LIBERTA’ E DEMOCRAZIA.
LIBERTA’
E DEMOCRAZIA.
Il
complesso rapporto tra
hate
speech, libertà
e democrazia.
Altalex.com
– Avv. Marco Martorana – avv. Roberta
Savella – (8 novembre 2022) – ci dicono:
Un
difficile bilanciamento tra le libertà fondamentali coinvolte e gli sforzi
europei per il contrasto ai discorsi d’odio.
Risale
allo scorso 25 ottobre il report del Congresso dei Poteri Locali e Regionali
del Consiglio d’Europa sull’hate speech, che segue le Linee Guida adottate dal
Comitato dei Ministri il 20 maggio ed evidenzia gli impatti che i discorsi
d’odio possono avere sul lavoro dei funzionari delle amministrazioni locali e,
quindi, sul corretto funzionamento delle istituzioni democratiche della nostra
società.
La
questione degli effetti negativi dell’hate speech sulla libertà delle vittime
di questo fenomeno era stata affrontata anche nel Documento conclusivo
sull’indagine conoscitiva sulla natura, cause e sviluppi recenti del fenomeno
dei discorsi d’odio, approvato dalla Commissione straordinaria per il contrasto
dei fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio e
alla violenza (“Commissione Segre”) nel giugno 2022.
Si
tratta di un tema che va oltre le tradizionali obiezioni relative al complesso
rapporto tra hate speech e libertà di espressione, con un ribaltamento di
prospettiva: si inquadra la tutela contro i discorsi d’odio come uno strumento
per garantire la libertà anche per i soggetti appartenenti alle categorie
target dell’hate speech, invece che come una lesione alla possibilità di
esprimere il proprio pensiero.
Il
cuore del ragionamento è che i discorsi d’odio finiscono per silenziarne le
vittime, dunque reprimere questi comportamenti è necessario per consentire
anche a loro l’esercizio dei propri diritti fondamentali.
Nel
proteggere i soggetti più esposti nei confronti degli odiatori seriali, quindi,
si tutela la libertà dell’intera società.
1.
Hate speech: problemi di definizione.
Ma
cosa si intende con “hate speech”?
Il
Documento della Commissione Segre sopra citato evidenzia i problemi legati alla
definizione di questo fenomeno, che risente della diversa sensibilità che i
vari ordinamenti giuridici dimostrano nei confronti delle tematiche connesse ai
discorsi d’odio, in primis per quanto riguarda il rapporto, appunto ancora
controverso, tra tutela della dignità e tutela della libertà di espressione.
Per
evitare equivoci sulla possibile sovrapposizione tra lecita manifestazione del
pensiero e discorsi d’odio, nel Documento viene riportata la definizione
contenuta nella Raccomandazione di politica generale n. 15 della Commissione
europea contro il razzismo e l’intolleranza:
“hate
speech” è “l’istigazione, la promozione o
l’incitamento alla denigrazione, all’odio o alla diffamazione nei confronti di
una persona o di un gruppo di persone, o il fatto di sottoporre a soprusi,
molestie, insulti, stereotipi negativi, stigmatizzazione o minacce tale persona
o gruppo, e comprende la giustificazione di queste varie forme di espressione,
fondata su una serie di motivi quali la ‘razza’, il colore, la lingua, la
religione o le convinzioni, la nazionalità o l’origine nazionale o etnica,
nonché l’ascendenza, l’età, la disabilità, il sesso, l’identità di genere,
l’orientamento sessuale e ogni altra caratteristica o situazione personale”.
Nelle
Linee Guida del 20 maggio scorso, il Comitato dei Ministri del Consiglio
d’Europa chiarisce che per “hate speech” devono intendersi
“tutti
i tipi di espressioni che incitano, promuovono, diffondono o giustificano la
violenza, odio o discriminazione contro una persona o un gruppo di persone, o
che le denigrano, a causa di loro caratteristiche personali reali o attribuite
o di status come la “razza”, il colore della pelle, la lingua, la religione, la
nazionalità o l’origine etnica, l’età, la disabilità, il sesso, l’identità di
genere e l’orientamento sessuale” .
È
fondamentale ancorare la definizione di hate speech, quindi, non al movente in
sé del discorso, ma agli effetti che questo può avere, ai rischi che causa per
le vittime:
mentre il dato psicologico, il sentimento
d’odio, rimane insindacabile nella sfera intima e inviolabile dell’individuo, è
necessario reprimere comportamenti che abbiano come obiettivo ed effetto
probabile quello di incitare, promuovere, diffondere o giustificare (e, in tal
modo, incentivare) violenza, odio e discriminazione.
(Il diritto del web, di Mensi
Maurizio, Falletta Pietro, Ed. CEDAM, 2021. Il volume analizza
approfonditamente l’evoluzione che è stata sin qui solo brevemente riassunta,
adottando un approccio interdisciplinare che si estende a tutti i diritti e i
settori giuridici oggi coinvolti dalle nuove tecnologie e dalle loro implicazioni
correlate alla rete web.)
2. Il
bilanciamento con la libertà di espressione.
A
livello europeo la libertà di espressione è un diritto fondamentale soggetto a
bilanciamento con gli altri di pari rango, come la tutela della dignità della
persona e il principio di non discriminazione.
L’art. 10 par. 2 della CEDU sancisce che la
libertà di parola può essere sottoposta a restrizioni necessarie per
salvaguardare la reputazione e i diritti altrui.
Le
misure contro l’hate speech sono, quindi, pienamente legittime purché
proporzionate allo scopo: devono, in altri termini, fondarsi su un giusto
bilanciamento tra libertà di espressione e gli altri diritti fondamentali
violati dal discorso d’odio.
Anche
la Corte di Cassazione si è pronunciata in questo senso nella sentenza n.
36906/2015, affermando che “nel possibile contrasto fra la libertà di
manifestazione del pensiero e la pari dignità dei cittadini, va data preminenza
a quest’ultima solo in presenza di condotte che disvelino una concreta
pericolosità per il bene giuridico tutelato”.
Tuttavia,
appare convincente la tesi, che abbiamo evidenziato in apertura di questo
contributo, che inquadra l’hate speech proprio come una violazione della
libertà di espressione delle vittime, e che articola così l’intera discussione
su questo diritto fondamentale.
Il Documento della Commissione Segre cita il
Professor Jeremy Waldron della New York University School of Law, che nel suo
libro “The
Harm in Hate Speech” afferma che “quando noi difendiamo i discorsi d’odio perché
vogliamo tutelare il free-spech, cioè la libertà di espressione, in realtà stiamo scegliendo la
libertà di espressione degli aggressori rispetto alla dignità di espressione
delle vittime”.
La Commissione, inoltre, correla questo
fenomeno con il problema dell’altissimo livello di under-reporting: la limitazione alla libertà di
espressione delle vittime finisce per impedire loro di denunciare.
Questo
discorso fornisce una interessante chiave di lettura per il recente Report del
Consiglio d’Europa, che descrive gli effetti negativi dell’hate speech sul
funzionamento delle istituzioni.
I politici sono sempre più di frequente
vittima di discorsi d’odio e abusi verbali e, per questo motivo, si trovano a
lavorare in ambienti tossici e intimidatori, cosa che impatta in modo
disastroso sul tessuto democratico della società, con un “effetto
paralizzante”.
Questo
fenomeno viene esacerbato nei contesti locali, in quanto i politici vivono la
propria quotidianità nelle aree di cui sono rappresentanti eletti, ed è tanto
più grave quando avviene nei confronti di soggetti appartenenti a categorie
target (ad esempio minoranze etniche o religiose, persone LGBT+, ecc.) spesso
sottorappresentate nelle istituzioni e che, anche a causa dell’hate speech,
possono essere disincentivate alla partecipazione politica.
Per
questi motivi, il Congresso dei Poteri Locali e Regionali del Consiglio
d’Europa, autore del report suddetto, chiede alle autorità locali e regionali degli
Stati membri del Consiglio d’Europa alcune azioni, tra le quali evidenziamo:
Formare
i politici eletti nelle istituzioni locali e regionali su come identificare,
affrontare e prevenire hate speech e fake news, assicurandosi allo stesso tempo che
abbiano gli strumenti necessari a tutelare la propria salute mentale (ad
esempio fornendo loro un numero di emergenza attivo 24 ore su 24 per ottenere
assistenza);
Promuovere
l’adozione di Linee Guida per i politici e i media al fine di prevenire
disinformazione e hate speech e favorire la trasparenza e l’open government;
Diffondere
consapevolezza sul tema dell’hate speech e delle fake news, anche condividendo
best practices adottate a livello nazionale o internazionale;
Supportare
la cooperazione tra i politici e le comunità che rappresentano, anche
attraverso meccanismi di partecipazione pubblica e coinvolgimento di gruppi e
associazioni locali.
3. La
normativa di contrasto all’ “hate speech”.
Per
quanto riguarda le soluzioni normative per il contrasto all’hate speech, è
ormai assodato che la risposta di tipo penale al problema deve essere usata
come extrema ratio, mentre il grosso della tutela passa dall’educazione e dai
rimedi di tipo civile e amministrativo.
È
quanto emerge dal Documento della Commissione Segre e dalle Linee Guida del
Consiglio d’Europa dello scorso maggio, che sottolineano la necessità di
distinguere i casi in cui il discorso d’odio è grave al punto da richiedere una
tutela penalistica, quelli in cui è sufficiente il rimedio civile o
amministrativo e, infine, quelli in cui le espressioni usate non sono
sufficientemente gravi da poter essere limitate a livello giuridico ma
richiedono comunque una risposta di tipo educativo, di dialogo interculturale e
diffusione di consapevolezza del problema.
Il
Comitato dei Ministri nelle Linee Guida utilizza i criteri di bilanciamento con
la libertà di espressione che si sono affermati nella giurisprudenza europea,
chiedendo altresì agli Stati membri di definire chiaramente nella loro
legislazione nazionale quali espressioni di hate speech possono essere soggette
a tutela penale (ad esempio minacce o insulti di matrice omofoba o razzista, ma
anche negazione pubblica o giustificazione di genocidi e crimini di guerra) e
di assicurare, comunque, rimedi effettivi di tipo civile e amministrativo.
Nelle
Linee Guida troviamo inoltre un invito esplicito agli Stati a imporre per via
legislativa gli intermediari online (come, ad esempio, i siti di social
network) di adottare delle misure effettive per impedire la diffusione di hate
speech.
Il ruolo delle piattaforme nel contrasto alla
diffusione dell’hate speech diventa sempre più centrale e il Comitato dei
Ministri le inserisce nei “key actors” destinatari delle sue raccomandazioni,
insieme alle istituzioni politiche e ai media.
È
importante notare qui come nel nuovo Regolamento europeo sui servizi digitali
(Digital Services Act o “DSA”) siano stati introdotti nuovi obblighi per le
piattaforme che forniscono servizi digitali, tra cui quello di dare
informazioni esplicite sulla moderazione dei contenuti e, per gli intermediari
di maggiori dimensioni, l’adozione di codici di condotta e di meccanismi di
prevenzione di rischi sistemici per i diritti e le libertà fondamentali degli
individui.
Il
problema della mancanza di trasparenza sui sistemi di moderazione delle
piattaforme online è stato evidenziato anche nel Documento della Commissione
Segre, dove viene sottolineata l’importanza di regolamentare l’uso di algoritmi
in questo contesto.
4.
Conclusioni.
Il
contrasto all’hate speech, come abbiamo visto, solleva alcune questioni per
quanto riguarda la compressione della libertà di espressione.
Queste
possono tuttavia essere inquadrate utilizzando una prospettiva diversa che
ponga al centro la tutela della libertà delle vittime lesa anch’essa, oltre
alla dignità, dal comportamento degli aggressori.
Adottare
questo punto di osservazione del problema ci consente di considerare anche le
ricadute che i discorsi d’odio hanno sul comportamento dei destinatari,
specialmente quando questi sono rappresentanti politici;
in
questi casi il clima tossico creato dagli odiatori seriali finisce per influire
sul corretto funzionamento delle istituzioni democratiche, paralizzandone
l’attività.
Se è
chiaro che il diritto penale deve essere utilizzato con parsimonia per
reprimere questi comportamenti, c’è ancora molto da fare per potenziare
l’educazione, la sensibilizzazione su questi temi, oltre che i rimedi di tipo
civile o amministrativo utili a disincentivare i discorsi d’odio.
I
documenti adottati dal Consiglio d’Europa negli ultimi mesi chiamano tutti i
“key actors” all’azione per modellare una società più sicura anche per le
categorie target dell’hate speech.
NEURALINK
DI ELON MUSK,
COSA
ACCADE NEI LABORATORI?
Visionetv.it-
Martina Giuntoli – (7 dicembre 2022) – ci dice:
Il
proprietario di Twitter, Elon Musk, potrebbe passare guai grossi. Questa volta
non si tratta dell’uccellino blu, ma dell’altro progetto di cui è a capo,
ovvero il chip prodotto da Neuralink Inc.
Secondo
ciò che è emerso da alcuni documenti consegnati al dipartimento
dell’agricoltura statunitense dal Comitato Medico per la Medicina Responsabile,
Neuralink è indagata per maltrattamento di animali.
Si
legge nelle carte che nel lavorare sul progetto principale dell’azienda, un
processore da impiantare nell’uomo, si starebbe ovviando a diverse norme che
riguardano l’utilizzo di animali da laboratorio.
Nel
cercare di guadagnare più tempo possibile, Elon Musk infatti sacrificherebbe
più animali del consentito.
Sempre
secondo la documentazione, l’uomo non sarebbe minimamente interessato ad
ottimizzare le procedure prima di ripetere un esperimento.
Il suo
unico obiettivo sarebbe infatti esclusivamente quello di ottimizzare i tempi
per iniziare a lavorare sull’uomo.
Neuralink
Inc. è un’azienda fondata dal miliardario sudafricano, che ha sede a San
Francisco e Austin, e si occupa principalmente di neuro tecnologie.
Ormai
da qualche anno sta lavorando su di un processore che integri uomo e macchina.
In particolare il progetto più importante
della compagnia è un’apparecchiatura da impiantare nel cervello umano che,
qualora funzionasse, dovrebbe essere in grado di restituire la vista, la mobilità,
l’udito e altre funzioni a persone disabili.
Ma a
quale prezzo?
Alcuni
quotidiani riportano che diverse delle scimmie chippate sono morte o, dettaglio
ancora più macabro, si sono morse gli arti fino a staccarsi le dita di mani e
piedi.
Altre
invece, in conseguenza agli elettrodi impiantati nel cervello, hanno sviluppato
emorragia cerebrale e gravi infezioni.
Neuralink
Inc. ha ammesso che le scimmie sono morte, ma ha sempre rigettato l’accusa di
crudeltà sugli animali.
Eppure
i documenti presentati nella denuncia parlano chiaro: morti orrende, infezioni
devastanti e gravi effetti collaterali in conseguenza agli esperimenti.
Infatti,
nelle note di laboratorio di cui adesso il dipartimento dell’agricoltura è in
possesso i dati a riguardo sono molto precisi.
Ryan
Merkley, il responsabile medico del comitato che ha attenzionato i fatti di
Neuralink Inc. ha apertamente dichiarato:
Per
quanto sia cruento, il pubblico deve essere consapevole di quello che accade là
dentro e della sofferenza immane cui le scimmie sono costrette a sottostare.
Forse
pochi sanno che l’azienda di Musk collabora con l’Università della California
di Davis, università che è stata profumatamente pagata per condurre gli
esperimenti all’interno dei suoi edifici. Tuttavia lo stesso Merkley ha
dichiarato:
Appare
chiaro che l’università stia cercando di nascondere ai contribuenti il fatto
che collabora con Elon Musk e che insieme alla sua azienda sta conducendo
esperimenti durante i quali gli animali sono esposti a pratiche disumane.
Le
foto di cui siamo in possesso sono di dominio pubblico poiché scattate con
fondi pubblici e quindi la gente ha il diritto di sapere ciò per cui sta
pagando.
Neuralink
Inc. ha risposto alle accuse dicendo che le mutilazioni agli arti di cui
parlano i suoi oppositori deriverebbero semplicemente da litigi tra animali. E
ha dichiarato, tra le altre cose, che:
Si
deve tener conto che le accuse che ci vengono rivolte giungono da persone che
si oppongono in ogni modo all’utilizzo di animali da laboratorio.
E Musk
cosa dice a riguardo?
Incredibilmente
minimizza e anzi sostiene che non avrebbe problemi ad impiantare il chip nel
cervello di uno dei suoi figli se questo avesse un serio problema di salute. Ha
detto Musk in una conferenza lo scorso mercoledì:
Vorrei
sottolineare che adesso siamo ad un punto in cui almeno l’utilizzo del chip di
Neuralink non sarebbe pericoloso.
Beh,
un po’ poco, se si considera che Musk vorrebbe cominciare a impiantare il chip
nell’uomo già entro i prossimi sei mesi (si pensi che l’azienda avrebbe già
mancato diverse scadenze che si era data in passato).
Il
miliardario sudafricano ha infatti dichiarato su Twitter che sta già lavorando
al processo di approvazione con la Fda.
Ha
affermato Musk:
Quando
sarà pronto ed approvato sarò il primo a provarlo. Mi farò impiantare il chip
non appena disponibile.
Potreste tutti già aver dentro la testa un
chip di Neuralink e non saperlo, intendo dire ipoteticamente.
Nel
ritenere indubbia la necessità che un’investigazione approfondita su quanto
accade all’interno dei laboratori di Neuralink Inc. venga condotta, dovremmo
chiederci anche altro.
Se gli
animali hanno subito questo trattamento, cosa riserverà Musk all’uomo?
La
risposta potrebbe non piacerci affatto.
(MARTINA
GIUNTOLI)
ARMI
PER L’UCRAINA IN
MANO
AGLI JIHADISTI IN AFRICA.
Visionetv.it
– Giulia Burgazzi – (7 dicembre 2022) – ci dice:
Le
armi che l’Occidente regala all’Ucraina in quantità industriale finiscono anche
in Africa, nel bacino del lago Ciad, dove alimentano il terrorismo.
Lo
denuncia il presidente della Nigeria, Muhammadu Buhari.
Già nel
maggio scorso si era parlato di Kiev come di uno shopping center per la
‘ndrangheta.
In seguito, la polizia finlandese ha segnalato
la presenza in vari Paesi europei di armi consegnate all’Ucraina, senza
specificare di quali Paesi si tratti.
Inoltre
Europol, l’agenzia dell’Unione europea per contrastare la criminalità
organizzata, ha diplomaticamente sollevato il tema della presenza di indizi
relativi al contrabbando di armi provenienti dall’Ucraina.
Tutto
questo ha indotto gli Stati Uniti ad inviare ispettori in Ucraina, con il
compito di tenere traccia degli aiuti bellici statunitensi.
Non
sono noti i risultati della missione effettuata dagli ispettori.
È noto
invece che, almeno a quanto sostiene il presidente nigeriano, gli ispettori
statunitensi ora hanno davanti a sé un altro campo di indagine: l’Africa,
appunto.
Il
continente nero è il teatro di mille conflitti che l’Occidente conosce poco e
dimentica rapidamente.
Nel
bacino del lago Ciad – il luogo al quale Muhammadu Buhari ha fatto riferimento
– operano due organizzazioni terroristiche, che peraltro egli non ha
esplicitamente citato.
Si
tratta di Boko Haram, di matrice jihadista, e dell’Isis, lo Stato islamico
dell’Africa occidentale.
Il
presidente della Repubblica Nigeriana ha dedicato alle armi arrivate
dall’Ucraina un passaggio del comunicato stampa relativo al summit della
commissione che si occupa del bacino del lago Ciad, svoltosi alla fine dello
scorso mese di novembre. Ecco che cosa dice il comunicato, in traduzione:
Il
Presidente Muhammadu Buhari ha sollecitato martedì ad Abuja una maggiore
vigilanza e un rafforzamento della sicurezza intorno alle frontiere,
richiamando l’attenzione sull’aumento del numero di armi, munizioni e altri
armamenti provenienti dalla guerra tra Russia e Ucraina nel bacino del Lago
Ciad.
In
occasione del 16° Vertice dei Capi di Stato e di Governo della Commissione del
Bacino del Lago Ciad (LCBC), il Presidente, che presiede il Vertice dei Capi di
Stato e di Governo, ha affermato che la minaccia dei terroristi nella regione è
stata relativamente tenuta sotto controllo, mentre l’afflusso di armi pone
nuove sfide.
