UOMINI CONTRO IL REGIME DELL’ ELITE ASSASSINA AL POTERE.
UOMINI CONTRO IL REGIME DELL’ ELITE ASSASSINA AL
POTERE.
LA
VERITÀ SULLE
RIVOLTE
IRANIANE.
Comedonchisciotte.org
- Costantino Ceoldo - Alireza Niknam – (12 Dicembre 2022) - ci dice:
(Intervista
al giornalista iraniano e analista geopolitico Alireza Niknam)
È
dall’inizio dello scorso settembre che l’Iran è colpito da moti di piazza e
dimostrazioni di folla la cui importanza e partecipazione varia a seconda delle
agenzie di stampa.
Per
quelle occidentali, infatti, sembra che la fine spontanea della teocrazia
iraniana sia vicina ed abbia bisogno solo di un piccolo aiuto per cadere mentre
la situazione è notevolmente diversa, e a favore del governo, secondo le agenzie
ufficiali di Teheran.
La
morte improvvisa di Mahsa Amini, 22 anni, è stata l’elemento catalizzatore
delle proteste.
Un
elemento sfruttato ad arte dai media occidentali e dalle agenzie di
intelligence che operano clandestinamente nel territorio della repubblica
islamica: la povera Amini è svenuta dentro una centrale di polizia a Teheran e,
benché soccorsa immediatamente, non è riuscita a sopravvivere.
I video mostrano chiaramente che non è stata
nemmeno sfiorata dall’agente donna che le parlava ma la questione è irrilevante
per gli occidentali, che vogliono riavere l’Iran sotto il loro controllo.
Non è
solo la ben nota questione di chi controlli le grandi ricchezze petrolifere
dell’Iran, ma anche la collocazione a livello internazionale della Repubblica
Islamica.
Teheran infatti persegue caparbiamente il suo diritto
ad una politica estera indipendente, al rifiuto di dialogo con Israele, allo
sviluppo dell’energia atomica per usi pacifici e, più in generale, al benessere
della propria popolazione.
La
visione dell’Islam che la teocrazia degli ayatollah difende è semplicemente
incompatibile con il modus vivendi che le élite occidentali (sic) vorrebbero
diffuso a tutto il pianeta e che possiamo riassumere con una vera e propria
resurrezione di Sodoma e Gomorra.
Le
proteste di una parte davvero esigua della popolazione iraniana sono state
accompagnate fin da subito dalla violenza di cellule dormienti i cui operativi
sono passati prontamente all’azione contro non solo le forze di sicurezza
iraniane, colte inizialmente di sorpresa, ma anche contro bersagli civili come
con il terribile e sanguinoso attacco al santuario sciita di Shiraz, dove sono
morte più di venti persone.
Se
anche non ci fosse stata la morte di Mahsa Amini, il detonatore sarebbe stato
un altro, spontaneo o costruito ad arte:
il
dispositivo era già pronto da tempo, preparato con cura e pazienza dai nemici
della Repubblica Islamica e necessitava solo di un piccolo abbrivio.
Alle
manifestazioni e alle violenze si sono aggiunti anche atti di provocazione ben
studiati nella loro apparente leggerezza e alcuni manifestanti sono stati
ripresi mentre toglievano il turbante agli appartenenti al clero sciita.
Si tratta, evidentemente, di un dileggio
provocatorio che ricorda molto quella che, in altri contesti, è stata definita
la “tattica della bestemmia” e più in generale i metodi non violenti di rivolta
colorata inventati da Gene Sharp e dai suoi seguaci e applicati in varie parti
del mondo per favorire i cambi di regime voluti da Washington.
Tuttavia
il Maidan iraniano non avrà successo: l’Iran non è l’Ucraina.
Il
governo degli ayatollah è sicuramente criticato e criticabile ma ha sempre
cercato di prendersi cura del suo popolo, cosa che gli oligarchi ucraini non
hanno fatto.
Teheran
non finirà in mano ad un letamaio nazista come è successo a Kiev.
Quale
è la situazione, ora, in Iran?
Il giornalista iraniano e analista geopolitico
Alireza Niknam ha risposto ad alcune mie domande così da andare oltre il velo
della propaganda occidentale.
1)-
Quale e la ragione ufficiale degli scontri che sono esplosi poco tempo fa nella
sua Nazione?
R)-
All’inizio, a causa delle proteste per la morte di una donna in uno dei
dipartimenti di polizia, abbiamo assistito a manifestazioni nelle strade di
alcune città iraniane, ma con la formazione di una commissione d’inchiesta per
ordine delle autorità giudiziarie iraniane e l’esame dei video disponibili in
questi luoghi, nonché l’esame dei documenti medici della persona deceduta, si è
scoperto che non c’erano accuse contro la polizia e che questa persona aveva
già una malattia cerebrale e la causa della morte è stata l’aggravamento di
tale malattia.
Allo stesso tempo, alcuni media che si
oppongono alla Repubblica islamica dell’Iran, come quelli appartenenti al gruppo
terroristico del MEK, alle monarchie e ai movimenti separatisti, come Iran
International (affiliato all’Arabia Saudita), BBC Farsi (rete governativa
britannica), ecc. hanno violato le leggi sui media nei Paesi in cui hanno sede
le loro agenzie di stampa e, pur incoraggiandoli a continuare le loro proteste,
li hanno invitati alla violenza.
Non si
può inoltre ignorare il ruolo senza precedenti di alcuni governi americani ed
europei in questa vicenda, dall’approvazione delle violenze commesse dai rivoltosi,
all’incontro dei loro presidenti con i leader degli oppositori,
all’autorizzazione di raduni illegali, all’invito dei leader degli oppositori
del governo islamico iraniano ai canali televisivi etc… non si può ignorare che
questi casi possono essere citati come le ragioni dell’escalation delle
rivolte.
2)-
Quanto seguito hanno questi moti tra la popolazione iraniana?
R)
All’interno dell’Iran, si può affermare che le manifestazioni pubbliche in
occasione di giornate nazionali come la Giornata dello Studente, la grande
partecipazione di persone ai funerali dei martiri uccisi dai rivoltosi negli
ultimi eventi, le manifestazioni di condanna dei recenti disordini e il
rapporto tra queste manifestazioni e quelle dei rivoltosi, dimostrano che
pochissime persone sostengono i disordini e di fatto le persone si sono
separate dai rivoltosi.
Le indagini condotte dimostrano che la maggior
parte di queste persone sono state ingaggiate con dollari sauditi per
partecipare a queste manifestazioni e disturbare la legge, oppure sono state
incoraggiate a partecipare a queste rivolte con la promessa di visti per i
Paesi europei e americani.
Al di fuori dell’Iran, nei raduni che si sono
formati nei Paesi europei a sostegno delle rivolte iraniane, è emerso
chiaramente che gruppi ostili, come il gruppo terroristico del MEK, hanno
portato persone da altre città al luogo dei raduni in autobus con il pretesto
di cibo e denaro gratuiti.
Si
sono radunati e hanno finto di essere iraniani, mentre dalle interviste e dai
video di questi raduni era chiaro che nessuna di queste persone lo era.
Questa
tecnica è stata esattamente la stessa che il MEK ha usato nei suoi raduni e
marce annuali per dare credito al suo gruppo terroristico mostrando una folla
che lo sostiene, mentre si tratta di un falso.
3)-
Non le sembra che la dinamica sia quella classica di una “rivoluzione
colorata”?
R) - Sì,
come abbiamo visto nel 2009, i governi occidentali, con il sostegno di gruppi
terroristici come il MEK, Komoleh, ecc. intendevano portare a termine il piano
per rovesciare il governo e uccidere persone innocenti in Iran, ma con il
disprezzo e la separazione del popolo dai nemici, tutti i loro piani sono stati
sventati.
Gli
ultimi movimenti per la rivoluzione colorata in Iran sono stati portati avanti
da persone come Hale Esfandiari, Kian Tajbakhsh e Ramin Jahanbeglu.
Uno dei principali attori dietro le
rivoluzioni colorate in Iran è la Fondazione Soros.
Questa
fondazione, il cui nome originale è “Open Society Foundation”, appartiene a un
miliardario ebreo di nome “George Soros”.
Si
tratta di un ebreo ungherese di origine americana, che per molti anni ha
avviato attività polivalenti costituendo una società di investimenti e
un’organizzazione di ricerca sui diritti umani.
L’obiettivo
di questa istituzione, come dice, è creare e mantenere le strutture e le
istituzioni di una società aperta.
L’istituto
stesso e i media occidentali affermano che le attività della fondazione in
questione spaziano dagli aiuti umanitari alla salute pubblica e al rispetto dei
diritti umani e delle riforme economiche, ma alcuni ritengono che l’obiettivo
di questo istituto sia l’organizzazione di “rivoluzioni di velluto” a causa del
suo coinvolgimento proprio nelle rivoluzioni colorate.
Soros
ha agenzie attive in più di 30 Paesi, tra cui Azerbaigian, Armenia, Uzbekistan,
Ucraina, Tagikistan, Russia, Georgia, Kirghizistan, Kazakistan e Moldavia.
Attivando centri di studio in diversi Paesi e
poi valutando gli oppositori del governo centrale e sostenendo la stampa contro
il governo, la Fondazione Soros fornisce le basi per una rivoluzione silenziosa
e la sconfitta del governo.
L’attività
principale di questa fondazione si è svolta nell’area dei Paesi dell’Asia
centrale e del Caucaso, esattamente con azioni congiunte nelle manifestazioni
di questi mesi, che erano del tutto simili agli schemi attuati in altri Paesi
in cui questo progetto è stato portato avanti, sono stati attivati gruppi
terroristici ed è stato formato un piano di uccisioni in Iran, che,
naturalmente, ha affrontato la risposta dura e intelligente dell’Iran.
Questi
gruppi terroristici hanno affrontato un duro attacco da parte dell’Iran e il
loro quartier generale è stato attaccato dalle forze militari iraniane e, cosa
più importante, come ho detto prima, la popolazione non ha seguito questi
terroristi e nella maggior parte delle recenti rivolte di cui esistono filmati,
vediamo che poche persone hanno preso parte alle rivolte.
Naturalmente,
nei recenti disordini, abbiamo assistito anche a una guerra ibrida, perché i
gruppi nemici, con la collaborazione dei governi occidentali, hanno condotto
anche attacchi informatici, sebbene questa guerra ibrida o cibernetica non sia
specifica dei recenti incidenti e sia iniziata molto tempo fa.
Il nemico ha agito nel cyberspazio per
ingannare le persone, soprattutto le giovani generazioni, per indebolire le
loro convinzioni, per creare in loro una cultura della disobbedienza e per
insegnare loro la violenza, e con tutti i tipi di bugie che diffondono ogni
giorno nel cyberspazio hanno cercato di mostrare la situazione in modo da
rovesciare il governo.
Queste
attività mediatiche sono state condotte utilizzando le tecnologie
dell’informazione, della comunicazione, dell’intelligenza artificiale e altri
strumenti forniti dai governi occidentali.
4) Chi
sarebbero gli artefici di questa situazione così drammatica?
R) - Esaminando
il funzionamento dei gruppi terroristici e il ruolo degli agenti interni in
queste rivolte, si evince che persone come Ali Karimi, Hamed Esmailiyoun,
Nazanin Bonyadi, Masih Alinejad, Ali Ebrahimzadeh, Pouria Zeraatkar, così come
gruppi terroristici e separatisti, come il MEK, Monarchies, Komole, ecc. sono
stati le cause principali dei disordini, delle rivolte e gli attuatori delle
operazioni di omicidio.
Naturalmente
non si tratta di un metodo nuovo, perché anche il gruppo terroristico del MEK, all’inizio
della Rivoluzione islamica nel 1979, aveva dimostrato che uccidendo più di 12
mila iraniani (uomini, donne e bambini innocenti), non avrebbe esitato un
attimo a uccidere persone innocenti ed insegna a costruire tutti i tipi di
attrezzature militari e a usarle, in eventi quotidiani come nello spazio
virtuale.
5)- Ci
sono agenti stranieri sul campo e, se sì, a quali nazioni appartengono?
R) - Sì,
come sapete, ci sono agenti sul campo dei servizi segreti stranieri, tra cui
Inghilterra, Israele, Francia, Arabia Saudita, ecc.
Gli
agenti dei servizi segreti stranieri della DGSE francese avevano già tentato di
contattare e addestrare le centrali sindacali illegali per creare proteste e
caos. Le forze di sicurezza hanno ottenuto i documenti di tutti i loro
incontri, telefonate e comunicazioni e queste spie sono attualmente sotto
processo presso le autorità giudiziarie per ottenere una sentenza equa.
Nella discussione sulle spese, la mano del
regime saudita è stata chiaramente visibile: nello spettacolo di propaganda di
Berlino, dove si sono radunati monarchici, MEK, separatisti e gruppi
sessualmente deviati, l’intero sostegno finanziario di questo progetto nel
campo della pubblicità, della creazione di spazi, della copertura audio e video
e del noleggio di attrezzature avanzate per la fotografia aerea del raduno e
della fornitura di strutture per la presenza numerosa e consistente di
giornalisti e per la distribuzione di cibo, eccetera, è stato fatto a spese del
regime saudita.
6)- Come
è la situazione adesso e, in particolare, quali sono le azioni intraprese dal
governo della Repubblica islamica per riportare l’ordine?
R) - Ci
troviamo di fronte a diverse categorie di attori.
Il
regime sionista, il cui ruolo è chiaro e non ha bisogno di essere discusso.
In posizione ostile, questo regime sionista ha
compiuto finora molti atti terroristici in Iran, che ha sbandierato con accesso
ai media, ricevendo risposte feroci dall’Iran, che ha nascosto con tutte le sue
forze.
Sicuramente
l’Iran darà presto una risposta forte alle azioni del Regime Provvisorio
Sionista.
Per
quanto riguarda il regime americano, oltre a tutte le inimicizie, i danni e i
colpi che ha inflitto direttamente e indirettamente alla nazione iraniana,
questo regime terrorista è ufficialmente l’assassino del grande leader della
resistenza, il generale Qasem Soleimani, e non nel fronte dello scontro diretto
di questo generale con proxy americani come l’ISIS, ma al di fuori del campo di
battaglia e in una situazione in cui era ospite di un Paese terzo (l’Iraq), lo
hanno assassinato nel modo più vile e terroristico possibile.
La potenza americana è in declino contro un
Iran forte.
Dico
con certezza e determinazione che l’America non è in grado di fare una guerra
militare con noi e quindi o sostiene un gruppo terroristico e assassina
ufficialmente (e, ovviamente, riceverà una risposta potente, cavalleresca e
militare dall’Iran), oppure va dietro le quinte e porta avanti guerre ibride e
morbide e persuade i gruppi terroristici a fare attività terroristiche in Iran,
nel qual caso otterrà sempre una risposta e d’ora in poi riceverà sicuramente
risposte potenti dall’Iran.
Ma nel
caso dell’Inghilterra, si tratta di un Paese che non ha mai smesso di agire
contro la Repubblica islamica dell’Iran.
Attualmente, i media inglesi cercano di creare
e diffondere disordini in Iran.
Sia in
passato che ora, questi media sono andati oltre il campo della gestione dei
disordini e cercano di organizzare movimenti maligni e terroristici in Iran.
È un’azione iniziata dall’Inghilterra.
In
passato, l’Iran è stato più volte un ostacolo agli atti terroristici contro i
Paesi europei, ma l’Inghilterra e alcuni Paesi europei non hanno rinunciato
all’ostilità contro la Repubblica Islamica dell’Iran.
Senza dubbio, come l’Inghilterra, non
sosterremo mai gli atti terroristici e l’insicurezza in altri Paesi, ma non
avremo l’obbligo di impedire il verificarsi dell’insicurezza in questi Paesi,
per cui il Regno Unito pagherà per le sue azioni volte a rendere insicuro il
grande Paese dell’Iran.
Nel
caso dei canali di Iran International e della BBC, purtroppo, il governo
britannico, che ha questi canali satellitari sotto la sua protezione e opera
nell’ambito dei suoi media, ha assunto oggi un ruolo terroristico, e si tratta
di oltrepassare le linee rosse della sicurezza della Repubblica Islamica
dell’Iran.
Vorrei
ricordare che l’International Satellite Network è riconosciuta come
organizzazione terroristica dall’apparato di sicurezza della Repubblica
islamica dell’Iran e che i suoi operatori e agenti sono ricercati dalle forze
militari iraniane;
qualsiasi
tipo di attività e di collegamento con questa organizzazione terroristica è
considerato un ingresso nel dominio del terrorismo e una minaccia per la
sicurezza della Repubblica islamica dell’Iran.
Ma nel
caso dell’Arabia Saudita, dico che il nostro destino e quello di altri Paesi
della regione sono legati insieme a causa del nostro vicinato.
Dal
punto di vista dell’Iran, qualsiasi instabilità nei Paesi della regione è
contagiosa, e qualsiasi instabilità in Iran può essere contagiosa per i Paesi
della regione.
Paesi
lontani come gli Stati Uniti o l’Inghilterra sono i principali destabilizzatori
della regione.
Il
lancio di pietre contro il potente Iran da parte di Paesi che siedono in case
di vetro non ha altro significato se non quello di oltrepassare i confini della
razionalità per entrare nelle tenebre della stupidità.
La Repubblica islamica dell’Iran ha finora
adottato una pazienza strategica con ferma razionalità, ma non dà alcuna
garanzia per la continuazione di questa pazienza strategica in caso di
prosecuzione delle ostilità.
Indubbiamente,
se la Repubblica islamica dell’Iran ha la volontà di ricambiare e punire questi
Paesi, i palazzi di vetro crolleranno e questi Paesi non vedranno la stabilità.
7)- In
particolare, perché le forze armate iraniane hanno attaccato delle basi nel
Kurdistan iracheno?
R)
Prima di tutto, va notato che il Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche è
una delle forze militari della Repubblica Islamica dell’Iran e la sua azione è
stata intrapresa per sostenere l’Iran insieme ad altre forze armate.
L’Iran
è stato ripetutamente oggetto di atti terroristici da parte di gruppi
terroristici come il MEK, il Komole, i Monarchici e altri gruppi separatisti e
la politica iraniana è anche un contrattacco a questi gruppi in queste azioni e
a questo proposito, le forze militari iraniane hanno dato una forte risposta
alle loro azioni con il bombardamento missilistico delle basi del gruppo
terroristico Komole nella regione del Kurdistan in Iraq e continueranno i loro
attacchi fino a quando il gruppo non sarà completamente disarmato.
(Costantino Ceoldo, ideeazione.com)
(ideeazione.com/rivolte-iraniane/)
La Bill e Melinda
Gates Foundation,
la
Johns Hopkins University e l’OMS
hanno
Simulato un’altra Pandemia.
Conoscenzealconfine.it
– (13 Dicembre 2022) - Maurizio Blondet – ci dice:
Tre
anni quasi esatti, le stesse persone dietro “Event 201” hanno appena completato
una simulazione per un nuovo “Enterovirus” originario vicino al Brasile.
L’Event
201 ebbe luogo a New York, questo è avvenuto a Bruxelles.
Il
virus ha un tasso di mortalità più elevato rispetto al COVID-19 e colpisce in
modo sproporzionato giovani e bambini. Ovviamente, come per il Covid, sarà una
immensa truffa.
Stavolta
però hanno reso il fantomatico virus più mortale e, al contrario del Covid che
colpiva prevalentemente adulti e anziani, stavolta colpiranno i bambini.
Giusto
per ricordare agli smemorati. Rossella Fidanza.
Già nel 2017 il John Hopkins Center for Health
Security ha rilasciato un documento chiamato “The Spars Pandemic” (rossellafidanza.com/2021/09/23/the-spars-pandemic-2025-2028/), che rappresenta uno scenario
pandemico derivante da nuovo coronavirus SPARS, collocandolo in un arco
temporale tra il 2025 ed il 2028.
Il 18
ottobre 2019, sempre il Johns Hopkins Center for Health Security, in
collaborazione con il World Economic Forum e la Bill and Melinda Gates
Foundation, ha ospitato a New York l’Event 201.
Andava
in scena una simulazione che nel giro di poche settimane sarebbe diventata
reale:
“Event 201 simula un’epidemia di un
nuovo coronavirus zoonotico trasmesso dai pipistrelli ai maiali, alle persone,
che alla fine diventa efficacemente trasmissibile da persona a persona,
portando a una grave pandemia. L’agente patogeno e la malattia che provoca sono
modellati in gran parte sulla SARS, ma è più trasmissibile nel contesto
comunitario da persone con sintomi lievi”.
Ad
ottobre di quest’anno (23 ottobre) sempre il Johns Hopkins ha organizzato una
nuova simulazione, chiamata “catastrophic contagion” (centerforhealthsecurity.org/our-work/exercises/2022-catastrophic-contagion/index.html), sempre supportata dalla fondazione
Gates:
“L’esercitazione ha simulato una serie di
riunioni del comitato consultivo sanitario di emergenza dell’OMS su una
pandemia immaginaria ambientata in un futuro prossimo.
I partecipanti si sono confrontati su come
rispondere a un’epidemia localizzata in una parte del mondo che si è poi
diffusa rapidamente, diventando una pandemia con un tasso di mortalità
superiore a quello della COVID-19, colpendo in modo sproporzionato bambini e
giovani “.
Chi
paga la Johns Hopkins for Health Securitry?
Ad
agosto di quest’anno, la Johns Hopkins si aggiudica un appalto miliardario dal
Pentagono (fedscoop.com/johns-hopkins-applied-physics-lab-lands-pentagon-rdte-contract-worth-up-to-10-6-billion/) per “per ricerca, sviluppo, test e
valutazione di tecnologia militare”.
Inoltre,
il laboratorio della Johns Hopkins che si è aggiudicato questo appalto è nel
Maryland, a pochi passi dall’Istituto di ricerca medica sulle malattie
infettive dell’esercito americano (mrdc.health.mil/).
Sono
tutte coincidenze?
(Maurizio
Blondet -
maurizioblondet.it/la-bill-e-melinda-gates-foundation-la-johns-hopkins-university-e-loms-hanno-appena-simulato-unaltra-plandemia/)
(centerforhealthsecurity.org)
SOPRAVVIVERE
ALLA VOLONTÀ DI
ANNIENTAMENTO
DEL SISTEMA STATUNITENSE.
Comedonchisciotte.it-Redazione CDC - Maurizio Murelli – (10
Dicembre 2022) – ci dice:
(ariannaeditrice.it)
Non
serve sprecare energie per controbattere alle deliranti argomentazioni di chi
sta dalla parte della “causa ucraina”, argomentazioni portate avanti tanto da
agitatori palesemente disturbati condizionati da aberranti contorcimenti
ideologici o da individui intossicati dalla propaganda atlantista che sguazzano
nell’ignoranza più assoluta:
tanto
gli uni che gli altri reagiscono istericamente con la bava alla bocca
insultando, mistificando e stravolgendo la realtà dei fatti.
Lasciamoli perdere e che si consumino nel loro
nefasto liquame in ebollizione e cerchiamo di mantenere freddo distacco
rispetto alle loro performance.
Serve
invece impegnarsi per chiarificare con dati oggettivi l’evolversi della “meta-guerra planetaria” rispetto alla
quale quanto accade in Ucraina è da considerarsi una battaglia e,
estremizzando, così pure la Prima quanto e Seconda guerra mondiale, anch’esse
da ritenersi gigantesche battaglie se si considera il fatto che hanno avuto il
loro fondamentale epicentro nel perimetro Europeo e, soprattutto, sono state
“tappe” per la realizzazione di un preciso ordine mondiale il cui disegno
complessivo si evidenzia con quanto imposto nel Trattato di Versailles (1919).
Poco
importa stabilire se il progetto sia stato chiaro e definito nei dettagli fin
dall’inizio e si deva risalire fin alla Rivoluzione Francese per rintracciarne
i semi (tesi complottista) o se il progetto si è implementato (sviluppato)
cammin facendo.
Sta di
fatto che la “Prima Guerra Mondiale” ha gettato le basi per la Seconda e
consentito agli USA di impiantare le proprie malefiche radici in Europa;
la SGM
ha posto le basi per le battaglie successive fino a giungere a quella che ha
attualmente epicentro in Ucraina.
Ovviamente
questa chiave di lettura avrebbe necessità di essere ben esposta e supportata
co appropriate esposizioni, ma questa non è la sede adatta – necessiterebbe uno
scritto chilometrico.
Mi
limiterò dunque a porre un paio di sintetici tasselli esplicativi.
La
realizzazione dell’Ordine Mondiale variamente concepito dagli USA ha la
necessità di disintegrare la Russia indipendentemente dal sistema politico che
lo regge.
La
questione non è chi governa la Russia, se lo Zar, il comunista Stalin, il semi-liberale
Putin o anche Topolino:
la
questione è la Russia in quanto tale perché la sua esistenza come entità
statale è posseditrice di gigantesche materie primarie è ostacolo alla realizzazione
dell’Ordine Mondiale unipolare.
Dal 24
febbraio ci si è concentrati a mettere in evidenza quanto fatto dagli
atlantisti in Serbia, Kosovo, Iraq, Siria, Libia etc. dando l’idea che
l’attuale fase sia stata innescata con l’implosione dell’URSS, ma se si vuole
supportare la tesi sopra esposta, bisogna fare alcuni passi in dietro, andando
ben oltre l’ingordigia imperialista palesatasi nel 1990.
Il primo passo da farsi ci porta nella seconda
metà degli anni Quaranta primi anni Cinquanta.
Nel
1949 la SGM era terminata da appena 4 anni e alla Russia, alleata con gli USA
contro la Germania, era costata 20 milioni di morti e una imponente
devastazione;
senza
la Russia gli angloamericani avrebbero avuto poche possibilità di vincere,
almeno non prima del 1945, quando avrebbero potuto far conto sulla bomba
atomica poi impiegata in Giappone e dunque desertificate l’Europa.
In
quell’anno, il 3 dicembre 1949, gli USA concepirono un piano per regolare i
conti con quello che era stato il suo alleato.
Si tratta del “Piano Trojan” per l’invasione
dell’Unione Sovietica, insieme all’alleato britannico.
Il
piano prevedeva il lancio di 300 bombe atomiche e 20.000 bombe ordinarie su 100
città dell’URSS.
Pertanto furono programmati 6.000 voli.
L’inizio
dell’invasione era previsto per il 1° gennaio 1950, ma in seguito fu
posticipata al 1° gennaio 1957, assieme a tutti i paesi della NATO.
La
NATO era stata fondata nell’aprile del 1949 ma aveva bisogno di essere rodata e
ben organizzata per diventare operativa.
GLI USA ritennero fosse meglio che
l’operazione venisse targata NATO piuttosto che solo USA, questa la ragione del
posticipo dell’operazione.
Nel
1952, il presidente degli Stati Uniti Harry Truman disse:
«Rimuoveremo
dalla faccia della terra tutti i porti e le città che devono essere distrutti
per raggiungere i nostri obiettivi».
Vi
devo specificare quali erano e sono i loro obbiettivi?
