LIBERTA’ E DEMOCRAZIA.

LIBERTA’ E DEMOCRAZIA.

 

Il complesso rapporto tra

hate speech, libertà e democrazia.

Altalex.com Avv. Marco Martorana – avv. Roberta Savella – (8 novembre 2022) – ci dicono:

 

Un difficile bilanciamento tra le libertà fondamentali coinvolte e gli sforzi europei per il contrasto ai discorsi d’odio.

Risale allo scorso 25 ottobre il report del Congresso dei Poteri Locali e Regionali del Consiglio d’Europa sull’hate speech, che segue le Linee Guida adottate dal Comitato dei Ministri il 20 maggio ed evidenzia gli impatti che i discorsi d’odio possono avere sul lavoro dei funzionari delle amministrazioni locali e, quindi, sul corretto funzionamento delle istituzioni democratiche della nostra società.

La questione degli effetti negativi dell’hate speech sulla libertà delle vittime di questo fenomeno era stata affrontata anche nel Documento conclusivo sull’indagine conoscitiva sulla natura, cause e sviluppi recenti del fenomeno dei discorsi d’odio, approvato dalla Commissione straordinaria per il contrasto dei fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza (“Commissione Segre”) nel giugno 2022.

Si tratta di un tema che va oltre le tradizionali obiezioni relative al complesso rapporto tra hate speech e libertà di espressione, con un ribaltamento di prospettiva: si inquadra la tutela contro i discorsi d’odio come uno strumento per garantire la libertà anche per i soggetti appartenenti alle categorie target dell’hate speech, invece che come una lesione alla possibilità di esprimere il proprio pensiero.

Il cuore del ragionamento è che i discorsi d’odio finiscono per silenziarne le vittime, dunque reprimere questi comportamenti è necessario per consentire anche a loro l’esercizio dei propri diritti fondamentali.

Nel proteggere i soggetti più esposti nei confronti degli odiatori seriali, quindi, si tutela la libertà dell’intera società.

1. Hate speech: problemi di definizione.

Ma cosa si intende con “hate speech”?

Il Documento della Commissione Segre sopra citato evidenzia i problemi legati alla definizione di questo fenomeno, che risente della diversa sensibilità che i vari ordinamenti giuridici dimostrano nei confronti delle tematiche connesse ai discorsi d’odio, in primis per quanto riguarda il rapporto, appunto ancora controverso, tra tutela della dignità e tutela della libertà di espressione.

Per evitare equivoci sulla possibile sovrapposizione tra lecita manifestazione del pensiero e discorsi d’odio, nel Documento viene riportata la definizione contenuta nella Raccomandazione di politica generale n. 15 della Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza:

“hate speechè “l’istigazione, la promozione o l’incitamento alla denigrazione, all’odio o alla diffamazione nei confronti di una persona o di un gruppo di persone, o il fatto di sottoporre a soprusi, molestie, insulti, stereotipi negativi, stigmatizzazione o minacce tale persona o gruppo, e comprende la giustificazione di queste varie forme di espressione, fondata su una serie di motivi quali la ‘razza’, il colore, la lingua, la religione o le convinzioni, la nazionalità o l’origine nazionale o etnica, nonché l’ascendenza, l’età, la disabilità, il sesso, l’identità di genere, l’orientamento sessuale e ogni altra caratteristica o situazione personale”.

Nelle Linee Guida del 20 maggio scorso, il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa chiarisce che per “hate speech” devono intendersi

“tutti i tipi di espressioni che incitano, promuovono, diffondono o giustificano la violenza, odio o discriminazione contro una persona o un gruppo di persone, o che le denigrano, a causa di loro caratteristiche personali reali o attribuite o di status come la “razza”, il colore della pelle, la lingua, la religione, la nazionalità o l’origine etnica, l’età, la disabilità, il sesso, l’identità di genere e l’orientamento sessuale” .

 

È fondamentale ancorare la definizione di hate speech, quindi, non al movente in sé del discorso, ma agli effetti che questo può avere, ai rischi che causa per le vittime:

 mentre il dato psicologico, il sentimento d’odio, rimane insindacabile nella sfera intima e inviolabile dell’individuo, è necessario reprimere comportamenti che abbiano come obiettivo ed effetto probabile quello di incitare, promuovere, diffondere o giustificare (e, in tal modo, incentivare) violenza, odio e discriminazione.

(Il diritto del web, di Mensi Maurizio, Falletta Pietro, Ed. CEDAM, 2021. Il volume analizza approfonditamente l’evoluzione che è stata sin qui solo brevemente riassunta, adottando un approccio interdisciplinare che si estende a tutti i diritti e i settori giuridici oggi coinvolti dalle nuove tecnologie e dalle loro implicazioni correlate alla rete web.)

2. Il bilanciamento con la libertà di espressione.

A livello europeo la libertà di espressione è un diritto fondamentale soggetto a bilanciamento con gli altri di pari rango, come la tutela della dignità della persona e il principio di non discriminazione.

 L’art. 10 par. 2 della CEDU sancisce che la libertà di parola può essere sottoposta a restrizioni necessarie per salvaguardare la reputazione e i diritti altrui.

Le misure contro l’hate speech sono, quindi, pienamente legittime purché proporzionate allo scopo: devono, in altri termini, fondarsi su un giusto bilanciamento tra libertà di espressione e gli altri diritti fondamentali violati dal discorso d’odio.

Anche la Corte di Cassazione si è pronunciata in questo senso nella sentenza n. 36906/2015, affermando che “nel possibile contrasto fra la libertà di manifestazione del pensiero e la pari dignità dei cittadini, va data preminenza a quest’ultima solo in presenza di condotte che disvelino una concreta pericolosità per il bene giuridico tutelato”.

Tuttavia, appare convincente la tesi, che abbiamo evidenziato in apertura di questo contributo, che inquadra l’hate speech proprio come una violazione della libertà di espressione delle vittime, e che articola così l’intera discussione su questo diritto fondamentale.

 Il Documento della Commissione Segre cita il Professor Jeremy Waldron della New York University School of Law, che nel suo libro “The Harm in Hate Speech” afferma che “quando noi difendiamo i discorsi d’odio perché vogliamo tutelare il free-spech, cioè la libertà di espressione, in realtà stiamo scegliendo la libertà di espressione degli aggressori rispetto alla dignità di espressione delle vittime”.

 La Commissione, inoltre, correla questo fenomeno con il problema dell’altissimo livello di under-reporting: la limitazione alla libertà di espressione delle vittime finisce per impedire loro di denunciare.

Questo discorso fornisce una interessante chiave di lettura per il recente Report del Consiglio d’Europa, che descrive gli effetti negativi dell’hate speech sul funzionamento delle istituzioni.

 I politici sono sempre più di frequente vittima di discorsi d’odio e abusi verbali e, per questo motivo, si trovano a lavorare in ambienti tossici e intimidatori, cosa che impatta in modo disastroso sul tessuto democratico della società, con un “effetto paralizzante”.

Questo fenomeno viene esacerbato nei contesti locali, in quanto i politici vivono la propria quotidianità nelle aree di cui sono rappresentanti eletti, ed è tanto più grave quando avviene nei confronti di soggetti appartenenti a categorie target (ad esempio minoranze etniche o religiose, persone LGBT+, ecc.) spesso sottorappresentate nelle istituzioni e che, anche a causa dell’hate speech, possono essere disincentivate alla partecipazione politica.

Per questi motivi, il Congresso dei Poteri Locali e Regionali del Consiglio d’Europa, autore del report suddetto, chiede alle autorità locali e regionali degli Stati membri del Consiglio d’Europa alcune azioni, tra le quali evidenziamo:

Formare i politici eletti nelle istituzioni locali e regionali su come identificare, affrontare e prevenire hate speech e fake news, assicurandosi allo stesso tempo che abbiano gli strumenti necessari a tutelare la propria salute mentale (ad esempio fornendo loro un numero di emergenza attivo 24 ore su 24 per ottenere assistenza);

Promuovere l’adozione di Linee Guida per i politici e i media al fine di prevenire disinformazione e hate speech e favorire la trasparenza e l’open government;

Diffondere consapevolezza sul tema dell’hate speech e delle fake news, anche condividendo best practices adottate a livello nazionale o internazionale;

Supportare la cooperazione tra i politici e le comunità che rappresentano, anche attraverso meccanismi di partecipazione pubblica e coinvolgimento di gruppi e associazioni locali.

3. La normativa di contrasto all’ “hate speech”.

Per quanto riguarda le soluzioni normative per il contrasto all’hate speech, è ormai assodato che la risposta di tipo penale al problema deve essere usata come extrema ratio, mentre il grosso della tutela passa dall’educazione e dai rimedi di tipo civile e amministrativo.

È quanto emerge dal Documento della Commissione Segre e dalle Linee Guida del Consiglio d’Europa dello scorso maggio, che sottolineano la necessità di distinguere i casi in cui il discorso d’odio è grave al punto da richiedere una tutela penalistica, quelli in cui è sufficiente il rimedio civile o amministrativo e, infine, quelli in cui le espressioni usate non sono sufficientemente gravi da poter essere limitate a livello giuridico ma richiedono comunque una risposta di tipo educativo, di dialogo interculturale e diffusione di consapevolezza del problema.

Il Comitato dei Ministri nelle Linee Guida utilizza i criteri di bilanciamento con la libertà di espressione che si sono affermati nella giurisprudenza europea, chiedendo altresì agli Stati membri di definire chiaramente nella loro legislazione nazionale quali espressioni di hate speech possono essere soggette a tutela penale (ad esempio minacce o insulti di matrice omofoba o razzista, ma anche negazione pubblica o giustificazione di genocidi e crimini di guerra) e di assicurare, comunque, rimedi effettivi di tipo civile e amministrativo.

Nelle Linee Guida troviamo inoltre un invito esplicito agli Stati a imporre per via legislativa gli intermediari online (come, ad esempio, i siti di social network) di adottare delle misure effettive per impedire la diffusione di hate speech.

 Il ruolo delle piattaforme nel contrasto alla diffusione dell’hate speech diventa sempre più centrale e il Comitato dei Ministri le inserisce nei “key actors” destinatari delle sue raccomandazioni, insieme alle istituzioni politiche e ai media.

È importante notare qui come nel nuovo Regolamento europeo sui servizi digitali (Digital Services Act o “DSA”) siano stati introdotti nuovi obblighi per le piattaforme che forniscono servizi digitali, tra cui quello di dare informazioni esplicite sulla moderazione dei contenuti e, per gli intermediari di maggiori dimensioni, l’adozione di codici di condotta e di meccanismi di prevenzione di rischi sistemici per i diritti e le libertà fondamentali degli individui.

Il problema della mancanza di trasparenza sui sistemi di moderazione delle piattaforme online è stato evidenziato anche nel Documento della Commissione Segre, dove viene sottolineata l’importanza di regolamentare l’uso di algoritmi in questo contesto.

4. Conclusioni.

Il contrasto all’hate speech, come abbiamo visto, solleva alcune questioni per quanto riguarda la compressione della libertà di espressione.

Queste possono tuttavia essere inquadrate utilizzando una prospettiva diversa che ponga al centro la tutela della libertà delle vittime lesa anch’essa, oltre alla dignità, dal comportamento degli aggressori.

Adottare questo punto di osservazione del problema ci consente di considerare anche le ricadute che i discorsi d’odio hanno sul comportamento dei destinatari, specialmente quando questi sono rappresentanti politici;

in questi casi il clima tossico creato dagli odiatori seriali finisce per influire sul corretto funzionamento delle istituzioni democratiche, paralizzandone l’attività.

Se è chiaro che il diritto penale deve essere utilizzato con parsimonia per reprimere questi comportamenti, c’è ancora molto da fare per potenziare l’educazione, la sensibilizzazione su questi temi, oltre che i rimedi di tipo civile o amministrativo utili a disincentivare i discorsi d’odio.

I documenti adottati dal Consiglio d’Europa negli ultimi mesi chiamano tutti i “key actors” all’azione per modellare una società più sicura anche per le categorie target dell’hate speech.

 

 

 

NEURALINK DI ELON MUSK,

COSA ACCADE NEI LABORATORI?

Visionetv.it- Martina Giuntoli – (7 dicembre 2022) – ci dice:

 

Il proprietario di Twitter, Elon Musk, potrebbe passare guai grossi. Questa volta non si tratta dell’uccellino blu, ma dell’altro progetto di cui è a capo, ovvero il chip prodotto da Neuralink Inc.

Secondo ciò che è emerso da alcuni documenti consegnati al dipartimento dell’agricoltura statunitense dal Comitato Medico per la Medicina Responsabile, Neuralink è indagata per maltrattamento di animali.

 

Si legge nelle carte che nel lavorare sul progetto principale dell’azienda, un processore da impiantare nell’uomo, si starebbe ovviando a diverse norme che riguardano l’utilizzo di animali da laboratorio.

Nel cercare di guadagnare più tempo possibile, Elon Musk infatti sacrificherebbe più animali del consentito.

Sempre secondo la documentazione, l’uomo non sarebbe minimamente interessato ad ottimizzare le procedure prima di ripetere un esperimento.

Il suo unico obiettivo sarebbe infatti esclusivamente quello di ottimizzare i tempi per iniziare a lavorare sull’uomo.

Neuralink Inc. è un’azienda fondata dal miliardario sudafricano, che ha sede a San Francisco e Austin, e si occupa principalmente di neuro tecnologie.

Ormai da qualche anno sta lavorando su di un processore che integri uomo e macchina.

 In particolare il progetto più importante della compagnia è un’apparecchiatura da impiantare nel cervello umano che, qualora funzionasse, dovrebbe essere in grado di restituire la vista, la mobilità, l’udito e altre funzioni a persone disabili.

Ma a quale prezzo?

Alcuni quotidiani riportano che diverse delle scimmie chippate sono morte o, dettaglio ancora più macabro, si sono morse gli arti fino a staccarsi le dita di mani e piedi.

Altre invece, in conseguenza agli elettrodi impiantati nel cervello, hanno sviluppato emorragia cerebrale e gravi infezioni.

Neuralink Inc. ha ammesso che le scimmie sono morte, ma ha sempre rigettato l’accusa di crudeltà sugli animali.

Eppure i documenti presentati nella denuncia parlano chiaro: morti orrende, infezioni devastanti e gravi effetti collaterali in conseguenza agli esperimenti.

Infatti, nelle note di laboratorio di cui adesso il dipartimento dell’agricoltura è in possesso i dati a riguardo sono molto precisi.

Ryan Merkley, il responsabile medico del comitato che ha attenzionato i fatti di Neuralink Inc. ha apertamente dichiarato:

Per quanto sia cruento, il pubblico deve essere consapevole di quello che accade là dentro e della sofferenza immane cui le scimmie sono costrette a sottostare.

Forse pochi sanno che l’azienda di Musk collabora con l’Università della California di Davis, università che è stata profumatamente pagata per condurre gli esperimenti all’interno dei suoi edifici. Tuttavia lo stesso Merkley ha dichiarato:

Appare chiaro che l’università stia cercando di nascondere ai contribuenti il fatto che collabora con Elon Musk e che insieme alla sua azienda sta conducendo esperimenti durante i quali gli animali sono esposti a pratiche disumane.

Le foto di cui siamo in possesso sono di dominio pubblico poiché scattate con fondi pubblici e quindi la gente ha il diritto di sapere ciò per cui sta pagando.

Neuralink Inc. ha risposto alle accuse dicendo che le mutilazioni agli arti di cui parlano i suoi oppositori deriverebbero semplicemente da litigi tra animali. E ha dichiarato, tra le altre cose, che:

Si deve tener conto che le accuse che ci vengono rivolte giungono da persone che si oppongono in ogni modo all’utilizzo di animali da laboratorio.

E Musk cosa dice a riguardo?

Incredibilmente minimizza e anzi sostiene che non avrebbe problemi ad impiantare il chip nel cervello di uno dei suoi figli se questo avesse un serio problema di salute. Ha detto Musk in una conferenza lo scorso mercoledì:

Vorrei sottolineare che adesso siamo ad un punto in cui almeno l’utilizzo del chip di Neuralink non sarebbe pericoloso.

Beh, un po’ poco, se si considera che Musk vorrebbe cominciare a impiantare il chip nell’uomo già entro i prossimi sei mesi (si pensi che l’azienda avrebbe già mancato diverse scadenze che si era data in passato).

Il miliardario sudafricano ha infatti dichiarato su Twitter che sta già lavorando al processo di approvazione con la Fda.

Ha affermato Musk:

Quando sarà pronto ed approvato sarò il primo a provarlo. Mi farò impiantare il chip non appena disponibile.

 Potreste tutti già aver dentro la testa un chip di Neuralink e non saperlo, intendo dire ipoteticamente.

Nel ritenere indubbia la necessità che un’investigazione approfondita su quanto accade all’interno dei laboratori di Neuralink Inc. venga condotta, dovremmo chiederci anche altro.

Se gli animali hanno subito questo trattamento, cosa riserverà Musk all’uomo?

La risposta potrebbe non piacerci affatto.

(MARTINA GIUNTOLI)

 

ARMI PER L’UCRAINA IN

MANO AGLI JIHADISTI IN AFRICA.

Visionetv.it – Giulia Burgazzi – (7 dicembre 2022) – ci dice:

 

Le armi che l’Occidente regala all’Ucraina in quantità industriale finiscono anche in Africa, nel bacino del lago Ciad, dove alimentano il terrorismo.

Lo denuncia il presidente della Nigeria, Muhammadu Buhari.

Già nel maggio scorso si era parlato di Kiev come di uno shopping center per la ‘ndrangheta.

 In seguito, la polizia finlandese ha segnalato la presenza in vari Paesi europei di armi consegnate all’Ucraina, senza specificare di quali Paesi si tratti.

Inoltre Europol, l’agenzia dell’Unione europea per contrastare la criminalità organizzata, ha diplomaticamente sollevato il tema della presenza di indizi relativi al contrabbando di armi provenienti dall’Ucraina.

Tutto questo ha indotto gli Stati Uniti ad inviare ispettori in Ucraina, con il compito di tenere traccia degli aiuti bellici statunitensi.

Non sono noti i risultati della missione effettuata dagli ispettori.

È noto invece che, almeno a quanto sostiene il presidente nigeriano, gli ispettori statunitensi ora hanno davanti a sé un altro campo di indagine: l’Africa, appunto.

Il continente nero è il teatro di mille conflitti che l’Occidente conosce poco e dimentica rapidamente.

Nel bacino del lago Ciad – il luogo al quale Muhammadu Buhari ha fatto riferimento – operano due organizzazioni terroristiche, che peraltro egli non ha esplicitamente citato.

Si tratta di Boko Haram, di matrice jihadista, e dell’Isis, lo Stato islamico dell’Africa occidentale.

Il presidente della Repubblica Nigeriana ha dedicato alle armi arrivate dall’Ucraina un passaggio del comunicato stampa relativo al summit della commissione che si occupa del bacino del lago Ciad, svoltosi alla fine dello scorso mese di novembre. Ecco che cosa dice il comunicato, in traduzione:

Il Presidente Muhammadu Buhari ha sollecitato martedì ad Abuja una maggiore vigilanza e un rafforzamento della sicurezza intorno alle frontiere, richiamando l’attenzione sull’aumento del numero di armi, munizioni e altri armamenti provenienti dalla guerra tra Russia e Ucraina nel bacino del Lago Ciad.

In occasione del 16° Vertice dei Capi di Stato e di Governo della Commissione del Bacino del Lago Ciad (LCBC), il Presidente, che presiede il Vertice dei Capi di Stato e di Governo, ha affermato che la minaccia dei terroristi nella regione è stata relativamente tenuta sotto controllo, mentre l’afflusso di armi pone nuove sfide.

“Va comunque detto che, nonostante i successi registrati dalle valorose truppe della MNJTF e le varie operazioni nazionali in corso nella regione, la minaccia terroristica è ancora in agguato nella regione”.

