CONTROLLO TOTALE DEL MONDO.

 

CONTROLLO TOTALE DEL MONDO.

 

 

“Libero” e “Virgilio”: Server Fuori

Servizio da Giorni. E se in Futuro

accadesse al nostro Denaro Digitale?

 

ConoscenzealConfine.it – (29 Gennaio 2023) - Giacomo Ferri – ci dice:

 

La digitalizzazione è la chiave del controllo totale.

In futuro, in un qualunque momento, per una causa qualsiasi, ti potresti trovare ad essere povero perché non hai fatto una punturina obbligatoria o perché sei in ritardo col pagamento delle tasse o perché hai manifestato contro lo Stato.

Tra la notte di domenica 22 e lunedì 23 i server di Libero e Virgilio sono andati giù. Pertanto, da quel momento nessuno può accedere al proprio indirizzo email, sia esso privato che della propria azienda e all’interno ci sono sia coloro che usufruiscono gratuitamente del servizio e anche quelli che, per motivi di spazio, pagano per avere una casella di posta più spaziosa o con servizi aggiuntivi;

milioni di utenti si trovano impossibilitati a leggere la posta arrivata o ad inviare messaggi, costretti, in caso di urgenza, a farsi un indirizzo di posta alternativo.

Non conosciamo le motivazioni, “Italia Online”, la società che gestisce i server di entrambi, ha tenuto a dire che non si tratta di un attacco hacker, ma di un problema tecnico in via di risoluzione ma, qualsiasi sia la causa, l’effetto è davvero imponente e, come ha fatto notare Marcello Pamio, sul suo canale Telegram, contestualmente Google starà gioendo per la previsione che molti utenti si riverseranno verso quello che è, ormai, il gestore più famoso.

Tanti ne stanno parlando, dato che si stima le caselle di posta siano tra 9 e 11 milioni, quindi si è creato un vero e proprio disservizio nazionale, che fa molto riflettere proprio per la direzione (chiamiamola deriva) che sta prendendo la società attuale, perseguendo le varie “Agenda 2030”, “Vision 2030” (per i paesi arabi) e “Vision 2035” per la Cina, da anni il WEF, e non solo, ci illustra ed indica il cammino, ovvero: la digitalizzazione totale.

Non sono un retrogrado o uno che ama remare contro il progresso scientifico e tecnologico, ma di fronte a certe implementazioni e a causa del vissuto degli ultimi anni, in particolare degli ultimi tre, non posso fare a meno di domandarmi a cosa potremmo andare in contro se venissero attuate una serie di proposte, o meglio, di obiettivi che tutti i governi stanno portando avanti.

Sono partito proprio dallo spunto del suddetto Marcello Pamio, perché la sua domanda (retorica) è anche la mia domanda e lo è da molto tempo:

se dovessero digitalizzare interamente il denaro, cosa accadrebbe se vi fosse un evento simile a quello che sta accadendo ora con delle “semplici” caselle di posta?

Se il blocco della moneta digitale fosse a causa di un attacco hacker o se, perseguendo l’idea del controllo di massa e del credito sociale, dall’alto decidessero che certe persone non potessero più utilizzare il proprio denaro o ne limitassero la quantità utilizzabile secondo il proprio volere, cosa faremmo?

Questa situazione ci dovrebbe allertare e non dovremmo vedere la cosa come un disagio o poco più che un problema tecnico, ma come un precedente importante, un avvertimento nato dal caso e che sussurra al nostro orecchio.

“Attento, che in futuro, in un qualunque momento, per una causa qualsiasi, ti potresti trovare ad essere povero perché non hai fatto una punturina obbligatoria o perché sei in ritardo col pagamento delle tasse o perché hai manifestato contro lo Stato”.

“Fantasie!” staranno dicendo alcuni voi ma, ahimè… dovremmo aver imparato che quello che pensavamo fosse irrealizzabile è diventato realtà e quello che ci sembrava distopico è diventato democratico.

La Cina, in primis (dal 2014) ci sta insegnando da anni cosa lo Stato può fare ai propri cittadini (sudditi?) e, proprio attraverso il sistema del credito sociale, sta sperimentando il controllo di massa;

insomma prendendo ispirazione, con la tecnologia attuale, a quello che George Orwell, in “1984”, chiamò “Big Brother”, il Dragone ha dato vita (o forse ha migliorato quelli già esistenti in altri Paesi) al “Grande Fratello”.

Purtroppo adesso, se si parla di Grande Fratello, alla gente viene solo in mente quel format televisivo, di opinabile qualità, che vede un gruppo di personaggi chiusi in una casa e spiati 24 ore al giorno.

Come abbiamo avuto modo di vedere, attraverso alcuni servizi televisivi (il primo reperibile della BBC del 2018 , fino ad arrivare al servizio televisivo della RAI con la trasmissione “Petrolio” ), in alcune città sperimentali, grazie all’implementazione di una copertura totale di telecamere col sistema di riconoscimento facciale, collegate a dei server gestionali, lo Stato attribuisce un punteggio base a tutti i cittadini, i quali, a seconda delle azioni che compiono, subiscono un aumento o una diminuzione dei loro punti e, sotto una certa soglia, la loro vita può essere limitata.

Una limitazione vera e propria, tanto da non poter prendere un aereo per lasciare il paese o essere denigrati a livello sociale e subire vere e proprie umiliazioni pubbliche, come mostrare le foto dei volti, con nome e cognome, di coloro che hanno il punteggio più basso;

 se tutto ciò non bastasse, per guadagnare punti, viene fomentato lo spionaggio tra vicini di casa e colleghi di lavoro:

per aumentare il proprio credito sociale, non solo le persone devono cercare di fare buone azioni e rispettare le leggi, ma possono acquisire punti extra segnalando il comportamento scorretto dei propri concittadini, o coloro che sono critici nei confronti dello Stato, un po’ come il ruolo degli “informatori non ufficiali” reclutati dalla STASI per spiare…

alla fine tutti spiavano tutti senza sapere di essere spiati.

La digitalizzazione è la chiave del controllo totale e, ricordando la frase legata proprio all’Agenda 2030 di Davos, ovvero:

Nel 2030 non avrai nulla e sarai felice”, dovremmo ormai aver chiaro in mente cosa ci riserva il futuro, perché ce lo dicono apertamente, ce lo sbattono in faccia con i loro messaggi e spot;

non potremo certo dire “non lo sapevo” o “non credevo si arrivasse a tanto”, perché non saremmo credibili e, soprattutto, non saremmo intellettualmente onesti, principalmente con noi stessi!

Quando nel 2017 l’allora Ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, dichiarò di voler rendere obbligatori 10 vaccini per l’infanzia e ne fece, poi, un decreto, dissi “con questa legge si è creato un grave precedente” e, purtroppo mi sono reso conto, alcuni anni dopo, che veramente quello era un primo passo per arrivare alla direzione che abbiamo vissuto;

nonostante quella legge fosse al centro di polemiche, già prima diventare decreto, molte relative alla sua anticostituzionalità, la stessa è tutt’ora in vigore e i giudici, specialmente da parte della Corte Costituzionale, non hanno fatto altro che avvalorarla con la sentenza 2017, stessa cosa accaduta poco tempo fa con la decisione, sempre della Corte Costituzionale, sui “vaccini” anti-Covid19.

Tornando all’argomento iniziale, è ovvio che un server caduto, un problema tecnico o un attacco hacker, non debba allarmare più di tanto ma, come per me nel 2017, questo potrebbe creare un grave precedente, ma un precedente che stavolta ci dà in mano un’arma contro questo sistema, un grave precedente per i loro piani, perché dovrebbe far riflettere coloro che sono assai felici di entrare in un’era totalmente digitale, che un qualsiasi piccolo problema tecnico o un blackout energetico prolungato, può causare più problemi in futuro di quanti ne causi adesso.

Veicoli che si guidano da soli, che perdono il controllo da soli;

 soldi digitali che adesso ci sono e tra un minuto non ci sono più o non sono più disponibili;

macchinari che rilasciano farmaci nell’organismo che, non ricevendo più un segnale, non rilasciano più i farmaci o ne rilasciano in continuazione;

banche senza cassa, che senza collegamento internet non possono fornire il denaro richiesto.

Gli esempi possono essere tanti per creare il dubbio sulla direzione intrapresa, se si pensa all’incidente, al malfunzionamento, al blackout, ma se pensiamo soprattutto che possono decidere della nostra vita a loro discrezione, siamo proprio certi di voler seguire quella strada?

A tal proposito vi lascio citando il titolo di una commedia di Giuseppe Giacosa del 1870:

“Chi lascia la via vecchia per la nuova, sa quel che lascia, e non sa quel che trova”.

(Giacomo Ferri)

 

 

 

Male liquido.

Laterza.it - Zygmunt Bauman - Leonidas Donskis – (10-6-2020) – ci dicono :

 

Vivere in un mondo senza alternative.

Esiste una modalità specificamente liquido-moderna del male.

È ancora più insidiosa e pericolosa delle sue precedenti manifestazioni storiche perché il male oggi appare frammentato, polverizzato, disarticolato e disperso.

Il male liquefatto si cela alla vista e, anziché essere riconosciuto per ciò che è, riesce a passare inosservato.

In un dialogo serrato con il filosofo Leonidas Donskis, Zygmunt Bauman affronta il tema del male nella contemporaneità.

Perché se da una parte è indubitabilmente un compagno permanente e inalienabile della condizione umana, dall’altra sono inedite le forme e i modi in cui opera nella sua odierna versione liquefatta.

Il male liquido ha una stupefacente capacità di camuffarsi e reclutare al proprio servizio ogni sorta di interesse e desiderio umano, profondamente umano.

 Lo fa con motivazioni tanto pretestuose quanto difficili da sfatare e confutare.

 Il più delle volte il male liquefatto riesce ad apparire non come un mostro, ma come un amico che non vede l’ora di dare una mano.

Utilizza come strategia di fondo la tentazione anziché la coercizione.

Ha l’impressionante capacità, tipica dei liquidi, di scorrere attorno agli ostacoli che si trovano sul suo cammino.

Come ogni liquido, li impregna e li macera fino a eroderli per poi assimilarli nel suo organismo in modo da nutrirlo e accrescerlo ulteriormente.

 È questa sua capacità, accanto alla elusività, a rendere così arduo lo sforzo di resistergli efficacemente.

 

Il male liquido e il mondo senza alternative.

Leonidas Donskis.

Viviamo in un mondo senza alternative.

Un mondo che propone una realtà unica e che etichetta come pazzo – o ben che vada come eccentrico – chi crede che le alternative esistano sempre e che ciò valga non solo per le strategie di business o per i progetti d’ingegneria, ma perfino per i migliori modelli di governo o per le idee più profonde.

Mai come oggi, probabilmente, il mondo è stato a tal punto sommerso dal fatalismo e dal determinismo: è come se da una cornucopia inesauribile uscissero a getto continuo, accanto a qualche analisi seria, profezie e previsioni di crisi, di pericoli, di crolli e di fine del mondo.

 In questo clima di paura e rassegnazione diffusa, regna la convinzione che non esista alternativa alla logica politica di oggi, alla tirannide dell’economia, agli atteggiamenti riguardo alla scienza e alla tecnologia o al rapporto tra la natura e l’uomo.

D’altra parte, l’ottimismo non è affatto sinonimo di stolida celebrazione del fatto di essere qui, in questo luogo, in un contesto morbido, caldo e confortevole: l’ottimismo nasce piuttosto dalla convinzione che il male sia transitorio e non possa avere la meglio (se non per brevi periodi) sull’umanità.

 Inoltre, l’ottimismo è certezza che la speranza, le alternative, esistano sempre.

 

La convinzione che il pessimista sia, in generale, una crea­tura più elevata e nobile dell’ottimista non è semplicemente un residuo della sensibilità e visione del mondo romantica: è qualcosa di molto più vasto.

 Questa problematica risale addirittura al grande conflitto tra cristianesimo e manicheismo, ad Agostino d’Ippona (che, una volta messo a tacere il proprio manicheismo interiore, divenne uno dei padri della chiesa cattolica).

Mentre per i cristiani il male nasceva da una condizione di traviamento o d’insufficienza del bene, ed era dunque uno stato di cose sanabile, per i manichei bene e male erano realtà parallele e inconciliabili.

L’ottimismo è essenzialmente un costrutto cristiano: si basa sulla fede che il bene possa prevalere sul male e che sempre, in ogni situazione, esistano possibilità inesplorate: alternative.

 Eppure oggi viviamo in un’epoca di pessimismo.

Il ventesimo secolo ha offerto prove eccellenti del fatto che il male è vivo e vegeto, e ciò ha rafforzato le posizioni dei moderni manichei, posti di fronte all’evidenza di un mondo che può essere temporaneamente abbandonato da Dio, ma non certo da Satana.

Con questo, però, non abbiamo ancora risposto alla domanda: qual è oggi il significato del manicheismo?

La perdita della fede nell’idea di un Dio onnipotente, e di un Dio che sia Amore, è stata grandemente favorita dalle tante atrocità del ventesimo secolo.

 L’immortale romanzo di Michail Bulgakov Il maestro e Margherita, scritto tra il 1928 e il 1940 e pubblicato con molte censure tra il 1966 e il 1967, è intriso di manicheismo e contiene molte allusioni alla concezione del profeta persiano Mani, creatore eponimo di questo sistema di credenze imperniato sul dualismo tra «luce» e «tenebre».

Alla base di questo testo, che è il vero e proprio capolavoro della narrativa novecentesca dell’Europa orientale (così come Il processo di Kafka lo è per l’Europa centrale), c’è una concezione del male come realtà autosufficiente assai vicina all’interpretazione del cristianesimo formulata da Ernest Renan nella Vita di Gesù (1863), che Bulgakov aveva ben presente.

Anche Czesaw Miosz si considerava una sorta di manicheo in incognito.

Dopo essersi imbattuto nei mali incomprensibili del ventesimo secolo – emersi in un mondo non meno razionale o umanistico del nostro, un mondo che aveva saputo produrre culture di levatura assoluta come quelle tedesca e russa – Miosz approdò a una concezione del male come realtà autonoma e autosufficiente, o quanto meno come dimensione che sfugge a qualsiasi tangibile influenza del progresso e, in generale, a ogni forma di sensibilità moderna e grande teoria. I

noltre, lo stesso Miosz indicò in Simone Weil un’altra seguace in incognito del manicheismo, per l’interpretazione millenarista che la filosofa francese aveva dato delle parole «Venga il tuo regno» nel Padre nostro.

Si comprendono meglio, dunque, le ragioni per cui Miosz, alla California University di Berkeley, abbia tenuto un corso proprio sul manicheismo.

 Nel suo Abbecedario (1997) lo scrittore polacco ha indicato l’atto iniziale del male del ventesimo secolo nelle vicende dei bogomili in Bulgaria e nel martirio dei catari a Verona e in altre città italiane.

Tutti i grandi esponenti della cultura dell’Europa orientale hanno in certa misura creduto nel manicheismo:

dal russo Michail Bulgakov fino a George Orwell (che, come vedremo, possiamo considerare europeo dell’est per affinità elettiva).

 

Oggi viviamo in un’epoca di paura, negatività, cattive notizie.

Le buone notizie non hanno mercato, non interessano a nessuno (anche se un racconto apocalittico divertente e avventuroso è ben altra cosa).

È qui che nasce la diffusione indiscriminata del panico, l’industria della paura:

un diluvio di breaking news piene di discrepanze, i cui commentatori si contraddicono a ogni piè sospinto.

 Il tutto – a parte qualche analisi acuta e ben argomentata – all’insegna dell’isteria e del disfattismo.

Male liquido: che cosa significa?

Come andrebbe interpretata questa idea, in un’epoca, come la nostra, in cui tanti fenomeni presentano qualità e caratteristiche che si escludono a vicenda?

A differenza di quello che possiamo definire «male solido», privo di sfumature, bianco o nero, la cui tenace presenza è molto più individuabile nella realtà sociale e politica, il male liquido si presenta sotto un’apparenza di bontà e amore.

Non solo: si esibisce addirittura come accelerazione apparentemente neutrale e imparziale della vita, cambiamento sociale che procede a velocità inaudita, accompagnato da perdita della memoria, amnesia morale.

Il male liquido si fa strada inoltre sotto il travestimento della presunta assenza, e addirittura impossibilità, di qualsiasi alternativa.

Il cittadino si trasforma in consumatore, e sotto la neutralità di valori si cela una realtà di disimpegno.

L’impotenza e lo smarrimento individuali, abbinati a uno stato che rinnega e rifiuta le proprie responsabilità nel campo dell’istruzione e della cultura, si accompagnano alle divine nozze tra neoliberismo e burocrazia, concordi nel porre l’accento sulla responsabilità degli individui non soltanto per la propria vita e le proprie scelte (in un mondo in cui, però, non c’è libertà di scelta), ma perfino per lo stato di cose globale.

Nel 2013, in “Cecità morale”, tu ed io abbiamo accennato a quell’inquietante fenomeno che si potrebbe chiamare «università post accademica».

 Lo scenario perfetto per lo sviluppo di questo fenomeno è uno sgangherato miscuglio di rituali accademici da Medioevo, specialismi, negazione plateale e brusca di qualsiasi ruolo degli studi umanistici nella società moderna, managerialismo e superficialità:

 il risultato è che si lascia campo libero alle pressioni fortissime di forze tecnocratiche che si spacciano per voci sincere di libertà e di democrazia, ma soprattutto a ogni tipo di determinismo e fatalismo orientato al mercato, togliendo così spazio alla possibilità di concepire una qualsiasi alternativa imperniata sul pensiero critico e sul dubbio metodico.

La missione e raison d’être dell’università post accademica sembra ridursi a una ostentata superficialità, flessibilità, remissività alle élite manageriali e tendenza ad allinearsi agli appelli e alle richieste dei mercati e delle élite politiche.

Parole senza significato, vacua retorica, interminabili giochi strategici:

è questa la quintessenza di quella perfetta incarnazione della tirannide della superficialità che è l’università post accademica.

 Una strategia senza strategia, ridotta a mero gioco linguistico, come ha fatto notare Gianni Vattimo, chiamando in causa la categoria wittgensteiniana in relazione alla tecnocrazia che avanza mascherata da democrazia, all’odierna politica senza politica, ridotta appunto a una serie di giochi linguistici.

 Come hai scritto nel 2000 in “Modernità liquida”, Zygmunt, la strategia senza strategia e la politica senza politica sono sinonimo di etica senza morale.

Extra ecclesiam nulla salus, «non c’è salvezza fuori della chiesa»: quest’affermazione viene attribuita a un vescovo, Cipriano di Cartagine, vissuto nel terzo secolo.

 Alla stessa logica sembra ispirarsi, nel nostro mondo attuale, quella sorta di civiltà corporativa, quasi medievale, in cui l’individuo non esiste se non inquadrato e plasmato da un’istituzione.

L’accademia è oggi la nuova chiesa.

 In questo mondo il ruolo del dissenso, dell’eterodossia secolare, dell’alternativa è assai più problematico e complesso di quanto appaia a uno sguardo superficiale.

Le alternative non sono consentite.

 La privatizzazione dell’utopia comporta l’avvento di una nuova condizione, in cui nessuna società può essere considerata buona e giusta: l’unica possibile storia di successo è la vita del singolo.

In un mondo privo di utopie e ossessionato dalle distopie, le esistenze individuali tendono a diventare i nostri nuovi sogni utopici.

 Un possibile punto di partenza per riflettere su questo fenomeno senza precedenti è il motto «Tina», acronimo di «There is no alternative», il «Non c’è alternativa» coniato da Margaret Thatcher e poi reinterpretato da te, Zygmunt, come sintesi di questa fede assiomatica nel determinismo sociale e nel fatalismo fondato sul mercato, la cui principale differenza rispetto al passato è che, se un tempo Sigmund Freud ci faceva sapere che «la biologia è il destino», oggi potremmo dire che «l’economia è il destino».

George Orwell vide con chiarezza come le nuove forme di male tendano a presentarsi sotto le sembianze della bontà e dell’amore:

 «Amerai il Grande fratello».

Ma a differenza dei suoi predecessori – giacobini, bolscevichi, nazisti – il Partito di Oceania non prevede alcun martirio.

La tua vita individuale passerà inosservata; nessuno saprà che esisti.

Oppure sarai rapidamente e silenziosamente «riformato» per obbligarti ad assimilare e a usare il lessico che per tanto tempo avevi appassionatamente e sistematicamente rifiutato.

Il male ha smesso di essere chiaro ed evidente.

L’oppressione politica e l’attuale violazione – «a bassa intensità», come le guerre – dei diritti umani offuscano e cancellano il confine tra guerra e pace.

 La guerra oggi è pace, e la pace è guerra.

Le belle e le brutte notizie durano poco, assumono quasi subito un significato ambiguo, perdono chiarezza:

e anche se non ci sono guerre o altre calamità, l’industria della paura impedisce che se ne parli in modo non allarmistico.

Le belle notizie non fanno più notizia. Le brutte notizie sono, per definizione, le notizie.

Perciò, quando parlo della liquidità del male alludo al fatto che viviamo in una società che, pur continuando a coltivare le proprie venerande ma obsolete e fuorvianti credenziali liberaldemocratiche, è essenzialmente determinista, pessimista, fatalista, travolta dalla paura e dal panico.

La mancanza di sogni, alternative, utopie è, a mio parere, un aspetto importante della liquidità del male.

Due idee, a tale proposito, si sono rivelate profetiche.

La prima è la nostalgia di Ernst Bloch per la perdita, con la modernità, del senso di calore e di umanità del sogno utopico.

La seconda è la chiara percezione di Karl Mannheim di come le utopie si siano di fatto trasformate in ideologie politiche, perdendo così qualsiasi visione alternativa e allontanandosi dall’immaginazione per rinchiudersi nel principio di realtà.

La liquidità del male coincide con il divorzio tra il principio d’immaginazione e il principio di realtà: è questo, ora, ad avere l’ultima parola.

Le capacità di seduzione del male si abbinano così al disimpegno.

Per secoli il Diavolo, inteso come il Mefistofele del mito faustiano (dalle leggende medievali alla Tragica storia del Dottor Faust di Christopher Marlowe fino all’opera di Johann Wolfgang von Goethe) o come il Voland di “Il maestro e Margherita “di Bulgakov, è stato, come sappiamo, incarnazione e simbolo del male.

Ma Mefistofele e Voland non erano una novità.

 Il «buon» vecchio Diavolo rappresentava il male solido, con la sua logica simbolica di caccia alle anime degli uomini e di coinvolgimento attivo nelle vicende terrene; e nel perseguire i propri scopi si sforzava semplicemente di sovvertire e delegittimare l’ordine costituito sociale e morale.

Con ciò voglio dire che il male solido era votato all’amoralità e all’impegno attivo e portava con sé una solenne promessa di giustizia sociale e di uguaglianza da realizzare alla fine dei tempi.

 Viceversa, il male liquido si presenta con la logica della seduzione e del disimpegno.

Se per Vytautas Kavolis (come vedremo più avanti) Prometeo e Satana erano maestri di sovversione, di ribellione, di rivoluzione, gli odierni eroi del male liquido cercano di spogliare l’umanità dei sogni, dei progetti alternativi, del potere di dissentire;

sono in prima fila nella controrivoluzione, nell’obbedienza, nella sottomissione.

 Il male solido mirava a impossessarsi dell’anima e a conquistare il mondo affermandovi nuove regole del gioco;

la logica del male liquido sta nel sedurre e ritirarsi, e nel cambiare continuamente aspetto.

 «Seduzione e disimpegno» è il motto dell’eroe proteiforme della modernità liquida e del male liquido.

 So di che cosa c’è bisogno, ma non mi lascio coinvolgere e abbandono alla sua sorte l’oggetto, la vittima, della mia seduzione: il gioco è questo.

D’ora in poi, annegare in mare aperto sarà sinonimo di «libertà».

