IL PROGRESSO DELL’UMANITA’.

 

IL PROGRESSO DELL’UMANITA’.

 

L’umanità tra progresso e regresso.

 Neuroscienze.it - Guido Brunetti – (Marzo 6, 2020) – ci dice:

 

Una nuova età dell’oro, ovvero un nuovo Risorgimento.

L’umanità fin dall’antichità è in cammino in un percorso che procede e regredisce e attraverso un’esistenza di cui non sappiamo come andrà a finire.

I grandi problemi e le grandi sfide dell’umanità.

L’umanità fin dai tempi antichissimi è in cammino e sempre sostenuta dall’evoluzione biologica e dall’evoluzione culturale.

Un cammino faticoso, arduo e contraddittorio nel passaggio dalla barbarie alla civiltà e al progresso e sempre interrotto da nuovi ostacoli in un feroce ritorno alle pulsioni di aggressività e di “sangue” (Magris).

Un percorso che procede e regredisce, che ricomincia, come afferma Noah Harari in “Homo Deus” (Bompiani), con ogni uomo e con un destino incerto, uno scenario insicuro e un’esistenza di cui non sappiamo come andrà a finire.

E per questo, appesantita da minacce, miseria, degrado, conflitti e guerre, ingiustizie, fragilità e precarietà.

Si tratta di un viaggio difficile e spesso drammatico, tale da sembrare la metafora della salita di Abramo sul monte per sacrificare il figlio Isacco.

La nostra analisi mostra che il futuro non è solo progresso e miglioramento.

È anche insicurezza, ansia e angoscia.

 Eppure, la nostra, come concorda il neuro scienziato americano Damasio, potrebbe essere l’epoca migliore nella storia dell’umanità.

Addirittura, studiosi come Goldin e School scrivono che stiamo vivendo in una “Nuova età dell’oro” (il Saggiatore).

Una fase di profonda evoluzione che richiama quella del Rinascimento, quando si posero le basi per un nuovo modello di progresso fondato sull’essere umano, e sulla diffusione e lo sviluppo della conoscenza.

Negli ultimi cinquant’anni, i progressi della scienza sono stati straordinari.

Le neuroscienze stanno compiendo splendidi sviluppi a vantaggio dell’umanità, offrendoci una “fuga” dal tempo e dalla morte.

 È in atto una rivoluzione scientifica destinata a sconvolgere non soltanto i metodi di diagnosi e cura in medicina e psichiatria, ma le nostre millenarie concezioni, a partire dai sistemi filosofici.

Soltanto un secolo fa, la durata media di vita era di 43 anni, mentre oggi è di 79 anni per gli uomini e di 83 per le donne.

 La riduzione della mortalità infantile, gli sviluppi delle pratiche igieniche, l’uso della vaccinazione e degli antibiotici, i nuovi farmaci, la modificazione del codice della vita, la capacità di diagnosticare le malattie, la speranza di vita che continua ad aumentare stanno producendo una svolta epocale.

 

È una svolta che ad un esame approfondito mette in luce nondimeno il dramma della commedia umana, i suoi conflitti, la sua violenza, le sue continue tensioni.

 È una condizione che continua ad andare così dalla comparsa dell’uomo.

Se il Signore- dice la Bibbia- ha visto che la creazione era buona, San Paolo invece esprime un parere diverso quando scrive: “Il creato è stato condannato a non avere senso… fino ad ora tutto il creato soffre e geme come una donna che partorisce”.

 Tutto questo, è colpa del peccato originale?

Secondo una vasta e autorevole letteratura che va dai primi filosofi agli autori moderni e contemporanei i due principi fondamentali che scandiscono la nostra esistenza sono il bene e il male.

 Che sono in perenne lotta tra loro e corrispondono alle pulsioni originarie teorizzate da Freud:

Eros e Thanatos, amore e odio, egoismo e altruismo, vita e morte, distruzione e autodistruzione.

La prima e più antica struttura del cervello è costituita dal cervello rettiliano, che da sempre si oppone al neo cervello, che è la parte più nobile del cervello umano.

Questo significa che l’essere umano porta misteriosamente in sé non solo la scintilla del bene, ovvero la fiammella “divina” (Dostoevskij) della propria redenzione, ma anche il dramma del male.

L’uomo nella condizione dolorosa e tragica della vita è sottoposto ad un destino impietoso e crudele, ad una condizione di immobilismo esistenziale, ad un vuoto interiore che sfocia nel nichilismo e nell’indifferenza morale, fattori che evidenziano tutto l’errare e la violenza dell’uomo e tendono spesso a vanificare la sua aspirazione all’assoluto e all’infinito.

 

Oggi, una delle più rilevanti contraddizioni di questo nuovo Medioevo della società moderna, assalita sempre più da troppi feudatari e parvenus, è l’emergere di società scientificamente e tecnologicamente progredite, ma barbare sul piano umano, etico e spirituale.

“Progredi est regredi”, ogni progresso infatti è anche regresso.

Offre nuove, meravigliose possibilità per il bene, ma apre anche “possibilità abissali di male” (Benedetto XVI), in un mondo che appare un paesaggio difficile da decifrare e affrontare, sempre più complesso e convulso, privo di orientamento, di senso, senza guida e prospettive.

La nostra specie “accumula” progresso, ma non benessere spirituale, tranquillità o felicità, secondo la concezione del più grande filosofo romano, Seneca.

 La mancanza di vera cultura, di senso di umanità e di etica oggi appare un elogio, un privilegio, mentre l’arroganza, l’ignoranza e la volgarità sono “una garanzia di successo” (H.Arendt).

L’umanità dunque è in crisi in quanto esposta ad una situazione di “perenne conflittualità” (Vizioli).

Per l’umanità, il pericolo maggiore è l’uomo, il suo istinto autodistruttivo.

Il cervello superiore non è ancora riuscito a dominare la struttura cerebrale governata da una tendenza biologica suicida.

Il declino dell’uomo, quindi.

Questo è il mal sottile che insidia l’essere umano, la caduta delle sue qualità propriamente umane.

 E allora ha un rapporto alienato con sé stesso, con gli altri e con le cose.

E cerca nell’aggressività e nella violenza la fine di tutte le sue angosce.

Perché vive in un mondo senz’anima, trascinandosi in una temperie umana e culturale percorsa da elementi disgregativi, da insicurezze e squilibri, e dalla perdita della dimensione metafisica e delle credenze.

 Viviamo in una condizione di anestesia psichica e morale, che ha effetti neurologici negativi.

La distruttività dell’uomo è presente sin dai tempi preistorici.

Gli scimpanzé, i nostri cugini, non hanno mai “crocifisso” altri scimpanzé (Damasio).

Gli antichi invece hanno inventato la crocifissione, crocifiggendo esseri umani.

Viviamo in un’epoca- precisa il neuro scienziato americano Damasio- che mentre glorifica la scienza, traendone vantaggi, sembra “spiritualmente in bancarotta”.

 Si educa l’individuo all’uso di stimoli emotivi negativi con il rischio di un ritorno alla nostra emozionalità animale.

Fatto che porta al degrado sociale, culturale e morale e al crescente imbarbarimento dell’individuo e della società.

 L’immagine che emerge è quella del battello ebbro di Rimbaud, che vaga senza timoniere né timone, mettendo a repentaglio l’equipaggio.

La modernità, la globalizzazione, la distribuzione diseguale della ricchezza, le carenze del sistema educativo, la diversità culturale, la velocità e “l’onnipotenza paralizzante” della comunicazione digitale, la realizzazione di programmi televisivi che veicolano comportamenti diseducativi e violenti, violando “ogni elementare principio di decenza umana” sono poi tutti fattori che rischiano di rendere le nostre società “ingovernabili”.

La nostra è una società post-moderna attraversata, come ha evidenziato il filosofo Bauman, il teorico del “mondo liquido”, da un relativismo etico, da un esasperato individualismo, da un’estetica del consumo, dalla scomparsa delle grandi narrazioni metafisiche e da una ricerca maniacale e ossessiva del piacere e delle pratiche salutistiche.

Una società senza progetti e principi, dove l’intero modello sociale, culturale e morale si è “liquefatto”.

Una società del “rischio” (Beck).

Il futuro dell’umanità.

Qual è dunque il futuro dell’umanità?

Un futuro post-umano, secondo lo scienziato Michio Kaku.

Tra le sfide che l’umanità deve affrontare nei prossimi due secoli c’è anzitutto quella di “avventurarci verso altri mondi, dal momento che il 99,9 per cento della specie si è rivelato “destinato all’estinzione”.

Le avversità sono costituite dalle eruzioni vulcaniche gigantesche e dalle 16 mila 294 asteroidi identificate che potrebbero “intercettare” la rotta della Terra.

 Marte, allora, diventa, per Kaku, il primo traguardo per formare una colonia stabile entro il XXII secolo.

L’uomo andrà su Marte- aggiunge E. Musk- entro il 2025 è sarà reso un pianeta abitabile.

 Proprio in questi giorni, la rivista “Science” ha pubblicato una grande scoperta, l’esistenza di molecole organiche su Marte, fatto che sta ad indicare la probabilità che tre milioni e mezzo di anni fa sul pianeta Rosso ci fossero tracce di vita.

Questa notizia fa seguito all’altra scoperta avvenuta nel 2014 sul rinvenimento nell’atmosfera marziana del metano, un gas considerato una spia fondamentale della vita.

 Nella prossima missione su Marte, che avverrà nel 2023, ci sarà un piccolo elicottero autonomo, il primo velivolo che solcherà un altro pianeta.

Un’altra grande sfida è legata inoltre allo sviluppo della genetica con la possibilità di modificare il corpo umano.

L’umanità è arrivata al massimo del processo di trasformazione, fatto che potrebbe “aprire” le porte- precisa un altro scienziato, N. Bostrom, al post-umanesimo attraverso la clonazione delle persone, una realtà ritenuta “inevitabile”, una volta che la tecnica si perfezionerà negli animali.

 Lo sviluppo scientifico poi consentirà di “controllare” anche i processi di invecchiamento, ipotizzando che presto “potremmo superare abbondantemente i 100 anni di vita.

In questa visione, qual è il posto che occupa il nostro Paese?

Da una ricerca approfondita, emerge un Paese che sembra aver imboccato una strada “priva di ritorno”: quella della decadenza “senza rimedio”.

 “L’Italia non c’è più” ha scritto nel suo recente libro Pansa.

 “Un paese perduto, senza identità”; abitato da esseri umani “con ben poco in comune”.

I sintomi di questa età della decadenza sono molteplici e riguardano in particolare:

la famiglia, la scuola, gli adolescenti, che non riconoscono più l’autorità paterna, la politica e i politici, che non sono più rispettati, la crisi economica, sociale e morale, il fenomeno dell’emigrazione, il sesso, che imperversa sui quotidiani, in tivù e nella pubblicità, l’esibizionismo e l’individualismo, la diffusione del bullismo tra i maschi e le ragazze, la violenza sulle donne, la dipendenza dal web, dai social network, da internet e dai cellulari, un fatto che sta impoverendo e corrompendo anche la lingua italiana in un Paese che vede crescere al 70% l’analfabetismo funzionale mentre solo quattro cittadini su dieci leggono un libro l’anno.

Assistiamo infine ad un lento e inesorabile processo di indebolimento delle istituzioni.

Concludendo, i nuovi tempi proiettano nuovi rischi per ora solo intuiti e non ancora esplorati.

Noi, d’accordo con altri autori, riteniamo che la chiave del progresso sia l’educazione, ovvero lo sviluppo sociale, culturale, affettivo e mentale dell’essere umano, in quanto mira a generare individui e ambienti sani e maturi, a creare comportamenti etici, a incoraggiare principi morali, a favorire l’empatia, l’altruismo e la qualità della vita.

 L’educazione- la cultura- è conoscenza e la conoscenza è uno dei principali valori dell’umanità, la quale ci può fornire gli strumenti per inventare “ogni genere di risposta” e di soluzione ai progetti di civilizzazione per organizzare e dirigere il corso della nostra esistenza.

 

 

 

Il progresso: bene o male

per l’umanità?

Magazine.liceoattiliobertoluccci.org – (12 GENNAIO 2020 )-  FREELANCE – ci dice:

 

Nel corso del XX e del XXI secolo l’umanità ha assistito allo sviluppo di un notevole progresso scientifico e tecnologico, che ha comportato evidenti miglioramenti per le condizioni di vita degli uomini ma, nello stesso tempo, ha introdotto anche alcune criticità.

Nel corso del tempo vari sociologi ed epistemologi hanno espresso le loro posizioni, spesso contrastanti tra loro, sulla concezione di progresso e sul suo rapporto con la società, la felicità e la storia.

Cos’è il progresso? Soprattutto, esso è un bene o un male per l’uomo?

Si può arrivare alla conclusione che il progresso sia un elemento tanto positivo quanto negativo per l’umanità, a seconda dell’uso corretto o scorretto e a seconda degli scopi per cui viene utilizzato, attraverso l’analisi del contesto filosofico dell’epoca (Positivismo);

del pensiero di Latini (“Ombre sul progresso”), Bloch (“Differenzierungen im Begriff Fortschritt”), Comte (“Discorso sullo spirito positivistico”, “Corso di filosofia positiva”) sull’essenzialità o meno del progresso;

 di Einstein (“Scienza e società”) e Russell (“Icaro o il futuro della scienza”) sull’uso scorretto della scienza, di Jaspers (“La situazione spirituale del nostro tempo”), Saint Simon (“La parabola”), del film “Tempi moderni” (1936) sul rapporto tra felicità e società in funzione del progresso; di Spengler (“Il tramonto dell’Occidente”), Bloch sulla relazione del progresso con la storia.

IL CONTESTO FILOSOFICO.

Il Positivismo è una corrente culturale sviluppata in Francia nella metà dell’Ottocento, che si basava sull’esaltazione della scienza e sulla ricerca di materiale reale e sperimentale (non astratto), fecondo e pratico (non inutile).

Il perseguimento di questa nuova filosofia aveva creato una forte fiducia sia nell’intelletto dell’uomo sia nelle potenzialità della scienza e aveva posto, perciò, le fondamenta di una generale visione ottimistica del mondo e del progresso.

La scienza diventava l’unico metodo valido e l’unica conoscenza possibile: essa poteva essere estesa a tutti i campi della ricerca, in particolare alla sociologia che prevedeva lo studio della società e, in particolare, la teorizzazione di una riorganizzazione sociale adeguata a una migliore vita generale dell’umanità stessa.

Il Positivismo può essere suddiviso in due fasi:

 la prima è detta Positivismo “sociale” e affronta la sociologia per un superamento di una crisi che aveva dominato il periodo successivo all’Illuminismo e alla Rivoluzione Francese;

 la seconda è definita Positivismo “evoluzionistico” e riguarda l’importanza dell’evoluzione vista come riflesso e stimolo di un progresso già in atto.

Nonostante le varie conseguenze positive che il progresso scientifico e tecnologico aveva apportato in tutti i campi della vita umana, basti pensare alle medicine e alle cure di gravi malattie oppure a nuove strumentazioni e al programma dell’intelligenza artificiale, di fianco a questa filosofia ottimistica si era sviluppata una forte critica nei confronti del progresso stesso, a causa delle sue conseguenze talvolta negative che portavano ad un “disagio” generale.

La base di questa critica proponeva la visione di una scienza usata in modo scorretto, che aveva sostituito il mondo della cultura e della tradizione (“la spiritualità umana”) e che, di conseguenza, aveva finito per dominare l’uomo creando degli effetti disastrosi per le società e per l’umanità in generale.

Per esempio, il progresso nel campo delle innovazioni di intelligenze “deboli”, secondo Sartor (“L’informatica giuridica e le tecnologie dell’informazione”), non portava solamente a delle conseguenze positive ma aveva anche un “lato oscuro”, specialmente in campo militare, poiché comprometteva la stabilità e la vita delle popolazioni.

IL PROGRESSO È “ESSENZIALE”?

Per analizzare al meglio la questione posta nell’introduzione dobbiamo interrogarci sul progresso e sulla sua natura.

Ne “Ombre sul progresso”, M. Latini lo descrive come un elemento “non ciclico come l’antichità” che dovrebbe portare ad un incremento della produttività e ad una prospettiva di sviluppo.

Bloch (“Differenzierungen im Begriff Fortschritt”) parla del progresso come “termine poco chiaro” che porta inevitabilmente ad un uso scorretto delle innovazioni e, quindi, risulta negativo per l’umanità.

Comte, filosofo del Positivismo sociale, lo definisce, invece, come qualcosa di “essenziale” per un perfezionamento incessante dell’uomo, basato sulla scienza e sul metodo sperimentale:

l’obiettivo dell’essere umano sarebbe quello di determinare lo spirito con cui considerare le branche fondamentali del Positivismo ed effettuare un cammino progressivo verso la conoscenza delle leggi che determinano il mondo.

 Queste leggi possono essere solamente effettive (non assolute) e derivano dalla “vera osservazione” di ciò che è accessibile e adatto alla vita reale:

l’umanità “circoscrive i suoi sforzi nell’ambito […] della vera osservazione, sola base possibile delle conoscenze veramente accessibili, sagacemente adattate ai nostri bisogni reali” a discapito della ricerca su conoscenze assolute che non possono essere raggiunte.

(rr. 15-17, “Discorso sullo spirito positivistico”,1844).

Ne “Corso di filosofia positiva”, il filosofo afferma che “La spiegazione dei fatti, ridotta allora ai suoi minimi termini reali, ormai non è più che il legame stabilito fra i diversi fenomeni particolari e alcuni fatti generali” (rr. 44-47), ovvero che le leggi sono delle relazioni tra fenomeni e nulla di più:

 riguardano solamente ciò che è davvero accessibile al nostro ultimo e finale grado di conoscenza. Il progresso è perciò attuato attraverso la scoperta di queste leggi e porta inevitabilmente ad una migliore condizione della vita umana.

In realtà, secondo la mia opinione, Comte e Latini hanno una visione del progresso estremamente ottimistica e perciò parziale.

Se le loro teorie sul progresso fossero davvero accettabili, vorrebbe dire che tutto è un bene per l’uomo e che qualsiasi innovazione porterebbe ad uno sviluppo positivo.

La visione di Bloch è, al contrario, fin troppo pessimista:

 sono molte le ricerche che portano allo sviluppo di novità utili e positive per l’umanità e che portano ad un’evoluzione dei sistemi.

Dalla realtà si può dedurre che le scoperte possono essere sia causa di peggioramenti (per esempio nel campo militare, come già detto in precedenza) sia di miglioramenti (vedi le medicine):

questo vuol dire che il progresso, pur essendo necessario per l’uomo e per la sua evoluzione, non ha sempre delle conseguenze positive, ma al contrario, soprattutto se utilizzato scorrettamente, riesce a creare delle innovazioni che portano a disastri e danneggiamenti.

USI SCORRETTI DEL PROGRESSO.

In “Scienza e società” (1935), A. Einstein elenca i tre principali problemi che derivano da un uso scorretto della scienza e del progresso e che costituiscono delle minacce per l’umanità:

 la meccanicizzazione e la produzione in serie (disoccupazione);

la creazione di armi sofisticate ed estremamente distruttive (pericolo per la sopravvivenza);

 la manipolazione delle informazioni (libertà ridotta).

 

Russell, nel confronto con il “Daedalus” di Haldane, oppone alla figura positiva di Dedalo il personaggio Icaro:

egli è rimasto ucciso a causa del suo egoismo e dell’uso scorretto che ha fatto dell’innovazione tecnologica (un paio di ali costruite dal padre Dedalo per permettergli di volare).

Secondo il filosofo, l’uomo sarebbe un insieme di passioni e di istinti che portano all’irrazionalità.

La scienza in tutto questo se usata per il benessere del singolo ma anche del collettivo all’interno di un gruppo ha dei riscontri positivi ed adatti ad un miglioramento.

 Se il singolo o i gruppi di potere usano il progresso a scopi puramente personali si arriva inevitabilmente a delle conseguenze molto negative (si può notare anche al giorno d’oggi nei vari governi del Mondo).

Come si potrebbe limitare un uso scorretto del progresso per ovviare alle sue conseguenze negative?

Einstein propone “un nuovo tipo di organizzazione sociale e una nuova cultura per evitare che il progresso tecnologico ci porti alla catastrofe” (rr. 24-25, “Scienza e società”, 1935), mentre Russell sostiene che “la sola speranza sembra essere la possibilità di un dominio mondiale da parte di un gruppo […] che conduca alla formazione di un ordinato governo mondiale politico ed economico” (rr. 30-35, “Icaro o il futuro della scienza”, 1924).