“Purtroppo, la situazione nel Sahel e l’imperversare della guerra in Ucraina sono le principali fonti di armi e combattenti che rafforzano i ranghi dei terroristi nella regione del Lago Ciad.

Una parte consistente delle armi e delle munizioni procurate per eseguire la guerra in Libia continua a raggiungere la Regione del Lago Ciad e altre parti del Sahel”.

 

“Anche le armi utilizzate per la guerra in Ucraina e in Russia stanno iniziando a filtrare nella regione”.

“Questo movimento illegale di armi nella regione ha aumentato la proliferazione di armi leggere e di piccolo calibro, che continua a minacciare la nostra pace e sicurezza collettiva nella regione.

È quindi urgente che le nostre agenzie di controllo delle frontiere e gli altri servizi di sicurezza collaborino al più presto per fermare la circolazione di tutte le armi illegali nella regione”.

La stampa occidentale ha degnato la faccenda di ben poca considerazione.

Altrove le cose sono andate diversamente.

È il caso ad esempio dell’edizione in lingua inglese di “Al Mayadeen”, un canale di tv satellitare che si rivolge al mondo arabo.

(After #Nigeria‘s President Muhammadu Buhari’s clear warning, will we see more #US weapons making it into the hands of terrorist organizations? # Ukraine https://t.co/hkONcaWatV

— Al Mayadeen English (@MayadeenEnglish) December 3, 2022)

In traduzione:

Dopo il chiaro avvertimento del presidente nigeriano Muhammadu Buhari, vedremo altre armi statunitensi finire nelle mani di organizzazioni terroristiche?

Come abbiamo visto, nel comunicato stampa dedicato al summit sul bacino del lago Ciad, Muhammadu Buhari ha affermato che la minaccia terroristica nella regione è stata portata relativamente sotto controllo, ma che l’afflusso di armi causa nuove difficoltà.

 Fra queste armi egli cita anche quelle provenienti dalla guerra fra Russia ed Ucraina, spiegando che stanno iniziano ad infiltrarsi nella zona.

Di qui la sua esortazione ai Paesi che si affacciano sul lago Ciad a controllare attentamente ciò che entra nei loro confini.

Esiste però anche l’altra faccia della medaglia, che Muhammadu Buhari diplomaticamente non ha citato.

 Se i Paesi occidentali vogliono continuare a regalare armi l’Ucraina – ammesso ma non concesso che i loro regali siano giusti e ragionevoli – farebbero bene anche ad interessarsi della fine che le armi fanno.

(GIULIA BURGAZZI)

 

 

 

Covid, Big Pharma

in guerra sui vaccini.

msn.com- Milano Finanza - Andrea Boeris – (7-12-2022) – ci dice:

 

La guerra tra le società del vaccino anti-Covid non si ferma e si arricchisce di un nuovo capitolo.

 Dopo la causa intentata da Moderna lo scorso agosto, nella quale la biotech guidata da Stephane Bancel ha accusato le rivali Pfizer e BioNTech della violazione di alcuni brevetti relativi alla tecnologia dell’mRna messaggero su cui si basa il suo vaccino Spikevax, il colosso americano del Pharma e la partner tedesca hanno ora deciso di passare al contrattacco citando a loro volta in giudizio la stessa Moderna.

Pfizer e BioNTech hanno sempre respinto le accuse mosse da Moderna e adesso sostengono che la società biotech con la sua causa abbia cercato di riscrivere la storia della pandemia per intestarsi un «ruolo da unico protagonista» nel tentativo di oscurare il contributo di altri attori, come ad esempio quello degli scienziati di Pfizer e BioNTech. Le due società partner nella loro controaccusa vogliono ora dimostrare di aver sviluppato in modo indipendente il loro vaccino.

Mentre la causa di Moderna sostiene che i due vaccini a mRna sono abbastanza simili da giustificare un’accusa di violazione del brevetto, visto che entrambi utilizzano l’mRna e le nanoparticelle lipidiche, Pfizer e BioNTech affermano invece che il loro vaccino è «innegabilmente diverso» da quello della loro concorrente, sostenendo che il loro utilizza una struttura mRna diversa da quella dello Spikevax di Moderna, oltre a diversi lipidi.

In gioco ci sono le miliardarie royalties sulle vendite del vaccino anti-Covid, sebbene siano in calo e potrebbero scendere ulteriormente se il pericolo pandemico continuasse a diminuire.

 Non a caso, come si vede dalla tabella, le società in borsa hanno perso molto terreno nel corso del 2022.

Ma un aspetto forse ancora più importante dietro a questa battaglia legale è la posizione dominante nelle piattaforme a mRna in generale, il cui sviluppo potrebbe avere applicazioni per altri vaccini e terapie extra-Covid.

«La causa leale di Moderna scoraggerà l’ulteriore sviluppo della straordinaria scienza che ha reso possibili i vaccini accelerati contro il Covid», scrivono gli avvocati di Pfizer e BioNTech nella loro controaccusa.

E attorno all’mRna messaggero sono molte le società in lotta tra loro.

Curevac ha accusato BioNTech di violare la sua proprietà intellettuale, mentre Alnylam ha citato in giudizio sia Pfizer-BioNTech che Moderna sulle nanoparticelle lipidiche e anche Arbutus Biopharma e Genevant Sciences hanno denunciato Moderna, sempre sulla funzione dei lipidi nella tecnologia dell’mRna.

 

 

Democrazia e libertà, due

valori che ci rendono più forti.

Huffingtonpost.it- Carlo Molinari – (22 Aprile 2020) – ci dice:

 

Democrazia: lo sanno tutti cosa significa. Anche quelli che non hanno studiato il greco. Anche quelli che democratici non sono e vivono, come da noi, in un paese democratico.

La democrazia, cioè quella forma di governo dove il potere è esercitato dal popolo, è la forma più umana, certamente, di gestire l’organizzazione e la crescita di un paese.

 È una forma di governo che permette a tutti di esprimere la propria opinione, il proprio pensiero; di votare liberamente, senza costrizioni o vincoli.

È la condizione politica di uno stato come il nostro che, paradossalmente, ha permesso che recentemente andasse al potere una formazione di governo costituita (per la metà e appoggiata da altre forze antidemocratiche) da banali oppositori del sistema democratico.

Il bello della democrazia è proprio questo: dare voce a ogni partito e che, anzi, ogni partito regolarmente eletto possa avere i suoi rappresentanti nel Parlamento. Persino i partiti che manifestino idee estremiste, che non dovrebbero esistere più in uno stato (e in una coalizione di stati, come l’Europa) democratico.

La democrazia fa sì che tutti possano esprimere il loro parere... anche quando chi parla lo fa criticando il 25 aprile, il giorno della liberazione. La liberazione da un regime oppressivo come quello fascista.

Il “25 Aprile”. Il giorno in cui il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (quello di Pertini, Sereni, Longo) proclamò l’insurrezione dei territori occupati dai nazifascisti. Questo è il venticinque aprile, il giorno della Libertà, con la elle maiuscola. Quello che mise fine a venti anni di dittatura fascista e ai cinque anni della seconda guerra.

Libertà, significa esattamente questo il 25 aprile; non bisogna stancarsi di dirlo e gridarlo a gran voce.

 Libertà, che la signora Meloni e il signor Salvini non avrebbero mai avuto garantita altrimenti, se non come servi di un qualunque dittatore... La libertà decretata dal referendum del 2 giugno 1946, la libertà della scelta e della formazione della Repubblica Italiana e la stesura della Costituzione, in un paese che per quasi due millenni non era mai stato unito veramente, in un’Italia che era da chiamarsi tale solo geograficamente.

Il 25 aprile è sempre stato soggetto a polemiche, talvolta neppure troppo legate alla liberazione.

È fuori da ogni dubbio una festa inclusiva, che richiama ai valori della Resistenza, quindi alla Repubblica italiana e alla Costituzione;

ed è insito nella parola stessa il termine di Libertà, nel suo più alto significato.

È una data in cui gli italiani dovrebbero (devono) essere solidali ai valori dello stato, dell’individuo e ai fondamentali rapporti tra questi due attori.

Democrazia e libertà, quindi.

Due parole semplici, con un significato immenso; distinto ma in essenza unico, che niente e nessuno dovrà e potrà mai sottrarci.

Niente e nessuno potrà confonderle con qualche parvenza di surrogati.

Due parole che, legate al 25 aprile, giorno della liberazione, danno senso e orgoglio alla totalità del popolo italiano.

 

 

 

Desideri di libertà e democrazia

Una grande, fragile coppia.

Books.openedition.org - Gabriele Magrin -pag-29-36 – (4-11-2022) – ci dice:

 

1)- Democrazia e desideri umani hanno alle loro spalle una storia secolare di complicità, nella quale si sono sostenuti e rafforzati a vicenda.

Senza desideri di libertà, di autonomia, di assenza di padroni, di uguale dignità e in prospettiva di uguali diritti (diritti uguali per tutti gli uguali e diversi per tutti i diversi), la democrazia non ha motivo di essere.

E allo stesso modo, senza democrazia, questi stessi oggetti del desiderio – libertà, autonomia, assenza di padroni, diritti – sono fragili e in costante pericolo. «Le aspirazioni nutrono la democrazia», ha scritto Appadurai.

E democrazia è il nome di uno spazio di uguaglianza creato artificialmente dall’uomo (l’uguaglianza politica) nel quale soggetti diversi tra loro possono esprimere, promuovere, sperare di dare gambe alle loro aspirazioni.

 Che sono costitutivamente diverse, conflittuali, aperte nelle forme e negli esiti.

 

2)- Desideri e democrazia si implicano reciprocamente.

Questa relazione è chiarissima fin dalle origini del pensiero politico occidentale. Per Platone, come per Aristotele, l’uomo democratico desidera una cosa ben precisa: «fare ciò che vuole», essere il principio delle proprie azioni.

Esigenza che richiede però parità di condizioni, ovvero una uguale libertà: posso essere libero di fare ciò che voglio, soltanto se qualcuno non è più libero di me.

Da qui, la condanna unanime dei classici greci, per i quali la società dovrebbe riflettere la gerarchia naturale del creato.

 La condanna è senza appello per Platone. Più moderata, ma non meno effettiva, in Aristotele. Dopo la lunga eclisse del pensiero democratico, questa stessa relazione – desideri e democrazia – ricompare in Spinoza, per il quale la democrazia è il solo regime che possa garantire coesistenza e sviluppo ai moventi passionali dell’uomo, al “conatus sese servandi “che spinge i soggetti lungo percorsi di autorealizzazione diversi e perfino in contrasto tra loro.

Una relazione costitutiva tra desideri e democrazia si trova anche all’origine della figura concettuale che sta a fondamento delle democrazie costituzionali.

 Parlo del contratto sociale nella sua declinazione moderna, con il quale Hobbes per primo, e poi Locke e Rousseau consegnano alla posterità l’idea-guida di un ordine politico che nasce artificialmente – e artificialmente può essere dissolto – sulla base di un libero accordo tra individui uguali, per proteggere o promuovere alcuni “beni”.

 Poco importa disquisire qui sul fatto che nei contrattualisti del Seicento e del Settecento la protezione della vita e della proprietà potessero avere la meglio su beni tipicamente democratici come libertà e uguaglianza.

 È molto importante ricordare invece che la figura del contratto sociale produce uno spazio politico nel quale bisogni e aspirazioni umane possono trovare un canale di espressione.

 Il potere non si presenta più come fatto “naturale” e nemmeno come creazione o punizione divina, ma è concepito per la prima volta come il prodotto di un accordo umano, in vista di obiettivi condivisi: obiettivi che alla prova dei fatti si riveleranno mutevoli, ma strettamente intrecciati all’affermazione della democrazia nel mondo moderno.

Le costituzioni democratiche e la democrazia politica che l’Europa ha sperimentato nel secondo Novecento sono i luoghi nei quali bisogni, desideri e aspirazioni hanno trovato possibilità di espressione. In forma politica: traducendosi in lotte e rivendicazioni.

 Nella dimensione culturale: attraverso visioni del mondo o ideologie contrastanti.

Nella sfera giuridica: erigendo a diritti bisogni/desideri/aspirazioni che esigono garanzia o realizzazione.

 

3)- La relazione tra il desiderio di libertà e la democrazia è necessaria, ma è sempre stata molto fragile, contraddittoria, bisognosa di essere curata e sostenuta.

Non tutte le democrazie sanno alimentare la capacità di desiderare e non tutti i desideri di libertà nutrono la democrazia.

Vorrei soffermarmi qui su due affermazioni di principio, solo apparentemente contraddittorie:

a). La democrazia può soffocare i desideri.

 b). I desideri possono estenuare la democrazia.

Se noi viviamo un’epoca di crisi – di involuzione della democrazia e di passioni tristi – è perché questi due processi degenerativi sono in atto simultaneamente.

Il problema è che raramente questi due processi vengono considerati insieme.

 

4) - Come sappiamo bene, la democrazia può soffocare i desideri direttamente, diventando impermeabile ai bisogni e alle aspirazioni sociali.

Ma anche indirettamente, lasciando che il desiderio di autonomia dei soggetti si dissolva, o venga irregimentato, nella fabbrica del godimento, prodotta e riprodotta da poteri sociali fuori controllo.

Queste tesi hanno accompagnato gli sviluppi della filosofia critica degli ultimi cinquant’anni, dalla scuola di Francoforte, a Foucault al marxismo di matrice lacaniana di Slavoj Žižek, e hanno costituito per lungo tempo l’essenza della critica “da sinistra” alla democrazia.

Queste tesi hanno il loro baricentro nella critica del potere.

5) - Il rischio che la democrazia possa essere estenuata dai desideri è stato nei secoli il “cave canem” delle destre:

delle destre liberali e conservatrici (non certo di quelle populiste, molto più disinvolte nel fare appello a passioni e pulsioni di massa).

 La critica, su questo fronte, ha sempre avuto per oggetto non il potere, ma il démos: di fronte alla pletora di aspettative che emergono dal basso e chiedono soddisfazione pubblica, si afferma, l’unica possibile risposta è una compressione del desiderio, e soprattutto dei desideri di libertà.

Non è possibile, si dice oggi, assicurare al tempo stesso il diritto alla privacy e quello alla sicurezza, il diritto alla libertà di opinione e il diritto a non essere offesi dalle opinioni altrui, il diritto a circolare con le auto e quello a respirare un’aria pulita, e così via.

Troppi desideri e troppi cattivi desideri.

Ma quali sono i cattivi desideri che i conservatori di ogni tempo ci invitano a considerare?

Dobbiamo guardarci bene dalla tentazione, oggi ricorrente, di dare a questa domanda una risposta sostantiva.

 Non esiste e non è desiderabile un’etica unitaria che fornisca una risposta univoca. L’unico modo per prendere sul serio il discorso dei conservatori è di riconoscere che i cattivi desideri esistono, e sono quelli che nuocciono alla democrazia, ovvero alla capacità di autogoverno dei singoli, e della società nel suo insieme.

Senza l’esigenza di autogoverno, e dunque di assenza di padroni, desideri e aspirazioni sono destinati a infrangersi contro il muro dell’eteronomia: qualcuno deciderà per noi che cosa è desiderabile.

Un potere visibile, un potere invisibile o un dispositivo governamentale: le molte figure del padrone.

 

6) - Credo allora che chi oggi ha a cuore il “desiderio di democrazia” debba prendere molto sul serio la critica di Platone alla libido dell’uomo democratico.

Nell’VIII libro della Repubblica, Platone formula nel modo più drastico una tesi che sarà ripresa infinite volte dal pensiero tradizionalista.

L’uomo democratico, scrive, vuole «fare ciò che vuole» ma non sa cosa vuole.

La sua anarchia dell’anima non può che produrre anarchia politica e ben presto si profilerà all’orizzonte un «protettore» della libertà, che verrà scelto perché in tutto simile a lui: licenzioso, mimetico, persuasivo.

7) - L’uomo democratico, scrive Platone, vive giorno per giorno compiacendo il primo appetito che capita: ora si sbornia e suona l’aulòs per poi bere acqua e dimagrire, ora fa ginnastica, per poi rimanersene pigro e noncurante di tutto, ora fa mostra d’interessarsi di filosofia.

Spesso si dà alla politica e salta su a dire e a fare qualunque cosa gli passi per la testa (…); e per la sua vita non conosce né ordine né necessità alcuna, ma chiama dolce libera e beata questa sua vita e la pratica sempre.

8) - Platone è convinto che una volta liberato il desiderio di libertà, il godimento assorbirà il desiderio, la “scarica” sostituirà le aspirazioni, il presente inghiottirà il futuro. Il suo discorso conduce inesorabilmente all’impossibilità dell’autogoverno, individuale e collettivo.

Di più: alla scomparsa dell’esigenza di autogoverno. L’uomo democratico, aggiunge Platone qualche pagina dopo, non ha patria, perché non è disposto a riconoscere alcun vincolo, né interno né esterno.

Anzi, la sua unica patria è quella dei Lotofagi, popolo dei consumatori compulsivi di sostanze inebrianti.

9) - La diagnosi di Platone sulla democrazia, come Kant dirà della sua filosofia della storia, è «terroristica».

Non siamo affatto tenuti a condividerla, e non la condividiamo: Platone, come tutti i cultori dell’ordine, pensa che l’esercizio della democrazia non abbia nulla da insegnare alle aspirazioni umane.

Il desiderio, per lui, non può essere educato, né irrobustito democraticamente, può essere soltanto piegato da una disciplina rigorosa, riservata a poche anime elette. Dove si conclude il discorso di Platone, dovrebbe cominciare il nostro discorso, che, se parliamo di desideri e democrazia, non potrà eludere la questione dell’autogoverno che è pur sempre un discorso sul governo: di sé e della società.

Diciamolo in modo più chiaro: la democrazia è e resta una forma di kràtos, un modo di governarsi e dunque di darsi delle regole.

 Il fatto che autonomia e assenza di padroni siano l’essenza di questo modo, non toglie nulla all’esigenza democratica di un governo, ovvero di regole che disciplinino la convivenza sociale e politica.

L’autonomia esige un autòs-nòmos e non va confusa con l’a-nòmos.

Siamo giunti così al punto che qui ci interessa.

Esistono oggi desideri di libertà così “robusti” da includere l’esigenza democratica del governo, e in modo del tutto particolare del governo sui poteri sociali e politici?

10) - I poteri che agiscono sulle nostre vite si sono rafforzati e appaiono, ogni giorno di più, fuori dal nostro controllo.

Ma allo stesso tempo sono ben lontane dal prendere forma idee e pratiche di governo all’altezza della crisi.

 Limitiamoci a qualche esempio.

 Come invertire la china di una continua erosione di potere politico da parte di poteri economici e finanziari “senza luogo”, se è vero che i poteri finanziari si alimentano dell’universale desiderio di arricchimento degli investitori?

Come sottrarsi al potere di condizionamento e di sorveglianza dei “signori della rete”, se è vero che proprio sulla rete ciascuno alimenta propaggini crescenti della sua identità?

 Di fronte a sfide di questa dimensione, che manifestano il cortocircuito tra libertà individuali e capacità di autodeterminazione collettiva, stanno prendendo corpo crisi di rigetto che hanno il loro elemento comune nel tentativo di “mettersi al riparo, creando zone franche”.

 Resilienze sociali, economy sharing, beni comuni, ritorno alla comunità o valorizzazione delle communities come bene-rifugio.

L’aspetto interessante di queste forme di reazione è di mobilitare esperienze e modi di vita, prima ancora che idee e progetti.

 In ampi strati sociali (della società dei consumi!), la sobrietà è tornata a essere una scelta, oltre che una necessità. Il low cost e il riuso uno stile di vita.

