I PROGRESSISTI e LA REALTA’.

I PROGRESSISTI e LA REALTA’.

 

Gli intellettuali progressisti

e la superiorità moral-culturale

che non c’è. Il caso americano.

Open.luiss.it – Tyler Cowen – (11 maggio 2020) – ci dice:

(EDITORIALE OPEN SOCIETY OFF).

 

Il premio Nobel Paul Krugman di recente ha sollevato un vespaio quando ha sostenuto, in un suo editoriale sul New York Times, che non esistono più “intellettuali conservatori seri, onesti e con un’influenza significativa sull’opinione pubblica”, definendo questa specie estinta come quella degli “unicorni della destra”.

Concordo in larga misura con le sue critiche, ma vorrei offrire una prospettiva diversa.  Questo mio articolo intende essere una sorta di avvertimento speculare, rivolto dunque alla sinistra, un po’ come quando qualcuno ti fa notare che la tua camicia pende un po’ fuori dai pantaloni.

Ecco come la vedo.

Un numero crescente di discussioni interessanti si sta spostando off-line, rimanendo confinata a gruppi privati, in parte per sfuggire allo sguardo astioso dei social media e del politicamente corretto.

In questo momento è molto difficile dire chi si dimostrerà degno di essere inserito tra i pensatori importanti della nostra epoca – io sono colpito per esempio da Scott Alexander, blogger del sito Slate Stat Codex e pensatore influente.

Però lui preferisce mantenere segreto il suo vero nome.

Riconosco che spesso le conversazioni più interessanti sono quelle che ho con dei professionisti e con chi si misura in prima persona con problemi concreti, piuttosto che con intellettuali e scrittori.

Nei ragionamenti della prima categoria di persone, è difficile discernere la partigianeria politica, o comunque ricondurla alle solite semplicistiche classificazioni.

Anche quando si tratta di elettori registrati come Democratici, essi sembrano del tutto alienati, in termini intellettuali, da quel partito.

Ritengo pure che gli intellettuali di sinistra si lamentino degli omologhi di destra più di quanto gli intellettuali di destra si lamentino della sinistra.

Un atteggiamento così negativo non è salutare per lo sviluppo della creatività intellettuale dei progressisti.

E ancora: probabilmente i due libri migliori scritti quest’anno sui “fallimenti di mercato” sono a firma di due miei colleghi che provengono da una tradizione libertaria: Bryan Caplan e Robin Hanson (quest’ultimo scritto con Kevin Simler, che non conosco altrettanto bene).

Nel caso di Hanson, il libro deve molto anche alla fantascienza.

 La sinistra invece continua a produrre molteplici contenuti sul fallimento del mercato, ma mi capita raramente di trovare questi contenuti originali o sorprendenti.

Il conformismo dei social media.

Ritengo poi che i social media spingano verso un maggiore conformismo intellettuale riconducibile più alla sinistra che non alla destra.

Forse semplicemente perché gli intellettuali di sinistra sono molto più numerosi, succede molto più di frequente che siano opinion leader della gauche a scrivere il copione dei nostri dibattiti social o indicare il cattivo del giorno, dopodiché i loro follower muovono alla carica.

Considero poi la politica estera come uno dei temi di dibattito più importanti per gli Stati Uniti, perlomeno in termini di impatto finale per il mondo.

 È semplice per la destra avere un dibattito dinamico e di sostanza in questo campo, visto che la destra include sia conservatori sia libertari in grande numero.

Invece le discussioni sulla politica estera, a sinistra, hanno maggiori probabilità di ridursi a critiche dei Repubblicani, piuttosto che essere tese a delineare un approccio concettuale o ad affrontare i propri punti deboli e le proprie contraddizioni.

 Lo stesso è vero per il tema dell’immigrazione.

Molti dei pensatori più importanti del futuro proverranno da Paesi o retroterra culturali che sono fuori dai radar del consueto panorama politico americano.

Pensate al portoghese Bruno Maçães, oppure a Saku, una giovane donna che vive a Londra e che è di origini filippino-srilankesi.

 

La religione è stata una forza decisiva nel corso della storia del pianeta, e la nostra epoca non fa eccezione.

 L’intellettuale popolare che probabilmente è stato la più grande rivelazione di quest’anno, Jordan Peterson, non a caso si definisce “un cristiano”.

Gli intellettuali conservatori, in media, non sono religiosi quanto lo è l’elettorato di destra.

Eppure li trovo molto più adatti a comprendere il ruolo della religione nella vita di quanto non lo siano gli intellettuali di sinistra.

 Tra gli intellettuali di sinistra, la prima reazione emotiva quando si trovano al cospetto della religione consiste nell’interpretarla come una forza che si mette di traverso nella strada che conduce al liberalismo sociale, oppure nel sentirsi in imbarazzo per il gran numero di americani che ancora si dicono religiosi e nell’affrettarsi a cambiare argomento.

Inoltre mi pare che le principali vittime del “movimento del politicamente corretto” siano coloro che si collocano nel centro o nel centro-sinistra dello spettro politico.

In effetti alcune superstar intellettuali, come Peterson o Steven Pinker, hanno fatto la loro fortuna e ricevuto un’enorme attenzione grazie ai propri attacchi al politicamente corretto.

Ma se un pensatore non ha già un grande pubblico a cui rivolgersi, se lavora in un’università, e intende sostenere una qualche tesi sull’identità etnica o sul gender che non sia totalmente all’interno del perimetro “consentito”, allora probabilmente preferirà rimanere in silenzio, oppure dovrà sopportare tutte le conseguenze negative del caso.

 È difficile che queste vittime intellettuali si collochino a destra, e ciò implica che la sinistra è finita per diventare quasi cieca su tali temi.

Questa disfunzione – generalizzata ma latente – è uno dei principali motivi per cui la sinistra è stata colta così di sorpresa dall’elezione di Donald Trump negli Stati Uniti.

Gli intellettuali conservatori hanno una solida familiarità con le dottrine della sinistra e del centro-sinistra, ma l’opposto succede molto più di rado.

Allo stesso modo, è quasi impossibile pensare a un omologo conservatore o libertario di Krugman che faccia una dichiarazione analoga a quella del Nobel liberal secondo il quale non esisterebbero siti web conservatori che lui senta la necessità di leggere regolarmente.

In breve: il nuovo mondo delle idee è uno scenario aperto a moltissime possibilità e a innumerevoli partecipanti, essenzialmente con pochi vincoli e regole, dunque difficile da dominare in toto con gli strumenti di un singolo individuo.

Ma certo è che la situazione complessiva non è assolutamente così congeniale agli intellettuali di sinistra come certi intellettuali di sinistra vorrebbero farci credere.

(Bloomberg View)

 

 

 

La mente alveare,

Borges e la memoria.

Maurizioblondet.it – Maurizio Blondet - Roberto PECCHIOLI- (19 Novembre 2022) -ci dicono:

 

 L’esperienza ha dimostrato la capacità dei computer di interagire nonché di estendere le loro capacità se collegati insieme. Internet ha fornito la capacità, ed ora nei gabinetti dei tanti dottor Caligari si lavora a collegare i cervelli.

Sono già stati condotti con successo esperimenti sugli animali. La frontiera dell’interfaccia neurale umana è vicina ad essere varcata.

 La tecnologia relativa si chiama Brainet, rete di cervelli. Si stanno studiando tecnologie i cui esiti saranno super computer biologici frutto della “mente collettiva”.

Condivideranno ricordi, forse percezioni ed emozioni. Il taglio con cui arrivano al pubblico le informazioni su Brainet enfatizzano soprattutto l’aiuto alla salute, ma la verità è che è stata spalancata la porta a qualcosa di mostruoso, ancorché dotato di un fascino abbagliante, la creazione di una mente-alveare transumana.

L’alveare, peraltro, non conosce l’individualità dei suoi componenti, tutto è in funzione dell’ape regina, ovvero Tecnopolis, l’élite che possiede e controlla mezzi tecnologici potentissimi trasformati in fine.

Vi è una sorprendente analogia con la finzione cinematografica di Metropolis (1927): la mega macchina che ingoia le persone. Brainet è lo strumento perfetto per l’abolizione dell’individualità, ossia della persona umana, obiettivo non più celato dalle avanguardie transumaniste.

Un’immensa, mostruosa, antiumana coscienza impersonale, coerente traguardo della post modernità.

Un gigantesco database sarà gestito in vari “cloud”, (la nuvola informatica, il grande magazzino dati on demand) governati dalla tecnostruttura agli ordini di una cupola che potrà affermare non di aver abolito la libertà, il libero arbitrio o le procedure chiamate democratiche, ma l’homo sapiens.

La coscienza personale sarà una minuscola cellula del Moloch. Le forme relazionali della neo-umanità verranno gestite attraverso l’interazione delle NBIC (nanotecnologia, biotecnologia, informatica e scienze cognitive) con esiti imprevedibili.

Saremo quello che vorrà il comando della macchina impersonale, padrona dell’alveare formato da milioni di interfacce neurali costituite da nanobot, minuscoli robot di dimensioni molecolari o addirittura atomiche, impiantati nel corpo.

È l’ultima fase in ordine di tempo dell’evoluzionismo più radicale, l’espressione di un materialismo assoluto, la mistica della mente alveare, una sorta di memoria collettiva, di nastro magnetico che cristallizza e riavvolge la vita.

Per alcune correnti transumaniste, “io” sono esclusivamente il mio cervello e l’eternità che promettono è la persistenza della memoria informatizzata della mia vita. Raggelante.

Sarà l’età che avanza e fa capire il significato dell’espressione “vivere di ricordi”, ma la memoria è la parte di noi di cui siamo più gelosi. Fa paura immaginarla avvolta in un nastro virtuale, esposta a chi manovra immensi apparati artificiali, privata dell’intimità, perfino del sapore e dell’odore del ricordo.

Chissà che ne penserebbe Marcel Proust, che alla memoria ha dedicato una delle opere più significative della modernità, la monumentale Recherche, Alla ricerca del tempo perduto.

 È celebre il passo in cui il protagonista, l’Io narrante- Marcel come l’autore- ha un trasalimento mentre riceve la colazione, a base di tè e di pasticcini. “All’improvviso il ricordo è davanti a me. Il gusto era quello del pezzetto di madeleine che a Combray, la domenica mattina, quando andavo a darle il buongiorno in camera sua, zia Leonia mi offriva dopo averlo inzuppato nel suo infuso di tè o di tiglio.”

Ognuno di noi ha la sua madeleine personale, intima e solo sua; per chi scrive è il profumo, il fumo e il lieve, particolarissimo fruscio delle lasagne al sugo appena sfornate mentre vengono tagliate.

 Non voglio far parte della mente alveare, né intendo penetrare nel foro interiore degli altri. Intima è la memoria, personalissima e selettiva.

Si dimentica e si rammenta, e ogni volta qualcosa muta nel ricordo; nuovi significati, sensazioni e risvolti – spesso tristi o drammatici, talvolta gioiosi- entrano a far parte del patrimonio immateriale della memoria, cuore, anima e corpo, non solo cervello.

La memoria è anche la sede della cultura, nel senso di conoscenze, saperi, giudizi, pregiudizi e convincimenti che fanno di un’esistenza la “mia” vita, la “tua” vita. Sono i frammenti che – uniti- formano la visione del mondo di ciascuno, la cornucopia da cui estraiamo sentimenti, idee, emozioni, timori. La vita, insomma.

Perfino il materialista Voltaire – autore di decine di voci dell’Enciclopedia di Diderot e D & Alembert- nel Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni, parla della cultura non come accumulo di conoscenza, ma come capacità di formarsi un autonomo quadro del mondo, dipinto da noi, con i colori, i chiaroscuri e la cornice scolpita da noi: studio ed esperienza.

Non un ammasso di dati e metadati, il modello artificioso e transumano dominato dalla tecnologia.

È inutile sovraccaricare il file della memoria, ma resta l’aspirazione inesausta e irrealizzata dell’essere umano, l’ansia di conoscenza e di pienezza di un essere che sa di essere incompleto e caduco senza potersi rassegnare alla sua condizione.

Leo Strauss in “Che cos’è la filosofia politica?” (1957) afferma che il filosofo (l’amico della conoscenza) è colui che, sapendosi limitato, impotente, cerca di discernere, distinguere, dare giudizi.

L’uomo- animale culturale (A. Gehlen) – è l’essere che prende posizione, formula giudizi.

Impedirglielo, tagliare la memoria con il linguaggio politicamente corretto e l’incultura della cancellazione, significa impedire quella ricerca tra passato e futuro, memoria e zavorra, che ciascun uomo compie a suo modo.

Come comprese Socrate, sapiente è chi sa di non sapere: la memoria è ricerca sempre inconclusa.

Nessun alveare, nessuna “mente collettiva” se non nella forma scoperta da Jung, l’immaginario che è sostrato, memoria condivisa entro una comunità. Se fossimo esseri completi, se perdessimo la curiosità genuina, l’ansia di scoperta, sciolte in un mostruoso artefatto come la mente alveare, saremmo esseri conclusi a cui verrebbe meno la voglia di vivere.

Da uomini, quanto meno. Fin dai tempi classici, è esistita l’aspirazione a una conoscenza universale. Un esempio è la biblioteca di Alessandria, summa del sapere antico, prima incendiata, poi distrutta dalla conquista araba.

Nel romanzo distopico Il “Dio Thoth”, Massimo Fini immagina un’immensa biblioteca digitale, fatta però di riduzione della conoscenza, di riassunti, assurdi Bignami che non risparmiano l’Amleto, sepolto da migliaia di rimandi e citazioni parziali.

 In Fahrenheit 451 la cultura e la memoria sono proibiti e il compito dei pompieri è di bruciare i libri. Metafore di un rapporto con la memoria, la conoscenza e la cultura che è l’essenza della presenza umana sulla scena del mondo.

Memoria, ma anche oblio, dimenticanza, scelta: ecco un’altra cosa di cui ci deruba il futuro che viene, il “datismo” e la mente alveare, registro unificato di milioni, miliardi di irripetibili esistenze.

La memoria è un labirinto, il mio labirinto. Nessuno meglio di Jorge Luis Borges poteva raccontarla, analizzarla, sezionarla minuziosamente. Lo fece in un racconto all’interno di “Finzioni”, un titolo che evoca le corse, i viaggi, il tortuoso andirivieni del pensiero.

Funes o della memoria, nell’originale il più suggestivo” Funes el memorioso”, è, secondo Borges, una lunga metafora dell’insonnia.

Il protagonista è un ragazzo uruguaiano di origini indie, Ireneo Funes, il quale, dopo un incidente all’età di diciannove anni, viene colto da “ipermnesia”, ossia è in grado di ricordare tutto, ma proprio tutto, di ciò che vede, legge e vive.

“Cadendo, perse conoscenza; quando la recuperò, il presente era quasi intollerabile per quanto era nitido e ricco, anche le memorie più antiche e più triviali”.

Funes mostra una memoria prodigiosa, e terribili difficoltà a prendere sonno. Borges presenta Funes come un ragazzo enigmatico, misterioso. “Lo ricordo, il volto taciturno dall’aspetto indio, singolarmente distante, remoto dietro la sigaretta.

Funes era un precursore dei superuomini, uno Zarathustra meticcio e vernacolo”. Soffriva per non poter dimenticare sino a non riuscire a sciogliere l’ansia nel sonno liberatore.

Menomato, privato della speranza, “portava la sua superbia sino al punto di fingere che fosse stato benefico il colpo che lo aveva fulminato. Lo vidi due volte dietro le sbarre che simboleggiavano grossolanamente la sua condizione di eterno prigioniero.”

Borges vede la portentosa memoria di Ireneo come un’eterna prigione e l’oblio – il diritto di dimenticare- come libertà. Eppure siamo soliti mettere in relazione la memoria con l’intelligenza, anche se ne è solo un requisito, una precondizione.

Ma che accadrebbe se una memoria prodigiosa quanto malsana e morbosa ci permettesse di ricordare assolutamente tutto, sino al più insignificante dettaglio? Innanzitutto, diventeremmo pazzi, ma non solo.

 Borges ci mostra come l’oblio selettivo è altrettanto importante della memoria.

Il sonno depura e scioglie i ricordi meno importanti per fare posto agli eventi veramente rilevanti.

Trascende la curva della memoria, la rende più sopportabile e, al contrario, può gonfiarla di dolore e rancore, ma è ancora umanità, scelta, padronanza. Una memoria assoluta è il sintomo di una condizione di prigionia interiore.

 La tecno dittatura del dato senza narrativa ci porta al non pensiero, all’assenza di correlazione, di astrazione e di generalizzazione: la vera cultura.

L’eccesso di dettagli, suggeriscono Borges e in fondo Voltaire, impedisce il giudizio. Ossia espropria il carattere essenziale della nostra umanità.

Ireneo Funes, chiuso nell’oscurità della sua camera, handicappato “memorioso”, era schiavo dei suoi ricordi che rammemorava continuamente in un circolo vizioso sino a morirne.

In poche ore imparò il latino e recitava passaggi della Storia naturale di Plinio il Vecchio, opera che gli aveva prestato un amico. “La materia di quel capitolo era la memoria; le ultime parole furono “ut nihil non iisdem verbis redderetur auditum” [affinché nulla di ciò a cui si è prestato attenzione venga narrato con le stesse parole].

Prima dell’incidente era un cieco, uno smemorato, ora la sua percezione e la sua memoria erano infallibili”.

Tuttavia quell’infallibilità contraria alla fallibilità umana reca con sé un enorme fardello.

“Il vertiginoso mondo di Funes” era la memoria indelebile dell’umanità. “Ho più ricordi io da solo di tutti quelli che avranno avuto tutti gli uomini dacché il mondo è il mondo. I miei sogni sono come per voi la veglia”.

Immaginiamo per un attimo la terribile condanna di essersi caricati sulle spalle le miserie del mondo. Immaginiamo di ricordare ogni immagine, ogni parola, ogni suono, senza posa, senza riposo. Immaginiamo per un solo minuto di essere onniscienti anziché creature, esseri limitati, finiti. L’oblio- e il sonno suo fratello- rinnovano la vita e ci riscattano della condanna eterna della memoria.

Funes non riusciva a sottrarsi al ricordo, quindi “gli era molto difficile dormire. Dormire è distrarsi dal mondo”. La disgrazia di conservare nella memoria anche il più piccolo ricordo ci spingerebbe a un tremendo rancore, a un’angoscia esistenziale irredimibile, poiché nessuno è preparato a farsi carico di ogni ingiustizia, dolore, ogni storia e nemmeno di ogni conoscenza.

Meglio il consiglio di Voltaire: scegliamo ciò che è migliore. Che tale è per noi, nel giudizio parziale, fallibile certo, ma umanissimo e soprattutto nostro, giacché pensare è giudicare, scoprire o dimenticare le differenze, generalizzare, astrarre. “Nell’ affollato mondo di Funes non c’erano che dettagli. “

Contro l’impero dell’eccesso di dati e informazioni, un mondo di bit e puntini, contro la disumana mente-alveare, evviva l’uomo imperfetto, con i suoi racconti e le sue dimenticanze, il discernimento e il criterio personale. Astrarre e generalizzare: dipingere da soli il quadro del mondo.

 “E stringere le mani per fermare qualcosa che è dentro me, ma nella mente tua non c’è. Capire tu non puoi; tu chiamale, se vuoi, emozioni.

 

 

 

Il complicato rapporto tra

i progressisti e la genetica.

Ilpost.it-Redazione – (11 settembre 2021) -ci dice:

 

Da tempo vengono segnalati i limiti dell'approccio prevalente nella sinistra, secondo cui è solo l'ambiente a determinare il comportamento di una persona.

Paige Harden è una giovane e apprezzata psicologa e genetista comportamentale americana, docente all’Università del Texas, a Austin, dove dirige un laboratorio di genetica del comportamento evolutivo.