Oggi la nostra libertà si colloca nella sfera del puro e semplice consumo e rinnovamento di sé.

Il controllo, la sorveglianza, l’asimmetria di potere sbandierati come libertà di scelta, l’industria della paura, il gioco di esibizione del privato creano quella complessa combinazione di condizioni socioculturali che qui abbiamo metaforicamente chiamato «Tina», «assenza di alternative» o male liquido.

Promettere all’umanità in generale di riconoscere e promuovere la libertà, l’uguaglianza, la giustizia, la ragione, la ricerca della felicità, i diritti umani, i poteri di individualità e di associazione, la mobilità sociale e una vita senza confini;

 e poi improvvisamente sparire, abbandonando gli individui a giochi d’identità senza fine, spacciati per libertà, e al tempo stesso ricordandogli che spetta a loro risolvere i problemi del mondo senza poter contare sulle istituzioni, sullo spirito di comunità, sull’impegno:

 è questa la collaudata strategia del male liquido.

Per questa ragione ritengo che il vero simbolo del male liquido sia quello che definisco il «Grande anonimo», una sorta di «don Giovanni collettivo».

 Tu stesso, Zygmunt, hai indicato in don Giovanni il vero eroe della modernità.

Don Giovanni è il volto della modernità;

il suo potere risiede nel cambiamento incessante, infinito, e al tempo stesso nella capacità di nascondersi e sparire improvvisamente dalla scena per creare un’asimmetria di potere.

Al centro della modernità solida c’era la conquista di territori, da utilizzare ai fini dello stato o di altre strutture di potere.

Al centro della modernità liquida, invece, c’è il potere che gioca a nascondino, l’attacco militare seguito dal ritiro, l’azione destabilizzante.

 Il male liquido lancia campagne militari che hanno effetti dirompenti sull’economia e sulla vita di una determinata società o territorio e, anziché favorirne la rinascita o la trasformazione, vi riversano ogni sorta di caos, di paura, d’incertezza, di minaccia per l’incolumità e la sicurezza.

Il terrorismo di oggi è una perfetta espressione del male liquido.

L’imperialismo era un gioco di potere solido, mentre il terrorismo è strettamente legato alla natura liquida del male: non lasciamoci ingannare dalla logica sinistra con cui si schiera a difesa della società come astrazione ma disprezza la società concretamente esistente, pronto a sacrificarla sull’altare di un gioco di potere individualizzato.

Il seduttore che si ritrae e scompare lasciando dietro di sé vuoto, disincanto e morte è un eroe del male liquido.

L’asimmetria di potere su cui don Giovanni fonda la propria esistenza è imperniata sull’osservare, non visti, l’altro.

«Chi son io tu non saprai»:

 è tutta qui – in queste parole scritte per il Don Giovanni di Mozart da Lorenzo Da Ponte, che attribuisce al suo protagonista relazioni con ben duemila donne – l’asimmetria di potere del manipolatore moderno.

Tu non puoi vedermi, perché io mi tirerò indietro, ti abbandonerò non appena diventerà per me troppo rischioso restare e rivelarti qualcosa di me e delle mie sofferenze o debolezze nascoste.

Tu non saprai mai chi io sia, ma io saprò tutto di te.

All’oggetto di questo oscuro desiderio resta l’illusione che il seduttore gli offra tutta l’attenzione di cui ha bisogno e gli riveli tutto di sé.

Il commento su Internet che, al riparo dell’anonimato, diffonde menzogne e colpisce, ferisce e offende una persona con nome e cognome è un esempio concreto del modus operandi del male liquido, che si cala e si radica profondamente nelle nostre prassi più banali.

Tu non saprai chi sono io.

In quest’epoca di penosa ricerca dell’attenzione e di ossessiva e compulsiva scoperta ed esibizione di sé, abbiamo bisogno di sentirci costantemente ribadire la promessa, e rafforzare l’illusione, che anche noi, persone qualunque, possiamo conquistare l’attenzione del mondo.

 Non solo le star e i grandi leader mondiali, ma anche noi comuni mortali possiamo assumere importanza agli occhi di qualcuno per come appariamo, agiamo o viviamo, per ciò che possediamo, facciamo, desideriamo, troviamo divertente o degno di diventare oggetto di esibizione o di conversazione – insomma, per motivi umanissimi e assolutamente comprensibili.

 Ormai siamo tutti – anche se non usciamo mai di casa o se abbiamo vissuto sempre nel luogo in cui siamo nati – simili a migranti:

assetati di compagnia, di legami umani autentici, ma pronti, non appena li troviamo, a considerarli un miracolo di breve durata, un’esperienza che è destinata a finire presto e che dunque ci conviene vivere il più intensamente possibile, perché non sappiamo quando si ripresenterà.

In poche parole, oggi la nostra libertà è situata nella sfera del consumo e del rinnovamento di sé, ma ha perso ogni legame con ciò che più conta:

 l’idea di poter cambiare il mondo, che accomuna tutti i grandi profeti, teorici, ideologi e narratori della modernità.

Le grandi utopie sono svanite.

Viviamo in un’epoca di distopie e di foschi romanzi di avvertimento, che a loro volta si convertono rapidamente, facilmente e senza complicazioni in oggetti di consumo.

Questo senso di determinismo e di fatalismo non è soltanto frutto della nostra incapacità di comprendere i motivi per cui i sistemi economici collassano e siamo assediati dalle crisi sociali, ma anche della nostra totale dipendenza da mercati remoti e fluttuazioni valutarie di paesi lontani:

 tutte cose che alimentano in noi l’illusione di poter cambiare le cose solo su scala individuale, con reazioni spontanee, gesti di benevolenza e compassione, parole gentili, comunicazioni più intense.

Tutto sembra ridursi a una questione di strumenti tecnici e di rapporti umani, come nell’Europa delle grandi pestilenze, quando prendeva il sopravvento la logica dei carnevali, delle feste di massa o delle orge.

Come tu hai fatto notare, la tecnologia e i social network sono nuove forme di controllo e di separazione.

Tutti sono visibili, ognuno si mostra, si iscrive, partecipa: tutto si riduce a mantenere ciascuno all’interno di un sistema in cui non c’è più alcuna possibilità di nascondere qualcosa alle strutture di controllo dello stato.

La privacy sta morendo sotto i nostri occhi: ha smesso di esistere, e non soltanto perché non esiste più messaggio che non venga letto e controllato da estranei, né cosa che un essere umano abbia il diritto, o magari il dovere, di portare con sé nella tomba, come accadeva nei classici della letteratura.

Semplicemente, è scomparso quello che un tempo veniva giustamente chiamato «segreto» e che oggi è solo un bene negoziabile sul mercato in tempo reale, un oggetto che si compra e si vende, una password di accesso a un successo momentaneo ed effimero, fino al momento in cui diventa la prova che abbiamo qualcosa da nascondere, una debolezza che ci espone ai ricatti e alle pressioni al fine di toglierci quel poco che resta della nostra dignità e indipendenza.

Non ci sono più segreti, nel senso antico e onorevole del termine;

anzi, non si comprende nemmeno più il significato di questo termine.

 

Ognuno reclamizza spensieratamente la propria vita intima per far sì che le luci della ribalta si puntino su di sé, almeno per un momento: queste apoteosi di esibizionismo sono possibili solo in questo nostro tempo di connessioni instabili e agitate e di alienazione senza precedenti.

C’è chi si esibisce su Facebook, con tutto il narcisismo possibile, e chi usa i blog per eruttare e vomitare le proprie crisi e frustrazioni, mentre altri nei social network cercano solo un sollievo temporaneo al proprio senso di solitudine e d’insicurezza.

Da questo punto di vista Facebook ha rappresentato, dopo tutto, un’invenzione davvero brillante arrivata al momento giusto, quando nella società il senso di separazione e d’isolamento si erano fatti insostenibili e la tv spazzatura era ormai insopportabile, al pari del sadomasochismo della carta stampata.

D’altra parte, i social network hanno anche portato con sé nuovi rischi e mali micidiali.

Il fatto è che Facebook incarna, diciamo così, la quintessenza del «fai da te» come fenomeno sociale.

Svestiti e mostraci i tuoi segreti: fallo per libera scelta, e divertiti mentre lo fai. Fallo per me, bellezza.

Che fine ha fatto la nostra privacy?

È una domanda che gli studiosi si pongono sempre più spesso.

Sulla crisi della riservatezza nella società americana Sarah E. Igo ha scritto:

 

Certo è che in America la privacy attraversa una crisi senza precedenti, a giudicare da tanti titoli usciti negli ultimi tempi, come “The End of Privacy” («La fine della privacy»), The Unwanted Gaze («Lo sguardo indesiderato»), The Naked Crowd («La folla nuda»), No Place to Hide («Non c’è un posto dove nascondersi», addirittura due libri con questo titolo!), Privacy in Peril («La privacy minacciata»), The Road to Big Brother («Verso il Grande fratello»), One Nation under Surveillance («Una nazione sotto sorveglianza») e – forse la new entry più agghiacciante di tutte – I Know Who You Are and I Saw What You Did («So chi sei e ho visto cosa hai fatto»).

Da una parte ci sono le rivelazioni di Snowden, i Google Glass, i droni, i frigoriferi intelligenti, gli algoritmi di marketing che hanno l’aria di conoscerci meglio di noi stessi.

Dall’altra c’è la spinta individuale a mettersi in mostra nell’universo in costante espansione dei social media:

in questo caso, la minaccia alla privacy sembra venire, più che dallo stato o dalle grandi imprese, dall’esibizionismo volontario di chi non vede l’ora di dimenticare l’idea stessa della privacy, condividendo con estranei i dettagli intimi della propria vita privata.

Ci fu un tempo in cui i servizi segreti e la polizia politica lavoravano sodo per carpire segreti e rivelazioni dettagliate sulla vita privata e intima delle persone.

Oggi i servizi d’intelligence hanno tutte le ragioni per esultare ma, al tempo stesso, sentirsi inutili:

 a che servono, ormai, in una situazione in cui ognuno racconta spontaneamente tutto ciò che fa, chi detesta, come ha fatto ad arricchirsi, e fornisce di sua spontanea volontà i nomi di tutte le persone che conosce e contatta?

 Non c’è modo di tenersene fuori: se esci da questo sistema, perderai il senso del passato e del presente, reciderai qualsiasi contatto con i tuoi compagni di scuola e colleghi di lavoro, non saprai più come pagare le bollette, romperai i ponti con la tua comunità.

Nella realtà virtuale e su Facebook svanisce un aspetto fondamentale della vera libertà:

 l’autodeterminazione e l’associazione per libera scelta, che non si riducono certo a rapporti di amicizia in cui veniamo risucchiati da una tecnologia che ci preclude qualsiasi altro modo di condurre una vita civile.

E tutto questo che cosa ci dice della nostra società?

Ci spinge a conclusioni inquietanti sulla libertà umana, e ci porta anche a riconoscere, spiacevolmente ma giustamente, che l’umanità è esiliata e umiliata ma «piace» e «ha successo», trasformandosi, di fatto, in un’unica «nazione Facebook».

Nel mondo contemporaneo, la manipolazione politico-pubblicitaria non è soltanto capace di creare bisogni e di fissare i criteri della felicità, ma anche di fabbricare gli eroi del nostro tempo e influenzare l’immaginazione di massa attraverso biografie di successo.

Queste capacità ci suggeriscono una serie di riflessioni sul totalitarismo «in guanto di velluto» come forma di controllo e manipolazione della coscienza e dell’immaginazione, ammantata di liberaldemocrazia, che consente un asservimento e un controllo anche delle voci più critiche.

Ciò che scorre molto più in profondità è l’aumento del controllo sociale, la sorveglianza massiccia, conseguenza di una tecnologia che ha superato la politica.

Che ci piaccia o no, la tecnologia non ci chiede se la vogliamo o no: se si può utilizzare, siamo costretti a farlo.

Chi rifiuta viene relegato ai margini della società, è impossibilitato a pagare l’affitto o a partecipare a un dibattito pubblico.

Lo stato che non intenda ricorrere alla sorveglianza di massa non è più in grado di giustificare un uso eccessivo dei servizi segreti o delle tecniche di spionaggio tradizionali.

 Curiosamente, questa tendenza va di pari passo con la diffusione e proliferazione esplosiva dell’auto esibizione nelle sue varie forme e, più in generale, con la fortuna della confessione, sia nella cultura di massa che nel mondo intellettuale.

Con ottime ragioni, dunque, Sarah E. Igo conclude:

 

E se la cultura della confessione non fosse altro che una strada maestra per ribaltare la società della sorveglianza dall’interno?

 Un commentatore scrive che «il nostro corpo fisico passa sempre più in secondo piano rispetto a un “corpo di dati” (un data body) sempre più completo», che per giunta «si forma non dopo ma prima ancora che l’individuo sia stato misurato e classificato».

[...] Ma se è così, la visibilità continua basata sulle nostre preferenze (dall’Act up ai reality a Facebook) inizia a profilarsi come strategia (non priva di problematiche) per arrivare all’autonomia, come modo pubblico per mantenere il controllo sulla propria identità privata.

 Così intesa, una cultura dell’auto esibizione può essere forse vista come un lascito sommerso degli anni settanta, un portato della politica dell’identità e dei nuovi media, ma anche come un modo per fare i conti, a mezzo secolo di distanza, con le banche dati e la sorveglianza burocratica.

La tecnologia non ci consente di rimanere in disparte.

L’«io posso» si trasforma in «io devo»: posso, dunque devo.

Non c’è spazio per i dilemmi.

Viviamo in una realtà di possibilità, non di dilemmi.

È qualcosa di molto simile all’etica di WikiLeaks, in cui non c’è posto per la morale.

Spiare e lasciar trapelare è un obbligo, anche se i fini sono tutt’altro che chiari.

 E vale in entrambi i sensi, sia a favore dello stato che contro di esso.

Ma non ci si assume mai la minima responsabilità per l’individuo e per la sua angoscia.

 È tecnologicamente possibile, dunque deve esser fatto.

La tecnologia ha superato la politica, creando un vuoto morale.

Per una coscienza di questo tipo, il problema non è più di forma o legittimazione del potere, ma solo di quantità:

il male (segretamente adorato) si trova là dove c’è più potere finanziario e politico.

 Se le cose stanno così, stiamo infliggendo un duro colpo all’etica, poiché sarà la tecnologia a riempire i vuoti lasciati dalla politica e dalla morale pubblica: una volta connessi, siamo assolti ed esentati.

Il mezzo è il messaggio: vivere online diventa una risposta ai dilemmi della nostra esistenza moderna.

Come si è detto, la net society è una società percorsa dalla paura: un luogo ideale per tutta l’industria della paura e dell’allarmismo.

Essa rafforza ed evidenzia l’avvento della tecnocrazia mascherata da democrazia.

Allo stesso tempo, la “net society” e la sua sfera pubblica alimentano e sviluppano alcune componenti essenziali della tecnocrazia, come la neutralità dei valori e lo strumentalismo in tutte le forme.

In questa cultura di paura, allarmismo, riforma e mutamento senza sosta, la superficialità non è più una zavorra ma un vantaggio.

La cultura della paura è, di fatto, una cultura della superficialità, e viceversa.

Questa superficialità viene scambiata per adattabilità e flessibilità, come accade alla «pura verità con semplicità confusa» di cui parla William Shakespeare nel Sonetto 66.

Ciò che ne deriva sono prassi istituzionali futili, giochi strategici infiniti e insensati, retorica vuota.

Le parole si staccano dai concetti, riducendosi a giochi di parole privi di significato.

Nel 2013 tu ed io abbiamo scritto “Cecità morale”.

 Il titolo, una tua idea, si ispirava alla metafora magistralmente adottata da José Saramago nel suo romanzo “Cecità” (1995).

 Anche il sottotitolo dato a quella nostra conversazione – La perdita di sensibilità nella modernità liquida –, pur influenzato dal mio lessico teorico, aveva la tua impronta nell’aggettivo «liquido», senza il quale sarebbe difficile immaginare i tuoi testi sulla modernità, sulla paura, sull’amore e così via.

Ricordo anche che nei tuoi scritti hai richiamato l’espressione lebensunwertes Leben – «vita che non merita di essere vissuta» – con cui i nazisti designavano quei gruppi di popolazione cui negavano il diritto di esistere.

 Ai nostri giorni abbiamo di fronte una versione liquido-moderna di questo fenomeno, che vale per regioni e paesi le cui tragedie non hanno diritto di fare notizia, o le cui vittime civili e sofferenze legate al terrorismo o alla violenza non sono legittimate a influire sui rapporti bilaterali e sugli accordi commerciali, per esempio tra la Russia e i principali attori dell’Unione europea.

Come il Tibet con la sua lunga serie di autoimmolazioni, anche l’Ucraina è diventata una cartina al tornasole della nostra sensibilità morale e politica.

Quante altre morti e tragedie ci servono per uscire dal nostro torpore?

A che numero deve arrivare il conteggio delle vittime per riaccendere la nostra sensibilità?

Da noi in Lituania si dice che la morte di una persona è una tragedia, ma la morte di milioni di persone è una statistica.

Purtroppo è drammaticamente vero.

Nello scontro tra la nostra cecità morale e la nostra tendenza a guardare agli altri come esseri morali (e non come semplici unità statistiche o come forza lavoro) le nostre capacità di associazione si contrappongono alla dissociazione, la compassione all’indifferenza come sintomo di distruttività morale e di patologia sociale.

La storia politica ci insegna che la nostra disponibilità a sintonizzarci sui dolori e sulle sofferenze altrui è revocabile, e che, allo stesso tempo, possiamo recuperare tale sensibilità;

ma tace riguardo alla nostra capacità di essere sensibili e compassionevoli allo stesso modo verso tutti i gruppi sociali, tutte le situazioni, tutti i paesi e gli individui in difficoltà.

Siamo capaci di guardare a un essere umano come a una cosa, a una non persona, per risvegliarci solo quando lo stesso tipo di calamità o di aggressione colpisce direttamente noi o i nostri connazionali.

Questo meccanismo di «ritirata e ritorno» non fa altro che confermare quanto possano essere vulnerabili, fragili, imprevedibili e universali la dignità e la vita umana.

Possiamo apprendere finalmente queste lezioni, oppure continuare a ignorarle.

Ed è questo il motivo per cui sarebbe impossibile concepire questo libro sulle forme del male vecchio e nuovo senza il concetto che tu, Zygmunt, hai compendiato nell’aggettivo «liquido».

Il tema del libro è il male liquido, che emerge e si manifesta ben al di là di qualsiasi teologia e demonologia del male.

Il nostro non è un libro sui presunti demoni e mostri del nostro tempo, ma sulle situazioni malvagie e sui nostri meccanismi di disimpegno e di distacco dalla nostra sensibilità.

 

Zygmunt Bauman. Effettivamente, uno spettro si aggira per l’Europa:

lo spettro della mancanza di alternative.

Non è la prima volta che uno spettro simile fa la sua comparsa: ma la novità di fondo è il suo carattere globale, il fatto che ora esso aleggi sul mondo intero.

 Nei secoli della sovranità territoriale e indipendenza seguiti alla Pace di Vestfalia del 1648, l’inesistenza delle alternative (in sintonia con la formula cuius regio eius religio, nella quale la religio a un certo punto venne rimpiazzata con la natio) era confinata nello spazio racchiuso dai confini di ogni stato;

ma nelle vaste lande che iniziavano dall’altro lato di quella frontiera le alternative abbondavano, e lo scopo principale della sovranità territoriale era impedire a queste alternative, con le buone o con le cattive, di varcare la linea di confine.

Le incrinature e poi lo smantellamento del Muro di Berlino, di cui abbiamo commemorato nel 2014 il venticinquesimo anniversario (sempre che qualcuno ricordi ancora quell’enfasi celebrativa, visto che la memoria liquido-moderna si abbrevia sempre più), hanno reso evidente come le tante forme di «Tina», i tanti fantasmi locali della «vita senza alternative», si siano ormai mescolati in un unico spettro globale.

In realtà, questo processo di fusione era molto avanzato già prima della caduta del Muro.

Ma quella convergenza, avviata e rafforzata nell’ambito di schieramenti sovranazionali territorialmente sovrani, non aveva ancora scala planetaria, era confinata nei limiti territoriali che i due blocchi antagonisti (pur aspirando entrambi alla supremazia planetaria) si imponevano a vicenda.

 La caduta del Muro di Berlino, spalancando a uno dei due spettri fratelli – quello neoliberista – le porte di quelle parti del pianeta che fino allora gli erano rimaste inaccessibili, generò e diffuse un clima da «fine della storia», celebrato in questi termini da Fukuyama.

Finalmente – si lasciava intendere – la secolare rivalità tra i due spettri – che scivolava periodicamente in una guerra fratricida – era giunta al termine.

 E il vincitore, lo spettro neoliberista, si ritrovava da solo sul pianeta, senza più avversari, e senza la necessità di farsi in quattro per controllare, contenere o convertire le sue alternative, che ormai brillavano esclusivamente per assenza:

 o almeno, questo era ciò che credevano i suoi apostoli e profeti.

Sarebbe toccato ai due Bush (padre e figlio, a poca distanza tra loro), in combutta con i loro rispettivi accoliti britannici, Margaret Thatcher e Tony Blair, scoprire a proprie spese (di sangue, vergogna e umiliazione) quanto fallace e disonesta fosse quella convinzione.

In Europa, tuttavia, la breve eppure incontrastata supremazia del dogma per cui «Non c’è alternativa» ha prodotto in pochi anni risultati duraturi, la cui profondità e persistenza non sono state ancora adeguatamente analizzate.

 Il sistematico smantellamento della rete di istituzioni pensate per proteggere le vittime dell’economia, sempre più deregolamentata e dominata dall’avidità, e la crescente insensibilità per la disuguaglianza sociale dilagante e per la condizione di un numero sempre più ampio di cittadini che (non essendo più visti né come potenziale minaccia per l’ordine capitalistico, né come seme di una rivoluzione sociale) possono contare ormai solo sulle proprie risorse e capacità private, terribilmente e palesemente inadeguate, hanno prodotto tanto nella «vecchia» quanto nella «nuova Europa», fra gli stakeholder attuali e potenziali della democrazia, un costante calo della fiducia nella capacità delle istituzioni democratiche di mantenere le proprie promesse, in netto contrasto con le grandi speranze suscitate dall’entusiasmo e dall’ottimismo dopo lo sgretolamento del Muro di Berlino.

Le stesse cause hanno anche prodotto il rapido aumento della distanza, e la rottura delle comunicazioni, tra le élite politiche e gli “ho pollo”, la gente comune che quelle élite avrebbero dovuto – ma non hanno voluto o saputo – proteggere.

 E così, paradossalmente (ma non più di tanto, a ben guardare), il presunto trionfo della modalità democratica di convivenza umana ha prodotto, di fatto, una crisi e dissoluzione irrefrenabile della fiducia pubblica nelle conquiste che è lecito attendersi dalla democrazia.

Questi sgradevoli e deprimenti effetti hanno colpito in varia misura tutti i paesi membri dell’Unione europea, ma vengono avvertiti probabilmente in modo più doloroso proprio là dove la novità, il crollo del Muro di Berlino, aveva suscitato maggiori speranze:

nei paesi che si erano emancipati dalla morsa d’acciaio delle dittature comuniste per entrare a far parte del mondo della libertà e dell’abbondanza.

Non sorprende che, come ha scritto Ivan Krastev, la gente stia perdendo interesse in tutto ciò che oggi passa per controversia politica, e in particolare nelle elezioni, che «c’è il diffuso sospetto siano diventate un imbroglio».

Parlerei semmai di un gioco di finzioni in cui tutti partecipano consapevolmente a un meccanismo illusionistico: i politici fingono di governare, chi detiene il potere economico finge di essere governato;

 e, per mantenere le forme, le persone ogni pochi anni si trascinano controvoglia ai seggi elettorali, fingendo di essere cittadini.

«Gestire l’economia» è tutto ciò che rimane ai governi eletti.