D’altra parte, in molte di queste forme di reazione, pur frammentarie e contraddittorie, si esprime un desiderio di autonomia e di sottrazione ai poteri sociali che si traduce in pratica condivisa.

11) - In fenomeni di questa natura sono all’opera “desideri decisi di democrazia”?

 È lecito sollevare qualche dubbio.

 Si tratta infatti di strategie difensive che non elidono il potere, ma piuttosto, nei casi migliori, lo eludono.

Per utilizzare la metafora usata da Elias Canetti in “Massa e potere”, non è sufficiente al topo sottrarsi per un momento dalle grinfie del gatto per sfuggire al suo potere.

Il potere del gatto resta integro, infatti, finché il topo resta afferrabile dal felino. Fuor di metafora, non saranno i bitcoin a sedare il “turbocapitalismo”, come non sarà il risorgere delle “piccole patrie” a mettere i cittadini al riparo dai poteri finanziari, dalla corruzione politica, dallo spettro della povertà o dalla paura dei migranti.

Occorrono regole che limitino la sfera di influenza dei poteri “fuori controllo”, soggetti politici capaci di rivendicarle, istituzioni in grado di farle valere.

Rispetto a obiettivi di questa portata, la qualità della domanda di democrazia è oggi piuttosto sconfortante.

Ma c’è un elemento di speranza, tipicamente democratico, al quale in momenti di crisi così acuta è possibile fare appello: la possibilità di essere noi a riscrivere, in un lavoro incessante, le regole formali e informali che governano le nostre esistenze, proprio a partire dalle relazioni quotidiane di potere.

12) - L’astensione, l’exit, la ricerca di “zone franche” possono in alcuni casi essere un primo passo in questa direzione.

 Ma gli uomini, a differenza dei topi di Canetti, sono capaci di qualcosa di più della fuga: possono congiungere i loro desideri di libertà e indirizzarli verso obiettivi comuni.

 L’emancipazione dalle catene che condizionano la nostra esistenza è un processo che conserva un fascino immenso.

Per questo, società nelle quali status e ricchezza non siano predeterminati dalla lotteria sociale, dall’appartenenza di genere, o dall’anagrafe, non sono utopie. Sono il risultato possibile di desideri di libertà, irrobustiti da una pratica comune e indirizzati al governo di sfere di vita che non siamo più disposti ad affidare al potere del più forte.

13) - Quello che Gabriele Magrin ha messo in rilievo, la ragione per la quale si può giungere alla considerazione su ciò che la scienza politica ha sviluppato da Platone a oggi, è precisamente quello che la psicoanalisi ha considerato come centrale.

È l’articolazione tra desiderio e godere.

Quello che è stato installato al cuore del dibattito da Platone, l’anarchia delle passioni, dei desideri, precisamente, è stato interrogato in una nuova prospettiva dall’esperienza psicoanalitica in cui il desiderio cattivo come tale è l’oggetto della sua pratica.

 I soggetti che si rivolgono a uno psicoanalista hanno un cattivo desiderio con il quale non possono vivere e dopo l’esperienza psicoanalitica trovano una nuova conciliazione con esso.

È precisamente in questo punto che oggi vogliamo sapere se possiamo trarre dall’esperienza psicoanalitica contemporanea qualche indicazione su un patto nuovo con il desiderio.

La soluzione è come confrontarsi con il cattivo desiderio.

 Le scienze sociali e le scienze politiche hanno pensato che la democrazia come tale dovesse avere una forma mista, poiché la democrazia pura è instabile.

 Infatti, tutte le Costituzioni dei paesi europei sono più o meno miste.

 La soluzione della rivoluzione americana è stata di concepire una Costituzione mista, con un elemento monarchico, il presidente, un elemento oligarchico, i senatori, e un elemento democratico con i rappresentanti.

Allo stesso modo in Francia, con la quinta repubblica post De Gaulle, vi è stata la restaurazione di un elemento monarchico, con la relazione personale del presidente eletto dal popolo, un elemento oligarchico e un elemento democratico, che poteva stabilizzare un po’ l’instabilità necessaria dell’anarchia di una pura democrazia.

Questa soluzione sembra attualmente in crisi.

Le forme di costituzioni miste che hanno caratterizzato la politica europea sono in crisi esattamente per i due aspetti che lei ha messo in rilievo:

primo, l’aspetto economico, le disuguaglianze incredibili generate dal capitalismo finanziario generalizzato dell’epoca post Reagan;

e l’altro aspetto, la tecnologia e il suo sviluppo sfrenato e che sembra sfuggire di mano a tutti i governi con l’intenzione di frenare la tecnologia.

 

14) - Assistiamo alla restaurazione di spazi di desideri, quello che lei ha isolato come delle zone franche, un desiderio molto forte di ritrovare in un certo senso dentro all’attività politica, delle zone franche che possono essere definite in vari modi.

Possiamo constatare la forza e l’esigenza di fare vivere queste zone.

Il problema è che queste zone possono essere pensate come zone di rifugio e come una nuova forma di socialismo utopico, una nuova forma di desideri utopici che si nutrono solo di sé stessi eludendo il potere, il problema del potere.

 Questo è un tema che esiste sia in Europa sia negli Stati Uniti, in cui precisamente l’esperienza di “Occupy Wall Street” è stata trasportata nella campagna elettorale di Bernie Sanders in maniera un po’ sfumata: un esempio di zona franca che funziona come un rifugio.

È la dimostrazione di un desiderio forte, che dopo un po’ si sfuma.

Siamo in un momento in cui l’interrogazione tra questi nuovi spazi e la questione del potere sono in un punto di equilibrio e in un punto di interrogazione sulle forme attuali miste dell’esercizio del potere in Europa.

15) - Volevo riprendere due affermazioni di Gabriele Magrin.

La prima, quando dice che c’è un desiderio di libertà, di autonomia e un desiderio di assenza di padroni, e che la democrazia è in pericolo.

Propongo di discutere attorno a quest’affermazione, se ci sia realmente un desiderio di libertà e di autonomia e di assenza di padroni.

Si potrebbe mettere un punto interrogativo anche al titolo del Forum: c’è realmente un desiderio deciso di democrazia in Europa?

Pensiamo al Trattato della servitù volontaria di Étienne de La Boétie, del 1548:

si mette in evidenza in modo abbastanza chiaro che in realtà ciò che si manifesta della soggettività è un desiderio di padrone.

Mi sembra che la democrazia, in qualche modo, vada contro un’istanza soggettiva che cerca d’installarsi sotto copertura.

Magrin l’ha detto in qualche modo. Dice che dobbiamo riscrivere le nostre regole: sono del tutto d’accordo.

Le regole sono scritte da anni.

Abbiamo il miglior esempio di assenza di democrazia nella Costituzione dell’Unione Europea.

La Commissione europea non viene eletta democraticamente, il Parlamento sì, ma non la Commissione europea.

La Commissione propone le leggi che possono o meno essere discusse. Pertanto, in seno all’Europa, abbiamo un problema.

Sono perciò d’accordo che occorra ridiscutere le regole.

 

 

 

IL TIRANNO E LA MAGGIORANZA:

LIBERTÀ E DEMOCRAZIA

NON SONO SINONIMI.

Stradeonline.it – Stefano Magni – (20mluglio 2019) – ci dice:

I tragici eventi in Turchia ci servano, almeno, a rivedere alcune categorie obsolete. Le categorie in questione sono quelle di democrazia e libertà.

In Turchia una parte dell’esercito (su ispirazione di chi, non lo sappiamo ancora) ha tentato di prendere il potere con la forza.

Si è trattato di un colpo di stato nel senso classico del termine, un tentativo di instaurare un regime autocratico contro un governo democraticamente eletto.

Il colpo di Stato è clamorosamente fallito.

Quel che ne è seguito non è il ritorno alla “democrazia”, per come la conosciamo noi, ma un bagno di sangue che non ha precedenti in un paese moderno.

 La purga avviata dal presidente Recep Tayyip Erdogan ha colpito arbitrariamente militari, magistrati, giornalisti, insegnanti e presidi, a migliaia, senza processi né garanzie.

Peggio ancora: la “folla”, come avveniva nei regimi totalitari del Novecento, ha avuto mani libere per condurre esecuzioni sommarie, linciaggi e sequestri ai danni di golpisti o presunti tali.

In molti casi sono stati giovani militari di leva a finire denudati ed esposti al pubblico ludibrio, picchiati, frustati, decapitati, ammassati nelle stalle come bestie. Una violenza simile non ha nulla a che vedere con una democrazia che si difende dalla tirannia. O no?

 

Il problema è, prima di tutto, nel linguaggio.

 Diamo troppo per scontato che democrazia e libertà siano sinonimi.

Siamo abituati, dall’esperienza anglosassone, a trovare la democrazia lì dove c’è la libertà e la libertà protetta da governi democraticamente eletti.

Non è sempre stato così.

Il liberalismo nell’Europa continentale, ad esempio, come ci ricordava il politologo Fareed Zakaria nel suo “Democrazia senza libertà”, è nato e cresciuto sotto regni autoritari, in cui non era esercitato il suffragio universale.

 La democrazia liberale europea è cosa recentissima, se paragonata alla lunga storia del Vecchio Continente.

La democrazia, allo stesso tempo, ha portato al potere regimi totalitari.

L’esempio più eclatante è quello di Adolf Hitler, che ha vinto regolari elezioni nel 1933.

Non lo dobbiamo dimenticare, se vogliamo capire il presente.

Libertà e democrazia sono due concetti distinti. Il liberalismo è, essenzialmente, la teoria e la prassi della riduzione del potere politico.

È un limite posto allo Stato, per proteggere dal suo arbitrio i diritti fondamentali di vita, libertà e proprietà di ogni suo cittadino.

La democrazia è invece un metodo di selezione del governo, con il voto popolare invece che con l’investitura autocratica (per mezzo della forza, della tradizione o di un “diritto divino”).

La democrazia è stata considerata per più di mezzo secolo come il miglior antidoto al potere assoluto, proprio perché è un metodo non-violento di selezione delle élite.

Ciò non toglie che esista sempre il rischio che élite violente, con programmi esplicitamente liberticidi, possano essere pacificamente scelte da una maggioranza.

La storia dell’ultimo quindicennio è la dimostrazione che la peggior minaccia alla libertà non sia più l’autocrazia, ma proprio la “democrazia liberticida”.

Gli esempi già abbondano.

 Era democratico Hugo Chavez? Sicuramente sì: è stato eletto regolarmente nel 1998 e anche lui, nel 2002, ha dovuto sventare un tentativo di golpe.

Era liberale? Assolutamente no: gradualmente, seguendo passo dopo passo il suo programma del Socialismo del XXI Secolo, ha trasformato il Venezuela in un regime totalitario, dove ogni libertà è conculcata e le proprietà sono alla mercé dello Stato-partito.

 È democratico Vladimir Putin? Certamente lo è: è stato eletto tre volte da ampie maggioranze di russi e ha anche rispettato la lettera della legge che gli vietava un terzo mandato, alternandosi con Dimitri Medvedev.

Osservatori internazionali mettono in dubbio la regolarità del processo democratico in Russia, specialmente dopo il secondo mandato, nessuno però mette in dubbio che Putin sia sostenuto da una sostanziale maggioranza di russi.

 È liberale? Assolutamente no: in un quindicennio ha trasformato un paese in transizione dal comunismo alla società aperta, quale era la Russia di Eltsin, in una società chiusa, quasi totalitaria.

Nessun diritto è più rispettato: né la libertà di religione, né quella di parola, né la proprietà (che è alla mercé del Cremlino e dei suoi alleati), né la vita stessa.

Erdogan, in Turchia, è solo l’ultimo esempio di come il tiranno venga eletto e sostenuto dalla maggioranza.

La sua deriva non nasce da oggi, ma esisteva sin dalle premesse. È diventata esplicita con lo scandalo Ergenekon, nel 2011, un antipasto delle purghe attuali di militari, giudici e giornalisti in seguito a un tentativo di golpe (che allora era solo presunto).

Poi sono arrivati i momenti bui della repressione della contestazione a Gezi Park, nel 2013.

Infine sono giunti gli anni della repressione di curdi, sindacati e giornalisti. E adesso l’orrore di un regime avviato sulla strada del totalitarismo è sotto gli occhi di tutti.

Purtroppo di fronte a queste democrazie illiberali, le istituzioni che rappresentano le democrazie liberali dimostrano di non avere alcuna risposta pronta.

Nella notte del golpe turco non hanno fatto altro che esprimere pareri tardivi.

John Kerry e Barack Obama, a nome degli Usa, si sono limitati a parlare in difesa di un “governo democraticamente eletto”, unico criterio di legittimità nel linguaggio politico contemporaneo.

 Ora, di fronte a un governo “democraticamente eletto” che gronda violenza, non sanno ovviamente più cosa dire.

La stessa difesa del governo “democraticamente eletto” è giunta dalla Nato per bocca di Jens Stoltenberg e dell’Ue rappresentata da Federica Mogherini.

E adesso, cosa dire di fronte ai suoi crimini?

Con che faccia la Nato potrà contestare alla Russia di non essere uno Stato di diritto e di minacciare la libertà in patria e all’estero?

 Con che faccia e su che basi, l’Ue potrà trattare la Turchia come un partner per risolvere la delicatissima questione dei profughi siriani, dunque su una questione di diritti umani?

Persa la bussola della libertà, della difesa liberale classica dei diritti individuali, anche le democrazie occidentali appaiono disorientate.

E c’è solo da sperare che la minaccia della democrazia illiberale non bussi anche alla porta di casa nostra.

 

 

 

Democrazia e libertà individuale,

l’esempio dei vaccini.

Altritaliani.net - Nicola Guarino – (29 août 2021) – ci dice:

Nei giorni scorsi si è assistito in TV ad un dibattito surreale svoltosi in un reparto ospedaliero francese dove solo il 20% del personale medico e sanitario si era vaccinato contro il coronavirus.

Al primario del reparto che sosteneva la doverosità del vaccinarsi, auspicando l’obbligo anche per i suoi sottoposti.

A lui si opponevano medici ed infermieri sostenendo che il primario non fosse democratico.

Ho usato non a caso l’aggettivo surreale a commento del dibattito a cui si è assistito. Perché?

 

È semplice, chi dava dell’antidemocratico al già menzionato primario confondeva due concetti che non sono necessariamente confluenti: democrazia e libertà individuale.

La scelta di non vaccinarsi, in assenza di obbligo da parte dello Stato, non attiene alla democrazia, ma semmai alla libertà individuale dei cittadini.

La confusione è certamente frutto di ignoranza e fa specie che tale ignoranza provenga da persone diplomate, laureate e comunque scolarizzate.

Sono evidenti i cattivi frutti di una scuola che negli anni è diventata sempre meno seria e severa, e peraltro, c’è da chiedersi se una confusione di tal fatta provenga da persone “istruite” cosa possiamo attenderci da chi questa “istruzione” neanche ce l’ha?

Ma questo è un altro tema, quello sull’istruzione e le scuole in Italia e in Europa, concentriamoci piuttosto sul dibattito surreale di poc’anzi.

La democrazia è un sistema di amministrazione e organizzazione del potere politico nato e sviluppatosi nell’occidente in contrapposizione alle monarchie e che oggi si individua in due varianti, la più classica è la democrazia liberale, rappresentativa, presidenziale o parlamentare, dove, come ricorda ad esempio la nostra Costituzione, il popolo è sovrano attraverso i parlamentari che esso sceglie con voto a suffragio universale, i quali rappresentanti parlamentari operano senza vincolo di mandato ma secondo la propria coscienza e per convinzioni politiche.

L’altra, che fin qui non ha mai trovato concreta attuazione, è oggi definita dalla dottrina:

democrazia illiberale, dove il popolo decide in modo prevalente attraverso strumenti decisionali diretti e le decisioni della maggioranza sono vincolanti anche per le minoranze.

Si tratta di una forma di democrazia di diretta derivazione dal totalitarismo collettivista figlia della cultura socialista.

Le libertà individuali sono altre cose, attengono spesso al diritto naturale e sono riconosciute dalle Costituzioni (democratiche) e regolamentate per legge attraverso le istituzioni della politica.

Sottolineo quel “regolamentate”, perché tutte le libertà in una società democratica o meno, sono limitate in rapporto ai bisogni e alle necessità di una comunità sociale, insomma di una società.

 Ritenere prevalente su tutto la libertà individuale non attiene alla democrazia ma semmai all’anarchia che è esattamente il contrario della democrazia.

Il diritto individuale è fondamentale ma deve essere temperato dai diritti e dagli interessi degli altri come singoli e come corpo sociale.

Io non posso mettermi a fare fuoco sparando sui passanti da un tetto solo perché amo il tiro a segno. Chiaro?

Le nostre democrazie liberali, forse in ragione della crisi delle ideologie e anche per proprie colpe e carenze qualitative, sono diventate più deboli e pertanto un tema fondamentale come la salute pubblica e la difesa della vita dei membri delle società nazionali, come in Francia, in Italia o in altri Stati, è diventato un tema lasciato alla discrezionalità delle singole volontà dei cittadini.

Una scelta sbagliata e anche irresponsabile da parte delle nostre politiche (parlo delle società occidentali di modello democratico liberale). Sbagliata ed irresponsabile.

In tanto perché la responsabilità sulla salute dei cittadini spetta alla politica e a proposito di questo si può ricordare che la nascita del Sistema Sanitario Nazionale in Italia, fatta dall’allora ministro Tina Anselmi, fu appunto una scelta democratica:

garantire a tutti a prescindere dal proprio status economico, il diritto alle cure e all’assistenza medica e sanitaria, era una cosa che fin lì non era stata scontata.

Ecco in quel caso la democrazia dimostrò la propria forza.

Viceversa, lasciare ai cittadini la scelta di vaccinarsi o meno è un modo alla Pilato di lavarsi le mani dalle proprie responsabilità politiche.

La libertà individuale, per quanto importante sia, non può mai essere prevalente sul diritto alla salute e spesso alla vita della gran parte dei cittadini.

 Del resto i dati attuali sulla pandemia parlano chiaro.

La gran parte dei ricoverati e dei morti nelle ultime settimane si registrano tra i non vaccinati i quali comunque danneggiano anche i vaccinati che spesso sono costretti al confinamento perché divengono positivi a causa delle varianti che seppure non letali per loro, che hanno una copertura vaccinale, determinano fastidi, rinunce, problemi magari lievi ma persistenti di salute, e tutto questo perché?

Perché si deve dare prevalenza alla libertà individuale di una minoranza che con la propria condotta mette a rischio l’intera comunità?

Occorrono in uno stato di emergenza come questo, scelte decise e responsabili e queste scelte spettano alla politica.

Come cittadino credo che oltre al diritto del medico e dell’infermiere, contro ogni ragione scientifica, di non vaccinarsi, esiste il diritto del paziente di non farsi contagiare dal coronavirus, magari mentre è in ospedale.

Lo stesso vale per tutti i settori della vita pubblica. 

Lo stesso vale per lo studente come il professore, per l’impiegato della posta come per l’utente che va a pagare le bollette, per la commessa del negozio come per il cliente che fa acquisti.

 Per il tifoso che va alla partita come per il bigliettaio del botteghino dello stadio, per l’operaio che non vuole farsi contagiare dal collega no-vax.

 E cosi al cinema, al teatro, nei musei e nelle palestre.

Vaccinarsi è un dovere non opinabile.

Si tratta di un atto sociale che difende ogni individuo e tutta la comunità.

(Nicola Guarino).

 

 

 

"Libertà e democrazia, a salvarle

sarà uno Stato forte ma

sotto il controllo della società".

Ufficiostampa.provincia.in.it – Ufficio stampa – (3 giugno 2021) – ci dice:

È uno Stato forte, simile a quello a cui si è assistito in tempo di Covid19, e che dunque impone la sua presenza per far fronte alle tre grandi difficoltà del nostro tempo - lo strapotere tecnologico, le disuguaglianze sociali e la pandemia -, quello che “Daron Acemoglu” auspica per il futuro.

