REALTA’ CONTRO IDEOLOGIA

REALTA’ CONTRO IDEOLOGIA.

 

 

Ascrivere la pace alla realtà

e la guerra all’ideologia.

Ilmanifesto.it - Francesco Strazzari – (28-10-2022) – ci dice:

 

ESCALATION UCRAÌNA. Nulla pare frenare il conflitto ucraìno: siamo in piena escalation, ci siamo arrivati lungo la logica di realtà evidenziata proprio da chi è stato tacciato di idealismo pacifista.

Sulla guerra si rovescia una mobilitazione colossale di armi e risorse, in uno scontro fra determinazioni sempre più esplicite, alle quali tutto il resto è sacrificato. Evapora la possibilità di negoziati anche solo parziali. Il fango si asciuga in Ucraina.

E ciascuno pensa di poter guadagnare combattendo. Così il Segretario Generale dell’Onu esce di scena fra i missili, quello della Nato parla di guerra per anni, e nel parlamento inglese – la culla della democrazia – si evoca l’idea del supporto terrestre.

Nulla pare frenare la guerra: siamo in piena escalation, ci siamo arrivati lungo la logica di realtà evidenziata proprio da chi è stato tacciato di idealismo pacifista. La spinta verso l’escalation riguarda anche gli obiettivi: ridurre le capacità di nuocere della Russia in futuro – obiettivo evocato dal Segretario alla Difesa Austin durante la visita a Kiev – ci proietta infatti in uno scenario assai diverso rispetto a quello del contributo per porre termine all’aggressione.

CERTO, A FRONTE dell’afflusso di armi sempre più pesanti e sofisticate, fino ad oggi l’escalation di intensità è stata relativa: sempre più distruzione di infrastrutture, ma i russi finora non hanno sfondato e l’efficacia della loro azione militare continua a sollevare dubbi.

 Tuttavia la guerra muta: il generale Gerasimov, già capo delle forze armate, è in arrivo sul teatro ucraino, mentre corrono voci di una mobilitazione generale. Nei talk show televisivi russi, pessimo riflesso dei nostri altrettanto pessimi, si evocano ormai quotidianamente scenari nucleari, speculando sull’incenerimento delle capitali europee.

DA ANNI ORMAI Russia e Stati Uniti sono impegnati nell’ammodernamento dei propri arsenali nucleari, con significative difficoltà in materia di controllo degli armamenti.

 Proprio ieri Mosca ha definito ‘congelato’ il dialogo strategico.

Mosca e Washington detengono più del 90% delle testate nucleari del pianeta: quelle montate su missili balistici intercontinentali possono essere lanciate entro 15 minuti dall’ordine presidenziale.

ALL’INIZIO dell’Era Putin la Russia ha intrapreso un programma che ha portato a testare vettori ipersonici: al pari di quelli cinesi e americani si tratta di un serio problema per i meccanismi di deterrenza. Il Cremlino dispone di circa 14 mila armi nucleari (la maggior parte non immediatamente utilizzabile), mentre si stima che possa dispiegare via mare o sul terreno di battaglia 16 mila armi nucleari tattiche. Per contro, gli Stati Uniti contano circa 3.750 testate (150 in Europa, Italia inclusa).

DAL 2020 LA RUSSIA ha reso pubblica la propria dottrina nucleare, sostanzialmente ancorata all’idea di impiego in condizioni di minaccia per l’esistenza dello stato.

Da allora Putin ha più volte evocato l’atomica, esaltando il distruttivo dell’arsenale russo. Il ministro degli esteri Lavrov ha recentemente rigettato l’idea, diffusa in Occidente, che la Russia si proponga di alimentare escalation tramite i riferimenti al nucleare al solo fine di indurre una de-escalation del conflitto convenzionale.

 Si ripropone qui il paradosso della logica nucleare: la deterrenza funziona solo nella misura in cui le minacce appaiono molto credibili, ovvero leggibili in un quadro coerente, di forte determinazione e in assenza di esitazioni. Questo alimenta escalation nella retorica pubblica.

In altre parole, conta il convincimento, e dunque la dimensione ideologica della guerra.

 Non appaiono oggi ragioni razionali per cui la Russia, data la configurazione della guerra in corso, potrebbe razionalmente oltrepassare la soglia dell’impiego di armi nucleari tattiche.

 Tuttavia, abbiamo a che fare con un invasore che ha già sbagliato i calcoli e che con sempre maggiore insistenza evoca il tema dell’esistenza della nazione russa, rappresentata come minacciata dagli interessi e dai valori dell’Occidente.

DALL’INIZIO DELL’INVASIONE dell’Ucraina in poi messaggio del Cremlino è semplice e finalizzato a inibire la reazione internazionale: state alla larga dall’operazione in Ucraina o dovrete affrontare il rischio di un’escalation con implicazioni nucleari.

 Stante questa premessa e il rischio esistenziale che il Cremlino si è preso, negoziare con la Russia significa toccare alcuni dei principi-cardine dell’ordine internazionale.

Soprattutto in presenza di gravi crimini di guerra, negoziare la sorte di regioni conquistate con la forza sarà quanto mai difficile: di peggio c’è forse solo pensare che la vittoria sia dietro l’angolo se si distrugge di più e più a lungo.

Del resto sin dal 2008, quando annesse i territori di Abkazia e Ossezia del Sud, Putin è stato chiaro circa il precedente dell’indipendenza del Kosovo rispetto ai «tanti Donbas» che esistono nello spazio ex sovietico.

 Nonostante questa insistenza, in questi 14 anni la Russia non ha mai riconosciuto l’indipendenza del Kosovo, né – fino ad ora almeno – quella della stessa Transdnistria.

NON EMERGE, IN sostanza una vera e propria dottrina-Putin in materia di indipendenze e annessioni, forse anche per non contrariare Cina e India, alle prese con le proprie questioni separatiste.

Emerge invece sempre di più una retorica ‘contro l’oppressione neo-coloniale occidentale’ che paradossalmente oggi candida l’espansionismo russo, proprio mentre mette a ferro e fuoco l’Ucraina come se fosse una provincia ribelle, a sfidare l’Occidente liberal-democratico anche a nome di altre potenze regionali. Questa dinamica è insidiosa per l’Europa.

VEDERE I MERCENARI russi di Wagner acclamati come liberatori in Africa, cavalcando l’impopolarità degli occidentali mentre aprono il fuoco sui civili, ci dice dell’urgenza per l’Europa di smarcarsi dalle politiche di due pesi e due misure figlie dei più controversi processi di (de)colonizzazione (inclusi i Territori palestinesi o le occupazioni militari turche nel nome dell’ideologia neo-ottomanista).

Ci dice, in altre parole, quanto necessario sia investire materialmente sulla pace: ascrivere la pace alla realtà e la guerra all’ideologia.

 

 

 

Speranza, incubo Commissione.

Lui mette le mani avanti:

"Ho seguito la scienza".

msn.com – il giornale - Giuseppe De Lorenzo – (28 -10 -2022) – ci dice:

 

Ci sono degli incipit di alcuni pezzi che vale la pena riportare.                                               Quello che Repubblica ha oggi dedicato a Roberto Speranza è uno di questi.                           State a sentire: “Ha sacrificato tutto: sonno, sogni, il nero dei capelli. ‘Non dormivamo mai, sempre in allerta - confidò un giorno - giorno e notte’. Si è prosciugato inseguendo il Covid. E adesso gli mettono addosso un bersaglio e iniziano a mirare, anche se lui ha deciso di non replicare e di non parlare ufficialmente”.

Ci mancano solo le stimmate, la vista ridata a un cieco, l’acqua trasformata in vino e il processo di canonizzazione è cosa fatta.

Si lamenta, Roberto Speranza.

Si lamenta per la decisione (pienamente legittima) della neo-maggioranza di governo di indagare sulla “stagione” del Covid. La prima ondata, in particolare. Quando la Val Seriana veniva chiusa in ritardo, quando le mascherine finivano in Cina, quando il piano segreto non veniva aggiornato, usato.

E poi i piani segreti, le scelte della task force, gli “affari milionari” sull’acquisto di respiratori e mascherine.

“Posso chiedere perché tanti colleghi degli altri partiti sono così preoccupati? - dice oggi Matteo Renzi, pronto a sostenere la Commissione d’Inchiesta voluta da Fdi - È giusto fare chiarezza su ciò che accadeva mentre morivano decine di migliaia di nostri connazionali. O no?”.

No, almeno non secondo i difensori d'ufficio di Speranza.                                       Lui dice di aver “sempre deciso ascoltando la scienza”, anche se i verbali della task force suggeriscono che il suggerimento di attivare il piano pandemico, arrivato da Giuseppe Ippolito, venne sostanzialmente ignorato.

L’ex ministro va “a tasta alta per tutto quello che abbiamo fatto”. E ci sta che rivendichi il proprio lavoro. Così come sarebbe comprensibile se mai volesse opporsi alla Commissione: in fondo negli ultimi due anni il suo ministero - checché se ne dica - non è stato esattamente uno specchio di trasparenza.                                                 Basterà ricordare l’aver costretto parlamentari e familiari delle vittime a far ricorso al Tar per ottenere verbali e piani anti-Covid.

 

I sette punti su cui la Commissione dovrebbe indagare li ha resi noti il Giornale. In sintesi: capire perché, nonostante le misure più rigide del vecchio Continente, alla fine abbiamo comunque pagato un prezzo così alto in termini di morti.

Anche e soprattutto nella prima fase dell’epidemia. “Mezza Europa ha seguito le nostre strategie”, ripete Speranza. Ma il “modello”, decantato pure da un improvvido video dell’Oms, ha fatto acqua da tutte le parti.

Lo spiegava un dossier sempre dell’Oms, misteriosamente ritirato dal sito dell’Organizzazione e che sarà - si pensa - anche questo al centro dell’eventuale Commissione.

"Abbiamo combattuto giorno e notte cercando di salvare vite - riporta Repubblica - mentre una certa destra sobillava le piazze dei No Vax contro il Green Pass”.

Già, ma i maligni potrebbero far notare che l'ex ministro combatteva così tanto di giorno e di notte da trovare il tempo per scrivere un libro (“Perché guariremo”) e pubblicarlo proprio mentre il Paese affrontava la seconda ondata.

Che poi un po' di autocritica non farebbe mica male. Che qualcosa non sia andato come sperato lo si era capito anche dalle mosse di Mario Draghi appena nominato premier.

 Sì, ha confermato il ministro e varato il green pass. Però ha licenziato tutti quelli che ruotavano attorno al ministro del Conte II.

Se il generale Figliuolo ha fatto così bene, forse si potrà cercare di capire perché del suo predecessore non si può dire altrettanto.

O no? E se il Cts ha cambiato composizione forse ci si potrà interrogare se ha operato al meglio.

“Di cosa hanno paura?”, chiede Renzi. In fondo se ha fatto tutto al meglio, come crede, Speranza non avrà nulla da temere. Perché allora opporsi?

 

 

 

L’Europa divisa

tra realtà e ideologia.

Ilsole24ore.com - Sergio Fabbrini – (10 ottobre 2022) – ci dice:

 

È un bene che la Germania sia uscita dal dogma dell'austerità, ma dovrebbe applicarsi a livello europeo.

Non dovevano prendere decisioni ma discutere le decisioni da prendere. Questo è stato lo scopo della doppia riunione del Consiglio europeo dei 27 capi di governo dell'Unione europea (Ue), riunitisi informalmente a Praga (giovedì) con 17 capi di governo di Paesi europei che non sono membri dell'Ue e quindi (venerdì) da soli.

La riunione di giovedì doveva servire a discutere il ruolo di una Comunità politica europea costituita di membri e non membri dell'Ue. La riunione del venerdì doveva discutere (tra le altre cose) la risposta da dare all'incremento del costo del gas. Le due riunioni hanno mostrato come, nella politica europea, realtà e ideologia divergono.

 Cominciamo dalla riunione di venerdì in cui si doveva preparare (tra i 27 capi di governo dell'Ue) la risposta da opporre all'incremento dei costi dell'energia (risposta da formalizzare nella riunione del prossimo Consiglio europeo del 20-21 ottobre).

Nella riunione c’era “un elefante nella stanza” (per dirla con il Financial Times), ovvero la decisione unilaterale presa pochi giorni fa dal governo tedesco di creare debito per 200 miliardi così da sussidiare imprese e famiglie tedesche colpite dall’incremento del costo dell’energia.

Naturalmente, anche altri governi nazionali (come quello spagnolo) hanno preso decisioni simili. I governi nazionali rispondono innanzitutto al loro elettorato. Così ha fatto il governo tedesco, anche se le conseguenze delle sue decisioni non sono equivalenti a quelle degli altri governi nazionali.

 Per le sue dimensioni (un debito equivalente al 5 per cento del Pil seppure spalmato su due anni), il sussidio fornito alle imprese tedesche è destinato ad alterare la competizione con le imprese degli altri Paesi.

Tant’è che è stato apertamente criticato dai commissari Paolo Gentiloni e Thierry Breton e sarà oggetto di valutazione da parte della commissaria alla competizione, Margrethe Vestager.

Dunque, il governo del socialdemocratico Scholz, che pure si basa su un programma impegnato a promuovere la solidarietà con gli altri Paesi europei, ha pensato prima ai tedeschi di fronte alla crisi energetica. Essendo la politica energetica una competenza dei governi nazionali, non poteva essere diversamente.

Tuttavia, la decisione del governo Scholz contraddice clamorosamente ciò che i governi tedeschi hanno continuato a sostenere per più di un decennio. Ovvero che fare debito è un “peccato” e che l’austerità di bilancio è l'unica ricetta di politica economica per contrastare la tendenza speculativa dei mercati finanziari.

Posizione quindi riaffermata poche settimane fa dal ministro tedesco del Tesoro, il liberale Christian Lindner, che ha riaffermato (in un non-paper del suo Ministero) la necessità di reintrodurre presto il Patto di stabilità e crescita, sospeso dopo la pandemia, seppure rendendolo “più flessibile”.

Al punto che, pochi giorni fa, la Corte dei conti tedesca ha giudicato il nuovo debito in contrasto con il principio del pareggio di bilancio celebrato nella costituzione tedesca. È un bene che il governo tedesco sia uscito dal dogma dell’austerità, anche se ciò dovrebbe applicarsi anche a livello europeo e non solo nazionale. Così, di fronte ad una crisi drammatica, la realtà si è imposta sull’ideologia anche a Berlino.

Vediamo ora la riunione del giovedì della nascente Comunità politica europea. Quest’ultima deriva dalla proposta avanzata dal presidente francese Macron nel discorso tenuto a Strasburgo il 9 maggio scorso.

 In quell’occasione, il presidente francese propose di dare vita ad una Comunità di stati allargata a tutti i Paesi europei «che condividono i nostri valori».

Poiché il processo di allargamento dell’Ue è complesso ed ha tempi lunghi, la Comunità politica europea dovrebbe costituire il forum dove discutere sin da subito le sfide comuni a tutte le “nazioni europee”, come le sfide militari o ambientali o energetiche.

 

 

’68 E OLTRE. IL MONDO CHIAMA.

TRA IDEOLOGIA E REALTÀ.

Meetingrimini.org - Franco Bonisoli - Marta Busani - Annalisa Costanzo – (20 agosto 2020) – ci dicono:

(’Università Cattolica di Milano)

MARTA BUSANI.

Vi ringrazio di essere così inaspettatamente numerosi per questo secondo incontro del ciclo “‘68 e oltre”, legato alla mostra “Vogliamo tutto.

1968-2018” che vi invito ovviamente ad andare a visitare. Questo secondo incontro che abbiamo intitolato “Il mondo chiama. Tra ideologia e realtà” sarà di fatto un dialogo tra Annalisa Costanzo, studentessa di Scienze politiche all’Università Cattolica di Milano, gli altri studenti che hanno costruito questo percorso della mostra e Franco Bonisoli, ex militante, in gioventù, delle Brigate Rosse: ha partecipato al sequestro Moro.

Nasce e cresce a Reggio Emilia: quello di oggi, sarà un dialogo sulla sua vita, quindi non anticipo nulla, dico solo brevemente perché abbiamo invitato Franco, e perché proprio lui.

Lo abbiamo incontrato sei mesi fa, mentre stavamo preparando la mostra “Vogliamo tutto” e abbiamo trovato una persona disposta a prendere sul serio il dialogo con noi, a fare un cammino insieme su quelle domande di fondo che hanno dato il via alla mostra, e cioè: cosa vuol dire partecipare al cambiamento del mondo oggi, cosa vuol dire costruire il mondo oggi?

Non è scontato trovare persone che siano disposte a questo cammino insieme. Ha mostrato anche, come dire, il valore di un dialogo tra le generazioni. Franco racconta spesso, poi ci sarà modo di approfondire, che l’ideologia che lui ha seguito ad un certo punto della sua vita lo ha portato in fondo ad una disumanizzazione.

Oggi viviamo in un mondo in cui queste grandi ideologie non esistono più, però vediamo ancora dei tentativi di spiegazione semplificata dell’uomo e della realtà. È più facile fermarsi a questi miti, a queste spiegazioni facili. Con Franco abbiamo iniziato questo cammino che magari è più faticoso, un cammino di conoscenza di tanti fattori anche complessi della realtà del mondo di oggi, a partire dalla realtà che lui ha vissuto e dall’esperienza che ha fatto, dal ‘68 fino ad oggi.

Non tolgo altro tempo, volevo solo darvi le ragioni per cui siamo qui oggi. Buon dialogo.

 

ANNALISA COSTANZO

Per addentrarci in questo percorso, la prima domanda parte dall’inizio della tua storia. Volevamo chiederti di raccontarci quella che è stata la tua infanzia, conoscere i valori che hanno inciso nei primi anni che hai vissuto in casa a Reggio Emilia; poi, diventato grande, che tipo di rapporto c’era tra la vita di tutti i giorni e l’appartenenza al Partito.

FRANCO BONISOLI.

Buongiorno a tutti e grazie di avermi invitato. Adesso devo fare i conti con il tempo che è limitato, e la domanda richiede un discorso un po’ più lungo, ci proviamo. Marta ha un po’ spiegato la storia per cui oggi sono conosciuto e ricordato ma, come diceva Annalisa, ho anche una storia molto normale.

Vengo da Reggio Emilia come Marta, solo che ho con qualche anno in più, da una famiglia normale di operai, persone che sono passate attraverso la seconda guerra mondiale e che hanno ricostruito la società del boom economico, quella che noi abbiamo ereditato e trovato pronta.

Ho avuto la possibilità di studiare e di avere una vita abbastanza normale. Nel ‘68 avevo tredici anni, però ho vissuto anche a quell’età l’aria, il clima che si respirava e che la mostra (che mi auguro abbiate visto, invito chi non l’ha vista ad andare) secondo me riesce a recuperare molto bene.

C’era una grande irrequietezza, una società bloccata a livello politico, tra i partiti e la guerra fredda, bloccata anche nella vita quotidiana, in famiglia: tu avevi un ruolo, dovevi studiare, trovare un lavoro, diventare un buon consumatore, misurare la tua capacità di crescita umana sulla base della quantità di cose che riuscivi ad acquistare.

Era la società del benessere, insomma. Ho vissuto tutta questa fase di disagio, il desiderio di modificare e rompere questi schemi e costruire un mondo migliore. Uno degli elementi che mi avevano colpito, come avevano colpito la generazione mia e di chi aveva qualche anno in più, era la guerra del Vietnam, una guerra di aggressione dello Stato americano, di una società avanzata, verso un popolo di contadini. La nostra idea era difendere questo piccolo popolo.

Adesso, se apriamo la televisione, ci sono solo guerre, battaglie, morti, uccisi: ma noi continuiamo a fare una vita normale, abbiamo quasi metabolizzato questa situazione, ci scandalizziamo, ci indigniamo ma alla fine tutto funziona. Allora, invece, c’era questa forte tensione verso la giustizia, e questa guerra è l’esempio più alto di una grande ingiustizia.

Io ho vissuto questo tipo di esperienza già quando andavo a scuola, nel Movimento studentesco: Annalisa voleva che raccontassi ancora un passo prima, quando andavo alle scuole medie. È rimasta colpita che già alle scuole medie ci fosse questo desiderio di rompere un momento di rigidità: infatti avevamo cominciato a chiedere l’assemblea.

Che cosa significava questa parola? Era un modo per dire in modo ufficiale, diretto, quello che pensavamo. In realtà, di cose da dire non ne avevamo tantissime, però era importante sentirci protagonisti. Vi racconto un episodio. Alle scuole medie, l’ora di Religione fatta da un povero prete era un disastro: aeroplanini che volavano, di tutto, di più che succedeva. Lui non riusciva mai a fare lezione, fino a che gli forgiammo addirittura un ritratto che mandammo sul giornale di classe: «Pasini don Noè, alto un metro e trentatré, con lo sguardo da playboy e il cappello da cowboy».

 Fu un disastro, lui si offese terribilmente, consiglio dei docenti, ecc. Ma che cosa fece? Io ero in seconda media, un ragazzino, quando lui entrò in classe, un giorno, dicendo: «Bene, ragazzi, visto che non riesco a fare lezione, ditemi di che cosa volete parlare». Noi, subito: «Educazione sessuale, educazione sessuale!».

 Era una forma di trasgressione nonché il grande tabù. Lui disse: «Va bene». Divenne il nostro riferimento nella scuola perché si iniziò a parlare, non ricordo come: era importante il fatto di essere riconosciuti perché una delle cose che si sentiva forte era il non ascolto da parte degli adulti. «Ti ascolto finché stai dentro uno schema, fuori di quello, basta!».

 È una cosa che penso ci sia ancora oggi. Ho sentito, quando siamo andati a Roma all’incontro col Papa, che lui ha molto insistito sulla necessità di ascoltare i giovani. Noi sentivamo molto forte questa cosa. Da lì in poi, sono andato alle superiori, ho cominciato a partecipare al Movimento studentesco.

Mi affascinavano le persone con l’eskimo, che cominciavano a parlare di contestazione. Tutti sognavano questo mondo migliore, questa guerra che ci attraversava tutti: si aveva questa dimensione un po’ internazionale, si guardava con attenzione a ciò che succedeva nel mondo, ai movimenti rivoluzionari in America Latina, a quelle che erano state le rivolte di Berkeley in America, i movimenti anche in Giappone, perché c’erano stati anche lì.

 Questa dimensione era come un vento che soffiava e che ti coinvolgeva. Aveva dentro il grande sogno di essere protagonisti, di costruire una società più giusta, senza guerre e senza sfruttamento, una fratellanza: quello che avete messo nella mostra e scritto in tanti punti. Quello, era. Come sono arrivato poi, più avanti, a fare la scelta della lotta armata? Chi ha la mia età, ricorda il contesto: le manifestazioni di protesta, fiumi interi di persone che gridavano slogan, le varie ideologie a cui si attingeva.

 C’era un po’ un vuoto culturale sul presente, così siamo andati ad attingere culture che appartenevano al passato. Io vengo da una famiglia di comunisti che hanno fatto la Resistenza partigiana, mio padre fu portato in un campo di lavoro in Germania.

C’era un po’ questo mito della Resistenza, l’idea di portare a compimento quello che i nostri padri non erano riusciti a fare perché la democrazia che c’era, secondo noi, non bastava. L’unica democrazia, per noi di fede comunista, era avere uno Stato comunista sul modello sovietico. L’idea era questa: continuare questa esperienza dei padri e portarla a termine.

 I riferimenti erano la rivoluzione russa e quella cinese, modelli che ci proiettavano nel futuro senza considerare quello che capisco oggi, che quelle rivoluzioni portarono Stati feudali ad una forma di progresso maggiore, mentre noi eravamo una società già avanzata che stava per fare un grande balzo in avanti sul piano strutturale.

Alla Fiat di Mirafiori allora c’erano 60 mila operai, oggi non so, ce ne sono 200, 2000: è cambiato strutturalmente tutto. Quella era la classe operaia che, secondo la nostra ideologia, doveva dirigere un processo di trasformazione rivoluzionaria della società: eravamo nel pieno di questo vortice, che a nostra volta alimentavamo.

ANNALISA COSTANZO.

Riprenderei il punto in cui parlavi del fatto che si viveva una forte dimensione internazionale: i giovani di quegli anni si sentivano immersi in una causa globale.

Mi colpisce, e immagino colpisca quelli un po’ più giovani, perché per me oggi è impensabile che una guerra dall’altra parte del mondo possa incidere così nelle scelte della mia vita qui.

 Mi piacerebbe che tu ci raccontassi meglio quali dinamiche si vivevano, immersi in un contesto così internazionale. Raccontavi che è stato fondamentale vivere questa dimensione per poi trovare quei grandi motivi che ti hanno portato a fare una scelta radicale come entrare in clandestinità.

MARCO BONISOLI.

Sì, c’era questa dimensione per cui tutto si sentiva molto forte, queste ingiustizie che avvenivano da altre parti venivano condivise da noi, le sentivamo dentro. Mi ricordo che c’era il periodo del Biafra, ci facevano vedere queste foto dei bambini denutriti.

