DOMINIO MONDIALE UNIPOLARE.

 DOTTRINA e TEORIA GEOPOLITICA

del DOMINIO MONDIALE UNIPOLARE.

 

 Talassocrazia: il dominio dei mari

 e la geopolitica anglo-statunitense.

Blog.ilgiornale.it – Cristiano Puglisi – (23 agosto 2021) – ci dice:

 

Nonostante quanto è accaduto in Afghanistan abbia risvegliato le opinioni attestanti un loro supposto declino, gli Stati Uniti d’America sono ancora, almeno al momento, l’unica superpotenza mondiale, intendendo questa definizione nel senso classico.

Un ruolo egemonico che gli Usa ereditarono, dopo le due guerre mondiali, dall’Impero Britannico. Entrambi evidentemente di cultura anglosassone, questi imperi condividono anche il medesimo destino geopolitico, quello che accomuna le potenze talassocratiche. Basate, cioè, sul dominio dei mari.

Non è forse azzardato sostenere che, senza una presa di coscienza di questa realtà, del suo retroterra teorico e delle sue implicazioni, tutt’altro che secondarie, sarebbe forse impossibile comprendere le logiche sottostanti alle scelte strategiche di Washington e Londra negli ultimi due secoli.

Utile per dissezionare l’universo concettuale e strategico alla base delle mosse anglo-americane del presente e del passato può essere, allora, un saggio di recente pubblicazione, opera di un brillante e giovane analista italiano, Marco Ghisetti ed edito da Anteo.

Il titolo dell’opera, “Talassocrazia. I fondamenti della geopolitica anglo-statunitense”, illustra già in maniera chiara quali siano i suoi contorni.

Non vi è dubbio – spiega l’autore – che vi sia una forte continuità tra l’Impero britannico e l’Impero statunitense, tanto che si potrebbe dire che il secondo è l’erede legittimo del primo.

 Tale continuità è data non solo dalla forma e dalla sostanza, ma anche dal filo rosso che lega le due esperienze imperiali: infatti, l’impero statunitense si è formato ereditando quello britannico.

Ho detto nella forma e nella sostanza perché entrambe le esperienze imperiali si fondano e si mantengono sull’azione e la volontà di uno Stato-isola (il centro dell’impero) che basa e promuove la propria egemonia per il tramite di un doppio movimento – si potrebbe dire di sistole e di diastole – di isolazionismo ed interventismo, ovvero di affermazione della propria insularità e di proiezione anche aggressiva della propria potenza marittima ed economico-finanziaria, oltre che da una particolare organizzazione e visione del mondo di tipo mercatistico e liberale.

 Inoltre, il loro pensarsi come uno Stato-isola che si affaccia a ridosso di un continente di dimensioni molto più grandi rispetto a loro (l’Europa per l’Inghilterra, l’Eurasia per gli Stati Uniti), pone loro in una condizione per la quale l’eventuale unificazione ed organizzazione economico-politica di quel continente comporterebbe il definitivo tramonto della loro egemonia, poiché lo Stato-continente disporrebbe di una potenza di molto superiore rispetto a quella dell’Isola.

Per questa ragione, l’imperativo strategico che accomuna sia Inghilterra che Stati Uniti è di prevenire l’unificazione di tale continente, giocando il ruolo di bilanciatore d’oltreoceano ed inserendosi nelle delicate relazioni tra gli Stati continentali.

Se l’Inghilterra quindi si è impegnata per tutto il periodo colombiano (XVI-XIX secoli) ad imporre e mantenere la propria egemonia marittima mentre giocava sulle divisioni continentali dell’Europa, gli Stati Uniti nel periodo post-colombiano (XX secolo-oggi) mantengono la propria egemonia marittima e finanziaria mentre si impegnano a prevenire ogni tipo di coalizione o di unificazione continentale”.

Il libro analizza, in maniera dettagliata, il pensiero di tre personaggi: l’ammiraglio Alfred Thayer Mahan (1840-1914), il geografo Halford John Mackinder (1861-1947) e lo studioso Nicholas John Spykman (1893-1943).

Questi tre individui sono stati forse i principali teorici al servizio dell’egemonia anglo-statunitense, influenzandola ancora oggi.

Alfred Thayer Mahan (1840-1914)

Halford Mackinder (1861-1947)

“Il loro pensiero – spiega Ghisetti – influenza enormemente sia le considerazioni strategiche che l’orizzonte di senso con cui Inghilterra e Stati Uniti si muovono nel mondo internazionale.

Innanzitutto, è proprio loro l’idea secondo la quale Stati Uniti (Mahan, Spykman) e Inghilterra (Mackinder) siano delle isole a ridosso di un grande continente (l’Europa per l’Inghilterra, l’Eurasia per gli Stati Uniti);

 continente, questo, che si caratterizza per una forte divisione politica ma che se unificato ed organizzato da un attore locale disporrebbe di una potenza tale da poter facilmente sconfiggere l’isola egemone.

Per questa ragione, la strategia primaria che è derivata da questa osservazione e sistematizzata, pur tra alcune differenze nei dettagli, dai tre padri della geopolitica anglo-statunitense consiste in un doppio movimento: da una parte affermare la propria insularità (cioè distanza dal continente) per il tramite di una politica isolazionista e di dominio egemonico degli oceani e, dall’altra, di intervenire attivamente sul continente nell’ottica di mantenerlo in un neutralizzante equilibrio, quando non addirittura favorire la diffusione del potere (cioè il frazionamento degli Stati).

L’affermazione della propria insularità ed il bisogno di dominare gli oceani per il tramite della propria marina implica anche una forte spinta al dominio commerciale e finanziario e, inoltre, una spinta a promuovere la caratterizzazione in chiave liberale, economicista ed individualista della propria e altrui cultura.

 Lo sviluppo dottrinale, le riflessioni e le azioni che hanno caratterizzato Inghilterra e Stati Uniti hanno queste idee come nucleo centrale, le eventuali differenze essendo non altro che le proposte pratiche sul modo in cui sarebbe meglio promuovere i propri interessi.

Vi sono certamente delle eccezioni, ma, appunto, rimangono eccezioni, ma i portatori di queste idee vengono solitamente esclusi dalle stanze dei bottoni. Per esempio, Mahan è piuttosto fiducioso circa la superiorità del potere marittimo su quello terrestre; Mackinder, al contrario, ritiene che il potere terrestre ha raggiunto, nell’epoca contemporanea, una tangibile superiorità rispetto a quello marittimo, mentre Spykman si pone a metà tra i due.

 Ma tutti e tre reputano il proprio Stato una isola che deve svilupparsi in senso marittimo, liberale e che deve prevenire l’unificazione del continente.

 Si prenda Brzezinski, in quanto autore più recente rispetto ai tre padri, come esempio.

Anche egli afferma senza riserve che gli Stati Uniti sono un’isola circondata dall’enorme continente eurasiatico e che l’interesse permanente degli Stati Uniti sia quindi di mantenere tale continente in una situazione di mancata unificazione.

Il modo pratico per farlo dopo il crollo dell’Unione Sovietica e con un’Europa colonizzata dagli Stati Uniti, secondo Brzezinski, è di frazionare gli imperi continentali, imporre le forze statunitensi nelle zone di congiuntura e di collegamento eurasiatico e prevenire il formarsi di un’alleanza anti-egemonica tra Russia, Iran e Cina.

Insomma, il nucleo del suo pensiero è ancora quello sistematizzato da Mahan, Mackinder e Spykman.

La medesima cosa vale per le nuove strategie di politica estera che Inghilterra e Stati Uniti hanno appena pubblicato: entrambe si muovono ancora nel solco tracciato dall’opera dei tre autori”.

Esistono oggi le prospettive per un cambio di paradigma?

La tellurocrazia (cioè il dominio della terra) può sfidare il potere del mare?

“Per rispondere a questa domanda – afferma ancora Ghisetti – bisogna innanzitutto capire quanto assoluta sia la diarchia tra talassocrazia, o potere marittimo, e tellurocrazia, o potere terrestre.

È una domanda importante a cui la letteratura ha dato non solo risposte, ma anche interpretazioni diverse della domanda.

Mahan, per esempio, mostra una forte sicurezza circa la prospettiva secondo cui la vera sede del potere mondiale sia l’“oceano unito”, ovvero nell’unità degli oceani raggiunta ed imposta dalla potenza navale e commerciale di uno Stato egemone.

Quindi, le sfide che gli Stati Uniti dovranno eventualmente affrontare, non possono che venire da quegli attori che, dotati di una sufficiente profondità territoriale e capacità organizzativa, sfideranno la potenza marittima egemone sul mare, cercando ovvero di strappare l’egemonia talassocratica agli Stati Uniti.

 La Germania imperiale dell’anteguerra, la quale si mostrò in grado di organizzare intorno a sé l’Europa e di creare un’alleanza persino con l’Impero ottomano costituì infatti uno sfidante maggiore, secondo Mahan.

Ma anche dall’Asia si può ergere uno sfidante, il quale sarà quello Stato che riuscirà ad organizzare la profondità terrestre asiatica e, quindi, sfruttare l’arricchimento economico ottenuto con il commercio marittimo per costruire una flotta in grado di sfidare quella statunitense.

 Detto altrimenti, la talassocrazia anglo-statunitense, secondo Mahan, può essere sfidata solo da un’altra talassocrazia.

È significativo, in questo senso, che l’attuale Presidente della Repubblica popolare cinese abbia dichiarato che i cinesi devono abbandonare la loro tradizionale visione tellurica del mondo per “donarsi al mare” e che le accademie militari e le università cinesi leggano sempre più avidamente l’opera di Mahan.

Gli enormi progetti di costruzione navale oltre che l’insistenza cinesi sul fatto che secondo loro il mediterraneo asiatico (cioè il Mar cinese meridionale ed orientale) costituisce un lago interno cinese mostra l’intenzione cinese di trasformare quelle acque in un mare interno (né più né meno di quanto fecero gli statunitensi con il mediterraneo americano, cioè il Mar Caraibico e del Messico nel Novecento) da cui, in un secondo momento, proiettarsi, per il tramite della marina, su tutto il mondo costituisce precisamente una delle sfide all’egemonia talassocratica statunitense che Mahan temeva.

Si potrebbe in effetti dire che gli statunitensi, dopo aver raggiunto l’egemonia oceanica grazie all’opera di Mahan, sono ora sfidati dai cinesi, i quali li sfidano proprio grazie all’opera dello stesso Mahan.

Le cose cambiano invece con Mackinder, il quale ritiene invece che la tellurocrazia, ovvero una potenza terrestre, sia effettivamente in grado di sconfiggere la talassocrazia poiché l’eventuale organizzazione di un territorio ricco e dotato di profondità territoriale – quali ad esempio alcune regione del continente eurasiatico – comporterebbe la messa a frutto di un potenziale di potenza che da solo sarebbe in grado di superare quello marittimo, con l’aggiunta che questa eventuale potenza tellurocratica sarebbe in grado, qualora lo volesse e grazie alla propria superiorità di risorse rispetto alla potenza marittima, di costruire una flotta talmente grande da sconfiggere quelle di qualsiasi altra potenza.

Il Grande partenariato russo e la Nuova via della seta cinese sono i due principali progetti di integrazione continentale che, attualmente, spaventano i mackinderiani.

 Spykman, invece, si pone in una via intermedia rispetto a Mahan e Mackinder, ritenendo invece che le potenze veramente più pericolose per il dominio anglo-statunitense siano quelle anfibie e collocate ai margini del continente eurasiatico, quali ad esempio una Germania europea e la Cina.

 Queste potenze sono infatti in grado sia di sfruttare la profondità territoriale e le ricchezze del continente eurasiatico sia di lanciare una strategia marittima, oltre che di beneficiare molto facilmente del commercio mondiale, il quale avviene principalmente sulle grandi rotte degli oceani del mondo.

 L’esempio più lampante che viene in mente nella politica mondiale attuale circa questa eventualità è proprio la doppia dimensione terrestre e marittima che forma la Nuova via della seta cinese, la quale sta sempre maggiormente bussando alle porte dell’Europa.

Vi sono certamente sia similitudini sia differenze nel pensiero di questi tre autori, e l’accumulazione del bagaglio dottrinale del pensiero internazionale e strategico anglo-statunitense si è pressoché completamente sviluppato lungo le linee da loro tracciate e mostra una notevole costanza, le uniche vere differenze essendo quelle già presenti nel pensiero dei tre padri della dottrina geopolitica talassocratica.

Si può certamente discutere sull’eventualità della vittoria della tellurocrazia sulla talassocrazia; la domanda è aperta e bisogna innanzitutto decidere cosa si intende con questa diarchia, e nel libro mi sono impegnato di sviscerare le varie declinazioni proposte dalla letteratura accademica e dalle riflessioni e azioni strategiche dei principali attori politici mondiali, offrendo al lettore la possibilità di farsi un’idea autonomamente e di decidere con la sua testa quale sia la migliore definizione e declinazione dei termini.

Quello che è certo, tuttavia, è che attualmente vi sono tutte le condizioni affinché si registri un cambio di paradigma, ovvero un profondo cambiamento nell’ordine mondiale, già nel medio termine.

Tale cambiamento consiste nella nascita, solidificazione e cementificazione dell’ordine mondiale multipolare, che modificherebbe enormemente l’ordine mondiale unipolare nato a  seguito del crollo dell’Unione Sovietica.

 È infatti opportuno sottolineare che sono proprio le più recenti dottrine strategiche anglo-statunitensi, appena pubblicate, a sottolineare che il decennio nel quale ci troviamo sarà decisivo per decidere la bilancia di potere mondiale che il mondo assumerà per tutto il resto del secolo.

Ed esse sottolineano altresì che i pericoli posti all’egemonia statunitense consistono proprio nel tentativo di alcuni attori internazionali (principalmente Cina, Russia ed Iran) di organizzare la massa eurasiatica a proprio favore (tellurocrazia) e di costruire una flotta sufficientemente forte (talassocrazia) nell’ottica di estromettere la potenza anglo-statunitense da alcune regioni di grande importanza strategica; estromissione, questa, che potrebbe comportare lo spezzarsi del dominio che gli Stati Uniti esercitano sull’oceano unito e sulle terre di confine eurasiatiche e, quindi, la drastica diminuzione dello strapotere statunitense, con la possibile conseguenza che potremmo assistere, in questo decennio, al venir meno dello strapotere statunitense.

 Se poi il mondo sarà caratterizzato per un paradigma di dominio o di ordine di tipo talassocratico, tellurocratico o una via di mezzo sarà da vedere”.

 

 

 

Teoria del domino.

It.wikipedia.org – Redazione- (20-10 2022) – ci dice:

 

Esemplificazione della teoria del domino.

La teoria del domino o del dominio fu una teoria geopolitica statunitense, avanzata sia dai democratici sia dai repubblicani, durante la guerra fredda.

La teoria postulava il pericolo che, nel caso in cui una nazione chiave in una determinata area fosse stata presa da forze politiche comuniste, le nazioni vicine sarebbero cadute anch'esse come pezzi di un domino, ed entrare nell'orbita di Mosca l'una dopo l'altra.

Il riferimento a questa teoria è specificamente legato alla paura quasi ossessiva del comunismo (da cui la dottrina del contenimento) presente nell'amministrazione statunitense ai tempi della guerra del Vietnam, quando Kennedy fu indotto a intervenire in Indocina nell'intenzione di impedire il dilagare del comunismo ai paesi confinanti.

Storia.

Nata dalle idee geopolitche di Spykman, che negli anni quaranta proclamò la necessità di una politica di contenimento nei confronti dell'Unione Sovietica, la teoria del domino venne enunciata per la prima volta dal Presidente Eisenhower, in una conferenza stampa il 7 aprile 1954, e venne originariamente applicata all'Indocina (che comprende il Vietnam).

 Molti oppositori dell'intervento in Vietnam ritenevano che la teoria fosse enormemente esagerata per giustificare l'interventismo americano.

Anni dopo, il Vietnam del Nord e il Vietnam del Sud furono riunificati nella Repubblica Socialista del Vietnam, nel 1975, secondo quanto era già stato stabilito dalla Conferenza di Ginevra (1954), anche Laos divenne una Repubblica Popolare Democratica del Laos e la Cambogia, divenne per pochi anni la Kampuchea Democratica, spingendo alcuni a concludere che la teoria del domino era stata confermata.

Altri fecero notare che il Laos era stato dominato dal Vietnam del Nord per anni e che i Khmer rossi cambogiani erano nemici dei vietnamiti.

Richard Nixon disse una volta che il più forte argomento a favore della teoria del domino era che "i pezzi del domino ci credono", e quindi c'era spesso paura, nelle nazioni confinanti con stati comunisti, che i loro governi fossero a rischio di "sovversione".

Questa paura portò a politiche come quelle dell'alleanza NATO e ad altre forme di contenimento, dedicate a proteggere le nazioni non-comuniste dal "cadere".

Comunque, contrariamente alle previsioni, la Cambogia è diventata una monarchia parlamentare, la Thailandia e la Malaysia sono rimaste una monarchia, l'Indonesia, la Birmania e l'India sono rimaste una repubblica.

Alcuni studiosi di sinistra, in particolare Noam Chomsky, credono che la "vera teoria del domino" era che se una nazione si sviluppava con successo in uno stato socialista, indipendente da interferenze straniere, le altre nazioni avrebbero seguito il suo esempio.

Chomsky chiamò questa la "minaccia del buon esempio", e crede che questa sia la principale ragione per l'intervento statunitense in nazioni altrimenti insignificanti come Cuba, Guatemala, Timor Est e Angola.

Questa teoria è stata criticata per aver minimizzato il ruolo dell'Unione Sovietica nel Terzo Mondo.

Conseguenze.

La principale conseguenza della teoria del domino per gli Stati Uniti è stato l'impegno sempre più gravoso nel Sud Est asiatico e in particolare la guerra del Vietnam, che ha portato le varie amministrazioni americane al collasso economico e infine a ritirare la propria protezione al Vietnam del Sud.

Sviluppi contemporanei.

La teoria del domino è stata abbandonata da molti dei suoi originali propositori, perché si è dimostrata errata ma continua a essere usata come argomento per gli interventi militari del complesso militare-industriale USA.

Attualmente viene spesso applicata negli Stati Uniti per richiamare l'attenzione sulla potenziale diffusione nel Medio Oriente, sia della teocrazia Islamica sia della democrazia liberale.

Durante la Guerra Iran-Iraq, gli Stati Uniti, e molte altre nazioni occidentali, appoggiarono l'Iraq, temendo una diffusione della teocrazia radicale iraniana in tutta la regione.

Durante la seconda guerra del Golfo del 2003, molti neoconservatori americani hanno sostenuto che invadendo l'Iraq sarebbe stato possibile implementare un governo democratico e diffondere democrazia e liberalismo in tutto il Medio Oriente.

Dopo la scomparsa del comunismo sovietico, la Cina è diventata la nazione in più rapida crescita del mondo e il Vietnam uno dei più vivaci mercati del Sud-Est asiatico.

La teoria del domino si è rivelata essere esatta non per il comunismo, ma per il capitalismo globale.

 

 

LA LETALITÀ DELLA DOTTRINA

MONROE GLOBALE DI WASHINGTON.

Poterealpopolo.org – Vijay Prashad – (17 giugno 2022) – ci dice:

La settimana scorsa, nell’ambito della sua politica di dominio dell’emisfero americano, il governo degli Stati Uniti ha organizzato il 9° Vertice delle Americhe tenutosi a Los Angeles.

 Sin da subito il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha chiarito che tre Paesi dell’emisfero (Cuba, Nicaragua e Venezuela) non sarebbero stati invitati all’evento, sostenendo che questi non sono delle democrazie.

 Allo stesso tempo, però, Biden stava pianificando una successiva visita in Arabia Saudita, una autodefinita teocrazia.

Come reazione, il presidente messicano Andrés Manuel López Obrador ha messo in dubbio la legittimità dell’esclusione dei tre paesi da parte di Biden; quindi, Messico, Bolivia e Honduras hanno rifiutato di partecipare all’evento. Così, il vertice si è rivelato un vero e proprio fallimento.

Sempre a Los Angeles, non lontano dal Vertice, oltre un centinaio di organizzazioni hanno ospitato il Vertice dei Popoli per la Democrazia.

Migliaia di persone provenienti da tutto l’emisfero si sono riunite per celebrare lo spirito democratico che sta emergendo dalle lotte contadine e operaie, di studenti, studentesse e delle femministe, e di tutte le persone che sono escluse dall’attenzione dei potenti.

In occasione di questo incontro, i presidenti di Cuba e Venezuela si sono uniti online per celebrare questa festa della democrazia e per condannare la militarizzazione degli ideali democratici da parte degli Stati Uniti e dei suoi alleati.

Nel 2023 la Dottrina Monroe, sviluppata in un periodo in cui gli Stati Uniti affermavano la loro egemonia sull’emisfero americano, compirà 200 anni.

Oggi, lo spirito maligno della Dottrina Monroe non solo continua, ma il governo statunitense lo ha perfino esteso in una sorta di Dottrina Monroe Globale.                                           

Per affermare questa assurda pretesa sull’intero pianeta, gli Stati Uniti hanno perseguito una politica di “indebolimento” di quelli che considerano “rivali alla pari”, ossia Cina e Russia.

Gli USA stanno preparando una nuova guerra?

A luglio, Tricontinental: Institute for Social Research – insieme a Monthly Review e No Cold War – produrrà un opuscolo sulla spericolata escalation militare del governo statunitense contro quelli che considera i suoi avversari – principalmente Cina e Russia.

L’opuscolo comprenderà saggi di John Bellamy Foster, direttore di Monthly Review, Deborah Veneziale, giornalista italiana, e John Ross, membro del collettivo” No Cold War”.

 Sulla scia di questo opuscolo, il cui contenuto presenteremo in questa newsletter, No Cold War ha prodotto anche il briefing n. 3 Is the United States Preparing Up of the United War with Russia and China? che parla della sciabolata e allarmante marcia di Washington verso la supremazia nucleare.

 

La guerra in Ucraina dimostra un’escalation qualitativa della volontà degli Stati Uniti di usare la forza militare.

 Negli ultimi decenni, gli Stati Uniti hanno lanciato guerre contro Paesi in via di sviluppo come Afghanistan, Iraq, Libia e Serbia.

In queste campagne, gli Stati Uniti sapevano di godere di una superiorità militare schiacciante e di non correre il rischio di una ritorsione nucleare.

Ciononostante, con la minaccia di far aderire l’Ucraina all’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO), gli Stati Uniti hanno consapevolmente rischiato di oltrepassare quelle che sapevano essere le “linee rosse” della Russia, Stato dotato di armi nucleari.

Ciò solleva due domande: perché gli Stati Uniti hanno intrapreso questa escalation?

 E fino a che punto sono disposti a spingersi nell’uso della forza militare, non solo contro il Sud globale, ma anche contro grandi potenze come la Cina o la Russia?

Usare la forza militare per compensare il declino economico Usa.

La risposta al “perché” è chiara: gli Stati Uniti hanno perso nella pacifica competizione economica con i Paesi in via di sviluppo in generale e con la Cina in particolare.

Secondo il Fondo Monetario Internazionale (FMI), nel 2016 la Cina ha superato gli Stati Uniti come maggiore economia mondiale.

 Nel 2021, la Cina rappresentava il 19% dell’economia globale, rispetto al 16% degli Stati Uniti.

Questo divario non fa che aumentare. Entro il 2027, il FMI prevede che l’economia cinese supererà quella statunitense di quasi il 30%.

Tuttavia, gli Stati Uniti hanno mantenuto una supremazia militare globale senza rivali: la loro spesa militare è superiore a quella dei nove Paesi con la spesa più alta messi insieme.

 Nel tentativo di mantenere il dominio globale unipolare, gli Stati Uniti sostituiscono sempre di più la pacifica competizione economica con la forza militare.

