REALTA’ CONTRO IDEOLOGIA
REALTA’
CONTRO IDEOLOGIA.
Ascrivere
la pace alla realtà
e la
guerra all’ideologia.
Ilmanifesto.it
- Francesco Strazzari – (28-10-2022) – ci dice:
ESCALATION
UCRAÌNA. Nulla
pare frenare il conflitto ucraìno: siamo in piena escalation, ci siamo arrivati
lungo la logica di realtà evidenziata proprio da chi è stato tacciato di
idealismo pacifista.
Sulla
guerra si rovescia una mobilitazione colossale di armi e risorse, in uno
scontro fra determinazioni sempre più esplicite, alle quali tutto il resto è
sacrificato. Evapora la possibilità di negoziati anche solo parziali. Il fango
si asciuga in Ucraina.
E
ciascuno pensa di poter guadagnare combattendo. Così il Segretario Generale
dell’Onu esce di scena fra i missili, quello della Nato parla di guerra per
anni, e nel parlamento inglese – la culla della democrazia – si evoca l’idea
del supporto terrestre.
Nulla
pare frenare la guerra: siamo in piena escalation, ci siamo arrivati lungo la
logica di realtà evidenziata proprio da chi è stato tacciato di idealismo
pacifista. La spinta verso l’escalation riguarda anche gli obiettivi: ridurre
le capacità di nuocere della Russia in futuro – obiettivo evocato dal
Segretario alla Difesa Austin durante la visita a Kiev – ci proietta infatti in
uno scenario assai diverso rispetto a quello del contributo per porre termine
all’aggressione.
CERTO,
A FRONTE dell’afflusso di armi sempre più pesanti e sofisticate, fino ad oggi
l’escalation di intensità è stata relativa: sempre più distruzione di
infrastrutture, ma i russi finora non hanno sfondato e l’efficacia della loro
azione militare continua a sollevare dubbi.
Tuttavia la guerra muta: il generale
Gerasimov, già capo delle forze armate, è in arrivo sul teatro ucraino, mentre
corrono voci di una mobilitazione generale. Nei talk show televisivi russi,
pessimo riflesso dei nostri altrettanto pessimi, si evocano ormai
quotidianamente scenari nucleari, speculando sull’incenerimento delle capitali
europee.
DA
ANNI ORMAI Russia e Stati Uniti sono impegnati nell’ammodernamento dei propri
arsenali nucleari, con significative difficoltà in materia di controllo degli
armamenti.
Proprio ieri Mosca ha definito ‘congelato’ il
dialogo strategico.
Mosca
e Washington detengono più del 90% delle testate nucleari del pianeta: quelle
montate su missili balistici intercontinentali possono essere lanciate entro 15
minuti dall’ordine presidenziale.
ALL’INIZIO
dell’Era Putin la Russia ha intrapreso un programma che ha portato a testare
vettori ipersonici: al pari di quelli cinesi e americani si tratta di un serio
problema per i meccanismi di deterrenza. Il Cremlino dispone di circa 14 mila
armi nucleari (la maggior parte non immediatamente utilizzabile), mentre si
stima che possa dispiegare via mare o sul terreno di battaglia 16 mila armi
nucleari tattiche. Per contro, gli Stati Uniti contano circa 3.750 testate (150
in Europa, Italia inclusa).
DAL
2020 LA RUSSIA ha reso pubblica la propria dottrina nucleare, sostanzialmente
ancorata all’idea di impiego in condizioni di minaccia per l’esistenza dello
stato.
Da
allora Putin ha più volte evocato l’atomica, esaltando il distruttivo
dell’arsenale russo. Il ministro degli esteri Lavrov ha recentemente rigettato
l’idea, diffusa in Occidente, che la Russia si proponga di alimentare
escalation tramite i riferimenti al nucleare al solo fine di indurre una
de-escalation del conflitto convenzionale.
Si ripropone qui il paradosso della logica
nucleare: la deterrenza funziona solo nella misura in cui le minacce appaiono
molto credibili, ovvero leggibili in un quadro coerente, di forte
determinazione e in assenza di esitazioni. Questo alimenta escalation nella
retorica pubblica.
In
altre parole, conta il convincimento, e dunque la dimensione ideologica della
guerra.
Non appaiono oggi ragioni razionali per cui la
Russia, data la configurazione della guerra in corso, potrebbe razionalmente
oltrepassare la soglia dell’impiego di armi nucleari tattiche.
Tuttavia, abbiamo a che fare con un invasore
che ha già sbagliato i calcoli e che con sempre maggiore insistenza evoca il
tema dell’esistenza della nazione russa, rappresentata come minacciata dagli
interessi e dai valori dell’Occidente.
DALL’INIZIO
DELL’INVASIONE dell’Ucraina in poi messaggio del Cremlino è semplice e
finalizzato a inibire la reazione internazionale: state alla larga
dall’operazione in Ucraina o dovrete affrontare il rischio di un’escalation con
implicazioni nucleari.
Stante questa premessa e il rischio
esistenziale che il Cremlino si è preso, negoziare con la Russia significa
toccare alcuni dei principi-cardine dell’ordine internazionale.
Soprattutto
in presenza di gravi crimini di guerra, negoziare la sorte di regioni
conquistate con la forza sarà quanto mai difficile: di peggio c’è forse solo
pensare che la vittoria sia dietro l’angolo se si distrugge di più e più a
lungo.
Del
resto sin dal 2008, quando annesse i territori di Abkazia e Ossezia del Sud,
Putin è stato chiaro circa il precedente dell’indipendenza del Kosovo rispetto
ai «tanti Donbas» che esistono nello spazio ex sovietico.
Nonostante questa insistenza, in questi 14
anni la Russia non ha mai riconosciuto l’indipendenza del Kosovo, né – fino ad
ora almeno – quella della stessa Transdnistria.
NON
EMERGE, IN sostanza una vera e propria dottrina-Putin in materia di
indipendenze e annessioni, forse anche per non contrariare Cina e India, alle
prese con le proprie questioni separatiste.
Emerge
invece sempre di più una retorica ‘contro l’oppressione neo-coloniale
occidentale’ che paradossalmente oggi candida l’espansionismo russo, proprio
mentre mette a ferro e fuoco l’Ucraina come se fosse una provincia ribelle, a
sfidare l’Occidente liberal-democratico anche a nome di altre potenze
regionali. Questa dinamica è insidiosa per l’Europa.
VEDERE
I MERCENARI russi di Wagner acclamati come liberatori in Africa, cavalcando
l’impopolarità degli occidentali mentre aprono il fuoco sui civili, ci dice
dell’urgenza per l’Europa di smarcarsi dalle politiche di due pesi e due misure
figlie dei più controversi processi di (de)colonizzazione (inclusi i Territori
palestinesi o le occupazioni militari turche nel nome dell’ideologia
neo-ottomanista).
Ci dice,
in altre parole, quanto necessario sia investire materialmente sulla pace: ascrivere la pace alla realtà e la
guerra all’ideologia.
Speranza, incubo Commissione.
Lui
mette le mani avanti:
"Ho
seguito la scienza".
msn.com
– il giornale - Giuseppe De Lorenzo – (28 -10 -2022) – ci dice:
Ci
sono degli incipit di alcuni pezzi che vale la pena riportare. Quello
che Repubblica ha oggi dedicato a Roberto Speranza è uno di questi. State a sentire: “Ha sacrificato tutto: sonno, sogni,
il nero dei capelli. ‘Non dormivamo mai, sempre in allerta - confidò un giorno
- giorno e notte’. Si è prosciugato inseguendo il Covid. E adesso gli mettono
addosso un bersaglio e iniziano a mirare, anche se lui ha deciso di non
replicare e di non parlare ufficialmente”.
Ci
mancano solo le stimmate, la vista ridata a un cieco, l’acqua trasformata in
vino e il processo di canonizzazione è cosa fatta.
Si
lamenta, Roberto Speranza.
Si
lamenta per la decisione (pienamente legittima) della neo-maggioranza di
governo di indagare sulla “stagione” del Covid. La prima ondata, in
particolare. Quando la Val Seriana veniva chiusa in ritardo, quando le
mascherine finivano in Cina, quando il piano segreto non veniva aggiornato,
usato.
E poi
i piani segreti, le scelte della task force, gli “affari milionari”
sull’acquisto di respiratori e mascherine.
“Posso
chiedere perché tanti colleghi degli altri partiti sono così preoccupati? -
dice oggi Matteo Renzi, pronto a sostenere la Commissione d’Inchiesta voluta da
Fdi - È giusto fare chiarezza su ciò che accadeva mentre morivano decine di
migliaia di nostri connazionali. O no?”.
No,
almeno non secondo i difensori d'ufficio di Speranza. Lui dice di aver “sempre deciso
ascoltando la scienza”, anche se i verbali della task force suggeriscono che il
suggerimento di attivare il piano pandemico, arrivato da Giuseppe Ippolito,
venne sostanzialmente ignorato.
L’ex
ministro va “a tasta alta per tutto quello che abbiamo fatto”. E ci sta che
rivendichi il proprio lavoro. Così come sarebbe comprensibile se mai volesse
opporsi alla Commissione: in fondo negli ultimi due anni il suo ministero -
checché se ne dica - non è stato esattamente uno specchio di trasparenza.
Basterà ricordare l’aver costretto parlamentari e familiari delle
vittime a far ricorso al Tar per ottenere verbali e piani anti-Covid.
I
sette punti su cui la Commissione dovrebbe indagare li ha resi noti il
Giornale. In sintesi: capire perché, nonostante le misure più rigide del
vecchio Continente, alla fine abbiamo comunque pagato un prezzo così alto in
termini di morti.
Anche
e soprattutto nella prima fase dell’epidemia. “Mezza Europa ha seguito le
nostre strategie”, ripete Speranza. Ma il “modello”, decantato pure da un
improvvido video dell’Oms, ha fatto acqua da tutte le parti.
Lo
spiegava un dossier sempre dell’Oms, misteriosamente ritirato dal sito
dell’Organizzazione e che sarà - si pensa - anche questo al centro
dell’eventuale Commissione.
"Abbiamo
combattuto giorno e notte cercando di salvare vite - riporta Repubblica - mentre
una certa destra sobillava le piazze dei No Vax contro il Green Pass”.
Già,
ma i maligni potrebbero far notare che l'ex ministro combatteva così tanto di
giorno e di notte da trovare il tempo per scrivere un libro (“Perché
guariremo”) e pubblicarlo proprio mentre il Paese affrontava la seconda ondata.
Che
poi un po' di autocritica non farebbe mica male. Che qualcosa non sia andato
come sperato lo si era capito anche dalle mosse di Mario Draghi appena nominato
premier.
Sì, ha confermato il ministro e varato il
green pass. Però ha licenziato tutti quelli che ruotavano attorno al ministro
del Conte II.
Se il
generale Figliuolo ha fatto così bene, forse si potrà cercare di capire perché
del suo predecessore non si può dire altrettanto.
O no?
E se il Cts ha cambiato composizione forse ci si potrà interrogare se ha
operato al meglio.
“Di
cosa hanno paura?”, chiede Renzi. In fondo se ha fatto tutto al meglio, come
crede, Speranza non avrà nulla da temere. Perché allora opporsi?
L’Europa
divisa
tra
realtà e ideologia.
Ilsole24ore.com
- Sergio Fabbrini – (10 ottobre 2022) – ci dice:
È un
bene che la Germania sia uscita dal dogma dell'austerità, ma dovrebbe
applicarsi a livello europeo.
Non
dovevano prendere decisioni ma discutere le decisioni da prendere. Questo è
stato lo scopo della doppia riunione del Consiglio europeo dei 27 capi di
governo dell'Unione europea (Ue), riunitisi informalmente a Praga (giovedì) con
17 capi di governo di Paesi europei che non sono membri dell'Ue e quindi
(venerdì) da soli.
La
riunione di giovedì doveva servire a discutere il ruolo di una Comunità
politica europea costituita di membri e non membri dell'Ue. La riunione del
venerdì doveva discutere (tra le altre cose) la risposta da dare all'incremento
del costo del gas. Le due riunioni hanno mostrato come, nella politica europea,
realtà e ideologia divergono.
Cominciamo dalla riunione di venerdì in cui si
doveva preparare (tra i 27 capi di governo dell'Ue) la risposta da opporre
all'incremento dei costi dell'energia (risposta da formalizzare nella riunione
del prossimo Consiglio europeo del 20-21 ottobre).
Nella
riunione c’era “un elefante nella stanza” (per dirla con il Financial Times),
ovvero la decisione unilaterale presa pochi giorni fa dal governo tedesco di
creare debito per 200 miliardi così da sussidiare imprese e famiglie tedesche
colpite dall’incremento del costo dell’energia.
Naturalmente,
anche altri governi nazionali (come quello spagnolo) hanno preso decisioni
simili. I governi nazionali rispondono innanzitutto al loro elettorato. Così ha
fatto il governo tedesco, anche se le conseguenze delle sue decisioni non sono
equivalenti a quelle degli altri governi nazionali.
Per le sue dimensioni (un debito equivalente
al 5 per cento del Pil seppure spalmato su due anni), il sussidio fornito alle
imprese tedesche è destinato ad alterare la competizione con le imprese degli
altri Paesi.
Tant’è
che è stato apertamente criticato dai commissari Paolo Gentiloni e Thierry
Breton e sarà oggetto di valutazione da parte della commissaria alla
competizione, Margrethe Vestager.
Dunque,
il governo del socialdemocratico Scholz, che pure si basa su un programma
impegnato a promuovere la solidarietà con gli altri Paesi europei, ha pensato
prima ai tedeschi di fronte alla crisi energetica. Essendo la politica
energetica una competenza dei governi nazionali, non poteva essere
diversamente.
Tuttavia,
la decisione del governo Scholz contraddice clamorosamente ciò che i governi
tedeschi hanno continuato a sostenere per più di un decennio. Ovvero che fare
debito è un “peccato” e che l’austerità di bilancio è l'unica ricetta di
politica economica per contrastare la tendenza speculativa dei mercati
finanziari.
Posizione
quindi riaffermata poche settimane fa dal ministro tedesco del Tesoro, il
liberale Christian Lindner, che ha riaffermato (in un non-paper del suo
Ministero) la necessità di reintrodurre presto il Patto di stabilità e
crescita, sospeso dopo la pandemia, seppure rendendolo “più flessibile”.
Al
punto che, pochi giorni fa, la Corte dei conti tedesca ha giudicato il nuovo
debito in contrasto con il principio del pareggio di bilancio celebrato nella
costituzione tedesca. È un bene che il governo tedesco sia uscito dal dogma
dell’austerità, anche se ciò dovrebbe applicarsi anche a livello europeo e non
solo nazionale. Così, di fronte ad una crisi drammatica, la realtà si è imposta
sull’ideologia anche a Berlino.
Vediamo
ora la riunione del giovedì della nascente Comunità politica europea.
Quest’ultima deriva dalla proposta avanzata dal presidente francese Macron nel
discorso tenuto a Strasburgo il 9 maggio scorso.
In quell’occasione, il presidente francese
propose di dare vita ad una Comunità di stati allargata a tutti i Paesi europei
«che condividono i nostri valori».
Poiché
il processo di allargamento dell’Ue è complesso ed ha tempi lunghi, la Comunità
politica europea dovrebbe costituire il forum dove discutere sin da subito le
sfide comuni a tutte le “nazioni europee”, come le sfide militari o ambientali
o energetiche.
’68 E
OLTRE. IL MONDO CHIAMA.
TRA
IDEOLOGIA E REALTÀ.
Meetingrimini.org
- Franco Bonisoli - Marta Busani - Annalisa Costanzo – (20 agosto 2020) – ci
dicono:
(’Università
Cattolica di Milano)
MARTA
BUSANI.
Vi
ringrazio di essere così inaspettatamente numerosi per questo secondo incontro
del ciclo “‘68 e oltre”, legato alla mostra “Vogliamo tutto.
1968-2018”
che vi invito ovviamente ad andare a visitare. Questo secondo incontro che
abbiamo intitolato “Il mondo chiama. Tra ideologia e realtà” sarà di fatto un dialogo tra
Annalisa Costanzo, studentessa di Scienze politiche all’Università Cattolica di
Milano, gli altri studenti che hanno costruito questo percorso della mostra e
Franco Bonisoli, ex militante, in gioventù, delle Brigate Rosse: ha partecipato
al sequestro Moro.
Nasce
e cresce a Reggio Emilia: quello di oggi, sarà un dialogo sulla sua vita,
quindi non anticipo nulla, dico solo brevemente perché abbiamo invitato Franco,
e perché proprio lui.
Lo
abbiamo incontrato sei mesi fa, mentre stavamo preparando la mostra “Vogliamo tutto” e abbiamo trovato una persona
disposta a prendere sul serio il dialogo con noi, a fare un cammino insieme su
quelle domande di fondo che hanno dato il via alla mostra, e cioè: cosa vuol
dire partecipare al cambiamento del mondo oggi, cosa vuol dire costruire il
mondo oggi?
Non è
scontato trovare persone che siano disposte a questo cammino insieme. Ha
mostrato anche, come dire, il valore di un dialogo tra le generazioni. Franco
racconta spesso, poi ci sarà modo di approfondire, che l’ideologia che lui ha
seguito ad un certo punto della sua vita lo ha portato in fondo ad una
disumanizzazione.
Oggi
viviamo in un mondo in cui queste grandi ideologie non esistono più, però
vediamo ancora dei tentativi di spiegazione semplificata dell’uomo e della
realtà. È più facile fermarsi a questi miti, a queste spiegazioni facili. Con
Franco abbiamo iniziato questo cammino che magari è più faticoso, un cammino di
conoscenza di tanti fattori anche complessi della realtà del mondo di oggi, a
partire dalla realtà che lui ha vissuto e dall’esperienza che ha fatto, dal ‘68
fino ad oggi.
Non
tolgo altro tempo, volevo solo darvi le ragioni per cui siamo qui oggi. Buon
dialogo.
ANNALISA
COSTANZO
Per
addentrarci in questo percorso, la prima domanda parte dall’inizio della tua
storia. Volevamo chiederti di raccontarci quella che è stata la tua infanzia,
conoscere i valori che hanno inciso nei primi anni che hai vissuto in casa a
Reggio Emilia; poi, diventato grande, che tipo di rapporto c’era tra la vita di
tutti i giorni e l’appartenenza al Partito.
FRANCO
BONISOLI.
Buongiorno
a tutti e grazie di avermi invitato. Adesso devo fare i conti con il tempo che
è limitato, e la domanda richiede un discorso un po’ più lungo, ci proviamo.
Marta ha un po’ spiegato la storia per cui oggi sono conosciuto e ricordato ma,
come diceva Annalisa, ho anche una storia molto normale.
Vengo
da Reggio Emilia come Marta, solo che ho con qualche anno in più, da una
famiglia normale di operai, persone che sono passate attraverso la seconda
guerra mondiale e che hanno ricostruito la società del boom economico, quella
che noi abbiamo ereditato e trovato pronta.
Ho
avuto la possibilità di studiare e di avere una vita abbastanza normale. Nel
‘68 avevo tredici anni, però ho vissuto anche a quell’età l’aria, il clima che
si respirava e che la mostra (che mi auguro abbiate visto, invito chi non l’ha
vista ad andare) secondo me riesce a recuperare molto bene.
C’era
una grande irrequietezza, una società bloccata a livello politico, tra i
partiti e la guerra fredda, bloccata anche nella vita quotidiana, in famiglia:
tu avevi un ruolo, dovevi studiare, trovare un lavoro, diventare un buon
consumatore, misurare la tua capacità di crescita umana sulla base della
quantità di cose che riuscivi ad acquistare.
Era la
società del benessere, insomma. Ho vissuto tutta questa fase di disagio, il
desiderio di modificare e rompere questi schemi e costruire un mondo migliore.
Uno degli elementi che mi avevano colpito, come avevano colpito la generazione
mia e di chi aveva qualche anno in più, era la guerra del Vietnam, una guerra
di aggressione dello Stato americano, di una società avanzata, verso un popolo
di contadini. La nostra idea era difendere questo piccolo popolo.
Adesso,
se apriamo la televisione, ci sono solo guerre, battaglie, morti, uccisi: ma
noi continuiamo a fare una vita normale, abbiamo quasi metabolizzato questa
situazione, ci scandalizziamo, ci indigniamo ma alla fine tutto funziona.
Allora, invece, c’era questa forte tensione verso la giustizia, e questa guerra
è l’esempio più alto di una grande ingiustizia.
Io ho
vissuto questo tipo di esperienza già quando andavo a scuola, nel Movimento
studentesco: Annalisa voleva che raccontassi ancora un passo prima, quando
andavo alle scuole medie. È rimasta colpita che già alle scuole medie ci fosse
questo desiderio di rompere un momento di rigidità: infatti avevamo cominciato
a chiedere l’assemblea.
Che
cosa significava questa parola? Era un modo per dire in modo ufficiale,
diretto, quello che pensavamo. In realtà, di cose da dire non ne avevamo
tantissime, però era importante sentirci protagonisti. Vi racconto un episodio.
Alle scuole medie, l’ora di Religione fatta da un povero prete era un disastro:
aeroplanini che volavano, di tutto, di più che succedeva. Lui non riusciva mai
a fare lezione, fino a che gli forgiammo addirittura un ritratto che mandammo sul
giornale di classe: «Pasini don Noè, alto un metro e trentatré, con lo sguardo
da playboy e il cappello da cowboy».
Fu un disastro, lui si offese terribilmente,
consiglio dei docenti, ecc. Ma che cosa fece? Io ero in seconda media, un
ragazzino, quando lui entrò in classe, un giorno, dicendo: «Bene, ragazzi,
visto che non riesco a fare lezione, ditemi di che cosa volete parlare». Noi,
subito: «Educazione sessuale, educazione sessuale!».
Era una forma di trasgressione nonché il
grande tabù. Lui disse: «Va bene». Divenne il nostro riferimento nella scuola
perché si iniziò a parlare, non ricordo come: era importante il fatto di essere
riconosciuti perché una delle cose che si sentiva forte era il non ascolto da
parte degli adulti. «Ti ascolto finché stai dentro uno schema, fuori di quello,
basta!».
È una cosa che penso ci sia ancora oggi. Ho
sentito, quando siamo andati a Roma all’incontro col Papa, che lui ha molto
insistito sulla necessità di ascoltare i giovani. Noi sentivamo molto forte
questa cosa. Da lì in poi, sono andato alle superiori, ho cominciato a
partecipare al Movimento studentesco.
Mi
affascinavano le persone con l’eskimo, che cominciavano a parlare di
contestazione. Tutti sognavano questo mondo migliore, questa guerra che ci
attraversava tutti: si aveva questa dimensione un po’ internazionale, si
guardava con attenzione a ciò che succedeva nel mondo, ai movimenti
rivoluzionari in America Latina, a quelle che erano state le rivolte di
Berkeley in America, i movimenti anche in Giappone, perché c’erano stati anche
lì.
Questa dimensione era come un vento che
soffiava e che ti coinvolgeva. Aveva dentro il grande sogno di essere
protagonisti, di costruire una società più giusta, senza guerre e senza
sfruttamento, una fratellanza: quello che avete messo nella mostra e scritto in
tanti punti. Quello, era. Come sono arrivato poi, più avanti, a fare la scelta
della lotta armata? Chi ha la mia età, ricorda il contesto: le manifestazioni
di protesta, fiumi interi di persone che gridavano slogan, le varie ideologie a
cui si attingeva.
C’era un po’ un vuoto culturale sul presente,
così siamo andati ad attingere culture che appartenevano al passato. Io vengo
da una famiglia di comunisti che hanno fatto la Resistenza partigiana, mio
padre fu portato in un campo di lavoro in Germania.
C’era
un po’ questo mito della Resistenza, l’idea di portare a compimento quello che
i nostri padri non erano riusciti a fare perché la democrazia che c’era,
secondo noi, non bastava. L’unica democrazia, per noi di fede comunista, era
avere uno Stato comunista sul modello sovietico. L’idea era questa: continuare
questa esperienza dei padri e portarla a termine.
I riferimenti erano la rivoluzione russa e
quella cinese, modelli che ci proiettavano nel futuro senza considerare quello
che capisco oggi, che quelle rivoluzioni portarono Stati feudali ad una forma
di progresso maggiore, mentre noi eravamo una società già avanzata che stava
per fare un grande balzo in avanti sul piano strutturale.
Alla
Fiat di Mirafiori allora c’erano 60 mila operai, oggi non so, ce ne sono 200,
2000: è cambiato strutturalmente tutto. Quella era la classe operaia che, secondo
la nostra ideologia, doveva dirigere un processo di trasformazione
rivoluzionaria della società: eravamo nel pieno di questo vortice, che a nostra
volta alimentavamo.
ANNALISA
COSTANZO.
Riprenderei
il punto in cui parlavi del fatto che si viveva una forte dimensione
internazionale: i giovani di quegli anni si sentivano immersi in una causa
globale.
Mi
colpisce, e immagino colpisca quelli un po’ più giovani, perché per me oggi è
impensabile che una guerra dall’altra parte del mondo possa incidere così nelle
scelte della mia vita qui.
Mi piacerebbe che tu ci raccontassi meglio
quali dinamiche si vivevano, immersi in un contesto così internazionale.
Raccontavi che è stato fondamentale vivere questa dimensione per poi trovare
quei grandi motivi che ti hanno portato a fare una scelta radicale come entrare
in clandestinità.
MARCO
BONISOLI.
Sì,
c’era questa dimensione per cui tutto si sentiva molto forte, queste
ingiustizie che avvenivano da altre parti venivano condivise da noi, le
sentivamo dentro. Mi ricordo che c’era il periodo del Biafra, ci facevano
vedere queste foto dei bambini denutriti.
