IL PENSIERO LIBERO ED INDIPENDENTE NON PUO’ ESSERE SACRIFICATO.
IL
PENSIERO LIBERO ED INDIPENDENTE NON PUO’ ESSERE SACRIFICATO.
Le 6
caratteristiche di uno
“spirito
libero”, secondo Nietzsche.
Angolopsicologica.com
– (28-11-2022) – Jennifer Delgado Suarez – ci dice:
Spirito
libero:
Le
peggiori catene sono quelle che non vediamo. “nessuno è più schiavo di colui
che si ritiene libero senza esserlo”, scrisse Goethe.
Anche
se a volte ci fa paura riconoscere che preferiamo guardare in un’altra
direzione, per non notare la profonda divisione tra il desiderio di libertà
dell’io e le catene oppressive che rappresentano gli “altri”.
Nietzsche,
che dedicò buona parte del suo lavoro a pensare a come liberarci dalla tirannia
sociale, rifletté su come dovrebbe essere uno “spirito libero”, una persona che
possiede le sue azioni che pensa e decide per se stessa senza lasciarsi
condizionare dalla società.
Una
persona che non è un prodotto dell’ingegneria sociale ma prende in mano le
redini della sua vita e si assume la responsabilità delle sue azioni.
Com’è
la persona con uno spirito libero?
Nel
suo libro “Al
di là del bene e del male”, Nietzsche converte l’autoaffermazione della
volontà e la rinuncia all’influenza degli altri nei pilastri fondamentali per
diventare uno spirito libero, ma delinea anche altre caratteristiche che, a suo dire,
dovrebbero avere le persone che aspirano a pensare e decidere da sole.
1.
Godere della solitudine.
“Ogni uomo prescelto aspira istintivamente ad
avere il suo castello e il suo nascondiglio dove riscattarsi dalla folla, dai
molti, dalla maggioranza”, scrisse Nietzsche.
E non
è un caso che sia una delle prime caratteristiche degli spiriti liberi che
menziona poiché, secondo il filosofo, la solitudine per scelta è una
condizione essenziale per il libero pensatore.
La solitudine non è solo una condizione sine
qua non per l’introspezione, ma ci consente anche di assumere la distanza
psicologica necessaria per trovare il nostro vero “io” sotto così tanti strati
sociali.
2.
Ascoltare con mente aperta. Uno spirito libero non è una persona arrogante, ma evita la
presunzione di sapere tutto e apre la sua mente a nuove conoscenze e
prospettive.
Nietzsche
disse: “l’amante della conoscenza deve ascoltare sottilmente e diligentemente,
deve avere le orecchie in tutti quei luoghi in cui si parla senza
indignazione”.
Sebbene
una parte del viaggio dello spirito libero passi attraverso percorsi interiori,
alla ricerca di sé stesso, un’altra parte avviene nel mondo condiviso, quindi
queste persone devono essere disposte a bere da tutte le fonti.
3.
Essere sé stessi.
“Dobbiamo
sbarazzarci della cattiva abitudine di voler essere d’accordo con tutti”, disse
Nietzsche.
La
necessità di cercare l’approvazione e l’accettazione può allontanarci da noi
stessi, mettendo a tacere i nostri veri desideri e aspirazioni.
Ecco
perché lo spirito libero si libera della mentalità di massa e da quella
pigrizia privata che consiste nell’essere subordinati all’opinione pubblica.
Uno
spirito libero ascolta, ma poi valuta e decide autonomamente. Molto spesso
questo significa che gli altri non saranno d’accordo con le nostre idee e
decisioni, il che attirerà molte critiche. È necessario essere preparati a
questa eventualità.
4.
Essere forti e sapere come affrontare le critiche.
Essere
uno spirito libero in una società che fa di tutto perché le persone si adattino
a schemi prestabiliti richiede molta forza e coraggio.
Nietzsche affermò che “è cosa di ben pochi
essere indipendenti: è un privilegio dei forti”.
Pensava
che chiunque cerchi di farlo “entra in un labirinto, moltiplica per mille i
pericoli che la vita già porta con sé” e non può nemmeno aspirare all’empatia
poiché la maggior parte delle persone non lo capiscono, quindi possono
giudicare le sue idee e decisioni come sciocchezze o eresie, a seconda del
livello di allarme che provocano e della misura in cui si scontrano con le
norme sociali stabilite.
Nietzsche
lo previde: “le nostre intellezioni supreme sembrano necessariamente – e devono
sembrare! – sciocchezze e, in determinate circostanze, crimini, quando
raggiungono indebitamente le orecchie di coloro che non sono fatti o
predestinati per esse”.
5.
Superare gli stereotipi sociali.
Lo
spirito libero che descrisse Nietzsche deve essere in grado di andare oltre il
bene e il male, evitando questa “pericolosa formula morale” poiché ci
renderebbe solo “avvocati coraggiosi difensori delle ‘idee moderne’”;
cioè,
i difensori del sistema di turno.
Per il
filosofo, essere uno spirito veramente libero equivale a sbarazzarsi del
condizionamento morale e sociale per determinare noi stessi le nostre vite, al
di là di ciò che dovremmo o non dovremmo fare.
Pertanto,
la sua è una chiamata a sovvertire la vecchia struttura di valori che, secondo
lui, rende schiavo lo spirito umano.
Una struttura di valori basata su etichette
buone o cattive che ci impediscono di vedere le cose nella loro vasta
complessità facendoci trascurare l’intera gamma di colori che esiste tra il
bianco e il nero.
6.
Sviluppare il distacco.
Per
Nietzsche, lo spirito libero “non può rimanere attaccato a nessuna persona:
nemmeno la più amata”, né a un paese, al martirio e persino alla scienza perché
quell’attaccamento insano gli toglierebbe l’obiettività e la possibilità di
andare avanti nel percorso di scoperta.
Afferma anche che non dovremmo “attenerci al
nostro sgomento, a quella voluttuosa lontananza e alienità dell’uccello che
fugge sempre più in alto, al fine di vedere sempre più cose sotto di sé […]
Bisogna sapersi preservare: questa è la maggior prova d’indipendenza”.
La
pratica del distacco emotivo consiste nell’abbracciare l’incertezza e avere la
flessibilità di cambiare idea se ci rendiamo conto che avevamo torto o che
quelle idee ci stavano danneggiando perché avevano perso la ragione di essere.
Da libero
pensatore a spirito libero.
Le
caratteristiche dello spirito libero che Nietzsche definisce indicano che si
tratta di persone che non sono incatenate a costumi, convenzioni sociali e
stereotipi ma, soprattutto – e cosa più importante – non sono incatenate ai
modelli di pensiero prevalenti, non solo in termini di idee ma del processo di
pensiero stesso.
Sono
persone che mettono in discussione tutto perché hanno bisogno di raggiungere la
propria verità.
Infatti,
Nietzsche distingue tra libero pensatore e spirito libero poiché, mentre il
primo corre il rischio di attenersi alle sue idee, rendendole immobili, lo spirito libero cerca continuamente
mentre è immerso in un processo di crescita costante.
Il
libero pensatore si espone alla tentazione di sostituire un Dio con un altro,
come hanno fatto gli scienziati, che hanno sacrificato la religione sull’altare
della scienza per costruire un nuovo altare su cui i dogmi stabiliti non si
possono quasi discutere.
Lo
spirito libero di Nietzsche, al contrario, è un instancabile cercatore, un
tenace inquisitore che cerca di formarsi la propria immagine del mondo senza
imporla agli altri.
Nella
sua ricerca si libera dai legami e dalle certezze per intraprendere il viaggio
più emozionante di tutti: la ricerca delle sue idee.
Atteniamoci
a questa considerazione di Alvin Toffler: “Gli analfabeti del 21° secolo non
sono quelli che non sanno leggere e scrivere, ma quelli che non sanno imparare,
disimparare e riapprendere”.
JOHN
RAWLS.
Filosofico.net-
A cura di Diego Fusaro – (4-11-2022) – ci dice:
L'americano
John Rawls è unanimemente considerato uno dei più influenti filosofi politici
del Novecento.
Anche
i suoi più strenui oppositori lo ammettono, come, ad esempio, Robert Nozick, il
quale ha affermato che coloro che si occupano di questi temi o devono lavorare
con Rawls o devono spiegare perché non farlo.
E
Amartya Sen giunge a considerare la teoria della giustizia rawlsiana " di
gran lunga la più influente - e [...] più importante - che sia stata presentata
in questo secolo ".
Nato a
Baltimora nel 1921, John Rawls ha studiato a Princeton e a Oxford e ha
insegnato nella prestigiosa Università di Harvard.
I suoi scritti principali sono: "Una
teoria della giustizia" (1971) e "Liberalismo politico" (1993).
La
giustizia è per Rawls " il primo requisito delle istituzioni sociali
", così come la verità lo è dei sistemi di pensiero.
Come una teoria, egli argomenta, deve essere
abbandonata o modificata se non risulta vera, così le leggi e le istituzioni
devono essere abolite o riformate se sono ingiuste, anche se fornissero un
certo grado di benessere alla società nel suo complesso, in quanto " ogni persona possiede
un'inviolabilità fondata sulla giustizia su cui neppure il benessere della
società nel suo complesso può prevalere”.
Per
questa ragione la giustizia nega che la perdita della libertà per qualcuno
possa essere giustificata da maggiori benefici goduti da altri "
("Una teoria della giustizia").
Già in
queste battute iniziali è possibile individuare la posizione dell'autore,
nettamente contraria all'utilitarismo, disposto a sacrificare gli interessi
degli individui sull'altare della Società, come Rawls stesso afferma
chiaramente nella critica all'utilitarismo classico contenuta nel suo testo.
Il
ruolo della giustizia così configurato non consente, secondo Rawls, che possa
definirsi giusta una società che pensi di poter controbilanciare i sacrifici
imposti a pochi con una maggiore quantità di vantaggi goduti da molti.
In una società giusta si devono dare per
scontate " eguali libertà di cittadinanza ".
Ad
avviso di Rawls, l'eguaglianza nel godimento delle libertà fondamentali è un
diritto assoluto, che non ammette eccezioni né compromessi.
L'unico
caso in cui sia tollerabile un'ingiustizia perpetuata ai danni della libertà è
quello in cui si è costretti ad evitare un'ingiustizia ancora maggiore come, ad
esempio, nel caso desunto dalla storia antica in cui rendere schiavo il
prigioniero di guerra (privandolo della libertà personale) rappresenta un passo
avanti rispetto all'usanza di ucciderlo.
Dopo
aver chiarito queste posizioni di fondo sulla giustizia (e sul primato della libertà
individuale),
si pone, tuttavia, il problema di fondare su basi razionali alcuni essenziali
criteri di giustizia che possano valere per tutti gli uomini, intesi
kantianamente come esseri razionali interessati a cooperare tra loro.
Si tratta di arrivare a delineare alcuni
princìpi di giustizia, razionalmente condivisi da tutti i membri della società,
sulla cui base, poi, decidere circa le pretese di accesso ai beni primari da
parte dei singoli.
Rawls
si rende conto che gli individui di una società hanno obiettivi e fini diversi;
ma proprio per questo ritiene necessario che gli uomini raggiungano un comune
accordo sui criteri della equa distribuzione dei beni essenziali.
In altre parole, è necessario stabilire in via
preliminare una " pubblica concezione di giustizia ", che formi
" lo statuto fondamentale di un'associazione umana bene-ordinata ".
Da
questo punto di vista ben si capisce come mai Rawls insista tanto nel ritenere
che l'idea più importante della società non sia quella di "bene", ma
quella di "giusto".
Anzi,
egli sostiene che una società si dirà "bene-ordinata" non solo se
tende a promuovere il benessere dei suoi membri, ma se è anche regolata da una
concezione pubblica della giustizia, che richiede due condizioni:
a) che ogni individuo accetti e sappia che gli
altri accettano i medesimi princìpi di giustizia;
b) che le istituzioni fondamentali soddisfino in
modo riconosciuto tali princìpi.
In mancanza di un accordo tra i membri di una
società su ciò che è giusto e ciò che è ingiusto, osserva Rawls, risulta più
difficile stabilire legami vantaggiosi di convivenza civile, in quanto
diventano dominanti il sospetto e l'ostilità.
II
problema che ora si pone è quello di giustificare razionalmente le regole di
giustizia da far valere all'interno delle moderne democrazie o, come preferisce
l'autore, delle società bene-ordinate.
Rawls
ha avuto il merito di mettere in scena (nel senso teatrale dell'espressione)
nel suo libro il contesto in cui vengono scelte le regole fondamentali del
gioco sociale.
Parte
del successo della sua opera, come è stato osservato da alcuni critici, può
ascriversi proprio al suddetto procedimento di rappresentazione, che colpisce e
affascina la fantasia del lettore.
Rawls
immagina una situazione iniziale (original position) in cui i singoli individui
scelgono i princìpi di giustizia in condizione di assoluta eguaglianza, in
quanto sono privi di un certo numero di informazioni relative alla propria
condizione futura nella società.
La
scelta viene, cioè, effettuata sotto " un velo di ignoranza " (veil
of ignorance).
Infatti,
nota Rawls, coloro che fossero a conoscenza di essere ricchi potrebbero
considerare ingiuste eventuali imposte a scopo assistenziale, mentre coloro che
fossero a conoscenza del loro stato di povertà sarebbero molto probabilmente a
favore di quelle stesse imposte.
Il
"velo di ignoranza" ha il compito di escludere la conoscenza di quei
fattori contingenti che porrebbero gli uomini in conflitto tra loro, rendendo
impossibile qualsiasi accordo sui princìpi di giustizia.
Il
"velo di ignoranza" rende eguali le parti nella posizione originaria:
infatti, tutti hanno gli stessi diritti nella procedura di scelta dei princìpi
e ognuno può avanzare proposte razionali da sottoporre al giudizio e
all'accordo altrui.
Le
parti vengono, dunque, presentate come razionali e reciprocamente
disinteressate, in quanto nessuno può pensare di avvantaggiarsi dalla scelta di
taluni criteri.
I
princìpi di giustizia che ne scaturiscono sono il risultato di un accordo equo,
proprio perché conseguito in una condizione iniziale equa.
In questo senso la teoria rawlsiana può
legittimamente definirsi "una teoria della giustizia come equità ".
Giustizia come equità significa che i princìpi
di giustizia sono appunto quelli che le persone razionali, preoccupate della
propria sorte, sceglierebbero in condizione di eguaglianza iniziale, qualora
cioè nessuno fosse manifestamente avvantaggiato o svantaggiato da contingenze
sociali o naturali (velo d'ignoranza).
Rawls attribuisce a Kant l'ispirazione della
sua teoria. Come l'etica kantiana è sostanzialmente incentrata sulla scelta
autonoma di persone razionali, libere ed eguali, così quella di Rawls, grazie
al velo di ignoranza, fa discendere la giustizia dall'accordo di persone libere
e indipendenti, in quanto non determinate da motivi egoistici e contingenti.
Si
tratta di un'etica dell'autonomia, che esclude ogni eteronomia morale, come
chiaramente dice Rawls nel seguente brano:
"
Credo che Kant abbia sostenuto che una persona agisce autonomamente quando i
princìpi della sua azione sono scelti da lui come l'espressione più adeguata
possibile della sua natura di essere razionale libero ed eguale.
I
princìpi in base ai quali agisce non vanno adottati a causa della sua posizione
sociale o delle sue doti naturali, o in funzione del particolare tipo di
società in cui vive, o di ciò che gli capita di volere.
Agire
in base a questi princìpi significherebbe agire in modo eteronomo.
Il velo di ignoranza priva le persone nella
posizione originaria delle conoscenze che le metterebbero in grado di scegliere
princìpi eteronomi.
Le
parti giungono insieme alla loro scelta, in quanto persone razionali libere ed
eguali, conoscendo solo quelle circostanze che fanno sorgere il bisogno di
princìpi di giustizia ".
Inoltre,
approfondendo il rapporto con Kant, Rawls proclama che i princìpi di giustizia
sono da considerarsi come "imperativi categorici" nel senso kantiano.
Infatti,
con "imperativo categorico" Kant intende quel principio di condotta
morale che si addice a una persona in virtù della sua natura di essere
razionale, libero ed eguale.
In altri termini, l'imperativo morale kantiano
è categorico proprio perché prescinde da scopi o desideri particolari.
Al
contrario, un imperativo è ipotetico in quanto ci indirizza a fare certe mosse
in vista di certi fini specifici: " agire a partire dai princìpi di
giustizia significa agire a partire da imperativi categorici, nel senso che
essi si applicano al nostro caso indipendentemente dai nostri scopi particolari
".
A
questo punto i riferimenti teorici di Rawls sono chiari: abbandonata la
tradizione utilitarista, dominante nell'area anglo-americana, egli si
riallaccia, anche se in termini nuovi, al contrattualismo che aveva trovato in
Kant il suo momento più alto:
" è mio scopo presentare una concezione
della giustizia che generalizza e porta a un più alto livello di astrazione la
nota teoria del contratto sociale, quale si trova ad esempio in Locke, Rousseau
e Kant ".
C'è,
però, da osservare che il neo-contrattualismo di Rawls si differenzia dal
contrattualismo classico in un punto fondamentale:
il contratto sociale di Hobbes, Locke,
Rousseau, Kant aveva come fine quello di giustificare razionalmente il potere
dello Stato, cioè quel potere che non ammette al di sopra di sé altro potere,
non quello di proporre un modello di società giusta, che è al contrario lo
scopo della teoria di Rawls.
Definito
il contesto ideale in cui gli esseri umani dotati di ragione e di senso morale
potrebbero accordarsi sulla scelta equa dei princìpi di giustizia, Rawls
procede a indicare in concreto tali princìpi.
Naturalmente, si tratta pur sempre di una
scelta etica, che ha il compito di prospettare solo alla lontana una
determinata società politica.
In
altri termini, i princìpi di giustizia che stiamo per tratteggiare non vanno
intesi come norme di comportamento pratico: essi sono dei criteri orientativi
di carattere etico, bisognosi di essere ulteriormente tradotti in termini di
prassi politica e istituzionale, una volta che gli uomini abbandonino la
condizione originaria e il velo di ignoranza.
Il primo principio afferma che ogni persona ha
un eguale diritto al più esteso sistema di libertà fondamentali,
compatibilmente con un simile sistema di libertà per tutti gli altri.
Il secondo principio sostiene che le ineguaglianze
economiche e sociali, ad esempio nella distribuzione del potere e della
ricchezza, sono giuste soltanto se producono benefici compensativi per ognuno
(in particolare per i membri meno avvantaggiati della società) e se sono collegate
a cariche e posizioni aperte a tutti.
Rawls
ha dato varie formulazioni dei due princìpi, ma l'aspetto più importante e
comune a tutte è il fatto che la scelta deve prescindere da intenti
particolaristici (pensare a se stessi) o utilitaristici (pensare alla
maggioranza), e deve invece essere compiuta in nome dell'universalità della
natura umana.
In
questo senso, non è ammissibile che " alcuni abbiano meno affinché altri
prosperino ";
ciò
può essere utile, ma non è giusto (è questo il succo della critica rawlsiana
all'utilitarismo).
Invece,
" i
maggiori benefici ottenuti da pochi non costituiscono un'ingiustizia, a
condizione che anche la situazione delle persone meno fortunate migliori in
questo modo ".
La libertà è da Rawls considerata come il
primo e fondamentale principio di giustizia: essa deve essere goduta in modo
eguale da tutti.
Spingendo
più nei particolari l'analisi, Rawls articola varie tipologie di libertà
fondamentali:
a) la
libertà politica: diritto di voto, attivo e passivo;
b) la
libertà di parola e di riunione;
c) la
libertà di pensiero;
d) la
libertà personale e quella di possedere la proprietà privata;
e) la
libertà dall'arresto e dalla detenzione arbitrari.
Queste
libertà sono prioritarie rispetto al secondo principio di giustizia che, come
abbiamo detto, afferma l'equa distribuzione del reddito e la pari opportunità
di accesso alle cariche pubbliche.
Tutti i valori sociali - libertà e
opportunità, ricchezza e reddito, e le basi del rispetto di sé - devono essere
distribuiti in modo eguale a meno che una distribuzione ineguale, di uno o di
tutti questi valori, non vada a vantaggio di ciascuno.
L'ingiustizia, quindi, coincide semplicemente
con le ineguaglianze che non vanno a beneficio di tutti.
Rawls
ha dedicato maggiore spazio all'analisi e alla spiegazione del secondo
principio di giustizia, che risulta effettivamente il più difficile da definire
(chi sono, ad esempio, i "meno avvantaggiati"?).
Egli reputa naturale l'esistenza all'interno
delle società di gruppi meno favoriti (e ritiene, quindi, che ciò non
costituisca ingiustizia);
pensa,
però, che occorra una "riparazione" verso i meno fortunati da parte
della società giusta.
Le
società aristocratiche, egli osserva, sono ingiuste perché assumono le
ineguaglianze naturali come una condizione necessaria ed eterna sulla cui base
le persone vengono ingabbiate in caste chiuse.
Una
società giusta, al contrario, deve praticare il "principio di
riparazione" secondo il quale se " si vuole assicurare a tutti
un'effettiva eguaglianza di opportunità, la società deve prestare maggiore
attenzione a coloro che sono nati con meno doti o in posizioni sociali meno
favorevoli.
L'idea
è quella di riparare i torti dovuti al caso, in direzione dell'eguaglianza.
Per
ottenere questo obiettivo dovrebbero essere impiegate maggiori risorse
nell'educazione dei meno intelligenti invece che in quella dei più dotati,
almeno in un determinato periodo della vita, quello dei primi anni di scuola ".
In termini più generali, Rawls adotta come
elemento cardine della sua teoria della giustizia il cosiddetto " principio di differenza ", che egli collega all'idea di
fratellanza (contenuta nella celebre rivendicazione dei rivoluzionari francesi
del 1789, insieme alla libertà e all'eguaglianza).
"
Il principio di differenza sembra corrispondere al significato naturale della
fraternità; cioè, all'idea di non desiderare maggiori vantaggi, a meno che ciò
non vada a beneficio di quelli che stanno meno bene.
La
famiglia, in termini ideali, ma spesso anche in pratica, è uno dei luoghi in
cui il principio di massimizzare la somma dei vantaggi è rifiutato.
In
generale, i membri di una famiglia non desiderano avere dei vantaggi, a meno
che ciò non promuova gli interessi dei membri restanti.
