Chi sono i nuovi padroni del mondo.
Chi sono i nuovi padroni del mondo.
vale
Zero (e probabilmente sarà così…).
Conoscenzealconfine.it
– (15 Novembre 2022) - Leoniero Dertona – ci dice:
Il 14
dicembre prossimo la Commissione rivelerà la propria proposta per
l’efficientamento energetico delle abitazioni nell’ambito dell’“Ambizioso”.
Il 14
dicembre prossimo la Commissione rivelerà la propria proposta per
l’efficientamento energetico delle abitazioni nell’ambito dell’“Ambizioso”, ovvero
il piano per la riduzione delle emissioni di “CO2” collegato all’obiettivo “Fit for 55”, voluto dalla commissione.
Dietro
questi paroloni quel giorno saprete se la vostra casa ha un valore di mercato o
vale, letteralmente, zero. Tutto questo per la direttiva” EPBD”, sigla inglese che significa “energy performance of buildings direttive”.
La
direttiva punta a far sì che dal 2050 tutte le abitazioni nella “UE” siano a
emissioni zero, cioè a massima efficienza.
Per
fare questo bisogna da un lato introdurre strette normative sulle nuove
costruzioni, ma dall’altro bisogna efficientare, in modo forzato, quelle
esistenti. Per
fare questo la Commissione ha deciso una serie di interventi, a carico degli
stati, estremamente brutali:
la bozza della nuova EPBD prevede che, a partire dal 2027, gli Stati vietino la vendita e
l’affitto degli immobili di classe inferiore alla classe energetica “E”.
Dal 2030 l’asticella si alzerà alla classe
energetica “D”, per escludere poi dal mercato dal 2033 gli immobili delle
classi inferiori alla “C”.
Si
dovrebbe procedere più lenti per gli appartamenti in condominio:
classe
minima “E” per venderli o locarli dal 2030, “D” dal 2033 e “C” dal 2040.
Per
tutti, il divieto di vendita potrà essere superato se l’acquirente si impegna a
raggiungere la classe energetica minima indicata dalla direttiva entro tre anni dalla stipula
dell’atto di vendita.
Gli
edifici nuovi dovranno essere a emissioni zero dal 2030 e quelli pubblici dal 2027.
Esistono
delle deroghe, ma sono oggettivamente minimali e riguardano immobili agricoli,
industriali o isolati con superficie inferiore ai 50 mq.
Per
capire l’impatto di questa direttiva possiamo far notare che 2,15 milioni di
immobili in Italia sono anteriori al… 1918.
Si
calcola che l’87% degli immobili italiani sia in classe “D” o inferiore. A
questo punto i proprietari saranno nella necessità di:
spendere
decine di migliaia di euro in ristrutturazioni immobiliari costose;
adattarsi
ad avere una casa che viene a valere ZERO e che non potranno vendere né
affittare. Probabilmente
potranno, al limite, utilizzare come prima casa.
Non
solo… Vogliamo citare il report Banca d’Italia sulla Ricchezza delle famiglie
italiane, quello spesso citato quando si parla di “Imposta patrimoniale”,
soprattutto all’estero.
A fine
2020 la ricchezza netta delle famiglie italiane è pari a 10.010 miliardi di
euro, 8,7 volte il loro reddito disponibile, registrando una crescita dell’1%
(circa 100 miliardi) rispetto al 2019.
Le
abitazioni, principale forma di investimento delle famiglie, rappresentano
quasi la metà della ricchezza lorda.
Le
attività finanziarie risultano in crescita rispetto all’anno precedente,
soprattutto per l’aumento di depositi e riserve assicurative, mentre il totale
delle passività è pressoché stabile.
Dato
che un bene che non è vendibile ha, per sua natura, un valore zero, circa il 40% della ricchezza delle
famiglie italiane rischia di scomparire nel nulla.
In perfetto
stile sovietico poi la Commissione prevede dei piani nazionali con delle
tabelle di marcia con obiettivi stabiliti a livello nazionale e indicatori di
progresso misurabili, con obiettivi fissati per il 2030, 2040 e 2050.
Ristrutturare
diversi milioni di case italiane è un obiettivo… impossibile, considerando che
in due anni di 110% se ne sono ristrutturate poco più di 300 mila. Però tutto
va bene… a quanto pare.
Siete
pronti a spendere decine di migliaia di euro per efficientare la vostra casa
secondo i voleri della UE nei prossimi anni e senza neppure più l’aiuto del
110% che andrà in esaurimento e che è, fin d’ora già in forse?
Visto
che di questo tema non parla nessuno, ritengo proprio di sì.
(Leoniero
Dertona) – (scenarieconomici.it/il-14-dicembre-saprete-se-la-vostra-casa-vale-zero-e-probabilmente-sara-cosi/)
DA
SOROS, GATES, KENNEDY, GETTY & C.
I
finanziamenti ai rivoltosi climatici.
Laverità.info
– Maddalena Loy – (14 novembre 2022) – ci dice:
I gruppi di attivisti locali, tra cui gli italiani di “Ultima
generazione”, appartengono alla rete internazionale” A22”, sostenuta dal “Climate emergency fund”.
Che è
alimentato dai paperoni interessati agli investimenti “green”.
Il
sistema è quello delle matrioske: piccoli gruppi di anonimi attivisti locali (
in Italia “Ultima generazione”, quella che blocca autostrade e imbratta i
quadri nei musei), strutturati all’interno di una rete internazionale (la A22),
coordinata e sovvenzionata da una “holding” globale (il Cef), che a sua
volta è Finanziata da donatori privati,
il 90% n dei quali sono miliardari. È questo il sistema che ruota intorno al Cef, o “Climate emergency fund”, organizzazione” non profit” con sede nell’esclusiva Beverly
Hills, finanzia i ragazzi protagonisti di tutte le azioni radicali avviate
negli ultimi mesi, definita “una delle sei organizzazioni climatiche più
importanti al mondo”.
Il
Climate emergency fund è stato fondato nel 2019 da Trevor Neilson – ex strettissimo
collaboratore di Bill Gates – da Aileen Getty – figlia di John Paul Getty II dell’omonima compagnia petrolifera –
da Rory
Kennedy,
figlia di Bob
Kennedy.
(Enormi
capitali a fondazioni che usano la filantropia come maschera).
Il Cef
nasce da un’idea di Neilson, classe 1972, “enfant prodige” che ha fatto del business filantropico la sua professione.
A
secondo anno di università, lasciò gli studi per la Bill & Melissa Gates Foundation e diventò addirittura il portavoce
personale della coppia. Dopo l’incarico di direttore delle comunicazioni, Gates
nominò Neilson direttore dei progetti speciali, dove è responsabile di
importanti partenariati tra cui l’International Aids vaccine iniziative.
In
questo ruolo, Neilson è attivo nell’iniziativa One campaign organizzata da Bobby Shriver, nipote di John F. Kennedy, e incontra Rory Kennedy, avvicinandosi nel frattempo al
mondo radical-chic dei democratici americani (Dem Usa): diventa membro della “Clinton global iniziative” e svolge un ruolo attivo nella
campagna per la rielezione di Barack Obama.
Nel
frattempo, si trasferisce a New York e costruisce un vero e proprio sistema
strutturato intorno alle emergenze climatiche e alle energie rinnovabili, sotto l’ombrello della Global business coalition, fondata da George Soros e da Ted Turner, proprietario della Cnn, con il contributo di Bill Gates.
Ad
esempio, aiuta Brad Pitt a lanciare la fondazione Make it right per ricostruire un distretto di New Orleans dopo l’uragano Katrina, poi chiamata in tribunale in una
causa collettiva conclusasi con un risarcimento di 20 milioni di dollari per aver costruito alloggi scadenti
per i residenti a
basso reddito.
Neilson opera con oltre 60 filantropi
miliardari e personaggi dello star business americano, a cominciare, appunto,
da Brad
Pitt e Bono.
Le
buone frequentazioni Dem lo conducono ad Aileen Getty, che nel 2019 dona i primi 500 mila
dollari per fondare, insieme con lui e Rory Kennedy, il Climate emergency fund, ispirato a
Soros, Bill Gates e a Greta Thunberg, oltre che ai manifestanti di Extinction rebellion.
Contemporaneamente, fonda WasterFuel, società che produce, guarda caso,
carburanti sostenibili. E qui il cerchio si chiude: Neilson, pupillo di Gates, con una mano sovvenziona ragazzi che
compromettono la loro fedina penale per lottare contro i fossili, con l’altra produce energia sostenibile: geniale (ma gli attivisti lo
sanno?).
La
filosofia del Cef è
sponsorizzata in tutto il mondo, ogni giorno, azioni di disobbedienza civile,
non violente e legali, per fare pressioni sui governi, fino a che questi non
varino leggi a favore delle energie alternative.
“Noi
finanziamo il reclutamento, la formazione, le spese legali e le azioni.
Il
movimento deve agire come se la verità fosse reale, impiegando comunicazioni di
emergenza e tattiche militanti”, ha dichiarato Margaret Klein Salamon,
direttore
esecutivo del Cef e autrice del libro, “portare l’opinione pubblica in
modalità di emergenza”: missione compiuta.
A fare
il lavoro sporco, tanto ci pensano i ragazzi, ingaggiati in tutto il mondo con la chimera del pianeta green: dalla nascita nel 2019 a oggi, il Cef ha “formato “22 mila attivisti e ne
ha mobilitati oltre un milione, finanziando un centinaio di organizzazioni e
fondandone altre 43.
Queste
si raccolgono intorno alla rete A22.
I
“soldati del clima”, bravi ragazzi arruolati dal Cef, spesso si espongono
all’arresto, a dispetto della “legalità” delle loro azioni: alcuni di loro sono
già stati in carcere decine di volte. Molti sono volontari e lavorano gratis
per anni, ma dietro di loro c’è una struttura che – godendo oltre tutto delle
esenzioni dalle imposte federali sul reddito concesse alle organizzazioni “501
C “, quale
è il Climate emergency fund – gestisce importanti flussi di denaro.
Da
dove arrivano?
Il Cef è una macchina da soldi, ma con le
donazioni dei normali cittadini raccoglie non più di 12.000 dollari al mese.
Gran
parte dei fondi attraverso i quali si sostiene, e foraggia i movimenti
affiliati in tutto il mondo, viene in realtà dai ricchi “filantropi”: il 14 % dei sostenitori del Cef rappresenta l’89% dei suoi
finanziamenti (non documentati sul sito della fondazione).
Una
delle principali sostenitrici è, appunto, Aileen Getty, che nel 2021 ha donato un altro
milione di dollari.
Il
regista Adam McKay ha versato al Cef 4 milioni di dollari.
Altri
generosi sostenitori del Cef sono la Errol Foundation di Sébastien Lepinard (fondo Next World), la Eutopia Foundation di Aklbert Wenger, partner di un
fondo di venture capital, e il Carbon critical fund.
Lo
scettico del clima Paul Homewood ha inoltre citato George Soros come finanziatore di uno dei partner del Cef, il movimento Extinction rebellion: nel database di Xr, poi reso inaccessibile, alla voce
“Progetti di raccolta fondi”, è stato trovato il suo nome, ma è l’unico donatore del
quale non è stato specificato l’importo devoluto.
Il
responsabile finanziario di Xr, Andrew Medhurst, ha smentito la notizia, mentre la fondazione Open society di Soros,
interpellata a riguardo, non ha confermato, ma neanche negato.
Nessun
problema se la grande finanza gira intorno al business del clima?
In
effetti, ha dichiarato Margaret Klein Slamon al Guardian, “siamo consapevoli delle
possibili accuse di corruzione capitalista, ma, si difende,” il CEf non ha mai chiesto ai suoi movimenti di attenuare le
proteste”.
È
davvero così?
Nel
dicembre 2019 l’azione di Xr(Partner Cef)contro l’aeroporto di Heathrow è stata abbandonata.
Forse
perché uno dei maggiori finanziatori di Xr, il miliardario Chris Hohn, ha una partecipazione di centinaia
di milioni di euro nello stesso aeroporto?
Un
capitolo a parte meritano le forme di erogazione delle sovvenzioni.
Un’inchiesta del Jerusalem Post ha evidenziato che molti di questi movimenti che si
riuniscono sotto il Cef ricevono elargizioni in criptovalute. Uno di questi è Just stop oil: il movimento offre la possibilità di
effettuare donazioni in Ethereum, segnalata dal sito Web Digiconomist nel 2021 perché ogni singola
transazione effettuata con questa valuta produce grossomodo la stessa quantità
di emissioni di CO2 di una famiglia media americana in 2,5 giorni.
Ciò
significa, secondo il Jerusalem Post, che “la cripto valuta consuma ogni anno
più di tutta la Danimarca”. A fine settembre, Ethereum ha dichiarato di essere
passata a un paino più ecologico, ma Just stop oil, che ha l’obiettivo primario di
ridurre le emissioni nel Regno Unito, “ha comunque sostenuto l’uso della
criptovaluta con un tasso di emissione annuale di CO2 di oltre 11 milioni di
tonnellate”, riferisce il Jerusalem Post.
La
crescita della popolazione
mondiale
minaccia il disastro
per la
civiltà occidentale.
Unz.com - GREGORY HOOD – (10 NOVEMBRE 2022) –
ci dice:
In
meno di una settimana, ci saranno otto miliardi di persone sulla Terra. Il capo
del Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione, Natalie Kanem, ne è
entusiasta: "Otto miliardi di persone, è una pietra miliare importante per
l'umanità.
Tuttavia,
mi rendo conto che questo momento potrebbe non essere celebrato da tutti.
Alcuni esprimono preoccupazione per il fatto che il
nostro mondo sia sovrappopolato.
Sono
qui per dire chiaramente che il semplice numero di vite umane non è motivo di
paura".
Il 15
novembre, le Nazioni Unite celebreranno la "Giornata degli otto
miliardi", che afferma "è sia un motivo di celebrazione che un chiaro
appello all'umanità per trovare soluzioni alle sfide che affrontiamo".
Tuttavia,
i bianchi che leggono le "soluzioni" proposte dall'organizzazione
dovrebbero essere preoccupati.
Le
Nazioni Unite lamentano "disuguaglianza" in particolare "accesso
ineguale all'assistenza sanitaria, opportunità e risorse, e oneri ineguali di
violenza, conflitti, povertà e cattiva salute".
Le
Nazioni Unite hanno la soluzione: "Dobbiamo rimuovere sistematicamente le
barriere – basate su genere, razza, disabilità, orientamento sessuale o status
migratorio – che impediscono alle persone di accedere ai servizi e alle
opportunità di cui hanno bisogno per prosperare".
Rimuovere
"le barriere basate sullo status di migrazione" significa
"lasciarli tutti dentro".
Siamo
chiaramente nel mirino delle Nazioni Unite:
Dobbiamo
ripensare i modelli di crescita economica e di sviluppo che hanno portato al
consumo eccessivo e alimentato la violenza, lo sfruttamento, il degrado
ambientale e il cambiamento climatico, e dobbiamo garantire che i paesi più
poveri – che non hanno creato questi problemi, ma sopportano il peso del loro
impatto – abbiano le risorse per costruire la resilienza e il benessere delle
loro popolazioni in crescita.
"Consumo
eccessivo" è un termine caricato; Chi decide quanto è troppo? E
"noi" dovremmo "avere le risorse" per le "popolazioni
in crescita" delle nazioni povere. Puoi indovinare chi dovrebbe pagare.
Ci
sono troppe persone?
"Molti esperti dicono che questa è la
domanda sbagliata", ha detto una storia sulla crescita della popolazione.
Un
"esperto" è Joel Cohen della Rockefeller University. "Troppi per
chi, troppi per cosa?" ha chiesto.
Ha
anche detto che gli esseri umani sono "stupidi", "avidi" e
non hanno "lungimiranza". Se gli esseri umani sono stupidi, avidi e
miopi, perché averne miliardi di più?
Un'altra
"esperta", Jennifer Sciubba del Wilson Center, ha detto che "è
pigro e dannoso continuare a tornare alla sovrappopolazione".
"Davvero,
siamo noi", ha spiegato. "Siamo io e te, l'aria condizionata che mi
piace, la piscina che ho fuori e la carne che mangio di notte che causa molti
più danni."
Chiaramente
se rinunciamo all'aria condizionata, alle piscine e alla carne, tutto andrà
bene, ma perché dovremmo assecondare il ricatto demografico?
Non è
"pigro e dannoso" per coloro che vivono nei paesi sviluppati dire che
è una brutta cosa per le popolazioni dei paesi poveri continuare a crescere se
dobbiamo sacrificarci per loro.
Ma che divertimento sarà per gli
"esperti" che arriveranno a decidere chi usa troppe risorse, chi
dovrebbe ottenerne di più e a cosa dovremmo essere costretti a rinunciare.
Il
mondo non è in piena espansione. Il National Policy Institute ha riferito che i
bianchi saranno meno del 10% della popolazione mondiale entro il 2060.
Nel
1950, la cifra era del 28%. I neri, che erano meno del 9% della popolazione
mondiale nel 1950, saranno più del 25% entro la metà del secolo.
Pati
Buchanan ha scritto questo nel 2008:
Più
sorprendente è che la popolazione bianca si sta riducendo non solo in termini
relativi, ma in termini reali. Duecento milioni di bianchi, uno su sei sulla
terra – un numero pari all'intera popolazione di Francia, Gran Bretagna, Olanda
e Germania – scompariranno entro il 2060.
La
razza caucasica sta facendo la fine dei Mohicani.
A
differenza dei Mohicani, non otterremo una prenotazione o un casinò. Il
Guardian, in un articolo del 2000 intitolato "Gli ultimi giorni di un
mondo bianco", ha scritto:
Il
centro di gravità globale sta cambiando. Nel 1900 l'Europa aveva un quarto
della popolazione mondiale e tre volte quella dell'Africa; entro il 2050 si
prevede che l'Europa avrà solo il 7% della popolazione mondiale e un terzo
quella dell'Africa.
L'invecchiamento
e il declino della popolazione delle nazioni prevalentemente bianche hanno
spinto a prevedere – e chiedere – una maggiore immigrazione da parte delle
popolazioni giovani e in crescita delle nazioni in via di sviluppo per
compensare il deficit.
La
carenza di popolazione in Europa è dovuta principalmente al fatto che i bianchi
non hanno abbastanza figli.
Tuttavia,
le politiche nataliste intese ad aumentare i tassi di natalità sono controverse.
Ad
esempio, il ministro svedese Annika Strandhall ha detto delle politiche
pro-bambino dell'Ungheria:
"Questa
politica puzza degli anni '30 e come populisti di destra, hanno bisogno di
creare cortine fumogene per ciò che questo tipo di politica fa all'indipendenza
per cui le donne hanno combattuto".
È chiaramente fascista volere che il tuo
popolo sopravviva.
Mentre
l'ONU celebra la "Giornata degli 8 miliardi", allude spesso
all'aborto. Perché non incoraggiarlo nei paesi poveri?
Degli
otto miliardi del mondo, la metà vive in soli sette paesi, compresi gli Stati
Uniti. Tuttavia, questo non può più essere definito un paese bianco. La
popolazione bianca sta effettivamente diminuendo, qualcosa che la sinistra celebra
apertamente.
La
Cina ha la più grande popolazione del mondo, ma deve affrontare una crisi
demografica.
Grazie
alla politica del "figlio unico", entro la fine del secolo, la
popolazione cinese di 1,4 miliardi scenderà sotto gli 800 milioni. I cinesi
saranno vecchi e i giovani faranno fatica a sostenerli.
Il tasso di natalità della Cina è diminuito durante
il governo di Xi Jinping e la Cina ha il più alto tasso di aborto tra i grandi
paesi.
La crescita
reale della popolazione nel prossimo secolo verrà dall'Africa.
Bill
Gates ha dichiarato nel 2019 che "entro la fine del secolo, quasi la metà
dei giovani nel mondo sarà nell'Africa sub-sahariana".
Secondo
un sondaggio Pew del 2017, milioni di africani – la maggioranza in alcuni paesi
– vogliono emigrare.
Pew ha riferito nel 2019 che il 45% della
popolazione della Nigeria, il paese africano più popoloso, prevede di emigrare
entro i prossimi cinque anni.
Saranno
molte persone. La Nigeria potrebbe diventare il secondo paese più popoloso del
mondo entro il 2100.
Se prendiamo in parola le Nazioni Unite, non
ci devono essere "barriere" per impedire ai nigeriani di ottenere i
"servizi e le opportunità" che vogliono.
In
realtà, è colpa nostra se vogliono andarsene.
In una conferenza sui cambiamenti climatici in
Egitto, il primo ministro delle Bahamas Philip Davis ha affermato che a meno
che le nazioni ricche non riducano le emissioni climatiche, ci saranno milioni
di "rifugiati climatici".
Il
primo ministro delle Barbados Mia Mottley ha detto che ci sono già 21 milioni
di "rifugiati climatici" e che ce ne saranno un miliardo entro il
2050.
Vuole una tassa sulle compagnie di
combustibili fossili e più soldi.
Qualcuno
pensa che l'immigrazione di massa si fermerebbe se avessimo economie a zero
emissioni di carbonio?
