LO SCONTRO DI CIVILTA’ DECIDE IL DESTINO DELL’UMANITA’.

 LO SCONTRO DI CIVILTA’ DECIDE IL DESTINO DELL’UMANITA’.

 

Putin scrolla di dosso le provocazioni

di Washington e "si attacca agli affari"

Unz.com - MIKE WHITNEY – (11 DICEMBRE 2022) – ci dice:

 

Gli attacchi dei droni della scorsa settimana alle basi militari russe rappresentano una grave escalation nella guerra per procura di Washington contro la Russia.

 Uno degli attacchi ha coinvolto un aeroporto che si trova a meno di 200 miglia da Mosca.

 Naturalmente, l'incidente ha irritato il presidente russo Vladimir Putin, che ha convocato una riunione di emergenza del suo Consiglio di sicurezza per esplorare le opzioni per attacchi di rappresaglia.

Non abbiamo dubbi sul fatto che i vertici della Russia abbiano raccomandato attacchi missilistici tit-for-tat oltre i confini dell'Ucraina come una forma di eguale ricompensa.

 Fortunatamente, hanno prevalso le teste più fredde e l'esercito è rimasto fedele alla sua attuale strategia di obliterazione delle infrastrutture critiche nelle città di tutto il paese.

Gli attacchi alla fragile rete elettrica dell'Ucraina sono la preparazione essenziale per il lancio di un'offensiva invernale ampiamente attesa.

L'attacco di droni di ieri contro un aeroporto a Kursk segna un'importante escalation nella guerra della NATO contro la Russia ...

Il luogo degli attacchi e la loro attuazione indicano ancora una volta il coinvolgimento diretto degli Stati Uniti... Il bombardamento degli oleodotti del Nord Stream...

Le esplosioni nel porto navale di Sebastopoli il 29 ottobre (e) le esplosioni del 15 novembre in un villaggio agricolo polacco che hanno ucciso due civili...

 Ognuna di queste azioni puzza di coinvolgimento segreto degli Stati Uniti e della NATO, ognuna più sconsiderata e potenzialmente pericolosa dell'ultima...

Sta emergendo uno schema in cui gli Stati Uniti e la NATO continuano a spingere contro la Russia per verificare fino a che punto possono spingersi senza provocare una risposta da parte del regime di Putin...

L'inarrestabile e spericolata escalation della guerra da parte degli Stati Uniti porta c'è il rischio che il governo russo risponda con una sua grande escalation, con conseguenze potenzialmente catastrofiche”.

 ("Attacchi di droni alle basi aeree russe: una grande escalation nella guerra scritta a Washington ", Chris Marsden, World Socialist Web Site).

Poche ore dopo il terzo attacco, il Segretario di Stato Anthony Blinken ha rilasciato una dichiarazione negando ogni responsabilità per l'incidente.

 Egli ha detto: "Non abbiamo né incoraggiato né consentito agli ucraini di colpire all'interno della Russia".

 Non sorprende che la negazione di Blinken sia stata ben al di sotto di un ripudio formale dell'attacco stesso che ci si poteva aspettare.

Più precisamente, sembra che gli Stati Uniti fossero direttamente coinvolti dato che "sia gli osservatori della NATO che quelli russi (sostengono) il coinvolgimento del satellite statunitense negli attacchi alle basi russe".

Ecco cosa hanno trovato:

Molteplici fonti militari nei paesi della NATO e in Russia … riferiscono che i droni russi Tu-141 ricondizionati che l'Ucraina ha lanciato alle basi aeree russe hanno effettuato il down link dei dati GPS satellitari statunitensi per colpire i loro obiettivi.

I droni da ricognizione russi degli anni '70 sono stati convertiti in missili da crociera, dotati di nuovi sistemi di guida e diretti da satelliti americani, hanno detto le fonti.

 L'Ucraina non ha la capacità di guidare i missili da sola, hanno aggiunto.

Il ministero della Difesa russo ha identificato una delle armi come il Tu-141 in una dichiarazione del 6 dicembre.

 Secondo fonti militari russe, i russi hanno identificato il Tu-141 dai frammenti recuperati dopo che i missili hanno colpito le basi aeree russe di Dyagilevo ed Engels.

Se, contrariamente alla negazione di Blinken, gli Stati Uniti hanno fornito una guida per l'attacco missilistico, allora Washington deve essere ben consapevole che ciò porta le forze della NATO sull'orlo del coinvolgimento diretto nella guerra in Ucraina e l'amministrazione Biden deve essere preparata a correre tale rischio. " (“Fonti militari: i missili ucraini hanno utilizzato la guida USA”, Asia Times)

 

Quindi, cosa significa questo nuovo incitamento e come influenzerà la condotta della guerra?

Pensiamo che Washington abbia adottato un nuovo approccio tattico che potrebbe essere chiamato "incoscienza calcolata", ovvero, gli Stati Uniti stanno lanciando attacchi meticolosamente pianificati che vengono fatti sembrare atti di aggressione impulsivi da parte del loro delegato, l'Ucraina.

L'obiettivo di questi attacchi è provocare una reazione eccessiva di Mosca, cioè attacchi di rappresaglia contro obiettivi al di fuori dell'Ucraina.

 Ciò, a sua volta, potrebbe essere usato come giustificazione per l'ingresso della NATO nel conflitto che, apparentemente, è l'obiettivo di Washington.

Sembra, tuttavia, che Putin e i suoi consiglieri abbiano resistito alla tentazione di espandere la guerra oltre l'attuale spazio di battaglia.

Questo è tratto da un articolo di “South front”.

In risposta ai tentativi di Kiev di interrompere il lavoro dell'aviazione russa, le forze russe hanno lanciato un altro massiccio attacco alle strutture militari ed energetiche in tutta l'Ucraina.

 Il ministero della Difesa russo ha affermato che tutti i 17 obiettivi in ​​​​Ucraina sono stati colpiti.

 Le esplosioni sono state segnalate in più di 10 regioni del paese.

Gli scioperi sulle strutture infrastrutturali hanno portato a un altro crollo dell'intero sistema energetico dell'Ucraina.

A causa dello squilibrio nel sistema, un'ondata di interruzioni di corrente di emergenza sta ancora attraversando il paese, accompagnata da massicci incidenti nella rete elettrica.

La mancanza di elettricità, acqua e comunicazioni in tutto il paese è accompagnata da forti dichiarazioni da Kiev secondo cui la difesa aerea ucraina avrebbe intercettato con successo quasi tutti i missili russi. (" Kiev gioca giochi pericolosi con l'aviazione russa a lungo raggio", South front).

In altre parole, Putin non è stato coinvolto nell'escalation che Washington cerca, ma ciò non significa che non richiamerà ulteriori riservisti per formare unità di difesa territoriale in più aree lungo il fianco occidentale della Russia.

 Pensiamo che lo farà.

Mosca non può più ignorare la minaccia di futuri attacchi o incursioni sul proprio territorio.

 Deve aumentare la sua forza lavoro e prepararsi al peggio. A poco a poco, la Russia si sta muovendo verso una piena mobilitazione in tempo di guerra.

Ciò che è particolarmente interessante di questa nuova escalation è che contraddice l'impegno originario dell'amministrazione di impedire che il conflitto si estenda oltre i confini dell'Ucraina.

( Questo è dal “WSWS”.)

Gli Stati Uniti, dopo aver istigato e provocato una guerra che ha ucciso decine di migliaia di ucraini, hanno oltrepassato non solo le "linee rosse" della Russia, ma anche le proprie...

A maggio, Biden ha pubblicato un editoriale sul New York Times intitolato " Ciò che l'America farà e non farà in Ucraina", in cui affermava che "non stiamo incoraggiando o consentendo all'Ucraina di colpire oltre i suoi confini".

Ma Washington ha fatto esattamente questo, fornendo informazioni mirate, armi e supporto logistico che hanno permesso all'Ucraina di attaccare in profondità all'interno del territorio russo". (WSWS )

Le promesse di Washington non significano nulla.

 Le azioni degli Stati Uniti sono guidate solo dall'interesse personale e da un'insaziabile sete di potere.

 Ciò significa che dovremmo aspettarci di vedere simili provocazioni in futuro mentre Washington si spinge oltre i suoi sforzi per trascinare la Russia in una guerra più ampia che probabilmente inghiottirà la regione.

(Ecco di più dal “WSWS”).

Il bombardamento degli oleodotti Nord Stream… Le esplosioni nel porto navale di Sebastopoli il 29 ottobre (e) Le esplosioni del 15 novembre in un villaggio agricolo polacco che hanno ucciso due civili…. Ognuna di queste azioni puzza di coinvolgimento segreto degli Stati Uniti e della NATO, ognuna più sconsiderata e potenzialmente pericolosa dell'ultima…

Gli ultimi attacchi in profondità all'interno del territorio russo potrebbero essere stati orchestrati da sezioni dell'esercito, dell'intelligence e dell'élite politica degli Stati Uniti...

non importa quanto potenzialmente disastroso possa essere il risultato di tale rischio calcolato". (Sito web socialista mondiale)

Gli analisti del “WSWS” non hanno mai accettato la finzione che gli Stati Uniti stiano semplicemente assistendo l'Ucraina nella sua lotta contro l'uomo nero russo.

Fin dall'inizio, hanno capito che il conflitto era in gran parte un intruglio statunitense volto a utilizzare proxy per indebolire la Russia al fine di raggiungere i suoi obiettivi geopolitici più ampi.

Questi ultimi attacchi confermano che gli Stati Uniti sono impegnati a risolvere questa crisi attraverso l'uso della forza militare.

Ciò significa che una soluzione negoziata non solo è fuori discussione, ma è vista come un anatema per gli obiettivi strategici di Washington.

Come sottolinea l'analista di politica estera John Mearsheimer in una recente intervista, non ci sono più "opzioni realistiche" su come porre fine alla guerra.

Le differenze sono inconciliabili, non c'è volontà di scendere a compromessi e gli Stati Uniti vedono nel confronto militare la soluzione.

In conclusione: l'escalation è inevitabile.

Ecco parte di una recente intervista con “Mearsheimer “che ho trascritto per sottolineare la disperazione dell'attuale situazione in Ucraina, che è destinata a peggiorare prima di migliorare.

Mi scuso per eventuali errori nella trascrizione dei loro commenti.

Freddie Sayers– Quali sono le opzioni realistiche adesso? (In altre parole, come si può porre fine alla guerra in Ucraina?)

John Mearsheimer

 Non ci sono opzioni realistiche. Siamo fottuti... Il conflitto continuerà ed entrambe le parti si intensificheranno.

Si sono intensificati e dove porta è molto difficile da dire. Non c'è nessun accordo sul tavolo che possa essere risolto qui.

C'è tutto questo parlare della necessità della diplomazia…. ma la domanda che devi porti in questo caso particolare è:

se fai diplomazia puoi trovare un accordo?

E, a mio parere, non c'è nessun accordo da risolvere, ed entrambe le parti combatteranno contro questo...

Ci sono due grossi problemi qui: "Uno" è una "Ucraina neutrale" e l'altro è "quello territoriale ".

 I russi ora hanno annesso 4 oblast.

 È una grossa fetta del territorio ucraino e i russi ora credono che quel territorio appartenga a loro.

 Pensi che i russi saranno disposti ad abbandonare quel territorio insieme alla Crimea? Non vedo che accada.

Non credo che i russi abbiano alcuna intenzione di abbandonare quel territorio...

Gli ucraini, da parte loro, insistono per riprendersi quel territorio, e gli americani, non saranno disposti a concedere quel territorio ai russi perché sembrerebbe una sconfitta per l'Occidente.

Gli Stati Uniti e i loro alleati sono "in questo" per vincere.

Siamo profondamente impegnati.

 Per noi fare marcia indietro e dare ai russi qualsiasi concessione importante è semplicemente inaccettabile a questo punto….

Questa è la questione territoriale.

Poi c'è la questione se l'Ucraina sarà o meno neutrale.

 I russi insistono affinché l'Ucraina sia neutrale.

Gli ucraini dicono che siamo disposti a essere neutrali ma abbiamo bisogno di una garanzia per la nostra sicurezza da parte di qualcuno.

 Bene, l'unico che può garantire la sicurezza ucraina è la NATO e in particolare gli Stati Uniti…. ma ciò renderebbe l'Ucraina un membro de facto della NATO e questo è inaccettabile per i russi.

Quindi, non c'è modo di ottenere un'Ucraina veramente neutrale che non sia affiliata all'occidente.

Questo non accadrà e i russi non lo accetteranno.

Quindi, ciò che i russi faranno invece è creare uno stato disfunzionale.

Ed è quello che stanno facendo ora. Ecco perché hanno preso tutto quel territorio, ed è per questo che stanno distruggendo l'Ucraina...

I due risultati di cui dobbiamo preoccuparci molto sono,

1) - dove i russi usano armi nucleari e,

2)- dove gli Stati Uniti entrano in battaglia... Perché allora, hai una grande guerra di potere dove gli Stati Uniti e la Russia sono effettivamente per combattere l'un l'altro.

E come Avril Haines, il direttore dell'intelligence nazionale ha detto al senato la scorsa primavera, lo scenario più probabile per i russi di usare armi nucleari è se la NATO entra in guerra.

Quindi, questo è molto pericoloso…

C'è una possibilità non banale che le armi nucleari vengano utilizzate in Ucraina. Se i russi dovessero usare armi nucleari, molto probabilmente le userebbero in Ucraina.

E l'Ucraina non ha armi nucleari proprie, quindi l'Ucraina non sarebbe in grado di reagire contro i russi...

Inoltre, se la Russia usa armi nucleari in Ucraina, gli Stati Uniti non useranno armi nucleari contro la Russia perché ciò porterebbe a una guerra termonucleare generale...

 Il grande pericolo è che se i russi usano armi nucleari in Ucraina, l'occidente si vendicherà con un massiccio attacco convenzionale contro le forze russe, il generale David Petraeus ha affermato che se la Russia usa armi nucleari in Ucraina, gli Stati Uniti dovrebbero colpire le forze convenzionali russe all'interno dell'Ucraina e le forze navali russe nel Back Sea.

 Se dovessimo farlo, allora avremmo una grande guerra di potere.

 La NATO sarebbe in guerra contro la Russia e, come ha affermato Avril Haines, ciò potrebbe portare a una guerra nucleare perché i russi non sarebbero in grado di resistere agli americani e ai loro alleati.

(Se la Russia usa armi nucleari in Ucraina) allora la risposta saggia, e penso, la risposta probabile sarebbe che faremmo di tutto per chiudere il conflitto.

Penso che l'uso di armi nucleari chiuderebbe il conflitto (perché) diventerebbe così chiaro in quel momento che eravamo in pericolo di creare una guerra nucleare tra le superpotenze che avremmo fatto di tutto per chiuderlo.

Ciò focalizzerebbe la mente in modi difficili da immaginare nel contesto attuale.

(Purtroppo) lo stiamo rendendo (l'uso delle armi nucleari) sempre più probabile. È importante rendersi conto che più la NATO e gli ucraini avranno successo nello sconfiggere i russi all'interno dell'Ucraina e nel distruggere l'economia russa, più è probabile che useranno armi nucleari.

E, ancora una volta, non vuoi sottovalutare cosa faranno le grandi potenze quando saranno disperate. (John Mearsheimer: Stiamo giocando alla roulette russa”). Mearsheimer non solo spiega le differenze inconciliabili tra i due avversari (Russia e Stati Uniti), ma presenta anche uno scenario molto credibile in cui il conflitto potrebbe sfociare in una guerra nucleare.

 Il fatto che l'amministrazione Biden abbia rifiutato apertamente la diplomazia, rende questo scenario tanto più probabile e, forse, inevitabile.

Ecco altro da Mearsheimer:

Sai che gli americani hanno la Dottrina Monroe... che dice che l'emisfero occidentale è il nostro 'giardino di Casa ‘ e che nessuna grande potenza lontana è autorizzata a mettere forze militari nell'emisfero occidentale.

A nessuna grande potenza è consentito stringere un'alleanza militare con un altro paese dell'emisfero occidentale perché – dal punto di vista americano – è intollerabile avere una grande potenza lontana (dall'Europa o dall'Asia) alle nostre porte.

 Bene, la stessa logica si applica ai russi.

Dal punto di vista russo, l'idea di avere la NATO a portata di mano... è inaccettabile per loro.

I russi non sono riusciti a fermare l'espansione della NATO nel 1999 e non sono riusciti a fermarla nel 2004 perché erano troppo deboli…

Questo è ciò che l'America ha fatto alla Russia quando l'Unione Sovietica si è disgregata. Abbiamo spinto loro l'espansione della NATO, ma il fatto è che i russi lo vedevano come una minaccia esistenziale. L'Ucraina nella NATO era la più brillante di tutte le linee rosse per la Russia.

E se guardi alla Dottrina Monroe non dovresti essere sorpreso di come i russi stanno reagendo a ciò che sta accadendo in Ucraina”.

("John Mearsheimer: Stiamo giocando alla roulette russa").

Ha ragione, vero?

 

L’Occidente e il suo «altro».

Books.openedition.org – Rosemberg e Sellier – Rino Genovese – (2-4-2022) – ci dice:

(Un illuminismo autocritico)

(…)

Spalle al muro.

1)-Dalla fine del colonialismo, cioè della diretta dominazione europea, il comunismo marxista divenne un intermediario attraverso cui l’Occidente riuscì a esercitare ancora un’egemonia planetaria.

Certo, per tutto il tempo della guerra fredda, il «pericolo rosso» o l’«impero del male» furono un costante spauracchio per i paesi occidentali;

ma è altrettanto certo che questo comunismo era spurio, sottoposto a un adattamento e a una creolizzazione attraverso cui si poteva osservare, più che la realizzazione dell’utopia marxista, la resistenza delle culture locali alla perdurante invasione dall’esterno;

e al tempo stesso esso fu il tramite attraverso cui massicce componenti della cultura occidentale, come l’esaltazione dello sviluppo e la fiducia nelle illimitate virtù della tecnica, arrivarono a impiantarsi in paesi lontani e perfino in Cina. La figura di Mao – in cui si fondevano il leader rivoluzionario, il maestro di saggezza orientale e il nuovo dispotico imperatore – può essere considerata la più caratteristica personificazione di un’ibridazione tra la tradizione e la modernità che si direbbe molto riuscita.

 Ancora oggi, infatti, la chiave di lettura del mistero cinese e della sua strabiliante crescita economica è da cercare nell’ibridazione occidentale-orientale.

 

2)-Dopo la scomparsa del suo principale antagonista, però, l’Occidente ha perso la capacità d’influenzare i conflitti mondiali riconducendoli al proprio universalismo grazie alla polarità di capitalismo e comunismo.

 È venuto meno, con il marxismo militante, il principale organo di pensiero capace di ridurre qualsiasi conflitto, anche nelle realtà «periferiche» del mondo, a un conflitto centrale fissato dall’Occidente stesso.

 Sul finire degli anni ottanta del Novecento, uno schema consolidato della politica mondiale è andato in pezzi.

Ma l’Occidente non ha potuto neppure rallegrarsi della vittoria nei confronti del suo storico nemico che subito ha assistito al proliferare, davanti ai suoi occhi stupefatti, di una congerie di conflitti in nessun modo interpretabili secondo un’unica e rassicurante prospettiva.

Per di più, nella mutata situazione, gli stessi vessilli propagandistici innalzati nel confronto con il comunismo avevano smarrito gran parte del loro significato.

Democrazia liberale e società del benessere perdono molto del loro appeal se non si riesce a porle in rapporto con qualcosa da biasimare come loro negazione.

L’Occidente allora si è trovato con le spalle al muro, alle prese innanzi tutto con sé stesso.

Affinché una forma di vita possa godere di un’identità purchessia, in grado di sprigionare da sé una grande capacità d’influenza, è difatti molto utile un «altro» interno su cui contare, non interamente estraneo e corrispondente al medesimo principio.

Dal confronto-scontro che ne deriva, la forma di vita trarrà linfa per arricchire e confermare sé stessa. Ma se l’«altro» interno crolla, se l’alterità che si profila diventa irreparabilmente straniera e in nessun modo gestibile, l’identità di quella forma di vita subirà un duro contraccolpo.

 

3) È quanto accaduto appena ieri. L’Occidente ha come smarrito sé stesso insieme con il suo antagonista.

Il comunismo era l’Occidente e non lo era, suo figlio e insieme suo nemico: in questa duplicità consisteva il gioco dell’«altro» interno.

 Esso era infatti sia un’emanazione dell’Occidente sia il velo che copriva la sua miseria particolaristica affidandogli, con il rapporto di competizione che instaurava, una missione planetaria.

 Ma chiuso il gioco, l’Occidente si è visto ricacciato al di qua di se stesso, privo di quel cuscinetto di alterità su cui l’«altro» interno gli permetteva di adagiarsi, senza più quel «doppio» facilmente riconoscibile che gli consentiva di rinviare il confronto con la propria impotenza.

In questione, da allora, è la sua stessa identità.

Che cos’è infatti l’Occidente?

Al di fuori di un sogno di benessere e strabilianti consumi, cos’è mai?

 Ammesso che oggi il sogno ci sia ancora, lo si ritrova solo nello sguardo perso dei migranti;

mentre i paesi già detti dell’Est, lanciati a un inseguimento sfrenato, hanno visto al loro interno aumentare le diseguaglianze sociali e affermarsi un benessere selettivo per pochi.

Terra del tramonto.

4) Privato della sua capacità espansiva e proiettiva, l’Occidente non è nulla più di un vago miraggio per ciò che è diverso dall’Occidente.

Se l’«altro» si pone in una lontananza troppo lontana, se sfugge alla consustanzialità cui l’Occidente a lungo l’aveva ridotto, se non si fa né partner né alter ego, il gioco salta:

l’Occidente non riesce più a essere l’«altro» del suo altro.

 Il comunismo – cuscinetto di alterità che mediava il rapporto con qualsiasi forma di manifestazione dell’«altro» – era quindi molto utile.

