DOMINIO MONDIALE UNIPOLARE.
DOTTRINA e TEORIA GEOPOLITICA
del
DOMINIO MONDIALE UNIPOLARE.
e la geopolitica anglo-statunitense.
Blog.ilgiornale.it
– Cristiano Puglisi – (23 agosto 2021) – ci dice:
Nonostante
quanto è accaduto in Afghanistan abbia risvegliato le opinioni attestanti un
loro supposto declino, gli Stati Uniti d’America sono ancora, almeno al
momento, l’unica superpotenza mondiale, intendendo questa definizione nel senso
classico.
Un
ruolo egemonico che gli Usa ereditarono, dopo le due guerre mondiali,
dall’Impero Britannico. Entrambi evidentemente di cultura anglosassone, questi
imperi condividono anche il medesimo destino geopolitico, quello che accomuna
le potenze talassocratiche. Basate, cioè, sul dominio dei mari.
Non è
forse azzardato sostenere che, senza una presa di coscienza di questa realtà,
del suo retroterra teorico e delle sue implicazioni, tutt’altro che secondarie,
sarebbe forse impossibile comprendere le logiche sottostanti alle scelte
strategiche di Washington e Londra negli ultimi due secoli.
Utile
per dissezionare l’universo concettuale e strategico alla base delle mosse
anglo-americane del presente e del passato può essere, allora, un saggio di
recente pubblicazione, opera di un brillante e giovane analista italiano, Marco
Ghisetti ed edito da Anteo.
Il
titolo dell’opera, “Talassocrazia. I fondamenti della geopolitica
anglo-statunitense”, illustra già in maniera chiara quali siano i suoi
contorni.
“Non vi è dubbio – spiega l’autore –
che vi sia una forte continuità tra l’Impero britannico e l’Impero
statunitense, tanto che si potrebbe dire che il secondo è l’erede legittimo del
primo.
Tale continuità è data non solo dalla forma e
dalla sostanza, ma anche dal filo rosso che lega le due esperienze imperiali: infatti, l’impero statunitense si è formato
ereditando quello britannico.
Ho
detto nella forma e nella sostanza perché entrambe le esperienze imperiali si
fondano e si mantengono sull’azione e la volontà di uno Stato-isola (il centro
dell’impero) che basa e promuove la propria egemonia per il tramite di un
doppio movimento – si potrebbe dire di sistole e di diastole – di isolazionismo
ed interventismo, ovvero di affermazione della propria insularità e di
proiezione anche aggressiva della propria potenza marittima ed
economico-finanziaria, oltre che da una particolare organizzazione e visione
del mondo di tipo mercatistico e liberale.
Inoltre, il loro pensarsi come uno Stato-isola
che si affaccia a ridosso di un continente di dimensioni molto più grandi
rispetto a loro (l’Europa per l’Inghilterra, l’Eurasia per gli Stati Uniti),
pone loro in una condizione per la quale l’eventuale unificazione ed
organizzazione economico-politica di quel continente comporterebbe il
definitivo tramonto della loro egemonia, poiché lo Stato-continente disporrebbe
di una potenza di molto superiore rispetto a quella dell’Isola.
Per
questa ragione, l’imperativo strategico che accomuna sia Inghilterra che Stati
Uniti è di prevenire l’unificazione di tale continente, giocando il ruolo di
bilanciatore d’oltreoceano ed inserendosi nelle delicate relazioni tra gli
Stati continentali.
Se
l’Inghilterra quindi si è impegnata per tutto il periodo colombiano (XVI-XIX
secoli) ad imporre e mantenere la propria egemonia marittima mentre giocava
sulle divisioni continentali dell’Europa, gli Stati Uniti nel periodo
post-colombiano (XX secolo-oggi) mantengono la propria egemonia marittima e
finanziaria mentre si impegnano a prevenire ogni tipo di coalizione o di
unificazione continentale”.
Il
libro analizza, in maniera dettagliata, il pensiero di tre personaggi:
l’ammiraglio Alfred Thayer Mahan (1840-1914), il geografo Halford John
Mackinder (1861-1947) e lo studioso Nicholas John Spykman (1893-1943).
Questi
tre individui sono stati forse i principali teorici al servizio dell’egemonia
anglo-statunitense, influenzandola ancora oggi.
Alfred
Thayer Mahan (1840-1914)
Halford
Mackinder (1861-1947)
“Il
loro pensiero – spiega Ghisetti – influenza enormemente sia le considerazioni
strategiche che l’orizzonte di senso con cui Inghilterra e Stati Uniti si
muovono nel mondo internazionale.
Innanzitutto,
è proprio loro l’idea secondo la quale Stati Uniti (Mahan, Spykman) e
Inghilterra (Mackinder) siano delle isole a ridosso di un grande continente
(l’Europa per l’Inghilterra, l’Eurasia per gli Stati Uniti);
continente, questo, che si caratterizza per
una forte divisione politica ma che se unificato ed organizzato da un attore
locale disporrebbe di una potenza tale da poter facilmente sconfiggere l’isola
egemone.
Per
questa ragione, la strategia primaria che è derivata da questa osservazione e
sistematizzata, pur tra alcune differenze nei dettagli, dai tre padri della
geopolitica anglo-statunitense consiste in un doppio movimento: da una parte
affermare la propria insularità (cioè distanza dal continente) per il tramite
di una politica isolazionista e di dominio egemonico degli oceani e,
dall’altra, di intervenire attivamente sul continente nell’ottica di mantenerlo
in un neutralizzante equilibrio, quando non addirittura favorire la diffusione
del potere (cioè il frazionamento degli Stati).
L’affermazione
della propria insularità ed il bisogno di dominare gli oceani per il tramite
della propria marina implica anche una forte spinta al dominio commerciale e
finanziario e, inoltre, una spinta a promuovere la caratterizzazione in chiave
liberale, economicista ed individualista della propria e altrui cultura.
Lo sviluppo dottrinale, le riflessioni e le
azioni che hanno caratterizzato Inghilterra e Stati Uniti hanno queste idee
come nucleo centrale, le eventuali differenze essendo non altro che le proposte
pratiche sul modo in cui sarebbe meglio promuovere i propri interessi.
Vi
sono certamente delle eccezioni, ma, appunto, rimangono eccezioni, ma i
portatori di queste idee vengono solitamente esclusi dalle stanze dei bottoni.
Per esempio, Mahan è piuttosto fiducioso circa la superiorità del potere marittimo
su quello terrestre; Mackinder, al contrario, ritiene che il potere terrestre
ha raggiunto, nell’epoca contemporanea, una tangibile superiorità rispetto a
quello marittimo, mentre Spykman si pone a metà tra i due.
Ma tutti e tre reputano il proprio Stato una isola che
deve svilupparsi in senso marittimo, liberale e che deve prevenire
l’unificazione del continente.
Si prenda Brzezinski, in quanto autore più
recente rispetto ai tre padri, come esempio.
Anche
egli afferma senza riserve che gli Stati Uniti sono un’isola circondata
dall’enorme continente eurasiatico e che l’interesse permanente degli Stati
Uniti sia quindi di mantenere tale continente in una situazione di mancata
unificazione.
Il
modo pratico per farlo dopo il crollo dell’Unione Sovietica e con un’Europa
colonizzata dagli Stati Uniti, secondo Brzezinski, è di frazionare gli imperi
continentali, imporre le forze statunitensi nelle zone di congiuntura e di
collegamento eurasiatico e prevenire il formarsi di un’alleanza anti-egemonica
tra Russia, Iran e Cina.
Insomma,
il nucleo del suo pensiero è ancora quello sistematizzato da Mahan, Mackinder e
Spykman.
La
medesima cosa vale per le nuove strategie di politica estera che Inghilterra e
Stati Uniti hanno appena pubblicato: entrambe si muovono ancora nel solco
tracciato dall’opera dei tre autori”.
Esistono
oggi le prospettive per un cambio di paradigma?
La
tellurocrazia (cioè il dominio della terra) può sfidare il potere del mare?
“Per
rispondere a questa domanda – afferma ancora Ghisetti – bisogna innanzitutto
capire quanto assoluta sia la diarchia tra talassocrazia, o potere marittimo, e
tellurocrazia, o potere terrestre.
È una
domanda importante a cui la letteratura ha dato non solo risposte, ma anche
interpretazioni diverse della domanda.
Mahan,
per esempio, mostra una forte sicurezza circa la prospettiva secondo cui la
vera sede del potere mondiale sia l’“oceano unito”, ovvero nell’unità degli
oceani raggiunta ed imposta dalla potenza navale e commerciale di uno Stato
egemone.
Quindi,
le sfide che gli Stati Uniti dovranno eventualmente affrontare, non possono che
venire da quegli attori che, dotati di una sufficiente profondità territoriale
e capacità organizzativa, sfideranno la potenza marittima egemone sul mare,
cercando ovvero di strappare l’egemonia talassocratica agli Stati Uniti.
La Germania imperiale dell’anteguerra, la
quale si mostrò in grado di organizzare intorno a sé l’Europa e di creare
un’alleanza persino con l’Impero ottomano costituì infatti uno sfidante
maggiore, secondo Mahan.
Ma
anche dall’Asia si può ergere uno sfidante, il quale sarà quello Stato che
riuscirà ad organizzare la profondità terrestre asiatica e, quindi, sfruttare
l’arricchimento economico ottenuto con il commercio marittimo per costruire una
flotta in grado di sfidare quella statunitense.
Detto altrimenti, la talassocrazia anglo-statunitense,
secondo Mahan, può essere sfidata solo da un’altra talassocrazia.
È
significativo, in questo senso, che l’attuale Presidente della Repubblica
popolare cinese abbia dichiarato che i cinesi devono abbandonare la loro
tradizionale visione tellurica del mondo per “donarsi al mare” e che le
accademie militari e le università cinesi leggano sempre più avidamente l’opera
di Mahan.
Gli
enormi progetti di costruzione navale oltre che l’insistenza cinesi sul fatto
che secondo loro il mediterraneo asiatico (cioè il Mar cinese meridionale ed
orientale) costituisce un lago interno cinese mostra l’intenzione cinese di
trasformare quelle acque in un mare interno (né più né meno di quanto fecero
gli statunitensi con il mediterraneo americano, cioè il Mar Caraibico e del
Messico nel Novecento) da cui, in un secondo momento, proiettarsi, per il
tramite della marina, su tutto il mondo costituisce precisamente una delle sfide
all’egemonia talassocratica statunitense che Mahan temeva.
Si
potrebbe in effetti dire che gli statunitensi, dopo aver raggiunto l’egemonia
oceanica grazie all’opera di Mahan, sono ora sfidati dai cinesi, i quali li
sfidano proprio grazie all’opera dello stesso Mahan.
Le
cose cambiano invece con Mackinder, il quale ritiene invece che la
tellurocrazia, ovvero una potenza terrestre, sia effettivamente in grado di
sconfiggere la talassocrazia poiché l’eventuale organizzazione di un territorio
ricco e dotato di profondità territoriale – quali ad esempio alcune regione del
continente eurasiatico – comporterebbe la messa a frutto di un potenziale di
potenza che da solo sarebbe in grado di superare quello marittimo, con
l’aggiunta che questa eventuale potenza tellurocratica sarebbe in grado,
qualora lo volesse e grazie alla propria superiorità di risorse rispetto alla
potenza marittima, di costruire una flotta talmente grande da sconfiggere
quelle di qualsiasi altra potenza.
Il
Grande partenariato russo e la Nuova via della seta cinese sono i due
principali progetti di integrazione continentale che, attualmente, spaventano i
mackinderiani.
Spykman, invece, si pone in una via intermedia
rispetto a Mahan e Mackinder, ritenendo invece che le potenze veramente più pericolose
per il dominio anglo-statunitense siano quelle anfibie e collocate ai margini
del continente eurasiatico, quali ad esempio una Germania europea e la Cina.
Queste potenze sono infatti in grado sia di
sfruttare la profondità territoriale e le ricchezze del continente eurasiatico
sia di lanciare una strategia marittima, oltre che di beneficiare molto
facilmente del commercio mondiale, il quale avviene principalmente sulle grandi
rotte degli oceani del mondo.
L’esempio più lampante che viene in mente
nella politica mondiale attuale circa questa eventualità è proprio la doppia
dimensione terrestre e marittima che forma la Nuova via della seta cinese, la
quale sta sempre maggiormente bussando alle porte dell’Europa.
Vi
sono certamente sia similitudini sia differenze nel pensiero di questi tre
autori, e l’accumulazione del bagaglio dottrinale del pensiero internazionale e
strategico anglo-statunitense si è pressoché completamente sviluppato lungo le
linee da loro tracciate e mostra una notevole costanza, le uniche vere
differenze essendo quelle già presenti nel pensiero dei tre padri della
dottrina geopolitica talassocratica.
Si può
certamente discutere sull’eventualità della vittoria della tellurocrazia sulla
talassocrazia; la domanda è aperta e bisogna innanzitutto decidere cosa si
intende con questa diarchia, e nel libro mi sono impegnato di sviscerare le
varie declinazioni proposte dalla letteratura accademica e dalle riflessioni e
azioni strategiche dei principali attori politici mondiali, offrendo al lettore
la possibilità di farsi un’idea autonomamente e di decidere con la sua testa
quale sia la migliore definizione e declinazione dei termini.
Quello
che è certo, tuttavia, è che attualmente vi sono tutte le condizioni affinché
si registri un cambio di paradigma, ovvero un profondo cambiamento nell’ordine
mondiale, già nel medio termine.
Tale
cambiamento consiste nella nascita, solidificazione e cementificazione
dell’ordine mondiale multipolare, che modificherebbe enormemente l’ordine
mondiale unipolare nato a seguito del
crollo dell’Unione Sovietica.
È infatti opportuno sottolineare che sono
proprio le più recenti dottrine strategiche anglo-statunitensi, appena
pubblicate, a sottolineare che il decennio nel quale ci troviamo sarà decisivo
per decidere la bilancia di potere mondiale che il mondo assumerà per tutto il
resto del secolo.
Ed
esse sottolineano altresì che i pericoli posti all’egemonia statunitense
consistono proprio nel tentativo di alcuni attori internazionali
(principalmente Cina, Russia ed Iran) di organizzare la massa eurasiatica a
proprio favore (tellurocrazia) e di costruire una flotta sufficientemente forte
(talassocrazia) nell’ottica di estromettere la potenza anglo-statunitense da
alcune regioni di grande importanza strategica; estromissione, questa, che potrebbe comportare lo spezzarsi
del dominio che gli Stati Uniti esercitano sull’oceano unito e sulle terre di
confine eurasiatiche e, quindi, la drastica diminuzione dello strapotere
statunitense, con la possibile conseguenza che potremmo assistere, in questo
decennio, al venir meno dello strapotere statunitense.
Se poi il mondo sarà caratterizzato per un paradigma
di dominio o di ordine di tipo talassocratico, tellurocratico o una via di
mezzo sarà da vedere”.
Teoria
del domino.
It.wikipedia.org
– Redazione- (20-10 2022) – ci dice:
Esemplificazione
della teoria del domino.
La
teoria del domino o del dominio fu una teoria geopolitica statunitense,
avanzata sia dai democratici sia dai repubblicani, durante la guerra fredda.
La
teoria postulava il pericolo che, nel caso in cui una nazione chiave in una
determinata area fosse stata presa da forze politiche comuniste, le nazioni
vicine sarebbero cadute anch'esse come pezzi di un domino, ed entrare nell'orbita
di Mosca l'una dopo l'altra.
Il
riferimento a questa teoria è specificamente legato alla paura quasi ossessiva
del comunismo (da cui la dottrina del contenimento) presente
nell'amministrazione statunitense ai tempi della guerra del Vietnam, quando
Kennedy fu indotto a intervenire in Indocina nell'intenzione di impedire il
dilagare del comunismo ai paesi confinanti.
Storia.
Nata
dalle idee geopolitche di Spykman, che negli anni quaranta proclamò la
necessità di una politica di contenimento nei confronti dell'Unione Sovietica,
la teoria del domino venne enunciata per la prima volta dal Presidente
Eisenhower, in una conferenza stampa il 7 aprile 1954, e venne originariamente
applicata all'Indocina (che comprende il Vietnam).
Molti oppositori dell'intervento in Vietnam
ritenevano che la teoria fosse enormemente esagerata per giustificare
l'interventismo americano.
Anni
dopo, il Vietnam del Nord e il Vietnam del Sud furono riunificati nella
Repubblica Socialista del Vietnam, nel 1975, secondo quanto era già stato
stabilito dalla Conferenza di Ginevra (1954), anche Laos divenne una Repubblica
Popolare Democratica del Laos e la Cambogia, divenne per pochi anni la
Kampuchea Democratica, spingendo alcuni a concludere che la teoria del domino
era stata confermata.
Altri
fecero notare che il Laos era stato dominato dal Vietnam del Nord per anni e
che i Khmer rossi cambogiani erano nemici dei vietnamiti.
Richard
Nixon disse una volta che il più forte argomento a favore della teoria del
domino era che "i pezzi del domino ci credono", e quindi c'era spesso
paura, nelle nazioni confinanti con stati comunisti, che i loro governi fossero
a rischio di "sovversione".
Questa
paura portò a politiche come quelle dell'alleanza NATO e ad altre forme di
contenimento, dedicate a proteggere le nazioni non-comuniste dal
"cadere".
Comunque,
contrariamente alle previsioni, la Cambogia è diventata una monarchia
parlamentare, la Thailandia e la Malaysia sono rimaste una monarchia,
l'Indonesia, la Birmania e l'India sono rimaste una repubblica.
Alcuni
studiosi di sinistra, in particolare Noam Chomsky, credono che la "vera teoria
del domino" era che se una nazione si sviluppava con successo in uno stato
socialista, indipendente da interferenze straniere, le altre nazioni avrebbero
seguito il suo esempio.
Chomsky
chiamò questa la "minaccia del buon esempio", e crede che questa sia la
principale ragione per l'intervento statunitense in nazioni altrimenti
insignificanti come Cuba, Guatemala, Timor Est e Angola.
Questa
teoria è stata criticata per aver minimizzato il ruolo dell'Unione Sovietica
nel Terzo Mondo.
Conseguenze.
La
principale conseguenza della teoria del domino per gli Stati Uniti è stato
l'impegno sempre più gravoso nel Sud Est asiatico e in particolare la guerra
del Vietnam, che ha portato le varie amministrazioni americane al collasso
economico e infine a ritirare la propria protezione al Vietnam del Sud.
Sviluppi
contemporanei.
La
teoria del domino è stata abbandonata da molti dei suoi originali propositori,
perché si è dimostrata errata ma continua a essere usata come argomento per gli
interventi militari del complesso militare-industriale USA.
Attualmente
viene spesso applicata negli Stati Uniti per richiamare l'attenzione sulla
potenziale diffusione nel Medio Oriente, sia della teocrazia Islamica sia della
democrazia liberale.
Durante
la Guerra Iran-Iraq, gli Stati Uniti, e molte altre nazioni occidentali,
appoggiarono l'Iraq, temendo una diffusione della teocrazia radicale iraniana
in tutta la regione.
Durante
la seconda guerra del Golfo del 2003, molti neoconservatori americani hanno
sostenuto che invadendo l'Iraq sarebbe stato possibile implementare un governo
democratico e diffondere democrazia e liberalismo in tutto il Medio Oriente.
Dopo
la scomparsa del comunismo sovietico, la Cina è diventata la nazione in più
rapida crescita del mondo e il Vietnam uno dei più vivaci mercati del Sud-Est
asiatico.
La
teoria del domino si è rivelata essere esatta non per il comunismo, ma per il
capitalismo globale.
LA
LETALITÀ DELLA DOTTRINA
MONROE
GLOBALE DI WASHINGTON.
Poterealpopolo.org
– Vijay Prashad – (17 giugno 2022) – ci dice:
La
settimana scorsa, nell’ambito della sua politica di dominio dell’emisfero
americano, il governo degli Stati Uniti ha organizzato il 9° Vertice delle
Americhe tenutosi a Los Angeles.
Sin da subito il Presidente degli Stati Uniti
Joe Biden ha chiarito che tre Paesi dell’emisfero (Cuba, Nicaragua e Venezuela)
non sarebbero stati invitati all’evento, sostenendo che questi non sono delle
democrazie.
Allo stesso tempo, però, Biden stava
pianificando una successiva visita in Arabia Saudita, una autodefinita
teocrazia.
Come
reazione, il presidente messicano Andrés Manuel López Obrador ha messo in
dubbio la legittimità dell’esclusione dei tre paesi da parte di Biden; quindi,
Messico, Bolivia e Honduras hanno rifiutato di partecipare all’evento. Così, il
vertice si è rivelato un vero e proprio fallimento.
Sempre
a Los Angeles, non lontano dal Vertice, oltre un centinaio di organizzazioni
hanno ospitato il Vertice dei Popoli per la Democrazia.
Migliaia
di persone provenienti da tutto l’emisfero si sono riunite per celebrare lo
spirito democratico che sta emergendo dalle lotte contadine e operaie, di
studenti, studentesse e delle femministe, e di tutte le persone che sono
escluse dall’attenzione dei potenti.
In
occasione di questo incontro, i presidenti di Cuba e Venezuela si sono uniti
online per celebrare questa festa della democrazia e per condannare la
militarizzazione degli ideali democratici da parte degli Stati Uniti e dei suoi
alleati.
Nel
2023 la Dottrina Monroe, sviluppata in un periodo in cui gli Stati Uniti
affermavano la loro egemonia sull’emisfero americano, compirà 200 anni.
Oggi,
lo spirito maligno della Dottrina Monroe non solo continua, ma il governo
statunitense lo ha perfino esteso in una sorta di Dottrina Monroe Globale.
Per
affermare questa assurda pretesa sull’intero pianeta, gli Stati Uniti hanno
perseguito una politica di “indebolimento” di quelli che considerano “rivali
alla pari”, ossia Cina e Russia.
Gli
USA stanno preparando una nuova guerra?
A
luglio, Tricontinental: Institute for Social Research – insieme a Monthly
Review e No Cold War – produrrà un opuscolo sulla spericolata escalation
militare del governo statunitense contro quelli che considera i suoi avversari
– principalmente Cina e Russia.
L’opuscolo
comprenderà saggi di John Bellamy Foster, direttore di Monthly Review, Deborah
Veneziale, giornalista italiana, e John Ross, membro del collettivo” No Cold
War”.
Sulla scia di questo opuscolo, il cui
contenuto presenteremo in questa newsletter, No Cold War ha prodotto anche il
briefing n. 3 Is the United States Preparing Up of the United War with Russia
and China? che parla della sciabolata e allarmante marcia di Washington verso
la supremazia nucleare.
La
guerra in Ucraina dimostra un’escalation qualitativa della volontà degli Stati
Uniti di usare la forza militare.
Negli ultimi decenni, gli Stati Uniti hanno
lanciato guerre contro Paesi in via di sviluppo come Afghanistan, Iraq, Libia e
Serbia.
In
queste campagne, gli Stati Uniti sapevano di godere di una superiorità militare
schiacciante e di non correre il rischio di una ritorsione nucleare.
Ciononostante,
con la minaccia di far aderire l’Ucraina all’Organizzazione del Trattato del
Nord Atlantico (NATO), gli Stati Uniti hanno consapevolmente rischiato di
oltrepassare quelle che sapevano essere le “linee rosse” della Russia, Stato
dotato di armi nucleari.
Ciò
solleva due domande: perché gli Stati Uniti hanno intrapreso questa escalation?
E fino a che punto sono disposti a spingersi
nell’uso della forza militare, non solo contro il Sud globale, ma anche contro
grandi potenze come la Cina o la Russia?
Usare
la forza militare per compensare il declino economico Usa.
La
risposta al “perché” è chiara: gli Stati Uniti hanno perso nella pacifica
competizione economica con i Paesi in via di sviluppo in generale e con la Cina
in particolare.
Secondo
il Fondo Monetario Internazionale (FMI), nel 2016 la Cina ha superato gli Stati
Uniti come maggiore economia mondiale.
Nel 2021, la Cina rappresentava il 19%
dell’economia globale, rispetto al 16% degli Stati Uniti.
Questo
divario non fa che aumentare. Entro il 2027, il FMI prevede che l’economia
cinese supererà quella statunitense di quasi il 30%.
Tuttavia,
gli Stati Uniti hanno mantenuto una supremazia militare globale senza rivali:
la loro spesa militare è superiore a quella dei nove Paesi con la spesa più
alta messi insieme.
Nel tentativo di mantenere il dominio globale
unipolare, gli Stati Uniti sostituiscono sempre di più la pacifica competizione
economica con la forza militare.