I
"rifugiati climatici" fanno parte del nuovo racket.
Poiché
il nord è responsabile della maggior parte delle emissioni di carbonio, il
maltempo nel sud è colpa nostra.
Quindi, la soluzione è "riparazioni
climatiche".
Non
aspettatevi che la Commissione europea combatta questo. La presidente della
Commissione europea Ursula von der Leyen si è detta "felice" che
fosse all'ordine del giorno.
"Ora è importante sedersi e definire e
risolvere davvero di cosa si tratta, e poi guardare i finanziamenti
disponibili", ha detto.
Con
l'Europa in una crisi energetica, una probabile recessione e pagando per la
difesa dell'Ucraina, quali "finanziamenti" sono disponibili?
Gli
Stati Uniti non saranno esclusi da tale schema. Abbiamo emesso più carbonio,
quindi siamo i più "responsabili".
I
paesi ricchi possono emettere più carbonio di quelli poveri, ma ciò significa
che chiunque si trasferisca in un paese ricco aumenta le emissioni.
Gary
Bauer ha scritto nel 2010:
Quando
le persone si spostano dai paesi poveri all'America, si adattano rapidamente in
almeno un modo: le loro abitudini di consumo.
Gli
studi dimostrano che i recenti modelli di consumo degli immigrati, compreso il
consumo di energia, assomigliano rapidamente a quelli dei nativi americani.
Ma è
importante confrontare le emissioni di CO2 degli immigrati non con quelle dei
nativi americani, ma con i compatrioti che rimangono a casa.
In un
rapporto del 2008, "Immigrazione negli Stati Uniti ed emissioni di gas
serra nel mondo", Patrick McHugh del “Center for Immigration Studies” ha
scoperto che, in media, gli immigrati aumentano le loro emissioni di quattro
volte dopo essere arrivati negli Stati Uniti.
Gli
immigrati statunitensi producono circa 637 milioni di tonnellate di emissioni
di CO2 all'anno. Sono 482 milioni di tonnellate in più di quelle che avrebbero
prodotto se fossero rimasti nei loro paesi d'origine.
Certo,
vengono perché vogliono consumare di più e non ci pensano due volte sul
carbonio. È difficile credere che chiunque voglia far entrare gli immigrati
poveri sia seriamente intenzionato a ridurre le emissioni di carbonio.
(La
CO2 è necessaria per la vita delle piante! Ndr.)
Gli
attivisti climatici credono a quello che dicono?
Parlano
della fine del mondo.
Considerate
solo Stop al petrolio in Gran Bretagna.
Una
giovane attivista bianca ha detto di non avere "futuro" e ha criticato
i giovani che non stavano facendo "il loro dovere" per fermare i
combustibili fossili.
I membri di Just Stop Oil hanno attaccatole
opere d'arte perché porre fine all'uso di combustibili fossili è "il primo
passo per garantire la nostra sopravvivenza".
Gli
attivisti hanno bloccato il traffico sulla strada M25 per quattro giorni
consecutivi.
Il
gruppo definisce "tradimento" l'incapacità di fermare i combustibili
fossili. Afferma che "il cambiamento climatico e la povertà sono
inestricabilmente legati, con i poveri e le persone di colore che rischiano di
soffrire in modo sproporzionato per gli impatti climatici".
La
fonte è una notizia della NBC che dice che i quartieri neri soffriranno di più
perché i cambiamenti climatici aumenteranno le inondazioni. Il gruppo si
preoccupa dei suoi "fratelli e sorelle nel sud del mondo".
Qui,
abbiamo giovani attivisti bianchi che urlano contro terribili minacce alla loro
sopravvivenza, tra cui, "all'estremo, l'estinzione umana".
Loro e altri ambientalisti sembrano
inconsapevoli delle minacce alla loro estinzione razziale o alla connessione
tra immigrazione di massa e distruzione ambientale.
Se gli
occidentali sono costretti a rinunciare all'aria condizionata, alla carne o
alle automobili, perché non fermare i migranti che sono venuti qui perché
vogliono proprio quelle cose?
Questi
ambientalisti estremisti sarebbero pronti a dire ai neri di rimanere a casa
come lo sono a deturpare un dipinto di Van Gogh?
Il
"cambiamento climatico", come il "razzismo", può
giustificare l'intervento in quasi tutto.
Proprio come il Civil Rights Act rende qualsiasi disputa privata tra
bianchi e neri un potenziale caso federale, l'"emergenza climatica"
giustifica intrusioni radicali nelle nostre vite.
Inoltre, gli attivisti climatici combinano la
loro militanza con un profondo risentimento contro l'Occidente che ha costruito
il mondo moderno.
"Riparazioni
climatiche", "rifugiati climatici" e "giustizia
climatica" sono nuove scuse per dare la nostra ricchezza a persone che non
possono sostenersi.
Se gli
ambientalisti non combinano i loro appelli al sacrificio con un appello a
fermare l'immigrazione, è solo un'altra protesta anti-bianca.
Le persone che si preoccupano dell'ambiente
dovrebbero sostenere campagne "progressiste" per il controllo delle
nascite e ciò che gli attivisti chiamano "diritti delle donne".
La
razza bianca, una minoranza globale, sta diventando una minoranza anche nelle
sue terre d'origine.
Questo
è il vero problema esistenziale che i giovani attivisti dovrebbero combattere.
La
soluzione non è uno sfarzo senza senso sulla lotta al cambiamento climatico.
Spetta ai bianchi costruire uno stato che ci
permetta di sfuggire alle fauci spalancate e in continua crescita della
dipendenza non bianca.
Se i
bianchi non sono in giro per salvare il pianeta, nessun altro lo farà.
Chi
sono i due nuovi padroni del mondo.
Nicolaporro.it-
Nicola Porro - Riccardo Ruggeri – (11 Giugno 2021) – ci dice:
Premetto
che di globalizzazione ne so q.b. (quanto basta) a un (ex) CEO di
multinazionali quotate a Wall Street.
Per
essere più tranquillo ho interpellato l’amico svizzero, conosciuto dai miei
lettori come il Signor Banchiere XY (lui sostiene di sapere molto di gestione
dei patrimoni altrui, meno di dottrina economica).
Questo
Cameo quindi è il frutto di due parvenu dichiarati, non ce ne vogliano gli
accademici veri, il Cameo non è certo destinato a loro, ma ai cittadini comuni,
quelli che si accontentano, in economia, di sapere q.b.
Come dice quella cuoca sul canale 416 di SKY:
“Fatto in casa per voi”.
Non
tornerà tutto come prima.
Conclusioni?
Secondo noi un’ovvietà: il virus di Wuhan non poteva non sconvolgere i fragili
paradigmi economici in essere in Occidente.
E così
è stato.
Altro che “tornerà tutto come prima”! I feroci
guardiani del deficit/PIL, del debito/PIL, dello spread, dell’austerità, sono
usciti distrutti dalle decisioni dei loro colleghi che si sono subito allineati
al nuovo corso spendaccione, addirittura a un capitalismo di Stato (aiuto alle imprese, interventi
diretti nel capitale di aziende strategiche, protezione degli asset chiave,
tutti targati ... addirittura Mario Draghi).
Sono
abbacchiati, e li capisco, per anni hanno combattuto fino al ridicolo per uno
0,2% sul deficit o per non superare il tetto 130 di debito/PIL e questi in un
anno ti fanno 160 o addirittura il 10% a botta, per non parlare dei francesi e
degli americani che stampano moneta h24.
Si
sono ridotti a essere come i virologi di regime che prima ci terrorizzavano e
ora, avendole sbagliate tutte, sono costretti ad arrampicarsi sugli specchi,
sperando che la variante, che so cambogiana, li rimetta in gioco.
Cambiano
i rapporti di potere.
La
crisi ci ha insegnato che il nuovo padrone del mondo è Xi Jinping e il padrone
dell’Occidente Jeff Bezos.
Nella
recentissima emissione di bond per 18,5 miliardi $ (di cui non aveva alcun
bisogno, visto che è liquido per 50 mld) Amazon ha spuntato, sul mercato
obbligazionario, un differenziale rispetto al bond del Tesoro americano di un
nonnulla, appena uno 0,1%.
Ci
rendiamo conto a cosa stiamo assistendo? Il mitico “Tesoro” americano alla pari
con un logistico digitale? Che non ci sia più religione?
XY
trova divertente che il mondo dalla globalizzazione selvaggia vada verso una
selvaggia autarchia.
Presto
la camicia oxford bianca sarà sostituita da quella nera di orbace, si chiede Xi
Jinping l’autarchia la chiama autosufficienza, ha deciso, per alimentare il suo
enorme mercato interno, di produrre a discapito delle esportazioni, quindi si
sta sfilando in parte dalla liberalizzazione globale, seguendo le dritte del
buzzurro Donald Trump.
Che
effetti ciò avrà per la globalizzazione?
E così stanno facendo anche gli Stati Uniti di
Joe Biden, riprendendo la strada degli stimoli fiscali tracciata sempre dal
vecchio buzzurro.
L’Europa
immobile.
E
l’Europa, si chiede il Signor Banchiere XY, che farà?
Se le esportazioni calano e i prezzi delle
materie salgono sarà un dramma per l’Europa (e per noi), visto che la strategia
resta quella della trasformazione, senza però possedere materie prime?
Ci vogliono decisioni strategiche rapide, per
fortuna è arrivato Mario Draghi, ma la nostra burocrazia e quella europea sono
pachidermi impossibili da trasformare in gazzelle, quindi saremo inermi di
fronte a un cambio di paradigma, di cui ci sfuggono ancora i contorni e il
dimensionamento.
I
nuovi Padroni del Mondo.
Marcelloveneziani.com
– Marcello Veneziani – (12-6-2022) – ci dice:
Chi
sono oggi i Potenti della Terra?
In altri tempi avremmo indicato i nomi dei
principali Capi di Stato, più i grandi comandanti degli apparati militari delle
Superpotenze.
Ma i
leader delle democrazie sono di passaggio, vulnerabili e con limitati poteri,
ben riassunti dall’impacciata leadership di Biden; molti autocrati di potenze
regionali hanno grande peso nella loro nazione e nella loro zona di influenza
ma non possono dirsi Potenti della Terra.
Ad
eccezione di Xi Jin Ping, e solo in parte di Putin, i veri potenti della Terra
gestiscono risorse chiave del mondo globale.
Oggi i
Potenti della Terra sono soprattutto i giganti planetari della Finanza, i
padroni dei grandi colossi tecno-economici, nel regno della comunicazione e
della distribuzione, delle fonti energetiche o di Big Pharma, che hanno visto
raddoppiare i loro profitti nell’epoca del Covid.
Ma il
loro potere non deriva semplicemente dalla loro ricchezza in espansione e non è
quella a suscitare la maggiore preoccupazione: si possono definire Potenti
della Terra coloro che dispongono di imperi transnazionali e hanno l’ambizione
e i mezzi per condizionare il futuro dell’umanità.
Nei
giorni scorsi è stato pubblicato dall’Oxfam un rapporto intitolato “La pandemia
delle disuguaglianze” in occasione del summit dell’economia e della finanza che
si tiene a Davos.
Tutti
i media del mondo hanno ripreso i dati e i nomi di questi superricchi,
soffermandosi dal punto di vista delle diseguaglianze, sottolineando cioè che
mentre mezzo mondo, anche in Occidente, si impoveriva o viveva in difficoltà
con la pandemia, c’era chi si arricchiva smisuratamente.
Il sottinteso era il tema, eticamente
indiscutibile ma praticamente irrisolvibile, di condannare l’ingiusta
concentrazione della ricchezza, rispetto alle povertà sempre più vaste e
diffuse, e di auspicare una distribuzione più equa dei beni nel pianeta.
I loro
nomi e i loro marchi sono famosi in tutto il mondo: Jeff Bezos di Amazon, Elon
Musk di Tesla e Space X, Mark Zuckenberg di Facebook-Meta, Bill Gates di
Microsoft, Larry Page e Sergey Brin di Google, e poi il francese Bernard
Arnault e il suo impero famigliare; Larry Ellison, Steve Ballmer, Warren Buffet
e altri giganti cinesi, indiani, giapponesi, arabi.
I
dieci uomini più ricchi del mondo hanno raddoppiato i loro patrimoni da 700 a
1.500 miliardi di dollari, nel giro di pochi mesi.
Ma il tema della super ricchezza, pur così
importante, è secondario rispetto alla concentrazione della potenza nelle loro
mani, che è poi il vero tema in gioco per i destini dell’umanità.
Ovvero,
i grandi super-ricchi inquietano non tanto perché si arricchiscono
smisuratamente in un momento di disgrazia planetaria; ma perché alcuni di loro
fanno pesare la loro potenza finanziaria, industriale, commerciale e mediatica
in ambiti che modificano pesantemente la vita dell’umanità.
Quando
si considerano i progetti di Elon Musk e di Jeffy Bezos, di Bill Gates e di
Zuckenberg, o di Soros, ci rendiamo conto che la loro ambizione va ben oltre i
profitti aziendali; è quella di mutare i comportamenti e gli orientamenti dei
cittadini-consumatori.
Non
tutti i super-ricchi perseguono questi obbiettivi: ad esempio, il primo
super-ricco italiano è la famiglia Ferrero, al quarantesimo posto nella
classifica dei paperoni planetari: ma Ferrero vuol vendere i suoi prodotti, non
intende modificare il pianeta e le sorti dell’umanità a colpi di… Nutella.
Diverso
se l’ambito di partenza già attiene la comunicazione, l’infotainment, la
distribuzione a domicilio di ogni genere di prodotto, facendo saltare ogni
filiera commerciale legata al territorio. Si delinea un altro modello di
società e di info-sfera.
Ma chi
dovrebbe controllare la loro vertiginosa espansione, la loro influenza in
ambiti assai delicati, in campo tecno-scientifico, spaziale, neurologico, e sui
temi che attengono all’intelligenza artificiale?
Dovrebbe farlo la comunità internazionale, con
i suoi organismi sovranazionali, che però appaiono farraginosi e impotenti.
O
dovrebbero farlo gli Stati, singoli o confederati.
Che
sono come scavalcati, soverchiati dal potere extraterritoriale di queste
multinazionali, spesso inafferrabili anche dal punto di vista fiscale; figuriamoci
sul piano delle strategie planetarie perseguite.
Già
sono inquietanti le notizie di usi e abusi della ricerca scientifica da parte
degli Stati.
L’ultima
di cui si è parlato riguarda la cosiddetta sindrome dell’Avana che avrebbe
colpito decine di diplomatici, militari, agenti segreti statunitensi; si tratta
di neuro-armi in grado di “pilotare la mente”, alterandone le funzioni.
Un’evoluzione
più sofisticata e devastante di quello che un tempo veniva chiamato “lavaggio
del cervello”.
La
denuncia è venuta dal segretario di stato americano, Antony Blinker e dalla
commissione Usa di esperti di guerra psicologica, istituita allo scopo di
studiarne gli effetti e proporre i rimedi.
Si
tratta di applicazioni già usate dagli stessi apparati militari statunitensi e
ora in uso dai cinesi, con risvolti ancora inimmaginabili, non solo in campo
difensivo o militare.
Già
gli Stati, che sono dentro una rete di relazioni e controlli, nel quadro
giuridico internazionale, presentano risvolti così inquietanti;
figuriamoci
se queste ricerche e sperimentazioni fanno capo all’inafferrabile Volontà di
Potenza di singoli imprenditori che non rispondono a nessuno, tantomeno a una
sovranità popolare e ai controlli istituzionali;
rispondono
solo alla propria indole e al fatturato della propria azienda.
Siamo
in balia del loro delirio di onnipotenza.
(Panorama).
Dall’Australia
all’India, i nuovi padroni
del
grano da cui dipende il mondo.
Repubblica.it - Eugenio Occorsio – (20-5-2022) – ci
dice:
Lo
stop all’export di Ucraina e Russia colpisce gli Stati più poveri, per 1,6
miliardi di persone il cibo scarseggia. Caccia a fornitori alternativi, spesso
più costosi. La Ue prova a sbloccare i carichi da Kiev.
IL
dramma dello Sri Lanka, costretto a dichiarare il default sul debito estero
anche per il bisogno disperato di tenere qualche risorsa per dar da mangiare ai
cittadini, è la dimostrazione plastica della crisi alimentare mondiale.
Non
c’è tempo da perdere di fronte ai disperati appelli di Paesi come Egitto e
Tunisia che dipendono per il 100% dal grano di Russia e Ucraina, che coprono il
29% del mercato mondiale, o di una lunga serie di Paesi in via di sviluppo che
hanno quote di dipendenza di poco minori.
La
Banca Mondiale ha messo sul tavolo ben 30 miliardi di dollari per rifornire
tutti questi Paesi, e i grandi trader mondiali - Cargill, Archer Daniels,
Andersons, Chs - si sono messi alla ricerca di fornitori alternativi. Per
fortuna il grano non è come il gas, perché è prodotto in quasi tutti i Paesi,
ma è una questione di tempo.
E di
politica: la settimana scorsa l’India è stata indotta dagli americani con la
lusinga delle armi a riprendere l’export, altrove con metodi meno tranchant si
cercano soluzioni alternative.
Paesi come Usa, Australia, Brasile, sono in
cima alla lista, ma anche l’Europa: l’Italia, per esempio, per una volta è
fortunata perché dipende per non più del 5% dall’Ucraina e l’1% dalla Russia
(circa 250mila tonnellate) e si è già rivolta ai suoi tradizionali fornitori
Ungheria (che vale il 26% del nostro import), Francia (19%) e Austria (10%)
perché aumentino leggermente le quote.
È
tutta questione di prezzo. «Aumenti come il 53% del grano dall’inizio
dell’anno, o il 63% del mais (e del 145% il grano e il 173% il mais dall’agosto
2020), non sono sostenibili se non da economie forti e strutturate come quelle
europee», commenta Carlo Bevilacqua, responsabile dell’unità di previsioni dei
consulenti di Arté.
Anche
in Italia peraltro la situazione peggiora: il 30% delle aziende agroalimentari
e zootecniche, denuncia Filiera Italia, sono in seria difficoltà, se non
costrette a chiudere perché i rincari all’origine si traducono, con l’aggiunta
dei costi energetici, in oneri insopportabili: è così per le aziende che fanno
farina, pane e dolci con il grano tenero, la pasta con il grano duro, allevano
gli animali con il mais, producono olio con i semi di girasoli, tutti finora
made in Ukraine.
Bisogna
far presto. Secondo l’Economist Intelligence Unit, gli abitanti del pianeta che
non sono sicuri di trovare da mangiare a fine giornata sono aumentati
dall’inizio della guerra di 440 milioni fino a 1,6 miliardi.
Di
questi, 250 milioni sono sull’orlo della carestia. La Fao conferma che 53 Paesi
dipendono fino al 100% dall’Ucraina.
E ieri
la Coldiretti, sulla base di dati dell’International Grains Council, ha reso
noto che i raccolti di grano di Kiev sono stati quest’anno non superiori a 19,4
milioni di tonnellate, il 40% in meno rispetto ai 33 milioni previsti (di cui
19 dovevano andare all’export).
Anche tutta la produzione mondiale è in calo a
769 milioni, perché producono meno pure Usa (46,8 milioni) e India (105
milioni). Minimo (-2,3%) il calo in Russia, che produce 75 milioni di grano e
ne esporta 33.
L’Ucraina
ha comunque i silos pieni ma i porti chiusi (il 98% dell’export passa per
Odessa): «Venti milioni di tonnellate di cereali sono bloccate a causa della
guerra», ha avvertito ieri il rappresentante per la Politica Estera di
Bruxelles, Josep Borrell. «Noi stiamo cercando alternative perché arrivino ai
destinatari».
Sono
finora ben poca cosa i treni che si riesce a far uscire dal Paese carichi di
grano “mimetizzandoli” fra i convogli degli sfollati.
La partita si sta spostando sulla nuova
stagione: «Abbiamo 80 tecnici dislocati sul territorio, soprattutto nella parte
occidentale relativamente più tranquilla, che stanno aiutando i contadini nella
semina, che è il momento di portare avanti», dice Maurizio Martina, vice
direttore generale della Fao.
Ma se
i porti del Mar Nero restano bloccati, anche l’operato di questi “caschi blu”
del frumento sarà vano, o quasi.
Anche
Mosca ha i silos pieni e l’export bloccato dalle sanzioni. E potrebbe essere
quella alimentare la via della pace: nella stessa Russia e soprattutto nei
Paesi ad essa più vicini (Iran, Bielorussia, Siria e tutta la ex-Urss asiatica)
comincerebbero ad affiorare segnali di insofferenza nei confronti di questi
rincari, e ne potrebbero derivare pressioni su Putin perché allenti la presa.
«Servirebbe
però a questo punto – commenta Brunello Rosa, docente alla London School of
Economics - una decisiva spinta da parte di qualche organizzazione
internazionale che convogli questa protesta in direzione di una trattativa
concreta, ma la disarticolazione dell’Onu, del G20 e di altre entità
sovranazionali appare proprio qui in tutta la sua inadempienza».
La
Turchia & gli altri: i nuovi padroni
dell’Africa.
