Chi sono i nuovi padroni del mondo.

Chi sono i nuovi padroni del mondo.

 

 Il 14 Dicembre saprete se la Vostra Casa

vale Zero (e probabilmente sarà così…).

 

Conoscenzealconfine.it – (15 Novembre 2022) - Leoniero Dertona – ci dice:

 

Il 14 dicembre prossimo la Commissione rivelerà la propria proposta per l’efficientamento energetico delle abitazioni nell’ambito dell’“Ambizioso”.

Il 14 dicembre prossimo la Commissione rivelerà la propria proposta per l’efficientamento energetico delle abitazioni nell’ambito dell’“Ambizioso”, ovvero il piano per la riduzione delle emissioni di “CO2” collegato all’obiettivo “Fit for 55”, voluto dalla commissione.

 

Dietro questi paroloni quel giorno saprete se la vostra casa ha un valore di mercato o vale, letteralmente, zero. Tutto questo per la direttiva” EPBD”, sigla inglese che significa “energy performance of buildings direttive”.

La direttiva punta a far sì che dal 2050 tutte le abitazioni nella “UE” siano a emissioni zero, cioè a massima efficienza.

Per fare questo bisogna da un lato introdurre strette normative sulle nuove costruzioni, ma dall’altro bisogna efficientare, in modo forzato, quelle esistenti. Per fare questo la Commissione ha deciso una serie di interventi, a carico degli stati, estremamente brutali:

 

 la bozza della nuova EPBD prevede che, a partire dal 2027, gli Stati vietino la vendita e l’affitto degli immobili di classe inferiore alla classe energetica “E”.

 Dal 2030 l’asticella si alzerà alla classe energetica “D”, per escludere poi dal mercato dal 2033 gli immobili delle classi inferiori alla “C”.

Si dovrebbe procedere più lenti per gli appartamenti in condominio: 

classe minima “E” per venderli o locarli dal 2030, “D” dal 2033 e “C” dal 2040.

Per tutti, il divieto di vendita potrà essere superato se l’acquirente si impegna a raggiungere la classe energetica minima indicata dalla direttiva entro tre anni dalla stipula dell’atto di vendita.

Gli edifici nuovi dovranno essere a emissioni zero dal 2030 e quelli pubblici dal 2027.

Esistono delle deroghe, ma sono oggettivamente minimali e riguardano immobili agricoli, industriali o isolati con superficie inferiore ai 50 mq.

Per capire l’impatto di questa direttiva possiamo far notare che 2,15 milioni di immobili in Italia sono anteriori al… 1918.

Si calcola che l’87% degli immobili italiani sia in classe “D” o inferiore. A questo punto i proprietari saranno nella necessità di:

spendere decine di migliaia di euro in ristrutturazioni immobiliari costose;

adattarsi ad avere una casa che viene a valere ZERO e che non potranno vendere né affittare. Probabilmente potranno, al limite, utilizzare come prima casa.

Non solo… Vogliamo citare il report Banca d’Italia sulla Ricchezza delle famiglie italiane, quello spesso citato quando si parla di “Imposta patrimoniale”, soprattutto all’estero.

A fine 2020 la ricchezza netta delle famiglie italiane è pari a 10.010 miliardi di euro, 8,7 volte il loro reddito disponibile, registrando una crescita dell’1% (circa 100 miliardi) rispetto al 2019.

Le abitazioni, principale forma di investimento delle famiglie, rappresentano quasi la metà della ricchezza lorda.

Le attività finanziarie risultano in crescita rispetto all’anno precedente, soprattutto per l’aumento di depositi e riserve assicurative, mentre il totale delle passività è pressoché stabile.

Dato che un bene che non è vendibile ha, per sua natura, un valore zero, circa il 40% della ricchezza delle famiglie italiane rischia di scomparire nel nulla.

In perfetto stile sovietico poi la Commissione prevede dei piani nazionali con delle tabelle di marcia con obiettivi stabiliti a livello nazionale e indicatori di progresso misurabili, con obiettivi fissati per il 2030, 2040 e 2050.

Ristrutturare diversi milioni di case italiane è un obiettivo… impossibile, considerando che in due anni di 110% se ne sono ristrutturate poco più di 300 mila. Però tutto va bene… a quanto pare.

Siete pronti a spendere decine di migliaia di euro per efficientare la vostra casa secondo i voleri della UE nei prossimi anni e senza neppure più l’aiuto del 110% che andrà in esaurimento e che è, fin d’ora già in forse?

Visto che di questo tema non parla nessuno, ritengo proprio di sì.

(Leoniero Dertona) – (scenarieconomici.it/il-14-dicembre-saprete-se-la-vostra-casa-vale-zero-e-probabilmente-sara-cosi/)

 

 

DA SOROS, GATES, KENNEDY, GETTY & C.

I finanziamenti ai rivoltosi climatici.

Laverità.info – Maddalena Loy – (14 novembre 2022) – ci dice:

 I gruppi di attivisti locali, tra cui gli italiani di “Ultima generazione”, appartengono alla rete internazionale” A22”, sostenuta dal “Climate emergency fund”.

Che è alimentato dai paperoni interessati agli investimenti “green”.

Il sistema è quello delle matrioske: piccoli gruppi di anonimi attivisti locali ( in Italia “Ultima generazione”, quella che blocca autostrade e imbratta i quadri nei musei), strutturati all’interno di una rete internazionale (la A22), coordinata  e sovvenzionata  da una “holding” globale (il Cef), che a sua volta è  Finanziata da donatori privati, il 90% n dei quali sono miliardari. È questo il sistema che ruota intorno al Cef, o “Climate emergency fund”, organizzazione” non profit con sede nell’esclusiva Beverly Hills, finanzia i ragazzi protagonisti di tutte le azioni radicali avviate negli ultimi mesi, definita “una delle sei organizzazioni climatiche più importanti al mondo”.

Il Climate emergency fund è stato fondato nel 2019 da Trevor Neilson – ex strettissimo collaboratore di Bill Gates – da Aileen Getty – figlia di John Paul Getty II dell’omonima compagnia petrolifera – da Rory Kennedy, figlia di Bob Kennedy.

(Enormi capitali a fondazioni che usano la filantropia come maschera).

Il Cef nasce da un’idea di Neilson, classe 1972, “enfant prodige” che ha fatto del business filantropico la sua professione.

A secondo anno di università, lasciò gli studi per la Bill & Melissa Gates Foundation e diventò addirittura il portavoce personale della coppia. Dopo l’incarico di direttore delle comunicazioni, Gates nominò Neilson direttore dei progetti speciali, dove è responsabile di importanti partenariati tra cui l’International Aids vaccine iniziative.  

In questo ruolo, Neilson è attivo nell’iniziativa One campaign organizzata da Bobby Shriver, nipote di John F. Kennedy, e incontra Rory Kennedy, avvicinandosi nel frattempo al mondo radical-chic dei democratici americani (Dem Usa): diventa membro della “Clinton global iniziative” e svolge un ruolo attivo nella campagna per la rielezione di Barack Obama.  

Nel frattempo, si trasferisce a New York e costruisce un vero e proprio sistema strutturato intorno alle emergenze climatiche e alle energie rinnovabili, sotto l’ombrello della Global business coalition, fondata da George Soros e da Ted Turner, proprietario della Cnn, con il contributo di Bill Gates.

Ad esempio, aiuta Brad Pitt a lanciare la fondazione Make it right per ricostruire un distretto di New Orleans dopo l’uragano Katrina, poi chiamata in tribunale in una causa collettiva conclusasi con un risarcimento di 20 milioni di dollari per aver costruito alloggi scadenti per i residenti a basso reddito.

Neilson opera con oltre 60 filantropi miliardari e personaggi dello star business americano, a cominciare, appunto, da Brad Pitt e Bono. 

Le buone frequentazioni Dem lo conducono ad Aileen Getty, che nel 2019 dona i primi 500 mila dollari per fondare, insieme con lui e Rory Kennedy, il Climate emergency fund, ispirato a Soros, Bill Gates e a Greta Thunberg, oltre che ai manifestanti di Extinction rebellion.    

 Contemporaneamente, fonda WasterFuel, società che produce, guarda caso, carburanti sostenibili. E qui il cerchio si chiude: Neilson, pupillo di Gates, con una mano sovvenziona ragazzi che compromettono la loro fedina penale per lottare contro i fossili, con l’altra produce energia sostenibile: geniale (ma gli attivisti lo sanno?).

La filosofia del Cef è sponsorizzata in tutto il mondo, ogni giorno, azioni di disobbedienza civile, non violente e legali, per fare pressioni sui governi, fino a che questi non varino leggi a favore delle energie alternative.  

“Noi finanziamo il reclutamento, la formazione, le spese legali e le azioni.

Il movimento deve agire come se la verità fosse reale, impiegando comunicazioni di emergenza e tattiche militanti”, ha dichiarato Margaret Klein Salamon,     

direttore esecutivo del Cef e autrice del libro, “portare l’opinione pubblica in modalità di emergenza”: missione compiuta.

A fare il lavoro sporco, tanto ci pensano i ragazzi, ingaggiati in tutto il mondo con la chimera del pianeta green: dalla nascita nel 2019 a oggi, il Cef ha “formato “22 mila attivisti e ne ha mobilitati oltre un milione, finanziando un centinaio di organizzazioni e fondandone altre 43.

Queste si raccolgono intorno alla rete A22.  

I “soldati del clima”, bravi ragazzi arruolati dal Cef, spesso si espongono all’arresto, a dispetto della “legalità” delle loro azioni: alcuni di loro sono già stati in carcere decine di volte. Molti sono volontari e lavorano gratis per anni, ma dietro di loro c’è una struttura che – godendo oltre tutto delle esenzioni dalle imposte federali sul reddito concesse alle organizzazioni “501 C “, quale è il Climate emergency fund – gestisce importanti flussi di denaro. 

Da dove arrivano?

Il Cef è una macchina da soldi, ma con le donazioni dei normali cittadini raccoglie non più di 12.000 dollari al mese.

Gran parte dei fondi attraverso i quali si sostiene, e foraggia i movimenti affiliati in tutto il mondo, viene in realtà dai ricchi “filantropi”: il 14 % dei sostenitori del Cef rappresenta l’89% dei suoi finanziamenti (non documentati sul sito della fondazione).

Una delle principali sostenitrici è, appunto, Aileen Getty, che nel 2021 ha donato un altro milione di dollari.

Il regista Adam McKay ha versato al Cef 4 milioni di dollari.

Altri generosi sostenitori del Cef sono la Errol Foundation di Sébastien Lepinard (fondo Next World), la Eutopia Foundation di Aklbert Wenger, partner di un fondo di venture capital, e il Carbon critical fund.  

Lo scettico del clima Paul Homewood ha inoltre citato George Soros come finanziatore di uno dei partner del Cef, il movimento Extinction rebellion: nel database di Xr, poi reso inaccessibile, alla voce “Progetti di raccolta fondi”, è stato trovato il suo nome, ma è l’unico donatore del quale non è stato specificato l’importo devoluto.

Il responsabile finanziario di Xr, Andrew Medhurst, ha smentito la notizia, mentre la fondazione Open society di Soros, interpellata a riguardo, non ha confermato, ma neanche negato.

Nessun problema se la grande finanza gira intorno al business del clima?

In effetti, ha dichiarato Margaret Klein Slamon al Guardian, “siamo consapevoli delle possibili accuse di corruzione capitalista, ma, si difende,” il CEf non ha mai chiesto ai suoi movimenti di attenuare le proteste”.

È davvero così?

Nel dicembre 2019 l’azione di Xr(Partner Cef)contro l’aeroporto di Heathrow è stata abbandonata.    

Forse perché uno dei maggiori finanziatori di Xr, il miliardario Chris Hohn, ha una partecipazione di centinaia di milioni di euro nello stesso aeroporto?

Un capitolo a parte meritano le forme di erogazione delle sovvenzioni. Un’inchiesta del Jerusalem Post ha evidenziato che molti di questi movimenti che si riuniscono sotto il Cef ricevono elargizioni in criptovalute. Uno di questi è Just stop oil: il movimento offre la possibilità di effettuare donazioni in Ethereum, segnalata dal sito Web Digiconomist nel 2021 perché ogni singola transazione effettuata con questa valuta produce grossomodo la stessa quantità di emissioni di CO2 di una famiglia media americana in 2,5 giorni.

Ciò significa, secondo il Jerusalem Post, che “la cripto valuta consuma ogni anno più di tutta la Danimarca”. A fine settembre, Ethereum ha dichiarato di essere passata a un paino più ecologico, ma Just stop oil, che ha l’obiettivo primario di ridurre le emissioni nel Regno Unito, “ha comunque sostenuto l’uso della criptovaluta con un tasso di emissione annuale di CO2 di oltre 11 milioni di tonnellate”, riferisce il Jerusalem Post. 

 

 

La crescita della popolazione

mondiale minaccia il disastro

per la civiltà occidentale.

 Unz.com - GREGORY HOOD – (10 NOVEMBRE 2022) – ci dice:

 

In meno di una settimana, ci saranno otto miliardi di persone sulla Terra. Il capo del Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione, Natalie Kanem, ne è entusiasta: "Otto miliardi di persone, è una pietra miliare importante per l'umanità.

Tuttavia, mi rendo conto che questo momento potrebbe non essere celebrato da tutti.

 Alcuni esprimono preoccupazione per il fatto che il nostro mondo sia sovrappopolato.

Sono qui per dire chiaramente che il semplice numero di vite umane non è motivo di paura".

Il 15 novembre, le Nazioni Unite celebreranno la "Giornata degli otto miliardi", che afferma "è sia un motivo di celebrazione che un chiaro appello all'umanità per trovare soluzioni alle sfide che affrontiamo".

Tuttavia, i bianchi che leggono le "soluzioni" proposte dall'organizzazione dovrebbero essere preoccupati.

Le Nazioni Unite lamentano "disuguaglianza" in particolare "accesso ineguale all'assistenza sanitaria, opportunità e risorse, e oneri ineguali di violenza, conflitti, povertà e cattiva salute".

 

Le Nazioni Unite hanno la soluzione: "Dobbiamo rimuovere sistematicamente le barriere – basate su genere, razza, disabilità, orientamento sessuale o status migratorio – che impediscono alle persone di accedere ai servizi e alle opportunità di cui hanno bisogno per prosperare".

Rimuovere "le barriere basate sullo status di migrazione" significa "lasciarli tutti dentro".

Siamo chiaramente nel mirino delle Nazioni Unite:

Dobbiamo ripensare i modelli di crescita economica e di sviluppo che hanno portato al consumo eccessivo e alimentato la violenza, lo sfruttamento, il degrado ambientale e il cambiamento climatico, e dobbiamo garantire che i paesi più poveri – che non hanno creato questi problemi, ma sopportano il peso del loro impatto – abbiano le risorse per costruire la resilienza e il benessere delle loro popolazioni in crescita.

"Consumo eccessivo" è un termine caricato; Chi decide quanto è troppo? E "noi" dovremmo "avere le risorse" per le "popolazioni in crescita" delle nazioni povere. Puoi indovinare chi dovrebbe pagare.

Ci sono troppe persone?

 "Molti esperti dicono che questa è la domanda sbagliata", ha detto una storia sulla crescita della popolazione.

Un "esperto" è Joel Cohen della Rockefeller University. "Troppi per chi, troppi per cosa?" ha chiesto.

Ha anche detto che gli esseri umani sono "stupidi", "avidi" e non hanno "lungimiranza". Se gli esseri umani sono stupidi, avidi e miopi, perché averne miliardi di più?

 

Un'altra "esperta", Jennifer Sciubba del Wilson Center, ha detto che "è pigro e dannoso continuare a tornare alla sovrappopolazione".

"Davvero, siamo noi", ha spiegato. "Siamo io e te, l'aria condizionata che mi piace, la piscina che ho fuori e la carne che mangio di notte che causa molti più danni."

Chiaramente se rinunciamo all'aria condizionata, alle piscine e alla carne, tutto andrà bene, ma perché dovremmo assecondare il ricatto demografico?

Non è "pigro e dannoso" per coloro che vivono nei paesi sviluppati dire che è una brutta cosa per le popolazioni dei paesi poveri continuare a crescere se dobbiamo sacrificarci per loro.

 Ma che divertimento sarà per gli "esperti" che arriveranno a decidere chi usa troppe risorse, chi dovrebbe ottenerne di più e a cosa dovremmo essere costretti a rinunciare.

Il mondo non è in piena espansione. Il National Policy Institute ha riferito che i bianchi saranno meno del 10% della popolazione mondiale entro il 2060.

Nel 1950, la cifra era del 28%. I neri, che erano meno del 9% della popolazione mondiale nel 1950, saranno più del 25% entro la metà del secolo.

Pati Buchanan ha scritto questo nel 2008:

Più sorprendente è che la popolazione bianca si sta riducendo non solo in termini relativi, ma in termini reali. Duecento milioni di bianchi, uno su sei sulla terra – un numero pari all'intera popolazione di Francia, Gran Bretagna, Olanda e Germania – scompariranno entro il 2060.

La razza caucasica sta facendo la fine dei Mohicani.

A differenza dei Mohicani, non otterremo una prenotazione o un casinò. Il Guardian, in un articolo del 2000 intitolato "Gli ultimi giorni di un mondo bianco", ha scritto:

Il centro di gravità globale sta cambiando. Nel 1900 l'Europa aveva un quarto della popolazione mondiale e tre volte quella dell'Africa; entro il 2050 si prevede che l'Europa avrà solo il 7% della popolazione mondiale e un terzo quella dell'Africa.

L'invecchiamento e il declino della popolazione delle nazioni prevalentemente bianche hanno spinto a prevedere – e chiedere – una maggiore immigrazione da parte delle popolazioni giovani e in crescita delle nazioni in via di sviluppo per compensare il deficit.

La carenza di popolazione in Europa è dovuta principalmente al fatto che i bianchi non hanno abbastanza figli.

Tuttavia, le politiche nataliste intese ad aumentare i tassi di natalità sono controverse.

Ad esempio, il ministro svedese Annika Strandhall ha detto delle politiche pro-bambino dell'Ungheria:

"Questa politica puzza degli anni '30 e come populisti di destra, hanno bisogno di creare cortine fumogene per ciò che questo tipo di politica fa all'indipendenza per cui le donne hanno combattuto".

 È chiaramente fascista volere che il tuo popolo sopravviva.

Mentre l'ONU celebra la "Giornata degli 8 miliardi", allude spesso all'aborto. Perché non incoraggiarlo nei paesi poveri?

Degli otto miliardi del mondo, la metà vive in soli sette paesi, compresi gli Stati Uniti. Tuttavia, questo non può più essere definito un paese bianco. La popolazione bianca sta effettivamente diminuendo, qualcosa che la sinistra celebra apertamente.

La Cina ha la più grande popolazione del mondo, ma deve affrontare una crisi demografica.

Grazie alla politica del "figlio unico", entro la fine del secolo, la popolazione cinese di 1,4 miliardi scenderà sotto gli 800 milioni. I cinesi saranno vecchi e i giovani faranno fatica a sostenerli.

 Il tasso di natalità della Cina è diminuito durante il governo di Xi Jinping e la Cina ha il più alto tasso di aborto tra i grandi paesi.

 

La crescita reale della popolazione nel prossimo secolo verrà dall'Africa.

Bill Gates ha dichiarato nel 2019 che "entro la fine del secolo, quasi la metà dei giovani nel mondo sarà nell'Africa sub-sahariana".

Secondo un sondaggio Pew del 2017, milioni di africani – la maggioranza in alcuni paesi – vogliono emigrare.

 Pew ha riferito nel 2019 che il 45% della popolazione della Nigeria, il paese africano più popoloso, prevede di emigrare entro i prossimi cinque anni.

Saranno molte persone. La Nigeria potrebbe diventare il secondo paese più popoloso del mondo entro il 2100.

 Se prendiamo in parola le Nazioni Unite, non ci devono essere "barriere" per impedire ai nigeriani di ottenere i "servizi e le opportunità" che vogliono.

In realtà, è colpa nostra se vogliono andarsene.

 In una conferenza sui cambiamenti climatici in Egitto, il primo ministro delle Bahamas Philip Davis ha affermato che a meno che le nazioni ricche non riducano le emissioni climatiche, ci saranno milioni di "rifugiati climatici".

Il primo ministro delle Barbados Mia Mottley ha detto che ci sono già 21 milioni di "rifugiati climatici" e che ce ne saranno un miliardo entro il 2050.

 Vuole una tassa sulle compagnie di combustibili fossili e più soldi.