 E tu che eri in questa società in cui, tutto sommato, si mangiava tre volte al giorno, si studiava, dicevi: ma cosa posso fare per cambiare qualche cosa? La visione non era migliorare il proprio orticello, il nostro Paese, ma era una visione globale, tutto il mondo doveva cambiare e ognuno doveva fare la sua parte.

Prendevamo i movimenti di riferimento, i movimenti rivoluzionari o i gruppi armati (Che Guevara, il Cile che si ribellava) come riferimenti di chi stava già facendo la propria parte. E abbiamo cominciato a pensare a come fare la nostra.

 In questo fiume di contestazione che c’era anche in Italia, tra gli slogan e la cultura di sinistra (una sinistra che faceva riferimento al marxismo-leninismo e anche ad una certa cultura cattolica che poi è diventata la Teologia della liberazione), le parole d’ordine erano fortissime: “Il potere nasce dalla canna del fucile”, “La rivoluzione è un pranzo di gala”, “Lo Stato borghese si abbatte e non si cambia” e via di questo passo, a seconda che i testi del marxismo-leninismo facessero riferimento alla rivoluzione sovietica, al maoismo, per non parlare della Scuola di Francoforte.

 Era la cultura della contestazione, i testi dei gruppi rivoluzionari armati dell’America Latina erano pubblicati dalla Jaca Book: io li trovavo alla libreria Nuova Terra del gruppo che si chiamava One Way, che lavorava insieme al gruppo dell’appartamento che poi diede origine alle Brigate Rosse.

Quando ci fu la rottura, questi diventarono Gioventù studentesca e poi Comunione e liberazione: era un ceppo che poi si è separato. Ricordo che a sinistra della Federazione Giovanile Comunista di Reggio Emilia (che tra l’altro era la più a sinistra d’Italia, insieme a quella di Napoli) c’erano il gruppo dell’appartamento e One Way.

Questo era il contesto. I testi dei rivoluzionari li stampava la Jaca Book, non lo facevano né Feltrinelli né Einaudi. E poi li trovavi nella libreria che in seguito ha dato vita alla vostra storia. A quel punto si poneva una domanda: «Come si riesce ad essere fino in fondo coerenti con quello che si dichiara?».

Da un lato, c’era la politica, si andava in piazza a gridare alla rivoluzione, poi si tornava a casa e si faceva una vita normale. La discussione allora era molto forte sul piano della scelta esistenziale, della scelta di vita: l’ideologia stava sopra, era qualcosa che doveva dare il supporto, il vestito a quella che era la profondità della scelta esistenziale: se dare la propria vita per una causa o meno.

 Il discorso che ha fatto ieri qui il professor Capozzi sulla scelta di dare la propria vita ad una causa per me, allora, significò entrare nelle Brigate Rosse, le nascenti Brigate Rosse, un’organizzazione che esprimeva la vera coerenza tra quello che erano le parole e i fatti.

Se si dice che la rivoluzione va fatta con l’uso delle armi, ci si arma, si diceva. Ricordo che molti miei compagni, allora, non fecero la scelta della lotta armata, come feci io, per paura, per timore, perché non riuscivano a concepire l’idea di dare la vita per quello, senza una via di ritorno.

Invece io ho fatto questa scelta, ho cominciato a quindici anni a occuparmi attivamente di politica e a diciassette si parlava di classe operaia: ho lasciato la scuola per andare a lavorare in fabbrica con la classe operaia, non per parlare di classe operaia ma per vivere con la classe operaia.

 Poi ho studiato lo stesso per diplomarmi, per i miei genitori, perché fu un dramma la mia scelta di lasciare la scuola. Erano famiglie che uscivano dalla guerra, i figli che studiavano erano un riscatto anche per loro. Lasciare la scuola era tradire questo desiderio della mia famiglia: quella fu la prima scelta, la seconda fu di passare alle Brigate Rosse.

Mi chiedevi prima del Partito comunista: in questo frangente lasciai i gruppi extraparlamentari e provai a fare un’esperienza nel Partito comunista. Quando fui nella fabbrica, mi iscrissi alla cellula del Partito comunista: ero giovane, brillante, diciamo così, mi mandarono subito a fare un corso di formazione di tre giorni, dove incontrai anche onorevoli, una cosa interessante.

Poi entrai nella FIOM, e subito anche lì un altro corso di formazione di tre giorni: ero una promessa anche per loro. Mia madre fu quasi contenta, disse: «Vabbè, dai, non avrai studiato, però a Reggio, nel Partito, in qualche modo…». Era la sua idea, trovare comunque una collocazione nella società della sicurezza: purtroppo per lei e per tanti, tradii anche questo perché a diciannove anni feci la scelta della clandestinità ed entrai a tempo pieno nelle Brigate Rosse.

ANNALISA COSTANZO.

Insomma, sei partito, facendo questa scelta così radicale, con il desiderio di costruire una società più autentica, seguendo però un’ideologia che definisci disumanizzante. Mi piacerebbe che tu spiegassi perché, per cambiare il mondo, ti sei ritrovato disumanizzato. L’altra domanda è: in che cosa ha fallito questa ideologia?

FRANCO BONISOLI.

Quando iniziai ad occuparmi di politica, feci una scelta, incominciai a sposare la teoria marxista-leninista con tutte le risposte che questa ideologia dava all’analisi della società, alla possibilità di sognare un futuro più giusto, un Eden terreno, perché il comunismo poi era questo.

Il sogno del comunismo era un Eden terreno che potevamo vivere subito, secondo quei criteri manichei: dividiamo il mondo in due, i buoni da una parte, i cattivi dall’altra. I buoni siamo noi, gli sfruttati, quelli che vogliono cambiare il mondo; i cattivi sono i padroni, chi ha il potere e tutti coloro che li difendono.

 Quindi, dividiamo il mondo in due, la rivoluzione deve abbattere il mondo cattivo che tiene il potere e instaurare una società di transizione, che si chiamava dittatura del proletariato.

Doveva mantenere il potere, un nuovo potere, un potere giusto, per arrivare a una fase di transizione al comunismo dove, si diceva, «da ognuno secondo le sue possibilità a ognuno secondo le sue necessità».

Un grande sogno. Il problema è che, in tutto questo, il presupposto era la scelta della lotta armata per abbattere lo Stato con la forza, con la violenza, con l’uso delle armi. Il presupposto, anche quando ancora non si sparava direttamente alle persone, era l’omicidio politico, l’uso della violenza in modo estremo.

 E questo è stato poi alla base della storia che tutti conosciamo, che qualcuno ha definito “anni di piombo”, un’altra definizione impropria ma non ci sarà tempo per parlarne. Tu hai parlato di disumanizzazione: sì, il problema era che in chi, come me, come tutti i miei compagni di allora, aveva fatto la scelta della lotta armata, non c’era un desiderio di potenza, di potere personale.

Anzi. La scelta della clandestinità, nel ‘74, corrispondeva a dare prima di tutto la vita per la causa. Quindi, la vita che mettevo in discussione, prima di tutto era la mia. Non c’era l’idea di abbattere questo mondo di brutture, ci potevano volere cent’anni, il discorso era: «Do il mio contributo per le nuove generazioni».

Dare questo contributo voleva dire per noi dare la vita. Sapevo che la mia vita non avrebbe avuto un futuro certo, ma pensavo che ne valesse la pena, perché l’alternativa era vivere in un mondo che rifiutavi, insieme all’ipocrisia, prima di tutto tua, di dire: «Questo mondo non va bene però, in fin dei conti, mi ritaglio qualcosa per sopravvivere, e magari ci riesco pure».

Il problema è che il fatto di mettere in discussione la propria vita, e pensare poi che la vita degli altri, di quelli che ritenevamo nemici, potesse venire sacrificata, loro malgrado, per questa causa, non giustifica niente. Il problema è che, quando fai questa scelta e cominci a mettere in pratica queste teorie, di fatto metti in pratica l’omicidio di altre persone, cominci a perdere, a negare i valori che ti hanno portato all’inizio a fare queste scelte.

Adesso dico la parola persona, ma allora non potevi pensare alla persona, pensavi a un ruolo, alla funzione che questo ricopriva, era necessario reificare, rendere la persona una cosa, vederne solo il ruolo, la funzione: il politico, che ha un ruolo importante nello Stato, il poliziotto, che è prima di tutto una divisa.

 Diventavamo giudici e processavamo le persone senza appello, senza neanche dare loro la possibilità di dire qualcosa. Disumanizzando senza nemmeno accorgertene la persona che vuoi colpire, disumanizzi te stesso, perdi il senso della tua umanità e reifichi anche la tua persona.

 Era un processo inconscio, necessario perché la causa, questa cosa sempre più astratta, sempre più piena di ideologia, continuasse ad essere quel cemento che teneva uniti, quella cosa che giustificava tutto. Il problema pericoloso, più tremendo è che, quando entri in una spirale di questo genere, invece dell’incontro inizi con lo scontro.

E crescendo verticalmente lo scontro, il dialogo tende a scendere sempre di più: non c’è più possibilità, diventa una spirale della quale è difficile rendersi conto per pensare di uscirne. La soluzione è solo se uno riesce a sopprimere l’altro: poiché questo non è così facile, lo scontro si alza, si alza, si alza e tu disumanizzi te e l’altro disumanizza se stesso.

 Alla fine, non vai da nessuna parte. Non siamo andati proprio da nessuna parte, sono stati solo danni, è saltata l’idea e la violenza ha portato solo violenza e disumanità. Uscire da questa spirale è difficilissimo, io ho avuto la fortuna di uscirne e per questo oggi sono qui a parlarne.

ANNALISA COSTANZO.

Partendo da qui, allora, ti chiederei di raccontarci che cosa è successo dopo, durante gli anni del carcere, quando ti sei accorto di tutto questo, quando sono accaduti fatti che sarebbe bello ci raccontassi, quando hai incontrato delle persone per cui hai capito che l’ideologia stava crollando, era fallita.

 Un’altra cosa che ci ha colpito è che c’è stato qualcosa che ti ha permesso di non morire schiacciato da questo fallimento che, come tu ci raccontavi, per molti è diventato inaccettabile. Allora, che cosa è servito, come hai potuto riconquistare tutta la tua umanità in quegli anni?

FRANCO BONISOLI.

Se ho riconquistato tutta la mia umanità, non lo so, però diciamo che almeno sono riuscito ad uscire da questa disumanità. Ho vissuto quattro anni clandestino, ho svolto il mio ruolo di rivoluzionario, sono stato arrestato nel 1978 e sono finito in carcere.

Allora c’era il circuito delle carceri speciali, delle carceri di massima sicurezza: sono finito lì. Una volta arrestato, non è che fosse cambiato qualcosa, per me, anzi. L’idea nostra era di continuare a fare i rivoluzionari all’interno del carcere, secondo i modelli dei partigiani, dei comunisti che venivano arrestati durante il fascismo.

 E si continuava all’interno del carcere a mantenere forte l’ideologia, si studiava, anzi, si coglieva l’occasione, il tempo disponibile per approfondire i sacri testi. Questo serviva a mantenere sempre il cemento, a crescere culturalmente secondo quello schema nostro per poi pensare di organizzarsi a mantenere vive le strutture e le nostre cellule organizzate, per puntare all’evasione dal carcere perché era un dovere di rivoluzionari uscire per poterci ricongiungere ai nostri compagni, per continuare la lotta.

 E addirittura lottare all’interno del carcere per mettere in discussione anche questo, uno dei cardini del potere dello Stato, il carcere stesso. E quindi il carcere era duro, durissimo, tra l’altro: lo posso dire oggi perché, a distanza di tempo, mi chiedo come siamo riusciti a sopravvivere in quelle condizioni, nel circuito delle carceri di massima sicurezza.

Solo un esempio: nel sistema di detenzione che veniva utilizzato – Amnesty International l’aveva più volte dichiarato, denunciato – c’era la pratica della tortura. C’erano state molte denunce alla Corte internazionale dei Diritti dell’uomo. Però, più il carcere era duro, più mi giustificava: è uno Stato violento al quale ci si può opporre solo con la violenza.

In questo contesto, quindi, il carcere duro giustificava le nostre idee. Prima non ho fatto un passaggio sulla nostra reazione al carcere, su come vedevamo lo Stato, le nostre aspirazioni. In Italia (a differenza che in Francia) la risposta che ricevemmo dallo Stato furono le bombe di piazza Fontana, le bombe di piazza Brescia, le bombe sui treni nel 1974, il tentato golpe di Junio Valerio Borghese negli anni Settanta. Il clima era pesantissimo, anche a livello europeo e internazionale: il regime dei Colonnelli in Grecia, il regime fascista in Spagna.

 Era un clima nel quale vedevamo un’unica possibilità di opporsi, soprattutto dopo il colpo di Stato in Cile, la lotta armata. Mentre Berlinguer scelse la strada del compromesso storico, noi dicemmo: «No, in quel modo non si va da nessuna parte, l’unico modo è armarci».

Ritornando ancora sul discorso di come noi vedevamo l’altra parte, il carcere duro, durissimo, giustificava il fatto che dovevamo continuare la nostra rivoluzione armata contro lo Stato. É andata avanti così per diversi anni. Poi fui condannato: ebbi quattro condanne all’ergastolo e 105 anni in vari processi perché, avendo fatto parte della direzione dell’organizzazione, in ogni città subivo un processo.

Di default si prendeva l’ergastolo come responsabili globali delle azioni armate che erano state fatte in quella città. Di contro, noi non ci difendevamo, anzi, diventava un punto d’orgoglio il fatto di essere in uno Stato repressivo. Cos’è cambiato?

Ad un certo punto, si è cominciato a prendere coscienza che qualcosa non andava. All’esterno, il livello di potenza militare dell’organizzazione Brigate Rosse era altissimo; erano nati altri gruppi importanti come Prima Linea, tanti altri gruppi e gruppetti armati. Tutti che spingevano a fare la rivoluzione (ricordiamoci cos’è stato il movimento del ‘77, anche quello, un livello goliardico-creativo da una parte, ma dall’altra molto armato).

 L’idea sembrava giunta ad una fase pre-insurrezionale, però si vedeva che qualcosa non funzionava più. Cominciarono le fratture al nostro interno, cominciò quel fenomeno che fu definito pentitismo, persone che diventavano collaboratori di giustizia e collaboravano con lo Stato, senza bisogno di torture.

Lì cominciò la fase implosiva, e fu una fase terrificante perché noi ci ritenevamo il corpo sano, fautore del cambiamento e della trasformazione: e chi cominciava a cedere al nostro interno, diventava la mela marcia da isolare e cacciare.

 Finché le mele marce cominciarono a diventare tante e iniziò la fase di implosione: si cominciò ad usare la violenza contro questi infami, queste persone che tradivano la giusta causa giusta, iniziammo ad ammazzarci tra di noi.

Fu una fase tremenda, che in alcuni casi (questa è la spirale) lo Stato stesso favoriva. Nel clima di estrema violenza che ormai c’era, all’interno delle carceri speciali veniva mandata una persona che aveva collaborato con la giustizia, uno considerato un infame da uccidere. E lo mandavano apposta nel carcere dove c’erano quelli che l’avrebbero aggredito.

 E questo incentivava ulteriormente un clima di pazzia. Ora, io riesco a parlarne così, ma allora eri talmente coinvolto che non riuscivi neanche a renderti conto di dove si stesse andando. Poi, ad un certo punto, come una macchina che gira forte forte e improvvisamente crolla, ho cominciato ad avere un momento di crisi in cui non capivo più, sono arrivati i dubbi.

Il dubbio, nella mia esperienza non aveva e non poteva avere spazio, voleva dire mettere in discussione qualcosa da cui era difficile tornare indietro. Tornare indietro poteva voler dire tradire, tradire voleva dire mettere in discussione una macchina perfetta, se rimaneva compatta, ma che si poteva distruggere se cominciava ad inserirsi qualche dubbio

. I dubbi andavano cacciati, alle domande dovevo rispondere subito con delle “frasi”: citavo Il Capitale, citavo Lenin e mi davo risposte per cacciare questi dubbi. Ma dopo un po’, tutto questo cominciò a mostrare la sua fragilità, cominciai a non crederci più. Ricordo che il ministro Vassalli, su qualche giornale, parlò di una possibile amnistia. Mi trovai di fronte lo scenario della mia vita: avevo 28 anni e ne avevo fatti parecchi di carcere, ero stato nelle carceri peggiori, come l’isola dell’Asinara, Pianosa, Nuoro, eravamo il cosiddetto “circuito dei camosci”. Carceri con un livello di violenza, anche dei custodi, altissimo.

 C’è una mia foto al processo Moro dove arrivai con entrambe le mani ingessate: fu la prima foto di impatto, perché non si poteva non vedere che erano state tutte botte che avevo preso in carcere, in uno scontro impari, ma giustificato. Quando andai in crisi, cominciai a vedere, da un lato, che avevo sacrificato tutta la mia vita per una causa che ritenevo giusta ma a cui non credevo più tanto, dall’altro che avevo fatto un danno enorme alla mia famiglia, perché il primo dolore che ho provocato è stato quello agli affetti più cari.

Poi c’erano tutte le persone a cui avevamo tolto la vita e i loro familiari, i feriti: cominciavo a pensarli come persone e non più come ruoli. Questo cominciava a pesarmi. Non vedevo la possibilità di un ritorno nella società e pensai che la mia vita probabilmente era arrivata ad un punto limite: avevo dato tanto per questa storia che si era dimostrata fallimentare, era come se la mia vita dovesse chiudersi così, come se non ci fossero altre possibilità.

 Una serie di fatti incise su questa crisi. Mentre ero al processo di Torino, inaugurammo il carcere delle Vallette: le carceri che oggi sono nuove, le gabbie che ora sono nei processi di mafia, le prime mega condanne di tanti ergastoli, le abbiamo inaugurate noi.

 A queste carceri speciali, che chiamavano “kampi”, campi di concentramento, arrivavamo belligeranti dopo i processi in cui ci incontravamo e che usavamo per fare una sorta di congresso del Partito: sfruttavamo ogni spazio e ogni momento per corroborare la nostra idea. Dicevamo: «Stabiliremo le linee, ritorneremo nei campi con grandi battaglie!». Al mio arrivo, il direttore mi chiama: «Facciamo una commissione di detenuti, vi mettete in tre o quattro di voi, raccogliete tutti i problemi che ci sono. Il carcere è nuovo, se le cose non vanno me lo dite e cercheremo di risolverle».

Fummo scioccati perché non eravamo assolutamente abituati a questo linguaggio. Fino allora, l’idea era: «State lì, zitti e muti, chi parla va in isolamento o sono botte». Un’altra cosa che fece, fu favorire il rapporto con le nostre compagne. In carcere, maschi e femmine sono separati, l’unica l’occasione per incontrarsi era nelle gabbie, durante i processi.

All’interno del carcere, il direttore fece mettere su un piano i maschi e su quello sotto le donne: venivano a chiederti chi era la tua compagna in modo da mettervi uno sotto l’altro per favorire il dialogo.

 Una cosa allucinante, che stravolgeva completamente gli schemi. In questo contesto, le donne, che come gli uomini delle Brigate Rosse avevano fatto la scelta della lotta armata, avevano già fatto un passo avanti. Nel momento della crisi dell’ideologia, loro avevano cominciato a stravolgere un po’ il linguaggio, ad inserire il linguaggio dei sentimenti. Le nostre lettere erano sempre enunciazioni strategiche, si doveva essere molto ideologizzati altrimenti risultavamo meno rivoluzionari, meno virili.

E lo stesso da parte loro, con un crescendo che non portava da nessuna parte. Loro ruppero lo schema e cominciarono a parlare di amore, di sentimenti, di tenerezza. Le compagne cominciarono a regalarci braccialetti con le perline. In questo contesto, la nostra belligeranza se n’era andata, cominciarono a calare tante tensioni e provammo piacere per questo mondo che si andava a riscoprire.

 Quando presi la quarta condanna all’ergastolo – che non cambiava niente -, tornai al carcere di Nuoro da dove ero venuto. Ricordo che il brigadiere, durante la perquisizione, si arrabbiò enormemente non per l’ipotesi che potessi avere nascosto un coltello o un detonatore, ma per queste collanine e braccialetti che strappò via, quasi che con questa nota di colore avessimo rotto lo schema a cui anche l’altra parte si era uniformata.

Mi resi conto anche del fatto che i miei compagni – che non avevano avuto la mia fortuna di andare in giro “per processi” e portarsi a casa le condanne, di incontrare altre persone, quindi di uscire da quel buco in cui ormai tu pensavi di controllare il mondo, di sapere tutto – erano fermi ad un anno prima, alle solite quattro parole e quattro cose.

Capii che forse c’era qualcosa che non andava, che ormai eravamo arrivati ad un punto limite e che bisognava cambiare. Non capivo come uscire da questa crisi. Ebbi la fortuna che nel mio stesso carcere ci fosse Alberto Franceschini, co-fondatore delle Br, anche lui di Reggio Emilia come me. Riuscivamo qualche volta ad incontrarci al passeggio, anche lui viveva questa sensazione della morte vicina. Mi disse: «Prendiamoci un po’ di tempo, facciamo uno sciopero della fame».

Così avevano fatto i compagni tedeschi di formazione analoga alla nostra, quelli della RAF che passavano sotto il nome di Baader Meinhof. Facemmo uno sciopero della fame che fu una forma di rottura esplicita con il nostro passato. Non vedevamo la possibilità di grandi soluzioni pacifiche, però dicemmo: «Se è la violenza che vogliamo esprimere, la esprimiamo verso noi stessi, non più verso altri». Una scelta che venne vista come deposizione delle armi, una scelta pacifica che rompeva uno schema nel quale anche lo Stato ormai era uniformato, tanto che, quando iniziammo questo sciopero della fame, il direttore ci chiamò.

Era scioccato perché pensava che volessimo qualcosa in cambio. Rispondemmo che era la nostra unica possibilità di riprenderci in mano la vita in un carcere dove eravamo completamente spersonalizzati, svuotati di ogni cosa. La posta era censurata, tutto era sotto controllo, eri come una cavia di laboratorio: sapevi che saresti arrivato alla deprivazione sensoriale e che così ti avrebbero ucciso.

Finché credevo che la rivoluzione potesse continuare, tutto aveva un senso, ma decadendo questo non capivo cosa ci stavo a fare. Questo mandò in crisi il meccanismo sul quale si era retta tutta la struttura. Ci dissero: «Perché non avete fatto una di quelle proteste forti, una rivolta, come facevate una volta?». Poi loro arrivavano e reprimevano con tutti i mezzi, naturalmente.

Noi siamo andati avanti e i nostri compagni criticarono questa scelta duramente, come una forma di tradimento, anche di quello che noi stessi prima credevamo, ma noi eravamo convinti. Eravamo in sei contro tutti, e pensavamo che dovevamo comunque avere il coraggio di rompere, perché non è facile quando sei dentro un’ideologia come la nostra decidere di uscirne, vuol dire ammettere la sconfitta.

La responsabilità che ci eravamo assunti quando avevamo fatto la scelta della lotta armata, ci era richiesta oggi per la scelta di uscirne, anche a scapito della vita. Qui si è inserito un fatto particolare, devo dirlo perché è stato quello che poi mi ha permesso di essere qua, di essere vivo: in quei giorni ci fu un convegno dei cappellani in cui un certo cardinal Martini, all’epoca per me sconosciuto, parlò della necessità di difendere, anche nel carcere, la dignità umana dei detenuti.

Erano parole che non si sentivano più. Noi eravamo criminali, terroristi, dovevamo stare dentro, chiusi, non uscire più e basta. Cercammo di capirne qualcosa, di parlarne con il cappellano del carcere, riuscimmo ad avere un colloquio. Erano cose difficili: bisognava fare la richiesta al direttore, andare dal maresciallo, poi ti chiamavano e tu andavi in questa stanza con una parete bianca, di vetro 50 x 50 cm.

Il cappellano era in piedi di là, tu in piedi di qua, con i vetri antiproiettile che vi dividevano: questo era il livello di colloquio che potevi avere. Chiedemmo al cappellano qualche informazione in più, disse che ce le avrebbe procurate e intanto iniziammo questo sciopero della fame. Quando lo rivedemmo, il cappellano si dimostrò visibilmente preoccupato per noi. Considerate che io e Franceschini venivamo da Reggio Emilia, da famiglie mangiapreti come don Camillo, che non volevano sacerdoti neanche sulla porta di casa: in realtà, i miei mi avevano battezzato, cresimato e tutto, però sempre con questa forma di critica che era anche di rispetto.

Il cappellano si comportò veramente come una persona che si preoccupava di noi: «Voi non vi rendete conto di dove siete, io li conosco. Questi vi lasciano morire» diceva. Mentre eravamo in una fase avanzata dello sciopero, dopo Natale, erano passati 20 giorni e si parlava di alimentazione forzata, avevamo tutti contro. Le guardie dicevano: «Faranno la fine della Baader Meinhof».

