È un errore dare per scontato libertà e diritti.

 È un errore dare per scontato libertà e diritti.

 

Abbiamo molto da fare.

Comune-info.net - Emilia De Rienzo – (31 Ottobre 2022) – ci dice:

 

È tornata la guerra in Europa. È tornata la destra al governo. Abbiamo dato per scontato molte cose.

Ad esempio che altri al posto nostro avrebbero protetto la conquista di libertà e diritti.

 Che la politica importante fosse quella delle istituzioni e dei partiti. Che fosse essenziale concentrarsi sulla critica al potere e non fare in basso esercizi di autocritica.

Ora abbiamo molto da fare, ogni giorno, in tanti modi diversi: si tratta di imparare a prendere in carica il presente per inventare il futuro.

“Il lavoro di trattativa con Comune e RFI ha portato a una proroga da parte della proprietà…”. La lotta di tanti e tante per salvare Scup, straordinario spazio romano di “Sport e cultura popolare” va avanti “. Intanto godiamoci questa buona notizia

“Il vero inferno è una cosa senza rumore. Esso non delira o infuria, non è una bestia feroce, ma un che, un qualcuno di sordido e molle che s’insinua in noi, quando con noi non nasca, e a poco a poco riempie tutte le nostre cavità, fino a soffocarci. Esso è fatto di giorni inerti… d’infedeltà a noi stessi, di continui cedimenti” (T. Landolfi)

A volte hai la sensazione che tutto crolli, che per quanto ti ribelli, per quanto lotti, o ti dai comunque da fare, nulla cambi, anzi si torni indietro. Quello che avverti è un senso crescente di oppressione. Qualcosa si insinua dentro di te subdolo e silenzioso, intacca il tuo slancio vitale, ti toglie la speranza, la trasforma in pura illusione, ti rende diffidente e impaurito, incapace di prendere qualsiasi decisione.

Allora smorzi i sentimenti, le emozioni, per non soffrire, per trovare un po’ di pace e ti allontani da ogni pensiero che ti possa far male. Ti arrendi. Rinunci.

È ciò che, credo, abbiamo provato in molti in questo periodo in cui ogni riferimento, ogni conquista sta lasciando il posto a una realtà che speravi di non vedere più, almeno qui, nel mondo che avevi la fortuna di abitare.

 È tornata la guerra, qui vicino a noi, inaspettata, violenta, crudele come sa essere qualsiasi guerra.

 E la parola pace sembra risuonare nel deserto, non avere più consistenza, essere una parola astratta che in tanti invochiamo senza sapere come poterla rendere concreta, vera, radicata nelle coscienze, nel nostro modo di essere, di rapportarci agli altri.

È tornata a governarci la destra, quella radicale, quella che vuole che l’istruzione sia meritocratica e selettiva, che promette guerra ai profughi, e battaglia alle Organizzazioni non governative, che vuole riparlare e riformulare i diritti delle donne, degli omosessuali, e vedremo quanto altro.

È così che sento di abitare una realtà troppo lontana da me, dal mio sentire, da quello che sono stata fino a ieri. Vedo svanire quel mondo che ho contribuito nel mio piccolo a realizzare in tanti anni di impegno, di militanza. Sento mettere in discussione quei diritti che prima neanche si potevano sognare, temo che scompaiano nel nulla. Mi ritrovo a vivere una realtà che speravo aver lasciato. Un mondo chiuso agli altri, negato a chi è debole e fragile.

Eppure c’era ancora molto da fare, speravo che si allargassero ancora più spazi di vita, di libertà!

Ancora poco, ancora niente in confronto alle vere necessità di tutti i soggetti in causa. La conquista di quei diritti che oggi vengono messi in discussione era solo l’inizio di un percorso.

Forse abbiamo commesso un errore: abbiamo dato tutto per scontato, abbiamo dimenticato che quegli spazi andavano difesi, presidiati.

Abbiamo dimenticato che solo una comunità solidale poteva farlo, e ci siamo divisi in mille rivoli perdendo di vista le cose essenziali. Abbiamo perso slancio, entusiasmo.

 Non abbiamo saputo tenerci uniti, pronti a vigilare, a reagire. Ci siamo persi.

Forse ci siamo dimenticati che ogni diritto oggi messo in discussione è stato conquistato, nessuno l’ha regalato dall’alto e nessuno lo farà mai.

Non la politica di chi ci governa.

Troppo tempo abbiamo perso a discutere sugli errori di chi è al potere e poco su quelli che stavamo commettendo noi. Abbiamo perso tempo a differenziare le nostre posizioni, in mille discussioni sterili, contrapponendoci, credendoci uno più bravo dell’altro, non trovando più la strada del dialogo, della comunità che ricerca strade, vie per trovare risposte, idee, proposte.

E così abbiamo perso la forza che ha caratterizzato altri momenti della nostra storia, quella appunto che ha saputo strappare quei diritti che sembrava impensabile conquistare. Ci siamo dimenticati che la politica non appartiene a un gruppo ristretto di persone, ma appartiene anche e soprattutto a noi.

Sarebbe bello recuperarla quella forza: andare incontro alla vita così com’è, senza mai tradire noi stessi, quello in cui crediamo, quello che vogliamo essere al di là di quello che succede fuori di noi.

Quella forza che fa sì che là dove siamo possiamo fare la differenza. Quella forza che ci aiuta a non fare della nostra vita “un insieme di giorni inerti”, a perderci a furia “di continui cedimenti”, a fuggire da “quell’inferno senza rumore”.

Tornare a essere fedeli a noi stessi. Rimetterci in movimento, cercare quelli che Nietzsche chiama gli “amici della ricerca e del tentativo”, applicare volontà, fantasia, creatività, per prendere in carica il presente per pensare e inventare futuro.

 

 

 

 

 

 

“Più Inquini più Paghi!”

Problema-Reazione-Soluzione

Conoscenzealconfine.it- (10 Novembre 2022) - Cosimo Massaro – ci dice:

 

Aumento dei Costi Energetici: Tutto secondo i Piani!

L’aumento indiscriminato del costo dell’energia ha alla base una matrice comune, un piano strategico mirato ed orchestrato dai soliti noti, i globalisti luciferini unipolari, per imporre le loro politiche pianificate nelle loro agende programmatiche.

 

Anche in questo caso ci troviamo sempre davanti al solito schema, ormai elementare, PROBLEMA-REAZIONE-SOLUZIONE.

L’attuale aumento del costo dell’energia è il problema che la popolazione tutta, da imprese a famiglie, devono affrontare, di conseguenza si invocano aiuti ad un governo che porrà sul piatto soluzioni già preconfezionate da chi ha orchestrato il tutto.

Nel 2021 la Corte Dei Conti Europea esordiva con una relazione speciale che prendeva di mira l’inquinamento ambientale, dove nel I° punto della sintesi possiamo leggere testualmente:

 “Il principio ‘chi inquina paga’ è un principio fondamentale alla base della politica ambientale dell’Unione europea (UE). In virtù di tale principio, chi inquina è tenuto a sostenere i costi dell’inquinamento causato, compresi i costi delle misure adottate per prevenire, ridurre e porre rimedio all’inquinamento, nonché i costi che questo comporta per la società.

L’applicazione di tale principio fa sì che chi inquina sia incentivato a evitare i danni ambientali e sia considerato responsabile dell’inquinamento causato. È sempre chi inquina, e non il contribuente, a dover sostenere i costi per ripristinare le condizioni originarie dei siti.”

Quindi più inquini più paghi, pertanto chi pagherà di più secondo questo canone?

Se non avrai i soldi per comprarti un’auto elettrica non potrai usufruire dei vantaggi che potranno avere i ricchi, come per esempio non poter più entrare dentro la città di Milano perché il suo attuale sindaco, Giuseppe Sala, ha deciso che le auto diesel euro 4 e 5 potranno percorrere solo un limite massimo di chilometri nell’Area B di Milano e una volta consumati tali chilometri si incorrerà in multe salate.

Quanti lavoratori non potranno più entrare in città, quanti di loro saranno costretti a vivere difficoltà enormi che i ricchi non avranno?

 

Ormai il mantra della questione ambientale è inarrestabile, d’altronde anche Vladimir Soloviev nel “Il racconto dell’Anticristo” scriveva dicendo che l’Anticristo si sarebbe presentato anche come ambientalista e pacifista.

Ormai, dopo il dio “vaccino”, è arrivato il momento del “dio Verde”, quello “green” tanto per essere più alla moda.

(Al di sopra di tutti e di tutto vi è il “dio Klaus Schwab” che si è inventato tutto per condurre l’umanità alla sua distruzione! Ndr.)

Quando scatta un ordine di scuderia, improvvisamente, tutti gli uomini servi dei poteri globalisti unipolari, collocati ai vertici delle varie piramidi del potere, iniziano a rilasciare nello stesso momento le stesse dichiarazioni.

Come nel caso di Ignazio Visco, Governatore della Banca D’Italia, che ha testualmente affermato: “Viviamo in momenti difficilissimi, con rischi di razionamenti, ma non dobbiamo perdere la loro utilità ad accelerare la transizione energetica”.

Un palese spot pubblicitario alla transizione ecologica pianificata presso il “World Economic Forum” di Davos diretto da Klaus Schwab.

Sulla stessa linea è anche il Direttore Generale della Banca D’Italia che vede, con fare positivo, il fatto che i costi dell’energia crescano, perché questo porterà a raggiungere prima gli obiettivi prefissati verso la transizione climatica: “…i prezzi crescano per raggiungere i nostri obiettivi di lungo termine della transizione climatica”.

Quindi, per loro, nessun problema per tutte le infinite aziende e tutte le piccole e medie imprese che chiuderanno in Italia, nessun problema se oltre due milioni di poveri in Italia non saranno più in grado di pagare le bollette. Tutto è funzionale a raggiungere gli obiettivi fasulli prefissati da Klaus Schwab.

L’aumento spropositato dei costi energetici infatti inizia già dal 2021, subito dopo le politiche “ambientaliste” decise a livello europeo, che hanno imposto costi eccessivi per i permessi di emissione CO2.

(Le piante sopravvivono solo se l’atmosfera è ricca di Co2! Ndr)

Come possiamo leggere da un articolo dell’AGI, del 30 dicembre del 2021 dal titolo “Da gennaio la bolletta dell’elettricità aumenterà del 55%, quella del gas del 41,8%” dove all’interno troviamo questo ulteriore passaggio chiarificatore:

 “I nuovi straordinari record al rialzo dei prezzi dei prodotti energetici all’ingrosso (quasi raddoppiati nei mercati spot del gas naturale e dell’energia elettrica nel periodo settembre-dicembre 2021) e dei permessi di emissione di CO2, avrebbero portato ad un aumento del 65% della bolletta dell’elettricità e del 59,2% di quella del gas…”

L’incessante propaganda di guerra che mira a scaricare tutte le colpe a Putin, è un colossale falso.

 Dietro la guerra alla federazione russa, principalmente voluta dai globalisti luciferini unipolari per imporre al mondo le loro ideologie aberranti e per mantenere in piedi la loro moneta debito, ci sono alla fine, in secondo piano, gli oligarchi all’apice delle strutture economiche che fanno enormi affari attraverso la vendita di armi e speculazioni finanziarie sulle risorse energetiche.

Da quando il sistema usurocratico ha preso il predominio del mondo con le guerre, ci sono sempre stati uomini che hanno tratto enormi guadagni.

“E che gioverà a un uomo se, dopo aver guadagnato tutto il mondo, perde poi l’anima sua?” (Gesù Cristo, Vangelo secondo Matteo).

(Cosimo Massaro) cosimomassaro.com/2022/11/piu-inquini-piu-paghi-problema-reazione.html

 

 

 

Democrazia, la religione più pericolosa.

Esperimenti di democrazia cinese.

Unz.com- LARRY ROMANOFF – (9 NOVEMBRE 2022) – ci dice:

Ho scritto in precedenza che il sistema elettorale multipartitico ("democrazia") è l'unica forma di governo progettata per essere controllata da estranei, lasciandolo naturalmente aperto alla corruzione e alla frode.

I cinesi, ascoltando gli americani, hanno scoperto tutte le prove di ciò nel loro stesso cortile.

La Cina ha sperimentato l'introduzione su piccola scala di elezioni democratiche in stile occidentale per i funzionari locali nelle aree rurali.

Spesso ci viene detto che le "prime impressioni" sono le più importanti, che quando incontriamo inizialmente una persona o entriamo in una nuova situazione, lo vediamo più chiaramente in quella prima introduzione.

Con il passare del tempo, le nostre percezioni vengono offuscate e offuscate da fattori estranei e la nostra attenzione dispersa da irrilevanza. All'introduzione della "democrazia" tra i cinesi, l'hanno vista molto chiaramente come era in realtà: un sistema per ottenere il potere politico che chiedeva solo di essere manipolato.

 In effetti, era visto come lo scopo stesso di un tale sistema ed essere stato progettato proprio per tale scopo. Ed esso era.

All'inizio del 2014, a Changsha, culla della democrazia e di molti altri crimini immaginari in Cina, si è verificato un enorme scandalo di compravendita di voti in cui quasi 60 persone sono state accusate di frode elettorale, inosservanza del dovere, interruzione delle elezioni, acquisto di voti, corruzione e relativa corruzione, coinvolgendo più di 500 legislatori e vari funzionari locali del partito che sono stati squalificati e sollevati dai loro incarichi , i loro crimini hanno coinvolto molte migliaia di cittadini e più di 100 milioni di yuan in tangenti.

E questo era solo un caso tra tanti.

Nella provincia di Hebei, nella Cina settentrionale, una città ha avuto due elezioni fallite in un mese, corrotta da acquisti di voti con il doppio dei voti degli aventi diritto, urne rubate e molte altre frodi elettorali.

Molte città e villaggi hanno introdotto elezioni multipartitiche alla fine degli anni '80, con molti problemi simili.

Nel settembre del 2016, c'è stato un enorme scandalo di brogli elettorali nel Liaoning, con più di 500 persone che hanno pagato tangenti per far eleggere gli amici.

L'Assemblea nazionale del popolo cinese ha espulso 45 legislatori, quasi la metà degli eletti dal Liaoning, a causa di corruzione e frode elettorale. Inoltre, più di 500 legislatori sono stati licenziati o si sono dimessi dal Congresso del popolo di Liaoning, composto da 619 membri, e diverse persone sono state arrestate.

Sono rimasto sorpreso che qualcuno fosse sorpreso. Questa è democrazia. È così che funziona.

È stato progettato per essere ampiamente aperto alla corruzione.

In Occidente abbiamo più esperienza, quindi lo facciamo con più calma e in modi diversi, ma il risultato è lo stesso.

Ovunque il denaro possa acquistare potere legislativo, tutti i sistemi aperti verranno corrotti.

I cinesi vedevano la "democrazia" così com'era: un modo per ottenere il controllo di un governo raccogliendo voti.

 Il modo più semplice per raccogliere voti è comprarli, e qui non c'è nemmeno moralità.

Prima di moralizzare sui cinesi, considera che se è giusto che l'AIPAC e le multinazionali comprino i politici, perché non va bene che i politici comprino elettori?

Il prossimo modo più semplice (se sei disposto a essere un po' disonesto) è stampare schede elettorali in eccesso e riempire le urne.

 E non dimentichiamo che il riempimento delle urne era una tradizione negli Stati Uniti e in Canada 200 anni fa.

Ma ancora una volta, con questo “nuovo” sistema politico, ci viene offerto il pieno controllo del governo di una città, con il semplice espediente di farci votare dalla gente.

 Non c'è nessun altro requisito e chiunque può farlo.

È ovvio che qualcuno con soldi e ambizione sarà all'altezza di questa sfida e troverà un modo, onesto o meno, per ottenere quei voti.

Questi sono problemi seri in Cina perché sempre più i re-maker sullo sfondo saranno stranieri. Ebrei, personale del Consolato degli Stati Uniti, membri del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, funzionari dell'ambasciata che sono della CIA ma travestiti da diplomatici, NED, USAID, AmCham e dozzine di ONG americane, stanno tutti spendendo soldi e lavorando in background per influenzare il governo in Cina.

Questa è la verità, e se è evidente per me dovrebbe esserlo per molti altri.

Il loro successo a Hong Kong è sbalorditivo; gli americani hanno ottenuto un'enorme influenza sul panorama politico di Hong Kong e sono così intelligenti ed esperti che le centinaia di migliaia di piccoli burattini di Hong Kong non riescono nemmeno a vedere i fili.

E hanno tutte le intenzioni di fare lo stesso nella Cina continentale.

Democrazia dell'asilo.

Ma questi esempi non erano niente in confronto a quanto accaduto alla “Chunhui Primary School” di Zhengzhou, dove 1.700 bambini piccoli hanno imparato lezioni sulla “democrazia” che purtroppo non dimenticheranno mai.

Questi studenti avevano un sistema "arretrato, vecchio stile, tradizionale, in stile cinese" per scegliere i leader degli studenti in cui la selezione era basata su cose stupide come il merito scolastico e le raccomandazioni degli insegnanti sul carattere.

 Ma, grazie alla pressione americana, "hanno alterato la loro tradizione" e si sono invece rivolti alla moderna "democrazia" in stile occidentale.

E come ha funzionato? Ebbene, uno studente (con un curriculum scolastico molto scarso) è stato scelto come leader perché era "bravo nel basket" ed era "amichevole".

E come si sono fatti eleggere? Bene, hanno imparato a condurre campagne elettorali democratiche, proprio come tutti gli occidentali. Secondo i media, "Alcuni suonavano il sassofono, altri ballavano e altri mostravano le loro abilità di calligrafia o pittura, suonavano strumenti musicali tradizionali cinesi per impressionare gli elettori".

Una madre era così ansiosa di fare del suo bambino un re che ha stampato più di 1.000 graziose cartoline elettorali blu con il suo nome, chiedendo a tutti di votare per lui.

Il preside della scuola, Hu Jianling, ha affermato che il programma mirava a incoraggiare gli studenti a “esprimere coraggiosamente le proprie idee” e a “partecipare alla gestione della scuola”.

Secondo l'opinione della scuola, questi leader studenteschi hanno dimostrato il piano di Hu "efficace e forse anche vantaggioso".

Esaminiamo cosa è successo davvero qui.

 Non voglio mettere in imbarazzo il signor Hu, che sono sicuro sia un bravo gentiluomo con buone intenzioni, ma che razza di diavolo possedeva quest'uomo che pensava fosse una buona idea convincere 1.700 bambini di 10 anni a "coraggiosamente partecipare alla gestione della scuola”?

 Cosa diavolo pensa che sia una scuola?

In questo esperimento in questa scuola, possiamo vedere tutti i patetici difetti della democrazia occidentale, difetti apparentemente invisibili agli insegnanti, ai genitori e soprattutto agli studenti che hanno imparato una lezione di vita corrotta che probabilmente non dimenticheranno mai.

Se vuoi corrompere la popolazione, è sempre meglio cominciare dai bambini, perché ciò renderà permanente la corruzione.

Primo, qual era lo scopo di queste elezioni? Dovrebbe essere selezionare la persona più competente per un lavoro che comporti responsabilità per gli studenti, ma da nessuna parte in nessuna di queste piccole parodie dell'asilo c'era nemmeno un accenno di competenza o responsabilità.

Nessuno.

Questi piccoli politici volevano essere eletti solo perché volevano essere eletti, non perché avessero capacità o volessero realizzare qualcosa di utile per i loro compagni di scuola.

Non ci sono stati studenti che si sono battuti per eliminare i compiti eccessivi o per avere bagni più puliti o più tutoraggio dopo la scuola.

Volevano solo essere leader e avere il potere e il prestigio che li accompagnavano, senza pensare a nessun obbligo coinvolto.

Ancora peggio, come hanno fatto campagna questi piccoli politici? Come si sono comportati per convincere il loro elettorato a votare per loro?

Bene, "hanno sfruttato la loro popolarità personale"" dal bell'aspetto o dall'abilità sportiva, o dai soldi del padre per l'acquisto di bei vestiti e belle biciclette.

Hanno "sfruttato la loro capacità di intrattenimento" suonando il sassofono o altri strumenti.

 Hanno "sfruttato le loro capacità di pittura e calligrafia" e senza dubbio hanno trovato molti modi fantasiosi di 10 anni per correre per la scuola chiedendo voti. Che meraviglia.

 La madre che ha pagato per stampare i simpatici cartoncini blu per far svenire il suo bambino, la prossima volta avrà una banconota da 5 yuan attaccata.

Quei ragazzini hanno imparato che l'unica vera qualifica per diventare un leader e prendere il potere è un talento per la manipolazione psicologica, che le credenziali vengono ignorate per ottenere voti.

Sono questi gli ingredienti primari di un buon leader? È così che la Cina sceglie il suo Segretario Generale e i membri del Politburo?