Queste soluzioni sono valide e giuste, poiché il progresso deve essere controllato da un gruppo privo di irrazionalità ed egoismo, mettendo in primo piano il benessere della collettività generale.

Sciascia-Majorana.

A questo proposito, credo sia molto significativa la posizione presa da Sciascia, ne “La scomparsa di Ettore Majorana” (1975).

Lo scrittore pone la figura dello scienziato al centro della questione:

egli è l’unico che può decidere se effettuare o meno la ricerca di una particolare innovazione tecnica e, soprattutto, ha il compito di controllare il carattere “nocivo”, “neutro” o “utile” della sperimentazione, prevedendo alcune possibili conseguenze che essa potrebbe apportare all’umanità.

 Il ricercatore deve “intravedere quel peso di morte che sentiva di portare a oggettivarsi nella particolare ricerca e scoperta di un segreto della natura” (rr. 6-7).

 Esemplare è stato il caso di Ettore Majorana, il fisico che durante la Seconda Guerra Mondiale era riuscito ad ottenere la fissione nucleare, ma che, dopo avere previsto gli effetti disastrosi nell’utilizzo di questa scoperta, aveva preferito nascondere i suoi risultati e sparire con essi.

Questa responsabilità dello scienziato è la stessa che dovrebbero avere i gruppi di potere al governo:

solo così il progresso sarebbe utilizzato correttamente e, perciò, porterebbe a conseguenze positive per l’intero Stato.

SOCIETA’ E FELICITA’.

Se la figura dello scienziato e quella del gruppo dominante sono fondamentali per il controllo del progresso a causa della responsabilità che si devono assumere, è molto importante anche il modello di società in cui questo progresso è attuato: uno degli scopi principali del progresso è quello di portare l’uomo al suo obiettivo più grande:

 la felicità.

Russell.

Secondo Russell, una società dominata da un gruppo di persone sopraffatte dall’egoismo non porta ad un uso corretto delle innovazioni e, per questo, è impossibile che lo sviluppo faccia raggiungere la felicità alla totalità della popolazione.

 

Il filosofo Jaspers, ne “La situazione spirituale del nostro tempo” (1931), polemizza contro la scienza e la tecnica:

gli effetti collaterali del progresso, soprattutto quelli in campo industriale, producono la massificazione (ciò di cui parlava anche Einstein) e sostituiscono i valori spirituali con i valori materiali del denaro, tanto che “tutto è pura merce” (r.4) e “l’uomo in quanto appartiene alla massa non è più lui” (r. 10).

La felicità e il piacere per Jaspers coincidono così con il possedimento di beni e con le ricchezze, poiché l’uomo ha perso la sua vera libertà e la sua vera personalità:

ogni individuo è solo un oggetto in serie, un prodotto della società industriale che è identico a tutti gli altri (da qui, Horkheimer parlerà proprio di scienze in funzione della borghesia capitalista).

La società negativa che propone Jaspers è presente in parte ancora oggi negli Stati attuali e moderni:

 spesso si parla di felicità derivata dal possesso, dal denaro e dalla vita agiata che ne deriva, piuttosto che dalla condivisione o da un valore morale.

Un’evidente critica alla società industriale è presente nel film “Tempi moderni” (1936) di Charlie Chaplin:

già dalla frase inziale “L’umanità che si batte per la felicità” possiamo riflettere sul collegamento tra società, progresso e piacere.

La società rappresentata nella vicenda è di tipo industriale:

 operai che lavorano senza sosta nelle fabbriche (importanza della macchina che avrebbe tolto la pausa pranzo ai lavoratori per produrre in quantità maggiore i propri prodotti e, di conseguenza, per battere la concorrenza), che svolgono poche attività ripetitive all’interno della catena di montaggio (gesti ripetuti e automatizzati) e che possono avere danni fisici e psicologici a causa degli eccessivi sforzi sul lavoro. In questa società, il progresso ha portato ad una maggiore povertà, ad una dilagante disoccupazione (macchine al posto della manodopera) e ad una forte criminalità.

Ciò che è molto rilevante nella pellicola è che il lavoro è visto come il motivo della felicità (“Finalmente lavoro!”):

solo il denaro può portare ad una vita agiata e tranquilla e, quindi, la felicità è raggiunta solo con il possedimento di beni materiali.

Dal film e, soprattutto, dall’analisi di “La parabola” (1819) di Saint Simon possiamo vedere quanto la società sia immorale ed ingiusta proprio nei confronti di coloro che sono costretti a vivere una vita faticosa e laboriosa:

“Supponiamo che all’improvviso la Francia perda i suoi cinquanta migliori fisici, chimici, fisiologi, matematici, poeti, pittori […] la nazione diventerebbe un corpo senza anima. […]

Ammettiamo che la Francia conservi tutti gli uomini di genio che possiede nel campo delle scienze […] ma abbia la sfortuna di perdere nello stesso giorno Monsieur il fratello del Re, il duca […].

Contemporaneamente perde tutti i grandi ufficiali della corona […] procurerebbe loro un dolore di carattere puramente sentimentale, non risultandone infatti alcun danno politico per lo Stato” (rr. 1-37).

Con molta ironia, il filosofo dimostra come l’aristocrazia e le classi più agiate siano parassiti contrapposti ad una borghesia e ad un proletariato operativi (anche se in realtà, ci saranno molti contrasti tra borghesia e proletariato, ovvero tra classe dominante e classe sottoposta).

Si può vedere quanto la società sia poco perfezionata:

per raggiungere un adeguato stato di felicità tra tutta la popolazione bisognerebbe per forza cambiare l’ordinamento sociale in vigore.

IL PROGRESSO, LA CIVILTA’ E LA STORIA.

Si è constatato che la società deve essere cambiata per portare una maggiore felicità a tutti i vari strati della popolazione e che il potere dominante deve essere responsabile di un uso corretto della scienza per portare un progresso positivo all’umanità.

In tutto questo contesto, una posizione rilevante è assunta anche dalla storia.

Spengler, ne “Il tramonto dell’Occidente” (1922), si pone l’obiettivo di scoprire la morfologia della storia, ovvero studia la forma che ogni civiltà incarna.

 Il mondo può essere visto come “storia”, cioè come insieme di fenomeni unici, oppure come “natura”, cioè come un insieme di fenomeni legati da nessi culturali. Lo Stato si presenterebbe come un organismo indipendente, che nasce, si sviluppa e muore proprio come l’uomo nella propria vita.

 Questo significa che la storia è l’elemento che, attraverso l’esperienza, conduce alla natura e, quindi, alla maturità della civiltà.

In questo contesto, la civiltà occidentale è perciò un organismo vivente destinato ad una fine.

Per questo motivo, se questo tipo di civiltà è influenzato dal denaro, dall’industrializzazione e dal possesso (che determinano un carattere estremamente negativo per la vita dell’uomo), si può supporre che il prossimo modello di Stato sia definito da altri valori (Spengler suggerisce la nascita di una civiltà “Russa”) e l’uomo deve solamente accettare il proprio destino.

Il tramonto della civiltà è visto come un atto dettato dal pessimismo:

presenta infatti una visione apocalittica della storia che determina la morfologia e i caratteri principali di uno Stato.

In questo contesto, la civilizzazione rappresenta l’ultimo stadio terminale della civiltà e, quindi, è visto con un’ottica molto negativa.

In realtà, il progresso e l’evoluzione, che sono fondamentali per una migliore vita umana, portano anche ad una civilizzazione.

 Per questo, essa non deve essere vista come un elemento negativo, ma al contrario credo che sia molto positiva per l’uomo e che possa portare ad un uso corretto delle innovazioni.

Latini propone una storia che abbia un procedimento lineare, per cui tutto ciò che viene “dopo” è “migliore” rispetto a ciò che c’era in precedenza.

 In realtà, la storia non è assolutamente pensabile come un elemento che abbia un corso pacifico:

al suo interno si trovano crisi, problemi e dinamiche distruttive che rinnegano la concezione di progresso stessa.

Rinnegando il progresso, però, si rinnegano anche tutte le scoperte che hanno cambiato la vita umana nel corso del tempo:

non si può, dunque, pensare che la storia sia un elemento privo di progresso.

La soluzione credo che sia ritrovabile nel pensiero di Bloch:

la storia è una spirale che ha un andamento tortuoso dovuto dall’intreccio di “origini” e “novità”.

Questo significa che la storia comprende sia momenti di crisi sia momenti di miglioramenti:

tutto dipende da questa combinazione di eventi.

 

È molto importante, secondo il filosofo, proporre una denuncia del cattivo uso della scienza per evitare quella sfiducia del progresso che porta indubbiamente ad un deterioramento dei rapporti sociali e, quindi, alle guerre che Spengler, invece, legittimava come soluzione al problema del progresso.

La visione di quest’ultimo portava semplicemente ad un pericoloso isolamento e ad una disgiunzione tra le varie popolazioni:

 ciò che prevaleva era proprio l’irrazionalità umana, che come è stato già detto non può assolutamente portare ad una condizione migliore per l’umanità.

Bloch, infine, propone un progresso rapportato alla civiltà:

 esso non deve essere “coloniale” e “imperialista”, non deve essere “euforico” poiché produrrebbe solo obiettivi disumani e negativi.

 La civiltà a sua volta non deve imporre una “supremazia di razza” (in questo caso dell’uomo bianco) poiché nessuna popolazione è migliore dell’altra a seconda delle sue origini.

Le ombre del progresso sono proprio quegli abbagli e quelle illusioni che portano ad una generale paralisi di uno sviluppo positivo per l’umanità.

Ciò che credo sia più importante, citando le parole di Bloch, “nessun indice sicuro dell’evoluzione temporale del progresso, secondo il quale nella storia, in ogni caso o anche solo sommariamente, il successivo significa di più rispetto a ciò che precedette”, ovvero credo sia molto importante riflettere sull’utilizzo del progresso poiché dalle nostre decisioni dipende la sorte della vita umana:

 non è detto che ciò che verrà sia indubbiamente migliore rispetto a prima e per questo dobbiamo interrogarci in modo completo su tutte le varie conseguenze che potrebbero essere apportate al seguito di una scoperta scientifica e tecnologica.

IN CONCLUSIONE.

Dall’analisi effettuata si può concludere che il progresso può essere un elemento positivo ma anche un elemento negativo:

dipende tutto dai nostri scopi e dal nostro utilizzo.

Siamo responsabili della felicità e della sorte umana ed è nostro dovere essere responsabili nei confronti di qualcosa di così importante e necessario per la nostra esistenza.

 

 

 

Il Progresso dell’Umanità

si attua con la Legge morale.

 Pianetaindaco.it – Gaia Quantica - ( Ottobre 29, 2021) -  ci dice:

 

La legge civile modifica soltanto la superficie dell’essere umano, è la Legge morale che penetra la coscienza e attua il progresso dell’umanità

Buone leggi contribuiscono senza dubbio al miglioramento dello stato sociale, ma sono impotenti ad assicurare la felicità dell’umanità, perché non fanno altro che comprimere le cattive inclinazioni senza annientarle;

in secondo luogo perché sono più repressive che moralizzatrici e reprimono soltanto i più evidenti atti cattivi, senza distruggerne la causa.

D’altronde, l’idoneità delle leggi è proporzionale alla bontà degli uomini;

finché questi saranno dominati dall’orgoglio e dall’egoismo, faranno leggi in favore delle loro ambizioni personali.

Ammesso dunque che gli uomini sono resi felici dal contatto con i vizi, il solo rimedio ai loro mali consiste nel miglioramento morale.

Poiché le imperfezioni sono la fonte dei mali, la felicità aumenterà con la diminuzione delle imperfezioni.

Per quanto buona possa essere una istituzione sociale, se gli uomini sono cattivi la falseranno e ne snatureranno lo spirito per sfruttarla in loro favore.

Quando gli uomini saranno buoni, creeranno buone istituzioni, e queste saranno durevoli, perché tutti avranno interesse alla loro conservazione.

Il problema sociale non ha dunque il suo punto di partenza nella forma di tale o tal altra istituzione;

sta invece interamente nel miglioramento morale degli individui e delle masse.

Questo è il principio, la vera chiave della felicità dell’umanità, perché allora gli uomini non penseranno più a nuocersi a vicenda.

Non basta ricoprire la corruzione, bisogna estirpare la corruzione.

 Il principio di miglioramento si trova nella natura delle credenze, perché queste sono la molla delle azioni che modificano i sentimenti;

si trova anche nelle idee inculcate fin dall’infanzia ed identificate con lo spirito e con le idee che l’ulteriore sviluppo dell’intelligenza e della ragione può fortificare e non distruggere.

Grazie all’educazione, più ancora che all’istruzione, l’umanità verrà trasformata.

L’uomo che, secondo la Legge morale interiore si sforza seriamente per migliorare si assicura la felicità fin da questa vita;

 oltre alla soddisfazione della sua coscienza, si libera dalle miserie materiali e morali che sono le conseguenze inevitabili delle sue imperfezioni.

Sarà calmo perché le vicissitudini lo sfioreranno soltanto;

sano perché userà il suo corpo senza eccessi;

 ricco perché si è sempre ricchi quando si si sa accontentare del necessario;

avrà la pace dell’anima perché non sentirà bisogni fittizi, non sarà tormentato dalla sete degli onori e del superfluo, dalla febbre dell’ambizione, dell’invidia e della gelosia;

indulgente verso le imperfezioni altrui, ne soffrirà meno;

queste faranno leva sulla sua pietà e non sulla sua collera;

evitando tutto ciò che può nuocere al suo prossimo, parole ed azioni, cercando invece tutto ciò che può essere utile e piacevole per gli altri, nessuno soffrirà della sua presenza.

LA FELICITA’ NELLA VITA FUTURA.

Si assicura la felicità nella vita futura perché, più sarà purificato e più si innalzerà nella gerarchia degli esseri intelligenti, più presto lascerà questa terra di prova per raggiungere i mondi superiori;

 perché il male che avrà riparato in questa vita, non dovrà più essere riparato in altre esistenze;

perché nell’errore incontrerà soltanto esseri amici e simpatici, e non sarà tormentato alla vista incessante di quelli che avrebbero potuto lamentarsi di lui.

 

Se gli uomini, vivendo insieme, saranno animati da tali sentimenti, saranno felici quanto la nostra terra permette di esserlo;

se, da vicini, questi sentimenti fanno parte di tutto un popolo, tutta l’umanità, il nostro globo assumerà spazio tra i mondi felici.

È una utopia?

Sì, per chi non crede al progresso dell’umanità;

no, per chi crede alla sua indefinita perfezionabilità.

Il progresso collettivo risulta da tutti i progressi individuali;

ma il progresso individuale non consiste soltanto nello sviluppo dell’intelligenza e nell’acquisizione di qualche conoscenza:

questa è soltanto una parte del progresso che non conduce necessariamente al bene, poiché si vedono uomini che fanno un pessimo uso del loro sapere;

consiste soprattutto nel miglioramento morale, nella purificazione dello Spirito, nell’estirpazione dei germi negativi che esistono in noi;

è questo il vero progresso individuale, il solo che possa assicurare la felicità dell’umanità, perché nega totalmente il male e la corruzione.

 Il più intelligente degli uomini può solo fare male;

 ma colui che è avanzato moralmente farà soltanto il bene.

Vi è dunque interesse per tutti nel progresso dell’umanità, progresso morale.

LA FEDE NELL’AVVENIRE.

Ma a che cosa servono il miglioramento e la felicità delle generazioni future a colui che crede che tutto crede che finisce con la vita?

Quale interesse ha nel perfezionarsi, nel costringersi, nel dominare le sue cattive passioni, a privarsi per gli altri?

Nessuno;

 la logica stessa afferma che il suo interesse è di godere presto e con ogni mezzo, poiché domani non sarà forse più niente.

La dottrina materialista è la paralisi del progresso umano, perché circoscrive la vista degli uomini sull’impercettibilità stessa dell’esistenza presente, perché restringe le idee e le concentra necessariamente sulla vita materiale;

 in questa dottrina, l’uomo non essendo niente prima e niente dopo, ogni rapporto sociale cessa con la cessazione della vita, la solidarietà umana diventa una parola vana, la fratellanza una teoria senza radici, l’abnegazione in favore altrui un inganno, l’egoismo, con la sua massima “ognuno per sé”, un diritto naturale;

la vendetta diventa un atto di ragione, la felicità appartiene ai più forti ed ai più abili….

Una società fondata su questi concetti porterebbe in sé i germi della dissoluzione prossima.

Altri sono i sentimenti di colui che, facendo propria la dottrina della vita eterna e che segue nel suo privato interiore la Legge morale, ha fede nell’avvenire;

 sa che nulla di quanto acquisisce, in scienza e moralità, è perso per lui, che il lavoro di oggi darà domani i suoi frutti, che sa che farà parte egli stesso di quelle generazioni future più avanzate e più felici.

 Sa che, lavorando per gli altri, lavora anche per sé stesso.

La sua vista non si ferma alla tangibilità della materia:

 abbraccia l’infinità dei mondi che saranno un giorno la sua dimora, intravede il luogo glorioso che dividerà un giorno insieme a tutti gli esseri giunti alla perfezione.

Con la Fede nella vita futura, il raggio delle idee si allarga;

 l’avvenire appartiene alla persona, il progresso individuale ha uno scopo, un’utilità effettiva.

Dalla continuità dei rapporti tra gli uomini nasce la solidarietà;

 la fratellanza è basata sulle leggi della natura e sull’interesse comune.

IL PROGRESSO INDIVIDUALE.

La Fede nella vita futura è dunque l’elemento del progresso individuale prima, e collettivo poi, perché stimola lo Spirito;

può, da sola, dare il coraggio nella prova, perché ne fornisce la ragione, la perseveranza contro la lotta al male, perché fa vedere uno scopo.

Bisogna dunque preoccuparsi di rinforzare questa Fede nello spirito delle masse.

Tuttavia, la Fede è innata nell’uomo e tutte le religioni la proclamano;

 perché dunque non ha dato fino ad oggi i risultati che se ne potrebbero aspettare?

Perché viene generalmente rappresentata con forme e condizioni che la ragione non può accettare.

Così come viene evidenziata, rompe ogni rapporto con il presente;

dal momento in cui si lascia la terra, si diventa estranei all’umanità:

nessuna solidarietà esiste tra i vivi e i morti;

 l’avanzamento è puramente per sé;

 lavorando per l’avvenire, si lavora e si pensa soltanto a sé, per uno scopo vago che nulla ha di definito, di positivo, su cui il pensiero su cui il pensiero possa riposare con fiducia;

infine, perché si tratta più di una speranza che di una certezza materiale.

 

Tuttavia, benché incompleti, i risultati non sono per questo meno reali.

 Quanti uomini sono stati incoraggiati e sostenuti nella via del bene da questa speranza vaga!

Quanti si sono fermati sulla via del male per paura di compromettere l’avvenire!

Quante nobili virtù questa fede ha sviluppato!

Non disdegniamo le credenze del passato, benché imperfette, quando conducono al bene;

erano proporzionate al livello di avanzamento dell‘umanità.

Ma l’umanità che progredisce vuole persuasioni in armonia con nuove idee.

Se gli elementi della fede restano stazionari e sono distanziati dallo Spirito perdono ogni influenza, e il bene che avevano prodotto un tempo non può proseguire, perché non sono più all’altezza delle circostanze, ovvero della evoluzione spirituale ed intellettuale dei popoli.

SODDISFARE LO SPIRITO E LA RAGIONE.

Perché la dottrina della vita futura porti ormai i frutti che se ne devono attendere, bisogna innanzitutto che soddisfaccia totalmente la ragione, che risponda all’idea che si ha della saggezza, della giustizia e della bontà di Dio;

che non possa essere smentita dalla scienza;

bisogna che la vita futura non lasci nello Spirito né dubbio né incertezza;

 che sia altrettanto positiva della vita presente di cui è la continuazione, allo stesso modo in cui l’indomani è la continuazione della vigilia;

 è necessario vederla, capirla, toccarla con mano;

bisogna infine che la solidarietà tra passato, presente e futuro, attraverso le diverse circostanze, sia evidente.

Le peripezie della vita futura non sono dunque più soltanto una teoria, un’ipotesi più o meno probabile, ma il risultato di osservazioni;

sono gli abitanti stessi del mondo invisibile che vengono a descrivere il loro stato, ed esiste una situazione che anche la più feconda immaginazione non avrebbe potuto concepire se non si fosse presentata agli occhi dell’osservatore.