E tu che eri in questa società in cui, tutto
sommato, si mangiava tre volte al giorno, si studiava, dicevi: ma cosa posso
fare per cambiare qualche cosa? La visione non era migliorare il proprio
orticello, il nostro Paese, ma era una visione globale, tutto il mondo doveva
cambiare e ognuno doveva fare la sua parte.
Prendevamo
i movimenti di riferimento, i movimenti rivoluzionari o i gruppi armati (Che
Guevara, il Cile che si ribellava) come riferimenti di chi stava già facendo la
propria parte. E abbiamo cominciato a pensare a come fare la nostra.
In questo fiume di contestazione che c’era
anche in Italia, tra gli slogan e la cultura di sinistra (una sinistra che
faceva riferimento al marxismo-leninismo e anche ad una certa cultura cattolica
che poi è diventata la Teologia della liberazione), le parole d’ordine erano
fortissime: “Il potere nasce dalla canna del fucile”, “La rivoluzione è un
pranzo di gala”, “Lo Stato borghese si abbatte e non si cambia” e via di questo
passo, a seconda che i testi del marxismo-leninismo facessero riferimento alla rivoluzione
sovietica, al maoismo, per non parlare della Scuola di Francoforte.
Era la cultura della contestazione, i testi
dei gruppi rivoluzionari armati dell’America Latina erano pubblicati dalla Jaca
Book: io li trovavo alla libreria Nuova Terra del gruppo che si chiamava One
Way, che lavorava insieme al gruppo dell’appartamento che poi diede origine
alle Brigate Rosse.
Quando
ci fu la rottura, questi diventarono Gioventù studentesca e poi Comunione e
liberazione: era un ceppo che poi si è separato. Ricordo che a sinistra della
Federazione Giovanile Comunista di Reggio Emilia (che tra l’altro era la più a
sinistra d’Italia, insieme a quella di Napoli) c’erano il gruppo
dell’appartamento e One Way.
Questo
era il contesto. I testi dei rivoluzionari li stampava la Jaca Book, non lo
facevano né Feltrinelli né Einaudi. E poi li trovavi nella libreria che in
seguito ha dato vita alla vostra storia. A quel punto si poneva una domanda:
«Come si riesce ad essere fino in fondo coerenti con quello che si dichiara?».
Da un
lato, c’era la politica, si andava in piazza a gridare alla rivoluzione, poi si
tornava a casa e si faceva una vita normale. La discussione allora era molto
forte sul piano della scelta esistenziale, della scelta di vita: l’ideologia
stava sopra, era qualcosa che doveva dare il supporto, il vestito a quella che
era la profondità della scelta esistenziale: se dare la propria vita per una
causa o meno.
Il discorso che ha fatto ieri qui il professor
Capozzi sulla scelta di dare la propria vita ad una causa per me, allora,
significò entrare nelle Brigate Rosse, le nascenti Brigate Rosse,
un’organizzazione che esprimeva la vera coerenza tra quello che erano le parole
e i fatti.
Se si
dice che la rivoluzione va fatta con l’uso delle armi, ci si arma, si diceva.
Ricordo che molti miei compagni, allora, non fecero la scelta della lotta
armata, come feci io, per paura, per timore, perché non riuscivano a concepire
l’idea di dare la vita per quello, senza una via di ritorno.
Invece
io ho fatto questa scelta, ho cominciato a quindici anni a occuparmi
attivamente di politica e a diciassette si parlava di classe operaia: ho
lasciato la scuola per andare a lavorare in fabbrica con la classe operaia, non
per parlare di classe operaia ma per vivere con la classe operaia.
Poi ho studiato lo stesso per diplomarmi, per
i miei genitori, perché fu un dramma la mia scelta di lasciare la scuola. Erano
famiglie che uscivano dalla guerra, i figli che studiavano erano un riscatto
anche per loro. Lasciare la scuola era tradire questo desiderio della mia
famiglia: quella fu la prima scelta, la seconda fu di passare alle Brigate
Rosse.
Mi
chiedevi prima del Partito comunista: in questo frangente lasciai i gruppi
extraparlamentari e provai a fare un’esperienza nel Partito comunista. Quando
fui nella fabbrica, mi iscrissi alla cellula del Partito comunista: ero
giovane, brillante, diciamo così, mi mandarono subito a fare un corso di
formazione di tre giorni, dove incontrai anche onorevoli, una cosa
interessante.
Poi
entrai nella FIOM, e subito anche lì un altro corso di formazione di tre
giorni: ero una promessa anche per loro. Mia madre fu quasi contenta, disse:
«Vabbè, dai, non avrai studiato, però a Reggio, nel Partito, in qualche modo…».
Era la sua idea, trovare comunque una collocazione nella società della
sicurezza: purtroppo per lei e per tanti, tradii anche questo perché a
diciannove anni feci la scelta della clandestinità ed entrai a tempo pieno
nelle Brigate Rosse.
ANNALISA
COSTANZO.
Insomma,
sei partito, facendo questa scelta così radicale, con il desiderio di costruire
una società più autentica, seguendo però un’ideologia che definisci
disumanizzante. Mi piacerebbe che tu spiegassi perché, per cambiare il mondo,
ti sei ritrovato disumanizzato. L’altra domanda è: in che cosa ha fallito questa
ideologia?
FRANCO
BONISOLI.
Quando
iniziai ad occuparmi di politica, feci una scelta, incominciai a sposare la
teoria marxista-leninista con tutte le risposte che questa ideologia dava
all’analisi della società, alla possibilità di sognare un futuro più giusto, un
Eden terreno, perché il comunismo poi era questo.
Il
sogno del comunismo era un Eden terreno che potevamo vivere subito, secondo
quei criteri manichei: dividiamo il mondo in due, i buoni da una parte, i
cattivi dall’altra. I buoni siamo noi, gli sfruttati, quelli che vogliono
cambiare il mondo; i cattivi sono i padroni, chi ha il potere e tutti coloro
che li difendono.
Quindi, dividiamo il mondo in due, la
rivoluzione deve abbattere il mondo cattivo che tiene il potere e instaurare
una società di transizione, che si chiamava dittatura del proletariato.
Doveva
mantenere il potere, un nuovo potere, un potere giusto, per arrivare a una fase
di transizione al comunismo dove, si diceva, «da ognuno secondo le sue
possibilità a ognuno secondo le sue necessità».
Un
grande sogno. Il problema è che, in tutto questo, il presupposto era la scelta
della lotta armata per abbattere lo Stato con la forza, con la violenza, con
l’uso delle armi. Il presupposto, anche quando ancora non si sparava
direttamente alle persone, era l’omicidio politico, l’uso della violenza in
modo estremo.
E questo è stato poi alla base della storia
che tutti conosciamo, che qualcuno ha definito “anni di piombo”, un’altra definizione
impropria ma non ci sarà tempo per parlarne. Tu hai parlato di
disumanizzazione: sì, il problema era che in chi, come me, come tutti i miei
compagni di allora, aveva fatto la scelta della lotta armata, non c’era un
desiderio di potenza, di potere personale.
Anzi.
La scelta della clandestinità, nel ‘74, corrispondeva a dare prima di tutto la
vita per la causa. Quindi, la vita che mettevo in discussione, prima di tutto
era la mia. Non c’era l’idea di abbattere questo mondo di brutture, ci potevano
volere cent’anni, il discorso era: «Do il mio contributo per le nuove
generazioni».
Dare
questo contributo voleva dire per noi dare la vita. Sapevo che la mia vita non
avrebbe avuto un futuro certo, ma pensavo che ne valesse la pena, perché
l’alternativa era vivere in un mondo che rifiutavi, insieme all’ipocrisia,
prima di tutto tua, di dire: «Questo mondo non va bene però, in fin dei conti,
mi ritaglio qualcosa per sopravvivere, e magari ci riesco pure».
Il
problema è che il fatto di mettere in discussione la propria vita, e pensare
poi che la vita degli altri, di quelli che ritenevamo nemici, potesse venire
sacrificata, loro malgrado, per questa causa, non giustifica niente. Il
problema è che, quando fai questa scelta e cominci a mettere in pratica queste
teorie, di fatto metti in pratica l’omicidio di altre persone, cominci a
perdere, a negare i valori che ti hanno portato all’inizio a fare queste
scelte.
Adesso
dico la parola persona, ma allora non potevi pensare alla persona, pensavi a un
ruolo, alla funzione che questo ricopriva, era necessario reificare, rendere la
persona una cosa, vederne solo il ruolo, la funzione: il politico, che ha un
ruolo importante nello Stato, il poliziotto, che è prima di tutto una divisa.
Diventavamo giudici e processavamo le persone
senza appello, senza neanche dare loro la possibilità di dire qualcosa.
Disumanizzando senza nemmeno accorgertene la persona che vuoi colpire,
disumanizzi te stesso, perdi il senso della tua umanità e reifichi anche la tua
persona.
Era un processo inconscio, necessario perché
la causa, questa cosa sempre più astratta, sempre più piena di ideologia,
continuasse ad essere quel cemento che teneva uniti, quella cosa che
giustificava tutto. Il problema pericoloso, più tremendo è che, quando entri in
una spirale di questo genere, invece dell’incontro inizi con lo scontro.
E
crescendo verticalmente lo scontro, il dialogo tende a scendere sempre di più:
non c’è più possibilità, diventa una spirale della quale è difficile rendersi
conto per pensare di uscirne. La soluzione è solo se uno riesce a sopprimere
l’altro: poiché questo non è così facile, lo scontro si alza, si alza, si alza
e tu disumanizzi te e l’altro disumanizza se stesso.
Alla fine, non vai da nessuna parte. Non siamo andati
proprio da nessuna parte, sono stati solo danni, è saltata l’idea e la violenza
ha portato solo violenza e disumanità. Uscire da questa spirale è
difficilissimo, io ho avuto la fortuna di uscirne e per questo oggi sono qui a
parlarne.
ANNALISA
COSTANZO.
Partendo
da qui, allora, ti chiederei di raccontarci che cosa è successo dopo, durante
gli anni del carcere, quando ti sei accorto di tutto questo, quando sono
accaduti fatti che sarebbe bello ci raccontassi, quando hai incontrato delle
persone per cui hai capito che l’ideologia stava crollando, era fallita.
Un’altra cosa che ci ha colpito è che c’è
stato qualcosa che ti ha permesso di non morire schiacciato da questo
fallimento che, come tu ci raccontavi, per molti è diventato inaccettabile. Allora, che cosa è servito, come hai
potuto riconquistare tutta la tua umanità in quegli anni?
FRANCO
BONISOLI.
Se ho
riconquistato tutta la mia umanità, non lo so, però diciamo che almeno sono
riuscito ad uscire da questa disumanità. Ho vissuto quattro anni clandestino,
ho svolto il mio ruolo di rivoluzionario, sono stato arrestato nel 1978 e sono
finito in carcere.
Allora
c’era il circuito delle carceri speciali, delle carceri di massima sicurezza:
sono finito lì. Una volta arrestato, non è che fosse cambiato qualcosa, per me,
anzi. L’idea nostra era di continuare a fare i rivoluzionari all’interno del
carcere, secondo i modelli dei partigiani, dei comunisti che venivano arrestati
durante il fascismo.
E si continuava all’interno del carcere a
mantenere forte l’ideologia, si studiava, anzi, si coglieva l’occasione, il
tempo disponibile per approfondire i sacri testi. Questo serviva a mantenere
sempre il cemento, a crescere culturalmente secondo quello schema nostro per
poi pensare di organizzarsi a mantenere vive le strutture e le nostre cellule
organizzate, per puntare all’evasione dal carcere perché era un dovere di
rivoluzionari uscire per poterci ricongiungere ai nostri compagni, per
continuare la lotta.
E addirittura lottare all’interno del carcere
per mettere in discussione anche questo, uno dei cardini del potere dello
Stato, il carcere stesso. E quindi il carcere era duro, durissimo, tra l’altro:
lo posso dire oggi perché, a distanza di tempo, mi chiedo come siamo riusciti a
sopravvivere in quelle condizioni, nel circuito delle carceri di massima
sicurezza.
Solo
un esempio: nel sistema di detenzione che veniva utilizzato – Amnesty
International l’aveva più volte dichiarato, denunciato – c’era la pratica della
tortura. C’erano state molte denunce alla Corte internazionale dei Diritti
dell’uomo. Però, più il carcere era duro, più mi giustificava: è uno Stato
violento al quale ci si può opporre solo con la violenza.
In
questo contesto, quindi, il carcere duro giustificava le nostre idee. Prima non
ho fatto un passaggio sulla nostra reazione al carcere, su come vedevamo lo
Stato, le nostre aspirazioni. In Italia (a differenza che in Francia) la
risposta che ricevemmo dallo Stato furono le bombe di piazza Fontana, le bombe
di piazza Brescia, le bombe sui treni nel 1974, il tentato golpe di Junio
Valerio Borghese negli anni Settanta. Il clima era pesantissimo, anche a
livello europeo e internazionale: il regime dei Colonnelli in Grecia, il regime
fascista in Spagna.
Era un clima nel quale vedevamo un’unica
possibilità di opporsi, soprattutto dopo il colpo di Stato in Cile, la lotta
armata. Mentre Berlinguer scelse la strada del compromesso storico, noi
dicemmo: «No, in quel modo non si va da nessuna parte, l’unico modo è armarci».
Ritornando
ancora sul discorso di come noi vedevamo l’altra parte, il carcere duro,
durissimo, giustificava il fatto che dovevamo continuare la nostra rivoluzione
armata contro lo Stato. É andata avanti così per diversi anni. Poi fui
condannato: ebbi quattro condanne all’ergastolo e 105 anni in vari processi
perché, avendo fatto parte della direzione dell’organizzazione, in ogni città
subivo un processo.
Di
default si prendeva l’ergastolo come responsabili globali delle azioni armate
che erano state fatte in quella città. Di contro, noi non ci difendevamo, anzi,
diventava un punto d’orgoglio il fatto di essere in uno Stato repressivo. Cos’è
cambiato?
Ad un
certo punto, si è cominciato a prendere coscienza che qualcosa non andava.
All’esterno, il livello di potenza militare dell’organizzazione Brigate Rosse
era altissimo; erano nati altri gruppi importanti come Prima Linea, tanti altri
gruppi e gruppetti armati. Tutti che spingevano a fare la rivoluzione
(ricordiamoci cos’è stato il movimento del ‘77, anche quello, un livello
goliardico-creativo da una parte, ma dall’altra molto armato).
L’idea sembrava giunta ad una fase pre-insurrezionale,
però si vedeva che qualcosa non funzionava più. Cominciarono le fratture al
nostro interno, cominciò quel fenomeno che fu definito pentitismo, persone che
diventavano collaboratori di giustizia e collaboravano con lo Stato, senza
bisogno di torture.
Lì
cominciò la fase implosiva, e fu una fase terrificante perché noi ci ritenevamo
il corpo sano, fautore del cambiamento e della trasformazione: e chi cominciava
a cedere al nostro interno, diventava la mela marcia da isolare e cacciare.
Finché le mele marce cominciarono a diventare
tante e iniziò la fase di implosione: si cominciò ad usare la violenza contro
questi infami, queste persone che tradivano la giusta causa giusta, iniziammo
ad ammazzarci tra di noi.
Fu una
fase tremenda, che in alcuni casi (questa è la spirale) lo Stato stesso
favoriva. Nel clima di estrema violenza che ormai c’era, all’interno delle
carceri speciali veniva mandata una persona che aveva collaborato con la
giustizia, uno considerato un infame da uccidere. E lo mandavano apposta nel
carcere dove c’erano quelli che l’avrebbero aggredito.
E questo incentivava ulteriormente un clima di
pazzia. Ora, io riesco a parlarne così, ma allora eri talmente coinvolto che
non riuscivi neanche a renderti conto di dove si stesse andando. Poi, ad un
certo punto, come una macchina che gira forte forte e improvvisamente crolla,
ho cominciato ad avere un momento di crisi in cui non capivo più, sono arrivati
i dubbi.
Il
dubbio, nella mia esperienza non aveva e non poteva avere spazio, voleva dire
mettere in discussione qualcosa da cui era difficile tornare indietro. Tornare
indietro poteva voler dire tradire, tradire voleva dire mettere in discussione
una macchina perfetta, se rimaneva compatta, ma che si poteva distruggere se
cominciava ad inserirsi qualche dubbio
. I
dubbi andavano cacciati, alle domande dovevo rispondere subito con delle
“frasi”: citavo Il Capitale, citavo Lenin e mi davo risposte per cacciare
questi dubbi. Ma dopo un po’, tutto questo cominciò a mostrare la sua fragilità,
cominciai a non crederci più. Ricordo che il ministro Vassalli, su qualche
giornale, parlò di una possibile amnistia. Mi trovai di fronte lo scenario
della mia vita: avevo 28 anni e ne avevo fatti parecchi di carcere, ero stato
nelle carceri peggiori, come l’isola dell’Asinara, Pianosa, Nuoro, eravamo il
cosiddetto “circuito dei camosci”. Carceri con un livello di violenza, anche
dei custodi, altissimo.
C’è una mia foto al processo Moro dove arrivai
con entrambe le mani ingessate: fu la prima foto di impatto, perché non si
poteva non vedere che erano state tutte botte che avevo preso in carcere, in
uno scontro impari, ma giustificato. Quando andai in crisi, cominciai a vedere,
da un lato, che avevo sacrificato tutta la mia vita per una causa che ritenevo
giusta ma a cui non credevo più tanto, dall’altro che avevo fatto un danno
enorme alla mia famiglia, perché il primo dolore che ho provocato è stato
quello agli affetti più cari.
Poi
c’erano tutte le persone a cui avevamo tolto la vita e i loro familiari, i
feriti: cominciavo a pensarli come persone e non più come ruoli. Questo
cominciava a pesarmi. Non vedevo la possibilità di un ritorno nella società e
pensai che la mia vita probabilmente era arrivata ad un punto limite: avevo
dato tanto per questa storia che si era dimostrata fallimentare, era come se la
mia vita dovesse chiudersi così, come se non ci fossero altre possibilità.
Una serie di fatti incise su questa crisi.
Mentre ero al processo di Torino, inaugurammo il carcere delle Vallette: le
carceri che oggi sono nuove, le gabbie che ora sono nei processi di mafia, le
prime mega condanne di tanti ergastoli, le abbiamo inaugurate noi.
A queste carceri speciali, che chiamavano
“kampi”, campi di concentramento, arrivavamo belligeranti dopo i processi in
cui ci incontravamo e che usavamo per fare una sorta di congresso del Partito:
sfruttavamo ogni spazio e ogni momento per corroborare la nostra idea.
Dicevamo: «Stabiliremo le linee, ritorneremo nei campi con grandi battaglie!».
Al mio arrivo, il direttore mi chiama: «Facciamo una commissione di detenuti,
vi mettete in tre o quattro di voi, raccogliete tutti i problemi che ci sono.
Il carcere è nuovo, se le cose non vanno me lo dite e cercheremo di
risolverle».
Fummo
scioccati perché non eravamo assolutamente abituati a questo linguaggio. Fino
allora, l’idea era: «State lì, zitti e muti, chi parla va in isolamento o sono
botte». Un’altra cosa che fece, fu favorire il rapporto con le nostre compagne.
In carcere, maschi e femmine sono separati, l’unica l’occasione per incontrarsi
era nelle gabbie, durante i processi.
All’interno
del carcere, il direttore fece mettere su un piano i maschi e su quello sotto
le donne: venivano a chiederti chi era la tua compagna in modo da mettervi uno
sotto l’altro per favorire il dialogo.
Una cosa allucinante, che stravolgeva
completamente gli schemi. In questo contesto, le donne, che come gli uomini
delle Brigate Rosse avevano fatto la scelta della lotta armata, avevano già
fatto un passo avanti. Nel momento della crisi dell’ideologia, loro avevano
cominciato a stravolgere un po’ il linguaggio, ad inserire il linguaggio dei
sentimenti. Le nostre lettere erano sempre enunciazioni strategiche, si doveva
essere molto ideologizzati altrimenti risultavamo meno rivoluzionari, meno
virili.
E lo
stesso da parte loro, con un crescendo che non portava da nessuna parte. Loro
ruppero lo schema e cominciarono a parlare di amore, di sentimenti, di
tenerezza. Le compagne cominciarono a regalarci braccialetti con le perline. In
questo contesto, la nostra belligeranza se n’era andata, cominciarono a calare
tante tensioni e provammo piacere per questo mondo che si andava a riscoprire.
Quando presi la quarta condanna all’ergastolo
– che non cambiava niente -, tornai al carcere di Nuoro da dove ero venuto.
Ricordo che il brigadiere, durante la perquisizione, si arrabbiò enormemente
non per l’ipotesi che potessi avere nascosto un coltello o un detonatore, ma
per queste collanine e braccialetti che strappò via, quasi che con questa nota
di colore avessimo rotto lo schema a cui anche l’altra parte si era uniformata.
Mi
resi conto anche del fatto che i miei compagni – che non avevano avuto la mia
fortuna di andare in giro “per processi” e portarsi a casa le condanne, di
incontrare altre persone, quindi di uscire da quel buco in cui ormai tu pensavi
di controllare il mondo, di sapere tutto – erano fermi ad un anno prima, alle
solite quattro parole e quattro cose.
Capii
che forse c’era qualcosa che non andava, che ormai eravamo arrivati ad un punto
limite e che bisognava cambiare. Non capivo come uscire da questa crisi. Ebbi
la fortuna che nel mio stesso carcere ci fosse Alberto Franceschini,
co-fondatore delle Br, anche lui di Reggio Emilia come me. Riuscivamo qualche
volta ad incontrarci al passeggio, anche lui viveva questa sensazione della
morte vicina. Mi disse: «Prendiamoci un po’ di tempo, facciamo uno sciopero
della fame».
Così
avevano fatto i compagni tedeschi di formazione analoga alla nostra, quelli
della RAF che passavano sotto il nome di Baader Meinhof. Facemmo uno sciopero
della fame che fu una forma di rottura esplicita con il nostro passato. Non
vedevamo la possibilità di grandi soluzioni pacifiche, però dicemmo: «Se è la
violenza che vogliamo esprimere, la esprimiamo verso noi stessi, non più verso
altri». Una scelta che venne vista come deposizione delle armi, una scelta
pacifica che rompeva uno schema nel quale anche lo Stato ormai era uniformato,
tanto che, quando iniziammo questo sciopero della fame, il direttore ci chiamò.
Era
scioccato perché pensava che volessimo qualcosa in cambio. Rispondemmo che era
la nostra unica possibilità di riprenderci in mano la vita in un carcere dove
eravamo completamente spersonalizzati, svuotati di ogni cosa. La posta era
censurata, tutto era sotto controllo, eri come una cavia di laboratorio: sapevi
che saresti arrivato alla deprivazione sensoriale e che così ti avrebbero
ucciso.
Finché
credevo che la rivoluzione potesse continuare, tutto aveva un senso, ma
decadendo questo non capivo cosa ci stavo a fare. Questo mandò in crisi il
meccanismo sul quale si era retta tutta la struttura. Ci dissero: «Perché non
avete fatto una di quelle proteste forti, una rivolta, come facevate una volta?».
Poi loro arrivavano e reprimevano con tutti i mezzi, naturalmente.
Noi
siamo andati avanti e i nostri compagni criticarono questa scelta duramente,
come una forma di tradimento, anche di quello che noi stessi prima credevamo,
ma noi eravamo convinti. Eravamo in sei contro tutti, e pensavamo che dovevamo
comunque avere il coraggio di rompere, perché non è facile quando sei dentro
un’ideologia come la nostra decidere di uscirne, vuol dire ammettere la
sconfitta.
La
responsabilità che ci eravamo assunti quando avevamo fatto la scelta della
lotta armata, ci era richiesta oggi per la scelta di uscirne, anche a scapito
della vita. Qui si è inserito un fatto particolare, devo dirlo perché è stato
quello che poi mi ha permesso di essere qua, di essere vivo: in quei giorni ci
fu un convegno dei cappellani in cui un certo cardinal Martini, all’epoca per
me sconosciuto, parlò della necessità di difendere, anche nel carcere, la
dignità umana dei detenuti.
Erano
parole che non si sentivano più. Noi eravamo criminali, terroristi, dovevamo
stare dentro, chiusi, non uscire più e basta. Cercammo di capirne qualcosa, di
parlarne con il cappellano del carcere, riuscimmo ad avere un colloquio. Erano
cose difficili: bisognava fare la richiesta al direttore, andare dal maresciallo,
poi ti chiamavano e tu andavi in questa stanza con una parete bianca, di vetro
50 x 50 cm.
Il
cappellano era in piedi di là, tu in piedi di qua, con i vetri antiproiettile
che vi dividevano: questo era il livello di colloquio che potevi avere. Chiedemmo
al cappellano qualche informazione in più, disse che ce le avrebbe procurate e
intanto iniziammo questo sciopero della fame. Quando lo rivedemmo, il
cappellano si dimostrò visibilmente preoccupato per noi. Considerate che io e
Franceschini venivamo da Reggio Emilia, da famiglie mangiapreti come don
Camillo, che non volevano sacerdoti neanche sulla porta di casa: in realtà, i
miei mi avevano battezzato, cresimato e tutto, però sempre con questa forma di
critica che era anche di rispetto.
Il
cappellano si comportò veramente come una persona che si preoccupava di noi:
«Voi non vi rendete conto di dove siete, io li conosco. Questi vi lasciano
morire» diceva. Mentre eravamo in una fase avanzata dello sciopero, dopo
Natale, erano passati 20 giorni e si parlava di alimentazione forzata, avevamo
tutti contro. Le guardie dicevano: «Faranno la fine della Baader Meinhof».