Ma «gestire l’economia» è una delle finzioni più frequentemente usate dai politici: il che non sorprende, visto che per spiegare l’immancabile insuccesso della loro gestione essi non devono far altro che chiamare in causa esoteriche «leggi di mercato» e non meno arcane «ragioni di scambio»;

e poiché tutti gli aspetti dell’esistenza umana sono stati ridotti all’aspetto economico, monetizzati e associati a un codice a barre, è facile incolpare l’economia per qualsiasi promessa non mantenuta.

A Galileo Galilei si attribuisce l’affermazione secondo cui il libro della natura sarebbe scritto nel linguaggio della matematica.

Ma il libro della società redatto dai profeti e promosso dagli apostoli del neoliberismo (la «filosofia egemonica» dei nostri tempi, come direbbe Antonio Gramsci) è scritto nel linguaggio dell’economia e conservato al sicuro nei forzieri delle banche;

e il linguaggio in cui è scritto risulta alla maggior parte di noi non meno (semmai più) criptico della matematica, e pare sia comprensibile solo ai banchieri.

 Come fa questo tipo di filosofia a conservare la sua egemonia?

Un indizio ci viene da J.M. Coetzee, che in una lettera indirizzata il 29 marzo 2010 a Paul Auster scrive:

 «Così il quadro della realtà che ci circonda è proprio quello che possiamo aspettarci:

noi, “il mondo”, preferiamo vivere fino in fondo la triste realtà che abbiamo creato [...] piuttosto che ipotizzare una nuova realtà negoziata».

 Auster, rispondendo il 7 aprile, concorda:

«Ciò vale non soltanto per l’economia, ma anche per la politica e per quasi tutti i problemi sociali che abbiamo di fronte».

Proprio così.

Ma allora, tutto dipende solo dalla nostra congenita inerzia?

O non è piuttosto riconducibile a una novità, fabbricata ma ormai saldamente radicata nel nostro inconscio collettivo, di cui cantiamo le lodi ogni mattina appena svegli come ci hanno insegnato, abituato e allenato a fare con lo stesso trasporto degli abitanti di una delle «città invisibili» di Italo Calvino, Leo­nia?

La «vera passione» di questi ultimi si diceva fosse «godere delle cose nuove e diverse», mentre in realtà essi – demoralizzati nel vedere delle «spazzature d’ieri che s’ammucchiano sulle spazzature dell’altro ieri e di tutti i suoi giorni e anni e lustri», e terrorizzati alla prospettiva che «il pattume di Leonia a poco a poco invade[sse] il mondo» – anelavano soprattutto a «espellere», «allontanare da sé».

La risposta alla domanda di cui sopra è, dunque, quanto meno opinabile: entrambe le spiegazioni possono accampare valide ragioni.

 E in ogni caso, quale che sia la motivazione psicologica cui preferiamo ricondurre questa persistente egemonia, a stringere in una morsa ferrea i nostri pensieri e le nostre azioni, come ci ricorda Coetzee, è in ultima analisi la «realtà che abbiamo creato».

È questa a tracciare rigidi confini intorno alla nostra immaginazione, limitando così la nostra volontà:

 e lo fa classificando le nostre opzioni in due gruppi: quelle plausibili e quelle immaginarie.

Così facendo, essa subordina, e di fatto esautora, le nostre preferenze.

Quanto alla nostra capacità di elaborare visioni alternative allo status quo e di trovare la determinazione che occorrerebbe per realizzarle, quella «realtà che abbiamo creato» è infinitamente più efficace di qualsiasi farmaco contraccettivo.

La politica così come la conoscevamo utilizzava il linguaggio delle priorità, le quali dipendevano dalle diverse visioni del mondo.

 Tu (come me) lamenti e deplori la scomparsa – l’abbandono – di quel linguaggio dalla vita pubblica.

E vedi in questa scomparsa una giustificazione – forse la principale – per etichettare come «post politiche» le performance che oggi vanno in scena nell’arena pubblica.

 D’altra parte, «scegliere una priorità» è solo l’inizio, l’innesco, il trampolino, la prima fase dell’azione.

Ma come la mettiamo se la «realtà che abbiamo creato» ci impedisce di passare alla fase successiva e, anche nel caso (improbabile) in cui dovessimo fare un tentativo di passare a questa fase, lo vanifica a priori?

Noi abbiamo creato una realtà in cui si è aperto e permane un abisso tra la capacità di agire e la capacità di decidere a quali azioni dare priorità.

 La nostra realtà, non mi stanco di ripetere, è contrassegnata dal divorzio tra potere e politica, che funziona come una sorta di tenaglia ma per tutt’altre ragioni rispetto al passato:

 prima la tenaglia generava inagibilità perché era saldamente serrata;

oggi abbiamo il problema opposto, quella tenaglia è bloccata e non c’è modo di richiuderla, e si è creato un enorme divario tra i poteri, affrancati dal controllo politico, e la politica, ormai priva di potere.

In questo vuoto, tutto o quasi può accadere, ma non c’è più modo di prendere una qualsiasi iniziativa con una ragionevole fiducia di successo.

 E sospetto che sarà sempre più difficile superare la forte e diffusa riluttanza a scegliere le proprie priorità finché non si troverà una risposta al «meta rompicapo» del ventunesimo secolo, che è il seguente:

supponendo di sapere che cosa c’è da fare, chi è così intraprendente da farlo, e ne ha la volontà?

Un commento ancora.

Sia tu che io tendiamo a descrivere il presente in termini di mancanza e assenza: «questo non è più com’era una volta», «questa o quella cosa è scomparsa», «manca questo o quest’altro».

 I nostri studenti (e, spero, anche alcuni dei nostri lettori) non vedono in questi termini il mondo che «noi» abbiamo creato e che «loro» hanno trovato bell’e fatto.

Come ha scritto Michel Serres (rendendo omaggio alle «nostre» abitudini di pensiero), «loro» non vivono più nello stesso tempo in cui viviamo noi:

 sono «formattati da media diffusi da adulti che hanno meticolosamente distrutto la loro facoltà di attenzione riducendo la durata delle immagini a sette secondi e il tempo di risposta alle domande a quindici».

Quando leggiamo questi dati (ufficiali!), forse «noi» rabbrividiamo, memori, sia pur vagamente, dei tempi che favorivano la riflessione, imponevano pazienza e chiedevano a gran voce concentrazione mentale e propositi da sviluppare sul lungo termine.

Sarei tentato di aggiungere che per «loro» quei tempi sono un paese straniero, ma poi mi mordo la lingua, perché penso che nemmeno la parola «straniero» ha per «loro» – navigatori di Internet per diritto fin dalla nascita – lo stesso significato che aveva, e ha, per «noi».

Perciò mi viene in mente una domanda:

 è davvero così strano che a quella che prossimamente sarà la maggioranza dell’umanità, formattata dai media e da tutta una serie di abili tecniche di marketing volte a indurre alla ricerca del piacere e a prometterne la conquista, l’arena pubblica appaia come un enorme palco tipo Woodstock, o come una sitcom televisiva a tempo indeterminato, dunque come una forma di svago buona al massimo per il tempo libero e potenzialmente capace d’intrattenere piacevolmente gli spettatori nonostante – anzi, proprio per – la sua irrilevanza rispetto alla banale routine quotidiana?

Tu riponi le speranze di rinascita di una democrazia piena, e dotata di istituzioni che rappresentino realmente le preoccupazioni e i desideri degli elettori, in una politica che non prenda forma nei centri di potere e nelle grandi capitali, ma prima di tutto nelle comunità circostanti.

 La mia risposta – così, su due piedi – è che questa è una opzione sicuramente valida ma, purtroppo, più facile a dirsi che a farsi.

Questa terapia per risanare la democrazia malata sarebbe uno dei migliori investimenti che si possano immaginare, ma le risorse su cui si dovrebbe fondare sono a loro volta in grave crisi e bisognose di rianimazione e di convalescenza: prima di poter diventare una cura efficace per i mali della democrazia attuale, le comunità devono a loro volta guarire da una debolezza invalidante.

Serres ha seri dubbi sull’idoneità della nozione di comunità trasmessa dai nostri antenati e trapiantata nella morfologia delle odierne associazioni umane, e suggerisce di sostituire all’immagine della «collettività» la nozione di «connettività».

A differenza della collettività, il tipo di associazione umana basato sulla «connettività» è caratterizzato da legami estremamente deboli e fragili e da confini vaghi e porosi.

Non è un caso se oggi, nel linguaggio comune, si tenda a preferire al termine «comunità» la nozione di «rete».

 A differenza delle comunità, le reti sono modellate e rimodellate costantemente dall’interazione tra connessioni e disconnessioni, motivo per cui i loro contenuti e confini sono perennemente indeterminati e indefiniti, «allo stato nascente».

Una stridente differenza tra le comunità e le reti è che in queste ultime è facile entrare, e altrettanto facile è uscirne;

le reti, anziché negoziare i principi della convivenza al proprio interno – come le comunità sono costrette a fare dalla realtà stessa della loro coesione e dalla loro aspirazione a durare –, tendono ad aggirare la necessità di definire e imporre condizioni di appartenenza ricorrendo alla scorciatoia della scissione e della separazione seguita dall’interruzione delle comunicazioni e dall’isolamento reciproco.

Se l’idea di «comunità» è associata alla stabilità e alla continuità, la «rete» di solito evoca instabilità e provvisorietà.

E in essa non c’è né molta richiesta di sensibilità morale, né alcun passo promettente verso la guarigione e il ripristino della democrazia.

L’ascesa globale dello spettro dell’assenza di alternative è stata accompagnata da una ulteriore novità, forse la più importante di tutte:

 la disgregazione dei blocchi sovranazionali integrati e la cancellazione delle frontiere ermetiche, fortificate e impenetrabili – capaci, almeno nelle intenzioni e nelle pretese, di tutelare il principio della sovranità territoriale – hanno posto fine all’era del «male solido».

Il male, che era tendenzialmente concentrato e monopolizzato da stati-nazione sovrani, o presunti tali, è tracimato fuori dei suoi recipienti nazionali, scavalcando muri alti e spessi e frontiere abbondantemente presidiate e armate.

Le forme di male più dannose ed odiose – fisicamente letali, socialmente devastanti e spiritualmente rovinose – non si lasciano più ricollocare e, tanto meno, richiudere ermeticamente in un qualche contenitore, e ormai circolano liberamente e attraversano facilmente, per osmosi, qualsiasi confine, naturale o artificiale.

Come scrivevo in “Modernità liquida”, mentre i corpi solidi sono, per così dire, definiti e confinati da uno spazio, e dunque mantengono la propria forma, i liquidi invece  «scorrono», «traboccano», «si spargono», «filtrano», «tracimano», «colano», «gocciolano», «trapelano»;

a differenza dei solidi non sono facili da fermare: possono aggirare gli ostacoli, scavalcarli, o ancora infiltrarvisi.

Dall’incontro con i corpi solidi escono immutati, laddove questi ultimi, qualora restino tali, non sono più gli stessi, diventano umidi o bagnati.

Negli ultimi anni il male ha iniziato e continua tuttora a uniformarsi a queste propensioni e abitudini dei liquidi.

Dalla persona alla non persona?

Colpa, adiafora, precarietà, austerità: una mappa.

Leonidas Donskis.

Quando mi fermo a riflettere su questa fase storica così turbolenta, penso subito ai temi della colpa e del pentimento, che si ritrovano in tutti i cambiamenti politici che hanno condotto alla caduta del Muro di Berlino e al collasso dell’Unione sovietica, alla fine degli anni ottanta, ma che, come ben sappiamo, risalivano all’Europa postbellica.

Poco dopo la fine della Seconda guerra mondiale, nel 1946, Karl Jaspers scrisse “La questione della colpa”, un saggio fondamentale in cui il problema delle colpe dei tedeschi veniva esaminato e articolato in termini filosofici.

Poiché per Jaspers la Germania si era macchiata non soltanto di gravissime ed esiziali colpe morali, ma anche di crimini indicibili contro l’umanità, la domanda che egli si poneva – se il suo paese potesse essere accusato e chiamato in massa a rispondere di crimini di guerra – era tutt’altro che astratta o ingenua.

 Su questo sfondo il filosofo tedesco costruiva uno schema per dirimere tale questione filosofica, distinguendo tra quattro categorie di colpa:

criminale, politica, morale e metafisica.

Jaspers definiva e analizzava ciascuna di quelle categorie.

La colpa criminale (o giuridica) è legata a una partecipazione diretta a reati e atti contrari alla legge;

la colpa politica è quella che ricade sui cittadini che la ereditano da leader politici o istituzioni di cui hanno avallato l’operato o da soggetti politici e diffusori di menzogne e di odio organizzato;

la colpa morale sorge nella nostra coscienza quando i nostri obblighi di fedeltà politica e obbedienza civile non possono assolverci da crimini contro le persone;

infine, la colpa metafisica è quella che avvertiamo per il semplice fatto di essere ancora vivi o per non aver fatto abbastanza per salvare la vita di altri esseri umani da crimini di guerra o altri delitti.

Per Jaspers, mentre la colpa criminale e la colpa politica dei tedeschi erano direttamente riconducibili agli individui in carne e ossa che avevano commesso o architettato crimini nella Germania nazista, assolvere le generazioni successive dalla colpa morale e da quella metafisica era possibile, ma solo attraverso il loro legame con la lingua, lo spirito collettivo e il senso condiviso della storia del proprio paese.

 L’unico modo in cui quelle generazioni potevano mantenere la propria adesione e dedizione alla loro società e, al tempo stesso, affrancarsi dalla condizione di colpevolezza per il passato era interiorizzare i traumi vissuti dai loro genitori.

Il senso di colpa sembra essersi convertito in una sorta di spartiacque tra l’ethos europeo del dopoguerra e una mentalità non europea, o antieuropea, caratteristicamente imbevuta della negazione assoluta di qualsiasi colpa per il passato recente della propria nazione.

Come ha notato il filosofo francese Pascal Bruckner nel suo provocatorio volume “La tirannia della penitenza” (2006), l’eccesso di colpa è diventato un prodotto politico tipicamente europeo, che non nasce necessariamente da autentica sensibilità morale, ma viene usato come strumento ideologico per tacitare i propri avversari politici o per stigmatizzare una élite politica invisa.

 Lo si vede con particolare chiarezza a proposito delle colpe colonialiste dell’Europa occidentale o di quelle dell’America per il suo passato razzista.

La più potente incarnazione politica dell’etica della colpa è stata il gesto morale del cancelliere Willy Brandt, inginocchiatosi due volte per chiedere perdono:

la prima in Polonia, al ghetto di Varsavia, e la seconda volta in Israele, allo Yad Vashem, il centro di studi, documentazione, istruzione e commemorazione sull’Olocausto.

Brandt fece questo nobile ed eroico atto di pentimento pubblico davanti al mondo per i crimini e i peccati della sua nazione.

Non era affatto un gesto da nemico sconfitto, che del resto egli non aveva ragione di compiere – lo stato è cosa diversa dall’individuo, e quest’ultimo, anche quando ne è il rappresentante, difficilmente potrà fare di un atto pubblico di contrizione una politica di stato.

Lo stato che s’inginocchia e chiede scusa, come fece Willy Brandt, contraddice il modello hobbesiano dello stato moderno che non riconosce i propri errori, non si pente per le proprie colpe e comprende solo il linguaggio del potere.

 Il potere è verità, e la verità è potere: è questa la logica di potere hobbesiana.

 Il male è impotenza.

Se la virtù risiede unicamente nella capacità e sopravvivenza del più adatto, il vero vizio è la debolezza.

 Il diritto internazionale, e qualsiasi altra norma e valore, devono adattarsi alle priorità ed esigenze delle grandi potenze.

 Perciò il sovrano andrà rispettato sempre e ovunque, mentre ci sarà soltanto disprezzo per le “No Man’s Land”, le «terre di nessuno» create, sostenute e armate per impedirvi lo sviluppo di qualsiasi forma autonoma di vita dignitosa.

La vita non può che essere brutta, brutale e breve:

è questo il vero messaggio del nuovo Leviatano fabbricato dalla Russia di Vladimir Putin.

Avremmo mai potuto immaginare un leader dell’Unione sovietica chiedere scusa per i crimini atroci e i comportamenti odiosi di cui si sono macchiati i militari, le autorità, l’élite, l’apparato statale del suo paese?

Potremmo oggi immaginare un capo di stato russo chiedere scusa a uno qualsiasi degli stati la cui esistenza è stata minacciata o distrutta per decisione russa?

La risposta è semplice: no.

 È un’eventualità inimmaginabile. La Germania e la Russia si somigliano solo superficialmente sul piano politico.

La società pacifista sorta nella Germania postbellica, in combinazione con una Ostpolitik talmente efficace che oggi l’élite politica tedesca appare cieca e disorientata di fronte al putinismo, cela a malapena la differenza di fondo tra i due aggressori di un tempo, uno dei quali ha drasticamente modificato il proprio paradigma politico, mentre l’altro ha preferito restare sé stesso nel peggior modo possibile.

La Germania ha scelto di diventare il primo stato realmente non hobbesiano del mondo moderno, mentre la Russia è sempre stata ossessionata, e lo è tuttora, dall’idea di risuscitare e riportare in scena un mondo politico predatorio, incapace di pentimento e profondamente immorale.

 Invece dello scontro di civiltà teorizzato da Samuel Huntington, che sottostimava le enormi distanze morali esistenti all’interno dell’Europa, dovremmo guardare a quella che è oggi la vera posta in gioco:

 lo scontro tra due modelli di stato, riconducibili alle idee emblematicamente rappresentate da Thomas Hobbes e Willy Brandt rispettivamente.

C’è poi l’altro tema fondamentale della nostra epoca, il male.

La questione del male è molto più complessa della presenza del Diavolo – del male radicale – in politica.

Comprende un altro fenomeno, molto più profondo: quello che tu, Zygmunt, chiami male liquido.

Ed è questo in realtà, secondo me, l’aspetto centrale e cruciale che dovremmo sviluppare nel nostro dialogo.

Che cosa significa il Diavolo, nella politica?

Che senso ha chiamare in causa la teologia e la demonologia su aspetti squisitamente umani della vita moderna?

La storia ci insegna che un senso, in questo, c’è.

Il ventesimo secolo ha mostrato con chiarezza che il Diavolo in politica coincide con l’ascesa di forme estreme di male che disprezzano apertamente la vita, il valore dell’individuo, la dignità e l’umanità, aprono la strada alla paura e all’odio e trionfano attraverso la distruzione dell’altrui libertà e realizzazione di sé.

Vytautas Kavolis, analizzando l’emergere dei simboli di ribellione e capovolgimento dell’ordine costituito, ha ricostruito il percorso delle rappresentazioni simboliche del male intese come cornici interpretative per la ricerca di risposte agli interrogativi del presente, ai nostri sforzi di comprendere noi stessi e il mondo circostante.

Nel suo studio Kavolis vede in Prometeo e Satana delle figure mitologiche e raffigurazioni simboliche centrali, che rivelano le concezioni del male che dominavano l’immaginazione morale degli scrittori e pensatori precristiani e cristiani.

Prometeo si manifesta come eroe briccone che sfida Zeus non solo per naturale inimicizia con gli dei dell’Olimpo, ma anche per compassione verso l’umanità.

Satana compare invece nella Bibbia come sovvertitore dell’ordine universale stabilito da Dio, e ha dunque la piena responsabilità di tutte le manifestazioni del male che derivano da questa sua opera sovversiva.

Il lavoro di Kavolis sul terreno della psicologia culturale ci offre una sottile e acuta analisi dei modelli di male come paradigmi della morale secolare, e dei modelli di ribellione come modalità contrapposte di logica culturale.

Il pensatore lituano sviluppa alcune interessanti riflessioni sulla nascita dei miti di Prometeo e di Satana.

Nella teoria di Kavolis sull’avvento della modernità, Prometeo si erge come metafora del progresso tecnologico e di una civiltà tecnologicamente efficiente, abbinata a una sorta di visione empatica e compassionevole delle aspirazioni e sofferenze del genere umano, mentre Satana viene visto come metafora della distruzione del potere legittimo e del ribaltamento dell’ordine sociale e morale dominante.

Per questa via, Kavolis sviluppa alcune riflessioni particolarmente lucide e stimolanti sulla logica simbolica del marxismo e di tutte le grandi rivoluzioni sociali o politiche, che presentano occasionalmente aspetti prometeici e satanici (…)

Il complice e il sovrano

Gognablog.sherpa-gate.com - Giorgio Agamben – (Gennaio 2023) – ci dice:                                                                         

(quodlibet.it)

 

Intervento alla commissione DU.PRE del 28 novembre 2022.

Vorrei condividere con voi alcune riflessioni sulla situazione politica estrema che abbiamo vissuto e dalla quale sarebbe ingenuo credere di essere usciti o anche soltanto di poter uscire.

Credo che anche fra di noi non tutti si siano resi conto che quel che abbiamo di fronte è più e altro di un flagrante abuso nell’esercizio del potere o di un pervertimento – per quanto grave – dei principi del diritto e delle istituzioni pubbliche.

Credo che ci troviamo piuttosto di fronte una linea d’ombra che, a differenza di quella del romanzo di Conrad, nessuna generazione può credere di poter impunemente scavalcare.

E se un giorno gli storici indagheranno su quello che è successo sotto la copertura della pandemia, risulterà, io credo, che la nostra società non aveva forse mai raggiunto un grado così estremo di efferatezza, di irresponsabilità e, insieme, di disfacimento.

Ho usato a ragione questi tre termini, legati oggi in un nodo borromeo, cioè un nodo in cui ciascun elemento non può essere sciolto dagli altri due.

E se, come alcuni non senza ragione sostengono, la gravità di una situazione si misura dal numero delle uccisioni, credo che anche questo indice risulterà molto più elevato di quanto si è creduto o si finge di credere.

 Prendendo in prestito da Lévi-Strauss un’espressione che aveva usato per l’Europa nella seconda guerra mondiale, si potrebbe dire che la nostra società ha «vomitato sé stessa».

Per questo io penso che non vi è per questa società una via di uscita dalla situazione in cui si è più o meno consapevolmente confinata, a meno che qualcosa o qualcuno non la metta da cima a fondo in questione.

Ma non è di questo che volevo parlarvi;

mi preme piuttosto interrogarmi insieme a voi su quello che abbiamo fatto finora e possiamo continuare a fare in una tale situazione.

 Io condivido infatti pienamente le considerazioni contenute in un documento che è stato fatto circolare da Luca Marini quanto all’impossibilità di una rappacificazione.

Non può esservi rappacificazione con chi ha detto e fatto quello che è stato detto e fatto in questi due anni.

Non abbiamo davanti a noi semplicemente degli uomini che si sono ingannati o hanno professato per qualche ragione delle opinioni erronee, che noi possiamo cercare di correggere.

Chi pensa questo s’illude.

Abbiamo di fronte a noi qualcosa di diverso, una nuova figura dell’uomo e del cittadino, per usare due termini familiari alla nostra tradizione politica.

 In ogni caso, si tratta di qualcosa che ha preso il posto di quella endiadi e che vi propongo di chiamare provvisoriamente con un termine tecnico del diritto penale: il complice – a patto di precisare che si tratta di una figura speciale di complicità, una complicità per così dire assoluta, nel senso che cercherò di spiegare.

Nella terminologia del diritto penale, il complice è colui che ha posto in essere una condotta che di per sé non costituisce reato, ma che contribuisce all’azione delittuosa di un altro soggetto, il reo.

Noi ci siamo trovati e ci troviamo di fronte a individui – anzi a un’intera società – che si è fatta complice di un delitto il cui il reo è assente o comunque per essa innominabile.

Una situazione, cioè, paradossale, in cui vi sono solo complici, ma il reo manca, una situazione in cui tutti – che si tratti del presidente della Repubblica o del semplice cittadino, del ministro della salute o di un semplice medico – agiscono sempre come complici e mai come rei.