IMMORTALITA’ DELL’ANIMA.

Fornendoci la prova materiale dell’esistenza e dell’immortalità dell’anima, iniziandoci ai misteri della nascita, della morte, della vita futura, della vita universale.

 Facendoci toccare con mano le conseguenze inevitabili del bene e del male.

La dottrina spiritualista, meglio di qualunque altra, fa risaltare la necessità del miglioramento individuale e di una riforma interiore.

Grazie ad esso, l’uomo sa da dove viene, dove va.

(Ciò che molti filosofi hanno cercato vanamente di spiegare perché le loro disquisizioni si poggiano sul materialismo.

 E quindi prive di fondamento.

 Ricordiamoci sempre che la vera realtà è quella intangibile, invisibile, quantistica… che paradosso, vero?).

 Il bene ha uno scopo, un’utilità pratica;

non forma l’uomo soltanto in vista dell’avvenire, ma anche per il presente, per la società.

Grazie al suo miglioramento interiore conseguente all’osservanza della Legge morale, l’uomo preparerà in Terra il regno della pace e della fratellanza.

Questo è il progresso dell’umanità.

AMORE E SAGGEZZA.

“E’ sommamente significativo che Amore e Saggezza, che sembrano a prima vista due qualità assai diverse e indipendenti, costituiscono due aspetti di uno stesso Raggio o Qualità Divina.

Un esempio più profondo ci darà chiara ragione di tale fatto.

Non vi può essere in realtà un Amore Spirituale, cioè veramente benefico, disinteressato, inclusivo, se non è soffuso di Saggezza.

Senza questa l’Amore può errare ed eccedere.

D’altra parte la sola Saggezza, la sola visione impersonale della Realtà resterebbe fredda, inattiva se non fosse pervasa dalla calda Fiamma dell’Amore.

Queste due note- Eros e Logos- si completano, si potenziano a vicenda, formando una sintesi mirabile.

La Saggezza non implica solo il sapere, cioè una precisa conoscenza dei fatti, ma è qualcosa di più profondo.

 Essa non solo conosce, ma comprende per intuizione, anzi, per immedesimazione, per fusione di Anima;

è l’intelligenza del cuore, è la comprensione amorevole…”

 (I Sette Raggi).

 

 

PROGRESSO TECNICO e UMANITA’.

 

Fondazionefeltrinelli.it – Maurizio Ferraris – (16 ottobre 2020) – ci dice:

Nessuna nostalgia, il mondo sta andando nella direzione giusta.

Interrogarsi sulla filosofia della storia, come faceva Agostino, vecchio e malandato in un mondo sconquassato, è chiedersi:

l’umanità sta andando nella direzione giusta?

 Per Agostino, la risposta era sì, così come era sì per Kant, Hegel e Marx, ma da un bel po’ di tempo, sotto l’influsso di Nietzsche, di Spengler e di Heidegger anche pensatori formalmente progressisti sono convinti del contrario.

 La direzione presa dall’umanità è sbagliata, bisogna assolutamente scendere dal treno prima della catastrofe finale, che sarà in un unico colpo economico, ecologica e sociale.

Non ho niente in contrario a questa visione, in linea di principio, purché sia vera, il che non è detto, e proprio qui è il problema.

Se fosse vero che andiamo di male in peggio, allora l’umanità si comporterebbe in maniera totalmente incoerente, creando le premesse per la propria fine assecondando la sua inclinazione all’imbecillità.

Tuttavia, ci sono buone ragioni per pensare che gli imbecilli (o i furfanti, perché anche questo è possibile, anzi probabile) siano i catastrofisti, il che è un bene in sé.

Che può diventare un meglio se, oltre a constatare gli errori della filosofia della storia negativa, se ne costruisce una positiva.

Il test di una filosofia della storia, quale che sia, è una versione del falsificazionismo e suona come: è vero che andiamo di male in peggio?

È importante il di-male-in-peggio perché il di-bene-in-meglio è troppo facile da confutare, basta un dolore reumatico che affligge il filosofo della storia e già le magnifiche sorti non sembrano più tali.

Bene, se è provato – il che, ripeto, è sempre possibile – che davvero l’umanità corre verso la catastrofe, o perlomeno che recede o indugia in una morosa stazionarietà, allora si tratta di smettere tutto quello che si sta facendo per prendere un’altra direzione.

Ma se invece non fosse così, se un progresso (ovviamente, mai così forte come quello sognato) avesse luogo, allora bisognerebbe proseguire sulla strada che abbiamo preso, senza dar retta ai retri topisti, che rivolgono l’utopia al passato, e più precisamente a un passato che non è mai stato presente, e su questa sola base criticano il presente che c’è per davvero e il futuro che potrebbe esserci.

Il cavallo di battaglia dei retri topisti (sono sicuro che lo abbiate già sentito) è: i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri.

Dunque il progresso non è che regresso, perché il nostro modello di sviluppo realizza il contrario del precetto “a ognuno secondo i suoi bisogni”, e va buttato là dove gli compete, all’inferno o ai suoi sostituti temporali.

Il retro topista assume questo principio come una evidenza che non merita neppure di essere discussa, e nel farlo si emette implicitamente una condanna senza appello sul nostro tempo, sul futuro che ci aspetta, e sull’idea che la storia abbia un senso condivisibile.

 E se fosse vero il contrario, e cioè che i poveri sono sempre più ricchi (pur mancando ancora di tanto), e i ricchi sono sempre più poveri (pur non facendosi mancare niente)?

Verifichiamolo, cioè falsifichiamo la tesi dei ricchi-sempre-più-ricchi ecc.

Il divario tra ricchi e poveri si è ampliato negli ultimi decenni, ma solo in termini relativi:

 i ricchi si sono arricchiti più di quanto si siano arricchiti i poveri, che comunque sono meno poveri di prima, almeno a quanto ci dicono delle statistiche sempre difficili da verificare (vivendo in una nazione di evasori fiscali come l’Italia, per esempio, ho imparato a maneggiare con molto scetticismo le dichiarazioni di povertà assoluta in cui talora indulgono i miei connazionali).

Ma accanto alla difficoltà empirica del misurare quanto ricchi sono i ricchi e quanto poveri sono i poveri c’è una difficoltà trascendentale a cui a mio parere non si presta sufficiente attenzione.

Se davvero i ricchi fossero sempre più ricchi, Jeff Bezos, che (per quello che ne sappiamo, magari ci sono narcotrafficanti e dentisti ancora più ricchi) è attualmente l’uomo più ricco della terra, sarebbe anche l’uomo più ricco della storia: ma così non è.

L’uomo più ricco della storia, per quel che ne sappiamo, era Mansa Musa I, re del Mali nel Quattrocento.

Poi abbiamo tanti altri, tra cui Augusto, Cesare, Napoleone, Gengis Khan.

Per cui, a quanto ne sappiamo, gli uomini più ricchi della storia sono tutti morti, e i ricchi oggi viventi sono molto più poveri di loro.

Ma, più seriamente: con quali criteri si fanno questi calcoli?

Quali sono le autorità che li certificano?

Come si fanno i confronti tra un sovrano assoluto che possiede tutto uno Stato, un sovrano costituzionale, un capitano di industria?

E ovviamente la ricchezza non è immediatamente sinonimo di potere, o di peculiari condizioni di benessere.

 I camorristi devono starsene blindati in compound videosorvegliati, e i miliardari che cadono sotto i colpi degli scandali sessuali resi possibili da una opinione pubblica più severa e attiva hanno oggettivamente meno potere dei tycoon delle generazioni che li hanno preceduti, e tutti quanti hanno meno ricchezze, meno potere e meno gloria di Attila.

 Queste considerazioni di senso comune, che raramente mi è capitato di leggere, suggeriscono che la tesi secondo cui i ricchi sono sempre più ricchi è infalsificabile e, strettamente parlando, insensata.

Esprime uno stato d’animo e nulla che possa venir citato come argomento serio: abbiamo vere difficoltà a stabilire, in una stessa cultura e addirittura nello stesso quartiere di una città, il valore immobiliare di un appartamento, e saremmo in grado di comparare con competenza i beni di un despota orientale, di un capitano d’industria ottocentesco e di Alessandro Magno?

 L’ironia è che spesso chi sostiene come una tranquilla evidenza che i ricchi sono sempre più ricchi ha passato anni a spaccare in quattro il capello in un dottorato per spiegare che la lotta dei galli nell’isola di Giava va interpretata in modo molto differente da come la concepiremmo noi occidentali, inclini a paragonarli a scommesse sui galli un tempo in uso tra noi.

L’incommensurabilità delle culture vale ovunque, anche al di là del buon senso, ma l’accertamento delle ricchezze è ci permette invece di tracciare una linea uniforme e progressiva che da Creso porta a Besos.

Se la tesi dei ricchi sempre più ricchi è infalsificabile, e dunque insensata, la tesi correlativa dei poveri sempre più poveri è sempre più  falsificabile.

All’inizio dell’Ottocento eravamo un miliardo, adesso siamo sette miliardi, e il numero dei vivi, attualmente, supera quello di tutti i morti della storia dell’umanità (anche su questo non mi è chiaro come si siano fatti i conti, dunque la butto lì con beneficio di inventario).

Il che significa che i poveri sono sempre più ricchi, perché un numero crescente (e si tratta di quantità impressionanti) di esseri umani supera la soglia della povertà assoluta, che è per l’appunto la mancanza di mezzi di sussistenza.

E, cosa forse ancora più significativa, nei paesi sviluppati in cui io e voi (lo dico perché avete addirittura il tempo di leggermi) abbiamo la fortuna di essere nati la vita media e la vita attiva delle persone si è prolungata in modo vertiginoso.

Senza parlare poi della disponibilità di beni di consumo, come abiti, cibi e tecnologie a basso costo (per la prima volta nella storia del mondo il numero dei bambini sovralimentati è il doppio di quello dei bambini sottoalimentati) che fa sì che per nulla sorprendentemente un homeless ha un telefonino (che gli cambia completamente la qualità della vita).

Anche a voler valutare negativamente, per motivi irrazionali (l’isola di plastica nel Pacifico può essere evitata, la fame a cui l’industria ha posto rimedio no) la maggiore disponibilità di beni di consumo, resta che per affrontare seriamente la questione “poveri-sempre-più-poveri” non si possono tralasciare i benefici che ogni essere umano trae dai progressi scientifici e tecnologici, che significano:

meno mortalità infantile, maggiore protezione civile, cure più efficaci, maggiore alfabetizzazione – ossia le circostanze che spiegano la curva demografica impressionantemente favorevole degli ultimi due secoli.

Considerazioni affini si possono svolgere per altri proverbi che vanno e vengono nello spazio pubblico per certificare quanto siamo caduti in basso e quanto l’umanità vada verso il peggio.

Proprio come i ricchi sarebbero sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, le guerre sarebbero sempre più guerre:

più cruente, più micidiali, più spietate, più selvagge.

Ma ovviamente neanche questo è vero: oggi si fa conto di cinque morti, un tempo erano normali diecimila morti in una qualsiasi battaglia non dico di Zhukov (erano centinaia di migliaia) ma di Federico il Grande o di Napoleone.

 I bombardamenti chirurgici fanno indubbiamente delle vittime, ma queste sono infinitamente minori di quelle causati dai bombardamenti a tappeto, che sono stati abbandonati essenzialmente per gli effetti che avrebbero prodotto su una opinione pubblica più evoluta, critica ed esigente (ulteriore prova del fatto che l’umanità verso il meglio).

 Ci si indigna sacrosantamente sul trattamento dei prigionieri di Guantanamo, ma nessuno, neppure i maniaci che li torturano, ha pensato di impalarli, prassi normale per i prigionieri nell’Europa di Raffaello, Tasso e Cartesio.

 E quanto alle guerre sconosciute, come quella del Rwanda, oggi non sarebbero più possibili, perché sarebbero immediatamente twittate e ritwittate (queste guerre sconosciute, d’altra parte, ci ricordano che le stragi peggiori si sono fatte a colpi di machete, non di tecnologie avanzate).

E sostenere che le guerre commerciali e finanziarie sono peggiori di quelle militari è segno di una drammatica insensibilità verso i morti di Gettysburg e di Verdun, di Hiroshima e di Dresda.

Venendo alla vita civile, tranne che in politica, dove oggi l’incompetenza è un valore (ma anche l’uno-vale-uno è segno di un illuminismo, seppure incompiuto:

“osa pensare con la tua testa”, per balorda che sia), le cariche dirigenziali oggi non possono essere disgiunte da capacità, dunque appaiono estremamente richieste, pagate e ricercate.

 Ovviamente questa circostanza non coincide con la giustizia sociale, ma comporta la riduzione di un’ingiustizia e di un rischio, quello di un incompetente alla guida di una realtà complessa.

Se un erede al trono non promette troppo bene, non lo si acceca né gli si taglia il naso, come era prassi a Bisanzio, ma lo si esclude con qualche stratagemma dalla successione.

 In un ambito meno impegnativo, persino ai professori universitari si chiede, almeno pro forma, di essere intelligenti.

Da dove traiamo l’idea della corsa verso il peggio?

Forse dal fatto che il procedere della modernità e la dittatura della tecnica ci ha omologati – tutti uguali dentro e fuori, il destino dell’umanità secondo Zarathustra, Pasolini e tutti quanti?

 Vorrei sommessamente far notare che cinquant’anni fa era comunissimo che interi paesi del meridione italiano, della Grecia e del Portogallo fossero popolati da donne vestite di nero e da uomini in coppola e camicia bianca, una prosecuzione naturale dei costumi tradizionali (in effetti, nulla è più omologante del folklore).

Oggi tutti sono vestiti in maniere differenti, tranne i pochi che (come altri compratori disseminati nei centri commerciali di tutto il mondo) hanno deciso di seguire i canoni estetici di Dolce & Gabbana.

 E ancora: la televisione ci offriva, originariamente, uno o due canali, ora Netfilx ci offre migliaia di film: eravamo più omologati allora o ora?

La mensa di fabbrica offriva una scelta?

Vegani, melariani, islamici in ramadan, cibi kasher oggi sono previsti: non è un progresso?

 Sono scelte che si notano poco nelle mense, più che altro perché la gente lavora sempre meno, eppure gli stessi ragazzini che cent’anni fa avrebbero mangiato il rancio in gavetta prestando il servizio militare (una omologazione scomparsa, e di cui non sentiamo la nostalgia) adorano il sushi.

Omologazione anche qui?

Mi sembra che si perda il significato delle parole, e a questo punto non vale neppure la pena di parlare.

Piuttosto, una convergenza tra utile e felicità:

 conviene di gran lunga moltiplicare la sfera dei gusti e dei desideri, perché produce più reddito, ora che sappiamo prevederli e conoscerli attraverso gli algoritmi che monitorizzano il consumo.

 (Se qualcuno dicesse che questa è una infrazione della privacy, allora dovrebbe accusare di infrazione della privacy anche il bibliotecario che scheda il libro che prendiamo in prestito e i patiti di Bird matching).

Queste sono circostanze a mio avviso cruciali in sede di filosofia della storia. Diversamente da quando si pensava che la società della tecnica coincidesse con la disumanizzazione (interpretazione che del resto derivava da un fraintendimento della nozione di “tecnica”, che è coestensiva all’umano), non si è mai prodotta così tanta umanità come oggi, non si è mai stati così attenti all’umanità come oggi.

 E quello che avviene sul web ne è la forma più evidente: moda, viaggi, stili di vita, pornografia, alimentazione, risposta alle domande più curiose (ho trovato un tutorial su come annodare le cravatte a farfalla e un altro su come usare un bombolone greco).

 I nostalgici dello stato commerciale chiuso sarebbero gli ultimi a rinunciare a questa ricchezza per trovarsi a bordo di una Trabant (che viceversa potrebbero ordinare liberamente su Amazon).

E soprattutto niente appare più inappropriato delle caratterizzazioni dell’umanità nel mondo tecnologico del secolo scorso – l’uomo a una dimensione, la solitudine dell’uomo nell’età della tecnica: ma quando mai?

 Sappiamo quanto può essere solo un uomo in un paese, quanto rumore umano ci circondi e quanto sia difficile da gestire, perché è il rumore di individui diversissimi gli uni dagli altri.

Sì, ma cosa dire dell’anima dell’uomo sotto la sferza del Capitale?

Dell’ottundimento della cultura di massa americanizzata?

Per esempio quella che deploravano Horkheimer e Adorno, dimenticando che se si trovavano negli Stati Uniti era perché in Germania vigeva a norma di legge una cultura di massa più imperiosa e non troppo intelligente, e che non ci sono seri motivi musicali o ideologici per preferire lo Horst-Wessel-Lied a Tutti Frutti.

Marcuse ce l’aveva con l’uomo a una dimensione (come abbiamo appena visto, nulla di meno vero) e con la “de sublimazione repressiva”, il che non gli impediva di insegnare a La Jolla, in riva al Pacifico, tra bouganville, edonismo e pacifismo, quando avrebbe potuto tornarsene a insegnare Hegel in Germania, magari a Karl-Marx-Stadt.

Non c’è bisogno di abbracciare un panglossismo senza riserve per concludere che la cultura di massa – spesso molto più intelligente e divertente di quella di élite, specie se prende i contorni minatorii e in definitiva fascisti delle Lezioni di sociologia della musica – è pur sempre meglio che l’analfabetismo o l’indottrinazione forzata, e che la de sublimazione repressiva è comunque preferibile alla repressione senza sublimazione.

Tutto questo costituisce un punto a vantaggio di una filosofia della storia tutt’altro che spengleriana.

Non stiamo decadendo, anzi, progrediamo, e proprio il confronto con gli eroi della teoria critica lo dimostra.

 Adorno poteva permettersi di disprezzare il jazz come musica da negri (lui si esprimeva proprio così), Horkheimer poteva compromettere la salute dei suoi uditori imponendo loro del fumo passivo dei suoi sigari, Marcuse poteva immaginare una liberazione sessuale che oggi condurrebbe difilato in tribunale.

 Se niente di tutto questo appare a noi, ora, accettabile, dipende molto meno dalle loro teorie (che si riducevano spesso a uno stalking dell’illuminismo) ma dall’illuminismo effettivo portato dal progresso tecnico, che ha abbattuto la necessità dello schiavismo da cui deriva il disprezzo per i neri, provato la nocività del fumo, e promosso – riducendo l’importanza dei muscoli e il primato maschile che ne derivava – l’emancipazione femminile.

 

 

Termina la Cop26: “Tradimento

catastrofico nei confronti dell’umanità”.

 

Amnesty.it - Pierrot Men – Agnes Callamard – (14 Novembre 2021) – ci dicono:

Dopo due settimane di negoziati, la conferenza sul clima Cop26 si è risolta, secondo Amnesty International, in “un tradimento catastrofico nei confronti dell’umanità”.

Invece di proteggere le persone più danneggiate dall’emergenza climatica, i leader mondiali hanno ceduto agli interessi dell’industria del fossile e di altri potenti attori economici.

“La Cop26 non ha prodotto un risultato in grado di proteggere il pianeta e le persone che lo abitano.

Ha tradito le fondamenta su cui sono state edificate le Nazioni Unite.

 I negoziati si sono conclusi con decisioni che ignorano, demoliscono o barattano i nostri diritti, soprattutto quelli delle comunità più marginalizzate al mondo, trattate come danni collaterali sopportabili”, ha dichiarato Agnes Callamard, segretaria generale di Amnesty International.

“Il mancato impegno a mantenere l’aumento della temperatura globale entro un grado e mezzo condannerà oltre mezzo miliardo di persone, soprattutto nel Sud del mondo, a contare su insufficienti quantità di acqua e centinaia di milioni di persone a temperature estreme.

 Nonostante questo disastroso scenario, gli stati ricchi non si sono impegnati a destinare fondi per risarcire le comunità che hanno subito perdite e danni a seguito del cambiamento climatico.

Né si sono impegnati a destinare finanziamenti a fondo perduto per affrontare la crisi climatica ai paesi in via di sviluppo, col risultato che gli stati più poveri e con meno risorse per contrastarla si ritroveranno alle prese con un insostenibile livello di debito”, ha aggiunto Callamard.

“È amaro constatare come le tante scappatoie contenute nell’accordo finale della Cop26 favoriscano gli interessi delle imprese fossili e non i nostri diritti.