Ma perché lo Stato, tra regolamentazioni ai colossi del web e welfare, non si trasformi – per dirlo con le categorie hobbesiane, tanto care al professore del MIT - in un “Leviatano dispotico”, «a regolare e controllare il suo potere, ci dovrà sempre essere una società altrettanto forte.

Solo attraverso un equilibrato gioco di pesi e contrappesi avremo una buona democrazia, che sostenga la libertà».

 

Non è nuovo al tema di questo Festival dell’Economia 2021, “Il ritorno dello Stato”, Daron Acemoglu, che fin dal 2006, in tempi non sospetti, ha analizzato la necessità di porre limiti al mercato liberista attraverso la regolamentazione pubblica, e che ora torna a riconfermare il bisogno di un equilibrio tra Stato e società, a sostegno della libertà.

Per farlo, si avvale di un’immagine chiave del suo nuovo libro, scritto in collaborazione con James A. Robinson, “La strettoia” ("The Narrow Corridor", 2020), illustrando quello che Hobbes avrebbe definito “Leviatano incatenato” come un corridoio.

«Entrare e uscire da questo corridoio, passando da un “Leviatano dispotico”, quindi una forma governativa simile alla Cina, a un “Leviatano assente” è frequente e semplice – chiarisce il professore del MIT – quindi affinché vi si entri e vi si permanga, sono necessarie le istituzioni.

Esse infatti provvedono ad ampliare la strettoia.

Allo stesso tempo, è però poi fondamentale, per la corretta riuscita della democrazia, che vi sia un “sospetto” nei confronti del potere.

 Non è nulla di nuovo, ci basti pensare alla storia, a fenomeni come l’ostracismo ateniese».

Su un piatto della bilancia, dunque, Acemoglu pone uno Stato che trovi la forza e il coraggio di imporsi di fronte allo strapotere tecnologico (uno su tutti il problema di Google e della gestione della privacy), convertendo l'intelligenza artificiale in un supporto, e che parallelamente attivi sistemi di welfare efficaci, per ridurre le disuguaglianze economiche fortemente accelerate dalla pandemia.

Sull’altro piatto mette invece una società che non abbandoni il suo ruolo di “cane da guardia”, di contrappeso al potere pubblico, in nome della democrazia e della libertà:

«E per libertà intendo una “mancanza di dominanza”, che si sviluppa necessariamente in presenza di sicurezza e autonomia, lontana dalle disparità – conclude il professore del MIT -. Si tratta di scelte critiche per il futuro: ciò che conta non sono gli impulsi alla base dei fenomeni, ma i contesti in cui essi avvengono; ciò che conta è come gestiamo questi impulsi, sono le scelte che operiamo».

La risposta migliore per il futuro del mondo occidentale, in definitiva, per Acemoglu sta nel perfetto equilibrio dei due piatti.

 

 

L'imminente seconda

guerra civile americana.

Unz.com - BOYD D. CATHEY – (30 NOVEMBRE 2022) – ci dice:

 

Donald Trump e il fallimento del conservatorismo.

Gran parte del discorso di recente tra la "classe chiacchierona conservatrice" è stato su come il "movimento" debba in qualche modo "andare avanti" da Donald Trump (senza alienarsi eccessivamente la sua base) e dare un'occhiata seria alle alternative, in particolare il governatore Roni Desantis della Florida, con papabile minore e molto meno distinto come l'incredibilmente ambiziosa Nikki Haley, Mike Pompeo, e persino lo screditato buffone Chris Christie del New Jersey, al seguito.

Costruendo l'annuncio del presidente Trump di un'altra corsa per la Casa Bianca il 15 novembre, e poi con un effetto crescendo in seguito, politici, consulenti, membri del Congresso e i media di Murdoch (attraverso le sue voci il New York Post e il WALL Street Journal, con raffiche meno stridenti su Fox News) hanno fatto eco allo stesso mantra:

"Trump non è l'uomo per il GOP nel 2024!"

 E spettava al "partito" (leggi = élite) selezionare qualcuno di più – come dovremmo dirlo? – più fluido e gradevole, meno conflittuale, meno propenso a "sparare dall'anca" e più adatto a portare quelle mamme di calcio senza cervello, riducendo al contempo gli attacchi implacabili vomitati dai media tradizionali.

 In altre parole, ciò di cui il Partito Repubblicano aveva bisogno era una figura più gentile, più tranquilla, meglio curata e educata che potesse essenzialmente riportarci a tempi più altisonanti.

In sostanza, il GOP aveva bisogno di tornare al suo ruolo ormai tradizionale di opposizione superficiale allo tsunami di sinistra, mentre, in effetti, ostacolava solo leggermente gli inevitabili progressi della sinistra e la cattura di tutte le nostre istituzioni sociali, culturali e politiche.

Gli esempi di questa pusillanime posizione politica all'interno del GOP abbondano abbondantemente, più recentemente nel voto sull'assurdamente chiamato “Reset for Marriage Act “per sancire il matrimonio tra persone dello stesso sesso a livello nazionale che richiede al governo federale di riconoscere un matrimonio tra due persone se il matrimonio è valido nello stato in cui è stato celebrato e garantendo che a tale matrimonio venga data piena fede e credito, indipendentemente dal sesso, dalla razza, dall'etnia o dall'origine nazionale della coppia.

In vista dell'oltraggiosa e senza precedente decisione di Obergefell della Corte Suprema degli Stati Uniti nel 2015, il Partito Repubblicano si sarebbe opposto a una visione costituzionale così aberrante.

In effetti, vari leader eletti del GOP hanno promesso che avrebbero fortemente sostenuto la tradizionale visione morale dei loro elettori, l'opinione schiacciante della maggioranza degli americani.

Trenta stati avevano già adottato emendamenti costituzionali che definivano il matrimonio come tra un uomo e una donna, incluso il mio stato d'origine, la Carolina del Nord, nel 2012, dove il voto è stato del 61% contro il 39%.

Ma da Obergefell, non appena un peep. Per lo più solo accettazione.

 

E in effetti, nel recente voto, dodici senatori repubblicani hanno attraversato e assicurato un facile passaggio, con camaleonti senza principi come il senatore Thom Tillis (R-NC) che difende fermamente il suo voto dichiarando ingenuamente che l'atto "mantiene lo status quo rispetto al matrimonio omosessuale che è stato stabilito dalla Corte Suprema ..."

Il matrimonio tra persone dello stesso sesso è solo uno di questi problemi;

Ci sono innumerevoli altri in cui l'opposizione "conservatrice" ha dimostrato di essere poco più di una tigre di carta, impegnata nel pugilato ombra, mentre cede la strada libera a un radicalismo avanzante e onnicomprensivo.

Istruzione pubblica?

 È stato rilevato, letteralmente, dalla sinistra radicalmente "svegliata", come hanno fatto la maggior parte dei college e delle università.

E la reazione dei conservatori?

Lamentarsi e lamentarsi, parlare e scrivere della follia che ha catturato il mondo accademico e i nostri figli.

E la soluzione?

Oltre a rimanere immobili come accecati dai fari, magari butta più soldi al problema! Qui in North Carolina, dove l'Assemblea Generale è dominata dai repubblicani, basta nominare alcuni altri compari politici / finanziari nel consiglio dei governatori per il sistema universitario che ... non fare nulla!

Dove sono gli impavidi repubblicani per alzarsi finalmente e affermare l'ovvio: che il nostro sistema di istruzione pubblica ha fallito miseramente, e che le scuole (impianti fisici) devono essere vendute a consorzi di genitori e organizzazioni private, con i soldi delle tasse appropriati che vanno direttamente ai genitori che devono avere la scelta completa della scuola?

Un tale programma richiederebbe, certamente, tempo per essere implementato, ma qualcuno può pensare a un modo migliore per fermare la distruzione dell'istruzione pubblica?

Dove sono le voci conservatrici/repubblicane che sostengono una riforma radicale? Ancora una volta, per lo più silenzio.

Immigrazione clandestina?

 I repubblicani promettono di fare qualcosa, forse anche mettendo sotto accusa il segretario alla sicurezza interna di Biden, Alejandro Mayorkas, per il suo approccio assolutamente disastroso alla "porta aperta" e il suo sostegno di fatto ai confini americani porosi.

 Ma qualcuno pensa che Kevin McCarthy e i repubblicani del Congresso andranno davvero fino in fondo con questa minaccia?

Dopotutto, questo è lo stesso partito che ha disperatamente tentato di trovare un compromesso con i democratici radicali sulla cittadinanza "sognatrice".

 Qualcuno crede seriamente che i "conservatori", una volta al potere, inizieranno davvero a espellere gli stranieri illegali ora situati qui negli Stati Uniti?

Oh, sì, i governatori Desantis e Gregg Abbott hanno messo in scena alcuni trasferimenti altamente pubblicizzati di alcuni clandestini in luoghi come Martha's Vineyard, che erano, ovviamente, esperimenti di simbolismo.

Ma dov'è la ferma promessa di rimuovere quei diversi milioni che sono arrivati da quando Donald Trump ha lasciato l'incarico?

Il silenzio è assordante.

L'elenco delle promesse conservatrici, seguito poi dal collasso conservatore e dalla piena accettazione di quelle stesse posizioni una volta così fortemente denunciate, è spaventoso.

Di quali altre prove abbiamo bisogno per confermare il verdetto, emesso quasi 150 anni fa, dal grande scrittore meridionale Robert Lewis Dabney sul partito "conservatore":

"Questo è un partito che non conserva mai nulla.

La sua storia è stata quella di esitare ad ogni aggressione del partito progressista e mira a salvare il suo credito con una quantità rispettabile di ringhio, ma alla fine acconsente sempre all'innovazione.

 Quella che era la novità di ieri è oggi uno dei principi accettati del conservatorismo;

Ora è conservatore solo nell'influenzare per resistere alla prossima innovazione, che domani sarà imposta alla sua timidezza, e sarà seguita da qualche terza rivoluzione, da denunciare e poi adottare a sua volta.

"Il conservatorismo americano è semplicemente l'ombra che segue il radicalismo mentre avanza verso la perdizione.

Rimane dietro di esso, ma non lo ritarda mai, e avanza sempre vicino al suo leader. Questo finto sale ha completamente perso il suo sapore: con che cosa sarà salato? La sua impotenza non è difficile, anzi, da spiegare.

 È inutile perché è solo il conservatorismo della convenienza, e non di un principio solido.

Non intende rischiare nulla di grave, per amore della verità, e non ha idea di essere colpevole della follia del martirio.

Quando sta per entrare in una protesta, informa sempre molto blandamente la bestia selvaggia il cui percorso cerca di fermarsi, che il suo "abbaio è peggiore del suo morso" e che significa solo salvare le sue buone maniere mettendo in atto il suo decente ruolo di resistenza.

"L'unico scopo pratico che ora serve nella politica americana è quello di dare abbastanza esercizio al radicalismo per tenerlo 'al vento, e per impedire che diventi pursy e pigro non avendo nulla da frustare..."

Il che mi riporta a Donald Trump e al 2024.

Ho un amico che conosce abbastanza bene la politica del GOP. Sebbene abbia sostenuto Trump nel 2016, come alcuni repubblicani dell'establishment è assolutamente contrario a un'altra campagna di Trump.

 Quando l'ho interrogato, ha risposto con le solite lamentele:

"Trump è una bomba a orologeria ambulante". "Spara dal fianco e dice cose pazzesche".

"I suoi manierismi e il suo linguaggio non attireranno gli 'indipendenti' e gli elettori suburbani".

Poi, l'impiegato del mio amico: "I candidati sostenuti da Trump hanno perso alla grande nel 2022 e porterà il GOP alla sconfitta nel 2024".

Eppure, come ha ammesso Bloomberg il 15 novembre 2022:

"Il record dei candidati sostenuti da Trump che erano sulla scheda elettorale martedì scorso era di 236-38, con otto gare ancora da decidere..." Non è affatto un brutto record per una bomba a orologeria ambulante!

E più recentemente, naturalmente, il pasto con Ye e il controverso attivista Nick Fuentes, su cui i media, compresi i cosiddetti media conservatori, si sono affrettati a saltare.

 Ecco la "pistola fumante" (per parafrasare il residuo bushita Karl Rove) che avrebbe "affondato" Trump.

Eppure pochi hanno proceduto a spacchettare i fatti del caso, che come anche NBC News ha ammesso, Trump era stato in un certo senso organizzato e non si rendeva conto che Ye stava portando con sé Fuentes, di cui Trump non aveva alcuna conoscenza reale.

 Come ha scritto il giornalista March Caputo:

" Trump stava camminando in quella che potrebbe essere stata una trappola nelle sale dorate di Mar-a-Lago.

Da allora Trump ha detto che non conosceva Fuentes o il suo background quando hanno cenato insieme, un'affermazione che Fuentes ha confermato in un'intervista.

Un consigliere di lunga data di Trump, che non ha voluto criticare il suo candidato preferito, ha detto che era chiaro che la presenza di Fuentes faceva parte di una configurazione da prima pagina.

 'Il maestro troll è stato trollato'..."

Senza esitazione le élite repubblicane, da Mitch McConnell e l'odioso Mitt Romney a Mike Pence, sono saltate su e giù e hanno denunciato Trump, per nome o implicitamente.

Il mio amico ha fatto lo stesso, come se questa fosse una sorta di bacio della morte.

Eppure, ho ricordato al mio amico che gli stessi tipi di situazioni abbondavano nelle primarie repubblicane e nelle elezioni generali del 2016.

Chi non ricorda la famigerata storia di "Access Hollywood" con Billy Bush (7 ottobre 2016), che avrebbe dovuto affondare la candidatura di Trump?

Oppure, che dire di Donald che afferma che "migliaia di musulmani hanno celebrato l'11/9" sui tetti del fiume Hudson nel New Jersey nel 2001.

I rapporti finalmente resi pubblici nel dicembre 2015 hanno confermato la posizione di Trump: "Solo un paio di isolati di distanza da quell'appartamento di Jersey City che l'FBI ha fatto irruzione ieri ... C'è un altro condominio, brulicava di sospetti - sospetti che... stavano applaudendo sul tetto quando hanno visto gli aerei sbattere contro il Trade Center".

Oh, sì, e gli epiteti e i soprannomi che Trump ha applicato ai suoi avversari repubblicani – ricordate "piccolo Marco", "Ted bugiardo", "Jeb assonnato" – ognuno di questi doveva essere una ferita da pugnale autoinflitta che avrebbe dovuto o avrebbe posto fine allo slancio di Trump.

Poi c'erano i plutocrati neoconservatori condiscendenti della National Review e dei think tank DC, gli ex Never Trumpers bushiti, i pietosi epigoni di Bill Kristol, George Will, Max Boot e altri.

Ve li ricordate? Non sono mai andati via.

Alcuni di quelli meno di principio, ad esempio una Nikki Haley – una volta fermamente anti-Trump, poi accomodandosi a lui e tubando nel suo orecchio, e ora ancora una volta fermamente in piedi contro il suo "vetriolo", sono tornati ai loro banchi di lavoro escogitando piani su come fermarlo.

Ora queste termiti escono ancora una volta, impiegando le stesse tattiche e la stessa invettiva, in cui i media di sinistra tradizionali sono più che desiderosi di unirsi e fare il tifo.

L'ultimo "ragazzo d'oro" ad apparire sulla scena è il governatore Ron Desantis, e già i tamburi di guerra della campagna stanno battendo in suo favore.

Il mio amico Dr. Brion McClanahan dell'Abbeville Institute mette giustamente in guardia (28 novembre 2022) dal saltare su un carro di Desantis. Come scrive:

"Desantis sarebbe qualcosa di completamente diverso, e quando la National Review inizia a sostenere il caso, devi essere preoccupato.

Vedete, quando persone come Jack Geraghty pensano che un presidente Ron sia una buona idea, questo può significare solo una cosa.

Bomba, bomba, bomba, bomba, bomba Iran. Desantis è un grande governatore, probabilmente il migliore negli Stati Uniti al momento.

Ma a Geraghty piace perché sarebbe più simile a George W. Bush che a Donald Trump.

Come ho detto al mio amico ci sono alcuni aspetti preoccupanti di Desantis che devono essere trasmessi.

Si consideri il titolo di Geraghty (il suo articolo è apparso sul Washington Post): "Desantis aprirebbe la strada a un ritorno alla normalità del GOP post-Trump".

Siamo autorizzati a mettere in discussione la sua definizione di "normale"?

Non è un ritorno alle vecchie, defecate, totalmente fallimentari politiche e filosofie che hanno solo confermato l'acuta comprensione di Robert L. Dabney del "conservatorismo" americano quasi 150 anni fa?

Geraghty elogia Desantis come un politico "non minaccioso", che farebbe sentire meglio i "moderati" e gli indipendenti, "non temendo che brucerebbe il paese in un impeto di rabbia perché pensa che qualcuno non sia stato giusto con lui".

Ma questo era il punto originale di Trump, e uno che ho sottolineato fortemente in un precedente saggio che ho scritto il 4 novembre, "Donald Trump porterà alla fine della storia?"

Non abbiamo affatto bisogno di un "ritorno alla normalità", cioè di un ritorno alla cultura politica non più praticabile che esisteva prima di Trump.

un sistema che è diventato veramente nocivo e velenoso per qualsiasi devoto delle vecchie tradizioni americane, un sistema ora che consente e promuove solo un'agenda di sinistra completa e feculenta in ogni aspetto della nostra vita.

Che se ne sia reso conto o meno (e ci sono prove sostanziali che non l'ha fatto), nel 2016 Donald Trump è corso non solo a rivedere il nostro sistema moralmente decrepito e viralmente pericoloso, ma a sostituirlo, essenzialmente tornando ai pozzi del nostro passato, scartando la farsa che è la moderna "democrazia liberale" e restituendo effettivamente potere e autorità a una cittadinanza che è stata progressivamente castrata per volere del conglomerato Behemoth del grande governo.

 La dittatura delle grandi corporazioni/big tech, essa stessa parte di un massiccio reset globalista.

Che ha fallito in molti aspetti – nomine terribili e consiglieri orribili, la convinzione che in qualche modo dovesse placare l'establishment del GOP, una mancanza di acume politico – eppure ha spaventato il be-jesus fuori dalle élite, dallo Stato Profondo, dai controllori progressisti dominanti su cose come l'istruzione, l'immigrazione e una politica estera globalista asinina.

 Questo era – ed è – qualcosa che un Ron Desantis non è più propenso a fare, né, se è per questo, nessuno degli aspiranti pigmei come Haley o Christie.

Il verdetto finale potrebbe essere emesso su Desantis, ma sappiamo che una presidenza Trump nel 2024 porterebbe i nostri nemici nelle strade ancora più freneticamente e violentemente che mai.

E quell'evento avrebbe comportato la completa scomparsa dei loro veli oscurando il loro osceno odio per quelli che il defunto Sam Francis chiamava "americani medi", alias americani MAGA.

Come ho scritto il 4 novembre, portare tutte le varie questioni a una testa forse violenta potrebbe finalmente essere, tragicamente, il modo migliore (e unico) per annullare le scorie contagiose e fatali che hanno trasformato la nazione americana in un vero e proprio pozzo nero di malvagità empia e turpitudine morale, sia in patria che nei suoi rapporti all'estero.

Potrebbe costringere i cittadini americani a fare finalmente qualcosa, prendere posizione, armarsi, proteggere le loro comunità da disordini sfrenati, violenza e decadenza.

 Le comunità, forse gli Stati, sarebbero costrette ad agire.

 E nel processo forse gli americani scoprirebbero un'America più vecchia, con la sua vecchia Costituzione, i suoi diritti e doveri radicati e protetti derivati da Dio, la sua difesa delle libertà garantiteci dai Padri Costituenti.