“Va
comunque detto che, nonostante i successi registrati dalle valorose truppe
della MNJTF e le varie operazioni nazionali in corso nella regione, la minaccia
terroristica è ancora in agguato nella regione”.
“Purtroppo,
la situazione nel Sahel e l’imperversare della guerra in Ucraina sono le
principali fonti di armi e combattenti che rafforzano i ranghi dei terroristi
nella regione del Lago Ciad.
Una
parte consistente delle armi e delle munizioni procurate per eseguire la guerra
in Libia continua a raggiungere la Regione del Lago Ciad e altre parti del
Sahel”.
“Anche
le armi utilizzate per la guerra in Ucraina e in Russia stanno iniziando a
filtrare nella regione”.
“Questo
movimento illegale di armi nella regione ha aumentato la proliferazione di armi
leggere e di piccolo calibro, che continua a minacciare la nostra pace e
sicurezza collettiva nella regione.
È
quindi urgente che le nostre agenzie di controllo delle frontiere e gli altri
servizi di sicurezza collaborino al più presto per fermare la circolazione di
tutte le armi illegali nella regione”.
La
stampa occidentale ha degnato la faccenda di ben poca considerazione.
Altrove
le cose sono andate diversamente.
È il
caso ad esempio dell’edizione in lingua inglese di “Al Mayadeen”, un canale di
tv satellitare che si rivolge al mondo arabo.
(After
#Nigeria‘s President Muhammadu Buhari’s clear warning, will we see more #US
weapons making it into the hands of terrorist organizations? # Ukraine
https://t.co/hkONcaWatV
— Al
Mayadeen English (@MayadeenEnglish) December 3, 2022)
In
traduzione:
Dopo
il chiaro avvertimento del presidente nigeriano Muhammadu Buhari, vedremo altre
armi statunitensi finire nelle mani di organizzazioni terroristiche?
Come
abbiamo visto, nel comunicato stampa dedicato al summit sul bacino del lago
Ciad, Muhammadu Buhari ha affermato che la minaccia terroristica nella regione
è stata portata relativamente sotto controllo, ma che l’afflusso di armi causa
nuove difficoltà.
Fra queste armi egli cita anche quelle
provenienti dalla guerra fra Russia ed Ucraina, spiegando che stanno iniziano
ad infiltrarsi nella zona.
Di qui
la sua esortazione ai Paesi che si affacciano sul lago Ciad a controllare
attentamente ciò che entra nei loro confini.
Esiste
però anche l’altra faccia della medaglia, che Muhammadu Buhari diplomaticamente
non ha citato.
Se i Paesi occidentali vogliono continuare a
regalare armi l’Ucraina – ammesso ma non concesso che i loro regali siano
giusti e ragionevoli – farebbero bene anche ad interessarsi della fine che le
armi fanno.
(GIULIA
BURGAZZI)
Covid,
Big Pharma
in
guerra sui vaccini.
msn.com-
Milano Finanza - Andrea Boeris – (7-12-2022) – ci dice:
La
guerra tra le società del vaccino anti-Covid non si ferma e si arricchisce di
un nuovo capitolo.
Dopo la causa intentata da Moderna lo scorso
agosto, nella quale la biotech guidata da Stephane Bancel ha accusato le rivali
Pfizer e BioNTech della violazione di alcuni brevetti relativi alla tecnologia
dell’mRna messaggero su cui si basa il suo vaccino Spikevax, il colosso
americano del Pharma e la partner tedesca hanno ora deciso di passare al
contrattacco citando a loro volta in giudizio la stessa Moderna.
Pfizer
e BioNTech hanno sempre respinto le accuse mosse da Moderna e adesso sostengono
che la società biotech con la sua causa abbia cercato di riscrivere la storia
della pandemia per intestarsi un «ruolo da unico protagonista» nel tentativo di
oscurare il contributo di altri attori, come ad esempio quello degli scienziati
di Pfizer e BioNTech. Le due società partner nella loro controaccusa vogliono
ora dimostrare di aver sviluppato in modo indipendente il loro vaccino.
Mentre
la causa di Moderna sostiene che i due vaccini a mRna sono abbastanza simili da
giustificare un’accusa di violazione del brevetto, visto che entrambi
utilizzano l’mRna e le nanoparticelle lipidiche, Pfizer e BioNTech affermano
invece che il loro vaccino è «innegabilmente diverso» da quello della loro
concorrente, sostenendo che il loro utilizza una struttura mRna diversa da
quella dello Spikevax di Moderna, oltre a diversi lipidi.
In
gioco ci sono le miliardarie royalties sulle vendite del vaccino anti-Covid,
sebbene siano in calo e potrebbero scendere ulteriormente se il pericolo
pandemico continuasse a diminuire.
Non a caso, come si vede dalla tabella, le
società in borsa hanno perso molto terreno nel corso del 2022.
Ma un
aspetto forse ancora più importante dietro a questa battaglia legale è la
posizione dominante nelle piattaforme a mRna in generale, il cui sviluppo
potrebbe avere applicazioni per altri vaccini e terapie extra-Covid.
«La
causa leale di Moderna scoraggerà l’ulteriore sviluppo della straordinaria
scienza che ha reso possibili i vaccini accelerati contro il Covid», scrivono
gli avvocati di Pfizer e BioNTech nella loro controaccusa.
E
attorno all’mRna messaggero sono molte le società in lotta tra loro.
Curevac
ha accusato BioNTech di violare la sua proprietà intellettuale, mentre Alnylam
ha citato in giudizio sia Pfizer-BioNTech che Moderna sulle nanoparticelle
lipidiche e anche Arbutus Biopharma e Genevant Sciences hanno denunciato
Moderna, sempre sulla funzione dei lipidi nella tecnologia dell’mRna.
Democrazia
e libertà, due
valori
che ci rendono più forti.
Huffingtonpost.it-
Carlo Molinari – (22 Aprile 2020) – ci dice:
Democrazia: lo sanno tutti cosa significa. Anche
quelli che non hanno studiato il greco. Anche quelli che democratici non sono e
vivono, come da noi, in un paese democratico.
La
democrazia, cioè quella forma di governo dove il potere è esercitato dal
popolo, è la forma più umana, certamente, di gestire l’organizzazione e la
crescita di un paese.
È una forma di governo che permette a tutti di
esprimere la propria opinione, il proprio pensiero; di votare liberamente,
senza costrizioni o vincoli.
È la
condizione politica di uno stato come il nostro che, paradossalmente, ha
permesso che recentemente andasse al potere una formazione di governo costituita
(per la metà e appoggiata da altre forze antidemocratiche) da banali oppositori
del sistema democratico.
Il
bello della democrazia è proprio questo: dare voce a ogni partito e che, anzi,
ogni partito regolarmente eletto possa avere i suoi rappresentanti nel
Parlamento. Persino i partiti che manifestino idee estremiste, che non
dovrebbero esistere più in uno stato (e in una coalizione di stati, come
l’Europa) democratico.
La
democrazia fa sì che tutti possano esprimere il loro parere... anche quando chi
parla lo fa criticando il 25 aprile, il giorno della liberazione. La
liberazione da un regime oppressivo come quello fascista.
Il “25
Aprile”. Il giorno in cui il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia
(quello di Pertini, Sereni, Longo) proclamò l’insurrezione dei territori
occupati dai nazifascisti. Questo è il venticinque aprile, il giorno della
Libertà, con la elle maiuscola. Quello che mise fine a venti anni di dittatura
fascista e ai cinque anni della seconda guerra.
Libertà,
significa esattamente questo il 25 aprile; non bisogna stancarsi di dirlo e
gridarlo a gran voce.
Libertà, che la signora Meloni e il signor
Salvini non avrebbero mai avuto garantita altrimenti, se non come servi di un
qualunque dittatore... La libertà decretata dal referendum del 2 giugno 1946,
la libertà della scelta e della formazione della Repubblica Italiana e la
stesura della Costituzione, in un paese che per quasi due millenni non era mai
stato unito veramente, in un’Italia che era da chiamarsi tale solo geograficamente.
Il 25
aprile è sempre stato soggetto a polemiche, talvolta neppure troppo legate alla
liberazione.
È
fuori da ogni dubbio una festa inclusiva, che richiama ai valori della
Resistenza, quindi alla Repubblica italiana e alla Costituzione;
ed è
insito nella parola stessa il termine di Libertà, nel suo più alto significato.
È una
data in cui gli italiani dovrebbero (devono) essere solidali ai valori dello
stato, dell’individuo e ai fondamentali rapporti tra questi due attori.
Democrazia
e libertà, quindi.
Due
parole semplici, con un significato immenso; distinto ma in essenza unico, che
niente e nessuno dovrà e potrà mai sottrarci.
Niente
e nessuno potrà confonderle con qualche parvenza di surrogati.
Due
parole che, legate al 25 aprile, giorno della liberazione, danno senso e
orgoglio alla totalità del popolo italiano.
Desideri
di libertà
e democrazia
Una
grande, fragile coppia.
Books.openedition.org
- Gabriele Magrin -pag-29-36 – (4-11-2022) – ci dice:
1)- Democrazia e desideri umani hanno alle loro spalle una storia
secolare di complicità, nella quale si sono sostenuti e rafforzati a vicenda.
Senza
desideri di libertà, di autonomia, di assenza di padroni, di uguale dignità e in
prospettiva di uguali diritti (diritti uguali per tutti gli uguali e diversi
per tutti i diversi), la democrazia non ha motivo di essere.
E allo
stesso modo, senza democrazia, questi stessi oggetti del desiderio – libertà,
autonomia, assenza di padroni, diritti – sono fragili e in costante pericolo. «Le aspirazioni nutrono la
democrazia», ha scritto Appadurai.
E
democrazia è il nome di uno spazio di uguaglianza creato artificialmente
dall’uomo (l’uguaglianza politica) nel quale soggetti diversi tra loro possono
esprimere, promuovere, sperare di dare gambe alle loro aspirazioni.
Che sono costitutivamente diverse,
conflittuali, aperte nelle forme e negli esiti.
2)- Desideri
e democrazia si implicano reciprocamente.
Questa
relazione è chiarissima fin dalle origini del pensiero politico occidentale.
Per Platone, come per Aristotele, l’uomo democratico desidera una cosa ben
precisa: «fare ciò che vuole», essere il principio delle proprie azioni.
Esigenza
che richiede però parità di condizioni, ovvero una uguale libertà: posso essere
libero di fare ciò che voglio, soltanto se qualcuno non è più libero di me.
Da
qui, la condanna unanime dei classici greci, per i quali la società dovrebbe
riflettere la gerarchia naturale del creato.
La condanna è senza appello per Platone. Più
moderata, ma non meno effettiva, in Aristotele. Dopo la lunga eclisse del pensiero
democratico, questa stessa relazione – desideri e democrazia – ricompare in
Spinoza, per il quale la democrazia è il solo regime che possa garantire
coesistenza e sviluppo ai moventi passionali dell’uomo, al “conatus sese servandi “che
spinge i soggetti lungo percorsi di autorealizzazione diversi e perfino in
contrasto tra loro.
Una
relazione costitutiva tra desideri e democrazia si trova anche all’origine
della figura concettuale che sta a fondamento delle democrazie costituzionali.
Parlo del contratto sociale nella sua declinazione
moderna, con il quale Hobbes per primo, e poi Locke e Rousseau consegnano alla
posterità l’idea-guida di un ordine politico che nasce artificialmente – e
artificialmente può essere dissolto – sulla base di un libero accordo tra
individui uguali, per proteggere o promuovere alcuni “beni”.
Poco importa disquisire qui sul fatto che nei
contrattualisti del Seicento e del Settecento la protezione della vita e della
proprietà potessero avere la meglio su beni tipicamente democratici come
libertà e uguaglianza.
È molto importante ricordare invece che la
figura del contratto sociale produce uno spazio politico nel quale bisogni e
aspirazioni umane possono trovare un canale di espressione.
Il potere non si presenta più come fatto
“naturale” e nemmeno come creazione o punizione divina, ma è concepito per la
prima volta come il prodotto di un accordo umano, in vista di obiettivi
condivisi: obiettivi che alla prova dei fatti si riveleranno mutevoli, ma
strettamente intrecciati all’affermazione della democrazia nel mondo moderno.
Le
costituzioni democratiche e la democrazia politica che l’Europa ha sperimentato
nel secondo Novecento sono i luoghi nei quali bisogni, desideri e aspirazioni
hanno trovato possibilità di espressione. In forma politica: traducendosi in
lotte e rivendicazioni.
Nella dimensione culturale: attraverso visioni del mondo o
ideologie contrastanti.
Nella
sfera giuridica: erigendo a diritti bisogni/desideri/aspirazioni che esigono garanzia o
realizzazione.
3)- La
relazione tra il desiderio di libertà e la democrazia è necessaria, ma è sempre stata molto fragile,
contraddittoria, bisognosa di essere curata e sostenuta.
Non
tutte le democrazie sanno alimentare la capacità di desiderare e non tutti i
desideri di libertà nutrono la democrazia.
Vorrei
soffermarmi qui su due affermazioni di principio, solo apparentemente
contraddittorie:
a). La
democrazia può soffocare i desideri.
b). I desideri possono estenuare la
democrazia.
Se noi
viviamo un’epoca di crisi – di involuzione della democrazia e di passioni
tristi – è perché questi due processi degenerativi sono in atto
simultaneamente.
Il
problema è che raramente questi due processi vengono considerati insieme.
4) - Come
sappiamo bene, la democrazia può soffocare i desideri direttamente, diventando impermeabile ai bisogni e
alle aspirazioni sociali.
Ma
anche indirettamente, lasciando che il desiderio di autonomia dei soggetti si
dissolva, o venga irregimentato, nella fabbrica del godimento, prodotta e
riprodotta da poteri sociali fuori controllo.
Queste
tesi hanno accompagnato gli sviluppi della filosofia critica degli ultimi
cinquant’anni, dalla scuola di Francoforte, a Foucault al marxismo di matrice
lacaniana di Slavoj Žižek, e hanno costituito per lungo tempo l’essenza della
critica “da sinistra” alla democrazia.
Queste
tesi hanno il loro baricentro nella critica del potere.
5) - Il
rischio che la democrazia possa essere estenuata dai desideri è stato nei
secoli il “cave canem” delle destre:
delle
destre liberali e conservatrici (non certo di quelle populiste, molto più
disinvolte nel fare appello a passioni e pulsioni di massa).
La critica, su questo fronte, ha sempre avuto
per oggetto non il potere, ma il démos: di fronte alla pletora di aspettative
che emergono dal basso e chiedono soddisfazione pubblica, si afferma, l’unica
possibile risposta è una compressione del desiderio, e soprattutto dei desideri
di libertà.
Non è
possibile, si dice oggi, assicurare al tempo stesso il diritto alla privacy e
quello alla sicurezza, il diritto alla libertà di opinione e il diritto a non
essere offesi dalle opinioni altrui, il diritto a circolare con le auto e
quello a respirare un’aria pulita, e così via.
Troppi
desideri e troppi cattivi desideri.
Ma
quali sono i cattivi desideri che i conservatori di ogni tempo ci invitano a
considerare?
Dobbiamo
guardarci bene dalla tentazione, oggi ricorrente, di dare a questa domanda una
risposta sostantiva.
Non esiste e non è desiderabile un’etica
unitaria che fornisca una risposta univoca. L’unico modo per prendere sul serio
il discorso dei conservatori è di riconoscere che i cattivi desideri esistono,
e sono quelli che nuocciono alla democrazia, ovvero alla capacità di
autogoverno dei singoli, e della società nel suo insieme.
Senza
l’esigenza di autogoverno, e dunque di assenza di padroni, desideri e
aspirazioni sono destinati a infrangersi contro il muro dell’eteronomia:
qualcuno deciderà per noi che cosa è desiderabile.
Un
potere visibile, un potere invisibile o un dispositivo governamentale: le molte
figure del padrone.
6) - Credo
allora che chi oggi ha a cuore il “desiderio di democrazia” debba prendere molto sul serio la
critica di Platone alla libido dell’uomo democratico.
Nell’VIII
libro della Repubblica, Platone formula nel modo più drastico una tesi che sarà
ripresa infinite volte dal pensiero tradizionalista.
L’uomo
democratico, scrive, vuole «fare ciò che vuole» ma non sa cosa vuole.
La sua
anarchia dell’anima non può che produrre anarchia politica e ben presto si
profilerà all’orizzonte un «protettore» della libertà, che verrà scelto perché
in tutto simile a lui: licenzioso, mimetico, persuasivo.
7) - L’uomo
democratico, scrive Platone, vive giorno per giorno compiacendo il primo appetito
che capita: ora si sbornia e suona l’aulòs per poi bere acqua e dimagrire, ora
fa ginnastica, per poi rimanersene pigro e noncurante di tutto, ora fa mostra
d’interessarsi di filosofia.
Spesso
si dà alla politica e salta su a dire e a fare qualunque cosa gli passi per la
testa (…); e per la sua vita non conosce né ordine né necessità alcuna, ma
chiama dolce libera e beata questa sua vita e la pratica sempre.
8) - Platone
è convinto che una volta liberato il desiderio di libertà, il godimento assorbirà il
desiderio, la “scarica” sostituirà le aspirazioni, il presente inghiottirà il
futuro. Il suo discorso conduce inesorabilmente all’impossibilità
dell’autogoverno, individuale e collettivo.
Di
più: alla scomparsa dell’esigenza di autogoverno. L’uomo democratico, aggiunge
Platone qualche pagina dopo, non ha patria, perché non è disposto a riconoscere
alcun vincolo, né interno né esterno.
Anzi,
la sua unica patria è quella dei Lotofagi, popolo dei consumatori compulsivi di
sostanze inebrianti.
9) - La
diagnosi di Platone sulla democrazia, come Kant dirà della sua filosofia della
storia, è «terroristica».
Non
siamo affatto tenuti a condividerla, e non la condividiamo: Platone, come tutti
i cultori dell’ordine, pensa che l’esercizio della democrazia non abbia nulla
da insegnare alle aspirazioni umane.
Il
desiderio, per lui, non può essere educato, né irrobustito democraticamente,
può essere soltanto piegato da una disciplina rigorosa, riservata a poche anime
elette. Dove si conclude il discorso di Platone, dovrebbe cominciare il nostro
discorso, che, se parliamo di desideri e democrazia, non potrà eludere la
questione dell’autogoverno che è pur sempre un discorso sul governo: di sé e
della società.
Diciamolo
in modo più chiaro: la democrazia è e resta una forma di kràtos, un modo di
governarsi e dunque di darsi delle regole.
Il fatto che autonomia e assenza di padroni
siano l’essenza di questo modo, non toglie nulla all’esigenza democratica di un
governo, ovvero di regole che disciplinino la convivenza sociale e politica.
L’autonomia
esige un autòs-nòmos e non va confusa con l’a-nòmos.
Siamo
giunti così al punto che qui ci interessa.
Esistono
oggi desideri di libertà così “robusti” da includere l’esigenza democratica del
governo, e in modo del tutto particolare del governo sui poteri sociali e
politici?
10) - I
poteri che agiscono sulle nostre vite si sono rafforzati e appaiono, ogni
giorno di più, fuori dal nostro controllo.
Ma
allo stesso tempo sono ben lontane dal prendere forma idee e pratiche di
governo all’altezza della crisi.
Limitiamoci a qualche esempio.
Come invertire la china di una continua erosione
di potere politico da parte di poteri economici e finanziari “senza luogo”, se
è vero che i poteri finanziari si alimentano dell’universale desiderio di
arricchimento degli investitori?
Come
sottrarsi al potere di condizionamento e di sorveglianza dei “signori della
rete”, se è vero che proprio sulla rete ciascuno alimenta propaggini crescenti
della sua identità?
Di fronte a sfide di questa dimensione, che
manifestano il cortocircuito tra libertà individuali e capacità di
autodeterminazione collettiva, stanno prendendo corpo crisi di rigetto che
hanno il loro elemento comune nel tentativo di “mettersi al riparo, creando
zone franche”.
Resilienze sociali, economy sharing, beni
comuni, ritorno alla comunità o valorizzazione delle communities come
bene-rifugio.
L’aspetto
interessante di queste forme di reazione è di mobilitare esperienze e modi di
vita, prima ancora che idee e progetti.
In ampi strati sociali (della società dei
consumi!), la sobrietà è tornata a essere una scelta, oltre che una necessità.
Il low cost e il riuso uno stile di vita.