 Il documento finale non menziona l’uscita dal fossile, dimostrando quella mancanza d’ambizione e di azione così necessaria in questo periodo drammatico.                  

Inoltre, l’attenzione destinata alla compensazione per gli stati ricchi che a un certo punto usciranno dal carbone ignora le possibili conseguenze per i popoli nativi e le comunità che rischiano di essere sgomberati per favorire i meccanismi di compensazione.

 Siamo di fronte a un inaccettabile ripiego rispetto all’obiettivo di zero emissioni”, ha proseguito Callamard.

“Le decisioni prese dai nostri leader a Glasgow comportano gravi conseguenze per tutta l’umanità.

Ma siccome loro hanno dimenticato le persone che dovrebbero servire, allora le persone devono mettersi insieme per mostrare loro cosa può essere raggiunto.

 Nei prossimi dodici mesi dobbiamo restare uniti per chiedere ai nostri governi di assumere iniziative ambiziose che abbiano le persone e i diritti umani al loro centro.

Se non uniremo cuori e menti per risolvere questa minaccia esistenziale all’umanità, perderemo tutto”, ha concluso Callamard.

 

 

 

La crisi climatica e

una generazione tradita.

Fridaysforfutureitalia.it – Redazione – (Marzo 1, 2020) – ci dice:

 

“Noi giovani siamo profondamente preoccupati per il nostro futuro.

 L’umanità sta causando la sesta estinzione di massa e la situazione climatica globale è sull’orlo di una crisi catastrofica.

Milioni di persone in tutto il mondo stanno già subendo delle drammatiche conseguenze.

Ciononostante, siamo ancora lontani dal raggiungimento degli obiettivi stabiliti dall’Accordo di Parigi.

Noi giovani costituiamo più della metà della popolazione globale.

 La nostra generazione è cresciuta con i cambiamenti climatici e noi dovremo affrontarli per il resto della nostra vita.

 Nonostante ciò, molti di noi non sono inclusi nel processo decisionale.

 Siamo il futuro inascoltato dell’umanità.

Non accetteremo più questa ingiustizia.

Chiediamo giustizia climatica!

 E la chiediamo per tutte le vittime passate, presenti e future della crisi climatica. Per questo stiamo insorgendo!

Nelle scorse settimane siamo scesi in migliaia per le strade di tutto il mondo.

 Ora faremo sentire le nostri voci.

Il 15 di marzo protesteremo in ogni singolo continente.

È arrivato il momento di affrontare la crisi climatica come una crisi.

 È la più grande minaccia nella storia umana e noi non accetteremo di estinguerci. Non ci piegheremo a una vita di paura e devastazione.

 Abbiamo il diritto di poter vivere i nostri sogni e le nostre speranze.

Il cambiamento climatico è già qui.

Delle persone sono già morte, stanno morendo e moriranno a causa sua.

Ma possiamo mettere fine a questa follia e lo faremo.

Noi giovani ci stiamo mobilitando.

Cambieremo il destino dell’umanità, che vi piaccia o meno.

Manifesteremo insieme il 15 Marzo, e molte altre volte ancora, finché giustizia climatica non sarà fatta.

Chiediamo a tutti i decisori politici di tutto il mondo di prendersi la responsabilità di risolvere questa crisi o di dimettersi.

 Ci avete deluso in passato e se continuerete a deluderci anche in futuro, noi giovani di questo pianeta cambieremo le cose da soli.

Abbiamo cominciato a muoverci e non ci fermeremo più.”

 

 

 

Cartabia: «Tradita la Costituzione,

voglio verificare ogni passaggio».

Ilmanifesto.it -Adriana Pollice- (1°luglio 2021) – ci dice:

 

Il carcere di Santa Maria Capua Vetere.

Inchiesta sui pestaggi dei detenuti, primi interrogatori di garanzia per nove agenti indagati.

«Una volta ricevuta dall’Autorità giudiziaria di Santa Maria Capua Vetere l’ordinanza di custodia cautelare, sono state immediatamente disposte le sospensioni dei 52 indagati»:

 l’annuncio ieri dal ministero della Giustizia.

L’inchiesta è quella relativa ai detenuti del reparto Nilo del carcere sammaritano: la procura ipotizza che siano stati pestati il 6 aprile 2020 come ritorsione per le proteste del giorno precedente, scatenate dalla notizia di un caso Covid.

 Volevano igienizzanti e mascherine, invece sono stati oggetto di una «orribile mattanza».

Gli indagati sono solo una parte dei circa 300 agenti impiegati, la parte che è stata possibile identificare.

Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria avrebbe potuto spostarli invece si è atteso l’intervento del gip, che lunedì ha convalidato le misure cautelari.

Il ministero ha aggiunto:

«Il Dap sta valutando ulteriori provvedimenti nei confronti di altri indagati. Occorre il ripristino dell’intera rete di videosorveglianza negli istituti».

LA MINISTRA CARTABIA ieri ha convocato il capo del Dap, Bernardo Petralia, il Garante nazionale delle persone private della libertà, Mauro Palma, i sottosegretari Francesco Paolo Sisto e Anna Macina.

Nel pomeriggio la sua nota:

 «Un’offesa e un oltraggio alla dignità dei detenuti e alla divisa della Polizia penitenziaria.

 Un tradimento della Costituzione: l’art. 27 richiama il “senso di umanità” che deve connotare ogni momento di vita in ogni penitenziario.

Un tradimento della funzione della Polizia penitenziaria nella missione di contribuire alla rieducazione del condannato».

Cartabia ha poi aggiunto:

«Ho chiesto un rapporto su ogni passaggio e sull’intera catena di responsabilità.

Questa vicenda richiede una verifica con tutte le articolazioni istituzionali.

I diritti costituzionali non possono essere calpestati».

Le telecamere del penitenziario hanno ripreso i pestaggi.

Il magistrato di sorveglianza Marco Puglia ha acquisito le registrazioni pochi giorni dopo, evitandone così la cancellazione:

292 detenuti del Nilo fatti sfilare tra due file di agenti, con la testa bassa per evitare che li riconoscessero, picchiati con i manganelli, presi a calci lungo corridoi e scale.

Per 15 di loro non finì quel giorno.

Con documenti che la procura giudica falsi (in una comunicazione firmata da 4 agenti vengono indicati come «autori di “una sostanziale resistenza attiva” che aveva comportato la necessità di provvedere al “loro contenimento”»), furono trasferiti al reparto Danubio.

«NON AVEVAMO COPERTE – mette agli atti uno di loro -, mi sono coperto con la federa del materasso.

Per 5 giorni in queste condizioni.

Dopo 2 giorni è venuto il dottor Puglia che ha visto le condizioni in cui stavo, ci ha rassicurati che avrebbe preso provvedimenti.

Dopo ulteriori 5 giorni ho fatto la conferenza con il dottor Puglia e gli riferivo che non era cambiato nulla».

E un altro:

 «Ero in cella con Antonio Flosco.

 Quest’ultimo si presentava pieno di sangue, mi ha riferito di aver subito una ispezione anale con un manganello.

 Nella cella vi erano solo due materassi, senza la possibilità di effettuare il cambio degli indumenti, nemmeno intimi.

 Solo il giorno seguente ci è stato servito il pasto».

Flosco racconta:

«Quella sera non ci è stato servito né la cena né l’acqua.

 È passato un infermiere a cui ho fatto presente che le mie condizioni erano incompatibili con l’isolamento.

 L’infermiere mi ha detto che era già a conoscenza, tanto è vero che l’ha fatto presente a un ispettore.

Per 5 giorni sono rimasto in isolamento».

Un altro detenuto spiega:

«Nessuno ci ha visitato. Non ho chiesto l’intervento di alcun infermiere o medico in quanto avevo paura di prendere altre botte».

E un altro ancora: «Cristian perdeva sangue dall’orecchio, aveva lividi agli occhi, ematomi sulla schiena e sulle gambe.

 Ci hanno lasciati per 5 giorni con gli abiti ancora sporchi di sangue. Non mi è stato consentito di telefonare ai familiari».

E infine: «Ci hanno lasciato con il volume del televisore al massimo, ininterrottamente, anche di notte, fino al giorno 9 quando è giunto il dottor Puglia».

Lamine Hakimi, schizofrenico, sono stati pestati e poi lasciati senza terapia, in stato di choc nel Danubio.

Dopo un mese ha assunto oppiacei ed è morto.

La procura ha ipotizzato il delitto di «morte come conseguenza di altro reato» ma il gip l’ha considerato suicidio.

Non è chiaro come si sia procurato gli oppiacei.

PRIMI NOVE INTERROGATORI di garanzia ieri per gli agenti (3 sono in carcere, 6 ai domiciliari):

 in 7 si sono avvalsi della facoltà di non rispondere;

Pasquale De Filippo è l’unico ad aver risposto al gip per contestare le accuse.

Salvatore Mezzarano ha rilasciato una dichiarazione spontanea:

 «Sono l’ultimo anello della catena, le modalità di intervento sono state decise dai superiori».

Magistratura democratica attacca:

 «A luglio saranno 20 anni dal G8 di Genova. Nomi come Diaz e Bolzaneto evocano quella “eclisse della democrazia” sulla quale ancora dobbiamo riflettere».

Oggi pomeriggio a Santa Maria Capua Vetere arriverà Salvini:

«Chi sbaglia paga ma serve rispetto. Sono convinto che non hanno fatto nulla di male».

Dal Pd Enrico Letta: «Abusi così intollerabili non possono avere cittadinanza nel nostro paese».

 Frantoiani chiede i codici identificativi per gli agenti in divisa.

 

 

 

Un PNRR di Riconciliazione

e Relazione.

Ilcittadino.ge.it – (06/05/2022) - Gigi Borgiani- Direttore Fondazione Auxilium- ci dice:

 

Tutto è collegato, e le piccole azioni individuali si riverberano su tutto e tutti.

Il tragico momento che stiamo attraversando, espressione di una umanità tradita con una guerra tanto cruenta quanto inimmaginabile, senza dimenticare altre diffuse realtà di conflitto meno attenzionate, distoglie le nostre preoccupazioni dall’onda lunga della pandemia che peraltro invita a non rallentare la vigilanza nel momento in cui ci viene concessa un po’ più di libertà.

Momento delicato ma opportuno per ritrovarci, ricominciare, ripartire.

Ai primi segni di sofferenza da lockdown si è cominciato ad invocare il ritorno alla normalità: si è commesso un grande errore!

Non si è capito che la pandemia stava provocando una serie di cambiamenti, di mutazioni che richiedevano un surplus di riflessione per guardare con occhi nuovi il futuro e che proprio la “normalità” di prima era il vero problema.

Quella “normalità” era immersa in una società ingiusta in cui le diseguaglianze erano già presenti e le reiterate proposte di sviluppo già arenate, anche perché prive di una visione globale - “tutto è in relazione” - che orientasse davvero ad uno sviluppo umano integrale.

Oggi, in questi giorni, le cose si sono ulteriormente complicate, sono peggiorate. All’orizzonte, tempi difficili.

Non abbiamo saputo leggere la normalità di prima.

Adesso, a quale normalità aspiriamo?

Il peso economico della pandemia è stato caricato delle attese di una ripresa sostenuta da ingenti risorse.

Parlare di PNRR è cosa quotidiana, diffusa.

Ma sappiamo leggere il presente per capire che non sarà sufficiente il ricorso alla ripresa economica se non si riempiono di contenuti sociali, culturali, morali le proposte e le risposte?

Tutti parlano di resilienza, è di moda da qualche tempo anche se forse ai più sfugge il suo completo significato.

D’accordo, capacità di reagire, ripartiamo!

 Ma tutti gli investimenti previsti riusciranno da soli a creare una nuova normalità, a costruire un futuro rosa per tutti?

Sono convinto che la pandemia ha segnato tutti; tutti hanno patito qualcosa.

 Ma qualcosa l’avremo pur imparata, avremo ben capito che per affrontare il ben noto cambiamento d’epoca non dobbiamo solo genericamente sperare che cambi qualcosa o che intervenga una bacchetta magica che riesca a trasformare le tenebre in luce, a sistemare l’umano convivere in modo che ognuno possa star sereno e chi si possa guardare ad un futuro per tutti.

 Proprio facendo tesoro del periodo buio dobbiamo essere capaci di pensare e di capire che tutto dipende da noi.

Ogni nostro singolo comportamento ha influito sulla normalità di prima e può orientare, determinare quella di oggi e domani.

 Il cambiamento dipende da noi!

Nasce quindi l’idea di affiancare a quello già in atto un altro PNRR: un Piano Nazionale di Riconciliazione e Relazione!

Riconciliazione con sé stessi.

 Capacità di riconoscersi non individui in balia degli eventi e dell’aiuto di qualcuno ma persone che si riconoscono vive e partecipi in un contesto sociale comune.

Riconoscere i propri limiti, capacità e responsabilità perché tutti e ciascuno abbiamo qualcosa da dare, da mettere in comune e non siamo solo spettatori in attesa di uno spettacolo gestito da altri.

 Riconciliarsi con l’altro, con gli altri.

Non solo perché nessun uomo è un’isola ma perché siamo legati gli uni agli altri;

perché da soli non si va da nessuna parte;

perché il nostro desiderio di essere in pace (quella vera) non può prescindere da quello degli altri che dobbiamo considerare come risorse e non come antagonisti.

Perché apparteniamo ad una città (e ad un paese) che ci chiede di partecipare a quella tenuta sociale che sola può garantire futuro e sviluppo umano sostenibile.

 

Riconciliarsi con la realtà.

Accettare il presente ma non subirlo, facendo leva sulle nostre capacità, conoscenze, competenze senza rifugiarsi nel “questo non mi riguarda”.

Una realtà di persone e situazioni che rimandano all’altra componente del piano: le relazioni.

La città può essere riqualificata e rigenerata solo se a tutti i livelli saremo capaci di ascoltarci, di dialogare, di scegliere insieme le vie del futuro: cittadini e decisori, giovani e adulti, benestanti o precari…

Relazioni familiari, tra istituzioni e cittadini, tra comunità, tra associazioni ed enti che insieme formano alleanze per promuovere crescita culturale, di senso, di appartenenza per sottrarre il nostro vivere all’individualismo, a parzialità e indifferenze, alle trappole della povertà.

 Relazioni capaci di generare cultura, ricerca, innovazione, occasioni di lavoro, riqualificazione ambientale ma soprattutto vera socialità.

Relazioni davvero “resilienti” e non semplicemente “rendicontanti”.

Relazioni di amicizia sociale, impegno a “prendersi cura” che compete innanzitutto ai credenti in ragione della missione alla fraternità universale che passa dalla fede ed accende la speranza per gli uomini e le donne che Dio, Padre di tutti, ama.

 

 

 

 

Alla scoperta del male, del tempo e

della morte tra umanità e animalità.

Ildubbio.news – Bernardo Zannoni- Redazione – (16 dicembre, 2022) – ci dice:

 

Bernardo Zannoni col romanzo “I miei stupidi intenti”, la storia autobiografica di una faina che scopre il destino umano, ha vinto il premio Campiello.

Cos’è il destino umano?

 Di quali esperienze si compone, in quali rapporti sta col tempo, si può prevedere, è in nostro potere trasformarlo, da chi dipende?

Domande che girano intorno alla filosofia e alla letteratura, due attività umane in crisi cronica, almeno ad ascoltare il mondo italiano degli intelletti che, più spesso e più dolentemente di quanto un cuore sensibile si auguri e regga, ne celebra le esequie.

Sono due le versioni funerarie prevalenti: concioni sulla polverosa inattualità - ma necessaria! - del conoscere tradizionale tradito dai modi frettolosi dell’ultra modernità o strilli sul definitivo superamento di quelle discipline da parte dell’intrattenimento globale e globalizzante.

Ma qualcuno che esce dal coro degli esausti c’è sempre.

Stavolta si tratta di qualcuno che s’è predisposto a una rifondazione di quelle domande con due polveri magiche: un’incrollabile fedeltà all’antico compito del narratore e lo slancio sovversivo dell’esordiente.

È Bernardo Zannoni, che col romanzo intitolato “I miei stupidi intenti” ha prima - lo scorso anno - convinto l’editore Sellerio a pubblicarlo, e dopo - due mesi fa vinto il premio Campiello.

Il romanzo è l’autobiografia di una faina, Archy, che scopre il destino umano.

Archy nasce in una notte invernale da una madre arcigna e insieme ai suoi fratelli e alle sue sorelle impara presto che la forza è l’unica moneta valida per sopravvivere nel bosco.

 Ma Archy diventa giovane tradendo quel primo insegnamento.

Assecondando il suo istinto, s’innamora e s’azzoppa, due esperienze che ne segnano la distanza già irrimediabile dal nucleo familiare.

 Che infatti lo allontana per venderlo a un altro animale anomalo, la volpe Solomon, usuraia dalla memoria lunga che riesce a dominare sul resto degli abitanti del bosco perché conosce la scrittura, e con essa la memoria dei debiti, e ha ai suoi servizi il gagliardo mastino Gioele, impassibile esecutore di ogni suo ordine.

La costruzione dell’identità di Archy incontra qui il suo maestro.

Dopo qualche reticenza, Solomon svela alla faina protagonista il segreto della sua anomalia

. E quel segreto è la parola di Dio, che Archy imparerà a leggere grazie alle lezioni di Solomon e da cui prenderà coscienza del male, del tempo, della morte.

“Per iniziare mi ci vollero alcuni giorni.

 La tremenda scoperta della morte mi tolse il sonno e mi rese fiacco, lasciandomi annegare in una silente disperazione.

Quel che vedevo mi faceva male, quel che sentivo si allontanava in una odiosa eco; il mio rapporto con la vita era scomparso dietro la coscienza della fine.

 Otis [un fratello di Archy, malato dalla nascita] mi veniva in sogno, e lo pensavo quand’ero sveglio.

Ricordavo le sue parole a nostra madre, seduta a tavola con noi.

 «Morirò perché non cresco».

Anche se triste e avvolto nel pianto, non era sembrato così sicuro di quello che aveva detto, non quanto lo era stato Solomon.

 Rimaneva il capriccio di un cucciolo, una lagna innocente e piena di speranza: anche Otis non credeva nella sua fine.

Ora che sapevo il destino di mio fratello, era chiaro anche il mio e quello di tutti.

Mai avrei detto di poter morire a questo mondo.

 Dovendo morire, il mondo mi diceva che non era mio”. Ora.

 Com’ha fatto Zannoni a compiere il capolavoro di sguazzare indenne per 250 pagine in un mondo narrativo popolato da animali antropomorfi meno favolistici di tanti protagonisti umani della letteratura italiana più recente, e retto dallo spiegarsi di polarizzazioni tutte abissali e tutte dichiarate:

animalità-umanità, vita-morte, tempo-scrittura, istinto-riflessione, amore-violenza?

 E per di più impiegando una scrittura piana, volutamente semplificata, quasi scarna, da parabola?

A contare davvero nel romanzo non è tanto la trama, lineare dispiegarsi di una vita che scopre la sua fine, ma sono le esperienze che rendono la trama di quella vita esemplare, pur se vissuta da una faina, possibile.

 Il dolore, la paura, la violenza, l’eccitazione, la solitudine, l’ingiustizia, l’amore.

Le leggiamo attraverso la voce di una faina ma sono tracce per ritrovare la strada verso le domande intorno al senso dell’esistere di ognuno.

Del destino di ognuno.

“I miei stupidi intenti” è la migliore chiosa al concetto di destino umano, come lo aveva criticato Walter Benjamin:

“Il destino appare quando si considera una vita come condannata, e in fondo tale che prima è stata condannata e solo in seguito è divenuta colpevole”.

E ancora: “Il destino è il contesto colpevole di ciò che vive”.

 E infatti Archy scoprirà la sua condanna solo vivendo e scoprirà la sua colpa solo morendo.

Non c’è alcuna redenzione nel libro di Zannoni e anche l’approdo alla scrittura, che pare salvare qualcosa della vita altrimenti intangibile di tutti, rimane uno strumento ambiguo, affidato alle speranze fragili dei prossimi condannati, non ancora colpevoli ma già dannati.

“Quella notte Solomon mi fece andare avanti con il suo scritto, ma solo di qualche pagina.

Non riusciva a prestarmi attenzione, a correggere le frasi che reinventavo al posto suo, e lo vidi farsi cupo.

«Va bene così», rantolò, sforzando un sorriso.

 «Mi rimetto a te». Mi passò la zampa.

