ELITE GLOBALISTA.

ELITE GLOBALISTA.

 

Elson Musk: l'élite

della neo plebe.

Doppiozero.com - Nello Barile – (15 Novembre 2022) – ci dice:

 

Nel formidabile film “The triangle of Sadness “di Ruben Östlund (2022), la metafora “titanica” di una nave alla deriva nella tempesta è un espediente narrativo per raccontare la deriva delle classi sociali e la crisi delle élite nel contemporaneo.

 Se tra la super-élite e i lavoratori subordinati esiste una sostanziale simmetria, nel senso che al mutare delle condizioni ambientali la lavoratrice asiatica si trasforma in capitano grazie all’immediato consenso da parte dei più ricchi, i rappresentanti della classe creativa vengono sfruttati a prescindere:

prima dal potere immateriale del business, come durante il casting del protagonista, poi dal potere materiale e fisico della sopravvivenza, in cui chi sa fare qualcosa di concreto vale più del denaro e del lusso.

Una delle conseguenze più dirette della globalizzazione, quella che i partiti di sinistra non hanno voluto considerare, è stata la polarizzazione socioeconomica tra le classi sociali e l’impoverimento drammatico del ceto medio occidentale, a lungo considerato come il pilastro delle democrazie avanzate.

 La grande illusione della globalizzazione si è fondata sull’idea che a compensare tale impoverimento arrivassero i ceti medi dei paesi emergenti, il cui sviluppo avrebbe trainato le produzioni dei paesi un tempo egemoni.

Senza capire che il travaso di tecnologie e competenze da ovest a est, sull’onda lunga delle delocalizzazioni, avrebbe comunque messo in discussione la centralità dell’industria occidentale, ancor più se pensiamo ai costi dell’attuale transizione ecologica.

Con il passaggio dalla globalizzazione alla deglobalizzazione, le frattaglie che componevano gli ex ceti medi sono state infettate dal populismo-sovranismo (gli underdog) in cerca di una nuova identità, che un tempo fu di classe ma che ormai è frammentaria e metonimica (individuo/popolo).

Allo stesso modo questi ceti impoveriti e intronati dalla successione di varie crisi, si costituiscono come nuova controcultura che, alla stregua delle vecchie controculture, ammicca a qualcosa che sta dall’altra parte della barricata:

 stavolta però non è più l’antimateria del capitalismo globalizzato, come nel caso dell’ex Unione Sovietica, bensì un regime diversamente liberista e cleptocratico che domina una società ancor più polarizzata e infettata dal denaro/consumo. Come ho discusso insieme a Panos Kompatsiaris nel XII Scrittoio della Biennale intitolato “The Biennials post-presencial era”.

“Challenges and opportunities”, organizzato da Francesca Castellani (IUAV) in apertura della Biennale di Venezia 2022, anche l’arte, il cinema, la musica e la circolazione di talenti in generale potrebbero essere condizionati da tale processo.

Se infatti, per fare un esempio, le piattaforme hanno lasciato la Russia con le altre corporation, è perché la guerra più profonda è mossa proprio contro i contenuti e i valori della cosiddetta Netflix Society, simbolo di una cultura che rivaluta e promuove valori progressisti:

dalla gender fluidity, all’inclusione multiculturale, fino alla reinvenzione di un passato postcoloniale inglese (come nel caso di Bridgerton).

La Netflix Society è l’avamposto che globalizza i valori della classe creativa attraverso le piattaforme.

Valori che collidono drasticamente con quelli proposti dalle formazioni populiste. Essa è la prosecuzione della cultura della Silicon valley con nuovi mezzi. 

 

Se la metafora organicista di Menenio Agrippa tentò di incorporare il ceto subalterno riottoso dell’antica Roma nella totalità funzionale di un corpo unitario le cui membra sono “naturalmente” subordinate al comando della testa, il rapporto tra élite, classe creativa e neo plebe, ci racconta invece una società smembrata e disorganica.

Nel loro nuovo libro, “Neo plebe”, classe creativa, élite (Laterza, 2022), Paolo Perulli e Luciano Vettoretto affrontano in modo sistematico il problema squisitamente sociologico di questo “sfaldamento” delle classi sociali.

Al ruolo sempre più dominante delle élite, si assomma quello di un ceto medio post industrializzato che assume i tratti di fragilità della nuova classe creativa.

 Al di sotto di questa si espande sempre più una neo plebe vittima sacrificale delle politiche neoliberiste.

Mentre la ricchezza sempre più si “concentra verso l’alto”, i livelli intermedi vivono un sostanziale scivolamento verso il basso, a partire dalle famiglie, passando per i working poor (i nuovi poveri), fino ai “Neet” che ormai hanno rinunciato a qualsiasi “escatologia” del mito della mobilità verticale.

Gli autori problematizzano anche l’idea che il ceto medio sia il “baricentro” delle società avanzate, una riduzione di complessità che ha svolto per tanto tempo una funzione promozionale delle società a capitalismo avanzato.

 A tale prospettiva essi preferiscono un quadro più composito basato sull’idea di un “pluralismo conflittuale”.

L’élite attuale prosegue la missione della vecchia vocazione distintiva (alla Bourdieu) basata sul “contare, contarsi e annettersi” e lo fa oltre che attraverso la classica legge del consumo vistoso, anche nell’esaltazione del merito, non a caso recentemente inserito dal nuovo governo nella denominazione del Ministero dell’istruzione.

La logica meritocratica prevale nell’iter formativo delle élite globali che hanno ormai rimosso il suo retaggio illuminista e borghese, per prediligere la dimensione dello status che consente loro di frequentare gli atenei più esclusivi e dunque costosi del mondo (MIT, Harvard ecc.).

Tale valore è condiviso tanto dalle élite degli stati democratici quanto da quelle delle democrature , ma molto meno dalle élite nostrane che si configurano perlopiù come élite locali, che mostrano in tal modo la misura della loro arretratezza.

Mentre le classi che hanno guidato il boom economico avevano una capacità di leadership e pedagogica nei confronti dei ceti subalterni, capaci di fungere da collegamento tra porzione e classe creativa come nello sviluppo del design italiano a Milano negli anni cinquanta e sessanta, le odierne élite, come nel già citato “Triangle of Sadness”, stringono un’alleanza paradossale con la neo plebe che determina una “caduta del linguaggio della classe dominante” che si mostra così sempre più simile alla neo plebe (come quando D. Trump spiegava al popolo: “sono uguale a voi ma sono ricco”).

La sociologia anglosassone ha riflettuto molto sulla categoria di classe creativa a partire da “The Polish Peasant in Europe and America” di W. Thomas e F. Znaniecky, passando per T. Parsons, fino alla più recente variante neoliberale di R. Florida, in cui i valori della società globalista (tolleranza, fluidità, ecc.) vengono reificati in indicatori quantitativi della concentrazione di ricchezza nelle città americane, come il gay index, il diversity index, il bohemian index ecc.

“Neo plebe” è il termine adottato da Perulli e Vettoretto per indicare l’attualità di uno strato sociale subalterno che più degli altri s’identifica nei leader populisti e sovranisti.

 Rispetto a queste due classi al vertice e alla base della nuova gerarchia sociale in una alleanza paradossale che sembra permeare e condizionare tutta la realtà sociale immobilizzandola, Perulli e Vettorello scommettono proprio sul futuro della classe creativa che cavalcando lo sviluppo di robotica, dell’intelligenza artificiale e delle piattaforme, potrebbe guidare la transizione ecologica e quella tecnologica della Quarta Rivoluzione Industriale.

 In altri termini l’alleanza con i lavoratori della gig economy, delle università e con le donne in generale, dovrebbe condurre la classe creativa a governare la società del futuro.

 Una profezia plausibile ma non del tutto auspicabile, se pensiamo alle attuali tendenze del mercato.

 

La figura di Elon Musk mostra oggi quanto sia controversa e attualissima tale tematica.

L’immagine dell’imprenditore sudafricano fonde in sé elementi caratteristici della super-élite finanziaria, della classe creativa e di un certo populismo dal basso.

 Tale prospettiva supera il conflitto culturale, consolidatosi a partire dalla vittoria di Donald Trump nel 2016, tra l’apertura globalista della Silicon Valley e la chiusura retro topica del sovranismo americano.

Da innovatore, visionario transumanista e geek con venature cyberpunk, il genio controverso della Silicon Valley ha assunto tratti distintivi di un neoliberismo spietato sia nei confronti degli addetti interni che degli user di Twitter.

Secondo Clare Duffy di CNN Business, Musk ha usato un linguaggio populista per comunicare tale iniziativa che rappresenta una rottura “dell'attuale sistema di signori e contadini di Twitter”.

 L’idea di far pagare otto euro al mese per l’accesso al celebre social medium potrebbe lanciare un trend potenzialmente imitabile dagli altri social, fino a far saltare la matrice “digital socialista”, per dirla alla Kevin Kelly, che ha assicurato decenni di gratuità del web.

 Assommato alle innovazioni della blockchain, delle criptovalute e agli NFT, tutto ciò potrebbe riconfigurare il mondo della comunicazione tramite una tendenza alla monetizzazione spinta.

Uno dei capolavori dell’arte NFT è infatti “The Passion of the Elon”, che ritrae l’uomo più ricco del mondo sulla croce, con indosso una tuta da astronauta, mentre è circondato da un gruppo di scimmie che giocano sul fondo dell’immagine.

Un sincretismo culturale tra L’ascensione di Cristo del Perugino, quello di Dalì, la famosa scena di apertura di 2001: Odissea nello spazio, e le scene finali del film: dalla scoperta del pollice opponibile, passando per il lancio dell’osso che diventa astronave, fino al delirio dell’astronauta che torna a casa dopo il viaggio joyciano fuori e dentro sé (che ricorda anche Bowie appeso al muro nel video di “Ashes to Ashes” del 1979).

Non appena messe le mani su Twitter, il magnate visionario che ha indicato la via verso Marte, si è comportato come il più retrogrado degli impresari, con un’ondata di licenziamenti massivi di circa 7.000 addetti, tra l’altro comunicandoli via email.

Dai tagli forsennati al personale di Twitter all’endorsement post ideologico nei confronti dei Repubblicani, il passo è stato brevissimo.

La Routers ha dato l’annuncio del suo Tweet, postato la sera prima delle elezioni midterm sul suo profilo seguito da 110.000.000 di utenti:

 “La condivisione del potere frena i peggiori eccessi di entrambi i partiti, quindi consiglio di votare per i Repubblicani, visto che la Presidenza è democratica”, aggiungendo di essere “propenso all’idea di votare di nuovo i Democratici in futuro”.

A ben vedere, setacciando le interviste online, divenute pillole per Tik Tok e Instagram, emergono vari segnali di questa deriva populista.

Come ad esempio l’idea secondo cui le Università non hanno più alcun senso in un mondo in cui tutte le conoscenze sono rese immediatamente accessibili tramite la rete (simile all’uno vale uno nostrano).

Un populismo pedagogico che entra in netta contraddizione con l’immagine dell’imprenditore illuminato che ha fatto della scienza e della sostenibilità il suo business, fino a sostituire con investimenti privati il ruolo del capitale pubblico nella progettazione delle imprese aerospaziali.

Lo stesso look di Musk, austero e informale con sporadici innesti di futuribile, espande il sostanziale stile mormone tipico degli altri leader della Silicon valley (da Steve Jobs a Zuckerberg).

 

Il rifiuto stesso di orologi e accessori di lusso (“il mio telefono mi dice l’ora”), indica un minimalismo che rinnega i valori tipici della classe a cui appartiene, ricordando altri grandi imprenditori come Marchionne con il suo maglioncino rassicurante.

Tale logica, che chiamo airbag cognitivo, è molto simile a quella che consente ai partiti di sinistra di implementare politiche neoliberiste senza sollevare particolare dissenso, come con le liberalizzazioni di Blair o con il Jobs Act renziano, oppure alle leadership femminili di caratterizzarsi per iniziative più che maschili, come Margaret Tatcher con la guerra nelle Falkland.

Il superamento del conflitto culturale tra Silicon valley e classi creative da un lato, e formazioni populiste dall’altro, potrebbe aprire nuove prospettive di sviluppo alla società del futuro.

Non tanto nella direzione di una neo repubblica platonica governata dai nuovi sapienti, quanto piuttosto nell’espansione di una struttura flessibile e on demand, in cui l’accesso alla conoscenza sarà sempre più decentralizzato ma anche sempre più monetizzato dalle piattaforme e dalla blockchain.

 

 

La Lotta alle “Fake News”

è una Trovata del

Sistema Liberticida.

Conoscenzealconfine.it – (16 Dicembre 2022) - Redazione lapekoranera.it – ci dice:

 

Chi decide se una notizia sia da considerare vera o falsa, e se il popolo meriti o meno di essere informato su cosa progetti il potere?

Queste domande se le stanno ponendo in tanti, soprattutto a seguito della campagna planetaria occidentale contro le “fake news”.

Il “sistema” ovviamente non è italiano né tedesco o Usa, il “sistema” è quel gabinetto di poteri bancari europei ed occidentali che esercita i propri desiderata tramite azioni concrete di Nato, Onu, Ue e grande speculazione finanziaria (per esempio BlackRock e Goldman varie…).

Oggi le emergenze che preoccupano il “sistema” sono di due tipi, produttive e valutarie:

nelle produttive insistono le politiche d’indirizzo sanitario ed ecologista, quindi ciò che fa l’uomo comune quando lavora in campagna e in bottega artigiana, se è propenso o meno ad aggiornare vetture, frigorifero, lavatrice e televisore, ed ovviamente tutti gli strumenti tecnologici obbligatori e collegati al lavoro (computer, sistemi per scambio di dati, pos di pagamento…);

quelle valutarie riguardano il risparmio dei cittadini, l’uso che fa del danaro l’uomo di strada, e per questo motivo gradirebbero l’abolizione planetaria totale del contante, così che il “sistema finanziario” possa controllare ogni mossa dei comuni cittadini, bloccando eventualmente le manovre economiche di chi non politicamente gradito.

Ecco perché nessuno governo eletto dal popolo (e solo dal popolo) sarebbe gradito al “sistema”:

del resto potrebbe mai un governo eletto dal popolo prendersi la responsabilità di bruciare i risparmi dei cittadini o mettere ipoteca sulle case perché i cittadini paghino la tangente al “sistema”?

Il “sistema” non è affatto sconfitto dalle urne del 25 settembre: in questo momento sta facendo l’esame del sangue e la radiografia al governo Meloni.

 Per capire chi della “nuova” classe dirigente potrebbe obbedire ai poteri internazionali e chi, invece, avrebbe la voglia di dissentire, di dire di no ai padroni finanziari dell’Occidente.

Infatti sta già prendendo forma su giornali e tivù prezzolate dal “sistema”, la probabilità d’una nuova epidemia o pandemia, la possibilità d’un veto finanziario internazionale sull’uso del contante, e più rigide norme alle esportazioni europee per scongiurare qualsiasi rapporto commerciale con la Russia.

Il “sistema” oggi vuole sondare se tra gli eletti in Italia ci siano soldati capaci di chiuderci nuovamente in casa, soprattutto quanti siano ancora i ribelli in grado di non rispettare gli ordini di Onu ed Oms.

 Il potere fa momentaneamente giocare il popolo come il gatto col topo in un locale chiuso:

 lascia gli italiani alla momentanea euforia elettorale, come nel 1870 quando i parigini della Comune credettero di poter imporre la loro visione al mondo (quasi 50mila vennero fucilati in tutta Parigi, i giornali scrissero “la Repubblica ha vinto sul popolo”).

La gente sa benissimo cosa sia il “sistema”, ma finge d’ignorarne l’esistenza:

anzi per rabbonirsi le guardie pinocchiesche punta l’indice accusatorio contro chiunque commetta “lesa maestà”.

Ricordate quando ci avevano chiuso in casa?

Ricordate che in quei giorni su internet e tivù faceva capolino la notizia che sotto pandemia da Covid sarebbero enormemente aumentate le “fake news contro poteri bancari europei e istituzioni”?

Ma cosa c’entra la pandemia con eventuali bufale contro il potere?

Ma volete proprio passare da coglioni che credono a queste frescacce?

Le televisioni generaliste, popolate da uomini equivoci e donne spregiudicate, sono arrivate a sostenere che dietro le “fake news” su Mario Draghi, Joe Biden, Ursula von der Leyen, Christine Lagarde, poteri finanziari e multinazionali occidentali, ci sarebbe lo zampino dei “complottisti filorussi”:

ma veramente possiamo credere a queste barzellette?

Roba degna delle esilaranti commedie con Renato Pozzetto e Massimo Boldi: nemmeno Fantozzi e Fracchia crederebbero a simili frottole, forse fingerebbero di stare al gioco per non dispiacere il “pan direttore megagalattico”.

Di fronte a queste notizie che spandono (a mo’ di letame) i cosiddetti “media istituzionali”, dovremmo reagire ridendo, spegnendo la tivù o cambiando canale. Sconcerta invece che ancora troppa gente per strada, nei bar ed ovunque, continui a credere all’informazione istituzionale, che ripeta a mo’ d’uccello esotico “dietro le fake news su Onu e Nato c’è l’accordo tra Donald Trump e Vladimir Putin”.E genera rabbia ascoltare dalla voce di qualche insegnante: “io ripeto sempre, soprattutto ai miei alunni, che necessita informarsi solo dalla stampa istituzionale“.

Quest’ultima un tempo veniva appellata come stampa di regime, capace solo di riportare veline e onorare quel patto col potere noto come “politica del consenso”.

Questo è il modello di libertà che l’Occidente vorrebbe imporre all’intero Pianeta e, parafrasando un imprenditore Usa, all’intero Universo?

 Un modello di pensiero che utilizzi a reti unificate le tivù pubbliche e private per dirci che “dietro le fake news contro i poteri occidentali c’è la disinformazia russa”?

E la politica glissa, temendo di finire nel tritacarne mediatico.

Ha Vinto Enver Hoxha.

Sconcerta che la popolazione italiana sia regredita allo stato mentale che ha caratterizzato il popolo albanese durante il governo di Enver Halil Hoxha, dal 1944 al 1985:

Opa (così appellavano Hoxha i suoi stretti e fidati compagni) non era affatto un negletto, era figlio d’un ricco mercante ed aveva prima studiato e poi insegnato all’Università di Montpellier in Francia, ma tornato a governare l’Albania ebbe lo spudorato coraggio di vietare ogni forma d’informazione estera al suo popolo (forse oggi ne avrebbe ben donde).

Motivo? Hoxha asseriva che “cinema, media e letteratura occidentale vogliono distruggere l’Albania ed il suo popolo” quindi aggiungeva di “tenere gli occhi ben aperti, di levarli al cielo, perché gli americani si sono alleati anche con i marziani”.

Persino Stalin e Tito sollevarono nel Comintern il problema Hoxha, ovvero contro le ossessioni di Opa che recavano danno alla politica sovietica.

Ovviamente dopo la sua dipartita, nel 1985, gli albanesi incrementarono l’uso delle parabole, ed attraverso le tivù italiane scoprirono d’essere vissuti per più di quarant’anni in balia delle favole di Opa.

Infatti i primi a dirci che ci stiamo rimbecillendo sono gli europei orientali e balcanici.

Un amico albanese (oggi valido imprenditore a Bari) s’è rivolto allo scrivente così: “ormai credete a tutto quello che vi dice il potere, mi ricordate gli albanesi ai tempi di Hoxha”.

Certo Usa e Londra non vorrebbero mai una Opa in Italia, ma gradirebbero un economista alla Antonio de Olivera Salazar, che ha governato il Portogallo dal 1932 al 1974:

e Salazar Draghi lo abbiamo visto nuovamente all’opera al Meeting di Rimini di Comunione e Liberazione, dove a pochi giorni dalle passate urne una platea di scimmiette ammaestrale lo ha applaudito al grido di “Bis! Bisss!”.

 Al pari di Draghi, anche Salazar era stato prima alle Finanze portoghesi (una sorta di ministro del Tesoro portoghese dal 1928 al 1932), e chiunque criticasse la linea di politica economica di Lisbona veniva arrestato e detenuto come nemico del potere:

è inutile rammentarvi che il massone Salazar godeva d’un certo consenso internazionale, le logge bancarie europee ed atlantiche ne garantirono l’inamovibilità.

Draghi non è ancora andato via, sta dicendo al Mondo che Giorgia Meloni non farà di testa sua.

Sappiamo anche che i seicento deputati eletti a settembre (prima della riforma erano più di ottocento) saranno presto messi a lavoro per cambiare la Costituzione, per partorire una riforma presidenziale che possa premiare il Draghi di turno.

Secondo “radio fante” pare che Draghi abbia in mano un dossier contro i propri nemici, un report redatto dai “professionisti della sicurezza”.

 In forza di certe informazioni, ancora oggi viene spacciata dagli “istituzionali” per “fake news” ogni critica rivolta alle misure economiche dell’ex Governo Draghi, all’Agenzia delle Entrate, alle banche che requisiscono i soldi dei cittadini, alle normative europee che fanno chiudere le botteghe.

Per chiunque non accetti il potere del “sistema” c’è ancora oggi la lista di proscrizione, l’inserimento del dissidente nell’elenco dei “filorussi” o degli untori di “fake news”: in questa logica è stato ordito il complotto Rai contro Enrico Montesano.

Il popolo intimorito osserva tutto, ben sapendo che in questo Parlamento siede ancora chi proponeva “pene pecuniarie severe contro i giornalisti e serie pene detentive che frenino l’informazione lesiva del sistema”: ovviamente la galera raggiungerebbe il giornalista dopo che, per legge, siano state portate via anche le mutande.

C’è malessere diffuso nella popolazione, c’è insofferenza verso le regole, disaffezione dalla propaganda di regime:

la cappa omologatori su pensieri, idee e parole la percepiamo da televisori, rete e giornali.

Così si spegne la tivù e non si compra il Corriere perché non si crede più al sistema, ai suoi moniti, alle sue regole, alla propaganda liberticida.

Chiamati al Voto dai Soliti Noti.