D’altra
parte, in molte di queste forme di reazione, pur frammentarie e
contraddittorie, si esprime un desiderio di autonomia e di sottrazione ai
poteri sociali che si traduce in pratica condivisa.
11) - In
fenomeni di questa natura sono all’opera “desideri decisi di democrazia”?
È lecito sollevare qualche dubbio.
Si tratta infatti di strategie difensive che
non elidono il potere, ma piuttosto, nei casi migliori, lo eludono.
Per
utilizzare la metafora usata da Elias Canetti in “Massa e potere”, non è
sufficiente al topo sottrarsi per un momento dalle grinfie del gatto per
sfuggire al suo potere.
Il
potere del gatto resta integro, infatti, finché il topo resta afferrabile dal
felino. Fuor di metafora, non saranno i bitcoin a sedare il “turbocapitalismo”,
come non sarà il risorgere delle “piccole patrie” a mettere i cittadini al
riparo dai poteri finanziari, dalla corruzione politica, dallo spettro della
povertà o dalla paura dei migranti.
Occorrono
regole che limitino la sfera di influenza dei poteri “fuori controllo”,
soggetti politici capaci di rivendicarle, istituzioni in grado di farle valere.
Rispetto
a obiettivi di questa portata, la qualità della domanda di democrazia è oggi
piuttosto sconfortante.
Ma c’è
un elemento di speranza, tipicamente democratico, al quale in momenti di crisi
così acuta è possibile fare appello: la possibilità di essere noi a riscrivere,
in un lavoro incessante, le regole formali e informali che governano le nostre
esistenze, proprio a partire dalle relazioni quotidiane di potere.
12) - L’astensione,
l’exit, la ricerca di “zone franche” possono in alcuni casi essere un primo
passo in questa direzione.
Ma gli uomini, a differenza dei topi di
Canetti, sono capaci di qualcosa di più della fuga: possono congiungere i loro
desideri di libertà e indirizzarli verso obiettivi comuni.
L’emancipazione dalle catene che condizionano
la nostra esistenza è un processo che conserva un fascino immenso.
Per
questo, società nelle quali status e ricchezza non siano predeterminati dalla
lotteria sociale, dall’appartenenza di genere, o dall’anagrafe, non sono
utopie. Sono il risultato possibile di desideri di libertà, irrobustiti da una
pratica comune e indirizzati al governo di sfere di vita che non siamo più
disposti ad affidare al potere del più forte.
13) - Quello
che Gabriele Magrin ha messo in rilievo, la ragione per la quale si può giungere
alla considerazione su ciò che la scienza politica ha sviluppato da Platone a
oggi, è precisamente quello che la psicoanalisi ha considerato come centrale.
È
l’articolazione tra desiderio e godere.
Quello
che è stato installato al cuore del dibattito da Platone, l’anarchia delle
passioni, dei desideri, precisamente, è stato interrogato in una nuova
prospettiva dall’esperienza psicoanalitica in cui il desiderio cattivo come
tale è l’oggetto della sua pratica.
I soggetti che si rivolgono a uno
psicoanalista hanno un cattivo desiderio con il quale non possono vivere e dopo
l’esperienza psicoanalitica trovano una nuova conciliazione con esso.
È
precisamente in questo punto che oggi vogliamo sapere se possiamo trarre
dall’esperienza psicoanalitica contemporanea qualche indicazione su un patto
nuovo con il desiderio.
La
soluzione è come confrontarsi con il cattivo desiderio.
Le scienze sociali e le scienze politiche
hanno pensato che la democrazia come tale dovesse avere una forma mista, poiché
la democrazia pura è instabile.
Infatti, tutte le Costituzioni dei paesi
europei sono più o meno miste.
La soluzione della rivoluzione americana è
stata di concepire una Costituzione mista, con un elemento monarchico, il
presidente, un elemento oligarchico, i senatori, e un elemento democratico con
i rappresentanti.
Allo
stesso modo in Francia, con la quinta repubblica post De Gaulle, vi è stata la
restaurazione di un elemento monarchico, con la relazione personale del
presidente eletto dal popolo, un elemento oligarchico e un elemento
democratico, che poteva stabilizzare un po’ l’instabilità necessaria
dell’anarchia di una pura democrazia.
Questa
soluzione sembra attualmente in crisi.
Le
forme di costituzioni miste che hanno caratterizzato la politica europea sono
in crisi esattamente per i due aspetti che lei ha messo in rilievo:
primo,
l’aspetto economico, le disuguaglianze incredibili generate dal capitalismo
finanziario generalizzato dell’epoca post Reagan;
e
l’altro aspetto, la tecnologia e il suo sviluppo sfrenato e che sembra sfuggire
di mano a tutti i governi con l’intenzione di frenare la tecnologia.
14) - Assistiamo
alla restaurazione di spazi di desideri, quello che lei ha isolato come delle
zone franche, un desiderio molto forte di ritrovare in un certo senso dentro
all’attività politica, delle zone franche che possono essere definite in vari
modi.
Possiamo
constatare la forza e l’esigenza di fare vivere queste zone.
Il
problema è che queste zone possono essere pensate come zone di rifugio e come
una nuova forma di socialismo utopico, una nuova forma di desideri utopici che
si nutrono solo di sé stessi eludendo il potere, il problema del potere.
Questo è un tema che esiste sia in Europa sia
negli Stati Uniti, in cui precisamente l’esperienza di “Occupy Wall Street” è
stata trasportata nella campagna elettorale di Bernie Sanders in maniera un po’
sfumata: un esempio di zona franca che funziona come un rifugio.
È la
dimostrazione di un desiderio forte, che dopo un po’ si sfuma.
Siamo
in un momento in cui l’interrogazione tra questi nuovi spazi e la questione del
potere sono in un punto di equilibrio e in un punto di interrogazione sulle
forme attuali miste dell’esercizio del potere in Europa.
15) - Volevo
riprendere due affermazioni di Gabriele Magrin.
La
prima, quando dice che c’è un desiderio di libertà, di autonomia e un desiderio
di assenza di padroni, e che la democrazia è in pericolo.
Propongo
di discutere attorno a quest’affermazione, se ci sia realmente un desiderio di
libertà e di autonomia e di assenza di padroni.
Si
potrebbe mettere un punto interrogativo anche al titolo del Forum: c’è
realmente un desiderio deciso di democrazia in Europa?
Pensiamo
al Trattato della servitù volontaria di Étienne de La Boétie, del 1548:
si
mette in evidenza in modo abbastanza chiaro che in realtà ciò che si manifesta
della soggettività è un desiderio di padrone.
Mi
sembra che la democrazia, in qualche modo, vada contro un’istanza soggettiva
che cerca d’installarsi sotto copertura.
Magrin
l’ha detto in qualche modo. Dice che dobbiamo riscrivere le nostre regole: sono
del tutto d’accordo.
Le
regole sono scritte da anni.
Abbiamo
il miglior esempio di assenza di democrazia nella Costituzione dell’Unione
Europea.
La
Commissione europea non viene eletta democraticamente, il Parlamento sì, ma non
la Commissione europea.
La
Commissione propone le leggi che possono o meno essere discusse. Pertanto, in
seno all’Europa, abbiamo un problema.
Sono
perciò d’accordo che occorra ridiscutere le regole.
IL TIRANNO
E LA MAGGIORANZA:
LIBERTÀ
E DEMOCRAZIA
NON
SONO SINONIMI.
Stradeonline.it
– Stefano Magni – (20mluglio 2019) – ci dice:
I
tragici eventi in Turchia ci servano, almeno, a rivedere alcune categorie
obsolete. Le
categorie in questione sono quelle di democrazia e libertà.
In
Turchia una parte dell’esercito (su ispirazione di chi, non lo sappiamo ancora)
ha tentato di prendere il potere con la forza.
Si è
trattato di un colpo di stato nel senso classico del termine, un tentativo di
instaurare un regime autocratico contro un governo democraticamente eletto.
Il
colpo di Stato è clamorosamente fallito.
Quel
che ne è seguito non è il ritorno alla “democrazia”, per come la conosciamo
noi, ma un bagno di sangue che non ha precedenti in un paese moderno.
La purga avviata dal presidente Recep Tayyip
Erdogan ha colpito arbitrariamente militari, magistrati, giornalisti,
insegnanti e presidi, a migliaia, senza processi né garanzie.
Peggio
ancora: la “folla”, come avveniva nei regimi totalitari del Novecento, ha avuto
mani libere per condurre esecuzioni sommarie, linciaggi e sequestri ai danni di
golpisti o presunti tali.
In
molti casi sono stati giovani militari di leva a finire denudati ed esposti al
pubblico ludibrio, picchiati, frustati, decapitati, ammassati nelle stalle come
bestie. Una violenza simile non ha nulla a che vedere con una democrazia che si
difende dalla tirannia. O no?
Il
problema è, prima di tutto, nel linguaggio.
Diamo troppo per scontato che democrazia e
libertà siano sinonimi.
Siamo
abituati, dall’esperienza anglosassone, a trovare la democrazia lì dove c’è la
libertà e la libertà protetta da governi democraticamente eletti.
Non è
sempre stato così.
Il
liberalismo nell’Europa continentale, ad esempio, come ci ricordava il politologo
Fareed Zakaria nel suo “Democrazia senza libertà”, è nato e cresciuto sotto regni
autoritari, in cui non era esercitato il suffragio universale.
La democrazia liberale europea è cosa recentissima, se
paragonata alla lunga storia del Vecchio Continente.
La
democrazia, allo stesso tempo, ha portato al potere regimi totalitari.
L’esempio
più eclatante è quello di Adolf Hitler, che ha vinto regolari elezioni nel
1933.
Non lo
dobbiamo dimenticare, se vogliamo capire il presente.
Libertà
e democrazia sono due concetti distinti. Il liberalismo è, essenzialmente, la
teoria e la prassi della riduzione del potere politico.
È un
limite posto allo Stato, per proteggere dal suo arbitrio i diritti fondamentali
di vita, libertà e proprietà di ogni suo cittadino.
La
democrazia è invece un metodo di selezione del governo, con il voto popolare
invece che con l’investitura autocratica (per mezzo della forza, della
tradizione o di un “diritto divino”).
La
democrazia è stata considerata per più di mezzo secolo come il miglior antidoto
al potere assoluto, proprio perché è un metodo non-violento di selezione delle
élite.
Ciò
non toglie che esista sempre il rischio che élite violente, con programmi
esplicitamente liberticidi, possano essere pacificamente scelte da una maggioranza.
La
storia dell’ultimo quindicennio è la dimostrazione che la peggior minaccia alla
libertà non sia più l’autocrazia, ma proprio la “democrazia liberticida”.
Gli
esempi già abbondano.
Era democratico Hugo Chavez? Sicuramente sì: è
stato eletto regolarmente nel 1998 e anche lui, nel 2002, ha dovuto sventare un
tentativo di golpe.
Era
liberale? Assolutamente no: gradualmente, seguendo passo dopo passo il suo
programma del Socialismo del XXI Secolo, ha trasformato il Venezuela in un
regime totalitario, dove ogni libertà è conculcata e le proprietà sono alla
mercé dello Stato-partito.
È democratico Vladimir Putin? Certamente lo è: è stato eletto tre
volte da ampie maggioranze di russi e ha anche rispettato la lettera della
legge che gli vietava un terzo mandato, alternandosi con Dimitri Medvedev.
Osservatori
internazionali mettono in dubbio la regolarità del processo democratico in
Russia, specialmente dopo il secondo mandato, nessuno però mette in dubbio che
Putin sia sostenuto da una sostanziale maggioranza di russi.
È liberale? Assolutamente no: in un quindicennio ha trasformato
un paese in transizione dal comunismo alla società aperta, quale era la Russia
di Eltsin, in una società chiusa, quasi totalitaria.
Nessun
diritto è più rispettato: né la libertà di religione, né quella di parola, né
la proprietà (che è alla mercé del Cremlino e dei suoi alleati), né la vita
stessa.
Erdogan,
in Turchia, è solo l’ultimo esempio di come il tiranno venga eletto e sostenuto
dalla maggioranza.
La sua
deriva non nasce da oggi, ma esisteva sin dalle premesse. È diventata esplicita
con lo scandalo Ergenekon, nel 2011, un antipasto delle purghe attuali di
militari, giudici e giornalisti in seguito a un tentativo di golpe (che allora
era solo presunto).
Poi
sono arrivati i momenti bui della repressione della contestazione a Gezi Park,
nel 2013.
Infine
sono giunti gli anni della repressione di curdi, sindacati e giornalisti. E
adesso l’orrore di un regime avviato sulla strada del totalitarismo è sotto gli
occhi di tutti.
Purtroppo
di fronte a queste democrazie illiberali, le istituzioni che rappresentano le
democrazie liberali dimostrano di non avere alcuna risposta pronta.
Nella
notte del golpe turco non hanno fatto altro che esprimere pareri tardivi.
John
Kerry e Barack Obama, a nome degli Usa, si sono limitati a parlare in difesa di
un “governo democraticamente eletto”, unico criterio di legittimità nel
linguaggio politico contemporaneo.
Ora, di fronte a un governo “democraticamente
eletto” che gronda violenza, non sanno ovviamente più cosa dire.
La
stessa difesa del governo “democraticamente eletto” è giunta dalla Nato per
bocca di Jens Stoltenberg e dell’Ue rappresentata da Federica Mogherini.
E
adesso, cosa dire di fronte ai suoi crimini?
Con
che faccia la Nato potrà contestare alla Russia di non essere uno Stato di
diritto e di minacciare la libertà in patria e all’estero?
Con che faccia e su che basi, l’Ue potrà
trattare la Turchia come un partner per risolvere la delicatissima questione
dei profughi siriani, dunque su una questione di diritti umani?
Persa
la bussola della libertà, della difesa liberale classica dei diritti
individuali, anche le democrazie occidentali appaiono disorientate.
E c’è
solo da sperare che la minaccia della democrazia illiberale non bussi anche
alla porta di casa nostra.
Democrazia e libertà individuale,
l’esempio
dei vaccini.
Altritaliani.net
- Nicola Guarino – (29 août 2021) – ci dice:
Nei
giorni scorsi si è assistito in TV ad un dibattito surreale svoltosi in un
reparto ospedaliero francese dove solo il 20% del personale medico e sanitario
si era vaccinato contro il coronavirus.
Al
primario del reparto che sosteneva la doverosità del vaccinarsi, auspicando
l’obbligo anche per i suoi sottoposti.
A lui
si opponevano medici ed infermieri sostenendo che il primario non fosse
democratico.
Ho
usato non a caso l’aggettivo surreale a commento del dibattito a cui si è
assistito. Perché?
È
semplice, chi dava dell’antidemocratico al già menzionato primario confondeva
due concetti che non sono necessariamente confluenti: democrazia e libertà
individuale.
La
scelta di non vaccinarsi, in assenza di obbligo da parte dello Stato, non
attiene alla democrazia, ma semmai alla libertà individuale dei cittadini.
La
confusione è certamente frutto di ignoranza e fa specie che tale ignoranza
provenga da persone diplomate, laureate e comunque scolarizzate.
Sono
evidenti i cattivi frutti di una scuola che negli anni è diventata sempre meno
seria e severa, e peraltro, c’è da chiedersi se una confusione di tal fatta
provenga da persone “istruite” cosa possiamo attenderci da chi questa
“istruzione” neanche ce l’ha?
Ma
questo è un altro tema, quello sull’istruzione e le scuole in Italia e in Europa,
concentriamoci piuttosto sul dibattito surreale di poc’anzi.
La
democrazia è un sistema di amministrazione e organizzazione del potere politico
nato e sviluppatosi nell’occidente in contrapposizione alle monarchie e che oggi si individua in due varianti, la più classica è la democrazia
liberale,
rappresentativa, presidenziale o parlamentare, dove, come ricorda ad esempio la
nostra Costituzione, il popolo è sovrano attraverso i parlamentari che esso
sceglie con voto a suffragio universale, i quali rappresentanti parlamentari
operano senza vincolo di mandato ma secondo la propria coscienza e per
convinzioni politiche.
L’altra, che fin qui non ha mai trovato
concreta attuazione, è oggi definita dalla dottrina:
democrazia
illiberale,
dove il popolo decide in modo prevalente attraverso strumenti decisionali
diretti e le
decisioni della maggioranza sono vincolanti anche per le minoranze.
Si
tratta di una forma di democrazia di diretta derivazione dal totalitarismo
collettivista figlia della cultura socialista.
Le
libertà individuali sono altre cose, attengono spesso al diritto naturale e
sono riconosciute dalle Costituzioni (democratiche) e regolamentate per legge
attraverso le istituzioni della politica.
Sottolineo
quel “regolamentate”, perché tutte le libertà in una società democratica o
meno, sono limitate in rapporto ai bisogni e alle necessità di una comunità
sociale, insomma di una società.
Ritenere prevalente su tutto la libertà
individuale non attiene alla democrazia ma semmai all’anarchia che è esattamente
il contrario della democrazia.
Il
diritto individuale è fondamentale ma deve essere temperato dai diritti e dagli
interessi degli altri come singoli e come corpo sociale.
Io non
posso mettermi a fare fuoco sparando sui passanti da un tetto solo perché amo
il tiro a segno. Chiaro?
Le
nostre democrazie liberali, forse in ragione della crisi delle ideologie e
anche per proprie colpe e carenze qualitative, sono diventate più deboli e
pertanto un tema fondamentale come la salute pubblica e la difesa della vita
dei membri delle società nazionali, come in Francia, in Italia o in altri
Stati, è diventato un tema lasciato alla discrezionalità delle singole volontà
dei cittadini.
Una
scelta sbagliata e anche irresponsabile da parte delle nostre politiche (parlo
delle società occidentali di modello democratico liberale). Sbagliata ed
irresponsabile.
In
tanto perché la responsabilità sulla salute dei cittadini spetta alla politica
e a proposito di questo si può ricordare che la nascita del Sistema Sanitario
Nazionale in Italia, fatta dall’allora ministro Tina Anselmi, fu appunto una
scelta democratica:
garantire
a tutti a prescindere dal proprio status economico, il diritto alle cure e
all’assistenza medica e sanitaria, era una cosa che fin lì non era stata
scontata.
Ecco
in quel caso la democrazia dimostrò la propria forza.
Viceversa,
lasciare ai cittadini la scelta di vaccinarsi o meno è un modo alla Pilato di
lavarsi le mani dalle proprie responsabilità politiche.
La
libertà individuale, per quanto importante sia, non può mai essere prevalente
sul diritto alla salute e spesso alla vita della gran parte dei cittadini.
Del resto i dati attuali sulla pandemia
parlano chiaro.
La
gran parte dei ricoverati e dei morti nelle ultime settimane si registrano tra
i non vaccinati i quali comunque danneggiano anche i vaccinati che spesso sono
costretti al confinamento perché divengono positivi a causa delle varianti che
seppure non letali per loro, che hanno una copertura vaccinale, determinano
fastidi, rinunce, problemi magari lievi ma persistenti di salute, e tutto
questo perché?
Perché
si deve dare prevalenza alla libertà individuale di una minoranza che con la
propria condotta mette a rischio l’intera comunità?
Occorrono
in uno stato di emergenza come questo, scelte decise e responsabili e queste
scelte spettano alla politica.
Come
cittadino credo che oltre al diritto del medico e dell’infermiere, contro ogni
ragione scientifica, di non vaccinarsi, esiste il diritto del paziente di non
farsi contagiare dal coronavirus, magari mentre è in ospedale.
Lo
stesso vale per tutti i settori della vita pubblica.
Lo
stesso vale per lo studente come il professore, per l’impiegato della posta
come per l’utente che va a pagare le bollette, per la commessa del negozio come
per il cliente che fa acquisti.
Per il tifoso che va alla partita come per il
bigliettaio del botteghino dello stadio, per l’operaio che non vuole farsi
contagiare dal collega no-vax.
E cosi al cinema, al teatro, nei musei e nelle
palestre.
Vaccinarsi
è un dovere non opinabile.
Si
tratta di un atto sociale che difende ogni individuo e tutta la comunità.
(Nicola Guarino).
"Libertà
e democrazia, a salvarle
sarà
uno Stato
forte ma
sotto
il controllo
della
società".
Ufficiostampa.provincia.in.it
– Ufficio stampa – (3 giugno 2021) – ci dice:
È uno
Stato forte, simile a quello a cui si è assistito in tempo di Covid19, e che
dunque impone la sua presenza per far fronte alle tre grandi difficoltà del
nostro tempo - lo strapotere tecnologico, le disuguaglianze sociali e la
pandemia -, quello che “Daron Acemoglu” auspica per il futuro.