La strinsi e lo guardai negli occhi, due cerchi arrossati senza forza, gli stessi che una volta mi facevano bruciare, talmente erano vivi.

Ancora scorsi un piccolo bagliore, un guizzo di lucidità che mi fece annuire, spaventato, come ad un suo ordine.

«Finiscilo per me. Mettici il tuo Amore», disse.

«Certo, Solomon»

. «E brucia quello vecchio. Che non si sappia chi sono stato».

 Esitai. Se ne accorse, e tentò di stringermi più forte la zampa.

Il suo libro era la storia di una vita straordinaria, fatta di cattiveria, sangue, astuzie e inganni.

Mi pianse il cuore a sentire quella sua volontà, era come dimenticare un pezzo di mondo.

Era un racconto al quale mi ero affezionato, e che aveva colorato i miei sogni più della parola di Dio, perché parlava di noi.

 «Fallo», disse la vecchia volpe con un sospiro.

«Canta solo di un animale, e dei suoi stupidi intenti».

 Gli dissi di sì.

Solomon mi lasciò andare la zampa, si mise a guardare fuori dalla finestra.

 «Com’è lunga questa notte. Sembra ci voglia con sé per sempre, miserabili, e sciocchi».”

 

 

 

Libertà e Insicurezza

Conoscenzealconfine.it – (23 Dicembre 2022) - Giorgio Agamben - ci dice:

 

John Barclay, nel suo profetico romanzo Argenis (1621), ha definito in questi termini il paradigma della sicurezza che i governi europei avrebbero più tardi progressivamente adottato:

“O rendi agli uomini la loro libertà o dai ad essi la sicurezza, per la quale abbandoneranno la libertà”.

 

 

Libertà e sicurezza sono cioè due paradigmi di governo antitetici, fra i quali lo Stato deve ogni volta operare la sua scelta.

Se vuole promettere ai suoi sudditi sicurezza, il sovrano dovrà sacrificare la loro libertà e, viceversa, se vuole la libertà dovrà sacrificare la loro sicurezza.

Michel Foucault ha, però, mostrato come si debba intendere la sicurezza (la sureté publique) che i governi fisiocratici, a partire da Quesnay, sono i primi ad assumere esplicitamente fra i loro compiti nella Francia del XVIII secolo.

 Non si trattava – allora come oggi – di prevenire le catastrofi, che nell’Europa di quegli anni erano essenzialmente le carestie, ma di lasciare che esse si producessero per poter poi subito intervenire per governarle nella direzione più utile.

Governare riacquista qui il suo significato etimologico, cioè “cibernetico”:

un buon pilota (kibernes) non può evitare le tempeste, ma, quando esse accadono, deve essere comunque in grado di governare la sua nave secondo i suoi interessi.

Essenziale, in questa prospettiva, era diffondere fra i cittadini un sentimento di sicurezza, attraverso la convinzione che il governo stava vegliando sulla loro tranquillità e sul loro futuro.

Ciò a cui stiamo oggi assistendo è un estremo svolgimento di questo paradigma e, insieme, il suo puntuale rovesciamento.

Compito primario dei governi sembra diventata la diffusione capillare fra i cittadini di un sentimento di insicurezza e persino di panico, che coincide con un’estrema compressione delle loro libertà, che proprio in quell’insicurezza trova la sua giustificazione.

I paradigmi antitetici non sono più oggi la libertà e la sicurezza; piuttosto, nei termini di Barclay si dovrebbe oggi dire: “dà agli uomini l’insicurezza e essi rinunceranno alla libertà”.

Non è più necessario, pertanto, che i governi si mostrino capaci di governare i problemi e le catastrofi:

 l’insicurezza e l’emergenza, che costituiscono ora il solo fondamento della loro legittimità, non possono in nessun caso essere eliminate, ma – come stiamo oggi vedendo con la sostituzione della guerra fra Russia e Ucraina a quella contro il virus – solo articolate secondo modalità convergenti, ma ogni volta diverse.

Un governo di questo tipo è essenzialmente anarchico, nel senso che non ha alcun principio a cui attenersi, se non l’emergenza che esso stesso produce e intrattiene.

È probabile, tuttavia, che la dialettica cibernetica fra l’anarchia e l’emergenza raggiunga una soglia, al di là della quale nessun pilota sarà in grado di governare la nave, e gli uomini, nell’ormai inevitabile naufragio, dovranno tornare a interrogarsi sulla libertà che hanno così incautamente sacrificato.

(Giorgio Agamben -- quodlibet.it/giorgio-agamben-libert-5-insicurezza).

 

 

 

Chi ha tradito Anne Frank?

di Rosemary Sullivan.

 

  Treccani.it - Marco Ferrario – Rosemary Sullivan - (28 novembre 2022) – ci dicono:

 

Nel 1959, quando in Germania, caso più unico che raro in Europa (per non parlare del Giappone o di altri Stati che avevano in qualche modo avuto a che fare con il Reich hitleriano) si iniziava a riflettere seriamente a livello di discorso pubblico su quanto era accaduto nei due decenni precedenti e si faceva strada il concetto, tristemente ancora oggi tutto interno alla società tedesca, di colpa collettiva, un anonimo si prese la briga e a giudicare dal tono, di certo il gusto, di scrivere quanto segue a Otto Frank:

 «Sono scioccato che lei, in quanto padre, abbia pubblicato una cosa del genere. Ma è tipico degli Ebrei.

Cerca ancora di riempirsi le tasche con il cadavere maleodorante di sua figlia.

È una benedizione per l’umanità che tali creature siano state sterminate da Hitler».

Il Diario della figlia minore di Otto Frank, morta assieme alla sorella Margot di tifo a Bergen Belsen, meno di un anno prima della resa incondizionata della Germania nazista, è uno dei libri più celebri del mondo (e come dimostra la lettera di cui sopra, fu – in certi ambienti resta – uno dei più controversi).

Della storia delle otto persone che risiedettero, volendo dir così, per oltre due anni nell’annesso del numero 263 di Prinsengracht, ad Amsterdam, è noto quasi ogni dettaglio, non da ultimo grazie alle osservazioni, allo stesso tempo candide e spietatamente acute, di una ragazzina appena adolescente che sognava di diventare scrittrice in un mondo che esplorava pressoché quotidianamente nuovi abissi della depravazione umana.

Dopo Stalingrado, dopo lo sbarco in Normandia, mentre ormai era evidente a tutti (Goebbels lo aveva temuto e confidato, profeticamente, al suo diario fin dall’inizio dell’operazione Barbarossa) che la guerra si sarebbe conclusa con la disfatta dei nazisti, quando ormai sembrava fatta, un alto ufficiale del servizio di sicurezza tedesco di stanza in Olanda, Julius Dettmann, ricevette una telefonata che lo informava della presenza, in quello che dalla pubblicazione del Diario sarebbe divenuto noto come l’alloggio segreto – la stessa Anne Frank aveva pensato di intitolare così la versione rielaborata di quanto aveva annotato durante la sua clandestinità – di alcuni Ebrei.

Il resto, come si dice, è storia.

Assieme ad alcuni tirapiedi, Karl Josef Silberbauer, un inquirente di seconda tacca che si sarebbe brillantemente riciclato nel dopoguerra tra i ranghi della polizia viennese, fece irruzione nell’azienda che era stata di Otto Frank e dopo una accurata perquisizione uscì con il bottino della soffiata, non prima di avere strigliato a dovere, «piegato in due dall’ira», una degli impiegati di Frank, l’oriunda austriaca Miep Gies, domandandole se non si vergognasse di aver nascosto per tutto quel tempo «la feccia ebraica».

Della storia di Anne Frank, così si dice, si è detto e scritto tutto, tutto è noto.

Tutto tranne la risposta ad una domanda cruciale:

chi telefonò a Dettmann, non l’ultimo scribacchino di un commissariato di polizia, e perché?

Sull’onda montante di un clima politico, anche nella autocompiaciuta Olanda liberale e libertaria (nella quale, per altro, durante l’occupazione nazista in rapporto alla popolazione furono deportati più Ebrei che in ogni altro Paese dell’Europa occidentale:

 Amsterdam perse un decimo dei propri abitanti), sempre più tollerante, quando non apertamente apologetico, di xenofobia e razzismo, mettere di nuovo le mani in una vicenda così emblematica della coscienza, e dell’inconscio, di un intero continente, non è tempo perso.

Nel corso di cinque anni, una squadra investigativa che sarebbe arrivata a contare duecento persone e messa insieme da Tris Bains, Pieter van Twist e Luc Garris ha riesaminato da cima a fondo la documentazione del caso, facendo uso dei più sofisticati mezzi dell’analisi forense e della cara vecchia ricerca d’archivio, nel tentativo di far luce sulle – molte, verrebbe da dire decisamente troppe – zone d’ombra di un evento che è possibile definire banale solo in tempi eccezionali.

 

La cronaca di questo progetto, recentemente pubblicata con il titolo “Chi ha tradito Anne Frank a cura della celebrata Rosemary Sullivan”, già autrice di una portentosa biografia di Svetlana Stallina, è assai più della ricostruzione delle dinamiche di un’indagine intorno a un cosiddetto cold case.

Diviso in due parti (L’antefatto, pp. 17-120 e L’indagine 123-339) incorniciate da un’introduzione e un epilogo, il volume si configura prima di tutto come un affresco, degno del miglior Goya, di una società in stato d’assedio e delle dinamiche scatenate – o esacerbate – dalle politiche naziste.

 A margine, varrà la pena notarlo, il saggio di Sullivan offre anche uno spaccato, francamente pietoso, degli interessi ‒ soprattutto economici – che ruotano intorno alla cronaca quotidiana della vita di una ragazzina assurta, suo malgrado, al ruolo di testimonianza iconica di uno degli eventi più traumatici della storia mondiale, interessi che hanno contribuito in misura non trascurabile ad ostacolare le indagini della squadra casi irrisolti messa insieme da Bains e soci.

La relazione tra Olocausto, denaro e compromesso morale, chiamiamolo così, è stata emblematicamente riassunta in una micidiale battuta pronunciata da uno dei protagonisti di Inside Man (2006), il banchiere Arthur Case, alle prese con uno spinoso caso di ritorno del rimosso.

 «E inoltre c’era l’anello.

Un anello di Cartier che apparteneva alla moglie di un banchiere parigino, una ricca famiglia di Ebrei francesi.

Quando arrivò la guerra confiscarono tutto quello che avevano e vennero spediti nei campi.

Nessuno di loro fece ritorno. Erano amici. Avrei potuto aiutarli. Ma i nazisti pagavano: troppo bene».

Nell’antefatto di Sullivan, questa dialettica è indagata a sufficienza per mostrare con quale sinistra sottigliezza il regime hitleriano si sia servito di alcuni tra i più comuni e meschini sentimenti umani, non da ultimo l’avidità, per trasformarli in un’arma di potenza inaudita.

Nel caso dei residenti dell’alloggio segreto, le conclusioni alle quali è giunta la squadra investigativa (conclusioni, per altro, tutt’altro che pacificamente accettate dalla comunità scientifica) sono allo stesso tempo più e meno disturbanti.

 Con ogni probabilità, i Frank e i loro coinquilini, se ha senso chiamarli così, vennero traditi da un affluente notaio, Arnold van de Bergh, tra i membri più eminenti della comunità ebraica di Amsterdam, il quale, sullo sfondo dell’esautorazione ai vertici della gerarchia nazista di Göring – i buoni uffici presso il quale in qualità, tra l’altro, di procacciatore di opere d’arte, gli avevano permesso di tutelare se stesso e la propria famiglia in un clima sempre più irrespirabile ‒ ad opera di Himmler, a corto di merce di scambio per impedire l’imminente deportazione, diede fondo al proprio repertorio di informazioni sullo stato della comunità che aveva contribuito a gestire in qualità di membro del locale Judenrat.

Visto lo stato della documentazione, quella presentata nel saggio di Sullivan, alla fine, non è che una tra le tante ipotesi formulate in merito alla vicenda – tra gli altri – di Anne Frank, e sarà compito della ricerca negli anni a venire ponderarne il valore.

Quel che è certo, se non altro, è che cinque anni di indagine, dopo due precedenti, assai più rudimentali, portati avanti nell’immediato dopoguerra e negli anni Sessanta, hanno permesso di accumulare nuovo materiale ed approfondire la conoscenza delle microstrutture dell’operato nazista in Germania e nei territori occupati, le quali sole permisero, al netto dello zelo di quanti si dedicarono alla causa, di portare avanti con la nota efficienza un progetto omicida su scala industriale come mai se ne erano visti prima.

Se comprendere a fondo le dinamiche di questi eventi possa impedire che si verifichino ancora può essere legittimamente dubitato, né è probabile, nell’era dell’intelligenza artificiale, che aiuti particolarmente a capire in che modo un simile disegno potrebbe essere rimesso in pratica.

Tuttavia, ammesso che avesse ragione Tucidide nel sostenere che la natura umana non cambi mai, il mondo sociale che fece da sfondo alla vicenda degli abitanti del 263 di Prinsengracht potrebbe rivelare qualcosa degli atteggiamenti mentali che un certo tipo di ideologia produce.

In altri termini, potrebbe rivelare in anticipo alcuni sintomi di una cancrena in corso.

 Come poi si decida di intervenire a diagnosi effettuata è qualcosa che può essere verificato, come fu nel caso di van de Bergh, solo nella concretezza degli eventi, e c’è dunque di che sperare che le inevitabili speculazioni dei lettori di questo volume siano destinate a rimanere tali.

(Rosemary Sullivan, Chi ha tradito Anne Frank? Indagine su un caso mai risolto).

 

 

 

 

Dai diritti umani al diritto di umanità.

Verso il concetto e la pratica

della cittadinanza planetaria.

Istitutoeuroarabo.it – Franco Ferrarotti – (1° luglio 2021) – ci dice:

 

Si dànno parole e corrispondenti concetti di uso corrente, che appunto nel loro comune, quotidiano utilizzo, si consumano, perdono il loro valore profondo e realizzano la famosa «legge» di Gresham, secondo la quale la moneta cattiva scaccia la buona. «Società» sembra essere una di queste parole.

Si dice «società» e si pensa alle varie società geograficamente, storicamente e linguisticamente distinguibili, tanto da potere, su una mappa, indicare una società italiana, tedesca, francese, americana, e così via, senza peraltro avvedersi e avere piena coscienza che nel termine e nel concetto di società è presente una promessa di eguaglianza che è stata storicamente tradita.

Questo tradimento, oggi, si va rivelando, sia pure indirettamente, con sempre maggiore chiarezza.

La stessa pandemia, a causa del suo carattere globale, finisce per segnalare e richiamarci alla fondamentale unità della famiglia umana.

Ma soprattutto contribuisce a far emergere un’ombra che grava, oggi, sull’umanità: la confusione fra valori strumentali e valori finali.

L’innovazione tecnologica e le comunicazioni elettronicamente assistite sono oggi riconosciute, adottate e seguite come principio-guida della società umana.

 Si tratta di un valore, certamente, che è però puramente strumentale.

 Il progresso tecnico è un valore, ma non ci dice da dove veniamo, dove siamo, dove andiamo.

È in grado di controllare la correttezza interna delle sue operazioni.

Ma non è altro che l’eterno ritorno dell’identico.

È la transizione dello stesso allo stesso, il trionfo dell’istessità, o sameness, la perfezione priva di scopo.

Non riconosce la variabilità storica.

 Tende ad appiattire l’esperienza umana, a ridurre il mondo a una serie di stazioni di servizio perché, di fatto, è a portata planetaria.

 Ma ecco che, nello stesso momento, i gruppi dirigenti nei vari Paesi, governanti e influenzanti, invece di costruire ponti, alzano muri, si rinchiudono nei loro piccoli orticelli, esaltano la loro particolare sovranità, difendono i loro diritti di cittadinanza, dichiarano la guerra dei dazi.

Nella situazione odierna, il concetto di cittadinanza gioca un ruolo regressivo, che tende a giustificare le disuguaglianze.

 È un nodo problematico da cui i giuristi, paghi della coerenza formale, si tengono prudentemente lontani.

 Ma nella prospettiva planetaria che oggi si va aprendo, grazie alla contraddittoria azione dell’elettronica applicata e della pandemia, la considerazione della natura ambigua del concetto di cittadinanza si impone.

Penso a Paolo di Tarso, in procinto di venire arrestato, che pronuncia la formula salvifica: «Civis romano sum» e subito viene rilasciato, diventa «intoccabile».

E gli altri?

 Si può essere polítes, civis, citoyen, citizen – e gli altri? Chi sono?

Per Platone, non sono veramente «uomini», ma andràpora, «piedi di uomo»;

per il suo discepolo, Aristotele, sono «macchine animate»; nei Paesi odierni, anche in quelli formalmente «democratici», sono al livello di metechi, e più o meno prigionieri di guerra, schiavi, sans papiers e sans droits.

Fa una certa impressione che persino per la Rivoluzione Francese del 1789, quella dei «diritti immortali», questi si applichino solo a chi possegga almeno un lembo di terra francese.

Gli altri sono alieni, diversi, uomini solo in senso zoologico, pericolosi, «impuri», da isolare e, possibilmente, sterminare in nome del Blut und Boden.

In altra sede mi sono a lungo occupato di questo problema, convinto che l’attuale significato del concetto di cittadinanza sia divisivo e vada ripensato e riscritto in termini planetari.

Come ho più sopra osservato, nel momento in cui capi politici responsabili, in grado di leggere i segni della storia, dovrebbero farsi «pontefici», cioè costruttori di ponti, si adoperano invece per alzare muri, coltivano il mito dell’invasione di immigrati, dànno corso ad anacronistiche «guerre della tariffa».

Parlano, o si illudono di parlare, in nome del popolo.

Ma non sanno che per i Romani della classicità populus vuol dire «popolo in armi» e che il verbo infinito passivo “populari” significa «devastare, saccheggiare, incendiare».

Siano fortunati: viviamo in tempi di emergenza. Per la prima volta, dopo venticinque secoli, dall’Atene di Pericle nel V secolo ad oggi, il destino dell’Europa non è più nelle mani degli Europei.

Dipende dai rapporti fra Stati Uniti, Russia e Cina.

In subordine, India.

Con le due guerre mondiali del secolo scorso, l’Europa ha deciso di commettere suicidio.

E tuttavia, siamo fortunati, perché ci è toccato di vivere in tempi di emergenza. L’emergenza fa emergere il problema: la contraddizione flagrante fra una tecnica che ha una portata planetaria, specialmente nelle sue applicazioni elettroniche, e gruppi dirigenti, politici e culturali, governanti e influenzanti, che, al momento in cui dovrebbero essere, come abbiamo detto, «pontefici», costruttori di ponti, alzano muri, non hanno idee, si illudono di garantirsi prosperità e sicurezza chiudendosi dentro i propri angusti confini.

 

Ma nessuno si salva da solo.

La loro inconsapevolezza è così tracotante da riuscire commovente. Non si sa se definirli studenti fuori corso, dilettanti allo sbaraglio o ancora delinquenti in libera uscita.

Nessuna meraviglia che la tecnica sia ritenuta il principio-guida dello sviluppo storico.

 Ma abbiamo già osservato che la tecnica è una perfezione priva di scopo.

 Può solo controllare l’esattezza delle proprie operazioni interne.

 Di qui, un mondo disorientato, né centralizzato né decentrato. Semplicemente, a-centrato, in cui i valori strumentali oscurano i valori finali, dominato dalla piattezza interiore, dall’eterno ritorno dell’identico e dalla creazione artificiosa dello spontaneo – completamente in mano alle società multinazionali, fondate sul principio della a-territorialità, dotate di un potere enorme, pubblico e quindi politico – e nello stesso tempo, a vergogna di politici e giuristi, considerate ancora meri domicili privati.

 

Nella situazione odierna, quando le comunicazioni elettronicamente assistite hanno praticamente abolito la «frizione dello spazio», sarebbe necessario costruire ponti, favorire l’interscambio fra le culture.

 La scarsa statura storica e morale dei capi politici odierni li induce invece a costruire e a rinchiudersi dentro i muri.

Negano l’altro.

Non comprendono che l’identità non è un dato; è un processo. Identità e alterità sono pratiche di vita e concetti correlativi, l’elettronica applicata e la stessa economia capitalistica, affamata di sempre nuovi mercati, puntano decisamente alle dimensioni planetarie, ad una globalizzazione commerciale che toccherebbe a capi politici consapevoli e intellettualmente coraggiosi portare a compimento con adeguate strutture sovranazionali e sovra statuali.