Erano tutti morti: chi diceva che li avessero uccisi, chi diceva che si erano suicidati, morirono tutti in carcere. In questo clima, a un certo punto, a Santo Stefano si apre la cella ed entrano il giudice di sorveglianza, il direttore, il medico e altre persone. Mi ritrovo Marco Pannella seduto sul letto. Mi sono detto: «Sono al massimo delle visioni per lo sciopero della fame!». Ma era davvero Marco Pannella, in un carcere dove non entrava nessuno! Che cosa era successo? Questo cappellano, che si era visibilmente preoccupato per noi, scrisse una lettera dove dichiarò che non avrebbe celebrato la Messa in carcere a Natale, come aveva fatto sempre, perché «sei miei fratelli stanno morendo in carcere».

Poi denunciò con una frase molto dura: «Se c’è stato un terrorismo nella società, oggi c’è un terrorismo di Stato che si esprime nelle carceri ed è inconcepibile e inaccettabile». Questa lettera fu un fatto clamoroso, fu mandata ai giornali locali, passò a quelli nazionali e tutti i politici si resero conto di ciò che stava succedendo nelle carceri, che veniva denunciato dai familiari, da Amnesty International e da altri, ma a cui nessuno dava ascolto: si accorsero di questo scandalo del regime delle carceri speciali.

Iniziò una giravolta, mentre oramai eravamo nella sezione dell’ospedale per l’alimentazione forzata: cominciarono ad arrivare tutti i politici, più o meno di tutti i partiti, a chiedere che cosa stava succedendo. Tra Santo Stefano e l’ultimo dell’anno, quindi in pochissimi giorni, fu varato un Decreto Legge che tolse un articolo restrittivo per tutte le carceri speciali. E per noi che avevamo iniziato questa protesta, si aprì una fase di cambiamento inaspettata. Non c’eravamo posti nessun obiettivo. Il direttore chiedeva: «Volete essere trasferiti?» e noi rispondevamo: «Non vogliamo niente, vogliamo semplicemente non mangiare più».

 Il risultato invece fu che lo sciopero andò sui giornali, aderirono vari detenuti e divenne un fatto pubblico, cambiando le cose per tutti. Per me è stato un passaggio chiave, un po’ come uscire dagli inferni terreni, come dice Dante, attraversare «la natural burella» e trovarmi in purgatorio dov’era possibile, piano piano, una risalita. Ha voluto dire riprendere un dialogo più umano, innanzitutto con il direttore del carcere, che rappresentava l’ala dura del ministero.

 Ci disse poi – perché alla fine siamo diventati amici – che aveva deciso di farci scoppiare uno ad uno, era sicuro che ce l’avrebbe fatta e avrebbe ottenuto il nostro annientamento. Ricordo che veniva in cella, si sedeva sulla branda e chiacchierava con noi: ci si raccontava a che punto eravamo arrivati, come la realtà era stata stravolta. Per me, questa risalita, che è durata poi tanti anni, ha voluto dire usufruire di una legge sulla dissociazione, ammettere le mie responsabilità, che mai avevo negato, e assumermi anche il peso di tutte le azioni compiute dall’organizzazione cui ho appartenuto, anche quando ero in carcere.

Quindi, l’assunzione morale, prima di tutto, che poi significava penale, ma questo era secondario. Poi ci fu la legge Gozzini di riforma penitenziaria: ci sarebbe da aprire un capitolo a parte, molto interessante anche per il presente, sul ruolo importante che hanno avuto il cardinal Martini, il pubblico ministero del processo Moro, che divenne il direttore delle carceri, Nicolò Amato e il volontariato che cominciammo a conoscere.

In pochissimo tempo, il sistema penitenziario italiano, denunciato per la pratica della tortura, diventò il sistema penitenziario più moderno d’Europa. Tre anni dopo lo sciopero, nel 1986, fu varata questa legge, un cambiamento che dimostra come, quando si vogliono fare le cose nel nostro Paese, si fanno direttamente. Per me, tutto questo ha significato anche uscire dai circuiti: per una serie di calcoli matematici, tra legge sulla dissociazione e legge penitenziaria, sono riuscito a fare solo 22 anni e mezzo di carcere. Quindi, devo dire che mi è andata molto bene e adesso sono qui a raccontarlo.

 

MARTA BUSANI.

Dobbiamo chiudere, abbiamo pochissimi minuti, però volevo che Franco ci raccontasse di questi ultimi anni: il cammino che stai facendo, in particolare l’amicizia con Agnese Moro.

FRANCO BONISOLI.

Quando li ho incontrati, ho detto: «Ne parliamo un po’, ma io non vengo al Meeting». Ma loro hanno insistito tanto, sono addirittura venuti da Milano ad un incontro a Castelnuovo Monti, provincia di Reggia Emilia. Al che ho detto: «Va bene, dai, di fronte a tanta disponibilità, devo ricambiare».

 Poi c’è l’incontro con Agnese Moro e con altre vittime di questa nostra storia. Da anni sto facendo un percorso di testimonianza e soprattutto di incontro, con i miei compagni e i familiari o le vittime della nostra esperienza. É stato un percorso molto lungo, che è cominciato in carcere e che poi ho avuto la possibilità di sviluppare ulteriormente quando sono uscito.

 Adesso ho finito la pena, sono libero, ho anche il passaporto, l’unica cosa che mi manca è il diritto di voto, che però, in questi anni, mi ha tolto un sacco di impicci. Quando sono uscito, ho sentito ancora di più la necessità di avviare un percorso di comprensione umana con le persone che avevano subito i nostri danni terribili. Ho pensato ci fosse la possibilità che si potesse contribuire ad alleviare, anche minimamente, le sofferenze che avevamo inferto.

Non certo restituendo le persone uccise, che non si può più fare. Ma ho sempre desiderato questa apertura. Sono stati anni di lavoro, grazie anche all’aiuto di alcune persone; una serie di incontri durata molto tempo. Ad un certo punto, è uscito un libro che raccontava questa esperienza, Il libro dell’incontro, edito da Il Saggiatore, a cura di padre Guido Bertagna, gesuita, Claudia Mazzuccato, docente di Diritto penale della Cattolica di Milano, Adolfo Ceretti, criminologo.

 Hanno svolto una funzione di mediazione nel rapporto tra quella che poteva essere una nostra componente e le vittime, per cominciare a ritrovarci come persone singole che si incontravano, che si comunicavano il loro dolore, le difficoltà e la voglia di continuare a credere in quelli che erano i rispettivi valori di una società più giusta, in cui le persone si possano parlare e incontrare.

 É stata un’esperienza di cui varrebbe la pena parlare in questo momento, una cosa che mi impegna moltissimo, anche perché, da quando abbiamo reso pubblica questa serie di incontri, prima clandestini, partecipano persone giovani come voi, che studiano, e qualcuno meno giovane che ha deciso di aderire. Incontri non facili, vi assicuro. Alcune vittime ci criticano e dicono che tutto è finito a tarallucci e vino: assolutamente no! Dovrete poi ascoltare quello che dicono Agnese Moro o Giovanni Ricci dell’incontro con il Papa alla chiesa del Gesù a Roma.

È stato un percorso dove è emersa la possibilità di credere ancora in una società migliore. Ci siamo trovati a mettere insieme il nostro dolore, le nostre difficoltà, anche i nostri sogni o gli ideali da cui io sono partito e che mi hanno portato a prendere la lotta armata. Gli ideali di fondo per me sono ancora quelli: una società più giusta, più libera, dove la gente si parla, dove non ci sia la prevaricazione di uno sull’altro.

Ho trovato nei familiari dei testimoni credibili. Io sono stato condannato anche per l’omicidio dell’onorevole Aldo Moro e per la strage di via Fani. Ho mandato una lettera all’ultima commissione Moro, dove ero stato sollecitato ad andare, per dichiarare i motivi per cui non andavo.

 Non mi sono messo a tirare troppi giudizi su di loro, ma le ritenevo persone troppo interessate ai fini del gruppo, del partito, con nessuna volontà di ricerca della verità. Mentre con questi testimoni – Agnese Moro, che sapete chi è, Giovanni Ricci, figlio dell’autista della scorta dell’on. Aldo Moro – mi sono resto totalmente disponibile, perché sono veramente credibili su tutto.

Insieme, abbiamo solo da raccontare l’esperienza del nostro incontro. Come dice Agnese, «Mah, cosa facciamo, dove andiamo: intanto qui ci siamo, siamo un fatto, poi, se qualcuno lo vuole cogliere, ben venga».

Vi cito un incontro che abbiamo avuto a Milano, organizzato dalle suore del Centro Asteria, c’erano 1.200 giovani. Raccontavamo la nostra esperienza e mia moglie era lì, in prima fila. E sente due giovani dietro che parlano. Uno dice all’altro: «Va bene ma allora adesso dovrei andare da quello stronzo del mio vicino di casa, parlargli e magari chiedergli pure scusa». E la ragazza dice: «Se ci sono riusciti loro, non ci vuoi riuscire tu?». Questo mi sembra un messaggio molto chiaro che può uscire da questa storia.

MARTA BUSANI.

Grazie mille, anche di avere fatto la fatica di essere qui e di raccontarci tutta questa storia. Non dico nulla perché credo che non ci sia bisogno di particolari conclusioni.

 

 

 

Papa Francesco: “La famiglia naturale

non è un’ideologia, è una realtà”.

Radiomaria.it - Veronica Giacometti – (25 Ottobre 2022) – ci dice:

 

"Dobbiamo custodire la famiglia naturale ma non imprigionarla, non farla crescere ideologicamente ma deve crescere veramente nella realtà".

“È responsabilità sia dello Stato sia della Chiesa ascoltare le famiglie, in vista di una prossimità affettuosa, solidale, efficace: che le sostenga nel lavoro che già fanno per tutti, incoraggiando la loro vocazione per un mondo più umano, ossia più solidale e più fraterno.

Dobbiamo custodire la famiglia naturale ma non imprigionarla, farla crescere come deve crescere”. A dirlo è Papa Francesco in un pezzo a braccio del suo discorso rivolto alla Comunità Accademica del Pontificio Istituto Teologico Giovanni Paolo II per le Scienze del Matrimonio e della Famiglia.

“Stare attenti alle ideologie (come quella arcobaleno! Ndr.) che si immischiano per spiegare la famiglia naturale dal punto di vista ideologico. La famiglia non è un’ideologia, è una realtà. E una famiglia cresce con la vitalità della realtà. Ma quando vengono le ideologie a spiegare o a verniciare la famiglia succede quello che succede e si distrugge tutto.

C’è una famiglia naturale che ha questa grazia di uomo e donna che si amano e creano, e per capire la famiglia dobbiamo sempre andare al concreto, non alle ideologie. Le ideologie rovinano, le ideologie si immischiano per fare una strada di distruzione. State attenti alle ideologie!”, continua il Pontefice.

“Il matrimonio e la famiglia naturale avranno sempre imperfezioni, finché non saremo in Cielo. Ai novelli sposi sempre dico: se volete, litigate, tutto quello che volete, ma a patto che facciate la pace prima che finisca la giornata. Questa capacità di “rifarsi” che ha la famiglia davanti alle difficoltà è una grazia, perché se non si rifà, la “guerra fredda” del giorno dopo è pericolosa.

Eppure, noi consegniamo al Signore la nostra stessa imperfezione, perché trarre dalla grazia del sacramento una benedizione per la creatura a cui è affidata la trasmissione del senso della vita – non solo della vita fisica – è il possibile di Dio”, dice ancora il Papa nel suo discorso ai presenti.

“Voglio raccontarvi un’esperienza che ho avuto in piazza quando salutavo in piazza prima della pandemia. Sembravano giovani. 60 anni di matrimonio. Ho chiesto: “Ma non vi siete annoiati dopo tutti questi anni? Si sono guardati, sono rimasto fermo, poi si sono girati, piangevano. “Ci amiamo”.

Questa è la più bella teologia della famiglia che ho visto”, dice ancora il Papa a braccio.

 

 

 

 

Teoria Gender: un po' di chiarezza.

Sinaspi.unina.it – Redazione – (20-1-2020) – ci dice:

 

Negli ultimi mesi abbiamo assistito alla dilagante diffusione di notizie ed informazioni su quella che viene oramai definita come "Teoria Gender", che hanno generato e continuano a generare confusione e preoccupazioni.

In relazione a tali episodi, il Servizio Antidiscriminazione e Cultura delle differenze del Centro di Ateneo SInAPSi ha pensato di intervenire, anche sui social network, attraverso una campagna di sensibilizzazione, per sottolineare l'importanza della ricerca scientifica nell'ambito dei Gender Studies e mettere in evidenza l'assoluta inesattezza delle attuali e diffuse dichiarazioni sulla "Teoria Gender".

Nel tentativo di aiutarvi comprendere al meglio i significati veicolati attraverso l'utilizzo dell'etichetta "Teoria Gender", ci auguriamo che questo breve messaggio informativo, affiancato dai documenti ufficiali pubblicati e diffusi dall'Associazione Italiana di Psicologia, dall'Associazione Italiana di Sociologia, dal Ministero della Pubblica Istruzione e dal Consiglio Nazionale dell'Ordine degli Psicologi, aiuti a fare chiarezza sull'argomento e su quanto si sta verificando quotidianamente

Che cosa si intende, dunque, per "Teoria Gender"? 

I termini "Teoria Gender" o "ideologia del gender" rappresentano, in realtà, un modo improprio di riferirsi agli Studi di Genere, proponendone, però, una versione distorta e volutamente falsata. In realtà, non esistono fonti precise che stabiliscano con esattezza come e su quali presupposti si sia arrivati a costruire opinioni su tale tipo di ideologia.

Possiamo affermare, però, che quanto viene quotidianamente propagandato e diffuso in merito alla Teoria Gender contribuisce a creare barriere alla libertà personale e a fomentare odio e discriminazione. 

Le idee che vengono diffuse sulla "Teoria Gender":

  -    non constano di alcuna evidenza empirica,

  -    sono basate su ideologie e opinioni valoriali,

  -    sono a sostegno di discriminazioni, violenze ed odio di genere,

  -    contrastano il diritto soggettivo legato alle libertà individuali. 

Gli accaniti oppositori alla fantomatica "Teoria Gender" hanno volutamente contribuito alla diffusione di informazioni erronee, panico e terrore fra genitori poco informati che, immotivatamente preoccupati, si sono allarmati temendo che nelle scuole, ambiente da loro considerato spazio neutro e protetto, i propri bambini si troveranno ad adottare e ad acquisire pratiche masturbatorie precoci, a conoscere e ad usare metodi contraccettivi e ad avere rapporti sessuali precoci, ad essere influenzati nel proprio orientamento sessuale, a cambiare genere, o ad apprendere che adottare comportamenti di pedofilia sia giusto.

 La diffusione di un tale allarmismo è stata giustificata con il desiderio di "difendere la famiglia tradizionale".

Il tutto non può essere più sbagliato e lontano dalla realtà. L'obiettivo di introdurre programmi formativi all'interno dell'istituzione scolastica, è espresso nel comma 16 della legge 107/2015 di Riforma su "La Buona Scuola", che recita testualmente:

"Il piano triennale dell'offerta formativa assicura l'attuazione dei principi di pari opportunità, promuovendo nelle scuole di ogni ordine e grado l'educazione alla parità tra i sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le discriminazioni, al fine di informare e di sensibilizzare gli studenti, i docenti e i genitori sulle tematiche indicate dall'articolo 5, comma 2, del decreto-legge14 agosto 2013, n. 93, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 ottobre 2013, n. 119". 

Si tratta semplicemente di formare adulti del domani maggiormente sensibilizzati e attenti a non discriminare, consapevoli ed informati su tematiche di cui, ancora oggi, si conosce poco, per timore o per pregiudizio.

Gli interventi solitamente promossi nelle scuole di ogni ordine e grado, dunque, fanno riferimento a costrutti teorici e scientifici ben radicati, che si rifanno ai Gender Studies. 

Cosa sono gli Studi di Genere? 

Gli Studi di Genere, in inglese Gender Studies, raggruppano l'insieme di approcci metodologici e ricerche condotte da svariate discipline, in merito a diversi aspetti della vita umana: dall'origine dell'identità al rapporto tra persona e contesto socio-culturale in cui vive.

 Tali studi partono dall'assunto di base secondo cui l'identità sessuale rappresenta un costrutto multidimensionale costituito da quattro distinte componenti:

1.      Sesso biologico: ovvero l'appartenenza biologica al sesso maschile o femminile (determinata da cromosomi sessuali, da ormoni, dai genitali esterni e interni).

2.      Identità di genere: ovvero l'identificazione primaria della persona come maschio o femmina, che solitamente si stabilisce nella prima infanzia.

3.      Ruolo di genere: l'insieme di aspettative e ruoli su come gli uomini e le donne si debbano comportare in una determinata cultura e in un dato periodo storico.

4.      Orientamento sessuale: l'attrazione erotica e, soprattutto, emotiva ed affettiva verso i membri del sesso opposto, dello stesso sesso o di entrambi (per cui ci si può identificare come omosessuali, bisessuali o eterosessuali). 

Nello specifico, chi opera nelle scuole occupandosi di progetti che fanno riferimento agli Studi di Genere, mira primariamente a promuovere la non discriminazione verso le differenze, ad ostacolare il diffondersi di forme più o meno velate di bullismo omofobico o di fenomeni dettati dalla non conoscenza e dall'intolleranza.

 L'obiettivo è quello di favorire il benessere di ogni singolo alunno, in modo che venga diffusa principalmente una cultura del rispetto. I progetti educativi per la prevenzione della violenza di genere tentano di scardinare stereotipi e preconcetti legati alle differenze di genere. 

Qui sotto potete scaricare i documenti ufficiali pubblicati e diffusi dall'Associazione Italiana di Psicologia, dall'Associazione Italiana di Sociologia, dal Ministero della Pubblica Istruzione e dal Consiglio Nazionale dell'Ordine degli Psicologi.

Vi invitiamo a leggerli con attenzione, ad informarvi e fare sempre riferimento a dichiarazioni che abbiano un fondamento ed una validità scientifica. 

(ordinepsicologilazio.it/blog/psicologia-della-vita-quotidiana/educazione-sessuale-nelle-scuole-no-gender-no-party);

(nextquotidiano.it/tutto-quello-che-volevate-sapere-sul-gender-e-non-avete-mai-osato-chiedere/).

 

 

 

 

La globalizzazione fra ideologia e realta'.

 Imprese-stato.mi.camcom.it - Gianni Sibilla – (28-6-2020) – ci dice:

Alcuni protagonisti della vita economica nazionale, riuniti in una tavola rotonda da MicroMega e Camera di Commercio, affrontano un tema concreto ma spesso mitizzato.

Lo scorso 10 marzo a Palazzo Affari ai Giureconsulti a Milano, la Camera di Commercio e MicroMega hanno organizzato una tavola rotonda dal titolo "Marché, Monnaie, Globalité? La globalizzazione fra ideologia e realtà" a cui hanno partecipato Luigi Abete (Presidente A.BE.T.E. SpA), Paolo Flores D’Arcais (direttore di MicroMega), Pietro Marzotto (vicepresidente di Confindustria), Corrado Passera (amministratore delegato delle Poste Italiane SpA), Pierfranco Pellizzetti (studioso di Organizzazioni Complesse), Carlo Sangalli (presidente della Camera di Commercio di Milano) e, in qualità di moderatore, Federico Rampini (inviato ed editorialista di Repubblica).

Questo incontro ha preso spunto dalla pubblicazione sul primo numero del 98 della rivista diretta da Paolo Flores D’Arcais di due interventi sul tema: uno di Carlo De Benedetti e uno, più critico, di Pierfranco Pellizzetti, intitolato appunto "Marché, Monnaie, Globalité".

Impresa & Stato presenta oggi un resoconto di quell’incontro in cui si è affrontato un aspetto di grande rilievo per la società moderna.

La globalizzazione è infatti un fenomeno sempre più importante e coinvolge direttamente la vita delle imprese e delle istituzioni del mercato, come, appunto, la Camera di Commercio.

Per questa ragione ringraziamo nuovamente MicroMega per averci aiutato a svolgere una riflessione e un approfondimento con autorevoli protagonisti della realtà economica nazionale.

Carlo Sangalli: La CdC, una casa con finestre verso il mondo.

La prima e reale sfida che le imprese italiane debbono affrontare è quella del cambiamento culturale; un cambiamento che interessa non solo l’organizzazione delle aziende, ma l’intero panorama istituzionale, associativo e politico che rappresenta l’ambiente naturale nel quale le imprese vivono e si sviluppano.

Per queste concrete ragioni la globalizzazione deve perdere quel salone ideologico che pare a volte caratterizzarla, così da diventare un ‘occasione reale di crescita.

Nell’esperienza della Camera di Commercio si ha spesso l’impressione, per la verità, che la globalizzazione sia un modo di essere delle aziende: un nome nuovo per qualcosa che è già conosciuta da tempo.

Da sempre le imprese hanno percorso la vita di intensi e consolidati rapporti con le realtà produttive e commerciali internazionali. La dimensione verso l’esterno ha rappresentato uno dei fattori principali della tenuta e della crescita del nostro sistema economico.

Quello che è cambiato, a mio parere, è piuttosto l’intensità del fenomeno e la sua rilevanza sempre più diffusa. La globalizzazione allora non interessa più solo le grandi imprese o le piccole e medie imprese più dinamiche o ambiziose. Tende invece a caratterizzare un numero sempre maggiore di attività economiche, tanto che oggi nessuno può immaginare di vivere in un mercato chiuso nei confini nazionali.

Il fenomeno della globalizzazione tende poi ad espandersi agli altri ambiti di vita delle imprese e dei cittadini: al sistema dei servizi, per esempio, così come alle telecomunicazioni e alla finanza.

Ma ciò non significa che sia stato troncato il cordone che lega l’impresa, soprattutto quella piccola e media, alla dimensione locale e al territorio in cui è insediata. La sfida culturale, allora, è proprio quella di costruire rapporti tra soggetti locali, imprese, istituzioni, e Associazioni che non si esauriscano nella dimensione locale, ma che si aprano sempre più verso l’esterno.

Ed è in questa prospettiva che si sta muovendo la Camera di Commercio: essere un autorevole e dinamica istituzione delle imprese, del mercato. Per fare questo dobbiamo rafforzare il radicamento sul territorio, sapendo però che per le imprese questa è solo una delle diverse dimensioni della loro attività.

La Camera di Commercio di Milano cerca in questo senso di essere autonomia funzionale, di essere cioè un ente locale moderno al servizio dell’interesse generale del sistema delle imprese milanesi. E le imprese milanesi hanno le proprie radici nella provincia, ma poi lavorano, vivono e si sviluppano fuori dal territorio.

La Camera che noi vorremmo realizzare è una casa che ha grandi finestre che guardano verso l’Europa e verso il mondo. Ebbene, proprio il rafforzamento di questo ruolo porta il nostro ente ad avere una sempre maggiore attenzione verso l’internazionalizzazione e la globalizzazione.

Non solo quindi per essere accanto alle imprese, ma per potere avere lo stesso loro linguaggio, perché la comunicazione tra cittadini e istituzioni è il primo requisito della democrazia, anche di quella economica. Solo facilitando la partecipazione democratica delle imprese, dei cittadini alla vita delle loro istituzioni è possibile procedere ad una reale, concreta riforma.

Rafforzare i canali di accesso alle istituzioni significa soprattutto trasformare la Pubblica Amministrazione, renderla moderna, di livello internazionale, in grado di essere un sostegno reale per le imprese nelle loro sfide, soprattutto nel confronto con le imprese dei paesi concorrenti.

Ecco perché, a mio avviso, un’istituzione non può affrontare il discorso della globalizzazione solo sul piano della promozione e del sostegno alle imprese che vogliono investire e commercializzare all’estero.

 Le istituzioni devono impegnarsi nell’essere innovative, efficienti e rappresentare un primo reale supporto alle imprese. Poi possono contribuire in un contesto di sussidiarietà al sostegno delle iniziative di internazionalizzazione.

Da questo punto di vista la Camera di Commercio di Milano ha deciso di inserire nella propria agenda politica alcuni punti fermi: accanto allo sforzo di innovazione della Pubblica Amministrazione, il contributo alla realizzazione di infrastrutture e il sostegno all’internazionalizzazione.

Siamo cioè convinti che in una competizione mondiale, più per aree che per nazioni, il ruolo di Milano deve tornare ad essere quello di locomotiva del paese. Una Milano che apre la strada al servizio della comunità nazionale.

 La responsabilità delle istituzioni milanesi e lombarde è certa rilevante perché si trovano ad operare in una realtà economico-produttiva consolidata e fortemente dinamica: in Italia, su 600 imprese che investono all’estero, più di 200 sono lombarde.

Accanto alle poche grandi imprese, la maggioranza è formata da soggetti piccoli e medi che all’estero realizzano infrastrutture, entrano direttamente nel mercato con le proprie realizzazioni, con il proprio ingegno e la propria capacità imprenditoriale.