Ma
perché lo Stato, tra regolamentazioni ai colossi del web e welfare, non si
trasformi – per dirlo con le categorie hobbesiane, tanto care al professore del
MIT - in un “Leviatano dispotico”, «a regolare e controllare il suo potere, ci dovrà sempre
essere una società altrettanto forte.
Solo
attraverso un equilibrato gioco di pesi e contrappesi avremo una buona
democrazia, che sostenga la libertà».
Non è
nuovo al tema di questo Festival dell’Economia 2021, “Il ritorno dello Stato”,
Daron Acemoglu, che fin dal 2006, in tempi non sospetti, ha analizzato la
necessità di porre limiti al mercato liberista attraverso la regolamentazione
pubblica, e che ora torna a riconfermare il bisogno di un equilibrio tra Stato
e società, a sostegno della libertà.
Per
farlo, si avvale di un’immagine chiave del suo nuovo libro, scritto in
collaborazione con James A. Robinson, “La strettoia” ("The Narrow Corridor",
2020), illustrando
quello che Hobbes avrebbe definito “Leviatano incatenato” come un corridoio.
«Entrare
e uscire da questo corridoio, passando da un “Leviatano dispotico”, quindi una forma
governativa simile alla Cina, a un “Leviatano assente” è frequente e semplice – chiarisce
il professore del MIT – quindi affinché vi si entri e vi si permanga, sono
necessarie le istituzioni.
Esse
infatti provvedono ad ampliare la strettoia.
Allo
stesso tempo, è però poi fondamentale, per la corretta riuscita della
democrazia, che vi sia un “sospetto” nei confronti del potere.
Non è nulla di nuovo, ci basti pensare alla
storia, a fenomeni come l’ostracismo ateniese».
Su un
piatto della bilancia, dunque, Acemoglu pone uno Stato che trovi la forza e
il coraggio di imporsi di fronte allo strapotere tecnologico (uno su tutti il problema di Google
e della gestione della privacy), convertendo l'intelligenza artificiale in un supporto,
e che parallelamente attivi sistemi di welfare efficaci, per ridurre le
disuguaglianze economiche fortemente accelerate dalla pandemia.
Sull’altro
piatto mette invece una società che non abbandoni il suo ruolo di “cane da
guardia”, di contrappeso al potere pubblico, in nome della democrazia e della
libertà:
«E per
libertà intendo una “mancanza di dominanza”, che si sviluppa necessariamente in
presenza di sicurezza e autonomia, lontana dalle disparità – conclude il
professore del MIT -. Si tratta di scelte critiche per il futuro: ciò che conta non sono gli impulsi
alla base dei fenomeni, ma i contesti in cui essi avvengono; ciò che conta è
come gestiamo questi impulsi, sono le scelte che operiamo».
La
risposta migliore per il futuro del mondo occidentale, in definitiva, per
Acemoglu sta nel perfetto equilibrio dei due piatti.
L'imminente
seconda
guerra
civile americana.
Unz.com
- BOYD D. CATHEY – (30 NOVEMBRE 2022) – ci dice:
Donald
Trump e il fallimento del conservatorismo.
Gran
parte del discorso di recente tra la "classe chiacchierona
conservatrice" è stato su come il "movimento" debba in qualche
modo "andare avanti" da Donald Trump (senza alienarsi eccessivamente
la sua base) e dare un'occhiata seria alle alternative, in particolare il
governatore Roni Desantis della Florida, con papabile minore e molto meno
distinto come l'incredibilmente ambiziosa Nikki Haley, Mike Pompeo, e persino
lo screditato buffone Chris Christie del New Jersey, al seguito.
Costruendo
l'annuncio del presidente Trump di un'altra corsa per la Casa Bianca il 15
novembre, e poi con un effetto crescendo in seguito, politici, consulenti,
membri del Congresso e i media di Murdoch (attraverso le sue voci il New York
Post e il WALL Street Journal, con raffiche meno stridenti su Fox News) hanno
fatto eco allo stesso mantra:
"Trump
non è l'uomo per il GOP nel 2024!"
E spettava al "partito" (leggi =
élite) selezionare qualcuno di più – come dovremmo dirlo? – più fluido e
gradevole, meno conflittuale, meno propenso a "sparare dall'anca" e
più adatto a portare quelle mamme di calcio senza cervello, riducendo al
contempo gli attacchi implacabili vomitati dai media tradizionali.
In altre parole, ciò di cui il Partito
Repubblicano aveva bisogno era una figura più gentile, più tranquilla, meglio
curata e educata che potesse essenzialmente riportarci a tempi più altisonanti.
In
sostanza, il GOP aveva bisogno di tornare al suo ruolo ormai tradizionale di
opposizione superficiale allo tsunami di sinistra, mentre, in effetti,
ostacolava solo leggermente gli inevitabili progressi della sinistra e la
cattura di tutte le nostre istituzioni sociali, culturali e politiche.
Gli
esempi di questa pusillanime posizione politica all'interno del GOP abbondano
abbondantemente, più recentemente nel voto sull'assurdamente chiamato “Reset
for Marriage Act “per sancire il matrimonio tra persone dello stesso sesso a
livello nazionale che richiede al governo federale di riconoscere un matrimonio
tra due persone se il matrimonio è valido nello stato in cui è stato celebrato
e garantendo che a tale matrimonio venga data piena fede e credito,
indipendentemente dal sesso, dalla razza, dall'etnia o dall'origine nazionale
della coppia.
In
vista dell'oltraggiosa e senza precedente decisione di Obergefell della Corte
Suprema degli Stati Uniti nel 2015, il Partito Repubblicano si sarebbe opposto
a una visione costituzionale così aberrante.
In
effetti, vari leader eletti del GOP hanno promesso che avrebbero fortemente
sostenuto la tradizionale visione morale dei loro elettori, l'opinione
schiacciante della maggioranza degli americani.
Trenta
stati avevano già adottato emendamenti costituzionali che definivano il
matrimonio come tra un uomo e una donna, incluso il mio stato d'origine, la
Carolina del Nord, nel 2012, dove il voto è stato del 61% contro il 39%.
Ma da
Obergefell, non appena un peep. Per lo più solo accettazione.
E in
effetti, nel recente voto, dodici senatori repubblicani hanno attraversato e
assicurato un facile passaggio, con camaleonti senza principi come il senatore
Thom Tillis (R-NC) che difende fermamente il suo voto dichiarando ingenuamente
che l'atto "mantiene lo status quo rispetto al matrimonio omosessuale che
è stato stabilito dalla Corte Suprema ..."
Il
matrimonio tra persone dello stesso sesso è solo uno di questi problemi;
Ci
sono innumerevoli altri in cui l'opposizione "conservatrice" ha
dimostrato di essere poco più di una tigre di carta, impegnata nel pugilato
ombra, mentre cede la strada libera a un radicalismo avanzante e
onnicomprensivo.
Istruzione
pubblica?
È stato rilevato, letteralmente, dalla
sinistra radicalmente "svegliata", come hanno fatto la maggior parte
dei college e delle università.
E la
reazione dei conservatori?
Lamentarsi
e lamentarsi, parlare e scrivere della follia che ha catturato il mondo
accademico e i nostri figli.
E la
soluzione?
Oltre
a rimanere immobili come accecati dai fari, magari butta più soldi al problema!
Qui in North Carolina, dove l'Assemblea Generale è dominata dai repubblicani,
basta nominare alcuni altri compari politici / finanziari nel consiglio dei
governatori per il sistema universitario che ... non fare nulla!
Dove
sono gli impavidi repubblicani per alzarsi finalmente e affermare l'ovvio: che
il nostro sistema di istruzione pubblica ha fallito miseramente, e che le
scuole (impianti fisici) devono essere vendute a consorzi di genitori e
organizzazioni private, con i soldi delle tasse appropriati che vanno
direttamente ai genitori che devono avere la scelta completa della scuola?
Un
tale programma richiederebbe, certamente, tempo per essere implementato, ma
qualcuno può pensare a un modo migliore per fermare la distruzione
dell'istruzione pubblica?
Dove
sono le voci conservatrici/repubblicane che sostengono una riforma radicale?
Ancora una volta, per lo più silenzio.
Immigrazione
clandestina?
I repubblicani promettono di fare qualcosa,
forse anche mettendo sotto accusa il segretario alla sicurezza interna di
Biden, Alejandro Mayorkas, per il suo approccio assolutamente disastroso alla
"porta aperta" e il suo sostegno di fatto ai confini americani
porosi.
Ma qualcuno pensa che Kevin McCarthy e i
repubblicani del Congresso andranno davvero fino in fondo con questa minaccia?
Dopotutto,
questo è lo stesso partito che ha disperatamente tentato di trovare un
compromesso con i democratici radicali sulla cittadinanza
"sognatrice".
Qualcuno crede seriamente che i
"conservatori", una volta al potere, inizieranno davvero a espellere
gli stranieri illegali ora situati qui negli Stati Uniti?
Oh,
sì, i governatori Desantis e Gregg Abbott hanno messo in scena alcuni
trasferimenti altamente pubblicizzati di alcuni clandestini in luoghi come
Martha's Vineyard, che erano, ovviamente, esperimenti di simbolismo.
Ma
dov'è la ferma promessa di rimuovere quei diversi milioni che sono arrivati da
quando Donald Trump ha lasciato l'incarico?
Il
silenzio è assordante.
L'elenco
delle promesse conservatrici, seguito poi dal collasso conservatore e dalla
piena accettazione di quelle stesse posizioni una volta così fortemente
denunciate, è spaventoso.
Di
quali altre prove abbiamo bisogno per confermare il verdetto, emesso quasi 150
anni fa, dal grande scrittore meridionale Robert Lewis Dabney sul partito
"conservatore":
"Questo
è un partito che non conserva mai nulla.
La sua
storia è stata quella di esitare ad ogni aggressione del partito progressista e
mira a salvare il suo credito con una quantità rispettabile di ringhio, ma alla
fine acconsente sempre all'innovazione.
Quella che era la novità di ieri è oggi uno
dei principi accettati del conservatorismo;
Ora è
conservatore solo nell'influenzare per resistere alla prossima innovazione, che
domani sarà imposta alla sua timidezza, e sarà seguita da qualche terza
rivoluzione, da denunciare e poi adottare a sua volta.
"Il
conservatorismo americano è semplicemente l'ombra che segue il radicalismo
mentre avanza verso la perdizione.
Rimane
dietro di esso, ma non lo ritarda mai, e avanza sempre vicino al suo leader.
Questo finto sale ha completamente perso il suo sapore: con che cosa sarà salato?
La sua impotenza non è difficile, anzi, da spiegare.
È inutile perché è solo il conservatorismo della
convenienza, e non di un principio solido.
Non
intende rischiare nulla di grave, per amore della verità, e non ha idea di
essere colpevole della follia del martirio.
Quando
sta per entrare in una protesta, informa sempre molto blandamente la bestia
selvaggia il cui percorso cerca di fermarsi, che il suo "abbaio è peggiore
del suo morso" e che significa solo salvare le sue buone maniere mettendo
in atto il suo decente ruolo di resistenza.
"L'unico
scopo pratico che ora serve nella politica americana è quello di dare
abbastanza esercizio al radicalismo per tenerlo 'al vento, e per impedire che
diventi pursy e pigro non avendo nulla da frustare..."
Il che
mi riporta a Donald Trump e al 2024.
Ho un
amico che conosce abbastanza bene la politica del GOP. Sebbene abbia sostenuto
Trump nel 2016, come alcuni repubblicani dell'establishment è assolutamente
contrario a un'altra campagna di Trump.
Quando l'ho interrogato, ha risposto con le
solite lamentele:
"Trump
è una bomba a orologeria ambulante". "Spara dal fianco e dice cose
pazzesche".
"I
suoi manierismi e il suo linguaggio non attireranno gli 'indipendenti' e gli
elettori suburbani".
Poi,
l'impiegato del mio amico: "I candidati sostenuti da Trump hanno perso
alla grande nel 2022 e porterà il GOP alla sconfitta nel 2024".
Eppure,
come ha ammesso Bloomberg il 15 novembre 2022:
"Il
record dei candidati sostenuti da Trump che erano sulla scheda elettorale
martedì scorso era di 236-38, con otto gare ancora da decidere..." Non è
affatto un brutto record per una bomba a orologeria ambulante!
E più
recentemente, naturalmente, il pasto con Ye e il controverso attivista Nick
Fuentes, su cui i media, compresi i cosiddetti media conservatori, si sono
affrettati a saltare.
Ecco la "pistola fumante" (per
parafrasare il residuo bushita Karl Rove) che avrebbe "affondato"
Trump.
Eppure
pochi hanno proceduto a spacchettare i fatti del caso, che come anche NBC News
ha ammesso, Trump era stato in un certo senso organizzato e non si rendeva
conto che Ye stava portando con sé Fuentes, di cui Trump non aveva alcuna
conoscenza reale.
Come ha scritto il giornalista March Caputo:
"
Trump stava camminando in quella che potrebbe essere stata una trappola nelle
sale dorate di Mar-a-Lago.
Da
allora Trump ha detto che non conosceva Fuentes o il suo background quando
hanno cenato insieme, un'affermazione che Fuentes ha confermato in un'intervista.
Un
consigliere di lunga data di Trump, che non ha voluto criticare il suo
candidato preferito, ha detto che era chiaro che la presenza di Fuentes faceva
parte di una configurazione da prima pagina.
'Il maestro troll è stato trollato'..."
Senza
esitazione le élite repubblicane, da Mitch McConnell e l'odioso Mitt Romney a
Mike Pence, sono saltate su e giù e hanno denunciato Trump, per nome o
implicitamente.
Il mio
amico ha fatto lo stesso, come se questa fosse una sorta di bacio della morte.
Eppure,
ho ricordato al mio amico che gli stessi tipi di situazioni abbondavano nelle
primarie repubblicane e nelle elezioni generali del 2016.
Chi
non ricorda la famigerata storia di "Access Hollywood" con Billy Bush (7
ottobre 2016), che avrebbe dovuto affondare la candidatura di Trump?
Oppure,
che dire di Donald che afferma che "migliaia di musulmani hanno celebrato
l'11/9" sui tetti del fiume Hudson nel New Jersey nel 2001.
I
rapporti finalmente resi pubblici nel dicembre 2015 hanno confermato la posizione
di Trump: "Solo un paio di isolati di distanza da quell'appartamento di
Jersey City che l'FBI ha fatto irruzione ieri ... C'è un altro condominio,
brulicava di sospetti - sospetti che... stavano applaudendo sul tetto quando
hanno visto gli aerei sbattere contro il Trade Center".
Oh,
sì, e gli epiteti e i soprannomi che Trump ha applicato ai suoi avversari
repubblicani – ricordate "piccolo Marco", "Ted bugiardo",
"Jeb assonnato" – ognuno di questi doveva essere una ferita da
pugnale autoinflitta che avrebbe dovuto o avrebbe posto fine allo slancio di
Trump.
Poi
c'erano i plutocrati neoconservatori condiscendenti della National Review e dei
think tank DC, gli ex Never Trumpers bushiti, i pietosi epigoni di Bill
Kristol, George Will, Max Boot e altri.
Ve li
ricordate? Non sono mai andati via.
Alcuni
di quelli meno di principio, ad esempio una Nikki Haley – una volta fermamente
anti-Trump, poi accomodandosi a lui e tubando nel suo orecchio, e ora ancora
una volta fermamente in piedi contro il suo "vetriolo", sono tornati
ai loro banchi di lavoro escogitando piani su come fermarlo.
Ora
queste termiti escono ancora una volta, impiegando le stesse tattiche e la
stessa invettiva, in cui i media di sinistra tradizionali sono più che
desiderosi di unirsi e fare il tifo.
L'ultimo
"ragazzo d'oro" ad apparire sulla scena è il governatore Ron Desantis,
e già i tamburi di guerra della campagna stanno battendo in suo favore.
Il mio
amico Dr. Brion McClanahan dell'Abbeville Institute mette giustamente in
guardia (28 novembre 2022) dal saltare su un carro di Desantis. Come scrive:
"Desantis
sarebbe qualcosa di completamente diverso, e quando la National Review inizia a
sostenere il caso, devi essere preoccupato.
Vedete,
quando persone come Jack Geraghty pensano che un presidente Ron sia una buona
idea, questo può significare solo una cosa.
Bomba,
bomba, bomba, bomba, bomba Iran. Desantis è un grande governatore,
probabilmente il migliore negli Stati Uniti al momento.
Ma a
Geraghty piace perché sarebbe più simile a George W. Bush che a Donald Trump.
Come
ho detto al mio amico ci sono alcuni aspetti preoccupanti di Desantis che
devono essere trasmessi.
Si
consideri il titolo di Geraghty (il suo articolo è apparso sul Washington
Post): "Desantis aprirebbe la strada a un ritorno alla normalità del GOP
post-Trump".
Siamo
autorizzati a mettere in discussione la sua definizione di "normale"?
Non è
un ritorno alle vecchie, defecate, totalmente fallimentari politiche e
filosofie che hanno solo confermato l'acuta comprensione di Robert L. Dabney
del "conservatorismo" americano quasi 150 anni fa?
Geraghty
elogia Desantis come un politico "non minaccioso", che farebbe
sentire meglio i "moderati" e gli indipendenti, "non temendo che
brucerebbe il paese in un impeto di rabbia perché pensa che qualcuno non sia
stato giusto con lui".
Ma
questo era il punto originale di Trump, e uno che ho sottolineato fortemente in
un precedente saggio che ho scritto il 4 novembre, "Donald Trump porterà alla fine
della storia?"
Non
abbiamo affatto bisogno di un "ritorno alla normalità", cioè di un
ritorno alla cultura politica non più praticabile che esisteva prima di Trump.
un
sistema che è diventato veramente nocivo e velenoso per qualsiasi devoto delle
vecchie tradizioni americane, un sistema ora che consente e promuove solo
un'agenda di sinistra completa e feculenta in ogni aspetto della nostra vita.
Che se
ne sia reso conto o meno (e ci sono prove sostanziali che non l'ha fatto), nel
2016 Donald Trump è corso non solo a rivedere il nostro sistema moralmente
decrepito e viralmente pericoloso, ma a sostituirlo, essenzialmente tornando ai
pozzi del nostro passato, scartando la farsa che è la moderna "democrazia
liberale" e restituendo effettivamente potere e autorità a una
cittadinanza che è stata progressivamente castrata per volere del conglomerato
Behemoth del grande governo.
La dittatura delle grandi corporazioni/big
tech, essa stessa parte di un massiccio reset globalista.
Che ha
fallito in molti aspetti – nomine terribili e consiglieri orribili, la
convinzione che in qualche modo dovesse placare l'establishment del GOP, una
mancanza di acume politico – eppure ha spaventato il be-jesus fuori dalle
élite, dallo Stato Profondo, dai controllori progressisti dominanti su cose
come l'istruzione, l'immigrazione e una politica estera globalista asinina.
Questo era – ed è – qualcosa che un Ron Desantis
non è più propenso a fare, né, se è per questo, nessuno degli aspiranti pigmei
come Haley o Christie.
Il
verdetto finale potrebbe essere emesso su Desantis, ma sappiamo che una
presidenza Trump nel 2024 porterebbe i nostri nemici nelle strade ancora più
freneticamente e violentemente che mai.
E
quell'evento avrebbe comportato la completa scomparsa dei loro veli oscurando
il loro osceno odio per quelli che il defunto Sam Francis chiamava
"americani medi", alias americani MAGA.
Come
ho scritto il 4 novembre, portare tutte le varie questioni a una testa forse
violenta potrebbe finalmente essere, tragicamente, il modo migliore (e unico)
per annullare le scorie contagiose e fatali che hanno trasformato la nazione
americana in un vero e proprio pozzo nero di malvagità empia e turpitudine morale,
sia in patria che nei suoi rapporti all'estero.
Potrebbe
costringere i cittadini americani a fare finalmente qualcosa, prendere
posizione, armarsi, proteggere le loro comunità da disordini sfrenati, violenza
e decadenza.
Le comunità, forse gli Stati, sarebbero
costrette ad agire.
E nel processo forse gli americani
scoprirebbero un'America più vecchia, con la sua vecchia Costituzione, i suoi
diritti e doveri radicati e protetti derivati da Dio, la sua difesa delle
libertà garantiteci dai Padri Costituenti.