Si potrebbe pensare alle Nazioni Unite.

Frutto delle due guerre mondiali del secolo Ventesimo, che hanno determinato il suicidio finale dell’Europa, le Nazioni Unite restano un foro privo di forza effettiva così come il Parlamento Europeo di Strasburgo è poco più che un’assemblea di inascoltati consiglieri e un “quietum servitium” per politici e sindacalisti nazionali ritenuti, a torto o a ragione, degni di un congruo pensionamento.

È in questo quadro che si rende manifesta tutta la sostanza anacronistica e, in senso proprio, reazionaria delle politiche che oggi sembrano sul punto di prendere il sopravvento in Europa, ma anche negli Stati Uniti e nell’America Latina.

 La guerra dei dazi ne è solo un aspetto.

Non si tratta di un neo-isolazionismo, cui gli Stati Uniti, non immemori della dottrina Monroe («L’Europa agli Europei, L’America agli Americani»), si sono nell’Ottocento dedicati, consapevoli di doversi dare una propria fisionomia storica e morale ad evitare di venir considerati una mera appendice dell’Europa.

È un protezionismo miope, un sovranismo non nazionalista, ma chiuso nel proprio territorio, che non si rende conto che lo Stato-nazione è finito.

Naturalmente, il cadavere è un bel pensiero per il verme.

 Nel momento in cui masse umane si muovono alla ricerca di una vita diversa e di condizioni esistenziali migliori, da un continente all’altro, i sovranisti negano il diritto di attracco alle navi, fanno del Mediterraneo, del «mare fra le terre», contro la sua vocazione storica, un cimitero a cielo aperto. 

Occorre passare dall’hominitas all’humanitas, sviluppare e praticare il concetto di «contraddizione culturale», imparare ad essere abitanti della «piccola patria» e nello stesso tempo cittadini del mondo.

Qualunque essere in sembianze umane che nasca e passi per una volta su questo pianeta, quali che siano il colore della pelle o la forma degli occhi, è titolare di un diritto di umanità, e in base a questo diritto va riconosciuto, rispettato e accettato da tutti come concittadino.

(Franco Ferrarotti)

(Dialoghi Mediterranei, n. 50, luglio 2021)

 

 

 

 

Movimento degli studenti

contro il Green Pass:

democrazia in pericolo,

abbattuto lo stato di diritto.

Quale libertà?

 Korazym.org – (19 Dicembre 2021) - Vik van Brantegem - Alessia Giuli mondi- ci dice:

 

Riportiamo il discorso di Alessia Giuli mondi, Portavoce del Movimento degli studenti contro il Green Pass, tenuto ieri, sabato 18 dicembre 2021 a Roma durante la manifestazione al Circo Massimo:

“Mentre loro scatenano la guerra, noi veniamo nelle piazze a scambiarci libri e musica per ricordarci che alla fine siamo soltanto anime in cerca di poesia e amore, siamo solo uomini che cercano gli altri uomini”.

 Segue l’articolo Quale libertà?

a firma di Veronica Duranti su Studenticontroilgreenpass.it, in data di ieri.

È sulla vera vita, autentica e incalcolabile che oggi costruiamo le strade e i ponti del nostro avvenire.

Abbiamo scritto e detto tanto in questi mesi. Abbiamo fatto tanto. Sono stati organizzati cortei e lezioni all’aperto, abbiamo partecipato alle manifestazioni, siamo saliti sul palco, abbiamo parlato, gridato, denunciato l’abbattimento dello stato di diritto, il grande pericolo in cui versa la democrazia e la libertà umana.

Abbiamo urlato che l’umanità si sta perdendo, che quest’insensatezza rischia di farci estinguere.

In pochi hanno capito. In pochi hanno reagito.

Questo perché non è più tempo di parole, né di avvertimenti, non è più tempo di proposte, né di discorsi in piazza.

Non c’è più tempo per i convegni e per le conferenze e non siamo stati noi i primi a dirlo.

 Oggi stiamo dimostrando che l’umanità esiste e resiste, che non ha paura di unirsi e di toccarsi, che non nasconde il volto, perché è stanca di temere il rischio di vivere la vita.

Abbiamo organizzato un evento che si distingua da una società che vende paura e solitudine, frustrazione e inutile allarmismo.

Siamo responsabili noi ragazzi della società che ci si apre davanti, siamo responsabili noi per un futuro che sceglie la Vita e non la squallida sopravvivenza, che sceglie la comunità e non l’isolamento consumistico di un’ignobile autoconservazione.

Siamo noi che, insieme a tutti coloro che sostengono la Vita, scegliamo di costruire oggi le abitazioni senza barriere che ci ospiteranno domani, le nazioni senza frontiere che forgeranno la nostra identità, dove l’umanità si scambia i suoi odori e non si riconosce in alcun calcolo probabilistico, non basa la sua vita sulle curve di contagio, ma sulla pelle dell’altro, che è solo pelle e pura Vita.

È sulla vera vita, autentica e incalcolabile che oggi costruiamo le strade e i ponti del nostro avvenire.

Basterà chiudere gli occhi e permettere ad ognuno di noi di immaginare cosa sia davvero l’avvenire, che trascende le stime e le chiacchiere di una scienza ottusa e schiava di sé stessa.

Basterà prendersi per mano e ascoltare il rumore di quest’umanità tradita che con forza si rialza in piedi e si rifiuta di ascoltare una volta di più il terrorismo che quotidianamente le viene riversato addosso.

Oggi stiamo materialmente costruendo un posto e in questo posto le giornate trascorrono all’aperto, dove v’è spazio per respirare e quando si è tanti ci si stringe insieme, perché l’umanità, in fondo, è una famiglia.

In questo posto la Vita non è massa, ma individualità condivisa e non si muore mai da soli, perché la morte è inevitabile, la solitudine no.

Per questo, in questo posto, non si ha mai paura.  Una rete umana di persone che imparano di nuovo come ci si vuole bene per davvero è la risposta alla mortificazione dell’esistenza che operano ogni giorno i nostri governi.

Il rifiuto netto e inamovibile delle loro politiche è la vera ribellione di quest’umanità ferita.

Perché siamo feriti, ma non siamo morti e, mentre loro scatenano la guerra, noi veniamo nelle piazze a scambiarci libri e musica per ricordarci che alla fine siamo soltanto anime in cerca di poesia e amore, siamo solo uomini che cercano gli altri uomini.

Dovremmo imparare ad ignorare le loro insegne di morte e le loro ridicole dichiarazioni di guerra e semplicemente vivere, reimparare a farlo se necessario, fuori dagli schermi di quest’oppressione mentale che è il mondo contemporaneo, fuori dal loro linguaggio censorio e terroristico, fuori da tutto quello che toglie sangue e carne alla Vita.

(Alessia Giulimondi-- LabParlamento.it.)

Quale liberta?

Studenticontroilgreenpass.it – (18 dicembre 2021) - Veronica Duranti – ci dice:

La libertà non è un diritto, la libertà è una condizione dell’uomo.

Così come la salute in sé non è un diritto ma uno stato psicofisico.

Di riflesso esiste un diritto a non vedersi lesa la salute ed un diritto a non vedersi lesa la libertà.

Entrambi i diritti, a differenza dei beni che tutelano che sono elementi intrinseci dell’uomo, sono frutto del contesto socio-economico e culturale di una data comunità in un preciso momento storico.

Non esiste un diritto astratto alla libertà generalmente intesa, così come non esiste un diritto alla salute intesa astrattamente.

Cosa è la salute? Cosa si intende per libertà?

Premesso che la libertà dell’essere umano quando viene al mondo è potenzialmente infinita e resterebbe tale in una terra popolata da un solo individuo, nel momento in cui l’uomo si trova a vivere in gruppo la libertà subisce delle restrizioni spontanee o concordate causate dalle esigenze di vita stesse.

La domanda che un gruppo composto da più di un individuo si trova di fronte non è “come tutelare la libertà?” ma “come e perché limitare la libertà?”.

Cioè in base a quali principi e a quali valori è giusto che la libertà, caratteristica intrinseca e potenzialmente infinita dell’uomo, venga limitata affinché vengano garantiti a tutti e ad ognuno una serie di diritti fondamentali.

In questo periodo è emersa come mai prima d’ora la contrapposizione, a mio parere fittizia, tra libertà dell’individuo e tutela della collettività.

Le persone sono realmente libere solo se vivono in una collettività organizzata e regolata in maniera tale non che la libertà di ognuno sia infinita e indefinita, ma dove il suo limite costituisca un dovere nei confronti di ognuno degli altri membri della comunità e viceversa.

Non esistono diritti senza corrispondenti doveri.

Non esiste una libertà indefinita senza che essa si trasformi nella tirannia del più forte.

Il compito di ogni comunità è definire su quali principi ordinarsi e quali sono i diritti fondamentali ai quali corrispondono altrettanti doveri.

La libertà individuale non è in contrapposizione con la tutela della collettività perché in una collettività sana tutti i diritti del singolo trovano tutela.

Ciò a cui stiamo assistendo in questi tempi ci porterà a rifiutare ogni dovere verso i nostri simili e un individualismo ancora più sfrenato di quello precedente se non siamo in grado di discernere la fonte delle limitazioni e dei ricatti dei quali siamo vittime dalla maschera dietro cui si nascondono.

La tutela della collettività, il rispetto di doveri reciproci, la solidarietà “politica, economica e sociale” della nostra Costituzione sono valori giusti.

Ciò che non è giusto è usarli come pretesto per applicare misure che non sono volte assolutamente alla difesa della collettività ma alla difesa dei singoli.

In una collettività equa, giusta e solidale la maggioranza non imporrebbe mai un trattamento sanitario obbligatorio sperimentale e potenzialmente mortale alla minoranza,

ma attraverso il rispetto di doveri reciproci appunto e attraverso reciproche limitazioni della libertà, si troverebbe un compromesso rispettoso dei principi sui quali quella collettività si fonda, nel nostro caso la Costituzione.

Il punto cruciale che non si capisce è che queste misure non sono frutto del predominio della collettività sui singoli, come appare, ma al contrario dell’indefinita e illimitata libertà di pochi singoli sulla collettività.

 In una società piramidale e classista la libertà piena è esercitata solo da chi possiede i mezzi economici e di conseguenza il potere politico per esercitarla e imporre invece alla collettività leggi limitative della libertà individuale e collettività, non in virtù di qualche principio, ma come difesa del loro potere economico e politico.

Quello che dobbiamo fare non è rispondere a questa società individualista e ipocritamente solidale con altro individualismo e disprezzo della collettività ma ripensare un modello di società non piramidale ma orizzontale e trovare nuovi modi di far coesistere la libertà individuale e il benessere della collettività senza cadere nella trappola della reazione allo stato di cose presenti e contrapporre all’individualismo delle élite camuffato da tutela della comunità un individualismo e un egoismo “popolare” che porterà a conseguenze e una forma di stato e di governo non diverse da quelle attuali.

Dopo le esperienze liberali e l’esperienza sovietica, spetta alla nostra generazione trovare un nuovo modo di far coesistere la già ricercata da Pisacane “Libertà e Associazione”.

(Veronica Duranti)

 

 

 

L’uomo di oggi ha

sempre due facce:

da una parte la bontà,

dall’altra il tradimento.

Lavocedinewyork.com – Angelo Lucarella - Bruna Maggi – (15-3-2021) – ci dicono:

 

Nel suo ultimo libro "Visto si stampi", Bruna Magi esplora lungo sette capitoli intrecciati tra loro il dualismo umano che caratterizza la nostra società.

Con quanta intensità il dualismo viene vissuto nella società contemporanea?

Il motore di tutto ciò sta nel tradimento (o nel pericolo del suo verificarsi) del principio di bontà della persona umana.

Questione nodale che nel quotidiano vivere sociale pone, di riflesso, un obbligato agire nei vari ambienti e nelle rispettive relazioni:

lavoro, politica, famiglia, amore.

In altri termini, il tradimento della bontà implica uno stato di tensione (inconsapevole o meno a seconda di chi sia il traditore ed il tradito) che può generare e portare all’invidia, odio, colpevolizzazione pregiudizievole (o meglio detta della vittima), sfruttamento.

 

Ecco che tra passato e presente v’è la stessa tensione che intercorre nel dualismo tra persone laddove ci si trovi dinanzi, ad esempio, a nostalgia (dettata dalla bontà del ricordo) e narcisismo (alimentato dalla costante ricerca di conferma di sé nel mondo).

 Da questa premessa si collegano una vastità di temi irrisolti della storia dell’umanità e che, ancora nella contemporaneità, rimangono al centro delle declinazioni della vita sociale, politica e culturale.

 

Con il libro “Visto si stampi” (editrice Bietti, 2020) Bruna Magi pone, concretamente, l’attenzione su questi gangli della vita della nostra società:

 sette capitoli tutti collegati da file rouge di percettibile robustezza morale di fondo.

 Occorre, tuttavia, spogliarsi di pregiudizi rispetto ai delicati problemi che vengono posti sotto i “riflettori” pur raccontandosi nel libro diversi aneddoti del passato e di personaggi famosi (tra i quali, ad esempio, Gina Lollobrigida, Luciano De Crescenzo, Brad Pitt, Bettino Craxi, Vittorio Feltri).

Il file rouge a cui si è accennato è, sicuramente, il ruolo della sofferenza in una chiave di interpretazione funzionalistica verso la tanto ricercata felicità terrena tra passato e presente.

Qui, la citazione del compianto Luciano De Crescenzo è doverosa per comprendere pienamente l’essenza del quadro tratteggiato e disegnato da Bruna Magi.

 Il filosofo partenopeo diceva che “secondo alcuni la felicità consiste nel soddisfare i piaceri. Io non sono d’accordo.

 Quella vera si nasconde nell’attesa di essere felici, anche se non bisogna aspettare troppo, perché come diceva Seneca, mentre si aspetta di vivere, la vita passa.

E così, aggiungo io, rischiamo di ritrovarci con l’aver trascorso il nostro tempo in lunghezza, ma non in larghezza”.

Frase che, oggettivamente, ci riporta al senso della vita ed al principio di qualità del tempo vissuto e, per forza di cose, della bontà delle interazioni terrene. 

Ma in “Visto si stampi” il protagonista principale non è solo il vissuto dell’autrice o quanto descritto sinora.

È il tipo di società che sta mutando ad essere il perno su cui si innesta tutto il resto. Compresa l’informazione del mondo cartaceo e del web.

Compreso l’odio politico e l’invidia sociale.

 Compresa la tendenza al conformismo del mondo dei social.

Ecco che la domanda principale a cui Bruna Magi cerca risposta è se il mondo dei social, in quanto tale, stia contribuendo o meno a piccole dosi ad uccidere l’immaginario collettivo e/o personale.

Cioè se la facile accessibilità all’informazione non informativa, sdoganata a più livelli, comporti l’effetto diretto della degradazione della riflessione e la degenerazione dell’ascolto (metro di valutazione interiore del proprio apprendimento).

In buona sostanza l’autrice cerca di capire se, al netto dei conti che occorre fare con il realismo dettato dall’inarrestabile progresso, il mondo del web, incontrollato nella sua evolutiva permeazione della società e delle società, non sia il primo caso di Chimera senza, dualisticamente parlando, Bellerofonte.

Un processo per cui, in pratica, i pensieri sociali si annullino lasciando spazio ad un monolitico e fin troppo facile like (o pollice all’insù):

atteggiamento, quest’ultimo, che indentifica un nuovo gesto sociale finalizzato al riconoscimento di sé in un dato contesto il cui confronto argomentativo è solo eventuale o, per la maggior parte delle volte, addirittura inesistente.

Ebbene “Visto si stampi”, pur nostalgicamente rivolto al passato, in realtà, è un vero e proprio monito sul presente e, al contempo ancora, un risveglio delle coscienze per un miglior futuro.

Coscienze che, se assopite a causa di un linguaggio meramente simbolico, perlopiù slegato dall’approfondimento delle cose, rischiano di condurre l’umanità stessa verso l’assolutismo dittatoriale 2.0:

 non a caso uno dei primi like della storia può ricondursi al gesto degli imperatori romani che mediante un semplice pollice direzionato verso il cielo o verso terra decretavano, sul momento, la vita o la morte delle persone (si pensi all’immagine del celebre film il Gladiatore).

Non lontana da ciò è, quindi, la figura dei c.d. haters.

Non abbassare la guardia è, evidentemente, il velato messaggio di Bruna Magi che nel nuovo mondo di internet intravvede certamente capacità duttile di mettere in relazione veloce il mondo, ma che contestualmente può diventarne il baratro delle relazioni stesse nel senso più intimo del termine.

Quanto più è largo il perimetro di interscambio, tanto più si riduce la effettiva chance di costruire rapporti solidi (soprattutto al di fuori della famiglia comunemente intesa).

 Anche qui si riflette un dualismo genetico del presente umano che, di contro, deve evitare di farsi sedurre dalla distorsione facile della convenienza o della moda social di essa: la mercificazione (come direbbe Fiorella Mancini) della propria identità porta, inevitabilmente, al considerare un disvalore anche l’errore.

Privare la società della cultura dell’errore (sia esso commesso in amore, in politica, in amicizia, ecc.) sarebbe uno dei crimini più incredibilmente latenti nella storia dell’umanità.

 Il punto è chi se ne potrà più accorgere quando, ormai, il mondo non sarà più educato all’empirismo dello sbaglio?

Social media.

“Visto si stampi “si propone di spronare i lettori a riscoprire lo scopo educativo delle relazioni umane condite da senso:

siano esse frutto di tradimento, delusione, bontà, riflessione o ricordo purché alimentate da intensità.

Componente, quest’ultima, che ci fa ricordare il senso della vita oltre lo stato di naturale sopravvivenza.

La conclusione sul dualismo tra bontà e tradimento è, chiaramente, tutta nel valore che diamo ai nostri interessi rispetto alle cose dell’esistenza.

 Un esempio su tutti è il legame affettivo con i famigliari.

Una frase di Bruna Magi, particolarmente calzante, colpisce in maniera profonda collegandosi intimamente con quanto fin qui detto.

È legata all’esperienza tragica dell’autrice nell’aver perso prematuramente il fratello a causa di aneurisma:

“Pensate che orrore, se il suo cervello fosse rimasto capace di comprendere quanto gli era accaduto”.

Bruna Magi sono certo mi perdonerà se uso questa sua frase a mo’ di metafora per rappresentare come una eventuale vittoria del tradimento nella vita (sociale, politica, culturale, amorosa, ecc.), cioè il sopraggiunto degenerativo ed inarrestabile stato emorragico valoriale, può condizionare irreversibilmente la capacità elaborativa, soggettiva o collettiva, della coscienza umana anche dinanzi ai massimi sistemi: su tutti la democrazia. (Angelo Lucarella)

 

La macchinizzazione dell’umanità.

 Ilbolive.unipd.it - Sofia Belardinelli – Andrea Daniele Signorelli - (27 giugno 2021) - ci dicono:

 

 Qual è, nell’epoca del digitale, il rapporto tra uomo e tecnologia?

 Davvero, nel prossimo futuro, le macchine potranno divenire intelligenti come gli esseri umani, come nei migliori racconti fantascientifici?

Quali saranno le implicazioni sociali ed economiche della sempre più evidente e inevitabile pervasività delle tecnologie in ogni ambito della nostra vita?

Di questi e altri temi ragiona Andrea Daniele Signorelli, giornalista freelance, nel suo ultimo libro,” Technosapiens”.

“Come l’essere umano si trasforma in macchina”, pubblicato da D Editore nel 2021.

Tutto nasce dall’esigenza di verificare se la possibilità che le macchine eguaglino gli uomini, arrivando a dominarli o soppiantarli – uno dei timori più diffusi dell’epoca tecnologica – abbia qualche fondamento:

guardando alla realtà dei fatti, sembra in effetti che una simile paura sia infondata.

 È invece un altro lo scenario, ben più plausibile, che dovrebbe destare la nostra preoccupazione:

la possibilità che siano gli uomini a divenire sempre più simili alle macchine.

L'intervista ad Andrea Daniele Signorelli.

(Servizio di Sofia Belardinelli, montaggio di Barbara Paknazar).

 

Data simbolicamente centrale per l’avvento di questo “processo di fusione tra uomo e macchina” è, ricostruisce Signorelli, il 9 gennaio 2007:

quel giorno Steve Jobs presenta al mondo il primo iPhone.