Nel Nord-Est il 20% delle imprese esportatrici sono artigiane; nel Nord-Ovest, compresa l’ampia area della Lombardia, il 32% delle imprese che hanno meno di venti dipendenti esporta regolarmente. Nel biennio 94-96 è notevolmente cresciuto il peso delle piccole e medie imprese multinazionali con meno di 500 addetti: oggi rappresentano oltre il 75% del totale delle multinazionali italiane.

Di tale processo l’industria milanese, con le sue 68 imprese multinazionali investitrici, corrispondenti al 47% del dato lombardo, supera da sola grandi regioni come Piemonte e Liguria insieme. La provincia di Milano inoltre detiene ben il 35% del totale dei brevetti europei richiesti dalle industrie multinazionali italiane per il periodo 1978-1996; una quota in gran parte concentrata nei settori ad alta intensità tecnologica a testimonianza del rapporto tra innovazione e internazionalizzazione.

I dati, anche quelli più recenti, non danno comunque il quadro completo del fenomeno. La priorità del momento è quella di migliorare il rapporto tra istituzioni locali e imprese: un rapporto che va interpretato favorendo il cambiamento di mentalità nelle imprese locali e aiutandole nel loro progetto di crescita verso l’esterno, verso la globalizzazione.

 

Federico Rampini: Le due facce della globalizzazione.

La parola "globalizzazione" è un po’ abusata, forse è venuta anche a noia, ma rappresenta bene dei fenomeni vissuti ormai quotidianamente, con un’incidenza molto concreta.

Quella più visibile sicuramente è la globalizzazione dei mercati finanziari. Diversi mesi fa iniziava con la svalutazione del Bat thailandese, moneta di cui molti ignoravano addirittura l’esistenza o il nome, una crisi finanziaria che dal Sud-Est asiatico si sarebbe propagata molto rapidamente nel mondo intero, provocando conseguenze anche per i risparmiatori italiani con il suo impatto sulla Borsa di Milano.

Ci sono stati momenti in cui si è temuto che dall’Asia cominciasse un grande crac mondiale, poi superati. Ma l’interconnessione dei mercati finanziari internazionali è stata evidentissima.

Del resto, il lungo rialzo della Borsa di Milano è frutto anche della straordinaria crescita dell’economia americana e dei mercati azionari americani. Tutto ciò ha ormai una rilevanza molto forte sulle famiglie italiane: la fuga dai BOT, dai titoli di Stato, si traduce nel fatto che quotidianamente migliaia, decine di migliaia di risparmiatori italiani, entrano nella loro banca, vanno al Borsino, all’Ufficio Titoli e si sentono proporre fondi comuni specializzati in obbligazioni dell’area Marco, fondi comuni specializzati in azioni americane e così via.

È evidente che ciascuno di noi ormai tende ad avere un portafoglio di risparmiatore globale e questo è uno degli aspetti più evidenti. A breve, con la nascita della moneta unica europea, saremo dentro un grandissimo mercato finanziario dove veramente non ci sarà più nessuna barriera.

All’estremo opposto ci sono fenomeni come quello che in America è ormai diventato il simbolo negativo della globalizzazione, il caso Nike. In America è montata una campagna organizzata da movimenti di opinione e per i diritti civili per il fatto che si è scoperto che gran parte delle scarpe fabbricate da Nike, della cui produzione l’azienda è leader mondiale, sono prodotte in fabbriche in Cina e in India, con uso di mano d’opera infantile ai limiti dello schiavismo. Questa è l’altra faccia della globalizzazione.

Su questi temi MicroMega, nel primo numero del ‘98, ha ospitato due interventi: quello di Carlo De Benedetti, che è piuttosto un elogio della globalizzazione, e quello di Pierfranco Pellizzetti, intitolato Marché, Monnaie, Globalité, che parafrasa la rivoluzione francese e che è invece l’intervento più critico sulla globalizzazione. Da qui partono gli interventi dei partecipanti a questa tavola rotonda.

 

Paolo Flores D’Arcais: Domande in attesa di risposte adeguate.

Ci sono alcune domande da porre, assolutamente ingenue e non da addetto ai lavori. Il cittadino comune, quello che sa poco di economia, viene ormai bombardato costantemente da questo termine "globalizzazione", presentato generalmente in termini più che apologetici, come qualcosa che ormai rappresenta l’orizzonte ineludibile della nostra esistenza, il nostro futuro.

Ci sono una serie di obiezioni che nascono dall’interno del mondo degli affari e del mondo dei manager; ma ci sono anche le domande a cui in genere non solo non si dà risposta, ma che si ritiene che non sia neanche necessario considerare, perché troppo ingenue.

Nella testa di tantissime persone si agitano questi interrogativi, anche perché le decisioni economiche cominciano ad avere sempre più influenza sulla vita quotidiana di tutti, e in modo molto più forte che in passato. Basti vedere le vicende recenti dell’Euro e di quello che hanno significato nel dominare e condizionare parti importanti della vicenda politica in ciascun paese.

La prima di queste domande riguarda il modo in cui viene sentita l’idea di globalizzazione in genere dal non esperto. In termini molti semplici: il nostro paese ormai è il mondo, il nostro mercato ormai è il mondo, siamo nel villaggio globale e così via. Questa idea in fondo non è nuova, solo che si presenta in termini molto diversi dal passato. L’idea del cosmopolitismo è all’origine del mondo moderno, solo che andava insieme all’idea del progresso civile e addirittura dell’espandersi della tolleranza.

Voltaire, in un passo molto famoso delle sue lettere dall’Inghilterra, sostiene che le varie persone che onorano il loro Dio in forme diversissime, dal cattolico al presbiteriano, all’ebreo, al musulmano, ecc., sanno che queste differenze hanno alle spalle sanguinosissime guerre di religione. Poi si recano tutti insieme a onorare alla Borsa il nuovo Dio, e lì contano alcune regole in cui tutti si ritrovano e che tutti affratellano.

Le domande ingenue riguardo alla globalizzazione sono proprio sulla possibile divaricazione e contrasto fra cosmopolitismo e progresso civile. Insomma: globalizzazione significa che le stesse tecniche, lo stesso tipo di mercato, le stesse regole possono valere ovunque, che spingendo semplicemente un bottone di un computer si possono trasferire in tempo reale capitali enormi un tempo inimmaginabili?

Ma tuttavia forse vi è l’altro lato della medaglia in cui altre cose non si globalizzano affatto, come le condizioni di lavoro con i loro diritti, con le loro garanzie e con le loro sicurezze, anche fisiche, che sono state conquistate nell’industria occidentale.

 Non si globalizzano affatto le condizioni minime di welfare che vengono considerate assolutamente indiscutibili nel mondo occidentale anche da parte dei governi più conservatori. Non si globalizzano affatto le condizioni di sfondo socio-politico, che riguardano quindi non solo il lavoro, ma la vita civile.

Mentre si globalizzano anche le possibilità di crimini economici, non si globalizzano affatto le possibilità di perseguirli. Per fare un esempio di cronaca, in Italia recentemente si è parlato delle difficoltà delle rogatorie all’estero, dei paradisi fiscali, ecc.

D’altro canto, hanno fatto scalpore le denunce di alcuni gruppi, soprattutto in America, che hanno messo sotto accusa alcune industrie in sostanza per due questioni: lavoro minorile a livello di schiavismo e utilizzazione di detenuti politici, soprattutto in Cina.

Tuttavia questi sono i casi-limite. La normalità è sicuramente che si producono merci in condizioni di globalità, che possono circolare ovunque insieme ai capitali finanziari. Tuttavia, nella maggior parte ormai dei paesi dove si producono queste merci, le condizioni di lavoro quotidiano sono tali da fare impallidire i libri azzurri del primo Ottocento, in cui si descrivevano le condizioni operaie a Manchester dovute al governo inglese dell’epoca.

È solo una questione di tempo? Questo scarto è ottimisticamente destinato a ridursi sempre più? Quindi, attraverso la globalizzazione dei mercati e della vita finanziaria si globalizzeranno anche le condizioni di vita di lavoro e civili dell’Occidente?

Oppure le due cose sono assolutamente separate e, da questo punto di vista nulla si può fare? Bisogna allora che prendiamo comunque la globalizzazione dei mercati in quanto tale con una sorta di lucido cinismo, considerando moralismo la pretesa di globalizzare anche le condizioni dei diritti di lavoro e civili?

O addirittura proprio questo scarto è condizione per il funzionamento della globalizzazione a livello mercantile e finanziario?

Se queste questioni non troveranno risposte adeguate potranno, in qualsiasi condizione di crisi, alimentare una sorta di neo-luddismo contro la globalizzazione: un rifiuto di questa fase della vita economica e tecnica di cui in certi settori del mondo culturale già si sentono delle avvisaglie.

Corrado Passera: Globalizzazione, competitività e coesione sociale.

La globalizzazione è una corposa e dirompente realtà, nei confronti della quale è perfettamente inutile schierarsi a favore o contro. Dobbiamo interrogarci sulle sue implicazioni - positive e negative - per paesi come l’Italia e per macroregioni come l’Europa. E dobbiamo mettere in atto le iniziative che ci consentano di coglierne le opportunità, invece di esserne travolti.

Cé anche un’ideologia della globalizzazione, secondo la quale ci avviamo verso un modello unico di società, dove tutto deve adeguarsi a tre feticci: mercato, profitto e moneta. Questa affermazione non ha senso: per aver successo nel mercato globale bisogna prima di tutto essere capaci di distinguersi, facendo leva sulla combinazione dei propri specifici fattori competitivi e innovando costantemente.

"Fare impresa" nel mercato globale diventa sempre più difficile: la concorrenza è sempre più aspra; crescere costantemente la forza del consumatore; la velocità con cui cambiano le esigenze dei clienti mette sotto pressione le aziende, che devono rispondere altrettanto rapidamente, rivoluzionando e migliorando prodotti e organizzazioni; assistiamo al passaggio da settori merceologici ben definiti e geograficamente delimitati al continuo ridisegno dei settori, dei sistemi di business e dei mercati. I principali beneficiari di questa trasformazione sono soprattutto i consumatori, ma ne ha vantaggio anche la società nel suo complesso, perché da questa dinamica prendono slancio la crescita e lo sviluppo.

Sarà sempre più difficile anche fare politica. Lo Stato nazionale vede diminuire gli ambiti della sua sovranità, mentre aumenta il potere degli organismi internazionali. Contestualmente, diminuisce la possibilità di incidere sui propri "sistemi" interni, dalla fiscalità alla formazione dei redditi, all’allocazione degli investimenti, perché i mercati finanziari giudicano, reagiscono, talvolta addirittura impediscono il "libero esprimersi" della volontà politica statuale.

Ciò non vuol dire che si restringe il ruolo della politica. Significa che anche la politica deve modificarsi e deve focalizzarsi sulla costruzione di sistemi-paese capaci di reggere la concorrenza di altri sistemi-paese.

Oggi l’Italia è assente da quasi tutti i settori strategici di grande sviluppo nel futuro; è terreno di conquista nei settori tradizionali; il nostro tasso di attività è fra i minori in Europa, mentre il tasso di disoccupazione è fra i più alti; abbiamo poche aziende di statura continentale e globale. Di quale politica economica abbiamo dunque bisogno?

Il successo nel lungo periodo di un paese, la sua capacità di creare ricchezza e lavoro, non dipende da un solo elemento. Prendere di mira solo il costo del lavoro, per esempio, risolve poco. Il successo duraturo deriva dalla presenza contemporanea di competitività e coesione sociale.

La competitività di un paese è sempre più funzione di elementi come infrastrutture, competenze, innovazione, flessibilità, stabilità e credibilità delle istituzioni, leggi e regole, fiscalità su investimenti, profitti, capitale e lavoro. È sulla base di questi fattori che le imprese decidono dove localizzare gli investimenti, creando così occupazione. Se l’Italia non si muoverà in questa direzione, non solo non attirerà investimenti, ma assisterà a una crescente delocalizzazione dei suoi impianti.

Per essere competitivi, è necessario essere concorrenziali al proprio interno. Sono ancora troppi i settori "protetti", da liberalizzare e aprire al mercato. Così si darà spazio a nuovi operatori e il paese riceverà veri benefici dalle nuove privatizzazioni, che altrimenti darebbero origine a pericolose posizioni dominanti o addirittura a monopoli privati.

Infine, va rivista la politica degli incentivi alle attività produttive. Lo Stato non può più effettuare trasferimenti "a pioggia". L’intervento pubblico deve dirigersi dove è davvero strategico: nelle infrastrutture, nella ricerca, nella qualificazione delle persone, nella corretta amministrazione.

Anche la coesione sociale ha un’importanza enorme. È un valore di cui il nostro paese dispone in misura maggiore di altri. Ed è anch’essa frutto di numerosi fattori, culturali e sociali: partecipazione democratica e civile, sistema dei valori, solidità della famiglia, capacità di ridurre l’emarginazione, e altri ancora. Istruzione, sanità, previdenza, assistenza - ciò che chiamiamo Welfare State - ne sono componenti fondamentali.

Spesso facciamo l’errore di considerare tutti questi elementi come naturali, invece che conquiste della nostra civiltà. E come tali, da tutelare: cé infatti il rischio che sull’altare della globalizzazione larga parte di esse vada perduta. Bisogna innovare anche in questo campo, perché spendiamo male e i cittadini ricevono servizi inadeguati. Dobbiamo invece investire di più nel cosiddetto Welfare delle opportunità e nell’employability.

Dalla globalizzazione l’Italia, per la sua storia e per la sua struttura sociale ed economica, ha teoricamente più da guadagnare che da perdere. Perderemo questa opportunità solo se non sapremo rafforzare contemporaneamente competitività e coesione sociale.

Luigi Abete: Verso la globalizzazione, regionalizzazione e integrazione economica.

La mancanza di consequenzialità dei rapporti di causa-effetto tra gli eventi è un misunderstanding classico della cultura italiana, perché si confonde la precondizione con la politica economica. Si tratta in effetti di due fasi distinte. In questi anni si è fatta un’attività importante di risanamento perché questa era la precondizione per fare una politica economica in termini di sviluppo e in termini di allocazione libera delle risorse. In mancanza di questa condizione di base, la scelta di allocare le risorse era una scelta impossibile, un’utopia o un inganno.

Il problema vero è che nel passato c’era chi voleva passare alla fase due saltando la fase uno. Oggi l’approccio alla fase due è troppo generico, perché non ci si pone il problema di quali politiche fare per promuovere lo sviluppo: se lavorare su contesti di politica economica e di politica fiscale che incentivino un intervento orientato a determinati servizi, ovvero se bisogna lavorare su politiche più generali e, quindi, inevitabilmente più generiche, "a pioggia".

 Oggi la fase due viene interpretata e affrontata in termini di questo tipo: "ci sono tremila miliardi che sono venuti in sopravvenienza attiva rispetto al progetto di vendita della Telecom; dove li mettiamo? Chi li gestisce?".

Questa non è una scelta di politica economica, è una scelta, più o meno condivisibile, di potere. Bisogna essere meno pessimisti sul fatto che ci debba essere un pensiero unico. Non c’è il pensiero, se vogliamo usare questo termine, e perciò si confondono iniziative che sono del tutto estemporanee e legate a fattori contingenti.

Ciò detto, possiamo affermare che abbiamo oggi un sistema economico e sociale che va verso la globalizzazione, ma non siamo ancora in un processo che si può definire di globalizzazione. Siamo in un processo di regionalizzazione allargata, promosso dalla moneta unica europea che ha prodotto effetti sinergici con altre aree economiche con processi altalenanti.

In questo senso l’Europa è stata la prima a capire che questo processo si sarebbe messo in atto e lo ha materializzato negli accordi e poi nelle politiche di Maastricht. Si tratta di un processo di regionalizzazione nell’ambito di processi di integrazione economica aperti tra di loro e che quindi introducono elementi di globalizzazione.

La globalizzazione è la fase successiva del processo che nasce da questo fenomeno di regionalizzazione delle economie, che ha portato, comunque, elementi positivi. Non ci si può dimenticare, infatti, che questa fase, per quanto convulsa e per quanto contraddittoria in alcune sue manifestazioni, ha allargato le potenzialità di sviluppo ad aree che ne erano estranee, anche se ciò comporta alcuni rischi.

Una delle regole su cui si muove il processo di liberalizzazione dei mercati, e che legittima da un punto di vista morale questo fenomeno, riguarda il fatto che, nel lungo termine, questo processo introduce fattori all’interno dei paesi che non rispettano regole capaci di mettere in moto reazioni di riduzione del gap. Questi fenomeni, però, devono essere in qualche modo indirizzati.

A questo fine, certamente, non bastano le regole. Le regole sono una delle gambe su cui si reggono i processi di coesistenza di una società civile. Le altre due gambe sono i progetti e i comportamenti. Un tavolo deve avere almeno tre gambe, se ne manca una il tavolo non si regge. E le tre gambe devono essere equilibrate, quindi anche le regole non possono essere sempre le stesse.

 Le regole vanno adeguate ai processi; le regole servono per accompagnare il processo. Questo vale per i paesi occidentali, vale per i processi difficili, come può valere per situazioni che sono culturalmente ed economicamente del tutto diverse. Il problema è quello di individuare a livello di comunità internazionale come accompagnare i processi di liberalizzazione in modo tale che esplichino al massimo i loro effetti positivi.

Bisogna, infine, ricordare che in questo processo di globalizzazione tendenziale ci sono alcuni fatti nuovi importanti che fanno emergere valori prima sottovalutati. Si pensi, per esempio, all’impresa come comunità di interessi; paradossalmente la competizione più lunga valorizza le identità comuni anziché mettere in evidenza le differenze specifiche. La consapevolezza, poi, che la competizione obbliga tutti, il pubblico e il privato, a esser più efficienti genera una responsabilità diffusa, prima inesistente.

E infine, con il superamento di una visione statica della società, la destra e la sinistra sono due concetti che non esistono più: anche noi continuiamo ad usare queste parole perché non ne abbiamo ancora trovate altre più idonee al nuovo contesto di cambiamento. Oggi la globalizzazione apre tematiche del tutto diverse, per cui i punti di centralità nel governo della società si spostano e diventano di difficile valutazione.

Quali saranno allora le vere discriminanti nel lungo termine? Resteranno le tre grandi civiltà, quella occidentale, quella orientale e quella islamica.

Questo sarà, alla fine del percorso della globalizzazione, il vero problema che noi oggi vediamo solo sul piano micro: quanti sono gli emarginati in Italia, quanta gente fuori dalla società?

Se fra dieci o venti anni queste tre grandi culture non troveranno un modo per ri-colloquiare tra di loro, esse saranno tre paratie stagne che correranno il rischio di complicare i processi di vita comune e civile molto di più di quello che noi oggi immaginiamo.

Pierfranco Pellizzetti: Aprire una riflessione critica, senza toni "da stadio"

Si può costruire un approccio critico nei confronti della globalizzazione e non parlarne in una logica da tifosi allo stadio? Per mettere le mie carte in tavola parto dalla parafrasi di una pagina scritta dall’intellettuale che ha marcato i tre quinti di questo secolo con più forza; si tratta di John Keynes, il quale nel ‘25 faceva una conferenza dall’emblematico titolo "Perché sono liberale" in cui diceva: se dovessi stare da qualche parte io starei dalla parte della borghesia colta. Parafrasando Keynes, parlo stando dalla parte dei produttori.

 Una volta dichiarata la mia "parte", devo precisare altresì che dal mio punto di vista i produttori in materia di globalizzazione non hanno capito qual è il loro interesse rettamente inteso.

Nella globalizzazione ci sono degli aspetti di discontinuità e degli aspetti di continuità. Certamente un aspetto di discontinuità è la compressione della dimensione spazio-temporale che è avvenuta in questi anni a seguito di alcune importanti rivoluzioni: quella dei trasporti riduce le distanze fisiche e quella informatica riduce le distanze comunicazionali. Ma poi ci sono forti elementi di continuità, perché Braudel ci spiega che già dal XIV secolo l’occidente cerca di costruire uno spazio sistema mondo. Si potrebbe dire che a questo punto l’operazione si è conclusa e ha coperto l’ orbe terracqueo, ma la globalizzazione non è soltanto questo.

La globalizzazione è anche un’operazione ideologica che utilizza certi materiali, che produce un sottoprodotto che è stato chiamato con nome e cognome, il pensiero unico, ma che soprattutto è la copertura ideologica della crescente finanziarizzazione dell’economia.

La domanda da fare ai produttori e agli imprenditori è questa: in che misura il loro interesse rettamente inteso coincide con gli interessi della finanza? Quanto la logica degli imprenditori che ragionano sul medio-lungo periodo è sovrapponibile alla logica a breve, brevissimo della finanza?

È stato detto che la finanziarizzazione non determina tanto la compressione dei ceti medi, quanto la compressione dell’intera area centrale della società. È stato calcolato che negli ultimi venti anni, l’area centrale della società a livello mondiale è passata da un miliardo a oltre due miliardi di persone. Forti segnali ci dicono che questo fenomeno è in piena evoluzione contraria.

 Questo segnala l’interruzione del patto su cui si sono costituiti gli equilibri di questa seconda metà del secolo, cioè la promessa mantenuta di aumenti della capacità inclusiva del sistema.

Un’altra riflessione riguarda il problema del rapporto tra meccanismo economico e modello sociale. Adam Smith nel 1776, in quel talmud dei valori del mercato che è La ricchezza delle nazioni, sostiene che senza una base sottostante al mercato, che fuoriesce dalla sua logica, ma che soprattutto promuove valori di solidarietà e di socialità, il mercato stesso non funziona.

Queste rotture delle legature sociali portate avanti da un lato dalla compressione dell’area mediana della società e dall’altro dal prevalere degli interessi finanziari, in che misura sono interesse rettamente inteso degli imprenditori? Certamente può essere interesse della comunità cosmopolita della finanza, degli analisti simbolici, degli intermediari strategici; ma non credo che questo sia interesse rettamente inteso dei produttori in generale.

Il vero problema è che stanno saltando tutte le legature sociali, cioè sempre meno si fa società, sempre di più si stinge nella comunità. È un fenomeno regressivo. Il problema di fare società e costituire legature è un problema di tutto il mondo che ruota attorno alla produzione.

In passato due erano gli ambiti in cui si costituivano legature sociali: da una parte la politica, dall’altra il lavoro. Queste dimensioni in cui si fa società sono entrambe avvitate su sé stesse.

 Questo dipende dal passaggio dalla modernizzazione semplice a quella complessa; un fatto che pone una serie di sfide, facendo prevalere il relazionale sul meccanico e facendo crescere la riflessività sociale, per cui i vecchi modelli cibernetici input-output non tengono più. Le possibilità del superamento della crisi dei modelli organizzativi nel lavoro e nella politica hanno due vie di uscita. La prima consiste nel recuperare tutti i portati positivi della nuova modernizzazione complessa e quindi nell’aumentare il tasso di democrazia. Bisogna coinvolgere il lavoratore creando quelli che nella politica si definiscono i nuovi spazi di partecipazione, aprire nuovi canali democratici di coinvolgimento informale nella decisione pubblica.

L’altra via è quella di eliminare il problema organizzativo azzerando l’organizzazione ed eliminando il problema del lavoro rendendolo just in time, rendendo la politica autoreferenziale. La mia impressione è che stia prevalendo la seconda ipotesi a tutti i livelli, con grossi problemi involutivi.

In questo scenario in cui il lavoro e la politica stentano a riprodurre leganti sociali c’è una dimensione che dà segni di controtendenza: lo sviluppo dell’associazionismo.

 Per esempio, tutte le sedi della rete camerale stanno diventando luoghi dove si sta ridisegnando la rappresentanza; il mio rammarico è semmai la scarsa attitudine strategica nel primo soggetto dell’associazionismo economico, la Confindustria.

Una riflessione sempre di più critica e sempre meno da stadio ci farebbe capire che la triade che ha fornito il titolo a questa discussione, cioè Marché, Monnaie, Globalité, non ha certo la valenza positiva di quella ben più antica e ben più veneranda della Liberté, égalité, Fraternité, cioè le stelle polari della rivoluzione borghese.

Silvio Scaglia: Cambiare il rapporto tra capitale e impresa.

Che la globalizzazione dei mercati sia un fenomeno ormai in corso e che comporti una serie di grandi cambiamenti, sono fatti che bisogna accettare. E quando si vive un momento di cambiamento di tale portata è indispensabile ragionare in maniera radicale e porsi riferimenti molto precisi, anche correndo il rischio di essere scambiati per semplicisti.

La globalizzazione è un fenomeno che nasce dal mondo finanziario e che proprio da quest’ultimo riceve oggi il maggior impulso. Ebbene, grazie a questo momento di trasformazione, oggi possiamo vedere un’enorme opportunità: cambiare radicalmente il rapporto tra capitale e impresa.

