UOMINI CONTRO IL REGIME DELL’ ELITE ASSASSINA AL POTERE.

UOMINI CONTRO IL REGIME DELL’ ELITE ASSASSINA AL 

POTERE.

 

LA VERITÀ SULLE

RIVOLTE IRANIANE.

Comedonchisciotte.org - Costantino Ceoldo - Alireza Niknam – (12 Dicembre 2022) - ci dice: 

(Intervista al giornalista iraniano e analista geopolitico Alireza Niknam)

È dall’inizio dello scorso settembre che l’Iran è colpito da moti di piazza e dimostrazioni di folla la cui importanza e partecipazione varia a seconda delle agenzie di stampa.

Per quelle occidentali, infatti, sembra che la fine spontanea della teocrazia iraniana sia vicina ed abbia bisogno solo di un piccolo aiuto per cadere mentre la situazione è notevolmente diversa, e a favore del governo, secondo le agenzie ufficiali di Teheran.

La morte improvvisa di Mahsa Amini, 22 anni, è stata l’elemento catalizzatore delle proteste.

Un elemento sfruttato ad arte dai media occidentali e dalle agenzie di intelligence che operano clandestinamente nel territorio della repubblica islamica: la povera Amini è svenuta dentro una centrale di polizia a Teheran e, benché soccorsa immediatamente, non è riuscita a sopravvivere.

 I video mostrano chiaramente che non è stata nemmeno sfiorata dall’agente donna che le parlava ma la questione è irrilevante per gli occidentali, che vogliono riavere l’Iran sotto il loro controllo.

Non è solo la ben nota questione di chi controlli le grandi ricchezze petrolifere dell’Iran, ma anche la collocazione a livello internazionale della Repubblica Islamica.

 Teheran infatti persegue caparbiamente il suo diritto ad una politica estera indipendente, al rifiuto di dialogo con Israele, allo sviluppo dell’energia atomica per usi pacifici e, più in generale, al benessere della propria popolazione.

La visione dell’Islam che la teocrazia degli ayatollah difende è semplicemente incompatibile con il modus vivendi che le élite occidentali (sic) vorrebbero diffuso a tutto il pianeta e che possiamo riassumere con una vera e propria resurrezione di Sodoma e Gomorra.

Le proteste di una parte davvero esigua della popolazione iraniana sono state accompagnate fin da subito dalla violenza di cellule dormienti i cui operativi sono passati prontamente all’azione contro non solo le forze di sicurezza iraniane, colte inizialmente di sorpresa, ma anche contro bersagli civili come con il terribile e sanguinoso attacco al santuario sciita di Shiraz, dove sono morte più di venti persone.

Se anche non ci fosse stata la morte di Mahsa Amini, il detonatore sarebbe stato un altro, spontaneo o costruito ad arte:

il dispositivo era già pronto da tempo, preparato con cura e pazienza dai nemici della Repubblica Islamica e necessitava solo di un piccolo abbrivio.

Alle manifestazioni e alle violenze si sono aggiunti anche atti di provocazione ben studiati nella loro apparente leggerezza e alcuni manifestanti sono stati ripresi mentre toglievano il turbante agli appartenenti al clero sciita.

 Si tratta, evidentemente, di un dileggio provocatorio che ricorda molto quella che, in altri contesti, è stata definita la “tattica della bestemmia” e più in generale i metodi non violenti di rivolta colorata inventati da Gene Sharp e dai suoi seguaci e applicati in varie parti del mondo per favorire i cambi di regime voluti da Washington.

Tuttavia il Maidan iraniano non avrà successo: l’Iran non è l’Ucraina.

Il governo degli ayatollah è sicuramente criticato e criticabile ma ha sempre cercato di prendersi cura del suo popolo, cosa che gli oligarchi ucraini non hanno fatto.

Teheran non finirà in mano ad un letamaio nazista come è successo a Kiev.

Quale è la situazione, ora, in Iran?

 Il giornalista iraniano e analista geopolitico Alireza Niknam ha risposto ad alcune mie domande così da andare oltre il velo della propaganda occidentale.

1)- Quale e la ragione ufficiale degli scontri che sono esplosi poco tempo fa nella sua Nazione?

R)- All’inizio, a causa delle proteste per la morte di una donna in uno dei dipartimenti di polizia, abbiamo assistito a manifestazioni nelle strade di alcune città iraniane, ma con la formazione di una commissione d’inchiesta per ordine delle autorità giudiziarie iraniane e l’esame dei video disponibili in questi luoghi, nonché l’esame dei documenti medici della persona deceduta, si è scoperto che non c’erano accuse contro la polizia e che questa persona aveva già una malattia cerebrale e la causa della morte è stata l’aggravamento di tale malattia.

 Allo stesso tempo, alcuni media che si oppongono alla Repubblica islamica dell’Iran, come quelli appartenenti al gruppo terroristico del MEK, alle monarchie e ai movimenti separatisti, come Iran International (affiliato all’Arabia Saudita), BBC Farsi (rete governativa britannica), ecc. hanno violato le leggi sui media nei Paesi in cui hanno sede le loro agenzie di stampa e, pur incoraggiandoli a continuare le loro proteste, li hanno invitati alla violenza.

Non si può inoltre ignorare il ruolo senza precedenti di alcuni governi americani ed europei in questa vicenda, dall’approvazione delle violenze commesse dai rivoltosi, all’incontro dei loro presidenti con i leader degli oppositori, all’autorizzazione di raduni illegali, all’invito dei leader degli oppositori del governo islamico iraniano ai canali televisivi etc… non si può ignorare che questi casi possono essere citati come le ragioni dell’escalation delle rivolte.

2)- Quanto seguito hanno questi moti tra la popolazione iraniana?

R) All’interno dell’Iran, si può affermare che le manifestazioni pubbliche in occasione di giornate nazionali come la Giornata dello Studente, la grande partecipazione di persone ai funerali dei martiri uccisi dai rivoltosi negli ultimi eventi, le manifestazioni di condanna dei recenti disordini e il rapporto tra queste manifestazioni e quelle dei rivoltosi, dimostrano che pochissime persone sostengono i disordini e di fatto le persone si sono separate dai rivoltosi.

 Le indagini condotte dimostrano che la maggior parte di queste persone sono state ingaggiate con dollari sauditi per partecipare a queste manifestazioni e disturbare la legge, oppure sono state incoraggiate a partecipare a queste rivolte con la promessa di visti per i Paesi europei e americani.

 Al di fuori dell’Iran, nei raduni che si sono formati nei Paesi europei a sostegno delle rivolte iraniane, è emerso chiaramente che gruppi ostili, come il gruppo terroristico del MEK, hanno portato persone da altre città al luogo dei raduni in autobus con il pretesto di cibo e denaro gratuiti.

Si sono radunati e hanno finto di essere iraniani, mentre dalle interviste e dai video di questi raduni era chiaro che nessuna di queste persone lo era.

Questa tecnica è stata esattamente la stessa che il MEK ha usato nei suoi raduni e marce annuali per dare credito al suo gruppo terroristico mostrando una folla che lo sostiene, mentre si tratta di un falso.

3)- Non le sembra che la dinamica sia quella classica di una “rivoluzione colorata”?

R) - Sì, come abbiamo visto nel 2009, i governi occidentali, con il sostegno di gruppi terroristici come il MEK, Komoleh, ecc. intendevano portare a termine il piano per rovesciare il governo e uccidere persone innocenti in Iran, ma con il disprezzo e la separazione del popolo dai nemici, tutti i loro piani sono stati sventati.

Gli ultimi movimenti per la rivoluzione colorata in Iran sono stati portati avanti da persone come Hale Esfandiari, Kian Tajbakhsh e Ramin Jahanbeglu.

 Uno dei principali attori dietro le rivoluzioni colorate in Iran è la Fondazione Soros.

Questa fondazione, il cui nome originale è “Open Society Foundation”, appartiene a un miliardario ebreo di nome “George Soros”.

Si tratta di un ebreo ungherese di origine americana, che per molti anni ha avviato attività polivalenti costituendo una società di investimenti e un’organizzazione di ricerca sui diritti umani.

L’obiettivo di questa istituzione, come dice, è creare e mantenere le strutture e le istituzioni di una società aperta.

L’istituto stesso e i media occidentali affermano che le attività della fondazione in questione spaziano dagli aiuti umanitari alla salute pubblica e al rispetto dei diritti umani e delle riforme economiche, ma alcuni ritengono che l’obiettivo di questo istituto sia l’organizzazione di “rivoluzioni di velluto” a causa del suo coinvolgimento proprio nelle rivoluzioni colorate.

Soros ha agenzie attive in più di 30 Paesi, tra cui Azerbaigian, Armenia, Uzbekistan, Ucraina, Tagikistan, Russia, Georgia, Kirghizistan, Kazakistan e Moldavia.

 Attivando centri di studio in diversi Paesi e poi valutando gli oppositori del governo centrale e sostenendo la stampa contro il governo, la Fondazione Soros fornisce le basi per una rivoluzione silenziosa e la sconfitta del governo.

L’attività principale di questa fondazione si è svolta nell’area dei Paesi dell’Asia centrale e del Caucaso, esattamente con azioni congiunte nelle manifestazioni di questi mesi, che erano del tutto simili agli schemi attuati in altri Paesi in cui questo progetto è stato portato avanti, sono stati attivati gruppi terroristici ed è stato formato un piano di uccisioni in Iran, che, naturalmente, ha affrontato la risposta dura e intelligente dell’Iran.

Questi gruppi terroristici hanno affrontato un duro attacco da parte dell’Iran e il loro quartier generale è stato attaccato dalle forze militari iraniane e, cosa più importante, come ho detto prima, la popolazione non ha seguito questi terroristi e nella maggior parte delle recenti rivolte di cui esistono filmati, vediamo che poche persone hanno preso parte alle rivolte.

Naturalmente, nei recenti disordini, abbiamo assistito anche a una guerra ibrida, perché i gruppi nemici, con la collaborazione dei governi occidentali, hanno condotto anche attacchi informatici, sebbene questa guerra ibrida o cibernetica non sia specifica dei recenti incidenti e sia iniziata molto tempo fa.

 Il nemico ha agito nel cyberspazio per ingannare le persone, soprattutto le giovani generazioni, per indebolire le loro convinzioni, per creare in loro una cultura della disobbedienza e per insegnare loro la violenza, e con tutti i tipi di bugie che diffondono ogni giorno nel cyberspazio hanno cercato di mostrare la situazione in modo da rovesciare il governo.

Queste attività mediatiche sono state condotte utilizzando le tecnologie dell’informazione, della comunicazione, dell’intelligenza artificiale e altri strumenti forniti dai governi occidentali.

4) Chi sarebbero gli artefici di questa situazione così drammatica?

R) - Esaminando il funzionamento dei gruppi terroristici e il ruolo degli agenti interni in queste rivolte, si evince che persone come Ali Karimi, Hamed Esmailiyoun, Nazanin Bonyadi, Masih Alinejad, Ali Ebrahimzadeh, Pouria Zeraatkar, così come gruppi terroristici e separatisti, come il MEK, Monarchies, Komole, ecc. sono stati le cause principali dei disordini, delle rivolte e gli attuatori delle operazioni di omicidio.

Naturalmente non si tratta di un metodo nuovo, perché anche il gruppo terroristico del MEK, all’inizio della Rivoluzione islamica nel 1979, aveva dimostrato che uccidendo più di 12 mila iraniani (uomini, donne e bambini innocenti), non avrebbe esitato un attimo a uccidere persone innocenti ed insegna a costruire tutti i tipi di attrezzature militari e a usarle, in eventi quotidiani come nello spazio virtuale.

5)- Ci sono agenti stranieri sul campo e, se sì, a quali nazioni appartengono?

 

R) - Sì, come sapete, ci sono agenti sul campo dei servizi segreti stranieri, tra cui Inghilterra, Israele, Francia, Arabia Saudita, ecc.

Gli agenti dei servizi segreti stranieri della DGSE francese avevano già tentato di contattare e addestrare le centrali sindacali illegali per creare proteste e caos. Le forze di sicurezza hanno ottenuto i documenti di tutti i loro incontri, telefonate e comunicazioni e queste spie sono attualmente sotto processo presso le autorità giudiziarie per ottenere una sentenza equa.

 Nella discussione sulle spese, la mano del regime saudita è stata chiaramente visibile: nello spettacolo di propaganda di Berlino, dove si sono radunati monarchici, MEK, separatisti e gruppi sessualmente deviati, l’intero sostegno finanziario di questo progetto nel campo della pubblicità, della creazione di spazi, della copertura audio e video e del noleggio di attrezzature avanzate per la fotografia aerea del raduno e della fornitura di strutture per la presenza numerosa e consistente di giornalisti e per la distribuzione di cibo, eccetera, è stato fatto a spese del regime saudita.

6)- Come è la situazione adesso e, in particolare, quali sono le azioni intraprese dal governo della Repubblica islamica per riportare l’ordine?

R) - Ci troviamo di fronte a diverse categorie di attori.

Il regime sionista, il cui ruolo è chiaro e non ha bisogno di essere discusso.

 In posizione ostile, questo regime sionista ha compiuto finora molti atti terroristici in Iran, che ha sbandierato con accesso ai media, ricevendo risposte feroci dall’Iran, che ha nascosto con tutte le sue forze.

Sicuramente l’Iran darà presto una risposta forte alle azioni del Regime Provvisorio Sionista.

Per quanto riguarda il regime americano, oltre a tutte le inimicizie, i danni e i colpi che ha inflitto direttamente e indirettamente alla nazione iraniana, questo regime terrorista è ufficialmente l’assassino del grande leader della resistenza, il generale Qasem Soleimani, e non nel fronte dello scontro diretto di questo generale con proxy americani come l’ISIS, ma al di fuori del campo di battaglia e in una situazione in cui era ospite di un Paese terzo (l’Iraq), lo hanno assassinato nel modo più vile e terroristico possibile.

 La potenza americana è in declino contro un Iran forte.

Dico con certezza e determinazione che l’America non è in grado di fare una guerra militare con noi e quindi o sostiene un gruppo terroristico e assassina ufficialmente (e, ovviamente, riceverà una risposta potente, cavalleresca e militare dall’Iran), oppure va dietro le quinte e porta avanti guerre ibride e morbide e persuade i gruppi terroristici a fare attività terroristiche in Iran, nel qual caso otterrà sempre una risposta e d’ora in poi riceverà sicuramente risposte potenti dall’Iran.

Ma nel caso dell’Inghilterra, si tratta di un Paese che non ha mai smesso di agire contro la Repubblica islamica dell’Iran.

 Attualmente, i media inglesi cercano di creare e diffondere disordini in Iran.

Sia in passato che ora, questi media sono andati oltre il campo della gestione dei disordini e cercano di organizzare movimenti maligni e terroristici in Iran.

 È un’azione iniziata dall’Inghilterra.

In passato, l’Iran è stato più volte un ostacolo agli atti terroristici contro i Paesi europei, ma l’Inghilterra e alcuni Paesi europei non hanno rinunciato all’ostilità contro la Repubblica Islamica dell’Iran.

 Senza dubbio, come l’Inghilterra, non sosterremo mai gli atti terroristici e l’insicurezza in altri Paesi, ma non avremo l’obbligo di impedire il verificarsi dell’insicurezza in questi Paesi, per cui il Regno Unito pagherà per le sue azioni volte a rendere insicuro il grande Paese dell’Iran.

Nel caso dei canali di Iran International e della BBC, purtroppo, il governo britannico, che ha questi canali satellitari sotto la sua protezione e opera nell’ambito dei suoi media, ha assunto oggi un ruolo terroristico, e si tratta di oltrepassare le linee rosse della sicurezza della Repubblica Islamica dell’Iran.

Vorrei ricordare che l’International Satellite Network è riconosciuta come organizzazione terroristica dall’apparato di sicurezza della Repubblica islamica dell’Iran e che i suoi operatori e agenti sono ricercati dalle forze militari iraniane;

qualsiasi tipo di attività e di collegamento con questa organizzazione terroristica è considerato un ingresso nel dominio del terrorismo e una minaccia per la sicurezza della Repubblica islamica dell’Iran.

Ma nel caso dell’Arabia Saudita, dico che il nostro destino e quello di altri Paesi della regione sono legati insieme a causa del nostro vicinato.

Dal punto di vista dell’Iran, qualsiasi instabilità nei Paesi della regione è contagiosa, e qualsiasi instabilità in Iran può essere contagiosa per i Paesi della regione.

Paesi lontani come gli Stati Uniti o l’Inghilterra sono i principali destabilizzatori della regione.

Il lancio di pietre contro il potente Iran da parte di Paesi che siedono in case di vetro non ha altro significato se non quello di oltrepassare i confini della razionalità per entrare nelle tenebre della stupidità.

 La Repubblica islamica dell’Iran ha finora adottato una pazienza strategica con ferma razionalità, ma non dà alcuna garanzia per la continuazione di questa pazienza strategica in caso di prosecuzione delle ostilità.

Indubbiamente, se la Repubblica islamica dell’Iran ha la volontà di ricambiare e punire questi Paesi, i palazzi di vetro crolleranno e questi Paesi non vedranno la stabilità.

7)- In particolare, perché le forze armate iraniane hanno attaccato delle basi nel Kurdistan iracheno?

R) Prima di tutto, va notato che il Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche è una delle forze militari della Repubblica Islamica dell’Iran e la sua azione è stata intrapresa per sostenere l’Iran insieme ad altre forze armate.

L’Iran è stato ripetutamente oggetto di atti terroristici da parte di gruppi terroristici come il MEK, il Komole, i Monarchici e altri gruppi separatisti e la politica iraniana è anche un contrattacco a questi gruppi in queste azioni e a questo proposito, le forze militari iraniane hanno dato una forte risposta alle loro azioni con il bombardamento missilistico delle basi del gruppo terroristico Komole nella regione del Kurdistan in Iraq e continueranno i loro attacchi fino a quando il gruppo non sarà completamente disarmato.

(Costantino Ceoldo, ideeazione.com)

(ideeazione.com/rivolte-iraniane/)

 

 

 

 

La Bill e Melinda Gates Foundation,

la Johns Hopkins University e l’OMS

hanno Simulato un’altra Pandemia.

Conoscenzealconfine.it – (13 Dicembre 2022) - Maurizio Blondet – ci dice:

Tre anni quasi esatti, le stesse persone dietro “Event 201” hanno appena completato una simulazione per un nuovo “Enterovirus” originario vicino al Brasile.

L’Event 201 ebbe luogo a New York, questo è avvenuto a Bruxelles.

Il virus ha un tasso di mortalità più elevato rispetto al COVID-19 e colpisce in modo sproporzionato giovani e bambini. Ovviamente, come per il Covid, sarà una immensa truffa.

Stavolta però hanno reso il fantomatico virus più mortale e, al contrario del Covid che colpiva prevalentemente adulti e anziani, stavolta colpiranno i bambini.

Giusto per ricordare agli smemorati. Rossella Fidanza.

 Già nel 2017 il John Hopkins Center for Health Security ha rilasciato un documento chiamato “The Spars Pandemic” (rossellafidanza.com/2021/09/23/the-spars-pandemic-2025-2028/), che rappresenta uno scenario pandemico derivante da nuovo coronavirus SPARS, collocandolo in un arco temporale tra il 2025 ed il 2028.

Il 18 ottobre 2019, sempre il Johns Hopkins Center for Health Security, in collaborazione con il World Economic Forum e la Bill and Melinda Gates Foundation, ha ospitato a New York l’Event 201.

Andava in scena una simulazione che nel giro di poche settimane sarebbe diventata reale:

Event 201 simula un’epidemia di un nuovo coronavirus zoonotico trasmesso dai pipistrelli ai maiali, alle persone, che alla fine diventa efficacemente trasmissibile da persona a persona, portando a una grave pandemia. L’agente patogeno e la malattia che provoca sono modellati in gran parte sulla SARS, ma è più trasmissibile nel contesto comunitario da persone con sintomi lievi”.

Ad ottobre di quest’anno (23 ottobre) sempre il Johns Hopkins ha organizzato una nuova simulazione, chiamata catastrophic contagion” (centerforhealthsecurity.org/our-work/exercises/2022-catastrophic-contagion/index.html), sempre supportata dalla fondazione Gates:

 “L’esercitazione ha simulato una serie di riunioni del comitato consultivo sanitario di emergenza dell’OMS su una pandemia immaginaria ambientata in un futuro prossimo.

 I partecipanti si sono confrontati su come rispondere a un’epidemia localizzata in una parte del mondo che si è poi diffusa rapidamente, diventando una pandemia con un tasso di mortalità superiore a quello della COVID-19, colpendo in modo sproporzionato bambini e giovani “.

Chi paga la Johns Hopkins for Health Securitry?

Ad agosto di quest’anno, la Johns Hopkins si aggiudica un appalto miliardario dal Pentagono (fedscoop.com/johns-hopkins-applied-physics-lab-lands-pentagon-rdte-contract-worth-up-to-10-6-billion/) per “per ricerca, sviluppo, test e valutazione di tecnologia militare”.

Inoltre, il laboratorio della Johns Hopkins che si è aggiudicato questo appalto è nel Maryland, a pochi passi dall’Istituto di ricerca medica sulle malattie infettive dell’esercito americano (mrdc.health.mil/).

Sono tutte coincidenze?

(Maurizio Blondet - maurizioblondet.it/la-bill-e-melinda-gates-foundation-la-johns-hopkins-university-e-loms-hanno-appena-simulato-unaltra-plandemia/)

(centerforhealthsecurity.org)

 

 

 

SOPRAVVIVERE ALLA VOLONTÀ DI

ANNIENTAMENTO DEL SISTEMA STATUNITENSE.

 Comedonchisciotte.it-Redazione CDC - Maurizio Murelli – (10 Dicembre 2022) – ci dice: 

(ariannaeditrice.it)

 

Non serve sprecare energie per controbattere alle deliranti argomentazioni di chi sta dalla parte della “causa ucraina”, argomentazioni portate avanti tanto da agitatori palesemente disturbati condizionati da aberranti contorcimenti ideologici o da individui intossicati dalla propaganda atlantista che sguazzano nell’ignoranza più assoluta:

tanto gli uni che gli altri reagiscono istericamente con la bava alla bocca insultando, mistificando e stravolgendo la realtà dei fatti.

 Lasciamoli perdere e che si consumino nel loro nefasto liquame in ebollizione e cerchiamo di mantenere freddo distacco rispetto alle loro performance.

Serve invece impegnarsi per chiarificare con dati oggettivi l’evolversi  della “meta-guerra planetaria” rispetto alla quale quanto accade in Ucraina è da considerarsi una battaglia e, estremizzando, così pure la Prima quanto e Seconda guerra mondiale, anch’esse da ritenersi gigantesche battaglie se si considera il fatto che hanno avuto il loro fondamentale epicentro nel perimetro Europeo e, soprattutto, sono state “tappe” per la realizzazione di un preciso ordine mondiale il cui disegno complessivo si evidenzia con quanto imposto nel Trattato di Versailles (1919).

Poco importa stabilire se il progetto sia stato chiaro e definito nei dettagli fin dall’inizio e si deva risalire fin alla Rivoluzione Francese per rintracciarne i semi (tesi complottista) o se il progetto si è implementato (sviluppato) cammin facendo.

Sta di fatto che la “Prima Guerra Mondiale” ha gettato le basi per la Seconda e consentito agli USA di impiantare le proprie malefiche radici in Europa;

la SGM ha posto le basi per le battaglie successive fino a giungere a quella che ha attualmente epicentro in Ucraina.

Ovviamente questa chiave di lettura avrebbe necessità di essere ben esposta e supportata co appropriate esposizioni, ma questa non è la sede adatta – necessiterebbe uno scritto chilometrico.

Mi limiterò dunque a porre un paio di sintetici tasselli esplicativi.

La realizzazione dell’Ordine Mondiale variamente concepito dagli USA ha la necessità di disintegrare la Russia indipendentemente dal sistema politico che lo regge.

La questione non è chi governa la Russia, se lo Zar, il comunista Stalin, il semi-liberale Putin o anche Topolino:

la questione è la Russia in quanto tale perché la sua esistenza come entità statale è posseditrice di gigantesche materie primarie è ostacolo alla realizzazione dell’Ordine Mondiale unipolare.

Dal 24 febbraio ci si è concentrati a mettere in evidenza quanto fatto dagli atlantisti in Serbia, Kosovo, Iraq, Siria, Libia etc. dando l’idea che l’attuale fase sia stata innescata con l’implosione dell’URSS, ma se si vuole supportare la tesi sopra esposta, bisogna fare alcuni passi in dietro, andando ben oltre l’ingordigia imperialista palesatasi nel 1990.

 Il primo passo da farsi ci porta nella seconda metà degli anni Quaranta primi anni Cinquanta.

Nel 1949 la SGM era terminata da appena 4 anni e alla Russia, alleata con gli USA contro la Germania, era costata 20 milioni di morti e una imponente devastazione;

senza la Russia gli angloamericani avrebbero avuto poche possibilità di vincere, almeno non prima del 1945, quando avrebbero potuto far conto sulla bomba atomica poi impiegata in Giappone e dunque desertificate l’Europa.

In quell’anno, il 3 dicembre 1949, gli USA concepirono un piano per regolare i conti con quello che era stato il suo alleato.

 Si tratta del “Piano Trojan” per l’invasione dell’Unione Sovietica, insieme all’alleato britannico.

Il piano prevedeva il lancio di 300 bombe atomiche e 20.000 bombe ordinarie su 100 città dell’URSS.

 Pertanto furono programmati 6.000 voli.

L’inizio dell’invasione era previsto per il 1° gennaio 1950, ma in seguito fu posticipata al 1° gennaio 1957, assieme a tutti i paesi della NATO.

La NATO era stata fondata nell’aprile del 1949 ma aveva bisogno di essere rodata e ben organizzata per diventare operativa.

 GLI USA ritennero fosse meglio che l’operazione venisse targata NATO piuttosto che solo USA, questa la ragione del posticipo dell’operazione.

Nel 1952, il presidente degli Stati Uniti Harry Truman disse:

«Rimuoveremo dalla faccia della terra tutti i porti e le città che devono essere distrutti per raggiungere i nostri obiettivi».