Ecco chi si contende il continente.
Corriere.it - Riccardo Orizio – (22
settembre 2022) – ci dice:
Il
presidente Erdogan ha visitato 27 Stati, dal 2009 le ambasciate sono passate da
12 a 43: l’epicentro del neo colonialismo è la Somalia. Ma sono tanti i Paesi
interessati: dai cinesi agli indiani. In prima linea anche la Russia: mesi fa
fu diffusa una foto datata 1973 di un giovane Putin combattente per il
Mozambico. Ovviamente era un falso.
Il
presidente turco Recep Tayyp Erdogan, 68 anni, durante una delle sue visite in
27 stati africani. Oggi la Turchia ha 43 ambasciate nel Continente Nero.
Nel
palazzo di Topkapi a Istanbul c’è una mappa antica e oggi malconcia che per
molto tempo fu la più invidiata dai governanti di tutto il mondo.
Il
capitano Piri, navigatore ed esploratore al servizio del sultano Selim e di suo
figlio Suleiman il Magnifico, l’aveva disegnata nel 1513, scegliendo una pelle
di gazzella africana per renderla più resistente.
Mostrava un pianeta sorprendentemente
dettagliato e aggiornato, che includeva le Americhe e persino l’Antartico.
Al centro non aveva Istanbul, ma il Sahara.
E
quando fu ritrovata nel 1929 era mutilata: la sezione che illustrava l’Oceano
Indiano dalla Somalia al Mozambico era stata strappata dal sultano - così si
dice - non perché fosse poco importante, ma al contrario per tenerla in tasca e
consultarla agevolmente.
A
quale scopo? Studiarla giorno e notte per capire come conquistare la terra che
Suleiman sognava, l’Africa.
La
straordinaria mappa non bastò a garantire a Piri una pensione tranquilla: il
capitano venne decapitato all’età di 90 anni su ordine del sultano per aver
perso alcune battaglie contro i portoghesi.
Ma le
sue mappe erano state molto utili a due campioni del colonialismo ottomano,
l’ammiraglio Selman, e il suo sponsor, il gran visir della corte, Ibrahim
Pascià.
La
mappa disegnata dal capitano Piri, nel 1513, su una pelle di gazzella africana.
Gli ex
della Serenissima «infiltrati».
Amici
e amanti, dietro i loro nomi perfettamente turchi si nascondevano due storie da
extracomunitari di successo: entrambi nati cristiani poi convertiti all’Islam,
entrambi ex cittadini della Serenissima repubblica veneziana con radici nelle
sue colonie greche dell’Egeo.
Ed
entrambi con la stessa ambizione: portare la mezzaluna del Gran Turco nel cuore
dell’Africa, e poi nel cuore dell’Oceano Indiano, per conquistare nuovi
territori commerciali e rimediare all’enorme danno fatto alla sfera d’influenza
ottomana dalla scoperta dell’America nel 1492 e dal conseguente boom
transoceanico di spagnoli e portoghesi.
Vicende
antiche e irrilevanti nel contesto di oggi? Non proprio.
Perché
il sogno di Selman e Ibrahim si realizzò: Algeria, Tunisia, Libia, Eritrea,
Somalia, Sudan, Marocco ed Egitto diventarono parte dell’impero ottomano e lo
restarono per secoli (l’Italia scacciò i turchi dalla Libia solo nel 1911, gli
inglesi subentrarono in Egitto solo a fine Ottocento), insieme alla penisola
arabica sull’altra sponda del Mar Rosso
Ma anche perché la Turchia di oggi assomiglia
a quella di allora e ha ripreso la sua marcia imperiale laddove i sultani
l’avevano dovuta abbandonare.
(L’IMPERO
OTTOMANO DOMINÒ PER SECOLI, DAL 1500 AGLI INIZI DEL ‘900. ORA LA TURCHIA VUOLE
RIPRENDERSI QUELL’AREA. CON TUTTI I MEZZI.)
La
nuova marcia imperiale.
La
Turchia del presidente Recep Tayyip Erdogan è oggi una dei protagonisti di
quella che gli inglesi chiamavano “the scramble for Africa”, la frenetica corsa
tra nazioni neo-coloniali a ripartirsi e dividersi il continente che ha più
potenziali di sviluppo e spazi di crescita.
Come spiega lo studioso italiano Federico
Donelli nei suoi saggi sulla Turchia espansionistica e neo imperiale, il
sorprendente perno di questa strategia è proprio il Paese dal quale molte altre
nazioni sono fuggite a gambe levate, dopo la clamorosa sconfitta delle truppe
americane dell’ottobre 1993: la Somalia.
Africa:
dall’indipendenza al neo-colonialismo.
Dal
2011, invece, la Turchia è onnipresente e dominante a Mogadiscio - dove ha la
più grande ambasciata della propria rete diplomatica - con investimenti, aiuti
umanitari, apertura di consolati, prestiti al governo, addestramento militare,
progetti di cooperazione, assistenza umanitaria fatta di donazioni alla
popolazione civile, regolari voli della Turkish Airlines su un aeroporto dove
le grandi compagnie internazionali non volano da decenni.
Ovviamente
non mancano i servizi segreti. Tanto che quando l’Italia dovette risolvere il
rompicapo della liberazione di Silvia Romano, due anni fa, finì per rivolgersi
agli unici che hanno una vera influenza in Somalia, i turchi.
E
quando Silvia venne liberata da Al Shebaab, indossava un giubbotto
antiproiettile turco.
Silvia
Romano, 26 anni: il cooperante milanese rapito nel 2018 in Kenya dai terroristi
somali rimase prigioniera 18 mesi; fu liberata grazie ai servizi turchi.
Il
tour neo coloniale di Recep Tayyip.
Ma non
è solo in Somalia. La Turchia aveva solo 12 ambasciate africane nel 2009, oggi
ne ha 43. Erdogan ha visitato 27 nazioni africane, più di qualunque altro
leader internazionale.
La
compagnia di bandiera Turkish atterra in 39 città africane, solo Ethiopian fa
di più.
Truppe
turche sono presenti in Somalia, Mali, Centrafrica, Libia, presto a Gibuti.
Erdogan sta tentando di colmare il vuoto di potere lasciato dalla Francia nel
Sahel dopo la riduzione delle truppe dispiegate nella regione per l’Operazione
Barkhane.
Dopo
il colpo di stato che ha rovesciato il presidente maliano Ibrahim Boubacar
Keïta nel 2020, il ministro degli Esteri turco Mevlüt Çavuolu è stato il primo
rappresentante straniero a visitare il Paese e incontrare il colonnello Assimi
Goita, che ha guidato il colpo di stato e da allora è al potere, facendo
innervosire Parigi.
Nella
Tripoli dove gli ottomani lasciarono un pezzo di cuore e molte nostalgie, la
presenza turca a sostegno del governo riconosciuto internazionalmente è
fondamentale per la sua sopravvivenza.
Un
soldato cinese in Africa: da molto tempo la Cina si è inserita in modo
massiccio nella nuova corsa tra potenze sul territorio africano.
Via la
Francia, sfida tra nuovi «amici».
Con la
riduzione dell’influenza una volta dominante di Francia e Gran Bretagna, la
scomparsa di quella delle potenze coloniali minori come Portogallo, Italia,
Spagna, Belgio, in Africa c’è una nuova generazione di insospettabili potenze
coloniali che ambiscono a una presenza commercial-militare.
Senza
poter competere con il colosso-Cina, che dei prestiti ai governi africani e
della costruzione delle loro infrastrutture ha fatto un cardine della propria
politica estera, nelle capitali africane e nelle terre difficili del Corno
d’Africa e del Sahel si affacciano nuovi protagonisti: russi, sauditi,
emiratini, indiani.
E
americani, che in Africa hanno quasi 10 mila truppe e postazioni in otto Paesi,
dal Sud Sudan al Burkina Faso.
Anche
l’Iran non si dimentica che il 45% degli africani è musulmano e che ci sono
comunità sciite in tutto il continente e che per aiutare Hamas e Hezbollah con
l’acquisto di armi si può anche passare da Sierra Leone, Liberia e Repubblica
Democratica del Congo.
Le sedi
africane dell’università Al Mustafa.
L’
università internazionale Al Mustafa, che ha sede nella città santa di Qom in
Iran, è presente in almeno 17 Paesi dell’Africa sub-sahariana.
In Nigeria ha molti seguaci e studenti, in
decine di moschee e centri culturali e organizzazioni umanitarie.
Dopotutto, i nigeriani di religione sciita
sono diversi milioni. L’offensiva, ovviamente, è anche digitale.
La
propaganda russa ha nel mirino molti Paesi africani, tanto che Twitter e
Facebook hanno rimosso dal 2019 ad oggi molti network russi che colpivano un
elenco sorprendentemente lungo di Paesi africani che il Cremlino giudica
meritevoli di investimenti di propaganda, e che molte altre nazioni ignorano o
sottovalutano:
Madagascar, Repubblica Centrafricana (CAR),
Mozambico, Repubblica Democratica del Congo (RDC), Costa d’Avorio, Camerun,
Sudan, Libia, Sud Africa, Nigeria, Gambia e Zimbabwe.
Sin dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina, i
russi hanno corteggiato l’Africa attraverso bugie anche molto creative.
A
marzo, ad esempio, una fotografia che presumibilmente mostrava un giovane Putin
che nel 1973 addestrava combattenti per la libertà mozambicani in un campo
militare tanzaniano è emersa convenientemente sui social media africani e ha
generato elogi ed entusiasmo: «ecco il vero leader anti-coloniale».
L’immagine è stata postata anche su Twitter
dal potente figlio ed erede del presidente ugandese Yoweri Museveni.
Ovviamente, la foto non è degli Anni 70 e non
mostra il leader russo. Ma per un po’ ha girato su Internet come se fosse vera.
PRIGOZHIN,
SOPRANNOMINATO “IL CUOCO DI PUTIN”, SOSPETTA GUIDA DELLA COMPAGNIA PARAMILITARE
WAGNER, È UNO DEGLI UOMINI CHIAVE CHE STANNO GESTENDO LA CAMPAGNA AFRICANA DI
MOSCA.
I
paramilitari russi e le miniere.
I
paramilitari russi, in particolare del famigerato gruppo Wagner, stanno
combattendo in diversi conflitti africani, ma stanno anche impadronendosi di
miniere e vari business.
L’uomo di punta di Mosca in Africa dalla metà
degli anni 2010, e secondo molti l’uomo dietro Wagner, è Yevgeny Prigozhin,
soprannominato “il cuoco di Putin”: promuove gli interessi russi attraverso una
rete multiforme denominata “La Compagnia”, che include Wagner, ma non solo.
A 300
chilometri a nord della capitale sudanese Khartoum, per esempio, le rocce del
deserto vengono scavate da un misterioso operatore straniero che non ha insegne
e cartelli, ma che è conosciuta dalla gente del luogo come “La Compagnia”.
Quella
di Prigozhin e di Wagner, appunto.
Nel deserto più profondo del Sudan, i russi
trasformano cumuli di minerale polveroso in lingotti d’oro semiraffinato, che
spesso viene portato a Mosca su aerei che fanno scalo in Siria.
«I
russi pagano meglio di chiunque altro», ha detto al New York Times Ammar
al-Amir, un minatore e leader della comunità di al-Ibediyya, la città mineraria
a 10 miglia dallo stabilimento.
Il
Congresso Usa é contro l’espansionismo di Mosca.
Il
Congresso americano ha persino approvato in maggio la “Legge contro le attività
maligne russe in Africa” che impone allo State Department di bloccare le
ambizioni espansionistiche di Vladimir Putin in Africa.
Dal
2016, gli Stati Uniti hanno imposto non meno di sette round di sanzioni contro
Prigozhin e la sua rete, e l’Fbi offre una ricompensa di 250.000 dollari per le
informazioni che portano al suo arresto.
L’anno
scorso Prigozhin ha risposto donando 198 tonnellate di cibo ai poveri sudanesi
durante il Ramadan.
«Regalo
di Yevgeny Prigozhin», si leggeva sui pacchetti di riso, zucchero e lenticchie.
L’uomo
di Prigozhin in Sudan, il generale Hamdan, soprannominato “Hemedti”, è tecnicamente
solo il vicepresidente del Consiglio di Transizione, ma di fatto è il padrone
del Paese e uno dei più ricchi.
Originario del Darfur, origine povera, a lungo
ostracizzato dalle élite di Khartoum, per Hemedti Putin è lo sponsor perfetto
perché rompe con le tradizioni e le convenzioni. E lo invita spesso a Sochi per
vacanze e incontri conviviali.
Tutti
a Gibuti, la ‘strozzatura’ strategica.
Questo
scontro di interessi geopolitici e affari è reso da quanto accade a Gibuti, in
uno dei luoghi più sconosciuti ma più strategici del mondo: è l’angolo di
Africa più vicino alla penisola arabica, una strozzatura di soli 30 km che
divide il Golfo di Aden dal Mar Rosso.
Da qui
passa buona parte del traffico marittimo mondiale. E qui negli ultimi anni si
sono installate tutte le potenze o aspiranti tali. Gli americani hanno 4.500
uomini in una base chiamata Campo Lemonnier, utilizzata anche per tenere sotto
controllo con i droni la vicina Somalia.
A Gibuti gli Usa hanno installato anche il
commando di tutte le proprie forze militari per l’Africa.
La Francia ha 5 mila uomini, la propria più
grande base militare d’oltremare, usata anche da Spagna e Germania.
La Cina vi ha aperto nel 2017 la sua prima
base militare estera, e ne gestisce il porto. Il Giappone ha fatto lo stesso.
India,
Arabia Saudita. Russia e Turchia seguiranno a breve. Anche l’Italia ha dal 2013
una Base Militare di Supporto.
L’Africa è grande, gli interessi regionali
complessi, complicati da un intreccio straordinario di armi, soldi, religioni e
ambizioni personali.
La
mappa del capitano Piri è ormai solo un pezzo da museo, ma le rotte che
suggeriva in quel Cinquecento inquieto e corsaro sono le stesse di oggi.
Credevamo
di essere i padroni
del mondo. Non lo eravamo e non lo siamo.
Mentepolitica.it – Prof. Tiziano Bonazzi - Fareed
Zakaria - (06.04.2022) -ci dicono:
(Fareed
Zakaria- The Post american World)
Nel
2008 il politologo Fareed Zakaria pubblicò un libro dal titolo a effetto, “The
Post american World”, che fu un immediato successo e si impose nel dibattito
crescente sulla fine del mondo unipolare teorizzato alla fine della Guerra
fredda.
Un
mondo fondato sugli Stati Uniti in quanto “nazione indispensabile”, come li
definì Madeleine Albright nel 1997, decisore di ultima istanza a livello
internazionale nonché modello dell'unico sistema politico universalmente valido, la
liberaldemocrazia.
Erano
i tempi fra i due millenni di Condoleezza Rice e della famosa contrapposizione
del neoconservatore Robert Kagan fra gli europei figli di Venere, molli, legati
al compromesso e al soft power, sostanzialmente imbelli, e gli americani figli
di Marte, sempre pronti alla guerra in difesa della democrazia. Una decina soltanto di anni dopo le
cose erano cambiate. Cina, India e mondo islamico del petrolio, ma non solo,
avevano acquisito un'assertività e un'autonomia economica e politica che costringevano a
parlare di un nuovo ordine multipolare.
Le cose dal 2008 sono andate molto oltre tanto che due
classici argomenti a sostegno della superiorità della democrazia occidentale,
la sovranità popolare e il diritto di autodeterminazione dei popoli, sono stati
formulati in modo del tutto nuovo nel Libro bianco sulla democrazia approvato
dal Consiglio di stato cinese l'anno scorso.
Vi si espone una democrazia centrata sul
dovere del governo di esaudire le istanze del popolo che gli giungono
attraverso un complesso sistema di consultazioni popolari che dalle assemblee
di villaggio sale fino al livello nazionale.
Tutto
aperto e limpido e gestito dal Partito Comunista in quanto suprema istanza del
popolo cinese.
La
democrazia è nella linfa che scorre dalle radici, il popolo, fino al governo,
nel fatto che il popolo è sovrano in quanto ha il diritto di, diciamo così,
istruire il potere centrale attraverso la cinghia di trasmissione del partito.
Un
sistema dagli echi confuciani non opposto, bensì estraneo, originale ed
estraneo al modello occidentale.
Un sistema che esiste e può esistere, ci dice
il Libro bianco, in quanto non vi è alcun modello universale di democrazia e
ogni popolo ha diritto di costruire la democrazia a modo proprio.
Eccoci
serviti.
Non mi pare sia il caso di lasciarsi andare a un gran
stridore di denti di fronte alla democrazia alla cinese perché la volontà occidentale
di fare della liberaldemocrazia il miglior sistema donato dalla storia
all'umanità e quindi quello che necessariamente si impone nel mondo si basava
su due fatti mal interpretati.
Il primo era la vittoria occidentale nella
Guerra fredda che non era stata un'Armageddon in cui le forze del bene avevano
definitivamente trionfato su quelle del male, perché la Guerra fredda era stata
una guerra civile interna al mondo euroamericano di cui entrambe le
superpotenze facevano storicamente parte.
Il secondo era il non capire che dopo la
Seconda guerra mondiale gran parte dell'umanità se ne stava più o meno buona
non perché era “in via di sviluppo” e quindi qualche passo indietro rispetto
alle glorie dei paesi avanzati però camminava sullo stesso solco mettendo i
piedi nelle loro orme, bensì perché era schiacciata dal potere delle due
superpotenze e quindi da un mondo che a partire dall'Europa era andato a domare
il globo.
C'era
sì un tentativo di adeguarsi ai modi di essere dei potenti; ma mantenendosi
integri nella propria cultura che con la storia di quei potenti aveva ben poco
da spartire.
Le
cose non sono neppure andate in un modo così lineare perché la storia – s
minuscola - odia i modelli, tanto è vero che al momento il maggior pericolo per
il nostro mondo proviene da un paese che, dopo avere per secoli tentato di
divenire europeo fino ad abbracciare il marxismo e ad essere l'altra
superpotenza nella guerra civile che chiamiamo Guerra fredda, pare essere
tornato a una tradizione propria, quello dello slavismo come alternativa al mondo
occidentale di derivazione illuminista. Tutto questo, per quanto si tratti di uno
schizzo assolutamente grossolano, ci pone davanti a necessità mai studiate se
intendiamo far valere ancora la tradizione che dal Seicento in poi ci ha fatto
accapigliare e uccidere lungo la via della modernità, ma ci ha anche fatto
compiere notevoli conquiste.
La
necessità di farci piccoli, di non gloriarci più come pavoni di ciò che siamo,
di non dimenticare che la nostra “gloria” è figlia anche di stragi come l'uso
dei gas nella guerra di Etiopia dopo averli provati fra di noi nella Grande
guerra, di orrori come il dominio coloniale belga in Congo o la distruzione dei
nativi in Australia, e non continuo un elenco che sarebbe infinito e
disgustoso.
Se
capiamo di non essere il tutto giungiamo a riconoscere che le nostre storie non
sono state guidate dal lume della Storia; bensì sono maledettamente umane
perché aggressività e repressione sono fulcri essenziali della vita e quindi le
“nostre conquiste” esistono in un viluppo inestricabile con realtà
disfiguranti.
Visto che oggi altri, nel nome di fedi irrigidite, di
ideologie di potenza e di tradizioni grandi, ma estranee a quelle euroamericane
cercano di vedere in noi il Grande Satana contro cui scagliarsi, non
limitiamoci al “stringiamoci a coorte” attorno ai nostri supremi valori –
termine che uso malvolentieri e che non amo, ma che adotto per brevità – e
apriamoci alla constatazione che siamo soltanto una parte del mondo, che siamo
in una competizione alla pari con gli altri e che quei valori li si difende non
pretendendo di imporli, ma dimostrando in pratica che portano alla coesione e
alla giustizia sociali nei nostri paesi.
Come
farlo è tutto un altro capitolo in cui l'unica forza davvero mondiale, il
capitalismo globale, entra non certo con il cappello in mano.
"Ecco chi muove i fili del sistema
(in)visibile padrone dei nostri destini".
Ilgiornale.it
– Andrea Indini – Marcello Foa - (8 Ottobre 2022) – ci dicono:
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culture, guerre cognitive, Big Tech e libertà.
È
uscito in libreria il nuovo libro di Marcello Foa, Il sistema (in)visibile.
"Pensavamo di essere padroni del nostro destino mentre altri decidevano
per noi".
"Perché
non siamo padroni del mondo". Per Marcello Foa non è una domanda. Sa che è
così.
D'altra
parte ce lo aveva già spiegato anni fa dando alle stampe il suo - al tempo
avveniristico, oggi possiamo dire predittivo - Gli stregoni della notizia.
Il punto è che per l'ex presidente Rai, firma
storica del nostro Giornale ed ex responsabile del Giornale.it, la vita di
ognuno di noi è profondamente condizionata da fattori che sono al contempo
visibili e invisibili e che vanno identificati, se si vuole capire davvero il
malessere che colpisce le società occidentali.
