I PROGRESSISTI e LA REALTA’.
I
PROGRESSISTI e LA REALTA’.
Gli
intellettuali progressisti
e la
superiorità moral-culturale
che
non c’è. Il caso americano.
Open.luiss.it
– Tyler Cowen – (11 maggio 2020) – ci dice:
(EDITORIALE OPEN SOCIETY OFF).
Il
premio Nobel Paul Krugman di recente ha sollevato un vespaio quando ha
sostenuto, in un suo editoriale sul New York Times, che non esistono più
“intellettuali conservatori seri, onesti e con un’influenza significativa
sull’opinione pubblica”, definendo questa specie estinta come quella degli
“unicorni della destra”.
Concordo
in larga misura con le sue critiche, ma vorrei offrire una prospettiva diversa.
Questo mio articolo intende essere una
sorta di avvertimento speculare, rivolto dunque alla sinistra, un po’ come
quando qualcuno ti fa notare che la tua camicia pende un po’ fuori dai
pantaloni.
Ecco
come la vedo.
Un
numero crescente di discussioni interessanti si sta spostando off-line,
rimanendo confinata a gruppi privati, in parte per sfuggire allo sguardo
astioso dei social media e del politicamente corretto.
In
questo momento è molto difficile dire chi si dimostrerà degno di essere
inserito tra i pensatori importanti della nostra epoca – io sono colpito per
esempio da Scott Alexander, blogger del sito Slate Stat Codex e pensatore
influente.
Però
lui preferisce mantenere segreto il suo vero nome.
Riconosco
che spesso le conversazioni più interessanti sono quelle che ho con dei
professionisti e con chi si misura in prima persona con problemi concreti,
piuttosto che con intellettuali e scrittori.
Nei
ragionamenti della prima categoria di persone, è difficile discernere la
partigianeria politica, o comunque ricondurla alle solite semplicistiche
classificazioni.
Anche
quando si tratta di elettori registrati come Democratici, essi sembrano del
tutto alienati, in termini intellettuali, da quel partito.
Ritengo
pure che gli intellettuali di sinistra si lamentino degli omologhi di destra
più di quanto gli intellettuali di destra si lamentino della sinistra.
Un
atteggiamento così negativo non è salutare per lo sviluppo della creatività
intellettuale dei progressisti.
E ancora:
probabilmente i due libri migliori scritti quest’anno sui “fallimenti di
mercato” sono a firma di due miei colleghi che provengono da una tradizione
libertaria: Bryan Caplan e Robin Hanson (quest’ultimo scritto con Kevin Simler,
che non conosco altrettanto bene).
Nel
caso di Hanson, il libro deve molto anche alla fantascienza.
La sinistra invece continua a produrre
molteplici contenuti sul fallimento del mercato, ma mi capita raramente di
trovare questi contenuti originali o sorprendenti.
Il conformismo
dei social media.
Ritengo
poi che i social media spingano verso un maggiore conformismo intellettuale
riconducibile più alla sinistra che non alla destra.
Forse
semplicemente perché gli intellettuali di sinistra sono molto più numerosi,
succede molto più di frequente che siano opinion leader della gauche a scrivere
il copione dei nostri dibattiti social o indicare il cattivo del giorno,
dopodiché i loro follower muovono alla carica.
Considero
poi la politica estera come uno dei temi di dibattito più importanti per gli
Stati Uniti, perlomeno in termini di impatto finale per il mondo.
È semplice per la destra avere un dibattito
dinamico e di sostanza in questo campo, visto che la destra include sia
conservatori sia libertari in grande numero.
Invece
le discussioni sulla politica estera, a sinistra, hanno maggiori probabilità di
ridursi a critiche dei Repubblicani, piuttosto che essere tese a delineare un
approccio concettuale o ad affrontare i propri punti deboli e le proprie
contraddizioni.
Lo stesso è vero per il tema dell’immigrazione.
Molti
dei pensatori più importanti del futuro proverranno da Paesi o retroterra
culturali che sono fuori dai radar del consueto panorama politico americano.
Pensate
al portoghese Bruno Maçães, oppure a Saku, una giovane donna che vive a Londra
e che è di origini filippino-srilankesi.
La
religione è stata una forza decisiva nel corso della storia del pianeta, e la
nostra epoca non fa eccezione.
L’intellettuale popolare che probabilmente è
stato la più grande rivelazione di quest’anno, Jordan Peterson, non a caso si
definisce “un cristiano”.
Gli
intellettuali conservatori, in media, non sono religiosi quanto lo è
l’elettorato di destra.
Eppure
li trovo molto più adatti a comprendere il ruolo della religione nella vita di
quanto non lo siano gli intellettuali di sinistra.
Tra gli intellettuali di sinistra, la prima
reazione emotiva quando si trovano al cospetto della religione consiste
nell’interpretarla come una forza che si mette di traverso nella strada che
conduce al liberalismo sociale, oppure nel sentirsi in imbarazzo per il gran
numero di americani che ancora si dicono religiosi e nell’affrettarsi a
cambiare argomento.
Inoltre
mi pare che le principali vittime del “movimento del politicamente corretto”
siano coloro che si collocano nel centro o nel centro-sinistra dello spettro
politico.
In
effetti alcune superstar intellettuali, come Peterson o Steven Pinker, hanno
fatto la loro fortuna e ricevuto un’enorme attenzione grazie ai propri attacchi
al politicamente corretto.
Ma se
un pensatore non ha già un grande pubblico a cui rivolgersi, se lavora in
un’università, e intende sostenere una qualche tesi sull’identità etnica o sul
gender che non sia totalmente all’interno del perimetro “consentito”, allora
probabilmente preferirà rimanere in silenzio, oppure dovrà sopportare tutte le
conseguenze negative del caso.
È difficile che queste vittime intellettuali
si collochino a destra, e ciò implica che la sinistra è finita per diventare
quasi cieca su tali temi.
Questa
disfunzione – generalizzata ma latente – è uno dei principali motivi per cui la
sinistra è stata colta così di sorpresa dall’elezione di Donald Trump negli
Stati Uniti.
Gli
intellettuali conservatori hanno una solida familiarità con le dottrine della
sinistra e del centro-sinistra, ma l’opposto succede molto più di rado.
Allo
stesso modo, è quasi impossibile pensare a un omologo conservatore o libertario
di Krugman che faccia una dichiarazione analoga a quella del Nobel liberal
secondo il quale non esisterebbero siti web conservatori che lui senta la
necessità di leggere regolarmente.
In
breve: il nuovo mondo delle idee è uno scenario aperto a moltissime possibilità
e a innumerevoli partecipanti, essenzialmente con pochi vincoli e regole,
dunque difficile da dominare in toto con gli strumenti di un singolo individuo.
Ma
certo è che la situazione complessiva non è assolutamente così congeniale agli
intellettuali di sinistra come certi intellettuali di sinistra vorrebbero farci
credere.
(Bloomberg
View)
La
mente alveare,
Borges
e la memoria.
Maurizioblondet.it
– Maurizio Blondet - Roberto PECCHIOLI- (19 Novembre 2022) -ci dicono:
L’esperienza ha dimostrato la capacità dei computer di
interagire nonché di estendere le loro capacità se collegati insieme. Internet
ha fornito la capacità, ed ora nei gabinetti dei tanti dottor Caligari si
lavora a collegare i cervelli.
Sono
già stati condotti con successo esperimenti sugli animali. La frontiera
dell’interfaccia neurale umana è vicina ad essere varcata.
La tecnologia relativa si chiama Brainet, rete
di cervelli. Si stanno studiando tecnologie i cui esiti saranno super computer
biologici frutto della “mente collettiva”.
Condivideranno
ricordi, forse percezioni ed emozioni. Il taglio con cui arrivano al pubblico
le informazioni su Brainet enfatizzano soprattutto l’aiuto alla salute, ma la
verità è che è stata spalancata la porta a qualcosa di mostruoso, ancorché
dotato di un fascino abbagliante, la creazione di una mente-alveare transumana.
L’alveare,
peraltro, non conosce l’individualità dei suoi componenti, tutto è in funzione
dell’ape regina, ovvero Tecnopolis, l’élite che possiede e controlla mezzi
tecnologici potentissimi trasformati in fine.
Vi è
una sorprendente analogia con la finzione cinematografica di Metropolis (1927):
la mega macchina che ingoia le persone. Brainet è lo strumento perfetto per
l’abolizione dell’individualità, ossia della persona umana, obiettivo non più
celato dalle avanguardie transumaniste.
Un’immensa,
mostruosa, antiumana coscienza impersonale, coerente traguardo della post
modernità.
Un
gigantesco database sarà gestito in vari “cloud”, (la nuvola informatica, il
grande magazzino dati on demand) governati dalla tecnostruttura agli ordini di
una cupola che potrà affermare non di aver abolito la libertà, il libero
arbitrio o le procedure chiamate democratiche, ma l’homo sapiens.
La
coscienza personale sarà una minuscola cellula del Moloch. Le forme relazionali
della neo-umanità verranno gestite attraverso l’interazione delle NBIC
(nanotecnologia, biotecnologia, informatica e scienze cognitive) con esiti
imprevedibili.
Saremo
quello che vorrà il comando della macchina impersonale, padrona dell’alveare
formato da milioni di interfacce neurali costituite da nanobot, minuscoli robot
di dimensioni molecolari o addirittura atomiche, impiantati nel corpo.
È
l’ultima fase in ordine di tempo dell’evoluzionismo più radicale, l’espressione
di un materialismo assoluto, la mistica della mente alveare, una sorta di
memoria collettiva, di nastro magnetico che cristallizza e riavvolge la vita.
Per
alcune correnti transumaniste, “io” sono esclusivamente il mio cervello e
l’eternità che promettono è la persistenza della memoria informatizzata della
mia vita. Raggelante.
Sarà
l’età che avanza e fa capire il significato dell’espressione “vivere di
ricordi”, ma la memoria è la parte di noi di cui siamo più gelosi. Fa paura
immaginarla avvolta in un nastro virtuale, esposta a chi manovra immensi
apparati artificiali, privata dell’intimità, perfino del sapore e dell’odore
del ricordo.
Chissà
che ne penserebbe Marcel Proust, che alla memoria ha dedicato una delle opere
più significative della modernità, la monumentale Recherche, Alla ricerca del tempo
perduto.
È celebre il passo in cui il protagonista,
l’Io narrante- Marcel come l’autore- ha un trasalimento mentre riceve la colazione,
a base di tè e di pasticcini. “All’improvviso il ricordo è davanti a me. Il
gusto era quello del pezzetto di madeleine che a Combray, la domenica mattina,
quando andavo a darle il buongiorno in camera sua, zia Leonia mi offriva dopo
averlo inzuppato nel suo infuso di tè o di tiglio.”
Ognuno
di noi ha la sua madeleine personale, intima e solo sua; per chi scrive è il
profumo, il fumo e il lieve, particolarissimo fruscio delle lasagne al sugo
appena sfornate mentre vengono tagliate.
Non voglio far parte della mente alveare, né intendo
penetrare nel foro interiore degli altri. Intima è la memoria, personalissima e
selettiva.
Si
dimentica e si rammenta, e ogni volta qualcosa muta nel ricordo; nuovi
significati, sensazioni e risvolti – spesso tristi o drammatici, talvolta
gioiosi- entrano a far parte del patrimonio immateriale della memoria, cuore,
anima e corpo, non solo cervello.
La
memoria è anche la sede della cultura, nel senso di conoscenze, saperi,
giudizi, pregiudizi e convincimenti che fanno di un’esistenza la “mia” vita, la
“tua” vita. Sono i frammenti che – uniti- formano la visione del mondo di ciascuno,
la cornucopia da cui estraiamo sentimenti, idee, emozioni, timori. La vita,
insomma.
Perfino
il materialista Voltaire – autore di decine di voci dell’Enciclopedia di
Diderot e D & Alembert- nel Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni,
parla della cultura non come accumulo di conoscenza, ma come capacità di
formarsi un autonomo quadro del mondo, dipinto da noi, con i colori, i
chiaroscuri e la cornice scolpita da noi: studio ed esperienza.
Non un
ammasso di dati e metadati, il modello artificioso e transumano dominato dalla
tecnologia.
È
inutile sovraccaricare il file della memoria, ma resta l’aspirazione inesausta
e irrealizzata dell’essere umano, l’ansia di conoscenza e di pienezza di un
essere che sa di essere incompleto e caduco senza potersi rassegnare alla sua
condizione.
Leo
Strauss in “Che cos’è la filosofia politica?” (1957) afferma che il filosofo
(l’amico della conoscenza) è colui che, sapendosi limitato, impotente, cerca di
discernere, distinguere, dare giudizi.
L’uomo-
animale culturale (A. Gehlen) – è l’essere che prende posizione, formula
giudizi.
Impedirglielo,
tagliare la memoria con il linguaggio politicamente corretto e l’incultura
della cancellazione, significa impedire quella ricerca tra passato e futuro, memoria
e zavorra, che ciascun uomo compie a suo modo.
Come
comprese Socrate, sapiente è chi sa di non sapere: la memoria è ricerca sempre
inconclusa.
Nessun
alveare, nessuna “mente collettiva” se non nella forma scoperta da Jung, l’immaginario
che è sostrato, memoria condivisa entro una comunità. Se fossimo esseri completi, se
perdessimo la curiosità genuina, l’ansia di scoperta, sciolte in un mostruoso
artefatto come la mente alveare, saremmo esseri conclusi a cui verrebbe meno la
voglia di vivere.
Da
uomini, quanto meno. Fin dai tempi classici, è esistita l’aspirazione a una
conoscenza universale. Un esempio è la biblioteca di Alessandria, summa del
sapere antico, prima incendiata, poi distrutta dalla conquista araba.
Nel
romanzo distopico Il “Dio Thoth”, Massimo Fini immagina un’immensa biblioteca digitale,
fatta però di riduzione della conoscenza, di riassunti, assurdi Bignami che non
risparmiano l’Amleto, sepolto da migliaia di rimandi e citazioni parziali.
In Fahrenheit 451 la cultura e la memoria sono
proibiti e il compito dei pompieri è di bruciare i libri. Metafore di un rapporto con la
memoria, la conoscenza e la cultura che è l’essenza della presenza umana sulla scena
del mondo.
Memoria,
ma anche oblio, dimenticanza, scelta: ecco un’altra cosa di cui ci deruba
il futuro che viene, il “datismo” e la mente alveare, registro unificato di
milioni, miliardi di irripetibili esistenze.
La
memoria è un labirinto, il mio labirinto. Nessuno meglio di Jorge Luis Borges
poteva raccontarla, analizzarla, sezionarla minuziosamente. Lo fece in un
racconto all’interno di “Finzioni”, un titolo che evoca le corse, i viaggi, il
tortuoso andirivieni del pensiero.
Funes
o della memoria, nell’originale il più suggestivo” Funes el memorioso”, è, secondo Borges,
una lunga metafora dell’insonnia.
Il
protagonista è un ragazzo uruguaiano di origini indie, Ireneo Funes, il quale,
dopo un incidente all’età di diciannove anni, viene colto da “ipermnesia”,
ossia è in grado di ricordare tutto, ma proprio tutto, di ciò che vede, legge e
vive.
“Cadendo,
perse conoscenza; quando la recuperò, il presente era quasi intollerabile per
quanto era nitido e ricco, anche le memorie più antiche e più triviali”.
Funes
mostra una memoria prodigiosa, e terribili difficoltà a prendere sonno. Borges
presenta Funes come un ragazzo enigmatico, misterioso. “Lo ricordo, il volto
taciturno dall’aspetto indio, singolarmente distante, remoto dietro la
sigaretta.
Funes
era un precursore dei superuomini, uno Zarathustra meticcio e vernacolo”.
Soffriva per non poter dimenticare sino a non riuscire a sciogliere l’ansia nel
sonno liberatore.
Menomato,
privato della speranza, “portava la sua superbia sino al punto di fingere che
fosse stato benefico il colpo che lo aveva fulminato. Lo vidi due volte dietro
le sbarre che simboleggiavano grossolanamente la sua condizione di eterno
prigioniero.”
Borges
vede la portentosa memoria di Ireneo come un’eterna prigione e l’oblio – il
diritto di dimenticare- come libertà. Eppure siamo soliti mettere in relazione
la memoria con l’intelligenza, anche se ne è solo un requisito, una precondizione.
Ma che
accadrebbe se una memoria prodigiosa quanto malsana e morbosa ci permettesse di
ricordare assolutamente tutto, sino al più insignificante dettaglio?
Innanzitutto, diventeremmo pazzi, ma non solo.
Borges ci mostra come l’oblio selettivo è
altrettanto importante della memoria.
Il
sonno depura e scioglie i ricordi meno importanti per fare posto agli eventi
veramente rilevanti.
Trascende
la curva della memoria, la rende più sopportabile e, al contrario, può
gonfiarla di dolore e rancore, ma è ancora umanità, scelta, padronanza. Una memoria assoluta è il sintomo di
una condizione di prigionia interiore.
La tecno dittatura del dato senza narrativa ci
porta al non pensiero, all’assenza di correlazione, di astrazione e di
generalizzazione: la vera cultura.
L’eccesso
di dettagli, suggeriscono Borges e in fondo Voltaire, impedisce il giudizio.
Ossia espropria il carattere essenziale della nostra umanità.
Ireneo
Funes, chiuso nell’oscurità della sua camera, handicappato “memorioso”, era
schiavo dei suoi ricordi che rammemorava continuamente in un circolo vizioso
sino a morirne.
In
poche ore imparò il latino e recitava passaggi della Storia naturale di Plinio
il Vecchio, opera che gli aveva prestato un amico. “La materia di quel capitolo
era la memoria; le ultime parole furono “ut nihil non iisdem verbis redderetur
auditum” [affinché nulla di ciò a cui si è prestato attenzione venga narrato
con le stesse parole].
Prima
dell’incidente era un cieco, uno smemorato, ora la sua percezione e la sua
memoria erano infallibili”.
Tuttavia
quell’infallibilità contraria alla fallibilità umana reca con sé un enorme
fardello.
“Il
vertiginoso mondo di Funes” era la memoria indelebile dell’umanità. “Ho più
ricordi io da solo di tutti quelli che avranno avuto tutti gli uomini dacché il
mondo è il mondo. I miei sogni sono come per voi la veglia”.
Immaginiamo
per un attimo la terribile condanna di essersi caricati sulle spalle le miserie
del mondo. Immaginiamo di ricordare ogni immagine, ogni parola, ogni suono, senza
posa, senza riposo. Immaginiamo per un solo minuto di essere onniscienti
anziché creature, esseri limitati, finiti. L’oblio- e il sonno suo fratello-
rinnovano la vita e ci riscattano della condanna eterna della memoria.
Funes
non riusciva a sottrarsi al ricordo, quindi “gli era molto difficile dormire.
Dormire è distrarsi dal mondo”. La disgrazia di conservare nella memoria anche il più
piccolo ricordo ci spingerebbe a un tremendo rancore, a un’angoscia
esistenziale irredimibile, poiché nessuno è preparato a farsi carico di ogni
ingiustizia, dolore, ogni storia e nemmeno di ogni conoscenza.
Meglio
il consiglio di Voltaire: scegliamo ciò che è migliore. Che tale è per noi, nel
giudizio parziale, fallibile certo, ma umanissimo e soprattutto nostro, giacché
pensare è giudicare, scoprire o dimenticare le differenze, generalizzare,
astrarre. “Nell’ affollato mondo di Funes non c’erano che dettagli. “
Contro
l’impero dell’eccesso di dati e informazioni, un mondo di bit e puntini, contro
la disumana mente-alveare, evviva l’uomo imperfetto, con i suoi racconti e le
sue dimenticanze, il discernimento e il criterio personale. Astrarre e generalizzare:
dipingere da soli il quadro del mondo.
“E stringere le mani per fermare qualcosa che
è dentro me, ma nella mente tua non c’è. Capire tu non puoi; tu chiamale, se
vuoi, emozioni.
Il
complicato rapporto tra
i
progressisti e la genetica.
Ilpost.it-Redazione
– (11 settembre 2021) -ci dice:
Da
tempo vengono segnalati i limiti dell'approccio prevalente nella sinistra,
secondo cui è solo l'ambiente a determinare il comportamento di una persona.
Paige
Harden è una giovane e apprezzata psicologa e genetista comportamentale
americana, docente all’Università del Texas, a Austin, dove dirige un
laboratorio di genetica del comportamento evolutivo.