Il
discorso tenuto dal Segretario di Stato americano Antony Blinken il 26 maggio
2022 è esemplare per comprendere questo cambiamento strategico nella politica
statunitense.
Blinken
ha ammesso apertamente che gli Stati Uniti non cercano la parità militare con
gli altri Stati, ma la supremazia militare, in particolare nei confronti della
Cina:
“Il
presidente Biden ha istruito il Dipartimento della Difesa di considerare la
Cina come la sfida che detta il ritmo, per garantire che le nostre forze armate
rimangano all’avanguardia”.
Tuttavia,
con Stati dotati di armi nucleari come la Cina o la Russia, la supremazia
militare richiede il raggiungimento della supremazia nucleare – un’escalation
che va oltre l’attuale guerra in Ucraina.
La
ricerca della supremazia nucleare.
Dall’inizio
del XXI secolo, gli Stati Uniti si sono sistematicamente ritirati da trattati
chiave che limitano la minaccia di utilizzo di armi nucleari:
nel
2002, gli Stati Uniti sono usciti unilateralmente dal Trattato sui missili
anti-balistici;
nel
2019, hanno abbandonato il Trattato sulle forze nucleari intermedie e,
nel 2020, si sono ritirati dal Trattato sui
Cieli Aperti. L’abbandono da questi trattati ha rafforzato la capacità degli
Stati Uniti di perseguire la propria supremazia nucleare.
L’obiettivo
finale di questa politica statunitense è l’acquisizione di una capacità di
“first strike” contro la Russia e la Cina, ossia la capacità di infliggere
danni con un primo uso di armi nucleari in misura tale da impedire
efficacemente reazioni.
Come
ha osservato John Bellamy Foster in un ampio studio sull’accumulo di armi
nucleari da parte degli Stati Uniti, anche nel caso della Russia – che possiede
l’arsenale nucleare più avanzato al mondo dopo quello degli USA – ciò “negherebbe a Mosca una valida opzione
di secondo attacco, eliminando di fatto del tutto il suo deterrente nucleare,
attraverso la decapitazione”.
In
realtà, le ricadute e la minaccia dell’inverno nucleare di un simile attacco
minaccerebbero il mondo intero.
Una
corsa alle armi.
Questa
politica di supremazia nucleare è stata a lungo perseguita da alcuni ambienti
di Washington.
Nel
2006, la principale rivista statunitense di politica estera Foreign Affairs ha
sostenuto che “probabilmente gli Stati Uniti saranno presto in grado di
distruggere gli arsenali nucleari a lungo raggio della Russia o della Cina con
un primo attacco”.
Contrariamente
a queste speranze, gli Stati Uniti non sono ancora riusciti a raggiungere una
capacità di primo attacco, ma ciò è dovuto allo sviluppo di missili ipersonici
e di altre armi da parte di Russia e Cina, non a un cambiamento nella politica
statunitense.
Dagli
attacchi ai Paesi del Sud globale alla maggiore disponibilità a entrare in
guerra con una grande potenza come la Russia, fino al tentativo di ottenere una
capacità di primo colpo nucleare, la logica alla base dell’escalation del
militarismo statunitense è chiara: gli Stati Uniti stanno impiegando sempre più
la forza militare per compensare il loro declino economico.
In
questo periodo estremamente pericoloso, è fondamentale per l’umanità che tutte
le forze progressiste si uniscano per far fronte a questa grande minaccia.
Concentrarsi
sui reali dilemmi dell’umanità.
Nel
1991, quando crollò l’Unione Sovietica e il Sud globale rimase attanagliato da
una crisi del debito senza fine, gli Stati Uniti iniziarono a bombardare l’Iraq
nonostante le suppliche del governo iracheno per un accordo negoziato.
Durante
quel bombardamento, lo scrittore libico Ahmad Ibrahim al-Faqih scrisse una
poesia lirica, Nafaq Tudiuhu Imra Wahida (Un tunnel illuminato da una donna),
in cui cantava: “Un tempo è passato, e un altro tempo non è arrivato e non
verrà mai”. La tristezza definiva il momento.
Ci
troviamo in tempi molto pericolosi.
Eppure,
lo sconforto di al-Faqih non definisce la nostra sensibilità. Lo stato d’animo è
cambiato.
C’è la
fiducia in un mondo oltre l’imperialismo, uno stato d’animo prevalente non solo
in Paesi come Cuba e Cina, ma anche in India e Giappone, così come tra le
persone che lavorano duramente e che vorrebbero che la nostra attenzione
collettiva si concentrasse sui reali dilemmi dell’umanità e non sulle bruttezze
della guerra e del dominio.
Vijay
Prashad - (Vijay-thetr icontinental.org)
“L’arco
delle crisi” si avvicina:
la debolezza strategica dell’Unione
Europea sul fronte meridionale.
Legrandcontinent.eu
- Charles Thépaut – (28 – 2 -2021) – ci dice:
Visto
dall’Europa, l’“arco delle crisi” che avvolge l’Africa settentrionale e il
Medio Oriente ormai da qualche anno si è avvicinato significativamente ai
confini del continente.
In questo articolo, frutto di un lungo lavoro
di analisi, Charles Thépaut propone un nuovo metodo per costruire una politica
comune sul versante meridionale dell’Europa, in un processo di chiarimento
delle condizioni e delle responsabilità con l’alleato americano.
Le
crisi che caratterizzano le frontiere meridionali dell’Europa interagiscono su
diversi livelli (nazionale, regionale, internazionale) con tre dinamiche: la
fine del sistema unipolare americano, le primavere arabe del 2011, e la lenta
risposta europea a queste due dinamiche.
Di
fronte ad una frammentazione crescente, l’Unione Europea deve costruire una
cultura geopolitica comune in grado di pensare al suo approccio nella regione.
Quest’ultimo non può passare da Washington, ma deve reinventare la sua
relazione stessa con gli Stati Uniti, il cui ruolo e influenza all’interno
della regione si sono evoluti sostanzialmente.
L’Unione
deve dotarsi di uno strumento di gestione delle crisi e di un Consiglio di
sicurezza europeo, che integrerebbe la dimensione della cooperazione e dello
sviluppo.
Visto
dall’Europa, l’“arco delle crisi” che avvolge l’Africa settentrionale e il
Medio Oriente ormai da qualche anno si è significativamente avvicinato ai
confini del continente.
Se gli anni 2000 sono stati caratterizzati dai
conflitti “lontani” in Iraq e Afghanistan, nel 2021 numerosi focolai
d’instabilità minacciano direttamente il territorio europeo.
Che si tratti della messa in discussione da
parte della Turchia dei confini territoriali nel Mediterraneo, della presenza
della Russia in Siria e in Libia, o dei flussi migratori dal Sahel o dalla
Siria, è la stabilità europea ad essere minacciata.
L’iper-sensibilità
sulle migrazioni e le divisioni politiche profonde che si sono formate a
partire dalle letture contraddittorie del conflitto siriano, più di quello
iracheno e afghano, implicano che le crisi in questione abbiano una dimensione
molto più “intima” per l’Europa.
Queste
crisi sono in gran parte il risultato di fattori endogeni, ma interagiscono con
almeno tre dinamiche regionali e internazionali:
la fine del sistema unipolare americano, in
parte legato agli eccessi ed agli errori della risposta americana agli attacchi
dell’11 settembre;
le
primavere arabe del 2011 e il loro impatto regionale;
la
lentezza e la debolezza della risposta europea a queste prime due dinamiche.
Questo
articolo fornisce un’analisi incrociata di queste tre dinamiche, spesso
considerate separatamente nel dibattito europeo a causa delle isole concettuali
differenti alle quali appartengono:
ad
esempio, l’ambito della politica europea di vicinato è spesso considerato
separatamente dall’ambito della relazione transatlantica.
Un riesame di queste prospettive è di vitale
importante per il nuovo ciclo che inizia con il cambiamento d’amministrazione
americana.
Joe
Biden entra in carica in un’America destabilizzata dalla pandemia e ancora
sotto shock per l’attacco al Campidoglio del 6 gennaio.
Inoltre, le strutture della politica estera di
Washington hanno preso atto all’unanimità del rifiuto di interventi militari su
larga scala da parte delle forze armate.
Allo
stesso tempo, un profondo rimodellamento regionale sta avvenendo in Nord Africa
e in Medio Oriente, da un lato in risposta all’influenza regionale iraniana e
alla riaffermazione russa, e dall’altro nel contesto della rivalità strategica
tra la Turchia e gli Emirati.
Questi
sviluppi nell’interazione tra il Medio Oriente, gli Stati Uniti e l’Europa
dovrebbero suscitare un senso di urgenza all’interno dell’Unione europea ed
amplificare gli sforzi per allineare gli strumenti di politica estera nazionali
ed europei.
Il
triangolo geo-politico Stati Uniti-Medio Oriente-Europa.
Storia
recente delle geometrie variabili dell’impegno occidentale in Medio Oriente
(1991-2021).
Se,
come altre regioni del mondo, il Medio Oriente è stato influenzato dalle
dinamiche della Guerra Fredda fino alla fine degli anni ’80, ha subito più di
altre il peso del sistema unipolare americano che si costituisce dopo la caduta
dell’Unione Sovietica.
La
combinazione della permanenza dei conflitti regionali, come il conflitto
israelo-palestinese o l’invasione del Kuwait, e della profondità delle alleanze
tessute da Washington nella regione durante la Guerra Fredda (Arabia Saudita,
Israele, Egitto, Turchia), rendono il Medio Oriente un particolare punto focale
per la politica estera americana a partire dagli anni 1990, in particolare con
la Prima guerra del Golfo e gli sforzi di pace tra israeliani e palestinesi.
L’impegno americano sarà in seguito rinforzato
dopo gli attacchi dell’11 settembre e l’inizio di un decennio di “War on
Terror” – in particolare in Iraq.
In
questo contesto, le principali variabili nell’equazione della sicurezza europea
sono state le relazioni bilaterali dei suoi Stati membri, in particolare quelli
al sud dell’Unione, con il mondo arabo da un lato e lo sviluppo della
cooperazione transatlantica in Medio Oriente dall’altro.
Tra il
1990 e il 2011 la Francia, il Regno Unito, ma anche la Spagna e l’Italia hanno
mantenuto le loro relazioni storiche nella zona.
Allo stesso tempo, la cooperazione transatlantica in
Medio Oriente era limitata dall’importanza delle alleanze tra gli Stati Uniti e
i suoi partner regionali, dall’indiscutibile egemonia americana e dalle
differenze europee sulla regione. Durante questo periodo, la cooperazione
transatlantica in Medio Oriente è stata illustrata principalmente dalle
relazioni asimmetriche di Washington con alcuni Stati Membri dell’Unione
Europea: le relazioni bilaterali all’interno del Consiglio di Sicurezza con la
Francia e il Regno Unito; la creazione di coalizioni militari ad hoc come
quelle della guerra del Golfo; l’istituzione di forme di multilateralismo ad
hoc (Quartetto sul conflitto israelo-palestinese o UE+E3 sulla questione
nucleare iraniana); il ricorso limitato ad alcune forme istituzionali di
cooperazione con la NATO e l’UE.
Questi
sviluppi nell’interazione tra il Medio Oriente, gli Stati Uniti e l’Europa
dovrebbero suscitare un senso di urgenza all’interno dell’Unione europea e amplificare
gli sforzi per allineare gli strumenti di politica estera nazionali ed europei.
(CHARLES
THEPAUT).
Il
2011 è chiaramente l’anno delle “primavere arabe”.
Quest’anno
ha segnato l’inizio di una serie di eventi decisivi provocati dalle rivolte in
Tunisia, Egitto, Libia, Bahrein, Yemen e Siria, che hanno rimodellato la
politica locale e regionale fino ad oggi.
Tuttavia,
l’anno 2011 è stato determinante anche per la politica americana in Medio
Oriente, segnata dal ritiro ufficiale delle truppe americane in Iraq, otto anni
dopo l’inizio della campagna militare in questa regione.
Questa
campagna è stata definita come il simbolo della “vertigine della potenza”1, a
significare l’intervento militare preponderante degli Stati Uniti nella
regione.
Quattro
tendenze possono essere identificate nello sviluppo della relazione tra gli
Stati Uniti e l’Europa nel mondo arabo dopo il 2011, con, di conseguenza, un
indebolimento dell’influenza occidentale.Innanzitutto, la relazione
asimmetrica stabilita dopo la Seconda guerra mondiale e accentuata nel momento
unipolare è stata mantenuta.
È
stata caratterizzata dalle differenti forme di unilateralismo americano:
non
solo nella negoziazione dell’accordo sull’utilizzo del nucleare iraniano, ma
anche nella gestione del patrimonio iracheno, che ha creato a Washington una
forma di “negligenza” (negligenza benigna) su altri ambiti, o anche vere e
proprie contraddizioni dovute all’avversione al rischio, come nel caso delle
“linee rosse” che Barack Obama aveva fissato sull’uso di armi chimiche in
Siria.
Tuttavia,
la relazione transatlantica è stata caratterizzata da una relazione
particolare, che esponeva alcuni Paesi europei al rischio.
Con
l’eccezione di Francia e Regno Unito, pochi Paesi europei sono stati
effettivamente pronti a reagire in maniera forte e rapida alle differenti crisi
che hanno colpito il loro vicinato, in assenza di un impegno americano forte.
Inoltre,
c’erano pochi incentivi a breve termine a livello dell’Unione Europea per i
paesi europei a fare compromessi per armonizzare i loro interessi divergenti
nella regione, sia in termini di commercio che di relazioni militari.
Questa
situazione ha rivelato un aumento dei disaccordi fondamentali tra europei e tra
europei e americani, come nel caso della priorità da dare alla crisi siriana. Queste
molteplici contraddizioni hanno prodotto una cooperazione tattica limitata,
come sul JCPOA dopo l’uscita di Donald Trump dall’accordo – anche se il livello
di cooperazione operativa nella lotta al terrorismo è rimasto molto alto
durante tutto il periodo.
Mentre
il Servizio europeo per l’azione esterna (SEAE) è stato istituito nel 2009 con
l’obiettivo di far parlare gli europei “con una sola voce”, l’Unione e i suoi
Stati membri hanno sofferto di una generale mancanza di chiarezza sul loro
contributo alla pace e alla sicurezza in Medio Oriente dopo il 2011, nonostante
le leve commerciali e i molteplici finanziamenti e operazioni introdotte.
Il
contributo finanziario europeo è stato sostanziale in termini assoluti.
Ad esempio, l’Unione ha fornito quasi 4
miliardi di euro di aiuti per sostenere la transizione della Tunisia tra il
2011 e il 2016.
L’Unione e i suoi Stati membri hanno fornito
quasi 20 miliardi di euro in aiuti umanitari ai siriani dal 2011, e quasi 400
milioni di euro in aiuti di stabilizzazione nelle zone antiche di Daesh nel
nord-est della Siria (2017-2019).
Tuttavia,
questi importi non sono stati sufficientemente tradotti in capitale politico
europeo, sia per ragioni positive, come il desiderio di non politicizzare
l’aiuto umanitario, che cattive, come la burocrazia che limita le possibilità
di adattare questi finanziamenti agli sviluppi sul terreno.
Anche
il contributo diplomatico è stato reale su diverse questioni. Al di là dei
negoziati nucleari, la cui architettura è stata disegnata dal gruppo E3 prima
che gli Stati Uniti riprendessero in mano la questione, gli europei hanno
contribuito a sviluppare o a preservare certi parametri diplomatici, che
continuano a segnare diverse questioni che sono altrettanto divisive tra i 27
come il conflitto israelo-palestinese (linea della soluzione dei due stati) o
la Siria (il finanziamento della ricostruzione è subordinato al progresso dei
negoziati politici) nonostante i numerosi ostacoli (posizione americana di
rottura sotto Trump, azione russa, disimpegno dei paesi del Golfo dalla
questione siriana).
L’Europa
ha anche potuto usare il suo potere economico attraverso il proprio regime di
sanzioni.
Se il
principio delle sanzioni economiche e la loro efficacia sono oggetto di
dibattito e il loro uso può essere stato talvolta troppo sistematico per
conservare tutta la sua credibilità, la veemenza con cui diversi concorrenti
criticano l’Unione europea per le sue sanzioni attesta che sono uno strumento
potente.
I
fattori endogeni delle crisi in Africa settentrionale e in Medio Oriente dal
2011: autoritarismo, crisi strutturali, frammentazione politica e il ruolo
delle milizie.
L’invasione
dell’Iraq da parte degli Stati Uniti nel 2003 ha avuto un effetto catastrofico
sulla stabilità regionale, e le contraddizioni dell’azione occidentale a
partire dal 2011 hanno anche influenzato il quadro strategico del Medio
Oriente. La regione è stata comunque trasformata da fenomeni endogeni la cui
influenza è troppo spesso messa da parte o sottovalutata nei dibattiti europei
e americani.
Le
“primavere arabe” sono
stata causate sia dal rafforzamento del modello autoritario, sia
dall’esposizione della regione agli shock macroeconomici europei, causati dalla
crisi economica del 2008-2009.
Le
rivolte, tuttavia, non sono riuscite a produrre alternative sufficientemente
forti a questi regimi, o risposte macroeconomiche reali.
Al
contrario, le rivolte sono state segnate da una maggiore frammentazione
politica, dalla sopravvivenza di pratiche autoritarie e dal collasso delle
strutture statali in diversi paesi.
In
fine, questi fenomeni hanno ostacolato la capacità di queste società di
affrontare le sfide sociali, economiche e ambientali che avevano portato alle
rivolte.
Questa
instabilità ha anche influenzato la capacità degli attori esterni di trovare
forti partner istituzionali locali.
I
conflitti regionali in Iraq, Siria, Libia e Yemen in particolare, sono stati
aggravati dal ruolo crescente che hanno giocato le forze paramilitari, che
siano gli Houthi in Yemen, le milizie rivoluzionarie libiche, o le milizie
filo-iraniane in Iraq e in Siria.
L’ampiezza
di questo fenomeno non è sempre ben calcolata dall’Europa, specialmente se si
considerano le difficoltà nel documentarlo.
Per esempio, il numero di combattenti filo-iraniani
inviati in Siria ha raggiunto un picco nel 2016 di quasi 60.000 mercenari
iracheni, pakistani, libanesi e afgani.
Insieme
all’invasione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti, rappresenta la più
importante invasione straniera di un Paese arabo dagli anni 1960.
Al di
là del caso particolare della Siria, gli attori non statali hanno visto
crescere il loro potere in ciascuno dei paesi interessati.
La
loro azione porta alla messa in discussione delle strutture statali, anche
quando si suppone che esse proteggano lo Stato, come in Iraq. Questo
contribuisce alla continuazione delle crisi e limita le possibilità del
tradizionale impegno occidentale da Stato a Stato.
La
pandemia ha allo stesso modo accelerato numerose crisi strutturali che già
affliggevano la regione.
La diffusa recessione economica, precipitata
dalla crisi, ha aggravato la disoccupazione giovanile, indebolito i sistemi
sanitari pubblici, contribuito al calo dei prezzi del petrolio ed esacerbato la
competizione per le risorse nazionali. Malgrado la resilienza di queste società
e l’introduzione di misure di sanità
pubblica
conformi agli standard mondiali in molti paesi, la fragilità politica ha
indebolito le risposte dei governi alla pandemia, costringendo l’attuazione di
ambiziosi programmi di aiuto internazionale.
I programmi del FMI e della Banca mondiale,
insieme ai piani di rilancio nazionali, hanno fornito un aiuto solo temporaneo.
Queste
sfide dimostrano che la regione ha bisogno di esplorare nuovi motori di
crescita e stabilità, soprattutto in vista della probabilità di un calo
d’assistenza allo sviluppo nei prossimi anni.
I
conflitti regionali in Iraq, Siria, Libia e Yemen in particolare, sono stati
aggravati dal ruolo crescente che hanno giocato le forze paramilitari, che
siano gli Houthi in Yemen, le milizie rivoluzionarie libiche, o le milizie
filo-iraniane in Iraq e in Siria. L’ampiezza di questo fenomeno non è sempre
ben calcolata dall’Europa, specialmente se si considerano le difficoltà nel
documentarlo.
(CHARLES
THEPAUT)
Una
nuova, più instabile geopolitica regionale e internazionale.
Se la
Cina sembra attenta soprattutto a preservare i suoi interessi commerciali nel
quadro della sua strategia della via della seta (Belt and Road Initiative), gli
attori, che siano alleati o no degli Stati Uniti, hanno perseguito politiche
estere sempre più autonome, riempiendo il vuoto parziale lasciato da
Washington, spesso con strategie a somma zero.
In questo modo la Russia, la Turchia, l’Iran,
Israele, l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e il Qatar si arrendono ad
un gioco di influenza complesso e in movimento, senza che nessun attore possa
realmente monopolizzare il potere regionale, mentre le relazioni tra questi
attori regionali e i loro attori locali tendono ad aggravare la frammentazione.
Pochi
attori internazionali sono disposti ad assumersi i costi necessari a esercitare
un’influenza decisiva nella regione.
Di
conseguenza, le crisi e le loro risoluzioni dipendono in gran parte da accordi
locali e regionali.
Quest’ultime
sono principalmente determinati da due linee di frattura: da una parte,
l’opposizione tra l’Iran e l’Arabia Saudita; dall’altra, la rivalità tra gli
Emirati e la Turchia.
Se
l’idea del conflitto “sunnita-sciita” affonda le sue radici principalmente in
un’approssimazione storica e religiosa, la nozione riflette soprattutto un
ingranaggio strategico tra Teheran e Riyadh iniziato nel 1979.
La
rivoluzione islamica ha infatti rovesciato il regime dello Scià filo-americano,
per instaurare un regime anti-americano.
In
questo contesto, la corsa agli armamenti, in particolare di natura nucleare, e
il sostegno di questi o quegli attori locali si integra in una dinamica di
disturbo/dissuasione che non ha molto a che vedere con la teologica.
L’opposizione
tra Abu Dhabi e Ankara è più recente e deriva dalle reazioni antagoniste alle
rivolte del 2011, una antirivoluzionaria, l’altra pro-rivoluzionaria.
Come
risultato della frammentazione o dei conflitti che hanno colpito i paesi dopo
le rivolte arabe, la Turchia e gli Emirati hanno guadagnato influenza politica
e militare con attori opposti in ogni paese, in particolare in Egitto e in
Libia.
Dal
2016, la Turchia articola la sua politica di supporto alle forze rivoluzionarie
islamiste con un’altra dimensione, cioè un tandem con la Russia per portare
avanti una logica revisionista.
Questa
evoluzione turca comincia dopo il colpo di Stato interrotto contro Erdogan nel
2016.
Il
presidente turco si è allontanato dalla prospettiva europea della Turchia e,
formando un’alleanza parlamentare con gli ultranazionalisti, ha messo fine alla
politica di apertura verso i curdi e al processo di pace con il PKK.
Mentre
la Turchia era stata uno dei principali sostenitori dell’opposizione siriana
dopo il 2011, Ankara ha gradualmente ricalibrato il suo sostegno per sostenere
alcuni gruppi siriani e usarli come proxy per la politica estera turca.
Specificamente,
questo è il caso della creazione di una zona cuscinetto nel nord della Siria.
La
Turchia ha anche capitalizzato l’invio di milizie islamiste in Libia dal 2020
per firmare un accordo con il governo di accordo nazionale libico sulle
delimitazioni marittime nel Mediterraneo.
Il
tandem con Mosca è stato motivato dal ruolo singolare giocato dalla Russia tra
gli attori “regionali” in Medio Oriente dall’inizio del conflitto siriano.
La
riaffermazione russa in Siria e in Libia è alimentata da una tradizione
geopolitica ben consolidata di cercare l’accesso ai “mari caldi”.
Questa
ricerca va però avanti da diversi anni con le nuove vesti della guerra
“ibrida”, cioè una combinazione di mezzi convenzionali (cooperazione militare
convenzionale con Damasco per chiudere lo spazio aereo siriano occidentale,
estensione della base navale di Tartous, uso della polizia militare per
congelare i fronti della guerra civile siriana, ricorso a forze speciali, ecc.)
e non convenzionali (operazioni “non attribuibili” ai mercenari di Wagner in
Libia e Siria; azioni di disinformazione; attacchi informatici).
I mezzi militari russi sono notoriamente
utilizzati al servizio di una strategia diplomatica di triangolazione (la
capacità di posizionarsi come intermediario tra più parti opposte tra loro), il
cui scopo è stato quello di migliorare lo status internazionale della Russia,
in Medio Oriente in particolare, ma soprattutto nei confronti degli Stati
Uniti.
Il
tandem russo-turco ha sviluppato, a partire dal 2016, una dinamica ben oliata
che consiste nell’utilizzare proxy sul terreno per aumentare le tensioni e
poter così porsi come garante di varie tregue.