 La cultura occidentale aveva creato un mito totalizzante dentro cui metà dell’umanità si riconosceva mentre l’altra metà si riconosceva nel suo contrario, che era poi un prolungamento del suo stesso mito: così il problema del pianeta era virtualmente risolto.

 La guerra fredda era stata un’ancora di salvezza; soprattutto nella sua forma derivata, cioè come cogestione e spartizione del mondo in zone d’influenza sotto il cosiddetto equilibrio del terrore, un’autentica panacea.

 Polarizzando l’ordine mondiale intorno a un grande conflitto insolubile (di cui reggeva le fila grazie alla superiorità tecnica e militare), l’Occidente mirava a un’egemonia planetaria perenne, all’interno di una partita a scacchi internazionale che consentiva di polverizzare la guerra tra le superpotenze in una serie di conflitti locali minori.

 In questo modo poteva allontanare da sé lo spettro di un tramonto incombente.

 Ultimo, in ordine di tempo, è stato S.P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale (...)

 

5) Che l’Occidente sia la terra del tramonto, come si evince dal termine tedesco “Abendland” non meno che da una sommaria conoscenza dei quattro punti cardinali, e che il tramontare faccia parte della sua «essenza», è una preoccupazione che ritorna periodicamente ad affacciarsi in alcuni animi pensosi dopo la pubblicazione del celebre libro di Spengler.

Ma con la trasmigrazione del suo spirito dall’Europa in America, soprattutto con la guerra fredda, la sua prospettiva di egemonia planetaria aveva potuto consolidarsi, e l’Occidente aveva rimandato il suo tramonto.

 Con lo spostamento dell’asse più a ovest, all’Europa toccava un ruolo certamente subordinato ma anche di frontiera nel gioco dell’Occidente con il suo «altro»: la linea di divisione era la linea di divisione dell’Europa.

Ancor sempre nel vecchio mondo, dunque, passava il discrimine tra la libertà e il comunismo, tra la civiltà e la barbarie.

(È quanto emerge da R. Di Leo (a cura di), Riformismo o comunismo: il caso dell’Urss, Napoli, Liguori ...)

6) Il sistema crollato alla fine degli anni ottanta era importante, insomma, non da ultimo perché, nonostante il suo spirito fosse ormai trasvolato in America, dava all’Europa un significato di cerniera geopolitica.

Si è osservato che la vita nei paesi europei occidentali sarebbe stata diversa in assenza dell’Unione Sovietica e del suo sistema di paesi satelliti.

Nessuna riforma su larga scala, nessuno Stato sociale si sarebbero probabilmente mai realizzati senza il confronto con l’altro sistema e senza l’incubo della sua più o meno immaginaria minaccia.

Per evitare una radicalizzazione del conflitto sociale, che avrebbe favorito – così si riteneva – le mire del campo avversario, i governi e le classi dirigenti dei paesi europei occidentali accolsero molte delle richieste provenienti dai loro rispettivi movimenti operai.

Lo spauracchio esterno funzionava da reagente per la sicurezza interna.

E del resto l’aspetto plumbeo e oppressivo di quei regimi contribuiva non poco alla stabilità sociopolitica dei paesi occidentali.

 

7) L’Occidente avrebbe potuto rinviare sine die la questione del tramonto se il mito dell’eterna lotta del bene contro il male fosse continuato in eterno.

Ma il mito è andato in pezzi, e una coerente visione del mondo non c’è più: finita la connessione ininterrotta con ciò che ininterrottamente doveva essere ricacciato indietro.

 A venir meno, allora, è stata la capacità totalizzante dell’Occidente, quella d’inserire l’«altro» nel proprio orizzonte: perciò la sua identità è entrata in crisi, in quanto l’Occidente è quella forma di vita particolare che non può esistere senza proiettarsi in un compito planetario.

Da questa mancanza viene a riproporsi la questione del tramonto.

Si direbbe che la caduta dell’Impero dell’Est, e il conseguente restringimento di ciò che può essere rappresentato come Oriente, si rifletta in un restringimento dell’Occidente stesso.

È una perdita di orizzonte, di visibilità – e dunque anche di auto-visibilità, giacché qualcosa può aut osservarsi solo stagliandosi su qualcos’altro come su uno sfondo.

Del resto è un fatto: prima l’Oriente cominciava a Praga e a Budapest, cioè nel cuore dell’Europa, adesso non si sa più dove incominci.

E se non si sa dove far iniziare l’Oriente, nemmeno l’Occidente può essere più facilmente definito.

Invenzione dell’«altro».

8) Tutte le culture e le forme di vita si definiscono distinguendosi da ciò che viene avvertito come straniero o addirittura come inquietante, minaccioso;

e tutte ripropongono al loro interno (per esempio attraverso i miti) la differenza specifica di un’identità come rapporto con un’alterità resa comprensibile e controllabile, in un certo senso familiare.

Ma ciò che può essere detto in termini generali, vale in modo affatto speciale per la cultura occidentale.

L’Occidente, infatti, è l’invenzione dell’«altro».

Il rapporto che intrattiene con esso ha caratteristiche sue proprie: non quello di una cultura con un’altra, di una tribù con un’altra magari a lei vicina, e neppure il rapporto con un’alterità assoluta, con un dio, che bisogna custodire e far vivere dentro la comunità: piuttosto un rapporto con il mondo, di una cultura con tutte le altre, capace così di ricoprire la terra intera.

L’Occidente ha inventato l’«altro», perché ha esteso la sua presenza ai luoghi dove è arrivato, ossia dappertutto (e perché per trattare con l’«altro», sia detto tra parentesi, ha messo a punto il concetto di cultura, cioè lo stesso strumento che sto adoperando qui).

L’«altro», ovunque appaia, dev’essere ricondotto, se non ridotto, alle coordinate occidentali.

 Quest’obiettivo può essere raggiunto tramite l’influenza o la sottomissione violenta, ovvero ambedue.

 Caratteristica del rapporto che l’Occidente intrattiene con l’«altro» è quella di ottenere una sorta di riconoscimento della propria supremazia, assumendo l’«altro» come partner o alter ego all’interno della relazione.

 Il gioco dell’«altro» interno appare come un’autentica vocazione.

 È d’importanza relativamente secondaria che si realizzi nella forma dell’inclusione o dell’esclusione, che il partner sia tenuto in schiavitù o liberato dal giogo, che si cerchi d’integrarlo rendendolo un soggetto di diritti o di distruggerlo poco alla volta.

Importante è che la relazione con l’«altro» sia resa stabile imprimendo nell’identità altrui lo stigma dell’Occidente.

 Il caso occorso agli indiani d’America, eliminati e contemporaneamente convertiti, è esemplare: vittime o assimilati ai carnefici, comunque fatti rientrare nella cerchia occidentale.

9) Inclusione ed esclusione sono dunque due forme del medesimo gioco dell’«altro» interno che si estende (o si estendeva) all’intera terra.

In questo senso, l’esistenza di un partner come il sistema sovietico permetteva d’includere o di escludere a colpo sicuro, di ricondurre cioè qualsiasi momento della politica internazionale all’Occidente, affinché il gioco potesse continuare.

Perciò era importante che quello sovietico fosse un alter ego, anzi un suo proprio figlio.

Con questo non mi riferisco all’eredità ideale della Rivoluzione francese rivendicata dall’Ottobre russo, e neppure al nesso che lega i bolscevichi al movimento operaio europeo;

 mi riferisco a quel processo di occidentalizzazione della Russia iniziato ben prima della rivoluzione (e del cui problema, del resto, si trova ampia traccia nella grande letteratura di quel paese).

 L’industrializzazione a tappe forzate, la collettivizzazione coatta delle campagne in epoca staliniana, la subordinazione dell’intera vita sociale prima all’élite politica del partito, e poi a un ceto burocratico e manageriale dentro il partito – sono tutti elementi di una modernizzazione occidentalizzante e insieme di forte continuità con la tradizione zarista, con il suo dirigismo dall’alto.

 Quella che in Russia è stata realizzata – sotto la spinta della rivoluzione, ma ben al di là, o per meglio dire al di sotto, della sua ideologia – è in sostanza la più stupefacente ibridazione di tempi storici e di culture che l’umanità abbia conosciuto.

 Le forme di vita e i modi di pensare che venivano affermandosi nell’Occidente sviluppato, tra gli anni venti e trenta, trapiantati sul suolo russo formarono un miscuglio micidiale di modernità e tradizione.

 L’organizzazione del lavoro di tipo fordista-taylorista, basata sulla parcellizzazione delle mansioni produttive e sulla massificazione degli individui, e connessa alla formazione di élite dirigenti manageriali, ebbe nella Russia sovietica un laboratorio di sperimentazione per molti versi privilegiato.

Le nuove forme di vita mutuate dall’Occidente, combinate con la tradizione zarista burocratica e accentratrice, servite in salsa marxista-leninista, diedero luogo a una fantastica teratologia sociale che, retrospettivamente, sembra più l’invenzione di uno scrittore visionario che qualcosa accaduto nella realtà.

 Eppure il nuovo autoritarismo tecno-burocratico e il vecchio dispotismo russo – la simbiosi da cui nasce il terrore staliniano – produssero un regime durato settant’anni ma che cadde, si può dire, in pochi mesi.

Com’è stato possibile?

Il compromesso sovietico.

10) La risposta a questa domanda va cercata nella particolare composizione del compromesso sovietico tra forme di vita occidentali moderne e forme di vita tradizionali non occidentali.

Se ci si fa caso, il periodo di maggior fulgore della potenza sovietica (da Stalin a Breznev) coincide con il periodo in cui in Occidente si assiste al massiccio intervento dello Stato nell’economia:

dal New Deal americano ai fascismi europei, fino alle diverse forme di «economia mista» nel dopoguerra e nel nuovo clima della guerra fredda.

La potenza sovietica dev’essere considerata all’interno di questo quadro storico: al di fuori di esso sarebbe incomprensibile.

Ma laddove in Occidente lo statalismo e l’organizzazione del lavoro fordista si orientarono, ancora nel senso della proprietà e dei consumi privati, verso la produzione in serie di beni di consumo di massa, nell’Unione Sovietica, al contrario, in maniera esclusivamente statalistica, gli stessi sistemi produttivi furono indirizzati con sforzi enormi verso l’industria pesante e gli armamenti.

 Ciò non impedì, tuttavia, di raggiungere un certo grado di benessere, soprattutto nell’era di Breznev.

 Fino agli inizi degli anni ottanta il compromesso tra dispotismo tradizionale e modernizzazione autoritaria funzionava ancora.

 Cosa accadde allora negli anni immediatamente successivi?

11) In Occidente, insieme con la forte innovazione tecnologica, si andò realizzando una profonda trasformazione del modo di produrre.

Alla fabbrica fondata sulla catena di montaggio e la parcellizzazione delle mansioni, si sostituì gradualmente un’organizzazione del lavoro basata sempre più sulla comunicazione tra reparti e tra aziende, sul coinvolgimento dell’operaio nel ciclo produttivo e così via – in breve, tutto ciò che va sotto il nome di toyotismo e postfordismo.

Ciò ha implicato una modifica non solo dei criteri della produzione ma anche della sua ideologia:

il ritorno, per esempio, all’idea di mercato, già ridotto a un ruolo puramente ancillare nella precedente fase di sviluppo dei grandi monopoli, insieme con il tentativo di riconvertire il consumatore massificato in un cliente personalizzato, in un fruitore che sceglie l’oggetto da acquistare e non è ridotto a un semplice bersaglio passivo della produzione di merci in serie.

A fronte di questi cambiamenti, l’élite che deteneva il potere in Unione Sovietica si accorse di non essere più in grado di tenere il passo con l’Occidente, ritenne che la sfida fosse ormai persa (anche sotto il profilo strategico-militare, considerati gli esiti disastrosi della campagna in Afghanistan), avviando così una riforma del socialismo reale che rompeva il compromesso con la tradizione russa.

Improvvisamente si scoprì pluralista e democratica, facendosi paladina dell’economia di mercato e delle sue virtù salvifiche (che in Russia non avevano mai attecchito), e immemore di sé – cioè di essere essa stessa, in quanto gruppo sociale, uno degli aspetti del miscuglio di modernizzazione occidentalizzante e tradizioni autoctone – credette di poter procedere all’occidentalizzazione ulteriore di quell’immenso paese, come al solito attraverso un’iniziativa dall’alto.

Si ebbe così un effetto valanga che travolse gli stessi dirigenti che avevano dato inizio al rinnovamento, e condusse in breve alla dissoluzione dell’Unione Sovietica.

 

12) Si osserva insomma una sintonia che colpisce: la Russia decide di ritornare al «mercato» proprio quando l’ideologia economica occidentale vi ritorna.

Soltanto, quello che in Occidente può a giusto titolo essere considerato un ritorno o un revival, nei paesi del continente sovietico è stata un’invenzione ex novo, perché, almeno nella maggior parte di essi, un’economia di mercato non era mai esistita.

Sotto la forte spinta occidentalizzante impressa dall’alto, si sfalda il compromesso di modernità e tradizione instaurato dalla rivoluzione d’Ottobre:

 e vengono così a liberarsi i mostri ibernati del passato.

 A ritornare, nel dissolversi di un impero multinazionale e multietnico come quello sovietico (per tacere del suo sistema di paesi satelliti), sono infatti i nazionalismi a base etnica, particolaristica, con la stessa aggressività che si credeva sepolta nella notte dei tempi.

Sotto la crosta, dunque, immobile ma viva, la tradizione aveva continuato a battere il ritmo lento del sempre-uguale.

Rottura del compromesso.

13) Non v’è dubbio che la vicenda della dissoluzione dell’Unione Sovietica sia stato un esempio di rottura della ripetizione, cioè il repentino venir meno di un compromesso tra modernità e tradizione che aveva dato vita a sua volta a una tradizione, e quindi il venir meno di una determinata forma della costituzione dei soggetti, della loro ripetizione appunto, della loro relativa stabilità.

 Si pensi a quegli uomini e quelle donne, a figure sociali come il piccolo burocrate di partito abituato al suo trantran, all’operaio abituato a lavorare poco e male eppure sicuro del posto di lavoro, ai cittadini avvezzi a far la fila ma a trovare i generi di prima necessità a prezzi accessibili; si pensi ai loro sogni consentiti (la dacia al mare, l’automobile dalla tecnologia un po’ antiquata) e a quelli proibiti (i jeans, le calze di nylon), alla loro vita com’era – monotona, presa nella routine – e a com’è diventata poi, sprofondata nell’incertezza;

e ancora, per continuare il raffronto, si pensi ai loro punti di vista sul mondo, chiusi in sé stessi, ripetentisi in forma di salde credenze prima, e in seguito aperti su un avvenire imprecisato, in una quotidianità in cui tutto ciò che era incrollabile è crollato.

Non v’è dubbio, allora, che la dissoluzione dell’Unione Sovietica fu una rivoluzione, sia pure promossa dall’alto e sfuggita di mano a chi avrebbe dovuto guidarla:

 un cambiamento che ha rotto le abitudini consolidate e sbattuto i soggetti dinanzi alla struttura riflessiva dell’abitudine all’abitudine (come ho cercato di definirla nel terzo capitolo), cioè dinanzi alla questione di un riassetto delle forme della loro ripetizione in quanto soggetti.

 

14) Eppure questa rivoluzione non ha saputo ereditare niente, non ha insegnato niente, non ha proposto alcuna nuova forma di soggettività.

 È andata brancolando alla cieca nel passato, un po’ verso il «mercato», un po’ verso i nazionalismi a base etnica.

Lo sbocco è stato il neo-autoritarismo di Putin, quest’uomo dell’apparato che si è riciclato con il compito di far ridiscendere agli inferi i demoni maldestramente evocati dal seno stesso dell’apparato.

 Il vecchio compromesso di modernità occidentalizzante e tradizioni russe è ritornato a profilarsi con i metodi accentratori e brutali, a piacere zaristi o staliniani, reintrodotti da Eltsin e perfezionati da Putin.

Ma in fondo la Russia non ha fatto altro che aggiornarsi alla moda cangiante dell’Occidente.

Quando nella parte più sviluppata del globo erano in voga gli interventi statali nell’economia, essa aveva il socialismo reale, cioè lo statalismo assoluto;

 quando lì è ritornato in voga il liberismo, la Russia è andata verso l’autoritarismo neoliberista: in ogni caso più realista del re, ma sempre attraverso l’iniziativa dall’alto.

 

15)- La lezione che si può trarre dagli avvenimenti della ex Unione Sovietica consiste molto semplicemente in questo: le forme di vita occidentali, specie se esportate e trapiantate in un suolo estraneo, possono formare tutt’al più un compromesso proficuo (dal loro punto di vista) con le forme di vita non occidentali, ma non possono spazzarle via.

 L’Occidente ha la peculiarità di riuscire a stabilire una simbiosi con infinite altre culture: ma è pur sempre una cultura particolare, non riesce a liquidare tutte le altre e a realizzare la sua pacifica egemonia planetaria.

O mette in azione l’imponente macchina distruttiva di cui dispone, o è costretto al compromesso.

 E se questo viene meno, nient’altro che un nuovo compromesso, migliore o peggiore del precedente, gli si prospetta.

Ciò non vale solo per il rapporto con l’«altro», ma anche (come ho cercato di mostrare nel primo capitolo) per il rapporto dell’Occidente con sé stesso:

 la sua vita interna è infatti un compromesso e un ininterrotto riaggiustamento di tradizione e modernità: qualcosa di molto instabile e insieme di molto bloccato, che non corrisponde alle speranze ma neppure cessa di suscitarne.

Lo sviluppo tecnico-scientifico di cui godono alcune regioni del pianeta, e d’altronde la stessa drammaticità dei conflitti, non cessano infatti di alimentare la speranza di un progresso esteso alla vita civile e al mondo intero.

L’aspirazione a un governo mondiale della ragione (come lo sognava l’illuminismo di Kant) si ripropone di continuo:

anche se la divaricazione, ormai apparentemente irreversibile, tra lo sviluppo e il progresso le conferisce soltanto lo statuto dell’utopia.

Paradossalità dell’Occidente.

16) Dell’intrinseca paradossalità dell’Occidente potranno dolersi i suoi apologeti (conservatori o progressisti che siano) ovvero rallegrarsi i suoi critici (anch’essi divisi tra conservatori e progressisti).

 Ma ciò che né gli uni né gli altri potranno più permettersi, in quanto osservatori disincantati, sarà di puntare le proprie chance teoriche (intendo, di descrizione teorica della società contemporanea) alternativamente sui due poli di quella coppia che si lascia esprimere con i termini di universalismo e differenzialismo.

 Se con il primo dei due ci si riferisce, com’è chiaro, alla vocazione planetaria dell’Occidente – al suo voler essere non una civiltà ma la civiltà –, con il secondo si vuole alludere alle crepe che dappertutto si aprono dentro la pretesa universalistica, nell’edificio sicuro eretto dalla sua volontà di potenza.

 Le differenze differirebbero dall’identità universalistica per impercettibili scarti o fratture, in grado di spezzarne comunque qualsiasi pretesa uniformante.

La visione differenzialista apre al relativismo culturale (diversamente dalla concezione tardo dialettica adornano, che resisteva a questa prospettiva): ma vi apre come se le culture differissero l’una dall’altra per la positività dei valori che esprimono, per i diversi modi in cui viene declinato un medesimo essere.

 Il differenzialismo di stampo ermeneutico-heideggeriano è allora solo il rovescio del classico universalismo illuministico.

Quell’identità che un piatto universalismo proclama a gran voce fin dall’inizio, il più sensibile differenzialismo si sforza di comporla a poco a poco mediante un principio del dialogo, che terrebbe insieme ciò che di comune le diverse culture hanno tra loro.

 

17) In un caso come nell’altro, però, sia nell’universalismo sia nel suo rovescio differenzialista, ciò che viene presupposto, in modo spesso tacito, è il grado ormai onnipervasivo raggiunto dalla tecnica e dalla volontà di potenza occidentali.

 Gli uni, gli universalisti, prendono le mosse da qui per difendere il valore della tradizione occidentale ovvero per rilanciare le virtù emancipatrici di un progresso secondo loro estendibile a tutta l’umanità;

gli altri, i differenzialisti, basandosi in sostanza sulla medesima visione della situazione, assumono la difesa d’ufficio delle tradizioni locali premoderne, ovvero puntano sulla varietà e sulla ricchezza delle differenze in quanto aspetti di una rifondazione dell’universalismo in maniera non costrittiva.

Ma sia gli uni sia gli altri (anche sopravvalutando fenomeni come la globalizzazione economico-finanziaria) si comportano come se l’Occidente godesse ormai di un’egemonia incontrastata.

Essi non vedono l’intrinseca paradossalità della sua forma di vita:

il fatto che la semplice esistenza di uno sviluppo tanto rigoglioso alimenta di continuo la speranza di un progresso civile generalizzato;

ma che, altrettanto di continuo, questa speranza viene frustrata: perché l’Occidente è una cultura, una forma di vita tra altre con i suoi interessi particolari, e non può davvero adempiere (a prescindere dalla considerazione se questo sia un bene o un male) il compito universale cui si sente chiamato.

Così l’Occidente precipita più o meno al rango di una tribù ricca e potente, la cui realtà è il frutto di una combinazione irripetibile di circostanze, e che deve al caso o alla benevolenza degli spiriti, come qualsiasi altra tribù, la sua immensa fortuna.

 

18) Prendiamo la questione ambientale.

Le coscienze più avvertite possono proporre, e a certe condizioni persino ottenere, sotto il rischio crescente di una catastrofe ecologica, un arresto dello sviluppo o la sua drastica riconversione.

Ma questo, che per la forma di vita occidentale sarebbe da considerare un progresso civile, come potrebbe essere esteso al resto del mondo senza un’imposizione?

Senza cioè totalizzare l’intero pianeta, diffondendo anche nei paesi in via di sviluppo la buona novella dell’inanità dello sviluppo?

Le conquiste del progresso possono essere generalizzate soltanto attraverso i mezzi dello sviluppo: ciò fa sì che ci si avvolga immediatamente in una contraddizione.