Le campagne elettorali sono sempre state dominate dall’ipocrisia, dalle bugie all’elettorato, dalla consapevolezza che si tratti d’un rito da dover fare per salvare il fascino discreto della borghesia, che dell’apparenza democratica ha fatto la propria essenza quanto la precedente aristocrazia del rango e dell’alterigia.

Tra il popolo votante c’è chi ama pensar male, alla luce delle condotte di certi partiti collusi con dirigenza di stato, magistratura e media.

 Pochi mesi fa il Partito democratico è riuscito a seppellire le tracce dei fondi Dem Usa:

 inviati circa due anni fa al Pd per sostenerne l’azione sul territorio italiano.

Oggi apprendiamo che la candidatura di Elly Schlein alla segreteria Pd sarebbe supportata dai “fondi colorati” di George Soros.

La notizia campeggiava timidamente sui giornali, e nessun “giornalista istituzionale” si permette di scivolare sull’argomento.

Il deputato Giovanni Donzelli (FdI) aveva denunciato che erano stati tracciati soldi provenienti da una organizzazione vicina all’ex presidente Usa Obama, fondi statunitensi indirizzati ai candidati del Pd.

 Ecco la prova delle ingerenze straniere, con ampio spettro d’illecito, sulla vita politica italiana.

Nessuno sembra si sia indignato, e qualcuno ha anche detto “cosa volete che siano… aiuti americani”: aiutini degli stessi esponenti di Wall Street che nel ’92 ordivano il golpe del Britannia contro il governo Craxi, perché “gli invisibili, gli 007 della speculazione finanziaria, non si fidavano di Craxi” (per dirla con le parole di Rino Formica, che denunciava queste ingerenze in uno storico vertice del Psi).

Il Foglio sosteneva che i “Social Changes” Usa avrebbero dato soldi per aiutare il partito di Enrico Letta a postare su Facebook notizie di propaganda, soprattutto nelle ultime settimane di campagna elettorale.

 “L’utilizzo di fondi stranieri, americani come di chiunque altro, per la politica è illecito – scriveva il deputato Donzelli.

Il decreto crescita del 2019, ultimo approvato in materia in vigore, vieta i finanziamenti diretti.

 I finanziamenti dall’estero, pubblici o privati, possono andare solo a fondazioni e associazioni.

A patto che i soldi non vengano poi girati alle casse di partiti e movimenti politici”.

Donzelli chiedeva lumi con interrogazioni al passato governo e al ministro dell’Interno, sporgeva denunce e segnalava il tutto ad ogni organo competente: non sembra abbia ricevuto alcuna risposta.

Anzi, chiunque sollevi l’argomento rischia il linciaggio in rete, d’essere bloccato dai social network e non mancano le minacce di querela:

 non perché il fatto sia diffamante o calunnioso, ma perché la magistratura italiana gode della facoltà arbitraria di poter condannare la “continenza”, ovvero l’effetto nefando e roboante della notizia, seppur vera ed accertata; l

’incapacità di saper ritenere, a mo’ di urina, il fragore della notizia.

In parole povere, il magistrato può accusare d’incontinenza chiunque ne parli, limitando così di fatto il diritto di critica politica, il diritto d’espressione.

Sarebbe oltremodo interessante avere un quadro completo delle denunce fatte dal Pd contro avversari politici e giornalisti poco compiacenti, per parametrare il dato con il lavoro svolto dalla magistratura, per appurare le effettive fonti di finanziamento che giungono al Pd da organizzazioni estere, associazioni ed imprese: il tutto servirebbe anche a fare luce sulla poca libertà di stampa in Italia.

È sotto gli occhi di tutti che la maggior parte dei giornali italiani temano aprire la porta della questione morale interna al Pd.

Timore di ricadute giudiziarie o una sorta di compiacenza e fedeltà Dem?

C’è un po’ di tutto.

Resta il fatto che la classe dirigente dell’ex Pci-Pds-Pd non abbia mai creduto nel sistema Italia.

Sarebbero tantissimi gli esempi dei dirigenti politici, dei vertici di ministeri e magistratura, come di Regioni ed enti locali vari, che hanno prima mandato i loro figliuoli a studiare all’estero e poi li hanno fatti raggiungere dai loro risparmi.

Si sono francescanamente liberati di ogni avere nell’avito paese, reputandolo non degno d’alcun investimento.

In questa posizione di nullatenenti hanno continuato a fare i vertici Pd, i magistrati, i dirigenti di Stato ed enti vari.

 Forti della loro posizione hanno perorato la causa d’infliggere la patrimoniale contro case e terreni degli italiani, d’aumentare accise e balzelli, di rendere l’Imu un deterrente all’acquisto d’immobili, di chiudere il rubinetto creditizio agli italiani perché vivrebbero sopra le loro possibilità.

Insomma, loro garantiti e con i beni all’estero, ed una bella “povertà sostenibile” per chi sputa sangue in Italia.

(Redazione – lapekoranera.it )-( lapekoranera.it/2022/12/10/la-lotta-alle-fake-news-e-una-trovata-del-sistema-liberticida/)

 

Davos 2020, cos’è e perché

è nata la riunione

dell’élite mondiale.

Ilsole24ore.com - Angela Manganaro – (20 gennaio 2020) – ci dice:

 

Evoluzione, agenda, routine dell’appuntamento sulle Alpi svizzere che quest’anno compie cinquant’anni.

Davos: il clima scavalca l'economia fra i rischi globali.

Il professore Klaus Schwab ha fondato il World Economic Forum di Davos nel 1970, quest’anno la sua creatura compie cinquanta anni.

Ogni anno a metà gennaio, un paesotto sulle Alpi svizzere ospita per cinque giorni presidenti e primi ministri, banchieri centrali e boss di grandi aziende, industriali, miliardari, influenti accademici, sportivi, attori, rockstar, innovatori, giovani e non.

Le origini.

Il Forum (acronimo WEF) è un’organizzazione internazionale che dà lavoro a circa 800 persone ed è governata da un “Board of Trustee” che garantisce il rispetto dei valori e il raggiungimento degli obiettivi.

L’ottantaduenne professor Schwab è il presidente esecutivo e continua a presiedere e presentare gli incontri con le personalità più importanti che ospita, in una recente intervista con il Financial Times, ha ricordato che il WEF «è sempre stato concepito come piattaforma per gli investitori».

In questo mezzo secolo la piattaforma è diventato altro ma il professore assicura che non ha mai perso la sua anima.

Certo l’ha evoluta perché si è adattata ai tempi e i tempi hanno portato con sé più politica e più personalismi, si è andati oltre le discussioni accademiche attorno al lavoro dell’economista americano Milton Friedman.

Come è cambiata l’agenda.

Oggi non si discute più se Davos sia stata culla della centralità degli azionisti nella struttura delle aziende.

 Davos cinquanta anni dopo si offre come levatrice di un capitalismo etico, e vara un nuovo Manifesto che aggiorna il primo del 1973 e sia guida «per le aziende nell’era della Quarta Rivoluzione Industriale» (nelle scorse settimane, per la prima volta nella sua storia, il WEF ha pagato inserzioni pubblicitarie per diffonderne il contenuto).

In mezzo ci sono stati i frenetici anni Ottanta, la globalizzazione dei Novanta, il movimento no global che prese Davos come simbolo negativo e bersaglio, la lunga crisi economica iniziata nel 2007, quindi inediti discorsi sulla deglobalizzazione, e la deriva di tutto questo, il populismo e il sovranismo.

Quest’anno, al centro dell’agenda, il clima.

Considerato dai più come vertice esclusivo e inaccessibile - nel tempo si è anche identificato “l’Uomo di Davos”, ricco, poliglotta, cosmopolita, naturalmente global - è diventato sempre più un evento coperto dai media: nonostante i suoi detrattori o forse anche grazie a questi, ha perso quell’aura di gran consesso a porte chiuse che tanto sospetto ha instillato nei movimenti populisti anti-élite.

Di Davos si può sapere tutto, ospitare i grandi nomi comporta e quindi assicura massima visibilità (banalmente, molti incontri si possono seguire online sul sito).

A Davos si raccontano i processi in corso e si tenta di predire il futuro: nel 2004 Bill Gates predisse che il mondo sarebbe stato travolto da un’epidemia entro il 2006, lo spam. In generale quando le cose non vanno bene, a Davos si sente.

Nel 2009, piena crisi finanziaria globale, il morale era a terra, in quel caso non c’era niente da predire, c’era da discutere come uscirne il più presto possibile, e l’Uomo di Davos sapeva di essere più responsabile di altri.

Chi c’è, chi non c’è.

Ogni anno si gioca a chi c’è e chi non c’è, di solito ci sono quasi tutti e anche le clamorose defezioni come Donald Trump appena eletto alla Casa Bianca, rientrano: il presidente americano che dell’avversione a questi esclusive riunioni ha fatto un vezzo elettorale, è andato nel 2018 e torna nel 2020.

Due anni fa ha promosso il suo America First e lanciato frecciate all’Europa e alla Cina, stavolta torna anche per ribadire il suo credo negazionista sul clima, non c’è alcun cambiamento climatico in corso, e lo dirà in faccia alla diciassettenne icona globale dell’ambientalismo, Greta Thunberg.

Davide contro Golia, si dirà, ma si sa che i simboli, gli esempi, in quest’era come non mai, valgono più del reale potere di due attori su un palco.

Trump lo sa e opporrà il suo ciuffo alle trecce di Greta, perché almeno mediaticamente su una ribalta imbiancata e fintamente neutrale come Davos sarà un «uno contro uno».

Quest’anno non ci saranno il presidente francese Macron e il premier canadese Justin Trudeau mentre il Regno Unito manda il Cancelliere dello Scacchiere, Sajid Javid al posto del premier Boris Johnson.

 

 

Come vestirsi.

Il guardaroba è condizionato dal freddo, molti arrivano con le scarpe da montagna e non se le tolgono neanche dentro, pochi mollano gli scarponi per costose, cittadine, scarpe di ricambio.

 La maggioranza, quelli che restano col moonboot, è autorizzata dall’ormai consolidato dress code, quel generico business casual che vuol dire tutto e niente, spesso il solito: pantalone, camicia e maglioncino, al massimo un completo ma non la cravatta.

Nessuno però si presenta in jeans e giacca o in pantalone con le tasche e maglietta, unica eccezione il fondatore di una azienda tech di successo, specie che ormai da alcuni anni fa parte dell’habitat Davos e come tale ora si mimetizza.

 I miliardari della Silicon Valley non più novizi si sono allineati in pochi anni, anche troppo, ha scritto il business editor della Bbc, con il caso limite del fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg, che è passato da un opposto all’altro, dalla felpa del dormitorio di Harvard alla cravatta, e in entrambi i casi si è ritrovato unico e solo.

Come muoversi.

La sicurezza non è discreta e non potrebbe essere altrimenti vista la presenza di politici, banchieri, miliardari, grandi boss di multinazionali, celebrità di ogni latitudine.

 Spazio aereo interdetto, esercito, cecchini sui tetti, controlli come all’aeroporto a ogni passaggio, controlli già alla frontiera se arrivi in macchina ma anche sull’autobus e in treno fin che giungi in cima a 1.500 metri di altitudine.

Poi quando sei lì, se non sei ricco o ben finanziato, stai in alberghi lontani dal luogo degli incontri, quindi anche mezzora di navetta al giorno nella neve.

E ti ritrovi a dover scegliere tra circa 300 incontri in cinque giorni, e non sai come dividerti e neanche come battere la concorrenza, perché i posti disponibili si esauriscono in pochi minuti e, se sei un principiante, rischi di ritrovarti in una sessione sulla creatività nel quotidiano, la mente e le macchine, il futuro della mobilità, la questione artica, i segreti dell’universo (qui i sette temi chiave dell’edizione 2020 da cui sviluppano gli infiniti panel).

Fuori, prezzi alle stelle e Davos non sono neanche un granché, un paesello moderno non il tipico villaggio da cartolina svizzera, quindi di bello restano le montagne, ma fa freddo, tanto freddo, a gennaio anche meno 20 gradi, insomma hai voglia a gridare all’élite:

Davos è un servizio faticoso, confessa un esperto cronista, almeno per chi quella élite la deve raccontare.

Occasione unica.

Chi può però a Davos va perché non capita tutti i giorni di vedere riunite nel duemila persone più potenti della Terra in un paesino senza assistenti e esperti di pubbliche relazioni a fare da barriera.

 È un’occasione unica per parlare, ascoltare, imparare qualcosa di nuovo che ha l’ambizione di andare oltre l’utilità quotidiana.

E non bisogna farsi intimidire, Lord Digby Jones, habitué del Forum per tanti anni, citato da Bbc, rassicura: «Sembra che tutti sappiano quello che fanno, in realtà non è così».

 

 

 

La sinistra globalista:

danarosa e intollerante.

Destra.it - Emiliano Calemma – L’ Editoriale - (19 Novembre 2021) – ci dice:

Ciò che noi comunemente definiamo Sinistra oggi, è in realtà uno strano miscuglio fra liberalismo, marxismo e dottrina dell’uguaglianza.

In realtà potrebbe essere identificato come un sistema ideologico a doppio livello, composto da un piccolo gruppo di leader e ideologi e da una massa di persone che si autodefiniscono democratici e libertari.

La loro tipica generalizzazione è la seguente:

chi è democratico è di sinistra e chi è di sinistra è democratico.

 Il militante di base non va troppo oltre questa semplice autodefinizione.

L’élite invece è composta quasi esclusivamente da multimilionari che attraverso il loro potere mediatico, indirizzano i pensieri pro o contro qualcuno, con un occhio sempre attento alle loro casse.

Hanno trovato la chiave di volta del nuovo business:

 ideologizzare il profitto, o viceversa.

La pervasiva presenza di grandi capitalisti quali finanziatori della sinistra occidentale è un fatto che sui media non viene mai citato e anche gli oppositori di destra fanno fatica a menzionare questo fatto.

C’è troppa paura di finire alla berlina in mondovisione.

Tra governi, denaro, media e tecnologia, l’élite di sinistra ha quasi il monopolio dello scritto e del parlato nel mondo occidentale.

 I partiti e le associazioni sono influenzati e gestiti con tecniche di marketing sopraffine, dalle quali è quasi impossibile salvarsi.

Il bombardamento mediatico è quasi incontrastato e schierarsi apertamente contro questo sistema è pressoché impossibile, pena l’ostracismo della maggioranza.

Non si ha semplicemente paura di esprimere un pensiero contrario, ma di essere socialmente esclusi dal mondo dei benpensanti e additati con le peggiori definizioni: razzista, fascista, nazista, negazionista, antisemita, omofobo, etc. tutti insulti all’ordine del giorno nel ristretto vocabolario del cameriere dei potenti. 

I milionari sono riusciti a convertire la parte più virtuosa del marxismo in una perversione ideologica votata ad una uguaglianza raccapricciante, fatta di esaltazione del grottesco e di inclusione del nulla.

 La loro azione politica è estremamente aggressiva, basata sul desiderio di imporre i propri valori e le proprie convinzioni su tutti gli altri, senza opposizione alcuna.

Questo è il vero aspetto che dovremmo combattere ed invece è quello che spaventa di più.

La sinistra di oggi non ha tolleranza per le opinioni dissenzienti, specie per quelle che minacciano le sue posizioni e i suoi profitti.

 La sinistra sa bene che un dissenso razionale e motivato può solo minare la loro credibilità e allora sopprimono proprio il dissenso sul nascere, utilizzando le armi della peggiore propaganda denigratoria.

Dovremmo semplicemente combatterli sul piano ideologico, perché è lì che scricchiola la loro struttura di potere.

 Sostengono che le razze sono un costrutto sociale, che la natura umana è flessibile e malleabile, qualcosa di riscrivibile a seconda del capriccio.

 Propongono un egualitarismo ingenuo che non tiene conto delle bellezze peculiari dell’umanità:

 le differenze profonde che esistono tra razze e gruppi etnici, per motivi fisici, sociali, emotivi, psicologici, culturali, etc.

 Non hanno alcun concetto di nobiltà umana e vogliono condannare il genere umano a una miserabile mediocrità.

Una mescolanza di tutto; un miscuglio sociale senza forma, né origine, né colore.

La sinistra ci racconta che siamo tutti uguali e per questo nessuno può essere migliore degli altri su questioni morali e valoriali.

Il loro concetto di uguaglianza non prevede esseri umani superiori, ma sono proprio gli esseri umani più elevati che hanno fatto la storia.

Altrimenti non avremmo mai dovuto narrare e studiare le gesta di grandi condottieri, di grandi pensatori, di grandi artisti.

Questi individui superiori, attraverso migliaia di anni, smentiscono il mito dell’uguaglianza che oggi ci vogliono imporre.

Da qui la necessità di cancellare il passato.

La sinistra impone una cultura pagata dal denaro e basata su un’ideologia mondiale senza alcuna specificità (buona per ogni luogo), su frontiere inesistenti, sulla denigrazione di ogni tradizione e quindi snaturando qualsiasi tipo di rivendicazione.

 Da qui bisogna ripartire:

 rifiutare la loro concezione della vita e dedicarci al duro lavoro di ripristinare una società sana e fiorente, coesa e stabile.

I migliori devono governare, non i più ricchi.

 

 

Il buono delle teorie

del complotto.

Iltascabile.com - Andrea Daniele Signorelli – (7 gennaio 2022) – ci dice:

(Andrea Daniele Signorelli Giornalista classe 1982, si occupa del rapporto tra nuove tecnologie, politica e società).

Quali intuizioni salvare nel (e dal) complottismo.

Nata nel 1776 a Ingolstadt, in Baviera, la setta segreta degli Illuminati fu definitivamente stroncata nel 1787 dal principe Carlo Teodoro, che ne temeva le rivendicazioni illuministe, anticlericali e antimonarchiche.

O almeno così vuole la narrazione ufficiale: secondo una delle più diffuse teorie del complotto, gli Illuminati sono ancora tra noi.

Altro che svanire nel nulla: il loro potere, nel corso di due secoli, si è espanso enormemente.

Col tempo, alcune delle più potenti e influenti famiglie del mondo hanno preso le redini degli Illuminati.

 Tredici famiglie, per la precisione: Rothschild, Rockefeller, Onassis, Kennedy, Li, Astor, DuPont e altre ancora, che messe assieme possiedono il 99% delle ricchezze mondiali.

Un vero e proprio cartello.

Un potentissimo cartello che domina il mondo a livello economico, finanziario e politico.

 I governi democraticamente eletti non sono altro che marionette, al servizio degli Illuminati e dei loro scopi.

E quale sarebbe però questo scopo?

Semplice: eliminare dalla faccia della Terra gli stati, le nazioni e le loro differenti culture e particolarità.

Rendere tutta l’umanità parte di un’unica famiglia, di un unico governo.

Un governo mondiale.

 Questo è il piano: dare vita a un Nuovo Ordine Mondiale, a una dittatura globalista in cui l’intero pianeta è asservito ai voleri delle 13 famiglie degli Illuminati.

Vista così, quella degli Illuminati – di cui ho raccontato storia e leggenda in una puntata del podcast Complottismi – è una teoria del complotto assurda e distaccata dalla realtà, spesso e volentieri intrecciata con l’antisemitismo.

Siamo però sicuri che la posizione più logica da adottare nei confronti di questa teoria e dei suoi seguaci sia di totale e sdegnato rifiuto?

“Gli Illuminati non controllano alcun governo mondiale, né gli ebrei hanno il controllo del sistema bancario, ma è così sbagliato dire che la classe dirigente faccia parte di una ‘cospirazione’ volta a inseguire i propri interessi?”,

scrive Erica Lagalisse in “Anarcoccultismo” (D Editore).

“Le persone hanno davvero torto a sospettare che i governi e le sue strutture agiscano coscientemente ai danni degli individui?”.

Come sarebbe folle credere alla teoria del complotto degli Illuminati, altrettanto ingenuo sarebbe pensare che le élite del mondo imprenditoriale e finanziario non abbiano la volontà (e la capacità) di influire direttamente sulla politica e sulla società.

Per molti versi, quella degli Illuminati è una lente che distorce e ingigantisce una chiave di lettura non necessariamente scorretta.

Sarebbe ingenuo pensare che le élite del mondo imprenditoriale e finanziario non abbiano la volontà di influire direttamente sulla politica.

La benevolenza di una ricercatrice dichiaratamente anarchica come Erica Lagalisse (antropologa alla London School of Economics) nei confronti di una tesi complottista facilmente interpretabile in chiave anticapitalista è comprensibile.

Per molti versi, gli Illuminati si possono considerare il frutto malato della sana pianta della critica radicale.

 Lo stesso non sembrerebbe certo potersi dire della famigerata teoria del complotto di QAnon, secondo cui Donald Trump è l’eroe che deve salvare gli Stati Uniti dalla dominazione di un’élite di sinistra formata da pedofili satanisti e che ha le sue radici nel terrore reazionario verso un mondo che cambia;

 in cui chi non si oppone strenuamente alle trasformazioni sociali e culturali è un pervertito corrotto che punta a distruggere la propria nazione.

E infatti QAnon è una teoria del complotto nata sui forum della alt-right, adottata da paranoici di estrema destra con il fucile sempre in braccio, legata ai più radicali movimenti no-vax e che ha fatto breccia su chi, per esempio, era già convinto che Barack Obama fosse letteralmente l’Anticristo.

QAnon sembra confermare, come scrive Leonardo Bianchi in Complotti! (Minimum Fax), “l’idea generale sui complottisti che chiunque si è fatto consultando i media o la cultura popolare (…): si tratta di persone disturbate, ai margini della società, che vanno in giro con cappelli di carta stagnola in testa o pensano di essere inseguiti da elicotteri neri”.

 

Le cose, in realtà, non sono così semplici: “Le teorie del complotto”, scrive sempre Bianchi, “permeano ogni strato della società e si distribuiscono più o meno equamente sullo spettro demografico, socioeconomico, occupazionale, di genere, culturale e ideologico”.

Questo aspetto a prima vista sorprendente è stato in realtà confermato anche dai reporter che si sono intrufolati tra i seguaci di QAnon che hanno assaltato il campidoglio il 6 gennaio 2021, scoprendo che tra essi c’erano parecchi ex elettori centristi e di sinistra disillusi, alcuni che in passato avevano votato Obama e Hillary Clinton o, alle primarie, addirittura Bernie Sanders.