Ho utilizzato il caso della guerra civile spagnola, 1936-1939, in precedenza. Certamente, nessuno desidera una vera e propria guerra civile.

Ma gli spagnoli hanno imparato ottantacinque anni fa che alcune cose – la fede religiosa, l'eredità e la tradizione, i diritti garantitici dalla legge naturale e divina – sono più preziose del "ritorno alla normalità" ingannevolmente attraente ma fatale di Jack Geraghty.

Quindi, ripeto: portatelo avanti, prima quando ci può ancora essere una possibilità di successo, non dopo.

 

 

Ripensare il concetto di

libertà e democrazia.

Lanuovabq.it – Stefano Fontana – (31-03-2020) – ci dice:

La difesa della salute non può essere barattata con la perdita della libertà. Ma allo stesso tempo non possiamo dimenticare che una malintesa democrazia in questi anni ha distrutto la famiglia e demolito il principio del diritto alla vita.

La sfida è respingere l’autoritarismo ma senza tornare alla falsa democrazia e falsa libertà.

 

La difesa della salute non può essere scambiata con la perdita della libertà. La Nuova Bussola ha più volte difeso questo principio, chiarendo però anche che ciò non significa semplicemente tornare al concetto di libertà e di democrazia che si aveva prima della crisi da coronavirus.

 Il ripensamento indotto dall’epidemia in corso deve riguardare anche le modalità con cui nel nostro Paese venivano esercitate le libertà civili e politiche e il sistema democratico che le contemplava.

Il pugno forte a tutela della salute può nascondere pericoli totalitari, ma nello stesso tempo la paura del pugno forte può portare a celebrare una libertà indegna di celebrazione.

La democrazia moderna è per sua natura frammentante e divisiva perché è individualista.

Essa può anche distruggere una nazione e indebolire fortemente il senso di appartenenza ad un popolo e il perseguimento del bene comune.

La democrazia numerica ha un forte effetto dissacrante, perché sottopone ogni valore e principio al conteggio quantitativo delle opinioni.

Essa moltiplica all’infinito i percorsi individuali, dovendoli contemplare tutti anche per legge, e quindi si riduce ad essere il notaio dei desideri.

Nella sovranità popolare si nasconde il principio del sovrano assoluto, incarnato ora nei molti anziché in uno solo.

 Anche ammesso questo principio, il riconoscimento della volontà popolare tramite la rappresentanza è pressoché impossibile a realizzarsi, e le elezioni politiche sono influenzate da mille altri fattori, compresa l’influenza di poteri non democratici.

Quando una nazione deve affrontare un pericolo come quello che stiamo vivendo, può trovarsi indebolita proprio a causa della libertà e della democrazia.

E se questo non avviene è perché, fortunatamente e per altre strade, si è riusciti a conservare un patrimonio di valori nonostante il relativismo della democrazia moderna.

Le democrazie sono conflittuali al proprio interno.

I governi sono guidati nelle loro politiche non solo dai contenuti in gioco ma anche dal timore di perdere elettorato o di danneggiarsi politicamente rispetto ai concorrenti.

Le decisioni necessarie possono quindi essere prese in ritardo, oppure a rilento. Davanti a pericoli come questo che stiamo vivendo servono decisioni immediate e chiare, che per i sistemi democratici sono molto problematiche.

Qualcuno, anche dall’estero, ha rimproverato il governo italiano di non aver agito con decisione all’inizio di questa storia e di aver dimostrato forti difetti di comunicazione.

Forse hanno pesato anche condizionamenti come quelli ora ricordati.

Anche nello “scontro” governo / regioni si può constatare una difficoltà tipicamente democratica ad agire di comune accordo.

Può essere un bene se le regioni sopperisce alle indecisioni del governo, ma anche un male se complica gli interventi articolandoli diversamente nei territori.

È giusto lamentarsi per la quarantena del nostro Parlamento.

Oltre ad essere una ingiustizia rispetto a tanti italiani che non possono ritirarsi nel loro orticello protetto e che sono in prima linea, la chiusura del Parlamento simboleggia negativamente la sospensione della democrazia.

 Il Parlamento va riaperto.

Ma questo può farci dimenticare i grandi difetti del nostro parlamentarismo?

Che molti gruppi interi di parlamentari si sono ricollocati diversamente dopo le elezioni?

Che l’attuale governo è frutto di una operazione di palazzo che ha riportato nella stanza dei bottoni coloro che avevano perso alle politiche?

Che ciò rappresenta nel frangente una oggettiva debolezza?

 Oggi ci ritroviamo come ministro della sanità uno di questi perdenti ripescati. Allora lamentarsi per la chiusura del Parlamento non può significare semplicemente tornare alla situazione di prima.

Né ci salverà, come è stato detto, lo “spirito costituzionale e repubblicano”, perché è proprio questo spirito ad aver animato gli aspetti più discutibili della nostra libertà democratica.

La nostra democrazia, con le sue leggi disastrose, negli ultimi cinque anni ha distrutto la famiglia italiana e ha demolito il principio del diritto alla vita.

Quella stessa democrazia si ritiene ora perfettamente in grado di difendere la vita dal coronavirus e di puntare sullo “stare a casa”, ossia in famiglia.

Ma ha la fedina penale pulita per chiedere questo?

Tutti noi sappiamo che se ci sarà recessione economica e disoccupazione – e ci saranno!

– toccherà alla famiglia farsene carico, quella famiglia che però è stata colpita, sfruttata, distrutta, vituperata dalle leggi Cirinnà e dalle sentenze della Corte costituzionale, proprio in base allo “spirito democratico e repubblicano”.

E anche durante l’emergenza in corso, arrivano notizie che gli aborti non sono sospesi e tutto continua come prima.

I democratici che cantano “bella ciao!” davanti alla presente difficoltà e chiamano alla raccolta contro il nuovo nemico della vita, sono gli stessi che non ammetterebbero nessuna restrizione alla piaga dell’aborto, nemmeno per fare spazio ai reparti di terapia intensiva.

Nelle situazioni di emergenza la democrazia e la libertà sono in pericolo.

Ma le situazioni di emergenza dipendono anche dalla democrazia e dalla libertà falsamente intese e peggio usate.

Quando ci opponiamo alle derive autoritarie, cerchiamo di non tornare – come fosse una salvezza – alla falsa libertà e alla falsa democrazia.

 

 

 

IL REALISMO AMORALE

DELLE NOSTRE DEMOCRAZIE.

Libertaegiustizia.it - NADIA URBINATI – (21 APRILE 2021) – ci dice:

 

Una delle differenze tra chi amministra organismi non politici e chi governa un paese democratico è la forma della comunicazione, una differenza che dipende da un’altra: la natura del committente.

Draghi presidente della Banca centrale europea e Draghi presidente del Consiglio italiano presumono “pubblici” diversi che richiedono forme diverse di comunicazione.

A chi rende conto il primo Draghi e a chi rende conto il secondo Draghi, la differenza è tutta qui.

Lo stile e la forma della comunicazione seguono a ruota.

Il secondo Draghi, quello che vediamo nelle conferenze stampa, deve informare la cittadinanza tutta e rispondere a domande (a volte interessanti) che non sono sempre e solo tecniche.

 Quella che offre non è un’informazione asettica, ma una che si presta a essere interpretata secondo sia criteri tecnici (riferimento ai dati e agli esperti), sia giudizi di valore (riferimento alle opinioni e alle valutazioni morali o politiche).

Nell’ultima conferenza stampa, Draghi ha abbondato nei giudizi di valore.

Il terreno scivoloso.

Nel campo genericamente detto politico, in parte tecnico in parte discorsivo, può succedere che la comunicazione trascini l’attore su un terreno scivoloso, condito di espressioni e concetti accattivanti perché attento all’eco che avrà nell’audience.

Stefano Feltri ha per questo paragonato la retorica di Draghi nell’ultima conferenza stampa a quella di un influencer.

Draghi come Chiara Ferragni.

Ma meno bravo di Chiara Ferragni, certamente perché meno esperto di lei nelle dinamiche dei social.

E così ha fatto due scivoloni che rivelano quanto sottile sia la linea che separa il tecnico dal populista nella democrazia del pubblico.

Il primo scivolone (da rottura dell’osso del collo) è stato quello della colpevolizzazione dei furbi del vaccino: lo psicologo 35enne e coloro che, sotto i sessant’ anni, “saltano la fila”.

La reprimenda paternalistica di Draghi ha tradito una stupefacente disattenzione a come funziona il sistema di vaccinazione, che il suo governo regola e monitora.

Non si può saltare la fila, infatti, a meno di non violare le regole o per raccomandazione o per amicizia o per nepotismo. Diversamente, sono i sistemi di classificazione dei vaccinanti – per gruppi sociali, professionali e per età – a stabilire chi si vaccina e quando.

L’appello alla “coscienza” è fuori luogo in entrambi i casi: nel primo, perché lì si tratta di violazione di una norma; nel secondo, perché in quel caso si è dentro la norma.

 Dal che si evince che a essere oggetto di reprimenda non devono essere i non sessantenni che si vaccinano, ma chi prevede che questo possa succedere.

L’Italia ha molti decessi perché chi la governa ha predisposto pessime regole. Draghi, insomma, dovrebbe volgere il suo giudizio critico verso le strategie e le regole che il suo governo e quello delle regioni (che lui stesso ha giustamente ricordato essere parte del governo) hanno adottato.

Gli errori, le cattive decisioni, le confusioni, le ingiustizie sono di chi fa le regole, non di chi le usa.

Non scomodi dunque la coscienza di chi si vaccina potendolo.

Draghi faccia un esame critico alle decisioni del suo governo e della filiera che da esse si dirama: sembra infatti che questo stia facendo, a giudicare dalle recentissime decisioni di metter in sicurezza vulnerabili e anziani.

Il secondo scivolone riguarda l’infelicissima affermazione sulla necessità che i buoni (i paesi democratici europei) hanno di far affari con i cattivi (i «dittatori» come Recep Tayyip Erdogan).

Dice Draghi che non possiamo fare diversamente se vogliamo difendere il nostro interesse nazionale e continentale.

 Lasciamo stare qui la disquisizione su quale sia la forma di governo che meglio si addice alla Turchia, benché la scienza politica avrebbe dubbi nell’etichettarla come “dittatura”.

Quel che preme mettere in luce è altro: il realismo amorale sul quale si regge il senso dell’interesse nazionale e continentale delle nostre democrazie.

Per le quali risulta assai conveniente essere circondate da regimi illiberali se vogliono intrattenere con loro questo tipo di affari: retribuirli affinché tengano i migranti fuori dalle nostre frontiere.

Se Libia e Turchia fossero democrazie liberali questo nostro “interesse nazionale” o continentale non potrebbe essere perseguito per queste vie.

È quindi nell’interesse nostro che la Turchia o la Libia siano e restino “dittature”, poiché ciò le rende efficaci nella negazione dei diritti umani e quindi competenti a fare quel business che se fossero democrazie non potrebbero fare.

 E dichiarandole “dittature” mettiamo la nostra coscienza in pace con sé stessa.

Loro sono il male, non noi.

 

 

 

 

 

Ucraina: questa guerra

interroga ciascuno di noi.

Forum.it – Editoriale - Carlo Mochi Sismondi – (4 Marzo 2022) – ci dice:

 

Viviamo giorni di angoscia per quello che sta accadendo in Ucraina: immagini di guerra che non avremmo mai voluto vedere e che, oltre alla solidarietà con i popoli direttamente coinvolti nel conflitto, stimolano anche tante riflessioni su quale potrebbe essere il ruolo di ciascuno di noi nel difendere la libertà e la democrazia.

Quale il ruolo delle istituzioni e delle pubbliche amministrazioni?

Quale il ruolo dei cittadini, delle imprese, delle organizzazioni della società civile?

Perché la democrazia non è né una parola astratta, né una conquista fatta una volta per tutte: è piuttosto una pianta che va coltivata ogni giorno.

La guerra d’aggressione in Ucraina interroga ciascuno di noi.

Non solo perché non ci fa dormire, perché ci ha ripiombato nell’ansia che pensavamo di aver lasciato da poco alle spalle, ma anche perché ciascuno di noi si pone la storica domanda “Che fare?”.

Al di là delle scelte individuali, di cui ciascuno è responsabile, nella mia posizione mi interrogo anche su cosa possa fare FPA, la società che presiedo, e quindi, strettamente legata a questa domanda, cosa possano fare, più di quello che già fanno, le amministrazioni pubbliche.

 Non solo le nostre forze di Difesa, ma proprio ogni Ministero, ogni Regione, ogni Comune, ogni ente pubblico.

Provo a rispondere a questa seconda domanda per arrivare poi al nostro ruolo e al nostro impegno.

Io credo che, pur nella giungla mediatica in cui siamo immersi, qualcosa emerga chiaramente.

Per raccontare quel che voglio dire, prendo in prestito le parole dell’amica Linda Laura Sabbadini ieri su “La Repubblica”.

 Linda Laura dice che “Il popolo ucraino con la sua resistenza coraggiosa al soverchiante esercito invasore ha risvegliato il mondo sonnecchiante che aveva perso l’emozione per la libertà e la democrazia”.

Condivido in pieno.

Ma le amministrazioni pubbliche che c’entrano?

 C’entrano molto perché la democrazia non è né una parola astratta, né una conquista fatta una volta per tutte: è piuttosto una pianta che va coltivata e le nostre amministrazioni ne sono i “giardinieri”, perché sono le porte d’ingresso nella nostra casa repubblicana.

Essere accolti da queste come azionisti o essere maltrattati come clienti trascurati non è un accessorio, ma distingue una società sana e rispettosa dei diritti da una società autoritaria in cui ciascuno, in fondo, è suddito.

Questa posizione di responsabilità implica due aspetti correlati, ma distinti.

Il primo riguarda la trasparenza, intesa come abitudine a superare l’asimmetria informativa che troppo spesso divide i decisori da chi è oggetto di queste decisioni.

L’esempio più importante, ma non certo unico, di questo impegno è il cosiddetto “dibattito pubblico”, ossia la condivisione con le popolazioni delle scelte infrastrutturali che le riguardano.

Do atto al Ministro Enrico Giovannini di aver ripreso con grande energia e sensibilità questo tema, troppo spesso trascurato per una malintesa fretta, che implica poi però cantieri bloccati, perché le persone che non sono coinvolte difficilmente, e per fortuna, approvano in silenzio quello che viene fatto nel loro cortile.

C’è però molto ancora da fare.

Non c’è democrazia senza un’informazione completa, libera e corretta.

In questi giorni si parla tanto della nostra dipendenza energetica dalla Russia e della necessità di diversificare: mi permetto di ricordare che un’informazione tardiva e non esauriente, un mancato dibattito pubblico, assieme all’interesse di bottega di qualche politico locale, ci ha impedito non discussi e discutibili interventi di trivellazione, ma anche innocui ed ecocompatibili de-gassificatori. Ora ci sarebbero stati molto utili.

Il dibattito pubblico diviene anche una palestra di partecipazione e di mediazione tra interessi diversi, a volte contrapposti, che devono trovare una composizione nell’interesse generale.

È proprio l’antidoto che serve contro il veleno della guerra.

Non c’è bisogno di sottolineare, infatti, perché è sotto gli occhi di tutti, che le guerre impongono sempre l’asimmetria informativa e una comunicazione scorretta.

 In questo momento, almeno dove e quando possiamo, diveniamo apostoli di verità.

Questo impegno non fermerà ora i tank, ma terrà lontana la nostra società da avventure da cui nessuno, ma proprio nessuno, può sentirsi vaccinato per sempre.

La seconda e altrettanto importante responsabilità riguarda il tema della collaborazione e della partecipazione, che sono le caratteristiche che rendono viva una democrazia.

In questo momento siamo alle prese con una ripresa che sta decollando, e che questa guerra rischia di impallinare nel take-off, ma è una ripresa nata intorno ad un Piano, come il PNRR, che se ha visto una scarsissima partecipazione nella sua progettazione, non si realizzerà mai se non diventa azione collettiva.

 Tante volte abbiamo scritto che le amministrazioni devono essere aperte e porose, che devono vedere il confronto con tutte le componenti di una società complessa e multiforme non come un pericolo, ma come una risorsa.

Vedere con angoscia cosa succede quando la partecipazione è assente e vige la costrizione non può che essere uno stimolo forte all’apertura.

Serve quindi una PA capace di collaborare con il Terzo Settore e le organizzazioni di cittadinanza attiva, imparando a confrontarsi con i destinatari degli interventi, per acquisirne conoscenze e preferenze, dando loro l’effettivo potere di orientare le scelte, tutte le scelte, ed essere parte della loro realizzazione.

Quando vediamo bimbi nel buio, corpi squarciati, edifici in fiamme l’incitamento ad una PA aperta e democratica sembra un pannicello caldo, ma non è così.

 Dove la casa comune è casa di tutti, dove si ricostruiscono le condizioni per la fiducia, dove chi è al comando è al servizio e non padrone della popolazione, lì stiamo provando nei fatti che è ancora possibile l’emozione per la libertà e la democrazia che citava Linda Laura Sabbadini.

E vengo a noi e al nostro impegno, ora rafforzato, a essere cinghia di trasmissione tra amministrazioni, tra queste e le diverse forze vitali delle comunità territoriali, tra portatori di interessi diversi in cerca di una continua e indispensabile mediazione.

Lo facciamo da oltre trent’anni, da quando nell’autunno del 1989 cominciammo a pensare ad un’amministrazione che si aprisse all’innovazione e ai cittadini.

 Ma ora questo impegno ad una governance condivisa del bene comune e alla condivisione nel creare valore pubblico assume un valore anche maggiore.

 

L’impegno quotidiano di tutta la nostra squadra, il prossimo FORUM PA 2022, ma anche tutto il percorso di avvicinamento a questa manifestazione deve essere visto in questa ottica: aprire alla trasparenza, alla collaborazione alla partecipazione.

Perché le amministrazioni e tutto l’ecosistema che le accompagna nella ricerca di un continuo miglioramento, garantendo i diritti costituzionali divengano testimoni di libertà e di democrazia.

 

 

 

Il rimedio di Putin: un'Ucraina

frammentata e sdentata

separata da una terra di

nessuno larga 100 chilometri.

Unz.com - MIKE WHITNEY – (29 NOVEMBRE 2022) – ci dice:

 

“Sembra probabile che la Russia imporrà una soluzione.

 Se, come previsto, diventa chiaro che l'Occidente non può o non vuole negoziare, sarà necessario che la Russia attui una soluzione massimalista.

Oppure, in alternativa, la Russia “contratta” dimostrando di poter creare una zona morta nell'Ucraina occidentale grande quanto vuole.

 Se l'Ucraina e i suoi assistenti statunitensi non torneranno in sé, quella zona morta sarà terribilmente grande".

 Yves Smith, Capitalismo nudo.

Come va a finire?

Come fa la Russia a creare un'Ucraina “neutrale” che non sia armata fino ai denti dai nemici di Mosca?

Come impediscono a Kiev di condurre esercitazioni militari congiunte con la NATO o di posizionare siti missilistici al confine con la Russia?

 Come impediscono all'esercito ucraino di bombardare russi etnici nell'est o di addestrare paramilitari di estrema destra per uccidere quanti più russi possibile?

 In che modo Putin trasforma l'Ucraina in un buon vicino che non rappresenta una minaccia per la sicurezza e che non alimenta l'odio e il fanatismo antirussi?

E, infine, come si risolve pacificamente il conflitto se una parte si rifiuta di negoziare con l'altra?

Dai un'occhiata a questa clip da un articolo su “Mint News”:

"Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky martedì ha firmato un decreto che annuncia formalmente la prospettiva "impossibile" di negoziati di pace tra l'Ucraina e il presidente russo Vladimir Putin...