 Si siedono in piazza Tiananmen e suonano un sassofono o una chitarra o dipingono ritratti caricaturali di turisti? È così che gli americani scelgono i loro leader, ma perché insegnarlo ai bambini cinesi come un ideale?

Ma questo era solo il primo tentativo e i nostri piccoli politici non avevano esperienza a cui attingere.

 Faranno molto meglio la prossima volta.

 Impareranno rapidamente che puoi acquistare voti e inizieranno a raccogliere piccole somme di denaro per distribuire più di simpatiche carte blu a chiunque prometta di votarle.

Impareranno che puoi attirare voti facendo promesse, non mantenendole, ma facendole.

Quindi, promettono di ridurre i compiti, senza idea di come farlo e con la consapevolezza che non hanno il potere di ottenere un tale risultato in ogni caso. Ma promettono, almeno per provare.

Impareranno di avere il potere di concedere doni di patrocinio e prometteranno di inserire elettori popolari in comitati, con l'aspettativa che questi individui aiuteranno a influenzare gli altri elettori.

 Prometteranno di lavorare per standard di valutazione più facili, pranzi scolastici migliori e molte altre cose che i candidati intelligenti sapranno essere questioni fondamentali per tutti gli studenti.

Impareranno a leggere i desideri del corpo studentesco e a trasformarli in voti e potere personale. Impareranno presto a diventare dei veri politici. In breve, impareranno a mentire e manipolare.

Sanno già che un anno scolastico è lungo e che i bambini hanno la memoria corta; sanno intuitivamente che non saranno ritenuti responsabili per la mancata consegna, e sanno anche che non c'è comunque alcuna responsabilità, che dopo essere stati eletti, nessuno può far loro nulla. Se ci fosse responsabilità personale, non ci sarebbero candidati.

E peggiora. In tutti i segmenti della società, comprese le scuole elementari, ci sono sempre "re-creatori" in agguato sullo sfondo, quelli che non vogliono essere nella luce ma che preferiscono sedersi nell'ombra e tirare i fili.

Questi sono quelli intelligenti che accumulano il vero potere e che intuitivamente capiscono come controllare gli eventi alla loro massima soddisfazione indipendentemente dai desideri del gruppo più grande.

 Questi sono quelli pericolosi; sono troppo intelligenti a metà e sono naturalmente manipolatori.

 Spesso hanno una madre con la stessa mente e carattere, che fornisce tutta la guida necessaria. La prima cosa che imparano è che il potere sta nelle nomine, non nelle votazioni.

E ora entriamo naturalmente nel campo della politica multipartitica in cui abbiamo due o tre re-maker, ciascuno con un seguito, ognuno dei quali seleziona un probabile candidato che sarà obbediente e controllabile, e dirà: "Posso farti diventare il leader.

Ti piacerebbe questo?"

E si parte, ogni creatore di re (e sua madre) progettando una piattaforma di promesse elettorali garantite per attirare piccoli elettori ingenui, innocenti e inesperti.

Questo è dove porterà, e non c'è nulla che la scuola o gli insegnanti possano fare per impedirlo.

 Come mai?

Perché la premessa originale, per quanto ben formulata, è falsa, imperfetta e quasi criminale.

Lo scopo di questo processo di selezione dovrebbe essere quello di scegliere i migliori dirigenti per la scuola, piccole persone mature, responsabili e di buon carattere che possono dare l'esempio agli altri ragazzi, che hanno a cuore il benessere dei loro compagni di scuola e che utilizzeranno sinceramente il loro potere di migliorare l'ambiente scolastico.

Ma abbiamo scartato quell'obiettivo e invece abbiamo creato una gara di popolarità senza scopo che è aperta a ogni tipo di pressione sociale e corruzione.

Non selezioniamo i nostri leader in base alle loro capacità, al loro carattere o al loro senso di responsabilità, ma invece in base alla loro personale capacità di marketing, alle loro capacità di influenzare e manipolare gli altri affinché votino per loro, onestamente o meno.

 

In tutto questo, dov'è la discussione delle credenziali, delle qualifiche per un posto di responsabilità?

 Totalmente assente.

In effetti, il precedente sistema di raccomandazioni sul carattere degli insegnanti e di eccellenza scolastica - in altre parole, credenziali - che era un sistema perfetto, è stato specificamente abbandonato in modo che questi idioti yuppie potessero emulare gli americani e accogliere la loro versione sciocca di "democrazia".

Non ci sono prove che qualcuno di questi piccoli candidati avesse capacità di leadership, buoni risultati accademici, un carattere solido, o addirittura alcuna comprensione dei bisogni e dei desideri degli studenti o degli insegnanti.

Nessuno sarebbe abbastanza grande per comprendere il significato di partecipare alla gestione della scuola.

 Nessuno sarà selezionato su nessuno degli attributi necessari di un leader.

Pochi o nessuno avrà delle reali qualifiche per una posizione di leadership e nessuno capirà la responsabilità che sta assumendo.

 Sono bambini piccoli.

E gli studenti che votano? Cosa prenderanno in considerazione nell'esprimere i loro voti per un leader studentesco? La capacità di suonare un sassofono? Le belle carte blu di mamma?

Pochi o nessuno sapranno apprezzare la propria responsabilità, pochi sapranno scegliere saggiamente e nessuno avrà la capacità di valutare adeguatamente una persona (più o meno) sconosciuta per un lavoro di cui non comprendono i doveri. Le mie congratulazioni.

Benvenuti nella politica in stile americano, l'unica cosa che la Cina ha avuto la fortuna di non avere.

Ma questo è esattamente ciò che la Cina ha ora nelle sue aree rurali con l'introduzione di elezioni democratiche in stile occidentale per i funzionari locali.

Questi sono molto più gravi perché i partecipanti sono adulti, le decisioni influiscono sulla vita reale e perché troppo spesso i re-maker sullo sfondo sono quasi tutti americani ed ebrei banchieri.

 

(Gli scritti di Romanoff sono stati tradotti in 32 lingue ei suoi articoli sono stati pubblicati su più di 150 siti web di notizie e politica in lingua straniera in più di 30 paesi, oltre a più di 100 piattaforme in lingua inglese.

Larry Romanoff è un consulente di gestione e uomo d'affari in pensione. Ha ricoperto posizioni dirigenziali di alto livello in società di consulenza internazionali e ha posseduto un'attività di import-export internazionale.

È stato professore in visita presso la Fudan University di Shanghai, presentando casi di studio in affari internazionali a classi senior dell'EMBA. Il signor Romanoff vive a Shanghai e sta attualmente scrivendo una serie di dieci libri generalmente relativi alla Cina e all'Occidente.

 È uno degli autori che contribuiscono alla nuova antologia di Cynthia McKinney "When China Sneezes".)

(bluemoonofshanghai.com/ + moonofshanghai.com/)

 

 

 

LA LIBERAZIONE.

Il 25 aprile visto dai giovani:

«La libertà? Mai darla per scontata».

Corrierefiorentino.corriere.it - Ivana Zuliani –(25 aprile 2019) – ci dice:

 

C’è chi lo festeggia in piazza, ma più per stare con gli amici che per convinzione. E chi invece va a fare una gita fuori porta, ma dice di ricordare i valori del 25 Aprile nei comportamenti di tutti gli altri giorni dell’anno.

 I giovani, che la Liberazione l’hanno studiata solo sui libri o sentita raccontare dai nonni, su una cosa però sono tutti d’accordo: non dare la libertà per scontata.

Fuori dalla biblioteca di piazza Brunelleschi c’è Pietro, futuro filosofo.

Lui andrà al corteo organizzato dai collettivi con partenza in piazza San Lorenzo, perché «al di là delle idee politiche, mi sembra un bel momento di comunità, un’occasione per stare insieme» e ricordarci che «dobbiamo continuare a lottare per mantenere i diritti conquistati».

Vicino a lui c’è Margherita: anche lei festeggerà, in piazza dell’Università a Prato, alla decima edizione dell’evento «Bomba libera tutti».

 «Tutti dovrebbero festeggiare la libertà, in maniera trasversale. Ma attenzione: i diritti acquisiti se li diamo troppo per scontati va a finire che un giorno ci si sveglia e non li abbiamo più», avverte.

Per Daniele, studente di Ingegneria, è giusto essere alle celebrazioni: «È una giornata di festa apposta, andrebbe celebrata anche solo per ricordare le persone che hanno combattuto e perso la vita per darci la libertà dal fascismo».

 Quando frequentava il liceo era sempre in prima fila, ora che studia all’Università ha meno tempo.

Alle iniziative del 25 Aprile ci vorrebbero più giovani: «Sarebbe giusto fare il lavaggio del cervello ai ragazzi, che non avendo vissuto quei fatti storici fanno fatica a capire veramente cosa voglia dire non avere la libertà. Così non ci troveremmo con persone come Salvini e Bocci» afferma.

I diritti acquisiti e i valori difesi vanno rinvigoriti continuamente «perché stiamo rischiando di perderli: i giovani danno per scontate certe cose non avendole vissute sulla loro pelle. Anzi, per quanto riguarda la libertà di opinione sui social forse oggi ce n’è anche troppa: chiunque può dire la sua e a volte c’è il rischio di trascendere».

Molto poi dipende «dai nonni che hai avuto: non tutti sono stati partigiani, c’è racconta che si stava meglio prima. Tu li ascolti e ti fidi, sono i tuoi nonni e gli vuoi bene».

Anche per Bianca e Valentina, i giovani andrebbero motivati di più a partecipare alla giornata della Liberazione, «come accade per il Giorno della Memoria», dicono dalla terrazza della biblioteca delle Oblate durante una pausa dello studio.

Invece per molti, per loro in prima persona, «purtroppo rimane un giorno di vacanza».

 Accade perché «a scuola non ti invogliano a partecipare ai festeggiamenti. Questa ricorrenza andrebbe valorizzata maggiormente soprattutto nelle scuole dell’obbligo, perché poi è troppo tardi, è difficile che dopo la gente cambi».

Niccolò è uno studente al quarto anno del liceo Michelangiolo, appena maggiorenne.

Non parteciperà a cerimonie istituzionali, preferisce andare al mare.

Condivide i valori della Liberazione, ma crede che «sia più importante riflettere su cosa significhi il 25 Aprile: che non è scontato il fatto di essere liberi».

Personalmente la sente «come una cosa un po’ lontana. Spesso diamo per scontata la libertà, ma dobbiamo riflettere e fermarci a pensare che non è affatto così, si può perdere.

 I valori della Liberazione sono sicuramente sempre attuali: considerare tutti gli uomini uguali, dire la propria opinione e rispettare quella degli altri».

E fa un «mea culpa»: «Dovremmo vivere più attivamente, informarci, interessarci alla vita politica, non pensare solo al nostro orticello, avere uno sguardo più ampio.

 Ma non è facile, è più facile pensare al proprio. Spesso però è difficile per noi ragazzi capire anche i meccanismi della politica, certe dinamiche».

Lui per esempio andrà a votare alle prossime elezioni per il parlamento europeo, «perché ho compiuto 18 anni, ma sinceramente non so chi votare».

Per Tommaso, studente di Chimica, «è necessario festeggiare, ma non per forza bisogna partecipare a celebrazioni o eventi politicizzati. Basta capire che è stato un avvenimento importante, e riflettere sugli ideali che trasmette che sono quelli su cui si basano l’Italia e l’Europa: la libertà di parola, di espressione, di essere quello che sei».

Per lui è bene non dare questi diritti per acquisiti per sempre: «Anche se credo che siamo arrivati ormai a un punto in cui non torneremo più a un regime: non vedo questo pericolo. Assistiamo però a un ritorno alla destra, dovuto soprattutto alla crisi economica».

Dalla biblioteca di via Laura, dove sta studiando, Tommaso lancia un avvertimento: «I valori della Liberazione andrebbero concretizzati nella vita di tutti i giorni, cercando di non scadere nei luoghi comuni anche quando si parla di politica al bar tra amici, perché poi va a finire che si sconfina nel becero anche nel segreto dell’urna».

 

 

 

Gianfranco Fini torna in tv,

mea culpa sul Pdl e Meloni promossa:

«Diritti civili? Se ne occupi il Parlamento».

Ilgazzettino.it – Redazione – (1°novembre 2022) – ci dice:

 

L'ex leader di An: "Il premier non ha bisogno di ispiratori". L'avvertimento sul Covid.

Torna Gianfranco Fini, l'ex presidente della Camera e leader di Alleanza Nazionale (partito progenitore di FdI e dove militava anche Meloni).

Dopo una lunga assenza televisiva, oggi ospite del programma “Mezz'ora in Più”, Fini parla, ed elogia Giorgia Meloni: una leader che non ha alcun bisogno di ispiratori e di essere ispirata.

Anche se qualche consiglio glielo dà: sui diritti civili (occhio a toccare la legge 194) e sulle mascherine per mantenere sotto controllo la pandemia Covid (negli ospedali non si possono togliere).

Quello guidato da Meloni, dice Fini, è un esecutivo di destra-centro perché Fdi ha «raccolto più voti di quelli messi insieme da Fi e Lega».

E questo «mette in agitazione gli alleati che hanno il diritto di rimarcare la loro identità».

Dà per scontato che ci saranno fibrillazioni e consiglia tanta pazienza a Meloni: «Dovrà essere paziente e abile nel tentativo di tenere tutti insieme, nell'ambito di un programma unico e delle risorse disponibili, agendo sulla base di valori condivisi».

Non ha alcuna intenzione di tornare in politica. «Non ho alcuna intenzione di tornare in politica, di chiedere tessere. Si può lavorare senza chiedere incarichi», ha dichiarato Fini che definisce il suo contributo alla fondazione e alla guida del Popolo delle libertà un «errore imperdonabile».

Gianfranco Fini: «Giorgia Meloni è affidabile». Torna l'ex capo di Alleanza Nazionale.

Non dice di essere l'ispiratore di Meloni, non si intesta la “mentorship” della presidente del Consiglio, ma dice di aver semplicemente indicato la strada.

Ispiratore no, Meloni non ha bisogno di essere ispirata «ma posso dire che c'è stato chi ha indicato una strada, che poi tocca ai più giovani percorrere».

Così Gianfranco Fini. Alla stampa estera, ha aggiunto «ho detto che la realtà italiana della destra era un pò diversa da come veniva loro raccontata, dissi di avere votato Meloni e lo confermo».

25 Aprile, Fini: la pacificazione con la citazione di Luciano Violante e l'aneddoto su Veltroni.

 Il 25 Aprile? La festa della Liberazione «appannaggio di una certa sinistra», secondo il presidente del Senato La Russa, dà il là per una riflessione su alcuni passaggi politici della recente storia della Repubblica: anche Fini affronta il tema dell'antifascismo militante, «acceso dalla sinistra come un interruttore in modo strumentale, quando ravvisa un pericolo per la democrazia», e dice che c'è una polemica pretestuosa.

La Russa «non andrebbe (ai cortei del 25 Aprile, ndr) perché si troverebbe quei giovanotti che, nel nome dell'antifascismo, lo hanno minacciato di morte», spiega Fini. 

«Questa polemica» sul 25 aprile è «strumentale e la capisco anche», perché «il Pd sta ancora elaborando il lutto, forse perché la sconfitta è stata superiore alle dimensioni» attese, «forse perché hanno sottovalutato l'avversaria», ha detto.

 L'antifascismo è un valore, «lo abbiamo detto a Fiuggi e Meloni non si è dissociata», spiega Fini ricordando la svolta di Fiuggi (1995).

E nell'intervista a Lucia Annunziata spiega che negli anni '90 «la vigilanza antifascista era finita».

Ha ripercorso alcuni fatti tra il '95 e il '99.

Nel «1995 Massimo D'Alema diventò presidente della commissione bicamerale e si parlò dell'asse Fini-D'Alema, l'ultimo segretario post-comunista e l'ultimo post-fascista».

 Mel 1996 «Violante viene eletto presidente della Camera, Alleanza Nazionale lo applaude in modo sincero quando dice che per fare della liberazione un momento unitario, condiviso, bisognava "guardare ai vinti di ieri", e bisogna fare attenzione ai verbi, non dice capire».

 Infine racconta che nel '99, prima dell'elezione di Carlo Azeglio Ciampi alla presidenza della Repubblica «non svelo un segreto, incontrai riservatamente il segretario dei Ds Walter Veltroni, ragionammo e trovammo che il nome di Ciampi era quello che poteva garantire» tutti.

Fiamma tricolore - «La fiamma? Il simbolo di Fdi non è quello del Msi ma è quello di An. Perché, quando è nata An, non mi avete detto che c'era ancora la fiamma? Il simbolo del Msi aveva un suo richiamo storico, il simbolo del Msi era la continuità e non c'è più, è una semplice fiamma tricolore. Il simbolo di Msi è stato archiviato con Fiuggi», ha detto Fini.

Meloni, domani primo cdm "operativo": priorità ai dossier economici (bollette e benzina), il nodo Salvini.

Fiuggi, Pdl, Fratelli d'Italia. Fini: «Avevano ragione Giorgia e Ignazio e torto io».

«Meloni e La Russa non mi seguono quando vengo estromesso» dal Popolo delle libertà.

Poi escono e «danno vita alla casa della destra» cioè FdI.

«Non ci credevo, ora devo dire che avevano ragione loro e torto io», ha detto Fini rivangando la "cacciata" dal partito nel 2010.

 E ammette che non pensava che la creatura di Meloni, Fratelli d'Italia, potesse arrivare così lontano. 

«Quando nasce Fdi c'era scetticismo totale a destra, io per primo dicevo: dove vanno?», ha detto Fini a Mezz'ora in più, su Rai Tre.

Pdl, errore imperdonabile - «È chiaro che il congresso di Fiuggi e i comportamenti conseguenti, come il viaggio in Israele, determinarono per An una maggiore assunzione di responsabilità, con l'ambizione di essere destra con cultura di governo. Quando nasce il Popolo delle Libertà, che è l'errore imperdonabile, non lo perdono a me stesso, credevamo nel bipolarismo, pensavamo fosse naturale dare vita a un rassemblement della destra, ma quel movimento finì come finì», ha detto Fini.

Berlusconi? «Ha perso la scettro» -

«Berlusconi ha una fortissima personalità e credo di essere buon testimone al riguardo, lo dico senza acrimonia» e si trova nel momento in cui «prende atto, anche in modo amaro, che non è più dominus, che il sovrano ha perso lo scettro e per giunta» per mano di «una donna che da quando era ragazzina ha sempre masticato politica, non un titolo di merito per lui essere professionista della politica», ha dichiarato sottolineando che però «Berlusconi non è un irresponsabile, basta vedere i ministri di Fi, penso a Tajani, che danno ampia garanzia di continuità nell'azione di governo».

 «Anche perché - aggiunge - Berlusconi i sondaggi li guarda, ha capito che alcune fibrillazioni danneggiano soprattutto Fi».

Salvini? «Inquieto» - «Salvini era il capo dei giovani comunisti padani, poi parlamentare europeo.

È un uomo molto pragmatico, come si fa a non essere inquieto quando si perdono tanti voti?

La lega gli ha confermato la fiducia, Salvini avverte questa responsabilità. Il voto è stato uno choc e l'inquietudine lo porta ad alzare delle bandiere identitarie», ha detto Fini.

«È quello che non ha capito la sinistra, che è sempre politicamente corretta, grigia, scontata, prevedibile. Il Pd cerchi di tornare a infiammare il cuore delle masse popolari».

Diritti civili, Fini: materia per il parlamento.

«I diritti civili sono una materia importante ed estremamente delicata» e «su queste questioni il governo farebbe molto meglio a dire che è il Parlamento che deve occuparsene», ha detto Fini.

 «Attenzione a varare alcuni provvedimenti - mette in guardia - Il ministro Roccella, vediamo cosa farà - l'importante è non cambiare la 194 - è una delle parlamentari che promise di promuovere un referendum per abrogare le unioni civili, francamente qualche necessità di dire "Piano" c'è.

Su queste questioni il governo farebbe molto meglio a dire che è il Parlamento che si occupi di questo», ha sottolineato.

Sì a mascherine negli ospedali.

Linea della prudenza, sul Covid: «È meglio che rimangano le mascherine obbligatorie negli ospedali», ha detto anche l'ex presidente della Camera non condividendo la linea del "Liberi tutti", soprattutto nei luoghi dove si è più esposti al virus, come gli ospedali.

 

GLI ERRORI LOGICI E GIURIDICI DEI

FILOSOFI PRO-PASS ANTI-AGAMBEN.

Opinione.it - Aldo Rocco Vitale -  (18 ottobre 2021) – ci dice:

 

“La nostra epoca è così scientifica che la scienza dice “a proposito di qualcosa”, ma non dice “qualcosa”: così Nikolaj Berdjaev ha giustamente sintetizzato uno dei drammi della cultura occidentale attuale, dimostrando come l’elusione della dimensione essenziale della realtà si traduca spesso in un vaniloquio autoreferenziale, quale è quello tipico della scienza contemporanea.