Tra le idee politiche che potrebbero sorprendere chi aderisce a una lettura superficiale dei seguaci delle teorie del complotto ci sono anche quelle di Jacob Chansley, meglio noto come Jake Angeli:

lo sciamano di QAnon che con il suo cappello con le corna è diventato il simbolo dell’insurrezione del 6 gennaio.

Nel corso della sua vita, Chansley si è dedicato anche alla scrittura, auto pubblicando su Amazon un romanzo e un saggio.

Quest’ultimo, intitolato “One Mind at a Time”, è stato letto dal docente di Storia Nicolas Guilhot, che sulla Boston Review ne ha sintetizzato la visione del mondo, tanto distorta quanto ingenuamente progressista.

In “One Mind at a Time”, Chansley descrive il mondo che emergerà quando il ‘fascismo aziendale militarizzato’ sarà sconfitto assieme al Deep State:

le prigioni saranno eliminate e la pena di morte abolita, i confini scompariranno e tutti potranno muoversi liberamente;

ci saranno ‘un sacco di soldi’ per gli insegnanti, la sanità coprirà tutti i cittadini, i senzatetto avranno le case e nessun essere umano e animale sarà affamato.

Questa ingenua utopia socialisteggiante, dalla quale Donald Trump sarebbe disgustato, ci racconta quale possa essere il retroterra socioculturale di alcuni dei seguaci di QAnon.

Com’è possibile che un confuso adepto delle ideologie new age, vegano e ambientalista, finisca a rifugiarsi – come già era stato osservato nella diffusione di QAnon nel mondo yoga – in una teoria del complotto di estrema destra?

Sempre secondo Guilhot, ciò dimostra più che altro “la capacità della alt-right di di assorbire idee progressiste o contro culturali e incanalarle in una direzione reazionaria”.

Teorie trasversali.

Accogliendo le teorie del complotto, l’estrema destra le trasforma in una specie di terreno di conquista elettorale.

Non solo: radunando sotto un’unica bandiera ideologica seguaci di QAnon, antivaccinisti, chi pensa che la pandemia sia un complotto, seguaci della Grande Sostituzione, ecc. la destra reazionaria contribuisce attivamente a dare forma a una visione complottista del mondo.

 Una visione complessiva in cui ogni singola cospirazione rappresenta un tassello di un puzzle più grande, in cui il fine ultimo è sempre, in un modo o nell’altro, la conquista del mondo.

Come segnala Leonardo Bianchi rifacendosi a Karl Popper, immaginando cospirazioni secolari di dominazione planetaria, le teorie del complotto ingigantiscono oltre ogni misura l’intenzionalità:

 tutto si svolge seguendo meticolosamente i piani dei cospiratori;

non ci sono mai intoppi, e nessuna persona coinvolta nella cospirazione si lascia sfuggire il minimo segreto.

In ultima istanza, la storia è pianificabile e completamente manovrabile dagli esseri umani.

Nel mondo reale, precisa ovviamente Bianchi, le cose non vanno mai così e c’è sempre qualcosa che va storto.

È per questo che, sempre secondo Karl Popper, le teorie del complotto rappresentano una forma di superstizione primitiva che indica l’incapacità di comprendere come gli eventi sociali siano in realtà l’esito di vari processi indipendenti e in cui invece essi vengono visti come l’espressione di un singolo e onnipotente volere.

 Nella lettura di Popper, quindi, i cospirazionisti sono vittima di un problema cognitivo, che impedisce loro di “pensare bene” e li rende incapaci di elaborare correttamente le informazioni.

La visione che tende a patologizzare chi crede nelle teorie del complotto rischia però di essere eccessivamente parziale e soprattutto di individualizzare un problema che è invece sociale.

Sempre nel saggio pubblicato dalla Boston Review, “Guilhot” riporta una lettura diametralmente opposta, elaborata già nel 1971 dal sociologo Edgar Morin, che – ricostruendo una vicenda di cronaca nera avvenuta a Orléans, in seguito alla quale si era scatenato un ingiustificato e complottista panico morale – spiegò come questa dovesse essere messa in relazione ai cambiamenti nella struttura demografica delle città, alle nuove identità di genere, al ruolo della donna nel mondo del lavoro, ai processi di modernizzazione economica che avevano travolto il tessuto sociale e morale e il lento declino di una città che era passata dall’essere un’ex capitale medievale a banlieue di Parigi.

Anche a cinquant’anni di distanza, una lettura di questo tipo appare molto più sofisticata e robusta dell’interpretazione patologizzante.

Le cause della diffusione delle teorie del complotto non sarebbero quindi da cercare (esclusivamente) in eventuali deficit cognitivi o nella “infodemia” provocata dai social network, ma troverebbero origine – semplificando – nei mutamenti e nei terremoti sociali, le cui vittime vanno in cerca di cause univoche e di responsabili diretti.

È anche per questo che – come racconta sempre Bianchi in “Complottismi!” – “le teorie del complotto hanno un andamento oscillante, che raggiunge i picchi più elevati in coincidenza dei cicli di grandi cambiamenti e grande incertezza”.

I problemi del debunking.

La ridicolizzazione dei teorici del complotto – trattati come fenomeni da baraccone, come casi patologici – è quindi una lettura sbrigativa e parziale.

 Non solo: è una lettura pericolosa.

 La ragione la spiega la docente di Filosofia Donatella di Cesare nel suo libro “Il complotto al potere” (Einaudi).

Quando si parla di teorie del complotto, scrive di Cesare,le linee interpretative sono per lo più due:

 il complottismo viene visto o come una patologia psichica oppure come un’anomalia logica.

Nel primo caso si risale ai recessi oscuri della mente.

Nel secondo si giunge invece alla logica delle fake news che si propagano nell’epoca della ‘post-verità’.

In entrambi i casi si pensa che il presunto complottista dovrebbe essere avviato a una rieducazione cognitiva.

Malgrado ogni sforzo, però, nessuna delle due terapie funziona, mentre l’onda complottista aumenta.

“Una tale stigmatizzazione, oltre a restare inefficace, è controproducente”, scrive ancora di Cesare.

 

Come sempre, la sanzione poliziesca del pensiero e la denuncia inquisitoriale servono a poco.

 Da qualche tempo si è andata affermando una vulgata anti complottista che, reclamando il possesso della verità, ridicolizza e delegittima le teorie giudicate devianti, irrazionali, nocive.

Ma questo approccio polemico e patologizzante, che squalifica ogni critica alle istituzioni, non fa che confermare il gioco delle parti e aggravare una frattura sempre più profonda:

da un canto chi, tacciato di essere complottista, rivendica di essere antisistema, dall’altro chi, ricorrendo ai canoni della propria ragione, è accusato di sostenere l’ideologia dominante.

In breve: l’anti complottismo semplicistico rischia di assecondare lo scarto tra “verità ufficiale” e ‘verità nascosta’ impedendo di comprendere un fenomeno complesso e poliedrico.

Alcune di queste forme di “anti complottismo semplicistico” assumono anche derive inquietanti e paternaliste, come i programmi di “debiasing” (una sorta di decostruzione della percezione errata che porta a credere alle teorie del complotto) proposti dallo scienziato Steven Pinker, e, in misura minore, in una certa forma di “debunking feroce” che mira a smontare su una base esclusivamente fattuale ciò che ha fondamenta differenti.

Il debunking, inoltre, non ha praticamente nessuna utilità “rieducativa”, visto che i complottisti hanno gioco facile a interpretarlo come un ulteriore ingranaggio della macchina del fumo dei “poteri forti”.

Forzando il paragone, sarebbe come credere che sia possibile smontare la fede di un credente facendo “fact-checking” dell’esistenza di Dio. Buona fortuna.

 

Avete presente il meme dei “giovani del PD” che urlano ironicamente al “komplotto!!1!” per sminuire ogni tesi che non sia perfettamente aderente alla narrazione ufficiale?

 Allo stesso modo, un certo approccio iper-rigido nei confronti del cospirazionismo rischia di trasformarsi – come segnala Guilhot – in una “difesa dello status quo”, in cui le teorie del complotto vengono utilizzate come arma contundente per “restringere ulteriormente lo spazio della politica”.

Come dire: per Big Pharma non c’è nulla di più utile che essere presa di mira dai complottisti, se ciò permette di far passare per “complottista” chiunque critichi Big Pharma.

Applicando l’etichetta di “complottista”, tanto gli scienziati sociali quanto gli attivisti non riescono a distinguere tra teorie che potrebbero avere delle linee di critica valide (“il sistema sanitario privato è interessato solo ai soldi”) da quelle più fantascientifiche (“il sistema bancario mondiale è in mano a lucertole ebree aliene”) scrive Lagalisse in Anarcoccultismo. 

 

Etichettare troppo facilmente le interpretazioni anticonformiste come complottiste rischia di ritorcersi contro la ricerca della verità.

 E in un paese come l’Italia, dove di complotti reali negati in ogni modo dalla narrazione istituzionale ne abbiamo visti in quantità, dovremmo essere perfettamente consapevoli di questo pericolo.

Come evitare allora di diventare tutti – complottisti e anti complottisti – gli utili idioti della narrazione mainstream?

Probabilmente, evitando prima di tutto che questa contrapposizione diventi troppo rigida.

Come sottolinea Leonardo Bianchi, “la propensione a credere in una teoria del complotto è universale: tutti, almeno una volta nella vita, siamo finiti nella ‘tana del bianconiglio’ – ci siamo convinti dell’esistenza di qualche cospirazione fittizia”.

In secondo luogo, sostiene invece Lagalisse, “sarebbe utile concedere ai complottisti che vi siano realmente delle ‘piramidi’ che sovrastano e dominano lo spazio sociale, e che le persone ai vertici lottano senza sosta per rimanere al potere, che lo ammettano o meno”.

È questo il nucleo centrale della tesi ottimista e propositiva di Lagalisse.

Che ci permette di giungere al punto del nostro discorso: se la destra più reazionaria tende ad abbracciare le teorie del complotto – da QAnon alla Grande Sostituzione, passando per le posizioni ambigue su Covid e vaccini – al solo scopo di conquistare quella fascia di elettorato e incurante delle conseguenze, il compito della sinistra dovrebbe invece essere di estrarre il buono (l’anticapitalismo, la critica ai poteri forti, lo scetticismo nei confronti delle multinazionali) di alcune teorie del complotto, separandole però da tutto ciò che è irrazionale, paranoico e spesso razzista.

 

Mentre i teorici delle cospirazioni sviluppano allegorie che riescono a descrivere l’estrazione capitalista, il fatto che i protagonisti di queste storie siano banchieri ebrei, alieni, Templari o massoni ci distrae da alcune intuizioni che invece meriterebbero più attenzione e che rischiano di restare orfane di approfondimenti politici o sociologici spiega Lagalisse, secondo la quale è fondamentale prendere le teorie del complotto – che in alcuni casi individuano problemi corretti attribuendoli però erroneamente alla volontà di un manipoli di singoli – e trasformarle in teorie critiche, che si concentrano invece “sulla costruzione di una teoria dei cambiamenti sociali in cui gli eventi si svolgono a causa di forze impersonali”.

È quanto scrive anche Bianchi (seguendo lo psicologo Jovan Boyford):

I nuclei di verità su cui si basano le teorie cospirative sono degli ottimi punti di partenza per intavolare una discussione proficua.

L’obiettivo, infatti, non è quello di rendere un complottista meno curioso o meno scettico, ma di “cambiare la direzione della sua curiosità e del suo scetticismo”.

 La fine delle grandi narrazioni.

Seguendo queste indicazioni, si può leggere in controluce un altro elemento d’importanza cruciale, vale a dire la possibilità che la fine delle grandi ideologie (e il declino della religione) abbia lasciato strada alla costruzione di nuove macro-interpretazioni politiche paranoiche e spesso fai-da-te, nello stesso modo in cui anche la religione sta diventando una questione sempre più personale e personalizzata.

L’epoca post-moderna, in poche parole, avrebbe fatto sì che i vuoti lasciati venissero colmati (anche) con una lettura cospirazionista del mondo.

L’antropologo delle religioni Ernesto De Martino, citato da Guilhot sulla Boston Review, aveva anticipato già nel 1964 come “l’esaurimento delle ideologie del progresso e il declino della religione avesse lasciato il mondo scarsamente equipaggiato per affrontare la possibilità della catastrofe”.

De Martino si riferiva al rischio di apocalisse nucleare della Guerra Fredda.

Adesso, la catastrofe che le masse non sempre hanno i mezzi per affrontare, inquadrare e razionalizzare è quella delle diseguaglianze economiche, della fine dell’era dell’ottimismo, della precarietà, della pandemia, della crisi climatica.

Privati delle mediazioni culturali comunitarie delle grandi ideologie e delle religioni, le persone – spiega De Martino – si sentono

 

al centro di una rete di insidie diffuse, di forze ostili, di oscure trame cospirative tessute ai loro danni, esperendo al tempo stesso un continuo spossessamento di sé, un esser esposti irresistibilmente alla perdita di qualsiasi intimità e a un continuo deflusso dissipatore nel mondo esterno.

Considerare il complottismo come se fosse causato da un deficit cognitivo o dai social network (che comunque, ovviamente, un ruolo lo giocano) non è solo un’interpretazione parziale e scorretta, ma è anche una lettura possibile solo da una posizione di privilegio.

Lo spiega chiaramente Guilhot:

È solo grazie alla posizione di privilegio in cui la certezza del loro mondo viene data per scontata che gli opinionisti odierni possono considerare le teorie del complotto come delle deficienze cognitive che devono essere corrette, rimanendo invece sordi all’ansia esistenziale che esse esprimono (…).

Dobbiamo invece recuperare la capacità politica di gettare ponti che attraversano un presente cataclismatico.

 Ciò può iniziare solo dalla ricostruzione della visione di un mondo comune e di un futuro inclusivo per tutti coloro i quali stanno smarrendo i loro.

Più in concreto, un lavoro di questo tipo passa (anzi, probabilmente parte) da un rapporto differente con le teorie del complotto e i loro sostenitori, che non li rifiuti in toto, ma che cerchi di depurarne le visioni dalle componenti più assurde, senza gettare via il bambino con l’acqua sporca.

“Chi accetta queste teorie”, prosegue Lagalisse, “potrebbe essere convertito a un’analisi anticapitalista meno roboante e più aderente ai fatti. (…)

Sarebbe opportuno cercare di articolare questi miti all’interno di teorie sociali anticapitaliste per avvicinare queste persone ai movimenti sociali”.

È evidente che – se si accetta la necessità politica di cooptare e depurare le teorie del complotto – non è attraverso il debunking, la ridicolizzazione o il semplice razionalismo che è possibile mettere a frutto delle energie che a volte partono da embrioni critici corretti per poi naufragare, approdando spesso nella destra estrema.

 E se fosse invece possibile accogliere le premesse di alcune teorie del complotto, disinnescare gli elementi più odiosi (paranoia, razzismo, antisemitismo) e inquadrarle all’interno di una più ampia cornice di senso e politica, offrendo risposte alle domande poste da chi sta precipitando nella tana del bianconiglio?

Forse, per dirla sempre con Lagalisse, “non è necessario disincantare il mondo per permettere a un moderno antiautoritarismo di emergere; al contrario, è necessario re incantarlo”.

 

 

 

Mons. Viganò:”l’élite globalista

ha fallito il suo assalto”.

Themilaner.it – Cesare Sacchetti – (26 Giugno 2022) – ci dice: 

 

Monsignor Carlo Maria Viganò torna a parlare e questa volta lo fa in occasione del secondo festival di Filosofia tenutosi a Venezia ieri e dedicato alla memoria di monsignor Antonio Livi.

Viganò durante la farsa pandemica è stato un punto di riferimento per molti cattolici smarriti.

Una roccia alla quale aggrapparsi durante la tempesta che ha sconvolto il mondo intero e alzato ancora di più, se possibile, il fumo dell’apostasia in Vaticano.

Mentre il mondo cadeva preda di una morsa autoritaria senza precedenti, dietro le Mura del Vaticano non si condannava questo folle e criminale piano per instaurare una dittatura mondiale.

Al contrario, se c’era qualcuno che era pronto a tessere le lodi del Nuovo Ordine Mondiale quello era proprio Jorge Mario Bergoglio.

Dall’altra parte invece si ergeva calma e ferma la voce di monsignor Viganò che denunciava questo disegno imperialista e denunciava i cospiratori che vi avevano preso parte, sia nelle istituzioni civili sia in quelle ecclesiastiche.

Se molte persone sono riuscite a preservare la propria fede, lo devono probabilmente anche a tutti gli sforzi profusi dall’ex nunzio apostolico negli Stati Uniti che si è battuto costantemente e instancabilmente per tenere viva la tradizione della vera Chiesa Cattolica.

In questa sua ultima lettera però Viganò fa notare un elemento nuovo.

Il piano, così come lo avevano concepito gli architetti di Davos e del Gruppo Bildeberg, non è riuscito.

 Il mondo non è entrato in una morsa autoritaria globale così come avrebbero voluto gli uomini più influenti delle sfere del mondialismo.

 La farsa pandemica si è interrotta praticamente ovunque.

 Le restrizioni sono state via via sollevate persino in Italia, il Paese che ha subito l’attacco più feroce da questi poteri per via della sua storia e della sua cultura inestricabilmente legate alle radici cattoliche e greco-romane;

radici profondamente detestate dagli ambienti massonici dal momento che queste incarnano tutto ciò che invece la religione massonica disprezza.

Il mondo è entrato in nuova fase che si può definire di de-globalizzazione.

Piuttosto che accentrarsi su un piano sovranazionale il potere sta tornado gradualmente agli Stati nazionali.

 Il consolidamento dei BRICS e il disimpegno degli Stati Uniti dalla globalizzazione iniziato sotto l’era Trump, e mai interrottosi, sta riportando indietro le lancette dell’orologio della storia.

 E monsignore coglie questo cambiamento scrivendo del “fallimento delle élite” che hanno visto andare in fumo i loro propositi originari.

Sono gli stessi membri del campo globalista a prendere atto della loro sconfitta e a riconoscere che oramai la storia ha preso un’altra direzione.

Viganò però esorta ad utilizzare questo periodo di quiete per ricostruire ciò che è stato distrutto nei decenni precedenti.

 Una volta che si abbandonerà il liberalismo che è stato la causa del mondo senza valori che è avanzato dal Vaticano II in poi fino a raggiungere il suo “apogeo” durante l’operazione terroristica del coronavirus – nella quale si è assistito a una disumanizzazione delle istituzioni politiche e sanitarie senza precedenti – avrà inizio quel naturale processo di risanamento del Paese e delle sue istituzioni.

 Il colpo di Stato pandemico è stato possibile solamente perché si è creato un vuoto di valori, che, soprattutto nel caso dell’Italia, sono i valori del cattolicesimo e della cultura dell’antica Roma.

 

Se l’Italia avesse preservato la sua religione, la sua identità, la sua cultura e la sua morale, tutto questo non avrebbe mai avuto luogo.

Ed è questo l’insegnamento che Viganò esorta a trarre dagli ultimi due anni.

Ravvedersi degli errori e dei peccati commessi e iniziare il cammino verso una graduale rinascita.

E questa rinascita, nota Viganò, non può non passare dal “rimettere Dio al centro della nostra vita”.

 Una volta intrapreso questo cammino, “tutto il resto verrà da sé”.

Monsignore ha tracciato la via. Non resta che seguirla.

                                                                                                                                                                  Ps 123, 7

L’anno scorso il nostro sguardo era rivolto con grande apprensione all’evolversi degli eventi, che seguivano in modo apparentemente indefettibile l’agenda dei globalisti del World Economic Forum.

Sempre più persone capivano di trovarsi dinanzi a un piano – anzi, chiamiamolo col termine appropriato: un complotto – ordito da cospiratori senza morale, ma si sentivano inermi e sopraffatti.

Anche noi, che pure avevamo ben chiaro sin dall’inizio cosa stesse accadendo, avevamo molteplici ragioni per temere un inasprimento del regime dittatoriale che andava instaurandosi.

E la crisi russo-ucraina di inizio anno sembrava confermare questa recrudescenza.

Abbiamo avuto conferma, pochi giorni fa, nientemeno che da Bergoglio, che ben prima dell’inizio dell’operazione militare russa in Ucraina la NATO voleva provocare l’intervento di Mosca per avere un pretesto per imporre la transizione ecologica, a seguito delle sanzioni della comunità internazionale.

 La pandemia per il controllo sociale, la guerra e la crisi economica per la svolta green, il credito sociale, l’abolizione della proprietà privata, il reddito universale.

Ma proprio perché questo tradimento è ormai conclamato;

proprio perché le menzogne che sono state diffuse si sono rivelate nella loro falsità e pretestuosità;

proprio perché si è capito che è l’attuale autorità ad essere irreparabilmente corrotta e corruttrice, c’è da aspettarsi una reazione disperata, un colpo di coda:

perché costoro non hanno più nulla da perdere, e sanno che quel che non ottengono oggi con un ultimo rantolo, non lo otterranno domani, quando la loro cospirazione sarà conosciuta universalmente e universalmente esecrata.

Bisogna ridare alla società la sua dimensione spirituale, sanando la secolare ferita inferta da laicismo, liberalismo e comunismo.

Cristo Re deve regnare sugli Italiani ancor prima che sull’Italia.

 Il laicato cattolico è chiamato a dare testimonianza della propria Fede su due fronti:

uno sociale, ricostruendo ciò che è stato distrutto, restaurando ciò che è stato lasciato crollare.

 Scuole, università, professioni, mestieri. Un patrimonio di civiltà intimamente cristiano.

Rimettiamo Dio al centro della nostra vita, al centro della famiglia e della società, al centro della Chiesa.

Tutto il resto verrà da sé.

 

 

Pianificavano putsch contro

"deep State" in Germania, 25 arresti.