Ho
utilizzato il caso della guerra civile spagnola, 1936-1939, in precedenza.
Certamente, nessuno desidera una vera e propria guerra civile.
Ma gli
spagnoli hanno imparato ottantacinque anni fa che alcune cose – la fede
religiosa, l'eredità e la tradizione, i diritti garantitici dalla legge
naturale e divina – sono più preziose del "ritorno alla normalità"
ingannevolmente attraente ma fatale di Jack Geraghty.
Quindi,
ripeto: portatelo avanti, prima quando ci può ancora essere una possibilità di
successo, non dopo.
Ripensare
il concetto di
libertà
e democrazia.
Lanuovabq.it
– Stefano Fontana – (31-03-2020) – ci dice:
La
difesa della salute non può essere barattata con la perdita della libertà. Ma
allo stesso tempo non possiamo dimenticare che una malintesa democrazia in
questi anni ha distrutto la famiglia e demolito il principio del diritto alla
vita.
La
sfida è respingere l’autoritarismo ma senza tornare alla falsa democrazia e
falsa libertà.
La
difesa della salute non può essere scambiata con la perdita della libertà. La
Nuova Bussola ha più volte difeso questo principio, chiarendo però anche che
ciò non significa semplicemente tornare al concetto di libertà e di democrazia
che si aveva prima della crisi da coronavirus.
Il ripensamento indotto dall’epidemia in corso
deve riguardare anche le modalità con cui nel nostro Paese venivano esercitate
le libertà civili e politiche e il sistema democratico che le contemplava.
Il
pugno forte a tutela della salute può nascondere pericoli totalitari, ma nello
stesso tempo la paura del pugno forte può portare a celebrare una libertà
indegna di celebrazione.
La
democrazia moderna è per sua natura frammentante e divisiva perché è
individualista.
Essa
può anche distruggere una nazione e indebolire fortemente il senso di
appartenenza ad un popolo e il perseguimento del bene comune.
La
democrazia numerica ha un forte effetto dissacrante, perché sottopone ogni
valore e principio al conteggio quantitativo delle opinioni.
Essa
moltiplica all’infinito i percorsi individuali, dovendoli contemplare tutti
anche per legge, e quindi si riduce ad essere il notaio dei desideri.
Nella
sovranità popolare si nasconde il principio del sovrano assoluto, incarnato ora
nei molti anziché in uno solo.
Anche ammesso questo principio, il
riconoscimento della volontà popolare tramite la rappresentanza è pressoché
impossibile a realizzarsi, e le elezioni politiche sono influenzate da mille
altri fattori, compresa l’influenza di poteri non democratici.
Quando
una nazione deve affrontare un pericolo come quello che stiamo vivendo, può
trovarsi indebolita proprio a causa della libertà e della democrazia.
E se
questo non avviene è perché, fortunatamente e per altre strade, si è riusciti a
conservare un patrimonio di valori nonostante il relativismo della democrazia
moderna.
Le
democrazie sono conflittuali al proprio interno.
I
governi sono guidati nelle loro politiche non solo dai contenuti in gioco ma
anche dal timore di perdere elettorato o di danneggiarsi politicamente rispetto
ai concorrenti.
Le
decisioni necessarie possono quindi essere prese in ritardo, oppure a rilento.
Davanti a pericoli come questo che stiamo vivendo servono decisioni immediate e
chiare, che per i sistemi democratici sono molto problematiche.
Qualcuno,
anche dall’estero, ha rimproverato il governo italiano di non aver agito con
decisione all’inizio di questa storia e di aver dimostrato forti difetti di
comunicazione.
Forse
hanno pesato anche condizionamenti come quelli ora ricordati.
Anche
nello “scontro” governo / regioni si può constatare una difficoltà tipicamente
democratica ad agire di comune accordo.
Può
essere un bene se le regioni sopperisce alle indecisioni del governo, ma anche
un male se complica gli interventi articolandoli diversamente nei territori.
È
giusto lamentarsi per la quarantena del nostro Parlamento.
Oltre
ad essere una ingiustizia rispetto a tanti italiani che non possono ritirarsi
nel loro orticello protetto e che sono in prima linea, la chiusura del
Parlamento simboleggia negativamente la sospensione della democrazia.
Il Parlamento va riaperto.
Ma
questo può farci dimenticare i grandi difetti del nostro parlamentarismo?
Che
molti gruppi interi di parlamentari si sono ricollocati diversamente dopo le
elezioni?
Che
l’attuale governo è frutto di una operazione di palazzo che ha riportato nella
stanza dei bottoni coloro che avevano perso alle politiche?
Che
ciò rappresenta nel frangente una oggettiva debolezza?
Oggi ci ritroviamo come ministro della sanità
uno di questi perdenti ripescati. Allora lamentarsi per la chiusura del
Parlamento non può significare semplicemente tornare alla situazione di prima.
Né ci
salverà, come è stato detto, lo “spirito costituzionale e repubblicano”, perché
è proprio questo spirito ad aver animato gli aspetti più discutibili della
nostra libertà democratica.
La
nostra democrazia, con le sue leggi disastrose, negli ultimi cinque anni ha
distrutto la famiglia italiana e ha demolito il principio del diritto alla vita.
Quella
stessa democrazia si ritiene ora perfettamente in grado di difendere la vita
dal coronavirus e di puntare sullo “stare a casa”, ossia in famiglia.
Ma ha
la fedina penale pulita per chiedere questo?
Tutti
noi sappiamo che se ci sarà recessione economica e disoccupazione – e ci
saranno!
–
toccherà alla famiglia farsene carico, quella famiglia che però è stata
colpita, sfruttata, distrutta, vituperata dalle leggi Cirinnà e dalle sentenze
della Corte costituzionale, proprio in base allo “spirito democratico e
repubblicano”.
E
anche durante l’emergenza in corso, arrivano notizie che gli aborti non sono
sospesi e tutto continua come prima.
I
democratici che cantano “bella ciao!” davanti alla presente difficoltà e
chiamano alla raccolta contro il nuovo nemico della vita, sono gli stessi che non
ammetterebbero nessuna restrizione alla piaga dell’aborto, nemmeno per fare
spazio ai reparti di terapia intensiva.
Nelle
situazioni di emergenza la democrazia e la libertà sono in pericolo.
Ma le
situazioni di emergenza dipendono anche dalla democrazia e dalla libertà
falsamente intese e peggio usate.
Quando
ci opponiamo alle derive autoritarie, cerchiamo di non tornare – come fosse una
salvezza – alla falsa libertà e alla falsa democrazia.
IL
REALISMO AMORALE
DELLE
NOSTRE DEMOCRAZIE.
Libertaegiustizia.it
- NADIA URBINATI – (21 APRILE 2021) – ci dice:
Una
delle differenze tra chi amministra organismi non politici e chi governa un
paese democratico è la forma della comunicazione, una differenza che dipende da
un’altra: la natura del committente.
Draghi
presidente della Banca centrale europea e Draghi presidente del Consiglio
italiano presumono “pubblici” diversi che richiedono forme diverse di
comunicazione.
A chi
rende conto il primo Draghi e a chi rende conto il secondo Draghi, la
differenza è tutta qui.
Lo
stile e la forma della comunicazione seguono a ruota.
Il
secondo Draghi, quello che vediamo nelle conferenze stampa, deve informare la
cittadinanza tutta e rispondere a domande (a volte interessanti) che non sono
sempre e solo tecniche.
Quella che offre non è un’informazione
asettica, ma una che si presta a essere interpretata secondo sia criteri
tecnici (riferimento ai dati e agli esperti), sia giudizi di valore
(riferimento alle opinioni e alle valutazioni morali o politiche).
Nell’ultima
conferenza stampa, Draghi ha abbondato nei giudizi di valore.
Il
terreno scivoloso.
Nel
campo genericamente detto politico, in parte tecnico in parte discorsivo, può
succedere che la comunicazione trascini l’attore su un terreno scivoloso,
condito di espressioni e concetti accattivanti perché attento all’eco che avrà
nell’audience.
Stefano
Feltri ha per questo paragonato la retorica di Draghi nell’ultima conferenza
stampa a quella di un influencer.
Draghi
come Chiara Ferragni.
Ma
meno bravo di Chiara Ferragni, certamente perché meno esperto di lei nelle
dinamiche dei social.
E così
ha fatto due scivoloni che rivelano quanto sottile sia la linea che separa il
tecnico dal populista nella democrazia del pubblico.
Il
primo scivolone (da rottura dell’osso del collo) è stato quello della
colpevolizzazione dei furbi del vaccino: lo psicologo 35enne e coloro che,
sotto i sessant’ anni, “saltano la fila”.
La
reprimenda paternalistica di Draghi ha tradito una stupefacente disattenzione a
come funziona il sistema di vaccinazione, che il suo governo regola e monitora.
Non si
può saltare la fila, infatti, a meno di non violare le regole o per
raccomandazione o per amicizia o per nepotismo. Diversamente, sono i sistemi di
classificazione dei vaccinanti – per gruppi sociali, professionali e per età –
a stabilire chi si vaccina e quando.
L’appello
alla “coscienza” è fuori luogo in entrambi i casi: nel primo, perché lì si
tratta di violazione di una norma; nel secondo, perché in quel caso si è dentro
la norma.
Dal che si evince che a essere oggetto di
reprimenda non devono essere i non sessantenni che si vaccinano, ma chi prevede
che questo possa succedere.
L’Italia
ha molti decessi perché chi la governa ha predisposto pessime regole. Draghi,
insomma, dovrebbe volgere il suo giudizio critico verso le strategie e le
regole che il suo governo e quello delle regioni (che lui stesso ha giustamente
ricordato essere parte del governo) hanno adottato.
Gli
errori, le cattive decisioni, le confusioni, le ingiustizie sono di chi fa le
regole, non di chi le usa.
Non
scomodi dunque la coscienza di chi si vaccina potendolo.
Draghi
faccia un esame critico alle decisioni del suo governo e della filiera che da
esse si dirama: sembra infatti che questo stia facendo, a giudicare dalle
recentissime decisioni di metter in sicurezza vulnerabili e anziani.
Il
secondo scivolone riguarda l’infelicissima affermazione sulla necessità che i
buoni (i paesi democratici europei) hanno di far affari con i cattivi (i
«dittatori» come Recep Tayyip Erdogan).
Dice
Draghi che non possiamo fare diversamente se vogliamo difendere il nostro
interesse nazionale e continentale.
Lasciamo stare qui la disquisizione su quale
sia la forma di governo che meglio si addice alla Turchia, benché la scienza
politica avrebbe dubbi nell’etichettarla come “dittatura”.
Quel
che preme mettere in luce è altro: il realismo amorale sul quale si regge il
senso dell’interesse nazionale e continentale delle nostre democrazie.
Per le
quali risulta assai conveniente essere circondate da regimi illiberali se
vogliono intrattenere con loro questo tipo di affari: retribuirli affinché
tengano i migranti fuori dalle nostre frontiere.
Se
Libia e Turchia fossero democrazie liberali questo nostro “interesse nazionale”
o continentale non potrebbe essere perseguito per queste vie.
È
quindi nell’interesse nostro che la Turchia o la Libia siano e restino
“dittature”, poiché ciò le rende efficaci nella negazione dei diritti umani e
quindi competenti a fare quel business che se fossero democrazie non potrebbero
fare.
E dichiarandole “dittature” mettiamo la nostra
coscienza in pace con sé stessa.
Loro
sono il male, non noi.
Ucraina:
questa guerra
interroga
ciascuno di noi.
Forum.it
– Editoriale - Carlo Mochi Sismondi – (4 Marzo 2022) – ci dice:
Viviamo
giorni di angoscia per quello che sta accadendo in Ucraina: immagini di guerra
che non avremmo mai voluto vedere e che, oltre alla solidarietà con i popoli
direttamente coinvolti nel conflitto, stimolano anche tante riflessioni su
quale potrebbe essere il ruolo di ciascuno di noi nel difendere la libertà e la
democrazia.
Quale
il ruolo delle istituzioni e delle pubbliche amministrazioni?
Quale
il ruolo dei cittadini, delle imprese, delle organizzazioni della società
civile?
Perché
la democrazia non è né una parola astratta, né una conquista fatta una volta
per tutte: è piuttosto una pianta che va coltivata ogni giorno.
La guerra
d’aggressione in Ucraina interroga ciascuno di noi.
Non
solo perché non ci fa dormire, perché ci ha ripiombato nell’ansia che pensavamo
di aver lasciato da poco alle spalle, ma anche perché ciascuno di noi si pone
la storica domanda “Che fare?”.
Al di
là delle scelte individuali, di cui ciascuno è responsabile, nella mia
posizione mi interrogo anche su cosa possa fare FPA, la società che presiedo, e
quindi, strettamente legata a questa domanda, cosa possano fare, più di quello
che già fanno, le amministrazioni pubbliche.
Non solo le nostre forze di Difesa, ma proprio
ogni Ministero, ogni Regione, ogni Comune, ogni ente pubblico.
Provo
a rispondere a questa seconda domanda per arrivare poi al nostro ruolo e al
nostro impegno.
Io
credo che, pur nella giungla mediatica in cui siamo immersi, qualcosa emerga
chiaramente.
Per
raccontare quel che voglio dire, prendo in prestito le parole dell’amica Linda
Laura Sabbadini ieri su “La Repubblica”.
Linda Laura dice che “Il popolo ucraino con la
sua resistenza coraggiosa al soverchiante esercito invasore ha risvegliato il
mondo sonnecchiante che aveva perso l’emozione per la libertà e la democrazia”.
Condivido
in pieno.
Ma le
amministrazioni pubbliche che c’entrano?
C’entrano molto perché la democrazia non è né
una parola astratta, né una conquista fatta una volta per tutte: è piuttosto
una pianta che va coltivata e le nostre amministrazioni ne sono i
“giardinieri”, perché sono le porte d’ingresso nella nostra casa repubblicana.
Essere
accolti da queste come azionisti o essere maltrattati come clienti trascurati
non è un accessorio, ma distingue una società sana e rispettosa dei diritti da
una società autoritaria in cui ciascuno, in fondo, è suddito.
Questa
posizione di responsabilità implica due aspetti correlati, ma distinti.
Il
primo riguarda la trasparenza, intesa come abitudine a superare l’asimmetria
informativa che troppo spesso divide i decisori da chi è oggetto di queste
decisioni.
L’esempio
più importante, ma non certo unico, di questo impegno è il cosiddetto
“dibattito pubblico”, ossia la condivisione con le popolazioni delle scelte
infrastrutturali che le riguardano.
Do
atto al Ministro Enrico Giovannini di aver ripreso con grande energia e
sensibilità questo tema, troppo spesso trascurato per una malintesa fretta, che
implica poi però cantieri bloccati, perché le persone che non sono coinvolte
difficilmente, e per fortuna, approvano in silenzio quello che viene fatto nel
loro cortile.
C’è
però molto ancora da fare.
Non
c’è democrazia senza un’informazione completa, libera e corretta.
In
questi giorni si parla tanto della nostra dipendenza energetica dalla Russia e
della necessità di diversificare: mi permetto di ricordare che un’informazione
tardiva e non esauriente, un mancato dibattito pubblico, assieme all’interesse
di bottega di qualche politico locale, ci ha impedito non discussi e
discutibili interventi di trivellazione, ma anche innocui ed ecocompatibili de-gassificatori.
Ora ci sarebbero stati molto utili.
Il
dibattito pubblico diviene anche una palestra di partecipazione e di mediazione
tra interessi diversi, a volte contrapposti, che devono trovare una
composizione nell’interesse generale.
È
proprio l’antidoto che serve contro il veleno della guerra.
Non
c’è bisogno di sottolineare, infatti, perché è sotto gli occhi di tutti, che le
guerre impongono sempre l’asimmetria informativa e una comunicazione scorretta.
In questo momento, almeno dove e quando
possiamo, diveniamo apostoli di verità.
Questo
impegno non fermerà ora i tank, ma terrà lontana la nostra società da avventure
da cui nessuno, ma proprio nessuno, può sentirsi vaccinato per sempre.
La
seconda e altrettanto importante responsabilità riguarda il tema della
collaborazione e della partecipazione, che sono le caratteristiche che rendono
viva una democrazia.
In
questo momento siamo alle prese con una ripresa che sta decollando, e che
questa guerra rischia di impallinare nel take-off, ma è una ripresa nata
intorno ad un Piano, come il PNRR, che se ha visto una scarsissima
partecipazione nella sua progettazione, non si realizzerà mai se non diventa
azione collettiva.
Tante volte abbiamo scritto che le
amministrazioni devono essere aperte e porose, che devono vedere il confronto
con tutte le componenti di una società complessa e multiforme non come un
pericolo, ma come una risorsa.
Vedere
con angoscia cosa succede quando la partecipazione è assente e vige la
costrizione non può che essere uno stimolo forte all’apertura.
Serve
quindi una PA capace di collaborare con il Terzo Settore e le organizzazioni di
cittadinanza attiva, imparando a confrontarsi con i destinatari degli
interventi, per acquisirne conoscenze e preferenze, dando loro l’effettivo
potere di orientare le scelte, tutte le scelte, ed essere parte della loro
realizzazione.
Quando
vediamo bimbi nel buio, corpi squarciati, edifici in fiamme l’incitamento ad
una PA aperta e democratica sembra un pannicello caldo, ma non è così.
Dove la casa comune è casa di tutti, dove si
ricostruiscono le condizioni per la fiducia, dove chi è al comando è al
servizio e non padrone della popolazione, lì stiamo provando nei fatti che è
ancora possibile l’emozione per la libertà e la democrazia che citava Linda
Laura Sabbadini.
E
vengo a noi e al nostro impegno, ora rafforzato, a essere cinghia di
trasmissione tra amministrazioni, tra queste e le diverse forze vitali delle
comunità territoriali, tra portatori di interessi diversi in cerca di una
continua e indispensabile mediazione.
Lo facciamo
da oltre trent’anni, da quando nell’autunno del 1989 cominciammo a pensare ad
un’amministrazione che si aprisse all’innovazione e ai cittadini.
Ma ora questo impegno ad una governance
condivisa del bene comune e alla condivisione nel creare valore pubblico assume
un valore anche maggiore.
L’impegno
quotidiano di tutta la nostra squadra, il prossimo FORUM PA 2022, ma anche
tutto il percorso di avvicinamento a questa manifestazione deve essere visto in
questa ottica: aprire alla trasparenza, alla collaborazione alla
partecipazione.
Perché
le amministrazioni e tutto l’ecosistema che le accompagna nella ricerca di un
continuo miglioramento, garantendo i diritti costituzionali divengano testimoni
di libertà e di democrazia.
Il
rimedio di Putin: un'Ucraina
frammentata
e sdentata
separata
da una terra di
nessuno
larga 100 chilometri.
Unz.com
- MIKE WHITNEY – (29 NOVEMBRE 2022) – ci dice:
“Sembra
probabile che la Russia imporrà una soluzione.
Se, come previsto, diventa chiaro che
l'Occidente non può o non vuole negoziare, sarà necessario che la Russia attui
una soluzione massimalista.
Oppure,
in alternativa, la Russia “contratta” dimostrando di poter creare una zona
morta nell'Ucraina occidentale grande quanto vuole.
Se l'Ucraina e i suoi assistenti statunitensi
non torneranno in sé, quella zona morta sarà terribilmente grande".
Yves Smith, Capitalismo nudo.
Come
va a finire?
Come
fa la Russia a creare un'Ucraina “neutrale” che non sia armata fino ai denti
dai nemici di Mosca?
Come
impediscono a Kiev di condurre esercitazioni militari congiunte con la NATO o
di posizionare siti missilistici al confine con la Russia?
Come impediscono all'esercito ucraino di
bombardare russi etnici nell'est o di addestrare paramilitari di estrema destra
per uccidere quanti più russi possibile?
In che modo Putin trasforma l'Ucraina in un
buon vicino che non rappresenta una minaccia per la sicurezza e che non
alimenta l'odio e il fanatismo antirussi?
E,
infine, come si risolve pacificamente il conflitto se una parte si rifiuta di
negoziare con l'altra?
Dai
un'occhiata a questa clip da un articolo su “Mint News”:
"Il
presidente ucraino Volodymyr Zelensky martedì ha firmato un decreto che
annuncia formalmente la prospettiva "impossibile" di negoziati di
pace tra l'Ucraina e il presidente russo Vladimir Putin...
