiungimento degli obiettivi climatici più importanti. Tuttavia, intervenendo a un evento
organizzato dall'Associazione per le energie rinnovabili, il cancelliere Olaf Scholz ha
dichiarato che è ora di “mettere il turbo all'espansione delle energie
rinnovabili”.
Nel
Regno Unito, il governo britannico ha assegnato all'asta “contratti per
differenza” (CfD) per quasi 11 gigawatt (GW) di capacità di energia
rinnovabile, quasi il doppio della capacità ottenuta nella precedente tornata
di aste. L'asta
ha visto anche prezzi record per l'eolico offshore, “contribuendo a ridurre la dipendenza
del paese dai prezzi volatili dei combustibili fossili e ad alleggerire le
bollette future di case e imprese”, scrive Bloomberg. Tutti i progetti entreranno in
funzione nei prossimi cinque anni, fino al 2026/27, e genereranno elettricità a
un prezzo medio di 48 sterline per megawattora (MWh). Si tratta di un prezzo quattro
volte inferiore rispetto all'attuale costo di gestione delle centrali a gas,
pari a 196 sterline/MWh. Secondo un’analisi del sito britannico Carbon Brief,
“i progetti pre-approvati genereranno 42 terawattora (TWh) di elettricità
all'anno, sufficienti a soddisfare circa il 13% dell'attuale domanda del Regno
Unito” ed entro
la fine del decennio “faranno risparmiare ai consumatori circa 1,5 miliardi di
sterline all'anno”, riducendo il costo delle bollette medie annuali di 58
sterline.
Il
piano quinquennale della Cina per le energie rinnovabili.
Il
nuovo piano cinese per le energie rinnovabili porterà a un picco anticipato
delle emissioni? È quanto si chiede uno studio di Carbon Brief che ha analizzato il 14° piano
quinquennale (FYP) per le energie rinnovabili, che delinea la tabella di marcia
della Cina per il quinquennio 2021-2025.
L'impegno
della Cina per il clima (il suo “contributo determinato a livello nazionale”, o
NDC) mirava a 1.200 gigawatt (GW) di capacità di energia eolica e solare entro
il 2030 e a soddisfare il 25% del consumo energetico con combustibili non fossili
entro il 2030. Il raggiungimento di questi obiettivi dovrebbe garantire alla
Cina di raggiungere il picco di emissioni di anidride carbonica (CO2) prima del
2030, ma di non completare il percorso verso la neutralità carbonica.
Sebbene
non ci siano più obiettivi obbligatori di aumento della capacità di
generazione, sotto alcuni aspetti, il nuovo piano è più ambizioso dei
precedenti. Chiede infatti che almeno la metà dell'aumento della domanda di
energia sia coperta dalle rinnovabili. Sulla base della crescita stimata della
domanda e dell'espansione pianificata del nucleare e dell'idroelettrico, questo
obiettivo significa che la generazione da eolico e solare debba aumentare di
circa 150TWh all'anno tra il 2021 e il 2025, osserva Carbon Brief.
Inoltre,
l'Amministrazione Nazionale dell'Energia ha annunciato che i permessi per le
nuove centrali a carbone saranno rilasciati solo se i progetti sono
complementari alle energie rinnovabili. Tuttavia, c'è ancora il rischio che la
crescente capacità di produzione di carbone della Cina possa essere in
contrasto con i suoi piani di decarbonizzazione del mix energetico.
Da
quando la Cina ha inserito per la prima volta un obiettivo sulle rinnovabili
nel suo piano energetico, nell'11° FYP, la maggior parte degli obiettivi
quantitativi per lo sviluppo del settore ha registrato una sovra-performance, in particolare gli obiettivi di
crescita della capacità totale di energia eolica e solare.
Gli
investimenti nelle energie rinnovabili sono stati un importante motore economico
in Cina e svolgeranno un ruolo ancora più significativo nel rilanciare
l'economia rispetto al passato, in un momento in cui la Cina deve affrontare
l'impatto economico della COVID-19 e le incertezze causate dalla crisi ucraina.
Secondo l'Agenzia Internazionale per l'Energia (IEA), nel 2021 gli investimenti
cinesi in energia pulita hanno rappresentato oltre il 30% del totale degli
investimenti globali e questa tendenza è destinata a continuare.
Il
piano di adattamento del Bangladesh agli effetti della crisi climatica.
Reduce
dalle “peggiori inondazioni a memoria d’uomo” che hanno costretto lo scorso
giugno più 7 milioni di bangladesi a chiedere aiuto e riparo, il Bangladesh si
appresta ad approvare il suo primo Piano nazionale di adattamento (PAN). L’obiettivo
è presentarlo prima della prossima Conferenza delle Nazioni Unite sul clima che
si terrà in Egitto a novembre.
Il
piano, preparato dal Ministero dell'Ambiente, delle Foreste e dei Cambiamenti
Climatici, propone una serie di iniziative e politiche fino al 2050 che mirano
a rendere il paese meno vulnerabile agli impatti dei cambiamenti climatici
intervenendo su infrastrutture, gestione dei fiumi e tempestività degli
interventi.
La
cementificazione delle strade ha fatto sì che ampie aree diventassero impermeabili
ostacolando il drenaggio dell’acqua piovana in eccesso. Mentre la rapida erosione del terreno
dovuta alla deforestazione e all’uso intensivo della terra ha causato la
fuoriuscita di più sedimenti nei canali idrici del paese, riducendo la loro capacità
di carico e rendendo più probabili le inondazioni.
Secondo
la bozza del PAN, visionata dalla Thomson Reuters Foundation, lo sviluppo delle
infrastrutture deve lasciare spazio al drenaggio delle inondazioni e dei fiumi,
mentre nelle zone a rischio di inondazione sconsiglia la costruzione di case e
attività commerciali.
Le
persone costrette a vivere in queste zone dovrebbero utilizzare materiali da
costruzione resistenti all'acqua, erigere dighe di gomma intorno alle loro case
o costruire su palafitte per mantenere le loro abitazioni al di sopra del
livello delle inondazioni, spiega Khaled Hasan, professore di Scienza dei
disastri e di resilienza climatica all’Università di Dacca.
In
secondo luogo, il Piano nazionale di adattamento contiene suggerimenti per un
sistema di allerta più tempestivo ed efficace attraverso il coinvolgimento
delle comunità locali nel processo di diffusione delle informazioni sui
disastri imminenti.
Infine,
il PAN invita il Bangladesh a cooperare con i paesi limitrofi (come l’India)
non solo per la gestione dei fiumi ma anche per la condivisione di informazioni
per le previsioni e i modelli climatici.
Cosa
stanno facendo le città per affrontare le ondate di calore.
In
queste settimane diverse città hanno attivato delle strategie per poter
proteggere i cittadini dalle ondate di calore.
La
capitale della Grecia, Atene, sta sperimentando un sistema per classificare le
ondate di calore in base al livello di minaccia, proprio come avviene per gli
uragani, ha dichiarato la sua Eleni Myrivili, consulente per la resilienza e la
sostenibilità della città di Atene e per l’occasione “chief heat officer”. Attraverso un algoritmo che tiene
conto delle previsioni meteorologiche e dei dati relativi alla mortalità negli
anni passati in caso di ondate di calore, il sistema riesce a definire giorno
per giorno il livello di rischio, spiega Myrivili.
A
Tokyo, i funzionari stanno sperimentando gallerie del vento per aumentare il
flusso d'aria nelle aree calde, mentre nelle piazze pubbliche di Tel Aviv è
stato sperimentato l’uso di tende parasole in tessuto chiaro con pannelli
solari che generano energia per illuminare le aree di notte, rendendole più
sicure e fruibili 24 ore al giorno.
Città
del Capo e Buenos Aires stanno installando tetti luminosi e altri sistemi di
raffreddamento sugli edifici pubblici, mentre Kuala Lumpur sta studiando un
sistema di “raffreddamento distrettuale” che utilizza energie rinnovabili e
sistemi idrici naturali per pompare l'acqua di raffreddamento nelle case.
In alcune
città australiane, gli operatori della Croce Rossa chiamano le persone
vulnerabili nei giorni più caldi e inviano i servizi di emergenza se non
ricevono risposta. In Spagna, alcuni Comuni hanno deciso di posizionare delle
ambulanze in spiaggia in modo tale da poter intervenire immediatamente in caso
di colpi di calore.
Anche
il rafforzamento dei sistemi di approvvigionamento idrico ed elettrico di base
- per mantenerli attivi durante le ondate di calore e dare alle persone gli
strumenti necessari per rimanere più fresche –
sono
cruciali per salvare vite umane. Alcune città stanno escogitando modi per ridurre
l'umidità, un fattore di rischio aggiuntivo nelle ondate di calore, piantando
specie arboree che assorbono più umidità nell'aria o rilasciano meno acqua
dalle foglie.
Come
il negazionismo climatico arriva nelle scuole grazie alle pressioni delle lobby
dei combustibili fossili.
In una
sala riunioni di Austin, in Texas, i membri del Consiglio di Stato per
l'Educazione stanno decidendo se agli studenti di scienze di terza media debba
essere chiesto di “descrivere le azioni per mitigare il cambiamento climatico”.
Seduti al tavolo, però, non ci sono solo docenti. Ci sono anche avvocati della
Shell Oil Company. La decisione viene messa ai voti. Hanno la meglio gli
avvocati della Shell. La proposta non passa.
Un
articolo di Scientific American racconta come i rappresentanti di società di
combustibili fossili stiano facendo pressioni sui consigli scolastici del Texas
per manipolare i contenuti dei corsi e dei libri di testo sul cambiamento
climatico, dalla scuola dell’infanzia fino alla nostra scuola media. Una
decisione che ha poi ricadute su tutto il paese, perché il Texas è uno dei
maggiori acquirenti di libri di testo degli Stati Uniti e per questo motivo le
sue politiche condizionano le scelte degli editori scolastici. “Non ho mai sentito nessuno dire
esplicitamente: ‘Non possiamo parlare di ambientalismo a causa del Texas’. Ma in un certo senso lo sapevamo
tutti. Tutti lo sapevano”, racconta a Scientific American un ex autore di libri
di testo di Scienze.
La
maggior parte degli americani è favorevole all’insegnamento a scuola della
crisi climatica. Un sondaggio nazionale del 2019 condotto da NPR/Ipsos ha rilevato che
quasi quattro intervistati su cinque - tra cui due repubblicani su tre -
ritengono che gli alunni delle scuole debbano essere istruiti sul cambiamento
climatico. Ma
quando l'Agenzia per l'istruzione del Texas ha intervistato gli educatori
scientifici di tutto lo Stato su cosa dovrebbe essere aggiunto agli standard,
uno su quattro ha scritto chiedendo il cambiamento climatico o qualcosa di
vicino, come le fonti alternative di energia. Nessuno ha chiesto più contenuti
sui combustibili fossili.
“Come ho appreso guardando 40 ore di
audizioni in diretta e in archivio, esaminando decine di documenti pubblici e
intervistando 15 persone coinvolte nel processo di definizione degli standard,
i membri dell'industria dei combustibili fossili hanno partecipato a ogni fase
del processo di adozione degli standard scientifici del Texas, lavorando per
influenzare ciò che i bambini imparano a favore dell'industria”, spiega
l’autrice dell’articolo Katie Worth.
L'industria
dei combustibili fossili lavora da decenni per far arrivare il proprio
messaggio agli studenti delle scuole. Le compagnie petrolifere finanziano
regolarmente corsi di formazione per gli insegnanti, incentivati da forniture
gratuite per le classi. Le organizzazioni del settore hanno speso milioni di
dollari per produrre e distribuire piani didattici sull'energia. Una volta, racconta Worth, “ho visto
un dipendente dell'industria petrolifera e del gas tenere una presentazione in
PowerPoint in cui minimizzava la crisi climatica a una classe di studenti di
seconda media”.
I
libri di testo di scienze per le scuole medie più diffusi a livello nazionale
trasmettono in modo più o meno sottile dubbi sul cambiamento climatico. In un
libro di testo, presente nel 2018 in un quarto delle scuole medie nazionali, c’era scritto che “alcuni scienziati propongono che il
riscaldamento globale sia dovuto a cicli climatici naturali”. In realtà, il numero di scienziati
del clima a sostegno di questa teoria è praticamente pari a zero.
A
tutto questo, poi, si aggiunge un altro elemento di iniquità. Il Texas non è l'unico grande
acquirente di libri di testo. Altri grandi Stati, come la California, hanno
adottato standard che invece seguono la scienza del clima. E così gli editori dei libri di testo
creano una serie di prodotti da vendere in Texas e negli Stati negazionisti
climatici e una seconda serie di prodotti per gli Stati che seguono gli
standard della California. E così, negli Stati Uniti, la formazione su un tema
centrale per il mondo moderno, il cambiamento climatico, cambia a seconda dello
Stato in cui si vive.
Emergenza
clima alla base di
numerosi
blackout: cosa succede?
Rienergia.staffettaonline.com
- ALBERTO BERIZZI – (28 GIUGNO 2022) – ci dice:
(DIPARTIMENTO DI ENERGIA POLITECNICO DI
MILANO).
È
davanti a tutti noi, in questi giorni, la notizia frequente di interruzioni
dell’alimentazione elettrica in molte delle nostre città. Tali interruzioni
generano, nella migliore delle ipotesi, malumori tra i cittadini, ma spesso
anche danni economici alle attività produttive. È quindi molto importante
cercare di chiarire almeno quali siano le cause e se si possa in qualche misura
mitigarne gli effetti negativi.
Innanzitutto,
è necessario sgombrare il campo dall’idea che si tratti di un fenomeno di
sistema: almeno per il momento, nonostante i problemi di approvvigionamento del
gas e di scarsità di risorse idriche, il problema non è la mancanza di potenza
generata. Di fatto le interruzioni, anche se frequenti, sono localizzate
geograficamente e limitate ad alcune città o aree specifiche: non siamo di
fronte a blackout nazionali, come quello del settembre 2003, che lasciò al buio
tutto il paese.
Viceversa,
le problematiche che conducono ai disservizi di questi giorni hanno la loro
origine nel trasporto dell’energia elettrica ed in particolare nelle reti di
distribuzione, cioè le reti in media e bassa tensione che, prelevando
generalmente la potenza dalla rete di trasmissione nazionale, la distribuiscono
in modo capillare agli utenti collegati.
Tali
reti sono costituite da direttrici che si diramano radialmente dalle cabine
(primarie o secondarie) fino alle diverse utenze. Le direttrici possono essere
costituite da linee aeree, nelle zone meno densamente abitate, o in cavo
interrato, soprattutto nelle città. E proprio i cavi interrati sembrano essere
il punto critico e la sede della maggior parte dei guasti che stanno
verificandosi in questi giorni. I cavi sono costituiti dal conduttore e da uno
strato di isolante in materiale organico. Ogni conduttore, percorso da
corrente, si scalda per effetto delle perdite Joule, e quindi innalza la
propria temperatura. L’innalzamento della temperatura ha due conseguenze
principali, ed è per questo che normalmente i cavi sono classificati secondo
una temperatura massima ammissibile.
In
primo luogo, l’aumento di temperatura è pericoloso non tanto per il conduttore
in sé, quanto per l’isolante che gli sta attorno. Infatti, il materiale
isolante è generalmente molto sensibile alla temperatura, che ha come effetto
quello di ridurne la vita utile, ovvero la tenuta dielettrica, aumentando la
probabilità di scarica elettrica verso terra, cioè di corto circuito; la legge
che ne governa la vita utile attesa è la legge di Arrhenius, che evidenzia la
dipendenza della vita utile dalla temperatura: ogni aumento significativo di
temperatura del cavo, anche se per una durata limitata, causa una diminuzione
della vita utile dell’isolante secondo una legge esponenziale.