Lui (Putin) non sa cosa siano la dignità e l'onestà. Pertanto, siamo pronti per il dialogo con la Russia, ma con un altro presidente della Russia", ha detto venerdì Zelensky. (Notizie di menta).

Il fatto che Zelensky non negozierà con Putin non significa che non ci sarà alcun accordo.

Significa solo che Zelenskyj non avrà voce nel risultato.

Essendo il paese più potente, è sempre stato nella capacità della Russia di imporre un accordo che raggiunga i suoi obiettivi fondamentali di sicurezza nazionale, ed è esattamente ciò che farà Putin.

 L'accordo non sarà ideale né porrà fine alle ostilità, ma fornirà uno strato di protezione dai nemici della Russia che è il massimo che si possa sperare date le circostanze.

Purtroppo, l'accordo porrà fine anche all'esistenza dell'Ucraina come stato vitale e contiguo.

 E - dopo che la Russia avrà terminato la sua operazione militare speciale - l'Ucraina dovrà affrontare un triste futuro come terra desolata deindustrializzata che dipende interamente dai suoi alleati in occidente per la sua sopravvivenza.

Ecco un estratto da un articolo del giornalista moscovita John Helmer che pensa che l'esercito russo ripulirà una vasta area dell'Ucraina centrale nella sua prossima offensiva invernale e che gran parte di quella terra diventerà parte di una zona smilitarizzata larga 100 chilometri (DMZ) che proteggerà la Russia dagli attacchi missilistici e di artiglieria ucraini.

Come osserva Helmer, il modello per questo accordo imposto dai militari è “l'armistizio di Panmunjom del 27 luglio 1953, che pose fine alla guerra di Corea….

Sul terreno all'interno della UDZ (Zona demilitarizzata ucraina) potrebbe non esserci elettricità, né persone, nient'altro che i mezzi per monitorare e far rispettare i termini dell'armistizio.

Ecco altro da Helmer:

Fonte militare:

 Una volta completata la distruzione di questi obiettivi, i resti dell'infrastruttura saranno minati e l'area piantumata con dispositivi di rilevamento.

 Gli eserciti inizieranno quindi un ritiro rapido e graduale dietro le linee russe dove il processo di fortificazione e trinceramento è già iniziato.

 

“Ai civili e alle truppe ucraine disarmate – ad eccezione delle unità ucro-naziste – saranno assegnati uno o due corridoi attraverso i quali sarà loro permesso di lasciare la zona.

Farebbero meglio a non perdere tempo."...

Le fonti concordano che ci sarà una nuova linea di demarcazione militare prima del disgelo della prossima primavera;

differiscono su come viene disegnato ora e su come apparirà il prossimo aprile.

“Per ora la linea sarà sul Dnepr con la zona che si estende dalla sponda occidentale alla parte posteriore dell'Ucraina – la mia ipotesi è a una profondità non inferiore a 100 km.

Ciò metterà il territorio russo fuori dalla portata della maggior parte dell'artiglieria ucraina.

 Una zona profonda 100 km darà anche alle forze russe il tempo di rilevare e intercettare qualsiasi cosa in volo...

Nel settore settentrionale – cioè da Kramatorsk e Slovyansk a Kharkov… queste sono guarnigioni e aree di odio ai confini o vicino ai confini della Russia; non saranno risparmiati…(e) li hanno qualificati per la di elettrificazione, lo spopolamento e la denazificazione”.

“Il punto da sottolineare, specialmente nelle operazioni russe nel nord... non conquisterà e manterrà il territorio. … L'idea non sarà quella di occupare il territorio, figuriamoci di amministrarlo, per un certo periodo di tempo.

L'obiettivo sarà distruggere i nemici che alzano la testa e le infrastrutture su cui fanno affidamento; posare mine e sensori; e poi ritirati”.

“Una volta presi i nodi di trasporto e logistica assegnati, inizierà il lavoro di distruzione da parte delle unità di ingegneri.

 Ponti, strade, ferrovie, scali di smistamento, materiale rotabile, aeroporti, depositi di carburante e dispensari, sottostazioni elettriche, torri di trasmissione e comunicazione, uffici centrali, magazzini, aree di sosta, attrezzature agricole:

tutto ciò che potrebbe essere utilizzato per supportare la NATO ucraina lo sforzo a est del confine occidentale della zona sarà distrutto.

Questo sarà anche il compito delle forze di terra, più completo e approfondito di quanto possano ottenere attacchi con missili e droni”.

“Ai civili e ai combattenti disarmati, senza il loro equipaggiamento motorizzato, sarà permesso di uscire dalla zona verso autobus appositamente preparati (come supervisionato da Surovikin in Siria) con tutto ciò che possono portare sulle spalle….

Chiunque scelga di rimanere all'interno della zona verrà informato esplicitamente tramite radio, volantini e altoparlanti che sono considerati combattenti nemici e saranno presi di mira di conseguenza.

Dopo un periodo di tempo prestabilito, i "ponti d'oro" per la popolazione in uscita verranno distrutti.

Per coloro che rimarranno non avranno avuto energia elettrica, servizi igienici o comunicazioni” (“Armistizio ucraino – Come l'UDZ del 2023 separerà gli eserciti come la ZDC coreana del 1953”, John Helmer, Dances With Bears.)

Helmer lo riassume perfettamente.

Putin creerà una vasta e inabitabile terra di nessuno nel centro dell'Ucraina che separerà l'est dall'ovest e porrà fine all'esistenza dell'Ucraina come uno stato vitale e contiguo.

Questo è l'aspetto di un insediamento imposto dai militari.

Non è l'ideale e non ferma necessariamente tutti i combattimenti, ma affronta i requisiti di sicurezza di base della Russia che Washington ha scelto di ignorare.

 

Siate certi che a Washington non piacerà questo accordo e non accetterà mai i nuovi confini.

Ma gli Stati Uniti non avranno l'ultima parola su questa questione e questo è estremamente importante, perché il ruolo di Washington come “garante della sicurezza globale” è ormai un ricordo del passato.

 La Russia deciderà i confini dell'Ucraina ed è così che andrà.

Quindi, sì, possiamo aspettarci di sentire digrignare i denti al quartier generale della NATO, alle Nazioni Unite e alla Casa Bianca, ma con scarso effetto.

 La questione è risolta a meno che, ovviamente, gli Stati Uniti e la NATO non vogliano impegnare forze di terra nel conflitto che, pensiamo, farà precipitare una scissione nella NATO che porterà inevitabilmente al suo collasso.

 In ogni caso, il destino dell'Ucraina sarà deciso a Mosca, non a Washington, e questa realtà avrà un impatto significativo sulla distribuzione del potere globale. C'è un nuovo sceriffo in città e sicuramente non è americano.

In conclusione:

riteniamo che l'analisi di Helmer sia lo scenario più probabile per il futuro.

 Putin ha mostrato un'ammirevole moderazione fino a questo punto, ma dopo 9 mesi di inutili fatiche e carneficine, è tempo di concludere questa cosa.

Mosca ha sempre avuto una mazza nella sua cassetta degli attrezzi e ora la userà. Avremmo preferito che non finisse così, ma non ha senso piangere sul latte versato.

Washington voleva prolungare questa guerra il più a lungo possibile per dissanguare la Russia in modo che non potesse proiettare il potere oltre i suoi confini o ostacolare i piani statunitensi di "ruotare verso l'Asia".

Ma Putin ha sventato quel piano.

Non è caduto nella trappola di Washington e non ha intenzione di pompare sangue e denaro in un buco nero.

Risolverà questa faccenda una volta per tutte e la farà finita.

Questo è tratto da un'intervista con il colonnello Douglas McGregor:

“L'intero conflitto avrebbe potuto essere evitato se avessimo semplicemente riconosciuto i legittimi interessi di Mosca in ciò che accade in Ucraina ….

Ciò che accade in Ucraina è importante per i russi….

Quindi, saremmo potuti intervenire subito e dire: 'Facciamo un cessate il fuoco e parliamo', infatti, avremmo potuto ascoltare i russi negli ultimi 10 o 20 anni riguardo alle loro preoccupazioni su ciò che stava accadendo in Ucraina.

E, penso che ora vediamo con il regime di Zelensky – un governo molto pericoloso che è incurabilmente ostile alla Russia (e) che risponde esclusivamente alle istruzioni di Washington – che ha deciso di voler indebolire fatalmente la Russia in ogni modo possibile...

La soluzione a questo è – non unirsi a questa futile e inutilmente distruttiva guerra con Mosca – (ma) mettere un po' di buon senso nelle menti delle persone nel governo di Kiev”.

Colonnello Douglas MacGregor:                                                                “L'Ucraina sta per essere annientata”.

IMO, la decisione è già stata presa. L'Ucraina sarà divisa in due, che a Washington piaccia o no. È così e basta.

 

 

 

Non è la fine della Storia.

Semmai la fine dell'Occidente.

msn.com – Il Giornale - Storia di Stenio Solinas – ((8-12-2022) – ci dice:

 

Nella «fine della storia», che contempla «il fine della storia», ma si conclude con «la storia della fine» c'è molto di più di un gioco di parole più o meno elegante o più o meno noioso.

 C'è il prendere atto di un abbaglio di fine secolo, il XX, e del brusco risveglio che il nuovo secolo, quello ancora relativamente giovane, ma già sottoposto a usura, ha comportato, e con esso la constatazione non solo che la storia non è finita e tanto meno che procede in progressione verso uno scopo ultimo quanto universale di pace democratica realizzata, ma anche che è proprio il canone occidentale interpretativo a non reggere più.

Come spiega bene Lucio Caracciolo nel suo “La pace è finita” (Feltrinelli, pagg. 140),

 «l'ideologia che fissa un termine alla progressione della storia umana è smaccatamente occidentale.

Proprio perché occidental-illuminista tale filosofia non può che pretendersi universale.

Contraddizione che la rende inapplicabile, a meno di non postulare la progressiva identificazione del Resto del Mondo con l'Occidente.

Operazione anche demograficamente improbabile oggi, quando noi occidentali (europei e nordamericani) siamo circa un miliardo contro i sette di non occidentali, mediamente più giovani e in aumento vertiginoso, specie in Africa.

Sicché ogni buon missionario della fine della storia dovrebbe convertire sette non occidentali alla sua fede. E al suo impero».

Già, perché la fine della storia implicava di per sé il trionfo dell'impero americano che in essa si incarnava, sublimato in ordine ecumenico.

 La sua rimessa in discussione a livello egemonico non comporta, naturalmente, il suo venir meno quanto a rango di superpotenza o, se si vuole, di prima potenza mondiale, ma, e non è un paradosso, contribuisce, come scrive Caracciolo, a svelare «il bluff europeista, che ci aveva traslato nell'ipnotico universo della pace assicurata, non è chiaro da chi e cosa».

Crolla insomma l'illusorio castello di carte in cui l'Europa si voleva vedere come potenza civile, con tanto di tonalità universalistica, che però si offriva al mondo «via Nato, come secondo braccio dell'Occidente a guida americana, equilibrato dalla saggezza dell'antica civiltà vetero-continentale.

 Oggi il principio europeistico di irrealtà stenta a mascherare la tragica condizione geopolitica in cui noi europei ci troviamo. Siamo fuori gioco.

Oggetto di giochi altrui».

Se dunque la pace è finita, come recita il titolo del saggio di Caracciolo, autore tanto più significativo se si pensa che si deve a lui, grazie alla sua rivista Limes, l'aver riportato al centro del dibattito scientifico-culturale quel concetto di «geopolitica» disinvoltamente silenziato nel nome e al tempo dell'astrattismo universale, ne consegue, come osserva un altro analista di vaglia, Alessandro Colombo, che quello che viene a configurarsi è proprio l'opposto di ciò che la fine della storia pretendeva di realizzare, ovvero una fine della storia di senso contrario, dove a essere universale non è la pace, ma l'emergenza.

Il governo mondiale dell'emergenza (Raffaello Cortina, pagg. 221) si intitola infatti il suo libro e «Dall'apoteosi della sicurezza all'epidemia dell'insicurezza» è il sottotitolo che l'accompagna, una frustrazione securitaria subentrata alla promessa liberale di pace, benessere e tranquillità a livello globale.

 La prima domanda che ragionevolmente viene da porsi è perché quell'ordine liberale che portava con sé la fine della storia sia entrato in crisi.

Le risposte che ne rintracciano i motivi in qualche «tradimento» interno e/o esterno del progetto risultano parziali, allo stesso modo di come si imputata la crisi delle democrazie rappresentative ai «populismi» che le minacciano, come se questi fossero la causa e non l'effetto della crisi stessa.

 Come scrive Colombo, «ciò che non viene mai preso in considerazione è la possibilità che l'ordine liberale sia entrato in crisi per le sue stesse contraddizioni interne:

 di più, che la crisi del progetto liberale possa non essere altro che un prodotto del suo stesso successo».

 Colombo suggerisce al riguardo più di un indizio: per esempio, il ricorso «sempre più irresponsabile all'uso della forza», culminato nelle disastrose imprese militari in Iraq, Afghanistan e Libia;

per esempio, «il rapporto storicamente ripetitivo tra finanziarizzazione dell'economia e aumento delle diseguaglianze»;

per esempio, «le sospettose coincidenze tra il ritiro dei diritti sociali distribuiti nel corso del Novecento e il rifluire dello spettro della rivoluzione».

Soprattutto però, e questo lega strettamente l'analisi di Colombo a quella di Caracciolo, tanto che i due libri possono essere letti come un unicum, quella crisi è insita proprio nell'idea di modernità occidentale che ne è il supporto, per certi versi «l'ultima (e, forse, la decisiva) manifestazione del ruolo occidentale di centro di irradiazione di istituzioni, linguaggi e relazioni di potere».

Detto in altri termini, la lettura di un possibile Nuovo ordine mondiale come la più completa manifestazione di un grande progetto di riordino della vita internazionale risalente alla metà del Novecento, se non addirittura al suo inizio, fa acqua proprio nei suoi presupposti.

 Il Novecento infatti è stato ben altro.

Innanzitutto, è stato «il secolo della fine della centralità dell'Europa e più in generale del riflusso dell'impeto occidentale sul mondo», una «rivolta contro l'Occidente» approdata agli sconvolgimenti della decolonizzazione e di fatto non ancora esauriti nel loro intrecciarsi con le contraddizioni del potere su scala internazionale.

Sicché viene da chiedersi se il XX secolo non segni proprio «la fine della fase occidentale della storia del mondo» e quindi in prospettiva dello scontro, di segno quasi perfettamente opposto, tra la marea montante dei grandi Paesi non occidentali in ascesa e «un Occidente sempre più rinchiuso nella postura strategica e persino nell'attitudine psicologica dell'assedio».

Che in questo Occidente in vena di esaurimento quanto a supremazia, l'Europa sia una semplice appendice, è la chiave di volta, ne abbiamo già accennato, dell'analisi di Caracciolo, che ne dà però una lettura controcorrente rispetto al mainstream dello stesso pensiero occidentale.

 «Non solo il soggetto Europa non esiste né appare alla vista, ma l'organizzazione dello spazio europeo è ispirato al principio di impedire che si formi.

Perché è questo l'interesse degli Stati Uniti d'America: un continente stabile, ma non troppo, da loro strategicamente dipendente».

L'Europa per come è venuta a identificarsi, è in fondo un prodotto dell'europeismo americano.

In senso geopolitico, perché la incardina oltreoceano impedendole di essere un contropotere.

In senso ideologico, in quanto sostiene un europeismo europeo «incapace di unire gli europei», ma «utile per pacificarli, adagiarli nel declassamento inevitabile dopo aver perso due guerre mondiali.

Parcheggiandoli nella post-storia».

Tre generazioni dopo l'invenzione del «progetto europeo», è l'amara conclusione di Caracciolo, «quello che avrebbe dovuto evolvere la nostra potenza decaduta in un soggetto geopolitico unitario, constatiamo di essere oggetti di attori e di dinamiche che ci trascendono.

 E oppongono gli uni agli altri.

Niente di straordinario. Storie ordinarie, anzi, che riempiono il vuoto dell'europeistica fine della storia, talmente eccezionale da non appartenere a questo mondo».

Ciò che resta sullo sfondo è la mobilitazione delle frasi fatte, ovvero la chiamata alle armi, settant'anni dopo, come scrive Colombo, «non soltanto ovunque contro lo stesso nemico, ma addirittura contro lo stesso di sempre - il fanatismo, il fascismo (islamico o di Vladimir Putin), le autocrazie, espressione di una indifferenza senza limiti alle specificità storiche e culturali, oltre che di una vocazione narcisistica a interpretare qualunque vicenda storica e politica come proiezione della propria».

Da una promessa irrealistica di sicurezza, la parabola dell'ascesa e declino dell'ordine liberale si è concretizzata in una percezione esagerata dell'insicurezza.

Ma era proprio «la vacanza liberale dal pericolo», e dalla storia stessa sentita come pericolo, a essere un'anomalia.

 Ed è a questa anomalia che dobbiamo l'estremo paradosso del nuovo secolo, ovvero la trasformazione di una propensione dichiaratamente pacifica alla sicurezza in una bellicosa disponibilità alla mobilitazione permanente.

Come aveva detto, prefigurando il futuro, Carl Schmitt, la guerra dietro l'apparenza della pace si trasforma in «un provvedimento pacifico accompagnato da battaglie di più o meno grande portata».

 

 

 

 

Libertà e democrazia

in tempi di guerra.

Insidemagazine.it – Follotitta – (Marzo 3, 2022) – ci dice:

 

A giudicare dal comportamento degli Ucraini, la risposta è scontata.

La libertà e la democrazia non sono comodità su cui un popolo può fare calcoli al ribasso.

Noi occidentali oggi non riusciamo a giustificare l’aumento del prezzo delle nostre forniture energetiche. Oggi. Ma ieri i nostri nonni hanno imbracciato il fucile e sono andati in montagna per cacciare lo straniero;

e non erano in giuoco una manciata di chilometri in più con un litro di benzina, ma la fortuna di essere ancora vivi alla fine della giornata.

Soluzione pacifica.

Ecco, questo è quello che ci torna alla mente in questi giorni in cui, piuttosto di trovare una soluzione pacifica, la parte più forte sta cercando con le armi di imporre la propria volontà sulla parte più debole, calpestando la libertà e l’autodeterminazione democratica di un popolo.

Senza tenere in conto che certi valori non sono negoziabili e per essi, anche oggi, come ieri, si è disposti a morire.

 “La lotta è qui, mi servono munizioni, non un passaggio.”

Ha risposto Volodymyr Zelensky, secondo l’Ambasciata Americana a Kiev, quando gli è stato offerto di essere messo in salvo fuori dall’Ucraina.

Mentre Donald Trump, all’intensificarsi delle manifestazioni Black Lives Matter a Washington, ha ritenuto opportuno rifugiarsi in un bunker.

 E Donald è anche quello che si è fatto costruire un muro antisommossa tutto intorno alla Casa Bianca.

Questo tanto per capire, se ce ne fosse ancora bisogno, dove è più facile trovare i veri uomini forti, quelli per intenderci con la schiena dritta, se tra gli autocrati o i democratici.

 Putin potrà calpestare l’Ucraina e farne un cimitero, ma il cuore delle coscienze del mondo l’avrà conquistato Zelensky e sarà la conquista che conterà veramente, perché cambierà, come già ha cominciato a fare, l’equilibrio tra autocrazia e democrazia.

Autocrazia e democrazia.

Per un certo tempo vi è stata una dottrina molto in voga: “L’esportazione della democrazia.” In realtà era una stupida scusa per assoggettare un’altra nazione attraverso bombardamenti e quant’altro.

Oggi Putin non potendo scusarsi dicendo di voler esportare la dittatura, per destabilizzare un altro paese, usa la pace.

Lui vuole pacificare l’Ucraina ed i soldati russi sarebbero stati mandati a raccogliere fiori ed applausi.

 Ma non vi sono scuse per la guerra.