Vi devo specificare quali erano e sono i loro obbiettivi?

La ragione per la quale il piano non prese corpo è semplice: nei primi anni Cinquanta la Russia era diventata a sua volta una potenza atomica in grado di colpire con i suoi missili il territorio USA.

 In attesa del ritorno alla “guerra calda” si aprì l’epoca della “guerra fredda” terminata nel 1990 con l’avvento della “guerra tiepida” per arrivare ad oggi con l’accensione del “fornello ucraino” che ha in prospettiva l’opzione “guerra surriscaldata”.

Allo stato dell’arte gli USA hanno conseguito un primo obiettivo:

devastazione dell’Europa ancorata al gorgo ucraino che progressivamente la sta inghiottendo.

Il secondo, la disintegrazione della Russia è l’allettante prospettiva.

Allora non si tratta di “stare con la Russia” perché irrazionalmente filorussi.

Possiamo qui divagare su cosa è la Russia e divagare sui concetti di civiltà e sistemi politici, ma il punto principale è come posizionarsi da europei, quindi sottrarsi dall’abisso verso il quale gli USA stanno spingendo l’Europa.

 E per fare questo è imprescindibile schierarsi a fianco della Federazione russa contro lo schieramento atlantista impegnato in Ucraina dove, prima di tutto, è in corso una guerra civile tra la parte ovest occidentalizzata e la parte est che non accetta l’occidentalizzazione.

La guerra civile è un fatto interno all’Ucraina, il mascherato posizionamento della NATO con tutto il suo supporto è una questione che riguarda noi europei, noi italiani.

 La disintegrazione della Russia pone irrimediabilmente una pietra tombale sull’Europa lasciandoci in balia della UE che è la marionetta USA.

Tutto questo è quel che deve essere chiaro e opposto ai galoppini atlantici qualsiasi vestito ideologico calzino.

Tutto questo dovrebbe portarci a dire che non è la una pace o tregua in Ucraina che risolverà la questione.

Pace e tregua servono solo a permettere all’atlantismo di riorganizzarsi.

Una volta per tutte il “Grande Conflitto”, la “Grande guerra planetaria” deve essere risolta con un vinto e un vincitore.

E se come europei e italiani dobbiamo essere tra i vinti ce ne faremo una ragione ben sapendo che comunque prima o poi l’intero sistema imploderà… magari tra un secolo, perché questo sistema imperante è disumano e l’umano non lo può reggere: o lo disintegra o scompare.

E per intanto, ognuno nella sua trincea di competenza, si continua a battersi cosicché, per quanto riguarda le armi, quelle italiane, quelle dei veri nazionalisti italiani, passi almeno l’idea che esse dovrebbero essere date al fronte dell’Est.

 Il vortice ucraino va chiuso.

Chiarito questo poi possiamo affrontare tutti gli altri argomenti a cominciare da quello teorico dell’multipolarismo da opporre all’unipolarismo, della contrapposizione tra concezioni di Civiltà e sistemi politici per finire sui terreni dell’economia, della finanza, del liberismo, della geo-energia e quant’altro.

 Prima di tutti sopravvivere alla volontà di annientamento del sistema USA.

(Maurizio Murelli, ariannaeditrice.it)

(ariannaeditrice.it/articoli/91077).

 

 

 

 

IL TOTALITARISMO BIOPOLITICO

GLOBALE.

Parere (n. 18) del Comitato Internazionale per l’Etica della Biomedicina (CIEB).

Comedonchisciotte.org - Giulio Bona - (05 Dicembre 2022) – ci dice: 

 

Silvana Sciarra e G20.

Contro ogni ragionevole probabilità, negli ultimi mesi una parte degli Italiani si è ostinata ad auspicare o ad attendere fiduciosa l’intervento nell’affaire Covid di organismi che, per vocazione e per tradizione, sono organici e funzionali ai centri di potere, nelle sue diverse istanze, con la speranza di vedere ristabilite verità e giustizia in una vicenda che da più di due anni costituisce il più grave attentato ai diritti e alle libertà fondamentali dell’intera storia repubblicana.

La tanto attesa pronuncia si è fatalmente limitata a legittimare l’illegalità di atti e fatti di cui è stata vittima quella stessa parte degli Italiani, in ciò fornendo, forse inconsapevolmente, nuova attualità all’analisi fornita da Carl Schmitt nel suo Legalità e legittimità, pubblicato nel 1932 alla vigilia dell’ascesa al potere del totalitarismo nazista e dell’estinzione della Repubblica di Weimar.

Ed è singolare che la pronuncia in questione sia stata anticipata da un comunicato-stampa, intitolato «Obbligo vaccinale e tutela della salute» , che, dietro lo schermo costituito da viete espressioni e da paludati tecnicismi, oblitera l’oggetto intrinseco della vicenda, ossia l’aspirazione dei cittadini a vedere tutelata la salute da un ordinamento la cui carta fondamentale pone garanzie apparentemente stringenti in materia, come quella secondo cui, qualora una legge dovesse imporre un trattamento sanitario obbligatorio, la stessa legge «non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana».

È infatti di dominio pubblico, anche perché ammesso dalla stessa azienda produttrice, che i cosiddetti vaccini anti-Covid non prevengono la trasmissione né del virus Sars-Cov-2, né della malattia Covid, ma anzi producono una miriade di effetti avversi, ampiamente documentati.

Stupisce, quindi, che la pronuncia in questione abbia omesso di considerare le evidenze scientifiche emerse fin dall’inizio della campagna di somministrazione di un farmaco sperimentale fondato su una tecnica dagli effetti incerti e controversi, quale è la tecnica dell’mRNA, ma di cui è appurata la capacità di interagire e modificare il DNA dei soggetti riceventi.

In breve, ci troviamo di fronte a un palese e lampante corto circuito: le leggi e gli atti aventi forza di legge dovrebbero essere promulgati a tutela dei diritti e della salute dei cittadini, ma quelli sottoposti al vaglio dell’organismo evocato non hanno tutelato né i diritti, né la salute: e ciò nonostante sono stati legittimati, pur a costo di delegittimare i diritti fondamentali dei cittadini.

Alla luce di questa pronuncia, le cui conseguenze non possono certamente sfuggire ai suoi autori – che in quanto tali saranno giudicati in una prospettiva storica – il CIEB ricorda che non è inseguendo le pronunce di questo o di quell’organismo che i cittadini troveranno verità e giustizia e che, diversamente, l’unico modo per contrastare la deriva totalitaria in atto è assumere piena consapevolezza della portata e delle modalità del piano ideato dalle élite finanziarie transnazionali e dai suoi accoliti per soggiogare la popolazione mondiale.

Eccezion fatta per chi non dispone – o rifiuta di disporre – dei necessari strumenti cognitivi, e di chi è colluso con quelle élite, dovrebbe essere evidente a chiunque che la vicenda Covid si inserisce in un piano preordinato all’asservimento degli individui mediante minacce, reali o mendaci, rivolte direttamente contro la salute e l’integrità psico-fisica di ogni essere umano, nonché l’utilizzo sempre più pervasivo, a fini di controllo, degli strumenti della tecnologia digitale.

Questo piano, che prima del Covid sarebbe stato tenacemente occultato dai suoi ideatori, è ora ammesso in modo esplicito da quegli organismi creati espressamente allo scopo di favorire gli interessi e le dinamiche del capitalismo ultra-finanziario:

ossia, prima ancora della globalizzazione delle economie e dei mercati, la perdita dell’identità e la trasmutazione della dimensione antropologica e culturale dell’essere umano.

 

È il caso del G20 tenutosi a Bali il 15-16 novembre 2022 che – nell’ambito del programma “One Health” fondato sulla «resilienza del sistema sanitario globale», sull’armonizzazione dei «protocolli sanitari mondiali» e sull’espansione degli «hub globali di produzione e ricerca» – ha auspicato l’introduzione di «reti sanitarie digitali globali» destinate a «rafforzare la prevenzione e la risposta alle future pandemie» sulla base di campagne vaccinali sempre più capillari, dove per vaccini devono intendersi le sopra citate terapie geniche incentrate sulla tecnica dell’mRNA5 .

Ed è il caso della Commissione europea che, con una raccomandazione del dicembre 2018, ossia ben prima della cosiddetta pandemia, equiparava ai «grandi flagelli» ogni malattia prevenibile mediante vaccino (testualmente: «Le malattie prevenibili da vaccino sono grandi flagelli») e, muovendo da questo singolare presupposto, invitava gli Stati ad attuare piani di vaccinazione comprendenti «un approccio alla vaccinazione sull’intero arco della vita», nonché a «sviluppare la capacità delle istituzioni sanitarie … di disporre di informazioni elettroniche sullo stato vaccinale dei cittadini … che … raccolgano dati aggiornati sulla copertura vaccinale per tutte le fasce di età» .

Il piano in questione, trionfalisticamente presentato dai media quale ennesima tappa di un progresso tecno-scientifico che procede senza esitazioni alla “velocità della scienza”, è destinato a essere realizzato prioritariamente attraverso il cambio di paradigma dei sistemi sanitari pubblici che, complice la pretesa scarsità di risorse disponibili, non saranno più rivolti a erogare prestazioni terapeutiche e assistenziali a beneficio dei malati, ma a promuovere – con buona pace della ricerca, della diagnostica, del miglioramento dell’efficienza delle strutture sanitarie – una medicina “preventiva” fondata su farmaci e vaccini sviluppati da aziende e organismi privati la cui assunzione costituirà, secondo l’approccio di tipo premiale sdoganato dal Covid, la condizione sine qua non per la titolarità e l’esercizio di diritti e libertà individuali: dall’istruzione, al lavoro, alla previdenza, alle stesse cure mediche. Come ha affermato il G20 di Bali, infatti, «occorre capitalizzare … (il) successo degli standard esistenti e dei certificati digitali COVID-19»: ossia il successo del Green Pass fondato sull’obbligo vaccinale.

Il piano in questione comprende ulteriori profili, finora sottovalutati.

 L’impiego di farmaci e vaccini fondati su una tecnica ancora sperimentale, quale è la tecnica dell’mRNA, presuppone e comporta necessariamente – come è successo col pretesto della pandemia per il “vaccino anti-Covid” l’azzeramento dei tempi, delle procedure e delle garanzie sanciti dalla normativa in materia di sperimentazione clinica di medicinale. Farmaci e vaccini siffatti, inoltre, potrebbero condurre – in modo non imprevedibile e forse non imprevisto – a reazioni ed eventi avversi i cui effetti sconosciuti tanto nel breve quanto nel medio e lungo periodo potrebbero a loro volta costituireoltreché l’occasione per ridurre tout court la popolazione mondiale – il pretesto per l’introduzione di nuovi stati emergenziali, di nuovi farmaci e di ulteriori meccanismi e strumenti premiali variamente denominati.

Questo piano va contrastato prima di tutto e necessariamente sul piano culturale.

A tal fine occorre prendere coscienza, senza esitazioni o infingimenti, del fatto che la medicina e la scienza non svolgono più da tempo alcuna funzione sociale;

e procedere conseguentemente alla “de medicalizzazione” della società, oltreché a una profonda revisione della nozione stessa di progresso tecno-scientifico. In questa prospettiva non va dimenticato che già nel 1977 i vertici di una delle più note case farmaceutiche affermavano pubblicamente, e impunemente, che «il nostro sogno è vendere farmaci a gente sana», sebbene tre anni prima Ivan Illich, nel suo “Medical Nemesis”, avesse denunciato la tendenza alla «medicalizzazione» estrema della società mediante la costante creazione di nuovi bisogni terapeutici.

Allo stesso modo occorre prendere coscienza del fatto che il nostro ordinamento giuridico, nella temperie creata dal capitalismo ultra-finanziario e dalle sue élite, non è più in grado di fornire garanzie reali ed effettive ai diritti fondamentali dell’uomo, e procedere conseguentemente allo smantellamento dei diktat dell’agenda globalista che ormai appaiono a molti per quello che sono, ossia minacce sempre più gravi alla dignità e all’integrità psico-fisica dell’essere umano, ma che taluni continuano a spacciare per feticci intoccabili in quanto viatici di pace, di democrazia e di benessere, a cominciare dal primato del diritto dell’Unione europea sul diritto interno.

Sulla base di queste considerazioni, il CIEB:

condanna il silenzio delle istituzioni, e in particolare degli organismi istituzionalmente preposti a stimolare il dibattito pubblico sui temi di rilevanza bioetica, in merito ai rischi del cambio di paradigma sanitario poc’anzi descritto;

– denuncia i rischi per la salute pubblica collegati e conseguenti all’eventuale introduzione, nel nuovo Codice di deontologia medica, di regole che vietino ai medici di sconsigliare il ricorso ai vaccini, con specifico riferimento ai vaccini fondati sulla tecnica dell’mRNA, nonché all’utilizzo delle terapie geniche;

sollecita ancora una volta l’opinione pubblica a prendere coscienza del piano descritto nel presente Parere, che prima di ogni altra cosa è volto a svilire il principio del primato dell’essere umano sugli interessi della scienza, dell’economia e della società codificato da convenzioni internazionali e fatto proprio anche dall’art. 32, secondo comma, della Costituzione italiana;

– invita la parte raziocinante della società civile, nell’inerzia del Governo e del Parlamento, a farsi parte dirigente e a utilizzare ogni mezzo lecito – ad esempio richiedendo una chiara e netta presa di posizione dei propri rappresentanti politici a ogni livello istituzionale – per opporsi alla dittatura sanitaria prefigurata dal piano poc’anzi descritto, che a sua volta costituisce il preludio all’instaurazione di un regime di totalitarismo biopolitico globale fondato sul ricorso a stati permanenti e strutturali di emergenza.

(ecsel.org/cieb)

 

 

 

Qatar 2022, Malore Improvviso:

Muore Terzo Giornalista. Conoscenzealconfine.it -Redazione - (14 Dicembre 2022) – ci dice:

I giornalisti che hanno perso la vita improvvisamente e misteriosamente durante la copertura dei Mondiali in corso in Qatar sono tre.

C’è infatti anche Roger Pearce, direttore tecnico dell’emittente londinese Itv Sport, morto in seguito ad un malore mentre seguiva la Coppa del Mondo in Qatar.

Come riferiscono i siti britannici, Independent, Metro, Ibc e altri, Pearce stava coprendo il suo ottavo torneo di Coppa del Mondo Fifa, quando ha avuto un malore e non si è più ripreso.

La sua morte è stata annunciata in onda prima della partita di lunedì 21 novembre tra Galles e Stati Uniti, con l’emittente Mark Pougatch che ha dato la notizia.

“Abbiamo delle notizie molto tristi da portarvi da qui in Qatar”, ha detto.

“Il nostro direttore tecnico, Roger Pearce, che era qui per imbarcarsi nella sua ottava Coppa del Mondo, è tristemente venuto a mancare”.

Il direttore dello studio e amico Neil Stainsby della Bbc ha condiviso su Twitter un ricordo di Pearce che, secondo quanto riportato da Independent, sarebbe andato in pensione tra cinque settimane.

“E’ davvero triste aver appreso della morte del mio amico ed ex collega di Itv Meridian, Roger Pearce.

È morto durante il suo ultimo incarico in Qatar prima della pensione tra 5 settimane.

 Rip Roger”, ha scritto Stainsby.

 Pearce ha iniziato la sua carriera come ingegnere presso Grampian Tv e ha lavorato in altre canali di Itv come Tvs e Meridian, prima di entrare a tempo pieno nel network sportivo Itv nel 2001, per diventarne il direttore tecnico nel 2008.

La morte di Roger Pearce ha preceduto quella del giornalista statunitense Grant Wahl, 48 anni, che si è improvvisamente accasciato ed è deceduto mentre copriva Olanda-Argentina, match dei quarti di finale ai Mondiali di Qatar 2022.

Nei giorni scorsi, era stato brevemente fermato dalle autorità di Doha perché indossava una t-shirt arcobaleno a sostegno dei diritti Lgbtq.

 Le circostanze della sua morte non sono chiare, ma nei giorni scorsi aveva lamentato di non sentirsi bene, tanto da essersi rivolto all’ambulatorio del centro stampa, credendo di avere una bronchite.

Gli era stato somministrato uno sciroppo per la tosse e ibuprofene.

Aveva poi detto di sentirsi meglio, dopo avere ammesso di aver sofferto, il 3 dicembre scorso, “una capitolazione involontaria da parte del mio corpo e della mia mente” dopo la partita Stati Uniti-Olanda.

“Non è il mio primo mondiale – aveva raccontato sulla sua newsletter.

Ne ho fatti otto… e mi sono ammalato ogni volta, si tratta solo di trovare un modo per portare a termine il proprio lavoro”.

Dopo Grant Wahl, anche un altro giornalista è morto durante i mondiali del Qatar: si tratta del fotoreporter di Al Kass Tv Khalid al-Misslam.

Il fotoreporter qatariota è morto improvvisamente mentre seguiva la Coppa del Mondo, ha riferito il canale per cui lavorava al quotidiano anglofono di Doha ‘Gulf Times’.

“Crediamo nella misericordia e nel perdono di Allah per lui e inviamo le nostre più sentite condoglianze alla sua famiglia.

 Siamo tutti di Allah e a Lui ritorniamo”, ha affermato Al Kass Tv annunciando la morte di al-Misslam.

(adnkronos.com -- imolaoggi.it/2022/12/12/qatar-2022-malore-improvviso-muore-terzo-giornalista/)

 

 

 

Passano gli Emendamenti di

Fratelli d’Italia: Finalmente

Addio al Green Pass!

Conoscenzealconfine.it – (14 Dicembre 2022) – Redazione – ci dice:

 

Il 12 dicembre 2022 l’aula di Palazzo Madama ha approvato emendamenti con i quali si interviene sulle misure di contrasto alla diffusione del virus Sars-Cov-2, aggiungendo due articoli al decreto-legge in conversione.

Si tratta di provvedimenti che mantengono gli impegni assunti in campagna elettorale e che finalmente ci fanno uscire del tutto dal regime di restrizioni e che ripristinano dunque nuova libertà ai cittadini.

 Ringrazio il governo per il parere favorevole espresso a questi emendamenti che confermano il cambio di passo deciso dall’inizio da questo governo e dal ministro Schillaci “.

Lo dichiara il senatore di Fratelli d’Italia Franco Zaffini, presidente della commissione Sanità di Palazzo Madama.

“In particolare, l’articolo 7 bis – osserva Zaffini – incide sulle residue disposizioni che prescrivono l’impiego della certificazione verde Covid-19 per l’accesso dei visitatori a strutture residenziali, socio-assistenziali, sociosanitarie e hospice, nonché ai reparti di degenza delle strutture ospedaliere.

 L’emendamento abroga, a decorrere dall’entrata in vigore della legge di conversione del decreto, le disposizioni di cui ai commi 1-bis e seguenti che consentono l’accesso alle predette strutture ai soli soggetti muniti di una certificazione verde COVID-19, rilasciata a seguito della somministrazione della dose di richiamo successiva al ciclo vaccinale primario, ovvero a seguito del completamento del ciclo vaccinale primario o dell’avvenuta guarigione unitamente ad una certificazione che attesti l’esito negativo del test antigenico rapido o molecolare, eseguito nelle quarantotto ore precedenti l’accesso”.

“Un altro emendamento – sottolinea Zaffini – abroga le disposizioni che consentono agli accompagnatori di permanere nelle sale di attesa dei dipartimenti d’emergenza nelle sale d’attesa dei reparti di pronto soccorso solo se muniti di green pass.

Viene cioè meno l’obbligo di sottoporsi al test antigenico rapido o molecolare per l’accesso alle prestazioni di pronto soccorso.

Con l’abrogazione della già menzionata norma, viene meno anche l’obbligo del green pass anche per l’accesso ai reparti di degenza.

L’emendamento, inoltre, abroga la disposizione che prevede il green pass per le uscite temporanee delle persone ospitate presso strutture di ospitalità e lungodegenza, residenze sanitarie assistite, hospice, strutture riabilitative e strutture residenziali per anziani, autosufficienti e no, strutture residenziali socioassistenziali”.

“Un ulteriore emendamento – conclude Zaffini – riduce a 5 giorni il periodo di auto-sorveglianza per i contatti stretti di soggetti risultati positivi al virus Sars-Cov-2, prevedendo, quale misura precauzionale, solo l’obbligo di indossare dispositivi di protezione individuale di tipo FFP2 per il suddetto periodo.

Con riferimento al regime dell’isolamento dei soggetti risultati positivi al SARS-CoV-2, la norma abroga la disposizione che subordina la fine dell’isolamento all’esecuzione di un test antigenico o molecolare con esito negativo e rinvia ad una successiva circolare del Ministro della Salute la definizione delle specifiche modalità che determinano la cessazione della misura dell’isolamento.

Avanti così: serietà e coerenza seppur senza abbassare la guardia”.

(iltempo.it/politica/2022/12/12/news/green-pass-non-serve-ingresso-ospedali-cancellato-emendamenti-fratelli-d-italia-franco-zeffini-34185059/)

 

 

 

 

LE ORIGINI DEL TOTALITARISMO.

HANNAH ARENDT -A cura di Diego Fusaro.

Filosofico.net – Redazione – Diego Fusaro – (20-6-2022) – ci dice:

 

Come molte altre opere di grandi autori, anche " Le origini del totalitarismo " della Arendt è comparsa in un momento politico-culturale (1951), data centrale della guerra fredda che ne ha reso quasi obbligatoriamente unilaterali la lettura e l'interpretazione.

L'assimilazione di nazismo e stalinismo, infatti, impedì allora una lettura serena dell'opera da parte dell'intellettualità di sinistra, per la quale la Arendt per molti anni sarebbe rimasta l'esponente di un pensiero politico liberale e neo-conservatore.

In realtà le preferenze politiche della Arendt andavano ad un tipo di società socialista vicina alle idee della Luxemburg e alle tematiche consiliari, come sarebbe stato evidente qualche anno dopo.

L'opera, grande anche nel senso della voluminosità (circa 700 pagine), individua i caratteri specifici del totalitarismo dopo averne riscontrato le premesse nell'antisemitismo (studiato nel periodo fra Otto e Novecento, specialmente in Francia con l’”affaire Dreyfus") e nell'imperialismo, temi ai quali sono dedicati i due terzi dell'opera.

Dal confluire delle conseguenze dell'antisemitismo e dell'imperialismo in un preciso momento storico (la crisi successiva alla prima guerra mondiale) è nato il totalitarismo, con caratteri comuni sia nella Germania nazista sia nell'Unione sovietica stalinista (del tutto marginale è l'attenzione rivolta al fascismo italiano).

Il totalitarismo è un fatto nuovo del nostro secolo, non assimilabile o riducibile, secondo la Arendt, ai tradizionali regimi tirannici o dittatoriali.

 Esso nasce dal tramonto della società classista, nel senso che l'organizzazione delle singole classi lascia il posto ad un indifferenziato raggrupparsi nelle masse, verso le quali operano ristretti gruppi di élites, portatori delle tendenze totalitarie.

Tali tendenze, dopo la vittoria politica sulle vecchie rappresentanze di classe, realizzano il regime totalitario, che ha i suoi pilastri e nell'apparato statale, nella polizia segreta e nei campi di concentramento nei quali si rinchiudono e si annientano gli oppositori trasformati in nemici.

 Attraverso l'imposizione di una ideologia (razzismo, nazionalsocialismo, comunismo) e il terrore, il totalitarismo, identifica sé stesso con la natura, con la storia, e tende ad affermarsi all'esterno con la guerra.

Nulla di simile era apparso prima: il totalitarismo è un fenomeno " essenzialmente diverso da altre forme conosciute di oppressione politica come il dispotismo, la tirannide e la dittatura.

 Dovunque è giunto al potere, esso ha creato istituzioni assolutamente nuove e distrutto tutte le tradizioni sociali, giuridiche e politiche del paese.

 A prescindere dalla specifica matrice nazionale e dalla particolare fonte ideologica, ha trasformato le classi in masse, sostituito il sistema dei partiti non con la dittatura del partito unico ma con un movimento di massa, trasferito il centro del potere dall'esercito alla polizia e perseguito una politica estera apertamente diretta al dominio del mondo ".

 La Arendt accentua, nelle pagine di considerazione teorica che concludono l'opera, il ruolo nuovo svolto dalle ideologie, unite al terrore, nei regimi totalitari.

Le ideologie, con logica stringente, impongono una visione del mondo in cui le idee incarnate nel regime totalitario vengono imposte come direttrici di un cammino fatale, inevitabile, naturale e storico insieme.

 In un regime totalitario l'ideologia " è la logica di un'idea. La sua materia è la storia a cui l’idea è applicata, il risultato di tale applicazione non è un complesso di affermazioni su qualcosa che è, bensì lo svolgimento di un processo che muta di continuo.

L'ideologia tratta il corso degli avvenimenti come se seguisse la stessa legge dell'esposizione logica della sua idea.

 Essa pretende di conoscere i misteri dell'intero processo storico - i segreti del passato, l'intrico del presente, le incertezze del futuro - in virtù della logica inerente alla sua idea ".

 La Arendt si pone, alla fine, una domanda: " quale esperienza di base nella convivenza umana permea una forma di governo che ha la sua essenza nel terrore e il suo principio d'azione nella logicità del pensiero ideologico? ".

La risposta viene data individuando tale esperienza di base nell'isolamento dei singoli nella sfera politica, corrispondente alla estraniazione nella sfera dei rapporti sociali.

Quest'ultima, in sostanza, sta alla base dell'isolamento sul piano politico, e quindi costituisce la condizione generale dell'origine del totalitarismo.

" Estraniazione, che è il terreno comune del terrore, l'essenza del regime totalitario e, per l'ideologia, la preparazione degli esecutori e delle vittime, è strettamente connessa allo sradicamento e alla superfluità che dopo essere stati la maledizione delle masse moderne fin dall'inizio della rivoluzione industriale, si sono aggravati col sorgere dell'imperialismo alla fine del secolo scorso e con lo sfascio delle istituzioni politiche e delle tradizioni sociali nella nostra epoca.

 Essere sradicati significa non avere un posto riconosciuto e garantito dagli altri; essere superflui significa non appartenere al mondo ".