  Stream24.ilsole24ore.com – Redazione – askanews –  ( 07 dicembre 2022) ci dice:

 

 Sotto la guida del Principe Heinrich XIII Reuss, la rete cosiddetta dei "Reichsbuerger", "I cittadini del Reich", una presunta cellula di estrema destra che si rifà al terzo Reich, voleva compiere un "putsch", rovesciare il governo tedesco e assaltare il Bundestag, imponendo il loro dominio anche con le armi, se necessario.

In una delle più grandi operazione contro l'estremismo in Germania, che ha coinvolto circa 3.000 agenti di polizia, tra cui anche unità anti-terrorismo, sono state perquisite più di 130 abitazioni e 52 sospetti, e almeno 25 persone sono state arrestate con l'accusa di pianificare il violento "cambio di sistema".

Funzionari di polizia hanno perlustrato l'area attorno agli appartamenti di caccia "Waidmannsheil", vicino alla città della Germania est Bad Lobenstein, dato che il proprietario è stato arrestato in relazione alle indagini.

I sospettati sono accusati di avere formato un "gruppo terrorista" verso la fine di novembre 2021, con l'obiettivo di superare l'attuale sistema della Repubblica federale di Germania e sostituirlo con mezzi militari e la violenza.

Tra i principali indagati figurano un membro di un'ex famiglia aristocratica, a lungo attribuita dagli inquirenti all'ambiente borghese del Reichsbuerger, e un ex membro dell'AfD del Bundestag, la deputata Birgit Malsack-Winkemann, secondo la Welt online.

Tra i presunti cospiratori ci sarebbero diversi ex ufficiali delle forze speciali della Bundeswehr, secondo i procuratori federali.

Due dei 25 arresti sono stati eseguiti in Austria e in Italia.

 Il movimento include neonazisti, cospirazionisti di Qanon e fan delle armi, i quali - secondo i procuratori - credono di dover rovesciare un "deep State" che guida la Germania.

Il ministro della Giustizia tedesco Marco Buschmann in un tweet ha elogiato l'operazione tesa a smantellare la sospetta cellula terrorista, affermando che la Germania ha dimostrato di essere capace di difendere la propria democrazia.

 

 

 

 

Altro che virus. Trump lotta

(di nuovo) col Deep State.

La versione di Maglie.

Formiche.net – Francesco Bechis – (06/10/2020) – ci dice:

 

Convalescente sì, al tappeto no. Il virus non ha spezzato Donald Trump, anzi, forse gli tira la volata per le elezioni presidenziali. Parla Maria Giovanna Maglie, giornalista e a lungo corrispondente negli Usa per la Rai: altro che Covid-19, il vero nemico del presidente è il Deep State.

 Un partito che fa proseliti anche fra i Repubblicani.

Se non facesse così, non sarebbe Trump”.

 Chi pensa di leggere le peripezie elettorali del presidente americano Donald Trump con la lente della “coerenza” rischia di prendere una cantonata.

 Parola di Maria Giovanna Maglie, giornalista, a lungo corrispondente per la Rai negli Stati Uniti.

Altro che calare il sipario.

Il contagio del coronavirus può tirare la volata al Tycoon a meno di un mese dalle elezioni, dice a Formiche.net.

Maglie, Trump esce dall’ospedale più debole o più forte di prima?

Non credo che la malattia danneggi la sua immagine, anzi. Lo fa essere un “primus inter pares”.

Da sempre la “monarchia” americana vuole che il “re” sia in perfetta salute, non a caso i report sulle condizioni fisiche del presidente sono periodici e pubblici.

 In passato ci sono stati presidenti che hanno perso le elezioni per la loro salute. Come Bush padre, che si giocò la rielezione perché prendeva antidepressivi e ha rimesso addosso al presidente giapponese.

 Ma il Covid ha cambiato questa percezione.

Il presidente ha più volte sottovalutato la gravità del virus. Non ne esce benissimo…

Perché ha scelto di non trincerarsi dentro la Casa Bianca?

Perché, come Boris Johnson, ha sfidato la malattia, al contrario di Biden, che è stato tutto il tempo dentro a un bunker?

Ma questo è ciò che fa un leader.

Un leader dà l’esempio. E questa scelta lancia il messaggio del “libera tutti”, in un Paese che ne ha seppelliti più di 200mila.

Trump non aveva alternative.

Sotto elezioni un leader deve farsi vedere. Non è vero che ha negato il Covid.

Ha delegato la gestione della pandemia ai governatori, senza trascinarsi in quei ridicoli tiri alla fune italiani fra governo e presidenti di regione finiti al Tar. L’economia, poi, resta un punto a suo favore.

La disoccupazione è risalita.

Rispetto ai tempi pre-Covid. Ma sta di nuovo scendendo. A luglio era intorno al 12%, ora all’8%.

Trump ha capito che una nazione come gli Stati Uniti, se spegne i motori dell’economia, è clinicamente morta.

La Trump Economics gli sta dando ragione. Tasse abbassate, investimenti in infrastrutture, burocrazia snellita fino all’osso ora creano un cordone sanitario.

La malattia aiuterà Trump al voto?

Non lo escludo. È vero che Trump è un leader fisico. Soprattutto in questa campagna elettorale, ha puntato tutto sulla presenza, dal volantinaggio porta a porta alla convention con il pubblico.

Però la degenza può dare il via a un effetto simpatia intorno al leader ferito.

Perché il presidente si ostina a non condannare i suprematisti bianchi?

 

Lo ha fatto già durante il dibattito. Magari obtorto collo, ma per ben due volte.

A differenza di Biden, per cui “AntiFa” non è un movimento terroristico, è “un’idea”.

L’intero Partito democratico si è venduto all’estremismo pur di togliere di mezzo Trump.

Raramente nella storia americana ho visto trionfare presidenti democratici estremisti.

Da Carter in poi, i democratici o si sono presentati come moderati, o hanno finto di esserlo.

 Con Obama è iniziata la deriva.

Trump ha dalla sua tutto il Partito repubblicano?

Ufficialmente sì. Tanti di loro voterebbero Biden sotto banco. Perché, dopo quattro anni nella stanza dei bottoni, Trump non parla ancora la loro lingua.

Ha sradicato l’ala moderata del partito, è allergico ai metodi felpati del Deep State.

Il Deep State?

Sì, lo Stato profondo che oggi più di quattro anni fa spera in una sconfitta del Tycoon.

Lo stesso che fece prendere a Washington DC alla Clinton percentuali bulgare. Funzionari, dirigenti delle agenzie e dei ministeri sono di nuovo col fiato sospeso.

Maglie, un errore Trump lo ha commesso oppure no?

Il vero errore di Trump è il suo carattere.

È un bullo, non ama la mediazione, vuole fare di testa sua.

Ma è davvero un errore? Se non facesse così, semplicemente non sarebbe Trump.

 

 

 

 

Far saltare il banco: come il Deep State

frena la transizione democratica in Sudan.

 Geopolitica.info - VINCENZO ROMANO – (31/07/2022) ci dice:

 

Il Center for Advanced Defense Studies – C4ADS – ha recentemente pubblicato il rapporto ‘Breaking the Bank.

How Military Control of the Economy obstructs democracy in Sudan’ che traccia un quadro completo di come un cartello formato da attori affiliati allo stato stia di fatto bloccando la transizione democratica in Sudan.

Tali attori costituiscono il deep state del paese, controllando le principali strutture statali nonché pezzi interi di economia, inclusi conglomerati agricoli, banche e società di importazione medica.

Il Deep State sudanese.

Il Deep State sudanese, secondo la definizione data nel rapporto, è composto da ‘funzionari di grado medio-alto della sicurezza e dei servizi civili che abusano del sistema statale per mantenere la loro rete di potere economico e politico”.

All’interno di esso vi sono diverse fazioni, tra cui le principali sono le Forze Armate Sudanesi (Sudanese Armed Forces – SAF), le Forze di Supporto Rapido (Rapid Support Forces – RSF) e, più recentemente, i comandanti ribelli che combattevano contro il governo federale sudanese.

In seguito al colpo di stato del 1989, l’ex-presidente Omar Al-Bashir ha messo in piedi un sistema di potere nel quale una élite ristretta a lui vicina ha potuto prosperare, consolidando il proprio controllo nei settori chiave dell’economia e traducendo il potere economico in influenza politica attraverso la nomina di funzionari in posizioni chiave della pubblica amministrazione.

Ad oggi il deep state beneficia dei meccanismi stabiliti durante l’epoca Bashir.

Le compagnie petrolifere, per fare un esempio, restano in mano statale, consentendo alle élite militari di controllare l’afflusso di capitali stranieri e dirigerlo verso le proprie casse.

Le SAF e RSF possiedono banche, società di importazione e snodi di trasporto creando monopoli verticalmente integrati che superano la concorrenza delle imprese civili nazionali.

La transizione democratica: dalla caduta di Bashir al colpo di stato dell’ottobre 2021.

L’11 aprile del 2019, Omar al-Bashir fu estromesso con un colpo di stato guidato da alti ufficiali militari che si schierarono con i manifestanti scesi in piazza contro il regime autoritario.

Nell’agosto dello stesso anno, i militari sudanesi stipularono un accordo di power-sharing con i leader politici civili, inaugurando così il “Civil-Led Transitional Government” (CLTG).

Il mandato del CLTG era la supervisione degli affari di stato fino alle elezioni politiche e lo smantellamento della rete di potere creata da Bashir attraverso la creazione del “Regime Dismantlement Committee” (RDC), un comitato contro la corruzione e il recupero dei beni composto da rappresentanti di partiti politici, esponenti militari e dell’intelligence.

 L’RDC ha emesso più di cinquecento decisioni recuperando con successo miliardi di dollari acquisiti illecitamente dall’establishment del regime Al-Bashir.

Nella sua fase iniziale, il CLTG ha ricevuto il sostegno dell’élite politico-militare, facendo registrare progressi sostanziali verso la democratizzazione del paese.

Tuttavia, i conglomerati economici costituiti principalmente da RSF e SAF sono stati solo parzialmente toccati dalla transizione politica.

Sebbene le reti del deep state e del precedente regime siano fortemente intrecciate, l’RDC si è ben guardato dal toccarne gli interessi vitali.

Questo ha aperto una spaccatura pubblica tra i membri dell’RDC, il deep state e le Forze per la Libertà e il Cambiamento (FFC).

 I militari hanno accusato l’RDC di corruzione, mentre i civili hanno accusato i militari di intromissioni indebite nel mandato indipendente dell’RDC.

Queste tensioni sono sfociate, il 25 ottobre 2021, nel colpo di stato militare del generale Al-Burhan, che ha portato all’arresto del primo ministro Hamdok, della maggior parte del suo gabinetto e almeno venti membri dell’RDC.

 Mentre i militari hanno citato la corruzione della leadership civile come motivo del colpo di stato, la ragione profonda ha a che vedere con i tentativi di smantellamento del sistema di potere politico-economico da parte del RDC.

Il colpo di stato ha rappresentato, nella sostanza, il punto di arrivo inevitabile di una serie di tensioni latenti tra la componente civile e quella militare per il controllo e la ripartizione delle risorse del paese.

Il ruolo delle imprese controllate dallo stato.

Nel rapporto è stato mappato l’ecosistema delle imprese controllate dallo Stato (State-controlled enterprises – SCE) in Sudan per valutare in che modo l’establishment militare esercita il controllo sull’economia del paese, identificando 408 imprese controllate dallo stato in settori quali l’agricoltura, il sistema bancario, l’industria militare e quella delle forniture mediche.

 Una SCE è definita come ‘un’azienda che ha legami [strutturali] con membri del governo sudanese e/o del deep state, inclusi SAF, RSF o funzionari dell’intelligence, e vulnerabile alla manipolazione da parte di tali attori’.

È qui opportuno menzionare i casi più importanti emersi nel rapporto ovvero quello della “Omdurman National Bank” (ONB) e della Khaleej Bank, che le SAF e le RSF rispettivamente controllano per avere accesso alle reti finanziarie globali. Secondo il rapporto, le SAF, attraverso una rete di enti di beneficenza fittizi, possiedono l’86% delle azioni della ONB, mentre la Khaleej Bank è controllata attraverso joint venture tra le RSF e società facenti capo agli Emirati Arabi Uniti.

 In particolare, dal rapporto emerge che la famiglia del leader delle RSF Mohamad Hamdan Dagalo, detto ‘Hemeti’, controlli il 28% delle azioni della Khaleej Bank.

Inoltre, nel consiglio di amministrazione della Zadna International Company for Investment Ltd, un conglomerato agricolo di proprietà dell’esercito che gestisce programmi di irrigazione e gestione di appezzamenti di terra, siede il fratello di ‘Hemeti’, Abdel Rahim Dagalo.

Quali conclusioni?

Il rapporto arriva così alla formulazione delle seguenti conclusioni.

In primis, il controllo dell’economia da parte di attori civili è un prerequisito fondamentale per la transizione democratica in Sudan.

 Il governo militare sta gradualmente indebolendo le riforme democratiche fatte approvare dal governo di transizione civile e rafforzando la posizione dell’establishment nei settori economici chiave del paese.

Fino a quando questa logica prevarrà, i militari continueranno a detenere tutto il potere, senza lasciare alcun margine ai civili.

A tal proposito, i paesi che cercano di sostenere la democrazia in Sudan hanno gli strumenti per indebolire l’establishment sudanese in quanto: “Governi, organizzazioni non governative (ONG) e società private hanno un ruolo nello smantellamento del deep state del Sudan attraverso sanzioni economiche, riduzione degli aiuti e una maggiore due diligence sugli investimenti privati”.

Finora, le azioni dei paesi donatori hanno preso prevalentemente di mira le organizzazioni governative piuttosto che le reti finanziarie e le imprese appartenenti al potere militare.

Pertanto, la comunità internazionale può contrastare il potere dell’élite sudanese e sostenere la transizione democratica attraverso le seguenti misure:

colpire le élite militari del paese e le loro attività attraverso sanzioni mirate contro imprese economiche a loro associate;

 riduzione del rischio per gli investimenti e gli aiuti internazionali attraverso garanzie che questi siano direttamente canalizzati a favore della popolazione locale, evitando il supporto a società associate a SAF, RSF e funzionari pubblici sudanesi;

 rafforzamento del sostegno alle organizzazioni civili e ai giornalisti che sostengono la trasparenza e combattono la corruzione in Sudan.

GLORIA AL “DEEP STATE”:

LA SECONDA GUERRA FREDDA.

Opinione.it - Maurizio Guaitoli – (08 aprile 2022) ci dice:

 

Secondo capitolo di fantapolitica: invadendo l’Ucraina, Vladimir Putin è caduto nella trappola preparata per lui dal Deep State statunitense?

Davvero qualcuno pensa che sarebbe stato meglio se il Donbass fosse stato riconosciuto indipendente per evitare, nell’ordine, guerra, crisi energetica ed eccidi di civili innocenti?

Una falsa convinzione, evidentemente, dato che anche con l’indipendenza del Donbass restava l’assoluta autonomia di Kiev a scegliere, in quanto Paese libero e democratico, le sue alleanze militari e civili (Nato; Ue).

E l’autonomia-indipendenza del Donbass non avrebbe alterato di una virgola l’enunciato del problema.

 Ma, che cosa è cambiato in Occidente?

 È nata la Grande Germania post-merkeliana!

In passato, con l’accordo implicito (ma anche esplicito, a volte) degli Usa, Angela Merkel ha potuto svolgere per più di quindici anni il ruolo di interfaccia tra l’America e la Russia di Putin.

 Dopo la fine dell’era dell’ex cancelliera tedesca, ecco che i due contendenti si trovano messi l’uno contro l’altro, anche se il russo tenta di farsi scudo con il corpo di Xi Jinping.

Germania con le mani libere, quindi, e Vladimir Putin versus Joe Biden, ma con uno status enormemente inferiore del primo nei confronti del secondo.

Infatti, allo “Zar” non rimangono che le armi del ricatto energetico-nucleare per terrorizzare un’Europa tremebonda (ma non la Nato e l’America!), indecisa su tutto.

Va detto che, oggi, senza l’avallo degli Usa, la Germania non avrebbe mai potuto decidere autonomamente per il proprio riarmo, dato che Paesi come la Polonia non guardano a Berlino per la loro protezione, ma a Washington, più lontana ma molto più sicura.

Dato che Russia e Germania sono entrate per secoli in competizione tra di loro per spartirsi la nazione polacca.

Putin sa benissimo che l’Ue è un salotto di comari per quanto riguarda tre caratteristiche negative fondamentali che ne costituiscono il difetto di fabbrica, annidato nei suoi trattati cervellotici, zeppi di clausole che impediscono il passaggio rapido ad azioni e decisioni immediatamente operative.

L’unitarietà del comando è solo un sogno lontano, quando invece oggi servirebbe per la Ue una strutturazione politico-decisionale da iperpotenza dotata di una iper leadership, come Cina, Russia, e Usa.

 Invece, accade l’esatto opposto: decisioni per cui si renderebbero necessari tempi rapidi, sono rallentate dall’esigenza di ricorrere a estenuanti e barocche mediazioni, adottate per di più con il criterio antistorico della unanimità, tranne in rari casi stabiliti per legge.

In questo contesto, la produzione legislativa e para-legislativa è devoluta a una serie di strumenti, che vanno dai regolamenti, alle direttive e a un paniere complesso di atti intermedi, affidati a organi esecutivi e decisionali, in cui gli aspetti politici e amministrativi sono ora rigidamente separati, ora del tutto confusi tra loro.

 

Infatti, tutti i poteri di indirizzo politico e di riforma dei trattati sono di esclusiva giurisdizione del Consiglio europeo dei capi di Stato e di Governo, che decidono di regola all’unanimità;

mentre l’intera parte normativa applicativa e secondaria (per modo di dire!) è affidata a una serie di organismi politico-burocratici pletorici e ipertrofici, come la Commissione europea e i Consigli dei ministri della Ue.

Poi, c’è un Parlamento della Ue co-legiferante con la Commissione che rappresenta un altro monstrum della insipienza politica di Bruxelles, visto che non esiste un Governo comune!

Della disunità organizzata di questa trista Europa fanno poi integralmente parte le assenze suicidarie di politiche comuni di bilancio, fiscalità, difesa e politica estera, rendendo così la Ue quella che è da sempre: un nano politico.

E altrove, come funziona? Prendiamo Washington, dove da sempre comanda il Deep State.

Per comprenderne l’intima e sofisticata essenza, è sufficiente un esempio tra tutti: la durata dell’interregno del deus ex machina Edgar Hoover, il più longevo direttore dell’Fbi, che si è fatto vari mandati all’ombra di almeno tre presidenti Usa.

La stessa cosa la si ricava dall’analisi delle guerre americane degli anni Novanta e del primo decennio del XX secolo, a proposito del Nation Building e dell’Esportazione della Democrazia.

L’America, soprattutto lei, aveva un bisogno disperato di sostituire il nemico planetario perduto (l’ex Urss) con qualcosa di altrettanto solido.

Dopo l’11 settembre 2001, uno dei migliori candidati sembrava essere il Terrorismo islamico, solo che quest’ultimo, pur avendo una destabilizzante, grandissima portata ideologica antioccidentale, non aveva nulla di planetario, essendo militarmente confinato in aree molto ristrette del Medio Oriente, e pertanto non poteva di certo surrogare il ruolo dell’ex Urss.

Così, nell’ottica del Deep State, si è un po’ troppo lasciato dilatare il fenomeno dell’Isis, noncuranti delle sue stragi genocidiarie, per poi fare un esperimento in corpore vili su quanto fosse facile la sua eradicazione totale come abbozzo di Stato islamico.

A questo punto, con la devastazione globale prodotta dalla pandemia e dagli enormi rischi associati dall’estensione planetaria delle catene di valore (ad esempio, i principi attivi degli antibiotici sono di fatto un monopolio della Cina!), il Deep State ha chiarito a sé stesso “Chi” sarebbe davvero stato il migliore candidato per divenire il nemico planetario irriducibile dell’Occidente, individuandolo correttamente nel blocco Cina + Russia (+ India + Sud America, eventualmente).

 

Strumentalmente, in venti anni si è lasciata ampia libertà economica a Pechino, per farne un’immensa isola di sfruttamento di manodopera a buon mercato, ai fini degli interessi del capitalismo americano.

 E, forse, anche l’inerzia apparente sul suo massivo riarmo si colloca in questa linea di supplenza ideologica, in sostituzione dello sconfitto comunismo sovietico.

Alla Cina si è poi lasciato associare come avversario geostrategico la Russia di Putin:

 dopo che l’America aveva girato la testa dall’altra parte per Cecenia, Georgia, Siria, Libia, Donbass e Crimea, Mosca è stata presa in trappola dal Deep State, facendole credere che anche l’Ucraina sarebbe andata di pari passo, mentre invece la Cia preparava il trappolone del riarmo militare di Kiev, facendo la danza della pioggia perché Putin decidesse pro-invasione.

Il calcolo come si vede è stato precisissimo: non ne uscirà vivo lo “Zar” dalla caduta di immagine e dalle enormi perdite militari che fin da ora e fino a chissà quando sarà costretto a subire.

 E qui il colpo da maestro del Deep State è stato quello di sostenere e formare in tutti i modi l’esercito e la Resistenza ucraini, determinatissimi a difendere l’unità territoriale del proprio Paese, costi quel che costi in termini di vite umane.

Nel calcolo di depotenziamento del nemico russo, è previsto che la guerra di Putin e la resilienza militare ucraina possano durare anni, grazie alle armi modernissime che vengono e verranno fornite dagli americani al Governo di Kiev.

Putin si è fatto fregare, quindi, versando un mare di sangue innocente, sacrificato al suo delirio di onnipotenza, e procurando all’Ucraina distruzioni talmente enormi che nessuno le dimenticherà per un secolo a venire!

Lo Stato russo, grazie al combinato disposto di sanzioni ed emorragia di riserve monetarie per tenere in piedi la sua folle guerra di invasione, va rapidissimamente incontro alle conseguenze attese dal Deep State:

il Default e i moti sociali di rivolta verso il regime, a causa della paurosa scarsità di Panem et circenses che caratterizzerà di qui ai prossimi anni la società russa e, soprattutto, la campagna profonda che vota in massa per Putin.