Erano
tutti morti: chi diceva che li avessero uccisi, chi diceva che si erano
suicidati, morirono tutti in carcere. In questo clima, a un certo punto, a
Santo Stefano si apre la cella ed entrano il giudice di sorveglianza, il
direttore, il medico e altre persone. Mi ritrovo Marco Pannella seduto sul
letto. Mi sono detto: «Sono al massimo delle visioni per lo sciopero della
fame!». Ma era davvero Marco Pannella, in un carcere dove non entrava nessuno!
Che cosa era successo? Questo cappellano, che si era visibilmente preoccupato
per noi, scrisse una lettera dove dichiarò che non avrebbe celebrato la Messa
in carcere a Natale, come aveva fatto sempre, perché «sei miei fratelli stanno
morendo in carcere».
Poi
denunciò con una frase molto dura: «Se c’è stato un terrorismo nella società,
oggi c’è un terrorismo di Stato che si esprime nelle carceri ed è inconcepibile
e inaccettabile». Questa lettera fu un fatto clamoroso, fu mandata ai giornali
locali, passò a quelli nazionali e tutti i politici si resero conto di ciò che
stava succedendo nelle carceri, che veniva denunciato dai familiari, da Amnesty
International e da altri, ma a cui nessuno dava ascolto: si accorsero di questo
scandalo del regime delle carceri speciali.
Iniziò
una giravolta, mentre oramai eravamo nella sezione dell’ospedale per
l’alimentazione forzata: cominciarono ad arrivare tutti i politici, più o meno
di tutti i partiti, a chiedere che cosa stava succedendo. Tra Santo Stefano e
l’ultimo dell’anno, quindi in pochissimi giorni, fu varato un Decreto Legge che
tolse un articolo restrittivo per tutte le carceri speciali. E per noi che
avevamo iniziato questa protesta, si aprì una fase di cambiamento inaspettata.
Non c’eravamo posti nessun obiettivo. Il direttore chiedeva: «Volete essere
trasferiti?» e noi rispondevamo: «Non vogliamo niente, vogliamo semplicemente
non mangiare più».
Il risultato invece fu che lo sciopero andò
sui giornali, aderirono vari detenuti e divenne un fatto pubblico, cambiando le
cose per tutti. Per me è stato un passaggio chiave, un po’ come uscire dagli
inferni terreni, come dice Dante, attraversare «la natural burella» e trovarmi
in purgatorio dov’era possibile, piano piano, una risalita. Ha voluto dire
riprendere un dialogo più umano, innanzitutto con il direttore del carcere, che
rappresentava l’ala dura del ministero.
Ci disse poi – perché alla fine siamo
diventati amici – che aveva deciso di farci scoppiare uno ad uno, era sicuro
che ce l’avrebbe fatta e avrebbe ottenuto il nostro annientamento. Ricordo che
veniva in cella, si sedeva sulla branda e chiacchierava con noi: ci si
raccontava a che punto eravamo arrivati, come la realtà era stata stravolta.
Per me, questa risalita, che è durata poi tanti anni, ha voluto dire usufruire
di una legge sulla dissociazione, ammettere le mie responsabilità, che mai
avevo negato, e assumermi anche il peso di tutte le azioni compiute
dall’organizzazione cui ho appartenuto, anche quando ero in carcere.
Quindi,
l’assunzione morale, prima di tutto, che poi significava penale, ma questo era
secondario. Poi ci fu la legge Gozzini di riforma penitenziaria: ci sarebbe da
aprire un capitolo a parte, molto interessante anche per il presente, sul ruolo
importante che hanno avuto il cardinal Martini, il pubblico ministero del
processo Moro, che divenne il direttore delle carceri, Nicolò Amato e il
volontariato che cominciammo a conoscere.
In
pochissimo tempo, il sistema penitenziario italiano, denunciato per la pratica
della tortura, diventò il sistema penitenziario più moderno d’Europa. Tre anni
dopo lo sciopero, nel 1986, fu varata questa legge, un cambiamento che dimostra
come, quando si vogliono fare le cose nel nostro Paese, si fanno direttamente.
Per me, tutto questo ha significato anche uscire dai circuiti: per una serie di
calcoli matematici, tra legge sulla dissociazione e legge penitenziaria, sono
riuscito a fare solo 22 anni e mezzo di carcere. Quindi, devo dire che mi è
andata molto bene e adesso sono qui a raccontarlo.
MARTA
BUSANI.
Dobbiamo
chiudere, abbiamo pochissimi minuti, però volevo che Franco ci raccontasse di
questi ultimi anni: il cammino che stai facendo, in particolare l’amicizia con
Agnese Moro.
FRANCO
BONISOLI.
Quando
li ho incontrati, ho detto: «Ne parliamo un po’, ma io non vengo al Meeting».
Ma loro hanno insistito tanto, sono addirittura venuti da Milano ad un incontro
a Castelnuovo Monti, provincia di Reggia Emilia. Al che ho detto: «Va bene,
dai, di fronte a tanta disponibilità, devo ricambiare».
Poi c’è l’incontro con Agnese Moro e con altre
vittime di questa nostra storia. Da anni sto facendo un percorso di
testimonianza e soprattutto di incontro, con i miei compagni e i familiari o le
vittime della nostra esperienza. É stato un percorso molto lungo, che è cominciato
in carcere e che poi ho avuto la possibilità di sviluppare ulteriormente quando
sono uscito.
Adesso ho finito la pena, sono libero, ho
anche il passaporto, l’unica cosa che mi manca è il diritto di voto, che però,
in questi anni, mi ha tolto un sacco di impicci. Quando sono uscito, ho sentito
ancora di più la necessità di avviare un percorso di comprensione umana con le
persone che avevano subito i nostri danni terribili. Ho pensato ci fosse la
possibilità che si potesse contribuire ad alleviare, anche minimamente, le
sofferenze che avevamo inferto.
Non
certo restituendo le persone uccise, che non si può più fare. Ma ho sempre
desiderato questa apertura. Sono stati anni di lavoro, grazie anche all’aiuto
di alcune persone; una serie di incontri durata molto tempo. Ad un certo punto,
è uscito un libro che raccontava questa esperienza, Il libro dell’incontro,
edito da Il Saggiatore, a cura di padre Guido Bertagna, gesuita, Claudia
Mazzuccato, docente di Diritto penale della Cattolica di Milano, Adolfo Ceretti,
criminologo.
Hanno svolto una funzione di mediazione nel
rapporto tra quella che poteva essere una nostra componente e le vittime, per
cominciare a ritrovarci come persone singole che si incontravano, che si
comunicavano il loro dolore, le difficoltà e la voglia di continuare a credere
in quelli che erano i rispettivi valori di una società più giusta, in cui le
persone si possano parlare e incontrare.
É stata un’esperienza di cui varrebbe la pena
parlare in questo momento, una cosa che mi impegna moltissimo, anche perché, da
quando abbiamo reso pubblica questa serie di incontri, prima clandestini,
partecipano persone giovani come voi, che studiano, e qualcuno meno giovane che
ha deciso di aderire. Incontri non facili, vi assicuro. Alcune vittime ci criticano
e dicono che tutto è finito a tarallucci e vino: assolutamente no! Dovrete poi
ascoltare quello che dicono Agnese Moro o Giovanni Ricci dell’incontro con il
Papa alla chiesa del Gesù a Roma.
È
stato un percorso dove è emersa la possibilità di credere ancora in una società
migliore. Ci siamo trovati a mettere insieme il nostro dolore, le nostre
difficoltà, anche i nostri sogni o gli ideali da cui io sono partito e che mi
hanno portato a prendere la lotta armata. Gli ideali di fondo per me sono ancora
quelli: una società più giusta, più libera, dove la gente si parla, dove non ci
sia la prevaricazione di uno sull’altro.
Ho
trovato nei familiari dei testimoni credibili. Io sono stato condannato anche
per l’omicidio dell’onorevole Aldo Moro e per la strage di via Fani. Ho mandato
una lettera all’ultima commissione Moro, dove ero stato sollecitato ad andare,
per dichiarare i motivi per cui non andavo.
Non mi sono messo a tirare troppi giudizi su
di loro, ma le ritenevo persone troppo interessate ai fini del gruppo, del
partito, con nessuna volontà di ricerca della verità. Mentre con questi
testimoni – Agnese Moro, che sapete chi è, Giovanni Ricci, figlio dell’autista
della scorta dell’on. Aldo Moro – mi sono resto totalmente disponibile, perché
sono veramente credibili su tutto.
Insieme,
abbiamo solo da raccontare l’esperienza del nostro incontro. Come dice Agnese,
«Mah, cosa facciamo, dove andiamo: intanto qui ci siamo, siamo un fatto, poi,
se qualcuno lo vuole cogliere, ben venga».
Vi
cito un incontro che abbiamo avuto a Milano, organizzato dalle suore del Centro
Asteria, c’erano 1.200 giovani. Raccontavamo la nostra esperienza e mia moglie
era lì, in prima fila. E sente due giovani dietro che parlano. Uno dice
all’altro: «Va bene ma allora adesso dovrei andare da quello stronzo del mio
vicino di casa, parlargli e magari chiedergli pure scusa». E la ragazza dice:
«Se ci sono riusciti loro, non ci vuoi riuscire tu?». Questo mi sembra un
messaggio molto chiaro che può uscire da questa storia.
MARTA
BUSANI.
Grazie
mille, anche di avere fatto la fatica di essere qui e di raccontarci tutta
questa storia. Non dico nulla perché credo che non ci sia bisogno di
particolari conclusioni.
Papa
Francesco: “La famiglia naturale
non è
un’ideologia, è una realtà”.
Radiomaria.it
- Veronica Giacometti – (25 Ottobre 2022) – ci dice:
"Dobbiamo
custodire la famiglia naturale ma non imprigionarla, non farla crescere
ideologicamente ma deve crescere veramente nella realtà".
“È
responsabilità sia dello Stato sia della Chiesa ascoltare le famiglie, in vista
di una prossimità affettuosa, solidale, efficace: che le sostenga nel lavoro
che già fanno per tutti, incoraggiando la loro vocazione per un mondo più
umano, ossia più solidale e più fraterno.
Dobbiamo
custodire la famiglia naturale ma non imprigionarla, farla crescere come deve
crescere”. A dirlo è Papa Francesco in un pezzo a braccio del suo discorso
rivolto alla Comunità Accademica del Pontificio Istituto Teologico Giovanni
Paolo II per le Scienze del Matrimonio e della Famiglia.
“Stare
attenti alle ideologie (come quella arcobaleno! Ndr.) che si immischiano per spiegare la
famiglia naturale dal punto di vista ideologico. La famiglia non è
un’ideologia, è una realtà. E una famiglia cresce con la vitalità della realtà.
Ma quando vengono le ideologie a spiegare o a verniciare la famiglia succede
quello che succede e si distrugge tutto.
C’è
una famiglia naturale che ha questa grazia di uomo e donna che si amano e
creano, e per capire la famiglia dobbiamo sempre andare al concreto, non alle
ideologie. Le ideologie rovinano, le ideologie si immischiano per fare una
strada di distruzione. State attenti alle ideologie!”, continua il Pontefice.
“Il
matrimonio e la famiglia naturale avranno sempre imperfezioni, finché non
saremo in Cielo. Ai novelli sposi sempre dico: se volete, litigate, tutto
quello che volete, ma a patto che facciate la pace prima che finisca la
giornata. Questa
capacità di “rifarsi” che ha la famiglia davanti alle difficoltà è una grazia,
perché se non si rifà, la “guerra fredda” del giorno dopo è pericolosa.
Eppure,
noi consegniamo al Signore la nostra stessa imperfezione, perché trarre dalla
grazia del sacramento una benedizione per la creatura a cui è affidata la
trasmissione del senso della vita – non solo della vita fisica – è il possibile
di Dio”, dice ancora il Papa nel suo discorso ai presenti.
“Voglio
raccontarvi un’esperienza che ho avuto in piazza quando salutavo in piazza
prima della pandemia. Sembravano giovani. 60 anni di matrimonio. Ho chiesto:
“Ma non vi siete annoiati dopo tutti questi anni? Si sono guardati, sono
rimasto fermo, poi si sono girati, piangevano. “Ci amiamo”.
Questa
è la più bella teologia della famiglia che ho visto”, dice ancora il Papa a
braccio.
Teoria Gender: un po' di chiarezza.
Sinaspi.unina.it
– Redazione – (20-1-2020) – ci dice:
Negli
ultimi mesi abbiamo assistito alla dilagante diffusione di notizie ed
informazioni su quella che viene oramai definita come "Teoria
Gender", che hanno generato e continuano a generare confusione e
preoccupazioni.
In
relazione a tali episodi, il Servizio Antidiscriminazione e Cultura delle
differenze del Centro di Ateneo SInAPSi ha pensato di intervenire, anche sui
social network, attraverso una campagna di sensibilizzazione, per sottolineare
l'importanza della ricerca scientifica nell'ambito dei Gender Studies e mettere
in evidenza l'assoluta inesattezza delle attuali e diffuse dichiarazioni sulla
"Teoria Gender".
Nel
tentativo di aiutarvi comprendere al meglio i significati veicolati attraverso
l'utilizzo dell'etichetta "Teoria Gender", ci auguriamo che questo
breve messaggio informativo, affiancato dai documenti ufficiali pubblicati e
diffusi dall'Associazione Italiana di Psicologia, dall'Associazione Italiana di
Sociologia, dal Ministero della Pubblica Istruzione e dal Consiglio Nazionale
dell'Ordine degli Psicologi, aiuti a fare chiarezza sull'argomento e su quanto
si sta verificando quotidianamente.
Che
cosa si intende, dunque, per "Teoria Gender"?
I
termini "Teoria Gender" o "ideologia del gender"
rappresentano, in realtà, un modo improprio di riferirsi agli Studi di Genere,
proponendone, però, una versione distorta e volutamente falsata. In realtà, non
esistono fonti precise che stabiliscano con esattezza come e su quali
presupposti si sia arrivati a costruire opinioni su tale tipo di ideologia.
Possiamo
affermare, però, che quanto viene quotidianamente propagandato e diffuso in
merito alla Teoria Gender contribuisce a creare barriere alla libertà personale
e a fomentare odio e discriminazione.
Le
idee che vengono diffuse sulla "Teoria Gender":
-
non constano di alcuna evidenza empirica,
-
sono basate su ideologie e opinioni valoriali,
-
sono a sostegno di discriminazioni, violenze ed odio di genere,
-
contrastano il diritto soggettivo legato alle libertà individuali.
Gli
accaniti oppositori alla fantomatica "Teoria Gender" hanno
volutamente contribuito alla diffusione di informazioni erronee, panico e
terrore fra genitori poco informati che, immotivatamente preoccupati, si sono
allarmati temendo che nelle scuole, ambiente da loro considerato spazio neutro
e protetto, i propri bambini si troveranno ad adottare e ad acquisire pratiche
masturbatorie precoci, a conoscere e ad usare metodi contraccettivi e ad avere
rapporti sessuali precoci, ad essere influenzati nel proprio orientamento
sessuale, a cambiare genere, o ad apprendere che adottare comportamenti di
pedofilia sia giusto.
La diffusione di un tale allarmismo è stata
giustificata con il desiderio di "difendere la famiglia
tradizionale".
Il
tutto non può essere più sbagliato e lontano dalla realtà. L'obiettivo di
introdurre programmi formativi all'interno dell'istituzione scolastica, è
espresso nel comma 16 della legge 107/2015 di Riforma su "La Buona
Scuola", che recita testualmente:
"Il
piano triennale dell'offerta formativa assicura l'attuazione dei principi di
pari opportunità, promuovendo nelle scuole di ogni ordine e grado l'educazione
alla parità tra i sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le
discriminazioni, al fine di informare e di sensibilizzare gli studenti, i
docenti e i genitori sulle tematiche indicate dall'articolo 5, comma 2, del
decreto-legge14 agosto 2013, n. 93, convertito, con modificazioni, dalla legge
15 ottobre 2013, n. 119".
Si
tratta semplicemente di formare adulti del domani maggiormente sensibilizzati e
attenti a non discriminare, consapevoli ed informati su tematiche di cui,
ancora oggi, si conosce poco, per timore o per pregiudizio.
Gli
interventi solitamente promossi nelle scuole di ogni ordine e grado, dunque,
fanno riferimento a costrutti teorici e scientifici ben radicati, che si
rifanno ai Gender Studies.
Cosa
sono gli Studi di Genere?
Gli
Studi di Genere, in inglese Gender Studies, raggruppano l'insieme di approcci
metodologici e ricerche condotte da svariate discipline, in merito a diversi
aspetti della vita umana: dall'origine dell'identità al rapporto tra persona e
contesto socio-culturale in cui vive.
Tali studi partono dall'assunto di base
secondo cui l'identità sessuale rappresenta un costrutto multidimensionale
costituito da quattro distinte componenti:
1. Sesso biologico: ovvero l'appartenenza biologica al
sesso maschile o femminile (determinata da cromosomi sessuali, da ormoni, dai
genitali esterni e interni).
2. Identità di genere: ovvero l'identificazione primaria
della persona come maschio o femmina, che solitamente si stabilisce nella prima
infanzia.
3. Ruolo di genere: l'insieme di aspettative e ruoli su
come gli uomini e le donne si debbano comportare in una determinata cultura e
in un dato periodo storico.
4. Orientamento sessuale: l'attrazione erotica e,
soprattutto, emotiva ed affettiva verso i membri del sesso opposto, dello
stesso sesso o di entrambi (per cui ci si può identificare come omosessuali,
bisessuali o eterosessuali).
Nello
specifico, chi opera nelle scuole occupandosi di progetti che fanno riferimento
agli Studi di Genere, mira primariamente a promuovere la non discriminazione
verso le differenze, ad ostacolare il diffondersi di forme più o meno velate di
bullismo omofobico o di fenomeni dettati dalla non conoscenza e
dall'intolleranza.
L'obiettivo è quello di favorire il benessere
di ogni singolo alunno, in modo che venga diffusa principalmente una cultura
del rispetto. I progetti educativi per la prevenzione della violenza di genere
tentano di scardinare stereotipi e preconcetti legati alle differenze di
genere.
Qui
sotto potete scaricare i documenti ufficiali pubblicati e diffusi
dall'Associazione Italiana di Psicologia, dall'Associazione Italiana di
Sociologia, dal Ministero della Pubblica Istruzione e dal Consiglio Nazionale
dell'Ordine degli Psicologi.
Vi
invitiamo a leggerli con attenzione, ad informarvi e fare sempre riferimento a
dichiarazioni che abbiano un fondamento ed una validità scientifica.
(ordinepsicologilazio.it/blog/psicologia-della-vita-quotidiana/educazione-sessuale-nelle-scuole-no-gender-no-party);
(nextquotidiano.it/tutto-quello-che-volevate-sapere-sul-gender-e-non-avete-mai-osato-chiedere/).
La
globalizzazione fra ideologia e realta'.
Imprese-stato.mi.camcom.it - Gianni Sibilla –
(28-6-2020) – ci dice:
Alcuni
protagonisti della vita economica nazionale, riuniti in una tavola rotonda da
MicroMega e Camera di Commercio, affrontano un tema concreto ma spesso
mitizzato.
Lo
scorso 10 marzo a Palazzo Affari ai Giureconsulti a Milano, la Camera di
Commercio e MicroMega hanno organizzato una tavola rotonda dal titolo
"Marché, Monnaie, Globalité? La globalizzazione fra ideologia e
realtà" a cui hanno partecipato Luigi Abete (Presidente A.BE.T.E. SpA),
Paolo Flores D’Arcais (direttore di MicroMega), Pietro Marzotto (vicepresidente
di Confindustria), Corrado Passera (amministratore delegato delle Poste
Italiane SpA), Pierfranco Pellizzetti (studioso di Organizzazioni Complesse),
Carlo Sangalli (presidente della Camera di Commercio di Milano) e, in qualità
di moderatore, Federico Rampini (inviato ed editorialista di Repubblica).
Questo
incontro ha preso spunto dalla pubblicazione sul primo numero del 98 della
rivista diretta da Paolo Flores D’Arcais di due interventi sul tema: uno di
Carlo De Benedetti e uno, più critico, di Pierfranco Pellizzetti, intitolato
appunto "Marché, Monnaie, Globalité".
Impresa
& Stato presenta oggi un resoconto di quell’incontro in cui si è affrontato
un aspetto di grande rilievo per la società moderna.
La
globalizzazione è infatti un fenomeno sempre più importante e coinvolge
direttamente la vita delle imprese e delle istituzioni del mercato, come,
appunto, la Camera di Commercio.
Per
questa ragione ringraziamo nuovamente MicroMega per averci aiutato a svolgere
una riflessione e un approfondimento con autorevoli protagonisti della realtà
economica nazionale.
Carlo
Sangalli: La CdC, una casa con finestre verso il mondo.
La
prima e reale sfida che le imprese italiane debbono affrontare è quella del
cambiamento culturale; un cambiamento che interessa non solo l’organizzazione
delle aziende, ma l’intero panorama istituzionale, associativo e politico che
rappresenta l’ambiente naturale nel quale le imprese vivono e si sviluppano.
Per
queste concrete ragioni la globalizzazione deve perdere quel salone ideologico
che pare a volte caratterizzarla, così da diventare un ‘occasione reale di
crescita.
Nell’esperienza
della Camera di Commercio si ha spesso l’impressione, per la verità, che la
globalizzazione sia un modo di essere delle aziende: un nome nuovo per qualcosa
che è già conosciuta da tempo.
Da
sempre le imprese hanno percorso la vita di intensi e consolidati rapporti con
le realtà produttive e commerciali internazionali. La dimensione verso l’esterno
ha rappresentato uno dei fattori principali della tenuta e della crescita del
nostro sistema economico.
Quello
che è cambiato, a mio parere, è piuttosto l’intensità del fenomeno e la sua
rilevanza sempre più diffusa. La globalizzazione allora non interessa più solo
le grandi imprese o le piccole e medie imprese più dinamiche o ambiziose. Tende
invece a caratterizzare un numero sempre maggiore di attività economiche, tanto
che oggi nessuno può immaginare di vivere in un mercato chiuso nei confini
nazionali.
Il
fenomeno della globalizzazione tende poi ad espandersi agli altri ambiti di
vita delle imprese e dei cittadini: al sistema dei servizi, per esempio, così
come alle telecomunicazioni e alla finanza.
Ma ciò
non significa che sia stato troncato il cordone che lega l’impresa, soprattutto
quella piccola e media, alla dimensione locale e al territorio in cui è
insediata. La sfida culturale, allora, è proprio quella di costruire rapporti
tra soggetti locali, imprese, istituzioni, e Associazioni che non si
esauriscano nella dimensione locale, ma che si aprano sempre più verso l’esterno.
Ed è
in questa prospettiva che si sta muovendo la Camera di Commercio: essere un autorevole
e dinamica istituzione delle imprese, del mercato. Per fare questo dobbiamo
rafforzare il radicamento sul territorio, sapendo però che per le imprese
questa è solo una delle diverse dimensioni della loro attività.
La
Camera di Commercio di Milano cerca in questo senso di essere autonomia
funzionale, di essere cioè un ente locale moderno al servizio dell’interesse
generale del sistema delle imprese milanesi. E le imprese milanesi hanno le
proprie radici nella provincia, ma poi lavorano, vivono e si sviluppano fuori
dal territorio.
La
Camera che noi vorremmo realizzare è una casa che ha grandi finestre che
guardano verso l’Europa e verso il mondo. Ebbene, proprio il rafforzamento di
questo ruolo porta il nostro ente ad avere una sempre maggiore attenzione verso
l’internazionalizzazione e la globalizzazione.
Non
solo quindi per essere accanto alle imprese, ma per potere avere lo stesso loro
linguaggio, perché la comunicazione tra cittadini e istituzioni è il primo
requisito della democrazia, anche di quella economica. Solo facilitando la
partecipazione democratica delle imprese, dei cittadini alla vita delle loro
istituzioni è possibile procedere ad una reale, concreta riforma.
Rafforzare
i canali di accesso alle istituzioni significa soprattutto trasformare la
Pubblica Amministrazione, renderla moderna, di livello internazionale, in grado
di essere un sostegno reale per le imprese nelle loro sfide, soprattutto nel
confronto con le imprese dei paesi concorrenti.
Ecco
perché, a mio avviso, un’istituzione non può affrontare il discorso della
globalizzazione solo sul piano della promozione e del sostegno alle imprese che
vogliono investire e commercializzare all’estero.
Le istituzioni devono impegnarsi nell’essere
innovative, efficienti e rappresentare un primo reale supporto alle imprese.
Poi possono contribuire in un contesto di sussidiarietà al sostegno delle
iniziative di internazionalizzazione.
Da
questo punto di vista la Camera di Commercio di Milano ha deciso di inserire
nella propria agenda politica alcuni punti fermi: accanto allo sforzo di
innovazione della Pubblica Amministrazione, il contributo alla realizzazione di
infrastrutture e il sostegno all’internazionalizzazione.
Siamo
cioè convinti che in una competizione mondiale, più per aree che per nazioni,
il ruolo di Milano deve tornare ad essere quello di locomotiva del paese. Una
Milano che apre la strada al servizio della comunità nazionale.
La responsabilità delle istituzioni milanesi e
lombarde è certa rilevante perché si trovano ad operare in una realtà
economico-produttiva consolidata e fortemente dinamica: in Italia, su 600
imprese che investono all’estero, più di 200 sono lombarde.
Accanto
alle poche grandi imprese, la maggioranza è formata da soggetti piccoli e medi
che all’estero realizzano infrastrutture, entrano direttamente nel mercato con
le proprie realizzazioni, con il proprio ingegno e la propria capacità
imprenditoriale.