Foa lo
fa con coraggio e autorevolezza nel suo ultimo libro Il sistema (in)visibile
(Guerini e Associati). "Pensavamo di essere padroni del nostro destino - si
legge - mentre altri, in luoghi che nemmeno immaginavamo e che non
necessariamente coincidevano con governi e parlamenti, decidevano per
noi".
Marcello,
qual è oggi lo stato di salute della democrazia?
"Non
è positivo. In tutti i Paesi occidentali c'è uno scollamento tra la volontà
popolare espressa col voto e la reale capacità di riforma dei governi."
Dove
nasce questo scollamento?
"Da
un fatto storico, noi vincemmo la guerra contro il comunismo sovietico anche
perché esisteva una coerenza tra i nostri valori, una società a benessere
diffuso con un capitalismo bilanciato anche da istanze sociali e la propaganda.
Chiunque
poteva osservarci e dire: 'Gli occidentali vivono bene'. Dall'altra parte,
invece, il paradiso dei lavoratori era un incubo fatto di oppressione e
sussistenza.
Questo
confronto è stato decisivo per conquistare i cuori e le menti dei cittadini che
vivevano oltre il muro di Berlino.
Quando, però, è caduto il Muro, è caduta anche
la coerenza tra i tre punti citati."
Cosa è
successo dopo?
"Sono
cambiati gli obiettivi strategici. La globalizzazione non è solo un fenomeno
economico, ma anche sociale, culturale, politico, istituzionale.
Tende
a uniformare mercati, popolazioni, culture e attua meccanismi per cui armonia
ed equilibrio non sono più indispensabili.
Anzi, diventano un impedimento. Il nuovo
paradigma crea un paradosso: omologa disomologando.
E
troppo in fretta. Questo ha generato squilibri che paghiamo oggi; tra l’altro
anche spostando i centri decisionali fuori dagli Stati ma pretendendo che la
volontà del popolo sia ancora sovrana."
Perché
non capiamo più la nostra società?
"Perché
nessuno spiega davvero le regole del gioco.
La
società è determinata da condizionamenti impliciti istituzionali, economici,
sociali, psicologici, mediatici e ultimamente anche digitali che non vengono
dichiarati né illustrati in modo esaustivo ma di cui i cittadini sentono gli
effetti.
Ci sono tante polemiche ma il quadro
complessivo resta offuscato."
Da qui
il titolo del libro Il sistema (in)visibile?
“Certo
collegando i condizionamenti espliciti a quelli impliciti il puzzle si compone
e la nostra caotica realtà diventa comprensibile”.
A
dividersi il potere sono i monopoli. La democrazia può conviverci?
"Fino
a vent'anni fa il liberalismo e il capitalismo avevano una virtù: evitare
l'eccesso di concentrazione di potere, anche economico, nel presupposto che la
parità di opportunità fosse un requisito fondamentale affinché l'economia di
mercato espletasse le sue innegabili virtù.
Questo
principio è caduto e oggi, senza ammetterlo, si incoraggia la creazione di
oligopoli.
Poche
grandi aziende dominano singoli mercati."
Non
stai esagerando?
“Purtroppo
no. Alla fine del 2021, la capitalizzazione di Apple era superiore al Pil di
tutti i Paesi del mondo eccetto Stati Uniti, Cina, Germania e Giappone, mentre
Microsoft era più ricca del 92% dei Paesi al mondo.
Quando ci troviamo di fronte a queste realtà
si genera uno squilibrio inaccettabile.”
Uno
squilibrio mai risolto.
"Mai
risolto perché il problema non viene mai posto.
Si tende, al contrario, ad esaltare il potere
e l'immagine di questi grandissimi gruppi.
Prende
così forma una doppia realtà: sopra abbiamo pochi leader di mercato in
posizione dominante a livello mondiale, sotto l’insieme delle piccole e medie
aziende che meritoriamente cercano di ritagliarsi uno spazio a distanza
siderale dalle aziende leader.
La
sproporzione tra il potere dei pochi che stanno sopra e gli altri operatori è
insostenibile."
Come
siamo arrivati fin qui?
"Parliamo
spesso di conflitto di interessi, mentre la nostra epoca è caratterizzata dalla
coincidenza di interessi tra la politica e il potere economico.
Quando
la globalizzazione divenne un obiettivo prioritario degli Stati Uniti, le
grandi aziende sono state incoraggiate a espandersi in tutto il mondo, senza
controlli e senza contrappesi.
Politica
e grandi aziende si sostengono a vicenda generando gli eccessi in cui
viviamo."
Qual è
la concentrazione più potente?
"Sicuramente
quella tecnologica, che rischia di violare i diritti fondamentali
dell'individuo e snaturare le democrazie attraverso un sistema di sorveglianza
generalizzato e implacabile, come già accade in Cina."
Quando
Trump è stato estromesso dai social, i media statunitensi, anziché indignarsi,
si siano schierati contro di lui. Ti stupisce?
"La
grande stampa non svolge più da tempo la funzione critica. È troppo vicina
all'establishment. D'altronde, il 90% dei giornalisti è di sinistra (Dem Usa) e
questo è indicativo".
In
Italia non va diversamente.
"Certo,
tra gli anni Cinquanta e Sessanta c'è stato un cambio radicale di paradigma
culturale.
Un
Paese cattolico come l'Italia divenne improvvisamente marxista e ciò si
riverbera fino ai nostri giorni."
Il Giornale,
non a caso, è nato proprio in risposta al pensiero unico dominante in quegli
anni.
"Quando
è crollato il muro di Berlino, questa impalcatura cultural-mediatica si è
trovata senza più un orientamento ideologico e ha cercato un nuovo faro."
Quale?
"La
globalizzazione.
Oggi
la stampa che trova origine nel marxismo è la principale stampella di questo
sistema.
Ha cambiato le idee ma non i metodi che
restano omologanti: o sei nella corrente o finisci emarginato."
(Tutto il nuovo sistema politico
economico è marcio. Si basa esclusivamente ed invasivamente sulle teorie
economiche -religiose del pastore di anime e di denaro che fa capo a Klaus
Schwab, che ci condurranno alla distruzione dell’umanità condotta dai Governi
corrotti dei paesi delle democrazie occidentali tutte totalmente “falsificate”
dagli uomini di Davos al loro comando. Ndr.)
Il
potere passa anche attraverso il controllo della lingua. Dilagano campagne culturali come la “cancel
culture”. Qual è l'obiettivo?
"L'estremizzazione
di certi movimenti è esplosa quando l'establishment ha messo in pista qualunque
forma di resistenza per far cadere Trump. Tra queste c'era anche l'utilizzo
della protesta di piazza e dei movimenti sociali."
I
Black Lives Matters.
"Sotto
Obama erano considerati estremisti e non avevano seguito, ma dopo il successo
di Trump sono diventati funzionali all'establishment: servivano a metterlo in
difficoltà e a ghettizzare i conservatori."
Se
andiamo a vedere i finanziamenti, ci accorgiamo da dove piovono tutti quei
soldi.
"Se
qualcuno li finanzia, vuol dire che ne apprezza operato e finalità.
Se,
poi, la vicepresidente di Black Lives Matter è anche un membro dello Young Global Leaders del World
Economic Forum di Davos di Klaus Schwab, il sospetto che non siano sgraditi
a un certo establishment diventa plausibile."
Si
rischia lo stesso contro la Meloni e il nascente governo di centrodestra?
"Non
mi stupirei. D’altronde c’è il precedente delle Sardine contro Salvini. Un
movimento che fu creato dal nulla."
Il
libro spiega come sia possibile influenzare una società ed evidenzi
l’importanza dei condizionamenti psicologici. Cosa dobbiamo aspettarci?
"Non
ho l'ambizione di prevedere il futuro ma parto da un aspetto positivo. Le crisi
che abbiamo vissuto negli ultimi anni hanno favorito il risveglio della
coscienza civile e democratica. Questo lascia ben sperare. Non c'è
assuefazione. Però pesano diverse incognite”.
Quali?
"Che
con la necessità di combattere una guerra strategica tra Stati Uniti e Cina, si possa eccedere nell'uso di
tecniche che potrebbero compromettere i valori democratici sfociando nelle guerre cognitive di
cui si parla pochissimo, ma che rischiano di trasformare ogni persona in
un'arma."
Fantascienza
o realtà?
"Gli
Stati Uniti le stanno già studiando proprio in funzione anti cinese.
Ma
fino a che punto le democrazie occidentali liberali possono spingersi nello
studiare e applicare queste tecniche?
Chi ci
offre la garanzia che non vengano poi usate contro di noi?
Questo è il grande dilemma.
Il nostro futuro sarà positivo e quel che abbiamo
costruito negli ultimi settant'anni non sarà compromesso, se tornerà a esserci
una coincidenza tra valori, realtà e propaganda.
È giunto il momento di affrontare tutti questi
temi e portarli fuori da polemiche sterili e strumentali che impediscono una
vera riflessione.
Parliamone e torniamo ad essere padroni del
nostro destino."
Chi
sono i più potenti del mondo?
Lucidamente.com-
Rino Tripodi – (1° Giugno 2022) - ci dice:
Perché
l’odierno capitalismo finanziario è sempre più incontrollabile.
Pochi
hanno sentito parlare di Vanguard, Black Rock, State Street Global Advisor o
Blackstone, oppure di sigle quali Kkr o Cvc… E ancor di meno sanno di cosa si
tratta e perché costituiscono un pericolo per quel che resta delle democrazie e
persino per le produzioni economiche più sane.
Se al
povero cittadino comune, travagliato da un decennio di crisi economica, da più
di due anni di misteriosa epidemia e ora dal rischio di un conflitto nucleare,
si chiedesse chi ha maggiore potere e capacità di indirizzare le sorti del
pianeta, le risposte potrebbero essere di vario genere.
I più ingenui risponderebbero col nome di qualche
stato, o di un leader politico, o di qualche esercito; altri indirizzerebbero
la propria attenzione sulle grandi industrie e sulle multinazionali ormai
entrate da tempo nel linguaggio comune e nell’insegnamento scolastico; i
complottisti su fantomatiche organizzazioni segretissime.
I più
svegli nominerebbero i padroni delle nuove tecnologie informatiche e
telematiche, i colossi della Silicon Valley, del web, del commercio a distanza,
o Big Pharma.
Forse
sbaglierebbero tutti.
Perché
i nuovi dominatori del pianeta, certamente dal punto di vista finanziario, e
quindi economico, nonché – aspetto ancora più preoccupante – in grado di
influenzare pesantemente politica e cultura, sono ancora meno noti, più
occulti, ma molto, molto più potenti.
A chi
dicono qualcosa parole come Vanguard, Black Rock, State Street Global Advisor o
Blackstone, oppure sigle quali Kkr o Cvc?
In
termini anticapitalistici e marxisti di un certo tempo fa, sarebbero definiti
squali, che si muovono a loro agio nel mare della finanza globale.
Chiariamo in anticipo che il campo
dell’economia e della finanza, per di più infarcito di termini tecnici
anglosassoni, è ostico, e di certo non pretendiamo con questo nostro articolo
di essere chiari ed esaustivi.
Inoltre,
non essendo esperti del campo, chiediamo venia in anticipo per eventuali
imprecisioni.
Pertanto
consigliamo al lettore di cliccare sui link e, comunque, eseguire altre
ricerche.
Cominciamo
dai fondi d’investimento.
Quelli
più in voga (perché relativamente meno rischiosi per i clienti) sono gli Etf,
ovvero gli Exchange Traded Fund. Essi appartengono alla tipologia Etp (Exchange
Traded Products), ovvero alla macro-famiglia di prodotti a indice quotati.
Diversamente
dai tradizionali fondi comuni d’investimento e dalle Sicav (società di
investimento a capitale variabile) e dalle Sicaf (a capitale fisso), hanno
gestione passiva, ovvero sono svincolati dall’abilità del gestore, che
minimizza le proprie decisioni di portafoglio usando algoritmi che monitorano
l’andamento borsistico.
In tal
modo diminuiscono i costi di transazione e l’imposizione fiscale sui guadagni
in conto capitale.
Glauco
Benigni ne Lo spettro dei 3 Big spiega che gli Eft «sono quotati in borsa con
le stesse modalità di azioni e obbligazioni.
Gestione
passiva significa che il loro rendimento è legato alla quotazione di un indice
borsistico (che può essere azionario, per materie prime, obbligazionario,
monetario etc.) e non all’abilità di compravendita del gestore del fondo.
L’opera
del gestore si limita a verificare la coerenza del fondo con l’indice di
riferimento (che può variare per acquisizioni societarie, fallimenti, crolli
delle quotazioni ecc.), nonché correggerne il valore in caso di scostamenti tra
la quotazione del fondo e quella dell’indice di riferimento, che sono ammessi
nell’ordine di pochi punti percentuali (1% o 2%)».
Tutto
ciò «rende tali fondi molto convenienti per il cliente comune: solo circa lo
0,2% del risparmio amministrato, contro circa il 2% di un fondo attivo. Sicché
oggi occupano il 40% del totale delle azioni del mondo».
Tutto
chiaro? Mica tanto! Ma è la finanza, baby! E siamo solo ai prodotti e alle
nozioni più elementari.
E beh? Cosa c’è di male? Chi ha soldi cerca di
investire per proteggerli dall’inflazione nuovamente rampante o, meglio ancora,
per aumentarli. La questione-chiave è che al mondo pochissime società
gestiscono quasi interamente tali prodotti finanziari.
Le tre maggiori vengono definite appunto Big
Three e sono The Vanguard Group, BlackRock e State Street Global Advisor (vedi
Ecco le 10 società di gestione più grandi del mondo per patrimonio).
Sarebbe da aggiungere pure il Blackstone Group
(noto in Italia anche per una controversia legale con il gruppo Rcs MediaGroup
sulla vendita del palazzo storico del Corriere della Sera a Milano, senza che
si sia arrivati a un riconoscimento per la società italiana).
Ecco
alcuni numeri, impressionanti, avvertendo che essi sono sempre in evoluzione.
Nel
2019, sommati, i tre gruppi gestivano 16 trilioni di dollari e controllavano il
40% delle azioni delle maggiori corporation americane e addirittura, sempre
insieme, erano il maggior azionista nell’88% delle società presenti nell’indice
Standard & Poor’s 500.
Il
patrimonio gestito da BlackRock è pari ai Pil di Francia e Spagna messi
assieme.
Se
guardiamo al giro d’affari e al fatturato, i loro dipendenti sono relativamente
pochi: in ordine, 17.000, 15.000, 2.500.
BlackRock
ha quote nelle dieci più importanti banche europee ed è presente anche in
Unicredit, Banca Generali, Fineco.
È
evidente che tale massiccia presenza in tutto il mondo possa influenzare
l’economia e la politica dei singoli Stati.
Ormai
è noto che la “crisi dello spread” che portò alla caduta del Governo Berlusconi
nel novembre 2011 avvenne anche per spinte “esterne”.
In
genere per quella “deposizione” si pensa a pressioni politiche internazionali
e, segnatamente, degli Usa e dell’Unione europea.
Tuttavia, un’altra ipotesi, riportata da un
periodico certo non tenero con il Cavaliere (vedi Germano Dottori, BlackRock,
il Moloch della finanza globale, in Limes, n. 2, 2015), e poi ripresa da Maria
Grazia Bruzzone (Fu davvero BlackRock a ispirare il “cambio di scena” del 2011
in Italia?
in “La Stampa”, 12 aprile 2015), dirige i
propri sospetti proprio su BlackRock. Le motivazioni di quest’ultima non erano
certo l’antiberlusconismo, ma l’obiettivo di far precipitare la crisi del
debito sovrano italiano per comprare a prezzi stracciati le azioni delle nostre
aziende.
Riuscendovi:
«A fine 2011 la Roccia aveva il 5,7% di Mediaset, il 3,9% di Unicredit, il 3,5%
di Enel e del Banco Popolare, il 2,7% di Fiat e Telecom Italia, il 2,5% di Eni
e Generali, il 2,2% di Finmeccanica, il 2,1% di Atlantia (che controlla
Autostrade) e Terna, il 2% della Banca Popolare di Milano, Fonsai, Intesa San
Paolo, Mediobanca e Ubi».
Ma se l’Italia vi sembra un pesce piccolo e
Silvio Berlusconi uno che non era degno di governarci, leggete quanto ha
scritto Mauro Del Corno su il Fatto Quotidiano (8 gennaio 2021):
Usa,
le scelte di Joe Biden: la Casa Bianca assomiglia sempre di più ad una
succursale del colosso finanziario Blackrock.
Un
esempio lampante è l’ambientalismo, tanto di moda (a parole) negli spot pubblicitari delle
aziende, che, all’improvviso, si scoprono ecologiste per purissimi motivi
filosofici, spiritualisti e di rispetto dell’ambiente.
È un caso nel quale l’intreccio tra media, interessi
economici e politica è evidente. Nel 2019 Greta Thunberg viene nominata dal
Time «Persona dell’anno».
Pochi
mesi dopo, BlackRock (nonostante non fosse assolutamente un esempio di “finanza
etica”, avendo sempre fatto tanti investimenti nel settore degli idrocarburi e
non essendosi mai curata di sostenibilità e condizioni dei lavoratori) diventa “ambientalista”.
Il suo
deus ex machina, Laurence D. Fink invia una missiva ai propri dirigenti in cui
sottolinea che «il
cambiamento climatico è diventato un fattore determinante per le prospettive a
lungo termine delle aziende e che siamo sull’orlo di un fondamentale
rimodellamento della finanza».
Come
l’Unione europea, il futuro presidente statunitense Joe Biden mette al centro
del suo programma elettorale la lotta ai cambiamenti climatici e la difesa
dell’ambiente.
In tempi utili per trarre vantaggio dalla
nuova ideologia del potere, le aziende si posizionano per trarre benefici dalla
cosiddetta transizione ecologica, indirizzando i loro investimenti verso nuovi settori
quali le energie rinnovabili, le automobili elettriche, il cibo vegano o
proprio fintamente “sano”, nonché mettendosi in fila per i miliardi di
finanziamenti previsti.
Un
altro intreccio in grado di condizionare la vita economica (e non solo) di
intere nazioni è quello tra i grandi fondi di investimento e le agenzie di
rating (Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch Ratings).
Queste
ultime dovrebbero essere semplici strumenti di valutazione oggettiva delle
situazioni economiche, ma in realtà le influenzano coi loro sprezzanti giudizi.
Ebbene, nel loro azionariato troviamo le
solite “Big” e tante altre corporation… Del resto, tutti i rapporti tra fondi,
aziende e agenzie di rating sono un inestricabile gioco di scatole cinesi, con
quote azionarie degli uni nelle altre e viceversa. Anche lasciando da parte
l’economia, si è visto come l’influenza di tali gruppi su elezioni politiche,
linee di indirizzo, media, tendenze culturali, siano inquietanti e
incompatibili con libere democrazie.
Scrive Ugo Mattei nel saggio Il diritto di
essere contro (Piemme, 2022, pp. 178-179) che i grandi pacchetti azionari
«controllano tanto l’industria farmaceutica quanto quella della comunicazione
di massa nonché la filiera del cibo industriale e della sua distribuzione e
ovviamente gran parte degli armamenti Usa».
Tale enorme potere con la connessa attività di
lobbismo non può che avere un enorme impatto sulla politica dei paesi
“liberaldemocratici”.
Così la governance economica mondiale prevale
nettamente sul governo politico degli Stati.
E il
potere dei grandi gruppi di speculazione finanziaria non si arresta più.
Guido
Fontanelli, nel suo Sempre più padroni del mondo (in Panorama, n. 19, 4 maggio
2022), cerca di gettare un po’ di luce su altri oscuri prodotti finanziari: i fondi di private capital.
Si
tratta di «investimenti rischiosi e a lungo termine, la quota destinata a essi
non può superare il 10% del portafoglio finanziario del risparmiatore».
Eppure,
poiché oggi si preferisce giocare in borsa che rischiare di fondare o investire
su un’attività produttiva reale (vedi Perché il capitalismo odierno è sempre
più incontrollabile), anche tali investimenti rendono tanto, soprattutto a chi
li controlla:
«Gli
attivi in gestione dei fondi private sono cresciuti lo scorso anno al massimo
storico di 9.800 miliardi di dollari.
Le
prime cinque società del settore gestiscono un patrimonio complessivo di 1.850
miliardi, cifra smisurata che si avvicina da sola agli abbondanti risparmi di
tutti gli italiani (1.900 miliardi di dollari)».
Oltre
a Blackstone, i maggiori gestori di private capital sono sigle che non avete
mai sentito, come la newyorchese Kkr (459 miliardi di dollari di patrimonio
gestito) o la britannica Cvc (122 miliardi).
Che
tutto questo denaro serva per comprare aziende sane o in difficoltà per
specularci sopra, per acquisire debiti sovrani di intere nazioni o per
foraggiare l’industria degli armamenti, poco importa (vedi La finanza spietata:
dal boom dei titoli degli armamenti allo sciacallaggio su aziende in crisi e
sui debiti sovrani).
È
evidente che la finanziarizzazione assoluta dell’economia costituisce una
iattura oltre che, come s’è visto, per le democrazie, anche per le aziende
manifatturiere sane e, di conseguenza, per i loro occupati.