“Lui (Putin) non sa cosa siano la
dignità e l'onestà. Pertanto, siamo pronti per il dialogo con la Russia, ma con
un altro presidente della Russia", ha detto venerdì Zelensky. (Notizie di menta).
Il
fatto che Zelensky non negozierà con Putin non significa che non ci sarà alcun
accordo.
Significa
solo che Zelenskyj non avrà voce nel risultato.
Essendo
il paese più potente, è sempre stato nella capacità della Russia di imporre un
accordo che raggiunga i suoi obiettivi fondamentali di sicurezza nazionale, ed
è esattamente ciò che farà Putin.
L'accordo non sarà ideale né porrà fine alle
ostilità, ma fornirà uno strato di protezione dai nemici della Russia che è il
massimo che si possa sperare date le circostanze.
Purtroppo,
l'accordo porrà fine anche all'esistenza dell'Ucraina come stato vitale e
contiguo.
E - dopo che la Russia avrà terminato la sua
operazione militare speciale - l'Ucraina dovrà affrontare un triste futuro come
terra desolata deindustrializzata che dipende interamente dai suoi alleati in
occidente per la sua sopravvivenza.
Ecco
un estratto da un articolo del giornalista moscovita John Helmer che pensa che
l'esercito russo ripulirà una vasta area dell'Ucraina centrale nella sua prossima
offensiva invernale e che gran parte di quella terra diventerà parte di una
zona smilitarizzata larga 100 chilometri (DMZ) che proteggerà la Russia dagli
attacchi missilistici e di artiglieria ucraini.
Come
osserva Helmer, il modello per questo accordo imposto dai militari è
“l'armistizio di Panmunjom del 27 luglio 1953, che pose fine alla guerra di
Corea….
Sul
terreno all'interno della UDZ (Zona demilitarizzata ucraina) potrebbe non
esserci elettricità, né persone, nient'altro che i mezzi per monitorare e far
rispettare i termini dell'armistizio.
Ecco
altro da Helmer:
Fonte
militare:
Una volta completata la distruzione di questi
obiettivi, i resti dell'infrastruttura saranno minati e l'area piantumata con
dispositivi di rilevamento.
Gli eserciti inizieranno quindi un ritiro
rapido e graduale dietro le linee russe dove il processo di fortificazione e
trinceramento è già iniziato.
“Ai
civili e alle truppe ucraine disarmate – ad eccezione delle unità ucro-naziste
– saranno assegnati uno o due corridoi attraverso i quali sarà loro permesso di
lasciare la zona.
Farebbero
meglio a non perdere tempo."...
Le
fonti concordano che ci sarà una nuova linea di demarcazione militare prima del
disgelo della prossima primavera;
differiscono
su come viene disegnato ora e su come apparirà il prossimo aprile.
“Per
ora la linea sarà sul Dnepr con la zona che si estende dalla sponda occidentale
alla parte posteriore dell'Ucraina – la mia ipotesi è a una profondità non
inferiore a 100 km.
Ciò
metterà il territorio russo fuori dalla portata della maggior parte
dell'artiglieria ucraina.
Una zona profonda 100 km darà anche alle forze
russe il tempo di rilevare e intercettare qualsiasi cosa in volo...
“Nel settore settentrionale – cioè da Kramatorsk e Slovyansk a Kharkov… queste sono guarnigioni e aree di
odio ai confini o vicino ai confini della Russia; non saranno risparmiati…(e)
li hanno qualificati per la di elettrificazione, lo spopolamento e la
denazificazione”.
“Il
punto da sottolineare, specialmente nelle operazioni russe nel nord... non
conquisterà e manterrà il territorio. … L'idea non sarà quella di occupare il
territorio, figuriamoci di amministrarlo, per un certo periodo di tempo.
L'obiettivo
sarà distruggere i nemici che alzano la testa e le infrastrutture su cui fanno
affidamento; posare mine e sensori; e poi ritirati”.
“Una
volta presi i nodi di trasporto e logistica assegnati, inizierà il lavoro di
distruzione da parte delle unità di ingegneri.
Ponti, strade, ferrovie, scali di smistamento,
materiale rotabile, aeroporti, depositi di carburante e dispensari,
sottostazioni elettriche, torri di trasmissione e comunicazione, uffici
centrali, magazzini, aree di sosta, attrezzature agricole:
tutto
ciò che potrebbe essere utilizzato per supportare la NATO ucraina lo sforzo a
est del confine occidentale della zona sarà distrutto.
Questo
sarà anche il compito delle forze di terra, più completo e approfondito di
quanto possano ottenere attacchi con missili e droni”.
“Ai
civili e ai combattenti disarmati, senza il loro equipaggiamento motorizzato,
sarà permesso di uscire dalla zona verso autobus appositamente preparati (come
supervisionato da Surovikin in Siria) con tutto ciò che possono portare sulle
spalle….
Chiunque
scelga di rimanere all'interno della zona verrà informato esplicitamente
tramite radio, volantini e altoparlanti che sono considerati combattenti nemici
e saranno presi di mira di conseguenza.
Dopo
un periodo di tempo prestabilito, i "ponti d'oro" per la popolazione
in uscita verranno distrutti.
Per
coloro che rimarranno non avranno avuto energia elettrica, servizi igienici o
comunicazioni” (“Armistizio ucraino – Come l'UDZ del 2023 separerà gli eserciti
come la ZDC coreana del 1953”, John Helmer, Dances With Bears.)
Helmer
lo riassume perfettamente.
Putin
creerà una vasta e inabitabile terra di nessuno nel centro dell'Ucraina che
separerà l'est dall'ovest e porrà fine all'esistenza dell'Ucraina come uno
stato vitale e contiguo.
Questo
è l'aspetto di un insediamento imposto dai militari.
Non è
l'ideale e non ferma necessariamente tutti i combattimenti, ma affronta i
requisiti di sicurezza di base della Russia che Washington ha scelto di
ignorare.
Siate
certi che a Washington non piacerà questo accordo e non accetterà mai i nuovi
confini.
Ma gli
Stati Uniti non avranno l'ultima parola su questa questione e questo è
estremamente importante, perché il ruolo di Washington come “garante della
sicurezza globale” è ormai un ricordo del passato.
La Russia deciderà i confini dell'Ucraina ed è
così che andrà.
Quindi,
sì, possiamo aspettarci di sentire digrignare i denti al quartier generale
della NATO, alle Nazioni Unite e alla Casa Bianca, ma con scarso effetto.
La questione è risolta a meno che, ovviamente,
gli Stati Uniti e la NATO non vogliano impegnare forze di terra nel conflitto
che, pensiamo, farà precipitare una scissione nella NATO che porterà
inevitabilmente al suo collasso.
In ogni caso, il destino dell'Ucraina sarà
deciso a Mosca, non a Washington, e questa realtà avrà un impatto significativo
sulla distribuzione del potere globale. C'è un nuovo sceriffo in città e
sicuramente non è americano.
In
conclusione:
riteniamo
che l'analisi di Helmer sia lo scenario più probabile per il futuro.
Putin ha mostrato un'ammirevole moderazione
fino a questo punto, ma dopo 9 mesi di inutili fatiche e carneficine, è tempo
di concludere questa cosa.
Mosca
ha sempre avuto una mazza nella sua cassetta degli attrezzi e ora la userà.
Avremmo preferito che non finisse così, ma non ha senso piangere sul latte
versato.
Washington
voleva prolungare questa guerra il più a lungo possibile per dissanguare la
Russia in modo che non potesse proiettare il potere oltre i suoi confini o
ostacolare i piani statunitensi di "ruotare verso l'Asia".
Ma
Putin ha sventato quel piano.
Non è
caduto nella trappola di Washington e non ha intenzione di pompare sangue e
denaro in un buco nero.
Risolverà
questa faccenda una volta per tutte e la farà finita.
Questo
è tratto da un'intervista con il colonnello Douglas McGregor:
“L'intero
conflitto avrebbe potuto essere evitato se avessimo semplicemente riconosciuto
i legittimi interessi di Mosca in ciò che accade in Ucraina ….
Ciò
che accade in Ucraina è importante per i russi….
Quindi,
saremmo potuti intervenire subito e dire: 'Facciamo un cessate il fuoco e
parliamo', infatti, avremmo potuto ascoltare i russi negli ultimi 10 o 20 anni
riguardo alle loro preoccupazioni su ciò che stava accadendo in Ucraina.
E,
penso che ora vediamo con il regime di Zelensky – un governo molto pericoloso
che è incurabilmente ostile alla Russia (e) che risponde esclusivamente alle
istruzioni di Washington – che ha deciso di voler indebolire fatalmente la
Russia in ogni modo possibile...
La
soluzione a questo è – non unirsi a questa futile e inutilmente distruttiva
guerra con Mosca – (ma) mettere un po' di buon senso nelle menti delle persone
nel governo di Kiev”.
Colonnello
Douglas MacGregor:
“L'Ucraina sta per essere annientata”.
IMO,
la decisione è già stata presa. L'Ucraina sarà divisa in due, che a Washington
piaccia o no. È così e basta.
Non è
la fine
della Storia.
Semmai
la fine dell'Occidente.
msn.com
– Il Giornale - Storia di Stenio Solinas – ((8-12-2022) – ci dice:
Nella
«fine della storia», che contempla «il fine della storia», ma si conclude con
«la storia della fine» c'è molto di più di un gioco di parole più o meno
elegante o più o meno noioso.
C'è il prendere atto di un abbaglio di fine
secolo, il XX, e del brusco risveglio che il nuovo secolo, quello ancora
relativamente giovane, ma già sottoposto a usura, ha comportato, e con esso la
constatazione non solo che la storia non è finita e tanto meno che procede in
progressione verso uno scopo ultimo quanto universale di pace democratica
realizzata, ma anche che è proprio il canone occidentale interpretativo a non
reggere più.
Come
spiega bene Lucio Caracciolo nel suo “La pace è finita” (Feltrinelli, pagg. 140),
«l'ideologia che fissa un termine alla
progressione della storia umana è smaccatamente occidentale.
Proprio
perché occidental-illuminista tale filosofia non può che pretendersi
universale.
Contraddizione
che la rende inapplicabile, a meno di non postulare la progressiva
identificazione del Resto del Mondo con l'Occidente.
Operazione
anche demograficamente improbabile oggi, quando noi occidentali (europei e
nordamericani) siamo circa un miliardo contro i sette di non occidentali,
mediamente più giovani e in aumento vertiginoso, specie in Africa.
Sicché
ogni buon missionario della fine della storia dovrebbe convertire sette non
occidentali alla sua fede. E al suo impero».
Già,
perché la fine della storia implicava di per sé il trionfo dell'impero
americano che in essa si incarnava, sublimato in ordine ecumenico.
La sua rimessa in discussione a livello
egemonico non comporta, naturalmente, il suo venir meno quanto a rango di
superpotenza o, se si vuole, di prima potenza mondiale, ma, e non è un
paradosso, contribuisce, come scrive Caracciolo, a svelare «il bluff
europeista, che ci aveva traslato nell'ipnotico universo della pace assicurata,
non è chiaro da chi e cosa».
Crolla
insomma l'illusorio castello di carte in cui l'Europa si voleva vedere come
potenza civile, con tanto di tonalità universalistica, che però si offriva al mondo «via
Nato, come secondo braccio dell'Occidente a guida americana, equilibrato dalla
saggezza dell'antica civiltà vetero-continentale.
Oggi il principio europeistico di irrealtà
stenta a mascherare la tragica condizione geopolitica in cui noi europei ci
troviamo. Siamo fuori gioco.
Oggetto
di giochi altrui».
Se
dunque la pace è finita, come recita il titolo del saggio di Caracciolo, autore
tanto più significativo se si pensa che si deve a lui, grazie alla sua rivista
Limes, l'aver riportato al centro del dibattito scientifico-culturale quel
concetto di «geopolitica» disinvoltamente silenziato nel nome e al tempo
dell'astrattismo universale, ne consegue, come osserva un altro analista di
vaglia, Alessandro Colombo, che quello che viene a configurarsi è proprio
l'opposto di ciò che la fine della storia pretendeva di realizzare, ovvero una
fine della storia di senso contrario, dove a essere universale non è la pace,
ma l'emergenza.
Il
governo mondiale dell'emergenza (Raffaello Cortina, pagg. 221) si intitola
infatti il suo libro e «Dall'apoteosi della sicurezza all'epidemia
dell'insicurezza» è il sottotitolo che l'accompagna, una frustrazione
securitaria subentrata alla promessa liberale di pace, benessere e tranquillità
a livello globale.
La prima domanda che ragionevolmente viene da
porsi è perché quell'ordine liberale che portava con sé la fine della storia
sia entrato in crisi.
Le
risposte che ne rintracciano i motivi in qualche «tradimento» interno e/o
esterno del progetto risultano parziali, allo stesso modo di come si imputata
la crisi delle democrazie rappresentative ai «populismi» che le minacciano,
come se questi fossero la causa e non l'effetto della crisi stessa.
Come scrive Colombo, «ciò che non viene mai
preso in considerazione è la possibilità che l'ordine liberale sia entrato in
crisi per le sue stesse contraddizioni interne:
di più, che la crisi del progetto liberale
possa non essere altro che un prodotto del suo stesso successo».
Colombo suggerisce al riguardo più di un
indizio: per esempio, il ricorso «sempre più irresponsabile all'uso della
forza», culminato nelle disastrose imprese militari in Iraq, Afghanistan e
Libia;
per
esempio, «il
rapporto storicamente ripetitivo tra finanziarizzazione dell'economia e aumento
delle diseguaglianze»;
per
esempio, «le
sospettose coincidenze tra il ritiro dei diritti sociali distribuiti nel corso
del Novecento e il rifluire dello spettro della rivoluzione».
Soprattutto
però, e questo lega strettamente l'analisi di Colombo a quella di Caracciolo,
tanto che i due libri possono essere letti come un unicum, quella crisi è
insita proprio nell'idea di modernità occidentale che ne è il supporto, per
certi versi «l'ultima (e, forse, la decisiva) manifestazione del ruolo occidentale di
centro di irradiazione di istituzioni, linguaggi e relazioni di potere».
Detto
in altri termini, la lettura di un possibile Nuovo ordine mondiale come la più
completa manifestazione di un grande progetto di riordino della vita
internazionale risalente alla metà del Novecento, se non addirittura al suo
inizio, fa acqua proprio nei suoi presupposti.
Il Novecento infatti è stato ben altro.
Innanzitutto,
è stato «il
secolo della fine della centralità dell'Europa e più in generale del riflusso
dell'impeto occidentale sul mondo», una «rivolta contro l'Occidente» approdata agli
sconvolgimenti della decolonizzazione e di fatto non ancora esauriti nel loro
intrecciarsi con le contraddizioni del potere su scala internazionale.
Sicché
viene da chiedersi se il XX secolo non segni proprio «la fine della fase occidentale della
storia del mondo» e quindi in prospettiva dello scontro, di segno quasi
perfettamente opposto, tra la marea montante dei grandi Paesi non occidentali
in ascesa e «un Occidente sempre più rinchiuso nella postura strategica e
persino nell'attitudine psicologica dell'assedio».
Che in
questo Occidente in vena di esaurimento quanto a supremazia, l'Europa sia una
semplice appendice, è la chiave di volta, ne abbiamo già accennato, dell'analisi
di Caracciolo, che ne dà però una lettura controcorrente rispetto al mainstream
dello stesso pensiero occidentale.
«Non solo il soggetto Europa non esiste né
appare alla vista, ma l'organizzazione dello spazio europeo è ispirato al
principio di impedire che si formi.
Perché
è questo l'interesse degli Stati Uniti d'America: un continente stabile, ma non
troppo, da loro strategicamente dipendente».
L'Europa
per come è venuta a identificarsi, è in fondo un prodotto dell'europeismo
americano.
In
senso geopolitico, perché la incardina oltreoceano impedendole di essere un
contropotere.
In
senso ideologico, in quanto sostiene un europeismo europeo «incapace di unire
gli europei», ma «utile per pacificarli, adagiarli nel declassamento
inevitabile dopo aver perso due guerre mondiali.
Parcheggiandoli
nella post-storia».
Tre
generazioni dopo l'invenzione del «progetto europeo», è l'amara conclusione di
Caracciolo, «quello che avrebbe dovuto evolvere la nostra potenza decaduta in
un soggetto geopolitico unitario, constatiamo di essere oggetti di attori e di
dinamiche che ci trascendono.
E oppongono gli uni agli altri.
Niente
di straordinario. Storie ordinarie, anzi, che riempiono il vuoto
dell'europeistica fine della storia, talmente eccezionale da non appartenere a
questo mondo».
Ciò
che resta sullo sfondo è la mobilitazione delle frasi fatte, ovvero la chiamata
alle armi, settant'anni dopo, come scrive Colombo, «non soltanto ovunque contro
lo stesso nemico, ma addirittura contro lo stesso di sempre - il fanatismo, il
fascismo (islamico o di Vladimir Putin), le autocrazie, espressione di una
indifferenza senza limiti alle specificità storiche e culturali, oltre che di
una vocazione narcisistica a interpretare qualunque vicenda storica e politica
come proiezione della propria».
Da una
promessa irrealistica di sicurezza, la parabola dell'ascesa e declino
dell'ordine liberale si è concretizzata in una percezione esagerata
dell'insicurezza.
Ma era
proprio «la vacanza liberale dal pericolo», e dalla storia stessa sentita come
pericolo, a essere un'anomalia.
Ed è a questa anomalia che dobbiamo l'estremo
paradosso del nuovo secolo, ovvero la trasformazione di una propensione
dichiaratamente pacifica alla sicurezza in una bellicosa disponibilità alla
mobilitazione permanente.
Come
aveva detto, prefigurando il futuro, Carl Schmitt, la guerra dietro l'apparenza
della pace si trasforma in «un provvedimento pacifico accompagnato da battaglie
di più o meno grande portata».
Libertà
e democrazia
in
tempi di guerra.
Insidemagazine.it
– Follotitta – (Marzo 3, 2022) – ci dice:
A giudicare
dal comportamento degli Ucraini, la risposta è scontata.
La
libertà e la democrazia non sono comodità su cui un popolo può fare calcoli al
ribasso.
Noi
occidentali oggi non riusciamo a giustificare l’aumento del prezzo delle nostre
forniture energetiche. Oggi. Ma ieri i nostri nonni hanno imbracciato il fucile
e sono andati in montagna per cacciare lo straniero;
e non
erano in giuoco una manciata di chilometri in più con un litro di benzina, ma
la fortuna di essere ancora vivi alla fine della giornata.
Soluzione
pacifica.
Ecco,
questo è quello che ci torna alla mente in questi giorni in cui, piuttosto di
trovare una soluzione pacifica, la parte più forte sta cercando con le armi di
imporre la propria volontà sulla parte più debole, calpestando la libertà e
l’autodeterminazione democratica di un popolo.
Senza
tenere in conto che certi valori non sono negoziabili e per essi, anche oggi,
come ieri, si è disposti a morire.
“La lotta è qui, mi servono munizioni, non un
passaggio.”
Ha
risposto Volodymyr Zelensky, secondo l’Ambasciata Americana a Kiev, quando gli
è stato offerto di essere messo in salvo fuori dall’Ucraina.
Mentre
Donald Trump, all’intensificarsi delle manifestazioni Black Lives Matter a
Washington, ha ritenuto opportuno rifugiarsi in un bunker.
E Donald è anche quello che si è fatto
costruire un muro antisommossa tutto intorno alla Casa Bianca.
Questo
tanto per capire, se ce ne fosse ancora bisogno, dove è più facile trovare i
veri uomini forti, quelli per intenderci con la schiena dritta, se tra gli
autocrati o i democratici.
Putin potrà calpestare l’Ucraina e farne un
cimitero, ma il cuore delle coscienze del mondo l’avrà conquistato Zelensky e
sarà la conquista che conterà veramente, perché cambierà, come già ha
cominciato a fare, l’equilibrio tra autocrazia e democrazia.
Autocrazia
e democrazia.
Per un
certo tempo vi è stata una dottrina molto in voga: “L’esportazione della
democrazia.” In realtà era una stupida scusa per assoggettare un’altra nazione
attraverso bombardamenti e quant’altro.
Oggi
Putin non potendo scusarsi dicendo di voler esportare la dittatura, per
destabilizzare un altro paese, usa la pace.
Lui
vuole pacificare l’Ucraina ed i soldati russi sarebbero stati mandati a
raccogliere fiori ed applausi.
Ma non vi sono scuse per la guerra.