Credo che questa singolare situazione possa permetterci di leggere in una nuova prospettiva il patto hobbesiano.

Il contratto sociale ha assunto, cioè, la figura – che è forse la sua vera, estrema figura – di un patto di complicità senza il reo – e questo reo assente coincide con il sovrano il cui corpo è formato dalla stessa massa dei complici e non è perciò altro che l’incarnazione di questa generale complicità, di questo essere complici, cioè piegati insieme, di tutti i singoli individui.

Una società di complici è più oppressiva e soffocante di qualsiasi dittatura, perché chi non partecipa della complicità – il non-complice – è puramente e semplicemente escluso dal patto sociale, non ha più luogo nella città.

Vi è anche un altro senso in cui si può parlare di complicità, ed è la complicità non tanto e non solo fra il cittadino e il sovrano, quanto anche e piuttosto fra l’uomo e il cittadino.

Hannah Arendt ha più volte mostrato quanto la relazione fra questi due termini sia ambigua e come nelle Dichiarazioni dei diritti sia in realtà in questione l’iscrizione della nascita, cioè della vita biologica dell’individuo, nell’ordine giuridico-politico dello Stato nazione moderno.

I diritti sono attribuiti all’uomo soltanto nella misura in cui questi è il presupposto immediatamente dileguante del cittadino.

 L’emergere in pianta stabile nel nostro tempo dell’uomo come tale è la spia di una crisi irreparabile in quella finzione dell’identità fra uomo e cittadino su cui si fonda la sovranità dello stato moderno.

Quella che noi abbiamo oggi di fronte è una nuova configurazione di questo rapporto, in cui l’uomo non trapassa più dialetticamente nel cittadino, ma stabilisce con questo una singolare relazione, nel senso che, con la natività del suo corpo, egli fornisce al cittadino la complicità di cui ha bisogno per costituirsi politicamente, e il cittadino da parte sua si dichiara complice della vita dell’uomo, di cui assume la cura.

Questa complicità, lo avrete capito, è la biopolitica, che ha oggi raggiunto la sua estrema – e speriamo ultima – configurazione.

La domanda che volevo porvi è allora questa: in che misura possiamo ancora sentirci obbligati rispetto a questa società?

O se, come credo, ci sentiamo malgrado tutto in qualche modo ancora obbligati, secondo quali modalità e entro quali limiti possiamo rispondere a questa obbligazione e parlare pubblicamente?

Non ho una risposta esauriente, posso soltanto dirvi, come il poeta, quel che so di non poter più fare.

Io non posso più, di fronte a un medico o a chiunque denunci il modo perverso in cui è stata usata in questi due anni la medicina, non mettere innanzitutto in questione la stessa medicina.

Se non si ripensa da capo che cosa è progressivamente diventata la medicina e forse l’intera scienza di cui essa ritiene di far parte, non si potrà in alcun modo sperare di arrestarne la corsa letale.

Io non posso più, di fronte a un giurista o a chiunque denunci il modo in cui il diritto e la costituzione sono stati manipolati e traditi, non revocare innanzitutto in questione il diritto e la costituzione.

 È forse necessario, per non parlare del presente, che ricordi qui che né Mussolini né Hitler ebbero bisogno di mettere in questione le costituzioni vigenti in Italia e in Germania, ma trovarono anzi in esse i dispositivi di cui avevano bisogno per istaurare i loro regimi?

È possibile, cioè, che il gesto di chi cerchi oggi di fondare sulla costituzione e sui diritti la sua battaglia sia già sconfitto in partenza.

Se ho evocato questa mia duplice impossibilità, non è infatti in nome di vaghi principi metastorici, ma, al contrario, come conseguenza inaggirabile di una precisa analisi della situazione storica in cui ci troviamo.

 È come se certe procedure o certi principi in cui si credeva o, piuttosto, si fingeva di credere avessero ora mostrato il loro vero volto, che non possiamo omettere di guardare.

Non intendo con questo, svalutare o considerare inutile il lavoro critico che abbiamo svolto finora e che certamente anche oggi qui si continuerà a svolgere con rigore e acutezza.

Questo lavoro può essere ed è senz’altro tatticamente utile, ma sarebbe dar prova di cecità identificarlo semplicemente con una strategia a lungo termine.

In questa prospettiva molto resta ancora da fare e potrà essere fatto solo lasciando cadere senza riserve concetti e verità che davamo per scontati.

Il lavoro che ci sta davanti può cominciare, secondo una bella immagine di Anna Maria Ortese, solo là dove tutto è perduto, senza compromessi e senza nostalgie.

(Giorgio Agamben è un filosofo italiano).

 

 

 

 

Foreste e altre soluzioni

naturali alla crisi climatica.

Gognablog.sherpa-gate.com – Redazione – (29 Dicembre 2022) – ci dice: 

 

Le foreste e i terreni sono degli ottimi serbatoi di carbonio.

Alla luce degli scarsi o nulli risultati ottenuti in ambito climatico attraverso le politiche adottate finora è estremamente necessario allargare lo spettro degli strumenti da introdurre.

Tra questi spiccano le “Nature-Based Solutions”, oggetto del saggio di “Enzo Di Giulio e Stefania Migliavacca” pubblicato su ENERGIA 3.22 con particolare attenzione all’aspetto della forestazione.

(Foreste e altre soluzioni naturali alla crisi climatica a cura della Redazione di rivistaenergia.it)

“Il grido della scienza è fondato: l’auto sfreccia veloce verso la catastrofe.”

 Non bastano più i proclami ambientalisti, né le politiche scialbe emerse nei consessi internazionali.

 Urge un’azione concreta.

Tra le tante linee di azioni percorribili, un contributo alla protezione del nostro pianeta potrebbe venire dalle “Nature-Based Solutions” (NBS), così come ci illustrano Enzo Di Giulio e Stefania Migliavacca nel loro saggio comparso su ENERGIA 3.22 (Stoccare la CO2: foreste e altre soluzioni naturali (pp. 56-68)).

Cosa sono le NBS?

“Piantare nuovi alberi, proteggere le foreste esistenti, incrementarne l’estensione e la qualità, gestire in modo efficiente i terreni. (…)

L’idea di fondo è che le foreste e i terreni sono degli ottimi serbatoi di carbonio e, pertanto, potrebbero essere utilizzati per compensare le emissioni generate dalla combustione delle fonti fossili” (1. Fatti e retorica).

Tanto semplice e “naturale” una loro spiegazione, quanto estremamente complesso capire la dinamica albero- emissioni catturate-impatto sul clima.

Molte, infatti, le variabili da tenere in considerazione (potenziale di abbattimento, costi, addizionalità) e su cui la letteratura ha fornito le più svariate stime, in parte ricostruite dagli autori nel secondo paragrafo (2. La soluzione della crisi climatica è nelle foreste?).

Tra queste, la più difficile ma anche la più importante, è la “stima dell’abbattimento delle foreste – non solo potenziale, anche presente”.

 Si sprecano i numeri e gli studi a proposito, tra di loro anche contrapposti e divergenti, come dimostra l’ampio paragrafo che gli autori vi dedicano (3. Quanto CO2 assorbono le foreste?).

Tuttavia, pur nella difficoltà di trovare un dato unico e inequivocabile, Di Giulio e Migliavacca sostengono che:

“abbiamo compreso che gli alberi non possono rappresentare il “silver bullet” che risolve il problema del clima.

D’altra parte, è sbagliato aderire alla tesi estrema che gli svantaggi siano più dei vantaggi. (…)

Pur non disponendo di una rassegna esaustiva degli studi, l’impressione che si ricava è che comunque la tesi di un accumulo di carbonio superiore alle emissioni sia preponderante”.

Ragione quest’ultima sufficiente per giustificare un impegno in direzione delle “Nature-Based Solutions”.

 Da un punto di vista normativo (4. Foreste e crediti di carbonio: in principio fu REDD),

“sia il ruolo delle foreste come serbatoio di CO2 sia il concetto di crediti di carbonio sono stati sanciti ufficialmente dal Protocollo di Kyoto nel 1997”.

Da allora, il tema è stato oggetto di dibattito nelle COP successive fino alla definizione della “REDD (Reducing Emission from Deforestation and forest Degradation) approvata formalmente dalla COP di Bali del 2007 come REDD+, dove il «+» rappresenta gli incentivi per la gestione sostenibile delle foreste e l’incremento degli stock forestali di carbonio.”

Le attività REDD+ “danno origine a crediti di carbonio da usare per raggiungere i “Nationally Determined Contributions” (NDC) oppure scambiabili sul mercato (che) collegano soggetti che generano emissioni di carbonio con soggetti che hanno un surplus di riduzione di carbonio”.

 Anche in questo caso, le dinamiche sono molto complesse e i meccanismi sono stati rivisti nelle COP più recenti da Parigi (costituzione dell’Articolo 6) a Glasgow (Article 6 Rulebook).

Rimandando all’articolo per una lettura più approfondita di queste dinamiche, ci limitiamo solo a distinguere le due “categorie di mercati in cui il carbonio viene scambiato come merce”:

 

1) i compliance markets: mercati regolati i cui i crediti si acquistano per raggiungere un NDC o ottemperare a un obbligo (tipo l’ETS) e

2) i voluntary carbon markets (VCMs), in cui “i soggetti scambiano crediti di carbonio su base facoltativa”.

Al mercato volontario, alle sue potenzialità ma soprattutto alle sue incongruenze (surplus di offerta, qualità dei crediti mancanza di una data di scadenza, collocazione geografica dei paesi venditori e ridotto numero delle società di certificazione) è dedicato il par. 5 (A che punto sono oggi i VCMS?).

Tra gli stakeholder più attivi nell’acquisto di crediti di carbonio sul mercato generati dalle foreste vi rientrano le compagnie energetiche.

 “Il modo in cui le aziende si procurano e utilizzano questi crediti di carbonio è fondamentale.

 Potremmo definire due approcci:

 «hands-on» e «hands-off».

Le opzioni «hands-off» prevedono l’acquisto di crediti da piattaforme di scambio, broker o direttamente da chi ha messo in atto il progetto.

” Mentre “L’approccio «hands-on» prevede invece che le compagnie siano coinvolte senza intermediari”. (6. NBS e compagnie energetiche).

“Le foreste non possono risolvere da sole la questione climatica”, si legge nelle conclusioni, “ma è altrettanto chiaro che possono dare una mano considerevole”.

Tuttavia, viste le criticità insite nel mercato e l’apporto ancora insufficiente fornito dal privato e dalla società all’espansione del numero di alberi piantati, serve un ruolo più attivo dei governi (7. Foreste, Stato, mercato: conclusioni).

“Una sorta di rivoluzione copernicana che metta al centro dall’azione lo Stato, attraverso piani di forestazione pubblici che abbiano come target la piantumazione di mille miliardi di alberi nei prossimi dieci anni”. (Le piante possono sopravvivere se hanno molto CO2 a disposizione.Ndr.)

 

Giorgio Canali: «Il coronavirus è la prova

generale dell’esercito nelle strade».

Rollingstone.it - GIANMARCO AIMI – Giorgio Canali – (17-3-2020) - ci dicono:

 

A 62 anni d'età, il chitarrista è ancora un anarchico che pensa che la dietrologia sia l'unica scienza esatta.

 Per sfogarsi dà testate al microfono e continua a produrre musica fieramente indipendente.

Non è facile intervistare un artista che, per sua stessa ammissione, si sente immortale «finché qualcuno non mi smentirà», ha deciso di bestemmiare «per principio», a ogni concerto tira almeno tre testate al microfono «come anti stress» e ha dedicato un album a “László Tóth”, l’iconoclasta che con un martello vandalizzò la Pietà di Michelangelo Buonarroti.

Perché Giorgio Canali non suona il rock, lui è rock: «Infatti a 62 anni mi vesto ancora come i bimbi scemi».

Ci vediamo a Correggio, poco prima che l’Italia venga bloccata dai decreti per contrastare il coronavirus, in un bar dove mentre io bevo spremuta lui ordina vini bianchi uno dietro l’altro in perfetto sincrono con l’accensione delle sigarette.

È appena uscito con un lavoro molto interessante,” Love Tore Us Apart – Play Joy Division”, per celebrare il quarantennale della morte di Ian Curtis, ma certamente non è il solo motivo che mi ha spinto nel cuore dell’Emilia paranoica cantata dai CCCP con i quali condivise l’album Epica Etica Etnica Pathos e le successive reincarnazioni CSI e PGR.

Perché Canali, oltre a sfornare album potentissimi e portare in giro concerti incendiari con i suoi Rosso fuoco, dal ’99 è l’alchimista di alcune delle produzioni indie che maggiormente hanno segnato gli ultimi vent’anni:

Verdena, Tre Allegri Ragazzi Morti, Bugo, Le Luci della Centrale Elettrica, Zen Circus e Motta.

A tutto ciò, il cantante e chitarrista originario di Predappio associa una caratteristica non comune: l’estrema schiettezza.

E forse anche per questo – e per le imprecazioni utilizzate come rafforzativo di alcuni concetti a cui tiene particolarmente – non lo si vede spesso (a dire il vero quasi mai) nei “salotti buoni” della musica italiana.

 Lui però se ne frega, perché «difficilmente si libereranno di me con tutti i dischi che ho messo in giro» e quando sarà il momento di farsi da parte non ha dubbi sulle modalità:

«Proverò a volare precipitando da 400 metri».

Partiamo dal disco: perché proprio i Joy Division?

È un lavoro nato dieci anni fa per il trentennale di Ian Curtis, che abbiamo portato dal vivo un po’ ovunque.

Era nato dalla richiesta del Museo di Storia Naturale di Reggio Emilia, così si è sviluppato in mezzo alla paccottiglia di bussolotti con dentro dei feti e strani cani impagliati.

 I Joy Division fanno parte della mia genetica, per noi che siamo sulla sessantina è difficile toglierci di dosso Ian Curtis e la maledizione del primo post punk, che poi è stato chiamato” new wave”.

Però li abbiamo affrontati diversamente da chiunque altro: loro partivano da basso e batteria e noi facciamo a meno proprio di basso e batteria.

Le canzoni sono ridotte agli arrangiamenti minimali per chitarra elettrica e chitarra baritono, registrate su un “sequencer “con un terzo chitarrista fantasma.

 È un lavoro che ha già superato un centinaio di concerti, ma chiuso il progetto è arrivato il quarantennale e siccome il pubblico ha sempre risposto bene, per chi non ha assistito adesso c’è il disco.

I Joy Division fanno parte della tua adolescenza, ma qual è la prima immagine che ti ricordi di Giorgio Canali bambino?

Quella in una foto custodita chissà dove: io in pantaloncini corti, cicciottello, con una mano nella taschina, perché ero già molto timido e non sapevo come mettermi in posa, guardavo il fotografo con aria stupita.

Quei pantaloncini corti li ho portati fino alla terza media.

Mia madre sosteneva che tenessero lontano dalle cattive compagnie.

Adesso posso dirlo: non servono a un cazzo!

Poi la cattiva compagnia sei diventato tu.

Dopo ci è esploso in faccia il punk.

Prima ci ritrovavamo con una chitarra in mano a dire: “Mi piacciono i Beatles e voglio imparare le loro canzoni”.

 In seguito è cambiato tutto: “Non sanno suonare niente e salgono sul palco? Allora ci vengo anch’io”.

Bastavano tre accordi, spesso anche due.

Comunque, ero un rincoglionito fino all’età della ragione, verso i 18 anni.

 Ricordo che a 17 c’erano le elezioni, il punk nel ’75 non era arrivato in Italia, e ho seriamente rischiato di votare Movimento Sociale.

Mio padre era stalinista e l’avrei fatto solo per andargli contro.

Per fortuna non è successo.

Sei originario di Predappio, il paese noto per aver dato i natali a Benito Mussolini.

Come vivi questa storia che a ondate si ripresenta e divide le coscienze?

Predappio è storicamente antifascista.

 Adesso qualcuno ha approfittato di una certa rilassatezza per farci un business, infatti ci sono almeno un paio di supermercati dell’idiozia menefreghista.

Ma per il resto la gente non è fascista.

Per anni c’è stata una amministrazione di sinistra, decisamente refrattaria a quello schifo delle celebrazioni, mentre ora è in carica una vera destra.

 Il sindaco, tra l’altro, si chiama come me, Canali, ma è di un’altra genia che è sempre stata fascista, per cui non mi stupiscono deliri come quello di non finanziare la gita ad Auschwitz.

 Di stupidità è pieno il mondo, ne ho trovata parecchia anche rossa, ma di solito è nera.

Come è avvenuto, invece, il tuo passaggio da fonico a membro dei CCCP?

Stavo facendo musica sperimentale e mi sono reso conto che la gente, piuttosto che pagarmi per ascoltare la mia musica, mi avrebbe pagato per ascoltare la loro e così ho imparato il lavoro di fonico.

Ho fatto di tutto, dai balli di liscio agli spettacoli porno dell’agenzia di Riccardo Schicchi con Moana Pozzi e Cicciolina.

Prendevo un sacco di soldi per schiacciare play sul registratore e aprire un microfono.

Poi ho deciso di concentrarmi su quello che mi piaceva. E

ro in giro per l’Europa con i Litfiba e i CCCP li ho conosciuti in Unione Sovietica.

Da lì è partito il delirio di Gianni Maroccolo, anche lui uscito dai Litfiba che mi ha coinvolto dicendomi:

“So che a te piacciono le macchine, ma proviamo a fare roba più suonata.

Portati una chitarra”.

Prima la usavo solo per strimpellare. Dopo poco è stato automatico entrare nei CCCP.

Guardandoti indietro, come definiresti quell’esperienza che si è trasformata in CSI e PGR?

Sono stato un CSI e un PGR forzato, perché contemporaneamente per cinque anni ero il fonico dei Noir Désir.

 Prendevo treni e aerei per tornare in Italia a registrare e quando non ce la facevo qualcuno mi sostituiva.

Sono stato tirato dentro in questa esigenza di avere l’ultimo album dei CCCP e questo aveva dato l’input per continuare.

 I due emiliani (Ferretti e Zamboni) e i due toscani (Maroccolo e Magnelli) erano rimasti in quattro e quando votavano erano pari, gli mancava l’ago della bilancia.

Non credo che né gli uni né gli altri fossero felici di avermi in mezzo, perché sono un dissidente rompicoglioni, però ha funzionato proprio perché eravamo completamente diversi l’uno dall’altro.

Recentemente ho incontrato Giovanni Lindo Ferretti, che mi ha ribadito la sua vicinanza a Papa Benedetto XVI e a Giorgia Meloni.

Mi sembra impossibile un dialogo fra voi, eppure collaborate da anni.

Siamo in buonissimi rapporti, se parliamo di vino, cibo e musica andiamo d’accordo.

L’importante è non affrontare temi etici e politici.

Quando l’ho visto vicino alla Meloni mi ha fatto ridere, anche se è terrificante.

 Poi come tutte le cose l’hanno sopra-mediatizzata.

Lui è sempre stato così, un massimalista religiosissimo.

Una volta gli serviva il “papa buono” Togliatti, poi si è scelto Papa Ratzinger.

Ha bisogno di un Papa.

In questo momento, però, penso che sia uno dei peggiori nemici di Bergoglio.

Ultimamente, però, mi spaventa essere d’accordo con Ferretti, così come di ritrovarmi  al cento per cento con Gianni Maroccolo.

Siamo sempre stati in conflitto, io e Gianni.

Ci siamo mandati a cagare almeno dieci volte: “Te e me è l’ultima volta che facciamo qualcosa insieme”.

Invece ultimamente concordiamo su tutto. Magari facciamo un partito.

Anche da solista e poi supportato dalla band Rosso fuoco ti sei tolto delle grandi soddisfazioni.

Dall’album Che fine ha fatto” Lazlotòz” dedicato una figura alquanto controversa.

Quello è stato un viaggio surreale nell’iconoclastia del punk.

C’è chi si scandalizza, perché László Tóth ha massacrato un’opera d’arte.

Invece secondo me ha rovinato una bellissima opera di artigianato pregiato, ma La Pietà non la definirei arte.

Un vero artista è Jackson Pollock, oppure Hieronymus Bosch.

Mentre Michelangelo e Leonardo non mi hanno mai emozionato.

Comunque, erano dieci anni che avevo materiale mio da cantare e a un certo punto il “Consorzio Produttori Indipendenti”, che produceva cani e porci, si è chiesto: “Perché non fare un disco con la roba di Giorgio?”.

E quindi il primo album era pieno di amici.

Ti è mai mancato l’ottenere un successo di massa, o è qualcosa a cui non aspiri?

Forse non sono capace di fare cose che vanno incontro al gusto dei più.

Se fossi capace, probabilmente lo farei.

Oppure non riesco a compiere quel passettino più lungo per sputtanarmi e piacere a più persone.

Ma fondamentalmente, non credo di avere la qualità di arrivare a tutti.

I messaggi che lancio attraverso i testi sono criptici, si comprendono a una terza lettura e quando la capiscono alla prima mi fanno abbastanza incazzare.

È piuttosto significativa anche un’altra parte della tua attività, cioè quella di produttore.

Hai tenuto a battesimo alcuni dei progetti indie più interessanti degli ultimi anni: Verdena, Tre Allegri Ragazzi Morti, Bugo, Le Luci della Centrale Elettrica, Zen Circus, Motta.

I Verdena erano una delle poche cose interessanti in giro.

Li conoscevo da un anno e quando mi hanno proposto di curare la produzione è avvenuto naturalmente.

Sono delle piccole teste di cazzo, ma adesso sono cresciuti.

 È stato magico lavorare con loro, con Roberta basso andavamo d’accordo, con Luca batteria quasi, con Alberto meno perché era sospettoso.

Meno male che a un certo punto Roberta gli diceva: “Stai zitto e suona”.

Dopo qualche anno, però Alberto mi ha chiesto scusa per la supponenza, aggiungendo:

“Adesso so cosa vuol dire produrre i Verdena”.

Ma loro avevano delle composizioni potentissime.

Sono stupendi ancora oggi, non si sono mai sputtanati per avere successo, sono tra i pochissimi a tenere i cachet bassi che permettono i biglietti a 12-13 euro al massimo e per me è più di un valore aggiunto, dovrebbe essere obbligatorio per tutti.

Vasco Brondi ha fatto la scelta giusta di chiudere con “Le Luci della Centrale Elettrica”, come noi con i PGR.

I suoi dischi sono bellissimi, uno più dell’altro, e l’ultimo un capolavoro.

 

C’è qualcuno che hai prodotto che non ha raggiunto il grande pubblico, ma secondo te lo meriterebbe?

Ce ne sono parecchi.

Per esempio, i L’Upo di Vimercate sono fantastici, prima si chiamavano Fuori Orario.

Abbiamo fatto insieme un paio di album, ma nessuno se li è mai filati.

 Nel mio album “Perle per porci” ho infilato dentro tante cose che secondo me meritavano e c’era anche un loro pezzo.

 Oppure un cantautore come Mattia Prevosti di Varese, secondo me scrive benissimo.

Per ora è difficile buttarsi in questo genere, ma ha un album che farà uscire su Spotify e staremo a vedere.

Così come gli “Operaja Criminale” di Roma, che sono diventati la backing band di Motta.

Federico Fiumani dei Diaframma ha dichiarato: “Il rock ormai sensibilizza solo i già sensibilizzati”.

Tu che suoni da sempre musica rock, che ne pensi?

Io non suono musica rock, io sono un rocker.

Infatti, a 62 anni vado ancora in giro vestito come i bambini scemi.

Ha ragione Fiumani, è la verità.

Perché la gente è influenzata dalle mode, da quello che va o non va.

Internet che è un po’ la nuova radio, non aiuta a diffondere solo le cose buone, come vediamo, ma le epidemie di merda si espandono molto più velocemente.

Però, come cantava Neil Young, “rock and roll can never die”.

È così divertente salire su un palco, scuotere il culo e spaccare la chitarra contro gli amplificatori che qualcuno ci sarà sempre a portarlo avanti.