In Italia il capitale è sempre stato considerato storicamente uno strumento di controllo di un’azienda. In un mercato globale ci si rende conto, giorno per giorno, che i soldi non sono tutti uguali: ci sono capitali che cercano il controllo delle aziende, e ci sono altri capitali che cercano rischi calcolati e ritorni attraenti, dimostrando meno interesse per il controllo delle società. Mentre nel mondo sono presenti in misura maggiore capitali di questo secondo tipo, il nostro paese ha vissuto una situazione diversa: a causa del forte indebitamento pubblico una grande percentuale del capitale si è indirizzata verso i titoli di Stato.

Oggi, approfittando del momento di trapasso verso la globalizzazione si può cambiare questa situazione, utilizzando i capitali che abbiamo definito del secondo tipo - cioè quelli che non sono interessati al controllo di un’azienda, ma alla rendita che il mercato può offrire - per alimentare lo sviluppo italiano immettendo considerevoli cifre sul mercato.

 Questo tranquillizzerebbe quelle voci preoccupate che temono che la globalizzazione dei mercati finanziari comporti il rischio di una fuga all’estero del risparmio italiano.

Cresce la paura che si investa all’estero, finendo per alimentare lo sviluppo in altri paesi senza creare opportunità di lavoro nel nostro. Ma questo può non essere vero e, al contrario di quanto temuto, può essere il nostro paese ad attrarre i capitali dal resto del mondo. Il finanziamento di Omnitel potrebbe diventare l’esempio da seguire e il primo caso di un piano sistematico di finanziamento delle imprese per il nostro paese.

Ma si può anche guardare, per esempio, alle privatizzazioni in un modo nuovo. Si può immaginare la prossima privatizzazione collocata sui mercati finanziari mondiali; e guardare con più fiducia all’operazione perché, se regolamentata da norme precise e condivise, darà buoni frutti: i mercati stessi potranno rispondere con convinzione e addirittura attribuire più valore alle aziende da privatizzare, oppure possono partecipare ad iniziative imprenditoriali, come è avvenuto in questi ultimi anni nel caso di Omnitel.

Per attrarre capitali che cercano ritorni sicuri e rischi controllati occorrono le regole. Regole che poi, fondamentalmente, si riassumono nella certezza della trasparenza. Perché chi vuole investire vuole avere una percezione chiara dei rischi che è necessario correre e delle opportunità che si possono cogliere. Dove trasparenza spesso vuol dire responsabilità diverse nella gestione dell’azienda: i manager distinti dagli imprenditori. I manager hanno maggiori doveri di rispetto della trasparenza, gestendo capitali che vengono impegnati da altri, dagli imprenditori.

E le regole sono necessarie anche allo sviluppo di una reale concorrenza tra manager. Concorrenza fra manager e concorrenza fra imprese come meccanismo che facilita il mercato, che lo lascia libero di agire. E che lascia liberi gli azionisti di dare il proprio voto di fiducia o di sfiducia nei confronti di una squadra di management, vendendo o comprando le azioni di una società. E quindi assicurando poi le risorse che servono a questa società.

L’operare a breve termine tipico di certa finanza, che tra l’altro viene così spesso demonizzato, può essere superato. Quanto più è lungo il periodo di fiducia che i mercati finanziari accordano a un’azienda, tanto più cresce la capacità della squadra di manager di essere trasparente negli impegni che prende e di essere credibile nella sua capacità di rispettarli. E, nello stesso tempo, chi è più credibile può più facilmente assumersi impegni a lungo termine.

Quanto più si consente agli investitori finanziari di abbandonare un progetto, quando necessario, limitando i danni e vendendo le proprie azioni, tanto più si offrono opportunità ad altri investitori di valorizzare l’azienda e sostenere a loro volta progetti a lungo termine.

Parlando di trasparenza del management, si parla intrinsecamente di trasparenza delle regole di corporate governance. Ma cè un altro importante tipo di trasparenza: quella dell’ambiente regolatore. È importante che le regole del paese in cui si investe siano certe. In Italia, per parlare di un settore che conosco bene, si è sofferto moltissimo dell’ambiguità normativa e dei ritardi di adeguamento legislativo in un mercato realmente competitivo come le telecomunicazioni.

Queste difficoltà pesano soprattutto sugli investitori internazionali che hanno scelto di investire in Italia oggi; difficoltà che rischiano di pesare sullo sviluppo non solo delle aziende, ma di tutto il paese.

Per finire, solo una nota sulle dimensioni delle opportunità che abbiamo di fronte: le quattro maggiori banche mondiali oggi gestiscono assets per cifre comparabili al prodotto interno lordo italiano. Omnitel è nata e si è sviluppata grazie a un investimento iniziale che, tra debito e capitale, si aggira intorno ai 4 mila miliardi di lire. Si è così creata un’azienda che direttamente e indirettamente oggi dà lavoro a 10 mila persone e sta crescendo continuamente.

Nei prossimi anni possiamo con un certo ottimismo ipotizzare di attrarre in Italia capitali nell’ordine di cento volte tanto. Tutto questo, se riusciamo a evolvere la nostra cultura nella giusta direzione: non serve combattere la globalizzazione perché comunque il paese ne verrebbe investito, ma è necessaria una trasformazione culturale che consenta di cogliere tutte le opportunità che la globalizzazione dei mercati ci offre.

Pietro Marzotto: La sfida della regolazione.

La globalizzazione è un fenomeno che interessa l’intero pianeta e tutte le sue popolazioni. Essa può giovare a riequilibrare verso l’alto i divari tra ricchi e poveri. Ma i processi di globalizzazione non sono scevri da rischi, come del resto dimostra la recente crisi in alcuni Paesi asiatici.

Ciò che deve essere pure chiaro è che ai processi di globalizzazione non ci si può sottrarre: piaccia o no, la globalizzazione, a seguito degli straordinari progressi fatti nel mondo della comunicazione in senso lato, è divenuta un ineluttabile fenomeno naturale che non si può evitare.

Una nazione, o anche un gruppo di nazioni, che volesse sottrarsi ai processi di globalizzazione sarebbero destinati, in un sistema chiuso, a impoverirsi inevitabilmente.

Mi pare che Pellizzetti abbia posto in modo giusto una problematica: come in tutti i grandi cambiamenti, come in tutte le grandi fasi turbolente, ci sono dei nodi da sciogliere.

De Benedetti nel suo saggio su MicroMega parla delle sfide poste dalla globalizzazione; tra queste include, e mi pare la più importante, quella della regolazione. Ovvero di come il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale, le autorità sovranazionali, sapranno dare delle regole. Perché il mercato è uno strumento straordinario, non rinunciabile, però il mercato va regolato. E regolare il "mercato globale" pone problemi nuovi.

Si chiedeva Pellizzetti in quale misura l’interesse dell’impresa coincide con quello della finanza. Ci sono tante imprese finanziarie il cui interesse risiede solo nella finanza. Per le imprese prevalentemente manifatturiere la finanza è invece strumentale alle attività progettuali, produttive e commerciali.

Pellizzetti nel suo articolo afferma che dovremmo preoccuparci molto della situazione degli Stati Uniti e intende dire che alla fine noi stiamo meglio, perché negli Stati Uniti c’è stato l’impoverimento di intere categorie. A me pare invece che è meglio avere degli occupati a livello di reddito più basso che dei disoccupati.

Questo riguarda l’Italia e gli italiani: quando si dice che al Sud abbiamo il 24% di disoccupazione, per fortuna è un dato gonfiato perché c’è il lavoro sommerso. Intendiamoci, non che io consideri il sommerso una cosa buona. Però come cittadino, se devo dire la verità, preferisco avere un milione di lavoratori sommersi piuttosto che un milione di disoccupati in più. E anche per loro penso che sia meglio.

Ben diversa è la situazione del lavoro nero del Nord, che è quello dei prepensionati, di coloro che simulano di essere part-time e invece lavorano a tempo pieno, degli straordinari fuori busta.

Lo Stato dovrebbe intervenire con un’energica azione per sopprimere queste illegalità, che sottraggono gettito contributivo e fiscale, creano concorrenza sleale, contribuiscono a mantenere su livelli terribilmente elevati la pressione fiscale e contributiva sui cittadini e sulle imprese oneste.

Ma nel Sud, dove peraltro si concentra la grande massa del lavoro nero, occorre capire, per usare gli opportuni strumenti di intervento, quanta parte di questi posti di lavoro irregolari verrebbe meno ove si verificasse una "emersione".

Può sembrare che tutto questo non c’entri niente con la globalizzazione, ma non è così. Poiché in un mercato globale, se esistono tra diverse aree alti divari nella produttività dei fattori, non può esserci lo stesso livello di salario e di welfare state.

Allora, noi Europei dovremo porci il quesito se possiamo competere nel villaggio globale con gli Stati Uniti e con il Giappone, essendo le nostre produzioni gravate da una pressione fiscale e contributiva assai più elevata della loro.

Abbiamo vantaggi di produttività dei fattori che giustificano tale situazione? No di certo, tutti gli indicatori lo dimostrano!

Non possiamo dunque sostenere una spesa pubblica dell’ordine del 48% sul P.I.L. e una pressione fiscale del 45% e confrontarci con grandi Paesi moderni, con modelli industrialmente avanzati, forti nella ricerca tecnologica e nell’innovazione di processi e prodotti, all’interno dei quali la pressione fiscale e contributiva è dell’ordine del 32-34% sul P.I.L.

Ecco quindi che in un mercato globale il primo problema europeo diventa quello di una revisione del welfare state.

Passera ha detto: noi abbiamo una forte coesione sociale, che è figlia del welfare state. Ma dobbiamo intenderci su questa espressione.

Consentire ai cittadini di 55 anni di andare in pensione è welfare state? Oppure fornire servizi pubblici, sia pure poco efficienti - penso alle ferrovie, alle poste, ecc. -, a prezzi fortemente inferiori ai costi o ai corrispondenti prezzi degli altri Paesi europei, è fare stato sociale? No.

Io credo che per progredire e competere nel mercato globale noi dobbiamo immettere sempre più competizione nel nostro mercato, anche nelle componenti che finora non sono state esposte alla concorrenza.

Forte moderazione salariale, ma aumento del potere d’acquisto determinato dai benefici effetti della competizione, scuola e formazione efficienti, stimoli all’innovazione, uscita dello Stato dall’economia, competizione, competizione, competizione... Queste sono le regole per progredire in un mercato globale.

 

 

 

I neoconservatori insegnano

alla Germania il vero significato

della "resa incondizionata."

 Unz.com - RICHARD SOLOMON - (25 OTTOBRE 2022) – ci dice:

 

Gli ex partner dell'Asse, Germania e Giappone, si sono alleati di nuovo, questa volta come manichini da crash test dello stato vassallo per l'Impero anglo-sionista degli Stati Uniti.

Dopo le schiaccianti sconfitte della WW2, entrambe le nazioni accettarono la resa incondizionata. La nuova superpotenza vittoriosa America era misericordiosa, se non altro per i suoi interessi.

 Che l'America ha fatto la fine dell'hula hoop.

 Secondo la dottrina neocon, la resa incondizionata significa che la Germania viene trasformata in una ciambella gigante. Nessun gemito di piacere da parte del popolo tedesco, solo un rantolo di morte collettivo.

Il Piano Marshall ricostruì la Germania Ovest in una pacifica e prospera potenza industriale, e sotto il cripto-imperatore generale Douglas MacArthur, il Giappone fu riorganizzato come un'elegante asta del pistone per il motore capitalista globale. The American Way era "la via" e per un po' sembrò che potesse essere vero. La dura realtà ha dimostrato il contrario.

Per la cronaca, ho finito il capitalismo. Portare avanti l'economia post-scarsità di Star Trek. Attaccare le persone su tapis roulant da corsa dei topi con banconote da un dollaro su ami da pesca che penzolano davanti al loro naso sembra uno spreco di potenziale umano. Inoltre, voglio la mia cameriera robot Jetsons gratuita.

Torniamo alla carne. Le culture tradizionali tedesca e giapponese contengono molte somiglianze. Entrambi rispettano l'eccellente maestria, come esemplificato dalla Mercedes Benz d'epoca e dalla spada samurai finemente forgiata. Il codice d'onore ha un alto valore. Rimuovi le trappole esterne e il cavaliere teutonico è il guerriero samurai. E per entrambi i popoli, "il prezzo è il prezzo" - nessuna contrattazione, stampa fine o costi nascosti. Tutti questi tratti sono ostili ai parassiti della finanza globale.

Poiché la Germania è la prima a sacrificarsi sull'altare del sionismo Rothschild, ne farò il fulcro di questo articolo.

Come in un episodio invertito di "Schindler's List" di Twilight Zone, il popolo tedesco marcia come pecore verso la sua destinazione finale.

Il partito dei Verdi tedesco ha tagliato i legami energetici vitali con la Russia a scapito del Volk. La demolizione subacquea da parte dei neoconservatori dell'oleodotto Nord Stream 2 ha reso distrutto  il ponte di legno del riavvicinamento russo-tedesco. Questo atto di audace sabotaggio ha anche creato un disastro ambientale nel Mar Baltico. I Verdi "rispettosi dell'ambiente" erano seduti Shiva per tutti i pesci morti?

Sembra che i globalisti intendano congelare e deindustrializzare la Germania in un buco infernale del Medioevo. O forse è un genocidio. Se è così, non è sorprendente. I sionisti Rothschild se la cavano con il “revenge porn” "Olocausto".

Dal momento che questo è un argomento delicato, penso che sia bene affermare che non includo ebrei creativi giusti, piccoli o belli con i sionisti Rothschild. Dal mio punto di vista, il razzismo irrazionale è l'epitome dell'ignoranza. Per quanto mi riguarda, mi identifico come ebreo ebreo israelita o ebreo, e accetto k!ke (per compassione per le vittime arrabbiate del PTSD indotto dai sionisti Rothschild). Elabora i dati come meglio credi. Disclaimer e divulgazioni a parte, procediamo.

 

Poiché i neoconservatori sionisti Rothschild gestiscono la politica estera degli Stati Uniti, il motivo della vendetta "Olocausto" dietro la distruzione della Germania deve essere affrontato.

Non è l'unico fattore, e potrebbe non essere il più grande, ma è certamente rilevante. È come quando una donna avvelena suo marito. La sua polizza di assicurazione sulla vita potrebbe essere stata la motivazione principale, ma odiava anche il bastardo a due tempi.

Ai tedeschi è stato inculcato il senso di colpa della WW2 fino al punto di auto-immolarsi. Proibito dalla legge di impegnarsi in un'analisi storica onesta, molti tedeschi accettarono l'immagine di sé creata dalla zio-crazia di Hollywood: "Come zombie impazziti pieni di sali da bagno, i tedeschi saltarono fuori e strapparono le facce agli ebrei senza motivo". Milioni di ebrei innocenti hanno sofferto sotto il nazismo, ma il letale fiore di Hitler non avrebbe mai potuto sbocciare senza il fertilizzante sionista Rothschild.

Gelosi del successo industriale tedesco unito a migliori benefici per i lavoratori, i banchieri della City di Londra e i loro amici industriali britannici intrappolarono la Germania nella prima guerra mondiale.

Un po' come i neoconservatori che spingono il presidente Putin a invadere l'Ucraina cercando di trasformarla in un silo di missili nucleari della NATO e in un impianto di armi biologiche.

Dopo che la Germania fu risucchiata in un pantano da incubo, i Rothschild tagliarono i finanziamenti tedeschi alla guerra quando la Gran Bretagna accettò di contribuire a creare lo stato israeliano (Dichiarazione Balfour).

Dopo la sconfitta della Germania, i finanzieri internazionali come i Warburg spazzarono via le pensioni tedesche e i risparmi di una vita. Il Trattato di Versailles fu un accaparramento di ricchezza per le riparazioni dei banchieri.

Durante la Repubblica di Weimar, gli affamati trasportavano carriole di marchi tedeschi fino alla panetteria per comprare una pagnotta di pane.

Piccoli ebrei innocenti l'hanno ottenuto da entrambe le parti, prima come vittime del saccheggio economico dei Rothschild, e poi come bersagli della rabbia tedesca. Nessun Rothschild è mai stato mandato in un campo di concentramento.

I finanzieri ebrei internazionali e i loro associati anglosassoni di Wall Street (ad esempio Prescott Bush) finanziarono pesantemente i nazisti, come documentato nel libro del professor Antony Sutton, "Wall Street and the Rise of Hitler". I membri della famiglia Warburg sedevano nel consiglio di amministrazione della fabbrica di lavoro degli schiavi di Auschwitz della IG Farben. Se un insegnante di tedesco lo includesse nel suo programma di lezioni, si sveglierebbe nelle viscere di un carcere di massima sicurezza. L'educatore americano ce l'ha di meglio: verrebbe solo licenziato e bandito a vita.

Che fortuna che l'imprenditore tecnologico, attivista per la libertà di parola, editore e giornalista Ron Unz fornisca uno spazio sacro per la libertà di parola per discutere apertamente di idee. La libertà di parola è parte integrante del Tao della Carta dei Diritti. Dal mio punto di vista, Ron Unz è un patriota taologo americano.

Tuttavia, nessuna libertà di parola è consentita negli studi sull'"Olocausto". L'"Olocausto" è un grande affare per i sionisti Rothschild.

Hanno trasformato i crematori in forni fusori d'oro, come da libro del professor Norman Finklestein, "L'industria dell'Olocausto".

Dal momento che tutti i vecchi nazisti sono morti, i sionisti Rothschild devono dare la caccia ai contabili e alle segretarie di Auschwitz novantenni e appenderli ai ganci da carne per far girare il treno dei soldi.

 È rivoltante, come guardare un pazzo strappare un bambino da una carrozza e gettarlo nel traffico di mezzogiorno.

Il modo in cui una nazione tratta i suoi bambini e anziani rivela molto. I semi della ribellione dovrebbero essere piantati nella mente del tedesco che assiste a questo grottesco spettacolo di omicidio rituale degli anziani.

Ogni tedesco che applaude in silenzio questa farsa deve indossare un vestito e una parrucca e vendere il suo sulla Kurfürstenstraße.

Nessuna mancanza di rispetto per le comunità gay e trans, i lavoratori del sesso o i cross-dresser. (Ciò che gli adulti consenzienti fanno nella loro vita personale sono affari loro. Basta non coinvolgere i bambini.)

In un certo senso scuso le atrocità naziste contro piccoli ebrei innocenti. I nazisti uccisero la sorella di Kafka. Nella vera scissione mentale schizoide, i principali nazisti come Hitler, Goebbels e Göring avevano stretti rapporti con gli ebrei nelle loro vite personali.

Ipotizzerei che Hitler soffrì di un conflitto interiore con la sua soluzione alla questione ebraica, ma decise che per eliminare l'ebraismo internazionale, aveva bisogno di muovere guerra a tutti gli ebrei.

Penso che la storia abbia dimostrato che questo approccio "il fine giustifica i mezzi" non era corretto.

Se Hitler avesse preso l'Ayahuasca con una guida di viaggio sciamano della foresta pluviale, invece dei cocktail iniettabili di cocaina-anfetamina-B12 del Dr. "Feelgood" Morell, forse gli eventi si sarebbero svolti diversamente.

 

Sto scherzando, ovviamente, beh, mezzo scherzo. Inciampare Hitler contro Hitler speed-freak rende interessante un interessante "what if" storico. I funghi magici crescono nella Foresta Nera tedesca?

Se Hitler avesse guardato il cielo notturno, avrebbe visto una gigantesca svastica in fiamme ruotare in senso orario?

Avrebbe rivelato che il tempo del dominio occidentale stava volgendo al termine, e una forza vitale proveniente dall'Oriente si stava preparando per il suo turno sulla ruota cosmica?

Forse avrebbe visto le svastiche in senso orario e antiorario ruotare fianco a fianco, e renderle lo yin yang ariano, non come simbolo di violenza, ma di equilibrio e armonia.

 Hitler invertì la svastica e creò il caos di massa.

In un caso di dissonanza cognitiva alimentata dai jet, i nazisti si lamentarono di circa cinquecentomila ebrei all'interno dei loro confini, ma invadendo la Russia, finirono per governare su milioni di ebrei.

 L'Operazione Barbarossa ha alimentato milioni di uomini migliori della Germania e della Russia nel tritacarne del fronte orientale. Non credo che nessuna delle due nazioni si sia mai completamente ripresa. (La Russia è sempre stata l'obiettivo principale di Hitler: Lebensraum, petrolio, cibo).

Parlando della Russia, una grande ragione per cui i neoconservatori vogliono portare una mazza da baseball alla colonna vertebrale della Germania è impedire a entrambi i paesi di formare un legame energetico.

Uno dei principali istigatori dietro la prima guerra mondiale fu il piano del Kaiser di costruire la ferrovia Berlino-Baghdad. che era una sorta di gasdotto energetico nascente.

Gli Alleati hanno infranto quel sogno.

Un po' come l'interruzione del Nord Stream 2. Come disse Mark Twain, "La storia non si ripete, ma spesso fa rima". Come dividendo aggiuntivo, una Russia e una Germania estraniate rendono ogni paese più suscettibile al saccheggio dei banchieri.

Un altro strumento di destabilizzazione usato dai globalisti contro la Germania è stata l'immigrazione armata.

Le guerre neocon post-9/11 hanno inondato la Germania di milioni di rifugiati mediorientali e nordafricani.

Questo era il piano sionista dei Rothschild. Una società omogenea è meglio equipaggiata per resistere al dominio straniero rispetto a una multiculturale.

Alcuni nella destra reazionaria odiano i rifugiati di guerra. Questo costituisce razzismo irrazionale. La Germania è un membro della NATO. Se tu (attraverso le politiche del tuo governo) bruci la casa di un uomo, non puoi arrabbiarti quando si presenta alla tua porta in cerca di un posto dove schiantarsi. Dal mio punto di vista, qualsiasi soluzione alla crisi europea dell'immigrazione deve incorporare la legge karmica e i principi del Tao.

La Germania è tedesca, proprio come l'Etiopia è etiope. La linea di sangue tribale germanica emerse dalla nebbia primordiale. Questo non vuol dire che la Germania non possa concedere a uno straniero lo status di residente permanente con pieni diritti e benefici sociali, ma quella persona non sarà "tedesca".

Forse i suoi figli lo faranno se si collega con una donna tedesca. Un raro caso di uno straniero che diventa "tedesco" potrebbe essere come quando i nativi americani o altri popoli indigeni adottarono un uomo bianco nella tribù dopo aver determinato che operava sulla frequenza filosofica e spirituale della tribù.

Nella vera ipocrisia satanica, i sionisti Rothschild strillano sulla diversità, ma sostengono le leggi razziali del 1935 tipo Norimberga per Israele.

Preferisco vivere in una comunità multiculturale. Imparo molto da persone di diverse culture, religioni, credo, razze, generi e orientamenti. Capisco anche che alcune persone vogliono vivere in una comunità culturalmente omogenea. Il "diritto di libera associazione" di Pierre-Joseph Proudhon (padrino dell'anarchismo politico) risolve questo problema magnificamente e pacificamente.

Salvare il grande papà grand poobah per ultimo: qual è la ragione principale dietro il complotto anti-tedesco dei neocon? Cina.

Immagina l'ingegneria, l'artigianato e l'ingegno scientifico tedeschi collegati alla Belt and Road Initiative cinese. La politica cinese di cooperazione win-win andrebbe di grande beneficio per entrambi i paesi e fornirebbe al resto del mondo incredibili doni tecnologici e culturali. Prima dell'assalto neocon alla Germania, stava accadendo.

Sotto la pressione degli Stati Uniti, i politici tedeschi abbandonarono la via dei fiori di loto verso la salvezza e si voltarono pedissequamente sulla strada neocon verso l'inferno. Per comprendere la follia del governo tedesco, guardate come hanno fornito a Israele sottomarini Dolphin che ospitano testate nucleari israeliane.

La classe politica tedesca è una bambola suicida?

Se l'opzione Sansone verrà mai implementata, Berlino, Monaco e Francoforte sono i primi obiettivi della hit parade delle nuvole di funghi.

Come nota a margine, mentre mi oppongo all'Israele sionista Rothschild, non ho nulla contro l'insegnante di matematica o il tassista israeliano delle scuole superiori.

Proprio come non ho nulla contro l'insegnante di matematica palestinese o il tassista. Se l'arbitro disonesto dell'America sionista Rothschild fosse sostituito da un arbitro neutrale della Cina, forse israeliani e palestinesi potrebbero raggiungere un accordo di pace.

 Ritirare gli agenti del Mossad dalle nazioni straniere e dare ai palestinesi pieni diritti civili, e Israele-Palestina (l'idea del leader libico Muammar Gheddafi - peccato che i neoconservatori lo abbiano ucciso) si unirà alla bellissima iniziativa cinese Belt and Road.

Forse la Cina potrebbe persino convincere Israele a smantellare le sue armi nucleari, creando una vera "zona libera dal nucleare" in Medio Oriente. Sotto la guida della Cina, trattati come SALT II potrebbero essere resuscitati per rimuovere tutte le armi nucleari dal pianeta Terra.