 E ancora: " quel che prepara così bene gli uomini moderni al dominio totalitario è estraniazione che da esperienza al limite, usualmente subita in certe condizioni sociali marginali come la vecchiaia, è diventata un'esperienza quotidiana delle masse crescenti nel nostro secolo.

L'inesorabile processo in cui il totalitarismo inserisce le masse da esso organizzate appare come un'evasione suicida da questa realtà ".

Risuonano in questi passi gli echi di un pessimismo ebraico che negli anni '30 e '40 trovava manifestazione filosofica con tematiche non molto dissimili, in Benjamin, in Horkheimer e in Adorno.

Le tesi della Arendt, come quelle dei suoi amici appena citati, avranno ampia diffusione, ma verranno anche ampiamente discusse nel dibattito teorico che ha impegnato nei successivi decenni i pensatori politici europei e statunitensi.

Arendt si considerava una scopritrice di problemi attuali, ma i tre elementi (antisemitismo, imperialismo e razzismo) in cui condensava la sua analisi, erano ciascuno espressione di un problema, o di un insieme di problemi, per i quali era stato il nazismo ad offrire, quando essi si erano "cristallizzati", una "soluzione" tremenda.

Così, l'alternativa metodologica scelta da Arendt fu quella di individuare gli elementi principali del nazismo, risalire alle loro origini, e scoprire i problemi politici reali alla loro base, " scopo del libro non è dare delle risposte, bensì preparare il terreno ".

Arendt presenta gli elementi del nazismo e i problemi politici che ne stavano alla base.

 L'imperialismo, quello che ha raggiunto il suo pieno sviluppo, cioè il totalitarismo, è visto come una "amalgama" di certi elementi presenti in tutte le situazioni politiche del tempo.

 Questi elementi sono l'antisemitismo, il decadimento dello stato nazionale, il razzismo, l'espansionismo fine a sé stesso e l'alleanza fra il capitale e le masse.

" Dietro ciascuno di questi elementi si nasconde un problema irreale e irrisolto: dietro l'antisemitismo, la questione ebraica; dietro il decadimento dello Stato nazionale, il problema irrisolto di una nuova organizzazione dei popoli; dietro il razzismo, il problema irrisolto di una nuova concezione del genere umano; dietro l'espansionismo fine a sé stesso, il problema irrisolto di riorganizzare un mondo che diventa sempre più piccolo, e che siamo costretti a dividere con popoli la cui storia e le cui tradizioni sono estranee al mondo occidentale.

 La grande attrazione esercitata dal totalitarismo si fondava sulla convinzione diffusa, e spesso consapevole, che esso fosse in grado di dare una risposta a tali problemi, e potesse quindi adempiere ai compiti della nostra epoca ".

In una serie di lezioni tenute nel 1954 alla "New School for Social Research" di New York, Arendt chiarisce l'immagine della "cristallizzazione", con una dichiarazione metodologica che è assente nelle stesure delle Origini del totalitarismo: " gli elementi del totalitarismo costituiscono le sue origini, purché per origini non si intenda cause.

 La causalità, cioè il fattore di determinazione di un processo di eventi, in cui un evento sempre ne causa un altro e da esso può essere spiegato, è probabilmente una categoria totalmente estranea e aberrante nel regno delle scienze storiche e politiche. […]

Gli elementi divengono l'origine di un evento se e quando si cristallizzano in forme fisse e definite. Allora e solo allora, sarà possibile seguire all'indietro la loro storia. L'evento illumina il suo stesso passato, ma non può mai essere dedotto da esso ".

Gli elementi del totalitarismo: secondo Arendt, quindi, il totalitarismo è composto da "elementi" che si sono sviluppati precedentemente e si sono "cristallizzati" in un nuovo fenomeno dopo la prima guerra mondiale.

Questi elementi forniscono la struttura nascosta del totalitarismo.

L'impulso all'espansione senza limiti era nelle sue origini un fenomeno economico, qualcosa di inerente all'avanzata del capitalismo.

 Il capitalismo era impegnato nella trasformazione della proprietà da stabile, fissa, in una ricchezza mobile;

 la conseguenza fondamentale di questo processo fu quella di generare sempre più ricchezza in un processo senza fine.

 Fino a che questo rimase un fenomeno puramente economico esso era sì distruttivo, ma non catastrofico.

 Il pericolo diventò " la trasformazione di pratiche economiche in un nuovo tipo di politica della competizione assassina e dell'espansione senza limiti ".

 Il significato dell'era imperialista per Arendt è che l'imperativo di espandersi uscì dalla logica economica e prese forza nelle istituzioni politiche.

 Lo stato-nazione fu fortemente messo in crisi dall'imperialismo.

 Dove l'imperialismo dà spazio alle forze incontrollabili dell'espansione e della conquista, lo stato-nazione è un'istituzione creata da individui, una struttura civilizzata che fornisce un ordine legale e garantisce diritti, tramite i quali l'individuo può essere legislatore e cittadino.

C'è una profonda tensione tra la nozione di stato come garante di diritti, e l'idea della nazione come una comunità esclusiva.

 Fin dalla nascita dello stato-nazione questo fatto creò difficoltà per gli ebrei: infatti, l'ideale dei diritti umani non divenne fondamentale se non dopo la prima guerra mondiale, e le conseguenze di essa sulle minoranze nazionali e le persone senza patria ("displaced persons").

Il capitolo delle "Origini" sul declino dello stato nazione, spiega perché ci furono così pochi ostacoli al massacro degli ebrei, e dimostra la necessità di costruire un nuovo ordine politico che non possa abolire diritti civili e politici per un gruppo di persone.

Quello che il destino delle persone senza patria ha dimostrato, così sostiene Arendt, è che i diritti umani universali che sembravano appartenere agli individui, potevano solo essere reclamati da cittadini di uno stato.

Pertanto, per chi era fuori da questa categoria, i diritti inalienabili della persona erano senza significato.

Ne sono un esempio gli ebrei che, non avendo uno stato in cui identificarsi come popolo, ed un territorio definito in cui poter vivere, sono stati privati, come apolidi, del diritto di cittadinanza, e con esso di una tutela giuridica come soggetti di personalità.

Il problema non era quello di godere di un'eguaglianza di fatto davanti alla legge come persone, ma la negazione del fondamentale diritto umano e cioè il "diritto di avere diritti", che significa il diritto di appartenere ad una comunità politica.

Arendt sottolinea che il razzismo non è una forma di nazionalismo, ma, è in diversi modi, il suo opposto.

Il nazionalismo genuino è strettamente legato ad uno specifico territorio e una cultura, e quindi alle azioni e traguardi raggiunti da particolari esseri umani.

 La razza, al contrario, è un criterio biologico, determinato dal territorio e dalla cultura, e si riferisce a caratteristiche naturali fisiche.

Dove le persone sono identificate per i loro caratteri razziali innati, le differenze individuali e la responsabilità individuale diventano irrilevanti: una persona semplicemente agisce come un coro delle caratteristiche razziali di quella specie.

 Il determinismo razzista, con la distinzione tra razze superiori e inferiori, fornisce una perfetta giustificazione per la conquista imperialista e la sottomissione delle popolazioni native.

 La plebe è un precedente di quello che sarà la massa per gli ebrei nel totalitarismo: i suoi rappresentanti sono "senza mondo" perché hanno perso uno spazio stabile di riferimento, una identità, non hanno aspettative da condividere con altri, non hanno prospettiva per guardare il mondo, sono esposti alla manipolazione ideologica, vivono in una condizione di sradicamento.

 L'alleanza tra il capitale e la plebe dimostra che il sottoproletariato può essere facilmente reclutato per commettere atrocità (Arendt prende come riferimento la descrizione di Conrad in "Cuore di tenebra"):

la plebe era costituita dagli " scarti di tutte le classi e tutti gli strati ", erano avventurieri e cercatori d'oro asserviti dall'imperialismo, " scaraventati fuori dalla società ", non credevano in nulla, potevano anzi indursi a credere a ogni cosa, a qualsiasi cosa.

L'irresponsabilità di questo nuovo strato e la corrispondente ritirata su tutte le questioni morali, andava di pari passo con la possibilità della trasformazione della democrazia borghese in un dispotismo: infatti la plebe era un prodotto diretto della società borghese e quindi non separabile da essa.

 La spregiudicata politica di potenza poté essere attuata solo con l'aiuto di una massa di persone prive di principi morali e perfettamente manipolabili.

Nel mondo irreale dell'Africa Nera non si assassinava un individuo se si uccideva un indigeno, ma un sub-umano, una larva che suscitava solo il dubbio di appartenere alla stessa comunità umana.

Qui il riferimento alla Shoah è evidente: dove la plebe è servita all'imperialismo per la sua brama di conquista, così la massa è servita al totalitarismo per i suoi obiettivi di distruzione degli ebrei.

Arendt sostiene che l'antisemitismo venne usato dal regime nazista come un "amalgamatore" per la costruzione del totalitarismo, perché esso era legato ad ognuno degli elementi che aveva identificato.

 La plebe, che odiava la società, alla quale non apparteneva più, poté essere facilmente condotta a provare ostilità nei confronti di un gruppo come gli ebrei che era metà fuori e metà dentro la società.

 L'ideologia razzista, in nome della quale i movimenti totalitari erano mobilitati, aveva bisogno di un equivalente in Europa dei nativi d'Africa, e gli ebrei erano adatti a tale ruolo. I movimenti totalitari avevano bisogno di demolire le mura vacillanti dello stato-nazione per edificare nuovi imperi.

Gli ebrei, che avevano consolidato una loro identità senza territorio e uno stato, apparvero come le uniche persone che, apparentemente, erano già organizzate come un corpo politico razziale.

Gli ebrei si erano disinteressati alla politica e al potere politico, e questo disinteresse per la politica li aveva portati a non capire il pericolo enorme che costituiva per loro l'antisemitismo moderno, e la forza distruttiva che esso veicolava.

 Gli ebrei scambiarono a torto questo antisemitismo, che aveva radici economiche, politiche, sociali, religiose e psicologiche, con il vecchio odio che dall'antichità aveva generato i pogrom.

Nessuno comprese che il problema a questo punto era di tipo politico.

Solo l'uguaglianza giuridica e politica protegge gli individui e le nazionalità da discriminazioni e persecuzioni.

Promulgando le leggi razziali di Norimberga, i nazisti crearono una "razza" perché crearono un gruppo d'uomini privi di diritti e differenti sul piano giuridico.

L'antisemitismo del Novecento ha sostituito all'odio religioso di altri tempi il rifiuto della differenza, il rifiuto di accordare il rispetto all'altro per le sue stesse caratteristiche.

 E tale rifiuto si maschera dietro il rispetto della normalità, dietro il conformismo, ma può arrivare fino al caso estremo della difesa biologica della razza.

 

 

 

Come la cultura pop può spiegare

il colpo di stato in Myanmar.

Serenoregis.org- Akin Olla – (26 Febbraio 2021) – ci dice:

(Fonte: wagin nonviolence)

 

Come la cultura pop può spiegare il colpo di stato in Myanmar. Il Re Leone della Disney offre uno spunto di riflessione su come funzionino i colpi di stato, le cause e i meccanismi dietro il recente colpo di stato in Myanmar.

Intanto che gli Stati Uniti e le altre nazioni occidentali considerano l’applicazione di sanzioni contro i militari che hanno guidato il colpo di stato contro Aung San Suu Kyi e il suo partito a favore della democrazia, è importante comprendere quali siano le cause nascoste di questo colpo di stato e quali siano le dinamiche di un colpo di stato in generale.

Da lontano la situazione birmana può sembrare complessa, se non addirittura impossibile da comprendere, ma i colpi di stato militari sono una storia di vecchia data, di cui sfortunatamente siamo già stati spettatori in ogni angolo del pianeta.

La cultura popolare, come show televisivi, musica e film possono rivelarsi un valido strumento per capire ciò che altrimenti risulterebbe incomprensibile.

La cultura pop può anche aiutare l’essere umano ad analizzare il mondo che lo circonda e a riconoscersi nella società.

Ad esempio, il popolo birmano ha adottato il gesto del saluto con le tre dita come simbolo della propria protesta contro il colpo di stato, un simbolo di solidarietà e resistenza preso in prestito dal movimento di protesta in Thailandia, ma a sua volta ispirato dalla serie di romanzi di fantascienza per ragazzi e la sua trasposizione cinematografica “The Hunger Games”.

Il grande classico della Disney “Il Re Leone”, cartone animato del 1994, è amato da più generazioni di bambini e adulti.

Nonostante sia generalmente interpretato unicamente come un dramma alla Amleto di Shakespeare, ha molto da dire sul potere e le sue dinamiche all’interno della società.

Probabilmente rappresenta anche la migliore produzione pop per comprendere al meglio come funzionino i colpi di stato e in particolare le cause e i meccanismi che si celano dietro il recente colpo di stato birmano.

Ma prima di inoltrarsi a fondo nell’analisi, è bene fare un breve excursus su come il Myanmar sia arrivato a questo punto.

Una storia di regimi militari.

L’attuale colpo di stato fa parte di una lunga storia di prese di potere e governi militari che si sono succeduti in Myanmar sin dalla sua indipendenza dall’Impero Inglese nel 1948.

Il generale Aung San, padre di Aung San Suu Kyi, condusse il Paese durante gli anni di disordini e manovre politiche durante la seconda guerra mondiale che videro il Myanmar schierarsi, a seconda della convenienza, sia con i giapponesi che con gli inglesi.

Dopo aver guidato con successo il processo d’indipendenza, un attacco terroristico causa la morte del generale Aung San.

Nonostante ciò, il Myanmar iniziò a tracciare una strada verso la democrazia.

 Il nuovo governo si trovò in difficoltà a placare gli animi delle diverse fazioni che l’avevano portato alla guida del Paese e alla fine venne rovesciato nel 1958 dal Generale Ne Win, un anti-comunista che si preoccupò subito di eliminare molti degli esponenti di sinistra con cui lavorò duramente negli anni ‘40 per ottenere l’indipendenza dagli Inglesi.

Dopo un breve ritorno alla democrazia, il governo venne di nuovo ribaltato da Ne Win nel 1962, che rimase al potere fino alla rivolta degli studenti del 1988, che guidarono un movimento composto da monaci, medici, donne e bambini per protestare contro lo stato monopartitico.

Alcuni membri dell’esercito sfruttarono la situazione, deposero Ne Win e crearono il “Consiglio di Stato per il ripristino dell’ordine e della legge” (State Law and Order restoration Council), che successivamente divenne il “Consiglio di Stato per la Pace e lo Sviluppo (State Peace and Development Council), di fatto un governo militare.

 Nel 1990 si tennero le elezioni, vinte da Aung San Suu Kyi e il suo partito, la Lega Nazionale per la Democrazia (NLD).

Ma i militari rifiutarono di riconoscere il risultato e misero Aung San Suu Kyi agli arresti domiciliari.

Nel 2011 il Consiglio di Stato per la Pace e lo Sviluppo si sciolse e chiese un ritorno alla democrazia, sebbene i suoi leader continuarono comunque a detenere la maggior parte del potere come ufficiali militari di alto rango attraverso il neo formato Partito dell’Unione per la Solidarietà e lo Sviluppo (Union Solidarity and Development Party – USDP) e il nuovo primo ministro Thein Sein, un generale in pensione.

Nel 2015 l’NLD vinse le elezioni e ottenne la maggioranza assoluta nel ramo legislativo del governo, portando all’istituzione di Aung San Suu Kyi come primo leader non militare del Paese in 54 anni.

Aung San Suu Kyi concesse l’amnistia ai leader degli studenti arrestati durante la protesta del 1988, ristabilì relazioni internazionali e si riconobbe come un passo avanti verso la democrazia nel Paese.

Nonostante le grandi speranze e aspettative della comunità internazionale, Aung San Suu Kyi ha fatto poco per fermare il brutale genocidio della minoranza musulmana dei Rohingya e si è comunque impegnata nella repressione dei giornalisti.

Ha perso molto credito di fronte alla comunità internazionale ignorando le richieste di porre fine al genocidio e rifiutandosi di affrontare l’esercito o di riconoscere le loro azioni come genocidio.

Nonostante il tentativo di pacificazione con l’esercito, il 1° Febbraio 2021 i militari hanno rovesciato il suo governo in risposta a un’altra vittoria schiacciante dell’NLD alle elezioni di Novembre 2020.

“Il Re Leone” e i colpi di stato.

Il Re Leone e la storia della sua ambientazione, la Rupe dei Re, riflette molto dell’esperienza del Myanmar, ma anche dell’esperienza di molte persone e nazioni in tutta la storia contemporanea, come per esempio chi visse la poco conosciuta presa di potere dei suprematisti bianchi nel 1898 a Wilmington, in Nord Carolina negli Stati Uniti.

La storia racconta del Re Leone Mufasa e del suo erede Simba, mentre Simba si prepara a prendere il potere sul regno.

Scar, il fratello più giovane e furbo di Mufasa, assassina Mufasa, rovescia il suo regno con un colpo di stato incruento usando un esercito di iene e impone il suo dominio totale.

Il regime di Scar sembra spogliare la Rupe dei Re della maggior parte dei suoi animali e della vegetazione, trasformando le pianure un tempo lussureggianti in terre desolate.

Simba parte per l’esiliato e ritorna solo da adulto, dopo che Nala, suo amore d’infanzia, e il fantasma di suo padre, lo convincono a riprendersi il suo posto in cima al regno animale.

Simba guida i restanti leoni in un colpo di stato violento, con un apparente supporto da parte degli animali della classe operaia, e sconfigge lo zio in una lotta.

Quindi si incorona re della Rupe dei Re e rafforza il suo potere con il matrimonio con Nala e la nascita del loro figlio ed erede.

David Lane, ex professore di sociologia all’Università di Cambridge, ci fornisce un quadro utile per comprendere i colpi di stato in Myanmar e Il Re Leone.

Nel suo articolo del 2008 La Rivoluzione Zafferano: ‘Rivoluzione del popolo’ o ‘Colpo di stato rivoluzionario’?

Lane usa la “teoria dell’élite” per spiegare come funzionino i colpi di stato.

 La teoria dell’élite afferma che la maggior parte degli stati, siano essi democratici o non democratici, sono controllati da una piccola minoranza di persone benestanti e gruppi di politici e leader militari che condividono e contendono il potere attraverso diversi meccanismi.

In ogni società si distinguono tre categorie di élite:

l’élite dominante, rappresentata da coloro che in questo momento occupano i posti di potere del governo e che detengono la maggior parte dell’autorità governativa del Paese;

l’élite secondaria – termine mio – coloro che detengono molto potere politico, ma che al momento non sono nelle posizioni chiave del governo;

la contro-élite, ovvero coloro che potrebbero avere potere economico o militare o influenza politica, ma che non hanno abilità o ruoli nel governare.

Il popolo di Myanmar deve diffidare di qualsiasi parte del governo o di una nuova contro-élite che cerca semplicemente di sostituire il regime militare in cima alla piramide del potere.

Un colpo di stato, secondo Lane, accade quando membri dell’élite secondaria o della contro-élite, usano un’azione rapida, e spesso violenta, per prendere il potere e sostituire l’élite dominante con loro stessi.

A parte le élite stesse, che hanno profonde convinzioni ideologiche, i golpisti di solito non hanno alcun reale interesse nell’alterare la struttura del sistema politico o economico del Paese, ma mirano solamente a diventare il nuovo organo di governo.

Lane descrive anche il concetto dei golpe rivoluzionari, che comportano un’elevata partecipazione popolare, cioè la presenza di un movimento di massa nelle strade che si mobilita per ottenere un cambiamento nello stesso tempo in cui i golpisti entrano in azione.

Nel Re Leone si trovano almeno due golpe. Il primo è il colpo di stato standard.

Scar, membro dell’élite secondaria, che ha accesso diretto alla governance ma che non detiene un posto al governo, decide di reclutare le iene, un’unità militare della contro-élite, per ribaltare Mufasa.

Scar diventa la nuova élite dominante e le iene la nuova élite secondaria, con le leonesse della Rupe dei Re che diventano la contro-élite.

Simba, quindi, si unisce alle leonesse e ai membri del popolo degli animali oppressi, come gli amici di Simba Timon e Pumbaa, per partecipare a un altro golpe.

 Si potrebbe anche sostenere che le masse degli animali fossero allo stesso tempo impegnate nella disobbedienza civile, causando la desolazione della Rupe dei Re che spesso viene attribuita esclusivamente alla cattiva gestione di Scar, e trasformando quindi il colpo di stato di Simba in un golpe rivoluzionario.

Comprendere il Myanmar.

Il colpo di stato in Myanmar può essere analizzato in termini simili.

Aung San Suu Kyi e la sua Lega Nazionale per la Democrazia sono stati per lungo tempo una influente contro-élite, sia a livello internazionale che a livello nazionale. Attraverso pressioni pubbliche ed elezioni, l’NLD è stata portata nella posizione di una precaria élite dominante, avendo finalmente accesso al vero potere di governo.

 I militari sono stati discutibilmente trasformati contemporaneamente in élite secondaria e contro-élite attraverso il loro partito politico e la loro completa autonomia in quanto comandanti in capo di esercito, marina, aeronautica e polizia.

Le elezioni del 2020 sono state un ulteriore passo verso il consolidamento dell’NLD nella posizione di nuova élite dominante.

Nello stesso tempo hanno innescato la risposta dei militari, che hanno realizzato il colpo di stato, vedendo in questo il modo per riprendersi la vecchia posizione di unico e totale organo di governo del Myanmar.

È importante osservare che anche l’attuale regime militare al governo era una volta una contro-élite che nel golpe del 1988, ribaltò l’élite dominante, rappresentata dal Generale Ne Win, e che trasformò una rivoluzione in un colpo di stato rivoluzionario.

 E mentre i leader dell’ultimo colpo di stato insistono nell’affermare che anche questo è stata una presa di potere a nome della popolazione, è chiaro che la popolazione la pensa diversamente.

Le proteste infuriano in tutto il Paese, con l’obiettivo di impedire al governo militare di funzionare.

Centinaia di migliaia di manifestanti stanno marciando nelle strade chiedendo al regime militare di fare un passo indietro.

Infermiere, medici, insegnanti, ingegneri, avvocati e anche alcuni ufficiali di polizia sono in sciopero, insieme a operai, ferrovieri e agricoltori.

 

L’obiettivo immediato è di contrastare il potere dei militari fermando il meccanismo statale», dice l’attivista contro il colpo di stato Thinzar Shunlei Yi in un’intervista ad Al Jazeera.

Continua dicendo che esponendo la strategia dei manifestanti, «renderà ingovernabile il paese da parte dei militari».

Crescono le azioni di boicottaggio verso le aziende di proprietà dell’esercito.

I proprietari di piccole aziende stanno distruggendo i prodotti che appartengono alle società collegate al conglomerato aziendale dei militari.

 Lo sciopero di 2.000 minatori ha costretto una miniera di rame di proprietà militare a cessare temporaneamente l’attività.

 I cittadini del Myanmar stanno rendendo desolata la Rupe dei Re dei militari.

La minaccia di defezioni da parte dell’esercito stesso minaccia di rafforzare il potere della contro-élite pro-democrazia del Myanmar.

 In alternativa minaccia di creare una contro-élite completamente nuova da affrontare.

Nonostante Aung San Suu Kyi si sia dimostrata diversa dall’ideale spesso rappresentato dall’occidente, è chiaro che un qualche tipo di governo civile è un’alternativa decisamente migliore di un governo militare apertamente genocida.

Sulla base del discusso colpo di stato rivoluzionario del 1988 che ha trasformato una rivolta popolare in una presa di potere militare, il popolo del Myanmar deve anche diffidare di qualsiasi ala del governo o di una nuova contro-élite che miri solo a sostituire il regime militare in cima alla piramide del potere.

Anche se la teoria delle élite è utile per comprendere i colpi di stato, il potere delle persone che prendono in mano la situazione non deve mai essere sottovalutato.

(Akin Olla)

 

 

 

Pacifismo, benaltrismo e

ipocrisia: da NO NATO

a SI Putin.

Immoderati.it - Nicola Rigo – (08/03/2022) – ci dice:

 

“Né con Putin, né con la NATO” è uno slogan che si vede e legge molto spesso, sbandierato per pacifismo da una serie di pseudo-intellettuali auto-collocati a sinistra e da una buona parte di nostalgici dell’URSS, accomunati verso tutto ciò che può essere vagamente considerato pro-occidente, dai valori alle idee, e finiscono per giustificare il Criminale (citando Jacopo Iacoboni); la destra fascistoide da questo punto di vista perlomeno è chiara: il dittatore macellaio ha ragione.

Le ipotesi di queste persone sono infatti supportate dalle stesse motivazioni che il Criminale ha usato spesso per giustificare la sua invasione:

l’allargamento ad Est della NATO, minacciosa per la Russia, che si sentirebbe circondata.

Da qui il primo termine che ho inserito nel titolo: ipocrisia, infatti l’adesione di un Paese nella NATO è totalmente volontaria, e alla domanda deve conseguire un’analisi del rispetto dei valori alla base dell’alleanza (democrazia, libertà di opinione e parola…), che se non viene superata comporta un rifiuto.

Certo, si potrebbe dire che gli USA abbiano sedotto i Paesi dell’Europa Orientale a schierarsi a loro fianco, anche se mi sembra molto più plausibile l’ipotesi che la scelta sia più dovuta alla paura che la Russia, una volta recuperata la propria potenza militare, avrebbe pensato di invaderli e sottometterli nuovamente.

In effetti, proprio quello che sta facendo con l’Ucraina proprio in questi giorni.

“Ma l’Ucraina avrebbe dovuto essere uno Stato cuscinetto”, altre parole usate a vanvera.

Al di là di quel famoso principio chiamato ‘autodeterminazione dei popoli’ (che Wilson supportò con grande enfasi a Versailles nel 1919, purtroppo inutilmente e con nefaste conseguenze per l’Europa e il mondo), secondo cui ogni popolo dovrebbe poter scegliere da che parte schierarsi, a molti non è chiaro cosa la dottrina sovietica, poi russa, definisca ‘Stato cuscinetto’: un territorio da usare come campo di battaglia in caso di tentativo di invasione, in modo da mantenere intatta la Santa Madre Russia.