Il discorso tenuto dal Segretario di Stato americano Antony Blinken il 26 maggio 2022 è esemplare per comprendere questo cambiamento strategico nella politica statunitense.

Blinken ha ammesso apertamente che gli Stati Uniti non cercano la parità militare con gli altri Stati, ma la supremazia militare, in particolare nei confronti della Cina:

“Il presidente Biden ha istruito il Dipartimento della Difesa di considerare la Cina come la sfida che detta il ritmo, per garantire che le nostre forze armate rimangano all’avanguardia”.

Tuttavia, con Stati dotati di armi nucleari come la Cina o la Russia, la supremazia militare richiede il raggiungimento della supremazia nucleare – un’escalation che va oltre l’attuale guerra in Ucraina.

La ricerca della supremazia nucleare.

Dall’inizio del XXI secolo, gli Stati Uniti si sono sistematicamente ritirati da trattati chiave che limitano la minaccia di utilizzo di armi nucleari:

nel 2002, gli Stati Uniti sono usciti unilateralmente dal Trattato sui missili anti-balistici;

nel 2019, hanno abbandonato il Trattato sulle forze nucleari intermedie e,

 nel 2020, si sono ritirati dal Trattato sui Cieli Aperti. L’abbandono da questi trattati ha rafforzato la capacità degli Stati Uniti di perseguire la propria supremazia nucleare.

L’obiettivo finale di questa politica statunitense è l’acquisizione di una capacità di “first strike” contro la Russia e la Cina, ossia la capacità di infliggere danni con un primo uso di armi nucleari in misura tale da impedire efficacemente reazioni.

Come ha osservato John Bellamy Foster in un ampio studio sull’accumulo di armi nucleari da parte degli Stati Uniti, anche nel caso della Russia – che possiede l’arsenale nucleare più avanzato al mondo dopo quello degli USA – ciò “negherebbe a Mosca una valida opzione di secondo attacco, eliminando di fatto del tutto il suo deterrente nucleare, attraverso la decapitazione”.

In realtà, le ricadute e la minaccia dell’inverno nucleare di un simile attacco minaccerebbero il mondo intero.

Una corsa alle armi.

Questa politica di supremazia nucleare è stata a lungo perseguita da alcuni ambienti di Washington.

Nel 2006, la principale rivista statunitense di politica estera Foreign Affairs ha sostenuto che “probabilmente gli Stati Uniti saranno presto in grado di distruggere gli arsenali nucleari a lungo raggio della Russia o della Cina con un primo attacco”.

Contrariamente a queste speranze, gli Stati Uniti non sono ancora riusciti a raggiungere una capacità di primo attacco, ma ciò è dovuto allo sviluppo di missili ipersonici e di altre armi da parte di Russia e Cina, non a un cambiamento nella politica statunitense.

Dagli attacchi ai Paesi del Sud globale alla maggiore disponibilità a entrare in guerra con una grande potenza come la Russia, fino al tentativo di ottenere una capacità di primo colpo nucleare, la logica alla base dell’escalation del militarismo statunitense è chiara: gli Stati Uniti stanno impiegando sempre più la forza militare per compensare il loro declino economico.

In questo periodo estremamente pericoloso, è fondamentale per l’umanità che tutte le forze progressiste si uniscano per far fronte a questa grande minaccia.

Concentrarsi sui reali dilemmi dell’umanità.

Nel 1991, quando crollò l’Unione Sovietica e il Sud globale rimase attanagliato da una crisi del debito senza fine, gli Stati Uniti iniziarono a bombardare l’Iraq nonostante le suppliche del governo iracheno per un accordo negoziato.

Durante quel bombardamento, lo scrittore libico Ahmad Ibrahim al-Faqih scrisse una poesia lirica, Nafaq Tudiuhu Imra Wahida (Un tunnel illuminato da una donna), in cui cantava: “Un tempo è passato, e un altro tempo non è arrivato e non verrà mai”. La tristezza definiva il momento.

Ci troviamo in tempi molto pericolosi.

Eppure, lo sconforto di al-Faqih non definisce la nostra sensibilità.                        Lo stato d’animo è cambiato.

C’è la fiducia in un mondo oltre l’imperialismo, uno stato d’animo prevalente non solo in Paesi come Cuba e Cina, ma anche in India e Giappone, così come tra le persone che lavorano duramente e che vorrebbero che la nostra attenzione collettiva si concentrasse sui reali dilemmi dell’umanità e non sulle bruttezze della guerra e del dominio.

Vijay Prashad - (Vijay-thetr icontinental.org)

 

 

 

 

“L’arco delle crisi” si avvicina:

 la debolezza strategica dell’Unione

 Europea sul fronte meridionale.

Legrandcontinent.eu - Charles Thépaut – (28 – 2 -2021) – ci dice:

 

Visto dall’Europa, l’“arco delle crisi” che avvolge l’Africa settentrionale e il Medio Oriente ormai da qualche anno si è avvicinato significativamente ai confini del continente.

 In questo articolo, frutto di un lungo lavoro di analisi, Charles Thépaut propone un nuovo metodo per costruire una politica comune sul versante meridionale dell’Europa, in un processo di chiarimento delle condizioni e delle responsabilità con l’alleato americano.

Le crisi che caratterizzano le frontiere meridionali dell’Europa interagiscono su diversi livelli (nazionale, regionale, internazionale) con tre dinamiche: la fine del sistema unipolare americano, le primavere arabe del 2011, e la lenta risposta europea a queste due dinamiche.

Di fronte ad una frammentazione crescente, l’Unione Europea deve costruire una cultura geopolitica comune in grado di pensare al suo approccio nella regione. Quest’ultimo non può passare da Washington, ma deve reinventare la sua relazione stessa con gli Stati Uniti, il cui ruolo e influenza all’interno della regione si sono evoluti sostanzialmente.

L’Unione deve dotarsi di uno strumento di gestione delle crisi e di un Consiglio di sicurezza europeo, che integrerebbe la dimensione della cooperazione e dello sviluppo.

Visto dall’Europa, l’“arco delle crisi” che avvolge l’Africa settentrionale e il Medio Oriente ormai da qualche anno si è significativamente avvicinato ai confini del continente.

 Se gli anni 2000 sono stati caratterizzati dai conflitti “lontani” in Iraq e Afghanistan, nel 2021 numerosi focolai d’instabilità minacciano direttamente il territorio europeo.

 Che si tratti della messa in discussione da parte della Turchia dei confini territoriali nel Mediterraneo, della presenza della Russia in Siria e in Libia, o dei flussi migratori dal Sahel o dalla Siria, è la stabilità europea ad essere minacciata.

L’iper-sensibilità sulle migrazioni e le divisioni politiche profonde che si sono formate a partire dalle letture contraddittorie del conflitto siriano, più di quello iracheno e afghano, implicano che le crisi in questione abbiano una dimensione molto più “intima” per l’Europa.

Queste crisi sono in gran parte il risultato di fattori endogeni, ma interagiscono con almeno tre dinamiche regionali e internazionali:

 la fine del sistema unipolare americano, in parte legato agli eccessi ed agli errori della risposta americana agli attacchi dell’11 settembre;

le primavere arabe del 2011 e il loro impatto regionale;

la lentezza e la debolezza della risposta europea a queste prime due dinamiche.

Questo articolo fornisce un’analisi incrociata di queste tre dinamiche, spesso considerate separatamente nel dibattito europeo a causa delle isole concettuali differenti alle quali appartengono:

ad esempio, l’ambito della politica europea di vicinato è spesso considerato separatamente dall’ambito della relazione transatlantica.

 Un riesame di queste prospettive è di vitale importante per il nuovo ciclo che inizia con il cambiamento d’amministrazione americana.

Joe Biden entra in carica in un’America destabilizzata dalla pandemia e ancora sotto shock per l’attacco al Campidoglio del 6 gennaio.

 Inoltre, le strutture della politica estera di Washington hanno preso atto all’unanimità del rifiuto di interventi militari su larga scala da parte delle forze armate.

Allo stesso tempo, un profondo rimodellamento regionale sta avvenendo in Nord Africa e in Medio Oriente, da un lato in risposta all’influenza regionale iraniana e alla riaffermazione russa, e dall’altro nel contesto della rivalità strategica tra la Turchia e gli Emirati.

Questi sviluppi nell’interazione tra il Medio Oriente, gli Stati Uniti e l’Europa dovrebbero suscitare un senso di urgenza all’interno dell’Unione europea ed amplificare gli sforzi per allineare gli strumenti di politica estera nazionali ed europei.

Il triangolo geo-politico Stati Uniti-Medio Oriente-Europa.

Storia recente delle geometrie variabili dell’impegno occidentale in Medio Oriente (1991-2021).

Se, come altre regioni del mondo, il Medio Oriente è stato influenzato dalle dinamiche della Guerra Fredda fino alla fine degli anni ’80, ha subito più di altre il peso del sistema unipolare americano che si costituisce dopo la caduta dell’Unione Sovietica.

La combinazione della permanenza dei conflitti regionali, come il conflitto israelo-palestinese o l’invasione del Kuwait, e della profondità delle alleanze tessute da Washington nella regione durante la Guerra Fredda (Arabia Saudita, Israele, Egitto, Turchia), rendono il Medio Oriente un particolare punto focale per la politica estera americana a partire dagli anni 1990, in particolare con la Prima guerra del Golfo e gli sforzi di pace tra israeliani e palestinesi.

 L’impegno americano sarà in seguito rinforzato dopo gli attacchi dell’11 settembre e l’inizio di un decennio di “War on Terror” – in particolare in Iraq.

In questo contesto, le principali variabili nell’equazione della sicurezza europea sono state le relazioni bilaterali dei suoi Stati membri, in particolare quelli al sud dell’Unione, con il mondo arabo da un lato e lo sviluppo della cooperazione transatlantica in Medio Oriente dall’altro.

Tra il 1990 e il 2011 la Francia, il Regno Unito, ma anche la Spagna e l’Italia hanno mantenuto le loro relazioni storiche nella zona.

 Allo stesso tempo, la cooperazione transatlantica in Medio Oriente era limitata dall’importanza delle alleanze tra gli Stati Uniti e i suoi partner regionali, dall’indiscutibile egemonia americana e dalle differenze europee sulla regione. Durante questo periodo, la cooperazione transatlantica in Medio Oriente è stata illustrata principalmente dalle relazioni asimmetriche di Washington con alcuni Stati Membri dell’Unione Europea: le relazioni bilaterali all’interno del Consiglio di Sicurezza con la Francia e il Regno Unito; la creazione di coalizioni militari ad hoc come quelle della guerra del Golfo; l’istituzione di forme di multilateralismo ad hoc (Quartetto sul conflitto israelo-palestinese o UE+E3 sulla questione nucleare iraniana); il ricorso limitato ad alcune forme istituzionali di cooperazione con la NATO e l’UE.

Questi sviluppi nell’interazione tra il Medio Oriente, gli Stati Uniti e l’Europa dovrebbero suscitare un senso di urgenza all’interno dell’Unione europea e amplificare gli sforzi per allineare gli strumenti di politica estera nazionali ed europei.

(CHARLES THEPAUT).

Il 2011 è chiaramente l’anno delle “primavere arabe”.

Quest’anno ha segnato l’inizio di una serie di eventi decisivi provocati dalle rivolte in Tunisia, Egitto, Libia, Bahrein, Yemen e Siria, che hanno rimodellato la politica locale e regionale fino ad oggi.

Tuttavia, l’anno 2011 è stato determinante anche per la politica americana in Medio Oriente, segnata dal ritiro ufficiale delle truppe americane in Iraq, otto anni dopo l’inizio della campagna militare in questa regione.

Questa campagna è stata definita come il simbolo della “vertigine della potenza”1, a significare l’intervento militare preponderante degli Stati Uniti nella regione.  

Quattro tendenze possono essere identificate nello sviluppo della relazione tra gli Stati Uniti e l’Europa nel mondo arabo dopo il 2011, con, di conseguenza, un indebolimento dell’influenza occidentale.Innanzitutto, la relazione asimmetrica stabilita dopo la Seconda guerra mondiale e accentuata nel momento unipolare è stata mantenuta.

È stata caratterizzata dalle differenti forme di unilateralismo americano:

non solo nella negoziazione dell’accordo sull’utilizzo del nucleare iraniano, ma anche nella gestione del patrimonio iracheno, che ha creato a Washington una forma di “negligenza” (negligenza benigna) su altri ambiti, o anche vere e proprie contraddizioni dovute all’avversione al rischio, come nel caso delle “linee rosse” che Barack Obama aveva fissato sull’uso di armi chimiche in Siria.

Tuttavia, la relazione transatlantica è stata caratterizzata da una relazione particolare, che esponeva alcuni Paesi europei al rischio.

Con l’eccezione di Francia e Regno Unito, pochi Paesi europei sono stati effettivamente pronti a reagire in maniera forte e rapida alle differenti crisi che hanno colpito il loro vicinato, in assenza di un impegno americano forte.

Inoltre, c’erano pochi incentivi a breve termine a livello dell’Unione Europea per i paesi europei a fare compromessi per armonizzare i loro interessi divergenti nella regione, sia in termini di commercio che di relazioni militari.

Questa situazione ha rivelato un aumento dei disaccordi fondamentali tra europei e tra europei e americani, come nel caso della priorità da dare alla crisi siriana. Queste molteplici contraddizioni hanno prodotto una cooperazione tattica limitata, come sul JCPOA dopo l’uscita di Donald Trump dall’accordo – anche se il livello di cooperazione operativa nella lotta al terrorismo è rimasto molto alto durante tutto il periodo.

Mentre il Servizio europeo per l’azione esterna (SEAE) è stato istituito nel 2009 con l’obiettivo di far parlare gli europei “con una sola voce”, l’Unione e i suoi Stati membri hanno sofferto di una generale mancanza di chiarezza sul loro contributo alla pace e alla sicurezza in Medio Oriente dopo il 2011, nonostante le leve commerciali e i molteplici finanziamenti e operazioni introdotte.

Il contributo finanziario europeo è stato sostanziale in termini assoluti.

 Ad esempio, l’Unione ha fornito quasi 4 miliardi di euro di aiuti per sostenere la transizione della Tunisia tra il 2011 e il 2016.

 L’Unione e i suoi Stati membri hanno fornito quasi 20 miliardi di euro in aiuti umanitari ai siriani dal 2011, e quasi 400 milioni di euro in aiuti di stabilizzazione nelle zone antiche di Daesh nel nord-est della Siria (2017-2019).

Tuttavia, questi importi non sono stati sufficientemente tradotti in capitale politico europeo, sia per ragioni positive, come il desiderio di non politicizzare l’aiuto umanitario, che cattive, come la burocrazia che limita le possibilità di adattare questi finanziamenti agli sviluppi sul terreno.

Anche il contributo diplomatico è stato reale su diverse questioni. Al di là dei negoziati nucleari, la cui architettura è stata disegnata dal gruppo E3 prima che gli Stati Uniti riprendessero in mano la questione, gli europei hanno contribuito a sviluppare o a preservare certi parametri diplomatici, che continuano a segnare diverse questioni che sono altrettanto divisive tra i 27 come il conflitto israelo-palestinese (linea della soluzione dei due stati) o la Siria (il finanziamento della ricostruzione è subordinato al progresso dei negoziati politici) nonostante i numerosi ostacoli (posizione americana di rottura sotto Trump, azione russa, disimpegno dei paesi del Golfo dalla questione siriana).

L’Europa ha anche potuto usare il suo potere economico attraverso il proprio regime di sanzioni.

Se il principio delle sanzioni economiche e la loro efficacia sono oggetto di dibattito e il loro uso può essere stato talvolta troppo sistematico per conservare tutta la sua credibilità, la veemenza con cui diversi concorrenti criticano l’Unione europea per le sue sanzioni attesta che sono uno strumento potente.

I fattori endogeni delle crisi in Africa settentrionale e in Medio Oriente dal 2011: autoritarismo, crisi strutturali, frammentazione politica e il ruolo delle milizie.

L’invasione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti nel 2003 ha avuto un effetto catastrofico sulla stabilità regionale, e le contraddizioni dell’azione occidentale a partire dal 2011 hanno anche influenzato il quadro strategico del Medio Oriente. La regione è stata comunque trasformata da fenomeni endogeni la cui influenza è troppo spesso messa da parte o sottovalutata nei dibattiti europei e americani.

Le “primavere arabe” sono stata causate sia dal rafforzamento del modello autoritario, sia dall’esposizione della regione agli shock macroeconomici europei, causati dalla crisi economica del 2008-2009.

Le rivolte, tuttavia, non sono riuscite a produrre alternative sufficientemente forti a questi regimi, o risposte macroeconomiche reali.

Al contrario, le rivolte sono state segnate da una maggiore frammentazione politica, dalla sopravvivenza di pratiche autoritarie e dal collasso delle strutture statali in diversi paesi.

In fine, questi fenomeni hanno ostacolato la capacità di queste società di affrontare le sfide sociali, economiche e ambientali che avevano portato alle rivolte.

Questa instabilità ha anche influenzato la capacità degli attori esterni di trovare forti partner istituzionali locali.

I conflitti regionali in Iraq, Siria, Libia e Yemen in particolare, sono stati aggravati dal ruolo crescente che hanno giocato le forze paramilitari, che siano gli Houthi in Yemen, le milizie rivoluzionarie libiche, o le milizie filo-iraniane in Iraq e in Siria.

L’ampiezza di questo fenomeno non è sempre ben calcolata dall’Europa, specialmente se si considerano le difficoltà nel documentarlo.

 Per esempio, il numero di combattenti filo-iraniani inviati in Siria ha raggiunto un picco nel 2016 di quasi 60.000 mercenari iracheni, pakistani, libanesi e afgani.

Insieme all’invasione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti, rappresenta la più importante invasione straniera di un Paese arabo dagli anni 1960.

Al di là del caso particolare della Siria, gli attori non statali hanno visto crescere il loro potere in ciascuno dei paesi interessati.

La loro azione porta alla messa in discussione delle strutture statali, anche quando si suppone che esse proteggano lo Stato, come in Iraq. Questo contribuisce alla continuazione delle crisi e limita le possibilità del tradizionale impegno occidentale da Stato a Stato.

La pandemia ha allo stesso modo accelerato numerose crisi strutturali che già affliggevano la regione.

 La diffusa recessione economica, precipitata dalla crisi, ha aggravato la disoccupazione giovanile, indebolito i sistemi sanitari pubblici, contribuito al calo dei prezzi del petrolio ed esacerbato la competizione per le risorse nazionali. Malgrado la resilienza di queste società e l’introduzione di misure di sanità

pubblica conformi agli standard mondiali in molti paesi, la fragilità politica ha indebolito le risposte dei governi alla pandemia, costringendo l’attuazione di ambiziosi programmi di aiuto internazionale.

 I programmi del FMI e della Banca mondiale, insieme ai piani di rilancio nazionali, hanno fornito un aiuto solo temporaneo.

Queste sfide dimostrano che la regione ha bisogno di esplorare nuovi motori di crescita e stabilità, soprattutto in vista della probabilità di un calo d’assistenza allo sviluppo nei prossimi anni.

I conflitti regionali in Iraq, Siria, Libia e Yemen in particolare, sono stati aggravati dal ruolo crescente che hanno giocato le forze paramilitari, che siano gli Houthi in Yemen, le milizie rivoluzionarie libiche, o le milizie filo-iraniane in Iraq e in Siria. L’ampiezza di questo fenomeno non è sempre ben calcolata dall’Europa, specialmente se si considerano le difficoltà nel documentarlo.

(CHARLES THEPAUT)

Una nuova, più instabile geopolitica regionale e internazionale.

Se la Cina sembra attenta soprattutto a preservare i suoi interessi commerciali nel quadro della sua strategia della via della seta (Belt and Road Initiative), gli attori, che siano alleati o no degli Stati Uniti, hanno perseguito politiche estere sempre più autonome, riempiendo il vuoto parziale lasciato da Washington, spesso con strategie a somma zero.

 In questo modo la Russia, la Turchia, l’Iran, Israele, l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e il Qatar si arrendono ad un gioco di influenza complesso e in movimento, senza che nessun attore possa realmente monopolizzare il potere regionale, mentre le relazioni tra questi attori regionali e i loro attori locali tendono ad aggravare la frammentazione.

Pochi attori internazionali sono disposti ad assumersi i costi necessari a esercitare un’influenza decisiva nella regione.

Di conseguenza, le crisi e le loro risoluzioni dipendono in gran parte da accordi locali e regionali.

Quest’ultime sono principalmente determinati da due linee di frattura: da una parte, l’opposizione tra l’Iran e l’Arabia Saudita; dall’altra, la rivalità tra gli Emirati e la Turchia.

Se l’idea del conflitto “sunnita-sciita” affonda le sue radici principalmente in un’approssimazione storica e religiosa, la nozione riflette soprattutto un ingranaggio strategico tra Teheran e Riyadh iniziato nel 1979.

La rivoluzione islamica ha infatti rovesciato il regime dello Scià filo-americano, per instaurare un regime anti-americano.

In questo contesto, la corsa agli armamenti, in particolare di natura nucleare, e il sostegno di questi o quegli attori locali si integra in una dinamica di disturbo/dissuasione che non ha molto a che vedere con la teologica.

L’opposizione tra Abu Dhabi e Ankara è più recente e deriva dalle reazioni antagoniste alle rivolte del 2011, una antirivoluzionaria, l’altra pro-rivoluzionaria.

Come risultato della frammentazione o dei conflitti che hanno colpito i paesi dopo le rivolte arabe, la Turchia e gli Emirati hanno guadagnato influenza politica e militare con attori opposti in ogni paese, in particolare in Egitto e in Libia.

Dal 2016, la Turchia articola la sua politica di supporto alle forze rivoluzionarie islamiste con un’altra dimensione, cioè un tandem con la Russia per portare avanti una logica revisionista.

Questa evoluzione turca comincia dopo il colpo di Stato interrotto contro Erdogan nel 2016.

Il presidente turco si è allontanato dalla prospettiva europea della Turchia e, formando un’alleanza parlamentare con gli ultranazionalisti, ha messo fine alla politica di apertura verso i curdi e al processo di pace con il PKK.

Mentre la Turchia era stata uno dei principali sostenitori dell’opposizione siriana dopo il 2011, Ankara ha gradualmente ricalibrato il suo sostegno per sostenere alcuni gruppi siriani e usarli come proxy per la politica estera turca.

Specificamente, questo è il caso della creazione di una zona cuscinetto nel nord della Siria.

La Turchia ha anche capitalizzato l’invio di milizie islamiste in Libia dal 2020 per firmare un accordo con il governo di accordo nazionale libico sulle delimitazioni marittime nel Mediterraneo.

 

Il tandem con Mosca è stato motivato dal ruolo singolare giocato dalla Russia tra gli attori “regionali” in Medio Oriente dall’inizio del conflitto siriano.

La riaffermazione russa in Siria e in Libia è alimentata da una tradizione geopolitica ben consolidata di cercare l’accesso ai “mari caldi”.

Questa ricerca va però avanti da diversi anni con le nuove vesti della guerra “ibrida”, cioè una combinazione di mezzi convenzionali (cooperazione militare convenzionale con Damasco per chiudere lo spazio aereo siriano occidentale, estensione della base navale di Tartous, uso della polizia militare per congelare i fronti della guerra civile siriana, ricorso a forze speciali, ecc.) e non convenzionali (operazioni “non attribuibili” ai mercenari di Wagner in Libia e Siria; azioni di disinformazione; attacchi informatici).

 I mezzi militari russi sono notoriamente utilizzati al servizio di una strategia diplomatica di triangolazione (la capacità di posizionarsi come intermediario tra più parti opposte tra loro), il cui scopo è stato quello di migliorare lo status internazionale della Russia, in Medio Oriente in particolare, ma soprattutto nei confronti degli Stati Uniti.

Il tandem russo-turco ha sviluppato, a partire dal 2016, una dinamica ben oliata che consiste nell’utilizzare proxy sul terreno per aumentare le tensioni e poter così porsi come garante di varie tregue.