È
considerata una delle più autorevoli scienziate nell’ambito degli studi più
recenti sull’influenza dei geni sullo sviluppo delle persone, sia per quanto
riguarda i tratti caratteriali che i risultati nella vita, inclusi il livello
di istruzione, il reddito e l’inclinazione alla criminalità.
Nel
2017 ha ricevuto dalla American Psychological Association, la più grande
associazione di psicologi negli Stati Uniti, un ambito riconoscimento – quello
destinato agli psicologi nelle prime fasi della loro carriera – per le sue
ricerche su «come integrare la conoscenza genetica con le intuizioni cliniche ed
evolutive classiche nel comportamento umano».
L’idea
che fattori genetici siano alla base di una parte più o meno significativa dei
nostri comportamenti in età adulta è un argomento molto controverso, che da
decenni alimenta un dibattito vivace e molto polarizzato – a volte causa di
ostilità esplicite – tra teorici di opposti modelli di analisi della natura
umana.
Da una
parte ci sono gli studiosi che ritengono rilevanti e meritevoli di indagine
scientifica soltanto le correlazioni tra l’individuo e l’ambiente in cui nasce
e cresce. Alla parte opposta ci sono quelli che ritengono prevalente o
largamente dominante l’influenza dei geni.
È una
discussione complessa e articolata, intorno alla quale esistono ideologie
radicate anche nei contesti accademici, e con ripercussioni sul modo e sui
criteri con cui valutiamo – e di fatto sono fondate – le nostre società,
dall’istruzione pubblica alle politiche sociali.
Harden
– alla quale il New Yorker ha recentemente dedicato un lungo articolo – sostiene che la ricerca genetica
sulle differenze individuali umane sia compatibile con obiettivi sociali
progressisti ed egualitari, ed è considerata da molti suoi colleghi la scienziata più
impegnata nel tentativo ambizioso di integrare e sintetizzare attraverso la
ricerca genetica tradizioni e scuole di pensiero divergenti.
Nel
suo libro più recente, “La lotteria dei geni. Come il DNA influenza la nostra
vita e la società”, Harden scrive:
«Sì,
le differenze genetiche tra due persone qualsiasi sono minuscole rispetto ai
lunghi tratti di DNA arrotolati in ogni cellula umana.
Ma
queste differenze incombono pesantemente quando si cerca di capire perché, per
esempio, un bambino ha l’autismo e un altro no;
perché
uno è udente e un altro no; e, come descriverò in questo libro, perché un
bambino avrà difficoltà con la scuola e un altro no.
Le
differenze genetiche tra di noi sono importanti per le nostre vite. Causano
differenze nelle cose a cui teniamo.
Costruire
un impegno per l’egualitarismo sulla nostra uniformità genetica equivale a
costruire una casa sulla sabbia».
Harden
ha raccontato al New Yorker che in seguito alla pubblicazione dei risultati
delle sue prime ricerche, nel 2015, cominciò a percepire di essere sgradita in
diversi contesti pubblici e formali, tra sociologi, economisti e altri
scienziati.
Molti
di loro, soprattutto quelli vicini alle posizioni della sinistra americana,
sembravano certi che qualsiasi ricerca sulla genetica del comportamento – anche
se ben intenzionata – conducesse verso l’eugenetica.
Ma
Harden riteneva che quelle diffidenze provenissero da un’era ormai passata, in
cui i geni erano descritti «in termini di codifica del destino individuale».
Ne
ebbe conferma quando in una lunga conversazione via email con colleghi della
“Russell Sage Foundation” ricevette da alcuni di loro, tra i più illustri,
diverse contestazioni dopo aver condiviso i risultati di un’importante
collaborazione internazionale guidata dal medico Daniel Belsky, docente alla
Duke University School of Medicine.
La
ricerca, condotta su un campione di persone neozelandesi di discendenza
nordeuropea, aveva identificato parti del genoma che mostravano una
correlazione statisticamente significativa con il livello di istruzione.
In
pratica, il gruppo guidato da Belsky aveva utilizzato quei dati per compilare
una sorta di “punteggio poligenico” – una somma ponderata delle varianti
genetiche rilevanti di un individuo – in base al quale sarebbe stato possibile
spiegare in parte le differenze all’interno della popolazione nella capacità di
lettura.
Già dalle risposte ricevute in quella
occasione, Harden si rese conto dell’esistenza di approcci difficili da
conciliare.
Da una
parte, c’erano quelli inclini a insistere sul fatto che i geni non contino
davvero; dall’altra, quelli che sospettano che i geni siano anzi le uniche cose
che contano.
La
storia della genetica del comportamento, sintetizza il New Yorker, «è la storia
del tentativo di ogni generazione di tracciare una via di mezzo».
All’inizio degli anni Sessanta, quando questa
disciplina cominciò a formarsi, il rischio dell’eugenetica era avvertito come
reale e concreto soprattutto per effetto del ricordo molto vivo delle atrocità
naziste.
Il modello dominante nella spiegazione dello
sviluppo umano era il comportamentismo, sostenuto dai principi progressisti del
dopoguerra e in parte fondato sulla speranza che modificare l’ambiente potesse
produrre qualsiasi risultato.
Partendo
dalla constatazione della distribuzione non uniforme delle capacità umane,
scrive il New Yorker, i primi genetisti del comportamento assunsero che «la nostra natura non è né
perfettamente fissata né perfettamente plastica, e che questa era una cosa
buona».
E diedero priorità agli studi sugli animali,
per evitare che i loro interessi scientifici potessero essere fraintesi e
utilizzati al di fuori dei contesti accademici.
Nel
1965, le ricerche del genetista John Paul Scott e dell’etologo John L. Fuller –
alla cui memoria è dedicato il premio Fuller-Scott, assegnato ogni anno dalla “Behavior
Genetics Association “– mostrarono che, nonostante le differenze genetiche
riconoscibili tra le razze canine, non sembravano esserci distinzioni
categoriche utili a concludere che, per esempio, i pastori tedeschi siano più
intelligenti dei labrador.
Le variazioni più significative si verificano
piuttosto a livello individuale, e l’ambiente era importante tanto quanto le
qualità innate, se non di più.
Ma
qualche anno più tardi Robert Jensen, psicologo e docente dell’Università della
California a Berkeley, pubblicò sulla rivista “Harvard Educational Review” un
articolo intitolato “How Much Can We Boost IQ and Scholastic Achievement?” (“Quanto possiamo aumentare il
Quoziente Intellettivo e il rendimento scolastico?”), ritenuto ancora oggi uno dei più
controversi articoli nella psicologia americana.
Jensen sostenne l’esistenza di un divario nel QI delle
diverse popolazioni americane, la cui ragione era almeno in parte genetica e
immutabile.
Definiva
quindi sostanzialmente inefficaci gli interventi politici mirati a contrastare
quelle che considerava differenze naturali.
Le
tesi di Jensen avviarono un dibattito pubblico molto acceso e anche violento,
scrive il New Yorker, da cui scaturirono «proteste studentesche, minacce di
morte e accuse di totalitarismo intellettuale».
Le stesse controversie di allora alimentano ancora
oggi, in forme diverse e meno violente, un dibattito incentrato su diverse
questioni irrisolte e approfondite da studi successivi a quelli di Jansen. In
ambito accademico, i suoi critici sostenevano che i percorsi sociali che dai
geni portano a tratti complessi fossero talmente contorti e insondabili da
rendere inadatta e sostanzialmente stupida qualsiasi nozione di “causalità
genetica”.
Nel
1972, il sociologo americano Christopher Jencks, dell’Università di Harvard,
obiettò che l’affermazione in base alla quale i geni spiegherebbero le
differenze tra gli individui nei punteggi dei test del QI non implica
necessariamente che i geni influenzino la capacità di apprendimento di un
individuo.
E
propose un esperimento mentale, per spiegare questo concetto.
«Se, per esempio, un paese si rifiuta di
mandare a scuola i bambini con i capelli rossi, si potrebbe dire che i geni che
causano i capelli rossi abbassino i punteggi di lettura. Questo non ci dice che
i bambini con i capelli rossi non possono imparare a leggere».
A
questa forma di determinismo genetico si oppose fortemente anche il biologo
evoluzionista e genetista statunitense Richard Lewontin, che utilizzò
un’analogia diversa.
Supponiamo,
scrisse Lewontin, di acquistare un sacchetto di semi di mais e di coltivarne
una manciata in un ambiente attentamente controllato, con illuminazione
uniforme e soluzioni nutritive uniformi, e un’altra manciata in un terreno
altrettanto illuminato ma povero di nutrienti.
Le
piante varieranno in altezza all’interno di ciascuno dei due gruppi, ma nel
secondo saranno tutte scarsamente sviluppate e l’altezza media del gambo sarò
inferiore a quella relativa al primo gruppo.
Ciò
che Lewontin intendeva mostrare con questo esempio era la possibilità che
rispetto a un determinato risultato finale, interamente determinato
dall’ambiente, la predisposizione genetica comune sia del tutto ininfluente.
In
questo senso la tesi razziale di Jansen era, sotto molti punti di vista,
ingiustificata: era assurdo pensare che, nell’America del 1969, persone di
differenti origini etniche godessero delle stesse condizioni.
I critici di quel modello non negavano che i
test sul QI potessero misurare qualcosa di reale, ma sostenevano che qualsiasi
dato tratto da quei test non dovesse essere considerato come un dato puramente
biologico e immutabile.
La
proliferazione degli studi sui gemelli durante gli anni Ottanta, scrive il New
Yorker, contribuì fortemente a cambiare un approccio teorico basato in parte su
intuizioni di tipo morale prive di fondamento.
Quando
la schizofrenia e l’autismo, per esempio, si rivelarono in gran parte
ereditari, la comunità scientifica abbandonò definitivamente alcune dannose
teorie che associavano quei disturbi a un presunto rapporto inadeguato del
bambino o della bambina con i genitori (la teoria delle cosiddette “madri
frigorifero”).
Per
alcuni tratti come l’intelligenza, i progressisti continuarono tuttavia a
insistere sul fatto che le differenze – non solo a livello di gruppo ma anche a
livello individuale – fossero semplicemente l’effetto di un ambiente diseguale.
I conservatori, scrive il New Yorker,
sottolinearono che quel tipo di approccio selettivo rispetto alle scoperte
scientifiche fosse intellettualmente disonesto.
Nel
1997, un influente psicologo del Dipartimento di Psicologia dell’Università
della Virginia pubblicò un breve saggio intitolato “The Search for a
Psychometric Left” (“La ricerca di una sinistra psicometrica”), in cui invitava i suoi colleghi
progressisti a non respingere le valutazioni quantitative ottenute dai più
recenti metodi d’indagine psicologica.
L’autore
di quel saggio è Eric Turkheimer, di cui Harden è stata allieva e che è oggi
considerato uno dei più importanti genetisti comportamentali della sua
generazione.
In
conclusione del saggio, Turkheimer scrisse:
«Una
sinistra psicometrica riconoscerebbe che l’abilità umana, le differenze
individuali nell’abilità umana, le misure dell’abilità umana e le influenze
genetiche sull’abilità umana sono tutte reali ma profondamente complesse,
troppo complesse perché si possano imporre su di esse schemi biogenetici o
politici. […]
L’opposizione
al determinismo, al riduzionismo e al razzismo, nelle loro forme estreme o
moderate, non deve dipendere dal rifiuto generale di fatti innegabili – anche
se facilmente interpretati nel modo sbagliato – come l’ereditarietà».
Già
all’epoca Turkheimer era abbastanza noto per la sua convinzione che le
spiegazioni biologiche del comportamento umano difficilmente avrebbero
soppiantato quelle culturali e psicologiche.
Sosteneva l’idea che i processi rilevanti
nello sviluppo degli individui fossero troppo disordinati per essere chiariti e
fissati a livello molecolare.
Con
questo non intendeva che la genetica del comportamento fosse inutile, ma
insisteva sul bisogno di una prospettiva più modesta riguardo ai risultati che
era possibile ottenere grazie a essa.
Gli
studi sui gemelli potrebbero non spiegare mai come un dato genotipo possa
rendere più probabile la depressione, per esempio, ma possono servire a evitare
il tipo di inferenze che negli anni Sessanta attribuivano ai genitori e
all’ambiente le responsabilità di determinate patologie.
Il
lavoro di Harden, scrive il New Yorker, è pienamente all’interno di questa
tradizione di studi.
Per
esempio, Harden ha utilizzato uno studio sui gemelli per dimostrare che l’idea
della “pressione sociale” (“peer pressure”) come motore dell’abuso di sostanze
tra gli adolescenti fosse, nella migliore delle ipotesi, un’eccessiva
semplificazione di correlazioni estremamente complesse tra geni e ambiente.
I
primi anni di specializzazione di Harden coincisero con un periodo di
importanti scoperte scientifiche e con un massiccio ingresso dei genetisti in
un campo di ricerca a lungo dominato dagli psicologi.
Nel
2003, gli scienziati annunciarono di aver completato la prima mappatura
completa del genoma umano, da molti ritenuti il più grande e complesso progetto
di ricerca biologica nella storia.
Conoscere
nel dettaglio le informazioni che compongono il DNA umano permise, per esempio,
di attribuire alcune malattie come quella di Huntington alla mutazione di un
singolo gene, e questo contribuì a diffondere l’idea che anche i tratti
complessi della personalità potessero essere derivati altrettanto chiaramente.
Alcuni
studi riuscirono a individuare un gene associato all’aggressività, altri alla
depressione, ma gli esperimenti non furono replicati, e in breve tempo fu
chiaro che i tratti complessi possono essere associati a più geni e che i
singoli geni possono appartenere a una varietà di attributi.
E
ancora oggi una delle principali difficoltà delle ricerche sulla genetica del
comportamento consiste nell’individuazione di quali geni influenzino un dato
comportamento e di come ciò avvenga.
Nel
periodo in cui Harden stava finendo la sua tesi specialistica i ricercatori
cominciarono ad avviare una serie di cosiddetti studi di associazione
genome-wide (genome-wide association study, o GWAS), basati sulla possibilità
di identificare nel genoma umano centinaia o migliaia di punti in cui le
differenze nelle sequenze del DNA potrebbero essere correlate a tratti
complessi o a un determinato risultato.
Dopo
alcuni primi risultati deludenti, gli studi GWAS negli ultimi cinque anni si
sono rapidamente evoluti.
I
“punteggi poligenici” possono oggi rappresentare una buona parte della varianza
di una popolazione in altezza e peso, e servire a prevedere malattie
cardiovascolari e altre patologie come il diabete.
I ricercatori hanno inoltre scoperto
collegamenti tra geni e tratti comportamentali complessi.
Il più
grande studio GWAS sui livelli di istruzione ha identificato nel genoma quasi
1.300 punti correlati al successo scolastico, e ha permesso di formulare
punteggi con validità predittiva.
Le
persone con i punteggi più alti avevano circa cinque volte più probabilità di
laurearsi rispetto a quelle con i punteggi più bassi: che è una stima con un
livello di accuratezza paragonabile, scrive il New Yorker, a quelle basate
sulle tradizionali variabili delle scienze sociali, come il reddito dei
genitori.
Parlando
con il New Yorker, Harden è stata molto cauta rispetto alle conclusioni che è
possibile trarre dai suoi studi e molto chiara riguardo ai limiti dei GWAS.
Sostiene
che queste ricerche forniscano semplicemente un quadro di come i geni siano
correlati al successo, o alla salute mentale, o alla criminalità, «per
particolari popolazioni, in una particolare società, in un particolare momento
storico».
Non
avrebbe quindi senso, sostiene, confrontare risultati tra popolazioni di paesi
o di epoche diverse.
Inoltre
i punteggi poligenici hanno uno scarso valore predittivo per quanto riguarda i
risultati individuali.
Negli
studi GWAS sul successo scolastico, per esempio, tra le persone con i punteggi
più bassi ce ne sono molte che proseguono gli studi universitari, e tra quelle
con i punteggi più alti ce ne sono molte che non arrivano a prendere il diploma
di scuola superiore.
Ed
esistono poi casi in cui i risultati di studi GWAS possono non essere
particolarmente significativi, più o meno nello stesso senso in cui non lo sono
le conclusioni sui bambini con i capelli rossi nell’esperimento mentale di
Jencks.
Uno
studio sull’utilizzo delle bacchette a San Francisco, fa l’esempio il New
Yorker, scoprirebbe prevedibilmente che questa abilità è geneticamente
correlata a gruppi con origini asiatiche, «che è ben lontano dall’essere una
scoperta su una destrezza innata con un particolare utensile».
Secondo
Harden, uno dei principali limiti del dibattito sulla genetica del comportamento
è che è ancora in larga parte basato su una distinzione superficiale tra cause
genetiche immutabili e cause ambientali duttili.
E sarebbe preferibile, secondo lei, accettare
che nel comportamento umano tutto è legato a un lungo intreccio causale di
geni, personalità e cultura, e quanto più si riesce a comprendere di questo
intreccio, tanto più efficaci potrebbero essere i nostri interventi.
Harden,
conclude il New Yorker, non è l’unica scienziata a condividere l’auspicio di
Turkheimer di una “sinistra psicometrica”.
Argomenti simili ai suoi sono stati trattati
dai sociologi americani Dalton Conley e Jason Fletcher nel libro The Genome
Factor, del 2017, dal sociologo dell’Università di Stanford Jeremy Freese e
dallo scrittore socialista Fredrik deBoer, autore del recente libro The Cult of
Smart.
Opinioni
simili a quelle della cosiddetta «sinistra ereditaria», come la definisce il New Yorker,
sono state attribuite anche allo psichiatra e saggista californiano Scott
Alexander e al filosofo Peter Singer.
«Le
argomentazioni etiche di Harden sono quelle che ho sostenuto per molto tempo.
Se ignori queste cose che contribuiscono alla disuguaglianza, o se fai finta
che non esistano, rendi più difficile raggiungere il tipo di società che
apprezzi», ha detto Singer al New Yorker. «Ma c’è una sinistra politicamente
corretta che non è ancora aperta a queste cose», ha aggiunto.
La
prospettiva della «cecità genetica», ha detto Harden al New Yorker, «perpetua il mito che quelli di noi
che hanno “successo” nel capitalismo del ventunesimo secolo lo hanno ottenuto
principalmente a causa del duro lavoro e dello sforzo, e non perché ci è
capitato di essere i beneficiari di incidenti di nascita, sia ambientali che
genetici».
«Compagni
progressisti, non inseguite
i
social: tornate
nella realtà».
Tempi.it
- Pietro Piccinini – (18/05/2021) – ci dice:
Le
ragioni offerte dal deputato Khalid Mahmood per spiegare le sue dimissioni
dalla leadership del Labour dovrebbero suggerire qualcosa anche al Pd follower
di Fedez.
Il
leader del Labour Keir Starmer ripreso durante una conferenza stampa online nel
2020.
All’Enrico
Letta che twitta cose sbagliate – l’ultima in ordine di tempo è l’appello ad «approvare
subito il ddl Zan» – potrebbe giovare lo studio delle ragioni con cui Khalid
Mahmood ha motivato qualche giorno fa le sue dimissioni da ministro della
Difesa del “governo ombra” laburista.
A dire il vero, tutte le ultime vicende del principale
partito della sinistra britannica, passato dalle mani di Jeremy Corbyn a quelle
di Keir Starmer poco più di un anno fa, dovrebbero suggerire qualcosa al Letta
che si fissa su omofobie, ius soli, quote rosa, lockdown e via twittando.
Esattamente
come capita al Pd italiano da un po’ di tempo a questa parte, infatti, anche in
Inghilterra il Labour sta perdendo pezzi e roccaforti storiche a vantaggio dei
tories.
«Si è sbriciolata la Muraglia Rossa
laburista», ha scritto il Corriere della Sera raccontando della disfatta
progressista nella città operaia Hartlepool, rimasta fedelmente di sinistra
fino alle elezioni amministrative di inizio maggio. (In realtà un chiaro scricchiolio si
era udito già in occasione del referendum del 2016, quando questo collegio
aveva votato al 70 per cento a favore della Brexit e dunque contro le
indicazioni dei laburisti).
«I
social media dettano la linea».
Proprio
dalla clamorosa sconfitta a Hartlepool ha preso spunto Khalid Mahmood per criticare
in un articolo per Policy Exchange e in una bella intervista a Spiked il
partito di Starmer che ormai «si fa dettare la linea dai social media».
E che
«invece di sostenere i lavoratori, riprende in mano le stesse battaglie
identitarie degli anni Settanta».
18
NOVEMBRE 2022.
Khalid
Mahmood.