Da quel momento, la tecnologia – e internet – sono divenuti parte essenziale della nostra vita quotidiana, quasi un’estensione del nostro stesso corpo, uno strumento del quale è impossibile fare a meno per svolgere quasi ogni attività.

 In soli quindici anni, le nostre vite sono cambiate completamente:

 basti pensare che in media, ogni giorno, ognuno spende 4-5 della propria vita utilizzando i propri dispositivi mobili (il che significa 120-150 ore al mese, ben 60 giorni l’anno!).

Questi strumenti, che con la loro sempre maggiore velocità ed efficienza promettono di garantirci più tempo libero e maggiore libertà, ci incatenano, in realtà, a un mondo virtuale che, nella maggior parte dei casi, arricchisce le tasche di pochi.

Spiega Signorelli che «sia stato o meno un progetto consapevole fin dall’inizio, una tendenza è oggi facilmente rintracciabile, che segna un filo rosso tra le maggiori tecnologie disponibili:

 l’obiettivo è rendere i comportamenti umani più razionali, più efficienti, più veloci. In breve: più produttivi.

Lo smartphone e le tecnologie che lo hanno seguito hanno accelerato la tendenza a cancellare il confine, prima invalicabile, tra vita professionale e vita privata, così come tra mondo online e mondo offline».

 

L’obiettivo è solo uno: rendere il lavoratore sempre più produttivo, estrarre da lui più lavoro in una data unità di tempo e cercare così di far proseguire la corsa della crescita economica, costi quel che costi.

Andrea Daniele Signorelli, “Technosapiens”.

Il sogno novecentesco di liberazione dell’uomo dal lavoro è stato tradito:

la sempre maggiore efficienza raggiunta grazie ai rapidi sviluppi tecnologici non affranca l’uomo dal lavoro, ma, al contrario, rende il lavoro stesso sempre più frenetico, innalza costantemente gli standard di produttività in una corsa all’efficienza nella quale il termine di paragone non è più l’uomo, ma la macchina.

Alle cui capacità noi umani dobbiamo adeguarci.

Tale torsione del mondo del lavoro, in cui mezzo e fine sono stati invertiti, genera due conseguenze, afferma Signorelli:

 «L’una è trattare l’essere umano come se fosse soltanto una risorsa – oggi si parla di “risorse umane”, appunto –, in modo del tutto incurante nei confronti del benessere psicofisico individuale;

l’altra è l’estrema precarizzazione del lavoro a cui assistiamo da alcuni anni a questa parte.

Tutto questo ha preoccupanti effetti collaterali:

vivere in una costante insicurezza economica, essere incapaci di progettare il futuro incide pesantemente sulla qualità della vita.

Questa incertezza diffusa si sta riflettendo in un rapido incremento dei disturbi della salute mentale: solitudine, ansia, depressione sono alcuni dei mali più diffusi nelle cosiddette società del benessere – una vera e propria epidemia, secondo alcuni studiosi».

Ma in una società che mira unicamente all’aumento costante del valore economico, sembra non esserci scampo.

 E così, per aumentare la nostra produttività e soddisfare le richieste del sistema economico, siamo costretti a far ricorso a tecnologie e biotecnologie sempre più invadenti, come le pillole – alcune ancora in fase di studio – per annullare l’ansia o il senso di solitudine, o come i visori in realtà aumentata e le interfacce cervello-computer che, una volta affinate, promettono di farci vivere un’esistenza costantemente “aumentata”, in cui la connessione alla rete, la reperibilità, la produttività saranno la norma.

Per sostenere un’economia “turbocapitalista” come quella odierna, produrre con sempre maggiore efficienza non è sufficiente:

 alla produzione, infatti, deve affiancarsi un altrettanto rapido e costante tasso di consumi.

 E a consumare devono essere i lavoratori stessi:

sfruttati durante l’orario di lavoro, gli individui diventano target delle aziende anche nel tempo libero, attraverso il bombardamento di annunci, offerte e promozioni.

Con internet, questa tendenza ha subìto una brusca accelerazione: la nostra interazione con il mondo online, infatti, genera un’immensa mole di dati, risorsa preziosa per orientare i consumi e per adattare il mercato, in nome – ancora una volta – dell’efficienza e della produttività crescenti.

«Un parallelismo spesso ricordato è quello tra big data e petrolio», spiega Signorelli.

 «Non è un’analogia del tutto corretta, ma è utile per comprendere il valore dei dati:

estratti allo stato grezzo, vengono acquisiti – gratuitamente – dalle grandi aziende che li usano per trarne informazioni preziose per indirizzare la produzione e orientare il mercato.

 Presa consapevolezza della centralità dei dati nel capitalismo attuale, c’è chi ha proposto, sulla base del parallelismo con il petrolio, la nazionalizzazione dei big data:

 la proprietà di questo bene dovrebbe essere di chi li produce, cioè dei cittadini e delle nazioni da cui i dati vengono prodotti ed estratti.

 Sapendo che i big data sono destinati, nei prossimi anni, ad aumentare vertiginosamente (pensiamo all’espansione della “internet of things”, che già consta di decine di miliardi di dispositivi e che, nei prossimi anni, si espanderà a macchia d’olio in tutto il mondo), e che avranno un valore economico sempre maggiore, non dovremmo accettare che tutti i guadagni di questo settore industriale – il cui “petrolio” è prodotto quotidianamente da noi utenti – vadano esclusivamente ai colossi tecnologici».

Senza contare tutti i possibili utilizzi dei nostri dati non strettamente legati al mercato: la raccolta di dati ha reso improvvisamente realizzabili alcune delle più famose – e temute – distopie incentrate sulla possibilità di sorvegliare costantemente gli individui.

 In Cina, racconta Signorelli, la sorveglianza è già realtà: nel 2014 è stato avviato un progetto sperimentale che consiste nel ricevere una valutazione (positiva o negativa) per ogni comportamento che si mette in atto, accumulando così un punteggio che va a formare una classifica dei bravi cittadini.

Si chiama “Social Credit System”, e mira a incentivare le pratiche considerate virtuose attraverso la penalizzazione di chi mette in atto comportamenti ritenuti negativi.

 Un punteggio negativo potrebbe rendervi la vita difficile:

non potreste più ricevere un prestito dalla banca, entrare nei negozi, e addirittura camminare liberamente per la strada potrebbe essere interdetto a chi non ne fosse meritevole.

Ogni volta che accettiamo di subire più sorveglianza per avere in cambio una maggiore (e presunta) sicurezza, cediamo inevitabilmente una parte di libertà. Non è possibile avere il massimo di libertà e il massimo di sicurezza.

(Andrea Daniele Signorelli, "Technosapiens")

Come uscire da questo circolo vizioso, come far sì che le premesse per un “futuro distopico” non si tramutino in realtà?

 «È indubbio – afferma Signorelli – che alcune tendenze siano già in atto: in alcuni casi la strada è già tracciata, e difficilmente non verrà percorsa.

 Pensiamo al rapido sviluppo di nuove e più pervasive tecnologie (già esistenti o comunque in fase di progettazione), come quelle sviluppate dalla società Neuralink, co-finanziata da Elon Musk, che mirano a integrare la realtà aumentata nell’esperienza quotidiana attraverso la creazione di un’interfaccia macchina-cervello.

Tuttavia, si sta verificando una generale presa di coscienza.

Per anni, tutti abbiamo accettato passivamente di usare (e di farci usare da) queste tecnologie:

non si aveva ancora sufficiente esperienza e conoscenza per comprendere cosa stesse avvenendo, per valutare criticamente lo storytelling di Big Tech.

Oggi, invece, la narrazione sta finalmente cambiando:

la traiettoria è sì tracciata, ma sembra delinearsi nella società la volontà di provare a modificare questa traiettoria.

 La sfida, ora, è capire come agire: siamo a un momento di svolta, nel quale – credo – i piccoli aggiustamenti non saranno sufficienti.

Dovremo avere il coraggio di alzare la voce, di ribellarci a pratiche che ledono la nostra dignità, i nostri diritti».

La “macchinizzazione dell’umanità” è forse già iniziata, è vero; ma abbiamo ancora la possibilità di fermarla.

 

 

 

 

Umanità in crescita ancora per 50 anni.

Il prossimo miliardo nascerà

nei Paesi più poveri.

Futuranetwork.eu – Andrea De Tommasi – (16 novembre 2022) – ci dice:

 

Documento dell’Onu in occasione del raggiungimento di quota otto miliardi.

Tra il 1970 e il 2020 la popolazione umana è più che raddoppiata, mentre la fauna selvatica è diminuita di due terzi.

Il 15 novembre 2022 la popolazione mondiale ha raggiunto l’imponente cifra di otto miliardi.

 Solo nel 1974 era di quattro miliardi.

 Questa crescita senza precedenti rispetto al passato (ben un miliardo di persone dal 2010) è dovuta al graduale aumento della durata della vita umana grazie ai miglioramenti nella salute pubblica, nell'alimentazione, nell'igiene personale e nella medicina.

È anche il risultato di livelli elevati di fecondità in alcuni Paesi.

Ricorda l’Onu che i Paesi con i più alti livelli di fecondità tendono a essere quelli con il reddito pro capite più basso.

Pertanto, la crescita della popolazione mondiale si è nel tempo concentrata nei Paesi più poveri del mondo, la maggior parte dei quali si trova nell'Africa subsahariana.

 I Paesi a reddito medio e medio alto hanno contribuito all’ottavo miliardo con 250 milioni di persone.

Quando si aggiungerà il prossimo miliardo di persone tra il 2022 e il 2037, secondo un paper di Un-Desa saranno i Paesi a basso e medio reddito a rappresentare oltre il 90% della crescita globale.

 

La crescita continua, ma sta rallentando.

Anche l’Onu, nell’ultimo “World population prospects” pubblicato lo scorso luglio, ha rivisto al ribasso le proprie previsioni.

 Le nuove proiezioni suggeriscono che la popolazione mondiale potrebbe crescere fino a circa 8,5 miliardi nel 2030 e 9,7 miliardi nel 2050;

si prevede che raggiungerà un picco di circa 10,4 miliardi di persone durante gli anni 2080 e rimarrà su tale livello fino al 2100.

 Più della metà dell’aumento previsto della popolazione mondiale fino al 2050 dovrebbe essere concentrato in otto Paesi:

Repubblica democratica del Congo, Egitto, Etiopia, India, Nigeria, Pakistan, Filippine e Repubblica unita della Tanzania.

Un mondo di otto miliardi di persone pone già sfide urgenti: cambiamenti climatici, conflitti, violenza, sfollati, discriminazioni.

Nella dichiarazione diffusa ieri dalle Nazioni unite, il segretario generale Antonio Guterres ha definito il raggiungimento degli otto miliardi di abitanti “una pietra miliare” e “un’occasione per celebrare la diversità e i progressi considerando la responsabilità condivisa dell'umanità per il pianeta”.

In alcuni Paesi, la crescita rapida e sostenuta della popolazione può ostacolare il raggiungimento degli Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030.

Combinata con il cambiamento climatico, potrebbe anche causare migrazioni di massa e conflitti.

 Insieme a modelli di consumo e produzione insostenibili, la rapida crescita della popolazione umana ha già contribuito a varie forme di degrado ambientale.

 L’Onu ricorda che le popolazioni globali di fauna selvatica sono diminuite di due terzi tra il 1970 e il 2020, mentre la popolazione umana è più che raddoppiata.

 Dal 1990, circa 420 milioni di ettari di foresta sono stati persi a causa della conversione ad altri usi del suolo e l'area di foresta primaria in tutto il mondo è diminuita di oltre 80 milioni di ettari.

 Il rallentamento della crescita demografica a livello globale potrebbe contribuire a mitigare i danni ambientali nella seconda metà del secolo in corso.

 

 

 

 

 

 

UOMINI, ROBOT E CYBORG.

Era post-umana, i possibili scenari

di un futuro “artificiale”.

Agendadigitale.eu – Goffredo Giordano – (29-4- 2020) – ci dice:

 

Cultura Digitale.

Nell’era post-umana si affollano domande inedite, che nell’era umanista non avrebbero mai creato tanti pensieri, allo stesso tempo diamo per scontate cose che fino a qualche anno fa erano solo fantascienza.

 Ecco alcuni scenari possibili in tema di tecnologia ed evoluzione umana.

Come sarà l’uomo del futuro? Avrà gli occhi più grandi e le dita più lunghe? Quanti e come saranno i suoi denti? Sarà glabro? Quali caratteristiche muterà o adatterà?

Le ipotesi analizzate da futurologi e scienziati sono molteplici, alcune tesi sono particolarmente interessanti.

Per formulare una valutazione esaustiva del potenziale evolutivo dell’umanità sebbene sia fondamentale considerare diversi fattori cruciali, nel seguito adotterò un approccio orientato alla prospettiva razionale, collocando dal piano obliquo verso i punti di fuga, alcune tecnologie di frontiera particolarmente dirompenti e innovative.

Attraverso il fuoco di una lente, inserita tra le meta-strutture che guidano le nostre trasformazioni, si proverà a leggere con maggiore distanza nel domani, mantenendo un grado interpretativo sufficientemente ragionato e radicato per essere credibile.

 

Tecnologia e futuro dell’evoluzione umana.

Siamo simultaneamente attori e spettatori in un’epoca nella quale il cambiamento tecnologico accelera esponenzialmente, si manifesta con paradigmi e mezzi eccezionali, talmente impattanti, oltre che pervasivi nelle politiche e nelle decisioni attuali, che influenzano inevitabilmente il futuro dell’evoluzione umana e la sua natura, come tradizionalmente la conosciamo.

Nel vortice dalla metamorfosi in atto ruotano complesse questioni etiche e sociali. Verso il nucleo converge l’interrogativo più articolato:

cosa significa essere un umano?

Da qui in poi, se la nostra attenzione si concentra sull’impronta tecnologica, calcata nella sabbia del tempo dal cammino dell’uomo accompagnato dal computer, allora si palesano anche le seguenti domande:

cosa rende diverso un essere umano da un robot?

cosa rende l’uomo unico nel regno animale?

Nello sforzo di una cosciente evoluzione dell’umanità, la riflessione e la risposta a questi quesiti possono contribuire ad aiutarci a decidere quali umane qualità desideriamo, infine quali abbiamo interesse a preservare.

Passo dopo passo l’uomo sposta i propri confini verso mete più grandiose e sfidanti, allontanandosi al contempo anche da sé stesso.

Le attuali prodezze tecnologiche anticipano sbalorditive possibilità di rifondare i vecchi modi in cui l’evoluzione funziona.

 La teoria della selezione naturale darwiniana perde equilibrio, come un funambolo si agita in difficoltà, su un filo scosso dalle forze e dai processi trasversali non-darwiniani che la tecnologia genera.

 

 Nel torneo per l’Evolution Cup, la Coppa dell’Evoluzione Umana, si preparano a scendere in campo atleti con doti straordinarie: cyborg, robot, singolarità e umani geneticamente modificati.

L’interazione simbiotica uomo-macchina.

Natura e artefatto tecnologico sono atomi di una materia ibrida che si identifica in una multidimensionalità, dove le capacità umane si trasformano, si arricchiscono, aumentano e si valorizzano.

Il dialogo tra l’uomo e la macchina si autoproclama con un processo di sintesi convolutiva.

Dipendiamo dalle macchine perché le progettiamo e le realizziamo per soddisfare i nostri bisogni; conseguentemente orchestriamo la nostra vita e i nostri comportamenti per soddisfarle.

La relazione di dipendenza alle macchine cresce proporzionalmente all’aumentare della loro complessità e interconnessione;

qualsiasi impegno profuso a rendere più semplice il loro funzionamento equivale a rendere più facile l’interazione che queste hanno con l’uomo.

Cyborg, con la tecnologia l’uomo annulla limitazioni e disabilità.

Il rapporto uomo-macchina acquisisce valenza intima, personalizzata e quotidiana nelle applicazioni di estensione del corpo umano con impianti cocleari e oculari, con protesi di arti robotizzate, oppure tramite esoscheletri indossabili per svolgere attività riabilitative, di potenziamento di funzionalità motorie compromesse, altrimenti per compiere mansioni particolarmente pesanti.

Sempre più frequentemente si eseguono interventi di trapianto chirurgico con organoidi simili a quelli umani, stampati con bio-stampanti 3D, alimentate da inchiostri a base di cellule staminali.

Anche la cute può essere riprodotta in maniera sintetica, ad esempio, per ripristinare la pelle sfigurata delle vittime da ustioni, o nella sperimentazione di ingredienti cosmetici e di prodotti chimico-farmaceutici.

Da sempre il corpo umano è stato coadiuvato da oggetti, manufatti e strumenti che ne hanno migliorato o semplificato l’interazione con l’ambiente circostante, in senso conoscitivo e operativo.

 Oltre alla riabilitazione delle condizioni fisiche e psichiche degli individui, oggi la scienza moderna è impegnata a consentire un sostanziale e progressivo potenziamento prestazionale.

Un individuo dipendente o assistito da raffinati elementi bio-meccatronici e sintetici applicati nel corpo, tali da consentirgli eventualmente abilità superiori a quelle di un omologo, ma totalmente organico, come può essere in altro modo chiamato, se non anche con il termine cyborg?

Anche se non ce ne siamo accorti, i robot sono già entrati nei nostri corpi;

stiamo diventando sempre più ibridi e “strutture” connesse.

 

Gli atleti potenziati della “squadra bionica” sono già schierati in formazione.

Robot, il gioco dell’imitazione.

Il gioco dell’imitazione, conosciuto come “The imitation game”, è una teoria introdotta nel 1950 dal matematico e crittografo Alan Turing, considerato uno dei padri dell’informatica e dell’intelligenza artificiale.

La teoria si basa essenzialmente su un test eseguito tramite una particolare interazione che coinvolge tre partecipanti.

 

Il principio e la riflessione alla base del test di Turing è oggi ancora più che allora attuale e si basa sulla domanda:

le macchine sono in grado di pensare come gli umani?

Robot e umani sono “specie” che tendono sempre più ad avvicinarsi, ad imitarsi e ad integrarsi.

Le macchine possono essere programmate per simulare emozioni, attraverso output visivi su display oppure sonori modulando voci e toni.

Analizzando e riconoscendo le espressioni facciali, i movimenti e le posture di una persona, un computer o un robot può anche reagire in modo diverso alle emozioni umane.

La robotica più recente è in grado di eseguire in modo naturale espressioni e mimiche facciali, oltre a corrette cinetiche e cinematiche della deambulazione e del controllo posturale.

Nei prossimi anni i robot umanoidi potrebbero addirittura metterci a disagio, procurandoci il dubbio di interagire con un androide.

Sull’aspetto relazionale i robot allo stato attuale non possiedono facoltà di sviluppo cognitivo, sono privi di capacità auto-adattiva verso l’ambiente reale. Eppure sta emergendo un nuovo punto di vista, una “filosofia del corpo” che enfatizza la relazione tra l’ambiente circostante, i processi cognitivi e la struttura fisico-corporea; in estrema sintesi nello spazio, il corpo forma la mente e la mente modifica il corpo.

Gli sviluppi nei processi di “embodiment” sui robot sfruttano il concetto di ciclo senso-motorio, alcuni studi si orientano verso architetture capaci di evidenziare meccanismi di apprendimento simili a quelli dei bambini.

L’affective computing.

Sul versante delle componenti emotive, l’intelligenza artificiale sta compiendo progressi che condurranno verosimilmente a macchine provviste di intelligenza emotiva, robot che esprimeranno emozioni e arricchiranno la creatività umana.

 L’ Affective Computing è un ramo della Human Computer Interaction che ricorre a tecniche di elaborazione delle immagini e del linguaggio impiega anche dispositivi wearable capaci di monitorare e misurare stati fisiologici, come le caratteristiche elettriche della pelle correlate a determinati stati emotivi – e si occupa di creare computer “affettivi”, abilitati a considerare le reazioni dell’utente e a interagire con esso sulla base del suo stato emotivo.

Resta invece ancora inespugnabile il tema dell’integrazione nell’intelligenza artificiale di un livello di coscienza fenomenica, intesa come esperienza soggettiva di un’emozione, in altre parole cosa prova un soggetto quando è felice, o quando si arrabbia o si spaventa.

I risvolti occupazionali

I robot eseguono attività umane portandole a termine in modo migliore e più rapido.

Buona parte dell’attenzione pubblica è rivolta agli aspetti e ai risvolti occupazionali.