Ma, analizzata dal Deep State, anche la Cina è un gigante d’argilla.

Lo si è visto con il siero antivirale Covid.

Se un giorno si dovesse imporle le stesse sanzioni che oggi applichiamo a Putin, il tasso di crescita del suo Pil scenderebbe sottozero, facendo sprofondare centinaia di milioni di cinesi nella povertà precedente alle riforme economiche di Deng.

Morale? Il Deep State sta garantendo da un secolo che l’America resterà sempre la più forte di tutte le altre nazioni al mondo.

Per colpa nostra, certo.

 

 

 

 

Quelli che comandano davvero:

lo "Stato nascosto" allo scontro

con Giorgetti sulla Manovra.

Notizie.tiscali.it – Redazione – (25 dicembre 2022) – ci dice:

 

Ragioneria di Stato, Consiglio di Stato, tecnici d'eccellenza: mai metterseli contro.

Le ore convulse di lavoro alla Finanziaria hanno messo il ministro sulla graticola.

Deep State. Parola americana per "Stato profondo" o "nascosto".

 In poche parole, quelli che comandano davvero, che stanno nei gangli fondamentali della burocrazia e che possono rallentare fino allo sfinimento, bloccare o deviare l'efficacia di ogni singolo provvedimento.

È una cosa un po' diversa del celebre "partito dell'immobilismo" che stando a molte analisi storiche fa da pastoia alla Repubblica da quando è nata ad oggi.

Si tratta dei revisori, dei tecnici d'eccellenza, di coloro che devono validare e bollinare ogni provvedimento del governo.

Meglio non metterseli contro e lo sta capendo il neo ministro dell'Economia del governo Meloni, il leghista Giancarlo Giorgetti.

Messo sulla graticola dai rilievi della Ragioneria di Stato mentre si combatte per il tribolatissimo varo della Manovra da 35 miliardi che definisce la politica economica dello Stato per il 2023.

Scheda: vi tutte le misure approdate in Senato.

Lo sfogo contro il ministro e il suo team.

Se 21 dei 35 miliardi allo stanziamento sono praticamente già assegnati a combattere il caro bollette, come mai sta diventando una specie di guerra del Vietnam, con vietcong interni, assegnare i restanti 14?

Capirlo significa realizzare chi comanda davvero quando si arriva alla messa in pratica di leggi e provvedimenti, e il perché di certe tensioni fra Giorgetti e Meloni su certe scelte recenti.

È stato il deputato di Fratelli d'Italia Federico Mollicone, Presidente della VII Commissione Cultura, Sport, Scienza, Editoria e Istruzione e collaboratore stretto del vicepresidente della Camera Fabio Rampelli a sfogarsi con i cronisti politici alla vigilia di Natale.

 Raccontando, come riportato al quotidiano La Stampa, l'irritazione della Ragioneria di Stato che ha sollevato ben 44 rilievi sul provvedimento del Mef, in particolare con una serie di mail mandate al team di Giorgetti su un emendamento riguardante il bonus Cultura, messaggi rimasti senza risposta.

 Sia Mollicone che Tommaso Foti, capogruppo di Fratelli d'Italia, hanno sottolineato con fastidio che "soprattutto nelle ultime ore alla Camera non vi fosse personale del Mef".

Ma notano pure come il Ministero fosse impegnato parallelamente nella discussione in Senato del decreto Aiuti Quater.

 Sullo sfondo di questo fastidio ci sarebbe il dissenso tra Fratelli d'Italia e il ministro Giorgetti, con la premier Giorgia Meloni che preme per la sostituzione del direttore generale del Tesoro, Alessandro Rivera, che al contrario Giorgetti blinda.

Scontrarsi con lo "Stato sotterraneo".

C'è un bel libro intitolato “Io sono il potere”, confessioni di un capo di gabinetto, scritto da Giuseppe Salvaggiulo, che racconta molto bene l'eterno scontro fra politici e tecnici, di cui i primi vorrebbero fare a meno ma di cui non possono evitare l'apporto e le critiche.

 Intanto per somma di competenze spesso sbilanciate a favore dei secondi, poi perché il burosauro italiano si regge sui vari snodi della messa in pratica del potere.

E sui suoi controlli.

Significa sbattere contro la Ragioneria di Stato, il Consiglio di Stato, la Corte dei Conti, i capi di Gabinetto, i Servizi e così via.

Salvaggiulo nel suo libro documenta alcuni errori politici poi bastonati dal Deep State italiano.

Guai a sbagliare.

Come quando Renzi mise l'ex capo della Polizia municipale Fiorentina, Antonella Manzione, alla guida dell’ufficio legislativo della presidenza del Consiglio, il che portò a tensioni continue.

 O quando Tremonti, vicepremier nel governo Berlusconi nominò capo di Gabinetto Marco Milanese, ex finanziere poi datosi alla politica.

E isolato da tutti che nemmeno rispondevano alle sue telefonate.

 Guai a sbagliare e in queste ore Giorgetti se ne starebbe accorgendo, anche se ha difeso i suoi tecnici dicendo "sono stanchi, hanno lavorato tanto".

Sarebbero poi le scelte del ministro ad irritare chi sta negli snodi della burocrazia economica dello Stato, col turnover da lui imposto mentre i tempi per il varo della Manovra erano già strettissimi.

Dunque: via Giuseppe Chiné, influente consigliere di Stato e già capo di gabinetto di Daniele Franco (ministro dell'Economia del governo Draghi) al cui posto è arrivato Stefano Varone già con Giorgetti al Mise.

E dentro il coordinamento la magistrata della Corte dei Conti Diana Perrotta invece di un consigliere di Stato.

Di cui un deputato di Fdi, seccato, ha detto alla Stampa: "Sembrava comandasse lei".

 E fra breve c'è da votare il fondo salva Stati europeo, Mes, a cui Giorgia Meloni ha opposto forte resistenza finora.

 

 

 

 

Il deep state autoritario internazionale

e la corruzione legale dell’Occidente.

Il dito, la luna, il Qatar e la Russia .

 

Linkiesta.it - Carmelo Palma – (14 dicembre 2022) – ci dice:

La potenza economica delle non democrazie è cresciuta così rapidamente che oggi possono comprarsi progetti di ricerca, cattedre universitarie, testate giornalistiche, influencer.

 E non lo fanno lungo le linee del mondo privato, ma con l’infiltrazione pubblica.

Del caso Panzeri & Co. penso che l’essenziale – di cui discutere, su cui interrogarsi, di cui davvero preoccuparsi – non stia nel sospetto o nell’accusa di corruzione (ancora tutta da dimostrare) nei confronti degli indagati, arrestati o a piede libero, di un’inchiesta che, anche se non fosse condotta da un magistrato belga incolpevolmente paragonato, da un giornale italiano, ad Antonio Di Pietro, meriterebbe comunque di essere presa con le pinze e nei dettagli, non con la pala e all’ingrosso.

Questo purtroppo si è però abituati a fare in un Paese, che ha un’idea della giustizia costruita sul paradigma di Tangentopoli e in cui la flagranza di reato di uno diventa, per proprietà transitiva, una prova di colpevolezza per tutti e dove comunque, come disse un famoso” maître à penser ” di Mani Pulite, non esistono innocenti, ma solo colpevoli che non sono ancora stati scoperti.

Antonio Panzeri, Eva Kaili e tutti gli altri accusati di avere parlato e fatto parlare bene del Qatar dietro laute e non dichiarate ricompense sono il dito – forse penalisticamente sporco, forse no:

deciderà un giudice a Bruxelles – di una luna cattiva, ma irraggiungibile per via giudiziaria, rappresentata dall’enorme potere di condizionamento che gli Stati canaglia (al diverso grado di canaglieria di ognuno) possono esercitare legittimamente e illegittimamente, legalmente e illegalmente, per determinare e propiziare il consenso delle opinioni pubbliche dei Paesi liberi o supposti tali.

È fenomeno che in Italia ha avuto una manifestazione letteralmente mostruosa rispetto alla Russia di Putin, per quasi un ventennio nobilitata e legittimata – gratis et amore Dei, non c’è dubbio – dai vertici dell’establishment politico e economico italiano (dico Romano Prodi e Silvio Berlusconi, mica Marco Rizzo e Giuliano Castellino), molto prima delle frequentazioni dell’Hotel Metropol da parte di Gianluca Savoini per trattare, a quanto pare per finta, la cresta sulle forniture di idrocarburi.

La stessa cosa, “mutatis mutandis”, ma molto più in piccolo, anzi in piccolissimo, può pure dirsi del Qatar, che ha conquistato i Mondiali di calcio senza neppure far troppo finta di non essere quello che era.

La potenza economica delle non democrazie nel mondo è cresciuta rapidamente negli ultimi decenni.

Gli investimenti produttivi, finanziari e pubblicitari di società statali e non statali legate al deep state autoritario internazionale sono sempre più determinanti per l’economia dell’Occidente.

Possono comprarsi o, per così dire, affittare legalmente progetti di ricerca, cattedre universitarie, testate giornalistiche, istituzioni culturali, think tank, opinion leader, influencer e qualunque altra cosa faccia successo e immagine senza bisogno di riempire le valigette di euro in nero, che a Bruxelles sarebbero state trovate a casa di alcuni indagati.

E così stanno facendo, con notevole e indiscutibile successo.

La luna che gli stolti non vogliono vedere è che la penetrazione degli Stati canaglia nel soft power del potere occidentale non viaggia lungo le linee della corruzione privata, ma dell’infiltrazione pubblica.

 Ed è un problema enorme per società e economie aperte e quindi esposte anche a questa forma di cattura ideologica, prima che corruttiva, che può trovare argini effettivi solo sul piano politico-culturale, non su quello repressivo-giurisdizionale.

Pensare di fermare questo fenomeno spiando le vacanze di questo e di quell’altro politico o lobbista non dichiarato è, nella migliore delle ipotesi, un’illusione ingenua e nella peggiore, e più frequente, una forma di cattiva coscienza.

Lo vediamo quotidianamente a proposito della guerra russa all’Ucraina, in cui senza bisogno di dazioni illecite e di mazzette nascoste un pezzo dell’informazione e della politica italiana si è fatta da dieci mesi altoparlante della propaganda moscovita, del «non ci sono prove che…», «però la Nato si era allargata troppo», «la Crimea è sempre stata russa» e «…ma in Donbass era in corso un genocidio».

Il «non si dica che Putin non vuole la pace», cioè il refrain gratuito della campagna elettorale di Conte, mentre il famoso pacifista del Cremlino faceva crimini a livello di Srebrenica, è stato molto più invasivo e epidemico delle timide difese dei progressi del Qatar da parte degli eurodeputati socialisti, indiziati di avere difeso a gettone le condizioni di lavoro degli immigrati impegnati a costruire gli stadi per i Mondiali di calcio.

Purtroppo la corruzione politica dell’Occidente – quella che davvero costa, pesa e determina gli esiti delle elezioni, non i viaggi premio dei promoter – è oggi legalissima, perché è indissolubilmente connessa al funzionamento e alla fragilità del mercato politico e mediatico delle nostre democrazie.

Questo sarebbe un bel tema di cui discutere, se l’ “Italian connection” di Bruxelles non fosse diventata la nuova forma di scopofilia giudiziaria da cui la politica e l’opinione pubblica italiana non sembra avere intenzione di guarire.

La dis-percezione sulla gravità del pericolo e del fenomeno, unita alla perversione guardonistica che fa apparire esistente e vero solo ciò che trova spazio nelle aule dei tribunali, è proprio ciò che ha portato negli scorsi anni a considerare come un atto di folklore la sfilata di Matteo Salvini e dell’attuale presidente della Camera Lorenzo Fontana con le magliette pro Putin nell’aula del Parlamento europeo e porta oggi a spiare con trepidazione e allarme le email riservate pro Qatar di Andrea Cozzolino.

Chi parla bene di Putin, chi traduce in italiano i dispacci della propaganda moscovita, chi spiega che di questo Zelensky e del suo regime di tipo nazista proprio non ci possiamo fidare, può tranquillamente fare il Savonarola contro gli accusati e arrestati di Bruxelles.

 Rimaniamo un Paese così, a misura di Fatto Quotidiano.

 

 

 

 

Trump, Dio e Putin. Viaggio

nella «tana» di Qanon in Italia.

 Ilmanifesto.it - Giovanna Branca – (5 ottobre 2022) – ci dice:

 

(Questo articolo è parte del progetto investigativo su Qanon in Europa basato sull’analisi dei dati e condotto da Bellingcat e Lighthouse Reports.)

 

Mentre Marjorie Taylor Greene – la prima deputata apertamente Qanonista eletta al congresso statunitense – si complimenta felice per la vittoria di Giorgia Meloni ritwittando un vecchio video in cui la leader di Fdi proclama che l’istituzione familiare è sotto attacco, la comunità Qanon in Italia sembra essere di tutt’altro avviso.

Meloni, è la convinzione diffusa e variamente espressa, è l’ultima delle «gate Keeper», delle custodi del «sistema».

Ma che cosa è la comunità di Q in Italia?

Quali sono le narrative dentro il movimento nato sulla scorta di un fenomeno tipicamente statunitense, ma diffusosi in tutta Europa?

 

QUANDO NEL 2020 Tpi cercava di farne una prima radiografia, a un anno dell’inserimento da parte dell’Fbi di Qanon fra le minacce terroristiche interne degli Usa, uno dei canali Telegram citati dalla testata – Qlobal Change Italia – aveva 8.800 iscritti.

Oggi ne ha 23.741, e non è affatto il gruppo più vasto di questa composita comunità

. Altri gruppi sono scomparsi, altri ancora sono nati e hanno proliferato superando anche i 60.000 iscritti, hanno cambiato forma, oppure le narrative di Q hanno raggiunto altri ecosistemi genericamente definibili come complottisti, fra cui le nutrite schiere no vax.

 È Telegram infatti, insieme a YouTube, la piattaforma regina in questo universo: la maggior parte dei canali nasce dopo la purga di Q dalle piattaforme mainstream (Facebook, Twitter…) e anche qualora i singoli seguaci abbiano dei profili attivi, è su Telegram che il grosso del discorso qanonista italiano viene portato avanti.

Non solo: la piattaforma per la comunità italiana – come viene fotografata dal database di contenuti postati su canali associabili a Qanon, creato da Bellingcat e Lighthouse Report – è una sorta di universo perlopiù autoreferenziale: nella top ten dei domain condivisi su questi gruppi al primo posto c’è la stessa Telegram.

E come emerge dall’analisi dei dati relativi a un campione di 8 dei principali canali collegati a Q in Italia, fatta per questa ricerca, fra i più linkati appaiono il sito di disinformazione di estrema destra americano” The Gateaway Pundit”, all’ottavo posto, e  Rt al 18esimo.

Mentre nel più vasto ecosistema complottista subito dopo Telegram si trovano” Il fatto” e “Ansa”.

QUANDO APRE il suo canale – The Storm Q-17, arrivato ad avere oltre 60.000 iscritti – il 26 settembre 2020 Daniela Cecamore lo inaugura con una immagine di Trump con una Q dorata in mano e sovraimpresso il motto di Qanon: «Where We Go One We Go All».

La narrativa è quella integralmente qanonista raccontata con dovizia di particolari da La Q di Qomplotto di Wu Ming 1: l’allora presidente Usa è a capo di una operazione segreta di cui fanno parte l’esercito e Jfk jr. (che nel 1999 avrebbe finto la sua morte), per sgominare il Deep State, la cabala di pedo-satanisti – naturalmente a prevalenza ebraica – che regge le fila del potere non solo in Usa ma in tutto il mondo.

 Q è un insider del piano che con i suoi periodici drop sulle piattaforme 4chan o 8chan si rivolge cripticamente a coloro che hanno visto la luce e li invita a «fidarsi del piano», rassicurandoli sul fatto che «The storm is coming» – è in arrivo la tempesta che sgominerà i nemici di tutto ciò che è bello e giusto.

CON IL PROCEDERE del tempo e della pandemia, e con l’introduzione dell’obbligo del green pass, la narrazione su The Storm Q-17 si sposta però poco alla volta, ma infine totalmente, su posizioni, post, storie e fake news no vax.

Nell’ecosistema di Telegram (e non solo), come è prevedibile, la permeabilità dei confini fra gruppi cospirazionisti è continua, ma è significativo come dall’analisi dei dati emerga che in tutti i principali gruppi di Q la narrazione alternativa sul Covid (grafene nei vaccini e così via) sia un perenne rumore di fondo con picchi che in determinati momenti superano anche l’interesse verso Q e affini – ad esempio su Il risveglio Q17, Qanon Italia e ChildresQue Italia Channel nel gennaio del 2022 in coincidenza con il decreto legge che introduce l’obbligo vaccinale per gli over 50 – evidenziando il rischio di proselitismo per la comunità Q.

ALL’INVERSO, e parallelamente, in nutriti gruppi no vax si diffondono nel tempo le narrative di gruppi e soprattutto personaggi riconducibili a Q.

Specialmente attraverso i post dell’influencer al centro di questo ecosistema: Cesare Sacchetti.

 Autore di un blog sul Fatto quotidiano fino al 2016, Sacchetti è inserito già a maggio 2020 da “News Guard” fra i super-diffusori di disinformazione a livello europeo, l’anno successivo Rolling Stone gli dedica un profilo dove lo etichetta come «il re dei complottisti italiani».

Unico fra tutti coloro che hanno sposato le teorie di Q a produrre quasi esclusivamente contenuti originali (nell’ordine di decine di post al giorno sugli argomenti più svariati, dalla pandemia alla guerra in Ucraina, oltre ad avere un suo blog anche in inglese), dai dati emerge che il suo canale Telegram (63.505 iscritti) è il più ri-postato in tutto il network italiano – non solo quello Q – preso in analisi dal database, con un margine quasi di 2 a 1.

Due post di Sacchetti in cui insinuava che Mario Draghi fosse gravemente malato – che gli sono valsi lo scorso gennaio una perquisizione da parte della Digos – hanno rispettivamente 99.000 e più di 43.000 visualizzazioni – e hanno circolato non solo su canali Q come Qanon Italia e Italian Patriots ma anche su gruppi come Esercenti no green Pass e Italia Costituzionale no green pass.

ALL’INTERNO del campione degli otto principali canali Q presi in esame, Sacchetti è in top ten fra i più ripostati sia che si parli di Qanon, di elezioni o di Covid, mentre è in assoluto il più condiviso in materia di guerra in Ucraina.

Sulla quale la sua posizione è ampiamente chiarita dal fatto che l’unico canale Telegram che riposta occasionalmente è “Intel Slava Z”, gruppo di disinformazione filorussa (e probabilmente di matrice russa) che fra i tanti post – decine al giorno per oltre 400.000 iscritti – adduceva sedicenti prove del fatto che l’esercito ucraino abbia commesso la strage di Bucha.

INVARIABILMENTE, l’universo Q italiano è filo Putin, che viene visto come un alleato di Trump nella lotta al Deep State e un nemico della «dittatura» europeista e filoatlantica.

Proprio il filoatlantismo è fra i reati mortali che si contestano a Meloni, vista come una schiava di Nato e Israele – in tanti ri-postano il suo tweet a Zelensky come prova della sua collusione – e non abbastanza estrema in fatto di aborto: quando tutta la comunità gioiva della sentenza della Corte suprema Usa che ha abolito il diritto federale all’aborto, veniva puntato il dito su Meloni che sosteneva di non voler abolire la 194.

E questo nonostante la leader di Fdi abbia solleticato molte delle tematiche care alla comunità, dalla teoria della sostituzione etnica ai riferimenti a Soros come «usuraio» fino alla vicinanza con l’apprezzatissimo Orban e il sodale di Trump Steve Bannon.

Il millenarismo di Q – che vede in Trump una sorta di profeta destinato a realizzare un progetto simil-divino – trova terreno fertile nella variante cattolica oltranzista italiana: gender e diritti civili sono il male, lo stesso papa «è parte della falsa chiesa e della dittatura mondiale».

LO SCRIVE Rossella Fidanza (42.234 iscritti al suo canale) che ha esordito da Paragone alla Gabbia nel 2014 come imprenditrice truffata dalle banche in epoca di odio per il “signoraggio bancario”, e oggi gestisce il secondo canale Telegram più condiviso nel network italiano, inzeppato di contenuti Q – a partire dal negazionismo sui risultati elettorali Usa – e no vax: il canale da cui riposta più spesso è “Eventi avversi vaccino Covid”.

Perfino il sottobosco sovranista e complottista candidato alle elezioni, Paragone in testa, è però respinto dalla comunità Q e liquidato da Sacchetti come un’armata di «utili idioti» di cui si è servito «lo stato profondo italiano» per ritardare l’attesa e inarrestabile pietra tombale sulla «democrazia liberale».

 

 

 

 

Vaccini, pandemia, totalitarismo:

un piano studiato.

  Lanuovabq.it – Paolo Bella Vita -chirurgo – (26-10-2022) – ci dice:

Un programma di forte stampo totalitario e tecnocratico è stato concepito in Occidente per affrontare le nuove “sfide” del mondo globalizzato.

Dalla cultura dei vaccini del 2014 alla pandemia fino all'imposizione del Green pass.

 Ecco come le élite globaliste stanno incarnando il "Padrone del mondo" con il Grande Reset.

 E come l'obiettivo - insegna San Giovanni Paolo II - sia sempre la negazione della dignità della persona umana.

Grazie ad un invito del Comitato “La Gente come Noi” a tenere una conferenza a Caneva (PN), ho  avuto occasione di riflettere ancora sul fatto che la questione dell’obbligo vaccinale e del cosiddetto green pass non sono mere questioni tecniche ma evidenziano un passaggio critico di tipo ideologico e politico, che si potrebbe chiamare “totalitarismo del pensiero unico” (altri usano i termini “grande reset” o “transumanesimo”, tutti concetti tra loro collegati) e in questo si rivelano anche delle analogie con il modo con cui è gestita l’attuale crisi geopolitica.

 In questo intervento partirò da mie esperienze nel campo dei vaccini per allargare infine l’orizzonte sulle radici ideologiche e persino psicologiche delle distorsioni osservate.