È considerata una delle più autorevoli scienziate nell’ambito degli studi più recenti sull’influenza dei geni sullo sviluppo delle persone, sia per quanto riguarda i tratti caratteriali che i risultati nella vita, inclusi il livello di istruzione, il reddito e l’inclinazione alla criminalità.

Nel 2017 ha ricevuto dalla American Psychological Association, la più grande associazione di psicologi negli Stati Uniti, un ambito riconoscimento – quello destinato agli psicologi nelle prime fasi della loro carriera – per le sue ricerche su «come integrare la conoscenza genetica con le intuizioni cliniche ed evolutive classiche nel comportamento umano».

L’idea che fattori genetici siano alla base di una parte più o meno significativa dei nostri comportamenti in età adulta è un argomento molto controverso, che da decenni alimenta un dibattito vivace e molto polarizzato – a volte causa di ostilità esplicite – tra teorici di opposti modelli di analisi della natura umana.

Da una parte ci sono gli studiosi che ritengono rilevanti e meritevoli di indagine scientifica soltanto le correlazioni tra l’individuo e l’ambiente in cui nasce e cresce. Alla parte opposta ci sono quelli che ritengono prevalente o largamente dominante l’influenza dei geni.

È una discussione complessa e articolata, intorno alla quale esistono ideologie radicate anche nei contesti accademici, e con ripercussioni sul modo e sui criteri con cui valutiamo – e di fatto sono fondate – le nostre società, dall’istruzione pubblica alle politiche sociali.

Harden – alla quale il New Yorker ha recentemente dedicato un lungo articolo – sostiene che la ricerca genetica sulle differenze individuali umane sia compatibile con obiettivi sociali progressisti ed egualitari, ed è considerata da molti suoi colleghi la scienziata più impegnata nel tentativo ambizioso di integrare e sintetizzare attraverso la ricerca genetica tradizioni e scuole di pensiero divergenti.

Nel suo libro più recente, “La lotteria dei geni. Come il DNA influenza la nostra vita e la società”, Harden scrive:

«Sì, le differenze genetiche tra due persone qualsiasi sono minuscole rispetto ai lunghi tratti di DNA arrotolati in ogni cellula umana.

Ma queste differenze incombono pesantemente quando si cerca di capire perché, per esempio, un bambino ha l’autismo e un altro no;

perché uno è udente e un altro no; e, come descriverò in questo libro, perché un bambino avrà difficoltà con la scuola e un altro no.

Le differenze genetiche tra di noi sono importanti per le nostre vite. Causano differenze nelle cose a cui teniamo.

Costruire un impegno per l’egualitarismo sulla nostra uniformità genetica equivale a costruire una casa sulla sabbia».

Harden ha raccontato al New Yorker che in seguito alla pubblicazione dei risultati delle sue prime ricerche, nel 2015, cominciò a percepire di essere sgradita in diversi contesti pubblici e formali, tra sociologi, economisti e altri scienziati.

Molti di loro, soprattutto quelli vicini alle posizioni della sinistra americana, sembravano certi che qualsiasi ricerca sulla genetica del comportamento – anche se ben intenzionata – conducesse verso l’eugenetica.

Ma Harden riteneva che quelle diffidenze provenissero da un’era ormai passata, in cui i geni erano descritti «in termini di codifica del destino individuale».

Ne ebbe conferma quando in una lunga conversazione via email con colleghi della “Russell Sage Foundation” ricevette da alcuni di loro, tra i più illustri, diverse contestazioni dopo aver condiviso i risultati di un’importante collaborazione internazionale guidata dal medico Daniel Belsky, docente alla Duke University School of Medicine.

La ricerca, condotta su un campione di persone neozelandesi di discendenza nordeuropea, aveva identificato parti del genoma che mostravano una correlazione statisticamente significativa con il livello di istruzione.

In pratica, il gruppo guidato da Belsky aveva utilizzato quei dati per compilare una sorta di “punteggio poligenico” – una somma ponderata delle varianti genetiche rilevanti di un individuo – in base al quale sarebbe stato possibile spiegare in parte le differenze all’interno della popolazione nella capacità di lettura.

 Già dalle risposte ricevute in quella occasione, Harden si rese conto dell’esistenza di approcci difficili da conciliare.

Da una parte, c’erano quelli inclini a insistere sul fatto che i geni non contino davvero; dall’altra, quelli che sospettano che i geni siano anzi le uniche cose che contano.

La storia della genetica del comportamento, sintetizza il New Yorker, «è la storia del tentativo di ogni generazione di tracciare una via di mezzo».

 All’inizio degli anni Sessanta, quando questa disciplina cominciò a formarsi, il rischio dell’eugenetica era avvertito come reale e concreto soprattutto per effetto del ricordo molto vivo delle atrocità naziste.

 Il modello dominante nella spiegazione dello sviluppo umano era il comportamentismo, sostenuto dai principi progressisti del dopoguerra e in parte fondato sulla speranza che modificare l’ambiente potesse produrre qualsiasi risultato.

Partendo dalla constatazione della distribuzione non uniforme delle capacità umane, scrive il New Yorker, i primi genetisti del comportamento assunsero che «la nostra natura non è né perfettamente fissata né perfettamente plastica, e che questa era una cosa buona».

 E diedero priorità agli studi sugli animali, per evitare che i loro interessi scientifici potessero essere fraintesi e utilizzati al di fuori dei contesti accademici.

Nel 1965, le ricerche del genetista John Paul Scott e dell’etologo John L. Fuller – alla cui memoria è dedicato il premio Fuller-Scott, assegnato ogni anno dalla “Behavior Genetics Association “– mostrarono che, nonostante le differenze genetiche riconoscibili tra le razze canine, non sembravano esserci distinzioni categoriche utili a concludere che, per esempio, i pastori tedeschi siano più intelligenti dei labrador.

 Le variazioni più significative si verificano piuttosto a livello individuale, e l’ambiente era importante tanto quanto le qualità innate, se non di più.

Ma qualche anno più tardi Robert Jensen, psicologo e docente dell’Università della California a Berkeley, pubblicò sulla rivista “Harvard Educational Review” un articolo intitolato “How Much Can We Boost IQ and Scholastic Achievement?” (“Quanto possiamo aumentare il Quoziente Intellettivo e il rendimento scolastico?”), ritenuto ancora oggi uno dei più controversi articoli nella psicologia americana.

 Jensen sostenne l’esistenza di un divario nel QI delle diverse popolazioni americane, la cui ragione era almeno in parte genetica e immutabile.

Definiva quindi sostanzialmente inefficaci gli interventi politici mirati a contrastare quelle che considerava differenze naturali.

Le tesi di Jensen avviarono un dibattito pubblico molto acceso e anche violento, scrive il New Yorker, da cui scaturirono «proteste studentesche, minacce di morte e accuse di totalitarismo intellettuale».

 Le stesse controversie di allora alimentano ancora oggi, in forme diverse e meno violente, un dibattito incentrato su diverse questioni irrisolte e approfondite da studi successivi a quelli di Jansen. In ambito accademico, i suoi critici sostenevano che i percorsi sociali che dai geni portano a tratti complessi fossero talmente contorti e insondabili da rendere inadatta e sostanzialmente stupida qualsiasi nozione di “causalità genetica”.

Nel 1972, il sociologo americano Christopher Jencks, dell’Università di Harvard, obiettò che l’affermazione in base alla quale i geni spiegherebbero le differenze tra gli individui nei punteggi dei test del QI non implica necessariamente che i geni influenzino la capacità di apprendimento di un individuo.

E propose un esperimento mentale, per spiegare questo concetto.

 «Se, per esempio, un paese si rifiuta di mandare a scuola i bambini con i capelli rossi, si potrebbe dire che i geni che causano i capelli rossi abbassino i punteggi di lettura. Questo non ci dice che i bambini con i capelli rossi non possono imparare a leggere».

A questa forma di determinismo genetico si oppose fortemente anche il biologo evoluzionista e genetista statunitense Richard Lewontin, che utilizzò un’analogia diversa.

Supponiamo, scrisse Lewontin, di acquistare un sacchetto di semi di mais e di coltivarne una manciata in un ambiente attentamente controllato, con illuminazione uniforme e soluzioni nutritive uniformi, e un’altra manciata in un terreno altrettanto illuminato ma povero di nutrienti.

Le piante varieranno in altezza all’interno di ciascuno dei due gruppi, ma nel secondo saranno tutte scarsamente sviluppate e l’altezza media del gambo sarò inferiore a quella relativa al primo gruppo.

Ciò che Lewontin intendeva mostrare con questo esempio era la possibilità che rispetto a un determinato risultato finale, interamente determinato dall’ambiente, la predisposizione genetica comune sia del tutto ininfluente.

In questo senso la tesi razziale di Jansen era, sotto molti punti di vista, ingiustificata: era assurdo pensare che, nell’America del 1969, persone di differenti origini etniche godessero delle stesse condizioni.

 I critici di quel modello non negavano che i test sul QI potessero misurare qualcosa di reale, ma sostenevano che qualsiasi dato tratto da quei test non dovesse essere considerato come un dato puramente biologico e immutabile.

 

La proliferazione degli studi sui gemelli durante gli anni Ottanta, scrive il New Yorker, contribuì fortemente a cambiare un approccio teorico basato in parte su intuizioni di tipo morale prive di fondamento.

Quando la schizofrenia e l’autismo, per esempio, si rivelarono in gran parte ereditari, la comunità scientifica abbandonò definitivamente alcune dannose teorie che associavano quei disturbi a un presunto rapporto inadeguato del bambino o della bambina con i genitori (la teoria delle cosiddette “madri frigorifero”).

Per alcuni tratti come l’intelligenza, i progressisti continuarono tuttavia a insistere sul fatto che le differenze – non solo a livello di gruppo ma anche a livello individuale – fossero semplicemente l’effetto di un ambiente diseguale.

 I conservatori, scrive il New Yorker, sottolinearono che quel tipo di approccio selettivo rispetto alle scoperte scientifiche fosse intellettualmente disonesto.

Nel 1997, un influente psicologo del Dipartimento di Psicologia dell’Università della Virginia pubblicò un breve saggio intitolato “The Search for a Psychometric Left” (“La ricerca di una sinistra psicometrica”), in cui invitava i suoi colleghi progressisti a non respingere le valutazioni quantitative ottenute dai più recenti metodi d’indagine psicologica.

L’autore di quel saggio è Eric Turkheimer, di cui Harden è stata allieva e che è oggi considerato uno dei più importanti genetisti comportamentali della sua generazione.

In conclusione del saggio, Turkheimer scrisse:

«Una sinistra psicometrica riconoscerebbe che l’abilità umana, le differenze individuali nell’abilità umana, le misure dell’abilità umana e le influenze genetiche sull’abilità umana sono tutte reali ma profondamente complesse, troppo complesse perché si possano imporre su di esse schemi biogenetici o politici. […]

L’opposizione al determinismo, al riduzionismo e al razzismo, nelle loro forme estreme o moderate, non deve dipendere dal rifiuto generale di fatti innegabili – anche se facilmente interpretati nel modo sbagliato – come l’ereditarietà».

 

Già all’epoca Turkheimer era abbastanza noto per la sua convinzione che le spiegazioni biologiche del comportamento umano difficilmente avrebbero soppiantato quelle culturali e psicologiche.

 Sosteneva l’idea che i processi rilevanti nello sviluppo degli individui fossero troppo disordinati per essere chiariti e fissati a livello molecolare.

Con questo non intendeva che la genetica del comportamento fosse inutile, ma insisteva sul bisogno di una prospettiva più modesta riguardo ai risultati che era possibile ottenere grazie a essa.

Gli studi sui gemelli potrebbero non spiegare mai come un dato genotipo possa rendere più probabile la depressione, per esempio, ma possono servire a evitare il tipo di inferenze che negli anni Sessanta attribuivano ai genitori e all’ambiente le responsabilità di determinate patologie.

Il lavoro di Harden, scrive il New Yorker, è pienamente all’interno di questa tradizione di studi.

Per esempio, Harden ha utilizzato uno studio sui gemelli per dimostrare che l’idea della “pressione sociale” (“peer pressure”) come motore dell’abuso di sostanze tra gli adolescenti fosse, nella migliore delle ipotesi, un’eccessiva semplificazione di correlazioni estremamente complesse tra geni e ambiente.

I primi anni di specializzazione di Harden coincisero con un periodo di importanti scoperte scientifiche e con un massiccio ingresso dei genetisti in un campo di ricerca a lungo dominato dagli psicologi.

Nel 2003, gli scienziati annunciarono di aver completato la prima mappatura completa del genoma umano, da molti ritenuti il più grande e complesso progetto di ricerca biologica nella storia.

Conoscere nel dettaglio le informazioni che compongono il DNA umano permise, per esempio, di attribuire alcune malattie come quella di Huntington alla mutazione di un singolo gene, e questo contribuì a diffondere l’idea che anche i tratti complessi della personalità potessero essere derivati altrettanto chiaramente.

Alcuni studi riuscirono a individuare un gene associato all’aggressività, altri alla depressione, ma gli esperimenti non furono replicati, e in breve tempo fu chiaro che i tratti complessi possono essere associati a più geni e che i singoli geni possono appartenere a una varietà di attributi.

E ancora oggi una delle principali difficoltà delle ricerche sulla genetica del comportamento consiste nell’individuazione di quali geni influenzino un dato comportamento e di come ciò avvenga.

Nel periodo in cui Harden stava finendo la sua tesi specialistica i ricercatori cominciarono ad avviare una serie di cosiddetti studi di associazione genome-wide (genome-wide association study, o GWAS), basati sulla possibilità di identificare nel genoma umano centinaia o migliaia di punti in cui le differenze nelle sequenze del DNA potrebbero essere correlate a tratti complessi o a un determinato risultato.

Dopo alcuni primi risultati deludenti, gli studi GWAS negli ultimi cinque anni si sono rapidamente evoluti.

I “punteggi poligenici” possono oggi rappresentare una buona parte della varianza di una popolazione in altezza e peso, e servire a prevedere malattie cardiovascolari e altre patologie come il diabete.

 I ricercatori hanno inoltre scoperto collegamenti tra geni e tratti comportamentali complessi.

Il più grande studio GWAS sui livelli di istruzione ha identificato nel genoma quasi 1.300 punti correlati al successo scolastico, e ha permesso di formulare punteggi con validità predittiva.

Le persone con i punteggi più alti avevano circa cinque volte più probabilità di laurearsi rispetto a quelle con i punteggi più bassi: che è una stima con un livello di accuratezza paragonabile, scrive il New Yorker, a quelle basate sulle tradizionali variabili delle scienze sociali, come il reddito dei genitori.

Parlando con il New Yorker, Harden è stata molto cauta rispetto alle conclusioni che è possibile trarre dai suoi studi e molto chiara riguardo ai limiti dei GWAS.

Sostiene che queste ricerche forniscano semplicemente un quadro di come i geni siano correlati al successo, o alla salute mentale, o alla criminalità, «per particolari popolazioni, in una particolare società, in un particolare momento storico».

Non avrebbe quindi senso, sostiene, confrontare risultati tra popolazioni di paesi o di epoche diverse.

Inoltre i punteggi poligenici hanno uno scarso valore predittivo per quanto riguarda i risultati individuali.

Negli studi GWAS sul successo scolastico, per esempio, tra le persone con i punteggi più bassi ce ne sono molte che proseguono gli studi universitari, e tra quelle con i punteggi più alti ce ne sono molte che non arrivano a prendere il diploma di scuola superiore.

Ed esistono poi casi in cui i risultati di studi GWAS possono non essere particolarmente significativi, più o meno nello stesso senso in cui non lo sono le conclusioni sui bambini con i capelli rossi nell’esperimento mentale di Jencks.

Uno studio sull’utilizzo delle bacchette a San Francisco, fa l’esempio il New Yorker, scoprirebbe prevedibilmente che questa abilità è geneticamente correlata a gruppi con origini asiatiche, «che è ben lontano dall’essere una scoperta su una destrezza innata con un particolare utensile».

 

Secondo Harden, uno dei principali limiti del dibattito sulla genetica del comportamento è che è ancora in larga parte basato su una distinzione superficiale tra cause genetiche immutabili e cause ambientali duttili.

 E sarebbe preferibile, secondo lei, accettare che nel comportamento umano tutto è legato a un lungo intreccio causale di geni, personalità e cultura, e quanto più si riesce a comprendere di questo intreccio, tanto più efficaci potrebbero essere i nostri interventi.

Harden, conclude il New Yorker, non è l’unica scienziata a condividere l’auspicio di Turkheimer di una “sinistra psicometrica”.

 Argomenti simili ai suoi sono stati trattati dai sociologi americani Dalton Conley e Jason Fletcher nel libro The Genome Factor, del 2017, dal sociologo dell’Università di Stanford Jeremy Freese e dallo scrittore socialista Fredrik deBoer, autore del recente libro The Cult of Smart.

Opinioni simili a quelle della cosiddetta «sinistra ereditaria», come la definisce il New Yorker, sono state attribuite anche allo psichiatra e saggista californiano Scott Alexander e al filosofo Peter Singer.

«Le argomentazioni etiche di Harden sono quelle che ho sostenuto per molto tempo. Se ignori queste cose che contribuiscono alla disuguaglianza, o se fai finta che non esistano, rendi più difficile raggiungere il tipo di società che apprezzi», ha detto Singer al New Yorker. «Ma c’è una sinistra politicamente corretta che non è ancora aperta a queste cose», ha aggiunto.

La prospettiva della «cecità genetica», ha detto Harden al New Yorker, «perpetua il mito che quelli di noi che hanno “successo” nel capitalismo del ventunesimo secolo lo hanno ottenuto principalmente a causa del duro lavoro e dello sforzo, e non perché ci è capitato di essere i beneficiari di incidenti di nascita, sia ambientali che genetici».

«Compagni progressisti, non inseguite

i social: tornate nella realtà».

Tempi.it - Pietro Piccinini – (18/05/2021) – ci dice:

 

Le ragioni offerte dal deputato Khalid Mahmood per spiegare le sue dimissioni dalla leadership del Labour dovrebbero suggerire qualcosa anche al Pd follower di Fedez.

Il leader del Labour Keir Starmer ripreso durante una conferenza stampa online nel 2020.

All’Enrico Letta che twitta cose sbagliate – l’ultima in ordine di tempo è l’appello ad «approvare subito il ddl Zan» – potrebbe giovare lo studio delle ragioni con cui Khalid Mahmood ha motivato qualche giorno fa le sue dimissioni da ministro della Difesa del “governo ombra” laburista.

 A dire il vero, tutte le ultime vicende del principale partito della sinistra britannica, passato dalle mani di Jeremy Corbyn a quelle di Keir Starmer poco più di un anno fa, dovrebbero suggerire qualcosa al Letta che si fissa su omofobie, ius soli, quote rosa, lockdown e via twittando.

Esattamente come capita al Pd italiano da un po’ di tempo a questa parte, infatti, anche in Inghilterra il Labour sta perdendo pezzi e roccaforti storiche a vantaggio dei tories.

 «Si è sbriciolata la Muraglia Rossa laburista», ha scritto il Corriere della Sera raccontando della disfatta progressista nella città operaia Hartlepool, rimasta fedelmente di sinistra fino alle elezioni amministrative di inizio maggio. (In realtà un chiaro scricchiolio si era udito già in occasione del referendum del 2016, quando questo collegio aveva votato al 70 per cento a favore della Brexit e dunque contro le indicazioni dei laburisti).

«I social media dettano la linea».

Proprio dalla clamorosa sconfitta a Hartlepool ha preso spunto Khalid Mahmood per criticare in un articolo per Policy Exchange e in una bella intervista a Spiked il partito di Starmer che ormai «si fa dettare la linea dai social media».

E che «invece di sostenere i lavoratori, riprende in mano le stesse battaglie identitarie degli anni Settanta».

18 NOVEMBRE 2022.

Khalid Mahmood.