D’altronde nessuno può essere «convinto» del progresso se non si persuade da sé, e soprattutto se non ha i mezzi per realizzarlo;

nessun popolo può essere indotto a percorrere una via piuttosto che un’altra.

E la via che conduce fuori da un modello di sviluppo comincia a intravedersi quando si è al suo vertice

. L’opulenza occidentale è il risultato di condizioni irripetibili: e lo è forse altrettanto la consapevolezza critica che essa comporta.

Dalla prospettiva del sottosviluppo si continuerà a guardare allo sviluppo come a un miraggio – quando non subentri, dal rancore per le offese subite, l’orgoglio delle radici arcaico-tradizionali –, per il semplice fatto che i paesi sviluppati hanno almeno risolto il problema della fame.

Per il solo essere apparso nella storia del mondo, l’Occidente detiene un potere di attrazione.

La consapevolezza della paradossalità della sua forma di vita fa parte della coscienza autocritica cresciuta al suo interno: non appartiene alla sfera di un’alterità più o meno mitizzata; non la si trova nei paesi esclusi dallo sviluppo da cui il terzomondismo dei tempi andati si attendeva la spinta rivoluzionaria decisiva che avrebbe liberato anche l’Occidente dalla sua maledizione.

 

19) Questa maledizione deriva da una radicale, irredimibile non-contemporaneità.

 Il moderno si definisce solo in rapporto al suo «altro», ossia a ciò che non è moderno: perciò è sempre dipendente dal suo «altro».

 Una regione indefinita del mondo (l’Occidente) e uno spazio temporale incerto (la modernità) proiettano sé stessi, per auto osservarsi e autoidentificarsi, su quello che dalla loro prospettiva appare uno sfondo opaco.

Da una prospettiva più esterna, com’è quella introdotta da una teoria, si può tuttavia osservare un certo equilibrio: le forme di vita occidentali moderne e quelle tradizionali fanno reciprocamente da sfondo le une alle altre, in un’oscillazione paradossale.

 L’«altro» non potrebbe essere liquidato, e neanche ridotto definitivamente a uno sfondo.

 L’oscillare esprime però un compromesso proficuo per l’Occidente, un gioco con il suo «altro» che gli consente di vedersi come moderno.

Questo è l’aspetto placidamente cognitivo del rapporto paradossale della modernità con ciò che non lo è: e la sua funzione torna ancora a vantaggio dell’Occidente.

 Interno o esterno che sia, l’«altro» è addomesticato dall’operazione di distinzione che la modernità gli impone per definire sé stessa.

 

(Cfr. E. Bloch, Eredità del nostro tempo cit.)

20) Ma accade che la non-contemporaneità deflagri in maniera implosiva: il moderno allora non appare più così moderno, i suoi confini cedono sotto la pressione dell’«altro».

La questione, a questo punto, non è più cognitiva: diventa maledettamente storica.

La compresenza di tempi storici diversi passa da uno stato di coesistenza, o tutt’al più di conflitto strisciante, a uno di conflitto aperto.

Appare così inceppata la linea ascensionale del progresso, che, risolvendo in sé i residui del passato, avrebbe dovuto condurre dalle latebre del buio ctonio alla luminosità dell’«incedere eretti»;

 irrimediabilmente bloccata è quella dialettica «a più livelli» che, secondo le intenzioni di Ernst Bloch, avrebbe dovuto ricomporre i momenti della contraddizione non-contemporanea in una superiore unità.

Dopo l’ibernazione del socialismo reale, infatti, in molte parti di quel mondo hanno ripreso corpo gli antichi fantasmi del sangue e del suolo nella forma di un nuovo tribalismo etnico.

Dunque i «residui» non erano affatto residui, mai ci si era liberati dal passato arcaico.

Mutevoli costellazioni.

21) L’idea che il tradizionale, l’arcaico, l’oscuro, siano soltanto dei relitti privi di vita o delle sopravvivenze biodegradabili nel grande fiume della storia universale, sia che si approvi il corso storico sia che lo si condanni, è da rifiutare.

La storia, al contrario, sembra conservare dentro di sé tutto il passato, tutti i tempi trascorsi, che si compongono nel tempo ora presente in mutevoli costellazioni. Riallacciandosi alla fondamentale intuizione di Benjamin, si potrebbe vedere la storia come un processo di costante simultaneità, operata da un punto di vista presente, di volta in volta nella forma di una diversa composizione degli eventi.

La storia così sarebbe immaginata, letteralmente sognata in quanto moda con le sue frequenti reviviscenze, non meno che teorizzata in quanto storiografia, costruita cioè secondo linee che dipendono dai differenti colpi di caleidoscopio impressi dalla prospettiva teorica attraverso cui la si guarda.

 La storia – invenzione occidentale quant’altre mai – sarebbe quindi la figura temporale del compromesso cui l’Occidente costringe le altre forme di vita, l’espressione della simbiosi tra il passato e il presente, e insieme il tentativo di ridurre a «passato» tutto ciò che non viene dichiarato moderno.

Ma proprio in virtù della dipendenza di ogni ricostruzione storica da un momento teorico, la prospettiva può essere rovesciata:

 il passato può ritornare, l’alterità irrompere.

Il faticoso equilibrio su cui l’Occidente ha poggiato tutte le sue fortune si rivela precario appena si effettui uno spostamento del punto di vista con cui si osserva la storia.

Rovesciando la prospettiva, infatti, il compromesso cui l’Occidente costringe le altre forme di vita può essere considerato, altrettanto legittimamente, come quello cui il passato costringe il moderno.

 

22) La stessa maledizione allora è relativa. Appare soltanto dinanzi a una preoccupata coscienza illuministica.

Per i tribalismi tacitati, per i nazionalismi repressi, per il demone delle guerre civili e di religione a lungo sopito – insomma, per tutto un passato arcaico che non ritorna solo perché da sempre è stato qui –, la stessa violenza appare come lo sprigionarsi di nuove possibilità.

Nella sua ottica la pace è solo una parentesi, un’eccezione che conferma la regola della guerra di tutti contro tutti.

Cosa si può obiettare?

L’equilibrio tiene finché tiene. Il compromesso del moderno con le forze del passato è proficuo finché è proficuo.

Non bisogna illudersi. La combinazione storica che ha ridotto, fin quasi a cancellarla, la divaricazione tra lo sviluppo e il progresso, e ha regalato ad alcune limitate regioni del globo decenni di pace e prosperità, è una combinazione unica: anche a gettare i dadi un numero infinito di volte, non è detto che si ripeta.

A livello planetario, invece, la divaricazione è ognora crescente, e i suoi estremi oscillano in forme sempre nuovamente paradossali.

Quanto è avvenuto con la caduta del socialismo reale, e dieci anni prima con la rivoluzione iraniana, è la rottura di forme determinate del compromesso tra la modernità e la tradizione, tra la cosiddetta civilizzazione e il retaggio del passato.

La contraddizione riassorbita.

(Cfr. H. Marcuse, Soviet Marxism, Parma, Guanda, 1968.)

23) I teorici critici di certo non si facevano illusioni.

Essi pensavano che la catastrofe si fosse già manifestata con i lager nazisti, e che noi tutti fossimo al massimo dei sopravvissuti in attesa dell’ultima replica, forse nella forma di una guerra nucleare che avrebbe distrutto la stessa possibilità di vita sul pianeta.

Già molto per tempo (come svariati altri autori, del resto), avevano cessato di farsi illusioni sulla natura del regime sovietico, che appariva loro in perfetta sintonia con il dominio.

Dopo la fine della seconda guerra mondiale, la «società totalmente amministrata» aveva assunto le sembianze, essenzialmente analoghe, del neocapitalismo falsamente democratico a Ovest e del socialismo autoritario a Est.

 In un libro oggi dimenticato sul marxismo sovietico, Marcuse mostrava la sostanziale omogeneità tra le due forme di vita, equiparando nella sua analisi la pubblicità commerciale a Ovest e la propaganda ideologica a Est:

 identiche le formule rituali e vuote, identica la funzione d’istupidimento delle masse.

 (Naturalmente ieri come oggi, quando il nemico era alle porte ma anche dopo il suo dileguarsi, si preferisce non tenere conto di simili provocatorie analogie).

D’altronde una delle tesi centrali della Scuola di Francoforte – espressa in linguaggio marxista nei termini di un’integrazione tra forze produttive e rapporti di produzione, così da registrare la scomparsa della contraddizione principale del capitalismo – sosteneva che l’integrazione sociale della «classe rivoluzionaria» all’interno di rapporti ormai completamente alienati fosse un fatto compiuto.

 La razionalizzazione di tipo weberiano, la concentrazione monopolistica del capitale, la centralizzazione dei processi decisionali (a Ovest con l’intervento dello Stato nell’economia, a Est con l’economia pianificata), avevano riassorbito l’antagonismo del proletariato:

cosicché la speranza di una rivoluzione mondiale era tramontata per sempre.

 

24) Occorre soffermarsi su questa tesi per valutarne la portata e il significato complessivi.

Essa s’innerva dentro l’intera teoria critica delle origini, e ha insieme il carattere di un giudizio sulla «fase storica» e di un pronostico sulla sua linea di tendenza:

 il tutto, nonostante l’evidente eterodossia, ancora in puro stile marxiano. I teorici francofortesi ritengono di cogliere l’essenza stessa dello sviluppo post liberale della borghesia:

ovverosia il processo, ai loro tempi già in atto e in via di consolidamento come tratto distintivo dell’epoca, verso uno Stato e una società globalmente autoritari.

A questa diagnosi, che è anche una prognosi sull’immediato futuro, si ricollegano tutti gli altri ben noti argomenti: intorno alla fine dell’individuo dell’era liberale ancora dotato di un’interiorità non frantumata; intorno alla conseguente perdita della capacità di fare esperienze; intorno al progressivo delinearsi di una personalità autoritaria, chiusa e regressiva, per non dire razzista e antisemita.

E in definitiva vi si ricollega la stessa nozione di dominio, in quanto termine sintetizzante un insieme di analisi e tesi circa la tendenza fondamentale della società contemporanea.

Concetti totalizzanti.

25) Ora, non v’è dubbio che in questo modo i teorici francofortesi riuscivano a cogliere degli aspetti che restavano per lo più in ombra nelle descrizioni del loro tempo (per esempio, i tratti comuni tra sistemi apparentemente molto diversi tra loro, come la società americana, il fascismo e il regime sovietico).

E tuttavia – si direbbe, per la persistenza in loro di una residua mentalità storicistica – ragionavano come se si trattasse non già di evidenziare degli elementi accanto ad altri, delle tendenze coesistenti con altre, ma la nota dominante della fase in corso come quella che superava e portava a compimento tutte le precedenti.

Se ci si fa caso, si ritrova qui l’atteggiamento (in specie marxista) che punta a realizzare delle previsioni storiche.

Prima c’è la riduzione della storia a un’unica linea di sviluppo, a un punto di vista totalizzante che dovrebbe individuarne il tratto distintivo, la tendenza caratterizzante;

poi scatta l’esaltazione prognostica, che dilata questa presunta tendenza trasponendola nel futuro.

Così la complessa interrelazione di elementi di cui la storia è fatta – e che può certo essere ridotta per ragioni di comprensione o d’intervento immediato, per dare magari visibilità a questo o quel bisogno o interesse – viene ridotta una volta per tutte.

(Cfr. J. Burnham, La società manageriale, Torino, Bollati Boringhieri, 1992; G. Debord, Commentari a ...)

26) È ciò che accade con concetti totalizzanti come quello di società amministrata, o altri consimili – e comunque tra loro avvicinabili per via della vicinanza dei fenomeni che intendono comprendere – come quelli di società manageriale in” Burnham” e di società dello spettacolo in “Debord”.

Si tratti dell’essenza del dominio che svuota gli individui riducendo la loro vita a semplice amministrazione;

o piuttosto dell’emergere di una «nuova classe» di tecnici dell’organizzazione industriale, che s’impadronisce del controllo dei mezzi di produzione confiscando le potenzialità di rivolta (Burnham);

o ancora dell’espandersi del carattere marxiano di feticcio della merce in una pura fantasmagoria spettacolare, così da ricoprire la società intera in una maniera pseudodemocratica che implica un’accresciuta segretezza dei centri decisionali di potere (Debord),

 – il difetto di tutti questi modelli teorici sta nel presentarsi come storicamente risolutivi, quasi potessero compendiare l’intera epoca estrapolandone uno o due elementi e cancellandone gli altri.

 Il difetto consiste soprattutto nella soppressione (storicistica) della compresenza di diversi tempi storici nella storia, nel ritenere di potere esaurire l’analisi dell’epoca cogliendone l’aspetto essenziale, la tendenza fondamentale – quella che, con un rapido colpo d’occhio, riassume il passato, designa il presente e anticipa il futuro.

 Il faticoso coesistere e sovrapporsi, ovvero il complicato intrecciarsi e talvolta il neutralizzarsi reciproco di momenti eterogenei, è drasticamente ridotto dallo sguardo totalizzante della teoria, che ritiene di avere trovato la combinazione giusta per accedere alla «fase storica».

Analisi del fascismo.

27) Prendiamo per esempio l’analisi del fascismo: consideriamo le tesi di Ernst Bloch del 1934-35, basate sull’idea di non-contemporaneità, e quelle, di soli pochi anni successive, di Horkheimer e Adorno, incentrate invece sul concetto di dominio.

Ambedue le posizioni, sia quella di Bloch sia quella di Horkheimer e Adorno, sono fortemente intrise di dialettica: mirano, cioè, a una redenzione della storia (sia pure per i francofortesi soltanto ipotetica) dalle forze regressive che hanno dato vita al fascismo.

Ma la posizione di Bloch (sebbene la sua idea di non-contemporaneità non sia ancora affatto relativisticamente impostata e consideri il passato solo sotto la specie del «residuo» che ostacolerebbe, con la sua perniciosa contraddizione non-contemporanea, il progredire della storia) vede il fascismo come il risultato del passato «non ancora esaurito»:

una rivolta disperata di ceti tagliati fuori dallo sviluppo (la piccola borghesia, i contadini) che recuperano aspetti culturali tradizionali e arcaici in chiave antiproletaria, nel tentativo di deviare il corso storico dal grande conflitto tra la borghesia e il proletariato, che contemplerebbe la sicura vittoria di quest’ultimo in quanto portatore del futuro.

28) Approfondendo questa visione, andando cioè oltre la stessa autocomprensione di Bloch, il fascismo risulta essere una combinazione di elementi, un compromesso tra il moderno e l’arcaico irripetibile in quella forma – eppure eventualmente del tutto ripetibile in maniera diversa e analoga.

 Se si riprende la visione di Bloch, eliminandone la fiducia dialettica in un positivo esito finale, si possono concepire alcuni degli ingredienti che hanno prodotto il fascismo (per esempio il risentimento degli esclusi dallo sviluppo, che si appoggiano a tradizioni mitiche autoctone, resuscitate o inventate di sana pianta) come elementi ricombinabili nel presente in maniera anche molto diversa da quella del fascismo storico; mentre altri aspetti (per esempio l’elemento, a suo tempo «moderno», del comando centralizzato nella fabbrica e nella società) appaiono attualmente più sullo sfondo, pur essendo magari riattivabili, all’occorrenza, dentro un’altra forma del compromesso tra il passato e il presente.

Insomma, l’approfondimento in senso relativistico dell’idea di non-contemporaneità palesa una molteplicità di prospettive secondo cui osservare gli equilibri instabili che la pluralità di tempi storici di volta in volta propone.

E gli elementi di cui quelli sono composti – sempre disponibili per comprendere e giudicare il presente costruendo analogie – di fatto sono anche sempre riattivati nelle mutevoli costellazioni storiche.

 

29) Le tesi sul fascismo di Horkheimer e Adorno sono invece strettamente legate al loro concetto di dominio.

La tendenza generale della società a divenire autoritaria, il rovesciarsi dell’illuminismo in mito, il riprecipitare della civiltà nella barbarie, sono fenomeni che possono assumere guise diverse, ma di cui il fascismo in un certo senso è il «tipo puro»

. Esso non è una particolare forma del compromesso tra il passato e la modernità: al contrario, è questa stessa modernità all’apice del suo sviluppo, che alla fine scatena la sua immane potenza distruttiva.

Secondo questa visione, dunque, non possono darsi combinazioni e ricombinazioni di tempi storici diversi in forme fascistiche o non fascistiche: piuttosto il fascismo è sempre in agguato, perché non è altro che la tendenza dell’epoca contemporanea spinta al massimo grado.

 La centralizzazione del potere, e la cancellazione di qualsiasi opposizione radicale, con la parziale eccezione di forme di resistenza intellettuale e artistica (la tesi della Scuola di Francoforte che solo Marcuse tentò di scalfire intorno al 1968, teorizzando la rivolta degli emarginati, degli studenti e delle sottoculture giovanili), sono ognora presenti e costituiscono la sostanza del dominio, il punto di non ritorno cui è arrivata l’evoluzione sociale.

Il dominio c’è sempre stato, le sue radici affondano nella notte dei tempi – ma solo nella modernità esso dispone, grazie allo sviluppo tecnico, di un raffinato apparato repressivo e distruttivo.

Dunque, che il dominio si riaggiusti e si consolidi (com’è avvenuto in Russia dopo la rivoluzione d’Ottobre e il suo breve periodo «consiliare»), è il frutto amaro dell’epoca che porta in sé il totalitarismo come suo tratto distintivo – indipendentemente dallo scontrarsi, o incontrarsi, di tempi e interessi storici eterogenei –, ed è questo stesso tratto a esprimersi nelle forme del fascismo, dello stalinismo e della cosiddetta società dei consumi.

 

Scetticismo storico.

30) A emergere, da questo tipo di analisi, non è soltanto la chiusura unidimensionale dell’orizzonte storico (dovuta alla presunzione di avere individuato l’aspetto essenziale della «fase»), ma anche l’estrema rigidità dello schema teorico:

per cui, se accade un fatto nuovo – la rivolta degli studenti a Berkeley o la caduta del muro di Berlino –, questo si risolve comunque in una riconferma del dominio.

Con ciò non voglio sostenere, come certi banali apologeti della forma di vita occidentale, che la libertà vada affermandosi dappertutto e che l’avvenire sia radioso.

Vorrei piuttosto rivendicare la necessità di un modo di far teoria, ossia di produrre descrizioni, che non sia vincolato in partenza a un giudizio storico, a una diagnosi e insieme a una prognosi che anticipi costantemente il risultato finale.

 Per una teoria scettica della conoscenza storica, se così vogliamo chiamarla, la storia è imprevedibile.

D’altronde, l’importanza di un’analisi condotta secondo il concetto di dominio starebbe proprio nella capacità di cogliere, a ogni svolta storica, il riproporsi del sempre-uguale, cioè di quello che si può sempre prevedere.

Ma il giudizio malinconico che induce a vedere la cosiddetta storia universale come un’unica sequenza di orrori – un giudizio morale del tutto plausibile –, non deve impedire di osservare e descrivere le diverse combinazioni e ricombinazioni di elementi cui la storia dà luogo.

 

31) A questo scopo, l’analisi dell’integrazione sociale o dell’omologazione culturale (per usare il termine di Pasolini) dev’essere sostituita dall’analisi dell’ibridazione e della creolizzazione incessanti di tempi storici eterogenei e culture diverse.

Questa non è, di per sé, una prospettiva meno pessimistica o più ottimistica; è soltanto una descrizione non più universalistica ma relativistica – ed è, soprattutto, la descrizione di una mutata situazione.

 In nessun modo è possibile descrivere oggi (ammesso che lo sia stato ieri) la società contemporanea nei termini di un’unica linea di tendenza a essa immanente, di un dominio centralizzato e univoco, della soppressione generalizzata di ogni forma di alterità.

Anzi, proprio la fine del gioco dell’«altro» interno, la scomparsa del comunismo, ha dissolto i confini dell’Occidente, e ha facilitato un’invasione di alterità che si sottrae al particolarismo cui questa era condannata dal precedente corso del mondo, ripresentandosi nelle vesti di un universalismo uguale e contrario, come nel caso dell’islam.

 

32) Così, all’interno del mondo che continua a dirsi occidentale, sono da tempo mutate le condizioni che avevano dato il primo impulso alla formulazione di una teoria critica.

 La massiccia produzione di merci in serie – che andava nella direzione di un’organizzazione quasi militare del lavoro industriale, ed era uno dei presupposti dello Stato autoritario – ha ceduto il posto, sotto la spinta dell’innovazione tecnologica, a un’organizzazione forse altrettanto oppressiva ma più morbida, basata su un relativo coinvolgimento dei dipendenti nell’azienda.

Di pari passo, è mutata la figura del consumatore seriale, che oggi è quella di un cliente, di un fruitore indotto a «scegliere» entro una gamma relativamente differenziata di prodotti.

La società di massa di un tempo si è andata raffinando in un nuovo individualismo di massa a sfondo narcisistico.

In questo quadro il ritorno al «mercato» (non più quello della libera concorrenza capitalistica ma una specie di sua simulazione postmoderna, soprattutto se si pensa al ruolo centrale assunto nel frattempo dai mercati finanziari), e il revival neoliberista in economia e neoliberale in politica, sono qualcosa di più di un’ideologia messa a punto per ingannare le masse: sono una cornice di riferimento culturale per il pluralismo caotico formato dai diversi gruppi d’interesse e dalle stesse concentrazioni monopolistiche transnazionali.

Sul versante progressista, c’è anche il tentativo di fissare delle «regole» che frenino lo scivolamento dei conflitti verso l’anarchia.

 Il mondo contemporaneo, infatti, ha in sé il germe della lotta di tutti contro tutti. L’individualismo di massa, in modo particolare in Italia, ha oscillato tra la deriva più completa e lo sforzo di porvi rimedio con un ritorno moralistico, come si è visto negli scorsi anni con l’interminabile discorrere intorno alle regole e ai principi.