In questo medesimo senso sembra muoversi l’appello di alcuni filosofi, pubblicato sul Fatto Quotidiano dello scorso 15 ottobre 2021, a favore del green pass e contro le critiche che Giorgio Agamben ha mosso a tale strumento biopolitico. I suddetti 100 filosofi ritengono:

1) che la filosofia debba rispettare i risultati scientifici;

2) che è improprio sostenere che si versi in un’epoca di eccezionalità, trovandoci invece in una emergenza sanitaria che non ha nulla a che fare con altre forme di emergenza;

3) che non è vero che siamo innanzi ad un modello di controllo statale che richiama l’esperienza sovietica;

4) che il green pass non introduce nessuna discriminazione come non la introduce la patente di guida;

5) che non vi è nessuna repressione della libertà individuale.

 

Alla luce di tutte queste considerazioni, delle riflessioni si impongono inevitabilmente, non tanto a difesa della persona del professor Agamben, che per la sua esperienza e preparazione potrà e saprà senza dubbio difendersi meglio di chiunque possa provare in tale direzione, ma a difesa della verità di cui egli è stato coraggiosamente foriero in questi mesi di pandemia del ruolo critico della filosofia.

Le obiezioni mosse dai suddetti 100 filosofi appaiono afflitte da gravi e grossolani errori logico-giuridici. In primo luogo: il problema dei rapporti tra scienza e filosofia non è una mera questione di rispetto, ma di fondatezza, poiché la filosofia – come insegnava Norberto Bobbio – pone la domanda ulteriore che la scienza non è abituata a porsi e non immagina.

La vera filosofia, dunque, è quella che si interroga anche dinnanzi alla formale autorevolezza del dato scientifico, soprattutto se questo dato non solo non è assodato – e nella vicenda del covid vi sono tanti dati non assodati (la durata del vaccino, l’origine del virus, gli effetti di lungo periodo) –, ma se esso comporta inevitabili profili di carattere morale in quanto è un dato che – volenti o nolenti – incide sull’essere umano e sui suoi diritti.

Non a caso si dovrebbe ricordare la preziosa lezione filosofica di Vladimir Soloviev per il quale “le verità matematiche hanno un significato universale, ma riescono indifferenti dal punto di vista morale”.

A ciò si aggiunga che una scienza che pretende obbedienza fideistica – come in questi mesi si è avuto di constatare – tradisce la sua dimensione epistemologica, per cui solo l’intervento della filosofia può evitare una simile catastrofe gnoseologica, per esempio ricordando il paradigma falsificazionista a cui la comunità scientifica dovrebbe attenersi, poiché, come ha insegnato un premio Nobel per la fisica quale è stato Richard Feynman “un’altra caratteristica della scienza è che insegna il valore del pensiero razionale e l’importanza della libertà di pensiero, come pure la necessità di dubitare, di non dare per scontata alcuna verità. Gli esperti che vi guidano possono sbagliare”.

In secondo luogo: sebbene senza dubbio nell’ambito di una libertà di pensiero a tutti assicurata sia contestabile la ricostruzione di Agamben secondo la quale ci ritroviamo in uno Stato di eccezion, nonostante egli sia il più insigne studioso della materia, e sebbene si possa direttamente compulsare il maggior teorico dello Stato di eccezione, cioè Carl Schmitt, per vincere ogni dubbio, occorre evidenziare la manifesta illogicità del ragionamento dei suddetti filosofi sul punto.

Ritenendo, infatti, essi che ci si trova dinnanzi ad una emergenza sanitaria che non ha precedenti rispetto alle pregresse emergenze, ammettono implicitamente la dimensione eccezionale in cui attualmente si versa: implicano cioè proprio quello Stato di eccezione da cui intendono divincolarsi; in buona sostanza affermano ciò che negano e negano ciò che affermano; e il tutto senza rendersi conto della violazione del principio di non contraddizione in cui sono ingenuamente caduti.

In terzo luogo: non occorre certo una elaborata fantasia visionaria per rendersi conto che provvedimenti inediti come il green pass – dall’evidente matrice bio-politica – possono essere ritenuti analoghi a quelli adottati in regimi come quello sovietico e ciò non alla luce di vertiginose costruzioni teoretiche altamente filosofiche, ma in base alla spicciola ricognizione storica che striscia umilmente ventre a terra nelle cronache dei testimoni dell’epoca.

In questo senso sarebbe sufficiente leggere le memorie di Andrej Sacharov, di Aleksandr Solženicyn, di Roy Medvedev, di Petr Grigorenko, di Vaclav Belohradsky, di Sergej Averincev, di Vladimir Bukovskij, di Iosif Brodskij, di Ivan Solonevic, di Waldemar Gurian, e di tanti altri dissidenti che riportano come l’introduzione dei passaporti interni in URSS abbia costituito una delle più gravi e dirette violazioni dei diritti umani per decenni negati in quel sistema totalitario.

Si pensi, tra i molteplici esempi, alla testimonianza di Boris Souvarine che così ha avuto modo di scrivere: “In febbraio viene istituito il libretto di lavoro obbligatorio, sul modello del libretto militare; contiene la biografia sommaria del portatore, lo stato di servizio con le punizioni, le ammende, i motivi di licenziamento, eccetera, allo scopo di reprimere l’indisciplina e le evasioni”.

Nel dicembre di questo ultimo anno del Piano, egli instaura allora una misura poliziesca che, per ampiezza e rigore, supera di molto quelle vigenti sotto lo zarismo: l’obbligo del passaporto interno per tutta la popolazione cittadina e per una parte della popolazione rurale intorno alle grandi città.

Nessuno potrà spostarsi, né risiedere per ventiquattr’ore fuori del proprio domicilio, senza il visto della milizia annessa alla Gpu.

Durante il trimestre in cui viene introdotta la passaportizzazione, Stalin proibisce matrimoni, divorzi, adozioni e traslochi, in modo da impedire le frodi; si degna tuttavia di ammettere i decessi e di tollerare le nascite.

Che siano di diritto divino o di origine popolare, tutti i dittatori e tutte le dittature presentano considerevoli analogie nei loro metodi e nella loro ragion d’essere”.

In quarto luogo: come si è già avuto modo di precisare in una precedente occasione, ritenere che il green pass sia inequivocabilmente misura di garanzia della libertà tanto da poter essere paragonato alla patente di guida significa trascurare indebitamente le differenti realtà giuridiche chiamate in causa, e ciò per diverse ragioni.

1) La patente di guida, infatti, è una tipologia di “certificazione” che comporta la verifica di determinate abilità tecniche che devono essere possedute dal titolare non incidendo strettamente sulla persona fisica del titolare medesimo.

2) Non esiste un diritto costituzionalmente sancito alla patente.

3) Anche in caso di guida senza patente, al netto di tutte le eventuali sanzioni civili, penali e amministrative, i diritti fondamentali costituzionalmente garantiti (lavoro, associazione, culto, insegnamento, istruzione, circolazione ecc.) del trasgressore non vengono meno.

Tutt’al più sono temporaneamente compressi, ma sicuramente non soppressi come invece si rischia tramite l’introduzione del green pass per coloro che non sono vaccinati che, infatti, rischiano di perdere il posto di lavoro.

In quinto luogo: vi è repressione della libertà individuale nel momento in cui non vi è riconoscimento e tutela della responsabilità dei singoli e delle istituzioni.

L’introduzione dell’obbligo vaccinale di fatto tramite il green pass, infatti, sottrae le istituzioni alla eventuale responsabilità che su di esse graverebbe qualora l’obbligo vaccinale fosse di diritto, scardinando l’endiadi (che proprio i filosofi dovrebbero conoscere meglio di chiunque altro) tra libertà e responsabilità, così da dover essere scontato che dove non c’è responsabilità non c’è autentica libertà e dove non c’è libertà non può esserci responsabilità.

Fu Immanuel Kant, del resto, a chiarire una volta per tutte che “senza quella libertà nel suo ultimo e genuino significato, che è la sola pratica a priori, non è possibile nessuna legge morale e nessuna imputazione in base ad essa”.

Proprio la lesione della libertà, dunque, è l’effetto principale dell’introduzione del green pass e desta stupore che una così ricca e folta comunità di filosofi non sia pervenuta ad una così evidente constatazione.

 In conclusione, i gravi errori di grammatica del pensiero filosofico e soprattutto giuridico in cui si sono accidentalmente imbattuti i 100 avventati critici di Agamben, dunque, richiamano alla mente per un verso le notazioni malinconiche di Friedrich Nietzsche allorquando scriveva:

in quali condizioni innaturali, artificiali e in ogni caso indegne deve venire a trovarsi, in un’epoca che soffre della cultura generale, la più verace di tutte le scienze, la sincera e nuda dea Filosofia!”, e per altro verso le riflessioni di Hugo von Hofmannsthal per il quale “la filosofia è il giudice di un’epoca; brutto segno quando ne è invece l’espressione”.

 

 

 

LA RITIRATA DI KHERSON; MOSSA

STRATEGICA O ACCORDO SOTTOBANCO?

 

Comedonchisciotte.org – Pepe Escobar - strategic-culture – (11 Novembre 2022)- ci dice: 

 

L’annuncio del ritiro di Kherson potrebbe essere il segnale di uno dei giorni più cupi della Federazione Russa dal 1991.

Abbandonare la riva destra del Dnieper per creare una linea di difesa sulla riva sinistra potrebbe essere un’idea assolutamente sensata dal punto di vista militare. Lo stesso generale Armageddon, fin dal suo primo giorno al comando, aveva lasciato intendere che una cosa del genere sarebbe stata inevitabile.

Allo stato attuale delle cose, Kherson si trova dalla parte “sbagliata” del Dnieper. Tutti i residenti dell’Oblast di Kherson – 115.000 persone in totale – che volevano essere trasferiti in località più sicure sono stati evacuati dalla riva destra.

Il generale Armageddon sapeva che era inevitabile per diversi motivi: nessuna mobilitazione dopo che i piani iniziali della SMO si erano arenati; distruzione dei ponti strategici sul Dnieper – completa di tre mesi di metodico martellamento ucraino di ponti, traghetti, pontoni e moli; nessuna seconda testa di ponte a nord di Kherson o ad ovest (verso Odessa o Nikolaev) per condurre un’offensiva.

E poi, la ragione più importante: la massiccia dotazione di armi e la gestione di fatto della guerra da parte della NATO si sono tradotte in un’enorme superiorità occidentale nella ricognizione, nelle comunicazioni e nel comando/controllo.

Tutto sommato, quella di Kherson può essere una ritirata tattica relativamente minore. Tuttavia, dal punto di vista politico, è un disastro totale, un imbarazzo devastante.

Kherson è una città russa. I Russi hanno perso – anche se temporaneamente – la capitale di un territorio appena annesso alla Federazione. L’opinione pubblica russa avrà enormi problemi ad assorbire la notizia.

L’elenco degli aspetti negativi è considerevole. Le forze di Kiev hanno messo in sicurezza questa parte del fronte e potrebbero liberare forze da inviare contro il Donbass. Le forniture di armi da parte dell’Occidente collettivo riceveranno un notevole impulso. Gli HIMARS ora potrebbero colpire obiettivi in Crimea.

Le prospettive sono orrende. L’immagine della Russia nel Sud globale è gravemente compromessa; dopo tutto, questa mossa equivale ad abbandonare un territorio russo, mentre i continui crimini di guerra dell’Ucraina scompaiono immediatamente dalla “narrazione” principale.

Come minimo, già da tempo i Russi avrebbero dovuto rinforzare la testa di ponte sul lato occidentale del Dnieper, in modo che avesse potuto resistere – magari non ad un’inondazione causata dalla distruzione della diga di Kakhovka, cosa ampiamente prevista. Eppure i Russi hanno ignorato per mesi la minaccia di un bombardamento della diga. Questo dimostra una pessima pianificazione.

Ora le forze russe dovranno conquistare nuovamente Kherson. E, parallelamente, stabilizzare le linee del fronte, tracciare confini definitivi e poi cercare di “smilitarizzare” definitivamente le offensive ucraine, attraverso negoziati o bombardamenti a tappeto.

È piuttosto rivelatore il fatto che gli esperti di intelligence della NATO, dagli analisti ai generali in pensione, siano sospettosi della mossa del generale Armageddon: la vedono come una trappola elaborata o, come ha detto un esperto militare francese, “una massiccia operazione di inganno.” Un classico di Sun Tzu. Questo è stato debitamente incorporato nella narrazione ufficiale ucraina.

Quindi, per citare Twin Peaks, un classico della cultura sovversiva americana, “i gufi non sono quello che sembrano.” Se così fosse, il piano del generale Armageddon sarebbe quello di sovra-estendere le linee di rifornimento ucraine, portarle allo scoperto e poi impegnarsi in un massiccio tiro al piccione.

Quindi o si tratta di Sun Tzu, o c’è un accordo dietro le quinte, in coincidenza con il G20 che si terrà la prossima settimana a Bali.

L’arte dell’accordo.

Sembra che Jake Sullivan e Patrushev abbiano trovato un accordo.

Nessuno conosce veramente i dettagli, nemmeno coloro che hanno accesso agli estroversi informatori della Quinta Colonna a Kiev. Ma sì, l’accordo sembra includere Kherson. La Russia manterrebbe il Donbass ma non avanzerebbe verso Kharkov e Odessa. E l’espansione della NATO sarebbe definitivamente congelata. Un accordo minimalista.

Questo spiegherebbe perché Patrushev ha potuto imbarcarsi su un aereo per Teheran contemporaneamente all’annuncio del ritiro di Kherson e occuparsi, in tutta tranquillità, di importanti affari di partenariato strategico con Ali Shamkhani, Segretario del Consiglio Supremo di Sicurezza Nazionale iraniano.

L’accordo potrebbe anche essere stato il “segreto” insito nell’annuncio di Maria Zakharova, secondo cui “siamo pronti per i negoziati.”

I Russi lasceranno la riva del Dnieper con una ritirata militare gestita. Ciò non sarebbe possibile senza negoziati militari gestiti.

Queste trattative sono in corso da settimane. Il messaggero è l’Arabia Saudita. L’obiettivo degli Stati Uniti, nel breve termine, sarebbe quello di raggiungere una sorta di accordo di Minsk 3 – con Istanbul/Riyadh a fare da padrini.

Nessuno presta la minima attenzione al pagliaccio cocainomane Zelensky.

 Sullivan è andato a Kiev ad esporre un fatto compiuto.

Il Dnieper sarà – in teoria – la linea del fronte stabilita e negoziata.

Kiev dovrebbe accettare una linea di contatto congelata a Zaporizhye, Donetsk e Lugansk; Kiev dovrebbe ricevere energia elettrica da Zaporizhye e quindi cessare di bombardare le sue infrastrutture.

Gli Stati Uniti fornirebbero un prestito di 50 miliardi di dollari più una parte dei beni russi confiscati – cioè rubati – per “ricostruire” l’Ucraina. Kiev riceverebbe moderni sistemi di difesa aerea.

Non c’è dubbio che Mosca non accetterà nessuna di queste condizioni.

Si noti che tutto ciò coincide con l’esito delle elezioni statunitensi, in cui i Democratici non hanno esattamente perso.

Nel frattempo la Russia sta accumulando sempre più successi nella battaglia per Bakhmut.

A Mosca non si illudono affatto che questo cripto-Minsk 3 venga rispettato da un Impero “incapace di accordi.”

Jake Sullivan è un avvocato di 45 anni con un background strategico pari a zero e una “esperienza” limitata alla campagna elettorale per Hillary Clinton. Patrushev può mangiarselo a colazione, pranzo, cena e spuntino di mezzanotte – e, vagamente, “acconsentire” a qualsiasi cosa.

Allora, perché gli Americani sono alla disperata ricerca di un accordo? Perché forse intuiscono che la prossima mossa russa, con l’arrivo del Generale Inverno, potrebbe essere in grado di vincere definitivamente la guerra alle condizioni di Mosca.

Questo includerebbe la chiusura del confine polacco con un’offensiva dalla Bielorussia verso sud. Una volta interrotte le linee di rifornimento delle armi, il destino di Kiev è segnato.

Accordo o no, Il generale Inverno sta per arrivare in città, pronto ad intrattenere il suo ospite d’onore Sun Tzu con tanti nuovi piatti a tavola.

(Pepe Escobar- strategic-culture.org) - strategic-culture.org/news/2022/11/10/sun-tzu-walks-into-a-kherson-bar/

 

 

 

Sulla libertà. Un canto

d’amore e di rinuncia.

Leparoleelecose.it - Maggie Nelson – (6 novembre 2021) – ci dice:

 

 È uscito, per i tipi de il Saggiatore, il saggio di Maggie Nelson Sulla libertà. Un canto d’amore e di rinuncia, nella traduzione di Alessandra Castellazzi. Ne presentiamo l’introduzione per gentile concessione dell’editore.

Se vuoi parlare di libertà fermati qui.

Volevo scrivere da tanto un libro sulla libertà. Volevo scriverlo almeno da quando il tema è emerso, inaspettatamente, come sottotesto in un mio libro sull’arte e la crudeltà.

Stavo scrivendo un libro sulla crudeltà e poi ho scoperto, con stupore, che la libertà filtrava nelle crepe, aria e luce in quella cella soffocante.

Quando la crudeltà mi ha sfinito, mi sono rivolta direttamente alla libertà. Sono partita da «Che cos’è la libertà?» di Hannah Arendt e ho iniziato ad ammucchiare le mie pile di libri.

Dopo non molto, però, ho cambiato rotta e ho scritto un libro sulla cura. Qualcuno ha pensato che il mio libro sulla cura fosse anche un libro sulla libertà. Ero soddisfatta, perché la pensavo anch’io così.

Per un po’ ho pensato che non servisse più un libro sulla libertà – forse non mio, forse di nessun altro. Vi viene in mente una parola più svuotata, imprecisa, strumentalizzata?

«In passato mi importava della libertà, ora mi importa soprattutto dell’amore» mi ha detto un amico. «Libertà mi sembra una parola in codice, vuota e corrotta, per guerra, un’esportazione commerciale, qualcosa che un patriarca può “concedere” o “revocare”» ha scritto un’altra. «È una parola bianca» ha detto un altro.

Spesso concordavo: perché non concentrarmi invece su qualcosa di meno contestato, un valore sicuramente più attuale e lodevole come l’impegno, il mutuo soccorso, la coesistenza, la resilienza, la sostenibilità o quella che Manolo Callahan ha definito «convivialità insubordinata»?

 Perché non riconoscere che forse il lungo protagonismo della libertà era al tramonto, che continuare a esserne ossessionati rifletteva una pulsione di morte? «La tua libertà mi uccide!» dicevano i cartelli dei manifestanti durante la pandemia; «La tua salute non è più importante della mia libertà» urlavano di rimando altri senza mascherina.

Eppure, non riuscivo a rinunciare.

Il problema in parte riguarda la parola in sé, che ha un significato per nulla scontato né condiviso.

 In effetti, funziona un po’ come «Dio» perché, quando la usiamo, non sappiamo mai davvero di cosa stiamo parlando oppure se stiamo parlando della stessa cosa. (Parliamo di libertà negativa? Libertà positiva? Libertà anarchica? Libertà marxista? Libertà abolizionista? Libertà libertaria? Libertà dei coloni bianchi? Libertà decolonizzatrice? Libertà neoliberale? Libertà zapatista? Libertà spirituale? E così via).

 E qui arriviamo dritti al celebre enunciato di Ludwig Wittgenstein, «il significato di una parola è il suo uso».

Pensavo a questa formula l’altro giorno quando sono passata accanto a un banchetto nel mio campus universitario, dove un cartello diceva: «Se vuoi parlare di libertà fermati qui».

 Eccome se voglio! ho pensato. Così mi sono fermata e ho chiesto al ragazzo bianco, probabilmente uno studente dei primi anni, di quale tipo di libertà volesse parlare. Mi ha scrutato dalla testa ai piedi, poi ha detto lentamente, con una punta di minaccia, una punta di insicurezza: «Beh, la solita vecchia libertà».

Allora ho notato che vendeva delle spillette divise in tre categorie: pro vita, triggerare i liberali, diritto alle armi.

Come dimostra l’opera di Wittgenstein, non bisogna paralizzarsi o rammaricarsi se il significato di una parola è il suo uso. Al contrario, è un invito a riconoscere qual è il gioco linguistico in azione.

Nelle pagine seguenti adotterò questo approccio, dove la parola «libertà» sarà come un biglietto del treno riutilizzabile, timbrato e segnato dal passaggio in varie stazioni, mani e contenitori.

 (Ho preso in prestito questa metafora da Wayne Koestenbaum, che una volta l’ha usata per descrivere «come una parola, o un insieme di parole, permuta» nell’opera di Gertrude Stein.