Qualcuno pensa che l'immigrazione di massa si fermerebbe se avessimo economie a zero emissioni di carbonio?

I "rifugiati climatici" fanno parte del nuovo racket.

Poiché il nord è responsabile della maggior parte delle emissioni di carbonio, il maltempo nel sud è colpa nostra.

 Quindi, la soluzione è "riparazioni climatiche".

Non aspettatevi che la Commissione europea combatta questo. La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen si è detta "felice" che fosse all'ordine del giorno.

 "Ora è importante sedersi e definire e risolvere davvero di cosa si tratta, e poi guardare i finanziamenti disponibili", ha detto.

Con l'Europa in una crisi energetica, una probabile recessione e pagando per la difesa dell'Ucraina, quali "finanziamenti" sono disponibili?

Gli Stati Uniti non saranno esclusi da tale schema. Abbiamo emesso più carbonio, quindi siamo i più "responsabili".

I paesi ricchi possono emettere più carbonio di quelli poveri, ma ciò significa che chiunque si trasferisca in un paese ricco aumenta le emissioni.

Gary Bauer ha scritto nel 2010:

 

Quando le persone si spostano dai paesi poveri all'America, si adattano rapidamente in almeno un modo: le loro abitudini di consumo.

Gli studi dimostrano che i recenti modelli di consumo degli immigrati, compreso il consumo di energia, assomigliano rapidamente a quelli dei nativi americani.

Ma è importante confrontare le emissioni di CO2 degli immigrati non con quelle dei nativi americani, ma con i compatrioti che rimangono a casa.

In un rapporto del 2008, "Immigrazione negli Stati Uniti ed emissioni di gas serra nel mondo", Patrick McHugh del “Center for Immigration Studies” ha scoperto che, in media, gli immigrati aumentano le loro emissioni di quattro volte dopo essere arrivati negli Stati Uniti.

Gli immigrati statunitensi producono circa 637 milioni di tonnellate di emissioni di CO2 all'anno. Sono 482 milioni di tonnellate in più di quelle che avrebbero prodotto se fossero rimasti nei loro paesi d'origine.

Certo, vengono perché vogliono consumare di più e non ci pensano due volte sul carbonio. È difficile credere che chiunque voglia far entrare gli immigrati poveri sia seriamente intenzionato a ridurre le emissioni di carbonio.

(La CO2 è necessaria per la vita delle piante! Ndr.)

Gli attivisti climatici credono a quello che dicono?

Parlano della fine del mondo.

Considerate solo Stop al petrolio in Gran Bretagna.

Una giovane attivista bianca ha detto di non avere "futuro" e ha criticato i giovani che non stavano facendo "il loro dovere" per fermare i combustibili fossili.

 I membri di Just Stop Oil hanno attaccatole opere d'arte perché porre fine all'uso di combustibili fossili è "il primo passo per garantire la nostra sopravvivenza".

Gli attivisti hanno bloccato il traffico sulla strada M25 per quattro giorni consecutivi.

Il gruppo definisce "tradimento" l'incapacità di fermare i combustibili fossili. Afferma che "il cambiamento climatico e la povertà sono inestricabilmente legati, con i poveri e le persone di colore che rischiano di soffrire in modo sproporzionato per gli impatti climatici".

La fonte è una notizia della NBC che dice che i quartieri neri soffriranno di più perché i cambiamenti climatici aumenteranno le inondazioni. Il gruppo si preoccupa dei suoi "fratelli e sorelle nel sud del mondo".

Qui, abbiamo giovani attivisti bianchi che urlano contro terribili minacce alla loro sopravvivenza, tra cui, "all'estremo, l'estinzione umana".

 Loro e altri ambientalisti sembrano inconsapevoli delle minacce alla loro estinzione razziale o alla connessione tra immigrazione di massa e distruzione ambientale.

Se gli occidentali sono costretti a rinunciare all'aria condizionata, alla carne o alle automobili, perché non fermare i migranti che sono venuti qui perché vogliono proprio quelle cose?

Questi ambientalisti estremisti sarebbero pronti a dire ai neri di rimanere a casa come lo sono a deturpare un dipinto di Van Gogh?

Il "cambiamento climatico", come il "razzismo", può giustificare l'intervento in quasi tutto.

 Proprio come il Civil Rights Act rende qualsiasi disputa privata tra bianchi e neri un potenziale caso federale, l'"emergenza climatica" giustifica intrusioni radicali nelle nostre vite.

 Inoltre, gli attivisti climatici combinano la loro militanza con un profondo risentimento contro l'Occidente che ha costruito il mondo moderno.

"Riparazioni climatiche", "rifugiati climatici" e "giustizia climatica" sono nuove scuse per dare la nostra ricchezza a persone che non possono sostenersi.

Se gli ambientalisti non combinano i loro appelli al sacrificio con un appello a fermare l'immigrazione, è solo un'altra protesta anti-bianca.

 Le persone che si preoccupano dell'ambiente dovrebbero sostenere campagne "progressiste" per il controllo delle nascite e ciò che gli attivisti chiamano "diritti delle donne".

La razza bianca, una minoranza globale, sta diventando una minoranza anche nelle sue terre d'origine.

Questo è il vero problema esistenziale che i giovani attivisti dovrebbero combattere.

La soluzione non è uno sfarzo senza senso sulla lotta al cambiamento climatico.

 Spetta ai bianchi costruire uno stato che ci permetta di sfuggire alle fauci spalancate e in continua crescita della dipendenza non bianca.

Se i bianchi non sono in giro per salvare il pianeta, nessun altro lo farà. 

 

 

 

Chi sono i due nuovi padroni del mondo.

Nicolaporro.it- Nicola Porro - Riccardo Ruggeri – (11 Giugno 2021) – ci dice:

 

Premetto che di globalizzazione ne so q.b. (quanto basta) a un (ex) CEO di multinazionali quotate a Wall Street.

Per essere più tranquillo ho interpellato l’amico svizzero, conosciuto dai miei lettori come il Signor Banchiere XY (lui sostiene di sapere molto di gestione dei patrimoni altrui, meno di dottrina economica).

Questo Cameo quindi è il frutto di due parvenu dichiarati, non ce ne vogliano gli accademici veri, il Cameo non è certo destinato a loro, ma ai cittadini comuni, quelli che si accontentano, in economia, di sapere q.b.

 Come dice quella cuoca sul canale 416 di SKY: “Fatto in casa per voi”.

Non tornerà tutto come prima.

Conclusioni? Secondo noi un’ovvietà: il virus di Wuhan non poteva non sconvolgere i fragili paradigmi economici in essere in Occidente.

E così è stato.

 Altro che “tornerà tutto come prima”! I feroci guardiani del deficit/PIL, del debito/PIL, dello spread, dell’austerità, sono usciti distrutti dalle decisioni dei loro colleghi che si sono subito allineati al nuovo corso spendaccione, addirittura a un capitalismo di Stato (aiuto alle imprese, interventi diretti nel capitale di aziende strategiche, protezione degli asset chiave, tutti targati ... addirittura Mario Draghi).

Sono abbacchiati, e li capisco, per anni hanno combattuto fino al ridicolo per uno 0,2% sul deficit o per non superare il tetto 130 di debito/PIL e questi in un anno ti fanno 160 o addirittura il 10% a botta, per non parlare dei francesi e degli americani che stampano moneta h24.

Si sono ridotti a essere come i virologi di regime che prima ci terrorizzavano e ora, avendole sbagliate tutte, sono costretti ad arrampicarsi sugli specchi, sperando che la variante, che so cambogiana, li rimetta in gioco.

Cambiano i rapporti di potere.

La crisi ci ha insegnato che il nuovo padrone del mondo è Xi Jinping e il padrone dell’Occidente Jeff Bezos.

Nella recentissima emissione di bond per 18,5 miliardi $ (di cui non aveva alcun bisogno, visto che è liquido per 50 mld) Amazon ha spuntato, sul mercato obbligazionario, un differenziale rispetto al bond del Tesoro americano di un nonnulla, appena uno 0,1%.

Ci rendiamo conto a cosa stiamo assistendo? Il mitico “Tesoro” americano alla pari con un logistico digitale? Che non ci sia più religione?

XY trova divertente che il mondo dalla globalizzazione selvaggia vada verso una selvaggia autarchia.

Presto la camicia oxford bianca sarà sostituita da quella nera di orbace, si chiede Xi Jinping l’autarchia la chiama autosufficienza, ha deciso, per alimentare il suo enorme mercato interno, di produrre a discapito delle esportazioni, quindi si sta sfilando in parte dalla liberalizzazione globale, seguendo le dritte del buzzurro Donald Trump.

Che effetti ciò avrà per la globalizzazione?

 E così stanno facendo anche gli Stati Uniti di Joe Biden, riprendendo la strada degli stimoli fiscali tracciata sempre dal vecchio buzzurro.

L’Europa immobile.

E l’Europa, si chiede il Signor Banchiere XY, che farà?

 Se le esportazioni calano e i prezzi delle materie salgono sarà un dramma per l’Europa (e per noi), visto che la strategia resta quella della trasformazione, senza però possedere materie prime?

 Ci vogliono decisioni strategiche rapide, per fortuna è arrivato Mario Draghi, ma la nostra burocrazia e quella europea sono pachidermi impossibili da trasformare in gazzelle, quindi saremo inermi di fronte a un cambio di paradigma, di cui ci sfuggono ancora i contorni e il dimensionamento.

 

 

 

I nuovi Padroni del Mondo.

Marcelloveneziani.com – Marcello Veneziani – (12-6-2022) – ci dice:

 

Chi sono oggi i Potenti della Terra?

 In altri tempi avremmo indicato i nomi dei principali Capi di Stato, più i grandi comandanti degli apparati militari delle Superpotenze.

Ma i leader delle democrazie sono di passaggio, vulnerabili e con limitati poteri, ben riassunti dall’impacciata leadership di Biden; molti autocrati di potenze regionali hanno grande peso nella loro nazione e nella loro zona di influenza ma non possono dirsi Potenti della Terra.

Ad eccezione di Xi Jin Ping, e solo in parte di Putin, i veri potenti della Terra gestiscono risorse chiave del mondo globale.

Oggi i Potenti della Terra sono soprattutto i giganti planetari della Finanza, i padroni dei grandi colossi tecno-economici, nel regno della comunicazione e della distribuzione, delle fonti energetiche o di Big Pharma, che hanno visto raddoppiare i loro profitti nell’epoca del Covid.

Ma il loro potere non deriva semplicemente dalla loro ricchezza in espansione e non è quella a suscitare la maggiore preoccupazione: si possono definire Potenti della Terra coloro che dispongono di imperi transnazionali e hanno l’ambizione e i mezzi per condizionare il futuro dell’umanità.

Nei giorni scorsi è stato pubblicato dall’Oxfam un rapporto intitolato “La pandemia delle disuguaglianze” in occasione del summit dell’economia e della finanza che si tiene a Davos.

Tutti i media del mondo hanno ripreso i dati e i nomi di questi superricchi, soffermandosi dal punto di vista delle diseguaglianze, sottolineando cioè che mentre mezzo mondo, anche in Occidente, si impoveriva o viveva in difficoltà con la pandemia, c’era chi si arricchiva smisuratamente.

 Il sottinteso era il tema, eticamente indiscutibile ma praticamente irrisolvibile, di condannare l’ingiusta concentrazione della ricchezza, rispetto alle povertà sempre più vaste e diffuse, e di auspicare una distribuzione più equa dei beni nel pianeta.

I loro nomi e i loro marchi sono famosi in tutto il mondo: Jeff Bezos di Amazon, Elon Musk di Tesla e Space X, Mark Zuckenberg di Facebook-Meta, Bill Gates di Microsoft, Larry Page e Sergey Brin di Google, e poi il francese Bernard Arnault e il suo impero famigliare; Larry Ellison, Steve Ballmer, Warren Buffet e altri giganti cinesi, indiani, giapponesi, arabi.

I dieci uomini più ricchi del mondo hanno raddoppiato i loro patrimoni da 700 a 1.500 miliardi di dollari, nel giro di pochi mesi.

 Ma il tema della super ricchezza, pur così importante, è secondario rispetto alla concentrazione della potenza nelle loro mani, che è poi il vero tema in gioco per i destini dell’umanità.

Ovvero, i grandi super-ricchi inquietano non tanto perché si arricchiscono smisuratamente in un momento di disgrazia planetaria; ma perché alcuni di loro fanno pesare la loro potenza finanziaria, industriale, commerciale e mediatica in ambiti che modificano pesantemente la vita dell’umanità.

Quando si considerano i progetti di Elon Musk e di Jeffy Bezos, di Bill Gates e di Zuckenberg, o di Soros, ci rendiamo conto che la loro ambizione va ben oltre i profitti aziendali; è quella di mutare i comportamenti e gli orientamenti dei cittadini-consumatori.

Non tutti i super-ricchi perseguono questi obbiettivi: ad esempio, il primo super-ricco italiano è la famiglia Ferrero, al quarantesimo posto nella classifica dei paperoni planetari: ma Ferrero vuol vendere i suoi prodotti, non intende modificare il pianeta e le sorti dell’umanità a colpi di… Nutella.

Diverso se l’ambito di partenza già attiene la comunicazione, l’infotainment, la distribuzione a domicilio di ogni genere di prodotto, facendo saltare ogni filiera commerciale legata al territorio. Si delinea un altro modello di società e di info-sfera.

Ma chi dovrebbe controllare la loro vertiginosa espansione, la loro influenza in ambiti assai delicati, in campo tecno-scientifico, spaziale, neurologico, e sui temi che attengono all’intelligenza artificiale?

 Dovrebbe farlo la comunità internazionale, con i suoi organismi sovranazionali, che però appaiono farraginosi e impotenti.

O dovrebbero farlo gli Stati, singoli o confederati.

Che sono come scavalcati, soverchiati dal potere extraterritoriale di queste multinazionali, spesso inafferrabili anche dal punto di vista fiscale; figuriamoci sul piano delle strategie planetarie perseguite.

Già sono inquietanti le notizie di usi e abusi della ricerca scientifica da parte degli Stati.

L’ultima di cui si è parlato riguarda la cosiddetta sindrome dell’Avana che avrebbe colpito decine di diplomatici, militari, agenti segreti statunitensi; si tratta di neuro-armi in grado di “pilotare la mente”, alterandone le funzioni.

Un’evoluzione più sofisticata e devastante di quello che un tempo veniva chiamato “lavaggio del cervello”.

La denuncia è venuta dal segretario di stato americano, Antony Blinker e dalla commissione Usa di esperti di guerra psicologica, istituita allo scopo di studiarne gli effetti e proporre i rimedi.

Si tratta di applicazioni già usate dagli stessi apparati militari statunitensi e ora in uso dai cinesi, con risvolti ancora inimmaginabili, non solo in campo difensivo o militare.

Già gli Stati, che sono dentro una rete di relazioni e controlli, nel quadro giuridico internazionale, presentano risvolti così inquietanti;

figuriamoci se queste ricerche e sperimentazioni fanno capo all’inafferrabile Volontà di Potenza di singoli imprenditori che non rispondono a nessuno, tantomeno a una sovranità popolare e ai controlli istituzionali;

rispondono solo alla propria indole e al fatturato della propria azienda.

Siamo in balia del loro delirio di onnipotenza.

(Panorama).

 

 

 

 

Dall’Australia all’India, i nuovi padroni

del grano da cui dipende il mondo.

 Repubblica.it - Eugenio Occorsio – (20-5-2022) – ci dice:

Lo stop all’export di Ucraina e Russia colpisce gli Stati più poveri, per 1,6 miliardi di persone il cibo scarseggia. Caccia a fornitori alternativi, spesso più costosi. La Ue prova a sbloccare i carichi da Kiev.

IL dramma dello Sri Lanka, costretto a dichiarare il default sul debito estero anche per il bisogno disperato di tenere qualche risorsa per dar da mangiare ai cittadini, è la dimostrazione plastica della crisi alimentare mondiale.

Non c’è tempo da perdere di fronte ai disperati appelli di Paesi come Egitto e Tunisia che dipendono per il 100% dal grano di Russia e Ucraina, che coprono il 29% del mercato mondiale, o di una lunga serie di Paesi in via di sviluppo che hanno quote di dipendenza di poco minori.

La Banca Mondiale ha messo sul tavolo ben 30 miliardi di dollari per rifornire tutti questi Paesi, e i grandi trader mondiali - Cargill, Archer Daniels, Andersons, Chs - si sono messi alla ricerca di fornitori alternativi. Per fortuna il grano non è come il gas, perché è prodotto in quasi tutti i Paesi, ma è una questione di tempo.

E di politica: la settimana scorsa l’India è stata indotta dagli americani con la lusinga delle armi a riprendere l’export, altrove con metodi meno tranchant si cercano soluzioni alternative.

 Paesi come Usa, Australia, Brasile, sono in cima alla lista, ma anche l’Europa: l’Italia, per esempio, per una volta è fortunata perché dipende per non più del 5% dall’Ucraina e l’1% dalla Russia (circa 250mila tonnellate) e si è già rivolta ai suoi tradizionali fornitori Ungheria (che vale il 26% del nostro import), Francia (19%) e Austria (10%) perché aumentino leggermente le quote.

È tutta questione di prezzo. «Aumenti come il 53% del grano dall’inizio dell’anno, o il 63% del mais (e del 145% il grano e il 173% il mais dall’agosto 2020), non sono sostenibili se non da economie forti e strutturate come quelle europee», commenta Carlo Bevilacqua, responsabile dell’unità di previsioni dei consulenti di Arté.

Anche in Italia peraltro la situazione peggiora: il 30% delle aziende agroalimentari e zootecniche, denuncia Filiera Italia, sono in seria difficoltà, se non costrette a chiudere perché i rincari all’origine si traducono, con l’aggiunta dei costi energetici, in oneri insopportabili: è così per le aziende che fanno farina, pane e dolci con il grano tenero, la pasta con il grano duro, allevano gli animali con il mais, producono olio con i semi di girasoli, tutti finora made in Ukraine.

Bisogna far presto. Secondo l’Economist Intelligence Unit, gli abitanti del pianeta che non sono sicuri di trovare da mangiare a fine giornata sono aumentati dall’inizio della guerra di 440 milioni fino a 1,6 miliardi.

Di questi, 250 milioni sono sull’orlo della carestia. La Fao conferma che 53 Paesi dipendono fino al 100% dall’Ucraina.

E ieri la Coldiretti, sulla base di dati dell’International Grains Council, ha reso noto che i raccolti di grano di Kiev sono stati quest’anno non superiori a 19,4 milioni di tonnellate, il 40% in meno rispetto ai 33 milioni previsti (di cui 19 dovevano andare all’export).

 Anche tutta la produzione mondiale è in calo a 769 milioni, perché producono meno pure Usa (46,8 milioni) e India (105 milioni). Minimo (-2,3%) il calo in Russia, che produce 75 milioni di grano e ne esporta 33.

L’Ucraina ha comunque i silos pieni ma i porti chiusi (il 98% dell’export passa per Odessa): «Venti milioni di tonnellate di cereali sono bloccate a causa della guerra», ha avvertito ieri il rappresentante per la Politica Estera di Bruxelles, Josep Borrell. «Noi stiamo cercando alternative perché arrivino ai destinatari».

Sono finora ben poca cosa i treni che si riesce a far uscire dal Paese carichi di grano “mimetizzandoli” fra i convogli degli sfollati.

 La partita si sta spostando sulla nuova stagione: «Abbiamo 80 tecnici dislocati sul territorio, soprattutto nella parte occidentale relativamente più tranquilla, che stanno aiutando i contadini nella semina, che è il momento di portare avanti», dice Maurizio Martina, vice direttore generale della Fao.

Ma se i porti del Mar Nero restano bloccati, anche l’operato di questi “caschi blu” del frumento sarà vano, o quasi.

Anche Mosca ha i silos pieni e l’export bloccato dalle sanzioni. E potrebbe essere quella alimentare la via della pace: nella stessa Russia e soprattutto nei Paesi ad essa più vicini (Iran, Bielorussia, Siria e tutta la ex-Urss asiatica) comincerebbero ad affiorare segnali di insofferenza nei confronti di questi rincari, e ne potrebbero derivare pressioni su Putin perché allenti la presa.

«Servirebbe però a questo punto – commenta Brunello Rosa, docente alla London School of Economics - una decisiva spinta da parte di qualche organizzazione internazionale che convogli questa protesta in direzione di una trattativa concreta, ma la disarticolazione dell’Onu, del G20 e di altre entità sovranazionali appare proprio qui in tutta la sua inadempienza».

