ELITE GLOBALISTA.
ELITE
GLOBALISTA.
Elson
Musk: l'élite
della
neo plebe.
Doppiozero.com
- Nello Barile – (15 Novembre 2022) – ci dice:
Nel
formidabile film “The triangle of Sadness “di Ruben Östlund (2022), la metafora
“titanica” di una nave alla deriva nella tempesta è un espediente narrativo per
raccontare la deriva delle classi sociali e la crisi delle élite nel
contemporaneo.
Se tra la super-élite e i lavoratori subordinati esiste
una sostanziale simmetria, nel senso che al mutare delle condizioni ambientali
la lavoratrice asiatica si trasforma in capitano grazie all’immediato consenso
da parte dei più ricchi, i rappresentanti della classe creativa vengono
sfruttati a prescindere:
prima
dal potere immateriale del business, come durante il casting del protagonista,
poi dal potere materiale e fisico della sopravvivenza, in cui chi sa fare
qualcosa di concreto vale più del denaro e del lusso.
Una
delle conseguenze più dirette della globalizzazione, quella che i partiti di
sinistra non hanno voluto considerare, è stata la polarizzazione socioeconomica
tra le classi sociali e l’impoverimento drammatico del ceto medio occidentale,
a lungo considerato come il pilastro delle democrazie avanzate.
La grande illusione della globalizzazione si è
fondata sull’idea che a compensare tale impoverimento arrivassero i ceti medi
dei paesi emergenti, il cui sviluppo avrebbe trainato le produzioni dei paesi
un tempo egemoni.
Senza
capire che il travaso di tecnologie e competenze da ovest a est, sull’onda
lunga delle delocalizzazioni, avrebbe comunque messo in discussione la
centralità dell’industria occidentale, ancor più se pensiamo ai costi
dell’attuale transizione ecologica.
Con il
passaggio dalla globalizzazione alla deglobalizzazione, le frattaglie che
componevano gli ex ceti medi sono state infettate dal populismo-sovranismo (gli
underdog) in cerca di una nuova identità, che un tempo fu di classe ma che
ormai è frammentaria e metonimica (individuo/popolo).
Allo
stesso modo questi ceti impoveriti e intronati dalla successione di varie
crisi, si costituiscono come nuova controcultura che, alla stregua delle
vecchie controculture, ammicca a qualcosa che sta dall’altra parte della
barricata:
stavolta però non è più l’antimateria del capitalismo
globalizzato, come nel caso dell’ex Unione Sovietica, bensì un regime
diversamente liberista e cleptocratico che domina una società ancor più
polarizzata e infettata dal denaro/consumo. Come ho discusso insieme a Panos
Kompatsiaris nel XII Scrittoio della Biennale intitolato “The Biennials
post-presencial era”.
“Challenges
and opportunities”, organizzato da Francesca Castellani (IUAV) in apertura
della Biennale di Venezia 2022, anche l’arte, il cinema, la musica e la
circolazione di talenti in generale potrebbero essere condizionati da tale
processo.
Se
infatti, per fare un esempio, le piattaforme hanno lasciato la Russia con le
altre corporation, è perché la guerra più profonda è mossa proprio contro i
contenuti e i valori della cosiddetta Netflix Society, simbolo di una cultura
che rivaluta e promuove valori progressisti:
dalla
gender fluidity, all’inclusione multiculturale, fino alla reinvenzione di un
passato postcoloniale inglese (come nel caso di Bridgerton).
La
Netflix Society è l’avamposto che globalizza i valori della classe creativa
attraverso le piattaforme.
Valori
che collidono drasticamente con quelli proposti dalle formazioni populiste.
Essa è la prosecuzione della cultura della Silicon valley con nuovi mezzi.
Se la
metafora organicista di Menenio Agrippa tentò di incorporare il ceto subalterno
riottoso dell’antica Roma nella totalità funzionale di un corpo unitario le cui
membra sono “naturalmente” subordinate al comando della testa, il rapporto tra
élite, classe creativa e neo plebe, ci racconta invece una società smembrata e
disorganica.