La
ragione per la quale il piano non prese corpo è semplice: nei primi anni
Cinquanta la Russia era diventata a sua volta una potenza atomica in grado di
colpire con i suoi missili il territorio USA.
In attesa del ritorno alla “guerra calda” si
aprì l’epoca della “guerra fredda” terminata nel 1990 con l’avvento della
“guerra tiepida” per arrivare ad oggi con l’accensione del “fornello ucraino”
che ha in prospettiva l’opzione “guerra surriscaldata”.
Allo
stato dell’arte gli USA hanno conseguito un primo obiettivo:
devastazione
dell’Europa ancorata al gorgo ucraino che progressivamente la sta inghiottendo.
Il
secondo, la disintegrazione della Russia è l’allettante prospettiva.
Allora
non si tratta di “stare con la Russia” perché irrazionalmente filorussi.
Possiamo
qui divagare su cosa è la Russia e divagare sui concetti di civiltà e sistemi
politici, ma il punto principale è come posizionarsi da europei, quindi
sottrarsi dall’abisso verso il quale gli USA stanno spingendo l’Europa.
E per fare questo è imprescindibile schierarsi
a fianco della Federazione russa contro lo schieramento atlantista impegnato in
Ucraina dove, prima di tutto, è in corso una guerra civile tra la parte ovest
occidentalizzata e la parte est che non accetta l’occidentalizzazione.
La
guerra civile è un fatto interno all’Ucraina, il mascherato posizionamento
della NATO con tutto il suo supporto è una questione che riguarda noi europei,
noi italiani.
La disintegrazione della Russia pone
irrimediabilmente una pietra tombale sull’Europa lasciandoci in balia della UE
che è la marionetta USA.
Tutto
questo è quel che deve essere chiaro e opposto ai galoppini atlantici qualsiasi
vestito ideologico calzino.
Tutto
questo dovrebbe portarci a dire che non è la una pace o tregua in Ucraina che
risolverà la questione.
Pace e
tregua servono solo a permettere all’atlantismo di riorganizzarsi.
Una
volta per tutte il “Grande Conflitto”, la “Grande guerra planetaria” deve
essere risolta con un vinto e un vincitore.
E se
come europei e italiani dobbiamo essere tra i vinti ce ne faremo una ragione
ben sapendo che comunque prima o poi l’intero sistema imploderà… magari tra un
secolo, perché questo sistema imperante è disumano e l’umano non lo può
reggere: o lo disintegra o scompare.
E per
intanto, ognuno nella sua trincea di competenza, si continua a battersi
cosicché, per quanto riguarda le armi, quelle italiane, quelle dei veri
nazionalisti italiani, passi almeno l’idea che esse dovrebbero essere date al
fronte dell’Est.
Il vortice ucraino va chiuso.
Chiarito
questo poi possiamo affrontare tutti gli altri argomenti a cominciare da quello
teorico dell’multipolarismo da opporre all’unipolarismo, della contrapposizione
tra concezioni di Civiltà e sistemi politici per finire sui terreni
dell’economia, della finanza, del liberismo, della geo-energia e quant’altro.
Prima di tutti sopravvivere alla volontà di
annientamento del sistema USA.
(Maurizio
Murelli, ariannaeditrice.it)
(ariannaeditrice.it/articoli/91077).
IL
TOTALITARISMO BIOPOLITICO
GLOBALE.
Parere
(n. 18) del Comitato Internazionale per l’Etica della Biomedicina (CIEB).
Comedonchisciotte.org
- Giulio Bona - (05 Dicembre 2022) – ci dice:
Silvana
Sciarra e G20.
Contro
ogni ragionevole probabilità, negli ultimi mesi una parte degli Italiani si è
ostinata ad auspicare o ad attendere fiduciosa l’intervento nell’affaire Covid
di organismi che, per vocazione e per tradizione, sono organici e funzionali ai
centri di potere, nelle sue diverse istanze, con la speranza di vedere
ristabilite verità e giustizia in una vicenda che da più di due anni
costituisce il più grave attentato ai diritti e alle libertà fondamentali
dell’intera storia repubblicana.
La
tanto attesa pronuncia si è fatalmente limitata a legittimare l’illegalità di
atti e fatti di cui è stata vittima quella stessa parte degli Italiani, in ciò
fornendo, forse inconsapevolmente, nuova attualità all’analisi fornita da Carl
Schmitt nel suo Legalità e legittimità, pubblicato nel 1932 alla vigilia
dell’ascesa al potere del totalitarismo nazista e dell’estinzione della
Repubblica di Weimar.
Ed è
singolare che la pronuncia in questione sia stata anticipata da un
comunicato-stampa, intitolato «Obbligo vaccinale e tutela della salute» , che, dietro lo schermo costituito
da viete espressioni e da paludati tecnicismi, oblitera l’oggetto intrinseco
della vicenda, ossia l’aspirazione dei cittadini a vedere tutelata la salute da
un ordinamento la cui carta fondamentale pone garanzie apparentemente
stringenti in materia, come quella secondo cui, qualora una legge dovesse
imporre un trattamento sanitario obbligatorio, la stessa legge «non può in nessun
caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana».
È
infatti di dominio pubblico, anche perché ammesso dalla stessa azienda
produttrice, che i cosiddetti vaccini anti-Covid non prevengono la trasmissione
né del virus Sars-Cov-2, né della malattia Covid, ma anzi producono una miriade
di effetti avversi, ampiamente documentati.
Stupisce,
quindi, che la pronuncia in questione abbia omesso di considerare le evidenze
scientifiche emerse fin dall’inizio della campagna di somministrazione di un
farmaco sperimentale fondato su una tecnica dagli effetti incerti e controversi,
quale è la tecnica dell’mRNA, ma di cui è appurata la capacità di interagire e
modificare il DNA dei soggetti riceventi.
In
breve, ci troviamo di fronte a un palese e lampante corto circuito: le leggi e
gli atti aventi forza di legge dovrebbero essere promulgati a tutela dei
diritti e della salute dei cittadini, ma quelli sottoposti al vaglio
dell’organismo evocato non hanno tutelato né i diritti, né la salute: e ciò
nonostante sono stati legittimati, pur a costo di delegittimare i diritti
fondamentali dei cittadini.
Alla
luce di questa pronuncia, le cui conseguenze non possono certamente sfuggire ai
suoi autori – che in quanto tali saranno giudicati in una prospettiva storica –
il CIEB ricorda che non è inseguendo le pronunce di questo o di quell’organismo
che i cittadini troveranno verità e giustizia e che, diversamente, l’unico modo
per contrastare la deriva totalitaria in atto è assumere piena consapevolezza
della portata e delle modalità del piano ideato dalle élite finanziarie
transnazionali e dai suoi accoliti per soggiogare la popolazione mondiale.
Eccezion
fatta per chi non dispone – o rifiuta di disporre – dei necessari strumenti
cognitivi, e di chi è colluso con quelle élite, dovrebbe essere evidente a
chiunque che la vicenda Covid si inserisce in un piano preordinato
all’asservimento degli individui mediante minacce, reali o mendaci, rivolte
direttamente contro la salute e l’integrità psico-fisica di ogni essere umano,
nonché l’utilizzo sempre più pervasivo, a fini di controllo, degli strumenti della
tecnologia digitale.
Questo
piano, che prima del Covid sarebbe stato tenacemente occultato dai suoi
ideatori, è ora ammesso in modo esplicito da quegli organismi creati
espressamente allo scopo di favorire gli interessi e le dinamiche del
capitalismo ultra-finanziario:
ossia,
prima ancora della globalizzazione delle economie e dei mercati, la perdita
dell’identità e la trasmutazione della dimensione antropologica e culturale
dell’essere umano.
È il
caso del G20 tenutosi a Bali il 15-16 novembre 2022 che – nell’ambito del
programma “One Health” fondato sulla «resilienza del sistema sanitario
globale», sull’armonizzazione dei «protocolli sanitari mondiali» e
sull’espansione degli «hub globali di produzione e ricerca» – ha auspicato
l’introduzione di «reti sanitarie digitali globali» destinate a «rafforzare la
prevenzione e la risposta alle future pandemie» sulla base di campagne
vaccinali sempre più capillari, dove per vaccini devono intendersi le sopra
citate terapie geniche incentrate sulla tecnica dell’mRNA5 .
Ed è
il caso della Commissione europea che, con una raccomandazione del dicembre
2018, ossia ben prima della cosiddetta pandemia, equiparava ai «grandi
flagelli» ogni malattia prevenibile mediante vaccino (testualmente: «Le
malattie prevenibili da vaccino sono grandi flagelli») e, muovendo da questo
singolare presupposto, invitava gli Stati ad attuare piani di vaccinazione
comprendenti «un approccio alla vaccinazione sull’intero arco della vita»,
nonché a «sviluppare la capacità delle istituzioni sanitarie … di disporre di
informazioni elettroniche sullo stato vaccinale dei cittadini … che …
raccolgano dati aggiornati sulla copertura vaccinale per tutte le fasce di età»
.
Il
piano in questione, trionfalisticamente presentato dai media quale ennesima
tappa di un progresso tecno-scientifico che procede senza esitazioni alla
“velocità della scienza”, è destinato a essere realizzato prioritariamente
attraverso il cambio di paradigma dei sistemi sanitari pubblici che, complice
la pretesa scarsità di risorse disponibili, non saranno più rivolti a erogare
prestazioni terapeutiche e assistenziali a beneficio dei malati, ma a
promuovere – con buona pace della ricerca, della diagnostica, del miglioramento
dell’efficienza delle strutture sanitarie – una medicina “preventiva” fondata
su farmaci e vaccini sviluppati da aziende e organismi privati la cui
assunzione costituirà, secondo l’approccio di tipo premiale sdoganato dal
Covid, la condizione sine qua non per la titolarità e l’esercizio di diritti e
libertà individuali: dall’istruzione, al lavoro, alla previdenza, alle stesse
cure mediche. Come ha affermato il G20 di Bali, infatti, «occorre capitalizzare
… (il) successo degli standard esistenti e dei certificati digitali COVID-19»: ossia il successo del Green Pass
fondato sull’obbligo vaccinale.
Il
piano in questione comprende ulteriori profili, finora sottovalutati.
L’impiego di farmaci e vaccini fondati su una
tecnica ancora sperimentale, quale è la tecnica dell’mRNA, presuppone e
comporta necessariamente – come è successo col pretesto della pandemia per il “vaccino
anti-Covid” – l’azzeramento
dei tempi, delle procedure e delle garanzie sanciti dalla normativa in materia
di sperimentazione clinica di medicinale. Farmaci e vaccini siffatti, inoltre,
potrebbero condurre – in modo non imprevedibile e forse non imprevisto – a
reazioni ed eventi avversi i cui effetti sconosciuti tanto nel breve quanto nel
medio e lungo periodo potrebbero a loro volta costituire – oltreché l’occasione per ridurre tout
court la popolazione mondiale – il pretesto per l’introduzione di nuovi stati
emergenziali, di nuovi farmaci e di ulteriori meccanismi e strumenti premiali
variamente denominati.
Questo
piano va contrastato prima di tutto e necessariamente sul piano culturale.
A tal
fine occorre prendere coscienza, senza esitazioni o infingimenti, del fatto che
la medicina e la scienza non svolgono più da tempo alcuna funzione sociale;
e
procedere conseguentemente alla “de medicalizzazione” della società, oltreché a
una profonda revisione della nozione stessa di progresso tecno-scientifico. In
questa prospettiva non va dimenticato che già nel 1977 i vertici di una delle
più note case farmaceutiche affermavano pubblicamente, e impunemente, che «il
nostro sogno è vendere farmaci a gente sana», sebbene tre anni prima Ivan
Illich, nel suo “Medical Nemesis”, avesse denunciato la tendenza alla
«medicalizzazione» estrema della società mediante la costante creazione di
nuovi bisogni terapeutici.
Allo
stesso modo occorre prendere coscienza del fatto che il nostro ordinamento
giuridico, nella temperie creata dal capitalismo ultra-finanziario e dalle sue
élite, non è più in grado di fornire garanzie reali ed effettive ai diritti
fondamentali dell’uomo, e procedere conseguentemente allo smantellamento dei diktat
dell’agenda globalista che ormai appaiono a molti per quello che sono, ossia
minacce sempre più gravi alla dignità e all’integrità psico-fisica dell’essere
umano, ma
che taluni continuano a spacciare per feticci intoccabili in quanto viatici di
pace, di democrazia e di benessere, a cominciare dal primato del diritto
dell’Unione europea sul diritto interno.
Sulla
base di queste considerazioni, il CIEB:
– condanna il silenzio delle
istituzioni, e in particolare degli organismi istituzionalmente preposti a
stimolare il dibattito pubblico sui temi di rilevanza bioetica, in merito ai
rischi del cambio di paradigma sanitario poc’anzi descritto;
–
denuncia i rischi per la salute pubblica collegati e conseguenti all’eventuale
introduzione, nel nuovo Codice di deontologia medica, di regole che vietino ai
medici di sconsigliare il ricorso ai vaccini, con specifico riferimento ai
vaccini fondati sulla tecnica dell’mRNA, nonché all’utilizzo delle terapie
geniche;
– sollecita ancora una volta l’opinione
pubblica a prendere coscienza del piano descritto nel presente Parere, che
prima di ogni altra cosa è volto a svilire il principio del primato dell’essere
umano sugli interessi della scienza, dell’economia e della società codificato
da convenzioni internazionali e fatto proprio anche dall’art. 32, secondo
comma, della Costituzione italiana;
–
invita la parte raziocinante della società civile, nell’inerzia del Governo e
del Parlamento, a farsi parte dirigente e a utilizzare ogni mezzo lecito – ad
esempio richiedendo una chiara e netta presa di posizione dei propri
rappresentanti politici a ogni livello istituzionale – per opporsi alla dittatura sanitaria
prefigurata dal piano poc’anzi descritto, che a sua volta costituisce il
preludio all’instaurazione di un regime di totalitarismo biopolitico globale
fondato sul ricorso a stati permanenti e strutturali di emergenza.
(ecsel.org/cieb)
Qatar
2022, Malore Improvviso:
Muore
Terzo Giornalista. Conoscenzealconfine.it -Redazione - (14 Dicembre 2022) – ci dice:
I
giornalisti che hanno perso la vita improvvisamente e misteriosamente durante
la copertura dei Mondiali in corso in Qatar sono tre.
C’è
infatti anche Roger Pearce, direttore tecnico dell’emittente londinese Itv
Sport, morto in seguito ad un malore mentre seguiva la Coppa del Mondo in
Qatar.
Come
riferiscono i siti britannici, Independent, Metro, Ibc e altri, Pearce stava
coprendo il suo ottavo torneo di Coppa del Mondo Fifa, quando ha avuto un
malore e non si è più ripreso.
La sua
morte è stata annunciata in onda prima della partita di lunedì 21 novembre tra
Galles e Stati Uniti, con l’emittente Mark Pougatch che ha dato la notizia.
“Abbiamo
delle notizie molto tristi da portarvi da qui in Qatar”, ha detto.
“Il
nostro direttore tecnico, Roger Pearce, che era qui per imbarcarsi nella sua
ottava Coppa del Mondo, è tristemente venuto a mancare”.
Il direttore
dello studio e amico Neil Stainsby della Bbc ha condiviso su Twitter un ricordo
di Pearce che, secondo quanto riportato da Independent, sarebbe andato in
pensione tra cinque settimane.
“E’
davvero triste aver appreso della morte del mio amico ed ex collega di Itv
Meridian, Roger Pearce.
È
morto durante il suo ultimo incarico in Qatar prima della pensione tra 5
settimane.
Rip Roger”, ha scritto Stainsby.
Pearce ha iniziato la sua carriera come
ingegnere presso Grampian Tv e ha lavorato in altre canali di Itv come Tvs e
Meridian, prima di entrare a tempo pieno nel network sportivo Itv nel 2001, per
diventarne il direttore tecnico nel 2008.
La
morte di Roger Pearce ha preceduto quella del giornalista statunitense Grant
Wahl, 48 anni, che si è improvvisamente accasciato ed è deceduto mentre copriva
Olanda-Argentina, match dei quarti di finale ai Mondiali di Qatar 2022.
Nei
giorni scorsi, era stato brevemente fermato dalle autorità di Doha perché
indossava una t-shirt arcobaleno a sostegno dei diritti Lgbtq.
Le circostanze della sua morte non sono chiare, ma nei
giorni scorsi aveva lamentato di non sentirsi bene, tanto da essersi rivolto
all’ambulatorio del centro stampa, credendo di avere una bronchite.
Gli
era stato somministrato uno sciroppo per la tosse e ibuprofene.
Aveva
poi detto di sentirsi meglio, dopo avere ammesso di aver sofferto, il 3
dicembre scorso, “una capitolazione involontaria da parte del mio corpo e della
mia mente” dopo la partita Stati Uniti-Olanda.
“Non è
il mio primo mondiale – aveva raccontato sulla sua newsletter.
Ne ho
fatti otto… e mi sono ammalato ogni volta, si tratta solo di trovare un modo
per portare a termine il proprio lavoro”.
Dopo
Grant Wahl, anche un altro giornalista è morto durante i mondiali del Qatar: si
tratta del fotoreporter di Al Kass Tv Khalid al-Misslam.
Il
fotoreporter qatariota è morto improvvisamente mentre seguiva la Coppa del
Mondo, ha riferito il canale per cui lavorava al quotidiano anglofono di Doha
‘Gulf Times’.
“Crediamo
nella misericordia e nel perdono di Allah per lui e inviamo le nostre più
sentite condoglianze alla sua famiglia.
Siamo tutti di Allah e a Lui ritorniamo”, ha
affermato Al Kass Tv annunciando la morte di al-Misslam.
(adnkronos.com
--
imolaoggi.it/2022/12/12/qatar-2022-malore-improvviso-muore-terzo-giornalista/)
Passano
gli Emendamenti di
Fratelli
d’Italia: Finalmente
Addio
al Green Pass!
Conoscenzealconfine.it
– (14 Dicembre 2022) – Redazione – ci dice:
Il 12
dicembre 2022 l’aula di Palazzo Madama ha approvato emendamenti con i quali si
interviene sulle misure di contrasto alla diffusione del virus Sars-Cov-2,
aggiungendo due articoli al decreto-legge in conversione.
“Si tratta di provvedimenti che
mantengono gli impegni assunti in campagna elettorale e che finalmente ci fanno
uscire del tutto dal regime di restrizioni e che ripristinano dunque nuova
libertà ai cittadini.
Ringrazio il governo per il parere favorevole
espresso a questi emendamenti che confermano il cambio di passo deciso
dall’inizio da questo governo e dal ministro Schillaci “.
Lo
dichiara il senatore di Fratelli d’Italia Franco Zaffini, presidente della
commissione Sanità di Palazzo Madama.
“In
particolare, l’articolo 7 bis – osserva Zaffini – incide sulle residue
disposizioni che prescrivono l’impiego della certificazione verde Covid-19 per
l’accesso dei visitatori a strutture residenziali, socio-assistenziali,
sociosanitarie e hospice, nonché ai reparti di degenza delle strutture
ospedaliere.
L’emendamento abroga, a decorrere dall’entrata in
vigore della legge di conversione del decreto, le disposizioni di cui ai commi
1-bis e seguenti che consentono l’accesso alle predette strutture ai soli
soggetti muniti di una certificazione verde COVID-19, rilasciata a seguito
della somministrazione della dose di richiamo successiva al ciclo vaccinale
primario, ovvero a seguito del completamento del ciclo vaccinale primario o
dell’avvenuta guarigione unitamente ad una certificazione che attesti l’esito
negativo del test antigenico rapido o molecolare, eseguito nelle quarantotto
ore precedenti l’accesso”.
“Un
altro emendamento – sottolinea Zaffini – abroga le disposizioni che consentono
agli accompagnatori di permanere nelle sale di attesa dei dipartimenti
d’emergenza nelle sale d’attesa dei reparti di pronto soccorso solo se muniti
di green pass.
Viene
cioè meno l’obbligo di sottoporsi al test antigenico rapido o molecolare per
l’accesso alle prestazioni di pronto soccorso.
Con
l’abrogazione della già menzionata norma, viene meno anche l’obbligo del green
pass anche per l’accesso ai reparti di degenza.
L’emendamento,
inoltre, abroga la disposizione che prevede il green pass per le uscite
temporanee delle persone ospitate presso strutture di ospitalità e
lungodegenza, residenze sanitarie assistite, hospice, strutture riabilitative e
strutture residenziali per anziani, autosufficienti e no, strutture
residenziali socioassistenziali”.
“Un
ulteriore emendamento – conclude Zaffini – riduce a 5 giorni il periodo di auto-sorveglianza
per i contatti stretti di soggetti risultati positivi al virus Sars-Cov-2,
prevedendo, quale misura precauzionale, solo l’obbligo di indossare dispositivi
di protezione individuale di tipo FFP2 per il suddetto periodo.
Con
riferimento al regime dell’isolamento dei soggetti risultati positivi al
SARS-CoV-2, la norma abroga la disposizione che subordina la fine
dell’isolamento all’esecuzione di un test antigenico o molecolare con esito
negativo e rinvia ad una successiva circolare del Ministro della Salute la
definizione delle specifiche modalità che determinano la cessazione della
misura dell’isolamento.
Avanti
così: serietà e coerenza seppur senza abbassare la guardia”.
(iltempo.it/politica/2022/12/12/news/green-pass-non-serve-ingresso-ospedali-cancellato-emendamenti-fratelli-d-italia-franco-zeffini-34185059/)
LE
ORIGINI DEL TOTALITARISMO.
HANNAH
ARENDT -A cura di Diego Fusaro.
Filosofico.net
– Redazione – Diego Fusaro – (20-6-2022) – ci dice:
Come
molte altre opere di grandi autori, anche " Le origini del totalitarismo
" della Arendt è comparsa in un momento politico-culturale (1951), data
centrale della guerra fredda che ne ha reso quasi obbligatoriamente unilaterali
la lettura e l'interpretazione.
L'assimilazione
di nazismo e stalinismo, infatti, impedì allora una lettura serena dell'opera
da parte dell'intellettualità di sinistra, per la quale la Arendt per molti
anni sarebbe rimasta l'esponente di un pensiero politico liberale e
neo-conservatore.
In
realtà le preferenze politiche della Arendt andavano ad un tipo di società
socialista vicina alle idee della Luxemburg e alle tematiche consiliari, come
sarebbe stato evidente qualche anno dopo.
L'opera,
grande anche nel senso della voluminosità (circa 700 pagine), individua i
caratteri specifici del totalitarismo dopo averne riscontrato le premesse
nell'antisemitismo (studiato nel periodo fra Otto e Novecento, specialmente in
Francia con l’”affaire Dreyfus") e nell'imperialismo, temi ai quali sono
dedicati i due terzi dell'opera.
Dal
confluire delle conseguenze dell'antisemitismo e dell'imperialismo in un
preciso momento storico (la crisi successiva alla prima guerra mondiale) è nato
il totalitarismo, con caratteri comuni sia nella Germania nazista sia
nell'Unione sovietica stalinista (del tutto marginale è l'attenzione rivolta al
fascismo italiano).
Il
totalitarismo è un fatto nuovo del nostro secolo, non assimilabile o
riducibile, secondo la Arendt, ai tradizionali regimi tirannici o dittatoriali.
Esso nasce dal tramonto della società
classista, nel senso che l'organizzazione delle singole classi lascia il posto
ad un indifferenziato raggrupparsi nelle masse, verso le quali operano
ristretti gruppi di élites, portatori delle tendenze totalitarie.
Tali
tendenze, dopo la vittoria politica sulle vecchie rappresentanze di classe,
realizzano il regime totalitario, che ha i suoi pilastri e nell'apparato
statale, nella polizia segreta e nei campi di concentramento nei quali si
rinchiudono e si annientano gli oppositori trasformati in nemici.
Attraverso l'imposizione di una ideologia
(razzismo, nazionalsocialismo, comunismo) e il terrore, il totalitarismo,
identifica sé stesso con la natura, con la storia, e tende ad affermarsi
all'esterno con la guerra.
Nulla
di simile era apparso prima: il totalitarismo è un fenomeno "
essenzialmente diverso da altre forme conosciute di oppressione politica come
il dispotismo, la tirannide e la dittatura.
Dovunque è giunto al potere, esso ha creato
istituzioni assolutamente nuove e distrutto tutte le tradizioni sociali,
giuridiche e politiche del paese.
A prescindere dalla specifica matrice
nazionale e dalla particolare fonte ideologica, ha trasformato le classi in
masse, sostituito il sistema dei partiti non con la dittatura del partito unico
ma con un movimento di massa, trasferito il centro del potere dall'esercito
alla polizia e perseguito una politica estera apertamente diretta al dominio
del mondo ".
La Arendt accentua, nelle pagine di
considerazione teorica che concludono l'opera, il ruolo nuovo svolto dalle
ideologie, unite al terrore, nei regimi totalitari.
Le
ideologie, con logica stringente, impongono una visione del mondo in cui le
idee incarnate nel regime totalitario vengono imposte come direttrici di un cammino
fatale, inevitabile, naturale e storico insieme.
In un regime totalitario l'ideologia " è
la logica di un'idea. La sua materia è la storia a cui l’idea è applicata, il
risultato di tale applicazione non è un complesso di affermazioni su qualcosa
che è, bensì lo svolgimento di un processo che muta di continuo.
L'ideologia
tratta il corso degli avvenimenti come se seguisse la stessa legge
dell'esposizione logica della sua idea.
Essa pretende di conoscere i misteri
dell'intero processo storico - i segreti del passato, l'intrico del presente,
le incertezze del futuro - in virtù della logica inerente alla sua idea ".
La Arendt si pone, alla fine, una domanda: "
quale esperienza di base nella convivenza umana permea una forma di governo che ha la sua
essenza nel terrore e il suo principio d'azione nella logicità del pensiero
ideologico? ".
La
risposta viene data individuando tale esperienza di base nell'isolamento dei
singoli nella sfera politica, corrispondente alla estraniazione nella sfera dei
rapporti sociali.
Quest'ultima,
in sostanza, sta alla base dell'isolamento sul piano politico, e quindi
costituisce la condizione generale dell'origine del totalitarismo.
"
Estraniazione, che è il terreno comune del terrore, l'essenza del regime
totalitario e, per l'ideologia, la preparazione degli esecutori e delle
vittime, è strettamente connessa allo sradicamento e alla superfluità che dopo
essere stati la maledizione delle masse moderne fin dall'inizio della
rivoluzione industriale, si sono aggravati col sorgere dell'imperialismo alla
fine del secolo scorso e con lo sfascio delle istituzioni politiche e delle
tradizioni sociali nella nostra epoca.
Essere sradicati significa non avere un posto
riconosciuto e garantito dagli altri; essere superflui significa non
appartenere al mondo ".
E ancora: " quel che prepara così bene
gli uomini moderni al dominio totalitario è estraniazione che da esperienza al
limite, usualmente subita in certe condizioni sociali marginali come la
vecchiaia, è diventata un'esperienza quotidiana delle masse crescenti nel
nostro secolo.