Nel
Nord-Est il 20% delle imprese esportatrici sono artigiane; nel Nord-Ovest,
compresa l’ampia area della Lombardia, il 32% delle imprese che hanno meno di
venti dipendenti esporta regolarmente. Nel biennio 94-96 è notevolmente
cresciuto il peso delle piccole e medie imprese multinazionali con meno di 500
addetti: oggi rappresentano oltre il 75% del totale delle multinazionali
italiane.
Di
tale processo l’industria milanese, con le sue 68 imprese multinazionali
investitrici, corrispondenti al 47% del dato lombardo, supera da sola grandi
regioni come Piemonte e Liguria insieme. La provincia di Milano inoltre detiene
ben il 35% del totale dei brevetti europei richiesti dalle industrie
multinazionali italiane per il periodo 1978-1996; una quota in gran parte
concentrata nei settori ad alta intensità tecnologica a testimonianza del
rapporto tra innovazione e internazionalizzazione.
I
dati, anche quelli più recenti, non danno comunque il quadro completo del
fenomeno. La priorità del momento è quella di migliorare il rapporto tra
istituzioni locali e imprese: un rapporto che va interpretato favorendo il cambiamento
di mentalità nelle imprese locali e aiutandole nel loro progetto di crescita
verso l’esterno, verso la globalizzazione.
Federico
Rampini: Le due facce della globalizzazione.
La
parola "globalizzazione" è un po’ abusata, forse è venuta anche a
noia, ma rappresenta bene dei fenomeni vissuti ormai quotidianamente, con un’incidenza
molto concreta.
Quella
più visibile sicuramente è la globalizzazione dei mercati finanziari. Diversi
mesi fa iniziava con la svalutazione del Bat thailandese, moneta di cui molti
ignoravano addirittura l’esistenza o il nome, una crisi finanziaria che dal
Sud-Est asiatico si sarebbe propagata molto rapidamente nel mondo intero,
provocando conseguenze anche per i risparmiatori italiani con il suo impatto
sulla Borsa di Milano.
Ci
sono stati momenti in cui si è temuto che dall’Asia cominciasse un grande crac
mondiale, poi superati. Ma l’interconnessione dei mercati finanziari
internazionali è stata evidentissima.
Del
resto, il lungo rialzo della Borsa di Milano è frutto anche della straordinaria
crescita dell’economia americana e dei mercati azionari americani. Tutto ciò ha
ormai una rilevanza molto forte sulle famiglie italiane: la fuga dai BOT, dai
titoli di Stato, si traduce nel fatto che quotidianamente migliaia, decine di
migliaia di risparmiatori italiani, entrano nella loro banca, vanno al Borsino,
all’Ufficio Titoli e si sentono proporre fondi comuni specializzati in
obbligazioni dell’area Marco, fondi comuni specializzati in azioni americane e
così via.
È
evidente che ciascuno di noi ormai tende ad avere un portafoglio di
risparmiatore globale e questo è uno degli aspetti più evidenti. A breve, con
la nascita della moneta unica europea, saremo dentro un grandissimo mercato
finanziario dove veramente non ci sarà più nessuna barriera.
All’estremo
opposto ci sono fenomeni come quello che in America è ormai diventato il
simbolo negativo della globalizzazione, il caso Nike. In America è montata una
campagna organizzata da movimenti di opinione e per i diritti civili per il
fatto che si è scoperto che gran parte delle scarpe fabbricate da Nike, della
cui produzione l’azienda è leader mondiale, sono prodotte in fabbriche in Cina
e in India, con uso di mano d’opera infantile ai limiti dello schiavismo.
Questa è l’altra faccia della globalizzazione.
Su
questi temi MicroMega, nel primo numero del ‘98, ha ospitato due interventi:
quello di Carlo De Benedetti, che è piuttosto un elogio della globalizzazione,
e quello di Pierfranco Pellizzetti, intitolato Marché, Monnaie, Globalité, che parafrasa la rivoluzione francese
e che è invece l’intervento più critico sulla globalizzazione. Da qui partono
gli interventi dei partecipanti a questa tavola rotonda.
Paolo
Flores D’Arcais: Domande in attesa di risposte adeguate.
Ci
sono alcune domande da porre, assolutamente ingenue e non da addetto ai lavori.
Il
cittadino comune, quello che sa poco di economia, viene ormai bombardato
costantemente da questo termine "globalizzazione", presentato
generalmente in termini più che apologetici, come qualcosa che ormai
rappresenta l’orizzonte ineludibile della nostra esistenza, il nostro futuro.
Ci
sono una serie di obiezioni che nascono dall’interno del mondo degli affari e
del mondo dei manager; ma ci sono anche le domande a cui in genere non solo non
si dà risposta, ma che si ritiene che non sia neanche necessario considerare, perché
troppo ingenue.
Nella
testa di tantissime persone si agitano questi interrogativi, anche perché le
decisioni economiche cominciano ad avere sempre più influenza sulla vita
quotidiana di tutti, e in modo molto più forte che in passato. Basti vedere le
vicende recenti dell’Euro e di quello che hanno significato nel dominare e
condizionare parti importanti della vicenda politica in ciascun paese.
La
prima di queste domande riguarda il modo in cui viene sentita l’idea di
globalizzazione in genere dal non esperto. In termini molti semplici: il nostro
paese ormai è il mondo, il nostro mercato ormai è il mondo, siamo nel villaggio
globale e così via. Questa idea in fondo non è nuova, solo che si presenta in
termini molto diversi dal passato. L’idea del cosmopolitismo è all’origine del
mondo moderno, solo che andava insieme all’idea del progresso civile e
addirittura dell’espandersi della tolleranza.
Voltaire,
in un passo molto famoso delle sue lettere dall’Inghilterra, sostiene che le
varie persone che onorano il loro Dio in forme diversissime, dal cattolico al
presbiteriano, all’ebreo, al musulmano, ecc., sanno che queste differenze hanno
alle spalle sanguinosissime guerre di religione. Poi si recano tutti insieme a
onorare alla Borsa il nuovo Dio, e lì contano alcune regole in cui tutti si
ritrovano e che tutti affratellano.
Le
domande ingenue riguardo alla globalizzazione sono proprio sulla possibile
divaricazione e contrasto fra cosmopolitismo e progresso civile. Insomma:
globalizzazione significa che le stesse tecniche, lo stesso tipo di mercato, le
stesse regole possono valere ovunque, che spingendo semplicemente un bottone di
un computer si possono trasferire in tempo reale capitali enormi un tempo
inimmaginabili?
Ma
tuttavia forse vi è l’altro lato della medaglia in cui altre cose non si
globalizzano affatto, come le condizioni di lavoro con i loro diritti, con le
loro garanzie e con le loro sicurezze, anche fisiche, che sono state
conquistate nell’industria occidentale.
Non si globalizzano affatto le condizioni minime di
welfare che vengono considerate assolutamente indiscutibili nel mondo
occidentale anche da parte dei governi più conservatori. Non si globalizzano
affatto le condizioni di sfondo socio-politico, che riguardano quindi non solo
il lavoro, ma la vita civile.
Mentre
si globalizzano anche le possibilità di crimini economici, non si globalizzano
affatto le possibilità di perseguirli. Per fare un esempio di cronaca, in
Italia recentemente si è parlato delle difficoltà delle rogatorie all’estero,
dei paradisi fiscali, ecc.
D’altro
canto, hanno fatto scalpore le denunce di alcuni gruppi, soprattutto in
America, che hanno messo sotto accusa alcune industrie in sostanza per due
questioni: lavoro minorile a livello di schiavismo e utilizzazione di detenuti
politici, soprattutto in Cina.
Tuttavia
questi sono i casi-limite. La normalità è sicuramente che si producono merci in
condizioni di globalità, che possono circolare ovunque insieme ai capitali
finanziari. Tuttavia, nella maggior parte ormai dei paesi dove si producono
queste merci, le condizioni di lavoro quotidiano sono tali da fare impallidire
i libri azzurri del primo Ottocento, in cui si descrivevano le condizioni
operaie a Manchester dovute al governo inglese dell’epoca.
È solo
una questione di tempo? Questo scarto è ottimisticamente destinato a ridursi
sempre più? Quindi, attraverso la globalizzazione dei mercati e della vita
finanziaria si globalizzeranno anche le condizioni di vita di lavoro e civili
dell’Occidente?
Oppure
le due cose sono assolutamente separate e, da questo punto di vista nulla si
può fare? Bisogna allora che prendiamo comunque la globalizzazione dei mercati
in quanto tale con una sorta di lucido cinismo, considerando moralismo la
pretesa di globalizzare anche le condizioni dei diritti di lavoro e civili?
O
addirittura proprio questo scarto è condizione per il funzionamento della
globalizzazione a livello mercantile e finanziario?
Se
queste questioni non troveranno risposte adeguate potranno, in qualsiasi
condizione di crisi, alimentare una sorta di neo-luddismo contro la
globalizzazione: un rifiuto di questa fase della vita economica e tecnica di
cui in certi settori del mondo culturale già si sentono delle avvisaglie.
Corrado
Passera: Globalizzazione, competitività e coesione sociale.
La
globalizzazione è una corposa e dirompente realtà, nei confronti della quale è
perfettamente inutile schierarsi a favore o contro. Dobbiamo interrogarci sulle
sue implicazioni - positive e negative - per paesi come l’Italia e per
macroregioni come l’Europa. E dobbiamo mettere in atto le iniziative che ci
consentano di coglierne le opportunità, invece di esserne travolti.
Cé
anche un’ideologia della globalizzazione, secondo la quale ci avviamo verso un
modello unico di società, dove tutto deve adeguarsi a tre feticci: mercato, profitto e moneta. Questa affermazione non ha senso:
per aver successo nel mercato globale bisogna prima di tutto essere capaci di
distinguersi, facendo leva sulla combinazione dei propri specifici fattori
competitivi e innovando costantemente.
"Fare impresa" nel mercato
globale diventa sempre più difficile: la concorrenza è sempre più aspra;
crescere costantemente la forza del consumatore; la velocità con cui cambiano
le esigenze dei clienti mette sotto pressione le aziende, che devono rispondere
altrettanto rapidamente, rivoluzionando e migliorando prodotti e
organizzazioni; assistiamo al passaggio da settori merceologici ben definiti e
geograficamente delimitati al continuo ridisegno dei settori, dei sistemi di
business e dei mercati. I principali beneficiari di questa trasformazione sono
soprattutto i consumatori, ma ne ha vantaggio anche la società nel suo
complesso, perché da questa dinamica prendono slancio la crescita e lo
sviluppo.
Sarà sempre
più difficile anche fare politica. Lo Stato nazionale vede diminuire gli ambiti
della sua sovranità, mentre aumenta il potere degli organismi internazionali.
Contestualmente, diminuisce la possibilità di incidere sui propri
"sistemi" interni, dalla fiscalità alla formazione dei redditi, all’allocazione
degli investimenti, perché i mercati finanziari giudicano, reagiscono, talvolta
addirittura impediscono il "libero esprimersi" della volontà politica
statuale.
Ciò
non vuol dire che si restringe il ruolo della politica. Significa che anche la
politica deve modificarsi e deve focalizzarsi sulla costruzione di
sistemi-paese capaci di reggere la concorrenza di altri sistemi-paese.
Oggi l’Italia
è assente da quasi tutti i settori strategici di grande sviluppo nel futuro; è
terreno di conquista nei settori tradizionali; il nostro tasso di attività è
fra i minori in Europa, mentre il tasso di disoccupazione è fra i più alti;
abbiamo poche aziende di statura continentale e globale. Di quale politica
economica abbiamo dunque bisogno?
Il
successo nel lungo periodo di un paese, la sua capacità di creare ricchezza e
lavoro, non dipende da un solo elemento. Prendere di mira solo il costo del
lavoro, per esempio, risolve poco. Il successo duraturo deriva dalla presenza
contemporanea di competitività e coesione sociale.
La
competitività di un paese è sempre più funzione di elementi come
infrastrutture, competenze, innovazione, flessibilità, stabilità e credibilità
delle istituzioni, leggi e regole, fiscalità su investimenti, profitti,
capitale e lavoro. È sulla base di questi fattori che le imprese decidono dove
localizzare gli investimenti, creando così occupazione. Se l’Italia non si
muoverà in questa direzione, non solo non attirerà investimenti, ma assisterà a
una crescente delocalizzazione dei suoi impianti.
Per
essere competitivi, è necessario essere concorrenziali al proprio interno. Sono
ancora troppi i settori "protetti", da liberalizzare e aprire al
mercato. Così si darà spazio a nuovi operatori e il paese riceverà veri
benefici dalle nuove privatizzazioni, che altrimenti darebbero origine a
pericolose posizioni dominanti o addirittura a monopoli privati.
Infine,
va rivista la politica degli incentivi alle attività produttive. Lo Stato non
può più effettuare trasferimenti "a pioggia". L’intervento pubblico
deve dirigersi dove è davvero strategico: nelle infrastrutture, nella ricerca,
nella qualificazione delle persone, nella corretta amministrazione.
Anche
la coesione sociale ha un’importanza enorme. È un valore di cui il nostro paese
dispone in misura maggiore di altri. Ed è anch’essa frutto di numerosi fattori,
culturali e sociali: partecipazione democratica e civile, sistema dei valori,
solidità della famiglia, capacità di ridurre l’emarginazione, e altri ancora.
Istruzione, sanità, previdenza, assistenza - ciò che chiamiamo Welfare State -
ne sono componenti fondamentali.
Spesso
facciamo l’errore di considerare tutti questi elementi come naturali, invece
che conquiste della nostra civiltà. E come tali, da tutelare: cé infatti il
rischio che sull’altare della globalizzazione larga parte di esse vada perduta.
Bisogna innovare anche in questo campo, perché spendiamo male e i cittadini
ricevono servizi inadeguati. Dobbiamo invece investire di più nel cosiddetto
Welfare delle opportunità e nell’employability.
Dalla
globalizzazione l’Italia, per la sua storia e per la sua struttura sociale ed
economica, ha teoricamente più da guadagnare che da perdere. Perderemo questa
opportunità solo se non sapremo rafforzare contemporaneamente competitività e
coesione sociale.
Luigi
Abete: Verso la globalizzazione, regionalizzazione e integrazione economica.
La
mancanza di consequenzialità dei rapporti di causa-effetto tra gli eventi è un
misunderstanding classico della cultura italiana, perché si confonde la
precondizione con la politica economica. Si tratta in effetti di due fasi
distinte. In questi anni si è fatta un’attività importante di risanamento
perché questa era la precondizione per fare una politica economica in termini
di sviluppo e in termini di allocazione libera delle risorse. In mancanza di
questa condizione di base, la scelta di allocare le risorse era una scelta
impossibile, un’utopia o un inganno.
Il
problema vero è che nel passato c’era chi voleva passare alla fase due saltando
la fase uno. Oggi l’approccio alla fase due è troppo generico, perché non ci si
pone il problema di quali politiche fare per promuovere lo sviluppo: se
lavorare su contesti di politica economica e di politica fiscale che
incentivino un intervento orientato a determinati servizi, ovvero se bisogna
lavorare su politiche più generali e, quindi, inevitabilmente più generiche,
"a pioggia".
Oggi la fase due viene interpretata e
affrontata in termini di questo tipo: "ci sono tremila miliardi che sono
venuti in sopravvenienza attiva rispetto al progetto di vendita della Telecom;
dove li mettiamo? Chi li gestisce?".
Questa
non è una scelta di politica economica, è una scelta, più o meno condivisibile,
di potere. Bisogna essere meno pessimisti sul fatto che ci debba essere un
pensiero unico. Non c’è il pensiero, se vogliamo usare questo termine, e perciò
si confondono iniziative che sono del tutto estemporanee e legate a fattori
contingenti.
Ciò
detto, possiamo affermare che abbiamo oggi un sistema economico e sociale che
va verso la globalizzazione, ma non siamo ancora in un processo che si può
definire di globalizzazione. Siamo in un processo di regionalizzazione
allargata, promosso dalla moneta unica europea che ha prodotto effetti
sinergici con altre aree economiche con processi altalenanti.
In
questo senso l’Europa è stata la prima a capire che questo processo si sarebbe
messo in atto e lo ha materializzato negli accordi e poi nelle politiche di
Maastricht. Si tratta di un processo di regionalizzazione nell’ambito di
processi di integrazione economica aperti tra di loro e che quindi introducono
elementi di globalizzazione.
La
globalizzazione è la fase successiva del processo che nasce da questo fenomeno
di regionalizzazione delle economie, che ha portato, comunque, elementi
positivi. Non ci si può dimenticare, infatti, che questa fase, per quanto
convulsa e per quanto contraddittoria in alcune sue manifestazioni, ha
allargato le potenzialità di sviluppo ad aree che ne erano estranee, anche se
ciò comporta alcuni rischi.
Una
delle regole su cui si muove il processo di liberalizzazione dei mercati, e che
legittima da un punto di vista morale questo fenomeno, riguarda il fatto che,
nel lungo termine, questo processo introduce fattori all’interno dei paesi che
non rispettano regole capaci di mettere in moto reazioni di riduzione del gap.
Questi fenomeni, però, devono essere in qualche modo indirizzati.
A
questo fine, certamente, non bastano le regole. Le regole sono una delle gambe
su cui si reggono i processi di coesistenza di una società civile. Le altre due
gambe sono i progetti e i comportamenti. Un tavolo deve avere almeno tre gambe,
se ne manca una il tavolo non si regge. E le tre gambe devono essere
equilibrate, quindi anche le regole non possono essere sempre le stesse.
Le regole vanno adeguate ai processi; le regole
servono per accompagnare il processo. Questo vale per i paesi occidentali, vale
per i processi difficili, come può valere per situazioni che sono culturalmente
ed economicamente del tutto diverse. Il problema è quello di individuare a
livello di comunità internazionale come accompagnare i processi di
liberalizzazione in modo tale che esplichino al massimo i loro effetti
positivi.
Bisogna,
infine, ricordare che in questo processo di globalizzazione tendenziale ci sono
alcuni fatti nuovi importanti che fanno emergere valori prima sottovalutati. Si
pensi, per esempio, all’impresa come comunità di interessi; paradossalmente la
competizione più lunga valorizza le identità comuni anziché mettere in evidenza
le differenze specifiche. La consapevolezza, poi, che la competizione obbliga
tutti, il pubblico e il privato, a esser più efficienti genera una
responsabilità diffusa, prima inesistente.
E
infine, con il superamento di una visione statica della società, la destra e la
sinistra sono due concetti che non esistono più: anche noi continuiamo ad usare
queste parole perché non ne abbiamo ancora trovate altre più idonee al nuovo
contesto di cambiamento. Oggi la globalizzazione apre tematiche del tutto
diverse, per cui i punti di centralità nel governo della società si spostano e
diventano di difficile valutazione.
Quali
saranno allora le vere discriminanti nel lungo termine? Resteranno le tre
grandi civiltà, quella occidentale, quella orientale e quella islamica.
Questo
sarà, alla fine del percorso della globalizzazione, il vero problema che noi
oggi vediamo solo sul piano micro: quanti sono gli emarginati in Italia, quanta
gente fuori dalla società?
Se fra
dieci o venti anni queste tre grandi culture non troveranno un modo per ri-colloquiare
tra di loro, esse saranno tre paratie stagne che correranno il rischio di
complicare i processi di vita comune e civile molto di più di quello che noi
oggi immaginiamo.
Pierfranco
Pellizzetti: Aprire una riflessione critica, senza toni "da stadio"
Si può
costruire un approccio critico nei confronti della globalizzazione e non
parlarne in una logica da tifosi allo stadio? Per mettere le mie carte in
tavola parto dalla parafrasi di una pagina scritta dall’intellettuale che ha
marcato i tre quinti di questo secolo con più forza; si tratta di John Keynes,
il quale nel ‘25 faceva una conferenza dall’emblematico titolo "Perché
sono liberale" in cui diceva: se dovessi stare da qualche parte io starei
dalla parte della borghesia colta. Parafrasando Keynes, parlo stando dalla
parte dei produttori.
Una volta dichiarata la mia "parte",
devo precisare altresì che dal mio punto di vista i produttori in materia di
globalizzazione non hanno capito qual è il loro interesse rettamente inteso.
Nella
globalizzazione ci sono degli aspetti di discontinuità e degli aspetti di
continuità. Certamente un aspetto di discontinuità è la compressione della
dimensione spazio-temporale che è avvenuta in questi anni a seguito di alcune
importanti rivoluzioni: quella dei trasporti riduce le distanze fisiche e
quella informatica riduce le distanze comunicazionali. Ma poi ci sono forti
elementi di continuità, perché Braudel ci spiega che già dal XIV secolo l’occidente
cerca di costruire uno spazio sistema mondo. Si potrebbe dire che a questo
punto l’operazione si è conclusa e ha coperto l’ orbe terracqueo, ma la
globalizzazione non è soltanto questo.
La
globalizzazione è anche un’operazione ideologica che utilizza certi materiali,
che produce un sottoprodotto che è stato chiamato con nome e cognome, il
pensiero unico, ma che soprattutto è la copertura ideologica della crescente
finanziarizzazione dell’economia.
La
domanda da fare ai produttori e agli imprenditori è questa: in che misura il
loro interesse rettamente inteso coincide con gli interessi della finanza?
Quanto la logica degli imprenditori che ragionano sul medio-lungo periodo è
sovrapponibile alla logica a breve, brevissimo della finanza?
È
stato detto che la finanziarizzazione non determina tanto la compressione dei
ceti medi, quanto la compressione dell’intera area centrale della società. È
stato calcolato che negli ultimi venti anni, l’area centrale della società a
livello mondiale è passata da un miliardo a oltre due miliardi di persone.
Forti segnali ci dicono che questo fenomeno è in piena evoluzione contraria.
Questo segnala l’interruzione del patto su cui
si sono costituiti gli equilibri di questa seconda metà del secolo, cioè la
promessa mantenuta di aumenti della capacità inclusiva del sistema.
Un’altra
riflessione riguarda il problema del rapporto tra meccanismo economico e
modello sociale. Adam Smith nel 1776, in quel talmud dei valori del mercato che
è La ricchezza delle nazioni, sostiene che senza una base sottostante al
mercato, che fuoriesce dalla sua logica, ma che soprattutto promuove valori di
solidarietà e di socialità, il mercato stesso non funziona.
Queste
rotture delle legature sociali portate avanti da un lato dalla compressione
dell’area mediana della società e dall’altro dal prevalere degli interessi
finanziari, in che misura sono interesse rettamente inteso degli imprenditori?
Certamente può essere interesse della comunità cosmopolita della finanza, degli
analisti simbolici, degli intermediari strategici; ma non credo che questo sia
interesse rettamente inteso dei produttori in generale.
Il
vero problema è che stanno saltando tutte le legature sociali, cioè sempre meno
si fa società, sempre di più si stinge nella comunità. È un fenomeno
regressivo. Il problema di fare società e costituire legature è un problema di
tutto il mondo che ruota attorno alla produzione.
In
passato due erano gli ambiti in cui si costituivano legature sociali: da una
parte la politica, dall’altra il lavoro. Queste dimensioni in cui si fa società
sono entrambe avvitate su sé stesse.
Questo dipende dal passaggio dalla
modernizzazione semplice a quella complessa; un fatto che pone una serie di
sfide, facendo prevalere il relazionale sul meccanico e facendo crescere la
riflessività sociale, per cui i vecchi modelli cibernetici input-output non
tengono più. Le possibilità del superamento della crisi dei modelli
organizzativi nel lavoro e nella politica hanno due vie di uscita. La prima
consiste nel recuperare tutti i portati positivi della nuova modernizzazione
complessa e quindi nell’aumentare il tasso di democrazia. Bisogna coinvolgere
il lavoratore creando quelli che nella politica si definiscono i nuovi spazi di
partecipazione, aprire nuovi canali democratici di coinvolgimento informale
nella decisione pubblica.
L’altra
via è quella di eliminare il problema organizzativo azzerando l’organizzazione
ed eliminando il problema del lavoro rendendolo just in time, rendendo la
politica autoreferenziale. La mia impressione è che stia prevalendo la seconda
ipotesi a tutti i livelli, con grossi problemi involutivi.
In
questo scenario in cui il lavoro e la politica stentano a riprodurre leganti
sociali c’è una dimensione che dà segni di controtendenza: lo sviluppo dell’associazionismo.
Per esempio, tutte le sedi della rete camerale stanno
diventando luoghi dove si sta ridisegnando la rappresentanza; il mio rammarico
è semmai la scarsa attitudine strategica nel primo soggetto dell’associazionismo
economico, la Confindustria.
Una
riflessione sempre di più critica e sempre meno da stadio ci farebbe capire che
la triade che ha fornito il titolo a questa discussione, cioè Marché, Monnaie, Globalité, non ha certo la valenza positiva di
quella ben più antica e ben più veneranda della Liberté, égalité, Fraternité, cioè le stelle polari della
rivoluzione borghese.
Silvio
Scaglia: Cambiare il rapporto tra capitale e impresa.
Che la
globalizzazione dei mercati sia un fenomeno ormai in corso e che comporti una serie di grandi cambiamenti, sono
fatti che bisogna accettare. E quando si vive un momento di cambiamento di tale
portata è indispensabile ragionare in maniera radicale e porsi riferimenti molto
precisi, anche correndo il rischio di essere scambiati per semplicisti.
La
globalizzazione è un fenomeno che nasce dal mondo finanziario e che proprio da
quest’ultimo riceve oggi il maggior impulso. Ebbene, grazie a questo momento di
trasformazione, oggi possiamo vedere un’enorme opportunità: cambiare
radicalmente il rapporto tra capitale e impresa.
In
Italia il capitale è sempre stato considerato storicamente uno strumento di
controllo di un’azienda. In un mercato globale ci si rende conto, giorno per
giorno, che i soldi non sono tutti uguali: ci sono capitali che cercano il
controllo delle aziende, e ci sono altri capitali che cercano rischi calcolati
e ritorni attraenti, dimostrando meno interesse per il controllo delle società.