Naturalmente nelle democrazie occidentali i conflitti restano per lo più al di qua della violenza aperta: ma forse ciò dipende meno da qualche intrinseca virtù morale che dal grado di benessere raggiunto, dal fatto che ognuno in una guerra civile avrebbe qualcosa da perderci.

Liberalismo?

33) Un’analisi condotta secondo il concetto monocentrico di dominio rischia allora di fallire il bersaglio.

L’approccio che si richiede è plurale: si tratta di descrivere un campo di battaglia in cui ciascun potere ha dinanzi a sé un contropotere, in cui ciascun interesse emergente tende a configurarsi a sua volta come un potere, non ad abolire i rapporti di potere tout court.

Ciò riconduce alla concezione foucaultiana (di cui ho discusso nel capitolo precedente), da integrare tuttavia con una teoria della comunicazione. Niente di pacifico o neutrale in ciò che chiamiamo potere e che, in assenza di una coercizione diretta, potremmo chiamare semplicemente influenza.

 Il potere, in maniera ambigua, è mezzo di comunicazione in quanto codice simbolico e posta in gioco della comunicazione stessa, in quanto può essere tirato da una parte o dall’altra, usato per l’espressione di certi interessi (o bisogni, o desideri) oppure di altri.

Questo è dimostrato anche dalla diuturna lotta intorno al controllo dei mass media, e cioè intorno alla capacità di esercitare influenza mediante la diffusione su larga scala di messaggi in grado di costruire il sé del ricevente.

 Così l’individualismo narcisistico può essere incessantemente riprodotto nello scorrere della comunicazione.

La ripetizione è indotta dallo stesso operare dei micropoteri, sia da quello che cerca d’imporsi tenendo il sé del ricevente in una posizione passiva e soddisfatta, sia da questo che, eventualmente insoddisfatto, gli resiste e che, in quanto è pur sempre un micropotere (coincidente, nel caso, con lo spazio della cosiddetta autonomia individuale), si gonfia e si ripete a sua volta;

mentre una rottura della ripetizione starebbe nell’interruzione del gioco e nel passaggio a un nuovo registro, non più meramente individualistico e narcisistico – ossia in un diverso assetto generale dei micropoteri:

proprio ciò che l’odierno neoliberalismo, reso cieco dalla chiusura della sua stessa ripetizione, non riesce a vedere.

 

34) Come si può ricavare da Foucault, il liberalismo, al di là della propria autocomprensione, è stato il dislocarsi su un terreno etico e politico di una determinata forma di costituzione della soggettività e di costruzione del sé.

Gli individui del liberalismo non sono, come amavano considerarsi, meri presupposti antropologici, ma il risultato di un insieme di strategie di potere e di tecniche di governo.

La scoperta delle virtù del mercato autoregolato, della sua specifica «moralità», è coeva alla messa in campo di una serie di dispositivi che vanno dalla formazione degli individui attraverso il dressage delle pulsioni, cioè mediante la disciplina, all’invenzione della polizia per il controllo degli stessi.

Ma l’odierno liberalismo, nelle differenti versioni, preferisce non ricordare le sue origini poco nobili, nient’affatto «liberali».

E la sua corta ondata è quindi la reviviscenza prodotta da una tarda modernità che, avvitandosi su sé stessa, può solo ripetere le sue epoche precedenti, cercare con esse un compromesso, appigliandosi alla propria «tradizione» cui ritornare e tener fermo con ansia – quasi fosse una cultura locale in lotta per la sopravvivenza.

 Anche questa è una conseguenza della perdita del termine di paragone:

finché all’universalismo liberale e democratico si contrapponeva l’universalismo comunista, era abbastanza facile per il primo sbandierare i vantaggi del suo ideale di «società aperta».

Ma da quando il gioco è finito, soltanto un surplus di moralismo ha sopperito alla perdita d’identità.

 Schiere di chierici non hanno smesso di ripetere negli scorsi anni che, fissate le regole, il mercato era l’unica possibilità concessa agli umani per vivere in pace e progredire.

Così l’Occidente ha fatto finta di non sapere che il suo liberalismo era un terreno di scontro tra poteri piccoli e grandi; e così, soprattutto, ritornando a sé stesso, ha riesumato il passato per smania di radici, ripetendolo come unica possibilità, firmando l’armistizio tra la tradizione e uno spirito moderno ormai stanco – lo stesso che in origine significò invece la rivolta contro ogni tradizione, compresa la propria.

Identità e differenza.

35) Sebbene il crollo dell’impero sovietico abbia dimostrato che la pura razionalizzazione di tipo weberiano alla lunga non tiene, e che il Grande Fratello incontra qualche difficoltà nel controllare tutto e tutti, nondimeno una nuova teoria critica non può che essere disincantata quanto la vecchia.

La situazione è infatti più aperta di quella che i maestri francofortesi avevano sotto gli occhi e di ciò che la loro nozione di dominio potesse prevedere, ma non certo più rosea.

Dalla fine dell’equilibrio tra le superpotenze, il mondo è diventato un caotico melting pot di cui nessuno sa quale sia il punto di ebollizione.

 L’equilibrio precedente risultava oppressivo e repressivo per molti dei popoli della terra, e tuttavia era un equilibrio.

In un certo senso era l’autentica occidentalizzazione del mondo: perché permetteva alla cultura occidentale, grazie alla sua variante interna sovietica, di arrivare dovunque mettendo a frutto la divaricazione paradossale tra lo sviluppo e il progresso.

 Se lo sviluppo non decolla, o va per fatti suoi, se il progresso civile non arriva, ciò dipende dal capitalismo (dicevano gli uni); se il progresso civile non arriva, ciò dipende dal comunismo (dicevano gli altri).

Così la cultura occidentale era sempre vincente.

 L’equilibrio consisteva in un compromesso su scala mondiale sotto il suo controllo.

 

36) Quali i termini odierni, invece, del nuovo equilibrio mondiale?

Non è chiaro se il miscuglio nell’enorme pot conduca a una fusione, o non piuttosto a un’implosione disastrosa.

 Si può rimanere abbastanza tranquilli, e un poco sorridere, finché l’Occidente ritrova sé stesso ritornando al suo universalismo stantio in forma liberale, perché questo almeno predica (più o meno sinceramente) la tolleranza, e dopotutto non è ancora il recupero delle guerre di religione.

 Ma c’è da preoccuparsi quando un neoliberismo economico cieco non riesce a vedere i danni che provoca e le tensioni di cui esso stesso è fatto, occultando la questione della rottura della ripetizione e di un riassetto generale dei poteri.

(Cfr. J. Kristeva, Stranieri a sé stessi, Milano, Feltrinelli, 1990.)

 

37) D’altronde, tolleranza certo: ma verso cosa?

Non verso l’Oriente, che era un’invenzione dell’Occidente e adesso, proprio come quest’ultimo, non si sa più nemmeno dove cominci.

 Tolleranza – si dirà in maniera generica – verso la diversità.

Ma dove inizia la «diversità»?

 L’idea – in sé stessa del tutto condivisibile – che fa di ciascuno la differenza da qualcun altro, e in un certo senso di ciascuno la differenza di sé da sé, è debole se non tiene conto del formarsi di un’identità mediante la ripetizione della differenza, in un modo che si cristallizza spesso con toni aggressivi verso l’esterno.

Questa uguaglianza di tutti nel differire da tutti è ancora troppo astratta, ancora universalisticamente impostata in senso affermativo (nel senso, cioè, di qualcosa di comune a tutti, appunto il loro differire) se non si misura con il problema dell’esclusione che ogni identità comporta:

se non si misura, cioè, con l’esclusiva e ripetuta differenza del loro differire, e non semplicemente con l’unità comune del differire di tutti da tutti.

Insomma, ciò che dà da pensare in ogni formazione d’identità, proprio in quanto è differente da tutte le altre, è il modo in cui questa differenza viene chiusa.

Ciò vale in modo particolare per le identità culturali.

Esse costituiscono delle chiusure dei possibili che, attraverso lo stabilimento di certe differenze al loro interno – attraverso delle preselezioni su ciò che può apparire o non apparire, sul vero e il falso, sul giusto e l’ingiusto, in definitiva sul possibile e l’impossibile –, si ripetono consolidandosi in quanto differenze dall’esterno.

 Certo, soprattutto nella cultura occidentale, la forma tipicamente culturale della chiusura dei possibili, basata sulla condivisione di norme e valori, non è l’unica:

 i soggetti, intesi come singoli individui e anche come gruppi sociali, introducono nel tessuto di questa condivisione altre prospettive di chiusura dei possibili, che possono confermare o smentire la forma dell’identità corrente.

 Ciò significa che un’identità culturale può essere più o meno chiusa: e di fatto sarà relativamente più aperta quanto più contemplerà altre possibili chiusure dei possibili.

(Come fanno invece i teorici della «creolità» come E. Glissant, Poetica del diverso, Roma, Meltemi, ...)

 

38) In questo quadro s’inserisce l’equivalenza funzionale tra la tolleranza e il razzismo (cui ho accennato nel terzo capitolo).

Un’equivalenza circa il problema della relativa stabilizzazione dei processi della conoscenza individuale (quando le credenze di qualcuno, e quindi i suoi comportamenti abituali, possono definirsi tolleranti verso l’«altro», o al contrario intolleranti, xenofobi, razzisti);

e ancor più riguardo al rapporto tra culture, spesso impostato nel senso di una reciproca esclusione.

 Il fenomeno della creolizzazione, infatti, non va sopravvalutato o mitizzato.

Si tratta di una mescolanza, di un processo d’ibridazione lento e costante nel tempo, che ha inizio dalla pressione anche violenta da parte di un’identità esterna: si pensi che le lingue dette appunto creole, con i loro rispettivi culti sincretici, sono essenzialmente quelle degli schiavi africani deportati nelle colonie americane.

Ma la stessa creolizzazione non cancella la questione dell’identità, anzi la ripropone all’ennesima potenza sia come «difesa» della forma di vita precedente mediante la strategia della mescolanza, sia come peculiarità della nuova identità creolizzata rispetto a quelle culture che non hanno subìto il medesimo processo, o lo hanno affrontato in modi differenti.

 La Cina, che pure conobbe la dominazione europea, è altra cosa dalla creolità caraibica.

 Negli Stati Uniti la presenza «ispanica» di nuova immigrazione è diversamente contrassegnata rispetto a quella afroamericana più antica.

E le differenze nelle rispettive creolizzazioni si fanno sentire come forme diverse dell’identità nei confronti della modernità occidentale.

Per esempio, negli Stati Uniti i nuovi immigrati sono generalmente conservatori, gli afroamericani generalmente progressisti.

 

39) Un problema di demarcazione tra sé stessi e gli altri – e anche della diffusione e condivisione dei criteri della demarcazione in guisa di credenze –, il problema principale di ogni identità, si ripropone nel multiculturalismo.

 E quanto più culture differenti si ritrovano a convivere nella vicinanza, tanto più può diventare labile il confine tra la tolleranza e la rivendicazione, anche orgogliosa, dell’identità, che conduce a forme di comunitarismo e finanche di razzismo.

 L’equivalenza funzionale va intesa quindi, in senso strettamente sociologico, come diversità e analogia nel trattare uno stesso problema, nella fattispecie quello della differenza culturale.

Ma risposte «equivalenti» non sono affatto interscambiabili se si guarda alle conseguenze morali e politiche alternative: in definitiva, convivenza pacifica oppure guerra strisciante o aperta.

Tra rivolta e guerra civile.

(Un esempio di questo trionfalismo, M. Walzer, Che cosa significa essere americani, Venezia, Marsili ...)

40) La rivolta del 1992 a Los Angeles, con la sua lotta di tutti contro tutti (ma, guarda caso, specialmente dei più poveri contro i più poveri e dei più emarginati contro i più emarginati), innescata da un episodio classicamente razzista (il pestaggio di un afroamericano da parte di alcuni poliziotti, documentato da un videoamatore, con il processo successivo chiuso da una sentenza che parve una beffa), inaugura un tipo di rivolta urbana che si rivedrà spesso nel primo scorcio del nuovo secolo.

Ed è un prisma in cui si scompone l’intero spettro di un conflitto, strisciante o aperto, tra identità culturali diverse.

Appaiono alla prova, in una rapida visione d’assieme, innanzi tutto la vera o presunta identità «americana» con il suo trionfalismo multiculturale8, poi quella nera da tempo integrata, e ancora l’identità dei latinos di recente immigrazione.

Se la seconda dà inizio alla protesta in nome di una cittadinanza in linea di principio ormai acquisita, subito il conflitto, con le distruzioni e i saccheggi, coinvolge tuttavia la terza identità, quella meno inserita; mentre la prima si tappa in casa e manda l’esercito.

 Qui si vede dunque come il tradizionale razzismo americano – negato a parole ma sempre pronto a rispuntare – evolva in una sorta di neo-razzismo, che mette i neri contro gli altri gruppi etnici e viceversa.

 La scintilla dell’intolleranza, scoccata da una parte, accende l’incendio che si propaga alle altre parti della società.

 In questo senso le realtà plurietniche sono più esposte al divampare dell’odio e all’esplodere, o meglio all’implodere, della violenza, di quanto lo sia la società incentrata sulla nazionalità monoetnica.

Quest’ultima poneva essenzialmente un problema di confini rivolti verso uno straniero esterno.

Il problema si complica quando, in un Occidente che non comincia e non finisce più da nessuna parte, si devono continuamente tracciare e ritracciare i confini del rispetto reciproco e della tolleranza interni prima ancora che esterni.

 

41) Il caso della ex Jugoslavia, a questo proposito, è certo il più tragico.

 Qui, dopo il dissolversi del socialismo reale alla jugoslava, e della sua singolare mistura di federalismo e centralismo, i tempi storici diversi, tenuti per decenni in compressione, si diedero a confliggere in maniera selvaggia.

L’universalismo infranto, la perdita della temporalità unidimensionale, i suoi pezzi gli uni contro gli altri armati, non furono una ricaduta nella barbarie intesa come un’epoca antecedente e remota, ma il ricombinarsi di frammenti ancora attuali in una costellazione temporale impazzita.

La violenta affermazione particolaristica delle identità, con tutto quanto d’«inumano» questo comporta, non è la stessa cosa degli stermini nazisti, che provenivano dall’affermazione a suo modo universalistica di un dominio di nazione e di razza – a riprova del fatto che l’orrore può scaturire da qualcosa ma anche dal suo contrario.

Non si trattò infatti, nella ex Jugoslavia, di uno sterminio pianificato dall’alto in maniera scientifica, anche se ci fu chi soffiò sul fuoco, ma di una violenza diffusa e quasi domestica.

Il conflitto interetnico di oggi, e la xenofobia da cui si sprigiona, non sono l’antisemitismo di ieri:

questo affondava le radici nell’odio accumulato e nella paura per la penetrazione interna di un nemico considerato potente ed esterno (l’ebreo);

laddove il conflitto attuale coinvolge il vicino, colui con il quale si è convissuto a lungo, e nei cui confronti l’odio monta quasi all’improvviso.

(La tolleranza repressiva, in R.P. Wolff, B. Moore jr. e H. Marcuse, Critica della tolleranza, Torin ...)

 

42) Perciò neppure il «ritiro» della tolleranza nei confronti degli intolleranti (secondo la proposta di Marcuse contenuta in un indimenticabile saggio degli anni sessanta) sembra una scelta accettabile.

Un’opzione del genere può valere all’interno di una stessa società nazionale per isolare e disarmare i violenti;

non può valere e neppure essere presa in considerazione tra culture e nazionalità diverse, perché condurrebbe alla guerra perpetua.

Se nei paesi occidentali si decidesse di ritirare la tolleranza nei confronti dell’islam, denunciandolo come fanatico e oscurantista, si andrebbe a uno scontro distruttivo.

Se al contrario, per ipotesi, si tentasse una strategia di assorbimento e omologazione della sempre più marcata differenza culturale islamica, ci si troverebbe soltanto a rilanciare l’universalità di una forma di vita in modo ripetitivo e vuotamente conformistico.

Quale relativismo?

43) Il principio della tolleranza, dunque, non può essere revocato: ma la sua riaffermazione non può avvenire riproponendo una prospettiva totalizzante.

Si vede oscillare qui un dilemma tipico:

quello tra l’esclusione e l’inclusione.

L’universalismo per sua natura è ecumenico, incline a includere qualsiasi forma di vita dentro di sé, riducendola e riadattandola;

se l’operazione non riesce, scattano però l’esclusione e l’emarginazione, quando non l’intolleranza e la repressione aperte.

Se si occulta questa oscillazione drammatica sotto una specie di prolungato auto applauso nei confronti della propria forma di vita e dei suoi meriti, questo è solo un segno di grave imbarazzo.

 Un relativismo culturale piuttosto diffuso (in sintonia, del resto, con un senso comune modificato dall’autocritica dell’illuminismo) suggerisce il riconoscimento delle culture, il dialogo e la loro comprensione reciproca, cercando di reimpostare la questione dell’universalismo nei termini iper-universalistici dei valori comuni di un’umanità unica, cui tutte le culture fornirebbero il loro contributo.

Ma se il dialogo viene rifiutato, come si è visto nel modo più terribile l’11 settembre 2001, questo stesso relativismo non può che ammutolire, privo com’è di qualsiasi radicalità teorica.

 

44) È chiaro comunque che non c’è un’alternativa alla tolleranza: l’alternativa sarebbe infatti la guerra perpetua, aperta o strisciante.

 La domanda allora suona: quale tolleranza?

 Non più, certo, una tolleranza piattamente universalistica e onnicomprensiva, frutto di un universalismo che cerca di sottrarsi al fallimento negando la paradossale divaricazione tra lo sviluppo e il progresso e la specificità, ormai palese, della sua forma di vita non generalizzabile;

e neppure una tolleranza neo-universalistica, corroborata da un relativismo teoricamente fiacco che può arrivare a sostenere, senza temere il ridicolo, la superiorità della cultura occidentale in quanto cultura che ha riconosciuto la relatività di tutte le culture.

No: proprio dalla capziosità di argomenti del genere viene l’impulso a riformulare la domanda intorno alla tolleranza nei termini di – quale relativismo?

(Cfr. M. Walzer (e altri), Giusta o ingiusta? Considerazioni sul carattere morale della guerra ...)

 

45) Dopo la fine del gioco dell’«altro» interno, la risposta immediata al problema della perdita d’identità dell’Occidente sembrò consistere nel ripetere il vecchio gioco riadattandolo alle mutate condizioni, cercando un altro partner, magari in formato ridotto, un altro nemico non troppo nemico.

 Un atteggiamento da mettere certo sul conto dell’abitudine.

Gennaio 1991: fior di chierici dai saldi principi, e non pochi convertiti dell’ultim’ora, si affannarono a spiegare che quella del Golfo era una guerra giusta, o tutt’al più non troppo ingiusta.

In quel caso il superiore relativismo occidentale non apparve.

Le obiezioni pacifiste contarono meno di un soldo bucato.

 Si videro allora i traccianti luminosi delle bombe, e tutto quel che segue, più che vederlo, lo s’intuì.

 Il massacro fu organizzato con cura: non si arrivò a rovesciare Saddam Hussein per rispettare il mandato dell’Onu che prescriveva unicamente la liberazione del Kuwait proditoriamente occupato.

Così il dittatore ebbe la possibilità di rifarsi sui curdi e gli oppositori interni, lasciati senza la minima protezione.

 La guerra venne a interrompersi – e si può dire che qui sia intervenuto il relativismo – dove in quel momento terminava l’interesse occidentale.

 Nella sua forma fredda, però, sarebbe stata da continuare in eterno.

L’amministrazione Clinton sembrò quasi riuscirci, con una politica di dure sanzioni economiche contro l’Iraq punteggiata da brevi attacchi aerei nella forma di un continuo equilibrio-squilibrio;

mentre Saddam Hussein – l’amico dell’Occidente imbottito di armi all’epoca del conflitto con l’Iran, e diventato con il tempo un perfido nemico – restava comunque al suo posto.

 

46) La seconda puntata va in scena dopo l’attentato dell’11 settembre 2001 alle Torri gemelle.

In quel momento è in carica un’amministrazione, quella di Bush figlio, dominata da un tenace gruppo di neoconservatori.

La finalità è ridisegnare la carta geopolitica di un’intera regione, anche infischiandosene dell’Onu e del diritto internazionale.

Prima viene invaso l’Afghanistan (ancora con una parvenza di legalità e nel quadro della Nato), successivamente l’Iraq, con l’obiettivo di eliminare Saddam Hussein.

E in questo caso, per giustificare l’intervento, davanti al consiglio di sicurezza dell’Onu si montano prove inesistenti circa il possesso di armi di distruzione di massa da parte del dittatore iracheno.

È come se – ormai archiviato il lungo periodo dell’ostilità contro l’«altro» interno, trattenuta al di qua della guerra aperta in virtù della deterrenza nucleare – l’amministrazione neoconservatrice volesse prendersi un’ideale rivincita nei confronti di quell’«impero del male», che ragionevolmente non fu possibile attaccare, guerreggiando contro un altro nemico, stavolta più piccolo, tirato su dall’Occidente (sia Saddam, infatti, sia gli stessi talebani afghani erano stati in precedenza degli alleati).

Ma il gioco non riesce. L’Occidente a guida neoconservatrice s’impantana in due guerre infinite, prive di uno sbocco politico vero e proprio.

 

47) Dall’intera vicenda si ricava con chiarezza che cosa sia l’oscillazione tra un fiacco relativismo e un universalismo più o meno peloso (anche in versioni differenti, alternativamente progressiste o conservatrici) che vale finché vale, ma è pronto a lasciare spazio al relativismo non appena scompare l’interesse che lo sosteneva.

Con questo non voglio affermare che si tratti di mera ideologia.

L’oscillazione è reale, radicata nella cultura.

Una certa tolleranza relativistica è complementare a una certa intolleranza universalistica (di destra o di sinistra):

 e i chierici occidentali liberal o conservatori si appoggiano ora all’una ora all’altra.

Ma i loro argomenti sono solo la riproduzione, nel cielo dei concetti, della prassi corrente dell’inclusione e dell’esclusione.