L'inesorabile
processo in cui il totalitarismo inserisce le masse da esso organizzate appare
come un'evasione suicida da questa realtà ".
Risuonano
in questi passi gli echi di un pessimismo ebraico che negli anni '30 e '40
trovava manifestazione filosofica con tematiche non molto dissimili, in
Benjamin, in Horkheimer e in Adorno.
Le
tesi della Arendt, come quelle dei suoi amici appena citati, avranno ampia
diffusione, ma verranno anche ampiamente discusse nel dibattito teorico che ha
impegnato nei successivi decenni i pensatori politici europei e statunitensi.
Arendt
si considerava una scopritrice di problemi attuali, ma i tre elementi
(antisemitismo, imperialismo e razzismo) in cui condensava la sua analisi,
erano ciascuno espressione di un problema, o di un insieme di problemi, per i
quali era stato il nazismo ad offrire, quando essi si erano
"cristallizzati", una "soluzione" tremenda.
Così,
l'alternativa metodologica scelta da Arendt fu quella di individuare gli
elementi principali del nazismo, risalire alle loro origini, e scoprire i problemi
politici reali alla loro base, " scopo del libro non è dare delle
risposte, bensì preparare il terreno ".
Arendt
presenta gli elementi del nazismo e i problemi politici che ne stavano alla
base.
L'imperialismo, quello che ha raggiunto il suo
pieno sviluppo, cioè il totalitarismo, è visto come una "amalgama" di
certi elementi presenti in tutte le situazioni politiche del tempo.
Questi elementi sono l'antisemitismo, il decadimento
dello stato nazionale, il razzismo, l'espansionismo fine a sé stesso e
l'alleanza fra il capitale e le masse.
"
Dietro ciascuno di questi elementi si nasconde un problema irreale e irrisolto:
dietro l'antisemitismo, la questione ebraica; dietro il decadimento dello Stato
nazionale, il problema irrisolto di una nuova organizzazione dei popoli; dietro
il razzismo, il problema irrisolto di una nuova concezione del genere umano;
dietro l'espansionismo fine a sé stesso, il problema irrisolto di riorganizzare
un mondo che diventa sempre più piccolo, e che siamo costretti a dividere con
popoli la cui storia e le cui tradizioni sono estranee al mondo occidentale.
La grande attrazione esercitata dal totalitarismo si
fondava sulla convinzione diffusa, e spesso consapevole, che esso fosse in
grado di dare una risposta a tali problemi, e potesse quindi adempiere ai
compiti della nostra epoca ".
In una
serie di lezioni tenute nel 1954 alla "New School for Social
Research" di New York, Arendt chiarisce l'immagine della
"cristallizzazione", con una dichiarazione metodologica che è assente
nelle stesure delle Origini del totalitarismo: " gli elementi del
totalitarismo costituiscono le sue origini, purché per origini non si intenda
cause.
La causalità, cioè il fattore di
determinazione di un processo di eventi, in cui un evento sempre ne causa un
altro e da esso può essere spiegato, è probabilmente una categoria totalmente
estranea e aberrante nel regno delle scienze storiche e politiche. […]
Gli
elementi divengono l'origine di un evento se e quando si cristallizzano in
forme fisse e definite. Allora e solo allora, sarà possibile seguire
all'indietro la loro storia. L'evento illumina il suo stesso passato, ma non
può mai essere dedotto da esso ".
Gli
elementi del totalitarismo: secondo Arendt, quindi, il totalitarismo è composto
da "elementi" che si sono sviluppati precedentemente e si sono
"cristallizzati" in un nuovo fenomeno dopo la prima guerra mondiale.
Questi
elementi forniscono la struttura nascosta del totalitarismo.
L'impulso
all'espansione senza limiti era nelle sue origini un fenomeno economico,
qualcosa di inerente all'avanzata del capitalismo.
Il capitalismo era impegnato nella
trasformazione della proprietà da stabile, fissa, in una ricchezza mobile;
la conseguenza fondamentale di questo processo
fu quella di generare sempre più ricchezza in un processo senza fine.
Fino a che questo rimase un fenomeno puramente
economico esso era sì distruttivo, ma non catastrofico.
Il pericolo diventò " la trasformazione di
pratiche economiche in un nuovo tipo di politica della competizione assassina e
dell'espansione senza limiti ".
Il significato dell'era imperialista per
Arendt è che l'imperativo di espandersi uscì dalla logica economica e prese
forza nelle istituzioni politiche.
Lo stato-nazione fu fortemente messo in crisi
dall'imperialismo.
Dove l'imperialismo dà spazio alle forze
incontrollabili dell'espansione e della conquista, lo stato-nazione è
un'istituzione creata da individui, una struttura civilizzata che fornisce un
ordine legale e garantisce diritti, tramite i quali l'individuo può essere
legislatore e cittadino.
C'è
una profonda tensione tra la nozione di stato come garante di diritti, e l'idea
della nazione come una comunità esclusiva.
Fin dalla nascita dello stato-nazione questo
fatto creò difficoltà per gli ebrei: infatti, l'ideale dei diritti umani non
divenne fondamentale se non dopo la prima guerra mondiale, e le conseguenze di
essa sulle minoranze nazionali e le persone senza patria ("displaced
persons").
Il
capitolo delle "Origini" sul declino dello stato nazione, spiega
perché ci furono così pochi ostacoli al massacro degli ebrei, e dimostra la
necessità di costruire un nuovo ordine politico che non possa abolire diritti
civili e politici per un gruppo di persone.
Quello
che il destino delle persone senza patria ha dimostrato, così sostiene Arendt,
è che i diritti umani universali che sembravano appartenere agli individui,
potevano solo essere reclamati da cittadini di uno stato.
Pertanto,
per chi era fuori da questa categoria, i diritti inalienabili della persona
erano senza significato.
Ne
sono un esempio gli ebrei che, non avendo uno stato in cui identificarsi come
popolo, ed un territorio definito in cui poter vivere, sono stati privati, come
apolidi, del diritto di cittadinanza, e con esso di una tutela giuridica come
soggetti di personalità.
Il
problema non era quello di godere di un'eguaglianza di fatto davanti alla legge
come persone, ma la negazione del fondamentale diritto umano e cioè il
"diritto di avere diritti", che significa il diritto di appartenere
ad una comunità politica.
Arendt
sottolinea che il razzismo non è una forma di nazionalismo, ma, è in diversi
modi, il suo opposto.
Il
nazionalismo genuino è strettamente legato ad uno specifico territorio e una
cultura, e quindi alle azioni e traguardi raggiunti da particolari esseri
umani.
La razza, al contrario, è un criterio biologico,
determinato dal territorio e dalla cultura, e si riferisce a caratteristiche naturali
fisiche.
Dove
le persone sono identificate per i loro caratteri razziali innati, le
differenze individuali e la responsabilità individuale diventano irrilevanti:
una persona semplicemente agisce come un coro delle caratteristiche razziali di
quella specie.
Il determinismo razzista, con la distinzione
tra razze superiori e inferiori, fornisce una perfetta giustificazione per la
conquista imperialista e la sottomissione delle popolazioni native.
La plebe è un precedente di quello che sarà la
massa per gli ebrei nel totalitarismo: i suoi rappresentanti sono "senza
mondo" perché hanno perso uno spazio stabile di riferimento, una identità,
non hanno aspettative da condividere con altri, non hanno prospettiva per
guardare il mondo, sono esposti alla manipolazione ideologica, vivono in una
condizione di sradicamento.
L'alleanza tra il capitale e la plebe dimostra
che il sottoproletariato può essere facilmente reclutato per commettere
atrocità (Arendt
prende come riferimento la descrizione di Conrad in "Cuore di
tenebra"):
la
plebe era costituita dagli " scarti di tutte le classi e tutti gli strati
", erano avventurieri e cercatori d'oro asserviti dall'imperialismo,
" scaraventati fuori dalla società ", non credevano in nulla,
potevano anzi indursi a credere a ogni cosa, a qualsiasi cosa.
L'irresponsabilità
di questo nuovo strato e la corrispondente ritirata su tutte le questioni
morali, andava di pari passo con la possibilità della trasformazione della
democrazia borghese in un dispotismo: infatti la plebe era un prodotto
diretto della società borghese e quindi non separabile da essa.
La spregiudicata politica di potenza poté essere
attuata solo con l'aiuto di una massa di persone prive di principi morali e
perfettamente manipolabili.
Nel mondo
irreale dell'Africa Nera non si assassinava un individuo se si uccideva un
indigeno, ma un sub-umano, una larva che suscitava solo il dubbio di
appartenere alla stessa comunità umana.
Qui il
riferimento alla Shoah è evidente: dove la plebe è servita all'imperialismo per la sua brama di conquista, così
la massa è servita al totalitarismo per i suoi obiettivi di distruzione degli
ebrei.
Arendt
sostiene che l'antisemitismo venne usato dal regime nazista come un
"amalgamatore" per la costruzione del totalitarismo, perché esso era
legato ad ognuno degli elementi che aveva identificato.
La plebe, che odiava la società, alla quale
non apparteneva più, poté essere facilmente condotta a provare ostilità nei
confronti di un gruppo come gli ebrei che era metà fuori e metà dentro la
società.
L'ideologia razzista, in nome della quale i
movimenti totalitari erano mobilitati, aveva bisogno di un equivalente in
Europa dei nativi d'Africa, e gli ebrei erano adatti a tale ruolo. I movimenti totalitari avevano
bisogno di demolire le mura vacillanti dello stato-nazione per edificare nuovi
imperi.
Gli
ebrei, che avevano consolidato una loro identità senza territorio e uno stato,
apparvero come le uniche persone che, apparentemente, erano già organizzate
come un corpo politico razziale.
Gli
ebrei si erano disinteressati alla politica e al potere politico, e questo
disinteresse per la politica li aveva portati a non capire il pericolo enorme
che costituiva per loro l'antisemitismo moderno, e la forza distruttiva che
esso veicolava.
Gli ebrei scambiarono a torto questo
antisemitismo, che aveva radici economiche, politiche, sociali, religiose e
psicologiche, con il vecchio odio che dall'antichità aveva generato i pogrom.
Nessuno
comprese che il problema a questo punto era di tipo politico.
Solo
l'uguaglianza giuridica e politica protegge gli individui e le nazionalità da
discriminazioni e persecuzioni.
Promulgando
le leggi razziali di Norimberga, i nazisti crearono una "razza"
perché crearono un gruppo d'uomini privi di diritti e differenti sul piano
giuridico.
L'antisemitismo
del Novecento ha sostituito all'odio religioso di altri tempi il rifiuto della
differenza, il rifiuto di accordare il rispetto all'altro per le sue stesse
caratteristiche.
E tale rifiuto si maschera dietro il rispetto della
normalità, dietro il conformismo, ma può arrivare fino al caso estremo della
difesa biologica della razza.
Come la cultura pop può spiegare
il colpo di stato in Myanmar.
Serenoregis.org-
Akin Olla – (26 Febbraio 2021) – ci dice:
(Fonte:
wagin nonviolence)
Come
la cultura pop può spiegare il colpo di stato in Myanmar. Il Re Leone della
Disney offre uno spunto di riflessione su come funzionino i colpi di stato, le
cause e i meccanismi dietro il recente colpo di stato in Myanmar.
Intanto
che gli Stati Uniti e le altre nazioni occidentali considerano l’applicazione di
sanzioni contro i militari che hanno guidato il colpo di stato contro Aung San
Suu Kyi e il suo partito a favore della democrazia, è importante comprendere
quali siano le cause nascoste di questo colpo di stato e quali siano le
dinamiche di un colpo di stato in generale.
Da
lontano la situazione birmana può sembrare complessa, se non addirittura
impossibile da comprendere, ma i colpi di stato militari sono una storia di
vecchia data, di cui sfortunatamente siamo già stati spettatori in ogni angolo
del pianeta.
La
cultura popolare, come show televisivi, musica e film possono rivelarsi un
valido strumento per capire ciò che altrimenti risulterebbe incomprensibile.
La
cultura pop può anche aiutare l’essere umano ad analizzare il mondo che lo
circonda e a riconoscersi nella società.
Ad esempio,
il popolo birmano ha adottato il gesto del saluto con le tre dita come simbolo della
propria protesta contro il colpo di stato, un simbolo di solidarietà e
resistenza preso in prestito dal movimento di protesta in Thailandia, ma a sua
volta ispirato dalla serie di romanzi di fantascienza per ragazzi e la sua
trasposizione cinematografica “The Hunger Games”.
Il
grande classico della Disney “Il Re Leone”, cartone animato del 1994, è amato
da più generazioni di bambini e adulti.
Nonostante
sia generalmente interpretato unicamente come un dramma alla Amleto di
Shakespeare, ha molto da dire sul potere e le sue dinamiche all’interno della
società.
Probabilmente
rappresenta anche la migliore produzione pop per comprendere al meglio come
funzionino i colpi di stato e in particolare le cause e i meccanismi che si
celano dietro il recente colpo di stato birmano.
Ma
prima di inoltrarsi a fondo nell’analisi, è bene fare un breve excursus su come
il Myanmar sia arrivato a questo punto.
Una
storia di regimi militari.
L’attuale
colpo di stato fa parte di una lunga storia di prese di potere e governi
militari che si sono succeduti in Myanmar sin dalla sua indipendenza
dall’Impero Inglese nel 1948.
Il
generale Aung San, padre di Aung San Suu Kyi, condusse il Paese durante gli
anni di disordini e manovre politiche durante la seconda guerra mondiale che
videro il Myanmar schierarsi, a seconda della convenienza, sia con i giapponesi
che con gli inglesi.
Dopo
aver guidato con successo il processo d’indipendenza, un attacco terroristico
causa la morte del generale Aung San.
Nonostante
ciò, il Myanmar iniziò a tracciare una strada verso la democrazia.
Il nuovo governo si trovò in difficoltà a placare gli
animi delle diverse fazioni che l’avevano portato alla guida del Paese e alla
fine venne rovesciato nel 1958 dal Generale Ne Win, un anti-comunista che si
preoccupò subito di eliminare molti degli esponenti di sinistra con cui lavorò
duramente negli anni ‘40 per ottenere l’indipendenza dagli Inglesi.
Dopo
un breve ritorno alla democrazia, il governo venne di nuovo ribaltato da Ne Win
nel 1962, che rimase al potere fino alla rivolta degli studenti del 1988, che
guidarono un movimento composto da monaci, medici, donne e bambini per
protestare contro lo stato monopartitico.
Alcuni
membri dell’esercito sfruttarono la situazione, deposero Ne Win e crearono il “Consiglio di Stato per il ripristino dell’ordine
e della legge” (State Law and Order restoration Council), che successivamente divenne
il “Consiglio di Stato per la Pace e lo Sviluppo (State Peace and Development
Council), di fatto un governo militare.
Nel 1990 si tennero le elezioni, vinte da Aung
San Suu Kyi e il suo partito, la Lega Nazionale per la Democrazia (NLD).
Ma i
militari rifiutarono di riconoscere il risultato e misero Aung San Suu Kyi agli
arresti domiciliari.
Nel
2011 il Consiglio di Stato per la Pace e lo Sviluppo si sciolse e chiese un
ritorno alla democrazia, sebbene i suoi leader continuarono comunque a detenere
la maggior parte del potere come ufficiali militari di alto rango attraverso il
neo formato Partito dell’Unione per la Solidarietà e lo Sviluppo (Union
Solidarity and Development Party – USDP) e il nuovo primo ministro Thein Sein,
un generale in pensione.
Nel
2015 l’NLD vinse le elezioni e ottenne la maggioranza assoluta nel ramo
legislativo del governo, portando all’istituzione di Aung San Suu Kyi come
primo leader non militare del Paese in 54 anni.
Aung
San Suu Kyi concesse l’amnistia ai leader degli studenti arrestati durante la
protesta del 1988, ristabilì relazioni internazionali e si riconobbe come un
passo avanti verso la democrazia nel Paese.
Nonostante
le grandi speranze e aspettative della comunità internazionale, Aung San Suu
Kyi ha fatto poco per fermare il brutale genocidio della minoranza musulmana
dei Rohingya e si è comunque impegnata nella repressione dei giornalisti.
Ha
perso molto credito di fronte alla comunità internazionale ignorando le
richieste di porre fine al genocidio e rifiutandosi di affrontare l’esercito o
di riconoscere le loro azioni come genocidio.
Nonostante
il tentativo di pacificazione con l’esercito, il 1° Febbraio 2021 i militari
hanno rovesciato il suo governo in risposta a un’altra vittoria schiacciante
dell’NLD alle elezioni di Novembre 2020.
“Il Re
Leone” e i colpi di stato.
Il Re
Leone e la storia della sua ambientazione, la Rupe dei Re, riflette molto dell’esperienza
del Myanmar, ma anche dell’esperienza di molte persone e nazioni in tutta la
storia contemporanea, come per esempio chi visse la poco conosciuta presa di
potere dei suprematisti bianchi nel 1898 a Wilmington, in Nord Carolina negli
Stati Uniti.
La
storia racconta del Re Leone Mufasa e del suo erede Simba, mentre Simba si
prepara a prendere il potere sul regno.
Scar,
il fratello più giovane e furbo di Mufasa, assassina Mufasa, rovescia il suo
regno con un colpo di stato incruento usando un esercito di iene e impone il
suo dominio totale.
Il
regime di Scar sembra spogliare la Rupe dei Re della maggior parte dei suoi
animali e della vegetazione, trasformando le pianure un tempo lussureggianti in
terre desolate.
Simba
parte per l’esiliato e ritorna solo da adulto, dopo che Nala, suo amore
d’infanzia, e il fantasma di suo padre, lo convincono a riprendersi il suo
posto in cima al regno animale.
Simba
guida i restanti leoni in un colpo di stato violento, con un apparente supporto
da parte degli animali della classe operaia, e sconfigge lo zio in una lotta.
Quindi
si incorona re della Rupe dei Re e rafforza il suo potere con il matrimonio con
Nala e la nascita del loro figlio ed erede.
David
Lane, ex professore di sociologia all’Università di Cambridge, ci fornisce un
quadro utile per comprendere i colpi di stato in Myanmar e Il Re Leone.
Nel
suo articolo del 2008 La Rivoluzione Zafferano: ‘Rivoluzione del popolo’ o
‘Colpo di stato rivoluzionario’?
Lane
usa la “teoria dell’élite” per spiegare come funzionino i colpi di stato.
La teoria dell’élite afferma che la maggior parte
degli stati, siano essi democratici o non democratici, sono controllati da una
piccola minoranza di persone benestanti e gruppi di politici e leader militari
che condividono e contendono il potere attraverso diversi meccanismi.
In
ogni società si distinguono tre categorie di élite:
l’élite
dominante,
rappresentata da coloro che in questo momento occupano i posti di potere del
governo e che detengono la maggior parte dell’autorità governativa del Paese;
l’élite
secondaria –
termine mio – coloro che detengono molto potere politico, ma che al momento non
sono nelle posizioni chiave del governo;
la
contro-élite, ovvero coloro che potrebbero avere potere economico o militare o influenza
politica, ma che non hanno abilità o ruoli nel governare.
Il
popolo di Myanmar deve diffidare di qualsiasi parte del governo o di una nuova
contro-élite che cerca semplicemente di sostituire il regime militare in cima
alla piramide del potere.
Un
colpo di stato, secondo Lane, accade quando membri dell’élite secondaria o
della contro-élite, usano un’azione rapida, e spesso violenta, per prendere il
potere e sostituire l’élite dominante con loro stessi.
A
parte le élite stesse, che hanno profonde convinzioni ideologiche, i golpisti
di solito non hanno alcun reale interesse nell’alterare la struttura del
sistema politico o economico del Paese, ma mirano solamente a diventare il
nuovo organo di governo.
Lane
descrive anche il concetto dei golpe rivoluzionari, che comportano un’elevata
partecipazione popolare, cioè la presenza di un movimento di massa nelle strade
che si mobilita per ottenere un cambiamento nello stesso tempo in cui i
golpisti entrano in azione.
Nel Re
Leone si trovano almeno due golpe. Il primo è il colpo di stato standard.
Scar,
membro dell’élite secondaria, che ha accesso diretto alla governance ma che non
detiene un posto al governo, decide di reclutare le iene, un’unità militare
della contro-élite, per ribaltare Mufasa.
Scar
diventa la nuova élite dominante e le iene la nuova élite secondaria, con le
leonesse della Rupe dei Re che diventano la contro-élite.
Simba,
quindi, si unisce alle leonesse e ai membri del popolo degli animali oppressi,
come gli amici di Simba Timon e Pumbaa, per partecipare a un altro golpe.
Si potrebbe anche sostenere che le masse degli
animali fossero allo stesso tempo impegnate nella disobbedienza civile,
causando la desolazione della Rupe dei Re che spesso viene attribuita
esclusivamente alla cattiva gestione di Scar, e trasformando quindi il colpo di
stato di Simba in un golpe rivoluzionario.
Comprendere
il Myanmar.
Il
colpo di stato in Myanmar può essere analizzato in termini simili.
Aung
San Suu Kyi e la sua Lega Nazionale per la Democrazia sono stati per lungo
tempo una influente contro-élite, sia a livello internazionale che a livello
nazionale. Attraverso pressioni pubbliche ed elezioni, l’NLD è stata portata
nella posizione di una precaria élite dominante, avendo finalmente accesso al
vero potere di governo.
I militari sono stati discutibilmente
trasformati contemporaneamente in élite secondaria e contro-élite attraverso il
loro partito politico e la loro completa autonomia in quanto comandanti in capo
di esercito, marina, aeronautica e polizia.
Le
elezioni del 2020 sono state un ulteriore passo verso il consolidamento
dell’NLD nella posizione di nuova élite dominante.
Nello
stesso tempo hanno innescato la risposta dei militari, che hanno realizzato il
colpo di stato, vedendo in questo il modo per riprendersi la vecchia posizione
di unico e totale organo di governo del Myanmar.
È
importante osservare che anche l’attuale regime militare al governo era una
volta una contro-élite che nel golpe del 1988, ribaltò l’élite dominante,
rappresentata dal Generale Ne Win, e che trasformò una rivoluzione in un colpo
di stato rivoluzionario.
E mentre i leader dell’ultimo colpo di stato
insistono nell’affermare che anche questo è stata una presa di potere a nome
della popolazione, è chiaro che la popolazione la pensa diversamente.
Le
proteste infuriano in tutto il Paese, con l’obiettivo di impedire al governo
militare di funzionare.
Centinaia
di migliaia di manifestanti stanno marciando nelle strade chiedendo al regime
militare di fare un passo indietro.
Infermiere,
medici, insegnanti, ingegneri, avvocati e anche alcuni ufficiali di polizia
sono in sciopero, insieme a operai, ferrovieri e agricoltori.
L’obiettivo
immediato è di contrastare il potere dei militari fermando il meccanismo
statale», dice l’attivista contro il colpo di stato Thinzar Shunlei Yi in
un’intervista ad Al Jazeera.
Continua
dicendo che esponendo la strategia dei manifestanti, «renderà ingovernabile il
paese da parte dei militari».
Crescono
le azioni di boicottaggio verso le aziende di proprietà dell’esercito.
I
proprietari di piccole aziende stanno distruggendo i prodotti che appartengono
alle società collegate al conglomerato aziendale dei militari.
Lo sciopero di 2.000 minatori ha costretto una
miniera di rame di proprietà militare a cessare temporaneamente l’attività.
I cittadini del Myanmar stanno rendendo
desolata la Rupe dei Re dei militari.
La
minaccia di defezioni da parte dell’esercito stesso minaccia di rafforzare il
potere della contro-élite pro-democrazia del Myanmar.
In alternativa minaccia di creare una
contro-élite completamente nuova da affrontare.
Nonostante
Aung San Suu Kyi si sia dimostrata diversa dall’ideale spesso rappresentato
dall’occidente, è chiaro che un qualche tipo di governo civile è un’alternativa
decisamente migliore di un governo militare apertamente genocida.
Sulla
base del discusso colpo di stato rivoluzionario del 1988 che ha trasformato una
rivolta popolare in una presa di potere militare, il popolo del Myanmar deve
anche diffidare di qualsiasi ala del governo o di una nuova contro-élite che
miri solo a sostituire il regime militare in cima alla piramide del potere.
Anche
se la teoria delle élite è utile per comprendere i colpi di stato, il potere
delle persone che prendono in mano la situazione non deve mai essere
sottovalutato.
(Akin
Olla)
Pacifismo,
benaltrismo e
ipocrisia:
da NO NATO
a SI
Putin.
Immoderati.it
- Nicola Rigo – (08/03/2022) – ci dice:
“Né
con Putin, né con la NATO” è uno slogan che si vede e legge molto spesso,
sbandierato per pacifismo da una serie di pseudo-intellettuali auto-collocati a
sinistra e da una buona parte di nostalgici dell’URSS, accomunati verso tutto
ciò che può essere vagamente considerato pro-occidente, dai valori alle idee, e
finiscono per giustificare il Criminale (citando Jacopo Iacoboni); la destra
fascistoide da questo punto di vista perlomeno è chiara: il dittatore macellaio ha ragione.
Le
ipotesi di queste persone sono infatti supportate dalle stesse motivazioni che
il Criminale ha usato spesso per giustificare la sua invasione:
l’allargamento
ad Est della NATO, minacciosa per la Russia, che si sentirebbe circondata.
Da qui
il primo termine che ho inserito nel titolo: ipocrisia, infatti l’adesione di
un Paese nella NATO è totalmente volontaria, e alla domanda deve conseguire
un’analisi del rispetto dei valori alla base dell’alleanza (democrazia, libertà
di opinione e parola…), che se non viene superata comporta un rifiuto.
Certo,
si potrebbe dire che gli USA abbiano sedotto i Paesi dell’Europa Orientale a
schierarsi a loro fianco, anche se mi sembra molto più plausibile l’ipotesi che
la scelta sia più dovuta alla paura che la Russia, una volta recuperata la
propria potenza militare, avrebbe pensato di invaderli e sottometterli
nuovamente.
In
effetti, proprio quello che sta facendo con l’Ucraina proprio in questi giorni.
“Ma
l’Ucraina avrebbe dovuto essere uno Stato cuscinetto”, altre parole usate a
vanvera.
Al di
là di quel famoso principio chiamato ‘autodeterminazione dei popoli’ (che
Wilson supportò con grande enfasi a Versailles nel 1919, purtroppo inutilmente
e con nefaste conseguenze per l’Europa e il mondo), secondo cui ogni popolo
dovrebbe poter scegliere da che parte schierarsi, a molti non è chiaro cosa la
dottrina sovietica, poi russa, definisca ‘Stato cuscinetto’: un territorio da usare come campo
di battaglia in caso di tentativo di invasione, in modo da mantenere intatta la
Santa Madre Russia.
