CONTROLLO TOTALE DEL MONDO.
CONTROLLO
TOTALE DEL MONDO.
“Libero”
e “Virgilio”: Server Fuori
Servizio
da Giorni. E se in Futuro
accadesse
al nostro Denaro Digitale?
ConoscenzealConfine.it
– (29 Gennaio 2023) - Giacomo Ferri – ci dice:
La
digitalizzazione è la chiave del controllo totale.
In
futuro, in un qualunque momento, per una causa qualsiasi, ti potresti trovare
ad essere povero perché non hai fatto una punturina obbligatoria o perché sei
in ritardo col pagamento delle tasse o perché hai manifestato contro lo Stato.
Tra la
notte di domenica 22 e lunedì 23 i server di Libero e Virgilio sono andati giù.
Pertanto, da quel momento nessuno può accedere al proprio indirizzo email, sia
esso privato che della propria azienda e all’interno ci sono sia coloro che
usufruiscono gratuitamente del servizio e anche quelli che, per motivi di
spazio, pagano per avere una casella di posta più spaziosa o con servizi aggiuntivi;
milioni
di utenti si trovano impossibilitati a leggere la posta arrivata o ad inviare
messaggi, costretti, in caso di urgenza, a farsi un indirizzo di posta
alternativo.
Non
conosciamo le motivazioni, “Italia Online”, la società che gestisce i server di
entrambi, ha tenuto a dire che non si tratta di un attacco hacker, ma di un
problema tecnico in via di risoluzione ma, qualsiasi sia la causa, l’effetto è
davvero imponente e, come ha fatto notare Marcello Pamio, sul suo canale
Telegram, contestualmente Google starà gioendo per la previsione che molti
utenti si riverseranno verso quello che è, ormai, il gestore più famoso.
Tanti
ne stanno parlando, dato che si stima le caselle di posta siano tra 9 e 11
milioni, quindi si è creato un vero e proprio disservizio nazionale, che fa
molto riflettere proprio per la direzione (chiamiamola deriva) che sta
prendendo la società attuale, perseguendo le varie “Agenda 2030”, “Vision 2030”
(per i paesi arabi) e “Vision 2035” per la Cina, da anni il WEF, e non solo, ci
illustra ed indica il cammino, ovvero: la digitalizzazione totale.
Non
sono un retrogrado o uno che ama remare contro il progresso scientifico e
tecnologico, ma di fronte a certe implementazioni e a causa del vissuto degli
ultimi anni, in particolare degli ultimi tre, non posso fare a meno di
domandarmi a cosa potremmo andare in contro se venissero attuate una serie di
proposte, o meglio, di obiettivi che tutti i governi stanno portando avanti.
Sono
partito proprio dallo spunto del suddetto Marcello Pamio, perché la sua domanda
(retorica) è anche la mia domanda e lo è da molto tempo:
se
dovessero digitalizzare interamente il denaro, cosa accadrebbe se vi fosse un
evento simile a quello che sta accadendo ora con delle “semplici” caselle di
posta?
Se il
blocco della moneta digitale fosse a causa di un attacco hacker o se,
perseguendo l’idea del controllo di massa e del credito sociale, dall’alto
decidessero che certe persone non potessero più utilizzare il proprio denaro o
ne limitassero la quantità utilizzabile secondo il proprio volere, cosa
faremmo?
Questa
situazione ci dovrebbe allertare e non dovremmo vedere la cosa come un disagio
o poco più che un problema tecnico, ma come un precedente importante, un
avvertimento nato dal caso e che sussurra al nostro orecchio.
“Attento,
che in futuro, in un qualunque momento, per una causa qualsiasi, ti potresti
trovare ad essere povero perché non hai fatto una punturina obbligatoria o
perché sei in ritardo col pagamento delle tasse o perché hai manifestato contro
lo Stato”.
“Fantasie!”
staranno dicendo alcuni voi ma, ahimè… dovremmo aver imparato che quello che
pensavamo fosse irrealizzabile è diventato realtà e quello che ci sembrava
distopico è diventato democratico.
La
Cina, in primis (dal 2014) ci sta insegnando da anni cosa lo Stato può fare ai
propri cittadini (sudditi?) e, proprio attraverso il sistema del credito
sociale, sta sperimentando il controllo di massa;
insomma
prendendo ispirazione, con la tecnologia attuale, a quello che George Orwell,
in “1984”, chiamò “Big Brother”, il Dragone ha dato vita (o forse ha migliorato
quelli già esistenti in altri Paesi) al “Grande Fratello”.
Purtroppo
adesso, se si parla di Grande Fratello, alla gente viene solo in mente quel
format televisivo, di opinabile qualità, che vede un gruppo di personaggi
chiusi in una casa e spiati 24 ore al giorno.
Come
abbiamo avuto modo di vedere, attraverso alcuni servizi televisivi (il primo
reperibile della BBC del 2018 , fino ad arrivare al servizio televisivo della
RAI con la trasmissione “Petrolio” ), in alcune città sperimentali, grazie
all’implementazione di una copertura totale di telecamere col sistema di
riconoscimento facciale, collegate a dei server gestionali, lo Stato
attribuisce un punteggio base a tutti i cittadini, i quali, a seconda delle
azioni che compiono, subiscono un aumento o una diminuzione dei loro punti e,
sotto una certa soglia, la loro vita può essere limitata.
Una
limitazione vera e propria, tanto da non poter prendere un aereo per lasciare
il paese o essere denigrati a livello sociale e subire vere e proprie
umiliazioni pubbliche, come mostrare le foto dei volti, con nome e cognome, di
coloro che hanno il punteggio più basso;
se tutto ciò non bastasse, per guadagnare
punti, viene fomentato lo spionaggio tra vicini di casa e colleghi di lavoro:
per
aumentare il proprio credito sociale, non solo le persone devono cercare di
fare buone azioni e rispettare le leggi, ma possono acquisire punti extra
segnalando il comportamento scorretto dei propri concittadini, o coloro che
sono critici nei confronti dello Stato, un po’ come il ruolo degli “informatori
non ufficiali” reclutati dalla STASI per spiare…
alla
fine tutti spiavano tutti senza sapere di essere spiati.
La
digitalizzazione è la chiave del controllo totale e, ricordando la frase legata
proprio all’Agenda 2030 di Davos, ovvero:
“Nel 2030 non avrai nulla e sarai
felice”, dovremmo ormai aver chiaro in mente cosa ci riserva il futuro, perché
ce lo dicono apertamente, ce lo sbattono in faccia con i loro messaggi e spot;
non
potremo certo dire “non lo sapevo” o “non credevo si arrivasse a tanto”, perché
non saremmo credibili e, soprattutto, non saremmo intellettualmente onesti,
principalmente con noi stessi!
Quando
nel 2017 l’allora Ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, dichiarò di voler
rendere obbligatori 10 vaccini per l’infanzia e ne fece, poi, un decreto, dissi
“con questa legge si è creato un grave precedente” e, purtroppo mi sono reso
conto, alcuni anni dopo, che veramente quello era un primo passo per arrivare
alla direzione che abbiamo vissuto;
nonostante
quella legge fosse al centro di polemiche, già prima diventare decreto, molte
relative alla sua anticostituzionalità, la stessa è tutt’ora in vigore e i
giudici, specialmente da parte della Corte Costituzionale, non hanno fatto
altro che avvalorarla con la sentenza 2017, stessa cosa accaduta poco tempo fa
con la decisione, sempre della Corte Costituzionale, sui “vaccini”
anti-Covid19.
Tornando
all’argomento iniziale, è ovvio che un server caduto, un problema tecnico o un
attacco hacker, non debba allarmare più di tanto ma, come per me nel 2017,
questo potrebbe creare un grave precedente, ma un precedente che stavolta ci dà
in mano un’arma contro questo sistema, un grave precedente per i loro piani,
perché dovrebbe far riflettere coloro che sono assai felici di entrare in
un’era totalmente digitale, che un qualsiasi piccolo problema tecnico o un
blackout energetico prolungato, può causare più problemi in futuro di quanti ne
causi adesso.
Veicoli
che si guidano da soli, che perdono il controllo da soli;
soldi digitali che adesso ci sono e tra un
minuto non ci sono più o non sono più disponibili;
macchinari
che rilasciano farmaci nell’organismo che, non ricevendo più un segnale, non
rilasciano più i farmaci o ne rilasciano in continuazione;
banche
senza cassa, che senza collegamento internet non possono fornire il denaro
richiesto.
Gli
esempi possono essere tanti per creare il dubbio sulla direzione intrapresa, se
si pensa all’incidente, al malfunzionamento, al blackout, ma se pensiamo
soprattutto che possono decidere della nostra vita a loro discrezione, siamo
proprio certi di voler seguire quella strada?
A tal
proposito vi lascio citando il titolo di una commedia di Giuseppe Giacosa del
1870:
“Chi
lascia la via vecchia per la nuova, sa quel che lascia, e non sa quel che trova”.
(Giacomo
Ferri)
Male
liquido.
Laterza.it
- Zygmunt Bauman - Leonidas Donskis – (10-6-2020) – ci dicono :
Vivere
in un mondo senza alternative.
Esiste
una modalità specificamente liquido-moderna del male.
È
ancora più insidiosa e pericolosa delle sue precedenti manifestazioni storiche
perché il male oggi appare frammentato, polverizzato, disarticolato e disperso.
Il
male liquefatto si cela alla vista e, anziché essere riconosciuto per ciò che
è, riesce a passare inosservato.
In un
dialogo serrato con il filosofo Leonidas Donskis, Zygmunt Bauman affronta il
tema del male nella contemporaneità.
Perché
se da una parte è indubitabilmente un compagno permanente e inalienabile della
condizione umana, dall’altra sono inedite le forme e i modi in cui opera nella
sua odierna versione liquefatta.
Il
male liquido ha una stupefacente capacità di camuffarsi e reclutare al proprio
servizio ogni sorta di interesse e desiderio umano, profondamente umano.
Lo fa con motivazioni tanto pretestuose quanto
difficili da sfatare e confutare.
Il più delle volte il male liquefatto riesce
ad apparire non come un mostro, ma come un amico che non vede l’ora di dare una
mano.
Utilizza
come strategia di fondo la tentazione anziché la coercizione.
Ha
l’impressionante capacità, tipica dei liquidi, di scorrere attorno agli
ostacoli che si trovano sul suo cammino.
Come
ogni liquido, li impregna e li macera fino a eroderli per poi assimilarli nel
suo organismo in modo da nutrirlo e accrescerlo ulteriormente.
È questa sua capacità, accanto alla elusività,
a rendere così arduo lo sforzo di resistergli efficacemente.
Il
male liquido e il mondo senza alternative.
Leonidas
Donskis.
Viviamo
in un mondo senza alternative.
Un
mondo che propone una realtà unica e che etichetta come pazzo – o ben che vada
come eccentrico – chi crede che le alternative esistano sempre e che ciò valga
non solo per le strategie di business o per i progetti d’ingegneria, ma perfino
per i migliori modelli di governo o per le idee più profonde.
Mai
come oggi, probabilmente, il mondo è stato a tal punto sommerso dal fatalismo e
dal determinismo: è come se da una cornucopia inesauribile uscissero a getto
continuo, accanto a qualche analisi seria, profezie e previsioni di crisi, di
pericoli, di crolli e di fine del mondo.
In questo clima di paura e rassegnazione
diffusa, regna la convinzione che non esista alternativa alla logica politica
di oggi, alla tirannide dell’economia, agli atteggiamenti riguardo alla scienza
e alla tecnologia o al rapporto tra la natura e l’uomo.
D’altra
parte, l’ottimismo non è affatto sinonimo di stolida celebrazione del fatto di
essere qui, in questo luogo, in un contesto morbido, caldo e confortevole:
l’ottimismo nasce piuttosto dalla convinzione che il male sia transitorio e non
possa avere la meglio (se non per brevi periodi) sull’umanità.
Inoltre, l’ottimismo è certezza che la
speranza, le alternative, esistano sempre.
La
convinzione che il pessimista sia, in generale, una creatura più elevata e
nobile dell’ottimista non è semplicemente un residuo della sensibilità e
visione del mondo romantica: è qualcosa di molto più vasto.
Questa problematica risale addirittura al
grande conflitto tra cristianesimo e manicheismo, ad Agostino d’Ippona (che,
una volta messo a tacere il proprio manicheismo interiore, divenne uno dei
padri della chiesa cattolica).
Mentre
per i cristiani il male nasceva da una condizione di traviamento o d’insufficienza
del bene, ed era dunque uno stato di cose sanabile, per i manichei bene e male
erano realtà parallele e inconciliabili.
L’ottimismo
è essenzialmente un costrutto cristiano: si basa sulla fede che il bene possa
prevalere sul male e che sempre, in ogni situazione, esistano possibilità
inesplorate: alternative.
Eppure oggi viviamo in un’epoca di pessimismo.
Il
ventesimo secolo ha offerto prove eccellenti del fatto che il male è vivo e
vegeto, e ciò ha rafforzato le posizioni dei moderni manichei, posti di fronte
all’evidenza di un mondo che può essere temporaneamente abbandonato da Dio, ma
non certo da Satana.
Con
questo, però, non abbiamo ancora risposto alla domanda: qual è oggi il
significato del manicheismo?
La
perdita della fede nell’idea di un Dio onnipotente, e di un Dio che sia Amore,
è stata grandemente favorita dalle tante atrocità del ventesimo secolo.
L’immortale romanzo di Michail Bulgakov Il
maestro e Margherita, scritto tra il 1928 e il 1940 e pubblicato con molte
censure tra il 1966 e il 1967, è intriso di manicheismo e contiene molte
allusioni alla concezione del profeta persiano Mani, creatore eponimo di questo
sistema di credenze imperniato sul dualismo tra «luce» e «tenebre».
Alla
base di questo testo, che è il vero e proprio capolavoro della narrativa
novecentesca dell’Europa orientale (così come Il processo di Kafka lo è per
l’Europa centrale), c’è una concezione del male come realtà autosufficiente
assai vicina all’interpretazione del cristianesimo formulata da Ernest Renan
nella Vita di Gesù (1863), che Bulgakov aveva ben presente.
Anche
Czesaw Miosz si considerava una sorta di manicheo in incognito.
Dopo
essersi imbattuto nei mali incomprensibili del ventesimo secolo – emersi in un
mondo non meno razionale o umanistico del nostro, un mondo che aveva saputo
produrre culture di levatura assoluta come quelle tedesca e russa – Miosz
approdò a una concezione del male come realtà autonoma e autosufficiente, o
quanto meno come dimensione che sfugge a qualsiasi tangibile influenza del
progresso e, in generale, a ogni forma di sensibilità moderna e grande teoria.
I
noltre,
lo stesso Miosz indicò in Simone Weil un’altra seguace in incognito del
manicheismo, per l’interpretazione millenarista che la filosofa francese aveva dato
delle parole «Venga il tuo regno» nel Padre nostro.
Si
comprendono meglio, dunque, le ragioni per cui Miosz, alla California
University di Berkeley, abbia tenuto un corso proprio sul manicheismo.
Nel suo Abbecedario (1997) lo scrittore
polacco ha indicato l’atto iniziale del male del ventesimo secolo nelle vicende
dei bogomili in Bulgaria e nel martirio dei catari a Verona e in altre città
italiane.
Tutti
i grandi esponenti della cultura dell’Europa orientale hanno in certa misura
creduto nel manicheismo:
dal
russo Michail Bulgakov fino a George Orwell (che, come vedremo, possiamo
considerare europeo dell’est per affinità elettiva).
Oggi
viviamo in un’epoca di paura, negatività, cattive notizie.
Le
buone notizie non hanno mercato, non interessano a nessuno (anche se un
racconto apocalittico divertente e avventuroso è ben altra cosa).
È qui
che nasce la diffusione indiscriminata del panico, l’industria della paura:
un
diluvio di breaking news piene di discrepanze, i cui commentatori si
contraddicono a ogni piè sospinto.
Il tutto – a parte qualche analisi acuta e ben
argomentata – all’insegna dell’isteria e del disfattismo.
Male
liquido: che cosa significa?
Come
andrebbe interpretata questa idea, in un’epoca, come la nostra, in cui tanti
fenomeni presentano qualità e caratteristiche che si escludono a vicenda?
A
differenza di quello che possiamo definire «male solido», privo di sfumature,
bianco o nero, la cui tenace presenza è molto più individuabile nella realtà
sociale e politica, il male liquido si presenta sotto un’apparenza di bontà e
amore.
Non
solo: si esibisce addirittura come accelerazione apparentemente neutrale e
imparziale della vita, cambiamento sociale che procede a velocità inaudita,
accompagnato da perdita della memoria, amnesia morale.
Il
male liquido si fa strada inoltre sotto il travestimento della presunta
assenza, e addirittura impossibilità, di qualsiasi alternativa.
Il
cittadino si trasforma in consumatore, e sotto la neutralità di valori si cela
una realtà di disimpegno.
L’impotenza
e lo smarrimento individuali, abbinati a uno stato che rinnega e rifiuta le
proprie responsabilità nel campo dell’istruzione e della cultura, si
accompagnano alle divine nozze tra neoliberismo e burocrazia, concordi nel
porre l’accento sulla responsabilità degli individui non soltanto per la
propria vita e le proprie scelte (in un mondo in cui, però, non c’è libertà di
scelta), ma perfino per lo stato di cose globale.
Nel
2013, in “Cecità morale”, tu ed io abbiamo accennato a quell’inquietante fenomeno
che si potrebbe chiamare «università post accademica».
Lo scenario perfetto per lo sviluppo di questo
fenomeno è uno sgangherato miscuglio di rituali accademici da Medioevo,
specialismi, negazione plateale e brusca di qualsiasi ruolo degli studi umanistici
nella società moderna, managerialismo e superficialità:
il risultato è che si lascia campo libero alle
pressioni fortissime di forze tecnocratiche che si spacciano per voci sincere
di libertà e di democrazia, ma soprattutto a ogni tipo di determinismo e fatalismo
orientato al mercato, togliendo così spazio alla possibilità di concepire una
qualsiasi alternativa imperniata sul pensiero critico e sul dubbio metodico.
La
missione e raison d’être dell’università post accademica sembra ridursi a una ostentata
superficialità, flessibilità, remissività alle élite manageriali e tendenza ad
allinearsi agli appelli e alle richieste dei mercati e delle élite politiche.
Parole
senza significato, vacua retorica, interminabili giochi strategici:
è
questa la quintessenza di quella perfetta incarnazione della tirannide della
superficialità che è l’università post accademica.
Una strategia senza strategia, ridotta a mero
gioco linguistico, come ha fatto notare Gianni Vattimo, chiamando in causa la
categoria wittgensteiniana in relazione alla tecnocrazia che avanza mascherata
da democrazia, all’odierna politica senza politica, ridotta appunto a una serie
di giochi linguistici.
Come hai scritto nel 2000 in “Modernità
liquida”, Zygmunt, la strategia senza strategia e la politica senza politica
sono sinonimo di etica senza morale.
Extra
ecclesiam nulla salus, «non c’è salvezza fuori della chiesa»:
quest’affermazione viene attribuita a un vescovo, Cipriano di Cartagine,
vissuto nel terzo secolo.
Alla stessa logica sembra ispirarsi, nel
nostro mondo attuale, quella sorta di civiltà corporativa, quasi medievale, in
cui l’individuo non esiste se non inquadrato e plasmato da un’istituzione.
L’accademia
è oggi la nuova chiesa.
In questo mondo il ruolo del dissenso,
dell’eterodossia secolare, dell’alternativa è assai più problematico e
complesso di quanto appaia a uno sguardo superficiale.
Le
alternative non sono consentite.
La privatizzazione dell’utopia comporta
l’avvento di una nuova condizione, in cui nessuna società può essere
considerata buona e giusta: l’unica possibile storia di successo è la vita del singolo.
In un
mondo privo di utopie e ossessionato dalle distopie, le esistenze individuali
tendono a diventare i nostri nuovi sogni utopici.
Un possibile punto di partenza per riflettere
su questo fenomeno senza precedenti è il motto «Tina», acronimo di «There is no alternative», il «Non c’è alternativa» coniato
da Margaret Thatcher e poi reinterpretato da te, Zygmunt, come sintesi di
questa fede assiomatica nel determinismo sociale e nel fatalismo fondato sul
mercato, la cui principale differenza rispetto al passato è che, se un tempo Sigmund Freud ci faceva
sapere che «la biologia è il destino», oggi potremmo dire che «l’economia è il
destino».
George
Orwell vide con chiarezza come le nuove forme di male tendano a presentarsi
sotto le sembianze della bontà e dell’amore:
«Amerai il Grande fratello».
Ma a
differenza dei suoi predecessori – giacobini, bolscevichi, nazisti – il Partito
di Oceania non prevede alcun martirio.
La tua
vita individuale passerà inosservata; nessuno saprà che esisti.
Oppure
sarai rapidamente e silenziosamente «riformato» per obbligarti ad assimilare e
a usare il lessico che per tanto tempo avevi appassionatamente e
sistematicamente rifiutato.
Il
male ha smesso di essere chiaro ed evidente.
L’oppressione
politica e l’attuale violazione – «a bassa intensità», come le guerre – dei
diritti umani offuscano e cancellano il confine tra guerra e pace.
La guerra oggi è pace, e la pace è guerra.
Le
belle e le brutte notizie durano poco, assumono quasi subito un significato
ambiguo, perdono chiarezza:
e
anche se non ci sono guerre o altre calamità, l’industria della paura impedisce
che se ne parli in modo non allarmistico.
Le
belle notizie non fanno più notizia. Le brutte notizie sono, per
definizione, le notizie.
Perciò,
quando parlo della liquidità del male alludo al fatto che viviamo in una
società che, pur continuando a coltivare le proprie venerande ma obsolete e
fuorvianti credenziali liberaldemocratiche, è essenzialmente determinista,
pessimista, fatalista, travolta dalla paura e dal panico.
La
mancanza di sogni, alternative, utopie è, a mio parere, un aspetto importante
della liquidità del male.
Due
idee, a tale proposito, si sono rivelate profetiche.
La
prima è la nostalgia di Ernst Bloch per la perdita, con la modernità, del senso
di calore e di umanità del sogno utopico.
La
seconda è la chiara percezione di Karl Mannheim di come le utopie si siano di
fatto trasformate in ideologie politiche, perdendo così qualsiasi visione
alternativa e allontanandosi dall’immaginazione per rinchiudersi nel principio
di realtà.
La
liquidità del male coincide con il divorzio tra il principio d’immaginazione e
il principio di realtà: è questo, ora, ad avere l’ultima parola.
Le
capacità di seduzione del male si abbinano così al disimpegno.
Per
secoli il Diavolo, inteso come il Mefistofele del mito faustiano (dalle
leggende medievali alla Tragica storia del Dottor Faust di Christopher Marlowe
fino all’opera di Johann Wolfgang von Goethe) o come il Voland di “Il maestro e
Margherita “di Bulgakov, è stato, come sappiamo, incarnazione e simbolo del
male.
Ma
Mefistofele e Voland non erano una novità.
Il «buon» vecchio Diavolo rappresentava il
male solido, con la sua logica simbolica di caccia alle anime degli uomini e di
coinvolgimento attivo nelle vicende terrene; e nel perseguire i propri scopi si
sforzava semplicemente di sovvertire e delegittimare l’ordine costituito
sociale e morale.
Con
ciò voglio dire che il male solido era votato all’amoralità e all’impegno
attivo e portava con sé una solenne promessa di giustizia sociale e di
uguaglianza da realizzare alla fine dei tempi.
Viceversa, il male liquido si presenta con la logica
della seduzione e del disimpegno.
Se per
Vytautas Kavolis (come vedremo più avanti) Prometeo e Satana erano maestri di
sovversione, di ribellione, di rivoluzione, gli odierni eroi del male liquido
cercano di spogliare l’umanità dei sogni, dei progetti alternativi, del potere
di dissentire;
sono
in prima fila nella controrivoluzione, nell’obbedienza, nella sottomissione.
Il male solido mirava a impossessarsi
dell’anima e a conquistare il mondo affermandovi nuove regole del gioco;
la
logica del male liquido sta nel sedurre e ritirarsi, e nel cambiare
continuamente aspetto.
«Seduzione e disimpegno» è il motto dell’eroe
proteiforme della modernità liquida e del male liquido.
So di che cosa c’è bisogno, ma non mi lascio
coinvolgere e abbandono alla sua sorte l’oggetto, la vittima, della mia
seduzione: il gioco è questo.
D’ora
in poi, annegare in mare aperto sarà sinonimo di «libertà».
Oggi
la nostra libertà si colloca nella sfera del puro e semplice consumo e
rinnovamento di sé.