In Siria come in Libia, ma anche nel
Nagorno-Karabakh, la combinazione di una forte presenza militare sul terreno e
di manovre per bloccare o gestire i negoziati diplomatici come un duopolio
rafforza Vladimir Putin così come R.T. Erdogan, nonostante episodi di tensione
tra i due paesi.
Sia
per Mosca che per Ankara, le leve ottenute in queste crisi nordafricane o
mediorientali possono essere utilizzate direttamente nei negoziati con i paesi
europei, per esempio sulla questione delle migrazioni o sulle delimitazioni
marittime nel Mediterraneo orientale.
Nonostante
le molteplici ambizioni regionali più visibilmente espresse, tuttavia, gli
Stati Uniti non sembrano essere rimpiazzabili.
Nessun
attore ha i mezzi (o l’ambizione) per sostituire Washington come garante di
un’architettura di sicurezza regionale, come l’America ha potuto fare nel 1973
e nel 2011.
Il
potenziamento delle politiche estere degli attori regionali genera soprattutto
una segmentazione del gioco mediorientale.
In questo contesto gli Stati Uniti hanno la
tendenza a concentrarsi su “pezzi” di politica regionale (ad esempio il
programma nucleare iraniano, l’intervento della Russia in Libia) ma non hanno
più, come nella Guerra fredda e nel momento unipolare, ambizioni ideologiche
oppure olistiche.
Washington,
ovviamente, non scompare e rimane un attore unico, ma che ridefinisce la sua
lista delle priorità, senza impegnarsi realmente (o almeno non con lo stesso
carattere deciso del passato) al di fuori di questo campo ora molto più
ristretto.
Rifiutando
visioni messianiche e grandi piani come quello sviluppato dai neo-conservatori
vicini a George W. Bush per “un Grande Medio Oriente”, le successive
amministrazioni americane hanno trattato le crisi regionali siriane o libiche
in silos relativamente indipendenti, con diversi gradi di coinvolgimento a
seconda della priorità data, come dimostra il trattamento separato della
questione nucleare e della guerra in Siria, anche se entrambi i temi sono
intimamente legati alla politica regionale di Teheran.
Questa
frammentazione dell’analisi americana non dovrebbe essere messa in discussione
dall’amministrazione di Joe Biden, soprattutto perché continuerà, a modo suo e
con il suo stile, la logica di diminuzione del coinvolgimento americano in
Medio Oriente iniziata da Barack Obama e perseguita con un metodo molto diverso
da Donald Trump.
Pochi
attori internazionali sono disposti ad assumersi i costi per esercitare
un’influenza decisiva nella regione.
Di
conseguenza, le crisi e le loro risoluzioni dipendono in gran parte da accordi
locali e regionali.
Il potenziamento delle politiche estere degli
attori regionali genera soprattutto una segmentazione del gioco mediorientale.
(CHARLES
THEPAUT).
Per un
salto europeo nell’era Biden: sostanza, forma e formati
Presa
di coscienza e divisioni europee.
Mentre
Washington rimane il punto focale per la maggior parte del pensiero europeo
sulla sicurezza in generale, e nella regione del Medio Oriente e del Nord
Africa in particolare, il deterioramento delle relazioni transatlantiche e le
molte crisi alla periferia dell’Europa hanno accompagnato un lento cambiamento
nella mentalità geopolitica di alcuni europei.
Da un
lato, l’enfasi sulla necessità di “autonomia strategica “, “sovranità europea”
e “ri-apprendimento del linguaggio del potere” dimostra una crescente
convergenza concettuale tra Francia, Germania e istituzioni europee sulla
necessità di una politica estera europea più forte.
Tuttavia,
le diverse posizioni geopolitiche degli altri stati membri limitano questa
convergenza: priorità dello spazio russo (Polonia, Paesi Baltici), neutralità
storica (Austria, Irlanda), priorità data alla NATO (soprattutto Danimarca),
riluttanza agli interventi militari per ragioni economiche (Italia,
Portogallo).
Un
numero crescente di attori condivide tuttavia l’opinione che lo status quo non
è sostenibile.
La Spagna, per esempio, è sempre più
favorevole allo sviluppo della difesa europea, così come l’Estonia e la
Finlandia.
La
Svezia ha cambiato la sua strategia cercando di influenzare la definizione
della difesa europea piuttosto che opporsi ad essa.
L’Italia ha iniziato a partecipare a progetti
europei che potrebbero portare a un’azione più forte nel vicinato meridionale
dell’Europa, come la Cooperazione strutturata permanente, il Fondo europeo di
difesa e l’Iniziativa europea d’intervento, avviata dalla Francia, che ha un
gruppo di lavoro sulla sicurezza del Mediterraneo.
Infine,
il fatto che il ministro della Difesa tedesco abbia proposto la creazione di
una zona di sicurezza nel nord della Siria nel 2020, attirando le critiche del
suo collega, il ministro degli Esteri, testimonia sia la complessità della
questione militare a Berlino sia l’evoluzione del dibattito nazionale tedesco
sull’argomento.
Il
pensiero strategico europeo rimane frammentato, così come i suoi strumenti.
Come tale, i dibattiti sulla politica estera europea tendono spesso a
sovrainvestire il livello di Bruxelles, mentre la maggior parte degli strumenti
militari e di sicurezza rimangono principalmente nazionali, nonostante i
recenti progressi nella difesa europea.
In questo senso, non ha molto senso contrapporre il
livello europeo a quello nazionale ed è probabilmente opportuno esplorare, a
seconda del tema, le possibilità di un’articolazione più incisiva dei mezzi
nazionali ed europei, nel quadro di una più efficace divisione dei compiti.
Creare
avanguardie diplomatiche per reagire alle crisi politiche e militari.
Nell’Unione
europea, il metodo spesso conta tanto quanto la sostanza.
L’idea
di una migliore divisione europea del lavoro si inserisce quindi in un
dibattito più ampio sulle regole e i formati per lo sviluppo della politica
estera dell’Unione. In teoria, la politica estera dell’Unione è sempre discussa
su base consensuale, ma in pratica è condotta in sedi multiple e sovrapposte.
Molti
quadri, come il “quint” (Francia, Germania, Italia, Regno Unito, USA), il
“quad” (Francia, Germania, Regno Unito, USA), l’UE-3 (Francia, Germania, Regno
Unito), i paesi scandinavi, il gruppo di Visegrad (Ungheria, Polonia,
Repubblica Ceca e Slovacchia) e altri formati ad hoc sono già in atto.
L’assenza
di uno strumento per la gestione diplomatica delle crisi internazionali è una
lacuna notevole nella costruzione di una politica europea.
(CHARLES
THEPAUT).
Tuttavia,
l’assenza di uno strumento per la gestione delle crisi internazionali è una
lacuna notevole nella costruzione di una politica estera europea.
Indubbiamente, esistono dei meccanismi di
risposta alle crisi umanitarie, così come dei meccanismi che consentono di
mettere in comune rapidamente le risorse non appena si sviluppi una posizione
politica europea o di discutere in modo preventivo degli scenari militari.
Ciononostante,
non esiste realmente un meccanismo che permetta di lanciare un’azione
diplomatica rapida, in particolare in una crisi di politica estera con una
componente di sicurezza.
L’Iniziativa
europea d’intervento lanciata dalla Francia nel 2018 è destinata a colmare
questa lacuna in termini militari, ma ha incontrato la riluttanza degli altri
Stati membri.
Una
divisione “naturale” del lavoro basata sulla storia, la geografia e le capacità
di un dato Stato membro non è mai all’ordine del giorno a livello europeo.
Di
conseguenza, il dibattito sulla politica estera dell’UE è soffocato dal
confronto tra coloro che sostengono che i paesi che agiscono a livello
nazionale minano l’unità europea e coloro che non vedono alternative efficaci all’azione
unilaterale a causa dell’inerzia del processo UE.
Questo
è il motivo per cui un numero crescente di esperti ritiene che “coalizioni più
piccole e flessibili dovrebbero essere ora importanti vettori politici”.
Tra i
diversi vantaggi, queste coalizioni potrebbero facilitare delle reazioni
iniziali rapide e più efficaci prima che tutti gli attori europei si siano
riuniti.
La
sfida è quindi quella di generalizzare e ipotizzare l’uso di formazioni a
geometria variabile sulla base dell’interesse e della capacità di azione degli
Stati membri.
Una
logica di “gruppi di contatto europei” potrebbe essere sviluppata in modo che,
attraverso il coordinamento del Servizio europeo per l’azione esterna (SEAE) e
dell’Alto Rappresentante, alcuni Stati membri dell’UE potrebbero funzionare
come l’avanguardia di un processo europeo più completo, permettendo
consultazioni ma anche decisioni iniziali più rapide su azioni congiunte o
coordinate per rispondere a una crisi.
I criteri di alcuni formati, come la
cooperazione strutturata europea permanente – creata per permettere agli Stati
membri “volenterosi e capaci” di lavorare su progetti di difesa comune –
potrebbero essere utilizzati di nuovo nel campo della diplomazia delle crisi.
Alcuni
di questi gruppi esistono già e hanno dimostrato la loro efficacia, come il
gruppo EU+3 (Unione Europea, Regno Unito, Francia, Germania), che ha giocato un
ruolo fondamentale nei negoziati che hanno portato all’accordo nucleare
iraniano (JCPOA), così come nel mantenimento dell’accordo dopo il ritiro
dell’amministrazione Trump.
Più
recentemente, un gruppo di contatto che riunisce l’Unione europea, la Germania,
la Francia e l’Italia ha permesso un’azione europea più forte nella crisi
libica, in particolare per sostenere le Nazioni Unite per ottenere un accordo
inter-libico su un nuovo esecutivo nel febbraio 2021.
In
generale, il principio dei gruppi di contatto per reagire alle crisi può allo
stesso modo migliorare l’efficienza a medio termine del contributo europeo alla
risoluzione di diverse crisi mediorientali.
Nello
stretto di Hormuz, la mobilitazione degli Stati membri che contribuiscono
all’operazione EMASOH potrebbe essere completata da altre azioni europee, per
esempio la fornitura di forze navali complementari o il sostegno politico.
In Iraq, i contributi di diversi Stati membri,
come la Danimarca, che ha annunciato l’invio di 285 soldati per assumere la
missione di addestramento svolta dalla NATO, potrebbero attirare le risorse di
altri paesi disposti a contribuire a sostenere il governo iracheno e la
de-escalation tra le milizie filo-iraniane e gli Stati Uniti14.
In
Siria, lo “Small Group” formato nel 2016 da Stati Uniti, Francia, Germania,
Gran Bretagna, Arabia Saudita e Giordania potrebbe essere rilanciato,
potenzialmente legato al formato Astana, creato tra Russia, Turchia e Iran nel
gennaio 2017 nella capitale kazaka.
Il
gruppo dei principali donatori europei potrebbe lavorare con l’amministrazione
Biden per esercitare una pressione congiunta sul Segretario Generale dell’ONU
per affrontare le questioni di governance e di deviazione degli aiuti nelle
agenzie ONU con sede a Damasco, con l’obiettivo di rafforzare gli aiuti
umanitari.
Gli
Stati Uniti e l’Unione europea potrebbero anche aumentare congiuntamente i
finanziamenti per le attività di stabilizzazione nel nord-est della Siria.
Per
quanto riguarda lo Yemen, uno sforzo di mediazione franco-tedesco potrebbe
sostenere la politica statunitense volta a creare una dinamica regionale più
sana nel Golfo.
Verso
un Consiglio di sicurezza europeo.
A
seconda delle dinamiche negli Stati membri, i gruppi di contatto potrebbero
essere creati su una base ad hoc – coordinati dal SEAE – o istituiti in modo
più formale.
Si
potrebbe immaginare la creazione di un Consiglio di sicurezza europeo (CES), un
concetto menzionato dalla Cancelliera Angela Merkel e dal presidente Emmanuel
Macron.
Il CES sarebbe una versione ridotta del
Comitato politico e di sicurezza dell’Unione e potrebbe riunirsi con brevissimo
preavviso per reagire alle crisi internazionali, permettendo reazioni che
vadano oltre le dichiarazioni.
Un
tale Consiglio di sicurezza europeo potrebbe anche essere l’architetto della
cooperazione multilaterale per riunire gli attori che hanno i mezzi necessari
per contribuire alla ricostruzione economica dei Paesi in via di sviluppo, di
cui il Medio Oriente e il Nord Africa sarebbero i principali beneficiari.
Questo
rifletterebbe anche un possibile rinnovamento del dibattito tra gli Stati Uniti
e l’Europa, concentrandosi sugli investimenti in soft power e sullo sviluppo
economico.
La stanchezza degli Stati Uniti nei confronti
dell’azione militare e la priorità dell’Unione Europea di regolare le
migrazioni nel suo ambiente immediato dovrebbero portare i partner
transatlantici a rivalutare i loro strumenti di aiuto umanitario,
stabilizzazione e sostegno socio-economico.
Un rinnovato
consenso transatlantico e una tabella di marcia su questi temi avrebbero un
potente effetto leva sulle ONG e sulle istituzioni internazionali finanziate da
entrambe le parti.
Questa
dinamica potrebbe essere ancora più essenziale in un contesto di crisi
istituzionale o di collasso delle strutture statali.
In un tale scenario, sia l’Europa che gli
Stati Uniti si troverebbero di fronte alla mancanza di “partner diplomatici
tradizionali” per sostenere la tradizionale cooperazione intergovernativa.
Conclusione.
Le
crisi alle porte dell’Europa sono dunque il prodotto di tre polarizzazioni
(interna, regionale, internazionale), in costante interazione.
Alcuni attori, come la Russia e la Cina, sono
membri del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, e quindi partecipano in
varia misura al blocco dell’attore ONU, come in Siria.
Altri, come Ankara, Teheran o Tel Aviv, hanno
una visione strategica dei loro interessi, che non contribuisce necessariamente
al trattamento politico delle crisi della regione.
Se le
capacità di proiezione del Qatar, degli Emirati e dell’Arabia Saudita non sono
comparabili (con un chiaro vantaggio comparato di Abu Dhabi), il loro
inserimento rispettivo nelle reti di alleanza o di partner, alcune delle quali si sovrappongono (sia con
gli Stati Uniti che con alcuni paesi dell’Unione europea), permettono loro di
sviluppare una diplomazia più assertiva, in un contesto segnato dall’assenza di
un consenso minimo dell’ONU e da una divergenza di vedute tra i due “poli”
occidentali (sotto Donald Trump, in attesa di vedere cosa accadrà sotto l’amministrazione
Biden).
Uno
dei paradossi della politica estera europea è che il rafforzamento della sua
azione nel Medio Oriente e in Africa del Nord passa attraverso Washington.
Questa
constante potrebbe sembrare controintuitiva, soprattutto in una tradizione e
una dottrina francese fondate sull’autonomia operazionale, la sovranità
nazionale e un progetto europeo eminentemente politico.
Riflette
tuttavia le scelte democratiche e strategiche effettuate per molti decenni
dagli altri Stati membri, compresa la dipendenza volontaria dagli Stati Uniti.
Di
conseguenza, un intervento decisivo dell’Unione e dei “grandi” europei nelle
crisi della regione non è semplicemente concepibile senza tener conto della
posizione americana.
Non si
tratta di allinearsi con una linea americana, ma di cercare insieme soluzioni
politiche alle crisi che riguardano direttamente e principalmente l’Europa.
Uno
dei paradossi della politica estera europea è che il rafforzamento della sua
azione nel Medio Oriente e in Africa del Nord passa attraverso Washington.
Questa
constante potrebbe sembrare controintuitiva, soprattutto in una tradizione e
una dottrina francese fondate sull’autonomia operazionale, la sovranità
nazionale e un progetto europeo eminentemente politico.
Riflette
tuttavia le scelte democratiche e strategiche effettuate per molti decenni
dagli altri Stati membri, compresa la dipendenza volontaria dagli Stati Uniti.
(CHARLES
THEPAUT).
Un
altro paradosso per gli Europei è che la strategia russa in Medio Oriente
prenda la forma di un “trabocco” russo dal lato est verso il lato sud
dell’Unione.
Se
certi Stati Membri sono reticenti a sostenere un impegno più forte dell’Unione
in Medio Oriente volendo concentrare le loro azioni sulle minacce russe, Mosca
è ormai in grado di influenzare entrambe le parti, per esempio incoraggiando la
Turchia a giocare la carta della migrazione in Siria o in Libia.
Se l’affare Navalny e l’accoglienza ostile di Mosca a
Josep Borrell nel febbraio 2021 hanno riaperto acutamente la questione delle
relazioni euro-russe, il Medio Oriente non può più essere escluso da questa
equazione nel pensiero europeo.
Questo
non significa che l’interesse dei vari Stati Membri nei confronti della Russia
può essere direttamente “trasferita” dal lato est a quello sud o viceversa.
La sfida è piuttosto quella di riuscire a incrociare
le priorità e le leve dei paesi europei nei confronti della Russia e di
articolarle in modo coerente.
Queste
sfide, sia concettuali che operative, ricordano quanta strada deve fare
l’Unione per stabilire la sua autonomia strategica, e quanto sia urgente
accelerare la dinamica interna in corso.
Questo
riflette anche la realtà delle percezioni in Medio Oriente.
Gli
attori regionali adattano i loro rispettivi calcoli strategici in base alle
loro percezioni della politica statunitense.
Attualmente,
l’azione dell’Unione Europea appare loro di importanza trascurabile, poiché
ritengono che non sia in grado di reagire abbastanza rapidamente alle loro
manovre unilaterali.
In
questo contesto, l’autonomia strategica è tanto più difficile da costruire in
quanto molti Paesi europei continuano a rivendicare la loro dipendenza
strategica dagli Stati Uniti.
Questi
Stati membri spesso preferiscono accettare le decisioni degli Stati Uniti nei
confronti del vicinato europeo piuttosto che impegnarsi in dialoghi complicati
con altri Paesi europei.
Il
riesame delle posizioni strategiche europee è tanto più utile in quanto può
anche permettere di stabilire condizioni e parametri più chiari nei confronti
degli Stati Uniti. In effetti, la regione del Medio Oriente e del Nord Africa
mostra anche la difficoltà degli Stati Uniti a condividere il processo
decisionale con i suoi partner europei, mentre gli europei sono riluttanti a
condividere gli oneri.
Di
fronte ai cambiamenti in corso nella regione, così come negli Stati Uniti e in
Europa, il dialogo transatlantico non deve più essere visto come un esercizio
educato che favorisce l’acquiescenza simbolica europea alle politiche di
Washington.
Piuttosto,
dovrebbe servire come base per una revisione comune degli obiettivi e dei mezzi
da perseguire nella regione.
Così
facendo, l’Europa e gli Stati Uniti possono dare un contributo più umile ma necessario
per rafforzare la sicurezza, lo sviluppo umano e l’autodeterminazione nella
regione.
La relazione tra l’Europa e il mondo arabo non
si limita infatti alle situazioni di crisi, anche se queste richiedono
un’attenzione particolare a causa del loro impatto.
Una
migliore gestione delle crisi è, dunque, una delle condizioni per un
trattamento più pacifico ed equilibrato dei numerosi legami che ci uniscono al
nostro vicinato.
OSSERVATORIO
GLOBALIZZAZIONE.
Il
concetto di Impero nel
pensiero
di Jiang Shigong (Cina).
Osservatorioglobalizzazione.it-
(1° FEBBRAIO 2021) - DANIELE PERRA – ci dice:
Neomaoista,
schmittiano, nazionalista, socialista conservatore, interprete del pensiero di
Xi Jinping, il filosofo politico cinese Jiang Shigong è stato definito in
diversi modi ma nessuno lo descrive realmente appieno.
Ciò
che appare evidente è il fatto che il suo sia un pensiero totalmente
“illiberale”. In questo articolo si cercherà di analizzarlo partendo da un
concetto centrale all’interno della sua elaborazione teorica:
l’idea
di impero come attore principale della storia mondiale.
La
storia globale è storia di scontro e competizione per l’egemonia tra imperi
diversi e storia dell’evoluzione delle forme imperiali.
Lo
Stato-nazione è un prodotto relativamente recente e moderno, e le sue attività
politico-economiche sono sempre state garantite da forme di ordine imperiale.
Sulla
base di questo assunto, Jiang Shigong, professore della scuola di diritto
dell’Università di Pechino, si propone di riesaminare la storia mondiale
partendo dalla prospettiva imperiale e superando l’ideologia dello
Stato-nazione.
Una simile prospettiva si pone già in partenza in
totale antitesi rispetto ad una forma di pensiero particolarmente in voga in
“Occidente” negli anni recenti che ha trovato massima espressione nell’opera
del teorico israeliano Yoram Hazony.
Di
fatto, Hazony, nel suo testo “Le virtù del nazionalismo”, avanza l’idea che il
“nazionalismo sia vecchio come l’Occidente” (concetto ad onor del vero
abbastanza oscuro se non si specifica a quale realtà “occidentale” ci si
riferisca visto che l’“Occidente”, così come oggi lo conosciamo, è il prodotto
di una costruzione ideologica piuttosto recente) e che il primo prototipo di
Stato-nazione sia stato rappresentato dal biblico Regno di Israele.
Ciò
che sorprende della teoria di Hazony è il fatto che questa (forse anche per
evitare un confronto diretto con il pensiero schmittiano) si tenga ben lontana
dall’esaminare il concreto processo di creazione dello Stato nell’Europa
moderna.
Gli
Stati-nazione per eccellenza, nel pensiero dell’ideologo israeliano, sono
infatti gli Stati Uniti e l’odierno Stato d’Israele.
Inutile dire che un simile approccio, dietro
il desiderio della parcellizzazione del mondo, nasconda il tradizionale
principio imperialista del divide et impera e la volontà di dominio dello Stato
forte sullo Stato debole.
Al
contrario, Shigong, sulla linea del geo politologo francese François Thual, si
domanda quanti degli attuali oltre 200 Stati esistenti siano realmente sovrani
e se l’ordine globale sorto dalla Seconda Guerra Mondiale e dalla fine della
Guerra Fredda sia concretamente costituito su una moltitudine di entità
politiche dotate di medesimi diritti in ambito internazionale o meno.
La risposta a tali quesiti non può prescindere
da un’analisi del concetto di impero così come viene inteso dal pensatore
cinese.
L’impero
come forma universale.
Shigong
utilizza il termine “impero” come concetto descrittivo sociologico e
intellettuale.
L’impero,
forza motoria dietro ogni grande cambiamento e sviluppo nel corso della storia,
è il sistema politico che governa i “grandi spazi”.
L’idea
imperiale è sempre universale ma storicamente è stata sempre limitata nello
spazio e nel tempo.
Solo
con l’accelerazione della globalizzazione negli ultimi decenni si è sviluppata
l’idea di una civilizzazione mondiale fondata sui valori dell’impero uscito
vincitore nello scontro tra forme imperiali con aspirazioni mondiali:
il modello liberal-democratico nordamericano
ed il modello comunista sovietico.
A
questo proposito è bene ricordare l’intrinseca peculiarità della forma
imperiale nordamericana pervasa di messianismo dall’ideale del “destino
manifesto”.
Questa
idea è stata ampiamente approfondita dallo studioso Anders Stephanson che,
osservando differenze e similitudini tra il modello nordamericano e le forme
imperiali del passato, è giunto alla conclusione che tutte più o meno
indistintamente abbiano sostenuto la propria unicità e sotto certi aspetti
preteso di essere state consacrate da un ordine superiore.
Tuttavia,
solo nel caso nordamericano tale idea di “consacrazione” si è presentata come
convinzione di diritto alla trasformazione del mondo a propria immagine e
somiglianza con l’obiettivo di giungere a quella che viene definita
propriamente come “fine della storia”.
Cinque
forme di impero per cinque civiltà.
Ora,
Shigong individua cinque civiltà imperiali che hanno contraddistinto
storicamente la massa continentale eurasiatica: la civiltà sino-confuciana, la
civiltà indù, la civiltà islamica, la civiltà cristiana dell’Europa e la
civiltà delle steppe dalla quale è sorta l’entità imperiale zarista.
Tutte indistintamente erano civiltà imperiali
“terrestri”, almeno fino all’epoca d’oro delle navigazioni transoceaniche.
La
civiltà cristiano-europea ha sempre percepito quella islamica e quella russa
come minacce per il semplice fatto che queste, posizionate a metà tra
l’Occidente e l’Oriente dello spazio eurasiatico, bloccavano la via europea
verso l’India e l’Est.
Gli
stretti rapporti tra la civiltà islamica e l’Oriente, secondo Shigong,
consentirono a questa di mantenere una sostanziale superiorità militare e
intellettuale rispetto all’Europa per tutto il corso del Medioevo.