Non conta se ciò che esce da una fabbrica dopo tanto
lavoro è utile, sano e buono per le masse, ma se “il mercato finanziario”
dirige o meno le proprie speculazioni su un’azienda o un’altra, su una materia
prima e una risorsa naturale o un’altra, su una produzione o un’altra…
Per
fortuna il Governo Draghi aiuta gli italiani (ricchi) a difendere i propri
risparmi.
Qualcuno
ha saputo che dallo scorso 16 marzo agli investitori non professionali non
occorrono più 500mila euro, ma “solo” almeno 100mila per entrare nei fondi di
private capital e di real estate (leggi È ufficiale: si abbassa la soglia per
investire nei Fia)? Però, purché tale cifra non sia superiore al 10% del
portafoglio finanziario del risparmiatore/speculatore.
Ebbene,
sì: l’attuale esecutivo ha proprio a cuore gli interessi degli italiani,
soprattutto di quelli più poveri…
(Rino
Tripodi).
RUSSIA
E CINA UNITE
PER UN
NUOVO ORDINE MONDIALE.
Thefederalist.eu
– Stefano Spoltore – (13-12-2021) – ci dice:
Nell’inverno
del 2013 il governo di Kiev decise di non sottoscrivere l’adesione all’Unione
europea e, allo stesso tempo, di avviare trattative con Mosca per siglare un
accordo economico finanziario ritenuto più vantaggioso.
Quella
decisione creò una frattura in seno al paese tra i sostenitori dell’adesione
alla UE e i sostenitori di un accordo con la Russia.
La
ricca regione del Donbass, a maggioranza etnica russa, proclamò a quel punto la
propria indipendenza con il pieno sostegno della Russia.
Ebbe così inizio una guerra mai dichiarata
apertamente tra l’esercito regolare di Kiev e quello separatista che in otto
anni di guerra ha visto morire oltre 14.000 persone, per lo più civili, e un
esodo dalla regione di oltre 1.500.000 cittadini di cui circa 900.000 diretti
verso la Russia.
La
successiva decisione della Russia nel 2014 di riportare la Crimea entro i
propri confini tramite un referendum aggravò ulteriormente la crisi con
l’Ucraina e con il mondo occidentale.
Vennero
allora imposte alla Russia una serie di sanzioni economiche e finanziare
proposte dal governo USA (all’epoca era Presidente Obama) con l’appoggio
dell’Unione europea.
La
crisi Ucraina si è riaccesa drammaticamente nel gennaio del 2022 dal momento
che la Russia intende contrastare con ogni mezzo il possibile ingresso di quel
paese nel novero delle nazioni NATO.
Contrastare
l’allargamento della NATO ai paesi un tempo alleati o satelliti dell’URSS è una
questione considerata vitale nell’ottica di Mosca.
In questi ultimi anni le richieste di adesione
alla NATO sono state prospettate da parte degli USA ai governi di Moldavia e
Georgia, altre richieste di adesione sono pervenute direttamente da alcune
nazioni, la più recente proprio da parte della Ucraina. Si tratta di nazioni
che erano parte integrante del territorio dell’URSS.
Non va
poi dimenticato che anche la Finlandia (nazione da sempre dichiaratasi
neutrale) sta valutando di presentare la richiesta al governo di Washington per
diventarne membro.
Queste ulteriori adesioni porrebbero le truppe
e le basi della NATO direttamente a ridosso dei confini della Russia che non
potrebbe più contare sulla presenza di Stati cuscinetto che, nella logica di
Mosca, devono rappresentare un limite invalicabile dalla fine della Seconda
Guerra Mondiale (o Guerra Patriottica come invece viene definita in Russia e
prima ancora nell’URSS).
Quel
limite era già stato violato nel 2004 con l’adesione alla NATO di Estonia e
Lettonia, ma in quegli anni, a Mosca, Putin stava ancora definendo l’assetto
del paese e in politica estera il paese risultava indebolito dopo oltre un
decennio di profonda crisi interna.
Gli
anni successivi al dissolvimento dell’URSS erano stati i più tormentati e
l’assetto con i nuovi equilibri di potere interni avevano avuto la prevalenza
su qualsiasi altra questione.
Furono
necessari oltre dieci anni per ridefinire i confini della nuova Russia dopo la
frammentazione del suo territorio che vide la nascita di tredici nuove
Repubbliche indipendenti con le quali disegnare i confini, definire la
spartizione del tesoro della Banca Centrale, dell’arsenale atomico e degli
armamenti, nonché contrastare tentativi di colpo di Stato o sedare nel sangue
ulteriori tentativi secessionisti nel Caucaso.
Tutte questioni che si sovrapponevano alla
lotta intestina a Mosca per la conquista del potere che, dopo l’uscita di scena
di Gorbaciov, l’ascesa e caduta di Eltsin, vide prevalere la figura di Vladimir
Putin.
Quando
si aprì la crisi ucraina nel 2013 la situazione interna russa si era
stabilizzata e il governo di Mosca poteva tornare ad esercitare la propria
politica estera con ritrovata autorevolezza.
L’assetto
di potere era ora ben definito.
Mosca
rispose alle sanzioni occidentali avviando intese sempre più strette e vincolanti
con la Cina in campo economico, energetico e militare, cosa impensabile sino a
pochi anni prima.
Il
quadro internazionale era mutato in modo radicale. Gli anni di difficoltà della
Russia erano coincisi con l’ascesa a potenza economica della Cina che
esercitava, ed esercita ancor di più oggi, una grande influenza politica e
militare in vaste regioni dell’Asia e dell’Africa.
La
delocalizzazione in Cina di molte attività industriali da parte degli
Occidentali, nel tempo, l’hanno resa una potenza in grado di determinare la
produzione di intere linee di prodotti per il mondo intero.
Alla forza militare di cui dispone, la Cina
può così far pesare anche la propria capacità industriale sino al punto di
poter condurre guerre economiche riducendo (o aumentando a seconda dei propri
interessi) la vendita ed esportazione di alcuni beni, per esempio nel settore
auto o in quello dell’informatica, vitali per l’industria europea.
Verso un nuovo equilibrio: Russia e Cina
alleate in politica estera.
La
instabilità politica derivante dalla dissoluzione dell’URSS negli anni Novanta,
indusse la Cina a promuovere nel 1996 una Organizzazione per la Cooperazione
(detta di Shangai o SCO) che coinvolgesse la Russia e alcune delle giovani
repubbliche ex-sovietiche con cui condivide i confini: Kazakistan, Tagikistan e
Kirghizistan.
L’obiettivo
principale della Organizzazione era quello di favorire la cooperazione in campo
economico, politico e militare per contrastare il separatismo e il terrorismo
in Asia Centrale.
Negli
anni l’Organizzazione, che tra l’altro ha l’obiettivo di mediare eventuali
contrasti tra le nazioni che ne fanno parte, si è ampliata e vi hanno aderito
anche Uzbekistan, India e Pakistan
L’Organizzazione
ebbe l’effetto di aprire un nuovo canale di comunicazione diretto tra Pechino e
Mosca.
Il
desiderio principale della Cina era quello di garantire unità territoriale ai
propri confini per evitare spinte separatiste a carattere politico, etnico o
religioso (oltre a quello storico nel Tibet) dopo quanto era accaduto in
Russia.
Si
trattava di un desiderio che Mosca condivideva pienamente.
Negli
stessi anni gli Stati Uniti assumevano una leadership a livello mondiale, che
li metteva però spesso in gravi difficoltà dovendo operare, militarmente, dal
Medio Oriente all’Africa e persino in Europa nella ex-Jugoslavia.
Non è
questa la sede per rievocare i numerosi focolai di tensione sorti negli anni di
fine secolo XX e agli inizi del nuovo, ma, mentre gli Stati Uniti cercavano di
agire in tutti gli scenari con gli europei in alcuni casi al seguito, la Russia
si avviava a stabilizzarsi al proprio interno e la Cina diventava una potenza
economica garantendosi l’ingresso nel WTO nel 2001 e avviando allo stesso tempo
un ampio progetto di rinnovamento delle forze armate.
La
Russia di Putin e la Cina erano ora pronte a condividere l’obiettivo di
contrastare gli Stati Uniti come unica superpotenza.
Un
contesto generale nel quale l’Unione europea svolgeva un ruolo da spettatore o
di passivo sostenitore delle scelte politiche USA o militari nell’ambito della
NATO.
La
crisi in Ucraina consolidò l’intesa tra Mosca e Pechino che negli anni si è
ampliata in campo militare senza che per questo fosse necessario la firma di un
Trattato ad hoc.
L’aiuto che la Cina garantì alla Russia in
tutte le sedi internazionali nel sostenere le sue ragioni in Ucraina venne
presto ricambiato.
E di
recente Pechino ha ribadito che l’allargamento della NATO all’Ucraina è una
provocazione dell’Occidente che crea solo nuove tensioni, la stessa tesi sostenuta
dalla Russia.
Mosca da parte sua difende il diritto della
Cina nel controllare gli atolli nelle acque del Mar Cinese Meridionale, ma,
fatto ancor più rilevante per Pechino, Mosca sostiene il diritto di Pechino nel
rivendicare la propria sovranità sull’isola di Taiwan e nell’imporre la propria
legislazione ad Hong Kong.
La
condivisione e il reciproco sostegno in politica estera tra Pechino e Mosca si
sta manifestando in modo ancor più palese nel corso del 2022, ponendo il mondo
Occidentale, e in particolare gli USA, in grave difficoltà nel dover gestire
fronti così impegnativi (Ucraina e Taiwan), avendo di fronte due potenze pronte
a sostenersi.
Le
difficoltà degli Stati Uniti, già emerse sotto la presidenza Obama e
aggravatesi con quella di Trump, sono accentuate dalla incapacità di agire da
parte della Unione europea, vittima delle proprie debolezze: ha una forte
dipendenza dalla Russia negli approvvigionamenti energetici; ha una forte
dipendenza dalla Cina nella fornitura di prodotti industriali ad alto valore
tecnologico.
La mancanza di un potere europeo in grado di
esprimere una propria politica estera e di difesa nonché una propria politica
energetica ed industriale la pongono dinanzi alla propria fragilità ed
inconsistenza ad agire per essere credibile.
Questa
inconsistenza vede l’Unione europea nella condizione di sostenere le scelte
politiche degli USA seppur passivamente e spesso in modo confuso e
contraddittorio.
Stati
Uniti e Unione europea sperimentano pertanto le proprie difficoltà dinanzi alla
coincidenza di interessi che legano Russia e Cina.
Se la
UE ai propri confini non è in grado di gestire in modo autonomo il
confronto-scontro in atto in Ucraina da ben nove anni e ricorrono alla NATO per
tutelarsi, gli Stati Uniti sembrano ancor più in difficoltà nelle acque del
Pacifico, segnatamente nel tratto del Mar Cinese.
Mentre
in Europa sono aperti dei canali diplomatici per evitare il precipitare della
crisi in una guerra aperta, nell’area del Pacifico la Cina ha lanciato una
sfida ben precisa e senza appello: Taiwan deve rientrare a pieno titolo sotto
la sovranità di Pechino entro il 2050.
È
dall’inizio della crisi ucraina che Russia e Cina conducono esercitazioni
militari e navali in modo congiunto nelle acque di tutto il mondo.
La
prima volta fu nel 2015, nel Mar Mediterraneo, successivamente nel Mar Baltico,
nel Mar del Giappone e nel Mar Cinese Meridionale (qui anche con truppe di
marines per simulare la conquista di una isola).
Infine, nel gennaio di quest’anno, a navi
delle flotte russa e cinese si sono aggiunte navi della flotta dell’Iran a
largo del Golfo di Oman allarmando l’intero mondo arabo, e non solo, per le
implicazioni che comporta questa collaborazione militare nel già difficile
quadro della situazione medio orientale.
Ma
ancor di più: la Russia garantisce a militari e a ingegneri civili cinesi
l’utilizzo delle proprie basi nell’area dell’Artico in previsione della
costruzione di porti da condividere e per svolgere insieme trivellazioni nella
ricerca di nuovi pozzi petroliferi o di gas.
A seguito dello scioglimento dei ghiacci, le
previsioni indicano che entro il 2050 le navi mercantili che dal Pacifico
raggiungono i porti del Nord Europa potranno transitare lungo le coste artiche
per sei mesi all’anno contro gli attuali tre.
Questa via di navigazione diventerà pertanto
sempre più strategica per la navigazione commerciale riducendo i costi e i
tempi oggi necessari per il transito lungo il canale di Panama.
Controllare l’Artico e disporre di porti amici
diverrà strategico non solo per lo sfruttamento delle sue ricchezze naturali,
ma anche per il controllo dei traffici non solo mercantili.
Si rinnova così la capacità delle due potenze
di sviluppare strategie di lungo termine.
Questa condivisione di interessi suscita
grandi preoccupazioni negli USA poiché, nel caso la crisi in Europa e la crisi
nel Pacifico dovessero deflagrare in contemporanea per una precisa intesa tra
Mosca e Pechino, non sarebbero in grado di gestire contemporaneamente i due
fronti.
In
particolare, sarebbe la crisi nel Pacifico, nelle acque del Mar Cinese
Meridionale, a vedere gli USA sconfitti nonostante il possibile aiuto militare
legato ai recenti accordi siglati in ambito QUAD (Usa, Giappone, Australia e
India) o in ambito AUKUS (USA, Regno Unito e Australia).
A
prevedere una piena sconfitta e, di conseguenza, l’annessione di Taiwan alla
Cina, è lo stesso Comando Strategico che lo ha ammesso in una audizione al
Congresso degli Stati Uniti nell’aprile del 2021.
Taiwan
rappresenta comunque la falsa coscienza del mondo intero.
Solo
14 nazioni la riconoscono come Stato sovrano, il resto del mondo intrattiene
solo rapporti commerciali.
Vi è infatti un veto da parte del governo di
Pechino che ha deciso di non intrattenere relazioni diplomatiche con gli Stati
che rifiutano di riconoscere che la Cina Popolare è una e indivisibile e che
Taiwan è solo una provincia ribelle.
Al
mondo manca il coraggio di riconoscere la legittimità ad esistere di Taiwan per
timore di rompere i rapporti con Pechino e gli Stati Uniti, da questo punto di
vista, hanno precise responsabilità allorché nel 1972 decisero di accettare il
principio di “una sola Cina” su precisa richiesta di Pechino (all’epoca era
Presidente R.Nixon).
In
Ucraina e lungo le coste di Taiwan si assiste a continue prove di forza da
parte di Russia e Cina, nel tentativo, congiunto, di saggiare le reazioni
dell’Occidente e di verificarne la capacità di reazione.
Non altrimenti si spiegano le continue
esercitazioni navali congiunte o le continue violazioni dello spazio aereo di
Taiwan da parte dei caccia cinesi.
Il contesto nel Pacifico è ulteriormente
complicato dalla instabilità nelle acque del Mar Giallo e del Mar del Giappone,
per le continue minacce da parte della Corea del Nord, il che ha indotto il
Giappone, stretto alleato degli USA, a rileggere la propria carta
costituzionale per consentire un aumento delle spese militari e prevedere la
costruzione di portaerei.
Si tratta di acque presidiate da importanti
porti militari sia russi che cinesi.
Conclusione.
Il
mondo uscito dal crollo dell’URSS ha destabilizzato interi continenti e gli
Stati Uniti si sono dimostrati incapaci di garantire da soli un nuovo ordine
che garantisse pace e stabilità.
In
questa incapacità rientrano anche precise responsabilità degli europei che non
hanno saputo avviare una diversa politica di vicinato con la nascente nuova
Russia. Gli Stati Uniti, assecondati dalla UE, hanno così continuato a
percepire la Russia come un possibile nemico da contrastare.
Anziché
cogliere la novità derivante dal crollo del sistema sovietico, l’Occidente ha
continuato ad agire per indebolire la Russia rafforzando la propria presenza ad
est nell’ambito della NATO.
Una
grande occasione per favorire nuove relazioni tra la Unione europea
(allargatasi ai paesi un tempo sotto l’influenza sovietica) e la Russia è
andata così perduta.
Ma
d’altronde una Unione europea senza un proprio governo e senza una propria
politica estera come avrebbe potuto agire diversamente?
Inoltre,
l’allargamento della UE ad est poneva anche in evidenza le paure che queste
nuove nazioni continuavano e continuano ad avere nei confronti della vicina
potenza russa che per lungo tempo li aveva sottomessi.
Da questo punto di vista l’ingresso nella UE
garantiva a questi paesi un aiuto nello sviluppo delle loro economie e un
consolidamento delle loro giovani democrazie, e, allo stesso tempo, l’ingresso
come membri della NATO dava garanzie in termini di sicurezza militare.
Mentre
questo scenario si andava costruendo in Europa, in Estremo Oriente emergeva la
Cina come nuova potenza dapprima economica ed oggi anche militare.
Sul
piano economico, la mancanza di una politica industriale ed energetica, mostra
oggi le contraddizioni e le debolezze della UE.
La
delocalizzazione di molte attività produttive pone la Cina nelle condizioni di
utilizzare l’economia come uno strumento politico a tutti gli effetti, come
ammesso dalla stessa Commissione europea che evidenzia la dipendenza
dell’Europa dalla Cina in settori strategici.
Il
sapere di essere deboli dovrebbe indurre pertanto i governi ad individuare
soluzioni di prospettiva per evitare, come sta accadendo, di vedere l’industria
europea in difficoltà negli approvvigionamenti sia di prodotti finiti che di
materie prime, indirizzate invece principalmente verso la Cina e le altre
nazioni dell’Estremo Oriente che oggi, insieme, rappresentano il polmone
industriale del mondo intero, a riconferma di come il commercio internazionale
sia passato dall’area atlantica a quella del Pacifico.
L’eterno
dilemma del mondo alla ricerca di un equilibrio che contrasti le mire
egemoniche vede oggi tre grandi potenze continentali confrontarsi in modo
aperto: Stati Uniti, Russia e Cina ce lo ricordano ogni giorno.
È
altrettanto evidente come un continente risulti assente o comunque marginale ed
è la stessa Commissione europea a ricordarcelo così come i recenti interventi
pubblici del Presidente Macron o del Cancelliere Scholz.
Non
resta, come recitava un antico detto latino, che passare dalle parole ai fatti
compiendo scelte radicali che diano alla Unione europea l’assetto federale di
cui necessita per esercitare la propria sovranità.
I
prossimi mesi saranno pertanto decisivi alla luce delle decisioni che i Capi di
governo, in sede di Consiglio europeo, prenderanno sulla base delle proposte
che i cittadini europei hanno formulato in seno alla Conferenza sul futuro
dell’Europa.
Alla
Conferenza sono state presentate precise idee per abolire il diritto di veto,
per garantire all’Unione un proprio potere fiscale e di bilancio, per dare
maggiori poteri al Parlamento europeo nel definire le linee di una politica
estera.
Si
tratta di questioni vitali per il futuro della Unione e per garantire un
maggior equilibrio nella gestione dei problemi del mondo.
(Stefano
Spoltore)
V
Rapporto “I Padroni della Terra” Focsiv.
Focsiv.it
– Redazione - (28 Giugno 2022) - ci dice:
(Comunicato
stampa)
SONO
PARI A 91,7 MILIONI DI ETTARI LE TERRE ACCAPARRATE IN TUTTO IL MONDO.
Un
fenomeno che la guerra può amplificare a causa della competizione tra blocchi
geopolitici a discapito delle comunità native.
Il
caso Ucraina è emblematico.
È
quanto emerge dal V° Rapporto Focsiv “I padroni della Terra. Rapporto
sull’accaparramento della terra 2022: conseguenze sui diritti umani, ambiente e
migrazioni”.
Si
presenta a Roma nella Sala Capitolare del Chiostro del Convento di Santa Maria
sopra Minerva, in Piazza della Minerva 38, su iniziativa del senatore Mino
Taricco, il V° Rapporto “I padroni della Terra.
Rapporto
sull’accaparramento della terra 2022: conseguenze sui diritti umani, ambiente e
migrazioni”, ideato e redatto da Focsiv – Federazione degli Organismi Cristiani
Servizio Internazionale Volontariato, nell’ambito della Campagna Abbiamo riso
per una cosa seria, iniziativa ventennale volta a sostenere l’agricoltura
familiare contro le grandi operazioni di accaparramento, con il patrocinio di
GreenAccord e il contributo del progetto Volti delle Migrazioni co-finanziato
dall’Unione Europea.
Presupposto delle cinque edizioni del Rapporto
è la consapevolezza che la terra, soprattutto quella fertile e l’acqua salubre,
sono risorse che si stanno esaurendo, in un mercato globale che tutto fagocita
con un modello sviluppista ed estrattivista.
Anche
“I padroni della terra 2022” sono dedicati 358 difensori dei diritti umani
uccisi in 35 Paesi per essersi opposti alla devastazione e all’inquinamento su
grande scala di foreste, terra e acqua, lottando in difesa del Pianeta e del
diritto di ciascuno di non essere sfruttato o emarginato e di poter vivere in
un ambiente salubre e sostenibile.