 

 

 

La Turchia & gli altri: i nuovi padroni

dell’Africa. Ecco chi si contende il continente.

  Corriere.it - Riccardo Orizio – (22 settembre 2022) – ci dice:

Il presidente Erdogan ha visitato 27 Stati, dal 2009 le ambasciate sono passate da 12 a 43: l’epicentro del neo colonialismo è la Somalia. Ma sono tanti i Paesi interessati: dai cinesi agli indiani. In prima linea anche la Russia: mesi fa fu diffusa una foto datata 1973 di un giovane Putin combattente per il Mozambico. Ovviamente era un falso.

Il presidente turco Recep Tayyp Erdogan, 68 anni, durante una delle sue visite in 27 stati africani. Oggi la Turchia ha 43 ambasciate nel Continente Nero.

Nel palazzo di Topkapi a Istanbul c’è una mappa antica e oggi malconcia che per molto tempo fu la più invidiata dai governanti di tutto il mondo.

Il capitano Piri, navigatore ed esploratore al servizio del sultano Selim e di suo figlio Suleiman il Magnifico, l’aveva disegnata nel 1513, scegliendo una pelle di gazzella africana per renderla più resistente.

 Mostrava un pianeta sorprendentemente dettagliato e aggiornato, che includeva le Americhe e persino l’Antartico.

 Al centro non aveva Istanbul, ma il Sahara.

E quando fu ritrovata nel 1929 era mutilata: la sezione che illustrava l’Oceano Indiano dalla Somalia al Mozambico era stata strappata dal sultano - così si dice - non perché fosse poco importante, ma al contrario per tenerla in tasca e consultarla agevolmente.

A quale scopo? Studiarla giorno e notte per capire come conquistare la terra che Suleiman sognava, l’Africa.

La straordinaria mappa non bastò a garantire a Piri una pensione tranquilla: il capitano venne decapitato all’età di 90 anni su ordine del sultano per aver perso alcune battaglie contro i portoghesi.

Ma le sue mappe erano state molto utili a due campioni del colonialismo ottomano, l’ammiraglio Selman, e il suo sponsor, il gran visir della corte, Ibrahim Pascià.

 

 

La mappa disegnata dal capitano Piri, nel 1513, su una pelle di gazzella africana.

Gli ex della Serenissima «infiltrati».

Amici e amanti, dietro i loro nomi perfettamente turchi si nascondevano due storie da extracomunitari di successo: entrambi nati cristiani poi convertiti all’Islam, entrambi ex cittadini della Serenissima repubblica veneziana con radici nelle sue colonie greche dell’Egeo.

Ed entrambi con la stessa ambizione: portare la mezzaluna del Gran Turco nel cuore dell’Africa, e poi nel cuore dell’Oceano Indiano, per conquistare nuovi territori commerciali e rimediare all’enorme danno fatto alla sfera d’influenza ottomana dalla scoperta dell’America nel 1492 e dal conseguente boom transoceanico di spagnoli e portoghesi.

Vicende antiche e irrilevanti nel contesto di oggi? Non proprio.

Perché il sogno di Selman e Ibrahim si realizzò: Algeria, Tunisia, Libia, Eritrea, Somalia, Sudan, Marocco ed Egitto diventarono parte dell’impero ottomano e lo restarono per secoli (l’Italia scacciò i turchi dalla Libia solo nel 1911, gli inglesi subentrarono in Egitto solo a fine Ottocento), insieme alla penisola arabica sull’altra sponda del Mar Rosso

 Ma anche perché la Turchia di oggi assomiglia a quella di allora e ha ripreso la sua marcia imperiale laddove i sultani l’avevano dovuta abbandonare.

(L’IMPERO OTTOMANO DOMINÒ PER SECOLI, DAL 1500 AGLI INIZI DEL ‘900. ORA LA TURCHIA VUOLE RIPRENDERSI QUELL’AREA. CON TUTTI I MEZZI.)

La nuova marcia imperiale.

La Turchia del presidente Recep Tayyip Erdogan è oggi una dei protagonisti di quella che gli inglesi chiamavano “the scramble for Africa”, la frenetica corsa tra nazioni neo-coloniali a ripartirsi e dividersi il continente che ha più potenziali di sviluppo e spazi di crescita.

 Come spiega lo studioso italiano Federico Donelli nei suoi saggi sulla Turchia espansionistica e neo imperiale, il sorprendente perno di questa strategia è proprio il Paese dal quale molte altre nazioni sono fuggite a gambe levate, dopo la clamorosa sconfitta delle truppe americane dell’ottobre 1993: la Somalia.

Africa: dall’indipendenza al neo-colonialismo.

Dal 2011, invece, la Turchia è onnipresente e dominante a Mogadiscio - dove ha la più grande ambasciata della propria rete diplomatica - con investimenti, aiuti umanitari, apertura di consolati, prestiti al governo, addestramento militare, progetti di cooperazione, assistenza umanitaria fatta di donazioni alla popolazione civile, regolari voli della Turkish Airlines su un aeroporto dove le grandi compagnie internazionali non volano da decenni.

Ovviamente non mancano i servizi segreti. Tanto che quando l’Italia dovette risolvere il rompicapo della liberazione di Silvia Romano, due anni fa, finì per rivolgersi agli unici che hanno una vera influenza in Somalia, i turchi.

E quando Silvia venne liberata da Al Shebaab, indossava un giubbotto antiproiettile turco.

Silvia Romano, 26 anni: il cooperante milanese rapito nel 2018 in Kenya dai terroristi somali rimase prigioniera 18 mesi; fu liberata grazie ai servizi turchi.

Il tour neo coloniale di Recep Tayyip.

Ma non è solo in Somalia. La Turchia aveva solo 12 ambasciate africane nel 2009, oggi ne ha 43. Erdogan ha visitato 27 nazioni africane, più di qualunque altro leader internazionale.

La compagnia di bandiera Turkish atterra in 39 città africane, solo Ethiopian fa di più.

Truppe turche sono presenti in Somalia, Mali, Centrafrica, Libia, presto a Gibuti. Erdogan sta tentando di colmare il vuoto di potere lasciato dalla Francia nel Sahel dopo la riduzione delle truppe dispiegate nella regione per l’Operazione Barkhane.

Dopo il colpo di stato che ha rovesciato il presidente maliano Ibrahim Boubacar Keïta nel 2020, il ministro degli Esteri turco Mevlüt Çavuolu è stato il primo rappresentante straniero a visitare il Paese e incontrare il colonnello Assimi Goita, che ha guidato il colpo di stato e da allora è al potere, facendo innervosire Parigi.

Nella Tripoli dove gli ottomani lasciarono un pezzo di cuore e molte nostalgie, la presenza turca a sostegno del governo riconosciuto internazionalmente è fondamentale per la sua sopravvivenza.

Un soldato cinese in Africa: da molto tempo la Cina si è inserita in modo massiccio nella nuova corsa tra potenze sul territorio africano.

Via la Francia, sfida tra nuovi «amici».

Con la riduzione dell’influenza una volta dominante di Francia e Gran Bretagna, la scomparsa di quella delle potenze coloniali minori come Portogallo, Italia, Spagna, Belgio, in Africa c’è una nuova generazione di insospettabili potenze coloniali che ambiscono a una presenza commercial-militare.

Senza poter competere con il colosso-Cina, che dei prestiti ai governi africani e della costruzione delle loro infrastrutture ha fatto un cardine della propria politica estera, nelle capitali africane e nelle terre difficili del Corno d’Africa e del Sahel si affacciano nuovi protagonisti: russi, sauditi, emiratini, indiani.

E americani, che in Africa hanno quasi 10 mila truppe e postazioni in otto Paesi, dal Sud Sudan al Burkina Faso.

Anche l’Iran non si dimentica che il 45% degli africani è musulmano e che ci sono comunità sciite in tutto il continente e che per aiutare Hamas e Hezbollah con l’acquisto di armi si può anche passare da Sierra Leone, Liberia e Repubblica Democratica del Congo.

Le sedi africane dell’università Al Mustafa.

L’ università internazionale Al Mustafa, che ha sede nella città santa di Qom in Iran, è presente in almeno 17 Paesi dell’Africa sub-sahariana.

 In Nigeria ha molti seguaci e studenti, in decine di moschee e centri culturali e organizzazioni umanitarie.

 Dopotutto, i nigeriani di religione sciita sono diversi milioni. L’offensiva, ovviamente, è anche digitale.

La propaganda russa ha nel mirino molti Paesi africani, tanto che Twitter e Facebook hanno rimosso dal 2019 ad oggi molti network russi che colpivano un elenco sorprendentemente lungo di Paesi africani che il Cremlino giudica meritevoli di investimenti di propaganda, e che molte altre nazioni ignorano o sottovalutano:

 Madagascar, Repubblica Centrafricana (CAR), Mozambico, Repubblica Democratica del Congo (RDC), Costa d’Avorio, Camerun, Sudan, Libia, Sud Africa, Nigeria, Gambia e Zimbabwe.

 Sin dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina, i russi hanno corteggiato l’Africa attraverso bugie anche molto creative.

A marzo, ad esempio, una fotografia che presumibilmente mostrava un giovane Putin che nel 1973 addestrava combattenti per la libertà mozambicani in un campo militare tanzaniano è emersa convenientemente sui social media africani e ha generato elogi ed entusiasmo: «ecco il vero leader anti-coloniale».

 L’immagine è stata postata anche su Twitter dal potente figlio ed erede del presidente ugandese Yoweri Museveni.

 Ovviamente, la foto non è degli Anni 70 e non mostra il leader russo. Ma per un po’ ha girato su Internet come se fosse vera.

 

PRIGOZHIN, SOPRANNOMINATO “IL CUOCO DI PUTIN”, SOSPETTA GUIDA DELLA COMPAGNIA PARAMILITARE WAGNER, È UNO DEGLI UOMINI CHIAVE CHE STANNO GESTENDO LA CAMPAGNA AFRICANA DI MOSCA.

I paramilitari russi e le miniere.

I paramilitari russi, in particolare del famigerato gruppo Wagner, stanno combattendo in diversi conflitti africani, ma stanno anche impadronendosi di miniere e vari business.

 L’uomo di punta di Mosca in Africa dalla metà degli anni 2010, e secondo molti l’uomo dietro Wagner, è Yevgeny Prigozhin, soprannominato “il cuoco di Putin”: promuove gli interessi russi attraverso una rete multiforme denominata “La Compagnia”, che include Wagner, ma non solo.

A 300 chilometri a nord della capitale sudanese Khartoum, per esempio, le rocce del deserto vengono scavate da un misterioso operatore straniero che non ha insegne e cartelli, ma che è conosciuta dalla gente del luogo come “La Compagnia”.

Quella di Prigozhin e di Wagner, appunto.

 Nel deserto più profondo del Sudan, i russi trasformano cumuli di minerale polveroso in lingotti d’oro semiraffinato, che spesso viene portato a Mosca su aerei che fanno scalo in Siria.

«I russi pagano meglio di chiunque altro», ha detto al New York Times Ammar al-Amir, un minatore e leader della comunità di al-Ibediyya, la città mineraria a 10 miglia dallo stabilimento.

Il Congresso Usa é contro l’espansionismo di Mosca.

Il Congresso americano ha persino approvato in maggio la “Legge contro le attività maligne russe in Africa” che impone allo State Department di bloccare le ambizioni espansionistiche di Vladimir Putin in Africa.

Dal 2016, gli Stati Uniti hanno imposto non meno di sette round di sanzioni contro Prigozhin e la sua rete, e l’Fbi offre una ricompensa di 250.000 dollari per le informazioni che portano al suo arresto.

L’anno scorso Prigozhin ha risposto donando 198 tonnellate di cibo ai poveri sudanesi durante il Ramadan.

«Regalo di Yevgeny Prigozhin», si leggeva sui pacchetti di riso, zucchero e lenticchie.

L’uomo di Prigozhin in Sudan, il generale Hamdan, soprannominato “Hemedti”, è tecnicamente solo il vicepresidente del Consiglio di Transizione, ma di fatto è il padrone del Paese e uno dei più ricchi.

 Originario del Darfur, origine povera, a lungo ostracizzato dalle élite di Khartoum, per Hemedti Putin è lo sponsor perfetto perché rompe con le tradizioni e le convenzioni. E lo invita spesso a Sochi per vacanze e incontri conviviali.

Tutti a Gibuti, la ‘strozzatura’ strategica.

Questo scontro di interessi geopolitici e affari è reso da quanto accade a Gibuti, in uno dei luoghi più sconosciuti ma più strategici del mondo: è l’angolo di Africa più vicino alla penisola arabica, una strozzatura di soli 30 km che divide il Golfo di Aden dal Mar Rosso.

Da qui passa buona parte del traffico marittimo mondiale. E qui negli ultimi anni si sono installate tutte le potenze o aspiranti tali. Gli americani hanno 4.500 uomini in una base chiamata Campo Lemonnier, utilizzata anche per tenere sotto controllo con i droni la vicina Somalia.

 A Gibuti gli Usa hanno installato anche il commando di tutte le proprie forze militari per l’Africa.

 La Francia ha 5 mila uomini, la propria più grande base militare d’oltremare, usata anche da Spagna e Germania.

 La Cina vi ha aperto nel 2017 la sua prima base militare estera, e ne gestisce il porto. Il Giappone ha fatto lo stesso.

India, Arabia Saudita. Russia e Turchia seguiranno a breve. Anche l’Italia ha dal 2013 una Base Militare di Supporto.

 L’Africa è grande, gli interessi regionali complessi, complicati da un intreccio straordinario di armi, soldi, religioni e ambizioni personali.

La mappa del capitano Piri è ormai solo un pezzo da museo, ma le rotte che suggeriva in quel Cinquecento inquieto e corsaro sono le stesse di oggi.

 

 

 

Credevamo di essere i padroni

 del mondo. Non lo eravamo e non lo siamo.

 Mentepolitica.it – Prof. Tiziano Bonazzi - Fareed Zakaria - (06.04.2022) -ci dicono:

(Fareed Zakaria- The Post american World)

 

Nel 2008 il politologo Fareed Zakaria pubblicò un libro dal titolo a effetto, “The Post american World”, che fu un immediato successo e si impose nel dibattito crescente sulla fine del mondo unipolare teorizzato alla fine della Guerra fredda.

Un mondo fondato sugli Stati Uniti in quanto “nazione indispensabile”, come li definì Madeleine Albright nel 1997, decisore di ultima istanza a livello internazionale nonché modello dell'unico sistema politico universalmente valido, la liberaldemocrazia.

Erano i tempi fra i due millenni di Condoleezza Rice e della famosa contrapposizione del neoconservatore Robert Kagan fra gli europei figli di Venere, molli, legati al compromesso e al soft power, sostanzialmente imbelli, e gli americani figli di Marte, sempre pronti alla guerra in difesa della democrazia.                                                                                                                 Una decina soltanto di anni dopo le cose erano cambiate. Cina, India e mondo islamico del petrolio, ma non solo, avevano acquisito un'assertività e un'autonomia economica e politica che costringevano a parlare di un nuovo ordine multipolare.

 Le cose dal 2008 sono andate molto oltre tanto che due classici argomenti a sostegno della superiorità della democrazia occidentale, la sovranità popolare e il diritto di autodeterminazione dei popoli, sono stati formulati in modo del tutto nuovo nel Libro bianco sulla democrazia approvato dal Consiglio di stato cinese l'anno scorso.

 Vi si espone una democrazia centrata sul dovere del governo di esaudire le istanze del popolo che gli giungono attraverso un complesso sistema di consultazioni popolari che dalle assemblee di villaggio sale fino al livello nazionale.

Tutto aperto e limpido e gestito dal Partito Comunista in quanto suprema istanza del popolo cinese.

La democrazia è nella linfa che scorre dalle radici, il popolo, fino al governo, nel fatto che il popolo è sovrano in quanto ha il diritto di, diciamo così, istruire il potere centrale attraverso la cinghia di trasmissione del partito.

Un sistema dagli echi confuciani non opposto, bensì estraneo, originale ed estraneo al modello occidentale.

 Un sistema che esiste e può esistere, ci dice il Libro bianco, in quanto non vi è alcun modello universale di democrazia e ogni popolo ha diritto di costruire la democrazia a modo proprio.

Eccoci serviti.

 Non mi pare sia il caso di lasciarsi andare a un gran stridore di denti di fronte alla democrazia alla cinese perché la volontà occidentale di fare della liberaldemocrazia il miglior sistema donato dalla storia all'umanità e quindi quello che necessariamente si impone nel mondo si basava su due fatti mal interpretati.

 Il primo era la vittoria occidentale nella Guerra fredda che non era stata un'Armageddon in cui le forze del bene avevano definitivamente trionfato su quelle del male, perché la Guerra fredda era stata una guerra civile interna al mondo euroamericano di cui entrambe le superpotenze facevano storicamente parte.

 Il secondo era il non capire che dopo la Seconda guerra mondiale gran parte dell'umanità se ne stava più o meno buona non perché era “in via di sviluppo” e quindi qualche passo indietro rispetto alle glorie dei paesi avanzati però camminava sullo stesso solco mettendo i piedi nelle loro orme, bensì perché era schiacciata dal potere delle due superpotenze e quindi da un mondo che a partire dall'Europa era andato a domare il globo.

C'era sì un tentativo di adeguarsi ai modi di essere dei potenti; ma mantenendosi integri nella propria cultura che con la storia di quei potenti aveva ben poco da spartire.

Le cose non sono neppure andate in un modo così lineare perché la storia – s minuscola - odia i modelli, tanto è vero che al momento il maggior pericolo per il nostro mondo proviene da un paese che, dopo avere per secoli tentato di divenire europeo fino ad abbracciare il marxismo e ad essere l'altra superpotenza nella guerra civile che chiamiamo Guerra fredda, pare essere tornato a una tradizione propria, quello dello slavismo come alternativa al mondo occidentale di derivazione illuminista.                                             Tutto questo, per quanto si tratti di uno schizzo assolutamente grossolano, ci pone davanti a necessità mai studiate se intendiamo far valere ancora la tradizione che dal Seicento in poi ci ha fatto accapigliare e uccidere lungo la via della modernità, ma ci ha anche fatto compiere notevoli conquiste.

 

La necessità di farci piccoli, di non gloriarci più come pavoni di ciò che siamo, di non dimenticare che la nostra “gloria” è figlia anche di stragi come l'uso dei gas nella guerra di Etiopia dopo averli provati fra di noi nella Grande guerra, di orrori come il dominio coloniale belga in Congo o la distruzione dei nativi in Australia, e non continuo un elenco che sarebbe infinito e disgustoso.

Se capiamo di non essere il tutto giungiamo a riconoscere che le nostre storie non sono state guidate dal lume della Storia; bensì sono maledettamente umane perché aggressività e repressione sono fulcri essenziali della vita e quindi le “nostre conquiste” esistono in un viluppo inestricabile con realtà disfiguranti.

 Visto che oggi altri, nel nome di fedi irrigidite, di ideologie di potenza e di tradizioni grandi, ma estranee a quelle euroamericane cercano di vedere in noi il Grande Satana contro cui scagliarsi, non limitiamoci al “stringiamoci a coorte” attorno ai nostri supremi valori – termine che uso malvolentieri e che non amo, ma che adotto per brevità – e apriamoci alla constatazione che siamo soltanto una parte del mondo, che siamo in una competizione alla pari con gli altri e che quei valori li si difende non pretendendo di imporli, ma dimostrando in pratica che portano alla coesione e alla giustizia sociali nei nostri paesi.

Come farlo è tutto un altro capitolo in cui l'unica forza davvero mondiale, il capitalismo globale, entra non certo con il cappello in mano.

 

 

"Ecco chi muove i fili del sistema

 (in)visibile padrone dei nostri destini".

Ilgiornale.it – Andrea Indini – Marcello Foa - (8 Ottobre 2022) – ci dicono:

 

Cancel culture, guerre cognitive, Big Tech e libertà.

È uscito in libreria il nuovo libro di Marcello Foa, Il sistema (in)visibile. "Pensavamo di essere padroni del nostro destino mentre altri decidevano per noi".

"Perché non siamo padroni del mondo". Per Marcello Foa non è una domanda. Sa che è così.

D'altra parte ce lo aveva già spiegato anni fa dando alle stampe il suo - al tempo avveniristico, oggi possiamo dire predittivo - Gli stregoni della notizia.

 Il punto è che per l'ex presidente Rai, firma storica del nostro Giornale ed ex responsabile del Giornale.it, la vita di ognuno di noi è profondamente condizionata da fattori che sono al contempo visibili e invisibili e che vanno identificati, se si vuole capire davvero il malessere che colpisce le società occidentali.