Tuttavia,
i rapporti di forza mutarono quando gli Europei, costretti a prendere la via
degli oceani, “scoprirono” il Nuovo Mondo ed iniziarono a navigare attorno
all’Africa.
Con la
colonizzazione del “Nuovo Mondo” inizia anche la competizione all’interno
dell’Europa ed il processo di formazione dello Stato-nazione come entità
moderna in aperto contrasto con i modelli imperiali “datati” (Russia, Impero
Ottomano e Cina).
Ma la competizione interna all’Europa si
proietta ancora una volta come competizione tra modelli differenti di impero
coloniale.
Ai
modelli iberici “inclusivi” (ogni singolo “indio” era comunque ritenuto un
suddito della Corona) ed ancora pervasi dei caratteri tradizionali degli imperi
terrestri si
contrappongono i modelli britannici e olandesi “esclusivi” e razzisti (la popolazione indigena delle
Americhe, anche in virtù di un modello di colonizzazione ideologica incentrata
sul mito puritano del nuovo esodo biblico, viene ritenuta meritevole di
annichilimento) incentrati sul potere mercantile marittimo.
Il
modello nordamericano, uscito vittorioso dal confronto tra nuove forme
imperiali nel corso del Novecento, si pone come erede del modello britannico ma
possiede anche dei caratteri propri.
Questo
è un sistema globale onnicomprensivo che si mantiene solo in termini relativi
attraverso l’occupazione militare (limitata solo a specifiche aree di interesse
strategico).
L’impero
globale nordamericano si fonda sul predominio scientifico, tecnologico e
commerciale (sul ruolo del dollaro come valuta di scambio internazionale che
consente la possibilità di imporre sanzioni unilaterali ai Paesi “dissidenti”),
su istituzioni internazionali più o meno eterodirette da Washington e
sull’utilizzo dello stesso diritto internazionale a proprio piacimento.
Di fatto, il rapporto tra Cina (Paese esportatore di
beni ed importare di debito nordamericano) e USA è andato avanti finché questa
non ha iniziato a minacciare seriamente il potere tecnologico di Washington
che, in passato, aveva già schiacciato i tentativi giapponesi ed europei nel medesimo
campo.
Secondo
Shigong tanto la Russia quanto la Cina si muoverebbero all’interno del sistema
imperiale globale nordamericano e non al suo esterno.
La
loro sfida, dunque, parte dall’interno di questo sistema anche se punta a
superarlo. Inutile dire che una simile concezione smaschera apertamente
l’inganno della dicotomia politica “occidentale” globalismo/sovranismo.
Lo scontro politico tra “sovranisti” e
“globalisti” si muove ancora una volta all’interno di un ordine globale che
esiste già ed entrambi mirano a rimanere in tale ordine e non ad uscirne (i
sovranisti che ambiscono al massimo ad una sovranità sotto protezione di
Washington) o addirittura a rinforzarlo ulteriormente (globalisti).
E, di conseguenza, non sorprende il fatto che
la Cina, con il suo obiettivo di costruire un nuovo “nomos della terra”, venga
vituperata alternativamente da entrambi gli schieramenti.
Ora,
nella prospettiva di Shigong, il sistema imperiale nordamericano è in crisi
perché ha cercato di imporre una uniformazione totale su scala globale del
proprio sistema ideologico, mentre la forza dell’impero è sempre stata
costituita dalla possibilità dell’eterogeneità all’interno di un grande spazio.
Un grande ordine politico, infatti, deve
necessariamente fungere da scenario per lo sviluppo di modelli locali che, a
loro volta, non possono esistere al di fuori dello stesso ordine.
Un
impero, se vuole avere aspirazioni globali, deve essere in grado di fornire un
meccanismo di coordinamento su scala planetaria che consenta la competizione
produttiva e la coesistenza pacifica tra modalità di organizzazione politica ed
economica differenti.
L’“Occidente”,
al contrario, ha cercato di superare l’antagonismo con l’uniformazione
ideologico-politica (più o meno forzata a seconda degli scenari).
Ma
l’ideologia politica dell’“Occidente” a guida nordamericana, intrinsecamente
decadente nel suo liberalismo politico e culturale, ha condotto lo stesso
“Occidente” alla crisi odierna ed all’inizio di una implosione dal centro
imperiale che, a suo tempo, era stata già prevista da un altro pensatore cinese
ed oggi consigliere di Xi Jinping: Wang Huning, autore del libro “America
contro America”.
Di
fronte al rapido collasso del sistema, la Cina, come Stato dissidente
all’interno dell’impero, qualora voglia assumere un ruolo guida nella costruzione di
quello che è stato schmittianamente definito come “nuovo nomos della terra”, dovrà fornire una soluzione che sia
capace di far coesistere istanze diverse; una “armonia senza uniformità” (o
“unità nella molteplicità”).
Un
concetto, quello di “armonia senza uniformità”, che ricopre una posizione centrale
nel pensiero tradizionale cinese.
Questo
pensiero, infatti, non è mai stato “unipolare”.
La
stessa rappresentazione cinese dell’Universo non è mai stata monista.
Essa
si è tradizionalmente ispirata all’idea che il tutto si distribuisce in
raggruppamenti diversi e diversamente gerarchizzati.
Il
Cielo è uno e la Terra è molteplice.
Il Dio del Cielo, secondo la cosmogonia
sinica, appena concepito come persona unica, si frammentò in ipostasi diverse.
E
queste ipostasi presero i loro attributi dalle particolarità delle regioni
terrestri alle quali furono preposte.
Alle
radici del pensiero cinese.
In
questo senso, il pensiero tradizionale cinese, incapace di cogliere il modo di
pensare occidentale che distingue “soggetto” e “oggetto” (o hegelianamente la
dicotomia padrone/schiavo), è già in sé multipolare ed anti-imperialista.
Ma se la Cina vuole realmente operare per un
superamento del modello unipolare nordamericano, sulla base della sua stessa
Tradizione, secondo Shigong sarà necessaria una “volontà costante e terribile”.
È un
dato di fatto che la Cina, ormai da tempo, non sia più ispirata da idee di
origine “occidentale”.
Il
pensiero cinese del Novecento, come ha affermato un altro intellettuale cinese
“schmittiano” Liu Xiaofeng, si è sviluppato come reazione alla penetrazione
coloniale e culturale occidentale ed ha trovato nel marxismo-leninismo uno
strumento per combatterla.
Ma il maoismo, al contempo, è riuscito a trascendere
il pregiudizio materialista del marxismo-leninismo.
Il
marxismo, in Cina, si è fuso con il principio tradizionale della “conoscenza
del cuore”.
La
cultura cinese ha infuso il comunismo di una capacità spirituale completamente
nuova.
E in
questo senso, il pensiero di Xi Jinping, come evoluzione del maoismo ed
operando un rinnovamento del socialismo guardando all’indietro, si caratterizza
come integrazione tra pensiero tradizionale e teoria del comunismo.
L’interpretazione
che Shigong fornisce del rapporto di Xi Jinping al 19° congresso del PCC è
particolarmente interessante.
Questo rapporto, infatti, posiziona l’era Xi
nella storia in quattro modi differenti.
Innanzitutto
è bene chiarire che l’utilizzo di divisioni storiche per esprimere il pensiero
politico è un metodo tradizionalmente impiegato dalla cultura cinese.
Così, la storia recente della Cina è stata suddivisa
attraverso uno schema generazionale (era Mao, era Deng e così via) concentrato
sul principio gerarchico confuciano che enfatizza il primato degli anziani sui
più giovani.
Dunque, secondo Shigong, Xi Jinping, anche per
contrastare i tentativi interni di coloro che hanno cercato di mettere questi
periodi in contrasto tra loro, ha in primo luogo accompagnato il modello
generazionale con un sistema di periodizzazione in fasi differenti: ridestarsi, arricchirsi, divenire
forti.
In
secondo luogo, Xi Jinping enfatizza il passaggio dall’impostazione nazionalista
del “socialismo con caratteristiche cinesi” alla ricerca di un ruolo globale
cinese nel superamento del modello nordamericano.
A
questo proposito, l’errore occidentale è sempre stato quello di paragonare (per ovvi motivi legati a precise
strategie di mantenimento dell’egemonia ideologica) l’ascesa della Cina a quella della
Germania nazista (come fa ancora nel 2021 l’economista statunitense Clyde Prestowitz) o
alla minaccia sovietica (idea ampiamente diffusa negli ambienti
neoconservatori).
Al
contrario, l’idea cinese, puramente multipolare, non si pone in aperto
contrasto con il liberalismo occidentale.
L’“Occidente”, qualora lo ritenga opportuno, è
libero di mantenere il suo modello e rafforzarlo (eventualmente).
Tuttavia,
non può in alcun modo pretendere di imporlo ad altri.
Xi
Jinping non parla mai di “modello cinese” ma di “soluzione cinese” o “sapienza
cinese”.
Questa
“soluzione cinese” è solo una possibilità da adottare: un’opzione possibile per tutti quei
Paesi che vogliano accelerare il loro sviluppo cercando di mantenere la propria
indipendenza.
In
terzo luogo, la Cina non segue dogmaticamente idee sviluppate e prodotte
dall’esperienza occidentale del socialismo.
Il socialismo cinese ha caratteristiche
propriamente cinesi grazie alla tradizione cinese.
In esso si opera un’integrazione tra lo Stato
di diritto (fondamentale a questo proposito il neonato codice civile ispirato
al diritto romano) e lo Stato delle virtù di chiara origine confuciana.
Ed
esso non è collassato, alla pari del modello sovietico, perché Mao ha
individuato per primo tale via criticando il revisionismo di Krusciov.
In
questo sistema il Partito e il Congresso rappresentano i due corpi del popolo all’interno
di una struttura statale che include politica, legge, cultura e ideologia.
Il Partito, al contempo, incarna e rappresenta
la costituzione non scritta della Cina.
Il Paese orientale, così, si trasforma in una unità organica
dove non esiste nulla di individuale alienato dal collettivo.
È un
tutto organico e spirituale.
Scrive
Shigong: “Il
comunismo non è soltanto una bella vita futura ma è anche e soprattutto la
condizione spirituale dei membri del Partito nella pratica della vita politica
[…] nel contesto della tradizione culturale cinese, la comprensione di questo
supremo ideale non è più quella di Marx il cui pensiero dipendeva dalla
tradizione teorica occidentale ma è intimamente legato alla Grande Unione del
Tianxia della tradizione culturale cinese”.
Il
concetto tradizionale di Tianxia (“tutto ciò che sta sotto il cielo”) porta
direttamente all’ultimo punto ed alla “grande unione” come “unità nella
molteplicità” del nuovo nomos della terra.
Il modello imperiale cinese è sempre stato
sostanzialmente eterogeneo e concentrato sulla ricerca della convivenza
pacifica nel rispetto delle reciproche differenze (un modello simile a quello
achemenide e romano).
Sulla base di questa idea tradizionale, la
Cina dovrebbe essere capace di proporre un sistema mondiale in cui i naturali
antagonismi vengano superati dalla prassi e dalla ricerca della cooperazione
costruttiva.
Alla
luce di quanto sin qui affermato, non sorprende la particolare attenzione che
Shigong riserva alla condizione di Hong Kong.
La città
rappresenta infatti il banco di prova per le capacità cinesi di sperimentare un
ordinamento in grado di coordinare sistemi multipli (o addirittura opposti)
all’interno del medesimo sistema.
Hong
Kong, nella prospettiva di Shingong, è il fulcro con il quale fare leva
sull’“Occidente” per dare vita al suddetto “nuovo nomos della terra”.
Affrontare
il problema di Hong Kong significa affrontare il rinnovamento della civiltà
cinese e sancire
il potenziale successo o meno della “soluzione cinese”.
Per questo motivo, il teorico politico cinese
è fermamente convinto della necessità che Pechino debba muoversi con estrema
circospezione in questo ambito.
Chi
aggredisce l’“Europa”?
Internationalcommunistparty.it
– Redazione – (01 Ottobre 2022) – ci dice:
Siamo
in presenza di uno svolto decisivo in cui crisi economica, crisi sociale, crisi
politica e guerra convergono in un tutto denso di incognite e prospettive.
Non è
impresa facile districarsi tra tutti i fattori che determinano i nuovi scenari
e individuare, almeno approssimativamente, la direttrice degli eventi in
funzione dei loro inevitabili esiti catastrofici.
In questo compito ci viene in aiuto il
fondamentale lavoro di sistemazione dei capisaldi del marxismo rivoluzionario,
compiuto dalla Sinistra comunista “italiana” nel secondo dopoguerra, che ci
offre alcune linee di lettura.
Una di
queste riguarda la direttrice storica dell'”aggressione all'Europa”, espressa
nell'omonimo articolo uscito nel 1949 su quello che allora era il nostro organo
teorico, Prometeo, in cui si dava una valutazione del differente peso relativo
degli imperialismi russo e americano.
Russia e America, differenti “concentramenti di
potenza”.
Fu,
questo, uno dei temi che alimentarono la polemica interna che, agli inizi degli
anni Cinquanta, portò alla scissione nel Partito Comunista Internazionalista e
alla nascita del Partito Comunista Internazionale – Programma comunista.
Poiché
riteniamo che quella discussione fornisca elementi utili a valutare la portata
e il significato dell'attuale scontro tra imperialismi, riproduciamo di seguito
due passaggi sull'argomento, tratti dalla corrispondenza tra Onorio (Onorato
Damen) e Alfa (Amadeo Bordiga):
“Non è
possibile al partito rivoluzionario non praticare una politica di equidistanza,
soprattutto se in periodo di guerra guerreggiata, tra un paese a massimo sviluppo
capitalistico come gli U.S.A. e la Russia ad economia che tu fai tendere al
capitalismo;
potrebbe divenire la premessa teorica per
nuove esperienze intermediate; in ogni modo verrebbe a turbare profondamente i
termini della visione strategica del partito della rivoluzione nel corso della
prossima guerra imperialista.” (Onorio ad Alfa, 6 ottobre 1951).
“Prendo
prima la tua osservazione relativa alla pag. 3.
Domandi:
proprio soltanto l'America tende ad assoggettare etc.? Ma tu stesso hai
riportato l'inciso mio: secondo la natura e la necessità di ogni grande
concentramento metropolitano di capitale, di forza di produzione e di potere.
Dunque non solo l'America, ma ogni concentramento. Dove e quali nei successivi
momenti storici tali concentramenti? Qui il punto.
Portiamo
in conto: territorio e sue risorse, popolazione, sviluppo della macchina
industriale, numero del proletariato moderno, possessi coloniali come materie
prime, riserve umane, mercati, continuità storica del potere statale, esito
delle guerre recenti, progresso nel concentramento mondiale delle forze sia
produttive che di armamento.
Ed allora possiamo concludere che, nel 1900, 5
o 6 grandi potenze erano sullo stesso fronte o quasi; nel 1914, poniamo si
fronteggiavano Inghilterra e Germania; oggi?
Esaminati
tutti quei fattori si vede che l'America è il concentramento n. 1 nel senso –
oltre tutto il resto, ed oltre la probabilità di vincere in ulteriori conflitti
– che sicuramente può intervenire ovunque una rivoluzione anticapitalista vincesse.
In
questo senso storico dico che oggi la rivoluzione, che non può che essere
internazionale, perde il tempo se non fa fuori lo stato di Washington.
Ciò
significa che ne siamo ancora lontani? Okei.” [corsivo nostro – NdR] (Alfa ad
Onorio, 9 luglio 1951).
I
nostri lavori di partito degli anni Cinquanta individuavano le forze storiche
che presiedevano alla duratura conservazione del modo capitalista di produzione
nelle vittoriose formazioni statuali anglosassoni, Stati Uniti in primis,
rafforzate dalla riduzione a vassalli dei capitalismi sconfitti.
Quanto
alla natura economica e sociale della Russia allora sovietica, e dei vassalli
suoi, se ne affermavano con chiarezza i tratti capitalistici e il ruolo
internazionale controrivoluzionario, smontando qualunque illusione sulla
capacità di quelle forze di competere, pacificamente o meno, con lo sviluppo
impetuoso dei capitalismi d'occidente a partire da un modello economico e
sociale presunto alternativo e superiore, “socialista”, che fosse di riferimento
per i popoli “colorati”, che, in quell’epoca, stavano tentando di scrollarsi di
dosso il dominio imperialista.
La
storia fece il suo corso e, alla fine della bella sfida (che tutto fu fuorché
pacifica), ciò che restava dello Stato che aveva tradito e usurpato l'Ottobre
rosso pacificamente collassava sotto la pressione delle dinamiche democrazie
d'Occidente, ben più attrezzate di quello in termini capitalistici e superiori
per statistiche di produzione e reddito, avendo lo Stato russo accettato da tempo
di combattere con le armi del nemico e sul terreno del nemico – pienamente
capitalistico – una battaglia impari.
L'effettivo
sviluppo storico si è occupato di dare il responso su chi, sulla questione
discussa nella corrispondenza tra Onorio ed Alfa, si ponesse allora nella
corretta prospettiva marxista.
Lo stesso richiamo dovrebbe valere per
orientarsi oggi sul problema della guerra in corso, e non correre il rischio di
limitarsi a una generica opposizione alla guerra imperialista che avrebbe ben
poco a che vedere con gli insegnamenti di Marx, Engels e Lenin.
Non intendiamo per questo sottovalutare il
pericolo (segnalato da chi sostenne allora la tesi dell'“equidistanza” del
partito comunista rispetto a qualsivoglia imperialismo, a prescindere dai suoi
connotati di potenza) che il riconoscimento del principale nemico da battere
potesse portare a smottamenti su posizioni frontiste e partigianesche.
Il
principio che i comunisti non parteggiano per e non si schierano in agglomerati
di forze spurie rimane scolpito nella roccia.
Nel
lontano 1946, e sempre su Prometeo, nel delineare le prospettive del
dopoguerra, il nostro movimento aveva posto chiaramente la questione:
“Noi
affermiamo senz'altro che alle diverse soluzioni non solo delle grandi guerre
interessanti tutto il mondo, ma di qualunque guerra, anche la più limitata,
hanno corrisposto e corrisponderanno diversissimi effetti sui rapporti delle
forze sociali in campi limitati e nel mondo intiero, e sulle possibilità di
sviluppo della azione di classe...” (“Prospettive del dopoguerra in relazione
alla piattaforma del Partito”, Prometeo, n.3, 1946).
Se
dunque gli esiti di qualsivoglia conflitto, a più forte ragione se tra blocchi
mondiali, decidono i percorsi e le sorti della lotta di classe, i comunisti non
possono essere indifferenti alla vittoria dell'uno e dell'altro contendente e
affidarsi unicamente al dato di fatto che entrambi sono forze di classe nemiche
del proletariato.
A
evitare fraintendimenti, nello stesso testo si precisavano “tre arbitrarie
posizioni” che sarebbero potute discendere dalla premessa e che così
sintetizziamo:
la
prima, che il proletariato si faccia ingannare dagli obiettivi, sempre
nobilissimi, progressivi e financo “rivoluzionari”, che fanno da carburante
ideale alle guerre borghesi;
la seconda, che non tenga conto che a una vittoria
militare può corrispondere una sconfitta politica e viceversa (Waterloo non
impedì il trionfo delle forze borghesi in Europa e il fascismo sconfitto in
guerra fu vittorioso nel generalizzarsi delle forme totalitarie di dominio di
classe in tempo di pace);
e
infine che “quando anche le due soluzioni del conflitto siano apportatrici di
diverse possibilità, sicuramente prevedibili e calcolabili per il movimento, la
stessa utilizzazione di queste possibilità non può venire assicurata che
evitando di compromettere nella politica dell'infeudamento opportunista, le
energie principali di classe e le possibilità di azione del Partito”.
Perno irrinunciabile, dunque, l'indipendenza
del Partito e la salvaguardia del suo invariante programma integrale.
Il
pericolo di scivolare nell'opportunismo è scongiurato se il Partito mantiene la
propria totale autonomia, non persegue obiettivi “intermedi” assieme ad altre
forze politiche e, in caso di guerra, rispetta la consegna di non deflettere
dal disfattismo radicale in casa propria, sia essa la casa di una borghesia
imperialista dominante o di una vassalla.
Il
concetto è espresso a chiare lettere proprio nell’articolo “Aggressione
all'Europa”. Citiamo:
“Le
guerre potranno volgersi in rivoluzioni a condizione che, qualunque sia il loro
apprezzamento, che i marxisti non rinunziano a compiere, sopravviva in ogni
paese il nucleo del movimento di classe internazionale, sganciato integralmente
dalla politica dei governi e dai movimenti degli Stati maggiori militari, che
non ponga riserve teoriche e tattiche di nessun genere tra sé e le possibilità
di disfattismo e di sabotaggio della classe dominante in guerra, ossia delle
sue organizzazioni politiche statali e militari.” (Prometeo, n.13, agosto 1949)
Nella discussione
che precedette la scissione del 1952, i gruppi del Partito che facevano capo a
Onorato Damen equiparavano i due imperialismi che si spartivano il mondo del
dopoguerra, attribuendo anzi all'URSS la forma capitalistica più avanzata
storicamente quanto a centralizzazione e totalitarismo, e derivavano da questo
giudizio la necessità di un atteggiamento di equidistanza o, si potrebbe dire,
di indifferentismo, in rapporto agli esiti di uno scontro tra i due blocchi.
Riportiamo il punto dell'ordine del giorno del II congresso del Partito
comunista internazionalista, che sancì la scissione:
“Di
fronte al concentramento russo di capitale, di forza, di produzione e di
potere, dichiara che esso è, quanto quello americano, una forza egemonica sul
piano delle forze capitaliste in urto sulla scena mondiale.” (leftcom.org/files/2019-quaderni-st07.pdf,
p.33.)
Per
contro, i compagni che avrebbero dato vita a Il programma comunista,
individuata nella immane concentrazione di forza controrivoluzionaria
dell'imperialismo americano il pilastro che reggeva l'impalcatura del dominio
capitalistico nel mondo, ne traevano la necessaria conclusione che solo la sua
liquidazione avrebbe posto le condizioni per il crollo dell'intero sistema,
mentre ogni sua ulteriore vittoria sarebbe stata foriera di tempi ancor più
duri per il proletariato di ogni luogo, per un periodo “misurabile a decenni o
generazioni”. Il fattore dirimente era rappresentato dalla valutazione della
natura economica e sociale dell'URSS, pienamente capitalistica per Onorio,
tendente al capitalismo per Alfa:
“Camminare
verso il capitalismo, dove le basi sono ormai edificate (come in America)
significa camminare in senso inverso al socialismo.
Ma
camminare verso il capitalismo, ove queste basi storicamente mancano o sono
incomplete, significa l’opposto, ossia camminare nel senso che conduce al
socialismo. È chiaro che il secondo caso allude alla Russia, e ancora più agli
arretrati Stati satelliti e alleati.
E quindi costoro non vanno vituperati per la
politica economica del potere, ma per la politica anti-classista del partito,
che spaccia l’andare al socialismo per lo stare nel socialismo, con
incalcolabili effetti anti-rivoluzionari in tutto il sistema internazionale”. (“Deretano di piombo, cervello
marxista”, Il programma comunista, n.19/1955).
Dalla
diversa valutazione del concentramento di potenza rappresentato dall'URSS
allora e in prospettiva storica, si ricavava il seguente indirizzo tattico:
“Sconfessione
di ogni appoggio al militarismo imperiale russo. Aperto disfattismo contro
quello americano” (in “Per la riorganizzazione internazionale del movimento
rivoluzionario marxista”, Il programma comunista, n. 18/1957 – disponibile sul
nostro sito).
Il crollo dell'URSS, avvenuto senza uso di
missili né invasioni né “rivoluzioni”, confermò quanto sostenuto dalla nostra
corrente circa la natura dell'imperialismo sovietico, sintetizzata nella
definizione quasi ossimorica di “imperialismo debole”, data fin dal 1977:
“La
struttura commerciale e il livello di indebitamento permettono di dire che
l'URSS, mentre svolge una politica imperialistica e detiene una corrispondente
area di influenza politica ed economica, toccatele nell'ultima grande
ripartizione del pianeta fra ladroni imperialistici, è tuttavia un
'imperialismo debole' nella misura in cui hanno per essa un carattere
tutt'affatto secondario l'esportazione di capitali e la tessitura della
corrispondente rete di interessi economici e particolarmente finanziari in
tutto il mondo, sulla quale molto più saldamente che sul semplice prepotere
militare fonda il suo dominio l'imperialismo statunitense.