Perché sostengo la Cina per il ruolo di principale influencer globale? In primo luogo, penso che una pacifica Repubblica degli Stati Uniti che rimanesse all'interno dei suoi confini territoriali potrebbe coesistere in bella armonia con la Cina. In secondo luogo, dal mio punto di vista, il presidente Xi e la Cina sono pro-Tao. Cosa intendo per Tao? Il Tao è inspiegabile. Posso fornire esempi.

Pro-Tao è quando la Cina costruisce reti ferroviarie ad alta velocità, aumenta il tenore di vita dei suoi cittadini e si astiene dall'invadere paesi stranieri (FYI- Taiwan fa parte della Cina).

L'anti-Tao è quando gli Stati Uniti privatizzano i servizi pubblici per creare l'avvelenamento di massa dell'acqua di Flint e i blackout Enron, impoveriscono i suoi cittadini e usano missili Hellfire lanciati da droni per trasformare donne e bambini innocenti in nebbia di carne per gli aumenti dei prezzi delle azioni Raytheon.

Il seguace del Tao esegue contorsioni acrobatiche per evitare conflitti. Porta la guerra santa a lui, e diventa un mutha a pugno di serpente chiuso che oscilla il tubo.

La Cina è educata. La Cina cerca di evitare il conflitto. Tuttavia, se il Pentagono continua a colpire il Drago, i neoconservatori impareranno: la Cina è un cattivo Mutha.

Se il bel popolo tedesco vuole sopravvivere, dovrebbe: attingere al loro visigoto interiore (dov'è Aleric quando hai bisogno di lui?). Brucia la loro carta della morte della NATO. Riprendi le relazioni con la Russia. Collegati con la Cina.

La Germania deve seguire il suo Tao. Il sionismo Rothschild è anti-Tao. "Resa incondizionata" ai neoconservatori significa distruzione spirituale e fisica per i tedeschi.

È così semplice.

 

 

 

"Speed ​​of Science" - Uno scandalo

oltre il tuo incubo più selvaggio.

 Globalresearch.ca - Dott. Giuseppe Mercola - (24 ottobre 2022) – ci dice:

La premessa alla base dei mandati di vaccinazione COVID e dei passaporti dei vaccini era che sparando, avresti protetto gli altri, poiché avrebbe impedito l'infezione e la diffusione di COVID-19.

All'inizio di ottobre 2022, durante un'audizione COVID al Parlamento europeo, il membro olandese Rob Roos ha interrogato la presidente di Pfizer dei mercati sviluppati internazionali, Janine Small, sul fatto che Pfizer avesse effettivamente testato e confermato che il loro jab mRNA avrebbe impedito la trasmissione prima del suo lancio.

Small ha ammesso che la Pfizer non ha mai testato se il loro jab avrebbe impedito la trasmissione perché dovevano "muoversi alla velocità della scienza per capire cosa sta succedendo sul mercato ... e dovevamo fare tutto a rischio".

Sappiamo da oltre due anni che i colpi non sono mai stati testati per l'interruzione della trasmissione. Nell'ottobre 2020, Peter Doshi, editore associato di The BMJ, ha evidenziato che gli studi non erano progettati per rivelare se i vaccini avrebbero impedito la trasmissione. Eppure tutti nel governo e nei media hanno insistito sul fatto che avrebbero fatto proprio questo.

Non si trattava mai di scienza o protezione degli altri. Si trattava sempre di seguire una narrativa predeterminata che cercava di portare la tecnologia sperimentale dell'mRNA nel maggior numero possibile di persone.

Il 9 febbraio 2021 ho pubblicato un articolo che chiariva le definizioni mediche e legali di "vaccino".

Nell'articolo, ho notato che i jab di mRNA COVID-19 non soddisfacevano queste definizioni, in parte perché non prevengono l'infezione o la diffusione. In realtà, sono terapie geniche sperimentali. Nel luglio di quell'anno, il New York Times ha pubblicato un articolo di successo su di me citando quell'articolo del 9 febbraio:

“L'articolo apparso online il 9 febbraio è iniziato con una domanda apparentemente innocua sulla definizione legale dei vaccini. Quindi, nelle successive 3.400 parole, ha dichiarato che i vaccini contro il coronavirus erano "una frode medica" e ha affermato che le iniezioni non prevengono le infezioni, forniscono immunità o arrestano la trasmissione della malattia.

Invece, affermava l'articolo, gli scatti "alterano il tuo codice genetico, trasformandoti in una fabbrica di proteine ​​virali che non ha un interruttore di spegnimento". Le sue affermazioni erano facilmente confutabili…”

Pfizer si è mossa "alla velocità della scienza"

Avanti veloce all'inizio di ottobre 2022 e le mie affermazioni sono state ufficialmente confermate durante un'audizione COVID al Parlamento europeo. Il membro olandese Rob Roos ha interrogato il presidente dei mercati sviluppati internazionali di Pfizer, Janine Small, sul fatto che Pfizer avesse effettivamente testato e confermato che il loro jab di mRNA avrebbe impedito la trasmissione prima del suo lancio.

 

Come notato da Roos, l'intera premessa dietro i mandati di vaccinazione COVID e i passaporti per i vaccini era che sparando, avresti protetto gli altri, poiché avrebbe impedito l'infezione e la diffusione di COVID-19. Piccolo ha risposto:

"No. Abbiamo dovuto muoverci davvero alla velocità della scienza per capire cosa sta succedendo nel mercato... e abbiamo dovuto fare tutto a rischio".

Ciò significa che il passaporto COVID era basato su una grande bugia. L'unico scopo del passaporto COVID: costringere le persone a vaccinarsi. Lo trovo scioccante, persino criminale.  Rob Roos, eurodeputato.

Nel video qui sotto, il biologo e insegnante di infermiere John Campbell, Ph.D., esamina questo crescente scandalo. Sottolinea che i funzionari del governo del Regno Unito hanno assicurato con enfasi al pubblico che tutto ciò che normalmente veniva fatto negli studi clinici per un vaccino era stato fatto per i colpi di COVID. Ora ci è stato detto che dopotutto non era così.

La domanda è perché? Secondo Small, queste prove di base non sono state eseguite perché "dovevano muoversi alla velocità della scienza". Ma cosa significa? Come notato da Campbell, queste sono "solo parole senza significato". È una totale sciocchezza.

Inoltre, cosa significa “fare tutto a rischio”? Campbell ammette di non avere idea di cosa significhi. Nemmeno io, ma se dovessi azzardare un'ipotesi, suppongo che significhi che hanno saltato consapevolmente alcuni test anche se conoscevano i rischi di farlo.

Governo e media hanno promulgato una palese bugia.

Negli ultimi tre anni, i media mainstream hanno promulgato la menzogna secondo cui i colpi di COVID preverranno l'infezione e la trasmissione, dicendoci che chiunque non ottenga il colpo è nel migliore dei casi egoista e, nel peggiore dei casi, un potenziale assassino in generale. Chiunque rifiuti rappresenta una seria minaccia biomedica per la società, da qui la necessità di mano pesante.

Ahimè, era tutta una bugia dall'inizio. La parte frustrante è che SAPPIAMO da oltre due anni che le riprese non sono mai state testate per l'interruzione della trasmissione, eppure tutti nel governo e nei media hanno insistito sul fatto che avrebbero fatto proprio questo.

Nell'ottobre 2020, Peter Doshi, editore associato di The BMJ, ha evidenziato il fatto che le prove non erano progettate per rivelare se i vaccini avrebbero impedito la trasmissione, il che è fondamentale se si vuole porre fine alla pandemia. Ha scritto:

“Nessuna delle prove attualmente in corso è progettata per rilevare una riduzione di eventuali esiti gravi come ricoveri ospedalieri, uso di terapia intensiva o decessi. Né i vaccini sono allo studio per determinare se possono interrompere la trasmissione del virus”.

Quindi, al più tardi entro ottobre 2020, era chiaro che non erano stati condotti studi per determinare se i colpi impedissero effettivamente la trasmissione, il che è un prerequisito per affermare che salverai la vita ad altri se lo prendi.

A quel punto, Moderna aveva anche ammesso che non stavano testando la capacità del suo jab di prevenire l'infezione. Tal Zaks, direttore medico di Moderna, ha affermato che questo tipo di sperimentazione richiederebbe il test dei volontari due volte a settimana per lunghi periodi di tempo, una strategia che ha definito "operativamente insostenibile".

Quindi, né Pfizer né Moderna avevano idea se i loro scatti COVID avrebbero impedito la trasmissione o la diffusione, poiché non è mai stato testato, ma con l'aiuto di funzionari governativi e media, hanno portato il pubblico a credere che l'avrebbero fatto.

Di seguito è riportato solo un esempio in cui Pfizer ha chiaramente offuscato la verità.  Se l'interruzione della trasmissione era la loro "priorità massima", perché non hanno testato e confermato che il loro tiro stava raggiungendo questa priorità?

Allo stesso modo, in un'intervista israeliana 7 (sotto), Bourla ha affermato che "l'efficacia del nostro vaccino nei bambini è dell'80%". Il giornalista gli ha chiesto di chiarire: "Stai parlando di efficacia per prevenire malattie gravi o per prevenire infezioni?" e Bourla rispose: "Per prevenire l'infezione". Come potrebbe dire che quando la prevenzione dell'infezione non è mai stata testata? Non è una prova di frode, ripresa dalla telecamera?

I colpi di COVID sono stati commercializzati in modo fraudolento.

Come ho affermato a febbraio 2021, i colpi sono una frode medica. Un vero vaccino previene l'infezione; I colpi di COVID no. Quindi, sono stati anche commercializzati in modo fraudolento. I governi di tutto il mondo hanno consentito questa frode di marketing e i media l'hanno promulgata.

Come risultato dell'obbligo di vaccinazioni contro il COVID e passaporti per i vaccini sulla base di una palese bugia, milioni di persone hanno subito danni potenzialmente permanenti e/o sono morti. Milioni di persone hanno anche perso il lavoro, perso la carriera e perso opportunità educative. Tutto questo è successo perché NON abbiamo seguito la scienza.

Sono stati ammessi enormi conflitti di interesse.

Perché le agenzie governative hanno accettato quella che era, per chiunque avesse un microgrammo di capacità di pensiero critico, un'apparente frode? Probabilmente, perché ci stanno dentro. Come riportato dal giornalista investigativo Paul Thacker, la stessa società di pubbliche relazioni che serve Moderna e Pfizer collabora anche con il team della Division of Viral Diseases dei Centers for Disease Control and Prevention degli Stati Uniti.

“All'inizio del mese scorso [settembre 2022], il direttore del CDC Rochelle P. Walensky ha approvato le raccomandazioni del Comitato consultivo del CDC sulle pratiche di immunizzazione (ACIP) per i booster COVID-19 aggiornati di Pfizer-BioNTech e Moderna.

"Questa raccomandazione ha fatto seguito a una valutazione scientifica completa ea una solida discussione scientifica", ha affermato il dott. Walensky in una dichiarazione. "Se sei idoneo, non c'è un brutto momento per ottenere il tuo booster COVID-19 e ti incoraggio vivamente a riceverlo" ...

[La] società di pubbliche relazioni Weber Shandwick, che ha rappresentato a lungo Pfizer e altre società farmaceutiche e ha iniziato a fornire supporto per le pubbliche relazioni a Moderna nel 2020.

In uno strano caso di sincronicità - e siamo onesti, un soffio di influenza indebita - i dipendenti di Weber Shandwick sono anche incorporati presso il Centro nazionale per l'immunizzazione e le malattie respiratorie (NCIRD) del CDC, il gruppo CDC che implementa i programmi di vaccinazione e sovrintende al lavoro di ACIP [Comitato consultivo del CDC sulle pratiche di immunizzazione] …

Il CDC si è rifiutato di rispondere alle domande che spiegano questo apparente conflitto ... "[È] irresponsabile da parte del CDC rilasciare un contratto di pubbliche relazioni a Weber Shandwick, sapendo che l'azienda lavora anche per Moderna e Pfizer", ha inviato un'e-mail a Craig Holman di Public Citizen. "Solleva domande legittime su quali interessi metterà al primo posto Weber Shandwick: i loro clienti del settore privato o l'interesse del pubblico all'NCIRD."

Per inciso, Weber Shandwick è stato scoperto nel 2016 per aver scritto uno studio sui farmaci per la Forest Pharmaceuticals, un'altra pratica non etica che ha minato le basi della scienza medica per decenni.

Una società di pubbliche relazioni, un messaggio coerente.

Le responsabilità di Weber Shandwick presso il CDC includono, ma non sono limitate a, "generare idee per storie, distribuire articoli e condurre contatti con organizzazioni di notizie, media e intrattenimento" per aumentare i tassi di vaccinazione.  La società fornisce servizi simili a Moderna.

Ad esempio, ha contribuito a generare 7.000 articoli di notizie a livello internazionale dopo che Moderna ha richiesto l'autorizzazione all'uso di emergenza (EUA) per il suo jab.

Nel giugno 2022, Moderna ha annunciato che un "team interdisciplinare che attinge al talento e all'esperienza di Weber Shandwick" avrebbe "guidato la narrativa del marchio a livello globale" e "supportato Moderna nell'attivare e coinvolgere il pubblico chiave interno ed esterno, inclusi dipendenti, consumatori, salute operatori sanitari, destinatari di vaccini e responsabili politici”.

Considerando che i principali produttori di jab COVID hanno la stessa società di pubbliche relazioni del CDC, c'è da meravigliarsi se la messaggistica è stata così costantemente unilaterale? Come notato da Doshi in una recente intervista alla televisione tedesca, 11 media mainstream hanno costantemente ignorato i dati jab COVID e "non hanno fatto un buon lavoro nel fornire una copertura equilibrata" sulle riprese.

"Non stiamo ottenendo le informazioni di cui abbiamo bisogno per fare scelte migliori e per avere una comprensione più informata di rischi e benefici", ha detto all'intervistatore, aggiungendo:

È stato un vero peccato che fin dall'inizio quello che ci è stato presentato dai funzionari della sanità pubblica fosse un quadro di grande certezza... ma la realtà era che c'erano incognite estremamente importanti.

Siamo entrati in una situazione in cui essenzialmente la posta in gioco è diventata troppo alta per presentare successivamente quell'incertezza alle persone. Penso che sia questo che ci ha fatto partire con il piede sbagliato. I funzionari pubblici avrebbero dovuto essere molto più schietti riguardo alle lacune nelle nostre conoscenze".

La rianalisi dei dati di prova conferma i pericoli del colpo di COVID.

Alla fine di settembre 2022, Doshi ha pubblicato un'analisi rischio-beneficio incentrata sugli eventi avversi gravi osservati negli studi COVID di Pfizer e Moderna. La rianalisi dei dati ha mostrato che 1 su 800 che si fa vaccinare COVID subisce un grave infortunio. Come dettagliato nell'articolo di Doshi:

“I vaccini Pfizer e Moderna mRNA COVID-19 erano associati a un rischio eccessivo di eventi avversi gravi di particolare interesse di 10,1 e 15,1 per 10.000 vaccinati rispetto ai valori di base del placebo rispettivamente di 17,6 e 42,2.

Combinati, i vaccini mRNA erano associati a un eccesso di rischio di eventi avversi gravi di particolare interesse di 12,5 per 10.000 vaccinati; rapporto di rischio 1,43.

Lo studio Pfizer ha mostrato un rischio maggiore del 36 % di eventi avversi gravi nel gruppo vaccinato... Lo studio Moderna ha mostrato un rischio maggiore del 6 % di eventi avversi gravi nel gruppo vaccinato... Combinato, c'era un rischio maggiore del 16 % di eventi avversi gravi nel gruppo vaccinato Destinatari del vaccino mRNA…”

Doshi e i suoi coautori hanno anche concluso che l'aumento degli eventi avversi causati dai colpi ha superato la riduzione del rischio di essere ricoverato in ospedale con COVID-19. Insomma, insomma, i colpi conferiscono più male che bene.

Il senatore Rand Paul promette indagine.

Un portavoce del senatore Rand Paul, R-Ky., ha risposto a un'indagine di Thacker affermando: "Il fatto che CDC avesse un contratto con la stessa società di pubbliche relazioni che rappresentava i produttori del vaccino COVID-19 solleva serie preoccupazioni", aggiungendo che "questi conflitti di interesse saranno indagati a fondo" dalla commissione del Senato per la salute, l'istruzione, il lavoro e le pensioni (HELP) - che sovrintende al CDC - l'anno prossimo.

Dopo il midterm di novembre, Paul sarà il prossimo in linea come il massimo repubblicano in questo comitato. Vale la pena notare che, come minimo, questo tipo di conflitto di interessi avrebbe dovuto essere divulgato da entrambe le parti. Nella migliore delle ipotesi, avrebbe dovuto essere evitato del tutto. Il CDC non ha fatto nessuno dei due. Non ha rivelato il suo rapporto con l'azienda di pubbliche relazioni e non ha impedito in primo luogo lo sviluppo del conflitto di interessi.

In cosa consisteva il COVID Jab Push All About?

Il risultato razionale di tutto questo è che la massiccia spinta a iniettare nella popolazione globale questi colpi sperimentali non ha mai riguardato il seguire la scienza e la protezione degli altri.

Si trattava sempre di promuovere una narrativa falsa e inventata progettata per consentire l'attuazione di una direttiva dall'alto verso il basso per iniettare in ogni persona sul pianeta una nuova tecnologia mRNA. Questo, a sua volta, solleva due questioni centrali:

Chi è in cima? — Non lo sappiamo ancora. Tutto ciò che possiamo dire con certezza è che hanno un'influenza molto potente e globale, abbastanza potente che i funzionari del governo hanno mentito e sacrificato volontariamente le proprie popolazioni in un esperimento medico incredibilmente rischioso.

Perché iniettare a tutti la tecnologia mRNA è così importante per i decisori anonimi? — Ancora una volta, non lo sappiamo, ma è abbastanza chiaro che c'è una ragione per questo, che dovrebbe realizzare qualcosa.

Come dettagliato negli articoli precedenti, l'unico motivo razionale per cui il CDC sta consentendo l'EUA per il COVID jab per i bambini piccoli è perché stanno assistendo i produttori di farmaci nel loro sforzo di ottenere uno scudo di responsabilità inserendo i colpi nel programma di vaccinazione infantile.

ACIP è pronta ad aggiungere i vaccini COVID al programma di vaccinazione infantile da un giorno all'altro, e una volta nel programma dell'infanzia, i produttori di vaccini non saranno responsabili per le lesioni e le morti che si verificano a causa dei loro colpi, indipendentemente dal fatto che si verifichino nei bambini o negli adulti.

Inoltre, ricorda che anche se la Food and Drug Administration degli Stati Uniti ha concesso la piena approvazione allo scatto di Pfizer per il COVID di Comirnaty, Comirnaty non è mai stato rilasciato al pubblico. Il colpo alla Pfizer che viene dato è ancora sotto EUA.

Perché Comirnaty non è mai stato rilasciato? Probabilmente perché una volta che la sparatoria ha ottenuto la piena approvazione della FDA, la responsabilità entra in gioco. Sembra che stiano cercando di evitare la responsabilità facendo sparare all'EUA nel programma dell'infanzia prima che Comirnaty venga lanciato e inizi a ferire e uccidere le persone.

Ora, se sono preoccupati per la responsabilità, significa che sanno che il tiro è pericoloso. E se sanno che è pericoloso (come mostrano chiaramente tutti i dati disponibili), allora perché vogliono che ogni persona sul pianeta lo prenda?

Seguire questa linea di domande fino alla sua logica conclusione ci porta alla conclusione scioccante che, anche se non conosciamo i motivi, le ferite e le morti di questi colpi sono intenzionali.

Perché Big Pharma è disperata per far entrare COVID Jab nei bambini?

I produttori di vaccini continuano a diffondere bugie.

Nonostante l'ammissione inequivocabilmente chiara di Small secondo cui Pfizer non ha testato il suo vaccino contro il COVID per accertare se impedisce la trasmissione, il CEO di Pfizer non esita ancora a insinuare così tanto. Ecco cosa ha twittato il 12 ottobre 2022.  Non sta dicendo che il colpo è stato confermato per prevenire il COVID, ma insinua che lo fa dicendo che la FDA lo ha autorizzato per la prevenzione del COVID. Questo è anche noto come mentire per omissione.Nel frattempo, i cosiddetti fact checker stanno cercando di salvare la reputazione di Pfizer dicendo che la società non ha mai dichiarato che lo sparo avrebbe interrotto la trasmissione.

 Potrebbe essere così, ma funzionari governativi e media hanno affermato che avrebbe impedito sia l'infezione che la diffusione, e Pfizer non li ha mai corretti, anche se le persone venivano licenziate e ostracizzate dalla società per non aver preso il jab.

Se fossero stati davvero in bilico, i funzionari della Pfizer avrebbero chiarito che lo sparo non era stato testato per confermare che avrebbe impedito la trasmissione e, fino a quando non fosse stato saputo, mandati e passaporti non avevano basi. Pfizer non l'ha fatto. Invece, sono andati d'accordo.

I Jab dovevano sempre essere spinti - "Con mezzi giusti o fallo".

In conclusione, non c'è motivo di fidarsi mai più del governo, almeno non negli Stati Uniti, che sono gli unici a spingere il jab sui bambini piccoli. (La ragione di ciò, come accennato in precedenza, è probabilmente quella di inserire i colpi nel programma di vaccinazione infantile, che proteggerà i produttori di vaccini dalla responsabilità finanziaria per danni.)

Come notato dal conduttore di GB News Neil Oliver nel video sopra, la base stessa per i mandati COVID o i passaporti per i vaccini – che tutti dovevano essere colpiti per il bene superiore, per proteggere gli altri e aiutare a porre fine alla pandemia – era una bugia deliberata fin dall' inizio.

Molti di noi se ne sono resi conto all'inizio, ma le nostre voci sono state soffocate quando il governo, la Big Tech e i media hanno fatto tutto il possibile, censurando chiunque dicesse la verità. E tutti coloro che hanno partecipato a questo grande inganno rimangono impenitenti fino ad oggi.

In un recente thread su Twitter, un utente di Twitter di nome Daniel Hadas fornisce un'eccellente descrizione di ciò che sono stati veramente gli ultimi tre anni:

“Il dibattito sul fatto che, quando e in che misura siano state dette bugie sui vaccini COVID che impediscono la trasmissione, manca un punto centrale: indipendentemente da ciò che hanno mostrato i dati dello studio, i vaccini sarebbero SEMPRE stati spinti su intere popolazioni, con mezzi equi o scorretti.

Molto presto, la risposta al COVID è stata bloccata in una narrativa specifica. Il mondo si bloccherebbe e rimarrebbe al sicuro, mentre scienziati coraggiosi martellavano un vaccino ... Potresti ricordare che, nei primi mesi di COVID, si è parlato molto senza fiato sul fatto che ci sarebbe MAI stato un vaccino.

Erano tutte sciocchezze... Le nostre autorità non avrebbero adottato la strategia del lockdown fino al vaccino a meno che non fossero state certe che un vaccino potesse e sarebbe stato realizzato...

Lo scopo di seminare la paura che non ci potesse mai essere un vaccino era aumentare la gratitudine e l'entusiasmo quando ne arrivava uno. In effetti, ogni parte della risposta iniziale al COVID può essere intesa (in parte) come marketing pre-release per il vaccino...

Ecco perché i rischi di COVID per i giovani sono stati enormemente amplificati. Ecco perché c'è stato un offuscamento senza fine del ruolo centrale dell'immunità conferita dalle infezioni sia nella protezione degli individui che nel porre fine alla pandemia.

Il piano era che il vaccino sarebbe stato accolto da una popolazione perfettamente preparata: immunologicamente ingenua, disperata di essere liberata dal lockdown, terrorizzata dal COVID, desiderosa di fare la cosa giusta, cioè proteggere gli altri sparando.

Una volta che sono stati fatti così tanti sforzi per l'adescamento, è INIMMAGINABILE che le autorità si sarebbero rivolte a dirci... "Beh, in realtà, il profilo di sicurezza del vaccino è solo così così, l'efficacia è oscura e la maggior parte delle persone non ha bisogno di preoccuparsi comunque il covid Quindi è meglio che la maggior parte di voi non prenda questo... Mi dispiace per i blocchi.'

Non era nella sceneggiatura. Quindi era inevitabile che il vaccino venisse spinto su tutti, e inevitabile che venissero utilizzati i migliori argomenti per la vaccinazione universale. Quelle argomentazioni erano: COVID è super pericoloso per TE. La sfiducia in questo vaccino è sfiducia nella scienza. Rifiutarsi di vaccinarsi è immorale, perché infetterai gli altri.

La veridicità di queste affermazioni non aveva importanza: erano nel copione ed era troppo tardi per deviare... Di conseguenza, anche il terreno era pronto per i mandati dei vaccini.

Niente di tutto questo è cospiratorio. È descrittivo... Chiarire i dettagli non altererà l'essenza del quadro: la risposta al COVID è stata determinata da un copione per la salvezza del vaccino e l'investimento delle società in quel copione era troppo profondo perché la semplice realtà potesse deviarne l'esecuzione.