 Questa convinzione secolare si è concretizzata prima con l’Unione Sovietica poi ancor più con il Patto di Varsavia, in cui tutti i Paesi facente parte del Patto   erano a dir poco sottomessi a Mosca e all’Armata Rossa, tanto che questa stroncò nel sangue numerose rivolte (Praga e Budapest, per citarne alcune).

Fatti che supportano ancor più la tesi secondo cui questi Stati si sono schierati con l’Occidente proprio per tutelarsi dall’aggressività russa.

E soprattutto, perché mai la NATO dovrebbe invadere la Russia? Che ne ricava? Ha mai fatto trasparire questa intenzione?

Il benaltrismo è ancora più ridicolo: “eh sì, Putin ha invaso, ma gli americani allora?”, segue poi la lunga lista di conflitti che hanno visti protagonisti gli USA (dalla Guerra di Corea all’Afghanistan).

 E quindi?

Solo un idiota potrebbe pensare che il mondo sia una contrapposizione fra bene e male, una narrazione ahimè radicata nella retorica italiana, probabilmente a causa della cultura cattolica;

 se si unisce questa visione a posizioni anti occidentali, il risultato è ‘USA invasori cattivi, mai con loro’.

Gli USA sono tutt’altro che dei santi, sono il primo a contestare e condannare Guantanamo piuttosto che l’invasione in Iraq o i colpi di stato in Sudamerica durante la Guerra Fredda che hanno portato al potere regimi dittatoriali fascisti, come Pinochet.

 Ma non è questo il punto!

Analizzando la questione usando la logica, il ragionamento di questi è: la Russia ha invaso, l’Occidente condanna, ma l’Occidente è il cattivo perché Iraq, Guantanamo ecc., ne consegue che il Criminale è il ‘buono’ della situazione.

Ecco perché non schierarsi con nessuno equivale a giustificare il Criminale, essendo una contrapposizione a due parti.

 Non è così?

Queste persone in realtà condannano l’invasione e la mattanza di civili?

 Allora vuol dire allinearsi con la posizione dell’Occidente, piaccia o meno; probabilmente è proprio questo che dà fastidio, i ‘cattivi’ questa volta sono i ‘buoni’, e non è accettabile.

Così, si finisce per anteporre la propria ideologia ai fatti, finendo quindi per giustificare il Criminale.

La ciliegina sulla torta è il paragone Cuba-Ucraina, totalmente inappropriato sia perché in Ucraina non ci sono missili nucleari (e neanche nei Paesi Baltici o, in generale, ex-Patto di Varsavia) sia perché gli USA non hanno bombardato i civili cubani, usando la paura come scusa.

Per approfondire la questione, consiglio la lettura dell’articolo di Simone Conversano, che approfondisce questa e altre posizioni simili.

Infine, l’aspetto che trovo di gran lunga più vergognoso: l’uso del pacifismo per nascondere sottomissione e inettitudine, da ‘ripudiare la guerra come strumento di offesa‘ si passa a ripudiarla anche come strumento di difesa.

Ci sono poi diverse sfumature di questa teoria, come il Montanari che si arrenderebbe senza se e senza ma, l’Orsini che sostiene che Putin abbia già vinto e non ha senso combattere, l’ANPI (sì, proprio quell’ANPI...) che condanna gli scontri armati degli Ucraini e indica la diplomazia come unica via d’uscita o il Salvini che non vuole supportare l’Ucraina con le armi.

Parafrasando Margaret Thatcher, ‘tutti capaci di fare i pacifisti con l’invasione degli altri‘.

I cittadini ucraini non stanno combattendo perché sono guerrafondai o per gusto di ammazzare, bensì perché degli aggressori vogliono distruggere le loro vite, le loro case, il loro Paese, la loro libertà.

Con quale arroganza alcuni italiani, discendenti di quella generazione di partigiani che negli anni ’40 hanno fatto con enorme coraggio la stessa cosa contro i nazi-fascisti, osano affermare che gli Ucraini non hanno il diritto di difendersi e che devono sottomettersi al regime dittatoriale che li bombarda?

Veramente c’è gente convinta che basta sedersi ad un tavolo, convincere il Criminale che sta facendo cose sbagliate, ottenere le sue scuse e si torna amici come prima?

Sono sicurissimo che prima o poi si avranno delle trattative serie per la pace, ma sarà il Cremlino a deciderlo, quando la situazione sul campo di battaglia è totalmente a loro vantaggio, in modo da dettare condizioni imperative, o al contrario è drasticamente a sfavore e la vittoria è impossibile, in modo da non perderci totalmente la faccia.

Fino ad allora, ogni tentativo sarà una farsa, da cui i russi cercheranno di trarre qualche vantaggio tattico, come i corridoi umanitari che consentono facili carneficine di profughi disarmati.

 Faccio inoltre tanta fatica a capire lo schieramento ideologico dell’Associazione Partigiani, da sempre per qualche motivo schierati ad estrema sinistra (quando in realtà vi erano popolari, liberali e moderati), oggi anche loro finiscono per giustificare il Criminale in nome di un’ideologia anti-occidentale, di cui non vedo senso alcuno.

Forse non hanno mai capito il significato di ‘Bella Ciao’…

Ma voglio soffermarmi sull’ultimo caso, di gran lunga il più patetico: quel politico che aveva come cavallo di battaglia della campagna elettorale la volontà di armare gli italiani per difendersi dai ladri ora dichiara che vorrebbe inviare bigliettini di incoraggiamento ad una nazione amica per affrontare i propri invasori.

Neanche mi immagino cosa sarebbe successo se gli USA avessero scelto questa via nel 1917, anziché mandare i propri soldati nelle trincee in Belgio e Italia per contrastare il Kaiser, o qualche anno più tardi in Normandia e in Sicilia.

 Prendo proprio gli USA come esempio perché si trovavano nella stessa situazione in cui ci troviamo noi oggi: dei Paesi loro amici, UK e Francia, erano stati aggrediti dalla Germania, loro avrebbero potuto rimanere indifferenti alla guerra in Europa (piccola chicca storica: in seguito a Pearl Harbor, Roosevelt dichiarò guerra solo al Giappone, furono Hitler e Mussolini che, con una certa ingenuità, dichiararono per primi guerra agli USA), per fortuna decisero di schierarsi e fare addirittura di più, inviando uomini direttamente sul campo.

Probabilmente non nel breve termine, ma quantomeno nel medio periodo gli aiuti bellici della NATO verso gli Ucraini farebbero un’enorme differenza, basta guardare i risultati degli aiuti USA ai Mujaheddin:

in 10 anni riuscirono a rendere la guerra troppo costosa per i sovietici, che furono costretti a ritirarsi.

Allora ci furono gli Stinger, oggi i Javelin, il punto è logorare l’avversario fino allo sfinimento (quantomeno economico) con azioni di guerriglia, colpendo i costosi mezzi corazzati o gli elicotteri, questo prima o poi dovrà andarsene.

Ci sono altre due variabili in gioco che fanno la differenza fra Cecenia e Afghanistan (a livello di endgame):

 le capacità dell’esercito invasore di supportare un’invasione di lungo termine (sia in termine di vite umane sia di costi economici) e la motivazione della resistenza invasa.

 In Ucraina, almeno per le informazioni a cui abbiamo accesso, entrambe le variabili sono a vantaggio di Kiev, quindi nell’ipotesi che il Criminale inizialmente riesca ad occupare la Nazione con il proprio esercito gli approvvigionamenti occidentali sarebbero indispensabili per ridurre il più possibile il periodo di occupazione, che si traduce sia in maggior porzione della vita degli Ucraini trascorsa in libertà sia in minor costo in vite umane.

Per la maggior parte civili.

Ci tengo inoltre a ricordare che l’invio di armi rappresenta una parte degli aiuti che noi europei stiamo dedicando agli ucraini, basta pensare all’assistenza ai profughi o le raccolte di denaro piuttosto che viveri/medicinali.

 L’indifferenza è null’altro che una condanna a morte per sempre più persone. Fortuna solo che, come scritto nel titolo, questi sono solamente una piccola ed insignificante minoranza, non in grado di influenzare significativamente l’opinione generale (come i no-vax), che al contrario fa di tutto per supportare gli amici ucraini.

Quindi, caro lettore, te da che parte stai? Preferisci supportare la difesa dell’Ucraina o giustificare il Criminale?

 

 

 

 

Kafka e la ribellione

alle autorità.

Indiscreto.org -  Micheal Löwey – ( 28/02/2022 ) – ci dice:

 

 

Nelle opere di Kafka bisogna muoversi con prudenza e circospezione, ci ammonisce Walter Benjamin.

Ecco perché Michael Lowey ci fornisce un filo rosso in grado di guidarci nel labirinto kafkiano. E questo filo rosso è la sua passione antiautoritaria, la sua coerente insubordinazione verso qualunque autorità, a partire da quella paterna.

(Questo testo è tratto da Kafka sognatore ribelle, di Micheal Löwey. Ringraziamo Eleuteria per la gentile concessione)

Kafka non è un anarchico, ma l’antiautoritarismo, di origine romantica e libertaria, attraversa tutto il corpo della sua opera narrativa in un movimento di crescente universalizzazione e astrazione del potere:

dall’autorità paterna e personale verso quella amministrativa e anonima.

Come osserva benissimo Canetti, «tra tutti i poeti, Kafka è il maggiore esperto del potere. L’ha vissuto e configurato in tutti i suoi aspetti».

Ma di quale potere si tratta?

In un passo illuminante, Adorno sottolinea come l’opera letteraria di Kafka sia «in gran parte la reazione a un potere senza limiti».

 E aggiunge: «Quel potere di patriarchi invasati, Benjamin lo chiama parassitario: esso si nutre della vita che schiaccia sotto i suoi piedi».

La prima osservazione si applica effettivamente alla maggior parte dei testi di Kafka: una reazione critica, ironica e insieme trepidante contro le molteplici manifestazioni di un potere dispotico e illimitato.

La seconda riguarda essenzialmente La Condanna, La Metamorfosi e, in parte, America, i cui eroi sono vittime di «patriarchi invasati».

Non è un caso che Kafka avesse pensato di pubblicare insieme i due racconti insieme al primo capitolo del romanzo («Il Fuochista») con il titolo comune di Die Söhne (I figli).

Il primo di quei patriarchi è ovviamente suo padre, Hermann Kafka.

In quell’impressionante documento (una delle chiavi essenziali per comprendere la personalità dello scrittore) che è la Lettera al padre (1919), Franz si duole del «carattere dispotico» di Hermann, paragonato più volte a un «tiranno» e a un «autocrate», del «terribile processo che incombe tra te e noi e nel quale tu pretendi sempre di essere il giudice».

E definisce la propria situazione di bambino come quella di uno «schiavo, sottoposto a leggi concepite solo per me», davanti a un mondo «infinitamente lontano dal mio in cui vivevi tu, occupato a dirigerlo, a impartire gli ordini e ad arrabbiarti se non venivano eseguiti».

Il «carattere autoritario» (herrische Temperament) del padre si traduce nel ricorso a ogni mezzo (insulti, minaccia, sarcasmo oltraggioso) «per esercitare il suo dominio più severamente» e ottenere dal figlio, con la paura, la totale sottomissione alla propria volontà.

Quel dominio è letteralmente senza limiti; in un’immagine sorprendente, Kafka dilata lo spazio e il corpo del potere patriarcale:

Mi capita d’immaginare la carta della terra completamente aperta e di vederti steso trasversalmente su tutta la sua superficie.

 E ho l’impressione che a me si adattino per vivere solo le contrade che tu non copri o quelle che non sono alla tua portata.

Data la rappresentazione che ho della tua grandezza, quelle contrade non sono né numerose né molto consolanti.

In effetti, Franz riesce a trovare un rifugio il più possibile lontano dall’impero paterno nel paese delle lettere.

La stessa problematica si ripresenta in modo quasi ossessivo nei Diari, dove Franz, in un appunto del 1911, arriva a parlare del proprio «odio» nei confronti di Hermann, che non solo lo sommergeva in continuazione di rimproveri, ma insultava i suoi amici Max Brod, trattato da «matto» (meschuggener), e Isaac Löwy, paragonato a un cane che porta le pulci in casa…

Lo scontro con l’autorità paterna sarà una dimensione costante della sua identità, come attesta questa nota tardiva, del 1921, che sembra condensare, in una sintesi sorprendente, il «campo di battaglia» familiare dello scrittore:

 «Di recente mi sono immaginato di essere stato vinto da mio padre fin da bambino e che l’orgoglio mi ha impedito di abbandonare il campo di battaglia in tutti questi anni, benché fossi continuamente sconfitto».

Il conflitto non è unicamente psicologico ed edipico, ma s’inserisce in un contesto storico più ampio: da una parte la cultura politica dell’Impero austro-ungarico (la Cacania così ben descritta da Musil), che sembra fondere in un unico autoritarismo paternalista tutti i detentori di un potere, dal Kaiser in persona fino al singolo pater familias, passando dai capi di gabinetto, dai prefetti e dagli altri dirigenti;

sul fronte opposto un’intera generazione di giovani intellettuali ebrei nati alla fine dell’Ottocento, attratti da una visione romantica del mondo, che aspirano intensamente a una vita dedicata all’arte, alla cultura o alla rivoluzione, rompe così radicalmente con la generazione dei genitori borghesi, commercianti, industriali o banchieri, liberali moderati e tedeschi assimilati.

In Franz, poi, il conflitto è esacerbato dall’autoritarismo di Hermann, dalla sua ostilità verso le attività letterarie del figlio.

Per quest’ultimo c’è una relazione evidente tra il «potere senza limiti» del padre, l’autorità dispotica del «patriarca furioso» (per usare le parole di Adorno) e la tirannia come sistema politico.

Egli constata, d’altronde, sempre nella Lettera al padre, che entrambi fanno riferimento a una stessa logica: «Tu prendi ai miei occhi il carattere enigmatico che hanno i tiranni il cui diritto non si basa sulla riflessione, ma sulla loro persona».

E aggiunge, commentando il modo brutale, ingiusto e arbitrario con cui il padre tratta i propri dipendenti: «A me resero il negozio insopportabile, mi ricordavano troppo il mio rapporto con te […]. Perciò io stavo necessariamente dalla parte del personale».

Qui stanno le radici intime, profonde, personali, della sua inclinazione per i socialisti libertari praghesi, la sensibilità antiautoritaria dei suoi romanzi e racconti.

 Il suo dichiararsi «dalla parte del personale» non è un’affermazione gratuita. Come ha osservato bene Elias Canetti, «Kafka si è messo fin dall’inizio dalla parte degli umili […], prova avversione per tutto ciò che s’innalza sul piedistallo della potenza».

 La sua simpatia verso i lavoratori è attestata in diversi passi dei Diari, soprattutto nella descrizione che fa delle condizioni di lavoro nella fabbrica di amianto di proprietà della famiglia.

Lavorano in uno stato di «sporcizia insopportabile», abbrutiti dal «frastuono incessante delle trasmissioni e quello isolato delle macchine», «sottoposti al più risibile dei poteri», non sono trattati come «esseri umani […] nessuno li saluta, nessuno si scusa quando li urta».

Sono numerosi i testi e gli schizzi letterari che descrivono il comportamento sprezzante, altezzoso e brutale di «chi sta in alto».

C’è, per esempio, il racconto su Bauz (inserito nei Diari), il direttore della compagnia assicurativa “Il Progresso” che chiarisce quanto segue a un umile disoccupato venuto a chiedere un posto di fattorino:

 «Qui le suppliche non servono a niente. Non sono autorizzato a distribuire favori […]. Se ne vada e non stia più a seccarmi», una frase accompagnata da un pugno sulla scrivania, mentre l’uomo viene trascinato fuori dell’ufficio.

O, ancora, il breve testo “Le Nuove Lampade”, dove i funzionari dell’amministrazione trattano con sprezzante ironia la richiesta perfettamente legittima di nuove lampade di sicurezza presentata da una delegazione di minatori:

 «Vaglielo a dire ai tuoi laggiù in fondo: noi c’impegneremo finché non avremo trasformato la vostra galleria in un salotto e, soprattutto, finché non ci creperete dentro in scarpe di vernice! Ossequi…».

 Anche nel suo lavoro all’ufficio di assicurazioni, considerato strettamente professionale e neutro, Kafka si permetteva di tanto in tanto di lasciar trasparire le proprie preferenze.

 Come in quel rapporto sugli incidenti di lavoro nell’edilizia civile, nel quale lamenta «l’assenza della voce della classe operaia (Arbeiterschaft)» nel dibattito sulle misure di sicurezza, lacuna che attribuisce «a un’insufficiente organizzazione dei lavoratori», soprattutto nelle piccole imprese, un’osservazione che parrebbe più appropriata alla penna di un sindacalista che non a quella del vicesegretario dell’Ufficio delle Assicurazioni del Regno di Boemia.

Torniamo ancora una volta alla “Lettera al padre”.

Proprio basandosi su questo documento si può capire la simpatia di Kafka per altri giovani vittime dell’autoritarismo paterno, come l’anarchico freudiano Otto Gross.

Nel 1913 costui era stato internato, su disposizione di suo padre, in un ospedale psichiatrico e sarebbe stato liberato solo grazie a una campagna di stampa condotta da scrittori espressionisti.

Richiamandosi a Nietzsche, a Freud e a Stirner, Gross attaccava nei suoi scritti la volontà di potenza, il potere patriarcale e il principio di autorità, nella famiglia come nella società.

Kafka alla facoltà di legge era stato uno studente del padre di Otto, Hans Gross, autore di un Manuale per giudici istruttori, funzionari di polizia e gendarmi, nonché fanatico sostenitore della deportazione degli individui «degenerati», come «gli infingardi, gli eterni scontenti, i sovversivi» …

 Franz conosce il figlio in occasione di un viaggio in treno nel luglio 1917; poco dopo, nel corso di un incontro a Praga, Otto Gross propone a Werfel e a Kafka la pubblicazione di una rivista dal titolo «Blätter zur Bekämpfung des Machtwillens» (Fogli di lotta contro la volontà di potenza).

 In una lettera a Brod del novembre dello stesso anno, Kafka manifestava un forte interesse per quel progetto.

È evidente che Gross rappresentava ai suoi occhi la convergenza tra la rivolta contro la tirannia paterna e la resistenza (anarchica) a qualsiasi autorità istituzionale.

Lo scrittore svizzero Max Pulver, che conobbe Kafka nel 1917, offre un’avvincente testimonianza che mette in luce l’intimo connubio di questi due aspetti nel carattere e nella personalità del suo interlocutore:

Nel processo che egli intentava al mondo aveva coinvolto non solo suo padre, ma tutti gli altri padri alla stessa stregua e tutte le figure dell’autorità […]. Si sprigionava uno strano prestigio dal suo atteggiamento d’insubordinazione, dal suo gusto per la segretezza, dal suo disprezzo per qualunque forma di autorità: il prestigio dell’intransigenza, sempre dotato di una grande forza di seduzione.

Insubordinazione, intransigenza, rifiuto dell’autorità paterna e di qualsiasi altra forma di autorità:

 si vede tratteggiato, in tutto il suo rigore e in tutta la sua forza, lo stato d’animo in cui Kafka redigeva una parte importante dei suoi scritti.

Prendiamo “La Condanna” (1912).

 In questo breve racconto che rappresenta una svolta nella sua produzione letteraria e il punto di avvio nella redazione delle sue opere maggiori, Kafka rappresenta soltanto l’autorità paterna.

Un giovane commerciante, Georg Bendemann, va a trovare il vecchio padre e costui, con pretesti ingannevoli (una presunta mancanza di attenzione nei confronti di un amico partito per la Russia), lo condanna a morte per annegamento.

Questo racconto di un’estrema crudeltà è uno dei rari testi in cui il protagonista si assoggetta completamente e senza resistere al verdetto autoritario (gettandosi nel fiume).

 Si potrebbe riassumere in questo modo la straordinaria tensione che attraversa la storia: alla tirannia paterna è impossibile sottrarsi, ma ubbidire ciecamente ai suoi ordini è una forma di suicidio…

L’interpretazione predominante di questo racconto propende per la colpevolezza del figlio, perché è egoista, perché tende a trascurare i genitori.

La logica di una lettura del genere, che si ritroverà anche nella letteratura secondaria sul Processo, è implacabile: il padre lo accusa, il figlio accetta la condanna ed esegue la sentenza, e pertanto deve essere colpevole di qualche cosa…

Ma questo significa solo sfiorare l’essenziale: l’ingiustizia brutale e del tutto arbitraria del «patriarca furioso».

Walter Benjamin commentando questo testo osserva che il padre «condanna il figlio a morte per immersione. Il padre è colui che punisce. È attirato dalla colpa come i funzionari della Giustizia.

 È assai significativo che, per Kafka, il mondo dei funzionari sia tutt’uno con quello dei padri».

Milan Kundera avanza una tesi analoga nel confronto tra “La Condanna” e “Il Processo”:

 «La somiglianza tra le due accuse, tra la colpevolizzazione e l’esecuzione della pena, nell’un caso e nell’altro rivela la continuità che collega l’intimo ‘totalitarismo’ familiare a quello delle grandi visioni di Kafka».

Tale continuità è essenziale per comprendere l’atmosfera dei grandi romanzi, ma non c’è dubbio che questi ultimi contengano un elemento di novità rispetto alla Condanna:

il carattere sempre più anonimo, gerarchizzato, opaco e distante del potere.

Chi giudica, chi punisce e uccide, non è più il padre, ma un apparato amministrativo.

Non è superfluo sottolineare ancora come Kafka, in questo racconto come negli scritti che l’hanno seguito, non abbia voluto trasmettere nessun «messaggio».

Egli scriveva seguendo la propria ispirazione, senza un fine prestabilito, ed era incapace, una volta terminata l’opera, di attribuirle una «spiegazione» qualsiasi.

Una lettera a Felice, del giugno 1913, è del tutto esplicita a questo riguardo:

«Trovi un significato qualsiasi alla Condanna, voglio dire un significato diretto, coerente, facile da seguire?

Io no e, del resto, non ci vedo niente che io sia in grado di spiegare».

 Certo, c’è tanta ironia e autoironia in questa affermazione, ma non per questo è meno significativa, non solo per questo racconto, ma probabilmente per tutta la sua opera.

Il che non rende illeciti i tentativi di spiegazione, ma questi non riguardano una qualche intenzione a priori dello scrittore.

 Anche “La Metamorfosi” (1912) è un racconto sul potere mortale del padre. Gregor Samsa, trasformatosi a sua insaputa in un gigantesco insetto (Ungeziefer), rischia «a ogni attimo […] di ricevere un colpo mortale sul capo o sul dorso dal bastone in mano al padre».

Lo salva soltanto, dalla furia del patriarca, la madre che si precipita su quest’ultimo e lo implora di risparmiare la vita a Gregor.

 Ferito, stordito, maledetto e abbandonato da tutti, si lascia morire: delle sue «esequie» s’incarica la donna di servizio, con una scopa:

 «Be’, insomma, non si preoccupi più di come sbarazzarsi di quella roba (Zeug) là. È tutto sistemato».

 Per capire questa celebre e terrificante favola sul «totalitarismo familiare» non è superfluo ricordare che Kafka, nella “Lettera al padre”, si lamenta di essere da lui considerato come «un parassita» e «un insetto» (Ungeziefer)…

Certo, questa dimensione (senza dubbio importante) non svuota affatto di «senso» il racconto, che mantiene il suo mistero e, come ogni opera di poesia, rimane inesplicabile.

D’altra parte, proprio per questo racconto fu utilizzata per la prima volta, da Oskar Walzel nel 1916, l’espressione «logica del meraviglioso».

Amerika, o Der Verschollene (Il Disperso), del 1913-1914, rappresenta, nell’ottica delle forme di autorità, un’opera di transizione.

I personaggi dominanti sono figure paterne (il padre di Karl Rossmann e lo zio Jakob) ma anche declassati (Delamarche) e alti dirigenti (il direttore e il portiere capo dell’hotel Occidental).

Tutti si dimostrano insopportabilmente autoritari, con tratti che si ritroveranno nei racconti e nei romanzi degli anni successivi:

atteggiamenti arbitrari, privi di qualsiasi giustificazione (morale, razionale, umana);

pretese smisurate e assurde verso i protagonisti vittime;

ingiustizia (la colpevolezza è considerata, a torto, evidente, ovvia, smaccata, indubitabile);

pene totalmente sproporzionate rispetto alle «mancanze» (inesistenti o insignificanti).

Chi ubbidisce a tutto senza resistere finisce per diventare «un cane»: quando si è trattati sempre da cani, dice l’irlandese Robinson, «si finisce per credere di esserlo veramente».

Il giovane Karl Rossmann è invece convinto che questo valga solo per «chi lo permette» in qualsiasi circostanza;

lui ubbidisce soltanto al verdetto dei personaggi paterni (padre e zio) e si sforza di resistere a tutti gli altri, anche fisicamente.

 I più odiosi sono, senza confronto, i capi della gerarchia amministrativa dell’hotel Occidental, personificazione del principio di autorità.

 Il maître d’hôtel respinge le proposte concilianti della capocuoca ed esclama: «Si tratta della mia autorità, è in gioco qualcosa d’importante: un ragazzo d’ascensore come questo finirebbe per corrompermi tutta la compagnia».

L’autorità burocratica, che finisce per schiacciare il piccolo Karl, posto al livello più basso della «enorme scala gerarchica dei servitori», conserva tuttavia una dimensione di tirannia personale, combina la freddezza della burocrazia con un crudele dispotismo individuale ai limiti del sadismo, soprattutto nel portiere capo, che prova un piacere sinistro nel brutalizzare il giovane Rossmann.

Il simbolo di questo autoritarismo che si compiace della pena emerge fin dalle prime pagine del libro: con un’ironica deformazione, Kafka presenta la statua della Libertà, all’ingresso del porto di New York, mentre brandisce, al posto della tradizionale torcia, una spada…

In un mondo senza giustizia e senza libertà regnano indiscussi la nuda forza e il potere arbitrario.

La simpatia del protagonista va alle vittime sofferenti di quella società, come il fuochista del primo capitolo, «un pover’uomo maltrattato dai superiori», o la madre di Teresa, spinta al suicidio dalla fame e dalla miseria.