Se hai i soldi per farlo, sennò la chitarra e gli ampi te li fai prestare.

 

Il mondo indie in questi anni è cambiato moltissimo, dallo stesso ambiente sono usciti artisti come Tommaso Paradiso e Calcutta ora considerati mainstream.

Cos’è l’indie oggi?

Con il termine indie venivano definite le etichette indipendenti che si affidavano a piccole distribuzioni.

In questi giorni mi ha fatto ridere la foto che mi hanno mandato di una autoradio in cui passava un pezzo dei CSI ed eravamo catalogati come indie.

 Ma eravamo tutto fuorché indie, se vuoi alternativi, ma registravamo per la Universal non per la “Rosa Rossa Records”.

Allora ho risposto con una battuta: “Sì, eravamo talmente avanti, che adesso siamo indie-etro”.

Paradiso e Calcutta sono pop. Che siano partiti dal circuito indie è normale, com’era normale che dal Folk Studio di Roma negli anni ’70 uscissero De Gregori e Venditti, il diavolo e l’acqua santa.

Ultimamente è diventato indie anche Gianluca Grignani, facendo il percorso inverso.

Ho ascoltato solo tre sue canzoni vent’anni fa, perché mi hanno costretto per La fabbrica di plastica.

Non l’ho mai incontrato, ma ho letto spesso di sue apparizioni su palchi altrui ubriaco e in questo lo apprezzo, perché il teppista ogni tanto va fatto.

Con Jovanotti invece hai un ottimo rapporto.

 Eppure, tornando a De Gregori e Venditti, sembrate davvero il diavolo e l’acqua tanta.

Lorenzo è fantastico, spettacolare, riesce a veicolare un ottimismo che vorrei avere io e con una intelligenza rara.

Alla gente poi tira il culo se uno ha successo, quindi diventa il bersaglio di un sacco di stronzate.

 Come quella menata finto ecologica all’avversione ai concerti da spiaggia.

 Li abbiamo sempre fatti e adesso non vanno bene.

Woodstock era ecologico?

Diventi filo-qualcosa quando fa comodo sparare addosso agli altri.

Pensa che lo detestavo Lorenzo.

 Con i CSI gli abbiamo aperto un tour e la prima volta sono salito sul palco con un adesivo sulla chitarra con un sole che ride e la scritta “Jovanotti, no grazie”.

Quando l’ha visto era contentissimo, lo voleva a tutti costi.

Invece di trovare uno che mi mandava a quel paese ho scoperto una persona magnifica e molto sincera a differenza di altri che cavalcano argomenti etici in modo utilitaristico.

Al riguardo Piero Pelù, che tu conosci bene, è stato accusato di essere un “borghese che gioca alla rivoluzione” sempre dal suo amico storico Federico Fiumani. Che ne pensi?

Sono molto amico di Piero, siamo come fratelli da sempre nonostante le strade si siano divise.

C’è da dire che i Litfiba hanno iniziato a fare dischi di merda, lì non ci piove e ci ridiamo spesso ogni volta che ci vediamo.

 Non credo che Fiumani sia amico di Piero come rivendica, perché se sei un amico certe cose gliele vai a dire di persona.

 Pelù da sempre vuole arrivare al grande pubblico, i Litfiba stessi ne erano la dimostrazione.

Certo, mi fa incazzare che quando cavalca delle battaglie strafighe è bersaglio delle critiche perché sembra che lo faccia in modo utilitaristico.

Forse a volte lo fa, però almeno cavalca quelle giuste.

Siamo anche reduci dal tormentone “le brutte intenzioni, la maleducazione…” che ha visto coinvolti Morgan e Bugo a Sanremo.

 Che idea ti sei fatto della questione?

Marco (Castoldi, in arte Morgan, ndr) se lo conosci lo prendi com’è.

Purtroppo, si sta suicidando da solo, e anche in maniera piuttosto vistosa.

Si sta lanciando dai cornicioni degli hotel più alti in pieno centro.

Abbiamo passato spesso serate insieme, ma con Bugo sono molto più amico viste le 90 date e un album condivisi.

A Sanremo Cristian (Bugatti, in arte Bugo, ndr) non doveva farsi trascinare in quelle assurdità mediatiche, che sono il terreno di battaglia di Morgan.

Appena vedrò Bugo gli diro: “Che cazzo hai fatto, imbecille? Quella danza lì non si balla!”.

Da sempre voleva andare a Sanremo, nell’ambiente è risaputo, e forse ha perso lucidità.

La volta che c’è riuscito si è portato dietro il guastafeste, ma non credo che venderà più dischi o avrà più gente ai suoi concerti.

Secondo te Morgan è un grande artista o un fenomeno mediatico?

Oggi un fenomeno mediatico.

Però è vero che Morgan è un anarchico, uno vero.

Anarchia non vuol dire andare in giro con il cane e la cresta.

I punkabbestia possono essere anarchici, ma l’anarchia è un’altra cosa.

Morgan si sta suicidando perché gioca troppo con certe cose, come gli eccessi.

Non giudico la vita privata finché riesci a gestirla, ma quando trascini in storie di merda gli altri inizi a starmi sulle palle.

Non hai mai desiderato di partecipare a Sanremo?

Il nostro rapporto con Sanremo è sempre stato buffo, sia con i CSI che i PGR.

Avevamo un atteggiamento da furboni.

Ogni volta un paio di noi dicevano “andiamo a Sanremo” e altri due rispondevano “non se ne parla” e alla fine non si decideva mai.

 So che io e Ferretti eravamo d’accordo sia sull’andarci che sul non andarci.

Hai parlato di atteggiamento anarchico. Qui siamo nell’Emilia rossa…

Scusa se ti interrompo, ma l’Emilia rossa è morta negli anni ’80, quando hanno iniziato a entrare nel giro le Coop.

 È tutto finito un po’ di tempo fa. Per alcuni è preistoria.

 

Le tue posizioni sono note, ma vorrei proporti un gioco: che musica faresti ascoltare ai politici di oggi per dargli un segnale?

Gli consiglierei di mettersi in cuffia del “death metal “a tutto volume e spaccarsi le orecchie.

Quella gente li è veramente pericolosa. Io ho molta paura di quello che riescono a crearsi attorno.

 Stanno cavalcando ingenuamente i social, ma sai, io sono un complottista.

Ti riferisci alla situazione odierna, cioè alle misure restrittive per combattere il coronavirus?

La dietrologia è l’unica scienza esatta, per me.

 I politici sono il perfetto strumento di un potere che vuole toglierci tutte le libertà.

 L’emergenza coronavirus mi fa paura, come se fosse una prova generale di blindatura, per giustificare l’esercito in piazza.

Hanno sbagliato faldone, chiudendo i bar dalle 18, quello era il protocollo in caso di sedizione.

È chiaro che i carabinieri sono troppo ottusi, ma ci sarà sempre qualcuno che farà la roba sbagliata.

L’ho vista strana questa cosa, l’anno prossimo chissà quale sarà l’emergenza. Bisogna starci attenti, perché c’è in giro quella che sembra una “prova generale di controllo totale”.

Tu sei anarchico?

Mi sentivo così fino al 1984.

 In quell’anno sono andato al Meeting internazionale degli anarchici a Venezia e li ho mandati tutti a cagare.

Sai perché? Una mattina mi sveglio su una panchina e vedo il “compagno anarchico” che porta in giro una scolaresca facendogli vedere le bellezze del festival.

A un certo punto gli ho detto: “Parla per te, coglione!”

E me ne sono andato.

“Noi” e “anarchici” sono due parole che non si coniugano.

 Lo hanno capito bene gli spagnoli, che a ogni meeting si contrappongono tra possibilisti e oltranzisti e a un certo punto si menano.

È l’unica cosa interessante di quegli incontri.

Qual è il tuo rapporto con le regole, visto che viviamo in un periodo di disposizioni molto restrittive?

Sono fatte per essere infrante!

Chiaro che le rispetto, io pochissimo, cerco di passare tra le maglie, se posso.

Sono fortunato di vivere in un Paese in cui l’anarchia di comodo paga.

In Svizzera o negli Stati Uniti sarei già in galera da un pezzo.

Ma le regole etiche non vanno mai infrante.

Un po’ come la bestemmia, che mi sembra faccia parte dei tuoi “rafforzativi” per esprimere un concetto. I

n un’intervista lo scrittore Massimo Fini ha raccontato:

 “In piscina, dei ragazzini mi avevano rubato il costume dall’armadietto, che avevo lasciato aperto.

 Ridatemelo, dicevo. E loro niente.

 Ridatemelo, e loro sghignazzavano. Ridatemelo porco d..! E me l’hanno ridato”. Usi questa imprecazione nello stesso modo?

La bestemmia è sempre utile.

Bestemmio per principio.

Sono obbligato ad ascoltare un sacco di discorsi violenti di anti-abortisti, anti-divorzisti, gente contro l’eutanasia che spesso hanno una matrice cattolica e per me quelle sono bestemmie.

 L’unico modo per farli sentire offesi come mi sento io è bestemmiare.

Si chiama rappresaglia.

Ma non dico dieci bestemmie per ogni cosa di quel tipo che sento in giro.

Un po’ come le testate al microfono che sferri durante i concerti?

È uno sfogo bellissimo.

Da piccolo, quando ero incazzato, davo le testate sul muro.

 Infatti mi sono incrinato qualche vertebra e soffro ancora di cervicale, ma ho una fronte che se ti do una testata ti ammazzo.

Ci sono due-tre punti nel concerto dove so che ci sta bene una testata ed è liberatorio, appunto come una bestemmia.

Come ti approcci alla religione?

Non me ne voglia chi è religioso, ma credo sia la più grande delle superstizioni.

Se hai un amico immaginario e lo vedi solo tu non sei normale, se invece lo vedete in tanti si chiama religione.

Quindi non temi il tempo che passa?

Credo che tutti lascino traccia in questo mondo.

 In fondo di questo si tratta: lasciare tracce in giro.

C’è chi fa figli per lasciare una traccia, o anche per avere un sottoposto perché è sempre stato sottomesso, ed è l’atteggiamento della maggior parte delle persone.

Secondo me tutti vogliono lasciare un ricordo, chi scrivendo “viva la figa” sul muro, chi facendo canzoni, chi realizzando libri o quadri.

Una traccia credo di averla già lasciata.

I CD hanno mille anni di smaltimento, per cui con tutti quelli che ho messo in giro saranno cavoli vostri cercare di farli fuori.

Se potessi decidere, come vorresti morire?

Io sono immortale, prima di tutto.

Ne sono quasi convinto, poi magari qualcuno mi smentirà.

Comunque, se dovesse succedere vorrei morire volando.

Dai 20 ai 30 anni sognavo tutte le notti di volare.

Era fighissimo!

Alla fine, mi ero quasi convinto di saperlo fare.

Forse basta concentrarsi tanto e inizi a levitare.

Però se proprio deve accadere, precipitando da 400 metri.

Vicino a Correggio c’è la Pietra di Bismantova (montagna caratteristica dell’Appennino reggiano, ndr), un bel salto da fare.

 In caso di depressione totale credo che farei l’ultimo sbattimento di salire fin lassù a piedi.

 Come nella canzone Precipito, ma senza parapendio.

(Giorgio Canali -Gianmarco Aimi)

 

 

 

La tecnologia realizza l’incubo

della sorveglianza globale:

allarme ONU.

Agendadigitale.eu – (31 ottobre -2022) – Ivana Bartoletti -Lucia Lucchini -Angelo Alù – ci dicono:

 

Il rapporto Onu “Il diritto alla privacy nell’era digitale” ipotizza una vera e propria moratoria sull’uso e sulla vendita di strumenti di “hacking” invasivi e auspica l’emanazione di una nuova regolamentazione conforme agli standard internazionali vigenti in materia di diritti umani.

A rischio i nostri diritti. Ecco perché.

La privacy digitale è sotto assedio.

 Si registra uno preoccupante scenario di cyber-sorveglianza su larga scala e gli utenti sono esposti al pericolo di generalizzati controlli per effetto di sofisticati spyware sempre più invasivi in grado di effettuare un monitoraggio personale 24 ore su 24.

 In altre parole, lo spazio virtuale sta assumendo i tratti di un “campo minato” tutt’altro che sicuro e accogliente:

prende così forma il lato oscuro della Rete con l’avvento del cosiddetto “autoritarismo digitale” caratterizzato dall’uso pervasivo di sistemi automatizzati di controllo in grado di erodere la libertà su Internet.

 

Diritto alla privacy: il rapporto ONU.

Il ricorso sempre più frequente degli Stati ai sistemi di sorveglianza massiva.

I danni di una normativa troppo frammentata.

Il ruolo della crittografia.

Diritto alla privacy: il rapporto ONU.

Lo mette nero su bianco, ad esempio, anche il recente rapporto delle Nazioni Unite A/HRC/51/17 – inequivocabilmente intitolato “il diritto alla privacy nell’era digitale” – ove si ipotizza la necessità di una vera e propria “moratoria” sull’uso e sulla vendita di strumenti di “hacking” invasivi sino all’emanazione di una nuova regolamentazione conforme agli standard internazionali vigenti in materia di diritti umani per ridurre l’impatto negativo delle minacce attualmente configurabili online.

Venendo progressivamente meno le originarie potenzialità positive legate allo sviluppo embrionale della Rete come straordinaria fonte divulgativa di informazioni e risorse distribuite a livello globale, in uno scenario di profonda metamorfosi dell’ambiente virtuale, pur senza ancora del tutto precludersi la fruizione dei relativi benefici, è indubbio che, secondo l’analisi delle Nazioni Unite, le tecnologie stiano diventando gli strumenti ideali per effettuare interventi di sorveglianza senza precedenti a causa della raccolta automatizzata delle informazioni estrapolate da ingenti database biometrici che consentono di processare con estrema facilità e precisione le “identità digitalizzate” delle persone.

Il ricorso sempre più frequente degli Stati ai sistemi di sorveglianza massiva.

L’utilizzo di tali sistemi, lungi dal costituire, come “extrema ratio”, una misura esclusivamente limitata a contrastare eccezionalmente specifici atti e/o comportamenti gravemente pregiudizievoli per la salvaguardia dell’ordine pubblico e della sicurezza nazionale al fine di scongiurare, anche in un’ottica preventiva, fenomeni delinquenziali (come il terrorismo o la criminalità organizzata), rappresenta invero un consueto “modus operandi” cui ricorrono sempre più spesso in via ordinaria le autorità statali.

Sono, infatti, frequenti le “intromissioni elettroniche” sui dispositivi personali degli utenti, che confermano così la tendenza ad ampliare in via esponenziale il raggio d’azione delle tecnologie anche per perseguire finalità illegittime (ad esempio: la repressione di opinioni dissenzienti), compreso l’effetto “bavaglio” a discapito di attivisti e giornalisti non allineati alla “narrazione” ufficiale imposta dal “mainstream” filogovernativo.

A riprova di tali insidie le Nazioni Unite richiamano le evidenze documentate da “Forbidden Stories”, nell’ambito di una corposa attività di giornalismo investigativo, sulle discusse implicazioni del software” Pegasus”, (tra i più noti spyware che stanno registrando un picco di crescita della relativa domanda in tutto il mondo), al punto da indurre persino il Parlamento europeo a costituire una Commissione di inchiesta ad hoc per indagare in ordine a tali aspetti, sulla falsariga dell’iniziativa del medesimo tenore assunta dalla Commissione interamericana per i diritti umani (IACHR).

Gli strumenti di sorveglianza sono suscettibili di compromettere, mediante modalità mirate e occulte, la tutela dei diritti umani anche in ragione dell’elevato numero di presunte vittime dei dispositivi infettati a causa del cosiddetto “attacco zeroclick” in grado di ottenere l’accesso completo e illimitato a tutti i sensori (compresi microfono e telecamera), nonché ai dati di geolocalizzazione, e-mail, messaggi, foto e video e ad ogni altra applicazione ivi installata, come descrivono con estrema precisione gli approfondimenti realizzati in materia (richiamati dalle Nazioni Unite nel citato Report A/HRC/51/17).

In particolare, entrando nel merito della sua relazione particolareggiata, l’ONU evidenzia chiaramente che i software di sorveglianza possono essere pericolosi non solo per la capacità di monitorare i “movimenti” degli utenti, ma soprattutto perché riescono a “manipolare il dispositivo” mediante tecniche di “alterazione, cancellazione o aggiunta di file”, con il rischio di “falsificare prove per incriminare o ricattare gli individui presi di mira”.

I danni di una normativa troppo frammentata.

Alla luce di tale scenario, le Nazioni Unite rilevano, come rilevante criticità, l’esistenza di un panorama normativo troppo frammentato, generalista e obsoleto che difetta di “leggi chiare e precise”, unitamente ad un preoccupante “attivismo” governativo nell’adozione di misure di controllo pregiudizievoli per la salvaguardia della riservatezza individuale, da cui discende un vero e proprio “vulnus” alla tutela della privacy, anche perché proliferano le intercettazioni di massa sulle comunicazioni della popolazione (spesso ignara di tali controlli) e aumenta, a livello globale, l’installazione di telecamere di sorveglianza presso i luoghi pubblici: in alcune aree del globo, ad esempio, la densità dei sistemi di videosorveglianza oscilla tra 39 e 115 impianti per ogni 1.000 abitanti.

Peraltro, in un orizzonte temporale di medio-lungo termine, i pericoli per la privacy degli individui sembrano destinati ad aggravarsi ulteriormente come diretta conseguenza del cd. “dominio dell’identità” connesso al progressivo perfezionamento tecnico delle tecnologie di riconoscimento biometrico, reso oltremodo performante dall’impatto evolutivo dell’Intelligenza Artificiale che costituisce il substrato tecnologico fondante l’implementazione della cosiddetta “Smart City”, ove sofisticati sensori sono in grado di raccogliere e processare una mole significativa di dati con preoccupanti effetti collaterali di permanente monitoraggio generale a svantaggio degli individui.

 

In altre parole, ben oltre le legittime finalità che consentono di giustificare, in via del tutto eccezionale, il ricorso a invasivi strumenti di controllo suscettibili di limitare i diritti degli individui, le Nazioni Unite ritengono che, nella concreta prassi, la sorveglianza pubblica sia stata indebitamente utilizzata, tra l’altro, per identificare e rintracciare i dissidenti politici, realizzare discriminazioni etniche e razziali, colpire le minoranze e, in generale, valutare, in una logica di ortodosso conformismo sociale, l’adeguamento – non necessariamente spontaneo ma appunto anche indotto – delle persone alle dominanti norme vigenti.

In controtendenza rispetto a tali discutibili usi, il Rapporto ONU subordina l’applicazione dei sistemi tecnologici di sorveglianza alla condizione che le relative misure adottate siano sempre necessarie e proporzionate.

Il ruolo della crittografia.

Al fine di evitare qualsivoglia rischio di compressione del diritto alla privacy, l’ONU valorizza il ruolo della crittografia come “fattore chiave” per la sicurezza online a presidio delle libertà fondamentali, nell’ottica di consentire alle persone di esercitare i propri diritti e condividere apertamente le proprie idee e opinioni senza il timore di subire ritorsioni, censure e limitazioni, purché le competenti autorità pubbliche siano sempre in grado di “de crittografare” i dati secondo adeguati e proporzionati standard di tracciabilità, per risalire a qualsiasi messaggio veicolato fino al suo effettivo mittente.

Conclusioni.

Contestualmente, le Nazioni Unite sollecitano gli Stati a verificare periodicamente, mediante trasparenti valutazioni d’impatto (da eseguire durante l’intero ciclo di progettazione, sviluppo, implementazione e gestione di sistemi di sorveglianza) i possibili rischi di abuso a danno dei diritti individuali, procedendo a una generale revisione delle legislazioni attualmente vigenti.

Basterà una mera raccomandazione “soft” dell’ONU per realizzare un necessario – e auspicato – cambio di rotta nella prospettiva di rafforzare la protezione dei dati personali, oppure sembra ormai destinata definitivamente ad avverarsi l’annunciata profezia sull’imminente “morte della privacy” con l’avvento pervasivo delle tecnologie digitali?

 

 

 

 

Sempre più stati vogliono

controllare i dati dei propri cittadini.

Ilpost.it – Redazione – (21 giugno 2022) – ci dice:

 

Lo mostrano varie ricerche, secondo cui la dottrina della "sovranità digitale" è sempre più popolare, e potrebbe cambiare internet.

Negli ultimi anni, decine di governi hanno approvato o stanno approvando leggi e misure di gestione e controllo dei dati e dei contenuti online, con l’obiettivo di rafforzare la propria “sovranità digitale”:

l’idea, cioè, che i dati generati da una persona, un’azienda o un ente dovrebbero essere immagazzinati all’interno del loro paese d’origine, o almeno essere gestiti in conformità con gli standard di privacy e sicurezza stabiliti dal governo.

Le misure proposte per ottenere questo controllo sui dati, negli anni, sono state sia tecniche sia politiche e, come hanno scritto i giornalisti del New York Times David McCabe e Adam Salariano, potrebbero alterare in maniera consistente il modo in cui internet ha funzionato da quando si è diffuso a livello commerciale negli anni Novanta, ponendo limitazioni serie alla libera circolazione dei dati.

Soltanto tra il 2017 e il 2021, il numero di leggi, regolamenti e politiche governative che richiedono l’archiviazione delle informazioni digitali in un determinato paese è più che raddoppiato, passando da 67 in 35 paesi a 144 in 62 Paesi, secondo il centro studi “Information Technology and Innovation Foundation” (ITIF).

Ogni giorno, le persone che usano internet producono enormi quantità di informazioni.

Pubblicare un post sui social, correre mentre si indossa uno smartwatch, parlare ad assistenti virtuali come Alexa, pagare con la carta di credito, fare una ricerca su Google: tutto genera dati, che vengono poi venduti, scambiati, condivisi e analizzati da varie aziende che ricavano così un profitto, generalmente vendendo annunci pubblicitari.

Nella maggior parte del mondo, negli ultimi trent’anni la libera circolazione dei dati è stata centrale per la crescita di aziende tecnologiche oggi onnipresenti come Amazon, Apple, Facebook o Google.

Se, inizialmente, la maggior parte dei dati veniva archiviata localmente, su computer privati o su server aziendali, oggi i servizi di “cloud computing” permettono a un italiano di archiviare le foto delle vacanze in un server nel Nevada, o a un’azienda francese di avere un sito web gestito da Amazon Web Services, i cui centri di elaborazione dati, o data center, sono sparpagliati in tutto il mondo, da Singapore all’Irlanda.

 Gli Stati Uniti sono il paese che ne ospita di più (oltre 2.600), seguiti da Regno Unito, Germania, Cina e Paesi Bassi.

 

La storia dell’orfanotrofio ucraino che ha cambiato un paese delle valli bergamasche.

Nel ciclismo capita di pedalare sotto la neve.

 Nel ciclocross capita di pedalare sulla neve. È una disciplina strana e quando la Coppa del Mondo arriva in Italia lo è ancora di più.

La storia dello Zecchino d'oro e di cosa è diventata oggi in mezzo a YouTube e TikTok.

La crescente diffidenza verso il modo in cui le aziende gestiscono i dati in loro possesso e le tensioni internazionali alimentate da rivelazioni come quelle di Edward Snowden – che nel 2013 rivelò come la National Security Agency statunitense spiasse le telecomunicazioni degli altri paesi attraverso i cavi e le rete che compongono internet – hanno portato diversi stati e attori istituzionali come l’Unione Europea a cercare soluzioni per limitare la propria dipendenza da un’architettura di internet realizzata e di fatto gestita dagli Stati Uniti:

è per questo che negli ultimi anni si è cominciato a parlare sempre più di frequente di “sovranità digitale”.

Oggi, alcuni governi limitano il trasferimento al di fuori dei propri confini di particolari tipi di dati, come quelli sanitari, bancari, finanziari o fiscali, ma anche quelli aziendali di società quotate in borsa o quelli relativi a contenuti generati dagli utenti sui social media.