Foa lo fa con coraggio e autorevolezza nel suo ultimo libro Il sistema (in)visibile (Guerini e Associati). "Pensavamo di essere padroni del nostro destino - si legge - mentre altri, in luoghi che nemmeno immaginavamo e che non necessariamente coincidevano con governi e parlamenti, decidevano per noi".

Marcello, qual è oggi lo stato di salute della democrazia?

"Non è positivo. In tutti i Paesi occidentali c'è uno scollamento tra la volontà popolare espressa col voto e la reale capacità di riforma dei governi."

Dove nasce questo scollamento?

"Da un fatto storico, noi vincemmo la guerra contro il comunismo sovietico anche perché esisteva una coerenza tra i nostri valori, una società a benessere diffuso con un capitalismo bilanciato anche da istanze sociali e la propaganda.

Chiunque poteva osservarci e dire: 'Gli occidentali vivono bene'. Dall'altra parte, invece, il paradiso dei lavoratori era un incubo fatto di oppressione e sussistenza.

Questo confronto è stato decisivo per conquistare i cuori e le menti dei cittadini che vivevano oltre il muro di Berlino.

 Quando, però, è caduto il Muro, è caduta anche la coerenza tra i tre punti citati."

Cosa è successo dopo?

"Sono cambiati gli obiettivi strategici. La globalizzazione non è solo un fenomeno economico, ma anche sociale, culturale, politico, istituzionale.

Tende a uniformare mercati, popolazioni, culture e attua meccanismi per cui armonia ed equilibrio non sono più indispensabili.

 Anzi, diventano un impedimento. Il nuovo paradigma crea un paradosso: omologa disomologando.

E troppo in fretta. Questo ha generato squilibri che paghiamo oggi; tra l’altro anche spostando i centri decisionali fuori dagli Stati ma pretendendo che la volontà del popolo sia ancora sovrana."

Perché non capiamo più la nostra società?

"Perché nessuno spiega davvero le regole del gioco.

La società è determinata da condizionamenti impliciti istituzionali, economici, sociali, psicologici, mediatici e ultimamente anche digitali che non vengono dichiarati né illustrati in modo esaustivo ma di cui i cittadini sentono gli effetti.

 Ci sono tante polemiche ma il quadro complessivo resta offuscato."

Da qui il titolo del libro Il sistema (in)visibile?

“Certo collegando i condizionamenti espliciti a quelli impliciti il puzzle si compone e la nostra caotica realtà diventa comprensibile”.

A dividersi il potere sono i monopoli. La democrazia può conviverci?

"Fino a vent'anni fa il liberalismo e il capitalismo avevano una virtù: evitare l'eccesso di concentrazione di potere, anche economico, nel presupposto che la parità di opportunità fosse un requisito fondamentale affinché l'economia di mercato espletasse le sue innegabili virtù.

Questo principio è caduto e oggi, senza ammetterlo, si incoraggia la creazione di oligopoli.

Poche grandi aziende dominano singoli mercati."

Non stai esagerando?

“Purtroppo no. Alla fine del 2021, la capitalizzazione di Apple era superiore al Pil di tutti i Paesi del mondo eccetto Stati Uniti, Cina, Germania e Giappone, mentre Microsoft era più ricca del 92% dei Paesi al mondo.

 Quando ci troviamo di fronte a queste realtà si genera uno squilibrio inaccettabile.”

Uno squilibrio mai risolto.

 

"Mai risolto perché il problema non viene mai posto.

 Si tende, al contrario, ad esaltare il potere e l'immagine di questi grandissimi gruppi.

Prende così forma una doppia realtà: sopra abbiamo pochi leader di mercato in posizione dominante a livello mondiale, sotto l’insieme delle piccole e medie aziende che meritoriamente cercano di ritagliarsi uno spazio a distanza siderale dalle aziende leader.

La sproporzione tra il potere dei pochi che stanno sopra e gli altri operatori è insostenibile."

Come siamo arrivati fin qui?

"Parliamo spesso di conflitto di interessi, mentre la nostra epoca è caratterizzata dalla coincidenza di interessi tra la politica e il potere economico.

Quando la globalizzazione divenne un obiettivo prioritario degli Stati Uniti, le grandi aziende sono state incoraggiate a espandersi in tutto il mondo, senza controlli e senza contrappesi.

Politica e grandi aziende si sostengono a vicenda generando gli eccessi in cui viviamo."

Qual è la concentrazione più potente?

"Sicuramente quella tecnologica, che rischia di violare i diritti fondamentali dell'individuo e snaturare le democrazie attraverso un sistema di sorveglianza generalizzato e implacabile, come già accade in Cina."

Quando Trump è stato estromesso dai social, i media statunitensi, anziché indignarsi, si siano schierati contro di lui. Ti stupisce?

 

"La grande stampa non svolge più da tempo la funzione critica. È troppo vicina all'establishment. D'altronde, il 90% dei giornalisti è di sinistra (Dem Usa) e questo è indicativo".

In Italia non va diversamente.

"Certo, tra gli anni Cinquanta e Sessanta c'è stato un cambio radicale di paradigma culturale.

Un Paese cattolico come l'Italia divenne improvvisamente marxista e ciò si riverbera fino ai nostri giorni."

Il Giornale, non a caso, è nato proprio in risposta al pensiero unico dominante in quegli anni.

"Quando è crollato il muro di Berlino, questa impalcatura cultural-mediatica si è trovata senza più un orientamento ideologico e ha cercato un nuovo faro."

Quale?

"La globalizzazione.

Oggi la stampa che trova origine nel marxismo è la principale stampella di questo sistema.

 Ha cambiato le idee ma non i metodi che restano omologanti: o sei nella corrente o finisci emarginato."

(Tutto il nuovo sistema politico economico è marcio. Si basa esclusivamente ed invasivamente sulle teorie economiche -religiose del pastore di anime e di denaro che fa capo a Klaus Schwab, che ci condurranno alla distruzione dell’umanità condotta dai Governi corrotti dei paesi delle democrazie occidentali tutte totalmente “falsificate” dagli uomini di Davos al loro comando. Ndr.)

Il potere passa anche attraverso il controllo della lingua. Dilagano campagne culturali come la “cancel culture”. Qual è l'obiettivo?

"L'estremizzazione di certi movimenti è esplosa quando l'establishment ha messo in pista qualunque forma di resistenza per far cadere Trump. Tra queste c'era anche l'utilizzo della protesta di piazza e dei movimenti sociali."

I Black Lives Matters.

"Sotto Obama erano considerati estremisti e non avevano seguito, ma dopo il successo di Trump sono diventati funzionali all'establishment: servivano a metterlo in difficoltà e a ghettizzare i conservatori."

Se andiamo a vedere i finanziamenti, ci accorgiamo da dove piovono tutti quei soldi.

"Se qualcuno li finanzia, vuol dire che ne apprezza operato e finalità.

Se, poi, la vicepresidente di Black Lives Matter è anche un membro dello Young Global Leaders del World Economic Forum di Davos di Klaus Schwab, il sospetto che non siano sgraditi a un certo establishment diventa plausibile."

Si rischia lo stesso contro la Meloni e il nascente governo di centrodestra?

"Non mi stupirei. D’altronde c’è il precedente delle Sardine contro Salvini. Un movimento che fu creato dal nulla."

Il libro spiega come sia possibile influenzare una società ed evidenzi l’importanza dei condizionamenti psicologici. Cosa dobbiamo aspettarci?

"Non ho l'ambizione di prevedere il futuro ma parto da un aspetto positivo. Le crisi che abbiamo vissuto negli ultimi anni hanno favorito il risveglio della coscienza civile e democratica. Questo lascia ben sperare. Non c'è assuefazione. Però pesano diverse incognite”.

Quali?

"Che con la necessità di combattere una guerra strategica tra Stati Uniti e Cina, si possa eccedere nell'uso di tecniche che potrebbero compromettere i valori democratici sfociando nelle guerre cognitive di cui si parla pochissimo, ma che rischiano di trasformare ogni persona in un'arma."

Fantascienza o realtà?

"Gli Stati Uniti le stanno già studiando proprio in funzione anti cinese.

Ma fino a che punto le democrazie occidentali liberali possono spingersi nello studiare e applicare queste tecniche?

Chi ci offre la garanzia che non vengano poi usate contro di noi?

 Questo è il grande dilemma.

 Il nostro futuro sarà positivo e quel che abbiamo costruito negli ultimi settant'anni non sarà compromesso, se tornerà a esserci una coincidenza tra valori, realtà e propaganda.

 È giunto il momento di affrontare tutti questi temi e portarli fuori da polemiche sterili e strumentali che impediscono una vera riflessione.

 Parliamone e torniamo ad essere padroni del nostro destino."

 

 

 

Chi sono i più potenti del mondo?

Lucidamente.com- Rino Tripodi – (1° Giugno 2022) - ci dice:

Perché l’odierno capitalismo finanziario è sempre più incontrollabile.

Pochi hanno sentito parlare di Vanguard, Black Rock, State Street Global Advisor o Blackstone, oppure di sigle quali Kkr o Cvc… E ancor di meno sanno di cosa si tratta e perché costituiscono un pericolo per quel che resta delle democrazie e persino per le produzioni economiche più sane.

Se al povero cittadino comune, travagliato da un decennio di crisi economica, da più di due anni di misteriosa epidemia e ora dal rischio di un conflitto nucleare, si chiedesse chi ha maggiore potere e capacità di indirizzare le sorti del pianeta, le risposte potrebbero essere di vario genere.

 I più ingenui risponderebbero col nome di qualche stato, o di un leader politico, o di qualche esercito; altri indirizzerebbero la propria attenzione sulle grandi industrie e sulle multinazionali ormai entrate da tempo nel linguaggio comune e nell’insegnamento scolastico; i complottisti su fantomatiche organizzazioni segretissime.

I più svegli nominerebbero i padroni delle nuove tecnologie informatiche e telematiche, i colossi della Silicon Valley, del web, del commercio a distanza, o Big Pharma.

Forse sbaglierebbero tutti.

Perché i nuovi dominatori del pianeta, certamente dal punto di vista finanziario, e quindi economico, nonché – aspetto ancora più preoccupante – in grado di influenzare pesantemente politica e cultura, sono ancora meno noti, più occulti, ma molto, molto più potenti.

A chi dicono qualcosa parole come Vanguard, Black Rock, State Street Global Advisor o Blackstone, oppure sigle quali Kkr o Cvc?

In termini anticapitalistici e marxisti di un certo tempo fa, sarebbero definiti squali, che si muovono a loro agio nel mare della finanza globale.

 Chiariamo in anticipo che il campo dell’economia e della finanza, per di più infarcito di termini tecnici anglosassoni, è ostico, e di certo non pretendiamo con questo nostro articolo di essere chiari ed esaustivi.

Inoltre, non essendo esperti del campo, chiediamo venia in anticipo per eventuali imprecisioni.

Pertanto consigliamo al lettore di cliccare sui link e, comunque, eseguire altre ricerche.

Cominciamo dai fondi d’investimento.

Quelli più in voga (perché relativamente meno rischiosi per i clienti) sono gli Etf, ovvero gli Exchange Traded Fund. Essi appartengono alla tipologia Etp (Exchange Traded Products), ovvero alla macro-famiglia di prodotti a indice quotati.

Diversamente dai tradizionali fondi comuni d’investimento e dalle Sicav (società di investimento a capitale variabile) e dalle Sicaf (a capitale fisso), hanno gestione passiva, ovvero sono svincolati dall’abilità del gestore, che minimizza le proprie decisioni di portafoglio usando algoritmi che monitorano l’andamento borsistico.

In tal modo diminuiscono i costi di transazione e l’imposizione fiscale sui guadagni in conto capitale.

Glauco Benigni ne Lo spettro dei 3 Big spiega che gli Eft «sono quotati in borsa con le stesse modalità di azioni e obbligazioni.

Gestione passiva significa che il loro rendimento è legato alla quotazione di un indice borsistico (che può essere azionario, per materie prime, obbligazionario, monetario etc.) e non all’abilità di compravendita del gestore del fondo.

L’opera del gestore si limita a verificare la coerenza del fondo con l’indice di riferimento (che può variare per acquisizioni societarie, fallimenti, crolli delle quotazioni ecc.), nonché correggerne il valore in caso di scostamenti tra la quotazione del fondo e quella dell’indice di riferimento, che sono ammessi nell’ordine di pochi punti percentuali (1% o 2%)».

Tutto ciò «rende tali fondi molto convenienti per il cliente comune: solo circa lo 0,2% del risparmio amministrato, contro circa il 2% di un fondo attivo. Sicché oggi occupano il 40% del totale delle azioni del mondo».

Tutto chiaro? Mica tanto! Ma è la finanza, baby! E siamo solo ai prodotti e alle nozioni più elementari.

 E beh? Cosa c’è di male? Chi ha soldi cerca di investire per proteggerli dall’inflazione nuovamente rampante o, meglio ancora, per aumentarli. La questione-chiave è che al mondo pochissime società gestiscono quasi interamente tali prodotti finanziari.

 Le tre maggiori vengono definite appunto Big Three e sono The Vanguard Group, BlackRock e State Street Global Advisor (vedi Ecco le 10 società di gestione più grandi del mondo per patrimonio).

 Sarebbe da aggiungere pure il Blackstone Group (noto in Italia anche per una controversia legale con il gruppo Rcs MediaGroup sulla vendita del palazzo storico del Corriere della Sera a Milano, senza che si sia arrivati a un riconoscimento per la società italiana).

Ecco alcuni numeri, impressionanti, avvertendo che essi sono sempre in evoluzione.

Nel 2019, sommati, i tre gruppi gestivano 16 trilioni di dollari e controllavano il 40% delle azioni delle maggiori corporation americane e addirittura, sempre insieme, erano il maggior azionista nell’88% delle società presenti nell’indice Standard & Poor’s 500.

Il patrimonio gestito da BlackRock è pari ai Pil di Francia e Spagna messi assieme.

Se guardiamo al giro d’affari e al fatturato, i loro dipendenti sono relativamente pochi: in ordine, 17.000, 15.000, 2.500.

BlackRock ha quote nelle dieci più importanti banche europee ed è presente anche in Unicredit, Banca Generali, Fineco.

È evidente che tale massiccia presenza in tutto il mondo possa influenzare l’economia e la politica dei singoli Stati.

Ormai è noto che la “crisi dello spread” che portò alla caduta del Governo Berlusconi nel novembre 2011 avvenne anche per spinte “esterne”.

In genere per quella “deposizione” si pensa a pressioni politiche internazionali e, segnatamente, degli Usa e dell’Unione europea.

 Tuttavia, un’altra ipotesi, riportata da un periodico certo non tenero con il Cavaliere (vedi Germano Dottori, BlackRock, il Moloch della finanza globale, in Limes, n. 2, 2015), e poi ripresa da Maria Grazia Bruzzone (Fu davvero BlackRock a ispirare il “cambio di scena” del 2011 in Italia?

 in “La Stampa”, 12 aprile 2015), dirige i propri sospetti proprio su BlackRock. Le motivazioni di quest’ultima non erano certo l’antiberlusconismo, ma l’obiettivo di far precipitare la crisi del debito sovrano italiano per comprare a prezzi stracciati le azioni delle nostre aziende.

Riuscendovi: «A fine 2011 la Roccia aveva il 5,7% di Mediaset, il 3,9% di Unicredit, il 3,5% di Enel e del Banco Popolare, il 2,7% di Fiat e Telecom Italia, il 2,5% di Eni e Generali, il 2,2% di Finmeccanica, il 2,1% di Atlantia (che controlla Autostrade) e Terna, il 2% della Banca Popolare di Milano, Fonsai, Intesa San Paolo, Mediobanca e Ubi».

 Ma se l’Italia vi sembra un pesce piccolo e Silvio Berlusconi uno che non era degno di governarci, leggete quanto ha scritto Mauro Del Corno su il Fatto Quotidiano (8 gennaio 2021):

Usa, le scelte di Joe Biden: la Casa Bianca assomiglia sempre di più ad una succursale del colosso finanziario Blackrock.

 

Un esempio lampante è l’ambientalismo, tanto di moda (a parole) negli spot pubblicitari delle aziende, che, all’improvviso, si scoprono ecologiste per purissimi motivi filosofici, spiritualisti e di rispetto dell’ambiente.

 È un caso nel quale l’intreccio tra media, interessi economici e politica è evidente. Nel 2019 Greta Thunberg viene nominata dal Time «Persona dell’anno».

Pochi mesi dopo, BlackRock (nonostante non fosse assolutamente un esempio di “finanza etica”, avendo sempre fatto tanti investimenti nel settore degli idrocarburi e non essendosi mai curata di sostenibilità e condizioni dei lavoratori) diventa “ambientalista”.

Il suo deus ex machina, Laurence D. Fink invia una missiva ai propri dirigenti in cui sottolinea che «il cambiamento climatico è diventato un fattore determinante per le prospettive a lungo termine delle aziende e che siamo sull’orlo di un fondamentale rimodellamento della finanza».

Come l’Unione europea, il futuro presidente statunitense Joe Biden mette al centro del suo programma elettorale la lotta ai cambiamenti climatici e la difesa dell’ambiente.

 In tempi utili per trarre vantaggio dalla nuova ideologia del potere, le aziende si posizionano per trarre benefici dalla cosiddetta transizione ecologica, indirizzando i loro investimenti verso nuovi settori quali le energie rinnovabili, le automobili elettriche, il cibo vegano o proprio fintamente “sano”, nonché mettendosi in fila per i miliardi di finanziamenti previsti.

Un altro intreccio in grado di condizionare la vita economica (e non solo) di intere nazioni è quello tra i grandi fondi di investimento e le agenzie di rating (Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch Ratings).

Queste ultime dovrebbero essere semplici strumenti di valutazione oggettiva delle situazioni economiche, ma in realtà le influenzano coi loro sprezzanti giudizi.

 Ebbene, nel loro azionariato troviamo le solite “Big” e tante altre corporation… Del resto, tutti i rapporti tra fondi, aziende e agenzie di rating sono un inestricabile gioco di scatole cinesi, con quote azionarie degli uni nelle altre e viceversa. Anche lasciando da parte l’economia, si è visto come l’influenza di tali gruppi su elezioni politiche, linee di indirizzo, media, tendenze culturali, siano inquietanti e incompatibili con libere democrazie.

 Scrive Ugo Mattei nel saggio Il diritto di essere contro (Piemme, 2022, pp. 178-179) che i grandi pacchetti azionari «controllano tanto l’industria farmaceutica quanto quella della comunicazione di massa nonché la filiera del cibo industriale e della sua distribuzione e ovviamente gran parte degli armamenti Usa».

 Tale enorme potere con la connessa attività di lobbismo non può che avere un enorme impatto sulla politica dei paesi “liberaldemocratici”.

 Così la governance economica mondiale prevale nettamente sul governo politico degli Stati.

E il potere dei grandi gruppi di speculazione finanziaria non si arresta più.

Guido Fontanelli, nel suo Sempre più padroni del mondo (in Panorama, n. 19, 4 maggio 2022), cerca di gettare un po’ di luce su altri oscuri prodotti finanziari: i fondi di private capital.

Si tratta di «investimenti rischiosi e a lungo termine, la quota destinata a essi non può superare il 10% del portafoglio finanziario del risparmiatore».

Eppure, poiché oggi si preferisce giocare in borsa che rischiare di fondare o investire su un’attività produttiva reale (vedi Perché il capitalismo odierno è sempre più incontrollabile), anche tali investimenti rendono tanto, soprattutto a chi li controlla:

«Gli attivi in gestione dei fondi private sono cresciuti lo scorso anno al massimo storico di 9.800 miliardi di dollari.

Le prime cinque società del settore gestiscono un patrimonio complessivo di 1.850 miliardi, cifra smisurata che si avvicina da sola agli abbondanti risparmi di tutti gli italiani (1.900 miliardi di dollari)».

Oltre a Blackstone, i maggiori gestori di private capital sono sigle che non avete mai sentito, come la newyorchese Kkr (459 miliardi di dollari di patrimonio gestito) o la britannica Cvc (122 miliardi).

Che tutto questo denaro serva per comprare aziende sane o in difficoltà per specularci sopra, per acquisire debiti sovrani di intere nazioni o per foraggiare l’industria degli armamenti, poco importa (vedi La finanza spietata: dal boom dei titoli degli armamenti allo sciacallaggio su aziende in crisi e sui debiti sovrani).