LA “CULTURA” DEI VACCINI.

Ho sempre insegnato immunologia e vaccinologia all’università, senza dubbi di sorta fino al 2016, allorché fui coinvolto nel caso del dr. Roberto Gava, persona mite e competente, radiato dall’Ordine dei Medici di Treviso per le sue posizioni critiche verso le vaccinazioni indiscriminate e obbligatorie.

Non si trattava di un caso isolato, ma di una manovra organizzata dalla Federazione dei Medici che con un documento del 2016 sui vaccini iniziava a seguire le indicazioni governative.

Era già in corso una manovra poi culminata con la legge n. 3 dell'11 gennaio 2018, che ha previsto una nuova definizione degli Ordini, che ora agiscono quali organi sussidiari dello Stato “al fine di tutelare gli interessi pubblici” connessi all'esercizio professionale.

Anche se sono fatti del passato, conviene ricordare come andarono le cose perché si vede come operò l’intreccio tra industria, politica e informazione già in quell’occasione.

In quegli anni si stava preparando l’allargamento dell’obbligo vaccinale con la legge Lorenzin del 2017.

 Ricordiamo che fino al 2017 erano obbligatori solo vaccini per difterite, tetano e polio (malattie sparite, di cui la difterite e il tetano non per merito dei vaccini, ma dell’igiene) cui poi fu aggiunta la epatite B, resa obbligatoria, benché inutile per i bambini, per una disposizione di legge del 1991 quando era ministro della Sanità Francesco De Lorenzo, che intascò una tangente da 600 milioni di lire pagata dalla multinazionale Glaxo SmithKline (GSK), azienda produttrice del vaccino.

Dieci-quindici anni fa il mercato dei vaccini languiva e GSK iniziò a produrre un vaccino cosiddetto esavalente che oltre a contenere i 4 obbligatori conteneva l’antigene della pertosse e di haemophilus influenzae (malattia rarissima).

Inoltre, le case farmaceutiche produssero un vaccino tetravalente contro Morbillo, Rosolia, Parotite e poi Varicella.

Nello stesso tempo Glaxo e Merck si accordarono per eliminare dal mercato i vaccini monovalenti Morbillo e Rosolia che si facevano fino a quel momento.

C’era semplicemente il problema di venderli.

E salvare lo stabilimento di Siena, per cui si mosse Matteo Renzi in prima persona, quando GSK minacciò di chiudere lo stabilimento di Siena, dove sono impegnati circa 2.000 dipendenti.

Ecco quindi che sotto il governo Renzi si fece a Washington un accordo internazionale, che emerge anche da un comunicato dell’AIFA del 29 settembre 2014 in cui si legge, tra l’altro: “Washington, 29 settembre 2014 – L’Italia guiderà nei prossimi cinque anni le strategie e le campagne vaccinali nel mondo.

È quanto deciso al Global Health Security Agenda (GHSA) che si è svolto venerdì scorso alla Casa Bianca.

Il nostro Paese, rappresentato dal Ministro della Salute Beatrice Lorenzin, accompagnata dal Presidente dell’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) prof. Sergio Pecorelli, ha ricevuto l’incarico dal Summit di 40 Paesi cui è intervenuto anche il Presidente USA Barack Obama”.

La promessa era di aprire i mercati dei vaccini in oriente (soprattutto India e Pakistan) e in cambio bisognava saper garantire la vendita in Europa e diffondere “cultura” dei vaccini, tanto che il polo di Siena è diventato un centro di formazione dei vaccinatori di tutti i paesi poveri.

Non sta però scritto che Pecorelli fu poi costretto alle dimissioni per accertati legami con case farmaceutiche e che l’incontro di Washington fu organizzato dal dottor Ranieri Guerra, che era addetto medico dell'ambasciata italiana in USA e, guarda caso, faceva parte del CDA della fondazione GSK.

Come “premio” di questa attività Ranieri Guerra alla fine dell’anno fu nominato direttore generale della programmazione sanitaria del Ministero della Salute, e da quella posizione si occupò di organizzare le campagne vaccinali e scrisse di suo pugno la legge sull’obbligo del 2017 (in cui in prima battuta avevano inserito 12 vaccini con previsione di ritiro della patria potestà agli inadempienti).

LA BUGIA DEL MORBILLO.

La legge Lorenzin fu preparata dall’allora Ministro, per i motivi che si sono visti, approfittando in modo straordinariamente abile di un minimo aumento di casi di morbillo.

 Furono dette delle vere e proprie fandonie, la più grande fu che quel microscopico picco ricorrente ogni tre-cinque anni in una malattia così (da gennaio a maggio si trattava di poco più di 2500 casi in tutta Italia di cui nemmeno 1000 bambini, cioè meno di un caso ogni 5000 bambini) era dovuto a un presunto crollo delle coperture vaccinali (W. Ricciardi).

Io collaborai con la Regione Veneto nell’allestimento del dossier.

 Il ricorso del Veneto - in cui vigeva la libertà di vaccinazione da 10 anni - disse una cosa semplice e certa: non c’era alcuna necessità di un obbligo vaccinale, non c’era alcun aumento dei casi.

Eppure la Corte Costituzionale respinse il ricorso, perché essa stessa fu ingannata dalle ripetute argomentazioni dell’Avvocatura dello Stato sul presunto interesse pubblico dell’obbligo vaccinale.

Relatrice fu l’allora Consigliera Marta Cartabia, poi ministro del governo Draghi e “artefice” dei decreti legge sull’obbligo vaccinale anti-COVID-19 e “green pass”. Sarà un caso.

 Questi sono fatti e servono per capire come funzionano le cose anche oggi, perché il metodo è sostanzialmente lo stesso, in parte sono le stesse persone e gli stessi partiti a sponsorizzare l’operazione.

IL NUOVO TOTALITARISMO DEL GREEN PASS.

Il primo obbligo vaccinale anti-COVID-19 (DL 44, 1 aprile 2021, Art. 4) fu decretato “al fine di tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell'erogazione delle prestazioni di cura e assistenza”.

Poi da questo si è passati ad allargare l’obbligo agli ultra-50enni e soprattutto al green pass che è uno strumento tipico del nuovo totalitarismo, anzi ne è l’emblema.

 Caparbiamente voluto dalle élites europeiste, impersonate in Italia dal premier Draghi.

 Il filosofo Giorgio Agamben ebbe a dichiarare, in una audizione al Senato, che non è vero che il green pass sia servito a imporre i vaccini, sono stati i vaccini funzionali a imporre il green pass.

Quest’ultimo era il vero obiettivo delle autorità italiane e europee, che affermavano, falsamente, che si sarebbe trattato di uno strumento a garanzia della libertà di circolazione e di movimento.

Oggi sappiamo che l’inoculo di materiale genetico del virus non previene l’infezione (in realtà si sapeva già che non c’era alcuna prova scientifica di ciò), ha efficacia di breve durata e la protezione si inverte dopo 5-6 mesi, in un anno ha totalizzato molti più effetti avversi di tutti gli altri vaccini assieme nella storia, non è monitorato con farmacovigilanza attiva, non è valutato correttamente per quanto riguarda la “correlazione” (algoritmo OMS).

In mancanza della farmacovigilanza, l’unico parametro di riferimento indiscutibile (almeno come dato) è la mortalità per tutte le cause (cioè comprendente non solo i morti da COVID-19 ma anche da malattie cardiovascolari e tumori) e proprio da tale parametro originano dati estremamente preoccupanti.

 Almeno per quanto riguarda il Regno Unito, la mortalità per tutte le cause, che all’inizio sembrava inferiore tra i vaccinati, negli ultimi mesi sta invertendo la tendenza e si mostra maggiore tra i vaccinati (almeno quelli con due o tre dosi, non essendovi ancora dati sufficienti per quelli con quattro dosi).

VACCINO INTOCCABILE.

Eppure il “vaccino” gode ancora di uno statuto di intoccabilità, non si può nemmeno discuterlo, pena essere considerati complottisti e anti-scientifici. Continua la credenza che il vaccino sia l’unica salvezza e continua la sponsorizzazione di qualsiasi Ente o mezzo di informazione che ne promuova l’uso.

Ad esempio, l’Università di Padova ha avviato un centro ricerche che riceverà 320 milioni dall’Unione europea e collabora con molte aziende di Big Pharma, tra cui Pfizer, Biontech, Astrazeneca che beneficeranno di questi fondi.

Tra queste aziende spicca anche Orgenesis, un’azienda di biotecnologie americana che ha avuto un ruolo nello sviluppo dei vaccini a mRNA.

Ebbene: in questa azienda opera in un ruolo direttivo “Heiko von der Leyen”, marito della presidente UE.

E proprio il medico tedesco è stato inserito nel consiglio di sorveglianza, che secondo lo statuto del centro ha il potere di pianificare la strategia del budget.

Un conflitto di interesse della famiglia von der Leyen grande come una casa ma di cui pochi parlano.

D’altra parte, ancora si parla troppo poco delle cure della malattia, forse perché i costosissimi antivirali (sempre della Pfizer) non mantengono le promesse o non ci sono fondi per utilizzarli in tutti i casi.

Perché le cure domiciliari con i comuni antinfiammatori e integratori alimentari non vengono studiate, organizzate, promosse e valutate?

Le ragioni sono essenzialmente tre:

1)- la pervasiva mentalità tipica di uno statalismo “etico-burocratico”: lo Stato presume di dover dirigere la medicina e la farmacologia e non può ammettere cure cosiddette “non provate rigorosamente”.

L’AIFA usa il termine cure “non raccomandate”, ma dalla non raccomandazione alla negazione il passo è breve, anche tenendo conto che qualche medico è stato già inquisito dalla magistratura o radiato per non aver seguito le “raccomandazioni” di Tachipirina e vigile attesa.

2)- I vaccini promessi come l’unica salvezza dell’umanità potevano essere autorizzati in via emergenziale solo se non esistevano rimedi efficaci per la malattia.

3)- AIFA è letteralmente finanziata dalle case farmaceutiche che versano notevoli somme per i propri dossier di registrazione.

Un antinfiammatorio come l’indometacina (già registrato) costa 2 euro la scatola e non porta alcun incentivo nelle casse dello Stato, mentre i nuovi antivirali costano 500 euro.

L’INTRECCIO.

Analizzare il modo di gestione della pandemia, particolarmente per gli aspetti dell’obbligo vaccinale e dei ritardi nelle cure, è importante perché le distorsioni segnalate rappresentano la “punta di un iceberg” e rivelano emblematicamente l’intreccio tra finanza, politica, informazione e scienza.

Qui si rivelano le menzogne del potere totalitario (e del suo pensiero unico) che incombe sull’umanità e sfrutta la cosiddetta scienza (meglio si dovrebbe parlare di tecnologia) per i suoi fini di dominio planetario.

 Esistono dei poteri forti e sovranazionali che condizionano le nostre vite.

 Non per niente, ad esempio, la propaganda vaccinale a buon mercato (cioè senza neppure approfondire tecnicamente le questioni) ha visto come motore e protagonista lo stesso “World Economic Forum” (WEF), di Klaus Schwab che ha pubblicato degli opuscoli in materia.

IL GREAT RESET E IL TRANSUMANO.

Il Grande Reset (in inglese Great Reset) è una proposta del WEF per ricostruire l'economia “in modo sostenibile” dopo la pandemia di COVID-19.

Fu presentato congiuntamente a maggio 2020 da Carlo, oggi re del Regno Unito, e dal fondatore e direttore Klaus Schwab.

Si tratta, in breve, di un progetto di completa riorganizzazione della produzione, del commercio e dei consumi in vista di una trasformazione della società dichiaratamente in senso trans-umano.

La stessa von der Leyen ne ha fatto menzione nei suoi discorsi programmatici.

Il programma si basa sulle innovazioni della “Quarta rivoluzione industriale” con una apparente finalità etica, filantropica, ecosostenibile etc...

Per quarta rivoluzione industriale si intende la crescente compenetrazione tra mondo fisico, digitale e biologico.

 È una somma dei progressi in intelligenza artificiale, robotica, Internet, stampa 3D, ingegneria genetica, computer quantistici e altre tecnologie.

 L’obiettivo è la creazione di un nuovo tipo umano che anziché riferirsi alle credenze tradizionali diviene creatore e allo stesso tempo utilizzatore del proprio destino, mediante la tecnologia di stampo meccanicistico e riduzionistico.

Un “uomo nuovo”, sano, efficiente, che è capace di emanciparsi dalla stessa natura utilizzando la conoscenza soprattutto biogenetica e informatica

. Il “metaverso”, in cui l’uomo alienato potrà immergersi e “vivere”, è solo un esempio di questo progresso.

L’obiettivo finale è l’emancipazione dalla morte o, se non possibile, almeno una "dolce morte".

Una società finalmente funzionante, ben organizzata, una popolazione selezionata sin dall’embrione, ridotta di numero, senza pesi morti e individui non produttivi.

Oltre che nel WEF, l’idea del Great Reset trova alimento e rilancio in Occidente in un cartello sovranazionale, di stampo scienti-tecnocratico e con accentuati lineamenti etici.

Le sue “armate” sono costituite da un coacervo di istituzioni e organismi che agiscono su tutti i principali ambiti dell’esistenza umana:

Gruppo Bilderberg, Banca Mondiale, OMS, Trilaterale, Aspen Institute, Fondazione Gates, GAVI (Global Alliance for Vaccine Initiative).

In tali e altri Enti sovranazionali, in parte pubblici, in parte privati, in parte esclusivi, sono implicati banchieri, politici (di destra, centro e sinistra), giornalisti, economisti, dirigenti d’azienda, persino personaggi dello spettacolo.

Quindi si è formato un intreccio di interessi tra finanza, industria tecnologicamente avanzata, politica ispirata alla sinistra globalista, informazione mainstream.

Queste entità sono intrecciate, dipendono le une dalle altre e si sostengono. Questo “pensiero unico” e totalizzante prende forma e si autogiustifica come tale, demonizzando qualsiasi pensiero alternativo o di resistenza.

 Nel mondo la fa da padrone, tanto che si potrebbe chiamare la personificazione del “Padrone del Mondo” profetizzato in vari romanzi del secolo scorso.

Contro questo “pensiero” ingranato con tutto non si può andare, neppure i potenti ci devono provare.

IL RUOLO DELLA CINA.

Questo programma di forte stampo totalitario e tecnocratico è stato concepito in Occidente per affrontare le nuove “sfide” del mondo globalizzato, forse anche perché la Cina ha dimostrato coi fatti che un regime politicamente e giuridicamente autoritario è più efficiente delle nostre vecchie democrazie per padroneggiare le crisi.

Ad esempio, il modo con cui la Cina ha affrontato la pandemia è esemplare:

hanno lavorato per anni nel settore del “gain of function” (GOF) dei virus (anche con i finanziamenti americani), poi si sono lasciati “scappare” il virus dal laboratorio, hanno fatto subito un lockdown durissimo, mentre in giro per il mondo sono stati presi tutti alla sprovvista.

Subito dopo la “comparsa” dei SARS-CoV-2 i cinesi “concessero” la sequenza del nuovo virus e gli americani ed europei ci cascarono, pensando che con quella avrebbero prodotto i vaccini, mentre i cinesi i vaccini se li sono fatti col sistema tradizionale dei virus inattivati.

TOTALITARISMO O DITTATURA?

Il totalitarismo è diverso dalla dittatura perché la seconda è violenta e forza le persone, mentre il primo è pervasivo, convincente, si basa sulla formazione del pensiero delle masse e il controllo capillare dell’informazione.

Matthias Desmet, nel suo recente “Psicologia del totalitarismo” (Edizioni La Linea, Bologna 2022), ricorda che la differenza si colloca soprattutto sul piano psicologico: mentre le dittature si basano sulla paura fisica, lo Stato totalitario affonda le sue radici nel processo sociale e psicologico della “formazione di massa”.

In una società devono darsi quattro condizioni perché si renda possibile una formazione di massa su larga scala, tutte presenti al momento dell’avvento del nazismo e dello stalinismo, ma emergenti anche nella nostra epoca:

1)- uno stato di solitudine generalizzata, isolamento sociale e mancanza di legami interni alla popolazione;

2)- mancanza di senso della vita, del lavoro e dello studio;

3)- enorme diffusione di ansia latente e disagio psicologico;

4)- senso generalizzato di frustrazione e quindi aggressività, che cercano degli oggetti verso cui indirizzarsi.

Il metodo di lavoro del sistema di potere globale emergente è basato su una sorta di procedura la cui attuazione, passo dopo passo, consente di raggiunge l’obiettivo principale, cioè il totalitarismo del pensiero unico.

 Eccone gli steps fondamentali:

Creazione artificiosa di fenomeni – o utilizzazione strumentale di situazioni effettivamente presenti – dai quali far scaturire un pericolo grave e incombente per tutti (malattia, povertà, fame, aggressione di un nemico, regressione economica, cambi climatici).

Necessità di risposte immediate e presentazione di soluzioni che “appaiano” il più possibile rapide, efficaci e univoche, comunque incontestabili (meglio se eticamente giustificabili; da qui l’opportunità del supporto, quando necessario, di una religione compiacente).

Creazione di vere e proprie “fedi” indiscutibili. La prima “fede” è la cosiddetta scienza e i suoi prodotti tecnologici. Un’altra fede è la bontà dello Stato che si occupa del bene dei cittadini. Un’altra è la “transizione ecologica” che metterebbe fine al riscaldamento globale.

Portare la gente a credere in un solo modello economico (adesione di massa all’Euro e al modello irreversibile, unico e indiscutibile delle politiche liberiste di stampo euro-globalista), uno politico-strategico (adesione di massa all’approccio euro-atlantico nella crisi russo-ucraina e nello scenario cino-taiwanese), uno etico-valoriale (adesione di massa alla visione e alle strategie mondialiste LGBTQIA+).

Conseguimento della piena operatività delle soluzioni proposte, grazie alla progressiva collaborazione delle persone, prima spinte poi forzate ad adottare cambiamenti di tipo comportamentale, sociale, relazionale, affettivo ed etico.

Parallela adozione di massicce e pervasive strategie di comunicazione, informazione e persuasione per conseguire incondizionato consenso acritico di massa alle soluzioni adottate;

Isolamento, insulto e discriminazione, fino all’eliminazione (non c’è più bisogno che sia fisica) di singoli soggetti o gruppi sociali dissidenti.

UNA REAZIONE.

Di fronte a tali minacce, così pervasive, profonde e apparentemente invincibili, cosa si può realmente fare?

È possibile resistere, lottare e reagire?

Innanzitutto si tratta di capire il pericolo e le sue radici.

In questo ci aiuta quanto scrisse San Giovanni Paolo II Papa (che di totalitarismo se ne intendeva) nella sua Centesimus Annus: 

“La radice del moderno totalitarismo, dunque, è da individuare nella negazione della trascendente dignità della persona umana, immagine visibile del Dio invisibile e, proprio per questo, per sua natura stessa, soggetto di diritti che nessuno può violare: né l'individuo, né il gruppo, né la classe, né la Nazione o lo Stato.

Non può farlo nemmeno la maggioranza di un corpo sociale, ponendosi contro la minoranza".

Nella Centesimus Annus si leggono affermazioni ancora più forti:

“Lo Stato totalitario, inoltre, tende ad assorbire in se stesso la Nazione, la società, la famiglia, le comunità religiose e le stesse persone.

Difendendo la propria libertà, la Chiesa difende la persona, che deve obbedire a Dio piuttosto che agli uomini (cf At 5,29), la famiglia, le diverse organizzazioni sociali e le Nazioni, realtà tutte che godono di una propria sfera di autonomia e di sovranità.”

Un altro insegnamento viene dall’esperienza delle resistenze al potere sovietico - soprattutto ungheresi, polacche e cecoslovacche - prima del suo crollo.

 Come ricorda Francesco Ochetta in un commento al libro di Havel “Il potere dei senza potere”, il muro di Berlino è caduto anche grazie alla dissidenza non violenta di uomini come Václav Havel, drammaturgo e intellettuale liberale, poi diventato Presidente della Cecoslovacchia.

L’eredità del suo pensiero ci consegna almeno tre insegnamenti:

1) il dovere della memoria: omettere questa responsabilità significa creare le condizioni per un oblio politico e sociale da cui nemmeno l’Italia è immune;

2) la mitezza, che ha ispirato la Rivoluzione di Velluto nel 1989 e rovesciato il comunismo in Cecoslovacchia. Havel infatti si è rifiutato di odiare anche quando è stato rinchiuso in carcere;

3) la ricerca della verità contro ogni tipo di menzogna, attraverso la qualità della parola.

 Havel non ha mai soffocato la sua parola, nemmeno nei circa sei anni trascorsi in carcere: anzi, l’ha esaltata come drammaturgo, l’ha condivisa e resa dialogica come politico.

Per Havel ogni cambiamento sociale e politico inizia dai singoli atti, soprattutto da quelli piccoli che prendono le mosse dal cambiare la (propria) storia.

Incluso ciò che serve per «cercare l’anima dell’Europa», un’Europa dei popoli: «Al totalitarismo – diceva – si resiste soltanto se si sceglie di scacciarlo dalla propria anima».

In pratica, la gente che ha capito e vuole resistere può fare comunque alcune cose in tale direzione, a portata di tutti e di ciascuno:

 

Dichiarare il proprio dissenso dal pensiero unico in ogni circostanza e con qualunque mezzo.

Diffondere ogni tipo di struttura, organizzazione e iniziativa che nei diversi contesti (religioso, politico, informativo, web, editoriale, educativo, sanitario, sportivo) sia portatrice di istanze resistenziali antitotalitarie.

Partecipare attivamente e dare visibilità a qualunque evento pubblico venga organizzato per dar voce e corpo alle suindicate istanze.

Promuovere e realizzare, con iniziative sia individuali sia sociali, forme di boicottaggio mirato a qualunque organizzazione che sia allineata con le politiche, le strategie e i cosiddetti “valori” politicamente corretti.

Scegliere per i propri figli proposte scolastiche ed educative che siano sicuramente fuori dai “circuiti” gender ed ecoambientalisti.