Karl trova amici e alleati dalla parte dei poveri: la stessa Teresa, lo studente lavoratore, gli abitanti del quartiere popolare che si rifiutano di consegnarlo alla polizia, perché, scrive Kafka, «gli operai non stanno dalla parte dell’autorità».

Un indizio ci dice fino a che punto certi burocrati in America conservino ancora una certa parentela con l’autorità personale paterna: in uno degli uffici dell’albergo si vedono i portieri che fanno cadere per terra oggetti raccolti e radunati dai fattorini esausti.

Ora, nella Lettera al padre, Kafka descrive in questo modo il comportamento del genitore verso i suoi dipendenti: «Con uno spintone scaraventavi giù dallo scrittoio merci che non volevi fossero scambiate con altre […] e il commesso doveva raccattarle».

Amerika (Der Verschollene) è senza dubbio il romanzo di Kafka che presenta le maggiori affinità con la critica marxista della società industriale capitalista.

 Lo è in modo particolarmente manifesto nella descrizione dell’attività dello zio e dell’hotel Occidental come imprese private che sfruttano senza pietà i propri dipendenti.

 La rivista letteraria comunista «Kmen», infatti, non si sbagliava quando ne aveva pubblicato, nella traduzione in ceco di Milena Jesenska, il primo capitolo («Il fuochista»).

 Kafka non aveva letto Marx, ma conosceva opere socialiste più o meno ispirate al marxismo.

Tra le sue letture di quegli anni si trovano testi, come quelli di Arthur Holitscher o l’autobiografia di Lily Braun, che contengono elementi di critica marxista dello sfruttamento e dell’alienazione dei lavoratori;

lo stesso vale per alcuni articoli pubblicati sulla «Neue Rundschau», un periodico al quale il nostro era abbonato negli anni 1909-1913, di autori come Eduard Bernstein o Kurt Eisner.

A me, però, sembra che la critica tratteggiata in questo libro della società americana e, in particolare, del potere esercitato sugli umani dagli apparati tecnici moderni sia soprattutto ispirata dalla protesta romantica contro la Zivilisation borghese, come la esprimevano i suoi amici del circolo culturale sionista Bar Kochba, in particolare nel loro testo collettaneo pubblicato nel 1913, Vom Judentum, una copia del quale si trova nella biblioteca di Kafka.

Lo attestano le descrizioni inquietanti del lavoro meccanizzato presenti nel romanzo.

 I dipendenti dello Zio, titolare di una gigantesca impresa commerciale, passano le giornate ognuno chiuso nella propria cabina telefonica, indifferenti a tutto, con la testa serrata in un nastro d’acciaio;

solo le dita si muovono, in modo meccanico, sussultano «con una regolarità (gleichmässig) e una rapidità disumane».

Alla stessa stregua, i ragazzi dell’ascensore dell’hotel Occidental fanno un lavoro estenuante e monotono (einförmig), passano il tempo a schiacciare bottoni e ignorano ogni aspetto del funzionamento delle macchine.

Negli uffici e nelle strade dilaga un rumore assordante di suonerie e di clacson, una baraonda frenetica che «non sembrava prodotta da esseri umani, ma da un elemento ignoto».

 

Gli esempi potrebbero essere infiniti: tutta l’atmosfera del libro rivela l’inquietudine e l’angoscia dell’essere umano smarrito in un mondo spietato, in una civiltà tecnica che gli sfugge.

Wilhelm Emrich ha osservato acutamente come quest’opera sia «una critica tra le più lucide che la letteratura moderna abbia conosciuto della società industriale. L’occulto meccanismo economico e psicologico di questa società, i suoi effetti diabolici sono messi in luce senza concessioni».

Si tratta di un mondo dominato dal ritorno monotono dell’identico, per mezzo della temporalità puramente quantitativa dell’orologio.

Così, l’America del romanzo è percepita come una “Zivilisation senza Kultur”.

Sembra che lo spirito e l’arte non vi svolgano più nessuna funzione, l’unico libro menzionato è un manuale di corrispondenza commerciale… È noto come una delle fonti principali del romanzo sia il libro dell’ebreo socialista Arthur Holitscher, “Amerika heute und morgen,” pubblicato nel 1912, dove si trova una descrizione dettagliata dell’«inferno» che rappresenta la civiltà americana moderna e una critica corrosiva del taylorismo:

 «La specializzazione del lavoro, frutto della produzione di massa, riduce sempre più l’operaio a livello di una componente inerte della macchina, di un ingranaggio o di una leva che funzionano con precisione e in modo automatico».

L’aspetto autoritario della civiltà americana, tuttavia, emerge più nettamente dalle pagine di America che non da quelle di Holitscher;

è proprio Kafka che riesce a mettere in luce l’onnipresenza del dominio nei rapporti sociali.

La differenza è particolarmente netta nella lettura del capitolo del libro di Holitscher intitolato «Hôtel Athenäum, Chautauqua».

Vi si parla di un ragazzo addetto all’ascensore di un grande albergo moderno, peraltro uno studente di liceo (esattamente come Karl Rossmann all’hotel Occidental).

Ma questo non è affatto oppresso da un’impietosa gerarchia burocratica come l’eroe di Kafka, bensì discute di grammatica latina con un ricco cliente.

 Holitscher ne deduce che le differenze di classe sono meno accentuate in America che in Europa…

Non c’è dubbio che la diffidenza di Kafka nei confronti della tecnologia moderna derivi dalla sua esperienza di impiegato dell’Arbeiter-Unfall-Versicherungs-Anstalt für das Königreich Böhmen:

nel numero crescente di incidenti sul lavoro (documentato in dettaglio dai grafici e dalle illustrazioni delle sue relazioni professionali) egli vedeva l’oscuro rovescio della medaglia dell’era trionfante del progresso tecnico.

Come ha compreso benissimo Max Brod, la sua esperienza «professionale» lo spinge ancora una volta a mettersi «dalla parte dei lavoratori» (per riprendere un’espressione della Lettera al padre), in questo caso delle vittime di incidenti sul lavoro:

«Si sentiva violentemente scosso nei sentimenti di solidarietà sociale quando vedeva le mutilazioni che gli operai avevano subìto a causa di carenze nei dispositivi di sicurezza».

Per illustrare quell’atteggiamento, cita una frase di Kafka che sembra ispirata ai metodi libertari di azione diretta: «Come sono umili quegli uomini… Vengono a pregarci. Invece di prendere d’assalto gli uffici e devastarli, vengono a implorarci qualche favore».

Le lettere di Kafka in questo periodo rivelano anch’esse il sentimento d’angoscia verso la meccanizzazione del mondo:

in una lettera a Felice del gennaio 1913, cita il dittafono come esempio delle macchine che esercitano «sui lavoratori una costrizione più forte e più crudele (grausamen) di quella esercitata da un essere umano […].

Davanti al dittafono l’impiegato è svilito, ridotto allo stato dell’operaio di fabbrica, che mette il proprio cervello al servizio del ronzio della macchina».

 Qualche anno dopo, conversando con Janouch, dà libero sfogo alla sua ostilità verso il taylorismo, con un linguaggio dalle risonanze bibliche:

Con un delitto come questo si arriva ad asservire gli altri per mezzo della malvagità. È naturale.

La parte più sfuggente e quindi meno esplorabile dell’intera creazione, il tempo, viene imprigionata in una rete di impuri interessi economici.

 In questo modo non solo la creazione, ma soprattutto l’uomo, che ne è l’elemento costitutivo, viene macchiato e umiliato.

 Una vita all’insegna del taylorismo è una maledizione tremenda da cui, al posto della ricchezza e del guadagno desiderati, possono derivare solo fame e miseria.

Tale ostilità morale e religiosa vero il «progresso» industriale capitalista, quell’inquietudine tipicamente romantica davanti all’incubo di una vita umana meccanizzata, in Kafka si accompagnano a una nostalgia della comunità tradizionale, della Gemeinschaft organica, che lo attira verso la cultura yiddish (e la lingua yiddish) degli ebrei dell’Europa orientale, verso i progetti di vita rurale in Palestina, come pure verso il sionismo romantico e intellettuale dei suoi amici praghesi (sia pure in un modo più ambiguo).

Anche la comunità contadina ceca, che viveva in pace e in armonia con la natura, suscitava in lui ammirazione e meraviglia:

Impressione generale che fanno i contadini: sono nobili che hanno trovato rifugio nelle attività agricole e hanno organizzato il proprio lavoro con tanta saggezza e tanta umiltà da inserirlo senza difficoltà nella totalità delle cose e da proteggersi da qualsiasi tempesta e sbattimento fino al giorno felice del loro trapasso. Autentici cittadini della terra.

Colpisce un confronto tra questo quadro idilliaco e pacifico e la descrizione della malsana frenesia del porto di New York nel primo capitolo di America: «Un movimento senza fine, un’irrequietudine trasmessa dall’inquieto elemento agli uomini indifesi e alle loro opere».

Poco dopo la stesura di “America”, Kafka scrisse il racconto “Nella Colonia Penale” che, tra tutti i suoi scritti, è quello in cui l’autorità si presenta con il suo volto più micidiale e più iniquo.

È anche una delle sue opere più impressionanti per la violenza cupa e repressa delle sue pagine: essa provoca più di altre quello sconvolgimento del rapporto contemplativo tra lettore e testo che rappresenta, secondo Adorno, un punto di convergenza fondamentale tra Kafka e il surrealismo:

 «La narrazione piomba addosso al lettore come la locomotiva addosso al pubblico nelle nuove tecniche dei film a tre dimensioni».

Uno dei migliori commenti a questo testo fondamentale resta la recensione pubblicata da Kurt Tucholsky sulla «Weltbühne» del 13 giugno 1920 per la prima edizione del racconto; questo capolavoro, scrive Tucholsky, si presenta in forma di sogno, ma non c’è nulla di vago: è un sogno «impietosamente duro, crudelmente oggettivo e di una chiarezza cristallina» che ha come tema centrale l’asservimento al potere.

 «E un potere che qui non ha limiti (Und diese Macht hat hier keine Schranken)».

Nel racconto si ritrovano le figure del potere tradizionale e personale (di origine patriarcale) con i due comandanti, quello vecchio e quello nuovo.

 La funzione svolta da questi due personaggi è però relativamente limitata e l’espressione dell’autorità si sposta verso il meccanismo impersonale del congegno destinato a mettere a morte.

Lo strano funzionamento di quello strumento puramente immaginario, del tutto inventato dallo scrittore, contribuisce grandemente al fascino di questo scritto in quanto creazione letteraria.

Non è possibile leggere questa storia tenebrosa dopo il 1945 senza pensare alle «fabbriche della morte» del nazismo, allo sterminio di milioni di ebrei e di zingari attuato con mezzi tecnici sofisticati.

Vari pensatori, da Adorno a George Steiner, hanno avanzato l’ipotesi, alla luce dell’esperienza della Shoah, che questo fosse lo scritto più profetico di Kafka.

Più di recente Enzo Traverso ha osservato:

Nella Colonia Penale sembrava annunciare i massacri anonimi del xx secolo, nei quali l’uccisione di massa diventa un’operazione tecnica sempre più sottratta all’intervento diretto degli uomini […].

L’erpice immaginato da Kafka, che incideva sulla pelle della vittima la sentenza capitale, ricorda in modo impressionante il tatuaggio degli Häftlinge ad Auschwitz, quel numero indelebile che, come dice Primo Levi, faceva sentire «la propria condanna scritta sulla carne».

C’è indubbiamente un che di profetico in quelle pagine.

Tuttavia, per comprendere un testo così sorprendente, è necessario chiedersi quali fossero i modelli e le motivazioni che lo avevano ispirato a suo tempo.

A me pare che si tratti di tre forme di dominio strettamente collegate tra loro: la prima è quella coloniale, la seconda quella militare e la terza (la più indiretta) quella burocratica.

Kafka si riferisce in primo luogo a una realtà molto precisa della sua epoca, il colonialismo, e più esattamente il colonialismo francese…

Gli ufficiali e i comandanti della Colonia sono francesi; gli umili soldati, gli scaricatori, le vittime condannate a morte sono «indigeni» che non capiscono nemmeno una parola di francese.

 Il nome di quella località «tropicale» non è indicato.

Si potrebbe immaginare che si tratti dell’isola del Diavolo, dove era stato confinato il capitano Dreyfus dopo la condanna, ma laggiù non c’era popolazione indigena.

Oppure si può pensare alla Nuova Caledonia, quella «colonia penale» francese abitata da melanesiani, dov’erano stati deportati i prigionieri comunardi, ma Kafka non parla di prigionieri deportati, politici o no.

In realtà l’isola del racconto fa più pensare a una colonia normale che a una «penale».

Perché, allora, Kafka nel titolo la chiama così, se non c’è nemmeno un prigioniero deportato?

Il termine tedesco Strafkolonie suggerisce una possibile risposta, perché mette l’accento sulla punizione (Strafe):

si tratterebbe di una colonia in cui la vita sociale e politica ruota intorno all’apparato punitivo.

Comunque sia, i personaggi sono quelli di un qualsiasi regime coloniale: un’élite bianca e una massa indigena.

Un’ambientazione del genere spiega la straordinaria violenza del dominio, che qui è molto più diretto e brutale rispetto a quello di America o, più tardi, del Castello e del Processo.

Ora, una visione tanto critica del potere coloniale era rara se non inesistente nella letteratura dell’epoca.

Il racconto presenta tre espressioni distinte del colonialismo.

Innanzitutto, quella di un’estrema crudeltà, personificata dall’ex comandante e dall’ufficiale.

 Il loro discorso ha certo un’intonazione religiosa, ma si tratta di una parodia di religione che serve da giustificazione trascendentale a una truce oppressione.

Viene poi la posizione più «umanitaria» del nuovo comandante, che medita di abolire lo strumento di tortura, ma intanto lo lascia sempre in funzione, anche se con maggiore discrezione rispetto a prima.

Tale forma più «morbida» di dominio trova il proprio rito umanitario nella distribuzione di dolciumi, da parte della moglie del comandante e delle altre dame dell’élite coloniale, ai condannati a morte, poco prima che siano giustiziati…

Infine c’è quella più illuminata del viaggiatore, un europeo disgustato dai metodi barbari della colonia, che però non fa nulla per impedire la messa a morte dell’indigeno condannato e che prende posizione contro quel sistema di tortura solo dopo una lunga esitazione e in modo rigorosamente privato, con «qualche parola in confidenza» all’ufficiale.

 È pur vero che quella discreta opposizione ha comunque un effetto decisivo, perché l’ufficiale, scoraggiato, prende il posto del condannato e si fa giustiziare.

L’esploratore finisce per darsi alla fuga a bordo della prima nave che salpa dalla colonia (di sicuro per l’Europa), non senza avere impedito con la forza ai due indigeni (il soldato e il prigioniero) di imbarcarsi con lui.

I colonizzati appaiono più vittime del dominio che soggetti autonomi.

 Il che, d’altronde, corrispondeva alla realtà in un’epoca in cui la contestazione nelle colonie era assai rara.

 È quindi interessante notare come il soldato condannato, prima di sottomettersi «come un cane», abbia un moto legittimo di ribellione e strappi dalle mani dell’ufficiale la frusta che lo colpisce.

 E anche come, dopo la morte dell’ufficiale che li ha rallegrati, in una sorta di rivincita sociale, il soldato e il prigioniero ritrovino una certa complicità e tentino di fuggire insieme dalla colonia.

Oltre al colonialismo, il racconto mette anche in discussione, e in modo non meno critico, l’istituzione militare.

Kafka racconta infatti la mostruosa vendetta dell’autorità militare oltraggiata.

 Il povero soldato è condannato a morte per «indisciplina e comportamento offensivo verso un superiore».

Qual è il suo «reato»?

Non essere riuscito a svolgere un compito esagerato e ridicolo e, dopo essere stato colpito al volto dal frustino del capitano, avere osato ribellarsi all’autorità con un grido di protesta.

Senza nessuna possibilità di difendersi, in base alla dottrina giuridica degli ufficiali che afferma che «la colpevolezza è sempre certa», l’uomo è condannato a essere giustiziato da una macchina di tortura che scrive lentamente sul suo corpo (con aghi che lo perforano): «Onora i tuoi superiori».

L’ostilità dell’autore verso l’autoritarismo militare e il turbamento che questo gli ispira si manifestano in modo toccante in questo racconto.

Come abbiamo visto, tra il 1909 e il 1912 Kafka era vicino agli ambienti anarchici e antimilitaristi praghesi.

La sua affinità con le loro idee è attestata da un passo dei Diari, in occasione di un viaggio in Svizzera nel 1911:

«Impressione storica che dà un esercito straniero. È un’impressione che non esiste quando si tratta del proprio esercito. Argomento per l’antimilitarismo».

 Il ragionamento è un po’ forzato, ma la conclusione non lascia dubbi: dalle impressioni di viaggio Kafka trae spunto per argomenti a favore della battaglia antimilitarista.

Gli stessi sentimenti antimilitaristi si ritrovano in alcuni frammenti letterari, per esempio in questo breve aneddoto:

Arrivarono due soldati e mi afferrarono. Io mi difesi, ma mi tenevano saldamente. Mi condussero davanti al loro comandante, un ufficiale. Com’era rutilante la sua divisa! Io dissi: «Che volete da me? Io sono un civile».

 L’ufficiale sorrise e replicò: «Sei un civile, ma questo non c’impedirà di prenderti. L’esercito ha potere su tutto» (Das Militär hat Gewalt über alles).

In queste poche righe si trovano condensati, da un lato, l’atteggiamento ribelle del narratore («io»), che tenta vanamente di difendere la propria libertà, il suo sguardo ironico sull’uniforme multicolore dell’ufficiale, il suo rifiuto di riconoscere l’autorità dei militari sulla sua persona e il rapporto diseguale tra loro e lui, espresso dall’uso del voi da parte sua, mentre l’ufficiale usa sprezzantemente il tu; dall’altro lato, quello dei militari, c’è invece l’affermazione gravida di minacce di aspirare all’amministrazione totale – per non dire totalitaria – da parte dell’esercito.

Sarebbe difficile riuscire a esprimere in modo più conciso, vivo e denso la diffidenza verso la «cosa» militare.

Ma torniamo a Nella Colonia Penale:

il personaggio centrale di questo inquietante racconto non è l’ufficiale (che fa di volta in volta le funzioni di giudice, di boia e di tecnico), né il viaggiatore, che osserva gli eventi con un occhio critico, né il prigioniero, e neppure, come si pensa spesso, il comandante.

È la macchina, il dispositivo.

Tutta la narrazione ruota intorno a quel meccanismo mortale, alla sua origine, al suo funzionamento in certo senso automatizzato (non è necessario «azionarlo manualmente», perché «il dispositivo funziona completamente da solo»), al suo significato.

I protagonisti del dramma svolgono il proprio ruolo in funzione di questo asse centrale.

 Il dispositivo, il cui movimento è «calcolato con estrema precisione», appare sempre di più, nel corso delle spiegazioni dell’ufficiale, come fine a sé stesso

. Non è lì per giustiziare l’uomo: è piuttosto l’uomo che è lì per giustificare il dispositivo, per fornire un corpo sul quale questo possa scrivere il proprio capolavoro artistico, la sua iscrizione sanguinante, «circondata da innumerevoli svolazzi».

Si ritrova qui, ma con una forza infinitamente superiore, la critica d’ispirazione romantica già accennata in America del potere sinistro delle macchine moderne.

L’ufficiale stesso è solo un servitore della macchina e alla fine si sacrifica a quell’insaziabile Moloch.

 L’autorità appare così nella sua immagine più alienata, più reificata, in quanto oggetto meccanico.

 Questo oggetto asservisce gli uomini che lo hanno prodotto, li domina e li distrugge.

Quale «macchina» specifica, sacrificatrice di vite umane, aveva in mente Kafka?

Il racconto “Nella Colonia Penale” è stata scritto nell’ottobre 1914, tre mesi dopo lo scoppio della prima guerra mondiale…

La guerra sarebbe dunque per lui un meccanismo inumano e mortale, una sorta di cieco ingranaggio reificato che sfugge al controllo di chiunque.

 Ma l’immagine della guerra come «dispositivo» ha anche un altro significato, più diretto: si tratta di un immenso scontro tra macchine che uccidono.

 In un testo scritto nel 1916, un pubblico appello per la costruzione di un ospedale destinato alla cura delle malattie nervose nelle vittime della guerra, Kafka è esplicito:

La guerra mondiale, che ha concentrato in sé tutta la miseria umana, è anche, più di qualsiasi precedente conflitto, una guerra di nervi…

Proprio come negli ultimi decenni di pace lo sfruttamento intensivo delle macchine metteva in pericolo i nervi di chi se ne occupava, li sconvolgeva e li faceva ammalare, il ruolo enormemente cresciuto delle macchine nelle azioni belliche oggi provoca i più gravi pericoli e le peggiori sofferenze per i nervi dei combattenti.

Nel collegamento tra l’ex comandante, l’ufficiale e la macchina, Kafka coglie con lucidità impressionante una caratteristica essenziale della prima guerra mondiale:

il nodo inestricabile, l’intima fusione tra l’autoritarismo più arcaico, retrogrado, passatista, patriarcale, pseudo-religioso e brutale, e la tecnologia più sofisticata, moderna, esatta, calcolata, «razionale».

 Il tutto al servizio di un obiettivo concreto e preciso: lo sterminio di esseri umani.

Ciò che lo scrittore qui intuisce ed esprime non è forse uno dei possibili sviluppi della civiltà occidentale moderna e della sua razionalità strumentale?

 Uno sviluppo che nel corso del secolo avrebbe fatto mostra di un immenso potenziale di barbarie.

 Si può anche considerare che il dispositivo del racconto rappresenti lo Stato burocratico moderno in quanto tale, e non solo nelle sue espressioni colonialiste e militariste.

Certo, la burocrazia in quanto tale non è una macchina di sterminio, ma Kafka non aveva esitato, discorrendo con Janouch, a paragonarla a un boia:

Oggi il mestiere di boia è un impiego come un altro: rispettabile e ben pagato. Perché dunque dietro a ogni rispettabile funzionario non si dovrebbe nascondere un boia?

 [I funzionari] trasformano gli uomini vivi e mutevoli in corpi morti, li riducono a numeri incapaci di qualsiasi mutamento, buoni solo per l’archivio.

La critica dello Stato come sistema inumano e meccanico è tradizionale nel romanticismo e risale alle prime espressioni di quella corrente di pensiero. In un testo del 1797, il giovane Schelling già proclamava:

 «Ogni Stato tratta inevitabilmente gli esseri umani liberi come un sistema di ingranaggi meccanici (mechanische Räderwerk)».

Il pensiero anarchico moderno (Kropotkin!) è l’erede di quella critica romantica, ma se ne ritrovano gli echi fin nelle opere di certa sociologia tedesca, per esempio in Alfred Weber.

È possibile che Kafka sia venuto a conoscenza dell’articolo di quest’ultimo sull’«impiegato», apparso nel 1910 sulla «Neue Rundschau» alla quale era abbonato;

in quello scritto si definiva la burocrazia «un gigantesco apparato (Apparat)», un «meccanismo morto» che esercita il proprio dominio su tutta la nostra esistenza.

Ritornerò sull’argomento.

Non mancano certo i saggi politici o sociologici di critica al colonialismo, al militarismo e alla burocrazia.

Il contributo di Kafka, con mezzi letterari, è la creazione di un singolare universo immaginario che non riflette la realtà, ma la colloca sotto una luce nuova, di una forza incomparabile.

Come si spiega il passaggio dai racconti che descrivono il «potere illimitato» dei patriarchi al racconto Nella Colonia Penale, che rappresenta un potere senza limiti come un meccanismo impersonale?

Non c’è dubbio che in questo processo di spersonalizzazione e di oggettivazione dell’autorità entrino in gioco vari elementi, ma a me non sembra casuale che la svolta decisiva sia avvenuta all’inizio del conflitto mondiale, una manifestazione formidabile degli apparati statali e della loro logica assassina.

Nelle opere successive, Il Processo e Il Castello, al centro troviamo l’autorità impersonale e gerarchica dell’apparato statale (giuridico o amministrativo).

In questo nuovo approccio, il conflitto con la tirannia paterna non è dimenticato, ma aufgehoben: rimosso-conservato-superato.

Tra i primi che hanno posto al centro della riflessione sull’opera kafkiana il tema del dominio ci sono i marxisti critici, come Walter Benjamin, Bertolt Brecht, Theodor Adorno, Ernst Fischer o Karel Kosík.

 Forse perché questo tema non era necessariamente incompatibile con il marxismo, o piuttosto con certe letture eterodosse del pensiero marxiano…

Per Benjamin, la forza critica di Kafka nasce dal fatto che egli scrive dal punto di vista del «cittadino moderno, che si sa preda di un apparato burocratico impenetrabile, il cui funzionamento è controllato da istanze che restano indefinite anche per i suoi stessi organi esecutivi e, a maggior ragione, per coloro che ne sono manipolati».

Napoleone aveva sostituito la politica al destino; in Kafka diventa destino l’organizzazione, così come si manifesta nelle «vaste gerarchie burocratiche del Processo e del Castello» o negli «inestricabili progetti di costruzione» della Muraglia Cinese.

Anche Karel Kosík percepisce l’universo kafkiano come «un labirinto spaventevole e assurdo», nel quale gli esseri umani sono «presi nella rete della macchina burocratica, degli apparati, delle creazioni reificate».

Infine, Adorno indica quale tema essenziale delle opere del praghese la razionalità del dominio (herrschaftlichen Rationalität), basata sulla cieca violenza che si riproduce anch’essa all’infinito e la cui espressione più moderna è il controllo burocratico.

(MICHAEL LÖWY È UN SOCIOLOGO E FILOSOFO FRANCESE).

 

 

 

 

IL MANIFESTO DEL GRANDE

RISVEGLIO CONTRO IL GRANDE RESET.

Comedonchisciotte.org - Redazione CDC – Aleksandr Dugin - ( 22 Marzo 2022) – ci dice: 

 

(Pubblichiamo l’elaborazione del filosofo russo Aleksandr Dugin uscita nel marzo dello scorso anno, ma oggi ancora più attuale visti gli sviluppi degli eventi in corso su scala internazionale.