È
sbalorditivo pensare quanto, menzogne sfacciate e male articolate, riescano ad
ottenere credito nella mente di esseri pensanti.
Tanto
vale essere del tutto sinceri, uscire dall’ipocrisia, e dire che la guerra è
ineluttabile e uno non ne può fare a meno.
Una
volta almeno si affermava che la guerra fosse fisiologica.
Mah!
Eppure, anche se non si accenna all’esportazione dell’autocrazia come si faceva
una volta per la democrazia, in questi anni di crisi economica endemica, quando
il lavoro è precario e molte famiglie non riescono a unire pranzo e cena, la
soluzione sembra essere il governo forte, l’uomo solo al comando, il
sovranismo, il nazionalismo, l’autarchia;
noi
che stampiamo la nostra moneta a miliardi di miliardi e torniamo ad essere
ricchi;
noi
saturi di forti immagini simboliche, quali muri, rosari, forche, ruspe. Noi
sopra tutto e tutti!
Dove
ci ha portato 100 anni fa.
Ma un
momento. Sappiamo dove questo ci ha portato quasi un secolo fa: nelle montagne,
con un fucile e la vita attaccata a un filo.
E allora? Ecco, l’Ucraina ce lo sta
ricordando: la libertà e la democrazia vanno difese, sempre.
Anche
quando la pace offusca la memoria. Ho già scritto della provenienza di questi
venti di guerra.
Da
lontano e da Est. Dalla pratica autoritaria della politica.
Dal
revanscismo di un potere in cerca di rivincite sulla storia.
Da
interpretazioni sbagliate e tendenziose.
Da tutto questo e da quant’altro una analisi
più accurata della mia può tirar fuori.
Ma a
cosa serve?
La guerra è ormai in corso e c’è gente che
muore, specie civili tra cui donne e bambini.
Si
intensifica, malgrado trattative farsa.
Neanche
le sanzioni riescono a scalfire la determinazione.
Sembra
troppo tardi ormai. Una tragedia inaspettata si sta consumando nel cuore
dell’Europa, senza che nessuno possa farci niente.
Ma
nessuno è sbagliato quando c’è un popolo in armi che combatte e resiste e c’è
un mondo che lo appoggia e che, a parte inviare eserciti, che’ sarebbe una
Terza Guerra Mondiale, aiuta e delibera in suo favore.
Putin
vuole vincere una guerra persa in partenza.
L’Occidente vuole vincere la pace,
possibilmente fare quello che ha tralasciato di fare dopo la caduta dell’Unione
Sovietica, quando qualcuno ha pensato che non ci sarebbe stata più storia e la
Russia sarebbe autonomamente diventata democratica.
Così,
per simbiosi, invasa da blue jeans e xerox machines.
Libertà,
democrazia ed
equità
secondo Giorgia Meloni.
Liberainformazione.org
- Rocco Artifoni – (26 Ottobre 2022) – ci dice:
Il
discorso di Giorgia Meloni al Parlamento, per chiedere la fiducia al Governo
che presiede, contiene molti spunti interessanti.
Anzitutto
il concetto di libertà.
Il
discorso della Presidente del Consiglio dei Ministri si chiude con una
citazione di papa Giovanni Paolo II:
«La
libertà non consiste nel fare ciò che ci piace, ma nell’avere il diritto di
fare ciò che si deve».
Ma
questa idea della libertà è contraddetta in diversi passaggi precedenti.
Per
esempio, quando ha detto: «Il motto di questo Governo sarà: “non disturbare chi
vuole fare”».
Un
altro esempio: «La libertà è il fondamento di una vera società delle
opportunità, è la libertà che deve guidare il nostro agire, libertà di essere,
di fare, di produrre.
Un Governo di centrodestra non limiterà mai le
libertà esistenti di cittadini e imprese».
Insomma:
la libertà è ciò che si deve o ciò che si vuole fare?
Un po’ di coerenza su questo principio
fondamentale non guasterebbe.
Poi
c’è la democrazia.
Meloni
sostiene che il voto è «la piena realizzazione del percorso democratico, che
vuole nel popolo, e solo nel popolo, il titolare della sovranità», tralasciando
che la sovranità è limitata dalla Costituzione, che garantisce la divisione dei
poteri e il rispetto dei diritti.
Questa
dimenticanza si nota nella successiva affermazione, laddove descrive quanto è
accaduto negli ultimi 11 anni «con un susseguirsi di maggioranze di Governo
pienamente legittime sul piano costituzionale, ma drammaticamente distanti
dalle indicazioni degli elettori.
Noi,
oggi, interrompiamo questa grande anomalia italiana, dando vita a un Governo
politico, pienamente rappresentativo della volontà popolare».
Questo
presunto legame diretto tra volontà del popolo e governo appartiene ad una
visione poco avvezza a considerare l’irriducibile ricchezza del pluralismo
parlamentare.
In
realtà, Giorgia Meloni ad un certo punto fa un’affermazione che va nella
direzione opposta:
«io non intendo assecondare quella deriva
secondo la quale la democrazia appartiene ad alcuni più che ad altri».
Ma poi
rilancia la proposta di «una riforma che consenta all’Italia di passare da una
“democrazia interloquente” a una “democrazia decidente”.
Se con
ciò intende dire che è tempo sprecato discutere e confrontarsi (ma il
Parlamento dovrebbe servire proprio ad assolvere a questa funzione democratica)
e che spetta unicamente al Governo decidere, allora è del tutto inutile citare
Montesquieu, come ha fatto Giorgia Meloni.
In
questa visione poco rispettosa della divisione dei poteri, si inserisce anche
la revisione della Carta Costituzionale:
«siamo
fermamente convinti del fatto che l’Italia abbia bisogno di una riforma
costituzionale in senso presidenziale, che garantisca stabilità e restituisca
centralità alla sovranità popolare».
Nel
programma della coalizione del centrodestra infatti c’è la proposta
dell’elezione diretta del Capo dello Stato.
Anche in questo caso emerge l’idea di una
sovranità popolare che debba esprimersi direttamente, scegliendo il Presidente
della Repubblica.
Perché
questo modello garantisce maggiore stabilità, non è detto.
Invece viene data un’indicazione sul tipo di
presidenzialismo:
«Vogliamo
partire dall’ipotesi di un semipresidenzialismo sul modello francese».
In
realtà nel programma del centrodestra di questo non si parla.
Si
tratta di un’aggiunta non da poco.
Un
conto è modificare soltanto il sistema di elezione del Presidente della
Repubblica, passando la competenza dal Parlamento agli elettori. Altra cosa,
con un impatto assai più forte sugli equilibri costituzionali, è modificare i
poteri del Capo dello Stato (che sono assai diversi tra Italia e Francia).
Ma se
il progetto del semipresidenzialismo nel programma della coalizione non c’era,
come si combina adesso con il rispetto della volontà popolare?
L’impressione
è che il popolo sia una categoria strumentale, da utilizzare con forza quando
fa comodo e da tralasciare quando prevalgono altri interessi.
Un’ultima
annotazione sul concetto di equità, che sicuramente è da annoverare tra i
valori costituzionali.
Giorgia
Meloni, riferendosi al fisco, annuncia una «riforma all’insegna dell’equità».
Subito
dopo esemplifica il concetto con «l’estensione della tassa piatta per le
partite IVA dagli attuali 65 mila euro a 100 mila euro di fatturato».
Ciò
significherebbe ampliare la differenza di trattamento tra i redditi dei
lavoratori dipendenti ai quali viene applicata un’imposta progressiva e quelli
dei lavoratori autonomi che usufruiscono di una tassa proporzionale.
Un
Governo può anche decidere di favorire le partire IVA a discapito degli altri
lavoratori, ma l’equità è tutto un altro programma.
L’Ucraina
chiede libertà e democrazia.
Ma i
pacifisti la regalerebbero a Putin.
Libertaeguale.it
- Vittorio Ferla – (5 Novembre 2022) – ci dice:
Con
tutto il rispetto necessario per chi crede sinceramente nella pace, bisogna
riconoscere con amarezza che la manifestazione di oggi nasce nel segno di un
immenso equivoco, prima di tutto intellettuale, ma anche morale e politico.
L’equivoco
è quello di sventolare la bandiera della pace come bene supremo ma del tutto
astratto, da perseguire anche a costo di barattarlo con altri – la verità, la
giustizia, la libertà – che pure dovrebbero avere qualche voce in capitolo.
La
sensazione emerge chiaramente dalla lettura di alcuni manifesti che nelle
settimane scorse sono stati sottoscritti e diffusi a favore – di fatto – di un
immediato disimpegno militare dell’occidente dalla crisi ucraina.
Chiedere
infatti il silenzio delle armi durante una guerra di aggressione che la Russia
non ha nessuna intenzione di concludere ha il significato di una resa che
ricadrebbe prima di tutto sul popolo aggredito.
Che è quello ucraino.
L’ultimo manifesto in ordine di tempo è quello
delle associazioni cattoliche che, interpretando forse con un eccesso di zelo
le parole del Papa, sembrano dimenticare del tutto il martirio degli ucraini.
Non
basta infatti concedere spazio all’ormai ovvio cliché che ammette che c’è un
aggressore – la Russia – e un aggredito – l’Ucraina – per aver chiuso i conti
con la dimensione etica della vicenda.
La
pace, infatti, può essere costruita su basi solide e su fatti concreti solo ad
alcune condizioni:
ristabilire
la verità sulle ragioni dell’aggressione, ristabilire la giustizia che deriva
dal rispetto dell’ordine internazionale, ristabilire la libertà degli ucraini
che oggi sono attaccati e oppressi.
In altri termini, la pace può incarnarsi
soltanto nella concretezza della storia degli uomini. Il manifesto delle
associazioni sceglie una prospettiva opposta, a tal punto escatologica, da
diventare idealistica e astratta.
Concentrati
esclusivamente sul rischio della minaccia nucleare e sul conseguente appello
per la proibizione delle armi atomiche, i sottoscrittori dimenticano
completamente la richiesta di aiuto degli aggrediti.
Ma così
l’umanità degli oppressi lascia il campo al desiderio di sicurezza
dell’occidente, incapace di assumere impegni gravosi per difendere non solo
l’Ucraina, ma sé stesso dalla volontà di potenza di un regime dispotico.
La
pace di cui discetta il manifesto – richiesta a gran voce dai cortei riuniti
oggi a Roma – si raggiunge solo a condizione di regalare a Putin quello che
vuole: l’Ucraina.
Attenzione:
non solo singole regioni, ma tutta intera.
Perché
così lui vuole.
Ma
lasciare il campo libero al disegno imperialista di Mosca significa volere la
pace denunciata da Tacito: “dove fanno il deserto, lo chiamano pace”.
Se,
per ragionare di pace, è necessario ristabilire la verità dovremmo tutti
ammettere – compresi i pacifisti a tutti i costi – che l’obiettivo dichiarato
della guerra scatenata da Putin è quello di ritornare all’assetto superato con
lo scioglimento dell’Unione Sovietica nel quale russi e ucraini, secondo la
propaganda di Mosca, formavano un unico popolo.
Questo
assetto, oggi, è minacciato dall’esistenza stessa dell’Ucraina come stato che
aspira all’indipendenza dal dispotismo russo, che punta a diventare un paese
democratico e liberale e che, per questo, desidera entrare a far parte della
comunità europea e occidentale.
Questa evoluzione, considerata da Putin alla
stregua di una ‘nazificazione’ dell’Ucraina, autorizzerebbe la Russia alla
sistematica devastazione e distruzione del paese.
L’approccio
del capo del Cremlino diventa così “genocidario”, perché mira a fare scomparire
l’identità ucraina con ogni mezzo possibile: le stragi indiscriminate, l’esilio
dei cittadini dalla propria terra, la deportazione dei civili (soprattutto
bambini orfani), l’indottrinamento delle persone nelle aree conquistate dalle
armi.
Se non
si parte dal riconoscimento di questa verità storica invece di vagheggiare su
presunte – ma stavolta inesistenti – responsabilità dell’occidente non si fa
nessun servizio alla causa della pace.
Men
che meno alla causa degli ucraini che sono i primi detentori e attori della
propria libertà.
Se,
viceversa, nel nome della pace, si accetta la prevaricazione del despota e la
sottomissione dell’Ucraina dovremo concludere che il diritto internazionale è
uno strumento inutile e arcaico e che ciascuna potenza nucleare, quando vorrà,
potrà aggredire i suoi vicini nella certezza dell’impunità e nel silenzio della
comunità internazionale.
Stupisce
che nessuna voce dell’ampio fronte pacifista riconosca la principale novità che
viene dallo scenario di guerra: la domanda di democrazia e di libertà che viene
dall’Ucraina.
L’argomento
è sviluppato in maniera esaustiva da Eugenio Somaini, docente di politica
economica, in un recente saggio apparso sull’ultimo numero della storica
rivista “Mondoperaio”.
Per
contrapporlo alla famigerata “esportazione della democrazia” con le armi che ha
caratterizzato alcune fasi della nostra storia recente dopo la fine della
Guerra Fredda, Somaini descrive il fenomeno come “importazione della
democrazia”.
I suoi
tratti fondamentali sono: la scelta autonoma da parte di un paese di
intraprendere un processo di democratizzazione, la disponibilità dei paesi
democratici ad aiutarlo su richiesta dell’interessato e la richiesta formale di
adesione alle forme associative dei paesi democratici.
Nel
caso specifico dell’Ucraina, ciò si realizza con la richiesta formale di
adesione all’Unione europea.
La prospettiva delineata da Somaini appare
promettente in quanto fondata, da una parte, sulla scelta autonoma del paese
che si mette sulla strada della democratizzazione e, dall’altra, sull’allargamento
della base democratica del pianeta per via pacifica, a partire dalla spontanea
adesione degli stati attori.
Ora,
non sorprende che un dittatore come Putin consideri ‘nazificazione’ questo
desiderio di democrazia e di libertà.
Sorprende,
invece, che i pacifisti non comprendano che barattare cessioni territoriali
alla Russia con la pace significa di fatto interrompere questo virtuoso
processo di evoluzione democratica regalando l’Ucraina alla sfera di influenza
di Putin secondo le logiche imperialistiche tipiche del Novecento.
Subito
dopo, se non viene fermato in Ucraina, Vladimir Putin si sentirà incoraggiato a
proseguire nella sua sbandierata volontà di potenza imperialista.
E continuerà a realizzarla come ha sempre
fatto: con le armi.
Per
fortuna, l’Unione europea e le democrazie anglosassoni hanno scelto di opporsi
al disegno di Putin.
Dovrebbero
fare lo stesso i pacifisti in corteo a Roma, tra piazza della Repubblica e
piazza San Giovanni.
Non è
affatto il tempo di slogan pilateschi contro tutte le guerre.
Putin
go home!
(Vittorio
Ferla)
Pace,
democrazia e libertà:
presente
e futuro dell'Europa.
Argomenti2000.it
- Marina Berlinghieri – (2 Marzo, 2022) ci dice:
Il
momento drammatico che stiamo vivendo ci interroga in modo profondo.
L'aggressione
dell'Ucraina da parte della Federazione Russa ci porta ad esprimere la massima
solidarietà all'Ucraina.
La
guerra e la gravità della situazione ci interrogano però, come Europei, sugli
scenari che si possono aprire.
L'Europa
nasce su un progetto politico di pace, democrazia e libertà (tutte e 3 insieme,
non solo democrazia e libertà), possiamo noi avallare (e favorire) una sua
deriva bellicistica?
Quanto
è utile armare i civili e quanto aiuta a porre fine velocemente a questa
invasione?
È
difficile per me in questo momento distinguere tra ciò che viene detto ad arte
e ciò che risponde al vero:
siamo
in una fase comunicativa dentro la quale è complicato capire.
Ecco,
dentro a questa fase mi sorgono dubbi e domande;
vorrei
avere le certezze di chi pensa che in questo momento solo dall'invio delle armi
passa la difesa della libertà e della democrazia ...
Ma
purtroppo ai miei occhi e alla mia coscienza le cose non sono così chiare.
Una
cosa è chiara: ci sono un aggressore e un aggredito e non si può rimanere
neutrali di fronte a tutto questo.
Con le
sanzioni noi stiamo dicendo che, di fatto, entriamo in guerra: una guerra
economica e informatica di cui siamo disponibili a pagare il prezzo.
In questa prova di forza, sappiamo che la
conclusione sarà un accordo tra le parti.
Mi
domando: ci siamo chiesti che prezzo siamo disponibili a pagare in termini di
vite umane, prima di arrivare all'accordo?
Ci siamo
chiesti se siamo disponibili ad arrivare anche a una fase in cui il nostro
coinvolgimento sarà anche militare a tutti gli effetti?
Ecco
io vorrei capire e sapere.
La
responsabilità delle scelte di questi giorni è enorme.
Soprattutto
vorrei capire e sapere che ruolo avremo noi nella definizione delle scelte,
come Paese e come partito.
Il pranzo a 3 di Von der leyen, Macron e
Scholtz... Non è sfuggito agli occhi dei più.
E
infine un altro tema: il mondo non sarà più come prima.
Abbiamo
davanti la definizione dell'Europa del futuro (anche la sua esistenza secondo
me).
Dovremo
definire la strategia energetica, le nuove regole per il bilancio comune, la
strategia di politica estera e di difesa, l'architettura istituzionale
dell'Unione Europea e infine il ruolo dell'Europa dentro la Nato.
Abbiamo
il compito di definire adesso la strategia per la costruzione di un futuro
fedele ai valori che hanno fondato l'Europa.
Lo
dobbiamo fare con il coraggio del pensiero complesso, senza facili scorciatoie
e con un ruolo da protagonisti.
(Marina Berlinghieri, Deputato PD).
«Senza
limiti non
c’è democrazia».
Ilmanifesto.it
– Daniela Passeri – (8 settembre 2022) – ci dice:
INTERVISTA.
Il sociologo Marco Deriu parla del rapporto tra crisi ecologica e democratica.
E di come è possibile uscirne.
A partire dalla partecipazione, dal
cambiamento del modello di sviluppo e dai beni comuni.
«La
decrescita è il nuovo nome della pace. In un contesto di lotta per le risorse e
distruzione dell’ambiente, solo questa prospettiva può consentire rapporti
pacifici».
Marco
Deriu, sociologo dell’Università di Parma e membro dell’Associazione per la
decrescita, è autore di “Rigenerazione”.
Per
una democrazia capace di futuro (Castelvecchi, pp 310, una riflessione sulla
relazione tra la crisi ecologica e la crisi della democrazia.
La
democrazia che conosciamo ha le carte in regola per farci uscire dalla crisi
climatica e ambientale?
La mia
prospettiva parte dall’idea che la democrazia, così come l’abbiamo concepita
fino a oggi, è de-naturalizzata, perché non si è mai interrogata fino in fondo
sulle radici ecologiche della società, su quanto le comunità politiche e le
forme del vivere dipendono da elementi ambientali.
La
democrazia si è fondata sulla massimizzazione del consumo delle risorse. Questo
spiega alcuni limiti della situazione in cui ci troviamo.
Dal
mio punto di vista, la democrazia non è immune da responsabilità per ragioni
storico-politiche.
Il
benessere delle nostre democrazie è basato su un tipo di organizzazione
socio-economico che dipende da un afflusso di beni che provengono da tutto il
mondo e da un accesso a energia a buon mercato che pensiamo di dare per
scontato, ma che tale non è.
È
quella che lei definisce una democrazia fossile…
Nel
libro uso questa immagine per dire una doppia cosa: c’è sia una radice
materiale, ovvero una connessione tra l’evoluzione dei regimi di diritti e libertà
politiche liberali e l’uso e il controllo prima del carbone e poi del petrolio.
Ma fossile è anche un modello di democrazia
che non si è mai posta il tema della responsabilità verso le generazioni
future, né dal punto di vista ecologico né da quello economico – pensiamo alla
questione del lavoro o del debito – e che di fatto riduce le prerogative
democratiche per chi viene dopo.
La
crisi climatica mette in discussione l’idea di libertà assoluta sulla quale si
fondano le democrazie.
Come
dovrà cambiare la concezione di libertà in una democrazia ecologica?
Nella
tradizione democratica c’è una riflessione sul tema dei limiti, degli
equilibri, della distribuzione del potere.
Però
nella nostra cultura democratica l’idea di libertà è stata in gran parte pensata
come un modello di libertà individualistica, come essere sciolti da vincoli,
poter fare, produrre, consumare, comprare quello che vogliamo, secondo una
cultura consumistica e un modello di accumulazione di crescita illimitato.