 In Siria come in Libia, ma anche nel Nagorno-Karabakh, la combinazione di una forte presenza militare sul terreno e di manovre per bloccare o gestire i negoziati diplomatici come un duopolio rafforza Vladimir Putin così come R.T. Erdogan, nonostante episodi di tensione tra i due paesi.

Sia per Mosca che per Ankara, le leve ottenute in queste crisi nordafricane o mediorientali possono essere utilizzate direttamente nei negoziati con i paesi europei, per esempio sulla questione delle migrazioni o sulle delimitazioni marittime nel Mediterraneo orientale.

Nonostante le molteplici ambizioni regionali più visibilmente espresse, tuttavia, gli Stati Uniti non sembrano essere rimpiazzabili.

Nessun attore ha i mezzi (o l’ambizione) per sostituire Washington come garante di un’architettura di sicurezza regionale, come l’America ha potuto fare nel 1973 e nel 2011.

Il potenziamento delle politiche estere degli attori regionali genera soprattutto una segmentazione del gioco mediorientale.

 In questo contesto gli Stati Uniti hanno la tendenza a concentrarsi su “pezzi” di politica regionale (ad esempio il programma nucleare iraniano, l’intervento della Russia in Libia) ma non hanno più, come nella Guerra fredda e nel momento unipolare, ambizioni ideologiche oppure olistiche.

Washington, ovviamente, non scompare e rimane un attore unico, ma che ridefinisce la sua lista delle priorità, senza impegnarsi realmente (o almeno non con lo stesso carattere deciso del passato) al di fuori di questo campo ora molto più ristretto.

Rifiutando visioni messianiche e grandi piani come quello sviluppato dai neo-conservatori vicini a George W. Bush per “un Grande Medio Oriente”, le successive amministrazioni americane hanno trattato le crisi regionali siriane o libiche in silos relativamente indipendenti, con diversi gradi di coinvolgimento a seconda della priorità data, come dimostra il trattamento separato della questione nucleare e della guerra in Siria, anche se entrambi i temi sono intimamente legati alla politica regionale di Teheran.

Questa frammentazione dell’analisi americana non dovrebbe essere messa in discussione dall’amministrazione di Joe Biden, soprattutto perché continuerà, a modo suo e con il suo stile, la logica di diminuzione del coinvolgimento americano in Medio Oriente iniziata da Barack Obama e perseguita con un metodo molto diverso da Donald Trump.

Pochi attori internazionali sono disposti ad assumersi i costi per esercitare un’influenza decisiva nella regione.

Di conseguenza, le crisi e le loro risoluzioni dipendono in gran parte da accordi locali e regionali.

 Il potenziamento delle politiche estere degli attori regionali genera soprattutto una segmentazione del gioco mediorientale.

(CHARLES THEPAUT).

Per un salto europeo nell’era Biden: sostanza, forma e formati

Presa di coscienza e divisioni europee.

Mentre Washington rimane il punto focale per la maggior parte del pensiero europeo sulla sicurezza in generale, e nella regione del Medio Oriente e del Nord Africa in particolare, il deterioramento delle relazioni transatlantiche e le molte crisi alla periferia dell’Europa hanno accompagnato un lento cambiamento nella mentalità geopolitica di alcuni europei.

Da un lato, l’enfasi sulla necessità di “autonomia strategica “, “sovranità europea” e “ri-apprendimento del linguaggio del potere” dimostra una crescente convergenza concettuale tra Francia, Germania e istituzioni europee sulla necessità di una politica estera europea più forte.

Tuttavia, le diverse posizioni geopolitiche degli altri stati membri limitano questa convergenza: priorità dello spazio russo (Polonia, Paesi Baltici), neutralità storica (Austria, Irlanda), priorità data alla NATO (soprattutto Danimarca), riluttanza agli interventi militari per ragioni economiche (Italia, Portogallo).

 

Un numero crescente di attori condivide tuttavia l’opinione che lo status quo non è sostenibile.

 La Spagna, per esempio, è sempre più favorevole allo sviluppo della difesa europea, così come l’Estonia e la Finlandia.

La Svezia ha cambiato la sua strategia cercando di influenzare la definizione della difesa europea piuttosto che opporsi ad essa.

 L’Italia ha iniziato a partecipare a progetti europei che potrebbero portare a un’azione più forte nel vicinato meridionale dell’Europa, come la Cooperazione strutturata permanente, il Fondo europeo di difesa e l’Iniziativa europea d’intervento, avviata dalla Francia, che ha un gruppo di lavoro sulla sicurezza del Mediterraneo.

Infine, il fatto che il ministro della Difesa tedesco abbia proposto la creazione di una zona di sicurezza nel nord della Siria nel 2020, attirando le critiche del suo collega, il ministro degli Esteri, testimonia sia la complessità della questione militare a Berlino sia l’evoluzione del dibattito nazionale tedesco sull’argomento.

Il pensiero strategico europeo rimane frammentato, così come i suoi strumenti. Come tale, i dibattiti sulla politica estera europea tendono spesso a sovrainvestire il livello di Bruxelles, mentre la maggior parte degli strumenti militari e di sicurezza rimangono principalmente nazionali, nonostante i recenti progressi nella difesa europea.

 In questo senso, non ha molto senso contrapporre il livello europeo a quello nazionale ed è probabilmente opportuno esplorare, a seconda del tema, le possibilità di un’articolazione più incisiva dei mezzi nazionali ed europei, nel quadro di una più efficace divisione dei compiti.

Creare avanguardie diplomatiche per reagire alle crisi politiche e militari.

Nell’Unione europea, il metodo spesso conta tanto quanto la sostanza.

L’idea di una migliore divisione europea del lavoro si inserisce quindi in un dibattito più ampio sulle regole e i formati per lo sviluppo della politica estera dell’Unione. In teoria, la politica estera dell’Unione è sempre discussa su base consensuale, ma in pratica è condotta in sedi multiple e sovrapposte.

Molti quadri, come il “quint” (Francia, Germania, Italia, Regno Unito, USA), il “quad” (Francia, Germania, Regno Unito, USA), l’UE-3 (Francia, Germania, Regno Unito), i paesi scandinavi, il gruppo di Visegrad (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia) e altri formati ad hoc sono già in atto.

L’assenza di uno strumento per la gestione diplomatica delle crisi internazionali è una lacuna notevole nella costruzione di una politica europea.

(CHARLES THEPAUT).

Tuttavia, l’assenza di uno strumento per la gestione delle crisi internazionali è una lacuna notevole nella costruzione di una politica estera europea.

 Indubbiamente, esistono dei meccanismi di risposta alle crisi umanitarie, così come dei meccanismi che consentono di mettere in comune rapidamente le risorse non appena si sviluppi una posizione politica europea o di discutere in modo preventivo degli scenari militari.

Ciononostante, non esiste realmente un meccanismo che permetta di lanciare un’azione diplomatica rapida, in particolare in una crisi di politica estera con una componente di sicurezza.

L’Iniziativa europea d’intervento lanciata dalla Francia nel 2018 è destinata a colmare questa lacuna in termini militari, ma ha incontrato la riluttanza degli altri Stati membri.

Una divisione “naturale” del lavoro basata sulla storia, la geografia e le capacità di un dato Stato membro non è mai all’ordine del giorno a livello europeo.

Di conseguenza, il dibattito sulla politica estera dell’UE è soffocato dal confronto tra coloro che sostengono che i paesi che agiscono a livello nazionale minano l’unità europea e coloro che non vedono alternative efficaci all’azione unilaterale a causa dell’inerzia del processo UE.

Questo è il motivo per cui un numero crescente di esperti ritiene che “coalizioni più piccole e flessibili dovrebbero essere ora importanti vettori politici”.

Tra i diversi vantaggi, queste coalizioni potrebbero facilitare delle reazioni iniziali rapide e più efficaci prima che tutti gli attori europei si siano riuniti.

La sfida è quindi quella di generalizzare e ipotizzare l’uso di formazioni a geometria variabile sulla base dell’interesse e della capacità di azione degli Stati membri.

Una logica di “gruppi di contatto europei” potrebbe essere sviluppata in modo che, attraverso il coordinamento del Servizio europeo per l’azione esterna (SEAE) e dell’Alto Rappresentante, alcuni Stati membri dell’UE potrebbero funzionare come l’avanguardia di un processo europeo più completo, permettendo consultazioni ma anche decisioni iniziali più rapide su azioni congiunte o coordinate per rispondere a una crisi.

 I criteri di alcuni formati, come la cooperazione strutturata europea permanente – creata per permettere agli Stati membri “volenterosi e capaci” di lavorare su progetti di difesa comune – potrebbero essere utilizzati di nuovo nel campo della diplomazia delle crisi.

Alcuni di questi gruppi esistono già e hanno dimostrato la loro efficacia, come il gruppo EU+3 (Unione Europea, Regno Unito, Francia, Germania), che ha giocato un ruolo fondamentale nei negoziati che hanno portato all’accordo nucleare iraniano (JCPOA), così come nel mantenimento dell’accordo dopo il ritiro dell’amministrazione Trump.

Più recentemente, un gruppo di contatto che riunisce l’Unione europea, la Germania, la Francia e l’Italia ha permesso un’azione europea più forte nella crisi libica, in particolare per sostenere le Nazioni Unite per ottenere un accordo inter-libico su un nuovo esecutivo nel febbraio 2021.

In generale, il principio dei gruppi di contatto per reagire alle crisi può allo stesso modo migliorare l’efficienza a medio termine del contributo europeo alla risoluzione di diverse crisi mediorientali.

Nello stretto di Hormuz, la mobilitazione degli Stati membri che contribuiscono all’operazione EMASOH potrebbe essere completata da altre azioni europee, per esempio la fornitura di forze navali complementari o il sostegno politico.

 In Iraq, i contributi di diversi Stati membri, come la Danimarca, che ha annunciato l’invio di 285 soldati per assumere la missione di addestramento svolta dalla NATO, potrebbero attirare le risorse di altri paesi disposti a contribuire a sostenere il governo iracheno e la de-escalation tra le milizie filo-iraniane e gli Stati Uniti14.

In Siria, lo “Small Group” formato nel 2016 da Stati Uniti, Francia, Germania, Gran Bretagna, Arabia Saudita e Giordania potrebbe essere rilanciato, potenzialmente legato al formato Astana, creato tra Russia, Turchia e Iran nel gennaio 2017 nella capitale kazaka.

Il gruppo dei principali donatori europei potrebbe lavorare con l’amministrazione Biden per esercitare una pressione congiunta sul Segretario Generale dell’ONU per affrontare le questioni di governance e di deviazione degli aiuti nelle agenzie ONU con sede a Damasco, con l’obiettivo di rafforzare gli aiuti umanitari.

Gli Stati Uniti e l’Unione europea potrebbero anche aumentare congiuntamente i finanziamenti per le attività di stabilizzazione nel nord-est della Siria.

Per quanto riguarda lo Yemen, uno sforzo di mediazione franco-tedesco potrebbe sostenere la politica statunitense volta a creare una dinamica regionale più sana nel Golfo.

Verso un Consiglio di sicurezza europeo.

A seconda delle dinamiche negli Stati membri, i gruppi di contatto potrebbero essere creati su una base ad hoc – coordinati dal SEAE – o istituiti in modo più formale.

Si potrebbe immaginare la creazione di un Consiglio di sicurezza europeo (CES), un concetto menzionato dalla Cancelliera Angela Merkel e dal presidente Emmanuel Macron.

 Il CES sarebbe una versione ridotta del Comitato politico e di sicurezza dell’Unione e potrebbe riunirsi con brevissimo preavviso per reagire alle crisi internazionali, permettendo reazioni che vadano oltre le dichiarazioni.

Un tale Consiglio di sicurezza europeo potrebbe anche essere l’architetto della cooperazione multilaterale per riunire gli attori che hanno i mezzi necessari per contribuire alla ricostruzione economica dei Paesi in via di sviluppo, di cui il Medio Oriente e il Nord Africa sarebbero i principali beneficiari.

Questo rifletterebbe anche un possibile rinnovamento del dibattito tra gli Stati Uniti e l’Europa, concentrandosi sugli investimenti in soft power e sullo sviluppo economico.

 La stanchezza degli Stati Uniti nei confronti dell’azione militare e la priorità dell’Unione Europea di regolare le migrazioni nel suo ambiente immediato dovrebbero portare i partner transatlantici a rivalutare i loro strumenti di aiuto umanitario, stabilizzazione e sostegno socio-economico.

Un rinnovato consenso transatlantico e una tabella di marcia su questi temi avrebbero un potente effetto leva sulle ONG e sulle istituzioni internazionali finanziate da entrambe le parti.

Questa dinamica potrebbe essere ancora più essenziale in un contesto di crisi istituzionale o di collasso delle strutture statali.

 In un tale scenario, sia l’Europa che gli Stati Uniti si troverebbero di fronte alla mancanza di “partner diplomatici tradizionali” per sostenere la tradizionale cooperazione intergovernativa.

Conclusione.

Le crisi alle porte dell’Europa sono dunque il prodotto di tre polarizzazioni (interna, regionale, internazionale), in costante interazione.

 Alcuni attori, come la Russia e la Cina, sono membri del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, e quindi partecipano in varia misura al blocco dell’attore ONU, come in Siria.

 Altri, come Ankara, Teheran o Tel Aviv, hanno una visione strategica dei loro interessi, che non contribuisce necessariamente al trattamento politico delle crisi della regione.

Se le capacità di proiezione del Qatar, degli Emirati e dell’Arabia Saudita non sono comparabili (con un chiaro vantaggio comparato di Abu Dhabi), il loro inserimento rispettivo nelle reti di alleanza o di partner,  alcune delle quali si sovrappongono (sia con gli Stati Uniti che con alcuni paesi dell’Unione europea), permettono loro di sviluppare una diplomazia più assertiva, in un contesto segnato dall’assenza di un consenso minimo dell’ONU e da una divergenza di vedute tra i due “poli” occidentali (sotto Donald Trump, in attesa di vedere cosa accadrà sotto l’amministrazione Biden).

Uno dei paradossi della politica estera europea è che il rafforzamento della sua azione nel Medio Oriente e in Africa del Nord passa attraverso Washington.

Questa constante potrebbe sembrare controintuitiva, soprattutto in una tradizione e una dottrina francese fondate sull’autonomia operazionale, la sovranità nazionale e un progetto europeo eminentemente politico.

Riflette tuttavia le scelte democratiche e strategiche effettuate per molti decenni dagli altri Stati membri, compresa la dipendenza volontaria dagli Stati Uniti.

Di conseguenza, un intervento decisivo dell’Unione e dei “grandi” europei nelle crisi della regione non è semplicemente concepibile senza tener conto della posizione americana.

Non si tratta di allinearsi con una linea americana, ma di cercare insieme soluzioni politiche alle crisi che riguardano direttamente e principalmente l’Europa.

Uno dei paradossi della politica estera europea è che il rafforzamento della sua azione nel Medio Oriente e in Africa del Nord passa attraverso Washington.

Questa constante potrebbe sembrare controintuitiva, soprattutto in una tradizione e una dottrina francese fondate sull’autonomia operazionale, la sovranità nazionale e un progetto europeo eminentemente politico.

Riflette tuttavia le scelte democratiche e strategiche effettuate per molti decenni dagli altri Stati membri, compresa la dipendenza volontaria dagli Stati Uniti.

(CHARLES THEPAUT).

Un altro paradosso per gli Europei è che la strategia russa in Medio Oriente prenda la forma di un “trabocco” russo dal lato est verso il lato sud dell’Unione.

Se certi Stati Membri sono reticenti a sostenere un impegno più forte dell’Unione in Medio Oriente volendo concentrare le loro azioni sulle minacce russe, Mosca è ormai in grado di influenzare entrambe le parti, per esempio incoraggiando la Turchia a giocare la carta della migrazione in Siria o in Libia.

 Se l’affare Navalny e l’accoglienza ostile di Mosca a Josep Borrell nel febbraio 2021 hanno riaperto acutamente la questione delle relazioni euro-russe, il Medio Oriente non può più essere escluso da questa equazione nel pensiero europeo.

Questo non significa che l’interesse dei vari Stati Membri nei confronti della Russia può essere direttamente “trasferita” dal lato est a quello sud o viceversa.

 La sfida è piuttosto quella di riuscire a incrociare le priorità e le leve dei paesi europei nei confronti della Russia e di articolarle in modo coerente.

Queste sfide, sia concettuali che operative, ricordano quanta strada deve fare l’Unione per stabilire la sua autonomia strategica, e quanto sia urgente accelerare la dinamica interna in corso.

Questo riflette anche la realtà delle percezioni in Medio Oriente.

Gli attori regionali adattano i loro rispettivi calcoli strategici in base alle loro percezioni della politica statunitense.

Attualmente, l’azione dell’Unione Europea appare loro di importanza trascurabile, poiché ritengono che non sia in grado di reagire abbastanza rapidamente alle loro manovre unilaterali.

 

In questo contesto, l’autonomia strategica è tanto più difficile da costruire in quanto molti Paesi europei continuano a rivendicare la loro dipendenza strategica dagli Stati Uniti.

Questi Stati membri spesso preferiscono accettare le decisioni degli Stati Uniti nei confronti del vicinato europeo piuttosto che impegnarsi in dialoghi complicati con altri Paesi europei.

Il riesame delle posizioni strategiche europee è tanto più utile in quanto può anche permettere di stabilire condizioni e parametri più chiari nei confronti degli Stati Uniti. In effetti, la regione del Medio Oriente e del Nord Africa mostra anche la difficoltà degli Stati Uniti a condividere il processo decisionale con i suoi partner europei, mentre gli europei sono riluttanti a condividere gli oneri.

Di fronte ai cambiamenti in corso nella regione, così come negli Stati Uniti e in Europa, il dialogo transatlantico non deve più essere visto come un esercizio educato che favorisce l’acquiescenza simbolica europea alle politiche di Washington.

Piuttosto, dovrebbe servire come base per una revisione comune degli obiettivi e dei mezzi da perseguire nella regione.

Così facendo, l’Europa e gli Stati Uniti possono dare un contributo più umile ma necessario per rafforzare la sicurezza, lo sviluppo umano e l’autodeterminazione nella regione.

 La relazione tra l’Europa e il mondo arabo non si limita infatti alle situazioni di crisi, anche se queste richiedono un’attenzione particolare a causa del loro impatto.

Una migliore gestione delle crisi è, dunque, una delle condizioni per un trattamento più pacifico ed equilibrato dei numerosi legami che ci uniscono al nostro vicinato.

 

OSSERVATORIO GLOBALIZZAZIONE.

Il concetto di Impero nel

pensiero di Jiang Shigong (Cina).

Osservatorioglobalizzazione.it- (1° FEBBRAIO 2021) - DANIELE PERRA – ci dice:

Neomaoista, schmittiano, nazionalista, socialista conservatore, interprete del pensiero di Xi Jinping, il filosofo politico cinese Jiang Shigong è stato definito in diversi modi ma nessuno lo descrive realmente appieno.

Ciò che appare evidente è il fatto che il suo sia un pensiero totalmente “illiberale”. In questo articolo si cercherà di analizzarlo partendo da un concetto centrale all’interno della sua elaborazione teorica:

l’idea di impero come attore principale della storia mondiale.

La storia globale è storia di scontro e competizione per l’egemonia tra imperi diversi e storia dell’evoluzione delle forme imperiali.

Lo Stato-nazione è un prodotto relativamente recente e moderno, e le sue attività politico-economiche sono sempre state garantite da forme di ordine imperiale.

Sulla base di questo assunto, Jiang Shigong, professore della scuola di diritto dell’Università di Pechino, si propone di riesaminare la storia mondiale partendo dalla prospettiva imperiale e superando l’ideologia dello Stato-nazione.

 Una simile prospettiva si pone già in partenza in totale antitesi rispetto ad una forma di pensiero particolarmente in voga in “Occidente” negli anni recenti che ha trovato massima espressione nell’opera del teorico israeliano Yoram Hazony.

Di fatto, Hazony, nel suo testo “Le virtù del nazionalismo”, avanza l’idea che il “nazionalismo sia vecchio come l’Occidente” (concetto ad onor del vero abbastanza oscuro se non si specifica a quale realtà “occidentale” ci si riferisca visto che l’“Occidente”, così come oggi lo conosciamo, è il prodotto di una costruzione ideologica piuttosto recente) e che il primo prototipo di Stato-nazione sia stato rappresentato dal biblico Regno di Israele.

Ciò che sorprende della teoria di Hazony è il fatto che questa (forse anche per evitare un confronto diretto con il pensiero schmittiano) si tenga ben lontana dall’esaminare il concreto processo di creazione dello Stato nell’Europa moderna.

Gli Stati-nazione per eccellenza, nel pensiero dell’ideologo israeliano, sono infatti gli Stati Uniti e l’odierno Stato d’Israele.

 Inutile dire che un simile approccio, dietro il desiderio della parcellizzazione del mondo, nasconda il tradizionale principio imperialista del divide et impera e la volontà di dominio dello Stato forte sullo Stato debole.

Al contrario, Shigong, sulla linea del geo politologo francese François Thual, si domanda quanti degli attuali oltre 200 Stati esistenti siano realmente sovrani e se l’ordine globale sorto dalla Seconda Guerra Mondiale e dalla fine della Guerra Fredda sia concretamente costituito su una moltitudine di entità politiche dotate di medesimi diritti in ambito internazionale o meno.

 La risposta a tali quesiti non può prescindere da un’analisi del concetto di impero così come viene inteso dal pensatore cinese.

L’impero come forma universale.

Shigong utilizza il termine “impero” come concetto descrittivo sociologico e intellettuale.

L’impero, forza motoria dietro ogni grande cambiamento e sviluppo nel corso della storia, è il sistema politico che governa i “grandi spazi”.

L’idea imperiale è sempre universale ma storicamente è stata sempre limitata nello spazio e nel tempo.

Solo con l’accelerazione della globalizzazione negli ultimi decenni si è sviluppata l’idea di una civilizzazione mondiale fondata sui valori dell’impero uscito vincitore nello scontro tra forme imperiali con aspirazioni mondiali:

 il modello liberal-democratico nordamericano ed il modello comunista sovietico.

A questo proposito è bene ricordare l’intrinseca peculiarità della forma imperiale nordamericana pervasa di messianismo dall’ideale del “destino manifesto”.

Questa idea è stata ampiamente approfondita dallo studioso Anders Stephanson che, osservando differenze e similitudini tra il modello nordamericano e le forme imperiali del passato, è giunto alla conclusione che tutte più o meno indistintamente abbiano sostenuto la propria unicità e sotto certi aspetti preteso di essere state consacrate da un ordine superiore.

Tuttavia, solo nel caso nordamericano tale idea di “consacrazione” si è presentata come convinzione di diritto alla trasformazione del mondo a propria immagine e somiglianza con l’obiettivo di giungere a quella che viene definita propriamente come “fine della storia”.

Cinque forme di impero per cinque civiltà.

Ora, Shigong individua cinque civiltà imperiali che hanno contraddistinto storicamente la massa continentale eurasiatica: la civiltà sino-confuciana, la civiltà indù, la civiltà islamica, la civiltà cristiana dell’Europa e la civiltà delle steppe dalla quale è sorta l’entità imperiale zarista.

 Tutte indistintamente erano civiltà imperiali “terrestri”, almeno fino all’epoca d’oro delle navigazioni transoceaniche.

La civiltà cristiano-europea ha sempre percepito quella islamica e quella russa come minacce per il semplice fatto che queste, posizionate a metà tra l’Occidente e l’Oriente dello spazio eurasiatico, bloccavano la via europea verso l’India e l’Est.

Gli stretti rapporti tra la civiltà islamica e l’Oriente, secondo Shigong, consentirono a questa di mantenere una sostanziale superiorità militare e intellettuale rispetto all’Europa per tutto il corso del Medioevo.