Il
voler agire secondo il principio di differenza ha esattamente le stesse
conseguenze.
Coloro che si trovano nelle condizioni migliori
desiderano ottenere maggiori benefìci soltanto all'interno di uno schema in cui
ciò va a vantaggio dei meno fortunati ".
A
volte, osserva ancora l'autore, si pensa che l'ideale della fraternità non si
addica alla società, in quanto implica legami affettivi e sentimenti che non è
realistico attendersi dai membri del corpo sociale, ma ciò dimostra
semplicemente che la nostra democrazia è ancora incompleta, dal momento che dei
tre princìpi proclamati nel 1789 la fraternità è quello più trascurato.
Al
contrario, Rawls propone una concezione della società anti-meritocratica e
cooperativa, per cui i membri, se agiscono razionalmente, non possono che
ritenere dannose le ingiustizie.
Il
principio di differenza viene da Rawls collegato alla regola del maximin
(abbreviazione di maximum minimorum), in base alla quale bisogna migliorare il
più possibile la situazione di coloro che stanno peggio o, con un'altra
formulazione, le ineguaglianze sono ammesse quando massimizzano, o almeno
contribuiscono generalmente a migliorare, le aspettative di lungo periodo del
gruppo meno fortunato della società.
Alla
regola del maximin si attengono, secondo Rawls, gli individui nella posizione
originaria, quando, incerti sulla propria condizione sociale futura (non sanno
se saranno tra i più o i meno avvantaggiati), scelgono razionalmente la
soluzione più equa dal punto di vista morale.
Da
sottolineare, infine, l'enfasi con cui Rawls collega i suoi princìpi di
giustizia agli ideali democratici del 1789:
"
possiamo associare alle tradizionali idee di libertà, fraternità ed eguaglianza
l'interpretazione democratica dei due princìpi di giustizia nel modo che segue:
la libertà corrisponde al primo principio, l'eguaglianza all'idea di
eguaglianza del primo principio unita all'eguaglianza di equa opportunità, e la
fraternità al principio di differenza ".
In "Political liberalism" (1993)
Rawls ha rielaborato la sua teoria della giustizia in direzione di un
liberalismo politico attento alla sfida del pluralismo, cioè impegnato a risolvere
il problema " com'è possibile che esista e duri nel tempo una società
stabile e giusta di cittadini liberi e eguali profondamente divisi da dottrine
religiose, filosofiche e morali incompatibili, benché ragionevoli? "
("Liberalismo politico").
In
"Una
teoria della giustizia" la condivisione dei princìpi di giustizia era
presentata come la condivisione di una sorta di dottrina morale.
In "Liberalismo politico" si afferma invece che la
teoria della giustizia è una dottrina politica autonoma rispetto a qualsiasi
dottrina religiosa, filosofica e morale (poiché in caso contrario perderebbe la
sua universalità), anche se cerca, in esse, un consenso supplementare.
Infatti, pur essendo indipendente da ogni
dottrina comprensiva ragionevole (e quindi da ogni concezione metafisica ed
epistemologica), la concezione politica della giustizia cerca un "consenso
per intersezione" (overlapping consensus) da parte delle varie dottrine
filosofiche, morali e religiose ecc.
Per
queste caratteristiche, il liberalismo politico appare come la risposta più
funzionale all'esigenza odierna di una società bene ordinata basata sul
pluralismo e sulla giustizia.
Nell'ambito di questi approfondimenti, Rawls
ha riformulato i due princìpi di giustizia nel modo seguente:
a)
ogni persona ha uguale titolo a un sistema pienamente adeguato di uguali
diritti e libertà fondamentali; l'attribuzione di questo sistema a una persona
è compatibile con la sua attribuzione a tutti, ed esso deve garantire l'equo
valore delle uguali libertà politiche, e solo di queste;
b) le diseguaglianze sociali ed economiche devono soddisfare due condizioni:
primo, essere associate a posizioni e cariche aperte a tutti, in
condizioni di equa eguaglianza delle opportunità;
secondo, dare il massimo beneficio ai membri
meno avvantaggiati della società.
Questi
sviluppi, ammonisce Rawls in una nota, non eliminano, semmai confermano, la
sostanza del suo liberalismo egualitario:
" qualcuno ha pensato che sviluppando le idee del
liberalismo politico io intendessi rinunciare alla concezione egualitaria della
Teoria.
Nessuna
delle mie revisioni implica [...] un simile cambiamento, e penso che questo
sospetto sia infondato ".
Cosa
significa “meraki”, la
parola
d’ordine del governo Meloni.
msn.com
– La Stampa – (3-12-2022) – ci dice:
«Questo
è un tempo nel quale dovremmo utilizzare quell’approccio che i greci descrivono
benissimo con una parola straordinaria: “meraki”».
Giorgia
Meloni ha dettato la linea del governo racchiudendola in una parola: “meraki”.
Ovvero,
ha spiegato la stessa presidente del Consiglio, «fare qualcosa con tutto te
stesso, con tutta la tua passione e con tutta la tua anima».
In un
video inviato alla convention inaugurale della Fondazione Guido Carli, dal
titolo “Energie coraggiose. Forze che fanno muovere il mondo”, la presidente
del Consiglio ha sottolineato che «nel momento particolarmente complesso che la
nostra nazione sta affrontando, abbiamo bisogno di liberare le energie migliori
di cui l'Italia dispone, di fare quelle scelte coraggiose che per troppi anni
non sono state fatte».
Come
fare?
Per la premier basta una parola e ha scelto il termine
greco “μεράκι”, che letteralmente viene tradotto come «l’essenza di noi
stessi».
Nel
linguaggio comune ha preso un significato più ampio, riguarda qualsiasi cosa in
cui ci si mette l’anima.
Si potrebbe tradurre in italiano con la parola
“con
amore” o “con piacere “ed esprime un vero e proprio stile di vita.
«È un approccio – ha rimarcato Meloni – che in
un momento di crisi come quello che stiamo vivendo, dalla progressiva uscita
dalla pandemia fino alla complessa congiuntura economica e internazionale, può
e deve offrire alla nostra nazione anche delle occasioni».
«Io
l'ho detto tante volte, proprio in rapporto alla crisi energetica, e ne sono
convinta sempre di più ogni giorno. Da questa crisi l'Italia può uscire più
forte, può uscire più autonoma di prima ma per farlo deve avere coraggio,
visione, guardare oltre e immaginare una strategia di lungo termine – è stata
la conclusione della premier –.
Penso,
ad esempio, alla possibilità che abbiamo di rilanciare la nostra produzione
nazionale di energia o a quella di rendere il nostro Mezzogiorno una sorta di
hub di approvvigionamento energetico dell'intera Europa. Sarebbe imperdonabile
perdere occasioni come questa».
Sovrappesi
sensoriali.
Media2000.it - Paolo Lutteri – (30 Novembre
2022) – ci dice:
Cara nipote
Erica,
tu che
sei fresca di laurea in psicologia puoi aiutarmi a dipanare questi gomitoli
della conoscenza e della consapevolezza che al giorno d’oggi sono pieni di
intrecci e nodi.
La
letteratura è un eccellente medium per l’educazione.
Gli
scrittori ti fanno percorre tante vite e arricchiscono le opportunità di
comportamento, gli stili di vita, il linguaggio, l’estetica e l’etica possibile.
Penso
alle tragedie di Euripide, al Decamerone di Boccaccio, ai Promessi Sposi di
Manzoni, alle Metamorfosi di Kafka, ad Alice di Carroll, così saltando di palo
in frasca.
Adesso
l’uso della letteratura è diventato molto audiovisivo.
Le
narrazioni diventano film, fiction, spot pubblicitari. Quasi tutte storie
concrete e plausibili, come quando un Salgari ti inventava le avventure dei
pirati della Malesia, un Asimov ti faceva immaginare le imprese cosmiche di una
civiltà futura. Storie trasparenti, avvincenti, formative per la creatività e
l’intelligenza.
Qui al
presente van di moda i games, la multimedialità e le storie virtuali, come le
puntate di una serie tv che solo all’ultimo scoprirai essere un sogno o un
videogioco.
Intanto il lettore o il telespettatore si è
lambiccato il cervello, ha creduto che il virtuale fosse reale, che i mostri o
i fantasmi o gli alieni potessero essere autentici.
Forse
si è ubriacato, o drogato, di sovrappesi sensoriali e psicologici che gli hanno
confuso verità attese e falsità improbabili, come se l’amore fosse su Meetic,
l’economia su Monopoli, la geopolitica su Risiko.
Se queste
storie, magari in 3D, formato meta-verso, straordinariamente affascinanti,
affondano nell’inconscio, forse riconducono la persona civile a navigante in
una minestra onirica senza rotte né approdi.
O
rotte e approdi come le spacconate di un Eracle e le chimere religiose.
Sicuramente non giova agli immaturi, ai minori, agli emarginati o depressi che
nella nostra società sono molti e che possono essere incentivati a fuggire
dalla concretezza.
Sia
chiaro da parte mia: nessuna censura alla creatività letteraria, solo chiederei
una maggiore trasparenza editoriale per evitare che bambini e adulti vogliano
indossare i costumi di idoli supereroi o di profeti, credendosi invincibili
alle leggi, indifferenti all’ambiente e che le disuguaglianze sociali si risolvano
con una bacchetta magica.
Più
che mai ci sarebbe bisogno di razionalità concreta, di separazione delle
visioni iperboliche dalle immagini della quotidianità, o almeno di fact
checking.
Del
meta-verso abbiamo bisogno come strumento di efficienza sociale, della
televisione e di internet (ormai è quasi un tutt’uno) abbiamo bisogno come
riferimenti di intrattenimento e di educazione.
Amo la fantascienza, ma fatemela passare come
racconto, non infilatemela nei neuroni a specchio senza dirmi che è tale.
Allucinogeni
e fake news sono invasivi, creano assuefazione non solo nella letteratura ma
anche nell’informazione politica e giornalistica, si camuffano negli argomenti
della vita reale.
Sono glamour, fanno appeal e ci scivoliamo
dentro facilmente. Editori, provider e influencers ambiscono in primis a
catturare la nostra attenzione; le verità, in secundis, sono transitorie.
Se le
emozioni non sono semplicemente risalite naturali dalla nostra psiche, sono
costruzioni che ci tocca condividere nelle nostre comunità e delle quali a
qualcuno spetta una responsabilità.
Allora:
quanto è
grande il condizionamento della psiche? Dimmelo tu e spero che tu mi dica
di non preoccuparmi troppo. Oppure consigliami un bravo strizzacervelli!
Un
abbraccio, ciao Psik!
Paolo
Il
Ministro Valditara: “Sull’Istruzione
ci
adeguiamo alle Richieste dell’Ue”.
Conoscenzealconfine.it
– (3 Dicembre 2022) – Redazione – ci dice:
Saranno
le scuole in quanto istituti giuridici, invece, a subire un calo di circa 700
istituti in due anni.
“Lo abbiamo
fatto nel modo più indolore possibile”, assicura in un’intervista alla
“Stampa”, Giuseppe Valditara, ministro dell’Istruzione e del Merito, da giorni
al centro di una nuova ondata di polemiche per una misura inserita nella
manovra di bilancio che provocherà la riduzione di 700 scuole in due anni.
Era
dai tempi del governo Monti che la parola dimensionamento non risuonava nelle
stanze della politica e in quelle degli istituti scolastici.
Sarà il governo Meloni a ridurre le scuole ma
il ministro rassicura famiglie, insegnanti, dirigenti e chiunque abbia a cuore
il sistema scolastico italiano. Il dimensionamento avverrà “nel modo più
indolore possibile”, appunto.
Il
‘modo più indolore’ prevede una riduzione graduale nei prossimi dieci anni e —
parola di ministro – si interviene “solo sulle strutture giuridiche, cioè sulle
dirigenze scolastiche, non sulle strutture fisiche.
I plessi attuali sono 40.466 e rimarranno
40.466. Gli studenti continueranno ad andare negli stessi luoghi fisici con gli
stessi laboratori, le stesse aule, le stesse strutture”.
Saranno
le scuole in quanto istituti giuridici, invece, a subire un calo di circa 700
istituti in due anni.
Il
ministro, quindi, smentisce la principale delle accuse e delle paure emerse in
questi giorni da parte dei sindacati e dei genitori e prova a spiegare quali
saranno gli effetti positivi, invece, del ridimensionamento.
Al
ministero hanno operato una media tra il minimo e il massimo e sono arrivati
alla cifra di 900 alunne e alunni per garantire alla scuola un’autonomia
giuridica. Per arrivare a questa soglia sarà quindi necessario accorpare più
scuole.
Un
provvedimento necessario per “rispettare” una delle condizioni poste dal Pnrr
per l’erogazione dei fondi, si giustifica il ministro.
Entro
il 31 dicembre l’Italia deve “adeguare la rete scolastica all’andamento
anagrafico della popolazione studentesca”, quindi la riforma inserita nella
manovra “si pone l’obiettivo di armonizzare la distribuzione delle Istituzioni
scolastiche a livello regionale con l’andamento della denatalità”.
Le
scelte del ministero, quindi, spiega Valditara, “vanno nella doppia direzione
di mitigare gli effetti delle normative precedenti e di osservare i vincoli
dell’Europa in attuazione del Pnrr: non si può essere europeisti a corrente
alternata, solo quando non costa alcuno sforzo “, ha concluso il ministro.
(agenzianova.com/news/il-ministro-valditara-sullistruzione-ci-adeguiamo-alle-richieste-dellue/)
Obbligo
Vaccinale, la Corte Costituzionale
si
esprime: è Tutto Legittimo!
Conoscenzealconfine.it
– (2 Dicembre 2022) - Adalberto Gianuario – ci dice:
Dopo
una lunga riunione in camera di consiglio, la Corte costituzionale si è
espressa in merito all’obbligo vaccinale Covid19 e ai quesiti sollevati da
diversi tribunali italiani.
L’ufficio
stampa ha emanato il dispositivo, la sentenza verrà pubblicata verosimilmente
tra uno o due mesi.
“La
Corte ha ritenuto inammissibile, per ragioni processuali, la questione relativa
alla impossibilità, per gli esercenti le professioni sanitarie che non abbiamo
adempiuto all’obbligo vaccinale, di svolgere l’attività lavorativa, quando non
implichi contatti interpersonali”.
Sono
state ritenute invece non irragionevoli, né sproporzionate, le scelte del
legislatore adottate in periodo pandemico sull’obbligo vaccinale del personale
sanitario.
Ugualmente
non fondate, infine, sono state ritenute le questioni proposte con riferimento
alla previsione che esclude, in caso di inadempimento dell’obbligo vaccinale e
per il tempo della sospensione, la corresponsione di un assegno a carico del
datore di lavoro per chi sia stato sospeso; e ciò, sia per il personale
sanitario, sia per il personale scolastico.
È
quanto rende noto l’Ufficio comunicazione e stampa della Corte costituzionale,
in attesa del deposito delle sentenze”.
Sono
decisamente imbarazzanti questi soggetti della Corte Costituzionale: non hanno
nessun problema a manifestare apertamente la loro parzialità, contro ogni buon
senso e in contraddizione con tutte le verità che sono uscite nel frattempo…
Arrivare a negare l’evidenza dei fatti con tanta leggerezza denota il cinismo e
la cattiveria delle istituzioni e l’abominio (come detto da Augusto Sinagra nel
suo intervento) in cui siamo caduti come Nazione. (nota di conoscenzealconfine)
(Adalberto
Gianuario--
byoblu.com/2022/12/01/obbligo-vaccinale-la-corte-costituzionale-si-e-espressa/).
La
fine del “nuovo ordine mondiale”.
La
caduta dell'élite globale.
Ubikilibre.it-
Sannino Gabriele - Aurora Boreale – (10 -3- 2022) ci dice:
Questo
libro parla del cosiddetto Deep State? stato profondo?
Composto dalla élite finanziaria
transazionale, ovvero le grandi dinastie come Rothschild, Rockefeller, Warburg,
ma anche dal Vaticano, dalle famiglie reali e da una pletora globale di
funzionari e/o politici al soldo di questa élite, il cui vero potere resta?
semplicemente? la creazione di denaro dal nulla che compra tutto e tutti.
Tuttavia,
questa élite è ormai agli sgoccioli: il progetto del Nuovo Ordine Mondiale,
infatti, è stato sabotato da una alleanza internazionale formata da alcuni capi
di stato, apparati militari e di intelligence, che hanno studiato per anni la
struttura e le modalità operative di questa organizzazione criminale.
L'élite
globale? ormai è chiaro? è un vero cancro per questa umanità: moltissimi dei
nostri problemi derivano solo da essa, ecco perché è giunto il momento della
vera liberazione dell'umanità, liberazione che non sarà solo economica, ma
anche politica, umana, sociale e finanche spirituale.
LA
SINTESI DEL NUOVO ORDINE MONDIALE.
Lastradaperlaverita.webnode.it
– (10-10-2022) – Redazione – ci dice:
Ci
troviamo l'ultimissima fase prima dell'instaurazione di un governo mondiale.
Sono
riusciti nell'obbiettivo di disorientare le masse e confondere le idee con
un'informazione mediatica su più livelli.
Gli
scontri religiosi mostrano i risultati devastanti della mancanza di unità e
fratellanza.
A livello politico hanno plasmato una democrazia
caotica, confusionaria ed inconcludente, dove una casta privilegiata viene
additata come capro espiatorio dai cittadini, perché percepiscono stipendi
spropositati, ed a causa dei vari scandali, delle truffe, degli affari sporchi,
nonché per l'amministrazione incompetente della cosa pubblica.
Con
questi presupposti, il popolo nutre giustamente un sentimento di rabbia nei
confronti dei politici, i quali sembrano non volere o non riuscire a risolvere
tutti quei problemi che richiederebbero una risoluzione rapida ed efficace.
È un
dato di fatto che il malcontento generale, da alcuni anni è stato
"incanalato" in movimenti "rivoluzionari" come il Movimento
5 stelle in Italia, il movimento UKIP in Inghilterra, Podemos in Spagna, il
Front National in Francia, e Syriza in Grecia.
Negli
USA il ruolo anti-casta è interpretato dal presidente Trump. Non possiamo
negare quindi che, siamo in periodo di transizione su larga scala. Il popolo
spinge e desidera la vittoria dei movimenti anti-casta, ed è giusto e normale
che lo voglia perché spinto da ideali nobili e giustizia.
Permettetemi
però di mostrarvi un altro punto di vista, che pochi prendono in
considerazione.
Pochi
immaginano che la cosiddetta "contro-informazione" sia anch'essa
parte di una "finta opposizione" utile allo scopo di creare un Nuovo
Ordine Mondiale acclamato dai popoli.
La stampa
ufficiale è interamente controllata dalla stessa Élite che detiene il monopolio
dell'economia mondiale.
Quando
dico controllata, intendo dire che i direttori delle testate giornalistiche
rispondono ad ordini dall'alto, e che le agenzie stampa che diffondono le
notizie ai vari quotidiani sono di proprietà di questa oligarchia monopolista.
Le
agenzie di stampa e i mass-media decidono quali notizie verranno pubblicate e
quali verranno scartate.
Molte guerre, molti genocidi, molte
ingiustizie non vengono nemmeno documentate dai media, ed automaticamente è
come se non esistessero.
Ora,
nel momento in cui sappiamo che i mass-media sono manipolati da una ristretta
cerchia di persone che "decide" quali messaggi far passare al
pubblico, dobbiamo anche iniziare a farci delle domande scomode, quelle domande
che volutamente preferiamo non considerare, come ad esempio: "quali sono gli interessi che muovono
queste persone?" ed ancora "come ragionano queste persone e qual è il
loro fine ultimo?"
Iniziamo
con qualche dichiarazione di questi massoni che controllano la stampa e
l'economia:
"La
nostra politica è quella di fomentare le guerre, ma dirigendo Conferenze di
Pace, in modo che nessuna delle parti in conflitto possa ottenere guadagni
territoriali. Le guerre devono essere dirette in modo tale che le Nazioni,
coinvolte in entrambi gli schieramenti, sprofondino sempre di più nel loro
debito e, quindi, sempre di più sotto il nostro potere"
Amschel
Mayer Rothschild, 1773 (l'inventore del signoraggio moderno).
"L'individuo
viene menomato dall'impatto di una cospirazione talmente mostruosa da rendergli
impossibile ammetterne l'esistenza".
J.
Edgar Hoover - Direttore FBI dal 22 marzo 1935 al 2 maggio 1972.
''Alcuni
credono che la mia famiglia sia collegata ad argomenti quali l'occulto e la
cospirazione, azioni finalizzate alla caduta del governo statunitense. Io e la
mia famiglia siamo accusati di volere sviluppare una struttura socio-economica
e politica il cui fine è controllare il mondo. Se questa è l'accusa, mi
dichiaro reo confesso.''
David
Rockfeller - (Le mie memorie, pag. 405).
"Il
mondo è pronto per raggiungere un governo mondiale. La sovranità sovranazionale
di una élite intellettuale e di banchieri mondiali è sicuramente preferibile
all'autodeterminazione nazionale praticata nei secoli passati."
David
Rockefeller, 1991
''Avremo
un governo mondiale, che vi piaccia o no. La sola questione che si pone è di
sapere se questo governo mondiale sarà stabilito col consenso o con la forza.''
James Warburg,
banchiere, di fronte al Senato USA, 17 febbraio 1950.
Ce ne
sono molte altre, e tutte con il denominatore comune dell'instaurazione di un
Nuovo Ordine Mondiale per risolvere tutte le problematiche del mondo.
L'ultima
dichiarazione (quella di Warburg) è forse la più significativa, perché ci fa
capire che il loro obiettivo verrà raggiunto sia con il consenso che con la
forza.
Il consenso è sempre preferibile, ma dove ci
fosse un dissenso questo verrà represso ed estirpato.
Quindi
leggendo tra le righe, si capisce che l'intento dell'Élite non è quello di
instaurare un Nuovo Ordine Mondiale contrario alla volontà dei popoli, ma che
essi cercheranno di avere il maggior consenso possibile in modo da
"poggiare" il loro dominio su base solida, dopodiché consolidata
l'autorità ricevuta dal popolo, non esiteranno a reprimere ogni forma di
dissidenza con la forza.