È evidente che la finanziarizzazione assoluta dell’economia costituisce una iattura oltre che, come s’è visto, per le democrazie, anche per le aziende manifatturiere sane e, di conseguenza, per i loro occupati.

 Non conta se ciò che esce da una fabbrica dopo tanto lavoro è utile, sano e buono per le masse, ma se “il mercato finanziario” dirige o meno le proprie speculazioni su un’azienda o un’altra, su una materia prima e una risorsa naturale o un’altra, su una produzione o un’altra…

Per fortuna il Governo Draghi aiuta gli italiani (ricchi) a difendere i propri risparmi.

Qualcuno ha saputo che dallo scorso 16 marzo agli investitori non professionali non occorrono più 500mila euro, ma “solo” almeno 100mila per entrare nei fondi di private capital e di real estate (leggi È ufficiale: si abbassa la soglia per investire nei Fia)? Però, purché tale cifra non sia superiore al 10% del portafoglio finanziario del risparmiatore/speculatore.

Ebbene, sì: l’attuale esecutivo ha proprio a cuore gli interessi degli italiani, soprattutto di quelli più poveri…

(Rino Tripodi).

 

 

 

RUSSIA E CINA UNITE

PER UN NUOVO ORDINE MONDIALE.

Thefederalist.eu – Stefano Spoltore – (13-12-2021) – ci dice:

 

Nell’inverno del 2013 il governo di Kiev decise di non sottoscrivere l’adesione all’Unione europea e, allo stesso tempo, di avviare trattative con Mosca per siglare un accordo economico finanziario ritenuto più vantaggioso.

Quella decisione creò una frattura in seno al paese tra i sostenitori dell’adesione alla UE e i sostenitori di un accordo con la Russia.

La ricca regione del Donbass, a maggioranza etnica russa, proclamò a quel punto la propria indipendenza con il pieno sostegno della Russia.

 Ebbe così inizio una guerra mai dichiarata apertamente tra l’esercito regolare di Kiev e quello separatista che in otto anni di guerra ha visto morire oltre 14.000 persone, per lo più civili, e un esodo dalla regione di oltre 1.500.000 cittadini di cui circa 900.000 diretti verso la Russia.

La successiva decisione della Russia nel 2014 di riportare la Crimea entro i propri confini tramite un referendum aggravò ulteriormente la crisi con l’Ucraina e con il mondo occidentale.

Vennero allora imposte alla Russia una serie di sanzioni economiche e finanziare proposte dal governo USA (all’epoca era Presidente Obama) con l’appoggio dell’Unione europea.

La crisi Ucraina si è riaccesa drammaticamente nel gennaio del 2022 dal momento che la Russia intende contrastare con ogni mezzo il possibile ingresso di quel paese nel novero delle nazioni NATO.

Contrastare l’allargamento della NATO ai paesi un tempo alleati o satelliti dell’URSS è una questione considerata vitale nell’ottica di Mosca.

 In questi ultimi anni le richieste di adesione alla NATO sono state prospettate da parte degli USA ai governi di Moldavia e Georgia, altre richieste di adesione sono pervenute direttamente da alcune nazioni, la più recente proprio da parte della Ucraina. Si tratta di nazioni che erano parte integrante del territorio dell’URSS.

Non va poi dimenticato che anche la Finlandia (nazione da sempre dichiaratasi neutrale) sta valutando di presentare la richiesta al governo di Washington per diventarne membro.

 Queste ulteriori adesioni porrebbero le truppe e le basi della NATO direttamente a ridosso dei confini della Russia che non potrebbe più contare sulla presenza di Stati cuscinetto che, nella logica di Mosca, devono rappresentare un limite invalicabile dalla fine della Seconda Guerra Mondiale (o Guerra Patriottica come invece viene definita in Russia e prima ancora nell’URSS).

Quel limite era già stato violato nel 2004 con l’adesione alla NATO di Estonia e Lettonia, ma in quegli anni, a Mosca, Putin stava ancora definendo l’assetto del paese e in politica estera il paese risultava indebolito dopo oltre un decennio di profonda crisi interna.

Gli anni successivi al dissolvimento dell’URSS erano stati i più tormentati e l’assetto con i nuovi equilibri di potere interni avevano avuto la prevalenza su qualsiasi altra questione.

Furono necessari oltre dieci anni per ridefinire i confini della nuova Russia dopo la frammentazione del suo territorio che vide la nascita di tredici nuove Repubbliche indipendenti con le quali disegnare i confini, definire la spartizione del tesoro della Banca Centrale, dell’arsenale atomico e degli armamenti, nonché contrastare tentativi di colpo di Stato o sedare nel sangue ulteriori tentativi secessionisti nel Caucaso.

 Tutte questioni che si sovrapponevano alla lotta intestina a Mosca per la conquista del potere che, dopo l’uscita di scena di Gorbaciov, l’ascesa e caduta di Eltsin, vide prevalere la figura di Vladimir Putin.

Quando si aprì la crisi ucraina nel 2013 la situazione interna russa si era stabilizzata e il governo di Mosca poteva tornare ad esercitare la propria politica estera con ritrovata autorevolezza.

L’assetto di potere era ora ben definito.

Mosca rispose alle sanzioni occidentali avviando intese sempre più strette e vincolanti con la Cina in campo economico, energetico e militare, cosa impensabile sino a pochi anni prima.

Il quadro internazionale era mutato in modo radicale. Gli anni di difficoltà della Russia erano coincisi con l’ascesa a potenza economica della Cina che esercitava, ed esercita ancor di più oggi, una grande influenza politica e militare in vaste regioni dell’Asia e dell’Africa.

La delocalizzazione in Cina di molte attività industriali da parte degli Occidentali, nel tempo, l’hanno resa una potenza in grado di determinare la produzione di intere linee di prodotti per il mondo intero.

 Alla forza militare di cui dispone, la Cina può così far pesare anche la propria capacità industriale sino al punto di poter condurre guerre economiche riducendo (o aumentando a seconda dei propri interessi) la vendita ed esportazione di alcuni beni, per esempio nel settore auto o in quello dell’informatica, vitali per l’industria europea.

  Verso un nuovo equilibrio: Russia e Cina alleate in politica estera.

La instabilità politica derivante dalla dissoluzione dell’URSS negli anni Novanta, indusse la Cina a promuovere nel 1996 una Organizzazione per la Cooperazione (detta di Shangai o SCO) che coinvolgesse la Russia e alcune delle giovani repubbliche ex-sovietiche con cui condivide i confini: Kazakistan, Tagikistan e Kirghizistan.

L’obiettivo principale della Organizzazione era quello di favorire la cooperazione in campo economico, politico e militare per contrastare il separatismo e il terrorismo in Asia Centrale.

Negli anni l’Organizzazione, che tra l’altro ha l’obiettivo di mediare eventuali contrasti tra le nazioni che ne fanno parte, si è ampliata e vi hanno aderito anche Uzbekistan, India e Pakistan

L’Organizzazione ebbe l’effetto di aprire un nuovo canale di comunicazione diretto tra Pechino e Mosca.

Il desiderio principale della Cina era quello di garantire unità territoriale ai propri confini per evitare spinte separatiste a carattere politico, etnico o religioso (oltre a quello storico nel Tibet) dopo quanto era accaduto in Russia.

Si trattava di un desiderio che Mosca condivideva pienamente.

Negli stessi anni gli Stati Uniti assumevano una leadership a livello mondiale, che li metteva però spesso in gravi difficoltà dovendo operare, militarmente, dal Medio Oriente all’Africa e persino in Europa nella ex-Jugoslavia.

Non è questa la sede per rievocare i numerosi focolai di tensione sorti negli anni di fine secolo XX e agli inizi del nuovo, ma, mentre gli Stati Uniti cercavano di agire in tutti gli scenari con gli europei in alcuni casi al seguito, la Russia si avviava a stabilizzarsi al proprio interno e la Cina diventava una potenza economica garantendosi l’ingresso nel WTO nel 2001 e avviando allo stesso tempo un ampio progetto di rinnovamento delle forze armate.

La Russia di Putin e la Cina erano ora pronte a condividere l’obiettivo di contrastare gli Stati Uniti come unica superpotenza.

Un contesto generale nel quale l’Unione europea svolgeva un ruolo da spettatore o di passivo sostenitore delle scelte politiche USA o militari nell’ambito della NATO.

La crisi in Ucraina consolidò l’intesa tra Mosca e Pechino che negli anni si è ampliata in campo militare senza che per questo fosse necessario la firma di un Trattato ad hoc.

 L’aiuto che la Cina garantì alla Russia in tutte le sedi internazionali nel sostenere le sue ragioni in Ucraina venne presto ricambiato.

E di recente Pechino ha ribadito che l’allargamento della NATO all’Ucraina è una provocazione dell’Occidente che crea solo nuove tensioni, la stessa tesi sostenuta dalla Russia.

 Mosca da parte sua difende il diritto della Cina nel controllare gli atolli nelle acque del Mar Cinese Meridionale, ma, fatto ancor più rilevante per Pechino, Mosca sostiene il diritto di Pechino nel rivendicare la propria sovranità sull’isola di Taiwan e nell’imporre la propria legislazione ad Hong Kong.

La condivisione e il reciproco sostegno in politica estera tra Pechino e Mosca si sta manifestando in modo ancor più palese nel corso del 2022, ponendo il mondo Occidentale, e in particolare gli USA, in grave difficoltà nel dover gestire fronti così impegnativi (Ucraina e Taiwan), avendo di fronte due potenze pronte a sostenersi.

Le difficoltà degli Stati Uniti, già emerse sotto la presidenza Obama e aggravatesi con quella di Trump, sono accentuate dalla incapacità di agire da parte della Unione europea, vittima delle proprie debolezze: ha una forte dipendenza dalla Russia negli approvvigionamenti energetici; ha una forte dipendenza dalla Cina nella fornitura di prodotti industriali ad alto valore tecnologico.

 La mancanza di un potere europeo in grado di esprimere una propria politica estera e di difesa nonché una propria politica energetica ed industriale la pongono dinanzi alla propria fragilità ed inconsistenza ad agire per essere credibile.

Questa inconsistenza vede l’Unione europea nella condizione di sostenere le scelte politiche degli USA seppur passivamente e spesso in modo confuso e contraddittorio.

Stati Uniti e Unione europea sperimentano pertanto le proprie difficoltà dinanzi alla coincidenza di interessi che legano Russia e Cina.

Se la UE ai propri confini non è in grado di gestire in modo autonomo il confronto-scontro in atto in Ucraina da ben nove anni e ricorrono alla NATO per tutelarsi, gli Stati Uniti sembrano ancor più in difficoltà nelle acque del Pacifico, segnatamente nel tratto del Mar Cinese.

Mentre in Europa sono aperti dei canali diplomatici per evitare il precipitare della crisi in una guerra aperta, nell’area del Pacifico la Cina ha lanciato una sfida ben precisa e senza appello: Taiwan deve rientrare a pieno titolo sotto la sovranità di Pechino entro il 2050.

È dall’inizio della crisi ucraina che Russia e Cina conducono esercitazioni militari e navali in modo congiunto nelle acque di tutto il mondo.

La prima volta fu nel 2015, nel Mar Mediterraneo, successivamente nel Mar Baltico, nel Mar del Giappone e nel Mar Cinese Meridionale (qui anche con truppe di marines per simulare la conquista di una isola).

 Infine, nel gennaio di quest’anno, a navi delle flotte russa e cinese si sono aggiunte navi della flotta dell’Iran a largo del Golfo di Oman allarmando l’intero mondo arabo, e non solo, per le implicazioni che comporta questa collaborazione militare nel già difficile quadro della situazione medio orientale.

Ma ancor di più: la Russia garantisce a militari e a ingegneri civili cinesi l’utilizzo delle proprie basi nell’area dell’Artico in previsione della costruzione di porti da condividere e per svolgere insieme trivellazioni nella ricerca di nuovi pozzi petroliferi o di gas.

 A seguito dello scioglimento dei ghiacci, le previsioni indicano che entro il 2050 le navi mercantili che dal Pacifico raggiungono i porti del Nord Europa potranno transitare lungo le coste artiche per sei mesi all’anno contro gli attuali tre.

 Questa via di navigazione diventerà pertanto sempre più strategica per la navigazione commerciale riducendo i costi e i tempi oggi necessari per il transito lungo il canale di Panama.

 Controllare l’Artico e disporre di porti amici diverrà strategico non solo per lo sfruttamento delle sue ricchezze naturali, ma anche per il controllo dei traffici non solo mercantili.

 Si rinnova così la capacità delle due potenze di sviluppare strategie di lungo termine.

 Questa condivisione di interessi suscita grandi preoccupazioni negli USA poiché, nel caso la crisi in Europa e la crisi nel Pacifico dovessero deflagrare in contemporanea per una precisa intesa tra Mosca e Pechino, non sarebbero in grado di gestire contemporaneamente i due fronti.

In particolare, sarebbe la crisi nel Pacifico, nelle acque del Mar Cinese Meridionale, a vedere gli USA sconfitti nonostante il possibile aiuto militare legato ai recenti accordi siglati in ambito QUAD (Usa, Giappone, Australia e India) o in ambito AUKUS (USA, Regno Unito e Australia).

A prevedere una piena sconfitta e, di conseguenza, l’annessione di Taiwan alla Cina, è lo stesso Comando Strategico che lo ha ammesso in una audizione al Congresso degli Stati Uniti nell’aprile del 2021.

 

Taiwan rappresenta comunque la falsa coscienza del mondo intero.

Solo 14 nazioni la riconoscono come Stato sovrano, il resto del mondo intrattiene solo rapporti commerciali.

 Vi è infatti un veto da parte del governo di Pechino che ha deciso di non intrattenere relazioni diplomatiche con gli Stati che rifiutano di riconoscere che la Cina Popolare è una e indivisibile e che Taiwan è solo una provincia ribelle.

Al mondo manca il coraggio di riconoscere la legittimità ad esistere di Taiwan per timore di rompere i rapporti con Pechino e gli Stati Uniti, da questo punto di vista, hanno precise responsabilità allorché nel 1972 decisero di accettare il principio di “una sola Cina” su precisa richiesta di Pechino (all’epoca era Presidente R.Nixon).

In Ucraina e lungo le coste di Taiwan si assiste a continue prove di forza da parte di Russia e Cina, nel tentativo, congiunto, di saggiare le reazioni dell’Occidente e di verificarne la capacità di reazione.

 Non altrimenti si spiegano le continue esercitazioni navali congiunte o le continue violazioni dello spazio aereo di Taiwan da parte dei caccia cinesi.

 Il contesto nel Pacifico è ulteriormente complicato dalla instabilità nelle acque del Mar Giallo e del Mar del Giappone, per le continue minacce da parte della Corea del Nord, il che ha indotto il Giappone, stretto alleato degli USA, a rileggere la propria carta costituzionale per consentire un aumento delle spese militari e prevedere la costruzione di portaerei.

 Si tratta di acque presidiate da importanti porti militari sia russi che cinesi.

 Conclusione.

Il mondo uscito dal crollo dell’URSS ha destabilizzato interi continenti e gli Stati Uniti si sono dimostrati incapaci di garantire da soli un nuovo ordine che garantisse pace e stabilità.

In questa incapacità rientrano anche precise responsabilità degli europei che non hanno saputo avviare una diversa politica di vicinato con la nascente nuova Russia. Gli Stati Uniti, assecondati dalla UE, hanno così continuato a percepire la Russia come un possibile nemico da contrastare.

Anziché cogliere la novità derivante dal crollo del sistema sovietico, l’Occidente ha continuato ad agire per indebolire la Russia rafforzando la propria presenza ad est nell’ambito della NATO.

Una grande occasione per favorire nuove relazioni tra la Unione europea (allargatasi ai paesi un tempo sotto l’influenza sovietica) e la Russia è andata così perduta.

Ma d’altronde una Unione europea senza un proprio governo e senza una propria politica estera come avrebbe potuto agire diversamente?

Inoltre, l’allargamento della UE ad est poneva anche in evidenza le paure che queste nuove nazioni continuavano e continuano ad avere nei confronti della vicina potenza russa che per lungo tempo li aveva sottomessi.

 Da questo punto di vista l’ingresso nella UE garantiva a questi paesi un aiuto nello sviluppo delle loro economie e un consolidamento delle loro giovani democrazie, e, allo stesso tempo, l’ingresso come membri della NATO dava garanzie in termini di sicurezza militare.

Mentre questo scenario si andava costruendo in Europa, in Estremo Oriente emergeva la Cina come nuova potenza dapprima economica ed oggi anche militare.

Sul piano economico, la mancanza di una politica industriale ed energetica, mostra oggi le contraddizioni e le debolezze della UE.

La delocalizzazione di molte attività produttive pone la Cina nelle condizioni di utilizzare l’economia come uno strumento politico a tutti gli effetti, come ammesso dalla stessa Commissione europea che evidenzia la dipendenza dell’Europa dalla Cina in settori strategici.

Il sapere di essere deboli dovrebbe indurre pertanto i governi ad individuare soluzioni di prospettiva per evitare, come sta accadendo, di vedere l’industria europea in difficoltà negli approvvigionamenti sia di prodotti finiti che di materie prime, indirizzate invece principalmente verso la Cina e le altre nazioni dell’Estremo Oriente che oggi, insieme, rappresentano il polmone industriale del mondo intero, a riconferma di come il commercio internazionale sia passato dall’area atlantica a quella del Pacifico.

L’eterno dilemma del mondo alla ricerca di un equilibrio che contrasti le mire egemoniche vede oggi tre grandi potenze continentali confrontarsi in modo aperto: Stati Uniti, Russia e Cina ce lo ricordano ogni giorno.

È altrettanto evidente come un continente risulti assente o comunque marginale ed è la stessa Commissione europea a ricordarcelo così come i recenti interventi pubblici del Presidente Macron o del Cancelliere Scholz.

Non resta, come recitava un antico detto latino, che passare dalle parole ai fatti compiendo scelte radicali che diano alla Unione europea l’assetto federale di cui necessita per esercitare la propria sovranità.

I prossimi mesi saranno pertanto decisivi alla luce delle decisioni che i Capi di governo, in sede di Consiglio europeo, prenderanno sulla base delle proposte che i cittadini europei hanno formulato in seno alla Conferenza sul futuro dell’Europa.

Alla Conferenza sono state presentate precise idee per abolire il diritto di veto, per garantire all’Unione un proprio potere fiscale e di bilancio, per dare maggiori poteri al Parlamento europeo nel definire le linee di una politica estera.

Si tratta di questioni vitali per il futuro della Unione e per garantire un maggior equilibrio nella gestione dei problemi del mondo.

(Stefano Spoltore)

V Rapporto “I Padroni della Terra” Focsiv.

Focsiv.it – Redazione - (28 Giugno 2022) - ci dice:

(Comunicato stampa)

 

SONO PARI A 91,7 MILIONI DI ETTARI LE TERRE ACCAPARRATE IN TUTTO IL MONDO.

Un fenomeno che la guerra può amplificare a causa della competizione tra blocchi geopolitici a discapito delle comunità native.

Il caso Ucraina è emblematico.

È quanto emerge dal V° Rapporto Focsiv “I padroni della Terra. Rapporto sull’accaparramento della terra 2022: conseguenze sui diritti umani, ambiente e migrazioni”.

Si presenta a Roma nella Sala Capitolare del Chiostro del Convento di Santa Maria sopra Minerva, in Piazza della Minerva 38, su iniziativa del senatore Mino Taricco, il V° Rapporto “I padroni della Terra.

Rapporto sull’accaparramento della terra 2022: conseguenze sui diritti umani, ambiente e migrazioni”, ideato e redatto da Focsiv – Federazione degli Organismi Cristiani Servizio Internazionale Volontariato, nell’ambito della Campagna Abbiamo riso per una cosa seria, iniziativa ventennale volta a sostenere l’agricoltura familiare contro le grandi operazioni di accaparramento, con il patrocinio di GreenAccord e il contributo del progetto Volti delle Migrazioni co-finanziato dall’Unione Europea.

 Presupposto delle cinque edizioni del Rapporto è la consapevolezza che la terra, soprattutto quella fertile e l’acqua salubre, sono risorse che si stanno esaurendo, in un mercato globale che tutto fagocita con un modello sviluppista ed estrattivista.

Anche “I padroni della terra 2022” sono dedicati 358 difensori dei diritti umani uccisi in 35 Paesi per essersi opposti alla devastazione e all’inquinamento su grande scala di foreste, terra e acqua, lottando in difesa del Pianeta e del diritto di ciascuno di non essere sfruttato o emarginato e di poter vivere in un ambiente salubre e sostenibile.