«Il significato della parola non è affar vostro» scrive Koestenbaum «ma è sicuramente affar vostro dove viaggia la parola.»)

Perché la confusione generata dal discorso sulla libertà non è diversa, nella sua essenza, dal rischio di fraintenderci quando parliamo di altro. E parlarci dobbiamo; anche, o soprattutto, se «non sappiamo più le parole», come dice George Oppen.

Una crisi della libertà.

Ripensandoci, la scelta di attenermi a questa parola ha due motivazioni. La prima c’entra con la frustrazione che provo da anni per la sua appropriazione a destra (come dimostra il banchetto dello studente).

Un’appropriazione lunga secoli: «Libertà per noi, sopraffazione per voi» è in vigore dagli albori della nazione.

Ma dopo gli anni sessanta – un periodo in cui, rievoca lo storico Robin D.G. Kelley in Freedom Dreams:

«La libertà era l’obiettivo che volevamo raggiungere; liberare era un verbo, un’azione, un desiderio, una richiesta militante. “Liberate la terra”, “Liberate la mente”, “Liberate il Sud Africa”, “Liberate l’Angola”, “Liberate Angela Davis”, “Liberate Huey” sono gli slogan che ricordo meglio» – la destra ha raddoppiato gli sforzi per rivendicarla.

Sono bastati pochi, brutali, decenni di neoliberismo affinché il grido di battaglia per la libertà incarnato dalla Freedom Summer, dalle Freedom Schools, dai Freedom Riders, dal movimento Women’s Liberation e Gay Liberation, fosse surclassato dall’American Freedom Party, da Capitalismo e libertà, dall’Operation Enduring Freedom, dal Religious Freedom Act, dall’Alliance Defending Freedom e molta altra roba del genere.

Questo spostamento ha indotto alcuni filosofi politici (come Judith Butler) a definire la nostra epoca «post-liberatoria» (ma, come nota Fred Moten, «pre-liberatoria» sarebbe altrettanto corretto).

 In ogni caso, il dibattito sulla nostra posizione temporale rispetto alla libertà forse è il sintomo di quella che Wendy Brown ha definito una «crisi della libertà» incipiente, in cui «i poteri antidemocratici specifici del nostro tempo» (che possono prosperare anche nelle cosiddette democrazie) hanno prodotto dei soggetti – inclusi coloro che «lavorano a favore di “politiche progressiste”» – che appaiono «disorientati rispetto ai valori della libertà» e hanno permesso che «il linguaggio della resistenza [prendesse piede] senza una pratica di libertà più ampia».

 A fronte di questa crisi, ho scelto di attenermi al termine perché mi sembrava un modo di rinnegare il baratto, di saggiare le possibilità rimaste o svanite dalla parola, di non cedere terreno.

La seconda motivazione – che complica la prima – è che la retorica emancipatoria delle epoche passate mi ha sempre insospettito, specialmente quando la liberazione è presentata come un singolo evento o orizzonte degli eventi.

Spesso la nostalgia per le vecchie idee di liberazione – che in molti casi attingono a piene mani al mito della rivelazione, delle insurrezioni violente, del machismo rivoluzionario e del progresso teleologico – mi sembra poco utile o addirittura dannosa per affrontare alcune sfide del presente, come il riscaldamento globale.

 «I sogni di libertà» che ne prefigurano la venuta come un giorno del giudizio (per esempio il «giorno in cui tutti i figli di Dio […] potranno prendersi per mano e cantare come in quel vecchio spiritual nero: “Finalmente liberi, finalmente liberi; grazie a Dio onnipotente, finalmente liberi”» di Martin Luther King Jr.) sono importantissimi per immaginare i futuri che vogliamo.

 Ma possono anche farci credere che la libertà sia una conquista futura, anziché un’interminabile pratica presente, già in svolgimento. È un grave errore cedere la libertà alle forze del male, ma lo è anche aggrapparsi a tutti i costi alle sue concezioni trite e asfittiche.

Per questo motivo, la distinzione tra la liberazione (considerata come un atto momentaneo) e le pratiche di libertà (considerate come un processo) proposta da Michel Foucault è stata fondamentale per me; come quando scrive: «La liberazione apre un campo per dei nuovi rapporti di potere che vanno controllati con le pratiche di libertà».

Questa affermazione mi piace molto, direi persino che è un principio guida di questo libro.

Senza dubbio a qualcuno sembrerà incredibilmente guastafeste. (Rapporti di potere? Controllo? Il punto non è proprio sbarazzarcene? Forse, ma attenti a cosa desiderate.)

È il punto di vista di Brown, quando dice che la libertà di autogovernarsi «richiede un uso del potere attento e inventivo anziché la ribellione contro l’autorità; è sobria, spossante e orfana».

Credo che abbia ragione, sebbene «sobria, spossante e orfana» sia un grido di battaglia difficile, specialmente per chi già si sente spossato e poco accudito.

Questo approccio, tuttavia, mi pare più stimolante e praticabile che aspettare «la “grande notte” della liberazione definitiva», per usare le parole dell’economista francese Frédéric Lordon, «la resa dei conti apocalittica seguita dall’irruzione improvvisa e miracolosa di una forma completamente diversa di rapporti umani e sociali».

Secondo Lordon, abbandonare le speranze per questa grande notte è «il modo migliore per salvare l’idea di liberazione»; e io sono tendenzialmente d’accordo. I momenti di liberazione – come quelli di rottura rivoluzionaria oppure le «vette d’esperienza» personali – sono importantissimi, perché ci ricordano che le condizioni che un tempo sembravano fisse non lo sono e perché danno la possibilità di cambiare rotta, alleviare il giogo, ricominciare daccapo.

 Ma è la pratica della libertà – cioè la mattina dopo, e quella dopo ancora – che, se siamo fortunati, occuperà gran parte delle nostre vite. Questo libro è su quell’esperimento senza fine.

Il nodo.

«Qualunque sia la causa per cui lottate, vendetela nel linguaggio della libertà» ha detto una volta Dick Armey, membro della camera dei rappresentati per il Texas e fondatore di Freedom Works.

Tralasciando la mia opinione su Dick Armey, ho cominciato questo progetto dando per scontato che, negli Stati Uniti, la sua massima fosse destinata a durare.

Quando mi sono messa all’opera, però, era ormai l’autunno del 2016 e la massima di Armey stava rapidamente tramontando.

 Dopo anni di «Freedom Fries», Freedom’s Never Free e del Freedom Caucus, la retorica della libertà pareva battere momentaneamente in ritirata, scalzata dal proto-autoritarismo.

Nella corsa elettorale, ho passato fin troppo tempo a osservare i sostenitori online di Trump uscirsene con nuovi vezzeggiativi dispotici come «il patriarca», «il Re», «Daddy», «il Padrino», «il padre degli uomini» o, il mio preferito, «Trump Dio-Imperatore».

E non mi riferisco soltanto alla folla di chan; dopo le elezioni, il Comitato nazionale repubblicano ha pubblicato un tweet natalizio annunciando «la buona novella di un nuovo Re», un indizio di quel che ci aspettava.

 Da allora, diverse analisi lessicali l’hanno confermato: la «libertà» scarseggia nel Trump-speak, tranne quando invoca cinicamente la «libertà di parola» come provocazione, oppure ricorre all’iterazione agghiacciante di libertà-come-impunità («Quando sei una star, puoi fare quello che ti pare»).

 Persino quando l’amministrazione provò a etichettare il gas naturale come «gas libero» nel 2019, sembrava più una farsa scatologica voluta che un serio tentativo di branding ideologico.

Negli anni seguenti, le edicole negli aeroporti si sono riempite di titoli come How Democracies Die; Fascism: A Warning; On Tyranny; Surviving Autocracy; e The Road to Unfreedom.9 L’avvertimento di Wendy Brown sulla «sparizione esistenza- le della libertà dal mondo» tornava ad avvalorarsi insieme al timore che, dopo aver prediletto le libertà dei mercati rispetto a quelle democratiche per decenni, alcuni avessero perso il desiderio di autogovernarsi liberamente e avessero sviluppato invece un gusto per l’illibertà – persino un desiderio di soggezione.

Questi timori mi hanno fatto pensare più di una volta al commento di James Baldwin in La prossima volta il fuoco: «Io personalmente ho incontrato solo pochissimi individui – e quasi nessuno di loro era americano – desiderosi veramente d’essere liberi. La libertà è un grave fardello».

In un clima simile, era allettante l’idea di scrivere un libro che ci «riorientasse sul vero valore della libertà» o che incoraggiasse me e altri a unirsi alle pochissime persone che, secondo Baldwin, desiderano davvero la libertà.

 Questi trattati solitamente cominciano con una dichiarazione forte su cos’è la libertà o cosa dovrebbe essere, come The Hawthorn Archives: Letters from the Utopian Margins di Avery F. Gordon: una raccolta descritta nella quarta di copertina come uno «spazio di fuga» verso la «coscienza politica degli schiavi fuggiti, dei disertori di guerra, degli abolizionisti del carcere, della gente comune e di altri radicali», dove Gordon dichiara (parafrasando Toni Cade Bambara) che:

«La libertà […] non è la fine della storia o un obiettivo sfuggente e irraggiungibile. Non è uno stato-nazione migliore, mascherato da cooperativa. Non è una serie di leggi ideali distaccate da chi le applica e da chi le rispetta. E di certo non è il diritto di possedere il capitale economico, sociale, politico o culturale per dominare gli altri e barattare la loro felicità in un mercato monopolistico. La libertà è il processo con cui sviluppare una pratica che consenta di eludere la servitù».

Molti di questi trattati mi hanno commossa ed educata. Ma, in fin dei conti, non sono il mio stile. Le pagine seguenti non propongono una diagnosi sulla crisi della libertà e una proposta su come aggiustarla (o aggiustarci), né un focus specifico sulla libertà politica. Invece, si concentrano sulla complessa pulsione alla libertà in quattro ambiti diversi – il sesso, l’arte, le droghe e il clima – dove la coesistenza tra libertà, cura e costrizioni, mi sembra particolarmente spinosa e intensa. In ciascun ambito, analizzo il modo in cui la libertà si aggroviglia alla cosiddetta illibertà, generando esperienze marezzate di compulsione, disciplina, possibilità e abbandono.

Siccome tendiamo ad associare l’illibertà – spesso giustamente – con circostanze oppressive che possiamo e dobbiamo impegnarci a cambiare, è comprensibile che a livello istintivo ci capiti di considerare crudele e doloroso il nodo tra libertà e illibertà.

 Per denunciare il modo in cui il dominio si traveste da liberazione, sentiamo di dover prima dipanare il nodo, provando a districare ciò che emancipa da ciò che opprime.

 Succede soprattutto quando affrontiamo il legame tra schiavitù e libertà nella storia e nel pensiero occidentale: sia perché queste due realtà si sono sviluppate e significate a vicenda, sia perché i bianchi, nel corso dei secoli, hanno aggirato con astuzia il discorso sulla libertà per posticipare, ridurre o rinnegare quella degli altri.

 È un approccio comprensibile anche quando l’obiettivo è denunciare le ideologie economiche che assimilano la libertà al desiderio di asservirsi al capitale.

Ma se ci concedessimo di deviare – anche solo per un attimo – dal compito esclusivo di denunciare e condannare il dominio, scopriremmo che il nodo tra libertà e illibertà è più di un semplice tracciato delle brutalità commesse nei regimi passati e presenti.

 Perché lì si mescolano il controllo e l’abbandono, la soggettività e la soggezione, l’autonomia e la dipendenza, lo svago e il bisogno, l’obbligo e il rifiuto, il soprannaturale e il sublunare – a volte in un’estasi, altre in una catastrofe.

 Lì ci svestiamo dell’illusione che tutti gli individui desiderino soltanto, o almeno soprattutto, la coerenza, la prevedibilità, l’autocontrollo, l’azione, il potere o persino la sopravvivenza.

Questa destabilizzazione è affascinante, ma può rivelarsi anche spaventosa, deprimente e distruttiva. Fa parte dell’impulso alla libertà. Se ci prendiamo il tempo di sondarlo, potremmo ritrovarci meno intrappolati nei miti di libertà e negli slogan, meno stupiti e atterriti dai suoi paradossi, e più ricettivi alle sue sfide.

 

 Coinvolgimento/Separazione.

In Storia della libertà americana, lo storico Eric Foner spiega che l’idea americana di libertà è stata a lungo declinata in opposizioni binarie; prima fra tutte, per oltre quattrocento anni, la divisione tra libertà nera/bianca, considerando il ruolo fondante della schiavitù e delle sue successive incarnazioni.

In un saggio del 2018 sul musicista Kanye West, Ta-Nehisi Coates traccia questo binarismo in termini netti, descrivendo la «libertà bianca» come:

Libertà senza conseguenze, libertà senza critica, libertà di essere orgogliosi e ignoranti; libertà di approfittarsi di una persona per poi abbandonarla un attimo dopo; libertà di Farsi Valere, libertà senza responsabilità, senza ricordi difficili; una Monticello senza schiavitù, una libertà Confederata, la libertà di John Calhoun e non la libertà di Harriet Tubman, che ti spinge a mettere in gioco la tua; non la libertà di Nat Turner, che ti spinge a dare ancora di più, ma la libertà del conquistatore, la libertà del forte costruita sull’antipatia o sull’indifferenza per il debole, la libertà dei pulsanti antistupro, dei pussy grabber e del ti scopo comunque, stronza; la libertà delle guerre invisibili per il petrolio, la libertà delle periferie marchiate da una linea rossa, la libertà bianca di Calabasas.

Tutto contrapposto alla «libertà nera», che Coates descrive come la libertà costruita sul «noi» anziché sull’«io», che «concepisce la storia, le tradizioni e le lotte non come un peso ma come un appiglio in un mondo caotico» e ha il potere di ristabilire tra le persone «una connessione […] di riportarle a Casa».

Questo libro parte dall’assunto che le nostre intere esistenze, incluse le nostre libertà e illibertà, sono costruite sul «noi» anziché sull’«io», che dipendiamo l’uno dall’altro ma anche da forze non umane che sfuggono alla nostra comprensione e al nostro controllo.

Questo vale sia per chi intende il termine nella concezione del «nessuno è libero finché tutti non sono libe ri» (à la Fannie Lou Hamer) sia nella varietà «don’t tread on me» della bandiera di Gadsden, sebbene quest’ultima provi a smarcarsene. Ammetto che persino l’insistenza più appassionata sul nostro coinvolgimento e sulla nostra interdipendenza offra soltanto una descrizione della situazione, non un’indicazione su come viverla. La domanda quindi non è se siamo coinvolti, ma come negoziare, soffrire e danzare con quel coinvolgimento.

Sebbene Coates proponga una biforcazione del termine utile e precisa, alla fine del suo saggio diventa evidente – in primis a Coates, credo – che una libertà radicata nel «noi» anziché nell’«io» è dilaniata da una serie di complessità; questo libro affronta quelle complessità. Riflettendo sulla scomparsa di Michael Jackson, per esempio, Coates scrive: «Spesso è più facile scegliere la strada dell’autodistruzione se non pensi a chi trascini con te, morire ubriaco per strada se vivi quella deprivazione come tua soltanto e non come una deprivazione per la tua famiglia, i tuoi amici, la tua comunità».

 Essere più consapevoli del nostro coinvolgimento può aiutare, ma può anche confondere e ferire: constatando che il nostro benessere dipende dal comportamento degli altri, potremmo provare il desiderio, potente quanto infruttuoso, di metterli in discussione, controllarli e cambiarli.

 Tuttavia capire fino in fondo, intensamente, che i nostri bisogni, desideri o compulsioni possono entrare in conflitto con quelli degli altri o provocare dolore – anche a chi abbiamo di più caro al mondo – non significa per forza riuscire a scardinare la trappola.

Come vedremo, questo dilemma diventa terribilmente chiaro nella condizione di dipendenza. Ma non risalta solo in questo campo.

Alcune persone non riescono a trovare rifugio – anzi, non possono trovarlo – dove vorrebbero gli altri: qualcuno preferisce le linee di fuga agli appigli; qualcuno rigetta d’istinto le massime moraliste; qualcuno trova – o è costretto a trovare – sollievo o sostentamento nel nomadismo, nell’accattonaggio cosmico, nelle identificazioni imprevedibili o stravaganti, nel barbonismo, nell’esilio ovunque non sia Casa.

Sulla libertà presta particolare attenzione a queste figure e a questi vagabondaggi, perché non credo che rappresentino necessariamente l’adozione di ideologie tossiche.

Viste da un’altra prospettiva, possono dimostrarsi espressioni del nostro coinvolgimento fondamentale, anziché un segno della nostra ineludibile separazione (questi termini sono di Denise Ferreira da Silva, dal suo saggio «On Difference Without Separability»).

 La vocazione più profonda di questo libro è capire come stringere un sodalizio che non comporti l’epurazione, che non contrapponga di riflesso libertà e dovere.

Contrapporre la libertà al dovere perpetua almeno due problemi enormi. Il primo è strutturale: come scrive Brown in States of Injury, «una libertà che abbia come opposto pratico e concettuale l’onere non può, necessariamente, esistere senza di esso; se per definizione gli esseri liberati esistono in quanto privi di oneri, allora dipendono dagli esseri onerati, su cui onera la loro libertà».

 Il secondo è affettivo, perché l’appello al dovere, all’obbligo, al debito e alla cura può trasformarsi in un attimo in qualcosa di moralmente opprimente, basato non tanto sulla comprensione e sull’accettazione, ma sulla vergogna, sul fallimento o sulla fiducia nella propria eticità rispetto agli altri.

(Pensate allo slogan esasperato: «Non so come spiegarti che dovrebbe importarti degli altri» che è circolato sulle magliette e sui muri durante il Covid-19: avrò pensato qualcosa su questa falsariga almeno dieci volte al giorno, ma la convinzione che «tu» abbia bisogno delle mie spiegazioni molto probabilmente non aiuta il cambiamento.)

In un’intervista alla fine di Unde commons, Stefano Harney affronta questo moralismo e prova a immaginare un’altra via: «Non è che non dovresti avere un debito con le altre persone, debito di qualcosa di economico, o debito con tua madre, ma che la parola “debito” dovrebbe scomparire e diventare un’altra parola, dovrebbe essere una parola più generativa».

Non so ancora quale possa essere questa parola e nemmeno se, una volta trovata, saprò viverla. Ma sono sicura che la domanda va nella direzione giusta.

La libertà è mia e io so come mi sento.

Fortuna volle che «Che cos’è la libertà?» fosse un punto di partenza meravigliosamente perverso.

 Perché qui Arendt riflette a lungo sulla propria convinzione che la «libertà» interiore non solo sia irrilevante rispetto alla libertà politica – quella capacità cruciale (per Arendt) di agire nella sfera pubblica – ma l’esatto opposto.

Come Nietzsche prima di lei, Arendt ritiene che la libertà interiore sia una patetica illusione, un premio di consolazione per gli impotenti.

Secondo la sua ricostruzione, l’idea iniziò a circolare nell’antica Grecia, per poi esplodere con l’avvento del Cristianesimo, che Nietzsche descrisse notoriamente come «una schiavitù morale» per via di quel beati i miti che è il suo assunto di base.

 «Lungo tutta la storia della grande filosofia» dice Arendt, «dai presocratici a Plotino, ultimo filosofo classico, manca qualsiasi interesse per la libertà»; la libertà compare per la prima volta con Paolo, e poi Agostino, nel racconto della loro conversione religiosa, un’esperienza che si distingue per la capacità di generare sentimenti interiori di liberazione in circostanze esterne opprimenti.

La comparsa della libertà sulla scena filosofica, dice Arendt, è frutto degli sforzi degli oppressi e dei perseguitati «per arrivare a concepire la libertà in modo che si potesse essere “liberi” pur essendo, di fronte al mondo, schiavi».

Arendt deride questo ossimoro apparente, non trovandovi nessun valore. E perché avrebbe dovuto, convinta com’era che «la libertà non assume portata reale e mondana. Senza un ambito pubblico protetto da garanzie politiche, la libertà non ha più uno spazio nel quale apparire al mondo.

 Può certo abitare ancora nel cuore degli uomini, sotto forma di desiderio, volontà, speranza o aspirazione struggente: ma tutti sappiamo bene come il cuore umano sia un luogo oscuro, e qualunque cosa accada nelle sue tenebre possa difficilmente esser chiamato un fatto dimostrabile».

Nella sua disamina del neoliberismo, Brown allarga il ragionamento affermando che «la possibilità di sentirsi “emancipati” senza esserlo costituisce un elemento di legittimità importante per le dimensioni antidemocratiche del liberismo».