Persino
al livello meno evoluto della semplice esportazione di merci, la Russia non è
ancora in grado di tenere validamente testa a molti concorrenti di assai minore
peso politico ed anche economico quanto a produzioni assolute.
All'opposto,
essa si presenta sui mercati finanziari mondiali in cerca di capitali, e su
quelli commerciali come acquirente di prodotti industriali.” (“La Russia si apre alla crisi
mondiale”, 1977, riprodotto in Perché la Russia non era socialista, Quaderni
del Partito comunista internazionale, n.10, 2019).
Pur
con tutti i suoi limiti, il gigante “sovietico” rappresentò per oltre
quarant'anni un argine all'espansione mondiale del capitalismo atlantico,
sottraendogli fisicamente un territorio vastissimo ed esercitando un'influenza
politica e ideologica, oltre che economica, su Paesi appena agli albori di un
moderno sviluppo, e proponendosi loro come alternativa alla soggezione “neocoloniale”
all'Occidente.
Con il crollo “sovietico”, dai primi anni Novanta del
‘900 il mondo intero divenne aperto terreno di caccia per i capitali
occidentali affamati di valorizzazione, mentre l'enorme apparato
politico-militare statunitense proliferava e si estendeva, con le buone e con
le cattive, a tutti i gangli vitali di un interscambio di merci e capitali, via
via sempre più vasto e interconnesso.
In
questo contesto di forsennata conquista e predazione, la traiettoria
imperialista per la Russia ex-sovietica sembrava definitivamente spezzata dalla
perdita della sfera di influenza in Europa orientale, dalla svendita delle
proprie immense risorse alle agenzie d'Occidente per tramite di una borghesia
sbocciata dai ranghi dell'alta burocrazia “sovietica”, dal tracollo sociale,
dalla prospettiva della dissoluzione della federazione in un mosaico di nuovi
Stati indipendenti. Il proletariato russo pagò un prezzo durissimo.
Dopo
il crollo del 1990, il processo di liquidazione di ciò che restava dello Stato
nato dalla rivoluzione d'Ottobre non fu conseguenza di un confronto militare,
ma effetto della enorme concentrazione di potenza rappresentata dal capitalismo
USA.
Nell’articolo
“Aggressione all'Europa”, si metteva in conto la possibilità che il “vassallaggio”
della Russia agli Stati Uniti avvenisse non per effetto di una sconfitta
militare, ma nella forma della corruzione della “organizzazione dirigente
russa”:
“Tale
processo potrebbe svilupparsi anche senza una guerra nel senso pieno tra Stati
Uniti e Russia, se il vassallaggio della seconda potesse essere assicurato,
anziché con mezzi militari e una vera e propria campagna di distruzione e di
occupazione, con la pressione delle forze economiche preponderanti della
massima organizzazione capitalistica nel mondo – forse domani lo Stato unico
Anglo-Americano di cui già si parla – con un compromesso attraverso il quale la
organizzazione dirigente russa si farebbe comprare ad alte condizioni [...]”.
È
precisamente quanto si verificò nel terribile decennio finale del secolo scorso
quando, sotto il governo di El'tsin, la Russia fu sottoposta a saccheggio
dall'Occidente capitalista, e una rinnovata classe dirigente venduta si
arricchì a dismisura a spese di una popolazione esposta alle delizie del
mercato liberato dai “lacci e laccioli” del controllo pubblico. Finalmente i
proletari russi conobbero, con la nuova miseria, la vera democrazia.
Alla
fine degli anni Novanta, tutto sembrava preludere alla genuflessione definitiva
anche della Russia all'unico imperialismo dominante il globo.
L'implosione
dava conferma inequivocabile di quanto la nostra corrente aveva sostenuto
intorno alla natura economica e sociale dell'URSS: nel suo progredire verso il
capitalismo, era crollata per l'azione dei fattori caratteristici di una
società pienamente mercantile, senza la quale né la sconfitta in Afghanistan né
le manovre degli imperialismi avversari – che pure ebbero un ruolo – avrebbero
potuto tanto.
A
provocare il crollo furono la formidabile pressione dei mercati mondiali sulla
ancor fragile struttura capitalistica dell'URSS e dei suoi satelliti, la
progressiva penetrazione di merci e capitali occidentali entro i confini del
suo vasto spazio protezionistico, cui si accompagnava, come portato egemonico,
quella relativa agli stili di vita e al modo di pensare della “civiltà
occidentale”.
Tanto
la propensione dell'imperialismo statunitense al dominio globale quanto la
relativa debolezza dell'imperialismo russo trovarono conferma negli eventi
della storia, ma erano già chiari alla nostra corrente in tempi di pieno
“bipolarismo”:
“Coloro
che sono abbacinati dall'imperialismo russo fino a dimenticare la tremenda
forza di dominazione ed oppressione della potenza statunitense, rischiano di
cadere vittime delle deviazioni democratiche e liberaloidi che sono il peggior
nemico del marxismo.
Non a caso la predicazione liberal-democratica
ha il suo pulpito nella sede del massimo imperialismo odierno.
Essi
non vedono come la Russia, il cui espansionismo si volge tuttora nelle forme
del colonialismo (occupazione del territorio degli Stati minori), è ancora alla
fase inferiore dell'imperialismo, l'imperialismo degli eserciti, cioè il tipo
che per due volte è stato sconfitto nella guerra mondiale[...]
Tutti
gli Stati esistenti sono nemici del proletariato e della rivoluzione comunista,
ma la loro forza non è eguale.
Quel
che conta soprattutto per il proletariato, il quale vedrà coalizzarsi contro di
lui tutti gli Stati del mondo appena si muoverà per conquistare il potere, è
prendere coscienza della forza del suo più tremendo nemico, il più armato di
tutti e capace di portare la sua offesa in qualunque parte del mondo” (“Imperialismo delle portaerei”, Il
programma comunista, n.2/1957)
Le
deviazioni democratiche e liberaloidi, di cui alla caduta dell'URSS si volle
celebrare il definitivo trionfo con la pomposa formula della “fine della
storia”, rimangono tuttora il peggior nemico del marxismo, con immutata carica
ideologica e col sostegno di un colossale apparato propagandistico in grado di
spacciare la più spudorata azione di assoggettamento, ove necessario culminante
nella devastazione bellica, per una meritoria azione di liberazione e
progresso, nella migliore tradizione del vecchio colonialismo portatore di
civiltà ovunque vigesse arretratezza e ignoranza.
L'Occidente
pretende ancor oggi di imporre al mondo intero un'ideologia quanto mai logora e
decadente, che associa al liberismo economico un'idea di “libertà” tutta
centrata sull'individuo e sui suoi sconfinati “bisogni” da soddisfare nel
mercato;
libertà solo apparentemente in contrasto con l'introduzione
nelle società “libere e democratiche”, segnate da crescente violenza e spinte
disgregatrici, di forme di controllo sociale totalitarie malamente mascherate
dall'ipocrisia mediatica.
Quale
effetto del sistematico ribaltamento della verità storica e del sistematico
travisamento di fatti che altrimenti smonterebbero i racconti ufficiali, non
sorprende che in difesa dell'Ucraina aggredita siano fatti passare per eroi
patriottici e difensori della libertà gli odierni seguaci dell’ultra- nazionalista
e filo-nazista ucraino Stepan Bandera (1909-1959), emuli dei collaborazionisti
massacratori di ebrei e di proletari russi e polacchi durante l'occupazione
tedesca.
Non
sorprende neppure che oggi, in Germania, i più sfegatati sostenitori della
guerra contro l'“autocratica” Russia si trovino nel “sinistrissimo” partito dei
Verdi, già radicalmente pacifista e detentore del dicastero degli Esteri nel
governo di coalizione.
La
Ministra degli esteri green sembra convinta dell'idea che, schiacciata la
Russia, si prospetti il tramonto dei combustibili fossili – di cui la Russia è
colpevolmente esportatrice – e con le bombe si apra la via maestra al mondo
floreale delle energie rinnovabili.
Simili
idioti si trovano ovunque, nel variegato panorama delle sinistre europee, e
l'unica difficoltà consiste nel distinguere tra questi i veri, utilissimi
idioti, dai menarrosto prezzolati (in tempi di ingegneria genetica non è
esclusa l'ibridazione tra i due tipi).
L'abbiamo sempre sostenuto: sotto la patina
del pacifista si cela il guerrafondaio, sotto quella della democratica cova il
fascista...
Che i
falsi opposti siano destinati a unirsi nell'abbraccio antiproletario è una
necessità storica di cui la nostra Sinistra Comunista ha sempre segnalato e che
oggi sempre più spesso trova riscontro nei fatti.
Buon
segno per chi sa leggere negli apparenti paradossi l'inappellabile giudizio
della Storia.
Limiti
dell'imperialismo russo attuale.
Per
concludere sul “concentramento di potenza” rappresentato dagli imperialismi in
campo, non c'è alcun dubbio che gli Stati Uniti rappresentino tuttora e di gran
lunga quello dominante, tanto da potersi permettere, in qualità di stato
rentier alla scala globale, un perenne e crescente deficit con l'estero a
garanzia del flusso continuo di merci e capitali attraverso continenti ed
oceani.
Come
possiamo definire la natura dello Stato russo oggi?
A cavallo tra la fine del secolo scorso e
l'attuale, a scongiurare il rischio che la Russia scomparisse come autonomo
“concentramento di potenza”, la borghesia russa ha ripreso il controllo del
potere statale con l'azione dei governi di Putin, che hanno impresso una svolta
istituzionale autoritaria e riaffermato il legame tra Stato e grandi gruppi
monopolistici su nuove basi, ridando una prospettiva strategica al
concentramento di potenza russo.
La
svolta “bonapartista” voluta dalle forze sociali ed economiche che Putin
rappresenta non ha incontrato una forte resistenza nel proletariato, nelle cui
file era fresca la memoria dell'esperienza “lacrime e sangue” vissuta nel
decennio in cui imperversavano le meraviglie della democrazia occidentale.
D'altra
parte, il nuovo corso ha imposto anche una forte limitazione alle faide interne
alle oligarchie e all'azione indipendente dei settori oligarchici più legati ai
centri finanziari occidentali, protagonisti negli anni Novanta di una imponente
fuga di capitali nei paradisi fiscali esteri.
La stabilizzazione ha favorito un significativo
flusso di rientro nell'ambito di un generale aumento dei movimenti di capitale
da e per l'estero, in forma di investimenti diretti.
Va
sottolineato che il flusso in entrata “si è concentrato soprattutto
nell’energia e nelle materie prime, nel commercio al dettaglio e in altri
servizi, con una modesta partecipazione dei settori industriali a eccezione del
comparto alimentare, in netto contrasto con la Cina.”
Sono
dati significativi per definire la natura del capitalismo russo e i suoi limiti.
Se consideriamo l'esportazione di capitali,
tratto caratteristico dell'imperialismo, risulta che gli investimenti diretti
esteri russi, pur notevolmente cresciuti dagli anni Novanta, nel 2021
ammontavano a circa il 4% di quelli americani (dati UNCTAD), ed erano
indirizzati in un'area in buona parte coincidente con i territori ex
“sovietici”.
La
rendita di cui si nutre il flusso di investimenti in entrata si è concentrata
prevalentemente sui settori energetici e delle materie prime, trascurando
quello industriale, dove permane la dipendenza dalle produzioni estere.
Tutti
questi elementi confermano che la definizione di imperialismo debole, attribuita
dalla nostra corrente all'URSS, in buona parte si attaglia tuttora alle misure
della potenza russa, oggi meno esposta al debito estero e più dinamica nell'export
di capitali, ma ancora fortemente dipendente dai prodotti industriali di
importazione e dalla rendita energetica.
L'ambizione
russa ad assumere nuovamente un ruolo imperialista già rivestito in passato (con molti limiti, tant'è che non ha
retto il confronto ed è collassata) ha dalla sua una significativa capacità militare non
supportata da una adeguata base economica, dipendente com'è dalle esportazioni
di energia e materie prime e dai loro prezzi estremamente variabili.
Con
questi presupposti, l'imperialismo russo – proiezione degli interessi dei
grandi gruppi monopolistici interni – è in grado di esercitare un'influenza
entro un'area a ridosso dei pur vasti confini della Federazione, ben lontana da
ambizioni di egemonia oltre uno spazio ritenuto di “sicurezza”, per quanto
piuttosto esteso.
Come
ai tempi dell'URSS, “l'esportazione di capitali e la tessitura della
corrispondente rete di interessi economici e particolarmente finanziari in
tutto il mondo” rimane un carattere secondario rispetto ai tratti dominanti da
imperialismo degli eserciti.
L'intervento
in Ucraina, come in passato quelli in Caucaso e nell'Asia centrale, ne è la
conferma e, per quanto le iniziative militari in Siria e in Africa
settentrionale diano alla Russia una proiezione che va ben oltre i confini di
potenza regionale, i loro obiettivi rimangono dettati principalmente da
considerazioni strategiche e militari, di risposta e contenimento alla
pressione dell'imperialismo USA.
La minaccia da Occidente, che in Ucraina ha
senz'altro connotati militari nell'allargamento della NATO verso Est e si
avvale anche di un formidabile sistema di intelligence, è funzionale a
preparare il terreno alla penetrazione finanziaria, al saccheggio delle risorse
agricole, minerarie ed energetiche ucraine, allo sfruttamento bestiale del
proletariato di quel Paese, e in quanto tale ha connotati pienamente
imperialisti.
Considerati
i limiti dell'imperialismo russo, l'”operazione militare” in Ucraina sarebbe
stata un'iniziativa suicida se il contesto generale non fosse già mutato, se
non fossero già saltati i vecchi equilibri tra avversi concentramenti di forze
e se non si appoggiasse a una prospettiva strategica più ampia, di respiro
eurasiatico.
Il progetto
di integrazione eurasiatica fu annunciato dallo stesso Putin nel 2015,
preceduto dalla fondazione dell'Unione Economica Eurasiatica (2014, l'anno
stesso del colpo di stato di Maidan), ed è in via di realizzazione attraverso i
numerosi progetti infrastrutturali di cui la Cina è il principale promotore e
finanziatore.
Nel
suo perenne oscillare tra Oriente e Occidente, la Russia si vede oggi respinta
dall'Europa e gettata nelle braccia dell'emergente potenza cinese.
Se
infatti l'imperialismo russo ha i limiti “militari” che abbiamo detto, “La Cina
ha tutte le caratteristiche classiche dell'imperialismo come delineato da
Lenin: capitalismo statale-monopolistico, esportazione di capitale, una spinta
all'espansione per conquistare mercati stranieri e sfere d'influenza, una
politica estera espansionistica volta ad ottenere il controllo delle rotte
commerciali, ecc. L'imperialismo russo ha un carattere diverso. I suoi
obiettivi sono più limitati e dettati principalmente da considerazioni
strategiche e militari”.
Il
consolidamento del legame tra Russia e Cina è il fattore che sta imprimendo una
svolta verso nuovi scenari.
Guerra all'Europa con obiettivo Eurasia.
Ci
preme ora tornare all'articolo di Prometeo del 1949, sorprendente per la
lucidità quasi profetica nel tracciare le direttrici storiche lungo le quali si
sarebbero effettivamente posti gli eventi nello scontro tra imperialismi.
Alla base di quelle previsioni, non v'era
nulla di intuitivo e geniale, ma una visione storica che, su fondamento
marxista, supera le visioni immediate e proietta la prospettiva sul lungo
periodo. L'attuale crisi ucraina conferma la fondatezza di quelle previsioni,
comprese quelle attinenti alle caratteristiche che avrebbe assunto la guerra a
venire. Ci sono voluti oltre settant'anni?
Alla
domanda “che razza di guerra sarebbe la eventuale prossima dell'America per la
quale si votano crediti militari immensi... “, si risponde dunque che sarebbe
stata “la più clamorosa impresa di aggressione, di invasione, di oppressione e
di schiavizzazione di tutta la storia”.
Non
solo, ma si aggiunge che “essa è già in atto, essendo tale impresa legata da
stretta continuazione con gli interventi nelle guerre europee del 1917 e del
1942, ed essendo in fondo il coronamento del concentrarsi di una immensa forza
militare e distruttrice in un supremo centro di dominio e di difesa
dell'attuale regime di classe, quello capitalistico, la costruzione
dell'optimum delle condizioni atte a soffocare la rivoluzione dei lavoratori in
qualunque paese.” (“Aggressione all'Europa”, cit.)
La
guerra in Ucraina ha fornito alla potenza atlantica l'occasione, fortemente
cercata, di riaffermarsi padrona indiscussa del consesso occidentale a scapito
degli alleati-rivali d'Europa a cui ha imposto la linea su tutti i fronti
decisivi (informazione, politica interna, energia, guerra, economia).
Quella
in corso si presenta pertanto come la nuova tappa di quella “aggressione
all'Europa” iniziata nel lontano 1917, che la nostra corrente ha riconosciuto
essere la direttrice fondamentale dei rapporti inter-imperialisti.
Se ieri castrare l'Europa significava
annientare l'unico potenziale avversario imperialista nell'impresa di conquista
del mondo, oggi – dopo averne favorito la nullità politico militare
ingabbiandola in un non Stato (la UE) – l'aggressione continua con il tentativo
di demolirne la forza produttiva, di annullare le condizioni alla base del
surplus tedesco e, dopo averne reciso i legami strutturali con i vasti mercati
eurasiatici, ridurla a una succursale anche economica del centro imperialista
atlantico.
Con la
guerra in Ucraina, la completa subalternità dell'Europa si è manifestata in modi
che avrebbero del sorprendente se non ne fossero chiari i presupposti storici.
Lo sciagurato e incondizionato supporto
offerto dalla borghesia europea – in alcuni settori con ostentata convinzione,
in altri digrignando i denti – alla volontà americana di una guerra prolungata
contro la Russia sancisce il declino e il completo asservimento dei vecchi
capitalismi d'Europa, che si negano perfino l'esercizio di una politica
autonoma di difesa dei propri vitali interessi economici.
Spezzare
il naturale legame tra l'economia dell'Europa occidentale e le fonti
energetiche russe colpisce prima di tutto l'apparato industriale tedesco e le
sue vaste ramificazioni continentali.
È un
attacco diretto alle basi stesse del capitalismo europeo ruotante attorno al
magnete tedesco, dove l'assoggettamento politico militare svolge in prospettiva
la stessa funzione dei bombardamenti a tappeto che rasero al suolo la potenza
produttiva dell'Asse.
È
anche la prosecuzione dell'attacco all'Euro come sfida all’egemonia del dollaro.
Alla sua introduzione, infatti, gli Stati
Uniti “reagirono come d’uso, cercando di creare isole di destabilizzazione, tra
le quali in Medio Oriente spiccò la vicenda irachena ed in Europa quella
Jugoslava. Il bombardamento del paese europeo comportò, in particolare, una
immediata svalutazione del 30% dell’Euro (che era partito molto bene) mentre
l’invasione dell’Iraq del 2003 provocò un vertiginoso incremento del prezzo del
petrolio e quella della Libia la fine del progetto di una moneta pan-araba ancorata
all’oro”.
(A.
Visalli, Krisis).
Gli
esempi sarebbero molti, ma si tratta di quella che l’autore chiama con formula
di effetto “la geopolitica del caos”.
Tra i
primi effetti della guerra in Ucraina e delle sanzioni comminate alla Russia
non vi è stato, come prevedevano invece i “sanzionatori”, il crollo del rublo –
che, anzi, si è apprezzato in parallelo all'esplosione dei prezzi energetici –
ma dell'Euro, precipitato in breve tempo sotto la parità col dollaro.
Quella
in Ucraina è dunque in tutta evidenza una guerra per procura tra Stati Uniti e
Russia, ma è combattuta sul suolo europeo, con carne da cannone europea, con
ricadute devastanti sulle strutture economiche europee, sulle condizioni di
vita dei proletari europei.
È quindi, ancora una volta e in primo luogo,
una guerra contro l'Europa.
Nonostante i rovinosi precedenti storici – da
Napoleone a Hitler – l'Europa ripete l'errore di guardare alla Russia come una
minaccia da Oriente, come tale da sottomettere e depredare, anziché
considerarla essa stessa Europa e ponte verso l'Oriente asiatico.
Così,
come nelle precedenti guerre mondiali, il “gregge dell'imbecillità borghese
d'Europa” (“Ancora
America”, Prometeo, n.8, 1947), cui nel secondo conflitto si unì l'URSS di Stalin,
contribuisce grandemente al proprio declino affidando le proprie sorti
all'ingombrante alleato atlantico, generosamente disposto a rifornire i gonzi
europei di crediti, bombe e oggi anche costosissimo gas (di pessima qualità).
Per
gli Stati Uniti, stringere la presa sull'Occidente è anche la condizione per
accelerare la manovra di accerchiamento dell'Eurasia. L'obiettivo è, nell'ordine,
arruolare l'Europa a dominanza tedesca in posizione subordinata, per poi
procedere a schiacciare la Russia, e di seguito la Cina.
La nuova tappa è l'ultima “di una unica
invasione, passata da Versailles nel 1917-18, diretta a Berlino. Solo a
Berlino? No, insensati ancora plaudenti, diretta anche a Mosca...” (“Aggressione
all'Europa”, cit.).
Oggi
la platea di insensati ancora plaudenti si estende alla vastissima pletora di
un ceto politico più che mai miserabile e corrotto che ancora tiene nelle mani
le leve dei governi per conto del padrone atlantico, anche se oggi con meno
sicurezza di ieri, dopo aver disceso di molti scalini “nella vendita dell'onore
del suo Stato” (“America”, Prometeo, n.7, 1947) – fatto che per i comunisti non è
motivo di sdegno, giacché in regime capitalista tutto si riduce a una questione
di prezzo.
La
potenza della capacità predittiva del marxismo si conferma quindi a oltre
settant'anni dalla pubblicazione di “Aggressione all'Europa” e Mosca – poco
importa se non più “sovietica”, visto che è ancora lì a interporsi al nuovo
slancio imperialista di conquista del mondo – rimane l'obiettivo di una nuova
ondata che ambisce a completare il progetto di sottomissione eurasiatica.
La
Russia rappresenta ancora oggi l'estremo baluardo europeo contro l'espansione
dell'imperialismo USA dall'Atlantico agli Urali, superati i quali si apre
l'immenso spazio dell'Eurasia, delle sue immense ricchezze da contendere al
nuovo grande nemico, la Cina.
La
forza attuale della Cina è prodotta dalla stessa espansione dell'imperialismo
americano e occidentale da quando, con l'avvento del mondo “unipolare”, i
capitali in eccesso cominciarono ad affluire dai centri imperialisti
d'Occidente agli immensi bacini asiatici di forza lavoro a basso prezzo,
alimentando lo sviluppo impetuoso del capitalismo cinese.
Man
mano che esso – sotto la guida dello Stato centralizzato – si sviluppava fino a
contendere e superare nelle statistiche economiche i record del vecchio padrone
atlantico, man mano che riforniva di merci e capitali il mercato americano in
cambio di dollari si è fatta via via più evidente e insostenibile la realtà di
un interscambio che a un polo forniva forza lavoro, merci e capitali frutto di
processi produttivi, e all'altro pagava in moneta fiduciaria internazionale
garantita da un debito pubblico crescente e finanziato dagli stessi fornitori
di capitali e di beni.
Con lo
sviluppo del processo, sono necessariamente mutati i rapporti di potenza
economica, che se a un capo vedevano aumentare a dismisura i valori finanziari
– in parte crescente fittizi – all'altro vedevano l'enorme montare delle forze
produttive, cioè del requisito fondamentale alla base di quella potenza.
Gli
stessi processi economici di espansione del capitale, che avevano logorato
l'assetto protezionistico dell'area di influenza “sovietica” fino a
disgregarlo, hanno minato in modo irreversibile le fondamenta della potenza
economica statunitense.
Nell'assetto
“unipolare” a baricentro americano si era stabilita un'interdipendenza da cui
tutti i principali attori hanno tratto frutti.
I capitali, per quanto con difficoltà
crescente entro la tendenza generale alla caduta del saggio di incremento della
produzione, trovavano modo di valorizzarsi nella fucina produttiva dell'Asia
orientale per poi rifluire ai centri finanziari dell'imperialismo dominante.
Il
meccanismo ha funzionato fino alla crisi della cosiddetta globalizzazione
innescata dal crollo del 2008-2009.
Sola
garante dell'interdipendenza funzionale all'ordine capitalistico mondiale si
poneva e si pone tuttora la potenza militare USA, ineguagliabile quanto a
finanziamenti, tecnologie, dispiegamento di forze in ogni area del mondo,
strategie di intervento diretto o tramite partigianerie reclutate direttamente
sul campo.