Nel
loro nuovo libro, “Neo plebe”, classe creativa, élite (Laterza, 2022), Paolo
Perulli e Luciano Vettoretto affrontano in modo sistematico il problema
squisitamente sociologico di questo “sfaldamento” delle classi sociali.
Al
ruolo sempre più dominante delle élite, si assomma quello di un ceto medio post
industrializzato che assume i tratti di fragilità della nuova classe creativa.
Al di sotto di questa si espande sempre più
una neo plebe vittima sacrificale delle politiche neoliberiste.
Mentre
la ricchezza sempre più si “concentra verso l’alto”, i livelli intermedi vivono
un sostanziale scivolamento verso il basso, a partire dalle famiglie, passando
per i working poor (i nuovi poveri), fino ai “Neet” che ormai hanno rinunciato
a qualsiasi “escatologia” del mito della mobilità verticale.
Gli
autori problematizzano anche l’idea che il ceto medio sia il “baricentro” delle
società avanzate, una riduzione di complessità che ha svolto per tanto tempo
una funzione promozionale delle società a capitalismo avanzato.
A tale prospettiva essi preferiscono un quadro
più composito basato sull’idea di un “pluralismo conflittuale”.
L’élite
attuale prosegue la missione della vecchia vocazione distintiva (alla Bourdieu)
basata sul “contare, contarsi e annettersi” e lo fa oltre che attraverso la
classica legge del consumo vistoso, anche nell’esaltazione del merito, non a
caso recentemente inserito dal nuovo governo nella denominazione del Ministero
dell’istruzione.
La
logica meritocratica prevale nell’iter formativo delle élite globali che hanno
ormai rimosso il suo retaggio illuminista e borghese, per prediligere la
dimensione dello status che consente loro di frequentare gli atenei più
esclusivi e dunque costosi del mondo (MIT, Harvard ecc.).
Tale
valore è condiviso tanto dalle élite degli stati democratici quanto da quelle
delle democrature , ma molto meno dalle élite nostrane che si configurano
perlopiù come élite locali, che mostrano in tal modo la misura della loro
arretratezza.
Mentre
le classi che hanno guidato il boom economico avevano una capacità di
leadership e pedagogica nei confronti dei ceti subalterni, capaci di fungere da
collegamento tra porzione e classe creativa come nello sviluppo del design
italiano a Milano negli anni cinquanta e sessanta, le odierne élite, come nel
già citato “Triangle of Sadness”, stringono un’alleanza paradossale con la neo plebe
che determina una “caduta del linguaggio della classe dominante” che si mostra
così sempre più simile alla neo plebe (come quando D. Trump spiegava al
popolo: “sono uguale a voi ma sono ricco”).
La
sociologia anglosassone ha riflettuto molto sulla categoria di classe creativa
a partire da “The Polish Peasant in Europe and America” di W. Thomas e F.
Znaniecky, passando per T. Parsons, fino alla più recente variante neoliberale
di R. Florida, in cui i valori della società globalista (tolleranza, fluidità,
ecc.) vengono reificati in indicatori quantitativi della concentrazione di
ricchezza nelle città americane, come il gay index, il diversity index, il
bohemian index ecc.
“Neo
plebe” è il termine adottato da Perulli e Vettoretto per indicare l’attualità
di uno strato sociale subalterno che più degli altri s’identifica nei leader
populisti e sovranisti.
Rispetto a queste due classi al vertice e alla base
della nuova gerarchia sociale in una alleanza paradossale che sembra permeare e
condizionare tutta la realtà sociale immobilizzandola, Perulli e Vettorello
scommettono proprio sul futuro della classe creativa che cavalcando lo sviluppo
di robotica, dell’intelligenza artificiale e delle piattaforme, potrebbe
guidare la transizione ecologica e quella tecnologica della Quarta Rivoluzione
Industriale.
In altri termini l’alleanza con i lavoratori della gig
economy, delle università e con le donne in generale, dovrebbe condurre la
classe creativa a governare la società del futuro.