 Lo capisco: può sembrare illusorio sentirsi liberi ed emancipati pur cedendo, mettiamo, i nostri dati personali a uno stato di sorveglianza aziendale; guidare a tutta velocità una macchina a benzina che con le sue emissioni contribuisce alla fine prematura della vita sul pianeta; darsi ai festeggiamenti per il Pride, lasciando dietro di sé montagne di plastica micidiale per gli oceani; scrivere un libro sul sentirsi liberi mentre dei razzisti corrotti ed ecocidi ci spingono verso l’autocrazia e fanno man bassa della fiducia collettiva.

La domanda è come riconoscere questa embricatura senza abbandonarsi al feticcio del debunking, della decontaminazione e del malessere.

 (Pensate, per esempio, al consiglio stupefacente rivolto dall’ex rappresentante democratico Barney Frank agli attivisti, per cui stare bene significa svolgere un cattivo lavoro:

 «Se avete a cuore una causa e vi impegnate in attività collettive divertenti, stimolanti e che accrescono la vostra sensazione di solidarietà, quasi certamente non state facendo del bene alla causa».

Sorvoliamo su come sia possibile costruire e abitare un mondo divertente e stimolante e ricco di solidarietà, senza averne mai fatto esperienza e godimento. Il prerequisito per creare il mondo che vogliamo è stare male, chiaro?)

Dal canto suo, Baldwin comprendeva il rischio di concentrarsi sulla cosiddetta libertà interiore anziché conquistare e mantenere il potere politico.

 Ma metteva in guardia anche dal pericolo di ignorare la prima a favore della seconda. In effetti, subito dopo aver rimarcato il fardello della libertà, scrive:

«Mi si obietterà che sto parlando di libertà politica in termini di morale, ma il fatto è che le istituzioni politiche di qualunque paese sono sempre minacciate e, in definitiva, sono rette e guidate dalle condizioni morali del paese».

Sempre minacciate e, in definitiva, rette e guidate. Che cosa significa? Datevi pure ai sondaggi, ma è impossibile quantificare o tracciare questa relazione. Non si può misurare uno stato morale che supererebbe il test di Arendt come fatto dimostrabile.

 Ma se c’è una cosa che l’era Trump, e le campagne di disinformazione che l’hanno inaugurata, ha reso lampante, è che «la politica è sempre emotiva».

 È somatica: i picchi libidinali trapelano dal nostro corpo, sono trasformati in codice binario, ci sono riproposti come guerre sui social che a loro volta influiscono sul nostro stato somatico ed emotivo quotidiano, oltre che sui risultati delle elezioni.

 Le persone sviluppano tremori, un’alta pressione sanguigna o il reflusso, quando vedono i bambini migranti separati dai loro genitori alla frontiera; un’attivista di “Black Lives Matter” che piangeva il fratello ucciso dalla polizia è caduta in coma dopo un attacco di asma ed è morta a ventisette anni;

 il fallimento del governo nella gestione della pandemia ha provocato un’impennata di dolori cronici, abusi e autolesionismo. In questo vortice, non dobbiamo aver paura della cosiddetta oscurità nel cuore umano, né convincerci che sia nettamente distinta dalla «portata reale e mondana», come la definisce Arendt.

Invece, potremmo chiederci: perché il progetto di sentirsi bene, per dirla con Moten, «è quasi sempre osceno sia dalla prospettiva di chi comanda sia di chi resiste»?

 Qual è il rapporto tra «sentirsi bene» e «sentirsi liberi»? Che effetto ha sulla nostra comprensione (o esperienza) dei due termini, l’insistenza – così americana – che la libertà conduca al benessere o che più libertà conduca a più benessere?

Come possiamo discernere – o a chi spetta discernere – quale tipo di «sentirsi liberi» o «sentirsi bene» nasce o si nutre della cattiva fede (o del peccato – ecco allora l’invocazione dell’oscenità, cioè «assistere a qualcosa d’immondo»), e quale invece è fecondo e trasformativo?

Come si può parlare di sentirsi bene e di sentirsi liberi senza dimenticare, come ci ricorda Nietzsche, che il desiderio di potenza fa «sentire bene» certe persone?

 Che fare delle sensazioni positive date dalle esperienze di costrizione, di obbligo, di resa della libertà e di quelle negative date dal sentirsi disancorati, superflui o unici detentori della libertà?

Che fare della libertà catastrofica, elettrizzante, di non aver «niente da perdere», dove la morte può rappresentare un asintoto o la fine del gioco? Freedom is mine and I know how I feel, la libertà è mia e io so come mi sento, cantava Nina Simone in una can zone intitolata – cos’altro? – «Feeling Good».

Da che pulpito io, o altri, possiamo accusarla di falsa coscienza, concludendo che il suo sentimento di libertà sia privo di potenza, capacità di propagazione, valore in sé?

Come si può pretendere di sapere o giudicare la piena natura e la portata di quella propagazione, quando avviene nel corso del tempo, è ingovernabile e continua a viaggiare, persino mentre scrivo?

Per confrontarmi con queste domande, ho scelto come guida le parole dell’antropologo David Graeber, che in Possibilities scrive:

«L’azione rivoluzionaria non è una forma di abnegazione, una dedizione cupa a fare tutto il necessario per raggiungere un mondo di libertà futura. È l’ostinazione sprezzante a comportarsi come se si fosse già liberi».

 Le prossime pagine si concentrano sulle persone che hanno agito così, perché credo ci sia una linea sfocata se non illusoria tra il fare «come se» e «l’essere» per davvero.

Mi insospettisce chi pretende di saper dettare la differenza, e pure chi ambisce a sminuire o offuscare il fatto che sentirsi liberi, sentirsi bene, sentirsi emancipati, sentirsi uniti, sentirsi potenti, può essere letteralmente contagioso, può avere la forza di frantumare l’illusione non solo della separazione delle sfere, ma anche del presunto sé.

Lavoro paziente.

Il libro sulla libertà che avete tra le mani si è rivelato anche un libro sulla cura, e non mi stupisce; ho già sondato questo intreccio in passato. Mi ha stupito invece che scrivere di libertà, e in qualche misura di cura, significasse anche scrivere di tempo.

 

 Questo libro ha richiesto molto tempo. O almeno, quello che sembra un tempo molto lungo. Tra tutti i generi letterari, la critica sembra sempre richiedere più tempo. Per questo forse Foucault l’ha descritta come «un lavoro paziente che dà forma alla nostra impazienza di libertà». Mi sembra giusto.

Il lavoro paziente si distingue dai momenti di liberazione o dalle sensazioni fugaci di libertà perché continua.

 Siccome continua, offre più spazio e tempo per sensazioni variegate, persino contraddittorie, come la noia e l’entusiasmo, la speranza e la disperazione, la determinazione e l’apatia, l’emancipazione e la coercizione, il sentirsi bene oppure no.

Questi tentennamenti possono rendere più difficile riconoscere che il nostro lavoro paziente è una pratica di libertà. «L’arte è come stare in prigione con una limetta per le unghie e cercare di evadere» ha detto l’artista britannica Sarah Lucas; con il tempo, ho iniziato a provare qualcosa di simile per la scrittura.

È un cambiamento: se non ricordo male, quando ero più giovane la scrittura era uno strumento per «sentirmi libera». Mentre adesso mi sembra un incontro forzato e quotidiano con i miei limiti, siano essi di trattazione, energia, tempo, conoscenza, concentrazione o intelligenza.

La buona notizia è che queste difficoltà o aporie non influiscono sull’effetto del nostro lavoro sugli altri. In effetti, mi sembra sempre più spesso che l’obiettivo del nostro lavoro paziente non sia la liberazione in sé, ma una capacità più profonda di lasciar andare, un attaccamento sempre minore al risultato.

Il discorso buddista sulla liberazione segue come un’ombra questa idea di lavoro paziente, di libertà come lotta politica interminabile, perché la libertà assoluta è immediatamente accessibile attraverso le attività più banali come la respirazione.

Sentite per esempio come raggiungere la liberazione secondo il monaco buddista vietnamita Thích Nhất Hạnh:

 “Quando l’inspirazione è il tuo unico pensiero, lasci andare tutto il resto. Diventi una persona libera. La libertà è possibile con l’inspirazione. Si può raggiungere in due, tre secondi. Lascia andare tutti i dispiaceri e i rimpianti del passato. Lascia andare tutte le incertezze e le paure del futuro. Ti godi l’inspirazione; sei una persona libera. È impossibile misurare il grado di libertà di una persona che sta inspirando nella meditazione». Non sto chiedendo di crederci, non sto dicendo che io l’abbia provato. Ma sono aperta alla possibilità. Se non fosse possibile, non vi chiederei di farlo”, dice il Buddha.

Sulla libertà non sostiene che il respiro nella meditazione ci garantirà equità e giustizia sociale o invertirà la rotta del riscaldamento globale.

Ma se vogliamo sbarazzarci della propensione alla paranoia, alla disperazione, alla sorveglianza, che minaccia e controlla persino i benintenzionati – propensioni che, assecondate di continuo, plasmano le possibilità del presente e del futuro – ci serviranno dei metodi per sentire e sapere che esistono altri modi di essere: non solo in un futuro rivoluzionario che potrebbe non arrivare mai, né in un passato idealizzato che probabilmente non è mai esistito o è ormai perduto per sempre, ma nel qui e ora. È questo che intende Graeber con «comportarsi come se si fosse già liberi».

 E se qualche volta significa proteste e fantocci (nello stile di Graeber), altre volte significa sviluppare pratiche più sottili per sopportare l’indeterminatezza, e le gioie e i dolori del nostro rapporto ineludibile.

 

 

 

La Russia deve perdere il suo potere

nefasto... Kherson "sconfitta" e incapacità

di influenzare le elezioni statunitensi!

Strategic-culture.org – Redazione – (11 novembre 2022) – ci dice:

 

Se seguiamo la logica filorussa, allora l'anti-climax di medio termine significa che Mosca sta perdendo il suo presunto potere di influenza maligna.

Le elezioni di medio termine negli Stati Uniti questa settimana si sono rivelate un anti-climax in più di un modo. È successo davvero poco. I cani non abbaiavano, come avrebbe potuto dire Sherlock Holmes.

La presidenza Biden ora andrà avanti per i prossimi due anni come un'amministrazione zoppa, anche se contro una maggiore resistenza repubblicana al suo programma legislativo.

Ma nel grande schema delle cose per la maggior parte degli americani comuni, poco cambierà.

Il Partito della Guerra continuerà a sprecare denaro e vite per alimentare il militarismo per il guadagno dell'imperialismo statunitense quando e dove sarà ritenuto necessario, forse contro la Russia, o forse contro la Cina, l'Iran, la Corea del Nord o qualche altra nazione.

Allora, cosa non è successo?

 Ebbene, non ci sono state violenze nei seggi elettorali tra elettori aspramente opposti, come alcuni avevano temuto.

Il brutale attacco di martello al marito della presidente della Camera Nancy Pelosi la scorsa settimana ha fatto aumentare le preoccupazioni che ci sarebbe stato uno scoppio di violenza politica tra torride tensioni partigiane e febbrili teorie del complotto.

Inoltre, questa volta non c'è stato molto clamore per le "elezioni rubate" ai seguaci repubblicani dell'ex presidente Donald Trump. Quella vecchia affermazione sembra esaurirsi dopo due anni dalla debacle presidenziale del 2020 e dalle affermazioni infondate di "frode elettorale".

In particolare, non c'era una vittoria schiacciante prevista o "Onda rossa" per i repubblicani. Quest'ultimo è il più di destra dei due partiti principali.

L'emblematico colore rosso sfida la consueta associazione in tutto il mondo tra il rosso e la politica di sinistra. In genere, gli Stati Uniti sfidano le normali definizioni politiche.

I candidati approvati da Trump hanno mostrato prestazioni complessivamente scarse alle urne.

Alla fine, si è trattato di un'elezione "che nessuno ha vinto", come affermano in modo piuttosto curioso i media statunitensi.

Si prevedeva che il presidente Joe Biden e il suo, diciamo di centro-destra, Partito Democratico - il Partito Blu - avrebbero ricevuto una batosta da parte degli elettori irritati dall'aumento del costo della vita.

Sorprendentemente, tuttavia, c'è stata solo una reazione leggermente contenuta contro i Democratici. Il partito sembra essersi aggrappato allo stretto controllo del Senato, la camera alta.

Nel frattempo, la Camera dei Rappresentanti è passata al controllo repubblicano, ma solo marginalmente.

Il presidente Biden e i Democratici sono stati contenti dell'umido squib semplicemente perché non è stato un massacro elettorale, come prevedevano molti esperti.

La conclusione realistica e molto più schiacciante sul risultato ambivalente e deludente è che gli elettori americani non sono colpiti né dai democratici né dai repubblicani.

Biden ha parlato ottimista di "una buona giornata per la democrazia" mentre i voti venivano tabulati.

La verità è che era più un vergognoso spettacolo di fallimento. Come è diventata la norma nelle elezioni di medio termine negli Stati Uniti, l'affluenza alle urne è stata inferiore al 50%.

Cioè, più della metà dei cittadini americani non può preoccuparsi di votare. Perché alla fine sanno che non c'è molto da scegliere tra due partiti che sono controllati dalle grandi imprese, l'oligarchia, Wall Street e il complesso militare-industriale.

I democratici sono stati in una certa misura rimproverati dagli elettori, ma i repubblicani non sono riusciti a ottenere guadagni significativi.

Ciò significa che il sistema politico è più che mai bloccato tra Tweed le Dee e Tweed le Dum. Democratico e Repubblicano. Blu e Rosso. Qual è la differenza? Sono entrambi i lati dello stesso Partito della Guerra. E quel partito è finito, per quanto riguarda la maggior parte degli elettori americani.

Mentre i cittadini americani, come quelli di tutta Europa, sono sferzati da gravi difficoltà economiche, la cabala di Washington e i suoi vassalli europei stanno versando decine di miliardi di dollari per alimentare una guerra in Ucraina che sta minacciando di sfuggire al controllo.

Segnali tardivi sulle aperture di pace e Washington che spinge il regime di Kiev al tavolo dei negoziati con la Russia non reggono al controllo.

Non commettere errori: i repubblicani sono spietati e militaristi come i democratici.

Potrebbero esserci state delle lamentele in vista delle elezioni di questa settimana sugli aiuti militari "assegno in bianco" all'Ucraina, ma quando i chip saranno in calo i repubblicani eseguiranno gli ordini del complesso militare-industriale con entusiasmo quanto i democratici.

Ciò spiegherebbe perché gli elettori americani hanno evidentemente tenuto il naso in massa l'8 novembre e si sono rifiutati di scegliere tra entrambe le fazioni politiche della plutocrazia, incluso il "populista" ciarlatano Donald J Trump.

Un'ulteriore osservazione sorprendente è evidentemente la totale assenza di “influenza russa” sulle elezioni americane.

Quella canard è in circolazione dal concorso presidenziale del 2016, quando Trump ha preso la Casa Bianca negando alla rivale democratica Hillary Clinton una vittoria prevista.

L'amministrazione di Trump è stata perseguitata da affermazioni implacabili fatte dai Democratici e dai loro media di supporto secondo cui la Russia avrebbe interferito nel concorso del 2016 per far eleggere Trump.

Che assurdo! Solo in America tale pensiero depoliticizzato e paranoico potrebbe diventare mainstream.

Ancora una volta, la verità è che Trump ha toccato gli elettori anticonformisti nel 2016 che erano gravemente stanchi del duopolio democratico e repubblicano.

Hanno dato una possibilità a un estraneo all'epoca per disperazione, solo per poi scoprire che Trump non era molto diverso. È una creatura della "palude" di Washington come qualsiasi altro politico che viene comprato e pagato dalle grandi imprese e dagli interessi corporativi dell'imperialismo statunitense.

Ecco perché questa volta Trump e i suoi simili repubblicani hanno perso il loro splendore. Sono stati brontolati dagli elettori statunitensi come parte dello stesso ceppo e racket bipartitico.

 

La conclusione cruda e che fa riflettere è che la stragrande maggioranza dei lavoratori americani non è rappresentata dalle loro élite di governo.

 Non è palesemente democrazia e quello spettacolo nudo è di per sé sovversivo. Gli Stati Uniti non sono altro che un'oligarchia con uno spettacolo finanziato dalle aziende ogni due anni tra le elezioni presidenziali e quelle di medio termine.

Il mancato risultato elettorale sfata totalmente le stanche e logore speculazioni secondo cui la Russia stava complottando per interferire (di nuovo) al fine di catapultare Trump e i repubblicani al dominio nelle due camere del Congresso.

L' idea contorta era che la Russia avrebbe preferito al regime di Kiev i repubblicani che avevano espresso una certa circospezione sulla guerra in Ucraina e sui massicci aiuti militari statunitensi in corso.

 Come già notato, qualsiasi lamentela da parte dei repubblicani sull'Ucraina deve essere presa con le pinze. La classe dirigente statunitense e i suoi interessi imperiali possiedono e prevalgono su entrambe le parti.

Come ha osservato ironicamente un commentatore critico americano: il complesso militare-industriale è sempre il vincitore delle elezioni americane. Forse le cose potrebbero cambiare in futuro se emergesse un partito politico che rappresenti effettivamente gli interessi dei lavoratori americani.

Ahimè, solo per ridere, badate bene, se seguiamo la logica russo-fobica, l'anti-climax di medio termine significa che Mosca sta perdendo il suo presunto potere di influenza maligna.

Opportunamente, anche, nella stessa settimana in cui i media occidentali cantavano sulla “sconfitta” della Russia nella città di Kherson (piuttosto che sul ritiro strategico).

O forse una spiegazione più razionale è semplicemente questa: la democrazia statunitense è un pasticcio disfunzionale di sua creazione.

 

 

 

De-conflitto con l'Occidente:

il progetto Valdai funzionerà?

Strategic-culture.org - Alastair Crooke – (11 novembre 2022) – ci dice:

 

Per decifrare il vero potenziale del recente discorso di Valdai del presidente Putin – per il de-conflitto con l'Occidente – dobbiamo rivolgerci, paradossalmente, al XV secolo.

L ' 'evento' del XV secolo fu la 'scoperta' di un testo che irruppe nella Firenze dei Medici, mandando l'Europa in un vortice di eccitazione.

 Era un insieme di testi chiamati “Hermetica” che erano ben noti per l'esistenza: erano stati venerati da scrittori, come Clemente di Alessandria († 220 d.C.) e Origene († 253), come una straordinaria fonte di conoscenza interiore: molto precedente a quella del cristianesimo.

C'era solo un problema: nessuno in Europa l'aveva letto.

Quindi un agente incaricato da Cosimo di Medici, di raccogliere per suo conto scritti greci appena disponibili, giunse a Firenze nel 1462 con un documento dalla Macedonia che Cosimo acquistò istantaneamente dal suo esploratore.

Era la leggendaria venerata “Hermetica” che era arrivata a Firenze.

Era stato trascritto da persone di lingua greca, da qualche parte tra il 100 e il 300 d.C., ma da testi egizi molto precedenti.

La scoperta di papiri di testi ermetici nell'Egitto centrale negli anni '40 ha mostrato che si tratta di adattamenti di materiale derivante dall '"Intelligenza di Re" - L'Uno - la Mente divina onni-pervadente, e quindi riflette una tradizione intellettuale e una scienza che raggiunge molto indietro nel tempo.

Cosa c'entra questo con il discorso di Valdai di Putin?

Bene, parecchio, sia per analogia, sia anche per avvertimento.

Perché allora – il XV secolo – fu anch'esso un periodo di oscuri presagi, poiché la forza vorticosa del vorace letteralismo protestante si stava insinuando nel cristianesimo tradizionale – che, fino ad allora, aveva lottato per mantenere il suo posto tra un mondo letterale e quello dell'interiorità illuminazione.

 Ovunque il cristianesimo tradizionale cercasse di fabbricare i suoi vasi, il dubbio critico sarebbe seguito, distruggendoli.

La guerra aperta tra le sette cristiane sembrava inevitabile, con conseguenze catastrofiche per la parola occidentale.

Lo storico Francis Yates ha suggerito che il Papa incoraggiasse tranquillamente la traduzione di questi testi ermetici.

 Il Papa ha auspicato che la loro nozione centrale – che la radice della realtà, inerente a una multidimensionalità e alla delitteralizzazione operata dal pensiero per immagine – potesse consentire una sintesi delle fazioni europee sull'orlo della guerra.

 

Giulio Camillo, uno dei più famosi pensatori del Cinquecento, scrivendo su cosa possa significare 'immagine', dice che l’Ermetica “prende l'immagine e la similitudine per la stessa cosa, e il tutto per il grado divino”.

Questo tipo di interpretazione simbolica, piuttosto che letterale, del cristianesimo, creò all'epoca un'immensa eccitazione e speranza. Quest'ultimo si diffuse in tutta Europa, compresa l'Inghilterra protestante - a John Dee, il più grande filosofo del suo tempo, e stretto consigliere della regina Elisabetta I.