In Parlamento dal 2001, musulmano di Birmingham, Mahmood ha scritto nel suo commento per Policy Exchange all’indomani del voto:

«La mia idea è semplice: nell’ultimo decennio, il Labour ha perso contatto con le persone ordinarie.

Una borghesia londinese, con il sostegno di brigate di giustizieri da social media, è riuscita a prendere in ostaggio il partito.

Naturalmente hanno buone intenzioni, ma la loro politica – ossessionata dall’identità, dalle divisioni e perfino da un utopismo tecnologico – ha più cose in comune con l’alta società californiana che con la gente che ha votato ieri a Hartlepool.

Nell’ultimo anno le voci più forti del movimento laburista si sono concentrate più sull’abbattere la statua di Churchill che non sull’aiutare le persone a farsi strada nel mondo.

Non mi stupisce che sia andata meglio tra i ricchi liberal delle città e tra i giovani laureati che nella parte più importante del suo elettorato tradizionale, la classe operaia».

A chi parla la sinistra.

Non è difficile immaginare come commenterebbe Mahmood l’appiattimento acritico del Pd di Letta sulle posizioni di Fedez, il testimonial di Amazon che sfrutta il palco della festa dei lavoratori per fare la morale agli “omofobi”.

Ha detto Mahmood a Spiked:

«Non possiamo permetterci di farci dettare la proposta politica dai social media. Non possiamo permetterci di non comprendere che cosa sta attraversando il cittadino medio.

I social media dovrebbero essere un mezzo per coinvolgersi con le persone, non per decidere la linea e poi obbligare la gente ad accettarla.

Nelle nostre comunità ci sono oggi divisioni su cose come il monumento a Churchill.

Ma abbiamo una storia che non si può riscrivere, per quanto lo si desideri.

 Al contrario, della storia dobbiamo imparare la lezione.

Dobbiamo riconoscere che sono successe cose brutte nel passato, in un’era diversa e con diversi modi di vedere la realtà. Invece di combattere battaglie di cento anni fa, dovremmo concentrarci sul migliorare le cose per il futuro.

Basta con le politiche che segregano le persone.

Basta con i finanziamenti sulla base dell’appartenenza a un gruppo etnico o a un altro

 Questa è politica della divisione. Invece dovremmo sostenere tutti.

Dovremmo guardare ai bisogni dell’intera comunità di ciascuna area e capire come mettere insieme le persone.

Questo deve fare il Partito laburista. Deve unire la gente».

Non siamo tutti razzisti e omofobi.

E non solo è comprensibile che in tempi di Covid e recessione le persone comuni abbiano problemi un po’ più urgenti dei presunti allarmi omofobia, sessismo, razzismo:

secondo il deputato musulmano britannico non è nemmeno vero che le nostre società occidentali siano poi così piene di omofobi, sessisti e razzisti bisognosi di rieducazione.

Insomma, Mahmood parla a Starmer ma sembra averne per tutti, Biden compreso.

Ancora dall’intervista a Spiked:

«Se vuoi fare un incontro sulla giustizia razziale, non farlo su Twitter. Va’ là fuori e parlane con le persone. […]

Quando mi sono candidato nel 2001, i compagni del Partito laburista dicevano che non sarei stato eletto, perché gli indiani non avrebbero votato per un candidato del Kashmir, gli afro-caraibici non avrebbero votato per un asiatico e nemmeno i bianchi essendo razzisti avrebbero votato per me.

Alla fine ho ottenuto una maggioranza di 7.000 voti. Mi avevano votato persone di tutte quelle comunità. A riprova che le persone non sono divise come gli altri vorrebbero».

La sinistra progressista contro i lavoratori.

Non è finita. La sinistra secondo Mahmood non dovrebbe intestardirsi su certe irragionevoli battaglie ambientaliste, specie quando a farne le spese sono i ceti “inferiori” (e qui ogni riferimento a Beppe Sala e alla sua campagna pro piste ciclabili non sarebbe stato casuale né fuori luogo).

«Prendete l’iniziativa Low Traffic Neighbourhood [quartieri a basso traffico, ndt]. A Birmingham ce l’abbiamo e sta causando problemi enormi.

La gente deve fare dei giri pazzeschi a causa di questo progetto.

Certo, uno può dire che si dovrebbe tornare all’epoca in cui non c’erano auto per strada.

Ma rendetevi conto di chi ne soffre: la classe dei lavoratori.

Queste persone non possono permettersi un’auto di nuova generazione, e così saranno penalizzate. Non dobbiamo usare l’ambiente come un bastone con cui picchiare i lavoratori».

I problemi degli elettori.

Le persone comuni, va spiegando in lungo e in largo il laburista musulmano, non hanno i problemi di immagine degli influencer, se ne fregano di cosa pensa “il popolo di Twitter” o il guru di Instagram di turno.

 Le persone comuni hanno il problema del lavoro, la fine del mese, la sanità, la scuola.

È per questo, e non per ignoranza o xenofobia, che in Inghilterra hanno votato a favore della Brexit, ed è proprio a loro che il Labour dovrebbe rivolgersi, non ai loro profili social.

Ancora Mahmood per “Policy Exchange”:

«Il Labour sbaglia se pensa che tutto ciò sia nostalgia e sguardo al passato. Riguarda anche il presente.

 La gente sul campo, lontano dalle élite e dai dibattiti accademici della capitale, vuole che funzionino le cose essenziali.

Le persone vogliono un lavoro sicuro per sé – non contratti a zero ore – e un futuro promettente per i figli e i nipoti.

Vogliono un sistema sanitario nazionale che funzioni e non le faccia attendere mesi per una operazione o settimane per un appuntamento dal medico.

Vogliono investimenti in infrastrutture e nel trasporto come autobus più puliti e più verdi.

Soprattutto, vogliono essere ascoltate.

 Che disperazione quando il nostro consiglio comunale ha ignorato una petizione con 15 mila firme per un nuovo cavalcavia.

Talvolta la spocchia di chi crede di saperla più lunga si vede anche a livello locale. […]

C’è bisogno di umiltà, tanto per cominciare. Se il Labour vuole riprendersi collegi come Hartlepool dovrà far cambiare idea a persone che ieri hanno deciso di votare conservatore.

Esiste il pericolo che il nostro partito, nella sua opposizione e confusione sulla Brexit, abbia sbandato verso un atteggiamento antibritannico?

Io di certo temo che questo sia il pensiero di alcuni dei nostri ex sostenitori».

Non esistono solo gli elettori di Londra che «lavorano dalle caffetterie o da casa, quelli che vanno in giro coi loro laptop e si mettono dove vogliono», ha ribadito ancora Mahmood parlando con il Guardian.

La maggior parte delle persone, in Inghilterra come in Italia, deve fare i conti con una realtà: «Dobbiamo uscire e metterci a lavorare davvero sui problemi reali».

Il libro che smaschera la truffa

dei cambiamenti climatici.

 Ilfoglio.it- MAURO ZANON – (21 OTT 2015) – ci dice:

    

Jacques Cheminade, ex candidato alle presidenziali francesi e autore di un dossier controcorrente intitolato “La mistificazione del riscaldamento globale”, l’ha definita “dittatura soft del maltusianesimo verde”.

(Il pensiero unico sul clima colpisce ancora. Chi critica il global warming perde il lavoro.)

 

Appunti per chi dice che anche in Costa Azzurra è tutta colpa del global warming.

Ecolocausto.

Parigi. Jacques Cheminade, ex candidato alle presidenziali francesi e autore di un dossier controcorrente intitolato “La mistificazione del riscaldamento globale”, l’ha definita “dittatura soft del maltusianesimo verde”.

Chiunque vi si opponga è prontamente isolato, come è successo a lui stesso, o peggio allontanato dal posto di lavoro, come è accaduto la scorsa settimana a Philippe Verdier, meteorologo vedette di France 2, punito per aver scritto un libro che denuncia il pensiero unico sul global warming e la grande impostura della Conferenza sul clima (Cop21) che si terrà a Parigi il prossimo dicembre.

 “Climat Investigation” (Edizioni Ring), questo è il titolo dell’inchiesta che dimostra l’infondatezza del discorso allarmista dominante sul clima e relativizza le conseguenze del riscaldamento globale, è costata a Verdier una lettera da parte della direzione di France Télévisions nella quale gli si chiedeva espressamente di stare a casa perché per i dissidenti dell’ideologica climatica, a un mese dalla pomposa Cop21, non c’è spazio nel dibattito pubblico.

C’è una nuova colpa, impossibile da espiare per i gendarmi del pensiero: l’essere “climatosceptique”, ossia scettici nei confronti delle teorie mainstream sul clima, ossia voler porre questioni, aprire dibattiti, proporre visioni alternative all’idea diffusa secondo cui bisogna fare in fretta altrimenti l’apocalisse ambientale sarà inevitabile.

Ed è per questa colpa, condivisa con molti altri pensatori contrari come il premio Nobel per la Fisica Ivar Giaever, che Verdier è stato immediatamente sanzionato e tacciato dal codazzo benpensante dei vari Monde, Libération, Inrocks e Canal Plus di alimentare una “retorica complottista” e di essere vicino all’estrema destra.

La decisione di sollevare un polverone a qualche settimana dall’inizio del ventunesimo raduno sul clima organizzato dalle Nazioni Unite, che vedrà convergere a Parigi imprenditori, scienziati, professori, economisti e soprattutto i principali capi di Stato mondiali, è stata presa da Verdier nel momento in cui, da inviato indipendente di tre edizioni della Cop, si è reso conto dell’imbarazzante allineamento tra calendario climatico e calendario politico.

“L’urgenza non proviene dal clima in quanto fenomeno fisico, ma da un tempo artificiale calcolato sul calendario politico”, scrive Verdier nell’introduzione della sua inchiesta.

“I nostri dirigenti esercitano una pressione sull’opinione pubblica al fine di valorizzare la Conferenza di Parigi, che costituisce anche un’opportunità di ridorare la loro immagine sbiadita da una situazione economica e sociale complicata” (a dicembre ci saranno anche le delicate elezioni regionali che per la gauche potrebbero essere un’altra disfatta).

 Lungo le quasi trecento pagine di inchiesta, Verdier muove una critica durissima alla nuova religione climatica, che tappa la bocca agli “eretici” come lui, e smaschera i catastrofisti del riscaldamento globale di cui il Giec (Groupe d'experts intergouvernemental sur l’évolution du climat) è l’epicentro, sottolineando invece quanto il global warming abbia portato numerosi benefici al nostro mondo, a livello economico, turistico, enogastronomico e financo di salute.

Il meteorologo francese, che su Europe 1 non ha escluso il coinvolgimento dell’Eliseo nel quadro della sua cacciata, si sofferma a lungo sulla grande ipocrisia dei governi che a seconda delle necessità drammatizzano o relegano nel dimenticatoio il tema del riscaldamento globale.

Tra il 2011 e il 2014 la questione climatica sparisce bruscamente dai radar degli ideologi del global warming, viene derubricata dalla lista dei dossier prioritari. Non è più un’urgenza, a quanto pare.

La catastrofe naturale e antropologica sembra non essere più imminente per i politici e gli ecologisti di ogni latitudine.

Poi, a un anno dalla Conferenza sul clima di Parigi, commenta Verdier, l’apocalisse ambientale causata dal global warming di natura antropica torna magicamente a figurare in cima all’agenda politica e mediatica.

 “500 giorni per salvare il pianeta”, lancia allarmato il ministro degli Esteri francese Laurent Fabius, posando sulla copertina del Parisien Magazine in veste di meteorologo.

 L’heure est grave, la situazione torna improvvisamente a essere critica, climatologi e scienziati ripartono con la litania dell’“uomo grande colpevole dell’innalzamento delle temperature”, nonostante in quei tre anni di encefalogramma piatto sul clima il fenomeno del riscaldamento globale abbia proseguito il suo percorso con il solito cammino di incertezze e di imprevisti senza essere più intenso di prima.

All’inquilino del Quai d’Orsay e principale ambasciatore della Cop21 nel mondo, Verdier dedica uno dei capitoli più saporiti del libro, intitolato “Il ministro che voleva diventare Monsieur Météo”.

 

 È una mattina del giugno 2014 quando Fabius decide di radunare tutti i presentatori meteo al ministero degli Esteri per una colazione speciale. E perché mai proprio loro? Perché dai loro bollettini meteo, da quel giorno in poi avrebbero dovuto rimuovere dalle loro analisi le parole “riscaldamento” e “cambiamento”, e parlare soltanto di “caos climatico”.

 Poche settimane dopo è il turno della ministra dell’Ambiente, Ségolène Royal, che invita tutti i meteorologi francesi per un appuntamento intitolato “Il meteo si impegna per il clima”.

 A completare l’opera ci pensa il presidente Hollande, con un viaggio glamour a Manila, promuovendo con gravità, accanto alle attrici Marion Cotillard e Mélanie Laurent, la Cop 21 di Parigi.

 

 

 

Clima, Prestininzi: “il pensiero unico

sconvolge il Metodo Scientifico-sperimentale,

le previsioni catastrofiste non trovano conferma nei fatti”.

Metoweb.eu – A. Prestininzi – Beatrice Raso – (10 Lug 2022) – ci dicono:

 

"Nessun modello predittivo, costruito a supporto della narrazione sulla responsabilità dell’uomo" sull'evoluzione del clima "ha trovato conferma dai fatti", afferma Alberto Prestininzi.

Alberto Prestininzi, già Direttore del Centro di Ricerca CERI e Ordinario di Rischi Geologici, Università Sapienza di Roma, attuale Docente di Analisi del Rischio, Università e Campus, ha scritto un articolo per lo speciale di Calabria Live in cui si affronta il tema tanto dibattuto dei cosiddetti cambiamenti climatici antropici, ossia i cambiamenti del clima attribuiti all’azione dell’uomo, principalmente attraverso le emissioni di gas serra.

Nel suo articolo, dal titolo “Le variazioni del clima: dall’emergenza alla conoscenza”, Prestininzi affronta il problema del “pensiero unico” sul clima rilanciato dal sistema di comunicazione, definendolo una “deriva autoritaria” nella quale le previsioni sul futuro climatico non trovano conferma nei fatti. 

L’articolo scritto da Alberto Prestininzi. 

“E’ molto probabile che i contenuti di questo Speciale creeranno sgomento o, addirittura, avversione soprattutto da parte dei giovani, non di tutti, per fortuna. I giovani che rappresentano la porta che deve garantire un futuro migliore.

Ma qualcuno sta pensando di tenere ben chiusa questa porta, utilizzando sistemi sicuri e inviolabili.

La generazione passata, alla quale è stato “assegnato” il compito di vivere il primo dopoguerra, conosce molto bene il valore della porta del futuro e il suo ruolo vitale.

Per questo cercano di tenere ben aperta la porta del futuro, per consentire all’aria vitale che l’attraversa di nutrire quello che noi chiamiamo il cibo del pensiero, ovvero l’informazione libera, multipla, articolata che nasce e cresce, anche, e soprattutto, attraverso il confronto aperto portato avanti con argomenti e tesi, spesso ferocemente contrapposte.

Oggi viene proposto dal sistema di comunicazione, con offerta a buon mercato, il pensiero unico, monotematico, senza confronto ma propinato da “esperti” accuratamente selezionati e pronto per l’uso.

Una delle prove generali, ben riuscita, è costituita dai milioni di ragazzi, turlupinati e inconsapevoli vittime, scesi per scioperare a favore del Clima a fianco della giovane Greta Thumberg: selezionata, costruita e veicolata da chi vuole a tutti i costi tenere chiusa la porta del futuro (contro chi hanno scioperato questi giovani? Non si capisce, visto che il Ministro della Pubblica Istruzione, quasi tutti gli Insegnanti, il Governo e i vertici dei governi occidentali, compresa l’UE, erano i promotori dello sciopero)

 (A. Prestininzi- Il rapporto tra Scienza e Comunicazione).

È in tale contesto che si colloca lo sgomento e la reazione dei giovani alle notizie ed alle comunicazioni che si discostano da quelle “impartite e imparate a memoria” da Tv e giornali, in primo luogo.

Ma financo dai documentari, spesso diffusi con l’etichetta “scientifica” e che unanimi annunciano la morte del Pianeta, lanciando informazioni subliminali.

La tecnica è collaudata, gli stessi media sono pronti ad indicare come false, o non scientifiche, tutto ciò che è in dissonanza con il mainstream.

Per sostenere questo tipo di perplessità sono in genere forniti vocaboli ad hoc, spregevoli ma di immediato uso e getta, come negazionista, il cui vero e duro significato è noto alle passate generazioni, le quali i campi di concentramento nazisti li hanno vissuti e subiti.

 Questa nostra breve premessa è stimolata dai decenni di docenza e rapporti con i giovani, i quali spesso palesano questa iniziale reazione ma che, poi, la prolungata interazione e il dialogo fa emergere in loro tutta la potenzialità del loro libero pensiero, unica speranza per il futuro”. 

Dal Club di Roma all’isteria del Cambiamenti climatico.

“La versione ufficiale che si tramanda attraverso documenti e cronache ha sempre sostenuto che il primo incontro promosso da Aurelio Peccei nell’aprile 1968, insieme a scienziati, leader politici e intellettuali, si è tenuto presso l’Accademia dei Lincei di Roma.

Da qui, il nome Club di Roma.

Il tema dell’incontro era centrato su un documento elaborato da Alexander King, scienziato scozzese, di chiara ispirazione Malthusiana, sui “problemi globali” connessi alla sostenibilità del nostro pianeta nel poter garantire le risorse energetiche necessarie al crescente aumento della sua popolazione.

Nonostante l’ipotesi formulata non abbia avuto molto successo, Il Club di Roma ha pubblicato nel 1972 il documento I Limiti dello Sviluppo (The Limits to Growth) di Donella H. Meadows, Dennis L. Meadows, Jorgen Randers, William W, noto come Rapporto Meadows.

Le attività del gruppo di lavoro furono sviluppate con il coinvolgimento del MIT di Boston (Massachusetts Institute of Technology) e portarono alla simulazione, su una finestra temporale di cento anni, di uno scenario che avrebbe condotto il pianeta Al raggiungimento dell’umanità dei limiti naturali dello sviluppo a causa del previsto, e temuto, declino del livello di popolazione e del sistema industriale, soprattutto per l’impossibilità di garantire risorse energetiche sufficienti”. 

Al riguardo dobbiamo registrare che, a partire dal dopoguerra la popolazione mondiale è passata da circa 3 a 8 miliardi di individui (gennaio 2022).

Nello stesso intervallo di tempo il livello di sottonutriti della popolazione mondiale è passato, dal 50% del 1945 al 9% circa del 2020.

I fatti, quindi, hanno dimostrato che la pur legittima ipotesi iniziale del Club di Roma e del MIT era errata.

 In questo contesto dobbiamo, giocoforza, ricordare che il mondo scientifico, sotto la spinta di Galileo, ha assunto come elemento guida Il Metodo Scientifico-sperimentale che permette di confermare, o smentire, le ipotesi predittive che via via sono formulate dal mondo scientifico per interpretare l’evoluzione di certi fenomeni.

 In linea con tale Metodo, la comunità scientifica utilizza i principi galileiani per stimare la validità delle ipotesi predittive attraverso il confronto con i “fatti”, ovvero con quanto realmente si registra nell’intervallo di tempo assunto dalle ipotesi predittive.

Solo i fatti, quindi, consentono di trasformare una ipotesi predittiva in un modello scientifico significativo.

L’assenza di queste condizioni confina le ipotesi predittive in legittime basi di ricerca e di lavoro, ma non li assume come elementi idonei che consentano di assumere decisioni politiche ed economiche.

Ma, negli ultimi decenni, stiamo assistendo allo stravolgimento di questo paradigma, con l’assunzione di fondamentali decisioni politiche-economiche sulla base di ipotesi, portate avanti con modelli costruiti al computer anche quando i fatti mostrano la loro inconsistenza scientifica.