Tuttavia, i rapporti di forza mutarono quando gli Europei, costretti a prendere la via degli oceani, “scoprirono” il Nuovo Mondo ed iniziarono a navigare attorno all’Africa.

Con la colonizzazione del “Nuovo Mondo” inizia anche la competizione all’interno dell’Europa ed il processo di formazione dello Stato-nazione come entità moderna in aperto contrasto con i modelli imperiali “datati” (Russia, Impero Ottomano e Cina).

 Ma la competizione interna all’Europa si proietta ancora una volta come competizione tra modelli differenti di impero coloniale.

Ai modelli iberici “inclusivi” (ogni singolo “indio” era comunque ritenuto un suddito della Corona) ed ancora pervasi dei caratteri tradizionali degli imperi terrestri si contrappongono i modelli britannici e olandesi “esclusivi” e razzisti (la popolazione indigena delle Americhe, anche in virtù di un modello di colonizzazione ideologica incentrata sul mito puritano del nuovo esodo biblico, viene ritenuta meritevole di annichilimento) incentrati sul potere mercantile marittimo.

Il modello nordamericano, uscito vittorioso dal confronto tra nuove forme imperiali nel corso del Novecento, si pone come erede del modello britannico ma possiede anche dei caratteri propri.

Questo è un sistema globale onnicomprensivo che si mantiene solo in termini relativi attraverso l’occupazione militare (limitata solo a specifiche aree di interesse strategico).

L’impero globale nordamericano si fonda sul predominio scientifico, tecnologico e commerciale (sul ruolo del dollaro come valuta di scambio internazionale che consente la possibilità di imporre sanzioni unilaterali ai Paesi “dissidenti”), su istituzioni internazionali più o meno eterodirette da Washington e sull’utilizzo dello stesso diritto internazionale a proprio piacimento.

 Di fatto, il rapporto tra Cina (Paese esportatore di beni ed importare di debito nordamericano) e USA è andato avanti finché questa non ha iniziato a minacciare seriamente il potere tecnologico di Washington che, in passato, aveva già schiacciato i tentativi giapponesi ed europei nel medesimo campo.

Secondo Shigong tanto la Russia quanto la Cina si muoverebbero all’interno del sistema imperiale globale nordamericano e non al suo esterno.

La loro sfida, dunque, parte dall’interno di questo sistema anche se punta a superarlo. Inutile dire che una simile concezione smaschera apertamente l’inganno della dicotomia politica “occidentale” globalismo/sovranismo.

 Lo scontro politico tra “sovranisti” e “globalisti” si muove ancora una volta all’interno di un ordine globale che esiste già ed entrambi mirano a rimanere in tale ordine e non ad uscirne (i sovranisti che ambiscono al massimo ad una sovranità sotto protezione di Washington) o addirittura a rinforzarlo ulteriormente (globalisti).

 E, di conseguenza, non sorprende il fatto che la Cina, con il suo obiettivo di costruire un nuovo “nomos della terra”, venga vituperata alternativamente da entrambi gli schieramenti.

Ora, nella prospettiva di Shigong, il sistema imperiale nordamericano è in crisi perché ha cercato di imporre una uniformazione totale su scala globale del proprio sistema ideologico, mentre la forza dell’impero è sempre stata costituita dalla possibilità dell’eterogeneità all’interno di un grande spazio.

 Un grande ordine politico, infatti, deve necessariamente fungere da scenario per lo sviluppo di modelli locali che, a loro volta, non possono esistere al di fuori dello stesso ordine.

Un impero, se vuole avere aspirazioni globali, deve essere in grado di fornire un meccanismo di coordinamento su scala planetaria che consenta la competizione produttiva e la coesistenza pacifica tra modalità di organizzazione politica ed economica differenti.

L’“Occidente”, al contrario, ha cercato di superare l’antagonismo con l’uniformazione ideologico-politica (più o meno forzata a seconda degli scenari).

Ma l’ideologia politica dell’“Occidente” a guida nordamericana, intrinsecamente decadente nel suo liberalismo politico e culturale, ha condotto lo stesso “Occidente” alla crisi odierna ed all’inizio di una implosione dal centro imperiale che, a suo tempo, era stata già prevista da un altro pensatore cinese ed oggi consigliere di Xi Jinping: Wang Huning, autore del libro “America contro America”.

Di fronte al rapido collasso del sistema, la Cina, come Stato dissidente all’interno dell’impero, qualora voglia assumere un ruolo guida nella costruzione di quello che è stato schmittianamente definito comenuovo nomos della terra”, dovrà fornire una soluzione che sia capace di far coesistere istanze diverse; una “armonia senza uniformità” (o “unità nella molteplicità”).

Un concetto, quello di “armonia senza uniformità”, che ricopre una posizione centrale nel pensiero tradizionale cinese.

Questo pensiero, infatti, non è mai stato “unipolare”.

La stessa rappresentazione cinese dell’Universo non è mai stata monista.

Essa si è tradizionalmente ispirata all’idea che il tutto si distribuisce in raggruppamenti diversi e diversamente gerarchizzati.

Il Cielo è uno e la Terra è molteplice.

 Il Dio del Cielo, secondo la cosmogonia sinica, appena concepito come persona unica, si frammentò in ipostasi diverse.

E queste ipostasi presero i loro attributi dalle particolarità delle regioni terrestri alle quali furono preposte.

Alle radici del pensiero cinese.

In questo senso, il pensiero tradizionale cinese, incapace di cogliere il modo di pensare occidentale che distingue “soggetto” e “oggetto” (o hegelianamente la dicotomia padrone/schiavo), è già in sé multipolare ed anti-imperialista.

 Ma se la Cina vuole realmente operare per un superamento del modello unipolare nordamericano, sulla base della sua stessa Tradizione, secondo Shigong sarà necessaria una “volontà costante e terribile”.

È un dato di fatto che la Cina, ormai da tempo, non sia più ispirata da idee di origine “occidentale”.

Il pensiero cinese del Novecento, come ha affermato un altro intellettuale cinese “schmittiano” Liu Xiaofeng, si è sviluppato come reazione alla penetrazione coloniale e culturale occidentale ed ha trovato nel marxismo-leninismo uno strumento per combatterla.

 Ma il maoismo, al contempo, è riuscito a trascendere il pregiudizio materialista del marxismo-leninismo.

Il marxismo, in Cina, si è fuso con il principio tradizionale della “conoscenza del cuore”.

La cultura cinese ha infuso il comunismo di una capacità spirituale completamente nuova.

E in questo senso, il pensiero di Xi Jinping, come evoluzione del maoismo ed operando un rinnovamento del socialismo guardando all’indietro, si caratterizza come integrazione tra pensiero tradizionale e teoria del comunismo.

L’interpretazione che Shigong fornisce del rapporto di Xi Jinping al 19° congresso del PCC è particolarmente interessante.

 Questo rapporto, infatti, posiziona l’era Xi nella storia in quattro modi differenti.

Innanzitutto è bene chiarire che l’utilizzo di divisioni storiche per esprimere il pensiero politico è un metodo tradizionalmente impiegato dalla cultura cinese.

 Così, la storia recente della Cina è stata suddivisa attraverso uno schema generazionale (era Mao, era Deng e così via) concentrato sul principio gerarchico confuciano che enfatizza il primato degli anziani sui più giovani.

 Dunque, secondo Shigong, Xi Jinping, anche per contrastare i tentativi interni di coloro che hanno cercato di mettere questi periodi in contrasto tra loro, ha in primo luogo accompagnato il modello generazionale con un sistema di periodizzazione in fasi differenti: ridestarsi, arricchirsi, divenire forti.

In secondo luogo, Xi Jinping enfatizza il passaggio dall’impostazione nazionalista del “socialismo con caratteristiche cinesi” alla ricerca di un ruolo globale cinese nel superamento del modello nordamericano.

A questo proposito, l’errore occidentale è sempre stato quello di paragonare (per ovvi motivi legati a precise strategie di mantenimento dell’egemonia ideologica) l’ascesa della Cina a quella della Germania nazista (come fa ancora nel 2021 l’economista statunitense Clyde Prestowitz) o alla minaccia sovietica (idea ampiamente diffusa negli ambienti neoconservatori).

Al contrario, l’idea cinese, puramente multipolare, non si pone in aperto contrasto con il liberalismo occidentale.

 L’“Occidente”, qualora lo ritenga opportuno, è libero di mantenere il suo modello e rafforzarlo (eventualmente).

Tuttavia, non può in alcun modo pretendere di imporlo ad altri.

Xi Jinping non parla mai di “modello cinese” ma di “soluzione cinese” o “sapienza cinese”.

Questa “soluzione cinese” è solo una possibilità da adottare: un’opzione possibile per tutti quei Paesi che vogliano accelerare il loro sviluppo cercando di mantenere la propria indipendenza.

In terzo luogo, la Cina non segue dogmaticamente idee sviluppate e prodotte dall’esperienza occidentale del socialismo.

 Il socialismo cinese ha caratteristiche propriamente cinesi grazie alla tradizione cinese.

 In esso si opera un’integrazione tra lo Stato di diritto (fondamentale a questo proposito il neonato codice civile ispirato al diritto romano) e lo Stato delle virtù di chiara origine confuciana.

Ed esso non è collassato, alla pari del modello sovietico, perché Mao ha individuato per primo tale via criticando il revisionismo di Krusciov.

In questo sistema il Partito e il Congresso rappresentano i due corpi del popolo all’interno di una struttura statale che include politica, legge, cultura e ideologia.

 Il Partito, al contempo, incarna e rappresenta la costituzione non scritta della Cina.

 Il Paese orientale, così, si trasforma in una unità organica dove non esiste nulla di individuale alienato dal collettivo.

È un tutto organico e spirituale.

Scrive Shigong: “Il comunismo non è soltanto una bella vita futura ma è anche e soprattutto la condizione spirituale dei membri del Partito nella pratica della vita politica […] nel contesto della tradizione culturale cinese, la comprensione di questo supremo ideale non è più quella di Marx il cui pensiero dipendeva dalla tradizione teorica occidentale ma è intimamente legato alla Grande Unione del Tianxia della tradizione culturale cinese”.

Il concetto tradizionale di Tianxia (“tutto ciò che sta sotto il cielo”) porta direttamente all’ultimo punto ed alla “grande unione” come “unità nella molteplicità” del nuovo nomos della terra.

 Il modello imperiale cinese è sempre stato sostanzialmente eterogeneo e concentrato sulla ricerca della convivenza pacifica nel rispetto delle reciproche differenze (un modello simile a quello achemenide e romano).

 Sulla base di questa idea tradizionale, la Cina dovrebbe essere capace di proporre un sistema mondiale in cui i naturali antagonismi vengano superati dalla prassi e dalla ricerca della cooperazione costruttiva.

Alla luce di quanto sin qui affermato, non sorprende la particolare attenzione che Shigong riserva alla condizione di Hong Kong.

La città rappresenta infatti il banco di prova per le capacità cinesi di sperimentare un ordinamento in grado di coordinare sistemi multipli (o addirittura opposti) all’interno del medesimo sistema.

Hong Kong, nella prospettiva di Shingong, è il fulcro con il quale fare leva sull’“Occidente” per dare vita al suddetto “nuovo nomos della terra”.

Affrontare il problema di Hong Kong significa affrontare il rinnovamento della civiltà cinese e sancire il potenziale successo o meno della “soluzione cinese”.

 Per questo motivo, il teorico politico cinese è fermamente convinto della necessità che Pechino debba muoversi con estrema circospezione in questo ambito.

 

 

 

Chi aggredisce l’“Europa”?

Internationalcommunistparty.it – Redazione – (01 Ottobre 2022) – ci dice:

 

Siamo in presenza di uno svolto decisivo in cui crisi economica, crisi sociale, crisi politica e guerra convergono in un tutto denso di incognite e prospettive.

Non è impresa facile districarsi tra tutti i fattori che determinano i nuovi scenari e individuare, almeno approssimativamente, la direttrice degli eventi in funzione dei loro inevitabili esiti catastrofici.

 In questo compito ci viene in aiuto il fondamentale lavoro di sistemazione dei capisaldi del marxismo rivoluzionario, compiuto dalla Sinistra comunista “italiana” nel secondo dopoguerra, che ci offre alcune linee di lettura.

Una di queste riguarda la direttrice storica dell'”aggressione all'Europa”, espressa nell'omonimo articolo uscito nel 1949 su quello che allora era il nostro organo teorico, Prometeo, in cui si dava una valutazione del differente peso relativo degli imperialismi russo e americano.

 

 Russia e America, differenti “concentramenti di potenza”.

 

Fu, questo, uno dei temi che alimentarono la polemica interna che, agli inizi degli anni Cinquanta, portò alla scissione nel Partito Comunista Internazionalista e alla nascita del Partito Comunista Internazionale – Programma comunista.

Poiché riteniamo che quella discussione fornisca elementi utili a valutare la portata e il significato dell'attuale scontro tra imperialismi, riproduciamo di seguito due passaggi sull'argomento, tratti dalla corrispondenza tra Onorio (Onorato Damen) e Alfa (Amadeo Bordiga):

“Non è possibile al partito rivoluzionario non praticare una politica di equidistanza, soprattutto se in periodo di guerra guerreggiata, tra un paese a massimo sviluppo capitalistico come gli U.S.A. e la Russia ad economia che tu fai tendere al capitalismo;

 potrebbe divenire la premessa teorica per nuove esperienze intermediate; in ogni modo verrebbe a turbare profondamente i termini della visione strategica del partito della rivoluzione nel corso della prossima guerra imperialista.” (Onorio ad Alfa, 6 ottobre 1951).

 

“Prendo prima la tua osservazione relativa alla pag. 3.

Domandi: proprio soltanto l'America tende ad assoggettare etc.? Ma tu stesso hai riportato l'inciso mio: secondo la natura e la necessità di ogni grande concentramento metropolitano di capitale, di forza di produzione e di potere. Dunque non solo l'America, ma ogni concentramento. Dove e quali nei successivi momenti storici tali concentramenti? Qui il punto.

Portiamo in conto: territorio e sue risorse, popolazione, sviluppo della macchina industriale, numero del proletariato moderno, possessi coloniali come materie prime, riserve umane, mercati, continuità storica del potere statale, esito delle guerre recenti, progresso nel concentramento mondiale delle forze sia produttive che di armamento.

 Ed allora possiamo concludere che, nel 1900, 5 o 6 grandi potenze erano sullo stesso fronte o quasi; nel 1914, poniamo si fronteggiavano Inghilterra e Germania; oggi?

Esaminati tutti quei fattori si vede che l'America è il concentramento n. 1 nel senso – oltre tutto il resto, ed oltre la probabilità di vincere in ulteriori conflitti – che sicuramente può intervenire ovunque una rivoluzione anticapitalista vincesse.

In questo senso storico dico che oggi la rivoluzione, che non può che essere internazionale, perde il tempo se non fa fuori lo stato di Washington.

Ciò significa che ne siamo ancora lontani? Okei.” [corsivo nostro – NdR] (Alfa ad Onorio, 9 luglio 1951).

 

I nostri lavori di partito degli anni Cinquanta individuavano le forze storiche che presiedevano alla duratura conservazione del modo capitalista di produzione nelle vittoriose formazioni statuali anglosassoni, Stati Uniti in primis, rafforzate dalla riduzione a vassalli dei capitalismi sconfitti.

Quanto alla natura economica e sociale della Russia allora sovietica, e dei vassalli suoi, se ne affermavano con chiarezza i tratti capitalistici e il ruolo internazionale controrivoluzionario, smontando qualunque illusione sulla capacità di quelle forze di competere, pacificamente o meno, con lo sviluppo impetuoso dei capitalismi d'occidente a partire da un modello economico e sociale presunto alternativo e superiore, “socialista”, che fosse di riferimento per i popoli “colorati”, che, in quell’epoca, stavano tentando di scrollarsi di dosso il dominio imperialista.

La storia fece il suo corso e, alla fine della bella sfida (che tutto fu fuorché pacifica), ciò che restava dello Stato che aveva tradito e usurpato l'Ottobre rosso pacificamente collassava sotto la pressione delle dinamiche democrazie d'Occidente, ben più attrezzate di quello in termini capitalistici e superiori per statistiche di produzione e reddito, avendo lo Stato russo accettato da tempo di combattere con le armi del nemico e sul terreno del nemico – pienamente capitalistico – una battaglia impari.

L'effettivo sviluppo storico si è occupato di dare il responso su chi, sulla questione discussa nella corrispondenza tra Onorio ed Alfa, si ponesse allora nella corretta prospettiva marxista.

 Lo stesso richiamo dovrebbe valere per orientarsi oggi sul problema della guerra in corso, e non correre il rischio di limitarsi a una generica opposizione alla guerra imperialista che avrebbe ben poco a che vedere con gli insegnamenti di Marx, Engels e Lenin.

 Non intendiamo per questo sottovalutare il pericolo (segnalato da chi sostenne allora la tesi dell'“equidistanza” del partito comunista rispetto a qualsivoglia imperialismo, a prescindere dai suoi connotati di potenza) che il riconoscimento del principale nemico da battere potesse portare a smottamenti su posizioni frontiste e partigianesche.

Il principio che i comunisti non parteggiano per e non si schierano in agglomerati di forze spurie rimane scolpito nella roccia.

Nel lontano 1946, e sempre su Prometeo, nel delineare le prospettive del dopoguerra, il nostro movimento aveva posto chiaramente la questione:

“Noi affermiamo senz'altro che alle diverse soluzioni non solo delle grandi guerre interessanti tutto il mondo, ma di qualunque guerra, anche la più limitata, hanno corrisposto e corrisponderanno diversissimi effetti sui rapporti delle forze sociali in campi limitati e nel mondo intiero, e sulle possibilità di sviluppo della azione di classe...” (“Prospettive del dopoguerra in relazione alla piattaforma del Partito”, Prometeo, n.3, 1946).

Se dunque gli esiti di qualsivoglia conflitto, a più forte ragione se tra blocchi mondiali, decidono i percorsi e le sorti della lotta di classe, i comunisti non possono essere indifferenti alla vittoria dell'uno e dell'altro contendente e affidarsi unicamente al dato di fatto che entrambi sono forze di classe nemiche del proletariato.

A evitare fraintendimenti, nello stesso testo si precisavano “tre arbitrarie posizioni” che sarebbero potute discendere dalla premessa e che così sintetizziamo:

la prima, che il proletariato si faccia ingannare dagli obiettivi, sempre nobilissimi, progressivi e financo “rivoluzionari”, che fanno da carburante ideale alle guerre borghesi;

 la seconda, che non tenga conto che a una vittoria militare può corrispondere una sconfitta politica e viceversa (Waterloo non impedì il trionfo delle forze borghesi in Europa e il fascismo sconfitto in guerra fu vittorioso nel generalizzarsi delle forme totalitarie di dominio di classe in tempo di pace);

e infine che “quando anche le due soluzioni del conflitto siano apportatrici di diverse possibilità, sicuramente prevedibili e calcolabili per il movimento, la stessa utilizzazione di queste possibilità non può venire assicurata che evitando di compromettere nella politica dell'infeudamento opportunista, le energie principali di classe e le possibilità di azione del Partito”.

 Perno irrinunciabile, dunque, l'indipendenza del Partito e la salvaguardia del suo invariante programma integrale.

Il pericolo di scivolare nell'opportunismo è scongiurato se il Partito mantiene la propria totale autonomia, non persegue obiettivi “intermedi” assieme ad altre forze politiche e, in caso di guerra, rispetta la consegna di non deflettere dal disfattismo radicale in casa propria, sia essa la casa di una borghesia imperialista dominante o di una vassalla.

Il concetto è espresso a chiare lettere proprio nell’articolo “Aggressione all'Europa”. Citiamo:

“Le guerre potranno volgersi in rivoluzioni a condizione che, qualunque sia il loro apprezzamento, che i marxisti non rinunziano a compiere, sopravviva in ogni paese il nucleo del movimento di classe internazionale, sganciato integralmente dalla politica dei governi e dai movimenti degli Stati maggiori militari, che non ponga riserve teoriche e tattiche di nessun genere tra sé e le possibilità di disfattismo e di sabotaggio della classe dominante in guerra, ossia delle sue organizzazioni politiche statali e militari.” (Prometeo, n.13, agosto 1949)

 

Nella discussione che precedette la scissione del 1952, i gruppi del Partito che facevano capo a Onorato Damen equiparavano i due imperialismi che si spartivano il mondo del dopoguerra, attribuendo anzi all'URSS la forma capitalistica più avanzata storicamente quanto a centralizzazione e totalitarismo, e derivavano da questo giudizio la necessità di un atteggiamento di equidistanza o, si potrebbe dire, di indifferentismo, in rapporto agli esiti di uno scontro tra i due blocchi. Riportiamo il punto dell'ordine del giorno del II congresso del Partito comunista internazionalista, che sancì la scissione:

 

“Di fronte al concentramento russo di capitale, di forza, di produzione e di potere, dichiara che esso è, quanto quello americano, una forza egemonica sul piano delle forze capitaliste in urto sulla scena mondiale.” (leftcom.org/files/2019-quaderni-st07.pdf, p.33.)

 

Per contro, i compagni che avrebbero dato vita a Il programma comunista, individuata nella immane concentrazione di forza controrivoluzionaria dell'imperialismo americano il pilastro che reggeva l'impalcatura del dominio capitalistico nel mondo, ne traevano la necessaria conclusione che solo la sua liquidazione avrebbe posto le condizioni per il crollo dell'intero sistema, mentre ogni sua ulteriore vittoria sarebbe stata foriera di tempi ancor più duri per il proletariato di ogni luogo, per un periodo “misurabile a decenni o generazioni”. Il fattore dirimente era rappresentato dalla valutazione della natura economica e sociale dell'URSS, pienamente capitalistica per Onorio, tendente al capitalismo per Alfa:

“Camminare verso il capitalismo, dove le basi sono ormai edificate (come in America) significa camminare in senso inverso al socialismo.

Ma camminare verso il capitalismo, ove queste basi storicamente mancano o sono incomplete, significa l’opposto, ossia camminare nel senso che conduce al socialismo. È chiaro che il secondo caso allude alla Russia, e ancora più agli arretrati Stati satelliti e alleati.

 E quindi costoro non vanno vituperati per la politica economica del potere, ma per la politica anti-classista del partito, che spaccia l’andare al socialismo per lo stare nel socialismo, con incalcolabili effetti anti-rivoluzionari in tutto il sistema internazionale”. (“Deretano di piombo, cervello marxista”, Il programma comunista, n.19/1955).

Dalla diversa valutazione del concentramento di potenza rappresentato dall'URSS allora e in prospettiva storica, si ricavava il seguente indirizzo tattico:

“Sconfessione di ogni appoggio al militarismo imperiale russo. Aperto disfattismo contro quello americano” (in “Per la riorganizzazione internazionale del movimento rivoluzionario marxista”, Il programma comunista, n. 18/1957 – disponibile sul nostro sito).

 

 Il crollo dell'URSS, avvenuto senza uso di missili né invasioni né “rivoluzioni”, confermò quanto sostenuto dalla nostra corrente circa la natura dell'imperialismo sovietico, sintetizzata nella definizione quasi ossimorica di “imperialismo debole”, data fin dal 1977:

“La struttura commerciale e il livello di indebitamento permettono di dire che l'URSS, mentre svolge una politica imperialistica e detiene una corrispondente area di influenza politica ed economica, toccatele nell'ultima grande ripartizione del pianeta fra ladroni imperialistici, è tuttavia un 'imperialismo debole' nella misura in cui hanno per essa un carattere tutt'affatto secondario l'esportazione di capitali e la tessitura della corrispondente rete di interessi economici e particolarmente finanziari in tutto il mondo, sulla quale molto più saldamente che sul semplice prepotere militare fonda il suo dominio l'imperialismo statunitense.

Persino al livello meno evoluto della semplice esportazione di merci, la Russia non è ancora in grado di tenere validamente testa a molti concorrenti di assai minore peso politico ed anche economico quanto a produzioni assolute.