In
Parlamento dal 2001, musulmano di Birmingham, Mahmood ha scritto nel suo
commento per Policy Exchange all’indomani del voto:
«La
mia idea è semplice: nell’ultimo decennio, il Labour ha perso contatto con le
persone ordinarie.
Una
borghesia londinese, con il sostegno di brigate di giustizieri da social media,
è riuscita a prendere in ostaggio il partito.
Naturalmente
hanno buone intenzioni, ma la loro politica – ossessionata dall’identità, dalle
divisioni e perfino da un utopismo tecnologico – ha più cose in comune con
l’alta società californiana che con la gente che ha votato ieri a Hartlepool.
Nell’ultimo
anno le voci più forti del movimento laburista si sono concentrate più
sull’abbattere la statua di Churchill che non sull’aiutare le persone a farsi
strada nel mondo.
Non mi
stupisce che sia andata meglio tra i ricchi liberal delle città e tra i giovani
laureati che nella parte più importante del suo elettorato tradizionale, la
classe operaia».
A chi
parla la sinistra.
Non è
difficile immaginare come commenterebbe Mahmood l’appiattimento acritico del Pd
di Letta sulle posizioni di Fedez, il testimonial di Amazon che sfrutta il
palco della festa dei lavoratori per fare la morale agli “omofobi”.
Ha
detto Mahmood a Spiked:
«Non
possiamo permetterci di farci dettare la proposta politica dai social media.
Non possiamo permetterci di non comprendere che cosa sta attraversando il
cittadino medio.
I
social media dovrebbero essere un mezzo per coinvolgersi con le persone, non
per decidere la linea e poi obbligare la gente ad accettarla.
Nelle
nostre comunità ci sono oggi divisioni su cose come il monumento a Churchill.
Ma
abbiamo una storia che non si può riscrivere, per quanto lo si desideri.
Al contrario, della storia dobbiamo imparare
la lezione.
Dobbiamo
riconoscere che sono successe cose brutte nel passato, in un’era diversa e con
diversi modi di vedere la realtà. Invece di combattere battaglie di cento anni
fa, dovremmo concentrarci sul migliorare le cose per il futuro.
Basta
con le politiche che segregano le persone.
Basta
con i finanziamenti sulla base dell’appartenenza a un gruppo etnico o a un altro
Questa è politica della divisione. Invece
dovremmo sostenere tutti.
Dovremmo
guardare ai bisogni dell’intera comunità di ciascuna area e capire come mettere
insieme le persone.
Questo
deve fare il Partito laburista. Deve unire la gente».
Non
siamo tutti razzisti e omofobi.
E non
solo è comprensibile che in tempi di Covid e recessione le persone comuni
abbiano problemi un po’ più urgenti dei presunti allarmi omofobia, sessismo,
razzismo:
secondo
il deputato musulmano britannico non è nemmeno vero che le nostre società
occidentali siano poi così piene di omofobi, sessisti e razzisti bisognosi di
rieducazione.
Insomma,
Mahmood parla a Starmer ma sembra averne per tutti, Biden compreso.
Ancora
dall’intervista a Spiked:
«Se
vuoi fare un incontro sulla giustizia razziale, non farlo su Twitter. Va’ là
fuori e parlane con le persone. […]
Quando
mi sono candidato nel 2001, i compagni del Partito laburista dicevano che non
sarei stato eletto, perché gli indiani non avrebbero votato per un candidato
del Kashmir, gli afro-caraibici non avrebbero votato per un asiatico e nemmeno
i bianchi essendo razzisti avrebbero votato per me.
Alla
fine ho ottenuto una maggioranza di 7.000 voti. Mi avevano votato persone di
tutte quelle comunità. A riprova che le persone non sono divise come gli altri
vorrebbero».
La
sinistra progressista contro i lavoratori.
Non è
finita. La
sinistra secondo Mahmood non dovrebbe intestardirsi su certe irragionevoli battaglie ambientaliste, specie quando a farne le spese sono
i ceti “inferiori” (e qui ogni riferimento a Beppe Sala e alla sua campagna pro
piste ciclabili non sarebbe stato casuale né fuori luogo).
«Prendete
l’iniziativa Low Traffic Neighbourhood [quartieri a basso traffico, ndt]. A Birmingham ce l’abbiamo e sta
causando problemi enormi.
La
gente deve fare dei giri pazzeschi a causa di questo progetto.
Certo,
uno può dire che si dovrebbe tornare all’epoca in cui non c’erano auto per
strada.
Ma
rendetevi conto di chi ne soffre: la classe dei lavoratori.
Queste
persone non possono permettersi un’auto di nuova generazione, e così saranno
penalizzate. Non dobbiamo usare l’ambiente come un bastone con cui picchiare i
lavoratori».
I
problemi degli elettori.
Le persone
comuni, va spiegando in lungo e in largo il laburista musulmano, non hanno i
problemi di immagine degli influencer, se ne fregano di cosa pensa “il popolo
di Twitter” o il guru di Instagram di turno.
Le persone comuni hanno il problema del
lavoro, la fine del mese, la sanità, la scuola.
È per
questo, e non per ignoranza o xenofobia, che in Inghilterra hanno votato a
favore della Brexit, ed è proprio a loro che il Labour dovrebbe rivolgersi, non
ai loro profili social.
Ancora
Mahmood per “Policy Exchange”:
«Il
Labour sbaglia se pensa che tutto ciò sia nostalgia e sguardo al passato.
Riguarda anche il presente.
La gente sul campo, lontano dalle élite e dai
dibattiti accademici della capitale, vuole che funzionino le cose essenziali.
Le
persone vogliono un lavoro sicuro per sé – non contratti a zero ore – e un
futuro promettente per i figli e i nipoti.
Vogliono
un sistema sanitario nazionale che funzioni e non le faccia attendere mesi per
una operazione o settimane per un appuntamento dal medico.
Vogliono
investimenti in infrastrutture e nel trasporto come autobus più puliti e più
verdi.
Soprattutto,
vogliono essere ascoltate.
Che disperazione quando il nostro consiglio
comunale ha ignorato una petizione con 15 mila firme per un nuovo cavalcavia.
Talvolta
la spocchia di chi crede di saperla più lunga si vede anche a livello locale.
[…]
C’è
bisogno di umiltà, tanto per cominciare. Se il Labour vuole riprendersi collegi
come Hartlepool dovrà far cambiare idea a persone che ieri hanno deciso di
votare conservatore.
Esiste
il pericolo che il nostro partito, nella sua opposizione e confusione sulla
Brexit, abbia sbandato verso un atteggiamento antibritannico?
Io di
certo temo che questo sia il pensiero di alcuni dei nostri ex sostenitori».
Non
esistono solo gli elettori di Londra che «lavorano dalle caffetterie o da casa,
quelli che vanno in giro coi loro laptop e si mettono dove vogliono», ha
ribadito ancora Mahmood parlando con il Guardian.
La
maggior parte delle persone, in Inghilterra come in Italia, deve fare i conti
con una realtà: «Dobbiamo uscire e metterci a lavorare davvero sui problemi reali».
Il
libro che smaschera la truffa
dei
cambiamenti climatici.
Ilfoglio.it- MAURO ZANON – (21 OTT 2015) – ci
dice:
Jacques
Cheminade, ex candidato alle presidenziali francesi e autore di un dossier
controcorrente intitolato “La mistificazione del riscaldamento globale”, l’ha
definita “dittatura soft del maltusianesimo verde”.
(Il
pensiero unico sul clima colpisce ancora. Chi critica il global warming perde
il lavoro.)
Appunti
per chi dice che anche in Costa Azzurra è tutta colpa del global warming.
Ecolocausto.
Parigi.
Jacques Cheminade, ex candidato alle presidenziali francesi e autore di un
dossier controcorrente intitolato “La mistificazione del riscaldamento
globale”, l’ha definita “dittatura soft del maltusianesimo verde”.
Chiunque
vi si opponga è prontamente isolato, come è successo a lui stesso, o peggio
allontanato dal posto di lavoro, come è accaduto la scorsa settimana a Philippe
Verdier, meteorologo vedette di France 2, punito per aver scritto un libro che
denuncia il pensiero unico sul global warming e la grande impostura della
Conferenza sul clima (Cop21) che si terrà a Parigi il prossimo dicembre.
“Climat Investigation” (Edizioni Ring), questo
è il titolo dell’inchiesta che dimostra l’infondatezza del discorso allarmista
dominante sul clima e relativizza le conseguenze del riscaldamento globale, è
costata a Verdier una lettera da parte della direzione di France Télévisions
nella quale gli si chiedeva espressamente di stare a casa perché per i
dissidenti dell’ideologica climatica, a un mese dalla pomposa Cop21, non c’è
spazio nel dibattito pubblico.
C’è
una nuova colpa, impossibile da espiare per i gendarmi del pensiero: l’essere
“climatosceptique”, ossia scettici nei confronti delle teorie mainstream sul
clima, ossia voler porre questioni, aprire dibattiti, proporre visioni alternative
all’idea diffusa secondo cui bisogna fare in fretta altrimenti l’apocalisse
ambientale sarà inevitabile.
Ed è
per questa colpa, condivisa con molti altri pensatori contrari come il premio
Nobel per la Fisica Ivar Giaever, che Verdier è stato immediatamente sanzionato
e tacciato dal codazzo benpensante dei vari Monde, Libération, Inrocks e Canal
Plus di alimentare una “retorica complottista” e di essere vicino all’estrema
destra.
La
decisione di sollevare un polverone a qualche settimana dall’inizio del
ventunesimo raduno sul clima organizzato dalle Nazioni Unite, che vedrà
convergere a Parigi imprenditori, scienziati, professori, economisti e
soprattutto i principali capi di Stato mondiali, è stata presa da Verdier nel
momento in cui, da inviato indipendente di tre edizioni della Cop, si è reso
conto dell’imbarazzante allineamento tra calendario climatico e calendario
politico.
“L’urgenza
non proviene dal clima in quanto fenomeno fisico, ma da un tempo artificiale
calcolato sul calendario politico”, scrive Verdier nell’introduzione della sua
inchiesta.
“I
nostri dirigenti esercitano una pressione sull’opinione pubblica al fine di
valorizzare la Conferenza di Parigi, che costituisce anche un’opportunità di
ridorare la loro immagine sbiadita da una situazione economica e sociale
complicata” (a dicembre ci saranno anche le delicate elezioni regionali che per
la gauche potrebbero essere un’altra disfatta).
Lungo le quasi trecento pagine di inchiesta,
Verdier muove una critica durissima alla nuova religione climatica, che tappa
la bocca agli “eretici” come lui, e smaschera i catastrofisti del riscaldamento
globale di cui il Giec (Groupe d'experts intergouvernemental sur l’évolution du
climat) è l’epicentro, sottolineando invece quanto il global warming abbia
portato numerosi benefici al nostro mondo, a livello economico, turistico,
enogastronomico e financo di salute.
Il
meteorologo francese, che su Europe 1 non ha escluso il coinvolgimento
dell’Eliseo nel quadro della sua cacciata, si sofferma a lungo sulla grande
ipocrisia dei governi che a seconda delle necessità drammatizzano o relegano
nel dimenticatoio il tema del riscaldamento globale.
Tra il
2011 e il 2014 la questione climatica sparisce bruscamente dai radar degli
ideologi del global warming, viene derubricata dalla lista dei dossier
prioritari. Non è più un’urgenza, a quanto pare.
La
catastrofe naturale e antropologica sembra non essere più imminente per i
politici e gli ecologisti di ogni latitudine.
Poi, a
un anno dalla Conferenza sul clima di Parigi, commenta Verdier, l’apocalisse
ambientale causata dal global warming di natura antropica torna magicamente a
figurare in cima all’agenda politica e mediatica.
“500 giorni per salvare il pianeta”, lancia
allarmato il ministro degli Esteri francese Laurent Fabius, posando sulla
copertina del Parisien Magazine in veste di meteorologo.
L’heure est grave, la situazione torna
improvvisamente a essere critica, climatologi e scienziati ripartono con la
litania dell’“uomo grande colpevole dell’innalzamento delle temperature”,
nonostante in quei tre anni di encefalogramma piatto sul clima il fenomeno del
riscaldamento globale abbia proseguito il suo percorso con il solito cammino di
incertezze e di imprevisti senza essere più intenso di prima.
All’inquilino
del Quai d’Orsay e principale ambasciatore della Cop21 nel mondo, Verdier
dedica uno dei capitoli più saporiti del libro, intitolato “Il ministro che
voleva diventare Monsieur Météo”.
È una mattina del giugno 2014 quando Fabius decide di
radunare tutti i presentatori meteo al ministero degli Esteri per una colazione
speciale. E perché mai proprio loro? Perché dai loro bollettini meteo, da quel
giorno in poi avrebbero dovuto rimuovere dalle loro analisi le parole
“riscaldamento” e “cambiamento”, e parlare soltanto di “caos climatico”.
Poche settimane dopo è il turno della ministra
dell’Ambiente, Ségolène Royal, che invita tutti i meteorologi francesi per un
appuntamento intitolato “Il meteo si impegna per il clima”.
A completare l’opera ci pensa il presidente
Hollande, con un viaggio glamour a Manila, promuovendo con gravità, accanto
alle attrici Marion Cotillard e Mélanie Laurent, la Cop 21 di Parigi.
Clima,
Prestininzi: “il pensiero unico
sconvolge
il Metodo Scientifico-sperimentale,
le
previsioni catastrofiste non trovano conferma nei fatti”.
Metoweb.eu
– A. Prestininzi – Beatrice Raso – (10 Lug 2022) – ci dicono:
"Nessun
modello predittivo, costruito a supporto della narrazione sulla responsabilità
dell’uomo" sull'evoluzione del clima "ha trovato conferma dai
fatti", afferma Alberto Prestininzi.
Alberto
Prestininzi, già Direttore del Centro di Ricerca CERI e Ordinario di Rischi
Geologici, Università Sapienza di Roma, attuale Docente di Analisi del Rischio,
Università e Campus, ha scritto un articolo per lo speciale di Calabria Live in
cui si affronta il tema tanto dibattuto dei cosiddetti cambiamenti climatici
antropici, ossia i cambiamenti del clima attribuiti all’azione dell’uomo,
principalmente attraverso le emissioni di gas serra.
Nel
suo articolo, dal titolo “Le variazioni del clima: dall’emergenza alla
conoscenza”, Prestininzi affronta il problema del “pensiero unico” sul clima
rilanciato dal sistema di comunicazione, definendolo una “deriva autoritaria”
nella quale le previsioni sul futuro climatico non trovano conferma nei
fatti.
L’articolo
scritto da Alberto Prestininzi.
“E’
molto probabile che i contenuti di questo Speciale creeranno sgomento o,
addirittura, avversione soprattutto da parte dei giovani, non di tutti, per
fortuna. I giovani che rappresentano la porta che deve garantire un futuro
migliore.
Ma
qualcuno sta pensando di tenere ben chiusa questa porta, utilizzando sistemi
sicuri e inviolabili.
La
generazione passata, alla quale è stato “assegnato” il compito di vivere il
primo dopoguerra, conosce molto bene il valore della porta del futuro e il suo
ruolo vitale.
Per
questo cercano di tenere ben aperta la porta del futuro, per consentire
all’aria vitale che l’attraversa di nutrire quello che noi chiamiamo il cibo
del pensiero, ovvero l’informazione libera, multipla, articolata che nasce e
cresce, anche, e soprattutto, attraverso il confronto aperto portato avanti con
argomenti e tesi, spesso ferocemente contrapposte.
Oggi
viene proposto dal sistema di comunicazione, con offerta a buon mercato, il
pensiero unico, monotematico, senza confronto ma propinato da “esperti”
accuratamente selezionati e pronto per l’uso.
Una
delle prove generali, ben riuscita, è costituita dai milioni di ragazzi,
turlupinati e inconsapevoli vittime, scesi per scioperare a favore del Clima a
fianco della giovane Greta Thumberg: selezionata, costruita e veicolata da chi vuole a
tutti i costi tenere chiusa la porta del futuro (contro chi hanno scioperato questi
giovani? Non si capisce, visto che il Ministro della Pubblica Istruzione, quasi
tutti gli Insegnanti, il Governo e i vertici dei governi occidentali, compresa
l’UE, erano i promotori dello sciopero)
(A. Prestininzi- Il rapporto tra Scienza e
Comunicazione).
È in
tale contesto che si colloca lo sgomento e la reazione dei giovani alle notizie
ed alle comunicazioni che si discostano da quelle “impartite e imparate a
memoria” da Tv e giornali, in primo luogo.
Ma
financo dai documentari, spesso diffusi con l’etichetta “scientifica” e che
unanimi annunciano la morte del Pianeta, lanciando informazioni subliminali.
La
tecnica è collaudata, gli stessi media sono pronti ad indicare come false, o
non scientifiche, tutto ciò che è in dissonanza con il mainstream.
Per
sostenere questo tipo di perplessità sono in genere forniti vocaboli ad hoc,
spregevoli ma di immediato uso e getta, come negazionista, il cui vero e duro
significato è noto alle passate generazioni, le quali i campi di concentramento
nazisti li hanno vissuti e subiti.
Questa nostra breve premessa è stimolata dai
decenni di docenza e rapporti con i giovani, i quali spesso palesano questa
iniziale reazione ma che, poi, la prolungata interazione e il dialogo fa
emergere in loro tutta la potenzialità del loro libero pensiero, unica speranza
per il futuro”.
Dal
Club di Roma all’isteria del Cambiamenti climatico.
“La
versione ufficiale che si tramanda attraverso documenti e cronache ha sempre
sostenuto che il primo incontro promosso da Aurelio Peccei nell’aprile 1968,
insieme a scienziati, leader politici e intellettuali, si è tenuto presso
l’Accademia dei Lincei di Roma.
Da qui,
il nome Club di Roma.
Il
tema dell’incontro era centrato su un documento elaborato da Alexander King,
scienziato scozzese, di chiara ispirazione Malthusiana, sui “problemi globali”
connessi alla sostenibilità del nostro pianeta nel poter garantire le risorse
energetiche necessarie al crescente aumento della sua popolazione.
Nonostante
l’ipotesi formulata non abbia avuto molto successo, Il Club di Roma ha
pubblicato nel 1972 il documento I Limiti dello Sviluppo (The Limits to Growth)
di Donella H. Meadows, Dennis L. Meadows, Jorgen Randers, William W, noto come
Rapporto Meadows.
Le
attività del gruppo di lavoro furono sviluppate con il coinvolgimento del MIT
di Boston (Massachusetts Institute of Technology) e portarono alla simulazione,
su una finestra temporale di cento anni, di uno scenario che avrebbe condotto
il pianeta “Al raggiungimento dell’umanità dei
limiti naturali dello sviluppo a causa del previsto, e temuto, declino del
livello di popolazione e del sistema industriale, soprattutto per l’impossibilità
di garantire risorse energetiche sufficienti”.
Al
riguardo dobbiamo registrare che, a partire dal dopoguerra la popolazione
mondiale è passata da circa 3 a 8 miliardi di individui (gennaio 2022).
Nello
stesso intervallo di tempo il livello di sottonutriti della popolazione
mondiale è passato, dal 50% del 1945 al 9% circa del 2020.
I
fatti, quindi, hanno dimostrato che la pur legittima ipotesi iniziale del Club
di Roma e del MIT era errata.
In questo contesto dobbiamo, giocoforza,
ricordare che il mondo scientifico, sotto la spinta di Galileo, ha assunto come
elemento guida Il Metodo Scientifico-sperimentale che permette di confermare, o
smentire, le ipotesi predittive che via via sono formulate dal mondo
scientifico per interpretare l’evoluzione di certi fenomeni.
In linea con tale Metodo, la comunità scientifica
utilizza i principi galileiani per stimare la validità delle ipotesi predittive
attraverso il confronto con i “fatti”, ovvero con quanto realmente si registra
nell’intervallo di tempo assunto dalle ipotesi predittive.
Solo i
fatti, quindi, consentono di trasformare una ipotesi predittiva in un modello
scientifico significativo.
L’assenza
di queste condizioni confina le ipotesi predittive in legittime basi di ricerca
e di lavoro, ma non li assume come elementi idonei che consentano di assumere
decisioni politiche ed economiche.
Ma,
negli ultimi decenni, stiamo assistendo allo stravolgimento di questo
paradigma, con l’assunzione di fondamentali decisioni politiche-economiche
sulla base di ipotesi, portate avanti con modelli costruiti al computer anche
quando i fatti mostrano la loro inconsistenza scientifica.