Tra l’altro, si tratta di decisioni che, nel nostro paese, calpestano il lavoro dei Padri Costituenti e consentono di perpetrare grandi ingiustizie nei confronti delle inconsapevoli popolazioni. Considerando il tema dei cosiddetti “Cambiamenti Climatici antropici”, gestito e orchestrato a livello planetario da coloro che si nascondono sotto la coperta dei Malthusiani, avendo ereditato abusivamente il marchio Club di Roma, emerge come questo tema abbia tutti i requisiti per essere considerato un perfetto esempio di una deriva autoritaria.

Aurelio Peccei e il Club di Roma erano partiti dalla ipotesi che le fonti di energia fossile fossero ormai sulla soglia dell’esaurimento (i meno giovani ricordano gli anni ‘70, quando c’è stata la messa al bando della circolazione domenicale dei veicoli).

I novelli Malthusiani hanno utilizzato la legittima ma errata previsione del Club di Roma, come password per promuovere quella che Ivar Giaever, Fisico- Premio Nobel per la fisica nel 1973, ha chiamato Il riscaldamento globale è la più grande e riuscita frode pseudoscientifica che abbia mai visto nella mia lunga carriera di fisico.

Questa consapevolezza ha portato di recente oltre mille scienziati nel mondo a scrivere la Dichiarazione “There is no Climate emergency”, inviata al Segretario delle Nazioni Unite e alla Commissione UE.

 La più grande truffa scientifica, dunque, confermata dal nostro premio Nobel Carlo Rubbia in un intervento al Senato della Repubblica il 24 settembre 2014.

Tutto questo ripete esattamente la profezia sulla carenza di risorse alimentari e la necessità di ridurre drasticamente la popolazione, attraverso il continuo martellamento dei media sulla salvezza del pianeta attraverso la decarbonizzazione. 

La CO2 presente in atmosfera è il cibo delle piante. Senza questo gas la vita sulla Terra non sarebbe possibile.

Come è stato dimostrato dallo studio delle Stromatoliti, sviluppate 3,7 miliardi di anni fa, le quali attraverso la fotosintesi, generata da attività dei cianobatteri, ha dato il via al meraviglioso ciclo del Carbonio e alla sintesi degli zuccheri che rappresentano, oggi, l’attività della fotosintesi che sostiene la vita sul nostro pianeta.

L’incremento di temperatura, attribuita alle emissioni antropiche di CO2 è una ipotesi legittima, ma come l’ipotesi formulata dal Club di Roma, non ha trovato conferma nei fatti.

Solo i modelli predittivi vengono esposti come prova di questa ipotesi.

I numerosissimi modelli formulati sono totalmente incapaci di simulare le variazioni climatiche del passato.

Si tratta dunque di modelli non significativi e quindi privi di qualsiasi valenza scientifica.

Basta leggere ciò che è avvenuto nel passato geologico del nostro pianeta per verificare come il clima ha subito periodi e cicli continui di variazione climatiche, totalmente sconnessi dalla presenza della CO2.

 I dati recenti del periodo medievale, o dell’intervallo 1500-1750 d.C., caratterizzati, rispettivamente, da un ciclo caldo e da uno freddo (la piccola glaciazione).

Tornare al periodo romano per constatare che la temperatura era maggiore di quella odierna, come mostrano ricerche sperimentali di elevato valore scientifico che mostrano come le acque del Mediterraneo erano più calde di quelle odierne di circa 2°C.

(Persistent warm Mediterranean surface waters during the Roman period (2020). G. Margaritelli, I. Cacho, A. Català, M. Barra, L. G. Bellucci, C. Lubritto, R. Rettori & F. Lirer. Scientific Reports volume 10, Article number: 10431.)

Cosa è accaduto in questo periodo?

 L’Impero di Roma ha conosciuto la sua massima espansione territoriale, culturale e di benessere.

La contrazione, e l’avvio della sua caduta, coincide con il freddo e l’abbassamento delle temperature, quando il Nord Europa e la Groenlandia diventarono inospitali e grandi masse di popolazioni si sono riversate verso Sud alla conquista di Roma.

Le comunità costruite dall’uomo temono il freddo, non il caldo.

 Nessun modello predittivo, costruito a supporto della narrazione sulla responsabilità dell’uomo, ha trovato conferma dai fatti.

Quindi questa ipotesi non è supportata dai fatti e non assume quindi il rango di “verità scientifica”.

 La petizione fatta dagli scienziati fa emergere la responsabilità dell’Uomo per i processi di inquinamento del pianeta (suolo, acqua e aria).

Ma l’inquinamento non ha nulla a che spartire con il clima, che è sempre mutato e continuerà a mutare per cicli naturali, soprattutto astronomici e planetari.

 Al riguardo, una interessante riflessione è stata fatta dalla professoressa Augusta Vittoria Cerutti, già docente di Geografia presso l’Università di Torino, quando parla dei ghiacciai alpini.

Nei suoi lavori esamina la condizione della cosiddetta mummia di Otzi, la mummia del ghiacciaio di Similaun in Trentino Alto Adige risalente a circa 5000 anni fa, ritrovata l’11 settembre 1991 da una coppia di coniugi tedeschi.

La mummia di Otzi, come viene chiamata, si è potuta formare perché le condizioni climatiche di 5000 anni fa erano totalmente diverse a 3500 metri s.l.m.

Il processo di mummificazione ha bisogno di un clima secco, ventilato.

 La presenza del ghiacciaio avrebbe impedito la mummificazione.

 Successivamente si è formato il ghiacciaio che ha conservato Otzi sino ai nostri giorni.

Ancora una volta la scienza mostra che il clima è cambiato per ragioni naturali”.

Ancora:

(Clima, Scafetta: “i modelli IPCC minimizzano la componente naturale e l’attività del sole”.)

(Brussato: “la transizione verde è fondata sull’estrazione mineraria, ignora pesantissimi effetti collaterali”.)

(Clima e finanza, Giaccio: “politica zero emissioni usata come scusa per riorganizzare l’economia mondiale”.)

 

 

 

Sul clima una prospettiva

da aggiornare. Parla Franco Prodi.

ilfoglio.it- RUGGIERO MONTENEGRO – Franco Prodi - (01 NOV. 2021) – ci dicono:

“L’aumento delle temperature non è in discussione. Ma prima di tutto bisogna pensare che il cambiamento è connaturato al clima", ci dice il fisico.

 Se non si tiene conto di questi fattori "la Cop26 non è utile”.

(Il bla bla bla dei grandi del mondo spiegato a Greta.)

 (Contro il catastrofismo. "Ecco perché sul clima l'Onu sbaglia". Parla Franco Prodi).

 

"Il cambiamento climatico richiede adattamento, non panico”.

L’assunto, piuttosto controcorrente per i tempi che corrono, arriva dal “Wall Street Journal”: è il titolo di un articolo che spiega come, sebbene adattarsi non elimini del tutto i costi del riscaldamento globale, ne riduca in buona parte gli effetti.

Una conclusione a cui il Wsj arriva prendendo in esame alcuni studi allarmanti, dove si presuppone che le persone, e le comunità nazionali, non facciano nulla per cambiare atteggiamenti e risposte rispetto al problema climatico.

L’analisi si inserisce in un filone più ampio, una serie di contenuti che la testata americana ha pubblicato nelle ultime settimane in vista della Cop26.

Articoli sul cui merito si può certamente discutere, essere più o meno d’accordo, o rinnegare del tutto, ma che hanno il merito di porre al centro della discussione alcuni temi decisivi quando si parla di climate change, di soluzioni, di transizioni ecologica e di strumenti o azioni per metterla in pratica.

Tutti temi e finalità sacrosante, ma che hanno pure ingenti costi, economici e sociali, da cui non si può scappare.

 Questioni che talvolta finiscono in secondo piano, ma che restano imprescindibili se si vuole affrontare con serietà, e senza demagogia quella che da molti è considerata la sfida di questo secolo.

Ieri, a Glasgow, è partita la conferenza sul clima delle Nazioni Unite.

E’ stata definita “la più importante di sempre”, la “ultima grande possibilità”, e riunirà capi di stato, ministri e negoziatori di oltre 190 paesi.

Proveranno a trovare un accordo comune e concreto su quali azioni intraprendere a livello globale per combattere l’innalzamento delle temperature, abbassando drasticamente le emissioni di C02, fino ad azzerarle in tempi relativamente brevi, nell’ordine di qualche decennio.

Un approccio da qualcuno definito catastrofista, che segue le indicazioni dell’ultimo rapporto dell’Ipcc dell’Onu e addebita, “inequivocabilmente”, al comportamento dell’uomo le principali cause del fenomeno.

In Scozia è attesa anche Greta Thunberg, la grande ispiratrice della protesta climatica, che proprio dall’Italia, in occasione dell’evento Youth4Climate: Driving Ambition tenutosi a Milano a fine settembre, ha attaccato il “bla bla bla” della politica, oltre a dirsi scettica sugli effettivi risultati che potranno arrivare il 12 novembre, quando la conferenza si concluderà.

 Uno scetticismo a cui arriva, pur passando per sentieri decisamente diversi, opposti, anche il fisico dell’atmosfera e climatologo Franco Prodi.

Nel suo curriculum, cinquant’anni di studi al Consiglio nazionale delle ricerche, venti dei quali da direttore del Fisbat e poi dell'Isac, gli istituti del Cnr dedicati alle scienze dell'atmosfera, oltre alle esperienze al Cnen – Comitato nazionale per l'energia nucleare e come professore universitario a Ferrara.

Rifiuta l’approccio catastrofista, quello che definisce “il “mantra”, il pensiero unico”, e il metodo delle Nazioni unite, conclusioni che ritiene ancora troppo affrettate:

“Premetto che bisogna distinguere due ambiti: quello della scienza e quello del rapporto tra Onu, governi e scienziati.

L’Ipcc è un panel costituito come forma di dialogo tra esperti nominati dalla politica e non dalle comunità scientifiche nazionali.

 La scienza procede in altri ambiti che sono quelli, per esempio, della “International Union of Geodesy and Geophysics”, che fa le sue conferenze, e sulla base di queste e delle pubblicazioni su riviste qualificate produce la propria conoscenza.

Bisogna partire da qui per commentare la situazione”.

Andiamo avanti allora, andiamo al merito e alle altre criticità, che Prodi individua nel modello apocalittico:

“L’aumento delle temperature non è in discussione. Ma prima di tutto bisogna pensare che il cambiamento è connaturato al clima.

Ci sono ragioni astrofisiche e astronomiche, oltre a quelle atmosferiche.

 Dire che la responsabilità sia tutta antropica è un’affermazione che non trova riscontro nelle conoscenze attuali della climatologia, una disciplina relativamente giovane, nella sua infanzia. E non consente questo tipo di previsioni”. 

E però le immagini arrivate dalla Sicilia nei giorni scorsi, le alluvioni e i fenomeni meteorologici così estremi, il ciclone Apollo, ci ricordano che qualcosa sta accadendo e che qualcosa bisogna fare.

Oltre a questo, resta il fatto che le conclusioni a cui giungono le Nazioni Unite si appoggiano sull’analisi di migliaia di studi.

Dove avrebbero sbagliato?

 “Quelli dell’Ipcc sono scenari che derivano dai loro modelli e non possiamo basare tutte le nostre scelte su studi in cui gli effetti delle nubi, dell’aerosol fuori nube, dei gas poliatomici e così via, vengono parametrizzati in modo grossolano.

E dunque – spiega il climatologo – gli scenari che ne derivano non possono essere accettati come previsioni in senso stretto, come accade invece con la meteorologia.

 È questa la sostanza del problema dal mio punto di vista”.

A Glasgow non saranno di certo contenti di leggere queste parole, perché seguendo la prospettiva descritta da Prodi non si può che concludere che la Conferenza sul clima non porterà particolari benefici.

È questo che intende?

 “Con quelle basi, la Cop 26 non è utile.

E anche questa, si vedrà, è destinata al fallimento. Da cittadino leggo i giornali e non è difficile prevedere che finisca come in passato”.

 Il fisico dell’atmosfera si riferisce al fatto che, per esempio, Putin non sarà fisicamente in Scozia.

E salvo ripensamenti dell’ultima ora non ci sarà nemmeno il presidente cinese Xi Jinping, che col passar dei mesi ha più volte annunciato piani e svolte green, ma pare aver snobbato il meeting internazionale, un’assenza significativa.

E si capisce bene che senza la principale responsabile delle emissioni di C02, circa il 28 per cento, ogni accordo non potrà essere troppo efficace.

 Per dire, l’Europa intera produce solo l’8-9 per cento delle emissioni globali.

“Ci sono delle conseguenze enormi andando su questa strada”, dice ancora Prodi: “Io vorrei limitarmi a considerazioni di carattere climatologico, sarebbe opportuno considerare di fermare questo treno della Cop e ripartire su un altro aspetto, ben più ampio:

 la tutela e la salvaguardia del pianeta, è su questo che bisogna trovare una convergenza mondiale”.

Ci spieghi meglio:

 “Ciò che minaccia l’ambiente planetario si può calcolare, al contrario dell’attribuzione antropica del cambiamento climatico.

 L’aumento della popolazione, la qualità dell’aria, dei terreni e dei fiumi, la quantità di metalli pesanti presenti negli oceani sono tutti fenomeni misurabili e incidono sul pianeta.

 Bisognerebbe valutare tutte queste cose e andrebbe rivisto l’intero concetto di benessere sulla base di queste considerazioni”.

Messa in questi termini però, sembra che alcune osservazioni siano sovrapponibili a quelle dell’Onu, alle prerogative più diffuse sulla questione climatica.

 “È proprio questo il punto, ci sono cose che coincidono, certamente. Io – sottolinea Prodi, e lo fa con una punta di amarezza – sono contrario all’estremizzazione tra catastrofisti e negazionisti, che è una cosa assurda”.

E allora dove sta il problema, perché è così difficile ritrovarsi su un punto comune?

“Le faccio un esempio: se lei pensa che le alluvioni, gli eventi estremi, siano in aumento e per questa ragione decide di alzare il livello degli argini dei fiumi, fa un intervento che comporta certi costi.

Se invece decide di investire sulla salvaguardia dell’ambiente intero fa degli altri interventi”, risponde il professore, accusando insomma una visione troppo parziale del problema, troppo appiattita sulla lotta alla CO2.

Qualcuno potrebbe obiettare, dicendo che comunque la questione dei combustibili fossili e delle emissioni non può essere ignorata.

“Non lo nego assolutamente, anzi è proprio il mio mestiere quello di vedere come l’attività umana possa influenzare il clima.

Ma questo si somma ad altre variabili come le caratteristiche delle stesse nubi o la radiazione solare che arriva sulla superficie terrestre.

Ma da qui a quantificare esattamente l’effetto umano, ce ne passa”.

 Se ne deduce, dal ragionamento di Prodi, che rinunciare al modello industriale che conosciamo in maniera così drastica non sia necessariamente la soluzione migliore, considerati gli effetti di scelte così radicali, che potrebbero non essere subito assorbite dai sistemi su cui intervengono.

Su questo punto, il climatologo fa due tipi di considerazioni, tecniche e sociali-economiche.

Da una parte ci sono strumenti ancora non del tutto esplorati nell’abbattimento delle emissioni industriali:

“Si pensi agli scrubber per l’abbattimento degli affluenti industriali, che hanno una buona efficacia, agli abbattitori elettrostatici e ai filtri a maniche, che lavorano sulla cattura aerodinamica delle particelle.

 Ma siamo ancora a un uso un po’ rudimentale di tali conoscenze, c’è spazio per una grande ricerca in questo campo.

 E anche nella chimica del terreno si possono fare miglioramenti.

Dobbiamo sfruttare il progresso e la tecnica”.

Dall’altra “c’è il sospetto che le transizioni troppo rapide possano provocare scossoni al sistema economico, con effetti drammatici a livello sociale.

Ripeto: va cambiata la strategia generale, ma di questo cambiamento fa parte anche la gradualità.

Ci sono delle strade che possono essere percorse, anche quella delle energie rinnovabili (che pure hanno dei costi e dei limiti), ma tenendo sempre conto delle conseguenze di ogni decisione”.

Nel frattempo, sebbene gli ambientalisti più estremi ritengano sempre troppo tenue l’atteggiamento di ogni governo, qualcosa è stato realizzato e altro potrebbe arrivare, in particolare in Europa:

il Green deal europeo, le proposte di “Fit for 55” della Commissione, la legge sulla neutralità climatica, oltre alle promesse di un “Fondo sociale per il clima”.

Ha ragione Greta Thunberg quando dice che è tutto “bla bla bla”?

Quello che può fare l’Unione Europea è solo dimostrativo, se confrontato all’economia globale.

 L’Europa deve mettersi alla guida di una trasformazione vera e basata, come ho detto prima, sulla salvaguardia dell’intero ambiente planetario”.

In questo senso, Prodi sembra andare anche oltre Greta e Fridays for future:

“Mi sembra un po’ assurdo farsi dettare legge da una ragazza che non ha le competenze.

Intendiamoci: va benissimo l’attivismo e l’entusiasmo dei giovani, ma andrebbe indirizzato nella direzione giusta, che non è quella appiattita sulla CO2 o sulle frasi fatte”.

E quale sarebbe invece?

“Intanto, iniziare nelle scuole a studiare la storia del pianeta terra, che darebbe ai più giovani una formazione sulle nostre origini, sul come l’umanità nella sua evoluzione ha interagito con il pianeta.

 Una preparazione che deve portare anche all’amore e all’interesse per la cosiddetta scienza dura.

È uno sforzo di conoscenza che richiede grande sacrificio, ma che permette anche di fare critiche più specifiche, di andare oltre gli slogan”.

 

 

 

 

Il riscaldamento globale,

la guerra e la riumanizzazione.

Greenreport.it – Adolfo Santoro – (5 Aprile 2022) – ci dice:

 

Un atteggiamento predatorio verso la natura ha avuto conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti.

Come le menti avvedute dicono, la guerra in Ucraina è una svolta: segna la fine del precedente millennio e di tutte le sue ideologie e l’inizio di una possibile ri-umanizzazione o di una catastrofe finale.

 

La sfida per l’uomo è quella di rifondarsi nella propria interiorità, nella propria relazionalità, nelle proprie istituzioni e, come dice Buddha, nei “mezzi di sostentamento”.

Deve essere attivato un processo di pace a tutti i livelli: la prevalenza di un atteggiamento predatorio verso la natura ha avuto conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti, ma tutti ritornano, dopo un istante, a nutrirsi del pensiero unico.

Delle guerre noi viviamo solo alcune conseguenze: la dipendenza energetica, la carenza di cibo, le ondate migratorie; c’è un’altra guerra, ancora più sottile e pericolosa e comunque connessa all’atteggiamento predatorio proprio dell’uomo-animale, che è quella del riscaldamento globale.

La rifondazione dell’uomo deve cominciare dall’Onu, a cui deve essere restituita la sua piena funzione di contenitore e mediatore dei conflitti:

un Onu che faccia a meno dei “membri permanenti” del suo “Consiglio di sicurezza”.

 La rifondazione deve passare attraverso gli stati sovrani (comprendenti anche USA, Russia, Cina, Francia, Inghilterra, India, Israele, Iran etc.), che attuino una denuclearizzazione complessiva, un disarmo complessivo, un’inversione di tendenza limitando i modelli “energivori” (un termine che gli industriali italiani che facevano affari con la Russia amano usare) e diffondendo processi virtuosi nella ricerca delle fonti energetiche.

La rifondazione deve passare attraverso il risveglio delle coscienze di ognuno, attraverso il ritorno ad abitare i borghi, che dovrebbero essere il luogo di un’economia comunitaria fondata anzi tutto sull’agricoltura, sull’autonomia locale delle fonti energetiche e sul riciclaggio, sostenuta da processi regionali, nazionali e di Comunità Europea politicamente unitaria.

Il risveglio delle coscienze deve sostanziarsi in un No alla guerra, che però, in questo momento coincide col No al nucleare indiscriminato e Sì alla ricerca di fonti energetiche alternative.