All'opposto, essa si presenta sui mercati finanziari mondiali in cerca di capitali, e su quelli commerciali come acquirente di prodotti industriali.” (“La Russia si apre alla crisi mondiale”, 1977, riprodotto in Perché la Russia non era socialista, Quaderni del Partito comunista internazionale, n.10, 2019).

 

Pur con tutti i suoi limiti, il gigante “sovietico” rappresentò per oltre quarant'anni un argine all'espansione mondiale del capitalismo atlantico, sottraendogli fisicamente un territorio vastissimo ed esercitando un'influenza politica e ideologica, oltre che economica, su Paesi appena agli albori di un moderno sviluppo, e proponendosi loro come alternativa alla soggezione “neocoloniale” all'Occidente.

 Con il crollo “sovietico”, dai primi anni Novanta del ‘900 il mondo intero divenne aperto terreno di caccia per i capitali occidentali affamati di valorizzazione, mentre l'enorme apparato politico-militare statunitense proliferava e si estendeva, con le buone e con le cattive, a tutti i gangli vitali di un interscambio di merci e capitali, via via sempre più vasto e interconnesso.

In questo contesto di forsennata conquista e predazione, la traiettoria imperialista per la Russia ex-sovietica sembrava definitivamente spezzata dalla perdita della sfera di influenza in Europa orientale, dalla svendita delle proprie immense risorse alle agenzie d'Occidente per tramite di una borghesia sbocciata dai ranghi dell'alta burocrazia “sovietica”, dal tracollo sociale, dalla prospettiva della dissoluzione della federazione in un mosaico di nuovi Stati indipendenti. Il proletariato russo pagò un prezzo durissimo.

Dopo il crollo del 1990, il processo di liquidazione di ciò che restava dello Stato nato dalla rivoluzione d'Ottobre non fu conseguenza di un confronto militare, ma effetto della enorme concentrazione di potenza rappresentata dal capitalismo USA.

Nell’articolo “Aggressione all'Europa”, si metteva in conto la possibilità che il “vassallaggio” della Russia agli Stati Uniti avvenisse non per effetto di una sconfitta militare, ma nella forma della corruzione della “organizzazione dirigente russa”:

“Tale processo potrebbe svilupparsi anche senza una guerra nel senso pieno tra Stati Uniti e Russia, se il vassallaggio della seconda potesse essere assicurato, anziché con mezzi militari e una vera e propria campagna di distruzione e di occupazione, con la pressione delle forze economiche preponderanti della massima organizzazione capitalistica nel mondo – forse domani lo Stato unico Anglo-Americano di cui già si parla – con un compromesso attraverso il quale la organizzazione dirigente russa si farebbe comprare ad alte condizioni [...]”.

È precisamente quanto si verificò nel terribile decennio finale del secolo scorso quando, sotto il governo di El'tsin, la Russia fu sottoposta a saccheggio dall'Occidente capitalista, e una rinnovata classe dirigente venduta si arricchì a dismisura a spese di una popolazione esposta alle delizie del mercato liberato dai “lacci e laccioli” del controllo pubblico. Finalmente i proletari russi conobbero, con la nuova miseria, la vera democrazia.

Alla fine degli anni Novanta, tutto sembrava preludere alla genuflessione definitiva anche della Russia all'unico imperialismo dominante il globo.

L'implosione dava conferma inequivocabile di quanto la nostra corrente aveva sostenuto intorno alla natura economica e sociale dell'URSS: nel suo progredire verso il capitalismo, era crollata per l'azione dei fattori caratteristici di una società pienamente mercantile, senza la quale né la sconfitta in Afghanistan né le manovre degli imperialismi avversari – che pure ebbero un ruolo – avrebbero potuto tanto.

A provocare il crollo furono la formidabile pressione dei mercati mondiali sulla ancor fragile struttura capitalistica dell'URSS e dei suoi satelliti, la progressiva penetrazione di merci e capitali occidentali entro i confini del suo vasto spazio protezionistico, cui si accompagnava, come portato egemonico, quella relativa agli stili di vita e al modo di pensare della “civiltà occidentale”.

Tanto la propensione dell'imperialismo statunitense al dominio globale quanto la relativa debolezza dell'imperialismo russo trovarono conferma negli eventi della storia, ma erano già chiari alla nostra corrente in tempi di pieno “bipolarismo”:

“Coloro che sono abbacinati dall'imperialismo russo fino a dimenticare la tremenda forza di dominazione ed oppressione della potenza statunitense, rischiano di cadere vittime delle deviazioni democratiche e liberaloidi che sono il peggior nemico del marxismo.

 Non a caso la predicazione liberal-democratica ha il suo pulpito nella sede del massimo imperialismo odierno.

Essi non vedono come la Russia, il cui espansionismo si volge tuttora nelle forme del colonialismo (occupazione del territorio degli Stati minori), è ancora alla fase inferiore dell'imperialismo, l'imperialismo degli eserciti, cioè il tipo che per due volte è stato sconfitto nella guerra mondiale[...]

Tutti gli Stati esistenti sono nemici del proletariato e della rivoluzione comunista, ma la loro forza non è eguale.

Quel che conta soprattutto per il proletariato, il quale vedrà coalizzarsi contro di lui tutti gli Stati del mondo appena si muoverà per conquistare il potere, è prendere coscienza della forza del suo più tremendo nemico, il più armato di tutti e capace di portare la sua offesa in qualunque parte del mondo” (“Imperialismo delle portaerei”, Il programma comunista, n.2/1957)

 

Le deviazioni democratiche e liberaloidi, di cui alla caduta dell'URSS si volle celebrare il definitivo trionfo con la pomposa formula della “fine della storia”, rimangono tuttora il peggior nemico del marxismo, con immutata carica ideologica e col sostegno di un colossale apparato propagandistico in grado di spacciare la più spudorata azione di assoggettamento, ove necessario culminante nella devastazione bellica, per una meritoria azione di liberazione e progresso, nella migliore tradizione del vecchio colonialismo portatore di civiltà ovunque vigesse arretratezza e ignoranza.

L'Occidente pretende ancor oggi di imporre al mondo intero un'ideologia quanto mai logora e decadente, che associa al liberismo economico un'idea di “libertà” tutta centrata sull'individuo e sui suoi sconfinati “bisogni” da soddisfare nel mercato;

 libertà solo apparentemente in contrasto con l'introduzione nelle società “libere e democratiche”, segnate da crescente violenza e spinte disgregatrici, di forme di controllo sociale totalitarie malamente mascherate dall'ipocrisia mediatica.

Quale effetto del sistematico ribaltamento della verità storica e del sistematico travisamento di fatti che altrimenti smonterebbero i racconti ufficiali, non sorprende che in difesa dell'Ucraina aggredita siano fatti passare per eroi patriottici e difensori della libertà gli odierni seguaci dell’ultra- nazionalista e filo-nazista ucraino Stepan Bandera (1909-1959), emuli dei collaborazionisti massacratori di ebrei e di proletari russi e polacchi durante l'occupazione tedesca.

Non sorprende neppure che oggi, in Germania, i più sfegatati sostenitori della guerra contro l'“autocratica” Russia si trovino nel “sinistrissimo” partito dei Verdi, già radicalmente pacifista e detentore del dicastero degli Esteri nel governo di coalizione.

La Ministra degli esteri green sembra convinta dell'idea che, schiacciata la Russia, si prospetti il tramonto dei combustibili fossili – di cui la Russia è colpevolmente esportatrice – e con le bombe si apra la via maestra al mondo floreale delle energie rinnovabili.

Simili idioti si trovano ovunque, nel variegato panorama delle sinistre europee, e l'unica difficoltà consiste nel distinguere tra questi i veri, utilissimi idioti, dai menarrosto prezzolati (in tempi di ingegneria genetica non è esclusa l'ibridazione tra i due tipi).

 L'abbiamo sempre sostenuto: sotto la patina del pacifista si cela il guerrafondaio, sotto quella della democratica cova il fascista...

Che i falsi opposti siano destinati a unirsi nell'abbraccio antiproletario è una necessità storica di cui la nostra Sinistra Comunista ha sempre segnalato e che oggi sempre più spesso trova riscontro nei fatti.

Buon segno per chi sa leggere negli apparenti paradossi l'inappellabile giudizio della Storia.

Limiti dell'imperialismo russo attuale.

Per concludere sul “concentramento di potenza” rappresentato dagli imperialismi in campo, non c'è alcun dubbio che gli Stati Uniti rappresentino tuttora e di gran lunga quello dominante, tanto da potersi permettere, in qualità di stato rentier alla scala globale, un perenne e crescente deficit con l'estero a garanzia del flusso continuo di merci e capitali attraverso continenti ed oceani.

Come possiamo definire la natura dello Stato russo oggi?

 A cavallo tra la fine del secolo scorso e l'attuale, a scongiurare il rischio che la Russia scomparisse come autonomo “concentramento di potenza”, la borghesia russa ha ripreso il controllo del potere statale con l'azione dei governi di Putin, che hanno impresso una svolta istituzionale autoritaria e riaffermato il legame tra Stato e grandi gruppi monopolistici su nuove basi, ridando una prospettiva strategica al concentramento di potenza russo.

La svolta “bonapartista” voluta dalle forze sociali ed economiche che Putin rappresenta non ha incontrato una forte resistenza nel proletariato, nelle cui file era fresca la memoria dell'esperienza “lacrime e sangue” vissuta nel decennio in cui imperversavano le meraviglie della democrazia occidentale.

D'altra parte, il nuovo corso ha imposto anche una forte limitazione alle faide interne alle oligarchie e all'azione indipendente dei settori oligarchici più legati ai centri finanziari occidentali, protagonisti negli anni Novanta di una imponente fuga di capitali nei paradisi fiscali esteri.

 La stabilizzazione ha favorito un significativo flusso di rientro nell'ambito di un generale aumento dei movimenti di capitale da e per l'estero, in forma di investimenti diretti.

Va sottolineato che il flusso in entrata “si è concentrato soprattutto nell’energia e nelle materie prime, nel commercio al dettaglio e in altri servizi, con una modesta partecipazione dei settori industriali a eccezione del comparto alimentare, in netto contrasto con la Cina.”

Sono dati significativi per definire la natura del capitalismo russo e i suoi limiti.

 Se consideriamo l'esportazione di capitali, tratto caratteristico dell'imperialismo, risulta che gli investimenti diretti esteri russi, pur notevolmente cresciuti dagli anni Novanta, nel 2021 ammontavano a circa il 4% di quelli americani (dati UNCTAD), ed erano indirizzati in un'area in buona parte coincidente con i territori ex “sovietici”.

La rendita di cui si nutre il flusso di investimenti in entrata si è concentrata prevalentemente sui settori energetici e delle materie prime, trascurando quello industriale, dove permane la dipendenza dalle produzioni estere.

Tutti questi elementi confermano che la definizione di imperialismo debole, attribuita dalla nostra corrente all'URSS, in buona parte si attaglia tuttora alle misure della potenza russa, oggi meno esposta al debito estero e più dinamica nell'export di capitali, ma ancora fortemente dipendente dai prodotti industriali di importazione e dalla rendita energetica.

L'ambizione russa ad assumere nuovamente un ruolo imperialista già rivestito in passato (con molti limiti, tant'è che non ha retto il confronto ed è collassata) ha dalla sua una significativa capacità militare non supportata da una adeguata base economica, dipendente com'è dalle esportazioni di energia e materie prime e dai loro prezzi estremamente variabili.

Con questi presupposti, l'imperialismo russo – proiezione degli interessi dei grandi gruppi monopolistici interni – è in grado di esercitare un'influenza entro un'area a ridosso dei pur vasti confini della Federazione, ben lontana da ambizioni di egemonia oltre uno spazio ritenuto di “sicurezza”, per quanto piuttosto esteso.

Come ai tempi dell'URSS, “l'esportazione di capitali e la tessitura della corrispondente rete di interessi economici e particolarmente finanziari in tutto il mondo” rimane un carattere secondario rispetto ai tratti dominanti da imperialismo degli eserciti.

L'intervento in Ucraina, come in passato quelli in Caucaso e nell'Asia centrale, ne è la conferma e, per quanto le iniziative militari in Siria e in Africa settentrionale diano alla Russia una proiezione che va ben oltre i confini di potenza regionale, i loro obiettivi rimangono dettati principalmente da considerazioni strategiche e militari, di risposta e contenimento alla pressione dell'imperialismo USA.

 La minaccia da Occidente, che in Ucraina ha senz'altro connotati militari nell'allargamento della NATO verso Est e si avvale anche di un formidabile sistema di intelligence, è funzionale a preparare il terreno alla penetrazione finanziaria, al saccheggio delle risorse agricole, minerarie ed energetiche ucraine, allo sfruttamento bestiale del proletariato di quel Paese, e in quanto tale ha connotati pienamente imperialisti.

 

Considerati i limiti dell'imperialismo russo, l'”operazione militare” in Ucraina sarebbe stata un'iniziativa suicida se il contesto generale non fosse già mutato, se non fossero già saltati i vecchi equilibri tra avversi concentramenti di forze e se non si appoggiasse a una prospettiva strategica più ampia, di respiro eurasiatico.

Il progetto di integrazione eurasiatica fu annunciato dallo stesso Putin nel 2015, preceduto dalla fondazione dell'Unione Economica Eurasiatica (2014, l'anno stesso del colpo di stato di Maidan), ed è in via di realizzazione attraverso i numerosi progetti infrastrutturali di cui la Cina è il principale promotore e finanziatore.

 

Nel suo perenne oscillare tra Oriente e Occidente, la Russia si vede oggi respinta dall'Europa e gettata nelle braccia dell'emergente potenza cinese.

Se infatti l'imperialismo russo ha i limiti “militari” che abbiamo detto, “La Cina ha tutte le caratteristiche classiche dell'imperialismo come delineato da Lenin: capitalismo statale-monopolistico, esportazione di capitale, una spinta all'espansione per conquistare mercati stranieri e sfere d'influenza, una politica estera espansionistica volta ad ottenere il controllo delle rotte commerciali, ecc. L'imperialismo russo ha un carattere diverso. I suoi obiettivi sono più limitati e dettati principalmente da considerazioni strategiche e militari”.

Il consolidamento del legame tra Russia e Cina è il fattore che sta imprimendo una svolta verso nuovi scenari.

 

 Guerra all'Europa con obiettivo Eurasia.

Ci preme ora tornare all'articolo di Prometeo del 1949, sorprendente per la lucidità quasi profetica nel tracciare le direttrici storiche lungo le quali si sarebbero effettivamente posti gli eventi nello scontro tra imperialismi.

 Alla base di quelle previsioni, non v'era nulla di intuitivo e geniale, ma una visione storica che, su fondamento marxista, supera le visioni immediate e proietta la prospettiva sul lungo periodo. L'attuale crisi ucraina conferma la fondatezza di quelle previsioni, comprese quelle attinenti alle caratteristiche che avrebbe assunto la guerra a venire. Ci sono voluti oltre settant'anni?

 

Alla domanda “che razza di guerra sarebbe la eventuale prossima dell'America per la quale si votano crediti militari immensi... “, si risponde dunque che sarebbe stata “la più clamorosa impresa di aggressione, di invasione, di oppressione e di schiavizzazione di tutta la storia”.

Non solo, ma si aggiunge che “essa è già in atto, essendo tale impresa legata da stretta continuazione con gli interventi nelle guerre europee del 1917 e del 1942, ed essendo in fondo il coronamento del concentrarsi di una immensa forza militare e distruttrice in un supremo centro di dominio e di difesa dell'attuale regime di classe, quello capitalistico, la costruzione dell'optimum delle condizioni atte a soffocare la rivoluzione dei lavoratori in qualunque paese.” (“Aggressione all'Europa”, cit.)

 

La guerra in Ucraina ha fornito alla potenza atlantica l'occasione, fortemente cercata, di riaffermarsi padrona indiscussa del consesso occidentale a scapito degli alleati-rivali d'Europa a cui ha imposto la linea su tutti i fronti decisivi (informazione, politica interna, energia, guerra, economia).  

Quella in corso si presenta pertanto come la nuova tappa di quella “aggressione all'Europa” iniziata nel lontano 1917, che la nostra corrente ha riconosciuto essere la direttrice fondamentale dei rapporti inter-imperialisti.

 Se ieri castrare l'Europa significava annientare l'unico potenziale avversario imperialista nell'impresa di conquista del mondo, oggi – dopo averne favorito la nullità politico militare ingabbiandola in un non Stato (la UE) – l'aggressione continua con il tentativo di demolirne la forza produttiva, di annullare le condizioni alla base del surplus tedesco e, dopo averne reciso i legami strutturali con i vasti mercati eurasiatici, ridurla a una succursale anche economica del centro imperialista atlantico.

Con la guerra in Ucraina, la completa subalternità dell'Europa si è manifestata in modi che avrebbero del sorprendente se non ne fossero chiari i presupposti storici.

 Lo sciagurato e incondizionato supporto offerto dalla borghesia europea – in alcuni settori con ostentata convinzione, in altri digrignando i denti – alla volontà americana di una guerra prolungata contro la Russia sancisce il declino e il completo asservimento dei vecchi capitalismi d'Europa, che si negano perfino l'esercizio di una politica autonoma di difesa dei propri vitali interessi economici.

Spezzare il naturale legame tra l'economia dell'Europa occidentale e le fonti energetiche russe colpisce prima di tutto l'apparato industriale tedesco e le sue vaste ramificazioni continentali.

È un attacco diretto alle basi stesse del capitalismo europeo ruotante attorno al magnete tedesco, dove l'assoggettamento politico militare svolge in prospettiva la stessa funzione dei bombardamenti a tappeto che rasero al suolo la potenza produttiva dell'Asse.

È anche la prosecuzione dell'attacco all'Euro come sfida all’egemonia del dollaro.

 Alla sua introduzione, infatti, gli Stati Uniti “reagirono come d’uso, cercando di creare isole di destabilizzazione, tra le quali in Medio Oriente spiccò la vicenda irachena ed in Europa quella Jugoslava. Il bombardamento del paese europeo comportò, in particolare, una immediata svalutazione del 30% dell’Euro (che era partito molto bene) mentre l’invasione dell’Iraq del 2003 provocò un vertiginoso incremento del prezzo del petrolio e quella della Libia la fine del progetto di una moneta pan-araba ancorata all’oro”. (A. Visalli, Krisis).

 

Gli esempi sarebbero molti, ma si tratta di quella che l’autore chiama con formula di effetto “la geopolitica del caos”.

Tra i primi effetti della guerra in Ucraina e delle sanzioni comminate alla Russia non vi è stato, come prevedevano invece i “sanzionatori”, il crollo del rublo – che, anzi, si è apprezzato in parallelo all'esplosione dei prezzi energetici – ma dell'Euro, precipitato in breve tempo sotto la parità col dollaro.

Quella in Ucraina è dunque in tutta evidenza una guerra per procura tra Stati Uniti e Russia, ma è combattuta sul suolo europeo, con carne da cannone europea, con ricadute devastanti sulle strutture economiche europee, sulle condizioni di vita dei proletari europei.

 È quindi, ancora una volta e in primo luogo, una guerra contro l'Europa.

 Nonostante i rovinosi precedenti storici – da Napoleone a Hitler – l'Europa ripete l'errore di guardare alla Russia come una minaccia da Oriente, come tale da sottomettere e depredare, anziché considerarla essa stessa Europa e ponte verso l'Oriente asiatico.

Così, come nelle precedenti guerre mondiali, il “gregge dell'imbecillità borghese d'Europa” (“Ancora America”, Prometeo, n.8, 1947), cui nel secondo conflitto si unì l'URSS di Stalin, contribuisce grandemente al proprio declino affidando le proprie sorti all'ingombrante alleato atlantico, generosamente disposto a rifornire i gonzi europei di crediti, bombe e oggi anche costosissimo gas (di pessima qualità).

Per gli Stati Uniti, stringere la presa sull'Occidente è anche la condizione per accelerare la manovra di accerchiamento dell'Eurasia. L'obiettivo è, nell'ordine, arruolare l'Europa a dominanza tedesca in posizione subordinata, per poi procedere a schiacciare la Russia, e di seguito la Cina.

 La nuova tappa è l'ultima “di una unica invasione, passata da Versailles nel 1917-18, diretta a Berlino. Solo a Berlino? No, insensati ancora plaudenti, diretta anche a Mosca...” (“Aggressione all'Europa”, cit.).

Oggi la platea di insensati ancora plaudenti si estende alla vastissima pletora di un ceto politico più che mai miserabile e corrotto che ancora tiene nelle mani le leve dei governi per conto del padrone atlantico, anche se oggi con meno sicurezza di ieri, dopo aver disceso di molti scalini “nella vendita dell'onore del suo Stato” (“America”, Prometeo, n.7, 1947) – fatto che per i comunisti non è motivo di sdegno, giacché in regime capitalista tutto si riduce a una questione di prezzo.

La potenza della capacità predittiva del marxismo si conferma quindi a oltre settant'anni dalla pubblicazione di “Aggressione all'Europa” e Mosca – poco importa se non più “sovietica”, visto che è ancora lì a interporsi al nuovo slancio imperialista di conquista del mondo – rimane l'obiettivo di una nuova ondata che ambisce a completare il progetto di sottomissione eurasiatica.

La Russia rappresenta ancora oggi l'estremo baluardo europeo contro l'espansione dell'imperialismo USA dall'Atlantico agli Urali, superati i quali si apre l'immenso spazio dell'Eurasia, delle sue immense ricchezze da contendere al nuovo grande nemico, la Cina.

La forza attuale della Cina è prodotta dalla stessa espansione dell'imperialismo americano e occidentale da quando, con l'avvento del mondo “unipolare”, i capitali in eccesso cominciarono ad affluire dai centri imperialisti d'Occidente agli immensi bacini asiatici di forza lavoro a basso prezzo, alimentando lo sviluppo impetuoso del capitalismo cinese.

Man mano che esso – sotto la guida dello Stato centralizzato – si sviluppava fino a contendere e superare nelle statistiche economiche i record del vecchio padrone atlantico, man mano che riforniva di merci e capitali il mercato americano in cambio di dollari si è fatta via via più evidente e insostenibile la realtà di un interscambio che a un polo forniva forza lavoro, merci e capitali frutto di processi produttivi, e all'altro pagava in moneta fiduciaria internazionale garantita da un debito pubblico crescente e finanziato dagli stessi fornitori di capitali e di beni.

Con lo sviluppo del processo, sono necessariamente mutati i rapporti di potenza economica, che se a un capo vedevano aumentare a dismisura i valori finanziari – in parte crescente fittizi – all'altro vedevano l'enorme montare delle forze produttive, cioè del requisito fondamentale alla base di quella potenza.

Gli stessi processi economici di espansione del capitale, che avevano logorato l'assetto protezionistico dell'area di influenza “sovietica” fino a disgregarlo, hanno minato in modo irreversibile le fondamenta della potenza economica statunitense.

Nell'assetto “unipolare” a baricentro americano si era stabilita un'interdipendenza da cui tutti i principali attori hanno tratto frutti.

 I capitali, per quanto con difficoltà crescente entro la tendenza generale alla caduta del saggio di incremento della produzione, trovavano modo di valorizzarsi nella fucina produttiva dell'Asia orientale per poi rifluire ai centri finanziari dell'imperialismo dominante.

Il meccanismo ha funzionato fino alla crisi della cosiddetta globalizzazione innescata dal crollo del 2008-2009.

Sola garante dell'interdipendenza funzionale all'ordine capitalistico mondiale si poneva e si pone tuttora la potenza militare USA, ineguagliabile quanto a finanziamenti, tecnologie, dispiegamento di forze in ogni area del mondo, strategie di intervento diretto o tramite partigianerie reclutate direttamente sul campo.