Attivare azioni, anche drastiche, di silenziamento massmediale. Una di esse, ad esempio, potrebbe essere quella di eliminare i collegamenti televisivi o ridurli al minimo.

Aiutare nelle forme per ciascuno possibili persone e organizzazioni che, a motivo delle loro scelte resistenziali, si trovino a operare concretamente e rischiosamente contro il sistema totalitario.

Politicamente, promuovere ogni iniziativa che vada nella direzione dell'applicazione di un autentico principio di sussidiarietà, che è sempre stato il cardine della Dottrina sociale della Chiesa.

È necessario iniziare a muoverci, anche individualmente, qui e ora. Occorre farlo, io penso, anche come credenti, anche se oggi la Chiesa nelle sue gerarchie sembra ancora lontana da tale consapevolezza.

 Dobbiamo lavorare con pazienza affinché aumenti la presa di coscienza (con relativo cambiamento) che renda gruppi sociali più o meno vasti e importanti consapevoli del disegno oppressivo di cui sono vittime e siano capaci di resistere per il bene comune.

(Paolo Bellavita- Medico chirurgo e ricercatore indipendente).

FACILE È LA GUERRA PER

CHI NON L’HA PROVATA.

 Euronomade.info – Redazione- GIROLAMO DE MICHELE – (Apr. 1, 2022) -ci dice:

 

1). Nella commedia all’italiana Anni ruggenti, un compassato Nino Manfredi si rivolge all’esagitato fascista Gastone Moschin, che ha perorato la partenza dei volontari alla guerra di Spagna con roboante oratoria, chiedendogli: “Voi partite col secondo scaglione?”.

È una domanda che andrebbe rivolta ai molti autoproclamatisi analisti politici che negli spazi comunicativi si accalorano sull’invio di armi all’Ucraina – peraltro, senza chiarire quali armi, e a quali destinatari.

Il correlato di questi discorsi è da un lato la legittimazione della resistenza ucraina – come se, putiniani a parte, qualcuno la mettesse in discussione;

 dall’altro, che chi dissente dal discorso sulle armi sia, oltre che un’anima bella o un pacifista, un pacifista da tastiera.

Fatto è che dietro una tastiera ci siamo tutti, pacifisti e sostenitori dell’invio di armi: perché nessun partecipante all’agorà mediatica ha, in questo momento, la minima possibilità di influire sulle decisioni che vengono prese altrove.

Non si dice Biden, ma neanche Draghi telefonerà a uno qualunque di questi opinionisti per chiedere parere: questo è un fatto.

Che pone un problema di non poco conto: in che modo, non solo sulla questione della guerra, ricostruire uno spazio pubblico in grado di rendere performativi gli enunciati che emergono nella discussione pubblica.

2). Peraltro, la foga di taluni opinionisti sembra orientata, con l’alzare dei toni, ad attutire la memoria di posizioni più o meno recenti, che sarebbe bene ricordare.

C’è chi, all’indomani della vittoria elettorale del centro-destra nel 2018, si affrettava a citare autorevolmente in prime time “il filosofo Diego Fusaro”;

 chi ha profetizzato l’avvento del “gigante indiano” e la nascita di un blocco indo-cinese, il cosiddetto “impero di Cindia”;

chi poche ore prima dell’invasione russa metteva in guardia dal blocco del sistema SWIFT, e sosteneva che riconoscere le autoproclamate repubbliche secessioniste dell’Ucraina orientale non preludeva a una dichiarazione di guerra:

filosofie politiche alla carta e geopolitiche prêt-à-porter, insomma, rese possibili dal fatto che delle cantonate passate nessuno sembra chiedere conto.

Il che è una delle facce della peste del linguaggio che ha da tempo contagiato lo spazio pubblico.

3). Le armi: quali, e a chi?

Se c’è una merce che non sembra mancare alla resistenza ucraina (che è costituita da soldati di mestiere), sono proprio le armi di piccolo e medio peso.

Capita piuttosto che la cattiva merce, cioè quella bellica, scacci quella buona: viveri, farmaci, generi di conforto.

Dei quali si interessa attivamente quella galassia pacifista che, in modo spontaneo, si occupa dell’invio di materiali e del supporto al diritto alla fuga dei profughi.

E del resto neanche il bellicoso presidente ucraino Zelinsky chiede fucili o munizioni: chiede piuttosto tank, aerei, la no fly zone.

 In poche parole, la partecipazione attiva alla guerra del cosiddetto Occidente, in una delle sue molte incarnazioni – Unione Europea, NATO, USA.

Sarebbe dunque doveroso che chi parla di invio di armi all’Ucraina chiarisse se intende – e allora lo dica – una dichiarazione di guerra, o no.

Sempre ricordando che nessuno consulterà Rampini o Gramellini, prima di dichiararla.

4). Sicché, in un mare di chiacchiere roboanti – ma anche, va riconosciuto, di discorsi più pacati e ragionati, ma parimenti impotenti – le uniche azioni concrete, al di là della tastiera, delle prime pagine dei quotidiani e dei palchi televisivi, sono quelle compiute dalle anime belle – ebbene sì:

rivendichiamola, questa definizione, appropriamocene! – da Mediterranea a Emergency alla Caritas, fino alle mille associazioni, ma anche alle singolarità cui basta un mezzo capace e due giorni liberi per portare soccorso e salvezza sulla frontiera ucraino-polacca.

 E, con buona pace di qualche starlette televisiva, senza dimenticare che il fronte orientale si aggiunge, ma non si sostituisce a quello meridionale, nel quale si continua a morire per annegamento o per mano della cosiddetta guardia costiera libica armata e finanziata dall’Italia, se non giunge per tempo il soccorso navale.

5). La peste del linguaggio, si diceva.

Quell’allestire a misura di audience nei luoghi deputati alla discussione un Circo Barnum nel quale deve necessariamente esserci un barboncino parlante e un clown col naso rosso: e, simmetricamente, quello sgomitare di barboncini e clown disposti a farsi avanti per recitare la parte.

È questo uno dei peggiori retaggi dei due anni di discussione pubblica avvelenata in tempo di sindemia:

lo smarmellarsi delle differenze in una pappa indistinta nella quale sono confusi la filosofa pacifista che ha scritto Stranieri residenti e l’opinionista filo-russo fino a ieri aduso ad odiose affermazioni sui migranti; e, più in generale, la sovrapposizione intenzionale, condita dal conseguente dileggio, fra chi prepara la pace perché vuole pace, e chi strumentalmente dice pace per nascondere la propria adesione alla crociata putiniana.

Non è un caso che, come osserva Luigi Manconi, si appalesi “una perfetta integrazione tra ostilità al vaccino e apprezzamento per Putin”, descrivibile attraverso (almeno) quattro categorie: sindrome del nemico, mania di persecuzione, sovranismo corporale e geo-politico, odio per le élite.

 Fermo restando che, detto pour cause, qualcuno (magari chi lo aveva candidato alla presidenza della Repubblica) dovrebbe chiedere allo stesso Manconi se la Buona Scuola, che lui votò in Parlamento senza proferire una sola parola di dissenso, rende oggi più facile o più difficile combattere questa peste logico-linguistica.

 Se oggi è possibile dileggiare quotidianamente un intellettuale che da anni, con lo sguardo della fisica teorica, cerca di “pensare il mondo come un insieme di eventi, di processi”, e non come una collezione di cose, e sostituire uno sguardo complesso con la lettura dei fondi di caffè nella tazzina, qualche domanda su quello che alla scuola è stato fatto nell’ultimo ventennio bisognerebbe farsela.

6). Ho scritto: crociata putiniana.

La dico meglio: quella rappresentazione semplificatrice di opinionisti facilitatori che descrivono lo spazio europeo come luogo di un conflitto tra presunte élite globali e difensori della tradizione cristiana;

 tra civilizzazione e civiltà; tra Grande Reset globalista e Grande Risveglio;

 tra perversioni LGBTQ+ e ritorno alla morale.

Una rappresentazione della quale si fa artefice non solo, e non tanto, Aleksandr Dugin – che peraltro non è un ideologo di Putin, ma un estremista cui a Putin può far comodo ammiccare –, come esemplifica bene la recente intervista fattagli da un “giornalista” su un antifrastico foglio di stampa (ambedue, giornalista e foglio, sdoganati da un’altra intervista nelle prime settimane della pandemia).

Ma soprattutto, da un opinionista/facilitatore come Rampini, che assume pari – limitandosi a rovesciarlo, salvo parlare con involontaria ironia di “opposti estremismi” – il paradigma binario: l’impudenza di Putin sarebbe causata da un Occidente malato del virus della critica, teorica e sociale, ai buoni valori occidentali.

 Quale che ne sia il segno, la posta in gioco di questa guerra sarebbe la ricostituzione del blocco, geo-politico e valoriale, occidentale.

7). La pace: quali sono le parole che devono, o dovrebbero essere pronunciate, oggi?

Cominciamo col chiederci quale prassi discorsiva debbano praticare i movimenti per la pace, anche e soprattutto alla luce dell’attuale impotenza performativa di ogni discorso sulla guerra.

Uno dei primi effetti di ogni guerra – lo diceva Gino Strada – è di far dimenticare tutto ciò che c’era prima, e che ha causato la guerra, schiacciando la dimensione politica sull’oggi:

 fingendo di ignorare che in quel passato che viene rimosso ci sono le cause non solo della guerra attuale, ma anche delle prossime (che è un altro modo di dire che “il mondo non è un insieme di cose, è un insieme di eventi”).

È evidente che le parole della pace non possono avere per scopo l’ingresso nell’attuale agorà politica, ma devono osare la prefigurazione di un diverso ordine del discorso, scommettendo sulla possibilità di un altro mondo nel quale le differenze non sono risolte tramite la guerra.

Di più: nel quale l’intreccio sistemico delle crisi – bellica, pandemica, ecologica, migratoria, economica – sia riconosciuto come la manifestazione di un modo perverso di stare al mondo, di una distribuzione dei viventi negli spazi globali infettata dal virus del capitalismo.

E nella ricerca di alleanze fra chi è disposto a condividere questi assunti. In quest’ottica, è patente che non può aspirare a una futura credibilità un discorso che oggi si comprometta con il sostegno alla soluzione armata.

È altrettanto evidente che qui acquista una sua centralità il ruolo della scuola, non a caso investita dall’ennesima emergenza educativa nell’accoglienza dei profughi.

Per dirla con una battuta che spiega tutto: come si diceva all’assemblea di Priorità alla Scuola di domenica 27, cominciamo a chiamarli non più profughi, ma cittadini e studenti.

8). È stato detto che questa guerra ha definitivamente distrutto l’album di famiglia della sinistra.

È probabile che la crisi bellica abbia reso indifferibile la presa di coscienza di qualcosa che era già accaduto da tempo, ben prima della stessa crisi pandemica.

 Si tratta comunque di prenderne atto, se possibile con sobrietà, e tracciare il disegno di un diverso album (magari rinunciando all’analogia con l’istituzione familiare, che i soggetti fotografati in quell’album un tempo sognarono di distruggere).

Gettare via l’album, del resto, non significa gettare via tutto quello che quell’album raffigurava: morfologie, strutture, processi di soggettivazione, insomma cose concrete possono e devono essere recuperate genealogicamente da quel passato.

Non per nostalgia, ma per la costruzione di nuovi spazi politici, pubblici, discorsivi: assumere una posizione per la pace, in favore di un tempo futuro, può essere un lavoro di federazione possibile.

 

 

 

L’OCCIDENTE IN DECLINO E GLI INTERESSI

DIETRO LA GUERRA IN UCRAINA.

Controinformazione.info – (19 aprile 2022) – Luciano Lago – ci dice:

 

Quando analizziamo la causa dei conflitti odierni sullo scenario internazionale dobbiamo partire da una premessa di fondo che permette di comprendere quale sia la principale causa di tali conflitti.

La classe dirigente globalista e l’élite di potere statunitense rifiutano di accettare la loro sempre maggiore perdita storica dell’egemonia unipolare e della supremazia nelle relazioni internazionali dovuta allo sviluppo di un nuovo mondo multipolare e policentrico che sta modificando la correlazione delle forze tra nazioni con l’ascesa attiva di potenze come India, Iran, Corea del Nord, Cina, Russia, Venezuela o Cuba che segnano la loro sovranità e indipendenza contro l’imperialismo statunitense e il suo sistema neoliberista in declino .

Questa è anche la causa prima dello scontro fra occidente atlantista e la Russia di Putin ed a questo si collega l’altro fattore che è dato dalla volontà delle élite globaliste di annientare la Russia come polo antagonista al dominio degli Stati Uniti in Europa e in altre parti del mondo.

Gli Stati Uniti hanno utilizzato l’Ucraina come una loro pedina per contrastare la Russia e creare un conflitto alle sue porte, approfittando delle rivalità interne e dei conflitti etnici di quel paese.

A questo si è unito il desiderio di saccheggio del neoliberismo occidentale, con buona parte della popolazione ucraina sottoposta all’allucinazione consumistica introdotta da una massiccia operazione di marketing.

Tale operazione ha favorito la rivoluzione colorata avvenuta nel paese (pilotata dalla CIA), guidata violentemente da due partiti di estrema destra Pravy Sektor e Svoboda, quest’ultimo con seggi in Parlamento.

In un prolungamento della guerra fredda, che in molti pensavano fosse un residuo del passato, l’Occidente ha fatto pressione per insediare un governo russofobo a Kiev, dando così origine alla ribellione delle regioni a maggioranza russa e gestendo una sorta di guerra civile che ha servito da terreno fertile per il rafforzamento dei gruppi ultranazionalisti e neonazisti che hanno permeato le istituzioni ucraine, l’esercito e incluso il governo di Kiev.

L’Ucraina è diventata quindi il terreno di scontro tra Occidente atlantista e la Russia che difende la sua sicurezza dal tentativo scoperto della NATO di costituire nel paese basi avanzate offensive contro la Russia.

La Russia ha reagito ed ha rotto l’accerchiamento con l’operazione speciale iniziata il 24 febbraio che, si può criticare per il modo ed i tempi in cui si è sviluppata, ma che costituisce la risposta della Russia alla strategia di accerchiamento portata avanti dalla NATO e dagli USA sotto le proprie frontiere.

Forze USA in Ucraina.

In questo contesto si rende evidente l’ipocrisia dell’Occidente che oggi condanna la Russia per la presunta invasione dell’Ucraina dimenticandosi delle tante guerre sostenute ed appoggiate da USA e i suoi alleati contro paesi sovrani in violazione del diritto internazionale.

In particolare in molti si chiedono per quale motivo i governi occidentali, l’amministrazione Biden e l’Unione Europea, condannano la Russia per aver invaso l’Ucraina con il pretesto della sicurezza nazionale mentre difendono il “diritto legittimo” del regime saudita di invadere lo Yemen con lo stesso pretesto?

Nonostante le spaventose violazioni dei diritti umani da parte dell’Arabia Saudita nello Yemen, le nazioni occidentali, e in particolare gli Stati Uniti, non solo hanno fornito armi letali, addestramento, manutenzione, intelligence e copertura politica e diplomatica alla monarchia saudita, ma hanno imposto restrizioni ai media sulla copertura delle violazioni dei diritti umani del regime saudita in Yemen, pressioni sulle società di tecnologia e social media per rimuovere e bandire completamente gli attivisti yemeniti e i media critici nei confronti della guerra.

Lo stesso accade in Palestina ed in Siria con le azioni criminali del regime di Israele, sostenuto da tutto l’Occidente atlantista, che sono dirette contro la popolazione indifesa, adducendo sempre il motivo della propria sicurezza quando è noto a tutti che Israele occupa illegalmente le terre palestinesi e conduce una spietata politica di appropriazione, di insediamenti coloniali e di apartheid della popolazione nativa.

Tralasciando il ruolo nefasto della NATO nelle recenti guerre di aggressione condotte in Iraq, in Libia, Somalia e Afghanistan e altrove, con il loro bilancio di milioni di vittime e distruzioni immani fatte da coloro che oggi si ergono a giudici.

In occasione della crisi ucraina il livello di ipocrisia e di cinismo dei media occidentali, guidati dal grande carrozzone della propaganda anglo USA, risulta assolutamente intollerabile, da denunciare per le falsità e la manipolazione della realtà diretta ad assegnare la parte del cattivo tiranno al presidente Putin e la patente di “buoni e vittime” a tutti gli ucraini, inclusi i neonazisti sanguinari dei vari battaglioni e mercenari di ogni risma accorsi a difendere la giunta di Zelensky e soci.

In vista dell’obiettivo di questa guerra, quello di disarticolare la Russia ed ottenere un cambio di regime a Mosca, le forze della NATO stanno conducendo una forsennata campagna di sostegno dell’esercito ucraino e delle formazioni neonaziste, fornendo loro ogni tipo di appoggio e di armi sofisticate, alimentando le fiamme del conflitto che rischia ogni giorno di estendersi in Europa.

Si è compreso che nessuno ha voglia di scendere direttamente in campo per timore di una guerra nucleare ma non si tralascia ogni sforzo per prolungare il conflitto a tempo indefinito a costo di elevate perdite umane, con l’Occidente che mette le armi e gli ucraini che mettono la carne da cannone per alimentare la guerra.

Gli istigatori della guerra sono a Washington, a Londra ed a Bruxelles, con il tragico ruolo dell’Europa che lavora per il suo stesso annientamento pur di favorire gli interessi dell’Impero statunitense.

Di questo un giorno le classi dirigenti dei paesi europei saranno chiamate a rispondere.

 

 

 

Russia e Cina all’avanguardia

del mondo multipolare.

Nritalia.org - Aleksandr Dugin – (6-2-2022) – ci dice:

(Bandiere Russa e Cinese davanti alla Cattedrale di San Basilio, Mosca)

L’attuale crisi delle relazioni tra la Russia e l’Occidente non ha nulla a che vedere con il gas, il petrolio, le risorse energetiche o l’economia in generale.

 I tentativi di spiegare la politica con il premio nello spirito di Daniel Yergin sono vani e superficiali.

Si tratta di processi civili e geopolitici, in cui le questioni economiche ed energetiche sono secondarie e vengono citate in giudizio strumentalmente.

Dal punto di vista della civiltà, è tutta una questione di ideologia e proprio di quella dei Democratici nell’amministrazione Biden.

L’amministrazione attuale degli Stati Uniti consiste di alleanza di ultra-globalisti mescolati con neocons e falchi liberali.

 Osservano che il mondo unipolare, l’ideologia liberale globale e l’egemonia dell’Occidente stanno crollando e sono disposti a fare qualsiasi cosa, anche la Terza Guerra Mondiale, per prevenirla in qualche modo.

I globalisti hanno molti nemici – Islam, populismo (tra cui Trump), conservatorismo, Islam politico, ecc. –, ma solo due potenze hanno il reale potenziale per sfidare davvero l’egemonia – Russia e Cina.

 La Russia è un gigante militare, la Cina un gigante economico.

Qui entra in gioco la geopolitica.

 È importante che Biden strappi la Russia dall’Europa, che vuole una propria politica autonoma.

Da qui il problema ucraino e l’escalation nel Donbass.

La Russia e Putin vengono demonizzati e accusati di essere pronti ad invadere il paese vicino, anche se non c’è una vera invasione, Washington si comporta come se fosse già avvenuta.

Da qui le sanzioni e anche la probabile azione militare preventiva nel Donbass.

Poiché tutti in Occidente sono convinti dell’invasione russa, qualsiasi operazione militare degli ucraini appoggiata dalla NATO nel Donbass sembrerà una difesa legittima.

Allo stesso tempo, si presume che una campagna mediatica scatenata contro la Russia impedirà una risposta adeguata e simmetrica da parte di Mosca e, se non lo impedirà, le relazioni di Mosca con l’Europa saranno comunque interrotte.

Le dispute sul gas e Nord Stream-2 servono solo come strumenti tecnici per una guerra di posizionamento. 

Lo stesso vale per la Cina.

Biden ha creato un’alleanza anti-Cina con i paesi anglosassoni (Australia, Gran Bretagna) AUKUS e QUAD con i paesi asiatici – Giappone, India.

L’ostacolo stavolta è Taiwan (come l’Ucraina nel caso della Russia) e l’obiettivo finale è quello di interrompere e prevenire l’espansione economica della Cina nel progetto “One Way One Belt Initiative”.

L’alleanza tra Russia e Cina e la combinazione delle intenzioni russe di restaurare il «grande spazio» con il progetto cinese “One Way One Belt “nel progetto integrale della Grande Eurasia, annunciata dai leader russi e cinesi diversi anni fa, significa la fine irreversibile dell’egemonia occidentale.

I recenti incontri di Putin e Xi Jinping non lasciano dubbi sulla serietà della Grande Eurasia e la decisione è stata presa.

Da qui il feroce attacco dell’ultraliberale e globalista Soros alla Cina.

Tutto questo è geopolitica classica, che ripete alla lettera i progetti atlantisti da Mackinder a Brzezinski.

 Il potere marino (liberali, globalisti) contro il potere terrestre (Eurasia).

Allo stesso tempo, Russia e Cina potrebbero accogliere altri contendenti per lo status del polo:

America Latina (come è stato sottolineato durante la visita del Presidente argentino Albert Fernandez a Mosca e di cui sicuramente si parlerà durante la visita prevista del Presidente brasiliano Bolsonaro),

il mondo islamico (che sogna di liberarsi del controllo occidentale – Iran, Turchia e Pakistan sono in prima linea su questo fronte),

Africa (dove Russia e Cina hanno iniziato a ripulire i regimi fantocci europei),

l’Europa continentale stessa (che è sempre più stanca dell’atlantismo e sogna di diventare un polo a sé stante – idee che stanno guadagnando popolarità in Francia, Germania, Italia e Spagna, nonostante le élite liberali atlantiste, ancora al potere).

Solo l’India (a causa dei conflitti con la Cina e il Pakistan) e il Giappone (ancora sotto il rigido controllo degli Stati Uniti), così come un certo numero di burattini globalisti, sono dalla parte degli evidenti perdenti. Rimanere lì sta diventando un vero peccato.

Questo riguarda anche l’ideologia.