Il documento è stato tradotto e pubblicato di recente da Nexusedizioni.it, ve lo riproponiamo di seguito nella sua interezza.

Buona lettura.)

 

Il Manifesto del Grande Risveglio contro il Grande Reset

Di Aleksandr Dugin, katehon.com

Parte 1. Great Reset

I 5 punti del principe Carlo.

Nel 2020, al forum di Davos, il fondatore del forum Klaus Schwab e Charles, il principe di Galles, hanno proclamato un nuovo corso per l’umanità, il Great Reset.

Il piano, secondo il Principe di Galles, si compone di cinque punti:

Per catturare l’immaginazione e la volontà dell’umanità, il cambiamento avverrà solo se le persone lo vogliono davvero;

La ripresa economica deve mettere il mondo sulla strada dell’occupazione, dei mezzi di sussistenza e della crescita sostenibili.

Le strutture di incentivazione di vecchia data che hanno avuto effetti perversi sul nostro ambiente planetario e sulla natura stessa devono essere reinventate;

Sistemi e percorsi devono essere riprogettati per far avanzare le transizioni net zero a livello globale.

 Il prezzo del carbonio può fornire un percorso critico verso un mercato sostenibile;

Scienza, tecnologia e innovazione hanno bisogno di rinvigorimento.

L’umanità è sull’orlo di scoperte catalitiche che modificheranno la nostra visione di ciò che è possibile e redditizio nel quadro di un futuro sostenibile;

Gli investimenti devono essere riequilibrati.

L’accelerazione degli investimenti verdi può offrire opportunità di lavoro nell’energia verde, nella economia circolare e nella bioeconomia, nell’ecoturismo e nelle infrastrutture pubbliche verdi.

Il termine “sostenibile” fa parte del concetto più importante del Club di Roma – “sviluppo sostenibile”.

Questa teoria si basa su un’altra teoria:

i “limiti di crescita”, secondo cui la sovrappopolazione del pianeta ha raggiunto un punto critico (il che implica la necessità di ridurre il tasso di natalità).

Il fatto che la parola “sostenibile” venga utilizzata nel contesto della pandemia di Covid-19, che, secondo alcuni analisti, dovrebbe portare a un calo demografico, ha provocato una reazione significativa a livello globale.

I punti principali del Great Reset sono:

• il controllo sulla coscienza pubblica su scala globale, che è al centro della “cancel culture”;

• l’introduzione della censura sulle reti controllate dai globalisti (punto 1);

• Transizione verso un’economia ecologica e rifiuto delle moderne strutture industriali (punti 2 e 5);

• L’ingresso dell’umanità nel 4° ordine economico (a cui era dedicato il precedente incontro di Davos), ovvero la graduale sostituzione della forza lavoro con i cyborg e l’implementazione dell’Intelligenza Artificiale avanzata su scala globale (punto 3).

L’idea principale del “Great Reset” è la continuazione della globalizzazione e il rafforzamento del globalismo dopo una serie di fallimenti:

la presidenza conservatrice dell’antiglobalista Trump, la crescente influenza di un mondo multipolare – in particolare di Cina e Russia, l’ascesa di paesi islamici come Turchia, Iran, Pakistan, Arabia Saudita e il loro ritiro dall’influenza dell’Occidente.

Al forum di Davos, i rappresentanti delle élite liberali globali hanno dichiarato la mobilitazione delle loro strutture in attesa della presidenza di Biden e della vittoria dei democratici negli USA, cosa che desiderano fortemente.

Implementazione.

Il contrassegno dell’agenda globalista è la canzone di Jeff Smith “Build Back Better” (lo slogan della campagna di Joe Biden). Ciò significa che dopo una serie di battute d’arresto (come un tifone o l’uragano Katrina), le persone (intendo i globalisti) ricostruiscono infrastrutture migliori di prima.

Il “Great Reset” inizia con la vittoria di Biden.

Leader mondiali, capi di grandi società – Big Tech, Big Data, Big Finance, ecc. – si sono riuniti e si sono mobilitati per sconfiggere i loro oppositori: Trump, Putin, Xi Jinping, Erdogan, l’Ayatollah Khamenei e altri.

 L’inizio è stato quello di strappare la vittoria a Trump utilizzando le nuove tecnologie – attraverso la “cattura dell’immaginazione” (punto 1), l’introduzione della censura su Internet e la manipolazione del voto per corrispondenza.

L’arrivo di Biden alla Casa Bianca significa che i globalisti stanno passando ai passi successivi.

Ciò influenzerà tutte le aree della vita: i globalisti stanno tornando al punto in cui Trump e altri poli di crescente multipolarismo li avevano fermati.

 Ed è qui che il controllo mentale (attraverso la censura e la manipolazione dei social media, la sorveglianza totale e la raccolta dei dati di tutti) e l’introduzione di nuove tecnologie giocano un ruolo fondamentale.

L’epidemia di Covid-19 è una scusa per questo.

Con il pretesto dell’igiene sanitaria, il Great Reset prevede di alterare drasticamente le strutture di controllo delle élite globaliste sulla popolazione mondiale.

L’inaugurazione di Joe Biden e i decreti che ha già firmato (ribaltando praticamente tutte le decisioni di Trump) significano che il piano ha iniziato a concretizzarsi.

Nel suo discorso sul “nuovo” corso della politica estera statunitense, Biden ha espresso le principali direzioni della politica globalista.

Può sembrare “nuovo”, ma solo in parte, e solo rispetto alle politiche di Trump.

Nel complesso, Biden ha semplicemente annunciato un ritorno al vettore precedente: Mettere gli interessi globali davanti agli interessi nazionali;

Rafforzare le strutture del governo mondiale e dei suoi rami sotto forma di organizzazioni sovranazionali globali e strutture economiche;

Rafforzare il blocco NATO e la cooperazione con tutte le forze e regimi globalisti;

La promozione e l’approfondimento del cambiamento democratico su scala globale, che in pratica significa:

intensificare le relazioni con quei paesi e regimi che rifiutano la globalizzazione – in primis Russia, Cina, Iran, Turchia, ecc.;

una maggiore presenza militare statunitense in Medio Oriente, Europa e Africa;

la diffusione dell’instabilità e delle “rivoluzioni colorate”;

Uso diffuso di “demonizzazione”, “de-platforming” e ostracismo di rete (cancella la cultura) contro tutti coloro che hanno opinioni diverse da quella globalista (sia all’estero che negli stessi Stati Uniti).

Così, la nuova dirigenza della Casa Bianca non solo non mostra la minima disponibilità ad avere un dialogo paritario con chiunque, ma solo inasprisce il proprio discorso liberale, che non tollera alcuna obiezione.

Il globalismo sta entrando in una fase totalitaria.

Ciò rende più che probabile la possibilità di nuove guerre, compreso un aumento del rischio di una terza guerra mondiale.

La geopolitica del “Grande Reset”.

La “Globalist Foundation for Defense of Democracies”, che esprime la posizione dei circoli neoconservatori statunitensi, ha recentemente pubblicato un rapporto in cui raccomanda a Biden che alcune delle posizioni di Trump come:

crescente opposizione alla Cina, maggiore pressione sull’Iran

 sono positivi, e che Biden dovrebbe continuare a muoversi lungo questi assi in politica estera.

Gli autori del rapporto, d’altra parte, hanno condannato le azioni di politica estera di Trump come:

 lavorare per disintegrare la NATO;

 riavvicinamento con i “leader totalitari” (cinesi, RPDC e russi);

un “cattivo” accordo con i talebani;

ritiro delle truppe americane dalla Siria.

Pertanto, il “Grande Reset” in geopolitica significherà una combinazione di “promozione della democrazia” e “strategia aggressiva neoconservatrice di dominio su vasta scala”, che è il principale vettore della politica “neoconservatrice”.

Allo stesso tempo, si consiglia a Biden di continuare e aumentare il confronto con Iran e Cina, ma l’obiettivo principale dovrebbe essere la lotta contro la Russia.

 E questo richiede il rafforzamento della NATO e l’espansione della presenza statunitense in Medio Oriente e in Asia centrale.

Come Trump, Russia, Cina, Iran e alcuni altri paesi islamici sono visti come i principali ostacoli.

È così che i progetti ambientali e le innovazioni tecnologiche (in primis l’introduzione dell’Intelligenza Artificiale e della robotica) si coniugano con l’affermarsi di una politica militare aggressiva.

Parte 2. Una breve storia dell’ideologia liberale: il globalismo come culmine.

Nominalismo.

Per capire chiaramente cosa significhino su scala storica la vittoria di Biden e il “nuovo” corso di Washington per il “Grande Reset”, bisogna guardare l’intera storia dell’ideologia liberale, partendo dalle sue radici.

Solo così siamo in grado di comprendere la gravità della nostra situazione.

 La vittoria di Biden non è un episodio casuale, e l’annuncio di un contrattacco globalista non è solo l’agonia di un progetto fallito.

È molto più grave di così.

Biden e le forze dietro di lui incarnano il culmine di un processo storico iniziato nel Medioevo, che ha raggiunto la sua maturità nella Modernità con l’emergere della società capitalista, e che oggi sta raggiungendo la sua fase finale, quella teorica delineata fin dall’inizio.

Le radici del sistema liberale (=capitalista) risalgono alla disputa scolastica sugli universali.

 Questa disputa ha diviso i teologi cattolici in due campi: alcuni hanno riconosciuto l’esistenza del comune (specie, genere, universali), mentre altri credevano solo in alcune cose concrete – individuali, e hanno interpretato i loro nomi generalizzanti come sistemi di classificazione convenzionali puramente esterni, che rappresentano “suono vuoto”.

 Coloro che erano convinti dell’esistenza del generale, della specie, attingevano alla tradizione classica di Platone e di Aristotele.

Vennero chiamati “realisti”, cioè coloro che riconoscevano la “realtà degli universali”.

Il rappresentante più in vista dei “realisti” era Tommaso d’Aquino e, in generale, era la tradizione dei monaci domenicani.

I fautori dell’idea che solo le cose e gli esseri individuali sono reali vennero chiamati “nominalisti”, dal latino “nomen”.

La richiesta – “le entità non dovrebbero moltiplicarsi senza necessità” – risale proprio a uno dei principali difensori del “nominalismo”, il filosofo inglese William Occam.

Anche prima, le stesse idee erano state difese da Roscelin di Compiègne.

Sebbene i “realisti” abbiano vinto la prima fase del conflitto e gli insegnamenti dei “nominalisti” fossero stati anatematizzati, in seguito i percorsi della filosofia dell’Europa occidentale – in particolare della New Age – furono seguiti da Occam.

Il “nominalismo” ha gettato le basi per il futuro liberalismo, sia ideologicamente che economicamente.

 Qui gli esseri umani erano visti solo come individui e nient’altro, e tutte le forme di identità collettiva (religione, classe, ecc.) dovevano essere abolite.

 Allo stesso modo, la cosa era vista come proprietà privata assoluta, come cosa concreta, separata, che poteva essere facilmente attribuita come proprietà a questo o quel singolo proprietario.

Il nominalismo prevalse prima di tutto in Inghilterra, si diffuse nei paesi protestanti e divenne gradualmente la principale matrice filosofica della New Age – nella religione (rapporti individuali dell’uomo con Dio), nella scienza (atomismo e materialismo), nella politica (precondizioni della democrazia borghese), nell’economia (mercato e proprietà privata), nell’etica (utilitarismo, individualismo, relativismo, pragmatismo), ecc.

Capitalismo: la prima fase.

Partendo dal nominalismo, possiamo tracciare l’intero percorso del liberalismo storico, da Roscelin e Occam a Soros e Biden. Per comodità, dividiamo questa storia in tre fasi.

La prima fase è stata l’introduzione del nominalismo nel regno della religione.

L’identità collettiva della Chiesa, come intesa dal cattolicesimo (e ancor di più dall’Ortodossia), fu sostituita dai protestanti come individui che d’ora in poi potevano interpretare la Scrittura basandosi esclusivamente sul loro ragionamento e rifiutando qualsiasi tradizione.

Così molti aspetti del cristianesimo – i sacramenti, i miracoli, gli angeli, la ricompensa dopo la morte, la fine del mondo, ecc. – sono stati riconsiderati e scartati perché non rispondenti ai “criteri razionali”.

La chiesa come “corpo mistico di Cristo” fu distrutta e sostituita da club per hobby creati dal libero consenso dal basso.

Ciò ha creato un gran numero di sette protestanti controverse.

In Europa e nella stessa Inghilterra, dove il nominalismo aveva dato i suoi frutti più completi, il processo fu alquanto sottomesso e i protestanti più rabbiosi si precipitarono nel Nuovo Mondo e vi stabilirono la propria società.

Più tardi, dopo la lotta con la metropolia, sono emersi gli Stati Uniti.

Parallelamente alla distruzione della Chiesa come “identità collettiva” (qualcosa di “comune”), i possedimenti iniziarono ad essere aboliti.

La gerarchia sociale dei preti, dell’aristocrazia e dei contadini fu sostituita da indefiniti “cittadini”, secondo il significato originario della parola “borghese”.

La borghesia ha soppiantato tutti gli altri strati della società europea.

Ma il borghese era esattamente il miglior “individuo”, un cittadino senza clan, tribù o professione, ma con proprietà privata.

E questa nuova classe iniziò a ricostruire tutta la società europea.

Contemporaneamente fu abolita anche l’unità sovranazionale della Sede Pontificia e dell’Impero Romano d’Occidente – come altra espressione di “identità collettiva”.

Al suo posto è stato stabilito un ordine basato su stati-nazione sovrani, una sorta di “individuo politico”.

 Dopo la fine della guerra dei 30 anni, la pace di Westfalia consolidò questo ordine.

Così, verso la metà del 17° secolo, un ordine borghese (cioè il capitalismo) era emerso nei tratti principali dell’Europa occidentale.

La filosofia del nuovo ordine è stata in molti modi anticipata da Thomas Hobbes e sviluppata da John Locke, David Hume e Immanuel Kant.

Adam Smith ha applicato questi principi al campo economico, dando origine al liberalismo come ideologia economica.

 In effetti, il capitalismo, basato sull’attuazione sistematica del nominalismo, è diventato una visione del mondo sistemica coerente.

Il senso della storia e del progresso era ormai di “liberare l’individuo da ogni forma di identità collettiva” fino al limite logico.

Nel ventesimo secolo, attraverso il periodo delle conquiste coloniali, il capitalismo dell’Europa occidentale era diventato una realtà globale.

L’approccio nominalista prevaleva nella scienza e nella cultura, nella politica e nell’economia, nel pensiero quotidiano del popolo occidentale e dell’intera umanità.

Il ventesimo e il trionfo della globalizzazione: la seconda fase.

Nel ventesimo secolo, il capitalismo ha dovuto affrontare una nuova sfida.

 Questa volta, non sono state le solite forme di identità collettiva – religiosa, di classe, professionale, ecc. – ma teorie artificiali e anche moderne (come lo stesso liberalismo) a rifiutare l’individualismo e a contrastarlo con nuove forme di identità collettiva (accomunate concettualmente).

Socialisti, socialdemocratici e comunisti hanno contrastato i liberali con identità di classe, invitando i lavoratori di tutto il mondo a unirsi per rovesciare il potere della borghesia globale.

Questa strategia si rivelò efficace e in alcuni grandi paesi (sebbene non in quei paesi industrializzati e occidentali dove aveva sperato Karl Marx, il fondatore del comunismo), furono vinte le rivoluzioni proletarie.

Parallelamente ai comunisti si verificò, questa volta nell’Europa occidentale, la presa del potere da parte di forze nazionaliste estreme.

Hanno agito in nome della “nazione” o di una “razza”, contrastando ancora una volta l’individualismo liberale con qualcosa di “comune”, qualche “essere collettivo”.

I nuovi oppositori del liberalismo non appartenevano più all’inerzia del passato, come nelle fasi precedenti, ma rappresentavano progetti modernisti sviluppati nello stesso Occidente.

Ma erano anche costruiti sul rifiuto dell’individualismo e del nominalismo.

Lo capirono chiaramente i teorici del liberalismo (soprattutto Hayek e il suo discepolo Popper), che unirono “comunisti” e “fascisti” sotto il nome comune di “nemici della società aperta”, e iniziarono con loro una guerra mortale.

Usando tatticamente la Russia sovietica, il capitalismo riuscì inizialmente ad affrontare i regimi fascisti, e questo fu il risultato ideologico della Seconda guerra mondiale.

La successiva Guerra Fredda tra Oriente e Occidente alla fine degli anni ’80 si concluse con una vittoria liberale sui comunisti.

Così, il progetto di liberazione dell’individuo da ogni forma di identità collettiva e di “progresso ideologico” inteso dai liberali ha attraversato un’altra fase.

Negli anni ’90, i teorici liberali iniziarono a parlare della “fine della storia” (F. Fukuyama) e del “momento unipolare” (C. Krauthammer).

Questa è stata una vivida prova dell’ingresso del capitalismo nella sua fase più avanzata: la fase del globalismo.

In effetti, è stato in questo momento che nelle élite dominanti statunitensi ha trionfato la strategia del globalismo – delineata nella Prima guerra mondiale dai 14 punti di Wilson, ma alla fine della guerra fredda ha unito l’élite di entrambi i partiti – democratici e repubblicani, rappresentati principalmente dai “neoconservatori”.

Gender e post umanesimo: la terza fase.

Dopo aver sconfitto il suo ultimo nemico ideologico, il campo socialista, il capitalismo è arrivato a un punto cruciale.

L’individualismo, il mercato, l’ideologia dei diritti umani, della democrazia e dei valori occidentali avevano vinto su scala globale.

 Sembrerebbe che l’agenda sia adempiuta: nessuno si oppone più all'”individualismo” e al nominalismo con qualcosa di serio o sistemico.

In questo periodo, il capitalismo entra nella sua terza fase.

 A ben guardare, dopo aver sconfitto il nemico esterno, i liberali hanno scoperto altre due forme di identità collettiva.

 Innanzitutto il genere.

Dopotutto, il genere è anche qualcosa di collettivo: maschile o femminile.

Quindi il passo successivo è stata la distruzione del genere come qualcosa di oggettivo, essenziale e insostituibile.

Il genere richiedeva l’abolizione, così come tutte le altre forme di identità collettiva, che erano state abolite anche prima.

Da qui la politica di genere, la trasformazione della categoria di genere in qualcosa di “opzionale” e dipendente dalla scelta individuale.

 Anche qui si tratta dello stesso nominalismo: perché doppie entità?

Una persona è una persona come individuo, mentre il sesso può essere scelto arbitrariamente, proprio come prima erano scelti religione, professione, nazione e stile di vita.

Questo è diventato l’agenda principale dell’ideologia liberale negli anni ’90, dopo la sconfitta dell’Unione Sovietica.

 Sì, gli oppositori esterni hanno ostacolato la politica di genere – quei paesi che avevano ancora i resti della società tradizionale, i valori della famiglia, ecc., così come i circoli conservatori nello stesso Occidente.

Combattere i conservatori e gli “omofobi”, cioè i difensori della visione tradizionale dell’esistenza dei sessi, è diventato il nuovo obiettivo degli aderenti al liberalismo progressista.

Molti esponenti di sinistra si sono uniti, sostituendo la politica di genere e la protezione dell’immigrazione con precedenti obiettivi anticapitalisti.

Con il successo dell’istituzionalizzazione delle norme di genere e il successo della migrazione di massa, che sta atomizzando le popolazioni nell’Occidente stesso (che si inserisce perfettamente anche all’interno di un’ideologia dei diritti umani che opera con l’individuo indipendentemente dagli aspetti culturali, religiosi, sociali o nazionali), divenne ovvio che ai liberali restava un ultimo passo da compiere: abolire gli esseri umani.

Dopotutto, l’umano è anche un’identità collettiva, il che significa che deve essere superato, abolito, distrutto.

Questo è ciò che richiede il principio del nominalismo: una “persona” è solo un nome, un vuoto scossone dell’aria, una classificazione arbitraria e quindi sempre discutibile.

 C’è solo l’individuo – umano o meno, maschio o femmina, religioso o ateo, dipende dalla sua scelta.

Pertanto, l’ultimo passo lasciato ai liberali, che hanno viaggiato per secoli verso il loro obiettivo, è sostituire gli esseri umani, anche se in parte, con cyborg, reti di intelligenza artificiale e prodotti dell’ingegneria genetica.

 L’opzionale umano segue logicamente l’opzionale di genere.

Questo programma è già abbastanza prefigurato dal post umanesimo, dal postmodernismo e dal realismo speculativo in filosofia, e tecnologicamente sta diventando sempre più realistico di giorno in giorno.

 Futurologi e fautori dell’accelerazione del processo storico (accelerazionisti) stanno guardando con fiducia al prossimo futuro quando l’Intelligenza Artificiale diventerà comparabile nei parametri di base con gli esseri umani.

Questo momento è chiamato Singolarità. Il suo arrivo è previsto entro 10-20 anni.

L’ultima battaglia dei liberali.

Questo è il contesto in cui va collocata la vittoria del tutto esaurito di Biden negli Stati Uniti.

Questo è ciò che significa il “Great Reset” o lo slogan “Build Back Better”.

Negli anni 2000, i globalisti hanno dovuto affrontare una serie di problemi che non erano tanto ideologici quanto di natura “civilizzazione”.

Dalla fine degli anni ’90, non ci sono state praticamente ideologie più o meno coerenti nel mondo in grado di sfidare il liberalismo, il capitalismo e il globalismo.

In varia misura, ma questi principi sono stati accettati da tutti o quasi.

Tuttavia, l’attuazione del liberalismo e della politica di genere, così come l’abolizione degli stati-nazione a favore del governo mondiale, si è arenata su diversi fronti.

Questo è stato sempre più contrastato dalla Russia di Putin, che aveva armi nucleari e una tradizione storica di opposizione all’Occidente, così come una serie di tradizioni conservatrici conservate nella società.

La Cina, sebbene attivamente impegnata nella globalizzazione e nelle riforme liberali, non aveva fretta di applicarle al sistema politico, mantenendo il predominio del Partito Comunista e rifiutando la liberalizzazione politica.

Inoltre, sotto Xi Jinping, le tendenze nazionali nella politica cinese iniziarono a crescere.

Pechino ha usato abilmente il “mondo aperto” per perseguire i suoi interessi nazionali e persino di civiltà.

E questo non faceva parte dei piani dei globalisti.

I paesi islamici hanno continuato la loro lotta contro l’occidentalizzazione e, nonostante i blocchi e le pressioni, hanno mantenuto (come l’Iran sciita) i loro regimi inconciliabilmente anti-occidentali e anti-liberali.

 Le politiche dei principali stati sunniti come la Turchia e il Pakistan sono diventate sempre più indipendenti dall’Occidente.

In Europa, un’ondata di populismo ha iniziato a crescere quando è esploso il malcontento indigeno europeo per l’immigrazione di massa e la politica di genere.

Le élite politiche europee sono rimaste completamente subordinate alla strategia globalista, come si è visto al Forum di Davos nei rapporti dei suoi teorici Schwab e del principe Carlo, ma le società stesse si sono mosse e talvolta si sono rivolte direttamente contro le autorità – come nel caso delle Proteste dei “gilet gialli” in Francia.

 In alcuni luoghi, come l’Italia, la Germania o la Grecia, i partiti populisti sono persino entrati in parlamento.

Infine, nel 2016, negli stessi Stati Uniti, Donald Trump è riuscito a diventare presidente, sottoponendo l’ideologia, le pratiche e gli obiettivi globalisti a critiche dure e dirette.

 Ed è stato sostenuto da circa la metà degli americani.

Tutte queste tendenze anti globalistiche agli occhi degli stessi globalisti non potevano fare a meno di sommarsi a un quadro inquietante:

 la storia degli ultimi secoli, con il suo progresso apparentemente ininterrotto dei nominalisti e dei liberali, è stata messa in discussione.

Questo non è stato semplicemente il disastro di questo o quel regime politico.

Era la minaccia della fine del liberalismo in quanto tale.

Anche gli stessi teorici del globalismo hanno intuito che qualcosa non andava.

Fukuyama, ad esempio, abbandonò la sua tesi sulla “fine della storia” e suggerì che gli stati-nazione rimanessero ancora sotto il dominio delle élite liberali per preparare meglio le masse alla trasformazione finale nella post umanità, supportate da metodi rigidi.

Un altro globalista, Charles Krauthammer, ha dichiarato che il “momento unipolare” era finito e che le élite globaliste non ne avevano approfittato.

Questo è esattamente lo stato di panico e quasi isterico in cui i rappresentanti dell’élite globalista hanno trascorso gli ultimi quattro anni.

Ed è per questo che la questione della rimozione di Trump da presidente degli Stati Uniti era per loro una questione di vita o di morte.

 Se Trump avesse mantenuto il suo incarico, il crollo della strategia globalista sarebbe stato irreversibile.

Ma Biden è riuscito – con le buone o con le cattive – a cacciare Trump e demonizzare i suoi sostenitori.

È qui che entra in gioco il Great Reset.

 Non c’è davvero nulla di nuovo in esso: è una continuazione del principale vettore della civiltà dell’Europa occidentale nella direzione del progresso, interpretato nello spirito dell’ideologia liberale e della filosofia nominalista.

 Non resta molto: liberare gli individui dalle ultime forme di identità collettiva – completare l’abolizione del genere e muoversi verso un paradigma post umanista.

I progressi nell’alta tecnologia, l’integrazione delle società nelle reti sociali, strettamente controllate, come appare ora, dalle élite liberali in modo apertamente totalitario, e il perfezionamento dei modi per seguire e influenzare le masse rendono il raggiungimento dell’obiettivo liberale globale a portata di mano.

Ma per fare quel tiro decisivo, devono, in modalità accelerata (e senza più prestare attenzione a come appare), aprire rapidamente la strada alla finalizzazione della storia.

 E questo significa che l’eliminazione di Trump è il segnale per attaccare tutti gli altri ostacoli.

Quindi abbiamo determinato il nostro posto nella scala della storia.

E così facendo, abbiamo un quadro più completo di ciò che riguarda il Great Reset.