Tra
l’altro, si tratta di decisioni che, nel nostro paese, calpestano il lavoro dei
Padri Costituenti e consentono di perpetrare grandi ingiustizie nei confronti
delle inconsapevoli popolazioni. Considerando il tema dei cosiddetti
“Cambiamenti Climatici antropici”, gestito e orchestrato a livello planetario
da coloro che si nascondono sotto la coperta dei Malthusiani, avendo ereditato
abusivamente il marchio Club di Roma, emerge come questo tema abbia tutti i
requisiti per essere considerato un perfetto esempio di una deriva autoritaria.
Aurelio
Peccei e il Club di Roma erano partiti dalla ipotesi che le fonti di energia
fossile fossero ormai sulla soglia dell’esaurimento (i meno giovani ricordano
gli anni ‘70, quando c’è stata la messa al bando della circolazione domenicale
dei veicoli).
I
novelli Malthusiani hanno utilizzato la legittima ma errata previsione del Club
di Roma, come password per promuovere quella che Ivar Giaever, Fisico- Premio
Nobel per la fisica nel 1973, ha chiamato Il riscaldamento globale è la più
grande e riuscita frode pseudoscientifica che abbia mai visto nella mia lunga
carriera di fisico.
Questa
consapevolezza ha portato di recente oltre mille scienziati nel mondo a
scrivere la Dichiarazione “There is no Climate emergency”, inviata al
Segretario delle Nazioni Unite e alla Commissione UE.
La più grande truffa scientifica, dunque, confermata
dal nostro premio Nobel Carlo Rubbia in un intervento al Senato della
Repubblica il 24 settembre 2014.
Tutto
questo ripete esattamente la profezia sulla carenza di risorse alimentari e la
necessità di ridurre drasticamente la popolazione, attraverso il continuo
martellamento dei media sulla salvezza del pianeta attraverso la
decarbonizzazione.
La CO2
presente in atmosfera è il cibo delle piante. Senza questo gas la vita sulla Terra
non sarebbe possibile.
Come è
stato dimostrato dallo studio delle Stromatoliti, sviluppate 3,7 miliardi di
anni fa, le quali attraverso la fotosintesi, generata da attività dei
cianobatteri, ha dato il via al meraviglioso ciclo del Carbonio e alla sintesi
degli zuccheri che rappresentano, oggi, l’attività della fotosintesi che
sostiene la vita sul nostro pianeta.
L’incremento
di temperatura, attribuita alle emissioni antropiche di CO2 è una ipotesi
legittima, ma come l’ipotesi formulata dal Club di Roma, non ha trovato
conferma nei fatti.
Solo i
modelli predittivi vengono esposti come prova di questa ipotesi.
I
numerosissimi modelli formulati sono totalmente incapaci di simulare le
variazioni climatiche del passato.
Si
tratta dunque di modelli non significativi e quindi privi di qualsiasi valenza
scientifica.
Basta
leggere ciò che è avvenuto nel passato geologico del nostro pianeta per
verificare come il clima ha subito periodi e cicli continui di variazione
climatiche, totalmente sconnessi dalla presenza della CO2.
I dati recenti del periodo medievale, o
dell’intervallo 1500-1750 d.C., caratterizzati, rispettivamente, da un ciclo
caldo e da uno freddo (la piccola glaciazione).
Tornare
al periodo romano per constatare che la temperatura era maggiore di quella
odierna, come mostrano ricerche sperimentali di elevato valore scientifico che
mostrano come le acque del Mediterraneo erano più calde di quelle odierne di
circa 2°C.
(Persistent
warm Mediterranean surface waters during the Roman period (2020). G.
Margaritelli, I. Cacho, A. Català, M. Barra, L. G. Bellucci, C. Lubritto, R.
Rettori & F. Lirer. Scientific Reports volume 10, Article number: 10431.)
Cosa è
accaduto in questo periodo?
L’Impero di Roma ha conosciuto la sua massima
espansione territoriale, culturale e di benessere.
La
contrazione, e l’avvio della sua caduta, coincide con il freddo e
l’abbassamento delle temperature, quando il Nord Europa e la Groenlandia
diventarono inospitali e grandi masse di popolazioni si sono riversate verso
Sud alla conquista di Roma.
Le
comunità costruite dall’uomo temono il freddo, non il caldo.
Nessun modello predittivo, costruito a
supporto della narrazione sulla responsabilità dell’uomo, ha trovato conferma
dai fatti.
Quindi
questa ipotesi non è supportata dai fatti e non assume quindi il rango di
“verità scientifica”.
La petizione fatta dagli scienziati fa
emergere la responsabilità dell’Uomo per i processi di inquinamento del pianeta
(suolo, acqua e aria).
Ma
l’inquinamento non ha nulla a che spartire con il clima, che è sempre mutato e
continuerà a mutare per cicli naturali, soprattutto astronomici e planetari.
Al riguardo, una interessante riflessione è
stata fatta dalla professoressa Augusta Vittoria Cerutti, già docente di
Geografia presso l’Università di Torino, quando parla dei ghiacciai alpini.
Nei
suoi lavori esamina la condizione della cosiddetta mummia di Otzi, la mummia
del ghiacciaio di Similaun in Trentino Alto Adige risalente a circa 5000 anni
fa, ritrovata l’11 settembre 1991 da una coppia di coniugi tedeschi.
La
mummia di Otzi, come viene chiamata, si è potuta formare perché le condizioni
climatiche di 5000 anni fa erano totalmente diverse a 3500 metri s.l.m.
Il
processo di mummificazione ha bisogno di un clima secco, ventilato.
La presenza del ghiacciaio avrebbe impedito la
mummificazione.
Successivamente si è formato il ghiacciaio che
ha conservato Otzi sino ai nostri giorni.
Ancora
una volta la scienza mostra che il clima è cambiato per ragioni naturali”.
Ancora:
(Clima,
Scafetta: “i modelli IPCC minimizzano la componente naturale e l’attività del
sole”.)
(Brussato:
“la transizione verde è fondata sull’estrazione mineraria, ignora pesantissimi
effetti collaterali”.)
(Clima
e finanza, Giaccio: “politica zero emissioni usata come scusa per riorganizzare
l’economia mondiale”.)
Sul
clima una prospettiva
da
aggiornare. Parla Franco Prodi.
ilfoglio.it-
RUGGIERO MONTENEGRO – Franco Prodi - (01 NOV. 2021) – ci dicono:
“L’aumento
delle temperature non è in discussione. Ma prima di tutto bisogna pensare che
il cambiamento è connaturato al clima", ci dice il fisico.
Se non si tiene conto di questi fattori
"la Cop26 non è utile”.
(Il
bla bla bla dei grandi del mondo spiegato a Greta.)
(Contro il catastrofismo. "Ecco perché sul clima
l'Onu sbaglia". Parla Franco Prodi).
"Il
cambiamento climatico richiede adattamento, non panico”.
L’assunto,
piuttosto controcorrente per i tempi che corrono, arriva dal “Wall Street
Journal”: è il titolo di un articolo che spiega come, sebbene adattarsi non
elimini del tutto i costi del riscaldamento globale, ne riduca in buona parte
gli effetti.
Una
conclusione a cui il Wsj arriva prendendo in esame alcuni studi allarmanti,
dove si presuppone che le persone, e le comunità nazionali, non facciano nulla
per cambiare atteggiamenti e risposte rispetto al problema climatico.
L’analisi
si inserisce in un filone più ampio, una serie di contenuti che la testata
americana ha pubblicato nelle ultime settimane in vista della Cop26.
Articoli
sul cui merito si può certamente discutere, essere più o meno d’accordo, o
rinnegare del tutto, ma che hanno il merito di porre al centro della
discussione alcuni temi decisivi quando si parla di climate change, di
soluzioni, di transizioni ecologica e di strumenti o azioni per metterla in
pratica.
Tutti
temi e finalità sacrosante, ma che hanno pure ingenti costi, economici e
sociali, da cui non si può scappare.
Questioni che talvolta finiscono in secondo
piano, ma che restano imprescindibili se si vuole affrontare con serietà, e
senza demagogia quella che da molti è considerata la sfida di questo secolo.
Ieri,
a Glasgow, è partita la conferenza sul clima delle Nazioni Unite.
E’
stata definita “la più importante di sempre”, la “ultima grande possibilità”, e
riunirà capi di stato, ministri e negoziatori di oltre 190 paesi.
Proveranno
a trovare un accordo comune e concreto su quali azioni intraprendere a livello
globale per combattere l’innalzamento delle temperature, abbassando
drasticamente le emissioni di C02, fino ad azzerarle in tempi relativamente
brevi, nell’ordine di qualche decennio.
Un
approccio da qualcuno definito catastrofista, che segue le indicazioni
dell’ultimo rapporto dell’Ipcc dell’Onu e addebita, “inequivocabilmente”, al
comportamento dell’uomo le principali cause del fenomeno.
In
Scozia è attesa anche Greta Thunberg, la grande ispiratrice della protesta
climatica, che proprio dall’Italia, in occasione dell’evento Youth4Climate:
Driving Ambition tenutosi a Milano a fine settembre, ha attaccato il “bla bla
bla” della politica, oltre a dirsi scettica sugli effettivi risultati che
potranno arrivare il 12 novembre, quando la conferenza si concluderà.
Uno scetticismo a cui arriva, pur passando per
sentieri decisamente diversi, opposti, anche il fisico dell’atmosfera e
climatologo Franco Prodi.
Nel
suo curriculum, cinquant’anni di studi al Consiglio nazionale delle ricerche,
venti dei quali da direttore del Fisbat e poi dell'Isac, gli istituti del Cnr
dedicati alle scienze dell'atmosfera, oltre alle esperienze al Cnen – Comitato
nazionale per l'energia nucleare e come professore universitario a Ferrara.
Rifiuta
l’approccio catastrofista, quello che definisce “il “mantra”, il pensiero
unico”, e il metodo delle Nazioni unite, conclusioni che ritiene ancora troppo
affrettate:
“Premetto
che bisogna distinguere due ambiti: quello della scienza e quello del rapporto
tra Onu, governi e scienziati.
L’Ipcc
è un panel costituito come forma di dialogo tra esperti nominati dalla politica
e non dalle comunità scientifiche nazionali.
La scienza procede in altri ambiti che sono
quelli, per esempio, della “International Union of Geodesy and Geophysics”, che
fa le sue conferenze, e sulla base di queste e delle pubblicazioni su riviste
qualificate produce la propria conoscenza.
Bisogna
partire da qui per commentare la situazione”.
Andiamo
avanti allora, andiamo al merito e alle altre criticità, che Prodi individua
nel modello apocalittico:
“L’aumento
delle temperature non è in discussione. Ma prima di tutto bisogna pensare che
il cambiamento è connaturato al clima.
Ci
sono ragioni astrofisiche e astronomiche, oltre a quelle atmosferiche.
Dire che la responsabilità sia tutta antropica
è un’affermazione che non trova riscontro nelle conoscenze attuali della
climatologia, una disciplina relativamente giovane, nella sua infanzia. E non
consente questo tipo di previsioni”.
E però
le immagini arrivate dalla Sicilia nei giorni scorsi, le alluvioni e i fenomeni
meteorologici così estremi, il ciclone Apollo, ci ricordano che qualcosa sta
accadendo e che qualcosa bisogna fare.
Oltre
a questo, resta il fatto che le conclusioni a cui giungono le Nazioni Unite si
appoggiano sull’analisi di migliaia di studi.
Dove
avrebbero sbagliato?
“Quelli dell’Ipcc sono scenari che derivano
dai loro modelli e non possiamo basare tutte le nostre scelte su studi in cui
gli effetti delle nubi, dell’aerosol fuori nube, dei gas poliatomici e così
via, vengono parametrizzati in modo grossolano.
E
dunque – spiega il climatologo – gli scenari che ne derivano non possono essere
accettati come previsioni in senso stretto, come accade invece con la
meteorologia.
È questa la sostanza del problema dal mio
punto di vista”.
A
Glasgow non saranno di certo contenti di leggere queste parole, perché seguendo
la prospettiva descritta da Prodi non si può che concludere che la Conferenza
sul clima non porterà particolari benefici.
È
questo che intende?
“Con quelle basi, la Cop 26 non è utile.
E
anche questa, si vedrà, è destinata al fallimento. Da cittadino leggo i
giornali e non è difficile prevedere che finisca come in passato”.
Il fisico dell’atmosfera si riferisce al fatto
che, per esempio, Putin non sarà fisicamente in Scozia.
E
salvo ripensamenti dell’ultima ora non ci sarà nemmeno il presidente cinese Xi
Jinping, che col passar dei mesi ha più volte annunciato piani e svolte green,
ma pare aver snobbato il meeting internazionale, un’assenza significativa.
E si
capisce bene che senza la principale responsabile delle emissioni di C02, circa
il 28 per cento, ogni accordo non potrà essere troppo efficace.
Per dire, l’Europa intera produce solo l’8-9
per cento delle emissioni globali.
“Ci
sono delle conseguenze enormi andando su questa strada”, dice ancora Prodi: “Io
vorrei limitarmi a considerazioni di carattere climatologico, sarebbe opportuno
considerare di fermare questo treno della Cop e ripartire su un altro aspetto,
ben più ampio:
la tutela e la salvaguardia del pianeta, è su
questo che bisogna trovare una convergenza mondiale”.
Ci
spieghi meglio:
“Ciò che minaccia l’ambiente planetario si può
calcolare, al
contrario dell’attribuzione antropica del cambiamento climatico.
L’aumento della popolazione, la qualità
dell’aria, dei terreni e dei fiumi, la quantità di metalli pesanti presenti
negli oceani sono tutti fenomeni misurabili e incidono sul pianeta.
Bisognerebbe valutare tutte queste cose e
andrebbe rivisto l’intero concetto di benessere sulla base di queste
considerazioni”.
Messa
in questi termini però, sembra che alcune osservazioni siano sovrapponibili a
quelle dell’Onu, alle prerogative più diffuse sulla questione climatica.
“È proprio questo il punto, ci sono cose che
coincidono, certamente. Io – sottolinea Prodi, e lo fa con una punta di
amarezza – sono contrario all’estremizzazione tra catastrofisti e negazionisti,
che è una cosa assurda”.
E
allora dove sta il problema, perché è così difficile ritrovarsi su un punto
comune?
“Le
faccio un esempio: se lei pensa che le alluvioni, gli eventi estremi, siano in
aumento e per questa ragione decide di alzare il livello degli argini dei fiumi, fa un intervento
che comporta certi costi.
Se
invece decide di investire sulla salvaguardia dell’ambiente intero fa degli
altri interventi”, risponde il professore, accusando insomma una visione troppo
parziale del problema, troppo appiattita sulla lotta alla CO2.
Qualcuno
potrebbe obiettare, dicendo che comunque la questione dei combustibili fossili
e delle emissioni non può essere ignorata.
“Non
lo nego assolutamente, anzi è proprio il mio mestiere quello di vedere come
l’attività umana possa influenzare il clima.
Ma
questo si somma ad altre variabili come le caratteristiche delle stesse nubi o
la radiazione solare che arriva sulla superficie terrestre.
Ma da
qui a quantificare esattamente l’effetto umano, ce ne passa”.
Se ne deduce, dal ragionamento di Prodi, che
rinunciare al modello industriale che conosciamo in maniera così drastica non
sia necessariamente la soluzione migliore, considerati gli effetti di scelte
così radicali, che potrebbero non essere subito assorbite dai sistemi su cui
intervengono.
Su
questo punto, il climatologo fa due tipi di considerazioni, tecniche e
sociali-economiche.
Da una
parte ci sono strumenti ancora non del tutto esplorati nell’abbattimento delle
emissioni industriali:
“Si
pensi agli scrubber per l’abbattimento degli affluenti industriali, che hanno
una buona efficacia, agli abbattitori elettrostatici e ai filtri a maniche, che
lavorano sulla cattura aerodinamica delle particelle.
Ma siamo ancora a un uso un po’ rudimentale di
tali conoscenze, c’è spazio per una grande ricerca in questo campo.
E anche nella chimica del terreno si possono
fare miglioramenti.
Dobbiamo
sfruttare il progresso e la tecnica”.
Dall’altra
“c’è il sospetto che le transizioni troppo rapide possano provocare scossoni al
sistema economico, con effetti drammatici a livello sociale.
Ripeto:
va cambiata la strategia generale, ma di questo cambiamento fa parte anche la
gradualità.
Ci
sono delle strade che possono essere percorse, anche quella delle energie
rinnovabili (che pure hanno dei costi e dei limiti), ma tenendo sempre conto
delle conseguenze di ogni decisione”.
Nel
frattempo, sebbene gli ambientalisti più estremi ritengano sempre troppo tenue
l’atteggiamento di ogni governo, qualcosa è stato realizzato e altro potrebbe
arrivare, in particolare in Europa:
il
Green deal europeo, le proposte di “Fit for 55” della Commissione, la legge
sulla neutralità climatica, oltre alle promesse di un “Fondo sociale per il
clima”.
Ha
ragione Greta Thunberg quando dice che è tutto “bla bla bla”?
“Quello che può fare l’Unione Europea
è solo dimostrativo, se confrontato all’economia globale.
L’Europa deve mettersi alla guida di una
trasformazione vera e basata, come ho detto prima, sulla salvaguardia
dell’intero ambiente planetario”.
In
questo senso, Prodi sembra andare anche oltre Greta e Fridays for future:
“Mi
sembra un po’ assurdo farsi dettare legge da una ragazza che non ha le
competenze.
Intendiamoci:
va benissimo l’attivismo e l’entusiasmo dei giovani, ma andrebbe indirizzato
nella direzione giusta, che non è quella appiattita sulla CO2 o sulle frasi fatte”.
E
quale sarebbe invece?
“Intanto,
iniziare nelle scuole a studiare la storia del pianeta terra, che darebbe ai
più giovani una formazione sulle nostre origini, sul come l’umanità nella sua
evoluzione ha interagito con il pianeta.
Una preparazione che deve portare anche
all’amore e all’interesse per la cosiddetta scienza dura.
È uno
sforzo di conoscenza che richiede grande sacrificio, ma che permette anche di
fare critiche più specifiche, di andare oltre gli slogan”.
Il
riscaldamento globale,
la
guerra e la riumanizzazione.
Greenreport.it
– Adolfo Santoro – (5 Aprile 2022) – ci dice:
Un
atteggiamento predatorio verso la natura ha avuto conseguenze che sono sotto
gli occhi di tutti.
Come
le menti avvedute dicono, la guerra in Ucraina è una svolta: segna la fine del
precedente millennio e di tutte le sue ideologie e l’inizio di una possibile ri-umanizzazione
o di una catastrofe finale.
La
sfida per l’uomo è quella di rifondarsi nella propria interiorità, nella
propria relazionalità, nelle proprie istituzioni e, come dice Buddha, nei
“mezzi di sostentamento”.
Deve
essere attivato un processo di pace a tutti i livelli: la prevalenza di un
atteggiamento predatorio verso la natura ha avuto conseguenze che sono sotto
gli occhi di tutti, ma tutti ritornano, dopo un istante, a nutrirsi del
pensiero unico.
Delle
guerre noi viviamo solo alcune conseguenze: la dipendenza energetica, la
carenza di cibo, le ondate migratorie; c’è un’altra guerra, ancora più sottile
e pericolosa e comunque connessa all’atteggiamento predatorio proprio
dell’uomo-animale, che è quella del riscaldamento globale.
La
rifondazione dell’uomo deve cominciare dall’Onu, a cui deve essere restituita
la sua piena funzione di contenitore e mediatore dei conflitti:
un Onu
che faccia a meno dei “membri permanenti” del suo “Consiglio di sicurezza”.
La rifondazione deve passare attraverso gli
stati sovrani (comprendenti anche USA, Russia, Cina, Francia, Inghilterra,
India, Israele, Iran etc.), che attuino una denuclearizzazione complessiva, un
disarmo complessivo, un’inversione di tendenza limitando i modelli “energivori”
(un termine che gli industriali italiani che facevano affari con la Russia
amano usare) e diffondendo processi virtuosi nella ricerca delle fonti
energetiche.
La rifondazione
deve passare attraverso il risveglio delle coscienze di ognuno, attraverso il
ritorno ad abitare i borghi, che dovrebbero essere il luogo di un’economia
comunitaria fondata anzi tutto sull’agricoltura, sull’autonomia locale delle
fonti energetiche e sul riciclaggio, sostenuta da processi regionali, nazionali
e di Comunità Europea politicamente unitaria.
Il
risveglio delle coscienze deve sostanziarsi in un No alla guerra, che però, in
questo momento coincide col No al nucleare indiscriminato e Sì alla ricerca di
fonti energetiche alternative.