Questa convinzione secolare si è concretizzata
prima con l’Unione Sovietica poi ancor più con il Patto di Varsavia, in cui tutti
i Paesi facente parte del Patto erano a
dir poco sottomessi a Mosca e all’Armata Rossa, tanto che questa stroncò nel
sangue numerose rivolte (Praga e Budapest, per citarne alcune).
Fatti
che supportano ancor più la tesi secondo cui questi Stati si sono schierati con
l’Occidente proprio per tutelarsi dall’aggressività russa.
E
soprattutto, perché mai la NATO dovrebbe invadere la Russia? Che ne ricava? Ha
mai fatto trasparire questa intenzione?
Il
benaltrismo è ancora più ridicolo: “eh sì, Putin ha invaso, ma gli americani
allora?”, segue poi la lunga lista di conflitti che hanno visti protagonisti
gli USA (dalla Guerra di Corea all’Afghanistan).
E quindi?
Solo
un idiota potrebbe pensare che il mondo sia una contrapposizione fra bene e
male, una narrazione ahimè radicata nella retorica italiana, probabilmente a
causa della cultura cattolica;
se si unisce questa visione a posizioni anti
occidentali, il risultato è ‘USA invasori cattivi, mai con loro’.
Gli
USA sono tutt’altro che dei santi, sono il primo a contestare e condannare
Guantanamo piuttosto che l’invasione in Iraq o i colpi di stato in Sudamerica
durante la Guerra Fredda che hanno portato al potere regimi dittatoriali
fascisti, come Pinochet.
Ma non è questo il punto!
Analizzando
la questione usando la logica, il ragionamento di questi è: la Russia ha
invaso, l’Occidente condanna, ma l’Occidente è il cattivo perché Iraq,
Guantanamo ecc., ne consegue che il Criminale è il ‘buono’ della situazione.
Ecco perché
non schierarsi con nessuno equivale a giustificare il Criminale, essendo una
contrapposizione a due parti.
Non è così?
Queste
persone in realtà condannano l’invasione e la mattanza di civili?
Allora vuol dire allinearsi con la posizione
dell’Occidente, piaccia o meno; probabilmente è proprio questo che dà fastidio,
i ‘cattivi’ questa volta sono i ‘buoni’, e non è accettabile.
Così,
si finisce per anteporre la propria ideologia ai fatti, finendo quindi per
giustificare il Criminale.
La
ciliegina sulla torta è il paragone Cuba-Ucraina, totalmente inappropriato sia perché
in Ucraina non ci sono missili nucleari (e neanche nei Paesi Baltici o, in
generale, ex-Patto di Varsavia) sia perché gli USA non hanno bombardato i
civili cubani, usando la paura come scusa.
Per
approfondire la questione, consiglio la lettura dell’articolo di Simone
Conversano, che approfondisce questa e altre posizioni simili.
Infine,
l’aspetto che trovo di gran lunga più vergognoso: l’uso del pacifismo per
nascondere sottomissione e inettitudine, da ‘ripudiare la guerra come strumento
di offesa‘ si passa a ripudiarla anche come strumento di difesa.
Ci
sono poi diverse sfumature di questa teoria, come il Montanari che si
arrenderebbe senza se e senza ma, l’Orsini che sostiene che Putin abbia già
vinto e non ha senso combattere, l’ANPI (sì, proprio quell’ANPI...) che
condanna gli scontri armati degli Ucraini e indica la diplomazia come unica via
d’uscita o il Salvini che non vuole supportare l’Ucraina con le armi.
Parafrasando
Margaret Thatcher, ‘tutti capaci di fare i pacifisti con l’invasione degli
altri‘.
I
cittadini ucraini non stanno combattendo perché sono guerrafondai o per gusto
di ammazzare, bensì perché degli aggressori vogliono distruggere le loro vite,
le loro case, il loro Paese, la loro libertà.
Con
quale arroganza alcuni italiani, discendenti di quella generazione di
partigiani che negli anni ’40 hanno fatto con enorme coraggio la stessa cosa
contro i nazi-fascisti, osano affermare che gli Ucraini non hanno il diritto di
difendersi e che devono sottomettersi al regime dittatoriale che li bombarda?
Veramente
c’è gente convinta che basta sedersi ad un tavolo, convincere il Criminale che
sta facendo cose sbagliate, ottenere le sue scuse e si torna amici come prima?
Sono
sicurissimo che prima o poi si avranno delle trattative serie per la pace, ma
sarà il Cremlino a deciderlo, quando la situazione sul campo di battaglia è
totalmente a loro vantaggio, in modo da dettare condizioni imperative, o al
contrario è drasticamente a sfavore e la vittoria è impossibile, in modo da non
perderci totalmente la faccia.
Fino
ad allora, ogni tentativo sarà una farsa, da cui i russi cercheranno di trarre
qualche vantaggio tattico, come i corridoi umanitari che consentono facili
carneficine di profughi disarmati.
Faccio inoltre tanta fatica a capire lo
schieramento ideologico dell’Associazione Partigiani, da sempre per qualche
motivo schierati ad estrema sinistra (quando in realtà vi erano popolari,
liberali e moderati), oggi anche loro finiscono per giustificare il Criminale
in nome di un’ideologia anti-occidentale, di cui non vedo senso alcuno.
Forse
non hanno mai capito il significato di ‘Bella Ciao’…
Ma
voglio soffermarmi sull’ultimo caso, di gran lunga il più patetico: quel
politico che aveva come cavallo di battaglia della campagna elettorale la
volontà di armare gli italiani per difendersi dai ladri ora dichiara che
vorrebbe inviare bigliettini di incoraggiamento ad una nazione amica per
affrontare i propri invasori.
Neanche
mi immagino cosa sarebbe successo se gli USA avessero scelto questa via nel
1917, anziché mandare i propri soldati nelle trincee in Belgio e Italia per
contrastare il Kaiser, o qualche anno più tardi in Normandia e in Sicilia.
Prendo proprio gli USA come esempio perché si
trovavano nella stessa situazione in cui ci troviamo noi oggi: dei Paesi loro
amici, UK e Francia, erano stati aggrediti dalla Germania, loro avrebbero
potuto rimanere indifferenti alla guerra in Europa (piccola chicca storica: in
seguito a Pearl Harbor, Roosevelt dichiarò guerra solo al Giappone, furono
Hitler e Mussolini che, con una certa ingenuità, dichiararono per primi guerra
agli USA), per fortuna decisero di schierarsi e fare addirittura di più,
inviando uomini direttamente sul campo.
Probabilmente
non nel breve termine, ma quantomeno nel medio periodo gli aiuti bellici della
NATO verso gli Ucraini farebbero un’enorme differenza, basta guardare i risultati
degli aiuti USA ai Mujaheddin:
in 10
anni riuscirono a rendere la guerra troppo costosa per i sovietici, che furono
costretti a ritirarsi.
Allora
ci furono gli Stinger, oggi i Javelin, il punto è logorare l’avversario fino
allo sfinimento (quantomeno economico) con azioni di guerriglia, colpendo i
costosi mezzi corazzati o gli elicotteri, questo prima o poi dovrà andarsene.
Ci
sono altre due variabili in gioco che fanno la differenza fra Cecenia e
Afghanistan (a livello di endgame):
le capacità dell’esercito invasore di
supportare un’invasione di lungo termine (sia in termine di vite umane sia di
costi economici) e la motivazione della resistenza invasa.
In Ucraina, almeno per le informazioni a cui
abbiamo accesso, entrambe le variabili sono a vantaggio di Kiev, quindi
nell’ipotesi che il Criminale inizialmente riesca ad occupare la Nazione con il
proprio esercito gli approvvigionamenti occidentali sarebbero indispensabili
per ridurre il più possibile il periodo di occupazione, che si traduce sia in maggior
porzione della vita degli Ucraini trascorsa in libertà sia in minor costo in
vite umane.
Per la
maggior parte civili.
Ci
tengo inoltre a ricordare che l’invio di armi rappresenta una parte degli aiuti
che noi europei stiamo dedicando agli ucraini, basta pensare all’assistenza ai
profughi o le raccolte di denaro piuttosto che viveri/medicinali.
L’indifferenza è null’altro che una condanna a morte
per sempre più persone. Fortuna solo che, come scritto nel titolo, questi sono
solamente una piccola ed insignificante minoranza, non in grado di influenzare
significativamente l’opinione generale (come i no-vax), che al contrario fa di
tutto per supportare gli amici ucraini.
Quindi,
caro lettore, te da che parte stai? Preferisci supportare la difesa dell’Ucraina
o giustificare il Criminale?
Kafka e la ribellione
alle
autorità.
Indiscreto.org
- Micheal Löwey – ( 28/02/2022 ) – ci
dice:
Nelle
opere di Kafka bisogna muoversi con prudenza e circospezione, ci ammonisce
Walter Benjamin.
Ecco
perché Michael Lowey ci fornisce un filo rosso in grado di guidarci nel
labirinto kafkiano. E questo filo rosso è la sua passione antiautoritaria, la
sua coerente insubordinazione verso qualunque autorità, a partire da quella
paterna.
(Questo testo è tratto da Kafka
sognatore ribelle, di Micheal Löwey. Ringraziamo Eleuteria per la gentile
concessione)
Kafka
non è un anarchico, ma l’antiautoritarismo, di origine romantica e libertaria,
attraversa tutto il corpo della sua opera narrativa in un movimento di
crescente universalizzazione e astrazione del potere:
dall’autorità
paterna e personale verso quella amministrativa e anonima.
Come
osserva benissimo Canetti, «tra tutti i poeti, Kafka è il maggiore esperto del
potere. L’ha vissuto e configurato in tutti i suoi aspetti».
Ma di
quale potere si tratta?
In un
passo illuminante, Adorno sottolinea come l’opera letteraria di Kafka sia «in
gran parte la reazione a un potere senza limiti».
E aggiunge: «Quel potere di patriarchi
invasati, Benjamin lo chiama parassitario: esso si nutre della vita che
schiaccia sotto i suoi piedi».
La
prima osservazione si applica effettivamente alla maggior parte dei testi di
Kafka: una reazione critica, ironica e insieme trepidante contro le molteplici
manifestazioni di un potere dispotico e illimitato.
La
seconda riguarda essenzialmente La Condanna, La Metamorfosi e, in parte,
America, i cui eroi sono vittime di «patriarchi invasati».
Non è
un caso che Kafka avesse pensato di pubblicare insieme i due racconti insieme
al primo capitolo del romanzo («Il Fuochista») con il titolo comune di Die
Söhne (I figli).
Il
primo di quei patriarchi è ovviamente suo padre, Hermann Kafka.
In
quell’impressionante documento (una delle chiavi essenziali per comprendere la
personalità dello scrittore) che è la Lettera al padre (1919), Franz si duole del «carattere
dispotico» di Hermann, paragonato più volte a un «tiranno» e a un «autocrate»,
del «terribile processo che incombe tra te e noi e nel quale tu pretendi sempre
di essere il giudice».
E
definisce la propria situazione di bambino come quella di uno «schiavo,
sottoposto a leggi concepite solo per me», davanti a un mondo «infinitamente lontano dal mio in cui
vivevi tu, occupato a dirigerlo, a impartire gli ordini e ad arrabbiarti se non
venivano eseguiti».
Il
«carattere autoritario» (herrische Temperament) del padre si traduce nel
ricorso a ogni mezzo (insulti, minaccia, sarcasmo oltraggioso) «per esercitare
il suo dominio più severamente» e ottenere dal figlio, con la paura, la totale
sottomissione alla propria volontà.
Quel
dominio è letteralmente senza limiti; in un’immagine sorprendente, Kafka dilata
lo spazio e il corpo del potere patriarcale:
Mi
capita d’immaginare la carta della terra completamente aperta e di vederti
steso trasversalmente su tutta la sua superficie.
E ho l’impressione che a me si adattino per
vivere solo le contrade che tu non copri o quelle che non sono alla tua
portata.
Data
la rappresentazione che ho della tua grandezza, quelle contrade non sono né
numerose né molto consolanti.
In
effetti, Franz riesce a trovare un rifugio il più possibile lontano dall’impero
paterno nel paese delle lettere.
La
stessa problematica si ripresenta in modo quasi ossessivo nei Diari, dove
Franz, in un appunto del 1911, arriva a parlare del proprio «odio» nei
confronti di Hermann, che non solo lo sommergeva in continuazione di
rimproveri, ma insultava i suoi amici Max Brod, trattato da «matto»
(meschuggener), e Isaac Löwy, paragonato a un cane che porta le pulci in casa…
Lo
scontro con l’autorità paterna sarà una dimensione costante della sua identità,
come attesta questa nota tardiva, del 1921, che sembra condensare, in una
sintesi sorprendente, il «campo di battaglia» familiare dello scrittore:
«Di recente mi sono immaginato di essere stato
vinto da mio padre fin da bambino e che l’orgoglio mi ha impedito di
abbandonare il campo di battaglia in tutti questi anni, benché fossi
continuamente sconfitto».
Il
conflitto non è unicamente psicologico ed edipico, ma s’inserisce in un
contesto storico più ampio: da una parte la cultura politica dell’Impero
austro-ungarico (la Cacania così ben descritta da Musil), che sembra fondere in
un unico autoritarismo paternalista tutti i detentori di un potere, dal Kaiser
in persona fino al singolo pater familias, passando dai capi di gabinetto, dai
prefetti e dagli altri dirigenti;
sul
fronte opposto un’intera generazione di giovani intellettuali ebrei nati alla
fine dell’Ottocento, attratti da una visione romantica del mondo, che aspirano
intensamente a una vita dedicata all’arte, alla cultura o alla rivoluzione,
rompe così radicalmente con la generazione dei genitori borghesi, commercianti,
industriali o banchieri, liberali moderati e tedeschi assimilati.
In
Franz, poi, il conflitto è esacerbato dall’autoritarismo di Hermann, dalla sua
ostilità verso le attività letterarie del figlio.
Per
quest’ultimo c’è una relazione evidente tra il «potere senza limiti» del padre,
l’autorità dispotica del «patriarca furioso» (per usare le parole di Adorno) e
la tirannia come sistema politico.
Egli
constata, d’altronde, sempre nella Lettera al padre, che entrambi fanno
riferimento a una stessa logica: «Tu prendi ai miei occhi il carattere
enigmatico che hanno i tiranni il cui diritto non si basa sulla riflessione, ma
sulla loro persona».
E
aggiunge, commentando il modo brutale, ingiusto e arbitrario con cui il padre
tratta i propri dipendenti: «A me resero il negozio insopportabile, mi
ricordavano troppo il mio rapporto con te […]. Perciò io stavo necessariamente
dalla parte del personale».
Qui
stanno le radici intime, profonde, personali, della sua inclinazione per i
socialisti libertari praghesi, la sensibilità antiautoritaria dei suoi romanzi
e racconti.
Il suo dichiararsi «dalla parte del personale» non è
un’affermazione gratuita. Come ha osservato bene Elias Canetti, «Kafka si è
messo fin dall’inizio dalla parte degli umili […], prova avversione per tutto ciò
che s’innalza sul piedistallo della potenza».
La sua simpatia verso i lavoratori è attestata
in diversi passi dei Diari, soprattutto nella descrizione che fa delle
condizioni di lavoro nella fabbrica di amianto di proprietà della famiglia.
Lavorano
in uno stato di «sporcizia insopportabile», abbrutiti dal «frastuono incessante
delle trasmissioni e quello isolato delle macchine», «sottoposti al più
risibile dei poteri», non sono trattati come «esseri umani […] nessuno li
saluta, nessuno si scusa quando li urta».
Sono
numerosi i testi e gli schizzi letterari che descrivono il comportamento
sprezzante, altezzoso e brutale di «chi sta in alto».
C’è,
per esempio, il racconto su Bauz (inserito nei Diari), il direttore della
compagnia assicurativa “Il Progresso” che chiarisce quanto segue a un umile
disoccupato venuto a chiedere un posto di fattorino:
«Qui le suppliche non servono a niente. Non
sono autorizzato a distribuire favori […]. Se ne vada e non stia più a
seccarmi», una frase accompagnata da un pugno sulla scrivania, mentre l’uomo
viene trascinato fuori dell’ufficio.
O,
ancora, il breve testo “Le Nuove Lampade”, dove i funzionari
dell’amministrazione trattano con sprezzante ironia la richiesta perfettamente
legittima di nuove lampade di sicurezza presentata da una delegazione di
minatori:
«Vaglielo a dire ai tuoi laggiù in fondo: noi
c’impegneremo finché non avremo trasformato la vostra galleria in un salotto e,
soprattutto, finché non ci creperete dentro in scarpe di vernice! Ossequi…».
Anche nel suo lavoro all’ufficio di
assicurazioni, considerato strettamente professionale e neutro, Kafka si
permetteva di tanto in tanto di lasciar trasparire le proprie preferenze.
Come in quel rapporto sugli incidenti di
lavoro nell’edilizia civile, nel quale lamenta «l’assenza della voce della
classe operaia (Arbeiterschaft)» nel dibattito sulle misure di sicurezza,
lacuna che attribuisce «a un’insufficiente organizzazione dei lavoratori»,
soprattutto nelle piccole imprese, un’osservazione che parrebbe più appropriata
alla penna di un sindacalista che non a quella del vicesegretario dell’Ufficio
delle Assicurazioni del Regno di Boemia.
Torniamo
ancora una volta alla “Lettera al padre”.
Proprio
basandosi su questo documento si può capire la simpatia di Kafka per altri
giovani vittime dell’autoritarismo paterno, come l’anarchico freudiano Otto
Gross.
Nel
1913 costui era stato internato, su disposizione di suo padre, in un ospedale psichiatrico
e sarebbe stato liberato solo grazie a una campagna di stampa condotta da
scrittori espressionisti.
Richiamandosi
a Nietzsche, a Freud e a Stirner, Gross attaccava nei suoi scritti la volontà
di potenza, il potere patriarcale e il principio di autorità, nella famiglia
come nella società.
Kafka
alla facoltà di legge era stato uno studente del padre di Otto, Hans Gross,
autore di un Manuale per giudici istruttori, funzionari di polizia e gendarmi,
nonché fanatico sostenitore della deportazione degli individui «degenerati»,
come «gli infingardi, gli eterni scontenti, i sovversivi» …
Franz conosce il figlio in occasione di un
viaggio in treno nel luglio 1917; poco dopo, nel corso di un incontro a Praga,
Otto Gross propone a Werfel e a Kafka la pubblicazione di una rivista dal
titolo «Blätter zur Bekämpfung des Machtwillens» (Fogli di lotta contro la volontà di
potenza).
In una lettera a Brod del novembre dello
stesso anno, Kafka manifestava un forte interesse per quel progetto.
È
evidente che Gross rappresentava ai suoi occhi la convergenza tra la rivolta
contro la tirannia paterna e la resistenza (anarchica) a qualsiasi autorità
istituzionale.
Lo
scrittore svizzero Max Pulver, che conobbe Kafka nel 1917, offre un’avvincente testimonianza
che mette in luce l’intimo connubio di questi due aspetti nel carattere e nella
personalità del suo interlocutore:
Nel
processo che egli intentava al mondo aveva coinvolto non solo suo padre, ma
tutti gli altri padri alla stessa stregua e tutte le figure dell’autorità […].
Si sprigionava uno strano prestigio dal suo atteggiamento d’insubordinazione,
dal suo gusto per la segretezza, dal suo disprezzo per qualunque forma di
autorità: il prestigio dell’intransigenza, sempre dotato di una grande forza di
seduzione.
Insubordinazione,
intransigenza, rifiuto dell’autorità paterna e di qualsiasi altra forma di
autorità:
si vede tratteggiato, in tutto il suo rigore e
in tutta la sua forza, lo stato d’animo in cui Kafka redigeva una parte
importante dei suoi scritti.
Prendiamo
“La Condanna” (1912).
In questo breve racconto che rappresenta una
svolta nella sua produzione letteraria e il punto di avvio nella redazione
delle sue opere maggiori, Kafka rappresenta soltanto l’autorità paterna.
Un
giovane commerciante, Georg Bendemann, va a trovare il vecchio padre e costui,
con pretesti ingannevoli (una presunta mancanza di attenzione nei confronti di
un amico partito per la Russia), lo condanna a morte per annegamento.
Questo
racconto di un’estrema crudeltà è uno dei rari testi in cui il protagonista si
assoggetta completamente e senza resistere al verdetto autoritario (gettandosi
nel fiume).
Si potrebbe riassumere in questo modo la
straordinaria tensione che attraversa la storia: alla tirannia paterna è impossibile
sottrarsi, ma ubbidire ciecamente ai suoi ordini è una forma di suicidio…
L’interpretazione
predominante di questo racconto propende per la colpevolezza del figlio, perché
è egoista, perché tende a trascurare i genitori.
La
logica di una lettura del genere, che si ritroverà anche nella letteratura
secondaria sul Processo, è implacabile: il padre lo accusa, il figlio accetta
la condanna ed esegue la sentenza, e pertanto deve essere colpevole di qualche
cosa…
Ma
questo significa solo sfiorare l’essenziale: l’ingiustizia brutale e del tutto
arbitraria del «patriarca furioso».
Walter
Benjamin commentando questo testo osserva che il padre «condanna il figlio a
morte per immersione. Il padre è colui che punisce. È attirato dalla colpa come
i funzionari della Giustizia.
È assai significativo che, per Kafka, il mondo
dei funzionari sia tutt’uno con quello dei padri».
Milan
Kundera avanza una tesi analoga nel confronto tra “La Condanna” e “Il Processo”:
«La somiglianza tra le due accuse, tra la
colpevolizzazione e l’esecuzione della pena, nell’un caso e nell’altro rivela
la continuità che collega l’intimo ‘totalitarismo’ familiare a quello delle
grandi visioni di Kafka».
Tale
continuità è essenziale per comprendere l’atmosfera dei grandi romanzi, ma non
c’è dubbio che questi ultimi contengano un elemento di novità rispetto alla
Condanna:
il
carattere sempre più anonimo, gerarchizzato, opaco e distante del potere.
Chi
giudica, chi punisce e uccide, non è più il padre, ma un apparato
amministrativo.
Non è
superfluo sottolineare ancora come Kafka, in questo racconto come negli scritti
che l’hanno seguito, non abbia voluto trasmettere nessun «messaggio».
Egli
scriveva seguendo la propria ispirazione, senza un fine prestabilito, ed era
incapace, una volta terminata l’opera, di attribuirle una «spiegazione»
qualsiasi.
Una
lettera a Felice, del giugno 1913, è del tutto esplicita a questo riguardo:
«Trovi
un significato qualsiasi alla Condanna, voglio dire un significato diretto,
coerente, facile da seguire?
Io no
e, del resto, non ci vedo niente che io sia in grado di spiegare».
Certo, c’è tanta ironia e autoironia in questa
affermazione, ma non per questo è meno significativa, non solo per questo
racconto, ma probabilmente per tutta la sua opera.
Il che
non rende illeciti i tentativi di spiegazione, ma questi non riguardano una
qualche intenzione a priori dello scrittore.
Anche “La Metamorfosi” (1912) è un racconto sul potere
mortale del padre. Gregor Samsa, trasformatosi a sua insaputa in un gigantesco
insetto (Ungeziefer), rischia «a ogni attimo […] di ricevere un colpo mortale
sul capo o sul dorso dal bastone in mano al padre».
Lo
salva soltanto, dalla furia del patriarca, la madre che si precipita su
quest’ultimo e lo implora di risparmiare la vita a Gregor.
Ferito, stordito, maledetto e abbandonato da
tutti, si lascia morire: delle sue «esequie» s’incarica la donna di servizio,
con una scopa:
«Be’, insomma, non si preoccupi più di come
sbarazzarsi di quella roba (Zeug) là. È tutto sistemato».
Per capire questa celebre e terrificante
favola sul «totalitarismo
familiare»
non è superfluo ricordare che Kafka, nella “Lettera al padre”, si lamenta di
essere da lui considerato come «un parassita» e «un insetto» (Ungeziefer)…
Certo,
questa dimensione (senza dubbio importante) non svuota affatto di «senso» il
racconto, che mantiene il suo mistero e, come ogni opera di poesia, rimane
inesplicabile.
D’altra
parte, proprio per questo racconto fu utilizzata per la prima volta, da Oskar
Walzel nel 1916, l’espressione «logica del meraviglioso».
Amerika,
o Der Verschollene (Il Disperso), del 1913-1914, rappresenta, nell’ottica delle
forme di autorità, un’opera di transizione.
I
personaggi dominanti sono figure paterne (il padre di Karl Rossmann e lo zio
Jakob) ma anche declassati (Delamarche) e alti dirigenti (il direttore e il
portiere capo dell’hotel Occidental).
Tutti
si dimostrano insopportabilmente autoritari, con tratti che si ritroveranno nei
racconti e nei romanzi degli anni successivi:
atteggiamenti
arbitrari, privi di qualsiasi giustificazione (morale, razionale, umana);
pretese
smisurate e assurde verso i protagonisti vittime;
ingiustizia
(la colpevolezza è considerata, a torto, evidente, ovvia, smaccata,
indubitabile);
pene
totalmente sproporzionate rispetto alle «mancanze» (inesistenti o
insignificanti).
Chi
ubbidisce a tutto senza resistere finisce per diventare «un cane»: quando si è
trattati sempre da cani, dice l’irlandese Robinson, «si finisce per credere di
esserlo veramente».
Il
giovane Karl Rossmann è invece convinto che questo valga solo per «chi lo
permette» in qualsiasi circostanza;
lui
ubbidisce soltanto al verdetto dei personaggi paterni (padre e zio) e si sforza
di resistere a tutti gli altri, anche fisicamente.
I più odiosi sono, senza confronto, i capi
della gerarchia amministrativa dell’hotel Occidental, personificazione del
principio di autorità.
Il maître d’hôtel respinge le proposte
concilianti della capocuoca ed esclama: «Si tratta della mia autorità, è in
gioco qualcosa d’importante: un ragazzo d’ascensore come questo finirebbe per
corrompermi tutta la compagnia».
L’autorità
burocratica, che finisce per schiacciare il piccolo Karl, posto al livello più
basso della «enorme scala gerarchica dei servitori», conserva tuttavia una dimensione
di tirannia personale, combina la freddezza della burocrazia con un crudele
dispotismo individuale ai limiti del sadismo, soprattutto nel portiere capo, che
prova un piacere sinistro nel brutalizzare il giovane Rossmann.
Il
simbolo di questo autoritarismo che si compiace della pena emerge fin dalle
prime pagine del libro: con un’ironica deformazione, Kafka presenta la statua della
Libertà, all’ingresso del porto di New York, mentre brandisce, al posto della
tradizionale torcia, una spada…
In un mondo senza giustizia e senza
libertà regnano indiscussi la nuda forza e il potere arbitrario.
La
simpatia del protagonista va alle vittime sofferenti di quella società, come il
fuochista del primo capitolo, «un pover’uomo maltrattato dai superiori», o la
madre di Teresa, spinta al suicidio dalla fame e dalla miseria.