Non è niente di meno che l’inizio dell'”ultima battaglia”.

I globalisti, nella loro lotta per il nominalismo, il liberalismo, la liberazione individuale e la società civile, appaiono a sé stessi come “guerrieri della luce”, portando progresso, liberazione da migliaia di anni di pregiudizi, nuove possibilità

– e forse anche l’immortalità fisica e le meraviglie della ingegneria genetica, alle masse.

Tutti coloro che vi si oppongono sono, ai loro occhi, “forze delle tenebre”.

 E con questa logica, i “nemici della società aperta” devono essere affrontati con la loro stessa severità.

“Se il nemico non si arrende, sarà distrutto”.

Il nemico è chiunque metta in discussione il liberalismo, il globalismo, l’individualismo, il nominalismo in tutte le loro manifestazioni.

Questa è la nuova etica del liberalismo. Non è niente di personale. Tutti hanno il diritto di essere liberali, ma nessuno ha il diritto di essere nient’altro.

Parte 3. Lo scisma negli Stati Uniti: il trumpismo ei suoi nemici.

Il nemico interiore.

In un contesto più limitato rispetto al quadro della storia generale del liberalismo da Ockham a Biden, la vittoria di Trump nella battaglia per la Casa Bianca nell’inverno 2020-2021, così dolorosa per i Democratici in quanto tale, ha anche un enorme significato ideologico.

Questo ha a che fare principalmente con i processi che si svolgono all’interno della stessa società americana.

Il fatto è che dopo la caduta dell’Unione Sovietica e l’inizio del “momento unipolare” negli anni ’90, il liberalismo globale non ha avuto oppositori esterni.

Almeno, sembrava così all’epoca nel contesto dell’aspettativa ottimistica della “fine della storia”.

Anche se tali previsioni si sono rivelate premature, Fukuyama non si è semplicemente chiesto se il futuro fosse arrivato:

 stava seguendo rigorosamente la logica stessa dell’interpretazione liberale della storia, e quindi, con alcuni aggiustamenti, la sua analisi era generalmente corretta.

In effetti, le norme della democrazia liberale – il mercato, le elezioni, il capitalismo, il riconoscimento dei “diritti umani”, le norme della “società civile”, l’adozione di trasformazioni tecnocratiche e il desiderio di abbracciare lo sviluppo e l’implementazione dell’alta tecnologia – in particolare tecnologia digitale – sono stati in qualche modo stabiliti in tutta l’umanità.

 Se alcuni persistessero nella loro avversione alla globalizzazione, ciò potrebbe essere visto come mera inerzia, come una riluttanza a essere “benedetti” dal progresso liberale.

In altre parole, non era un’opposizione ideologica, ma solo una sfortunata seccatura.

Le differenze di civiltà dovevano essere gradualmente cancellate.

L’adozione del capitalismo da parte della Cina, della Russia e del mondo islamico comporterebbe prima o poi processi di democratizzazione politica, l’indebolimento della sovranità nazionale e alla fine porterebbe all’istituzione di un sistema planetario: un governo mondiale.

Non era una questione di lotta ideologica, ma una questione di tempo.

Fu in questo contesto che i globalisti fecero ulteriori passi per portare avanti il ​​loro programma di base di abolizione di tutte le forme residue di identità collettiva.

 Ciò ha riguardato principalmente le politiche di genere e l’intensificazione dei flussi migratori volti a erodere permanentemente l’identità culturale delle stesse società occidentali, comprese le società europee e americane.

 Così, la globalizzazione ha assestato il suo colpo principale.

In questo contesto, nello stesso Occidente iniziò a emergere un “nemico interiore”.

Si tratta di tutte quelle forze che si risentivano della distruzione dell’identità sessuale, della distruzione dei resti della tradizione culturale (attraverso la migrazione) e dell’indebolimento della classe media.

 Sempre più preoccupanti erano anche gli orizzonti post umanisti della Singolarità incombente e la sostituzione dell’uomo con l’Intelligenza Artificiale e sul piano filosofico non tutti gli intellettuali accettavano le conclusioni paradossali della Postmodernità e del realismo speculativo.

Inoltre, c’era una chiara contraddizione tra le masse occidentali, che vivevano nel contesto delle vecchie norme della Modernità, e le élite globaliste, che cercavano a tutti i costi di accelerare il progresso sociale, culturale e tecnologico inteso nell’ottica liberale.

Così iniziò a delinearsi un nuovo dualismo ideologico, questa volta all’interno dell’Occidente piuttosto che al di fuori di esso.

I nemici della “società aperta” ora apparivano all’interno della stessa civiltà occidentale.

Erano quelli che rifiutavano gli ultimi fini liberali e non accettavano la politica di genere, la migrazione di massa o l’abolizione degli stati-nazione e della sovranità.

Allo stesso tempo, tuttavia, questa crescente resistenza, genericamente denominata “populismo” (o “populismo di destra”), attingeva alla stessa ideologia liberale – capitalismo e democrazia liberale – ma interpretava questi “valori” e “punti di riferimento” nel vecchio senso piuttosto che nel nuovo.

La libertà è stata concepita qui come la libertà di avere qualsiasi punto di vista, non solo quelli conformi alle norme della correttezza politica.

La democrazia è stata interpretata come regola della maggioranza.

La libertà di cambiare genere doveva essere combinata con la libertà di rimanere fedeli ai valori della famiglia.

La disponibilità ad accogliere i migranti che esprimevano il desiderio e dimostravano la loro capacità di integrarsi nelle società occidentali era rigorosamente differenziata dall’accettazione totale di tutti senza distinzione, accompagnata da continue scuse a tutti i nuovi arrivati ​​per il loro passato coloniale.

A poco a poco, il “nemico interno” dei globalisti ha raggiunto proporzioni serie e una grande influenza.

 La vecchia democrazia ha sfidato quella nuova.

Trump e la rivolta dei deplorevoli.

Ciò è culminato nella vittoria di Donald Trump nel 2016.

Trump ha costruito la sua campagna proprio su questa divisione della società americana.

 La candidata globalista, Hillary Clinton, ha sconsideratamente definito i sostenitori di Trump, cioè il “nemico interno”, “deplorevoli”, vale a dire “patetici”, “miserevoli”.

 I “deplorevoli” hanno risposto eleggendo Trump.

Così, la spaccatura all’interno della democrazia liberale divenne un fatto politico e ideologico cruciale.

Coloro che interpretavano la democrazia alla “vecchia maniera” (come regola della maggioranza) non solo si ribellarono alla nuova interpretazione (regola della minoranza diretta contro la maggioranza incline a prendere una posizione populista, irta di … beh, sì, certo, “fascismo” o “stalinismo”), ma sono riusciti a vincere e portare il loro candidato alla Casa Bianca.

Trump, dal canto suo, ha dichiarato la sua intenzione di “prosciugare la palude”, cioè di farla finita con il liberalismo nella sua strategia globalista e di “rendere grande l’America”.

 Nota la parola “di nuovo”.

Trump voleva tornare all’era degli stati-nazione, per fare una serie di passi contro la corrente della storia (come la intendevano i liberali).

 In altre parole, il “buon vecchio ieri” si opponeva al “globalista oggi” e al “post-umanista domani”.

I successivi quattro anni furono un vero incubo per i globalisti.

 I media controllati dai globalisti hanno accusato Trump di ogni possibile peccato – compreso il “lavorare per i russi” perché anche i “russi” hanno insistito nel loro rifiuto del “coraggioso nuovo mondo”, sabotando le istituzioni sovranazionali – fino al governo mondiale incluso – e prevenire le sfilate del gay pride.

Tutti gli oppositori della globalizzazione liberale erano logicamente raggruppati insieme, inclusi non solo Putin, Xi Jinping, alcuni leader islamici, ma anche – immaginate questo! – il Presidente degli Stati Uniti d’America, l’uomo numero uno del “mondo libero”.

Questo è stato un disastro per i globalisti.

Fino a quando Trump non è stato scaricato – per mezzo di rivoluzioni colorate, rivolte artificiose, scrutinio fraudolento e metodi di conteggio dei voti precedentemente utilizzati solo contro altri paesi e regimi – non potevano sentirsi a proprio agio.

È stato solo dopo aver ripreso le redini della Casa Bianca che i globalisti hanno cominciato a rinsavire.

 E sono tornati alla… roba vecchia.

Ma nel loro caso, “vecchio” (ricostruito) significava tornare al “momento unipolare” – ai tempi pre-Trump.

Trumpismo.

Trump ha cavalcato un’ondata di populismo nel 2016 come nessun altro leader europeo è riuscito a fare.

Trump divenne così un simbolo di opposizione alla globalizzazione liberale.

Sì, non era un’ideologia alternativa, ma semplicemente una disperata resistenza alle ultime conclusioni tratte dalla logica e persino dalla metafisica del liberalismo (e del nominalismo).

Trump non stava affatto sfidando il capitalismo o la democrazia, ma solo le forme che avevano assunto nella loro ultima fase e la loro graduale e coerente attuazione.

Ma anche questo è bastato a segnare una spaccatura fondamentale nella società americana.

È così che ha preso forma il fenomeno del “trumpismo”, che per molti versi supera la scala della personalità stessa di Donald Trump.

Trump ha giocato sull’ondata di protesta contro la globalizzazione.

Ma è chiaro che non era e non è una figura ideologica.

Eppure, è intorno a lui che inizia a formarsi il blocco di opposizione.

La conservatrice americana Ann Coulter, autrice del libro In Trump we Trust, da allora ha riformulato il suo credo come “in Trumpism we trust”.

Non tanto lo stesso Trump, quanto piuttosto la sua linea di opposizione ai globalisti, è diventata il fulcro del trumpismo.

Nel suo ruolo di presidente, Trump non è sempre stato all’altezza del suo stesso articolato compito.

E non è stato in grado di realizzare nulla di nemmeno vicino al “prosciugare la palude” e sconfiggere il globalismo.

 Ma nonostante ciò, è diventato un centro di attrazione per tutti coloro che erano consapevoli o semplicemente intuivano il pericolo proveniente dalle élite globaliste e dai rappresentanti di Big Finance e Big Tech inseparabili da loro.

Così, il nucleo del trumpismo iniziò a prendere forma.

L’intellettuale conservatore americano Steve Bannon ha svolto un ruolo importante in questo processo, mobilitando ampi segmenti di giovani e disparati movimenti conservatori a sostegno di Trump.

Lo stesso Bannon è stato ispirato da autori seri antimodernisti come Julius Evola, e la sua opposizione al globalismo e al liberalismo aveva quindi radici più profonde.

Un ruolo importante nel trumpismo è stato svolto da coerenti paleo-conservatori – isolazionisti e nazionalisti – come Buchanan, Ron Paul, così come aderenti alla filosofia antiliberale e antimodernista (quindi fondamentalmente antiglobalista), come Richard Weaver e Russell Kirk, che erano stati emarginati dai neocon (i globalisti di destra) sin dagli anni ’80.

La forza trainante della mobilitazione di massa dei “Trumpisti” è diventata l’organizzazione in rete QAnon, che ha espresso la sua critica al liberalismo, ai democratici e ai globalisti sotto forma di teorie del complotto.

Hanno diffuso un torrente di accuse e denunce di globalisti coinvolti in scandali sessuali, pedofilia, corruzione e satanismo.

Le vere intuizioni sulla natura sinistra dell’ideologia liberale – rese evidenti nelle ultime fasi della sua trionfante diffusione sull’umanità – sono state formulate dai sostenitori di QAnon a livello dell’americano medio e della coscienza di massa, poco inclini ad approfondite analisi filosofiche e ideologiche.

Parallelamente, QAnon ha ampliato la sua influenza, ma allo stesso tempo ha conferito alla critica antiliberale tratti grotteschi.

Sono stati i sostenitori di QAnon, in quanto avanguardia del populismo della cospirazione di massa, a guidare le proteste il 6 gennaio, quando i sostenitori di Trump hanno preso d’assalto il Campidoglio indignati dalle elezioni rubate.

 Non hanno raggiunto alcun obiettivo, ma solo fornito a Biden e ai Democratici una scusa per demonizzare ulteriormente il “trumpismo” e tutti gli oppositori del globalismo, identificando qualsiasi conservatore come “estremismo”.

Seguì un’ondata di arresti e i più coerenti “Nuovi Democratici” ha suggerito che tutti i diritti sociali, inclusa la possibilità di acquistare i biglietti aerei, dovrebbero essere tolti ai sostenitori di Trump.

Poiché i social media sono regolarmente monitorati dai sostenitori dell’élite liberale, la raccolta di informazioni su quasi tutti i cittadini statunitensi e le loro preferenze politiche non ha posto problemi.

Quindi l’arrivo di Biden alla Casa Bianca significa che il liberalismo ha assunto tratti francamente totalitari.

D’ora in poi, il trumpismo, il populismo, la difesa dei valori della famiglia e qualsiasi accenno di conservatorismo o disaccordo con i principi del liberalismo globalista negli Stati Uniti saranno quasi equivalenti a un crimine:

 incitamento all’odio e “fascismo”.

Tuttavia, il trumpismo non è scomparso con la vittoria di Biden.

In un modo o nell’altro, ha ancora coloro che hanno votato per Donald Trump nelle ultime elezioni – e sono più di 70.000.000 di elettori.

Quindi è chiaro che il “trumpismo” non finirà affatto con Trump.

Metà della popolazione statunitense si è effettivamente trovata in una posizione di opposizione radicale, e i trumpisti più coerenti rappresentano il fulcro del clandestino anti-globalizzazione all’interno della stessa cittadella del globalismo.

Qualcosa di simile sta accadendo nei paesi europei, dove i movimenti e i partiti populisti sono sempre più consapevoli di essere dissidenti privati ​​di ogni diritto e soggetti a persecuzioni ideologiche sotto un’apparente dittatura globalista.

Non importa quanto i globalisti che hanno ripreso il potere negli Stati Uniti vogliano presentare i quattro anni precedenti come uno “sfortunato malinteso” e dichiarare la loro vittoria come il definitivo “ritorno alla normalità”, il quadro oggettivo è lontano dagli incantesimi calmanti della classe superiore globalista.

Non solo paesi con una diversa identità di civiltà si stanno mobilitando contro di essa e contro la sua ideologia, ma questa volta anche metà della propria popolazione, arrivando gradualmente a rendersi conto della gravità della sua situazione e cominciando a cercare un’alternativa ideologica.

Queste sono le condizioni in cui Biden è arrivato alla guida degli Stati Uniti.

 Lo stesso suolo americano brucia sotto i piedi dei globalisti.

E questo conferisce alla situazione della “battaglia finale” una dimensione aggiuntiva speciale.

Questo non è l’Occidente contro l’Oriente, non gli Stati Uniti e la NATO contro tutti gli altri, ma i liberali contro l’umanità – compreso quel segmento di umanità che si trova sul territorio dell’Occidente stesso, ma che si sta allontanando sempre più dalle proprie élite globaliste.

Questo è ciò che definisce le condizioni di partenza di questa battaglia.

Individuum e dividuum.

Un altro punto essenziale deve essere chiarito.

Abbiamo visto che l’intera storia del liberalismo è la successiva liberazione dell’individuo da ogni forma di identità collettiva.

L’accordo finale nel processo di questa attuazione logicamente perfetta del nominalismo sarà il passaggio al post umanesimo e la probabile sostituzione dell’umanità con un’altra civiltà, questa volta postumana, della macchina.

Questo è ciò a cui conduce l’individualismo coerente, inteso come qualcosa di assoluto.

Ma qui la filosofia liberale arriva a un paradosso fondamentale.

La liberazione dell’individuo dalla propria identità umana, alla quale la politica di genere lo prepara trasformando consapevolmente e deliberatamente l’essere umano in un mostro perverso, non può garantire che questo nuovo – progressista! – essere rimarrà un individuo.

Inoltre, lo sviluppo delle tecnologie informatiche in rete, dell’ingegneria genetica e della stessa ontologia orientata agli oggetti, che rappresenta il culmine del postmodernismo, indicano chiaramente il fatto che il “nuovo essere” non sarà tanto un “animale” quanto una “macchina “.

È con questo in mente che gli orizzonti dell'”immortalità” rischiano di essere offerti nella forma della conservazione artificiale dei ricordi personali (che sono abbastanza facili da simulare).

Così, l’individuo del futuro, come compimento dell’intero programma del liberalismo, non potrà garantire proprio quello che è stato l’obiettivo principale del progresso liberale, cioè la sua individualità.

 L’essere liberale del futuro, anche in teoria, non è un individuum, qualcosa di “indivisibile”, ma piuttosto un “dividuum”, cioè qualcosa di divisibile e fatto di parti sostituibili.

Tale è la macchina: è composta da una combinazione di parti.

Nella fisica teorica, c’è stata a lungo una transizione dalla teoria degli “atomi” (cioè delle “unità indivisibili della materia”) alla teoria delle particelle, che sono pensate non come “parti di qualcosa di intero” ma come “parti senza un totale.”

L’individuo nel suo insieme si decompone anche in parti componenti, che possono essere rimontate, ma anche non assemblate, utilizzate invece come ricostruttore.

Da qui le figure di mutanti, chimere e mostri che abbondano nella narrativa moderna, popolando le più immaginate (e quindi, in un certo senso, anticipate e persino pianificate) versioni del futuro.

I postmodernisti e i realisti speculativi hanno già preparato il terreno proponendo di sostituire il corpo umano come qualcosa di intero con l’idea di un “parlamento di organi” (B. Latour).

In questo modo l’individuo – anche come unità biologica – diventerebbe qualcos’altro, mutando proprio nel momento in cui raggiunge la sua incarnazione assoluta.

Il progresso umano nell’interpretazione liberale finisce inevitabilmente con l’abolizione dell’umanità.

Questo è ciò che sospettano, anche se molto vagamente, tutti coloro che si battono contro il globalismo e il liberalismo.

 Sebbene i QAnon e le loro teorie cospirative anti-liberali distorcano la realtà solo fornendo tratti sospetti e grotteschi che i liberali possono facilmente confutare, la realtà, se descritta in modo sobrio e oggettivo, è molto più spaventosa delle sue più allarmanti e mostruose premonizioni.

“The Great Reset” è davvero un piano per l’eliminazione dell’umanità.

Perché proprio a questa conclusione conduce logicamente la linea del «progresso» liberamente inteso: l’aspirazione a liberare l’individuo da ogni forma di identità collettiva non può non sfociare nella liberazione dell’individuo da sé stesso.

Parte 4. Il grande risveglio.

Il grande risveglio: un urlo nella notte.

Ci stiamo avvicinando a una tesi che rappresenta l’esatto opposto del “Grande Reset”: la tesi del “Grande Risveglio”.

Questo slogan è stato lanciato per la prima volta dagli antiglobalisti americani, come il conduttore del canale televisivo alternativo Infowars, Alex Jones, che è stato sottoposto alla censura globalista e al de-platforming dai social network nella prima fase della presidenza Trump, e gli attivisti QAnon.

È importante che ciò avvenga negli Stati Uniti, dove è imperversata l’amarezza tra le élite globaliste e i populisti che hanno avuto un proprio presidente, anche se per soli quattro anni e irrigiditi dagli ostacoli amministrativi e dai limiti dei propri orizzonti ideologici.

Liberati da un serio bagaglio ideologico e filosofico, gli antiglobalisti hanno saputo cogliere l’essenza dei processi più importanti in atto nel mondo moderno.

 Il globalismo, il liberalismo e il Grande Reset, come espressioni della determinazione delle élite liberali a portare a termine i loro piani, con ogni mezzo – compresa la dittatura totale, la repressione su larga scala e le campagne di totale disinformazione – hanno incontrato una resistenza crescente e sempre più consapevole.

Alex Jones conclude i suoi programmi con lo stesso grido di battaglia: “Sei la Resistenza!”.

In questo caso, lo stesso Alex Jones o gli attivisti di QAnon non hanno visioni del mondo rigorosamente definite.

In questo senso, sono rappresentanti delle masse, gli stessi “deplorevoli” che furono così dolorosamente umiliati da Hillary Clinton.

 Quello che ora si sta risvegliando non è un campo di oppositori ideologici del liberalismo, nemici del capitalismo o oppositori ideologici della democrazia.

Non sono nemmeno conservatori.

Sono solo persone, persone in quanto tali, le più ordinarie e semplici.

Ma… persone che vogliono essere e rimanere umane, avere e mantenere la loro libertà, genere, cultura e vita, legami concreti con la loro Patria, con il mondo che li circonda, con le persone.

Il Grande Risveglio non riguarda le élite e gli intellettuali, ma le persone, le masse, le persone in quanto tali.

E il Risveglio in questione non riguarda l’analisi ideologica.

 È una reazione spontanea delle masse, poco competenti in filosofia, che hanno improvvisamente capito, come bestiame davanti al macello, che il loro destino è già stato deciso dai loro governanti e che non c’è più spazio per le persone in futuro.

Il Grande Risveglio è spontaneo, in gran parte inconscio, intuitivo e cieco.

Non è affatto uno sbocco per la consapevolezza, per la conclusione, per un’analisi storica approfondita.

Come abbiamo visto nel filmato del Campidoglio, gli attivisti pro-Trump e i sostenitori QAnon sembrano personaggi dei fumetti o supereroi Marvel.

La cospirazione è una malattia infantile dell’anti-globalizzazione.

Ma, d’altra parte, è l’inizio di un processo storico fondamentale.

Nasce così il polo di opposizione al corso stesso della storia nella sua accezione liberale.

Questo è il motivo per cui la tesi del Grande Risveglio non dovrebbe essere frettolosamente caricata di dettagli ideologici, siano essi il conservatorismo fondamentale (compreso il conservatorismo religioso), il tradizionalismo, la critica marxista del capitale o la protesta anarchica per il bene della protesta.

Il Grande Risveglio è qualcosa di più organico, più spontaneo e allo stesso tempo tettonico.

È così che l’umanità viene improvvisamente illuminata dalla consapevolezza della vicinanza della sua fine imminente.

Ed è per questo che il Grande Risveglio è così grave.

Ed è per questo che viene dall’interno degli Stati Uniti, quella civiltà in cui il crepuscolo del liberalismo è più fitto.

È un grido dal centro stesso dell’inferno, da quella zona dove il futuro nero è già in parte arrivato.

Il Grande Risveglio è la risposta spontanea delle masse umane al Grande Reset.

Certo, si può essere scettici.

Le élite liberali, soprattutto oggi, controllano tutti i principali processi di civiltà.

Controllano le finanze del mondo e possono farci qualsiasi cosa, dall’emissione illimitata a qualsiasi manipolazione di strumenti e strutture finanziarie.

Nelle loro mani c’è l’intera macchina militare statunitense e la gestione degli alleati della NATO.

Biden promette di rafforzare l’influenza di Washington in questa struttura, che si è quasi disintegrata negli ultimi anni.

Quasi tutti i giganti dell’High Tech sono subordinati ai liberali: computer, iPhone, server, telefoni e social network sono strettamente controllati da alcuni monopolisti che sono membri del club globalista.

Ciò significa che i Big Data, cioè l’intero corpo di informazioni su praticamente l’intera popolazione della Terra, hanno un proprietario e un padrone.

Tecnologia, centri scientifici, istruzione globale, cultura, media, medicina e servizi sociali sono completamente nelle loro mani.

I liberali nei governi e nei circoli di potere sono i componenti organici di queste reti planetarie che hanno tutte la stessa sede.

I servizi di intelligence dei paesi occidentali ei loro agenti in altri regimi lavorano per i globalisti, reclutati o corrotti, costretti a collaborare o come volontari.

Viene da chiedersi: come possono in questa situazione ribellarsi al globalismo i sostenitori del “Grande Risveglio”?

In che modo, senza avere risorse, possono affrontare efficacemente l’élite globale?

Quali armi usare? Quale strategia seguire?

 E, inoltre, su quale ideologia affidarsi? – perché liberali e globalisti in tutto il mondo sono uniti e hanno un’idea comune, un obiettivo comune e una linea comune, mentre i loro oppositori sono disparati non solo in società diverse, ma anche all’interno della stessa cosa.

Naturalmente, queste contraddizioni nelle file dell’opposizione sono ulteriormente esacerbate dalle élite dominanti, che sono abituate a dividere per dominare.

 I musulmani sono contrapposti ai cristiani, la sinistra contro la destra, gli europei contro i russi o i cinesi, ecc.

Ma il Grande Risveglio sta accadendo non a causa di, ma nonostante tutto questo.

L’umanità stessa, l’uomo come eidos, l’uomo come comune, l’uomo come identità collettiva, e in tutte le sue forme insieme, organica e artificiale, storica e innovativa, orientale e occidentale, si ribella ai liberali.

Il Grande Risveglio è solo l’inizio.

Non è nemmeno cominciato.

Ma il fatto che abbia un nome, e che questo nome sia apparso proprio nell’epicentro delle trasformazioni ideologiche e storiche, negli Stati Uniti, sullo sfondo della drammatica sconfitta di Trump, della disperata acquisizione del Campidoglio e della crescente ondata di repressione liberale, poiché i globalisti non nascondono più la natura totalitaria sia della loro teoria che della loro pratica, è di grande (forse cruciale) importanza.

Il Grande Risveglio contro il “Grande Reset” è la rivolta dell’umanità contro le élite liberali al potere. Inoltre, è la ribellione dell’Uomo contro il suo nemico secolare, il nemico della stessa razza umana.

Se c’è chi proclama il “Grande Risveglio”, per quanto ingenue possano sembrare le sue formule, questo già significa che non tutto è perduto, che nelle masse sta maturando un nocciolo di Resistenza, che cominciano a mobilitarsi.

Da questo momento inizia la storia di una rivolta mondiale, una rivolta contro il Grande Risveglio e i suoi adepti.

Il Grande Risveglio è un lampo di coscienza alla soglia della Singolarità.

È l’ultima opportunità per prendere una decisione alternativa sul contenuto e sulla direzione del futuro.

La completa sostituzione degli esseri umani con nuove entità, nuove divinità, non può essere imposta semplicemente con la forza dall’alto.

Le élite devono sedurre l’umanità, ottenerne – anche se vagamente – un certo consenso.

 Il Grande Risveglio richiede un deciso “No”!