Dal Rapporto emerge come siano 91,7 milioni di ettari le terre che sono state accaparrate in questi ultimi 20 anni a danno delle comunità locali, dei contadini e dei popoli nativi, secondo gli ultimi rilevamenti di marzo della banca dati di Land Matrix, il sito che raccoglie informazioni sui contratti di cessione e affitto di grandi estensioni di terra.

Questo fenomeno si concentra in alcuni paesi: il più coinvolto è il Perù con 16 milioni di ettari, a questo seguono a distanza il Brasile e l’Argentina, l’Indonesia e la Papua Nuova Guinea, mentre in l’Europa orientale vi è l’Ucraina, e nel continente africano il Sud Sudan, il Mozambico, la Liberia e il Madagascar.

Dei 60 milioni di ettari di superficie totale dell’Ucraina, il 55% è classificato come terreno coltivabile, la percentuale più alta in Europa.

 A milioni di abitanti dei villaggi ucraini, con la privatizzazione dei terreni durante il processo di riforma agraria, sono stati assegnati piccoli appezzamenti di terreni – in media quattro ettari – che in precedenza, sotto l’Unione Sovietica, erano di proprietà statale o comunale.

 I grandi investitori con il tempo hanno aggirato il divieto di vendita della terra imposto dalla moratoria grazie alla messa in atto di contratti di affitto.

La mancanza di capitale e la frammentazione degli appezzamenti ha costretto molti contadini dei villaggi ad affittare a cifre irrisorie la loro terra, oggi migliaia di questi appezzamenti sono concentrati sotto il controllo di grandi aziende agricole.

La guerra dell’Est europeo, così come la pandemia prima, non ha rallentato il fenomeno, anzi sono proprio queste crisi, come quella del 2008 con il crollo di Wall Street, che generano ed alimentano la competizione degli attori sovrani e di mercato più potenti per accordarsi con le élite locali appropriandosi di terre fertili e di risorse minerarie per il proprio tornaconto a discapito dei popoli che da secoli vi vivono.

Si mette anche in evidenza come la digitalizzazione stia facilitando le operazioni di accaparramento con la creazione di registri e certificazioni digitali, mostrando come questa non sostenga i diritti alla terra delle comunità contadine, ma la loro frustrazione da parte di chi si appropria del potere.

Le nuove tecnologie informatiche, in linea di massima, appaiono piegate agli interessi di privatizzazione e finanziarizzazione dei terreni.

Mentre Facebook diventa uno spazio per il commercio della terra, situazione per la quale la piattaforma social si sente non coinvolta.

Un’altra situazione drammatica messa in luce dal Rapporto e legato al land grabbing, è quello della deforestazione per lo sfruttamento delle risorse naturali – 11,1 milioni di ettari di foreste tropicali perse nel 2021 – a favore dell’espansione delle grandi piantagioni monocolturali.

 Le conseguenze sono pesanti e molteplici: perdita della biodiversità e dei relativi servizi ecosistemici, espulsioni delle popolazioni native e contadine, insicurezza umana e nuove tensioni.

Essenziale è il ruolo della finanza e, in particolare, delle banche pubbliche di sviluppo, come la Cassa Depositi e Prestiti.

Tuttavia, alcune di queste sono coinvolte nel finanziamento di investimenti insostenibili.

È necessario che esse si dotino di meccanismi efficaci e trasparenti di valutazione ex ante, di controllo e di accesso alla giustizia, sostenendo le richieste delle comunità locali.

La stessa Cassa Depositi e Prestiti deve adottare questi meccanismi al più presto.

Nella sua prefazione al Rapporto Ivana Borsotto, Presidente Focsiv sostiene come sia indispensabile un processo di cambiamento e come questo dipenda “in gran parte dalla cooperazione e dalle spinte delle lotte dei contadini e dei popoli indigeni, soprattutto delle comunità più vulnerabili, che sono accompagnati dalle associazioni della società civile di FOCSIV, CIDSE e non solo.

 Sono le lotte per i diritti umani e della natura, per una vera democrazia dal basso, che forgiano la speranza di un mondo migliore, senza accaparramenti e con una maggiore capacità di gestire in modo nonviolento i conflitti. – aggiunge più avanti –

Questo processo di cambiamento è indispensabile e dipende in gran parte dalla cooperazione e dalle spinte delle lotte dei contadini e dei popoli indigeni, soprattutto delle comunità più vulnerabili, che sono accompagnati dalle associazioni della società civile di FOCSIV, CIDSE e non solo.

Reiteriamo, quindi, la richiesta dell’aumento dell’aiuto pubblico allo sviluppo, affinché raggiunga lo 0,70% del reddito nazionale lordo, e la sua destinazione a favore prioritariamente di programmi per l’agroecologia, e per il sostegno ai difensori dei diritti umani.”

Il Rapporto indica come sia importante ridare forza e cogenza al Comitato Mondiale per la Sicurezza Alimentare, che ha già concordato linee guida volontarie per i regimi fondiari, la cui applicazione è però insufficiente.

Servono regole obbligatorie, ma ci sono anche delle buone notizie che provengono dalla crescente introduzione di regolamenti e proposte di dovuta diligenza che provengono dall’Unione Europea.

Proposte che devono migliorare così come l’attuazione dei regolamenti già esistenti.

Il Rapporto indica 10 raccomandazioni che vanno nella direzione di una ristrutturazione del sistema alimentare internazionale, che possa sostenere il diritto alla terra delle comunità contadine e dei popoli nativi.

Raccomandazioni che sono rese ancora più urgenti a seguito delle conseguenze della guerra in Ucraina che stanno accrescendo l’insicurezza alimentare dei paesi più vulnerabili e la competizione geopolitica sulle risorse naturali.

È urgente una riforma del sistema multilaterale per gestire le tensioni tra i grandi poteri geopolitici, dare voce ai popoli impoveriti e proteggere i diritti alla terra delle comunità locali.

(abbiamorisoperunacosaseria.it #risoxunacosaseria)

 

 

 

 

(Monthly report n.12) La globalizzazione

si è rotta: verso un nuovo ordine mondiale.

Lindipendente.online – Editoriale – (18 LUGLIO 2022) – ci dice:

 

È uscito il dodicesimo numero del Monthly Report: la rivista de L’Indipendente che ogni mese fa luce su un tema che reputiamo di particolare rilevanza e non sufficientemente trattato sul mainstream.

La globalizzazione si è rotta, il mondo a un punto di svolta verso un nuovo ordine mondiale: questo il titolo del nuovo numero che attraverso 40 pagine fitte di inchieste, approfondimenti e interviste ci porta a conoscere un tema di rilevanza assoluta, acuito dallo scoppio del conflitto ucraino.

L’editoriale del nuovo numero: Da Genova a Kiev, e ritorno.

A Genova, nel 2001, in centinaia di migliaia provarono a farlo capire a tutti: questa globalizzazione provocherà disastri.

Perdita di sovranità alimentare e migrazioni forzate nei paesi poveri, impoverimento e abbattimento delle tutele in quelli ricchi, invasione di prodotti da ogni parte del mondo, devastazione ecologica, nuove guerre per il possesso delle risorse.

 Il movimento no global venne brutalmente caricato, infiltrato, pestato, gassato, colpito a sassate e persino a colpi di pistola, da migliaia di uomini in divisa che avevano ricevuto l’ordine politico di non avere pietà.

Più in alto, nelle stanze dei bottoni del potere politico e mediatico, si lavorò di pura propaganda per mesi terrorizzando i cittadini-telespettatori con le storie sui manifestanti violenti, le finte molotov e i terribili black bloc in realtà pieni di agitatori infiltrati dallo stato.

Un ragazzo di nome Carlo con un estintore vuoto in mano a sette metri di distanza da una camionetta dei carabinieri fornì l’alibi finale.

 Nelle strade italiane gli apparati dello stato tornarono ad uccidere, e i media riuscirono a convincere la maggioranza che fu per legittima difesa.

Chi era in piazza ventuno anni fa aveva ragione. La storia lo ha dimostrato e una sempre crescente maggioranza di cittadini se ne è resa conto.

 Non è sensato un sistema dove una guerra in Ucraina porta ad una carestia in Africa, dove un manipolo di aziende multinazionali sono diventate talmente potenti da dominare gli Stati, dove milioni di persone devono emigrare per sognare una vita dignitosa, dove per contrastare la concorrenza della verdura proveniente dall’estero bisogna riempire di schiavi sottopagati le campagne italiane.

Non è sensato e infatti sta smettendo di funzionare.

O i suoi architetti politici, ovvero Stati Uniti ed Europa, accetteranno di discuterne con le buone oppure saranno costretti a farlo con le cattive.

È questione di tempo.

Cina, Russia, India, Iran, Venezuela, Argentina, Sudafrica, sempre più Paesi pretendono di sedersi al tavolo dove andranno ridiscusse le regole.

Ma la partita non sarà solo tra gli interessi contrapposti di Stati sempre più in clima da terza guerra mondiale.

 Le recenti rivolte indigene in Ecuador, la nuova avanzata dei movimenti socialisti in America Latina e le proteste oceaniche dei contadini indiani dimostrano che molti popoli nel mondo stanno lottando e segnando importanti vittorie per riportare l’interesse dei tanti a soppiantare quello dei pochissimi.

“Voi G8, noi sei miliardi”, era uno degli slogan dei no global che ventuno anni fa si fecero massacrare cercando di difendere le ragioni di tutti, inclusi quei tanti che travolti dalla propaganda mediatica tifarono per la repressione.

Ancor di più oggi la vera partita non è tra Usa e Cina o tra Europa e Russia.

La vera partita è sempre la stessa: la difesa collettiva del genere umano contro un’esigua minoranza di carnefici transnazionali.

 

 

 

“Targeted Individuals”:

Individui Presi di mira.

Conoscenzealconfine.it – Massimo Mazzucco – (17 Novembre 2022) – ci dice:

Abbiamo (luogocomune.net) già pubblicato un articolo su questo argomento nel 2019.

 Oggi come allora, vale lo stesso avviso: si tratta di tesi non dimostrabili, e l’articolo viene quindi pubblicato per quello che è: uno sfogo da parte di una persona che vive queste problematiche, e vorrebbe che l’argomento fosse più conosciuto sulla rete.

 (Io stesso conosco da vicino una persona che soffre di questi problemi, e vi posso garantire che la sua vita è tutto meno che piacevole).

(Massimo Mazzucco)

I “targeted individuals”, ovvero gli individui mirati, sono persone prese di mira da tecnologie ad onde elettromagnetiche chiamate “neuro weapons”, “psychotronic weapons”, “armi ad energia diretta”, “V2K” e “MKUltra”.

Questi individui subiscono maltrattamenti invisibili, quindi non dimostrabili, per cui alcuni di loro scrivono le proprie testimonianze sui social quali Facebook, Twitter e Instagram alla ricerca di altre vittime e per chiedere aiuto.

Sentono voci che li perseguitano, li insultano, li deridono, li tormentano; subiscono dolori fisici, perdita di memoria, annullamento del pensiero, molestie, difficoltà a ragionare, pensieri forzati, fantasie forzate e altri maltrattamenti.

Centinaia di persone da ogni parte del mondo affermano l’esistenza e l’utilizzo di queste tecnologie; persone che non si conoscevano prima, che vivono in città e nazioni diverse e lontane, con situazioni familiari e lavorative differenti, di età differente eppure con una cosa in comune: tutti affermano che qualcuno li sta torturando con armi insolite, che arrivano nel cervello, che colpiscono il fisico.

Le loro accuse sono rivolte al proprio governo, alla CIA, all’FBI. Soprattutto dopo la vicenda che ha coinvolto alcuni diplomatici che, mentre lavoravano nelle ambasciate, hanno avuto malesseri e problemi inspiegabili, riconducibili all’utilizzo di armi ad energia diretta.

 Per saperne di più è sufficiente fare una ricerca sulla “Sindrome dell’Havana” (Havana Syndrome).

Mentre in maniera ufficiale ci dirigiamo verso il Meta-verso, verso situazioni virtuali, verso l’interfaccia uomo tecnologia, verso l’installazione di chip sottocutanei con cui magari comunicare col pensiero oltre che comandare la domotica di casa, gli individui mirati gridano a gran voce che tutto questo già esiste, che non servono il Meta-verso e i chip sottocutanei o nascosti in finti vaccini.

 Esiste già una realtà grave e molto più sofisticata.

Non si possono ignorare queste grida. Qualcosa è nascosto tra le onde radio elettromagnetiche e centinaia, forse migliaia, di testimoni lo affermano.

Cosa sono le Armi Psicotroniche.

Chiamo queste tecnologie armi psicotroniche perché durante le mie ricerche sulla comunicazione mentale, circa vent’anni fa, avevo trovato pochissime notizie di esperimenti con veggenti e medium in USA che utilizzavano onde psicotroniche per comunicare con il pensiero.

Sono tecnologie spaventose, le loro capacità si avvicinano molto all’onnipotenza.

Servono principalmente al “controllo di massa”.

Per controllo intendo un vero e totale dominio sui cervelli e sui corpi degli esseri viventi.

Con esse è possibile controllare anche le cellule più microscopiche.

Le neuro armi si servono di onde elettromagnetiche per colpire il cervello umano e fargli sentire suoni, voci, soffi, fischi; per fargli vedere immagini, ricordi, fantasie, sogni; per far provare dolori fisici come emicranie, crampi, fitte, intorpidimenti; per far provare sentimenti, sensazioni, emozioni.

Tutti sappiamo che il cervello invia e riceve impulsi elettrici per comunicare con il corpo; l’elettricità fa parte della natura umana ed ogni testo scientifico ne parla.

Quindi non è difficile capire che se il cervello si avvale di impulsi elettrici questi si possono sostituire con altri impulsi elettrici per interferire sul normale e naturale funzionamento.

Cosa credete che farebbe un gruppo di criminali se si trovasse tra le mani una tecnologia in grado di obbligare tutti a fare ciò che essi desiderano?

Esattamente quello che è successo negli ultimi cento anni e forse più.

 In molti ci chiediamo perché un’alta percentuale del popolo si è lasciato abbindolare in questi ultimi anni ed ha accettato di farsi iniettare sostanze non sperimentate, nonostante i tentativi da parte di scienziati e medici seri di farli desistere.

Tutti mascherati per proteggersi da un virus che nessuno ancora ha ben analizzato e che, se curato con antinfiammatori, è facilmente gestibile.

 Eppure, sembra che in pochi ragionino e capiscano.

 Chi li domina con le onde condizionanti ha deciso per loro.

Le vittime non possono capirlo perché i loro pensieri naturali e la loro padronanza di sé è sostituita da comandi artificiali.

 

Storia delle Tecnologie Condizionanti (Deduzione personale).

 

 

Tanti anni fa un gruppo di tecnici-scienziati, studiando il cervello umano e le onde radio, riuscì a costruire una tecnologia in grado di dominare la mente umana.

 I ricchi dell’epoca pagarono moltissimo per portare avanti le ricerche con l’unico obiettivo nel futuro di soggiogare gli altri per aumentare il proprio dominio.

 Così fu.

Le onde elettromagnetiche furono diffuse ovunque fosse possibile e la loro presenza fu giustificata dall’utilizzo militare, radiofonico, televisivo e, attualmente, telefonico e satellitare.

Cominciò così il più grande crimine della storia umana. L’umanità fu totalmente soggiogata.

Con l’ausilio di computer sempre più sofisticati e di programmi precisi fu stabilito come dovevano essere le persone.

 Interferirono sul DNA plasmando il corpo e sostituirono il pensiero e il carattere, attivando programmi specifici per ogni persona.

Il modo di parlare e di muoversi, le idee, le passioni, le scelte di vita, i sentimenti, i pensieri, i pregi, i difetti, gli orientamenti sessuali, la salute e tutto ciò di cui è composto l’essere umano era scritto, ed è tutt’ora scritto, nei programmi.

Così hanno deciso la storia umana nell’ultimo secolo (o più) gestendo il commercio, la politica, le guerre, le carestie, ecc.

Anche le condizioni atmosferiche non furono risparmiate e dominandole hanno potuto causare siccità e alluvioni, tempeste e mutamenti climatici.

Ma dove si nascondono gli spietati criminali che usano queste tecnologie?

Come fanno a non rimanere condizionati anch’essi?

 Dove sono le armi psicotroniche?

Il sospetto che parte delle armi si trovino su alcuni degli oltre 2000 satelliti esiste (se non su tutti).

Ripetitori di onde radio e satelliti captano le onde psicotroniche e le divulgano su tutto il pianeta. Tutti gli esseri viventi sono sotto controllo ovunque sono presenti le onde radio. Negli ultimi anni, tuttavia, numerose vittime sono state messe a conoscenza della situazione e riunite sotto il nome di targeted individuals”.

Chi gli crederà senza prove? Come possono provare crimini invisibili? Essi stessi e quello che dicono sono le prove e devono bastare.

Siccome queste tecnologie utilizzano onde radio non è impossibile per le tecnologie militari di oggi poter individuare quali sono e da dove vengono trasmesse.

Individuati i covi delle organizzazioni criminali si potrà procedere alla loro cattura con la conseguente liberazione dai condizionamenti.

Sorgono comunque altre domande importanti: è davvero possibile liberare gli esseri umani assoggettati senza arrecargli danni fisici o la morte? Se fossero proprio le onde elettromagnetiche a tenerli in vita?

L’autrice di questo articolo ha chiesto di restare anonima.

(Massimo Mazzucco-- luogocomune.net/30-scienza-e-tecnologia/6117-targeted-individuals-individui-presi-di-mira)

ORGOGLIO E PREGIUDIZIO

(E L'ELEGANTE SCAFANDRO DI ALICE).

Elbareport.it - Graziano Rinaldi - Sergio Rossi – (16 Novembre 2022) – ci dicono:

Dopo due anni di emergenza sanitaria, era auspicabile un libero dibattito e una riconciliazione ragionata sulla base dei dati epidemiologici e scientifici elaborati e pubblicati nel frattempo in tutto il mondo.

Invece, anziché confrontarsi e prendere atto degli errori e dei successi nella prevenzione e cura della malattia (uso una terminologia “neutra”, perché se voglio pubblicare sui social non posso usare la parola covid, in barba alla libertà d’espressione garantita costituzionalmente), vediamo che si continua come niente fosse contro i sanitari che hanno scelto di non sottoporsi alla vaccinazione obbligatoria.

I medici e gli altri sanitari che da “eretici” già dal marzo 2020 hanno curato a domicilio i propri pazienti con farmaci di facile ed economica reperibilità, talvolta con enorme sacrificio umano, evitando così l’ospedalizzazione di decine di migliaia di pazienti ed ottenendo un successo terapeutico neanche paragonabile con la tachipirina e vigile attesa prevista dal protocollo ministeriale, ebbene proprio loro, che in un mondo normale dovrebbero essere premiati, sono ancora, contro ogni evidenza logica e scientifica, stigmatizzati ed emarginati.

Se questa ferita non sarà elaborata con sincerità e lontano dagli interessi finanziari e geopolitici che pesano come macigni su tutta la questione, diventerà un’altra malattia cronica del nostro paese, dove l’ideologia strumentalizza la storia e divide le persone per meglio controllarle.

Per la pacificazione ci vuole però il coraggio e la volontà d’impegnarsi ognuno nel proprio personale e, contemporaneamente nell’azione collettiva: la pillola rossa è dura da buttare giù.

 In questa difficile digestione può aiutarci la volontà e la capacità di ascoltare chi non si è irreggimentato: non sono tutti delle mammole è vero, e ci vuole discernimento, ma la prima regola è un bel digiuno dalla televisione e dalla stampa di proprietà di chi ha interessi finanziari nelle industrie farmaceutiche e nelle fabbriche di armi, nonché da chi è da sempre filo governativo.

Un po’ di silenzio mediatico fa bene al cuore e regala il tempo per leggere il programma dei nuovi padroni del mondo.

Mi permetto di consigliare tra le opere di Klaus Schwab, “La quarta rivoluzione industriale”.

Del circolo di Davos, di cui Schwab è il leader (il nuovo Dio terreno! Ndr.), fanno parte tanti “giovani” governanti, giornalisti e intellettuali progressisti e conservatori, ben assiepati intorno a chi detiene le redini del mondo finanziario contemporaneo.

Una volta informata, la persona ha il diritto di scegliere in quale mondo vorrebbe vivere.

Se però non si conosce l’obbiettivo delle élite mondiali, è facile che il popolo si accapigli su ciò che è irrilevante e distolga lo sguardo dai suoi Reali interessi.