È stato effettuato, ad esempio, l’abbattimento dei costi di produzione dell’idrogeno del 7.000% conseguente all’uso di aerogel che sostituiscono nel processo di produzione l’azoto e il gas di ammoniaca all’ossigeno.

Il Decreto Legge del 1/3/2022 sta segnando la via verso la sburocratizzazione delle istituzioni: permette che ognuno di noi possa sistemare nei propri spazi di vita i fotovoltaici e solari senza la farraginosa burocratizzazione degli “uffici preposti”.

Questo Decreto Legge apre ovviamente ad alcune domande, che, in questa sede, riguardano anzi tutto il nostro “piccolo”:

Si deve aspettare la guerra perché i Comuni, le Regioni e la Comunità europea smantellino, ad esempio, i capannoni ricoperti di eternit nella zona industriale di Portoferraio?

 Si deve aspettare la guerra perché questi livelli istituzionali facciano un piano energetico sulle rinnovabili, che comprenda anche l’apposizione di apparecchiature green sui balconi, sui tetti e negli spazi aperti di propria competenza?

Si deve aspettare la guerra perché siano costruiti sistemi di raccolta dell’acqua piovana? E mi fermo a questi tre esempi.

Mi sembra che l’interazione faccia a faccia tra cittadini e tra cittadini e istituzioni (ad esempio mediante regolari appuntamenti su piattaforme digitali), accanto ad un’informazione costante e non di parte, sia lo strumento fondamentale per il risveglio delle coscienze e contro l’isolamento dei decisori nei “palazzi”.

È utopia quello che ho scritto?

Sì, almeno finché le coscienze sono addormentate!

Per conto mio mi limito a fare quello che posso e so fare: per il risveglio delle coscienze sto scrivendo e sto proponendo un percorso in piccoli gruppi, che si interfacci in analoghe iniziative virtuose in ambito nazionale ed europeo.

(Adolfo Santoro-Psichiatra).

 

 

 

La FDA ha annunciato l’Approvazione

della “Carne Coltivata in Laboratorio”

dalla Società Upside Foods.

Conoscenzealconfine.it – Redazione - (21 Novembre 2022) – ci dice:

 

Indovinate chi c’è dietro ai finanziamenti di UPSIDE?

Molte persone “attente” all’ambiente ritengono che la carne coltivata in laboratorio possa essere un’alternativa etica alla carne convenzionale.

 Può risolvere più problemi contemporaneamente come le richieste alimentari della popolazione in aumento, aiutare l’ambiente e consumare carne cruelty-free.

Poiché è coltivata in laboratorio, il suo contenuto di grassi può anche essere modificato rendendolo più nutriente.

La carne coltivata in laboratorio è un’alternativa alla carne convenzionale.

 Viene coltivata in laboratorio attraverso il processo di coltura, in cui una biopsia viene prelevata da un animale vivo e le cellule staminali vengono separate dalle cellule muscolari.

Queste cellule staminali sono coltivate in un mezzo che fornisce loro i nutrienti necessari per la proliferazione.

Le cellule staminali si moltiplicano e si trasformano in cellule muscolari e cellule adipose, formando infine carne.

 La carne coltivata in laboratorio è anche chiamata carne coltivata, carne a base di cellule, carne artificiale, carne coltivata e carne di design.

Ma veniamo al dunque.

Il 17 novembre 2022, la FDA ha autorizzato e approvato la società a vendere la sua carne di pollo coltivato al pubblico.

 Questo rende Upside Foods la prima azienda a ricevere l’approvazione per introdurre sul mercato prodotti a base di carne coltivata.

In quello che è stato riconosciuto come il più grande round di finanziamento nel settore della carne coltivata fino ad oggi, UPSIDE Foods (ex Memphis Meats) ha appena concluso la sua serie C raccogliendo $ 400 milioni e una valutazione di oltre $ 1 miliardo.

Questo investimento evidenzia il costante interesse per l’industria della produzione alimentare sostenibile, da parte degli investitori.

Questo round di Serie C è stato co-guidato da Temasek, una società di investimento globale con sede a Singapore insieme all’Abu Dhabi Growth Fund (ADG), un nuovo investitore.

Altri nuovi investitori includono Baillie Gifford, John Doerr, Givaudan, SALT fund e Synthesis Capital.

A loro si uniscono i nomi di spicco della tecnologia e degli investimenti come Cargill, SoftBank Vision Fund 2, Cercano Management, CPT Capital, Dentsu Ventures, l’investitore globale EDBI con sede a Singapore, Kimbal e Christiana Musk, Norwest Venture Partners, Indie Bio di SOSV e Tyson Foods e… (rullo di tamburi) il solito “beniamino” Bill Gates (upsidefoods.com/about/)

UPSIDE Foods utilizzerà i fondi raccolti per costruire il suo impianto di produzione commerciale con una capacità annuale pianificata di decine di milioni di libbre di prodotti a base di carne coltivata.

Questa struttura avrà la capacità di produrre qualsiasi specie di carne, sia macinata che intera, con l’attenzione iniziale sul pollo.

I fondi aiuteranno a costruire una solida catena di approvvigionamento per i componenti critici dell’alimentazione cellulare, nel tentativo di ridurre i costi e consentire una maggiore scala.

Inoltre, UPSIDE Foods istruirà ulteriormente i suoi consumatori, investirà in ricerca e sviluppo per la prossima generazione di prodotti a base di carne coltivata e continuerà a far crescere il suo team.

Ma la Carne coltivata in Laboratorio è Sana?

Come possono questi composti essere prodotti su scala industriale e come si può garantire che nessuno di essi avrà effetti negativi sulla salute umana a breve e lungo termine?

I sostenitori della carne in vitro sostengono che sia più sicura della carne convenzionale, basandosi sul fatto che la carne coltivata in laboratorio è prodotta in un ambiente completamente controllato da ricercatori o produttori, senza alcun altro organismo, mentre la carne convenzionale è parte di un animale a contatto con il mondo esterno.

Tuttavia, possiamo sostenere che gli scienziati o i produttori non sono mai in grado di controllare tutto e qualsiasi errore o svista può avere conseguenze drammatiche sulla salute di chi mangia tali prodotti.

Effetti potenzialmente sconosciuti per la Salute.

Non si è a conoscenza di tutte le conseguenze della coltura della carne per la salute pubblica, poiché la carne in vitro è un nuovo prodotto.

Alcuni autori sostengono che il processo di coltura cellulare non è mai perfettamente controllato e che possono verificarsi alcuni meccanismi biologici inaspettati.

Ad esempio, dato il gran numero di moltiplicazioni cellulari in atto, è probabile che si verifichi una certa dis-regolazione delle linee cellulari come accade nelle cellule tumorali.

La carne coltivata è ancora un prodotto nuovo e le sue conseguenze sulla salute pubblica sono sconosciute.

Gli effetti esatti rimangono sconosciuti.

(neoprometheus.org/la-fda-ha-annunciato-lapprovazione-della-carne-coltivata-in-laboratorio-dalla-societa-upside-indovinate-chi-ce-dietro-ai-finanziamenti-di-upside/).

 

 

 

La Notte in Balia di Violenti e “Fomo”.

 

Conoscenzealconfine.it -Marcello Veneziani – (20 Novembre 2022) - ci dice:

(FOMO indica una forma di ansia sociale caratterizzata dal desiderio di rimanere continuamente in contatto con le attività che fanno le altre persone, e dalla paura di essere esclusi da eventi, esperienze, o contesti sociali gratificanti.)

Ho conosciuto dal vivo l’inferno notturno della movida. Era passata la mezzanotte, ero a Roma, in Trastevere, mi stavo ritirando e sono stato travolto da un flusso umano o forse inumano.

Poteva finire come a Seul, tragicamente, o come le sere precedenti a Trastevere, con una maxi rissa di tutti contro tutti, senza un vero motivo. Mi sono trovato altre volte in queste fiumane notturne, ma l’ultima è stata peggio delle altre.

Ti sentivi privato della tua libertà, completamente trascinato dalla marea umana, in balia delle orde, costretto in minimi varchi come rigagnoli o colate di lava. Ti sentivi esposto al pericolo, inerme, privato della tua personalità, l’incolumità minacciata non da singoli ma da flussi e maree, reazioni a catena, effetti virali.

Qualcuno invoca le forze dell’ordine ma sarebbero sommerse e schiacciate, e poi cosa dovrebbero fare, caricare urbi et orbi? Occorrono divieti, accessi limitati, fasce orarie consentite, ma non è di ordine pubblico e schiamazzi notturni che voglio parlare.

Bensì di quell’umanità compressa e alterata.

Ho provato a vedere in faccia i ragazzi che partecipavano a questa festa coatta, a captare qualche parola dei loro discorsi.

La calca era tale che perfino la loro attività primaria era interdetta, nessuno aveva il telefonino in mano, non avrebbero potuto usarlo e nemmeno ascoltare ed essere capiti.

Vivevano in diretta la realtà, brandivano un bicchiere o una bottiglia come tessera d’inclusione alla movida in corso.

Ho percepito due specie diverse di viventi in quella bolgia, una inoffensiva e l’altra, più ristretta, decisamente minacciosa, aggressiva.

Questi ultimi sciamavano in branchi, avevano tatuaggi di setta, o erano vestiti allo stesso modo, non pochi erano palestrati; c’erano branchi biancovestiti e altri nerovestiti, come in una specie di gioco degli scacchi in formato bellicoso.

Guerre da passeggio, senza movente.

Appartenevano a contrade di non luoghi, periferie scontente e rancorose.

Piovuti da chissà quale Scontentopoli sub-urbana.

Cercavano il pretesto per picchiare, prendersela con qualcuno e ingaggiare una battaglia contro un nemico gratuito, improvvisato.

Non c’erano più nemmeno le motivazioni conflittuali di un tempo: bande politiche rivali, gruppi estremisti o fondamentalisti o anche tifoserie avverse, campanilismi agguerriti, e nemmeno volontà di vendicare una ragazza molestata;

no, c‘era una totale aggressività che si esercitava su obbiettivi casuali, scelti dal capo branco o dal “sommelier” del gruppo come bersagli da pestare.

Diventi amico o nemico per motivi del tutto fortuiti, occasionali, psicolabili.

Ho visto sorgere un paio di maxi-risse tra pittbull umani, a pochi metri da me, senza poter far nulla, né dividerli né allontanarsi, imbottigliati nel flusso.

Ti accorgi di una carica di violenza e frustrazione a lungo accumulata che cerca di notte una miccia per esplodere e divampare; quell’esuberanza di energia che ieri si sfogava nella guerra, nell’esercitazione atletica o nella lotta politica tra fazioni.

E ora invece è cieca, immotivata, nichilista, pura eruzione eccitata da alcol e sostanze o solo dal contagio situazionista, dal cortocircuito tra folla e narcisismo, istinto animale di sopraffazione e spettacolo di potenza.

Intorno a questi facinorosi in cerca di rissa gratuita per rendere memorabile la nottata, c’erano masse di ragazzi che tentavano minimi esercizi di socialità e perfino di conversazione e corteggiamento, schiacciati dalle fiumane in transito e da altri gruppi attigui.

Li ho guardati in faccia, erano meno alieni dei guerriglieri del nulla: anzi molti erano i ragazzi della famiglia accanto, potevano essere tuoi figli o nipoti, li immaginavi fuori dalla mischia, nella vita corrente, a studiare e a lavorare.

Captavi il gergo della contemporaneità, le espressioni ormai rituali e tribali, la povertà lessicale e le iperboli tipiche dei ragazzi.

Ti sorgeva insistente la domanda: ma perché stanno qui, perché farsi del male, chi glielo fa fare di passare così male la loro serata-nottata; cosa li spinge a passare ore in piedi, in questo vicolo sporco e angusto, schiacciati tra il muro e la folla, mentre a due passi da loro minacciosi alterchi rischiavano di degenerare da un momento all’altro in un parapiglia generale.

Che relazioni puoi intavolare, che cosa puoi dirti in quel marasma?

Ho capito allora che esiste davvero quella sindrome denominata “Fomo” (fear of missing out) ossia paura di essere tagliati fuori, esclusi; quest’ansia di essere inclusi, questa ossessione di essere connessi alla marea del presente, nel momento e nel luogo prescritti.

Paura di perdersi qualcosa, di non essere al passo dell’ora. Ho visto in quella sindrome un estremo conato di narcisismo e inclusione, che sfocia nel desiderio oceanico di sciogliersi nel magma indifferenziato dell’Istante Collettivo.

Spariscono il passato, il futuro, l’interiorità e l’eterno, resta solo l’individuo momentaneo confluito in quella marea umana che sente di essere dentro la corrente giusta del tempo e del mondo.

Guai a mancare al flusso, significherebbe non vivere, non partecipare; ci sono luoghi che diventano santuari del momento e mete di pellegrinaggi:

localini insignificanti, spacci di bevande e non solo, ritrovi trendy, paninerie e street food, eletti a luoghi obbligati dell’inclusione.

Vi risparmio la solita morale dei vecchi sui giovani, ogni generazione sbaglia a modo suo.

Solo un dubbio: siamo davanti a un trailer del post-umano prossimo venturo?

(Marcello Veneziani- marcelloveneziani.com/articoli/la-notte-in-balia-di-violenti-e-fomo)

 

 

 

 

Michael Walzer: "Noi progressisti

siamo lontani dalla gente".

Repubblica.it - 19 NOVEMBRE 2022- Paolo Mastrolilli intervista Michael Walzer – ci dicono:

 

Intervista al filosofo americano che interviene sul dibattito dedicato alla crisi della sinistra, in Italia e non solo.

NEW YORK. Il filosofo di Princeton Michael Walzer è impenitente: "Sono un vecchio di sinistra, e penso che lo sforzo di Biden per rianimare le politiche del New Deal sia la strategia giusta.

In tutto il mondo i progressisti dovrebbero puntare sulle proposte socialdemocratiche, per riconquistare il loro elettorato naturale e la classe media".

In Brasile hanno vinto e negli Usa l'hanno scampata, ma i progressisti hanno perso in Italia, Israele, Svezia.

"È più di un momento, un lungo periodo di minacce dalla destra.

C'erano molti segnali che stava arrivando e cause multiple, ma è soprattutto una rivolta della gente di questi paesi che sente ignorata, abbandonata, disprezzata dalle élite istruite, illuminate e presumibilmente progressiste.

Io sono cresciuto in una città industriale della Pennsylvania, e ora vivo a Princeton, una delle zone più ricche negli Usa.

La mia città, dove le acciaierie sono morte, ha votato 2 a 1 per Trump, mentre Princeton 8 a 1 per i democratici.

 La sinistra ha grande successo tra la classe media e alta, ma ha perso il suo elettorato naturale".

Come è successo?

"Sherrod Brown è un senatore democratico dell'Ohio.

Usa il linguaggio della classe lavoratrice, promuove i suoi interessi, ed è stato rieletto.

Quindi è possibile comunicare con questi elettori e tenerli, ma serve una combinazione di tutte le nostre visioni illuminate su minoranze, genere, affermative action, immigrazione, più l'impegno per la gente ordinaria e i problemi del Paese.

I democratici se ne sono dimenticati.

Clinton ed Obama hanno visto il declino dei sindacati, forza essenziale per mobilitare alle urne i nostri elettori, e non hanno fatto nulla".

Perché era finita un'era, o non hanno capito le conseguenze?

"Diversi opinionisti politici sostenevano che la combinazione tra le élite istruite della classe alta e media, e le minoranze, produceva una maggioranza permanente per i democratici, che non dovevano più preoccuparsi del cuore industriale del Paese".

Ora anche gli ispanici li tradiscono. Perché?

"Il dibattito per togliere i soldi alla polizia non ha aiutato i democratici tra neri e ispanici, che soffrono più di tutti la criminalità.

Era prevedibile, ma noi dell'élite progressista eravamo troppo orgogliosi del nostro illuminamento per capirlo.

Abbiamo perso il contatto con la nostra gente, quella per cui marciavamo. Ora il 15% degli uomini neri vota repubblicano".

Quando Hillary attaccava i "deplorabili", si riferiva in realtà a gente appartenuta alla base democratica?

"Esatto, delusi della classe media e bassa.

I repubblicani ne hanno approfittato, presentandosi come partito dei lavoratori. Non è vero, se guardi le loro politiche e gli interessi di questa classe, ma è vero che i democratici l'hanno persa".

Biden ha vinto nel 2020, e si è salvato alle midterm, perché ha saputo riconnettersi con questa base?

"Certo. Il suo programma iniziale, “Build Back Better”, era un revival del New Deal, esattamente ciò di cui avevano bisogno i democratici per sanare le disuguaglianze sfruttate dal Gop.

Ma sono riusciti a farne approvare al Congresso solo una parte leggera, e poi sono arrivate l'inflazione e la guerra in Ucraina.

Negli Usa, come in altri paesi, le chiavi sono immigrazione e nazionalismo.                              

 I repubblicani non sostengono la classe lavoratrice come tale, ma come membri di una nazione in declino che ha bisogno di essere rifatta grande.

Giocano sulla nozione che queste persone sono i veri americani, svedesi, italiani, e stanno perdendo.

Obama non aveva prestato loro alcuna attenzione".

Il neoliberalismo è stato un errore strategico o filosofico?

"Entrambe le cose. Ha giustificato l'indifferenza verso i "deplorabili".

 Ha fatto sembrare che le politiche economiche giuste, che avrebbero pagato nel lungo termine, erano radicalmente diverse dal New Deal, ossia la versione americana molto edulcorata della socialdemocrazia".

I democratici avranno sbagliato a pensare che la coalizione tra élite e minoranze li avrebbe fatti vincere, ma in Italia i numeri per questa coalizione non esistono proprio.

"Non ho idea di cosa avesse in mente la sinistra italiana, quale strategia. Osservando da lontano, mi pare che anche da voi abbiano prevalso l'immigrazione e l'idea che i veri italiani vengano rimpiazzati, accusando i progressisti di essere più attenti agli immigrati che alla loro gente".

Mussolini era socialista, ma poi si era imposto grazie ai "deplorabili"?

"Gli studi del voto in Germania tra gli anni '20 e ''30 dimostrano che il sostegno più forte per i nazisti era venuto dalla classe media e bassa, e dal Lumpenproletariat.

 I socialdemocratici avevano tenuto la classe lavoratrice, ma i nazisti avevano conquistato molti nuovi elettori, come Trump.

 Gente non integrata nei partiti, i sindacati, la società civile.

Persone pericolose, perché quando sono in difficoltà guardano ad un salvatore, un führer. Non mi sembra però che Meloni somigli a un führer".

Biden ha puntato sulla minaccia alla democrazia. È vera?

"C'è una minaccia per la democrazia Usa, Biden ha ragione.

 Una fazione nel Partito repubblicano è neofascista, o certamente vicina a quel genere di politiche, e il resto del partito ha paura di sfidarla.

Non credo che il leader al senato McConnell sia fascista, ma è uno di quei conservatori che pensano di poter avanzare i loro interessi con l'aiuto di questa gente della destra estrema.

Invece è la destra che avanza ed è molto pericolosa.

Lo stesso era successo in Germania, quando i conservatori pensarono che potevano usare Hitler.

 È pericoloso anche in Israele.

Negli Usa la destra ha catturato la Corte Suprema e in Israele cercherà di distruggerla.

Non puoi avere una democrazia costituzionale, impegnata per i diritti e le libertà civili, senza un sistema giudiziario forte ed indipendente. Ciò è già sotto attacco in Polonia, Ungheria, e non so cosa accadrà in Italia".

Quali rimedi suggerisce ai progressisti?

"Sono un vecchio di sinistra, e penso che lo sforzo compiuto da Biden di rianimare le politiche del New Deal sia la strategia giusta.

Avrebbe bisogno di ciò che aveva Roosevelt, ossia di una forte maggioranza al Congresso che non avrà.

Però questo è il programma su cui fare campagna.