Il
controllo, la sorveglianza, l’asimmetria di potere sbandierati come libertà di
scelta, l’industria della paura, il gioco di esibizione del privato creano
quella complessa combinazione di condizioni socioculturali che qui abbiamo
metaforicamente chiamato «Tina», «assenza di alternative» o male liquido.
Promettere
all’umanità in generale di riconoscere e promuovere la libertà, l’uguaglianza,
la giustizia, la ragione, la ricerca della felicità, i diritti umani, i poteri
di individualità e di associazione, la mobilità sociale e una vita senza
confini;
e poi improvvisamente sparire, abbandonando
gli individui a giochi d’identità senza fine, spacciati per libertà, e al tempo
stesso ricordandogli che spetta a loro risolvere i problemi del mondo senza
poter contare sulle istituzioni, sullo spirito di comunità, sull’impegno:
è questa la collaudata strategia del male
liquido.
Per
questa ragione ritengo che il vero simbolo del male liquido sia quello che
definisco il «Grande anonimo», una sorta di «don Giovanni collettivo».
Tu stesso, Zygmunt, hai indicato in don
Giovanni il vero eroe della modernità.
Don
Giovanni è il volto della modernità;
il suo
potere risiede nel cambiamento incessante, infinito, e al tempo stesso nella
capacità di nascondersi e sparire improvvisamente dalla scena per creare
un’asimmetria di potere.
Al
centro della modernità solida c’era la conquista di territori, da utilizzare ai
fini dello stato o di altre strutture di potere.
Al
centro della modernità liquida, invece, c’è il potere che gioca a nascondino,
l’attacco militare seguito dal ritiro, l’azione destabilizzante.
Il male liquido lancia campagne militari che
hanno effetti dirompenti sull’economia e sulla vita di una determinata società
o territorio e, anziché favorirne la rinascita o la trasformazione, vi
riversano ogni sorta di caos, di paura, d’incertezza, di minaccia per
l’incolumità e la sicurezza.
Il
terrorismo di oggi è una perfetta espressione del male liquido.
L’imperialismo
era un gioco di potere solido, mentre il terrorismo è strettamente legato alla
natura liquida del male: non lasciamoci ingannare dalla logica sinistra con cui
si schiera a difesa della società come astrazione ma disprezza la società
concretamente esistente, pronto a sacrificarla sull’altare di un gioco di
potere individualizzato.
Il
seduttore che si ritrae e scompare lasciando dietro di sé vuoto, disincanto e
morte è un eroe del male liquido.
L’asimmetria
di potere su cui don Giovanni fonda la propria esistenza è imperniata
sull’osservare, non visti, l’altro.
«Chi
son io tu non saprai»:
è tutta qui – in queste parole scritte per il
Don Giovanni di Mozart da Lorenzo Da Ponte, che attribuisce al suo protagonista
relazioni con ben duemila donne – l’asimmetria di potere del manipolatore
moderno.
Tu non
puoi vedermi, perché io mi tirerò indietro, ti abbandonerò non appena diventerà
per me troppo rischioso restare e rivelarti qualcosa di me e delle mie
sofferenze o debolezze nascoste.
Tu non
saprai mai chi io sia, ma io saprò tutto di te.
All’oggetto
di questo oscuro desiderio resta l’illusione che il seduttore gli offra tutta
l’attenzione di cui ha bisogno e gli riveli tutto di sé.
Il
commento su Internet che, al riparo dell’anonimato, diffonde menzogne e
colpisce, ferisce e offende una persona con nome e cognome è un esempio
concreto del modus operandi del male liquido, che si cala e si radica
profondamente nelle nostre prassi più banali.
Tu non
saprai chi sono io.
In
quest’epoca di penosa ricerca dell’attenzione e di ossessiva e compulsiva scoperta
ed esibizione di sé, abbiamo bisogno di sentirci costantemente ribadire la
promessa, e rafforzare l’illusione, che anche noi, persone qualunque, possiamo
conquistare l’attenzione del mondo.
Non solo le star e i grandi leader mondiali,
ma anche noi comuni mortali possiamo assumere importanza agli occhi di qualcuno
per come appariamo, agiamo o viviamo, per ciò che possediamo, facciamo,
desideriamo, troviamo divertente o degno di diventare oggetto di esibizione o
di conversazione – insomma, per motivi umanissimi e assolutamente
comprensibili.
Ormai siamo tutti – anche se non usciamo mai
di casa o se abbiamo vissuto sempre nel luogo in cui siamo nati – simili a
migranti:
assetati
di compagnia, di legami umani autentici, ma pronti, non appena li troviamo, a
considerarli un miracolo di breve durata, un’esperienza che è destinata a
finire presto e che dunque ci conviene vivere il più intensamente possibile,
perché non sappiamo quando si ripresenterà.
In
poche parole, oggi la nostra libertà è situata nella sfera del consumo e del
rinnovamento di sé, ma ha perso ogni legame con ciò che più conta:
l’idea di poter cambiare il mondo, che
accomuna tutti i grandi profeti, teorici, ideologi e narratori della modernità.
Le
grandi utopie sono svanite.
Viviamo
in un’epoca di distopie e di foschi romanzi di avvertimento, che a loro volta
si convertono rapidamente, facilmente e senza complicazioni in oggetti di
consumo.
Questo
senso di determinismo e di fatalismo non è soltanto frutto della nostra
incapacità di comprendere i motivi per cui i sistemi economici collassano e
siamo assediati dalle crisi sociali, ma anche della nostra totale dipendenza da
mercati remoti e fluttuazioni valutarie di paesi lontani:
tutte cose che alimentano in noi l’illusione
di poter cambiare le cose solo su scala individuale, con reazioni spontanee,
gesti di benevolenza e compassione, parole gentili, comunicazioni più intense.
Tutto
sembra ridursi a una questione di strumenti tecnici e di rapporti umani, come
nell’Europa delle grandi pestilenze, quando prendeva il sopravvento la logica
dei carnevali, delle feste di massa o delle orge.
Come
tu hai fatto notare, la tecnologia e i social network sono nuove forme di
controllo e di separazione.
Tutti
sono visibili, ognuno si mostra, si iscrive, partecipa: tutto si riduce a
mantenere ciascuno all’interno di un sistema in cui non c’è più alcuna
possibilità di nascondere qualcosa alle strutture di controllo dello stato.
La
privacy sta morendo sotto i nostri occhi: ha smesso di esistere, e non soltanto
perché non esiste più messaggio che non venga letto e controllato da estranei,
né cosa che un essere umano abbia il diritto, o magari il dovere, di portare
con sé nella tomba, come accadeva nei classici della letteratura.
Semplicemente,
è scomparso quello che un tempo veniva giustamente chiamato «segreto» e che
oggi è solo un bene negoziabile sul mercato in tempo reale, un oggetto che si
compra e si vende, una password di accesso a un successo momentaneo ed
effimero, fino al momento in cui diventa la prova che abbiamo qualcosa da
nascondere, una debolezza che ci espone ai ricatti e alle pressioni al fine di
toglierci quel poco che resta della nostra dignità e indipendenza.
Non ci
sono più segreti, nel senso antico e onorevole del termine;
anzi,
non si comprende nemmeno più il significato di questo termine.
Ognuno
reclamizza spensieratamente la propria vita intima per far sì che le luci della
ribalta si puntino su di sé, almeno per un momento: queste apoteosi di
esibizionismo sono possibili solo in questo nostro tempo di connessioni
instabili e agitate e di alienazione senza precedenti.
C’è
chi si esibisce su Facebook, con tutto il narcisismo possibile, e chi usa i
blog per eruttare e vomitare le proprie crisi e frustrazioni, mentre altri nei
social network cercano solo un sollievo temporaneo al proprio senso di
solitudine e d’insicurezza.
Da
questo punto di vista Facebook ha rappresentato, dopo tutto, un’invenzione
davvero brillante arrivata al momento giusto, quando nella società il senso di
separazione e d’isolamento si erano fatti insostenibili e la tv spazzatura era
ormai insopportabile, al pari del sadomasochismo della carta stampata.
D’altra
parte, i social network hanno anche portato con sé nuovi rischi e mali
micidiali.
Il
fatto è che Facebook incarna, diciamo così, la quintessenza del «fai da te»
come fenomeno sociale.
Svestiti
e mostraci i tuoi segreti: fallo per libera scelta, e divertiti mentre lo fai.
Fallo per me, bellezza.
Che
fine ha fatto la nostra privacy?
È una
domanda che gli studiosi si pongono sempre più spesso.
Sulla
crisi della riservatezza nella società americana Sarah E. Igo ha scritto:
Certo
è che in America la privacy attraversa una crisi senza precedenti, a giudicare
da tanti titoli usciti negli ultimi tempi, come “The End of Privacy” («La fine
della privacy»), The Unwanted Gaze («Lo sguardo indesiderato»), The Naked Crowd
(«La folla nuda»), No Place to Hide («Non c’è un posto dove nascondersi»,
addirittura due libri con questo titolo!), Privacy in Peril («La privacy
minacciata»), The Road to Big Brother («Verso il Grande fratello»), One Nation
under Surveillance («Una nazione sotto sorveglianza») e – forse la new entry
più agghiacciante di tutte – I Know Who You Are and I Saw What You Did («So chi
sei e ho visto cosa hai fatto»).
Da una
parte ci sono le rivelazioni di Snowden, i Google Glass, i droni, i frigoriferi
intelligenti, gli algoritmi di marketing che hanno l’aria di conoscerci meglio
di noi stessi.
Dall’altra
c’è la spinta individuale a mettersi in mostra nell’universo in costante
espansione dei social media:
in
questo caso, la minaccia alla privacy sembra venire, più che dallo stato o
dalle grandi imprese, dall’esibizionismo volontario di chi non vede l’ora di
dimenticare l’idea stessa della privacy, condividendo con estranei i dettagli
intimi della propria vita privata.
Ci fu
un tempo in cui i servizi segreti e la polizia politica lavoravano sodo per
carpire segreti e rivelazioni dettagliate sulla vita privata e intima delle
persone.
Oggi i
servizi d’intelligence hanno tutte le ragioni per esultare ma, al tempo stesso,
sentirsi inutili:
a che servono, ormai, in una situazione in cui
ognuno racconta spontaneamente tutto ciò che fa, chi detesta, come ha fatto ad
arricchirsi, e fornisce di sua spontanea volontà i nomi di tutte le persone che
conosce e contatta?
Non c’è modo di tenersene fuori: se esci da
questo sistema, perderai il senso del passato e del presente, reciderai
qualsiasi contatto con i tuoi compagni di scuola e colleghi di lavoro, non
saprai più come pagare le bollette, romperai i ponti con la tua comunità.
Nella
realtà virtuale e su Facebook svanisce un aspetto fondamentale della vera
libertà:
l’autodeterminazione e l’associazione per libera
scelta, che non si riducono certo a rapporti di amicizia in cui veniamo
risucchiati da una tecnologia che ci preclude qualsiasi altro modo di condurre
una vita civile.
E
tutto questo che cosa ci dice della nostra società?
Ci
spinge a conclusioni inquietanti sulla libertà umana, e ci porta anche a
riconoscere, spiacevolmente ma giustamente, che l’umanità è esiliata e umiliata
ma «piace» e «ha successo», trasformandosi, di fatto, in un’unica «nazione
Facebook».
Nel
mondo contemporaneo, la manipolazione politico-pubblicitaria non è soltanto
capace di creare bisogni e di fissare i criteri della felicità, ma anche di
fabbricare gli eroi del nostro tempo e influenzare l’immaginazione di massa
attraverso biografie di successo.
Queste
capacità ci suggeriscono una serie di riflessioni sul totalitarismo «in guanto
di velluto» come forma di controllo e manipolazione della coscienza e
dell’immaginazione, ammantata di liberaldemocrazia, che consente un
asservimento e un controllo anche delle voci più critiche.
Ciò
che scorre molto più in profondità è l’aumento del controllo sociale, la
sorveglianza massiccia, conseguenza di una tecnologia che ha superato la
politica.
Che ci
piaccia o no, la tecnologia non ci chiede se la vogliamo o no: se si può
utilizzare, siamo costretti a farlo.
Chi
rifiuta viene relegato ai margini della società, è impossibilitato a pagare
l’affitto o a partecipare a un dibattito pubblico.
Lo
stato che non intenda ricorrere alla sorveglianza di massa non è più in grado
di giustificare un uso eccessivo dei servizi segreti o delle tecniche di
spionaggio tradizionali.
Curiosamente, questa tendenza va di pari passo
con la diffusione e proliferazione esplosiva dell’auto esibizione nelle sue
varie forme e, più in generale, con la fortuna della confessione, sia nella
cultura di massa che nel mondo intellettuale.
Con
ottime ragioni, dunque, Sarah E. Igo conclude:
E se
la cultura della confessione non fosse altro che una strada maestra per
ribaltare la società della sorveglianza dall’interno?
Un commentatore scrive che «il nostro corpo
fisico passa sempre più in secondo piano rispetto a un “corpo di dati” (un data
body) sempre più completo», che per giunta «si forma non dopo ma prima ancora
che l’individuo sia stato misurato e classificato».
[...]
Ma se è così, la visibilità continua basata sulle nostre preferenze (dall’Act
up ai reality a Facebook) inizia a profilarsi come strategia (non priva di
problematiche) per arrivare all’autonomia, come modo pubblico per mantenere il
controllo sulla propria identità privata.
Così intesa, una cultura dell’auto esibizione
può essere forse vista come un lascito sommerso degli anni settanta, un portato
della politica dell’identità e dei nuovi media, ma anche come un modo per fare
i conti, a mezzo secolo di distanza, con le banche dati e la sorveglianza
burocratica.
La
tecnologia non ci consente di rimanere in disparte.
L’«io
posso» si trasforma in «io devo»: posso, dunque devo.
Non
c’è spazio per i dilemmi.
Viviamo
in una realtà di possibilità, non di dilemmi.
È
qualcosa di molto simile all’etica di WikiLeaks, in cui non c’è posto per la
morale.
Spiare
e lasciar trapelare è un obbligo, anche se i fini sono tutt’altro che chiari.
E vale in entrambi i sensi, sia a favore dello
stato che contro di esso.
Ma non
ci si assume mai la minima responsabilità per l’individuo e per la sua
angoscia.
È tecnologicamente possibile, dunque deve
esser fatto.
La
tecnologia ha superato la politica, creando un vuoto morale.
Per
una coscienza di questo tipo, il problema non è più di forma o legittimazione
del potere, ma solo di quantità:
il
male (segretamente adorato) si trova là dove c’è più potere finanziario e
politico.
Se le cose stanno così, stiamo infliggendo un
duro colpo all’etica, poiché sarà la tecnologia a riempire i vuoti lasciati
dalla politica e dalla morale pubblica: una volta connessi, siamo assolti ed
esentati.
Il
mezzo è il messaggio: vivere online diventa una risposta ai dilemmi della
nostra esistenza moderna.
Come
si è detto, la net society è una società percorsa dalla paura: un luogo ideale
per tutta l’industria della paura e dell’allarmismo.
Essa
rafforza ed evidenzia l’avvento della tecnocrazia mascherata da democrazia.
Allo
stesso tempo, la “net society” e la sua sfera pubblica alimentano e sviluppano
alcune componenti essenziali della tecnocrazia, come la neutralità dei valori e
lo strumentalismo in tutte le forme.
In
questa cultura di paura, allarmismo, riforma e mutamento senza sosta, la
superficialità non è più una zavorra ma un vantaggio.
La
cultura della paura è, di fatto, una cultura della superficialità, e viceversa.
Questa
superficialità viene scambiata per adattabilità e flessibilità, come accade
alla «pura verità con semplicità confusa» di cui parla William Shakespeare nel
Sonetto 66.
Ciò
che ne deriva sono prassi istituzionali futili, giochi strategici infiniti e
insensati, retorica vuota.
Le
parole si staccano dai concetti, riducendosi a giochi di parole privi di
significato.
Nel
2013 tu ed io abbiamo scritto “Cecità morale”.
Il titolo, una tua idea, si ispirava alla
metafora magistralmente adottata da José Saramago nel suo romanzo “Cecità”
(1995).
Anche il sottotitolo dato a quella nostra
conversazione – La perdita di sensibilità nella modernità liquida –, pur
influenzato dal mio lessico teorico, aveva la tua impronta nell’aggettivo
«liquido», senza il quale sarebbe difficile immaginare i tuoi testi sulla
modernità, sulla paura, sull’amore e così via.
Ricordo
anche che nei tuoi scritti hai richiamato l’espressione lebensunwertes Leben –
«vita che
non merita di essere vissuta» – con cui i nazisti designavano quei gruppi di popolazione
cui negavano il diritto di esistere.
Ai nostri giorni abbiamo di fronte una
versione liquido-moderna di questo fenomeno, che vale per regioni e paesi le
cui tragedie non hanno diritto di fare notizia, o le cui vittime civili e
sofferenze legate al terrorismo o alla violenza non sono legittimate a influire
sui rapporti bilaterali e sugli accordi commerciali, per esempio tra la Russia
e i principali attori dell’Unione europea.
Come
il Tibet con la sua lunga serie di autoimmolazioni, anche l’Ucraina è diventata
una cartina al tornasole della nostra sensibilità morale e politica.
Quante
altre morti e tragedie ci servono per uscire dal nostro torpore?
A che
numero deve arrivare il conteggio delle vittime per riaccendere la nostra
sensibilità?
Da noi
in Lituania si dice che la morte di una persona è una tragedia, ma la morte di
milioni di persone è una statistica.
Purtroppo
è drammaticamente vero.
Nello
scontro tra la nostra cecità morale e la nostra tendenza a guardare agli altri
come esseri morali (e non come semplici unità statistiche o come forza lavoro)
le nostre capacità di associazione si contrappongono alla dissociazione, la
compassione all’indifferenza come sintomo di distruttività morale e di
patologia sociale.
La
storia politica ci insegna che la nostra disponibilità a sintonizzarci sui
dolori e sulle sofferenze altrui è revocabile, e che, allo stesso tempo,
possiamo recuperare tale sensibilità;
ma
tace riguardo alla nostra capacità di essere sensibili e compassionevoli allo
stesso modo verso tutti i gruppi sociali, tutte le situazioni, tutti i paesi e
gli individui in difficoltà.
Siamo
capaci di guardare a un essere umano come a una cosa, a una non persona, per
risvegliarci solo quando lo stesso tipo di calamità o di aggressione colpisce
direttamente noi o i nostri connazionali.
Questo
meccanismo di «ritirata e ritorno» non fa altro che confermare quanto possano
essere vulnerabili, fragili, imprevedibili e universali la dignità e la vita
umana.
Possiamo
apprendere finalmente queste lezioni, oppure continuare a ignorarle.
Ed è
questo il motivo per cui sarebbe impossibile concepire questo libro sulle forme
del male vecchio e nuovo senza il concetto che tu, Zygmunt, hai compendiato
nell’aggettivo «liquido».
Il
tema del libro è il male liquido, che emerge e si manifesta ben al di là di
qualsiasi teologia e demonologia del male.
Il
nostro non è un libro sui presunti demoni e mostri del nostro tempo, ma sulle
situazioni malvagie e sui nostri meccanismi di disimpegno e di distacco dalla
nostra sensibilità.
Zygmunt
Bauman. Effettivamente, uno spettro si aggira per l’Europa:
lo
spettro della mancanza di alternative.
Non è
la prima volta che uno spettro simile fa la sua comparsa: ma la novità di fondo
è il suo carattere globale, il fatto che ora esso aleggi sul mondo intero.
Nei secoli della sovranità territoriale e
indipendenza seguiti alla Pace di Vestfalia del 1648, l’inesistenza delle
alternative (in sintonia con la formula cuius regio eius religio, nella quale
la religio a un certo punto venne rimpiazzata con la natio) era confinata nello
spazio racchiuso dai confini di ogni stato;
ma
nelle vaste lande che iniziavano dall’altro lato di quella frontiera le
alternative abbondavano, e lo scopo principale della sovranità territoriale era
impedire a queste alternative, con le buone o con le cattive, di varcare la
linea di confine.
Le
incrinature e poi lo smantellamento del Muro di Berlino, di cui abbiamo
commemorato nel 2014 il venticinquesimo anniversario (sempre che qualcuno
ricordi ancora quell’enfasi celebrativa, visto che la memoria liquido-moderna
si abbrevia sempre più), hanno reso evidente come le tante forme di «Tina», i
tanti fantasmi locali della «vita senza alternative», si siano ormai mescolati
in un unico spettro globale.
In
realtà, questo processo di fusione era molto avanzato già prima della caduta
del Muro.
Ma
quella convergenza, avviata e rafforzata nell’ambito di schieramenti sovranazionali
territorialmente sovrani, non aveva ancora scala planetaria, era confinata nei
limiti territoriali che i due blocchi antagonisti (pur aspirando entrambi alla
supremazia planetaria) si imponevano a vicenda.
La caduta del Muro di Berlino, spalancando a
uno dei due spettri fratelli – quello neoliberista – le porte di quelle parti
del pianeta che fino allora gli erano rimaste inaccessibili, generò e diffuse
un clima da «fine della storia», celebrato in questi termini da Fukuyama.
Finalmente
– si lasciava intendere – la secolare rivalità tra i due spettri – che
scivolava periodicamente in una guerra fratricida – era giunta al termine.
E il vincitore, lo spettro neoliberista, si
ritrovava da solo sul pianeta, senza più avversari, e senza la necessità di
farsi in quattro per controllare, contenere o convertire le sue alternative,
che ormai brillavano esclusivamente per assenza:
o almeno, questo era ciò che credevano i suoi
apostoli e profeti.
Sarebbe
toccato ai due Bush (padre e figlio, a poca distanza tra loro), in combutta con
i loro rispettivi accoliti britannici, Margaret Thatcher e Tony Blair, scoprire
a proprie spese (di sangue, vergogna e umiliazione) quanto fallace e disonesta
fosse quella convinzione.
In
Europa, tuttavia, la breve eppure incontrastata supremazia del dogma per cui
«Non c’è alternativa» ha prodotto in pochi anni risultati duraturi, la cui
profondità e persistenza non sono state ancora adeguatamente analizzate.
Il sistematico smantellamento della rete di
istituzioni pensate per proteggere le vittime dell’economia, sempre più
deregolamentata e dominata dall’avidità, e la crescente insensibilità per la
disuguaglianza sociale dilagante e per la condizione di un numero sempre più
ampio di cittadini che (non essendo più visti né come potenziale minaccia per
l’ordine capitalistico, né come seme di una rivoluzione sociale) possono
contare ormai solo sulle proprie risorse e capacità private, terribilmente e
palesemente inadeguate, hanno prodotto tanto nella «vecchia» quanto nella «nuova
Europa», fra gli stakeholder attuali e potenziali della democrazia, un costante
calo della fiducia nella capacità delle istituzioni democratiche di mantenere
le proprie promesse, in netto contrasto con le grandi speranze suscitate
dall’entusiasmo e dall’ottimismo dopo lo sgretolamento del Muro di Berlino.
Le
stesse cause hanno anche prodotto il rapido aumento della distanza, e la
rottura delle comunicazioni, tra le élite politiche e gli “ho pollo”, la gente
comune che quelle élite avrebbero dovuto – ma non hanno voluto o saputo –
proteggere.
E così, paradossalmente (ma non più di tanto,
a ben guardare), il presunto trionfo della modalità democratica di convivenza
umana ha prodotto, di fatto, una crisi e dissoluzione irrefrenabile della
fiducia pubblica nelle conquiste che è lecito attendersi dalla democrazia.
Questi
sgradevoli e deprimenti effetti hanno colpito in varia misura tutti i paesi
membri dell’Unione europea, ma vengono avvertiti probabilmente in modo più
doloroso proprio là dove la novità, il crollo del Muro di Berlino, aveva suscitato
maggiori speranze:
nei
paesi che si erano emancipati dalla morsa d’acciaio delle dittature comuniste
per entrare a far parte del mondo della libertà e dell’abbondanza.
Non
sorprende che, come ha scritto Ivan Krastev, la gente stia perdendo interesse
in tutto ciò che oggi passa per controversia politica, e in particolare nelle
elezioni, che «c’è il diffuso sospetto siano diventate un imbroglio».
Parlerei
semmai di un gioco di finzioni in cui tutti partecipano consapevolmente a un
meccanismo illusionistico: i politici fingono di governare, chi detiene il
potere economico finge di essere governato;
e, per mantenere le forme, le persone ogni pochi anni
si trascinano controvoglia ai seggi elettorali, fingendo di essere cittadini.
«Gestire
l’economia» è tutto ciò che rimane ai governi eletti.