Mentre nel mondo sono presenti in misura maggiore capitali di questo secondo
tipo, il nostro paese ha vissuto una situazione diversa: a causa del forte
indebitamento pubblico una grande percentuale del capitale si è indirizzata
verso i titoli di Stato.
Oggi, approfittando
del momento di trapasso verso la globalizzazione si può cambiare questa
situazione, utilizzando i capitali che abbiamo definito del secondo tipo - cioè
quelli che non sono interessati al controllo di un’azienda, ma alla rendita che
il mercato può offrire - per alimentare lo sviluppo italiano immettendo
considerevoli cifre sul mercato.
Questo tranquillizzerebbe quelle voci
preoccupate che temono che la globalizzazione dei mercati finanziari comporti
il rischio di una fuga all’estero del risparmio italiano.
Cresce
la paura che si investa all’estero, finendo per alimentare lo sviluppo in altri
paesi senza creare opportunità di lavoro nel nostro. Ma questo può non essere
vero e, al contrario di quanto temuto, può essere il nostro paese ad attrarre i
capitali dal resto del mondo. Il finanziamento di Omnitel potrebbe diventare l’esempio
da seguire e il primo caso di un piano sistematico di finanziamento delle
imprese per il nostro paese.
Ma si
può anche guardare, per esempio, alle privatizzazioni in un modo nuovo. Si può
immaginare la prossima privatizzazione collocata sui mercati finanziari
mondiali; e guardare con più fiducia all’operazione perché, se regolamentata da
norme precise e condivise, darà buoni frutti: i mercati stessi potranno
rispondere con convinzione e addirittura attribuire più valore alle aziende da
privatizzare, oppure possono partecipare ad iniziative imprenditoriali, come è
avvenuto in questi ultimi anni nel caso di Omnitel.
Per
attrarre capitali che cercano ritorni sicuri e rischi controllati occorrono le
regole. Regole che poi, fondamentalmente, si riassumono nella certezza della
trasparenza. Perché chi vuole investire vuole avere una percezione chiara dei
rischi che è necessario correre e delle opportunità che si possono cogliere.
Dove trasparenza spesso vuol dire responsabilità diverse nella gestione dell’azienda:
i manager distinti dagli imprenditori. I manager hanno maggiori doveri di
rispetto della trasparenza, gestendo capitali che vengono impegnati da altri,
dagli imprenditori.
E le
regole sono necessarie anche allo sviluppo di una reale concorrenza tra
manager. Concorrenza fra manager e concorrenza fra imprese come meccanismo che
facilita il mercato, che lo lascia libero di agire. E che lascia liberi gli
azionisti di dare il proprio voto di fiducia o di sfiducia nei confronti di una
squadra di management, vendendo o comprando le azioni di una società. E quindi
assicurando poi le risorse che servono a questa società.
L’operare
a breve termine tipico di certa finanza, che tra l’altro viene così spesso
demonizzato, può essere superato. Quanto più è lungo il periodo di fiducia che
i mercati finanziari accordano a un’azienda, tanto più cresce la capacità della
squadra di manager di essere trasparente negli impegni che prende e di essere
credibile nella sua capacità di rispettarli. E, nello stesso tempo, chi è più
credibile può più facilmente assumersi impegni a lungo termine.
Quanto
più si consente agli investitori finanziari di abbandonare un progetto, quando
necessario, limitando i danni e vendendo le proprie azioni, tanto più si
offrono opportunità ad altri investitori di valorizzare l’azienda e sostenere a
loro volta progetti a lungo termine.
Parlando
di trasparenza del management, si parla intrinsecamente di trasparenza delle
regole di corporate governance. Ma cè un altro importante tipo di trasparenza:
quella dell’ambiente regolatore. È importante che le regole del paese in cui si
investe siano certe. In Italia, per parlare di un settore che conosco bene, si
è sofferto moltissimo dell’ambiguità normativa e dei ritardi di adeguamento
legislativo in un mercato realmente competitivo come le telecomunicazioni.
Queste
difficoltà pesano soprattutto sugli investitori internazionali che hanno scelto
di investire in Italia oggi; difficoltà che rischiano di pesare sullo sviluppo
non solo delle aziende, ma di tutto il paese.
Per
finire, solo una nota sulle dimensioni delle opportunità che abbiamo di fronte:
le quattro maggiori banche mondiali oggi gestiscono assets per cifre
comparabili al prodotto interno lordo italiano. Omnitel è nata e si è
sviluppata grazie a un investimento iniziale che, tra debito e capitale, si
aggira intorno ai 4 mila miliardi di lire. Si è così creata un’azienda che
direttamente e indirettamente oggi dà lavoro a 10 mila persone e sta crescendo
continuamente.
Nei
prossimi anni possiamo con un certo ottimismo ipotizzare di attrarre in Italia
capitali nell’ordine di cento volte tanto. Tutto questo, se riusciamo a
evolvere la nostra cultura nella giusta direzione: non serve combattere la
globalizzazione perché comunque il paese ne verrebbe investito, ma è necessaria
una trasformazione culturale che consenta di cogliere tutte le opportunità che
la globalizzazione dei mercati ci offre.
Pietro
Marzotto: La sfida della regolazione.
La
globalizzazione è un fenomeno che interessa l’intero pianeta e tutte le sue
popolazioni. Essa può giovare a riequilibrare verso l’alto i divari tra ricchi
e poveri. Ma i processi di globalizzazione non sono scevri da rischi, come del
resto dimostra la recente crisi in alcuni Paesi asiatici.
Ciò
che deve essere pure chiaro è che ai processi di globalizzazione non ci si può
sottrarre: piaccia o no, la globalizzazione, a seguito degli straordinari
progressi fatti nel mondo della comunicazione in senso lato, è divenuta un
ineluttabile fenomeno naturale che non si può evitare.
Una
nazione, o anche un gruppo di nazioni, che volesse sottrarsi ai processi di
globalizzazione sarebbero destinati, in un sistema chiuso, a impoverirsi
inevitabilmente.
Mi
pare che Pellizzetti abbia posto in modo giusto una problematica: come in tutti
i grandi cambiamenti, come in tutte le grandi fasi turbolente, ci sono dei nodi
da sciogliere.
De
Benedetti nel suo saggio su MicroMega parla delle sfide poste dalla
globalizzazione; tra queste include, e mi pare la più importante, quella della
regolazione. Ovvero di come il Fondo Monetario Internazionale, la Banca
Mondiale, le autorità sovranazionali, sapranno dare delle regole. Perché il
mercato è uno strumento straordinario, non rinunciabile, però il mercato va
regolato. E regolare il "mercato globale" pone problemi nuovi.
Si
chiedeva Pellizzetti in quale misura l’interesse dell’impresa coincide con
quello della finanza. Ci sono tante imprese finanziarie il cui interesse
risiede solo nella finanza. Per le imprese prevalentemente manifatturiere la
finanza è invece strumentale alle attività progettuali, produttive e
commerciali.
Pellizzetti
nel suo articolo afferma che dovremmo preoccuparci molto della situazione degli
Stati Uniti e intende dire che alla fine noi stiamo meglio, perché negli Stati
Uniti c’è stato l’impoverimento di intere categorie. A me pare invece che è
meglio avere degli occupati a livello di reddito più basso che dei disoccupati.
Questo
riguarda l’Italia e gli italiani: quando si dice che al Sud abbiamo il 24% di
disoccupazione, per fortuna è un dato gonfiato perché c’è il lavoro sommerso.
Intendiamoci, non che io consideri il sommerso una cosa buona. Però come
cittadino, se devo dire la verità, preferisco avere un milione di lavoratori
sommersi piuttosto che un milione di disoccupati in più. E anche per loro penso
che sia meglio.
Ben
diversa è la situazione del lavoro nero del Nord, che è quello dei
prepensionati, di coloro che simulano di essere part-time e invece lavorano a
tempo pieno, degli straordinari fuori busta.
Lo
Stato dovrebbe intervenire con un’energica azione per sopprimere queste
illegalità, che sottraggono gettito contributivo e fiscale, creano concorrenza
sleale, contribuiscono a mantenere su livelli terribilmente elevati la
pressione fiscale e contributiva sui cittadini e sulle imprese oneste.
Ma nel
Sud, dove peraltro si concentra la grande massa del lavoro nero, occorre
capire, per usare gli opportuni strumenti di intervento, quanta parte di questi
posti di lavoro irregolari verrebbe meno ove si verificasse una
"emersione".
Può
sembrare che tutto questo non c’entri niente con la globalizzazione, ma non è
così. Poiché in un mercato globale, se esistono tra diverse aree alti divari
nella produttività dei fattori, non può esserci lo stesso livello di salario e
di welfare state.
Allora,
noi Europei dovremo porci il quesito se possiamo competere nel villaggio
globale con gli Stati Uniti e con il Giappone, essendo le nostre produzioni
gravate da una pressione fiscale e contributiva assai più elevata della loro.
Abbiamo
vantaggi di produttività dei fattori che giustificano tale situazione? No di
certo, tutti gli indicatori lo dimostrano!
Non
possiamo dunque sostenere una spesa pubblica dell’ordine del 48% sul P.I.L. e
una pressione fiscale del 45% e confrontarci con grandi Paesi moderni, con
modelli industrialmente avanzati, forti nella ricerca tecnologica e nell’innovazione
di processi e prodotti, all’interno dei quali la pressione fiscale e
contributiva è dell’ordine del 32-34% sul P.I.L.
Ecco
quindi che in un mercato globale il primo problema europeo diventa quello di
una revisione del welfare state.
Passera
ha detto: noi abbiamo una forte coesione sociale, che è figlia del welfare
state. Ma dobbiamo intenderci su questa espressione.
Consentire
ai cittadini di 55 anni di andare in pensione è welfare state? Oppure fornire
servizi pubblici, sia pure poco efficienti - penso alle ferrovie, alle poste,
ecc. -, a prezzi fortemente inferiori ai costi o ai corrispondenti prezzi degli
altri Paesi europei, è fare stato sociale? No.
Io
credo che per progredire e competere nel mercato globale noi dobbiamo immettere
sempre più competizione nel nostro mercato, anche nelle componenti che finora
non sono state esposte alla concorrenza.
Forte
moderazione salariale, ma aumento del potere d’acquisto determinato dai benefici
effetti della competizione, scuola e formazione efficienti, stimoli all’innovazione,
uscita dello Stato dall’economia, competizione, competizione, competizione...
Queste sono le regole per progredire in un mercato globale.
I
neoconservatori insegnano
alla
Germania il vero significato
della
"resa incondizionata."
Unz.com - RICHARD SOLOMON - (25
OTTOBRE 2022) – ci dice:
Gli ex
partner dell'Asse, Germania e Giappone, si sono alleati di nuovo, questa volta
come manichini da crash test dello stato vassallo per l'Impero anglo-sionista
degli Stati Uniti.
Dopo
le schiaccianti sconfitte della WW2, entrambe le nazioni accettarono la resa
incondizionata. La nuova superpotenza vittoriosa America era misericordiosa, se
non altro per i suoi interessi.
Che l'America ha fatto la fine dell'hula hoop.
Secondo la dottrina neocon, la resa
incondizionata significa che la Germania viene trasformata in una ciambella
gigante. Nessun gemito di piacere da parte del popolo tedesco, solo un rantolo
di morte collettivo.
Il
Piano Marshall ricostruì la Germania Ovest in una pacifica e prospera potenza
industriale, e sotto il cripto-imperatore generale Douglas MacArthur, il
Giappone fu riorganizzato come un'elegante asta del pistone per il motore
capitalista globale. The American Way era "la via" e per un po'
sembrò che potesse essere vero. La dura realtà ha dimostrato il contrario.
Per la
cronaca, ho finito il capitalismo. Portare avanti l'economia post-scarsità di
Star Trek. Attaccare le persone su tapis roulant da corsa dei topi con
banconote da un dollaro su ami da pesca che penzolano davanti al loro naso
sembra uno spreco di potenziale umano. Inoltre, voglio la mia cameriera robot
Jetsons gratuita.
Torniamo
alla carne. Le culture tradizionali tedesca e giapponese contengono molte
somiglianze. Entrambi rispettano l'eccellente maestria, come esemplificato
dalla Mercedes Benz d'epoca e dalla spada samurai finemente forgiata. Il codice
d'onore ha un alto valore. Rimuovi le trappole esterne e il cavaliere teutonico
è il guerriero samurai. E per entrambi i popoli, "il prezzo è il
prezzo" - nessuna contrattazione, stampa fine o costi nascosti. Tutti
questi tratti sono ostili ai parassiti della finanza globale.
Poiché
la Germania è la prima a sacrificarsi sull'altare del sionismo Rothschild, ne
farò il fulcro di questo articolo.
Come
in un episodio invertito di "Schindler's List" di Twilight Zone, il
popolo tedesco marcia come pecore verso la sua destinazione finale.
Il
partito dei Verdi tedesco ha tagliato i legami energetici vitali con la Russia
a scapito del Volk. La demolizione subacquea da parte dei neoconservatori
dell'oleodotto Nord Stream 2 ha reso distrutto il ponte di legno del riavvicinamento
russo-tedesco. Questo atto di audace sabotaggio ha anche creato un disastro
ambientale nel Mar Baltico. I Verdi "rispettosi dell'ambiente" erano seduti Shiva
per tutti i pesci morti?
Sembra
che i globalisti intendano congelare e deindustrializzare la Germania in un
buco infernale del Medioevo. O forse è un genocidio. Se è così, non è
sorprendente. I sionisti Rothschild se la cavano con il “revenge porn”
"Olocausto".
Dal
momento che questo è un argomento delicato, penso che sia bene affermare che
non includo ebrei creativi giusti, piccoli o belli con i sionisti Rothschild.
Dal mio punto di vista, il razzismo irrazionale è l'epitome dell'ignoranza. Per
quanto mi riguarda, mi identifico come ebreo ebreo israelita o ebreo, e accetto
k!ke (per compassione per le vittime arrabbiate del PTSD indotto dai sionisti
Rothschild). Elabora i dati come meglio credi. Disclaimer e divulgazioni a
parte, procediamo.
Poiché
i neoconservatori sionisti Rothschild gestiscono la politica estera degli Stati
Uniti, il motivo della vendetta "Olocausto" dietro la distruzione
della Germania deve essere affrontato.
Non è
l'unico fattore, e potrebbe non essere il più grande, ma è certamente
rilevante. È come quando una donna avvelena suo marito. La sua polizza di
assicurazione sulla vita potrebbe essere stata la motivazione principale, ma
odiava anche il bastardo a due tempi.
Ai
tedeschi è stato inculcato il senso di colpa della WW2 fino al punto di
auto-immolarsi. Proibito dalla legge di impegnarsi in un'analisi storica
onesta, molti tedeschi accettarono l'immagine di sé creata dalla zio-crazia di
Hollywood: "Come zombie impazziti pieni di sali da bagno, i tedeschi saltarono fuori
e strapparono le facce agli ebrei senza motivo". Milioni di ebrei innocenti hanno
sofferto sotto il nazismo, ma il letale fiore di Hitler non avrebbe mai potuto
sbocciare senza il fertilizzante sionista Rothschild.
Gelosi
del successo industriale tedesco unito a migliori benefici per i lavoratori, i
banchieri della City di Londra e i loro amici industriali britannici
intrappolarono la Germania nella prima guerra mondiale.
Un po'
come i neoconservatori che spingono il presidente Putin a invadere l'Ucraina
cercando di trasformarla in un silo di missili nucleari della NATO e in un
impianto di armi biologiche.
Dopo
che la Germania fu risucchiata in un pantano da incubo, i Rothschild tagliarono
i finanziamenti tedeschi alla guerra quando la Gran Bretagna accettò di
contribuire a creare lo stato israeliano (Dichiarazione Balfour).
Dopo
la sconfitta della Germania, i finanzieri internazionali come i Warburg
spazzarono via le pensioni tedesche e i risparmi di una vita. Il Trattato di
Versailles fu un accaparramento di ricchezza per le riparazioni dei banchieri.
Durante
la Repubblica di Weimar, gli affamati trasportavano carriole di marchi tedeschi
fino alla panetteria per comprare una pagnotta di pane.
Piccoli
ebrei innocenti l'hanno ottenuto da entrambe le parti, prima come vittime del
saccheggio economico dei Rothschild, e poi come bersagli della rabbia tedesca. Nessun Rothschild è mai stato mandato
in un campo di concentramento.
I
finanzieri ebrei internazionali e i loro associati anglosassoni di Wall Street
(ad esempio Prescott Bush) finanziarono pesantemente i nazisti, come
documentato nel libro del professor Antony Sutton, "Wall Street and the
Rise of Hitler". I membri della famiglia Warburg sedevano nel consiglio di
amministrazione della fabbrica di lavoro degli schiavi di Auschwitz della IG
Farben. Se un insegnante di tedesco lo includesse nel suo programma di lezioni,
si sveglierebbe nelle viscere di un carcere di massima sicurezza. L'educatore
americano ce l'ha di meglio: verrebbe solo licenziato e bandito a vita.
Che
fortuna che l'imprenditore tecnologico, attivista per la libertà di parola,
editore e giornalista Ron Unz fornisca uno spazio sacro per la libertà di
parola per discutere apertamente di idee. La libertà di parola è parte
integrante del Tao della Carta dei Diritti. Dal mio punto di vista, Ron Unz è
un patriota taologo americano.
Tuttavia,
nessuna libertà di parola è consentita negli studi sull'"Olocausto".
L'"Olocausto" è un grande affare per i sionisti Rothschild.
Hanno
trasformato i crematori in forni fusori d'oro, come da libro del professor
Norman Finklestein, "L'industria dell'Olocausto".
Dal
momento che tutti i vecchi nazisti sono morti, i sionisti Rothschild devono
dare la caccia ai contabili e alle segretarie di Auschwitz novantenni e
appenderli ai ganci da carne per far girare il treno dei soldi.
È rivoltante, come guardare un pazzo strappare
un bambino da una carrozza e gettarlo nel traffico di mezzogiorno.
Il
modo in cui una nazione tratta i suoi bambini e anziani rivela molto. I semi
della ribellione dovrebbero essere piantati nella mente del tedesco che assiste
a questo grottesco spettacolo di omicidio rituale degli anziani.
Ogni
tedesco che applaude in silenzio questa farsa deve indossare un vestito e una
parrucca e vendere il suo sulla Kurfürstenstraße.
Nessuna
mancanza di rispetto per le comunità gay e trans, i lavoratori del sesso o i
cross-dresser. (Ciò che gli adulti consenzienti fanno nella loro vita personale sono
affari loro. Basta non coinvolgere i bambini.)
In un
certo senso scuso le atrocità naziste contro piccoli ebrei innocenti. I nazisti
uccisero la sorella di Kafka. Nella vera scissione mentale schizoide, i principali
nazisti come Hitler, Goebbels e Göring avevano stretti rapporti con gli ebrei
nelle loro vite personali.
Ipotizzerei
che Hitler soffrì di un conflitto interiore con la sua soluzione alla questione
ebraica, ma decise che per eliminare l'ebraismo internazionale, aveva bisogno
di muovere guerra a tutti gli ebrei.
Penso
che la storia abbia dimostrato che questo approccio "il fine giustifica i
mezzi" non era corretto.
Se
Hitler avesse preso l'Ayahuasca con una guida di viaggio sciamano della foresta
pluviale,
invece dei cocktail iniettabili di cocaina-anfetamina-B12 del Dr.
"Feelgood" Morell, forse gli eventi si sarebbero svolti diversamente.
Sto
scherzando, ovviamente, beh, mezzo scherzo. Inciampare Hitler contro Hitler
speed-freak rende interessante un interessante "what if" storico. I
funghi magici crescono nella Foresta Nera tedesca?
Se
Hitler avesse guardato il cielo notturno, avrebbe visto una gigantesca svastica
in fiamme ruotare in senso orario?
Avrebbe
rivelato che il tempo del dominio occidentale stava volgendo al termine, e una
forza vitale proveniente dall'Oriente si stava preparando per il suo turno
sulla ruota cosmica?
Forse
avrebbe visto le svastiche in senso orario e antiorario ruotare fianco a
fianco, e renderle lo yin yang ariano, non come simbolo di violenza, ma di
equilibrio e armonia.
Hitler invertì la svastica e creò il caos di
massa.
In un
caso di dissonanza cognitiva alimentata dai jet, i nazisti si lamentarono di
circa cinquecentomila ebrei all'interno dei loro confini, ma invadendo la
Russia, finirono per governare su milioni di ebrei.
L'Operazione Barbarossa ha alimentato milioni
di uomini migliori della Germania e della Russia nel tritacarne del fronte
orientale. Non credo che nessuna delle due nazioni si sia mai completamente
ripresa. (La Russia è sempre stata l'obiettivo principale di Hitler:
Lebensraum, petrolio, cibo).
Parlando
della Russia, una grande ragione per cui i neoconservatori vogliono portare una
mazza da baseball alla colonna vertebrale della Germania è impedire a entrambi
i paesi di formare un legame energetico.
Uno
dei principali istigatori dietro la prima guerra mondiale fu il piano del
Kaiser di costruire la ferrovia Berlino-Baghdad. che era una sorta di gasdotto
energetico nascente.
Gli
Alleati hanno infranto quel sogno.
Un po'
come l'interruzione del Nord Stream 2. Come disse Mark Twain, "La storia
non si ripete, ma spesso fa rima". Come dividendo aggiuntivo, una Russia e
una Germania estraniate rendono ogni paese più suscettibile al saccheggio dei
banchieri.
Un
altro strumento di destabilizzazione usato dai globalisti contro la Germania è
stata l'immigrazione armata.
Le
guerre neocon post-9/11 hanno inondato la Germania di milioni di rifugiati
mediorientali e nordafricani.
Questo
era il piano sionista dei Rothschild. Una società omogenea è meglio
equipaggiata per resistere al dominio straniero rispetto a una multiculturale.
Alcuni
nella destra reazionaria odiano i rifugiati di guerra. Questo costituisce
razzismo irrazionale. La Germania è un membro della NATO. Se tu (attraverso le
politiche del tuo governo) bruci la casa di un uomo, non puoi arrabbiarti
quando si presenta alla tua porta in cerca di un posto dove schiantarsi. Dal
mio punto di vista, qualsiasi soluzione alla crisi europea dell'immigrazione
deve incorporare la legge karmica e i principi del Tao.
La
Germania è tedesca, proprio come l'Etiopia è etiope. La linea di sangue tribale
germanica emerse dalla nebbia primordiale. Questo non vuol dire che la Germania
non possa concedere a uno straniero lo status di residente permanente con pieni
diritti e benefici sociali, ma quella persona non sarà "tedesca".
Forse
i suoi figli lo faranno se si collega con una donna tedesca. Un raro caso di
uno straniero che diventa "tedesco" potrebbe essere come quando i
nativi americani o altri popoli indigeni adottarono un uomo bianco nella tribù
dopo aver determinato che operava sulla frequenza filosofica e spirituale della
tribù.
Nella
vera ipocrisia satanica, i sionisti Rothschild strillano sulla diversità, ma
sostengono le leggi razziali del 1935 tipo Norimberga per Israele.
Preferisco
vivere in una comunità multiculturale. Imparo molto da persone di diverse
culture, religioni, credo, razze, generi e orientamenti. Capisco anche che
alcune persone vogliono vivere in una comunità culturalmente omogenea. Il
"diritto di libera associazione" di Pierre-Joseph Proudhon (padrino
dell'anarchismo politico) risolve questo problema magnificamente e
pacificamente.
Salvare
il grande papà grand poobah per ultimo: qual è la ragione principale dietro il
complotto anti-tedesco dei neocon? Cina.
Immagina
l'ingegneria, l'artigianato e l'ingegno scientifico tedeschi collegati alla Belt and Road Initiative cinese. La politica cinese di cooperazione
win-win andrebbe di grande beneficio per entrambi i paesi e fornirebbe al resto
del mondo incredibili doni tecnologici e culturali. Prima dell'assalto neocon
alla Germania, stava accadendo.
Sotto
la pressione degli Stati Uniti, i politici tedeschi abbandonarono la via dei
fiori di loto verso la salvezza e si voltarono pedissequamente sulla strada neocon
verso l'inferno. Per comprendere la follia del governo tedesco, guardate come
hanno fornito a Israele sottomarini Dolphin che ospitano testate nucleari
israeliane.
La
classe politica tedesca è una bambola suicida?
Se
l'opzione Sansone verrà mai implementata, Berlino, Monaco e Francoforte sono i
primi obiettivi della hit parade delle nuvole di funghi.
Come
nota a margine, mentre mi oppongo all'Israele sionista Rothschild, non ho nulla
contro l'insegnante di matematica o il tassista israeliano delle scuole
superiori.
Proprio
come non ho nulla contro l'insegnante di matematica palestinese o il tassista. Se l'arbitro disonesto dell'America
sionista Rothschild fosse sostituito da un arbitro neutrale della Cina, forse
israeliani e palestinesi potrebbero raggiungere un accordo di pace.
Ritirare gli agenti del Mossad dalle nazioni
straniere e dare ai palestinesi pieni diritti civili, e Israele-Palestina
(l'idea del leader libico Muammar Gheddafi - peccato che i neoconservatori lo
abbiano ucciso) si unirà alla bellissima iniziativa cinese Belt and Road.
Forse
la Cina potrebbe persino convincere Israele a smantellare le sue armi nucleari,
creando una vera "zona libera dal nucleare" in Medio Oriente. Sotto
la guida della Cina, trattati come SALT II potrebbero essere resuscitati per
rimuovere tutte le armi nucleari dal pianeta Terra.