Quindi,
possiamo affermare con certezza che il loro piano sia quello di creare un Nuovo
Ordine Mondiale acclamato dai popoli a gran voce, mentre un Nuovo Ordine
Mondiale "oppressivo" non raggiungerebbe lo scopo, ma fungerebbe da
trampolino di lancio per uno "liberatorio".
Funziona
da sempre così in politica, si chiama bipolarismo, le idee politiche vengono
incanalate in due fazioni opposte.
Fascisti/comunisti, destra/sinistra,
repubblicani/democratici, ed alternativamente, uno viene messo in cattiva luce
per dar modo all'altro di emergere nei consensi, dando la speranza del
cambiamento ai popoli.
Ed è
così che la gente, pensando di essere libera nei propri pensieri, appoggerà il
piano nascosto dell'Élite che li porterà alla distruzione.
A
questo punto facciamo 3 considerazioni riguardanti l'idea di un Nuovo Ordine
Mondiale acclamato dai popoli:
1. Al
giorno d'oggi quali sono quei movimenti che si potrebbero erigere in una
posizione di dominio mondiale mediante il consenso della gente? Non sono forse
quelli "anti-casta" descritti sopra?
2. Va
bene le dichiarazioni di banchieri & Co.: ma se andiamo a vedere i loro
stessi testi, le loro stesse pubblicazioni, troviamo riscontro con
l'instaurazione di un Nuovo Ordine Mondiale oppure si tratta solo di deliri
megalomani estemporanei?
3.
Oltre alle pubblicazioni massoniche, il Nuovo Ordine Mondiale trova riscontro
anche in qualche altro testo o ideologia?
Il
punto 1 è
una domanda aperta, ed ognuno valuterà per conto suo se i movimenti anti-casta
siano veramente "liberi" oppure un trucco sottobanco dell'Élite per
instaurare un governo mondiale, quale unica soluzione per il mondo.
Al
secondo punto invece si può rispondere con un chiaro SÌ. Nelle fonti massoniche, si
descrive in più occasioni il fine ultimo di creare una fratellanza mondiale
senza più barriere religiose.
Sicuramente detto così vi potrebbe anche
sembrare una bella cosa, perché ignorate quale sia il dio della Massoneria e
quale sia il suo vero scopo.
Ufficialmente
la massoneria sostiene di credere in un dio universale, che ognuno decide di
rappresentare come meglio crede.
Essi lo chiamano il Grande Architetto
dell'Universo. In realtà questo vale solo per i gradi inferiori, mentre ai
livelli più alti viene svelato che il loro dio è Lucifero.
Ci
sono molte dichiarazioni di massoni pentiti che lo confermano, gente che poi
"casualmente" fu ritrovata morta poco dopo aver rilasciato le
dichiarazioni "scottanti".
Non è
una sorpresa, se consideriamo le conseguenze previste nei giuramenti massonici
nei confronti di chi tradisce il voto di segretezza della fratellanza:
"Liberamente,
spontaneamente, con pieno e profondo convincimento dell'animo, con assoluta e
irremovibile volontà, alla presenza del Grande Architetto dell'Universo,
prometto e giuro di non palesare giammai i segreti della Massoneria, di non far
conoscere ad alcuno ciò che mi verrà svelato, sotto pena di aver tagliata la
gola, strappato il cuore e la lingua, le viscere lacere, fatto il mio corpo
cadavere e in pezzi, indi bruciato e ridotto in polvere, questa sparsa al vento
per esecrata memoria di infamia eterna."
Giuramento
massonico di affiliazione, che deve essere prestato sul Volume della Sacra
Legge (V.S.L.)
Albert
Pike, il gran maestro massone autore della pubblicazione massonica più
importante, "Morale e Dogma", scrisse nel 1871 al suo fratello
massone Mazzini:
"Noi
scateneremo i nichilisti e gli atei e provocheremo un cataclisma sociale
formidabile che mostrerà chiaramente, in tutto il suo orrore, alle nazioni,
l'effetto dell'ateismo assoluto, origine della barbarie e della sovversione
sanguinaria.
Allora
ovunque i cittadini, obbligati a difendersi contro una minoranza mondiale di
rivoluzionari, questi distruttori della civiltà, e la moltitudine disingannata
dal cristianesimo, i cui adoratori saranno da quel momento privi di
orientamento alla ricerca di un ideale, senza più sapere ove dirigere
l'adorazione, riceveranno la vera luce attraverso la manifestazione universale
della pura dottrina di Lucifero rivelata finalmente alla vista del pubblico,
manifestazione alla quale seguirà la distruzione della Cristianità e
dell'ateismo conquistati e schiacciati allo stesso tempo!"
In
questa citazione vediamo quindi che "la moltitudine" disingannata dal
Cristianesimo "privi di orientamento" accetteranno volontariamente la
dottrina di Lucifero che distruggerà cristianità ed ateismo.
Quindi
facendo un ulteriore passo avanti, possiamo capire che il progetto della
massoneria è quello di creare un governo mondiale guidato da un sovrano
mondiale che venga accettato dal popolo e, nello stesso tempo la diffusione di
una religione unica mondiale che manifesterà la pura dottrina di Lucifero. Ok.
Fermiamoci
qui e passiamo al terzo punto.
Possiamo
trovare testi estranei alla massoneria che trattano questi temi? La risposta è ancora una volta SÌ. La Bibbia ne parla.
In particolar modo nel libro di Daniele, e
nell'Apocalisse si parla di un potere mondiale facente capo ad una personalità
di spicco chiamata l'Anticristo, il quale ingannerà il mondo intero a seguirlo
risolvendo tutti quei problemi che opprimono l'umanità, e che furono creati
"appositamente" in precedenza, per permettere la futura liberazione.
In
altre parole, è un po' come se io desiderassi essere un eroe agli occhi della
gente, e sono così determinato che per diventarlo, creerò appositamente la
situazione adatta.
Dapprima mi metterò d'accordo con un amico, il
quale si fingerà un borseggiatore che deruberà una vecchietta, dopodiché io
fermerò il "malvivente" e restituirò il "maltolto" alla
povera signora indifesa, il che mi farà guadagnare l'ammirazione dei presenti.
Come
si applica questo nello scenario mondiale? Semplice, il monarca mondiale cambierà
il sistema economico basato sul debito, eliminerà la povertà introducendo un
reddito universale garantito, cercherà di risolvere i conflitti mondiali, e si
prefiggerà di portare una "Nuova Era" di pace e prosperità nel mondo
a condizione che tutti si sottomettono (per il bene comune) al suo progetto.
Secondo
i scritti massonici, i loro testi-guida, si può scoprire che i mass-media, sono
la loro arma, il loro mezzo più potente per sottomettere il mondo al loro
volere mediante l'indottrinamento per i "goim" (che sarebbe la gente
comune).
La
stampa si dividerebbe in stampa ufficiale (in prima linea), stampa
semi-ufficiale (in seconda linea), e stampa controcorrente (in terza linea).
Quest'ultima
che apparentemente appare contro i loro interessi, in realtà sarebbe anch'essa
controllata e pilotata da loro, secondo il principio: "se non puoi battere
l'opposizione, diventa l'opposizione".
Chiaramente
nessuno ci pensa, nessuno se lo immagina, e nessuno ci crede, ma è anche vero
che nessuno approfondisce il discorso a questi livelli...
Vediamo
qua un testo eclatante, estratto da uno dei loro testi principali:
"La
letteratura e il giornalismo sono le due più importanti forze educative, e per
questo motivo il nostro governo si accaparrerà il maggior numero di periodici.
Con questo sistema neutralizzeremo la cattiva
influenza della stampa privata ed otterremo un'influenza enorme sulla mente
umana.
Se dovessimo permettere la pubblicazione di
dieci periodici privati, noi stessi dovremmo pubblicarne trenta e così via.
Ma il
pubblico non deve avere il minimo sospetto di queste precauzioni; perciò tutti
i periodici pubblicati da noi, avranno apparentemente vedute ed opinioni
contraddittorie, ispirando così la fiducia e presentando un'apparenza attraente
ai nostri non sospettosi nemici, che cadranno nella nostra trappola e saranno
disarmati.
In prima fila metteremo la stampa ufficiale.
Essa sarà sempre in guardia per difendere i
nostri interessi, e perciò la sua influenza sul pubblico sarà relativamente
insignificante.
In
seconda fila metteremo la stampa semi-ufficiale, la quale dovrà attirare i
tiepidi e gli indifferenti.
In terza fila metteremo quella stampa che farà
finta di essere all'opposizione e che, in una delle sue pubblicazioni, figurerà
come nostra avversaria.
I nostri veri nemici confideranno in questa
opposizione e ci mostreranno le loro carte.
Tutti i nostri giornali sosterranno partiti
diversi: l'aristocratico, il repubblicano, il rivoluzionario e persino
l'anarchico.
Ma,
naturalmente, questo sarà solamente fino a quando dureranno le costituzioni.
Questi giornali, come il dio indiano Vishnu, avranno centinaia di mani, ognuna
delle quali tasterà il polso della variabile opinione pubblica.
Quando
il polso batterà più forte, queste mani faranno inclinare l'opinione pubblica
verso la nostra causa, perché un soggetto nervoso è facile ad essere guidato e
facilmente cade sotto un'influenza qualsiasi.
I chiacchieroni che crederanno di ripetere
l'opinione del giornale del loro partito, in realtà non faranno altro che
ripetere la nostra opinione, oppure quella che desideriamo far prevalere; nella
convinzione di seguire l'organo del loro partito, costoro seguiranno in realtà
la bandiera che faremo sventolare d'innanzi ai loro occhi."
Estratto
da "I Protocolli dei Savi di Sion", Protocollo XII.
Il
mondo quindi, stufo dei soliti politici, otterrà il cambiamento che desidera
ardentemente da molto tempo, ed è qui che "casca l'asino".
La
rivoluzione sarà difatti positiva sotto molti aspetti: verrà istituito un
reddito universale minimo per ogni individuo, verranno cancellati i debiti
pubblici, finiranno "apparentemente" tutte le ingiustizie, la povertà
non esisterà più, e da ultimo verrà bandita e vietata qualsiasi lobby massonica
in modo da fugare ogni dubbio e convincere le persone di essersi liberati dalla
causa del problema.
In apparenza sembra un ottimo scenario, ma c'è
un piccolo dettaglio: questo governo mondiale si maschera da "bene"
ma in realtà è "malvagio" e trascinerà gli uomini verso la
distruzione.
Senza
contare che per raggiungerlo è necessario de popolare il pianeta. Basta
studiare "il credo" e le motivazioni degli stessi manovratori occulti
per capire che il loro modo di agire si ispira al culto gnostico del serpente
antico, Satana.
Essi
si credono eletti da Dio per governare il mondo secondo i principi "il
fine giustifica i mezzi", "ordine dal caos" e la "sintesi
hegeliana".
Hanno
agito sempre così, oggi come in passato, fomentando guerre, genocidi, stermini,
colpi di stato e rivoluzioni a piacimento, infischiandosene dei morti innocenti
necessarie pur di raggiungere i loro scopi.
Lucifero,
sempre secondo i loro testi, ha dato loro la conoscenza mistica del bene e del
male.
Per
questo essi si ritengono gli "illuminati", con il diritto di
sottomettere popoli interi.
Se non
ci credete posso fornirvi numerosi fonti, numerosi scritti, numerose
dichiarazioni, tutto di prima mano, direttamente dalla "bocca del
cavallo", non invento nulla.
Se
pensate che non sia possibile un complotto del genere, allora dovreste anche
chiedervi come sia possibile che un libro che, per così dire, si occupa dello
schieramento opposto (l'Apocalisse), conferma tutto lo scenario sopraccitato, e
descrive con assoluta precisione la cronologia degli eventi finali prima del
vero ritorno di Gesù Cristo che distruggerà l'Anticristo e porterà la vera pace
e la vera giustizia divina.
Spiegandolo
con un esempio: è come se un tifoso juventino ed uno interista assistono ad
un'azione che porta al gol l'Inter. Dopodiché separatamente chiedete al primo
di raccontarvi l'azione. Egli metterà in evidenza gli errori della difesa
juventina, mentre il secondo esalterà le giocate della sua squadra. Nonostante
questo entrambi, spiegheranno la stessa dinamica e gli stessi giocatori
coinvolti nell'azione. Quello che cambia è solo il punto di vista.
Ecco,
in questo caso è la stessa cosa: abbiamo le pubblicazioni massoniche che
raccontano la stessa storia, dal punto di vista opposto alla Bibbia.
In aggiunta la Bibbia, nel suo libro
dell'Apocalisse, ci dice anche come andrà a finire ed è per questo che è
importante fare le scelte in maniera consapevole.
Lasciate
stare tutto quello che riguarda le religioni... Gesù non è una religione,
questo è quello che vi hanno fatto credere, le chiese sono templi pagani di
adorazione mascherati da "falsità religiosa" dove la figura di Gesù è
stata "adattata" per calzare perfettamente nel messia pagano Talmud,
che per tradizione nasceva (guarda caso) il 25 dicembre...
Tutto
il mondo istituzionale e religioso è contaminato dal male; beh non ci vuole
tanto a capirlo con tutti gli scandali, con tutto il malaffare, e con tutte le
ipocrisie che contraddistinguono i poteri forti.
Nella
Bibbia troviamo la conferma che "Tutto il mondo giace sotto il potere del
maligno", il che spiega perché viviamo in un mondo ingiusto, ipocrita,
violento, egoista, e pieno d'odio.
Le
profezie dicono anche che "tutto il mondo ingannato andrà dietro alla
bestia", l'Anticristo, il monarca mondiale.
Questo
significa che tutte le nazioni saranno ingannate e solo pochi si opporranno.
Sicuramente
vi chiederete: "ma come? Dio non ama mica tutti? Perché dovrebbe darci una
prova così difficile?"
Certo, Dio ama tutti, ma con questa prova
vuole svegliare le nostre coscienze, purificarci dal male, e testare i nostri
cuori.
Come
potrebbe farlo se non ci mette nelle condizioni di dover scegliere tra seguire
Lui oppure un mondo senza amore?
Anche
il binomio paradiso/inferno è sbagliato, frutto della fantasia delle chiese.
Mi
spiace deludere chi pensava di andare all'inferno ad ascoltar musica rock e
darsi alla pazza gioia con Satana, ma in realtà le persone "cattive"
verranno eliminate, cancellate e non esisteranno più, punto e basta.
Le
altre persone continueranno a vivere sulla terra, ma coloro i quali hanno la
testimonianza di Gesù e la sua salvezza, riceveranno la vita eterna e diventeranno
Re sulla Terra:
"A
chi vince e persevera nelle mie opere sino alla fine, darò potere sulle
nazioni."
Apocalisse
2:26
"A
chi vince concederò di sedere con me sul mio trono, come anch'io ho vinto e mi
sono posto a sedere col Padre mio sul suo trono."
Apocalisse
3:21
Alcuni
potrebbero obbiettare sostenendo che Dio, se veramente ci amasse, potrebbe
apparire e fermare tutto il male adesso dicendo:
"Nessun
problema vi salvo io..." Invece no, Dio dice "siate fedeli fino alla
morte" perché?
Perché
la vita su questa terra è la nostra prova. Dio vuole purificare i nostri cuori
perché ci vuole vicino a lui, ci sta addestrando a regnare con Lui.
"E
ci hai fatti re e sacerdoti per il nostro Dio, e regneremo sulla terra."
Apocalisse
5:10
La
Bibbia racconta di una ribellione in cielo (quella di Lucifero, divenuto poi
Satana), dalle scritture scopriamo anche che 1/3 degli angeli del cielo
seguirono Lucifero.
Dio è Amore e non tollera il male.
Avrebbe potuto eliminare Lucifero ed i suoi
demoni con uno schiocco delle sue dita ma non l'ha fatto, perché?
Perché
nella sua infinita intelligenza aveva capito che il male era un cancro che
andava estirpato per sempre con una punizione esemplare che evitasse altre
"ribellioni" future.
Per
questo Dio ci mette alla prova su questa terra, per vedere se saremo degni di
regnare, per portarci al ravvedimento, e per farci capire con l'esperienza
fisica che l'assenza di amore è causa di tutti i mali.
Detto
in un altro modo: se il padre sorregge continuamente suo figlio e non lo fa
stare da solo sulle sue gambe, questo non imparerà mai a camminare.
Cadendo
si impara a camminare. Sbagliando si impara. Quante lezioni abbiamo imparato
sulla nostra pelle nonostante genitori ed insegnanti ci avevano messo in guardia?
Credo
che vale la pena di fermarsi un attimo dalle distrazioni e dalla frenesia
quotidiana, e valutare con attenzione la "realtà" in cui viviamo, per
capire se dobbiamo fidarci di quelle persone al potere che hanno fatto
diventare il mondo un posto triste, ingiusto, e violento?
Chiediamoci:
potremmo mai esser stati ingannati in massa?
L'Élite al potere, potrebbe mai averci
occultato volontariamente questa promessa di "gloria futura" allo
scopo di mantenere il proprio dominio temporale, rendendoci schiavi di un
sistema consumistico dove il valore della vita umana è subordinato agli
interessi monetari?
Visto che loro (nelle dottrine e nei fatti)
sono avversari di Gesù Cristo?
Non è
che ci hanno portato a credere che Gesù sia una favoletta come Babbo Natale o
la Befana per allontanarci dalla verità che va contro i loro interessi?
Facciamocele
queste domande!
Ne dipende la nostra vita e quella dei nostri cari,
penso sia giusto assicurarsi di non esser stati ingannati.
Chiaro,
pensate che sia impossibile un complotto di tale portata ritenendo che troppe
persone dovrebbero esserne complici, ma dimenticate di considerare che in una
gerarchia piramidale come quella massonica, se la cima della piramide diffonde
una bugia, di conseguenza tutti i livelli inferiori saranno vittime di quella
bugia.
È difficile comprendere l'inganno, perché
veniamo programmati alla bugia sin dai primi anni della nostra vita mediante
l'indottrinamento sistematico che ci fa diventare meccanismi perfettamente
integrati ed oliati del sistema.
Chi come me (e molti altri) ne parla, viene
deriso, emarginato, insultato, diffamato, ma poche volte ascoltato.
Ci
piace la bugia e non vogliamo che nessuno ce la distrugge.
Certo
lo vediamo che il mondo stia andando alla rovina, ma ci sentiamo impotenti di
fronte alle ingiustizie, inutili e disarmati davanti a dei problemi troppo
grandi per noi.
Pochi però si rendono conto che possiamo
sciogliere le nostre catene anche oggi stesso se lo vogliamo, se apriamo la
nostra mente, se deprogrammiamo il nostro cervello e se abbracciamo quella
verità che la religione ha annullata, nascosta, deformata, e capovolta, ma che
è l'unica che ci può rendere liberi spiritualmente e fisicamente.
Finora Dio (che oggi tutti rinnegano oppure
incolpano) ha mantenuto tutte le sue promesse, tutte le sue profezie passate
sono state adempiute, quelle future si stanno adempiendo, quindi la sua
promessa è autentica, verace, infallibile.
E
questo è impossibile da smentire: chiunque legga le profezie bibliche per
quello che sono (e non le false interpretazioni "religiose") deve
irrimediabilmente confermare che non c'è neanche mezza profezia sbagliata.
Non
solo, ma studiando la questione personalmente troverete ridicoli i tentativi
effettuati da pseudo-studiosi biblici come (il massone) Mauro Biglino di
cambiare il significato della Bibbia, screditando la figura di Gesù Cristo.
Chi
conosce l'origine e le dottrine delle religioni mistiche antiche, capirà che
Biglino & Co. insegnano dottrine gnostiche, contrarie al vero Dio.
Se poi questi "pseudo-studiosi" lo
facciano in maniera consapevole o inconsapevole questo non lo so, ma quello che
è sicuro è che le loro dottrine riconducono alla conoscenza mistica di Satana
del bene e del male.
Ad
ogni modo, non credete in quello che scrivo, ma verificate voi stessi se ciò
che sostengo è riscontrabile o se frutto di un delirio mentale, approfondite il
discorso personalmente, studiate le fonti, confrontate gli scritti, dubitate e
mettete in discussione tutto.
Interessatevi della vostra vita e combattete
la vostra battaglia spirituale contro il male, ricercando la verità e mettendo
al primo posto l'amore per il bene e per la giustizia, anche solo nel vostro
"piccolo", perché questo potrebbe cambiarvi la vita. E l'eternità.
"Maledetto
l'uomo che confida nell'uomo, e pone nella carne il suo sostegno, allontanando
il suo cuore dal Signore.
Sarà
come un tamerisco nella steppa; non vedrà venire il bene, dimorerà in luoghi
aridi nel deserto, in una terra salata, dove nessuno può vivere.
Benedetto
l'uomo che confida nel Signore e il Signore è la sua fiducia.
È come un albero piantato lungo un corso
d'acqua, verso la corrente stende le radici; non teme quando viene il caldo, le
sue foglie rimangono verdi, nell'anno della siccità non si dà pena, non smette
di produrre frutti."
Geremia
17:5-8
Giovanni
14:
«Il
vostro cuore non sia turbato; credete in Dio e credete anche in me. Nella casa
del Padre mio ci sono molte dimore; se no, ve lo avrei detto; io vado a prepararvi
un posto.
E quando sarò andato e vi avrò preparato il
posto, ritornerò e vi accoglierò presso di me, affinché dove sono io siate
anche voi.
Voi
sapete dove io vado e conoscete anche la via».
Tommaso
gli disse: «Signore, noi non sappiamo dove vai; come dunque possiamo conoscere
la via?»
Gesù
gli disse: «Io sono la via, la verità e la vita; nessuno viene al Padre se non
per mezzo di me. [...] Le parole che io vi dico, non le dico da me stesso. Il
Padre che dimora in me è colui che fa le opere.
Credetemi che io sono nel Padre e che il Padre
è in me, se no, credetemi a motivo delle opere stesse.
In
verità, in verità vi dico: chi crede in me farà anch'egli le opere che io
faccio; anzi ne farà di più grandi di queste, perché io vado al Padre.
«Se mi amate, osservate i miei comandamenti,
io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore, che rimanga con voi
per sempre, lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere, perché non
lo vede e non lo conosce; ma voi lo conoscete, perché dimora con voi e sarà in
voi.
Non vi
lascerò orfani; tornerò a voi.
Ancora
un po' di tempo e il mondo non mi vedrà più, ma voi mi vedrete; poiché io vivo,
anche voi vivrete.