Ma
«gestire l’economia» è una delle finzioni più frequentemente usate dai
politici: il che non sorprende, visto che per spiegare l’immancabile insuccesso
della loro gestione essi non devono far altro che chiamare in causa esoteriche
«leggi di mercato» e non meno arcane «ragioni di scambio»;
e
poiché tutti gli aspetti dell’esistenza umana sono stati ridotti all’aspetto
economico, monetizzati e associati a un codice a barre, è facile incolpare
l’economia per qualsiasi promessa non mantenuta.
A
Galileo Galilei si attribuisce l’affermazione secondo cui il libro della natura
sarebbe scritto nel linguaggio della matematica.
Ma il
libro della società redatto dai profeti e promosso dagli apostoli del
neoliberismo (la «filosofia egemonica» dei nostri tempi, come direbbe Antonio
Gramsci) è scritto nel linguaggio dell’economia e conservato al sicuro nei
forzieri delle banche;
e il
linguaggio in cui è scritto risulta alla maggior parte di noi non meno (semmai
più) criptico della matematica, e pare sia comprensibile solo ai banchieri.
Come fa questo tipo di filosofia a conservare
la sua egemonia?
Un
indizio ci viene da J.M. Coetzee, che in una lettera indirizzata il 29 marzo
2010 a Paul Auster scrive:
«Così il quadro della realtà che ci circonda è
proprio quello che possiamo aspettarci:
noi,
“il mondo”, preferiamo vivere fino in fondo la triste realtà che abbiamo creato
[...] piuttosto che ipotizzare una nuova realtà negoziata».
Auster, rispondendo il 7 aprile, concorda:
«Ciò
vale non soltanto per l’economia, ma anche per la politica e per quasi tutti i
problemi sociali che abbiamo di fronte».
Proprio
così.
Ma
allora, tutto dipende solo dalla nostra congenita inerzia?
O non
è piuttosto riconducibile a una novità, fabbricata ma ormai saldamente radicata
nel nostro inconscio collettivo, di cui cantiamo le lodi ogni mattina appena
svegli come ci hanno insegnato, abituato e allenato a fare con lo stesso
trasporto degli abitanti di una delle «città invisibili» di Italo Calvino,
Leonia?
La
«vera passione» di questi ultimi si diceva fosse «godere delle cose nuove e
diverse», mentre in realtà essi – demoralizzati nel vedere delle «spazzature
d’ieri che s’ammucchiano sulle spazzature dell’altro ieri e di tutti i suoi giorni
e anni e lustri», e terrorizzati alla prospettiva che «il pattume di Leonia a
poco a poco invade[sse] il mondo» – anelavano soprattutto a «espellere»,
«allontanare da sé».
La
risposta alla domanda di cui sopra è, dunque, quanto meno opinabile: entrambe
le spiegazioni possono accampare valide ragioni.
E in ogni caso, quale che sia la motivazione
psicologica cui preferiamo ricondurre questa persistente egemonia, a stringere
in una morsa ferrea i nostri pensieri e le nostre azioni, come ci ricorda Coetzee,
è in ultima analisi la «realtà che abbiamo creato».
È
questa a tracciare rigidi confini intorno alla nostra immaginazione, limitando
così la nostra volontà:
e lo fa classificando le nostre opzioni in due
gruppi: quelle plausibili e quelle immaginarie.
Così
facendo, essa subordina, e di fatto esautora, le nostre preferenze.
Quanto
alla nostra capacità di elaborare visioni alternative allo status quo e di
trovare la determinazione che occorrerebbe per realizzarle, quella «realtà che
abbiamo creato» è infinitamente più efficace di qualsiasi farmaco
contraccettivo.
La
politica così come la conoscevamo utilizzava il linguaggio delle priorità, le
quali dipendevano dalle diverse visioni del mondo.
Tu (come me) lamenti e deplori la scomparsa –
l’abbandono – di quel linguaggio dalla vita pubblica.
E vedi
in questa scomparsa una giustificazione – forse la principale – per etichettare
come «post politiche» le performance che oggi vanno in scena nell’arena
pubblica.
D’altra parte, «scegliere una priorità» è solo
l’inizio, l’innesco, il trampolino, la prima fase dell’azione.
Ma
come la mettiamo se la «realtà che abbiamo creato» ci impedisce di passare alla
fase successiva e, anche nel caso (improbabile) in cui dovessimo fare un
tentativo di passare a questa fase, lo vanifica a priori?
Noi
abbiamo creato una realtà in cui si è aperto e permane un abisso tra la
capacità di agire e la capacità di decidere a quali azioni dare priorità.
La nostra realtà, non mi stanco di ripetere, è
contrassegnata dal divorzio tra potere e politica, che funziona come una sorta
di tenaglia ma per tutt’altre ragioni rispetto al passato:
prima la tenaglia generava inagibilità perché
era saldamente serrata;
oggi
abbiamo il problema opposto, quella tenaglia è bloccata e non c’è modo di
richiuderla, e si è creato un enorme divario tra i poteri, affrancati dal
controllo politico, e la politica, ormai priva di potere.
In
questo vuoto, tutto o quasi può accadere, ma non c’è più modo di prendere una
qualsiasi iniziativa con una ragionevole fiducia di successo.
E sospetto che sarà sempre più difficile
superare la forte e diffusa riluttanza a scegliere le proprie priorità finché
non si troverà una risposta al «meta rompicapo» del ventunesimo secolo, che è
il seguente:
supponendo
di sapere che cosa c’è da fare, chi è così intraprendente da farlo, e ne ha la
volontà?
Un
commento ancora.
Sia tu
che io tendiamo a descrivere il presente in termini di mancanza e assenza:
«questo non è più com’era una volta», «questa o quella cosa è scomparsa»,
«manca questo o quest’altro».
I nostri studenti (e, spero, anche alcuni dei
nostri lettori) non vedono in questi termini il mondo che «noi» abbiamo creato
e che «loro» hanno trovato bell’e fatto.
Come
ha scritto Michel Serres (rendendo omaggio alle «nostre» abitudini di
pensiero), «loro» non vivono più nello stesso tempo in cui viviamo noi:
sono «formattati da media diffusi da adulti
che hanno meticolosamente distrutto la loro facoltà di attenzione riducendo la
durata delle immagini a sette secondi e il tempo di risposta alle domande a
quindici».
Quando
leggiamo questi dati (ufficiali!), forse «noi» rabbrividiamo, memori, sia pur
vagamente, dei tempi che favorivano la riflessione, imponevano pazienza e
chiedevano a gran voce concentrazione mentale e propositi da sviluppare sul
lungo termine.
Sarei
tentato di aggiungere che per «loro» quei tempi sono un paese straniero, ma poi
mi mordo la lingua, perché penso che nemmeno la parola «straniero» ha per
«loro» – navigatori di Internet per diritto fin dalla nascita – lo stesso
significato che aveva, e ha, per «noi».
Perciò
mi viene in mente una domanda:
è davvero così strano che a quella che
prossimamente sarà la maggioranza dell’umanità, formattata dai media e da tutta
una serie di abili tecniche di marketing volte a indurre alla ricerca del
piacere e a prometterne la conquista, l’arena pubblica appaia come un enorme
palco tipo Woodstock, o come una sitcom televisiva a tempo indeterminato,
dunque come una forma di svago buona al massimo per il tempo libero e
potenzialmente capace d’intrattenere piacevolmente gli spettatori nonostante –
anzi, proprio per – la sua irrilevanza rispetto alla banale routine quotidiana?
Tu
riponi le speranze di rinascita di una democrazia piena, e dotata di
istituzioni che rappresentino realmente le preoccupazioni e i desideri degli
elettori, in una politica che non prenda forma nei centri di potere e nelle
grandi capitali, ma prima di tutto nelle comunità circostanti.
La mia risposta – così, su due piedi – è che
questa è una opzione sicuramente valida ma, purtroppo, più facile a dirsi che a
farsi.
Questa
terapia per risanare la democrazia malata sarebbe uno dei migliori investimenti
che si possano immaginare, ma le risorse su cui si dovrebbe fondare sono a loro
volta in grave crisi e bisognose di rianimazione e di convalescenza: prima di
poter diventare una cura efficace per i mali della democrazia attuale, le
comunità devono a loro volta guarire da una debolezza invalidante.
Serres
ha seri dubbi sull’idoneità della nozione di comunità trasmessa dai nostri
antenati e trapiantata nella morfologia delle odierne associazioni umane, e
suggerisce di sostituire all’immagine della «collettività» la nozione di
«connettività».
A
differenza della collettività, il tipo di associazione umana basato sulla
«connettività» è caratterizzato da legami estremamente deboli e fragili e da
confini vaghi e porosi.
Non è
un caso se oggi, nel linguaggio comune, si tenda a preferire al termine «comunità»
la nozione di «rete».
A differenza delle comunità, le reti sono
modellate e rimodellate costantemente dall’interazione tra connessioni e
disconnessioni, motivo per cui i loro contenuti e confini sono perennemente
indeterminati e indefiniti, «allo stato nascente».
Una
stridente differenza tra le comunità e le reti è che in queste ultime è facile
entrare, e altrettanto facile è uscirne;
le
reti, anziché negoziare i principi della convivenza al proprio interno – come
le comunità sono costrette a fare dalla realtà stessa della loro coesione e
dalla loro aspirazione a durare –, tendono ad aggirare la necessità di definire
e imporre condizioni di appartenenza ricorrendo alla scorciatoia della
scissione e della separazione seguita dall’interruzione delle comunicazioni e
dall’isolamento reciproco.
Se
l’idea di «comunità» è associata alla stabilità e alla continuità, la «rete» di
solito evoca instabilità e provvisorietà.
E in
essa non c’è né molta richiesta di sensibilità morale, né alcun passo
promettente verso la guarigione e il ripristino della democrazia.
L’ascesa
globale dello spettro dell’assenza di alternative è stata accompagnata da una
ulteriore novità, forse la più importante di tutte:
la disgregazione dei blocchi sovranazionali
integrati e la cancellazione delle frontiere ermetiche, fortificate e
impenetrabili – capaci, almeno nelle intenzioni e nelle pretese, di tutelare il
principio della sovranità territoriale – hanno posto fine all’era del «male
solido».
Il
male, che era tendenzialmente concentrato e monopolizzato da stati-nazione sovrani,
o presunti tali, è tracimato fuori dei suoi recipienti nazionali, scavalcando
muri alti e spessi e frontiere abbondantemente presidiate e armate.
Le
forme di male più dannose ed odiose – fisicamente letali, socialmente
devastanti e spiritualmente rovinose – non si lasciano più ricollocare e, tanto
meno, richiudere ermeticamente in un qualche contenitore, e ormai circolano
liberamente e attraversano facilmente, per osmosi, qualsiasi confine, naturale
o artificiale.
Come
scrivevo in “Modernità liquida”, mentre i corpi solidi sono, per così dire,
definiti e confinati da uno spazio, e dunque mantengono la propria forma, i
liquidi invece «scorrono», «traboccano»,
«si spargono», «filtrano», «tracimano», «colano», «gocciolano», «trapelano»;
a
differenza dei solidi non sono facili da fermare: possono aggirare gli
ostacoli, scavalcarli, o ancora infiltrarvisi.
Dall’incontro
con i corpi solidi escono immutati, laddove questi ultimi, qualora restino
tali, non sono più gli stessi, diventano umidi o bagnati.
Negli
ultimi anni il male ha iniziato e continua tuttora a uniformarsi a queste
propensioni e abitudini dei liquidi.
Dalla
persona alla non persona?
Colpa,
adiafora, precarietà, austerità: una mappa.
Leonidas
Donskis.
Quando
mi fermo a riflettere su questa fase storica così turbolenta, penso subito ai
temi della colpa e del pentimento, che si ritrovano in tutti i cambiamenti
politici che hanno condotto alla caduta del Muro di Berlino e al collasso
dell’Unione sovietica, alla fine degli anni ottanta, ma che, come ben sappiamo,
risalivano all’Europa postbellica.
Poco
dopo la fine della Seconda guerra mondiale, nel 1946, Karl Jaspers scrisse “La questione
della colpa”, un saggio fondamentale in cui il problema delle colpe dei
tedeschi veniva esaminato e articolato in termini filosofici.
Poiché
per Jaspers la Germania si era macchiata non soltanto di gravissime ed esiziali
colpe morali, ma anche di crimini indicibili contro l’umanità, la domanda che
egli si poneva – se il suo paese potesse essere accusato e chiamato in massa a
rispondere di crimini di guerra – era tutt’altro che astratta o ingenua.
Su questo sfondo il filosofo tedesco costruiva
uno schema per dirimere tale questione filosofica, distinguendo tra quattro
categorie di colpa:
criminale,
politica, morale e metafisica.
Jaspers
definiva e analizzava ciascuna di quelle categorie.
La
colpa criminale (o giuridica) è legata a una partecipazione diretta a reati e atti
contrari alla legge;
la
colpa politica è quella che ricade sui cittadini che la ereditano da leader politici o
istituzioni di cui hanno avallato l’operato o da soggetti politici e diffusori
di menzogne e di odio organizzato;
la
colpa morale sorge nella nostra coscienza quando i nostri obblighi di fedeltà politica
e obbedienza civile non possono assolverci da crimini contro le persone;
infine, la colpa metafisica è quella che avvertiamo per il
semplice fatto di essere ancora vivi o per non aver fatto abbastanza per
salvare la vita di altri esseri umani da crimini di guerra o altri delitti.
Per
Jaspers, mentre la colpa criminale e la colpa politica dei tedeschi erano
direttamente riconducibili agli individui in carne e ossa che avevano commesso
o architettato crimini nella Germania nazista, assolvere le generazioni successive dalla colpa
morale e da quella metafisica era possibile, ma solo attraverso il loro legame
con la lingua, lo spirito collettivo e il senso condiviso della storia del
proprio paese.
L’unico modo in cui quelle generazioni
potevano mantenere la propria adesione e dedizione alla loro società e, al
tempo stesso, affrancarsi dalla condizione di colpevolezza per il passato era
interiorizzare i traumi vissuti dai loro genitori.
Il
senso di colpa sembra essersi convertito in una sorta di spartiacque tra l’ethos europeo
del dopoguerra e una mentalità non europea, o antieuropea, caratteristicamente
imbevuta della negazione assoluta di qualsiasi colpa per il passato recente
della propria nazione.
Come
ha notato il filosofo francese Pascal Bruckner nel suo provocatorio volume “La
tirannia della penitenza” (2006), l’eccesso di colpa è diventato un prodotto politico
tipicamente europeo, che non nasce necessariamente da autentica sensibilità
morale, ma viene usato come strumento ideologico per tacitare i propri
avversari politici o per stigmatizzare una élite politica invisa.
Lo si vede con particolare chiarezza a
proposito delle colpe colonialiste dell’Europa occidentale o di quelle
dell’America per il suo passato razzista.
La più
potente incarnazione politica dell’etica della colpa è stata il gesto morale
del cancelliere Willy Brandt, inginocchiatosi due volte per chiedere perdono:
la
prima in Polonia, al ghetto di Varsavia, e la seconda volta in Israele, allo
Yad Vashem, il centro di studi, documentazione, istruzione e commemorazione
sull’Olocausto.
Brandt
fece questo nobile ed eroico atto di pentimento pubblico davanti al mondo per i
crimini e i peccati della sua nazione.
Non
era affatto un gesto da nemico sconfitto, che del resto egli non aveva ragione
di compiere – lo stato è cosa diversa dall’individuo, e quest’ultimo, anche
quando ne è il rappresentante, difficilmente potrà fare di un atto pubblico di
contrizione una politica di stato.
Lo
stato che s’inginocchia e chiede scusa, come fece Willy Brandt, contraddice il
modello hobbesiano dello stato moderno che non riconosce i propri errori, non
si pente per le proprie colpe e comprende solo il linguaggio del potere.
Il potere è verità, e la verità è potere: è questa la logica di potere
hobbesiana.
Il male è impotenza.
Se la
virtù risiede unicamente nella capacità e sopravvivenza del più adatto, il vero
vizio è la debolezza.
Il diritto internazionale, e qualsiasi altra
norma e valore, devono adattarsi alle priorità ed esigenze delle grandi
potenze.
Perciò il sovrano andrà rispettato sempre e
ovunque, mentre ci sarà soltanto disprezzo per le “No Man’s Land”, le «terre di
nessuno» create, sostenute e armate per impedirvi lo sviluppo di qualsiasi
forma autonoma di vita dignitosa.
La
vita non può che essere brutta, brutale e breve:
è
questo il vero messaggio del nuovo Leviatano fabbricato dalla Russia di
Vladimir Putin.
Avremmo
mai potuto immaginare un leader dell’Unione sovietica chiedere scusa per i
crimini atroci e i comportamenti odiosi di cui si sono macchiati i militari, le
autorità, l’élite, l’apparato statale del suo paese?
Potremmo
oggi immaginare un capo di stato russo chiedere scusa a uno qualsiasi degli
stati la cui esistenza è stata minacciata o distrutta per decisione russa?
La
risposta è semplice: no.
È un’eventualità inimmaginabile. La Germania e
la Russia si somigliano solo superficialmente sul piano politico.
La
società pacifista sorta nella Germania postbellica, in combinazione con una
Ostpolitik talmente efficace che oggi l’élite politica tedesca appare cieca e
disorientata di fronte al putinismo, cela a malapena la differenza di fondo tra
i due aggressori di un tempo, uno dei quali ha drasticamente modificato il
proprio paradigma politico, mentre l’altro ha preferito restare sé stesso nel
peggior modo possibile.
La
Germania ha scelto di diventare il primo stato realmente non hobbesiano del
mondo moderno, mentre la Russia è sempre stata ossessionata, e lo è tuttora,
dall’idea di risuscitare e riportare in scena un mondo politico predatorio,
incapace di pentimento e profondamente immorale.
Invece dello scontro di civiltà teorizzato da
Samuel Huntington, che sottostimava le enormi distanze morali esistenti
all’interno dell’Europa, dovremmo guardare a quella che è oggi la vera posta in
gioco:
lo scontro tra due modelli di stato,
riconducibili alle idee emblematicamente rappresentate da Thomas Hobbes e Willy
Brandt rispettivamente.
C’è
poi l’altro tema fondamentale della nostra epoca, il male.
La
questione del male è molto più complessa della presenza del Diavolo – del male
radicale – in politica.
Comprende
un altro fenomeno, molto più profondo: quello che tu, Zygmunt, chiami male
liquido.
Ed è
questo in realtà, secondo me, l’aspetto centrale e cruciale che dovremmo
sviluppare nel nostro dialogo.
Che
cosa significa il Diavolo, nella politica?
Che
senso ha chiamare in causa la teologia e la demonologia su aspetti
squisitamente umani della vita moderna?
La
storia ci insegna che un senso, in questo, c’è.
Il
ventesimo secolo ha mostrato con chiarezza che il Diavolo in politica coincide
con l’ascesa di forme estreme di male che disprezzano apertamente la vita, il
valore dell’individuo, la dignità e l’umanità, aprono la strada alla paura e
all’odio e trionfano attraverso la distruzione dell’altrui libertà e
realizzazione di sé.
Vytautas
Kavolis, analizzando l’emergere dei simboli di ribellione e capovolgimento
dell’ordine costituito, ha ricostruito il percorso delle rappresentazioni
simboliche del male intese come cornici interpretative per la ricerca di
risposte agli interrogativi del presente, ai nostri sforzi di comprendere noi
stessi e il mondo circostante.
Nel
suo studio Kavolis vede in Prometeo e Satana delle figure mitologiche e
raffigurazioni simboliche centrali, che rivelano le concezioni del male che
dominavano l’immaginazione morale degli scrittori e pensatori precristiani e
cristiani.
Prometeo
si
manifesta come eroe briccone che sfida Zeus non solo per naturale inimicizia
con gli dei dell’Olimpo, ma anche per compassione verso l’umanità.
Satana compare invece nella Bibbia come
sovvertitore dell’ordine universale stabilito da Dio, e ha dunque la piena
responsabilità di tutte le manifestazioni del male che derivano da questa sua
opera sovversiva.
Il
lavoro di Kavolis sul terreno della psicologia culturale ci offre una sottile e
acuta analisi dei modelli di male come paradigmi della morale secolare, e dei
modelli di ribellione come modalità contrapposte di logica culturale.
Il
pensatore lituano sviluppa alcune interessanti riflessioni sulla nascita dei
miti di Prometeo e di Satana.
Nella
teoria di Kavolis sull’avvento della modernità, Prometeo si erge come metafora
del progresso tecnologico e di una civiltà tecnologicamente efficiente,
abbinata a una sorta di visione empatica e compassionevole delle aspirazioni e
sofferenze del genere umano, mentre Satana viene visto come metafora della distruzione del
potere legittimo e del ribaltamento dell’ordine sociale e morale dominante.
Per
questa via, Kavolis sviluppa alcune riflessioni particolarmente lucide e
stimolanti sulla logica simbolica del marxismo e di tutte le grandi rivoluzioni
sociali o politiche, che presentano occasionalmente aspetti prometeici e
satanici (…)
Il
complice e il sovrano
Gognablog.sherpa-gate.com
- Giorgio Agamben – (Gennaio 2023) – ci dice:
(quodlibet.it)
Intervento
alla commissione DU.PRE del 28 novembre 2022.
Vorrei
condividere con voi alcune riflessioni sulla situazione politica estrema che
abbiamo vissuto e dalla quale sarebbe ingenuo credere di essere usciti o anche
soltanto di poter uscire.
Credo
che anche fra di noi non tutti si siano resi conto che quel che abbiamo di
fronte è più e altro di un flagrante abuso nell’esercizio del potere o di un
pervertimento – per quanto grave – dei principi del diritto e delle istituzioni
pubbliche.
Credo
che ci troviamo piuttosto di fronte una linea d’ombra che, a differenza di
quella del romanzo di Conrad, nessuna generazione può credere di poter
impunemente scavalcare.
E se
un giorno gli storici indagheranno su quello che è successo sotto la copertura
della pandemia, risulterà, io credo, che la nostra società non aveva forse mai
raggiunto un grado così estremo di efferatezza, di irresponsabilità e, insieme,
di disfacimento.
Ho
usato a ragione questi tre termini, legati oggi in un nodo borromeo, cioè un
nodo in cui ciascun elemento non può essere sciolto dagli altri due.
E se,
come alcuni non senza ragione sostengono, la gravità di una situazione si
misura dal numero delle uccisioni, credo che anche questo indice risulterà
molto più elevato di quanto si è creduto o si finge di credere.
Prendendo in prestito da Lévi-Strauss
un’espressione che aveva usato per l’Europa nella seconda guerra mondiale, si
potrebbe dire che la nostra società ha «vomitato sé stessa».
Per
questo io penso che non vi è per questa società una via di uscita dalla
situazione in cui si è più o meno consapevolmente confinata, a meno che
qualcosa o qualcuno non la metta da cima a fondo in questione.
Ma non
è di questo che volevo parlarvi;
mi
preme piuttosto interrogarmi insieme a voi su quello che abbiamo fatto finora e
possiamo continuare a fare in una tale situazione.
Io condivido infatti pienamente le
considerazioni contenute in un documento che è stato fatto circolare da Luca
Marini quanto all’impossibilità di una rappacificazione.
Non
può esservi rappacificazione con chi ha detto e fatto quello che è stato detto
e fatto in questi due anni.
Non
abbiamo davanti a noi semplicemente degli uomini che si sono ingannati o hanno
professato per qualche ragione delle opinioni erronee, che noi possiamo cercare
di correggere.
Chi
pensa questo s’illude.
Abbiamo
di fronte a noi qualcosa di diverso, una nuova figura dell’uomo e del
cittadino, per usare due termini familiari alla nostra tradizione politica.
In ogni caso, si tratta di qualcosa che ha
preso il posto di quella endiadi e che vi propongo di chiamare provvisoriamente
con un termine tecnico del diritto penale: il complice – a patto di precisare che si tratta
di una figura speciale di complicità, una complicità per così dire assoluta,
nel senso che cercherò di spiegare.
Nella
terminologia del diritto penale, il complice è colui che ha posto in essere una
condotta che di per sé non costituisce reato, ma che contribuisce all’azione
delittuosa di un altro soggetto, il reo.
Noi ci
siamo trovati e ci troviamo di fronte a individui – anzi a un’intera società –
che si è fatta complice di un delitto il cui il reo è assente o comunque per
essa innominabile.
Una
situazione, cioè, paradossale, in cui vi sono solo complici, ma il reo manca,
una situazione in cui tutti – che si tratti del presidente della Repubblica o
del semplice cittadino, del ministro della salute o di un semplice medico –
agiscono sempre come complici e mai come rei.