Si
comprende come sia estremamente importante allora limitare la temperatura
dell’isolante, e ciò può aver luogo in due modi: limitando la fonte di calore,
cioè il valore della corrente nel conduttore, che però è determinato dal carico
elettrico, cioè dagli utenti e non è nel controllo diretto del distributore;
oppure cercando di “smaltire” il calore generato dal conduttore in modo tale
che l’aumento della temperatura sull’isolante sia limitato. Purtroppo, in
questi giorni, le temperature ambiente elevate concorrono in senso peggiorativo
da entrambi i punti di vista: da un lato, il consumo dei condizionatori che entrano in
funzione per il raffrescamento degli ambienti raggiunge valori molto elevati, e
quindi causa valori altrettanto elevati di corrente nei conduttori; dall’altro, l’elevato calore che
così si genera non viene trasferito all’ambiente perché la temperatura ambiente
elevata non lo consente.
Il
risultato complessivo è che l’isolante dei cavi è sottoposto a temperature
elevate, e quindi vede via via ridurre la propria vita utile e aumentare la
probabilità di cedimento dell’isolamento e di guasto.
Un
secondo aspetto importante è quello dei fenomeni di dilatazione termica dei
cavi: la variazione significativa delle temperature comporta un continuo
allungamento e accorciamento dei cavi, e questo costituisce uno stress di tipo
meccanico sui giunti, ovvero sui punti in cui due spezzoni di cavi sono uniti
per creare la continuità elettrica.
Le
interruzioni che si verificano in questi giorni sono per lo più causate da
guasti localizzati proprio nei suddetti giunti che, come ogni punto di
congiunzione, rappresentano dei punti deboli nella conduttura elettrica: le
potenziali cause sono state definite sopra e i rimedi possono appartenere al
mondo della pianificazione (lungo periodo) oppure a quello dell’esercizio
(breve periodo).
Per
quanto riguarda il primo, la soluzione è semplicissima, ancorché costosa e di
fatto inattuabile, se non parzialmente, in tempi brevi: l’opzione consiste nella sostituzione
integrale dei cavi più obsoleti oppure con il maggior numero di giunti
eventualmente presenti. Tuttavia, la sostituzione ha un costo per niente
trascurabile, visto che i cavi stessi sono installati prevedendo una durata di
più decine di anni, ed è difficile prevedere quale sia la loro durata residua.
Un’altra
soluzione può fare riferimento alla diminuzione della sorgente di calore, cioè
alla diminuzione della corrente transitante nel cavo. Un primo approccio
potrebbe sfruttare i concetti sviluppati sotto il cappello delle Smart Grids, e
potrebbe basarsi sul controllo intelligente di alcune utenze, in particolare i
condizionatori i quali, sfruttando l’inerzia termica degli edifici, potrebbero
essere controllati in modo centralizzato – senza diminuire il comfort delle
persone – in modo tale da diminuire i picchi di corrente, a pari energia
trasferita. Ciò necessiterebbe di sistemi di controllo che ad oggi non è
possibile attuare in tempi brevi su larga scala. Una seconda opzione per
ridurre le correnti è quella di potenziare sempre più la generazione
distribuita, ad esempio fotovoltaico, cogenerazione, magari mediante
l’incentivazione delle comunità energetiche, in modo da scaricare la rete
elettrica, almeno nei momenti in cui il contributo di tale generazione sia
significativo.
C’è
una terza via, anch’essa attuabile fin d’ora, che potrebbe essere estremamente
efficace: essa si basa sulla coscienza civica e sull’ educazione all’uso
intelligente dell’energia: credo che tutti noi abbiamo sperimentato almeno una
volta nella vita un uso scriteriato del condizionamento, con raffrescamento
degli ambienti a temperature polari. Se solo imparassimo, tutti
indistintamente, a pensare alle conseguenze di ogni nostra azione in termini di
impatto sull’ambiente, se fossimo in grado di valorizzare l’energia nel modo
corretto, ci sarebbero molte meno luci dimenticate accese, condizionatori con
set point di temperatura troppo bassi, in altre parole meno sprechi di energia:
dai i grandi numeri in gioco, tutto questo apporterebbe grandi benefici in
termini di ridotte interruzioni elettriche (che riguardano ciascuno di noi,
individualmente) e di minori consumi elettrici che, in questi ultimi mesi di
carenza di gas naturale e di risorse idriche, non potrebbero che giovare al
sistema energetico nazionale. E certamente non impatterebbero negativamente in modo significativo
sulla qualità della nostra vita.
Una
crisi tira (giù) l’altra.
L’eclissi
dell’emergenza climatica.
Formiche.net-
Erasmo D'Angelis – (17/07/2022) – ci dice:
Il
mondo brucia un record via l’altro con temperature medie globali sempre oltre
la norma. Ma tra guerra, pandemia e inflazione l’emergenza climatica è già un
lontano ricordo: un grave errore.
Do you
remember i piani di mitigazione e di adattamento solennemente approvati ormai 7
anni or sono a Parigi dai 197 Paesi firmatari con le transizioni energetiche
promesse? E poi l’ambizioso piano-apripista mondiale, quel BBB, il Build Back
Better Act, il mega pacchetto dal valore da 2.000 a 3.500 miliardi di dollari
con risposte alla crisi climatica, economica e sociale che avrebbe dovuto
segnare la presidenza dI Joe Biden?
Beh,
nella distrazione generale sul problema dei problemi, non solo il mondo torna
all’incoscienza precedente ma, mentre le catastrofi prodotte dalla crisi
climatica continuano a fare vittime e a costare un botto (nel 2021 oltre 300
miliardi di dollari con aumento di fame e carestie e profughi), la grande
questione climatica che ci vede sull’orlo del precipizio senza vedere l’umanità
decisa a reagire subito, è surclassata da altre emergenze – Covid, guerra di
Putin, crisi energetiche -, e gli Usa sono oggi la cartina di tornasole del più
clamoroso rischio del ritorno al passato.
L’illusione
che le crisi climatiche siano passeggere ha infatti colpito 6 dei 9 giudici
della Corte Suprema degli Stati Uniti che, non contenti di aver già soppresso
il diritto delle donne all’interruzione volontaria della gravidanza, dopo aver
mostrato tutta la loro inerzia contro le stragi da Far West delle armi, hanno negato
il diritto a contrastare il riscaldamento globale ad una delle più autorevoli
Autority scientifiche di protezione ambientale del mondo, l’ “Environmental Protection Agency”,
la mitica Agenzia statunitense che ha fatto scuola ed è impegnata a ridurre le
emissioni dei gas serra generate anche dalle centrali energetiche, e in
particolare dalle più inquinanti, quelle a carbone.
L’ultima
sentenza choc dell’Alta Corte ha fortemente limitato i suoi poteri e ha
stabilito che solo il Congresso può varare norme con limitazioni di emissioni
climalteranti, stracciando così platealmente anche le pagine migliori
dell’agenda dell’amministrazione Biden, quella con la road map per obiettivi di
riduzione delle emissioni a carbone fino allo zero entro il 2035 e con il
dimezzamento di quelle da altre fonti fossili entro il 2050.
L’EPA,
con analisi e proiezioni climatiche alla mano, aveva dimostrato che le centrali
termoelettriche sono la seconda fonte di inquinamento climatico dopo il settore
dei trasporti, segnalando gli Stati Uniti come secondo produttore mondiale di
gas serra dopo la Cina. E ogni piano di riduzione passava necessariamente dal
carbone.
La
sentenza per Biden e per il clima è stata «devastante». Ma tant’è.
Lo
scontro ambientale Democratici-Corte Suprema va avanti dai tempi di Obama che,
dopo aver favorito l’accordo storico sul clima a Parigi il 12 dicembre 2015,
provò a imporre più severi limiti per le emissioni di CO2 in ogni singolo
Stato, obbligando le centrali elettriche a rispettarli e ad entrare in fase di
transizione energetica, con più eolico e solare.
Il suo
“Clean
Power Plan” con la strategia energetica nazionale fu però stoppato nel 2016 dalla
Corte Suprema, dopo la causa avviata nel dal West Virginia produttrice di
carbone con altri 18 Stati repubblicani sostenuti delle grandi compagnie
produttrici di carbone in nome della libertà di inquinare.
La
strategia di Obama venne poi abrogata nel 2019 dal fiero negazionista climatico
Donald Trump, fautore di norme ultra permissive. E con Biden è toccato alla
maggioranza conservatrice di 6 giudici contro 3 rimettere nel mirino l’EPA e il
piano-clima, sentenziando che non può e non deve fissare limiti generali alle
emissioni delle centrali a carbone (il 20% della produzione di energia elettrica
Usa e sempre più saldo sulla produzione mondiale per un 40% dell’energia
producendo però oltre il 70% di gas serra).
La
Casa Bianca protesta per “un’altra decisione devastante che mira a far tornare
indietro il nostro paese”, e Biden fa sapere che potrebbe emanare un Executive Order, un
provvedimento per re-indirizzare le politiche esecutive del governo federale, e
che non esiterà ad usare tutto ciò che è in suo potere per proteggere la salute
pubblica e affrontare la crisi ambientale.
Ma il
fatto è che la svolta green anche negli Usa è più in salita che mai. Tanto più che prima dei giudici
repubblicani era già arrivato il senatore democratico del West Virginia, Joe
Manchin, che si è smarcato dalle scelte ambientali di Biden annunciando a
sorpresa, dopo essersi impegnato a sostenerlo, che non voterà il Build Back
Better, il clamoroso piano di protezione del clima e per il nuovo welfare.
Forte
anche lui del sostegno della lobby dei produttori di carbone, Manchin il
picconatore l’ha spiegata così a Fox News: “Non posso votare questa legge. Non
posso proprio. Ho cercato in tutti i modi umanamente di trovare un motivo, ma
non mi ha convinto. Questo è un no”, gelando il Presidente e il suo partito che
puntavano tutto sul via libera al Piano prima di Natale, salvando la presidenza
democratica. Manchin ha anche chiarito che non voterà nessuna legge che includa la
tutela dell’ambiente tra i princìpi e, in un Senato spaccato a metà come
una mela tra Dem e Repubblicani, il suo voto ha cambiato tutto.
Il
piano clima di Biden ormai è saltato, a meno di un recupero in retromarcia del
transfuga oppure del pronto soccorso di un improbabile votante transfuga
repubblicano. Al momento però la nuova legislazione sociale e ambientale che i
Democratici hanno già approvato alla Camera dopo mesi di dure polemiche e
defatiganti negoziati, è out. Biden potrà affidarsi alle azioni esecutive per
affrontare il cambiamento climatico, emanando nuove regole per l’Agenzia sugli
inquinanti delle centrali elettriche a combustibili fossili e sulla limitazione
delle vendite di petrolio e gas. Ma significa affrontare l’incognita di lunghe
battaglie legali in tribunale.
Potrebbe
dichiarare lo “stato di emergenza climatica” delineando una serie di azioni
senza bisogno dell’approvazione del Congresso. Oppure non fare nulla e stralciare
il piano-clima dal Build Back Better Act ammettendo platealmente di non essere
stato in grado di convincere il suo senatore democratico dello stato del
carbone, o un collega repubblicano, auto-affondando la sua legge presentata
come la più grande speranza al mondo per affrontare la crisi climatica. Un voltafaccia clamoroso che nessuno
si augura.
Con
queste premesse, la pre-conferenza tecnica dell’Onu sul clima che si è svolta a
Bonn il mese scorso per fare il punto dopo l’ultima COP26 di Glasgow e in
preparazione della prossima COP27 di novembre a Sharm el-Sheikh in Egitto, ha
visto gli sherpa dei 196 Paesi alquanto demoralizzati. La diplomazia climatica
doveva riprendere il filo degli impegni presi nello storico accordo di Parigi
nel taglio delle emissioni di CO2, ma ha preso atto dell’empasse. Nel frattempo le catastrofi prodotte
dalla crisi climatica sono costate nel 2021 oltre 300 miliardi di dollari,
mentre siccità e inondazioni sempre più estreme e imprevedibili aumentano fame
e profughi climatici, e anche la nostra Penisola non sta troppo bene,
intrappolata come è da due mesi nella bolla di calore più calda e con la
siccità più dura del secolo.
Il
mondo brucia un record via l’altro con temperature medie globali sempre oltre
la norma. E
se il “Global Stock take”, il processo di revisione e valutazione
dell’attuazione dell’Accordo di Parigi e in particolare della finanza climatica
appare al
momento ancora senza target, anche l’appuntamento in Egitto rischia passi
indietro sui dossier e sulle azioni per contenere l’aumento della temperatura
globale a fine secolo a +1,5 o al massimo 2 gradi rispetto all’era
preindustriale. Perché se il cambio di passo si vede, è come quello dei
gamberi, all’indietro.
L’EMERGENZA
è L’ENERGIA NON IL CLIMA:
questo
errore può causare disastri.
Laverita.info-
Franco Battaglia intervista Laszlo Szarka- (14 settembre 2022) -ci dicono:
Il
geofisico ungherese: “La decarbornizzazione ha delle basi pseudoscientifiche ma
è il dogma degli organismi internazionali. L’ideologia alla fine non vincerà.”
E’ un
grande onore per me intervistare Laszlo Szarka , professore di geofisica
all’università di Sopron, membro dell’Accademia delle scienze ungherese ( Asu)
ed ex direttore del Centro di ricerca per l’astronomia e le scienze della
terra. (…)
Professor
Szarka, lei è un geofisico con eccezionale reputazione internazionale, la
persona giusta cui porre domande sull’attuale politica climatica. Quale è il
suo particolare campo di ricerca?
(La
variazione di CO2 segue sempre quella della temperatura: come fa a esserne la
causa?)
“Ho
iniziato nel campo della geofisica della terra solida. Ma orma i da oltre 20
anni sono coinvolto nella ricerca in scienze ambientali, che è un campo che
necessita di una forte componente geofisica.
Delle
cose di cui vuol parlare, le dico subito che raggiungere il 100% di energia
dalle rinnovabili è impossibile, non foss’altro per il fatto che nessun impianto
rinnovabile è mai stato o sarà mai realizzato dall’energia eolica e solare.
Per
costruire quegli impianti serve energia ad alta intensità e affidabile, che
proviene solo da carbone, petrolio, gas naturale e nucleare, oltre che
dall’energia idroelettrica, l’unica rinnovabile degna di nota”.
Quando
è cominciato il suo scetticismo sull’emergenza climatica?
“Diversi
anni prima dell’undicesima assemblea dell’Associazione internazionale di
geomagnetismo e aeronomia (Aiga), tenutasi a Sopron, in Ungheria nel 2009.In
qualità di presidente del comitato organizzatore locale ho incontrato molte
persone, tra cui il presidente dell’Aiga, il professor Eigil Friis-Christensen,
che illustrava la sua scoperta della correlazione tra cambiamento climatico,
attività solare e raggi cosmici, cosa che coincideva con le conclusioni dei
miei studi. Poi, in una disputa, a San Francisco, il noto fisco solare Willie
Soon poneva una semplice domanda senza ottenere risposta:
sei
fatti ci dicono che le variazioni della Co2 atmosferica seguono (e non
precedono!) le variazioni di temperatura, come è possibile che la CO2 sia
considerata la causa e la temperatura la conseguenza?
Infine,
quando nel comitato ungherese dell’Anno internazionale del pianeta Terra ci
interessavamo alla classificazione delle sfide che l’umanità deve affrontare,
trovavo che l’ordine di priorità stabilito dallo statunitense Richard Smalley,
premio Nobel per la chimica, era logico e perfetto:
1)-energia,
2) -acqua potabile, 3) - cibo, 4) - ambiente, 5) - problemi sociali (popolazione,
salute, istruzione, cultura, eccetera).