Nel 2018 l’OCSE, attraverso la ricerca denominata “Automation, skills use and training”, ha stimato che il 14 per cento dei posti di lavoro sarebbe a “rischio sostituzione” per l’avvento delle nuove tecnologie robotiche.

Personalmente considero come retorica tecnofoba ogni previsione catastrofista annunciante l’orlo del baratro della disoccupazione.

 L’avanzamento tecnologico genera invece effetti di complementarietà sull’occupazione, nuove professioni emergeranno e contrasteranno l’effetto di sostituzione.

L’innovazione incontra sempre ostacoli costituiti dall’abitudine, dall’affezione alla prospettiva e dalla paura dell’ignoto.

Riflessioni robo-etiche.

Stiamo correndo verso la meta di rendere le macchine in grado di imitare perfettamente la sembianza umana e di replicare inoltre le nostre facoltà e comportamenti, in una continua esplorazione del confronto tra intelligenza artificiale ed esseri umani.

 L’intelligenza artificiale ha portato in dono alle macchine facoltà come la percezione visiva, il riconoscimento del parlato, la capacità decisionale in situazioni di vita reale, l’interpretazione della grammatica e del contesto, la traduzione di lingue diverse.

La scienza robotica è connessione intelligente tra percezione e azione, l’intelligenza artificiale è protocollo e informazione di completamento delle abilità umane, ma anche dei suoi errori.

Il limite è sottile…

Il pensiero umano include valori e criteri che permettono di esprimere o giudicare comportamenti e di collocarli rispetto alle categorie di ciò che è bene o male.

 Molte decisioni nella nostra vita riguardano zone grigie, nelle quali non tutte le scelte possibili sono totalmente positive:

come si comporterebbe una macchina in questo caso?

Occorre riflettere sulle regole che dovranno gestire l’interazione delle tecnologie robotiche con l’uomo e con la società nel suo insieme, scrivendo e condividendo principi etici appropriati volti ad assicurare che i robot conservino, “by design” e “by default”, finalità di servizio utili e soggette al controllo umano.

In un’attività di interazione uomo-robot a chi attribuire la responsabilità delle azioni e dei conseguenti effetti?

Avremo la capacità di controllare automi capaci di scavalcare la loro programmazione originaria?

I robot senzienti, dotati di capacità di sensazione, costituiranno una minaccia potenziale per l’umanità, ad esempio ritenendoci una specie inferiore da controllare o eliminare?

Che cosa succederà se i robot rivendicheranno il diritto a esistere, come nuova specie consapevole?

 

 La “squadra dei robot” schiera giocatori instancabili ed estremamente competitivi.

 

E i “cugini” ibridi, gli atleti potenziati bionici, seguiranno le regole del gioco allo stesso modo degli altri?

Se l’abito non fa il monaco, allora il cyborg non è un umano; o l’umano non fa il cyborg?

Nell’era post-umana si affollano domande inedite, questioni che nell’era umanista non avrebbero mai creato così tanti pensieri.

La singolarità: l’intelligenza di sciame.

Le macchine industriali, alimentate da combustibili fossili o dall’energia elettrica consentono all’uomo di superare i limiti della propria potenza muscolare.

 La tecnologia ci accompagna ora alla scoperta di inconsueti pattern di amplificazione delle nostre capacità cognitive.

Lo sviluppo delle interfacce neurali (BCI, Brain Computer Interface; note anche come interfacce neuro-computer o cerebrali) stimola il dibattito sulla Brain Whole Emulation (WBE), nota anche come Mind Uploading che prevede l’ipotesi del caricamento del cervello umano in un chip o nel cloud.

Le interfacce neurali leggono le scariche elettriche che attraversano il cranio e abilitano canali di controllo e comunicazione tra un cervello e un computer.

La fantascienza è così diventata realtà:

attraverso la semplice modulazione volontaria dell’attività cerebrale di un individuo è possibile trasmettere comandi a un calcolatore.

Le applicazioni sono innumerevoli e sono già disponibili originali soluzioni nel campo della domotica e nei sistemi di supporto funzionale e di ausilio alle persone con disabilità.

Il passo più audace da compiere è riuscire a decifrare il pensiero ricorrendo all’intelligenza artificiale e disponendo di adeguata potenza di calcolo.

I misteri del cervello rappresentano i segreti più profondi dell’essere umano e l’intelligenza artificiale è una frontiera cruciale per il destino dell’uomo.

Il progetto “Blue Brain”.

Nel maggio 2015, IBM e l’“École Polytechnique Fédérale” di Losanna, hanno lanciato il progetto “Blue Brain”, con l’obiettivo di realizzare una simulazione al computer di una colonna corticale dei mammiferi a livello molecolare.

Il progetto utilizzava un supercalcolatore a parallelismo massimo con architettura Blue Gene, per studiare il comportamento elettrico dei neuroni in base alla loro connessione sinaptica e sulle relative correnti di membrana.

Lo studio ha permesso di raccogliere una notevole mole di dati fondamentali per comparare i risultati della simulazione con i modelli biologici.

Blue Brain si propone ora di emulare il cervello, rivelando gli aspetti della cognizione umana e di vari disturbi psichiatrici causati dal malfunzionamento dei neuroni – come l’autismo – e comprendere come gli agenti farmacologici influenzano il comportamento della rete neurale.

La costruzione di un cervello virtuale costituirà uno strumento eccezionale che porterà a una migliore comprensione del cervello e delle malattie neurologiche.

All’estremo, sebbene il Mind Uploading sia ancora una teoria non praticabile, in futuro potrebbe condurre a un’inedita e profonda integrazione dell’uomo con la macchina, in una forma di intelligenza collettiva virtuale.

La dematerializzazione conseguente cambierebbe in maniera dirompente la struttura e la natura del pensiero umano.

 Le varie componenti cognitive del cervello potrebbero essere riorganizzate in qualcosa che non è più biologico.

Collegando tra loro moduli di altre menti caricate, favorendo quelli conformi a standard in grado di comunicare e cooperare con altri moduli in modo più efficace, l’architettura mentale umana diverrebbe superata.

Avendo accesso al proprio design, l’intelligenza di sciame potrebbe quindi migliorarsi e riprogettarsi in cicli sempre più rapidi, incomprensibili e imprevedibili all’intelletto umano non incrementato.

La nuova “dimensionale digitale sapiens “potrebbe decidere se conservare o no le qualità e le espressioni che ora riconosciamo come tipicamente umane;

per la prima volta nella storia, l’utilizzo del linguaggio del corpo verrebbe sostituito dalla comunicazione mentale.

La “squadra della singolarità tecnologica” è quella che conosce già tutto di tutti, sia dentro che fuori dal campo.

 

Homo homini deus est.

L’uomo è diventato architetto del futuro; mescolando l’informatica con le scienze naturali getta le fondamenta dell’era biotecnologica.

Grazie all’ingegneria genetica, l’uomo può intervenire, non solo nell’evoluzione delle altre specie, ma anche direttamente nella propria.

La scienza genetica consente di creare organismi geneticamente identici ad altri, di sintetizzare più copie di specifiche regioni di una molecola di DNA e di produrre organismi transgenici.

Le tecniche di editing genetico permettono di correggere difetti nelle singole basi del DNA.

 Predeterminate sequenze della macromolecola biologica – contenente le informazioni genetiche che “passano” da una generazione all’altra, oltre che necessarie per la produzione delle proteine che costituiscono tutti gli organismi – possono essere modificate con tecniche che utilizzano proteine che si comportano come forbici molecolari intervenendo in punti programmati.

La tecnica CRISPR/Cas9 che utilizza la “proteina Cas9” – o la sua più recente evoluzione “evoCas9”, ancora più precisa – ha aperto per la prima volta, la possibilità di modificare il genoma umano e conseguentemente di sviluppare nuove terapie innovative.

 

Sul versante delle modificazioni puramente genetiche la medicina rigenerativa è impegnata per contrastare i naturali processi di senescenza.

La ricerca sulle cellule staminali combina invece la produzione di telomerasi con l’azione di nanorobot, per eliminare cellule cancerogene e trattare diverse patologie.

Le applicazioni delle terapie genetiche libereranno l’umanità dall’obesità, dal diabete, dai disordini neurodegenerativi, dal cancro e dall’invecchiamento?

Le implicazioni di natura bioetica sono rilevanti, in particolare nel caso della clonazione umana o quando le tecniche genetiche vengono applicate sugli embrioni umani.

Praticheremo la clonazione per “disporre” di parti di ricambio geneticamente compatibili?

Un clone avrà un’anima?

Diventeremo designer di esseri umani?

Quali e quante caratteristiche modificheremo?

In che modo le persone geneticamente modificate con caratteristiche superiori si comporteranno nei confronti dei loro pari naturali meno dotati?

Progetteremo embrioni che condurranno alla modifica eugenetica sistematica della specie?

Diventeremo immortali?

L’uomo ha smesso di sperare nei risultati della lotteria cromosomica e si eleva al rango divino.

 

 Questa è la “squadra dell’umanità geneticamente modificata”.

Alien Generation.

Nell’arena post-umana quali squadre impugneranno la Evolution Cup?

Post-umani senza più limiti biologici, in grado di superare condizioni ambientali estreme e dotati di una conoscenza oggi inimmaginabile, saranno testimoni di una nuova era di colonizzazione verso altri mondi?

 Per il team Alien Generation si profila un nuovo e incredibile torneo:

 la Space Cup, la Supercoppa Evolutiva nell’Universo.

Conclusioni.

Oggi giorno diamo per scontate cose che fino a qualche anno fa erano solo fantascienza, inoltre il futuro non è nemmeno più quello di una volta.

 L’evoluzione umana, la nostra vita e le nostre relazioni saranno impattate e messe in discussione continuamente da nuove tecnologie.

Tuttavia l’umanità deve impegnarsi in un dialogo molto più ampio, non solo sulle tecnologie, ma anche su altri temi come quelli della sostenibilità, della civiltà, della conoscenza e perché no, anche del contatto con altre forme di vita aliena…

Se l’uomo riuscirà a percorrere un cammino di evoluzione consapevole sulle conseguenze delle proprie scelte e azioni, allora migliorerà sé stesso, influenzerà efficacemente non solo il proprio futuro, ma anche quello dell’Universo…

 

LA SOSTENIBILITÀ È STORIA:

PASSATA, PRESENTE, FUTURA

  Agente0011.it – Redazione – (05 Maggio 2022) – Simone Gennari – ci dice:

 

“…ero letteralmente affascinato da questo quadro, il “Giardino delle Delizie Terrestri” di Hieronymus Bosch…se osservati attentamente questi panelli hanno una storia da raccontare;

sul primo (il Passato) sono raffigurati Adamo ed Eva nel giardino dell’Eden, in lontananza si distinguono uccelli in volo, elefanti, giraffe ed elementi di iconografia religiosa; 

il secondo panello (il Presente) è ancora più eloquente, l’artista vuole rappresentare le tentazioni della vita mondana, l’intricato mescolarsi di figure simboliche, la dissolutezza e gli eccessi; 

e poi l’ultimo panello (il Futuro) quello decisamente più inquietante…

Bosch ritrae un paesaggio decadente, spoglio, spettrale, un paradiso che è stato inaridito, e distrutto…”

(LEONARDO DI CAPRIO in “BEFORE THE FLOOD - Punto di non ritorno”)

 

Passato: le tappe della consapevolezza.

 La Storia della Sostenibilità nasce già a partire dagli anni '60 e '70 del ventesimo secolo, con i primi movimenti ambientalisti che, cavalcando l’onda rivoluzionaria del famigerato ’68, iniziarono a far sentire la propria voce, diffondendo così una prima coscienza comune della crisi dello sviluppo come crescita.

Gli anni '60 furono infatti gli anni in cui l'etica ambientalista iniziò a farsi largo nella coscienza civile, ma solo negli anni '70 arrivarono le prime azioni istituzionali importanti. 

Proprio nel 1970 venne istituita la Giornata Mondiale della Terra, il 22 aprile; nel 1972 il Club di Roma, fondato nel 1968, pubblicò il Rapporto sui limiti dello sviluppo, meglio noto come Rapporto Meadows.

 Nello stesso anno si tenne la Conferenza di Stoccolma, precorritrice delle moderne Cop (Conferenza delle Parti), che vide la partecipazione di oltre 100 diversi governi e “centinaia di ONG” finanziate da Soros. 

Negli anni seguenti anche l'ONU iniziò ad intervenire direttamente sul tema.

Nel 1973 infatti venne istituito l’UNEP, il Programma delle Nazioni Unite per l'ambiente, che opera contro i cambiamenti climatici e a favore della tutela dell'ambiente e dell'utilizzo sostenibile delle risorse naturali. 

La crisi petrolifera internazionale del 1973 attirò ulteriormente l'attenzione dell'opinione pubblica, mostrando la reale pragmaticità della crisi ambientale e la sua forte interdipendenza con le crisi socio-economiche.

In Italia, ad esempio, nel 1974 venne istituito il ruolo di Ministro dell’ambiente, al quale seguì solo nel 1986 il rispettivo ministero.

Il 1987 è una data chiave.

Con la pubblicazione del rapporto Brundtland "Our common future" da parte della “Commissione mondiale su Ambiente e Sviluppo” venne delineata la moderna definizione di sviluppo sostenibile che riconosce un’autentica correlazione tra il reale benessere umano intergenerazionale e il benessere ambientale. 

Arrivando agli anni '90 troviamo due importanti risoluzioni internazionali:

nel 1992 la Conferenza di Rio su ambiente e sviluppo con cui si misero le basi per la creazione, tre anni dopo, del progetto Cop, e nel 1997 proprio con la terza Conferenza delle Parti si pubblicò il famoso Protocollo di Kyoto, entrato in vigore nel 2005 dopo la ratifica della Russia.

Il nuovo millennio si apre con una grande speranza che porta le Nazioni Unite a delineare nel Summit del millennio gli 8 obiettivi di sviluppo del millennio (MDG), che successivamente si evolveranno nei 17 obiettivi di sviluppo sostenibile nell'anno chiave per la tanto attesa quanto necessaria rivoluzione della sostenibilità: il 2015.

Presente: 2015, l’anno della responsabilità.

Il 2015 è un anno chiave caratterizzato da 3 momenti fondamentali:

L'Accordo di Parigi, l’enciclica “Laudato Sì” di Papa Francesco e la stesura dell’Agenda 2030 con i 17 obiettivi di sviluppo sostenibile.

 La filosofia della Sostenibilità si fonda sull'evidenza che “vi è un chiaro legame tra la protezione della Natura e l’edificazione di un ordine sociale giusto ed equo.

Non vi può essere un rinnovamento del nostro rapporto con la Natura senza un rinnovamento dell’umanità stessa” come affermato da Papa Francesco nella famosa enciclica” Laudato Sì”.

 

Oggi è necessario ripensare l’umanità stessa per risolvere i problemi del presente e del futuro, attraverso una profonda riflessione che vada ad accompagnare allo sviluppo tecnico-scientifico uno sviluppo etico e morale dell’uomo, poiché “i progressi scientifici più straordinari, le prodezze tecniche più strabilianti, la crescita economica più prodigiosa, se non sono congiunte ad un autentico progresso sociale e morale, si rivolgono, in definitiva, contro l’uomo” come sottolineato già nel 1971 da Papa Paolo VI.

 L’Homo faber che oggi siamo, che ha costruito questa società tecnocratica, che segue i valori del consumismo, dell'individualismo e che ha il culto ostinato per la velocità, deve necessariamente rallentare per farsi accompagnare dall'Homo sapiens nella direzione del futuro, un futuro di sviluppo sostenibile.

 Solo in questo modo l'umanità potrà sfruttare le sue molteplici abilità creative in maniera equa, giusta e inclusiva.

Sul piano pragmatico la teoria dello sviluppo sostenibile segue le ricette indicate dall'Agenda 2030 e dalla Cop 21 di Parigi.

 I 17 obiettivi di sviluppo sostenibile definiti e approvati da oltre 190 paesi nell'assemblea generale delle Nazioni Unite si pongono come linee guida al livello nazionale e internazionale per il perseguimento di un nuovo modello di società basato sull’idea delle “Cinque P”: Persone, Pianeta, Prosperità, Pace, Partnership.

La forza del progetto 2030 consiste nella visione sistemica della realtà caratterizzata da una forte interconnessione fra il sociale, l’economico e l’ambientale.

 Con l’Agenda 2030 l'uomo ha fatto molti passi avanti: ha ufficialmente generalizzato e universalizzato le responsabilità della crisi.  

 

Oggi infatti tutti i Paesi sono chiamati a contribuire allo sforzo di portare il mondo su un sentiero sostenibile.

L’Agenda ha inoltre messo nero su bianco l’insostenibilità dell’attuale modello di crescita, non solo sul piano ambientale, ma anche su quello economico e sociale, riuscendo in questo modo a superare definitivamente l’idea che la sostenibilità sia unicamente una tema ambientalista.

Altro elemento propositivo dell’Agenda è che l'interdipendenza sia stata affermata anche tra tutti i protagonisti che sono chiamati ad agire per attuarla, cioè tutti noi.

La realizzazione dell'Agenda infatti richiede un forte coinvolgimento di tutti e una collaborazione costruttiva tra tutte le componenti della società, dalle imprese al settore pubblico, dalla società civile alla politica, fino ai singoli cittadini.

Focalizzata principalmente sul grande tema ambientale è invece la risoluzione a cui è giunta la Cop di Parigi del 2015, con la quale si definisce un quadro globale per limitare il riscaldamento globale ben al di sotto dei 2°C e, proseguendo con gli sforzi, per limitarlo a 1,5°C per evitare pericolosi e irreversibili cambiamenti climatici e tutti i fenomeni che ne potrebbero scaturire.

La fotografia dei grandi passi avanti fatti negli ultimi decenni è evidente se confrontiamo l’accordo di Parigi con il Protocollo di Kyoto.

Infatti per l'effettiva entrata in vigore delle risoluzioni internazionali è stata necessaria la ratifica dei trattati al livello nazionale.

Nel caso della Cop parigina la ratifica ha dovuto aspettare meno di un anno per superare la soglia dei 55 stati, mentre per gli accordi di Kyoto si è dovuto aspettare per ben 8 anni.

 

 Futuro: una promessa dell’umanità all’umanità.

 La nuova Agenda è una promessa da parte dei leader a tutte le persone in tutto il mondo” come dichiarato dall’ex Segretario Generale delle Nazioni Unite Ban Ki Moon al momento dell’approvazione dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile.

Nonostante i grandi passi in avanti però la strada da percorrere è ancora lunga, mentre il tempo è sempre meno.

Affinché lo sviluppo sostenibile divenga un concetto reale bisogna compiere ancora passi importanti.

 Le mancanze, spesso ipocrite, sono ancora troppo evidenti e rischiano di trasformare il tutto in una formula vuota. 

 L’Agenda è una promessa all’umanità “da parte dei leader” e non da parte di tutti noi per tutti noi.

 La conoscenza dei valori e dell’etica della sostenibilità sono oggi un lusso di pochi.

Così di fronte alla realtà quotidiana della vita delle persone tutta la retorica dello sviluppo sostenibile svanisce.

Questo processo di democratizzazione della sostenibilità per renderla giusta, inclusiva ed equa, è la prossima sfida di tutti noi.

Il cambiamento di cui abbiamo bisogno necessita di una vera e propria rivoluzione. Questa può avvenire solamente in due modi, come ci insegna la Storia: o

attraverso la via della cultura, dell'istruzione e dell’educazione e quindi dello sviluppo, oppure con la via della paura e della rabbia.

Questa volta però l’umanità non ha grande margine di scelta.

Nella “Risk society” (Società del rischio) di Ulrich Beck se contiamo a restare indifferenti quando alla fine saremo pronti a cambiare sarà ormai troppo tardi.

L'unica soluzione per avere uno sguardo rivolto al futuro è quindi attraverso una rinascita dell’etica e dei valori umani di: Consapevolezza, Rispetto, Responsabilità, Solidarietà, Giustizia, Inclusività e Partecipazione; in fondo è questo che vuol dire Sostenibilità.

«Come mai prima d’ora nella storia, il destino comune ci obbliga a cercare un nuovo inizio.

Possa la nostra epoca essere ricordata per il risveglio di una nuova riverenza per la vita, per la risolutezza nel raggiungere la sostenibilità, per l’accelerazione della lotta per la giustizia e la pace, e per la gioiosa celebrazione della vita»

 (Simone Gennari)

Commenti

Post popolari in questo blog

Quale futuro per il mondo?

Co2 per produrre alimenti.

Caos e dazi.