Credo
che questa singolare situazione possa permetterci di leggere in una nuova
prospettiva il patto hobbesiano.
Il
contratto sociale ha assunto, cioè, la figura – che è forse la sua vera,
estrema figura – di un patto di complicità senza il reo – e questo reo assente
coincide con il sovrano il cui corpo è formato dalla stessa massa dei complici
e non è perciò altro che l’incarnazione di questa generale complicità, di
questo essere complici, cioè piegati insieme, di tutti i singoli individui.
Una
società di complici è più oppressiva e soffocante di qualsiasi dittatura,
perché chi non partecipa della complicità – il non-complice – è puramente e
semplicemente escluso dal patto sociale, non ha più luogo nella città.
Vi è
anche un altro senso in cui si può parlare di complicità, ed è la complicità
non tanto e non solo fra il cittadino e il sovrano, quanto anche e piuttosto
fra l’uomo e il cittadino.
Hannah
Arendt ha più volte mostrato quanto la relazione fra questi due termini sia
ambigua e come nelle Dichiarazioni dei diritti sia in realtà in questione l’iscrizione
della nascita, cioè della vita biologica dell’individuo, nell’ordine giuridico-politico dello
Stato nazione moderno.
I
diritti sono attribuiti all’uomo soltanto nella misura in cui questi è il
presupposto immediatamente dileguante del cittadino.
L’emergere in pianta stabile nel nostro tempo
dell’uomo come tale è la spia di una crisi irreparabile in quella finzione
dell’identità fra uomo e cittadino su cui si fonda la sovranità dello stato
moderno.
Quella
che noi abbiamo oggi di fronte è una nuova configurazione di questo rapporto,
in cui l’uomo non trapassa più dialetticamente nel cittadino, ma stabilisce con
questo una singolare relazione, nel senso che, con la natività del suo corpo,
egli fornisce al cittadino la complicità di cui ha bisogno per costituirsi
politicamente, e il cittadino da parte sua si dichiara complice della vita
dell’uomo, di cui assume la cura.
Questa
complicità, lo avrete capito, è la biopolitica, che ha oggi raggiunto la sua
estrema – e speriamo ultima – configurazione.
La
domanda che volevo porvi è allora questa: in che misura possiamo ancora
sentirci obbligati rispetto a questa società?
O se,
come credo, ci sentiamo malgrado tutto in qualche modo ancora obbligati,
secondo quali modalità e entro quali limiti possiamo rispondere a questa
obbligazione e parlare pubblicamente?
Non ho
una risposta esauriente, posso soltanto dirvi, come il poeta, quel che so di non poter più fare.
Io non
posso più, di fronte a un medico o a chiunque denunci il modo perverso in cui è
stata usata in questi due anni la medicina, non mettere innanzitutto in
questione la stessa medicina.
Se non
si ripensa da capo che cosa è progressivamente diventata la medicina e forse
l’intera scienza di cui essa ritiene di far parte, non si potrà in alcun modo
sperare di arrestarne la corsa letale.
Io non
posso più, di fronte a un giurista o a chiunque denunci il modo in cui il
diritto e la costituzione sono stati manipolati e traditi, non revocare
innanzitutto in questione il diritto e la costituzione.
È forse necessario, per non parlare del
presente, che ricordi qui che né Mussolini né Hitler ebbero bisogno di mettere
in questione le costituzioni vigenti in Italia e in Germania, ma trovarono anzi
in esse i dispositivi di cui avevano bisogno per istaurare i loro regimi?
È
possibile, cioè, che il gesto di chi cerchi oggi di fondare sulla costituzione
e sui diritti la sua battaglia sia già sconfitto in partenza.
Se ho
evocato questa mia duplice impossibilità, non è infatti in nome di vaghi
principi metastorici, ma, al contrario, come conseguenza inaggirabile di una
precisa analisi della situazione storica in cui ci troviamo.
È come se certe procedure o certi principi in cui si
credeva o, piuttosto, si fingeva di credere avessero ora mostrato il loro vero
volto, che non possiamo omettere di guardare.
Non
intendo con questo, svalutare o considerare inutile il lavoro critico che
abbiamo svolto finora e che certamente anche oggi qui si continuerà a svolgere
con rigore e acutezza.
Questo
lavoro può essere ed è senz’altro tatticamente utile, ma sarebbe dar prova di
cecità identificarlo semplicemente con una strategia a lungo termine.
In
questa prospettiva molto resta ancora da fare e potrà essere fatto solo
lasciando cadere senza riserve concetti e verità che davamo per scontati.
Il
lavoro che ci sta davanti può cominciare, secondo una bella immagine di Anna
Maria Ortese, solo là dove tutto è perduto, senza compromessi e senza
nostalgie.
(Giorgio
Agamben è un filosofo italiano).
Foreste
e altre soluzioni
naturali
alla crisi climatica.
Gognablog.sherpa-gate.com
– Redazione – (29 Dicembre 2022) – ci dice:
Le
foreste e i terreni sono degli ottimi serbatoi di carbonio.
Alla
luce degli scarsi o nulli risultati ottenuti in ambito climatico attraverso le
politiche adottate finora è estremamente necessario allargare lo spettro degli
strumenti da introdurre.
Tra
questi spiccano le “Nature-Based Solutions”, oggetto del saggio di “Enzo Di
Giulio e Stefania Migliavacca” pubblicato su ENERGIA 3.22 con particolare
attenzione all’aspetto della forestazione.
(Foreste
e altre soluzioni naturali alla crisi climatica a cura della Redazione di
rivistaenergia.it)
“Il
grido della scienza è fondato: l’auto sfreccia veloce verso la catastrofe.”
Non bastano più i proclami ambientalisti, né
le politiche scialbe emerse nei consessi internazionali.
Urge un’azione concreta.
Tra le
tante linee di azioni percorribili, un contributo alla protezione del nostro
pianeta potrebbe venire dalle “Nature-Based Solutions” (NBS), così come ci
illustrano Enzo Di Giulio e Stefania Migliavacca nel loro saggio comparso su
ENERGIA 3.22 (Stoccare la CO2: foreste e altre soluzioni naturali (pp. 56-68)).
Cosa
sono le NBS?
“Piantare
nuovi alberi, proteggere le foreste esistenti, incrementarne l’estensione e la
qualità, gestire in modo efficiente i terreni. (…)
L’idea
di fondo è che le foreste e i terreni sono degli ottimi serbatoi di carbonio e,
pertanto, potrebbero essere utilizzati per compensare le emissioni generate
dalla combustione delle fonti fossili” (1. Fatti e retorica).
Tanto
semplice e “naturale” una loro spiegazione, quanto estremamente complesso
capire la
dinamica albero- emissioni catturate-impatto sul clima.
Molte,
infatti, le variabili da tenere in considerazione (potenziale di abbattimento,
costi, addizionalità) e su cui la letteratura ha fornito le più svariate stime,
in parte ricostruite dagli autori nel secondo paragrafo (2. La soluzione della crisi climatica
è nelle foreste?).
Tra
queste, la più difficile ma anche la più importante, è la “stima
dell’abbattimento delle foreste – non solo potenziale, anche presente”.
Si sprecano i numeri e gli studi a proposito,
tra di loro anche contrapposti e divergenti, come dimostra l’ampio paragrafo che
gli autori vi dedicano (3. Quanto CO2 assorbono le foreste?).
Tuttavia,
pur nella difficoltà di trovare un dato unico e inequivocabile, Di Giulio e
Migliavacca sostengono che:
“abbiamo
compreso che gli alberi non possono rappresentare il “silver bullet” che
risolve il problema del clima.
D’altra
parte, è sbagliato aderire alla tesi estrema che gli svantaggi siano più dei
vantaggi. (…)
Pur
non disponendo di una rassegna esaustiva degli studi, l’impressione che si
ricava è che comunque la tesi di un accumulo di carbonio superiore alle
emissioni sia preponderante”.
Ragione
quest’ultima sufficiente per giustificare un impegno in direzione delle “Nature-Based
Solutions”.
Da un punto di vista normativo (4. Foreste e crediti di carbonio: in
principio fu REDD),
“sia
il ruolo delle foreste come serbatoio di CO2 sia il concetto di crediti di
carbonio sono stati sanciti ufficialmente dal Protocollo di Kyoto nel 1997”.
Da
allora, il tema è stato oggetto di dibattito nelle COP successive fino alla
definizione della “REDD (Reducing Emission from Deforestation and forest
Degradation) approvata formalmente dalla COP di Bali del 2007 come REDD+, dove
il «+» rappresenta
gli incentivi per la gestione sostenibile delle foreste e l’incremento degli
stock forestali di carbonio.”
Le
attività REDD+ “danno origine a crediti di carbonio da usare per raggiungere i “Nationally
Determined Contributions” (NDC) oppure scambiabili sul mercato (che) collegano
soggetti che generano emissioni di carbonio con soggetti che hanno un surplus
di riduzione di carbonio”.
Anche in questo caso, le dinamiche sono molto
complesse e i meccanismi sono stati rivisti nelle COP più recenti da Parigi
(costituzione dell’Articolo 6) a Glasgow (Article 6 Rulebook).
Rimandando
all’articolo per una lettura più approfondita di queste dinamiche, ci limitiamo
solo a distinguere le due “categorie di mercati in cui il carbonio viene scambiato
come merce”:
1) i
compliance markets: mercati regolati i cui i crediti si acquistano per
raggiungere un NDC o ottemperare a un obbligo (tipo l’ETS) e
2) i
voluntary carbon markets (VCMs), in cui “i soggetti scambiano crediti di carbonio su base
facoltativa”.
Al
mercato volontario, alle sue potenzialità ma soprattutto alle sue incongruenze
(surplus di offerta, qualità dei crediti mancanza di una data di scadenza,
collocazione geografica dei paesi venditori e ridotto numero delle società di
certificazione) è dedicato il par. 5 (A che punto sono oggi i VCMS?).
Tra
gli stakeholder più attivi nell’acquisto di crediti di carbonio sul mercato
generati dalle foreste vi rientrano le compagnie energetiche.
“Il modo in cui le aziende si procurano e
utilizzano questi crediti di carbonio è fondamentale.
Potremmo definire due approcci:
«hands-on» e «hands-off».
Le
opzioni «hands-off» prevedono l’acquisto di crediti da piattaforme di scambio,
broker o direttamente da chi ha messo in atto il progetto.
”
Mentre “L’approccio «hands-on» prevede invece che le compagnie siano coinvolte
senza intermediari”. (6. NBS e compagnie energetiche).
“Le
foreste non possono risolvere da sole la questione climatica”, si legge nelle
conclusioni, “ma è altrettanto chiaro che possono dare una mano considerevole”.
Tuttavia,
viste le criticità insite nel mercato e l’apporto ancora insufficiente fornito
dal privato e dalla società all’espansione del numero di alberi piantati, serve
un ruolo più attivo dei governi (7. Foreste, Stato, mercato: conclusioni).
“Una
sorta di rivoluzione copernicana che metta al centro dall’azione lo Stato,
attraverso piani di forestazione pubblici che abbiano come target la
piantumazione di mille miliardi di alberi nei prossimi dieci anni”. (Le piante possono sopravvivere se
hanno molto CO2 a disposizione.Ndr.)
Giorgio
Canali: «Il coronavirus è la prova
generale
dell’esercito nelle strade».
Rollingstone.it
- GIANMARCO AIMI – Giorgio Canali – (17-3-2020) - ci dicono:
A 62
anni d'età, il chitarrista è ancora un anarchico che pensa che la dietrologia
sia l'unica scienza esatta.
Per sfogarsi dà testate al microfono e
continua a produrre musica fieramente indipendente.
Non è
facile intervistare un artista che, per sua stessa ammissione, si sente
immortale «finché qualcuno non mi smentirà», ha deciso di bestemmiare «per
principio», a ogni concerto tira almeno tre testate al microfono «come anti
stress» e ha dedicato un album a “László Tóth”, l’iconoclasta che con un
martello vandalizzò la Pietà di Michelangelo Buonarroti.
Perché
Giorgio Canali non suona il rock, lui è rock: «Infatti a 62 anni mi vesto
ancora come i bimbi scemi».
Ci
vediamo a Correggio, poco prima che l’Italia venga bloccata dai decreti per
contrastare il coronavirus, in un bar dove mentre io bevo spremuta lui ordina
vini bianchi uno dietro l’altro in perfetto sincrono con l’accensione delle
sigarette.
È
appena uscito con un lavoro molto interessante,” Love Tore Us Apart – Play Joy
Division”, per celebrare il quarantennale della morte di Ian Curtis, ma
certamente non è il solo motivo che mi ha spinto nel cuore dell’Emilia
paranoica cantata dai CCCP con i quali condivise l’album Epica Etica Etnica
Pathos e le successive reincarnazioni CSI e PGR.
Perché
Canali, oltre a sfornare album potentissimi e portare in giro concerti
incendiari con i suoi Rosso fuoco, dal ’99 è l’alchimista di alcune delle
produzioni indie che maggiormente hanno segnato gli ultimi vent’anni:
Verdena,
Tre Allegri Ragazzi Morti, Bugo, Le Luci della Centrale Elettrica, Zen Circus e
Motta.
A
tutto ciò, il cantante e chitarrista originario di Predappio associa una
caratteristica non comune: l’estrema schiettezza.
E
forse anche per questo – e per le imprecazioni utilizzate come rafforzativo di
alcuni concetti a cui tiene particolarmente – non lo si vede spesso (a dire il
vero quasi mai) nei “salotti buoni” della musica italiana.
Lui però se ne frega, perché «difficilmente si
libereranno di me con tutti i dischi che ho messo in giro» e quando sarà il
momento di farsi da parte non ha dubbi sulle modalità:
«Proverò
a volare precipitando da 400 metri».
Partiamo
dal disco: perché proprio i Joy Division?
È un
lavoro nato dieci anni fa per il trentennale di Ian Curtis, che abbiamo portato
dal vivo un po’ ovunque.
Era
nato dalla richiesta del Museo di Storia Naturale di Reggio Emilia, così si è
sviluppato in mezzo alla paccottiglia di bussolotti con dentro dei feti e
strani cani impagliati.
I Joy Division fanno parte della mia genetica,
per noi che siamo sulla sessantina è difficile toglierci di dosso Ian Curtis e
la maledizione del primo post punk, che poi è stato chiamato” new wave”.
Però
li abbiamo affrontati diversamente da chiunque altro: loro partivano da basso e
batteria e noi facciamo a meno proprio di basso e batteria.
Le
canzoni sono ridotte agli arrangiamenti minimali per chitarra elettrica e
chitarra baritono, registrate su un “sequencer “con un terzo chitarrista
fantasma.
È un lavoro che ha già superato un centinaio
di concerti, ma chiuso il progetto è arrivato il quarantennale e siccome il
pubblico ha sempre risposto bene, per chi non ha assistito adesso c’è il disco.
I Joy
Division fanno parte della tua adolescenza, ma qual è la prima immagine che ti
ricordi di Giorgio Canali bambino?
Quella
in una foto custodita chissà dove: io in pantaloncini corti, cicciottello, con
una mano nella taschina, perché ero già molto timido e non sapevo come mettermi
in posa, guardavo il fotografo con aria stupita.
Quei
pantaloncini corti li ho portati fino alla terza media.
Mia
madre sosteneva che tenessero lontano dalle cattive compagnie.
Adesso
posso dirlo: non servono a un cazzo!
Poi la
cattiva compagnia sei diventato tu.
Dopo
ci è esploso in faccia il punk.
Prima
ci ritrovavamo con una chitarra in mano a dire: “Mi piacciono i Beatles e
voglio imparare le loro canzoni”.
In seguito è cambiato tutto: “Non sanno
suonare niente e salgono sul palco? Allora ci vengo anch’io”.
Bastavano
tre accordi, spesso anche due.
Comunque,
ero un rincoglionito fino all’età della ragione, verso i 18 anni.
Ricordo che a 17 c’erano le elezioni, il punk
nel ’75 non era arrivato in Italia, e ho seriamente rischiato di votare
Movimento Sociale.
Mio
padre era stalinista e l’avrei fatto solo per andargli contro.
Per
fortuna non è successo.
Sei
originario di Predappio, il paese noto per aver dato i natali a Benito
Mussolini.
Come
vivi questa storia che a ondate si ripresenta e divide le coscienze?
Predappio
è storicamente antifascista.
Adesso qualcuno ha approfittato di una certa
rilassatezza per farci un business, infatti ci sono almeno un paio di
supermercati dell’idiozia menefreghista.
Ma per
il resto la gente non è fascista.
Per
anni c’è stata una amministrazione di sinistra, decisamente refrattaria a
quello schifo delle celebrazioni, mentre ora è in carica una vera destra.
Il sindaco, tra l’altro, si chiama come me,
Canali, ma è di un’altra genia che è sempre stata fascista, per cui non mi
stupiscono deliri come quello di non finanziare la gita ad Auschwitz.
Di stupidità è pieno il mondo, ne ho trovata
parecchia anche rossa, ma di solito è nera.
Come è
avvenuto, invece, il tuo passaggio da fonico a membro dei CCCP?
Stavo
facendo musica sperimentale e mi sono reso conto che la gente, piuttosto che
pagarmi per ascoltare la mia musica, mi avrebbe pagato per ascoltare la loro e
così ho imparato il lavoro di fonico.
Ho
fatto di tutto, dai balli di liscio agli spettacoli porno dell’agenzia di
Riccardo Schicchi con Moana Pozzi e Cicciolina.
Prendevo
un sacco di soldi per schiacciare play sul registratore e aprire un microfono.
Poi ho
deciso di concentrarmi su quello che mi piaceva. E
ro in
giro per l’Europa con i Litfiba e i CCCP li ho conosciuti in Unione Sovietica.
Da lì
è partito il delirio di Gianni Maroccolo, anche lui uscito dai Litfiba che mi
ha coinvolto dicendomi:
“So
che a te piacciono le macchine, ma proviamo a fare roba più suonata.
Portati
una chitarra”.
Prima
la usavo solo per strimpellare. Dopo poco è stato automatico entrare nei CCCP.
Guardandoti
indietro, come definiresti quell’esperienza che si è trasformata in CSI e PGR?
Sono
stato un CSI e un PGR forzato, perché contemporaneamente per cinque anni ero il
fonico dei Noir Désir.
Prendevo treni e aerei per tornare in Italia a
registrare e quando non ce la facevo qualcuno mi sostituiva.
Sono
stato tirato dentro in questa esigenza di avere l’ultimo album dei CCCP e
questo aveva dato l’input per continuare.
I due emiliani (Ferretti e Zamboni) e i due
toscani (Maroccolo e Magnelli) erano rimasti in quattro e quando votavano erano
pari, gli mancava l’ago della bilancia.
Non
credo che né gli uni né gli altri fossero felici di avermi in mezzo, perché
sono un dissidente rompicoglioni, però ha funzionato proprio perché eravamo
completamente diversi l’uno dall’altro.
Recentemente
ho incontrato Giovanni Lindo Ferretti, che mi ha ribadito la sua vicinanza a
Papa Benedetto XVI e a Giorgia Meloni.
Mi
sembra impossibile un dialogo fra voi, eppure collaborate da anni.
Siamo
in buonissimi rapporti, se parliamo di vino, cibo e musica andiamo d’accordo.
L’importante
è non affrontare temi etici e politici.
Quando
l’ho visto vicino alla Meloni mi ha fatto ridere, anche se è terrificante.
Poi come tutte le cose l’hanno
sopra-mediatizzata.
Lui è
sempre stato così, un massimalista religiosissimo.
Una
volta gli serviva il “papa buono” Togliatti, poi si è scelto Papa Ratzinger.
Ha
bisogno di un Papa.
In
questo momento, però, penso che sia uno dei peggiori nemici di Bergoglio.
Ultimamente,
però, mi spaventa essere d’accordo con Ferretti, così come di ritrovarmi al cento per cento con Gianni Maroccolo.
Siamo
sempre stati in conflitto, io e Gianni.
Ci
siamo mandati a cagare almeno dieci volte: “Te e me è l’ultima volta che
facciamo qualcosa insieme”.
Invece
ultimamente concordiamo su tutto. Magari facciamo un partito.
Anche
da solista e poi supportato dalla band Rosso fuoco ti sei tolto delle grandi soddisfazioni.
Dall’album
Che fine ha fatto” Lazlotòz” dedicato una figura alquanto controversa.
Quello
è stato un viaggio surreale nell’iconoclastia del punk.
C’è
chi si scandalizza, perché László Tóth ha massacrato un’opera d’arte.
Invece
secondo me ha rovinato una bellissima opera di artigianato pregiato, ma La
Pietà non la definirei arte.
Un
vero artista è Jackson Pollock, oppure Hieronymus Bosch.
Mentre
Michelangelo e Leonardo non mi hanno mai emozionato.
Comunque,
erano dieci anni che avevo materiale mio da cantare e a un certo punto il “Consorzio
Produttori Indipendenti”, che produceva cani e porci, si è chiesto: “Perché non
fare un disco con la roba di Giorgio?”.
E
quindi il primo album era pieno di amici.
Ti è
mai mancato l’ottenere un successo di massa, o è qualcosa a cui non aspiri?
Forse
non sono capace di fare cose che vanno incontro al gusto dei più.
Se
fossi capace, probabilmente lo farei.
Oppure
non riesco a compiere quel passettino più lungo per sputtanarmi e piacere a più
persone.
Ma
fondamentalmente, non credo di avere la qualità di arrivare a tutti.
I
messaggi che lancio attraverso i testi sono criptici, si comprendono a una
terza lettura e quando la capiscono alla prima mi fanno abbastanza incazzare.
È
piuttosto significativa anche un’altra parte della tua attività, cioè quella di
produttore.
Hai
tenuto a battesimo alcuni dei progetti indie più interessanti degli ultimi
anni: Verdena, Tre Allegri Ragazzi Morti, Bugo, Le Luci della Centrale
Elettrica, Zen Circus, Motta.
I
Verdena erano una delle poche cose interessanti in giro.
Li
conoscevo da un anno e quando mi hanno proposto di curare la produzione è
avvenuto naturalmente.
Sono
delle piccole teste di cazzo, ma adesso sono cresciuti.
È stato magico lavorare con loro, con Roberta
basso andavamo d’accordo, con Luca batteria quasi, con Alberto meno perché era
sospettoso.
Meno
male che a un certo punto Roberta gli diceva: “Stai zitto e suona”.
Dopo
qualche anno, però Alberto mi ha chiesto scusa per la supponenza, aggiungendo:
“Adesso
so cosa vuol dire produrre i Verdena”.
Ma
loro avevano delle composizioni potentissime.
Sono
stupendi ancora oggi, non si sono mai sputtanati per avere successo, sono tra i
pochissimi a tenere i cachet bassi che permettono i biglietti a 12-13 euro al
massimo e per me è più di un valore aggiunto, dovrebbe essere obbligatorio per
tutti.
Vasco
Brondi ha fatto la scelta giusta di chiudere con “Le Luci della Centrale
Elettrica”, come noi con i PGR.
I suoi
dischi sono bellissimi, uno più dell’altro, e l’ultimo un capolavoro.
C’è
qualcuno che hai prodotto che non ha raggiunto il grande pubblico, ma secondo
te lo meriterebbe?
Ce ne
sono parecchi.
Per
esempio, i L’Upo di Vimercate sono fantastici, prima si chiamavano Fuori
Orario.
Abbiamo
fatto insieme un paio di album, ma nessuno se li è mai filati.
Nel mio album “Perle per porci” ho infilato
dentro tante cose che secondo me meritavano e c’era anche un loro pezzo.
Oppure un cantautore come Mattia Prevosti di
Varese, secondo me scrive benissimo.
Per
ora è difficile buttarsi in questo genere, ma ha un album che farà uscire su
Spotify e staremo a vedere.
Così
come gli “Operaja Criminale” di Roma, che sono diventati la backing band di
Motta.
Federico
Fiumani dei Diaframma ha dichiarato: “Il rock ormai sensibilizza solo i già
sensibilizzati”.
Tu che
suoni da sempre musica rock, che ne pensi?
Io non
suono musica rock, io sono un rocker.
Infatti,
a 62 anni vado ancora in giro vestito come i bambini scemi.
Ha
ragione Fiumani, è la verità.
Perché
la gente è influenzata dalle mode, da quello che va o non va.
Internet
che è un po’ la nuova radio, non aiuta a diffondere solo le cose buone, come
vediamo, ma le epidemie di merda si espandono molto più velocemente.
Però,
come cantava Neil Young, “rock and roll can never die”.
È così
divertente salire su un palco, scuotere il culo e spaccare la chitarra contro
gli amplificatori che qualcuno ci sarà sempre a portarlo avanti.