Una profezia plausibile ma non del tutto
auspicabile, se pensiamo alle attuali tendenze del mercato.
La
figura di Elon Musk mostra oggi quanto sia controversa e attualissima tale
tematica.
L’immagine
dell’imprenditore sudafricano fonde in sé elementi caratteristici della
super-élite finanziaria, della classe creativa e di un certo populismo dal
basso.
Tale prospettiva supera il conflitto
culturale, consolidatosi a partire dalla vittoria di Donald Trump nel 2016, tra
l’apertura globalista della Silicon Valley e la chiusura retro topica del
sovranismo americano.
Da
innovatore, visionario transumanista e geek con venature cyberpunk, il genio
controverso della Silicon Valley ha assunto tratti distintivi di un
neoliberismo spietato sia nei confronti degli addetti interni che degli user di
Twitter.
Secondo
Clare Duffy di CNN Business, Musk ha usato un linguaggio populista per
comunicare tale iniziativa che rappresenta una rottura “dell'attuale sistema di
signori e contadini di Twitter”.
L’idea di far pagare otto euro al mese per
l’accesso al celebre social medium potrebbe lanciare un trend potenzialmente
imitabile dagli altri social, fino a far saltare la matrice “digital
socialista”, per dirla alla Kevin Kelly, che ha assicurato decenni di gratuità
del web.
Assommato alle innovazioni della blockchain,
delle criptovalute e agli NFT, tutto ciò potrebbe riconfigurare il mondo della
comunicazione tramite una tendenza alla monetizzazione spinta.
Uno
dei capolavori dell’arte NFT è infatti “The Passion of the Elon”, che ritrae
l’uomo più ricco del mondo sulla croce, con indosso una tuta da astronauta,
mentre è circondato da un gruppo di scimmie che giocano sul fondo
dell’immagine.
Un
sincretismo culturale tra L’ascensione di Cristo del Perugino, quello di Dalì,
la famosa scena di apertura di 2001: Odissea nello spazio, e le scene finali
del film: dalla scoperta del pollice opponibile, passando per il lancio
dell’osso che diventa astronave, fino al delirio dell’astronauta che torna a
casa dopo il viaggio joyciano fuori e dentro sé (che ricorda anche Bowie appeso
al muro nel video di “Ashes to Ashes” del 1979).
Non
appena messe le mani su Twitter, il magnate visionario che ha indicato la via
verso Marte, si è comportato come il più retrogrado degli impresari, con
un’ondata di licenziamenti massivi di circa 7.000 addetti, tra l’altro
comunicandoli via email.
Dai
tagli forsennati al personale di Twitter all’endorsement post ideologico nei
confronti dei Repubblicani, il passo è stato brevissimo.
La
Routers ha dato l’annuncio del suo Tweet, postato la sera prima delle elezioni
midterm sul suo profilo seguito da 110.000.000 di utenti:
“La condivisione del potere frena i peggiori
eccessi di entrambi i partiti, quindi consiglio di votare per i Repubblicani,
visto che la Presidenza è democratica”, aggiungendo di essere “propenso
all’idea di votare di nuovo i Democratici in futuro”.
A ben
vedere, setacciando le interviste online, divenute pillole per Tik Tok e
Instagram, emergono vari segnali di questa deriva populista.
Come
ad esempio l’idea secondo cui le Università non hanno più alcun senso in un
mondo in cui tutte le conoscenze sono rese immediatamente accessibili tramite
la rete (simile all’uno vale uno nostrano).
Un
populismo pedagogico che entra in netta contraddizione con l’immagine
dell’imprenditore illuminato che ha fatto della scienza e della sostenibilità
il suo business, fino a sostituire con investimenti privati il ruolo del
capitale pubblico nella progettazione delle imprese aerospaziali.
Lo
stesso look di Musk, austero e informale con sporadici innesti di futuribile,
espande il sostanziale stile mormone tipico degli altri leader della Silicon
valley (da Steve Jobs a Zuckerberg).