 Un messaggio economico molto forte: che i progressisti sono i veri guerrieri per una classe media e lavoratrice sempre più vulnerabile.

Pensate che per molti elettori di Trump il secondo candidato preferito è Sanders".

Quindi nel 2024 i democratici dovrebbero andare con Sanders?

"Presumo che guarderanno a un moderato. Forse qualcuno tipo la governatrice del Michigan Whitmer, una donna forte del Midwest con basi solide nella classe lavoratrice. Qualcuno del genere, spero".

Perché se vai troppo a sinistra perdi quello che Arthur Schlesinger definiva il "centro vitale" e vieni sconfitto?

"Sì. Non vuoi identificarti troppo con "defund the police" o le” affirmative action”.

C'è molto da dire in difesa di queste posizioni, ma non sono politicamente praticabili.

Puoi difendere queste politiche e la gente vulnerabile, incluse le minoranze, solo se hai un messaggio forte di socialdemocrazia all'antica.

Continuo a crederlo".

 

 

 

Il multiculturalismo è il nuovo

dogma per essere moderni e progressisti.

Ilpiacenza.it – Carlo Gianelli – (6 settembre 2022) – ci dice:

Non valgono più le tradizioni.

Una visione legata al passato diventa una colpa di anti modernità e quindi di conservatorismo retrogrado.

Chi non lo capisce non comprende la società che cambia ed in cui niente è considerato immutabile e certo in quanto tutto invece è in movimento.

Non vi sto parlando di Eraclito e della sua filosofia del “panta rhei,” dove tutto scorre, ma solo di un nuovo modo di concepire la realtà.

La quale cambia non tanto e solo per sé stessa, ma per il desiderio dell’uomo di farla cambiare.

Dunque non in base ai diritti naturali e civili conquistati dopo anni di lotte politiche militari e sociali, ma secondo i desideri individuali, in grado non solo di modificare la realtà, ma di sostituirla con quella immaginata.

 I desideri dicevo che sono comuni a tutti e per questo assai dissimili fra loro.

 Ma appunto per questo tutti degni di esistere e di essere accolti nel nuovo immaginario della moderna mentalità sociale.

Il motivo di questo modo di intendere le cose appoggia sul multiculturalismo.

Poiché nessuno può e vuole essere una monade, intesa come sosteneva Leibniz, al pari di entità autonome, perché in questo caso la soluzione potrebbe portare all’infelicità.

 Infatti essendo l’uomo un animale sociale, si cerca di fare del tutto perché non si isoli.

In questo modo ecco comparire il desiderio di soddisfare la vocazione del mettersi insieme, come tentativo di voler essere felici, proprio perché si vive in   comunità.

Ma poiché il mondo grazie alla scienza è diventato piccolo, il massimo della vocazione alla felicità si raggiunge aprendo i confini.

 Anzi abolendoli.

Tutti allora diventano il tutto e non esistono più differenze che renderebbero questo stesso tutto non in grado di soddisfare il bisogno di mescolare lingue, tradizioni, abitudini, religioni, in sintesi usi e costumi differenti.

Compresi il modo di vestirsi e di relazionarsi con il diverso apparente.

Che in realtà è solo, per i cultori modernisti, un nostro simile con altre caratteristiche ed abitudini.

Questo modo di essere, lo si definisce multiculturalismo, che appunto nel termine cultura pone il suo accento per giustificare ogni differenza.

Dunque fra culture diverse, ognuno perde la propria storia, ma in compenso ne ricava altre cui confrontarsi e se il caso sottomettersi.

 In questo modo si generano due obiettivi.

Da una parte la nascita di quella forma ibrida di comportamenti che in sostituzione del diritto, sostituito dai tanti diritti, giustifica ogni posizione e convinzione individuale. 

Che, come ho già detto, sarebbe meglio chiamare desideri, tesi a raggiungere la felicità basata sulla mancanza di un diritto oggettivo.

Il quale pertanto diventa il trionfo dell’invenzione surreale, in termini di rendere lecita ogni posizione individuale.

Dall’altra parte crea nella società una frattura fra questa parte aperta ad ogni forma di integrazione e quella invece restia, ancora legata ai vecchi schemi.

Dove si ritrovano le antiche usanze ed i vecchi modelli sociali in grado ancora di leggere le cose interpretandole secondo i principi del bene e del male.

 In termini sociali e politici i primi sostenitori del multiculturalismo, sono detti progressisti mentre i secondi sono i cosiddetti perduti.

 Termine che non ha nulla da vedere con i perduti scapigliati, che anzi erano considerati tali per non volere seguire i modelli dominante della società borghese. Non c’è da stupirsi.

 Infatti poiché tutto cambia anche la lingua segue lo stesso corso e le parole si trasformano fino a raggiungere significati opposti.

Ma anche questo non basta.

Per rendere anche la lingua ibrida e neutra, il trionfo del multiculturalismo si esprime attraverso la consonante X messa alla fine della parola.

In questo modo il genere si elimina e la confusione aiuta a non fare il confronto col passato ormai passato di moda.

Ecco allora che siamo arrivati al sesso.

 Inutile dire a questo punto che corpo e mente sono la stessa cosa, perché il primo influenza la psiche e questa a sua volta diventa la forma pensante del secondo.

Troppo schematica questa teoria che ha dalla sua perfino il dato anatomico.

La dissociazione mente corpo deve diventare allora il nuovo credo, altrimenti il desiderio dove va a finire?

 Dunque la stessa nascita non deve essere condizionante.

Il sesso non esiste, ma si crea strada facendo.

 E per strada si intende la pretesa da parte dell’uomo moderno di non essere condizionato dallo schema corporeo. Il nuovo comandamento infatti è per ogni uomo quello di crearsi e di ricrearsi non attribuendo più alla natura la capacità di determinare il sesso.

In attesa infatti della ingegneria genetica, anche i cromosomi potranno essere modificati e cosi attraverso l’intervento farmacologico sulla pubertà, gli stessi ormoni sono destinati a modificarsi.

 Soprattutto in causa è il testosterone che come si sa è l’ormone maschile. Destinato a subire il primo affronto da parte della multiculturalità che tollera a mala pena il padre, considerato troppo ancorato al passato e quindi poco consono ad una società propensa a rendere tutto fluido ed interscambiabile.

Ed in cui la mascolinità diventa il primo obiettivo da eliminare a favore di una femminilizzazione spinta.

 In questa fluidità generale, la migrazione soprattutto se incontrollata contribuisce a rendere il processo in corso ancora più sostanziale.

Città e paesi sempre più formati da etnie diverse, costituiscono il nuovo modo di collegarsi con il diverso.

Rendendo ognuno meno ancorato alle proprie origini e più interessato (olente o nolente) ai nuovi modelli di cultura e di pensiero. In questo modo la parte più colpita dal nuovo integralismo è la verità.

Questa non esiste perché non deve esistere Fra aletheia e doxa, ossia fra verità secondo i greci e l’opinione sempre secondo la cultura classica, prevale quest’ultima.

Fra certo ed incerto si preferisce dunque abbandonare ogni giudizio di merito, essendo già scontato l’esito.

 L’unico che regge fra il certo è il multiculturalismo che vuol dire essere moderni e progressisti. Il resto è pattume.

Una perversa miscela di populismo, razzismo e conservatorismo.

 Con in più il solito fascismo evocato dai nuovi epigoni della modernità sociale, aperta sì ma in una scatola di cartone. A proposito della verità sembra che anche la Chiesa abbia qualche dubbio. 

Parlare all’uomo moderno infatti sembra più attrattivo che evocare l’Uomo della Croce.

Il dolore infatti sembra non essere più contemplato nei desideri dell’uomo d’oggi, che cerca, al posto della sofferenza, la felicità basata sulla multiculturalità.

 E questa non ha bisogno di ostacoli. Infatti se il Verbo si è un tempo fatto uomo, oggi è l’uomo che si è fatto verbo, mentre la croce scompare.        

 

 

 

Perché cambiare le parole

può cambiare la società.

Indiscreto.org - Francesca Anelli – (21/02/2020) – ci dice:  

Le parole sono importanti, perché confermano o combattono lo stato delle cose e le convenzioni sociali.

A volte cambiarle è necessario per modificare la realtà.

 Invece di chiedersi “perché non dovrei usare quel termine?”, dovremmo chiederci “perché dovrei usarlo? Che stato di cose promuovo, facendolo?”.

Nelle consuete sessioni di Q&A sul suo canale Instagram, l’attivista per la “fat liberation Yrfatfriend” risponde sempre nello stesso modo a chi le chiede come fare a capire se l’uso di una determinata parola o espressione è da ritenersi accettabile o è meglio evitarlo per non recare offesa: “non chiederti se una cosa è offensiva, chiediti se danneggia qualcun*”.

 

L’equivoco alla base di gran parte del discorso pubblico sul linguaggio, specie quando viene associato a “femminismo, politically correct e hate speech”, ha molto a che fare con la sovrapposizione di concetti come sensibilità/suscettibilità personale e posizionamento sociale, e soprattutto con il mancato riconoscimento del ruolo della parola nel determinare e/o mantenere quest’ultimo.

Non c’è bisogno di scomodare John Austin, che con il suo “Come fare cose con le parole” (1962) ha parlato per primo della performatività del linguaggio, per rendersi conto che questo è in grado, oltre che di descrivere, anche di plasmare la realtà:

basta osservare

1) in che modo riflette le strutture di potere che, a sua volta, lo influenzano e

 2) la presenza (e dunque anche l’assenza) di certe espressioni in una lingua piuttosto che un’altra, specchio di sentire e necessità evidentemente differenti.

È indubbiamente significativo, ad esempio, il fatto che le slur colpiscano sempre e soltanto le minoranze, o comunque soggetti a vario titolo oppressi, ed è forse altrettanto significativo il fatto che non esista una traduzione diretta di slur nella lingua italiana –  “epiteto dispregiativo” sembra essere la soluzione più comprensibile, ma non ha né la stessa immediatezza, né la stessa iconicità dell’originale inglese (laddove to slur indica la parlata biascicante tipica ad esempio di chi assume molto alcol).

Termini come fr*cio, n*gro, tr*ia, sono slur perché non sono semplicemente degli insulti, ma soprattutto dei meccanismi di rinforzo di una struttura sociale che produce discriminazione a scopo auto-conservativo.

In altre parole: l’esistenza stessa di una slur, e di contro la pressione per bandirla, è sempre una questione di potere, più che di linguistica.

Non c’è una slur per “eterosessuale”, come non c’è per “bianco”, e non esiste neanche un equivalente maschile di tr*ia: sono parole coniate dall’oppressore per definire chi viene oppresso, e in quanto tali non possono avere un corrispettivo che indichi la categoria stessa che le ha create.

Tanto più che questa “categoria” raramente – per non dire mai – si percepisce come tale, e certi meccanismi linguistici (come il “neutro maschile” e il binarismo di genere nell’italiano) non fanno che rafforzare ulteriormente l’idea che questa rappresenti la condizione di default, o comunque privilegiata, dell’esistenza.

La battaglia per rendere scandaloso, e dunque inaccettabile, l’utilizzo di certi termini non è quindi una concessione alla suscettibilità di certi gruppi sociali (assunto per altro intrinsecamente razzista/sessista) ma piuttosto il tentativo di spostare l’ago della bilancia del potere e riconquistare agency sulla parola incriminata, decidendo cosa farne in autonomia in quanto su* legittimi portator*.

Si può quindi optare per la riappropriazione (come ha fatto la comunità queer bolognese con frocia), per l’uso limitato ai membri del gruppo (n*gger nella comunità afroamericana, per altro spaccata sull’argomento) o per la sua abolizione.

Esperienze interessate alla dimensione (trans)femminista ed eventualmente queer del linguaggio come la scuola di traduzione femminista canadese, il manuale Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua con cui Alma Sabatini introduceva il tema già negli anni ’80, fino alla linguistica lavanda, non vanno viste come forme di violenza nei confronti della lingua, che per sua natura dovrebbe essere fluida e di “proprietà” del parlante, ma piuttosto come risposte alla sua, di violenza: quella per cui “neutro” è diventato “maschile”, e in cui il femminile, il diverso, il non binario, semplicemente vengono messi a tacere.

Il concetto di annientamento simbolico a cui faceva riferimento George Gerbner già nel 1976, parlando dell’impossibilità di esistere pienamente nel mondo sociale se non si è rappresentat*, può infatti essere applicato non soltanto ai media, ma anche alla lingua che parliamo tutti i giorni.

 La sempre crescente attenzione al corretto utilizzo dei pronomi personali nel mondo anglosassone, che ha portato al riconoscimento di they come parola dell’anno 2019 da parte di Merriam-Webster, riflette la necessità di fare spazio a identità non conformi che altrimenti non avrebbero modo di esprimersi linguisticamente e, dunque, non godrebbero di legittimazione.

Per noi che ci esprimiamo nell’idioma di Dante e non godiamo quindi né di un genere neutro né della tradizione di usare la terza persona plurale come indicatore di “persona dal genere non indicato”, invece, se non sei lei e non sei lui, semplicemente non sei:

devi necessariamente fare una scelta tra due alternative insufficienti, ridimensionare la tua complessità e quindi, di conseguenza, rinunciarvi. 

Per intervenire su questo rapporto di forze, squilibrato a discapito di identità “altre”, la lingua può (e deve), quindi, rappresentare un importante agente di cambiamento:

l’asterisco come de-marcatore di genere, per quanto non sempre pratico né l’unica possibile soluzione (un’alternativa proposta è l’uso della “u”, che ha il vantaggio di poter essere pronunciata ma che rimane ancora poco popolare), nasce proprio per questa ragione – problematizzare la normalizzazione dei “due generi” e far emergere soggettività che non si riconoscono nel binarismo – ed è per questa ragione che lo trovate anche qui.

In questo senso, il lavoro della traduzione transfemminista queer, che punta alla costruzione di una lingua non binaria nonostante le resistenze di una struttura frutto di logiche ormai superate (o almeno così dovrebbe essere), o quello di saggi come il recente Femminili singolari di Vera Gheno, sull’importanza di utilizzare il femminile per le categorie professionali, è fondamentale per restituire la lingua al parlante, affinché rispecchi le sue esigenze, inevitabilmente ( e fortunatamente) mutevoli.

In fondo, come ricorda la stessa Gheno, non c’è bisogno che il* grammarnazi di turno si scaldi troppo:

la lingua cambia, per l’appunto, in risposta a determinate necessità e non certo indiscriminatamente.

Non è un caso, infatti, che non ci sia alcuna domanda per declinare al maschile nomi di genere promiscuo come la vittima, o al femminile il pedone, ma solo quelli relativi a certe categorie professionali.

 In questi casi, infatti, si tratta di dare voce ad un femminile che è sempre esistito in potenza, come ingegnera o magistrata, ma che non è mai stato utilizzato per ragioni storiche e/o inclinazioni sessiste.

D’altronde, se magistrata “ci suona male” è anche e soprattutto perché prima del 1963 nessuna donna italiana poteva svolgere questo lavoro e dunque “non esisteva”.

Nessuna “dittatura del politicamente corretto”, insomma.

 Come spiega Lorenzo Gasparrini in “Non sono sessista” ma, per altro, politically correct è una delle espressioni più tragicamente fraintese nel dibattito sull’uso performativo della lingua.

Dal punto di vista linguistico, essa dovrebbe indicare un codice comunicativo creato artificialmente in ambito accademico per evitare che, in precisi contesti istituzionali, il linguaggio possa produrre delle discriminazioni.

 Nulla ha a che fare con l’uso quotidiano della lingua, per sua natura molto più fluido e complicato, e invocarlo come una sorta di anatema ad ogni piè sospinto, perciò, non serve ad altro che portare avanti gli interessi di chi in queste rivendicazioni vede una minaccia.

E non alla libertà di espressione, che è viva e lotta insieme a noi, ma piuttosto ai propri privilegi.

 Invece di chiedersi “perché non dovrei usare quel termine?”, varrebbe quindi la pena farsi la domanda opposta: “perché dovrei usarlo? Che agenda porto avanti, facendolo?”.

Le parole producono e riproducono immaginari: analogamente al potere discriminatorio di pratiche come la black face, le slur, anche utilizzate con leggerezza, perpetuano sistemi culturali precisi e sono tanto percepite come problematiche quanto più sentita è la discriminazione ad esse connaturata nel contesto sociale di riferimento.

Alitalia può produrre nel 2019 uno spot pubblicitario con un attore il cui viso è dipinto di nero senza che nessun* la fermi perché il rapporto del nostro paese con la questione razziale è fatto di sistematica rimozione.

Allo stesso modo, concetti come quello di whiteness – ovvero l’impatto che l’identità bianca ha su tutte le altre – o di white feminism – incapace di guardare oltre le istanze delle donne bianche, di classe medio-alta e privilegiate – sono praticamente irricevibili nel contesto italiano, con la scusa che la nostra storia è ben diversa da quella americana; una scusa che, però, nasconde sotto il tappeto la nostra esperienza di colonialist*, praticamente rimossa collettivamente, e le vite delle persone di colore che vivono nel nostro paese.

La mancanza di adeguate traduzioni – e conseguentemente di diffusione – di espressioni che invece avrebbero grande rilevanza anche oltre i confini del paese in cui sono nate o comunque hanno raggiunto la popolarità ha conseguenze importanti sul discorso pubblico e sulla vita delle categorie che potrebbero beneficiare maggiormente da un lessico più inclusivo.

Pensiamo ad esempio all’assenza di un corrispettivo italiano per sexual misconduct, ovvero letteralmente “cattiva condotta sessuale”, che negli Stati Uniti si applica ai casi in cui non si può parlare di violenza dal punto di vista giuridico, ma di atteggiamenti problematici e dannosi all’intersezione tra sesso, carriera e potere.

Il caso Louis CK ne è un esempio cristallino: un uomo che sfrutta la propria influenza per mettere le sue colleghe in una posizione impossibile, forzandole (senza coercizione fisica, ma agendo proprio sulla disparità tra i loro ruoli) a guardarlo mentre si masturba.

Il fatto che in italiano non ci sia un termine preciso per fare una distinzione, anche tecnica, tra una molestia (harrassment) e un comportamento di natura sessuale che altera gli equilibri di un ambiente di lavoro e/o di una relazione personale in maniera irreversibile (misconduct), facendoli ricadere entrambi sotto lo stesso termine ombrello, è un peccato e un problema. 

L’assenza di un termine specifico è, infatti, una delle varie ragioni per cui è così facile buttarla in baraonda ogni volta che un* femminista cerca di gettare luce sulla cultura sessista nei contesti professionali (e non solo), e contemporaneamente l’effetto di quella stessa cultura, non interessata a dare un nome a qualcosa che evidentemente non viene percepita come un problema.

Paradossalmente, perché questi due fenomeni vengano considerati riconducibili alla stessa matrice violenta è, quindi, importante che la lingua trovi per ciascuno di essi una definizione distinta.

Un discorso analogo si può fare per il termine catcalling, che in italiano è tradotto spesso con “molestie verbali (di strada)”.

 Indica, in buona sostanza, l’atto di importunare una donna rivolgendole epiteti sessisti, da chi le fa o vi assiste spesso ritenuti soltanto “complimenti”.

 L’origine del nome parrebbe essere legata ad un oggetto che faceva il rumore di “un gatto arrabbiato” utilizzato dai presenti per esprimere la propria insoddisfazione durante gli spettacoli teatrali.

È un termine particolarmente azzeccato per trasmettere il disagio che una donna prova nell’essere approcciata da un catcaller, disagio costantemente sottovalutato da molt* ma soprattutto da chi non ci deve convivere.

La presenza di una parola come “molestia” nella locuzione porge il fianco, ancora una volta, all’intervento del* paladin* della coerenza di turno, dedit* a ristabilire l’ordine naturale delle cose ed evitare categoricamente la tentazione di scorgere il legame per niente sottile che intercorre tra il sentirsi libero di gridare oscenità ad una donna sconosciuta ed esercitare su di lei il proprio privilegio in chiave oppressiva.