In
quel giorno conoscerete che io sono nel Padre mio, e che voi siete in me ed Io
in voi. Chi ha i miei comandamenti e li osserva, è uno che mi ama, e chi mi ama
sarà amato dal Padre mio; e io lo amerò e mi manifesterò a lui».
Giuda,
non l'Iscariota, gli disse: «Signore, come mai ti manifesterai a noi e non al
mondo?».
Gesù rispose e gli disse: «Se uno mi ama,
osserverà la mia parola; e il Padre mio l'amerà, e noi verremo a lui e faremo
dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola
che udite non è mia, ma del Padre che mi ha mandato.
Vi ho
detto queste cose, mentre ero con voi; ma il Consolatore, lo Spirito Santo, che
il Padre manderà nel mio nome, vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò
che vi ho detto.
Io vi
lascio la pace, vi do la mia pace; io ve la do, non come la dà il mondo; il
vostro cuore non sia turbato e non si spaventi.
Avete udito che vi ho detto: "Io me ne
vado e tornerò a voi".
Se voi
mi amaste, vi rallegrereste perché ho detto: "Io vado al Padre"
poiché il Padre è più grande di me.
E ora
ve l'ho detto, prima che avvenga affinché, quando avverrà, crediate.
Non
parlerò più a lungo con voi, perché viene il principe di questo mondo e non può
nulla contro di me; ma questo accade affinché il mondo conosca che io amo il
Padre e che faccio come il Padre mi ha comandato."
Per
quanto abbiate una visione distorta della figura di Gesù, vi invito a
rivalutarlo con umiltà intellettuale, in questo mondo che l'ha liquidato e
rinnegato a priori.
Le intercessioni dei santi o delle madonne
sono opera del male, create appositamente per distogliervi dalla verità.
Pensate a Gesù come ad un amico che ha dato la
sua vita per voi, non serve rivolgersi a lui con preghiere-pappagallo o
ripetendo rosari, bisogna solo avere l'umiltà di mettere in dubbio tutto quello
che si pensa di sapere, e chiedere a Gesù di mostrarvi la verità, di darvi il
discernimento e la conoscenza, perché noi siamo troppo confusi per capirla.
A quel
punto se avrete ricercato la verità umilmente, insistentemente e con tutto il
vostro cuore, vi garantisco al 100% che troverete tutte le risposte che cercavate!
Non
seguite il gregge inconsapevolmente o pensando di sapere, anche un pesce morto
è in grado di seguire la corrente, ma solo un pesce vivo può scegliere la
direzione nella quale nuotare.
Non mi interessa che condividiate tutto quanto
scrivo, mi auguro solo che leggiate il libro e vi poniate delle domande, non
per forza come le ho formulate io: ognuno indaghi per conto suo!
Non c'è nulla di peggio del farsi influenzare
passivamente da ciò che sentiamo o che leggiamo.
Vi esorto e vi invito a continuare la lettura
ed ogni volta che pensate "ma no, non è possibile" ricercate ed
approfondite il tema.
C'è
molto da scoprire, nella speranza che io possa esservi d'aiuto a trovare la
strada perduta.
E se
così fosse il mio scopo sarà raggiunto, senza alcun vanto né superbia, ma con
gioia fraterna immensa.
"C'è
una via che all'uomo sembra diritta, ma essa conduce alla morte."
L’Ucraina
sta per
farsi
“suicidare
dal poliziotto”.
Sakeitalia.it
– Fabio San – The Saker – (25 novembre 2022) – ci dice:
Ieri
ho ricevuto un’e-mail da un mio amico ucraino. Per “ucraino” intendo che la sua
cultura e la sua identità sono ucraine, ama il suo retaggio, parla la lingua e
ama il suo paese.
Di
fatto è quello che definirei un “vero ucraino” in contrapposizione agli ucraini
al potere a Kiev.
Ci
corrispondiamo regolarmente, e ci scambiamo opinioni su ciò che sta accadendo.
Ecco
un estratto di ciò che gli ho scritto ieri:
Anche
a me si spezza il cuore per l’evoluzione della guerra di liberazione
dell’Ucraina dalla NATO: pur non avendo dubbi sull’esito, sono inorridito al
pensiero di ciò che questo comporta per la popolazione civile.
La mia tristezza è resa ancora più profonda
dalla consapevolezza che, in larga misura, il popolo ucraino se l’è cercata.
La
Russia ha tentato con tutte le sue forze di non fare una guerra, poi ha tentato
con tutte le sue forze di salvare i civili e le infrastrutture civili.
Ma la
popolazione sotto l’occupazione nazista ha creduto a tutta la propaganda del
regime di Kiev e dell’Occidente, e ora ci sarà un inferno da pagare.
Per
sei mesi queste persone ingenue hanno pensato che l’Ucraina stesse vincendo,
perché non riuscivano nemmeno a capire che la Russia stava usando solo il 10%
delle sue forze e stava cercando di salvare il maggior numero possibile di
ucraini.
Ma no,
stavano festeggiando l’omicidio di Dugina, l’attacco al ponte di Crimea, gli
attacchi alla centrale nucleare di Zaporoze, ora pagheranno un prezzo orribile
per queste illusioni e, francamente, per la mancanza di decenza/moralità.
Come
ha detto Douglas McGregor, “i russi stanno per portare una mazza” per
vaporizzare le forze NATO in Ucraina.
Non
l’abbiamo voluto noi.
Ci è
stato imposto.
Che
altro posso dire?
I
nazisti saranno schiacciati, ma i costi per farlo saranno inutilmente alti.
Milioni
di rifugiati si aggiungeranno ai milioni di persone che sono già fuggite.
Sono
assolutamente disgustato, triste e arrabbiato per questo risultato.
Come
dice una canzone rock che conosco (“Gates of Babylon” dei Rainbow ): “Dormi con il diavolo e poi devi
pagare, dormi con il diavolo e il diavolo ti porterà via”.
Mi
dispiace dire che credo che il popolo ucraino abbia “dormito con il diavolo”
(l’Occidente) e ora arriva l’inevitabile.
Dopo
aver inviato la mia e-mail ho continuato a pensare alla totale follia delle
azioni ucraine.
Un
osservatore esterno potrebbe essere perdonato per aver pensato che il popolo
ucraino abbia una sorta di desiderio di morte, e se forse non la maggior parte
della gente, almeno i leader dell’Ucraina.
E poi ho capito.
L’Ucraina
sta facendo quello che negli Stati Uniti è noto come “farsi suicidare da un
poliziotto”, che Wikipedia definisce [in inglese] come: “suicidio da parte di
un poliziotto, o suicidio da parte della polizia, è un metodo di suicidio in
cui un individuo suicida si comporta deliberatamente in modo minaccioso, con
l’intento di provocare una risposta letale da parte di un agente di pubblica
sicurezza o delle forze dell’ordine”.
Ecco
cosa dice [in inglese] il Law Enforcement Bulletin dell’FBI in merito a tale
situazione: (sottolineatura aggiunta):
Le
situazioni di suicidio da parte di un poliziotto sono più intense di altre
chiamate di suicidio.
Tutte
le parti sono armate, o la vittima sembra esserlo.
L’individuo
è attivo, piuttosto che passivo, e aggressivo nei confronti della polizia o di
altri. Nonostante le sue caratteristiche uniche, l’SBC si adatta al modello di
comportamento suicida come esito pianificato di un processo psicologico in
corso.
La
prevenzione e l’intervento sono possibili nelle stesse modalità del suicidio
con altri mezzi.
In
teoria, i suicidi sono prevenibili; ma realisticamente potrebbero non esserlo a
causa della natura del piano o del punto in cui i primi soccorritori incontrano
l’individuo suicida.
La SBC spesso non è prevenibile. Questo
dev’essere considerato nelle conseguenze per gli agenti.
E,
tanto per chiarire, non ritengo che la Russia sia una sorta di “poliziotto” che
deve far rispettare la legge. Non lo ritengo affatto.
Ma
vedo un parallelo morale tra il poliziotto che non vuole uccidere la persona
suicida con una pistola, ma potrebbe non avere scelta, e il fatto che la Russia
semplicemente non avesse altra scelta se non quella di agire quando il Donbass
era minacciato da un’imminente invasione e la Russia era minacciata dai piani
ucraini per acquisire un’arma nucleare.
A
volte l’unico modo per disarmare una persona è usare la propria pistola. È
esattamente quello che è successo in questo caso.
Ciò
che rende tutto questo ancora peggiore è che le forze oscure dell’Occidente che
hanno creato [in inglese] l’Ucraina si sono unite ai nazisti e ai
neoconservatori (i due brutti gemelli che si combattono ma si assomigliano
tanto!) per spingere il popolo ucraino in una guerra che non ha mai avuto
alcuna possibilità di vincere.
L’esercito
ucraino è stato sconfitto a metà marzo, ma questo non è bastato all’Egemonia,
che ha ordinato ondate di mobilitazioni e ha inviato MIGLIAIA di “consiglieri”
e “volontari”.
A metà
estate quello che era stato un esercito ucraino è stato sostanzialmente
sostituito da una forza NATO de facto, che ora viene anche “smilitarizzata”.
L’Impero
Anglo-Sionista ha promesso al popolo ucraino pace, prosperità e tutte le
ricchezze della propaganda occidentale (che è ben diversa dalla realtà
dell’Occidente), e l’ignorante popolo ucraino (cui è stato fatto il lavaggio
del cervello prima dalla propaganda sovietica e poi da quella occidentale) si è
bevuto tutto, “amo, lenza e piombino”.
È come
se due adulti viziosi promettessero ad un bambino di cinque anni delle
caramelle super golose, e gli dicessero che “tutto quello che deve fare” in
cambio delle caramelle è lanciare qualche sasso ad un orso addormentato, e “non
preoccuparti, se l’orso si sveglia, ti proteggeremo noi!”.
Ora
l’orso si è svegliato, ed è molto arrabbiato: il bambino di cinque anni è
sventrato mentre gli adulti viziosi che gli avevano promesso “una terra in cui
scorre latte e miele” lo guardano (da quella che – erroneamente – credono
essere una distanza di sicurezza) e ridono di tutto questo.
Questo
è veramente un male demoniaco.
C’è
ancora chi non può, o non vuole, capire cosa sta accadendo.
Perciò
condividerò con voi un video che sta circolando su Internet e che mostra
esattamente come si presenta tutto questo nella realtà.
Guardate
voi stessi: (non c’è bisogno di una traduzione se non “ВСУ” che significa
“Forze Armate dell’Ucraina”).
Il
video mostra due tentativi di attacco da parte delle forze ucraine: prima le
forze della LDNR e poi le PMC Wagner.
Quello
che succede è prevedibile: prima si vede uno scambio a fuoco con armi leggere,
poi i russi usano i mortai. Seguono colpi di artiglieria russi molto precisi.
Poi
attacchi MLRS su larga scala, seguiti da altri attacchi da parte di una coppia
di Su-25 e di un singolo Su-34.
Secondo
le fonti russe, in questo (piccolissimo) attacco, tutti (la maggior parte?) gli
ucraini sono stati uccisi, mentre i russi non hanno subito alcuna perdita.
Si noti che i soldati ucraini, pur essendo
sicuramente coraggiosi, non hanno assolutamente alcun supporto.
Si
noti anche l’esiguità della forza d’attacco: gli ucraini erano soliti attaccare
con diverse “brigate” (beh, più o meno), ora si sono ridotti a scontri a
livello di squadra/plotone!
E
questo tipo d’inutile massacro avviene ogni giorno, giorno dopo giorno, giorno
dopo giorno.
Il mio
amico ucraino mi ha anche chiesto perché la Russia non elimina “Ze” e la sua
banda.
Credo
che questo sia il nocciolo del problema: credo che dovrebbe essere il popolo
ucraino stesso a rovesciare “Ze”, non i russi.
Così
come è stato infantile credere che l’Unione Europea avrebbe trasformato
l’Ucraina in una nuova Germania da un giorno all’altro, è altrettanto infantile
credere che “Putin arriverà e ristabilirà l’ordine”.
Putin
è il Presidente della Russia, non dell’Ucraina, e non è suo compito salvare
l’Ucraina dall’inferno in cui è caduta.
Ci
sono anche tre motivi pratici per non decapitare il regime di Kiev (per ora):
Il
regime non ha comunque alcun potere, e l’unico risultato di un attacco
decapitante sarebbe quello di tagliare una testa già abbastanza morta.
L’Egemonia
potrebbe sostituire rapidamente la vecchia banda con una nuova.
“Ze”
& C. sono così fantasticamente incompetenti che la Russia non potrebbe
comunque sperare di avere un avversario più debole, più stupido e più
incompetente.
Il
compito di Putin è comunque quello di proteggere la Russia e il popolo russo. Spingendo gli ucraini verso
provocazioni sempre più pericolose, i neoconservatori erano pienamente
consapevoli di spingere gli ucraini verso una sorta di follia da “farsi
suicidare dall’orso”.
La
triste verità è che alla Russia non è stata data altra scelta che fare ciò che
il popolo ucraino non poteva (o non voleva) fare: denazificare l’Ucraina. E
poiché l’Ucraina non poteva essere denazificata, doveva essere disarmata.
[Nota
a margine: oh, e per favore, non presentatemi l’argomento “ma gli ucraini non
potevano fare nulla per resistere”. La resistenza è sempre possibile, anche
sotto i regimi più duri e malvagi. E quando questa resistenza sembra essere inutile,
allora rimane una questione di onore, di scelta personale, di obbligo morale di
resistere al meglio.
La
resistenza al male è ciò che definisce la nostra umanità. E se proprio non si
può, allora, come minimo, ogni persona ha la possibilità [in inglese] di “non
vivere di menzogna”! Ancora una volta, la resistenza, per quanto umile e
piccola, è sempre possibile, e il popolo del Donbass l’ha dimostrato!].
Quest’ultimo
bagno di sangue di origine neocon ha già raggiunto le centinaia di migliaia di
persone inutilmente uccise, mutilate o sfollate. Quest’inverno non potrà che
peggiorare.
E cosa
pensate facciano gli ucraini per mitigare in qualche modo questa catastrofe?
Negoziare?
Non ci sperate!
Vogliono
smantellare [su RT, visibile con VPN o OpenDns, in inglese] la statua del
fondatore della città di Odessa!
Sì,
come gli altri mostri degenerati dell’Europa orientale, gli ucraini stanno
ancora “combattendo le statue” e, per estensione, il loro stesso passato
storico. Che sfigati…
Tutto
questo sarebbe abbastanza divertente se non fosse anche così orribile, e se
milioni di persone non dovessero soffrire per le azioni dei diavoli che
governano l’Occidente!
L’FBI
ha ragione. Il farsi suicidare da un poliziotto è per lo più non prevenibile.
Ha
fatto bene la Russia a cercare di evitare una guerra su larga scala? Sì.
È
stato giusto per la Russia cercare di minimizzare i danni ai civili e alle
infrastrutture dell’Ucraina? Ancora una volta, assolutamente sì!
Pensateci:
se la
Russia avesse attaccato l’Ucraina à la “shock and awe” [“Colpisci e Terrorizza”, nome dell’operazione statunitense
di invasione dell’Iraq nel 2003] fin dal primo giorno e avesse trasformato
Kiev, Kharkov o Lvov in altrettante “Falluja” ucraine, sarebbe stato molto più
credibile incolpare la Russia per i massicci “danni collaterali” che un tale
attacco avrebbe inevitabilmente comportato.
Qualcuno
incolpa il poliziotto per una morte da “mi faccio suicidare da un poliziotto”?
Ovviamente
no!
Sì, la
politica di cercare di risparmiare l’Ucraina è costata molto alla Russia, non
solo in termini politici ma anche in termini di vite umane perse.
Ma,
almeno, ci abbiamo provato.
Forse
è questa la più grande differenza tra russi e ucraini?
(Fabio
San per SakerItalia).
The
Saker.
LA
GUERRA IMPLACABILE DI ISRAELE
CONTRO
I BAMBINI DI PALESTINA.
Comedonchisciotte.org-
Redazione CDC – Ilan Pappe - (02
Dicembre 2022) – ci dice:
(Ilan
Pappe, palestinechronicle.com)
“L’umanità
ha il dovere di dare al fanciullo il meglio di sé stessa.” Preambolo,
Dichiarazione delle Nazioni Unite sui Diritti del Fanciullo (1959).
Più
della metà della popolazione che vive in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza
ha meno di 18 anni;
infatti,
si può tranquillamente affermare che la metà degli abitanti della Cisgiordania
occupata e della Striscia di Gaza assediata sono bambini.
Chiunque
conduca una guerra contro questi due territori, attraverso la demolizione delle
case, gli arresti senza processo, la politica di sparare per uccidere e le
umiliazioni, sta conducendo una guerra contro i bambini.
A
volte, intere brigate militari dell’esercito israeliano, accompagnate da unità
d’élite, polizia di frontiera e polizia inseguono un bambino e, nella maggior
parte dei casi, lo uccidono o, se va bene, lo arrestano.
Se c’è
qualcosa che è cambiato negli ultimi anni in quella che finalmente le Nazioni
Unite sono state disposte a chiamare colonizzazione della Palestina, è
l’intensificarsi della politica israeliana di “sparare per uccidere”.
E anche se molti di noi sanno che il nuovo
governo israeliano non cambierà le politiche perseguite dai governi precedenti,
ci si può aspettare un’ulteriore brutalizzazione nella guerra contro i bambini
della Palestina.
Mentre
scrivo questa rubrica, è giunta la notizia dell’uccisione da parte dei soldati
israeliani di Fulla Rasmi Abd al-Aziz al-Musalamah.
Stava
andando a festeggiare il suo 16° compleanno.
Si
trovava con altre persone in un’auto vicino a Beitunia, quando i soldati, senza
alcun motivo, hanno aperto il fuoco sull’auto e l’hanno uccisa.
Inutile
dire che il giornale israeliano che ha riportato l'”incidente” ha incolpato
l’autista e non si è nemmeno preoccupato di menzionare il suo nome.
L’uccisione
di bambini non è un aspetto nuovo delle politiche israeliane nei confronti dei
palestinesi.
Nell’aprile
del 1948, la leadership militare delle forze sioniste iniziò a definire con
maggiore chiarezza la propria politica nei confronti della popolazione che
sarebbe rimasta nei villaggi occupati durante la pulizia etnica del 1948.
Una
delle sue chiare linee guida era quella di uccidere o mandare in un campo di
prigionia, a discrezione del comandante sul posto, “uomini in età da
combattimento”. Il comando definisce chiaramente cosa si intende per uomini:
chiunque abbia più di dieci anni.
Come
ogni politica distruttiva israeliana dopo l’espulsione e le uccisioni di massa
del 1948, un nuovo metodo di azione e politica incrementale e per gradi è
diventato la norma.
Si
tratta di una politica assai ingannevole, in quanto ci si trova di fronte
all’uccisione di una o due persone di tanto in tanto, con delitti non
facilmente collegabili per produrre un’accusa schiacciante.
Questo
era vero nei primi anni Cinquanta, ma da allora i numeri sono enormi e le
uccisioni incrementali sono molto più visibili.
Nel
novembre 1950, l’esercito israeliano uccise a colpi di pistola tre bambini di
8, 10 e 12 anni del villaggio di Yalo, mentre nel 1952 un commando israeliano uccise
4 bambini di età compresa tra i 6 e i 14 anni a Beit Jalla.
Un anno dopo, tra i cinque pastori uccisi
dagli israeliani nel febbraio 1953, uno era un ragazzo di 13 anni di al-Burg.
L’infanticidio
incrementale a volte è sostituito da uccisioni più intensive di bambini.
Durante la Prima Intifada, secondo l’associazione dei medici israeliani e
palestinesi per i diritti umani, ogni due settimane l’esercito israeliano
sparava in testa a un bambino sotto i sei anni.
Durante
la Seconda Intifada, sono stati uccisi 600 bambini palestinesi.
Tra
questi, il dodicenne Muhammad al-Dura, il quattordicenne Fairs Odeh e
l’undicenne Khalil al-Mughrabi.
Cinquemila
bambini sono stati feriti.
Nel 2007, l’aviazione israeliana ha ucciso 8
bambini della famiglia Shehadeh a Gaza.
Nella
prima ondata di attacchi su Gaza, nel 2008, sono morti più di 300 bambini, e
altri 30 nel 2012.
Il
numero più alto di morti è stato registrato nel 2014, con oltre 550 bambini.
In altre parole, dal 2000, 2.250 bambini
palestinesi sono stati uccisi dall’esercito e dalle forze di sicurezza
israeliane.
Ciò
equivarrebbe all’uccisione di quasi 45.000 bambini in Gran Bretagna da parte di
forze militari o di polizia nello stesso periodo.
Perché
è così importante registrare questi dati lugubri e terrificanti e definirne
chiaramente il significato legale e morale?
Per
alcune ragioni.
In
primo luogo,
il fatto che solo qui, in un media alternativo, si venga a conoscenza di queste
atrocità, è un’indicazione dell’ipocrisia dei media occidentali e dell’élite
politica quando si parla di Palestina, rispetto alla compassione mostrata verso
i bambini in Ucraina o in Iran.
In
secondo luogo, queste
cifre accentuano la minaccia esistenziale che il sionismo e Israele
rappresentano ancora per il popolo palestinese e il suo futuro. Israele non
brama solo la terra, ma è intenzionato a portare avanti la distruzione del
popolo stesso.
Ma la
cosa più importante di tutte è l’esasperante assenza della Palestina dal
dibattito internazionale sulle uccisioni di massa in generale e su quelle dei
bambini in particolare.
Prendiamo
ad esempio la definizione internazionale di omicidio di massa. Essa è definita
come:
“Le
azioni deliberate di gruppi armati, incluse ma non limitate alle forze di
sicurezza dello Stato… che provocano la morte di almeno 1.000 civili non
combattenti presi di mira come parte di un gruppo specifico in un periodo di un
anno o meno”.
Nella
Prima e nella Seconda Intifada, nel 2009 e nel 2014, il numero di palestinesi
uccisi da Israele ha superato di gran lunga il migliaio.
Da
nessuna parte, nelle Nazioni Unite o in altre organizzazioni umane che
registrano uccisioni di massa in tutto il mondo, i palestinesi appaiono come un
caso di studio.