Perché
sostengo la Cina per il ruolo di principale influencer globale? In primo luogo,
penso che una pacifica Repubblica degli Stati Uniti che rimanesse all'interno
dei suoi confini territoriali potrebbe coesistere in bella armonia con la Cina.
In secondo luogo, dal mio punto di vista, il presidente Xi e la Cina sono
pro-Tao. Cosa intendo per Tao? Il Tao è inspiegabile. Posso fornire esempi.
Pro-Tao
è quando la Cina costruisce reti ferroviarie ad alta velocità, aumenta il
tenore di vita dei suoi cittadini e si astiene dall'invadere paesi stranieri
(FYI- Taiwan fa parte della Cina).
L'anti-Tao
è quando gli Stati Uniti privatizzano i servizi pubblici per creare
l'avvelenamento di massa dell'acqua di Flint e i blackout Enron, impoveriscono
i suoi cittadini e usano missili Hellfire lanciati da droni per trasformare
donne e bambini innocenti in nebbia di carne per gli aumenti dei prezzi delle
azioni Raytheon.
Il
seguace del Tao esegue contorsioni acrobatiche per evitare conflitti. Porta la
guerra santa a lui, e diventa un mutha a pugno di serpente chiuso che oscilla
il tubo.
La
Cina è educata. La Cina cerca di evitare il conflitto. Tuttavia, se il
Pentagono continua a colpire il Drago, i neoconservatori impareranno: la Cina è
un cattivo Mutha.
Se il
bel popolo tedesco vuole sopravvivere, dovrebbe: attingere al loro visigoto
interiore (dov'è Aleric quando hai bisogno di lui?). Brucia la loro carta della
morte della NATO. Riprendi le relazioni con la Russia. Collegati con la Cina.
La
Germania deve seguire il suo Tao. Il sionismo Rothschild è anti-Tao. "Resa
incondizionata" ai neoconservatori significa distruzione spirituale e
fisica per i tedeschi.
È così
semplice.
"Speed
of Science" - Uno scandalo
oltre
il tuo incubo più selvaggio.
Globalresearch.ca - Dott. Giuseppe Mercola - (24
ottobre 2022) – ci dice:
La
premessa alla base dei mandati di vaccinazione COVID e dei passaporti dei
vaccini era che sparando, avresti protetto gli altri, poiché avrebbe impedito
l'infezione e la diffusione di COVID-19.
All'inizio
di ottobre 2022, durante un'audizione COVID al Parlamento europeo, il membro
olandese Rob Roos ha interrogato la presidente di Pfizer dei mercati sviluppati
internazionali, Janine Small, sul fatto che Pfizer avesse effettivamente
testato e confermato che il loro jab mRNA avrebbe impedito la trasmissione
prima del suo lancio.
Small
ha ammesso che la Pfizer non ha mai testato se il loro jab avrebbe impedito la
trasmissione perché dovevano "muoversi alla velocità della scienza per capire cosa
sta succedendo sul mercato ... e dovevamo fare tutto a rischio".
Sappiamo
da oltre due anni che i colpi non sono mai stati testati per l'interruzione
della trasmissione. Nell'ottobre 2020, Peter Doshi, editore associato di The
BMJ, ha evidenziato che gli studi non erano progettati per rivelare se i
vaccini avrebbero impedito la trasmissione. Eppure tutti nel governo e nei
media hanno insistito sul fatto che avrebbero fatto proprio questo.
Non si
trattava mai di scienza o protezione degli altri. Si trattava sempre di seguire
una narrativa predeterminata che cercava di portare la tecnologia sperimentale
dell'mRNA nel maggior numero possibile di persone.
Il 9
febbraio 2021 ho pubblicato un articolo che chiariva le definizioni mediche e
legali di "vaccino".
Nell'articolo,
ho notato che i jab di mRNA COVID-19 non soddisfacevano queste definizioni, in
parte perché non prevengono l'infezione o la diffusione. In realtà, sono
terapie geniche sperimentali. Nel luglio di quell'anno, il New York Times ha
pubblicato un articolo di successo su di me citando quell'articolo del 9 febbraio:
“L'articolo
apparso online il 9 febbraio è iniziato con una domanda apparentemente innocua
sulla definizione legale dei vaccini. Quindi, nelle successive 3.400
parole, ha dichiarato che i vaccini contro il coronavirus erano "una frode
medica" e ha affermato che le iniezioni non prevengono le infezioni,
forniscono immunità o arrestano la trasmissione della malattia.
Invece,
affermava l'articolo, gli scatti "alterano il tuo codice genetico,
trasformandoti in una fabbrica di proteine virali che non ha un interruttore
di spegnimento". Le sue affermazioni erano facilmente confutabili…”
Pfizer
si è mossa "alla velocità della scienza"
Avanti
veloce all'inizio di ottobre 2022 e le mie affermazioni sono state
ufficialmente confermate durante un'audizione COVID al Parlamento europeo. Il
membro olandese Rob Roos ha interrogato il presidente dei mercati sviluppati
internazionali di Pfizer, Janine Small, sul fatto che Pfizer avesse
effettivamente testato e confermato che il loro jab di mRNA avrebbe impedito la
trasmissione prima del suo lancio.
Come
notato da Roos, l'intera premessa dietro i mandati di vaccinazione COVID e i
passaporti per i vaccini era che sparando, avresti protetto gli altri, poiché
avrebbe impedito l'infezione e la diffusione di COVID-19. Piccolo ha risposto:
"No.
Abbiamo dovuto muoverci davvero alla velocità della scienza per capire cosa sta
succedendo nel mercato... e abbiamo dovuto fare tutto a rischio".
Ciò
significa che il passaporto COVID era basato su una grande bugia. L'unico scopo del passaporto COVID:
costringere
le persone a vaccinarsi. Lo trovo scioccante, persino criminale. Rob Roos, eurodeputato.
Nel
video qui sotto, il biologo e insegnante di infermiere John Campbell, Ph.D.,
esamina questo crescente scandalo. Sottolinea che i funzionari del governo del Regno
Unito hanno assicurato con enfasi al pubblico che tutto ciò che normalmente
veniva fatto negli studi clinici per un vaccino era stato fatto per i colpi di
COVID. Ora ci è stato detto che dopotutto non era così.
La
domanda è perché? Secondo Small, queste prove di base non sono state eseguite
perché "dovevano muoversi alla velocità della scienza". Ma cosa significa? Come notato da
Campbell, queste sono "solo parole senza significato". È una totale
sciocchezza.
Inoltre,
cosa significa “fare tutto a rischio”? Campbell ammette di non avere idea di
cosa significhi. Nemmeno io, ma se dovessi azzardare un'ipotesi, suppongo che significhi
che hanno saltato consapevolmente alcuni test anche se conoscevano i rischi di
farlo.
Governo
e media hanno promulgato una palese bugia.
Negli
ultimi tre anni, i media mainstream hanno promulgato la menzogna secondo cui i
colpi di COVID preverranno l'infezione e la trasmissione, dicendoci che
chiunque non ottenga il colpo è nel migliore dei casi egoista e, nel peggiore
dei casi, un potenziale assassino in generale. Chiunque rifiuti rappresenta una
seria minaccia biomedica per la società, da qui la necessità di mano pesante.
Ahimè,
era tutta una bugia dall'inizio. La parte frustrante è che SAPPIAMO da oltre due anni
che le riprese non sono mai state testate per l'interruzione della
trasmissione, eppure tutti nel governo e nei media hanno insistito sul fatto
che avrebbero fatto proprio questo.
Nell'ottobre
2020, Peter Doshi, editore associato di The BMJ, ha evidenziato il fatto che le
prove non erano progettate per rivelare se i vaccini avrebbero impedito la
trasmissione, il che è fondamentale se si vuole porre fine alla pandemia. Ha
scritto:
“Nessuna
delle prove attualmente in corso è progettata per rilevare una riduzione di
eventuali esiti gravi come ricoveri ospedalieri, uso di terapia intensiva o
decessi. Né i vaccini sono allo studio per determinare se possono interrompere
la trasmissione del virus”.
Quindi,
al più tardi entro ottobre 2020, era chiaro che non erano stati condotti studi
per determinare se i colpi impedissero effettivamente la trasmissione, il che è
un prerequisito per affermare che salverai la vita ad altri se lo prendi.
A quel
punto, Moderna aveva anche ammesso che non stavano testando la capacità del suo
jab di prevenire l'infezione. Tal Zaks, direttore medico di Moderna, ha affermato che
questo tipo di sperimentazione richiederebbe il test dei volontari due volte a
settimana per lunghi periodi di tempo, una strategia che ha definito
"operativamente insostenibile".
Quindi,
né Pfizer né Moderna avevano idea se i loro scatti COVID avrebbero impedito la
trasmissione o la diffusione, poiché non è mai stato testato, ma con l'aiuto di
funzionari governativi e media, hanno portato il pubblico a credere che
l'avrebbero fatto.
Di
seguito è riportato solo un esempio in cui Pfizer ha chiaramente offuscato la
verità. Se l'interruzione della
trasmissione era la loro "priorità massima", perché non hanno testato
e confermato che il loro tiro stava raggiungendo questa priorità?
Allo
stesso modo, in un'intervista israeliana 7 (sotto), Bourla ha affermato che
"l'efficacia del nostro vaccino nei bambini è dell'80%". Il
giornalista gli ha chiesto di chiarire: "Stai parlando di efficacia per
prevenire malattie gravi o per prevenire infezioni?" e Bourla rispose:
"Per prevenire l'infezione". Come potrebbe dire che quando la
prevenzione dell'infezione non è mai stata testata? Non è una prova di frode,
ripresa dalla telecamera?
I
colpi di COVID sono stati commercializzati in modo fraudolento.
Come
ho affermato a febbraio 2021, i colpi sono una frode medica. Un vero vaccino
previene l'infezione; I colpi di COVID no. Quindi, sono stati anche
commercializzati in modo fraudolento. I governi di tutto il mondo hanno
consentito questa frode di marketing e i media l'hanno promulgata.
Come
risultato dell'obbligo di vaccinazioni contro il COVID e passaporti per i
vaccini sulla base di una palese bugia, milioni di persone hanno subito danni
potenzialmente permanenti e/o sono morti. Milioni di persone hanno anche perso
il lavoro, perso la carriera e perso opportunità educative. Tutto questo è
successo perché NON abbiamo seguito la scienza.
Sono
stati ammessi enormi conflitti di interesse.
Perché
le agenzie governative hanno accettato quella che era, per chiunque avesse un
microgrammo di capacità di pensiero critico, un'apparente frode? Probabilmente,
perché ci stanno dentro. Come riportato dal giornalista investigativo Paul
Thacker, la stessa società di pubbliche relazioni che serve Moderna e Pfizer
collabora anche con il team della Division of Viral Diseases dei Centers for Disease
Control and Prevention degli Stati Uniti.
“All'inizio
del mese scorso [settembre 2022], il direttore del CDC Rochelle P. Walensky ha
approvato le raccomandazioni del Comitato consultivo del CDC sulle pratiche di
immunizzazione (ACIP) per i booster COVID-19 aggiornati di Pfizer-BioNTech e
Moderna.
"Questa raccomandazione ha fatto
seguito a una valutazione scientifica completa ea una solida discussione
scientifica", ha affermato il dott. Walensky in una dichiarazione.
"Se sei idoneo, non c'è un brutto momento per ottenere il tuo booster
COVID-19 e ti incoraggio vivamente a riceverlo" ...
[La]
società di pubbliche relazioni Weber Shandwick, che ha rappresentato a lungo
Pfizer e altre società farmaceutiche e ha iniziato a fornire supporto per le
pubbliche relazioni a Moderna nel 2020.
In uno
strano caso di sincronicità - e siamo onesti, un soffio di influenza indebita -
i dipendenti di Weber Shandwick sono anche incorporati presso il Centro
nazionale per l'immunizzazione e le malattie respiratorie (NCIRD) del CDC, il
gruppo CDC che implementa i programmi di vaccinazione e sovrintende al lavoro
di ACIP [Comitato consultivo del CDC sulle pratiche di immunizzazione] …
Il CDC
si è rifiutato di rispondere alle domande che spiegano questo apparente
conflitto ... "[È] irresponsabile da parte del CDC rilasciare un contratto
di pubbliche relazioni a Weber Shandwick, sapendo che l'azienda lavora anche
per Moderna e Pfizer", ha inviato un'e-mail a Craig Holman di Public
Citizen. "Solleva domande legittime su quali interessi metterà al primo
posto Weber Shandwick: i loro clienti del settore privato o l'interesse del
pubblico all'NCIRD."
Per
inciso, Weber Shandwick è stato scoperto nel 2016 per aver scritto uno studio
sui farmaci per la Forest Pharmaceuticals, un'altra pratica non etica che ha
minato le basi della scienza medica per decenni.
Una
società di pubbliche relazioni, un messaggio coerente.
Le
responsabilità di Weber Shandwick presso il CDC includono, ma non sono limitate
a, "generare idee per storie, distribuire articoli e condurre contatti con
organizzazioni di notizie, media e intrattenimento" per aumentare i tassi
di vaccinazione. La società fornisce
servizi simili a Moderna.
Ad
esempio, ha contribuito a generare 7.000 articoli di notizie a livello
internazionale dopo che Moderna ha richiesto l'autorizzazione all'uso di
emergenza (EUA) per il suo jab.
Nel
giugno 2022, Moderna ha annunciato che un "team interdisciplinare che
attinge al talento e all'esperienza di Weber Shandwick" avrebbe
"guidato la narrativa del marchio a livello globale" e
"supportato Moderna nell'attivare e coinvolgere il pubblico chiave interno
ed esterno, inclusi dipendenti, consumatori, salute operatori sanitari,
destinatari di vaccini e responsabili politici”.
Considerando
che i principali produttori di jab COVID hanno la stessa società di pubbliche
relazioni del CDC, c'è da meravigliarsi se la messaggistica è stata così
costantemente unilaterale? Come notato da Doshi in una recente intervista alla
televisione tedesca, 11 media mainstream hanno costantemente ignorato i dati
jab COVID e "non hanno fatto un buon lavoro nel fornire una copertura
equilibrata" sulle riprese.
"Non
stiamo ottenendo le informazioni di cui abbiamo bisogno per fare scelte
migliori e per avere una comprensione più informata di rischi e benefici",
ha detto all'intervistatore, aggiungendo:
È
stato un vero peccato che fin dall'inizio quello che ci è stato presentato dai
funzionari della sanità pubblica fosse un quadro di grande certezza... ma la
realtà era che c'erano incognite estremamente importanti.
Siamo
entrati in una situazione in cui essenzialmente la posta in gioco è diventata
troppo alta per presentare successivamente quell'incertezza alle persone. Penso
che sia questo che ci ha fatto partire con il piede sbagliato. I funzionari
pubblici avrebbero dovuto essere molto più schietti riguardo alle lacune nelle
nostre conoscenze".
La
rianalisi dei dati di prova conferma i pericoli del colpo di COVID.
Alla
fine di settembre 2022, Doshi ha pubblicato un'analisi rischio-beneficio
incentrata sugli eventi avversi gravi osservati negli studi COVID di Pfizer e
Moderna. La rianalisi dei dati ha mostrato che 1 su 800 che si fa vaccinare
COVID subisce un grave infortunio. Come dettagliato nell'articolo di Doshi:
“I
vaccini Pfizer e Moderna mRNA COVID-19 erano associati a un rischio eccessivo
di eventi avversi gravi di particolare interesse di 10,1 e 15,1 per 10.000
vaccinati rispetto ai valori di base del placebo rispettivamente di 17,6 e
42,2.
Combinati,
i vaccini mRNA erano associati a un eccesso di rischio di eventi avversi gravi
di particolare interesse di 12,5 per 10.000 vaccinati; rapporto di rischio
1,43.
Lo
studio Pfizer ha mostrato un rischio maggiore del 36 % di eventi avversi gravi
nel gruppo vaccinato... Lo studio Moderna ha mostrato un rischio maggiore del 6
% di eventi avversi gravi nel gruppo vaccinato... Combinato, c'era un rischio
maggiore del 16 % di eventi avversi gravi nel gruppo vaccinato Destinatari del
vaccino mRNA…”
Doshi
e i suoi coautori hanno anche concluso che l'aumento degli eventi avversi
causati dai colpi ha superato la riduzione del rischio di essere ricoverato in
ospedale con COVID-19. Insomma, insomma, i colpi conferiscono più male che
bene.
Il
senatore Rand Paul promette indagine.
Un
portavoce del senatore Rand Paul, R-Ky., ha risposto a un'indagine di Thacker
affermando: "Il fatto che CDC avesse un contratto con la stessa società di
pubbliche relazioni che rappresentava i produttori del vaccino COVID-19 solleva
serie preoccupazioni", aggiungendo che "questi conflitti di interesse
saranno indagati a fondo" dalla commissione del Senato per la salute,
l'istruzione, il lavoro e le pensioni (HELP) - che sovrintende al CDC - l'anno
prossimo.
Dopo
il midterm di novembre, Paul sarà il prossimo in linea come il massimo
repubblicano in questo comitato. Vale la pena notare che, come minimo, questo
tipo di conflitto di interessi avrebbe dovuto essere divulgato da entrambe le
parti. Nella migliore delle ipotesi, avrebbe dovuto essere evitato del tutto.
Il CDC non ha fatto nessuno dei due. Non ha rivelato il suo rapporto con
l'azienda di pubbliche relazioni e non ha impedito in primo luogo lo sviluppo
del conflitto di interessi.
In
cosa consisteva il COVID Jab Push All About?
Il
risultato razionale di tutto questo è che la massiccia spinta a iniettare nella
popolazione globale questi colpi sperimentali non ha mai riguardato il seguire
la scienza e la protezione degli altri.
Si
trattava sempre di promuovere una narrativa falsa e inventata progettata per
consentire l'attuazione di una direttiva dall'alto verso il basso per iniettare
in ogni persona sul pianeta una nuova tecnologia mRNA. Questo, a sua volta,
solleva due questioni centrali:
Chi è
in cima? — Non lo sappiamo ancora. Tutto ciò che possiamo dire con certezza è
che hanno un'influenza molto potente e globale, abbastanza potente che i
funzionari del governo hanno mentito e sacrificato volontariamente le proprie
popolazioni in un esperimento medico incredibilmente rischioso.
Perché
iniettare a tutti la tecnologia mRNA è così importante per i decisori anonimi?
— Ancora una volta, non lo sappiamo, ma è abbastanza chiaro che c'è una ragione
per questo, che dovrebbe realizzare qualcosa.
Come
dettagliato negli articoli precedenti, l'unico motivo razionale per cui il CDC
sta consentendo l'EUA per il COVID jab per i bambini piccoli è perché stanno
assistendo i produttori di farmaci nel loro sforzo di ottenere uno scudo di
responsabilità inserendo i colpi nel programma di vaccinazione infantile.
ACIP è
pronta ad aggiungere i vaccini COVID al programma di vaccinazione infantile da
un giorno all'altro, e una volta nel programma dell'infanzia, i produttori di
vaccini non saranno responsabili per le lesioni e le morti che si verificano a
causa dei loro colpi, indipendentemente dal fatto che si verifichino nei
bambini o negli adulti.
Inoltre,
ricorda che anche se la Food and Drug Administration degli Stati Uniti ha
concesso la piena approvazione allo scatto di Pfizer per il COVID di Comirnaty,
Comirnaty non è mai stato rilasciato al pubblico. Il colpo alla Pfizer che viene dato
è ancora sotto EUA.
Perché
Comirnaty non è mai stato rilasciato? Probabilmente perché una volta che la
sparatoria ha ottenuto la piena approvazione della FDA, la responsabilità entra
in gioco. Sembra che stiano cercando di evitare la responsabilità facendo
sparare all'EUA nel programma dell'infanzia prima che Comirnaty venga lanciato
e inizi a ferire e uccidere le persone.
Ora,
se sono preoccupati per la responsabilità, significa che sanno che il tiro è
pericoloso. E se sanno che è pericoloso (come mostrano chiaramente tutti i dati
disponibili), allora perché vogliono che ogni persona sul pianeta lo prenda?
Seguire
questa linea di domande fino alla sua logica conclusione ci porta alla
conclusione scioccante che, anche se non conosciamo i motivi, le ferite e le
morti di questi colpi sono intenzionali.
Perché
Big Pharma è disperata per far entrare COVID Jab nei bambini?
I
produttori di vaccini continuano a diffondere bugie.
Nonostante
l'ammissione inequivocabilmente chiara di Small secondo cui Pfizer non ha
testato il suo vaccino contro il COVID per accertare se impedisce la
trasmissione, il CEO di Pfizer non esita ancora a insinuare così tanto. Ecco
cosa ha twittato il 12 ottobre 2022. Non
sta dicendo che il colpo è stato confermato per prevenire il COVID, ma insinua
che lo fa dicendo che la FDA lo ha autorizzato per la prevenzione del COVID.
Questo è anche noto come mentire per omissione.Nel frattempo, i cosiddetti fact checker stanno cercando di salvare la
reputazione di Pfizer dicendo che la società non ha mai dichiarato che lo sparo
avrebbe interrotto la trasmissione.
Potrebbe essere così, ma funzionari
governativi e media hanno affermato che avrebbe impedito sia l'infezione che la
diffusione, e Pfizer non li ha mai corretti, anche se le persone venivano
licenziate e ostracizzate dalla società per non aver preso il jab.
Se
fossero stati davvero in bilico, i funzionari della Pfizer avrebbero chiarito
che lo sparo non era stato testato per confermare che avrebbe impedito la
trasmissione e, fino a quando non fosse stato saputo, mandati e passaporti non
avevano basi. Pfizer non l'ha fatto. Invece, sono andati d'accordo.
I Jab
dovevano sempre essere spinti - "Con mezzi giusti o fallo".
In
conclusione, non c'è motivo di fidarsi mai più del governo, almeno non negli
Stati Uniti, che sono gli unici a spingere il jab sui bambini piccoli. (La ragione di ciò, come accennato
in precedenza, è probabilmente quella di inserire i colpi nel programma di
vaccinazione infantile, che proteggerà i produttori di vaccini dalla
responsabilità finanziaria per danni.)
Come
notato dal conduttore di GB News Neil Oliver nel video sopra, la base stessa
per i mandati COVID o i passaporti per i vaccini – che tutti dovevano essere
colpiti per il bene superiore, per proteggere gli altri e aiutare a porre fine
alla pandemia – era una bugia deliberata fin dall' inizio.
Molti
di noi se ne sono resi conto all'inizio, ma le nostre voci sono state soffocate
quando il governo, la Big Tech e i media hanno fatto tutto il possibile,
censurando chiunque dicesse la verità. E tutti coloro che hanno partecipato a
questo grande inganno rimangono impenitenti fino ad oggi.
In un
recente thread su Twitter, un utente di Twitter di nome Daniel Hadas fornisce
un'eccellente descrizione di ciò che sono stati veramente gli ultimi tre anni:
“Il
dibattito sul fatto che, quando e in che misura siano state dette bugie sui
vaccini COVID che impediscono la trasmissione, manca un punto centrale:
indipendentemente da ciò che hanno mostrato i dati dello studio, i vaccini
sarebbero SEMPRE stati spinti su intere popolazioni, con mezzi equi o scorretti.
Molto
presto, la risposta al COVID è stata bloccata in una narrativa specifica. Il
mondo si bloccherebbe e rimarrebbe al sicuro, mentre scienziati coraggiosi
martellavano un vaccino ... Potresti ricordare che, nei primi mesi di COVID, si
è parlato molto senza fiato sul fatto che ci sarebbe MAI stato un vaccino.
Erano
tutte sciocchezze... Le nostre autorità non avrebbero adottato la strategia del
lockdown fino al vaccino a meno che non fossero state certe che un vaccino
potesse e sarebbe stato realizzato...
Lo
scopo di seminare la paura che non ci potesse mai essere un vaccino era
aumentare la gratitudine e l'entusiasmo quando ne arrivava uno. In effetti,
ogni parte della risposta iniziale al COVID può essere intesa (in parte) come
marketing pre-release per il vaccino...
Ecco
perché i rischi di COVID per i giovani sono stati enormemente amplificati. Ecco
perché c'è stato un offuscamento senza fine del ruolo centrale dell'immunità
conferita dalle infezioni sia nella protezione degli individui che nel porre
fine alla pandemia.
Il
piano era che il vaccino sarebbe stato accolto da una popolazione perfettamente
preparata: immunologicamente ingenua, disperata di essere liberata dal
lockdown, terrorizzata dal COVID, desiderosa di fare la cosa giusta, cioè
proteggere gli altri sparando.
Una
volta che sono stati fatti così tanti sforzi per l'adescamento, è
INIMMAGINABILE che le autorità si sarebbero rivolte a dirci... "Beh, in
realtà, il profilo di sicurezza del vaccino è solo così così, l'efficacia è
oscura e la maggior parte delle persone non ha bisogno di preoccuparsi comunque
il covid Quindi è meglio che la maggior parte di voi non prenda questo... Mi
dispiace per i blocchi.'
Non
era nella sceneggiatura. Quindi era inevitabile che il vaccino venisse spinto
su tutti, e inevitabile che venissero utilizzati i migliori argomenti per la
vaccinazione universale. Quelle argomentazioni erano: COVID è super pericoloso
per TE. La sfiducia in questo vaccino è sfiducia nella scienza. Rifiutarsi di
vaccinarsi è immorale, perché infetterai gli altri.
La
veridicità di queste affermazioni non aveva importanza: erano nel copione ed
era troppo tardi per deviare... Di conseguenza, anche il terreno era pronto per
i mandati dei vaccini.
Niente
di tutto questo è cospiratorio. È descrittivo... Chiarire i dettagli non
altererà l'essenza del quadro: la risposta al COVID è stata determinata da un
copione per la salvezza del vaccino e l'investimento delle società in quel
copione era troppo profondo perché la semplice realtà potesse deviarne
l'esecuzione.