Ogni
elemento della lista è un prerequisito per risolvere gli elementi successivi.
Quest’orine di priorità è in netto contrasto con gli Obiettivi di sviluppo (Oss) dell’Onu, oggi noti come Agenda 2030, che sono obiettivi confusi e
fuorvianti: è intrinsecamente impossibile subordinare la politica energetica al
clima, che è solo una piccola parte delle questioni ambientali.”
Conto
di intervistare il grande Willie Soon. Come vede lei la scienza ambientale?
“Essendo
la scienza del rapporto tra natura e uomo, a causa della componente uomo, essa
è inevitabilmente anche una scienza sociale. L’ambiente è una selezione
arbitraria del mondo naturale e i problemi ambientali non sono indipendenti
dagli interessi umani. Ed è un dato di fatto che la scienza ambientale, con l’intera
storia del cambiamento climatico al centro, è stata formata sin dalla sua
nascita da precisi gruppi di interesse”.
A chi
pensa?
“Dalla
fine degli anni Sessanta ritroviamo lo stesso nome in ogni tappa documentata.
Si tratta di Maurice Strong, petroliere, diplomatico e faccendiere canadese che, pur privo
di istruzione (abbandonò la scuola a 14 anni) divenne cionondimeno
amministratore delegato di diverse compagnie, oltre che direttore dell’università
della pace, fondata dall’Onu.
Principale
organizzatore della prima Conferenza Onu sull’ambiente, Strong fu il padre dell’Ipcc, che a sua volta fu il motore della conferenza di Rio del 1992, ove nacque la Convenzione quadro
dell’Onu sui cambiamenti climatici, che stabilì già allora di attribuire
all’uomo ogni responsabilità”.
Strong
moriva proprio nell’anno degli Accordi di Parigi sul clima…
“Già. Gli Accordi di Parigi hanno
messo in forma giuridicamente vincolante il tredicesimo Oss dell’Onu -azione
per il clima. I governi si sono legati mani e piedi alla questione climatica, che è
alla base pseudo-scientifica e ora anche legale, della carbonizzazione.
Questa,
però, è una grande idiozia, perché nelle profondità della Terra ci sono
condriti carbonacee e non è possibile impedire il degasaggio di CO2
dall’interno della terra nell’atmosfera.
Il
passo successivo è stato il vertice dell’ONU sul clima del settembre 2019…
“Si,
alla presenza di Greta Thunberg, che per quell’occasione attraversò in barca a
vela l’Oceano. In quel vertice dichiararono che avrebbero “cambiato il mondo attraverso il
proposito di controllarne il clima”.
Non molte persone si rendevano conto che queta
volta la parola “cambiare” doveva essere presa sul serio: si iniziò una nuova fase verso
l’attuazione della governance globale, prendendo a pretesto la presunta emergenza climatica.
Rammento
con precisione gli sviluppi, poiché a quel tempo nel mio discorso inaugurale di
membro dell’Accademia delle scienze ungherese, titolato “Terra e uomo”, denunciavo
le ossessioni irrealizzabili e le visioni antiumane che si prospettava di
imporre all’umanità.
Ma la
cosa non finiva lì:
seguirono
gli incontri di Davos del Word economic forum (Wef) di Klaus Schwab e il Green new deal
europeo, che
si proponevano di “trasformare l’Europa nel primo continente climaticamente
neutro”.
Infine,
con l’avvento del Covid-19, Klaus Schwab, fondatore del Wef, pubblicava il libro
COVID-19: THE GREAT RESET.
Così,
la parola “trasformare” ha avuto il suo significato definitivo e nudo:
RESETTARE
IL MONDO INTERO, un programma globale accolto con favore da molti importanti
politici, tra cui il presidente della Commissione Eu.
C’è
una totale coerenza, persino armonia, tra le espressioni dei documenti
dell’ONU, della UE, del WEF, e dell’IPCC.
Infine,
nel 2021 ci sono stati grandi sforzi per mettere il clima nell’agenda del
Consiglio di sicurezza dell’ONU, ma Russia e India hanno votato contro e la
Cina si è astenuta”.
Dai media è quasi impossibile raccogliere tali
informazioni.
“il senso della realtà aiuta molto a
capire le cose”.
Che tipo di politica ambientale ha in mente?
“Penso
che il patriottismo debba essere la vera base della politica ambientale. Il
grande filosofo e accademico inglese Roger Scruton (scomparso nel 2020, ndr) ha introdotto il concetto di oikofilia (amore per la casa).
La
persona di tipo oikofilo si identifica con la famiglia il luogo di residenza,
la nazione ed è fortemente radicato nel mondo reale, pur imperfetto. Tuttavia
c’è anche chi preferisce vivere nel sogno di una società immaginata di persone
che la pensano tutte allo stesso modo, e in casi estremi si può parlare di
oikofobia, che è il rifiuto ideologico di amare la casa, sentimento presente
nei movimenti verdi.
Costoro
sono solo “utili idioti” dell’élite globale, stanno lavorando insieme al
programma Great reset (di Klaus Schwab, noto costruttore di bombe atomiche in Sud
Africa, ndr),
ove la decarbonizzazione non è altro che il loro strumento più efficace.
Se non
riconosciamo queste cose da subito, la UE crollerà”.
Quale
è in proposito, la posizione dei decisori politici in Ungheria?
“Alla
conferenza di Azione politica conservatrice, tenutasi a Budapest nel maggio
2022, il presidente Viktor Orban disse una cosa monto importante:
“dobbiamo
rendere a Cesare quel che di Cesare, a Dio quel che è di Dio, e alla scienza
quel che è della scienza”.
Allora
il nostro dovere di scienziati è semplice: allertare i responsabili politici che
il “consenso scientifico” è un concetto antiscientifico, di origine tutta
politica. Per fortuna la realtà fisica è dalla nostra parte, i castelli di carta
basati sull’ideologia prima o poi crolleranno”.
Biopotere
e biopolitica,
immunizzare
la società
attraverso
il
controllo.
Aboutpharma.com-
Redazione -(3 Agosto 2020)- ci dice:
La
salute dell’essere umano è un affare di Stato. In tempo di Covid-19 il concetto di
immunizzazione è tornato alla ribalta. Oggi tutta la società è in cerca di una
difesa contro il nemico invisibile che viene da fuori e che ha messo (e
continuerà a mettere) a dura prova le strutture e sovrastrutture sanitarie,
politiche, economiche e sociali. La corsa a un vaccino globale ne è l’esempio
ultimo, perché uno scudo contro il nuovo coronavirus deve pur essere trovato
per ritornare, sempre che sia possibile, a una società che possa guardare
avanti. Questa
è almeno l’aspettativa dei governi e dell’establishment globale. Una comunità rigenerata, auto-conservata
e immunizzata sia dal punto di vista sanitario che sociale apre nuovi dibattiti
in tema di biopolitica e biopotere, ossia la capacità dello Stato di
decidere della salute altrui e che si oppone al diritto di dare la morte (attraverso condanne capitali per
esempio).
L’immunizzazione.
Il
concetto nasce a cavallo tra XVII e XVIII secolo (tra cui la formulazione di
“biocrazia” del filosofo Auguste Comte nel suo “Système de politique positive” negli anni ’50 dell’800 o con il
termine che tutt’oggi usiamo coniato da Georges Bataille nel ‘900) e ha visto
la sua più ampia costruzione teorica con il filosofo, storico e sociologo
francese Michel Foucault negli anni ’70 del secolo scorso arricchendo il
dibattito contemporaneo. A lui per esempio si deve una serie di ragionamenti
sul cosiddetto “Piano Beveridge” del 1942 che è considerato tuttora il più
grande intervento internazionale di salute pubblica durante il massacro per
eccellenza rappresentato dalla Seconda guerra mondiale. Secondo Foucault,
responsabile di questo intreccio di protezione e negazione della vita è stato
l’incontro tra la biopolitica e il razzismo biologista, innescato dalla pretesa
di una razza geneticamente perfetta e superiore a cui tendeva la politica,
soprattutto nazista. Già il filosofo Thomas Hobbes (1588-1651), tuttavia, aveva
considerato che la posta in gioco prioritaria della politica fosse costituita
dall’esigenza di conservazione della vita rispetto ai rischi di morte violenta
inerenti alle interrelazioni umane e anche Friedrich Nietzsche (1844-1900)
aveva parlato di una sovrapposizione tra politica e vita. Se Foucault è uno dei massimi
esponenti di questo filone di pensiero con il quale oggi ci ritroviamo obtorto
collo ad avere a che fare, bisognerà attendere gli anni ’90 del secolo scorso
per tornare a una disquisizione organica sul tema con i filosofi Giorgio
Agamben, Toni Negri e Roberto Esposito. I conflitti etnici nei Balcani e in
Africa centrale, le migrazioni, i nuovi programmi di salute pubblica dei
governi e una sempre maggiore e diffusa sindrome della sicurezza hanno
richiesto nuove riflessioni sul tema. E torniamo quindi all’immunizzazione
di cui si è occupato lungamente proprio Esposito, professore ordinario di
Filosofia Teoretica presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, nel suo libro
“Immunitas” (2002, ma di recente riedito). AboutPharma and Medical Devices lo
ha intervistato.
Immunizzazione
e tutela della salute come strumento di biopotere. La pandemia sta accendendo
conflitti tra gli Stati (es. Cina e Usa) e la disponibilità di vaccini e/o cure
può scavare un solco sociale, economico e politico tra coloro che presto o
tardi potranno o meno permettersele, anche all’interno dello stesso Occidente.
Quali
rischi sta correndo l’umanità?
Non
c’è dubbio che gravi rischi ci siano. Le procedure di immunizzazione e la
protezione della salute sono sempre stati strumenti del biopotere a partire
dall’inizio della stagione moderna. Foucault pone la genesi di questo processo alla fine
del XVIII secolo, quando nascono le prime politiche urbanistiche, securitarie e
mediche come forme di controllo sociale. Già in quella fase ospedali,
manicomi, sanatori, insieme alle prigioni, costituiscono dispositivi per
proteggere, ma anche per suddividere e inquadrare, le popolazioni all’interno
di determinati spazi urbani. Foucault distingue tra le strategie di esclusione nelle
forme residue di lebbra e di confinamento nei confronti della peste.
Anche
a livello di politica internazionale ci sono delle evidenze…
Oggi
questi processi di medicalizzazione hanno assunto una valenza anche
geo-politica nel confronto e nello scontro tra grandi potenze continentali.
La corsa al vaccino, soprattutto tra Usa e
Cina, ma anche in altre parti del mondo, è significativa di questa
implicazione. Già gli Stati Uniti si sono dichiarati disposti a comprare il
vaccino da chi lo avesse prodotto per primo, usandolo anche come strumento di
egemonia politica. E la Cina, se ne avesse la possibilità, farebbe
probabilmente altrettanto, e con una trasparenza ancora minore. Ma anche in
Europa si è già scatenata una competizione non soltanto economica tra gli
Stati, e addirittura all’interno di essi, per il controllo delle risorse
sanitarie. Tutto
questo non può non avere effetti di disuguaglianza che preoccupano in una fase
in cui sarebbe invece auspicabile mettere in comune gli sforzi di tutti.
Con
quali strumenti politici e vincoli economici si possono controllare le derive
del concetto secondo cui “chi controlla la salute controlla il mondo”?
È
difficile evitare questa trasposizione dal piano medico-sanitario a quello
economico-politico, dal momento che la stagione biopolitica che attualmente
viviamo, e che tende a intensificarsi sempre di più, poggia proprio su questa
interdipendenza immediata tra politica e vita biologica.
Anche l’economia converge verso questa
interrelazione, dal momento che la gestione della salute, pubblica e privata, è
diventata essa stessa questione intrinsecamente politica e dunque biopolitica. Visto che non si può regredire a
una fase precedente, che non è possibile saltare all’indietro, bisognerebbe
aprire una stagione di biopolitica affermativa, dopo quella negativa, o
addirittura “tanato-politica”, che abbiamo conosciuto soprattutto, ma non
esclusivamente, nella prima metà del Novecento. Cosa può essere una biopolitica
affermativa? Cosa si dovrebbe mettere al suo centro?
E le
risposte?
Ad
esempio, una battaglia contro le grandi industrie farmaceutiche per abbattere
il costo di medicinali, protetti dai brevetti, soprattutto nelle aree più
povere, in Africa e in Asia, dove la mortalità per malattie contagiose resta
altissima. Ma
anche costruire nuove strutture ospedaliere pubbliche gratuite, che
nell’attuale situazione pandemica sono apparse assolutamente insufficienti.
Al
concetto di immunità (da un punto di vista storico, filosofico e sociologico)
ha dedicato buona parte della sua ricerca negli ultimi anni. Quali riflessioni le suggerisce ciò
che sta accadendo con Covid-19?
Il
termine stesso, oltre che la pratica, dell’immunità è al centro del linguaggio
pandemico: dalle ‘patenti di immunità’ all’app ‘Immuni’, a tutte le misure di
‘distanziamento sociale’ (un’espressione curiosa perché il distanziamento non è
mai sociale, ma sempre asociale), la questione dell’immunità si pone al centro
di tutti i discorsi, biologici, medici, giuridici, informatici (si pensi ai
virus dei computer).
L’immunizzazione
sembra sempre più il perno intorno al quale ruota la nostra intera esperienza,
reale e immaginaria, materiale e simbolica. Si tratta di una questione da
esaminare con cura, distinguendo al suo interno tra livelli differenti. Da un
lato un principio di immunizzazione è necessario in tutte le società. Nessun
corpo, individuale o collettivo, resterebbe in vita senza un qualche sistema
immunitario.
Ma
bisogna interrogarsi sulla soglia cui esso può arrivare. Oltre la quale c’è il
rischio di scivolare in una malattia autoimmune, allorché la protezione diventa
tanto forte da distruggere lo stesso corpo che dovrebbe difendere. Per esempio
parlare, come si è fatto soprattutto nel Regno Unito, di ‘immunità di gregge’ comporta questo
rischio.
L’immunità di gregge intenzionale presuppone, per potersi diffondere, la morte
di una gran numero di persone, soprattutto le più deboli, condannate in
partenza.
Michel
Foucault parlava della medicina come strumento di controllo sociale che invade
il campo della politica se intervengono ragioni sanitarie. C’è un limite da
porre? E dove?
È
difficile indicare in astratto dove porre il limite. Tutto dipende da
circostanze temporali e spaziali, oltre che dalla violenza delle epidemie. In
linea di principio si dovrebbe cercare di ridurre la sovrapposizione crescente
tra politica e medicina, evitando sia di politicizzare la medicina (si pensi
alle battaglie ‘geopolitiche’ tra scuole mediche contrapposte) sia di
medicalizzare la politica. Una piena medicalizzazione della politica porterebbe a fare
dei cittadini dei ‘pazienti’ potenziali, ad esempio patologizzando la devianza
o l’insubordinazione sociale.
Che
cosa si può fare dunque?
Bisognerebbe,
ma mi pare stia avvenendo il contrario, che, dopo aver ascoltato i medici e
tenuto in debito conto le loro previsioni (sempre piuttosto incerte), i
politici prendessero le proprie decisioni. Ma ciò presupporrebbe ceti politici,
preparati e coraggiosi, che al momento mancano nella maggioranza dei Paesi
occidentali. Ciò determina il proliferare di commissioni tecniche, destinate a
preparare progetti che poi quasi mai vengono attuati. Anche perché i politici tendono ad
attuare soltanto misure che aumentano il loro consenso, anche a prescindere
dalla loro effettiva utilità.
La
recente pandemia sta evidenziando un processo secolare ma acuito negli ultimi
anni: il
progresso scientifico – per i suoi alti costi – sta creando una medicina sempre
più selettiva ed enormi disuguaglianze proprio sulla salute. È l’effetto di un
arretramento delle istituzioni pubbliche rispetto alla ricerca e sviluppo
affidata al privato o cos’altro?