Sembrava offrire una via di fuga dalle nubi sempre più scure della Riforma e della Controriforma.

In ogni caso, Yates insiste sulla massiccia influenza degli “Hermetica”. Non solo in Italia, ma nell'Inghilterra protestante, l'Hermetica aveva avuto un profondo effetto sulla cerchia che circondava la regina Elisabetta I. Sir Philip Sydney, Sir Walter Raleigh, John Dunne, Christopher Marlowe, William Shakespeare, George Chapman e Francis Bacon stavano tutti bene conosceva i testi ermetici.

L'analogia con Valdai ora dovrebbe essere chiara: il discorso di Valdai è incentrato sulla visione di 'un concerto' di visioni di civiltà polivalenti (come sfaccettature della civiltà, di per sé ), e su una multidimensionalità.

Allo stesso modo, nel paradigma Valdai, civiltà diverse possono perseguire valori spirituali distinti con l'etica che in essi è inerente, alla base anche di sistemi politici ed economici differenziati.

Ma, in un terribile avvertimento per noi oggi – Nel 1614, uno studioso chiamato Isaac Casaubon pubblicò una 'analisi'' dell’ Ermetica , che affermava, ma non era altro che un povero intruglio di filosofia greca, cristiana ed ebraica, mescolato con un tocco di astrologia e magia.

Era quello che oggi chiameremmo un lavoro con l'accetta psyops, finanziato da Giacomo I con una motivazione particolare in mente. L'ultra-ortodosso Giacomo I d'Inghilterra (e Giacomo VI) di Scozia, era profondamente in contrasto con l'umore del regno della regina Elisabetta, e aveva impiegato (che è pagato) Casaubon e altri per screditare ed eliminare i cosiddetti 'magicamente inclini ' Corte di Elisabetta I.

L'assassinio letterario di Casaubon ebbe uno straordinario successo: con l'incoraggiamento della chiesa cristiana, la sua critica schiacciante fu semplicemente data per scontata.

Perché, nelle tensioni psichiche dei tempi, i tentativi della chiesa cristiana di districare razionalmente i suoi nodi della divinità letteralizzata, portarono a un rifiuto assoluto e incrollabile dell'«altro paradigma»; o a qualsiasi fantasiosa risoluzione ermetica al letteralismo muscolare. Quella prima ricettività vaticana era svanita.

Casaubon aveva inferto all'antica tradizione un colpo fatale dal quale non si riprese mai del tutto.

Nel 1860, Jakob Burckhardt pubblicò " La civiltà del Rinascimento in Italia ", in cui sosteneva che il Rinascimento era solo una società laica di individui dotati che "si divertivano" negli scritti, nell'arte e nei valori pagani, ma che era completamente superata e eclissato dallo spirito della metodologia empirica (illuministica).

Ancora una volta, possiamo osservare lo svolgersi dell'analogia con Valdai: questa reazione 'illuministica' non si riflette nel discorso di oggi?

"L'economia cinese non è che una versione povera del modello neoliberista occidentale che "gioca" con un'eredità confuciana e taoista".

E la rinascita ortodossa della Russia non è altro che un gioco di potere, escogitato da un patriarca ortodosso e dal presidente Putin.

La realtà – insistono i fanatici contrari alla polivalenza eurasiatica – è che tutto ciò che la Cina e la Russia tentano non è che un povero 'decollo' del modello di mercato anglo e liberale basato sulla scienza e sul tech-managerialismo.

Nessun lavoro ha fatto più delle distorsioni di Burckhardt per separare gli europei occidentali dalle stesse fonti della loro stessa tradizione intellettuale.

In “The Reformation of the Image” di Joseph Koerner , l'autore suggerisce che "il rifiuto" delle radici intellettuali europee rifletteva un odio basato sull'insistenza assoluta sul fatto che ci deve essere una distinzione univoca tra verità e falsità e una conseguente incapacità di accettare l'implicito o metaforico.

La profonda insicurezza dei tempi esigeva autenticità, verità letterale e unicità di significato.

Per il protestantesimo, l'ermetismo divenne un semplice culto del diavolo; per il puritanesimo, era adorazione e idolatria del diavolo; per i filosofi materialisti e razionali era superstizione; e per gli scienziati era considerato un'assurdità.

Quando la coscienza europea si oscurò e l'età fu oscurata dalla caccia alle streghe e dalle accuse di eresia e adorazione del diavolo, l'intero movimento neoplatonico ed ermetico affondò, in mezzo a "nuvole di voci demoniache".

 

Il "mago" rinascimentale si trasformò in Faust. È scomparso dalla gamma di idee intellettualmente rispettabili ed è stato spinto così in profondità nell'inferno - che gli uomini assennati hanno presto temuto di esservi associati.

Il neoplatonismo fu sminuito e disprezzato come un primitivo dilettarsi nella magia diabolica. I testi ermetici furono "smascherati" come falsi, e con esso la sostanza della tradizione presocratica semplicemente svanì alla vista, divenendo nient'altro che il balbettante tentativo di dire ciò che solo Aristotele, finalmente, aveva saputo articolare con qualsiasi scioltezza.

Pico della Mirandella, celebre ermetico, morì di veleno; Sir Walter Raleigh fu imprigionato nella Torre di Londra; Il dottor Dee è stato evitato ed escluso dalla società, diffamato e attaccato da una folla inferocita; la sua grande biblioteca saccheggiata.

Considerato il più grande filosofo in Inghilterra del suo tempo, Dee morì solitario e indigente; e Giordano Bruno, un importante ermetico italiano, sopportò otto anni di torture durante i quali si rifiutò di ritrattare; prima nel 1600, essendo condotto in Piazza dei Fiori a Roma, cerimonialmente per essere bruciato vivo.

Ciò che aveva così affascinato la mente del primo Rinascimento era il potenziale per la partecipazione co-creativa umana allo sviluppo di una vera coscienza sociale.

Pertanto, la partecipazione allo schema putiniano degli stati di civiltà – raggiunto attraverso un “ritorno” ai vecchi valori – implica essenzialmente un atto di mimesi.

Attraverso la scelta di quali aspetti di quali idee, immagini, modelli di pensiero, modelli di comportamento, icone dell'ascesa umana selezionare e in che modo imitarli, lo schema Valdai riecheggia in qualche modo i valori rinascimentali e offre quindi il potenziale per ri -connettersi alle fonti antiche condivise con le nostre distinte civiltà.

Secondo il neurologo Iain McGilchrist, scrivendo nel suo libro “The Master and his Emissary“, “ la rappresentazione mentale – in altre parole, l'immaginazione – mette in gioco alcuni degli stessi neuroni coinvolti nella percezione diretta.

 È chiaro da ciò che anche quando immaginiamo di fare qualcosa, non importa in realtà imitarla; è, a un certo livello, tutt'altro che trascurabile, come se lo stessimo effettivamente facendo noi stessi”.

"L'importanza schiacciante della mimesi suggerisce anche che i comportamenti che imitiamo:

Possiamo tramandare: si pensa che questi siano meccanismi mediante i quali le capacità cerebrali e le capacità cognitive acquisite durante una singola vita umana potrebbero essere trasmesse alla generazione successiva.

Questi meccanismi epigenetici non sembrano dipendere tanto da alterazioni dell'effettivo sequenziamento del DNA all'interno dei geni, ma da fattori che influenzano ciò che è espresso da quel DNA immutato, così che certi modi di pensare modellano l'individuo sistema nervoso strutturalmente – oltre che funzionalmente”.

I neoplatonici rinascimentali avevano già implicitamente compreso questi concetti neurologici dalla cosiddetta tradizione ermetica ed ellenica "magica", che era sempre stata parte integrante della filosofia antica.

 Hanno anche intenzionalmente e fantasiosamente 'abitavano' i grandi personaggi dell'Antichità. Questa fu letteralmente la fonte dell'effusione rinascimentale dell'energia creativa.

Petrarca (1304–1374 d.C.) scrisse lunghe lettere ai suoi "famigli interiori": Livio, Virgilio, Seneca, Cicerone e Orazio, i quali ovviamente erano tutti morti da tempo. Erasmo pregò Socrate, anch'egli giustiziato da tempo. Marcilio Ficino istituì a Firenze un'accademia sul modello dell'Accademia ateniese, e nella quale fu rievocato il "Simposio" di Platone nel giorno dell'anniversario del compleanno di Platone.

 La filosofia allora era un "modo di vivere" che si basava fortemente sull'interazione empatica con le icone, sia visibili che non più visibili.

Questa esperienza di 'abitare immaginativo' non è però più un'esperienza che è 'nostra' oggi. Nell'odierno sistema meccanico di causa ed effetto universalmente adottato, le cause sono antecedenti ai loro effetti e, per così dire, spingono da dietro.

L'implicazione di tale logica è che in definitiva ciò che ci accade è determinato da eventi precedenti: andiamo dove siamo spinti: se qualcuno fa qualcosa di inspiegabile, allora ci deve essere una causa diretta, di solito presunta di natura utilitaristica.

E se gli eventi accadono nel mondo, sono il risultato diretto di una causa semplice. In questo modo, tutto ciò che accade è definito da qualcosa di passato, qualcosa di già 'conosciuto', in senso empirico. Niente può essere veramente nuovo.

Ma, adottando l'ottica ermetica – lasciandoci trascinare, come magneticamente, nell'abitare certi valori e narrazioni fondamentali – possiamo liberarci dal peso storico.

 Questo era l'aspetto creativo dell'ermetismo che tanto eccitava i suoi aderenti. “Se, quando immaginiamo di fare qualcosa, non importa in realtà di imitarlo, è a un certo livello, come se lo diventassimo davvero – allora siamo 'liberi' di 'lasciare andare' la semplice causalità fisica – derivante da eventi passati che in qualche modo determinano inevitabilmente il "nostro presente".

È anche un modo diverso di concepire la sovranità.

 Racchiude al suo interno l'idea che la sovranità si acquisisca, agendo e pensando sovrana. Quel potere sovrano nasce dalla fiducia di un popolo che ha la sua storia distinta e chiara, la sua eredità intellettuale e il suo magazzino spirituale a cui attingere e da cui differenziarsi.

Sono queste le gemme nascoste all'interno del discorso di Valdai del presidente Putin, che in qualche modo si confrontano con il teatro della memoria di Giulio Camillo, inteso come un sistema di impronta della memoria che consente al mondo di essere nuovamente visto come un tutto unitivo.

 

 

 

Governano sulla rovina

disfunzionale, ma governano.

Strategic-culture - Alastair Crooke – (31 ottobre 2022) – ci dice:

 

Dal 2008 viviamo in un mondo occidentale modellato dallo 'stato permanente' o dai nostri tecnocrati manageriali – etichetta a scelta.

Questa "classe creativa" (come amano vedersi) è definita in particolare dalla sua posizione intermedia in relazione alla cabala oligarchica che controlla la ricchezza come ultima dei signori del grande denaro da un lato, e la noiosa "classe media" al di sotto di loro - a cui sogghignano e deridono.

Questa classe intermedia non si proponeva di dominare la politica (si dice); È appena successo.

Inizialmente, l'obiettivo era promuovere valori progressisti.

Ma invece, questi tecnocrati professionisti, che entrambi avevano accumulato notevoli ricchezze ed erano strettamente riuniti in cricche nelle grandi aree metropolitane americane, arrivarono a dominare i partiti di sinistra in tutto il mondo che un tempo erano veicoli per la classe operaia.

Coloro che bramavano l'appartenenza a questa nuova "aristocrazia" coltivavano la loro immagine di cosmopolita, denaro in rapido movimento, glamour, moda e cultura popolare: il multiculturalismo si adattava loro alla perfezione.

Dipingendosi come la coscienza politica dell'intera società (se non del mondo), la realtà era che il loro Zeitgeist rifletteva principalmente i capricci, i pregiudizi e le sempre più psicopatie di un segmento della società liberale.

In questo ambiente sono arrivati ​​due eventi determinanti: nel 2008, Ben Bernanke, presidente della Federal Reserve, si è riunito all'indomani della crisi finanziaria globale, una stanza piena degli oligarchi più ricchi, "rinchiudendoli" finché non hanno trovato la soluzione al dispiegarsi del fallimento sistemico della banca.

Gli oligarchi non hanno trovato una soluzione ma sono stati comunque liberati dal loro lock-up.

Hanno invece optato per investire denaro in problemi strutturali, aggravati da eclatanti errori di giudizio sul rischio. E per finanziare le enormi perdite risultanti – che sono state di oltre 10 trilioni di dollari solo negli Stati Uniti – le banche centrali del mondo hanno iniziato a stampare denaro – da quando non hanno mai smesso!

Così iniziò l'era in Occidente in cui i problemi profondi non vengono risolti, ma semplicemente vengono lanciati contro di loro denaro appena stampato.

Questa metodologia è stata adottata con tutto il cuore anche dall'UE, dove è stata chiamata merkelismo (dal nome dell'ex cancelliere tedesco). Le contraddizioni strutturali sottostanti sono state semplicemente lasciate accumulare; buttato giù per la strada.

Una seconda caratteristica distintiva di quest'epoca era che quando i grandi oligarchi si ritirarono dalla produzione industriale e si gettarono nell'iper-finanziarizzazione, videro vantaggio nell'adottare la fiorente agenda Metro-Élite incentrata su ideali utopici di diversità, identità e giustizia razziale - ideali perseguiti con il fervore di un'ideologia astratta, millenaria.

 (I loro leader -tra cui Klaus Schwab -non avevano quasi nulla da dire sulla povertà o sulla disoccupazione, il che si adattava perfettamente agli oligarchi).

Così, spiando il vantaggio, anche gli Oligarchi si fecero radicali.

 Guidati da Rockefeller e “Ford Foundations”, “Big Philanthropy and Business”, hanno adottato codici di pensiero e discorso svegli.

E ha approvato il mettere la ricchezza direttamente nelle mani di coloro che sono stati sistematicamente vittimizzati, nel corso della storia. Ma ancora una volta, il profondo cambiamento strutturale nella società è stato affrontato in modo superficiale, semplicemente spostando denaro da "una tasca all'altra".

 

Il vero problema della crisi del 2008, tuttavia, non era essenzialmente finanziario. Sì, le perdite sono state spostate dai bilanci delle istituzioni in dissesto a quello della Fed, ma i veri problemi strutturali non sono mai stati affrontati.

Così, la gente ha presto creduto che quasi tutti i problemi potessero essere risolti da codici vocali e di pensiero, sposati con la stampa.

I compromessi politici non dovevano più essere considerati un requisito. Costi non più rilevanti.

In questo ambiente, nessun problema era troppo grande da risolvere attraverso le tecniche di gestione comportamentale e la banca centrale.

 E se non ci fosse una crisi per imporre e "liquidare" il cambiamento dell'agenda, allora se ne potrebbe inventare una. E, ovviamente, non appena la Fed americana ha iniziato a tornare alle politiche "normali" nel 2018 e nel 2019, è stata trovata una nuova crisi ancora più grande.

Non sorprende che, nel contesto di ciò che è stato visto come un fallimento delle riforme dei diritti civili e del New Deal, i movimenti di attivisti finanziati dai "fondi ricchi" oligarchici siano diventati più radicali.

Hanno adottato un attivismo culturale rivoluzionario schierato per "risolvere i problemi una volta per tutte" - mirato a determinare un profondo cambiamento strutturale all'interno della società.

Ciò significava spostare ancora una volta il potere dalla classe media liberale "che era così spesso bianca e maschile" - e quindi faceva parte dell'ingiustizia strutturale della società.

In parole povere, la classe media occidentale è stata vista dai tecnocrati come una spina nel fianco.

Il punto qui è che ciò che mancava in tutti i discorsi sui percorsi di "discriminazione positiva" a favore delle "vittime" era l'altra faccia della medaglia: la discriminazione dannosa negativa praticata contro coloro che "bloccavano il percorso" - coloro che non riescono a uscire dal modo.

Il Manifesto del revivalista di Scott McKay chiama questo processo discriminatorio ostile, "fallimento del governo armato", come la disfunzionalità del governo indotta nelle città degli Stati Uniti per allontanare la classe media.

 “'Volo bianco' è una caratteristica. Non è un insetto”, predicavano i suoi sostenitori.

 La sinistra socialista urbana vuole un nucleo gestibile piccolo di residenti ricchi e una massa brulicante di poveri malleabili, e niente in mezzo.

Questo è ciò che produce il fallimento del governo armato, ed è stato un successo su larga scala.

New Orleans vota per il 90% democratico; Filadelfia è democratica per l'80%; Chicago è l'85 per cento. Los Angeles? Settantuno per cento.

Nessuna di queste città avrà di nuovo un sindaco o un consiglio comunale repubblicano, o almeno non nel prossimo futuro.

 Il Partito Democratico esiste a malapena al di fuori delle rovine che producono quelle macchine urbane.

Il messaggio più grande è che la 'disfunzionalità indotta' può produrre una società che può essere governata (resa conforme a causa della spiacevolezza e del dolore) – senza doverla governare (cioè far funzionare le cose!).

Questo processo è evidente anche nell'UE oggi. L'UE è in crisi perché ha fatto della sua governance un hashish rispetto alle sanzioni contro l'energia russa.

 La classe dirigente pensava che gli effetti delle sanzioni dell'UE sulla Russia fossero "schiacciate": la Russia si sarebbe piegata in poche settimane e tutto sarebbe tornato come prima.

Le cose sarebbero tornate alla "normalità". Invece, l'Europa rischia il tracollo.

Eppure, alcuni leader in Europa – fanatici della Green Agenda di Klaus Schwab – perseguono comunque un approccio parallelo a quello statunitense – del 'fallimento armato', concepito come una risorsa strategica per raggiungere gli obiettivi Green Net Zero.

Perché... costringe le loro società ad abbracciare la deindustrializzazione; accettare il monitoraggio dell'impronta di carbonio e la transizione verde e sopportarne i costi.

 Yellen e alcuni leader dell'UE hanno celebrato il dolore finanziario come un'accelerazione della transizione, che ti piaccia o no, anche se ti spinge fuori dal lavoro, ai margini della società.

Gli aeroporti europei disfunzionali sono un esempio per scoraggiare gli europei dal viaggiare e aumentare il carico di carbonio!

In parole povere, questo è un altro tratto nocivo emerso con la "svolta" del 2008.

 La sociopatia si riferisce a un modello di comportamenti e atteggiamenti antisociali, tra cui manipolazione, inganno, aggressività e mancanza di empatia per gli altri che equivale a disturbo mentale.

La caratteristica distintiva del sociopatico (ad esempio Klaus Schwab) è una profonda mancanza di coscienza, un'amoralità tuttavia, che può essere nascosta da un comportamento esteriormente affascinante.

"Spingerci" verso la conformità attraverso i costi, o rendere la vita intollerabile, è il nuovo modo di governare.

Ma il nostro mondo si sta rapidamente frammentando in zone invasate di "vecchia normalità" e circostanti pozze di disintegrazione.

Il che ci porta alla grande domanda: mentre l'Occidente evita di nuovo il fallimento del sistema economico, perché non chiamare insieme i miliardari Oligarchi, come nel 2008, e chiuderli in una stanza, finché non trovano una soluzione?

Sì, gli oligarchi possono tenersi in grande considerazione (essendo così ricchi), ma il loro ultimo sforzo non ha dato soluzione, ma è stato piuttosto un esercizio di autoconservazione, ottenuto lanciando denaro appena stampato su ampi problemi strutturali, facilitando così la transizione di i loro imperi nella loro nuova identità finanziarizzata.

Tuttavia, qualcosa sembra essere cambiato intorno al 2015-2016: è iniziata una reazione.

Quest'ultimo non proviene dagli oligarchi, ma da alcuni ambienti del sistema statunitense che temono le conseguenze, se non si dovesse affrontare la dipendenza psicologica di massa dalla stampa di denaro sempre più grande.

La loro paura è che lo scivolamento verso il conflitto sociale mentre le distorsioni della ricchezza e del benessere esplodono a pezzi, diventi inarrestabile.

La Fed, tuttavia, potrebbe tentare di attuare una demolizione contraria e controllata della bolla economica statunitense attraverso aumenti dei tassi di interesse.

Gli aumenti dei tassi non uccideranno il "drago" dell'inflazione (avrebbero bisogno di essere molto più alti per farlo). Lo scopo è quello di rompere un'abitudine generalizzata di dipendenza dal denaro gratuito.

L'unica domanda dei partecipanti al mercato in tutto il mondo è quando fa perno la Fed (torna alla "stampa") quando?

Vogliono la loro "correzione" e la vogliono rapidamente.

Tanti sono 'dipendenti': l'amministratore Biden ne ha bisogno; l'UE ne dipende; il ripristino richiede la stampa.