È sbalorditivo pensare quanto, menzogne sfacciate e male articolate, riescano ad ottenere credito nella mente di esseri pensanti.

Tanto vale essere del tutto sinceri, uscire dall’ipocrisia, e dire che la guerra è ineluttabile e uno non ne può fare a meno.

Una volta almeno si affermava che la guerra fosse fisiologica.

Mah! Eppure, anche se non si accenna all’esportazione dell’autocrazia come si faceva una volta per la democrazia, in questi anni di crisi economica endemica, quando il lavoro è precario e molte famiglie non riescono a unire pranzo e cena, la soluzione sembra essere il governo forte, l’uomo solo al comando, il sovranismo, il nazionalismo, l’autarchia;

noi che stampiamo la nostra moneta a miliardi di miliardi e torniamo ad essere ricchi;

noi saturi di forti immagini simboliche, quali muri, rosari, forche, ruspe. Noi sopra tutto e tutti!

Dove ci ha portato 100 anni fa.

Ma un momento. Sappiamo dove questo ci ha portato quasi un secolo fa: nelle montagne, con un fucile e la vita attaccata a un filo.

 E allora? Ecco, l’Ucraina ce lo sta ricordando: la libertà e la democrazia vanno difese, sempre.

Anche quando la pace offusca la memoria. Ho già scritto della provenienza di questi venti di guerra.

Da lontano e da Est. Dalla pratica autoritaria della politica.

Dal revanscismo di un potere in cerca di rivincite sulla storia.

Da interpretazioni sbagliate e tendenziose.

 Da tutto questo e da quant’altro una analisi più accurata della mia può tirar fuori.

Ma a cosa serve?

 La guerra è ormai in corso e c’è gente che muore, specie civili tra cui donne e bambini.

Si intensifica, malgrado trattative farsa.

Neanche le sanzioni riescono a scalfire la determinazione.

Sembra troppo tardi ormai. Una tragedia inaspettata si sta consumando nel cuore dell’Europa, senza che nessuno possa farci niente.

Ma nessuno è sbagliato quando c’è un popolo in armi che combatte e resiste e c’è un mondo che lo appoggia e che, a parte inviare eserciti, che’ sarebbe una Terza Guerra Mondiale, aiuta e delibera in suo favore.

Putin vuole vincere una guerra persa in partenza.

 L’Occidente vuole vincere la pace, possibilmente fare quello che ha tralasciato di fare dopo la caduta dell’Unione Sovietica, quando qualcuno ha pensato che non ci sarebbe stata più storia e la Russia sarebbe autonomamente diventata democratica.

Così, per simbiosi, invasa da blue jeans e xerox machines.

 

 

 

 

Libertà, democrazia ed

equità secondo Giorgia Meloni.

Liberainformazione.org - Rocco Artifoni – (26 Ottobre 2022) – ci dice:

 

Il discorso di Giorgia Meloni al Parlamento, per chiedere la fiducia al Governo che presiede, contiene molti spunti interessanti.

Anzitutto il concetto di libertà.

Il discorso della Presidente del Consiglio dei Ministri si chiude con una citazione di papa Giovanni Paolo II:

«La libertà non consiste nel fare ciò che ci piace, ma nell’avere il diritto di fare ciò che si deve».

Ma questa idea della libertà è contraddetta in diversi passaggi precedenti.

Per esempio, quando ha detto: «Il motto di questo Governo sarà: “non disturbare chi vuole fare”».

Un altro esempio: «La libertà è il fondamento di una vera società delle opportunità, è la libertà che deve guidare il nostro agire, libertà di essere, di fare, di produrre.

 Un Governo di centrodestra non limiterà mai le libertà esistenti di cittadini e imprese».

Insomma: la libertà è ciò che si deve o ciò che si vuole fare?

 Un po’ di coerenza su questo principio fondamentale non guasterebbe.

Poi c’è la democrazia.

Meloni sostiene che il voto è «la piena realizzazione del percorso democratico, che vuole nel popolo, e solo nel popolo, il titolare della sovranità», tralasciando che la sovranità è limitata dalla Costituzione, che garantisce la divisione dei poteri e il rispetto dei diritti.

Questa dimenticanza si nota nella successiva affermazione, laddove descrive quanto è accaduto negli ultimi 11 anni «con un susseguirsi di maggioranze di Governo pienamente legittime sul piano costituzionale, ma drammaticamente distanti dalle indicazioni degli elettori.

Noi, oggi, interrompiamo questa grande anomalia italiana, dando vita a un Governo politico, pienamente rappresentativo della volontà popolare».

Questo presunto legame diretto tra volontà del popolo e governo appartiene ad una visione poco avvezza a considerare l’irriducibile ricchezza del pluralismo parlamentare.

In realtà, Giorgia Meloni ad un certo punto fa un’affermazione che va nella direzione opposta:

 «io non intendo assecondare quella deriva secondo la quale la democrazia appartiene ad alcuni più che ad altri».

Ma poi rilancia la proposta di «una riforma che consenta all’Italia di passare da una “democrazia interloquente” a una “democrazia decidente”.

Se con ciò intende dire che è tempo sprecato discutere e confrontarsi (ma il Parlamento dovrebbe servire proprio ad assolvere a questa funzione democratica) e che spetta unicamente al Governo decidere, allora è del tutto inutile citare Montesquieu, come ha fatto Giorgia Meloni.

In questa visione poco rispettosa della divisione dei poteri, si inserisce anche la revisione della Carta Costituzionale:

«siamo fermamente convinti del fatto che l’Italia abbia bisogno di una riforma costituzionale in senso presidenziale, che garantisca stabilità e restituisca centralità alla sovranità popolare».

Nel programma della coalizione del centrodestra infatti c’è la proposta dell’elezione diretta del Capo dello Stato.

 Anche in questo caso emerge l’idea di una sovranità popolare che debba esprimersi direttamente, scegliendo il Presidente della Repubblica.

Perché questo modello garantisce maggiore stabilità, non è detto.

 Invece viene data un’indicazione sul tipo di presidenzialismo:

«Vogliamo partire dall’ipotesi di un semipresidenzialismo sul modello francese».

In realtà nel programma del centrodestra di questo non si parla.

Si tratta di un’aggiunta non da poco.

Un conto è modificare soltanto il sistema di elezione del Presidente della Repubblica, passando la competenza dal Parlamento agli elettori. Altra cosa, con un impatto assai più forte sugli equilibri costituzionali, è modificare i poteri del Capo dello Stato (che sono assai diversi tra Italia e Francia).

Ma se il progetto del semipresidenzialismo nel programma della coalizione non c’era, come si combina adesso con il rispetto della volontà popolare?

L’impressione è che il popolo sia una categoria strumentale, da utilizzare con forza quando fa comodo e da tralasciare quando prevalgono altri interessi.

Un’ultima annotazione sul concetto di equità, che sicuramente è da annoverare tra i valori costituzionali.

Giorgia Meloni, riferendosi al fisco, annuncia una «riforma all’insegna dell’equità».

Subito dopo esemplifica il concetto con «l’estensione della tassa piatta per le partite IVA dagli attuali 65 mila euro a 100 mila euro di fatturato».

Ciò significherebbe ampliare la differenza di trattamento tra i redditi dei lavoratori dipendenti ai quali viene applicata un’imposta progressiva e quelli dei lavoratori autonomi che usufruiscono di una tassa proporzionale.

Un Governo può anche decidere di favorire le partire IVA a discapito degli altri lavoratori, ma l’equità è tutto un altro programma.

 

 

 

L’Ucraina chiede libertà e democrazia.

Ma i pacifisti la regalerebbero a Putin.

Libertaeguale.it - Vittorio Ferla – (5 Novembre 2022) – ci dice:

 

Con tutto il rispetto necessario per chi crede sinceramente nella pace, bisogna riconoscere con amarezza che la manifestazione di oggi nasce nel segno di un immenso equivoco, prima di tutto intellettuale, ma anche morale e politico.

L’equivoco è quello di sventolare la bandiera della pace come bene supremo ma del tutto astratto, da perseguire anche a costo di barattarlo con altri – la verità, la giustizia, la libertà – che pure dovrebbero avere qualche voce in capitolo.

La sensazione emerge chiaramente dalla lettura di alcuni manifesti che nelle settimane scorse sono stati sottoscritti e diffusi a favore – di fatto – di un immediato disimpegno militare dell’occidente dalla crisi ucraina.

Chiedere infatti il silenzio delle armi durante una guerra di aggressione che la Russia non ha nessuna intenzione di concludere ha il significato di una resa che ricadrebbe prima di tutto sul popolo aggredito.

 Che è quello ucraino.

 L’ultimo manifesto in ordine di tempo è quello delle associazioni cattoliche che, interpretando forse con un eccesso di zelo le parole del Papa, sembrano dimenticare del tutto il martirio degli ucraini.

Non basta infatti concedere spazio all’ormai ovvio cliché che ammette che c’è un aggressore – la Russia – e un aggredito – l’Ucraina – per aver chiuso i conti con la dimensione etica della vicenda.

La pace, infatti, può essere costruita su basi solide e su fatti concreti solo ad alcune condizioni:

ristabilire la verità sulle ragioni dell’aggressione, ristabilire la giustizia che deriva dal rispetto dell’ordine internazionale, ristabilire la libertà degli ucraini che oggi sono attaccati e oppressi.

 In altri termini, la pace può incarnarsi soltanto nella concretezza della storia degli uomini. Il manifesto delle associazioni sceglie una prospettiva opposta, a tal punto escatologica, da diventare idealistica e astratta.

Concentrati esclusivamente sul rischio della minaccia nucleare e sul conseguente appello per la proibizione delle armi atomiche, i sottoscrittori dimenticano completamente la richiesta di aiuto degli aggrediti.

Ma così l’umanità degli oppressi lascia il campo al desiderio di sicurezza dell’occidente, incapace di assumere impegni gravosi per difendere non solo l’Ucraina, ma sé stesso dalla volontà di potenza di un regime dispotico.

La pace di cui discetta il manifesto – richiesta a gran voce dai cortei riuniti oggi a Roma – si raggiunge solo a condizione di regalare a Putin quello che vuole: l’Ucraina.

Attenzione: non solo singole regioni, ma tutta intera.

Perché così lui vuole.

Ma lasciare il campo libero al disegno imperialista di Mosca significa volere la pace denunciata da Tacito: “dove fanno il deserto, lo chiamano pace”.

Se, per ragionare di pace, è necessario ristabilire la verità dovremmo tutti ammettere – compresi i pacifisti a tutti i costi – che l’obiettivo dichiarato della guerra scatenata da Putin è quello di ritornare all’assetto superato con lo scioglimento dell’Unione Sovietica nel quale russi e ucraini, secondo la propaganda di Mosca, formavano un unico popolo.

Questo assetto, oggi, è minacciato dall’esistenza stessa dell’Ucraina come stato che aspira all’indipendenza dal dispotismo russo, che punta a diventare un paese democratico e liberale e che, per questo, desidera entrare a far parte della comunità europea e occidentale.

 Questa evoluzione, considerata da Putin alla stregua di una ‘nazificazione’ dell’Ucraina, autorizzerebbe la Russia alla sistematica devastazione e distruzione del paese.

L’approccio del capo del Cremlino diventa così “genocidario”, perché mira a fare scomparire l’identità ucraina con ogni mezzo possibile: le stragi indiscriminate, l’esilio dei cittadini dalla propria terra, la deportazione dei civili (soprattutto bambini orfani), l’indottrinamento delle persone nelle aree conquistate dalle armi.

Se non si parte dal riconoscimento di questa verità storica invece di vagheggiare su presunte – ma stavolta inesistenti – responsabilità dell’occidente non si fa nessun servizio alla causa della pace.

Men che meno alla causa degli ucraini che sono i primi detentori e attori della propria libertà.

Se, viceversa, nel nome della pace, si accetta la prevaricazione del despota e la sottomissione dell’Ucraina dovremo concludere che il diritto internazionale è uno strumento inutile e arcaico e che ciascuna potenza nucleare, quando vorrà, potrà aggredire i suoi vicini nella certezza dell’impunità e nel silenzio della comunità internazionale.

Stupisce che nessuna voce dell’ampio fronte pacifista riconosca la principale novità che viene dallo scenario di guerra: la domanda di democrazia e di libertà che viene dall’Ucraina.

L’argomento è sviluppato in maniera esaustiva da Eugenio Somaini, docente di politica economica, in un recente saggio apparso sull’ultimo numero della storica rivista “Mondoperaio”.

Per contrapporlo alla famigerata “esportazione della democrazia” con le armi che ha caratterizzato alcune fasi della nostra storia recente dopo la fine della Guerra Fredda, Somaini descrive il fenomeno come “importazione della democrazia”.

I suoi tratti fondamentali sono: la scelta autonoma da parte di un paese di intraprendere un processo di democratizzazione, la disponibilità dei paesi democratici ad aiutarlo su richiesta dell’interessato e la richiesta formale di adesione alle forme associative dei paesi democratici.

Nel caso specifico dell’Ucraina, ciò si realizza con la richiesta formale di adesione all’Unione europea.

 La prospettiva delineata da Somaini appare promettente in quanto fondata, da una parte, sulla scelta autonoma del paese che si mette sulla strada della democratizzazione e, dall’altra, sull’allargamento della base democratica del pianeta per via pacifica, a partire dalla spontanea adesione degli stati attori.

Ora, non sorprende che un dittatore come Putin consideri ‘nazificazione’ questo desiderio di democrazia e di libertà.

Sorprende, invece, che i pacifisti non comprendano che barattare cessioni territoriali alla Russia con la pace significa di fatto interrompere questo virtuoso processo di evoluzione democratica regalando l’Ucraina alla sfera di influenza di Putin secondo le logiche imperialistiche tipiche del Novecento.

Subito dopo, se non viene fermato in Ucraina, Vladimir Putin si sentirà incoraggiato a proseguire nella sua sbandierata volontà di potenza imperialista.

 E continuerà a realizzarla come ha sempre fatto: con le armi.

Per fortuna, l’Unione europea e le democrazie anglosassoni hanno scelto di opporsi al disegno di Putin.

Dovrebbero fare lo stesso i pacifisti in corteo a Roma, tra piazza della Repubblica e piazza San Giovanni.

Non è affatto il tempo di slogan pilateschi contro tutte le guerre.

Putin go home!

(Vittorio Ferla)

 

 

 

 

Pace, democrazia e libertà:

presente e futuro dell'Europa.

Argomenti2000.it - Marina Berlinghieri – (2 Marzo, 2022) ci dice:

 

Il momento drammatico che stiamo vivendo ci interroga in modo profondo.

L'aggressione dell'Ucraina da parte della Federazione Russa ci porta ad esprimere la massima solidarietà all'Ucraina.

La guerra e la gravità della situazione ci interrogano però, come Europei, sugli scenari che si possono aprire.

L'Europa nasce su un progetto politico di pace, democrazia e libertà (tutte e 3 insieme, non solo democrazia e libertà), possiamo noi avallare (e favorire) una sua deriva bellicistica?

Quanto è utile armare i civili e quanto aiuta a porre fine velocemente a questa invasione?

È difficile per me in questo momento distinguere tra ciò che viene detto ad arte e ciò che risponde al vero:

siamo in una fase comunicativa dentro la quale è complicato capire.

Ecco, dentro a questa fase mi sorgono dubbi e domande;

vorrei avere le certezze di chi pensa che in questo momento solo dall'invio delle armi passa la difesa della libertà e della democrazia ...

Ma purtroppo ai miei occhi e alla mia coscienza le cose non sono così chiare.

Una cosa è chiara: ci sono un aggressore e un aggredito e non si può rimanere neutrali di fronte a tutto questo.

Con le sanzioni noi stiamo dicendo che, di fatto, entriamo in guerra: una guerra economica e informatica di cui siamo disponibili a pagare il prezzo.

 In questa prova di forza, sappiamo che la conclusione sarà un accordo tra le parti.

Mi domando: ci siamo chiesti che prezzo siamo disponibili a pagare in termini di vite umane, prima di arrivare all'accordo?

Ci siamo chiesti se siamo disponibili ad arrivare anche a una fase in cui il nostro coinvolgimento sarà anche militare a tutti gli effetti?

Ecco io vorrei capire e sapere.

La responsabilità delle scelte di questi giorni è enorme.

Soprattutto vorrei capire e sapere che ruolo avremo noi nella definizione delle scelte, come Paese e come partito.

 Il pranzo a 3 di Von der leyen, Macron e Scholtz... Non è sfuggito agli occhi dei più.

E infine un altro tema: il mondo non sarà più come prima.

Abbiamo davanti la definizione dell'Europa del futuro (anche la sua esistenza secondo me).

Dovremo definire la strategia energetica, le nuove regole per il bilancio comune, la strategia di politica estera e di difesa, l'architettura istituzionale dell'Unione Europea e infine il ruolo dell'Europa dentro la Nato.

Abbiamo il compito di definire adesso la strategia per la costruzione di un futuro fedele ai valori che hanno fondato l'Europa.

Lo dobbiamo fare con il coraggio del pensiero complesso, senza facili scorciatoie e con un ruolo da protagonisti.

(Marina Berlinghieri, Deputato PD).

 

 

«Senza limiti non

 c’è democrazia».

Ilmanifesto.it – Daniela Passeri – (8 settembre 2022) – ci dice:

 

INTERVISTA. Il sociologo Marco Deriu parla del rapporto tra crisi ecologica e democratica.

 E di come è possibile uscirne.

 A partire dalla partecipazione, dal cambiamento del modello di sviluppo e dai beni comuni.

«La decrescita è il nuovo nome della pace. In un contesto di lotta per le risorse e distruzione dell’ambiente, solo questa prospettiva può consentire rapporti pacifici».

Marco Deriu, sociologo dell’Università di Parma e membro dell’Associazione per la decrescita, è autore di “Rigenerazione”.

Per una democrazia capace di futuro (Castelvecchi, pp 310, una riflessione sulla relazione tra la crisi ecologica e la crisi della democrazia.

La democrazia che conosciamo ha le carte in regola per farci uscire dalla crisi climatica e ambientale?

La mia prospettiva parte dall’idea che la democrazia, così come l’abbiamo concepita fino a oggi, è de-naturalizzata, perché non si è mai interrogata fino in fondo sulle radici ecologiche della società, su quanto le comunità politiche e le forme del vivere dipendono da elementi ambientali.

La democrazia si è fondata sulla massimizzazione del consumo delle risorse. Questo spiega alcuni limiti della situazione in cui ci troviamo.

Dal mio punto di vista, la democrazia non è immune da responsabilità per ragioni storico-politiche.

Il benessere delle nostre democrazie è basato su un tipo di organizzazione socio-economico che dipende da un afflusso di beni che provengono da tutto il mondo e da un accesso a energia a buon mercato che pensiamo di dare per scontato, ma che tale non è.

È quella che lei definisce una democrazia fossile…

Nel libro uso questa immagine per dire una doppia cosa: c’è sia una radice materiale, ovvero una connessione tra l’evoluzione dei regimi di diritti e libertà politiche liberali e l’uso e il controllo prima del carbone e poi del petrolio.

 Ma fossile è anche un modello di democrazia che non si è mai posta il tema della responsabilità verso le generazioni future, né dal punto di vista ecologico né da quello economico – pensiamo alla questione del lavoro o del debito – e che di fatto riduce le prerogative democratiche per chi viene dopo.

La crisi climatica mette in discussione l’idea di libertà assoluta sulla quale si fondano le democrazie.

Come dovrà cambiare la concezione di libertà in una democrazia ecologica?

Nella tradizione democratica c’è una riflessione sul tema dei limiti, degli equilibri, della distribuzione del potere.

Però nella nostra cultura democratica l’idea di libertà è stata in gran parte pensata come un modello di libertà individualistica, come essere sciolti da vincoli, poter fare, produrre, consumare, comprare quello che vogliamo, secondo una cultura consumistica e un modello di accumulazione di crescita illimitato.