Altri stati limitano più vagamente il trasferimento di dati ritenuti “sensibili” o “legati alla sicurezza nazionale”.

L’Unione Europea.

A queste due possibilità si aggiungono i casi di leggi che rendono il trasferimento transnazionale di dati così complicato o costoso da rendere indirettamente obbligatorio per le aziende l’immagazzinamento locale dei dati:

è il caso, secondo l’ITIF, del Regolamento generale sulla protezione dei dati (GDPR) introdotto nell’Unione Europea nel 2018, che ha fatto entrare in vigore molte nuove regole su come le aziende devono trattare i dati degli utenti.

L’Unione sta lavorando anche ad altri progetti di legge, come quello sull’intelligenza artificiale, che aggiungerebbero ulteriori livelli di complessità per le aziende straniere.

Alcune di queste politiche, come il GDPR e le altre leggi in materia che vengono discusse in Europa, sono motivate principalmente da preoccupazioni per la privacy e la sicurezza dei dati dei cittadini, ma finiscono per avere ripercussioni anche sui rapporti economici e politici con paesi extraeuropei, anzitutto gli Stati Uniti.

Per esempio, una delle questioni più rilevanti nei rapporti tra Unione Europea e Stati Uniti in quest’ambito ha riguardato gli accordi sul libero trasferimento dei dati dei cittadini europei verso gli Stati Uniti a fini commerciali, che sono stati annullati per ben due volte dalla Corte di giustizia europea (nel 2015 e nel 2020) perché non rispetterebbero gli standard europei di privacy.

Questi accordi sono tuttavia essenziali per migliaia di aziende sia europee sia americane, che si sono trovate senza un quadro normativo chiaro sul trasferimento dei dati.

I regimi autoritari.

In altri casi, in cui i governi che cercano di raggiungere la “sovranità digitale” sono meno affidabili per quanto riguarda il rispetto della libertà d’espressione e l’accettazione del dissenso politico, queste leggi sul controllo dei dati assumono connotazioni che preoccupano gli esperti di diritti umani.

È il caso della Cina, che fin dagli anni Novanta ha sviluppato un proprio internet separato quasi completamente da quello del resto del mondo, ma anche di stati come il Pakistan e il Vietnam, dove il rischio è che la localizzazione dei dati (cioè la presenza dei server con i dati dei cittadini sul territorio dello stato) non porti a una maggiore privacy, ma soltanto a un maggiore accesso alle informazioni sensibili da parte del governo.

«I governi autoritari, guidati da Cina e Russia, vedono l’accesso fisico ai data center come un fattore critico di sorveglianza e controllo politico.

La localizzazione dei dati consente l’oppressione politica portando le informazioni sotto il controllo del governo e consentendo al governo di identificare e minacciare le persone, incidendo così sulla privacy, sulla protezione dei dati e sulla libertà di espressione», si legge nel report dell’ITIF.

Le ricadute sulle aziende.

A livello economico, queste leggi per la “sovranità digitale” complicano la vita delle aziende, che in questi anni hanno tratto grande beneficio dal libero flusso dei dati.

Benché affermino spesso che, se le società dovessero immagazzinare tutti i dati localmente, sarebbe molto complesso continuare a offrire gli stessi prodotti e servizi in tutto il mondo, le grosse aziende statunitensi leader del settore si sono finora adeguate alle richieste governative, cominciando a offrire servizi che consentono alle aziende di archiviare le informazioni all’interno di un determinato territorio.

“Amazon Web Services “ora consente ai clienti di controllare dove sono stati archiviati i dati in Europa;

in Francia, Spagna e Germania, Google Cloud ha firmato accordi con fornitori di servizi tecnologici e di telecomunicazioni per far sì che siano aziende locali a gestire i dati prodotti sui servizi di Google.

La sicurezza.

Una critica più interessante alla dottrina della “sovranità digitale” arriva dal mondo della sicurezza informatica, che da anni sottolinea come la privacy e la sicurezza dei dati dipendono più da come i dati vengono trasmessi e archiviati piuttosto che da dove si trovano fisicamente.

Come si legge anche nel report dell’ITIF, «la sicurezza dei dati dipende principalmente dai controlli logici e fisici utilizzati per proteggerli, come la crittografia avanzata sui dispositivi e la sicurezza perimetrale per i data center.

La nazionalità di chi possiede o controlla i server o il paese in cui si trovano questi dispositivi ha poco a che fare con la loro sicurezza».

«I politici sembrano non capire che la riservatezza dei dati non dipende generalmente dal paese in cui sono archiviate le informazioni, ma solo dalle misure utilizzate per archiviarle in modo sicuro.

Un server sicuro in Malesia non è diverso da un server sicuro nel Regno Unito.

La sicurezza dei dati dipende dai controlli tecnici, fisici e amministrativi implementati dal fornitore di servizi, che possono essere forti o deboli, indipendentemente da dove sono archiviati i dati», continua l’ITIF, secondo cui, anzi, «la localizzazione dei dati impedisce ai fornitori di servizi cloud di utilizzare le migliori pratiche di sicurezza informatica».

 

 

 

Incubo smart city, il progetto

di sorveglianza totale con

la scusa della sicurezza.

Espresso.repubbliva.it - Simone PIeranni – (04 AGOSTO 2022) – ci dice:

 

Estrazione dei dati privati. Controllo totale.

A Toronto e Marsiglia l’esperimento viene contestato.

Ma la Cina va avanti.

Una smart city «è un luogo in cui reti e servizi tradizionali sono resi più efficienti grazie all’uso di soluzioni digitali a vantaggio dei suoi abitanti e delle imprese»: è la definizione di smart city che si può trovare sul sito dell’Unione europea, uno dei grandi attori nell’universo urbanistico del futuro, la cui definizione però si attiene a quella storica formulata dalla Ibm, prima azienda a parlare di “smart city”, consegnando all’espressione una chiara connotazione di marketing.

Aaron Shapiro, professore di “technology studies” alla University of North Carolina, in “Design, Control, Predict: Logistical Governance in the Smart City” (Minnesota University Press, 2020) ha provato a smontare questa “aura” delle città del futuro, presentate sempre come il rimedio a inquinamento, criminalità e inefficienze burocratiche, scavando all’interno del meccanismo che le regolerà, ovvero l’utilizzo massiccio di Big Data.

 In questo senso i due grandi esempi di smart city che si stanno sviluppando nel mondo, quelle cinesi e quelle occidentali, non si discostano granché:

il principio è lo stesso ed è basato sull’estrazione dei dati da ogni nostra attività per procedere a una supposta organizzazione razionale degli spazi urbani.

Nelle smart city, infatti, scrive Shapiro, «i dati e le informazioni non si limitano a rappresentare i processi urbani: intervengono in essi.

 I flussi di dati e le architetture dell’informazione strutturano la nostra esperienza urbana, mediando il nostro accesso a istituzioni, risorse e servizi».

Città del futuro e dunque - presumibilmente - “cittadinanza” del futuro:

le metropoli che saranno guidate dai dati già pongono tutta una serie di interrogativi sul fronte dei diritti, che siano a Pechino o Toronto.

Proprio la città canadese costituisce un valido esempio di due traiettorie:

la difficoltà a uscire dal paradigma “estrattivo” delle smart city come sono concepite in Cina e la grande fame di progetti “smart” e urbani da parte delle grandi aziende tecnologiche.

A Toronto “Side Walk Lab” di Alphabet, cioè Google, aveva vinto un bando di gara per trasformare una parte del lungomare della città in «un hub per un’esperienza urbana ottimizzata con robo-taxi, marciapiedi riscaldati, raccolta autonoma dei rifiuti e un ampio livello digitale per monitorare qualsiasi cosa, dagli incroci stradali all’utilizzo delle panchine».

 Solo che a maggio del 2020 il progetto era già stato dichiarato morto;

per Alphabet il problema sarebbe stato il Covid, ma in realtà - come scritto da Mit Technology Review - sono stati soprattutto i cittadini di Toronto a fare naufragare il progetto:

«L’opposizione alla visione di Sidewalk non riguardava questioni come la conservazione architettonica o l’altezza, la densità e lo stile degli edifici proposti.

 

L’approccio tech-first del progetto ha fatto paura a molti; la sua apparente mancanza di serietà riguardo le preoccupazioni sulla privacy degli abitanti è stata probabilmente la causa principale del fallimento del progetto».

L’esempio di Toronto permette di addentrarsi nel vasto mondo dei progetti in corso e dei miliardi, centinaia, che ruotano intorno a sviluppi di future smart city in tutto il mondo.

Toronto evidenzia un primo problema negli attuali sviluppi delle “città intelligenti”, proponendo un “tecno-soluzionismo” che tende a trascurare l’importanza degli esseri umani.

E soprattutto appare come un impianto tecnologico di estrazione di dati dai cittadini, più che un luogo in grado di facilitare la vita dei suoi abitanti.

L’esempio di Toronto porta a due riflessioni: intanto c’è da chiedersi chi vorrà vivere - al di là di chi se lo potrà permettere - in luoghi asettici per quanto “ordinati”, come se l’ordine fosse la cosa più ambita di una città, le cui dinamiche che portano le persone a viverci sono molte altre e incrociano più quel “fascino folle” di cui sono pieni i consigli delle guide “Routard”, anziché un ovattato “ordine”.

La seconda riflessione ha a che fare con la costante esigenza di dati dei colossi tecnologici e degli Stati.

 Dire dati non significa dire solo metropoli ma significa, oggi, soprattutto Intelligenza Artificiale, protagonista di una nuova corsa lanciata ormai da tempo;

una competizione guardata oggi con interesse dai comparti militari alla luce della guerra in corso in Ucraina e delle possibilità tecnologiche future degli eserciti.

Dire dati significa dire più possibilità di progredire sui sistemi di Intelligenza Artificiale.

Ci sono altre tendenze in corso.

Marsiglia a sua volta, ad esempio, rappresenta il tentativo di trasformare la “smart city” in una “security city”, grazie a un uso capillare di videocamere - proprio come in Cina - finalizzate a uno degli obiettivi principali delle città intelligenti, ovvero la diminuzione della criminalità.

Marsiglia si inserisce all’interno di un processo francese che ha avuto un’accelerazione dal 2015 anno degli attentati terroristici del Bataclan.

Da allora a Parigi il numero delle telecamere è quadruplicato, con la polizia locale intenta a utilizzarle per imporre i blocchi durante la pandemia e monitorare le proteste come ad esempio quelle dei “gilets jaunes”.

Il punto finale di questo processo è arrivato con una legge contestata, quella sulla “sicurezza globale”.

Secondo Amnesty - prima della sua approvazione - si trattava di una «nuova legge draconiana che darebbe vita a un futuro distopico che non vorremmo mai vedere. Permetterebbe alla polizia di spiare chiunque, quasi ovunque, con un drone. Questo tipo di sorveglianza è un’enorme e inaccettabile intrusione nella vita delle persone».

Marsiglia è diventato così un banco di prova per la tecnologia di sorveglianza.

 La battaglia contro l’invasività dei sistemi di sorveglianza da parte di alcuni attivisti francesi è cominciata fin dal 2017, quando fu annunciato il progetto “Big Data of Public Tranquility”, finanziato da un investimento di 1,5 milioni di euro dall’Unione Europea, dalla città di Marsiglia e dalla regione delle Bouches-du-Rhône.

Un progetto che aveva come scopo quello di raccogliere i dati della polizia locale, dei vigili del fuoco, degli ospedali e delle videocamere, utilizzando l’Intelligenza Artificiale nel tentativo di comprendere e prevedere meglio i rischi per la sicurezza.

In pratica, una smart city governata sul fronte della sicurezza dai modelli predettivi, proprio come nel film “Minority Report”, senza i “precog”, ma con gli algoritmi.

Il fenomeno non è solo europeo, anzi.

Gli attivisti di “Electronic Frontier Foundation” da tempo tengono traccia della diffusione della tecnologia di sorveglianza tra le forze dell’ordine locali e hanno prodotto una ricerca sui cosiddetti Rtcc, “Real Time Control Center” negli Stati Uniti, unità dedite al controllo in tempo reale della criminalità, una delle caratteristiche salienti delle future smart city, almeno nelle intenzioni.

Gli Rtcc «si concentrano sulla distribuzione di informazioni sulle “minacce” alla sicurezza nazionale, che sono spesso interpretate in modo ampio» e sono generalmente focalizzati «su attività a livello municipale o di contea, concentrandosi su uno spettro generale di problemi di sicurezza pubblica, dai furti d’auto ai crimini armati».

L’espressione “tempo reale”, però, è alquanto fuorviante secondo la “Electronic Frontier Foundation”:

 «mentre ci si concentra spesso sull’accesso ai dati in tempo reale per comunicare ai primi soccorritori, molte forze dell’ordine utilizzano gli Rtcc per estrarre dati storici per prendere decisioni in futuro attraverso modelli predittivi, una strategia controversa e in gran parte non provata per identificare i luoghi in cui potrebbe verificarsi il crimine o le persone che potrebbero commettere crimini».

Predizioni che ad oggi incidono in percentuale minimo sulle attività preventive della polizia.

Big Data, modelli predittivi e controllo:

per quanto la narrazione delle smart city cerchi di spingere su concetti come sostenibilità e una migliore organizzazione urbanistica, è il sistema “estrattivo” dei dati a caratterizzare anche i principali esempi di smart city occidentali.

 E proprio queste caratteristiche pongono seri dubbi sulla possibilità di sviluppare città del futuro differenti rispetto a quanto sta accadendo nel paese che da tempo investe di più sul concetto, cioè la Cina.

Un esempio - senza mai dimenticare che il contorno è differente, in Occidente è possibile contestare o bloccare alcune scelte, come successo a Toronto, ben più complicato è farlo in Cina - è stato quello di Shanghai.

Come ha scritto Le Monde, nominata “smart city” dell’anno dalla società britannica “Juniper Research”,

 «Shanghai è diventata per due mesi anche la prigione più grande del mondo.

Venticinque milioni di persone sono state rigorosamente confinate nelle loro case per un periodo compreso tra 60 e quasi 90 giorni, a seconda del quartiere».

 Per il quotidiano francese” la débacle” della capitale economica cinese durante l’epidemia di Covid rappresenta il passaggio - traumatico - da un’idea di città utopica a quella di città distopica.

Questo processo avviene perché alla base del concetto di smart city c’è una raccolta incessante di dati, che permette una rapida trasformazione di una città da un luogo di cui si promette incontaminazione da crimine e inquinamento, in uno totalmente controllato in caso di emergenze, reali o fittizie.

 Non solo: la Cina è il paese che investe di più nelle tecnologie “smart city” e finirà per conquistare interi mercati (si calcola che il mercato globale delle città intelligenti dovrebbe raggiungere i 2,7 trilioni di dollari entro il 2027).

Sfruttando l’enorme mercato del paese, ha scritto il quotidiano di Hong Kong “South China Morning Post”,

 «Pechino offre pacchetti chiavi in mano all’estero basati su standard proprietari delle sue aziende Huawei, Zte e Hikvision»

e trasportati sui mercati di riferimento dalle infrastrutture digitali della “Nuova via della Seta”.

Per ora Pechino agisce per lo più con i paesi in via di sviluppo (e riscontrando di recente notevoli difficoltà a entrare sui mercati europei),

 «installando apparecchiature basate su standard cinesi spesso non intercambiabili con alternative occidentali meno invadenti.

Si stima che circa il 70% dei sistemi di telecomunicazioni 4G in tutta l’Africa siano cinesi».

 

 

 

L'Italia e il Bilancio UE.

Rghs.met.gov.it -redazione Mef – (10-12-2022) – ci dice:

 

Intro.

Il Bilancio dell’Unione europea è lo strumento che traduce, in termini di destinazione delle risorse, le priorità e gli orientamenti politici perseguiti per la realizzazione dell’integrazione europea. Per poter finanziare le attività destinate a migliorare il benessere collettivo, tutti gli Stati membri contribuiscono al bilancio dell’Unione.

Attraverso tale documento annualmente viene autorizzato il finanziamento complessivo delle attività e degli interventi comunitari per un importo che all’incirca equivale all’1% del valore del PIL dell’UE, a fronte di una spesa pubblica nazionale di dimensioni ben più ampie, mediamente pari al 50% del PIL dei singoli Paesi.

Il Bilancio annuale dell’Unione europea deve rispettare i massimali fissati dal Quadro Finanziario Pluriennale (QFP), che rappresenta il bilancio UE a lungo termine e stabilisce quanto l’Unione investirà nei diversi programmi e progetti per rafforzare l’Europa in un arco temporale di norma pari a sette anni.

Con tale QFP, adottato ogni sette anni con Regolamento del Consiglio, in accordo con il Parlamento europeo, sono fissati gli importi massimi annui degli stanziamenti di impegno per ciascuna Rubrica del bilancio UE e del totale degli stanziamenti di pagamento. Stabilendo i limiti di spesa per ciascuna categoria, il QFP impone il rispetto della disciplina di bilancio e garantisce l'ordinato andamento delle spese della UE, entro i limiti delle sue Risorse Proprie ed in linea con i suoi obiettivi politici.

Tutti i cittadini europei beneficiano di attività finanziate dal bilancio UE attraverso investimenti riguardanti la coesione economica e sociale, il miglioramento del nostro ambiente, la maggiore sicurezza alimentare, la ricerca e l’innovazione, la dotazione di infrastrutture più moderne, la tutela dei nostri diritti fondamentali, il miglioramento della qualità di vita in Europa, la creazione di opportunità di studio all’estero per gli studenti, facilitazioni nell’accesso a mercati più grandi a favore delle piccole e medie imprese, lo sviluppo nel settore della ricerca o nuove opportunità di formazione professionale per chi cerca lavoro, l’attività di cooperazione internazionale e gli aiuti umanitari.

 

L’IGRUE partecipa, nell’ambito della delegazione italiana, a tutti i Consigli Ecofin Bilancio in cui si discutono punti relativi al Bilancio Ue, alla Risorse Proprie Ue ed al Quadro Finanziario Pluriennale UE.

La pandemia Covid-19 ha spinto le istituzioni europee a varare un piano di ripresa di ampio respiro per aiutare l’UE a riparare i danni economici e sociali causati dall’emergenza sanitaria e creare le basi per un’Europa più moderna, sostenibile e resiliente. In particolare, il Consiglio europeo, il Parlamento europeo la Commissione europea hanno concordato un piano che riguarda sia il QFP 2021-2027 sia il Next Generation EU.

Di seguito sono riportate le sette rubriche del QFP 2021-2027 approvato con Regolamento (UE, Euratom) 2020/2093.

 

Mercato unico, innovazione e agenda digitale.

                        È un ambito in cui l'azione UE genera un notevole valore aggiunto e risulta fondamentale per la crescita. I programmi in questa rubrica riguardano:

la ricerca e l’innovazione, con Horizon Europe, ITER e il programma Euratom;

gli investimenti strategici europei, con il Fondo InvestEU che affiancherà il Fondo europeo per gli investimenti strategici (FEIS), il CEF (il Meccanismo per collegare l'Europa) e il nuovo programma per la trasformazione digitale: Digital Europe;

l'azione a favore del mercato unico che integra i programmi COSME, PMI e dove vengono rafforzati i programmi Dogana e Fiscalis;

lo spazio, che con il nuovo Programma spaziale europeo riunisce tutte le attività dell'UE in questo settore strategico come Galileo, EGNOS e Copernicus.

           

Coesione, resilienza e valori.

                        L’obiettivo è sostenere gli investimenti, la creazione di posti di lavoro e la crescita, contribuendo a ridurre le disparità economiche, sociali e territoriali nelle regioni all’interno dell’UE. È suddivisa in due sottorubriche: Rubrica 2a - Coesione economica, sociale e territoriale e Rubrica 2b - Resilienza e valori . Gli investimenti sono destinati a tre gruppi di politiche: Sviluppo regionale e coesione, ripresa e resilienza e investimento in persone, coesione sociale e valori. Tra i programmi finanziati nella Rubrica 2a troviamo il Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR), il Fondo di coesione (FC) e il Fondo sociale europeo (FSE), mentre nella Rubrica 2b abbiamo, tra l’altro, il programma Erasmus+.

           

Risorse naturali e ambiente.

                        I finanziamenti nell'ambito di questa rubrica sono incentrati sulla politica agricola, marittima e sulla pesca modernizzata e sostenibile attraverso il Fondo Europeo Agricolo di Garanzia (FEAGA), la realizzazione della Politica Agricola Comune (PAC), attraverso il Fondo Europeo Agricolo per lo Sviluppo Rurale (FEASR) e il Fondo Europeo per gli Affari Marittimi e la Pesca (FEAMP). Inoltre abbiamo il nuovo Programma LIFE, che si occupa della protezione dell'ambiente e dell’azione per il clima, sostenendo i progetti per l'attuazione del Green Deal europeo.

                       

Migrazione e gestione delle frontiere.

                        Questa rubrica finanzia misure connesse alla protezione delle frontiere esterne, alla migrazione e all'asilo, garantendo al tempo stesso la libera circolazione delle persone e dei beni nell'Unione. Per queste finalità abbiamo il Fondo Asilo e migrazione e il Fondo per la gestione integrata delle frontiere.

                       

Sicurezza e difesa.

                        Le azioni di questa rubrica riguardano programmi mirati alla sicurezza e alla difesa in cui la cooperazione a livello dell'Unione offre un elevato valore aggiunto, rispecchiando le trasformazioni geopolitiche e le nuove priorità dell'UE. Vi rientrano azioni connesse alla sicurezza interna, al settore della difesa e alla risposta alle crisi. I finanziamenti di questa rubrica sosterranno il Fondo Sicurezza interna, la disattivazione nucleare, il Fondo europeo per la difesa e il Meccanismo di protezione civile dell’UE (RescEU).

                       

Vicinato e resto del mondo.

                        La rubrica finanzia sia l'azione esterna dell'Unione nel vicinato, nei paesi in via di sviluppo e nel resto del mondo sia l'assistenza ai paesi che si preparano all'adesione all'UE. Gran parte degli strumenti esistenti vengono uniti nello Strumento di vicinato, sviluppo e cooperazione internazionale; poi abbiamo anche lo Strumento di assistenza preadesione e lo Strumento per gli aiuti umanitari.

                       

Pubblica amministrazione europea.

                        Svolge un ruolo fondamentale per aiutare l'UE a realizzare le sue priorità e ad attuare politiche e programmi nel comune interesse europeo. Comprende le spese amministrative, del personale e delle pensioni di tutte le istituzioni dell'UE e delle scuole europee.

Accanto alle rubriche di spesa sopraindicate, sono previsti specifici strumenti o fondi. Questi strumenti si suddividono in strumenti speciali tematici (Fondo europeo di adeguamento alla globalizzazione, Riserva di solidarietà e per gli aiuti d’urgenza, Riserva di adeguamento alla Brexit) e strumenti speciali non tematici (Strumento unico di margine, Strumento di flessibilità). Il QFP 2021-2027 propone un significativo rafforzamento di tutti questi strumenti per consentire all'Unione, in specifiche circostanze, di spendere risorse anche oltre i massimali stabiliti dal QFP.

Strumenti speciali tematici

Fondo europeo di adeguamento alla globalizzazione.

Il Fondo europeo di adeguamento alla globalizzazione (FEG) offre un sostegno a coloro che hanno perso il lavoro a seguito di mutamenti economici legati alla globalizzazione o in conseguenza di crisi economiche e finanziarie mondiali, aiutandoli anche a trovare il più rapidamente possibile una nuova occupazione.

Riserva di solidarietà e per gli aiuti d'urgenza.

La riserva di solidarietà e per gli aiuti d'urgenza potrà essere utilizzata per finanziare situazioni di emergenza derivanti da gravi catastrofi ed esigenze urgenti all'interno dell'Unione o nei paesi terzi a seguito di eventi che non potevano essere previsti al momento della formazione del bilancio (come le calamità naturali, catastrofi provocate dall'uomo, minacce per la sanità pubblica o situazioni particolarmente difficili dovute alla pressione dei flussi migratori).