Le domande principali che rimangono ancora senza risposta sono: perché è stato creato questo script? Quali sono le conseguenze previste? E chi l'ha creato? Come accennato in precedenza, le prove suggeriscono che il danno è un risultato previsto: danni alla nostra economia, al nostro ordine sociale, alla nostra salute, alla nostra durata della vita e alla capacità riproduttiva.

Per quanto riguarda il "perché", possiamo solo guardare ciò che è stato realizzato finora. Supponendo che le conseguenze fossero intenzionali, il "perché" sembra essere il trasferimento di ricchezza, lo spopolamento e la creazione di un governo mondiale unico.

 

 

 

LE IDEOLOGIE SONO MORTE

MA GLI IDEALI NO. È LA POLITICA CHE

PER INTERESSE NON LI RAPPRESENTA PIÙ.

 Thevision.com - DANIELE FULVI – (1° FEBBRAIO 2021- ci dice:

 

Nel dibattito politico degli ultimi anni, viene dedicata un’attenzione sempre più grande a posizioni cosiddette “post-ideologiche”, che mirano al superamento delle contrapposizioni concettuali destra/sinistra, fascisti/comunisti e così via, in nome di una politica più pragmatica e votata agli interessi reali dei cittadini: quello che oggi è il mio peggior avversario politico, domani potrebbe essere il mio alleato di governo.

In questo scenario, un ruolo sempre più centrale viene giocato dai leader dei vari partiti. La loro vita sembra dipendere più dal volere dei loro capi – e dagli scranni che occupano – piuttosto che dalla reale condivisione di ideali o di una determinata visione del futuro.

A partire dall’epoca del primo Berlusconi, il leader di un determinato partito o schieramento ha rappresentato un elemento sempre più determinante ai fini del voto: da una trentina d’anni a questa parte, non si vota più per appartenenza ideologica, ma in base al carisma del candidato a guida di questa o quella lista.

Su queste basi. Beppe Grillo già nel 2010 prendeva nettamente le distanze dagli schieramenti tradizionali di destra e sinistra, definiti come “comitati d’affari”; e a distanza di tre anni ribadiva il concetto sostenendo che il M5S fosse un movimento di natura post-ideologica, lanciando il famoso mantra del “né di destra né di sinistra”; infine, nel 2018 il comico genovese si è spinto ancora oltre, arrivando a sostenere che il movimento da lui fondato fosse “la più grande forza post-ideologica d’Europa”.

Visto il successo in termini di consenso, anche i partiti storicamente schierati a destra, ovvero la Lega e Fratelli d’Italia, hanno deciso di seguire l’esempio della propaganda grillina.

Salvini, ad esempio, nel 2015 definì l’antifascismo come “una roba da libri di storia”, dal momento che l’ideologia fascista e quella comunista appartengono al passato e non sono in grado di rappresentare le categorie politiche odierne. Anche Giorgia Meloni non è da meno: da sempre, infatti, la leader di FdI è impegnata nell’opera di normalizzazione e istituzionalizzazione del fascismo, in nome proprio di quella politica post-ideologica che vorrebbe superare posizioni faziose e “da tifoseria”.

Perfino il successo elettorale di Trump nel 2016 è in parte dovuto al fatto che sia stato presentato come un leader post-ideologico di un movimento che “trascende le vecchie ideologie”.

 Infine, la recente crisi di governo nel nostro Paese, dettata più dagli interessi individuali di singoli politici piuttosto che dalla genuina passione per principi etici e politici, sembra essere un’ulteriore conferma della validità delle posizioni post-ideologiche.

 Infatti, l’agenda politica dei vari leader di partito sembra basarsi sempre più sugli interessi di potere dei singoli, anziché su una visione economica e sociale di ampio respiro per il futuro.

Le ideologie politiche che hanno caratterizzato il Novecento, dunque, sembrano essersi eclissate in maniera definitiva, rimpiazzate dal trasformismo e dall’individualismo.

Eppure, il fatto che queste ideologie siano morte non significa che lo siano anche gli ideali, soprattutto fra le nuove generazioni. Mai come oggi si ha da un lato l’impressione che la politica non segua più alcun ideale, ma muti in base all’occorrenza e alla convenienza, dall’altro, però, al di fuori delle stanze del potere, si stanno costruendo e stanno crescendo sempre più delle comunità fondate su ideali molto forti.

E nuovi ideali danno vita a nuove ideologie che si adattano ai problemi del nostro tempo, nel tentativo di affrontarli e trovare una soluzione, sulla base di un’etica e una visione del mondo condivise.

Proprio in virtù di questa natura dinamica, non si può affermare che le ideologie siano morte e che siano state definitivamente soppiantate da una sorta di nichilismo etico e di cinico opportunismo.

Nel dibattito politico quotidiano il concetto stesso di “ideologia” viene interpretato in maniera superficiale e arbitraria: infatti, quando si accusa qualcuno di avere una posizione ideologica, si intende dire che le sue idee e i suoi discorsi sono astratti, teorici e fondati su pregiudizi.

In realtà, però, l’ideologia è tutt’altra cosa: lungi dall’essere un insieme di nozioni fumose e valide solo in ambito teorico, essa consiste precisamente in un sistema di valori e coordinate concrete in base a cui gli esseri umani orientano le proprie azioni nel mondo.

L’ideologia è quanto di più tangibile e pragmatico esista, dato che rappresenta una sorta di prontuario a cui tutti noi ci atteniamo più o meno fedelmente – e più o meno consapevolmente.

Per dirla con il filosofo francese Althusser, l’ideologia è “un sistema di idee solo in quanto è un sistema di rapporti sociali” e in quanto tale costituisce la linfa vitale di ogni società.

(Louis Althusser.)

Perciò, parlare di epoca post-ideologica significa da un lato avallare un luogo comune che produce solamente cattiva politica (e cattivi politici), e dall’altro utilizzare un metro di giudizio inadeguato a comprendere i tempi in cui viviamo.

Non è vero che siccome le ideologie sono morte, allora c’è bisogno di politici post-ideologici e spregiudicati; al contrario, è vero che siccome la classe dirigente italiana non è in grado di rispondere alle esigenze e ai problemi reali del Paese, poiché non ne comprende gli ideali, allora politici, giornalisti e opinionisti vari – in mancanza di argomenti migliori – giustificano tale atteggiamento sulla base di una presunta morte delle vecchie ideologie.

Ma sposare un’ideologia non significa necessariamente adottare dei pregiudizi o accontentarsi di una visione pigra o utopica della realtà. Al contrario, spesso è proprio chi è animato da ideali sinceri e da convinzioni etiche solide a realizzare i cambiamenti più significativi in ambito politico e sociale.

La retorica della morte delle ideologie ha come effetto ultimo quello di allontanare i cittadini dalle istituzioni e dai processi decisionali, di fatto accentrando il potere nelle mani dei leader più in voga.

Perciò, risulta chiaro come “trascendere le ideologie” o affermarne la fine non significa altro che annientare il senso critico della popolazione prevenendo la reale necessità di un cambiamento dei rapporti sociali.

 In pratica, se si convincono tutti i cittadini che le ideologie sono dei paraocchi che impediscono di vedere le cose in maniera oggettiva, se non addirittura dei pesi morti di cui liberarsi, si ottiene come risultato sia la creazione di una classe dirigente elitista e incapace di rapportarsi ai cittadini, sia la subordinazione acritica del popolo a quella stessa classe dirigente.

Facendo un parallelo con il pensiero di Gramsci, possiamo dire che è esattamente in questo modo che le classi dominanti costruiscono la loro egemonia. Come ci spiega in maniera chiara ed efficace Alessandro Barbero, una classe diventa dominante quando riesce a far sì che anche le altre classi accettino la sua ideologia, ovvero il suo pensiero e la sua visione del mondo.

Perciò, nel caso della situazione odierna, l’ideologia dominante è quella superficiale e propagandistica secondo cui le ideologie sono morte e sepolte, rimpiazzate dallo sprezzante pragmatismo dei politici contemporanei.

Tuttavia, è altrettanto vero che quando l’ideologia dominante non corrisponde alla realtà, si apre una frattura tra governanti e governati che diventa sempre più insanabile e porta a inevitabili cambi di rotta nei rapporti sociali.

 

(Alessandro Barbero).

Gli attuali movimenti politici per le questioni di genere, razziali e ambientali, infatti, non fanno altro che dimostrare quanto questa frattura sia profonda ed evidente, e che continuare a ignorarla in nome della presunta morte degli ideali politici novecenteschi non fa che allontanare ancora di più la politica dalla realtà dei fatti.

Non solo tali movimenti mostrano come la narrazione diffusa dell’estinzione delle ideologie sia un semplice strumento propagandistico e ingannevole, ma anche che la costruzione di una società più giusta passi necessariamente per l’istituzione di una nuova ideologia che stravolga i rapporti sociali esistenti, sostituendoli con un nuovo ordine politico ed economico basato su equità, inclusività e sostenibilità.

Ad essere scomparsa dai radar, dunque, non è l’impostazione dell’azione politica sulla base di valori etici, ma la buona politica che di tali valori si dovrebbe nutrire. Soprattutto nelle nuove generazioni, è molto forte l’urgenza di implementare una visione del mondo che si contrapponga a quella del capitalismo neoliberista, ormai in profonda crisi.

 Infatti, sebbene anche leader politici di primissimo piano come Macron abbiano riconosciuto che il modello capitalista non funziona più, in Italia sembra mancare quasi del tutto una riflessione lucida e realista sulla possibilità di liberarsi dalla propaganda post-ideologica e di creare un modello economico-sociale in grado di dare un futuro alle nuove generazioni e al pianeta.

Tale atteggiamento, però, non fa che allontanare la politica e le istituzioni dai cittadini, creando malcontento e aumentando il rischio di derive nazionaliste e neofasciste.

(Emmanuel Macron).

La soluzione, dunque, consiste nell’abbandonare una volta per tutte l’impostazione post-ideologica, che non risponde ad alcuna esigenza reale delle persone e non fa che allargare la forbice tra la piazza e il Palazzo.

 Per questo, bisogna ridare la giusta importanza alla politica ispirata a sani ideali e valori non negoziabili, smettendola di conferire un valore esclusivamente negativo al concetto di ideologia.

 Senza ideali fondati su solide basi etiche, infatti, non saremmo neanche in grado di dare un senso al mondo, né di avere una prospettiva per il futuro.

 

 

 

Le bufale di chi nasconde

la realtà dell’embrione.

 Lanuovabq.it – Ermes Dovico – (28-10-2022) – ci dice:

Un gruppo abortista pubblica foto di sacche gestazionali ben “ripulite” per nascondere la realtà dell’embrione a 5-9 settimane. Il britannico Guardian e, in Italia, The Vision rilanciano le immagini, con titoloni che ingannano i lettori. Una mistificazione smentita da biologia ed ecografie, che mostrano tutta l’umanità del nascituro fin dalle prime settimane nel grembo materno.

I sostenitori dell’aborto hanno sempre dovuto far uso di un bel cumulo di menzogne - dalle iperboliche cifre sugli aborti clandestini al terrorismo di certi medici su presunte malformazioni dei nascituri (vedi lo sciacallaggio sul disastro di Seveso) - per creare consenso attorno alla pratica e giungere alla sua legalizzazione. Ma la madre delle menzogne è sempre stata quella di cercare di ridimensionare e perfino cancellare l’umanità del bambino in grembo, dipinto come mero «grumo di cellule».

Lo sa benissimo un gruppo abortista statunitense, Mya Network, di recente formazione, che ha tra i suoi obiettivi dichiarati quello di «aiutare a normalizzare culturalmente l’aborto».

E per normalizzarlo serve mentire o al più mostrare mezze verità, per giunta presentate in modo da confondere chi non conosce le basi della biologia e non ha mai visto - cosa incredibile a dirsi oggi - un’ecografia.

È così che Mya Network ha pubblicato una serie di fotografie raffiguranti una parte della realtà osservabile tra 5 e 9 settimane di gravidanza: la sacca gestazionale, cioè la “casa” che si sviluppa, a quello stadio, attorno all’embrione.

 Il gruppo abortista da un lato è costretto ad ammettere che le foto rappresentano la sacca “ripulita” dal sangue e dalla decidua mestruale, ma dall’altro - con un cocktail di immagini e parole - fa passare il suo messaggio ingannevole, affermando che «in questa fase [appunto fino a 9 settimane, ndr] non è visibile un embrione».

 Ma la realtà è che l’embrione non è visibile per i maneggi dei sanitari di Mya Network, che oltre al sangue hanno verosimilmente rimosso tutti i resti dei bambini abortiti.

In un mondo normale la bufala sarebbe rimasta confinata alle pagine online del suddetto gruppo abortista, ma purtroppo l’ideologia contro la vita nascente si accompagna sempre a una grancassa mediatica ben collaudata.

 Alcuni organi della stampa mainstream hanno infatti pensato che le foto sensazionali di Mya Network fossero un’occasione troppo ghiotta per accusare di falsità il mondo pro vita (che ricorda come l’embrione sia un nostro fratellino in miniatura).

Se poi si accompagnano quelle foto a titoli altrettanto sensazionali, la mistificazione si diffonde alla velocità della luce… Come infatti è avvenuto.

Il primo a cogliere la palla al balzo è stato, a quanto pare, il britannico Guardian. Foto della sacca gestazionale in bella mostra e titolo: «What a pregnancy actually looks like before 10 weeks - in pictures» («Che aspetto ha davvero una gravidanza prima delle 10 settimane - nelle foto»).

In Italia, il 21 ottobre, a due giorni dall’articolo del Guardian, ci ha pensato la testata The Vision, seguitissima sui social network, a rilanciare la bufala. Il titolo, in questo caso, è ancora più netto: «Ecco cosa viene realmente espulso in un aborto entro le prime 10 settimane.

Non manine e piedini come mostrano gli anti-abortisti» . Nella prima versione del post di Vision si affermava che «negli scatti è visibile come durante le prime nove settimane di gravidanza non vi sia alcun embrione» (vedi qui per una ricostruzione).

Il contenuto del post, pur sempre viziato dalla stessa approssimazione ideologica, è stato poi in parte modificato, aggiungendo il particolare dei tessuti «ripuliti dal sangue».

Ma il titolo e la relativa foto - gli elementi di maggior rilievo - sono rimasti gli stessi. Risultato: solo su Instagram, oltre 112 mila “mi piace”, tra cui quello dell’influencer Chiara Ferragni.

Tra le tante possibilità oggi esistenti, basta prendere un libro di embriologia o consultare qualunque seria fonte su Internet dedicata alla materia per constatare come, a 8-9 settimane, l’embrione - già ben visibile e grande circa quanto un acino d’uva - vada assumendo forme sempre più definite (vedi qui i 23 stadi di Carnegie in alta definizione) e siano distinguibili occhi, naso, bocca, mani, piedi, eccetera.

«Ma com’è possibile arrivare a negare cose del genere?», ci dice al telefono il professore e ginecologo Giuseppe Noia, luminare nel campo della medicina fetale e delle cure prenatali.

«A 6 settimane è già iniziato lo sviluppo di olfatto, gusto, udito e vista. Una settimana dopo - aggiunge il professor Noia - inizia anche il tatto e all’ottava la sensibilità cutanea nel volto.

Tra 6 e 12 settimane si sviluppano i movimenti del tronco e degli arti, e così via. Con le ecografie tutto questo si può vedere. Contra factum non valet argumentum», conclude il ginecologo.

I fatti sullo sviluppo dell’embrione sono talmente evidenti che anche non pochi utenti dichiaratamente pro aborto - ma più informati della media, in mezzo alle decine di migliaia di like a sostegno del post - si sono sentiti in dovere di prendere le distanze dalla disinformazione diffusa, nel panorama italiano, da The Vision, nonché poi da altri media (come il Post). Rimane tuttavia la gravità di quanto avvenuto.

La “notizia” - con il suo titolo che raggira i lettori - è appunto ancora lì, a una settimana di distanza.

 E, comunque, molti di coloro che l’hanno vista (senza darsi la pena di fare un minimo di verifica) saranno rimasti convinti che sono i pro life a raccontare frottole.

Del resto, per arrivare alla normalizzazione dell’aborto, auspicata dall’ideologia abortista ed esplicitata da Mya Network, non si può sottilizzare sui mezzi: bisogna anestetizzare le menti e nascondere la realtà del bambino nel grembo materno.

Nei decenni lo si è fatto, come accennato, in tanti modi, spostando il discorso attorno all’aborto verso tutti quei temi che potessero distrarre la popolazione e farle perdere di vista che il “diritto” che viene rivendicato riguarda il corpo, la vita di un altro essere umano (nella foto, un embrione a circa 7 settimane).

Da decenni gli abortisti senza se e senza ma dicono che bisogna rendere le donne “libere” di scegliere, mentre nascondono loro gli aiuti e le informazioni più basilari, facendo la guerra alle ecografie, che hanno il torto di mostrarci bambini innocenti in tutta la loro umanità.

Da decenni tentano di far sparire il nascituro dal dibattito pubblico sull’aborto. Ora cercano di farlo sparire anche dalle foto.

 

 

 

 

Grigory Yudin: “La guerra contro

l’Ucraina è catastrofica anche per la società russa”.

Affarinternazionali.it - Nona Mikhelidze – (27 Giugno 2022) – ci dice:

 

Grigory Yudin è uno scienziato politico e sociologo russo, un esperto di opinione pubblica e sondaggi in Russia. Il podcast dell’intervista realizzata da Nona Mikhelidze, ricercatrice senior dell’Istituto Affari Internazionali, è disponibile.

Vorrei iniziare con una domanda sul 24 febbraio. Si aspettava lo scoppio della guerra su larga scala? E cosa significa questa guerra per la Russia e per il suo futuro?

Sì, purtroppo me l’aspettavo! Avevo capito già nel 2020 che ci sarebbe stata una grande guerra contro l’Ucraina. E credo che dalla metà del 2021 tutto sia diventato ancora più chiaro.

Voglio dire, era chiaro che ci sarebbe stato un grande scontro tra la Russia e la Nato. E dal 2021 era ovvio che la prima fase di questa guerra sarebbe avvenuta in Ucraina. Penso che fosse abbastanza ovvio soprattutto dopo la comparsa del famoso articolo del presidente Putin sull’Ucraina, al quale hanno fatto seguito molte analisi militari.

 Parlavano dell’imminente invasione, quindi aspettavo ogni giorno che la guerra scoppiasse. Questo, ovviamente, non ha reso la vicenda meno dolorosa!

Ho cominciato ad avvertire la gente di questa guerra imminente, sia in Europa, parlando con i politici europei, sia in Russia. Cercavo di far capire loro l’inevitabilità della guerra. Praticamente senza successo però, tutti erano scettici al riguardo.

Così siamo arrivati al 24 febbraio. Ora, parlando di cosa significa questa guerra per il futuro del Paese, la diagnosi generale è che a lungo termine tutto questo sarà devastante per la Russia. È una guerra suicida.

 La Russia ha avuto guerre ingloriose nel suo passato, ma questa è la guerra più stupida, la più catastrofica per il Paese stesso, perché fondamentalmente distrugge i legami che la Russia ha con quasi tutti i Paesi.

La Russia è davvero legata e culturalmente vicina agli ucraini, ovviamente, ma anche ai bielorussi che sono molto, molto coinvolti in questa guerra.

Questo è il primo aspetto. Il secondo aspetto è la cosiddetta fratellanza slava, che ora si sta distruggendo. E poi l’appartenenza più ampia all’Europa, che è anche, ovviamente, assolutamente cruciale per la Russia.

La Russia è un Paese molto speciale. Ha un posto speciale nella storia europea e non può essere separata dall’Europa. È assurdo che le persone ora parlino dell’avvicinamento alla Cina. Voglio dire, non capiscono nemmeno di cosa stiano parlando.

La Russia è sempre stata un Paese europeo, da Kaliningrad a Vladivostok. E questo è estremamente evidente quando si esce per strada. Si tratta quindi di un suicidio, di un colpo di testa!

E poi come se non bastasse, è una guerra che non si può vincere. Non può essere vinta, non c’è nessuno scenario in cui la Russia possa avere successo a lungo termine.

Quindi le conseguenze per la Russia saranno totalmente devastanti. Onestamente penso che questa sia una delle decisioni peggiori di tutta la storia russa… e la storia russa è ricca di decisioni non ponderate. Questa probabilmente è la peggiore.

E allora perché è stata presa questa decisione?

Beh, la decisione è stata presa da Putin e probabilmente anche da alcune persone a lui molto vicine.

Ma ora dobbiamo rivalutare anche questo aspetto, perché prima pensavamo almeno che ci fosse un’élite di potere dietro di lui, ma dopo questa famosa riunione del Consiglio di sicurezza abbiamo dovuto riconsiderare questa assunzione perché molte delle persone che si pensavano molto, molto vicine al processo decisionale, si sono rivelate dei burattini, come tutti hanno avuto modo di vedere.

Quindi la decisione è stata presa dal Presidente stesso e per lui si tratta di una guerra difensiva. Si sta difendendo, si sente minacciato esistenzialmente. Pensa di essere molto vicino a essere ucciso e vuole proteggere la sua vita. E l’unico modo per proteggere la sua vita è rimanere al potere.

Stiamo parlando di due cose inseparabili: deve rimanere al potere per proteggere la sua vita e la sua posizione. La situazione negli ultimi anni si è lentamente deteriorata, sia internamente che esternamente.

 C’era un crescente senso di stanchezza per il governo di Putin, anche tra le persone che generalmente gli sono grate, era abbastanza evidente che c’era un significativo distacco dei giovani dal regime. Soprattutto negli ultimi quattro o cinque anni abbiamo assistito a una netta spaccatura negli atteggiamenti della popolazione tra gli anziani e i giovani. Questa era una parte del problema.

L’altra parte del problema era rappresentata dal fatto che l’Ucraina, in quanto Paese culturalmente molto vicino alla Russia, per lui era sul punto di ottenere un’alleanza militare con gli Stati Uniti.

E questo avrebbe trasformato l’Ucraina in una roccaforte per le forze di opposizione contro Putin. Credo che il modo migliore per capire questo sia il paragone con il colonnello Gheddafi che ha affrontato il movimento di resistenza in Libia.

 Era pronto a schiacciarlo, a uccidere le persone, probabilmente centinaia di migliaia. Gli è stato impedito dalla Nato e alla fine è stato rovesciato e ucciso. E sappiamo che impressione ha avuto la morte di Gheddafi su Vladimir Putin. Ne è rimasto assolutamente scioccato, terribilmente scioccato.

Queste due cose di cui parlavo, le cause interne e le cause esterne, non vanno distinte perché qualsiasi tipo di opposizione o malcontento in Russia, Putin lo percepisce immediatamente come un complotto contro di lui orchestrato dall’Occidente.

E anche questi atteggiamenti critici dei giovani sono intesi come il risultato della propaganda occidentale. Quindi per lui l’unico motivo per cui la gente potrebbe essere scontenta del regime è perché c’è una propaganda occidentale che opera per distorcere i valori russi che per lui sono importanti.

È così che si è arrivati all’idea di condurre una guerra inevitabile contro l’Occidente, contro la Nato e contro gli americani. Questi termini sono usati in modo intercambiabile e l’Ucraina è diventata solo il primo campo di battaglia, come dice lui, che la vede come anti-Russia.

 L’ha ripetuto molte volte, e questo è il significato: in sostanza da qui si può vedere che l’esistenza stessa dell’Ucraina è sentita come una minaccia per la Russia. E per Russia, ovviamente, intende sé stesso. Quindi l’esistenza stessa dell’Ucraina è già una minaccia mortale per la sua vita. Ecco come siamo arrivati all’inevitabilità di questa guerra.

Prima ha detto che per lei era chiaro che doveva esserci uno scontro con la Nato, e poi ha parlato delle cause interne ed esterne, delle ragioni che hanno portato Putin a invadere Ucraina. In tanti pensano che una delle cause per scatenare questa guerra fosse anche o soprattutto l’allargamento della Nato.

Sono d’accordo, ma solo con riserva. La stessa esistenza della Nato sarà sempre un fattore provocatorio per Putin per iniziare una guerra, a meno che non venga sciolta. Negli anni Novanta si era creata una chiara prospettiva di scioglimento della Nato dopo la fine della guerra e del Patto di Varsavia.

Se il Patto di Varsavia non esisteva più, perché la Nato non avrebbe dovuto sciogliersi? O almeno rimodellare o riformulare in modo significativo i suoi obiettivi? Oppure si poteva parlare di inclusione della Russia in un sistema di sicurezza più ampio in Europa.

Beh, questo è stato fatto, in una certa misura, con il consiglio Russia-Nato, ma dopotutto, forse ci si aspettava proprio il suo scioglimento. Non si è sciolta anche per ragioni comprensibili, perché c’erano i paesi dell’Europa orientale che giustamente si sentivano minacciati dalla Russia e facevano pressione per unirvisi.