 Quando s’interrogano su chi includere e come, si stanno interrogando allo stesso tempo su chi escludere e come.

 Né sembrano dar peso al fatto che il criterio della demarcazione, tra chi è dentro e chi è fuori, è dato dalla stessa cultura occidentale, dalla sua particolarità culturale. In questo modo diventano gli intellettuali organici della tribù occidentale, i suoi perfetti stregoni, quelli che conoscono la formula per tramutare il particolare in qualcosa di più-che-particolare.

(Questa è esattamente la definizione di «società», sistema dei sistemi sociali, che si ricava dalla ...)

48) Altro è il caso di quella linea di pensiero che va da Nietzsche a Foucault, che si può far risalire fino a Montaigne, e va sotto il nome di autocritica dell’illuminismo.

Essa non si presenta come un’apologia della modernità, ma come una tradizione intellettuale insofferente di ogni tradizione, soprattutto di quella illuministica in cui pure affonda le radici.

 Qui il relativismo non è il mezzo per mettere al loro posto tutte le culture, esaltando la cultura occidentale in quanto cultura che mette a posto tutte le altre;

al contrario è lo strumento per criticare la propria cultura, per relativizzarla nel paragone con le altre e con gli altri tempi storici, anche interni alla storia dell’Occidente.

Il relativismo implica così uno spostamento continuo del punto di vista, un rovesciamento incessante della prospettiva, tale da produrre un effetto di straniamento nell’auto osservazione.

È connesso a ciò, necessariamente, un momento scettico più o meno moderato o più o meno radicale, in una teoria pluralistica della conoscenza che fa dell’individuazione di un punto di vista, di volta in volta determinato, l’aspetto centrale del movimento dei punti di vista.

La critica si rivolge allora verso il cosiddetto soggetto in tutte le sue forme, e verso la sua presunzione – peraltro non semplicemente illusoria – di poter restare fermo ripetendosi.

 La chiusura dei possibili, che ogni formazione d’identità implica, riguarda i soggetti ma anche le culture.

E se la società planetaria di cui si favoleggia sarà forse destinata a rimanere qualcosa di puramente virtuale, ciò non dipende dalla società, che anzi sembra contenere in sé come orizzonte aperto la totalità dei possibili, ma dalle culture, dalle mentalità, dalle forme diverse di costituzione dei soggetti che si stabiliscono in essa chiudendo i possibili in maniere differenti e tuttavia analoghe.

Universalismo negativo.

49) Secondo questa concezione, dunque, il denominatore comune a ogni identità (davvero il minimo comun denominatore) è dato dal fatto che ciascuna include qualcosa ed esclude qualcos’altro.

 Non c’è alcun contenuto positivo (e ciò significa: nessuna norma, nessun valore, nessun uso o costume particolare) che possa essere considerato, se non in modo contingente, comune a tutte le identità – in specie a tutte le identità culturali.

Nella forma selettiva ma vuota dell’includere e dell’escludere, è possibile indicare invece una forma comune a tutte.

 Ciò non significa che da qui possa partire la proposta di un’intesa e di una comprensione reciproca tra le culture: piuttosto vuol dire proporre un punto di osservazione chiaro, e non bloccato, per descrivere i diversi modi in cui esse stabiliscono la differenza inclusione/esclusione, o le mille maniere in cui i possibili vengono chiusi.

 Questo potrebbe essere detto il punto non relativistico di osservazione del relativismo.

 Esso non intende affatto eliminare il relativismo, ma è l’espediente introdotto per poterne osservare e descrivere il movimento (in modo analogo allo sguardo metateorico che, riguardo allo scetticismo, cerca di descrivere l’inquietudine del suo dubbio e lo spostamento del punto di vista corrispondente, come ho cercato di mostrare nei capitoli precedenti).

Si tratta dell’unica strategia in grado di porre sotto controllo il relativismo, legandone il concetto a una prospettiva dalla quale poterne osservare il funzionamento, rendendolo per così dire virtuoso, senza negarlo ma senza neppure finire, a causa del suo stesso carattere paradossale, nell’incantesimo di un relativismo assoluto e del tutto inosservabile.

 

50) La mia posizione è quindi una posizione scettico-relativistica moderata, che non considera affatto inutili gli sforzi della teoria, anzi li richiede in quanto prese di posizione che permettono di fare il punto di uno scetticismo e di un relativismo pur inevitabili.

La figura che a poco a poco emerge, dalla questione difficile del relativismo culturale, è quella di un universalismo negativo: di un universalismo non universalistico, che non propugna l’universalità di questa o quella cultura, di questa o quella forma di vita, ma sostiene che qualsiasi cultura, qualsiasi forma di vita, sia definibile in virtù di qualcos’altro che essa esclude (o letteralmente non vede), sebbene l’esclusione – che è al tempo stesso chiusura dei possibili al suo interno – possa avvenire sempre in modo diverso.

 

51) Se ci si fa caso, infatti, ciò che non distingue la cultura occidentale dalle altre è proprio il carattere anche esclusivo di un’identità che, universalisticamente, si vorrebbe soltanto inclusiva.

Alla stregua di qualsiasi cultura locale, essa deve escludere delle possibilità, chiuderle fuori di sé per coltivarne altre – ma finisce per tagliarne fuori più del necessario, contraddicendo così il suo slancio onnicomprensivo (questo sì tipicamente «faustiano» e occidentale), e palesandosi come una cultura tra altre.

Anche l’oscillare tra una tolleranza blandamente relativistica e un’intolleranza piattamente universalistica segna il ritmo dell’inclusione e dell’esclusione.

 La cultura occidentale non può insegnare niente alle altre culture, perché è essenzialmente come le altre.

I criteri dell’inclusione/esclusione variano molto da clima a clima, da latitudine a latitudine: non varia però l’operare di questa differenza, che è il modo stesso in cui si forma la relatività delle culture.

 È molto interessante osservare che cosa succede quando l’universalismo occidentale si trova dinanzi un universalismo uguale e contrario, come sta accadendo (o si dovrebbe dire riaccadendo?) con l’islam.

Si può vedere allora la cultura occidentale chiudersi, mentre al suo interno rispunta lo spirito di crociata.

Eppure quella arabo-musulmana è soltanto una cultura già ridotta dall’Occidente alla condizione di una cultura locale che, inventando o reinventando la propria tradizione sulla base dell’universalismo religioso, risorge dalla sua stessa oggettiva creolizzazione.

Caratteristica di questa rinascita è di produrre un cortocircuito tra tempi storici diversi, nel segno di un meccanismo più fortemente esclusivo che inclusivo.

 

52) Di fronte a tanto ardire l’Occidente è come interdetto, orfano – lo si è visto – dell’«altro» interno, stupito di non poter facilmente giocare la carta del dialogo, e nemmeno quella di una circoscritta e prolungata guerra fredda.

Troppo straniero il nuovo nemico, troppo arcaico-tradizionale, e perfino neo-tradizionale, per riuscire a venirci a patti;

troppo sfuggente per poterlo inchiodare da qualche parte, perché, del resto come l’Occidente, è collocato ovunque e in nessun luogo.

Quasi si direbbe che, a furia di universalizzarsi, l’Occidente abbia secreto da sé un’universalizzazione di segno contrario, che gli si rivolge contro rimescolando ciò che esso aveva faticosamente distinto (per esempio, tra loro, la politica e la religione) in una sorta di suprema beffa antistorica.

Dunque il progresso non era niente, dunque non si erano lasciati persuadere… Il dubbio investe rapidamente il persuasore.

Una delle ragioni della crisi d’identità della cultura occidentale sta proprio nella rinascita dell’islam.

 Islam vuol dire alla lettera: «fiduciosa sottomissione a Dio».

 Che cosa di più lontano da uno spirito illuministico che voleva condurre l’uomo fuori dallo stato di minorità dovuto all’uomo stesso?

 

53)  Immaginiamo un tentativo di dialogo tra esponenti di diverse religioni.

Può darsi che riescano a intendersi, ma è anche probabile che si accapiglino, gli uni sputando sul Profeta, gli altri sulla Trinità.

Comunque, se riuscissero a trovare dei punti di contatto, sarebbero con ciò stesso tutti all’interno del logos occidentale: ciò che la frangia radicale dell’islamismo rifiuta?

A veder bene, forse, è qui che servirebbe la tolleranza. Questa interviene là dove la comprensione finisce o non può neanche iniziare: quando è impossibile procedere con metodologia ermeneutica a una «fusione di orizzonti» troppo lontani tra loro, quando le lingue non s’intendono nemmeno sui termini del disaccordo.

Nei casi estremi, allora, le vie si biforcano: o conflitto violento o tolleranza.

Ma quest’ultima richiede come sua condizione che almeno uno dei due contendenti non si lasci prendere dal fanatismo.

Di fronte alla possibile aggressione dell’altro, egli è un potenziale martire laico. Voltaire aveva centrato la questione quando aveva sostenuto che, pur detestando le idee dell’avversario, sarebbe stato disposto a farsi uccidere per difendere la sua libertà di esprimerle.

 La vecchia posizione liberale aveva il senso drammatico del paradosso, ben al di là del liberalismo odierno che preferirebbe un mondo di armoniosi dialoganti.

 Oggi, nel conflitto tra etnie e di nuovo tra religioni, la figura del tollerante, potenziale martire laico, è quella dell’illuminista autocritico.

 Solo lui, d’altronde, per la sua posizione anti-universalistica avrebbe una chance, seppure minima, di riuscire a disarmare l’universalista violento.

54) In Egitto un’altissima percentuale di bambine subisce l’ablazione della clitoride.

 Inoltre, durante l’occupazione della piazza Tahrir, nei giorni della rivolta del 2011, molte donne del movimento sarebbero state oggetto di violenze sessuali coperte dal velo di una folla prevalentemente maschile.

 Una simile condizione di subordinazione femminile, studiata nell’ottica di una specie di omeostasi culturale, potrebbe essere considerata una sordina posta al conflitto dei sessi sotto un potere maschilista e patriarcale.

Ma è una spiegazione che non spiega granché, e potrebbe perfino suonare come una giustificazione delle violenze dinanzi all’imperativo di un’emancipazione della donna.

 In astratto, ci si può attendere che le idee di autonomia e di rispetto della persona, nonostante l’islamismo, riescano ad affermarsi anche in quel paese:

che cioè le egiziane inizino a liberarsi da sole cominciando con l’opporsi alla mutilazione delle figlie;

che in piazza vadano in tante, e bene organizzate, così da impedire in futuro le violenze.

In concreto, però, si sa che solo molto lentamente si esce dalla vischiosità delle pratiche e delle usanze tipiche di una cultura.

Talvolta esse si ricombinano in altro modo, sottoposte a processi d’ibridazione in grado di stemperarle, non di cancellarle del tutto.

 

55) Considerazioni del genere fanno parte dell’invito alla tolleranza.

Questa può essere definita come il coesistere nella diversità radicale, o anche come un’indifferenza nel differire, che non mira ad alcuna identità superiore, ad alcuna sintesi dialettica, semmai solo a stabilire una ragionevole banda di oscillazione tra gli estremi.

 È una soluzione certo molto precaria da ricercare in condizioni di forte alterità, quando le vie del dialogo e della comprensione reciproca non siano percorribili.

 Ed è ancora una soluzione occidentale, non può essere imposta alle altre culture senza cadere in un paradosso devastante.

L’argomento che si può tentare di far valere, in un immaginario grande confronto planetario, è quello dell’universalismo negativo anti-universalistico, secondo cui nessun contenuto positivo può essere considerato comune a tutte le culture.

Se le cose stanno così, se il punto di contatto tra le culture è puramente negativo, se coincide con la semplice forma selettiva ma vuota dell’escludere qualcos’altro da sé in modi diversi, allora si potrà forse proporre la tolleranza reciproca tra le diverse forme di esclusione, al fine di evitare la guerra perpetua.

Ma questo è pur sempre, ovviamente, un argomento occidentale

. Per sostenerlo con qualche credibilità bisognerebbe che l’Occidente riuscisse prima a vedere dentro di sé con chiarezza, che giungesse alla coscienza della irrimediabile particolarità della sua forma di vita.

Perciò solo un illuminismo autocritico ha titolo per parlare di tolleranza.

Anzi, di più: l’idea di tolleranza è solo un momento della critica che l’illuminista autocritico rivolge alla sua propria forma di vita.

Non un precetto da consigliare agli altri, ma un modo per far luce al proprio interno con la speranza che questo possa servire a migliorare il rapporto con loro.

 

56) La radicalità autocritica dell’illuminismo si ripropone oggi in condizioni di difficile e complessa alterità dell’intero mondo.

 Finché durava il gioco dell’«altro» interno, l’Occidente poteva cavarsela con un paio di formule propagandistiche evitando di fare i conti con sé stesso.

 Oggi non più. Perciò una nuova leva d’intellettuali, né apologeti né pentiti, semplicemente critici, sarebbe richiesta.

Il presente libro vorrebbe essere un contributo in questa direzione.

 Esso intendeva mostrare che c’è una linea di autocritica dell’illuminismo, che la sua vitalità è ancora notevole, che è possibile, dal suo interno, forgiare strumenti teorici in sintonia con il mondo attuale.

Il pensiero dei maestri francofortesi andrebbe ripreso con la massima libertà, al di là dell’universalismo residuo presente nel loro modo di far teoria.

Si dovrebbe fare qualcosa di simile a ciò che essi fecero, in maniera completamente diversa.

Ho cercato di mostrare come questo significhi l’apertura della teoria critica a una dimensione scettico-relativistica che inizialmente le era estranea, sebbene non lo fosse all’autocritica dell’illuminismo nel suo insieme.

Questa naturalmente è una proposta filosofica – ma non andrebbe ridotta al suo ambito puramente specialistico.

Si dovrebbe valutarla, piuttosto, riferendosi ai compiti intellettuali che ci attendono.

 In una situazione contrassegnata dal ripresentarsi aggressivo di forze arcaico-tradizionali tenute a lungo in compressione sotto una modernità strutturalmente incapace di essere compiuta, in questa situazione neppure un dio potrebbe salvarci; soltanto un nuovo scetticismo impegnato, forse, lo potrebbe.

 

 

 

 

È lo Scontro tra Civiltà?

ma io scelgo il Sogno della Pace!

Vittoriodublinoblog.org – Vittorio Alberto Dublino – La macchina maieutica-(23 settembre 2022) - ci dice:

È in corso in questi giorni alle Nazioni Unite un summit globale tra i rappresentanti degli Stati per tentare di risolvere la questione del conflitto russo-ucraino.

 Io credo che le cause di questo conflitto risiedano nelle motivazioni ben più profonde e di natura globale come ci spiega Samuel Huntington nella sua Teoria dello Scontro tra Civiltà.

L’invasione dell’Ucraina con l’avvio della cosiddetta Operazione Speciale Russa non ha innescato solo ragionamenti da pensiero dicotomico nella gente comunemente ignorante sul tema, ma anche un acceso dibattito intellettuale sulle probabili ipotesi che ne avrebbero motivato le cause, con fazioni di esperti che le promuovono ed ovviamente altre che le confutano.  Ragionando da decimo uomo, a me convince in particolare una tesi, basata più su profondi presupposti cognitivi ed antropologico culturali che su aspetti di strategia geopolitica correlati agli interessi economico finanziari di dimensione globale.

Questa è la tesi sullo Scontro di Civiltà e il rifacimento dell’Ordine Mondiale di Samuel Huntington.

In “Clash of Civilizations” lo scienziato ci spiega che la Cultura e le Identità culturali, che a livello più ampio sono Identità di civiltà, stanno plasmando i modelli di coesione, disintegrazione e conflitto nel mondo del dopo Guerra Fredda.

La tesi si declina su 5 punti chiave.

Per la prima volta nella storia la politica globale è multipolare e multi-civilizzata; la modernizzazione è distinta dall’occidentalizzazione e non sta producendo né una civiltà universale in alcun senso significativo né l’occidentalizzazione delle società non occidentali.

Gli equilibri di potere tra le civiltà stanno cambiando: l’influenza relativa dell’Occidente sta declinando.

 Le civiltà asiatiche stanno espandendo le loro attività economiche, militari e la forza politica;

l’Islam sta esplodendo demograficamente con conseguenze destabilizzanti per i paesi musulmani ei loro vicini;

le civiltà non occidentali in genere stanno riaffermando il valore delle proprie culture.

Sta emergendo un ordine mondiale basato sulla civiltà: le società che condividono affinità culturali cooperano tra loro;

gli sforzi per spostare le società da una civiltà all’altra non hanno successo;

e i paesi si raggruppano attorno agli stati principali o centrali della loro civiltà.

 Le pretese universalistiche dell’Occidente lo mettono sempre più in conflitto con altre civiltà, soprattutto con l’Islam e la Cina;

a livello locale le guerre di faglia, in gran parte tra musulmani e non musulmani, generano i cosiddetti “raduni di parenti”:

 i “kin-country rallying”, cioè [per affinità elettive] stati o gruppi di stati appartenenti ad una civiltà che vengono coinvolti in guerre con membri di una civiltà diversa cercano naturalmente di raccogliere il sostegno di altri membri della propria civiltà, con la minaccia di una più ampia escalation.

La sopravvivenza dell’Occidente dipende dal fatto che gli americani riaffermino la loro identità occidentale e gli occidentali accettino la loro civiltà come unica universale e si uniscano per rinnovarla e preservarla dalle sfide delle società non occidentali.

 L’evitamento di una guerra globale di civiltà dipende dall’accettazione e dalla cooperazione dei leader mondiali per mantenere il carattere multi-civilizzato della politica globale.

Se accettiamo come veri questi assunti alla base della “Teoria dello Scontro tra Civiltà”, non ci è difficile comprendere cosa intendono nelle loro dichiarazioni alcuni leader di nazioni del cosiddetto ‘blocco orientale’ (sebbene l’accezione sia ritenuta limitativa dalla suddetta teoria) come Putin, il leader cinese Xi Jinping, o il premier indiano Narendra Modi, che recentemente si sono confrontati a Samarcanda. Ma lo stesso vale quando ascoltiamo le parole dei leader del ‘blocco occidentale’ quando ci richiamano alla difesa dei nostri valori, per motivare il supporto alla resistenza ucraina.  

Huntington ci ricorda che “il progresso intellettuale e scientifico, come ha evidenziato Thomas Kuhn nel suo classico “La struttura delle rivoluzioni scientifiche”, consiste nel cambiamento di un paradigma, che è diventato sempre più incapace di spiegare fatti nuovi o scoperti di recente, da un nuovo paradigma, che rende conto di quei fatti in un modo più soddisfacente.

 «Per essere accettata come paradigma», scrisse Kuhn, «una teoria deve sembrare migliore dei suoi concorrenti, ma non ha bisogno, e infatti non lo fa mai, di spiegare tutti i fatti con cui può confrontarsi» …

«Trovare la propria strada attraverso un terreno sconosciuto”, osservò saggiamente anche “John Lewis Caddis”, “generalmente richiede una mappa di qualche tipo.

La cartografia, come la stessa cognizione, è una semplificazione necessaria che ci consente di vedere dove siamo e dove potremmo andare”.

Ed ancora, “l’immagine della guerra fredda della concorrenza delle superpotenze era un modello articolato in primo luogo da Harry Truman, come “un esercizio di cartografia geopolitica che descriveva il panorama internazionale in termini che tutti potevano comprendere, e così facendo ha preparato la strada per il sofisticata strategia di contenimento che presto sarebbe seguita”.

Le visioni del mondo e le teorie causali sono guide indispensabili alla politica internazionale.

Per quarant’anni studenti e professionisti delle relazioni internazionali hanno pensato e agito nei termini del paradigma degli affari mondiali altamente semplificato ma molto utile della Guerra Fredda.

Questo paradigma non poteva spiegare tutto ciò che accadeva nella politica mondiale.

 C’erano molte anomalie, per usare il termine di Kuhn, e a volte il paradigma accecava studiosi e statisti di fronte a sviluppi importanti, come la scissione sino-sovietica.

Tuttavia, in quanto semplice modello di politica globale, ha tenuto conto di fenomeni più importanti di qualsiasi altro rivale, è stato un punto di partenza essenziale per pensare agli affari internazionali, è diventato quasi universalmente accettato e ha plasmato il pensiero sulla politica mondiale per due generazioni.”

Oggi quel modello semplicistico è obsoleto.

Come affermano molti esperti siamo in un mondo dominato dal caos, viviamo in un mondo V.U.C.A.: l’acronimo usato per descrivere, e riflettere, sulla Volatilità, Incertezza, Complessità e Ambiguità che caratterizzano le condizioni generali e i fenomeni che sono causa dei conseguenti problemi che investono l’attuale Società post-moderna.

Per concludere, qualunque sia la motivazione a prescindere da chiunque voglia continuare a seguire il sogno occidentale viceversa pensi di sognare quello orientale: Io come chiunque altra persona equilibrata Io scelgo il SOGNO della PACE … come, auspico, chiunque altra persona equilibrata tenga al migliore e futuro benessere dell’Umanità!

Samuel Huntington, è uno dei massimi esperti di politica estera, consigliere dell’amministrazione americana ai tempi di Jimmy Carter, direttore degli Studi strategici e internazionali di Harvard, fondatore di Foreign Policy e autore di una ventina di saggi che hanno fatto la storia della geopolitica degli ultimi vent’anni.

 È noto per la sua analisi delle relazioni tra governo civile e potere militare, i suoi studi sui colpi di Stato e le sue tesi sugli attori principali del ventunesimo secolo: le civiltà che tendono a sostituire gli Stati-nazione.

 

Lo scontro delle civiltà

e il nuovo ordine mondiale”

 di Samuel Huntington -Edito in Italia da Garzanti.

Liguria.bizjournal.it - Odoardo Scaletti – (9 Maggio 2022) – ci dice:

Il conflitto tra Russia e Ucraina ci porta a verificare la validità del modello interpretativo proposto da Samuel Huntington – professore alla Harvard University, già direttore del John T. Olin Institute for Strategic Studies e presidente della Harvard Academy for International and Area Studies – nel suo saggio, pubblicato la prima volta nel 1996, “The Clash of Civilization and the Remaking of World Order, Simon & Schuster, New York 1996, trad. it. “Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale”, Garzanti.