(Graziano Rinaldi)

Ognuno a questo mondo è libero di manifestare i più estremi pensieri: che la terra sia piatta, che esistano gli alieni, o che si possa guarire qualsiasi malattia con l'acqua di Lourdes o ancora con quell'altra (lucrosissima e Big Pharma non c'entra) acqua fresca dei cosiddetti preparati omeopatici.

Ora ristabilito il diritto di alcuni (per fortuna pochi) operatori sanitari di esercitare una professione medica pur avendone contestato le "ufficiali" fondamenta scientifiche, in coerenza con le convenzioni loro, mi si permetta di porre attenzione sull'esercizio di un altro diritto.

 

Credo che un cittadino "normale", come me, abbia il diritto di cautelarsi, e di evitare di essere "curato" da chi non crede nel dettato della scienza (condiviso dalla pressoché totalità delle autorità nazionali ed internazionali del settore).

Sia chiaro, io non voglio appiccicare la targhetta "no-vax" sul camice di nessuno, ma le autorità sanitarie devono tutelarmi, perché io di un operatore sanitario No-Vax non mi fido e mai mi fiderò, finché la scienza (sì, quella ufficiale, cioè l'unica) non gli darà ragione.

E poi c'è il diritto di Alice (la chiameremo così) che spiego subito chi sia.

Alice, infermiera fresca di laurea, è stata fiondata nell'inferno dei reparti Covid in piena pandemia, a fare turni "scafandrati" e massacranti per quattro soldi, a veder crepare umani di ogni tipo, perfino no-vax che avevano esordito strappandosi la maschera dell'ossigeno, o addirittura facendosi beffe della sua "mise" che non le consentiva di bere, mangiare, pisciare per ore.

E nonostante ciò, nonostante le precauzioni, il Covid Alice se l'è beccato per due volte.

Certo è stata molto più fortunata di tanti tantissimi suoi colleghi che "alla fine dei turni" hanno indossato poi un cappotto di legno, ma Alice avrebbe tutto il diritto di non essere presa ulteriormente per il culo, e di non fidarsi a sua volta (o no?) di eventuali compagni di lavoro "negazionisti".

Scusate la relativa "pacatezza" e non mi rispondete, non avrei proprio niente altro da aggiungere.

Di certezze ne ho poche, ma quelle che ho non le metto in discussione.

(Sergio Rossi)

IL POTERE PIEGA I POPOLI

ABOLENDO LA PROPRIETÀ PRIVATA.

 Opinione.it - Ruggiero Capone – (08 gennaio 2021) – ci dice:

 

Il rapporto tra popolo e potere (o poteri) non è mai stato idilliaco, e storicamente le conflittualità sono sempre state mediate da quelli che oggi definiremmo corpi intermedi, ovvero religioni, tribuni del popolo, mafie, sacerdoti, maghi, sindacalisti…partiti politici.

Va detto che il potere ha sempre cercato di comprare i rappresentanti dei corpi intermedi, quanto meno d’addomesticarli.

Inutile ribadire che la storia dei popoli è diversa, ma presenta comunque similitudini.

Negli ultimi duecento anni le aristocrazie storiche hanno pian pianino ceduto lo scettro a quelle tecnologico-finanziarie.

 Il rapporto tra popolo e nuovi padroni del potere è stato comunque calmierato da corpi intermedi come chiesa, sindacati e partiti politici (negli ultimi settant’anni si sono aggiunte le organizzazioni internazionali).

Ma oggi siamo ad una svolta epocale, ad una resa di conti, tra popolo e potere. Questo perché il potere non ha più bisogno del popolo, degli esseri umani.

Il potere non ha più bisogno di braccia che lavorino nei campi o nelle fabbriche, e nemmeno di tanti addetti alle manutenzioni edili ed urbane, troppi sono anche insegnanti ed impiegati, pericolosi gli autonomi dediti ad artigianato e commercio.

Questi ultimi rappresentano per il potere l’insidiosa classe che potrebbe azionare l’ascensore sociale, tentando la prevaricazione economica nei riguardi del potere consolidato.

Per bloccare ogni tumulto, quindi evitare che vengano insidiati i poteri, è stato siglato un patto di stabilità tra i gruppi mondiali che detengono il potere.

 Il patto tra poteri (amministratori di gruppi finanziari, multinazionali tecnologiche ed industria della sicurezza) prende il nome di “Great Reset”, ed è stato siglato al Forum di Davos circa vent’anni fa, nel 2001: durante quell’appuntamento, dal titolo “Global information technology report”, si definirono a Davos le basi del “Great Reset” di Klaus Schwab.

 Il 2 gennaio 2021, Maurizio Blondet ha pubblicato un estratto dell’Economist (settimanale di Sir Evelyn de Rothschild) in cui si acclarano i postulati di quello storico accordo di Davos:

ovvero soppressione della proprietà privata, limitazione della mobilità dei popoli, limiti al lavoro creativo ed individuale, introduzione della moneta elettronica per scongiurare risparmio individuale ed accumulo di danaro fuori dal controllo dei sistemi bancari, rafforzamento delle norme di sicurezza al fine di controllare l’agire degli individui.

Norme e metodiche che, i potenti di Davos diretti d Klaus Schwab hanno fatto digerire alle politiche nazionali come antidoto alla distruzione del pianeta.

In pratica la salvaguardia del Pianeta verrebbe garantita con la schiavitù dei popoli.

Nicoletta Forcieri ha già documentato la mitica riunione di Davos sulla web-tv ByoBlu, determinando l’ira del conformismo mediatico italiano: non dimentichiamo che gran parte dei giornalisti italioti gradivano essere ospiti negli alberghi di Davos.

Nel 2016 il piano del Forum di Davos viene illustrato dall’Istituto Mises: ovvero diviene di dominio pubblico la volontà del potere di abolire la proprietà privata.

 Il titolo di quel rapporto (e programma) è “No privacy, no property: the world in 2030 according to the Wef”.

Quindi entro il 2030 i potenti della terra contano d’aver convinto tutti gli stati del pianeta ad abolite per legge la proprietà di alloggi e strumenti di produzione.

 In questo progetto del potere si rivela provvidenziale la pandemia da Covid, che sta di fatto agevolando la criminalizzazione del lavoro umano (valutato come primo fattore d’inquinamento), del turismo di massa e della socializzazione umana in genere.

La pandemia sta anche favorendo il depauperamento del risparmio individuale di coloro che non sono parte del sistema: ovvero tutti gli individui che non lavorano per entità statali e multinazionali.

 Perché il Great Reset di Klaus Schwab prevede che debbano essere chiuse tutte le attività individuali artigianali e commerciali, e per favorire l’accordo unico tra grande distribuzione e commercio elettronico.

 Obiettivo dei signori di Davos e di Klaus Schwab è far decollare il reddito universale (la “povertà sostenibile”) entro il secondo trimestre 2021: sarebbero proprio artigiani e commercianti a dover per primi abbandonare le rispettive attività per piegarsi ad un programma di “povertà sostenibile”.

 La pandemia s’è rivelata fondamentale per l’opera di convincimento al non lavoro.

“Oltre la privacy e la proprietà” è una pubblicazione, per il World economic forum, dell’ecoattivista danese Ida Auken (dal 2011 al 2014 ministro dell’Ambiente della Danimarca, ancora membro del Parlamento danese) e parla d’un mondo “senza privacy o proprietà”: immagina un mondo in cui “non possiedo nulla, non ho privacy e la vita non è mai stata migliore”.

L’obiettivo è entro il 2030 (scenario di Ida Auken) che “lo shopping e il possesso sono diventati obsoleti, perché tutto ciò che una volta era un prodotto ora è un servizio.

In questo suo nuovo mondo idilliaco, le persone hanno libero accesso a mezzi di trasporto, alloggio, cibo e tutte le cose di cui abbiamo bisogno nella nostra vita quotidiana”.

I poteri si sono inseriti in questi disegni utopici e, per fare propri tutti i beni dei popoli, hanno elaborato la trappola della “povertà sostenibile”, il reddito di base garantito.

Antony Peter Mueller (professore tedesco di Economia) sottolinea che questo progetto va oltre il comunismo più estremo.

“L’imminente esproprio andrebbe oltre anche la richiesta comunista – nota Mueller – questa vuole abolire la proprietà privata dei mezzi di produzione, ma lascia spazio ai beni privati.

La proiezione del Wef afferma che anche i beni di consumo non sarebbero più proprietà privata (…) secondo le proiezioni dei “Global future Councils” del Wef, la proprietà privata e la privacy saranno abolite nel prossimo decennio.

 Le persone non possederanno nulla. Le merci sono gratuite o devono essere prestate dallo Stato”.

“La proprietà privata è di ostacolo al capitalismo”, afferma l’Economist nel suo elogio alle politiche del Forum di Davos.

L’Fmi (Fondo monetario internazionale) ha sposato il programma del Forum di Davos, infatti è partito il programma mondiale di reset del debito: in cambio gli stati con maggiore debito pubblico sarebbero i primi a dover garantire ai poteri che i cittadini perdano per sempre la proprietà privata di qualsiasi bene.

 E chi gestirebbe i beni confiscati?

 Le élite straricche (esenti tasse), che pensano di risolvere il problema abolendo mondialmente la proprietà privata, hanno già predisposto un unico fondo planetario che controlli i diritti sui beni e terreni.

L’idea, davvero utopica, veniva per la prima volta paventata da George Soros nel 1970, due anni dopo la sua invenzione degli “hedge fund”: il cosiddetto “sistema finanziario buono” che convinse moltissimi hippie sessantottini a trasformarsi in yuppies finanziari di successo.

Ora che il pianeta è ancor più bruciato dai debiti, gli stessi tentano di reinterpretare Karl Marx e Friedrich Engels, e questa volta lo fanno raccontandoci che c’è in “dispotismo asiatico buono” e che poggia sull’“assenza della proprietà privata…chiave della pace per i popoli”.

Un particolare, non secondario per noi italiani, è che ai passati Forum di Davos era ospite fisso Gian Roberto Casaleggio (fondatore dell’omonima azienda che controlla i 5 Stelle): ne deriva che, su noi italiani potrebbe abbattersi la sperimentazione d’abolizione della proprietà privata.

Un programma che partirebbe certamente con una modifica costituzionale: del resto l’Unione europea chiede da almeno un decennio che lo stato ponga limiti alla libertà privata in Italia (circa l’80 per cento dei cittadini italiani vivono in case di proprietà).

Ecco che i pignoramenti europei, che dovrebbero colpire i proprietari anche per minimi importi, agevolerebbero la transizione delle proprietà italiane verso un fondo immobiliare europeo.

Poi la carestia e la mancanza di danaro che decollerebbero entro luglio 2021 (interruzione programmata delle catene di rifornimento) darebbero alla società la grande instabilità economica utile alla svendita dei beni ai grandi gruppi finanziari:

 i “compro casa” (collegati alle grandi finanziarie) stanno affacciandosi al mercato insieme ai “compro oro”.

Di fatto, i potenti della terra (orchestrati da Klaus Schwab! Ndr.) stanno riportando l’orologio della storia al tempo di sumeri, babilonesi ed egiziani pre-ellenistici: quindi a prima che il diritto romano desse certezza alla proprietà privata.

Quest’ultima garantiva la libertà dei cittadini, la loro non sudditanza verso un unico padrone, era meritocratica perché costruita da colui che lavorava e risparmiava.

 Ecco perché lo scrivente condivide le parole (e l’appello) di Maurizio Blondet: “Ciò che viene venduto al pubblico come promessa di uguaglianza e sostenibilità ecologica è in realtà un brutale assalto alla dignità umana e alla libertà”.

 

Del resto, il discorso di buon anno di Angela Merkel non lascia spazio a fraintendimenti: la potente tedesca ha detto che necessita colpire giudiziariamente i pensatori complottisti, istituendo un reato europeo di negazionismo che permetta di punire chi critica verità processuali, giudiziarie, finanziarie e scientifiche.

La proprietà privata, ed il lavoro libero ed individuale, danno all’uomo libertà e lo sottraggono all’omologazione ordinata dai potenti.

L’Occidente sta accettando supinamente una dittatura da cui è difficile sortire, perché sicurezza informatica, forze di polizia (eserciti e security di multinazionali), magistratura e governi sono illuminati dai potenti di Davos.

Ed i potenti gestiscono il potere come la propria fattoria, parafrasando il dittatore paraguaiano Alfredo Stroessner:

in Paraguay le forze dell’ordine giuravano fedeltà al potere.

Quest’ultima è consuetudine in tutte le multinazionali, le stesse che oggi stanno subentrando al controllo degli stati democratici.

 

 

 

Abbiamo accettato di tutto,

ora i padroni del mondo

passano all’incasso definitivo.

Ilcambiamento.it - Paolo Ermani – (18-02-2022) – ci dice:

 

Abbiamo finito per accettare di tutto e ora i "padroni del mondo" passano all'incasso definitivo, completo, totale. Continuiamo ad accettare?

Abbiamo accettato di mangiare cibo avvelenato.

Abbiamo accettato di bere acqua avvelenata.

Abbiamo accettato di respirare aria avvelenata.

Abbiamo accettato di lavorare in luoghi artificiali facendo sempre le stesse inutili, noiose, insensate attività.

Abbiamo accettato di spendere la nostra esistenza di fronte a degli schermi piuttosto che di fronte a esseri vivi.

Abbiamo accettato di vivere in città orrende di asfalto e cemento, inquinate, stressanti, in cui il concetto stesso di vita è un lontano ricordo.

Abbiamo accettato di indebitarci e spendere cifre ingenti per poter comprare quello che comprano gli altri.

Abbiamo accettato di credere che se non compravamo quello che ci diceva la pubblicità eravamo poveri.

Abbiamo accettato di chiuderci in casa a tripla mandata perché la fuori c’è solo pericolo.

Abbiamo accettato di cancellare il concetto di comunità e rimanere da soli contro tutti.

Abbiamo accettato di dare il termine amicizia a emeriti sconosciuti virtuali.

Abbiamo accettato di essere solo merce nelle mani degli esperti di algoritmi.

Abbiamo accettato di dare qualsiasi nostra immagine in pasto al mondo senza alcuna vergogna.

Abbiamo accettato di inquinare mezzo pianeta per passare qualche giorno di vacanza in paesi esotici.

Abbiamo accettato di fare lavori dannosi per noi, gli altri e l’ambiente.

Abbiamo accettato di perdere tutti i diritti in cambio di un'auto nuova, una vacanza di lusso, un televisore grande come una parete.

Abbiamo accettato di dare ai soldi il primo e unico posto nella nostra vita.

Abbiamo accettato di far definire la nostra personalità da un vestito, un orologio, un profumo.

Abbiamo accettato di essere educati e far educare i nostri figli dalla televisione prima e dalla televisione e il cellulare poi.

Abbiamo accettato di non chiederci perché i nostri figli dovessero stare chiusi e immobili in quattro mura a imparare nozioni dalla dubbia utilità per i più vivaci anni della loro vita.

Abbiamo accettato di delegare qualsiasi scelta fondamentale della nostra vita a esperti prezzolati.

Abbiamo accettato di non preoccuparci affatto delle conseguenze delle nostre scelte.

Abbiamo accettato di non pensare mai, se non raramente e solo per beneficenza, al grido di dolore della gran parte dell’umanità che anche grazie a quello che abbiamo accettato si dibatte tra disperazione, miseria, guerra e fame.

Abbiamo accettato di mettere i nostri soldi in banche, assicurazioni, fondi di investimento che li usano in tutti i modi possibili per rendere il mondo un luogo pessimo e invivibile.

Abbiamo accettato che la natura, gli animali, gli habitat venissero distrutti irreparabilmente senza che questo ci interessasse.

Abbiamo accettato di fare dei nostri paesi delle discariche a cielo aperto.

Abbiamo accettato di fare del mare ovunque un tappeto di rifiuti.

Abbiamo accettato di non vedere, non sentire, non parlare.

Abbiamo accettato che la libertà fosse scegliere fra un'automobile blu e una rossa.

Abbiamo accettato di credere alle pubblicità quindi di essere trattati da persone incapaci di intendere e di volere.

Abbiamo accettato di eleggere persone che palesemente, pervicacemente e costantemente ci danneggiano e ci prendono in giro.

Se ora il sistema che ci ha offerto tutto questo, e che noi abbiamo accettato, ci offre una roulette russa con tanto di firma del consenso, per quale motivo dovremmo indignarci?

Se della libertà, dei diritti, della coscienza, della conoscenza, della tutela del nostro ambiente, quindi della nostra casa e della nostra salute, non ci è mai interessato granché, per quale motivo ora dovremmo stupirci di chi, forte del nostro coma profondo, passa all’incasso completo?

Non è il naturale, ovvio, assolutamente prevedibile epilogo di tutte le nostre scelte?

In fondo si tratta solo di aver accettato troppe volte la drammatica banalità del male.

Iniziare a non accettare più è la strada verso un mondo e una vita che abbia un futuro degno di questo nome.

 

Quando l’America decise

di dominare il mondo.

Linkiesta.it – Redazione – (12 novembre 2020) – ci dice:

L’egemonia degli Stati Uniti nel secondo Dopoguerra non è avvenuta per caso e non è stata soltanto il risultato dell’intervento contro nazisti e giapponesi, ma frutto di una precisa scelta da parte delle élite del Paese e dell’Amministrazione Roosevelt.

Oggi le cose sono cambiate, nota lo storico Stephen Wertheim nel suo nuovo libro “Tomorrow, the World” e spiega perché in una lunga intervista al Washington Post.

L’opinione pubblica mondiale riflette da tempo sul nuovo ruolo degli Stati Uniti, superpotenza incontrastata dalla caduta del muro di Berlino in poi, e oggi relativamente meno egemone a causa della crescita impetuosa della Cina.

 La globalizzazione è in gran parte frutto dell’ascesa americana, cominciata dopo la Seconda guerra mondiale in contrapposizione al nazismo e allo stalinismo, rinforzata dalla caduta degli imperi europei e estremamente visibile nel ruolo preminente di Washington in tutte le organizzazioni internazionali.

Secondo lo storico Stephen Wertheim, il processo che ha portato l’America a diventare il numero uno non sarebbe frutto del caso, ma di una “decisione consapevole” che ha sfruttato a proprio vantaggio i vuoti lasciati dagli aspiranti concorrenti.

Una scelta che, come spiega al Washington Post in occasione della pubblicazione del suo nuovo libro, “Tomorrow, the World”, sarebbe stata presa dalle élite di Washington non in conseguenza del secondo conflitto mondiale, ma già da prima, e che trova consenso nella popolazione: disporre del più potente e costoso esercito del mondo è, per gli americani, tuttora motivo di orgoglio.

Come testimonia il Boston Review, per gli americani l’esercito si conferma l’istituzione più affidabile.

Tuttavia, non è sempre stato così: gli americani hanno vissuto varie fasi nella loro storia, e la volontà di occuparsi in primo luogo del proprio benessere senza interferire in ogni faccenda esterna è sempre stata presente.

Questa tendenza è prepotentemente riemersa durante la campagna elettorale del 2016, che aveva rilanciato il dibattito sul ruolo degli Stati Uniti nel panorama globale, ed è stata portata avanti dalla presidenza Trump, che ha basato parte della sua politica estera e interna sull’assunto che l’America non dovesse più essere la “polizia” del mondo.

Un atteggiamento di relativa chiusura che non è limitato all’elettorato trumpiano, ma che raccoglie una condivisione ampia in tutti gli orientamenti politici.

Wertheim è molto coinvolto in questo dibattito, non soltanto dal punto di vista storico:

pochi anni fa ha contribuito a fondare il Quincy Institute for Responsible Statecraft, un think tank di Washington sostenuto tanto dal finanziere liberale George Soros quanto dal miliardario di destra Charles Koch, che incoraggia la moderazione degli Stati Uniti nella geopolitica e un allontanamento dalla politica estera militarizzata.

Appena scoppiò la guerra in Europa, racconta Wertheim, il Council on Foreign Relations riunì un centinaio di esperti per elaborare possibili strategie postbelliche.

«Furono coinvolti alcuni personaggi particolarmente in vista, come il futuro direttore della Cia Allen Dulles. C’erano anche figure altrettanto influenti ma oggi dimenticate, come Hamilton Fish Armstrong, editore del Foreign Affairs Magazine, e Whitney Shepardson, un uomo d’affari che sognava di unire tutto il mondo anglofono» racconta Wertheim.