Il
gioco non è ovviamente sui numeri, ma molto più sull’ideologia che facilita
tali uccisioni di massa; un tipo di disumanità possibile solo se gli esseri
umani presi di mira sono disumanizzati.
Un’ideologia
che in molti casi porta a politiche genocide.
La definizione di genocidio, secondo
l’articolo 2 della Convenzione delle Nazioni Unite sul genocidio, include le
uccisioni di massa, le lesioni fisiche e mentali e l’allontanamento fisico come
indicatori di tali politiche.
Il
rapporto del rappresentante speciale del Segretario generale dell’ottobre 2009,
aggiornato nel novembre 2013, elenca sei gravi violazioni della legge
internazionale sui diritti umani riguardanti i diritti dei bambini nei
conflitti armati.
In
Palestina non c’è alcun conflitto armato, eppure tre di queste gravi violazioni
si verificano quotidianamente nella Cisgiordania colonizzata e occasionalmente,
in numero massiccio, nella Striscia di Gaza assediata.
Uccisioni
e mutilazioni di bambini, attacchi contro scuole e ospedali e negazione dell’accesso
umanitario.
Alcune delle politiche israeliane attuate
durante l’assedio di Gaza, in termini di negazione di cibo, energia e
soprattutto assistenza medica, creano un criterio a sé stante che avrebbe
dovuto essere aggiunto a questo documento.
Nell’agosto
di quest’anno, il capo delle Nazioni Unite per i diritti umani, Michelle
Bachelet, ha espresso allarme per l’alto numero di palestinesi, compresi i
bambini, uccisi e feriti nei territori palestinesi occupati dall’inizio del
2022.
Si
riferiva all’uccisione di 37 bambini dall’inizio dell’anno fino a quell’agosto
ed era particolarmente inorridita dall’uccisione di 19 bambini in una
settimana. Ha dichiarato:
“Infliggere
ferite a qualsiasi bambino nel corso di un conflitto è profondamente inquietante,
e l’uccisione e la mutilazione di così tanti bambini quest’anno è
inconcepibile”.
Essendo
io stesso un padre, avrei usato una parola più forte di “inconcepibile”.
Ma mi
accontenterò se l’uccisione di massa di bambini palestinesi da parte di Israele
non verrà più negata o emarginata e apparirà come argomento urgente nelle sedi
in cui la comunità internazionale discute delle più gravi violazioni dei
diritti umani nel nostro tempo, e agirà di conseguenza.
Ilan Pappe, palestinechronicle.com - storico e
professore all’Università di Exeter -
(palestinechronicle.com/israels-relentless-war-against-the-children-of-palestine/)
IL
MULTILATERALISMO
E LA
POLITICA ESTERA
DELL’UNIONE
EUROPEA.
Thefederalist.eu
- SERGIO PISTONE – (3 aprile 2022) – ci dice:
Sviluppo quattro schematiche considerazioni.
1. Il sistema internazionale fondato sugli Stati
sovrani si trova in una situazione contradditoria che Kant aveva già chiarito
nei suoi aspetti essenziali.
Da una
parte si trova strutturalmente in uno stato di anarchia internazionale, dal
momento che non esiste una statualità a livello internazionale, cioè l’unica
struttura che può imporre la stabile convivenza pacifica, come è avvenuto
all’interno degli Stati nella misura in cui si sono costituiti in modo
efficace, realizzando cioè il monopolio pubblico della forza che impedisce la
tendenza a farsi giustizia individualmente.
Le controversie fra gli Stati sono per contro
risolte in ultima analisi con il ricorso alla forza.
Da qui
la perenne corsa agli armamenti, le varie forme di imperialismo e le guerre.
Occorre
precisare che l’anarchia internazionale non significa una situazione del tutto
caotica, dominata dallo scontro continuo, irrazionale e imprevedibile fra gli
Stati e quindi una situazione priva di qualsiasi ordine.
Il disordine internazionale è in effetti
attenuato dal ruolo delle grandi potenze che, anche se non eliminano la corsa
agli armamenti e le guerre, rendono il sistema internazionale meno caotico e
imprevedibile.
Se il
sistema internazionale è caratterizzato dalla anarchia con le conseguenze
indicate, dall’altra parte esiste una spinta strutturale alla cooperazione
pacifica, alimentata dall’interdipendenza internazionale.
Con
ciò si intende che l’umanità deve affrontare delle sfide comuni di enorme
portata (dallo sviluppo economico e tecnologico, allo sviluppo della
distruttività degli armamenti, alla salvaguardia dell’ambiente) che richiedono
una cooperazione pacifica.
Questa
spinta è alla base del multilateralismo, cioè del tentativo di creare sistemi
di cooperazione pacifica internazionale.
Questi sono inadeguati perché non danno vita
ad una statualità internazionale (a causa della resistenza strutturale alla
limitazione della sovranità nazionale), ma rappresentano i primi embrionali
passi in direzione dell’unificazione mondiale, cioè della statualità mondiale
(che non potrà che essere, in definitiva, una federazione democratica
multilivello).
Esempi fondamentali del multilateralismo sono
oggi l’ONU, l’OMC, l’OMS e gli organismi tecnocratici come l’Unione Postale
Universale.
2. Oggi è all’ordine del giorno la necessità di un
grandioso avanzamento del multilateralismo.
In
effetti è evidente che l’umanità si è venuta a trovare di fronte ad un
intreccio inaudito di sfide esistenziali che stanno in sostanza producendo la
globalizzazione dell’alternativa “unirsi o perire” che è stata alla base
dell’avvio dell’unificazione europea dopo la seconda guerra mondiale e che è la
spinta strutturale che ha portato avanti il processo (ancora incompiuto) in
direzione della federazione europea.
Queste
sfide esistenziali pongono il mondo di fronte ad una drammatica alternativa:
senza
un urgente e sostanzioso avanzamento del multilateralismo si apre la
prospettiva di un imbarbarimento dell’umanità che tende a comprometterne la
sopravvivenza.
Le
sfide esistenziali con cui l’umanità si confronta sono chiaramente la questione
ecologica (con il riscaldamento climatico in primo piano), le pandemie, la
digitalizzazione e il disordine internazionale.
In
questa sede mi soffermo su quest’ultimo che rappresenta la sfida più pressante.
È
chiaro che nel quadro dell’anarchia internazionale l’ordine è sempre precario,
ma emergono situazioni di accentuato disordine.
In una
visione schematica vanno sottolineati due punti.
—
L’interdipendenza economica crescente, che con la globalizzazione ha prodotto
un grandioso sviluppo economico, è d’altra parte caratterizzata da enormi
squilibri economico-sociali e territoriali.
Le conseguenze sono: le sempre più gravi crisi
economico-finanziarie, l’instabilità cronica di intere regioni del mondo, il
fenomeno degli Stati falliti, le guerre locali dilaganti, il terrorismo
internazionale, le migrazioni bibliche, l’enorme sviluppo della criminalità
internazionale.
— A
livello delle grandi potenze e degli Stati più avanzati si è affermato, in
mancanza (dopo la fine del bipolarismo) di potenze in grado di esercitare una
leadership stabilizzatrice, un pluripolarismo fortemente conflittuale.
Esso è
caratterizzato (dopo l’attenuazione in coincidenza con la fine della guerra
fredda) da una grandiosa ripresa della corsa agli armamenti (accompagnata dalla
proliferazione delle ADM, che si sta estendendo alle armi cibernetiche) e dal
diffondersi di sistematico di politiche imperialistiche.
In questo contesto di pluripolarismo
fortemente competitivo, il fenomeno più preoccupante è rappresentato
dall’imperialismo russo, che con la guerra in Ucraina rischia di far scoppiare
una guerra mondiale.
A questo proposito va sottolineato che la
Russia è una “potenza povera”, cioè strutturalmente arretrata dal punto di
vista economico-sociale e politico-democratico, ma molto forte sul piano
militare. Il che spinge gli autocrati russi (dagli Zar a Putin) a trovare
nell’imperialismo uno strumento fondamentale per mantenere il consenso e quindi
il potere.
È
chiaro che la risposta ai pericoli fatali provenienti dall’attuale disordine
internazionale è un netto avanzamento del multilateralismo.
3. L’UE è chiamata a svolgere un ruolo determinante
rispetto a questa prospettiva.
Per rendersene conto occorre sottolineare che
essa ha una vocazione strutturale ad operare in direzione di un mondo più
giusto, più pacifico ed ecologicamente sostenibile.
In
sostanza ha una radicata tendenza ad ispirare la sua azione internazionale al
modello della “potenza civile”, una potenza cioè che persegue il superamento
della politica di potenza, in altre parole, una strutturale cooperazione
pacifica sul piano internazionale.
In
effetti tutti gli Stati del mondo sono di fronte alla sfida del superamento del
sistema di Vestfalia (che alla fine della guerra dei Trent’anni nel 1648 ha
formalizzato il sistema internazionale fondato sulla sovranità statale
assoluta) perché è in gioco la stessa sopravvivenza dell’umanità, e la crisi
storica di questo sistema (dovuta alla sempre più profonda interdipendenza al
di là degli Stati ed alla crescente distruttività delle guerre) è il filo
conduttore per comprendere gli sviluppi contraddittori della nostra epoca, che
vede convivere in un equilibrio complesso e precario la politica di potenza e
gli egoismi statali con le spinte al loro superamento.
Ma in questo contesto l’UE ha un’esigenza
particolarmente radicata ad operare in direzione del superamento della politica
di potenza e, quindi, della sovranità assoluta.
Da una
parte, infatti, l’unificazione europea — un grandioso processo di unificazione
tra Stati sovrani avviatosi dopo la catastrofe delle guerre mondiali — è la
prima rilevante risposta alla crisi storica del sistema di Vestfalia.
Dall’altra
parte, l’UE deve esportare la sua esperienza perché, se non si procede verso un
mondo più giusto e più pacifico, è destinato ad essere compromessa l’European Way of Life (democrazia liberale, stato sociale,
diritti umani, sensibilità ecologica, bassa spesa militare) e, quindi, lo
stesso processo di unificazione europea.
Va
anche ricordato che il fatto di essere la più grande potenza commerciale del
mondo implica inoltre una particolarmente profonda interdipendenza con il resto
del mondo e perciò un interesse vitale a un sistema economico mondiale meglio governato
e più equilibrato ed anche socialmente ed ecologicamente più sostenibile.
E’ un dato di fatto che, nell’indicazione
programmatica del proprio ruolo internazionale (nei trattati relativi
all’unificazione europea e nella Dichiarazione del 2009 dell’Alto
rappresentante per la PESC, Xavier Solana Un’Europa sicura in un mondo
migliore, poi ripresa nelle successive dichiarazioni sulla strategia europea),
l’UE non faccia riferimento solo agli interessi e alla sicurezza europei, ma
anche alla pace nel mondo da realizzare attraverso la solidarietà, lo Stato di
diritto, il sistema liberaldemocratico, la globalizzazione dei diritti umani,
le integrazioni regionali, il multilateralismo contrapposto all’unilateralismo degli
USA.
L’orientamento
programmatico ha un risvolto concreto nel primato che ha l’UE, nonostante
l’incompleta unificazione, per quanto riguarda l’aiuto allo sviluppo ed
alimentare, le missioni di pace e il perseguimento dei diritti umani, il ruolo
fondamentale rispetto a iniziative quali il Tribunale Penale Internazionale e
l’impegno a contrastare il riscaldamento climatico.
Ciò
sottolineato, vediamo sinteticamente le politiche che l’UE è chiamata a portare
avanti per l’avanzamento del multilateralismo:
—
contribuire in modo determinante a bloccare l’imperialismo russo lavorando per
la pace nella guerra in Ucraina che deve comprendere: il ritiro delle forze
armate russe dall’Ucraina, l’impegno ucraino a non entrare nella NATO,
l’attuazione degli accordi di Minsk (che nella sostanza implicano una trasformazione
dell’Ucraina in uno Stato federale implicante una reale autonomia per le zone
con una forte presenza russa), l’apertura all’ingresso dell’Ucraina nell’UE
(che sarebbe decisivo per la ricostruzione del paese a cui dovrà ovviamente
contribuire la Russia).
Dopo
la fine della guerra in Ucraina dovrà prender avvio il processo di costruzione
della Casa comune europea, cioè dell’integrazione fra Europa, Stati Uniti e una
Russia che si avvii verso il sistema democratico, anche sulla base di un Piano
Marshall dell’UE e degli SUE;
—
l’impegno per bloccare la guerra fredda fra USA e Cina partendo da una
conferenza per la sicurezza e la cooperazione globale;
— la
spinta alla creazione di una CECA mondiale impegnata sulla sfida ecologica e
quella energetica;
— una
seria politica mondiale per lo sviluppo (in particolare dell’Africa) come
strumento decisivo di pacificazione e di progresso democratico;
— il
quadro generale in cui devono inserirsi queste politiche è il processo di
riforma e di democratizzazione dell’ONU che deve comprendere la
regionalizzazione del Consiglio di Sicurezza e una assemblea parlamentare
mondiale.
4. È evidente che una politica europea efficace per il
decisivo avanzamento del multilateralismo richiede un salto qualitativo della
capacità di agire dell’UE sul piano internazionale, che implica a sua volta un
salto qualitativo nel processo di federalizzazione europea.
Ciò che mi sembra importane sottolineare in
questa sede è che questo salto è oggi effettivamente possibile.
In
effetti l’alternativa “unirsi o perire” che comincia a manifestarsi a livello
mondiale è giunta al momento culminante in Europa, dove o c’è il salto federale
in tempi rapidi, o il processo di unificazione europea si bloccherebbe e ciò
favorirebbe una evoluzione catastrofica nel mondo.
Alle
sfide globali ricordate (comprendente quella dell’imperialismo russo) che
impongono di agire tempestivamente si aggiunge la Conferenza sul Futuro
dell’Europa che apre la concreta prospettiva di dare il via ad un processo
costituente degli Stati Uniti d’Europa (come ha affermato il documento che è
alla base del nuovo governo tedesco).
Tutta
l’azione federalista è diretta a favorire questo sviluppo che aprirebbe la
strada ad un sostanzioso avanzamento del multilateralismo.
Concludo
sottolineando che la parola d’ordine “unire l’Europa per unire il mondo” è non
solo valida, ma particolarmente attuale.
(Sergio
Pistone)
La
corsa dell’Unione europea
contro
il tempo.
Le
responsabilità dell’Italia.
Thefederalist.eu
– Redazione – (7 agosto 2022) – ci dice:
Il 20
luglio, giorno della caduta del governo Draghi in Italia, rischia di essere
ricordato come una di quelle date cruciali che cambiano drasticamente la
direzione dei processi politici.
La
crisi del governo italiano ha infatti una valenza non solo nazionale, ma
investe anche l’Unione europea e tutto il fronte delle democrazie occidentali.
L’Italia
è un paese determinante nel quadro europeo, e di conseguenza lo è anche sul
piano internazionale.
L’esperienza
appena conclusa del governo guidato da Mario Draghi lo ha dimostrato.
Grazie
al sussulto di responsabilità di tutte le forze politiche italiane che hanno
accettato — con l’eccezione della estrema sinistra e di Fratelli di Italia — il
patto di unità nazionale proposto dal Presidente della Repubblica e grazie
all’autorevolezza e alla competenza di Mario Draghi, l’Italia non ha solo
raggiunto risultati importantissimi sul fronte interno (campagna di
vaccinazione e lotta alla pandemia, ripresa economica con una delle crescite
più alte in Europa e a livello internazionale, politiche di sostegno sociale,
avvio della diversificazione energetica, solo per citarne alcuni esempi che si
aggiungono al lavoro per il PNRR), ma ha anche giocato un ruolo di leadership
sul piano europeo e internazionale. Draghi è stato l’interlocutore privilegiato
degli USA in Europa per fissare la linea a sostegno dell’Ucraina, come reso
evidente anche dal ruolo determinante che ha avuto nella decisione sulla
candidatura dell’Ucraina all’Unione europea; e nell’UE, insieme a Macron, ha guidato
il fronte dei Paesi impegnati a costruire un’Europa forte e coesa, dotata di
una sua indipendenza strategica.
In questa ottica ha lavorato su una serie di
proposte cruciali (dall’energia alla difesa e alla riforma della finanza
pubblica europea) e sostenuto il processo di riforma dei Trattati, dalla
Conferenza sul futuro dell’Europa alla richiesta da parte del Parlamento
europeo di aprire una Convenzione ex art. 48 TUE, con l’obiettivo più volte
dichiarato di modificare in senso federale il sistema politico-istituzionale
europeo.
Aver
provocato la caduta del governo Draghi ha quindi non solo portato l’Italia in
acque incerte e agitate, ma ha ancor di più privato di una guida decisiva
l’Europa, fermando quel processo di rafforzamento così cruciale per il successo
nel confronto (accelerato e reso drammaticamente inevitabile da Putin con
l’aggressione all’Ucraina) tra democrazie liberali e autocrazie.
La
guerra lanciata dalla Russia contro l’Ucraina, proprio per aver portato la
frattura tra Occidente e potenze autocratiche a livelli non più sanabili
facendo ricorso a politiche di dialogo, ha aperto molte incognite sul futuro di
un’Europa che è stata costretta a prendere atto della propria vulnerabilità e
della mancanza di strumenti di difesa adeguati.
Se
oggi questa aggressione non fosse contrastata con coraggio e determinazione
dagli ucraini stessi con il supporto esterno della NATO e l’impegno
innanzitutto americano, la minaccia diretta di Mosca avrebbe sicuramente
investito in tempi brevi anche alcuni dei paesi membri dell’UE.
In
questo quadro, ancora una volta, gli europei si ritrovano dipendenti per la
loro sicurezza da un paese esterno (gli USA), che a sua volta è condizionato da
una situazione politica interna dagli sviluppi imprevedibili;
ma la
differenza, rispetto al passato dopo il crollo dell’URSS, è che questa volta la
guerra è in Europa, e il fatto che il ritardo europeo (sul piano politico,
oltre che militare) sia così profondo da non potere essere colmato in tempi
politicamente utili rispetto alla guerra in corso, mette a nudo chiaramente
quella realtà dell’Europa “ventre molle” del fronte occidentale tante volte
richiamato da analisti e politici americani.
Si
aggiunga, a conferma di tutto ciò, che gli europei si ritrovano a dipendere dal
nemico in un settore vitale come quello dell’energia e, attraverso questa
dipendenza, finanziano il proprio aggressore profumatamente.
In
più, hanno al proprio interno porzioni importanti di opinione pubblica e di
classe dirigente che parteggia per il nemico e lo sostiene attivamente (mentre
l’opposizione democratica in Russia o in Cina è ridotta facilmente al
silenzio).
A questo va aggiunto che, di fronte alle
conseguenze economiche della guerra — che ricadono su economie già gravemente
colpite dalla pandemia e che avevano appena iniziato la ripresa — gli europei
hanno una moneta unica forte e autorevole, che però, in assenza dei necessari
strumenti concomitanti fiscali ed economici, è minacciata dalla fragilità di
una parte degli Stati che vi partecipano, dal loro debito eccessivo e dalle
loro carenze rispetto alle quali mancano strumenti strutturali di supporto;
mentre l’inflazione rende complesso anche
l’utilizzo della leva della politica monetaria della Banca centrale, in passato
determinante per salvare l’euro.
Infine, quando devono agire uniti, gli
europei, nel quadro dell’UE, hanno una struttura decisionale che riflette la
loro frammentazione e l’assenza di una sovranità comune democratica e
legittima, per cui si trovano a ragionare troppo spesso in base non ad una
visione forte di grande potenza continentale, ma alla somma di tante visioni
nazionali deboli; in più per agire sono anche privi di vere risorse e strumenti
adeguati.
Questo
quadro, senza togliere nulla al valore di quanto costruito in oltre settanta
anni di integrazione, dimostra come l’UE si sia crogiolata troppo a lungo
nell’illusione che il Mercato unico fosse la risposta politica adeguata alle
sfide del nostro tempo e che fosse in grado, unito ad una gestione sana e
scrupolosa delle finanze nazionali e a buone pratiche nazionali di governo, di
garantire la pace, il successo dei nostri sistemi economici e sociali e delle
nostre democrazie.
La realtà, invece ha visto crescere le minacce attorno
a noi a dismisura, lasciandoci del tutto inadeguati a fronteggiarle.
Basta
confrontare le indicazioni contenute nello “Strategic Concept della NATO” e
nello “Strategic Compass dell’UE”.
Di fronte ad un’analisi molto simile delle
minacce che dobbiamo fronteggiare e degli attacchi che rischiamo (altamente) di
dover subire, l’uno propone le soluzioni che derivano dalla forza della potenza
tecnologica e militare (grazie al ruolo degli USA);
l’altro
un cantiere tutto da costruire, e rispetto al quale non ci sono ancora neanche
gli strumenti per avviare i lavori. Parole da una parte, quindi, rispetto al
potere reale dall’altra.
La
descrizione dello stato in cui si trova l’Unione europea spiega bene perché
rischia di essere fatale il fatto di aver fermato chi in Europa era alla guida
del cambiamento.
La
riforma per costruire l’unione politica federale dell’UE è fondamentale per
rafforzare la presenza internazionale dell’UE, la sua capacità di agire con
autorevolezza internamente ed esternamente e anche per offrire ai cittadini e
alle opinioni pubbliche (spesso sfiduciate e deluse dalle debolezze delle
istituzioni e delle politiche nazionali) un progetto lungimirante e profondo di
rifondazione della politica e del modello democratici.
In un
confronto tra sistemi alternativi, in cui l’autocrazia sfida con la sua
apparente efficacia la complessità e la inclusività dei meccanismi decisionali
democratici, il rafforzamento del sistema democratico diventa il fattore
dirimente;
e,
vista la debolezza strutturale a livello nazionale, è evidente che la
democrazia può rilanciarsi solo se si realizza pienamente a livello europeo.
L’evoluzione del sistema istituzionale europeo
necessario a tal fine si scontra però con molti ostacoli, dall’inerzia di un
paese chiave come la Germania (a lungo sostenitore del sistema di un’UE grande
Mercato unico e ora in difficoltà a modificare il suo modello economico e
politico), alla freddezza dei paesi “frugali” e di quelli del Nord Europa, fino
all’aperta difesa dell’indebolimento politico dell’UE, a favore del ritorno ad
un regime di piena sovranità degli Stati membri, da parte dei pasi dell’Europa
orientale.