Il verde richiede la stampa; il supporto per l'ucraino "Camelot" richiede la stampa. Ne ha bisogno anche il Complesso Militare Industriale. Tutti hanno bisogno di una "correzione" in contanti gratuita.

Forse la Fed può spezzare la dipendenza psicologica nel tempo, ma il compito non è da sottovalutare.

 Come ha affermato uno stratega di mercato: “Il nuovo ambiente operativo è del tutto estraneo a qualsiasi investitore vivo oggi. Quindi, dobbiamo disancorarci da un passato che 'non è più' – e procedere con menti aperte”.

Questo periodo di tassi zero, inflazione zero e QE è stata un'anomalia storica, assolutamente straordinaria. E sta finendo (nel bene e nel male).

Una piccola "cerchia ristretta" della Fed può avere una buona comprensione di cosa significherà il nuovo ambiente operativo, ma qualsiasi implementazione dettagliata semplicemente non può estendersi fedelmente lungo una lunga catena di comando a cascata orientata al paradigma opposto della "Crescita" che invoca 'perno'.

Quante delle persone attualmente coinvolte in questa transizione ne comprendono tutta la complessità? Quanti sono d'accordo?

Cosa potrebbe andare storto? Iniziare il turno in alto è una cosa.

Tuttavia, la cura per la "disfunzione di governance indotta" come strategia operativa in uno "stato permanente" composto da sociopatici “Cold Warriors” e tecnocrati selezionati per la conformità non è ovvia.

I più sociopatici potrebbero dire al pubblico americano F*** you!

Intendono 'governare' – rovinare o no.

 

Europa, una potenza

in divenire.

Legrandcontinent.eu - Charles Michel- (1° aprile 2022) – ci dice:

 

 

Dopo la pandemia, dopo l'Ucraina, come si prepara l'Europa a entrare negli anni Venti?

Uno spunto di dottrina per orientarsi nell'interregno

(Charles Michel).

La notte del 24 febbraio 2022, 160 missili sono stati lanciati dalla Russia verso Ucraina. In Europa, ci siamo svegliati in un mondo diverso.

Non è certo la prima volta che Vladimir Putin sceglie la violenza e l’aggressione: la Georgia è stata invasa nel 2008 e l’Ucraina nel 2014, con l’annessione della Crimea e l’intervento nel Donbass.

 Una forma di nostalgia dell’impero, unita a uno spirito di vendetta e a vere e proprie menzogne ha portato a scatenare una guerra illegale di invasione contro uno stato sovrano e indipendente.

Questa violazione del diritto internazionale e della Carta delle Nazioni Unite è resa ancora più inquietante dal fatto che la Russia è uno stato membro del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

 Poco più di un mese dopo, stiamo contando migliaia di morti, milioni di sfollati interni, milioni di rifugiati, città in rovina – come Mariupol, che è stata cancellata dalla mappa – e crimini di guerra. Tutto questo a meno di 2.000 chilometri da Roma.Di fronte a questi crimini, sorge qualche domanda. Perché Vladimir Putin ha scelto di invadere l’Ucraina? Sembra evidente che non vuole accettare che nella sua “zona d’influenza”, nei suoi “territori storici”, la gente viva, si sviluppi e faccia la scelta di orientarsi verso il mondo libero e democratico.

Questa è stata la scelta coraggiosa del popolo ucraino riunito a Maidan nel 2014. La speranza dei valori europei: pace, prosperità, democrazia e libertà. Questa è la vera ragione della guerra in Ucraina. Vladimir Putin vede la democrazia come una pandemia, la guerra come un vaccino.

La risposta europea all’aggressione russa.

Siamo quindi direttamente interessati – anche se non siamo in guerra con la Russia, poiché vogliamo essere una potenza che resiste al ritorno di un mondo in cui “l’uomo è un lupo per l’uomo” e dove le relazioni internazionali sono guidate da lotte anarchiche per la terra o le risorse, con la guerra come strumento di dominio.

Di fronte a questa nuova aggressione, abbiamo saputo reagire. Oggi, l’autonomia strategica – l’agenda della sovranità continentale – non è più solo una bella idea portata avanti da dei sognatori. Di fronte e grazie a crisi successive – prima il Covid e ora la guerra in Ucraina – stiamo vivendo un risveglio europeo.

Abbiamo compreso un fatto essenziale: sostenere gli ucraini significa sostenere noi stessi.

Sostenere i loro diritti e le loro libertà significa anche difendere i nostri interessi fondamentali: la pace, l’ordine internazionale basato sulle regole, lo stato di diritto, la democrazia.

 Questa è la ragione della reazione dell’Unione Europea prima, e della sua azione poi: unita, forte e rapida. Senza precedenti. 

 

La nostra azione è triplice: assistenza all’Ucraina, sanzioni contro la Russia e azione internazionale.

– L’assistenza all’Ucraina.

Abbiamo messo in piedi un massiccio sostegno finanziario per l’Ucraina. E soprattutto, per la prima volta nella nostra storia, stiamo finanziando la fornitura di armi. Abbiamo deciso di farlo il terzo giorno di guerra, non appena lo stesso presidente Zelensky me lo ha chiesto.

Siamo anche impegnati nel sostegno umanitario e nell’accoglienza dignitosa dei rifugiati.

– Le sanzioni.

Abbiamo implementato sanzioni senza precedenti. Esse prendono di mira il cuore economico e finanziario del regime russo. E fanno male.

 La Banca centrale russa, il sistema finanziario, gli oligarchi, le aziende statali. Tutti sono colpiti. Il rublo è crollato.

Siamo pronti per ulteriori misure, se necessario. L’obiettivo è di fermare la macchina da soldi del regime che finanzia la guerra.

– L’azione internazionale.

A livello internazionale, la nostra azione è stata intensamente e attentamente coordinata con i nostri alleati e partner.

Nei forum multilaterali di cui facciamo parte, il G7, l’ONU e la NATO, si tratta di mostrare che non c’è scontro tra la Russia da un lato e l’Occidente transatlantico dall’altro.

Si tratta di mostrare che esiste un’ampia coalizione contro la guerra che difende il diritto internazionale.

Ecco perché sono necessari costanti sforzi diplomatici in Africa, in America Latina e nell’Indo-Pacifico. Tornerò su questo punto.

Per capire la nostra potenza, dobbiamo capire perché abbiamo preso Putin di sorpresa.

In realtà, più di un mese dopo aver ordinato la guerra, Vladimir Putin sta ottenendo il contrario di quello che voleva.

Pensava di sconfiggere militarmente l’Ucraina in pochi giorni – si sbagliava. Pensava di disintegrare il governo di Volodimir Zelensky e sostituirlo con un governo fantoccio – si sbagliava.

 Pensava di dividere gli europei e di raccogliere i frutti dei semi di discordia che aveva seminato – si sbagliava.

Pensava di minare l’alleanza transatlantica – è più forte che mai. Ancora una volta, si sbagliava.

Infatti, premendo il pulsante “guerra”, il Cremlino potrebbe aver finito per innescare la miccia per l’autodistruzione del suo regime.

Questa constatazione non deve farci perdere la vigilanza: questa corsa a capofitto può essere duratura e può renderlo ancora più pericoloso. Ma sono convinto che lo abbiamo colto di sorpresa.

Non si aspettava di dover affrontare l’ampia portata del nostro sostegno – compreso l’equipaggiamento militare – all’Ucraina, il potere delle nostre sanzioni finanziarie ed economiche.

 E forse noi stessi non pensavamo di essere in grado di farlo.

Questa crisi dimostra ancora una volta che è nelle avversità che l’Europa mostra la sua potenza.

Per capire la nostra forza, dobbiamo capire che l’Unione è un progetto in moto perpetuo. È soprattutto un progetto di trasformazione. 

In un mondo instabile e mutevole, di fronte a sfide globali, prima fra tutte il cambiamento climatico, abbiamo deciso nel 2019 di fare della doppia transizione – ecologica e digitale – la nostra strategia di trasformazione. E per rafforzare la nostra capacità di azione e di influenza su scala globale.

Quest’ultimo punto è la direzione che il presidente Macron ha proposto alla Sorbona nel 2017 e che ha sviluppato nell’intervista dottrinale pubblicata su queste colonne: costruire una vera sovranità europea, per garantire la nostra capacità di difendere i nostri valori e interessi, e proteggere i nostri cittadini, la loro sicurezza, le loro libertà e il loro ambiente di vita.

Questa autonomia strategica è la sfida della nostra generazione.

Alla fine del 2019, abbiamo preso una prima decisione strategica: insieme ai 27, ci siamo impegnati a raggiungere la neutralità climatica entro il 2050.

Abbiamo così fissato l’orizzonte e creato lo spazio politico per lo sviluppo del Patto Verde Europeo.

De-carbonizzare le nostre società ed economie significa eliminare gradualmente i combustibili fossili e le dipendenze che comportano – dal gas e dal petrolio russo, per esempio.

Oggi, alla luce degli eventi, questo sembra ovvio. Eppure non era così nel 2019, poco più di due anni fa.

Ma l’UE ha mostrato la strada. Altri paesi del mondo hanno seguito l’esempio con l’obiettivo della neutralità climatica. Oggi, immerso nella matrice di una “ecologia di guerra “, l’imperativo geostrategico ha rafforzato le motivazioni climatiche.

La nostra autonomia strategica poggia su tre pilastri.

 In primo luogo, dobbiamo fare affidamento su valori universali: la dignità e la libertà umana, la solidarietà, lo stato di diritto.

Il secondo pilastro è la prosperità. Ora essa richiede una trasformazione urgente del nostro modello di sviluppo, basato sulla doppia transizione digitale e verde. Infine, il rafforzamento della nostra capacità di agire insieme su questioni strategiche è la terza pietra portante di questo edificio.

Per l’Europa, la sfida è semplice: non può diventare un parco giochi per le ambizioni degli altri. Per avere un peso nel mondo, deve essere un attore che rispetta – e viene rispettato.

L’Europa dopo la fine della Storia: possiamo dare forma alla politica degli anni venti.

In un momento in cui l’Europa sta attraversando un altro momento difficile, ricordo i tempi entusiasmanti degli anni ’90.

Era un periodo di speranza: il muro di Berlino era appena caduto, l’Unione Sovietica si era disintegrata, il progetto europeo stava guadagnando slancio.

 Si stava aprendo un periodo di ottimismo e fiducia nel futuro, Francis Fukuyama stava sviluppando la sua interpretazione della “fine della Storia”, con l’irrimediabile vittoria delle democrazie liberali e dell’economia di mercato.

Oggi sappiamo che questa interpretazione ha, come minimo, perso terreno.

 Lo sviluppo di nuove forme di autocrazia nel mondo è solo un esempio dei molti sviluppi che hanno invalidato non solo le previsioni premature ma anche quelle troppo ottimistiche.

Nessuna strada è dritta. La storia umana non è una linea di progresso verso un futuro ideale.

 E il percorso più breve dal punto A al punto B non è sempre una linea retta. Niente può essere dato per scontato, specialmente non la libertà e la democrazia – nemmeno in Europa.

 

Eppure, dopo il periodo nebuloso degli anni ’90, il progetto europeo si distingue.

Fa parte della curva del progresso umano.

Mira a garantire i nostri beni più preziosi: pace, democrazia e prosperità.

I rottami e le ceneri di due guerre mondiali consecutive furono, paradossalmente, il terreno fertile per la costruzione europea.

Un’Europa pacifica, unita e sempre più forte.

Un’Europa dove la legge e le regole proteggono i diritti e gli interessi di tutti. Un’Europa della libertà e della solidarietà.

 Un progetto politico innovativo, senza precedenti nella storia, basato sul dialogo, il rispetto e la tolleranza.

Certo, l’Unione non ha cancellato le differenze politiche o storiche, né i diversi interessi dei nostri Stati membri, ma ha cambiato radicalmente il nostro modo di affrontarle: siamo passati da un modello di confronto a un modello di cooperazione e negoziazione.

Questo è il metodo comunitario.

Abbiamo creato regole comuni che legano paesi con istituzioni diverse – ma regole comuni radicate in valori e principi comuni.

Al tavolo del Consiglio europeo formiamo, con i 27 Stati membri, una famiglia.

Abbiamo senza dubbio le nostre differenze – a volte dei veri e propri contrasti. Passiamo ore, a volte giorni e notti, a discutere, dibattere e cercare un terreno comune.

 E ci riusciamo sempre, o almeno ci riusciamo spesso: alla fine, è l’essenziale che conta.

 

Certo, il successo dell’Unione Europea si basa sulle parole – quelle dei Trattati – ma solo nella misura in cui si materializzano nei fatti, in realizzazioni senza precedenti: siamo il più grande spazio democratico del mondo e siamo una potenza economica e commerciale con 450 milioni di consumatori.

Siamo anche – come troppo pochi sanno – il più importante promotore di pace e sviluppo nel mondo.

Nella sequenza di incertezza aperta dall’insorgere della pandemia e in un mondo che viene riconfigurato dagli sconvolgimenti seguiti alla guerra di invasione della Russia in Ucraina, tre punti di riferimento devono aiutarci a trovare una rotta.

– Non nascondere le cicatrici della storia.

Nelle democrazie liberali, vediamo naturalmente i diritti umani e le libertà che ne derivano come valori universali – in effetti, essi sono sanciti dalla Carta delle Nazioni Unite.

Ma il nostro discorso sui diritti umani è spesso percepito nei paesi terzi come uno strumento della dominazione occidentale.

Nel mezzo di una guerra di aggressione, Putin è il primo a sfruttare abilmente questo fenomeno attraverso la propaganda.

Cercare di capire la Storia e le storie, di misurare i traumi collettivi dei popoli del mondo, porta a una migliore comprensione delle posture politiche contemporanee. Ogni popolo, ogni paese si confronta con le proprie ferite.

A volte vengono guarite, ma non sempre.

I nostri discorsi che sostengono una nuova narrazione europea non devono quindi ignorare questa parte del nostro passato che spesso è ancora rimossa.

È difficile per i nostri paesi sfuggire al velo di sospetto dei paesi che hanno subito il colonialismo.

Il nostro discorso sui valori e sulla democrazia è quindi spesso percepito o presentato come moraleggiante, predicatorio e paternalistico.

È l’orrore delle due guerre mondiali e della Shoah che ha stabilito così saldamente in Europa la responsabilità di promuovere il rispetto della democrazia e della dignità umana.

Allo stesso modo, la conoscenza e il riconoscimento della storia devono portarci, come europei, a una migliore conoscenza e comprensione reciproca.

Così come questo approccio non deve escludere il contributo della non Europa all’Europa, non deve escludere il patrimonio dell’Europa nella non Europa e le nostre interazioni con il resto del mondo, oltre i confini dell’Unione.

Questa è una chiave per il rispetto reciproco, l’intelligenza e l’azione collettiva.

– Accompagnare alla potenza la fiducia nelle nostre democrazie.

I democratici credono nella dignità umana.

Gli autocrati non hanno la stessa preoccupazione e possono quindi dispiegare cinicamente il loro hard power nei teatri operativi più rapidamente e facilmente.

Lo vediamo in Siria, Libia, Yemen e Africa, sia attraverso eserciti regolari che con una forma di privatizzazione della guerra:

 i mercenari di Wagner o i mercenari siriani ne sono esempi illuminanti.

 

In una democrazia, il sostegno dei cittadini attraverso i loro rappresentanti nei parlamenti deve legittimare le nostre decisioni.

È una debolezza? Non credo.

In effetti, è proprio il contrario. La fiducia è la base più duratura per la libertà e la pace.

– Costruire partenariati in tutto il mondo.

Per essere una potenza, infine, l’Europa deve creare partenariati, costruire ponti con tutto il mondo.

Deve farlo senza complessi e con rispetto, ma anche con la fermezza dei nostri valori e la consapevolezza della nostra forza economica.

Questo è tanto vero nelle nostre relazioni con la regione indopacifica quanto lo è nelle nostre relazioni con la Cina, l’America Latina o l’Africa.

Non abbassare la guardia quando si tratta dei nostri valori fondamentali e degli interessi prioritari.

 Cercare un terreno comune per raggiungere obiettivi globali, come il clima o la sicurezza.

 Mostra pazienza strategica quando è necessario.

Usa le circostanze e accelera quando è utile.

Nella difficoltà di questo momento, in cui stiamo vivendo sconvolgimenti e grandi trasformazioni, la lucidità e la compostezza sono più essenziali che mai.

 Non lasciamoci vincere dalla paura.

Al contrario, siamo orgogliosi di mantenere viva la promessa europea: pace, libertà e prosperità, piuttosto che guerra e declino.

 

Cop27, l’Emergenza Climatica

come Metodo di Governo.

 Conoscenzealconfine.it -Redazione- Visione tv – (11 Novembre 2022) – ci dice:

 

La nuova emergenza creata a tavolino sarà quella climatica?

A Sharm El Sheik, in Egitto, la Cop27 è in corso dal 6 al 18 novembre 2022.

I leader globali si ritrovano per discutere di clima, riduzione delle emissioni di gas serra e anidride carbonica.

 Il paradosso è che tra gli sponsor della conferenza c’è Coca Cola: una delle aziende più responsabili dell’inquinamento dovuto all’uso eccessivo di plastica.

Durante il vertice, il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, ha poi usato i soliti toni drammatici:

“Senza un accordo per il clima, per il Pianeta sarà il suicidio”.

Il presupposto è che il cambiamento climatico sia dovuto soprattutto all’attività dell’uomo.

Non tutti gli scienziati sono però d’accordo con questa tesi, ormai paragonabile a un dogma di fede.

 Un gruppo di esperti ha firmato una petizione per metterla in discussione:

sono stati subito etichettati come “negazionisti del clima”.

In questo documentario il professor Franco Prodi, esperto di fisica dell’atmosfera e delle nubi, spiega che esistono cause naturali dietro l’aumento delle temperature, e che per proteggere davvero la Terra servirebbe un altro tipo di approccio.

Secondo l’economista Ilaria Bifarini, l’emergenza climatica è inoltre l’ennesimo grimaldello per portare avanti Grande Reset e de-industrializzazione dei Paesi occidentali.

La politica di riduzione delle emissioni di anidride carbonica, infatti, rischia di favorire le multinazionali, a discapito di piccole e medie imprese.

Il metodo di governo utilizzato dai leader occidentali è d’altronde quello delle continue emergenze, lo abbiamo visto con la pandemia, con la guerra in Ucraina e quindi con l’emergenza energetica, che sembra proprio cadere a fagiolo per contrastare la presunta emergenza climatica.

(visionetv.it/cop27-lemergenza-climatica-come-metodo-di-governo/)

 

 

 

 

Il realismo dei pacifisti contro

il machiavellismo della politica.

Micromega.net – Tomaso Montanari – (28-2-2022) – ci dice:

 Per stare dalla parte delle vittime (le donne e gli uomini che vivono nell’Ucraina invasa dalle truppe di Putin) è necessario assumere la logica binaria della guerra? O la si può contestare da fuori?

Da "pacifista", Tomaso Montanari prova a dare tre risposte alla domanda: che fare ora?

Non è facile coltivare pensieri umani, in questi giorni disumani. Non è facile resistere all’ondata emotiva di una guerra vista e raccontata, minuto per minuto, come un’olimpiade o una maratona elettorale.

Difficile negarlo: nella cronaca dei giornalisti televisivi, specie dei maschi, sotto la doverosa condanna occhieggia di continuo un entusiasmo agonistico, una mai sopita attrazione per la guerra.

 Sulla prima pagina del più diffuso giornale italiano, si è arrivati a lamentare che «noi occidentali stiamo perdendo la potenza delle armi perché non sopportiamo più di subire perdite in una guerra convenzionale.

All’epoca dei nostri nonni un caduto in famiglia era motivo d’orgoglio, oggi è considerato inaccettabile».

I politici occidentali stanno al gioco, tutti ora schierati con le vittime, con fiumi di retorica bellica e con in testa un metaforico elmetto.

 Tutti siamo in guerra.

E la domanda che pochissimi provano a sollevare è: per stare dalla parte delle vittime (le donne e gli uomini che vivono nell’Ucraina invasa dalle truppe di Putin) è necessario assumere la logica binaria della guerra?

 Si deve essere dentro la logica della guerra? O la si può contestare da fuori? Contestare tutta la guerra, e la sua genesi: senza per questo smettere di distinguere tra vittime e carnefici.

Oggi, ai pacifisti che si ostinano a dire che la guerra non è mai la soluzione, ma sempre e solo il problema, si chiede con disprezzo: ‘e allora ora voi cosa fareste? Lascereste fare i russi?’

Il lato osceno di questa domanda sta nel fatto che nessuno di coloro che oggi la pone – nessun politico, nessun giornalista, nessun opinionista –, è mai stato prima interessato a sapere cosa i pacifisti pensassero di Putin e della sua politica interna ed estera;

della politica di potenza della Nato;

della non-politica della Unione Europea;

della guerra che insanguina l’Ucraina dal 2014, con 14.000 morti e con accertate violazioni dei diritti umani da entrambe le parti;

delle spese militari e del potere, nelle democrazie occidentali, dell’apparato militare-industriale.