Tra i due gruppi, la tesi dei sostenitori di quella che viene definita «post-war dominance», cioè del primato americano costruito nel dopoguerra, prevalse.

Non soltanto a causa della necessità di porre fine al pericolo totalitario che stava crescendo in Europa e in Asia, ma anche perché furono molto bravi a presentare l’intervento nella seconda guerra mondiale e la proiezione militare globale negli anni successivi come due facce della stessa medaglia.

Così facendo, aiutati dall’Amministrazione Roosevelt, che condivideva la stessa impostazione, riuscirono a categorizzare come “isolazionisti” chi invece non sosteneva che gli americani dovessero disinteressarsi del mondo, ma proponeva un’altra strada, non per forza fondata sullo strapotere militare.

Wertheim sostiene che «Non esisteva una tradizione di isolazionismo negli Stati Uniti, punto.

I molti americani che si opposero all’ingresso nella seconda guerra mondiale, prima di Pearl Harbor, credevano che gli Stati Uniti dovessero difendere con la forza l’intero emisfero occidentale e credevano che l’impegno americano nel resto del mondo dovesse esser basato sul commercio e su altre forme di interazione.

Molti di loro si consideravano internazionalisti, perché gli internazionalisti aspiravano da tempo a tenersi fuori dal sistema di potere centrato in Europa.

 E invece questa corrente di pensiero fu etichettata come “isolazionista” da un altro gruppo che decise, sulla scia delle conquiste naziste, che l’ordine mondiale poteva essere assicurato solo attraverso una forza armata preminente.

Così, chiedere di frenare il potere militare americano finì per sembrare un atto di egoismo».

Pur riconoscendo che la resa incondizionata delle potenze dell’Asse sia da annoverare tra i più grandi trionfi degli Stati Uniti, Wertheim spiega di voler invitare i lettori a considerare se sia strategicamente sano trovarsi nella situazione in cui è oggi l’America:

«La politica estera degli Stati Uniti dovrebbe derivare da un’analisi approfondita degli interessi del popolo americano.

 Se gli interessi degli Stati Uniti necessitano davvero la preservazione di una capacità militare così elevata, allora i politici dovrebbero agire di conseguenza e mantenerla.

Il problema è che gli Stati Uniti ora fondono i loro interessi vitali con la loro posizione di potere nel mondo.

E quindi il dominio armato è diventato fine a sé stesso.

Come molti americani riconoscono, questo atteggiamento riflette una mentalità imperialista e corrompe anche la strategia, perché piuttosto che agire per difendere gli Stati Uniti e garantire le condizioni di prosperità dei cittadini americani, i leader statunitensi agiscono prima di tutto per preservare il dominio mondiale dell’America.

L’enorme ruolo mondiale dell’America non durerà per sempre e dovremmo cominciare a occuparci di questo».

Una tesi non molto lontana da quella portata avanti da Donald Trump durante la sua presidenza (forse inconsciamente, come ha sottolineato l’Atlantic), e che in parte probabilmente condivide anche il nuovo presidente Joe Biden.

 Una similitudine che nota anche Wertheim: «Penso che l’atteggiamento dell’opinione pubblica rispetto a questi argomenti stia cambiando e che i leader politici stiano prendendo nota.

Le elezioni di quest’anno sono state le prime in cui entrambi i candidati dei principali partiti hanno riconosciuto che gli Stati Uniti erano impegnati in una guerra “infinita” e hanno promesso di cambiare questa realtà.

 È uno sviluppo notevole.

Sono spesso sorpreso di quanto il pubblico americano sembri pronto per una politica estera più pacifica.

 Detto questo, c’è molto lavoro da fare. Il complesso militare-industriale non è insormontabile, ma esiste ed è influente, quindi la gara non può essere vinta semplicemente con la forza delle idee.

 Il paese sta appena uscendo, credo, da un periodo storico di “depoliticizzazione” che circonda il suo ruolo globale».

Un’America meno ideologica, che potrebbe aiutare Joe Biden a ripristinare la credibilità degli Stati Uniti nel mondo.

 

 

 

 

Il nuovo Twitter di Musk

che sogna l’app per fare tutto.

Agendadigitale.eu – Alessio Pecoraro – (16 Nov. 2022) – ci dice:

 

Far pagare gli iscritti, moderazione dalle maglie larghe, tagli a migliaia e l’obiettivo di una app unica con cui fare pagamenti, scambi di denaro, chat, gaming, social, informazione, intrattenimento.

Una sorta di agorà del futuro, in alternativa al meta-verso di Zuckerberg.

Elon Musk, ormai lo sappiamo, ha acquistato Twitter per 44 miliardi di dollari, una cifra monstre, soprattutto se diamo un’occhiata ai numeri della società.

Ma nel caso del social dei cinguettii gli utenti non si contano, si pesano e quindi – ad oggi – Twitter è a tutti gli effetti il social network più influente nel dibattito politico e finanziario.

Siamo certi che questo fatto non nasconda anche un lato industriale ancora da scoprire?

Che non ci sia un potenziale inesplorato nei dati di Twitter, oltre al valore democratico del dibattito pubblico?

Il nuovo Twitter tutto da scoprire.

Twitter, nel 2021 ha registrato ricavi per 5 miliardi con un passivo di 221 milioni di dollari.

 Secondo il piano presentato da Parag Agrawal, amministratore delegato di Twitter da settembre 2021 fino al passaggio di mano a Musk, i ricavi del social di San Francisco possono crescere fino a 7,5 miliardi nel 2023.

 Poco, soprattutto se confrontati con i numeri di altri colossi del digitale come Meta o Alphabet.

Se ci spostiamo per un attimo dai numeri – lo stesso Musk ha dichiarato di aver acquistato Twitter senza guardare i libri contabili e le statistiche – infatti secondo l’indagine “Social Media & Digital Trends 2022 di BlackLemon – Twitter si trova “solo” al 15 esimo posto della classifica globale per numero di utenti attivi (al settimo posto in quella italiana).

Musk vuol far pagare gli iscritti. Funzionerà?

Se pensiamo unicamente al Musk imprenditore (in questa sede non vogliamo analizzare le ambizioni di decision maker) l’idea è quella di rovesciare il paradigma comune a tutti i social media, ottenere entrate direttamente dagli utenti invece di fare affidamento principalmente sugli inserzionisti.

Si tratta di una strada percorribile?

Tanti licenziamenti e qualche dietro-front.

Prima di tutto per liberare il potenziale del social – che a differenza degli altri business di Mr.Tesla non produce oggetti ma si tratta di una tech company pura – si è reso necessario snellire la struttura con circa 3700 licenziamenti, effettuati perlopiù con una fredda e-mail (anche se come riferiscono fonti informate all’agenzia Bloomberg è stato chiesto di tornare a decine di dipendenti che hanno perso il lavoro).

Una decisione, quella di Musk, che pochi giorni dopo pare aver influenzato anche Zuckerberg, CEO di Meta, che ai suoi collaboratori ha annunciato: “Ho deciso di ridurre le dimensioni del nostro team di circa il 13% e di separarmi da 11.000 dei nostri talentuosi dipendenti “.

La strategia di Musk.

Ma torniamo a Twitter, il tycoon di Pretoria sarebbe a lavoro già da diversi mesi per rendere – in tempi brevi – operativa quella che si preannuncia come una vera e propria rivoluzione.

Un abbonamento da 8 dollari al mese, per l’ormai famosa spunta blu che darebbe diritto alla priorità in menzioni, risposte e ricerche, zero (o quasi) annunci pubblicitari e possibilità di twittare video e audio (senza limiti di lunghezza).

Secondo Platform, rivista on-line della Silicon Valley, a Twitter starebbero lavorando per rendere il social tutto a pagamento, bloccato da un paywall dinamico (accesso progressivo in base al tipo di abbonamento).

Più larghe le maglie dei moderatori di contenuti.

Non è questa però l’unica novità.

 C’è grande attesa anche per la moderazione dei contenuti, il nuovo Twitter potrebbe allentare le regole di moderazione e sbloccare una serie di utenti bannati, uno su tutti, l’ex Presidente degli USA Donald Trump il cui account fu chiuso dopo l’assalto al Congresso Usa, per il rischio di” nuove istigazioni alla violenza” da parte dell’ex Presidente che aveva eletto Twitter a suo social di riferimento.

Sull’espulsione di Trump, Musk aveva dichiarato: “Sbagliata dal punto di vista morale” e “stupida fino all’estremo”.

 Ma non si parla solo dell’ex Presidente.

Potrebbero tornare attivi anche altri utenti che hanno sostenuto, senza alcuna prova, varie teorie complottistiche o che hanno diffuso fake news di vario genere (sul Covid e non solo).

E poi Kanye West, rapper e produttore discografico, 31 milioni di followers, bannato per un tweet dal contenuto eccessivamente violento e dai contenuti antisemiti.

Ma gli inserzionisti potrebbero frenare.

Una piattaforma con contenuti meno moderati di sicuro spaventerebbe – e non poco – gli inserzionisti, proprio per questo Musk vuole diversificare il più possibile le entrate ma non solo.

Il sogno del super Twitter.

Quello che immagina Musk è quindi un Super Twitter, una sorta di agorà del futuro, in alternativa al meta-verso al quale sta lavorando – con scarsi risultati rispetto alle previsioni – Mark Zuckerberg.

E proprio in questa direzione c’è curiosità per il ruolo di Binance, l’exhange cinese di criptovalute che fa capo a Changpeng Zhao che ha partecipato, con 500 milioni di dollari, alla scalata di Musk.

Una app per tutto.

Solo un’anticipazione o un primo passo verso “X” l’app per tutto che è il vero sogno nel cassetto di Musk.

Ma cos’è X?

Una super applicazione capace di comprendere, al suo interno, un’ampia gamma di servizi e funzioni, in modo da dare agli utenti un luogo in cui poter fare tutto quello che desiderano: pagamenti, scambi di denaro, chat, gaming, social network, informazione, intrattenimento e chi più ne ha più ne metta.

Il rischio migrazione.

Twitter, o meglio, il nuovo Twitter reggerà all’urto di Musk o il passaggio di mano e le nuove funzionalità decreteranno una migrazione di massa verso nuovi lidi, come spesso succede nel mondo dei social network?

Tra tra il 20 e il 27 ottobre – secondo il CEO Eugen Rochko – 18mila utenti si sono iscritti a Mastodonte e in tanti hanno utilizzato l’hashtag #TwitterMigration.

Ma non è così scontata la migrazione da un social all’altro, come spiega il digital strategist Cristiano Ferrari: “Non credo alle migrazioni da un social all’altro. Per dire Friend Feed è scomparso, pur essendoci i cloni tecnicamente identici e funzionanti all’epoca”.

I tagli? Riguardano tutte le società tech.

Quanto alla riduzione del personale, Twitter e Meta (leggi Facebook) sono solo la punta dell’iceberg.

 Tutte le società tech (big e meno big) sono alle prese con tagli, nuove funzioni, nuovi “padroni del vapore” (Musk).

In realtà l’arrivo di un visionario come Mr. Tesla può fungere da catalizzatore ad un mondo, quello tech, alla ricerca di un modo nuovo, dopo il boom dovuto all’emergenza pandemica, di intendere la dimensione digitale e la vita on-line degli utenti.

 Che, stando al nuovo numero uno di Twitter, devono essere intesi sempre più come consumatori ai quali vendere, più che offrire, servizi.

 

 

 

Meta vuole diventare un player globale

nei cavi sottomarini con il progetto 2Africa.

Key4biz.it - Piermario Boccellato – (16 Novembre 2022) – ci dice:

 

Meta vuole diventare un player globale nei cavi sottomarini con il progetto INTERNET 2 Africa.

Meta vuole rivoluzionare la connettività nel continente africano ma anche le proprie esigenze di business: in Africa nel 2100 sarà presente il 40% della popolazione mondiale.

 

Lo scorso 8 ottobre a Marsiglia è arrivato 2Africa, il cavo sottomarino più lungo del mondo, 45.000 chilometri (più della circonferenza della Terra) – pensato e progettato da Meta.

Si tratta di un progetto titanico: annunciato a maggio 2020, il sistema di cavi 2Africa, insieme alla sua estensione Pearls, è progettato per fornire connettività su scala internazionale senza soluzione di continuità a circa tre miliardi di persone, il 36% della popolazione globale, attraverso tre continenti: Africa, Europa e Asia.

La posa del cavo è stata affidata ad Alcatel Submarine Networks (ASN), uno dei quattro produttori del settore insieme alla giapponese NEC, all’americana SubCom e alla cinese Hengtong.

ASN ha mobilitato l’intera flotta di navi portacavi per iniziare il dispiegamento all’inizio del 2022.

Dopo Genova e Barcellona, ​​l'”approdo” a Marsiglia consentirà ora di mettere in servizio la sezione mediterranea del cavo all’inizio del 2023.

Ma i lavori completi saranno completati non prima del 2024.

2Africa: tra 1 e 2 miliardi di euro di investimenti.

Perché nonostante le sue attuali difficoltà, la società madre di Facebook, Messenger, Instagram e WhatsApp sta finanziando questo tipo di infrastrutture critica?

Per una buona ragione: oltre il 90% del traffico Internet globale passa attraverso i circa 430 cavi in ​​fibra ottica attualmente in servizio in tutto il mondo.

Fino a poco tempo fa, i giganti della tecnologia si accontentavano di “affittare” capacità su questi cavi dagli operatori di telecomunicazioni.

L’esplosione del traffico web rende oggi più attraente per loro investire e diventare comproprietari di queste infrastrutture.

Investire in cavi non è necessariamente molto redditizio. Ma in questo modo Google e Facebook possono essere padroni del proprio traffico.

 Possono anche imporre le loro condizioni in termini di prezzo e tecnologia.

 Inoltre, il costo di un cavo sottomarino è relativamente modesto rispetto ad altri tipi di investimenti come il meta-verso.

Un cavo sottomarino transatlantico costa quindi tra i 150 e i 300 milioni di euro. Nel caso di 2Africa, Meta non fornisce cifre.

Ma secondo gli addetti del settore sarebbero necessari tra 1 e 2 miliardi di euro.

Briciole considerando che i Gafam non investono mai da soli. Così, come molti altri cavi, 2Africa è il risultato di un consorzio creato nel 2020 in cui troviamo Orange, Vodafone, China Mobile, l’operatore sudafricano MTN, i sauditi di STC, Telecom Egypt e il grossista di telecomunicazioni panafricano WIOCC.

In Africa il 40% della popolazione mondiale nel 2100.

Entro il 2024 dunque 2Africa offrirà una capacità di 180 terabit, più della capacità di tutti i cavi esistenti in Africa.

“Nel continente, molti paesi hanno solo un cavo o due.

Quando cade, gli stati sono tagliati fuori dal mondo.

È quello che è successo in Mauritania nel 2020 quando il cavo si è rotto.

Con 2Africa, Internet sarà più sicuro, più affidabile, più veloce”, ha spiegato in passato Cynthia Perret, Fiber Program Manager di Meta.

Ma Meta non finanzia 2Africa solo per la grande causa della connettività in Africa. Poiché i suoi ricavi diminuiscono per la prima volta nella sua storia, l’azienda guidata da Mark Zuckerberg deve reclutare utenti e ringiovanire la sua base.

Per questo l’Africa, che nel 2100 ospiterà il 40% della popolazione mondiale (rispetto al 18% di oggi), offrirà a Meta una grande riserva di crescita.

 

 

Zappia (Schroders): il mio

racconto della COP27.

Esgnews.it – Redazione – Maria Teresa Zappia - (17 Novembre 2022) – ci dice:     

 

Riportiamo di seguito il commento a caldo sull’esperienza vissuta alla Cop27, le sfide e le opportunità emerse in questa edizione, a cura di Maria Teresa Zappia, Deputy CEO – BlueOrchard e Head of Sustainability and Impact -Schroders Capital.

Inizia il mio viaggio di ritorno da Sharm El-Sheikh e rifletto sui giorni trascorsi alla COP27.

Sulle persone che ho incontrato, sulle storie che ho ascoltato.

La prima cosa che mi ha colpito è la diversità delle sfide in fatto di crisi climatica che molti mercati emergenti e di frontiera devono affrontare rispetto alle economie più sviluppate.

In tre giorni ho incontrato numerosi delegati provenienti da tutta l’Africa, ad esempio, e questo mi ha ricordato le enormi differenze che abitano un continente così vasto, dove le prospettive e le priorità variano notevolmente da nord a sud, da est a ovest.

 Per alcuni la priorità è rappresentata dalle opportunità dell’idrogeno verde, per altri il capitale naturale nel bacino del Congo.

Parlando con altri ancora è emerso il loro focus sulla crescita delle energie rinnovabili in Kenya e nell’Africa meridionale.

Al di là delle differenze, un denominatore comune c’è: la questione “loss and damage “.

Ciò si riferisce al fatto che i mercati sviluppati non hanno versato i 100 miliardi di dollari all’anno promessi entro il 2020 per finanziare le iniziative sul clima nei mercati in via di sviluppo.

Questa promessa non mantenuta è ancora più sentita dato che gli impatti negativi dei maggiori inquinatori del mondo colpiscono in modo sproporzionato proprio le economie in via di sviluppo.

Molti imprenditori del settore privato dei mercati emergenti stanno perdendo la speranza che le economie sviluppate si facciano avanti con un’assistenza sostanziale.

Sono sempre più convinti di dover agire e di essere responsabili del proprio futuro. Dopotutto, sono nella posizione migliore per conoscere le esigenze dei mercati locali.

Sono anche consapevoli del rischio di contrarre debiti in valuta forte, diventato ancora più oneroso con il significativo rafforzamento del dollaro. In alcuni casi c’è anche una resistenza ad affidarsi all’assistenza degli ex “padroni” coloniali.

Tra le varie sessioni a cui ho partecipato, ho trovato particolarmente illuminanti quelle dedicate alle popolazioni indigene.

Garantire la loro inclusione è stata una delle sfide principali della conferenza.

Le terre indigene contengono l’80% della biodiversità rimanente al mondo, quindi ascoltare le voci e proteggere i diritti di queste popolazioni è fondamentale per raggiungere gli obiettivi sul clima e sulla natura.

Sebbene siano presenti alla COP, il loro status di “osservatori” designati dà loro poca influenza sulle discussioni di politica climatica e io sono tra coloro che lo ritengono inadeguato.

Anche le istituzioni finanziarie per lo sviluppo sono state al centro dell’attenzione di molti alla COP27.

La portata delle sfide climatiche da affrontare è superiore ai bilanci degli aiuti allo sviluppo e ai capitali delle banche di sviluppo.

 Ciò significa che le collaborazioni tra imprese, proprietari di asset e i gestori di investimenti sono l’unico modo per moltiplicare i capitali e far sì che le iniziative chiave per il clima raggiungano la scala necessaria per avere un impatto.

Si è parlato molto di finanza mista, ovvero di partenariati pubblico-privato, in particolare in relazione a iniziative innovative di finanziamento del clima che non hanno ancora una storia consolidata e che presentano un rischio di tipo venture capital, o nuovi concetti di asset class come il capitale naturale.

Le autorità di regolamentazione spingono per una maggiore divulgazione dei rischi climatici nei portafogli degli investitori e diverse metodologie sono in competizione per essere le migliori della categoria; ad esempio, la Science-based Targets initiative (SBTi), la Taskforce for Climate-related Financial Disclosures (TCFD) e la Taskforce for Nature-related Financial Disclosures (TNFD), solo per citarne alcune.

Si è quindi discusso molto sulla disponibilità di dati, sulla misurazione delle emissioni di anidride carbonica e sugli strumenti di rendicontazione che possono guidare gli investitori e semplificare la loro vita in termini di impatto sul clima oggi e come potrebbe essere domani.

Il sogno di tutti è quello di avere un unico strumento a bassa manutenzione per le diverse strategie – mitigazione, adattamento e capitale naturale.

Ho anche trovato particolarmente stimolante la parte umana della COP27.

 In un’epoca in cui le riunioni virtuali dominano ancora la mia vita professionale, incontrarsi di persona con ex colleghi, professionisti, investitori attuali e futuri, nonché con delegati provenienti da tutto il mondo, è stato ristoratore e mi ha ricordato il valore dell’interazione faccia a faccia.

Infine, ho notato purtroppo un certo pregiudizio maschile. Un numero notevole di panel e delegazioni era composto esclusivamente da uomini.

Forse non sorprende che le sfide della diversità che il mondo aziendale e politico devono affrontare si riflettano anche in conferenze importanti come questa.

 Ecco perché voglio sperare in una maggiore presenza femminile alle prossime COP.

 

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