Le
domande principali che rimangono ancora senza risposta sono: perché è stato
creato questo script? Quali sono le conseguenze previste? E chi l'ha creato?
Come accennato in precedenza, le prove suggeriscono che il danno è un risultato
previsto: danni alla nostra economia, al nostro ordine sociale, alla nostra
salute, alla nostra durata della vita e alla capacità riproduttiva.
Per
quanto riguarda il "perché", possiamo solo guardare ciò che è stato
realizzato finora. Supponendo che le conseguenze fossero intenzionali, il
"perché" sembra essere il trasferimento di ricchezza, lo spopolamento
e la creazione di un governo mondiale unico.
LE
IDEOLOGIE SONO MORTE
MA GLI
IDEALI NO. È LA POLITICA CHE
PER
INTERESSE NON LI RAPPRESENTA PIÙ.
Thevision.com - DANIELE FULVI – (1° FEBBRAIO
2021- ci dice:
Nel
dibattito politico degli ultimi anni, viene dedicata un’attenzione sempre più
grande a posizioni cosiddette “post-ideologiche”, che mirano al superamento
delle contrapposizioni concettuali destra/sinistra, fascisti/comunisti e così
via, in nome di una politica più pragmatica e votata agli interessi reali dei
cittadini: quello che oggi è il mio peggior avversario politico, domani
potrebbe essere il mio alleato di governo.
In
questo scenario, un ruolo sempre più centrale viene giocato dai leader dei vari
partiti. La loro vita sembra dipendere più dal volere dei loro capi – e dagli
scranni che occupano – piuttosto che dalla reale condivisione di ideali o di una
determinata visione del futuro.
A
partire dall’epoca del primo Berlusconi, il leader di un determinato partito o
schieramento ha rappresentato un elemento sempre più determinante ai fini del
voto: da una trentina d’anni a questa parte, non si vota più per appartenenza
ideologica, ma in base al carisma del candidato a guida di questa o quella
lista.
Su
queste basi. Beppe Grillo già nel 2010 prendeva nettamente le distanze dagli
schieramenti tradizionali di destra e sinistra, definiti come “comitati d’affari”;
e a distanza di tre anni ribadiva il concetto sostenendo che il M5S fosse un
movimento di natura post-ideologica, lanciando il famoso mantra del “né di
destra né di sinistra”; infine, nel 2018 il comico genovese si è spinto ancora
oltre, arrivando a sostenere che il movimento da lui fondato fosse “la più
grande forza post-ideologica d’Europa”.
Visto
il successo in termini di consenso, anche i partiti storicamente schierati a
destra, ovvero la Lega e Fratelli d’Italia, hanno deciso di seguire l’esempio
della propaganda grillina.
Salvini,
ad esempio, nel 2015 definì l’antifascismo come “una roba da libri di storia”,
dal momento che l’ideologia fascista e quella comunista appartengono al passato
e non sono in grado di rappresentare le categorie politiche odierne. Anche
Giorgia Meloni non è da meno: da sempre, infatti, la leader di FdI è impegnata
nell’opera di normalizzazione e istituzionalizzazione del fascismo, in nome
proprio di quella politica post-ideologica che vorrebbe superare posizioni
faziose e “da tifoseria”.
Perfino
il successo elettorale di Trump nel 2016 è in parte dovuto al fatto che sia
stato presentato come un leader post-ideologico di un movimento che “trascende
le vecchie ideologie”.
Infine, la recente crisi di governo nel nostro
Paese, dettata più dagli interessi individuali di singoli politici piuttosto
che dalla genuina passione per principi etici e politici, sembra essere
un’ulteriore conferma della validità delle posizioni post-ideologiche.
Infatti, l’agenda politica dei vari leader di
partito sembra basarsi sempre più sugli interessi di potere dei singoli,
anziché su una visione economica e sociale di ampio respiro per il futuro.
Le
ideologie politiche che hanno caratterizzato il Novecento, dunque, sembrano
essersi eclissate in maniera definitiva, rimpiazzate dal trasformismo e
dall’individualismo.
Eppure,
il fatto che queste ideologie siano morte non significa che lo siano anche gli
ideali, soprattutto fra le nuove generazioni. Mai come oggi si ha da un lato
l’impressione che la politica non segua più alcun ideale, ma muti in base
all’occorrenza e alla convenienza, dall’altro, però, al di fuori delle stanze
del potere, si stanno costruendo e stanno crescendo sempre più delle comunità
fondate su ideali molto forti.
E
nuovi ideali danno vita a nuove ideologie che si adattano ai problemi del
nostro tempo, nel tentativo di affrontarli e trovare una soluzione, sulla base
di un’etica e una visione del mondo condivise.
Proprio
in virtù di questa natura dinamica, non si può affermare che le ideologie siano
morte e che siano state definitivamente soppiantate da una sorta di nichilismo
etico e di cinico opportunismo.
Nel
dibattito politico quotidiano il concetto stesso di “ideologia” viene
interpretato in maniera superficiale e arbitraria: infatti, quando si accusa
qualcuno di avere una posizione ideologica, si intende dire che le sue idee e i
suoi discorsi sono astratti, teorici e fondati su pregiudizi.
In
realtà, però, l’ideologia è tutt’altra cosa: lungi dall’essere un insieme di
nozioni fumose e valide solo in ambito teorico, essa consiste precisamente in
un sistema di valori e coordinate concrete in base a cui gli esseri umani
orientano le proprie azioni nel mondo.
L’ideologia
è quanto di più tangibile e pragmatico esista, dato che rappresenta una sorta
di prontuario a cui tutti noi ci atteniamo più o meno fedelmente – e più o meno
consapevolmente.
Per
dirla con il filosofo francese Althusser, l’ideologia è “un sistema di idee
solo in quanto è un sistema di rapporti sociali” e in quanto tale costituisce
la linfa vitale di ogni società.
(Louis
Althusser.)
Perciò,
parlare di epoca post-ideologica significa da un lato avallare un luogo comune
che produce solamente cattiva politica (e cattivi politici), e dall’altro
utilizzare un metro di giudizio inadeguato a comprendere i tempi in cui
viviamo.
Non è
vero che siccome le ideologie sono morte, allora c’è bisogno di politici
post-ideologici e spregiudicati; al contrario, è vero che siccome la classe
dirigente italiana non è in grado di rispondere alle esigenze e ai problemi
reali del Paese, poiché non ne comprende gli ideali, allora politici,
giornalisti e opinionisti vari – in mancanza di argomenti migliori –
giustificano tale atteggiamento sulla base di una presunta morte delle vecchie
ideologie.
Ma
sposare un’ideologia non significa necessariamente adottare dei pregiudizi o
accontentarsi di una visione pigra o utopica della realtà. Al contrario, spesso
è proprio chi è animato da ideali sinceri e da convinzioni etiche solide a
realizzare i cambiamenti più significativi in ambito politico e sociale.
La
retorica della morte delle ideologie ha come effetto ultimo quello di
allontanare i cittadini dalle istituzioni e dai processi decisionali, di fatto
accentrando il potere nelle mani dei leader più in voga.
Perciò,
risulta chiaro come “trascendere le ideologie” o affermarne la fine non
significa altro che annientare il senso critico della popolazione prevenendo la
reale necessità di un cambiamento dei rapporti sociali.
In pratica, se si convincono tutti i cittadini
che le ideologie sono dei paraocchi che impediscono di vedere le cose in
maniera oggettiva, se non addirittura dei pesi morti di cui liberarsi, si
ottiene come risultato sia la creazione di una classe dirigente elitista e
incapace di rapportarsi ai cittadini, sia la subordinazione acritica del popolo
a quella stessa classe dirigente.
Facendo
un parallelo con il pensiero di Gramsci, possiamo dire che è esattamente in
questo modo che le classi dominanti costruiscono la loro egemonia. Come ci
spiega in maniera chiara ed efficace Alessandro Barbero, una classe diventa
dominante quando riesce a far sì che anche le altre classi accettino la sua
ideologia, ovvero il suo pensiero e la sua visione del mondo.
Perciò,
nel caso della situazione odierna, l’ideologia dominante è quella superficiale
e propagandistica secondo cui le ideologie sono morte e sepolte, rimpiazzate
dallo sprezzante pragmatismo dei politici contemporanei.
Tuttavia,
è altrettanto vero che quando l’ideologia dominante non corrisponde alla
realtà, si apre una frattura tra governanti e governati che diventa sempre più
insanabile e porta a inevitabili cambi di rotta nei rapporti sociali.
(Alessandro
Barbero).
Gli
attuali movimenti politici per le questioni di genere, razziali e ambientali,
infatti, non fanno altro che dimostrare quanto questa frattura sia profonda ed
evidente, e che continuare a ignorarla in nome della presunta morte degli
ideali politici novecenteschi non fa che allontanare ancora di più la politica
dalla realtà dei fatti.
Non
solo tali movimenti mostrano come la narrazione diffusa dell’estinzione delle
ideologie sia un semplice strumento propagandistico e ingannevole, ma anche che
la costruzione di una società più giusta passi necessariamente per
l’istituzione di una nuova ideologia che stravolga i rapporti sociali
esistenti, sostituendoli con un nuovo ordine politico ed economico basato su
equità, inclusività e sostenibilità.
Ad
essere scomparsa dai radar, dunque, non è l’impostazione dell’azione politica
sulla base di valori etici, ma la buona politica che di tali valori si dovrebbe
nutrire. Soprattutto nelle nuove generazioni, è molto forte l’urgenza di
implementare una visione del mondo che si contrapponga a quella del capitalismo
neoliberista, ormai in profonda crisi.
Infatti, sebbene anche leader politici di
primissimo piano come Macron abbiano riconosciuto che il modello capitalista
non funziona più, in Italia sembra mancare quasi del tutto una riflessione
lucida e realista sulla possibilità di liberarsi dalla propaganda
post-ideologica e di creare un modello economico-sociale in grado di dare un
futuro alle nuove generazioni e al pianeta.
Tale
atteggiamento, però, non fa che allontanare la politica e le istituzioni dai
cittadini, creando malcontento e aumentando il rischio di derive nazionaliste e
neofasciste.
(Emmanuel
Macron).
La
soluzione, dunque, consiste nell’abbandonare una volta per tutte l’impostazione
post-ideologica, che non risponde ad alcuna esigenza reale delle persone e non
fa che allargare la forbice tra la piazza e il Palazzo.
Per questo, bisogna ridare la giusta
importanza alla politica ispirata a sani ideali e valori non negoziabili,
smettendola di conferire un valore esclusivamente negativo al concetto di
ideologia.
Senza ideali fondati su solide basi etiche,
infatti, non saremmo neanche in grado di dare un senso al mondo, né di avere
una prospettiva per il futuro.
Le
bufale di chi nasconde
la
realtà dell’embrione.
Lanuovabq.it – Ermes Dovico – (28-10-2022) –
ci dice:
Un
gruppo abortista pubblica foto di sacche gestazionali ben “ripulite” per
nascondere la realtà dell’embrione a 5-9 settimane. Il britannico Guardian e,
in Italia, The Vision rilanciano le immagini, con titoloni che ingannano i
lettori. Una mistificazione smentita da biologia ed ecografie, che mostrano
tutta l’umanità del nascituro fin dalle prime settimane nel grembo materno.
I
sostenitori dell’aborto hanno sempre dovuto far uso di un bel cumulo di
menzogne - dalle iperboliche cifre sugli aborti clandestini al terrorismo di
certi medici su presunte malformazioni dei nascituri (vedi lo sciacallaggio sul
disastro di Seveso) - per creare consenso attorno alla pratica e giungere alla
sua legalizzazione. Ma la madre delle menzogne è sempre stata quella di cercare
di ridimensionare e perfino cancellare l’umanità del bambino in grembo, dipinto
come mero «grumo di cellule».
Lo sa
benissimo un gruppo abortista statunitense, Mya Network, di recente formazione,
che ha tra i suoi obiettivi dichiarati quello di «aiutare a normalizzare
culturalmente l’aborto».
E per
normalizzarlo serve mentire o al più mostrare mezze verità, per giunta
presentate in modo da confondere chi non conosce le basi della biologia e non
ha mai visto - cosa incredibile a dirsi oggi - un’ecografia.
È così
che Mya Network ha pubblicato una serie di fotografie raffiguranti una parte
della realtà osservabile tra 5 e 9 settimane di gravidanza: la sacca
gestazionale, cioè la “casa” che si sviluppa, a quello stadio, attorno
all’embrione.
Il gruppo abortista da un lato è costretto ad
ammettere che le foto rappresentano la sacca “ripulita” dal sangue e dalla
decidua mestruale, ma dall’altro - con un cocktail di immagini e parole - fa passare
il suo messaggio ingannevole, affermando che «in questa fase [appunto fino a 9 settimane, ndr] non è visibile un embrione».
Ma la realtà è che l’embrione non è visibile
per i maneggi dei sanitari di Mya Network, che oltre al sangue hanno
verosimilmente rimosso tutti i resti dei bambini abortiti.
In un
mondo normale la bufala sarebbe rimasta confinata alle pagine online del suddetto
gruppo abortista, ma purtroppo l’ideologia contro la vita nascente si
accompagna sempre a una grancassa mediatica ben collaudata.
Alcuni organi della stampa mainstream hanno
infatti pensato che le foto sensazionali di Mya Network fossero un’occasione
troppo ghiotta per accusare di falsità il mondo pro vita (che ricorda come
l’embrione sia un nostro fratellino in miniatura).
Se poi
si accompagnano quelle foto a titoli altrettanto sensazionali, la
mistificazione si diffonde alla velocità della luce… Come infatti è avvenuto.
Il
primo a cogliere la palla al balzo è stato, a quanto pare, il britannico
Guardian. Foto della sacca gestazionale in bella mostra e titolo: «What a
pregnancy actually looks like before 10 weeks - in pictures» («Che aspetto ha davvero una
gravidanza prima delle 10 settimane - nelle foto»).
In
Italia, il 21 ottobre, a due giorni dall’articolo del Guardian, ci ha pensato
la testata The Vision, seguitissima sui social network, a rilanciare la bufala.
Il titolo, in questo caso, è ancora più netto: «Ecco cosa viene realmente
espulso in un aborto entro le prime 10 settimane.
Non
manine e piedini come mostrano gli anti-abortisti» . Nella prima versione del
post di Vision si affermava che «negli scatti è visibile come durante le prime
nove settimane di gravidanza non vi sia alcun embrione» (vedi qui per una
ricostruzione).
Il
contenuto del post, pur sempre viziato dalla stessa approssimazione ideologica,
è stato poi in parte modificato, aggiungendo il particolare dei tessuti
«ripuliti dal sangue».
Ma il
titolo e la relativa foto - gli elementi di maggior rilievo - sono rimasti gli
stessi. Risultato: solo su Instagram, oltre 112 mila “mi piace”, tra cui quello
dell’influencer Chiara Ferragni.
Tra le
tante possibilità oggi esistenti, basta prendere un libro di embriologia o
consultare qualunque seria fonte su Internet dedicata alla materia per
constatare come, a 8-9 settimane, l’embrione - già ben visibile e grande circa
quanto un acino d’uva - vada assumendo forme sempre più definite (vedi qui i 23
stadi di Carnegie in alta definizione) e siano distinguibili occhi, naso,
bocca, mani, piedi, eccetera.
«Ma
com’è possibile arrivare a negare cose del genere?», ci dice al telefono il
professore e ginecologo Giuseppe Noia, luminare nel campo della medicina fetale
e delle cure prenatali.
«A 6
settimane è già iniziato lo sviluppo di olfatto, gusto, udito e vista. Una
settimana dopo - aggiunge il professor Noia - inizia anche il tatto e
all’ottava la sensibilità cutanea nel volto.
Tra 6
e 12 settimane si sviluppano i movimenti del tronco e degli arti, e così via.
Con le ecografie tutto questo si può vedere. Contra factum non valet
argumentum», conclude il ginecologo.
I
fatti sullo sviluppo dell’embrione sono talmente evidenti che anche non pochi
utenti dichiaratamente pro aborto - ma più informati della media, in mezzo alle
decine di migliaia di like a sostegno del post - si sono sentiti in dovere di
prendere le distanze dalla disinformazione diffusa, nel panorama italiano, da
The Vision, nonché poi da altri media (come il Post). Rimane tuttavia la
gravità di quanto avvenuto.
La
“notizia” - con il suo titolo che raggira i lettori - è appunto ancora lì, a
una settimana di distanza.
E, comunque, molti di coloro che l’hanno vista
(senza darsi la pena di fare un minimo di verifica) saranno rimasti convinti
che sono i pro life a raccontare frottole.
Del
resto, per arrivare alla normalizzazione dell’aborto, auspicata dall’ideologia
abortista ed esplicitata da Mya Network, non si può sottilizzare sui mezzi:
bisogna anestetizzare le menti e nascondere la realtà del bambino nel grembo
materno.
Nei
decenni lo si è fatto, come accennato, in tanti modi, spostando il discorso
attorno all’aborto verso tutti quei temi che potessero distrarre la popolazione
e farle perdere di vista che il “diritto” che viene rivendicato riguarda il
corpo, la vita di un altro essere umano (nella foto, un embrione a circa 7
settimane).
Da
decenni gli abortisti senza se e senza ma dicono che bisogna rendere le donne
“libere” di scegliere, mentre nascondono loro gli aiuti e le informazioni più
basilari, facendo la guerra alle ecografie, che hanno il torto di mostrarci
bambini innocenti in tutta la loro umanità.
Da
decenni tentano di far sparire il nascituro dal dibattito pubblico sull’aborto.
Ora cercano di farlo sparire anche dalle foto.
Grigory
Yudin: “La
guerra contro
l’Ucraina
è
catastrofica anche per la società russa”.
Affarinternazionali.it
- Nona Mikhelidze – (27 Giugno 2022) – ci dice:
Grigory
Yudin è uno scienziato politico e sociologo russo, un esperto di opinione
pubblica e sondaggi in Russia. Il podcast dell’intervista realizzata da Nona
Mikhelidze, ricercatrice senior dell’Istituto Affari Internazionali, è disponibile.
Vorrei
iniziare con una domanda sul 24 febbraio. Si aspettava lo scoppio della guerra
su larga scala? E cosa significa questa guerra per la Russia e per il suo
futuro?
Sì,
purtroppo me l’aspettavo! Avevo capito già nel 2020 che ci sarebbe stata una
grande guerra contro l’Ucraina. E credo che dalla metà del 2021 tutto sia
diventato ancora più chiaro.
Voglio
dire, era chiaro che ci sarebbe stato un grande scontro tra la Russia e la
Nato. E dal 2021 era ovvio che la prima fase di questa guerra sarebbe avvenuta
in Ucraina. Penso che fosse abbastanza ovvio soprattutto dopo la comparsa del
famoso articolo del presidente Putin sull’Ucraina, al quale hanno fatto seguito
molte analisi militari.
Parlavano dell’imminente invasione, quindi
aspettavo ogni giorno che la guerra scoppiasse. Questo, ovviamente, non ha reso
la vicenda meno dolorosa!
Ho
cominciato ad avvertire la gente di questa guerra imminente, sia in Europa,
parlando con i politici europei, sia in Russia. Cercavo di far capire loro
l’inevitabilità della guerra. Praticamente senza successo però, tutti erano
scettici al riguardo.
Così
siamo arrivati al 24 febbraio. Ora, parlando di cosa significa questa guerra
per il futuro del Paese, la diagnosi generale è che a lungo termine tutto
questo sarà devastante per la Russia. È una guerra suicida.
La Russia ha avuto guerre ingloriose nel suo
passato, ma questa è la guerra più stupida, la più catastrofica per il Paese
stesso, perché fondamentalmente distrugge i legami che la Russia ha con quasi
tutti i Paesi.
La
Russia è davvero legata e culturalmente vicina agli ucraini, ovviamente, ma
anche ai bielorussi che sono molto, molto coinvolti in questa guerra.
Questo
è il primo aspetto. Il secondo aspetto è la cosiddetta fratellanza slava, che
ora si sta distruggendo. E poi l’appartenenza più ampia all’Europa, che è
anche, ovviamente, assolutamente cruciale per la Russia.
La
Russia è un Paese molto speciale. Ha un posto speciale nella storia europea e
non può essere separata dall’Europa. È assurdo che le persone ora parlino
dell’avvicinamento alla Cina. Voglio dire, non capiscono nemmeno di cosa stiano
parlando.
La
Russia è sempre stata un Paese europeo, da Kaliningrad a Vladivostok. E questo
è estremamente evidente quando si esce per strada. Si tratta quindi di un
suicidio, di un colpo di testa!
E poi
come se non bastasse, è una guerra che non si può vincere. Non può essere
vinta, non c’è nessuno scenario in cui la Russia possa avere successo a lungo termine.
Quindi
le conseguenze per la Russia saranno totalmente devastanti. Onestamente penso
che questa sia una delle decisioni peggiori di tutta la storia russa… e la
storia russa è ricca di decisioni non ponderate. Questa probabilmente è la
peggiore.
E
allora perché è stata presa questa decisione?
Beh,
la decisione è stata presa da Putin e probabilmente anche da alcune persone a
lui molto vicine.
Ma ora
dobbiamo rivalutare anche questo aspetto, perché prima pensavamo almeno che ci
fosse un’élite di potere dietro di lui, ma dopo questa famosa riunione del
Consiglio di sicurezza abbiamo dovuto riconsiderare questa assunzione perché
molte delle persone che si pensavano molto, molto vicine al processo
decisionale, si sono rivelate dei burattini, come tutti hanno avuto modo di
vedere.
Quindi
la decisione è stata presa dal Presidente stesso e per lui si tratta di una
guerra difensiva. Si sta difendendo, si sente minacciato esistenzialmente.
Pensa di essere molto vicino a essere ucciso e vuole proteggere la sua vita. E
l’unico modo per proteggere la sua vita è rimanere al potere.
Stiamo
parlando di due cose inseparabili: deve rimanere al potere per proteggere la
sua vita e la sua posizione. La situazione negli ultimi anni si è lentamente
deteriorata, sia internamente che esternamente.
C’era un crescente senso di stanchezza per il
governo di Putin, anche tra le persone che generalmente gli sono grate, era
abbastanza evidente che c’era un significativo distacco dei giovani dal regime.
Soprattutto negli ultimi quattro o cinque anni abbiamo assistito a una netta
spaccatura negli atteggiamenti della popolazione tra gli anziani e i giovani.
Questa era una parte del problema.
L’altra
parte del problema era rappresentata dal fatto che l’Ucraina, in quanto Paese
culturalmente molto vicino alla Russia, per lui era sul punto di ottenere
un’alleanza militare con gli Stati Uniti.
E
questo avrebbe trasformato l’Ucraina in una roccaforte per le forze di
opposizione contro Putin. Credo che il modo migliore per capire questo sia il
paragone con il colonnello Gheddafi che ha affrontato il movimento di
resistenza in Libia.
Era pronto a schiacciarlo, a uccidere le
persone, probabilmente centinaia di migliaia. Gli è stato impedito dalla Nato e
alla fine è stato rovesciato e ucciso. E sappiamo che impressione ha avuto la
morte di Gheddafi su Vladimir Putin. Ne è rimasto assolutamente scioccato,
terribilmente scioccato.
Queste
due cose di cui parlavo, le cause interne e le cause esterne, non vanno
distinte perché qualsiasi tipo di opposizione o malcontento in Russia, Putin lo
percepisce immediatamente come un complotto contro di lui orchestrato
dall’Occidente.
E
anche questi atteggiamenti critici dei giovani sono intesi come il risultato
della propaganda occidentale. Quindi per lui l’unico motivo per cui la gente
potrebbe essere scontenta del regime è perché c’è una propaganda occidentale
che opera per distorcere i valori russi che per lui sono importanti.
È così
che si è arrivati all’idea di condurre una guerra inevitabile contro l’Occidente,
contro la Nato e contro gli americani. Questi termini sono usati in modo
intercambiabile e l’Ucraina è diventata solo il primo campo di battaglia, come
dice lui, che la vede come anti-Russia.
L’ha ripetuto molte volte, e questo è il
significato: in sostanza da qui si può vedere che l’esistenza stessa
dell’Ucraina è sentita come una minaccia per la Russia. E per Russia,
ovviamente, intende sé stesso. Quindi l’esistenza stessa dell’Ucraina è già una
minaccia mortale per la sua vita. Ecco come siamo arrivati all’inevitabilità di
questa guerra.
Prima
ha detto che per lei era chiaro che doveva esserci uno scontro con la Nato, e
poi ha parlato delle cause interne ed esterne, delle ragioni che hanno portato
Putin a invadere Ucraina. In tanti pensano che una delle cause per scatenare
questa guerra fosse anche o soprattutto l’allargamento della Nato.
Sono
d’accordo, ma solo con riserva. La stessa esistenza della Nato sarà sempre un
fattore provocatorio per Putin per iniziare una guerra, a meno che non venga sciolta.
Negli anni Novanta si era creata una chiara prospettiva di scioglimento della
Nato dopo la fine della guerra e del Patto di Varsavia.
Se il
Patto di Varsavia non esisteva più, perché la Nato non avrebbe dovuto
sciogliersi? O almeno rimodellare o riformulare in modo significativo i suoi
obiettivi? Oppure si poteva parlare di inclusione della Russia in un sistema di
sicurezza più ampio in Europa.
Beh,
questo è stato fatto, in una certa misura, con il consiglio Russia-Nato, ma
dopotutto, forse ci si aspettava proprio il suo scioglimento. Non si è sciolta
anche per ragioni comprensibili, perché c’erano i paesi dell’Europa orientale
che giustamente si sentivano minacciati dalla Russia e facevano pressione per
unirvisi.