Tutti coloro che si oppongono all’egemonia americana e al goffo tentativo di Biden di salvare il modello unipolare (nello spirito della League of Democracies) stanno cominciando a prendere le distanze dal dogma liberale, soprattutto nella sua attuale forma assolutamente ripugnante e patologica (con la legalizzazione e l’imposizione totalitaria aggressiva di LGBT+, matrimoni gay e altre perversioni, così come minaccia diretta di cedere il potere all’Intelligenza Artificiale, a cui si riducono i progetti post-umanisti attivamente promossi dalla Big Tech).

Se a questo si aggiungono il fallimento delle politiche anti-Covid, le vaccinazioni discutibili (eliminate da Omicron), le repressioni ingiustificate e orrende, i passaporti orwelliani e un sistema di sorveglianza totale, è chiaro che il crollo del liberalismo è più vicino che mai.

I successi dei camionisti ribelli del Convoglio della Libertà in Canada, che hanno costretto il globalista liberale Trudeau a nascondersi, e l’aumento della popolarità dei candidati anti-Macron in Francia (tutti, da Zemmour a Marine Le Pen a Melanchon, si schierano su posizioni antiliberali e anti-NATO) sono solo alcuni sintomi del processo globale – la fine della L’egemonia atlantista.

La Russia è ora sfidata dall’atlantismo agonizzante simmetricamente dal punto di vista della geopolitica eurasiatica, opponendo globalismo e multipolarità e il liberalismo con valori alternativi e tradizionali di civiltà;

al posto delle persone LGBT, la famiglia tradizionale (scritta nella Costituzione); al posto dell’individualismo – la nazione e la sua identità storica, ecc.

La Cina in generale sostiene questo approccio di Mosca.

Pechino si oppone anche al globalismo e all’egemonia occidentale e difende i suoi valori tradizionali, stavolta cinesi.

Tutto ciò si vede chiaramente nelle tesi dell’ultimo incontro di Putin con Xi Jianping:

Mosca e Pechino intendono opporsi a qualsiasi attacco alla loro sovranità (leggi: combattere fino in fondo l’egemonia e il globalismo);

Russia e Cina hanno tenuto conto della creazione di blocchi anticinesi da parte di Biden e dell’attivazione della NATO nell’Europa orientale e intendono opporvisi (insieme!);

i leader dei due paesi hanno indirettamente accusato gli Stati Uniti di terrorismo biologico (la minaccia si chiama «attività militari-biologiche degli Stati Uniti»); ciò significa, infatti, ammettere che è stato l’Occidente (Stati Uniti e Gran Bretagna) a scatenare il covid-19 sul mondo;

Pechino sostiene Mosca nell’Europa orientale, e Mosca Pechino nell’Oceano Indiano e Pacifico, e Putin ha esplicitamente proclamato «Taiwan è tua» (Xi Jinping borbottò tra sé, «In questo caso, l’Ucraina è tua»);

entrambi i paesi maledicono la Lega delle democrazie (l’unipolarità) e promettono di preservare il modello policentrico dell’ordine mondiale (questo va inteso come una dichiarazione di fedeltà ai principi della pace di Yalta e dell’ONU).

Il blocco russo-cinese – eurasiatico! – ha avuto luogo.

Tutti gli altri paesi devono prendere una decisione — con chi stare: con il crollo dell’egemonia americana aggressiva e completamente folle, o con quel blocco di paesi (tra cui Russia, Cina, Iran, Pakistan, Bielorussia, Corea del Nord, Venezuela, Cuba, Nicaragua, Siria, Mali, Repubblica Centrafricana, Burkina Faso, Guinea, e in parte Turchia, Argentina e Brasile), che vi si oppone in nome della salvaguardia della sovranità statale e dell’identità di civiltà?

Il futuro è sicuramente dalla parte della multipolarità, quindi dell’Eurasia.

 I liberali sono stati delusi dai propri successi, che non hanno potuto consolidare e mantenere dopo la caduta dell’URSS.

L’ultimo tentativo di costruire un impero mondiale è fallito.

Il Nuovo Mondo è iniziato.

(geopolitica.ru)

 

 

Ucraina: cattiva gestione sotto

un’egemonia USA in declino?

Lindro.it - Masahiro Matsumura – (13 Marzo 2022) – ci dice:

 

Con la sua invasione rapida e su vasta scala da tre fronti in Ucraina, la Russia sta ribaltando la situazione sull’Occidente guidato dagli Stati Uniti controllando lo stato cuscinetto strategico.

 Il cambiamento sarà probabilmente il peggior risultato per gli ucraini, anche se alcuni aggiustamenti geopolitici sono inevitabili in un futuro non così lontano come conseguenza del grande spostamento di potere in evoluzione conseguente al cospicuo declino egemonico degli Stati Uniti.

 Ottenendo una schiacciante vittoria militare, la Russia metterà l’Ucraina nella sua orbita, probabilmente, attraverso un cambio di regime filo-russo che implica un riorientamento esterno dall’Occidente alla Russia.

Ciò richiederà probabilmente una completa smilitarizzazione e neutralizzazione semi-sovrana dell’Ucraina, compresa la completa eliminazione del potenziale di armamento nucleare.

Si pone la questione del perché la Russia abbia scelto senza mezzi termini di adottare una soluzione militare e perché l’Ucraina non abbia perseguito una soluzione diplomatica a condizioni favorevoli.

Il recente lavoro di questo autore prima dell’invasione ha già analizzato la crisi ucraina da una prospettiva geopolitica.

Eppure la geopolitica non determina un risultato, ma limita solo la portata dei possibili risultati.

Pertanto, proviamo ad indagare il corso e le circostanze di eventi importanti alla ricerca di una causa diretta.

1. Le risposte inadeguate di Biden.

Negli ultimi mesi, l’amministrazione Biden ha parlato duramente con la Russia senza un grosso bastone, contrariamente alla ricetta per un’efficace politica di deterrenza.

Nella fase pre-crisi del deterioramento delle relazioni bilaterali sull’Ucraina, in una videochiamata con il presidente Vladimir Putin il 7 dicembre 2021, il presidente Joe Biden lo ha avvertito di severe sanzioni economiche in caso di invasione russa dell’Ucraina, escludendo l’intervento militare contro l’invasione, in particolare qualsiasi invio di truppe di terra statunitensi.

È vero, dato che l’Ucraina non è uno stato membro della NATO, gli Stati Uniti non possono esercitare il diritto di autodifesa collettiva basato sul trattato per difendere il paese.

Né il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite può autorizzare una sanzione militare delle Nazioni Unite contro la Russia perché è in grado di porre il veto a tale risoluzione, sebbene l’Assemblea generale delle Nazioni Unite possa approvare una risoluzione non giuridicamente vincolante “Uniting for Peace” contro l’invasione dell’Ucraina (Risoluzione dell’UNGA /ES-11/1) su cui la Russia non ha diritto di veto.

Né gli Stati Uniti organizzeranno e guideranno una coalizione di volontà contro la Russia per la difesa dell’Ucraina, senza interessi americani vitali in gioco.

 Inoltre, una guerra convenzionale su vasta scala con la Russia, una grande potenza che possiede una parità nucleare strategica con gli Stati Uniti, è praticamente irrealizzabile perché comporta grandi rischi di escalation in una guerra termonucleare e in un Armageddon nucleare.

 Ciò è in netto contrasto con i casi in Afghanistan e Iraq nella guerra globale al terrorismo guidata dagli Stati Uniti.

Anche molto prima dell’aggressione della Russia, era chiaro che l’Ucraina da sola avrebbe sicuramente dovuto resistere senza alcun rinforzo della NATO, ma solo con armi leggere, di piccolo calibro e munizioni fornite dagli Stati Uniti e dai suoi alleati.

A peggiorare le cose, la storia internazionale mostra che l’efficacia delle sanzioni economiche è altamente problematica, con pochi casi di successo nel costringere un aggressore determinato a fare marcia, almeno a breve termine, mentre sanzioni sostenute richiedono il forte e tuttavia difficilmente assicurabile volontà politica e solidarietà dei paesi sanzionatori.

Ciò si applicherà sicuramente all’attuale caso russo perché il paese è sopravvissuto alle sanzioni imposte dopo l’invasione della Crimea nel 2014 e da allora ha già sviluppato una notevole capacità di resistenza.

Inoltre, la Russia sarà probabilmente inattaccabile a tali sanzioni, perché la Cina è disposta ad acquistare il conseguente surplus di petrolio e gas russi, una fonte schiacciante di reddito nazionale, e perché la Russia ha significativamente de-dollarizzato il suo commercio e altre transazioni economiche esterne attraverso la cooperazione con la Cina e i principali paesi in via di sviluppo.

Ciò significa che l’esclusione della Russia da SWIFT, una rete prevalentemente basata sul dollaro per il regolamento finanziario internazionale tra le banche mondiali, potrebbe non turbare il paese come previsto.

2. Negligenza intenzionale di Biden.

Senza buone carte in mano, gli Stati Uniti in stretto coordinamento con i principali alleati avrebbero dovuto esplorare una soluzione diplomatica della questione ucraina.

 Ma le informazioni open source disponibili suggeriscono che il presidente Biden e il suo massimo team di politica estera hanno adottato poche misure efficaci per ridurre la preoccupazione esistenziale della Russia sull’espansione della NATO in Ucraina, invece di averla rifiutata continuamente per principio, pur avendo esortato la Cina a livello bilaterale dietro le quinte per aiutare a scongiurare l’invasione, nonostante l’intensificarsi della rivalità egemonica USA-Cina.

Collegando questi punti, non c’è da stupirsi che il presidente Putin consideri l’invasione da trascurare prima che l’Ucraina diventi uno stato membro della NATO, più chiaramente, come un’acquiescenza periferica all’invasione.

 In tempi contemporanei, ci sono alcuni precedenti notevoli in cui il governo degli Stati Uniti ha rilasciato dichiarazioni formali per mettere un paese vittima fuori dalla linea di difesa, spingendo il paese aggressore a spazzare via il senso di esitazione, come la guerra di Corea, la prima crisi di Taiwan , e l’invasione irachena del Kuwait. (Se quelle mosse statunitensi fossero intenzionali o involontarie è discutibile e richiedono analisi dettagliate.)

Al contrario, l’amministrazione Biden ha adottato alcune misure specifiche che avrebbero accelerato l’invasione della Russia, a condizione della sua tenace linea politica sull’espansione della NATO in Ucraina e del continuo sostegno ai suoi filo-USA. governo deciso all’adesione alla NATO, insieme a significativi trasferimenti di armi e alla relativa formazione militare.

Più specificamente, solo per tre o quattro mesi prima dell’invasione, l’amministrazione Biden ha apertamente effettuato sostanziali consegne di armi all’Ucraina, inclusi 180 missili anticarro letali portatili Javelin, nonché molti missili antiaerei Stinger portatili che un tempo molestavano i sovietici forze di invasione in Afghanistan (1979-1989) e alla fine le costrinse a fare un’imbarazzante ritirata da esso.

La mossa è significativamente significativa perché l’allora presidente Barack Obama ha rifiutato categoricamente di fornire all’Ucraina giavellotti a causa degli alti rischi di provocazione ed escalation, che l’allora vicepresidente Biden, che si era assunto la responsabilità principale degli affari dell’Ucraina, lo ha implorato.

Evidentemente, ha osato commettere i ben noti rischi nella fase pre-crisi in cui c’era ancora un buon margine di negoziazione diplomatica, purché fosse pronto a mettere sul tavolo la questione dell’espansione della NATO.

 (Nonostante le pesanti dosi di lodi e censure, l’immediato presidente Donald Trump avrebbe sicuramente tentato di fare un grande affare attraverso incontri al vertice e altre iniziative personali dirette con i presidenti Putin e Volodymyr Zelensky.)

Si pone la questione del motivo per cui sia il governo degli Stati Uniti che quello dell’Ucraina hanno aderito rigidamente alla linea politica sull’espansione della NATO in Ucraina al momento del chiaro e ostacolante pericolo di guerra.

3. L’intransigenza istituzionalizzata dell’Ucraina verso l’adesione alla NATO.

Dopo la rivoluzione arancione del 2014, l’Ucraina ha integrato saldamente la sua politica di adesione alla NATO nel suo sistema legale, rendendo la linea politica irreversibile in caso di cambio di governo.

Ciò segna un netto allontanamento dai continui spostamenti tra l’orientamento esterno filo-russo e filo-occidentale, rafforzando notevolmente l’approccio della Russia all’Ucraina che già ha generato una causa remota dell’attuale invasione.

Più in particolare, nel giugno 2017 l’Ucraina ha modificato le sue leggi sulla sicurezza nazionale e la politica interna ed estera che ha sancito il suo impegno giuridicamente vincolante di raggiungere l’adesione alla NATO.

Nel settembre 2018, la legislatura unicamerale del paese ha presentato alla corte costituzionale un disegno di legge di modifiche costituzionali, il cui preambolo conferma l’identità europea del popolo ucraino.

 L’articolo 85 del disegno di legge prevede di autorizzare il legislatore a determinare i fondamenti della politica interna ed estera e ad attuare il corso strategico dello stato per ottenere la piena adesione del paese alla NATO e all’UE.

L’articolo 102 prevede di designare il Presidente quale garante dell’attuazione del corso.

L’articolo 116 prevede che il Consiglio dei Ministri assicuri l’attuazione del corso.

La cosa più offensiva dal punto di vista russo è la clausola 14, sezione 15, che consente di affittare basi militari esistenti per lo stazionamento temporaneo di formazioni militari straniere, in effetti, tenendo conto delle forze NATO.

Nel novembre successivo, il tribunale ha approvato l’emendamento.

Apparentemente, l’istituzionalizzazione affrettata di cui sopra durante la presidenza di Poroshenko (7 giugno 2014 ~ 20 maggio 2019) non si è evoluta intrinsecamente dalle dinamiche politiche interne ucraine, in generale data l’attiva diplomazia pubblica statunitense sotto i presidenti G.W. Bush e Obama che hanno perseguito l’allargamento liberaldemocratico, e in particolare viste le manovre significative dei circoli dell’intelligence statunitense, sia palesi che nascoste, che hanno portato alla rivoluzione arancione nel contesto di una serie di rivoluzioni colorate.

 È necessario verificare se Joe Biden ha avuto notevoli coinvolgimenti e, possibilmente, interferenze nella trasformazione della politica ucraina.

4. Il passato del rapporto tra Biden e l’Ucraina.

Biden ha effettuato sei visite ufficiali in Ucraina durante la sua vicepresidenza degli Stati Uniti, assumendo la responsabilità principale degli affari ucraini sotto l’amministrazione Obama.

Queste visite hanno sottolineato il sostegno degli Stati Uniti al paese nel contesto dell’allargamento liberaldemocratico e hanno messo in evidenza il suo coinvolgimento personale nel fornire il sostegno.

Già durante la sua prima visita del luglio 2009, Biden ha rassicurato il governo ucraino sul sostegno degli Stati Uniti alla candidatura dell’Ucraina all’adesione alla NATO e sulla sua minore dipendenza dalla Russia per l’energia.

Ha rafforzato la sua retorica per il sostegno, in modo considerevole e crescente, prima e dopo la Rivoluzione arancione, nella misura in cui gli ucraini si sarebbero aspettati invano l’intervento militare degli Stati Uniti in caso di aggressione della Russia.

I documenti attestano gli ampi contatti di Biden con i circoli politici e economici dell’Ucraina.

Questi contatti hanno portato alla costruzione di reti interpersonali sostanziali che gli hanno dato opportunità di manovre politiche e quindi un potere e un’influenza significativi su di esse, in particolare perché l’amministrazione Obama si è impegnata a fornire al paese significativi aiuti militari ed economici, nonché a promuovere attivamente l’Occidente guidato dagli Stati Uniti investimenti nel settore energetico, sulle condizioni di attuazione delle riforme democratiche, giudiziarie ed economiche.

Ciò comporta l’eliminazione della corruzione, degli oligarchi post-sovietici, di altri lasciti sovietici e dell’influenza dominante della Russia in generale, dall’Ucraina.

In effetti, Biden ha esercitato il suo potere sulla politica ucraina per sostituire l’allora procuratore generale Shokin per il suo fallimento nel lavorare sugli sforzi anticorruzione, facendo penzolare la sospensione del pacchetto finanziario degli Stati Uniti davanti al governo ucraino.

Questo è molto controverso perché Hunter Biden, figlio dell’allora vicepresidente, era fortemente sospettato di essere coinvolto in uno scandalo di corruzione relativo a Burisma Holdings, la più grande compagnia privata di estrazione di petrolio e gas in Ucraina.

Il vicepresidente ha sempre portato il figlio con sé nelle sue visite ufficiali in Ucraina, mentre il figlio ha servito come membro del consiglio dell’azienda con uno stipendio mensile di $ 50.000 dollari.

Va oltre lo scopo di questa analisi esaminare se il caso costituisca un semplice scandalo adulto-bambino in cui suo padre è impantanato o una cospirazione di padre-figlio alla corruzione.

Ovviamente, il presidente Biden è stato un protagonista della politica degli Stati Uniti nei confronti dell’Ucraina che ha portato l’Ucraina a consolidare la sua politica di adesione alla NATO attraverso un emendamento costituzionale, ma senza assumere i necessari impegni militari per la difesa dell’Ucraina.

 Nonostante il suo apparentemente solido sostegno all’Ucraina, il presidente Biden ha lasciato il presidente ucraino Zelensky all’altare nel momento critico dell’aggressione russa.

5. Il ruolo di Biden da una prospettiva a volo d’uccello: declino egemonico degli Stati Uniti.

Per comprendere la causa principale diretta, è essenziale cogliere il ruolo di Biden nelle dinamiche macro storiche della politica mondiale, piuttosto che attribuirlo al suo libero arbitrio.

Per due decenni, gli Stati Uniti hanno affrontato la rapida ascesa della Cina che ha comportato il suo relativo declino egemonico, come evidenziato dalle note osservazioni del presidente Obama del settembre 2013 secondo cui gli Stati Uniti non erano più i poliziotti del mondo.

Il declino è stato gravemente aggravato da un’espansione eccessiva dell’impero nella condizione di crescenti vulnerabilità strutturali economiche conseguenti alla globalizzazione iper-dinamica.

Naturalmente, è emersa una divisione profondamente radicata tra le élite americane e il pubblico allo stesso modo, riguardo all’opportunità di continuare o interrompere la linea politica egemonica.

All’establishment globalista piace continuare la linea che probabilmente peggiorerà il vuoto industriale degli Stati Uniti e la bipolarizzazione socioeconomica.

 In particolare, la nascita della presidenza di Donald Trump (2017-2021) dimostra l’ascesa di controforze anti-globaliste nella politica americana che sfidano la linea egemonica verso il multipolarismo in tandem con “America First”.

In questo contesto, la questione della Russia era al primo posto nell’agenda, almeno per scopi tattici anti-globalisti, anche nella fase preludio della campagna elettorale presidenziale del 2017, perché l’allineamento diplomatico con la Russia è essenziale per utilizzare il Paese come un importante contraltare strategico -peso contro la Cina, o un primo rivale in divenire.

Ciò comporta la necessità di sminuire il forte antagonismo americano contro la Russia e fare un accordo con la Russia per formare un fronte comune contro la Cina o almeno la sua benevola neutralità con gli Stati Uniti.

D’altra parte, i globalisti hanno cercato di mantenere l’antagonismo contro la Russia, mentre cercando di mantenere lo status quo durante la globalizzazione, inclusa la forte interdipendenza con la Cina.

Non c’è da stupirsi se i globalisti hanno inventato il cosiddetto “Russiagate” per aver invano messo sotto accusa il presidente Trump.

Dopo aver affrontato intense contro-offensive dell’establishment globalista, è stato costretto a rimuovere il suo primo consigliere per la sicurezza nazionale, il generale Michael Flynn, nella fase iniziale del “Russia gate” dopo meno di un mese dalla nomina.

 Impantanato nello scandalo inventato, quindi, il presidente ha placato l’establishment nominando al posto il generale Herbert McMaster e poi John Bolton, i quali hanno entrambi continuato l’approccio anti-russo di lunga data adottando un approccio competitivo e poi conflittuale nei confronti della Cina, che aveva reso la strategia cinese di Trump meno efficace che altrimenti.

 Inoltre, il primo Segretario di Stato dell’amministrazione Trump è stato Rex Tillerson, che aveva una vasta esperienza sulla Russia e contatti con i leader russi durante la sua carriera nel settore energetico, incluso un CEO della Exxon Mobil Corporation.

Avrebbe potuto essere determinante per la politica russa di Trump, ma sostituito da Michael Pompeo solo dopo 13 mesi perché Tillerson ha preso una forte posizione politica anti-russa.

Se il Presidente Trump fosse stato rieletto per il secondo mandato, avrebbe adottato almeno un approccio parzialmente accomodante nei confronti della Russia in modo da consentire la formazione di un fronte comune contro la Cina, con sforzi per abbandonare la politica egemonica di lunga data verso il multipolarismo .

Ciò comporterebbe sicuramente un accordo con la Russia per mantenere la stabilità regionale centrata sull’Ucraina, trasformando il paese in uno stato cuscinetto come uno stato neutrale o uno stato finlandizzato. In tal modo, sarebbe stato possibile trovare condizioni più favorevoli di quelle che potrebbero essere stabilite da una catastrofica sconfitta dell’Ucraina nell’attuale guerra con la Russia.

Evidentemente, l’attuale guerra Russia-Ucraina è stata conseguente alla cattiva gestione globalista del declino egemonico degli Stati Uniti in cui il presidente Biden ha svolto continuamente un ruolo centrale per più di un decennio, nel contesto geopolitico che limita la possibile portata dei risultati.

Tuttavia, ciò che ha spinto il presidente Putin a commettere l’indicibile atto di aggressione contro l’Ucraina rimane un mistero per gli anni a venire come altre grandi guerre nella storia mondiale.

Per il momento, la ripugnanza morale per l’aggressione e la conseguente calamità umanitaria ostacola un’analisi fredda.

  

Commenti

Post popolari in questo blog

Quale futuro per il mondo?

Co2 per produrre alimenti.

Caos e dazi.