 

All’indomani del crollo dell’Unione Sovietica e della fine della guerra fredda si era diffusa la convinzione, espressa, con effetto mediatico clamoroso, nel 1992 da Francis Fukuyama, nel volume “The End of History and the Last Man” (pubblicato in Italia da Utet, “La fine della storia e l’ultimo uomo”).

 Fukuyama, oggi senior fellow dell’Università di Stanford, in precedenza docente alla Johns Hopkins University e alla George Mason University, ipotizzava una vera e propria “fine della storia” con l’avvento della globalizzazione guidata dalle liberaldemocrazie occidentali.

Secondo Huntington, al contrario, la fine della guerra fredda non solo non avrebbe portato all’affermarsi di un modello unico, ma avrebbe liberato le diverse civiltà dal bipolarismo politico e ideologico Usa-Urss, lasciandole libere di svilupparsi e distinguersi dalle altre autonomamente.

Huntington ritiene che, sotto la spinta della modernizzazione, la politica planetaria si stia ristrutturando secondo linee culturali differenti in differenti aree del mondo.

Modernizzazione non equivale a occidentalizzazione.

La prima è perseguita dalle classi dirigenti di quasi tutto il mondo, la seconda incontra crescente ostilità.

 Se un tempo si poteva parlare (in Occidente) della civiltà (un complesso ideologico-culturale-morale in base al quale giudicare il grado di civilizzazione, e il diritto all’autonomia di un popolo) oggi bisogna constatare che esistono le civiltà.

I popoli e i paesi con culture simili si avvicinano.

Le alleanze determinate da motivi ideologici o dai rapporti tra le superpotenze lasciano il campo ad alleanze definite dalle culture e dalle civiltà.

I confini politici tendono ad avvicinarsi a quelli culturali.

Huntington individua nove civiltà, Occidentale, Latinoamericana, Africana, Islamica, Sinica, Indù, Ortodossa, Buddista e Giapponese.

E ritiene sbagliata l’idea di una civiltà che si afferma sulle altre come universale, con l’affermazione del modello liberaldemocratico occidentale.

 L’Occidente, anzi, è in declino, vede ridursi la propria potenza economica e militare e quindi anche il proprio prestigio culturale.

 I rischi maggiori di conflitto sono tra gruppi di differenti civiltà.

In particolare il maggior pericolo è rappresentato dai “conflitti di faglia”, quei conflitti, cioè, che si sviluppano tra Stati limitrofi, appartenenti a civiltà diverse e dalla pretesa di un Paese leader di una civiltà di intromettersi in un conflitto tra Paesi di un’altra civiltà.

Il modello proposto da Huntington si è dimostrato, a nostro parere, il più valido per interpretare la realtà degli ultimi trent’anni.

 In occasione della guerra russo-ucraina lo studioso americano è stato accusato di avere sbagliato là dove affermava che «se l’elemento cardine del mondo odierno sono le civiltà, allora la possibilità di uno scontro violento tra russi e ucraini appare remota.

Si tratta infatti di due popoli slavi, prevalentemente ortodossi che per secoli hanno mantenuto stretti rapporti e tra i quali i matrimoni misti sono oltre modo frequenti».

 Ma Huntington osservava anche che «l’Ucraina è un Paese diviso, patria di due diverse culture.

La linea di faglia tra civiltà occidentale e ortodossa attraversa il cuore del Paese, e così è stato per secoli» e ipotizzava che si spaccasse in due distinte entità e che la parte orientale venisse annessa alla Russia oppure che l’Ucraina restasse unita e indipendente e sviluppasse poi legami di cooperazione con la Russia.

Un ventaglio di ipotesi che, formulato una trentina d’anni fa, non sembra inficiare la funzionalità del modello interpretativo.

 Il modello di Huntington ha avuto anzi clamorose conferme con l’attentato delle Torri Gemelle del 2001 e l’espandersi del fondamentalismo islamico, il progressivo allontanamento della Russia di Putin dall’Occidente e l’ascesa della Cina come superpotenza.

 

Anche su piano economico il mondo sembra articolarsi in blocchi che interrompono la globalizzazione.

 L’articolo di Davide Siviero pubblicato da Liguria Business Journal il 2 maggio scorso analizza il processo politico ed economico che sta portando a un mondo chiuso, diffidente, diviso in blocchi, in cui le crisi politiche più facilmente si tramutano in crisi militari.

Questi blocchi tendono a coincidere con le civiltà definite da Huntington.

Lo studioso americano vede come maggior pericolo di una guerra mondiale l’eventualità di un conflitto tra Cina e Vietnam in cui gli Usa intervengano dalla parte dei vietnamiti.

 Lo schema resta verosimile anche se il Vietnam, molto probabilmente, va sostituito con Taiwan.

Gli abitanti dell’isola non hanno alcuna intenzione di essere governati da Pechino e di rinunciare alle loro libertà, d’altra parte la Cina, nazionalista e indifferente ai diritti individuali, è decisa a riannettersi prima o poi quella che considera parte inalienabile del proprio territorio.

Gli Usa, che hanno sempre difeso Taiwan, non potrebbero ignorare la sua invasione o –   come tutto l’Occidente ha fatto di fronte alla vergognosa repressione dell’autonomia di Hong Kong – limitarsi a deplorarla.

Il lavoro di Huntington, nelle sue quasi 500 pagine (dell’edizione italiana), resta  un ottimo strumento interpretativo nella sua concezione di fondo  ed è ricco di analisi illuminanti –  può essere considerato un vero e proprio classico –  ma nessun modello  può restare interamente valido ed esauriente dopo trent’anni.

Rispetto ai fatti di oggi va sviluppata un’analisi, pur abbozzata nello “Scontro delle Civiltà”, delle cause del declino morale dell’Occidente, della dinamica della “cancel culture”.

E anche delle contraddizioni insite nelle civiltà distinte dall’Occidente.

 Perché se è vero, come afferma lo studioso americano, che questo non costituisce “la” civiltà” e che le altre civiltà hanno pari diritti di affermare le proprie visioni del mondo, è anche vero che certi principi della civiltà occidentale – principi essenzialmente relativi alla libertà individuale – appartengono a tutta l’umanità e non solo a una parte di essa.

 Un cinese o un iraniano potrà non sapere cosa sia l’habeas corpus ma, quali che siano le leggi e gli usi del suo paese, ha a cuore la sua inviolabilità personale e, proprio come noi, non gradisce di essere arrestato arbitrariamente, così come le donne di qualsiasi paese amano scegliere da sé i propri vestiti e il modo di comparire in pubblico.

Del resto, basti pensare a Taiwan o alla Corea del Sud, dove i principi liberal-democrati   sono ben radicati.

 Anche le civiltà distinte dall’Occidente hanno il loro tarlo.

Oppure non di tarli si tratta ma di lieviti, capaci di farle evolvere in una misura e in una direzione che né un grande studioso come Huntington né tutti noi, trent’anni dopo le sue analisi, possiamo prevedere.

 

 

 

GUERRA RUSSO-UCRAINA

E LA PROFEZIA DI HUNTINGTON.

Marianigroup.eu- Redazione – (10-12-2022) – ci dice:

Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale.

Nel 1993 un articolo del politologo americano Samuel P. Huntington aprì uno scenario di riflessione, dalle conseguenze anche politiche assolutamente attuali, con la guerra Russo-Ucraina.

Nel 1993 Samuel P. Huntington scrisse un articolo per Foreign Affairs che consegnò alla storia un’espressione che suona come una profezia: “The Clash of Civilization?”, in italiano “Lo scontro delle civiltà?”.

Il punto interrogativo scomparirà in una monografia tre anni dopo, con il titolo più esplicito: “The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order”, nella versione italiana: “Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale”.

La monografia seguiva e replicava a quanto pubblicato da Francis Fukuyama, nel suo altrettanto famoso ed eloquente articolo di un anno prima: “The End of History and the Last Man”, in italiano: “La fine della storia e l’ultimo uomo”.

Per Fukuyama la vittoria del Liberismo sul Comunismo, sgretolatosi pochi anni prima, era l’inizio e allo stesso tempo la fine di un processo di evoluzione della storia umana, non si può quindi idealizzare un modello socio-politico che non sia quello democratico.

Secondo Francis Fukuyama l’umanità avrebbe raggiunto il suo traguardo, i conflitti sarebbero quindi riconducibili ai Nazionalismi tradizionali tra gli Stati secolarmente rivali contrapposti a forme di globalismo.

Su quest’ultimo punto la profezia non sarà erronea, sulle premesse invece, cioè la fine della storia, Fukuyama rivedrà il suo pensiero.

Huntington critica l’approccio di Fukuyama creando le premesse di una vera e propria Profezia.

 

“Altro che fine della storia, qui ne sta cominciando un’altra: lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale”.

Come scrive Samuel P. Huntington: “La mia ipotesi è che la fonte di conflitto fondamentale nel nuovo mondo in cui viviamo non sarà sostanzialmente né ideologia né economica.

Le grandi divisioni dell’umanità e la fonte di conflitto principale saranno legate alla cultura.

Gli Stati nazionali rimarranno gli attori principali nel contesto mondiale, ma i conflitti più importanti avranno luogo tra nazioni e gruppi di diverse civiltà.

Lo scontro di civiltà dominerà la politica mondiale.

Le linee di faglia tra le civiltà saranno le linee sulle quali si consumeranno le battaglie del futuro”.

La profezia diventa tangibile agli occhi del mondo otto anni dopo, l’11 settembre 2001 e continueremo nel febbraio 2022.

Per molti Samuel P. Huntington appare, ancora oggi, piuttosto che un grande analista politico, un sostenitore dello scontro di civiltà.

Ma come sempre i critici si fermano alla superficie, la tesi più interessante riportata da Samuel P. Huntington sarà la meno discussa e ovviamente verrà messa in disparte.

Samuel P. Huntington profetizza che nel futuro i conflitti saranno culturali perché le identità culturali si “cristallizzeranno”: “L’accresciuta importanza dell’identità culturale. è in larga parte il risultato della modernizzazione socioeconomica verificatasi sia a livello individuale, dove alienazione e disorientamento creano il bisogno di più strette identità, sia a livello sociale, dove l’accresciuta forza e le maggiori potenzialità delle società non occidentali stimolano il risveglio delle identità e culture autoctone”.

Samuel P. Huntington prosegue: “le civiltà non hanno confini nettamente delimitati, non hanno un inizio e una fine precisi. L’uomo è in grado di ridefinire, e lo fa, la propria identità, cosicché forma e composizione delle civiltà vengono a cambiare nel tempo.

Le culture dei popoli interagiscono e si sovrappongono, di modo che anche il livello di somiglianza o di diversità tra le culture delle singole civiltà può variare considerevolmente.

Ciononostante, le civiltà sono entità estremamente rilevanti e i confini che le separano, benché raramente ben definiti, sono confini reali.”

Proviamo a suddividere le civiltà, secondo Huntington, nel mondo ne esistono nove: la sinica, l’occidentale, la giapponese, l’ortodossa, l’indiana, l’islamica, la latinoamericana, la buddista e probabilmente anche l’africana.

Le identità si definiscono culturalmente e non più per semplice appartenenza di cittadinanza allo Stato-nazione.

Un’identità culturale travalica i confini nazionali, le barriere tra uno Stato e l’altro e trova nuovi consensi che hanno legami a interessi e sentimenti comuni, a storie condivise, a visioni del mondo simili.

Il mondo deve essere consapevole che tutto questo può generare scontri, conflitti, violenze.

In nome della globalizzazione, soprattutto economica, si è sacrificato troppo delle identità dei popoli, ora ne paghiamo le conseguenze.

 

 

Vertice di Samarcanda,

finita l’era americana

nasce il nuovo ordine mondiale.

Ilriformista.it - Michele Prospero — (21 Settembre 2022) – ci dice:

 

Passata quasi sotto silenzio nei media, la Dichiarazione di Samarcanda offre un altro punto di vista sulle cause del disordine internazionale (e su come governarlo in positivo).

La parola d’ordine del multilateralismo indica un percorso alternativo rispetto all’approccio sostenuto a Madrid dalle nazioni occidentali per giustificare il sostegno alla resistenza ucraina e puntellare la dottrina del contenimento della Cina.

 Il fatto che la Turchia ambiguamente si muova tra i due campi indica che la situazione è molto fluida e la ridefinizione dei rapporti di forza tra i grandi Paesi è aperta a degli sbocchi eterogenei.

Il vertice di Samarcanda è stato letto in Italia alla luce di giudizi contingenti, che rimarcano il peso dell’isolamento di Putin negli incontri internazionali, il mancato appoggio militare all’invasione ucraina e la volontà di rompere con la Russia quale potenza ritenuta responsabile di una guerra di occupazione. In realtà, l’incontro che si è concluso con la Dichiarazione di Samarcanda assume un ben altro profilo se guardato entro una prospettiva più ampia.

È soprattutto il tentativo di trascendere l’antica Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO), concepita inizialmente per la risoluzione di dispute territoriali tra gli Stati aderenti e in seguito apertasi al coordinamento di compiti di economia e commercio, ridefinendola ora come un più incisivo organismo interstatale che si impegna per garantire la stabilità geopolitica su scala globale.

 

Il passaggio dal terreno economico a quello di carattere politico-internazionale è il segno, in particolare, di un accresciuto protagonismo cinese che affiora anche dal viaggio del presidente Xi Jinping.

La progettazione della nuova governance mondiale rientra tra gli obiettivi strategici ritenuti più rilevanti dal governo di Pechino.

L’ingresso nella grande politica diventa una necessità una volta acquisito il rango di grande attore nell’economia globale.

L’accelerazione sul piede della geopolitica è dovuta certamente alla guerra russa che disturba l’età del commercio e irrompe come momento che solleva problemi essenziali nella gestione dei mercati energetici e alimentari.

 L’investimento cinese nella politica internazionale sembra però legato soprattutto alle forti tendenze alla de-globalizzazione che sono riscontrabili nelle politiche dell’Occidente.

Il richiamo alla globalizzazione come fattore positivo, da non disperdere con i ripiegamenti sovranisti e protezionisti molto forti in diversi Paesi occidentali, costituisce il nucleo della strategia di Xi Jinping.

 Sotto la regia cinese, si punta a trasformare l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai da aggregazione regionale a vera e propria organizzazione internazionale aperta ai Paesi in via di sviluppo che si ritengono maltrattati negli equilibri attuali del mondo.

 

 

Esplicita, nel consiglio dei capi di Stato riunitosi in Uzbekistan, è risuonata l’invocazione di un nuovo sistema della governance internazionale che rigetti le forzature contenute nella sopravvivenza di scorie connesse ad un approccio unilaterale.

L’America viene accusata di “unilateralism, exclusionism”, rivelatosi anche nell’irresponsabile e “sconsiderato” abbandono dell’Afghanistan, che fiacca la battaglia necessaria contro l’emergenza terroristica.

E riceve anche il rimprovero di prediligere lo scontro tra i valori e le civiltà ricorrendo a coperture ideologiche escogitate per formare piccole cricche (“small cliques”) di Paesi alleati e pronti alla dipendenza rispetto alla strategia disegnata dalla potenza egemonica di Washington.

 L’obiettivo della stabilità globale non si raggiunge, secondo i firmatari della Dichiarazione di Samarcanda, senza una condivisa riprogettazione delle funzioni e delle regole delle organizzazioni internazionali.

Questo ripensamento esige un esplicito riconoscimento di spazi di influenza da accordare a nuove potenze, un percorso di codeterminazione delle politiche (economiche, ambientali, climatiche) concepito su base paritaria ed inclusiva.

Molti nuovi soggetti vanno chiamati a cooperare per contenere le turbolenze della forma attuale di caos post-imperiale.

In Occidente – la decisione dello speaker della Camera dei Comuni di vietare alla delegazione cinese l’accesso a Westminster Hall, nonché le annunciate esclusioni di rappresentanti della Russia e l’assenza di Xi Jinping ai funerali della regina non fanno che confermare la tendenza – prevale una linea di netta chiusura, di contenimento.

 Come se la paura di competere con i soli strumenti economici nei processi della globalizzazione suggerisse di aggiungere al libero mercato delle forme di supplenza di tipo politico.

La guerra ibrida condotta in Ucraina permette all’America di insidiare le ambizioni di potenza russa con un maggiore coinvolgimento economico-militare dei Paesi europei indotti a rivedere i loro bilanci militari.

La questione di Taiwan, d’altra parte, rappresenta una occasione per saggiare il temibile rivale commerciale cinese sul terreno militare confidando in una preziosa supplenza regionale da parte del Giappone.

L’unilateralismo assistito (dall’Europa, che si accoda al traino inglese, o dal Giappone, che si intrattiene con il nemico di Pechino) consente all’America di incassare alcuni vantaggi sulla potenza militare russa, naturalmente, ma anche sull’Europa intesa come più grande spazio economico di mercato, nonché sulla Cina indotta a rallentare la penetrazione commerciale che scommette sulla stabilità dei quadri politici mondiali.

Il documento di Samarcanda contiene un impegno per frenare la corsa al confronto bellico su nuove frontiere spaziali e invoca l’applicazione “del quadro giuridico esistente che prevede solo l’uso pacifico dello spazio”.

È evidente che la semplice linea della guerra infinita e l’istanza del contenimento della minaccia gialla alla lunga raffreddano gli stessi valori democratici che l’asse euro-atlantico proclama a gran voce di perseguire. In nome della democrazia e dei diritti, l’Occidente cerca di conservare un ordine senza più legittimazione agli occhi delle potenze emerse, e lo fa con i ritrovati di un unilateralismo cui manca però l’effettiva capacità di dominio.

La richiesta di un ripensamento dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, per renderla nelle sue funzioni e strutture più inclusiva rispetto alle nuove potenze, il richiamo al principio di eguaglianza e al rispetto delle diverse civiltà sono i cardini programmatici della Dichiarazione di Samarcanda, che coinvolge 8 Stati membri, oltre agli Stati partner e agli Stati osservatori (si tratta dell’organizzazione di cooperazione regionale più popolosa del mondo).

Alle domande di multilateralismo, il blocco occidentale risponde con la nostalgia di una egemonia che però è sempre più impossibile da esercitare nella sua pienezza, e così contribuisce ad accentuare gli squilibri, le instabilità globali. All’accerchiamento ideologico degli Usa, come lo chiamano, i cinesi rispondono con una iniziativa politica all’insegna dell’eguaglianza dei Paesi sovrani -i 200 Stati, che devono accordarsi senza che nessuno di essi eserciti una funzione di leadership, come modello alternativo ai 20 o 30 Paesi della “piccola cricca” alleata con l’America– e del riconoscimento della piena dignità delle diverse civiltà.

Ci sono sicuramente ideologia e propaganda nella insistenza cinese sulla “grande famiglia aperta e inclusiva” di Stati sovrani che, in condizioni di parità, definiscono meccanismi di fiducia e cooperazione alternativi alla volontà di un dominio egemonico sprigionato dalla declinante potenza americana.

È però la descrizione di una condizione reale la crescita di una influenza politica cinese (che oltre alla Russia, all’India, attira anche l’Iran) che si dipana per respingere la contro-globalizzazione quale minaccia di decrescita, ripiegamento.

Ai ritrovati economici (corridoi economici, treni merci asiatici, grandi infrastrutture inter-regionali) si aggiungono per questo passi di natura politica.

 Se l’Occidente, oltre il conflitto con un grande rivale economico, non coglie anche il punto di convergenza politico con la preoccupazione cinese di disarmare “i cigni neri” che minacciano la stabilità, il sistema politico internazionale precipita nel caos.

 Mentre si ricama sulla disputa autocrazia-democrazia, attorno alla Cina si raggruppano Paesi che costituiscono circa la metà della popolazione mondiale e oltre il 60% dello spazio eurasiatico.

 In un mondo orfano dell’Impero, il multipolarismo è la sola alternativa non bellicosa allo scivoloso disordine incombente che minaccia da vicino vitali interessi europei.

(Michele Prospero).

 

 

 

 

 

Esiste un nuovo

ordine mondiale.

Europeanaffairs.it - Maurizio Iacono – (17 Settembre 2022) – ci dice: 

 

I conflitti sono sempre stati originati e condotti per ottenere risultati volti a soddisfare il conseguimento degli intendimenti strategici che le nazioni considerano essenziali per i loro obiettivi di politica nazionale.Queste ragioni sono state, poi, immancabilmente ammantate da un pesante velo di propaganda (questo è il suo vero nome!) che le ha trasformate nell’eterna lotta tra il bene e il male dove ognuno dei contendenti è convinto che la sua fazione sia nel giusto e che la divina indulgenza ne sostenga e ne nobiliti le azioni. E l’attuale conflitto ucraino non scappa a questa regola!

Pur condannando il ricorso alla forza a prescindere, se consideriamo in modo asettico e senza condizionamenti di parte la situazione, possiamo vedere che la posta in gioco in Ucraina non è rappresentata dalla sopravvivenza della democrazia o dall’esistenza del mondo libero minacciato da una apocalisse biblica di matrice autoritaria.

Quello che è realmente in bilico è, in primis, la credibilità degli Stati Uniti nel poter gestire la sfida che rappresenta l’ascesa della Cina, quale potenza planetaria, senza il fastidio di un deuteragonista del palcoscenico mondiale (la Russia di Putin), che costringe la geopolitica americana a rimanere invischiata nell’angusto ambito euroasiatico.

 In stretta connessione a tale fattore è in discussione, anche, l’affidabilità degli Stati Uniti nel sostenere, militarmente ed economicamente, i propri alleati (dopo averli introdotti nella gabbia del leone!).

Ovviamente la propaganda presenta gli USA come guida illuminata di un Occidente paladino di una visione liberale del mondo, culla e rifugio della democrazia, che lotta contro il Signore del Male di turno che, improvvisamente e senza motivo, ha attaccato il cuore pulsante dell’Europa (con tutto il rispetto per l’Ucraina, ma sino a poco tempo fa era una vaga entità ai confini del mondo sconosciuta ai più).