Se hai
i soldi per farlo, sennò la chitarra e gli ampi te li fai prestare.
Il
mondo indie in questi anni è cambiato moltissimo, dallo stesso ambiente sono
usciti artisti come Tommaso Paradiso e Calcutta ora considerati mainstream.
Cos’è
l’indie oggi?
Con il
termine indie venivano definite le etichette indipendenti che si affidavano a
piccole distribuzioni.
In
questi giorni mi ha fatto ridere la foto che mi hanno mandato di una autoradio
in cui passava un pezzo dei CSI ed eravamo catalogati come indie.
Ma eravamo tutto fuorché indie, se vuoi
alternativi, ma registravamo per la Universal non per la “Rosa Rossa Records”.
Allora
ho risposto con una battuta: “Sì, eravamo talmente avanti, che adesso siamo
indie-etro”.
Paradiso
e Calcutta sono pop. Che siano partiti dal circuito indie è normale, com’era
normale che dal Folk Studio di Roma negli anni ’70 uscissero De Gregori e
Venditti, il diavolo e l’acqua santa.
Ultimamente
è diventato indie anche Gianluca Grignani, facendo il percorso inverso.
Ho
ascoltato solo tre sue canzoni vent’anni fa, perché mi hanno costretto per La
fabbrica di plastica.
Non
l’ho mai incontrato, ma ho letto spesso di sue apparizioni su palchi altrui
ubriaco e in questo lo apprezzo, perché il teppista ogni tanto va fatto.
Con
Jovanotti invece hai un ottimo rapporto.
Eppure, tornando a De Gregori e Venditti,
sembrate davvero il diavolo e l’acqua tanta.
Lorenzo
è fantastico, spettacolare, riesce a veicolare un ottimismo che vorrei avere io
e con una intelligenza rara.
Alla
gente poi tira il culo se uno ha successo, quindi diventa il bersaglio di un
sacco di stronzate.
Come quella menata finto ecologica
all’avversione ai concerti da spiaggia.
Li abbiamo sempre fatti e adesso non vanno
bene.
Woodstock
era ecologico?
Diventi
filo-qualcosa quando fa comodo sparare addosso agli altri.
Pensa
che lo detestavo Lorenzo.
Con i CSI gli abbiamo aperto un tour e la
prima volta sono salito sul palco con un adesivo sulla chitarra con un sole che
ride e la scritta “Jovanotti, no grazie”.
Quando
l’ha visto era contentissimo, lo voleva a tutti costi.
Invece
di trovare uno che mi mandava a quel paese ho scoperto una persona magnifica e
molto sincera a differenza di altri che cavalcano argomenti etici in modo
utilitaristico.
Al
riguardo Piero Pelù, che tu conosci bene, è stato accusato di essere un
“borghese che gioca alla rivoluzione” sempre dal suo amico storico Federico
Fiumani. Che ne pensi?
Sono
molto amico di Piero, siamo come fratelli da sempre nonostante le strade si
siano divise.
C’è da
dire che i Litfiba hanno iniziato a fare dischi di merda, lì non ci piove e ci
ridiamo spesso ogni volta che ci vediamo.
Non credo che Fiumani sia amico di Piero come
rivendica, perché se sei un amico certe cose gliele vai a dire di persona.
Pelù da sempre vuole arrivare al grande
pubblico, i Litfiba stessi ne erano la dimostrazione.
Certo,
mi fa incazzare che quando cavalca delle battaglie strafighe è bersaglio delle
critiche perché sembra che lo faccia in modo utilitaristico.
Forse
a volte lo fa, però almeno cavalca quelle giuste.
Siamo
anche reduci dal tormentone “le brutte intenzioni, la maleducazione…” che ha
visto coinvolti Morgan e Bugo a Sanremo.
Che idea ti sei fatto della questione?
Marco
(Castoldi, in arte Morgan, ndr) se lo conosci lo prendi com’è.
Purtroppo,
si sta suicidando da solo, e anche in maniera piuttosto vistosa.
Si sta
lanciando dai cornicioni degli hotel più alti in pieno centro.
Abbiamo
passato spesso serate insieme, ma con Bugo sono molto più amico viste le 90
date e un album condivisi.
A
Sanremo Cristian (Bugatti, in arte Bugo, ndr) non doveva farsi trascinare in
quelle assurdità mediatiche, che sono il terreno di battaglia di Morgan.
Appena
vedrò Bugo gli diro: “Che cazzo hai fatto, imbecille? Quella danza lì non si
balla!”.
Da
sempre voleva andare a Sanremo, nell’ambiente è risaputo, e forse ha perso
lucidità.
La
volta che c’è riuscito si è portato dietro il guastafeste, ma non credo che
venderà più dischi o avrà più gente ai suoi concerti.
Secondo
te Morgan è un grande artista o un fenomeno mediatico?
Oggi
un fenomeno mediatico.
Però è
vero che Morgan è un anarchico, uno vero.
Anarchia
non vuol dire andare in giro con il cane e la cresta.
I
punkabbestia possono essere anarchici, ma l’anarchia è un’altra cosa.
Morgan
si sta suicidando perché gioca troppo con certe cose, come gli eccessi.
Non
giudico la vita privata finché riesci a gestirla, ma quando trascini in storie
di merda gli altri inizi a starmi sulle palle.
Non
hai mai desiderato di partecipare a Sanremo?
Il
nostro rapporto con Sanremo è sempre stato buffo, sia con i CSI che i PGR.
Avevamo
un atteggiamento da furboni.
Ogni
volta un paio di noi dicevano “andiamo a Sanremo” e altri due rispondevano “non
se ne parla” e alla fine non si decideva mai.
So che io e Ferretti eravamo d’accordo sia
sull’andarci che sul non andarci.
Hai
parlato di atteggiamento anarchico. Qui siamo nell’Emilia rossa…
Scusa
se ti interrompo, ma l’Emilia rossa è morta negli anni ’80, quando hanno
iniziato a entrare nel giro le Coop.
È tutto finito un po’ di tempo fa. Per alcuni
è preistoria.
Le tue
posizioni sono note, ma vorrei proporti un gioco: che musica faresti ascoltare
ai politici di oggi per dargli un segnale?
Gli
consiglierei di mettersi in cuffia del “death metal “a tutto volume e spaccarsi
le orecchie.
Quella
gente li è veramente pericolosa. Io ho molta paura di quello che riescono a
crearsi attorno.
Stanno cavalcando ingenuamente i social, ma
sai, io sono un complottista.
Ti
riferisci alla situazione odierna, cioè alle misure restrittive per combattere
il coronavirus?
La
dietrologia è l’unica scienza esatta, per me.
I politici sono il perfetto strumento di un potere che
vuole toglierci tutte le libertà.
L’emergenza coronavirus mi fa paura, come se
fosse una prova generale di blindatura, per giustificare l’esercito in piazza.
Hanno
sbagliato faldone, chiudendo i bar dalle 18, quello era il protocollo in caso
di sedizione.
È
chiaro che i carabinieri sono troppo ottusi, ma ci sarà sempre qualcuno che
farà la roba sbagliata.
L’ho
vista strana questa cosa, l’anno prossimo chissà quale sarà l’emergenza. Bisogna starci attenti, perché c’è in
giro quella che sembra una “prova generale di controllo totale”.
Tu sei
anarchico?
Mi
sentivo così fino al 1984.
In quell’anno sono andato al Meeting
internazionale degli anarchici a Venezia e li ho mandati tutti a cagare.
Sai
perché? Una mattina mi sveglio su una panchina e vedo il “compagno anarchico”
che porta in giro una scolaresca facendogli vedere le bellezze del festival.
A un
certo punto gli ho detto: “Parla per te, coglione!”
E me
ne sono andato.
“Noi”
e “anarchici” sono due parole che non si coniugano.
Lo hanno capito bene gli spagnoli, che a ogni
meeting si contrappongono tra possibilisti e oltranzisti e a un certo punto si
menano.
È
l’unica cosa interessante di quegli incontri.
Qual è
il tuo rapporto con le regole, visto che viviamo in un periodo di disposizioni
molto restrittive?
Sono
fatte per essere infrante!
Chiaro
che le rispetto, io pochissimo, cerco di passare tra le maglie, se posso.
Sono
fortunato di vivere in un Paese in cui l’anarchia di comodo paga.
In
Svizzera o negli Stati Uniti sarei già in galera da un pezzo.
Ma le
regole etiche non vanno mai infrante.
Un po’
come la bestemmia, che mi sembra faccia parte dei tuoi “rafforzativi” per
esprimere un concetto. I
n
un’intervista lo scrittore Massimo Fini ha raccontato:
“In piscina, dei ragazzini mi avevano rubato
il costume dall’armadietto, che avevo lasciato aperto.
Ridatemelo, dicevo. E loro niente.
Ridatemelo, e loro sghignazzavano. Ridatemelo
porco d..! E me l’hanno ridato”. Usi questa imprecazione nello stesso modo?
La
bestemmia è sempre utile.
Bestemmio
per principio.
Sono
obbligato ad ascoltare un sacco di discorsi violenti di anti-abortisti,
anti-divorzisti, gente contro l’eutanasia che spesso hanno una matrice
cattolica e per me quelle sono bestemmie.
L’unico modo per farli sentire offesi come mi
sento io è bestemmiare.
Si
chiama rappresaglia.
Ma non
dico dieci bestemmie per ogni cosa di quel tipo che sento in giro.
Un po’
come le testate al microfono che sferri durante i concerti?
È uno
sfogo bellissimo.
Da
piccolo, quando ero incazzato, davo le testate sul muro.
Infatti mi sono incrinato qualche vertebra e
soffro ancora di cervicale, ma ho una fronte che se ti do una testata ti
ammazzo.
Ci
sono due-tre punti nel concerto dove so che ci sta bene una testata ed è
liberatorio, appunto come una bestemmia.
Come
ti approcci alla religione?
Non me
ne voglia chi è religioso, ma credo sia la più grande delle superstizioni.
Se hai
un amico immaginario e lo vedi solo tu non sei normale, se invece lo vedete in
tanti si chiama religione.
Quindi
non temi il tempo che passa?
Credo
che tutti lascino traccia in questo mondo.
In fondo di questo si tratta: lasciare tracce
in giro.
C’è
chi fa figli per lasciare una traccia, o anche per avere un sottoposto perché è
sempre stato sottomesso, ed è l’atteggiamento della maggior parte delle
persone.
Secondo
me tutti vogliono lasciare un ricordo, chi scrivendo “viva la figa” sul muro,
chi facendo canzoni, chi realizzando libri o quadri.
Una
traccia credo di averla già lasciata.
I CD
hanno mille anni di smaltimento, per cui con tutti quelli che ho messo in giro
saranno cavoli vostri cercare di farli fuori.
Se
potessi decidere, come vorresti morire?
Io
sono immortale, prima di tutto.
Ne
sono quasi convinto, poi magari qualcuno mi smentirà.
Comunque,
se dovesse succedere vorrei morire volando.
Dai 20
ai 30 anni sognavo tutte le notti di volare.
Era
fighissimo!
Alla
fine, mi ero quasi convinto di saperlo fare.
Forse
basta concentrarsi tanto e inizi a levitare.
Però
se proprio deve accadere, precipitando da 400 metri.
Vicino
a Correggio c’è la Pietra di Bismantova (montagna caratteristica
dell’Appennino reggiano, ndr), un bel salto da fare.
In caso di depressione totale credo che farei
l’ultimo sbattimento di salire fin lassù a piedi.
Come nella canzone Precipito, ma senza
parapendio.
(Giorgio
Canali -Gianmarco Aimi)
La
tecnologia realizza l’incubo
della
sorveglianza globale:
allarme
ONU.
Agendadigitale.eu
– (31 ottobre -2022) – Ivana Bartoletti -Lucia Lucchini -Angelo Alù – ci
dicono:
Il
rapporto Onu “Il diritto alla privacy nell’era digitale” ipotizza una vera e propria
moratoria sull’uso e sulla vendita di strumenti di “hacking” invasivi e auspica
l’emanazione di una nuova regolamentazione conforme agli standard
internazionali vigenti in materia di diritti umani.
A
rischio i nostri diritti. Ecco perché.
La
privacy digitale è sotto assedio.
Si registra uno preoccupante scenario di
cyber-sorveglianza su larga scala e gli utenti sono esposti al pericolo di
generalizzati controlli per effetto di sofisticati spyware sempre più invasivi
in grado di effettuare un monitoraggio personale 24 ore su 24.
In altre parole, lo spazio virtuale sta
assumendo i tratti di un “campo minato” tutt’altro che sicuro e accogliente:
prende
così forma il lato oscuro della Rete con l’avvento del cosiddetto “autoritarismo digitale” caratterizzato dall’uso pervasivo
di sistemi automatizzati di controllo in grado di erodere la libertà su
Internet.
Diritto
alla privacy: il rapporto ONU.
Il
ricorso sempre più frequente degli Stati ai sistemi di sorveglianza massiva.
I
danni di una normativa troppo frammentata.
Il
ruolo della crittografia.
Diritto
alla privacy: il rapporto ONU.
Lo
mette nero su bianco, ad esempio, anche il recente rapporto delle Nazioni Unite
A/HRC/51/17 – inequivocabilmente intitolato “il diritto alla privacy nell’era
digitale” –
ove si ipotizza la necessità di una vera e propria “moratoria” sull’uso e sulla
vendita di strumenti di “hacking” invasivi sino all’emanazione di una nuova
regolamentazione conforme agli standard internazionali vigenti in materia di
diritti umani per ridurre l’impatto negativo delle minacce attualmente
configurabili online.
Venendo
progressivamente meno le originarie potenzialità positive legate allo sviluppo
embrionale della Rete come straordinaria fonte divulgativa di informazioni e
risorse distribuite a livello globale, in uno scenario di profonda metamorfosi
dell’ambiente virtuale, pur senza ancora del tutto precludersi la fruizione dei
relativi benefici, è indubbio che, secondo l’analisi delle Nazioni Unite, le
tecnologie stiano diventando gli strumenti ideali per effettuare interventi di
sorveglianza senza precedenti a causa della raccolta automatizzata delle
informazioni estrapolate da ingenti database biometrici che consentono di
processare con estrema facilità e precisione le “identità digitalizzate” delle
persone.
Il
ricorso sempre più frequente degli Stati ai sistemi di sorveglianza massiva.
L’utilizzo
di tali sistemi, lungi dal costituire, come “extrema ratio”, una misura
esclusivamente limitata a contrastare eccezionalmente specifici atti e/o
comportamenti gravemente pregiudizievoli per la salvaguardia dell’ordine
pubblico e della sicurezza nazionale al fine di scongiurare, anche in un’ottica
preventiva, fenomeni delinquenziali (come il terrorismo o la criminalità
organizzata), rappresenta invero un consueto “modus operandi” cui ricorrono
sempre più spesso in via ordinaria le autorità statali.
Sono,
infatti, frequenti le “intromissioni elettroniche” sui dispositivi personali degli
utenti, che confermano così la tendenza ad ampliare in via esponenziale il
raggio d’azione delle tecnologie anche per perseguire finalità illegittime (ad
esempio: la repressione di opinioni dissenzienti), compreso l’effetto “bavaglio” a
discapito di attivisti e giornalisti non allineati alla “narrazione” ufficiale
imposta dal “mainstream” filogovernativo.
A
riprova di tali insidie le Nazioni Unite richiamano le evidenze documentate da “Forbidden
Stories”, nell’ambito di una corposa attività di giornalismo investigativo,
sulle discusse implicazioni del software” Pegasus”, (tra i più noti spyware che
stanno registrando un picco di crescita della relativa domanda in tutto il
mondo), al punto da indurre persino il Parlamento europeo a costituire una
Commissione di inchiesta ad hoc per indagare in ordine a tali aspetti, sulla
falsariga dell’iniziativa del medesimo tenore assunta dalla Commissione
interamericana per i diritti umani (IACHR).
Gli
strumenti di sorveglianza sono suscettibili di compromettere, mediante modalità
mirate e occulte, la tutela dei diritti umani anche in ragione dell’elevato
numero di presunte vittime dei dispositivi infettati a causa del cosiddetto
“attacco zeroclick” in grado di ottenere l’accesso completo e illimitato a
tutti i sensori (compresi microfono e telecamera), nonché ai dati di
geolocalizzazione, e-mail, messaggi, foto e video e ad ogni altra applicazione
ivi installata, come descrivono con estrema precisione gli approfondimenti
realizzati in materia (richiamati dalle Nazioni Unite nel citato Report
A/HRC/51/17).
In
particolare, entrando nel merito della sua relazione particolareggiata, l’ONU
evidenzia chiaramente che i software di sorveglianza possono essere pericolosi
non solo per la capacità di monitorare i “movimenti” degli utenti, ma
soprattutto perché riescono a “manipolare il dispositivo” mediante tecniche di
“alterazione, cancellazione o aggiunta di file”, con il rischio di “falsificare prove
per incriminare o ricattare gli individui presi di mira”.
I
danni di una normativa troppo frammentata.
Alla
luce di tale scenario, le Nazioni Unite rilevano, come rilevante criticità,
l’esistenza di un panorama normativo troppo frammentato, generalista e obsoleto
che difetta di “leggi chiare e precise”, unitamente ad un preoccupante
“attivismo” governativo nell’adozione di misure di controllo pregiudizievoli
per la salvaguardia della riservatezza individuale, da cui discende un vero e
proprio “vulnus” alla tutela della privacy, anche perché proliferano le
intercettazioni di massa sulle comunicazioni della popolazione (spesso ignara
di tali controlli) e aumenta, a livello globale, l’installazione di telecamere
di sorveglianza presso i luoghi pubblici: in alcune aree del globo, ad esempio,
la densità dei sistemi di videosorveglianza oscilla tra 39 e 115 impianti per
ogni 1.000 abitanti.
Peraltro,
in un orizzonte temporale di medio-lungo termine, i pericoli per la privacy
degli individui sembrano destinati ad aggravarsi ulteriormente come diretta
conseguenza del cd. “dominio dell’identità” connesso al progressivo
perfezionamento tecnico delle tecnologie di riconoscimento biometrico, reso
oltremodo performante dall’impatto evolutivo dell’Intelligenza Artificiale che costituisce il substrato
tecnologico fondante l’implementazione della cosiddetta “Smart City”, ove sofisticati
sensori sono in grado di raccogliere e processare una mole significativa di
dati con preoccupanti effetti collaterali di permanente monitoraggio generale a
svantaggio degli individui.
In
altre parole, ben oltre le legittime finalità che consentono di giustificare,
in via del tutto eccezionale, il ricorso a invasivi strumenti di controllo
suscettibili di limitare i diritti degli individui, le Nazioni Unite ritengono
che, nella concreta prassi, la sorveglianza pubblica sia stata indebitamente utilizzata,
tra l’altro, per identificare e rintracciare i dissidenti politici, realizzare
discriminazioni etniche e razziali, colpire le minoranze e, in generale,
valutare, in una logica di ortodosso conformismo sociale, l’adeguamento – non
necessariamente spontaneo ma appunto anche indotto – delle persone alle
dominanti norme vigenti.
In
controtendenza rispetto a tali discutibili usi, il Rapporto ONU subordina
l’applicazione dei sistemi tecnologici di sorveglianza alla condizione che le
relative misure adottate siano sempre necessarie e proporzionate.
Il
ruolo della crittografia.
Al
fine di evitare qualsivoglia rischio di compressione del diritto alla privacy,
l’ONU valorizza il ruolo della crittografia come “fattore chiave” per la
sicurezza online a presidio delle libertà fondamentali, nell’ottica di
consentire alle persone di esercitare i propri diritti e condividere
apertamente le proprie idee e opinioni senza il timore di subire ritorsioni,
censure e limitazioni, purché le competenti autorità pubbliche siano sempre in
grado di “de crittografare” i dati secondo adeguati e proporzionati standard di
tracciabilità, per risalire a qualsiasi messaggio veicolato fino al suo
effettivo mittente.
Conclusioni.
Contestualmente,
le Nazioni Unite sollecitano gli Stati a verificare periodicamente, mediante
trasparenti valutazioni d’impatto (da eseguire durante l’intero ciclo di
progettazione, sviluppo, implementazione e gestione di sistemi di sorveglianza)
i possibili rischi di abuso a danno dei diritti individuali, procedendo a una
generale revisione delle legislazioni attualmente vigenti.
Basterà
una mera raccomandazione “soft” dell’ONU per realizzare un necessario – e
auspicato – cambio di rotta nella prospettiva di rafforzare la protezione dei
dati personali, oppure sembra ormai destinata definitivamente ad avverarsi
l’annunciata profezia sull’imminente “morte della privacy” con l’avvento
pervasivo delle tecnologie digitali?
Sempre
più stati vogliono
controllare i dati dei propri cittadini.
Ilpost.it
– Redazione – (21 giugno 2022) – ci dice:
Lo
mostrano varie ricerche, secondo cui la dottrina della "sovranità
digitale" è sempre più popolare, e potrebbe cambiare internet.
Negli
ultimi anni, decine di governi hanno approvato o stanno approvando leggi e misure
di gestione e controllo dei dati e dei contenuti online, con l’obiettivo di
rafforzare la propria “sovranità digitale”:
l’idea,
cioè, che i dati generati da una persona, un’azienda o un ente dovrebbero
essere immagazzinati all’interno del loro paese d’origine, o almeno essere
gestiti in conformità con gli standard di privacy e sicurezza stabiliti dal
governo.
Le
misure proposte per ottenere questo controllo sui dati, negli anni, sono state
sia tecniche sia politiche e, come hanno scritto i giornalisti del New York
Times David McCabe e Adam Salariano, potrebbero alterare in maniera consistente
il modo in cui internet ha funzionato da quando si è diffuso a livello
commerciale negli anni Novanta, ponendo limitazioni serie alla libera circolazione
dei dati.
Soltanto
tra il 2017 e il 2021, il numero di leggi, regolamenti e politiche governative
che richiedono l’archiviazione delle informazioni digitali in un determinato
paese è più che raddoppiato, passando da 67 in 35 paesi a 144 in 62 Paesi, secondo
il centro studi “Information Technology and Innovation Foundation” (ITIF).
Ogni
giorno, le persone che usano internet producono enormi quantità di
informazioni.
Pubblicare
un post sui social, correre mentre si indossa uno smartwatch, parlare ad assistenti
virtuali come Alexa, pagare con la carta di credito, fare una ricerca su
Google: tutto genera dati, che vengono poi venduti, scambiati, condivisi e
analizzati da varie aziende che ricavano così un profitto, generalmente
vendendo annunci pubblicitari.
Nella
maggior parte del mondo, negli ultimi trent’anni la libera circolazione dei
dati è stata centrale per la crescita di aziende tecnologiche oggi onnipresenti
come Amazon, Apple, Facebook o Google.
Se,
inizialmente, la maggior parte dei dati veniva archiviata localmente, su
computer privati o su server aziendali, oggi i servizi di “cloud computing” permettono a un italiano di
archiviare le foto delle vacanze in un server nel Nevada, o a un’azienda
francese di avere un sito web gestito da Amazon Web Services, i cui centri di
elaborazione dati, o data center, sono sparpagliati in tutto il mondo, da
Singapore all’Irlanda.
Gli Stati Uniti sono il paese che ne ospita di
più (oltre 2.600), seguiti da Regno Unito, Germania, Cina e Paesi Bassi.
La
storia dell’orfanotrofio ucraino che ha cambiato un paese delle valli
bergamasche.
Nel
ciclismo capita di pedalare sotto la neve.
Nel ciclocross capita di pedalare sulla neve.
È una disciplina strana e quando la Coppa del Mondo arriva in Italia lo è
ancora di più.
La
storia dello Zecchino d'oro e di cosa è diventata oggi in mezzo a YouTube e
TikTok.
La
crescente diffidenza verso il modo in cui le aziende gestiscono i dati in loro
possesso e le tensioni internazionali alimentate da rivelazioni come quelle di
Edward Snowden – che nel 2013 rivelò come la National Security Agency
statunitense spiasse le telecomunicazioni degli altri paesi attraverso i cavi e
le rete che compongono internet – hanno portato diversi stati e attori
istituzionali come l’Unione Europea a cercare soluzioni per limitare la propria
dipendenza da un’architettura di internet realizzata e di fatto gestita dagli
Stati Uniti:
è per
questo che negli ultimi anni si è cominciato a parlare sempre più di frequente
di “sovranità
digitale”.
Oggi,
alcuni governi limitano il trasferimento al di fuori dei propri confini di
particolari tipi di dati, come quelli sanitari, bancari, finanziari o fiscali,
ma anche quelli aziendali di società quotate in borsa o quelli relativi a
contenuti generati dagli utenti sui social media.