Credo
che il problema sia più generale. Certo la privatizzazione delle strutture mediche non
aiuta e sta di per sé generando enormi problemi, penso soprattutto agli Stati Uniti,
dopo che è stata smantellata la riforma di Obama. Ma la questione riguarda
l’intera macchina produttiva capitalistica, in cui anche il settore della
salute deve prima di tutto generare profitti.
Ma un
comparto predisposto a generare innanzitutto profitti è naturalmente portato a
generare disuguaglianza. Ciò accade anche all’interno delle strutture sanitarie
pubbliche, anche se in misura minore. Il problema è che è impossibile isolare
un dato settore all’interno di un certo tipo di società. Vero è che al momento nessuno è in
grado di proporre un modello alternativo di sviluppo sociale. Ciò non toglie che il problema esista
e, prima o poi, vada affrontato con la massima energia.
Cosa
sono biopotere e biopolitica.
Partendo
dagli sviluppi tecnologici di oggigiorno e dalle innovazioni in campo medico,
Andrea Vicini, professore di Teologia morale alla Pontificia facoltà teologica
dell’Italia meridionale di Napoli, partendo da Foucault, spiega che la nozione
di biopotere esamina le tecnologie che riguardano la vita umana dal punto di
vista delle dinamiche di potere da esse generate accarezzando di conseguenza
anche la nozione di biopolitica. Per biopolitica, quindi, si intendono tutte quelle
pratiche attraverso cui viene esercitato il biopotere sui corpi fisici della
comunità di riferimento. E la sanità non si esime. Il benessere fisico e la salute
della popolazione diventano obiettivo diretto dell’agire politico che si
trasforma in politica della salute o “noso-politica”.
Foucault
parla chiaramente di medicinalizzazione degli individui e l’igiene pubblica, a
partire dal XVIII, secolo diventa strumento di lotta alle epidemie attraverso
interventi medici “autoritari” (nel senso che derivano da un’autorità
costituita) e hanno effetti sugli individui. Inoltre, con una classe medica sempre
più consapevole della propria importanza all’interno della società si va
costituendo una sorta di sapere medico-amministrativo con cui indirizzare la
popolazione a determinati comportamenti socio-sanitari.
Il
nuovo assetto politico sulla paura di ammalarsi.
“Poiché
la storia ci insegna che ogni fenomeno sociale ha o può avere implicazioni
politiche, è opportuno registrare con attenzione il nuovo concetto che ha fatto
oggi il suo ingresso nel lessico politico dell’Occidente: il distanziamento
sociale”.
Inizia
così un articolo del filosofo Giorgio Agamben del 6 aprile 2020 pubblicato sul
sito della casa editrice Quodlibet. Il filosofo, in riferimento al
confinamento e alla quarantena imposta dal governo, si chiede “che cosa
potrebbe essere un ordinamento politico fondato su di esso” e “non si tratta
soltanto di un’ipotesi puramente teorica, se è vero, come da più parti si
comincia a dire, che l’attuale emergenza sanitaria può essere considerata come
il laboratorio in cui si preparano i nuovi assetti politici e sociali che
attendono l’umanità”.
Nel
suo scritto, Agamben, trattando di distanziamento sociale, cita “Massa e
potere” di Elias Canetti secondo cui la massa è dove il potere si fonda
attraverso l’inversione della paura di essere toccati.
In
poche parole, l’uomo teme di essere “toccato” da qualcuno di esterno dal suo
involucro protettivo che è la massa, mentre ora, con le politiche di
allontanamento, la massa viene formata da individui che si tengono a ogni costo
a distanza l’uno dall’altro.
Biopolitica,
il perché
di una
scelta di percorso.
Comunitadiconnessioni.org-
Fabrizio Urbani Neri-( 4 Febbraio 2022) - ci dice:
Oggi
il potere non si accontenta più di condizionare le nostre menti, ma esige anche il controllo dei
corpi, delle nostre emozioni, dei nostri comportamenti, finendo col dettare persino i nostri
spostamenti, chi possiamo o non possiamo incontrare, in che zona ed a che ora.
Oggi, il potere non è più ideologico, oggi è biopotere e la sua manifestazione
è biopolitica. Per biopolitica si intendono, così, tutte quelle pratiche attraverso cui
viene esercitato il biopotere sui corpi fisici della comunità di riferimento
(singoli e collettività).
In
tempo di Covid-19, secondo alcuni pensatori italiani, il concetto di
biopolitica è divenuto centrale per capire le dinamiche del nostro tempo. E con tale pensiero la nostra
Comunità intende confrontarsi quest’anno per esaminare e riflettere, non tanto
se i divieti imposti debbano essere più o meno rigidi, quanto piuttosto se il
modello di società e di gestione del potere politico che si sta delineando
favorisca o meno la promozione della dignità della persona umana in ogni fase
della vita e in ogni circostanza.
L’attualità
del tema appare evidente. Con che cosa ciascuno di tutti noi ha avuto a che
fare in questi mesi? Con regole e computer, con dpcm e realtà digitale; ogni
angolo della nostra vita quotidiana, pubblica e privata, è stata conformata
dall’ultimo decreto-legge o da quella ordinanza ministeriale ed ogni relazione,
affettiva o lavorativa, filtrata da un clic, guidata da un link, consentita da
una connessione digitale.
E se
ogni uscita di casa è avvenuta laddove consentita dalle regole sul controllo
pandemico, altrettanto può dirsi che ogni nostro passo nella rete è stato
osservato, registrato, catalogato.
In pratica,
la Vita (Bìos) è divenuta materia di controllo, di potere, di politica,
appunto, e se, da un lato, le procedure legislative ed amministrative di
protezione della salute sono divenuti i moderni strumenti del biopotere, non di
meno ciò può dirsi per i big data ed il ruolo degli influencer nel campo
digitale, al punto tale che non appare fuori contesto prevedere che il
comportamento umano stia ormai diventando materia prevedibile, automatismo
programmabile, perdendo, così, la sua ragione vera di essere al mondo, la sua
creaturale unicità: il sale dell’irripetibilità di ciascuno di noi rischia di
sciapirsi in questa curva del tempo.
Si
staglia, allora, anche in questa fase storica, la figura dell’”uomo lacerato”
della Gaudium et Spes, di una creatura, che aspira a una dimensione superiore
di pace, di relazione universale, di verità e di amore e si vede al contempo
compressa e resa piccola dai mille limiti imposti da una società che ne
pretende il controllo, non solo, della mente, come accadeva nello ieri dell’ideologismo,
ma anche del Bios, dell’energia vitale, nell’oggi del biopolitico. È per questi motivi che il percorso
di formazione politica di quest’anno si apre opportunamente con due incontri,
uno dal titolo “Biopolitica e Diritto”, l’altro dal titolo “Biopolitica ed influencer”, per offrire ai giovani che vi
vorranno partecipare un luogo di confronto e di dialogo sulla sfida in atto
nella società e nella politica.
Ci
chiederemo con l’ausilio della Dottrina sociale della Chiesa:
-di
quanta libertà ha bisogno l’uomo?
–
quanto è libero oggi l’uomo?
-come si può integrare la libertà
dell’uomo con l’attuale società digitale e medicalizzata?
-è
possibile costruire una nuova dottrina del giusto rapporto tra bios e controllo
politico (politica della salute) e tra bios e controllo sociale (dataismo della
Rete)?
– in
che modo è auspicabile che la biopolitica, anziché configurarsi come “congiura
contro la vita”, assurga a strumento di liberazione per la persona, aprendo una
stagione di biopolitica affermativa (ad esempio, favorendo la riduzione
del costo dei farmaci, soprattutto nelle aree più povere del pianeta, oppure
rivitalizzando il ruolo del parlamento e dei corpi intermedi, come le
associazioni, perché più queste organizzazioni continuano a operare, più la
nostra democrazia accumula forza per resistere a queste sfide)?
Dal
momento che il nostro impegno è “pensare politicamente” i temi della democrazia
alla luce dei principi costituzionali e dell’antropologia dell’umanesimo
integrale, cercheremo, pertanto, lungo tale strada, di individuare, alla luce
del nostro statuto costitutivo di cristiani consapevoli ed impegnati, la soglia
al di là della quale la libertà di coscienza subisce la manipolazione ed esige
tutela.
Certo dalla globalizzazione indietro non si torna, e dalla pandemia bisogna
difendersi con tutto quanto il sapere scientifico può mettere a disposizione,
infine è ovvio che dipendiamo, ciascuno, ormai sistemicamente dal device
personale (pc, cellulare, schermo tv) per vivere, lavorare, fare la spesa,
ordinare un pasto, in altri termini, relazionarci col mondo esterno.
Ed è
nondimeno difficile indicare in astratto dove porre il limite, il confine
accettabile a questa inferenza; ci faremo, così, aiutare in questo percorso da
illustri personalità del mondo politico ed accademico, nonché dal nostro
collaudato metodo di discernimento (gli incontri, infatti, anche quest’anno,
come da consuetudine, saranno scanditi
da un’Introduzione spirituale, dal Dialogo, come detto, con relatori esperti
sui temi accennati, dai “Laboratori politici”, dove ciascun partecipante
all’incontro darà il suo fattivo apporto per realizzare la sintesi della
giornata di studio e di riflessione nella Discussione finale).
Ci
proveremo, perché per noi essere cristiani non è una questione privata, ma è
una vocazione all’impegno sociale, che ci invita a riversare i doni dello
Spirito ricevuti per la costruzione di una realtà comunitaria e di
cittadinanza, dove ciascuno possa sentirsi libero e solidale, a suo agio nel
reciproco servizio, “per il benessere del paese” (Ger 29,7).
Più
che la biopolitica dovremmo
temere
la politica della morte.
Ilmanifesto.it-
Filippo Barbera- (18 gennaio 2022) – ci dice:
NECROPOLITICA.
Se la biopolitica si basa sul “fare”, sul controllo attivo e disciplinare, la
necro-politica può basarsi sull’assenza di intervento che contempla la morte
come esito socialmente accettabile.
Il
Presidente del Brasile Jair Bolsonaro ha rappresentato l’emblema di una
gestione della pandemia che ha privilegiato la morte rispetto alla vita.
Bolsonaro
è stato il più radicale interprete della “necropolitica”, termine coniato dal
filosofo camerunense Achille Mbembe nel suo saggio del 2003.
Se la
biopolitica normalizza lo stato di emergenza attraverso l’esercizio del
controllo sulle vite delle persone, la necro-politica può far leva sull’assenza
di misure eccezionali – e quindi ricorrere a una normalità forzata – a fronte
di una situazione emergenziale. Se la biopolitica si basa sul “fare”, sul
controllo attivo e disciplinare, la necro-politica può basarsi sull’assenza di
intervento che contempla la morte come esito socialmente accettabile.
Per
questo, la necro-politica si deve basare sulla legittimazione
politico-simbolica dell’esposizione al rischio di morte di particolari gruppi e
individui. Qualcuno merita di morire, qualcuno può essere sacrificato, alcuni
possono non essere curati.
“Gli
anziani hanno già vissuto”, “i no-vax non meritano le cure”, “siamo disposti a
sopportare qualche migliaio di morti per tornare a una vita normale”.
La morte fisica diventa così un possibile e
legittimo esito della scelta collettiva. Se la biopolitica tratta tutte le vite
allo stesso modo e le persone come soggetti da controllare nella
normalizzazione dell’emergenza, la necro-politica trasforma gruppi e individui
in gerarchie di oggetti da ignorare fino alla morte, in nome della normalità
forzata. Le vite assumono un diverso valore e alcune diventano sacrificabili.
Per la necro-politica lo spettacolo deve
continuare, a prescindere.
È,
questa, l’opinione del politologo Yascha Mounk che, intervistato sul Corriere
della Sera del 2 gennaio dichiara che “ci siamo abituati al fatto che la nostra
vita implicherà più rischi nel 2022 rispetto al 2019, ma collettivamente e
individualmente scegliamo che vivere in modo più normale valga la pena di
correre quei rischi”.
Ma è
anche l’opinione di noti virologi e medici, come di membri del Cts. La
narrazione necessaria per legittimare questa scelta è puro azzardo, scommessa,
roulette, compiuta sulla pelle dei sacrificabili o di coloro che sono
classificati come “non meritevoli” e colpevoli.
La
narrazione che supporta la necro-politica assume che Omicron è lieve, sebbene i
dati non siano conclusivi; scommette sul fatto che gli ospedali non andranno in
sovraccarico, nonostante la plausibilità di questo scenario. L’azzardo,
appunto, è giocato sulla pelle dei fragili, persone non vaccinate e/o non
vaccinabili, inclusi i malati che vedono procrastinate le cure o gli interventi
per sovraccarico del sistema ospedaliero.
La
stessa narrazione, poi, guarda solo ai costi delle strategie basate sulla
cautela e non a quelli dell’accettazione dei rischi: azzardo che omette i danni
da long-covid, condanna i no-vax a contagiarsi, non considera i dati sulle
ospedalizzazioni dei bambini e lascia circolare il virus contro le
raccomandazioni della scienza che invitano a contenerne la circolazione per
scongiurare lo sviluppo di nuove varianti. Il blocco di interessi oggettivi che
sostiene la sacrificabilità fisica di persone e gruppi è legato a doppio filo a
quanti temono che la politica ritorni ad essere preminente rispetto
all’impresa, ma anche a posizioni anarco-capitaliste e, tristemente, ai critici
“da sinistra” dello stato di emergenza, che temono il controllo della vita
dove, in realtà, ciò che dovrebbe preoccuparli è la politica della morte.
Alcune
delle scelte passate del governo Draghi vanno nella stessa direzione, come la
mancata introduzione del lavoro a distanza nella pubblica amministrazione. Ciò
a testimonianza di un governo che guarda alla necro-politica come l’unica via
rimasta verso la “normalità”, dopo aver omesso di attuare quegli interventi
necessari (aerazione delle scuole, obbligo vaccinale, telelavoro) utili alla
collettività nel lungo periodo, ma non al consenso immediato degli interessi
consolidati e alla tenuta dei precari equilibri di una maggioranza posticcia.
Molto
poteva essere realizzato, intervenendo sulle condizioni materiali della vita
quotidiana e sui luoghi di lavoro, potenziando diritti e benessere.
Si è
deciso di non farlo in nome di una strategia “only-vax” che lasciasse il resto
inalterato e, ora, si scommette alla cieca sull’esito più favorevole, imponendo
quella normalità che non si è stati in grado di assicurare per tempo e con
lungimiranza.
La
vocazione biopolitica
dello
Stato moderno.
Opinione.it-Gaetano
Masciullo – (13 ottobre 2021) – ci dice:
Il
periodo di pandemia che stiamo vivendo ormai da quasi due anni può essere
compreso meglio alla luce di un ramo di studi filosofici che prende il nome di
biopolitica, al suo interno assai variegato.
È una
disciplina che è nata nel secolo scorso, principalmente grazie a un filosofo
francese, Michel Foucault, e che è arrivata anche in Italia tramite pensatori
come Toni Negri oppure Giorgio Agamben, che ha fatto scalpore qualche tempo fa
per alcuni suoi articoli pubblicati su alcuni quotidiani generalisti italiani.
Cosa è
la biopolitica?
Citando
Foucault, se il compito della politica un tempo era quello di decidere se
lasciar vivere o far morire, con l’avvento e il rafforzamento dello Stato il
compito della politica è diventato quello di far vivere o lasciar morire.
Quindi,
com’è evidente, la dinamica tra vita e morte si è invertita. Nella biopolitica
– appunto: “politica sulla vita” – lo Stato appare l’unico garante della vita umana,
intesa in senso meramente biologico.