Il
tandem franco-italiano era il motore indispensabile per costruire la nuova
Europa, ed è stato fermato.
Tenendo
conto di come la guerra contro l’Ucraina abbia alzato il livello della sfida
contro i nostri sistemi democratici, e di come il fattore tempo si sia fatto
determinante, questa brusca frenata è particolarmente pericolosa.
A
questo si deve aggiungere l’incognita se l’Italia potrà mai recuperare il ruolo
svolto sotto la presidenza del Consiglio di Mario Draghi.
Perché
ciò accada, il 25 settembre dovrà vincere la continuità politica e
istituzionale, fondata su un grande patto che si apra nuovamente in ottica
nazionale, rispetto all’esperienza del governo uscente.
Tutto
in teoria è possibile, benché difficile, e potrebbe anche prevalere — chiunque
vinca — il senso di responsabilità verso l’interesse nazionale e la coerenza
verso i valori democratici e di libertà, che sono perduti al di fuori del
quadro europeo.
A
sostegno di un possibile miracoloso rientro in campo dell’Italia vi è il fatto
ormai riconosciuto che l’Italia non si governa “contro” l’Europa, ma solo
lavorando in sinergia con i nostri partner europei e con l’UE e rispettando gli
impegni comuni;
così
come è un fatto riconosciuto che se prevarranno a livello nazionale delle
scelte e dei comportamenti irresponsabili che priveranno l’Italia delle
protezioni europee, il nostro Paese ha davanti a sé un unico destino: la crisi
irreversibile e fallimento.
Anche
solo se il prossimo governo vorrà schierarsi a favore di un indebolimento
dell’Unione europea, cambiando così il quadro delle nostre alleanze europee,
non solo si metterà in grave pericolo la coesione e la stessa tenuta dell’UE,
ma si rafforzeranno parallelamente le tentazioni all’immobilismo e le regole
rigide di controllo che sono così dannose per la nostra tenuta a livello di
sistema paese.
L’Italia
quindi ha in mano una parte importante del destino europeo e ha, al tempo
stesso, un disperato bisogno di un’Europa forte e coesa. Chiunque vada al
governo dopo il 25 settembre non può prescindere dal misurarsi con questo
fatto.
D’altro
canto, il comportamento delle forze che hanno fatto cadere Draghi in Senato il
20 luglio sembra testimoniare che non c’è limite all’irresponsabilità, quando
una classe politica ha in gran parte perso il senso del dovere e del proprio
compito.
Le
forze che hanno mantenuto la fiducia a Draghi, e che hanno mostrato di essere
coscienti delle esigenze vere del Paese e della necessità di porle al di sopra
degli interessi di parte, sono al momento in minoranza e non sembrano riuscire
ad esprimere una strategia elettorale all’altezza del grave momento storico,
complice anche le incongruenze di una pessima legge elettorale.
Gli
altri, nuovi o vecchi oppositori del governo di unità nazionale, si suddividono
tra un partito come il Movimento 5 Stelle che cerca di recuperare la sua anima
populista per non scomparire dal panorama politico, dopo aver cercato per mesi
di portare l’Italia su posizioni anti-Nato per quanto riguarda il sostegno
italiano all’Ucraina;
la
Lega di Salvini, che ha, come il M5S, contestato Draghi sull’Ucraina e su
alcune riforme essenziali del PNRR;
Forza Italia che predica il suo ancoraggio
alla famiglia europea del PPE e al tempo stesso, sotto la guida di Berlusconi,
mantiene l’ambiguità verso Putin e rievoca vecchi cavalli di battaglia
populisti;
infine Fratelli di Italia — cresciuto
nell’opposizione al governo, alle sue riforme e alle sue scelte europee, con
posizioni tradizionalmente e coerentemente anti-europee e sovraniste, aperto
sostenitore dei movimenti illiberali in Europa — che in vista di una probabile
vittoria elettorale e di una conseguente responsabilità di governo recupera in
pochi giorni l’europeismo, la fedeltà al sistema costituzionale (salvo
mantenere le posizioni presidenzialiste), la continuità con l’agenda del
governo precedente e si accredita presso l’Amministrazione americana come
garante della posizione atlantista del suo futuro governo.
Sarà,
questa svolta improvvisa del partito favorito alle urne e alla guida del
prossimo governo, una mossa tattica per evitare una tempesta perfetta nel
momento in cui sale al potere?
Oppure
è già in nuce la presa d’atto che Draghi aveva ragione su tutto, e che pertanto
fargli l’opposizione è stato politicamente sbagliato, anche se elettoralmente
redditizio?
Potrà l’eventuale prossimo esecutivo a
trazione Fratelli di Italia superare le contraddizioni che ne hanno reso
probabile la nascita?
O in
alternativa potrà vincere in Italia uno schieramento di forze che nel suo DNA
apertamente si richiama alla continuità con il governo uscente, con numeri
sufficienti per poter far riguadagnare immediatamente la credibilità
all’Italia?
La
risposta è nelle mani degli elettori italiani e delle forze politiche.
In una campagna esposta agli attacchi ibridi
della disinformazione e dell’ambiguità delle posizioni di molti contendenti
l’Italia gioca una partita cruciale per il futuro delle democrazie occidentali.
Un’Italia europea per un’Europa federale,
sovrana e democratica è appena stata messa al tappeto dal populismo e dagli
interessi di parte.
Riusciranno comunque a prevalere
responsabilità, buon senso e coerenza rispetto al modello liberal-democratico,
insieme alla coscienza del valore dirimente dell’Europa per il nostro futuro?
Sarebbe bello che questo dibattito avvenisse
realmente per permettere ai cittadini italiani di prendere coscienza della vera
posta in gioco il 25 settembre.
(Pavia,
7 agosto 2022).
Il
ruolo delle sanzioni nel
nuovo
ordine mondiale.
Affariinternazionali.it
- Emanuele Lorenzetti – (12 Settembre 2022) – ci dice:
Con il
crollo del Muro di Berlino, avvenuto il 9 novembre 1989, si aprì una fase di
conflitti in Europa che si spostarono dalla sfera politico-militare a quella
economico-finanziaria.
La globalizzazione dell’economia ha generato
una forte spinta al processo di liberalizzazione dei commerci, instaurando un
confronto inter-governativo prevalentemente basato sulla discussione di
interessi economici.
Queste
trattative di tipo settoriale sono impiegate tra i Paesi avanzati, sviluppati,
in via di sviluppo e terzomondisti per la definizione dei loro rapporti di
forza nel ‘Grande Gioco’.
L’interesse
economico, posto al centro delle trattative bi-multilaterali, viene oggi usato
in modo strumentale dai governi nazionali, gettando così le radici per un
processo di ‘weaponizzazione’ dell’economia internazionale.
Gli
attori della politica estera.
La
guerra moderna si combatte fra aziende, Stati e collettività nella definizione
di una geografia del cambiamento che intende instaurare un nuovo equilibrio
socio-economico dell’ordine mondiale.
Da qui
la supposta tesi, che il futuro ordine mondiale non sarà dettato tanto sulla
base della dicotomia tra sistemi aperti e sistemi chiusi, e la relativa lotta
per la predominanza dell’uno o dell’altro sistema, quanto invece da quei Paesi
che sapranno meglio coniugare i plurimi e differenti interessi tra aziende,
Stati e persone presenti entro ciascun confine nazionale.
Per
questo motivo, l’analisi della politica estera deve passare, oggi più che ieri,
attraverso lo studio della geopolitica delle sanzioni che attualmente si
presenta sullo scenario internazionale e domina i rapporti di forza tra le
nazioni, nelle sue plurime dimensioni di sicurezza economico-finanziaria
(economic warfare), di politiche di import-export control, di guerre
commerciali, di adozione di regole di trade compliance, di procedure
restrittive e di controllo (screening) sugli investimenti diretti esteri.
Da
Stato vestfaliano a Stato mercato.
Le
alleanze politiche inter-governative, a differenza del passato, si fanno e
disfano in funzione del gioco di triangolazione dei regimi sanzionatori, che
colpiscono la società, l’economia e il commercio di una nazione.
Gli
interessi nazionali sono sempre più legati alle logiche di mercato, dove i
governi spostano l’attività cruciale dalla sicurezza militare a quello della
competitività economica, la cui tutela assume una priorità strategica e detta
le linee di politica estera e di difesa.
Le
grandi aziende entrano nella sfera pubblica e giocano un ruolo, non secondario,
all’interno del processo decisionale di un governo nazionale.
In questo modo, il tradizionale Stato vestfaliano ha
subito alcune trasformazioni di carattere, di priorità politiche e di ricerca
informativa, assumendo, secondo una felice definizione del francese Treverton,
la forma di Stato-mercato.
L’informazione
economica, dunque, costituisce oggi il principale fabbisogno informativo per
qualsiasi governo nazionale che opera in un contesto geopolitico mondiale dominato
dal nuovo multilateralismo sanzionatorio.
La
nuova disciplina sanzionatoria.
La
condotta degli Stati ha conosciuto nel tempo una maggiore e più ricca
riflessione sulla formulazione di adeguate politiche sanzionatorie, che
dall’essere generalizzate sono andate sempre più a definire gli specifici spazi
applicativi.
Si
parla, a tal proposito, di sanzioni mirate che differiscono dalle sanzioni
generalizzate, in quanto le prime traggono la loro essenza nell’affermazione
del principio di responsabilità dell’individuo, nato sul finire del Novecento
con la Dichiarazione delle Nazioni Unite sui Difensori dei Diritti Umani.
Si
compì, in questo modo, un notevole salto di qualità giuridico che riconobbe,
quali soggetti alla disciplina sanzionatoria, non più solamente gli Stati ma
accanto a loro anche singoli individui, gruppi di persone, realtà aziendali e
partiti politici che, d’ora in avanti, avrebbero dovuto rispondere in caso di
mancato rispetto dei suddetti principi e diritti umani universalmente
riconosciuti.
La
peculiarità sulla quale bisogna concentrare maggiore attenzione risiede sulla
funzione prescrittiva della sanzione economica, in quanto la coercizione
economica non rappresenta uno strumento aleatorio o ristretto all’ambito
economico, ma è un elemento giuridicamente necessario affinché l’Onu possa
essere legittimata a intervenire nei teatri di crisi, al fine di ristabilire la
pace e la sicurezza internazionale.
È quanto emerge da una combinata analisi delle
disposizioni contenute negli Artt. 41 e 42 della Carta delle Nazioni Unite,
dove si evince che l’uso della forza può essere considerato e applicato dal
Consiglio di sicurezza solamente dopo che ne siano stati verificati tutti gli
effetti prodotti dall’impiego dello strumento sanzionatorio verso il Paese
target.
Ne
deriva l’importanza strategica, nonché normativa, dello strumento delle
sanzioni nella politica estera e nel diritto internazionale.
Il
multipolarismo sanzionatorio.
Nella
politica estera dominata dal nuovo multipolarismo sanzionatorio si è rafforzata
la competizione per la sicurezza economica che vede coinvolte, anzitutto, le
due superpotenze globali, Stati Uniti d’America e Repubblica Popolare Cinese.
Si è
poi registrata un’accresciuta instabilità negli equilibri internazionali tra
gli attori statali di rilevanza geopolitica regionale, tra i quali spiccano
Iran, Russia, India, Pakistan, Turchia, Israele ed Egitto.
Anche
gli strumenti sanzionatori a disposizione dei governi si sono evoluti e hanno
conosciuto un’adeguata rimodulazione verso le nuove frontiere del
multipolarismo sanzionatorio.
Il
sistema di interdipendenza economica tra gli Stati, venutosi a creare con la
pratica diffusa del commercio estero quale modello di sviluppo e competitività
nazionale impone, tuttavia, alle misure restrittive, alcuni limiti al moderno
modello di economia industriale, mostrando una prima caratteristica
fondamentale dell’arma-sanzione.
La
scelta di adottare una politica sanzionatoria per un governo, infatti, non ha
mai alla base motivazioni economiche, ma solo e sempre motivazioni
geopolitiche, che riflettono la natura degli equilibri di forza presenti nel
sistema internazionale, dentro i quali e per i quali un governo nazionale è
chiamato a muoversi, al fine di massimizzare la rispettiva area di influenza
regionale.
Le
nuove sfide securitarie dal cyber-spazio.
Nel
2022, con lo scoppio della guerra in Ucraina, il quadro geopolitico
internazionale ha conosciuto un ulteriore livello di frammentazione delle
minacce, dove il cyber-spazio ha incontrato ed abbracciato anche le sanzioni
economiche.
La
dimensione multi-livello della conflittualità (militare, ecofin, cibernetica)
presente nell’Est dell’Europa, in Ucraina, ha reso più perniciosa la
possibilità di difesa degli interessi strategici nazionali e maggiormente
improbabile la stessa efficacia di risposta del blocco occidentale nei
confronti della Federazione Russa.
Motivo
per cui le sanzioni occidentali contro Mosca potrebbero non sortire il generale
effetto desiderato verso il governo target perché potenzialmente aggirate
attraverso l’impiego di strumenti propri del quinto dominio di conflittualità
contemporanea.
Il
Financial Crimes Enforcement Network (FinCEN) del Dipartimento del Tesoro degli
Stati Uniti ha segnalato la possibilità di minacce provenienti dai cyber-attack
e ha allertato, quindi, tutte le istituzioni finanziarie, anche di Paesi
alleati, ad essere vigili contro le intenzioni russe.
Gli
Stati Uniti, impegnati a sostenere l’Ucraina insieme ai principali partner
europei, hanno emanato importanti misure di restrizione economica nei confronti
di personalità, istituzioni e privati russi.
Per
questo motivo, stando all’allerta FinCEN, taluni esponenti russi sarebbero
impegnati nello studio e nella predisposizione di metodi di aggiramento delle
misure restrittive economiche attraverso l’utilizzo di cyber-attack,
principalmente per via della metodologia ransomware.
Le red
flags, contenute dalla FIN-2022-Alert001, corrispondono a precisi indicatori
che consentono di identificare le potenziali attività usate per evitare le
sanzioni occidentali.
La
crisi del “Nuovo Ordine Mondiale”.
Fondazionefeltrinelli.it
– Alessandro Colombo – (23-3-2022) – ci dice:
Sebbene
non sia ancora possibile prevedere i suoi esiti immediati, è certo che
l’attuale guerra in Ucraina segnerà una svolta nelle relazioni internazionali
del XXI secolo.
Intanto
perché alimenterà o, meglio, accentuerà una tendenza già riconoscibile negli
ultimi anni alla rimilitarizzazione dei rapporti tra gli stati, anzi la
estenderà definitivamente anche ai rapporti tra le principali potenze.
Questo
elemento è già sufficiente a segnare uno stacco rispetto all’epoca d’oro del
dopoguerra fredda.
Per
quasi trent’anni larga parte dell’opinione pubblica, dei decisori politici e
degli stessi studiosi si era abituata a ritenere che la guerra, almeno nella
sua forma classica e nelle sue principali manifestazioni, avesse cessato di
costituire un elemento-cardine della politica internazionale e dei calcoli
degli attori, per lasciare spazio a due tipi residuali e, appunto, marginali di
conflitti armati:
le
guerre civili combattute al di fuori dello spazio centrale del sistema
internazionale da fazioni a propria volta marginali delle rispettive società; e
il complesso delle “guerre di polizia” condotte dai paesi occidentali nelle
aree periferiche, attraverso l’uso di uno strumento militare incomparabilmente
superiore per capacità tecnologiche e organizzative ai propri nemici.
La
guerra in Ucraina ci riporta, invece, alla più tradizionale delle guerre
interstatali.
Con l’aggravante che a questa eventualità torneranno
a prepararsi anche tutti gli altri Stati, aumentando come prima cosa le
rispettive spese per la difesa.
Fianco
a fianco alla militarizzazione, è prevedibile che la guerra in Ucraina
contribuisca alla pericolosa bipolarizzazione del sistema internazionale già implicita
nella retorica dello scontro tra democrazie ed autocrazie che aveva appena sostituito la
bipolarizzazione ancora più irrealistica della cosiddetta “guerra globale al
terrore”.
Come
quest’ultima, anche la bipolarizzazione emergente lungo l’asse democrazie/
autocrazie avrà i suoi problemi a conciliarsi con la crescente scomposizione
geopolitica del sistema internazionale in insiemi regionali sempre più
eterogenei tra loro.
Ma,
nel frattempo, la bipolarizzazione ha un impatto ambivalente sull’Europa.
Da un
lato, essa ha il vantaggio di allontanare lo spettro dell’abbandono
periodicamente agitato dalla precedente amministrazione Trump, restituendo
all’Europa il ruolo di interlocutore e partner privilegiato degli Stati Uniti.
Ma,
dall’altro lato, il “richiamo all’ordine” dell’Europa ha il triplice svantaggio
di intralciare sul nascere la flessibilità diplomatica che sembrerebbe più
consona a un contesto multipolare quale quello a cui la stessa Unione Europea
dichiara di ispirarsi;
di
intrappolarla, al contrario, in una competizione regionale con la Russia e
globale con la Cina;
di
sfumare ulteriormente le velleità già deboli di una autonomia politica e
strategica dell’Unione.
A
propria volta, l’approfondimento delle fratture politiche e strategiche rischia
di disarticolare lo spazio economico internazionale, rovesciando anche un altro
dei luoghi comuni della fase di ascesa del nuovo ordine liberale seguito alla
fine della guerra fredda.
Se,
ancora fino a pochi anni fa, la convinzione prevalente era che la
globalizzazione economica si sarebbe portata dietro presto o tardi qualche
forma di globalizzazione politica e culturale, oggi scopriamo che sono le
fratture politiche a mettere a rischio la globalizzazione economica.
I
segnali in questa direzione sono inequivocabili, a maggior ragione in quanto si
sommano a quelli già prodotti dalla pandemia del Covid 19: la spinta (politica
più ancora che economica) a “riportare a casa” attività in precedenza
delocalizzate, almeno in settori nuovamente dichiarati “sensibili”; la
riscoperta della promessa di “confinamento” e “messa in sicurezza” dei confini
dei singoli Stati nazionali e delle stesse organizzazioni regionali (Unione
Europea compresa);
più in
generale, la rinnovata enfasi sulla necessità strategica dell’autonomia (a
cominciare da quella energetica), che vede sempre di più la globalizzazione
come un vettore di vulnerabilità invece che di mutuo arricchimento.
Ma
l’effetto più impressionante della guerra in Ucraina è quello di portare
definitivamente allo scoperto i grandi nodi irrisolti del passaggio dal XX al
XXI secolo.
Il
primo è il fallimento politico, e diplomatico e strategico del progetto di
“Nuovo Ordine Mondiale” varato all’inizio degli anni Novanta ed entrato in
crisi irreversibile dalla metà del primo decennio del nuovo secolo.
Almeno
due capitoli di questo fallimento si sono manifestati in pieno in questa crisi.
Il
primo è la mancata risposta al problema capitale di tutti i grandi dopoguerra,
quello di come trattare il nemico sconfitto:
lo
stesso problema che aveva già costituito il contrassegno di tutti i grandi
dopoguerra degli ultimi duecento anni, oltre che il primo e decisivo criterio
distintivo tra di loro.
All’indomani
delle guerre napoleoniche, la Francia era stata rapidamente riammessa nel
concerto delle grandi potenze;
dopo
la Prima guerra mondiale, la Germania era stata invece duramente punita sia sul
piano politico che su quello economico che su quello cerimoniale;
dopo la
Seconda guerra mondiale, la Germania era stata punita ancora più duramente
attraverso la sua stessa divisione territoriale, ma le due Germanie erano state
prontamente accolte nei rispettivi sistemi di alleanza.
Tra il
1990 e oggi, al contrario, alla Russia sono stati rivolti segnali ambigui, a
volte clamorosamente contraddittori.
Da un
lato, non è mancata soprattutto nel primo decennio del dopoguerra fredda la
suggestione (mai pienamente realizzata) di coinvolgerla in un’architettura
comune di sicurezza europea – proprio per evitare lo spettro già evocato allora
di una “Russia weimeriana”.
Ma,
dall’altro lato, i successivi allargamenti a Est della Nato, la guerra
unilaterale della Nato contro la Jugoslavia nel 1999 e, negli ultimi mesi, la
ripetuta allusione al possibile ingresso della stessa Ucraina nella Nato hanno
spinto sempre di più la Russia ai margini di quell’architettura.
L’altro
capitolo, strettamente (anzi forse troppo strettamente) legato al primo, è
quello di come rilanciare l’alleanza vittoriosa, nel nostro caso la Nato.
Dopo
il brillante adattamento del primo decennio del dopoguerra fredda, culminato
nel Concetto strategico del 1999, la Nato ha arrancato per trovare un posto
nell’architettura della guerra globale al terrore e ha condiviso con gli Stati
Uniti il clamoroso fallimento in Afghanistan.
Il
rilancio attuale dell’alleanza in funzione antirussa è il sigillo finale del
fallimento del Nuovo Ordine: a trent’anni dalla fine della guerra fredda, le
relazioni tra Occidente e Russia si ritrovano paradossalmente al punto di
partenza.
Il
secondo nodo è la vera e propria “crisi costituente” che la società
internazionale sta attraversando per effetto del riflusso contemporaneo delle
due centralità sulle quali si era strutturata la convivenza internazionale
moderna: la
centralità dello Stato e la centralità dell’Occidente.
Nessuno
dei prìncipi fondamentali della convivenza internazionale è risparmiato da
questa transizione.
L’idea
che gli stati siano gli unici o i principali soggetti dell’ordinamento
internazionale è controbilanciata e, almeno in parte, minata dal riconoscimento
di diritti inalienabili in capo ai singoli individui.
Il
principio stesso di sovranità tende a essere eroso in una direzione e
riappropriato in un’altra, per effetto della diffusione dei principi di
ingerenza da un lato ma, dall’altro, per la pretesa avanzata da sempre più
stati di tutelare se necessario anche al di sopra delle norme restrittive della
Carta delle Nazioni Unite i propri interessi irrinunciabili di sicurezza.
Il
tradizionale principio dell’eguaglianza formale degli stati è contestato (e non
da attori deboli e marginali, ma dallo stesso paese più forte) in nome di un
nuovo e controverso principio di discriminazione a favore delle democrazie.