Altri
stati limitano più vagamente il trasferimento di dati ritenuti “sensibili” o
“legati alla sicurezza nazionale”.
L’Unione
Europea.
A
queste due possibilità si aggiungono i casi di leggi che rendono il
trasferimento transnazionale di dati così complicato o costoso da rendere
indirettamente obbligatorio per le aziende l’immagazzinamento locale dei dati:
è il caso,
secondo l’ITIF, del Regolamento generale sulla protezione dei dati (GDPR)
introdotto nell’Unione Europea nel 2018, che ha fatto entrare in vigore molte
nuove regole su come le aziende devono trattare i dati degli utenti.
L’Unione
sta lavorando anche ad altri progetti di legge, come quello sull’intelligenza
artificiale,
che aggiungerebbero ulteriori livelli di complessità per le aziende straniere.
Alcune
di queste politiche, come il GDPR e le altre leggi in materia che vengono
discusse in Europa, sono motivate principalmente da preoccupazioni per la
privacy e la sicurezza dei dati dei cittadini, ma finiscono per avere
ripercussioni anche sui rapporti economici e politici con paesi extraeuropei,
anzitutto gli Stati Uniti.
Per
esempio, una delle questioni più rilevanti nei rapporti tra Unione Europea e
Stati Uniti in quest’ambito ha riguardato gli accordi sul libero trasferimento
dei dati dei cittadini europei verso gli Stati Uniti a fini commerciali, che
sono stati annullati per ben due volte dalla Corte di giustizia europea (nel
2015 e nel 2020) perché non rispetterebbero gli standard europei di privacy.
Questi
accordi sono tuttavia essenziali per migliaia di aziende sia europee sia
americane, che si sono trovate senza un quadro normativo chiaro sul
trasferimento dei dati.
I
regimi autoritari.
In
altri casi, in cui i governi che cercano di raggiungere la “sovranità digitale”
sono meno affidabili per quanto riguarda il rispetto della libertà
d’espressione e l’accettazione del dissenso politico, queste leggi sul
controllo dei dati assumono connotazioni che preoccupano gli esperti di diritti
umani.
È il
caso della Cina, che fin dagli anni Novanta ha sviluppato un proprio internet
separato quasi completamente da quello del resto del mondo, ma anche di stati
come il Pakistan e il Vietnam, dove il rischio è che la localizzazione dei dati
(cioè la presenza dei server con i dati dei cittadini sul territorio dello
stato) non porti a una maggiore privacy, ma soltanto a un maggiore accesso alle
informazioni sensibili da parte del governo.
«I
governi autoritari, guidati da Cina e Russia, vedono l’accesso fisico ai data
center come un fattore critico di sorveglianza e controllo politico.
La
localizzazione dei dati consente l’oppressione politica portando le
informazioni sotto il controllo del governo e consentendo al governo di
identificare e minacciare le persone, incidendo così sulla privacy, sulla
protezione dei dati e sulla libertà di espressione», si legge nel report
dell’ITIF.
Le
ricadute sulle aziende.
A
livello economico, queste leggi per la “sovranità digitale” complicano la vita
delle aziende, che in questi anni hanno tratto grande beneficio dal libero
flusso dei dati.
Benché
affermino spesso che, se le società dovessero immagazzinare tutti i dati
localmente, sarebbe molto complesso continuare a offrire gli stessi prodotti e
servizi in tutto il mondo, le grosse aziende statunitensi leader del settore si
sono finora adeguate alle richieste governative, cominciando a offrire servizi
che consentono alle aziende di archiviare le informazioni all’interno di un
determinato territorio.
“Amazon
Web Services “ora consente ai clienti di controllare dove sono stati archiviati
i dati in Europa;
in
Francia, Spagna e Germania, Google Cloud ha firmato accordi con fornitori di
servizi tecnologici e di telecomunicazioni per far sì che siano aziende locali
a gestire i dati prodotti sui servizi di Google.
La
sicurezza.
Una
critica più interessante alla dottrina della “sovranità digitale” arriva dal mondo della sicurezza
informatica, che da anni sottolinea come la privacy e la sicurezza dei dati
dipendono più da come i dati vengono trasmessi e archiviati piuttosto che da
dove si trovano fisicamente.
Come
si legge anche nel report dell’ITIF, «la sicurezza dei dati dipende
principalmente dai controlli logici e fisici utilizzati per proteggerli, come
la crittografia avanzata sui dispositivi e la sicurezza perimetrale per i data
center.
La
nazionalità di chi possiede o controlla i server o il paese in cui si trovano
questi dispositivi ha poco a che fare con la loro sicurezza».
«I
politici sembrano non capire che la riservatezza dei dati non dipende
generalmente dal paese in cui sono archiviate le informazioni, ma solo dalle
misure utilizzate per archiviarle in modo sicuro.
Un
server sicuro in Malesia non è diverso da un server sicuro nel Regno Unito.
La
sicurezza dei dati dipende dai controlli tecnici, fisici e amministrativi
implementati dal fornitore di servizi, che possono essere forti o deboli,
indipendentemente da dove sono archiviati i dati», continua l’ITIF, secondo
cui, anzi, «la
localizzazione dei dati impedisce ai fornitori di servizi cloud di utilizzare
le migliori pratiche di sicurezza informatica».
Incubo
smart city, il progetto
di
sorveglianza totale con
la
scusa della sicurezza.
Espresso.repubbliva.it
- Simone PIeranni – (04 AGOSTO 2022) – ci dice:
Estrazione
dei dati privati. Controllo totale.
A
Toronto e Marsiglia l’esperimento viene contestato.
Ma la
Cina va avanti.
Una
smart city «è un luogo in cui reti e servizi tradizionali sono resi più
efficienti grazie all’uso di soluzioni digitali a vantaggio dei suoi abitanti e
delle imprese»: è la definizione di smart city che si può trovare sul sito
dell’Unione europea, uno dei grandi attori nell’universo urbanistico del
futuro, la cui definizione però si attiene a quella storica formulata dalla
Ibm, prima azienda a parlare di “smart city”, consegnando all’espressione una
chiara connotazione di marketing.
Aaron
Shapiro, professore di “technology studies” alla University of North Carolina,
in “Design, Control, Predict: Logistical Governance in the Smart City”
(Minnesota University Press, 2020) ha provato a smontare questa “aura” delle
città del futuro, presentate sempre come il rimedio a inquinamento, criminalità
e inefficienze burocratiche, scavando all’interno del meccanismo che le
regolerà, ovvero l’utilizzo massiccio di Big Data.
In questo senso i due grandi esempi di smart
city che si stanno sviluppando nel mondo, quelle cinesi e quelle occidentali,
non si discostano granché:
il
principio è lo stesso ed è basato sull’estrazione dei dati da ogni nostra
attività per procedere a una supposta organizzazione razionale degli spazi
urbani.
Nelle
smart city, infatti, scrive Shapiro, «i dati e le informazioni non si limitano
a rappresentare i processi urbani: intervengono in essi.
I flussi di dati e le architetture
dell’informazione strutturano la nostra esperienza urbana, mediando il nostro
accesso a istituzioni, risorse e servizi».
Città
del futuro e dunque - presumibilmente - “cittadinanza” del futuro:
le
metropoli che saranno guidate dai dati già pongono tutta una serie di
interrogativi sul fronte dei diritti, che siano a Pechino o Toronto.
Proprio
la città canadese costituisce un valido esempio di due traiettorie:
la
difficoltà a uscire dal paradigma “estrattivo” delle smart city come sono concepite
in Cina e la grande fame di progetti “smart” e urbani da parte delle grandi
aziende tecnologiche.
A
Toronto “Side Walk Lab” di Alphabet, cioè Google, aveva vinto un bando di gara
per trasformare una parte del lungomare della città in «un hub per un’esperienza
urbana ottimizzata con robo-taxi, marciapiedi riscaldati, raccolta autonoma dei
rifiuti e un ampio livello digitale per monitorare qualsiasi cosa, dagli
incroci stradali all’utilizzo delle panchine».
Solo che a maggio del 2020 il progetto era già
stato dichiarato morto;
per
Alphabet il problema sarebbe stato il Covid, ma in realtà - come scritto da Mit
Technology Review - sono stati soprattutto i cittadini di Toronto a fare
naufragare il progetto:
«L’opposizione
alla visione di Sidewalk non riguardava questioni come la conservazione
architettonica o l’altezza, la densità e lo stile degli edifici proposti.
L’approccio
tech-first del progetto ha fatto paura a molti; la sua apparente mancanza di
serietà riguardo le preoccupazioni sulla privacy degli abitanti è stata
probabilmente la causa principale del fallimento del progetto».
L’esempio
di Toronto permette di addentrarsi nel vasto mondo dei progetti in corso e dei
miliardi, centinaia, che ruotano intorno a sviluppi di future smart city in
tutto il mondo.
Toronto
evidenzia un primo problema negli attuali sviluppi delle “città intelligenti”,
proponendo un “tecno-soluzionismo” che tende a trascurare l’importanza degli
esseri umani.
E
soprattutto appare come un impianto tecnologico di estrazione di dati dai
cittadini, più che un luogo in grado di facilitare la vita dei suoi abitanti.
L’esempio
di Toronto porta a due riflessioni: intanto c’è da chiedersi chi vorrà vivere -
al di là di chi se lo potrà permettere - in luoghi asettici per quanto
“ordinati”, come se l’ordine fosse la cosa più ambita di una città, le cui
dinamiche che portano le persone a viverci sono molte altre e incrociano più
quel “fascino folle” di cui sono pieni i consigli delle guide “Routard”,
anziché un ovattato “ordine”.
La
seconda riflessione ha a che fare con la costante esigenza di dati dei colossi
tecnologici e degli Stati.
Dire dati non significa dire solo metropoli ma
significa, oggi, soprattutto Intelligenza Artificiale, protagonista di una nuova corsa
lanciata ormai da tempo;
una
competizione guardata oggi con interesse dai comparti militari alla luce della
guerra in corso in Ucraina e delle possibilità tecnologiche future degli
eserciti.
Dire
dati significa dire più possibilità di progredire sui sistemi di Intelligenza
Artificiale.
Ci
sono altre tendenze in corso.
Marsiglia
a sua volta, ad esempio, rappresenta il tentativo di trasformare la “smart
city” in una “security city”, grazie a un uso capillare di videocamere -
proprio come in Cina - finalizzate a uno degli obiettivi principali delle città
intelligenti, ovvero la diminuzione della criminalità.
Marsiglia
si inserisce all’interno di un processo francese che ha avuto un’accelerazione
dal 2015 anno degli attentati terroristici del Bataclan.
Da
allora a Parigi il numero delle telecamere è quadruplicato, con la polizia
locale intenta a utilizzarle per imporre i blocchi durante la pandemia e
monitorare le proteste come ad esempio quelle dei “gilets jaunes”.
Il
punto finale di questo processo è arrivato con una legge contestata, quella
sulla “sicurezza globale”.
Secondo
Amnesty - prima della sua approvazione - si trattava di una «nuova legge
draconiana che darebbe vita a un futuro distopico che non vorremmo mai vedere.
Permetterebbe alla polizia di spiare chiunque, quasi ovunque, con un drone. Questo tipo di sorveglianza è
un’enorme e inaccettabile intrusione nella vita delle persone».
Marsiglia
è diventato così un banco di prova per la tecnologia di sorveglianza.
La battaglia contro l’invasività dei sistemi
di sorveglianza da parte di alcuni attivisti francesi è cominciata fin dal
2017, quando fu annunciato il progetto “Big Data of Public Tranquility”, finanziato da un investimento di
1,5 milioni di euro dall’Unione Europea, dalla città di Marsiglia e dalla
regione delle Bouches-du-Rhône.
Un
progetto che aveva come scopo quello di raccogliere i dati della polizia
locale, dei vigili del fuoco, degli ospedali e delle videocamere, utilizzando
l’Intelligenza Artificiale nel tentativo di comprendere e prevedere meglio i
rischi per la sicurezza.
In
pratica, una smart city governata sul fronte della sicurezza dai modelli
predettivi, proprio come nel film “Minority Report”, senza i “precog”, ma con
gli algoritmi.
Il
fenomeno non è solo europeo, anzi.
Gli
attivisti di “Electronic Frontier Foundation” da tempo tengono traccia della
diffusione della tecnologia di sorveglianza tra le forze dell’ordine locali e
hanno prodotto una ricerca sui cosiddetti Rtcc, “Real Time Control Center”
negli Stati Uniti, unità dedite al controllo in tempo reale della criminalità,
una delle caratteristiche salienti delle future smart city, almeno nelle
intenzioni.
Gli
Rtcc «si concentrano sulla distribuzione di informazioni sulle “minacce” alla
sicurezza nazionale, che sono spesso interpretate in modo ampio» e sono
generalmente focalizzati «su attività a livello municipale o di contea,
concentrandosi su uno spettro generale di problemi di sicurezza pubblica, dai
furti d’auto ai crimini armati».
L’espressione
“tempo reale”, però, è alquanto fuorviante secondo la “Electronic Frontier
Foundation”:
«mentre ci si concentra spesso sull’accesso ai
dati in tempo reale per comunicare ai primi soccorritori, molte forze
dell’ordine utilizzano gli Rtcc per estrarre dati storici per prendere
decisioni in futuro attraverso modelli predittivi, una strategia controversa e
in gran parte non provata per identificare i luoghi in cui potrebbe verificarsi
il crimine o le persone che potrebbero commettere crimini».
Predizioni
che ad oggi incidono in percentuale minimo sulle attività preventive della
polizia.
Big
Data, modelli predittivi e controllo:
per quanto
la narrazione delle smart city cerchi di spingere su concetti come
sostenibilità e una migliore organizzazione urbanistica, è il sistema
“estrattivo” dei dati a caratterizzare anche i principali esempi di smart city
occidentali.
E proprio queste caratteristiche pongono seri
dubbi sulla possibilità di sviluppare città del futuro differenti rispetto a
quanto sta accadendo nel paese che da tempo investe di più sul concetto, cioè
la Cina.
Un
esempio - senza mai dimenticare che il contorno è differente, in Occidente è
possibile contestare o bloccare alcune scelte, come successo a Toronto, ben più
complicato è farlo in Cina - è stato quello di Shanghai.
Come
ha scritto Le Monde, nominata “smart city” dell’anno dalla società britannica “Juniper
Research”,
«Shanghai è diventata per due mesi anche la prigione
più grande del mondo.
Venticinque
milioni di persone sono state rigorosamente confinate nelle loro case per un
periodo compreso tra 60 e quasi 90 giorni, a seconda del quartiere».
Per il quotidiano francese” la débacle” della
capitale economica cinese durante l’epidemia di Covid rappresenta il passaggio
- traumatico - da un’idea di città utopica a quella di città distopica.
Questo
processo avviene perché alla base del concetto di smart city c’è una raccolta
incessante di dati, che permette una rapida trasformazione di una città da un
luogo di cui si promette incontaminazione da crimine e inquinamento, in uno
totalmente controllato in caso di emergenze, reali o fittizie.
Non solo: la Cina è il paese che investe di più nelle
tecnologie “smart city” e finirà per conquistare interi mercati (si calcola che il mercato globale
delle città intelligenti dovrebbe raggiungere i 2,7 trilioni di dollari entro
il 2027).
Sfruttando
l’enorme mercato del paese, ha scritto il quotidiano di Hong Kong “South China
Morning Post”,
«Pechino offre pacchetti chiavi in mano all’estero
basati su standard proprietari delle sue aziende Huawei, Zte e Hikvision»
e
trasportati sui mercati di riferimento dalle infrastrutture digitali della “Nuova
via della Seta”.
Per
ora Pechino agisce per lo più con i paesi in via di sviluppo (e riscontrando di recente notevoli
difficoltà a entrare sui mercati europei),
«installando apparecchiature basate su standard cinesi
spesso non intercambiabili con alternative occidentali meno invadenti.
Si
stima che circa il 70% dei sistemi di telecomunicazioni 4G in tutta l’Africa
siano cinesi».
L'Italia
e il Bilancio UE.
Rghs.met.gov.it
-redazione Mef – (10-12-2022) – ci dice:
Intro.
Il
Bilancio dell’Unione europea è lo strumento che traduce, in termini di
destinazione delle risorse, le priorità e gli orientamenti politici perseguiti
per la realizzazione dell’integrazione europea. Per poter finanziare le
attività destinate a migliorare il benessere collettivo, tutti gli Stati membri
contribuiscono al bilancio dell’Unione.
Attraverso
tale documento annualmente viene autorizzato il finanziamento complessivo delle
attività e degli interventi comunitari per un importo che all’incirca equivale
all’1% del valore del PIL dell’UE, a fronte di una spesa pubblica nazionale di
dimensioni ben più ampie, mediamente pari al 50% del PIL dei singoli Paesi.
Il
Bilancio annuale dell’Unione europea deve rispettare i massimali fissati dal
Quadro Finanziario Pluriennale (QFP), che rappresenta il bilancio UE a lungo
termine e stabilisce quanto l’Unione investirà nei diversi programmi e progetti
per rafforzare l’Europa in un arco temporale di norma pari a sette anni.
Con
tale QFP, adottato ogni sette anni con Regolamento del Consiglio, in accordo
con il Parlamento europeo, sono fissati gli importi massimi annui degli
stanziamenti di impegno per ciascuna Rubrica del bilancio UE e del totale degli
stanziamenti di pagamento. Stabilendo i limiti di spesa per ciascuna categoria,
il QFP impone il rispetto della disciplina di bilancio e garantisce l'ordinato
andamento delle spese della UE, entro i limiti delle sue Risorse Proprie ed in
linea con i suoi obiettivi politici.
Tutti
i cittadini europei beneficiano di attività finanziate dal bilancio UE
attraverso investimenti riguardanti la coesione economica e sociale, il
miglioramento del nostro ambiente, la maggiore sicurezza alimentare, la ricerca
e l’innovazione, la dotazione di infrastrutture più moderne, la tutela dei
nostri diritti fondamentali, il miglioramento della qualità di vita in Europa,
la creazione di opportunità di studio all’estero per gli studenti,
facilitazioni nell’accesso a mercati più grandi a favore delle piccole e medie
imprese, lo sviluppo nel settore della ricerca o nuove opportunità di
formazione professionale per chi cerca lavoro, l’attività di cooperazione
internazionale e gli aiuti umanitari.
L’IGRUE
partecipa, nell’ambito della delegazione italiana, a tutti i Consigli Ecofin
Bilancio in cui si discutono punti relativi al Bilancio Ue, alla Risorse
Proprie Ue ed al Quadro Finanziario Pluriennale UE.
La
pandemia Covid-19 ha spinto le istituzioni europee a varare un piano di ripresa
di ampio respiro per aiutare l’UE a riparare i danni economici e sociali
causati dall’emergenza sanitaria e creare le basi per un’Europa più moderna,
sostenibile e resiliente. In particolare, il Consiglio europeo, il Parlamento
europeo la Commissione europea hanno concordato un piano che riguarda sia il
QFP 2021-2027 sia il Next Generation EU.
Di
seguito sono riportate le sette rubriche del QFP 2021-2027 approvato con
Regolamento (UE, Euratom) 2020/2093.
Mercato
unico, innovazione e agenda digitale.
È
un ambito in cui l'azione UE genera un notevole valore aggiunto e risulta
fondamentale per la crescita. I programmi in questa rubrica riguardano:
la
ricerca e l’innovazione, con Horizon Europe, ITER e il programma Euratom;
gli investimenti
strategici europei, con il Fondo InvestEU che affiancherà il Fondo europeo per
gli investimenti strategici (FEIS), il CEF (il Meccanismo per collegare
l'Europa) e il nuovo programma per la trasformazione digitale: Digital Europe;
l'azione
a favore del mercato unico che integra i programmi COSME, PMI e dove vengono
rafforzati i programmi Dogana e Fiscalis;
lo
spazio, che con il nuovo Programma spaziale europeo riunisce tutte le attività
dell'UE in questo settore strategico come Galileo, EGNOS e Copernicus.
Coesione,
resilienza e valori.
L’obiettivo
è sostenere gli investimenti, la creazione di posti di lavoro e la crescita,
contribuendo a ridurre le disparità economiche, sociali e territoriali nelle
regioni all’interno dell’UE. È suddivisa in due sottorubriche: Rubrica 2a -
Coesione economica, sociale e territoriale e Rubrica 2b - Resilienza e valori .
Gli investimenti sono destinati a tre gruppi di politiche: Sviluppo regionale e
coesione, ripresa e resilienza e investimento in persone, coesione sociale e
valori. Tra i programmi finanziati nella Rubrica 2a troviamo il Fondo europeo
di sviluppo regionale (FESR), il Fondo di coesione (FC) e il Fondo sociale
europeo (FSE), mentre nella Rubrica 2b abbiamo, tra l’altro, il programma
Erasmus+.
Risorse
naturali e ambiente.
I
finanziamenti nell'ambito di questa rubrica sono incentrati sulla politica
agricola, marittima e sulla pesca modernizzata e sostenibile attraverso il
Fondo Europeo Agricolo di Garanzia (FEAGA), la realizzazione della Politica
Agricola Comune (PAC), attraverso il Fondo Europeo Agricolo per lo Sviluppo
Rurale (FEASR) e il Fondo Europeo per gli Affari Marittimi e la Pesca (FEAMP).
Inoltre abbiamo il nuovo Programma LIFE, che si occupa della protezione dell'ambiente
e dell’azione per il clima, sostenendo i progetti per l'attuazione del Green
Deal europeo.
Migrazione
e gestione delle frontiere.
Questa
rubrica finanzia misure connesse alla protezione delle frontiere esterne, alla
migrazione e all'asilo, garantendo al tempo stesso la libera circolazione delle
persone e dei beni nell'Unione. Per queste finalità abbiamo il Fondo Asilo e
migrazione e il Fondo per la gestione integrata delle frontiere.
Sicurezza
e difesa.
Le
azioni di questa rubrica riguardano programmi mirati alla sicurezza e alla
difesa in cui la cooperazione a livello dell'Unione offre un elevato valore
aggiunto, rispecchiando le trasformazioni geopolitiche e le nuove priorità
dell'UE. Vi rientrano azioni connesse alla sicurezza interna, al settore della
difesa e alla risposta alle crisi. I finanziamenti di questa rubrica
sosterranno il Fondo Sicurezza interna, la disattivazione nucleare, il Fondo
europeo per la difesa e il Meccanismo di protezione civile dell’UE (RescEU).
Vicinato
e resto del mondo.
La
rubrica finanzia sia l'azione esterna dell'Unione nel vicinato, nei paesi in
via di sviluppo e nel resto del mondo sia l'assistenza ai paesi che si
preparano all'adesione all'UE. Gran parte degli strumenti esistenti vengono
uniti nello Strumento di vicinato, sviluppo e cooperazione internazionale; poi
abbiamo anche lo Strumento di assistenza preadesione e lo Strumento per gli
aiuti umanitari.
Pubblica
amministrazione europea.
Svolge
un ruolo fondamentale per aiutare l'UE a realizzare le sue priorità e ad
attuare politiche e programmi nel comune interesse europeo. Comprende le spese
amministrative, del personale e delle pensioni di tutte le istituzioni dell'UE
e delle scuole europee.
Accanto
alle rubriche di spesa sopraindicate, sono previsti specifici strumenti o
fondi. Questi strumenti si suddividono in strumenti speciali tematici (Fondo
europeo di adeguamento alla globalizzazione, Riserva di solidarietà e per gli
aiuti d’urgenza, Riserva di adeguamento alla Brexit) e strumenti speciali non
tematici (Strumento unico di margine, Strumento di flessibilità). Il QFP
2021-2027 propone un significativo rafforzamento di tutti questi strumenti per
consentire all'Unione, in specifiche circostanze, di spendere risorse anche
oltre i massimali stabiliti dal QFP.
Strumenti
speciali tematici
Fondo
europeo di adeguamento alla globalizzazione.
Il
Fondo europeo di adeguamento alla globalizzazione (FEG) offre un sostegno a
coloro che hanno perso il lavoro a seguito di mutamenti economici legati alla
globalizzazione o in conseguenza di crisi economiche e finanziarie mondiali,
aiutandoli anche a trovare il più rapidamente possibile una nuova occupazione.
Riserva
di solidarietà e per gli aiuti d'urgenza.
La
riserva di solidarietà e per gli aiuti d'urgenza potrà essere utilizzata per
finanziare situazioni di emergenza derivanti da gravi catastrofi ed esigenze
urgenti all'interno dell'Unione o nei paesi terzi a seguito di eventi che non
potevano essere previsti al momento della formazione del bilancio (come le
calamità naturali, catastrofi provocate dall'uomo, minacce per la sanità
pubblica o situazioni particolarmente difficili dovute alla pressione dei
flussi migratori).