Ci
sono quattro grandi ambiti della vita umana direttamente coinvolti dalla
biopolitica:
la
natalità (quindi
la tendenza a controllare in qualche modo la fertilità, occupandosi anche di
tematiche quali la sovrappopolazione); la morbilità (ossia il controllo della frequenza
con cui determinate malattie si presentano tra la popolazione e questo è
certamente l’aspetto che è emerso maggiormente in questo periodo); l’abilità (quindi controllo su tutti quegli
eventi che compromettono l’abilità dei singoli: incidenti, disabilità, ma anche
la vecchiaia e, in questo senso, le politiche previdenziali rappresentano una
forma di biopolitica); l’ambiente (quindi tematiche connesse all’ecologismo: altro tema che
diventa sempre più attuale).
La
biopolitica nasce con lo Stato in età moderna.
Nel
XVII secolo, la Francia assolutista, al fine di controllare in maniera
capillare e sistematica l’igiene collettiva, istituì la polizia, termine che è
poi rimasto nel lessico per indicare un organo armato dello Stato autorizzato a
conservare l’ordine sociale.
La celebre frase di Cicerone – Salus populorum suprema lex, “La
salute del popolo è la legge suprema” – è divenuta da allora il motto del
fare politica, dove la salute non è più quella integrale, come intendeva in realtà
Cicerone, ma biologica, materiale.
Nel
secolo scorso, il biopotere è stato il segno distintivo ma macabro dei grandi
regimi totalitari.
Foucault parla a proposito anche di tanato-politica (“politica della morte”): la purificazione della salute
collettiva deve passare attraverso l’esclusione o addirittura la morte
provocata di alcuni individui, come avvenne nel caso del nazionalsocialismo, ma
anche del cosiddetto “socialismo reale” in Russia, dove gli avversari politici
venivano tacciati non tramite la dialettica, bensì tramite la tecnica di
psichiatrizzazione del nemico. L’opinione contraria, contraddittoria al potere, era
così ridotta a una malattia da curare.
Non
bisogna pensare tuttavia che la biopolitica sia qualcosa che non riguardi le
democrazie cosiddette liberali contemporanee (ma che, in realtà, di liberale
hanno ben poco, se non addirittura nulla).
Secondo Giorgio Agamben, il sovrano è colui
che decide dello “stato di eccezione” e, quindi, può imporre la legge e
sospenderla a proprio piacimento e, con essa, la vita.
Da qui
le polemiche che si sono presentate recentemente intorno alla sua figura,
appunto perché Agamben ha voluto vedere nelle recenti politiche una manifestazione
eminente della tendenza dello Stato, del potere sovrano, a decidere dello stato
di eccezione.
C’è da
dire anche che la biopolitica, negli ultimi tempi, ha visto una degenerazione
“ideologica”: dalla critica foucaultiana della genesi statuale, secondo un metodo
genealogico dal sapore fortemente nietzschiano, si è arrivati a teoria e giustificazione
della vocazione totalitaria dello Stato (senza chiamarla esplicitamente
così).
In
seguito all’11 settembre, ad esempio, il filosofo Jacques Derrida – esponente
di spicco del decostruzionismo, quella corrente filosofica che analizza il
linguaggio per tentare di svuotarlo dei suoi significati metafisici – riprese i
concetti foucaultiani per colpevolizzare la politica statunitense:
“Terrorismo
significa necessariamente morte? Non si può terrorizzare senza uccidere? E poi,
uccidere è necessariamente qualcosa di attivo?
“Lasciar morire le persone”, non voler sapere che si
stanno lasciando morire persone (centinaia di milioni di persone che muoiono di
fame, Aids, assistenza sanitaria inadeguata), non può essere parte di una “più
o meno” consapevole strategia terroristica consapevole e deliberata?” (Giovanna Borradori, Le Concept du
11 septembre. Dialogues avec Jacques Derrida et Jürgen Habermas, Paris:
Galilée, 2004, pp. 162–3).
Per
Derrida, lo Stato deve essere biopolitico: è grazie a esso che le persone
vivono. Lo Stato fa vivere, come il dio mortale di hobbesiana memoria.
Una
politica alternativa, che “lascia vivere e fa morire” – ossia che rispetta le libertà
individuali, che affida le soluzioni sociali al libero mercato e amministra la
giustizia nel caso in cui i diritti di proprietà siano violati – così com’è
stata praticata, secondo varie forme, nell’Europa cristiana pre-moderna,
diventerebbe addirittura una politica terroristica, persino più pericolosa di
quella di Al-Qaeda.
Questa
prospettiva, invero folle, deve essere ridimensionata. Gli studi di biopolitica
risultano utili a comprendere la storia e dunque l’identità dello Stato
moderno. Il quesito cui il problema va ridotto è il seguente: davvero la sicurezza è più importante
della libertà?
E se
anche la risposta dovesse essere affermativa, davvero bisogna delegare la sicurezza
a una classe burocratica, cui diamo il nome di Stato, capace di esercitare la
forza a proprio piacimento?
(Gaetano
Masciullo)
Super
green pass e
controllo dei corpi:
“Il
corpo è una realtà bio-politica;
la
medicina è una strategia bio-politica”
(M.
Foucault).
Codice-rosso.net-
Guy Van Stratten- (4 Dicembre 2021)- ci dice:
In
questo articolo cercheremo di proporre una lettura, il più possibile razionale
e distaccata, delle dinamiche che stanno dietro all’introduzione del green pass
e, più recentemente, del cosiddetto “super green pass”, introdotto in occasione
delle festività natalizie, che tende a escludere chi non si è vaccinato da
svariati spazi della vita civile e quotidiana.
Per
farlo, come altre volte, non possiamo che rifarci alla “cassetta degli
attrezzi” offerta da Michel Foucault utilizzandola nel modo più ‘neutro’
possibile, senza forzare in alcun modo il pensiero dello studioso né cercare, a
ogni costo, di adattarlo – se così si può dire – alla delicata situazione
contemporanea. Le osservazioni che seguono, infatti, non pretendono di avere la
verità in tasca né di dire, dall’alto di uno scranno: “Le cose stanno così”.
Sono, invece, appunto, delle osservazioni che, utilizzando come guida il
pensiero di Foucault, intendono sollevare delle domande e porsi in discussione
nonché, naturalmente, offrirsi a qualsiasi critica.
La
prima idea che possiamo cogliere dal lucido pensiero del filosofo francese è
che la medicina, nella società capitalistica, non possiede un carattere
individualista e privato, bensì collettivo.
Tale
medicina collettiva esercita sui corpi un controllo di tipo bio-politico. Così
Foucault afferma in una conferenza tenuta a Rio De Janeiro nell’ottobre del
1974, poi uscita in rivista nel 1977, dal titolo “La nascita della medicina sociale”:
“Sostengo
l’ipotesi che con il capitalismo non si sia passati da una medicina collettiva
a una medicina privata ma che è avvenuto esattamente il contrario; il
capitalismo che si sviluppa alla fine del XVIII secolo e all’inizio del XIX, ha
innanzi tutto socializzato un primo oggetto, il corpo, in funzione della forza
produttiva, della forza lavoro.
Il controllo della società sugli individui non
si effettua solo attraverso la coscienza o l’ideologia, ma anche nel corpo e
con il corpo.
Per la
società capitalista è il bio-politico a essere importante prima di tutto, il
biologico, il somatico, il corporale. Il corpo è una realtà bio-politica; la
medicina è una strategia bio-politica”.
Foucault
propone un’interpretazione che va nella direzione opposta rispetto a quella
offerta da altri studiosi, secondo la quale la medicina delle società antiche è
collettiva mentre la medicina moderna, invece, è individuale e individualista.
La medicina moderna, secondo lo studioso, è una pratica che si occupa
dell’intero corpo sociale. Il sistema capitalistico, per il suo perfetto funzionamento,
non può non tenere conto dello stato di salute del suo intero corpo sociale. Il
primo oggetto che viene socializzato dal capitalismo è il corpo e viene
socializzato esclusivamente in funzione della forza produttiva, della forza
lavoro. È
per difendere il corpo come forza lavoro che lo stato capitalista introduce dei
provvedimenti di tipo restrittivo in occasione, ad esempio, di una epidemia
oppure, come è il caso attuale, di una pandemia.
Come Foucault afferma nella medesima
conferenza, una direzione importante presa dalla medicina sociale è quella
della forza lavoro e viene esaminata dallo studioso attraverso il modello
inglese. Nelle città, i poveri e i lavoratori sono stati oggetto della
medicalizzazione.
Come viene osservato, “con l’epidemia di colera del
1832, che comincia a Parigi per diffondersi in tutta l’Europa, si
cristallizzarono un insieme di paure politiche e sanitarie suscitate dalla
popolazione proletaria o plebea”.
Da
questo momento in poi si decise che la “coabitazione tra poveri e ricchi in un
ambito urbano indifferenziato costituiva un pericolo sanitario e politico per
la città”.
Viene
così creata una vera e propria differenziazione tra poveri e ricchi per mezzo
della creazione di quartieri per poveri e di quartieri per ricchi. I poveri vengono sentiti dallo stato
come un elemento pericoloso per le classi sociali più ricche; al giorno d’oggi,
la paura dello stato si concentra non sui poveri ma sui ‘non vaccinati’, come
possibili conduttori di epidemia, i quali, per mezzo del “super green pass”,
vengono di fatto separati da coloro che si sono vaccinati. Lo stesso provvedimento, come
sappiamo, è stato recentemente preso con misure più drastiche in Germania e in
Austria, nazioni
che hanno predisposto un vero e proprio lockdown per i non vaccinati.
I
provvedimenti dello Health Service attuati in Inghilterra sulla popolazione più povera
per mezzo di un tempestivo intervento nei luoghi insalubri, della verifica
delle vaccinazioni, dei registri delle malattie (pratiche che, ricorda Foucault,
avevano come obiettivo il controllo delle classi sociali bisognose) hanno
provocato nella seconda metà del XIX secolo “violenti fenomeni di reazione e di
resistenza popolare, piccole insurrezioni anti-mediche”.
Tali
pratiche messe in campo dalla medicina, organizzate come un controllo della
popolazione più bisognosa, ha suscitato , non solo in Inghilterra, reazioni di
protesta e di resistenza anti-medica.
Le
proteste odierne contro il green pass e la vaccinazione non sono altro che le
eredi contemporanee di queste forme di protesta che combattevano la
medicalizzazione e rivendicavano il diritto alla vita, il diritto di ammalarsi,
di curarsi e di morire secondo il proprio desiderio.
Questo
desiderio di sottrarsi alla medicalizzazione è stato una delle caratteristiche
principali di molteplici gruppi, religiosi e non, dalla fine del XIX secolo
fino a oggi. Per cui non bisogna considerare le idee di questi movimenti come
una sorta di residuo attuale di credenze arcaiche (se non, beninteso, in certi
casi), quanto come una lotta politica “contro la medicalizzazione politicamente
autoritaria, la socializzazione della medicina, il controllo medico che grava
principalmente sulla popolazione povera”.
C’è però un punto che merita di essere messo in rilievo:
oggi non si tratta di un rifiuto ‘generico’ alla medicalizzazione; si tratta
invece di un rifiuto a una medicalizzazione di emergenza sorta in seguito a una
pandemia.
Le
misure attuate, le vaccinazioni, i green pass, i lockdown per i non vaccinati
sono pratiche emergenziali (e quindi, in teoria, destinate a sparire una volta
che l’emergenza sarà finita) di fronte a una situazione particolarmente grave
che investe la società. Per cui, la paura degli stati, di fronte a una
situazione di emergenza, è ancora più forte.
Del
resto, è lo stesso Foucault a ricordarci che in tutti i paesi europei esisteva,
fin dal Medioevo, un “piano d’urgenza” che doveva essere applicato quando la
peste o una malattia epidemica grave appariva in una città e che prevedeva
diverse misure tra cui la quarantena, la sorveglianza casa per casa, la
divisione in quartieri delle città, la disinfezione. Le grandi città – nota lo studioso –
hanno provocato sempre una “serie di panici”, di paure legate alla possibile
nascita e diffusione di epidemie.
Il controllo autoritario dello stato per mezzo della
medicina nasce quindi probabilmente da una paura che la società capitalistica
ha introiettato come paura di non poter controllare adeguatamente, in caso di
epidemia, i corpi degli individui intesi come forza lavoro.
Ecco,
infatti, che uno dei più discussi provvedimenti, recentemente, è stato proprio
l’introduzione del green pass sui posti di lavoro.
È
importante, a questo punto, tornare a commentare la prima lunga citazione
foucaultiana che è stata sopra riportata.
Con il
capitalismo – dice Foucault – siamo passati a una medicina collettiva, una
medicina che unisce il medico al malato e che tiene conto della dimensione
globale e collettiva della società.
Si
tratta quindi di una medicina che considera una collettività di individui e,
come tale, è tenuta a salvaguardare il più possibile gli individui stessi.
Quando, anche oggi, si parla di “bene comune”, di scelte attuate per preservare
la collettività, non bisogna mai dimenticare che si tratta di una collettività
all’interno di una società capitalistica.
Quest’ultima ha creato questa dimensione collettiva,
da un punto di vista medico, per socializzare il corpo in funzione del suo
unico interesse: la forza produttiva, la forza lavoro.
Se “per la società capitalista è il
bio-politico a essere importante prima di tutto, il biologico, il somatico, il
corporale”, lo è nella misura in cui il corpo stesso rappresenta unicamente una
forza lavoro, un mezzo di produzione per accrescere le ricchezze del capitale.
Il green pass e il “super green pass” sono strumenti bio-politici che agiscono
direttamente sui corpi.
Non sono strumenti che servono per controllare le
ideologie o le coscienze, il loro controllo non prevede una ulteriore
digitalizzazione dell’esistenza.
Il
loro controllo non è quello spettrale e fantasmatico della digitalizzazione.
Come afferma Gioacchino Toni in una nostra intervista, “colpisce che qualche
ministro nostrano abbia parlato del Green Pass come della «più grande opera di
digitalizzazione mai fatta» e colpisce ancor di più che tale affermazione sia
stata presa per veritiera anche da ambiti conflittuali.
Basterebbe
leggersi il volume Il capitalismo della sorveglianza (Luiss, 2019) di Shoshana
Zuboff, che di certo non è un’estremista, riguardante l’universo “dentro gli schermi” ma anche il cosiddetto “Internet delle cose”, per rendersi conto che viviamo,
già da qualche tempo, immersi in un sistema di sorveglianza digitale che ricorrendo a un immaginario
orientato al conformismo ha saputo sfruttare al meglio la frenesia imposta
dalla società della prestazione e della parcellizzazione dell’apprendimento”.
Il green pass e il “super green pass” sono
strumenti profondamente moderni che agiscono direttamente sui corpi per mezzo
di un controllo bio-politico, biologico e corporale.
Ecco perché “il corpo è una realtà
bio-politica; la medicina è una strategia bio-politica”.
Concludendo
la sua conferenza, Foucault afferma che nel XIX secolo, soprattutto in
Inghilterra, compare “una medicina che consisteva principalmente in un controllo della
salute e del corpo delle classi bisognose, perché esse fossero più adatte al
lavoro e meno pericolose per le classi ricche”.
Adesso,
quella stessa medicina, in una situazione di emergenza, in una società che non
è paragonabile a quella del XIX secolo, consiste principalmente nel controllo
del corpo degli individui (soprattutto di chi ha scelto di non vaccinarsi),
intesi sempre come forza lavoro, perché non rappresentino un pericolo per
l’intero corpo sociale, il quale è a sua volta composto dai corpi dei singoli.
(Guy
van Stratten)
Stati
di eccezione: biopolitica,
mobilità,
sorveglianza.