È
stato effettuato, ad esempio, l’abbattimento dei costi di produzione
dell’idrogeno del 7.000% conseguente all’uso di aerogel che sostituiscono nel
processo di produzione l’azoto e il gas di ammoniaca all’ossigeno.
Il
Decreto Legge del 1/3/2022 sta segnando la via verso la sburocratizzazione
delle istituzioni: permette che ognuno di noi possa sistemare nei propri spazi
di vita i fotovoltaici e solari senza la farraginosa burocratizzazione degli
“uffici preposti”.
Questo
Decreto Legge apre ovviamente ad alcune domande, che, in questa sede,
riguardano anzi tutto il nostro “piccolo”:
Si
deve aspettare la guerra perché i Comuni, le Regioni e la Comunità europea
smantellino, ad esempio, i capannoni ricoperti di eternit nella zona
industriale di Portoferraio?
Si deve aspettare la guerra perché questi
livelli istituzionali facciano un piano energetico sulle rinnovabili, che
comprenda anche l’apposizione di apparecchiature green sui balconi, sui tetti e
negli spazi aperti di propria competenza?
Si
deve aspettare la guerra perché siano costruiti sistemi di raccolta dell’acqua
piovana? E mi fermo a questi tre esempi.
Mi
sembra che l’interazione faccia a faccia tra cittadini e tra cittadini e
istituzioni (ad esempio mediante regolari appuntamenti su piattaforme
digitali), accanto ad un’informazione costante e non di parte, sia lo strumento
fondamentale per il risveglio delle coscienze e contro l’isolamento dei
decisori nei “palazzi”.
È
utopia quello che ho scritto?
Sì,
almeno finché le coscienze sono addormentate!
Per
conto mio mi limito a fare quello che posso e so fare: per il risveglio delle coscienze sto
scrivendo e sto proponendo un percorso in piccoli gruppi, che si interfacci in
analoghe iniziative virtuose in ambito nazionale ed europeo.
(Adolfo
Santoro-Psichiatra).
La FDA
ha annunciato l’Approvazione
della
“Carne Coltivata in Laboratorio”
dalla
Società Upside Foods.
Conoscenzealconfine.it
– Redazione - (21 Novembre 2022) – ci dice:
Indovinate
chi c’è dietro ai finanziamenti di UPSIDE?
Molte
persone “attente” all’ambiente ritengono che la carne coltivata in laboratorio
possa essere un’alternativa etica alla carne convenzionale.
Può risolvere più problemi contemporaneamente
come le richieste alimentari della popolazione in aumento, aiutare l’ambiente e
consumare carne cruelty-free.
Poiché
è coltivata in laboratorio, il suo contenuto di grassi può anche essere
modificato rendendolo più nutriente.
La
carne coltivata in laboratorio è un’alternativa alla carne convenzionale.
Viene coltivata in laboratorio attraverso il processo
di coltura, in cui una biopsia viene prelevata da un animale vivo e le cellule
staminali vengono separate dalle cellule muscolari.
Queste
cellule staminali sono coltivate in un mezzo che fornisce loro i nutrienti
necessari per la proliferazione.
Le
cellule staminali si moltiplicano e si trasformano in cellule muscolari e
cellule adipose, formando infine carne.
La carne coltivata in laboratorio è anche
chiamata carne coltivata, carne a base di cellule, carne artificiale, carne
coltivata e carne di design.
Ma
veniamo al dunque.
Il 17
novembre 2022, la FDA ha autorizzato e approvato la società a vendere la sua
carne di pollo coltivato al pubblico.
Questo rende Upside Foods la prima azienda a
ricevere l’approvazione per introdurre sul mercato prodotti a base di carne
coltivata.
In
quello che è stato riconosciuto come il più grande round di finanziamento nel
settore della carne coltivata fino ad oggi, UPSIDE Foods (ex Memphis Meats) ha
appena concluso la sua serie C raccogliendo $ 400 milioni e una valutazione di
oltre $ 1 miliardo.
Questo
investimento evidenzia il costante interesse per l’industria della produzione
alimentare sostenibile, da parte degli investitori.
Questo
round di Serie C è stato co-guidato da Temasek, una società di investimento
globale con sede a Singapore insieme all’Abu Dhabi Growth Fund (ADG), un nuovo
investitore.
Altri
nuovi investitori includono Baillie Gifford, John Doerr, Givaudan, SALT fund e
Synthesis Capital.
A loro
si uniscono i nomi di spicco della tecnologia e degli investimenti come
Cargill, SoftBank Vision Fund 2, Cercano Management, CPT Capital, Dentsu
Ventures, l’investitore globale EDBI con sede a Singapore, Kimbal e Christiana
Musk, Norwest Venture Partners, Indie Bio di SOSV e Tyson Foods e… (rullo di
tamburi) il solito “beniamino” Bill Gates (upsidefoods.com/about/)
UPSIDE
Foods utilizzerà i fondi raccolti per costruire il suo impianto di produzione
commerciale con una capacità annuale pianificata di decine di milioni di libbre
di prodotti a base di carne coltivata.
Questa
struttura avrà la capacità di produrre qualsiasi specie di carne, sia macinata
che intera, con l’attenzione iniziale sul pollo.
I
fondi aiuteranno a costruire una solida catena di approvvigionamento per i
componenti critici dell’alimentazione cellulare, nel tentativo di ridurre i
costi e consentire una maggiore scala.
Inoltre,
UPSIDE Foods istruirà ulteriormente i suoi consumatori, investirà in ricerca e
sviluppo per la prossima generazione di prodotti a base di carne coltivata e
continuerà a far crescere il suo team.
Ma la
Carne coltivata in Laboratorio è Sana?
Come
possono questi composti essere prodotti su scala industriale e come si può
garantire che nessuno di essi avrà effetti negativi sulla salute umana a breve
e lungo termine?
I
sostenitori della carne in vitro sostengono che sia più sicura della carne
convenzionale, basandosi sul fatto che la carne coltivata in laboratorio è
prodotta in un ambiente completamente controllato da ricercatori o produttori,
senza alcun altro organismo, mentre la carne convenzionale è parte di un
animale a contatto con il mondo esterno.
Tuttavia,
possiamo sostenere che gli scienziati o i produttori non sono mai in grado di
controllare tutto e qualsiasi errore o svista può avere conseguenze drammatiche
sulla salute di chi mangia tali prodotti.
Effetti
potenzialmente sconosciuti per la Salute.
Non si
è a conoscenza di tutte le conseguenze della coltura della carne per la salute
pubblica, poiché la carne in vitro è un nuovo prodotto.
Alcuni
autori sostengono che il processo di coltura cellulare non è mai perfettamente controllato
e che possono verificarsi alcuni meccanismi biologici inaspettati.
Ad
esempio, dato il gran numero di moltiplicazioni cellulari in atto, è probabile
che si verifichi una certa dis-regolazione delle linee cellulari come accade
nelle cellule tumorali.
La
carne coltivata è ancora un prodotto nuovo e le sue conseguenze sulla salute
pubblica sono sconosciute.
Gli
effetti esatti rimangono sconosciuti.
(neoprometheus.org/la-fda-ha-annunciato-lapprovazione-della-carne-coltivata-in-laboratorio-dalla-societa-upside-indovinate-chi-ce-dietro-ai-finanziamenti-di-upside/).
La
Notte in Balia di Violenti e “Fomo”.
Conoscenzealconfine.it
-Marcello Veneziani – (20 Novembre 2022) - ci dice:
(FOMO
indica una forma di ansia sociale caratterizzata dal desiderio di rimanere
continuamente in contatto con le attività che fanno le altre persone, e dalla
paura di essere esclusi da eventi, esperienze, o contesti sociali gratificanti.)
Ho
conosciuto dal vivo l’inferno notturno della movida. Era passata la mezzanotte,
ero a Roma, in Trastevere, mi stavo ritirando e sono stato travolto da un
flusso umano o forse inumano.
Poteva
finire come a Seul, tragicamente, o come le sere precedenti a Trastevere, con
una maxi rissa di tutti contro tutti, senza un vero motivo. Mi sono trovato
altre volte in queste fiumane notturne, ma l’ultima è stata peggio delle altre.
Ti
sentivi privato della tua libertà, completamente trascinato dalla marea umana,
in balia delle orde, costretto in minimi varchi come rigagnoli o colate di
lava. Ti sentivi esposto al pericolo, inerme, privato della tua personalità,
l’incolumità minacciata non da singoli ma da flussi e maree, reazioni a catena,
effetti virali.
Qualcuno
invoca le forze dell’ordine ma sarebbero sommerse e schiacciate, e poi cosa
dovrebbero fare, caricare urbi et orbi? Occorrono divieti, accessi limitati,
fasce orarie consentite, ma non è di ordine pubblico e schiamazzi notturni che
voglio parlare.
Bensì
di quell’umanità compressa e alterata.
Ho
provato a vedere in faccia i ragazzi che partecipavano a questa festa coatta, a
captare qualche parola dei loro discorsi.
La
calca era tale che perfino la loro attività primaria era interdetta, nessuno
aveva il telefonino in mano, non avrebbero potuto usarlo e nemmeno ascoltare ed
essere capiti.
Vivevano
in diretta la realtà, brandivano un bicchiere o una bottiglia come tessera
d’inclusione alla movida in corso.
Ho
percepito due specie diverse di viventi in quella bolgia, una inoffensiva e
l’altra, più ristretta, decisamente minacciosa, aggressiva.
Questi
ultimi sciamavano in branchi, avevano tatuaggi di setta, o erano vestiti allo
stesso modo, non pochi erano palestrati; c’erano branchi biancovestiti e altri
nerovestiti, come in una specie di gioco degli scacchi in formato bellicoso.
Guerre
da passeggio, senza movente.
Appartenevano
a contrade di non luoghi, periferie scontente e rancorose.
Piovuti
da chissà quale Scontentopoli sub-urbana.
Cercavano
il pretesto per picchiare, prendersela con qualcuno e ingaggiare una battaglia
contro un nemico gratuito, improvvisato.
Non
c’erano più nemmeno le motivazioni conflittuali di un tempo: bande politiche
rivali, gruppi estremisti o fondamentalisti o anche tifoserie avverse,
campanilismi agguerriti, e nemmeno volontà di vendicare una ragazza molestata;
no,
c‘era una totale aggressività che si esercitava su obbiettivi casuali, scelti
dal capo branco o dal “sommelier” del gruppo come bersagli da pestare.
Diventi
amico o nemico per motivi del tutto fortuiti, occasionali, psicolabili.
Ho
visto sorgere un paio di maxi-risse tra pittbull umani, a pochi metri da me,
senza poter far nulla, né dividerli né allontanarsi, imbottigliati nel flusso.
Ti
accorgi di una carica di violenza e frustrazione a lungo accumulata che cerca
di notte una miccia per esplodere e divampare; quell’esuberanza di energia che
ieri si sfogava nella guerra, nell’esercitazione atletica o nella lotta
politica tra fazioni.
E ora invece
è cieca, immotivata, nichilista, pura eruzione eccitata da alcol e sostanze o
solo dal contagio situazionista, dal cortocircuito tra folla e narcisismo,
istinto animale di sopraffazione e spettacolo di potenza.
Intorno
a questi facinorosi in cerca di rissa gratuita per rendere memorabile la
nottata, c’erano masse di ragazzi che tentavano minimi esercizi di socialità e
perfino di conversazione e corteggiamento, schiacciati dalle fiumane in
transito e da altri gruppi attigui.
Li ho
guardati in faccia, erano meno alieni dei guerriglieri del nulla: anzi molti
erano i ragazzi della famiglia accanto, potevano essere tuoi figli o nipoti, li
immaginavi fuori dalla mischia, nella vita corrente, a studiare e a lavorare.
Captavi
il gergo della contemporaneità, le espressioni ormai rituali e tribali, la
povertà lessicale e le iperboli tipiche dei ragazzi.
Ti
sorgeva insistente la domanda: ma perché stanno qui, perché farsi del male, chi
glielo fa fare di passare così male la loro serata-nottata; cosa li spinge a
passare ore in piedi, in questo vicolo sporco e angusto, schiacciati tra il
muro e la folla, mentre a due passi da loro minacciosi alterchi rischiavano di
degenerare da un momento all’altro in un parapiglia generale.
Che
relazioni puoi intavolare, che cosa puoi dirti in quel marasma?
Ho
capito allora che esiste davvero quella sindrome denominata “Fomo” (fear of missing out) ossia paura di essere tagliati
fuori, esclusi; quest’ansia di essere inclusi, questa ossessione di essere
connessi alla marea del presente, nel momento e nel luogo prescritti.
Paura
di perdersi qualcosa, di non essere al passo dell’ora. Ho visto in quella
sindrome un estremo conato di narcisismo e inclusione, che sfocia nel desiderio
oceanico di sciogliersi nel magma indifferenziato dell’Istante Collettivo.
Spariscono
il passato, il futuro, l’interiorità e l’eterno, resta solo l’individuo
momentaneo confluito in quella marea umana che sente di essere dentro la
corrente giusta del tempo e del mondo.
Guai a
mancare al flusso, significherebbe non vivere, non partecipare; ci sono luoghi
che diventano santuari del momento e mete di pellegrinaggi:
localini
insignificanti, spacci di bevande e non solo, ritrovi trendy, paninerie e
street food, eletti a luoghi obbligati dell’inclusione.
Vi
risparmio la solita morale dei vecchi sui giovani, ogni generazione sbaglia a
modo suo.
Solo
un dubbio: siamo davanti a un trailer del post-umano prossimo venturo?
(Marcello
Veneziani- marcelloveneziani.com/articoli/la-notte-in-balia-di-violenti-e-fomo)
Michael
Walzer: "Noi
progressisti
siamo
lontani dalla gente".
Repubblica.it
- 19 NOVEMBRE 2022- Paolo Mastrolilli intervista Michael Walzer – ci dicono:
Intervista
al filosofo americano che interviene sul dibattito dedicato alla crisi della
sinistra, in Italia e non solo.
NEW
YORK. Il filosofo di Princeton Michael Walzer è impenitente: "Sono un vecchio di sinistra, e
penso che lo sforzo di Biden per rianimare le politiche del New Deal sia la
strategia giusta.
In
tutto il mondo i progressisti dovrebbero puntare sulle proposte
socialdemocratiche, per riconquistare il loro elettorato naturale e la classe
media".
In
Brasile hanno vinto e negli Usa l'hanno scampata, ma i progressisti hanno perso
in Italia, Israele, Svezia.
"È
più di un momento, un lungo periodo di minacce dalla destra.
C'erano
molti segnali che stava arrivando e cause multiple, ma è soprattutto una
rivolta della gente di questi paesi che sente ignorata, abbandonata,
disprezzata dalle élite istruite, illuminate e presumibilmente progressiste.
Io
sono cresciuto in una città industriale della Pennsylvania, e ora vivo a
Princeton, una delle zone più ricche negli Usa.
La mia
città, dove le acciaierie sono morte, ha votato 2 a 1 per Trump, mentre
Princeton 8 a 1 per i democratici.
La sinistra ha grande successo tra la classe
media e alta, ma ha perso il suo elettorato naturale".
Come è
successo?
"Sherrod
Brown è un senatore democratico dell'Ohio.
Usa il
linguaggio della classe lavoratrice, promuove i suoi interessi, ed è stato
rieletto.
Quindi
è possibile comunicare con questi elettori e tenerli, ma serve una combinazione
di tutte le nostre visioni illuminate su minoranze, genere, affermative action,
immigrazione, più l'impegno per la gente ordinaria e i problemi del Paese.
I
democratici se ne sono dimenticati.
Clinton
ed Obama hanno visto il declino dei sindacati, forza essenziale per mobilitare
alle urne i nostri elettori, e non hanno fatto nulla".
Perché
era finita un'era, o non hanno capito le conseguenze?
"Diversi
opinionisti politici sostenevano che la combinazione tra le élite istruite
della classe alta e media, e le minoranze, produceva una maggioranza permanente
per i democratici, che non dovevano più preoccuparsi del cuore industriale del
Paese".
Ora
anche gli ispanici li tradiscono. Perché?
"Il
dibattito per togliere i soldi alla polizia non ha aiutato i democratici tra
neri e ispanici, che soffrono più di tutti la criminalità.
Era
prevedibile, ma noi dell'élite progressista eravamo troppo orgogliosi del
nostro illuminamento per capirlo.
Abbiamo
perso il contatto con la nostra gente, quella per cui marciavamo. Ora il 15%
degli uomini neri vota repubblicano".
Quando
Hillary attaccava i "deplorabili", si riferiva in realtà a gente
appartenuta alla base democratica?
"Esatto,
delusi della classe media e bassa.
I
repubblicani ne hanno approfittato, presentandosi come partito dei lavoratori.
Non è vero, se guardi le loro politiche e gli interessi di questa classe, ma è
vero che i democratici l'hanno persa".
Biden
ha vinto nel 2020, e si è salvato alle midterm, perché ha saputo riconnettersi
con questa base?
"Certo.
Il suo programma iniziale, “Build Back Better”, era un revival del New Deal,
esattamente ciò di cui avevano bisogno i democratici per sanare le
disuguaglianze sfruttate dal Gop.
Ma
sono riusciti a farne approvare al Congresso solo una parte leggera, e poi sono
arrivate l'inflazione e la guerra in Ucraina.
Negli
Usa, come in altri paesi, le chiavi sono immigrazione e nazionalismo.
I repubblicani non sostengono la classe
lavoratrice come tale, ma come membri di una nazione in declino che ha bisogno
di essere rifatta grande.
Giocano
sulla nozione che queste persone sono i veri americani, svedesi, italiani, e
stanno perdendo.
Obama non
aveva prestato loro alcuna attenzione".
Il
neoliberalismo è stato un errore strategico o filosofico?
"Entrambe
le cose. Ha giustificato l'indifferenza verso i "deplorabili".
Ha fatto sembrare che le politiche economiche giuste,
che avrebbero pagato nel lungo termine, erano radicalmente diverse dal New
Deal, ossia la versione americana molto edulcorata della
socialdemocrazia".
I
democratici avranno sbagliato a pensare che la coalizione tra élite e minoranze
li avrebbe fatti vincere, ma in Italia i numeri per questa coalizione non
esistono proprio.
"Non
ho idea di cosa avesse in mente la sinistra italiana, quale strategia.
Osservando da lontano, mi pare che anche da voi abbiano prevalso l'immigrazione
e l'idea che i veri italiani vengano rimpiazzati, accusando i progressisti di
essere più attenti agli immigrati che alla loro gente".
Mussolini
era socialista, ma poi si era imposto grazie ai "deplorabili"?
"Gli
studi del voto in Germania tra gli anni '20 e ''30 dimostrano che il sostegno
più forte per i nazisti era venuto dalla classe media e bassa, e dal
Lumpenproletariat.
I socialdemocratici avevano tenuto la classe
lavoratrice, ma i nazisti avevano conquistato molti nuovi elettori, come Trump.
Gente non integrata nei partiti, i sindacati,
la società civile.
Persone
pericolose, perché quando sono in difficoltà guardano ad un salvatore, un
führer. Non mi sembra però che Meloni somigli a un führer".
Biden
ha puntato sulla minaccia alla democrazia. È vera?
"C'è
una minaccia per la democrazia Usa, Biden ha ragione.
Una fazione nel Partito repubblicano è
neofascista, o certamente vicina a quel genere di politiche, e il resto del
partito ha paura di sfidarla.
Non
credo che il leader al senato McConnell sia fascista, ma è uno di quei
conservatori che pensano di poter avanzare i loro interessi con l'aiuto di
questa gente della destra estrema.
Invece
è la destra che avanza ed è molto pericolosa.
Lo
stesso era successo in Germania, quando i conservatori pensarono che potevano
usare Hitler.
È pericoloso anche in Israele.
Negli
Usa la destra ha catturato la Corte Suprema e in Israele cercherà di
distruggerla.
Non
puoi avere una democrazia costituzionale, impegnata per i diritti e le libertà
civili, senza un sistema giudiziario forte ed indipendente. Ciò è già sotto
attacco in Polonia, Ungheria, e non so cosa accadrà in Italia".
Quali
rimedi suggerisce ai progressisti?
"Sono
un vecchio di sinistra, e penso che lo sforzo compiuto da Biden di rianimare le
politiche del New Deal sia la strategia giusta.
Avrebbe
bisogno di ciò che aveva Roosevelt, ossia di una forte maggioranza al Congresso
che non avrà.
Però
questo è il programma su cui fare campagna.