Dall’altra parte abbiamo, invece, una Russia che nell’ambito della sua continuità storica pretende un ruolo di potenza globale, che non accetta di essere un deuteragonista della scena mondiale e che ha radicato nel suo DNA geopolitico la sindrome dell’accerchiamento.

Questo ha come conseguenza diretta che, oltre ad essersi ripresa la Crimea (che significa l’accesso a un mare caldo e ai siti nucleari), la Russia abbia dato inizio a una seconda fase di questo conflitto per eliminare o ridurre il problema di avere alla soglia di casa un soggetto politico, considerato (non del tutto a torto, bisogna riconoscerlo) uno strumento di pressione occidentale, pericoloso perché in grado sia di condizionare le sue arterie di trasporto energetico, sia di esportare idee e tendenze poco gradite e considerate destabilizzanti per la propria stabilità interna.

Di contro, la propaganda russa presenta questo conflitto come la ineluttabile necessità di difendere la Grande Madre Patria da un nuovo attacco da parte del perverso liberalismo occidentale, che vuole privare la Russia del suo ruolo e che intende governare il mondo con le sue idee retrò di democrazia e diritti individuali.

Allargando la visione, ci troviamo di fronte, però, a un conflitto che si sviluppa su due livelli differenti:

nello scenario tattico si affrontano Russi e Ucraini;

nello scenario geopolitico, invece, i protagonisti sono molti di più e ciascuno ha un proprio ruolo e, ovviamente, persegue ben precisi obiettivi.

Oltre agli USA, all’Unione Europea e alla Russia, infatti, l’evoluzione della crisi ucraina interessa alla Cina in maniera diretta, mentre indirettamente ne sono coinvolti il Medio Oriente, l’India e l’Oriente Asiatico.

Se ci svincoliamo dalla visione locale eurocentrica e ci proiettiamo in un ambiente geopolitico globale, possiamo vedere che questa crisi assume significati differenti da quelli propagandistici del Davide difensore della democrazia contro il Golia neo-zarista e che la situazione stimola problematiche fondamentali per il nostro futuro, che non sono conseguenza diretta del conflitto, ma che, invece sono state ricondotte a essa come giustificazione di una impasse politica almeno ventennale dell’Occidente.

Il primo aspetto da considerare è quello, composito e complesso, dello sviluppo del sistema globale delle relazioni internazionali.

Dopo l’utopia presuntuosa che la fine della Guerra Fredda avesse per sempre affermato a livello globale quei principi di democrazia e di rispetto dei diritti che sono propri del nostro patrimonio culturale di Occidentali, la crisi ucraina ha dato corpo a una realtà completamente differente che, sebbene antecedente alla crisi stessa, abbiamo sino ad ora volutamente ignorato come se non esistesse.

Quello in cui viviamo, invece, è un mondo multipolare dove, giocoforza, coesistono differenti visioni e differenti interpretazioni dei concetti fondamentali di democrazia, di diritti individuali e di libertà.

Ciò che non ci è chiaro è che, pur non dovendo abiurare alla nostra impostazione di società basata sulla condivisione di determinati principi, l’Occidente si trova ad affrontare un nodo gordiano:

l’imposizione della nostra visione morale collide con la ricerca di una stabilità di un ordine geopolitico mondiale che non si identifica nella visione da noi proposta.

Se consideriamo che l’appello a condannare l’invasione russa e a schierarsi con l’Ucraina, concorrendo nel mettere in atto risposte precise come le sanzioni, è stato accolto con favore solo da una parte del consesso mondiale, mentre in molti dei Paesi politicamente più importanti è prevalso un atteggiamento tiepido e molto distaccato, ci possiamo rendere conto della differenza culturale che esiste tra le posizioni assunte dalla Cina, dall’India, dai Paesi del Medio Oriente e dell’Africa.

 

Il secondo aspetto, anch’esso cruciale per il nostro futuro, è quello della crisi energetica che ha iniziato ad abbattersi sull’economia e a incidere sulla qualità della nostra vita.

 Anche qui non è la crisi ucraina che è responsabile di questo problema.

La vera crisi ha origini molto più profonde e lontane nel tempo (il picco massimo di sfruttamento nel settore delle fonti fossili si è verificato nel 2010!), gli avvenimenti attuali sono solo un paravento dietro al quale abbiamo cercato di nasconderci cercando di negare la gravità della situazione.

Senza dimenticare che la crisi non riguarda solo la disponibilità delle fonti di energia fossile ma soprattutto la disponibilità delle risorse di materie prime fondamentali per lo sviluppo di alternative energetiche (quasi inesistenti nel nostro continente).

 Il possesso, il diritto allo sfruttamento e la disponibilità delle risorse tecnologiche per poterlo realizzare sono il terreno di scontro concettuale e pratico sul quale l’Occidente si troverà a combattere per poter sopravvivere.

Per tutti un esempio: la tecnologia dei pannelli fotovoltaici di cui l’Occidente è inventore e fiero promotore, quale fonte energetica alternativa, è prodotta in Cina mediante impianti a carbone, utilizza materie prime africane e ritorna in Europa con vettori su ruota a combustibile fossile.

Il terzo aspetto discende direttamente dal precedente.

Energia significa economia.

Senza energia il nostro sistema economico è messo alle corde e produce incertezza e disaccordo che minano la credibilità e l’affidabilità del sistema di mercato libero che l’Occidente sostiene.

Inoltre, il sistema economico ha ricercato la via più breve e meno onerosa per svilupparsi.

Tutta la nostra produzione sensibile, e non, è stata delocalizzata dove era più vantaggioso economicamente, senza la ben che minima attenzione ai rischi geopolitici che avrebbero potuto metterci in crisi.

La tecnologia che l’Occidente sviluppa è prodotta all’estero per convenienza, ma ci espone a qualsiasi sconvolgimento del sistema con risultati catastrofici (un esempio è lo scompiglio che è stato causato dalla pandemia che ha modificato o interrotto i nostri flussi logistico commerciali!).

La stabilità dei mercati si basa sulla stabilità di un ordine geopolitico.

La ricerca di questo ordine e il suo mantenimento è un imperativo che deve passare per l’accettazione del compromesso strategico e non per l’intransigenza di una politica morale.

I concetti cardine della nostra società devono essere sostenuti e devono essere offerti come alternativa di valore assoluto, ma non possono essere imposti quale conditio sine qua non.

L’ultimo aspetto è quello che ci riguarda più da vicino: il futuro dell’Unione Europea.

La UE rappresenta una enorme potenza di carattere economico-finanziario perché è nata ed è stata sviluppata in quel senso, ma non esiste a livello politico semplicemente perché non ha la struttura per poterlo fare (nonostante la Presidente della Commissione Europea si sia arrogata un ruolo da Primo Ministro UE!).

Eppure, continuiamo a pretendere di avere un peso geopolitico sulla scena internazionale.

Se non fosse stato per la decisa spinta che gli USA hanno dato agli avvenimenti, la UE sarebbe ancora a discutere su cosa fare e non si sarebbe sognata di imporre sanzioni economiche al suo migliore cliente!

Infatti, l’UE non è un monolite compatto e coeso, ma un insieme di fazioni, gruppi e sottogruppi di Paesi che cercano di trarre il massimo vantaggio per sostenere la loro visione nazionale, che viene tenuto insieme per interessi prevalentemente economici, ma che non condivide gli stessi valori e gli stessi principi.

L’allargamento incondizionato basato esclusivamente sul rispetto di parametri finanziario-economici, che è servito per allargare ed espandere l’Unione, ha snaturato quello che era il concetto alla base del progetto:

la condivisone di valori e di una cultura comune, oltre che l’interesse a far parte di un mercato comune dispensatore di benefici e prodigo di aiuti.

Senza voler fare torto a nessuno, le differenze di valori e di cultura già adesso danno luogo a dissimili interpretazioni di quello che dovrebbe essere il sentire comune dell’Unione e un progressivo allargamento verso Est non farebbe che acuire questo allontanamento da una matrice culturale che rischia di perdere il suo riferimento all’interno del sistema comunitario.

Se invece, questo è il futuro di questa organizzazione allora, forse, dovremmo chiamarla “Unione Euroasiatica”.

In conclusione, la crisi ucraina ha aperto il classico vaso di Pandora mettendo in evidenza una serie di tematiche geopolitiche e di scelte geostrategiche che l’Occidente si era illuso di non dover affrontare, cullandosi nella colpevole utopia del dopo guerra fredda.

Obtorto collo l’Occidente è stato messo di fronte alla realtà: il mondo non è democratico, liberale, progressista, buonista ed ecologista come noi ce lo siamo immaginato; è diverso e, soprattutto, non ci riconosce alcun primato morale o culturale.

L’Occidente deve essere comunque fiero e orgoglioso dei propri valori e della sua visione della civiltà e deve continuare a proporre il suo modello perché lo ritiene valido e senza dubbio basato su concetti universalmente condivisibili.

Tuttavia, per poter proporre i suoi valori, questi devono risultare essere i migliori, cioè quelli in grado di assicurare il pieno rispetto dei diritti, ma anche l’assunzione dei doveri;

il sostegno delle libertà dell’individuo, ma anche il suo rispetto della comunità;

la democrazia intesa come espressione completa della gestione della società, dove vi sia il rispetto della volontà popolare che si può sviluppare, solamente, attraverso l’espressione della maturità civile dei cittadini stessi.

 

 

 

“Scontro di civiltà e fine della storia”.

Conservatori contro “Liberal”.

Talentilucani.it - GERARDO LISCO – (15/05/2022) – ci dice:  

Per affrontare la questione del conflitto Ucraino – Russo bisogna andare indietro negli anni.

 La fine della Guerra fredda, la vittoria degli USA e il crollo dell’URSS hanno aperto, negli anni 90, un dibattito culturale e politico che oggi ritorna di attualità. Possiamo riassumere quel dibattito avendo come coordinate i seguenti saggi:

 “La fine della storia e l’ultimo uomo” di F. Fukuyama “, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale” di S. Huntington e “La quarta Teoria Politica” di A. Dugin. 

A differenza dei primi due, i quali risalgono il primo al 1992 e il secondo al 1996, il saggio di Dugin è del 2007.

 Pur essendo quest’ultimo relativamente recente richiama i primi due.

Il contesto storico e politico nel quale vengono elaborate le teorie politiche dei tre autori racchiude l’inizio di un quarto di secolo che con il conflitto ucraino – russo si è avviato alla fine.

 Fukuyama in più di una occasione ha avuto dei ripensamenti, su ciò che ha scritto nel saggio che lo ha reso noto, sostenendo di essere stato capito e interpretato in modo erroneo.

 Come vedremo da alcuni dei passaggi più significativi, ai fini dell’economia del mio ragionamento, quella di Fukuyama è per molti versi una filosofia “determinista” per cui la Storia a causa una serie di “meccanismi” tende ad un solo fine e cioè la realizzazione della Libertà da intendersi come trionfo del Liberalismo e del sistema Capitalista.

 Scrive Fukuyama ne “La fine della storia” << L’attuale crisi dell’autoritarismo non è cominciata né con la perestrojka di Gorbaciov né con la caduta del muro di Berlino

. Essa ha avuto inizio un decennio e mezzo prima con la caduta, nell’Europa del sud, di una serie di governi autoritari di destra.

 Nel 1974 in Portogallo le forze armate rovesciarono con un colpo di stato il regime di Caetano.

 In quello stesso anno in Grecia vennero rovesciati i colonnelli che avevano governato il paese fin dal 1967, e ad essi successe il governo democratico di Karamanlis.

 E nel 1975, in Spagna, la morte del generale Francisco Franco aprì la strada ad un passaggio quanto mai pacifico alla democrazia, che venne instaurata nel paese due anni dopo.

Inoltre in Turchia, a causa del terrorismo che stava inghiottendo la sua società, nel settembre 1980 presero il potere i militari, che tuttavia nel 1983 restituirono il paese al governo dei civili.

Da allora tutti questi paesi hanno tenuto elezioni, libere e pluri-partitiche (…)

 Per Fukuyama nella stessa America Latina, a partire   dagli anni 80 con la fine delle dittature militare si avviò un processo di trasformazione in senso liberaldemocratico di quei Paesi partendo dal Perù, per  proseguire con l’Argentina, l’Uruguay, il Brasile per concludersi con il Paraguay di Stroessener e il Cile di Pinochet.

Mi chiedo se Fukuyama quando scriveva quelle pagine fosse consapevole del fatto che le dittature militari dell’America Latina erano il prodotto di una precisa scelta politica degli USA passata alla storia come “Piano Condor”.

In Cile, in Argentina, in Uruguay ecc. è noto che vi erano governi democraticamente eletti che vennero spodestati a seguito di golpe militari sostenuti dalla CIA.

Per inciso il golpe in Cile, che spodestò il Presidente Allende democraticamente eletto, venne organizzato dalla CIA e sostenuto ideologicamente dal liberalismo teorizzato da von Hayek memore degli insegnamenti di von Mises.

Quest’ultimo privilegiando l’economia alla libertà politica era un sostenitore dell’anti democratico ed autoritario Seipel Cancelliere federale della Repubblica austriaca negli anni 20 e leader del partito Cristiano Sociale che annoverava tra le sue fila esponenti dichiaratamente razzisti.

Mises pur non amando Mussolini e Hitler sosteneva che << Non si può negare che il fascismo e tutte le tendenze dittatoriali analoghe siano animati dalle migliori intenzioni, e che il loro intervento per il momento abbia salvato la civiltà europea. I meriti acquisiti dal fascismo con la sua azione rimarranno in eterno nella storia>>.

 Anche per Fukuyama il dato economico è prevalente rispetto alle libertà politiche, infatti, scrive << Negli anni ’50, quando a presiedere la Commissione economica delle Nazioni Unite per l’America Latina fu l’economista argentino Raul Prebisch, era di moda attribuire il sottosviluppo – non solo dell’America Latina, ma del Terzo Mondo in genere – al sistema capitalistico. Si argomentava che i pionieri europei e nordamericani dello sviluppo capitalistico avevano strutturato l’economia mondiale a loro favore, condannando quelli che erano venuti dopo alla posizione subordinata di fornitori di materie prime.

Agli inizi degli anni 90 questa concezione è cambiata completamente.

Il presidente messicano Carlos Salinas de Gortari, il presidente argentino Carlos Menem e il presidente brasiliano Fernando Collor de Mello, una volta andati al potere, hanno cercato tutti di realizzare programmi di liberalizzazione economica, riconoscendo la necessità della concorrenza e dell’apertura all’economia mondiale.

Il Cile ha cominciato a mettere in pratica i principi dell’economia liberale dall’inizio degli anni 80, sotto Pinochet, con il risultato che quando il paese è uscito dalla dittatura, sotto la leadership del presidente Patricio Alwyn, si è trovato con l’economia più prospera di tutta l’America Meridionale (…)>>.

Come è andata l’economia dei paesi sopra citati è cosa nota. Ritornando a ciò che sostiene Fukuyama anche i cambiamenti avvenuti in Sud Africa con la fine dell’Apartheid, il disfacimento del Comunismo in URSS a seguito della “perestrojka” e nei paesi dell’ex Patto di Varsavia stanno ad indicare come il “mondo” si stesse muovendo in un’unica direzione e cioè l’edificazione della liberal democrazia e del capitalismo.

Da questa tendenza Fukuyama tiene fuori la Cina la quale pur se dopo la morte di Mao Tse – Tung aveva avviato un processo di trasformazione del sistema economico, sociale e politico gli avvenimenti del 1989, le manifestazioni di piazza Tienanmen represse con la forza dalle autorità cinesi, bloccarono il processo, per così dire “ automatico” verso l’edificazione della liberal democrazia ma non certamente del capitalismo a conferma di come Liberalismo, Democrazia e Capitalismo non sono strettamente legati come prova quanto evidenziato anche a proposito del Cile di Pinochet .

 Per Fukuyama l’idea di fondo che guida la Storia umana è la realizzazione della libertà umana a sostegno di tale tesi richiama Kant, il quale << descrisse a grandi linee anche il meccanismo che spingeva l’umanità a quel più alto livello di razionalità che è rappresentata dalle istituzioni liberali.

Questo meccanismo non era la ragione, ma il suo contrario: l’antagonismo egoistico prodotto da quella “asociale socialità” che porta gli uomini ad abbandonare la guerra di tutti contro tutti per unirsi in società civili, ed incoraggia quindi le arti e le scienze in modo che queste società possano rimanere competitive le une con le altre.

E la fonte di quella creatività sociale che deve assicurare la realizzazione di “una vita idilliaca in un’Arcadia ancora de venire” andava ricercata proprio nella competitività e nella vanità dell’uomo, nel suo desiderio di dominare e di governare>>.

 Il processo attraverso il quale si realizza la “liberazione umana” è quello che Hegel ha definito processo dialettico.

 La Storia umana è la continua distruzione di civiltà che vede il sorgere di nuove che conservano quegli elementi positivi che portano alla libertà dell’umanità.

Facendo appello a Kant e ad Hegel, Fukuyama costruisce la sua filosofia della storia provando a dimostrare che a partire dagli anni 70 del 900 e soprattutto dopo la fine dell’URSS la “Storia è finita” nel senso che il mondo ha raggiunto lo scopo ultimo e cioè il trionfo della Liberaldemocrazia e del Capitalismo come unico spazio di convivenza tra individui i quali in libera competizione tra di loro, possono liberamente dar corso alle proprie aspirazioni.

Il modello per eccellenza non può che essere la società americana, l’unica in grado di tenere insieme le istanze individuali legate al merito e il riconoscimento di queste istanze da parte degli altri.

L’uguaglianza per Fukuyama è strettamente legata al riconoscimento della diversità.

Scrive a tal proposito << Non deve sorprendere perciò che una democrazia liberale come gli Stati Uniti conceda ampio spazio a quanti desiderano essere riconosciuti migliori di altri.

 Lo sforzo della democrazia di bandire la megalotimia o di trasformarla in isotimia è stato a dir poco incompleto.

E’ infatti abbastanza chiaro che se la salute e la stabilità di una democrazia hanno la possibilità di durare a lungo, è grazie alla qualità ed al numero degli sbocchi offerti alla megalotinia dei suoi cittadini (…)>>.

 Il primo e più importanti degli sbocchi è l’attività imprenditoriale, quindi l’economia di mercato e il sistema capitalista.

 L’abbattimento delle frontiere e la nascita della globalizzazione rappresentano lo spazio principale entro il quale l’individuo può realizzare sé stesso, ricevendo il giusto riconoscimento da parte degli altri individui.

Altra occasione è la politica democratica.

Le competizioni elettorali sono lo strumento attraverso il quale ciascun individuo può esprimere la sua uguale diversità rispetto agli altri individui per vedersela riconosciuta.

 Le cause che contribuiscono alla fine di una civiltà e al succedersi di un’altra che tende alla realizzazione della libertà umana sono molteplici.

 Tra queste sicuramente le innovazioni tecnologiche che trasformano la struttura sociale ed economica contribuendo alla crescita complessiva della ricchezza

. Se Fukuyama, in modo forse “ingenuo” traccia la propria filosofia della storia sostenendo che la Storia e quindi l’uomo, da qui l’ultimo, è arrivato al capolinea di un processo iniziato con Hobbes e soprattutto con Locke per proseguire con Smith, Kant ed Hegel il quale ha avuto il merito di definire il processo dialettico attraverso il quale la Storia si è sviluppata di diverso avviso è Huntington.

 Come è noto Huntington è, con Crozier e Watanuki, l’autore de “La crisi della Democrazia.

Rapporto sulla governabilità delle democrazie alla Commissione trilaterale.

Per comprendere il significato politico di quanto teorizzato da Huntington nel suo saggio è interessante leggere quanto scrive G. Kepel << E’ proprio attorno alla questione mediorientale che nei think – tanks (n.d.r. americani)  si cristallizza, a partire dal periodo che corrisponde al secondo mandato di Bill Clinton e in opposizione a quest’ultimo , la riflessione sui nuovi antagonismi dell’era post – sovietica, e si comincia a definire la linea di demarcazione tra le “nazioni civili e quelle “canaglia”.

 Nel 1993, Samuel Huntington, professore a Harvard, pubblica nella rivista “Foreign Affairs” il suo celebre articolo sullo “scontro di civiltà”, suscitando appassionati dibattiti, e facendolo seguire da un libro con lo stesso titolo, divenuto un best – seller mondiale. (…)

 L’arrivo della teoria dello “scontro di civiltà è una questione di opportunità: esso si verifica nel momento adatto per permettere il trasferimento sul mondo musulmano dell’ostilità strategica ereditata dai decenni della guerra fredda, nel momento in cui l’arsenale accumulato contro la minaccia sovietica deve essere nuovamente dispiegato e ridefinito contro un nuovo nemico.

L’analogia dei pericoli del comunismo e dell’islam dà agli strateghi di Washington l’illusione di poter fare a meno di analizzare la natura della minaccia islamista, e di poter trasporre gli strumenti concettuali destinati a comprendere l’uno sulle realtà sostanzialmente differenti dell’altro.

La corrente neoconservatrice svolge un ruolo fondamentale nell’attuazione di questo scambio retorico e teorico:

 essa pone questa visione semplicistica dei fatti al servizio di una causa politica precisa, che mira contemporaneamente ad estendere il modello democratico nell’accezione americana al Medio Oriente , l’unica parte del mondo a non conoscere alcuna apertura significativa in questo ambito alla fine del ventesimo secolo, e a modificare  profondamente la politica degli Stati Uniti nella regione, dando la priorità alla sicurezza d’Israele a svantaggio dell’alleanza con la petro-monarchia saudita(…)>>.

 Alla luce del conflitto ucraino – russo è possibile affermare che la vocazione religiosa di “esportare” la Liberaldemocrazia non è una prerogativa dei soli conservatori ma anche, forse soprattutto, dei progressisti americani.