Tuttaunaltrastoria.info
- Stefano Portelli – (23 aprile 2022 )- ci dice :
Questa
è la nostra seconda sessione, personalmente sono molto emozionato della
riuscita della prima sessione, mi è sembrato che abbiamo parlato di cose
fondamentali e ci sono state intuizioni importantissime. Dentro di me ho sentito dei nodi
sciogliersi, degli altri nodi ricrearsi, dei collegamenti nuovi, delle idee
geniali. Credo
che veramente stiamo iniziando a toccare qualcosa di importante. In questa
sessione, che abbiamo chiamato Stati di eccezione: biopolitica, mobilità,
sorveglianza, parleremo di una serie di
questioni. Come avete capito la costruzione delle sessioni è arbitraria, noi
abbiamo ricevuto tantissimi abstract, tantissime idee e proposte, e abbiamo cercato
di costruire dei fili logici e tematici tra i vari temi. In questo, abbiamo in
realtà inserito delle questioni abbastanza diverse tra loro, che però secondo
me sono collegate da un filo logico abbastanza chiaro. Lo introduco con poche
parole, poi passo la parola a Mimmo, che sarebbe il moderatore di questa
sessione.
Secondo
me la chiave è questa: nella sessione precedente abbiamo parlato molto di
rottura delle frontiere disciplinari, della barriera che c’è tra i saperi, che
costruisce dei saperi provinciali, chiusi, e che in qualche modo dobbiamo
confrontare attraverso l’interdisciplinarietà. Però è evidente che “frontiera” è
una metafora: le frontiere che dobbiamo rompere prima di tutto non sono quelle tra
discipline, sono quelle sui territori. Qui ci sta innanzi tutto una
questione di parcellizzazione della terra, prima ancora che di parcellizzazione
delle frontiere del sapere, delle discipline del sapere.
Qui
entra la questione della mobilità. È chiaro che siamo in un momento in cui non solo siamo
stati rinchiusi nelle nostre case per mesi, [ma] siamo anche stati rinchiusi
nei nostri paesi per molto tempo.
Questa è una questione a cui forse io,
perlomeno, non stavo dando l’importanza che merita, perché siamo abituati da
sempre a fare battaglie sulla mobilità, contro le restrizioni alla mobilità. In questo momento le restrizioni
alla mobilità ci colpiscono come prima colpivano molte altre persone. Io adesso, che mi ritrovo molto più
chiuso nel mio paese di quanto fossi abituato (non mi sono mai mosso così poco
come negli ultimi tempi), sto cominciando vagamente a capire come si possano
sentire i miei amici, i miei informatori, le persone con cui lavoro in Marocco,
che è una prigione in cui non è possibile spostarsi. Io non riesco a capire che cosa
vuol dire vivere con la proibizione costante di attraversare le proprie
frontiere nazionali. Lo comincio a intuire dopo un periodo di più o meno forzata
chiusura in uno spazio territoriale. Questa, io credo, che sia una cosa importante
perché le barriere alla mobilità e il governo della mobilità è uno degli
strumenti fondamentali dell’estrazione di valore capitalista. Il capitalismo funziona – e da qui
l’importanza del colonialismo da cui siamo partiti con Stefania stamattina –
creando uno sviluppo diseguale, obbligando delle persone a muoversi e
obbligando delle persone a non muoversi. È grazie al fatto che ci sono persone
obbligate a venire a lavorare qui che si estrae un certo valore, è grazie al
fatto che ci sono delle persone obbligate a rimanere lì che si estrae un’altra
quantità di valore. Queste frontiere territoriali, che sono evidenti se le
vediamo a livello della terra, sono più nascoste ma altrettanto potenti, creano
altrettanto profitto, nella città. Io mi occupo di città, biopolitica, mobilità
e sorveglianza non sono i miei temi, ma io non posso parlare di
gentrificazione, di trasferimenti forzati (che sono i temi di cui mi occupo da
sempre), di città, di produzione di valore immobiliare senza rendermi conto che
la produzione del valore immobiliare si crea forzando alla mobilità alcune
persone
e permettendo la libera circolazione di altre persone. Quindi il turismo,
quindi gli sgomberi, gli sfratti: sono tutte forme di cessione della mobilità
differenziata. La gestione della mobilità è chiave nel modo in cui funziona
l’estrazione di profitto.
Quello
che è interessante… e qui entra il termine biopolitica, che forse bisognerebbe definire
ed è sempre molto difficile definirlo per chi non è esperto, io non sono un
esperto di biopolitica, però in qualche modo è evidente che dall’Ottocento in
poi si è sviluppata una forma di controllo sul territorio e sulla popolazione
che non è un controllo proibitivo (“non si può fare”), ma è una forma di
controllo positivo (“è preferibile fare, bisogna fare, la vita deve funzionare
in questo modo”), prescrittivo.
C’è il
discorso su come gli Stati costruiscono questo tipo di potere, che è un potere
soprattutto sui flussi di spostamento interno e esterno, il controllo sulle
frontiere, il controllo sugli spazi urbani, esso stesso legato di per sé alla
questione medica, all’igienismo dell’Ottocento.
È un tema su cui in Italia si è prodotta una
riflessione critica molto importante, a livello proprio di diventare lo studio
dello stato di eccezione – e quindi di un certo tipo di controllo sulla
popolazione, sul territorio e sulla mobilità. [Questo studio] in Italia ha
avuto uno dei suoi più grandi teorici che, paradossalmente, proprio nel momento
in cui tutti questi strumenti di controllo venivano e in cui si attuava lo
stato di eccezione più evidente delle nostre vite, è stato demonizzato come se
fosse una canaglia nazionale: ovviamente sto parlando di Giorgio Agamben. È interessante che, in un paese in cui
si è sviluppato un discorso teorico così grande sulla biopolitica e sullo stato
d’eccezione, sia stato sperimentato questo tipo di controllo biopolitico e di
stato d’eccezione nel silenzio pressoché totale di tutti quelli che s’erano
costruiti le carriere sul concetto di biopolitica, di necro-politica, di stato
d’eccezione. Questo, credo, è uno dei temi di cui si potrebbe parlare in questa
tavola.
Il
passaggio successivo – perché abbiamo degli interventi sulla digitalizzazione,
sull’uso degli strumenti informatici – anche su questo è importante dirlo:
tutto questo controllo, queste forme di controllo che vengono dall’Ottocento,
di fatto, si stanno sviluppando attraverso gli strumenti digitali e gli
strumenti informatici.
Ora, io vengo da Indymedia Barcellona, ho
passato praticamente la mia adolescenza in quell’esperimento di
controinformazione che si chiamava Indymedia.
Per noi la digitalizzazione e l’informatica era uno strumento
di emancipazione: non solo dalla barriera territoriale (noi riuscivamo a usare…
con questo sogno della rete libera, dell’open access, del software libero, noi
sognavamo la liberazione dalla barriera territoriale), ma sognavamo anche la
liberazione dalla barriera dell’individualità, dell’identità forzata, unica,
che riconoscevamo come un prodotto borghese e capitalista.
Mi
ricordo gli anni Novanta come un periodo in cui si rifletteva sulle identità
multiple, sulla molteplicità – è da lì che viene Wu Ming. Tutto questo provoca sconcerto
(forse solo per chi non se l’aspettava) nel momento in cui vediamo che questi stessi
strumenti – che per noi erano strumenti di liberazione – sono stati totalmente
cooptati, diventando 100%, o 99%, strumenti di governo dei flussi della
mobilità, della territorializzazione, e delle barriere, delle frontiere.
Naturalmente
il green pass non serve neanche nominarlo, è la conclusione di tutto questo
processo, è chiaramente… o forse è l’inizio di un nuovo processo. Tutto questo porta a un’altra parte
di questa tavola, che è tutto il discorso sulla sorveglianza, il passaggio da
una sorveglianza di tipo quasi meccanico sull’attraversamento delle frontiere
fisiche, a una sorveglianza di tipo di digitale anche su chi ha il permesso di
attraversare le frontiere, ma che si ritrova altri ostacoli alla mobilità e comunque
un controllo sempre presente sul movimento. Su questo credo che si può
aggiungere qualche cosa.
Biopotere
controllo delle masse:
fusione
tra Biologia e politica.
Pianetaindaco.it-
Redazione- (19 gennaio 2022) - ci dice:
Il
biopotere è una tecnologia di regolazione che ha per oggetto il corpo-specie,
la popolazione, tassi di malattia e statistici, ecc. In una prospettiva
globale, intende creare analisi e politiche a livello macro, considerando i
tassi di normalità per ogni specifico soggetto osservato.
POTERE
DISCIPLINARE, POTERE SOVRANO.
Il 18°
secolo fu il momento della generazione di un nuovo gruppo di potere. Un nuovo
tipo di tecnologia del potere. Con meccanismi e tecniche diverse da quelle
viste con il potere disciplinare o il potere sovrano. Michel Focault sconvolge
la nozione classica di sovranità come potere basato sul diritto di lasciar
vivere. Cioè di non trasferire in modo massiccio nella vita quotidiana con la
creazione di norme. Ma di apparire nel momento decisivo della morte, nel
momento del ritiro della vita con potere e autorità dal suo proprietario.
Tuttavia,
dopo la nascita delle città, la crescita demografica e la concentrazione dei
lavoratori, la vita vissuta diventa un elemento. E anche una condizione fondamentale
per il mantenimento di produttività, già oggetto di lavoro dei meccanismi
disciplinari nella nascente società disciplinare.
Un
potere fatto nei corpi, nella disciplina dei piccoli movimenti, nella forza
focalizzata sui dettagli, nella creazione di imposizione di norme. È completato
da un potere che è supportato dalla vita biologica, dalle stime statistiche e
dall’attenzione alla specie.
DALL’INDIVIDUO
AL COLLETTIVO.
La
vita biologica come oggetto principale di questa nuova tecnologia del potere
sposta l’asse d’azione dall’individuo al collettivo, alla popolazione.
Dall’atomo al tutto, dalla norma applicata all’individuo alla normalizzazione
assunta dopo lo studio della popolazione. Non si tratta più solo di applicare
norme per la disciplina individuale. È necessario comprendere dati e
statistiche globali (come il tasso di mortalità) per concludere qual è il valore
normale appropriato per una città.
In tal
modo che un obiettivo ragionevole possa essere raggiunto secondo le medie
considerate convenienti. “una certa inclinazione che porta a quella che si
potrebbe chiamare la nazionalizzazione del biologico”, afferma Foucault.
La
specie umana che ha bisogno di essere sorretta da un modo di farla vivere, da
una forza, da una propulsore di vita basato su una buona amministrazione
pubblica. Si può così rivedere la nozione di far morire e di far vivere.
Ancora, fare della morte come diritto della spada, perché in relazione al
potere sovrano. “Il diritto di uccidere è ciò che effettivamente racchiude in sé
l’essenza stessa di questo diritto di vita e di morte”.
Uccidendo
si esercita il diritto sulla vita. Far vivere è un “nuovo diritto, che non cancellerà
il primo. Ma lo penetrerà, lo permeerà, lo modificherà, e che sarà un diritto,
o meglio, un potere esattamente inverso. Il potere di fare vivere e lasciare
morire.
L’OBIETTIVO
DEL BIOPOTERE: FORMAZIONE DI UNA MASSA GLOBALE.
L’obiettivo
del biopotere è la molteplicità degli uomini come formazione di una massa
globale, di una popolazione stessa, che è soggetta agli effetti della vita. Dei
processi che sono della specie e che si traducono in una media statistica:
natalità, mortalità, produzione, malattia, ecc.
Il
tipo di potere disciplinare introduce a: serie di sorveglianza, controlli,
sguardi, scansioni diverse che permettono di scoprire, ancor prima che il ladro
rubi, se ha intenzione di rubare, ecc.
E, dall’altra
parte, la punizione non è semplicemente quel momento spettacolare, definitivo
dell’impiccagione, della multa o dell’esilio. Ma sarà una pratica come la
carcerazione, che impone tutta una serie di esercizi, lavoro, lavoro sul
colpevole, trasformazione della forma. Semplicemente di quelle che si chiamano
tecniche penitenziarie, lavoro coatto, moralizzazione, correzione, ecc.
L’obiettivo
del biopotere è permettere che i dettami disciplinari siano comandati. Non c’è
una norma applicata al corpo, ma una normalizzazione che dovrebbe essere il
riferimento per le azioni biopolitiche. Ad esempio: quanto costa prevenire
un determinato tipo di reato in una determinata regione della città? È
vantaggioso per la pubblica amministrazione investire fondi nel controllo o
nell’azzeramento di questo reato in particolare? È meglio scendere a un tasso
di normalità già stabilito piuttosto che cercare di ridurlo a zero?
LA
BIOPOLITICA DELLA SPECIE UMANA.
L’anatomo-politica
del corpo umano, collocata nel Settecento, è completata, alla fine dello stesso
secolo, da una biopolitica della specie umana. Uno sguardo globale.
Ancora
una volta, questo aspetto globale costituisce il biopotere descritto come:
l’insieme
di processi come la proporzione di nascite e morti, il tasso di riproduzione,
la fecondità di una popolazione, ecc. Sono stati questi processi di nascita,
mortalità, longevità che, proprio nella seconda metà del Settecento, insieme ad
una serie di problemi economici e politici. Hanno costituito, credo, i primi
oggetti di conoscenza e i primi bersagli di controllo di questa biopolitica.
Tutti
i tipi di controllo biopolitico agiscono sotto forma di regolamenti. Il
biopotere regola, il biopotere disegna regole per proporre la vita. La
regolazione del biopotere è il suo farsi vivere. In quanto ogni regolazione
proposta dai meccanismi biopolitici tende ad elevare le molteplicità
amministrate alla media referenziale statisticamente stabilita. E al livello di
normalità che ne è l’effetto.
Le
pratiche biopolitiche, pur nel loro zelo per la segmentazione della
popolazione, tendono a separare i problemi osservati per fasce, per tipologie,
per target.
La fame a sud è più accentuata che al nord? Causa un calo delle popolazioni
nella regione settentrionale o nella regione meridionale? A quali generi e
razze appartengono gli affamati e in quali proporzioni?
UNA
NUOVA NORMALITA’.
Per
Foucault non è la segmentazione a classificare il biopotere, ma il fatto che
queste segmentazioni tendano a filtrare un determinato tipo di popolazione. A dettagliare la popolazione
attraverso misure statistiche, una nuova normalità che verranno proposte come
norma.
Si può
ipotizzare che la via del biopotere sia quella
dell’analisi-regolazione-normalizzazione. Una normalizzazione sulla specie che,
nel dettaglio, viene portata agli organismi attraverso meccanismi disciplinari.
“Malattie
più o meno difficili da debellare, che non vengono viste con le epidemie come
le cause di morte più frequenti, ma come fattori permanenti. E così si curano.
In sottrazioni di forze, riduzione dell’orario di lavoro, calo di energie,
costi economici, sia per la produzione non realizzata che per il trattamento
che potrebbe costare. Insomma, la malattia come fenomeno di popolazione. Non
più come la morte che colpisce brutalmente la vita – è l’epidemia – ma come la
morte permanente. Che si insinua nella vita, la corrode perennemente, la
sminuisce e la indebolisce”.
È
necessario comprendere dalla citazione precedente che il corpo è parte della
regolazione biopolitica attraverso la sua partecipazione al tutto. Attraverso
la sua permanenza in ogni momento nell’ambito della specie. Il corpo umano come
corpo vivente, il corpo umano come oggetto biologico. Si passa dalla
popolazione all’instaurarsi del normale. Dall’instaurarsi del normale alla
pratica biopolitica sulla specie-corpo, cioè alla pratica di normalizzazione.
LA
POPOLAZIONE COME PROBLEMA POLITICO.
L’oggetto
della biopolitica è la popolazione come problema politico. “Come problema sia
scientifico che politico, come problema biologico e come problema di potere.