Riserva di adeguamento alla Brexit.

Questa Riserva fornisce assistenza per contrastare le conseguenze impreviste e negative negli Stati membri e nei settori maggiormente colpiti dal recesso del Regno Unito dall’Unione europea, mitigando l’impatto sulle imprese e nei vari settori interessati.

Strumenti speciali non tematici.

Strumento unico di margine.

Grazie a questo strumento sarà possibile ricorrere a impegni e/o pagamenti utilizzando i margini di una o più rubriche del QFP ancora disponibili al di sotto dei massimali del QFP da esercizi precedenti, che saranno messi a disposizione negli anni 2022-2027 e integralmente detratti dai margini dei rispettivi esercizi precedenti.

Strumento di flessibilità.

Lo scopo dello strumento di flessibilità è quello di finanziare spese chiaramente identificate che non possono essere finanziate all’interno dei massimali disponibili, senza superare l'importo massimo annuo per le spese stabilito nel QFP.

Ulteriori strumenti.

Next Generation EU.

Next Generation EU è un nuovo strumento presentato dalla Commissione europea a maggio 2020 e incrementato nel Consiglio europeo del 17-21 luglio 2020, avente carattere eccezionale e temporaneo che raccoglierà fondi sui mercati e li canalizzerà verso i programmi destinati a favorire la ripresa economica e sociale.

Strumento europeo per la pace.

Lo Strumento europeo per la pace è un fondo fuori bilancio al di fuori del QFP, che ha implicazioni nel settore militare o della difesa, nell'ambito della politica estera e di sicurezza comune. Ha il fine di prevenire i conflitti, preservare la pace e rafforzare la sicurezza e la stabilità internazionale.

Strumento europeo di sostegno temporaneo per attenuare i rischi di disoccupazione in un'emergenza (SURE).

È uno strumento con il quale viene fornita agli Stati membri che la richiedono assistenza finanziaria sotto forma di prestiti a condizioni favorevoli per fronteggiare gravi problemi economici dovuti alla pandemia da COVID-19. Lo strumento finanzia regimi di riduzione dell'orario lavorativo o misure analoghe per proteggere i lavoratori e ridurre i rischi di disoccupazione e perdita del reddito.

Grafici Interattivi

   Quadro Finanziario Pluriennale 2021-2027 e Next Generation EU.

   Quadro Finanziario Pluriennale 2014-2020.

   Bilancio Annuale UE.

 

 

 

Eugenetica, non solo nazismo.

Scientificast.it - Valeria Cagno – (Gen 17, 2019) – ci dice:

L’eugenetica è una disciplina che si pone come obiettivo il miglioramento della specie umana giovandosi delle leggi dell’ereditarietà genetica.

 Nell’immaginario collettivo viene associata alla Germania nazista, con gli esperimenti effettuati nei campi di concentramento, invece purtroppo è un fenomeno con radici ben precedenti, e localizzazione più estesa.

Il termine fu coniato nel 1883 da Francis Galton, cugino di Darwin e naturalista inglese, che si occupò della trasmissione di caratteri psichici e fisici ereditari, sostenendo che l’intelligenza fosse ereditaria.

Le sue teorie erano influenzate dalla selezione naturale dimostrata da Darwin e da Thomas Robert Malthus.

Quest’ultimo fu un economista e demografo inglese che sosteneva la necessità di controllare le nascite per mezzo della castità per garantire alla popolazione un adeguato ammontare di risorse, che con un eccessivo aumento demografico sarebbero potute mancare.

Nelle sue teorie fa anche riferimento all’esigenza di un salario minimo per nucleo familiare raggiunto il quale si potesse avere figli e sosteneva che, al contrario, eventuali aiuti statali per i poveri fossero deleteri per la società, in quanto favorivano la procreazione di tali famiglie.

L’eugenetica si è successivamente trasformata, in diverse parti del mondo, in un favorire la riproduzione di soggetti socialmente desiderabili e di prevenire la nascita di quelli indesiderabili.

Ben prima degli esperimenti di Mengele, infatti, negli Stati Uniti erano state condotte delle campagne di sterilizzazione.

La prima legge sulla sterilizzazione risale al 1907 in Indiana e fu poi adottata da altri 29 stati, in alcuni dei quali è rimasta in vigore fino al 1979.

 Si stima che in questo periodo circa 60000 americani siano stati sterilizzati senza il loro consenso.

I destinatari di queste sterilizzazioni erano soprattutto ospiti di manicomi, seguiti da albini, alcolizzati, talassemici, epilettici e immigrati.

Divenne famoso il caso di Carrie Buck, internata a 17 anni in un manicomio con l’accusa di debolezza mentale e promiscuità, incinta dopo uno stupro.

La donna fece appello contro la sua sterilizzazione, ma la corte suprema si dichiarò favorevole, sostenendo la necessità di impedire a soggetti non sani di procreare.

Questo rese queste leggi costituzionali e diede il via alle sterilizzazioni in diversi stati.

Il sostegno all’eugenetica era pubblico e ad alti livelli, con finanziamenti tra gli altri del “Carnegie Institution for Science” e della” fondazione Rockfeller”, il sostegno di alcuni presidenti degli Stati Uniti, tra cui “Theodore Roosvelt”, e l’introduzione di corsi sull’eugenetica in alcune prestigiose università.

Le teorie eugenetiche sulla cosiddetta razza ariana del regime nazista sembrano aver tratto ispirazione dal movimento statunitense, con successiva evoluzione e focalizzazione sull’epurazione di quelle che venivano ritenute razze inferiori:

gli ebrei, i rom, i disabili, gli omosessuali.

In principio, però, il “programma eugenetico Aktion T4 “prevedeva l’eutanasia di persone affette da malattie genetiche inguaribili e handicap mentali, con indubbi punti in comune con il programma statunitense.

Inoltre in altri paesi europei come la Svezia e la Danimarca sono state introdotte legislazioni simili, in vigore dal 1929 al 1976.

Ancora oggi non conosciamo l’origine di diverse patologie, mentali e non, ma siamo consapevoli che anche i fattori ambientali, e non solo quelli genetici, siano coinvolti.

Allo stesso modo, è stato dimostrato, studiando i gemelli omozigoti, che l’intelligenza è un carattere collegato sia a fattori ambientali che genetici.

Tralasciando, quindi, l’ovvia condanna in termini etici, di libertà individuale e della crudeltà inflitta in queste pratiche, appare evidente l’insensatezza di queste campagne di sterilizzazione e applicazione dell’eugenetica.

Tuttavia, oggi possiamo considerare un approccio eugenetico legale le diagnosi in gravidanza di malattie genetiche, in cui sappiamo qual è la mutazione o aberrazione cromosomica responsabile, e la diagnosi genetica pre-impianto in cui si può scegliere l’embrione idoneo dopo la fecondazione in vitro.

Questa procedura è suggerita in coppie ad alto rischio riproduttivo (in quanto portatori di malattie genetiche) per evitare l’aborto terapeutico successivamente.

I dati attuali rivelano che dall’introduzione della diagnosi pre-natale per la trisomia del cromosoma 21, che causa la sindrome di Down, si è osservata una riduzione del numero di individui affetti da questa patologia.

 La diagnosi è accompagnata generalmente da possibilità di sostegno psicologico per i genitori e di informazione sull’assistenza che si può ricevere se si porta a termine la gravidanza.

 Tuttavia, le statistiche attuali riportano che in caso di diagnosi di trisomia la percentuale di interruzioni di gravidanza è pari al 67% negli Stati Uniti, al 77% in Francia, al 90% nel Regno Unito e al 98% in Danimarca.

 

Nonostante le aberranti pratiche naziste e la pubblica condanna dei crimini contro l’umanità nel processo di Norimberga, le leggi di sterilizzazione forzata sono rimaste in vigore fino alla fine degli anni ‘70.

Ciò è avvenuto sia negli Stati Uniti sia in Europa, in paesi che avevano firmato “la convenzione dei diritti dell’uomo” nel 1950.

Questo sottolinea la necessità di avere una strettissima regolamentazione e definizione dei limiti dell’eugenetica, soprattutto in un’era in cui le informazioni genetiche e la possibilità di modificare il genoma umano stanno diventando sempre più alla portata di tutti.

 

 

 

 

GRAN BRETAGNA - VITA E BIOETICA.

Cliniche per il controllo delle nascite,

100 anni di eugenetica e razzismo.

Lanuovabq.it – Patricia Gooding Williams – (17-03-2021) – ci dice:

 

Il 17 marzo 1921 Marie Stopes apriva a Londra la prima clinica per il controllo delle nascite.

 È considerata uno dei più grandi successi umanitari, ma in realtà è un'opera della “Società Eugenetica “che con la clinica aveva lo scopo di impedire la riproduzione di poveri e malati.

E l'influenza eugenetica a danno delle donne dura tuttora sotto gli slogan di "scelta" e "libertà".

Esattamente cento anni fa, il 17 marzo 1921, fu inaugurata la prima clinica di pianificazione familiare della Gran Bretagna al 61 di Marlborough Road, Holloway, Londra.

Le celebrazioni ufficiali del centenario indicano l'evento come uno dei più grandi successi umanitari del secolo scorso.

 Ma in realtà il valore di questo evento può essere compreso soltanto se si riconosce e si fanno i conti con il movimento eugenetico, che è stato la chiave per l'apertura della prima” Mother’s Clinic” (questo era il nome ufficiale).

Aprire un capitolo della storia britannica tanto vergognoso quanto doloroso potrebbe rovinare le celebrazioni, ma aprirebbe un dibattito oggi più che mai necessario su quale influenza ha avuto l'eugenetica sulle attuali pratiche di controllo della popolazione.

Il movimento eugenetico è diventato potente in Gran Bretagna all'inizio del XX secolo.

 La sua missione era prendere il controllo della natalità e creare una razza superiore attraverso la procreazione selettiva.

 Il tasso di natalità complessivo della Gran Bretagna era in calo dal 1876, il problema per gli eugenisti era che la riduzione non era uniformemente distribuita tra tutte le classi sociali.

Le persone più povere in Gran Bretagna erano le più prolifiche e questo implicava un "deterioramento nazionale" della razza, un disastro per le generazioni future e per l'impero britannico.

 La loro soluzione è stata quella di correggere lo squilibrio eliminando poveri, malati e disabili.

 L'introduzione della pianificazione familiare nel 1921 serviva a questo scopo.

L'eugenetica, che significa "nascere bene", era considerata una scienza rispettabile dall'élite.

Il movimento contava alcuni dei britannici più importanti e influenti di quell'epoca. Includevano: John Maynard Keynes, Lady Constance Lytton, Bertrand Russell, George Bernard Shaw, HG Wells, nonché membri senior dell'establishment politico come Winston Churchill e influenti professionisti medici come Sir James Barr, ex presidente della “British Medical Association”.

Barr doveva poi diventare vicepresidente della “Society for Constructive Birth Control and Racial Progress” ("CBC"), l'organizzazione di supporto della “Mother’s Clinic”.

Winston Churchill divenne Primo Ministro del Regno Unito dal 1940 al 1945 (durante la Seconda guerra mondiale) e di nuovo dal 1951 al 1955.

Una lettera scritta da Winston Churchill nel 1910 al primo ministro Henry Asquith, fa capire come lui e molti membri del movimento eugenetico valutassero lo squilibrio della popolazione in quel momento.

 "La crescita innaturale e sempre più rapida delle classi di deboli di mente e di pazzi, unita com'è a una costante restrizione delle fasce di popolazione giudiziose, energiche e superiori, costituisce un pericolo nazionale e razziale che è impossibile esagerare".

Nel 1921 la Società Eugenetica aveva già consolidato un impatto sulla società.

Il manifesto della CBC prendeva di mira coloro che erano considerati non idonei alla genitorialità.

Affermava: “PER QUANTO RIGUARDA LA POPOLAZIONE ATTUALE.

Diciamo che purtroppo ci sono molti uomini e donne a cui dovrebbe essere impedito del tutto di procreare figli, a causa della loro cattiva salute individuale o della natura malata e degenerata della prole che ci si può aspettare che producano.

Queste considerazioni non si applicherebbero a un mondo migliore e più sano".

Non è un caso, quindi, che la prima clinica per il controllo delle nascite e quelle aperte successivamente, fossero concentrate in zone povere e disagiate di Londra.

La” Mother’s Clinic”, aperta e finanziata dalla dottoressa Marie Stopes e dal suo secondo marito, Humphrey Roe - entrambi membri attivi della Società Eugenetica - mirava a ridurre il tasso di natalità delle classi inferiori.

 Ironia della sorte, la clinica era arredata in "(colori) blu e bianco accoglienti, con un vaso di fiori freschi alla reception e carta da parati che mostrava bambini sorridenti" per rassicurare le donne [non avevano nulla contro le famiglie] che cercavano il suo consiglio e i suoi servizi.

Uno staff di sole donne forniva istruzioni sul controllo delle nascite e offriva dispositivi contraccettivi gratuitamente alle donne povere e della classe operaia.

Per coloro che non si avvalevano del servizio, Stopes promosse una campagna a favore di leggi per costringerle obbligatoriamente a sterilizzarsi e nel frattempo spingeva perché alle donne fosse applicata la Gold Pin (un meccanismo intrauterino in oro) che induce l'aborto.

Nonostante ciò, il primo tentativo della Gran Bretagna di imporre la procreazione selettiva è passato con successo con il pretesto dei diritti delle donne e della libertà riproduttiva.

Marie Stopes ha così guadagnato meriti e le è stato riconosciuto un ruolo importante nella storia femminista per aver liberato le donne dalla schiavitù sessuale per godersi una vita di uguaglianza sessuale.

Anche dopo la sua morte, nel 1958, l'eugenetica di Marie Stopes ha continuato ad avere un impatto sulla società.

 A suo nome, sono state aperte oltre 600 cliniche “Marie Stopes International” in tutto il mondo e il suo sito web vanta fino ad oggi 31 milioni di aborti.

Ma, quando le visioni eugenetiche estreme della Stopes alla fine sono emerse e il suo nome è diventato più di imbarazzo che di aiuto, l'organizzazione nel novembre 2020 ha abbandonato il suo nome rinominandosi “MSI Reproductive Choices”.

Ma le organizzazioni pro-life affermano che” MSI Reproductive Choices” continua a seguire gli stessi princìpi eugenetici voluti da Marie Stopes, qualunque sia il nome con cui decidono di chiamarsi.

 Quello che è iniziato come un esperimento per controllare la popolazione più povera della Gran Bretagna – dicono - si è diffuso e si è sviluppato in un controllo autoritario sui più poveri in tutto il mondo.

Fin dalle sue origini, il movimento eugenetico ha suscitato diverse critiche, le più feroci da parte della Chiesa cattolica.

 Tuttavia, è stato solo quando è stato associato alla Germania nazista e all'Olocausto dopo la Seconda guerra mondiale, che ha perso la maggior parte della sua influenza.

Gli avvocati ai processi di Norimberga dal 1945 al 1946 hanno legittimamente sottolineato che c'era poca differenza tra i programmi di eugenetica nazista e i programmi in essere nei paesi europei e in America durante lo stesso periodo.

E anche se le politiche eugenetiche furono in gran parte abbandonate nei decenni successivi, il pensiero eugenetico sopravvisse rendendosi appetibile per un pubblico moderno.

Gli eugenisti post-1945 scoprirono che adattando alla nuova realtà obiettivi e messaggi, i metodi sostenuti potevano rimanere gli stessi.

Hanno iniziato rimuovendo la parola eugenetica dall'uso comune e sostituita con la terminologia medica o con slogan popolari come "scelta" e "libertà".

Un ottimo esempio di questa strategia è ancora in Gran Bretagna.

Nel 1989, visti i vantaggi di presentarsi con una veste nuova, la Società Eugenetica si è rinominata “The Galton Institute”.

 Tuttavia Francis Galton, così come successivamente Marie Stopes, ha svolto un ruolo chiave nel lancio del movimento eugenetico in Gran Bretagna e negli Stati Uniti.

Ha anche coniato il termine eugenetica.

 Però l'uso del suo nome ha permesso all'istituto di continuare il suo lavoro e di esercitare la sua influenza nel mondo accademico.

È un grave errore del pensiero contemporaneo, dicono i critici, relegare l'eugenetica al passato, quando invece i valori che ne sono alla base sono ben vivi.

Almeno, la discriminazione razziale di cui le donne sono state e sono ancora vittime a causa dei programmi di controllo della popolazione, merita più di un timido cenno.

 E ci sono altre domande scomode che richiedono risposte, come ad esempio quale influenza abbiano avuto l'eugenetica e le tecnologie per il controllo delle nascite sulle dimensioni, la composizione e il benessere della società, anche se questo significa approfondire un capitolo controverso della storia britannica.

Ma sono queste le questioni spinose che queste celebrazioni del centenario dovrebbero affrontare, se vogliono essere considerate con rispetto.

 

 

 

Sterilizzazioni forzate,

il discusso caso della California.

Liberopensiero.eu - Cindy Delfini – (19 Gennaio 2023) – ci dice:

 

Il controllo esercitato dai governi sui corpi delle donne non passa “solamente” per l’aborto, diritto che continua ad essere osteggiato dai fronti più conservatori (come accaduto negli Stati Uniti con la recente abolizione da parte della Corte Suprema della sentenza Roe vs. Wade), dando vita ad una battaglia quotidiana contro ai numerosi ostacoli che ogni donna o ragazza incontra quando decide di interrompere una gravidanza.

Se i movimenti pro-life contrari all’aborto considerano l’embrione un essere umano già dai primi momenti del suo sviluppo definendo l’aborto un “omicidio”, gli Stati che nel corso degli anni hanno applicato programmi di sterilizzazione forzata hanno deciso di mettere da parte la “vita” (e soprattutto la libertà delle donne) a favore di una “purificazione” della popolazione mondiale.

Impedire ai “punti deboli” della società di avere figli, in quest’ottica, avrebbe portato l’intera umanità ad un miglioramento a livello genetico.

 Di conseguenza a subire questo trattamento sono state persone appartenenti a gruppi sociali marginalizzati.

In particolare sono state forzatamente sterilizzate donne affette da disabilità o patologie mentali – evitando in questo modo la diffusione di geni “difettosi”.

 Le teorie eugenetiche (che puntavano, per l’appunto, al perfezionamento genetico della popolazione) hanno trovato terreno fertile in diverse parti del mondo, grazie soprattutto ai programmi elaborati dal regime nazista.

Sterilizzazioni forzate, i programmi di eugenetica negli Stati Uniti.

Gli Stati Uniti sono stati il primo Paese in cui l’eugenetica – e i programmi di sterilizzazione obbligatoria – è diventata una vera e propria disciplina controllata dallo Stato (ancor prima della Germania nazista).

Oltre alle categorie menzionate precedentemente, i governi statunitensi hanno promosso la sterilizzazione forzata di persone epilettiche, sorde e cieche.

Durante la cosiddetta era progressista (1890-1920), i sostenitori dell’eugenetica hanno pensato di ampliare la portata della loro teoria.

Le sterilizzazioni forzate hanno iniziato ad essere concepite come lo strumento migliore per preservare il gruppo etnico dominante, a discapito di tutti gli altri.

Così donne afroamericane e latinoamericane hanno iniziato ad essere sterilizzate contro la loro volontà (e spesso senza che ne fossero consapevoli).

In un panorama fortemente influenzato dal razzismo, oltre alla sterilizzazione obbligatoria i programmi eugenetici comprendevano misure come il divieto dei matrimoni interrazziali e della “mescolanza etnica”.

Il movimento a favore dell’eugenetica ha portato avanti le ideologie legate alla segregazione razziale negli Stati Uniti e si è affermato come una nuova risposta ai crescenti movimenti migratori, guadagnandosi una notevole popolarità in ambito accademico.

È stato sostenuto anche da diverse attiviste femministe, tra cui la scrittrice, infermiera ed educatrice sessuale Margaret Sanger.

Quest’ultima ha avuto un ruolo fondamentale nella lotta per i diritti delle donne, affermandosi come una pioniera in tema di contraccezione.

 Responsabile della diffusione del termine “controllo delle nascite”, è stata lei ad aprire la prima clinica specializzata negli Stati Uniti, attirando subito le antipatie dei movimenti pro-life.

Sanger ha supportato i programmi statunitensi di eugenetica, nella convinzione che la contraccezione fosse il metodo principale per far sì che nessun bambino dovesse nascere in una famiglia considerata inadatta.

Per questo motivo si è dedicata personalmente alla causa:

ha scoraggiato diverse coppie decise a mettere su famiglia ma che si pensava rischiassero di trasmettere difetti genetici o malattie mentali ai figli.

Benché fosse a favore dei programmi eugenetici, Sanger era fermamente convinta che le donne fossero le uniche a decidere se affrontare o meno una gravidanza e non lo Stato.

Con le sterilizzazioni forzate, al contrario, le donne non avevano scelta.

In molti casi, inoltre, venivano sottoposte alla terribile procedura a loro insaputa.

Angela Davis, attivista afroamericana nota per aver militato nel Black Panther Party ed essere stata una delle principali esponenti del Partito Comunista degli Stati Uniti, ha denunciato i trattamenti subiti dalle donne nere e latino americane per anni senza risparmiare Sanger, accusandola di aver tentato di ridurre la popolazione afroamericana.

Nel 1907 l’Indiana è stata la prima a rendere le sterilizzazioni obbligatorie una legge.

Due anni più tardi California e Washington le hanno fatto seguito. Successivamente all’emanazione della sentenza Buck vs. Bell la pratica è diventata sempre più popolare.

 È stato necessario aspettare la fine della Seconda Guerra Mondiale per avere una presa di coscienza dell’opinione pubblica: l’eugenetica e i programmi di sterilizzazione hanno iniziato ad essere visti per ciò che sono realmente, ovvero pratiche disumane, e negli anni sono state condannate a livello internazionale.

 Tra tutti, il programma eugenetico della California è stato quello di maggiore portata.

Secondo le stime, sono state sterilizzate circa 20 mila donne all’anno, con un’età media di 17 anni, dal 1909 ai primi anni ’60.

La legge è stata definitivamente abrogata nel 1979.

 

Il caso della California e il programma di riparazione.

La California ha effettuato più sterilizzazioni forzate di qualsiasi altro Stato americano, portando a compimento oltre un terzo delle operazioni eseguite in tutti gli Stati Uniti.

Lo Stato si è addirittura guadagnato la stima del governo di Hitler, che lo ha preso come punto di riferimento per provare che i programmi di eugenetica potevano essere seguiti su larga scala.

L’abrogazione della legge sulle sterilizzazioni non ha portato, in ogni caso, alla loro totale scomparsa.

 La California ha continuato a praticare questo orribile trattamento nei confronti delle carcerate.

Tra il 2005 e il 2013, circa 144 donne sono state sterilizzate per volere del personale e dei medici, i quali hanno potuto contare sui fondi statali, tramite legatura delle tube.

I responsabili hanno giustificato le loro azioni spiegando che l’unico obiettivo era ottenere una maggiore “giustizia sociale”, penalizzando le donne considerate inadatte alla procreazione.

 Solamente nel 2014 il Governo ha vietato le sterilizzazioni nelle carceri, a meno che non si tratti di casi che mettono a rischio la salute pubblica.

 

In tempi recenti diversi Stati si sono scusati pubblicamente per i maltrattamenti subiti dalle vittime dei programmi di sterilizzazione obbligatoria.

Il North Carolina, per esempio, nel 2011 ha promosso un programma di risarcimento con lo stanziamento, a partire dal 2015, di 10 milioni di dollari destinati ad un totale di 7.600 donne.

 La California da parte sua all’inizio dello scorso anno ha annunciato il lancio del suo “Forced or Involuntary Sterilization Compensation Program”, gestito dalla “California Victim Compensation Board”.

Il programma – che prevede la distribuzione di 4,5 milioni di dollari tra le vittime “idonee” – è iniziato proprio quest’anno e scadrà il 31 dicembre.