Questa non è ancora la fine della guerra, nemmeno la guerra stessa.

 Inoltre, non è ancora iniziata.

Ma è la possibilità di un tale inizio. Un nuovo inizio nella storia dell’uomo.

Naturalmente, il Grande Risveglio è completamente impreparato.

Come abbiamo visto, negli stessi Stati Uniti gli oppositori del liberalismo, sia Trump che i trumpisti, sono pronti a rifiutare l’ultima fase della democrazia liberale, ma non pensano nemmeno a una vera e propria critica al capitalismo.

Difendono ieri e oggi contro un domani incombente e sinistro.

Ma mancano di un vero e proprio orizzonte ideologico.

Stanno cercando di salvare la fase precedente della stessa democrazia liberale, lo stesso capitalismo, dalle sue fasi tardive e più avanzate.

E questo di per sé contiene una contraddizione.

Anche la sinistra contemporanea ha dei limiti nella sua critica al capitalismo, sia perché condivide una concezione materialistica della storia (Marx era d’accordo sulla necessità del capitalismo mondiale, che sperava sarebbe poi stato superato dal proletariato mondiale) sia perché i movimenti socialisti e comunisti sono stati recentemente rilevati dai liberali e riorientati dal condurre una guerra di classe contro il capitalismo alla protezione dei migranti, delle minoranze sessuali e alla lotta contro i “fascisti” immaginari.

La destra, invece, è confinata ai suoi stati-nazione e alle sue culture, non vedendo che i popoli di altre civiltà si trovano nella stessa situazione disperata.

Le nazioni borghesi emerse agli albori dell’età moderna rappresentano un vestigio della civiltà borghese.

Questa civiltà oggi sta distruggendo e abolendo ciò che essa stessa ha creato proprio ieri, usando nel frattempo tutti i limiti dell’identità nazionale per impedire all’umanità in uno stato frammentato e conflittuale di confrontarsi con i globalisti.

Quindi c’è il Grande Risveglio, ma non ha ancora una base ideologica.

 Se è veramente storico, e non un fenomeno effimero e puramente periferico, allora ha semplicemente bisogno di un fondamento, che vada al di là delle ideologie politiche esistenti emerse in epoca moderna nello stesso Occidente.

Rivolgersi a qualcuno di loro significherebbe automaticamente che ci troviamo nella prigionia ideologica della formazione del capitale.

Quindi, nel cercare una piattaforma per il Grande Risveglio che è scoppiato negli Stati Uniti, per l’ispirazione dobbiamo guardare oltre la società americana e la storia americana piuttosto breve e guardare ad altre civiltà, soprattutto alle ideologie non liberali della stessa Europa.

Ma anche questo non basta, perché insieme alla decostruzione del liberalismo, dobbiamo trovare appoggio nelle diverse civiltà dell’umanità, lungi dall’essere stremate dall’Occidente da dove origina e proviene la principale minaccia – a Davos, in Svizzera! – proclamata il “Grande Reset”.

L’Internazionale delle Nazioni contro l’Internazionale delle élite.

“The Great Reset” vuole rendere il mondo nuovamente unipolare per muoversi verso una non polarità globalista, dove le élite diventeranno pienamente internazionali e la loro residenza sarà dispersa in tutto lo spazio del pianeta.

Questo è il motivo per cui il globalismo determina la fine degli Stati Uniti come paese, stato, società.

Questo è ciò che i Trumpisti e i sostenitori del Grande Risveglio percepiscono, a volte intuitivamente.

Biden è una sentenza emessa sugli Stati Uniti.

E dagli Stati Uniti a tutti gli altri.

Di conseguenza, per la salvezza delle persone, dei popoli e delle società, il Grande Risveglio deve iniziare con la multipolarità.

Questa non è solo la salvezza dell’Occidente stesso, e nemmeno la salvezza di tutti gli altri dall’Occidente, ma la salvezza dell’umanità, sia occidentale che non occidentale, dalla dittatura totalitaria delle élite capitaliste liberali.

E questo non può essere fatto solo dal popolo dell’Occidente o dal popolo dell’Oriente.

Qui è necessario agire insieme.

Il Grande Risveglio richiede un’internazionalizzazione della lotta dei popoli contro l’internazionalizzazione delle élite.

La multipolarità diventa il punto di riferimento più importante e la chiave della strategia del Grande Risveglio.

Solo facendo appello a tutte le nazioni, culture e civiltà dell’umanità siamo in grado di raccogliere forze sufficienti per contrastare efficacemente il “Grande Reset” e l’orientamento verso la Singolarità.

Ma in questo caso l’intero quadro dell’inevitabile confronto finale si rivela molto meno disperato.

Se diamo uno sguardo a tutto ciò che potrebbe diventare i poli del Grande Risveglio, la situazione si presenta sotto una luce un po’ diversa.

 L’Internazionale dei Popoli, una volta che si comincia a pensare in queste categorie, non si rivela né un’utopia né un’astrazione.

Inoltre, possiamo già facilmente vedere un enorme potenziale e come questo possa essere sfruttato nella lotta contro il “Grande Reset”.

Elenchiamo brevemente le riserve su cui il Grande Risveglio può contare su scala mondiale.

La guerra civile americana: la scelta del nostro campo.

Negli Stati Uniti, abbiamo un punto d’appoggio nel trumpismo.

Sebbene lo stesso Trump abbia perso, ciò non significa che lui stesso si sia lavato le mani, si sia rassegnato a una vittoria rubata e che i suoi sostenitori – 70.000.000 di americani – si siano sistemati e abbiano accettato la dittatura liberale come un dato di fatto.

Non lo hanno fatto.

 D’ora in poi, c’è un potente clandestino anti-globalista negli stessi Stati Uniti, in gran numero (metà della popolazione!), amareggiato e spinto a disprezzare il totalitarismo liberale.

La distopia del 1984 di Orwell non era incarnata in un regime comunista o fascista, ma ora è in un regime liberale.

Ma l’esperienza sia del comunismo sovietico che della Germania nazista mostra che la resistenza è sempre possibile.

Oggi, gli Stati Uniti sono essenzialmente in uno stato di guerra civile.

 I liberali-bolscevichi hanno preso il potere e i loro oppositori sono stati messi all’opposizione e sono sul punto di diventare illegali.

Un’opposizione di 70.000.000 di persone è seria.

 Naturalmente, sono dispersi e potrebbero essere allo sbando dalle incursioni punitive dei Democratici e dalla nuova tecnologia totalitaria della Big Tech.

Ma è troppo presto per cancellare il popolo americano.

Chiaramente, hanno ancora un certo margine di forza e metà della popolazione statunitense è pronta a difendere la propria libertà individuale ad ogni costo.

 E oggi la domanda è proprio questa: Biden o libertà.

Naturalmente, i liberali cercheranno di abolire il Secondo Emendamento e di disarmare la popolazione, che sta diventando sempre meno fedele all’élite globalista.

È probabile che i Democratici cercheranno di uccidere lo stesso sistema bipartitico introducendo un regime essenzialmente monopartitico, proprio nello spirito dell’attuale stato della loro ideologia.

Questo è liberal-bolscevismo.

Ma le guerre civili non hanno mai conclusioni scontate.

La storia è aperta e la vittoria per entrambe le parti è sempre possibile.

Soprattutto se l’umanità si rende conto di quanto sia importante l’opposizione americana per la vittoria universale sul globalismo.

 Non importa come ci sentiamo nei confronti degli Stati Uniti, di Trump e dei Trumpisti, tutti noi dobbiamo semplicemente sostenere il polo americano del Grande Risveglio.

Salvare l’America dai globalisti, e quindi contribuire a renderla di nuovo grande, è il nostro compito comune.

Populismo europeo: superare destra e sinistra.

L’ondata di populismo antiliberale non si placa nemmeno in Europa.

 Sebbene il globalista Macron sia riuscito a contenere le violente proteste dei “Gilet Gialli” e i liberali italiani e tedeschi abbiano isolato e impedito ai partiti di destra e ai loro leader di salire al potere, questi processi sono inarrestabili.

 Il populismo esprime lo stesso Grande Risveglio, ma solo su suolo europeo e con specificità europea.

Per questo polo di resistenza è estremamente importante una nuova riflessione ideologica.

 Le società europee sono ideologicamente molto più attive di quelle americane, e quindi le tradizioni della politica di destra e di sinistra – e le loro contraddizioni intrinseche – sono molto più sentite.

Sono proprio queste contraddizioni che le élite liberali stanno sfruttando per mantenere la loro posizione nell’Unione europea.

Il fatto è che l’odio per i liberali in Europa cresce contemporaneamente da due parti:

la sinistra li vede come rappresentanti del grande capitale, sfruttatori che hanno perso ogni decenza, e la destra li vede come provocatori di migrazioni di massa artificiali, distruttori delle ultime vestigia dei valori tradizionali, distruttori della cultura europea e becchini della classe media.

Allo stesso tempo, per la maggior parte, i populisti sia di destra che di sinistra hanno messo da parte le ideologie tradizionali che non soddisfano più le esigenze storiche ed esprimono le loro opinioni in forme nuove, talvolta contraddittorie e frammentarie.

Il rifiuto delle ideologie del comunismo ortodosso e del nazionalismo è generalmente positivo; dà ai populisti una base nuova, molto più ampia.

Ma è anche la loro debolezza.

Tuttavia, la cosa più fatale del populismo europeo non è tanto la sua deideologizzazione quanto la persistenza del profondo e reciproco rifiuto tra sinistra e destra che persiste dalle epoche storiche precedenti.

L’emergere di un polo europeo del Grande Risveglio deve comportare la risoluzione di questi due compiti ideologici:

il definitivo superamento del confine tra sinistra e destra (cioè il rifiuto obbligato dell'”antifascismo” artificioso di alcuni e di “anticomunismo” inventato da altri) e l’elevazione del populismo in quanto tale – populismo integrale – a modello ideologico indipendente.

Il suo significato e il suo messaggio dovrebbero essere una critica radicale del liberalismo e del suo stadio più alto, il globalismo, combinando allo stesso tempo la richiesta di giustizia sociale e la conservazione dell’identità culturale tradizionale.

In questo caso, il populismo europeo, prima di tutto, acquisirà una massa critica che è fatalmente carente poiché i populisti di destra e di sinistra sprecano tempo e fatica per regolare i conti tra loro e, in secondo luogo, diventerà un elemento di primaria importanza nel polo del Grande Risveglio.

La Cina e la sua identità collettiva.

Gli oppositori del Great Reset hanno un altro argomento significativo: la Cina contemporanea.

Sì, la Cina ha sfruttato le opportunità offerte dalla globalizzazione per rafforzare l’economia della sua società.

Ma la Cina non ha accettato lo spirito stesso del globalismo, il liberalismo, l’individualismo e il nominalismo dell’ideologia globalista.

La Cina ha preso dall’Occidente solo ciò che l’ha resa più forte, ma ha rifiutato ciò che la renderebbe più debole.

Questo è un gioco pericoloso, ma finora la Cina lo ha affrontato con successo.

In effetti, la Cina è una società tradizionale con migliaia di anni di storia e un’identità stabile.

 E intende chiaramente rimanere tale in futuro.

Ciò è particolarmente chiaro nelle politiche dell’attuale leader cinese, Xi Jinping.

È pronto a scendere a compromessi tattici con l’Occidente, ma è determinato nel garantire che la sovranità e l’indipendenza della Cina crescano e si rafforzino.

Che i globalisti e Biden agissero in solidarietà con la Cina è un mito.

 Sì, Trump ci ha fatto affidamento e lo ha detto Bannon, ma questo è il risultato di un orizzonte geopolitico ristretto e di una profonda incomprensione dell’essenza della civiltà cinese.

La Cina seguirà la sua linea e rafforzerà le strutture multipolari.

La Cina, infatti, è il polo più importante del Grande Risveglio, un punto che diverrà chiaro se si prende come punto di partenza la necessità di un’internazionalizzazione dei popoli.

La Cina è un popolo con una distinta identità collettiva.

L’individualismo cinese non esiste affatto e, se esiste, è un’anomalia culturale.

La civiltà cinese è il trionfo del clan, del popolo, dell’ordine e della struttura su tutta l’individualità.

Naturalmente, il Grande Risveglio non deve diventare cinese.

 Non dovrebbe essere affatto uniforme: ogni nazione, ogni cultura, ogni civiltà ha il proprio spirito e il proprio eidos.

L’umanità è diversa.

E la sua unità può essere avvertita più acutamente solo quando si trova di fronte a una seria minaccia che incombe su tutti loro.

E questo è esattamente ciò che è il Great Reset.

Islam contro la globalizzazione.

Un altro argomento del Grande Risveglio riguarda i popoli della civiltà islamica.

Che il globalismo liberale e l’egemonia occidentale siano radicalmente rifiutati dalla cultura islamica e dalla stessa religione islamica su cui tale cultura si basa è ovvio.

Certo, durante il periodo coloniale e sotto il potere e l’influenza economica dell’Occidente, alcuni stati islamici si sono trovati nell’orbita del capitalismo, ma praticamente in tutti i paesi islamici c’è un rifiuto sostenuto e profondo del liberalismo e soprattutto del moderno liberalismo globalista.

Questo si manifesta sia in forme estreme – il fondamentalismo islamico – sia in forme moderate. In alcuni casi, singoli movimenti religiosi o politici diventano portatori dell’iniziativa antiliberale, mentre in altri casi lo Stato stesso assume questa missione.

 In ogni caso, le società islamiche sono ideologicamente preparate all’opposizione sistemica e attiva alla globalizzazione liberale.

I progetti di The Great Reset non contengono nulla, nemmeno in teoria, che possa piacere ai musulmani.

Ecco perché l’intero mondo islamico nel suo insieme rappresenta un grande polo del Grande Risveglio.

Tra i paesi islamici, l’Iran sciita e la Turchia sunnita sono i più contrari alla strategia globalista.

Inoltre, se la principale motivazione dell’Iran è l’idea religiosa dell’avvicinarsi della fine del mondo e dell’ultima battaglia, dove il principale nemico – Dajjal – è chiaramente riconosciuto come Occidente, liberalismo e globalismo, allora la Turchia è guidata più da considerazioni pragmatiche, dal desiderio di rafforzare e preservare la propria sovranità nazionale e garantire l’influenza turca in Medio Oriente e nel Mediterraneo orientale.

La politica di Erdogan di allontanarsi gradualmente dalla NATO combina la tradizione nazionale di Kemal Ataturk con il desiderio di ricoprire il ruolo di leader dei musulmani sunniti, ma entrambi sono realizzabili solo in opposizione alla globalizzazione liberale, che prevede la completa secolarizzazione delle società. l’indebolimento (e, al limite, l’abolizione) degli stati-nazione, e nel frattempo la concessione dell’autonomia politica alle minoranze etniche, mossa che sarebbe devastante per la Turchia a causa del grande e piuttosto attivo fattore curdo.

Il Pakistan sunnita, che rappresenta un’altra forma di combinazione di politica nazionale e islamica, si sta gradualmente allontanando sempre più dagli Stati Uniti e dall’Occidente.

Sebbene i paesi del Golfo siano più dipendenti dall’Occidente, uno sguardo più da vicino all’Islam arabo, e ancor di più l’Egitto, che è un altro stato importante e indipendente nel mondo islamico, rivela sistemi sociali che non hanno nulla a che fare con l’agenda globalista e sono naturalmente predisposto a schierarsi con il Grande Risveglio.

Questo è ostacolato solo dalle contraddizioni tra gli stessi musulmani, abilmente aggravate dall’Occidente e dai centri di controllo globalisti, non solo tra sciiti e sunniti ma anche dai conflitti regionali tra i singoli stati sunniti stessi.

Il contesto del Grande Risveglio potrebbe diventare una piattaforma ideologica anche per l’unificazione del mondo islamico nel suo insieme, poiché l’opposizione al “Grande Reset” è un imperativo incondizionato per quasi tutti i paesi islamici.

Questo è ciò che permette di prendere come comune denominatore la strategia e l’opposizione dei globalisti.

La consapevolezza della portata del Grande Risveglio permetterebbe, entro certi limiti, di annullare l’acutezza delle contraddizioni locali per contribuire alla formazione di un altro polo di resistenza globale.

La missione della Russia: essere in prima linea nel Grande Risveglio.

Infine, il polo più importante del Grande Risveglio è destinato alla Russia.

Nonostante la Russia sia stata in parte coinvolta nella civiltà occidentale, attraverso la cultura illuminista durante il periodo zarista, sotto i bolscevichi, e soprattutto dopo il 1991, in ogni fase – nell’antichità come nel presente – la profonda identità della società russa è profondamente diffidente nei confronti dell’Occidente, in particolare del liberalismo e della globalizzazione.

Il nominalismo è profondamente estraneo al popolo russo nelle sue stesse fondamenta.

L’identità russa ha sempre dato priorità al comune – il clan, il popolo, la chiesa, la tradizione, la nazione e il potere, e persino il comunismo rappresentava – anche se artificiale, in termini di classe – un’identità collettiva contraria all’individualismo borghese.

 I russi hanno ostinatamente rifiutato e continuano a rifiutare il nominalismo in tutte le sue forme.

E questa è una piattaforma comune sia per il periodo monarchico che per quello sovietico.

Dopo il tentativo fallito di integrarsi nella comunità globale negli anni ’90, grazie al fallimento delle riforme liberali, la società russa è diventata ancora più convinta della misura in cui il globalismo e gli atteggiamenti e principi individualisti sono estranei ai russi.

 Questo è ciò che determina il sostegno generale al corso conservatore e sovrano di Putin.

 I russi rifiutano il “Grande Reset” sia da destra che da sinistra – e questo, insieme alle tradizioni storiche, all’identità collettiva e alla percezione della sovranità e della libertà dello Stato come il valore più alto, non è momentaneo, ma a lungo termine, caratteristica fondamentale della civiltà russa.

Il rifiuto del liberalismo e della globalizzazione è diventato particolarmente acuto negli ultimi anni, poiché il liberalismo stesso ha rivelato le sue caratteristiche profondamente ripugnanti alla coscienza russa.

Ciò giustificava una certa simpatia tra i russi per Trump e un parallelo profondo disgusto per i suoi oppositori liberali.

Da parte di Biden, l’atteggiamento nei confronti della Russia è abbastanza simmetrico.

 Lui e le élite globaliste in generale vedono la Russia come il principale avversario della civiltà, rifiutandosi ostinatamente di accettare il vettore del progressismo liberale e difendendo ferocemente la sua sovranità politica e la sua identità.

Naturalmente, anche la Russia di oggi non ha un’ideologia completa e coerente che potrebbe porre una seria sfida al Grande Reset.

 Inoltre, le élite liberali radicate ai vertici della società sono ancora forti e influenti in Russia, e le idee, le teorie e i metodi liberali dominano ancora l’economia, l’istruzione, la cultura e la scienza.

Tutto ciò indebolisce il potenziale della Russia, disorienta la società e pone le basi per crescenti contraddizioni interne.

Ma, nel complesso, la Russia è la più importante, se non la principale! – polo del Grande Risveglio.

Questo è esattamente ciò a cui tutta la storia russa ha portato, esprimendo una convinzione interiore che i russi stanno affrontando qualcosa di grande e decisivo nella drammatica situazione della Fine dei Tempi, la fine della storia.

 Ma è proprio questo fine, nella sua versione peggiore, che implica il progetto Great Reset.

 La vittoria del globalismo, del nominalismo e dell’avvento della Singolarità significherebbe il fallimento della missione storica russa, non solo nel futuro ma anche nel passato.

Dopotutto, il significato della storia russa è stato diretto proprio verso il futuro e il passato ne era solo una preparazione.

E in questo futuro che si avvicina, il ruolo della Russia non è solo quello di partecipare attivamente al Grande Risveglio, ma anche di esserne in prima linea, proclamando l’imperativo dell’Internazionale dei Popoli nella lotta al liberalismo, la peste del 21° secolo.

Il risveglio della Russia: una rinascita imperiale.

Cosa significa per la Russia in tali circostanze “svegliarsi”?

 Significa ripristinare completamente la scala storica, geopolitica e di civiltà della Russia, diventando un polo del nuovo mondo multipolare.

La Russia non è mai stata “solo un paese”, tanto meno “solo uno tra gli altri paesi europei”.

 Nonostante tutta l’unità delle nostre radici con l’Europa, che risalgono alla cultura greco-romana, la Russia in tutte le fasi della sua storia ha seguito un suo percorso particolare, che ha inciso anche sulla nostra scelta ferma e incrollabile dell’ortodossia e del bizantinismo in generale, che ha largamente determinato il nostro allontanamento dall’Europa occidentale, che ha scelto il cattolicesimo e poi il protestantesimo.

Nell’età moderna, questo stesso fattore di profonda sfiducia nei confronti dell’Occidente si è riflesso nel fatto che non siamo stati così colpiti dallo spirito stesso del Modernismo nel nominalismo, individualismo e liberalismo.

E anche quando abbiamo preso in prestito alcune dottrine e ideologie dall’Occidente, erano spesso critiche.

L’identità della Russia è stata anche fortemente influenzata dal vettore orientale – turaniano.

Come hanno dimostrato i filosofi eurasisti, incluso il grande storico russo Lev Gumilev, lo stato mongolo di Gengis Khan fu un’importante lezione per la Russia nell’organizzazione centralizzata di tipo imperiale, che in gran parte predeterminò la nostra ascesa come Grande Potenza dal XV secolo, quando l’Orda d’Oro crollò e la Russia moscovita prese il suo posto nello spazio dell’Eurasia nord-orientale.

Questa continuità con la geopolitica dell’Orda portò naturalmente alla potente espansione delle ere successive.

In ogni momento, la Russia ha difeso e affermato non solo i suoi interessi, ma anche i suoi valori.

Così, la Russia si è rivelata l’erede di due imperi che crollarono all’incirca nello stesso periodo, nel XV secolo: l’impero bizantino e quello mongolo.

L’impero è diventato il nostro destino.

Anche nel XX secolo, con tutto il radicalismo delle riforme bolsceviche, la Russia è rimasta un impero contro ogni previsione, questa volta sotto le spoglie dell’impero sovietico.

Ciò significa che la nostra rinascita è inconcepibile senza il ritorno alla missione imperiale fissata nel nostro destino storico.

Questa missione è diametralmente opposta al progetto globalista del “Great Reset”.

 E sarebbe naturale aspettarsi che nella loro corsa decisiva i globalisti faranno tutto ciò che è in loro potere per impedire una rinascita imperiale in Russia.

 Di conseguenza, abbiamo proprio bisogno di questo: un Rinascimento Imperiale.

Non per imporre la nostra verità russa e ortodossa agli altri popoli, culture e civiltà, ma per far rivivere, fortificare e difendere la nostra identità e aiutare gli altri nella propria rinascita, per fortificare e difendere la propria il più possibile.

La Russia non è l’unico obiettivo del “Grande Reset”, anche se per molti versi il nostro Paese è l’ostacolo principale all’esecuzione dei loro piani.

Ma questa è la nostra missione: essere il “Katechon”, “colui che trattiene”, impedendo l’arrivo dell’ultimo male nel mondo.

Tuttavia, agli occhi dei globalisti, anche altre civiltà, culture e società tradizionali devono essere oggetto di smantellamento, riformattazione e trasformazione in una massa cosmopolita globale indifferenziata e, nel prossimo futuro, essere sostituite da nuove forme di vita postumane, organismi, meccanismi o loro ibridi.

Pertanto, il risveglio imperiale della Russia è chiamato ad essere un segnale per una rivolta universale di popoli e culture contro le élite globaliste liberali.

Attraverso la rinascita come impero, come impero ortodosso, la Russia costituirà un esempio per altri imperi: cinese, turco, persiano, arabo, indiano, nonché latinoamericano, africano… e europeo.

Invece del dominio di un unico “Impero” globalista del Grande Reset, il risveglio russo dovrebbe essere l’inizio di un’era di molti imperi,

Verso la vittoria del Grande Risveglio.

Se sommiamo il trumpismo statunitense, il populismo europeo (di destra e di sinistra), la Cina, il mondo islamico e la Russia, e prevediamo che a un certo punto la grande civiltà indiana, l’America Latina e l’Africa, che sta entrando in un altro ciclo di decolonizzazione, e tutti i popoli e le culture dell’umanità in generale possono anche unirsi a questo campo, non abbiamo semplici marginali sparsi e confusi che cercano di opporsi alle potenti élite liberali che guidano l’umanità al massacro finale, ma un fronte a tutti gli effetti che include attori di varie scale, dalle grandi potenze con economie planetarie e armi nucleari a forze e movimenti politici, religiosi e sociali influenti e numerosi.

Il potere dei globalisti, dopotutto, si basa su insinuazioni e “miracoli neri”.

Governano non sulla base del potere reale, ma su illusioni, simulacri e immagini artificiali, che cercano maniacalmente di instillare nella mente dell’umanità.

Dopotutto, il Grande Reset è stato proclamato da una manciata di vecchi globalisti degenerati e ansimante sull’orlo della demenza (come lo stesso Biden, il raggrinzito cattivo Soros o il grasso borghese Schwab) e una marmaglia marginale e perversa selezionata per illustrare il fulmine -rapidi opportunità di carriera per tutti i deplorevoli.

Certo, hanno le borse e le macchine da stampa, i truffatori di Wall Street e gli inventori drogati della Silicon Valley che lavorano per loro.

Gli agenti dell’intelligence disciplinati e i generali dell’esercito obbedienti sono subordinati a loro.

Ma questo è trascurabile rispetto a tutta l’umanità, agli uomini di lavoro e di pensiero, al fondo delle istituzioni religiose e alla ricchezza fondamentale delle culture.

Il Grande Risveglio significa che abbiamo capito l’essenza di quella strategia fatale, sia assassina che suicida del “progresso” come la intendono le élite liberali globaliste.

E se lo capiamo, allora siamo in grado di spiegarlo agli altri.

I risvegliati possono e devono risvegliare tutti gli altri.

E se riusciremo in questo, non solo il “Grande Reset” fallirà, ma verrà emesso un giusto giudizio su coloro che si sono posti l’obiettivo di distruggere l’umanità, prima nello spirito e ora nel corpo.

 (Aleksandr Dugin, katehon.com) 

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