L'espansione della Nato in Europa orientale rappresenta uno dei principali movimenti strategici americani nell'ambito di una manovra a tenaglia che punta all'accerchiamento dell'Eurasia, dove si concentrano le minacce alla perpetuazione dell'influenza globale dell'imperialismo americano.

Siamo al punto in cui gli schieramenti della futura (o presente?) guerra sembrano ormai definiti: mondo anglosassone, Giappone e UE da un lato, Cina, Russia, Iran dall'altro.

 Il resto del mondo è alla finestra, in attesa di valutare l'evolvere dei rapporti di forza.

Vecchi capitalismi in declino, ma estremamente aggressivi, contro capitalismi emergenti.

Per la Cina, fautrice di un'espansione “pacifica” della propria influenza, l'Ucraina costituiva uno snodo fondamentale del progetto di creazione di infrastrutture di interscambio terrestri e marittime (Vie della Seta) in direzione della vecchia Europa.

La penetrazione cinese in Ucraina è avvenuta attraverso ingenti investimenti, nella classica modalità di un imperialismo in espansione.

 La si chiami pure “pacifica”, ma la via cinese rientra nella dinamica del confronto-scontro tra imperialismi e come tale facilmente può volgere in guerra, dal momento che viene brutalmente ostacolata dall'imperialismo dominante che la legge a sua volta come un'”aggressione” al vecchio ordine.

Se l'Ucraina rappresenta uno snodo vitale per tutti e tre i principali concentramenti di potenza (Stati Uniti, Russia e Cina), la sua invasione è una sfida alla secolare egemonia occidentale sul mondo, come tale inaccettabile da parte dei vecchi dominatori.

Il fatto stesso che la Russia abbia osato sfidare il colosso atlantico sul terreno della guerra è segnale che quell'egemonia è messa in discussione. O si riafferma su nuove basi di forza o scompare.

La posta in gioco è il capitalismo.

A una visione superficiale, il quadro generale propone l'alternativa tra il rafforzamento del predominio mondiale atlantico e l'affermazione di un nuovo ordine che si vorrebbe multipolare, articolato lungo le diverse Silk roads che si snodano dai centri produttivi cinesi, grandi infrastrutture terrestri di integrazione eurasiatica con prolungamenti marittimi in direzione dell'Africa e dell'America latina.

 

Il solo porsi di tale alternativa rivela un fronteggiarsi di concentramenti di forze che può tradursi in uno scontro diretto e volgere in una nuova guerra generale.

La tensione sale nell'intero emisfero settentrionale: in Europa, è ancora una volta cruciale l'atteggiamento della Germania, fino a ieri con i piedi in due staffe: quello economico rivolto a oriente, quello politico stabilmente schierato ad occidente.

La situazione le impone una scelta.

Sembra che il prezzo che gli Usa siano disposti a pagare per la fedeltà dell'alleato-nemico sia il via libera al suo riarmo in funzione antirussa, ma al momento è proprio la Germania a pagare il prezzo più alto delle sanzioni imposte alla Russia in termini economici e sociali.

 Su scala più ampia, e in una fase assai più avanzata dell'”aggressione all'Europa”, si ripropone lo scenario della guerra per il Kosovo quando, col pretesto della discriminazione della popolazione albanese kosovara, la Nato attaccò la Serbia, con la Russia impotente a reagire.

 Non a caso al confine tra Kosovo e Serbia si sta pericolosamente riaccendendo il focolaio di tensione, dai cui possibili sviluppi bellici oggi difficilmente la Russia potrebbe tenersi fuori.

 La guerra della Nato alla Serbia è stata prima di tutto un argine alla presenza della Germania nei Balcani dopo che la guerra civile jugoslava aveva spalancato le porte ai capitali tedeschi nell'area.

Fino ad oggi l'allargamento della sfera di influenza tedesca a Est rientrava in un orizzonte economico e solo di riflesso politico.

Oggi, se gli sviluppi lo confermeranno, la guerra potrebbe rilanciare la Germania come imperialismo attivo anche militarmente, per quanto in un ruolo ancora subordinato.

Anche nell'area del Pacifico la tensione evolve pericolosamente, alimentata dalle provocazioni USA (ultima, la visita della Pelosi a Taiwan).

 La linea del fronte è tracciata tra la costa orientale della Cina e il Giappone a Nord, Formosa e, più a sud, lungo tutto l'arco costiero e insulare che marca le vie marittime di transito tra gli oceani Pacifico e Indiano.

 Anche il Giappone è in fase di deciso riarmo, e potrebbe avere il via libera dagli Usa a sviluppare l'atomica (se non l'ha già avuto).

Lo scenario presenta un mondo sull'orlo dello scatenamento di una guerra generale, ma dobbiamo tener presente che lo scontro in atto è effetto della crisi terminale del modo di produzione capitalistico.

Se le ricorrenti crisi economiche, con la brutale svalorizzazione di capitale fisso, licenziamenti, ecc., creano le premesse per la ripresa su basi più avanzate in termini di composizione organica e concentrazione capitalistica, la guerra procede all'opera radicale di distruzione fisica di capitale fisso e forza lavoro eccedente.

Ma le crisi economiche oggi sono sempre più potenti e prolungate, tanto che il mondo capitalistico non si è ancora ripreso dagli effetti della Grande Crisi del 2008-2009 e affronta una durevole stagnazione.

Quanto alla guerra, essa esprime nei sistemi d'arma il livello raggiunto dallo sviluppo delle forze produttive, che si traduce in una corrispondente potenza distruttiva.

 Oggi, una guerra generale, specie se gli schieramenti oppongono capacità militari simmetriche, rappresenta una soluzione troppo rischiosa per tutti.

Nonostante le scarse probabilità che qualcuno possa uscirne vincitore sul campo e goderne i vantaggi, questa non è un’eventualità da escludere, vuoi perché non si può certo contare sulla sanità mentale delle classi dirigenti di un sistema in decadenza, vuoi per la forza incontrollabile che le vicende belliche acquistano una volta messe in moto.

Se ciò, com'è da augurarsi, non accadrà, è verosimile l'intensificarsi di quella guerra permanente in atto ormai dalla caduta dell'URSS, in cui, accanto alle iniziative militari e alla esibizione di armamenti sempre più potenti e sofisticati, svolgono un ruolo sempre più importante le sanzioni economiche, il confronto tra le monete, gli attacchi cibernetici, la guerra dell'informazione, il controllo totalitario dello Stato sulle popolazioni.

 Se non sarà guerra generale in senso classico, la guerra che si profila si estenderà a tutti gli aspetti della vita sociale, coinvolgerà pesantemente la popolazione civile: sarà pertanto una guerra totale, essenzialmente politica, fortemente ideologica e destinata a durare.

Le politiche emergenziali adottate durante la pandemia Covid-19 possono essere viste come modello sperimentale in scala assai ridotta di che cosa potrebbe comportare una simile guerra per le popolazioni civili in termini di controllo sociale, condizionamento, repressione, restrizioni e razionamenti.

Il fronte interno assumerà un ruolo decisivo, sarà il terreno in cui riprenderà vigore la lotta di classe:

“Se la guerra trova la sua base di partenza nella sconfitta della classe operaia, se le imprese dell'imperialismo trovano la strada segnata dalla parabola discendente della rivoluzione internazionale, nella sua dinamica sono contenute le ragioni della ripresa rivoluzionaria del proletariato.

 La bomba atomica potrà essere o non essere usata dall'imperialismo, come strumento tecnico di guerra; quella che l'imperialismo non potrà evitare di tirarsi addosso, per quanto grande possa apparire e sia oggi la sua strapotenza, è l'atomica della rivoluzione internazionale ed internazionalista della classe operaia.” (“Corea è il mondo”, Prometeo, n.1, 1950).

Nulla di nuovo. La guerra è connaturata al capitalismo, inestirpabile come la lotta di classe, anche se per lunghi periodi essa covante sottotraccia, sopita da transitorie condizioni di illusoria pace sociale.

Se il Capitale si dispone stabilmente alla guerra e persegue l'accumulo di violenza dei suoi arsenali, è perché sa che prima o poi dovrà affrontare il suo nemico storico.

Riportiamo ancora da “Corea è il mondo”:

“Su scala mondiale la più violenta forza di espansione e di aggressione, poco importa se tradotta in armi o in dollari o in scatolette di carne conservata, è quella che cova nelle viscere del gigantesco apparato produttivo degli Stati Uniti”.

Vale ancora questo primato? Gli Stati Uniti si muovono per riaffermare il ruolo di gendarme del mondo, ma oggi l'esibizione di potenza e arroganza che traspare dalla loro azione internazionale, militare e diplomatica, non ha l'efficacia di un tempo. Il ridimensionamento del loro ruolo mondiale, la rinuncia a essere il perno dell'integrazione capitalistica mondiale, all'“esorbitante privilegio” del dollaro, potrebbe portarli a una crisi interna senza precedenti, di cui si vedono già alcuni segni.

Non potendo fermare il processo di integrazione eurasiatica, gli Stati Uniti si arroccano arruolando i Paesi-chiave della Nato e i più stretti alleati del Pacifico (Giappone, Australia, Nuova Zelanda), ma l'atteggiamento aggressivo e provocatorio cela l'incapacità di piegare gli avversari alla sua volontà con la sola forza di chi tiene saldo il primato.

La reazione mondiale all'invasione russa dell'Ucraina non è stata affatto nel segno della condanna unanime e dell'adesione alle sanzioni.

Nel contesto internazionale, non è la Russia ad essere isolata, ma sono piuttosto gli Stati Uniti e i loro vassalli occidentali con le loro pretese sanzionatorie e il loro atteggiamento guerrafondaio.

Gran parte del “Sud” del mondo è contraria alle sanzioni, persegue una politica di pacificazione, non è disposta a seguire servilmente il vecchio capobastone.

Guardiamo con grande interesse alle difficoltà in cui si dibatte il colosso americano, che se rimane superdotato in armi e in dollari, non lo è più nel gigantesco apparato produttivo, in buona parte smantellato per ricavare più alti tassi di profitto all'estero, e non più in grado di sostenere nel lungo periodo né le armi né il dollaro.

Lo spasmodico attivismo americano ha questa base oggettiva maturata nel processo di sviluppo del capitalismo mondiale dalla crisi degli anni Settanta, e all'origine delle gravi difficoltà attuali.

Non è solo la Russia a rischiare la sopravvivenza, ma anche e forse ancor più l'America.

Siamo ben lontani dal ritenere un'alternativa auspicabile e possibile il mondo di rispettosa cooperazione tra stati sovrani, votati alla crescita comune, prospettato dagli ideologi del nuovo multipolarismo, dalla visione eurasiatica di Putin e dai “pacifici” progetti cinesi.

 A essere in crisi non sono soltanto gli Stati Uniti, ma l'intero assetto che ha garantito finora la tenuta del capitalismo mondiale, e credere che ad esso possa succedere una pacifica cooperazione tra Stati è, finché vivrà il capitalismo, una pia illusione.

Con la crisi della leadership statunitense l'ordine capitalistico mondiale è andato in stallo.

All'orizzonte si profila un nuovo scossone finanziario che potrebbe preludere a una nuova pesante recessione mondiale, mentre si moltiplicano le aree dove divampano proteste di massa contro gli effetti già visibili della crisi economica.

Sono tutti segni di un cambio di scenario, da lungo tempo atteso, che si delinea nel procedere della crisi storica del capitalismo ultra maturo e per lo sgretolamento delle condizioni che stanno a fondamento della supremazia americana.

La partita tra i nascenti blocchi imperialisti è tutta da giocare, nessun esito è scontato.

Ma la soluzione più auspicabile rimane la stessa che la nostra corrente indicava nel lontano 1950:

 

“Questo partito [del proletariato rivoluzionario. Ndr.], nella seconda guerra imperialista 1939- 1945, avrebbe dovuto parimenti sostenere la rottura della politica e dell'azione di guerra entro tutti gli stati.

Un marxista poteva tuttavia conservare il diritto, senza temere che i soliti libertari lo accusassero di simpatie per un tiranno, di fare calcoli e indagini sulle conseguenze di una vittoria di Hitler su Londra e di un crollo inglese.

Questo stesso marxista conserverà il diritto, pur dimostrando che il regime di Stalin non è, almeno da venti anni, regime proletario [quello di Putin non richiede alcuna dimostrazione! NdR], di considerare le utili conseguenze rivoluzionarie che avrebbe il crollo – disgraziatamente improbabile – della potenza americana, in una eventuale terza guerra degli stati e degli eserciti”.

 

(“Romanzo della guerra santa”, in Battaglia Comunista", n. 13 del 1950, riprodotto in Il proletariato e la guerra, Quaderni del programma comunista, n.3, 1978).

Possiamo oggi appellarci solo a una “novità”, rispetto al quadro disegnato nell'articolo della serie “Sul filo del tempo”: cioè che l'auspicato crollo dell'allora inarrivabile (e tale per lungo tempo sarebbe stata) potenza americana non sia più così “disgraziatamente improbabile”.

Oggi l'attivismo del gigante atlantico può essere letto come sintomo di una crisi mai affrontata prima, all'interno come all'esterno, che apre la possibilità del crollo tanto atteso.

Non si tratta né di antiamericanismo ideologico né di concessioni al “terzomondismo”.

Nessuna simpatia con la borghesia di qualsivoglia Paese, sempre pronta a schiacciare il proletariato ad ogni suo tentativo di sollevarsi contro l'oppressione e lo sfruttamento;

nessuna “fiducia” nella capacità della borghesia di farsi portatrice di interessi “nazionali”, se non nei ristretti limiti dei propri interessi di classe, sempre contrapposti a quelli proletari.

Tuttavia, non possiamo che rallegrarci se giungono a maturazione le condizioni perché il vecchio bestione si ritiri finalmente con la coda tra le gambe, a vedersela col proprio proletariato, privato delle briciole della rendita derivante dallo sfruttamento del mondo.

Allora si aprirebbero scenari del tutto nuovi e promettenti.

A settant'anni di distanza suona ancora attuale la risposta lapidaria di Alfa a Onorio: “la rivoluzione perde il tempo se non fa fuori lo Stato di Washington”.

Con la guerra in Ucraina, la direttrice storica indicata dall'articolo di Prometeo “Aggressione all'Europa” (1949) riemerge prepotentemente alla luce.

Gli Stati Uniti sono passati all'incasso: o con noi o contro di noi, unici garanti della sicurezza militare dell'Occidente e dei principi cardine del mondo libero, ma soprattutto eterni creditori dell'Europa rinata sulle rovine dell'ultima guerra mondiale.

L'Europa paga un prezzo esorbitante, ma la posta in gioco è la sopravvivenza del capitalismo.

 L'assetto unipolare è evidentemente saltato, e “l'aggressione” russa all'Ucraina – la si chiami pure così – ne è la definitiva sanzione.

 

 

 

In un Ambiente senz’Aria Scienziati

Russi hanno Sviluppato un nuovo Metodo

per Generare Elettricità dall’Idrogeno.

 

Conoscenzealconfine.it – (6 Novembre 2022) -Redazione – ci dice:

Scienziati russi hanno sviluppato un metodo per generare elettricità ossidando l’idrogeno in un ambiente senz’aria.

Tipicamente, si utilizza l’ossigeno dall’aria. Invece, i chimici usano composti di cloro contenenti ossigeno.

 È necessario un piccolo impulso di corrente per avviare la reazione, quindi inizia a svilupparsi da solo.

 Secondo gli scienziati, la tecnologia amplia le possibilità di utilizzare combustibile a idrogeno ecologico. La tecnica può essere utilizzata su veicoli spaziali e subacquei, nonché nelle miniere.

Gli scienziati dell’Istituto di Chimica Fisica ed Elettrochimica, intitolato ad A.N. Frumkin, dell’Accademia delle scienze russa e il Centro federale di ricerca per i problemi di fisica chimica e chimica medicinale dell’Accademia delle scienze russa, hanno sviluppato un metodo per generare elettricità ossidando l’idrogeno in un ambiente senz’aria.

Lo riferisce RT nel servizio stampa della RNF. Lo studio è stato sostenuto da una sovvenzione della Russian Science Foundation.

(I risultati sono pubblicati sulla rivista Molecules.research.)

 

Invece dell’ossigeno, che le piante a idrogeno di solito assorbono dall’aria, i chimici usano composti di cloro contenenti ossigeno.

La nuova tecnologia permette di generare elettricità dall’idrogeno anche dove non c’è aria: nello spazio, sott’acqua, nelle miniere.

 Ciò amplia notevolmente le possibilità di utilizzo di carburante a idrogeno ecologico.

Gli autori del lavoro ricordano che durante la combustione del carburante si verifica una reazione di ossidazione con la partecipazione di atomi di ossigeno.

 Di solito viene dall’aria.

Al contrario, ora il genere umano potrà dominare ambienti senz’aria, come lo spazio o il mondo sottomarino. Anche l’attrezzatura utilizzata in tali condizioni necessita di energia.

Per risolvere questo problema, gli scienziati hanno proposto di utilizzare composti di cloro invece dell’ossigeno atmosferico: anioni clorato, che possono essere immagazzinati su un veicolo spaziale o sottomarino sotto forma di una soluzione concentrata.

La sostanza e l’idrogeno molecolare entrano in reazioni redox sugli elettrodi della cella elettrochimica, il che consente di ottenere elettricità. L’unico sottoprodotto di questa reazione è il normale sale da cucina.

Come notano gli autori del lavoro, la difficoltà principale è stata quella di forzare i composti del cloro ad entrare in una reazione di riduzione. Solitamente questa sostanza non reagisce nemmeno in presenza di catalizzatori speciali.

Gli scienziati hanno però trovato una soluzione al problema.

Si è scoperto infatti che un piccolo impulso di corrente è sufficiente per avviare la reazione.

Inoltre, è in grado di mantenersi da sola.

Il biossido di cloro rilasciato durante l’interazione stimola ulteriormente l’intensità della reazione. Di conseguenza, la generazione attuale aumenta già senza stimoli esterni.

Gli scienziati sono riusciti a scegliere le condizioni in cui questo processo autosufficiente è più intenso.

Secondo gli esperti, nella maggior parte degli esperimenti, l’energia chimica è stata convertita in elettricità con un’efficienza dal 40 al 50%.

In futuro, gli autori del lavoro si aspettano di trovare modi per aumentare l’efficienza di un nuovo metodo di generazione di elettricità.

 

“Abbiamo dimostrato la possibilità di utilizzare l’energia chimica dell’idrogeno gassoso per generare elettricità senza la partecipazione dell’ossigeno atmosferico. Invece, sostanze piuttosto economiche e disponibili (clorati metallici sotto forma di soluzione acquosa), che in precedenza erano considerate inadatte a fonti di corrente chimiche a causa della bassa attività elettrochimica, agiscono come agenti ossidanti “, ha concluso Mikhail Vorotyntsev, capo del progetto RSF, dottore in scienze fisiche e matematiche, capo del laboratorio dell’Istituto di chimica fisica ed ecologia dell’Accademia delle scienze russa.

(databaseitalia.it/in-un-ambiente-senzaria-scienziati-russi-hanno-sviluppato-un-nuovo-metodo-per-generare-elettricita-dallidrogeno)

 

 

 

 

Usa vs Cina, con la tecnologia al centro:

le macro-tendenze geopolitiche.

Agendadigitale.eu - Marco Mayer – (08 Gen. 2019) – ci dice:

(Professore straordinario di storia dell'intelligence, corso di laurea magistrale in studi internazionali, Link Campus University.)

 

Usa e Cina sono i due driver globali destinati ad incidere sul futuro del mondo, mentre la Ue non competerà per la privacy perché non è, né sarà, un attore politico.

Vediamo In che direzione si sta muovendo il sistema internazionale nell’epoca dell’iper-connettività.

Il sistema internazionale sta evolvendo verso un nuovo bipolarismo tra Stati Uniti e Cina.

 Si tratterà, però, di una forma diversa di bipolarismo da quella che abbiamo conosciuto dopo la seconda guerra mondiale come esclusiva contrapposizione tra Stati.

Da monitorare attentamente ci sono, infatti, anche i colossi dell’economia digitale, e non solo quelli statunitensi.

Partiamo da una panoramica a maglie larghe sulla politica internazionale e su come le dinamiche di quest’ultima saranno profondamente influenzate dalla quarta rivoluzione tecnologico-industriale.

Le sfide digitali nell’agenda delle grandi potenze.

Negli ultimi anni il panorama mondiale sta rapidamente cambiando per effetto di processi di digitalizzazione sempre più estesi e pervasivi.

Numerose sfide digitali sono già entrate nell’agenda di High Politics delle grandi potenze:

Telecom e 5G, Intelligenza Artificiale e Big Data, futuro del Web e governance di Internet, droni, satelliti e dispositivi dual use per armamenti automatizzati e robotica civile, crypto valute, blockchain e Fintech e nuove dinamiche dell’economia digitale.

Si è, infine, aperta la grande competizione scientifica e tecnologica nelle aree sensibili del quantum computing e dei quantum comunicazioni.

Mentre scriviamo questo articolo i riflettori sono puntati sulle vicende giudiziarie della Huawei – la grande impresa hitech cinese – accusata di frode commerciale e di violazione delle sanzioni con l’Iran.

Il dossier sull’azienda é stato aperto da molti anni, ma in queste settimane in seguito all’arresto di Meng Wanzhou, figlia del fondatore dell’impresa nonché vicepresidente di Huwaei si è aperta una grave frattura diplomatica tra Cina e Stati Uniti.

Il rilascio su cauzione di Meng Wanzhou e la fragile tregua di novanta giorni tra i due contendenti non sembra aver placato le acque.

In tutto il mondo vecchi e nuovi media si interrogano sulle reali ragioni dello scontro: una consistente minaccia alla sicurezza nazionale americana?

Oppure una battaglia della guerra commerciale in corso?

A mio avviso si tratta di domande retoriche: potere di mercato, superiorità tecnologica, potenza militare, capacità di influenza e di intelligence sono tessere di un unico mosaico nel momento in cui la dimensione digitale è diventata pervasiva.

“Superati” da tempo i confini del cosiddetto “V° dominio”, le tecnologie digitali sono onnipresenti e proprio per questo assumono rilevanza strategica in un sistema internazionale sempre più caratterizzato da minacce e conflitti ibridi. Non si tratta (come troppi esperti ancora sostengono) di aggiungere un capitolo ai manuali di dottrina militare come se fosse un nuovo segmento da presidiare (quali ad esempio lo spazio e le relative costellazioni satellitari).

Il punto cruciale è identificare e gestire a proprio vantaggio la miriade di opportunità/vulnerabilità digitali che caratterizzano sia la nostra vita quotidiana (la domotica in primis) sia gli ambienti tecnologicamente più avanzati.

Interpretare la politica internazionale contemporanea.

In che misura le principali teorie su cui si sviluppa la scienza politica e la disciplina delle Relazioni Internazionali sono in grado di descrivere ed interpretare la realtà creata dalla rivoluzione tecnologica in corso?

Le teorie della scuola realista (K. Waltz, ecc.) risultano indubbiamente spiazzate e/o contraddette da almeno due dati di realtà: la minore rilevanza dei confini di Stato ed i flussi di interazione “onlife” tra politica interna ed estera.

Una analoga distanza dalla realtà empirica si riscontra anche nel pensiero di impronta liberale ed in particolare nelle teorie fondate sul concetto di interdipendenza complessa “a geometria variabile” (J. Nye, ecc.).

 

Almeno due fenomeni – peraltro connessi alla rivoluzione digitale – si muovono in direzione opposta:

la profonda crisi della cooperazione multilaterale;

i processi – davvero imponenti – di concentrazione del potere economico, tecnologico e mediatico.

Per ragioni di spazio – in una sede non accademica come questa – non possiamo che limitarci a questi scarsi cenni critici.

Ciò che più ci preme sottolineare è che nessuna delle due principali scuole di pensiero (realista e liberale) è in grado di cogliere pienamente le nuove dinamiche della politica internazionale contemporanea.