Dal
Rapporto emerge come siano 91,7 milioni di ettari le terre che sono state
accaparrate in questi ultimi 20 anni a danno delle comunità locali, dei
contadini e dei popoli nativi, secondo gli ultimi rilevamenti di marzo della
banca dati di Land Matrix, il sito che raccoglie informazioni sui contratti di
cessione e affitto di grandi estensioni di terra.
Questo
fenomeno si concentra in alcuni paesi: il più coinvolto è il Perù con 16
milioni di ettari, a questo seguono a distanza il Brasile e l’Argentina,
l’Indonesia e la Papua Nuova Guinea, mentre in l’Europa orientale vi è
l’Ucraina, e nel continente africano il Sud Sudan, il Mozambico, la Liberia e
il Madagascar.
Dei 60
milioni di ettari di superficie totale dell’Ucraina, il 55% è classificato come
terreno coltivabile, la percentuale più alta in Europa.
A milioni di abitanti dei villaggi ucraini, con la privatizzazione
dei terreni durante il processo di riforma agraria, sono stati assegnati
piccoli appezzamenti di terreni – in media quattro ettari – che in precedenza,
sotto l’Unione Sovietica, erano di proprietà statale o comunale.
I grandi investitori con il tempo hanno
aggirato il divieto di vendita della terra imposto dalla moratoria grazie alla
messa in atto di contratti di affitto.
La
mancanza di capitale e la frammentazione degli appezzamenti ha costretto molti
contadini dei villaggi ad affittare a cifre irrisorie la loro terra, oggi
migliaia di questi appezzamenti sono concentrati sotto il controllo di grandi
aziende agricole.
La
guerra dell’Est europeo, così come la pandemia prima, non ha rallentato il
fenomeno, anzi sono proprio queste crisi, come quella del 2008 con il crollo di
Wall Street, che generano ed alimentano la competizione degli attori sovrani e
di mercato più potenti per accordarsi con le élite locali appropriandosi di
terre fertili e di risorse minerarie per il proprio tornaconto a discapito dei
popoli che da secoli vi vivono.
Si
mette anche in evidenza come la digitalizzazione stia facilitando le operazioni
di accaparramento con la creazione di registri e certificazioni digitali,
mostrando come questa non sostenga i diritti alla terra delle comunità
contadine, ma la loro frustrazione da parte di chi si appropria del potere.
Le
nuove tecnologie informatiche, in linea di massima, appaiono piegate agli
interessi di privatizzazione e finanziarizzazione dei terreni.
Mentre
Facebook diventa uno spazio per il commercio della terra, situazione per la
quale la piattaforma social si sente non coinvolta.
Un’altra
situazione drammatica messa in luce dal Rapporto e legato al land grabbing, è
quello della deforestazione per lo sfruttamento delle risorse naturali – 11,1
milioni di ettari di foreste tropicali perse nel 2021 – a favore
dell’espansione delle grandi piantagioni monocolturali.
Le conseguenze sono pesanti e molteplici:
perdita della biodiversità e dei relativi servizi ecosistemici, espulsioni
delle popolazioni native e contadine, insicurezza umana e nuove tensioni.
Essenziale
è il ruolo della finanza e, in particolare, delle banche pubbliche di sviluppo,
come la Cassa Depositi e Prestiti.
Tuttavia,
alcune di queste sono coinvolte nel finanziamento di investimenti
insostenibili.
È
necessario che esse si dotino di meccanismi efficaci e trasparenti di
valutazione ex ante, di controllo e di accesso alla giustizia, sostenendo le
richieste delle comunità locali.
La
stessa Cassa Depositi e Prestiti deve adottare questi meccanismi al più presto.
Nella
sua prefazione al Rapporto Ivana Borsotto, Presidente Focsiv sostiene come sia
indispensabile un processo di cambiamento e come questo dipenda “in gran parte
dalla cooperazione e dalle spinte delle lotte dei contadini e dei popoli
indigeni, soprattutto delle comunità più vulnerabili, che sono accompagnati
dalle associazioni della società civile di FOCSIV, CIDSE e non solo.
Sono le lotte per i diritti umani e della
natura, per una vera democrazia dal basso, che forgiano la speranza di un mondo
migliore, senza accaparramenti e con una maggiore capacità di gestire in modo
nonviolento i conflitti. – aggiunge più avanti –
Questo
processo di cambiamento è indispensabile e dipende in gran parte dalla cooperazione
e dalle spinte delle lotte dei contadini e dei popoli indigeni, soprattutto
delle comunità più vulnerabili, che sono accompagnati dalle associazioni della
società civile di FOCSIV, CIDSE e non solo.
Reiteriamo,
quindi, la richiesta dell’aumento dell’aiuto pubblico allo sviluppo, affinché
raggiunga lo 0,70% del reddito nazionale lordo, e la sua destinazione a favore
prioritariamente di programmi per l’agroecologia, e per il sostegno ai
difensori dei diritti umani.”
Il
Rapporto indica come sia importante ridare forza e cogenza al Comitato Mondiale
per la Sicurezza Alimentare, che ha già concordato linee guida volontarie per i
regimi fondiari, la cui applicazione è però insufficiente.
Servono
regole obbligatorie, ma ci sono anche delle buone notizie che provengono dalla
crescente introduzione di regolamenti e proposte di dovuta diligenza che
provengono dall’Unione Europea.
Proposte
che devono migliorare così come l’attuazione dei regolamenti già esistenti.
Il
Rapporto indica 10 raccomandazioni che vanno nella direzione di una
ristrutturazione del sistema alimentare internazionale, che possa sostenere il
diritto alla terra delle comunità contadine e dei popoli nativi.
Raccomandazioni
che sono rese ancora più urgenti a seguito delle conseguenze della guerra in
Ucraina che stanno accrescendo l’insicurezza alimentare dei paesi più
vulnerabili e la competizione geopolitica sulle risorse naturali.
È
urgente una riforma del sistema multilaterale per gestire le tensioni tra i
grandi poteri geopolitici, dare voce ai popoli impoveriti e proteggere i
diritti alla terra delle comunità locali.
(abbiamorisoperunacosaseria.it
#risoxunacosaseria)
(Monthly
report n.12) La globalizzazione
si è
rotta: verso un nuovo ordine mondiale.
Lindipendente.online
– Editoriale – (18 LUGLIO 2022) – ci dice:
È
uscito il dodicesimo numero del Monthly Report: la rivista de L’Indipendente
che ogni mese fa luce su un tema che reputiamo di particolare rilevanza e non
sufficientemente trattato sul mainstream.
La
globalizzazione si è rotta, il mondo a un punto di svolta verso un nuovo ordine
mondiale: questo il titolo del nuovo numero che attraverso 40 pagine fitte di
inchieste, approfondimenti e interviste ci porta a conoscere un tema di
rilevanza assoluta, acuito dallo scoppio del conflitto ucraino.
L’editoriale
del nuovo numero: Da Genova a Kiev, e ritorno.
A
Genova, nel 2001, in centinaia di migliaia provarono a farlo capire a tutti:
questa globalizzazione provocherà disastri.
Perdita
di sovranità alimentare e migrazioni forzate nei paesi poveri, impoverimento e
abbattimento delle tutele in quelli ricchi, invasione di prodotti da ogni parte
del mondo, devastazione ecologica, nuove guerre per il possesso delle risorse.
Il movimento no global venne brutalmente
caricato, infiltrato, pestato, gassato, colpito a sassate e persino a colpi di
pistola, da migliaia di uomini in divisa che avevano ricevuto l’ordine politico
di non avere pietà.
Più in
alto, nelle stanze dei bottoni del potere politico e mediatico, si lavorò di
pura propaganda per mesi terrorizzando i cittadini-telespettatori con le storie
sui manifestanti violenti, le finte molotov e i terribili black bloc in realtà
pieni di agitatori infiltrati dallo stato.
Un
ragazzo di nome Carlo con un estintore vuoto in mano a sette metri di distanza
da una camionetta dei carabinieri fornì l’alibi finale.
Nelle strade italiane gli apparati dello stato
tornarono ad uccidere, e i media riuscirono a convincere la maggioranza che fu
per legittima difesa.
Chi
era in piazza ventuno anni fa aveva ragione. La storia lo ha dimostrato e una
sempre crescente maggioranza di cittadini se ne è resa conto.
Non è sensato un sistema dove una guerra in
Ucraina porta ad una carestia in Africa, dove un manipolo di aziende
multinazionali sono diventate talmente potenti da dominare gli Stati, dove
milioni di persone devono emigrare per sognare una vita dignitosa, dove per
contrastare la concorrenza della verdura proveniente dall’estero bisogna
riempire di schiavi sottopagati le campagne italiane.
Non è
sensato e infatti sta smettendo di funzionare.
O i
suoi architetti politici, ovvero Stati Uniti ed Europa, accetteranno di
discuterne con le buone oppure saranno costretti a farlo con le cattive.
È
questione di tempo.
Cina,
Russia, India, Iran, Venezuela, Argentina, Sudafrica, sempre più Paesi
pretendono di sedersi al tavolo dove andranno ridiscusse le regole.
Ma la
partita non sarà solo tra gli interessi contrapposti di Stati sempre più in
clima da terza guerra mondiale.
Le recenti rivolte indigene in Ecuador, la
nuova avanzata dei movimenti socialisti in America Latina e le proteste
oceaniche dei contadini indiani dimostrano che molti popoli nel mondo stanno
lottando e segnando importanti vittorie per riportare l’interesse dei tanti a
soppiantare quello dei pochissimi.
“Voi
G8, noi sei miliardi”, era uno degli slogan dei no global che ventuno anni fa
si fecero massacrare cercando di difendere le ragioni di tutti, inclusi quei
tanti che travolti dalla propaganda mediatica tifarono per la repressione.
Ancor
di più oggi la vera partita non è tra Usa e Cina o tra Europa e Russia.
La
vera partita è sempre la stessa: la difesa collettiva del genere umano contro un’esigua
minoranza di carnefici transnazionali.
“Targeted
Individuals”:
Individui
Presi di mira.
Conoscenzealconfine.it
– Massimo Mazzucco – (17 Novembre 2022) – ci dice:
Abbiamo
(luogocomune.net) già pubblicato un articolo su questo argomento nel 2019.
Oggi come allora, vale lo stesso avviso: si
tratta di tesi non dimostrabili, e l’articolo viene quindi pubblicato per
quello che è: uno sfogo da parte di una persona che vive queste problematiche,
e vorrebbe che l’argomento fosse più conosciuto sulla rete.
(Io stesso conosco da vicino una persona che
soffre di questi problemi, e vi posso garantire che la sua vita è tutto meno
che piacevole).
(Massimo
Mazzucco)
I
“targeted individuals”, ovvero gli individui mirati, sono persone prese di mira
da tecnologie ad onde elettromagnetiche chiamate “neuro weapons”, “psychotronic
weapons”, “armi ad energia diretta”, “V2K” e “MKUltra”.
Questi
individui subiscono maltrattamenti invisibili, quindi non dimostrabili, per cui
alcuni di loro scrivono le proprie testimonianze sui social quali Facebook,
Twitter e Instagram alla ricerca di altre vittime e per chiedere aiuto.
Sentono
voci che li perseguitano, li insultano, li deridono, li tormentano; subiscono
dolori fisici, perdita di memoria, annullamento del pensiero, molestie,
difficoltà a ragionare, pensieri forzati, fantasie forzate e altri
maltrattamenti.
Centinaia
di persone da ogni parte del mondo affermano l’esistenza e l’utilizzo di queste
tecnologie; persone che non si conoscevano prima, che vivono in città e nazioni
diverse e lontane, con situazioni familiari e lavorative differenti, di età
differente eppure con una cosa in comune: tutti affermano che qualcuno li sta
torturando con armi insolite, che arrivano nel cervello, che colpiscono il
fisico.
Le
loro accuse sono rivolte al proprio governo, alla CIA, all’FBI. Soprattutto
dopo la vicenda che ha coinvolto alcuni diplomatici che, mentre lavoravano
nelle ambasciate, hanno avuto malesseri e problemi inspiegabili, riconducibili
all’utilizzo di armi ad energia diretta.
Per saperne di più è sufficiente fare una
ricerca sulla “Sindrome dell’Havana” (Havana Syndrome).
Mentre
in maniera ufficiale ci dirigiamo verso il Meta-verso, verso situazioni
virtuali, verso l’interfaccia uomo tecnologia, verso l’installazione di chip sottocutanei
con cui magari comunicare col pensiero oltre che comandare la domotica di casa,
gli individui mirati gridano a gran voce che tutto questo già esiste, che non
servono il Meta-verso e i chip sottocutanei o nascosti in finti vaccini.
Esiste già una realtà grave e molto più
sofisticata.
Non si
possono ignorare queste grida. Qualcosa è nascosto tra le onde radio
elettromagnetiche e centinaia, forse migliaia, di testimoni lo affermano.
Cosa
sono le Armi Psicotroniche.
Chiamo
queste tecnologie armi psicotroniche perché durante le mie ricerche sulla
comunicazione mentale, circa vent’anni fa, avevo trovato pochissime notizie di
esperimenti con veggenti e medium in USA che utilizzavano onde psicotroniche
per comunicare con il pensiero.
Sono
tecnologie spaventose, le loro capacità si avvicinano molto all’onnipotenza.
Servono
principalmente al “controllo di massa”.
Per
controllo intendo un vero e totale dominio sui cervelli e sui corpi degli
esseri viventi.
Con
esse è possibile controllare anche le cellule più microscopiche.
Le
neuro armi si servono di onde elettromagnetiche per colpire il cervello umano e
fargli sentire suoni, voci, soffi, fischi; per fargli vedere immagini, ricordi,
fantasie, sogni; per far provare dolori fisici come emicranie, crampi, fitte,
intorpidimenti; per far provare sentimenti, sensazioni, emozioni.
Tutti
sappiamo che il cervello invia e riceve impulsi elettrici per comunicare con il
corpo; l’elettricità fa parte della natura umana ed ogni testo scientifico ne
parla.
Quindi
non è difficile capire che se il cervello si avvale di impulsi elettrici questi
si possono sostituire con altri impulsi elettrici per interferire sul normale e
naturale funzionamento.
Cosa
credete che farebbe un gruppo di criminali se si trovasse tra le mani una
tecnologia in grado di obbligare tutti a fare ciò che essi desiderano?
Esattamente
quello che è successo negli ultimi cento anni e forse più.
In molti ci chiediamo perché un’alta percentuale del
popolo si è lasciato abbindolare in questi ultimi anni ed ha accettato di farsi
iniettare sostanze non sperimentate, nonostante i tentativi da parte di
scienziati e medici seri di farli desistere.
Tutti
mascherati per proteggersi da un virus che nessuno ancora ha ben analizzato e
che, se curato con antinfiammatori, è facilmente gestibile.
Eppure, sembra che in pochi ragionino e
capiscano.
Chi li domina con le onde condizionanti ha
deciso per loro.
Le
vittime non possono capirlo perché i loro pensieri naturali e la loro
padronanza di sé è sostituita da comandi artificiali.
Storia
delle Tecnologie Condizionanti (Deduzione personale).
Tanti
anni fa un gruppo di tecnici-scienziati, studiando il cervello umano e le onde
radio, riuscì a costruire una tecnologia in grado di dominare la mente umana.
I ricchi dell’epoca pagarono moltissimo per
portare avanti le ricerche con l’unico obiettivo nel futuro di soggiogare gli
altri per aumentare il proprio dominio.
Così fu.
Le
onde elettromagnetiche furono diffuse ovunque fosse possibile e la loro
presenza fu giustificata dall’utilizzo militare, radiofonico, televisivo e,
attualmente, telefonico e satellitare.
Cominciò
così il più grande crimine della storia umana. L’umanità fu totalmente
soggiogata.
Con
l’ausilio di computer sempre più sofisticati e di programmi precisi fu
stabilito come dovevano essere le persone.
Interferirono sul DNA plasmando il corpo e
sostituirono il pensiero e il carattere, attivando programmi specifici per ogni
persona.
Il
modo di parlare e di muoversi, le idee, le passioni, le scelte di vita, i
sentimenti, i pensieri, i pregi, i difetti, gli orientamenti sessuali, la
salute e tutto ciò di cui è composto l’essere umano era scritto, ed è tutt’ora
scritto, nei programmi.
Così
hanno deciso la storia umana nell’ultimo secolo (o più) gestendo il commercio,
la politica, le guerre, le carestie, ecc.
Anche
le condizioni atmosferiche non furono risparmiate e dominandole hanno potuto
causare siccità e alluvioni, tempeste e mutamenti climatici.
Ma
dove si nascondono gli spietati criminali che usano queste tecnologie?
Come fanno
a non rimanere condizionati anch’essi?
Dove sono le armi psicotroniche?
Il
sospetto che parte delle armi si trovino su alcuni degli oltre 2000 satelliti
esiste (se non su tutti).
Ripetitori
di onde radio e satelliti captano le onde psicotroniche e le divulgano su tutto
il pianeta. Tutti gli esseri viventi sono sotto controllo ovunque sono presenti
le onde radio. Negli ultimi anni, tuttavia, numerose vittime sono state messe a
conoscenza della situazione e riunite sotto il nome di “targeted individuals”.
Chi
gli crederà senza prove? Come possono provare crimini invisibili? Essi stessi e
quello che dicono sono le prove e devono bastare.
Siccome
queste tecnologie utilizzano onde radio non è impossibile per le tecnologie
militari di oggi poter individuare quali sono e da dove vengono trasmesse.
Individuati
i covi delle organizzazioni criminali si potrà procedere alla loro cattura con
la conseguente liberazione dai condizionamenti.
Sorgono
comunque altre domande importanti: è davvero possibile liberare gli esseri
umani assoggettati senza arrecargli danni fisici o la morte? Se fossero proprio le onde
elettromagnetiche a tenerli in vita?
L’autrice
di questo articolo ha chiesto di restare anonima.
(Massimo
Mazzucco--
luogocomune.net/30-scienza-e-tecnologia/6117-targeted-individuals-individui-presi-di-mira)
ORGOGLIO
E PREGIUDIZIO
(E
L'ELEGANTE SCAFANDRO DI ALICE).
Elbareport.it
- Graziano Rinaldi - Sergio Rossi – (16 Novembre 2022) – ci dicono:
Dopo
due anni di emergenza sanitaria, era auspicabile un libero dibattito e una
riconciliazione ragionata sulla base dei dati epidemiologici e scientifici
elaborati e pubblicati nel frattempo in tutto il mondo.
Invece,
anziché confrontarsi e prendere atto degli errori e dei successi nella
prevenzione e cura della malattia (uso una terminologia “neutra”, perché se
voglio pubblicare sui social non posso usare la parola covid, in barba alla
libertà d’espressione garantita costituzionalmente), vediamo che si continua come niente
fosse contro i sanitari che hanno scelto di non sottoporsi alla vaccinazione
obbligatoria.
I
medici e gli altri sanitari che da “eretici” già dal marzo 2020 hanno curato a
domicilio i propri pazienti con farmaci di facile ed economica reperibilità,
talvolta con enorme sacrificio umano, evitando così l’ospedalizzazione di
decine di migliaia di pazienti ed ottenendo un successo terapeutico neanche
paragonabile con la tachipirina e vigile attesa prevista dal protocollo
ministeriale, ebbene proprio loro, che in un mondo normale dovrebbero essere premiati,
sono ancora, contro ogni evidenza logica e scientifica, stigmatizzati ed
emarginati.
Se
questa ferita non sarà elaborata con sincerità e lontano dagli interessi
finanziari e geopolitici che pesano come macigni su tutta la questione,
diventerà un’altra malattia cronica del nostro paese, dove l’ideologia
strumentalizza la storia e divide le persone per meglio controllarle.
Per la
pacificazione ci vuole però il coraggio e la volontà d’impegnarsi ognuno nel
proprio personale e, contemporaneamente nell’azione collettiva: la pillola
rossa è dura da buttare giù.
In questa difficile digestione può aiutarci la
volontà e la capacità di ascoltare chi non si è irreggimentato: non sono tutti
delle mammole è vero, e ci vuole discernimento, ma la prima regola è un bel
digiuno dalla televisione e dalla stampa di proprietà di chi ha interessi
finanziari nelle industrie farmaceutiche e nelle fabbriche di armi, nonché da
chi è da sempre filo governativo.
Un po’
di silenzio mediatico fa bene al cuore e regala il tempo per leggere il
programma dei nuovi padroni del mondo.
Mi permetto
di consigliare tra le opere di Klaus Schwab, “La quarta rivoluzione
industriale”.
Del
circolo di Davos, di cui Schwab è il leader (il nuovo Dio terreno! Ndr.), fanno parte tanti “giovani”
governanti, giornalisti e intellettuali progressisti e conservatori, ben
assiepati intorno a chi detiene le redini del mondo finanziario contemporaneo.
Una
volta informata, la persona ha il diritto di scegliere in quale mondo vorrebbe
vivere.
Se
però non si conosce l’obbiettivo delle élite mondiali, è facile che il popolo
si accapigli su ciò che è irrilevante e distolga lo sguardo dai suoi Reali
interessi.