Karl
trova amici e alleati dalla parte dei poveri: la stessa Teresa, lo studente
lavoratore, gli abitanti del quartiere popolare che si rifiutano di consegnarlo
alla polizia, perché, scrive Kafka, «gli operai non stanno dalla parte
dell’autorità».
Un
indizio ci dice fino a che punto certi burocrati in America conservino ancora
una certa parentela con l’autorità personale paterna: in uno degli uffici
dell’albergo si vedono i portieri che fanno cadere per terra oggetti raccolti e
radunati dai fattorini esausti.
Ora,
nella Lettera al padre, Kafka descrive in questo modo il comportamento del
genitore verso i suoi dipendenti: «Con uno spintone scaraventavi giù dallo scrittoio
merci che non volevi fossero scambiate con altre […] e il commesso doveva
raccattarle».
Amerika
(Der Verschollene) è senza dubbio il romanzo di Kafka che presenta le maggiori
affinità con la critica marxista della società industriale capitalista.
Lo è in modo particolarmente manifesto nella
descrizione dell’attività dello zio e dell’hotel Occidental come imprese
private che sfruttano senza pietà i propri dipendenti.
La rivista letteraria comunista «Kmen»,
infatti, non si sbagliava quando ne aveva pubblicato, nella traduzione in ceco
di Milena Jesenska, il primo capitolo («Il fuochista»).
Kafka non aveva letto Marx, ma conosceva opere
socialiste più o meno ispirate al marxismo.
Tra le
sue letture di quegli anni si trovano testi, come quelli di Arthur Holitscher o
l’autobiografia di Lily Braun, che contengono elementi di critica marxista
dello sfruttamento e dell’alienazione dei lavoratori;
lo stesso
vale per alcuni articoli pubblicati sulla «Neue Rundschau», un periodico al
quale il nostro era abbonato negli anni 1909-1913, di autori come Eduard
Bernstein o Kurt Eisner.
A me,
però, sembra che la critica tratteggiata in questo libro della società
americana e, in particolare, del potere esercitato sugli umani dagli apparati
tecnici moderni sia soprattutto ispirata dalla protesta romantica contro la
Zivilisation borghese, come la esprimevano i suoi amici del circolo culturale
sionista Bar Kochba, in particolare nel loro testo collettaneo pubblicato nel
1913, Vom Judentum, una copia del quale si trova nella biblioteca di Kafka.
Lo
attestano le descrizioni inquietanti del lavoro meccanizzato presenti nel
romanzo.
I dipendenti dello Zio, titolare di una
gigantesca impresa commerciale, passano le giornate ognuno chiuso nella propria
cabina telefonica, indifferenti a tutto, con la testa serrata in un nastro
d’acciaio;
solo
le dita si muovono, in modo meccanico, sussultano «con una regolarità
(gleichmässig) e una rapidità disumane».
Alla
stessa stregua, i ragazzi dell’ascensore dell’hotel Occidental fanno un lavoro
estenuante e monotono (einförmig), passano il tempo a schiacciare bottoni e
ignorano ogni aspetto del funzionamento delle macchine.
Negli
uffici e nelle strade dilaga un rumore assordante di suonerie e di clacson, una
baraonda frenetica che «non sembrava prodotta da esseri umani, ma da un
elemento ignoto».
Gli
esempi potrebbero essere infiniti: tutta l’atmosfera del libro rivela
l’inquietudine e l’angoscia dell’essere umano smarrito in un mondo spietato, in
una civiltà tecnica che gli sfugge.
Wilhelm
Emrich ha osservato acutamente come quest’opera sia «una critica tra le più
lucide che la letteratura moderna abbia conosciuto della società industriale.
L’occulto meccanismo economico e psicologico di questa società, i suoi effetti
diabolici sono messi in luce senza concessioni».
Si
tratta di un mondo dominato dal ritorno monotono dell’identico, per mezzo della
temporalità puramente quantitativa dell’orologio.
Così,
l’America del romanzo è percepita come una “Zivilisation senza Kultur”.
Sembra
che lo spirito e l’arte non vi svolgano più nessuna funzione, l’unico libro
menzionato è un manuale di corrispondenza commerciale… È noto come una delle
fonti principali del romanzo sia il libro dell’ebreo socialista Arthur
Holitscher, “Amerika heute und morgen,” pubblicato nel 1912, dove si trova una
descrizione dettagliata dell’«inferno» che rappresenta la civiltà americana
moderna e una critica corrosiva del taylorismo:
«La specializzazione del lavoro, frutto della
produzione di massa, riduce sempre più l’operaio a livello di una componente
inerte della macchina, di un ingranaggio o di una leva che funzionano con
precisione e in modo automatico».
L’aspetto
autoritario della civiltà americana, tuttavia, emerge più nettamente dalle
pagine di America che non da quelle di Holitscher;
è
proprio Kafka che riesce a mettere in luce l’onnipresenza del dominio nei
rapporti sociali.
La
differenza è particolarmente netta nella lettura del capitolo del libro di
Holitscher intitolato «Hôtel Athenäum, Chautauqua».
Vi si
parla di un ragazzo addetto all’ascensore di un grande albergo moderno,
peraltro uno studente di liceo (esattamente come Karl Rossmann all’hotel
Occidental).
Ma
questo non è affatto oppresso da un’impietosa gerarchia burocratica come l’eroe
di Kafka, bensì discute di grammatica latina con un ricco cliente.
Holitscher ne deduce che le differenze di
classe sono meno accentuate in America che in Europa…
Non
c’è dubbio che la diffidenza di Kafka nei confronti della tecnologia moderna
derivi dalla sua esperienza di impiegato
dell’Arbeiter-Unfall-Versicherungs-Anstalt für das Königreich Böhmen:
nel
numero crescente di incidenti sul lavoro (documentato in dettaglio dai grafici
e dalle illustrazioni delle sue relazioni professionali) egli vedeva l’oscuro
rovescio della medaglia dell’era trionfante del progresso tecnico.
Come
ha compreso benissimo Max Brod, la sua esperienza «professionale» lo spinge
ancora una volta a mettersi «dalla parte dei lavoratori» (per riprendere
un’espressione della Lettera al padre), in questo caso delle vittime di
incidenti sul lavoro:
«Si
sentiva violentemente scosso nei sentimenti di solidarietà sociale quando
vedeva le mutilazioni che gli operai avevano subìto a causa di carenze nei
dispositivi di sicurezza».
Per
illustrare quell’atteggiamento, cita una frase di Kafka che sembra ispirata ai
metodi libertari di azione diretta: «Come sono umili quegli uomini…
Vengono a pregarci. Invece di prendere d’assalto gli uffici e devastarli,
vengono a implorarci qualche favore».
Le
lettere di Kafka in questo periodo rivelano anch’esse il sentimento d’angoscia
verso la meccanizzazione del mondo:
in una
lettera a Felice del gennaio 1913, cita il dittafono come esempio delle
macchine che esercitano «sui lavoratori una costrizione più forte e più crudele
(grausamen) di quella esercitata da un essere umano […].
Davanti
al dittafono l’impiegato è svilito, ridotto allo stato dell’operaio di
fabbrica, che mette il proprio cervello al servizio del ronzio della macchina».
Qualche anno dopo, conversando con Janouch, dà
libero sfogo alla sua ostilità verso il taylorismo, con un linguaggio dalle
risonanze bibliche:
Con un
delitto come questo si arriva ad asservire gli altri per mezzo della malvagità.
È naturale.
La
parte più sfuggente e quindi meno esplorabile dell’intera creazione, il tempo,
viene imprigionata in una rete di impuri interessi economici.
In questo modo non solo la creazione, ma
soprattutto l’uomo, che ne è l’elemento costitutivo, viene macchiato e
umiliato.
Una vita all’insegna del taylorismo è una
maledizione tremenda da cui, al posto della ricchezza e del guadagno
desiderati, possono derivare solo fame e miseria.
Tale
ostilità morale e religiosa vero il «progresso» industriale capitalista,
quell’inquietudine tipicamente romantica davanti all’incubo di una vita umana
meccanizzata, in Kafka si accompagnano a una nostalgia della comunità
tradizionale, della Gemeinschaft organica, che lo attira verso la cultura
yiddish (e la lingua yiddish) degli ebrei dell’Europa orientale, verso i
progetti di vita rurale in Palestina, come pure verso il sionismo romantico e
intellettuale dei suoi amici praghesi (sia pure in un modo più ambiguo).
Anche
la comunità contadina ceca, che viveva in pace e in armonia con la natura,
suscitava in lui ammirazione e meraviglia:
Impressione
generale che fanno i contadini: sono nobili che hanno trovato rifugio nelle
attività agricole e hanno organizzato il proprio lavoro con tanta saggezza e
tanta umiltà da inserirlo senza difficoltà nella totalità delle cose e da
proteggersi da qualsiasi tempesta e sbattimento fino al giorno felice del loro
trapasso. Autentici cittadini della terra.
Colpisce
un confronto tra questo quadro idilliaco e pacifico e la descrizione della
malsana frenesia del porto di New York nel primo capitolo di America: «Un movimento senza fine, un’irrequietudine
trasmessa dall’inquieto elemento agli uomini indifesi e alle loro opere».
Poco
dopo la stesura di “America”, Kafka scrisse il racconto “Nella Colonia Penale”
che, tra tutti i suoi scritti, è quello in cui l’autorità si presenta con il
suo volto più micidiale e più iniquo.
È
anche una delle sue opere più impressionanti per la violenza cupa e repressa
delle sue pagine: essa provoca più di altre quello sconvolgimento del rapporto
contemplativo tra lettore e testo che rappresenta, secondo Adorno, un punto di
convergenza fondamentale tra Kafka e il surrealismo:
«La narrazione piomba addosso al lettore come
la locomotiva addosso al pubblico nelle nuove tecniche dei film a tre
dimensioni».
Uno
dei migliori commenti a questo testo fondamentale resta la recensione
pubblicata da Kurt Tucholsky sulla «Weltbühne» del 13 giugno 1920 per la prima
edizione del racconto; questo capolavoro, scrive Tucholsky, si presenta in forma
di sogno, ma non c’è nulla di vago: è un sogno «impietosamente duro,
crudelmente oggettivo e di una chiarezza cristallina» che ha come tema centrale
l’asservimento al potere.
«E un potere che qui non ha limiti (Und diese Macht
hat hier keine Schranken)».
Nel
racconto si ritrovano le figure del potere tradizionale e personale (di origine
patriarcale) con i due comandanti, quello vecchio e quello nuovo.
La funzione svolta da questi due personaggi è
però relativamente limitata e l’espressione dell’autorità si sposta verso il
meccanismo impersonale del congegno destinato a mettere a morte.
Lo
strano funzionamento di quello strumento puramente immaginario, del tutto
inventato dallo scrittore, contribuisce grandemente al fascino di questo
scritto in quanto creazione letteraria.
Non è
possibile leggere questa storia tenebrosa dopo il 1945 senza pensare alle
«fabbriche della morte» del nazismo, allo sterminio di milioni di ebrei e di
zingari attuato con mezzi tecnici sofisticati.
Vari
pensatori, da Adorno a George Steiner, hanno avanzato l’ipotesi, alla luce
dell’esperienza della Shoah, che questo fosse lo scritto più profetico di Kafka.
Più di
recente Enzo Traverso ha osservato:
Nella
Colonia Penale sembrava annunciare i massacri anonimi del xx secolo, nei quali
l’uccisione di massa diventa un’operazione tecnica sempre più sottratta
all’intervento diretto degli uomini […].
L’erpice
immaginato da Kafka, che incideva sulla pelle della vittima la sentenza
capitale, ricorda in modo impressionante il tatuaggio degli Häftlinge ad
Auschwitz, quel numero indelebile che, come dice Primo Levi, faceva sentire «la
propria condanna scritta sulla carne».
C’è
indubbiamente un che di profetico in quelle pagine.
Tuttavia,
per comprendere un testo così sorprendente, è necessario chiedersi quali
fossero i modelli e le motivazioni che lo avevano ispirato a suo tempo.
A me
pare che si tratti di tre forme di dominio strettamente collegate tra loro: la
prima è quella coloniale, la seconda quella militare e la terza (la più
indiretta) quella burocratica.
Kafka
si riferisce in primo luogo a una realtà molto precisa della sua epoca, il
colonialismo, e più esattamente il colonialismo francese…
Gli
ufficiali e i comandanti della Colonia sono francesi; gli umili soldati, gli
scaricatori, le vittime condannate a morte sono «indigeni» che non capiscono
nemmeno una parola di francese.
Il nome di quella località «tropicale» non è
indicato.
Si
potrebbe immaginare che si tratti dell’isola del Diavolo, dove era stato
confinato il capitano Dreyfus dopo la condanna, ma laggiù non c’era popolazione
indigena.
Oppure
si può pensare alla Nuova Caledonia, quella «colonia penale» francese abitata
da melanesiani, dov’erano stati deportati i prigionieri comunardi, ma Kafka non
parla di prigionieri deportati, politici o no.
In
realtà l’isola del racconto fa più pensare a una colonia normale che a una
«penale».
Perché,
allora, Kafka nel titolo la chiama così, se non c’è nemmeno un prigioniero
deportato?
Il
termine tedesco Strafkolonie suggerisce una possibile risposta, perché mette
l’accento sulla punizione (Strafe):
si
tratterebbe di una colonia in cui la vita sociale e politica ruota intorno
all’apparato punitivo.
Comunque
sia, i personaggi sono quelli di un qualsiasi regime coloniale: un’élite bianca
e una massa indigena.
Un’ambientazione
del genere spiega la straordinaria violenza del dominio, che qui è molto più
diretto e brutale rispetto a quello di America o, più tardi, del Castello e del
Processo.
Ora,
una visione tanto critica del potere coloniale era rara se non inesistente
nella letteratura dell’epoca.
Il
racconto presenta tre espressioni distinte del colonialismo.
Innanzitutto,
quella di un’estrema crudeltà, personificata dall’ex comandante e
dall’ufficiale.
Il loro discorso ha certo un’intonazione
religiosa, ma si tratta di una parodia di religione che serve da
giustificazione trascendentale a una truce oppressione.
Viene
poi la posizione più «umanitaria» del nuovo comandante, che medita di abolire
lo strumento di tortura, ma intanto lo lascia sempre in funzione, anche se con
maggiore discrezione rispetto a prima.
Tale
forma più «morbida» di dominio trova il proprio rito umanitario nella
distribuzione di dolciumi, da parte della moglie del comandante e delle altre
dame dell’élite coloniale, ai condannati a morte, poco prima che siano
giustiziati…
Infine
c’è quella più illuminata del viaggiatore, un europeo disgustato dai metodi
barbari della colonia, che però non fa nulla per impedire la messa a morte
dell’indigeno condannato e che prende posizione contro quel sistema di tortura
solo dopo una lunga esitazione e in modo rigorosamente privato, con «qualche
parola in confidenza» all’ufficiale.
È pur vero che quella discreta opposizione ha
comunque un effetto decisivo, perché l’ufficiale, scoraggiato, prende il posto
del condannato e si fa giustiziare.
L’esploratore
finisce per darsi alla fuga a bordo della prima nave che salpa dalla colonia
(di sicuro per l’Europa), non senza avere impedito con la forza ai due indigeni
(il soldato e il prigioniero) di imbarcarsi con lui.
I
colonizzati appaiono più vittime del dominio che soggetti autonomi.
Il che, d’altronde, corrispondeva alla realtà
in un’epoca in cui la contestazione nelle colonie era assai rara.
È quindi interessante notare come il soldato
condannato, prima di sottomettersi «come un cane», abbia un moto legittimo di
ribellione e strappi dalle mani dell’ufficiale la frusta che lo colpisce.
E anche come, dopo la morte dell’ufficiale che
li ha rallegrati, in una sorta di rivincita sociale, il soldato e il prigioniero
ritrovino una certa complicità e tentino di fuggire insieme dalla colonia.
Oltre
al colonialismo, il racconto mette anche in discussione, e in modo non meno
critico, l’istituzione militare.
Kafka
racconta infatti la mostruosa vendetta dell’autorità militare oltraggiata.
Il povero soldato è condannato a morte per
«indisciplina e comportamento offensivo verso un superiore».
Qual è
il suo «reato»?
Non
essere riuscito a svolgere un compito esagerato e ridicolo e, dopo essere stato
colpito al volto dal frustino del capitano, avere osato ribellarsi all’autorità
con un grido di protesta.
Senza
nessuna possibilità di difendersi, in base alla dottrina giuridica degli
ufficiali che afferma che «la colpevolezza è sempre certa», l’uomo è condannato
a essere giustiziato da una macchina di tortura che scrive lentamente sul suo
corpo (con aghi che lo perforano): «Onora i tuoi superiori».
L’ostilità
dell’autore verso l’autoritarismo militare e il turbamento che questo gli
ispira si manifestano in modo toccante in questo racconto.
Come
abbiamo visto, tra il 1909 e il 1912 Kafka era vicino agli ambienti anarchici e
antimilitaristi praghesi.
La sua
affinità con le loro idee è attestata da un passo dei Diari, in occasione di un
viaggio in Svizzera nel 1911:
«Impressione
storica che dà un esercito straniero. È un’impressione che non esiste quando si
tratta del proprio esercito. Argomento per l’antimilitarismo».
Il ragionamento è un po’ forzato, ma la conclusione
non lascia dubbi: dalle impressioni di viaggio Kafka trae spunto per argomenti
a favore della battaglia antimilitarista.
Gli
stessi sentimenti antimilitaristi si ritrovano in alcuni frammenti letterari,
per esempio in questo breve aneddoto:
Arrivarono
due soldati e mi afferrarono. Io mi difesi, ma mi tenevano saldamente. Mi
condussero davanti al loro comandante, un ufficiale. Com’era rutilante la sua
divisa! Io dissi: «Che volete da me? Io sono un civile».
L’ufficiale sorrise e replicò: «Sei un civile, ma
questo non c’impedirà di prenderti. L’esercito ha potere su tutto» (Das Militär hat Gewalt über
alles).
In
queste poche righe si trovano condensati, da un lato, l’atteggiamento ribelle
del narratore («io»), che tenta vanamente di difendere la propria libertà, il
suo sguardo ironico sull’uniforme multicolore dell’ufficiale, il suo rifiuto di
riconoscere l’autorità dei militari sulla sua persona e il rapporto diseguale
tra loro e lui, espresso dall’uso del voi da parte sua, mentre l’ufficiale usa
sprezzantemente il tu; dall’altro lato, quello dei militari, c’è invece
l’affermazione gravida di minacce di aspirare all’amministrazione totale – per
non dire totalitaria – da parte dell’esercito.
Sarebbe
difficile riuscire a esprimere in modo più conciso, vivo e denso la diffidenza
verso la «cosa» militare.
Ma
torniamo a Nella Colonia Penale:
il
personaggio centrale di questo inquietante racconto non è l’ufficiale (che fa
di volta in volta le funzioni di giudice, di boia e di tecnico), né il
viaggiatore, che osserva gli eventi con un occhio critico, né il prigioniero, e
neppure, come si pensa spesso, il comandante.
È la
macchina, il dispositivo.
Tutta
la narrazione ruota intorno a quel meccanismo mortale, alla sua origine, al suo
funzionamento in certo senso automatizzato (non è necessario «azionarlo
manualmente», perché «il dispositivo funziona completamente da solo»), al suo
significato.
I protagonisti
del dramma svolgono il proprio ruolo in funzione di questo asse centrale.
Il dispositivo, il cui movimento è «calcolato
con estrema precisione», appare sempre di più, nel corso delle spiegazioni
dell’ufficiale, come fine a sé stesso
. Non
è lì per giustiziare l’uomo: è piuttosto l’uomo che è lì per giustificare il
dispositivo, per fornire un corpo sul quale questo possa scrivere il proprio
capolavoro artistico, la sua iscrizione sanguinante, «circondata da
innumerevoli svolazzi».
Si
ritrova qui, ma con una forza infinitamente superiore, la critica d’ispirazione
romantica già accennata in America del potere sinistro delle macchine moderne.
L’ufficiale
stesso è solo un servitore della macchina e alla fine si sacrifica a
quell’insaziabile Moloch.
L’autorità appare così nella sua immagine più
alienata, più reificata, in quanto oggetto meccanico.
Questo oggetto asservisce gli uomini che lo hanno
prodotto, li domina e li distrugge.
Quale
«macchina» specifica, sacrificatrice di vite umane, aveva in mente Kafka?
Il
racconto “Nella Colonia Penale” è stata scritto nell’ottobre 1914, tre mesi
dopo lo
scoppio della prima guerra mondiale…
La
guerra sarebbe dunque per lui un meccanismo inumano e mortale, una sorta di
cieco ingranaggio reificato che sfugge al controllo di chiunque.
Ma l’immagine della guerra come «dispositivo»
ha anche un altro significato, più diretto: si tratta di un immenso scontro tra
macchine che uccidono.
In un testo scritto nel 1916, un pubblico
appello per la costruzione di un ospedale destinato alla cura delle malattie
nervose nelle vittime della guerra, Kafka è esplicito:
La
guerra mondiale, che ha concentrato in sé tutta la miseria umana, è anche, più
di qualsiasi precedente conflitto, una guerra di nervi…
Proprio
come negli ultimi decenni di pace lo sfruttamento intensivo delle macchine
metteva in pericolo i nervi di chi se ne occupava, li sconvolgeva e li faceva
ammalare, il ruolo enormemente cresciuto delle macchine nelle azioni belliche
oggi provoca i più gravi pericoli e le peggiori sofferenze per i nervi dei
combattenti.
Nel
collegamento tra l’ex comandante, l’ufficiale e la macchina, Kafka coglie con
lucidità impressionante una caratteristica essenziale della prima guerra
mondiale:
il
nodo inestricabile, l’intima fusione tra l’autoritarismo più arcaico,
retrogrado, passatista, patriarcale, pseudo-religioso e brutale, e la
tecnologia più sofisticata, moderna, esatta, calcolata, «razionale».
Il tutto al servizio di un obiettivo concreto e
preciso: lo sterminio di esseri umani.
Ciò
che lo scrittore qui intuisce ed esprime non è forse uno dei possibili sviluppi
della civiltà occidentale moderna e della sua razionalità strumentale?
Uno sviluppo che nel corso del secolo avrebbe fatto
mostra di un immenso potenziale di barbarie.
Si può anche considerare che il dispositivo
del racconto rappresenti lo Stato burocratico moderno in quanto tale, e non
solo nelle sue espressioni colonialiste e militariste.
Certo,
la burocrazia in quanto tale non è una macchina di sterminio, ma Kafka non aveva esitato,
discorrendo con Janouch, a paragonarla a un boia:
Oggi
il mestiere di boia è un impiego come un altro: rispettabile e ben pagato.
Perché dunque dietro a ogni rispettabile funzionario non si dovrebbe nascondere
un boia?
[I funzionari] trasformano gli uomini vivi e
mutevoli in corpi morti, li riducono a numeri incapaci di qualsiasi mutamento,
buoni solo per l’archivio.
La
critica dello Stato come sistema inumano e meccanico è tradizionale nel
romanticismo e risale alle prime espressioni di quella corrente di pensiero. In
un testo del 1797, il giovane Schelling già proclamava:
«Ogni Stato tratta inevitabilmente gli esseri
umani liberi come un sistema di ingranaggi meccanici (mechanische Räderwerk)».
Il
pensiero anarchico moderno (Kropotkin!) è l’erede di quella critica romantica,
ma se ne ritrovano gli echi fin nelle opere di certa sociologia tedesca, per
esempio in Alfred Weber.
È
possibile che Kafka sia venuto a conoscenza dell’articolo di quest’ultimo
sull’«impiegato», apparso nel 1910 sulla «Neue Rundschau» alla quale era
abbonato;
in
quello scritto si definiva la burocrazia «un gigantesco apparato (Apparat)», un
«meccanismo morto» che esercita il proprio dominio su tutta la nostra
esistenza.
Ritornerò
sull’argomento.
Non
mancano certo i saggi politici o sociologici di critica al colonialismo, al
militarismo e alla burocrazia.
Il
contributo di Kafka, con mezzi letterari, è la creazione di un singolare
universo immaginario che non riflette la realtà, ma la colloca sotto una luce
nuova, di una forza incomparabile.
Come
si spiega il passaggio dai racconti che descrivono il «potere illimitato» dei
patriarchi al racconto Nella Colonia Penale, che rappresenta un potere senza
limiti come un meccanismo impersonale?
Non
c’è dubbio che in questo processo di spersonalizzazione e di oggettivazione
dell’autorità entrino in gioco vari elementi, ma a me non sembra casuale che la
svolta decisiva sia avvenuta all’inizio del conflitto mondiale, una manifestazione formidabile degli
apparati statali e della loro logica assassina.
Nelle
opere successive, Il Processo e Il Castello, al centro troviamo l’autorità
impersonale e gerarchica dell’apparato statale (giuridico o amministrativo).
In
questo nuovo approccio, il conflitto con la tirannia paterna non è dimenticato,
ma aufgehoben: rimosso-conservato-superato.
Tra i
primi che hanno posto al centro della riflessione sull’opera kafkiana il tema
del dominio ci sono i marxisti critici, come Walter Benjamin, Bertolt Brecht,
Theodor Adorno, Ernst Fischer o Karel Kosík.
Forse perché questo tema non era necessariamente
incompatibile con il marxismo, o piuttosto con certe letture eterodosse del
pensiero marxiano…
Per
Benjamin, la forza critica di Kafka nasce dal fatto che egli scrive dal punto
di vista del «cittadino moderno, che si sa preda di un apparato burocratico
impenetrabile, il cui funzionamento è controllato da istanze che restano
indefinite anche per i suoi stessi organi esecutivi e, a maggior ragione, per
coloro che ne sono manipolati».
Napoleone
aveva sostituito la politica al destino; in Kafka diventa destino
l’organizzazione, così come si manifesta nelle «vaste gerarchie burocratiche
del Processo e del Castello» o negli «inestricabili progetti di costruzione»
della Muraglia Cinese.
Anche
Karel Kosík percepisce l’universo kafkiano come «un labirinto spaventevole e
assurdo», nel quale gli esseri umani sono «presi nella rete della macchina
burocratica, degli apparati, delle creazioni reificate».
Infine,
Adorno indica quale tema essenziale delle opere del praghese la razionalità del
dominio (herrschaftlichen Rationalität), basata sulla cieca violenza che si
riproduce anch’essa all’infinito e la cui espressione più moderna è il
controllo burocratico.
(MICHAEL
LÖWY È UN SOCIOLOGO E FILOSOFO FRANCESE).
IL
MANIFESTO DEL GRANDE
RISVEGLIO
CONTRO IL GRANDE RESET.
Comedonchisciotte.org
- Redazione CDC – Aleksandr Dugin - ( 22 Marzo 2022) – ci dice:
(Pubblichiamo
l’elaborazione del filosofo russo Aleksandr Dugin uscita nel marzo dello scorso
anno, ma oggi ancora più attuale visti gli sviluppi degli eventi in corso su
scala internazionale.