 Quale privilegio, nello specifico?

L’appartenenza a una categoria avvantaggiata: quella dell’uomo cis, più forte fisicamente, nonché più credibile (e creduto) in contesti sociali e istituzionali.

Subire approcci mossi da chiari intenti di natura sessuale in contesti che non garantiscono una condizione di sicurezza e agio e che non prevedono neanche lontanamente la dimensione del consenso costituisce, in un sistema che è appunto costruito su differenze di fatto e di percezione tra i sessi/generi, una situazione di pericolo, una fonte di preoccupazione, o nel migliore dei casi un fastidio che meriterebbe una sua definizione italiana più specifica di “molestia”, non perché in ultima istanza non lo sia, ma proprio affinché venga riconosciuta come tale. Ricordiamolo: se una cosa non ha un nome, non esiste.

Ancora, a costituire un ostacolo nella consapevolezza e la comprensione di certi fenomeni possono essere alcuni “limiti” della lingua d’arrivo, che spesso impediscono una discussione più aperta e informata su questioni rilevanti in ottica, ad esempio, femminista.

Pensiamo ad emotional labour, espressione coniata negli anni ‘80 dalla sociologa Arlie Hochschild per indicare l’atto di nascondere le proprie emozioni negative in contesti lavorativi in modo da non ostacolare la propria carriera e poi trasformatasi in una buzzword femminista.

 Dopo l’uscita di questo articolo di Gemma Hartley, infatti, il termine ha iniziato ad essere connotato dal punto di vista di genere (anche perché definisce una necessità soprattutto femminile) e a indicare il carico fisico e mentale che le donne sono costrette a sopportare in quanto “amministratrici della casa” – fare tutto o ricordare agli uomini di fare qualcosa “per aiutarle”, perché “bastava che me lo chiedessi” – ma anche più in generale tutto il lavoro emotivo e di cura che ci si aspetta da parte loro all’interno di una relazione, ma che non è richiesto alle controparti maschili.

Ripudiata dalla sua stessa creatrice, questa accezione ha preso piede nell’ambito del femminismo mainstream internazionale perché, banalmente, ce n’era un enorme bisogno, ma in Italia è ancora semi-sconosciuta.

Oltre alla cultura tenacemente patriarcale che caratterizza il paese, un motivo potrebbe essere la mancanza, nella nostra lingua, di una vera distinzione tra labour e work (fusi ormai in un unico concetto di “fatica” però in chiave positiva, nobilitante o comunque necessaria) e quindi di una legittimazione del concetto di lavoro come impegno fisico e mentale (labour) oltre che come prestazione professionale e solitamente retribuita (work).

Eppure parlarne anche in questa accezione è fondamentale per i femminismi, come sottolinea anche Tamara McLeod qui: ridare peso e dignità all’emotional labour femminile è il primo passo per la sua redistribuzione all’interno della coppia e della società.

Senza addentrarci oltre nell’analisi di (mancate) corrispondenze linguistiche, per altro inevitabilmente manchevole e tragicamente eurocentrica, non si può in ogni caso negare il valore del linguaggio come, per dirlo con le parole di Michel Foucault ma anche di Laura Fontanella nel suo utilissimo Il corpo del testo, “dispositivo di controllo”.

Scegliere un termine piuttosto che un altro può danneggiare concretamente un gruppo sociale, non soltanto urtarne la sensibilità, perché riproduce meccanismi di potere, rapporti di forza e discriminazioni che hanno effetti diretti sulla vita delle persone.

Varrebbe anche la pena spendere due parole sul perché, tra l’altro, essere attent* alla sensibilità altrui venga vissuto come un oltraggio piuttosto che un necessario esercizio di empatia, ma questa è una proverbiale altra storia.

Per ora limitiamoci a riconoscere, come suggerisce lo scrittore Jonathan Bazzi, che il “rifiuto del politically correct” è piuttosto un rifiuto di tutto ciò che è intrinsecamente politico – “corretto”, o meno.

(FRANCESCA ANELLI)

 

 

 

La sostenibilità passa (anche)

da un efficace controllo della qualità.

Paroledimanagement.it – Redazione – (6 MAGGIO 2022) – ci dice:

La sensibilità sul tema della sostenibilità ha toccato molte corde della nostra società, spingendo le aziende a comprendere la propria responsabilità sul tema.

Per le organizzazioni strutturate, questo significa ridurre l’impatto ambientale, contenere gli sprechi e le inefficienze, soprattutto per quanto riguarda il consumo di materiale.

Molti di questi obiettivi sono generalmente perseguiti dalle metodologie Lean, adottati da buona parte delle aziende strutturate: approcci snelli e orientati alla riduzione delle inefficienze, operative, di materiale e di processo.

Ma come possono le imprese ridurre gli sprechi connessi all’impiego del materiale?

“La funzione aziendale responsabile di assicurare che il materiale sia lavorato correttamente e conforme alle aspettative, è il controllo qualità”, racconta Giuliano Bonfanti, Project Manager e Responsabile dello Sviluppo del Software S8 di Saep Informatica, azienda attiva da oltre 40 anni nello sviluppo di una suite ERP rivolta alle aziende manifatturiere di tutte le dimensioni.

“Le nostre procedure relative al controllo qualità sono state sviluppate sulle necessità delle aziende che dovevano gestire la ricambistica, specialmente relativa al settore automotive”, spiega l’esperto di Saep Informatica.

“L’esigenza in questi casi è non solo assicurare che i pezzi siano quelli giusti e qualitativamente conformi alla richiesta, ma anche – e soprattutto – stabilire i casi e le procedure da effettuare qualora le aspettative non siano riscontrate nei prodotti”.

Il processo di controllo della qualità nella Manifattura.

Ma che cosa si intende con l’espressione “controllo qualità”? Generalmente ci si riferisce alle fasi che i prodotti e i servizi devono attraversare per assicurarne proprio la qualità: queste prevedono test, verifiche e controlli mirati per stabilire se i requisiti stabiliti sono soddisfatti.

“In Saep Informatica disponiamo di procedure di controllo qualità per tutta la merce in entrata – acquistata o in arrivo da terzisti – e per quanto riguarda l’output di produzione.

 La logica per queste procedure è a grandi linee la stessa: i prodotti sono controllati in base a un piano di campionamento, ovvero un registro che contiene le regole e i parametri con cui beni differenti vengono controllati”, racconta Bonfanti.

Attraverso i piani di campionamento, le aziende possono stabilire criteri e parametri che reputano accettabili per il controllo della qualità: “I registri di campionamento permettono di configurare le regole con cui sistemi e operatori devono effettuare i controlli;

 potrebbero, per esempio, includere il numero di pezzi da controllare in rapporto ai pezzi dell’ordine, il tipo di controllo da effettuare, quale tolleranza effettuare alle non conformità e come gestire caso per caso.

“I registri di campionamento sono tabelle intelligenti, perché permettono di parametrizzare una serie di regole che saranno impiegate per stabilire i campioni di verifica dei prodotti, il genere di test a cui sottoporli, quali sono i risultati attesi delle verifiche e quali le azioni correttive da effettuare”. 

La configurazione di queste tabelle è un momento fondamentale, in cui azienda e consulenti lavorano a quattro mani per stabilire set di regole coerenti agli obiettivi di controllo della qualità.

 In questa fase sono stabiliti i casi e le eccezioni che possono verificarsi su articoli o fornitori specifici:

“È possibile, per esempio, specificare che, qualora sia la prima volta che un articolo è ricevuto, questo debba essere sottoposto a controlli più rigidi. Nel piano sono poi inclusi parametri come la dimensione del campione da controllare, quanti pezzi possono essere non conformi, come gestirli e quali sono le soglie stabilite per ogni azione correttiva (reso a fornitore, magazzino scarti e così via)”.

Il vero valore dei piani di campionamento risiede nella piena possibilità di personalizzazione delle regole che sottendono il controllo qualità:

in particolare, è possibile stabilire regole differenti per prodotti diversi provenienti dallo stesso fornitore.

“Qualora si verifichino nel campione un numero troppo alto di prodotti non conformi, vengono attivate le procedure specifiche per il caso in oggetto: l’azienda potrebbe decidere di voler controllare tutti i pezzi del lotto, di richiedere un reso dell’ordine ordine o di una sola parte, oppure di versarne la parte conforme a magazzino e il resto di distruggerlo, o ancora di richiedere la sostituzione o una nota credito al cliente per i non conformi”, continua il Responsabile dello Sviluppo del Software S8 di Saep Informatica.

La certificazione come garanzia di qualità.

Correlato al controllo qualità, vi è poi il tema della certificazione: “Specialmente per determinati tipi di prodotti – come quelli ingegnerizzati – la presenza di certificati è un requisito imprescindibile per garantire la conformità del prodotto e questo aspetto dev’essere correttamente gestito all’interno delle procedure di gestione della qualità”. 

La maggior parte delle fasi che compongono i processi di controllo della qualità sono oggi altamente informatizzate.

A questo proposito Bonfanti dice: “Diventa pertanto fondamentale dotarsi di strumenti software dedicati, che possano aderire alle procedure identificate dall’azienda come le più consone per assicurare la qualità dei propri prodotti o servizi”.

 

Soddisfare la domanda di mercati sempre più veloci e in costante mutamento rappresenta una delle sfide più pressanti per la Manifattura:

questo obiettivo può essere raggiunto soltanto rinnovando i sistemi e le procedure, abbracciando approcci “data driven” e dotandosi di sistemi informativi all’avanguardia, flessibili e scalabili. 

 

 

 

I socialisti europei esortano

i progressisti italiani a unire

le forze per resistere all’estrema destra.

Euractiv.it – Corriere della Sera - Federica Pascale – (29 ago. 2022) – ci dice:

 

L’estate è quasi finita e l’Italia entra adesso nel vivo della campagna elettorale. Dopo l’improvvisa crisi politica di luglio e un agosto caldo in cerca di alleanze, questo sarà il mese del tutto per tutto in cui i partiti politici cercheranno di attrarre il numero più alto possibile di elettori in vista dell’appuntamento del 25 settembre.

Quattro le coalizioni in gioco a contendersi il consenso.

 Agli estremi il centrodestra, guidato da Giorgia Meloni (FDI), in testa ai sondaggi con il 48.2% e il centrosinistra, guidato da Enrico Letta (PD), che si stima possa arrivare al 29.5%. Al centro, il Movimento Cinque Stelle (10,7%) e il “Terzo Polo”, composto da Italia Viva e Azione, dato al 5.9%.

È un testa a testa tra Meloni e Letta, con la prima data già vincente, soprattutto dopo l’intervento di Mario Draghi a Rimini la scorsa settimana.

“La situazione è preoccupante ma sono fiduciosa che gli italiani non si rivolgeranno all’estrema destra” è quanto ha dichiarato a Euractiv Iratxe García, leader dei Socialisti e Democratici al Parlamento europeo.

“Il loro programma nazionalista minerebbe ulteriormente i valori fondanti dell’UE: l’uguaglianza, la democrazia e lo Stato di diritto.

 Indebolirebbe l’unità e la solidarietà di cui abbiamo tanto bisogno di fronte all’aggressione di Putin”.

La leader spagnola ritiene che molti italiani siano insoddisfatti perché vedono accentuarsi le disuguaglianze sociali, peggiorare le condizioni e le opportunità di lavoro, e il persistere di sfide globali come l’immigrazione e l’emergenza climatica. Tuttavia, “il ricorso all’isolazionismo non risolverà questi problemi”, ha aggiunto.

Secondo García, i partiti progressisti, come il Partito Democratico in Italia, dovrebbero unire le forze per costruire alleanze europee e affrontare insieme queste sfide.

“Più siamo forti in Europa, più possiamo promuovere politiche per garantire uno sviluppo sostenibile, posti di lavoro equi, giustizia sociale e maggiore uguaglianza di genere.

Abbiamo bisogno di un governo pro-europeo in Italia che capisca che stiamo affrontando il futuro insieme, come europei”, ha concluso la leader di S&D.

“Il Partito Democratico sta facendo la cosa giusta: polarizzare il consenso”.

Questo quanto dichiarato da Udo Bullmann, membro del Partito Socialdemocratico in Germania ed ex leader dei Socialisti e Democratici al Parlamento europeo.

“Bisogna delineare il proprio programma politico, la propria idea di futuro e di Europa.

È importante essere molto precisi su ciò che si è fatto e su ciò che si intende fare, e soprattutto sottolineare la posta in gioco se i democratici rimangono fuori dal governo.

Così gli italiani avranno un’idea chiara di cosa stanno scegliendo”, ha spiegato Bullmann.

“Ci sono molte questioni economiche e sociali, ma vale la pena lottare e presentare un’alternativa.

Per un tedesco, fa effetto sentire dire alla Meloni che vorrebbe punire i comportamenti deviati dei giovani.

È quello che è successo nella storia della Germania, in una delle pagine più buie. Essere puniti perché diversi, chi ne ha bisogno oggi in Europa?”.

Bullmann ritiene che un governo guidato da Fratelli d’Italia “potrebbe aprire le porte a un futuro illiberale della società”, che secondo lui è ora “così colorata, così ricca di differenze”.

“Sarebbe un grande passo indietro se si permettesse a un sistema di destra, più autoritario e radicale, di diventare realtà in Italia”, ha aggiunto.

In riferimento a Mario Draghi, che conosce personalmente avendoci lavorato insieme, esprime stima e definisce il PNRR come uno dei programmi di recupero “più intelligenti” di tutta Europa.

Tuttavia, non gli è chiaro chi la maggioranza degli italiani individui come responsabile della fine della sua esperienza di governo.

Ci saranno ripercussioni in Parlamento europeo?

Il prossimo governo italiano potrebbe influenzare l’Europa a partire dal Parlamento europeo, dove Giorgia Meloni guida il gruppo dei Conservatori e Riformisti.

Per vincere le prossime elezioni, infatti, la Meloni ha unito le forze con la Lega, che fa parte del gruppo ID, e con Forza Italia, che è invece nel Partito Popolare Europeo (ex casa di Fidesz, partito del primo ministro ungherese Viktor Orbán).

 Così facendo, il partito di Silvio Berlusconi si è spostato notevolmente a destra. Pur rivendicando al momento il proprio spirito europeista, Forza Italia potrebbe rivedere alcune posizioni anche in Europa.

“Già in passato pensavamo che il PPE avesse difficoltà a fare un taglio netto (con certe inclinazioni autoritarie)”, ha dichiarato Udo Bullmann, che ritiene che il pericolo sia più grande dell’impatto sul gruppo del PPE al Parlamento europeo.

“Se questa destra radicale prendesse il potere in Italia, riportandoci ad un passato economico illiberale, rafforzando gli aspetti illiberali della società e accentuando le disuguaglianze, ciò potrebbe anche aprire la porta, in uno Stato fondatore dell’Unione europea, a quella che chiamerei una ‘orbanizzazione’ – ha affermato Bullmann -.

 Una democrazia completamente sbilanciata. Così come accaduto con il governo di Diritto e Giustizia (Prawo i Sprawiedliwość; PiS) in Polonia”.

 

 

I partecipanti al Forum progressista globale:

le democrazie vitali hanno bisogno

di politiche progressiste.

Socialistsanddemocrats.eu – Redazione – (19/11/2021) – ci dicono:

 

I progressisti di tutto il mondo si sono riuniti per il Forum progressista globale, un evento di tre giorni per discutere delle sfide e delle soluzioni ai problemi di bruciante attualità che il mondo è chiamato ad affrontare.

 In chiusura, Andrea Schieder, europarlamentare austriaco del Gruppo S&D e copresidente del Forum progressista globale, conclude dicendo:

“Oggi volgono al termine tre giorni d’intenso dibattito.

“Il 35° presidente del Brasile, Luiz Inácio Lula da Silva, ha detto giustamente: ‘Io non voglio essere un algoritmo, voglio essere un essere umano’.

 A prescindere dai numerosi benefici che la tecnologia porta con sé, dobbiamo considerare anche le minacce che pone alle persone.

Una democrazia vitale, un’economia funzionale, le nuove tecnologie, la lotta contro il cambiamento climatico:

tutto questo deve essere posto al servizio delle persone, e noi, come progressisti, mettiamo le persone al primo posto in ogni nostra azione politica.

L’etico delle tecnologie Tristan Harris, americano, ha chiamato per nome i pericoli derivanti da un eccessivo controllo delle tecnologie nell’ambito della digitalizzazione.

Non possiamo lasciare il mondo digitale senza regole, perché tutti vediamo e riconosciamo i pericoli che pone alle democrazie e alla società.

Ciò che noi progressisti desideriamo è una maggior partecipazione della società civile e protezione peri diritti di tutti i cittadini, anche online.

Possiamo migliorare l’interazione digitale tra istituzioni e cittadini e restituire risultati migliori.

“Ylva Johansson, Commissaria Ue per gli affari interni, ha fatto dichiarazioni molto chiare contro la xenofobia.

 Le migrazioni sono una realtà, le persone sono sempre fuggite dalle persecuzioni e vi saranno sempre persone che vorranno migliorare la propria condizione economica e la propria vita.

Non sono una minaccia, sono persone col diritto di avere una vita migliore e le loro capacità e competenze possono essere una risorsa importante per le nostre società.

“Le nostre politiche di bilancio devono porsi la lotta alle disuguaglianze come massima priorità.

Enrico Letta, ex primo ministro italiano e attuale leader del Partito Democratico ha sottolineato che con NextGenerationEU stiamo compiendo il primo passo in questa direzione.

Grazie a questo approccio politico, i cittadini europei potranno vedere i benefici diretti dell’essere membri dell’Unione europea, dato che la ripresa dalla pandemia non sarebbe possibile senza il sostegno dei fondi Ue.

“Sono orgoglioso della partecipazione dimostrata dalle persone intervenute al Forum progressista globale.

 Non solo l’Europa, ma il mondo intero ha bisogno di una svolta progressista dopo anni di populismo.

Se agiamo subito, adesso, vivremo in un mondo migliore nei due anni che ci separano dal prossimo Forum progressista globale e io spero di vedere molti di coloro che hanno partecipato a quello appena concluso, partecipare anche al prossimo”.

 

 

 

La presidenza Biden e

l’illusione dei progressisti.

Osservatorioglobalizzazione.it – (11 NOVEMBRE 2020) - BRIAN CEPPARULO – ci dice: 

 

Nella campagna presidenziale appena conclusa negli USA, è stato degno di nota il vigoroso sostegno dato alla candidatura di Biden, da esponenti di spicco dell’ala progressista del partito come Bernie Senders, senatore del Vermont sconfitto alle primarie democratiche, e Alexandria Ocasio-Cortez, membro del congresso eletta nello stato di New York.

Loro che rappresentano un’agenda radicale, d’ispirazione socialista, che ambiva a piani rivoluzionari come il “medicare for all”, ovvero l’adozione di un servizio sanitario universale e gratuito, “il green new deal“, cioè il piano di transizione industriale verso energie eco-sostenibili, oltre che la promozione di idee eterodosse in economia, come il cartalismo della MMT, fino al convinto pacifismo o non interventismo in politica estera, sperano adesso che le proprie idee possano trovare posto nel nuovo corso politico del Dem centrista Biden.

La realtà è che le aspirazioni progressiste, radicali e socialiste, sono destinate, con molta probabilità a essere presto disilluse.

Infatti, come la CNN annunciava la vittoria di Biden, in studio John Kasich, ex repubblicano ma sostenitore di Biden e potenziale membro del cabinet, si affrettava a smorzare l’entusiasmo progressista:

 “I democratici devono chiarire all’estrema sinistra che sono quasi costati l’elezione a Biden”.

E ancora che “essere tirato da sinistra non funzionerà…”. Per poi rimarcare che il senato assegnato ai repubblicani è “la cosa migliore capitata a Biden”, alludendo al probabile blocco che il senato cosi colorato, opporrà alle eventuali proposte radicali e socialiste.