(Graziano
Rinaldi)
Ognuno
a questo mondo è libero di manifestare i più estremi pensieri: che la terra sia
piatta, che esistano gli alieni, o che si possa guarire qualsiasi malattia con
l'acqua di Lourdes o ancora con quell'altra (lucrosissima e Big Pharma non
c'entra) acqua fresca dei cosiddetti preparati omeopatici.
Ora
ristabilito il diritto di alcuni (per fortuna pochi) operatori sanitari di
esercitare una professione medica pur avendone contestato le
"ufficiali" fondamenta scientifiche, in coerenza con le convenzioni
loro, mi si permetta di porre attenzione sull'esercizio di un altro diritto.
Credo
che un cittadino "normale", come me, abbia il diritto di cautelarsi,
e di evitare di essere "curato" da chi non crede nel dettato della
scienza (condiviso dalla pressoché totalità delle autorità nazionali ed
internazionali del settore).
Sia
chiaro, io non voglio appiccicare la targhetta "no-vax" sul camice di
nessuno, ma le autorità sanitarie devono tutelarmi, perché io di un operatore
sanitario No-Vax non mi fido e mai mi fiderò, finché la scienza (sì, quella
ufficiale, cioè l'unica) non gli darà ragione.
E poi
c'è il diritto di Alice (la chiameremo così) che spiego subito chi sia.
Alice,
infermiera fresca di laurea, è stata fiondata nell'inferno dei reparti Covid in
piena pandemia, a fare turni "scafandrati" e massacranti per quattro
soldi, a veder crepare umani di ogni tipo, perfino no-vax che avevano esordito
strappandosi la maschera dell'ossigeno, o addirittura facendosi beffe della sua
"mise" che non le consentiva di bere, mangiare, pisciare per ore.
E
nonostante ciò, nonostante le precauzioni, il Covid Alice se l'è beccato per
due volte.
Certo
è stata molto più fortunata di tanti tantissimi suoi colleghi che "alla
fine dei turni" hanno indossato poi un cappotto di legno, ma Alice avrebbe
tutto il diritto di non essere presa ulteriormente per il culo, e di non
fidarsi a sua volta (o no?) di eventuali compagni di lavoro
"negazionisti".
Scusate
la relativa "pacatezza" e non mi rispondete, non avrei proprio niente
altro da aggiungere.
Di
certezze ne ho poche, ma quelle che ho non le metto in discussione.
(Sergio
Rossi)
IL
POTERE PIEGA I POPOLI
ABOLENDO
LA PROPRIETÀ PRIVATA.
Opinione.it - Ruggiero Capone – (08 gennaio
2021) – ci dice:
Il
rapporto tra popolo e potere (o poteri) non è mai stato idilliaco, e
storicamente le conflittualità sono sempre state mediate da quelli che oggi
definiremmo corpi intermedi, ovvero religioni, tribuni del popolo, mafie,
sacerdoti, maghi, sindacalisti…partiti politici.
Va
detto che il potere ha sempre cercato di comprare i rappresentanti dei corpi
intermedi, quanto meno d’addomesticarli.
Inutile
ribadire che la storia dei popoli è diversa, ma presenta comunque similitudini.
Negli
ultimi duecento anni le aristocrazie storiche hanno pian pianino ceduto lo
scettro a quelle tecnologico-finanziarie.
Il rapporto tra popolo e nuovi padroni del
potere è stato comunque calmierato da corpi intermedi come chiesa, sindacati e
partiti politici (negli ultimi settant’anni si sono aggiunte le organizzazioni
internazionali).
Ma
oggi siamo ad una svolta epocale, ad una resa di conti, tra popolo e potere.
Questo perché il potere non ha più bisogno del popolo, degli esseri umani.
Il
potere non ha più bisogno di braccia che lavorino nei campi o nelle fabbriche,
e nemmeno di tanti addetti alle manutenzioni edili ed urbane, troppi sono anche
insegnanti ed impiegati, pericolosi gli autonomi dediti ad artigianato e
commercio.
Questi
ultimi rappresentano per il potere l’insidiosa classe che potrebbe azionare
l’ascensore sociale, tentando la prevaricazione economica nei riguardi del
potere consolidato.
Per
bloccare ogni tumulto, quindi evitare che vengano insidiati i poteri, è stato
siglato un patto di stabilità tra i gruppi mondiali che detengono il potere.
Il patto tra poteri (amministratori di gruppi
finanziari, multinazionali tecnologiche ed industria della sicurezza) prende il
nome di “Great Reset”, ed è stato siglato al Forum di Davos circa vent’anni fa,
nel 2001: durante quell’appuntamento, dal titolo “Global information technology report”, si definirono a Davos le basi del
“Great Reset” di Klaus Schwab.
Il 2 gennaio 2021, Maurizio Blondet ha pubblicato un
estratto dell’Economist (settimanale di Sir Evelyn de Rothschild) in cui si
acclarano i postulati di quello storico accordo di Davos:
ovvero
soppressione della proprietà privata, limitazione della mobilità dei popoli,
limiti al lavoro creativo ed individuale, introduzione della moneta elettronica
per scongiurare risparmio individuale ed accumulo di danaro fuori dal controllo
dei sistemi bancari, rafforzamento delle norme di sicurezza al fine di
controllare l’agire degli individui.
Norme
e metodiche che, i potenti di Davos diretti d Klaus Schwab hanno fatto digerire
alle politiche nazionali come antidoto alla distruzione del pianeta.
In
pratica la salvaguardia del Pianeta verrebbe garantita con la schiavitù dei
popoli.
Nicoletta
Forcieri ha già documentato la mitica riunione di Davos sulla web-tv ByoBlu,
determinando l’ira del conformismo mediatico italiano: non dimentichiamo che
gran parte dei giornalisti italioti gradivano essere ospiti negli alberghi di
Davos.
Nel
2016 il piano del Forum di Davos viene illustrato dall’Istituto Mises: ovvero
diviene di dominio pubblico la volontà del potere di abolire la proprietà
privata.
Il titolo di quel rapporto (e programma) è “No privacy, no property: the world in
2030 according to the Wef”.
Quindi
entro il 2030 i potenti della terra contano d’aver convinto tutti gli stati del
pianeta ad abolite per legge la proprietà di alloggi e strumenti di produzione.
In questo progetto del potere si rivela
provvidenziale la pandemia da Covid, che sta di fatto agevolando la
criminalizzazione del lavoro umano (valutato come primo fattore
d’inquinamento), del turismo di massa e della socializzazione umana in genere.
La
pandemia sta anche favorendo il depauperamento del risparmio individuale di
coloro che non sono parte del sistema: ovvero tutti gli individui che non
lavorano per entità statali e multinazionali.
Perché il Great Reset di Klaus Schwab prevede
che debbano essere chiuse tutte le attività individuali artigianali e
commerciali, e per favorire l’accordo unico tra grande distribuzione e
commercio elettronico.
Obiettivo dei signori di Davos e di Klaus
Schwab è far decollare il reddito universale (la “povertà sostenibile”) entro
il secondo trimestre 2021: sarebbero proprio artigiani e commercianti a dover per primi
abbandonare le rispettive attività per piegarsi ad un programma di “povertà
sostenibile”.
La pandemia s’è rivelata fondamentale per
l’opera di convincimento al non lavoro.
“Oltre
la privacy e la proprietà” è una pubblicazione, per il World economic forum,
dell’ecoattivista danese Ida Auken (dal 2011 al 2014 ministro dell’Ambiente
della Danimarca, ancora membro del Parlamento danese) e parla d’un mondo “senza
privacy o proprietà”: immagina un mondo in cui “non possiedo nulla, non ho
privacy e la vita non è mai stata migliore”.
L’obiettivo
è entro il 2030 (scenario di Ida Auken) che “lo shopping e il possesso sono
diventati obsoleti, perché tutto ciò che una volta era un prodotto ora è un
servizio.
In
questo suo nuovo mondo idilliaco, le persone hanno libero accesso a mezzi di
trasporto, alloggio, cibo e tutte le cose di cui abbiamo bisogno nella nostra
vita quotidiana”.
I
poteri si sono inseriti in questi disegni utopici e, per fare propri tutti i beni dei
popoli, hanno
elaborato la trappola della “povertà sostenibile”, il reddito di base garantito.
Antony
Peter Mueller (professore tedesco di Economia) sottolinea che questo progetto
va oltre il comunismo più estremo.
“L’imminente
esproprio andrebbe oltre anche la richiesta comunista – nota Mueller – questa
vuole abolire la proprietà privata dei mezzi di produzione, ma lascia spazio ai
beni privati.
La
proiezione del Wef afferma che anche i beni di consumo non sarebbero più
proprietà privata (…) secondo le proiezioni dei “Global future Councils” del
Wef, la proprietà privata e la privacy saranno abolite nel prossimo decennio.
Le persone non possederanno nulla. Le merci
sono gratuite o devono essere prestate dallo Stato”.
“La
proprietà privata è di ostacolo al capitalismo”, afferma l’Economist nel suo
elogio alle politiche del Forum di Davos.
L’Fmi
(Fondo monetario internazionale) ha sposato il programma del Forum di Davos,
infatti è partito il programma mondiale di reset del debito: in cambio gli
stati con maggiore debito pubblico sarebbero i primi a dover garantire ai
poteri che i cittadini perdano per sempre la proprietà privata di qualsiasi
bene.
E chi gestirebbe i beni confiscati?
Le élite straricche (esenti tasse), che
pensano di risolvere il problema abolendo mondialmente la proprietà privata,
hanno già predisposto un unico fondo planetario che controlli i diritti sui
beni e terreni.
L’idea,
davvero utopica, veniva per la prima volta paventata da George Soros nel 1970,
due anni dopo la sua invenzione degli “hedge fund”: il cosiddetto “sistema
finanziario buono” che convinse moltissimi hippie sessantottini a trasformarsi
in yuppies finanziari di successo.
Ora
che il pianeta è ancor più bruciato dai debiti, gli stessi tentano di
reinterpretare Karl Marx e Friedrich Engels, e questa volta lo fanno
raccontandoci che c’è in “dispotismo asiatico buono” e che poggia sull’“assenza
della proprietà privata…chiave della pace per i popoli”.
Un
particolare, non secondario per noi italiani, è che ai passati Forum di Davos
era ospite fisso Gian Roberto Casaleggio (fondatore dell’omonima azienda che
controlla i 5 Stelle): ne deriva che, su noi italiani potrebbe abbattersi la
sperimentazione d’abolizione della proprietà privata.
Un
programma che partirebbe certamente con una modifica costituzionale: del resto
l’Unione europea chiede da almeno un decennio che lo stato ponga limiti alla
libertà privata in Italia (circa l’80 per cento dei cittadini italiani vivono
in case di proprietà).
Ecco
che i pignoramenti europei, che dovrebbero colpire i proprietari anche per
minimi importi, agevolerebbero la transizione delle proprietà italiane verso un
fondo immobiliare europeo.
Poi la
carestia e la mancanza di danaro che decollerebbero entro luglio 2021
(interruzione programmata delle catene di rifornimento) darebbero alla società
la grande instabilità economica utile alla svendita dei beni ai grandi gruppi
finanziari:
i “compro casa” (collegati alle grandi
finanziarie) stanno affacciandosi al mercato insieme ai “compro oro”.
Di
fatto, i potenti della terra (orchestrati da Klaus Schwab! Ndr.) stanno riportando l’orologio della
storia al tempo di sumeri, babilonesi ed egiziani pre-ellenistici: quindi a
prima che il diritto romano desse certezza alla proprietà privata.
Quest’ultima
garantiva la libertà dei cittadini, la loro non sudditanza verso un unico
padrone, era meritocratica perché costruita da colui che lavorava e
risparmiava.
Ecco perché lo scrivente condivide le parole
(e l’appello) di Maurizio Blondet: “Ciò che viene venduto al pubblico
come promessa di uguaglianza e sostenibilità ecologica è in realtà un brutale
assalto alla dignità umana e alla libertà”.
Del
resto, il discorso di buon anno di Angela Merkel non lascia spazio a
fraintendimenti: la potente tedesca ha detto che necessita colpire giudiziariamente i
pensatori complottisti, istituendo un reato europeo di negazionismo che
permetta di punire chi critica verità processuali, giudiziarie, finanziarie e
scientifiche.
La
proprietà privata, ed il lavoro libero ed individuale, danno all’uomo libertà e
lo sottraggono all’omologazione ordinata dai potenti.
L’Occidente
sta accettando supinamente una dittatura da cui è difficile sortire, perché
sicurezza informatica, forze di polizia (eserciti e security di
multinazionali), magistratura e governi sono illuminati dai potenti di Davos.
Ed i
potenti gestiscono il potere come la propria fattoria, parafrasando il
dittatore paraguaiano Alfredo Stroessner:
in
Paraguay le forze dell’ordine giuravano fedeltà al potere.
Quest’ultima
è consuetudine in tutte le multinazionali, le stesse che oggi stanno
subentrando al controllo degli stati democratici.
Abbiamo
accettato di tutto,
ora i
padroni del mondo
passano
all’incasso definitivo.
Ilcambiamento.it
- Paolo Ermani – (18-02-2022) – ci dice:
Abbiamo
finito per accettare di tutto e ora i "padroni del mondo" passano
all'incasso definitivo, completo, totale. Continuiamo ad accettare?
Abbiamo
accettato di mangiare cibo avvelenato.
Abbiamo
accettato di bere acqua avvelenata.
Abbiamo
accettato di respirare aria avvelenata.
Abbiamo
accettato di lavorare in luoghi artificiali facendo sempre le stesse inutili,
noiose, insensate attività.
Abbiamo
accettato di spendere la nostra esistenza di fronte a degli schermi piuttosto
che di fronte a esseri vivi.
Abbiamo
accettato di vivere in città orrende di asfalto e cemento, inquinate,
stressanti, in cui il concetto stesso di vita è un lontano ricordo.
Abbiamo
accettato di indebitarci e spendere cifre ingenti per poter comprare quello che
comprano gli altri.
Abbiamo
accettato di credere che se non compravamo quello che ci diceva la pubblicità
eravamo poveri.
Abbiamo
accettato di chiuderci in casa a tripla mandata perché la fuori c’è solo
pericolo.
Abbiamo
accettato di cancellare il concetto di comunità e rimanere da soli contro
tutti.
Abbiamo
accettato di dare il termine amicizia a emeriti sconosciuti virtuali.
Abbiamo
accettato di essere solo merce nelle mani degli esperti di algoritmi.
Abbiamo
accettato di dare qualsiasi nostra immagine in pasto al mondo senza alcuna
vergogna.
Abbiamo
accettato di inquinare mezzo pianeta per passare qualche giorno di vacanza in
paesi esotici.
Abbiamo
accettato di fare lavori dannosi per noi, gli altri e l’ambiente.
Abbiamo
accettato di perdere tutti i diritti in cambio di un'auto nuova, una vacanza di
lusso, un televisore grande come una parete.
Abbiamo
accettato di dare ai soldi il primo e unico posto nella nostra vita.
Abbiamo
accettato di far definire la nostra personalità da un vestito, un orologio, un
profumo.
Abbiamo
accettato di essere educati e far educare i nostri figli dalla televisione
prima e dalla televisione e il cellulare poi.
Abbiamo
accettato di non chiederci perché i nostri figli dovessero stare chiusi e
immobili in quattro mura a imparare nozioni dalla dubbia utilità per i più
vivaci anni della loro vita.
Abbiamo
accettato di delegare qualsiasi scelta fondamentale della nostra vita a esperti
prezzolati.
Abbiamo
accettato di non preoccuparci affatto delle conseguenze delle nostre scelte.
Abbiamo
accettato di non pensare mai, se non raramente e solo per beneficenza, al grido
di dolore della gran parte dell’umanità che anche grazie a quello che abbiamo
accettato si dibatte tra disperazione, miseria, guerra e fame.
Abbiamo
accettato di mettere i nostri soldi in banche, assicurazioni, fondi di
investimento che li usano in tutti i modi possibili per rendere il mondo un
luogo pessimo e invivibile.
Abbiamo
accettato che la natura, gli animali, gli habitat venissero distrutti
irreparabilmente senza che questo ci interessasse.
Abbiamo
accettato di fare dei nostri paesi delle discariche a cielo aperto.
Abbiamo
accettato di fare del mare ovunque un tappeto di rifiuti.
Abbiamo
accettato di non vedere, non sentire, non parlare.
Abbiamo
accettato che la libertà fosse scegliere fra un'automobile blu e una rossa.
Abbiamo
accettato di credere alle pubblicità quindi di essere trattati da persone
incapaci di intendere e di volere.
Abbiamo
accettato di eleggere persone che palesemente, pervicacemente e costantemente
ci danneggiano e ci prendono in giro.
Se ora
il sistema che ci ha offerto tutto questo, e che noi abbiamo accettato, ci
offre una roulette russa con tanto di firma del consenso, per quale motivo
dovremmo indignarci?
Se
della libertà, dei diritti, della coscienza, della conoscenza, della tutela del
nostro ambiente, quindi della nostra casa e della nostra salute, non ci è mai
interessato granché, per quale motivo ora dovremmo stupirci di chi, forte del
nostro coma profondo, passa all’incasso completo?
Non è
il naturale, ovvio, assolutamente prevedibile epilogo di tutte le nostre
scelte?
In
fondo si tratta solo di aver accettato troppe volte la drammatica banalità del
male.
Iniziare
a non accettare più è la strada verso un mondo e una vita che abbia un futuro
degno di questo nome.
Quando
l’America decise
di
dominare il mondo.
Linkiesta.it
– Redazione – (12 novembre 2020) – ci dice:
L’egemonia
degli Stati Uniti nel secondo Dopoguerra non è avvenuta per caso e non è stata
soltanto il risultato dell’intervento contro nazisti e giapponesi, ma frutto di
una precisa scelta da parte delle élite del Paese e dell’Amministrazione
Roosevelt.
Oggi
le cose sono cambiate, nota lo storico Stephen Wertheim nel suo nuovo libro
“Tomorrow, the World” e spiega perché in una lunga intervista al Washington
Post.
L’opinione
pubblica mondiale riflette da tempo sul nuovo ruolo degli Stati Uniti,
superpotenza incontrastata dalla caduta del muro di Berlino in poi, e oggi
relativamente meno egemone a causa della crescita impetuosa della Cina.
La globalizzazione è in gran parte frutto
dell’ascesa americana, cominciata dopo la Seconda guerra mondiale in contrapposizione
al nazismo e allo stalinismo, rinforzata dalla caduta degli imperi europei e
estremamente visibile nel ruolo preminente di Washington in tutte le
organizzazioni internazionali.
Secondo
lo storico Stephen Wertheim, il processo che ha portato l’America a diventare
il numero uno non sarebbe frutto del caso, ma di una “decisione consapevole”
che ha sfruttato a proprio vantaggio i vuoti lasciati dagli aspiranti
concorrenti.
Una
scelta che, come spiega al Washington Post in occasione della pubblicazione del
suo nuovo libro, “Tomorrow, the World”, sarebbe stata presa dalle élite di
Washington non in conseguenza del secondo conflitto mondiale, ma già da prima,
e che trova consenso nella popolazione: disporre del più potente e costoso
esercito del mondo è, per gli americani, tuttora motivo di orgoglio.
Come
testimonia il Boston Review, per gli americani l’esercito si conferma
l’istituzione più affidabile.
Tuttavia,
non è sempre stato così: gli americani hanno vissuto varie fasi nella loro
storia, e la volontà di occuparsi in primo luogo del proprio benessere senza
interferire in ogni faccenda esterna è sempre stata presente.
Questa
tendenza è prepotentemente riemersa durante la campagna elettorale del 2016,
che aveva rilanciato il dibattito sul ruolo degli Stati Uniti nel panorama
globale, ed è stata portata avanti dalla presidenza Trump, che ha basato parte
della sua politica estera e interna sull’assunto che l’America non dovesse più
essere la “polizia” del mondo.
Un
atteggiamento di relativa chiusura che non è limitato all’elettorato trumpiano,
ma che raccoglie una condivisione ampia in tutti gli orientamenti politici.
Wertheim
è molto coinvolto in questo dibattito, non soltanto dal punto di vista storico:
pochi
anni fa ha contribuito a fondare il Quincy Institute for Responsible
Statecraft,
un think tank di Washington sostenuto tanto dal finanziere liberale George Soros
quanto dal miliardario di destra Charles Koch, che incoraggia la moderazione degli
Stati Uniti nella geopolitica e un allontanamento dalla politica estera
militarizzata.
Appena
scoppiò la guerra in Europa, racconta Wertheim, il Council on Foreign Relations riunì un centinaio di esperti per
elaborare possibili strategie postbelliche.
«Furono
coinvolti alcuni personaggi particolarmente in vista, come il futuro direttore
della Cia Allen Dulles. C’erano anche figure altrettanto influenti ma oggi
dimenticate, come Hamilton Fish Armstrong, editore del Foreign Affairs
Magazine, e Whitney Shepardson, un uomo d’affari che sognava di unire tutto il
mondo anglofono» racconta Wertheim.