Un’idea di libertà che consuma non solo la natura e i beni comuni, ma consuma la democrazia stessa.

Per me diventa fondamentale riscoprire un’idea di libertà in relazione.

Relazione con il territorio, l’ambiente, tra generi, tra generazioni, tra forme viventi differenti.

Il senso del limite non è appannaggio della democrazia. Perché è necessario inglobarlo?

La massimizzazione delle possibilità per ciascuno non coincide con il fare quello che ci pare.

Se tutti consumano e sfruttano l’ambiente e i beni sociali senza preoccuparsi delle condizioni di accesso degli altri, quello che succede è che distruggiamo i beni e trasformiamo la natura dei beni con cui ci relazioniamo.

 Costruire una forma di benessere o prosperità che sia davvero democratica significa trovare delle risposte collettive e un senso della misura che non è un’aggregazione dei desideri individuali, ma è una costruzione collettiva.

La ricerca dei limiti è la chiave per una democrazia capace di futuro.

Certo, il solo riconoscimento dei limiti ecologici di per sé non è detto che produca un sano senso di responsabilità, potrebbe anche rafforzare la competitività per l’accaparramento delle risorse scarse da parte di élite geografiche o di classe.

Per questo abbiamo bisogno anche della giustizia sociale e di democratizzare le nostre forme di consumo.

 

Da dove ripartire per una trasformazione e rigenerazione della pratica democratica?

Sono diversi sentieri che si possono percorrere.

Intanto bisogna riconoscerne i lati oscuri, come la cosiddetta «miopia delle democrazie», un tema ben presente nel dibattito politologico attuale: per come sono strutturate le democrazie, il confronto si costruisce su prospettive di brevissimo periodo, mentre fanno fatica ad entrare in gioco decisioni che riguardano, per esempio, le generazioni future.

Come provare a trasformare?

Secondo me occorre introdurre una sorta di sperimentalismo democratico, che può essere applicato anche in campo ecologico.

Un tema cruciale è quello delle forme di partecipazione e quindi delle garanzie procedurali che vengono riconosciute ai cittadini quando si tratta di operare delle scelte che impattano sui territori, come le grandi opere.

 Uno spazio interessante di sperimentazione è quello dei beni comuni che possono essere gestiti da comunità di persone che si rendono responsabili della loro tutela.

Le tematiche ecologiche hanno poi fatto emergere la necessità di coinvolgere sempre più i giovani nei processi decisionali in una società che fino ad ora si è data l’anzianità come criterio di garanzia.

Inoltre, io credo che un ruolo interessante possa essere svolto dalle città, o reti di città, come luoghi che contemperano la doppia esigenza di riavvicinare le persone alla democrazia e nello stesso tempo affrontare decisioni che, obiettivamente, non possono essere prese a livello locale come quelle sui servizi o sul welfare.

Nell’affrontare il cambiamento climatico non c’è solo il confronto tra stati, che abbiamo visto essere lento e non scevro di conflittualità, ma occorre introdurre più soluzioni e più processi.

Non esiste una «soluzione verde» chiavi in mano, nessuna di queste strade, da sola, può tirarci fuori dai guai:

dobbiamo capire che la questione climatica è una lente che ci deve spingere a ripensare in tutti i suoi aspetti le nostre istituzioni democratiche.

Alla prospettiva della decrescita, lei scrive, manca ancora una visione politica.

 A che punto siamo?

Io credo sia interessante ragionare sull’idea del decrescere, più che sulla decrescita come stato delle cose.

 Quindi su un modello di transizione capace di assumere il tema della discontinuità.

Qui sta la grossa questione dal punto di vista della democrazia: la scienza ci dice che per costruire forme di sostenibilità dobbiamo modificare le forme di consumo, di produzione, di alimentazione, e tanti aspetti che hanno a che fare con le nostre abitudini quotidiane.

Come è possibile fare questo in una logica consensuale e democratica?

È possibile se la politica ci accompagna nell’assunzione di scelte collettive.

Per questo c’è enorme bisogno di investire nelle pratiche democratiche, perché l’alternativa è quella di aspettare che qualcuno ci tolga dai guai in maniera autoritaria.

La riflessione sulla democrazia e sulla decrescita è strettamente imparentata.

Nel suo libro lei sottolinea l’apporto dell’eco-femminismo a questa riflessione. Perché è importante?

È importanti su tanti livelli.

Da quel filone di pensiero e di pratiche emerge la consapevolezza dello squilibrio tra le forme di produzione e il disconoscimento delle forme di riproduzione in senso lato.

Se vogliamo, l’ossessione per la crescita e certe forme di politica competitiva derivano dal fatto che molte esigenze legate alla cura e alla riproduzione, la gestione dei legami sociali e comunitari, sono state estromesse dallo spazio pubblico e considerate parte di un regno privato di necessità concrete lasciate alle singole persone e delegate essenzialmente al lavoro delle donne o degli invisibili, lavoratori che non accedono al riconoscimento pubblico.

Sono riflessioni fondamentali non solo per i rapporti tra generi e generazioni, ma anche per immaginare una politica diversa.

 

 

 

BOMBSHEL! L'Ordine Internazionale

della Diplomazia è stato irreversibilmente

distrutto come previsto dalla Cabala Khazariana.

Stateofthenation.co – Redazione – (Dicembre 8, 2022) – ci dice:

 

La Merkel ha ammesso l'inganno sull'accordo di pace di Minsk: la Russia.

L'ex cancelliere tedesco ha rivelato che gli accordi avevano lo scopo di "dare tempo" all'Ucraina per rafforzare il suo esercito.

(Angela Merkel e Pyotr Poroshenko si incontrano nel 2019).

L'ex cancelliere tedesco Angela Merkel ha confermato la doppiezza del suo governo riguardo al conflitto in Ucraina confermando che l'accordo di cessate il fuoco del 2014 aveva lo scopo di dare a Kiev il tempo di costruire il suo esercito, ha detto la portavoce del ministero degli Esteri russo Maria Zakharova.

In un'intervista alla rivista Zeit pubblicata mercoledì, Merkel ha detto che il protocollo di Minsk mediato da Germania e Francia era "un tentativo di dare tempo all'Ucraina", che ha usato per "diventare più forte", come evidenziato sul campo di battaglia ora.

Si riferiva al primo dei due documenti noti collettivamente come "accordi di Minsk" che sono stati progettati per aiutare Kiev a riconciliarsi con i ribelli dell'est, che avevano respinto l'esito di un colpo di stato armato nella capitale nel 2014.

Berlino e "per estensione, l'Occidente" non hanno mai inteso attuare gli accordi di Minsk, ha concluso Zakharova sulla base delle osservazioni della Merkel.

 Gli Stati Uniti e i loro alleati "hanno simulato di sostenere la risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite" che ha approvato la tabella di marcia per la pace mentre pompava armi in Ucraina e "ha ignorato tutti i crimini commessi dal regime di Kiev ... per il bene di un attacco decisivo contro la Russia", ha spiegato in un post sui social media giovedì.

Nell'intervista a Zeit, Merkel ha dichiarato che la Russia "avrebbe potuto facilmente invadere" le truppe ucraine nel 2015, aggiungendo che dubitava che "i paesi della NATO avrebbero potuto fare tanto allora quanto fanno ora".

La seconda parte degli accordi di Minsk è stata firmata nel febbraio 2015 in mezzo a una sconfitta militare subita dalle truppe ucraine, che hanno tentato di reprimere le milizie del Donbass.

La descrizione degli accordi da parte della Merkel coincide con quella fatta dall'ex presidente ucraino Pyotr Poroshenko, durante il cui mandato sono stati firmati.

A livello nazionale, nell'agosto 2015, ha dichiarato che l'accordo di pace era uno stratagemma per dare al suo governo il tempo di un rafforzamento militare.

Ha detto la stessa cosa al pubblico occidentale nel giugno di quest'anno.

La Russia ha inviato truppe in Ucraina alla fine di febbraio, citando il fallimento di Kiev nell'attuare i protocolli di Minsk, in base ai quali le regioni di Donetsk e Lugansk avrebbero ricevuto uno status speciale all'interno dello stato ucraino.

Il Cremlino ha riconosciuto le repubbliche del Donbass come stati indipendenti, che da allora hanno votato per unirsi alla Russia insieme alle regioni di Kherson e Zaporozhye.

La Russia ha anche chiesto che l'Ucraina si dichiari ufficialmente un paese neutrale che non si unirà mai a nessun blocco militare occidentale.

 Kiev insiste che l'offensiva russa è stata completamente immotivata.

(rt.com/russia/567873-zakharova-merkel-minsk-agreements).

 

 

 

 

Libertà, sviluppo tecnologico

e Costituzione: una democrazia

trasformata.

Diritto.it - Rosalba Ambrosino - (29 marzo 2022) - ci dice:

(privacy e cybersecurity)

Gli attori globali e gli Stati.

Le società tecnologiche, le Reti e gli aspetti problematici.

 

Gli attori globali e gli Stati.

Uno spazio sempre più importante ha in dottrina la discussione relativa allo sviluppo delle tecnologie digitali ed i rischi ed i pericoli a queste connessi.

Lo sviluppo delle stesse ha, infatti, suscitato, e ancora suscita, grandi aspettative in relazione alla promozione di processi democratici nei regimi antidemocratici, ma anche alla possibilità di migliorare la qualità democratica nei sistemi costituzionali.

Tuttavia il modo in cui vengono gestite queste tecnologie, e tra esse il sempre il maggior ricorso all’ intelligenza artificiale, ha messo in discussione il loro funzionamento dal punto di vista della compatibilità delle stesse con i diritti costituzionali; anzi, a detta di molti autori, sta generando un’incidenza negativa nei processi democratici e nel rispetto delle regole.

Sappiamo che in conseguenza del terrorismo di diversa matrice ( in particolare quello jihadista dopo l’attentato dell’11/09/2001) che  colpisce senza una ragione precisa, un po’ ovunque e senza obiettivi precisi, si è creata una percezione di insicurezza da parte della popolazione mondiale.

 I governi di tutti i Paesi hanno dovuto trovare modalità per garantire la sicurezza internazionale ed evitare ricadute di diversa natura, non ultima quella economica. In cambio la popolazione si è dimostrata disposta ad accettare limitazioni della propria libertà pur di prevenire eventuali attentati.

Il diritto alla sicurezza sappiamo essere un diritto soggettivo perfetto che non è sottoposto nemmeno ad un bilanciamento ma prevale su tutti gli altri diritti. Non tutti però sono d’accordo perché ritengono che le conseguenti limitazioni rimarranno tali anche quando il pericolo si è attenuato; sono, infatti, rimaste le limitazioni alla libertà di pensiero, di circolazione, alla privacy.

La limitazione della protezione della privacy dei propri dati si contrappone ad un riconoscimento universale del diritto alla privacy, per quanto non espressamente previsto all’interno delle Costituzioni.

 Nasce così la Data Protection, a fronte delle diverse necessità di concedere l’utilizzo dei propri dati per assicurare l’utilizzo di tecnologie, di servizi e il lavoro. Mentre alcune Corti costituzionali e governi positivizzano il “Data protection”, altri invece la ricavano quale derivazione del diritto alla privacy.

La sorveglianza di massa comporta infatti che tutta la popolazione venga attenzionata a prescindere da una forma di illecito.

Sono diverse le possibili forme di sorveglianza quali: la profilazione delle diverse forme di comunicazioni (mail, telefonate, etc.) l’iscrizione ai social media, ancora l’analisi dei dati di viaggio e le transazioni finanziarie.

Le Corti, a fronte del ripiegarsi del legislatore, hanno confermato tali posizioni orientandosi a favore della sicurezza piuttosto che a tutela del “Data Protection”, addirittura molte volte deferendo ad altri organi la tutela di tali aspetti.

Insomma un vero appiattimento ad accezione della Corte di Giustizia Europea.

Ricordiamo, infatti, la sentenza dell’8 aprile 2014 (cause riunite C-293/12 e C-593/12) laddove si ritiene che la sorveglianza di massa violi la privacy; non c’è, infatti, chiarezza di come si espliciti la sorveglianza, viene ritenuta molto invasiva, finendo così, in sentenza, per riscrive la Direttiva impugnata (la Direttiva n.2006/24/CE).

Detta Corte, infatti, ritiene che i legislatori nazionali si siano appiattiti troppo sul pensiero del legislatore europeo invece di regolamentare più organicamente la tutela della privacy.

Ancora più dirimente una riflessione riguardo ai social network ed al loro rapporto con le società tecnologiche che li gestiscono.

Queste società stanno costruendo un nuovo mondo e lo fanno in funzione delle loro prospettive che mirano al solo vantaggio economico senza preoccuparsi per nulla della lesione dei diritti che un comportamento orientato, solo alla ricerca della redditività economica, procura.

Scontato il conseguente impatto negativo di questa loro attività sui processi democratici. Società tecnologiche che i governi degli Stati, e soprattutto quelli delle amministrazioni nordamericane- che sono le principali responsabili del loro controllo- stanno regolando in maniera molto lenta, quando lo fanno, senza interessarsi per niente dei problemi costituzionali che si stanno generando.

Potremmo dire che paradossalmente l’Europa, e soprattutto alcuni suoi Stati, si sono dimostrati molto più attivi nel cercare di affrontare gli eccessi di queste società.

Un paradosso solo apparente questo però se teniamo conto che la contropartita di tutto ciò è un interesse strategico: quello all’accumulazione di dati a livello mondiale da parte di queste società e poi la loro successiva utilizzazione da parte delle agenzie di sicurezza nordamericane.

Le società tecnologiche, le Reti e gli aspetti problematici.

Per comprendere la portata di questi problemi possiamo fare una semplice comparazione tra la forma nella quale avvenivano le comunicazioni, sia private che pubbliche, prima dell’apparizione dei social e delle grandi piattaforme, e la situazione odierna.

Le comunicazioni private rispondevano a questi cardini di matrice costituzionale: la corrispondenza e le conversazioni telefoniche non possono, ancora oggi, essere intercettate se non con un’autorizzazione giudiziale; i mezzi di comunicazione sono naturalmente plurimi e devono dare un’informazione obiettiva.

Se focalizziamo invece l’attenzione su quello che succede oggi alle nostre comunicazioni sui social media e non, allora lo scenario è totalmente differente.

Immaginiamo che cosa significa in termini di rispetto della privacy quando qualcuno ha la possibilità di conoscere la nostra corrispondenza, di poter sentire quello che ci diciamo in qualsiasi momento, di sapere quello che stiamo leggendo ogni giorno, ed ancora, di conoscere il tempo che dedichiamo alle notizie, e che tipo di notizie ci interessano.

Immaginiamo poi che tutti questi dati qualcuno ha la capacità di elaborarli, di definire tramite gli algoritmi quali sono i nostri gusti, e suggerirci ed offrirci così le cose che ci piacciono o che ci piacerebbe comprare attraverso una pubblicità personalizzata.

E, per finire, facciamo un ultimo passo e pensiamo che questi dati sono utilizzati per conoscere le nostre preferenze, ma anche le nostre paure, e, con questi dati, viene elaborato un profilo psicologico individualizzato che rende possibile l’invio di propaganda politica sublimale, orientata a cambiare significato al nostro voto alle elezioni o comunque a disincentivare la nostra partecipazione.

Questo, sostengono in molti, sta accadendo da alcuni anni nelle ultime tornate elettorali: a cominciare, per esempio, dai referendum sulla Brexit e poi continuando con le elezioni presidenziali negli Stati Uniti.

 

Quello che hanno fatto alcune piattaforme che gestiscono appunto i social non è provare a convincere i votanti a cambiare il loro voto ma quello di utilizzare i profili psicologici, precedentemente creati attraverso algoritmi, per generare una reazione nei confronti di un particolare candidato, e quindi in qualche modo indirizzarlo, quando egli vota, verso un determinato candidato con l’invio di messaggi appositi.

Se questa propaganda subliminale si combina poi con altre operazioni, tipo fake news o messaggi scoraggianti verso un dato candidato, non è detto che si riesca a far cambiare l’opinione a quell’ elettore, ma molto probabilmente si potrà ottenere che questi si astenga dal voto; 

quando questo è fatto in maniera massiccia e personalizzata su milioni di persone naturalmente il processo elettorale è indiscutibilmente alterato.

“Il rischio delle piattaforme è altissimo” cosi ha esordito la Prof.ssa G. Cerrina Feroni nel corso del seminario organizzato dall’Università “G. Marconi” dal titolo “L’Oversight Board di Facebook: il controllo dei contenuti tra procedure private e norme pubbliche”

Il servizio di rete sociale di Facebook, oggi Meta platforms, nato come facilitatore di amicizie è, nei fatti, una architettura composta da elemento tecnologico (riguarda i dati che sono organizzati da algoritmi, hardware e software per aumentare la connettività tra cittadini e la piattaforma);

 un elemento economico (il numero di accessi, il tempo utilizzato, le ricerche effettuate etc., sono tutti dati che la piattaforma acquisisce) ed un elemento giuridico   i termini di servizio sono pseudo- contratti e, quando riguardano contenuti, sono standard di community).

Essi sono però soggetti a frequenti modifiche unilaterali.

Se però nella vita reale c’è il legislatore a scrivere le regole, nella rete c’ è l’autoregolamentazione; o meglio c’è “co-regolamentazione” cosi da mantenere libertà di azione.

Ecco perché per la relatrice Fb che è un “ecosistema “apparentemente democratico, nei fatti autoritario.

  Si è dato un “Oversight Board” e dei valori autodeterminati; non c’è, perciò, controllo dello Stato o del Parlamento ma solo regole imposte agli utenti dal “board”.

Le piattaforme commerciali fanno selezione in base a loro interessi e convinzioni anche se permettono di superare le barriere e permettono ad ognuno di noi di affiliarsi solo ai gruppi di cui condividiamo le idee (una sorta di turismo online).

Forti interessi pubblici e privati muovono le decisioni di tale organismo.

Valori comuni come libertà di espressione, la libertà di informazione che costituiscono il nucleo dei diritti inviolabili dell’uomo, sottratti ad ogni revisione perché diritti fondamentali, che appartengono a tutti i cittadini ed è lo Stato a custodirli, oggi sono diventati dei beni posseduti da piattaforme per interessi privati.

Conclusioni.

E’ sempre più chiaro che i social network non sono una semplice piattaforma statica e cioè dei semplici mediatori senza alcuna forma di responsabilità, ma al contrario essi sono le società che li gestiscono e che hanno quindi una chiara responsabilità per le pratiche non corrette quali ad esempio la chiara lesione di diritti fondamentali prima accennati.

La libertà di informazione, ad esempio, è oggi oggetto di lesione da parte delle fake news mentre la lesione del diritto alla privacy, come protezione dati personali, è costantemente bersaglio da parte di queste società.

E’ palese l’obbligo degli attori politici di proteggere il nucleo delle libertà fondamentali che sono veri e propri diritti inviolabili.

Queste conseguenze dello sviluppo tecnologico stanno provocando cambiamenti, non sempre prevedibili, in quanto stanno portando ad una trasformazione dei modelli culturali in modo inarrestabile e quindi è chiara la tensione tra il costituzionalismo e lo sviluppo tecnologico; così come è difficile individuarne una soluzione.

E’ di certo necessaria una regolazione, che partendo dai principi costituzionali, garantisca i diritti fondamentali e la limpidezza di quei valori che sono sotto attacco.

Naturalmente le società tecnologiche si oppongono, e si opporranno, affannosamente a questo lavoro adducendo ragioni tecniche che impedirebbero qualsiasi regolamentazione;

stanno imponendo l’idea che la costruzione diritti sia un ostacolo al progresso che esse offrono, ma proprio per questa ragione e ancor di più necessario arrivare ad una regolazione, anche condivisa. 

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