L'espansione
della Nato in Europa orientale rappresenta uno dei principali movimenti
strategici americani nell'ambito di una manovra a tenaglia che punta
all'accerchiamento dell'Eurasia, dove si concentrano le minacce alla
perpetuazione dell'influenza globale dell'imperialismo americano.
Siamo
al punto in cui gli schieramenti della futura (o presente?) guerra sembrano
ormai definiti: mondo anglosassone, Giappone e UE da un lato, Cina, Russia,
Iran dall'altro.
Il resto del mondo è alla finestra, in attesa
di valutare l'evolvere dei rapporti di forza.
Vecchi
capitalismi in declino, ma estremamente aggressivi, contro capitalismi
emergenti.
Per la
Cina, fautrice di un'espansione “pacifica” della propria influenza, l'Ucraina
costituiva uno snodo fondamentale del progetto di creazione di infrastrutture
di interscambio terrestri e marittime (Vie della Seta) in direzione della
vecchia Europa.
La
penetrazione cinese in Ucraina è avvenuta attraverso ingenti investimenti,
nella classica modalità di un imperialismo in espansione.
La si chiami pure “pacifica”, ma la via cinese
rientra nella dinamica del confronto-scontro tra imperialismi e come tale
facilmente può volgere in guerra, dal momento che viene brutalmente ostacolata
dall'imperialismo dominante che la legge a sua volta come un'”aggressione” al
vecchio ordine.
Se l'Ucraina
rappresenta uno snodo vitale per tutti e tre i principali concentramenti di
potenza (Stati Uniti, Russia e Cina), la sua invasione è una sfida alla
secolare egemonia occidentale sul mondo, come tale inaccettabile da parte dei
vecchi dominatori.
Il fatto
stesso che la Russia abbia osato sfidare il colosso atlantico sul terreno della
guerra è segnale che quell'egemonia è messa in discussione. O si riafferma su
nuove basi di forza o scompare.
La
posta in gioco è il capitalismo.
A una
visione superficiale, il quadro generale propone l'alternativa tra il
rafforzamento del predominio mondiale atlantico e l'affermazione di un nuovo
ordine che si vorrebbe multipolare, articolato lungo le diverse Silk roads che
si snodano dai centri produttivi cinesi, grandi infrastrutture terrestri di
integrazione eurasiatica con prolungamenti marittimi in direzione dell'Africa e
dell'America latina.
Il
solo porsi di tale alternativa rivela un fronteggiarsi di concentramenti di
forze che può tradursi in uno scontro diretto e volgere in una nuova guerra
generale.
La
tensione sale nell'intero emisfero settentrionale: in Europa, è ancora una
volta cruciale l'atteggiamento della Germania, fino a ieri con i piedi in due
staffe: quello economico rivolto a oriente, quello politico stabilmente
schierato ad occidente.
La
situazione le impone una scelta.
Sembra
che il prezzo che gli Usa siano disposti a pagare per la fedeltà
dell'alleato-nemico sia il via libera al suo riarmo in funzione antirussa, ma
al momento è proprio la Germania a pagare il prezzo più alto delle sanzioni
imposte alla Russia in termini economici e sociali.
Su scala più ampia, e in una fase assai più avanzata
dell'”aggressione all'Europa”, si ripropone lo scenario della guerra per il
Kosovo quando, col pretesto della discriminazione della popolazione albanese
kosovara, la Nato attaccò la Serbia, con la Russia impotente a reagire.
Non a caso al confine tra Kosovo e Serbia si
sta pericolosamente riaccendendo il focolaio di tensione, dai cui possibili
sviluppi bellici oggi difficilmente la Russia potrebbe tenersi fuori.
La guerra della Nato alla Serbia è stata prima
di tutto un argine alla presenza della Germania nei Balcani dopo che la guerra
civile jugoslava aveva spalancato le porte ai capitali tedeschi nell'area.
Fino
ad oggi l'allargamento della sfera di influenza tedesca a Est rientrava in un
orizzonte economico e solo di riflesso politico.
Oggi,
se gli sviluppi lo confermeranno, la guerra potrebbe rilanciare la Germania
come imperialismo attivo anche militarmente, per quanto in un ruolo ancora
subordinato.
Anche
nell'area del Pacifico la tensione evolve pericolosamente, alimentata dalle
provocazioni USA (ultima, la visita della Pelosi a Taiwan).
La linea del fronte è tracciata tra la costa
orientale della Cina e il Giappone a Nord, Formosa e, più a sud, lungo tutto
l'arco costiero e insulare che marca le vie marittime di transito tra gli
oceani Pacifico e Indiano.
Anche il Giappone è in fase di deciso riarmo,
e potrebbe avere il via libera dagli Usa a sviluppare l'atomica (se non l'ha
già avuto).
Lo
scenario presenta un mondo sull'orlo dello scatenamento di una guerra generale,
ma dobbiamo tener presente che lo scontro in atto è effetto della crisi
terminale del modo di produzione capitalistico.
Se le
ricorrenti crisi economiche, con la brutale svalorizzazione di capitale fisso,
licenziamenti, ecc., creano le premesse per la ripresa su basi più avanzate in
termini di composizione organica e concentrazione capitalistica, la guerra
procede all'opera radicale di distruzione fisica di capitale fisso e forza
lavoro eccedente.
Ma le
crisi economiche oggi sono sempre più potenti e prolungate, tanto che il mondo
capitalistico non si è ancora ripreso dagli effetti della Grande Crisi del
2008-2009 e affronta una durevole stagnazione.
Quanto
alla guerra, essa esprime nei sistemi d'arma il livello raggiunto dallo
sviluppo delle forze produttive, che si traduce in una corrispondente potenza
distruttiva.
Oggi, una guerra generale, specie se gli
schieramenti oppongono capacità militari simmetriche, rappresenta una soluzione
troppo rischiosa per tutti.
Nonostante
le scarse probabilità che qualcuno possa uscirne vincitore sul campo e goderne
i vantaggi, questa non è un’eventualità da escludere, vuoi perché non si può
certo contare sulla sanità mentale delle classi dirigenti di un sistema in
decadenza, vuoi per la forza incontrollabile che le vicende belliche acquistano
una volta messe in moto.
Se
ciò, com'è da augurarsi, non accadrà, è verosimile l'intensificarsi di quella
guerra permanente in atto ormai dalla caduta dell'URSS, in cui, accanto alle
iniziative militari e alla esibizione di armamenti sempre più potenti e
sofisticati, svolgono un ruolo sempre più importante le sanzioni economiche, il
confronto tra le monete, gli attacchi cibernetici, la guerra dell'informazione,
il controllo totalitario dello Stato sulle popolazioni.
Se non sarà guerra generale in senso classico,
la guerra che si profila si estenderà a tutti gli aspetti della vita sociale,
coinvolgerà pesantemente la popolazione civile: sarà pertanto una guerra
totale, essenzialmente politica, fortemente ideologica e destinata a durare.
Le
politiche emergenziali adottate durante la pandemia Covid-19 possono essere
viste come modello
sperimentale in scala assai ridotta di che cosa potrebbe comportare una simile
guerra per le popolazioni civili in termini di controllo sociale,
condizionamento, repressione, restrizioni e razionamenti.
Il
fronte interno assumerà un ruolo decisivo, sarà il terreno in cui riprenderà
vigore la lotta di classe:
“Se la
guerra trova la sua base di partenza nella sconfitta della classe operaia, se
le imprese dell'imperialismo trovano la strada segnata dalla parabola discendente
della rivoluzione internazionale, nella sua dinamica sono contenute le ragioni
della ripresa rivoluzionaria del proletariato.
La bomba atomica potrà essere o non essere
usata dall'imperialismo, come strumento tecnico di guerra; quella che
l'imperialismo non potrà evitare di tirarsi addosso, per quanto grande possa
apparire e sia oggi la sua strapotenza, è l'atomica della rivoluzione
internazionale ed internazionalista della classe operaia.” (“Corea è il mondo”, Prometeo, n.1,
1950).
Nulla
di nuovo. La guerra è connaturata al capitalismo, inestirpabile come la lotta
di classe, anche se per lunghi periodi essa covante sottotraccia, sopita da
transitorie condizioni di illusoria pace sociale.
Se il
Capitale si dispone stabilmente alla guerra e persegue l'accumulo di violenza
dei suoi arsenali, è perché sa che prima o poi dovrà affrontare il suo nemico
storico.
Riportiamo
ancora da “Corea è il mondo”:
“Su
scala mondiale la più violenta forza di espansione e di aggressione, poco
importa se tradotta in armi o in dollari o in scatolette di carne conservata, è
quella che cova nelle viscere del gigantesco apparato produttivo degli Stati
Uniti”.
Vale
ancora questo primato? Gli Stati Uniti si muovono per riaffermare il ruolo di
gendarme del mondo, ma oggi l'esibizione di potenza e arroganza che traspare
dalla loro azione internazionale, militare e diplomatica, non ha l'efficacia di
un tempo. Il ridimensionamento del loro ruolo mondiale, la rinuncia a essere il
perno dell'integrazione capitalistica mondiale, all'“esorbitante privilegio”
del dollaro, potrebbe portarli a una crisi interna senza precedenti, di cui si
vedono già alcuni segni.
Non
potendo fermare il processo di integrazione eurasiatica, gli Stati Uniti si
arroccano arruolando i Paesi-chiave della Nato e i più stretti alleati del
Pacifico (Giappone, Australia, Nuova Zelanda), ma l'atteggiamento aggressivo e
provocatorio cela l'incapacità di piegare gli avversari alla sua volontà con la
sola forza di chi tiene saldo il primato.
La
reazione mondiale all'invasione russa dell'Ucraina non è stata affatto nel
segno della condanna unanime e dell'adesione alle sanzioni.
Nel
contesto internazionale, non è la Russia ad essere isolata, ma sono piuttosto
gli Stati Uniti e i loro vassalli occidentali con le loro pretese sanzionatorie
e il loro atteggiamento guerrafondaio.
Gran
parte del “Sud” del mondo è contraria alle sanzioni, persegue una politica di
pacificazione, non è disposta a seguire servilmente il vecchio capobastone.
Guardiamo
con grande interesse alle difficoltà in cui si dibatte il colosso americano,
che se rimane superdotato in armi e in dollari, non lo è più nel gigantesco
apparato produttivo, in buona parte smantellato per ricavare più alti tassi di
profitto all'estero, e non più in grado di sostenere nel lungo periodo né le
armi né il dollaro.
Lo
spasmodico attivismo americano ha questa base oggettiva maturata nel processo
di sviluppo del capitalismo mondiale dalla crisi degli anni Settanta, e
all'origine delle gravi difficoltà attuali.
Non è
solo la Russia a rischiare la sopravvivenza, ma anche e forse ancor più
l'America.
Siamo
ben lontani dal ritenere un'alternativa auspicabile e possibile il mondo di
rispettosa cooperazione tra stati sovrani, votati alla crescita comune,
prospettato dagli ideologi del nuovo multipolarismo, dalla visione eurasiatica
di Putin e dai “pacifici” progetti cinesi.
A essere in crisi non sono soltanto gli Stati Uniti,
ma l'intero assetto che ha garantito finora la tenuta del capitalismo mondiale,
e credere che ad esso possa succedere una pacifica cooperazione tra Stati è,
finché vivrà il capitalismo, una pia illusione.
Con la
crisi della leadership statunitense l'ordine capitalistico mondiale è andato in
stallo.
All'orizzonte
si profila un nuovo scossone finanziario che potrebbe preludere a una nuova
pesante recessione mondiale, mentre si moltiplicano le aree dove divampano
proteste di massa contro gli effetti già visibili della crisi economica.
Sono
tutti segni di un cambio di scenario, da lungo tempo atteso, che si delinea nel
procedere della crisi storica del capitalismo ultra maturo e per lo
sgretolamento delle condizioni che stanno a fondamento della supremazia
americana.
La
partita tra i nascenti blocchi imperialisti è tutta da giocare, nessun esito è
scontato.
Ma la
soluzione più auspicabile rimane la stessa che la nostra corrente indicava nel
lontano 1950:
“Questo
partito [del
proletariato rivoluzionario. Ndr.], nella seconda guerra imperialista 1939- 1945,
avrebbe dovuto parimenti sostenere la rottura della politica e dell'azione di
guerra entro tutti gli stati.
Un
marxista poteva tuttavia conservare il diritto, senza temere che i soliti
libertari lo accusassero di simpatie per un tiranno, di fare calcoli e indagini
sulle conseguenze di una vittoria di Hitler su Londra e di un crollo inglese.
Questo
stesso marxista conserverà il diritto, pur dimostrando che il regime di Stalin
non è, almeno da venti anni, regime proletario [quello di Putin non richiede alcuna
dimostrazione! NdR], di considerare le utili conseguenze rivoluzionarie che
avrebbe il crollo – disgraziatamente improbabile – della potenza americana, in
una eventuale terza guerra degli stati e degli eserciti”.
(“Romanzo
della guerra santa”, in Battaglia Comunista", n. 13 del 1950, riprodotto
in Il proletariato e la guerra, Quaderni del programma comunista, n.3, 1978).
Possiamo
oggi appellarci solo a una “novità”, rispetto al quadro disegnato nell'articolo
della serie “Sul filo del tempo”: cioè che l'auspicato crollo dell'allora
inarrivabile (e tale per lungo tempo sarebbe stata) potenza americana non sia
più così “disgraziatamente improbabile”.
Oggi
l'attivismo del gigante atlantico può essere letto come sintomo di una crisi
mai affrontata prima, all'interno come all'esterno, che apre la possibilità del
crollo tanto atteso.
Non si
tratta né di antiamericanismo ideologico né di concessioni al “terzomondismo”.
Nessuna
simpatia con la borghesia di qualsivoglia Paese, sempre pronta a schiacciare il
proletariato ad ogni suo tentativo di sollevarsi contro l'oppressione e lo
sfruttamento;
nessuna
“fiducia” nella capacità della borghesia di farsi portatrice di interessi “nazionali”,
se non nei ristretti limiti dei propri interessi di classe, sempre contrapposti
a quelli proletari.
Tuttavia,
non possiamo che rallegrarci se giungono a maturazione le condizioni perché il
vecchio bestione si ritiri finalmente con la coda tra le gambe, a vedersela col
proprio proletariato, privato delle briciole della rendita derivante dallo
sfruttamento del mondo.
Allora
si aprirebbero scenari del tutto nuovi e promettenti.
A
settant'anni di distanza suona ancora attuale la risposta lapidaria di Alfa a
Onorio: “la
rivoluzione perde il tempo se non fa fuori lo Stato di Washington”.
Con la
guerra in Ucraina, la direttrice storica indicata dall'articolo di Prometeo
“Aggressione all'Europa” (1949) riemerge prepotentemente alla luce.
Gli
Stati Uniti sono passati all'incasso: o con noi o contro di noi, unici garanti
della sicurezza militare dell'Occidente e dei principi cardine del mondo
libero, ma soprattutto eterni creditori dell'Europa rinata sulle rovine
dell'ultima guerra mondiale.
L'Europa
paga un prezzo esorbitante, ma la posta in gioco è la sopravvivenza del
capitalismo.
L'assetto unipolare è evidentemente saltato, e
“l'aggressione” russa all'Ucraina – la si chiami pure così – ne è la definitiva
sanzione.
In un
Ambiente senz’Aria Scienziati
Russi
hanno Sviluppato un nuovo Metodo
per
Generare Elettricità dall’Idrogeno.
Conoscenzealconfine.it
– (6 Novembre 2022) -Redazione – ci dice:
Scienziati
russi hanno sviluppato un metodo per generare elettricità ossidando l’idrogeno
in un ambiente senz’aria.
Tipicamente,
si utilizza l’ossigeno dall’aria. Invece, i chimici usano composti di cloro
contenenti ossigeno.
È necessario un piccolo impulso di corrente
per avviare la reazione, quindi inizia a svilupparsi da solo.
Secondo gli scienziati, la tecnologia amplia le
possibilità di utilizzare combustibile a idrogeno ecologico. La tecnica può essere utilizzata su
veicoli spaziali e subacquei, nonché nelle miniere.
Gli
scienziati dell’Istituto di Chimica Fisica ed Elettrochimica, intitolato ad
A.N. Frumkin, dell’Accademia delle scienze russa e il Centro federale di
ricerca per i problemi di fisica chimica e chimica medicinale dell’Accademia
delle scienze russa, hanno sviluppato un metodo per generare elettricità
ossidando l’idrogeno in un ambiente senz’aria.
Lo
riferisce RT nel servizio stampa della RNF. Lo studio è stato sostenuto da una
sovvenzione della Russian Science Foundation.
(I
risultati sono pubblicati sulla rivista Molecules.research.)
Invece
dell’ossigeno, che le piante a idrogeno di solito assorbono dall’aria, i
chimici usano composti di cloro contenenti ossigeno.
La
nuova tecnologia permette di generare elettricità dall’idrogeno anche dove non
c’è aria: nello spazio, sott’acqua, nelle miniere.
Ciò amplia notevolmente le possibilità di
utilizzo di carburante a idrogeno ecologico.
Gli autori
del lavoro ricordano che durante la combustione del carburante si verifica una
reazione di ossidazione con la partecipazione di atomi di ossigeno.
Di solito viene dall’aria.
Al
contrario, ora il genere umano potrà dominare ambienti senz’aria, come lo
spazio o il mondo sottomarino. Anche l’attrezzatura utilizzata in tali
condizioni necessita di energia.
Per
risolvere questo problema, gli scienziati hanno proposto di utilizzare composti
di cloro invece dell’ossigeno atmosferico: anioni clorato, che possono essere
immagazzinati su un veicolo spaziale o sottomarino sotto forma di una soluzione
concentrata.
La
sostanza e l’idrogeno molecolare entrano in reazioni redox sugli elettrodi
della cella elettrochimica, il che consente di ottenere elettricità. L’unico
sottoprodotto di questa reazione è il normale sale da cucina.
Come
notano gli autori del lavoro, la difficoltà principale è stata quella di
forzare i composti del cloro ad entrare in una reazione di riduzione.
Solitamente questa sostanza non reagisce nemmeno in presenza di catalizzatori
speciali.
Gli
scienziati hanno però trovato una soluzione al problema.
Si è
scoperto infatti che un piccolo impulso di corrente è sufficiente per avviare
la reazione.
Inoltre,
è in grado di mantenersi da sola.
Il
biossido di cloro rilasciato durante l’interazione stimola ulteriormente
l’intensità della reazione. Di conseguenza, la generazione attuale aumenta già
senza stimoli esterni.
Gli
scienziati sono riusciti a scegliere le condizioni in cui questo processo
autosufficiente è più intenso.
Secondo
gli esperti, nella maggior parte degli esperimenti, l’energia chimica è stata
convertita in elettricità con un’efficienza dal 40 al 50%.
In
futuro, gli autori del lavoro si aspettano di trovare modi per aumentare
l’efficienza di un nuovo metodo di generazione di elettricità.
“Abbiamo
dimostrato la possibilità di utilizzare l’energia chimica dell’idrogeno gassoso
per generare elettricità senza la partecipazione dell’ossigeno atmosferico.
Invece, sostanze piuttosto economiche e disponibili (clorati metallici sotto
forma di soluzione acquosa), che in precedenza erano considerate inadatte a
fonti di corrente chimiche a causa della bassa attività elettrochimica,
agiscono come agenti ossidanti “, ha concluso Mikhail Vorotyntsev, capo del
progetto RSF, dottore in scienze fisiche e matematiche, capo del laboratorio
dell’Istituto di chimica fisica ed ecologia dell’Accademia delle scienze russa.
(databaseitalia.it/in-un-ambiente-senzaria-scienziati-russi-hanno-sviluppato-un-nuovo-metodo-per-generare-elettricita-dallidrogeno)
Usa vs
Cina, con la tecnologia al centro:
le
macro-tendenze geopolitiche.
Agendadigitale.eu
- Marco Mayer – (08 Gen. 2019) – ci dice:
(Professore
straordinario di storia dell'intelligence, corso di laurea magistrale in studi
internazionali, Link Campus University.)
Usa e
Cina sono i due driver globali destinati ad incidere sul futuro del mondo,
mentre la Ue non competerà per la privacy perché non è, né sarà, un attore politico.
Vediamo
In che direzione si sta muovendo il sistema internazionale nell’epoca
dell’iper-connettività.
Il
sistema internazionale sta evolvendo verso un nuovo bipolarismo tra Stati Uniti
e Cina.
Si tratterà, però, di una forma diversa di
bipolarismo da quella che abbiamo conosciuto dopo la seconda guerra mondiale
come esclusiva contrapposizione tra Stati.
Da
monitorare attentamente ci sono, infatti, anche i colossi dell’economia
digitale, e non solo quelli statunitensi.
Partiamo
da una panoramica a maglie larghe sulla politica internazionale e su come le
dinamiche di quest’ultima saranno profondamente influenzate dalla quarta
rivoluzione tecnologico-industriale.
Le
sfide digitali nell’agenda delle grandi potenze.
Negli
ultimi anni il panorama mondiale sta rapidamente cambiando per effetto di
processi di digitalizzazione sempre più estesi e pervasivi.
Numerose
sfide digitali sono già entrate nell’agenda di High Politics delle grandi
potenze:
Telecom
e 5G, Intelligenza Artificiale e Big Data, futuro del Web e governance di
Internet, droni, satelliti e dispositivi dual use per armamenti automatizzati e
robotica civile, crypto valute, blockchain e Fintech e nuove dinamiche
dell’economia digitale.
Si è,
infine, aperta la grande competizione scientifica e tecnologica nelle aree
sensibili del quantum computing e dei quantum comunicazioni.
Mentre
scriviamo questo articolo i riflettori sono puntati sulle vicende giudiziarie
della Huawei – la grande impresa hitech cinese – accusata di frode commerciale
e di violazione delle sanzioni con l’Iran.
Il
dossier sull’azienda é stato aperto da molti anni, ma in queste settimane in
seguito all’arresto di Meng Wanzhou, figlia del fondatore dell’impresa nonché
vicepresidente di Huwaei si è aperta una grave frattura diplomatica tra Cina e
Stati Uniti.
Il
rilascio su cauzione di Meng Wanzhou e la fragile tregua di novanta giorni tra
i due contendenti non sembra aver placato le acque.
In
tutto il mondo vecchi e nuovi media si interrogano sulle reali ragioni dello
scontro: una consistente minaccia alla sicurezza nazionale americana?
Oppure
una battaglia della guerra commerciale in corso?
A mio
avviso si tratta di domande retoriche: potere di mercato, superiorità
tecnologica, potenza militare, capacità di influenza e di intelligence sono
tessere di un unico mosaico nel momento in cui la dimensione digitale è
diventata pervasiva.
“Superati”
da tempo i confini del cosiddetto “V° dominio”, le tecnologie digitali sono
onnipresenti e proprio per questo assumono rilevanza strategica in un sistema
internazionale sempre più caratterizzato da minacce e conflitti ibridi. Non si
tratta (come troppi esperti ancora sostengono) di aggiungere un capitolo ai
manuali di dottrina militare come se fosse un nuovo segmento da presidiare
(quali ad esempio lo spazio e le relative costellazioni satellitari).
Il
punto cruciale è identificare e gestire a proprio vantaggio la miriade di
opportunità/vulnerabilità digitali che caratterizzano sia la nostra vita
quotidiana (la domotica in primis) sia gli ambienti tecnologicamente più
avanzati.
Interpretare
la politica internazionale contemporanea.
In che
misura le principali teorie su cui si sviluppa la scienza politica e la
disciplina delle Relazioni Internazionali sono in grado di descrivere ed
interpretare la realtà creata dalla rivoluzione tecnologica in corso?
Le
teorie della scuola realista (K. Waltz, ecc.) risultano indubbiamente spiazzate
e/o contraddette da almeno due dati di realtà: la minore rilevanza dei confini
di Stato ed i flussi di interazione “onlife” tra politica interna ed estera.
Una
analoga distanza dalla realtà empirica si riscontra anche nel pensiero di
impronta liberale ed in particolare nelle teorie fondate sul concetto di
interdipendenza complessa “a geometria variabile” (J. Nye, ecc.).
Almeno
due fenomeni – peraltro connessi alla rivoluzione digitale – si muovono in
direzione opposta:
la
profonda crisi della cooperazione multilaterale;
i
processi – davvero imponenti – di concentrazione del potere economico,
tecnologico e mediatico.
Per
ragioni di spazio – in una sede non accademica come questa – non possiamo che
limitarci a questi scarsi cenni critici.
Ciò
che più ci preme sottolineare è che nessuna delle due principali scuole di
pensiero (realista e liberale) è in grado di cogliere pienamente le nuove
dinamiche della politica internazionale contemporanea.