È così
che la Nato, forse anche non intenzionalmente, si è estesa a est, nonostante le
promesse di non farlo. Promesse che non sono mai state formalizzate: non c’è
mai stato un obbligo formale da parte della Nato di non espandersi, ma per la
Russia si è trattato di un abuso della sua fiducia.
Ma in
realtà, basta parlare della Nato… il vero problema è che la Russia, e in
particolare Putin, non hanno mai considerato i vicini come paesi sovrani con i
quali cercare un linguaggio comune dopo la dolorosa esperienza sovietica di
coesistenza.
La Russia non si è mai preoccupata di fornire
le garanzie di sicurezza a quei Paesi, le garanzie che li avrebbero dissuasi
dall’entrare nella Nato. Anzi, la Russia ha fatto di tutto per incoraggiarli a
entrarci e sotto il governo di Putin la Nato si è espansa in modo significativo
verso est.
Quindi,
in pratica, ora Putin con questa guerra sta cercando di coprire il completo
fallimento della sua politica estera. Lui non è stato in grado di impedire ai
paesi vicini di entrare in questo blocco militare. Perché non li ha mai
trattati come partner, li ha sempre considerati come nazione inesistenti, paesi
inesistenti. E questa è la vera radice del problema. Si può quindi parlare
dello scioglimento o non scioglimento della Nato, ma poi la colpa è solo della
folle politica estera di Putin.
Ripeto,
non è stata la Nato ad espandersi. Sono stati i Paesi realmente, genuinamente
volenterosi ad entrare in questo blocco. E questo è un problema enorme per la
Russia, perché significa che quei Paesi hanno paura della Russia.
Una
politica ragionevole, ovviamente, sarebbe stata quella di renderli meno
timorosi, di offrire loro qualcosa, di includerli in un sistema di sicurezza
diverso, invece di ricattarli con il gas o con le armi, come ha sempre fatto
Putin. Questo, secondo me, è vero fallimento per Putin.
Passando
alla parte ideologica di questa guerra e all’idea di Putin di creare Ruskyi
Mir, il mondo russo: il concetto, da come è stato disegnato, ha sempre
riguardato un mondo fatto da popoli ma non da cittadini con senso civico, non
dalla società civile. Insomma, un concetto che rispecchiava la Russia dove i
russi sono sottomessi al sistema autoritario.
Quindi
stiamo parlando di un modello completamente opposto a quello Ucraino dove,
soprattutto dal 2014, dopo la rivoluzione di Euro-maidan, stiamo assistendo
alla creazione di una società civile vibrante e di una governance liberale.
Due
cose che il Cremlino ha sempre impedito che accadessero in Russia. Non pensa
che questa guerra sia anche lo scontro fra questi due mondi diversi?
Credo
sia giusto descrivere questa guerra come una lotta tra due sistemi politici
molto diversi, visioni politiche molto diverse di ciò che costituisce lo spazio
post-sovietico.
Una può essere sommariamente descritta come il
sistema imperiale, non necessariamente nel senso espansionistico, nonostante
abbia anche questa caratteristica, ma piuttosto il modo di strutturare il
sistema politico, che è monarchico in Russia.
Non so
se la gente ne sia consapevole, ma in realtà la concentrazione di potere in
Russia è quasi senza precedenti per il nostro Paese. Non è vero che la Russia è
sempre stata così. Ci sono probabilmente episodi nella storia russa in cui
abbiamo avuto questa concentrazione di potere politico, ma non spesso.
Probabilmente è successo con Stalin ad un
certo punto. Probabilmente, anche se il paragone non è esatto, con Ivan il
Terribile e, in una certa misura, con Pietro il grande.
Altri,
come Nicola I, hanno cercato di farlo, ma in realtà non ci sono mai riusciti.
Quindi ora stiamo assistendo a qualcosa di quasi senza precedenti nella storia.
Si tratta di uno Stato ultra-monarchico. Questa è l’immagine della struttura
dello spazio politico.
E
questo vale per tutta la Russia, perché ovunque, a ogni livello, ci sono quei
piccoli Putin che pensano fondamentalmente che usare la violenza e la forza sia
l’unico modo per governare nel servizio pubblico e nelle imprese. Questa è
l’intera filosofia.
E poi
c’è la filosofia repubblicana, che è il caso dell’Ucraina, che si contrappone
ad essa con una posizione molto più pluralistica e con una maggiore fiducia in
alcune fazioni indipendenti del potere. Perciò nel sistema politico ucraino
l’élite è molto meno consolidata attorno ad un unico leader.
Il
sistema è oligarchico, ma ha anche un significativo elemento democratico,
perché sappiamo che gli ucraini hanno sviluppato una cultura politica che ha
sempre il potenziale per una rivolta, per una rivoluzione.
Si
tratta quindi di due visioni molto, molto diverse ed è importante vedere come
queste visioni si riflettono in ciascuno di questi Paesi. Guardate cosa sta
succedendo in Ucraina.
C’è la
prevalenza di questo punto di vista repubblicano, ma ci sono anche persone che
sono felici di essere, diciamo così, liberate da Putin, perché hanno questo
atteggiamento imperiale, si sentono più naturali nel ripristinare l’impero.
Si
pensi alla Bielorussia: lì c’è una situazione molto interessante. Abbiamo il
presidente che appoggia questa visione imperiale e più o meno tutta la
popolazione è contraria e viene terrorizzata per questo.
I bielorussi sono ovviamente per la maggior
parte dei repubblicani. E poi ci sono i russi, ma c’è lo stesso problema: la
stessa lotta tra coloro che sostengono Putin e quelli che cercano
un’impostazione repubblicana nel Paese.
Quindi, in sostanza, in questi Paesi c’è la
stessa, identica lotta. E questo spiega, ovviamente, perché alcune persone in
Russia provano maggiore simpatia per gli ucraini, non perché siano grandi fan
dell’Ucraina o della cultura ucraina o di qualsiasi altra cosa, o del
nazionalismo ucraino, ma solo perché vedono la situazione come uno scontro tra
la visione repubblicana e imperialista.
Lo stesso vale per la Bielorussia e il
Kazakistan in una certa misura.
Questo
è ciò che stiamo vedendo. Ed è per questo che penso che etichettare questa
guerra come guerra russo-ucraina sia in realtà fuorviante. Non si tratta di
russi contro ucraini. Si tratta di una guerra fra due modelli politici molto
diversi.
Come
viene percepita oggi la guerra dalla società russa? E che dire dell’indice di
gradimento del presidente Putin? Se non sbaglio, il centro di Levada lo dava
intorno all’82% ad aprile…
Ora,
capisco che non possiamo prendere sul serio i sondaggi condotti in sistemi
autoritari, specialmente in tempo di guerra, ma forse possiamo comunque
spiegare qualcosa sui sentimenti dei russi e della società nei confronti della
guerra.
Permettetemi
di introdurre il concetto. La Russia è un sistema plebiscitario, il che
significa che il potere dell’imperatore si basa sul ricevere il sostegno
popolare attraverso i plebisciti.
Quindi
l’imperatore sovrasta l’intero sistema politico, sostenendo di avere una
legittimità popolare e per lui anche democratica! E questo è fondamentalmente
il bastone con cui minaccia la sua élite, la sua burocrazia, ma anche il popolo
stesso, perché la Russia è un Paese molto depoliticizzato.
L’unico modo per i russi di sapere cosa
pensano i russi è guardare la televisione e osservare i numeri dei sondaggi,
perché normalmente i russi non comunicano tra di loro.
Quindi
il modo più semplice per sapere cosa pensa il tuo vicino è accendere la TV e
guardare gli ultimi numeri dei sondaggi.
Dialogare,
comunicare con il prossimo non è usuale per molte persone in Russia. Si tratta
quindi di un sistema plebiscitario in cui il leader riceve la cosiddetta
“acclamazione” da parte del popolo. Ora abbiamo diverse istituzioni per
l’“acclamazione”.
Abbiamo, naturalmente, le elezioni, che sono
di carattere plebiscitario e “acclamazione” significa che coloro che
partecipano alle elezioni o a qualsiasi tipo di votazione non le vedono come un
meccanismo per fare una scelta tra vari candidati, ma piuttosto come una
convalida di una decisione già presa.
Quindi
c’è il leader che prende la decisione e il popolo che acclama questa decisione.
Questa è l’idea delle elezioni in Russia sia durante il voto nazionale o
presidenziale che alle amministrative.
Questo
è anche il caso dei veri e propri plebisciti. Nel 2020 abbiamo avuto una sorta
di gioco costituzionale, quando a Putin si è data la possibilità di rimanere al
potere fino al 2036.
Dico
gioco costituzionale perché ha costituito una convalida di una decisione già
presa ed era anche inquadrata in questo modo, perché tecnicamente il plebiscito
non era necessario dal punto di vista costituzionale, era superfluo, ma doveva
essere convalidato dalla popolazione.
La
stessa cosa accade con i sondaggi d’opinione che funzionano anch’essi in questo
modo, in modo che la gente capisca che le si chiede di acclamare il leader. E
questo è ancora più vero durante i periodi di emergenza come questo, perché
fondamentalmente tutti coloro che vengono contattati con il sondaggio capiscono
che gli viene chiesto di acclamare il leader.
Probabilmente
le persone reagirebbero in modo diverso. Alcuni direbbero: “no, non acclamerei,
odio Putin”, ma questo non cambia il quadro generale. Il quadro di base è che
viene chiesto di acclamare. Ovviamente è possibile sfidarlo, ma è comunque
inteso come una richiesta di acclamazione.
Non
tutti i russi sono disposti a giocare a questo gioco. E quindi il segreto che
viene nascosto è che i tassi di risposta sulle domande poste dai sondaggi sono
molto, molto bassi.
Questi
dati di solito non vengono riportati ma, dall’esperienza che abbiamo avuto
sappiamo che sono, in qualche modo, a seconda della metodologia, tra il 7 e il
15% del campione iniziale.
Cosa
pensa il resto della gente non lo sappiamo, perché le persone tendono a non
rispondere. Piuttosto che sfidarlo o acclamarlo, tendono fondamentalmente a non
rispondere.
Questo
ci dice molto sui russi, perché i russi non vogliono avere a che fare con la
politica. Vivono la loro vita privata. Ed è così che è stato costruito questo
regime. Gli è stato chiesto di non occuparsi della politica, quindi alla gente
non interessa la politica e non importa dell’Ucraina.
L’unica
cosa di cui si preoccupano è la loro vita privata orientata al consumismo. Ai
russi interessa pagare i mutui e forse fare carriera. Quindi questo è ciò di
cui si preoccupano. Il resto può essere delegato al Putin di turno. Putin è lì,
pensa lui a tutto.
Se lui
pensa che gli ucraini siano nazisti, beh, saprà lui come affrontarli. Quindi la
popolazione è molto depoliticizzata. E credo che il modo migliore per spiegare
questo, per spiegare questi indici di gradimento, sia di immaginare il 24
febbraio in un modo diverso.
Immaginiamo
che Putin avesse detto che per motivi di sicurezza la Russia dovesse restituire
Donetsk e Lugansk all’Ucraina. Il tasso di approvazione sarebbe stato esattamente
lo stesso di oggi. Assolutamente lo stesso, perché l’approccio è questo: Putin
sa meglio di noi.
Allora
questo vuol dire che in realtà c’è una via d’uscita da questa guerra per Putin,
perché qualsiasi tipo di risultato può essere descritto come una vittoria e
verrà accettato dalla società.
Credo
che questo sia vero solo fino ad un certo punto. Voglio dire, se si sottolinea
la sua capacità di imporre ogni tipo di decisione alla popolazione e di
ottenere l’acclamazione, penso che allora lei abbia ragione.
Ma dal
momento che la posta in gioco è alta e ovviamente richiede alcuni sacrifici da
parte della popolazione russa – ed è molto, molto chiaro che ci saranno
sacrifici – allora penso che ci sia un’aspettativa generale di una vittoria
significativa.
Ormai
questa guerra è stata inquadrata come la lotta esistenziale per la Russia.
Questa non è una lotta per il Donbass. Non so perché le persone in Europa
abbiano questa idea folle che si tratti di una lotta per il Donbass.
No,
questa è una lotta esistenziale per la Russia, con la quale la Russia deve
sconfiggere l’Occidente. Questa è la missione e non quella di prendere
Kramatorsk. Questo aspetto è così secondario rispetto a ciò che sta accadendo.
Il 99% dei russi non sa neanche dove si trovi Kramatorsk. Quindi questa è una
lotta esistenziale e conquistare Kramatorsk è solo il primo passo.
Ma se
l’esercito russo dovesse davvero fallire in Ucraina, cedendo, ad esempio, i
territori controllati prima del 24 febbraio, sarebbe davvero difficile per
Putin venderla come una vittoria.
Il problema non sono tanto i numeri dei
sondaggi, ma alcuni strati della società russa, che si renderebbero
improvvisamente conto che Putin può anche fallire, perché l’intero potere
politico si regge sulla forte convinzione che Putin vince sempre.
Se lui
non vince, se qualcuno comincia a dubitare della sua vittoria, la situazione
cambierebbe.
Il
cambiamento, però, non si rifletterebbe subito nei sondaggi d’opinione, perché
lì funziona al contrario: ci sarà per primo un vero e proprio cambio di potere,
e poi si vedrà come questo si rifletterà nei sondaggi d’opinione, e non il
contrario. Non vincere questa guerra, credo, potrebbe significare la fine di
questo regime.
Ma
nella realtà russa che sta descrivendo, cosa potrebbe essere percepito come un
fallimento dell’operazione militare e cosa come una vittoria? Cioè, qual è il
minimo che dovrebbe essere raggiunto per dichiarare la vittoria?
È
difficile a dirsi. Beh, per quanto riguarda il fallimento, è abbastanza facile:
in realtà dovrebbe essere una sconfitta militare, una vera e propria sconfitta,
che non lascia spazio per le interpretazioni. Quindi…
…
quindi lo status quo prima del 24 febbraio?
Si, ma
ormai il 24 febbraio è militarmente impossibile perché se l’Ucraina riuscisse a
respingere le forze armate russe fino alle posizioni pre-24 febbraio, perché
dovrebbe fermarsi lì?
Voglio
dire, in Donbass non ci sono confini naturali. La Crimea è una questione
diversa, forse lì ci sono confini naturali, ma, per quanto riguarda il Donbass,
il pre-24 febbraio è andato per sempre.
Non
sarà mai ripristinata quella linea di separazione delle forze. Quindi questa
sarebbe una vera e propria sconfitta.
Per
quanto riguarda la vittoria, come ho detto, la conquista e l’annessione delle
quattro regioni – Zaporizhia, Kherson e dell’intero Lugansk e Donetsk – sarebbe
la prima tappa.
Questa
sarebbe una sorta di vittoria, visto che Putin non controllava tutte le quattro
regioni prima. Si tratterebbe quindi di un’acquisizione e credo che sarebbe un
passo preliminare per un’ulteriore espansione, che includerebbe sicuramente
Transnistria e presumo anche l’intera Moldavia.
Ora abbiamo questo limbo con il sud Ossezia.
L’Abkhazia è forse più difficile, ma il sud Ossezia sicuramente verrebbe
incluso in Russia. Quindi questo sarebbe un passo preliminare verso ulteriori
annessioni. E poi si andrà sempre più avanti perché, ancora una volta, qua non
si tratta di ripristinare l’appartenenza imperiale all’Unione Sovietica, no, si
tratta di spezzare la schiena all’Occidente.
Per
questo motivo mi aspetto che il prossimo passo avvenga molto presto dopo questa
sorta di vittoria.
Quindi
non ci sarà nessun negoziato fra Russia e Ucraina in un futuro vicino?
Assolutamente
no!
La
maggior parte delle sanzioni occidentali prende di mira l’economia e
l’establishment politico della Russia, mentre altre mirano specificamente
all’arte e alla cultura russa. Questo sta causando molte discussioni e speculazioni
qui in Occidente sulla “cancel culture”. Qual è la sua opinione in merito?
A dire
il vero, credo che sia un fenomeno enormemente esagerato. Voglio dire, a parte
alcuni casi spiegabili di reazione eccessiva, personalmente non ne sono stato
colpito. Nessuna persona che conosco è stata colpita da una sorta di
boicottaggio immeritato o qualcosa del genere.
Ammetto
che ci siano stati casi di reazione eccessiva, ma sono abbastanza
comprensibili. E dietro c’è una lobby ucraina. Posso capirli. Ad essere onesti,
penso che stiano facendo qualcosa di controproducente per loro stessi, perché
fondamentalmente dicendo: “beh, guardate che tutti i russi sono come Putin”,
stanno rendendo il miglior servizio a Putin stesso, perché in questo modo
trasmettono questo tipo di messaggio agli italiani, per esempio, o ai tedeschi…
E come vuoi che reagiscano gli Europei?
Diranno
che se tutta la Russia è così, allora è meglio negoziare con Putin, tanto non
si può fare la guerra e sconfiggere l’intera Russia. Quindi forse gli ucraini
sbagliano quando promuovono la narrazione che tutti i russi sono uguali, anche
se capisco perfettamente la loro rabbia. E penso che questa reazione sia in
misura significativa giustificata.
In generale
penso che, anziché lamentarsi di un trattamento immeritato, si dovrebbe far
sentire la propria voce e esprimersi contro la guerra. Altrimenti è
un’ipocrisia. Se si sostiene questa enorme guerra fondamentalmente contro
l’intera Europa, cosa ci si può aspettare? Un’accoglienza di benvenuto da parte
degli europei? Questa è ipocrisia. Perché qua non si chiede di sostenere gli
ucraini.
La questione è diversa, perché ovviamente i soldati
russi stanno morendo e questo crea naturalmente un problema morale per i russi.
Bisogna semplicemente dire “non in mio nome! questa guerra non in mio nome!”.
Penso che questo sarebbe sufficiente per far capire che si è contrari alla
guerra.
Non
credo che si tratti veramente di cancel culture o come la chiamate ora.
Ovviamente
ci sono misure che colpiscono tutti e, ad essere onesti, personalmente subisco
un danno collaterale. Viaggiare in Europa è diventato complicato. Proprio ieri
sera stavo pensando a come viaggiare in Germania.
È
logisticamente molto difficile. E poi non posso pagare il biglietto per il
viaggio perché le mie carte sono bloccate. Quindi è davvero difficile, ma c’è
poco da lamentarsi. È la guerra.
Voglio
dire, gli ucraini sono stati e continuano ad essere bombardati quindi perché
dobbiamo sorprenderci che le sanzioni ci portino dei danni collaterali? Ci sono
alcune misure o azioni alle quali non dobbiamo opporci e lamentarci.
Non
penso che siano moralmente sbagliate, penso solo che sanzioni contro le
strutture di istruzione e cultura siano controproducenti. Non me ne lamento:
gli europei sono liberi di imporle. Penso solo che siano controproducenti.
Voglio dire, guardate per esempio, all’università di Tartu in Estonia: ora non
sono più disposti ad accettare gli studenti russi…
Ripeto,
non mi lamento, ma credo solo che azioni simili siano controproducenti perché
in pratica fanno il gioco di Putin consolidando la sua immagine come
rappresentante di tutti i russi, il che non è assolutamente vero.
Lei ha
detto che alcune persone appoggiano questa guerra mentre altri forse dicono
“non in mio nome”. Fino a che punto è responsabile la società russa di questa
guerra? E, in termini generali, cosa pensa della colpa collettiva e della
responsabilità collettiva?
Perché
la società russa sia responsabile della guerra, dovremmo avere chiaro cosa sia
la società russa. Ma non esiste nulla che possa esser definito come “la società
russa”. Si pensa che sia la collettività a prendere questa decisione, ma non è
vero. Ancora una volta, l’intero regime politico è stato costruito sulla
distruzione di qualsiasi tipo di soggettività politica.
È
difficile, credo, per molte persone in Europa capire fino a che punto sia stata
distrutta la concezione di essere soggetti, attori in politica. Qualsiasi
discorso su qualsiasi tipo di azione politica, qualsiasi tipo di pensiero
normativo, tutto è diventato illegittimo in Russia.
Tanto
per fare un esempio: anche solo pensare di discutere di migliorare qualcosa
nelle nostre vite è già percepito come un’assurdità perché, per come è strutturato
il mondo, le cose non possono essere migliorate. Questo è come i russi si
approcciano alla vita e al loro posto nella vita politica.
I
russi pensano che il mondo sia fondamentalmente un brutto posto. Lo ha detto
anche Putin: durante la conferenza stampa dopo l’incontro con Biden, è stato
abbastanza chiaro nel dichiarare che “nel mondo non esiste la felicità”.
Perché
mi chiedete di migliorare il mondo? Il mondo non può essere migliore di quello
che è. È solo un luogo in cui gli esseri umani si uccidono a vicenda. Questo è
normale. Questo è ciò che gli esseri umani fanno normalmente”.
E
questo è un pensiero abbastanza diffuso in Russia. Un pensiero notevolmente
sottovalutato ma che preclude qualsiasi possibilità di azione politica
collettiva. Se non ti fidi di nessuno, perché dovresti impegnarti in qualcosa
con il prossimo? Così uno finisce a preoccuparsi solo di sé stesso, dei suoi
soldi, dei suoi affari personali. Quindi, credo, che l’intera questione della
responsabilità della società russa sia del tutto irrilevante.
Naturalmente
questo non esime i russi dalla responsabilità individuale, ma credo che la
responsabilità stia nell’altro… Dobbiamo distinguere due cose: non si tratta
dei russi che sostengono davvero questa guerra, non è questo il caso finora, ma
si tratta della loro indifferenza.
Vedo una sorta di fascistizzazione della
società e questo è molto pericoloso. Questa completa indifferenza alla
sofferenza umana è un problema importante. Ma questo è sempre stato un problema
in Russia: i russi sono indifferenti non solo nei confronti degli ucraini ma
anche verso i propri compaesani.
Per
esempio, lei pensa che la gente si preoccupi davvero delle sofferenze della
gente di, non so, Krasnodar? No, per niente! Finché non è un mio problema non
mi interessa! Quindi questo è il vero problema: la totale mancanza di idea di
responsabilità per i problemi politici e sociali, e questo è ciò che rende le
cose terribilmente pericolose.
Implica, infatti, che qualsiasi azione da
parte del governo venga percepita come qualcosa al di fuori del controllo del
singolo, che quindi non ha alcuna responsabilità su qualsiasi cosa stia
accadendo in Russia.
Questo
credo sia terribile e qui sta il problema, perché la gente dice: “Non mi piace
questa guerra, ma cosa ha a che fare con me? Non è affar mio, non potrei
cambiare nulla, come potete chiedermi di oppormi a questa guerra? Potrei
oppormi, ma in quel caso probabilmente perderei il lavoro”.
Questo
senso di impotenza diffusa nella società è stato alimentato e poi strategicamente
usato da Putin. E in questo e, voglio sottolineare questo punto, Putin è stato
aiutato in modo significativo dagli europei, dalle élite globali in generale,
ma soprattutto dagli europei.
Perché
ogni volta che i russi cercavano di trovare una soggettività politica, di
condurre qualche azione politica, di resistere, di impedire che accadessero le
cose peggiori, ogni volta Putin riceveva un enorme sostegno dall’Europa, enormi
contratti finanziari, enormi investimenti… Insomma, si è creata inevitabilmente
una situazione strana.
Beh,
voglio dire, non stiamo chiedendo aiuto per risolvere i nostri problemi, ma
potreste per favore non aiutare Putin almeno in modo massiccio? Ogni volta che
c’è un movimento di resistenza, lui ottiene immediatamente un grande accordo
che porta milioni in Russia e che viene poi investito nell’esercito per
sopprimere la protesta… Beh, questo ovviamente fa sentire la gente disperata.
Questo
sentimento di disperazione può essere spiegato, ma non esime la Russia dalla
responsabilità politica della propria posizione. Questo è, a mio avviso, un
grosso, grosso problema, un pericolo terribile per l’Europa e ovviamente un
problema con terribili conseguenze per la Russia nei prossimi decenni.
Quindi
lei pensa che l’Occidente abbia tradito la società russa aiutando Putin?
Beh,
pensando all’Occidente… chi è l’Occidente? Chi è responsabile di questo, non
saprei fino in fondo. Ma, sapete, una cosa che vorrei davvero respingere è
l’idea di Putin come un orso russo che esce dalla Taiga e all’improvviso, di
punto in bianco, scatena questa guerra contro l’Ucraina.
Ecco, questo non è vero. Putin sa come
funzionano le cose nel capitalismo contemporaneo. Non è un caso che sia
riuscito a corrompere le élite finanziarie e politiche in tutta Europa e anche
in Italia. Ha semplicemente capito come funzionano le cose, in una certa misura
è un maestro di questo sistema capitalistico.
Non
parlo quindi di una responsabilità dell’Occidente, ma di élite politiche ed
economiche molto specifiche. E questa élite occidentale corrotta, proprio ora
che stiamo parlando, sta ancora facendo pressioni sui propri governi, stanno
facendo lobbying per promuovere fondamentalmente l’idea del “bene, lasciamogli
un pezzo di Ucraina e così otteniamo la pace perché vogliamo tornare a fare
affari come prima”.
E gli
uomini d’affari italiani sono ancora qua in Russia a fare business anche se ci
sono delle sanzioni perché a loro non interessa nulla dell’Ucraina, vogliono
fare soldi e basta. E per loro Putin va bene finché possono fare soldi in
Russia.
Qui ci
sono ottime condizioni per fare affari. Perché dovrebbero occuparsi
dell’Ucraina? Questo è il problema.
Non darei la colpa all’Occidente, ma se siamo arrivati fino a questo punto è colpa anche dell’élite politica ed economica corrotta di alcuni Paesi occidentali, e l’Italia è certamente tra questi.
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