Un messaggio economico molto forte: che i
progressisti sono i veri guerrieri per una classe media e lavoratrice sempre
più vulnerabile.
Pensate
che per molti elettori di Trump il secondo candidato preferito è Sanders".
Quindi
nel 2024 i democratici dovrebbero andare con Sanders?
"Presumo
che guarderanno a un moderato. Forse qualcuno tipo la governatrice del Michigan
Whitmer, una donna forte del Midwest con basi solide nella classe lavoratrice.
Qualcuno del genere, spero".
Perché
se vai troppo a sinistra perdi quello che Arthur Schlesinger definiva il
"centro vitale" e vieni sconfitto?
"Sì.
Non vuoi identificarti troppo con "defund the police" o le” affirmative action”.
C'è
molto da dire in difesa di queste posizioni, ma non sono politicamente
praticabili.
Puoi
difendere queste politiche e la gente vulnerabile, incluse le minoranze, solo
se hai un messaggio forte di socialdemocrazia all'antica.
Continuo
a crederlo".
Il
multiculturalismo è il nuovo
dogma per essere moderni e progressisti.
Ilpiacenza.it
– Carlo Gianelli – (6 settembre 2022) – ci dice:
Non
valgono più le tradizioni.
Una
visione legata al passato diventa una colpa di anti modernità e quindi di
conservatorismo retrogrado.
Chi
non lo capisce non comprende la società che cambia ed in cui niente è
considerato immutabile e certo in quanto tutto invece è in movimento.
Non vi
sto parlando di Eraclito e della sua filosofia del “panta rhei,” dove tutto
scorre, ma solo di un nuovo modo di concepire la realtà.
La
quale cambia non tanto e solo per sé stessa, ma per il desiderio dell’uomo di
farla cambiare.
Dunque
non in base ai diritti naturali e civili conquistati dopo anni di lotte
politiche militari e sociali, ma secondo i desideri individuali, in grado non
solo di modificare la realtà, ma di sostituirla con quella immaginata.
I desideri dicevo che sono comuni a tutti e
per questo assai dissimili fra loro.
Ma appunto per questo tutti degni di esistere
e di essere accolti nel nuovo immaginario della moderna mentalità sociale.
Il
motivo di questo modo di intendere le cose appoggia sul multiculturalismo.
Poiché
nessuno può e vuole essere una monade, intesa come sosteneva Leibniz, al pari
di entità autonome, perché in questo caso la soluzione potrebbe portare
all’infelicità.
Infatti essendo l’uomo un animale sociale, si
cerca di fare del tutto perché non si isoli.
In
questo modo ecco comparire il desiderio di soddisfare la vocazione del mettersi
insieme, come tentativo di voler essere felici, proprio perché si vive in comunità.
Ma
poiché il mondo grazie alla scienza è diventato piccolo, il massimo della
vocazione alla felicità si raggiunge aprendo i confini.
Anzi abolendoli.
Tutti
allora diventano il tutto e non esistono più differenze che renderebbero questo
stesso tutto non in grado di soddisfare il bisogno di mescolare lingue,
tradizioni, abitudini, religioni, in sintesi usi e costumi differenti.
Compresi
il modo di vestirsi e di relazionarsi con il diverso apparente.
Che in
realtà è solo, per i cultori modernisti, un nostro simile con altre
caratteristiche ed abitudini.
Questo
modo di essere, lo si definisce multiculturalismo, che appunto nel termine
cultura pone il suo accento per giustificare ogni differenza.
Dunque
fra culture diverse, ognuno perde la propria storia, ma in compenso ne ricava
altre cui confrontarsi e se il caso sottomettersi.
In questo modo si generano due obiettivi.
Da una
parte la nascita di quella forma ibrida di comportamenti che in sostituzione
del diritto, sostituito dai tanti diritti, giustifica ogni posizione e
convinzione individuale.
Che,
come ho già detto, sarebbe meglio chiamare desideri, tesi a raggiungere la
felicità basata sulla mancanza di un diritto oggettivo.
Il
quale pertanto diventa il trionfo dell’invenzione surreale, in termini di
rendere lecita ogni posizione individuale.
Dall’altra
parte crea nella società una frattura fra questa parte aperta ad ogni forma di
integrazione e quella invece restia, ancora legata ai vecchi schemi.
Dove
si ritrovano le antiche usanze ed i vecchi modelli sociali in grado ancora di
leggere le cose interpretandole secondo i principi del bene e del male.
In termini sociali e politici i primi
sostenitori del multiculturalismo, sono detti progressisti mentre i secondi
sono i cosiddetti perduti.
Termine che non ha nulla da vedere con i perduti
scapigliati, che anzi erano considerati tali per non volere seguire i modelli
dominante della società borghese. Non c’è da stupirsi.
Infatti poiché tutto cambia anche la lingua
segue lo stesso corso e le parole si trasformano fino a raggiungere significati
opposti.
Ma
anche questo non basta.
Per
rendere anche la lingua ibrida e neutra, il trionfo del multiculturalismo si
esprime attraverso la consonante X messa alla fine della parola.
In
questo modo il genere si elimina e la confusione aiuta a non fare il confronto
col passato ormai passato di moda.
Ecco
allora che siamo arrivati al sesso.
Inutile dire a questo punto che corpo e mente
sono la stessa cosa, perché il primo influenza la psiche e questa a sua volta
diventa la forma pensante del secondo.
Troppo
schematica questa teoria che ha dalla sua perfino il dato anatomico.
La
dissociazione mente corpo deve diventare allora il nuovo credo, altrimenti il
desiderio dove va a finire?
Dunque la stessa nascita non deve essere
condizionante.
Il
sesso non esiste, ma si crea strada facendo.
E per strada si intende la pretesa da parte
dell’uomo moderno di non essere condizionato dallo schema corporeo. Il nuovo
comandamento infatti è per ogni uomo quello di crearsi e di ricrearsi non
attribuendo più alla natura la capacità di determinare il sesso.
In
attesa infatti della ingegneria genetica, anche i cromosomi potranno essere
modificati e cosi attraverso l’intervento farmacologico sulla pubertà, gli
stessi ormoni sono destinati a modificarsi.
Soprattutto in causa è il testosterone che
come si sa è l’ormone maschile. Destinato a subire il primo affronto da parte
della multiculturalità che tollera a mala pena il padre, considerato troppo
ancorato al passato e quindi poco consono ad una società propensa a rendere
tutto fluido ed interscambiabile.
Ed in
cui la mascolinità diventa il primo obiettivo da eliminare a favore di una
femminilizzazione spinta.
In questa fluidità generale, la migrazione
soprattutto se incontrollata contribuisce a rendere il processo in corso ancora
più sostanziale.
Città
e paesi sempre più formati da etnie diverse, costituiscono il nuovo modo di
collegarsi con il diverso.
Rendendo
ognuno meno ancorato alle proprie origini e più interessato (olente o nolente)
ai nuovi modelli di cultura e di pensiero. In questo modo la parte più colpita
dal nuovo integralismo è la verità.
Questa
non esiste perché non deve esistere Fra aletheia e doxa, ossia fra verità
secondo i greci e l’opinione sempre secondo la cultura classica, prevale
quest’ultima.
Fra
certo ed incerto si preferisce dunque abbandonare ogni giudizio di merito,
essendo già scontato l’esito.
L’unico che regge fra il certo è il
multiculturalismo che vuol dire essere moderni e progressisti. Il resto è
pattume.
Una
perversa miscela di populismo, razzismo e conservatorismo.
Con in più il solito fascismo evocato dai nuovi
epigoni della modernità sociale, aperta sì ma in una scatola di cartone. A proposito della verità sembra che
anche la Chiesa abbia qualche dubbio.
Parlare
all’uomo moderno infatti sembra più attrattivo che evocare l’Uomo della Croce.
Il
dolore infatti sembra non essere più contemplato nei desideri dell’uomo d’oggi,
che cerca, al posto della sofferenza, la felicità basata sulla
multiculturalità.
E questa non ha bisogno di ostacoli. Infatti
se il Verbo si è un tempo fatto uomo, oggi è l’uomo che si è fatto verbo,
mentre la croce scompare.
Perché
cambiare le parole
può
cambiare la società.
Indiscreto.org
- Francesca Anelli – (21/02/2020) – ci dice:
Le
parole sono importanti, perché confermano o combattono lo stato delle cose e le
convenzioni sociali.
A
volte cambiarle è necessario per modificare la realtà.
Invece di chiedersi “perché non dovrei usare
quel termine?”, dovremmo chiederci “perché dovrei usarlo? Che stato di cose
promuovo, facendolo?”.
Nelle
consuete sessioni di Q&A sul suo canale Instagram, l’attivista per la “fat
liberation Yrfatfriend” risponde sempre nello stesso modo a chi le chiede come
fare a capire se l’uso di una determinata parola o espressione è da ritenersi
accettabile o è meglio evitarlo per non recare offesa: “non chiederti se una cosa è
offensiva, chiediti se danneggia qualcun*”.
L’equivoco
alla base di gran parte del discorso pubblico sul linguaggio, specie quando
viene associato a “femminismo, politically correct e hate speech”, ha molto a che fare con la
sovrapposizione di concetti come sensibilità/suscettibilità personale e
posizionamento sociale, e soprattutto con il mancato riconoscimento del ruolo
della parola nel determinare e/o mantenere quest’ultimo.
Non
c’è bisogno di scomodare John Austin, che con il suo “Come fare cose con le parole” (1962) ha parlato per primo della
performatività del linguaggio, per rendersi conto che questo è in grado, oltre
che di descrivere, anche di plasmare la realtà:
basta
osservare
1) in che modo riflette le strutture di
potere che,
a sua volta, lo influenzano e
2) la presenza (e dunque anche l’assenza) di
certe espressioni in una lingua piuttosto che un’altra, specchio di sentire e
necessità evidentemente differenti.
È
indubbiamente significativo, ad esempio, il fatto che le slur colpiscano sempre e soltanto le
minoranze, o comunque soggetti a vario titolo oppressi, ed è forse altrettanto
significativo il fatto che non esista una traduzione diretta di slur nella lingua italiana – “epiteto dispregiativo” sembra essere la soluzione più
comprensibile, ma non ha né la stessa immediatezza, né la stessa iconicità
dell’originale inglese (laddove to slur indica la parlata biascicante tipica ad esempio di chi
assume molto alcol).
Termini
come fr*cio,
n*gro, tr*ia, sono slur perché
non sono semplicemente degli insulti, ma soprattutto dei meccanismi di rinforzo
di una struttura sociale che produce discriminazione a scopo auto-conservativo.
In
altre parole: l’esistenza stessa di una slur, e di contro la pressione per
bandirla, è sempre una questione di potere, più che di linguistica.
Non
c’è una slur
per “eterosessuale”, come non c’è per “bianco”, e non esiste neanche un equivalente
maschile di tr*ia:
sono parole coniate dall’oppressore per definire chi viene oppresso, e in
quanto tali non possono avere un corrispettivo che indichi la categoria stessa
che le ha create.
Tanto
più che questa “categoria” raramente – per non dire mai – si percepisce come tale, e certi
meccanismi linguistici (come il “neutro maschile” e il binarismo di genere
nell’italiano) non fanno che rafforzare ulteriormente l’idea che questa rappresenti la
condizione di default, o comunque privilegiata, dell’esistenza.
La
battaglia per rendere scandaloso, e dunque inaccettabile, l’utilizzo di certi
termini non è quindi una concessione alla suscettibilità di certi gruppi
sociali (assunto per altro intrinsecamente razzista/sessista) ma piuttosto il
tentativo di spostare l’ago della bilancia del potere e riconquistare agency
sulla parola incriminata, decidendo cosa farne in autonomia in quanto su* legittimi portator*.
Si può
quindi optare per la riappropriazione (come ha fatto la comunità queer
bolognese con frocia), per l’uso limitato ai membri del gruppo (n*gger nella comunità afroamericana, per
altro spaccata sull’argomento) o per la sua abolizione.
Esperienze
interessate alla dimensione (trans)femminista ed eventualmente queer del linguaggio come la scuola di
traduzione femminista canadese, il manuale Raccomandazioni per un uso non
sessista della lingua con cui Alma Sabatini introduceva il tema già negli anni
’80, fino alla linguistica lavanda, non vanno viste come forme di violenza nei confronti
della lingua, che per sua natura dovrebbe essere fluida e di “proprietà” del
parlante, ma piuttosto come risposte alla sua, di violenza: quella per cui “neutro” è diventato
“maschile”, e in cui il femminile, il diverso, il non binario, semplicemente
vengono messi a tacere.
Il
concetto di annientamento simbolico a cui faceva riferimento George Gerbner già
nel 1976, parlando
dell’impossibilità di esistere pienamente nel mondo sociale se non si è
rappresentat*, può infatti essere applicato non soltanto ai media, ma anche alla lingua
che parliamo tutti i giorni.
La sempre crescente attenzione al corretto
utilizzo dei pronomi personali nel mondo anglosassone, che ha portato al
riconoscimento di they come parola dell’anno 2019 da parte di Merriam-Webster, riflette la
necessità di fare spazio a identità non conformi che altrimenti non avrebbero
modo di esprimersi linguisticamente e, dunque, non godrebbero di
legittimazione.
Per
noi che ci esprimiamo nell’idioma di Dante e non godiamo quindi né di un genere
neutro né della tradizione di usare la terza persona plurale come indicatore di
“persona
dal genere non indicato”, invece, se non sei lei e non sei lui, semplicemente non
sei:
devi
necessariamente fare una scelta tra due alternative insufficienti,
ridimensionare la tua complessità e quindi, di conseguenza, rinunciarvi.
Per
intervenire su questo rapporto di forze, squilibrato a discapito di identità
“altre”, la lingua può (e deve), quindi, rappresentare un importante agente di
cambiamento:
l’asterisco
come de-marcatore di genere, per quanto non sempre pratico né l’unica possibile
soluzione (un’alternativa proposta è l’uso della “u”, che ha il vantaggio di
poter essere pronunciata ma che rimane ancora poco popolare), nasce proprio per
questa ragione – problematizzare la normalizzazione dei “due generi” e far emergere soggettività che non
si riconoscono nel binarismo – ed è per questa ragione che lo trovate anche
qui.
In
questo senso, il lavoro della traduzione transfemminista queer, che punta alla costruzione di una
lingua non binaria nonostante le resistenze di una struttura frutto di logiche
ormai superate (o almeno così dovrebbe essere), o quello di saggi come il
recente Femminili
singolari di Vera Gheno, sull’importanza di utilizzare il femminile per le categorie
professionali, è fondamentale per restituire la lingua al parlante, affinché
rispecchi le sue esigenze, inevitabilmente ( e fortunatamente) mutevoli.
In
fondo, come ricorda la stessa Gheno, non c’è bisogno che il* grammarnazi di turno si scaldi troppo:
la
lingua cambia, per l’appunto, in risposta a determinate necessità e non certo
indiscriminatamente.
Non è
un caso, infatti, che non ci sia alcuna domanda per declinare al maschile nomi
di genere promiscuo come la vittima, o al femminile il pedone, ma solo quelli
relativi a certe categorie professionali.
In questi casi, infatti, si tratta di dare
voce ad un femminile che è sempre esistito in potenza, come ingegnera o
magistrata, ma che non è mai stato utilizzato per ragioni storiche e/o
inclinazioni sessiste.
D’altronde,
se magistrata “ci suona male” è anche e soprattutto perché prima del 1963
nessuna donna italiana poteva svolgere questo lavoro e dunque “non esisteva”.
Nessuna
“dittatura del politicamente corretto”, insomma.
Come spiega Lorenzo Gasparrini in “Non sono sessista” ma, per altro, politically correct è una delle espressioni più
tragicamente fraintese nel dibattito sull’uso performativo della lingua.
Dal
punto di vista linguistico, essa dovrebbe indicare un codice comunicativo
creato artificialmente in ambito accademico per evitare che, in precisi contesti
istituzionali, il linguaggio possa produrre delle discriminazioni.
Nulla ha a che fare con l’uso quotidiano della
lingua, per sua natura molto più fluido e complicato, e invocarlo come una
sorta di anatema ad ogni piè sospinto, perciò, non serve ad altro che portare
avanti gli interessi di chi in queste rivendicazioni vede una minaccia.
E non
alla libertà di espressione, che è viva e lotta insieme a noi, ma piuttosto ai
propri privilegi.
Invece di chiedersi “perché non dovrei usare quel
termine?”, varrebbe quindi la pena farsi la domanda opposta: “perché dovrei
usarlo? Che agenda porto avanti, facendolo?”.
Le
parole producono e riproducono immaginari: analogamente al potere
discriminatorio di pratiche come la black face, le slur, anche utilizzate con leggerezza,
perpetuano sistemi culturali precisi e sono tanto percepite come problematiche
quanto più sentita è la discriminazione ad esse connaturata nel contesto
sociale di riferimento.
Alitalia
può produrre nel 2019 uno spot pubblicitario con un attore il cui viso è
dipinto di nero senza che nessun* la fermi perché il rapporto del nostro paese
con la questione razziale è fatto di sistematica rimozione.
Allo
stesso modo, concetti come quello di whiteness – ovvero l’impatto che l’identità
bianca ha su tutte le altre – o di white feminism – incapace di guardare oltre le istanze
delle donne bianche, di classe medio-alta e privilegiate – sono praticamente
irricevibili nel contesto italiano, con la scusa che la nostra storia è ben
diversa da quella americana; una scusa che, però, nasconde sotto il tappeto la
nostra esperienza di colonialist*, praticamente rimossa collettivamente, e le vite delle
persone di colore che vivono nel nostro paese.
La
mancanza di adeguate traduzioni – e conseguentemente di diffusione – di
espressioni che invece avrebbero grande rilevanza anche oltre i confini del
paese in cui sono nate o comunque hanno raggiunto la popolarità ha conseguenze
importanti sul discorso pubblico e sulla vita delle categorie che potrebbero
beneficiare maggiormente da un lessico più inclusivo.
Pensiamo
ad esempio all’assenza di un corrispettivo italiano per sexual misconduct, ovvero letteralmente “cattiva condotta sessuale”, che negli Stati Uniti si applica
ai casi in cui non si può parlare di violenza dal punto di vista giuridico, ma di atteggiamenti problematici e
dannosi all’intersezione tra sesso, carriera e potere.
Il
caso Louis CK ne è un esempio cristallino: un uomo che sfrutta la propria
influenza per mettere le sue colleghe in una posizione impossibile, forzandole
(senza coercizione fisica, ma agendo proprio sulla disparità tra i loro ruoli)
a guardarlo mentre si masturba.
Il
fatto che in italiano non ci sia un termine preciso per fare una distinzione,
anche tecnica, tra una molestia (harrassment) e un comportamento di natura
sessuale che altera gli equilibri di un ambiente di lavoro e/o di una relazione
personale in maniera irreversibile (misconduct), facendoli ricadere entrambi sotto
lo stesso termine ombrello, è un peccato e un problema.
L’assenza
di un termine specifico è, infatti, una delle varie ragioni per cui è così
facile buttarla in baraonda ogni volta che un* femminista cerca di gettare luce
sulla cultura sessista nei contesti professionali (e non solo), e
contemporaneamente l’effetto di quella stessa cultura, non interessata a dare
un nome a qualcosa che evidentemente non viene percepita come un problema.
Paradossalmente,
perché questi due fenomeni vengano considerati riconducibili alla stessa
matrice violenta è, quindi, importante che la lingua trovi per ciascuno di essi
una definizione distinta.
Un
discorso analogo si può fare per il termine catcalling, che in italiano è tradotto spesso
con “molestie
verbali (di strada)”.
Indica, in buona sostanza, l’atto di importunare una
donna rivolgendole epiteti sessisti, da chi le fa o vi assiste spesso ritenuti
soltanto “complimenti”.
L’origine del nome parrebbe essere legata ad
un oggetto che faceva il rumore di “un gatto arrabbiato” utilizzato dai presenti per
esprimere la propria insoddisfazione durante gli spettacoli teatrali.
È un
termine particolarmente azzeccato per trasmettere il disagio che una donna
prova nell’essere approcciata da un catcaller, disagio costantemente sottovalutato
da molt* ma soprattutto da chi non ci deve convivere.
La
presenza di una parola come “molestia” nella locuzione porge il fianco, ancora una volta,
all’intervento del* paladin* della coerenza di turno, dedit* a ristabilire l’ordine naturale delle
cose ed evitare categoricamente la tentazione di scorgere il legame per niente
sottile che intercorre tra il sentirsi libero di gridare oscenità ad una donna
sconosciuta ed esercitare su di lei il proprio privilegio in chiave oppressiva.