Il
ricorso alla guerra continua in linea di principio a essere vietato dalla Carta
delle Nazioni Unite;
ma,
nei fatti, l’introduzione di una serie di eccezioni non necessariamente
coerenti tra loro (l’ingerenza umanitaria, la lotta contro il terrorismo,
l’estensione della legittima difesa preventiva a casi nei quali la minaccia non
è ancora imminente) ha già eroso surrettiziamente il divieto.
Soprattutto,
è sempre più apertamente contestata dai grandi paesi non occidentali emergenti
la tradizionale pretesa dei paesi occidentali di parlare a nome dell’intera
comunità internazionale, dettando la soglia di accesso alla piena appartenenza
e i criteri di normalità politica, economica e culturale validi per tutti.
E
proprio a ciò si collega l’ultimo nodo – più paradossale ma, con ogni
probabilità, ancora più importante.
La
guerra in Ucraina rimette l’Europa al centro delle tensioni e dei calcoli
strategici dei principali attori;
ma lo
fa in un contesto nel quale è evidente a tutti – a cominciare dai protagonisti
diretti e indiretti della guerra – che il baricentro politico, economico e
strategico del sistema internazionale si sta spostando altrove.
Su
questo spostamento sarà bene che nessuno si faccia troppe illusioni.
Anzi,
se negli ultimi decenni la guerra aperta era giunta a essere considerata come
un fatto periferico, se non addirittura come il sigillo della propria
perifericità, ci sarebbe da chiedersi se la spaventosa guerra in Ucraina non
sia l’ultimo segno della detronizzazione dell’Europa da centro del mondo.
Democrazia
Futura.
Guterres e
il
nuovo ordine mondiale di Internet.
Key4biz.it
- Giacomo Mazzone – (22 Settembre 2022) – ci dice:
(Giacomo
Mazzone, Direttore responsabile Democrazia futura, esperto di Internet
Governance.)
La
sfida del Segretario Generale delle Nazioni Unite ai fautori del
"controllo sulla Rete", primi tra tutti la Russia e la Cina.
L'analisi del Direttore responsabile di Democrazia futura, Giacomo Mazzone.
II
Direttore responsabile di Democrazia futura Giacomo Mazzone, esperto di
Internet Governance, presenta un prezioso aggiornamento sul tentativo di
Antonio Guterres di promuovere un “nuovo ordine mondiale di Internet”
soffermandosi come recita l’occhiello su “La sfida del Segretario
Generale delle Nazioni Unite ai fautori
del controllo sulla Rete”, in primis Cina e Russia, proponendo al contrario con il Global Digital Compact un “Catalogo
dei principi condivisi su cui costruire un futuro digitale aperto, libero e
sicuro”.
Proprio
all’inizio dell’avventura di Democrazia Futura, nell’ottobre 2020 (cioè ormai
quasi un secolo fa, in epoca pre-COVID e molto prima della guerra d’Ucraina),
si era cercato di dar conto ai lettori italiani di quanto si stava muovendo nel
Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite, a proposito di Internet e della sua
governance.
Ai
pochi-ma-buoni lettori di Democrazia Futura era stato dato conto del fatto che
il Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres aveva deciso di
fare dello sviluppo di una serie di iniziative sul futuro di Internet uno dei
suoi principali obiettivi nella campagna per la rielezione.
Cosi è
effettivamente avvenuto, allorché il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite
ha deciso il 7 giugno 2021 di confermarlo per un secondo mandato, sulla base di
un programma con dieci priorità, prime fra tutte la fine dell’emergenza COVID,
la pace e l’emergenza climatica.
All’ottavo posto dell’elenco, figurava il
punto “Rising
to the challenge of digital transformation”, in cui il Segretario Generale
spiegava che la trasformazione digitale sta investendo ogni aspetto della vita
umana e non solo la tecnologia, col rischio di creare nuove profonde divisioni
(“digital divides”) non solo fra paesi ricchi e poveri, ma anche all’interno
dei paesi ricchi, e di come questo processo comporti fra l’altro enormi rischi
in termini di cybersicurezza e di squilibri sociali.
Il
Segretario Generale indicava nel suo documento di candidatura tre piste di
lavoro promettenti sul tema digitale:
i lavori dell’Open-ended Working Group on
developments in the field of information and telecommunications in the context
of international security, quelli dell’Internet Governance Forum e la Digital
Roadmap, lanciata in grande pompa a giugno 2020.
Antonio
Guterres sa che il percorso è impervio (come era descritto nell’articolo di
Democrazia Futura dell’ottobre-dicembre 2020) e che molti saranno gli ostacoli
da affrontare, ma aveva in mente un’arma segreta.
E cioè la nomina di un suo fidatissimo nel
ruolo di United Nations Secretary General’s Special Tech Envoy.
Una figura equivalente a quella introdotta da
Barack Obama alla Casa Bianca: un esperto di tecnologie di completa fiducia, in
grado di dettare la linea a tutta l’amministrazione statunitense sulle
questioni tecnologiche.
Più
modestamente di Obama immagina di mettere un suo uomo fidato al centro di una
ragnatela dove convergano tutti i processi lanciati dalle Nazioni Unite in
materia digitale: dal gruppo sulla sicurezza, all’Internet Governance Forum
globale, dal lavoro dell’International Telecommunication Union (ITU-UIT) ai
gruppi di lavoro dell’UNESCO e dell’UNCTAD sull’etica dell’intelligenza
artificiale o sul commercio digitale.
L’aspirazione
nemmeno tanto nascosta è di creare consenso fra gli stati membri delle Nazioni
Unite per poi trasformare alcune delle posizioni su cui si è raggiunto il
consenso, in Trattati internazionali aperti alla firma degli Stati.
In
pole position fra questi trattati, ve ne è uno sulla cybersicurezza, uno sul
bando delle cyber-war, uno sull’etica dell’Intelligenza artificiale, uno per
riconoscere l’accesso a internet come un diritto primario dei cittadini e così
via.
Così,
il 22 gennaio 2021, in piena campagna per ottenere il rinnovo del suo mandato,
nomina il Tech Envoy con un ampio mandato. Come ci si aspettava, la scelta cade
su un fedelissimo, già suo braccio destro a Ginevra nel precedente incarico di
Segretario Generale dell’UNHCR: Fabrizio Hochschild Drummond.
Un
“mastino” cui Antonio Guterres ha affidato in passato le missioni più difficili
e che si stava già preparando negli spogliatoi a discutere con le piattaforme
internet e con i governi dei principali paesi.
Gli
assegna subito un ambizioso obiettivo da raggiungere: organizzare un grande
Summit delle Nazioni Unite per il Futuro da tenersi a New York nell’autunno
2023 a New York.
Un
programma “coperto” ma intuibile, che pesta i piedi a molti, a cominciare dalla
Russia, che sulla cyberguerra ha costruito una parte della sua dottrina
militare, senza contare tutti i paesi autoritari allergici all’inclusione dell’accesso
a Internet fra i diritti umani.
Guterres
compie l’errore di sotto-valutare i segnali lanciati dagli oppositori delle
riforme previste al capitolo 8 del suo programma, e così i suoi oppositori
passano dai mugugni e dalla politica della sedia vuota, alle bombe puzzolenti.
Esattamente
il giorno dopo l’annuncio della nomina del Tech Envoy, vengono rese pubbliche e
inviate anonimamente alla stampa alcune denunce contro il neo-nominato per
accuse di molestie presentate da alcune ex-dipendent.
Guterres
tenta di calmare le acque, ma invano, e cosi dopo qualche giorno passato a
cercare di difendere il suo uomo, infine lo solleva dall’incarico e poco dopo
affida ad interim la missione di Tech Envoy ad una funzionaria italiana di
lungo corso:
Anna Maria
Spatolisano.
Bravissima
sì, ma in tutt’altre materie, e soprattutto inquadrata nel Dipartimento delle
Nazioni Unite per l’Economia e gli Affari Sociali (UN-DESA), da un decennio
ormai sotto direzione cinese.
Come a dire che l’ufficio del Tech Envoy è
finito sotto tutela proprio di uno di quei paesi che più sono perplessi sulla
messa in pratica del programma di Antonio Guterres sul digitale.
Nel
frattempo, agli attacchi sottotraccia si aggiungono anche le reazioni aperte.
Alla
riunione speciale dell’Assemblea delle Nazioni Unite del 27 aprile 2021,
tenutasi in piena epidemia di COVID, si discute intorno ai principali punti del
programma di Antonio Guterres sulla trasformazione digitale.
Un
evento da cui il segretario generale portoghese spera di raccogliere grandi
consensi sull’idea di riconoscere l’accesso a Internet come diritto
fondamentale dei cittadini, proprio sull’onda emotiva del COVID.
Come
si racconta nell’articolo di Democrazia Futura che narra quel giorno, il
plebiscito atteso da Guterres e lungamente preparato in diverse capitali
occidentali, non c’è e soprattutto c’è chi brilla per la sua assenza o per la
sua presa di distanza, cortese ma ferma.
A
prefigurare un asse che qualche mese dopo si dispiegherà in tutta la sua
ampiezza durante la crisi ucraina, ci sono la Russia – che decide apertamente
di snobbare l’avvenimento, inviando un testo registrato di un tenore di quarta
fila – ma anche la Cina che ricorda come alcune delle materie di cui Guterres
vorrebbe occuparsi, non rientrino nel mandato delle Nazioni Unite.
Ciononostante
il Segretario Generale riesce a far passare una Risoluzione approvata
dall’Assemblea Generale in cui si dice:
“Inoltre,
sulla base delle raccomandazioni della road map per la cooperazione digitale
(cfr. A/74/821), le Nazioni Unite, i governi, il settore privato e la società
civile potrebbero riunirsi in un percorso di tecnologia digitale multi-stakeholder
in preparazione di un Summit of the Future per concordare un Global Digital
Compact.
Ciò
delineerebbe principi condivisi per un futuro digitale aperto, libero e sicuro
per tutti.
“Questioni
digitali complesse che potrebbero essere affrontate possono includere:
riaffermare l'impegno fondamentale per connettere ciò che non è connesso;
evitare la frammentazione di Internet; fornire alle persone opzioni su come
vengono utilizzati i loro dati; applicazione dei diritti umani online; e
promuovere un Internet affidabile introducendo criteri di responsabilità per la
discriminazione e il contenuto fuorviante.
"Più
in generale, il Compact potrebbe anche promuovere la regolamentazione
dell'intelligenza artificiale per garantire che sia in linea con i valori globali
condivisi".
Al di
là della Risoluzione, il brutto incidente della nomina abortita del Tech Envoy
e i distinguo dell’Assemblea di aprile 2021, di fatto finiscono per bloccare
per quasi un anno e mezzo l’intero processo.
In
questo lasso di tempo i lavori della Road Map del Segretario Generale delle
Nazioni Unite per la digitalizzazione procedono a rilento, la riforma
dell’Internet Governance Forum globale procede a piccolissimi passi, nessuna
grossa iniziativa viene lanciata e di Summit delle Nazioni Unite per il futuro
non si parla più per un bel po’.
Antonio
Guterres è però un tipo tenace e, nell’ombra continua a lavorare, anche se
cerca di non darlo a troppo a vedere.
Gli
obiettivi indicati da Antonio Guterres ne “La nostra agenda comune” e la nomina
di un ex ambasciatore indiano come Inviato per la Tecnologia – Envoy on
Technology.
A
settembre 2021 pubblica il suo documento programmatico “Our common agenda”.
Report
of the General Secretary, dove il piano per il digitale continua ad apparire ed
anzi è progredito di una posizione in classifica, passando al 7 posto, dopo lo
spostamento del punto COVID al 12 posto.
Interessante
leggere quali sono gli obiettivi principali in esso elencati:
Connettere
tutti i cittadini all’Internet, a partire dalle scuole.
Impedire
la frammentazione dell’Internet globale.
Proteggere
i dati.
Applicare
i diritti umani anche nel mondo digitale.
Introdurre
criteri di responsabilità per chi propaga disinformazione e discriminazione
on-line.
Considerare
i beni digitali come patrimonio comune.
Come
si deduce dalla lettura del documento, nonostante le diverse pressioni subite,
non c’è stata nessuna concessione a Russia e Cina.
Guterres
aspetta che il contratto di Hochschild arrivi alla sua scadenza naturale e poi
lancia il bando per reclutare un nuovo Inviato per la Tecnologia (Tech Envoy).
Ma –
nel farlo – tiene conto del fatto che il contesto e i tempi sono cambiati e che
– anche se la Russia non ha più la stessa capacità di nuocere dell’anno
precedente – cerca di tener contro delle posizioni di Cina, India e di altri
paesi emergenti.
Da una
parte Russia e Cina – in occasione della crisi ucraina – sono venute allo
scoperto nel
chiedere un nuovo Ordine Mondiale che superi il multilateralismo basato sul
rispetto dei diritti umani.
Un
approccio secondo loro obsoleto, approvato alla fine della Seconda Guerra
Mondiale, solo grazie all’ondata di indignazione mondiale sollevata dai crimini
nazisti, e che oggi non avrebbe più ragion d’essere.
La
battaglia, anche nel campo digitale, che prima si svolgeva sottotraccia ora non
ha più motivo di essere nascosta, ed emerge alla luce del sole.
Con la
differenza rispetto a gennaio 2021, che la Russia è ora sulla difensiva e non può
battere i pugni più di tanto mentre i cinesi preferiscono, come al solito, un
atteggiamento più defilato e meno di contrapposizione.
Dall’altra,
Antonio Guterres ha imparato la lezione e decide di fare qualche concessione ai
paesi più recalcitranti a proseguire su questa strada.
Affida cosi il ruolo di Tech Envoy ad un ex
ambasciatore presso le Nazioni Unite a Ginevra, Amandeep Singh.
Quest’ultimo
– a differenza di Hochschild – non è un fedelissimo del Segretario Generale, e
soprattutto è indiano, e quindi esponente di uno dei membri di quel gruppo di
paesi suscettibili di schierarsi dalla parte di Cina e Russia.
Nel
prendere questa decisione – che in altri tempi molti avrebbero contestato –
Guterres è anche favorito dal suicidio politico dell’Europa in questa
particolare vicenda.
L’Europa
dell’Unione Europea in particolare che è quella che più si sta battendo per
regolamentare Internet, aspirava a che questa sua primazia le fosse riconosciuta
al Palazzo di Vetro, e si è mossa attivamente affinché la posizione del Tech
Envoy fosse affidata ad un esponente di questa linea pro-regolamentazione.
Peccato
che, come già accaduto tante volte, all’appuntamento l’Europa si presenta
disunita, anzi peggio: in frantumi, con tanti candidati contrapposti fra loro:
dall’Estonia,
dalla Finlandia, dall’Olanda, una lista infinita di nomi cui poi si aggiunge
(senza nemmeno provare a cercare intese preventive con gli altri paesi) anche
l’Italia che candida l’ex ministra per l’innovazione tecnologica e transizione
digitale (MITD) Paola Pisano, in quota 5Stelle.
Il
risultato di tanto affollamento è che Guterres ha buon gioco – con la scusa di
non scontentare nessuno – a scartare tutti i nomi dell’Unione europea e a
scegliere invece il candidato indiano, che pensa possa sopravvivere più
facilmente agli agguati degli oppositori.
Tanto
più che Amandeep Singh ha dalla sua l’aver svolto il ruolo di Segretario della
Task Force di Guterres per la Cooperazione Digitale (di cui erano
co-chairpersons Melinda Gates e Jack Ma), il pensatoio da cui sono scaturite
molte delle iniziative che ha in mente Guterres nella sua Road Map verso il
Digitale.
Così
Singh viene ufficialmente nominato Inviato del Segretario Generale delle
Nazioni Unite per la Tecnologia il 10 giugno 2022 e prende l’incarico durante
l’estate con passo felpato e senza far rumore.
La sua
prima uscita pubblica in Europa è annunciata al Palazzo dell’Onu di Ginevra per
il 24 ottobre 2022.
Il
catalogo dei principi condivisi su cui costruire un futuro digitale aperto,
libero e sicuro.
La
prima sfida che gli ha affidato il Segretario Generale si chiama Global Digital
Compact (GDC).
Un
catalogo dei principi condivisi su cui costruire un futuro digitale aperto,
libero e sicuro.
Una
consultazione globale è stata lanciata ancor prima della nomina dell’Inviato
per la Tecnologia e dovrà concludersi il 31 dicembre 2022.
Le sue
conclusioni – che il Tech Envoy dovrà analizzare e organizzare in forma di
proposta – costituiranno la base sulla quale costruire il dibattito del Summit
del futuro, come sottolineato nella nota di approfondimento sul GDC:
“The
United Nations will compile and present your views to inform deliberations on
the “Global Digital Compact, which will take place in 2023 as part of the
Summit of the Future”.
Guterres,
dal suo canto, non perde tempo e appena insediato Singh, riprende il lavorio a
New York per rilanciare il “suo” Summit delle Nazioni Unite per il futuro.
Il
rinvio di un anno del Summit delle Nazioni Unite per il futuro a ottobre 2024.
Dopo
una serie di riunioni fra i principali paesi un compromesso (senza la Russia)
viene raggiunto. Il Summit viene spostato ad ottobre 2024, ma al suo posto nel
2023 si svolgerà al Palazzo di Vetro una prima riunione ministeriale in cui si
prenderanno le decisioni circa quello che verrà discusso, annunciato ed
approvato durante la riunione dell’anno successivo, che avrà per titolo Summit
of the Future: multilateral solutions for a better tomorrow.
Nel
corso dell’evento del 2024 – recita la Risoluzione delle Nazioni Unite – si
procederà all’identificazione e all’implementazione e
“si
rivolge a politiche e azioni concrete e riafferma il forte impegno politico ad
affrontare la sfida del finanziamento, compresa la sua architettura
internazionale, e la creazione di un ambiente favorevole a tutti i livelli per
lo sviluppo sostenibile nello spirito del partenariato globale e della
solidarietà”.
Certo
il tempo a disposizione per questa implementazione sarà limitato: fra ottobre
2024 e la fine del mandato di Antonio Guterres (dicembre 2026), resteranno a
disposizione solo due anni, probabilmente troppo pochi per ottenere la firma di
qualche trattato veramente significativo per cambiare il corso dell’Internet
globale.
Però
la volontà di provarci da parte di Guterres resta immutata, a partire dalla
ferma convinzione che un mondo digitale avrà sempre più bisogno di autorità
globali in grado di dirimere controversie che vanno al di là delle frontiere
degli stati nazionali.
Uno
spazio oggi vuoto, ma che ha un grandissimo e diffuso bisogno di essere
riempito, e che potrebbe servire a rilegittimare – insieme alla battaglia per
il clima – il ruolo delle istituzioni multilaterali.
Una
giusta intuizione, come dimostrato pochi mesi fa dalla controversia fra Ucraina
e Russia a proposito dei domini di Internet, laddove l’Ucraina ha chiesto la
messa al bando del dominio nazionale russo su Internet “DOT.RU” come ritorsione
contro l’aggressione militare subita.
Ma a
chi l’ha chiesto? all’Assemblea generale delle Nazioni Unite? al suo Segretario
Generale? No.
L’ha
chiesto ad ICANN, l’organismo di diritto privato basato negli Stati Uniti
d’America, che gestisce l’assegnazione dei nomi di dominio per tutto il mondo.
Oppure
come la Dichiarazione sul futuro di Internet, proposta dagli Stati Uniti di Joe
Biden e sottoscritta da 60 paesi, che insiste sul fatto che il futuro di
Internet debba essere aperto e rispettoso dei diritti dei cittadini.
Di
fatto una dichiarazione di guerra contro la visione di Internet propugnata da
Cina, Russia ma anche da molti altri paesi del mondo che considerano come una
prerogativa propria di ogni Stato, quella di poter controllare i propri
cittadini ed i loro scambi anche attraverso una rete privata come è quella di
Internet.
Una
dichiarazione che finora non è mai ancora stata ufficialmente presentata
all’Assemblea delle Nazioni Unite, dove – in tempi di cyberwar in Ucraina
affiancata alle manovre militari sul terreno – c’è poco spazio e poca voglia
per discutere di principi etici e morali.
La
sfida di Antonio Guterres per un Internet aperto: una dichiarazione di guerra
ai fautori dell’Internet controllato, in primis Russia e Cina.
È
tutta qui la sfida di Guterres: come riuscire a portare su un terreno comune i
fautori di un internet aperto (Stati Uniti d’America, Unione europea e i loro
alleati occidentali) e i fautori di un Internet controllato dallo Stato (Cina e
Russia in primis).
Tutti
sanno che un terreno comune e regole comuni (anche se minime) saranno prima o
poi necessari, se si vuole mantenere un Internet globale comune.
Ma
siamo proprio sicuri che questo presupposto sia ancora vero?
In un mondo in cui il numero dei regimi
democratici continua a diminuire (74 paesi contro 93) e la percentuale di
popolazione che non vive in democrazia è arrivata al 54,3 per cento del totale,
forse la prospettiva di uno sforzo sull’Internet non è poi così insopportabile.
La
parte più dura del lavoro di Guterres per conseguire i risultati sperati per il
suo obiettivo numero otto, anzi sette, forse deve ancora cominciare.
Il
Nuovo Ordine Mondiale e il
“decline
and fall” degli Stati nazionali.
Nuovarivistastorica.it
- Giuseppe Spagnulo – Paola Severino – (4 settembre 2022) – ci dice:
Una
caratteristica che risalta ampiamente quando si prova a delineare la
configurazione della struttura delle relazioni internazionali degli ultimi
trent’anni è la presenza, davvero imponente accanto ai tradizionali Stati
sovrani e alle organizzazioni intergovernative, di una variegata molteplicità
di attori non statali, ascesi a ruoli di estrema rilevanza sul palcoscenico
internazionale e spesso capaci di influenzare, se non proprio di condizionare,
aspetti importanti della politica estera e interna degli Stati e dell’economia
internazionale.
Multinazionali,
ONG, agenzie di rating, soggetti pubblici non statali, compagnie petrolifere,
finanziarie, colossi dell’e-commerce e del web, enti filantropici ecc.,
agiscono ormai come soggetti internazionali a pieno titolo, affiancati –
insieme agli Stati – ad una vasta congerie di organizzazioni multilaterali, da
quelle universali – come l’ONU – a quelle regionali, sovranazionali e
settoriali, di più ampio e disparato indirizzo.
Ognuno
agisce in un determinato comparto o specifico settore, ma comunque a livello
internazionale e, spesso, in concorrenza con gli Stati nazionali.