Il
rifiuto stesso di orologi e accessori di lusso (“il mio telefono mi dice l’ora”), indica un minimalismo che rinnega
i valori tipici della classe a cui appartiene, ricordando altri grandi imprenditori
come Marchionne con il suo maglioncino rassicurante.
Tale
logica, che chiamo airbag cognitivo, è molto simile a quella che consente ai
partiti di sinistra di implementare politiche neoliberiste senza sollevare
particolare dissenso, come con le liberalizzazioni di Blair o con il Jobs Act
renziano, oppure alle leadership femminili di caratterizzarsi per iniziative
più che maschili, come Margaret Tatcher con la guerra nelle Falkland.
Il
superamento del conflitto culturale tra Silicon valley e classi creative da un
lato, e formazioni populiste dall’altro, potrebbe aprire nuove prospettive di
sviluppo alla società del futuro.
Non
tanto nella direzione di una neo repubblica platonica governata dai nuovi
sapienti, quanto piuttosto nell’espansione di una struttura flessibile e on
demand, in cui l’accesso alla conoscenza sarà sempre più decentralizzato ma
anche sempre più monetizzato dalle piattaforme e dalla blockchain.
La
Lotta alle “Fake News”
è una
Trovata del
Sistema
Liberticida.
Conoscenzealconfine.it
– (16 Dicembre 2022) - Redazione lapekoranera.it – ci dice:
Chi
decide se una notizia sia da considerare vera o falsa, e se il popolo meriti o
meno di essere informato su cosa progetti il potere?
Queste
domande se le stanno ponendo in tanti, soprattutto a seguito della campagna
planetaria occidentale contro le “fake news”.
Il
“sistema” ovviamente non è italiano né tedesco o Usa, il “sistema” è quel gabinetto di poteri bancari europei
ed occidentali che esercita i propri desiderata tramite azioni concrete di Nato, Onu, Ue
e grande speculazione finanziaria (per esempio BlackRock e Goldman varie…).
Oggi
le emergenze che preoccupano il “sistema” sono di due tipi, produttive e
valutarie:
nelle
produttive insistono
le politiche d’indirizzo sanitario ed ecologista, quindi ciò che fa l’uomo comune quando lavora in
campagna e in bottega artigiana, se è propenso o meno ad aggiornare vetture,
frigorifero, lavatrice e televisore, ed ovviamente tutti gli strumenti
tecnologici obbligatori e collegati al lavoro (computer, sistemi per scambio di
dati, pos di pagamento…);
quelle
valutarie riguardano il risparmio dei
cittadini, l’uso che fa del danaro l’uomo di strada, e per questo motivo
gradirebbero l’abolizione planetaria totale del contante, così che il “sistema
finanziario” possa controllare ogni mossa dei comuni cittadini, bloccando
eventualmente le manovre economiche di chi non politicamente gradito.
Ecco
perché nessuno governo eletto dal popolo (e solo dal popolo) sarebbe gradito al
“sistema”:
del
resto potrebbe
mai un governo eletto dal popolo prendersi la responsabilità di bruciare i
risparmi dei cittadini o mettere ipoteca sulle case perché i cittadini paghino
la tangente al “sistema”?
Il
“sistema” non è affatto sconfitto dalle urne del 25 settembre: in questo
momento sta facendo l’esame del sangue e la radiografia al governo Meloni.
Per capire chi della “nuova” classe dirigente
potrebbe obbedire ai poteri internazionali e chi, invece, avrebbe la voglia di
dissentire, di dire di no ai padroni finanziari dell’Occidente.
Infatti
sta già prendendo forma su giornali e tivù prezzolate dal “sistema”, la
probabilità d’una nuova epidemia o pandemia, la possibilità d’un veto
finanziario internazionale sull’uso del contante, e più rigide norme alle
esportazioni europee per scongiurare qualsiasi rapporto commerciale con la
Russia.