È così che la Nato, forse anche non intenzionalmente, si è estesa a est, nonostante le promesse di non farlo. Promesse che non sono mai state formalizzate: non c’è mai stato un obbligo formale da parte della Nato di non espandersi, ma per la Russia si è trattato di un abuso della sua fiducia.

Ma in realtà, basta parlare della Nato… il vero problema è che la Russia, e in particolare Putin, non hanno mai considerato i vicini come paesi sovrani con i quali cercare un linguaggio comune dopo la dolorosa esperienza sovietica di coesistenza.

 La Russia non si è mai preoccupata di fornire le garanzie di sicurezza a quei Paesi, le garanzie che li avrebbero dissuasi dall’entrare nella Nato. Anzi, la Russia ha fatto di tutto per incoraggiarli a entrarci e sotto il governo di Putin la Nato si è espansa in modo significativo verso est.

 

Quindi, in pratica, ora Putin con questa guerra sta cercando di coprire il completo fallimento della sua politica estera. Lui non è stato in grado di impedire ai paesi vicini di entrare in questo blocco militare. Perché non li ha mai trattati come partner, li ha sempre considerati come nazione inesistenti, paesi inesistenti. E questa è la vera radice del problema. Si può quindi parlare dello scioglimento o non scioglimento della Nato, ma poi la colpa è solo della folle politica estera di Putin.

Ripeto, non è stata la Nato ad espandersi. Sono stati i Paesi realmente, genuinamente volenterosi ad entrare in questo blocco. E questo è un problema enorme per la Russia, perché significa che quei Paesi hanno paura della Russia.

Una politica ragionevole, ovviamente, sarebbe stata quella di renderli meno timorosi, di offrire loro qualcosa, di includerli in un sistema di sicurezza diverso, invece di ricattarli con il gas o con le armi, come ha sempre fatto Putin. Questo, secondo me, è vero fallimento per Putin.

Passando alla parte ideologica di questa guerra e all’idea di Putin di creare Ruskyi Mir, il mondo russo: il concetto, da come è stato disegnato, ha sempre riguardato un mondo fatto da popoli ma non da cittadini con senso civico, non dalla società civile. Insomma, un concetto che rispecchiava la Russia dove i russi sono sottomessi al sistema autoritario.

Quindi stiamo parlando di un modello completamente opposto a quello Ucraino dove, soprattutto dal 2014, dopo la rivoluzione di Euro-maidan, stiamo assistendo alla creazione di una società civile vibrante e di una governance liberale.

Due cose che il Cremlino ha sempre impedito che accadessero in Russia. Non pensa che questa guerra sia anche lo scontro fra questi due mondi diversi?

Credo sia giusto descrivere questa guerra come una lotta tra due sistemi politici molto diversi, visioni politiche molto diverse di ciò che costituisce lo spazio post-sovietico.

 Una può essere sommariamente descritta come il sistema imperiale, non necessariamente nel senso espansionistico, nonostante abbia anche questa caratteristica, ma piuttosto il modo di strutturare il sistema politico, che è monarchico in Russia.

Non so se la gente ne sia consapevole, ma in realtà la concentrazione di potere in Russia è quasi senza precedenti per il nostro Paese. Non è vero che la Russia è sempre stata così. Ci sono probabilmente episodi nella storia russa in cui abbiamo avuto questa concentrazione di potere politico, ma non spesso.

 Probabilmente è successo con Stalin ad un certo punto. Probabilmente, anche se il paragone non è esatto, con Ivan il Terribile e, in una certa misura, con Pietro il grande.

Altri, come Nicola I, hanno cercato di farlo, ma in realtà non ci sono mai riusciti. Quindi ora stiamo assistendo a qualcosa di quasi senza precedenti nella storia. Si tratta di uno Stato ultra-monarchico. Questa è l’immagine della struttura dello spazio politico.

E questo vale per tutta la Russia, perché ovunque, a ogni livello, ci sono quei piccoli Putin che pensano fondamentalmente che usare la violenza e la forza sia l’unico modo per governare nel servizio pubblico e nelle imprese. Questa è l’intera filosofia.

E poi c’è la filosofia repubblicana, che è il caso dell’Ucraina, che si contrappone ad essa con una posizione molto più pluralistica e con una maggiore fiducia in alcune fazioni indipendenti del potere. Perciò nel sistema politico ucraino l’élite è molto meno consolidata attorno ad un unico leader.

Il sistema è oligarchico, ma ha anche un significativo elemento democratico, perché sappiamo che gli ucraini hanno sviluppato una cultura politica che ha sempre il potenziale per una rivolta, per una rivoluzione.

Si tratta quindi di due visioni molto, molto diverse ed è importante vedere come queste visioni si riflettono in ciascuno di questi Paesi. Guardate cosa sta succedendo in Ucraina.

C’è la prevalenza di questo punto di vista repubblicano, ma ci sono anche persone che sono felici di essere, diciamo così, liberate da Putin, perché hanno questo atteggiamento imperiale, si sentono più naturali nel ripristinare l’impero.

Si pensi alla Bielorussia: lì c’è una situazione molto interessante. Abbiamo il presidente che appoggia questa visione imperiale e più o meno tutta la popolazione è contraria e viene terrorizzata per questo.

 I bielorussi sono ovviamente per la maggior parte dei repubblicani. E poi ci sono i russi, ma c’è lo stesso problema: la stessa lotta tra coloro che sostengono Putin e quelli che cercano un’impostazione repubblicana nel Paese.

 Quindi, in sostanza, in questi Paesi c’è la stessa, identica lotta. E questo spiega, ovviamente, perché alcune persone in Russia provano maggiore simpatia per gli ucraini, non perché siano grandi fan dell’Ucraina o della cultura ucraina o di qualsiasi altra cosa, o del nazionalismo ucraino, ma solo perché vedono la situazione come uno scontro tra la visione repubblicana e imperialista.

 Lo stesso vale per la Bielorussia e il Kazakistan in una certa misura.

Questo è ciò che stiamo vedendo. Ed è per questo che penso che etichettare questa guerra come guerra russo-ucraina sia in realtà fuorviante. Non si tratta di russi contro ucraini. Si tratta di una guerra fra due modelli politici molto diversi.

Come viene percepita oggi la guerra dalla società russa? E che dire dell’indice di gradimento del presidente Putin? Se non sbaglio, il centro di Levada lo dava intorno all’82% ad aprile…

Ora, capisco che non possiamo prendere sul serio i sondaggi condotti in sistemi autoritari, specialmente in tempo di guerra, ma forse possiamo comunque spiegare qualcosa sui sentimenti dei russi e della società nei confronti della guerra.

Permettetemi di introdurre il concetto. La Russia è un sistema plebiscitario, il che significa che il potere dell’imperatore si basa sul ricevere il sostegno popolare attraverso i plebisciti.

Quindi l’imperatore sovrasta l’intero sistema politico, sostenendo di avere una legittimità popolare e per lui anche democratica! E questo è fondamentalmente il bastone con cui minaccia la sua élite, la sua burocrazia, ma anche il popolo stesso, perché la Russia è un Paese molto depoliticizzato.

 L’unico modo per i russi di sapere cosa pensano i russi è guardare la televisione e osservare i numeri dei sondaggi, perché normalmente i russi non comunicano tra di loro.

Quindi il modo più semplice per sapere cosa pensa il tuo vicino è accendere la TV e guardare gli ultimi numeri dei sondaggi.

Dialogare, comunicare con il prossimo non è usuale per molte persone in Russia. Si tratta quindi di un sistema plebiscitario in cui il leader riceve la cosiddetta “acclamazione” da parte del popolo. Ora abbiamo diverse istituzioni per l’“acclamazione”.

 Abbiamo, naturalmente, le elezioni, che sono di carattere plebiscitario e “acclamazione” significa che coloro che partecipano alle elezioni o a qualsiasi tipo di votazione non le vedono come un meccanismo per fare una scelta tra vari candidati, ma piuttosto come una convalida di una decisione già presa.

Quindi c’è il leader che prende la decisione e il popolo che acclama questa decisione. Questa è l’idea delle elezioni in Russia sia durante il voto nazionale o presidenziale che alle amministrative.

Questo è anche il caso dei veri e propri plebisciti. Nel 2020 abbiamo avuto una sorta di gioco costituzionale, quando a Putin si è data la possibilità di rimanere al potere fino al 2036.

Dico gioco costituzionale perché ha costituito una convalida di una decisione già presa ed era anche inquadrata in questo modo, perché tecnicamente il plebiscito non era necessario dal punto di vista costituzionale, era superfluo, ma doveva essere convalidato dalla popolazione.

La stessa cosa accade con i sondaggi d’opinione che funzionano anch’essi in questo modo, in modo che la gente capisca che le si chiede di acclamare il leader. E questo è ancora più vero durante i periodi di emergenza come questo, perché fondamentalmente tutti coloro che vengono contattati con il sondaggio capiscono che gli viene chiesto di acclamare il leader.

Probabilmente le persone reagirebbero in modo diverso. Alcuni direbbero: “no, non acclamerei, odio Putin”, ma questo non cambia il quadro generale. Il quadro di base è che viene chiesto di acclamare. Ovviamente è possibile sfidarlo, ma è comunque inteso come una richiesta di acclamazione.

Non tutti i russi sono disposti a giocare a questo gioco. E quindi il segreto che viene nascosto è che i tassi di risposta sulle domande poste dai sondaggi sono molto, molto bassi.

Questi dati di solito non vengono riportati ma, dall’esperienza che abbiamo avuto sappiamo che sono, in qualche modo, a seconda della metodologia, tra il 7 e il 15% del campione iniziale.

Cosa pensa il resto della gente non lo sappiamo, perché le persone tendono a non rispondere. Piuttosto che sfidarlo o acclamarlo, tendono fondamentalmente a non rispondere.

Questo ci dice molto sui russi, perché i russi non vogliono avere a che fare con la politica. Vivono la loro vita privata. Ed è così che è stato costruito questo regime. Gli è stato chiesto di non occuparsi della politica, quindi alla gente non interessa la politica e non importa dell’Ucraina.

L’unica cosa di cui si preoccupano è la loro vita privata orientata al consumismo. Ai russi interessa pagare i mutui e forse fare carriera. Quindi questo è ciò di cui si preoccupano. Il resto può essere delegato al Putin di turno. Putin è lì, pensa lui a tutto.

Se lui pensa che gli ucraini siano nazisti, beh, saprà lui come affrontarli. Quindi la popolazione è molto depoliticizzata. E credo che il modo migliore per spiegare questo, per spiegare questi indici di gradimento, sia di immaginare il 24 febbraio in un modo diverso.

Immaginiamo che Putin avesse detto che per motivi di sicurezza la Russia dovesse restituire Donetsk e Lugansk all’Ucraina. Il tasso di approvazione sarebbe stato esattamente lo stesso di oggi. Assolutamente lo stesso, perché l’approccio è questo: Putin sa meglio di noi.

Allora questo vuol dire che in realtà c’è una via d’uscita da questa guerra per Putin, perché qualsiasi tipo di risultato può essere descritto come una vittoria e verrà accettato dalla società.

Credo che questo sia vero solo fino ad un certo punto. Voglio dire, se si sottolinea la sua capacità di imporre ogni tipo di decisione alla popolazione e di ottenere l’acclamazione, penso che allora lei abbia ragione.

Ma dal momento che la posta in gioco è alta e ovviamente richiede alcuni sacrifici da parte della popolazione russa – ed è molto, molto chiaro che ci saranno sacrifici – allora penso che ci sia un’aspettativa generale di una vittoria significativa.

Ormai questa guerra è stata inquadrata come la lotta esistenziale per la Russia. Questa non è una lotta per il Donbass. Non so perché le persone in Europa abbiano questa idea folle che si tratti di una lotta per il Donbass.

No, questa è una lotta esistenziale per la Russia, con la quale la Russia deve sconfiggere l’Occidente. Questa è la missione e non quella di prendere Kramatorsk. Questo aspetto è così secondario rispetto a ciò che sta accadendo. Il 99% dei russi non sa neanche dove si trovi Kramatorsk. Quindi questa è una lotta esistenziale e conquistare Kramatorsk è solo il primo passo.

Ma se l’esercito russo dovesse davvero fallire in Ucraina, cedendo, ad esempio, i territori controllati prima del 24 febbraio, sarebbe davvero difficile per Putin venderla come una vittoria.

 Il problema non sono tanto i numeri dei sondaggi, ma alcuni strati della società russa, che si renderebbero improvvisamente conto che Putin può anche fallire, perché l’intero potere politico si regge sulla forte convinzione che Putin vince sempre.

Se lui non vince, se qualcuno comincia a dubitare della sua vittoria, la situazione cambierebbe.

Il cambiamento, però, non si rifletterebbe subito nei sondaggi d’opinione, perché lì funziona al contrario: ci sarà per primo un vero e proprio cambio di potere, e poi si vedrà come questo si rifletterà nei sondaggi d’opinione, e non il contrario. Non vincere questa guerra, credo, potrebbe significare la fine di questo regime.

Ma nella realtà russa che sta descrivendo, cosa potrebbe essere percepito come un fallimento dell’operazione militare e cosa come una vittoria? Cioè, qual è il minimo che dovrebbe essere raggiunto per dichiarare la vittoria?

È difficile a dirsi. Beh, per quanto riguarda il fallimento, è abbastanza facile: in realtà dovrebbe essere una sconfitta militare, una vera e propria sconfitta, che non lascia spazio per le interpretazioni. Quindi…

… quindi lo status quo prima del 24 febbraio?

Si, ma ormai il 24 febbraio è militarmente impossibile perché se l’Ucraina riuscisse a respingere le forze armate russe fino alle posizioni pre-24 febbraio, perché dovrebbe fermarsi lì?

Voglio dire, in Donbass non ci sono confini naturali. La Crimea è una questione diversa, forse lì ci sono confini naturali, ma, per quanto riguarda il Donbass, il pre-24 febbraio è andato per sempre.

Non sarà mai ripristinata quella linea di separazione delle forze. Quindi questa sarebbe una vera e propria sconfitta.

Per quanto riguarda la vittoria, come ho detto, la conquista e l’annessione delle quattro regioni – Zaporizhia, Kherson e dell’intero Lugansk e Donetsk – sarebbe la prima tappa.

Questa sarebbe una sorta di vittoria, visto che Putin non controllava tutte le quattro regioni prima. Si tratterebbe quindi di un’acquisizione e credo che sarebbe un passo preliminare per un’ulteriore espansione, che includerebbe sicuramente Transnistria e presumo anche l’intera Moldavia.

 Ora abbiamo questo limbo con il sud Ossezia. L’Abkhazia è forse più difficile, ma il sud Ossezia sicuramente verrebbe incluso in Russia. Quindi questo sarebbe un passo preliminare verso ulteriori annessioni. E poi si andrà sempre più avanti perché, ancora una volta, qua non si tratta di ripristinare l’appartenenza imperiale all’Unione Sovietica, no, si tratta di spezzare la schiena all’Occidente.

Per questo motivo mi aspetto che il prossimo passo avvenga molto presto dopo questa sorta di vittoria.

Quindi non ci sarà nessun negoziato fra Russia e Ucraina in un futuro vicino?

Assolutamente no!

La maggior parte delle sanzioni occidentali prende di mira l’economia e l’establishment politico della Russia, mentre altre mirano specificamente all’arte e alla cultura russa. Questo sta causando molte discussioni e speculazioni qui in Occidente sulla “cancel culture”. Qual è la sua opinione in merito?

A dire il vero, credo che sia un fenomeno enormemente esagerato. Voglio dire, a parte alcuni casi spiegabili di reazione eccessiva, personalmente non ne sono stato colpito. Nessuna persona che conosco è stata colpita da una sorta di boicottaggio immeritato o qualcosa del genere.

Ammetto che ci siano stati casi di reazione eccessiva, ma sono abbastanza comprensibili. E dietro c’è una lobby ucraina. Posso capirli. Ad essere onesti, penso che stiano facendo qualcosa di controproducente per loro stessi, perché fondamentalmente dicendo: “beh, guardate che tutti i russi sono come Putin”, stanno rendendo il miglior servizio a Putin stesso, perché in questo modo trasmettono questo tipo di messaggio agli italiani, per esempio, o ai tedeschi… E come vuoi che reagiscano gli Europei?

Diranno che se tutta la Russia è così, allora è meglio negoziare con Putin, tanto non si può fare la guerra e sconfiggere l’intera Russia. Quindi forse gli ucraini sbagliano quando promuovono la narrazione che tutti i russi sono uguali, anche se capisco perfettamente la loro rabbia. E penso che questa reazione sia in misura significativa giustificata.

In generale penso che, anziché lamentarsi di un trattamento immeritato, si dovrebbe far sentire la propria voce e esprimersi contro la guerra. Altrimenti è un’ipocrisia. Se si sostiene questa enorme guerra fondamentalmente contro l’intera Europa, cosa ci si può aspettare? Un’accoglienza di benvenuto da parte degli europei? Questa è ipocrisia. Perché qua non si chiede di sostenere gli ucraini.

 La questione è diversa, perché ovviamente i soldati russi stanno morendo e questo crea naturalmente un problema morale per i russi. Bisogna semplicemente dire “non in mio nome! questa guerra non in mio nome!”. Penso che questo sarebbe sufficiente per far capire che si è contrari alla guerra.

Non credo che si tratti veramente di cancel culture o come la chiamate ora.

Ovviamente ci sono misure che colpiscono tutti e, ad essere onesti, personalmente subisco un danno collaterale. Viaggiare in Europa è diventato complicato. Proprio ieri sera stavo pensando a come viaggiare in Germania.

È logisticamente molto difficile. E poi non posso pagare il biglietto per il viaggio perché le mie carte sono bloccate. Quindi è davvero difficile, ma c’è poco da lamentarsi.  È la guerra.

Voglio dire, gli ucraini sono stati e continuano ad essere bombardati quindi perché dobbiamo sorprenderci che le sanzioni ci portino dei danni collaterali? Ci sono alcune misure o azioni alle quali non dobbiamo opporci e lamentarci.

Non penso che siano moralmente sbagliate, penso solo che sanzioni contro le strutture di istruzione e cultura siano controproducenti. Non me ne lamento: gli europei sono liberi di imporle. Penso solo che siano controproducenti. Voglio dire, guardate per esempio, all’università di Tartu in Estonia: ora non sono più disposti ad accettare gli studenti russi…

Ripeto, non mi lamento, ma credo solo che azioni simili siano controproducenti perché in pratica fanno il gioco di Putin consolidando la sua immagine come rappresentante di tutti i russi, il che non è assolutamente vero.

Lei ha detto che alcune persone appoggiano questa guerra mentre altri forse dicono “non in mio nome”. Fino a che punto è responsabile la società russa di questa guerra? E, in termini generali, cosa pensa della colpa collettiva e della responsabilità collettiva?

Perché la società russa sia responsabile della guerra, dovremmo avere chiaro cosa sia la società russa. Ma non esiste nulla che possa esser definito come “la società russa”. Si pensa che sia la collettività a prendere questa decisione, ma non è vero. Ancora una volta, l’intero regime politico è stato costruito sulla distruzione di qualsiasi tipo di soggettività politica.

È difficile, credo, per molte persone in Europa capire fino a che punto sia stata distrutta la concezione di essere soggetti, attori in politica. Qualsiasi discorso su qualsiasi tipo di azione politica, qualsiasi tipo di pensiero normativo, tutto è diventato illegittimo in Russia.

Tanto per fare un esempio: anche solo pensare di discutere di migliorare qualcosa nelle nostre vite è già percepito come un’assurdità perché, per come è strutturato il mondo, le cose non possono essere migliorate. Questo è come i russi si approcciano alla vita e al loro posto nella vita politica.

I russi pensano che il mondo sia fondamentalmente un brutto posto. Lo ha detto anche Putin: durante la conferenza stampa dopo l’incontro con Biden, è stato abbastanza chiaro nel dichiarare che “nel mondo non esiste la felicità”.

Perché mi chiedete di migliorare il mondo? Il mondo non può essere migliore di quello che è. È solo un luogo in cui gli esseri umani si uccidono a vicenda. Questo è normale. Questo è ciò che gli esseri umani fanno normalmente”.

E questo è un pensiero abbastanza diffuso in Russia. Un pensiero notevolmente sottovalutato ma che preclude qualsiasi possibilità di azione politica collettiva. Se non ti fidi di nessuno, perché dovresti impegnarti in qualcosa con il prossimo? Così uno finisce a preoccuparsi solo di sé stesso, dei suoi soldi, dei suoi affari personali. Quindi, credo, che l’intera questione della responsabilità della società russa sia del tutto irrilevante.

Naturalmente questo non esime i russi dalla responsabilità individuale, ma credo che la responsabilità stia nell’altro… Dobbiamo distinguere due cose: non si tratta dei russi che sostengono davvero questa guerra, non è questo il caso finora, ma si tratta della loro indifferenza.

 Vedo una sorta di fascistizzazione della società e questo è molto pericoloso. Questa completa indifferenza alla sofferenza umana è un problema importante. Ma questo è sempre stato un problema in Russia: i russi sono indifferenti non solo nei confronti degli ucraini ma anche verso i propri compaesani.

Per esempio, lei pensa che la gente si preoccupi davvero delle sofferenze della gente di, non so, Krasnodar? No, per niente! Finché non è un mio problema non mi interessa! Quindi questo è il vero problema: la totale mancanza di idea di responsabilità per i problemi politici e sociali, e questo è ciò che rende le cose terribilmente pericolose.

 Implica, infatti, che qualsiasi azione da parte del governo venga percepita come qualcosa al di fuori del controllo del singolo, che quindi non ha alcuna responsabilità su qualsiasi cosa stia accadendo in Russia.

Questo credo sia terribile e qui sta il problema, perché la gente dice: “Non mi piace questa guerra, ma cosa ha a che fare con me? Non è affar mio, non potrei cambiare nulla, come potete chiedermi di oppormi a questa guerra? Potrei oppormi, ma in quel caso probabilmente perderei il lavoro”.

Questo senso di impotenza diffusa nella società è stato alimentato e poi strategicamente usato da Putin. E in questo e, voglio sottolineare questo punto, Putin è stato aiutato in modo significativo dagli europei, dalle élite globali in generale, ma soprattutto dagli europei.

Perché ogni volta che i russi cercavano di trovare una soggettività politica, di condurre qualche azione politica, di resistere, di impedire che accadessero le cose peggiori, ogni volta Putin riceveva un enorme sostegno dall’Europa, enormi contratti finanziari, enormi investimenti… Insomma, si è creata inevitabilmente una situazione strana.

Beh, voglio dire, non stiamo chiedendo aiuto per risolvere i nostri problemi, ma potreste per favore non aiutare Putin almeno in modo massiccio? Ogni volta che c’è un movimento di resistenza, lui ottiene immediatamente un grande accordo che porta milioni in Russia e che viene poi investito nell’esercito per sopprimere la protesta… Beh, questo ovviamente fa sentire la gente disperata.

Questo sentimento di disperazione può essere spiegato, ma non esime la Russia dalla responsabilità politica della propria posizione. Questo è, a mio avviso, un grosso, grosso problema, un pericolo terribile per l’Europa e ovviamente un problema con terribili conseguenze per la Russia nei prossimi decenni.

Quindi lei pensa che l’Occidente abbia tradito la società russa aiutando Putin?

Beh, pensando all’Occidente… chi è l’Occidente? Chi è responsabile di questo, non saprei fino in fondo. Ma, sapete, una cosa che vorrei davvero respingere è l’idea di Putin come un orso russo che esce dalla Taiga e all’improvviso, di punto in bianco, scatena questa guerra contro l’Ucraina.

 Ecco, questo non è vero. Putin sa come funzionano le cose nel capitalismo contemporaneo. Non è un caso che sia riuscito a corrompere le élite finanziarie e politiche in tutta Europa e anche in Italia. Ha semplicemente capito come funzionano le cose, in una certa misura è un maestro di questo sistema capitalistico.

Non parlo quindi di una responsabilità dell’Occidente, ma di élite politiche ed economiche molto specifiche. E questa élite occidentale corrotta, proprio ora che stiamo parlando, sta ancora facendo pressioni sui propri governi, stanno facendo lobbying per promuovere fondamentalmente l’idea del “bene, lasciamogli un pezzo di Ucraina e così otteniamo la pace perché vogliamo tornare a fare affari come prima”.

E gli uomini d’affari italiani sono ancora qua in Russia a fare business anche se ci sono delle sanzioni perché a loro non interessa nulla dell’Ucraina, vogliono fare soldi e basta. E per loro Putin va bene finché possono fare soldi in Russia.

Qui ci sono ottime condizioni per fare affari. Perché dovrebbero occuparsi dell’Ucraina? Questo è il problema.

Non darei la colpa all’Occidente, ma se siamo arrivati fino a questo punto è colpa anche dell’élite politica ed economica corrotta di alcuni Paesi occidentali, e l’Italia è certamente tra questi. 

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