Incongruenze rilevanti si riscontrano peraltro anche in altre correnti culturali, sia in quelle costruttiviste (H. Wendt, ecc.) sia nelle posizioni della cosiddetta scuola inglese (H. Bull, ecc.) su cui non possiamo soffermarci.

Come affrontare i limiti di capacità esplicativa delle più affermate teorie di politica internazionale.

La prima raccomandazione è di non azzerare tutto, come spesso accade nelle scienze politiche, economiche e sociali quando esse sono sfidate da grandi cambiamenti.

 A questo proposito viene in mente l’appello di Olivier Blanchard, capo-economista dell’FMI sino al 2015 e autore del manuale di macroeconomia più diffuso al mondo.

 In seguito alla grande crisi del 2007-2008 Blanchard dichiarò: “occorre riscrivere l’intero spartito della macroeconomia”.

Non siamo in grado di stabilire se l’auspicio di Blanchard fosse giusto o sbagliato; ciò che possiamo osservare – per riprendere la sua metafora musicale – che a dieci anni di distanza – non si intravede un “nuovo spartito” in grado di sostituire la macroeconomia mainstream.

Neppure i massici e variegati stimoli monetari non convenzionali (QE) effettuati dalle Banche Centrali hanno spinto verso un ripensamento generale della teoria economica.

Per quanto attiene la scienza politica ed in particolare la disciplina delle Relazioni Internazionali non dobbiamo ripetere la promessa mancata di Blanchard.

 Sarebbe un errore ripetere azzerare tutto e ripartire da zero con il rischio di buttare via il bambino con l’acqua sporca.

La rivoluzione digitale si presenta, invece, come una ottima occasione per rivisitare il patrimonio complessivo elaborato dalle diverse scuole di pensiero e falsificare le proposizioni teoriche che non trovano più riscontro nell’evidenza empirica, come già sommariamente accennato nei paragrafi precedenti.

Una volta operata questa selezione il secondo passo è esaminare il materiale non scartato senza preconcetti, a prescindere dalla sua provenienza accademica (scuola realista o liberale o costruttivista, ecc.).

Nei paragrafi successivi proporrò alcune prime esemplificazioni per meglio illustrare l’ipotesi che ho appena prospettato e che richiede programma di ricerca lungo e assai impegnativo.

L’impatto della rivoluzione digitale sull’arena internazionale.

Il primo tema da affrontare è l’impatto della rivoluzione digitale sull’arena internazionale.

 A questo proposito proponiamo come punto di partenza la formula “no system of law enforceable” coniata da Kenneth Waltz nel lontano 1959.

 Con questa espressione Waltz definisce l’anarchia (a/privativa)] come principio ordinatore del sistema internazionale in opposizione al criterio della gerarchia che caratterizza i sistemi politici interni.

 L’assenza di ordine gerarchico non significa naturalmente che non si determinino gerarchie di fatto tra gli attori del sistema internazionale.

L’ipotesi che intendiamo suggerire è che la rivoluzione digitale confermi – e anzi consolidi – la proposizione di Kenneth Waltz: nel corso degli ultimi tre decenni le tecnologie digitali si sono sviluppate in assenza di un sistema di leggi effettivamente applicabili (“no system of law enforceable among [the States]”).

 Anche i pochi accordi politici bilaterali sono rimasti sulla carta come dimostra in modo emblematico l’intesa in materia cyber siglata dai Presidenti Obama e XI il 25 settembre 2015.

Se il principio ordinatore dell’anarchia conserva la sua validità non possiamo, però, non mettere in luce alcune differenze rispetto all’approccio realista.

L’effetto combinato dei processi di globalizzazione economica e di digitalizzazione rende molto difficile applicare in ambito domestico le regole del diritto interno, soprattutto nei paesi dove è in vigore lo Stato di diritto.

Si determina così un inedito intreccio tra dimensione interna ed esterna degli Stati. Su questo aspetto un prezioso contributo ci viene offerto da due proposizioni della scuola liberale:

la diversa natura dei regimi politici può influenzare in modo rilevante i comportamenti degli attori nell’arena internazionale (teoria della pace democratica, ecc.); la politica interna può incidere in modo significativo la politica estera.

Un terzo fattore utile si può evincere dalle correnti costruttiviste.

 La rivoluzione digitale non ha un impatto omogeneo in tutti i paesi; pertanto culture, tradizioni storiche e linguistiche, sensibilità religiose influenzano le modalità con cui le società nazionali si adattano al mutamento tecnologico.

 Per illustrare questo ultimo aspetto mi limiterò ad un esempio; in alcune società asiatiche per l’individuo la reputazione sociale è un must assoluto, mentre nelle realtà occidentali l’ago della bilancia pende di più verso i bisogni e i diritti dell’individuo.

Le conseguenze dell’anarchia.

Il pensiero realista non si limita ad indicare l’anarchia come principio ordinatore del sistema internazionale, ma ne sottolinea anche le conseguenze.

 

Gli attori politici pensano innanzitutto a garantire la propria sicurezza, potenziando il proprio potere e perseguendo alleanze di carattere strategico con altri attori.

Quando parliamo di potere facciamo riferimento all’insieme delle sue possibili declinazioni: al potere della forza, al potere di mercato, al potere della tecnologia, al potere delle idee.

Per una analisi accurata del differenziale di potere sarebbe necessario tener conto di molteplici fattori: dimensione territoriale e demografica, risorse naturali, clima e localizzazione geografica, PIL e reddito pro/capite, aspettative di vita e livelli di istruzione, armamenti nucleari e spese per la difesa, capacità tecnologiche, ecc.

 Ai fini del nostro discorso non serve, tuttavia, una classifica dettagliata della distribuzione del potere tra le innumerevoli unità statali che compongono l’odierno sistema internazionale.

Per un panorama a maglie larghe della politica internazionale è sufficiente prendere in esame le relazioni tra gli attori più influenti e potenti.

Sono queste relazioni che definiscono gli assetti del sistema internazionale e che – per riprendere un’espressione di matrice realista – spingono nella direzione dell’equilibrio di potenza (o all’opposto ad una sua rottura in chiave bellica).

Il bipolarismo USA–URSS non spiega tutto ciò che è accaduto nelle relazioni internazionali tra il 1946 ed il 1991, ma non tenere in debito conto il bipolarismo nelle sue diverse declinazioni (guerra fredda, equilibrio del terrore, distensione, trattati di non proliferazione, ecc.) aumenta in modo esponenziale i margini di errore degli studiosi.

In che direzione si sta muovendo il sistema internazionale in un’epoca caratterizzata da un’inedita velocità e potenza delle comunicazioni e da una iper-connettività senza precedenti?

Nel 2008 in un noto articolo su Foreign Affairs Richard Hass ha teorizzato il graduale passaggio dall’assetto unipolare seguito al crollo dell’Unione Sovietica alla nuova dimensione di un mondo apolare – ovvero privo di poli e caratterizzato dalla frammentazione del potere tra numerosi soggetti.

Altri studiosi, viceversa, hanno ipotizzato una tendenza multipolare come effetto della entrata in scena dei paesi emergenti (Cina, Brasile e India in primis) e riemergenti (la Russia).

Ambedue queste ipotesi – a nostro avviso – sottovalutano la rilevanza di due fattori:

nella realtà contemporanea è soprattutto la superiorità tecnologica (molto costosa e non solo in termini finanziari) a fare la differenza;

lo scenario è completamente diverso dall’originario modello “artigianale” della Silicon Valley.

Il primato tecnologico si può mantenere (o contendere) soltanto sulla base di una pianificazione pluriennale di ingenti investimenti pubblici e privati.

All’interno di questo scenario – come vedremo meglio in seguito – un fattore determinante per conquistare la privacy è rappresentato dal ruolo dello Stato, o meglio dal tipo di relazione che intercorre tra gli Stati e grandi aziende strategiche.

Un assetto mondiale tripolare (ma senza l’Europa).

Sulla base dei dati disponibili – per ragioni diverse – né l’India né il Brasile hanno la possibilità di competere per la privacy.

 In linea puramente teorica l’Unione Europea avrebbe le potenzialità per aspirare ai vertici della classifica.

In realtà la UE non può perché non è – né lo diventerà a breve – un attore politico.

Più che un attore essa sembra avere piuttosto le caratteristiche di un’arena in cui grandi potenze extracomunitarie tentano di accrescere la loro influenza in alcuni settori strategici di primaria importanza (Stati Uniti/difesa; Russia/energia; Cina/reti e device digitali).

Per queste ragioni alcuni studiosi (soprattutto quelli che prediligono una visone euro- asiatica) ritengono che – conclusa la fase post-guerra fredda – si profili un assetto mondiale tripolare con gli Stati Uniti, la Cina e la Russia in posizione preminente.

In questa prospettiva gli osservatori si chiedono anche se la formula “America First” lanciata dal presidente Trump preluda ad un ridimensionamento (relativo) del ruolo degli Stati Uniti negli affari mondiali ed in caso affermativo quale sia l’effetto sugli alleati tradizionali (Canada, Australia, Regno Unito, Giappone, Germania, Italia, ecc.).

 Da un lato questi paesi in nome dei valori democratici potrebbero accrescere il loro ruolo nella difesa dell’ordine internazionale liberale, dall’altro potrebbero agire come free riders allentando i loro tradizionali legami con gli Stati Uniti e sentendosi più liberi di cooperare con Mosca e Pechino sulla base dei rispetti e spesso divergenti interessi economici nazionali.

Le relazioni sino-americane.

Prima di rispondere a questo dilemma occorre tuttavia valutare se l’ipotesi tripolare abbia una effettiva consistenza e per farlo è necessario innanzitutto accennare brevemente alle relazioni sino-americane.

L’apertura di Washington nei confronti di Pechino matura lentamente durante la lunga fase di contrapposizione ideologica, politica e militare tra USA e URSS tra il 1946 e il 1991.

Nella seconda metà degli anni Sessanta l’attenzione di Kissinger e Nixon nei confronti della Cina nasce come reazione alle crescenti ambizioni “globali” della politica estera sovietica, ed in particolare si pone gli obiettivi di contrastare l’influenza sovietica in Asia e di affrontare le crescenti difficoltà militari nel continente, innanzitutto in Vietnam. Già nel 1967 Richard Nixon aveva pubblicato su Foreign Affairs un primo messaggio in questa direzione.

Alla fine degli anni Sessanta apparve necessario un salto di qualità sia rispetto alla politica di contenimento suggerita da George Kennan sia alla successiva fase di escalation nucleare e di contrapposizione politico-culturale in termini di soft power.

 Da allora i contatti sino-americani si sono progressivamente intensificati. Non sappiamo nei dettagli quanto l’apertura americana abbia favorito le coraggiose scelte di Deng Xiao Ping, ma nei report della CIA dell’epoca si segnala spesso l’esigenza di non indebolire la posizione di leadership di Deng all’interno del Politburo; evitando – per esempio – una sovraesposizione statunitense su Taiwan.

Nei quaranta anni che ci separano dalle scelte di modernizzazione della Cina possiamo distinguere due fasi ben distinte.

Sino alla caduta del muro di Berlino il bilanciamento diplomatico e militare nei confronti dell’URSS appare decisamente il profilo dominante.

Basti pensare che nel 1980 prende corpo una clamorosa iniziativa sino-americana per il monitoraggio dei test missilistici sovietici con la realizzazione nella regione cinese del Xin Xiang di una stazione di rilevazione elettronica.

 Nella fase successiva le relazioni tra Cina e Stati Uniti si concentrano maggiormente sugli aspetti finanziari e commerciali.

Nell’ottobre del 2000 il Presidente Clinton vara il U.S. China Relations Act garantendo a Pechino la normalizzazione dei rapporti commerciali con gli USA e aprendo di fatto la strada all’ingresso della Cina nel WTO.

Le conseguenze non si fanno attendere.

 Nel 2006 la Cina diventa il secondo partner commerciale degli Stati Uniti e nel 2008 la Cina diventa il primo creditore per volume di acquisti di T-bond americani.

Con qualche approssimazione potremmo affermare che negli ultimi due decenni tra i due paesi nasce un rapporto di interdipendenza fondata su due pilastri: gli Stati Uniti favoriscono la politica mercantilistica della Cina, la Cina finanzia il debito americano.

A questi aspetti è doveroso aggiungere un altro fenomeno di grande rilevanza: la cooperazione inter-accademica sempre più intensa tra i due paesi.

 Oltre 300.000 giovani cinesi studiano negli atenei americani (quasi il 50 per cento in discipline ad alto contenuto tecnologico);

contemporaneamente si sviluppa un crescente e consistente interscambio tra docenti e ricercatori (soprattutto in ambito computer science e telecomunicazioni) nonché progetti comuni di ricerca, spesso finanziati da aziende cinesi.

Dall’inizio del millennio l’intensità delle relazioni bilaterali tra Stati Uniti e Cina cresce sino ad assumere una rilevanza sistemica; essa tuttavia non intacca la primacy della superpotenza americana nel sistema internazionale.

Negli ultimi anni, invece, la Cina ha deciso di compiere un catch up accelerato sia sul piano della ricerca tecnologica più avanzata (per esempio nei settori dell’Intelligenza Artificiale, Big Data e Quantum Computing e Communication) sia in termini di espansione economica internazionale con il lancio del progetto Via della Seta (o BRI).

Solo nel 2018 l’investimento cinese per le infrastrutture per il BRI è stato pari a 80 miliardi, quasi il doppio dell’anno precedente; l’interscambio complessivo con i paesi partner del progetto si avvicinerà presto ai mille miliardi di dollari.

Forse per questo il clima tra Stati Uniti e Cina è decisamente cambiato come testimoniano le accuse americane per le operazioni di spionaggio industriale (e per i cyber attacchi che mettono a rischio la sicurezza nazionale americana), nonché le pesanti misure protezionistiche assunte dalla amministrazione Trump.

Le preoccupazioni del Dipartimento di Stato per i rischi di spionaggio sono state ufficializzate in un comunicato ufficiale del 20 dicembre 2018.

In questo clima di tensione l’interscambio scientifico e culturale tra i due paesi sta subendo un rallentamento e da ambo le parti è visto con crescente sospetto.

 In una recente intervista a Technology Review, una delle più note riviste del MIT, il Professore Yasheng Huang – originario di Pechino – che insegna da anni alla Sloan School of Management del MIT ha dichiarato:

Quelle mosse le considero più dannose per gli Stati Uniti rispetto alla Cina. Se guardi al MIT, molte ottime ricerche vengono fatte insieme a studenti laureati cinesi e professori cinesi.

Una volta interrotto, ciò avrà un grande impatto sulla ricerca all'avanguardia.

La loro logica è che ci sono spie cinesi. Non dirò che non ce ne sono.

Ma è come dire "Ci sono criminali, quindi dovremmo bandire gli esseri umani".

È una questione di legge e ordine. Dovresti rafforzare la vigilanza e i controlli, piuttosto che impedire ai cinesi di venire qui.

Nonostante le critiche del Professor Huang all’amministrazione americana il quadro sembra subire un ulteriore deterioramento, le relazioni bilaterali diventano più difficili, e talora – come nel caso Huwaei citato all’inizio di questo articolo – apertamente conflittuali.

Una visione sin troppo pessimistica dello scontro in atto tra Washington e Pechino è quella sostenuta dall’ex Ministro del Tesoro Jack Paulson che nel novembre 2018 in un discorso pronunciato a Singapore nel corso del Bloomberg New Economy Forum ha sostenuto che il gelo di queste settimane prelude alla nascita di una cortina di ferro tra Stati Uniti e Cina:

"Ora vedo la prospettiva di una cortina di ferro economica, che erige nuovi muri su ogni lato e disfa l'economia globale, come l'abbiamo conosciuta".

Gli Usa e il dark side dell’universo cyber.

Cosa ha determinato questo brusco cambiamento?

 A nostro avviso un fattore esplicativo (non valutato con sufficiente attenzione dagli analisti) è che la rivoluzione digitale ha colto la classe politica americana complessivamente impreparata.

Le narrazioni ottimistiche dei colossi della Silicon Valley (si pensi al libro di Eric Schmidt del 2013) hanno incantato Casa Bianca e Congresso.

 In verità una maggiore sensibilità in materia si è potuta osservare al Pentagono già dal 2012 all’epoca del generale Dempsey che tuttavia all’epoca non riuscì a convincere il Senato ad adottare misure adeguate di cyber security).

Per riprendere l’espressione del Professore Isaac Ben Israel il “dark side” dell’universo cyber è stato sottovalutato; in particolare i crescenti rischi per la sicurezza nazionale americana.

In questa sottovalutazione ha certamente pesato il cosiddetto “Snowden effect” ed i timori per l’onnipotenza della NSA (più apparente che reale per effetto della nebbia creata dal Overland informativo).

In tempi più recenti negli Stati Uniti tutti hanno sottolineato l’importanza della cyber security e del cyber defense, ma nella pratica si è guardato alla dimensione cyber esclusivamente come la nascita di un nuovo dominio da gestire.

 Non si è compreso quanto la visione prevalente del V° dominio sia riduttiva; la rivoluzione digitale è trasversale e pervasiva, essa coinvolge e “stravolge” tutti i domini.

Forse con la nomina di Patrick Shanahan (appena nominato da Trump al Pentagono) le cose potrebbero cambiare.

“Most of everything we do is software driven” con questa frase il nuovo capo del Pentagono ha colto finalmente il punto cruciale!

Sarà interessante vedere se il Ministro Shanan avrà più fortuna del Generale Dempsey e l’Amministrazione riuscirà ad agire di conseguenza adottando contromisure adeguate.

Digitale, le quattro aree di vulnerabilità strategica.

Per restare in ambito militare è utile ricordare che la sfida digitale comporta almeno quattro aree di vulnerabilità di carattere strategico:

la dipendenza del comparto militare da infrastrutture critiche civili (spesso gestite da imprese private);

la grande difficoltà a controllare la sicurezza nel complesso supply chains che alimentano le industrie della difesa;

la fragilità intrinseca (innanzitutto per il fattore umano) connessa all’interconnetività di reti e hub interforze estese livello globale (dai vettori spaziali ai sottomarini), peraltro in numerosi casi collegate anche alle forze militari di paesi alleati;

l’intreccio inestricabile tra dimensione militare e civile nei progetti di ricerca più avanzati nonché la produzione davvero massiccia di programmi, piattaforme e apparati dual use.

Esiste, infine un dilemma etico-politico che coinvolge l’applicazione della AI ai dispositivi militari con l’obiettivo di rendere automatiche – senza filtro umano – le risposte difensive e offensive del potenziale di fuoco pianificato nei software che “comandano” i più diversi armamenti.

Un dilemma che come ha sottolineato recentemente il Generale John Allen – Presidente di Brookings – presto coinvolgerà l’opinione pubblica nei paesi democratici cosi come avvenne in materia all’epoca dei dilemmi nucleari.

 Per inciso è probabile che su questa materia vedremo entrare in azione anche sofisticate campagne di influenza e disinformazione da parte di paesi ostili che cercheranno con abituale abilità di soffiare sul fuoco nell’intento di indebolire l’Alleanza Atlantica e altri paesi alleati degli Stati Uniti.

“Centralità del software”, la lungimiranza della Cina.

La centralità del “software”, la rilevanza militare e implicazioni economiche della rivoluzione tecnologica sono stati compresi con maggiore anticipo dalla classe dirigente cinese, meno abituata a “twittare”, ma più educata a ragionare strategicamente.

Essa è peraltro molto facilitata dal regime politico in cui opera.

Senza i costi della democrazia, in assenza di valori come la privacy, con il predominio delle aziende e dei sussidi di Stato, con barriere di sbarramento alle imprese straniere, con un massiccio intervento pubblico a sostegno della ricerca e delle startup non è poi così difficile far correre più veloce la tecnologia rispetto ai paesi democratici.

Il miracolo economico della città di Shenzen – molto avvantaggiata dalla prossimità di Honk Kong – probabilmente resterà l’emblema della crescita esponenziale della ricerca tecnologica cinese.

Tuttavia, occorre anche considerare il rovescio della medaglia.

I tanti fattori che hanno favorito il Dragone presentano alcuni risvolti negativi soprattutto in termini di trust.

L’eccesso di protezione governativa genera diffidenza; la non protezione della proprietà intellettuale può allontanare i migliori talenti, la chiusura ad aziende estere produce ritorsioni.

Un altro aspetto mina la fiducia.

L’uso spregiudicato di informazioni digitali da parte del governo consente un controllo penetrante sulla vita lavorativa e privata dei cittadini e rafforza all’esterno l’immagine di un paese illiberale in cui le élite del partito continuano a dominare la scena come recentemente ribadito dai massimi vertici politici a partire dalle dichiarazioni del Presidente XI.

John Gartner, Vice-President of International Corporate Affairs ha fotografato la situazione in termini piuttosto chiari:

“Non c'è dubbio che come azienda cinese devi lavorare di più per dimostrare che le tue intenzioni sono autentiche.

Il play book digitale cinese è stato in grado di mostrare l'Occidente in varie aree, in gran parte grazie alla sua ampia strategia, alla profonda esperienza dei consumatori e all'accesso al supporto del governo, la vera domanda è se le aziende cinesi avranno lo stesso successo sui mercati esteri.

 Possiamo sapere una cosa con certezza: Baidu, Alibaba e Tencent di certo non moriranno meravigliati”.

L’influenza di Usa e Cina sul futuro del mondo.

Come si evolveranno le relazioni tra Washington e Pechino nel prossimo decennio (in termini di cooperazione/ competizione/ conflitto) non è oggetto di questo articolo.

 Ciò che viceversa abbiamo documentato nei precedenti paragrafi – sia pur succintamente – dimostra in modo chiaro è che Cina e Stati Uniti sono e saranno due driver globali destinati ad incidere sul futuro del mondo.

Non tutto dipenderà da loro (né dall’andamento delle loro relazioni né dalla loro interdipendenza), ma saranno queste grandi potenze a plasmare le tendenze di fondo non solo sul piano economico e tecnologico, ma anche sul piano politico, il piano dove la distanza appare davvero incolmabile almeno nel breve e medio periodo.

Da un lato, con Trump o senza Trump, gli Stati Uniti hanno metabolizzato da secoli i valori dello Stato di diritto: libere elezioni, multipartitismo, separazione dei poteri, libertà dei media, diritti delle minoranze, multiculturalismo, libera iniziativa privata senza limiti dimensionali o settoriali.

Dall’altro lato la Cina è un paese che ha alle spalle una grande tradizione storica e culturale, è abituata a muoversi a livello internazionale con una forte visione strategica e a compiere a livello domestico coraggiose scelte di modernizzazione.

Tuttavia, sul piano politico questo grande paese è saldamente ancorato alla centralità del partito unico (come spina dorsale del sistema di governo) nonché caratterizzato, come accennato in precedenza, da una cultura politica di tipo tradizionale in cui il valore della reputazione sociale dei cittadini prevale sui loro desideri di libertà.

 Per quanto all’avanguardia sul piano tecnologico la Cina è una realtà sociale e culturale lontana dai valori liberaldemocratici con cui siamo abituati a convivere in Europa e negli Stati Uniti.

Rivoluzione digitale e democrazia.

Come abbiamo sostenuto in più di un’occasione alcune caratteristiche della rivoluzione digitale non vanno molto d’accordo con la democrazia.

 Esse potrebbero avvantaggiare lo sviluppo di un modello di società come quello cinese e forse persino favorire il diffondersi nel mondo di variegate modalità di totalitarismo digitale.

Ma non è detto.

Facciamo per un attimo riferimento ad un piccolo esempio. In queste settimane si discute sui ritardi di Hong Kong rispetto a Singapore nella digitalizzazione del sistema giudiziario.

È solo un episodio minore, ma al tempo stesso possiamo considerarlo un ottimo indicatore di quanto le grandi burocrazie del Dragone possono costituire un ostacolo ai processi di innovazione tecnologica.