Che le posizioni della sinistra siano un problema per Biden lo rivela senza fronzoli anche Bloomberg, secondo la quale Wall Street monitora da vicino le scelte che il neo presidente farà, soprattutto nelle posizioni chiave del Tesoro e della SEC, l’authority che controlla l’attività borsistica.

Bloomberg specifica come le idee del senatore Warren (anche lei sconfitta alle primarie democratiche) improntate sulla riduzione delle disuguaglianze di reddito attraverso politiche a favore degli Americani, e non dei giganti della finanza, non siano viste di buon occhio dall’élite capitalistica del paese.

D’altronde è abbastanza curioso che la sinistra radicale Dem, e che chiunque si reputi profondamente progressista possa aver appoggiato Biden, dato che nella sua lunghissima carriera politica non ha mai celato il proprio carattere centrista, e fondamentalmente neoliberista.

Tanto per citare alcuni esempi:

Biden sostenne la decisione di Clinton di abrogare il “Glass-Stegal Act” (successivamente affermerà di essersi pentito), contribuendo al processo di deregolamentazione finanziaria che porterà al crollo del sistema nel 2007-2008.

In politica commerciale si è sempre prodigato a favore delle liberalizzazioni e degli accordi di libero scambio, ferocemente criticati dalle anime socialiste come Senders perché spesso lesivi dei livelli occupazionali e dei salari dei cittadini Americani.

 Per non menzionare il fatto che è stato favorevole a tutti gli interventi militari a partire dalla guerra in ex-Jugoslavia.

La sua “running mate”, Kamala Harris ha anch’ella un passato politico e professionale (quale magistrato) abbastanza opaco per una lente progressista.

A proposito di politica estera Biden ha goduto nella compagna presidenziale 2020 dell’endorsment di Colin Powell (che appoggiò già Obama nel 2008), colui che procurò prove false per legittimare la guerra in Iraq, ai tempi in cui nessuno parlava di Fake News perché solo i media mainstream le diffondevano.

Adesso gira perfino la voce che Dick Cheney, ex vice presidente di George W Bush, grande esponente dell’industria bellica statunitense, tra gli architetti della campagna di guerra in medio oriente post-11 settembre, possa figurare tra i consiglieri strategici di Biden.

 Se venisse confermata sarebbe uno smacco enorme all’elettorato progressista, oltre che un segnale non certo rassicurante per la pace.

I progressisti avrebbero dovuto imparare dalla presidenza Obama, fatta di grandi speranze di cambiamento e rinnovamento nel motto YES WE CAN, dopo 8 anni di guerre promosse dai Neocons repubblicani e la grande crisi finanziaria frutto della speculazione e deregolamentazione.

 Invece vi furono scarsi risultati in ambito sanitario, pochissimi in ambito di eguaglianza razziale (tanto è che il Movimento Black Lives Matter nacque sotto la presidenza dell’afroamericano Obama), una politica fiscale che dopo gli ingenti stimoli del 2008-2010 passò sostanzialmente all’austerità, nulla in ambito di regolamentazione delle armi (le uniche leggi in materia dell’amministrazione Obama ne hanno esteso, e non ridotto, l’uso!), ed una politica estera in linea con quella di Bush (per la precisione sotto l’amministrazione del premio Nobel Obama gli USA hanno condotto operazioni belliche in ben 7 paesi: oltre ad Iraq ed Afghanistan, lanciate da Bush, vi furono Pakistan, Yemen, Somalia, Siria e Libia).

 Non è un caso che dopo 8 anni di Obama è stato eletto Trump, il quale si è ritrovato nella paradossale situazione di rappresentare i blue collars della Rust Belt nonostante fosse un miliardario di Brooklyn.

Quello che sembra abbia unito veramente le diverse anime del partito democratico è stato l’odio viscerale verso il nemico comune:

Trump, rappresentato a tratti come l’incarnazione del male assoluto da debellare a qualunque costo.

 Sembra invece che sia passato in secondo piano il fatto che Biden è e resta un esponente di quell’establishment neoliberista, il quale presentandosi illusoriamente come alternativa a Trump (nella logica del meno peggio), rappresenta per certi aspetti un ostacolo ancor più complesso da arginare per le aspirazioni socialiste e progressiste degli americani.

Resta da vedere quanto possa durare una unione costruita su un nemico comune, e se assisteremo “con l’arrivo del nuovo al ritorno del vecchio”, con buona pace del progressismo.

 

 

 

 

 

Conte invece di attaccare il governo

 si scaglia contro il Pd: “No ad accordi,

 i progressisti siamo noi”

   ilriformista.it - Aldo Torchiaro — (9 Novembre 2022) – ci dice:

 

Lazio e Lombardia andranno al voto a febbraio, oggi vengono formalizzate le dimissioni di Zingaretti ed entro 90 giorni dovrà esserci il nuovo governatore.

Naturale che si vada a un election day per entrambi, il Viminale deve rendere nota la data.

Le due consultazioni interessano 15 milioni di elettori, un italiano su quattro.

Saranno il più grande test elettorale del 2023.

Se in Lombardia l’attuale governatore Attilio Fontana, in pista per il centrodestra, sarà sfidato da Letizia Moratti, con il Pd che deve decidere il suo percorso, nel Lazio la nebbia non è meno fitta.

 E a diradarla non contribuisce Giuseppe Conte che ieri ha convocato una conferenza stampa dai toni minacciosi verso Enrico Letta e in particolare Roberto Gualtieri.

“Noi siamo i progressisti, vogliamo metterci al tavolo per vincere le elezioni con chi converge sui nostri pilastri: ambiente, salute, lavoro”.

E poi sciorina una serie di No: “No alla autostrada Roma-Latina, no all’inceneritore, no al rapporto opaco tra sanità e politica”.

In particolare Conte appare livoroso verso Enrico Letta (“Con questi dirigenti abbiamo difficoltà a sederci al tavolo”) e con Roberto Gualtieri (“Roma è peggiorata in questo suo primo anno”), mentre mastica e rimastica il suo nuovo mantra: “Saremo radicalmente progressisti”, insiste.

Ammette di sentire spesso Goffredo Bettini, che nell’ultimo anno si è trasformato da kingmaker del Pd romano a King Kong: lo tiene stretto in pugno e a tratti pare volerlo stritolare.

Ecco che Conte distribuisce schiaffoni ai dem: “Negli ospedali del Lazio si assiste troppo spesso a casi di malasanità, con pazienti lasciati in corridoio per giorni”, bombe lanciate sul percorso che doveva portare dal campo stretto al campo largo e che invece ne fanno un campo minato.

 Ma il M5S con chi sta? “Siamo noi progressisti a dire agli altri che se vogliono venire con noi, siamo aperti al dialogo, ma bisogna sottoscrivere le nostre condizioni”.

La legge elettorale non consente divagazioni, si sta da una parte o dall’altra, ma poco gli importa. E dire che nel Lazio il Pd una carta vincente la avrebbe, per le mani.

L’assessore alla sanità Alessio D’Amato è in pista e avrebbe dalla sua il favore dei dirigenti locali dem, oltre ad avere incassato il sostegno di Matteo Renzi e Carlo Calenda (che su Roma ha il 20-23% dei voti).

D’Amato è una figura politica complessa, atipica, trasversale.

Viene da sinistra: sarebbe un progressista vero, e non da oggi. Era stato tra i giovani comunisti romani, con Gualtieri.

 Poi un passaggio in Rifondazione e l’approdo nel Pdci di Oliviero Diliberto.

Scuole di politica d’altri tempi. Oggi è apprezzato da tutto il mondo della sanità, laico e cattolico.

E oltre al suo Pd, dai moderati del Terzo polo.

Parla al Riformista per rispondere a Conte: “Bisogna costruire questa alleanza riformista che ha tutte le carte in regola per vincere, nel Lazio.

Unire il centrosinistra con progetti concreti e senza demagogia, perché i cittadini di Roma e del Lazio vogliono risolvere il problema dei rifiuti, adesso.

Chi si dichiara progressista deve prima fare i conti con la realtà”.

 E il percorso verso la candidatura?

“Deciderà la coalizione, il cui perimetro va dal Pd al Terzo polo. Io sono favorevole alle primarie di coalizione: sono un elemento di chiarezza e di partecipazione.

Se si decide di farle, io sono pronto a candidarmi e a correre per vincerle”. Lo scontro frontale di Conte viene visto come un elemento che fa piazza pulita di ogni ipotesi di alleanza.

La sconfitta elettorale? Il Pd non è l’unico argine alla destra.

Tira le somme Matteo Orfini: “Sgombrato il campo dal tentativo con Conte, mi sembra che la candidatura più forte” per il post Zingaretti “sia quella di Alessio D’Amato”, dice Matteo Orfini.

D’Amato nel Lazio e Moratti in Lombardia, secondo i sondaggisti, sarebbero sin da subito insidiosi per il centrodestra.

 La coalizione che ha vinto le elezioni ha confermato Fontana per il Pirellone ma non ha ancora sciolto la riserva per la Pisana, sede della Regione Lazio.

Si fanno il nome di Francesco Rocca, un tecnico che dal vertice della Croce Rossa Italiana potrebbe rappresentare una sorta di commissariamento per la Regione, e della ex consigliera regionale di Fratelli d’Italia, Chiara Colosimo.

Il timore è che il Pd, alle prese con una difficile gestione del dissenso interno, preoccupato più delle rapide congressuali che della cascata elettorale, finisca per cedere alla tentazione di candidature identitarie.

In questo senso andrebbero interpretate le parole con cui Enrico Letta ha aperto la riunione della segreteria: “Non c’è un solo motivo al mondo per cui il Pd debba candidare Letizia Moratti, ex ministra di Berlusconi ed ex assessora del leghista Fontana”.

A sentire i dem lombardi, però, qualche ragione si fa strada. Intervistato da La7, il dem Walter Verini prova a mediare:

“Se ci fosse un gesto di umiltà di Letizia Moratti si potrebbe considerare tutto”.

Il gesto potrebbe essere quello di accettare di correre in ticket con Carlo Cottarelli, ad esempio.

 Che però prende ancora tempo, forse alla ricerca dell’accordo con il Terzo polo.

“Non voglio aspettare per sempre – ha detto ieri Cottarelli -, farò ancora delle chiacchierate con persone di cui mi fido per decidere se nell’attuale situazione c’è la possibilità di avere una coalizione sufficientemente ampia.

Quando ho il quadro completo della situazione, dirò qual è la mia posizione”.

Se dovesse declinare, il nome su cui punterebbe il Pd sarebbe quello del sindaco di Brescia, Emilio Del Bono.

 E va avanti anche il pressing su Pisapia che al momento non si lascia convincere. Letizia Moratti va avanti veloce, intanto. E sta per allestire la sede del suo quartier generale.

(Aldo Torchiaro).

 

 

 

 

 

 

Populismo vs Progressismo:

Somiglianze e differenze.

Liberties.eu – Liberties EU – (Agosto 10, 2021) – ci dice:

 

Cosa significano questi termini, cosa definisce un populista o un progressista, e come sono simili o diversi?

Populismo e progressismo sono due movimenti politici che stanno ricevendo molta attenzione in questi giorni.

Sia in Europa che altrove, molti paesi hanno eletto governi che sono stati definiti populisti, mentre le politiche e i partiti progressisti stanno guadagnando sempre più sostegno.

Ma cosa significano questi termini, cosa definisce un populista o un progressista, e come sono simili o diversi?

Cos'è il populismo?

In parole povere, il populismo è una strategia politica che si appella al "popolo" mettendolo contro le "élite" che sono accusate di non rispettare la volontà o le preoccupazioni del popolo.

 È importante notare che il populismo non è intrinsecamente legato a una certa ideologia politica, o anche a un lato dello spettro politico.

 Barack Obama e Donald Trump, che non condividono quasi nessun credo politico, sono stati entrambi definiti populisti.

Lo stesso vale sia per Silvio Berlusconi che per Jeremy Corbyn.

Gli inizi del populismo: come è nato, dove si trova oggi.

Il populismo risale alla Repubblica Romana, da cui prende il nome. I Populares - che in latino significa "favorire il popolo" - erano una fazione politica che sosteneva la causa dei plebei contro la classe dirigente.

Da allora l'etichetta è stata applicata a vari politici, partiti e movimenti in tutto il mondo, e da tutto lo spettro politico.

Ma quando il populismo è discusso nel contesto dell'Europa di oggi, è più spesso usato per parlare di populisti autoritari - leader che guadagnano sostegno attraverso la messaggistica populista, ma governano in un modo che in realtà favorisce le élite e destabilizza le stesse istituzioni democratiche che proteggono i diritti e le libertà della "gente comune".

Il primo ministro ungherese Viktor Orban o Janez Janša della Slovenia sono due esempi.

I populisti europei autoritari spesso dividono la società lungo linee etniche o religiose, dove i bianchi sono la "gente comune" e le ONG, i media, le celebrità e persino i giudici sono ritratti come le élite.

 E i populisti autoritari ritraggono queste "élite" come se si preoccupassero solo di proteggere e promuovere i diritti e i bisogni dei "gruppi esterni" a spese della "gente comune".

I membri degli outgroup possono includere i migranti, le persone LGBTQI, gli immigrati, i disabili - persino le donne sono considerate membri di un outgroup.

Anatomia del populismo.

Il "popolo" è minacciato dalle "élite" che stanno rovinando il paese e sono da biasimare per le difficoltà della gente comuneI populisti autoritari vogliono ripristinare vecchie gerarchie sociali e vecchie tradizioni che tengono le persone emarginate separate in qualche modo dal resto della società.

Per realizzare i loro obiettivi, i populisti autoritari hanno bisogno di smantellare alcune istituzioni democratiche, come una magistratura indipendente, e gli standard dei diritti umani in modo da poter approvare leggi discriminatorie.

Questo va di pari passo con l'eliminazione delle voci critiche, siano esse della società civile o dei media.

Questi ultimi sono spesso ripresi, direttamente o indirettamente, dal governo e poi usati per promuovere la sua propaganda.

Cos'è il progressismo?

Nella sua essenza, il progressismo riguarda l'uguaglianza, i diritti umani e la parità di protezione e trattamento ai sensi della legge.

 Incarna anche il rispetto per la democrazia, poiché questo sistema e le sue istituzioni politiche proteggono meglio i valori progressisti e i diritti fondamentali.

Gli inizi del progressismo: come è nato, dove si trova oggi.

Questa definizione di progressismo si attiene alle sue origini.

Filosofi del XVIII secolo come Immanuel Kant e Nicolas de Condorcet concepirono il progressismo come qualsiasi movimento verso una società più civile, sicura e giusta.

 Porre fine alla schiavitù, aumentare l'uguaglianza di genere e l'accesso all'istruzione, e affrontare la disuguaglianza economica, erano i principi del primo pensiero progressista.

Oggi, "progressismo" può significare qualcosa di leggermente diverso da paese a paese.

Negli Stati Uniti, per esempio, il progressismo è ora fortemente legato alle questioni ambientali e alla lotta contro il cambiamento climatico, o alla riforma dei servizi sociali e della polizia.

C'è anche una forte enfasi sui diritti dei lavoratori e sul contenimento del potere aziendale.

Ma quando i sostenitori dei diritti umani parlano di progressismo, si vuole suggerire il sostegno ai principi dei diritti umani, dello stato di diritto e della democrazia - cose che secondo molti non dovrebbero essere controverse o fonte di disaccordo, ma lo sono molto nell'Europa di oggi.

Anatomia del progressismo.

Il progressismo riguarda il progresso dell'umanità lontano dalla barbarie e verso la creazione di comunità libere, prospere e sicure dove tutti hanno l'opportunità di contribuire e le stesse possibilità di successo.

Le politiche di governo dovrebbero cercare di ridurre le disuguaglianze sociali, incluse quelle economiche e di genere, e smantellare la discriminazione strutturale e istituzionale.

Tutte le persone hanno diritti umani, e i diritti di ogni persona sono importanti quanto quelli di chiunque altro. Allo stesso modo, ad ogni persona dovrebbero essere garantite le stesse protezioni dalla legge.

Lo stato di diritto deve essere rispettato per assicurare il corretto funzionamento di un governo democratico, dove i diritti e il benessere di ogni cittadino sono di primaria importanza quando si elaborano leggi e politiche.

 

Populismo vs. progressismo: quali sono le somiglianze e le differenze?

Populismo e progressismo sono simili in quanto entrambi sostengono di agire per il bene di tutti, e in particolare della "gente comune".

 Entrambi i movimenti politici promettono di arricchire la vita della gente comune e promettono di legiferare a questo scopo.

Ma anche questa singolare somiglianza è fuorviante, perché progressisti e populisti definiscono la "gente comune" - o anche "tutti" - in modo diverso.

Come detto prima, i populisti europei autoritari definiscono "il popolo" come la gente bianca, e più specificamente i cristiani bianchi.

E piuttosto che voler veramente aiutare il "popolo", i populisti autoritari vogliono mettere le persone una contro l'altra, incolpando le minoranze e altri gruppi per le difficoltà della "gente comune" e anche per le mancanze del governo stesso.

I progressisti, d'altra parte, sono più inclusivi.

Vogliono sinceramente che ogni membro della società abbia la stessa possibilità di contribuire e avere successo.

Piuttosto che evidenziare ciò che ci rende diversi gli uni dagli altri, come fanno i populisti autoritari, i progressisti puntano a ciò che abbiamo tutti in comune, ciò che ci unisce, e ritraggono le nostre differenze come fonti di forza e di arricchimento culturale, piuttosto che debolezze o cose da temere.

Forse la più grande differenza, quindi, è che i progressisti credono e lavorano per l'uguaglianza, mentre i populisti autoritari lavorano attivamente per creare società non eque.

E questo significa indebolire o sbarazzarsi di persone, organizzazioni o istituzioni che aiutano a salvaguardare l'uguaglianza e la parità ai sensi della legge.

I gruppi della società civile e i giudici indipendenti sono spesso in cima a questa lista.

Cosa riserva il futuro al populismo e al progressismo?

Entrambi i movimenti - progressismo e populismo autoritario - sono risorti negli ultimi anni.

L'ascesa di Fidesz in Ungheria e del PiS in Polonia è avvenuta sull'onda del sostegno ai politici di destra e nazionalisti in Europa.

Hanno anche trovato il successo in Italia, nella Repubblica Ceca, in Slovenia e in molti altri paesi dell'UE.

Il loro successo è in parte dovuto alla Grande Recessione e alla crescente disuguaglianza economica, e in parte perché gli autoritari sono stati più bravi a far passare i loro messaggi.

Anche il progressismo, nel frattempo, sta godendo di maggiore sostegno.

 I partiti verdi in Germania, Francia e altrove stanno avendo un successo senza precedenti nei sondaggi, mentre le iniziative politiche progressiste stanno entrando nel mainstream negli Stati Uniti, nel Regno Unito e altrove.

Ma per poter finalmente superare la linea ed andare al potere, i progressisti devono essere più bravi a mostrare alla gente cosa hanno in comune.

Devono anche assicurarsi che le persone abbiano ciò di cui hanno bisogno per andare avanti nella vita, in modo da non essere vulnerabili alle tattiche divide et impera dei populisti autoritari.

Per ora, nulla è deciso.

I governi populisti autoritari nell'UE sono, per la maggior parte, ben radicati.

In alcuni posti, come l'Ungheria, hanno avuto così tanto successo nel cambiare la legge, nell'eliminare le voci critiche e nell'erodere lo stato di diritto che è difficile vederli perdere presto le elezioni.

 Non è più vero che tutti i paesi dell'UE hanno elezioni libere ed eque, quindi anche il calo del sostegno potrebbe non significare la fine di alcuni populisti autoritari.

Ma se i progressisti sono in grado di migliorare la loro messaggistica e raccogliere ancora più sostegno per cause critiche come l'uguaglianza e la protezione ambientale, potrebbero essere in grado di invertire la tendenza e superare i populisti autoritari.

  

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