Il
documento è stato tradotto e pubblicato di recente da Nexusedizioni.it, ve lo
riproponiamo di seguito nella sua interezza.
Buona
lettura.)
Il
Manifesto del Grande Risveglio contro il Grande Reset
Di
Aleksandr Dugin, katehon.com
Parte
1. Great Reset
I 5
punti del principe Carlo.
Nel
2020, al forum di Davos, il fondatore del forum Klaus Schwab e Charles, il
principe di Galles, hanno proclamato un nuovo corso per l’umanità, il Great
Reset.
Il
piano, secondo il Principe di Galles, si compone di cinque punti:
Per
catturare l’immaginazione e la volontà dell’umanità, il cambiamento avverrà
solo se le persone lo vogliono davvero;
La
ripresa economica deve mettere il mondo sulla strada dell’occupazione, dei
mezzi di sussistenza e della crescita sostenibili.
Le
strutture di incentivazione di vecchia data che hanno avuto effetti perversi
sul nostro ambiente planetario e sulla natura stessa devono essere reinventate;
Sistemi
e percorsi devono essere riprogettati per far avanzare le transizioni net zero
a livello globale.
Il prezzo del carbonio può fornire un percorso
critico verso un mercato sostenibile;
Scienza,
tecnologia e innovazione hanno bisogno di rinvigorimento.
L’umanità
è sull’orlo di scoperte catalitiche che modificheranno la nostra visione di ciò
che è possibile e redditizio nel quadro di un futuro sostenibile;
Gli
investimenti devono essere riequilibrati.
L’accelerazione
degli investimenti verdi può offrire opportunità di lavoro nell’energia verde,
nella economia circolare e nella bioeconomia, nell’ecoturismo e nelle
infrastrutture pubbliche verdi.
Il
termine “sostenibile” fa parte del concetto più importante del Club di Roma –
“sviluppo sostenibile”.
Questa
teoria si basa su un’altra teoria:
i
“limiti di crescita”, secondo cui la sovrappopolazione del pianeta ha raggiunto
un punto critico (il che implica la necessità di ridurre il tasso di natalità).
Il
fatto che la parola “sostenibile” venga utilizzata nel contesto della pandemia
di Covid-19, che, secondo alcuni analisti, dovrebbe portare a un calo
demografico, ha provocato una reazione significativa a livello globale.
I
punti principali del Great Reset sono:
• il
controllo sulla coscienza pubblica su scala globale, che è al centro della
“cancel culture”;
•
l’introduzione della censura sulle reti controllate dai globalisti (punto 1);
•
Transizione verso un’economia ecologica e rifiuto delle moderne strutture
industriali (punti 2 e 5);
• L’ingresso
dell’umanità nel 4° ordine economico (a cui era dedicato il precedente incontro
di Davos), ovvero la graduale sostituzione della forza lavoro con i cyborg e
l’implementazione dell’Intelligenza Artificiale avanzata su scala globale
(punto 3).
L’idea
principale del “Great Reset” è la continuazione della globalizzazione e il
rafforzamento del globalismo dopo una serie di fallimenti:
la
presidenza conservatrice dell’antiglobalista Trump, la crescente influenza di
un mondo multipolare – in particolare di Cina e Russia, l’ascesa di paesi
islamici come Turchia, Iran, Pakistan, Arabia Saudita e il loro ritiro
dall’influenza dell’Occidente.
Al
forum di Davos, i rappresentanti delle élite liberali globali hanno dichiarato
la mobilitazione delle loro strutture in attesa della presidenza di Biden e
della vittoria dei democratici negli USA, cosa che desiderano fortemente.
Implementazione.
Il
contrassegno dell’agenda globalista è la canzone di Jeff Smith “Build Back
Better” (lo slogan della campagna di Joe Biden). Ciò significa che dopo una
serie di battute d’arresto (come un tifone o l’uragano Katrina), le persone
(intendo i globalisti) ricostruiscono infrastrutture migliori di prima.
Il
“Great Reset” inizia con la vittoria di Biden.
Leader
mondiali, capi di grandi società – Big Tech, Big Data, Big Finance, ecc. – si
sono riuniti e si sono mobilitati per sconfiggere i loro oppositori: Trump,
Putin, Xi Jinping, Erdogan, l’Ayatollah Khamenei e altri.
L’inizio è stato quello di strappare la vittoria a
Trump utilizzando le nuove tecnologie – attraverso la “cattura
dell’immaginazione” (punto 1), l’introduzione della censura su Internet e la
manipolazione del voto per corrispondenza.
L’arrivo
di Biden alla Casa Bianca significa che i globalisti stanno passando ai passi
successivi.
Ciò
influenzerà tutte le aree della vita: i globalisti stanno tornando al punto in
cui Trump e altri poli di crescente multipolarismo li avevano fermati.
Ed è qui che il controllo mentale (attraverso
la censura e la manipolazione dei social media, la sorveglianza totale e la
raccolta dei dati di tutti) e l’introduzione di nuove tecnologie giocano un
ruolo fondamentale.
L’epidemia
di Covid-19 è una scusa per questo.
Con il
pretesto dell’igiene sanitaria, il Great Reset prevede di alterare drasticamente
le strutture di controllo delle élite globaliste sulla popolazione mondiale.
L’inaugurazione
di Joe Biden e i decreti che ha già firmato (ribaltando praticamente tutte le
decisioni di Trump) significano che il piano ha iniziato a concretizzarsi.
Nel
suo discorso sul “nuovo” corso della politica estera statunitense, Biden ha
espresso le principali direzioni della politica globalista.
Può
sembrare “nuovo”, ma solo in parte, e solo rispetto alle politiche di Trump.
Nel
complesso, Biden ha semplicemente annunciato un ritorno al vettore precedente: Mettere gli interessi globali davanti
agli interessi nazionali;
Rafforzare
le strutture del governo mondiale e dei suoi rami sotto forma di organizzazioni
sovranazionali globali e strutture economiche;
Rafforzare
il blocco NATO e la cooperazione con tutte le forze e regimi globalisti;
La
promozione e l’approfondimento del cambiamento democratico su scala globale,
che in pratica significa:
intensificare
le relazioni con quei paesi e regimi che rifiutano la globalizzazione – in
primis Russia, Cina, Iran, Turchia, ecc.;
una
maggiore presenza militare statunitense in Medio Oriente, Europa e Africa;
la
diffusione dell’instabilità e delle “rivoluzioni colorate”;
Uso
diffuso di “demonizzazione”, “de-platforming” e ostracismo di rete (cancella la
cultura) contro tutti coloro che hanno opinioni diverse da quella globalista
(sia all’estero che negli stessi Stati Uniti).
Così,
la nuova dirigenza della Casa Bianca non solo non mostra la minima
disponibilità ad avere un dialogo paritario con chiunque, ma solo inasprisce il
proprio discorso liberale, che non tollera alcuna obiezione.
Il
globalismo sta entrando in una fase totalitaria.
Ciò
rende più che probabile la possibilità di nuove guerre, compreso un aumento del
rischio di una terza guerra mondiale.
La
geopolitica del “Grande Reset”.
La “Globalist
Foundation for Defense of Democracies”, che esprime la posizione dei circoli
neoconservatori statunitensi, ha recentemente pubblicato un rapporto in cui
raccomanda a Biden che alcune delle posizioni di Trump come:
crescente
opposizione alla Cina, maggiore pressione sull’Iran
sono positivi, e che Biden dovrebbe continuare
a muoversi lungo questi assi in politica estera.
Gli
autori del rapporto, d’altra parte, hanno condannato le azioni di politica
estera di Trump come:
lavorare per disintegrare la NATO;
riavvicinamento con i “leader totalitari”
(cinesi, RPDC e russi);
un
“cattivo” accordo con i talebani;
ritiro
delle truppe americane dalla Siria.
Pertanto,
il “Grande Reset” in geopolitica significherà una combinazione di “promozione
della democrazia” e “strategia aggressiva neoconservatrice di dominio su vasta
scala”, che è il principale vettore della politica “neoconservatrice”.
Allo
stesso tempo, si consiglia a Biden di continuare e aumentare il confronto con
Iran e Cina, ma l’obiettivo principale dovrebbe essere la lotta contro la
Russia.
E questo richiede il rafforzamento della NATO
e l’espansione della presenza statunitense in Medio Oriente e in Asia centrale.
Come
Trump, Russia, Cina, Iran e alcuni altri paesi islamici sono visti come i
principali ostacoli.
È così
che i progetti ambientali e le innovazioni tecnologiche (in primis
l’introduzione dell’Intelligenza Artificiale e della robotica) si coniugano con
l’affermarsi di una politica militare aggressiva.
Parte
2. Una breve storia dell’ideologia liberale: il globalismo come culmine.
Nominalismo.
Per
capire chiaramente cosa significhino su scala storica la vittoria di Biden e il
“nuovo” corso di Washington per il “Grande Reset”, bisogna guardare l’intera
storia dell’ideologia liberale, partendo dalle sue radici.
Solo
così siamo in grado di comprendere la gravità della nostra situazione.
La vittoria di Biden non è un episodio
casuale, e l’annuncio di un contrattacco globalista non è solo l’agonia di un
progetto fallito.
È
molto più grave di così.
Biden
e le forze dietro di lui incarnano il culmine di un processo storico iniziato
nel Medioevo, che ha raggiunto la sua maturità nella Modernità con l’emergere
della società capitalista, e che oggi sta raggiungendo la sua fase finale,
quella teorica delineata fin dall’inizio.
Le
radici del sistema liberale (=capitalista) risalgono alla disputa scolastica
sugli universali.
Questa disputa ha diviso i teologi cattolici
in due campi: alcuni hanno riconosciuto l’esistenza del comune (specie, genere,
universali), mentre altri credevano solo in alcune cose concrete – individuali,
e hanno interpretato i loro nomi generalizzanti come sistemi di classificazione
convenzionali puramente esterni, che rappresentano “suono vuoto”.
Coloro che erano convinti dell’esistenza del
generale, della specie, attingevano alla tradizione classica di Platone e di
Aristotele.
Vennero
chiamati “realisti”, cioè coloro che riconoscevano la “realtà degli
universali”.
Il
rappresentante più in vista dei “realisti” era Tommaso d’Aquino e, in generale,
era la tradizione dei monaci domenicani.
I
fautori dell’idea che solo le cose e gli esseri individuali sono reali vennero
chiamati “nominalisti”, dal latino “nomen”.
La
richiesta – “le entità non dovrebbero moltiplicarsi senza necessità” – risale
proprio a uno dei principali difensori del “nominalismo”, il filosofo inglese
William Occam.
Anche
prima, le stesse idee erano state difese da Roscelin di Compiègne.
Sebbene
i “realisti” abbiano vinto la prima fase del conflitto e gli insegnamenti dei
“nominalisti” fossero stati anatematizzati, in seguito i percorsi della
filosofia dell’Europa occidentale – in particolare della New Age – furono
seguiti da Occam.
Il
“nominalismo” ha gettato le basi per il futuro liberalismo, sia ideologicamente
che economicamente.
Qui gli esseri umani erano visti solo come individui e
nient’altro, e tutte le forme di identità collettiva (religione, classe, ecc.)
dovevano essere abolite.
Allo stesso modo, la cosa era vista come
proprietà privata assoluta, come cosa concreta, separata, che poteva essere
facilmente attribuita come proprietà a questo o quel singolo proprietario.
Il
nominalismo prevalse prima di tutto in Inghilterra, si diffuse nei paesi
protestanti e divenne gradualmente la principale matrice filosofica della New
Age – nella religione (rapporti individuali dell’uomo con Dio), nella scienza
(atomismo e materialismo), nella politica (precondizioni della democrazia borghese),
nell’economia (mercato e proprietà privata), nell’etica (utilitarismo,
individualismo, relativismo, pragmatismo), ecc.
Capitalismo:
la prima fase.
Partendo
dal nominalismo, possiamo tracciare l’intero percorso del liberalismo storico,
da Roscelin e Occam a Soros e Biden. Per comodità, dividiamo questa storia in
tre fasi.
La
prima fase è stata l’introduzione del nominalismo nel regno della religione.
L’identità
collettiva della Chiesa, come intesa dal cattolicesimo (e ancor di più
dall’Ortodossia), fu sostituita dai protestanti come individui che d’ora in poi
potevano interpretare la Scrittura basandosi esclusivamente sul loro
ragionamento e rifiutando qualsiasi tradizione.
Così
molti aspetti del cristianesimo – i sacramenti, i miracoli, gli angeli, la
ricompensa dopo la morte, la fine del mondo, ecc. – sono stati riconsiderati e
scartati perché non rispondenti ai “criteri razionali”.
La
chiesa come “corpo mistico di Cristo” fu distrutta e sostituita da club per
hobby creati dal libero consenso dal basso.
Ciò ha
creato un gran numero di sette protestanti controverse.
In
Europa e nella stessa Inghilterra, dove il nominalismo aveva dato i suoi frutti
più completi, il processo fu alquanto sottomesso e i protestanti più rabbiosi
si precipitarono nel Nuovo Mondo e vi stabilirono la propria società.
Più
tardi, dopo la lotta con la metropolia, sono emersi gli Stati Uniti.
Parallelamente
alla distruzione della Chiesa come “identità collettiva” (qualcosa di
“comune”), i possedimenti iniziarono ad essere aboliti.
La
gerarchia sociale dei preti, dell’aristocrazia e dei contadini fu sostituita da
indefiniti “cittadini”, secondo il significato originario della parola
“borghese”.
La
borghesia ha soppiantato tutti gli altri strati della società europea.
Ma il
borghese era esattamente il miglior “individuo”, un cittadino senza clan, tribù
o professione, ma con proprietà privata.
E
questa nuova classe iniziò a ricostruire tutta la società europea.
Contemporaneamente
fu abolita anche l’unità sovranazionale della Sede Pontificia e dell’Impero
Romano d’Occidente – come altra espressione di “identità collettiva”.
Al suo
posto è stato stabilito un ordine basato su stati-nazione sovrani, una sorta di
“individuo politico”.
Dopo la fine della guerra dei 30 anni, la pace
di Westfalia consolidò questo ordine.
Così,
verso la metà del 17° secolo, un ordine borghese (cioè il capitalismo) era
emerso nei tratti principali dell’Europa occidentale.
La
filosofia del nuovo ordine è stata in molti modi anticipata da Thomas Hobbes e
sviluppata da John Locke, David Hume e Immanuel Kant.
Adam
Smith ha applicato questi principi al campo economico, dando origine al
liberalismo come ideologia economica.
In effetti, il capitalismo, basato
sull’attuazione sistematica del nominalismo, è diventato una visione del mondo
sistemica coerente.
Il
senso della storia e del progresso era ormai di “liberare l’individuo da ogni
forma di identità collettiva” fino al limite logico.
Nel
ventesimo secolo, attraverso il periodo delle conquiste coloniali, il
capitalismo dell’Europa occidentale era diventato una realtà globale.
L’approccio
nominalista prevaleva nella scienza e nella cultura, nella politica e
nell’economia, nel pensiero quotidiano del popolo occidentale e dell’intera
umanità.
Il
ventesimo e il trionfo della globalizzazione: la seconda fase.
Nel
ventesimo secolo, il capitalismo ha dovuto affrontare una nuova sfida.
Questa volta, non sono state le solite forme
di identità collettiva – religiosa, di classe, professionale, ecc. – ma teorie
artificiali e anche moderne (come lo stesso liberalismo) a rifiutare
l’individualismo e a contrastarlo con nuove forme di identità collettiva
(accomunate concettualmente).
Socialisti,
socialdemocratici e comunisti hanno contrastato i liberali con identità di
classe, invitando i lavoratori di tutto il mondo a unirsi per rovesciare il
potere della borghesia globale.
Questa
strategia si rivelò efficace e in alcuni grandi paesi (sebbene non in quei
paesi industrializzati e occidentali dove aveva sperato Karl Marx, il fondatore
del comunismo), furono vinte le rivoluzioni proletarie.
Parallelamente
ai comunisti si verificò, questa volta nell’Europa occidentale, la presa del
potere da parte di forze nazionaliste estreme.
Hanno
agito in nome della “nazione” o di una “razza”, contrastando ancora una volta
l’individualismo liberale con qualcosa di “comune”, qualche “essere
collettivo”.
I
nuovi oppositori del liberalismo non appartenevano più all’inerzia del passato,
come nelle fasi precedenti, ma rappresentavano progetti modernisti sviluppati
nello stesso Occidente.
Ma
erano anche costruiti sul rifiuto dell’individualismo e del nominalismo.
Lo
capirono chiaramente i teorici del liberalismo (soprattutto Hayek e il suo
discepolo Popper), che unirono “comunisti” e “fascisti” sotto il nome comune di
“nemici della società aperta”, e iniziarono con loro una guerra mortale.
Usando
tatticamente la Russia sovietica, il capitalismo riuscì inizialmente ad
affrontare i regimi fascisti, e questo fu il risultato ideologico della Seconda
guerra mondiale.
La
successiva Guerra Fredda tra Oriente e Occidente alla fine degli anni ’80 si
concluse con una vittoria liberale sui comunisti.
Così,
il progetto di liberazione dell’individuo da ogni forma di identità collettiva
e di “progresso ideologico” inteso dai liberali ha attraversato un’altra fase.
Negli
anni ’90, i teorici liberali iniziarono a parlare della “fine della storia” (F.
Fukuyama) e del “momento unipolare” (C. Krauthammer).
Questa
è stata una vivida prova dell’ingresso del capitalismo nella sua fase più
avanzata: la fase del globalismo.
In
effetti, è stato in questo momento che nelle élite dominanti statunitensi ha
trionfato la strategia del globalismo – delineata nella Prima guerra mondiale
dai 14 punti di Wilson, ma alla fine della guerra fredda ha unito l’élite di
entrambi i partiti – democratici e repubblicani, rappresentati principalmente
dai “neoconservatori”.
Gender
e post umanesimo: la terza fase.
Dopo
aver sconfitto il suo ultimo nemico ideologico, il campo socialista, il
capitalismo è arrivato a un punto cruciale.
L’individualismo,
il mercato, l’ideologia dei diritti umani, della democrazia e dei valori
occidentali avevano vinto su scala globale.
Sembrerebbe che l’agenda sia adempiuta:
nessuno si oppone più all'”individualismo” e al nominalismo con qualcosa di
serio o sistemico.
In
questo periodo, il capitalismo entra nella sua terza fase.
A ben guardare, dopo aver sconfitto il nemico
esterno, i liberali hanno scoperto altre due forme di identità collettiva.
Innanzitutto il genere.
Dopotutto,
il genere è anche qualcosa di collettivo: maschile o femminile.
Quindi
il passo successivo è stata la distruzione del genere come qualcosa di
oggettivo, essenziale e insostituibile.
Il
genere richiedeva l’abolizione, così come tutte le altre forme di identità
collettiva, che erano state abolite anche prima.
Da qui
la politica di genere, la trasformazione della categoria di genere in qualcosa
di “opzionale” e dipendente dalla scelta individuale.
Anche qui si tratta dello stesso nominalismo:
perché doppie entità?
Una
persona è una persona come individuo, mentre il sesso può essere scelto
arbitrariamente, proprio come prima erano scelti religione, professione,
nazione e stile di vita.
Questo
è diventato l’agenda principale dell’ideologia liberale negli anni ’90, dopo la
sconfitta dell’Unione Sovietica.
Sì, gli oppositori esterni hanno ostacolato la
politica di genere – quei paesi che avevano ancora i resti della società
tradizionale, i valori della famiglia, ecc., così come i circoli conservatori
nello stesso Occidente.
Combattere
i conservatori e gli “omofobi”, cioè i difensori della visione tradizionale
dell’esistenza dei sessi, è diventato il nuovo obiettivo degli aderenti al
liberalismo progressista.
Molti
esponenti di sinistra si sono uniti, sostituendo la politica di genere e la
protezione dell’immigrazione con precedenti obiettivi anticapitalisti.
Con il
successo dell’istituzionalizzazione delle norme di genere e il successo della
migrazione di massa, che sta atomizzando le popolazioni nell’Occidente stesso
(che si inserisce perfettamente anche all’interno di un’ideologia dei diritti
umani che opera con l’individuo indipendentemente dagli aspetti culturali,
religiosi, sociali o nazionali), divenne ovvio che ai liberali restava un
ultimo passo da compiere: abolire gli esseri umani.
Dopotutto,
l’umano è anche un’identità collettiva, il che significa che deve essere
superato, abolito, distrutto.
Questo
è ciò che richiede il principio del nominalismo: una “persona” è solo un nome,
un vuoto scossone dell’aria, una classificazione arbitraria e quindi sempre
discutibile.
C’è solo l’individuo – umano o meno, maschio o
femmina, religioso o ateo, dipende dalla sua scelta.
Pertanto,
l’ultimo passo lasciato ai liberali, che hanno viaggiato per secoli verso il
loro obiettivo, è sostituire gli esseri umani, anche se in parte, con cyborg,
reti di intelligenza artificiale e prodotti dell’ingegneria genetica.
L’opzionale umano segue logicamente
l’opzionale di genere.
Questo
programma è già abbastanza prefigurato dal post umanesimo, dal postmodernismo e
dal realismo speculativo in filosofia, e tecnologicamente sta diventando sempre
più realistico di giorno in giorno.
Futurologi e fautori dell’accelerazione del
processo storico (accelerazionisti) stanno guardando con fiducia al prossimo
futuro quando l’Intelligenza Artificiale diventerà comparabile nei parametri di
base con gli esseri umani.
Questo
momento è chiamato Singolarità. Il suo arrivo è previsto entro 10-20 anni.
L’ultima
battaglia dei liberali.
Questo
è il contesto in cui va collocata la vittoria del tutto esaurito di Biden negli
Stati Uniti.
Questo
è ciò che significa il “Great Reset” o lo slogan “Build Back Better”.
Negli
anni 2000, i globalisti hanno dovuto affrontare una serie di problemi che non
erano tanto ideologici quanto di natura “civilizzazione”.
Dalla
fine degli anni ’90, non ci sono state praticamente ideologie più o meno
coerenti nel mondo in grado di sfidare il liberalismo, il capitalismo e il
globalismo.
In
varia misura, ma questi principi sono stati accettati da tutti o quasi.
Tuttavia,
l’attuazione del liberalismo e della politica di genere, così come l’abolizione
degli stati-nazione a favore del governo mondiale, si è arenata su diversi
fronti.
Questo
è stato sempre più contrastato dalla Russia di Putin, che aveva armi nucleari e
una tradizione storica di opposizione all’Occidente, così come una serie di
tradizioni conservatrici conservate nella società.
La
Cina,
sebbene attivamente impegnata nella globalizzazione e nelle riforme liberali,
non aveva fretta di applicarle al sistema politico, mantenendo il predominio
del Partito Comunista e rifiutando la liberalizzazione politica.
Inoltre,
sotto Xi Jinping, le tendenze nazionali nella politica cinese iniziarono a
crescere.
Pechino
ha usato abilmente il “mondo aperto” per perseguire i suoi interessi nazionali
e persino di civiltà.
E
questo non faceva parte dei piani dei globalisti.
I
paesi islamici hanno continuato la loro lotta contro l’occidentalizzazione e,
nonostante i blocchi e le pressioni, hanno mantenuto (come l’Iran sciita) i
loro regimi inconciliabilmente anti-occidentali e anti-liberali.
Le politiche dei principali stati sunniti come
la Turchia e il Pakistan sono diventate sempre più indipendenti dall’Occidente.
In
Europa, un’ondata di populismo ha iniziato a crescere quando è esploso il malcontento
indigeno europeo per l’immigrazione di massa e la politica di genere.
Le
élite politiche europee sono rimaste completamente subordinate alla strategia
globalista, come si è visto al Forum di Davos nei rapporti dei suoi teorici
Schwab e del principe Carlo, ma le società stesse si sono mosse e talvolta si
sono rivolte direttamente contro le autorità – come nel caso delle Proteste dei
“gilet gialli” in Francia.
In alcuni luoghi, come l’Italia, la Germania o
la Grecia, i partiti populisti sono persino entrati in parlamento.
Infine,
nel 2016, negli stessi Stati Uniti, Donald Trump è riuscito a diventare
presidente, sottoponendo l’ideologia, le pratiche e gli obiettivi globalisti a
critiche dure e dirette.
Ed è stato sostenuto da circa la metà degli
americani.
Tutte
queste tendenze anti globalistiche agli occhi degli stessi globalisti non
potevano fare a meno di sommarsi a un quadro inquietante:
la storia degli ultimi secoli, con il suo
progresso apparentemente ininterrotto dei nominalisti e dei liberali, è stata
messa in discussione.
Questo
non è stato semplicemente il disastro di questo o quel regime politico.
Era la
minaccia della fine del liberalismo in quanto tale.
Anche
gli stessi teorici del globalismo hanno intuito che qualcosa non andava.
Fukuyama,
ad esempio, abbandonò la sua tesi sulla “fine della storia” e suggerì che gli
stati-nazione rimanessero ancora sotto il dominio delle élite liberali per
preparare meglio le masse alla trasformazione finale nella post umanità,
supportate da metodi rigidi.
Un
altro globalista, Charles Krauthammer, ha dichiarato che il “momento unipolare”
era finito e che le élite globaliste non ne avevano approfittato.
Questo
è esattamente lo stato di panico e quasi isterico in cui i rappresentanti
dell’élite globalista hanno trascorso gli ultimi quattro anni.
Ed è
per questo che la questione della rimozione di Trump da presidente degli Stati
Uniti era per loro una questione di vita o di morte.
Se Trump avesse mantenuto il suo incarico, il
crollo della strategia globalista sarebbe stato irreversibile.
Ma
Biden è riuscito – con le buone o con le cattive – a cacciare Trump e
demonizzare i suoi sostenitori.
È qui
che entra in gioco il Great Reset.
Non c’è davvero nulla di nuovo in esso: è una
continuazione del principale vettore della civiltà dell’Europa occidentale
nella direzione del progresso, interpretato nello spirito dell’ideologia
liberale e della filosofia nominalista.
Non resta molto: liberare gli individui dalle
ultime forme di identità collettiva – completare l’abolizione del genere e
muoversi verso un paradigma post umanista.
I
progressi nell’alta tecnologia, l’integrazione delle società nelle reti
sociali, strettamente controllate, come appare ora, dalle élite liberali in
modo apertamente totalitario, e il perfezionamento dei modi per seguire e
influenzare le masse rendono il raggiungimento dell’obiettivo liberale globale
a portata di mano.
Ma per
fare quel tiro decisivo, devono, in modalità accelerata (e senza più prestare
attenzione a come appare), aprire rapidamente la strada alla finalizzazione
della storia.
E questo significa che l’eliminazione di Trump
è il segnale per attaccare tutti gli altri ostacoli.
Quindi
abbiamo determinato il nostro posto nella scala della storia.
E così
facendo, abbiamo un quadro più completo di ciò che riguarda il Great Reset.
Non è
niente di meno che l’inizio dell'”ultima battaglia”.