Il
“sistema” oggi vuole sondare se tra gli eletti in Italia ci siano soldati capaci
di chiuderci nuovamente in casa, soprattutto quanti siano ancora i ribelli in
grado di non rispettare gli ordini di Onu ed Oms.
Il potere fa momentaneamente giocare il popolo
come il gatto col topo in un locale chiuso:
lascia gli italiani alla momentanea euforia
elettorale, come nel 1870 quando i parigini della Comune credettero di poter
imporre la loro visione al mondo (quasi 50mila vennero fucilati in tutta
Parigi, i giornali scrissero “la Repubblica ha vinto sul popolo”).
La
gente sa benissimo cosa sia il “sistema”, ma finge d’ignorarne l’esistenza:
anzi
per rabbonirsi le guardie pinocchiesche punta l’indice accusatorio contro
chiunque commetta “lesa maestà”.
Ricordate
quando ci avevano chiuso in casa?
Ricordate
che in quei giorni su internet e tivù faceva capolino la notizia che sotto
pandemia da Covid sarebbero enormemente aumentate le “fake news contro poteri
bancari europei e istituzioni”?
Ma
cosa c’entra la pandemia con eventuali bufale contro il potere?
Ma
volete proprio passare da coglioni che credono a queste frescacce?
Le
televisioni generaliste, popolate da uomini equivoci e donne spregiudicate,
sono arrivate a sostenere che dietro le “fake news” su Mario Draghi, Joe Biden,
Ursula von der Leyen, Christine Lagarde, poteri finanziari e multinazionali
occidentali, ci sarebbe lo zampino dei “complottisti filorussi”:
ma
veramente possiamo credere a queste barzellette?
Roba
degna delle esilaranti commedie con Renato Pozzetto e Massimo Boldi: nemmeno
Fantozzi e Fracchia crederebbero a simili frottole, forse fingerebbero di stare
al gioco per non dispiacere il “pan direttore megagalattico”.
Di
fronte a queste notizie che spandono (a mo’ di letame) i cosiddetti “media
istituzionali”, dovremmo reagire ridendo, spegnendo la tivù o cambiando canale.
Sconcerta invece che ancora troppa gente per strada, nei bar ed ovunque,
continui a credere all’informazione istituzionale, che ripeta a mo’ d’uccello
esotico “dietro
le fake news su Onu e Nato c’è l’accordo tra Donald Trump e Vladimir Putin”.E genera rabbia ascoltare dalla voce
di qualche insegnante: “io ripeto sempre, soprattutto ai miei alunni, che
necessita informarsi solo dalla stampa istituzionale“.
Quest’ultima
un tempo veniva appellata come stampa di regime, capace solo di riportare
veline e onorare quel patto col potere noto come “politica del consenso”.
Questo
è il modello di libertà che l’Occidente vorrebbe imporre all’intero Pianeta e,
parafrasando un imprenditore Usa, all’intero Universo?
Un modello di pensiero che utilizzi a reti
unificate le tivù pubbliche e private per dirci che “dietro le fake news contro
i poteri occidentali c’è la disinformazia russa”?
E la
politica glissa, temendo di finire nel tritacarne mediatico.
Ha
Vinto Enver Hoxha.
Sconcerta
che la popolazione italiana sia regredita allo stato mentale che ha
caratterizzato il popolo albanese durante il governo di Enver Halil Hoxha, dal
1944 al 1985:
Opa
(così appellavano Hoxha i suoi stretti e fidati compagni) non era affatto un
negletto, era figlio d’un ricco mercante ed aveva prima studiato e poi
insegnato all’Università di Montpellier in Francia, ma tornato a governare
l’Albania ebbe lo spudorato coraggio di vietare ogni forma d’informazione
estera al suo popolo (forse oggi ne avrebbe ben donde).
Motivo?
Hoxha asseriva che “cinema, media e letteratura occidentale vogliono
distruggere l’Albania ed il suo popolo” quindi aggiungeva di “tenere gli occhi
ben aperti, di levarli al cielo, perché gli americani si sono alleati anche con
i marziani”.