Quale privilegio, nello specifico?
L’appartenenza
a una categoria avvantaggiata: quella dell’uomo cis, più forte fisicamente, nonché più
credibile (e creduto) in contesti sociali e istituzionali.
Subire
approcci mossi da chiari intenti di natura sessuale in contesti che non
garantiscono una condizione di sicurezza e agio e che non prevedono neanche
lontanamente la dimensione del consenso costituisce, in un sistema che è
appunto costruito su differenze di fatto e di percezione tra i sessi/generi,
una situazione di pericolo, una fonte di preoccupazione, o nel migliore dei
casi un fastidio che meriterebbe una sua definizione italiana più specifica di
“molestia”, non perché in ultima istanza non lo sia, ma proprio affinché venga
riconosciuta come tale. Ricordiamolo: se una cosa non ha un nome, non esiste.
Ancora,
a costituire un ostacolo nella consapevolezza e la comprensione di certi
fenomeni possono essere alcuni “limiti” della lingua d’arrivo, che spesso
impediscono una discussione più aperta e informata su questioni rilevanti in
ottica, ad esempio, femminista.
Pensiamo
ad emotional
labour,
espressione coniata negli anni ‘80 dalla sociologa Arlie Hochschild per
indicare l’atto di nascondere le proprie emozioni negative in contesti
lavorativi in modo da non ostacolare la propria carriera e poi trasformatasi in
una buzzword
femminista.
Dopo l’uscita di questo articolo di Gemma
Hartley, infatti, il termine ha iniziato ad essere connotato dal punto di vista
di genere (anche perché definisce una necessità soprattutto femminile) e a
indicare il carico fisico e mentale che le donne sono costrette a sopportare in
quanto “amministratrici
della casa” – fare tutto o ricordare agli uomini di fare qualcosa “per aiutarle”, perché “bastava che me lo chiedessi” – ma anche più in generale tutto il
lavoro emotivo e di cura che ci si aspetta da parte loro all’interno di una
relazione, ma che non è richiesto alle controparti maschili.
Ripudiata
dalla sua stessa creatrice, questa accezione ha preso piede nell’ambito del femminismo mainstream internazionale perché, banalmente, ce n’era un
enorme bisogno, ma in Italia è ancora semi-sconosciuta.
Oltre
alla cultura tenacemente patriarcale che caratterizza il paese, un motivo
potrebbe essere la mancanza, nella nostra lingua, di una vera distinzione tra labour e work (fusi ormai in un unico concetto di “fatica” però in chiave positiva,
nobilitante o comunque necessaria) e quindi di una legittimazione del concetto
di lavoro come impegno fisico e mentale (labour) oltre che come prestazione
professionale e solitamente retribuita (work).
Eppure
parlarne anche in questa accezione è fondamentale per i femminismi, come
sottolinea anche Tamara McLeod qui: ridare peso e dignità all’emotional labour femminile è il primo passo per la sua
redistribuzione all’interno della coppia e della società.
Senza
addentrarci oltre nell’analisi di (mancate) corrispondenze linguistiche, per
altro inevitabilmente manchevole e tragicamente eurocentrica, non si può in
ogni caso negare il valore del linguaggio come, per dirlo con le parole di
Michel Foucault ma anche di Laura Fontanella nel suo utilissimo Il corpo del
testo, “dispositivo
di controllo”.
Scegliere
un termine piuttosto che un altro può danneggiare concretamente un gruppo
sociale, non soltanto urtarne la sensibilità, perché riproduce meccanismi di
potere, rapporti di forza e discriminazioni che hanno effetti diretti sulla
vita delle persone.
Varrebbe
anche la pena spendere due parole sul perché, tra l’altro, essere attent* alla sensibilità
altrui
venga vissuto come un oltraggio piuttosto che un necessario esercizio di
empatia, ma questa è una proverbiale altra storia.
Per
ora limitiamoci a riconoscere, come suggerisce lo scrittore Jonathan Bazzi, che
il “rifiuto del politically correct” è piuttosto un rifiuto di tutto ciò che è
intrinsecamente politico – “corretto”, o meno.
(FRANCESCA
ANELLI)
La
sostenibilità passa (anche)
da un
efficace controllo della qualità.
Paroledimanagement.it
– Redazione – (6 MAGGIO 2022) – ci dice:
La
sensibilità sul tema della sostenibilità ha toccato molte corde della nostra
società, spingendo le aziende a comprendere la propria responsabilità sul tema.
Per le
organizzazioni strutturate, questo significa ridurre l’impatto ambientale,
contenere gli sprechi e le inefficienze, soprattutto per quanto riguarda il
consumo di materiale.
Molti
di questi obiettivi sono generalmente perseguiti dalle metodologie Lean, adottati da buona parte delle aziende
strutturate:
approcci
snelli e orientati alla riduzione delle inefficienze, operative, di materiale e
di processo.
Ma
come possono le imprese ridurre gli sprechi connessi all’impiego del materiale?
“La
funzione aziendale responsabile di assicurare che il materiale sia lavorato
correttamente e conforme alle aspettative, è il controllo qualità”, racconta Giuliano Bonfanti,
Project Manager e Responsabile dello Sviluppo del Software S8 di Saep
Informatica, azienda attiva da oltre 40 anni nello sviluppo di una suite ERP
rivolta alle aziende manifatturiere di tutte le dimensioni.
“Le
nostre procedure relative al controllo qualità sono state sviluppate sulle
necessità delle aziende che dovevano gestire la ricambistica, specialmente
relativa al settore automotive”, spiega l’esperto di Saep Informatica.
“L’esigenza
in questi casi è non solo assicurare che i pezzi siano quelli giusti e
qualitativamente conformi alla richiesta, ma anche – e soprattutto – stabilire
i casi e le procedure da effettuare qualora le aspettative non siano
riscontrate nei prodotti”.
Il
processo di controllo della qualità nella Manifattura.
Ma che
cosa si intende con l’espressione “controllo qualità”? Generalmente ci si riferisce alle
fasi che i prodotti e i servizi devono attraversare per assicurarne proprio la
qualità: queste prevedono test, verifiche e controlli mirati per stabilire se i
requisiti stabiliti sono soddisfatti.
“In
Saep Informatica disponiamo di procedure di controllo qualità per tutta la
merce in entrata – acquistata o in arrivo da terzisti – e per quanto riguarda
l’output di produzione.
La logica per queste procedure è a grandi
linee la stessa: i prodotti sono controllati in base a un piano di
campionamento, ovvero un registro che contiene le regole e i parametri con cui
beni differenti vengono controllati”, racconta Bonfanti.
Attraverso
i piani di campionamento, le aziende possono stabilire criteri e parametri che
reputano accettabili per il controllo della qualità: “I registri di
campionamento permettono di configurare le regole con cui sistemi e operatori
devono effettuare i controlli;
potrebbero, per esempio, includere il numero
di pezzi da controllare in rapporto ai pezzi dell’ordine, il tipo di controllo
da effettuare, quale tolleranza effettuare alle non conformità e come gestire
caso per caso.
“I
registri di campionamento sono tabelle intelligenti, perché permettono di
parametrizzare una serie di regole che saranno impiegate per stabilire i
campioni di verifica dei prodotti, il genere di test a cui sottoporli, quali
sono i risultati attesi delle verifiche e quali le azioni correttive da
effettuare”.
La
configurazione di queste tabelle è un momento fondamentale, in cui azienda e
consulenti lavorano a quattro mani per stabilire set di regole coerenti agli
obiettivi di controllo della qualità.
In questa fase sono stabiliti i casi e le
eccezioni che possono verificarsi su articoli o fornitori specifici:
“È
possibile, per esempio, specificare che, qualora sia la prima volta che un
articolo è ricevuto, questo debba essere sottoposto a controlli più rigidi. Nel
piano sono poi inclusi parametri come la dimensione del campione da
controllare, quanti pezzi possono essere non conformi, come gestirli e quali
sono le soglie stabilite per ogni azione correttiva (reso a fornitore,
magazzino scarti e così via)”.
Il
vero valore dei piani di campionamento risiede nella piena possibilità di
personalizzazione delle regole che sottendono il controllo qualità:
in
particolare, è possibile stabilire regole differenti per prodotti diversi
provenienti dallo stesso fornitore.
“Qualora
si verifichino nel campione un numero troppo alto di prodotti non conformi,
vengono attivate le procedure specifiche per il caso in oggetto: l’azienda
potrebbe decidere di voler controllare tutti i pezzi del lotto, di richiedere
un reso dell’ordine ordine o di una sola parte, oppure di versarne la parte
conforme a magazzino e il resto di distruggerlo, o ancora di richiedere la
sostituzione o una nota credito al cliente per i non conformi”, continua il
Responsabile dello Sviluppo del Software S8 di Saep Informatica.
La
certificazione come garanzia di qualità.
Correlato
al controllo qualità, vi è poi il tema della certificazione: “Specialmente per
determinati tipi di prodotti – come quelli ingegnerizzati – la presenza di
certificati è un requisito imprescindibile per garantire la conformità del
prodotto e questo aspetto dev’essere correttamente gestito all’interno delle
procedure di gestione della qualità”.
La
maggior parte delle fasi che compongono i processi di controllo della qualità
sono oggi altamente informatizzate.
A
questo proposito Bonfanti dice: “Diventa pertanto fondamentale dotarsi di
strumenti software dedicati, che possano aderire alle procedure identificate
dall’azienda come le più consone per assicurare la qualità dei propri prodotti
o servizi”.
Soddisfare
la domanda di mercati sempre più veloci e in costante mutamento rappresenta una
delle sfide più pressanti per la Manifattura:
questo
obiettivo può essere raggiunto soltanto rinnovando i sistemi e le procedure,
abbracciando approcci “data driven” e dotandosi di sistemi informativi
all’avanguardia, flessibili e scalabili.
I
socialisti europei esortano
i
progressisti italiani a unire
le
forze per resistere all’estrema destra.
Euractiv.it
– Corriere della Sera - Federica Pascale – (29 ago. 2022) – ci dice:
L’estate
è quasi finita e l’Italia entra adesso nel vivo della campagna elettorale. Dopo
l’improvvisa crisi politica di luglio e un agosto caldo in cerca di alleanze,
questo sarà il mese del tutto per tutto in cui i partiti politici cercheranno
di attrarre il numero più alto possibile di elettori in vista dell’appuntamento
del 25 settembre.
Quattro
le coalizioni in gioco a contendersi il consenso.
Agli estremi il centrodestra, guidato da
Giorgia Meloni (FDI), in testa ai sondaggi con il 48.2% e il centrosinistra,
guidato da Enrico Letta (PD), che si stima possa arrivare al 29.5%. Al centro,
il Movimento Cinque Stelle (10,7%) e il “Terzo Polo”, composto da Italia Viva e
Azione, dato al 5.9%.
È un
testa a testa tra Meloni e Letta, con la prima data già vincente, soprattutto
dopo l’intervento di Mario Draghi a Rimini la scorsa settimana.
“La
situazione è preoccupante ma sono fiduciosa che gli italiani non si
rivolgeranno all’estrema destra” è quanto ha dichiarato a Euractiv Iratxe
García, leader dei Socialisti e Democratici al Parlamento europeo.
“Il
loro programma nazionalista minerebbe ulteriormente i valori fondanti dell’UE:
l’uguaglianza, la democrazia e lo Stato di diritto.
Indebolirebbe l’unità e la solidarietà di cui
abbiamo tanto bisogno di fronte all’aggressione di Putin”.
La
leader spagnola ritiene che molti italiani siano insoddisfatti perché vedono
accentuarsi le disuguaglianze sociali, peggiorare le condizioni e le
opportunità di lavoro, e il persistere di sfide globali come l’immigrazione e
l’emergenza climatica. Tuttavia, “il ricorso all’isolazionismo non risolverà
questi problemi”, ha aggiunto.
Secondo
García, i partiti progressisti, come il Partito Democratico in Italia,
dovrebbero unire le forze per costruire alleanze europee e affrontare insieme
queste sfide.
“Più
siamo forti in Europa, più possiamo promuovere politiche per garantire uno
sviluppo sostenibile, posti di lavoro equi, giustizia sociale e maggiore
uguaglianza di genere.
Abbiamo
bisogno di un governo pro-europeo in Italia che capisca che stiamo affrontando
il futuro insieme, come europei”, ha concluso la leader di S&D.
“Il
Partito Democratico sta facendo la cosa giusta: polarizzare il consenso”.
Questo
quanto dichiarato da Udo Bullmann, membro del Partito Socialdemocratico in
Germania ed ex leader dei Socialisti e Democratici al Parlamento europeo.
“Bisogna
delineare il proprio programma politico, la propria idea di futuro e di Europa.
È
importante essere molto precisi su ciò che si è fatto e su ciò che si intende
fare, e soprattutto sottolineare la posta in gioco se i democratici rimangono
fuori dal governo.
Così
gli italiani avranno un’idea chiara di cosa stanno scegliendo”, ha spiegato
Bullmann.
“Ci
sono molte questioni economiche e sociali, ma vale la pena lottare e presentare
un’alternativa.
Per un
tedesco, fa effetto sentire dire alla Meloni che vorrebbe punire i
comportamenti deviati dei giovani.
È
quello che è successo nella storia della Germania, in una delle pagine più
buie. Essere puniti perché diversi, chi ne ha bisogno oggi in Europa?”.
Bullmann
ritiene che un governo guidato da Fratelli d’Italia “potrebbe aprire le porte a
un futuro illiberale della società”, che secondo lui è ora “così colorata, così
ricca di differenze”.
“Sarebbe
un grande passo indietro se si permettesse a un sistema di destra, più
autoritario e radicale, di diventare realtà in Italia”, ha aggiunto.
In
riferimento a Mario Draghi, che conosce personalmente avendoci lavorato
insieme, esprime stima e definisce il PNRR come uno dei programmi di recupero
“più intelligenti” di tutta Europa.
Tuttavia,
non gli è chiaro chi la maggioranza degli italiani individui come responsabile
della fine della sua esperienza di governo.
Ci
saranno ripercussioni in Parlamento europeo?
Il
prossimo governo italiano potrebbe influenzare l’Europa a partire dal
Parlamento europeo, dove Giorgia Meloni guida il gruppo dei Conservatori e
Riformisti.
Per
vincere le prossime elezioni, infatti, la Meloni ha unito le forze con la Lega,
che fa parte del gruppo ID, e con Forza Italia, che è invece nel Partito
Popolare Europeo (ex casa di Fidesz, partito del primo ministro ungherese
Viktor Orbán).
Così facendo, il partito di Silvio Berlusconi
si è spostato notevolmente a destra. Pur rivendicando al momento il proprio
spirito europeista, Forza Italia potrebbe rivedere alcune posizioni anche in
Europa.
“Già
in passato pensavamo che il PPE avesse difficoltà a fare un taglio netto (con
certe inclinazioni autoritarie)”, ha dichiarato Udo Bullmann, che ritiene che
il pericolo sia più grande dell’impatto sul gruppo del PPE al Parlamento
europeo.
“Se
questa destra radicale prendesse il potere in Italia, riportandoci ad un
passato economico illiberale, rafforzando gli aspetti illiberali della società
e accentuando le disuguaglianze, ciò potrebbe anche aprire la porta, in uno
Stato fondatore dell’Unione europea, a quella che chiamerei una
‘orbanizzazione’ – ha affermato Bullmann -.
Una democrazia completamente sbilanciata. Così
come accaduto con il governo di Diritto e Giustizia (Prawo i Sprawiedliwość;
PiS) in Polonia”.
I
partecipanti al Forum progressista globale:
le
democrazie vitali hanno bisogno
di
politiche progressiste.
Socialistsanddemocrats.eu
– Redazione – (19/11/2021) – ci dicono:
I
progressisti di tutto il mondo si sono riuniti per il Forum progressista
globale, un evento di tre giorni per discutere delle sfide e delle soluzioni ai
problemi di bruciante attualità che il mondo è chiamato ad affrontare.
In chiusura, Andrea Schieder, europarlamentare
austriaco del Gruppo S&D e copresidente del Forum progressista globale,
conclude dicendo:
“Oggi
volgono al termine tre giorni d’intenso dibattito.
“Il
35° presidente del Brasile, Luiz Inácio Lula da Silva, ha detto giustamente:
‘Io non voglio essere un algoritmo, voglio essere un essere umano’.
A prescindere dai numerosi benefici che la
tecnologia porta con sé, dobbiamo considerare anche le minacce che pone alle
persone.
Una
democrazia vitale, un’economia funzionale, le nuove tecnologie, la lotta contro
il cambiamento climatico:
tutto
questo deve essere posto al servizio delle persone, e noi, come progressisti,
mettiamo le persone al primo posto in ogni nostra azione politica.
“L’etico delle tecnologie Tristan
Harris, americano,
ha chiamato per nome i pericoli derivanti da un eccessivo controllo delle
tecnologie nell’ambito della digitalizzazione.
Non
possiamo lasciare il mondo digitale senza regole, perché tutti vediamo e
riconosciamo i pericoli che pone alle democrazie e alla società.
Ciò
che noi progressisti desideriamo è una maggior partecipazione della società
civile e protezione peri diritti di tutti i cittadini, anche online.
Possiamo
migliorare l’interazione digitale tra istituzioni e cittadini e restituire
risultati migliori.
“Ylva
Johansson, Commissaria Ue per gli affari interni, ha fatto dichiarazioni molto
chiare contro la xenofobia.
Le migrazioni sono una realtà, le persone sono
sempre fuggite dalle persecuzioni e vi saranno sempre persone che vorranno
migliorare la propria condizione economica e la propria vita.
Non
sono una minaccia, sono persone col diritto di avere una vita migliore e le
loro capacità e competenze possono essere una risorsa importante per le nostre
società.
“Le
nostre politiche di bilancio devono porsi la lotta alle disuguaglianze come
massima priorità.
Enrico
Letta, ex primo ministro italiano e attuale leader del Partito Democratico ha
sottolineato che con NextGenerationEU stiamo compiendo il primo passo in questa direzione.
Grazie
a questo approccio politico, i cittadini europei potranno vedere i benefici diretti
dell’essere membri dell’Unione europea, dato che la ripresa dalla pandemia non
sarebbe possibile senza il sostegno dei fondi Ue.
“Sono
orgoglioso della partecipazione dimostrata dalle persone intervenute al Forum
progressista globale.
Non solo l’Europa, ma il mondo intero ha
bisogno di una svolta progressista dopo anni di populismo.
Se
agiamo subito, adesso, vivremo in un mondo migliore nei due anni che ci
separano dal prossimo Forum progressista globale e io spero di vedere molti di
coloro che hanno partecipato a quello appena concluso, partecipare anche al
prossimo”.
La
presidenza Biden e
l’illusione
dei progressisti.
Osservatorioglobalizzazione.it
– (11 NOVEMBRE 2020) - BRIAN CEPPARULO – ci dice:
Nella
campagna presidenziale appena conclusa negli USA, è stato degno di nota il
vigoroso sostegno dato alla candidatura di Biden, da esponenti di spicco
dell’ala progressista del partito come Bernie Senders, senatore del Vermont
sconfitto alle primarie democratiche, e Alexandria Ocasio-Cortez, membro del
congresso eletta nello stato di New York.
Loro
che rappresentano un’agenda radicale, d’ispirazione socialista, che ambiva a
piani rivoluzionari come il “medicare for all”, ovvero l’adozione di un servizio sanitario
universale e gratuito, “il green new deal“, cioè il piano di transizione
industriale verso energie eco-sostenibili, oltre che la promozione di idee
eterodosse in economia, come il cartalismo della MMT, fino al convinto pacifismo o non
interventismo in politica estera, sperano adesso che le proprie idee possano
trovare posto nel nuovo corso politico del Dem centrista Biden.
La
realtà è che le aspirazioni progressiste, radicali e socialiste, sono
destinate, con molta probabilità a essere presto disilluse.
Infatti,
come la CNN annunciava la vittoria di Biden, in studio John Kasich, ex
repubblicano ma sostenitore di Biden e potenziale membro del cabinet, si
affrettava a smorzare l’entusiasmo progressista:
“I democratici devono chiarire all’estrema
sinistra che sono quasi costati l’elezione a Biden”.
E
ancora che “essere tirato da sinistra non funzionerà…”. Per poi rimarcare che
il senato assegnato ai repubblicani è “la cosa migliore capitata a Biden”, alludendo
al probabile blocco che il senato cosi colorato, opporrà alle eventuali
proposte radicali e socialiste.