Riserva
di adeguamento alla Brexit.
Questa
Riserva fornisce assistenza per contrastare le conseguenze impreviste e
negative negli Stati membri e nei settori maggiormente colpiti dal recesso del
Regno Unito dall’Unione europea, mitigando l’impatto sulle imprese e nei vari
settori interessati.
Strumenti
speciali non tematici.
Strumento
unico di margine.
Grazie
a questo strumento sarà possibile ricorrere a impegni e/o pagamenti utilizzando
i margini di una o più rubriche del QFP ancora disponibili al di sotto dei
massimali del QFP da esercizi precedenti, che saranno messi a disposizione
negli anni 2022-2027 e integralmente detratti dai margini dei rispettivi
esercizi precedenti.
Strumento
di flessibilità.
Lo
scopo dello strumento di flessibilità è quello di finanziare spese chiaramente
identificate che non possono essere finanziate all’interno dei massimali
disponibili, senza superare l'importo massimo annuo per le spese stabilito nel
QFP.
Ulteriori
strumenti.
Next
Generation EU.
Next
Generation EU è un nuovo strumento presentato dalla Commissione europea a
maggio 2020 e incrementato nel Consiglio europeo del 17-21 luglio 2020, avente
carattere eccezionale e temporaneo che raccoglierà fondi sui mercati e li
canalizzerà verso i programmi destinati a favorire la ripresa economica e
sociale.
Strumento
europeo per la pace.
Lo
Strumento europeo per la pace è un fondo fuori bilancio al di fuori del QFP,
che ha implicazioni nel settore militare o della difesa, nell'ambito della
politica estera e di sicurezza comune. Ha il fine di prevenire i conflitti, preservare
la pace e rafforzare la sicurezza e la stabilità internazionale.
Strumento
europeo di sostegno temporaneo per attenuare i rischi di disoccupazione in
un'emergenza (SURE).
È uno
strumento con il quale viene fornita agli Stati membri che la richiedono
assistenza finanziaria sotto forma di prestiti a condizioni favorevoli per
fronteggiare gravi problemi economici dovuti alla pandemia da COVID-19. Lo
strumento finanzia regimi di riduzione dell'orario lavorativo o misure analoghe
per proteggere i lavoratori e ridurre i rischi di disoccupazione e perdita del
reddito.
Grafici
Interattivi
Quadro Finanziario Pluriennale 2021-2027 e
Next Generation EU.
Quadro Finanziario Pluriennale 2014-2020.
Bilancio Annuale UE.
Eugenetica,
non solo nazismo.
Scientificast.it
- Valeria Cagno – (Gen 17, 2019) – ci dice:
L’eugenetica
è una disciplina che si pone come obiettivo il miglioramento della specie umana
giovandosi delle leggi dell’ereditarietà genetica.
Nell’immaginario collettivo viene associata alla
Germania nazista, con gli esperimenti effettuati nei campi di concentramento,
invece purtroppo è un fenomeno con radici ben precedenti, e localizzazione più
estesa.
Il
termine fu coniato nel 1883 da Francis Galton, cugino di Darwin e naturalista
inglese, che si occupò della trasmissione di caratteri psichici e fisici
ereditari, sostenendo che l’intelligenza fosse ereditaria.
Le sue
teorie erano influenzate dalla selezione naturale dimostrata da Darwin e da
Thomas Robert Malthus.
Quest’ultimo
fu un economista e demografo inglese che sosteneva la necessità di controllare
le nascite per mezzo della castità per garantire alla popolazione un adeguato
ammontare di risorse, che con un eccessivo aumento demografico sarebbero potute
mancare.
Nelle
sue teorie fa anche riferimento all’esigenza di un salario minimo per nucleo
familiare raggiunto il quale si potesse avere figli e sosteneva che, al
contrario, eventuali aiuti statali per i poveri fossero deleteri per la
società, in quanto favorivano la procreazione di tali famiglie.
L’eugenetica
si è successivamente trasformata, in diverse parti del mondo, in un favorire la
riproduzione di soggetti socialmente desiderabili e di prevenire la nascita di
quelli indesiderabili.
Ben
prima degli esperimenti di Mengele, infatti, negli Stati Uniti erano state
condotte delle campagne di sterilizzazione.
La
prima legge sulla sterilizzazione risale al 1907 in Indiana e fu poi adottata
da altri 29 stati, in alcuni dei quali è rimasta in vigore fino al 1979.
Si stima che in questo periodo circa 60000
americani siano stati sterilizzati senza il loro consenso.
I
destinatari di queste sterilizzazioni erano soprattutto ospiti di manicomi,
seguiti da albini, alcolizzati, talassemici, epilettici e immigrati.
Divenne
famoso il caso di Carrie Buck, internata a 17 anni in un manicomio con l’accusa
di debolezza mentale e promiscuità, incinta dopo uno stupro.
La
donna fece appello contro la sua sterilizzazione, ma la corte suprema si
dichiarò favorevole, sostenendo la necessità di impedire a soggetti non sani di
procreare.
Questo
rese queste leggi costituzionali e diede il via alle sterilizzazioni in diversi
stati.
Il
sostegno all’eugenetica era pubblico e ad alti livelli, con finanziamenti tra
gli altri del “Carnegie Institution for Science” e della” fondazione
Rockfeller”, il sostegno di alcuni presidenti degli Stati Uniti, tra cui
“Theodore Roosvelt”, e l’introduzione di corsi sull’eugenetica in alcune
prestigiose università.
Le
teorie eugenetiche sulla cosiddetta razza ariana del regime nazista sembrano
aver tratto ispirazione dal movimento statunitense, con successiva evoluzione e
focalizzazione sull’epurazione di quelle che venivano ritenute razze inferiori:
gli
ebrei, i rom, i disabili, gli omosessuali.
In
principio, però, il “programma eugenetico Aktion T4 “prevedeva l’eutanasia di
persone affette da malattie genetiche inguaribili e handicap mentali, con
indubbi punti in comune con il programma statunitense.
Inoltre
in altri paesi europei come la Svezia e la Danimarca sono state introdotte
legislazioni simili, in vigore dal 1929 al 1976.
Ancora
oggi non conosciamo l’origine di diverse patologie, mentali e non, ma siamo
consapevoli che anche i fattori ambientali, e non solo quelli genetici, siano
coinvolti.
Allo
stesso modo, è stato dimostrato, studiando i gemelli omozigoti, che
l’intelligenza è un carattere collegato sia a fattori ambientali che genetici.
Tralasciando,
quindi, l’ovvia condanna in termini etici, di libertà individuale e della
crudeltà inflitta in queste pratiche, appare evidente l’insensatezza di queste
campagne di sterilizzazione e applicazione dell’eugenetica.
Tuttavia,
oggi possiamo considerare un approccio eugenetico legale le diagnosi in
gravidanza di malattie genetiche, in cui sappiamo qual è la mutazione o
aberrazione cromosomica responsabile, e la diagnosi genetica pre-impianto in
cui si può scegliere l’embrione idoneo dopo la fecondazione in vitro.
Questa
procedura è suggerita in coppie ad alto rischio riproduttivo (in quanto portatori
di malattie genetiche) per evitare l’aborto terapeutico successivamente.
I dati
attuali rivelano che dall’introduzione della diagnosi pre-natale per la
trisomia del cromosoma 21, che causa la sindrome di Down, si è osservata una
riduzione del numero di individui affetti da questa patologia.
La diagnosi è accompagnata generalmente da
possibilità di sostegno psicologico per i genitori e di informazione
sull’assistenza che si può ricevere se si porta a termine la gravidanza.
Tuttavia, le statistiche attuali riportano che
in caso di diagnosi di trisomia la percentuale di interruzioni di gravidanza è
pari al 67% negli Stati Uniti, al 77% in Francia, al 90% nel Regno Unito e al
98% in Danimarca.
Nonostante
le aberranti pratiche naziste e la pubblica condanna dei crimini contro
l’umanità nel processo di Norimberga, le leggi di sterilizzazione forzata sono
rimaste in vigore fino alla fine degli anni ‘70.
Ciò è
avvenuto sia negli Stati Uniti sia in Europa, in paesi che avevano firmato “la
convenzione dei diritti dell’uomo” nel 1950.
Questo
sottolinea la necessità di avere una strettissima regolamentazione e
definizione dei limiti dell’eugenetica, soprattutto in un’era in cui le
informazioni genetiche e la possibilità di modificare il genoma umano stanno
diventando sempre più alla portata di tutti.
GRAN
BRETAGNA - VITA E BIOETICA.
Cliniche
per il controllo delle nascite,
100
anni di eugenetica e razzismo.
Lanuovabq.it
– Patricia Gooding Williams – (17-03-2021) – ci dice:
Il 17
marzo 1921 Marie Stopes apriva a Londra la prima clinica per il controllo delle
nascite.
È considerata uno dei più grandi successi
umanitari, ma in realtà è un'opera della “Società Eugenetica “che con la
clinica aveva lo scopo di impedire la riproduzione di poveri e malati.
E
l'influenza eugenetica a danno delle donne dura tuttora sotto gli slogan di
"scelta" e "libertà".
Esattamente
cento anni fa, il 17 marzo 1921, fu inaugurata la prima clinica di
pianificazione familiare della Gran Bretagna al 61 di Marlborough Road,
Holloway, Londra.
Le
celebrazioni ufficiali del centenario indicano l'evento come uno dei più grandi
successi umanitari del secolo scorso.
Ma in realtà il valore di questo evento può
essere compreso soltanto se si riconosce e si fanno i conti con il movimento eugenetico, che è stato la chiave per
l'apertura della prima” Mother’s Clinic” (questo era il nome ufficiale).
Aprire
un capitolo della storia britannica tanto vergognoso quanto doloroso potrebbe
rovinare le celebrazioni, ma aprirebbe un dibattito oggi più che mai necessario
su quale
influenza ha avuto l'eugenetica sulle attuali pratiche di controllo della
popolazione.
Il
movimento eugenetico è diventato potente in Gran Bretagna all'inizio del XX
secolo.
La sua missione era prendere il controllo
della natalità e creare una razza superiore attraverso la procreazione selettiva.
Il tasso di natalità complessivo della Gran
Bretagna era in calo dal 1876, il problema per gli eugenisti era che la
riduzione non era uniformemente distribuita tra tutte le classi sociali.
Le
persone più povere in Gran Bretagna erano le più prolifiche e questo implicava
un "deterioramento nazionale" della razza, un disastro per le
generazioni future e per l'impero britannico.
La loro soluzione è stata quella di correggere
lo squilibrio eliminando poveri, malati e disabili.
L'introduzione della pianificazione familiare
nel 1921 serviva a questo scopo.
L'eugenetica,
che significa "nascere bene", era considerata una scienza rispettabile dall'élite.
Il
movimento contava alcuni dei britannici più importanti e influenti di
quell'epoca. Includevano: John Maynard Keynes, Lady Constance Lytton, Bertrand
Russell, George Bernard Shaw, HG Wells, nonché membri senior dell'establishment
politico come Winston Churchill e influenti professionisti medici come Sir
James Barr, ex presidente della “British Medical Association”.
Barr
doveva poi diventare vicepresidente della “Society for Constructive Birth
Control and Racial Progress” ("CBC"), l'organizzazione di supporto
della “Mother’s Clinic”.
Winston
Churchill divenne Primo Ministro del Regno Unito dal 1940 al 1945 (durante la
Seconda guerra mondiale) e di nuovo dal 1951 al 1955.
Una
lettera scritta da Winston Churchill nel 1910 al primo ministro Henry Asquith,
fa capire come lui e molti membri del movimento eugenetico valutassero lo
squilibrio della popolazione in quel momento.
"La crescita innaturale e sempre più rapida delle
classi di deboli di mente e di pazzi, unita com'è a una costante restrizione
delle fasce di popolazione giudiziose, energiche e superiori, costituisce un
pericolo nazionale e razziale che è impossibile esagerare".
Nel
1921 la Società Eugenetica aveva già consolidato un impatto sulla società.
Il
manifesto della CBC prendeva di mira coloro che erano considerati non idonei
alla genitorialità.
Affermava:
“PER QUANTO RIGUARDA LA POPOLAZIONE ATTUALE.
Diciamo
che purtroppo ci sono molti uomini e donne a cui dovrebbe essere impedito del
tutto di procreare figli, a causa della loro cattiva salute individuale o della
natura malata e degenerata della prole che ci si può aspettare che producano.
Queste
considerazioni non si applicherebbero a un mondo migliore e più sano".
Non è
un caso, quindi, che la prima clinica per il controllo delle nascite e quelle
aperte successivamente, fossero concentrate in zone povere e disagiate di
Londra.
La”
Mother’s Clinic”, aperta e finanziata dalla dottoressa Marie Stopes e dal suo
secondo marito, Humphrey Roe - entrambi membri attivi della Società Eugenetica
- mirava a ridurre il tasso di natalità delle classi inferiori.
Ironia della sorte, la clinica era arredata in
"(colori) blu e bianco accoglienti, con un vaso di fiori freschi alla
reception e carta da parati che mostrava bambini sorridenti" per rassicurare
le donne [non avevano nulla contro le famiglie] che cercavano il suo consiglio
e i suoi servizi.
Uno
staff di sole donne forniva istruzioni sul controllo delle nascite e offriva
dispositivi contraccettivi gratuitamente alle donne povere e della classe
operaia.
Per
coloro che non si avvalevano del servizio, Stopes promosse una campagna a
favore di leggi per costringerle obbligatoriamente a sterilizzarsi e nel
frattempo spingeva perché alle donne fosse applicata la Gold Pin (un meccanismo
intrauterino in oro) che induce l'aborto.
Nonostante
ciò, il primo tentativo della Gran Bretagna di imporre la procreazione
selettiva è passato con successo con il pretesto dei diritti delle donne e
della libertà riproduttiva.
Marie
Stopes ha così guadagnato meriti e le è stato riconosciuto un ruolo importante
nella storia femminista per aver liberato le donne dalla schiavitù sessuale per
godersi una vita di uguaglianza sessuale.
Anche
dopo la sua morte, nel 1958, l'eugenetica di Marie Stopes ha continuato ad
avere un impatto sulla società.
A suo nome, sono state aperte oltre 600 cliniche
“Marie Stopes International” in tutto il mondo e il suo sito web vanta fino ad
oggi 31 milioni di aborti.
Ma,
quando le visioni eugenetiche estreme della Stopes alla fine sono emerse e il
suo nome è diventato più di imbarazzo che di aiuto, l'organizzazione nel
novembre 2020 ha abbandonato il suo nome rinominandosi “MSI Reproductive
Choices”.
Ma le
organizzazioni pro-life affermano che” MSI Reproductive Choices” continua a
seguire gli stessi princìpi eugenetici voluti da Marie Stopes, qualunque sia il
nome con cui decidono di chiamarsi.
Quello che è iniziato come un esperimento per
controllare la popolazione più povera della Gran Bretagna – dicono - si è
diffuso e si è sviluppato in un controllo autoritario sui più poveri in tutto
il mondo.
Fin
dalle sue origini, il movimento eugenetico ha suscitato diverse critiche, le
più feroci da parte della Chiesa cattolica.
Tuttavia, è stato solo quando è stato
associato alla Germania nazista e all'Olocausto dopo la Seconda guerra
mondiale, che ha perso la maggior parte della sua influenza.
Gli
avvocati ai processi di Norimberga dal 1945 al 1946 hanno legittimamente
sottolineato che c'era poca differenza tra i programmi di eugenetica nazista e
i programmi in essere nei paesi europei e in America durante lo stesso periodo.
E
anche se le politiche eugenetiche furono in gran parte abbandonate nei decenni
successivi, il pensiero eugenetico sopravvisse rendendosi appetibile per un
pubblico moderno.
Gli
eugenisti post-1945 scoprirono che adattando alla nuova realtà obiettivi e
messaggi, i metodi sostenuti potevano rimanere gli stessi.
Hanno
iniziato rimuovendo la parola eugenetica dall'uso comune e sostituita con la
terminologia medica o con slogan popolari come "scelta" e
"libertà".
Un
ottimo esempio di questa strategia è ancora in Gran Bretagna.
Nel
1989, visti i vantaggi di presentarsi con una veste nuova, la Società
Eugenetica si è rinominata “The Galton Institute”.
Tuttavia Francis Galton, così come
successivamente Marie Stopes, ha svolto un ruolo chiave nel lancio del
movimento eugenetico in Gran Bretagna e negli Stati Uniti.
Ha
anche coniato il termine eugenetica.
Però l'uso del suo nome ha permesso
all'istituto di continuare il suo lavoro e di esercitare la sua influenza nel
mondo accademico.
È un
grave errore del pensiero contemporaneo, dicono i critici, relegare
l'eugenetica al passato, quando invece i valori che ne sono alla base sono ben
vivi.
Almeno,
la discriminazione razziale di cui le donne sono state e sono ancora vittime a
causa dei programmi di controllo della popolazione, merita più di un timido
cenno.
E ci sono altre domande scomode che richiedono risposte,
come ad esempio quale influenza abbiano avuto l'eugenetica e le tecnologie per
il controllo delle nascite sulle dimensioni, la composizione e il benessere
della società, anche se questo significa approfondire un capitolo controverso
della storia britannica.
Ma
sono queste le questioni spinose che queste celebrazioni del centenario
dovrebbero affrontare, se vogliono essere considerate con rispetto.
Sterilizzazioni
forzate,
il
discusso caso della California.
Liberopensiero.eu
- Cindy Delfini – (19 Gennaio 2023) – ci dice:
Il
controllo esercitato dai governi sui corpi delle donne non passa “solamente”
per l’aborto, diritto che continua ad essere osteggiato dai fronti più
conservatori (come accaduto negli Stati Uniti con la recente abolizione da
parte della Corte Suprema della sentenza Roe vs. Wade), dando vita ad una
battaglia quotidiana contro ai numerosi ostacoli che ogni donna o ragazza
incontra quando decide di interrompere una gravidanza.
Se i
movimenti pro-life contrari all’aborto considerano l’embrione un essere umano
già dai primi momenti del suo sviluppo definendo l’aborto un “omicidio”, gli
Stati che nel corso degli anni hanno applicato programmi di sterilizzazione
forzata hanno deciso di mettere da parte la “vita” (e soprattutto la libertà
delle donne) a favore di una “purificazione” della popolazione mondiale.
Impedire
ai “punti deboli” della società di avere figli, in quest’ottica, avrebbe
portato l’intera umanità ad un miglioramento a livello genetico.
Di conseguenza a subire questo trattamento
sono state persone appartenenti a gruppi sociali marginalizzati.
In
particolare sono state forzatamente sterilizzate donne affette da disabilità o
patologie mentali – evitando in questo modo la diffusione di geni “difettosi”.
Le teorie eugenetiche (che puntavano, per
l’appunto, al perfezionamento genetico della popolazione) hanno trovato terreno
fertile in diverse parti del mondo, grazie soprattutto ai programmi elaborati
dal regime nazista.
Sterilizzazioni
forzate, i programmi di eugenetica negli Stati Uniti.
Gli
Stati Uniti sono stati il primo Paese in cui l’eugenetica – e i programmi di
sterilizzazione obbligatoria – è diventata una vera e propria disciplina
controllata dallo Stato (ancor prima della Germania nazista).
Oltre
alle categorie menzionate precedentemente, i governi statunitensi hanno
promosso la sterilizzazione forzata di persone epilettiche, sorde e cieche.
Durante
la cosiddetta era progressista (1890-1920), i sostenitori dell’eugenetica hanno
pensato di ampliare la portata della loro teoria.
Le
sterilizzazioni forzate hanno iniziato ad essere concepite come lo strumento
migliore per preservare il gruppo etnico dominante, a discapito di tutti gli
altri.
Così
donne afroamericane e latinoamericane hanno iniziato ad essere sterilizzate
contro la loro volontà (e spesso senza che ne fossero consapevoli).
In un
panorama fortemente influenzato dal razzismo, oltre alla sterilizzazione
obbligatoria i programmi eugenetici comprendevano misure come il divieto dei
matrimoni interrazziali e della “mescolanza etnica”.
Il
movimento a favore dell’eugenetica ha portato avanti le ideologie legate alla
segregazione razziale negli Stati Uniti e si è affermato come una nuova
risposta ai crescenti movimenti migratori, guadagnandosi una notevole
popolarità in ambito accademico.
È
stato sostenuto anche da diverse attiviste femministe, tra cui la scrittrice,
infermiera ed educatrice sessuale Margaret Sanger.
Quest’ultima
ha avuto un ruolo fondamentale nella lotta per i diritti delle donne,
affermandosi come una pioniera in tema di contraccezione.
Responsabile della diffusione del termine
“controllo delle nascite”, è stata lei ad aprire la prima clinica specializzata
negli Stati Uniti, attirando subito le antipatie dei movimenti pro-life.
Sanger
ha supportato i programmi statunitensi di eugenetica, nella convinzione che la
contraccezione fosse il metodo principale per far sì che nessun bambino dovesse
nascere in una famiglia considerata inadatta.
Per
questo motivo si è dedicata personalmente alla causa:
ha
scoraggiato diverse coppie decise a mettere su famiglia ma che si pensava
rischiassero di trasmettere difetti genetici o malattie mentali ai figli.
Benché
fosse a favore dei programmi eugenetici, Sanger era fermamente convinta che le
donne fossero le uniche a decidere se affrontare o meno una gravidanza e non lo
Stato.
Con le
sterilizzazioni forzate, al contrario, le donne non avevano scelta.
In
molti casi, inoltre, venivano sottoposte alla terribile procedura a loro
insaputa.
Angela
Davis, attivista afroamericana nota per aver militato nel Black Panther Party
ed essere stata una delle principali esponenti del Partito Comunista degli
Stati Uniti, ha denunciato i trattamenti subiti dalle donne nere e latino
americane per anni senza risparmiare Sanger, accusandola di aver tentato di
ridurre la popolazione afroamericana.
Nel
1907 l’Indiana è stata la prima a rendere le sterilizzazioni obbligatorie una
legge.
Due
anni più tardi California e Washington le hanno fatto seguito. Successivamente
all’emanazione della sentenza Buck vs. Bell la pratica è diventata sempre più
popolare.
È stato necessario aspettare la fine della
Seconda Guerra Mondiale per avere una presa di coscienza dell’opinione
pubblica: l’eugenetica
e i programmi di sterilizzazione hanno iniziato ad essere visti per ciò che
sono realmente, ovvero pratiche disumane, e negli anni sono state condannate a
livello internazionale.
Tra tutti, il programma eugenetico della
California è stato quello di maggiore portata.
Secondo
le stime, sono state sterilizzate circa 20 mila donne all’anno, con un’età
media di 17 anni, dal 1909 ai primi anni ’60.
La
legge è stata definitivamente abrogata nel 1979.
Il
caso della California e il programma di riparazione.
La
California ha effettuato più sterilizzazioni forzate di qualsiasi altro Stato
americano, portando a compimento oltre un terzo delle operazioni eseguite in
tutti gli Stati Uniti.
Lo
Stato si è addirittura guadagnato la stima del governo di Hitler, che lo ha
preso come punto di riferimento per provare che i programmi di eugenetica
potevano essere seguiti su larga scala.
L’abrogazione
della legge sulle sterilizzazioni non ha portato, in ogni caso, alla loro
totale scomparsa.
La California ha continuato a praticare questo
orribile trattamento nei confronti delle carcerate.
Tra il
2005 e il 2013, circa 144 donne sono state sterilizzate per volere del
personale e dei medici, i quali hanno potuto contare sui fondi statali, tramite
legatura delle tube.
I responsabili
hanno giustificato le loro azioni spiegando che l’unico obiettivo era ottenere
una maggiore “giustizia sociale”, penalizzando le donne considerate inadatte
alla procreazione.
Solamente nel 2014 il Governo ha vietato le
sterilizzazioni nelle carceri, a meno che non si tratti di casi che mettono a
rischio la salute pubblica.
In
tempi recenti diversi Stati si sono scusati pubblicamente per i maltrattamenti
subiti dalle vittime dei programmi di sterilizzazione obbligatoria.
Il
North Carolina, per esempio, nel 2011 ha promosso un programma di risarcimento
con lo stanziamento, a partire dal 2015, di 10 milioni di dollari destinati ad
un totale di 7.600 donne.
La California da parte sua all’inizio dello
scorso anno ha annunciato il lancio del suo “Forced or Involuntary
Sterilization Compensation Program”, gestito dalla “California Victim
Compensation Board”.