L’iniziativa ha aperto nuovamente il dibattito intorno al tema della sterilizzazione forzata.

Le vittime ancora in vita (soprattutto donne afroamericane) avranno diritto ad una riparazione di 15 mila dollari. I

n base alle fonti sono almeno 600 le sopravvissute che non hanno potuto avere figli per via delle sterilizzazioni obbligatorie.

Delle 310 domande presentate, solamente 51 sono state approvate per il momento, mentre l’opinione pubblica esprime il suo dissenso nei confronti del risarcimento:

secondo il governo, un risarcimento di 15 mila dollari – destinati a vittime che sono state violate a loro insaputa e costrette a vivere un trauma per il resto della sua vita – per molti non sarebbe “abbastanza”.

Soprattutto se si pensa che oggi, in diversi Stati americani, le donne che vorrebbero abortire rischiano di andare incontro a sanzioni molto più pesanti.

La California, infine, è solamente il terzo Stato ad aver approvato il programma di riparazioni (insieme a North Carolina e Virginia), quando negli Stati Uniti più di 65 mila persone sono state sterilizzate contro la loro volontà dal 1930 al 1970.

(Cindy Delfini).

 

 

Transumanesimo.

 Decrescita.com - Danilo Tomasetta – (8 Febbraio 2022) – ci dice:

 

Nel mio articolo precedente, “Prolegomeni al Grande Reset”, accennavo a come tra i propositi collegati al Grande Reset c’è lo sviluppo dell’intelligenza artificiale e delle nanotecnologie, fino ad ipotizzare un collegamento del cervello umano con unità intelligenti esterne per un’implementazione uomo-macchina che, nella visione degli ideatori di questo audace disegno, porterebbe ad un potenziamento sia dell’intelligenza umana che di quella artificiale.

Al di là di questo vantaggio, l’interfacciamento uomo-macchina rende possibile il controllo assoluto dell’individuo.

 Gli ideatori del Grande Reset non sottolineano questo aspetto, ma è evidente la loro aspirazione ad un controllo capillare e alla correzione preventiva di ogni devianza, perché questa garanzia di affidabilità assume un’importanza notevole per la riprogrammazione delle società e del ruolo che compete ai singoli soggetti .

Vedremo più avanti perché.

Questi arditi progetti che comportano uno stretto legame uomo-macchina rappresentano l’essenza di cosa si debba intendere oggi per TRANSUMANESIMO.

 A ciò fa da corollario la ricerca sul prolungamento della vita, basata sia sull’uso di protesi di ogni tipo (dagli arti meccanici agli organi artificiali) sia sull’uso della medicina collegata alla genetica, capace di intervenire preventivamente su possibili degenerazioni fisiche (tumori, cardiopatie, ictus, diabete, ecc.) mediante una modifica del codice genetico resa possibile dall’uso delle biotecnologie e delle nanotecnologie applicate alla medicina.

A questo punto ritengo giusto premettere che sono assolutamente contrario al transumanesimo e che giudico i suoi sostenitori alla stregua di pericolosi invasati capaci in ipotesi estrema di decretare la fine dell’umanità per come l’abbiamo conosciuta finora.

Poiché però il transumanesimo non è un termine nato in tempi recenti, credo sia giusto ricostruirne brevemente l’origine.

L’inventore del termine fu nel 1947 Pierre Teilhard de Chardin un gesuita, filosofo, paleontologo e scienziato evoluzionista francese.

Ma a delinearne il significato fu nel 1957 Julian Huxley (il fratello del famoso filosofo Aldous Huxley), biologo e genetista, nel testo “In New Bottles for New Wine”.

Nell’originaria accezione di Huxley transumanesimo indica «l’uomo che rimane umano, ma che trascende sé stesso, realizzando le nuove potenzialità della sua natura umana».

Come si vede Huxley pensava ad uno scenario di emancipazione dell’umanità in cui quest’ultima si fa carico di guidare il processo evolutivo.

 Siamo dunque all’interno di una deriva del pensiero umanista e positivista, tant’è che il filosofo inglese Max More scrive

«Il Transumanesimo condivide molti elementi con l’umanesimo, inclusi il rispetto per la ragione e le scienze, l’impegno per il progresso ed il dare valore all’esistenza umana (o transumana) in questa vita…

Il Transumanesimo differisce dall’umanesimo nel riconoscere ed anticipare i radicali cambiamenti e alterazioni sia nella natura, sia nelle possibilità delle nostre vite, che saranno il risultato del progresso nelle varie scienze e tecnologie».

Dunque possiamo dire che inizialmente il transumanesimo veniva inserito in un quadro filosofico di riferimento umanista, positivista ed evoluzionista in senso neo-Darwiniano, anche se al tempo stesso si assegnava già allora un ruolo alle profonde innovazioni che avrebbero recato la ricerca scientifica e le nuove tecnologie.

Questo ruolo innovativo è stato ad esempio sottolineato dall’economista e professore universitario americano Robin Dale Hanson, molto interessato alle ricerche sull’intelligenza artificiale, che ha detto «Il Transumanesimo è l’idea secondo cui le nuove tecnologie probabilmente cambieranno il mondo nel prossimo secolo o due a tal punto che i nostri discendenti non saranno per molti aspetti ‘umani’».

In effetti oggi i transumanisti più sfegatati, tra cui Klaus Schwab (costruttore di  bombe atomiche illegali in Sud-Africa, ndr.) direttore del “World Economic Forum” (segnatevi bene questo nome) sono a favore dell’utilizzo delle tecnologie emergenti, incluse quelle attualmente ritenute controverse, come l’ingegneria genetica sull’uomo, la crionica e gli usi avanzati dei computer e delle comunicazioni.

Essi ritengono inoltre che l’intelligenza artificiale un giorno supererà quella umana, realizzando la singolarità tecnologica.

Per loro questo sviluppo è desiderabile e gli esseri umani possono e dovrebbero diventare “più che umani” attraverso l’applicazione di innovazioni tecnologiche come l’ingegneria genetica, la nanotecnologia, la neurofarmacologia, le protesi artificiali, e le interfacce tra la mente umana e le macchine.

Per raggiungere questo obbiettivo i transumanisti si interessano a tutti i vari campi della scienza, della filosofia, dell’economia e della storia naturale e sociale, per comprendere e valutare le possibilità di superare le limitazioni biologiche, intendendo tra queste le malattie che affliggono l’umanità e soprattutto prendono in considerazione la possibilità di superare il limite di Hayflick.

Il concetto del limite di Hayflick è stato ipotizzato dall’anatomista americano Leonard Hayflick nel 1961.

 Senza entrare nel dettaglio, gli studi fatti da Hayflick riguardano le possibilità delle cellule del corpo umano di rinnovarsi.

 Questo rinnovamento ha un limite genetico, dopodiché il processo di invecchiamento e quindi di morte è irreversibile.

Superare questo limite vuol dire in pratica pensare ad un allungamento ad oltranza della vita fino a garantirsi una specie di immortalità.

 

Da quanto esposto finora dovrebbe esser chiaro che la maggior parte dei transumanisti sono agnostici o atei.

Inseguendo il loro sogno di immortalità non possono dar credito all’idea di un’anima trascendente.

Confidano piuttosto nella compatibilità delle menti umane con l’hardware dei computer, con l’implicazione teorica che la coscienza individuale possa, un giorno, essere trasferita o emulata su un supporto digitale;

tale tecnica si chiama “mind uploading”.

Non stupiamoci quindi se “le teorie transumaniste” sono avversate dai religiosi di qualunque confessione, per i quali negare la trascendenza dell’anima è assolutamente eretico e inammissibile.

Ma non c’è bisogno di essere credenti per prendere le distanze dal transumanesimo.

Una critica radicale al transumanesimo è stata portata ad esempio da Bill Joy, informatico statunitense e cofondatore della “Sun Microsystems, che afferma nel suo articolo “Why the future doesn’t need us” (Perché il futuro non ha bisogno di noi) che gli esseri umani probabilmente finiranno con l’estinguersi attraverso le trasformazioni sostenute dal transumanesimo.

Anche il movimento ambientalista è contro il transumanesimo.

Infatti sostiene il principio di precauzione nell’applicazione industriale degli sviluppi tecnologici e addirittura auspica la cessazione della ricerca in aree ritenute potenzialmente pericolose.

Inoltre alcuni “precauzionisti” credono che l’umanità dovrebbe prima organizzarsi in modo da essere pronta a superare i pericoli prodotti dalle intelligenze artificiali, incarnazioni tecnologiche del principio di Autorità.

Questo dell’autorità e della tentazione all’autoritarismo è un aspetto importante che va sottolineato.

L’enfatizzazione che fa il transumanesimo dell’uso dell’intelligenza artificiale e della contaminazione di questa con la mente umana disvela il sogno di controllo assoluto strettamente connesso con i programmi del Grande Reset e quindi del transumanesimo .

Già altri critici del transumanesimo avevano fatto notare la soggettività di concetti biopolitici come “miglioramento” e “limitazione”, osservando una pericolosa somiglianza con le vecchie ideologie eugenetiche in merito ad una “razza superiore” e preoccupandosi di quello che il transumanesimo potrebbe comportare in futuro, come ad esempio separazioni e discriminazioni di natura sociale fra i “migliorati” e chi non lo è o fra “modificati” e “naturali”.

Queste ultime considerazioni ci obbligano ad esaminare i risvolti politici del problema.

Se di Grande Reset si è cominciato a parlare solo di recente, va ricordato che già nel 2015 nacque l’”AGENDA 2030 PER LO SVILUPPO SOSTENIBILE”, un programma d’azione per le persone, il pianeta e la prosperità sottoscritto nel settembre 2015 dai governi dei 193 Paesi membri dell’ONU.

I programmi e gli obbiettivi dell’Agenda 2030 costituiscono l’ossatura in embrione su cui sono nati i piani del Grande Reset.

Il punto centrale, e quindi l’obiettivo primario, è una ristrutturazione del Capitalismo in grado di eliminare le “storture” e i limiti che ne hanno contrassegnato il cammino.

Per fare questo è utile richiamarsi non tanto al capitalismo “liberale” che ha caratterizzato il modello occidentale fino ad oggi, ma piuttosto ad un capitalismo di tipo cinese che ha saputo coniugare le esigenze dello sviluppo con quelle di un rigido controllo sociale.

Possiamo parlare a ragion veduta di un “nuovo capitalismo feudale”, dove le redini sono saldamente tenute in mano da un ristrettissimo numero di sovrani e vassalli che controllano rigidamente la massa dei sudditi assecondandoli nella soddisfazione dei loro bisogni primari e secondari.

In questo programma di ristrutturazione il transumanesimo riveste un ruolo fondamentale proprio perché capace di garantire il controllo e la manipolazione della volontà dei singoli.

Si tratta in effetti dell’istituzione di un “tecno-feudalesimo” per il quale vale il giudizio del filosofo Giorgio Agamben:

 “Il capitalismo che si sta consolidando su scala planetaria non è il capitalismo nella forma che aveva assunto in occidente: è, piuttosto, il capitalismo nella sua variante comunista, che univa uno sviluppo estremamente rapido della produzione con un regime politico totalitario. (…)

Quel che è certo, tuttavia, è che il nuovo regime unirà in sé l’aspetto più disumano del capitalismo con quello più atroce del comunismo statalista, coniugando l’estrema alienazione dei rapporti fra gli uomini con un controllo sociale senza precedenti”.

In questo quadro, ma meglio definirlo incubo, i padroni universali avrebbero raggiunto la capacità tecnologica di entrare nelle nostre vite e nelle nostre menti.

L’estremo appello di libertà di George Orwell in 1984: “possono costringerti a dire qualsiasi cosa, ma non c’è maniera che te la facciano credere. Non possono entrare dentro di te.” diventa anacronistico.

Non è più così, ora possono!

Le tecnologie di sorveglianza e l’immenso apparato di programmazione neuronale, i chip sottocutanei, i farmaci imposti, ci riescono.

Teniamo bene a mente cosa ha scritto Klaus Schwab, il gran ciambellano criminale del Forum di Davos, nel programma per l’anno passato:

“l’aspetto positivo della pandemia è che ci ha insegnato che possiamo introdurre cambiamenti radicali nel nostro stile di vita con grande rapidità.

I cittadini hanno dimostrato ampiamente che sono disposti a fare sacrifici per il bene delle cure sanitarie.

È evidente che esiste una volontà di costruire una società migliore e dobbiamo approfittarne per garantire il Grande Reset”. 

Ritengo anche importante citare a tal proposito cosa ha scritto Geminello Preterossi in “Contro Golia – Manifesto per la sovranità democratica” :

 “se di un ri-orientamento c’è bisogno, per gli oligarchi criminali di Davos questo dovrà essere realizzato dal capitalismo stesso, cioè da coloro che hanno prodotto il disastro.

 Con una sorta di illusionistico falso movimento, mettendosi all’opposizione dell’esistente, sfruttano l’occasione della pandemia per immunizzare il potere assolutistico del capitale da qualsiasi reale cambiamento che provenga dal basso e rappresenti un’alternativa organizzata:

per far questo occorre mutare narrativa, fingere di liquidare il neoliberismo per salvare e rilanciare il capitalismo (il cui nucleo di potere neoliberale resta intatto), potenziandone le possibilità di dominio.

 Quel dominio delle menti si spinge fino al progetto smisurato di un controllo totale, algoritmico, sulle vite, il cui residuo di differenza e autonomia deve essere azzerato o neutralizzato con modalità automatiche.”

Dunque l’obiettivo finale del Grande Reset (e del transumanesimo che ne è parte integrante) è la creazione dell’anti-società post-umana.

La posta in gioco è una trasformazione antropologica di cui Agenda 2030 non era che il prologo.

 

Essendo arrivato alla conclusione voglio concedermi un’ultima riflessione filosofica.

I filosofi del mondo ellenico avevano già parlato di Hybris.

Il termine indica propriamente in greco la tracotanza, la dismisura, la superbia e il superamento del limite.

A differenza del biblico peccato originale, anch’esso una forma di superamento del limite imposto da Dio all’uomo nel Paradiso terrestre, la hybris greca non macchia indistintamente e indelebilmente tutti gli uomini dalla loro nascita, ma rappresenta piuttosto un pericolo sempre in agguato nella natura umana, pericolo che dovrà essere contrastato da ogni singolo uomo con le sue sole forze.

Nelle follie dei piani del transumanesimo e del Grande Reset c’è una quota di hybris smisurata e sta a tutti noi evidenziarla, contrastarla e sconfiggerla.

 

 

 

 

Transumanesimo: l’approdo

ultimo dell’ideologia gender.

Provitaefamiglia.it – Redazione – (21-9-2021) – ci dice:

 

Non tutti sanno che cosa sia il transumanesimo. Il New York Times ha recentemente pubblicato la storia di Kim Suozzi, morta a 23 anni per un tumore, che ha pagato 80.000 dollari alla società Alcor, a Scottsdale, in Arizona, per farsi congelare la testa (per congelare il corpo intero servono 200.000).

La povera Kim confidava nella ricerca sull’intelligenza artificiale. Sperava che al tempo opportuno la sua testa possa essere scongelata per inserire la sua memoria, il suo cervello, in un computer.

Ecco cosa è il transumanesimo.

L’ipotetica copia digitale del cervello umano che si immagina nel futuro di poter creare si chiama ‘connectome’.

Il problema è che si calcola che la capacità di memoria sia di 1,3 miliardi di terabytes, non comodi da portare in una pen-drive:

infatti dicono che l’intera capacità di memoria di tutti gli harddrive del mondo è di circa 2,6 miliardi di terabytes (non mi chiedete come l’hanno calcolata...).

La povera Kim sarà morta sperando: forse per questo gli 80.000 non sono del tutto buttati.

Ma che dire di quelli che hanno lucrato così tanto sulle sue assurde illusioni?

Eppure il transumanesimo si fa strada, in una società liquida e relativista come la nostra.

Del resto il Cardinale Bagnasco tempo fa ha detto che “[...] il gender edifica un ‘transumano’ in cui l’uomo appare come un nomade privo di meta e a corto di identità”.

Matteo Carletti, su Libertà e Persona, ci fa riflettere:

 intanto, però, la Federazione Italiana Sessuologia Scientifica, in linea con l’ufficio regionale per l’Europa dell’OMS, ha pubblicato un libello nel quale – oltre alle già note teorie circa la sessualizzazione precoce dei bambini – si parla di “pianificazione familiare in armonia con quella lavorativa”, e quindi dell’utilizzo della genetica per fare bambini su misura.

 Esattamente quanto temeva il Cardinal Bagnasco:

fabbricare la vita ‘su misura’.

Ma va oltre: non solo dobbiamo fabbricare la vita dei nostri figli, ma anche e soprattutto la nostra.

E questo è un pensiero transumanista, spiega Carletti, l’uomo diventa capace non solo di autodeterminarsi, ma di poter decidere come e fino a quanto vivere.

Un manifesto del transumanesimo è la Lettera a Madre Natura di Max More. Secondo i filosofi e gli scienziati transumanisti, l’uomo deve completare in un certo senso l’evoluzione (il darwinismo di fondo ci sta tutto) e deve preoccuparsi da sé di cambiare.

“In un crescendo di fusione fra corpo, macchine e biotecnologia sarà possibile fabbricare una nuova forma di vita che supererà le abilità percettive di ogni altra creatura“.

Recita il 5° emendamento della Lettera:

 “Non saremo più schiavi dei nostri geni. Ci assumeremo la responsabilità dei nostri programmi genetici e otterremo il totale controllo dei nostri processi biologici e neurologici.

Porremo rimedio a tutti i difetti individuali e della specie lasciatici in eredità della nostra storia evolutiva.

Ma non ci fermeremo qui:

potremo scegliere sia la forma del nostro corpo che le sue funzioni, raffinando ed aumentando le nostre abilità fisiche ed intellettuali, fino a livelli mai raggiunti da nessun altro essere umano nella storia”.

L’uomo utilizza la propria ragione – conclude Carletti – non più per riconoscere ciò che la natura gli mostra e che egli deve accogliere, ma come potere fabbricante la propria persona e, conseguentemente, la propria realtà.

 Quest’ultima, proprio perché partorita dalla mente e dalle mani dell’uomo attraverso l’uso della sua ragione diventa, a pieno titolo, ‘naturale, ovvero frutto dell’evoluzione della natura.

 È in questo slancio prometeico che va quindi inquadrata non solo la così detta ideologia gender, ma il desiderio radicale dell’uomo di autodeterminarsi.

“Invece di impiegare le nostre nuove possibilità genetiche per raddrizzare il ‘legno storto dell’umanità’, dovremmo fare il possibile per creare assetti sociali e politici più accoglienti nei confronti dei doni, e dei limiti, di noi imperfetti esseri umani”.    (M. J. Sandel, Contro la perfezione, 2007).

 

 

 

La Finzione della Guerra per

Difendere l’Ucraina è

definitivamente Caduta.

Conoscenzealconfine.it – (30 Gennaio 2023) - Luciano Lago – ci dice:

Le elite di Washington e di Bruxelles ammettono ormai il vero disegno progettato per la guerra in Ucraina istigata dagli Stati Uniti. L’obiettivo era ed è la distruzione dell’integrità della Federazione Russa per permettere agli Anglo USA di prendere il controllo dell’Eurasia.

 

 

Questo piano emerge non solo dai documenti scritti almeno tre anni prima (vedi quanto scriveva la Rand Corporation), ma anche dagli incontri di Davos, dove il linguaggio è ormai scoperto e si sono abbandonati gli ipocriti appelli a “salvare la democrazia ucraina”.

L’elite finanziaria anglosassone dominante oggi parla apertamente della necessità di impadronirsi delle risorse della Russia. I veri obiettivi, l’espansione senza fine della NATO, l’utilizzo dell’Ucraina come piattaforma di attacco contro la Russia, adesso sono scoperti. Il destino degli ucraini destinati a fare da carne da cannone nella guerra contro la Russia interessa poco o niente all’elite di Washington.

Questo spiega l’accrescere progressivo della retorica bellica dei neocon e delle loro reggicoda europei della NATO, che sono pronti a intensificare il conflitto fino alla terza guerra mondiale, e neppure la minaccia nucleare, paventata come inevitabile sviluppo dalla Russia, potrà fermarli.

Il tempo sta scadendo anche per Zelensky ed è probabile che si avvicini il momento di un rimpasto a Kiev e questo non sarà indolore per l’ex comico, come di frequente accaduto per le marionette degli USA.

Da ultimo, si sono udite le parole di Joseph Borrel, l’alto rappresentante della UE, che ha paragonato il conflitto in Ucraina alle guerre passate condotte contro la Russia da parte di Napoleone e di Hitler: “La Russia è un grande Paese, è abituata a combattere fino alla fine, è abituata a quasi perdere e poi a ripristinare tutto. L’hanno fatto con Napoleone, l’hanno fatto con Hitler (...).

Pertanto, è necessario continuare ad armare l’Ucraina “.

 

Altri politici occidentali, come la vice premier canadese, Chrystia Freeland nella enclave di Davos, hanno affermato che la sconfitta della Russia “sarebbe un enorme impulso per l’economia globale”.

Non per niente il Canada (assieme agli USA) è stato uno dei paesi che ha accolto i gruppi nazisti ucraini per poi trasferirli in Ucraina dopo il crollo dell’URSS, per utilizzarli come massa di manovra anti russa.

Le sconfitte continue sul campo e le enormi perdite subite dall’esercito ucraino fanno innervosire i vertici della NATO che insistono presso i governi occidentali per ottenere più carri armati, più armi e più attrezzature rendendo evidente che Washington e la NATO non solo mantengono l’esercito ucraino, ma forniscono anche le necessarie informazioni di intelligence, comandano le truppe ucraine sul campo e hanno preso il controllo del processo decisionale militare.

Mentre Washington prepara nuovi pacchetti di aiuti, l’ultimo da 2,5 miliardi di dollari, le forze ucraine vengono addestrate in Germania e nel Regno Unito per l’utilizzo degli armamenti occidentali.

Ultimamente il comando USA incita apertamente le forze ucraine a colpire il territorio della Federazione russa e in particolare la Crimea.

Si aggiungono le farneticanti dichiarazioni di Stoltenberg, il segretario della NATO, il quale dichiara che “…è necessario accelerare la fornitura all’Ucraina di armi più pesanti e avanzate per far capire alla Russia che non vincerà sul campo di battaglia”. In sostanza, i “padroni del mondo” si sentono in diritto di affermare che la Federazione Russa debba rassegnarsi alla sconfitta alle porte di casa propria.

La reazione della leadership russa è altrettanto dura e decisa: si parla apertamente di misure di ritorsione che potranno colpire non solo l’Ucraina ma anche gli interessi occidentali con utilizzo di “nuove armi” mai prima utilizzate. Non è difficile intendere che le autolimitazioni che Mosca si era data nell’utilizzo dell’offensiva in Ucraina stanno venendo meno.

Di fronte alla prospettiva di un attacco portato avanti dalla NATO contro le città russe in Crimea, l’atteggiamento cambia. L’occidente sta portando il mondo verso una catastrofe globale.

Questa la sostanza degli avvertimenti lanciati dalla Russia all’occidente. Il presidente Putin, nel suo prossimo discorso previsto a giorni, si accinge a cambiare l’impostazione del conflitto da “operazione speciale” a “guerra patriottica”, sulla base delle esplicite minacce alla sicurezza della Russia. Questo significa che tutte le risorse e le forze dal paese saranno gestite in funzione dello sforzo bellico.

In definitiva la Russia prende atto della sfida esiziale in corso da parte dell’Occidente sotto guida USA e si organizza per combattere con tutte le sue forze. Lo scenario della catastrofe si avvicina sempre più…

(Luciano Lago)

(ilpensieroforte.it/mondo/6519-la-finzione-della-guerra-per-difendere-l-ucraina-%C3%A8-definitivamente-caduta)

 

 

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