I
globalisti, nella loro lotta per il nominalismo, il liberalismo, la liberazione
individuale e la società civile, appaiono a sé stessi come “guerrieri della luce”,
portando progresso, liberazione da migliaia di anni di pregiudizi, nuove
possibilità
– e
forse anche l’immortalità fisica e le meraviglie della ingegneria genetica,
alle masse.
Tutti
coloro che vi si oppongono sono, ai loro occhi, “forze delle tenebre”.
E con questa logica, i “nemici della società
aperta” devono essere affrontati con la loro stessa severità.
“Se il
nemico non si arrende, sarà distrutto”.
Il
nemico è chiunque metta in discussione il liberalismo, il globalismo,
l’individualismo, il nominalismo in tutte le loro manifestazioni.
Questa
è la nuova etica del liberalismo. Non è niente di personale. Tutti hanno il
diritto di essere liberali, ma nessuno ha il diritto di essere nient’altro.
Parte
3. Lo scisma negli Stati Uniti: il trumpismo ei suoi nemici.
Il
nemico interiore.
In un
contesto più limitato rispetto al quadro della storia generale del liberalismo
da Ockham a Biden, la vittoria di Trump nella battaglia per la Casa Bianca
nell’inverno 2020-2021, così dolorosa per i Democratici in quanto tale, ha
anche un enorme significato ideologico.
Questo
ha a che fare principalmente con i processi che si svolgono all’interno della
stessa società americana.
Il
fatto è che dopo la caduta dell’Unione Sovietica e l’inizio del “momento
unipolare” negli anni ’90, il liberalismo globale non ha avuto oppositori
esterni.
Almeno,
sembrava così all’epoca nel contesto dell’aspettativa ottimistica della “fine
della storia”.
Anche
se tali previsioni si sono rivelate premature, Fukuyama non si è semplicemente
chiesto se il futuro fosse arrivato:
stava seguendo rigorosamente la logica stessa
dell’interpretazione liberale della storia, e quindi, con alcuni aggiustamenti,
la sua analisi era generalmente corretta.
In
effetti, le norme della democrazia liberale – il mercato, le elezioni, il
capitalismo, il riconoscimento dei “diritti umani”, le norme della “società
civile”, l’adozione di trasformazioni tecnocratiche e il desiderio di
abbracciare lo sviluppo e l’implementazione dell’alta tecnologia – in
particolare tecnologia digitale – sono stati in qualche modo stabiliti in tutta
l’umanità.
Se alcuni persistessero nella loro avversione
alla globalizzazione, ciò potrebbe essere visto come mera inerzia, come una
riluttanza a essere “benedetti” dal progresso liberale.
In altre
parole, non era un’opposizione ideologica, ma solo una sfortunata seccatura.
Le
differenze di civiltà dovevano essere gradualmente cancellate.
L’adozione
del capitalismo da parte della Cina, della Russia e del mondo islamico
comporterebbe prima o poi processi di democratizzazione politica,
l’indebolimento della sovranità nazionale e alla fine porterebbe
all’istituzione di un sistema planetario: un governo mondiale.
Non
era una questione di lotta ideologica, ma una questione di tempo.
Fu in
questo contesto che i globalisti fecero ulteriori passi per portare avanti il
loro programma di base di abolizione di tutte le forme residue di identità
collettiva.
Ciò ha riguardato principalmente le politiche
di genere e l’intensificazione dei flussi migratori volti a erodere
permanentemente l’identità culturale delle stesse società occidentali, comprese
le società europee e americane.
Così, la globalizzazione ha assestato il suo
colpo principale.
In
questo contesto, nello stesso Occidente iniziò a emergere un “nemico
interiore”.
Si
tratta di tutte quelle forze che si risentivano della distruzione dell’identità
sessuale, della distruzione dei resti della tradizione culturale (attraverso la
migrazione) e dell’indebolimento della classe media.
Sempre più preoccupanti erano anche gli
orizzonti post umanisti della Singolarità incombente e la sostituzione
dell’uomo con l’Intelligenza Artificiale e sul piano filosofico non tutti gli
intellettuali accettavano le conclusioni paradossali della Postmodernità e del
realismo speculativo.
Inoltre,
c’era una chiara contraddizione tra le masse occidentali, che vivevano nel
contesto delle vecchie norme della Modernità, e le élite globaliste, che
cercavano a tutti i costi di accelerare il progresso sociale, culturale e
tecnologico inteso nell’ottica liberale.
Così
iniziò a delinearsi un nuovo dualismo ideologico, questa volta all’interno
dell’Occidente piuttosto che al di fuori di esso.
I
nemici della “società aperta” ora apparivano all’interno della stessa civiltà
occidentale.
Erano
quelli che rifiutavano gli ultimi fini liberali e non accettavano la politica
di genere, la migrazione di massa o l’abolizione degli stati-nazione e della
sovranità.
Allo
stesso tempo, tuttavia, questa crescente resistenza, genericamente denominata
“populismo” (o “populismo di destra”), attingeva alla stessa ideologia liberale
– capitalismo e democrazia liberale – ma interpretava questi “valori” e “punti
di riferimento” nel vecchio senso piuttosto che nel nuovo.
La
libertà è stata concepita qui come la libertà di avere qualsiasi punto di
vista, non solo quelli conformi alle norme della correttezza politica.
La
democrazia è stata interpretata come regola della maggioranza.
La
libertà di cambiare genere doveva essere combinata con la libertà di rimanere
fedeli ai valori della famiglia.
La
disponibilità ad accogliere i migranti che esprimevano il desiderio e
dimostravano la loro capacità di integrarsi nelle società occidentali era
rigorosamente differenziata dall’accettazione totale di tutti senza
distinzione, accompagnata da continue scuse a tutti i nuovi arrivati per il
loro passato coloniale.
A poco
a poco, il “nemico interno” dei globalisti ha raggiunto proporzioni serie e una
grande influenza.
La vecchia democrazia ha sfidato quella nuova.
Trump
e la rivolta dei deplorevoli.
Ciò è
culminato nella vittoria di Donald Trump nel 2016.
Trump
ha costruito la sua campagna proprio su questa divisione della società
americana.
La candidata globalista, Hillary Clinton, ha
sconsideratamente definito i sostenitori di Trump, cioè il “nemico interno”,
“deplorevoli”, vale a dire “patetici”, “miserevoli”.
I “deplorevoli” hanno risposto eleggendo
Trump.
Così,
la spaccatura all’interno della democrazia liberale divenne un fatto politico e
ideologico cruciale.
Coloro
che interpretavano la democrazia alla “vecchia maniera” (come regola della
maggioranza) non solo si ribellarono alla nuova interpretazione (regola della
minoranza diretta contro la maggioranza incline a prendere una posizione
populista, irta di … beh, sì, certo, “fascismo” o “stalinismo”), ma sono
riusciti a vincere e portare il loro candidato alla Casa Bianca.
Trump,
dal canto suo, ha dichiarato la sua intenzione di “prosciugare la palude”, cioè
di farla finita con il liberalismo nella sua strategia globalista e di “rendere
grande l’America”.
Nota la parola “di nuovo”.
Trump
voleva tornare all’era degli stati-nazione, per fare una serie di passi contro
la corrente della storia (come la intendevano i liberali).
In altre parole, il “buon vecchio ieri” si
opponeva al “globalista oggi” e al “post-umanista domani”.
I
successivi quattro anni furono un vero incubo per i globalisti.
I media controllati dai globalisti hanno
accusato Trump di ogni possibile peccato – compreso il “lavorare per i russi”
perché anche i “russi” hanno insistito nel loro rifiuto del “coraggioso nuovo
mondo”, sabotando le istituzioni sovranazionali – fino al governo mondiale
incluso – e prevenire le sfilate del gay pride.
Tutti
gli oppositori della globalizzazione liberale erano logicamente raggruppati insieme,
inclusi non solo Putin, Xi Jinping, alcuni leader islamici, ma anche –
immaginate questo! – il Presidente degli Stati Uniti d’America, l’uomo numero
uno del “mondo libero”.
Questo
è stato un disastro per i globalisti.
Fino a
quando Trump non è stato scaricato – per mezzo di rivoluzioni colorate, rivolte
artificiose, scrutinio fraudolento e metodi di conteggio dei voti
precedentemente utilizzati solo contro altri paesi e regimi – non potevano
sentirsi a proprio agio.
È
stato solo dopo aver ripreso le redini della Casa Bianca che i globalisti hanno
cominciato a rinsavire.
E sono tornati alla… roba vecchia.
Ma nel
loro caso, “vecchio” (ricostruito) significava tornare al “momento unipolare” –
ai tempi pre-Trump.
Trumpismo.
Trump
ha cavalcato un’ondata di populismo nel 2016 come nessun altro leader europeo è
riuscito a fare.
Trump
divenne così un simbolo di opposizione alla globalizzazione liberale.
Sì,
non era un’ideologia alternativa, ma semplicemente una disperata resistenza
alle ultime conclusioni tratte dalla logica e persino dalla metafisica del
liberalismo (e del nominalismo).
Trump
non stava affatto sfidando il capitalismo o la democrazia, ma solo le forme che
avevano assunto nella loro ultima fase e la loro graduale e coerente attuazione.
Ma
anche questo è bastato a segnare una spaccatura fondamentale nella società
americana.
È così
che ha preso forma il fenomeno del “trumpismo”, che per molti versi supera la
scala della personalità stessa di Donald Trump.
Trump
ha giocato sull’ondata di protesta contro la globalizzazione.
Ma è
chiaro che non era e non è una figura ideologica.
Eppure,
è intorno a lui che inizia a formarsi il blocco di opposizione.
La
conservatrice americana Ann Coulter, autrice del libro In Trump we Trust, da
allora ha riformulato il suo credo come “in Trumpism we trust”.
Non
tanto lo stesso Trump, quanto piuttosto la sua linea di opposizione ai
globalisti, è diventata il fulcro del trumpismo.
Nel
suo ruolo di presidente, Trump non è sempre stato all’altezza del suo stesso
articolato compito.
E non
è stato in grado di realizzare nulla di nemmeno vicino al “prosciugare la
palude” e sconfiggere il globalismo.
Ma nonostante ciò, è diventato un centro di
attrazione per tutti coloro che erano consapevoli o semplicemente intuivano il
pericolo proveniente dalle élite globaliste e dai rappresentanti di Big Finance
e Big Tech inseparabili da loro.
Così,
il nucleo del trumpismo iniziò a prendere forma.
L’intellettuale
conservatore americano Steve Bannon ha svolto un ruolo importante in questo
processo, mobilitando ampi segmenti di giovani e disparati movimenti
conservatori a sostegno di Trump.
Lo
stesso Bannon è stato ispirato da autori seri antimodernisti come Julius Evola,
e la sua opposizione al globalismo e al liberalismo aveva quindi radici più
profonde.
Un
ruolo importante nel trumpismo è stato svolto da coerenti paleo-conservatori –
isolazionisti e nazionalisti – come Buchanan, Ron Paul, così come aderenti alla
filosofia antiliberale e antimodernista (quindi fondamentalmente antiglobalista),
come Richard Weaver e Russell Kirk, che erano stati emarginati dai neocon (i
globalisti di destra) sin dagli anni ’80.
La
forza trainante della mobilitazione di massa dei “Trumpisti” è diventata
l’organizzazione in rete QAnon, che ha espresso la sua critica al liberalismo,
ai democratici e ai globalisti sotto forma di teorie del complotto.
Hanno
diffuso un torrente di accuse e denunce di globalisti coinvolti in scandali
sessuali, pedofilia, corruzione e satanismo.
Le
vere intuizioni sulla natura sinistra dell’ideologia liberale – rese evidenti
nelle ultime fasi della sua trionfante diffusione sull’umanità – sono state
formulate dai sostenitori di QAnon a livello dell’americano medio e della
coscienza di massa, poco inclini ad approfondite analisi filosofiche e
ideologiche.
Parallelamente,
QAnon ha ampliato la sua influenza, ma allo stesso tempo ha conferito alla
critica antiliberale tratti grotteschi.
Sono
stati i sostenitori di QAnon, in quanto avanguardia del populismo della
cospirazione di massa, a guidare le proteste il 6 gennaio, quando i sostenitori
di Trump hanno preso d’assalto il Campidoglio indignati dalle elezioni rubate.
Non hanno raggiunto alcun obiettivo, ma solo
fornito a Biden e ai Democratici una scusa per demonizzare ulteriormente il
“trumpismo” e tutti gli oppositori del globalismo, identificando qualsiasi
conservatore come “estremismo”.
Seguì
un’ondata di arresti e i più coerenti “Nuovi Democratici” ha suggerito che
tutti i diritti sociali, inclusa la possibilità di acquistare i biglietti
aerei, dovrebbero essere tolti ai sostenitori di Trump.
Poiché
i social media sono regolarmente monitorati dai sostenitori dell’élite
liberale, la raccolta di informazioni su quasi tutti i cittadini statunitensi e
le loro preferenze politiche non ha posto problemi.
Quindi
l’arrivo di Biden alla Casa Bianca significa che il liberalismo ha assunto
tratti francamente totalitari.
D’ora
in poi, il trumpismo, il populismo, la difesa dei valori della famiglia e
qualsiasi accenno di conservatorismo o disaccordo con i principi del
liberalismo globalista negli Stati Uniti saranno quasi equivalenti a un
crimine:
incitamento all’odio e “fascismo”.
Tuttavia,
il trumpismo non è scomparso con la vittoria di Biden.
In un
modo o nell’altro, ha ancora coloro che hanno votato per Donald Trump nelle
ultime elezioni – e sono più di 70.000.000 di elettori.
Quindi
è chiaro che il “trumpismo” non finirà affatto con Trump.
Metà
della popolazione statunitense si è effettivamente trovata in una posizione di
opposizione radicale, e i trumpisti più coerenti rappresentano il fulcro del
clandestino anti-globalizzazione all’interno della stessa cittadella del
globalismo.
Qualcosa
di simile sta accadendo nei paesi europei, dove i movimenti e i partiti
populisti sono sempre più consapevoli di essere dissidenti privati di ogni
diritto e soggetti a persecuzioni ideologiche sotto un’apparente dittatura
globalista.
Non
importa quanto i globalisti che hanno ripreso il potere negli Stati Uniti
vogliano presentare i quattro anni precedenti come uno “sfortunato malinteso” e
dichiarare la loro vittoria come il definitivo “ritorno alla normalità”, il
quadro oggettivo è lontano dagli incantesimi calmanti della classe superiore
globalista.
Non
solo paesi con una diversa identità di civiltà si stanno mobilitando contro di
essa e contro la sua ideologia, ma questa volta anche metà della propria
popolazione, arrivando gradualmente a rendersi conto della gravità della sua
situazione e cominciando a cercare un’alternativa ideologica.
Queste
sono le condizioni in cui Biden è arrivato alla guida degli Stati Uniti.
Lo stesso suolo americano brucia sotto i piedi
dei globalisti.
E
questo conferisce alla situazione della “battaglia finale” una dimensione
aggiuntiva speciale.
Questo
non è l’Occidente contro l’Oriente, non gli Stati Uniti e la NATO contro tutti
gli altri, ma i liberali contro l’umanità – compreso quel segmento di umanità
che si trova sul territorio dell’Occidente stesso, ma che si sta allontanando
sempre più dalle proprie élite globaliste.
Questo
è ciò che definisce le condizioni di partenza di questa battaglia.
Individuum
e dividuum.
Un
altro punto essenziale deve essere chiarito.
Abbiamo
visto che l’intera storia del liberalismo è la successiva liberazione
dell’individuo da ogni forma di identità collettiva.
L’accordo
finale nel processo di questa attuazione logicamente perfetta del nominalismo
sarà il passaggio al post umanesimo e la probabile sostituzione dell’umanità
con un’altra civiltà, questa volta postumana, della macchina.
Questo
è ciò a cui conduce l’individualismo coerente, inteso come qualcosa di
assoluto.
Ma qui
la filosofia liberale arriva a un paradosso fondamentale.
La
liberazione dell’individuo dalla propria identità umana, alla quale la politica
di genere lo prepara trasformando consapevolmente e deliberatamente l’essere
umano in un mostro perverso, non può garantire che questo nuovo – progressista!
– essere rimarrà un individuo.
Inoltre,
lo sviluppo delle tecnologie informatiche in rete, dell’ingegneria genetica e
della stessa ontologia orientata agli oggetti, che rappresenta il culmine del
postmodernismo, indicano chiaramente il fatto che il “nuovo essere” non sarà
tanto un “animale” quanto una “macchina “.
È con
questo in mente che gli orizzonti dell'”immortalità” rischiano di essere
offerti nella forma della conservazione artificiale dei ricordi personali (che
sono abbastanza facili da simulare).
Così,
l’individuo del futuro, come compimento dell’intero programma del liberalismo,
non potrà garantire proprio quello che è stato l’obiettivo principale del
progresso liberale, cioè la sua individualità.
L’essere liberale del futuro, anche in teoria,
non è un individuum, qualcosa di “indivisibile”, ma piuttosto un “dividuum”,
cioè qualcosa di divisibile e fatto di parti sostituibili.
Tale è
la macchina: è composta da una combinazione di parti.
Nella
fisica teorica, c’è stata a lungo una transizione dalla teoria degli “atomi”
(cioè delle “unità indivisibili della materia”) alla teoria delle particelle,
che sono pensate non come “parti di qualcosa di intero” ma come “parti senza un
totale.”
L’individuo
nel suo insieme si decompone anche in parti componenti, che possono essere
rimontate, ma anche non assemblate, utilizzate invece come ricostruttore.
Da qui
le figure di mutanti, chimere e mostri che abbondano nella narrativa moderna,
popolando le più immaginate (e quindi, in un certo senso, anticipate e persino
pianificate) versioni del futuro.
I
postmodernisti e i realisti speculativi hanno già preparato il terreno
proponendo di sostituire il corpo umano come qualcosa di intero con l’idea di
un “parlamento di organi” (B. Latour).
In
questo modo l’individuo – anche come unità biologica – diventerebbe
qualcos’altro, mutando proprio nel momento in cui raggiunge la sua incarnazione
assoluta.
Il
progresso umano nell’interpretazione liberale finisce inevitabilmente con
l’abolizione dell’umanità.
Questo
è ciò che sospettano, anche se molto vagamente, tutti coloro che si battono
contro il globalismo e il liberalismo.
Sebbene i QAnon e le loro teorie cospirative
anti-liberali distorcano la realtà solo fornendo tratti sospetti e grotteschi
che i liberali possono facilmente confutare, la realtà, se descritta in modo
sobrio e oggettivo, è molto più spaventosa delle sue più allarmanti e mostruose
premonizioni.
“The
Great Reset” è davvero un piano per l’eliminazione dell’umanità.
Perché
proprio a questa conclusione conduce logicamente la linea del «progresso»
liberamente inteso: l’aspirazione a liberare l’individuo da ogni forma di
identità collettiva non può non sfociare nella liberazione dell’individuo da sé
stesso.
Parte
4. Il grande risveglio.
Il
grande risveglio: un urlo nella notte.
Ci
stiamo avvicinando a una tesi che rappresenta l’esatto opposto del “Grande
Reset”: la tesi del “Grande Risveglio”.
Questo
slogan è stato lanciato per la prima volta dagli antiglobalisti americani, come
il conduttore del canale televisivo alternativo Infowars, Alex Jones, che è
stato sottoposto alla censura globalista e al de-platforming dai social network
nella prima fase della presidenza Trump, e gli attivisti QAnon.
È
importante che ciò avvenga negli Stati Uniti, dove è imperversata l’amarezza
tra le élite globaliste e i populisti che hanno avuto un proprio presidente,
anche se per soli quattro anni e irrigiditi dagli ostacoli amministrativi e dai
limiti dei propri orizzonti ideologici.
Liberati
da un serio bagaglio ideologico e filosofico, gli antiglobalisti hanno saputo
cogliere l’essenza dei processi più importanti in atto nel mondo moderno.
Il globalismo, il liberalismo e il Grande
Reset, come espressioni della determinazione delle élite liberali a portare a
termine i loro piani, con ogni mezzo – compresa la dittatura totale, la
repressione su larga scala e le campagne di totale disinformazione – hanno
incontrato una resistenza crescente e sempre più consapevole.
Alex
Jones conclude i suoi programmi con lo stesso grido di battaglia: “Sei la
Resistenza!”.
In
questo caso, lo stesso Alex Jones o gli attivisti di QAnon non hanno visioni
del mondo rigorosamente definite.
In
questo senso, sono rappresentanti delle masse, gli stessi “deplorevoli” che
furono così dolorosamente umiliati da Hillary Clinton.
Quello che ora si sta risvegliando non è un
campo di oppositori ideologici del liberalismo, nemici del capitalismo o oppositori
ideologici della democrazia.
Non
sono nemmeno conservatori.
Sono
solo persone, persone in quanto tali, le più ordinarie e semplici.
Ma…
persone che vogliono essere e rimanere umane, avere e mantenere la loro
libertà, genere, cultura e vita, legami concreti con la loro Patria, con il
mondo che li circonda, con le persone.
Il
Grande Risveglio non riguarda le élite e gli intellettuali, ma le persone, le
masse, le persone in quanto tali.
E il
Risveglio in questione non riguarda l’analisi ideologica.
È una reazione spontanea delle masse, poco
competenti in filosofia, che hanno improvvisamente capito, come bestiame
davanti al macello, che il loro destino è già stato deciso dai loro governanti
e che non c’è più spazio per le persone in futuro.
Il
Grande Risveglio è spontaneo, in gran parte inconscio, intuitivo e cieco.
Non è
affatto uno sbocco per la consapevolezza, per la conclusione, per un’analisi
storica approfondita.
Come
abbiamo visto nel filmato del Campidoglio, gli attivisti pro-Trump e i
sostenitori QAnon sembrano personaggi dei fumetti o supereroi Marvel.
La
cospirazione è una malattia infantile dell’anti-globalizzazione.
Ma,
d’altra parte, è l’inizio di un processo storico fondamentale.
Nasce
così il polo di opposizione al corso stesso della storia nella sua accezione
liberale.
Questo
è il motivo per cui la tesi del Grande Risveglio non dovrebbe essere
frettolosamente caricata di dettagli ideologici, siano essi il conservatorismo
fondamentale (compreso il conservatorismo religioso), il tradizionalismo, la
critica marxista del capitale o la protesta anarchica per il bene della
protesta.
Il
Grande Risveglio è qualcosa di più organico, più spontaneo e allo stesso tempo
tettonico.
È così
che l’umanità viene improvvisamente illuminata dalla consapevolezza della
vicinanza della sua fine imminente.
Ed è
per questo che il Grande Risveglio è così grave.
Ed è
per questo che viene dall’interno degli Stati Uniti, quella civiltà in cui il
crepuscolo del liberalismo è più fitto.
È un
grido dal centro stesso dell’inferno, da quella zona dove il futuro nero è già
in parte arrivato.
Il
Grande Risveglio è la risposta spontanea delle masse umane al Grande Reset.
Certo,
si può essere scettici.
Le
élite liberali, soprattutto oggi, controllano tutti i principali processi di civiltà.
Controllano
le finanze del mondo e possono farci qualsiasi cosa, dall’emissione illimitata
a qualsiasi manipolazione di strumenti e strutture finanziarie.
Nelle
loro mani c’è l’intera macchina militare statunitense e la gestione degli
alleati della NATO.
Biden
promette di rafforzare l’influenza di Washington in questa struttura, che si è
quasi disintegrata negli ultimi anni.
Quasi
tutti i giganti dell’High Tech sono subordinati ai liberali: computer, iPhone,
server, telefoni e social network sono strettamente controllati da alcuni
monopolisti che sono membri del club globalista.
Ciò
significa che i Big Data, cioè l’intero corpo di informazioni su praticamente
l’intera popolazione della Terra, hanno un proprietario e un padrone.
Tecnologia,
centri scientifici, istruzione globale, cultura, media, medicina e servizi
sociali sono completamente nelle loro mani.
I
liberali nei governi e nei circoli di potere sono i componenti organici di
queste reti planetarie che hanno tutte la stessa sede.
I
servizi di intelligence dei paesi occidentali ei loro agenti in altri regimi
lavorano per i globalisti, reclutati o corrotti, costretti a collaborare o come
volontari.
Viene
da chiedersi: come possono in questa situazione ribellarsi al globalismo i sostenitori
del “Grande Risveglio”?
In che
modo, senza avere risorse, possono affrontare efficacemente l’élite globale?
Quali
armi usare? Quale strategia seguire?
E, inoltre, su quale ideologia affidarsi? –
perché liberali e globalisti in tutto il mondo sono uniti e hanno un’idea
comune, un obiettivo comune e una linea comune, mentre i loro oppositori sono
disparati non solo in società diverse, ma anche all’interno della stessa cosa.
Naturalmente,
queste contraddizioni nelle file dell’opposizione sono ulteriormente esacerbate
dalle élite dominanti, che sono abituate a dividere per dominare.
I musulmani sono contrapposti ai cristiani, la
sinistra contro la destra, gli europei contro i russi o i cinesi, ecc.
Ma il
Grande Risveglio sta accadendo non a causa di, ma nonostante tutto questo.
L’umanità
stessa, l’uomo come eidos, l’uomo come comune, l’uomo come identità collettiva,
e in tutte le sue forme insieme, organica e artificiale, storica e innovativa,
orientale e occidentale, si ribella ai liberali.
Il
Grande Risveglio è solo l’inizio.
Non è
nemmeno cominciato.
Ma il
fatto che abbia un nome, e che questo nome sia apparso proprio nell’epicentro
delle trasformazioni ideologiche e storiche, negli Stati Uniti, sullo sfondo
della drammatica sconfitta di Trump, della disperata acquisizione del
Campidoglio e della crescente ondata di repressione liberale, poiché i
globalisti non nascondono più la natura totalitaria sia della loro teoria che
della loro pratica, è di grande (forse cruciale) importanza.
Il
Grande Risveglio contro il “Grande Reset” è la rivolta dell’umanità contro le
élite liberali al potere. Inoltre, è la ribellione dell’Uomo contro il suo
nemico secolare, il nemico della stessa razza umana.
Se c’è
chi proclama il “Grande Risveglio”, per quanto ingenue possano sembrare le sue
formule, questo già significa che non tutto è perduto, che nelle masse sta
maturando un nocciolo di Resistenza, che cominciano a mobilitarsi.
Da
questo momento inizia la storia di una rivolta mondiale, una rivolta contro il
Grande Risveglio e i suoi adepti.
Il
Grande Risveglio è un lampo di coscienza alla soglia della Singolarità.
È
l’ultima opportunità per prendere una decisione alternativa sul contenuto e
sulla direzione del futuro.
La
completa sostituzione degli esseri umani con nuove entità, nuove divinità, non
può essere imposta semplicemente con la forza dall’alto.
Le
élite devono sedurre l’umanità, ottenerne – anche se vagamente – un certo
consenso.
Il Grande Risveglio richiede un deciso “No”!
Questa
non è ancora la fine della guerra, nemmeno la guerra stessa.