Tra i
due gruppi, la tesi dei sostenitori di quella che viene definita «post-war
dominance», cioè del primato americano costruito nel dopoguerra, prevalse.
Non
soltanto a causa della necessità di porre fine al pericolo totalitario che
stava crescendo in Europa e in Asia, ma anche perché furono molto bravi a
presentare l’intervento nella seconda guerra mondiale e la proiezione militare
globale negli anni successivi come due facce della stessa medaglia.
Così
facendo, aiutati dall’Amministrazione Roosevelt, che condivideva la stessa
impostazione, riuscirono a categorizzare come “isolazionisti” chi invece non
sosteneva che gli americani dovessero disinteressarsi del mondo, ma proponeva
un’altra strada, non per forza fondata sullo strapotere militare.
Wertheim
sostiene che «Non esisteva una tradizione di isolazionismo negli Stati Uniti,
punto.
I
molti americani che si opposero all’ingresso nella seconda guerra mondiale,
prima di Pearl Harbor, credevano che gli Stati Uniti dovessero difendere con la
forza l’intero emisfero occidentale e credevano che l’impegno americano nel
resto del mondo dovesse esser basato sul commercio e su altre forme di interazione.
Molti
di loro si consideravano internazionalisti, perché gli internazionalisti
aspiravano da tempo a tenersi fuori dal sistema di potere centrato in Europa.
E invece questa corrente di pensiero fu
etichettata come “isolazionista” da un altro gruppo che decise, sulla scia
delle conquiste naziste, che l’ordine mondiale poteva essere assicurato solo
attraverso una forza armata preminente.
Così,
chiedere di frenare il potere militare americano finì per sembrare un atto di
egoismo».
Pur
riconoscendo che la resa incondizionata delle potenze dell’Asse sia da
annoverare tra i più grandi trionfi degli Stati Uniti, Wertheim spiega di voler
invitare i lettori a considerare se sia strategicamente sano trovarsi nella
situazione in cui è oggi l’America:
«La politica
estera degli Stati Uniti dovrebbe derivare da un’analisi approfondita degli
interessi del popolo americano.
Se gli interessi degli Stati Uniti necessitano
davvero la preservazione di una capacità militare così elevata, allora i
politici dovrebbero agire di conseguenza e mantenerla.
Il
problema è che gli Stati Uniti ora fondono i loro interessi vitali con la loro
posizione di potere nel mondo.
E
quindi il dominio armato è diventato fine a sé stesso.
Come
molti americani riconoscono, questo atteggiamento riflette una mentalità
imperialista e corrompe anche la strategia, perché piuttosto che agire per
difendere gli Stati Uniti e garantire le condizioni di prosperità dei cittadini
americani, i leader statunitensi agiscono prima di tutto per preservare il
dominio mondiale dell’America.
L’enorme
ruolo mondiale dell’America non durerà per sempre e dovremmo cominciare a
occuparci di questo».
Una
tesi non molto lontana da quella portata avanti da Donald Trump durante la sua
presidenza (forse inconsciamente, come ha sottolineato l’Atlantic), e che in
parte probabilmente condivide anche il nuovo presidente Joe Biden.
Una similitudine che nota anche Wertheim:
«Penso che l’atteggiamento dell’opinione pubblica rispetto a questi argomenti
stia cambiando e che i leader politici stiano prendendo nota.
Le
elezioni di quest’anno sono state le prime in cui entrambi i candidati dei
principali partiti hanno riconosciuto che gli Stati Uniti erano impegnati in
una guerra “infinita” e hanno promesso di cambiare questa realtà.
È uno sviluppo notevole.
Sono
spesso sorpreso di quanto il pubblico americano sembri pronto per una politica
estera più pacifica.
Detto questo, c’è molto lavoro da fare. Il
complesso militare-industriale non è insormontabile, ma esiste ed è influente,
quindi la gara non può essere vinta semplicemente con la forza delle idee.
Il paese sta appena uscendo, credo, da un periodo
storico di “depoliticizzazione” che circonda il suo ruolo globale».
Un’America
meno ideologica, che potrebbe aiutare Joe Biden a ripristinare la credibilità
degli Stati Uniti nel mondo.
Il
nuovo Twitter
di Musk
che
sogna l’app per fare tutto.
Agendadigitale.eu
– Alessio Pecoraro – (16 Nov. 2022) – ci dice:
Far
pagare gli iscritti, moderazione dalle maglie larghe, tagli a migliaia e
l’obiettivo di una app unica con cui fare pagamenti, scambi di denaro, chat,
gaming, social, informazione, intrattenimento.
Una
sorta di agorà del futuro, in alternativa al meta-verso di Zuckerberg.
Elon
Musk, ormai lo sappiamo, ha acquistato Twitter per 44 miliardi di dollari, una
cifra monstre, soprattutto se diamo un’occhiata ai numeri della società.
Ma nel
caso del social dei cinguettii gli utenti non si contano, si pesano e quindi –
ad oggi – Twitter è a tutti gli effetti il social network più influente nel
dibattito politico e finanziario.
Siamo
certi che questo fatto non nasconda anche un lato industriale ancora da
scoprire?
Che
non ci sia un potenziale inesplorato nei dati di Twitter, oltre al valore
democratico del dibattito pubblico?
Il
nuovo Twitter tutto da scoprire.
Twitter,
nel 2021 ha registrato ricavi per 5 miliardi con un passivo di 221 milioni di
dollari.
Secondo il piano presentato da Parag Agrawal,
amministratore delegato di Twitter da settembre 2021 fino al passaggio di mano
a Musk, i ricavi del social di San Francisco possono crescere fino a 7,5
miliardi nel 2023.
Poco, soprattutto se confrontati con i numeri
di altri colossi del digitale come Meta o Alphabet.
Se ci
spostiamo per un attimo dai numeri – lo stesso Musk ha dichiarato di aver
acquistato Twitter senza guardare i libri contabili e le statistiche – infatti
secondo l’indagine “Social Media & Digital Trends 2022 di BlackLemon –
Twitter si trova “solo” al 15 esimo posto della classifica globale per numero
di utenti attivi (al settimo posto in quella italiana).
Musk
vuol far pagare gli iscritti. Funzionerà?
Se
pensiamo unicamente al Musk imprenditore (in questa sede non vogliamo
analizzare le ambizioni di decision maker) l’idea è quella di rovesciare il
paradigma comune a tutti i social media, ottenere entrate direttamente dagli
utenti invece di fare affidamento principalmente sugli inserzionisti.
Si
tratta di una strada percorribile?
Tanti
licenziamenti e qualche dietro-front.
Prima
di tutto per liberare il potenziale del social – che a differenza degli altri
business di Mr.Tesla non produce oggetti ma si tratta di una tech company pura
– si è reso necessario snellire la struttura con circa 3700 licenziamenti,
effettuati perlopiù con una fredda e-mail (anche se come riferiscono fonti
informate all’agenzia Bloomberg è stato chiesto di tornare a decine di
dipendenti che hanno perso il lavoro).
Una
decisione, quella di Musk, che pochi giorni dopo pare aver influenzato anche
Zuckerberg, CEO di Meta, che ai suoi collaboratori ha annunciato: “Ho deciso di
ridurre le dimensioni del nostro team di circa il 13% e di separarmi da 11.000
dei nostri talentuosi dipendenti “.
La
strategia di Musk.
Ma
torniamo a Twitter, il tycoon di Pretoria sarebbe a lavoro già da diversi mesi
per rendere – in tempi brevi – operativa quella che si preannuncia come una
vera e propria rivoluzione.
Un
abbonamento da 8 dollari al mese, per l’ormai famosa spunta blu che darebbe
diritto alla priorità in menzioni, risposte e ricerche, zero (o quasi) annunci
pubblicitari e possibilità di twittare video e audio (senza limiti di
lunghezza).
Secondo
Platform, rivista on-line della Silicon Valley, a Twitter starebbero lavorando
per rendere il social tutto a pagamento, bloccato da un paywall dinamico
(accesso progressivo in base al tipo di abbonamento).
Più
larghe le maglie dei moderatori di contenuti.
Non è
questa però l’unica novità.
C’è grande attesa anche per la moderazione dei
contenuti, il nuovo Twitter potrebbe allentare le regole di moderazione e
sbloccare una serie di utenti bannati, uno su tutti, l’ex Presidente degli USA
Donald Trump il cui account fu chiuso dopo l’assalto al Congresso Usa, per il
rischio di” nuove istigazioni alla violenza” da parte dell’ex Presidente che
aveva eletto Twitter a suo social di riferimento.
Sull’espulsione
di Trump, Musk aveva dichiarato: “Sbagliata dal punto di vista morale” e
“stupida fino all’estremo”.
Ma non si parla solo dell’ex Presidente.
Potrebbero
tornare attivi anche altri utenti che hanno sostenuto, senza alcuna prova,
varie teorie complottistiche o che hanno diffuso fake news di vario genere (sul
Covid e non solo).
E poi
Kanye West, rapper e produttore discografico, 31 milioni di followers, bannato
per un tweet dal contenuto eccessivamente violento e dai contenuti antisemiti.
Ma gli
inserzionisti potrebbero frenare.
Una
piattaforma con contenuti meno moderati di sicuro spaventerebbe – e non poco –
gli inserzionisti, proprio per questo Musk vuole diversificare il più possibile
le entrate ma non solo.
Il
sogno del super Twitter.
Quello
che immagina Musk è quindi un Super Twitter, una sorta di agorà del futuro, in
alternativa al meta-verso al quale sta lavorando – con scarsi risultati
rispetto alle previsioni – Mark Zuckerberg.
E
proprio in questa direzione c’è curiosità per il ruolo di Binance, l’exhange
cinese di criptovalute che fa capo a Changpeng Zhao che ha partecipato, con 500
milioni di dollari, alla scalata di Musk.
Una
app per tutto.
Solo
un’anticipazione o un primo passo verso “X” l’app per tutto che è il vero sogno
nel cassetto di Musk.
Ma
cos’è X?
Una
super applicazione capace di comprendere, al suo interno, un’ampia gamma di
servizi e funzioni, in modo da dare agli utenti un luogo in cui poter fare
tutto quello che desiderano: pagamenti, scambi di denaro, chat, gaming, social
network, informazione, intrattenimento e chi più ne ha più ne metta.
Il
rischio migrazione.
Twitter,
o meglio, il nuovo Twitter reggerà all’urto di Musk o il passaggio di mano e le
nuove funzionalità decreteranno una migrazione di massa verso nuovi lidi, come
spesso succede nel mondo dei social network?
Tra
tra il 20 e il 27 ottobre – secondo il CEO Eugen Rochko – 18mila utenti si sono
iscritti a Mastodonte e in tanti hanno utilizzato l’hashtag #TwitterMigration.
Ma non
è così scontata la migrazione da un social all’altro, come spiega il digital
strategist Cristiano Ferrari: “Non credo alle migrazioni da un social all’altro. Per
dire Friend Feed è scomparso, pur essendoci i cloni tecnicamente identici e
funzionanti all’epoca”.
I
tagli? Riguardano tutte le società tech.
Quanto
alla riduzione del personale, Twitter e Meta (leggi Facebook) sono solo la
punta dell’iceberg.
Tutte le società tech (big e meno big) sono alle prese
con tagli, nuove funzioni, nuovi “padroni del vapore” (Musk).
In
realtà l’arrivo di un visionario come Mr. Tesla può fungere da catalizzatore ad
un mondo, quello tech, alla ricerca di un modo nuovo, dopo il boom dovuto
all’emergenza pandemica, di intendere la dimensione digitale e la vita on-line
degli utenti.
Che, stando al nuovo numero uno di Twitter,
devono essere intesi sempre più come consumatori ai quali vendere, più che
offrire, servizi.
Meta vuole diventare un player globale
nei
cavi sottomarini con il progetto 2Africa.
Key4biz.it
- Piermario Boccellato – (16 Novembre 2022) – ci dice:
Meta
vuole diventare un player globale nei cavi sottomarini con il progetto INTERNET
2 Africa.
Meta
vuole rivoluzionare la connettività nel continente africano ma anche le proprie
esigenze di business: in Africa nel 2100 sarà presente il 40% della popolazione
mondiale.
Lo
scorso 8 ottobre a Marsiglia è arrivato 2Africa, il cavo sottomarino più lungo
del mondo, 45.000 chilometri (più della circonferenza della Terra) – pensato e
progettato da Meta.
Si
tratta di un progetto titanico: annunciato a maggio 2020, il sistema di cavi
2Africa, insieme alla sua estensione Pearls, è progettato per fornire
connettività su scala internazionale senza soluzione di continuità a circa tre
miliardi di persone, il 36% della popolazione globale, attraverso tre
continenti: Africa, Europa e Asia.
La
posa del cavo è stata affidata ad Alcatel Submarine Networks (ASN), uno dei
quattro produttori del settore insieme alla giapponese NEC, all’americana
SubCom e alla cinese Hengtong.
ASN ha
mobilitato l’intera flotta di navi portacavi per iniziare il dispiegamento
all’inizio del 2022.
Dopo
Genova e Barcellona, l'”approdo” a Marsiglia consentirà ora di mettere in
servizio la sezione mediterranea del cavo all’inizio del 2023.
Ma i
lavori completi saranno completati non prima del 2024.
2Africa:
tra 1 e 2 miliardi di euro di investimenti.
Perché
nonostante le sue attuali difficoltà, la società madre di Facebook, Messenger,
Instagram e WhatsApp sta finanziando questo tipo di infrastrutture critica?
Per
una buona ragione: oltre il 90% del traffico Internet globale passa attraverso
i circa 430 cavi in fibra ottica attualmente in servizio in tutto il mondo.
Fino a
poco tempo fa, i giganti della tecnologia si accontentavano di “affittare”
capacità su questi cavi dagli operatori di telecomunicazioni.
L’esplosione
del traffico web rende oggi più attraente per loro investire e diventare
comproprietari di queste infrastrutture.
Investire
in cavi non è necessariamente molto redditizio. Ma in questo modo Google e
Facebook possono essere padroni del proprio traffico.
Possono anche imporre le loro condizioni in
termini di prezzo e tecnologia.
Inoltre, il costo di un cavo sottomarino è
relativamente modesto rispetto ad altri tipi di investimenti come il
meta-verso.
Un
cavo sottomarino transatlantico costa quindi tra i 150 e i 300 milioni di euro.
Nel caso di 2Africa, Meta non fornisce cifre.
Ma
secondo gli addetti del settore sarebbero necessari tra 1 e 2 miliardi di euro.
Briciole
considerando che i Gafam non investono mai da soli. Così, come molti altri
cavi, 2Africa è il risultato di un consorzio creato nel 2020 in cui troviamo
Orange, Vodafone, China Mobile, l’operatore sudafricano MTN, i sauditi di STC,
Telecom Egypt e il grossista di telecomunicazioni panafricano WIOCC.
In
Africa il 40% della popolazione mondiale nel 2100.
Entro
il 2024 dunque 2Africa offrirà una capacità di 180 terabit, più della capacità
di tutti i cavi esistenti in Africa.
“Nel
continente, molti paesi hanno solo un cavo o due.
Quando
cade, gli stati sono tagliati fuori dal mondo.
È
quello che è successo in Mauritania nel 2020 quando il cavo si è rotto.
Con
2Africa, Internet sarà più sicuro, più affidabile, più veloce”, ha spiegato in
passato Cynthia Perret, Fiber Program Manager di Meta.
Ma
Meta non finanzia 2Africa solo per la grande causa della connettività in
Africa. Poiché i suoi ricavi diminuiscono per la prima volta nella sua storia,
l’azienda guidata da Mark Zuckerberg deve reclutare utenti e ringiovanire la
sua base.
Per
questo l’Africa, che nel 2100 ospiterà il 40% della popolazione mondiale
(rispetto al 18% di oggi), offrirà a Meta una grande riserva di crescita.
Zappia
(Schroders): il mio
racconto
della COP27.
Esgnews.it
– Redazione – Maria Teresa Zappia - (17 Novembre 2022) – ci dice:
Riportiamo
di seguito il commento a caldo sull’esperienza vissuta alla Cop27, le sfide e
le opportunità emerse in questa edizione, a cura di Maria Teresa Zappia, Deputy
CEO – BlueOrchard e Head of Sustainability and Impact -Schroders Capital.
Inizia
il mio viaggio di ritorno da Sharm El-Sheikh e rifletto sui giorni trascorsi
alla COP27.
Sulle
persone che ho incontrato, sulle storie che ho ascoltato.
La
prima cosa che mi ha colpito è la diversità delle sfide in fatto di crisi
climatica che molti mercati emergenti e di frontiera devono affrontare rispetto
alle economie più sviluppate.
In tre
giorni ho incontrato numerosi delegati provenienti da tutta l’Africa, ad
esempio, e questo mi ha ricordato le enormi differenze che abitano un
continente così vasto, dove le prospettive e le priorità variano notevolmente
da nord a sud, da est a ovest.
Per alcuni la priorità è rappresentata dalle
opportunità dell’idrogeno verde, per altri il capitale naturale nel bacino del
Congo.
Parlando
con altri ancora è emerso il loro focus sulla crescita delle energie
rinnovabili in Kenya e nell’Africa meridionale.
Al di
là delle differenze, un denominatore comune c’è: la questione “loss and damage “.
Ciò si
riferisce al fatto che i mercati sviluppati non hanno versato i 100 miliardi di
dollari all’anno promessi entro il 2020 per finanziare le iniziative sul clima
nei mercati in via di sviluppo.
Questa
promessa non mantenuta è ancora più sentita dato che gli impatti negativi dei
maggiori inquinatori del mondo colpiscono in modo sproporzionato proprio le
economie in via di sviluppo.
Molti
imprenditori del settore privato dei mercati emergenti stanno perdendo la
speranza che le economie sviluppate si facciano avanti con un’assistenza
sostanziale.
Sono
sempre più convinti di dover agire e di essere responsabili del proprio futuro.
Dopotutto, sono nella posizione migliore per conoscere le esigenze dei mercati
locali.
Sono
anche consapevoli del rischio di contrarre debiti in valuta forte, diventato ancora
più oneroso con il significativo rafforzamento del dollaro. In alcuni casi c’è
anche una resistenza ad affidarsi all’assistenza degli ex “padroni” coloniali.
Tra le
varie sessioni a cui ho partecipato, ho trovato particolarmente illuminanti
quelle dedicate alle popolazioni indigene.
Garantire
la loro inclusione è stata una delle sfide principali della conferenza.
Le
terre indigene contengono l’80% della biodiversità rimanente al mondo, quindi
ascoltare le voci e proteggere i diritti di queste popolazioni è fondamentale
per raggiungere gli obiettivi sul clima e sulla natura.
Sebbene
siano presenti alla COP, il loro status di “osservatori” designati dà loro poca
influenza sulle discussioni di politica climatica e io sono tra coloro che lo
ritengono inadeguato.
Anche
le istituzioni finanziarie per lo sviluppo sono state al centro dell’attenzione
di molti alla COP27.
La
portata delle sfide climatiche da affrontare è superiore ai bilanci degli aiuti
allo sviluppo e ai capitali delle banche di sviluppo.
Ciò significa che le collaborazioni tra
imprese, proprietari di asset e i gestori di investimenti sono l’unico modo per
moltiplicare i capitali e far sì che le iniziative chiave per il clima
raggiungano la scala necessaria per avere un impatto.
Si è
parlato molto di finanza mista, ovvero di partenariati pubblico-privato, in
particolare in relazione a iniziative innovative di finanziamento del clima che
non hanno ancora una storia consolidata e che presentano un rischio di tipo
venture capital, o nuovi concetti di asset class come il capitale naturale.
Le
autorità di regolamentazione spingono per una maggiore divulgazione dei rischi
climatici nei portafogli degli investitori e diverse metodologie sono in
competizione per essere le migliori della categoria; ad esempio, la
Science-based Targets initiative (SBTi), la Taskforce for Climate-related
Financial Disclosures (TCFD) e la Taskforce for Nature-related Financial
Disclosures (TNFD), solo per citarne alcune.
Si è
quindi discusso molto sulla disponibilità di dati, sulla misurazione delle
emissioni di anidride carbonica e sugli strumenti di rendicontazione che
possono guidare gli investitori e semplificare la loro vita in termini di
impatto sul clima oggi e come potrebbe essere domani.
Il
sogno di tutti è quello di avere un unico strumento a bassa manutenzione per le
diverse strategie – mitigazione, adattamento e capitale naturale.
Ho
anche trovato particolarmente stimolante la parte umana della COP27.
In un’epoca in cui le riunioni virtuali
dominano ancora la mia vita professionale, incontrarsi di persona con ex
colleghi, professionisti, investitori attuali e futuri, nonché con delegati
provenienti da tutto il mondo, è stato ristoratore e mi ha ricordato il valore
dell’interazione faccia a faccia.
Infine,
ho notato purtroppo un certo pregiudizio maschile. Un numero notevole di panel
e delegazioni era composto esclusivamente da uomini.
Forse
non sorprende che le sfide della diversità che il mondo aziendale e politico
devono affrontare si riflettano anche in conferenze importanti come questa.
Ecco perché voglio sperare in una maggiore
presenza femminile alle prossime COP.
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