 La teoria dello “scontro di civiltà” di Huntington si presenta come l’antitesi dialettica funzionale al superamento di quelle civiltà che in qualche modo si oppongono alla realizzazione del fine “messianico” della “Storia” teorizzato da Fukuyama.

Di questo disegno gli Stati Uniti si sentono investiti in quanto eredi dell’ideale rappresentato dal “primo uomo” del quale parla Fukuyama nel suo saggio e cioè l’uomo Liberale e Capitalista che vede la luce con Hobbes ma soprattutto con Locke.

 Kepler dichiara che sua intenzione non è quella di approfondire la Teoria di Huntington ma quella di limitarsi ad evidenziare come essa venga percepita come un utile strumento teorico per riempire il vuoto lasciato dal crollo dell’URSS e quindi dalla lotta al Comunismo.

Come proverò a dimostrare nel corso del ragionamento che siamo in presenza di un uso strumentale della teoria dello “Scontro di civiltà” da parte delle oligarchie americane, sia conservatrici che progressiste, finalizzate, quindi, all’individuazione di un nuovo nemico che a seconda dei casi è: l’Islam, la Cina oggi la Russia di Putin.

A differenza di quanto sostiene Fukuyama, per il quale il mondo tende alla realizzazione della “libertà umana” secondo i canoni occidentali, nel suo saggio Huntington scrive << In sintesi, il mondo post – Guerra fredda è un mondo composto da sette o otto grandi civiltà.

Le affinità e le differenze culturali determinano gli interessi, gli antagonismi e le associazioni tra stati. I paesi più importanti del mondo appartengono in grande prevalenza a civiltà diverse.

I conflitti locali con maggiori probabilità di degenerare in guerre globali sono quelli tra gruppi e stati appartenenti a civiltà diverse. I

l modello dominante di sviluppo politico ed economico varia da una civiltà all’altra.

 I principali nodi da sciogliere nel campo della politica internazionale riguardano le differenze tra le varie civiltà.

Il potere sta passando dalle tradizionali civiltà occidentali alle civiltà non occidentali.

Lo scenario politico mondiale è diventato multipolare e caratterizzato da più civiltà.>>

 Huntington cita espressamente Fukuyama nel suo saggio.

Scrive << Un modello estremamente diffuso era basato sul presupposto che la fine della Guerra fredda significasse la fine dei grandi conflitti internazionali e la nascita di un mondo relativamente armonioso.

La formulazione più discussa di tale modello è la tesi della “fine della storia “propugnata da Francis Fukuyama (…)>>

 Il punto è che all’indomani della Guerra fredda iniziarono a verificarsi una serie di conflitti che nulla avevano a che fare con il conflitto ideologico rappresentato da Liberalismo contro il Comunismo.

 I nuovi conflitti come, ad esempio, quello che ha interessato la Jugoslavia riguarda modelli di civiltà alternativi tra di loro.

 È partendo dal superamento del conflitto ideologico che Huntington prende spunto per teorizzare il possibile, ma non obiettivo, “scontro tra civiltà”.

Scrive Huntington <<La distribuzione delle culture nel mondo rispecchia la distribuzione del potere.

Il commercio può seguire o meno la bandiera, ma la cultura segue quasi sempre il potere.

Nel corso dell’intera storia umana l’espansione del potere di una civiltà si è di norma verificata parallelamente al fiorire della propria cultura e ha quasi sempre comportato il ricorso a quel potere per estendere i propri valori, costumi e istituzioni ad altre civiltà (…)>>

Nel corso della storia abbiamo visto come l’ascesa di una potenza ha sempre finito con l’imporre il modello culturale e quindi la propria ideologia ai Paesi e quindi alle culture e alle civiltà conquistate.

 Per capirlo è sufficiente riflettere su ciò che è successo con la conquista del Messico e del Perù da parte degli Spagnoli.

Il processo di conquista di quei territori fu l’annientamento fisico delle popolazioni e delle civiltà conquistate.

 Stessa cosa dicasi delle altre conquiste operate dalle potenze Occidentali.

 La conquista del Congo da parte del Belgio è stato un vero e proprio genocidio.

I conflitti che hanno interessato la Jugoslavia negli anni 90, le due Guerre del Golfo con tutte le conseguenze che queste ultime hanno avuto su quell’area geografica rientrano a pieno in conflitti militari che come fine hanno avuto anche quello di annientare civiltà “altre” rispetto a quella Occidentale.

A partire dall’800 l’Imperialismo occidentale ha giustificato l’espansione in nome della propria superiorità militare, economica e civile.

 A differenza di ciò che succedeva nell’”età degli Imperi” oggi l’egemonia imperiale occidentale, nello specifico americana, viene giustificata in nome del Capitalismo e del Liberalismo condito di Democrazia.

 In Iraq, massacrato e distrutto da due conflitti bellici, gli USA hanno imposto il proprio modello di civiltà causando sofferenze indicibili a un Paese portatore di una storia millenaria che aveva trovato nel “socialismo arabo” la via nazionale alla “modernizzazione”.

L’elemento che differenzia la teoria politica di Huntington da quella di Fukuyama è nel diverso riconoscimento dell’altro.

 La filosofia della storia di Fukuyama interpreta l’intera Storia umana come il progressivo realizzarsi dell’idea di Libertà propria dell’Occidente, da specificare così come è stata elaborata nel mondo anglosassone ( Locke – Smith)  e dall’idealismo tedesco ( Kant ed Hegel) ( n.d.r. a parere di chi scrive Fukuyama confonde ad arte le due correnti di pensiero )  per poi essere reinterpretata dagli Stati Uniti come sistema ideologico a giustificazione della propria espansione imperiale legittimata come missione storica; dall’altra il realismo di Huntington il quale scrive<< Al livello generale, o macro-livello, la frattura principale è tra “ l’Occidente e gli altri”, con i conflitti più intensi destinati a scoppiare tra le società musulmane e asiatiche da un lato e quella Occidentale dall’altro.

Gli scontri più pericolosi del futuro nasceranno probabilmente dall’interazione tra l’arroganza occidentale, l’intolleranza islamica e l’intraprendenza sinica. (…) Via via che il potere relativo delle altre civiltà viene ad aumentare, il fascino della cultura occidentale si appanna, e i popoli non occidentali sviluppano un sentimento sempre più forte di fiducia e attaccamento alle proprie culture autoctone.

 Dunque, il problema fondamentale nei rapporti tra l’Occidente e le altre civiltà si può riassumere nella discrepanza esistente tra i tentativi dell’Occidente, e dell’America in particolare, di promuovere una cultura occidentale universale e la sua sempre minore capacità di realizzare questo obiettivo.

 Il crollo del comunismo ha cresciuto ulteriormente questa discrepanza, rinsaldando nell’Occidente la convinzione che la propria ideologia del liberismo democratico avesse trionfato a livello globale e fosse quindi universalmente valida.

L’Occidente – in particolare l’America, che è sempre stata una nazione missionaria – ritiene che i popoli non occidentali debbano convertirsi ai valori occidentali della democrazia, del libero mercato, del governo costituzionale, dei diritti umani, dell’individualismo, dello stato di diritto, e inglobare tali valori nelle proprie istituzioni (…)>>

I Paesi che hanno conquistata la propria indipendenza politica, dopo decenni di colonialismo e dopo anni di “disciplinamento “ai valori occidentali si sono rilevati per quelli che erano: strumenti posti a giustificazioni dell’egemonia e dell’imperialismo occidentale.

Gli stessi USA che spingevano le potenze europee a concedere l’indipendenza alle proprie colonie non erano meno colonialisti ed imperialisti di Gran Bretagna e Francia.

L’indipendenza politica per i Paese dell’Asia dell’Est si è tradotta in crescita economica.

 Il Giappone è stato preso come esempio da paesi come la Corea del Sud, Taiwan, Thailandia, Indonesia, Malaysia.

 Dopo la morte di Mao Tse Tung anche le classi dirigenti cinesi avviarono un processo di trasformazioni che hanno fatto della Cina il principale competitore mondiale degli USA.

Tanto gli stati dell’Asia dell’Est quando il mondo arabo hanno interiorizzato il modello economico capitalista innestandolo nella tradizione e nella propria civiltà.

A parte le critiche di Huntington alla filosofia della storia di Fukuyama sono gli eventi che si sono verificati a partire dagli anni 90 a smentirla categoricamente.

La trasformazione in senso capitalista del mondo grazie alla Globalizzazione e all’abbattimento delle frontiere, cioè la trasformazione in un sistema “aperto” non ha modificato in senso liberale il mondo.

Islam e Cina, per dirla con Huntington incarnando grandi tradizioni culturali molto diverse dai valori occidentali ritengono queste inferiori.

In sostanza non è l’accettazione dell’economia di mercato e quindi il capitalismo a trasformare le società che hanno accettato questi modelli in Civiltà Occidentale.

 In sostanza ad alimentare, sul piano teorico, il conflitto tra civiltà non è il realismo di Huntington mala filosofia della storia di Fukuyama.

I due autori hanno scritto, come dicevo i saggi, che li hanno resi famosi, agli inizi degli anni 90, quando la vittoria degli Stati Uniti e il crollo dell’URSS lasciava intravedere il trionfo totale e assoluto della Civiltà occidentale, le cose sono andate in modo completamente diverso.

 Scrive sempre Huntington nel suo saggio<< Nell’emergente mondo di conflittualità etnica e di scontri tra civiltà, la fede occidentale nella validità universale della propria cultura ha tre difetti: è falsa; è immorale; è pericolosa. (…) >>

  Huntington avanza anche delle soluzioni a difesa della civiltà occidentale, soluzioni che non prescindono dal riconoscimento delle altre civiltà.

L’Occidente dovrebbe ripiegarsi su stesso perseguendo l’integrazione con l’Unione Europea incorporando in essa e nella NATO i paesi dell’ex blocco Sovietico fermandosi ai confini della civiltà slavo – ortodossa che dovrebbe essere lasciata alla Russia come potenza regionale con interessi legittimi alla sicurezza dei propri confini meridionali.

 Il saggio è ricco di cartine geografiche una di queste pone il confine tra la Civiltà slavo – ortodossa e l’Europa Occidentale lungo le frontiere della Bielorussia, l’Ucraina, la Romania e più in generale i Balcani.

Nell’analisi che Huntington conduce rispetto al ruolo della Russia e ai rapporti di questa con l’Ucraina emerge in modo chiaro come l’Ucraina fosse di fatto diviso tra una parte occidentale ed una slava e russofona.

 Altra cosa rispetto a ciò che è successo, in particolare dal 2014 in poi, a seguito del colpo di stato di Piazza Maidan, quando la parte occidentale dell’Ucraina ha voluto imporre, con il sostegno degli USA, un modello che nulla ha a che vedere con la civiltà slavo – ortodossa che interessa la parte orientale del Paese.

 La domanda è quindi perché gli Stati Uniti hanno operato ispirandosi a Fukuyama ed usando in modo strumentale Huntington per proseguire la propria politica imperiale verso l’Europa dell’Est ridimensionando la Russia e soprattutto umiliandola?

 Citando sempre Huntington la risposta possibile è che << I fautori del monolitismo culturale a livello planetario vogliono rendere il mondo uguale all’America.

I fautori del monolitismo culturale domestico vogliono rendere l’America uguale al mondo.

Un’America multiculturale non esiste perché un’America non occidentale non sarebbe americana.

Un mondo multiculturale è inevitabile perché l’impero planetario è qualcosa di inconcepibile.

La preservazione degli Stati Uniti e dell’Occidente richiede una rinascita dell’identità occidentale.

 La sicurezza del mondo richiede l’accettazione del pluralismo culturale su scala mondiale>>].

Una parte non indifferente del possibile conflitto tra civiltà è da attribuire alla Postmodernità.

La destrutturazione delle ideologie e la riduzione delle relazioni tra individui e Stati alla logica liberalcapitalista è parte integrante della narrazione post modernista.

La riflessione sulla relazione che intercorre tra “Conservatorismo e postmodernità” che fa Dugin è per molti versi la stessa di Huntington.

Anche il secondo è fortemente critico verso la Postmodernità.

Scrive Dugin << (…) gli Stati Uniti d’America sono l’avanguardia della libertà e la locomotiva della transizione alla postmodernità.>>.  

Continua Dugin << (…) l’unico polo del mondo unipolare sono gli Stati Uniti e l’Europa (come organizzazione meramente geopolitica), cioè in particolare l’idea della massima libertà, e il movimento verso la realizzazione di questa libertà costituisce il significato stesso della storia dell’umanità, per come è percepita dagli occidentali europei.

 La civiltà dell’Europa occidentale è riuscita nell’impresa di costringere il resto dell’umanità in questa concezione del significato della storia.>>.

Al Postmodernismo americano Dugin contrappone la “conservazione” delle tradizioni e dell’identità della propria civiltà, è quindi il rifiuto dell’idea insita nell’idea di libertà del liberalismo che esclude la possibilità di dire no al liberalismo perché in contraddizione con il modello sociale, economico e politico liberalcapitalista.

Huntington anticipa il “conservatorismo” di Dugin che per gli Stati Uniti è la conservazione dei propri valori, delle proprie tradizioni rifiutando di trasformare la società americana e più in generale l’occidente in qualcosa di diverso da ciò che storicamente è stato.

 Il potenziale scontro tra civiltà anche per Dugin non è da attribuire al pluralismo di civiltà ma alla volontà occidentale, nello specifico americana, di voler imporre la propria weltanschauung liberalcapitalista al resto del mondo.

 Dugin riconosce nel Liberalismo la parte più raffinata, l’essenza stessa della civiltà occidentale.

Ed è nella relazione con la postmodernità che si comprende meglio il ruolo che il Liberalismo riveste oggi nel mondo.

Scrive Dugin << Dopo aver sconfitto i suoi rivali, il Liberalismo ha (re) imposto un monopolio nel pensiero ideologico: è divenuto l’unica ideologia, che non consente nemmeno l’esistenza di alcuna ideologia rivale.

 Si potrebbe dire che è passata da un programma a un sistema operativo comune. (…).

Il contenuto del Liberalismo cambia, passando dal livello dell’espressione a quello del discorso.

 Il Liberalismo non è più liberalismo ma sottofondo, tacito accordo, consenso.

Ciò corrisponde alla transizione dall’epoca della modernità a quella postmoderna.

Nella postmodernità il liberalismo, mantenendo e perfino aumentando la sua influenza, sempre più raramente rappresenta una filosofia politica liberamente scelta e compresa, diviene inconscio, istintivo e non del tutto consapevole. (…)

Dai principi classici del liberalismo, che sono diventati inconsci (“l’inconscio di riserva del mondo”, in analogia al dollaro come “valuta di riserva del mondo”), sono nate le pose grottesche della cultura postmoderna. (n.d.r. la comicità di Zelensky, lo stile dei Maneskin, il ruolo degli influenzer, NETFLIX e i tanti canali Tv che danno una falsa rappresentazione della realtà, la cancel culture e il politicaly correct ).

 Questo è già un post-liberalismo sui generis, che segue la vittoria totale del liberalismo classico e lo conduce alle sue estreme conclusioni (…)>>

 Agli gli orrori post – liberali, Dugin, ascrive:

il post – individuo frutto di combinazioni di parti diverse ossia organi, cloni, fino ai cyborg e ai mutanti;

 la proprietà privata idolatrata; il contrattualismo come fondamento di tutte le istituzioni; l’economia come destino.

L’Ucraina come “il Bengodi europeo della maternità surrogata” è il prodotto del liberalismo: bambini nati da madri che avevano affittato il proprio utero rifiutati dai genitori committenti ne è l’esempio più eclatante.

 Scrive sempre Dugin<< Attualmente, il mondo è unipolare, con l’Occidente globale come suo centro e gli Stati Uniti come nucleo interno.

 Questo genere di uni-polarità ha caratteristiche specifiche geopolitiche e ideologiche.

Dal punto di vista geopolitico, la caratteristica principale è il dominio strategico sulla Terra dell’iperpotenza americana e lo sforzo di Washington di organizzare l’equilibrio delle forze sul pianeta in modo da essere in grado di governare il mondo intero assecondando i propri interessi nazionali imperialistici.

 Ciò è un male perché depriva gli altri stati e le altre nazioni della loro sovranità (…)>> anche questo passaggio è molto simile a quanto sosteneva Huntington.

Ciò che ho provato a delineare, utilizzando, i saggi che hanno resi famosi Fukuyama, Huntington e Dugin, è utile per la comprensione del conflitto ucraino – russo, il ruolo del blocco atlantico rappresentato dal mondo anglo – americano e l’insipienza dell’Unione Europea. 

I media di regime continuano a chiedersi quali sono gli obiettivi di Putin, per capirlo non ci vuole molto.

L’obiettivo di Putin è il recupero del ruolo della Russia come paese guida della civiltà slavo – ortodossa.

 L’Ucraina è una nazione con due anime, negli ultimi otto anni ha prevalso quella occidentale, sostenuta dagli Stati Uniti, su quella orientale.

 Dalla caduta dell’Urss, gli Usa hanno esercitato non solo potere politico ed economico sulle ex Repubbliche che formavano l’Urss ma anche un forte potere culturale.

Il soft power del quale parlava J. Nye negli anni 90.

Putin come scrive Dugin non ha avuto grandi difficoltà nella sua ascesa politica.

Al di là della narrazione falsata dei media, Putin ha un notevole consenso tra le masse russe ragioni semplici: nel corso degli anni ha introdotto politiche redistributive a favore delle masse popolari massacrate da politiche neoliberiste e nel contempo ha recuperato i valori della civiltà russa.

Quando Putin venne eletto presidente la prima volta i dati sulla povertà in Russia erano impressionanti, già durante il suo primo mandato le condizioni erano mutate in positivo.

Putin ha anticipato le politiche economiche e finanziarie che i governi degli Stati occidentali hanno introdotto a partire dalla crisi degli hedge found e poi con la crisi dei “debiti sovrani”.

 I grandi complessi industriali – finanziari – minerari ecc. ecc.” regalati ‘ ai suoi amici è una narrazione dei fatti falsa e tendenziosa.

Le liberaldemocrazie occidentali, sempre di più liberal-oligarchie hanno fatto, anche prima di Putin, la stessa cosa.

 Cosa sono state le privatizzazioni in Italia?

 Obama il primo provvedimento che varò da neo presidente fu il salvataggio del sistema bancario.

Nell’UK il Governo di Gordon Brown nazionalizzò le banche inglesi.

Per non parlare dell’intervento del governo italiano a favore della Monte dei Paschi di Siena e di altre banche.

Il Jobs act del governo Renzi, di fatto a favore della Fiat, che cosa è stato se non un aiuto ad una famiglia di oligarchi?

La privatizzazione della sanità può essere considerata o no funzionale gli interessi del gruppo De Benedetti e non solo?

Gli Usa dalla fine della guerra fredda perseguono l’obiettivo di eliminare i modelli culturali altri dopo aver vinto la guerra sul piano militare ed economico.

Le ragioni sono chiaramente strettamente economiche.

 Il Liberal-capitalismo Occidentale e americano considerano le altre civiltà delle esternalità che impediscono il regolare funzionamento del loro “mercato”. 

Gli Usa hanno voluto e quindi costruito lo scontro di civiltà come la nuova weltanschauung funzionale a giustificare e legittimare il loro potere imperiale.

 La globalizzazione, summa dell’ideologia americana, a distanza di tre decenni, ha prodotto la propria antitesi.

Seguendo il ragionamento di Fukuyama l’antitesi non porta alla sintesi rappresentata dall’egemonia della civiltà occidentale ossia al Liberal-capitalismo occidentale.

 La sintesi è la vittoria del modello economico capitalista ma adattato e interpretato dalle specificità delle singole civiltà.

 La crescita di ricchezza ha messo nelle condizioni le altre civiltà di rifiutare il post moderno, il Liberal-capitalismo, l’individualismo, i modelli MacDonald e Netflix.

 Il capitalismo ha vinto ma non nella sola versione occidentale.

Il conflitto ucraino – russo ha messo a nudo il re.

La Globalizzazione ha prodotto la sua antitesi che è in primo luogo di tipo culturale.

Ed è tale perché gli Usa hanno condotto contro il resto del mondo una guerra di tipo anche culturale a sostegno del loro modello.

Il sistema economico liberalcapitalista è un modello culturale e di valori che non ammette altri modelli e altre visioni del mondo.

Il Liberal-capitalismo è una ideologia totalitaria.

 A distanza di anni si è verificata una scissione tra il modello economico capitalista e la cultura liberale interpretata dagli Usa.

Se il conflitto non fosse anche di tipo culturale la Cina non sarebbe mai potuta diventare la grande potenza economica che è, la Russia non si sarebbe potuta rilanciare come potenza mondiale.

Stesso ragionamento vale per la Turchia, l’Iran, i BRICS ecc.

 La Globalizzazione ha creato le condizioni per il suo stesso superamento.

 Cosa uscirà fuori da tutto questo? Le soluzioni possono essere più di una, spero che non sia quella nucleare.

La reazione sul piano ideologico allo scontro di civiltà è la quarta teoria politica di Dugin.

 Lo scontro di civiltà di Huntington, ribadisco, teoria utilizzata in modo strumentale dalle oligarchie occidentali principalmente USA, è utile a giustificare il nazionalismo americano.

La teoria del suo allievo Fukuyama è utile a giustificare la società aperta di Popper e Hayek come “destino ineluttabile dell’Umanità”, dove il capitalismo finanziario può scorrazzare liberamente come “destino dell’Umanità”;

 di contro le “civiltà” non occidentali cresciute economicamente non sono disposte a rinunciare alla propria identità.

La guerra ucraino – russa è anche “scontro di civiltà”: la civiltà occidentale, nello specifico anglo – americana contro la civiltà euro- asiatica che ha nella Russia il punto di forza.

Il dramma è l’insipienza dell’Unione Europea e governi come quelli finlandese e svedese espressioni di quella sinistra postmoderna che da tempo ha rinunciato alla propria missione e cioè la lotta contro il Capitalismo secondo l’insegnamento di un grande leader Socialdemocratico come Olof Palme.

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