Tecnologia e burocrazia spingono in direzioni divergenti perché l’innovazione digitale mette in discussione la compartimentazione organizzativa e le conseguenti posizioni di potere del ceto burocratico e in occasione di una lotta di potere all’interno della leadership potrebbe almeno in teoria dinamizzare il centralismo democratico dello stesso partito comunista.

E poi c’è un altro aspetto fondamentale di cui tener conto: il fattore umano, in particolare l’esigenza di libertà e di qualità della vita.

Per primeggiare sul piano scientifico e tecnologico occorre attrarre talenti da tutto il mondo; nonostante gli incentivi finanziari alcuni tratti illiberali della realtà cinese potrebbero scoraggiare questo processo di attrazione.

Nei prossimi anni vedremo quale sarà l’esito di questa avvincente sfida tra le due maggiori potenze e sarà anche possibile comprendere quali paesi si avvicineranno alla Cina (è uno dei dilemmi della Russia) e chi invece privilegerà la cooperazione con le democrazie euro atlantiche.

Ma se questo è lo scenario è davvero difficile sostenere ipotesi che il mondo abbia un assetto apolare come ha sostenuto Richard Hass.

Considerando il peso così significativo degli Stati Uniti e della Cina nel sistema internazionale è davvero difficile sostenere l’assenza di poli.

 Si può discutere se gli Stati Uniti vogliono continuare a fare i gendarmi del mondo oppure discettare su quanto ancora durerà il primato degli Stati Uniti sul piano tecnologico e militare.

 Lo stesso cale sul versante cinese.

Si possono nutrire dubbi sulla volontà della leadership di assumersi responsabilità globali a 360 gradi.

Ma qui non facciamo riferimento alle volontà soggettive delle élite politiche di Washington o di Pechino, ma a peso oggettivo.

Nel sistema internazionale contemporaneo – anche per effetto della rivoluzione digitale – la presenza di almeno due grandi di poli di attrazione e di influenza quali gli Stati Uniti e la Cina è un dato di fatto che possiamo osservare nella vita di tutti i giorni e da cui non si può prescindere.

La domanda da porsi è un’altra.

Esiste un terzo paese che presenti caratteristiche simili, tali da costituire almeno potenzialmente un terzo polo?

 Senza una entità statuale con queste caratteristiche è impossibile immaginare l’assetto tripolare a cui abbiamo accennato nei paragrafi precedenti.

 Della fragilità politico-istituzionale dell’Unione Europea abbiamo già detto, solo l’avvincente progetto degli Stati Uniti d’Europa potrebbe renderlo possibile.

Per quanto attiene ai BRICS oltre alla Cina la Russia è l’unico potenziale candidato.

 Come abbiamo già scritto le nuove sfide tecnologiche e produttive (si pensi al quantum computing) hanno la necessità di essere sostenute da consistenti investimenti pluriennali e grandi laboratori di ricerca che soltanto un numero limitato di Stati e soltanto le grandi aziende possono permettersi.

La Russia di Putin.

Se Vladimir Putin ha conquistato da tempo in Europa e nel mondo l’immagine di un leader abile, popolare e vincente, la Russia di Putin si presenta viceversa come una realtà più fluida, più fragile e più difficile da decifrare.

Alcuni tradizionali punti forza restano consistenti.

Ci riferiamo alla produzione di energia, alle forze armate, alle migliaia di testate nucleari, alla produzione bellica.

Un altro elemento di cui tener conto sono i risultati delle sue azioni militari soprattutto per quanto attiene alle conseguenze nel dominio marino.

 Con la sua azione di forza in Crimea ed in Siria la Russia ha messo in sicurezza le sue basi militari di Sebastopoli e Tartus/Latakia oltre ad accrescere le sue capacità di influenza geopolitica sugli attori del conflitto.

Tuttavia si è trattata in fin dei conti di una politica militare di carattere difensivo. Essa ha peraltro prodotto conseguenze negative: oltre al prezzo delle sanzioni ha anche favorito la fuga da Mosca di consistenti capitali stranieri.

Dopo aver perso una parte molto consistente del suo territorio in seguito al crollo dell’Unione Sovietica e dopo un decennio di caos, con l’avvento di Putin si è cercato di arrestare il declino: non perdere del tutto l’influenza sui paesi confinanti, accrescere la popolarità e l’influenza di Putin nella politica europea con il supporto ai partiti populisti/sovranisti, bloccare l’espansionismo di NATO e UE e tentare un rilancio della politica estera della Russia con una maggiore presenza nell’artico, in medio oriente, nella sponda sud del mediterraneo ed in alcune ex repubbliche sovietiche in Asia.

 

A nostro avviso tuttavia questi elementi non sono sufficienti per fare della Russia una grande potenza in grado di operare su scala globale.

L’eccesso di dipendenza dal prezzo delle risorse energetiche (tipico dei cosiddetti petrostates), la fragilità e debolezza del rublo, l’arretratezza della base industriale e i ritardi sul piano tecnologico fanno presumere che il gap della Russia con la Cina e con gli Stati Uniti sia destinato a crescere.

Ciò che, inoltre, appare difficile da capire (forse la debolezza finanziaria) è perché il paese, la sua classe dirigente, le sue aziende strategiche non riescano a stare al passo con la rivoluzione tecnologico-industriale che sta trasformando il mondo. In ambito digitale – sulla base della lunga esperienza del KGB – la Russia ha dimostrato notevoli abilità nel muoversi nel social layer del Cyberspace: comunicazione, capacità di mimetizzazione, trolls, campagne di disinformazione, ecc.

Meno chiare sono le reali capacità della Russia nelle nuove applicazioni militari di AI e nei cyber attacchi di tipo più avanzato, ambito, quest’ultimo nel quale sembra che la Russia abbia operato con qualche efficacia nel corso conflitti recenti (Georgia, Ucraina). Il 1° settembre 2017 il Presidente Vladimir Putin in occasione dell’apertura dell’anno scolastico ha dichiarato:

“L'intelligenza artificiale è il futuro, non solo per la Russia, ma per tutta l'umanità. Presenta opportunità colossali, ma anche minacce difficili da prevedere. Chiunque diventi il ​​leader in questa sfera diventerà il sovrano del mondo”.

Tuttavia, il presidente ha detto che non gli sarebbe piaciuto vedere

“chiunque monopolizzi il campo”.

“Se diventiamo leader in questo settore, condivideremo questo know-how con il mondo intero, allo stesso modo in cui condividiamo oggi le nostre tecnologie nucleari. "

È difficile decodificare le ragioni di quel messaggio.

Potrebbe essere un discorso rivolto all’interno: ai militari, alla comunità scientifica ed alle aziende russe per segnalare il loro ritardo e stimolarli ad un catch up accelerato.

Questa tesi potrebbe essere avvalorata – secondo quanto sostiene un recente report dell’ufficio studi del Congresso americano – dal fatto che la ricerca tecnologica russa (rispetto agli Stati Uniti e la Cina) sarebbe più indietro proprio in materia di Intelligenza Artificiale.

“Nonostante le aspirazioni della Russia, gli analisti sostengono che potrebbe essere difficile per la Russia investire in modo significativo in questi programmi. Alcuni analisti sottolineano che l'industria tecnologica russa non è abbastanza sofisticata per produrre applicazioni di intelligenza artificiale alla pari con gli Stati Uniti o la Cina.

Solo un russo è entrato nel recente elenco di "AI Influencer" globali di IBM e gli strumenti di intelligenza artificiale prodotti dalle startup russe sono generalmente inferiori agli sviluppi di società comparabili negli Stati Uniti e in Cina.

 I critici di questa posizione ribattono che la Russia non è mai stata un leader nella tecnologia Internet, ma ciò non le ha impedito di diventare una forza sostanzialmente dirompente nel cyberspazio.

 Inoltre, la posizione russa su LAWS sembra essere incoerente. Sebbene l'agenda di ricerca russa possa indicare un'enfasi sui sistemi d'arma autonomi, individui all'interno dell'establishment militare russo e leader dell'industria della difesa hanno espresso riserve sulla fiducia nei sistemi di intelligenza artificiale per il processo decisionale sul campo di battaglia.

Tuttavia, la Russia potrebbe essere in grado di superare le sue debolezze e preservare un vantaggio unico nella tecnologia dell'IA militare globale se fosse la prima a perseguire in modo aggressivo.

Potremmo continuare con altri esempi, ma sulla base degli elementi disponibili la nostra ipotesi è che la Russia – sia pur in terza posizione – non sia almeno nel breve e nel medio periodo in grado di assolvere il ruolo di superpotenza a cui dichiara di voler aspirare.

La tesi che sottoponiamo ai nostri lettori è pertanto la seguente: il sistema internazionale sta evolvendo verso un nuovo bipolarismo tra Stati Uniti/Cina. Si tratterà, però, di una forma diversa di bipolarismo da quella che abbiamo conosciuto dopo la seconda guerra mondiale come esclusiva contrapposizione tra Stati.

Nelle società digitali in cui stiamo vivendo da qualche anno un ruolo rilevante, almeno nei paesi democratici è svolto dalle grandi aziende private.

Non basterà pertanto guardare solo al governo degli Stati Uniti, ma anche al comportamento – spesso non pienamente allineato e talora apertamente conflittuale – dei colossi digitali multinazionali che hanno base negli Stati Uniti.

Allo stato degli atti in Cina il rapporto Stato/mercato è radicalmente diverso anche per i collegamenti tra partito comunista e aziende.

Tuttavia – a nostro avviso – un attento osservatore oltre a monitorare accuratamente le mosse di IBM, Intel, Amazon, Google, Facebook, Apple, Microsoft, Verizon farebbe bene a non trascurare Alibaba, Baidu e Tencent.

 

 

 

I «Grandi spazi» nel pensiero

internazionalistico di Carl Schmitt.

 

Filodiritto.com – Gabriele Trombetta – (20 Aprile 2021) – ci dice:

 

Il saggio delinea il concetto di ‘grande spazio ’ elaborato da Carl Schmitt nel 1941 e tiene conto delle diverse interpretazioni che ne sono state proposte.

 La nozione, infatti, è sostanzialmente aperta e consente di accedere sia a una prospettiva gerarchizzante che a una visione orizzontale, più confacente alla moderna sensibilità delle relazioni internazionali.

In questa parte, si esaminano gli Stati Uniti nella prospettiva schmittiana. Secondo l’Autore, essi avrebbero elaborato, con la dottrina di Monroe, un’embrionale teoria dei ‘grandi spazi’, successivamente tradita da una torsione universalista.

 La fine della seconda guerra mondiale, dunque, aprirebbe a un nuovo nomos della terra, costruito sul conflitto tra Est e Ovest. Si tratta di una falsa competizione tra monismi animati da una comune filosofia della storia: secondo Schmitt, dal duopolio USA-URSS potrà emergere un unico signore del mondo o, con la creazione di ‘terze forze’, un pluralismo dei ‘grandi spazi’.

1. Gli Stati Uniti, nemico dell’ordine terraneo.

L’ammiraglio Mahan considerava gli Stati Uniti l’isola maggiore, che avrebbe potuto subentrare alla Gran Bretagna nel dominio del mare e, attraverso quell’elemento, del mondo.

Gli Stati Uniti, del resto, non sono soltanto eredi della tradizione marittima e, dunque, industriale anglosassone. Sono anche figli dei puritani inglesi, che fornirono l’energia spirituale per i grandi viaggi oceanici e la conquista di mare e di terra dei gloriosi XVI e XVII secolo.

Questo carattere marittimo, tuttavia, non si manifestò immediatamente nella storia americana. Ciò anche in virtù dell’esigenza dei coloni e poi degli Stati Uniti di conquistare l’ovest. La loro, dunque, fu all’inizio un’epopea terrestre, che, però, si volgeva alla creazione di un’isola. Solo quando la presa del continente fu compiuta poterono volgersi definitivamente ai mari: all’Atlantico prima, al Pacifico poi.

La politica americana è allora pervasa da questa ambiguità: una tendenza alla chiusura isolazionista, una controforza che si proietta invece nel mondo.

Questa duplicità si manifesterebbe anche nella fondamentale dottrina di Monroe, del 1823.

Vi si affermava l’indipendenza del continente americano, respingendo qualsivoglia tentativo di ingerenza delle potenze europee.

 Veniva tracciata una linea, che riservava al nuovo mondo l’emisfero l’occidentale. Gli Stati Uniti si facevano garanti dei Paesi del Centro e del Sud America, di recente liberatisi dalla madrepatria europea.

Veniva istituita una linea di demarcazione – un cordone sanitario – che separava così l’emisfero occidentale dalla corrotta Europa.

In breve, la “Monroe Doctrine” sanzionava un’egemonia statunitense sul continente, tanto da far giungere alla sineddoche per cui l’America vien fatta coincidere con gli Stati Uniti.

Sarebbe questa, ad avviso di Schmitt, la prima teorizzazione del grande spazio (Grossraum), inteso come territorio eccedente i confini nazionali, caratterizzato da affinità politico-culturale, in cui è egemone un Impero, con esclusione dell’intervento di potenze estranee.

Quantunque detentori di questo primo modello storico-concreto di grande spazio, gli Stati Uniti virarono, tuttavia, verso una concezione marittimo-universalista.

È questa una torsione della dottrina di Monroe, interpretata dagli USA come principio abilitante l’intervento ovunque siano in gioco interessi americani. Ne sono testimonianza le posizioni di Wilson e di Roosvelt, icasticamente sintetizzate nella dottrina di Stimson del 1932.

Durante il secondo conflitto mondiale – che per Schmitt si sarebbe declinato in una doppia guerra: quella terrestre, iniziata col conflitto civile spagnolo del ’36, e quella oceanica, scoppiata a Pearl Harbour nel dicembre ’41–, l’Autore concentrò la propria analisi sull’intervento americano.

 Richiamando le tesi di Mahan del 1904, sosteneva che gli Stati uniti sarebbero succeduti all’Inghilterra come superpotenza oceanica, in quanto ‘isola più grande’ in grado di sostenere l’imperialismo marittimo in uno spazio dilatato.

L’Autore si dimostrava però critico rispetto alla decisività dell’entrata in guerra americana, rilevando come gli Stati uniti non potessero essere determinanti a causa delle intrinseche contraddizioni della loro politica, combattuti com’erano tra interventismo e isolazionismo, in un’ambigua lettura della dottrina di Monroe:

 

da decenni, insomma, l’emisfero guidato dagli Stati Uniti vacilla tra tradizione e situation, isolazionismo e interventismo, neutralità e guerra mondiale, riconoscimento e non riconoscimento di ogni nuova situazione.

Pur riconoscendo che gli USA potevano avvalersi sia dell’arma ideologico-concettuale del ‘grande spazio ’ americano, sia della vocazione universale britannica, in un doppio gioco ideologico e pragmatico, secondo Schmitt questa indecisione di fondo rendeva la nuova superpotenza un attore inconsapevole della storia. Né rallentatori – con l’Impero britannico, katechon di ogni mutamento mondiale – né propulsori di un nuovo ordinamento della terra.

Quando abbandonò il terreno dell’isolamento e della neutralità, il presidente Roosevelt si sottomise “nolens volens “al costitutivo orientamento frenante e rallentante del vecchio impero mondiale britannico.

Nel medesimo tempo però proclamò il «secolo americano», per mantenere la traiettoria americana verso il nuovo e il futuro in cui si era mossa la stupefacente ascesa degli Stati Uniti nel XIX secolo.

Anche in questo caso […] il passo oscilla nelle profonde contraddizioni interne di un emisfero che ha perduto il proprio baricentro.

Evidentemente, Schmitt scriveva da tedesco in guerra contro gli Alleati nel 1942: gli americani furono decisivi nel conflitto e confermarono il Novecento come ‘the American century’.

Tuttavia, la critica culturale agli Stati Uniti non cessò: Schmitt non rinunciò mai al suo tradizionale nemico, neppure dopo la sua sconfitta.

Nel Nomos della terra (1950), osserverà come

nel medesimo tempo in cui si iniziava in politica estera l’imperialismo degli Stati Uniti, la situazione interna statunitense vedeva invece terminata l’epoca della sua novità.

Il presupposto e il fondamento di quella che, in senso reale e non semplicemente ideologico, poteva essere detta la novità dell’emisfero occidentale era venuto meno.

Già attorno al 1890 cessò negli Stati Uniti la libertà di conquista interna e si era conclusa la colonizzazione del territorio che era stato fino ad allora libero.

Fino a quel momento era rimasta ancora valida negli Stati Uniti la vecchia linea di confine, che teneva separati i territori colonizzati e territori liberi, ovvero aperti alla libera conquista.

Fino ad allora era esistito anche l’abitante tipico di questa linea di confine, chiamato frontier: colui che poteva spostarsi dal territorio colonizzato al territorio libero.

Ma ora, assieme al territorio libero cessava anche la libertà fino ad allora esistente. L’ordinamento fondamentale degli Stati Uniti, il radical title, si trasformò.

Ad ogni modo, nonostante le valutazioni schmittiane, era indubbio che dalla seconda guerra mondiale fosse sorto un nuovo nomos della terra, sotto il segno delle due superpotenze USA e URSS.

2. Il nomos della cortina di ferro e l’alternativa multipolare.

Già dal 1942 Schmitt aveva evidenziato la specificità della seconda guerra mondiale nel fatto che essa era una guerra per l’ordinamento dello spazio in grande stile, la prima guerra per l’ordinamento dello spazio di proporzioni planetarie.

Non quindi una guerra dentro il nomos, ma una guerra per un nuovo nomos globale.

Concluso il conflitto, non abdicò alle sue categorie interpretative, cercando di leggere la contemporaneità attraverso i concetti di nomos e di grande spazio e l’opposizione terra-mare.

Pur ammettendo l’aleatorietà della distinzione est-ovest, Schmitt osservava come l’emisfero occidentale fosse essenzialmente oceanico, mentre quello orientale terraneo. Rinveniva dunque nuovamente la sua formula terra contro mare, in cui civiltà telluriche orientali si scontrano con quelle marittime occidentali.

Era, tuttavia, certo che la struttura geopolitica binaria fosse per sua natura transitoria, innalzando la tensione internazionale ed umana ad un livello insostenibile.

Secondo l’Autore tre sarebbero stati i fenomeni caratterizzanti un nuovo nomos del secondo dopoguerra: l’anticolonialismo, la presa dello spazio cosmico, l’industrializzazione del terzo mondo.

L’anticolonialismo sarebbe stato fondato, nell’avviso di Schmitt, su una leggenda nera antieuropea, che aveva dipinto l’Europa come aggressore e nemico della pace.

Dietro la coltre ideologica, l’anticolonialismo avrebbe avuto, dunque, una connotazione eminentemente spaziale: suo scopo sarebbe stato di distruggere l’ordine europeo per sostituirlo con un nuovo ordine.

 Ciò sarebbe dimostrato dalla circostanza che sul banco degli imputati sia stato posto il solo imperialismo europeo, mentre analoghe posture aggressive – come quella sovietica – non sono state oggetto della stessa censura.

Ad ogni modo, secondo Schmitt, la weltanschauung anticolonialista avrebbe carattere soltanto ‘negativo’:

non ha la capacità di promuovere in modo positivo l’inizio di un nuovo ordinamento dello spazio.

Al contempo, sarebbe venuta in gioco – per contrappasso – anche la ‘colonizzazione’ del cosmo, secondo la nota azione tripartita di appropriazione, divisione, produzione.

Tuttavia, al centro della visione politica sarebbe rimasta, per il filosofo tedesco, la terra.

Il dominio della terra avrebbe garantito i mezzi tecnici per conquistare il cosmo; e la conquista del cosmo avrebbe assicurato le risorse ideologiche fondamentali per conquistare la terra, il solo vero obiettivo delle potenze in lotta.

La guerra fredda rappresenta, per Schmitt, un conflitto che distrugge tutti i concetti classici del diritto internazionale europeo: la distinzione tra guerra e pace e quella tra nemico e criminale.

L’Autore ha, dunque, schematizzato diacronicamente la guerra fredda in tre fasi.

La fase del “One World” rappresenterebbe il pre-stadio della guerra fredda. In questo periodo, Stati Uniti e URSS – alleati contro Hitler – avrebbero creato un sistema internazionale tendenzialmente unitario, ispirato alla concordia delle due superpotenze.

Ma già nel ’47, al manifestarsi dei primi contrasti tra i due Stati-guida, avrebbe avuto inizio la fase bipolare, segnata dal confronto agonistico tra USA e URSS, con il declino delle tradizionali partizioni guerra-pace e nemico-criminale.

La terza fase consisterebbe, invece, nell’emersione di ‘terze forze’, che avrebbero potuto aprire a un mondo multipolare.

Schmitt si interrogava, così, su quale sarebbe potuto essere il nuovo nomos della terra dopo la guerra fredda:

 la vittoria completa di una delle due parti, con l’affermazione di un impero mondiale, che stringesse terra e mare; una riedizione dello “jus publicum europaeum”, con l’affermazione degli Stati Uniti sullo spazio aereo in luogo del dominio britannico sul mare; o, infine, la creazione di grandi spazi reciprocamente indipendenti.          

 

Riguardo la prima ipotesi, Schmitt manifestò notevoli preoccupazioni, dimostrando – naturalmente – la sua propensione per la terza, quella di un equilibrio dei ‘grandi spazi’.

A suo avviso, l’unità del mondo, implicante il dominio di un solo principio politico sulla terra, sebbene possa apparire desiderabile, non sarebbe concettualmente neutra. Infatti, la signoria esclusiva può essere tanto buona che cattiva.

Schmitt riconosceva come il progresso della tecnica sembrasse favorire l’unità, ma dubitava che il mondo potesse essere ridotto – attraverso il progresso scientifico – a un’entità pienamente dominabile e plasmabile da una sola superpotenza che imponesse il proprio esclusivo nomos.

Riteneva che quale che fosse stato il vincitore si sarebbe aperta un’era di universalismo, sotto il dominio di un’unica superpotenza.

In questo senso, Ovest ed Est apparivano a Schmitt accomunati dalla filosofia della storia, e cioè da una visione escatologica per cui, con il progresso della tecnica e la pianificazione, si sarebbe giunti ad una società ideale (del consumo o della terra elettrificata, rispettivamente).

Questa logica storicista avrebbero tanto i piani quinquennali staliniani, quanto la fede nel progresso della società del benessere occidentale.

Schmitt propendeva, dunque, per la soluzione dei ‘grandi spazi’, che gli sembrava peraltro la più realistica.

Il mondo sarebbe stato troppo grande per contenere solo due ideologie dalla medesima radice, non mancando quelle che potremmo chiamare aree di civilizzazione non riducibili alla dicotomia USA-URSS:

 l’Europa, l’Islam, l’India, la Cina, gli Stati di civiltà ibero-lusitana.

Sarebbero dunque esistite riserve spirituali eccedenti la sola dicotomia Est-Ovest, che avrebbero restituito infine un mondo plurale.

Del resto, come osserva Andrea Mossa, Schmitt rinviene nell’azione internazionale degli Stati Uniti una «tendenza entropica», un nulla-di-ordine che si contrappone a una visione spazialmente regolata della terra.

 In questa prospettiva, potrebbe dunque parlarsi di un moto “entropico e centripeto”, in cui il disordine si sviluppa in ragione di una centralizzazione del potere mondiale nel monopolio di una sola potenza.

Sicché, mentre la Gran Bretagna poteva essere considerata un katechon, una forza ritardante la fine della propria potenza imperiale-coloniale, gli Stati Uniti paiono piuttosto l’Anticristo, che, nel “mysterium iniquitatis”, usurpa il potere divino, imponendo un’unicità coatta e livellatrice di ogni differenza.

Nell’ultima fase del pensiero schmittiano,

“il vinto che scrive la storia” userà parole ben diverse: […] intendendo il nemico non più come avversario irriducibile, da annientare in una battaglia decisiva, bensì come un simile con il quale occorre trovare un’intesa e un confine.

Poiché il nemico è colui che, limitandomi, mi definisce, annientarlo significherebbe annientare me stesso.

 

 

 

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