Pertanto, si occupa degli eventi casuali che accadono in una possibile
popolazione in un dato periodo. Ciò che conta, quindi, è il calcolo delle
previsioni, delle stime statistiche, delle misure globali.
Non ha
il suo asse nell’individuo in quanto tale, lavora con le condizioni che
promuovono o meno una determinata metrica biologica per portarla alla
normalità. L’obiettivo è abbassare il tasso di morbilità (La frequenza
percentuale di una malattia in una collettività), aumentare l’aspettativa di
vita, ecc, , attraverso meccanismi regolatori di stabilità un equilibrio e un
obiettivo.
“Non si tratta quindi affatto di
considerare l’individuo a livello di dettaglio, ma, al contrario, attraverso
meccanismi globali, di agire in modo da ottenere stati globali di equilibrio,
di regolarità. In breve, tenere conto della vita, dei processi biologici dell’uomo-specie
e garantire che non siano disciplinati ma regolati”. (Regolare i processi biologici
dell’uomo? È un po’ inquietante, cosa potrebbe significare?).
Lo
spazio, il mezzo, il flusso. Tassi di morbilità, nascita, casuale, costante,
controllabile. La definizione di norme attraverso indagini statistiche, mediche
e politiche e la raccolta di informazioni per ogni segmento della società. Che
è interessato dal problema specifico affrontato.
Tutti
elementi che collocano l’individuo come colui che è colpito, che è contrastato
per cause che salgono o scendono a ritmo determinato. La molteplicità traduce
questa risultante di cause nei suoi numeri variabili, nei suoi diversi tassi di
normalità. (Se abbiamo un dato tasso di morbilità per la popolazione totale, qual è
questo tasso per ogni fascia di età?).
IL
DISPREZZO PER LA SOGGETTIVITA’.
Un’apparente
limitazione del biopotere e della biopolitica è l’apparente disprezzo per la
soggettività. Il lavoro di Foucault sulla biopolitica e il biopotere quindi non
è stato privo di critiche. Non solo nella misura in cui il suo lavoro in questo
campo appare fugace e incompleto. Achille Mbembe, ad esempio, rileva la mancanza di
contributo teorico di Foucault su come il biopotere viene messo in funzione nei
sistemi di violenza e di dominio. Sviluppando così la sua nozione di necro-politica che
nomina il decisionismo sovrano sulla morte. “Il potere e la capacità di dettare
chi può vivere e chi deve morire.”
E,
come sopra detto, la limitazione del biopotere sul disprezzo per la
soggettività. Il soggetto biopolitico non è esplicitamente concepito
all’interno dell’opera di Foucault. Ciò sembra limitante per comprendere il
posto della biopolitica e del biopotere all’interno dell’opera di Foucault, in
particolare data la sua affermazione nel 1982: “l’obiettivo del mio lavoro negli
ultimi vent’anni è stato quello di creare una storia dei diversi modi con cui,
nella nostra cultura, gli esseri umani sono diventati sudditi”.
Tuttavia,
è in questo contesto che il biopotere e la biopolitica devono essere visti come
cooperanti ad altre tecnologie del potere. (Potere repressivo e disciplinare).
Tecnologie che operano più direttamente sul corpo e sulla soggettività.
IN CONCLUSIONE.
Il
raggiungimento del biopotere consente allo stato di produrre categorie sociali
e, in definitiva, di creare una società conforme alle norme che assicurano una
“popolazione vitale”. Ovvero una comunità che aderisce a un’ideologia che mantiene
e legittima lo Stato, una popolazione che è stata modellata nella forma
desiderata dello Stato.
Attraverso
il biopotere, i soggetti che seguono le norme della società possono essere
fatti vivere ed essere investiti, ma quelli classificati come “anormali”
saranno “lasciati morire”. Tutto ciò attraverso il disinvestimento e
contemporaneamente attraverso il potere giuridico (Michel Foucault 1978).
Non
solo a destra e non solo in Germania:
l’eugenetica tra razzismo e biopolitica.
It.pearson.com-Giovanni
Borgognone –( 3-12-2019) – ci dice:
Le
teorie eugenetiche sono state uno dei tratti più inquietanti delle politiche
razziali della Germania nazionalsocialista. Per tale ragione, nel discorso
pubblico esse vengono talvolta impropriamente associate in modo univoco alla
cultura politica della destra estrema. In realtà, le origini dell’eugenetica
emergono nell’alveo del progressismo americano d’inizio Novecento.
Le
origini statunitensi dell’eugenetica.
Basate
sull’assunto dell’ereditarietà delle differenze di intelligenza e di carattere,
le teorie eugenetiche sono state, come è noto, uno dei tratti pseudoscientifici
più inquietanti che hanno connotato le politiche razziali della Germania
nazionalsocialista.
Per
tale ragione, nel discorso pubblico esse vengono talvolta impropriamente
associate in modo univoco alla cultura politica della destra estrema.
In realtà, le indagini storiografiche hanno favorito
una visione più complessa e sfaccettata delle origini dell’eugenetica e delle
politiche sociali che essa ispirò.
L’entusiasmo intellettuale suscitato dalle
teorie eugenetiche, infatti, emerse innanzitutto negli Stati Uniti di inizio
Novecento, nell’alveo
culturale del progressismo americano.
Fu quello il contesto in cui operò Charles
Davenport (1866-1944), il più noto eugenista statunitense, fondatore nel 1910
dell’Eugenics Record Office, che rimase attivo fino al 1939.
Davenport
era convinto che, al pari di tratti familiari quali il colore degli occhi e dei
capelli e al pari dell’albinismo o dell’epilessia, anche il pauperismo e la
criminalità fossero, in una certa misura, caratteri ereditari.
Il
pauperismo, in particolare, era considerato una cronicizzazione della povertà
che non poteva dipendere solo da cause ambientali, bensì anche da una
strutturale incapacità di gestire le proprie risorse, la quale, a sua volta,
era un evidente segno di inadeguatezza mentale.
Da
queste tesi discendevano, nello scenario progressista statunitense, progetti di
riforma sociale attraverso l’eugenetica:
lo Stato infatti, secondo i sostenitori delle teorie
eugenetiche, avrebbe dovuto applicarla ad esempio attraverso misure come la
sterilizzazione o la segregazione per prevenire matrimoni “disgenici”, onde
evitare la “degenerazione” della società.
Per
molti scienziati sociali progressisti americani dell’epoca – sociologi,
economisti, giuristi – l’eugenetica, dunque, rappresentava uno strumento
tecnico-scientifico a disposizione del potere pubblico per “razionalizzare” lo
sviluppo demografico.
Progressismo
transatlantico.
Anche
in Gran Bretagna, a ben vedere, il sostegno all’eugenetica si associò al
riformismo.
Fu
questo il caso della Fabian Society, movimento intellettuale di ispirazione
socialdemocratica che esercitò, peraltro, un notevole ascendente sul
progressismo americano. Significativamente, H.G. Wells, uno dei più importanti
esponenti del “fabianesimo”, associava l’eugenetica all’opposizione al
liberalismo e al laissez-faire individualistico sul piano della teoria economico-sociale;
e Sidney Webb spiegava ai suoi lettori che l’eugenetica non aveva l’obiettivo
di produrre “bambini belli” ma “buoni cittadini”.
In
altre parole, per i fabiani britannici, così come per i progressisti americani,
l’eugenetica rappresentava un’applicazione del social engineering necessaria
per riformare la società e pianificarne uno sviluppo razionale.
Sul
versante statunitense, il sociologo Lester Frank Ward, il quale, in generale,
auspicava che grazie alle competenze sociologiche si potesse giungere a un
“controllo scientifico delle forze sociali”, considerò opportuno, da questo
punto di vista, intervenire pure per evitare che “difetti ereditari” e
“deficienze mentali” si potessero liberamente trasmettere da una generazione
all’altra.
Nuovamente,
dunque, a una visione filosofico-politica improntata al laissez-faire, quella
incentrata sulla mera “selezione naturale”, l’eugenetica prometteva di
sostituire il progetto di una “selezione artificiale”, attuata sulla base di
conoscenze scientifiche e in un’ottica di progresso sociale.
In
tale prospettiva, un ruolo cruciale veniva riconosciuto, evidentemente, allo
stato: lo
stato, secondo il sociologo progressista Edward Ross, doveva diventare
un’entità indipendente di direzione sociale, contro la “sregolatezza” degli
interessi privati.
La
società statunitense dell’epoca era attraversata da grandi dibattiti
sull’immigrazione: i nuovi migranti di fine Ottocento e primo Novecento non
erano più, infatti, quelli provenienti dalle isole britanniche, dalla Germania
o comunque dalle aree più sviluppate d’Europa, bensì erano quelli poveri e
privi di istruzione provenienti da paesi più “arretrati”, come l’Italia, la
Polonia, la Russia.
In
questo quadro, i progressisti invocavano forme di controllo sociale da parte
dello stato, temendo gli effetti di degenerazione derivanti dalla crescente
presenza di cittadini considerati “inadatti” (unfit).
Anche
i dibattiti tra gli economisti furono connotati da questo tipo di
preoccupazioni, espresse, sul piano del mondo del lavoro, con termini come
“razze da basso salario” (low wage races) e “residuo industriale” (industrial
residuum).
E
nuovamente le soluzioni “eugeniche” includevano misure come l’isolamento e la
sterilizzazione di quanti erano ritenuti unfit di fronte alle esigenze dello
sviluppo economico del paese. Tornando alla Gran Bretagna, ancora nel ’45 l’economista John
Maynard Keynes, per i riformisti e i progressisti un’icona della scienza
economica a livello transatlantico, compariva nel board of directors della
British Eugenic Society.
La
popolarizzazione dell’eugenetica.
Negli
Stati Uniti l’eugenetica ebbe larghissima diffusione e ispirò le legislazioni
sociali di molti stati.
Nel
New Jersey, ad esempio, un convinto assertore della necessità di misure
eugenetiche fu il governatore e futuro presidente degli Stati Uniti Woodrow
Wilson, il quale promosse la creazione di una Commissione esaminatrice per i
“deboli di mente” (feeble-minded fu un altro termine, accanto ad unfit, molto
adoperato in quel contesto). Nel 1911 Wilson firmò una legge in base alla quale
lo stato del New Jersey avrebbe potuto determinare quando la procreazione fosse
auspicabile o meno.
Nel
1921 nacque un’organizzazione ufficiale americana di eugenetica, che quattro
anni dopo assunse il nome di American Eugenics Society. Obiettivo dei lavori promossi dal suo
comitato scientifico era lo studio dell’intelligenza, nell’ottica della
preservazione della “salute razziale”. In particolare, il problema di fondo era
nuovamente rappresentato dall’ereditarietà della “debolezza mentale”.
La
Society, attraverso stampa periodica, conferenze, mostre, libri, volle
contribuire alla popolarizzazione dell’eugenetica. Tra gli argomenti propagandistici
adoperati vi era quello secondo cui ogni 15 secondi 100 dollari degli americani
servivano per prendersi cura di persone dotate di “cattiva eredità”, mentre una
persona con un patrimonio ereditario di qualità elevata nasceva solo ogni 7
minuti e mezzo.
Una
delle sezioni dell’American Eugenics Society era dedicata alla prevenzione del
crimine.
Se ne
occupava, in particolare, il giudice Harry Olson, specializzato nello studio
del profilo
psicologico del criminale, sulla base delle teorie antropologiche di Cesare
Lombroso (1835-1909). Il medico italiano, a fine Ottocento, aveva cercato di
mettere a fuoco le anomalie e gli atavismi (la ricomparsa di tratti somatici o
psichici presenti in antenati e scomparsi per alcune generazioni) che, a suo
avviso, determinavano i comportamenti sociali devianti, considerati, pertanto,
effetti di patologie ereditarie. Tra le soluzioni proposte dal giudice Olson
per combattere la loro diffusione vi era la segregazione in colonie rurali, in modo che gli individui affetti
da tali “patologie” non potessero diffondere i loro tratti ereditari nelle
generazioni sociali future.
Nelle
scuole di tutto il paese, intanto, venivano introdotti corsi di eugenetica.
Anche
qui fu attiva la American Eugenics Society.
Nell’educazione,
peraltro, i messaggi ispirati all’eugenetica erano continui: dai sermoni
religiosi, che raccomandavano i matrimoni dei migliori con i migliori, ai libri
di testo di biologia, nei quali non mancava un capitolo dedicato alle teorie
eugenetiche.
Nelle classi furono introdotti, inoltre, i test di
intelligenza: molti specialisti di esami psicometrici, infatti, sostenevano che
le misurazioni del “quoziente di intelligenza” rivelassero un substrato
genetico ereditario e dessero, pertanto, preziose indicazioni anche per la
selezione di futuri genitori.
Questo
tipo di esami fu somministrato nelle scuole pubbliche, nell’esercito e nei
punti di raccolta degli immigrati come Ellis Island.
Alle
spalle vi erano sempre, dunque, i timori per un possibile race suicide, in
assenza di regolamentazioni demografiche, pericolo segnalato da Edward Ross già
in un volume del 1907, Sin and Society, con la prefazione del presidente
statunitense Theodore Roosevelt, anch’egli preoccupato per la conservazione
della “razza americana”.
Nel
1933 provvedimenti ispirati all’eugenetica come la sterilizzazione di individui
a cui fosse stata diagnosticata una “demenza ereditaria” erano oramai stati
introdotti in una trentina di stati; più di 16.000 persone erano state
sterilizzate.
Iniziative
del genere, a ben vedere, proseguirono ben oltre la Seconda guerra mondiale,
giungendo fino agli anni settanta.
Le idee e le pratiche eugenetiche
statunitensi, fin dagli anni venti e trenta, suscitarono grande attenzione in
varie parti del mondo.
Furono
riprese in Canada, in America latina, in Scandinavia. Da un lato, furono osservate con
interesse, ovviamente, da parte della Germania nazista, dall’altro rientrarono
anche nell’orizzonte ideale del welfare state scandinavo: in Svezia, tra il
1935 e il 1975, sarebbero state sterilizzate più di 60.000 persone, sulla base
di una legislazione considerata “socialdemocratica”.
Eugenetica
e biopolitica.
L’eugenetica
e le aspirazioni a forme di razionalizzazione sociale dei primi decenni del
Novecento rientrarono nei più generali progetti “scientistici” e “tecnocratici”
che connotarono il progressismo dell’epoca.
Propulsore
iniziale fu, dunque, il riformismo progressista ispirato agli ideali di
pianificazione e controllo sociale da parte di un’expertise statale, nell’epoca
del tramonto dell’ideologia liberale ottocentesca basata sul laissez-faire.
La
civiltà moderna sembrava avere oramai rimosso, in ampia misura, gli ostacoli
naturali alla crescita della popolazione: per la modernizzazione e la
razionalizzazione sociale, a questo punto, molti riformisti ritennero
necessario il ricorso a “tecniche” per la salute sociale.
Al di là della connessione con i progetti razziali
della Germania nazista, dunque, la parabola dell’eugenetica mostra la
sperimentazione di principi e dispositivi non dissimili da quelli che il
filosofo francese Michel Foucault (1926-1984) ha messo a fuoco attraverso la
nozione di “biopolitica”, a partire dalla necessità di “difendere la società” e
dal “primato della popolazione sul singolo individuo”.
È
questo un aspetto cruciale, per Foucault, delle declinazioni del potere dello
stato nell’epoca della tarda modernità:
esso non si limita al disciplinamento ma si preoccupa
dell’ottimizzazione e della massimalizzazione della sfera biologica.
Lo stato diventa, in ultima analisi, gestore della
popolazione.
In tale prospettiva, Foucault osserva come, a ben
vedere, non vi sia “alcun modo di funzionamento moderno dello stato che, a un
certo punto, a un certo limite e in certe condizioni non sia passato attraverso
il razzismo”.