Inoltre, non è ancora iniziata.
Ma è
la possibilità di un tale inizio. Un nuovo inizio nella storia dell’uomo.
Naturalmente,
il Grande Risveglio è completamente impreparato.
Come
abbiamo visto, negli stessi Stati Uniti gli oppositori del liberalismo, sia
Trump che i trumpisti, sono pronti a rifiutare l’ultima fase della democrazia
liberale, ma non pensano nemmeno a una vera e propria critica al capitalismo.
Difendono
ieri e oggi contro un domani incombente e sinistro.
Ma
mancano di un vero e proprio orizzonte ideologico.
Stanno
cercando di salvare la fase precedente della stessa democrazia liberale, lo
stesso capitalismo, dalle sue fasi tardive e più avanzate.
E
questo di per sé contiene una contraddizione.
Anche
la sinistra contemporanea ha dei limiti nella sua critica al capitalismo, sia
perché condivide una concezione materialistica della storia (Marx era d’accordo
sulla necessità del capitalismo mondiale, che sperava sarebbe poi stato
superato dal proletariato mondiale) sia perché i movimenti socialisti e
comunisti sono stati recentemente rilevati dai liberali e riorientati dal
condurre una guerra di classe contro il capitalismo alla protezione dei
migranti, delle minoranze sessuali e alla lotta contro i “fascisti” immaginari.
La
destra, invece, è confinata ai suoi stati-nazione e alle sue culture, non
vedendo che i popoli di altre civiltà si trovano nella stessa situazione
disperata.
Le
nazioni borghesi emerse agli albori dell’età moderna rappresentano un vestigio
della civiltà borghese.
Questa
civiltà oggi sta distruggendo e abolendo ciò che essa stessa ha creato proprio
ieri, usando nel frattempo tutti i limiti dell’identità nazionale per impedire
all’umanità in uno stato frammentato e conflittuale di confrontarsi con i
globalisti.
Quindi
c’è il Grande Risveglio, ma non ha ancora una base ideologica.
Se è veramente storico, e non un fenomeno
effimero e puramente periferico, allora ha semplicemente bisogno di un
fondamento, che vada al di là delle ideologie politiche esistenti emerse in
epoca moderna nello stesso Occidente.
Rivolgersi
a qualcuno di loro significherebbe automaticamente che ci troviamo nella
prigionia ideologica della formazione del capitale.
Quindi,
nel cercare una piattaforma per il Grande Risveglio che è scoppiato negli Stati
Uniti, per l’ispirazione dobbiamo guardare oltre la società americana e la
storia americana piuttosto breve e guardare ad altre civiltà, soprattutto alle
ideologie non liberali della stessa Europa.
Ma
anche questo non basta, perché insieme alla decostruzione del liberalismo,
dobbiamo trovare appoggio nelle diverse civiltà dell’umanità, lungi dall’essere
stremate dall’Occidente da dove origina e proviene la principale minaccia – a
Davos, in Svizzera! – proclamata il “Grande Reset”.
L’Internazionale
delle Nazioni contro l’Internazionale delle élite.
“The
Great Reset” vuole rendere il mondo nuovamente unipolare per muoversi verso una
non polarità globalista, dove le élite diventeranno pienamente internazionali e
la loro residenza sarà dispersa in tutto lo spazio del pianeta.
Questo
è il motivo per cui il globalismo determina la fine degli Stati Uniti come
paese, stato, società.
Questo
è ciò che i Trumpisti e i sostenitori del Grande Risveglio percepiscono, a
volte intuitivamente.
Biden
è una sentenza emessa sugli Stati Uniti.
E
dagli Stati Uniti a tutti gli altri.
Di
conseguenza, per la salvezza delle persone, dei popoli e delle società, il
Grande Risveglio deve iniziare con la multipolarità.
Questa
non è solo la salvezza dell’Occidente stesso, e nemmeno la salvezza di tutti
gli altri dall’Occidente, ma la salvezza dell’umanità, sia occidentale che non
occidentale, dalla dittatura totalitaria delle élite capitaliste liberali.
E
questo non può essere fatto solo dal popolo dell’Occidente o dal popolo
dell’Oriente.
Qui è
necessario agire insieme.
Il
Grande Risveglio richiede un’internazionalizzazione della lotta dei popoli contro
l’internazionalizzazione delle élite.
La
multipolarità diventa il punto di riferimento più importante e la chiave della
strategia del Grande Risveglio.
Solo
facendo appello a tutte le nazioni, culture e civiltà dell’umanità siamo in
grado di raccogliere forze sufficienti per contrastare efficacemente il “Grande
Reset” e l’orientamento verso la Singolarità.
Ma in
questo caso l’intero quadro dell’inevitabile confronto finale si rivela molto
meno disperato.
Se
diamo uno sguardo a tutto ciò che potrebbe diventare i poli del Grande
Risveglio, la situazione si presenta sotto una luce un po’ diversa.
L’Internazionale dei Popoli, una volta che si
comincia a pensare in queste categorie, non si rivela né un’utopia né
un’astrazione.
Inoltre,
possiamo già facilmente vedere un enorme potenziale e come questo possa essere
sfruttato nella lotta contro il “Grande Reset”.
Elenchiamo
brevemente le riserve su cui il Grande Risveglio può contare su scala mondiale.
La
guerra civile americana: la scelta del nostro campo.
Negli
Stati Uniti, abbiamo un punto d’appoggio nel trumpismo.
Sebbene
lo stesso Trump abbia perso, ciò non significa che lui stesso si sia lavato le
mani, si sia rassegnato a una vittoria rubata e che i suoi sostenitori –
70.000.000 di americani – si siano sistemati e abbiano accettato la dittatura
liberale come un dato di fatto.
Non lo
hanno fatto.
D’ora in poi, c’è un potente clandestino
anti-globalista negli stessi Stati Uniti, in gran numero (metà della
popolazione!), amareggiato e spinto a disprezzare il totalitarismo liberale.
La
distopia del 1984 di Orwell non era incarnata in un regime comunista o fascista,
ma ora è in un regime liberale.
Ma
l’esperienza sia del comunismo sovietico che della Germania nazista mostra che
la resistenza è sempre possibile.
Oggi,
gli Stati Uniti sono essenzialmente in uno stato di guerra civile.
I liberali-bolscevichi hanno preso il potere e
i loro oppositori sono stati messi all’opposizione e sono sul punto di
diventare illegali.
Un’opposizione
di 70.000.000 di persone è seria.
Naturalmente, sono dispersi e potrebbero
essere allo sbando dalle incursioni punitive dei Democratici e dalla nuova
tecnologia totalitaria della Big Tech.
Ma è
troppo presto per cancellare il popolo americano.
Chiaramente,
hanno ancora un certo margine di forza e metà della popolazione statunitense è
pronta a difendere la propria libertà individuale ad ogni costo.
E oggi la domanda è proprio questa: Biden o
libertà.
Naturalmente,
i liberali cercheranno di abolire il Secondo Emendamento e di disarmare la
popolazione, che sta diventando sempre meno fedele all’élite globalista.
È
probabile che i Democratici cercheranno di uccidere lo stesso sistema
bipartitico introducendo un regime essenzialmente monopartitico, proprio nello
spirito dell’attuale stato della loro ideologia.
Questo
è liberal-bolscevismo.
Ma le
guerre civili non hanno mai conclusioni scontate.
La
storia è aperta e la vittoria per entrambe le parti è sempre possibile.
Soprattutto
se l’umanità si rende conto di quanto sia importante l’opposizione americana
per la vittoria universale sul globalismo.
Non importa come ci sentiamo nei confronti
degli Stati Uniti, di Trump e dei Trumpisti, tutti noi dobbiamo semplicemente
sostenere il polo americano del Grande Risveglio.
Salvare
l’America dai globalisti, e quindi contribuire a renderla di nuovo grande, è il
nostro compito comune.
Populismo
europeo: superare destra e sinistra.
L’ondata
di populismo antiliberale non si placa nemmeno in Europa.
Sebbene il globalista Macron sia riuscito a
contenere le violente proteste dei “Gilet Gialli” e i liberali italiani e
tedeschi abbiano isolato e impedito ai partiti di destra e ai loro leader di
salire al potere, questi processi sono inarrestabili.
Il populismo esprime lo stesso Grande Risveglio, ma
solo su suolo europeo e con specificità europea.
Per
questo polo di resistenza è estremamente importante una nuova riflessione
ideologica.
Le società europee sono ideologicamente molto
più attive di quelle americane, e quindi le tradizioni della politica di destra
e di sinistra – e le loro contraddizioni intrinseche – sono molto più sentite.
Sono
proprio queste contraddizioni che le élite liberali stanno sfruttando per
mantenere la loro posizione nell’Unione europea.
Il
fatto è che l’odio per i liberali in Europa cresce contemporaneamente da due
parti:
la
sinistra li vede come rappresentanti del grande capitale, sfruttatori che hanno
perso ogni decenza, e la destra li vede come provocatori di migrazioni di massa
artificiali, distruttori delle ultime vestigia dei valori tradizionali,
distruttori della cultura europea e becchini della classe media.
Allo
stesso tempo, per la maggior parte, i populisti sia di destra che di sinistra
hanno messo da parte le ideologie tradizionali che non soddisfano più le
esigenze storiche ed esprimono le loro opinioni in forme nuove, talvolta
contraddittorie e frammentarie.
Il
rifiuto delle ideologie del comunismo ortodosso e del nazionalismo è
generalmente positivo; dà ai populisti una base nuova, molto più ampia.
Ma è
anche la loro debolezza.
Tuttavia,
la cosa più fatale del populismo europeo non è tanto la sua deideologizzazione
quanto la persistenza del profondo e reciproco rifiuto tra sinistra e destra
che persiste dalle epoche storiche precedenti.
L’emergere
di un polo europeo del Grande Risveglio deve comportare la risoluzione di
questi due compiti ideologici:
il
definitivo superamento del confine tra sinistra e destra (cioè il rifiuto
obbligato dell'”antifascismo” artificioso di alcuni e di “anticomunismo”
inventato da altri) e l’elevazione del populismo in quanto tale – populismo
integrale – a modello ideologico indipendente.
Il suo
significato e il suo messaggio dovrebbero essere una critica radicale del
liberalismo e del suo stadio più alto, il globalismo, combinando allo stesso
tempo la richiesta di giustizia sociale e la conservazione dell’identità
culturale tradizionale.
In questo
caso, il populismo europeo, prima di tutto, acquisirà una massa critica che è
fatalmente carente poiché i populisti di destra e di sinistra sprecano tempo e
fatica per regolare i conti tra loro e, in secondo luogo, diventerà un elemento
di primaria importanza nel polo del Grande Risveglio.
La
Cina e la sua identità collettiva.
Gli
oppositori del Great Reset hanno un altro argomento significativo: la Cina
contemporanea.
Sì, la
Cina ha sfruttato le opportunità offerte dalla globalizzazione per rafforzare l’economia
della sua società.
Ma la
Cina non ha accettato lo spirito stesso del globalismo, il liberalismo,
l’individualismo e il nominalismo dell’ideologia globalista.
La
Cina ha preso dall’Occidente solo ciò che l’ha resa più forte, ma ha rifiutato
ciò che la renderebbe più debole.
Questo
è un gioco pericoloso, ma finora la Cina lo ha affrontato con successo.
In
effetti, la Cina è una società tradizionale con migliaia di anni di storia e
un’identità stabile.
E intende chiaramente rimanere tale in futuro.
Ciò è
particolarmente chiaro nelle politiche dell’attuale leader cinese, Xi Jinping.
È
pronto a scendere a compromessi tattici con l’Occidente, ma è determinato nel
garantire che la sovranità e l’indipendenza della Cina crescano e si
rafforzino.
Che i
globalisti e Biden agissero in solidarietà con la Cina è un mito.
Sì, Trump ci ha fatto affidamento e lo ha
detto Bannon, ma questo è il risultato di un orizzonte geopolitico ristretto e
di una profonda incomprensione dell’essenza della civiltà cinese.
La
Cina seguirà la sua linea e rafforzerà le strutture multipolari.
La
Cina, infatti, è il polo più importante del Grande Risveglio, un punto che
diverrà chiaro se si prende come punto di partenza la necessità di
un’internazionalizzazione dei popoli.
La
Cina è un popolo con una distinta identità collettiva.
L’individualismo
cinese non esiste affatto e, se esiste, è un’anomalia culturale.
La
civiltà cinese è il trionfo del clan, del popolo, dell’ordine e della struttura
su tutta l’individualità.
Naturalmente,
il Grande Risveglio non deve diventare cinese.
Non dovrebbe essere affatto uniforme: ogni
nazione, ogni cultura, ogni civiltà ha il proprio spirito e il proprio eidos.
L’umanità
è diversa.
E la
sua unità può essere avvertita più acutamente solo quando si trova di fronte a
una seria minaccia che incombe su tutti loro.
E
questo è esattamente ciò che è il Great Reset.
Islam
contro la globalizzazione.
Un
altro argomento del Grande Risveglio riguarda i popoli della civiltà islamica.
Che il
globalismo liberale e l’egemonia occidentale siano radicalmente rifiutati dalla
cultura islamica e dalla stessa religione islamica su cui tale cultura si basa
è ovvio.
Certo,
durante il periodo coloniale e sotto il potere e l’influenza economica
dell’Occidente, alcuni stati islamici si sono trovati nell’orbita del
capitalismo, ma praticamente in tutti i paesi islamici c’è un rifiuto sostenuto
e profondo del liberalismo e soprattutto del moderno liberalismo globalista.
Questo
si manifesta sia in forme estreme – il fondamentalismo islamico – sia in forme
moderate. In alcuni casi, singoli movimenti religiosi o politici diventano
portatori dell’iniziativa antiliberale, mentre in altri casi lo Stato stesso
assume questa missione.
In ogni caso, le società islamiche sono
ideologicamente preparate all’opposizione sistemica e attiva alla
globalizzazione liberale.
I
progetti di The Great Reset non contengono nulla, nemmeno in teoria, che possa
piacere ai musulmani.
Ecco
perché l’intero mondo islamico nel suo insieme rappresenta un grande polo del
Grande Risveglio.
Tra i
paesi islamici, l’Iran sciita e la Turchia sunnita sono i più contrari alla
strategia globalista.
Inoltre,
se la principale motivazione dell’Iran è l’idea religiosa dell’avvicinarsi
della fine del mondo e dell’ultima battaglia, dove il principale nemico –
Dajjal – è chiaramente riconosciuto come Occidente, liberalismo e globalismo,
allora la Turchia è guidata più da considerazioni pragmatiche, dal desiderio di
rafforzare e preservare la propria sovranità nazionale e garantire l’influenza
turca in Medio Oriente e nel Mediterraneo orientale.
La
politica di Erdogan di allontanarsi gradualmente dalla NATO combina la
tradizione nazionale di Kemal Ataturk con il desiderio di ricoprire il ruolo di
leader dei musulmani sunniti, ma entrambi sono realizzabili solo in opposizione
alla globalizzazione liberale, che prevede la completa secolarizzazione delle
società. l’indebolimento (e, al limite, l’abolizione) degli stati-nazione, e
nel frattempo la concessione dell’autonomia politica alle minoranze etniche,
mossa che sarebbe devastante per la Turchia a causa del grande e piuttosto
attivo fattore curdo.
Il
Pakistan sunnita, che rappresenta un’altra forma di combinazione di politica
nazionale e islamica, si sta gradualmente allontanando sempre più dagli Stati
Uniti e dall’Occidente.
Sebbene
i paesi del Golfo siano più dipendenti dall’Occidente, uno sguardo più da
vicino all’Islam arabo, e ancor di più l’Egitto, che è un altro stato
importante e indipendente nel mondo islamico, rivela sistemi sociali che non
hanno nulla a che fare con l’agenda globalista e sono naturalmente predisposto
a schierarsi con il Grande Risveglio.
Questo
è ostacolato solo dalle contraddizioni tra gli stessi musulmani, abilmente
aggravate dall’Occidente e dai centri di controllo globalisti, non solo tra
sciiti e sunniti ma anche dai conflitti regionali tra i singoli stati sunniti
stessi.
Il
contesto del Grande Risveglio potrebbe diventare una piattaforma ideologica
anche per l’unificazione del mondo islamico nel suo insieme, poiché
l’opposizione al “Grande Reset” è un imperativo incondizionato per quasi tutti
i paesi islamici.
Questo
è ciò che permette di prendere come comune denominatore la strategia e
l’opposizione dei globalisti.
La
consapevolezza della portata del Grande Risveglio permetterebbe, entro certi
limiti, di annullare l’acutezza delle contraddizioni locali per contribuire
alla formazione di un altro polo di resistenza globale.
La
missione della Russia: essere in prima linea nel Grande Risveglio.
Infine,
il polo più importante del Grande Risveglio è destinato alla Russia.
Nonostante
la Russia sia stata in parte coinvolta nella civiltà occidentale, attraverso la
cultura illuminista durante il periodo zarista, sotto i bolscevichi, e
soprattutto dopo il 1991, in ogni fase – nell’antichità come nel presente – la
profonda identità della società russa è profondamente diffidente nei confronti
dell’Occidente, in particolare del liberalismo e della globalizzazione.
Il
nominalismo è profondamente estraneo al popolo russo nelle sue stesse
fondamenta.
L’identità
russa ha sempre dato priorità al comune – il clan, il popolo, la chiesa, la
tradizione, la nazione e il potere, e persino il comunismo rappresentava –
anche se artificiale, in termini di classe – un’identità collettiva contraria
all’individualismo borghese.
I russi hanno ostinatamente rifiutato e
continuano a rifiutare il nominalismo in tutte le sue forme.
E
questa è una piattaforma comune sia per il periodo monarchico che per quello
sovietico.
Dopo
il tentativo fallito di integrarsi nella comunità globale negli anni ’90,
grazie al fallimento delle riforme liberali, la società russa è diventata
ancora più convinta della misura in cui il globalismo e gli atteggiamenti e
principi individualisti sono estranei ai russi.
Questo è ciò che determina il sostegno
generale al corso conservatore e sovrano di Putin.
I russi rifiutano il “Grande Reset” sia da destra che
da sinistra – e questo, insieme alle tradizioni storiche, all’identità
collettiva e alla percezione della sovranità e della libertà dello Stato come
il valore più alto, non è momentaneo, ma a lungo termine, caratteristica
fondamentale della civiltà russa.
Il
rifiuto del liberalismo e della globalizzazione è diventato particolarmente
acuto negli ultimi anni, poiché il liberalismo stesso ha rivelato le sue
caratteristiche profondamente ripugnanti alla coscienza russa.
Ciò
giustificava una certa simpatia tra i russi per Trump e un parallelo profondo
disgusto per i suoi oppositori liberali.
Da
parte di Biden, l’atteggiamento nei confronti della Russia è abbastanza
simmetrico.
Lui e le élite globaliste in generale vedono la Russia
come il principale avversario della civiltà, rifiutandosi ostinatamente di
accettare il vettore del progressismo liberale e difendendo ferocemente la sua
sovranità politica e la sua identità.
Naturalmente,
anche la Russia di oggi non ha un’ideologia completa e coerente che potrebbe
porre una seria sfida al Grande Reset.
Inoltre, le élite liberali radicate ai vertici
della società sono ancora forti e influenti in Russia, e le idee, le teorie e i
metodi liberali dominano ancora l’economia, l’istruzione, la cultura e la
scienza.
Tutto
ciò indebolisce il potenziale della Russia, disorienta la società e pone le
basi per crescenti contraddizioni interne.
Ma,
nel complesso, la Russia è la più importante, se non la principale! – polo del
Grande Risveglio.
Questo
è esattamente ciò a cui tutta la storia russa ha portato, esprimendo una
convinzione interiore che i russi stanno affrontando qualcosa di grande e
decisivo nella drammatica situazione della Fine dei Tempi, la fine della
storia.
Ma è proprio questo fine, nella sua versione
peggiore, che implica il progetto Great Reset.
La vittoria del globalismo, del nominalismo e
dell’avvento della Singolarità significherebbe il fallimento della missione
storica russa, non solo nel futuro ma anche nel passato.
Dopotutto,
il significato della storia russa è stato diretto proprio verso il futuro e il
passato ne era solo una preparazione.
E in
questo futuro che si avvicina, il ruolo della Russia non è solo quello di
partecipare attivamente al Grande Risveglio, ma anche di esserne in prima
linea, proclamando l’imperativo dell’Internazionale dei Popoli nella lotta al
liberalismo, la peste del 21° secolo.
Il risveglio
della Russia: una rinascita imperiale.
Cosa
significa per la Russia in tali circostanze “svegliarsi”?
Significa ripristinare completamente la scala
storica, geopolitica e di civiltà della Russia, diventando un polo del nuovo
mondo multipolare.
La Russia
non è mai stata “solo un paese”, tanto meno “solo uno tra gli altri paesi
europei”.
Nonostante tutta l’unità delle nostre radici
con l’Europa, che risalgono alla cultura greco-romana, la Russia in tutte le
fasi della sua storia ha seguito un suo percorso particolare, che ha inciso
anche sulla nostra scelta ferma e incrollabile dell’ortodossia e del
bizantinismo in generale, che ha largamente determinato il nostro
allontanamento dall’Europa occidentale, che ha scelto il cattolicesimo e poi il
protestantesimo.
Nell’età
moderna, questo stesso fattore di profonda sfiducia nei confronti
dell’Occidente si è riflesso nel fatto che non siamo stati così colpiti dallo
spirito stesso del Modernismo nel nominalismo, individualismo e liberalismo.
E
anche quando abbiamo preso in prestito alcune dottrine e ideologie
dall’Occidente, erano spesso critiche.
L’identità
della Russia è stata anche fortemente influenzata dal vettore orientale –
turaniano.
Come
hanno dimostrato i filosofi eurasisti, incluso il grande storico russo Lev
Gumilev, lo stato mongolo di Gengis Khan fu un’importante lezione per la Russia
nell’organizzazione centralizzata di tipo imperiale, che in gran parte
predeterminò la nostra ascesa come Grande Potenza dal XV secolo, quando l’Orda
d’Oro crollò e la Russia moscovita prese il suo posto nello spazio dell’Eurasia
nord-orientale.
Questa
continuità con la geopolitica dell’Orda portò naturalmente alla potente
espansione delle ere successive.
In
ogni momento, la Russia ha difeso e affermato non solo i suoi interessi, ma
anche i suoi valori.
Così,
la Russia si è rivelata l’erede di due imperi che crollarono all’incirca nello
stesso periodo, nel XV secolo: l’impero bizantino e quello mongolo.
L’impero
è diventato il nostro destino.
Anche
nel XX secolo, con tutto il radicalismo delle riforme bolsceviche, la Russia è
rimasta un impero contro ogni previsione, questa volta sotto le spoglie
dell’impero sovietico.
Ciò
significa che la nostra rinascita è inconcepibile senza il ritorno alla
missione imperiale fissata nel nostro destino storico.
Questa
missione è diametralmente opposta al progetto globalista del “Great Reset”.
E sarebbe naturale aspettarsi che nella loro
corsa decisiva i globalisti faranno tutto ciò che è in loro potere per impedire
una rinascita imperiale in Russia.
Di conseguenza, abbiamo proprio bisogno di
questo: un Rinascimento Imperiale.
Non
per imporre la nostra verità russa e ortodossa agli altri popoli, culture e
civiltà, ma per far rivivere, fortificare e difendere la nostra identità e
aiutare gli altri nella propria rinascita, per fortificare e difendere la
propria il più possibile.
La
Russia non è l’unico obiettivo del “Grande Reset”, anche se per molti versi il
nostro Paese è l’ostacolo principale all’esecuzione dei loro piani.
Ma questa
è la nostra missione: essere il “Katechon”, “colui che trattiene”, impedendo
l’arrivo dell’ultimo male nel mondo.
Tuttavia,
agli occhi dei globalisti, anche altre civiltà, culture e società tradizionali
devono essere oggetto di smantellamento, riformattazione e trasformazione in
una massa cosmopolita globale indifferenziata e, nel prossimo futuro, essere
sostituite da nuove forme di vita postumane, organismi, meccanismi o loro
ibridi.
Pertanto,
il risveglio imperiale della Russia è chiamato ad essere un segnale per una
rivolta universale di popoli e culture contro le élite globaliste liberali.
Attraverso
la rinascita come impero, come impero ortodosso, la Russia costituirà un
esempio per altri imperi: cinese, turco, persiano, arabo, indiano, nonché latinoamericano,
africano… e europeo.
Invece
del dominio di un unico “Impero” globalista del Grande Reset, il risveglio
russo dovrebbe essere l’inizio di un’era di molti imperi,
Verso
la vittoria del Grande Risveglio.
Se
sommiamo il trumpismo statunitense, il populismo europeo (di destra e di
sinistra), la Cina, il mondo islamico e la Russia, e prevediamo che a un certo
punto la grande civiltà indiana, l’America Latina e l’Africa, che sta entrando
in un altro ciclo di decolonizzazione, e tutti i popoli e le culture
dell’umanità in generale possono anche unirsi a questo campo, non abbiamo
semplici marginali sparsi e confusi che cercano di opporsi alle potenti élite
liberali che guidano l’umanità al massacro finale, ma un fronte a tutti gli
effetti che include attori di varie scale, dalle grandi potenze con economie
planetarie e armi nucleari a forze e movimenti politici, religiosi e sociali
influenti e numerosi.
Il
potere dei globalisti, dopotutto, si basa su insinuazioni e “miracoli neri”.
Governano
non sulla base del potere reale, ma su illusioni, simulacri e immagini
artificiali, che cercano maniacalmente di instillare nella mente dell’umanità.
Dopotutto,
il Grande Reset è stato proclamato da una manciata di vecchi globalisti
degenerati e ansimante sull’orlo della demenza (come lo stesso Biden, il
raggrinzito cattivo Soros o il grasso borghese Schwab) e una marmaglia
marginale e perversa selezionata per illustrare il fulmine -rapidi opportunità
di carriera per tutti i deplorevoli.
Certo,
hanno le borse e le macchine da stampa, i truffatori di Wall Street e gli
inventori drogati della Silicon Valley che lavorano per loro.
Gli
agenti dell’intelligence disciplinati e i generali dell’esercito obbedienti
sono subordinati a loro.
Ma
questo è trascurabile rispetto a tutta l’umanità, agli uomini di lavoro e di
pensiero, al fondo delle istituzioni religiose e alla ricchezza fondamentale
delle culture.
Il
Grande Risveglio significa che abbiamo capito l’essenza di quella strategia
fatale, sia assassina che suicida del “progresso” come la intendono le élite
liberali globaliste.
E se
lo capiamo, allora siamo in grado di spiegarlo agli altri.
I
risvegliati possono e devono risvegliare tutti gli altri.
E se
riusciremo in questo, non solo il “Grande Reset” fallirà, ma verrà emesso un
giusto giudizio su coloro che si sono posti l’obiettivo di distruggere
l’umanità, prima nello spirito e ora nel corpo.
(Aleksandr Dugin, katehon.com)
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