Incongruenze
rilevanti si riscontrano peraltro anche in altre correnti culturali, sia in
quelle costruttiviste (H. Wendt, ecc.) sia nelle posizioni della cosiddetta
scuola inglese (H. Bull, ecc.) su cui non possiamo soffermarci.
Come
affrontare i limiti di capacità esplicativa delle più affermate teorie di
politica internazionale.
La
prima raccomandazione è di non azzerare tutto, come spesso accade nelle scienze
politiche, economiche e sociali quando esse sono sfidate da grandi cambiamenti.
A questo proposito viene in mente l’appello di
Olivier Blanchard, capo-economista dell’FMI sino al 2015 e autore del manuale
di macroeconomia più diffuso al mondo.
In seguito alla grande crisi del 2007-2008 Blanchard
dichiarò: “occorre riscrivere l’intero spartito della macroeconomia”.
Non
siamo in grado di stabilire se l’auspicio di Blanchard fosse giusto o
sbagliato; ciò che possiamo osservare – per riprendere la sua metafora musicale
– che a dieci anni di distanza – non si intravede un “nuovo spartito” in grado
di sostituire la macroeconomia mainstream.
Neppure
i massici e variegati stimoli monetari non convenzionali (QE) effettuati dalle
Banche Centrali hanno spinto verso un ripensamento generale della teoria
economica.
Per
quanto attiene la scienza politica ed in particolare la disciplina delle
Relazioni Internazionali non dobbiamo ripetere la promessa mancata di Blanchard.
Sarebbe un errore ripetere azzerare tutto e
ripartire da zero con il rischio di buttare via il bambino con l’acqua sporca.
La
rivoluzione digitale si presenta, invece, come una ottima occasione per
rivisitare il patrimonio complessivo elaborato dalle diverse scuole di pensiero
e falsificare le proposizioni teoriche che non trovano più riscontro
nell’evidenza empirica, come già sommariamente accennato nei paragrafi
precedenti.
Una
volta operata questa selezione il secondo passo è esaminare il materiale non
scartato senza preconcetti, a prescindere dalla sua provenienza accademica
(scuola realista o liberale o costruttivista, ecc.).
Nei
paragrafi successivi proporrò alcune prime esemplificazioni per meglio
illustrare l’ipotesi che ho appena prospettato e che richiede programma di
ricerca lungo e assai impegnativo.
L’impatto
della rivoluzione digitale sull’arena internazionale.
Il
primo tema da affrontare è l’impatto della rivoluzione digitale sull’arena
internazionale.
A questo proposito proponiamo come punto di
partenza la formula “no system of law enforceable” coniata da Kenneth Waltz nel lontano
1959.
Con questa espressione Waltz definisce
l’anarchia (a/privativa)] come principio ordinatore del sistema internazionale
in opposizione al criterio della gerarchia che caratterizza i sistemi politici
interni.
L’assenza di ordine gerarchico non significa
naturalmente che non si determinino gerarchie di fatto tra gli attori del
sistema internazionale.
L’ipotesi
che intendiamo suggerire è che la rivoluzione digitale confermi – e anzi
consolidi – la proposizione di Kenneth Waltz: nel corso degli ultimi tre
decenni le tecnologie digitali si sono sviluppate in assenza di un sistema di
leggi effettivamente applicabili (“no system of law enforceable among [the States]”).
Anche i pochi accordi politici bilaterali sono
rimasti sulla carta come dimostra in modo emblematico l’intesa in materia cyber
siglata dai Presidenti Obama e XI il 25 settembre 2015.
Se il
principio ordinatore dell’anarchia conserva la sua validità non possiamo, però,
non mettere in luce alcune differenze rispetto all’approccio realista.
L’effetto
combinato dei processi di globalizzazione economica e di digitalizzazione rende
molto difficile applicare in ambito domestico le regole del diritto interno,
soprattutto nei paesi dove è in vigore lo Stato di diritto.
Si
determina così un inedito intreccio tra dimensione interna ed esterna degli
Stati. Su questo aspetto un prezioso contributo ci viene offerto da due
proposizioni della scuola liberale:
la
diversa natura dei regimi politici può influenzare in modo rilevante i
comportamenti degli attori nell’arena internazionale (teoria della pace democratica, ecc.);
la
politica interna può incidere in modo significativo la politica estera.
Un
terzo fattore utile si può evincere dalle correnti costruttiviste.
La rivoluzione digitale non ha un impatto
omogeneo in tutti i paesi; pertanto culture, tradizioni storiche e
linguistiche, sensibilità religiose influenzano le modalità con cui le società
nazionali si adattano al mutamento tecnologico.
Per illustrare questo ultimo aspetto mi limiterò ad un
esempio; in alcune società asiatiche per l’individuo la reputazione sociale è
un must assoluto, mentre nelle realtà occidentali l’ago della bilancia pende di
più verso i bisogni e i diritti dell’individuo.
Le
conseguenze dell’anarchia.
Il
pensiero realista non si limita ad indicare l’anarchia come principio
ordinatore del sistema internazionale, ma ne sottolinea anche le conseguenze.
Gli
attori politici pensano innanzitutto a garantire la propria sicurezza,
potenziando il proprio potere e perseguendo alleanze di carattere strategico
con altri attori.
Quando
parliamo di potere facciamo riferimento all’insieme delle sue possibili declinazioni:
al potere della forza, al potere di mercato, al potere della tecnologia, al
potere delle idee.
Per
una analisi accurata del differenziale di potere sarebbe necessario tener conto
di molteplici fattori: dimensione territoriale e demografica, risorse naturali,
clima e localizzazione geografica, PIL e reddito pro/capite, aspettative di
vita e livelli di istruzione, armamenti nucleari e spese per la difesa,
capacità tecnologiche, ecc.
Ai fini del nostro discorso non serve,
tuttavia, una classifica dettagliata della distribuzione del potere tra le
innumerevoli unità statali che compongono l’odierno sistema internazionale.
Per un
panorama a maglie larghe della politica internazionale è sufficiente prendere
in esame le relazioni tra gli attori più influenti e potenti.
Sono
queste relazioni che definiscono gli assetti del sistema internazionale e che –
per riprendere un’espressione di matrice realista – spingono nella direzione
dell’equilibrio di potenza (o all’opposto ad una sua rottura in chiave bellica).
Il
bipolarismo USA–URSS non spiega tutto ciò che è accaduto nelle relazioni
internazionali tra il 1946 ed il 1991, ma non tenere in debito conto il
bipolarismo nelle sue diverse declinazioni (guerra fredda, equilibrio del
terrore, distensione, trattati di non proliferazione, ecc.) aumenta in modo
esponenziale i margini di errore degli studiosi.
In che
direzione si sta muovendo il sistema internazionale in un’epoca caratterizzata
da un’inedita velocità e potenza delle comunicazioni e da una iper-connettività
senza precedenti?
Nel
2008 in un noto articolo su Foreign Affairs Richard Hass ha teorizzato il
graduale passaggio dall’assetto unipolare seguito al crollo dell’Unione
Sovietica alla nuova dimensione di un mondo apolare – ovvero privo di poli e
caratterizzato dalla frammentazione del potere tra numerosi soggetti.
Altri
studiosi, viceversa, hanno ipotizzato una tendenza multipolare come effetto
della entrata in scena dei paesi emergenti (Cina, Brasile e India in primis) e
riemergenti (la Russia).
Ambedue
queste ipotesi – a nostro avviso – sottovalutano la rilevanza di due fattori:
nella
realtà contemporanea è soprattutto la superiorità tecnologica (molto costosa e
non solo in termini finanziari) a fare la differenza;
lo
scenario è completamente diverso dall’originario modello “artigianale” della
Silicon Valley.
Il
primato tecnologico si può mantenere (o contendere) soltanto sulla base di una
pianificazione pluriennale di ingenti investimenti pubblici e privati.
All’interno
di questo scenario – come vedremo meglio in seguito – un fattore determinante
per conquistare la privacy è rappresentato dal ruolo dello Stato, o meglio dal
tipo di relazione che intercorre tra gli Stati e grandi aziende strategiche.
Un
assetto mondiale tripolare (ma senza l’Europa).
Sulla
base dei dati disponibili – per ragioni diverse – né l’India né il Brasile
hanno la possibilità di competere per la privacy.
In linea puramente teorica l’Unione Europea
avrebbe le potenzialità per aspirare ai vertici della classifica.
In
realtà la UE non può perché non è – né lo diventerà a breve – un attore
politico.
Più
che un attore essa sembra avere piuttosto le caratteristiche di un’arena in cui
grandi potenze extracomunitarie tentano di accrescere la loro influenza in
alcuni settori strategici di primaria importanza (Stati Uniti/difesa; Russia/energia;
Cina/reti e device digitali).
Per
queste ragioni alcuni studiosi (soprattutto quelli che prediligono una visone
euro- asiatica) ritengono che – conclusa la fase post-guerra fredda – si
profili un assetto mondiale tripolare con gli Stati Uniti, la Cina e la Russia
in posizione preminente.
In
questa prospettiva gli osservatori si chiedono anche se la formula “America First” lanciata dal presidente Trump
preluda ad un ridimensionamento (relativo) del ruolo degli Stati Uniti negli
affari mondiali ed in caso affermativo quale sia l’effetto sugli alleati
tradizionali (Canada, Australia, Regno Unito, Giappone, Germania, Italia,
ecc.).
Da un lato questi paesi in nome dei valori
democratici potrebbero accrescere il loro ruolo nella difesa dell’ordine
internazionale liberale, dall’altro potrebbero agire come free riders
allentando i loro tradizionali legami con gli Stati Uniti e sentendosi più
liberi di cooperare con Mosca e Pechino sulla base dei rispetti e spesso
divergenti interessi economici nazionali.
Le
relazioni sino-americane.
Prima
di rispondere a questo dilemma occorre tuttavia valutare se l’ipotesi tripolare
abbia una effettiva consistenza e per farlo è necessario innanzitutto accennare
brevemente alle relazioni sino-americane.
L’apertura
di Washington nei confronti di Pechino matura lentamente durante la lunga fase
di contrapposizione ideologica, politica e militare tra USA e URSS tra il 1946
e il 1991.
Nella
seconda metà degli anni Sessanta l’attenzione di Kissinger e Nixon nei
confronti della Cina nasce come reazione alle crescenti ambizioni “globali”
della politica estera sovietica, ed in particolare si pone gli obiettivi di
contrastare l’influenza sovietica in Asia e di affrontare le crescenti
difficoltà militari nel continente, innanzitutto in Vietnam. Già nel 1967
Richard Nixon aveva pubblicato su Foreign Affairs un primo messaggio in questa
direzione.
Alla
fine degli anni Sessanta apparve necessario un salto di qualità sia rispetto
alla politica di contenimento suggerita da George Kennan sia alla successiva
fase di escalation nucleare e di contrapposizione politico-culturale in termini
di soft power.
Da allora i contatti sino-americani si sono
progressivamente intensificati. Non sappiamo nei dettagli quanto l’apertura
americana abbia favorito le coraggiose scelte di Deng Xiao Ping, ma nei report
della CIA dell’epoca si segnala spesso l’esigenza di non indebolire la
posizione di leadership di Deng all’interno del Politburo; evitando – per
esempio – una sovraesposizione statunitense su Taiwan.
Nei
quaranta anni che ci separano dalle scelte di modernizzazione della Cina
possiamo distinguere due fasi ben distinte.
Sino
alla caduta del muro di Berlino il bilanciamento diplomatico e militare nei
confronti dell’URSS appare decisamente il profilo dominante.
Basti
pensare che nel 1980 prende corpo una clamorosa iniziativa sino-americana per
il monitoraggio dei test missilistici sovietici con la realizzazione nella
regione cinese del Xin Xiang di una stazione di rilevazione elettronica.
Nella fase successiva le relazioni tra Cina e
Stati Uniti si concentrano maggiormente sugli aspetti finanziari e commerciali.
Nell’ottobre
del 2000 il Presidente Clinton vara il U.S. China Relations Act garantendo a Pechino la
normalizzazione dei rapporti commerciali con gli USA e aprendo di fatto la
strada all’ingresso della Cina nel WTO.
Le
conseguenze non si fanno attendere.
Nel 2006 la Cina diventa il secondo partner
commerciale degli Stati Uniti e nel 2008 la Cina diventa il primo creditore per
volume di acquisti di T-bond americani.
Con
qualche approssimazione potremmo affermare che negli ultimi due decenni tra i
due paesi nasce un rapporto di interdipendenza fondata su due pilastri: gli
Stati Uniti favoriscono la politica mercantilistica della Cina, la Cina
finanzia il debito americano.
A
questi aspetti è doveroso aggiungere un altro fenomeno di grande rilevanza: la
cooperazione inter-accademica sempre più intensa tra i due paesi.
Oltre 300.000 giovani cinesi studiano negli atenei
americani (quasi il 50 per cento in discipline ad alto contenuto tecnologico);
contemporaneamente
si sviluppa un crescente e consistente interscambio tra docenti e ricercatori
(soprattutto in ambito computer science e telecomunicazioni) nonché progetti
comuni di ricerca, spesso finanziati da aziende cinesi.
Dall’inizio
del millennio l’intensità delle relazioni bilaterali tra Stati Uniti e Cina
cresce sino ad assumere una rilevanza sistemica; essa tuttavia non intacca la
primacy della superpotenza americana nel sistema internazionale.
Negli
ultimi anni, invece, la Cina ha deciso di compiere un catch up accelerato sia
sul piano della ricerca tecnologica più avanzata (per esempio nei settori
dell’Intelligenza Artificiale, Big Data e Quantum Computing e Communication)
sia in termini di espansione economica internazionale con il lancio del
progetto Via della Seta (o BRI).
Solo
nel 2018 l’investimento cinese per le infrastrutture per il BRI è stato pari a
80 miliardi, quasi il doppio dell’anno precedente; l’interscambio complessivo
con i paesi partner del progetto si avvicinerà presto ai mille miliardi di
dollari.
Forse
per questo il clima tra Stati Uniti e Cina è decisamente cambiato come
testimoniano le accuse americane per le operazioni di spionaggio industriale (e
per i cyber attacchi che mettono a rischio la sicurezza nazionale americana),
nonché le pesanti misure protezionistiche assunte dalla amministrazione Trump.
Le
preoccupazioni del Dipartimento di Stato per i rischi di spionaggio sono state
ufficializzate in un comunicato ufficiale del 20 dicembre 2018.
In
questo clima di tensione l’interscambio scientifico e culturale tra i due paesi
sta subendo un rallentamento e da ambo le parti è visto con crescente sospetto.
In una recente intervista a Technology Review,
una delle più note riviste del MIT, il Professore Yasheng Huang – originario di
Pechino – che insegna da anni alla Sloan School of Management del MIT ha
dichiarato:
“Quelle mosse le considero più dannose
per gli Stati Uniti rispetto alla Cina. Se guardi al MIT, molte ottime
ricerche vengono fatte insieme a studenti laureati cinesi e professori cinesi.
Una
volta interrotto, ciò avrà un grande impatto sulla ricerca all'avanguardia.
La
loro logica è che ci sono spie cinesi. Non dirò che non ce ne sono.
Ma è
come dire "Ci sono criminali, quindi dovremmo bandire gli esseri
umani".
È una
questione di legge e ordine. Dovresti rafforzare la vigilanza e i controlli,
piuttosto che impedire ai cinesi di venire qui.
Nonostante
le critiche del Professor Huang all’amministrazione americana il quadro sembra
subire un ulteriore deterioramento, le relazioni bilaterali diventano più
difficili, e talora – come nel caso Huwaei citato all’inizio di questo articolo
– apertamente conflittuali.
Una
visione sin troppo pessimistica dello scontro in atto tra Washington e Pechino
è quella sostenuta dall’ex Ministro del Tesoro Jack Paulson che nel novembre
2018 in un discorso pronunciato a Singapore nel corso del Bloomberg New Economy
Forum ha sostenuto che il gelo di queste settimane prelude alla nascita di una
cortina di ferro tra Stati Uniti e Cina:
"Ora
vedo la prospettiva di una cortina di ferro economica, che erige nuovi muri su
ogni lato e disfa l'economia globale, come l'abbiamo conosciuta".
Gli
Usa e il dark side dell’universo cyber.
Cosa
ha determinato questo brusco cambiamento?
A nostro avviso un fattore esplicativo (non
valutato con sufficiente attenzione dagli analisti) è che la rivoluzione
digitale ha colto la classe politica americana complessivamente impreparata.
Le
narrazioni ottimistiche dei colossi della Silicon Valley (si pensi al libro di
Eric Schmidt del 2013) hanno incantato Casa Bianca e Congresso.
In verità una maggiore sensibilità in materia
si è potuta osservare al Pentagono già dal 2012 all’epoca del generale Dempsey
che tuttavia all’epoca non riuscì a convincere il Senato ad adottare misure
adeguate di cyber security).
Per
riprendere l’espressione del Professore Isaac Ben Israel il “dark side”
dell’universo cyber è stato sottovalutato; in particolare i crescenti rischi
per la sicurezza nazionale americana.
In
questa sottovalutazione ha certamente pesato il cosiddetto “Snowden effect” ed i timori per l’onnipotenza della
NSA (più apparente che reale per effetto della nebbia creata dal Overland
informativo).
In
tempi più recenti negli Stati Uniti tutti hanno sottolineato l’importanza della
cyber security e del cyber defense, ma nella pratica si è guardato alla
dimensione cyber esclusivamente come la nascita di un nuovo dominio da gestire.
Non si è compreso quanto la visione prevalente
del V° dominio sia riduttiva; la rivoluzione digitale è trasversale e
pervasiva, essa coinvolge e “stravolge” tutti i domini.
Forse
con la nomina di Patrick Shanahan (appena nominato da Trump al Pentagono) le
cose potrebbero cambiare.
“Most
of everything we do is software driven” con questa frase il nuovo capo del
Pentagono ha colto finalmente il punto cruciale!
Sarà
interessante vedere se il Ministro Shanan avrà più fortuna del Generale Dempsey
e l’Amministrazione riuscirà ad agire di conseguenza adottando contromisure
adeguate.
Digitale,
le quattro aree di vulnerabilità strategica.
Per
restare in ambito militare è utile ricordare che la sfida digitale comporta
almeno quattro aree di vulnerabilità di carattere strategico:
la
dipendenza del comparto militare da infrastrutture critiche civili (spesso
gestite da imprese private);
la
grande difficoltà a controllare la sicurezza nel complesso supply chains che
alimentano le industrie della difesa;
la
fragilità intrinseca (innanzitutto per il fattore umano) connessa
all’interconnetività di reti e hub interforze estese livello globale (dai
vettori spaziali ai sottomarini), peraltro in numerosi casi collegate anche
alle forze militari di paesi alleati;
l’intreccio
inestricabile tra dimensione militare e civile nei progetti di ricerca più avanzati
nonché la produzione davvero massiccia di programmi, piattaforme e apparati dual use.
Esiste,
infine un dilemma etico-politico che coinvolge l’applicazione della AI ai
dispositivi militari con l’obiettivo di rendere automatiche – senza filtro
umano – le risposte difensive e offensive del potenziale di fuoco pianificato
nei software che “comandano” i più diversi armamenti.
Un
dilemma che come ha sottolineato recentemente il Generale John Allen –
Presidente di Brookings – presto coinvolgerà l’opinione pubblica nei paesi
democratici cosi come avvenne in materia all’epoca dei dilemmi nucleari.
Per inciso è probabile che su questa materia
vedremo entrare in azione anche sofisticate campagne di influenza e
disinformazione da parte di paesi ostili che cercheranno con abituale abilità
di soffiare sul fuoco nell’intento di indebolire l’Alleanza Atlantica e altri
paesi alleati degli Stati Uniti.
“Centralità
del software”, la lungimiranza della Cina.
La
centralità del “software”, la rilevanza militare e implicazioni economiche
della rivoluzione tecnologica sono stati compresi con maggiore anticipo dalla
classe dirigente cinese, meno abituata a “twittare”, ma più educata a ragionare
strategicamente.
Essa è
peraltro molto facilitata dal regime politico in cui opera.
Senza
i costi della democrazia, in assenza di valori come la privacy, con il
predominio delle aziende e dei sussidi di Stato, con barriere di sbarramento
alle imprese straniere, con un massiccio intervento pubblico a sostegno della
ricerca e delle startup non è poi così difficile far correre più veloce la
tecnologia rispetto ai paesi democratici.
Il
miracolo economico della città di Shenzen – molto avvantaggiata dalla
prossimità di Honk Kong – probabilmente resterà l’emblema della crescita esponenziale
della ricerca tecnologica cinese.
Tuttavia,
occorre anche considerare il rovescio della medaglia.
I
tanti fattori che hanno favorito il Dragone presentano alcuni risvolti negativi
soprattutto in termini di trust.
L’eccesso
di protezione governativa genera diffidenza; la non protezione della proprietà
intellettuale può allontanare i migliori talenti, la chiusura ad aziende estere
produce ritorsioni.
Un
altro aspetto mina la fiducia.
L’uso
spregiudicato di informazioni digitali da parte del governo consente un
controllo penetrante sulla vita lavorativa e privata dei cittadini e rafforza
all’esterno l’immagine di un paese illiberale in cui le élite del partito
continuano a dominare la scena come recentemente ribadito dai massimi vertici
politici a partire dalle dichiarazioni del Presidente XI.
John
Gartner, Vice-President of International Corporate Affairs ha fotografato la
situazione in termini piuttosto chiari:
“Non
c'è dubbio che come azienda cinese devi lavorare di più per dimostrare che le
tue intenzioni sono autentiche.
Il
play book digitale cinese è stato in grado di mostrare l'Occidente in varie
aree, in gran parte grazie alla sua ampia strategia, alla profonda esperienza
dei consumatori e all'accesso al supporto del governo, la vera domanda è se le
aziende cinesi avranno lo stesso successo sui mercati esteri.
Possiamo sapere una cosa con certezza: Baidu,
Alibaba e Tencent di certo non moriranno meravigliati”.
L’influenza
di Usa e Cina sul futuro del mondo.
Come
si evolveranno le relazioni tra Washington e Pechino nel prossimo decennio (in
termini di cooperazione/ competizione/ conflitto) non è oggetto di questo
articolo.
Ciò che viceversa abbiamo documentato nei
precedenti paragrafi – sia pur succintamente – dimostra in modo chiaro è che
Cina e Stati Uniti sono e saranno due driver globali destinati ad incidere sul
futuro del mondo.
Non
tutto dipenderà da loro (né dall’andamento delle loro relazioni né dalla loro
interdipendenza), ma saranno queste grandi potenze a plasmare le tendenze di
fondo non solo sul piano economico e tecnologico, ma anche sul piano politico,
il piano dove la distanza appare davvero incolmabile almeno nel breve e medio
periodo.
Da un
lato, con Trump o senza Trump, gli Stati Uniti hanno metabolizzato da secoli i
valori dello Stato di diritto: libere elezioni, multipartitismo, separazione
dei poteri, libertà dei media, diritti delle minoranze, multiculturalismo,
libera iniziativa privata senza limiti dimensionali o settoriali.
Dall’altro
lato la Cina è un paese che ha alle spalle una grande tradizione storica e
culturale, è abituata a muoversi a livello internazionale con una forte visione
strategica e a compiere a livello domestico coraggiose scelte di
modernizzazione.
Tuttavia,
sul piano politico questo grande paese è saldamente ancorato alla centralità
del partito unico (come spina dorsale del sistema di governo) nonché
caratterizzato, come accennato in precedenza, da una cultura politica di tipo
tradizionale in cui il valore della reputazione sociale dei cittadini prevale
sui loro desideri di libertà.
Per quanto all’avanguardia sul piano
tecnologico la Cina è una realtà sociale e culturale lontana dai valori
liberaldemocratici con cui siamo abituati a convivere in Europa e negli Stati
Uniti.
Rivoluzione
digitale e democrazia.
Come
abbiamo sostenuto in più di un’occasione alcune caratteristiche della
rivoluzione digitale non vanno molto d’accordo con la democrazia.
Esse potrebbero avvantaggiare lo sviluppo di
un modello di società come quello cinese e forse persino favorire il diffondersi
nel mondo di variegate modalità di totalitarismo digitale.
Ma non
è detto.
Facciamo
per un attimo riferimento ad un piccolo esempio. In queste settimane si discute
sui ritardi di Hong Kong rispetto a Singapore nella digitalizzazione del
sistema giudiziario.
È solo
un episodio minore, ma al tempo stesso possiamo considerarlo un ottimo
indicatore di quanto le grandi burocrazie del Dragone possono costituire un
ostacolo ai processi di innovazione tecnologica.