Un’idea
di libertà che consuma non solo la natura e i beni comuni, ma consuma la
democrazia stessa.
Per me
diventa fondamentale riscoprire un’idea di libertà in relazione.
Relazione
con il territorio, l’ambiente, tra generi, tra generazioni, tra forme viventi
differenti.
Il senso
del limite non è appannaggio della democrazia. Perché è necessario inglobarlo?
La
massimizzazione delle possibilità per ciascuno non coincide con il fare quello
che ci pare.
Se
tutti consumano e sfruttano l’ambiente e i beni sociali senza preoccuparsi
delle condizioni di accesso degli altri, quello che succede è che distruggiamo
i beni e trasformiamo la natura dei beni con cui ci relazioniamo.
Costruire una forma di benessere o prosperità
che sia davvero democratica significa trovare delle risposte collettive e un
senso della misura che non è un’aggregazione dei desideri individuali, ma è una
costruzione collettiva.
La
ricerca dei limiti è la chiave per una democrazia capace di futuro.
Certo,
il solo riconoscimento dei limiti ecologici di per sé non è detto che produca
un sano senso di responsabilità, potrebbe anche rafforzare la competitività per
l’accaparramento delle risorse scarse da parte di élite geografiche o di
classe.
Per
questo abbiamo bisogno anche della giustizia sociale e di democratizzare le
nostre forme di consumo.
Da
dove ripartire per una trasformazione e rigenerazione della pratica
democratica?
Sono
diversi sentieri che si possono percorrere.
Intanto
bisogna riconoscerne i lati oscuri, come la cosiddetta «miopia delle
democrazie», un tema ben presente nel dibattito politologico attuale: per come
sono strutturate le democrazie, il confronto si costruisce su prospettive di
brevissimo periodo, mentre fanno fatica ad entrare in gioco decisioni che
riguardano, per esempio, le generazioni future.
Come
provare a trasformare?
Secondo
me occorre introdurre una sorta di sperimentalismo democratico, che può essere
applicato anche in campo ecologico.
Un
tema cruciale è quello delle forme di partecipazione e quindi delle garanzie
procedurali che vengono riconosciute ai cittadini quando si tratta di operare
delle scelte che impattano sui territori, come le grandi opere.
Uno spazio interessante di sperimentazione è
quello dei beni comuni che possono essere gestiti da comunità di persone che si
rendono responsabili della loro tutela.
Le
tematiche ecologiche hanno poi fatto emergere la necessità di coinvolgere
sempre più i giovani nei processi decisionali in una società che fino ad ora si
è data l’anzianità come criterio di garanzia.
Inoltre,
io credo che un ruolo interessante possa essere svolto dalle città, o reti di
città, come luoghi che contemperano la doppia esigenza di riavvicinare le
persone alla democrazia e nello stesso tempo affrontare decisioni che,
obiettivamente, non possono essere prese a livello locale come quelle sui
servizi o sul welfare.
Nell’affrontare
il cambiamento climatico non c’è solo il confronto tra stati, che abbiamo visto
essere lento e non scevro di conflittualità, ma occorre introdurre più
soluzioni e più processi.
Non esiste
una «soluzione verde» chiavi in mano, nessuna di queste strade, da sola, può
tirarci fuori dai guai:
dobbiamo
capire che la questione climatica è una lente che ci deve spingere a ripensare
in tutti i suoi aspetti le nostre istituzioni democratiche.
Alla
prospettiva della decrescita, lei scrive, manca ancora una visione politica.
A che punto siamo?
Io
credo sia interessante ragionare sull’idea del decrescere, più che sulla
decrescita come stato delle cose.
Quindi su un modello di transizione capace di assumere
il tema della discontinuità.
Qui
sta la grossa questione dal punto di vista della democrazia: la scienza ci dice
che per costruire forme di sostenibilità dobbiamo modificare le forme di
consumo, di produzione, di alimentazione, e tanti aspetti che hanno a che fare
con le nostre abitudini quotidiane.
Come è
possibile fare questo in una logica consensuale e democratica?
È
possibile se la politica ci accompagna nell’assunzione di scelte collettive.
Per
questo c’è enorme bisogno di investire nelle pratiche democratiche, perché
l’alternativa è quella di aspettare che qualcuno ci tolga dai guai in maniera
autoritaria.
La
riflessione sulla democrazia e sulla decrescita è strettamente imparentata.
Nel
suo libro lei sottolinea l’apporto dell’eco-femminismo a questa riflessione.
Perché è importante?
È
importanti su tanti livelli.
Da
quel filone di pensiero e di pratiche emerge la consapevolezza dello squilibrio
tra le forme di produzione e il disconoscimento delle forme di riproduzione in
senso lato.
Se vogliamo,
l’ossessione per la crescita e certe forme di politica competitiva derivano dal
fatto che molte esigenze legate alla cura e alla riproduzione, la gestione dei
legami sociali e comunitari, sono state estromesse dallo spazio pubblico e
considerate parte di un regno privato di necessità concrete lasciate alle
singole persone e delegate essenzialmente al lavoro delle donne o degli
invisibili, lavoratori che non accedono al riconoscimento pubblico.
Sono
riflessioni fondamentali non solo per i rapporti tra generi e generazioni, ma
anche per immaginare una politica diversa.
BOMBSHEL!
L'Ordine Internazionale
della
Diplomazia è
stato irreversibilmente
distrutto
come previsto dalla Cabala Khazariana.
Stateofthenation.co
– Redazione – (Dicembre 8, 2022) – ci dice:
La Merkel
ha ammesso l'inganno sull'accordo di pace di Minsk: la Russia.
L'ex
cancelliere tedesco ha rivelato che gli accordi avevano lo scopo di "dare
tempo" all'Ucraina per rafforzare il suo esercito.
(Angela
Merkel e Pyotr Poroshenko si incontrano nel 2019).
L'ex
cancelliere tedesco Angela Merkel ha confermato la doppiezza del suo governo
riguardo al conflitto in Ucraina confermando che l'accordo di cessate il fuoco
del 2014 aveva lo scopo di dare a Kiev il tempo di costruire il suo esercito,
ha detto la portavoce del ministero degli Esteri russo Maria Zakharova.
In
un'intervista alla rivista Zeit pubblicata mercoledì, Merkel ha detto che il
protocollo di Minsk mediato da Germania e Francia era "un tentativo di
dare tempo all'Ucraina", che ha usato per "diventare più forte",
come evidenziato sul campo di battaglia ora.
Si
riferiva al primo dei due documenti noti collettivamente come "accordi di
Minsk" che sono stati progettati per aiutare Kiev a riconciliarsi con i
ribelli dell'est, che avevano respinto l'esito di un colpo di stato armato
nella capitale nel 2014.
Berlino
e "per estensione, l'Occidente" non hanno mai inteso attuare gli
accordi di Minsk, ha concluso Zakharova sulla base delle osservazioni della
Merkel.
Gli Stati Uniti e i loro alleati "hanno
simulato di sostenere la risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni
Unite" che ha approvato la tabella di marcia per la pace mentre pompava
armi in Ucraina e "ha ignorato tutti i crimini commessi dal regime di Kiev
... per il bene di un attacco decisivo contro la Russia", ha spiegato in
un post sui social media giovedì.
Nell'intervista
a Zeit, Merkel ha dichiarato che la Russia "avrebbe potuto facilmente
invadere" le truppe ucraine nel 2015, aggiungendo che dubitava che "i
paesi della NATO avrebbero potuto fare tanto allora quanto fanno ora".
La
seconda parte degli accordi di Minsk è stata firmata nel febbraio 2015 in mezzo
a una sconfitta militare subita dalle truppe ucraine, che hanno tentato di
reprimere le milizie del Donbass.
La
descrizione degli accordi da parte della Merkel coincide con quella fatta
dall'ex presidente ucraino Pyotr Poroshenko, durante il cui mandato sono stati
firmati.
A livello
nazionale, nell'agosto 2015, ha dichiarato che l'accordo di pace era uno
stratagemma per dare al suo governo il tempo di un rafforzamento militare.
Ha
detto la stessa cosa al pubblico occidentale nel giugno di quest'anno.
La
Russia ha inviato truppe in Ucraina alla fine di febbraio, citando il
fallimento di Kiev nell'attuare i protocolli di Minsk, in base ai quali le
regioni di Donetsk e Lugansk avrebbero ricevuto uno status speciale all'interno
dello stato ucraino.
Il
Cremlino ha riconosciuto le repubbliche del Donbass come stati indipendenti,
che da allora hanno votato per unirsi alla Russia insieme alle regioni di
Kherson e Zaporozhye.
La
Russia ha anche chiesto che l'Ucraina si dichiari ufficialmente un paese
neutrale che non si unirà mai a nessun blocco militare occidentale.
Kiev insiste che l'offensiva russa è stata
completamente immotivata.
(rt.com/russia/567873-zakharova-merkel-minsk-agreements).
Libertà, sviluppo tecnologico
e Costituzione: una democrazia
trasformata.
Diritto.it
- Rosalba Ambrosino - (29 marzo 2022) - ci dice:
(privacy
e cybersecurity)
Gli
attori globali e gli Stati.
Le
società tecnologiche, le Reti e gli aspetti problematici.
Gli
attori globali e gli Stati.
Uno
spazio sempre più importante ha in dottrina la discussione relativa allo sviluppo
delle tecnologie digitali ed i rischi ed i pericoli a queste connessi.
Lo
sviluppo delle stesse ha, infatti, suscitato, e ancora suscita, grandi
aspettative in relazione alla promozione di processi democratici nei regimi antidemocratici,
ma anche alla possibilità di migliorare la qualità democratica nei sistemi
costituzionali.
Tuttavia
il modo in cui vengono gestite queste tecnologie, e tra esse il sempre il
maggior ricorso all’ intelligenza artificiale, ha messo in discussione il loro
funzionamento dal punto di vista della compatibilità delle stesse con i diritti
costituzionali; anzi, a detta di molti autori, sta generando un’incidenza
negativa nei processi democratici e nel rispetto delle regole.
Sappiamo
che in conseguenza del terrorismo di diversa matrice ( in particolare quello
jihadista dopo l’attentato dell’11/09/2001) che
colpisce senza una ragione precisa, un po’ ovunque e senza obiettivi
precisi, si è creata una percezione di insicurezza da parte della popolazione
mondiale.
I governi di tutti i Paesi hanno dovuto
trovare modalità per garantire la sicurezza internazionale ed evitare ricadute
di diversa natura, non ultima quella economica. In cambio la popolazione si è
dimostrata disposta ad accettare limitazioni della propria libertà pur di
prevenire eventuali attentati.
Il
diritto alla sicurezza sappiamo essere un diritto soggettivo perfetto che non è
sottoposto nemmeno ad un bilanciamento ma prevale su tutti gli altri diritti.
Non tutti però sono d’accordo perché ritengono che le conseguenti limitazioni rimarranno
tali anche quando il pericolo si è attenuato; sono, infatti, rimaste le
limitazioni alla libertà di pensiero, di circolazione, alla privacy.
La
limitazione della protezione della privacy dei propri dati si contrappone ad un
riconoscimento universale del diritto alla privacy, per quanto non
espressamente previsto all’interno delle Costituzioni.
Nasce così la Data Protection, a fronte delle
diverse necessità di concedere l’utilizzo dei propri dati per assicurare l’utilizzo
di tecnologie, di servizi e il lavoro. Mentre alcune Corti costituzionali e
governi positivizzano il “Data protection”, altri invece la ricavano quale
derivazione del diritto alla privacy.
La
sorveglianza di massa comporta infatti che tutta la popolazione venga
attenzionata a prescindere da una forma di illecito.
Sono
diverse le possibili forme di sorveglianza quali: la profilazione delle diverse
forme di comunicazioni (mail, telefonate, etc.) l’iscrizione ai social media,
ancora l’analisi dei dati di viaggio e le transazioni finanziarie.
Le
Corti, a fronte del ripiegarsi del legislatore, hanno confermato tali posizioni
orientandosi a favore della sicurezza piuttosto che a tutela del “Data
Protection”, addirittura molte volte deferendo ad altri organi la tutela di
tali aspetti.
Insomma
un vero appiattimento ad accezione della Corte di Giustizia Europea.
Ricordiamo,
infatti, la sentenza dell’8 aprile 2014 (cause riunite C-293/12 e C-593/12)
laddove si ritiene che la sorveglianza di massa violi la privacy; non c’è,
infatti, chiarezza di come si espliciti la sorveglianza, viene ritenuta molto
invasiva, finendo così, in sentenza, per riscrive la Direttiva impugnata (la
Direttiva n.2006/24/CE).
Detta
Corte, infatti, ritiene che i legislatori nazionali si siano appiattiti troppo
sul pensiero del legislatore europeo invece di regolamentare più organicamente
la tutela della privacy.
Ancora
più dirimente una riflessione riguardo ai social network ed al loro rapporto
con le società tecnologiche che li gestiscono.
Queste
società stanno costruendo un nuovo mondo e lo fanno in funzione delle loro
prospettive che mirano al solo vantaggio economico senza preoccuparsi per nulla
della lesione dei diritti che un comportamento orientato, solo alla ricerca
della redditività economica, procura.
Scontato
il conseguente impatto negativo di questa loro attività sui processi
democratici. Società tecnologiche che i governi degli Stati, e soprattutto
quelli delle amministrazioni nordamericane- che sono le principali responsabili
del loro controllo- stanno regolando in maniera molto lenta, quando lo fanno,
senza interessarsi per niente dei problemi costituzionali che si stanno
generando.
Potremmo
dire che paradossalmente l’Europa, e soprattutto alcuni suoi Stati, si sono
dimostrati molto più attivi nel cercare di affrontare gli eccessi di queste
società.
Un
paradosso solo apparente questo però se teniamo conto che la contropartita di
tutto ciò è un interesse strategico: quello all’accumulazione di dati a livello
mondiale da parte di queste società e poi la loro successiva utilizzazione da
parte delle agenzie di sicurezza nordamericane.
Le
società tecnologiche, le Reti e gli aspetti problematici.
Per
comprendere la portata di questi problemi possiamo fare una semplice
comparazione tra la forma nella quale avvenivano le comunicazioni, sia private
che pubbliche, prima dell’apparizione dei social e delle grandi piattaforme, e
la situazione odierna.
Le
comunicazioni private rispondevano a questi cardini di matrice costituzionale:
la corrispondenza e le conversazioni telefoniche non possono, ancora oggi,
essere intercettate se non con un’autorizzazione giudiziale; i mezzi di
comunicazione sono naturalmente plurimi e devono dare un’informazione obiettiva.
Se
focalizziamo invece l’attenzione su quello che succede oggi alle nostre
comunicazioni sui social media e non, allora lo scenario è totalmente
differente.
Immaginiamo
che cosa significa in termini di rispetto della privacy quando qualcuno ha la
possibilità di conoscere la nostra corrispondenza, di poter sentire quello che
ci diciamo in qualsiasi momento, di sapere quello che stiamo leggendo ogni
giorno, ed ancora, di conoscere il tempo che dedichiamo alle notizie, e che
tipo di notizie ci interessano.
Immaginiamo
poi che tutti questi dati qualcuno ha la capacità di elaborarli, di definire
tramite gli algoritmi quali sono i nostri gusti, e suggerirci ed offrirci così
le cose che ci piacciono o che ci piacerebbe comprare attraverso una pubblicità
personalizzata.
E, per
finire, facciamo un ultimo passo e pensiamo che questi dati sono utilizzati per
conoscere le nostre preferenze, ma anche le nostre paure, e, con questi dati,
viene elaborato un profilo psicologico individualizzato che rende possibile l’invio
di propaganda politica sublimale, orientata a cambiare significato al nostro
voto alle elezioni o comunque a disincentivare la nostra partecipazione.
Questo,
sostengono in molti, sta accadendo da alcuni anni nelle ultime tornate
elettorali: a cominciare, per esempio, dai referendum sulla Brexit e poi
continuando con le elezioni presidenziali negli Stati Uniti.
Quello
che hanno fatto alcune piattaforme che gestiscono appunto i social non è
provare a convincere i votanti a cambiare il loro voto ma quello di utilizzare
i profili psicologici, precedentemente creati attraverso algoritmi, per
generare una reazione nei confronti di un particolare candidato, e quindi in
qualche modo indirizzarlo, quando egli vota, verso un determinato candidato con
l’invio di messaggi appositi.
Se
questa propaganda subliminale si combina poi con altre operazioni, tipo fake
news o messaggi scoraggianti verso un dato candidato, non è detto che si riesca
a far cambiare l’opinione a quell’ elettore, ma molto probabilmente si potrà
ottenere che questi si astenga dal voto;
quando
questo è fatto in maniera massiccia e personalizzata su milioni di persone
naturalmente il processo elettorale è indiscutibilmente alterato.
“Il
rischio delle piattaforme è altissimo” cosi ha esordito la Prof.ssa G. Cerrina
Feroni nel corso del seminario organizzato dall’Università “G. Marconi” dal
titolo “L’Oversight Board di Facebook: il controllo dei contenuti tra procedure
private e norme pubbliche”
Il
servizio di rete sociale di Facebook, oggi Meta platforms, nato come facilitatore di amicizie
è, nei fatti, una architettura composta da elemento tecnologico (riguarda i dati che sono organizzati
da algoritmi, hardware e software per aumentare la connettività tra cittadini e
la piattaforma);
un elemento economico (il numero di accessi, il tempo
utilizzato, le ricerche effettuate etc., sono tutti dati che la piattaforma
acquisisce) ed un elemento giuridico i
termini di servizio sono pseudo- contratti e, quando riguardano contenuti, sono
standard di community).
Essi
sono però soggetti a frequenti modifiche unilaterali.
Se
però nella vita reale c’è il legislatore a scrivere le regole, nella rete c’ è
l’autoregolamentazione; o meglio c’è “co-regolamentazione” cosi da mantenere
libertà di azione.
Ecco
perché per la relatrice Fb che è un “ecosistema “apparentemente democratico,
nei fatti autoritario.
Si è dato un “Oversight Board” e dei valori
autodeterminati; non c’è, perciò, controllo dello Stato o del Parlamento ma
solo regole imposte agli utenti dal “board”.
Le
piattaforme commerciali fanno selezione in base a loro interessi e convinzioni
anche se permettono di superare le barriere e permettono ad ognuno di noi di
affiliarsi solo ai gruppi di cui condividiamo le idee (una sorta di turismo
online).
Forti
interessi pubblici e privati muovono le decisioni di tale organismo.
Valori
comuni come libertà di espressione, la libertà di informazione che
costituiscono il nucleo dei diritti inviolabili dell’uomo, sottratti ad ogni
revisione perché diritti fondamentali, che appartengono a tutti i cittadini ed
è lo Stato a custodirli, oggi sono diventati dei beni posseduti da piattaforme
per interessi privati.
Conclusioni.
E’
sempre più chiaro che i social network non sono una semplice piattaforma
statica e cioè dei semplici mediatori senza alcuna forma di responsabilità, ma al
contrario essi sono le società che li gestiscono e che hanno quindi una chiara
responsabilità per le pratiche non corrette quali ad esempio la chiara lesione di
diritti fondamentali prima accennati.
La
libertà di informazione, ad esempio, è oggi oggetto di lesione da parte delle
fake news mentre la lesione del diritto alla privacy, come protezione dati personali,
è costantemente bersaglio da parte di queste società.
E’
palese l’obbligo degli attori politici di proteggere il nucleo delle libertà
fondamentali che sono veri e propri diritti inviolabili.
Queste
conseguenze dello sviluppo tecnologico stanno provocando cambiamenti, non
sempre prevedibili, in quanto stanno portando ad una trasformazione dei modelli
culturali in modo inarrestabile e quindi è chiara la tensione tra il
costituzionalismo e lo sviluppo tecnologico; così come è difficile individuarne
una soluzione.
E’ di
certo necessaria una regolazione, che partendo dai principi costituzionali,
garantisca i diritti fondamentali e la limpidezza di quei valori che sono sotto
attacco.
Naturalmente
le società tecnologiche si oppongono, e si opporranno, affannosamente a questo
lavoro adducendo ragioni tecniche che impedirebbero qualsiasi regolamentazione;
stanno imponendo l’idea che la costruzione diritti sia un ostacolo al progresso che esse offrono, ma proprio per questa ragione e ancor di più necessario arrivare ad una regolazione, anche condivisa.
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