Il
programma – che prevede la distribuzione di 4,5 milioni di dollari tra le
vittime “idonee” – è iniziato proprio quest’anno e scadrà il 31 dicembre.
L’iniziativa
ha aperto nuovamente il dibattito intorno al tema della sterilizzazione
forzata.
Le
vittime ancora in vita (soprattutto donne afroamericane) avranno diritto ad una
riparazione di 15 mila dollari. I
n base
alle fonti sono almeno 600 le sopravvissute che non hanno potuto avere figli
per via delle sterilizzazioni obbligatorie.
Delle
310 domande presentate, solamente 51 sono state approvate per il momento,
mentre l’opinione pubblica esprime il suo dissenso nei confronti del
risarcimento:
secondo
il governo, un risarcimento di 15 mila dollari – destinati a vittime che sono
state violate a loro insaputa e costrette a vivere un trauma per il resto della
sua vita – per molti non sarebbe “abbastanza”.
Soprattutto
se si pensa che oggi, in diversi Stati americani, le donne che vorrebbero
abortire rischiano di andare incontro a sanzioni molto più pesanti.
La
California, infine, è solamente il terzo Stato ad aver approvato il programma
di riparazioni (insieme a North Carolina e Virginia), quando negli Stati Uniti
più di 65 mila persone sono state sterilizzate contro la loro volontà dal 1930
al 1970.
(Cindy
Delfini).
Transumanesimo.
Decrescita.com - Danilo Tomasetta – (8 Febbraio 2022)
– ci dice:
Nel
mio articolo precedente, “Prolegomeni al Grande Reset”, accennavo a come tra i
propositi collegati al Grande Reset c’è lo sviluppo dell’intelligenza
artificiale e delle nanotecnologie, fino ad ipotizzare un collegamento del
cervello umano con unità intelligenti esterne per un’implementazione
uomo-macchina che, nella visione degli ideatori di questo audace disegno,
porterebbe ad un potenziamento sia dell’intelligenza umana che di quella
artificiale.
Al di
là di questo vantaggio, l’interfacciamento uomo-macchina rende possibile il
controllo assoluto dell’individuo.
Gli ideatori del Grande Reset non sottolineano questo
aspetto, ma è evidente la loro aspirazione ad un controllo capillare e alla
correzione preventiva di ogni devianza, perché questa garanzia di affidabilità
assume un’importanza notevole per la riprogrammazione delle società e del ruolo
che compete ai singoli soggetti .
Vedremo
più avanti perché.
Questi
arditi progetti che comportano uno stretto legame uomo-macchina rappresentano
l’essenza di cosa si debba intendere oggi per TRANSUMANESIMO.
A ciò fa da corollario la ricerca sul prolungamento
della vita, basata sia sull’uso di protesi di ogni tipo (dagli arti meccanici
agli organi artificiali) sia sull’uso della medicina collegata alla genetica,
capace di intervenire preventivamente su possibili degenerazioni fisiche
(tumori, cardiopatie, ictus, diabete, ecc.) mediante una modifica del codice
genetico resa possibile dall’uso delle biotecnologie e delle nanotecnologie
applicate alla medicina.
A questo
punto ritengo giusto premettere che sono assolutamente contrario al
transumanesimo e che giudico i suoi sostenitori alla stregua di pericolosi
invasati capaci in ipotesi estrema di decretare la fine dell’umanità per come
l’abbiamo conosciuta finora.
Poiché
però il transumanesimo non è un termine nato in tempi recenti, credo sia giusto
ricostruirne brevemente l’origine.
L’inventore
del termine fu nel 1947 Pierre Teilhard de Chardin un gesuita, filosofo,
paleontologo e scienziato evoluzionista francese.
Ma a
delinearne il significato fu nel 1957 Julian Huxley (il fratello del famoso
filosofo Aldous Huxley), biologo e genetista, nel testo “In New Bottles for New
Wine”.
Nell’originaria
accezione di Huxley transumanesimo indica «l’uomo che rimane umano, ma che
trascende sé stesso, realizzando le nuove potenzialità della sua natura umana».
Come
si vede Huxley pensava ad uno scenario di emancipazione dell’umanità in cui
quest’ultima si fa carico di guidare il processo evolutivo.
Siamo dunque all’interno di una deriva del
pensiero umanista e positivista, tant’è che il filosofo inglese Max More scrive
«Il
Transumanesimo condivide molti elementi con l’umanesimo, inclusi il rispetto
per la ragione e le scienze, l’impegno per il progresso ed il dare valore
all’esistenza umana (o transumana) in questa vita…
Il
Transumanesimo differisce dall’umanesimo nel riconoscere ed anticipare i
radicali cambiamenti e alterazioni sia nella natura, sia nelle possibilità
delle nostre vite, che saranno il risultato del progresso nelle varie scienze e
tecnologie».
Dunque
possiamo dire che inizialmente il transumanesimo veniva inserito in un quadro
filosofico di riferimento umanista, positivista ed evoluzionista in senso
neo-Darwiniano, anche se al tempo stesso si assegnava già allora un ruolo alle
profonde innovazioni che avrebbero recato la ricerca scientifica e le nuove
tecnologie.
Questo
ruolo innovativo è stato ad esempio sottolineato dall’economista e professore
universitario americano Robin Dale Hanson, molto interessato alle ricerche
sull’intelligenza artificiale, che ha detto «Il Transumanesimo è l’idea secondo cui
le nuove tecnologie probabilmente cambieranno il mondo nel prossimo secolo o
due a tal punto che i nostri discendenti non saranno per molti aspetti
‘umani’».
In
effetti oggi i transumanisti più sfegatati, tra cui Klaus Schwab (costruttore di bombe atomiche illegali in Sud-Africa, ndr.) direttore del “World Economic Forum”
(segnatevi bene questo nome) sono a favore dell’utilizzo delle tecnologie
emergenti, incluse quelle attualmente ritenute controverse, come l’ingegneria
genetica sull’uomo, la crionica e gli usi avanzati dei computer e delle
comunicazioni.
Essi
ritengono inoltre che l’intelligenza artificiale un giorno supererà quella
umana, realizzando la singolarità tecnologica.
Per
loro questo sviluppo è desiderabile e gli esseri umani possono e dovrebbero
diventare “più che umani” attraverso l’applicazione di innovazioni tecnologiche
come l’ingegneria genetica, la nanotecnologia, la neurofarmacologia, le protesi
artificiali, e le interfacce tra la mente umana e le macchine.
Per
raggiungere questo obbiettivo i transumanisti si interessano a tutti i vari
campi della scienza, della filosofia, dell’economia e della storia naturale e
sociale, per comprendere e valutare le possibilità di superare le limitazioni
biologiche, intendendo tra queste le malattie che affliggono l’umanità e
soprattutto prendono in considerazione la possibilità di superare il limite di
Hayflick.
Il
concetto del limite di Hayflick è stato ipotizzato dall’anatomista americano
Leonard Hayflick nel 1961.
Senza entrare nel dettaglio, gli studi fatti
da Hayflick riguardano le possibilità delle cellule del corpo umano di
rinnovarsi.
Questo rinnovamento ha un limite genetico,
dopodiché il processo di invecchiamento e quindi di morte è irreversibile.
Superare
questo limite vuol dire in pratica pensare ad un allungamento ad oltranza della
vita fino a garantirsi una specie di immortalità.
Da
quanto esposto finora dovrebbe esser chiaro che la maggior parte dei
transumanisti sono agnostici o atei.
Inseguendo
il loro sogno di immortalità non possono dar credito all’idea di un’anima
trascendente.
Confidano
piuttosto nella compatibilità delle menti umane con l’hardware dei computer,
con l’implicazione teorica che la coscienza individuale possa, un giorno,
essere trasferita o emulata su un supporto digitale;
tale
tecnica si chiama “mind uploading”.
Non
stupiamoci quindi se “le teorie transumaniste” sono avversate dai religiosi di
qualunque confessione, per i quali negare la trascendenza dell’anima è
assolutamente eretico e inammissibile.
Ma non
c’è bisogno di essere credenti per prendere le distanze dal transumanesimo.
Una
critica radicale al transumanesimo è stata portata ad esempio da Bill Joy,
informatico statunitense e cofondatore della “Sun Microsystems, che afferma nel
suo articolo “Why the future doesn’t need us” (Perché il futuro non ha bisogno di
noi) che gli esseri umani probabilmente finiranno con l’estinguersi attraverso
le trasformazioni sostenute dal transumanesimo.
Anche
il movimento ambientalista è contro il transumanesimo.
Infatti
sostiene il principio di precauzione nell’applicazione industriale degli
sviluppi tecnologici e addirittura auspica la cessazione della ricerca in aree
ritenute potenzialmente pericolose.
Inoltre
alcuni “precauzionisti” credono che l’umanità dovrebbe prima organizzarsi in
modo da essere pronta a superare i pericoli prodotti dalle intelligenze
artificiali, incarnazioni tecnologiche del principio di Autorità.
Questo
dell’autorità e della tentazione all’autoritarismo è un aspetto importante che
va sottolineato.
L’enfatizzazione
che fa il transumanesimo dell’uso dell’intelligenza artificiale e della
contaminazione di questa con la mente umana disvela il sogno di controllo
assoluto strettamente connesso con i programmi del Grande Reset e quindi del
transumanesimo .
Già
altri critici del transumanesimo avevano fatto notare la soggettività di
concetti biopolitici come “miglioramento” e “limitazione”, osservando una
pericolosa somiglianza con le vecchie ideologie eugenetiche in merito ad una
“razza superiore” e preoccupandosi di quello che il transumanesimo potrebbe
comportare in futuro, come ad esempio separazioni e discriminazioni di natura
sociale fra i “migliorati” e chi non lo è o fra “modificati” e “naturali”.
Queste
ultime considerazioni ci obbligano ad esaminare i risvolti politici del
problema.
Se di
Grande Reset si è cominciato a parlare solo di recente, va ricordato che già
nel 2015 nacque l’”AGENDA 2030 PER LO SVILUPPO SOSTENIBILE”, un programma
d’azione per le persone, il pianeta e la prosperità sottoscritto nel settembre
2015 dai governi dei 193 Paesi membri dell’ONU.
I
programmi e gli obbiettivi dell’Agenda 2030 costituiscono l’ossatura in
embrione su cui sono nati i piani del Grande Reset.
Il
punto centrale, e quindi l’obiettivo primario, è una ristrutturazione del
Capitalismo in grado di eliminare le “storture” e i limiti che ne hanno
contrassegnato il cammino.
Per
fare questo è utile richiamarsi non tanto al capitalismo “liberale” che ha
caratterizzato il modello occidentale fino ad oggi, ma piuttosto ad un capitalismo di
tipo cinese che ha saputo coniugare le esigenze dello sviluppo con quelle di un
rigido controllo sociale.
Possiamo
parlare a ragion veduta di un “nuovo capitalismo feudale”, dove le redini sono
saldamente tenute in mano da un ristrettissimo numero di sovrani e vassalli che
controllano rigidamente la massa dei sudditi assecondandoli nella soddisfazione
dei loro bisogni primari e secondari.
In
questo programma di ristrutturazione il transumanesimo riveste un ruolo
fondamentale proprio perché capace di garantire il controllo e la manipolazione
della volontà dei singoli.
Si
tratta in effetti dell’istituzione di un “tecno-feudalesimo” per il quale vale
il giudizio del filosofo Giorgio Agamben:
“Il capitalismo che si sta consolidando su
scala planetaria non è il capitalismo nella forma che aveva assunto in
occidente: è, piuttosto, il capitalismo nella sua variante comunista, che univa
uno sviluppo estremamente rapido della produzione con un regime politico
totalitario. (…)
Quel
che è certo, tuttavia, è che il nuovo regime unirà in sé l’aspetto più disumano
del capitalismo con quello più atroce del comunismo statalista, coniugando
l’estrema alienazione dei rapporti fra gli uomini con un controllo sociale
senza precedenti”.
In
questo quadro, ma meglio definirlo incubo, i padroni universali avrebbero
raggiunto la capacità tecnologica di entrare nelle nostre vite e nelle nostre
menti.
L’estremo
appello di libertà di George Orwell in 1984: “possono costringerti a dire
qualsiasi cosa, ma non c’è maniera che te la facciano credere. Non possono
entrare dentro di te.” diventa anacronistico.
Non è
più così, ora possono!
Le
tecnologie di sorveglianza e l’immenso apparato di programmazione neuronale, i
chip sottocutanei, i farmaci imposti, ci riescono.
Teniamo
bene a mente cosa ha scritto Klaus Schwab, il gran ciambellano criminale del
Forum di Davos, nel programma per l’anno passato:
“l’aspetto
positivo della pandemia è che ci ha insegnato che possiamo introdurre
cambiamenti radicali nel nostro stile di vita con grande rapidità.
I
cittadini hanno dimostrato ampiamente che sono disposti a fare sacrifici per il
bene delle cure sanitarie.
È
evidente che esiste una volontà di costruire una società migliore e dobbiamo
approfittarne per garantire il Grande Reset”.
Ritengo
anche importante citare a tal proposito cosa ha scritto Geminello Preterossi in
“Contro
Golia – Manifesto per la sovranità democratica” :
“se di un ri-orientamento c’è bisogno, per gli
oligarchi criminali di Davos questo dovrà essere realizzato dal capitalismo
stesso, cioè da coloro che hanno prodotto il disastro.
Con una sorta di illusionistico falso
movimento, mettendosi all’opposizione dell’esistente, sfruttano l’occasione
della pandemia per immunizzare il potere assolutistico del capitale da
qualsiasi reale cambiamento che provenga dal basso e rappresenti un’alternativa
organizzata:
per
far questo occorre mutare narrativa, fingere di liquidare il neoliberismo per
salvare e rilanciare il capitalismo (il cui nucleo di potere neoliberale resta
intatto), potenziandone le possibilità di dominio.
Quel dominio delle menti si spinge fino al
progetto smisurato di un controllo totale, algoritmico, sulle vite, il cui
residuo di differenza e autonomia deve essere azzerato o neutralizzato con
modalità automatiche.”
Dunque
l’obiettivo finale del Grande Reset (e del transumanesimo che ne è parte
integrante) è la creazione dell’anti-società post-umana.
La
posta in gioco è una trasformazione antropologica di cui Agenda 2030 non era
che il prologo.
Essendo
arrivato alla conclusione voglio concedermi un’ultima riflessione filosofica.
I
filosofi del mondo ellenico avevano già parlato di Hybris.
Il
termine indica propriamente in greco la tracotanza, la dismisura, la superbia e
il superamento del limite.
A
differenza del biblico peccato originale, anch’esso una forma di superamento
del limite imposto da Dio all’uomo nel Paradiso terrestre, la hybris greca non
macchia indistintamente e indelebilmente tutti gli uomini dalla loro nascita,
ma rappresenta piuttosto un pericolo sempre in agguato nella natura umana,
pericolo che dovrà essere contrastato da ogni singolo uomo con le sue sole
forze.
Nelle
follie dei piani del transumanesimo e del Grande Reset c’è una quota di hybris
smisurata e sta a tutti noi evidenziarla, contrastarla e sconfiggerla.
Transumanesimo:
l’approdo
ultimo
dell’ideologia gender.
Provitaefamiglia.it
– Redazione – (21-9-2021) – ci dice:
Non
tutti sanno che cosa sia il transumanesimo. Il New York Times ha recentemente
pubblicato la storia di Kim Suozzi, morta a 23 anni per un tumore, che ha
pagato 80.000 dollari alla società Alcor, a Scottsdale, in Arizona, per farsi
congelare la testa (per congelare il corpo intero servono 200.000).
La
povera Kim confidava nella ricerca sull’intelligenza artificiale. Sperava che
al tempo opportuno la sua testa possa essere scongelata per inserire la sua
memoria, il suo cervello, in un computer.
Ecco
cosa è il transumanesimo.
L’ipotetica
copia digitale del cervello umano che si immagina nel futuro di poter creare si
chiama ‘connectome’.
Il
problema è che si calcola che la capacità di memoria sia di 1,3 miliardi di
terabytes, non comodi da portare in una pen-drive:
infatti
dicono che l’intera capacità di memoria di tutti gli harddrive del mondo è di
circa 2,6 miliardi di terabytes (non mi chiedete come l’hanno calcolata...).
La
povera Kim sarà morta sperando: forse per questo gli 80.000 non sono del tutto
buttati.
Ma che
dire di quelli che hanno lucrato così tanto sulle sue assurde illusioni?
Eppure
il transumanesimo si fa strada, in una società liquida e relativista come la
nostra.
Del
resto il Cardinale Bagnasco tempo fa ha detto che “[...] il gender edifica un
‘transumano’ in cui l’uomo appare come un nomade privo di meta e a corto di
identità”.
Matteo
Carletti, su Libertà e Persona, ci fa riflettere:
intanto, però, la Federazione Italiana
Sessuologia Scientifica, in linea con l’ufficio regionale per l’Europa
dell’OMS, ha pubblicato un libello nel quale – oltre alle già note teorie circa
la sessualizzazione precoce dei bambini – si parla di “pianificazione familiare
in armonia con quella lavorativa”, e quindi dell’utilizzo della genetica per
fare bambini su misura.
Esattamente quanto temeva il Cardinal
Bagnasco:
fabbricare
la vita ‘su misura’.
Ma va
oltre: non solo dobbiamo fabbricare la vita dei nostri figli, ma anche e
soprattutto la nostra.
E
questo è un pensiero transumanista, spiega Carletti, l’uomo diventa capace non
solo di autodeterminarsi, ma di poter decidere come e fino a quanto vivere.
Un
manifesto del transumanesimo è la Lettera a Madre Natura di Max More. Secondo i
filosofi e gli scienziati transumanisti, l’uomo deve completare in un certo
senso l’evoluzione (il darwinismo di fondo ci sta tutto) e deve preoccuparsi da
sé di cambiare.
“In un
crescendo di fusione fra corpo, macchine e biotecnologia sarà possibile
fabbricare una nuova forma di vita che supererà le abilità percettive di ogni
altra creatura“.
Recita
il 5° emendamento della Lettera:
“Non saremo più schiavi dei nostri geni. Ci assumeremo
la responsabilità dei nostri programmi genetici e otterremo il totale controllo
dei nostri processi biologici e neurologici.
Porremo
rimedio a tutti i difetti individuali e della specie lasciatici in eredità
della nostra storia evolutiva.
Ma non
ci fermeremo qui:
potremo
scegliere sia la forma del nostro corpo che le sue funzioni, raffinando ed
aumentando le nostre abilità fisiche ed intellettuali, fino a livelli mai
raggiunti da nessun altro essere umano nella storia”.
L’uomo
utilizza la propria ragione – conclude Carletti – non più per riconoscere ciò
che la natura gli mostra e che egli deve accogliere, ma come potere fabbricante
la propria persona e, conseguentemente, la propria realtà.
Quest’ultima, proprio perché partorita dalla
mente e dalle mani dell’uomo attraverso l’uso della sua ragione diventa, a
pieno titolo, ‘naturale, ovvero frutto dell’evoluzione della natura.
È in questo slancio prometeico che va quindi
inquadrata non solo la così detta ideologia gender, ma il desiderio radicale
dell’uomo di autodeterminarsi.
“Invece
di impiegare le nostre nuove possibilità genetiche per raddrizzare il ‘legno
storto dell’umanità’, dovremmo fare il possibile per creare assetti sociali e
politici più accoglienti nei confronti dei doni, e dei limiti, di noi
imperfetti esseri umani”. (M. J. Sandel, Contro la perfezione, 2007).
La
Finzione della Guerra per
Difendere
l’Ucraina è
definitivamente
Caduta.
Conoscenzealconfine.it
– (30 Gennaio 2023) - Luciano Lago – ci dice:
Le
elite di Washington e di Bruxelles ammettono ormai il vero disegno progettato
per la guerra in Ucraina istigata dagli Stati Uniti. L’obiettivo era ed è la
distruzione dell’integrità della Federazione Russa per permettere agli Anglo
USA di prendere il controllo dell’Eurasia.
Questo
piano emerge non solo dai documenti scritti almeno tre anni prima (vedi quanto
scriveva la Rand Corporation), ma anche dagli incontri di Davos, dove il
linguaggio è ormai scoperto e si sono abbandonati gli ipocriti appelli a
“salvare la democrazia ucraina”.
L’elite
finanziaria anglosassone dominante oggi parla apertamente della necessità di
impadronirsi delle risorse della Russia. I veri obiettivi, l’espansione senza
fine della NATO, l’utilizzo dell’Ucraina come piattaforma di attacco contro la
Russia, adesso sono scoperti. Il destino degli ucraini destinati a fare da
carne da cannone nella guerra contro la Russia interessa poco o niente
all’elite di Washington.
Questo
spiega l’accrescere progressivo della retorica bellica dei neocon e delle loro
reggicoda europei della NATO, che sono pronti a intensificare il conflitto fino
alla terza guerra mondiale, e neppure la minaccia nucleare, paventata come
inevitabile sviluppo dalla Russia, potrà fermarli.
Il
tempo sta scadendo anche per Zelensky ed è probabile che si avvicini il momento
di un rimpasto a Kiev e questo non sarà indolore per l’ex comico, come di
frequente accaduto per le marionette degli USA.
Da
ultimo, si sono udite le parole di Joseph Borrel, l’alto rappresentante della
UE, che ha paragonato il conflitto in Ucraina alle guerre passate condotte
contro la Russia da parte di Napoleone e di Hitler: “La Russia è un grande
Paese, è abituata a combattere fino alla fine, è abituata a quasi perdere e poi
a ripristinare tutto. L’hanno fatto con Napoleone, l’hanno fatto con Hitler (...).
Pertanto,
è necessario continuare ad armare l’Ucraina “.
Altri
politici occidentali, come la vice premier canadese, Chrystia Freeland nella
enclave di Davos, hanno affermato che la sconfitta della Russia “sarebbe un
enorme impulso per l’economia globale”.
Non
per niente il Canada (assieme agli USA) è stato uno dei paesi che ha accolto i
gruppi nazisti ucraini per poi trasferirli in Ucraina dopo il crollo dell’URSS,
per utilizzarli come massa di manovra anti russa.
Le
sconfitte continue sul campo e le enormi perdite subite dall’esercito ucraino
fanno innervosire i vertici della NATO che insistono presso i governi
occidentali per ottenere più carri armati, più armi e più attrezzature rendendo
evidente che Washington e la NATO non solo mantengono l’esercito ucraino, ma
forniscono anche le necessarie informazioni di intelligence, comandano le
truppe ucraine sul campo e hanno preso il controllo del processo decisionale
militare.
Mentre
Washington prepara nuovi pacchetti di aiuti, l’ultimo da 2,5 miliardi di
dollari, le forze ucraine vengono addestrate in Germania e nel Regno Unito per
l’utilizzo degli armamenti occidentali.
Ultimamente
il comando USA incita apertamente le forze ucraine a colpire il territorio
della Federazione russa e in particolare la Crimea.
Si
aggiungono le farneticanti dichiarazioni di Stoltenberg, il segretario della
NATO, il quale dichiara che “…è necessario accelerare la fornitura all’Ucraina
di armi più pesanti e avanzate per far capire alla Russia che non vincerà sul
campo di battaglia”. In sostanza, i “padroni del mondo” si sentono in diritto
di affermare che la Federazione Russa debba rassegnarsi alla sconfitta alle
porte di casa propria.
La
reazione della leadership russa è altrettanto dura e decisa: si parla
apertamente di misure di ritorsione che potranno colpire non solo l’Ucraina ma
anche gli interessi occidentali con utilizzo di “nuove armi” mai prima
utilizzate. Non è difficile intendere che le autolimitazioni che Mosca si era
data nell’utilizzo dell’offensiva in Ucraina stanno venendo meno.
Di
fronte alla prospettiva di un attacco portato avanti dalla NATO contro le città
russe in Crimea, l’atteggiamento cambia. L’occidente sta portando il mondo
verso una catastrofe globale.
Questa
la sostanza degli avvertimenti lanciati dalla Russia all’occidente. Il
presidente Putin, nel suo prossimo discorso previsto a giorni, si accinge a
cambiare l’impostazione del conflitto da “operazione speciale” a “guerra
patriottica”, sulla base delle esplicite minacce alla sicurezza della Russia.
Questo significa che tutte le risorse e le forze dal paese saranno gestite in
funzione dello sforzo bellico.
In
definitiva la Russia prende atto della sfida esiziale in corso da parte
dell’Occidente sotto guida USA e si organizza per combattere con tutte le sue
forze. Lo scenario della catastrofe si avvicina sempre più…
(Luciano
Lago)
(ilpensieroforte.it/mondo/6519-la-finzione-della-guerra-per-difendere-l-ucraina-%C3%A8-definitivamente-caduta)
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