 La parola, su tutto questo, non è mai stata data ai pacifisti: poveri utopisti senza presa sulla realtà.

No, la parola era ovviamente ai cinici: ai realisti, ai machiavellici, ai fautori della Realpolitik. Quelli che sanno stare al mondo.

Il risultato del realismo machiavellico è ora sotto gli occhi di tutti.

L’Occidente non ha mai seriamente sostenuto la lotta per la democrazia in Russia, ma ha sempre fatto affari con lo zar Putin.

La Nato si è espansa molto più di quanto si fosse garantito di voler fare: e se è vero che i popoli vicini alla Russia hanno il diritto di tutelarsi (e anche le ragioni per farlo, come si vede), è anche vero che se quello che vediamo è il risultato finale, più di qualcosa non ha funzionato.

Dal 1989, gli Stati Uniti e i loro alleati hanno dato per scontato che la partita era stata vinta, e che solo una potenza mondiale sarebbe rimasta:

ma era un’illusione, un grave errore di comprensione del mondo e della storia, un ultimo, fatale, imperialismo.

Tutto questo giustifica l’invasione di Putin? No, nel modo più assoluto.

 E nemmeno la spiega: se non mettendo in conto una paranoia distopica, che non può invece essere assunta come un dato di fatto pacifico.

E qua bisogna avere il coraggio di riconoscere che la giusta critica del pensiero pacifista occidentale contro l’azione dei governi dell’Occidente ha a tratti sminuito, se non giustificato, la mostruosità della politica omicida di Putin.

Ma tutto questo dovrebbe ora impedire, a chi governa l’Occidente di irridere i pacifisti: cioè coloro che, ad ogni bivio, avrebbero preso la strada opposta (dicendolo, e lottando per questo).

E dovrebbe anche impedire di celebrare la presunta virtù di un cosiddetto realismo politico che ci ha condotti qua: sull’orlo di una Terza Guerra Mondiale, di un conflitto nucleare senza ritorno.

E tutto questo non vuol dire ‘criticare l’Occidente quanto Putin’: in una impossibile equidistanza tra un sistema democratico che tradisce sé stesso, e un sistema dichiaratamente tirannico.

Ma vuol dire che il pensiero critico che in Occidente resiste deve criticare innanzitutto la sua stessa parte: quella che può riuscire a cambiare, quella dalla quale potrebbe aspettarsi qualcosa.

 

E così, da ‘pacifista’, vorrei provare dare tre risposte a quella domanda: che fare ora?

La prima cosa.

Rifiutare il veleno del nazionalismo: distinguere tra i popoli e i governi. Ho sentito una donna ucraina che vive in Italia parlare con toni sororali dei giovanissimi soldati russi che si arrendono dicendo che non sapevano di essere stati mandati in guerra, e argomentare con empatia circa la difficoltà di una opinione pubblica russa tenuta in ostaggio dalla censura e dal controllo dei media.

E sentire un’ucraina che in questo momento non si fa trascinare dall’odio del sangue, ma è capace di distinguere, dovrebbe insegnarci qualcosa.

Insegnarci a stare accanto alle donne e agli uomini che vivono in Ucraina, sotto le bombe di un’invasione mostruosa: senza per questo sposare la politica dei governi ucraini e dell’Occidente che li ha sostenuti.

 Stare fermamente contro Putin, contro la sua lucida follia di tiranno sanguinario: ma non stare contro i russi.

Diffondere senza sosta anche in Occidente, in Italia, le voci dei russi che, coraggiosamente, si oppongono con forza al tiranno: come quelle del poeta Lev Rubinštejn e della scrittrice Ljudmila Petruševskaja.

Perché, come canta Leonard Cohen, «There is a crack in everything, That’s how the light gets in».

La seconda cosa.

 Rifiutare l’idea di gettare benzina sul fuoco, per quanto possa sembrare giusto farlo dalla parte degli oppressi, degli invasi.

 Se è giusto, oltre che compatibile con la nostra Costituzione, inviare in Ucraina «equipaggiamenti militari non letali di protezione», e cioè mezzi di difesa e non di offesa, sarebbe invece un grave azzardo mandare armi vere e proprie.

 I capi dell’Occidente pensano di cavarsela più a buon mercato, e senza rischiare direttamente: senza, cioè, terremotare più di tanto un’economia globale legata mani e piedi alla Russia di Putin.

È un calcolo cinico, che rischia di essere anche drammaticamente sbagliato: perché prolungare e aggravare una guerra dall’esito purtroppo scontato, può aprire la strada a esiti che non lo sono per nulla.

Buttare benzina su questo fuoco, infatti, può condurre – quasi meccanicamente, cioè senza che nessuno davvero si renda conto di ciò che sta innescando, e in tempi brevissimi – a un’apocalisse nucleare.

La terza cosa.

Premere sui nostri governi perché le sanzioni economiche contro la Russia siano veloci, veramente dure, mirate sull’oligarchia.

Sapendo bene che, per fare male a chi le subisce, le sanzioni devono fare male anche a chi le commina.

 Il prezzo sarà alto, per le nostre economie, e i governi dovranno evitare che a pagarlo sia chi già è sommerso, sia in Russia che in Occidente. Ma non c’è altra strada, ora.

Ripudiare la guerra significa lavorare per non crearne le premesse, per allontanarla, per annullare le possibilità che si verifichi.

 Come Occidente, come Italia, non lo abbiamo fatto. Ripudiare la guerra significa, quando comunque scoppia, non accettarne la logica infernale: cioè rifiutarsi di prendere le armi.

Sappiamo bene che, oltre un certo limite, può essere impossibile rimanere coerenti con la pace: la guerra di liberazione partigiana ne è un esempio.

Così doloroso da far scrivere ai vincitori che non avrebbe mai dovuto ripetersi: perché quella guerra era stata combattuta sotto una terribile costrizione, combattuta perché fosse l’ultima.

Ma sappiamo anche che, in questa situazione, la minaccia nucleare cancella radicalmente anche questa estrema ipotesi di guerra giusta: semplicemente perché nessuno potrebbe vincerla.

Una delle cose più terribili della guerra è che, quando scoppia, incanala i pensieri di tutti nel suo schema nazionalista binario.

Scrivendo nel 1938, Virginia Woolf opponeva a questa morsa una radicale alterità, quella di chi era fuori dalla logica del potere, e dunque degli schieramenti e delle ‘patrie’.

Rivolgendosi a un ideale interlocutore maschio membro della classe dirigente dell’Impero britannico che si diceva pronto alla guerra antifascista diceva:

«Tu stai combattendo per conquistare vantaggi che io non ho mai condiviso né mai condividerò: in quanto donna, non ho patria, in quanto donna la mia patria è il mondo intero».

Era un pensiero radicale, che guardava lontano e puntava al cuore del problema, cioè contro la volontà di potenza che è genesi di tutte le guerre: un pensiero più o meno realista del maschio realismo che produce guerre a getto continuo?

 

 

 

 

 

La libertà e il suo limite. Una riflessione

sul diritto alla privacy a partire

dalla sentenza Roe v. Wade.

Giustiziainsieme.it – Antonello Soros – (12 JULY 2022) – ci dice: 

 

La sentenza Roe v. Wade ha avuto, tra gli altri, il merito di introdurre una nuova idea della privacy, come diritto al libero esercizio di scelte attraverso cui le “persone definiscono il significato della loro esistenza”.

 Quest’intima vocazione liberale ha consentito alla privacy di arricchirsi progressivamente di nuovi e più rilevanti significati, sino a divenire quella garanzia di libertà e dignità della persona dai rischi di prevaricazione del potere (anche tecnologico), rappresentata oggi dalla protezione dei dati personali.

Il contributo ripercorre alcune delle più rilevanti declinazioni di questo diritto, nell’evoluzione che l’ha caratterizzato, nella costante dialettica tra libertà e limite.

La sentenza Dobbs della Corte suprema americana del 24 giugno, contraddicendo dopo 49 anni il precedente sinora indiscusso Roe v Wade, ha ritenuto l’aborto non un diritto della donna, ma una “grave questione morale” la cui regolazione vada demandata ai singoli Stati e non alla legislazione federale.

 

E nonostante la gravità e complessità, forse unica, della questione (politica e giuridica, oltre che etica) dell’aborto, la sentenza Dobbs segna, per molteplici ragioni, una netta regressione rispetto al precedente del 1973, importante anche per le implicazioni ulteriori e più generali che ha avuto sulla concezione del rapporto tra la libertà e i suoi limiti.

In questo senso, uno dei principali elementi innovatori della sentenza Roe v. Wadese è la nuova idea della privacy ad essa sottesa, come diritto di autodeterminazione sulle scelte caratterizzanti l’esistenza, rispetto alle quali lo Stato deve astenersi da ingerenze non giustificabili in nome di superiori interessi.

Si trattava dello sviluppo di una concezione almeno in parte anticipata dalla sentenza Griswold v. Connecticut di otto anni prima, sul diritto alla contraccezione.

Già lì, infatti, si era compiuto il passaggio da un’idea di privacy ancora dal retaggio dominicale (un’ulteriore proiezione dello jus excludendi alios) a una più moderna, incentrata sul diritto di autodeterminazione nelle scelte qualificanti per la propria sfera personale.

Con Roe v.Wade si accentua, ancor più, l’idea della privacy come libero esercizio di scelte attraverso cui le “persone definiscono il significato della loro esistenza” (Roe v. Wade, 410 U.S. 113, 1973), sancendo dunque un limite di non ingerenza del pubblico potere rispetto a tale sfera di determinazione individuale, autonoma e libera.

Quest’intima vocazione liberale ha consentito alla privacy – nel sistema americano ma soprattutto in quello europeo, grazie alla sinergia con la dignità personale – di arricchirsi progressivamente di nuovi e più rilevanti significati.

L’originario “right to be let alone” di Warren e Brandeis del lontano 1890 è così divenuto quella garanzia di libertà e dignità della persona dai rischi di prevaricazione del potere (anche tecnologico), rappresentata oggi dalla protezione dei dati personali.

Tra quel diritto a sottrarsi allo sguardo indesiderato del 1890 e il diritto al governo dei propri dati di oggi, questo diritto “inquieto” - perché mai uguale a sé stesso, dinamico nel suo tentativo di governare il presente e il futuro- ha subito un’evoluzione straordinaria, che ne ha accentuato la funzione egalitaria e democratica, quale strumento di redistribuzione del potere, oggi soprattutto informativo.

Il passaggio più significativo, nel percorso verso la democratizzazione della privacy, si ha in Italia con lo Statuto dei lavoratori del 1970, di poco precedente Roe v. Wade.

Vietando il controllo a distanza e le indagini sulle opinioni politiche e sindacali, lo Statuto ha fondato infatti, proprio su questo diritto, un essenziale presidio di libertà dei lavoratori dalle ingerenze datoriali.

Era così tracciata la strada che avrebbe reso la privacy uno straordinario strumento di tutela della libertà e della dignità di tutti:

in particolare dei soggetti più vulnerabili, perché inermi di fronte a un potere, privato o pubblico, rafforzato dalla potenza geometrica della tecnica, ieri con le schedature datoriali, oggi con l’algoritmo dei riders, domani chissà.

 

Ciò che tuttavia, pur in questa “rivoluzione”  della privacy è rimasto costante è la sua “cifra”, che si esprime nel senso del limite (dell’ingerenza, del potere, del dire e del non dire) e che si riflette in ogni sua declinazione e implicazione: dalla sanità (dove il medico, cui tutto si dice di noi, nulla deve dire al di fuori) alla trasparenza (dove la doverosa visibilità del potere e dell’agire pubblico presuppone, però, l’altrettanto necessaria opacità della vita intima, privata, che per nulla incide sul profilo pubblico);

dalla navigazione on line (dove va selezionato adeguatamente ciò che, di noi e degli altri, esponiamo e ciò che invece dobbiamo custodire, per non divenire vittime del pedinamento digitale), all’intelligenza artificiale (dovendo selezionarsi opportunamente i dati con cui alimentare o, viceversa, non alimentare l’apprendimento automatico della macchina, per non determinare esiti discriminatori della decisione algoritmica).

Se, dunque, l’anima della privacy è proprio la tensione tra libertà e limite, ci sono due aspetti particolarmente emblematici di questa dialettica, sui quali vorrei soffermarmi: l’oblio e il rapporto con l’informazione.

Perché è su questo terreno che si misura, in modo più evidente e più significativo, il peso dell’omissione (delle parole, delle immagini, di tutto ciò che in qualche modo ci rappresenta).

Anzitutto l’oblio.

Il diritto all’oblio, come particolare espressione del diritto alla privacy, è la sintesi del rapporto tra scorrere del tempo e memoria collettiva.

Se il primo, infatti, affievolisce la seconda, suggerendo il silenzio su eventi passati non così rilevanti da meritare rievocazione, la seconda cancella il primo, imponendo un eterno presente per quei fatti talmente costitutivi della storia di un popolo, di un Paese, da essere parte indelebile della sua identità e coscienza sociale.

 

L’oblio interseca la privacy al punto da divenirne, addirittura, una componente essenziale con l’avvento dei nuovi mezzi di comunicazione e ne riflette l’evoluzione.

Esso nasce, oltre vent’anni fa, come diritto a non subire gli effetti pregiudizievoli della ripubblicazione, a distanza di tempo, di una notizia pur legittimamente diffusa in origine, ma non giustificata oggi da nuove ragioni di attualità.

 Si afferma, dunque, nel contesto mediatico tradizionale, scandito da notizie diffuse in momenti determinati dagli organi d’informazione e destinate, appunto, a una vita tendenzialmente breve in assenza di ulteriori ragioni che ne rinnovino l’interesse.

E proprio in tale contesto si è affermato, ad esempio, il diritto dell’ex terrorista a non vedersi nuovamente citato come tale in un articolo su fatti non legati al suo passato, a distanza di decenni dalla condanna e dopo aver scontato integralmente la sua pena cambiando radicalmente vita.

Egli, infatti, rivendicava il diritto a non vedere la sua intera esistenza ridotta a un passato da cui si era con fatica emancipato.

Lo sguardo solo retrospettivo dei media, annientandone il percorso di vita intrapreso e la sua scelta di essere “altro” da ciò che era stato, si risolveva in uno stigma perenne e deformante, ostativo anche al suo reinserimento sociale.

Rovesciando l’idea della damnatio memoriae, il marchio di “reo” imposto senza limiti temporali finisce così con il rappresentare una pena accessoria incompatibile con il valore che il sistema penale attribuisce al tempo in funzione dell’oblio: con gli istituti della prescrizione, della riabilitazione, della non menzione della condanna.

A fronte di un sistema penale tutto fondato su una scommessa razionale sull’uomo e sulla sua possibilità di cambiamento (la Costituzione legittima la pena solo in quanto tenda alla rieducazione del condannato), l’informazione non può schiacciare la persona al suo reato, risolverla tutta e soltanto in esso, anche quando se ne siano prese visibilmente le distanze.

I media non dovrebbero impedire ciò che neppure un giudice può fare, ovvero di essere anche altro da ciò che si è stati.

Ancor più profonda è poi la lesione dell’identità determinata dall’eterna memoria della rete, quando riduce un’intera esistenza, in tutta la sua insondabile complessità, a un momento, a un errore sia pur gravissimo, ma che comunque non la rappresenta più o, peggio, non l’ha mai rappresentata del tutto.

Ecco, quindi, il bisogno di oblio quale contrappeso a una memoria tanto eterna e inflessibile quanto parziale, una condanna senza appello, che non contempla riabilitazione.

Questo bisogno di emancipazione da una memoria capace di ipotecare presente e futuro ha conosciuto vari strumenti di tutela: dal divieto di ripubblicazione -che attinge alla sua dimensione difensiva e statica, quale pretesa a non essere più ricordati (o a non esserlo per come si era e non si è più)- all’aggiornamento della notizia che ne valorizza la componente dinamica e attiva, sino alla deindicizzazione, che incide non sulla notizia in sé- intatta nella fonte originaria- ma sulla sua reperibilità mediante i motori di ricerca.

Una notizia vera all’epoca ma oggi superata dai fatti merita certamente, se lesiva della dignità di qualcuno, di essere sottratta all’indiscriminata reperibilità dei motori di ricerca, per evitare che essa divenga l’unica o la prevalente rappresentazione del soggetto: la categoria (indagato, imputato, condannato, malfattore, ecc.) cui ricondurlo semplicemente digitandone il nome su Google.

Il diritto al ridimensionamento della propria visibilità mediatica, a tutela di un’identità ormai affrancata dalla dimensione statica e tendenzialmente immutabile cui è stata tradizionalmente ascritta, si è del resto riconosciuto, quale strumento di libertà, non soltanto a fronte di notizie risalenti e superate dai fatti (si pensi a un indagato poi assolto), ma anche a notizie false e quindi anche diffamatorie.

 Ogniqualvolta, dunque, l’interesse alla indiscriminata reperibilità della notizia mediante motore di ricerca sia recessivo rispetto al rischio della biografia ferita.

Il diritto all’oblio non è, dunque, pretesa di auto rappresentazione, ma strumento di una memoria sociale selettiva, che coniugando diritto all’informazione e dignità, racconti ciò che va ricordato, mettendo in secondo piano ciò che non appartiene all’identità individuale né contribuisce a costruire la coscienza collettiva.

Ma il gioco tra parole dette e parole omesse è, in fondo, la grande sfida dell’informazione, che è corretta in quanto racconti la notizia senza violare la dignità, narri ciò che è di pubblico interesse e non ciò che semplicemente interessa il pubblico, lontano dal voyeurismo e senza mai confondere la cronaca con lo sguardo dal buco della serratura.

Non è facile, soprattutto al tempo del populismo penale, che identifica nella giustizia penale la principale se non l’unica forma di giustizia sociale.

E se da quest’attribuzione al giudiziario di aspettative che non gli sono proprie deriva, fatalmente, una lacerazione tra giustizia attesa e giustizia amministrata, essa si approfondisce sino a divenire insanabile, per la distorsione subita dal principio di pubblicità del processo.

Principio nato per sottrarre l’amministrazione della giustizia a quella segretezza che ne aveva fondato l’arbitrarietà, ma non per consentire la delocalizzazione della scena giudiziaria sul web, ove l’etica del limite e del dubbio sono sostituite dalla presunzione di colpevolezza.

E chi a vario titolo (indagato magari poi prosciolto, vittima, teste) compaia nelle indagini è messo a nudo anche negli aspetti più intimi e ininfluenti per il processo, con stralci d’intercettazioni spesso fuorvianti perché mal estrapolate dal contesto, che restano in rete per sempre, come un “fine pena mai”, anche in caso di assoluzione.

Ecco perché, con il web, la scelta delle parole dev’essere ancora più rispettosa di quel criterio di essenzialità su cui si fonda la deontologia giornalistica, nella consapevolezza di come i dettagli eccedenti le reali esigenze informative possano anche distruggere vite.

Quest’esigenza di selezione nulla ha a che vedere, naturalmente, con la censura o il depotenziamento dell’informazione, che dev’essere anche se necessario cruda e diretta, come nel caso della guerra, le cui immagini non possono non scuoterci o del corpo martoriato di Stefano Cucchi: chi avrebbe compreso il dramma di quegli abusi senza la forza di quelle foto?

Vi è forse un simbolo del costo umano di politiche migratorie miopi, più eloquente della foto del piccolo Alan Curdy sulle coste dell’isola di Budrum?

Perché a volte raccontare storie, dare un volto e un nome a drammi altrimenti percepiti come distanti, è necessario.

Ma ciò non implica, mai, indulgere sulle vulnerabilità.

Si tratta, allora, di promuovere un giornalismo di qualità, non di semplice e acritico “riporto”, che scavi a fondo della notizia ma non violi la dignità (come per le foto in manette) e non ricerchi il sensazionalismo anticipando giudizi di colpevolezza con la gogna del web (l’audio della preside del Liceo Montale in homepage…).

Ecco, dunque, che anche qui, la pietra angolare delle nostre democrazie, ovvero l’informazione, è tutta nell’equilibrio tra la libertà (di stampa, di espressione) e il suo limite, per tenere assieme dignità personale ed esigenze collettive.

La privacy, questo diritto di libertà (come viene qualificato dalla Carta di Nizza), mai tiranno, perché nato sulla frontiera mobile degli altri diritti fino a divenirne un presupposto ineludibile, ci racconta tutto questo.

 

Ci narra di come, a volte, le parole vadano omesse per dirne, invece, altre, più importanti e meno “nemiche”, capaci di costruire anziché distruggere, di schiudere orizzonti anziché di tracciare sempre, soltanto, confini.

 

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