Che le
posizioni della sinistra siano un problema per Biden lo rivela senza fronzoli
anche Bloomberg, secondo la quale Wall Street monitora da vicino le scelte che
il neo presidente farà, soprattutto nelle posizioni chiave del Tesoro e della
SEC, l’authority che controlla l’attività borsistica.
Bloomberg
specifica come le idee del senatore Warren (anche lei sconfitta alle primarie
democratiche) improntate sulla riduzione delle disuguaglianze di reddito
attraverso politiche a favore degli Americani, e non dei giganti della finanza,
non siano viste di buon occhio dall’élite capitalistica del paese.
D’altronde
è abbastanza curioso che la sinistra radicale Dem, e che chiunque si reputi
profondamente progressista possa aver appoggiato Biden, dato che nella sua
lunghissima carriera politica non ha mai celato il proprio carattere centrista,
e fondamentalmente neoliberista.
Tanto
per citare alcuni esempi:
Biden
sostenne la decisione di Clinton di abrogare il “Glass-Stegal Act” (successivamente affermerà di essersi
pentito), contribuendo al processo di deregolamentazione finanziaria che
porterà al crollo del sistema nel 2007-2008.
In
politica commerciale si è sempre prodigato a favore delle liberalizzazioni e
degli accordi di libero scambio, ferocemente criticati dalle anime socialiste
come Senders perché spesso lesivi dei livelli occupazionali e dei salari dei
cittadini Americani.
Per non menzionare il fatto che è stato
favorevole a tutti gli interventi militari a partire dalla guerra in
ex-Jugoslavia.
La sua
“running mate”, Kamala Harris ha anch’ella un passato politico e professionale
(quale magistrato) abbastanza opaco per una lente progressista.
A
proposito di politica estera Biden ha goduto nella compagna presidenziale 2020
dell’endorsment di Colin Powell (che appoggiò già Obama nel 2008), colui che
procurò prove false per legittimare la guerra in Iraq, ai tempi in cui nessuno
parlava di Fake News perché solo i media mainstream le diffondevano.
Adesso
gira perfino la voce che Dick Cheney, ex vice presidente di George W Bush,
grande esponente dell’industria bellica statunitense, tra gli architetti della
campagna di guerra in medio oriente post-11 settembre, possa figurare tra i
consiglieri strategici di Biden.
Se venisse confermata sarebbe uno smacco
enorme all’elettorato progressista, oltre che un segnale non certo rassicurante
per la pace.
I
progressisti avrebbero dovuto imparare dalla presidenza Obama, fatta di grandi
speranze di cambiamento e rinnovamento nel motto YES WE CAN, dopo 8 anni di
guerre promosse dai Neocons repubblicani e la grande crisi finanziaria frutto
della speculazione e deregolamentazione.
Invece vi furono scarsi risultati in ambito
sanitario, pochissimi in ambito di eguaglianza razziale (tanto è che il Movimento Black Lives
Matter nacque sotto la presidenza dell’afroamericano Obama), una politica fiscale che dopo gli
ingenti stimoli del 2008-2010 passò sostanzialmente all’austerità, nulla in
ambito di regolamentazione delle armi (le uniche leggi in materia
dell’amministrazione Obama ne hanno esteso, e non ridotto, l’uso!), ed una
politica estera in linea con quella di Bush (per la precisione sotto
l’amministrazione del premio Nobel Obama gli USA hanno condotto operazioni
belliche in ben 7 paesi: oltre ad Iraq ed Afghanistan, lanciate da Bush, vi
furono Pakistan, Yemen, Somalia, Siria e Libia).
Non è un caso che dopo 8 anni di Obama è stato
eletto Trump, il quale si è ritrovato nella paradossale situazione di
rappresentare i blue collars della Rust Belt nonostante fosse un miliardario di
Brooklyn.
Quello
che sembra abbia unito veramente le diverse anime del partito democratico è
stato l’odio viscerale verso il nemico comune:
Trump,
rappresentato a tratti come l’incarnazione del male assoluto da debellare a
qualunque costo.
Sembra invece che sia passato in secondo piano il
fatto che Biden è e resta un esponente di quell’establishment neoliberista, il
quale presentandosi illusoriamente come alternativa a Trump (nella logica del
meno peggio), rappresenta per certi aspetti un ostacolo ancor più complesso da
arginare per le aspirazioni socialiste e progressiste degli americani.
Resta
da vedere quanto possa durare una unione costruita su un nemico comune, e se
assisteremo “con l’arrivo del nuovo al ritorno del vecchio”, con buona pace del progressismo.
Conte invece di attaccare il governo
si scaglia contro il Pd: “No ad accordi,
i progressisti siamo noi”
ilriformista.it - Aldo Torchiaro — (9
Novembre 2022) – ci dice:
Lazio
e Lombardia andranno al voto a febbraio, oggi vengono formalizzate le
dimissioni di Zingaretti ed entro 90 giorni dovrà esserci il nuovo governatore.
Naturale
che si vada a un election day per entrambi, il Viminale deve rendere nota la
data.
Le due
consultazioni interessano 15 milioni di elettori, un italiano su quattro.
Saranno
il più grande test elettorale del 2023.
Se in
Lombardia l’attuale governatore Attilio Fontana, in pista per il centrodestra,
sarà sfidato da Letizia Moratti, con il Pd che deve decidere il suo percorso,
nel Lazio la nebbia non è meno fitta.
E a diradarla non contribuisce Giuseppe Conte
che ieri ha convocato una conferenza stampa dai toni minacciosi verso Enrico
Letta e in particolare Roberto Gualtieri.
“Noi
siamo i progressisti, vogliamo metterci al tavolo per vincere le elezioni con
chi converge sui nostri pilastri: ambiente, salute, lavoro”.
E poi
sciorina una serie di No: “No alla autostrada Roma-Latina, no all’inceneritore,
no al rapporto opaco tra sanità e politica”.
In
particolare Conte appare livoroso verso Enrico Letta (“Con questi dirigenti
abbiamo difficoltà a sederci al tavolo”) e con Roberto Gualtieri (“Roma è
peggiorata in questo suo primo anno”), mentre mastica e rimastica il suo nuovo
mantra: “Saremo radicalmente progressisti”, insiste.
Ammette
di sentire spesso Goffredo Bettini, che nell’ultimo anno si è trasformato da
kingmaker del Pd romano a King Kong: lo tiene stretto in pugno e a tratti pare
volerlo stritolare.
Ecco
che Conte distribuisce schiaffoni ai dem: “Negli ospedali del Lazio si assiste
troppo spesso a casi di malasanità, con pazienti lasciati in corridoio per
giorni”, bombe lanciate sul percorso che doveva portare dal campo stretto al
campo largo e che invece ne fanno un campo minato.
Ma il M5S con chi sta? “Siamo noi progressisti
a dire agli altri che se vogliono venire con noi, siamo aperti al dialogo, ma
bisogna sottoscrivere le nostre condizioni”.
La
legge elettorale non consente divagazioni, si sta da una parte o dall’altra, ma
poco gli importa. E dire che nel Lazio il Pd una carta vincente la avrebbe, per
le mani.
L’assessore
alla sanità Alessio D’Amato è in pista e avrebbe dalla sua il favore dei
dirigenti locali dem, oltre ad avere incassato il sostegno di Matteo Renzi e
Carlo Calenda (che su Roma ha il 20-23% dei voti).
D’Amato
è una figura politica complessa, atipica, trasversale.
Viene
da sinistra: sarebbe un progressista vero, e non da oggi. Era stato tra i
giovani comunisti romani, con Gualtieri.
Poi un passaggio in Rifondazione e l’approdo
nel Pdci di Oliviero Diliberto.
Scuole
di politica d’altri tempi. Oggi è apprezzato da tutto il mondo della sanità,
laico e cattolico.
E
oltre al suo Pd, dai moderati del Terzo polo.
Parla
al Riformista per rispondere a Conte: “Bisogna costruire questa alleanza
riformista che ha tutte le carte in regola per vincere, nel Lazio.
Unire
il centrosinistra con progetti concreti e senza demagogia, perché i cittadini
di Roma e del Lazio vogliono risolvere il problema dei rifiuti, adesso.
Chi si
dichiara progressista deve prima fare i conti con la realtà”.
E il percorso verso la candidatura?
“Deciderà
la coalizione, il cui perimetro va dal Pd al Terzo polo. Io sono favorevole
alle primarie di coalizione: sono un elemento di chiarezza e di partecipazione.
Se si
decide di farle, io sono pronto a candidarmi e a correre per vincerle”. Lo
scontro frontale di Conte viene visto come un elemento che fa piazza pulita di
ogni ipotesi di alleanza.
La
sconfitta elettorale? Il Pd non è l’unico argine alla destra.
Tira
le somme Matteo Orfini: “Sgombrato il campo dal tentativo con Conte, mi sembra
che la candidatura più forte” per il post Zingaretti “sia quella di Alessio
D’Amato”, dice Matteo Orfini.
D’Amato
nel Lazio e Moratti in Lombardia, secondo i sondaggisti, sarebbero sin da
subito insidiosi per il centrodestra.
La coalizione che ha vinto le elezioni ha
confermato Fontana per il Pirellone ma non ha ancora sciolto la riserva per la
Pisana, sede della Regione Lazio.
Si
fanno il nome di Francesco Rocca, un tecnico che dal vertice della Croce Rossa
Italiana potrebbe rappresentare una sorta di commissariamento per la Regione, e
della ex consigliera regionale di Fratelli d’Italia, Chiara Colosimo.
Il
timore è che il Pd, alle prese con una difficile gestione del dissenso interno,
preoccupato più delle rapide congressuali che della cascata elettorale, finisca
per cedere alla tentazione di candidature identitarie.
In
questo senso andrebbero interpretate le parole con cui Enrico Letta ha aperto
la riunione della segreteria: “Non c’è un solo motivo al mondo per cui il Pd debba
candidare Letizia Moratti, ex ministra di Berlusconi ed ex assessora del
leghista Fontana”.
A
sentire i dem lombardi, però, qualche ragione si fa strada. Intervistato da
La7, il dem Walter Verini prova a mediare:
“Se ci
fosse un gesto di umiltà di Letizia Moratti si potrebbe considerare tutto”.
Il
gesto potrebbe essere quello di accettare di correre in ticket con Carlo
Cottarelli, ad esempio.
Che però prende ancora tempo, forse alla
ricerca dell’accordo con il Terzo polo.
“Non
voglio aspettare per sempre – ha detto ieri Cottarelli -, farò ancora delle
chiacchierate con persone di cui mi fido per decidere se nell’attuale
situazione c’è la possibilità di avere una coalizione sufficientemente ampia.
Quando
ho il quadro completo della situazione, dirò qual è la mia posizione”.
Se
dovesse declinare, il nome su cui punterebbe il Pd sarebbe quello del sindaco
di Brescia, Emilio Del Bono.
E va avanti anche il pressing su Pisapia che
al momento non si lascia convincere. Letizia Moratti va avanti veloce, intanto.
E sta per allestire la sede del suo quartier generale.
(Aldo
Torchiaro).
Populismo
vs Progressismo:
Somiglianze
e differenze.
Liberties.eu
– Liberties EU – (Agosto 10, 2021) – ci dice:
Cosa
significano questi termini, cosa definisce un populista o un progressista, e
come sono simili o diversi?
Populismo
e progressismo sono due movimenti politici che stanno ricevendo molta
attenzione in questi giorni.
Sia in
Europa che altrove, molti paesi hanno eletto governi che sono stati definiti
populisti, mentre le politiche e i partiti progressisti stanno guadagnando
sempre più sostegno.
Ma
cosa significano questi termini, cosa definisce un populista o un progressista,
e come sono simili o diversi?
Cos'è
il populismo?
In
parole povere, il populismo è una strategia politica che si appella al "popolo"
mettendolo contro le "élite" che sono accusate di non rispettare la
volontà o le preoccupazioni del popolo.
È importante notare che il populismo non è
intrinsecamente legato a una certa ideologia politica, o anche a un lato dello
spettro politico.
Barack Obama e Donald Trump, che non
condividono quasi nessun credo politico, sono stati entrambi definiti
populisti.
Lo
stesso vale sia per Silvio Berlusconi che per Jeremy Corbyn.
Gli
inizi del populismo: come è nato, dove si trova oggi.
Il
populismo risale alla Repubblica Romana, da cui prende il nome. I Populares -
che in latino significa "favorire il popolo" - erano una fazione
politica che sosteneva la causa dei plebei contro la classe dirigente.
Da
allora l'etichetta è stata applicata a vari politici, partiti e movimenti in
tutto il mondo, e da tutto lo spettro politico.
Ma
quando il populismo è discusso nel contesto dell'Europa di oggi, è più spesso
usato per parlare di populisti autoritari - leader che guadagnano sostegno
attraverso la messaggistica populista, ma governano in un modo che in realtà
favorisce le élite e destabilizza le stesse istituzioni democratiche che
proteggono i diritti e le libertà della "gente comune".
Il
primo ministro ungherese Viktor Orban o Janez Janša della Slovenia sono due
esempi.
I
populisti europei autoritari spesso dividono la società lungo linee etniche o
religiose, dove i bianchi sono la "gente comune" e le ONG, i media,
le celebrità e persino i giudici sono ritratti come le élite.
E i populisti autoritari ritraggono queste
"élite" come se si preoccupassero solo di proteggere e promuovere i
diritti e i bisogni dei "gruppi esterni" a spese della "gente
comune".
I
membri degli outgroup possono includere i migranti, le persone LGBTQI, gli
immigrati, i disabili - persino le donne sono considerate membri di un outgroup.
Anatomia
del populismo.
Il
"popolo" è minacciato dalle "élite" che stanno rovinando il
paese e sono da biasimare per le difficoltà della gente comune.
I
populisti autoritari vogliono ripristinare vecchie gerarchie sociali e vecchie
tradizioni che tengono le persone emarginate separate in qualche modo dal resto
della società.
Per
realizzare i loro obiettivi, i populisti autoritari hanno bisogno di smantellare
alcune istituzioni democratiche, come una magistratura indipendente, e gli
standard dei diritti umani in modo da poter approvare leggi discriminatorie.
Questo
va di pari passo con l'eliminazione delle voci critiche, siano esse della
società civile o dei media.
Questi
ultimi sono spesso ripresi, direttamente o indirettamente, dal governo e poi
usati per promuovere la sua propaganda.
Cos'è
il progressismo?
Nella
sua essenza, il progressismo riguarda l'uguaglianza, i diritti umani e la
parità di protezione e trattamento ai sensi della legge.
Incarna anche il rispetto per la democrazia,
poiché questo sistema e le sue istituzioni politiche proteggono meglio i valori
progressisti e i diritti fondamentali.
Gli
inizi del progressismo: come è nato, dove si trova oggi.
Questa
definizione di progressismo si attiene alle sue origini.
Filosofi
del XVIII secolo come Immanuel Kant e Nicolas de Condorcet concepirono il
progressismo come qualsiasi movimento verso una società più civile, sicura e
giusta.
Porre fine alla schiavitù, aumentare l'uguaglianza di genere e
l'accesso all'istruzione, e affrontare la disuguaglianza economica, erano i
principi del primo pensiero progressista.
Oggi,
"progressismo" può significare qualcosa di leggermente diverso da
paese a paese.
Negli
Stati Uniti, per esempio, il progressismo è ora fortemente legato alle
questioni ambientali e alla lotta contro il cambiamento climatico, o alla
riforma dei servizi sociali e della polizia.
C'è
anche una forte enfasi sui diritti dei lavoratori e sul contenimento del potere
aziendale.
Ma
quando i sostenitori dei diritti umani parlano di progressismo, si vuole
suggerire il sostegno ai principi dei diritti umani, dello stato di diritto e
della democrazia - cose che secondo molti non dovrebbero essere controverse o
fonte di disaccordo, ma lo sono molto nell'Europa di oggi.
Anatomia
del progressismo.
Il
progressismo riguarda il progresso dell'umanità lontano dalla barbarie e verso
la creazione di comunità libere, prospere e sicure dove tutti hanno l'opportunità
di contribuire e le stesse possibilità di successo.
Le
politiche di governo dovrebbero cercare di ridurre le disuguaglianze sociali,
incluse quelle economiche e di genere, e smantellare la discriminazione
strutturale e istituzionale.
Tutte
le persone hanno diritti umani, e i diritti di ogni persona sono importanti
quanto quelli di chiunque altro. Allo stesso modo, ad ogni persona dovrebbero
essere garantite le stesse protezioni dalla legge.
Lo
stato di diritto deve essere rispettato per assicurare il corretto
funzionamento di un governo democratico, dove i diritti e il benessere di ogni
cittadino sono di primaria importanza quando si elaborano leggi e politiche.
Populismo
vs. progressismo: quali sono le somiglianze e le differenze?
Populismo
e progressismo sono simili in quanto entrambi sostengono di agire per il bene
di tutti, e in particolare della "gente comune".
Entrambi i movimenti politici promettono di
arricchire la vita della gente comune e promettono di legiferare a questo scopo.
Ma
anche questa singolare somiglianza è fuorviante, perché progressisti e
populisti definiscono la "gente comune" - o anche "tutti" -
in modo diverso.
Come
detto prima, i populisti europei autoritari definiscono "il popolo"
come la gente bianca, e più specificamente i cristiani bianchi.
E
piuttosto che voler veramente aiutare il "popolo", i populisti
autoritari vogliono mettere le persone una contro l'altra, incolpando le
minoranze e altri gruppi per le difficoltà della "gente comune" e
anche per le mancanze del governo stesso.
I
progressisti, d'altra parte, sono più inclusivi.
Vogliono
sinceramente che ogni membro della società abbia la stessa possibilità di
contribuire e avere successo.
Piuttosto
che evidenziare ciò che ci rende diversi gli uni dagli altri, come fanno i
populisti autoritari, i progressisti puntano a ciò che abbiamo tutti in comune,
ciò che ci unisce, e ritraggono le nostre differenze come fonti di forza e di
arricchimento culturale, piuttosto che debolezze o cose da temere.
Forse
la più grande differenza, quindi, è che i progressisti credono e lavorano per
l'uguaglianza, mentre i populisti autoritari lavorano attivamente per creare
società non eque.
E
questo significa indebolire o sbarazzarsi di persone, organizzazioni o istituzioni
che aiutano a salvaguardare l'uguaglianza e la parità ai sensi della legge.
I
gruppi della società civile e i giudici indipendenti sono spesso in cima a
questa lista.
Cosa
riserva il futuro al populismo e al progressismo?
Entrambi
i movimenti - progressismo e populismo autoritario - sono risorti negli ultimi
anni.
L'ascesa
di Fidesz in Ungheria e del PiS in Polonia è avvenuta sull'onda del sostegno ai
politici di destra e nazionalisti in Europa.
Hanno
anche trovato il successo in Italia, nella Repubblica Ceca, in Slovenia e in
molti altri paesi dell'UE.
Il
loro successo è in parte dovuto alla Grande Recessione e alla crescente
disuguaglianza economica, e in parte perché gli autoritari sono stati più bravi
a far passare i loro messaggi.
Anche
il progressismo, nel frattempo, sta godendo di maggiore sostegno.
I partiti verdi in Germania, Francia e altrove
stanno avendo un successo senza precedenti nei sondaggi, mentre le iniziative
politiche progressiste stanno entrando nel mainstream negli Stati Uniti, nel
Regno Unito e altrove.
Ma per
poter finalmente superare la linea ed andare al potere, i progressisti devono
essere più bravi a mostrare alla gente cosa hanno in comune.
Devono
anche assicurarsi che le persone abbiano ciò di cui hanno bisogno per andare
avanti nella vita, in modo da non essere vulnerabili alle tattiche divide et
impera dei populisti autoritari.
Per
ora, nulla è deciso.
I
governi populisti autoritari nell'UE sono, per la maggior parte, ben radicati.
In
alcuni posti, come l'Ungheria, hanno avuto così tanto successo nel cambiare la
legge, nell'eliminare le voci critiche e nell'erodere lo stato di diritto che è
difficile vederli perdere presto le elezioni.
Non è più vero che tutti i paesi dell'UE hanno
elezioni libere ed eque, quindi anche il calo del sostegno potrebbe non
significare la fine di alcuni populisti autoritari.
Ma se
i progressisti sono in grado di migliorare la loro messaggistica e raccogliere
ancora più sostegno per cause critiche come l'uguaglianza e la protezione
ambientale, potrebbero essere in grado di invertire la tendenza e superare i
populisti autoritari.
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