Così,
il tradizionale sistema vestfaliano degli Stati sovrani, nato in piena età
moderna, sembra essere stato ampiamente irretito, alterato (e ad alcuni è parso
addirittura surclassato) dalla costante interazione con queste molteplici
soggettività (o reti di soggettività) operanti in ambito internazionale, che
sempre di più si sono inserite o sovrapposte alle reti diplomatiche
tradizionali.
Non
c’è dubbio che la fine della Guerra fredda e l’avvento di un nuovo ordine
mondiale “globalizzato” a egemonia americana, fondato sul primato dell’economia
di mercato, del capitalismo globale e delle sue élites cosmopolite, abbiano
costituito delle tappe fondamentali per accelerare un tale processo, per
estenderne la portata, e per fare apparire con tutta evidenza questa realtà
composita e sfaccettata dell’ordine internazionale, non sottratta agli effetti
– assolutamente innovativi – indotti dagli sviluppi tecnologici della «quarta
rivoluzione industriale» di Klaus Schwab , caratterizzata da internet e
dall’intelligenza artificiale.
Si
tratta di una materia molto complessa da sviscerare e che da parecchio tempo
viene attentamente analizzata da politologi, analisti, storici e da molti altri
studiosi di varia estrazione e provenienza.
Tra
gli altri, se ne sono occupati, con una recente e interessante pubblicazione
collettanea, un diplomatico e un politologo italiani: Stefano Beltrame,
attualmente ambasciatore a Vienna e Raffaele Marchetti, docente di Relazioni
Internazionali alla LUISS “Guido Carli”, con il saggio” Per la patria e per profitto”.
Multinazionali
e politica estera dalle Compagnie delle Indie ai giganti del web (Roma, LUISS
University Press, 2022).
Quel
che non deve sfuggire – sostengono gli autori di questo libro – è che
l’interazione tra governi nazionali e soggetti internazionali privati o
autonomi rappresenta una costante della storia, nata praticamente insieme allo
State System vestfaliano.
Così
anche la «globalizzazione», in tutti i suoi aspetti e campi, è un processo di
lunga durata piuttosto che una novità degli ultimi trent’anni, risalente,
quanto meno, all’epoca in cui il «globo» stesso iniziò a disvelarsi nella sua
interezza, grazie alle scoperte geografiche e al progressivo dominio marittimo,
tecnologico e coloniale europeo.
Insomma, la «globalizzazione» nasce col mondo moderno
e, progressivamente, si estende, acquisisce nuove dimensioni, si approfondisce
con le trasformazioni tecnologiche, dei trasporti e delle comunicazioni, si
inserisce e modifica essa stessa le dinamiche politiche internazionali, le
guerre, etc.; avvicina – nel bene e nel male – popoli lontanissimi per
geografia e cultura, e progressivamente rende il mondo intero più interconnesso
e interdipendente.
Lo
stesso sistema vestfaliano fondato sugli Stati sovrani ed eguali giuridicamente
si «globalizza» con la decolonizzazione asiatica ed africana del XX secolo,
trasformandolo qualitativamente, oltre che quantitativamente, in un processo
che non ha trovato ancora una soluzione definita e formalizzata.
Come
già accennato, in questa parabola così caratterizzante la modernità, il ruolo
giocato dal connubio tra Stati e soggettività autonome non-statali come le
multinazionali, e che nel volume viene definito come “diplomazia ibrida”, è
stato archetipico. Ed è proprio di questo nesso e percorso che tratta “Per la
patria e per profitto”.
Il
volume si propone appunto di spiegare l’evoluzione del sistema vestfaliano e
del costante intreccio tra business e politica estera nella storia degli ultimi
cinque o sei secoli, non prima di aver approfondito nelle prime pagine, anche
con gli strumenti di un’analisi teorica, i concetti di “diplomazia ibrida” e di
global governance, pilastri di quello che viene descritto come un nuovo
paradigma caratterizzante la struttura delle relazioni internazionali e la vita
dei singoli Stati:
il paradigma “ibrido”, per l’appunto, prodotto
di una evoluzione passata per il tradizionale paradigma “vestfaliano”
(caratterizzato dal principio per cui lo Stato superiorem non recognoscens ed è
l’assoluto dominus sulla propria vita interna), ed anche attraverso quello che
viene individuato come il paradigma di “San Francisco” affermatosi dopo il
1945, ossia quello fondato su un’autolimitazione della condotta degli Stati per
il tramite dell’ONU e di altre organizzazioni internazionali, che legano tra
loro gli Stati in una matrice di accordi e trattati sempre più estesa e
complessa (e che gli autori vedono come l’adesione degli Stati ad una sorta di
“contratto sociale internazionale”).
Il
paradigma ibrido si fonderebbe invece sulla global governance e sulla
pluralizzazione, quantitativa e qualitativa, degli attori che agiscono ed
influiscono nella vita internazionale e, financo, nella vita interna degli
Stati, definendo un modello di diplomazia, per l’appunto, detta “ibrida”.
La
global governance sarebbe caratterizzata da una relativa decentralizzazione e
dislocazione delle fonti del potere, politico ed economico, che sono alla base
dei processi decisionali globali, ed include, a più livelli, diverse autorità
(la governance è appunto una “poliarchia”).
Una
pluralità di soggetti – statali e non – partecipano alla definizione di sistemi
di regole multilaterali assunte a livello globale, transnazionale, nazionale o
regionale, in un processo dinamico, pragmatico e continuo, «un gioco permanente
di interazioni, conflitti, compromessi, negoziazioni e aggiustamenti
reciproci».
Il risultato sarebbe così, per i singoli Stati
nazionali, e soprattutto per quelli più deboli e svantaggiati, quello di una
effettiva sottrazione di potere di comando e di alcune prerogative sovrane, con
l’esposizione delle politiche nazionali ai vincoli dei complessi e invasivi
sistemi (e sottosistemi) in cui ognuno è inserito, e alle reti transnazionali
di attori (agenzie di rating, corporations, investitori internazionali, i
“mercati”) che pure attraversano ed impattano la vita economica e politica
degli Stati, arrivando a poter condizionare dall’esterno i governi nazionali,
cui non restano che la necessità di adeguarsi e margini sempre più stretti di
autonomia nella decisione politica.
D’altro
canto, è opportuno ravvisare che, a parere di chi scrive, tale modello di
governance globale e di “globalizzazione ibrida” ha rappresentato il principale
volano del disordine internazionale che ha attraversato il pianeta nell’ultimo
ventennio.
E che, pur agendo in un mondo ritenuto piatto
(quello che qualche tempo fa si definiva, un po’ ottimisticamente, “villaggio
globale”), non ha di fatto mai smantellato davvero gerarchie e rapporti di
forza di tipo più tradizionale, sia in senso politico che economico.
Ed
oggi, che assistiamo ad una guerra (peraltro essa stessa “ibrida”) che va già
prepotentemente alterando gli equilibri internazionali del dopo Guerra fredda, col relativo declino del
monocentrismo statunitense, possiamo esserne anche più convinti.
Ambizione
del volume di Beltrame e Marchetti è, dunque, quello di «aumentare la
consapevolezza dei rischi e delle opportunità che derivano dalle dinamiche
ibride che sempre più caratterizzano la politica globale» e di «offrire alcune
chiavi di lettura interpretativa per questa realtà».
Operazione che viene svolta, oltre che
attraverso la messa a fuoco, nei primi capitoli, del problema già accennato
della governance globale attuale e della diplomazia ibrida, anche con una
puntuale ricostruzione storica di quest’ultima e dell’ambiguo intreccio tra
governi nazionali e compagnie private (o altri soggetti non statali) che ha
storicamente contraddistinto la politica estera della maggior parte degli
Stati.
Si
ricostruisce altresì l’evoluzione del sistema internazionale da Vestfalia in
poi, mettendo in luce la progressiva affermazione delle organizzazioni
internazionali e il proliferare di nuovi e diversi attori internazionali non
statali.
Il
libro si presenta, quindi, come uno studio a cavallo tra la storia delle
relazioni internazionali, la storia economica, la politologia internazionalista
e la storia giuridica internazionale.
E si
presta ad una lettura molto affascinante e scorrevole, adatta per qualunque
tipo di lettore, che restituisce, al tempo stesso, numerosi stimoli di
riflessione.
Per
evidenziare la storicità del connubio tra potere statale e potere privato (o
informale), gli autori risalgono alle esperienze politico-commerciali delle
repubbliche marinare italiane, e ad anche all’epopea della pirateria “di
corsa”, sovvenzionata, a partire dalla seconda metà del ‘500, dai sovrani degli
Stati protestanti d’Europa, per contrastare sul mare lo strapotere continentale
e coloniale raggiunto dalla Spagna asburgica e cattolica (che, viceversa,
guardava a tali Stati come dei veri e propri “Stati canaglia” ante litteram).
Ma il
precedente storico su cui gli autori si soffermano più ampiamente è quello delle
compagnie mercantili europee del ‘600-‘700, le famose “compagnie delle Indie”:
si trattava di vere e proprie società per azioni, cui i sovrani riconoscevano
il monopolio del commercio in settori geografici specifici e l’autorizzazione a
concludere trattati, muovere guerra, governare i possedimenti coloniali,
amministrarvi la giustizia ed arruolare truppe mercenarie.
La
spinta originaria che fu alla base dell’ascesa di queste compagnie fu
soprattutto quella commerciale:
il
profitto puro e semplice, che muoveva mercanti, amministratori e investitori
delle compagnie (tra i cui azionisti figurava spesso anche la Corona o lo
Stato);
ma
alla volontà di profitto individuale si legarono pure le volontà di potenza dei
grandi Stati europei, che iniziarono a comprendere come la ricchezza economica
e commerciale costituisse la base della potenza politica e militare di uno
Stato, e che questa iniziava a passare attraverso l’espansione nei territori
d’oltremare.
La congiunzione tra l’aspirazione al profitto
individuale e la ricerca di potenza da parte degli Stati costituì una miscela
di forza che ha consentito a tali compagnie mercantili – olandesi, francesi,
danesi, e soprattutto britanniche – di gettare le fondamenta degli imperi
coloniali europei, favoriti anche dall’emergere di una netta superiorità
tecnologica, organizzativa e militare rispetto alle entità politico-statuali e
ai popoli extra-europei che progressivamente si iniziarono a condizionare e poi
a dominare.
Va
detto, per aggiungere qualche riflessione sui contenuti del libro, che il
connubio tra potere statale e potere privato informale nacque anche per
esigenze dettate dalle incertezze giuridiche sul diritto del mare, un’autentica
novità per gli Stati europei del ‘500-‘600, ancora in gran parte feudali, e dalla
netta distinzione che si venne via via elaborando tra lo ius publicum europeum (il diritto pubblico europeo, ovvero
il diritto valido all’interno del continente europeo e tra Stati europei) e il
diritto d’oltremare, stabilito, di fatto, a metà ‘500 dalle potenze atlantiche
nordeuropee al di là di determinate linee geografiche a largo dell’Atlantico
(le cosiddette amity lines) – ossia ad ovest delle Canarie e a sud del Tropico
del Cancro – col proposito di rovesciare l’egemonia coloniale spagnola e portoghese
stabilita, a suo tempo e per mezzo del papa, col trattato di Tordesillas
(1494).
S’intende
che tale diritto d’oltremare voleva dire assenza di diritto o diritto del più
forte, voleva dire libertà illimitata di conquista coloniale, e voleva dire che
la lotta per le colonie americane o per gli avamposti commerciali nell’Oceano
Indiano e Pacifico (ossia oltre le amity lines) poteva avvenire al di fuori
dello ius publicum europeum, e, teoricamente, senza che ciò determinasse una
guerra automatica intra-europea, né che valessero le stesse limitazioni
belliche di una guerra continentale.
In tal
senso, la delega di funzioni pubbliche a compagnie commerciali private sopperì
al bisogno di non esporre eccessivamente i governi ufficiali nelle vicende
riguardanti la conquista coloniale e nella competizione tra compagnie
commerciali concorrenti.
D’altronde,
gli spazi periferici e quelli extraeuropei continuarono a procurare una valvola
di sfogo all’equilibrio di potenza europeo, consentendo ai principali attori di
spostare la competizione là dove, non essendo in gioco interessi vitali, le
guerre potevano essere combattute a prezzi diplomatici ed economici più bassi,
non foss’altro perché trapiantate lontane da casa.
Fu
molto spesso così che, quasi distrattamente, tramite attori privati e grazie
alla propulsione commerciale, furono poste le basi per la costruzione degli
imperi europei. Un’altra prova dell’originalità della “diplomazia ibrida” che
dimostrava tutta la sua vitalità già prima della nascita del sistema di
Vestfalia (1648).
Nel
volume si citano altri esempi di connubio tra l’interesse statale e interesse
privato (o particolare) nella politica internazionale, come quello delle
compagnie petrolifere, pubbliche e private, diffusesi a partire dall’inizio del
‘900, in concomitanza della scoperta del petrolio quale utile e sempre più
strategica risorsa energetica per i sistemi industriali e civili nazionali.
Anche
qui pare sussistere una forte complementarità tra i due elementi del binomio:
una compagnia petrolifera (pensiamo all’ENI) può agire autonomamente, anche al
di fuori dei vincoli diplomatici ufficiali del suo Paese, e può avere una
propria diplomazia informale, parallela a quella del proprio ministero degli
Esteri; ciò le consente di muoversi più agilmente tra le classi dirigenti dei
Paesi produttori di petrolio o di gas, spinta dall’interesse ben preciso di
siglare il maggior numero di contratti possibili nel mondo, e a condizioni
possibilmente, vantaggiose.
Lo
Stato, da parte sua, offre copertura politica e di intelligence alle proprie
compagnie, col risultato di ottenere per il proprio Paese le risorse necessarie
a garantire l’approvvigionamento del sistema industriale e del sistema
energetico nazionale, possibilmente senza eccessivamente dipendere da altre
compagnie straniere.
Del
resto, fin dai tempi più remoti, una delle attività dei diplomatici è stata la
promozione nell’economia e dell’imprenditoria nazionale nei Paesi in cui hanno
svolto il proprio servizio professionale.
Ma convergenze di interessi simili tra Stato e
privato valgono, caso per caso, anche per le multinazionali odierne.
Oggi,
sostengono Beltrame e Marchetti, nell’epoca delle grandi corporations, dei
giganti del web e dell’ascesa economica e politica della Cina, sempre maggiore
è il riconoscimento dell’intreccio tra proiezione internazionale di un Paese
attraverso la sua formale politica estera e la sua presenza economica,
industriale e tecnologica.
Mai
come in questa fase di ripolarizzazione del sistema internazionale, la sfida
economica e tecnologica è stata così al centro, una sfida che sta già cambiando
il modo in cui ci rapportiamo al mercato e alla politica estera.
«Viviamo
in un’epoca in cui la sicurezza nazionale è sempre più percepita anche come
sicurezza economica e in cui la prospettiva di benessere della comunità
politica tiene insieme la capacità delle imprese di competere a livello
internazionale e la capacità dei governi di sostenerle adeguatamente».
La
sfida di tutti i governi, e gli autori si riferiscono soprattutto al nostro, è
quella di sviluppare sempre più sofisticati metodi di sinergia pubblico-privata
per rendere più credibile e incisiva la presenza internazionale del proprio
Paese.
Migliorare
la capacità del “sistema-Paese” è dunque fondamentale per essere rilevanti a
livello mondiale.
Merito
di questo volume è dunque quello di aver brillantemente illuminato questa
realtà, attingendo al bagaglio della storia, con l’auspicio è che i nostri
prossimi governanti ne abbiano adeguatamente conto.
Le
regole della guerra
e
della pace.
Sermig.org
- Matteo Spicuglia – (12-09-2022) – ci dice:
La
crisi tra Russia e Ucraina è la fine di un sistema.
Ne
parliamo con il prof. Edoardo Greppi, ospite dell’Università del Dialogo del
Sermig.
«Non
so come sarà il nuovo ordine mondiale, speriamo solo che non sia frutto di una
guerra mondiale come è accaduto nell’ultimo secolo».
Il professor Edoardo Greppi non ha la sfera di
cristallo, ma su quanto è avvenuto in Ucraina non ha dubbi: la guerra in corso
è un punto di non ritorno, la fine di un sistema.
Lo
dice da docente di Diritto internazionale, uno dei massimi esperti in Italia.
Professore,
quali sono state le regole spazzate via da questa guerra?
Fondamentalmente
l’ordine nato dopo la Seconda guerra mondiale.
Alla
conferenza di Jalta, nel febbraio del 1945, Russia, Stati Uniti e Gran Bretagna
con Stalin, Churchill e il presidente Roosevelt decisero le sorti dell’Europa
sulla scia di quanto avvenuto in passato, quando dopo grandi guerre i vincitori
definiscono un ordine coerente con i loro interessi.
Era
successo a Vestfalia nel 1648, a Vienna nel 1815, a Parigi nel 1919.
Gli
alleati di Jalta, che si definivano “Nazioni Unite”, decisero il nuovo ordine
mondiale.
Basato
su cosa?
L’idea di fondo era “mai più” una guerra con
50milioni di morti. Si voleva costruire la pace, ma in che modo?
Non con i limiti della Società delle Nazioni
che non aveva mai rinnegato la guerra, ma mediante l’organizzazione delle
Nazioni Unite che parte dal riconoscimento degli Stati sovrani, considerati
tutti uguali, almeno formalmente perché alcuni Stati ricevendo un seggio
permanente nel Consiglio di Sicurezza hanno un peso maggiore.
L’idea era bandire la guerra mediante
un’organizzazione capace di essere garante di tale ordine.
Venne
così vietato l’uso dell’intervento armato da parte di uno Stato sovrano nei
confronti di un altro Stato sovrano.
Un
principio chiarissimo, violato dalla guerra iniziata il 24 febbraio.
Attaccando
l’Ucraina, la Russia si è messa fuori dal Diritto internazionale.
Esiste
dunque un sistema di regole legato anche alla guerra…
Diritto
e guerra non sono termini opposti, il loro rapporto è antico e solido.
A
cominciare dallo ius ad bellum diritto riconosciuto fino al 1945, i filosofi
riflettevano sul fatto che la guerra fosse giusta o meno, non che fosse lecita,
perché lo era sempre.
Molto
più antico è lo ius in bello e cioè che la guerra ha bisogno di regole.
Sin
dall’antichità l’uomo sente la necessità di porre limiti, ma solo
nell’Ottocento ci sono le prime codificazioni con la Dichiarazione di San
Pietroburgo del 1868.
L’obiettivo
era evitare sofferenze inutili, usare le armi non tanto per uccidere ma per
impedire che i combattenti potessero nuocere.
Nel
Novecento si fa un passo in avanti ulteriore, con i protocolli delle
convenzioni Ginevra che regolano i diritti di alcune categorie come i
naufraghi, i prigionieri di guerra e le popolazioni civili.
Si fissa cioè la necessità di individuare e
distinguere tra combattenti e popolazione, obiettivi civili e militari.
Queste
convenzioni sono state ratificate da tutti i Paesi.
Anche
da questo punto di vista, quanto sta avvenendo in Ucraina rappresenta una
violazione dei trattati internazionali.
Uccisioni
indiscriminate, i morti di Bucha, tanti crimini di guerra non ancora
conosciuti.
Chi può fare giustizia?
La comunità internazionale si è posta il
problema dopo la Seconda guerra mondiale con i processi di Tokyo e Norimberga
che misero alla sbarra i responsabili dei governi che avevano commesso crimini
prima di allora inimmaginabili.
È interessante scoprire la genesi del processo
di Norimberga.
Solo
gli americani lo volevano, a differenza di inglesi e sovietici che avrebbero
preferito giustiziare direttamente i nazisti.
Si
arrivò comunque al processo che mise al centro l’impalcatura del crimine contro
la pace.
Per
processare i criminali di guerra era necessario cioè individuare la
responsabilità di chi quella guerra l’aveva decisa.
Da
quella prima esperienza, siamo poi arrivati ai processi per i crimini nella ex
Jugoslavia e in Rwanda e infine all’istituzione della Corte Penale
Internazionale nel 2002.
C’è
però un problema: l’azione di giustizia della corte è limitata dal fatto che
USA, Cina, Russia, India, Israele e tanti altri non hanno aderito.
Sarà
dunque difficile processare Putin.
Bisogna
fare ancora molta strada.
Il
diritto può essere una via per arrivare alla pace?
Ogni guerra ha una fine e saranno chiaramente
necessari dei negoziati. Le differenze di visioni tra Occidente e Russia però
sono totali: Putin non vuole solo il Donbass e la Crimea, ma costruire un nuovo
ordine mondiale.
E gli
orizzonti sono aperti.
Da una parte l’Occidente deve smettere di
pensarsi in termini di centralità. Dall’altra, bisogna riflettere sui nuovi
equilibri con gli Stati Uniti che sono una grande potenza economica e militare,
la Cina una grande potenza economica e una media potenza militare, la Russia
che è una grande potenza militare ma una media potenza economica.
In un
mondo così complesso che ruolo può giocare l’Onu?
Sin dagli anni Cinquanta tutti vedono le
difficoltà di funzionamento delle Nazioni Unite e sin da allora sono nate
ipotesi di riforma.
È un paradosso, ma all’indomani dell’invasione
russa, l’ambasciatore ucraino per denunciare l’invasione ha dovuto chiedere la
parola al presidente di turno del Consiglio di Sicurezza che era russo.
Incredibile!
In
generale, dobbiamo capire che l’ordinamento internazionale è diverso
dall’ordinamento nazionale.
A
livello internazionale gli Stati aderiscono alle norme internazionali solo se
decidono di seguirle.
Nell’ordinamento
nazionale, invece i cittadini sono obbligati a rispettare le leggi. Inoltre,
nell’ordinamento internazionale non c’è una forza sovranazionale: nessuno può
obbligare.
Manca un uso legittimo della forza.
Queste sono le contraddizioni che prima o poi
dovremo superare.
L'idea
di fondo dell'Organizzazione delle Nazioni Unite era bandire la guerra.
Mai
più uno Stato avrebbe dovuto invaderne un altro.
Il 24
febbraio questo principio è stato violato.
Le
differenze di visioni tra Occidente e Russia sono totali: Putin non vuole solo
il Donbass e la Crimea, ma costruire un nuovo ordine mondiale
(Matteo
Spicuglia).
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