Se per
un verso il nazismo, in quest’ottica, ha fatto propria la logica estrema della
biopolitica, per altro verso essa era, però, già inscritta in esperienze come
quella dell’eugenetica progressista.
Dal
Covid alla crisi
energetica,
“l’arma
definitiva” per il controllo.
Saranno
tempi “bui”.
Ilparagone.it-
Nicky Ionfrida – (14/09/2022) - ci dice:
Dopo
che la von Der Leyen ha usato più volte l’espressione «appiattire la curva» a
proposito dei consumi di gas e luce, sembra che le autorità europee ora si
facciamo molti meno problemi nel parlare apertamente di “lockdown energetico”.
Questo secondo capitolo delle chiusure forzate mostra alcune analogie ed alcune
diversità con il primo. Le espone La Verità, in un articolo pubblicato oggi.
Come
successo con il Covid, anche questa volta la causa scatenante della crisi
energetica non è chiara ed incontrovertibile:
ancora
oggi si discute sull’origine del virus, ed anche per la crisi energetica non
c’è una causa prima ben definita.
La
guerra in Ucraina sicuramente è stata la “benzina sul fuoco” ma i prezzi
avevano già iniziato a lievitare già qualche 7mese prima. Inoltre, la Russia
continua a vendere il gas allo stesso prezzo, tanto è vero che l’Ungheria ha
fatto un accordo separato per comprarlo direttamente da Mosca, senza passare
per la Borsa di Amsterdam.
È proprio la casa della speculazione olandese,
infatti, ad essere la vera generatrice del caos energetico, unitamente
all’abominio dell’aver correlato i costi delle materie prime del TTF (Title
Transfert Facility), facendo sì che la disponibilità delle materie prime
necessarie al sostentamento delle nazioni venisse subordinata alla speculazione
finanziaria internazionale.
Esattamente
come per il Covid, dunque, il problema sarebbe la speculazione, paragonabile
alla libera circolazione del virus, alla quale occorre porre rimedio chiudendo
i rubinetti delle case e chiudendo le aziende «per un po’» – come ha detto il
ministro tedesco dell’Economia, Robert Habeck -, applicando il «distanziamento
sociale» ai nostri consumi quotidiani.
Come
col Covid, le misure studiate dagli “esperti” per superare il problema sono le
stesse a causare i maggiori danni collaterali, e come successo durante il duro
periodo più nero della pandemia, si additano come “complottisti” coloro i quali
si pongono qualche logica domanda.
Iniziamo addirittura ad avere qualche limpida
occasione di vedere improbabili esperti televisivi spiegare come il freddo
possa addirittura giovare alla nostra salute, mentre si deve ancora arrivare al
punto di sentir chiamare “no watts” quelli che si opporranno, dandogli la colpa
del fatto che se le misure non funzionano è perché costoro usano troppo gas
dalle sette alle otto.
Ma ci
sono anche delle nette diversità tra il lockdown da Covid ed il lockdown
energetico.
Per
citare La Verità, “il controllo biopolitico sulla vita delle persone si fa meno
odioso, meno discriminante, meno irrazionale ma più impersonale ed inesorabile”.
Dunque, a fronte di un vaccino obbligatorio che si
poteva comunque non fare in cambio del proprio lavoro, della propria vita
sociale e della propria dignità, un eventuale “lockdown energetico”, motivato
questa volta dall’ineluttabilità di una guerra causata e sostenuta dalle élite,
non lascia alcuna possibilità di scelta: se si useranno troppa luce e gas
semplicemente cesserà l’erogazione o diminuirà nei modi e nei tempi stabiliti
dall’autorità.
Il
merito (o la colpa) di questo inevitabile destino è da attribuire ai «contatori
intelligenti».
Starà ai singoli cittadini organizzare le loro nuove
vite austere nei limiti di ciò che lo Stato concederà loro.
Se col
Covid la minaccia era di perdere il lavoro e di essere espulsi dalla società
civile, in questo caso il distacco di luce e gas farà sì che buona parte degli
italiani si trovino a fare la vita dei senzatetto.
Il
fatto che anche questo scenario sia stato largamente anticipato in tempi non
sospetti dalle speculazioni dei soliti “complottisti”, è senza alcun dubbio il
banale frutto di una fortuna sfacciata. Oppure no?
Il
declino della democrazia liberale
Usa tradita dalla “trappola del denaro”.
Ilsussidiario.net-
Paolo Raffone – (16.09.2022) – ci dice:
Negli
Usa la relazione tra ordine liberale e democrazia è stata deliberatamente
interrotta con conseguenze devastanti per il resto del mondo.
È
importante mettere in evidenza la struttura della repubblica americana, nata
premoderna ed oligarchica attorno ad un arcaico principio di libertà che stenta
ancora oggi ad evolvere in chiave moderna.
Nella
Costituzione americana è assente la parola democrazia, ma si sancisce il
principio della separazione dei poteri, principalmente per limitare i poteri
del governo federale.
Un
complicato sistema elettorale è strutturato per evitare la sovranità popolare
che è meglio “interpretata” attraverso procedure locali, quindi asimmetriche a
livello nazionale, che garantiscono il settlement tra gli interessi oligarchici
che poi si riflettono nel governo federale.
Insomma,
una repubblica imperiale dei dominanti – autoproclamatisi “We the people” – che
con la guerra crearono il primo surplus per la governance imperiale americana.
Metodo che, ripetuto più volte, ha portato al dominio mondiale americano.
La
repubblica americana è tuttora un’aristocrazia strutturale velata da un manto
democratico offerto dalla garanzia di alcuni diritti fondamentali (definizione
legale) e dallo svolgimento regolare di elezioni (definizione procedurale).
Un
modello di società narcisista, perché fondato su una somma di individui – che
colloca il giusto (right) prima del bene (good) – in cui l’obbligo morale è
puramente contrattuale e trova espressione formalistica nel “politicamente
corretto” (politically correct).
È una società nichilista – costruitasi
attraverso la disgregazione delle antimoderne strutture sociali – per cui la
decontestualizzazione del soggetto è il fondamento della libertà che deve
essergli garantita dalla massima deregolamentazione, cioè dallo smantellamento
delle istituzioni e delle leggi comuni.
È una
società guidata dalla messianica certezza nell’ottimismo del progresso
economico (American Dream) che integra l’inevitabilità del divario sociale e
dove i miliardari filantropi sono i “fiduciari per i poveri” che non sanno
“come spendere i soldi”. Gli Stati Uniti d’America sono strutturalmente un mix
di liberismo totale e paternalistica magnanimità.
Nonostante
l’opportunistica retorica della libertà, gli Stati Uniti sono una democrazia
egoista, perché spudoratamente “estrattiva” della ricchezza e del benessere
altrui.
La
relazione teleologica (neo)liberale alla prova del capitalismo.
Si
analizza il rapporto teleologico tra l’ordine liberale e la democrazia
americana per cui lo Stato è autolimitato alle questioni politico-sociali e di
sicurezza (Imperium – “rule of states”), mentre gli interessi economici sono
gestiti in modo autonomo ed esclusivo dalle élite capitalistiche (Dominium –
“rule of property”).
Ciò ha
un duplice scopo: da un lato, la sterilizzazione del conflitto sociale
attraverso la dialettica politica, e dall’altro, stabilire una dinamica di
“adattamenti concordati” (settlement) tra gli interessi dello Stato e quelli
economici, con il primo che deve garantire la “custodia esclusiva” (encasement)
dei secondi. È il cuore del pensiero neoliberale.
Nelle
varie fasi capitalistiche – scarsità, abbondanza e progressismo – la relazione
teleologica ha assolto la sua funzione, approdando all’alleanza
“mercato-democrazia”.
Un’alleanza
tattica e teleologica ma asimmetrica, che ha caratterizzato un’era che fu
rilanciata da Frank Delano Roosevelt e che durò fino alla fine degli anni 60
(The Thirty Glorious Years).
Fu il
regno della quantità contrapposto a quello della qualità. D’altra parte, il
capitalismo è una grande fiera delle vanità che si nutre di invidia sociale e
promette lusso e agiatezza per tutti che senza paura interiorizzano
l’omologazione dei desideri, dei sentimenti e delle passioni.
Con
gli anni 70 si concluse definitivamente l’era degli Imperi europei, dando luogo
ad una frammentazione globale che mise in pericolo l’egemonia americana.
Trovando
difficile, nel nuovo contesto, preservare la relazione teleologica, i
neoliberali della scuola di Chicago, deviando dalle concezioni dei colleghi
mitteleuropei, organizzarono una virulenta reazione, una vendetta contro le
richieste della maggioranza del mondo – “la detronizzazione della politica” –
che culminò nel ’79 con il Volcker Shock, che diede il colpo finale alle
domande di giustizia redistributiva e costrinse molti governi ad abbandonare
gli esperimenti socialdemocratici della gestione del mercato mediante
l’intervento pubblico.
Determinati
a difendere con ogni mezzo il commercio mondiale (free trade), i neoliberali
misero le basi per un laboratorio sistemico normativo (system design) su scala
globale.
Si disegnava un nuovo sistema, non più internazionale ma globale, incentrato
sulla finanza la cui gestione e governance veniva elevata ad un livello
superiore rispetto agli Stati nazione.
Gli
anni 70 segnarono una rottura profonda con il precedente pensiero positivista,
(neo)liberale e democratico, mettendo in crisi, a partire dagli anni 80, la
relazione teleologica.
Come
in cibernetica, non si ragionava più in termini di “ordine”, bensì in quello di
“sistemi” che possono essere sviluppati e modificati per renderli ottimali. Il
sistema è il tutto che prevale sulle singolarità che devono adattarsi ai
bisogni dell’insieme (structural adjustment).
Secondo
questa concezione, esiste una gerarchia multilivello di regole: quelle incoscienti, regole
fisiologiche istintive, che sono relativamente costanti; quelle inconsce o
derivate dalla tradizione; e, quelle sovraordinate alle prime due, un livello
“leggero” di regole adottate deliberatamente o modificate per raggiungere dei
risultati previsti.
Queste
ultime regole sono il risultato di una volontaria applicazione razionale, che
pertanto dobbiamo obbligarci a rispettare. Così si affermò il principio di
sopranazionalità che era stato pensato già negli anni 20-30 in opposizione ai
nascenti totalitarismi europei.
La
convinzione era che solo un’economia di mercato libera di operare e affrancata
da regole nazionali offrisse una soluzione “pacifica” ai gravi squilibri che si
prospettavano nel futuro prossimo.
L’asimmetria
nel rapporto teleologico tra ordine (sistema) neoliberale e democrazia è
divenuta sempre più palese, molto marcata nel mondo anglosassone, e in
particolare in quello americano, dove la riduzione della macroeconomia a
calcolo matematico impressiona i politici, ma crea danni enormi perché si fonda
su teorie di aspettative razionali e di mercati perfetti, che nella realtà sono
inesistenti.
Un’asimmetria
che mette in profonda crisi – di legittimità e di credibilità – la democrazia e
l’ordine sociale sia negli Stati Uniti d’America sia in Europa.
Un’asimmetria che mina alla base anche il pensiero
neoliberale – orfano del rapporto teleologico – che dopo l’iniziale “ubriacatura”
della deregolamentazione e della globalizzazione, dalla fine del millennio non ha più
saputo dare risposte credibili e sostenibili, lasciando la società priva di
speranza e in preda alla paura.
Rianimare
il rapporto teleologico riesumando il New Deal in vario modo è stato, come
sappiamo, di
poca efficacia rispetto alla potenza sovrastatale del capitale finanziario.
Rottura
concettuale del rapporto teleologico e crisi del (neo)liberalismo.
Si
analizza la destrutturazione della concezione moderna del mondo, quella
lineare, in due ambiti gerarchicamente ordinati:
supra, il capitale/mercato si mitizza attraverso archetipi
custoditi da una nuova oligarchia finanziaria che si sovrappone agli Stati,
alle nazioni, e alla vita delle persone;
infra, gli Stati/nazioni accettano attivamente la privatizzazione
del bene comune e quindi del modello di organizzazione sociale democratico e
della sovranità popolare.
La
relazione teleologica tra ordine liberale e democrazia è stata deliberatamente
e strategicamente interrotta (decoupling) con l’adozione di misure atte a
soddisfare gli appetiti capitalistici delle origini, ma, a partire dagli anni
80, con mezzi enormemente potenziati. La vita umana ha subìto una
mercificazione generalizzata (human capital), incentrata sul credito e sulla
paura, e il mondo è sistematicamente depredato e interamente finalizzato alla
fruttificazione del capitale finanziario.
Abbandonata
l’epoca valoriale della disciplina tayloriana e fordista che era compensata
dalla speranza offerta dallo Stato, la democrazia americana è sussunta nel
biopotere del capitalismo ordoliberale che con il controllo attraverso un mix
di dispositivi – tecnologie, monetarismo e finanza – assumerà l’effettivo
governo sulle popolazioni nel mondo.
La
“trappola del denaro” facile ha trasformato gli Stati in clienti dell’industria
finanziaria che ha potuto facilmente imporre criteri di riassicurazione
governativa rispetto alla sostenibilità dei crediti emessi, mettendo le basi
per la crisi finanziaria – e del neoliberalismo – esplosa dieci anni dopo, nel
2008. È stato così che le élite, e non le masse,
hanno tradito la democrazia.
Infatti,
è durante la presidenza Obama che la sentenza “citizens united” (2010) ha trasformato la “repubblica
oligarchica” americana in “repubblica corporativa”, annullando tutti i limiti che
vietavano alle corporations, comprese le organizzazioni senza scopo di lucro, e i
sindacati di investire in campagne elettorali.
Il
potere mercantile, divenuto finanziario, è prevalso e ha acquisito quello
politico e il sistema neoliberale è stato costellato da un susseguirsi
concatenato di crisi sociali, politiche, finanziarie e geopolitiche.
Il
primo segnale fu l’onda di ritorno del post-colonialismo reazionario (11
settembre) al quale si è risposto, ancora una volta, con la guerra come surplus
per la governance imperiale americana.
Uno schema ripetutosi nuovamente in Iraq, e poi in
Siria, senza capire che si trattava di una crisi di “riequilibrio geopolitico”
del controllo biopolitico, cioè di governance, che dimostrava l’instabilità
strutturale sistemica dell’unilateralismo americano.
Si
poteva capire già allora che il sistema neoliberale era ormai entrato in uno
stato di confusione e che occorreva ripensare tutto per vincere sul capitale
finanziario e sul suo perverso connubio con il terrorismo e la paura.
La
guerra è diventata costituente e soggettivante nelle nostre società e
nell’ordine liberale?
È
drammatico che dopo l’esplosione planetaria della pandemia nel 2020 sia la
concorrenza mercantile e il biopotere della finanza a dettare le soluzioni in
un mix di reazionarismo culturale, smarrimento istituzionale e trovate
propagandistiche. La retorica del maggio 2020 sui “vaccini bene comune” è
rimasta solo un annuncio.
Pensare
che il “bene comune” possa essere garantito e gestito dai filantrocapitalisti
di Davos (a
capo dei quali vi è Klaus Schwab, ndr) è drammaticamente sbagliato.
Alla
retorica della “guerra al virus” si è sovrapposta la più reale “guerra dei
brevetti” (property) che il nuovo potere plutocratico tecno-bio-finanziario sta
lanciando sull’umanità. Un biopotere epistemico e ontologico, che sussume,
imprigionandolo, lo spirito.
La
“retrotopia” caratterizza la vita, i valori sociali, culturali, e civili. Una
serissima minaccia per la democrazia e per il rapporto teleologico senza il
quale il neoliberalismo fallisce, aprendo a scenari terrificanti perché
totalizzanti.
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