Persino
Stalin e Tito sollevarono nel Comintern il problema Hoxha, ovvero contro le
ossessioni di Opa che recavano danno alla politica sovietica.
Ovviamente
dopo la sua dipartita, nel 1985, gli albanesi incrementarono l’uso delle
parabole, ed attraverso le tivù italiane scoprirono d’essere vissuti per più di
quarant’anni in balia delle favole di Opa.
Infatti
i primi a dirci che ci stiamo rimbecillendo sono gli europei orientali e
balcanici.
Un
amico albanese (oggi valido imprenditore a Bari) s’è rivolto allo scrivente
così: “ormai
credete a tutto quello che vi dice il potere, mi ricordate gli albanesi ai
tempi di Hoxha”.
Certo
Usa e Londra non vorrebbero mai una Opa in Italia, ma gradirebbero un
economista alla Antonio de Olivera Salazar, che ha governato il Portogallo dal
1932 al 1974:
e
Salazar Draghi lo abbiamo visto nuovamente all’opera al Meeting di Rimini di
Comunione e Liberazione, dove a pochi giorni dalle passate urne una platea di
scimmiette ammaestrale lo ha applaudito al grido di “Bis! Bisss!”.
Al pari di Draghi, anche Salazar era stato
prima alle Finanze portoghesi (una sorta di ministro del Tesoro portoghese dal
1928 al 1932), e chiunque criticasse la linea di politica economica di Lisbona
veniva arrestato e detenuto come nemico del potere:
è
inutile rammentarvi che il massone Salazar godeva d’un certo consenso
internazionale, le logge bancarie europee ed atlantiche ne garantirono
l’inamovibilità.
Draghi
non è ancora andato via, sta dicendo al Mondo che Giorgia Meloni non farà di
testa sua.
Sappiamo
anche che i seicento deputati eletti a settembre (prima della riforma erano più
di ottocento) saranno presto messi a lavoro per cambiare la Costituzione, per
partorire una riforma presidenziale che possa premiare il Draghi di turno.
Secondo
“radio fante” pare che Draghi abbia in mano un dossier contro i propri nemici,
un report redatto dai “professionisti della sicurezza”.
In forza di certe informazioni, ancora oggi
viene spacciata dagli “istituzionali” per “fake news” ogni critica rivolta alle
misure economiche dell’ex Governo Draghi, all’Agenzia delle Entrate, alle
banche che requisiscono i soldi dei cittadini, alle normative europee che fanno
chiudere le botteghe.
Per
chiunque non accetti il potere del “sistema” c’è ancora oggi la lista di
proscrizione, l’inserimento del dissidente nell’elenco dei “filorussi” o degli
untori di “fake news”: in questa logica è stato ordito il complotto Rai contro
Enrico Montesano.
Il
popolo intimorito osserva tutto, ben sapendo che in questo Parlamento siede
ancora chi proponeva “pene pecuniarie severe contro i giornalisti e serie pene
detentive che frenino l’informazione lesiva del sistema”: ovviamente la galera raggiungerebbe
il giornalista dopo che, per legge, siano state portate via anche le mutande.
C’è
malessere diffuso nella popolazione, c’è insofferenza verso le regole,
disaffezione dalla propaganda di regime:
la
cappa omologatori su pensieri, idee e parole la percepiamo da televisori, rete
e giornali.
Così
si spegne la tivù e non si compra il Corriere perché non si crede più al
sistema, ai suoi moniti, alle sue regole, alla propaganda liberticida.
Chiamati
al Voto dai Soliti Noti.
Le
campagne elettorali sono sempre state dominate dall’ipocrisia, dalle bugie
all’elettorato, dalla consapevolezza che si tratti d’un rito da dover fare per
salvare il fascino discreto della borghesia, che dell’apparenza democratica ha
fatto la propria essenza quanto la precedente aristocrazia del rango e
dell’alterigia.
Tra il
popolo votante c’è chi ama pensar male, alla luce delle condotte di certi
partiti collusi con dirigenza di stato, magistratura e media.