Tecnologia
e burocrazia spingono in direzioni divergenti perché l’innovazione digitale
mette in discussione la compartimentazione organizzativa e le conseguenti
posizioni di potere del ceto burocratico e in occasione di una lotta di potere
all’interno della leadership potrebbe almeno in teoria dinamizzare il
centralismo democratico dello stesso partito comunista.
E poi
c’è un altro aspetto fondamentale di cui tener conto: il fattore umano, in
particolare l’esigenza di libertà e di qualità della vita.
Per
primeggiare sul piano scientifico e tecnologico occorre attrarre talenti da
tutto il mondo; nonostante gli incentivi finanziari alcuni tratti illiberali
della realtà cinese potrebbero scoraggiare questo processo di attrazione.
Nei
prossimi anni vedremo quale sarà l’esito di questa avvincente sfida tra le due
maggiori potenze e sarà anche possibile comprendere quali paesi si
avvicineranno alla Cina (è uno dei dilemmi della Russia) e chi invece
privilegerà la cooperazione con le democrazie euro atlantiche.
Ma se
questo è lo scenario è davvero difficile sostenere ipotesi che il mondo abbia
un assetto apolare come ha sostenuto Richard Hass.
Considerando
il peso così significativo degli Stati Uniti e della Cina nel sistema
internazionale è davvero difficile sostenere l’assenza di poli.
Si può discutere se gli Stati Uniti vogliono
continuare a fare i gendarmi del mondo oppure discettare su quanto ancora
durerà il primato degli Stati Uniti sul piano tecnologico e militare.
Lo stesso cale sul versante cinese.
Si
possono nutrire dubbi sulla volontà della leadership di assumersi
responsabilità globali a 360 gradi.
Ma qui
non facciamo riferimento alle volontà soggettive delle élite politiche di
Washington o di Pechino, ma a peso oggettivo.
Nel
sistema internazionale contemporaneo – anche per effetto della rivoluzione
digitale – la presenza di almeno due grandi di poli di attrazione e di
influenza quali gli Stati Uniti e la Cina è un dato di fatto che possiamo
osservare nella vita di tutti i giorni e da cui non si può prescindere.
La
domanda da porsi è un’altra.
Esiste
un terzo paese che presenti caratteristiche simili, tali da costituire almeno
potenzialmente un terzo polo?
Senza una entità statuale con queste
caratteristiche è impossibile immaginare l’assetto tripolare a cui abbiamo
accennato nei paragrafi precedenti.
Della fragilità politico-istituzionale dell’Unione
Europea abbiamo già detto, solo l’avvincente progetto degli Stati Uniti
d’Europa potrebbe renderlo possibile.
Per
quanto attiene ai BRICS oltre alla Cina la Russia è l’unico potenziale
candidato.
Come abbiamo già scritto le nuove sfide
tecnologiche e produttive (si pensi al quantum computing) hanno la necessità di
essere sostenute da consistenti investimenti pluriennali e grandi laboratori di
ricerca che soltanto un numero limitato di Stati e soltanto le grandi aziende
possono permettersi.
La
Russia di Putin.
Se
Vladimir Putin ha conquistato da tempo in Europa e nel mondo l’immagine di un
leader abile, popolare e vincente, la Russia di Putin si presenta viceversa
come una realtà più fluida, più fragile e più difficile da decifrare.
Alcuni
tradizionali punti forza restano consistenti.
Ci
riferiamo alla produzione di energia, alle forze armate, alle migliaia di
testate nucleari, alla produzione bellica.
Un
altro elemento di cui tener conto sono i risultati delle sue azioni militari
soprattutto per quanto attiene alle conseguenze nel dominio marino.
Con la sua azione di forza in Crimea ed in Siria la
Russia ha messo in sicurezza le sue basi militari di Sebastopoli e
Tartus/Latakia oltre ad accrescere le sue capacità di influenza geopolitica
sugli attori del conflitto.
Tuttavia
si è trattata in fin dei conti di una politica militare di carattere difensivo.
Essa ha
peraltro prodotto conseguenze negative: oltre al prezzo delle sanzioni ha anche
favorito la fuga da Mosca di consistenti capitali stranieri.
Dopo
aver perso una parte molto consistente del suo territorio in seguito al crollo
dell’Unione Sovietica e dopo un decennio di caos, con l’avvento di Putin si è
cercato di arrestare il declino: non perdere del tutto l’influenza sui paesi
confinanti, accrescere la popolarità e l’influenza di Putin nella politica
europea con il supporto ai partiti populisti/sovranisti, bloccare
l’espansionismo di NATO e UE e tentare un rilancio della politica estera della
Russia con una maggiore presenza nell’artico, in medio oriente, nella sponda
sud del mediterraneo ed in alcune ex repubbliche sovietiche in Asia.
A
nostro avviso tuttavia questi elementi non sono sufficienti per fare della
Russia una grande potenza in grado di operare su scala globale.
L’eccesso
di dipendenza dal prezzo delle risorse energetiche (tipico dei cosiddetti
petrostates), la fragilità e debolezza del rublo, l’arretratezza della base
industriale e i ritardi sul piano tecnologico fanno presumere che il gap della
Russia con la Cina e con gli Stati Uniti sia destinato a crescere.
Ciò
che, inoltre, appare difficile da capire (forse la debolezza finanziaria) è
perché il paese, la sua classe dirigente, le sue aziende strategiche non
riescano a stare al passo con la rivoluzione tecnologico-industriale che sta
trasformando il mondo. In ambito digitale – sulla base della lunga esperienza del
KGB – la Russia ha dimostrato notevoli abilità nel muoversi nel social layer
del Cyberspace: comunicazione,
capacità di mimetizzazione, trolls, campagne di disinformazione, ecc.
Meno
chiare sono le reali capacità della Russia nelle nuove applicazioni militari di
AI e nei cyber attacchi di tipo più avanzato, ambito, quest’ultimo nel quale
sembra che la Russia abbia operato con qualche efficacia nel corso conflitti
recenti (Georgia, Ucraina). Il 1° settembre 2017 il Presidente Vladimir Putin
in occasione dell’apertura dell’anno scolastico ha dichiarato:
“L'intelligenza
artificiale è il futuro, non solo per la Russia, ma per tutta l'umanità.
Presenta opportunità colossali, ma anche minacce difficili da prevedere.
Chiunque diventi il leader in questa sfera diventerà il sovrano del mondo”.
Tuttavia,
il presidente ha detto che non gli sarebbe piaciuto vedere
“chiunque
monopolizzi il campo”.
“Se
diventiamo leader in questo settore, condivideremo questo know-how con il mondo
intero, allo stesso modo in cui condividiamo oggi le nostre tecnologie
nucleari. "
È
difficile decodificare le ragioni di quel messaggio.
Potrebbe
essere un discorso rivolto all’interno: ai militari, alla comunità scientifica
ed alle aziende russe per segnalare il loro ritardo e stimolarli ad un catch up
accelerato.
Questa
tesi potrebbe essere avvalorata – secondo quanto sostiene un recente report
dell’ufficio studi del Congresso americano – dal fatto che la ricerca
tecnologica russa (rispetto agli Stati Uniti e la Cina) sarebbe più indietro
proprio in materia di Intelligenza Artificiale.
“Nonostante
le aspirazioni della Russia, gli analisti sostengono che potrebbe essere
difficile per la Russia investire in modo significativo in questi programmi.
Alcuni analisti sottolineano che l'industria tecnologica russa non è abbastanza
sofisticata per produrre applicazioni di intelligenza artificiale alla pari con
gli Stati Uniti o la Cina.
Solo
un russo è entrato nel recente elenco di "AI Influencer" globali di
IBM e gli strumenti di intelligenza artificiale prodotti dalle startup russe
sono generalmente inferiori agli sviluppi di società comparabili negli Stati
Uniti e in Cina.
I critici di questa posizione ribattono che la Russia
non è mai stata un leader nella tecnologia Internet, ma ciò non le ha impedito
di diventare una forza sostanzialmente dirompente nel cyberspazio.
Inoltre, la posizione russa su LAWS sembra essere
incoerente. Sebbene l'agenda di ricerca russa possa indicare un'enfasi sui
sistemi d'arma autonomi, individui all'interno dell'establishment militare
russo e leader dell'industria della difesa hanno espresso riserve sulla fiducia
nei sistemi di intelligenza artificiale per il processo decisionale sul campo
di battaglia.
Tuttavia,
la Russia potrebbe essere in grado di superare le sue debolezze e preservare un
vantaggio unico nella tecnologia dell'IA militare globale se fosse la prima a
perseguire in modo aggressivo.
Potremmo
continuare con altri esempi, ma sulla base degli elementi disponibili la nostra
ipotesi è che la Russia – sia pur in terza posizione – non sia almeno nel breve
e nel medio periodo in grado di assolvere il ruolo di superpotenza a cui
dichiara di voler aspirare.
La
tesi che sottoponiamo ai nostri lettori è pertanto la seguente: il sistema internazionale sta
evolvendo verso un nuovo bipolarismo tra Stati Uniti/Cina. Si tratterà, però,
di una forma diversa di bipolarismo da quella che abbiamo conosciuto dopo la
seconda guerra mondiale come esclusiva contrapposizione tra Stati.
Nelle
società digitali in cui stiamo vivendo da qualche anno un ruolo rilevante,
almeno nei paesi democratici è svolto dalle grandi aziende private.
Non
basterà pertanto guardare solo al governo degli Stati Uniti, ma anche al
comportamento – spesso non pienamente allineato e talora apertamente
conflittuale – dei colossi digitali multinazionali che hanno base negli Stati
Uniti.
Allo
stato degli atti in Cina il rapporto Stato/mercato è radicalmente diverso anche
per i collegamenti tra partito comunista e aziende.
Tuttavia
– a nostro avviso – un attento osservatore oltre a monitorare accuratamente le
mosse di IBM, Intel, Amazon, Google, Facebook, Apple, Microsoft, Verizon
farebbe bene a non trascurare Alibaba, Baidu e Tencent.
I
«Grandi spazi» nel pensiero
internazionalistico
di Carl Schmitt.
Filodiritto.com
– Gabriele Trombetta – (20 Aprile 2021) – ci dice:
Il
saggio delinea il concetto di ‘grande spazio ’ elaborato da Carl Schmitt nel
1941 e tiene conto delle diverse interpretazioni che ne sono state proposte.
La nozione, infatti, è sostanzialmente aperta
e consente di accedere sia a una prospettiva gerarchizzante che a una visione
orizzontale, più confacente alla moderna sensibilità delle relazioni
internazionali.
In
questa parte, si esaminano gli Stati Uniti nella prospettiva schmittiana.
Secondo l’Autore,
essi avrebbero elaborato, con la dottrina di Monroe, un’embrionale teoria dei
‘grandi spazi’, successivamente tradita da una torsione universalista.
La fine della seconda guerra mondiale, dunque,
aprirebbe a un nuovo nomos della terra, costruito sul conflitto tra Est e
Ovest. Si tratta di una falsa competizione tra monismi animati da una comune
filosofia della storia: secondo Schmitt, dal duopolio USA-URSS potrà emergere
un unico signore del mondo o, con la creazione di ‘terze forze’, un pluralismo
dei ‘grandi spazi’.
1. Gli
Stati Uniti, nemico dell’ordine terraneo.
L’ammiraglio
Mahan considerava gli Stati Uniti l’isola maggiore, che avrebbe potuto
subentrare alla Gran Bretagna nel dominio del mare e, attraverso
quell’elemento, del mondo.
Gli
Stati Uniti, del resto, non sono soltanto eredi della tradizione marittima e,
dunque, industriale anglosassone. Sono anche figli dei puritani inglesi, che
fornirono l’energia spirituale per i grandi viaggi oceanici e la conquista di
mare e di terra dei gloriosi XVI e XVII secolo.
Questo
carattere marittimo, tuttavia, non si manifestò immediatamente nella storia
americana. Ciò
anche in virtù dell’esigenza dei coloni e poi degli Stati Uniti di conquistare
l’ovest. La loro, dunque, fu all’inizio un’epopea terrestre, che, però, si
volgeva alla creazione di un’isola. Solo quando la presa del continente fu
compiuta poterono volgersi definitivamente ai mari: all’Atlantico prima, al
Pacifico poi.
La
politica americana è allora pervasa da questa ambiguità: una tendenza alla
chiusura isolazionista, una controforza che si proietta invece nel mondo.
Questa
duplicità si manifesterebbe anche nella fondamentale dottrina di Monroe, del
1823.
Vi si
affermava l’indipendenza del continente americano, respingendo qualsivoglia
tentativo di ingerenza delle potenze europee.
Veniva tracciata una linea, che riservava al
nuovo mondo l’emisfero l’occidentale. Gli Stati Uniti si facevano garanti dei
Paesi del Centro e del Sud America, di recente liberatisi dalla madrepatria
europea.
Veniva
istituita una linea di demarcazione – un cordone sanitario – che separava così
l’emisfero occidentale dalla corrotta Europa.
In
breve, la “Monroe Doctrine” sanzionava un’egemonia statunitense sul continente,
tanto da far giungere alla sineddoche per cui l’America vien fatta coincidere
con gli Stati Uniti.
Sarebbe
questa, ad avviso di Schmitt, la prima teorizzazione del grande spazio
(Grossraum), inteso come territorio eccedente i confini nazionali,
caratterizzato da affinità politico-culturale, in cui è egemone un Impero, con
esclusione dell’intervento di potenze estranee.
Quantunque
detentori di questo primo modello storico-concreto di grande spazio, gli Stati
Uniti virarono, tuttavia, verso una concezione marittimo-universalista.
È
questa una torsione della dottrina di Monroe, interpretata dagli USA come
principio abilitante l’intervento ovunque siano in gioco interessi americani.
Ne sono testimonianza le posizioni di Wilson e di Roosvelt, icasticamente
sintetizzate nella dottrina di Stimson del 1932.
Durante
il secondo conflitto mondiale – che per Schmitt si sarebbe declinato in una
doppia guerra: quella terrestre, iniziata col conflitto civile spagnolo del
’36, e quella oceanica, scoppiata a Pearl Harbour nel dicembre ’41–, l’Autore
concentrò la propria analisi sull’intervento americano.
Richiamando le tesi di Mahan del 1904,
sosteneva che gli Stati uniti sarebbero succeduti all’Inghilterra come
superpotenza oceanica, in quanto ‘isola più grande’ in grado di sostenere
l’imperialismo marittimo in uno spazio dilatato.
L’Autore
si dimostrava però critico rispetto alla decisività dell’entrata in guerra
americana, rilevando come gli Stati uniti non potessero essere determinanti a
causa delle intrinseche contraddizioni della loro politica, combattuti
com’erano tra interventismo e isolazionismo, in un’ambigua lettura della
dottrina di Monroe:
da
decenni, insomma, l’emisfero guidato dagli Stati Uniti vacilla tra tradizione e
situation, isolazionismo e interventismo, neutralità e guerra mondiale,
riconoscimento e non riconoscimento di ogni nuova situazione.
Pur
riconoscendo che gli USA potevano avvalersi sia dell’arma
ideologico-concettuale del ‘grande spazio ’ americano, sia della vocazione
universale britannica, in un doppio gioco ideologico e pragmatico, secondo
Schmitt questa indecisione di fondo rendeva la nuova superpotenza un attore
inconsapevole della storia. Né rallentatori – con l’Impero britannico, katechon
di ogni mutamento mondiale – né propulsori di un nuovo ordinamento della terra.
Quando
abbandonò il terreno dell’isolamento e della neutralità, il presidente Roosevelt
si sottomise “nolens volens “al costitutivo orientamento frenante e rallentante
del vecchio impero mondiale britannico.
Nel
medesimo tempo però proclamò il «secolo americano», per mantenere la
traiettoria americana verso il nuovo e il futuro in cui si era mossa la
stupefacente ascesa degli Stati Uniti nel XIX secolo.
Anche
in questo caso […] il passo oscilla nelle profonde contraddizioni interne di un
emisfero che ha perduto il proprio baricentro.
Evidentemente,
Schmitt scriveva da tedesco in guerra contro gli Alleati nel 1942: gli americani
furono decisivi nel conflitto e confermarono il Novecento come ‘the American
century’.
Tuttavia,
la critica culturale agli Stati Uniti non cessò: Schmitt non rinunciò mai al suo
tradizionale nemico, neppure dopo la sua sconfitta.
Nel
Nomos della terra (1950), osserverà come
nel
medesimo tempo in cui si iniziava in politica estera l’imperialismo degli Stati
Uniti, la situazione interna statunitense vedeva invece terminata l’epoca della
sua novità.
Il
presupposto e il fondamento di quella che, in senso reale e non semplicemente
ideologico, poteva essere detta la novità dell’emisfero occidentale era venuto
meno.
Già
attorno al 1890 cessò negli Stati Uniti la libertà di conquista interna e si
era conclusa la colonizzazione del territorio che era stato fino ad allora
libero.
Fino a
quel momento era rimasta ancora valida negli Stati Uniti la vecchia linea di
confine, che teneva separati i territori colonizzati e territori liberi, ovvero
aperti alla libera conquista.
Fino
ad allora era esistito anche l’abitante tipico di questa linea di confine,
chiamato frontier: colui che poteva spostarsi dal
territorio colonizzato al territorio libero.
Ma
ora, assieme al territorio libero cessava anche la libertà fino ad allora
esistente. L’ordinamento fondamentale degli Stati Uniti, il radical title, si
trasformò.
Ad
ogni modo, nonostante le valutazioni schmittiane, era indubbio che dalla
seconda guerra mondiale fosse sorto un nuovo nomos della terra, sotto il segno
delle due superpotenze USA e URSS.
2. Il nomos della cortina di ferro e
l’alternativa multipolare.
Già
dal 1942 Schmitt aveva evidenziato la specificità della seconda guerra mondiale
nel fatto che essa era una guerra per l’ordinamento dello spazio in grande
stile, la prima guerra per l’ordinamento dello spazio di proporzioni
planetarie.
Non
quindi una guerra dentro il nomos, ma una guerra per un nuovo nomos globale.
Concluso
il conflitto, non abdicò alle sue categorie interpretative, cercando di leggere
la contemporaneità attraverso i concetti di nomos e di grande spazio e
l’opposizione terra-mare.
Pur
ammettendo l’aleatorietà della distinzione est-ovest, Schmitt osservava come
l’emisfero occidentale fosse essenzialmente oceanico, mentre quello orientale
terraneo. Rinveniva
dunque nuovamente la sua formula terra contro mare, in cui civiltà telluriche
orientali si scontrano con quelle marittime occidentali.
Era,
tuttavia, certo che la struttura geopolitica binaria fosse per sua natura
transitoria, innalzando la tensione internazionale ed umana ad un livello
insostenibile.
Secondo
l’Autore tre sarebbero stati i fenomeni caratterizzanti un nuovo nomos del
secondo dopoguerra: l’anticolonialismo, la presa dello spazio cosmico,
l’industrializzazione del terzo mondo.
L’anticolonialismo
sarebbe stato fondato, nell’avviso di Schmitt, su una leggenda nera
antieuropea, che aveva dipinto l’Europa come aggressore e nemico della pace.
Dietro
la coltre ideologica, l’anticolonialismo avrebbe avuto, dunque, una
connotazione eminentemente spaziale: suo scopo sarebbe stato di distruggere
l’ordine europeo per sostituirlo con un nuovo ordine.
Ciò sarebbe dimostrato dalla circostanza che
sul banco degli imputati sia stato posto il solo imperialismo europeo, mentre
analoghe posture aggressive – come quella sovietica – non sono state oggetto
della stessa censura.
Ad
ogni modo, secondo Schmitt, la weltanschauung anticolonialista avrebbe
carattere soltanto ‘negativo’:
non ha
la capacità di promuovere in modo positivo l’inizio di un nuovo ordinamento
dello spazio.
Al
contempo, sarebbe venuta in gioco – per contrappasso – anche la
‘colonizzazione’ del cosmo, secondo la nota azione tripartita di
appropriazione, divisione, produzione.
Tuttavia,
al centro della visione politica sarebbe rimasta, per il filosofo tedesco, la
terra.
Il
dominio della terra avrebbe garantito i mezzi tecnici per conquistare il cosmo;
e la conquista del cosmo avrebbe assicurato le risorse ideologiche fondamentali
per conquistare la terra, il solo vero obiettivo delle potenze in lotta.
La
guerra fredda rappresenta, per Schmitt, un conflitto che distrugge tutti i
concetti classici del diritto internazionale europeo: la distinzione tra guerra
e pace e quella tra nemico e criminale.
L’Autore
ha, dunque, schematizzato diacronicamente la guerra fredda in tre fasi.
La
fase del “One World” rappresenterebbe il pre-stadio della guerra fredda. In
questo periodo, Stati Uniti e URSS – alleati contro Hitler – avrebbero creato
un sistema internazionale tendenzialmente unitario, ispirato alla concordia
delle due superpotenze.
Ma già
nel ’47, al manifestarsi dei primi contrasti tra i due Stati-guida, avrebbe
avuto inizio la fase bipolare, segnata dal confronto agonistico tra USA e URSS,
con il declino delle tradizionali partizioni guerra-pace e nemico-criminale.
La
terza fase consisterebbe, invece, nell’emersione di ‘terze forze’, che
avrebbero potuto aprire a un mondo multipolare.
Schmitt
si interrogava, così, su quale sarebbe potuto essere il nuovo nomos della terra
dopo la guerra fredda:
la vittoria completa di una delle due parti,
con l’affermazione di un impero mondiale, che stringesse terra e mare; una
riedizione dello “jus publicum europaeum”, con l’affermazione degli Stati Uniti
sullo spazio aereo in luogo del dominio britannico sul mare; o, infine, la
creazione di grandi spazi reciprocamente indipendenti.
Riguardo
la prima ipotesi, Schmitt manifestò notevoli preoccupazioni, dimostrando –
naturalmente – la sua propensione per la terza, quella di un equilibrio dei
‘grandi spazi’.
A suo
avviso, l’unità del mondo, implicante il dominio di un solo principio politico
sulla terra, sebbene possa apparire desiderabile, non sarebbe concettualmente
neutra. Infatti, la signoria esclusiva può essere tanto buona che cattiva.
Schmitt
riconosceva come il progresso della tecnica sembrasse favorire l’unità, ma
dubitava che il mondo potesse essere ridotto – attraverso il progresso
scientifico – a un’entità pienamente dominabile e plasmabile da una sola
superpotenza che imponesse il proprio esclusivo nomos.
Riteneva
che quale che fosse stato il vincitore si sarebbe aperta un’era di
universalismo, sotto il dominio di un’unica superpotenza.
In
questo senso, Ovest ed Est apparivano a Schmitt accomunati dalla filosofia
della storia, e cioè da una visione escatologica per cui, con il progresso
della tecnica e la pianificazione, si sarebbe giunti ad una società ideale (del
consumo o della terra elettrificata, rispettivamente).
Questa
logica storicista avrebbero tanto i piani quinquennali staliniani, quanto la
fede nel progresso della società del benessere occidentale.
Schmitt
propendeva, dunque, per la soluzione dei ‘grandi spazi’, che gli sembrava
peraltro la più realistica.
Il
mondo sarebbe stato troppo grande per contenere solo due ideologie dalla
medesima radice, non mancando quelle che potremmo chiamare aree di
civilizzazione non riducibili alla dicotomia USA-URSS:
l’Europa, l’Islam, l’India, la Cina, gli Stati
di civiltà ibero-lusitana.
Sarebbero
dunque esistite riserve spirituali eccedenti la sola dicotomia Est-Ovest, che
avrebbero restituito infine un mondo plurale.
Del
resto, come osserva Andrea Mossa, Schmitt rinviene nell’azione internazionale
degli Stati Uniti una «tendenza entropica», un nulla-di-ordine che si
contrappone a una visione spazialmente regolata della terra.
In questa prospettiva, potrebbe dunque parlarsi di un
moto “entropico e centripeto”, in cui il disordine si sviluppa in ragione di
una centralizzazione del potere mondiale nel monopolio di una sola potenza.
Sicché,
mentre la Gran Bretagna poteva essere considerata un katechon, una forza
ritardante la fine della propria potenza imperiale-coloniale, gli Stati Uniti paiono piuttosto
l’Anticristo, che, nel “mysterium iniquitatis”, usurpa il potere divino,
imponendo un’unicità coatta e livellatrice di ogni differenza.
Nell’ultima
fase del pensiero schmittiano,
“il
vinto che scrive la storia” userà parole ben diverse: […] intendendo il nemico
non più come avversario irriducibile, da annientare in una battaglia decisiva,
bensì come un simile con il quale occorre trovare un’intesa e un confine.
Poiché
il nemico è colui che, limitandomi, mi definisce, annientarlo significherebbe
annientare me stesso.
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