Pochi mesi fa il Partito democratico è riuscito
a seppellire le tracce dei fondi Dem Usa:
inviati circa due anni fa al Pd per sostenerne
l’azione sul territorio italiano.
Oggi
apprendiamo che la candidatura di Elly Schlein alla segreteria Pd sarebbe
supportata dai “fondi colorati” di George Soros.
La
notizia campeggiava timidamente sui giornali, e nessun “giornalista
istituzionale” si permette di scivolare sull’argomento.
Il
deputato Giovanni Donzelli (FdI) aveva denunciato che erano stati tracciati
soldi provenienti da una organizzazione vicina all’ex presidente Usa Obama,
fondi statunitensi indirizzati ai candidati del Pd.
Ecco la prova delle ingerenze straniere, con
ampio spettro d’illecito, sulla vita politica italiana.
Nessuno
sembra si sia indignato, e qualcuno ha anche detto “cosa volete che siano…
aiuti americani”: aiutini degli stessi esponenti di Wall Street che nel ’92
ordivano il golpe del Britannia contro il governo Craxi, perché “gli
invisibili, gli 007 della speculazione finanziaria, non si fidavano di Craxi”
(per dirla con le parole di Rino Formica, che denunciava queste ingerenze in
uno storico vertice del Psi).
Il
Foglio sosteneva che i “Social Changes” Usa avrebbero dato soldi per aiutare il
partito di Enrico Letta a postare su Facebook notizie di propaganda,
soprattutto nelle ultime settimane di campagna elettorale.
“L’utilizzo di fondi stranieri, americani come
di chiunque altro, per la politica è illecito – scriveva il deputato Donzelli.
Il
decreto crescita del 2019, ultimo approvato in materia in vigore, vieta i
finanziamenti diretti.
I finanziamenti dall’estero, pubblici o
privati, possono andare solo a fondazioni e associazioni.
A
patto che i soldi non vengano poi girati alle casse di partiti e movimenti
politici”.
Donzelli
chiedeva lumi con interrogazioni al passato governo e al ministro dell’Interno,
sporgeva denunce e segnalava il tutto ad ogni organo competente: non sembra
abbia ricevuto alcuna risposta.
Anzi,
chiunque sollevi l’argomento rischia il linciaggio in rete, d’essere bloccato
dai social network e non mancano le minacce di querela:
non perché il fatto sia diffamante o
calunnioso, ma perché la magistratura italiana gode della facoltà arbitraria di
poter condannare la “continenza”, ovvero l’effetto nefando e roboante della
notizia, seppur vera ed accertata; l
’incapacità
di saper ritenere, a mo’ di urina, il fragore della notizia.
In
parole povere, il magistrato può accusare d’incontinenza chiunque ne parli,
limitando così di fatto il diritto di critica politica, il diritto
d’espressione.
Sarebbe
oltremodo interessante avere un quadro completo delle denunce fatte dal Pd
contro avversari politici e giornalisti poco compiacenti, per parametrare il
dato con il lavoro svolto dalla magistratura, per appurare le effettive fonti
di finanziamento che giungono al Pd da organizzazioni estere, associazioni ed
imprese: il tutto servirebbe anche a fare luce sulla poca libertà di stampa in
Italia.
È
sotto gli occhi di tutti che la maggior parte dei giornali italiani temano
aprire la porta della questione morale interna al Pd.
Timore
di ricadute giudiziarie o una sorta di compiacenza e fedeltà Dem?
C’è un
po’ di tutto.
Resta
il fatto che la classe dirigente dell’ex Pci-Pds-Pd non abbia mai creduto nel
sistema Italia.
Sarebbero
tantissimi gli esempi dei dirigenti politici, dei vertici di ministeri e
magistratura, come di Regioni ed enti locali vari, che hanno prima mandato i
loro figliuoli a studiare all’estero e poi li hanno fatti raggiungere dai loro
risparmi.
Si sono
francescanamente liberati di ogni avere nell’avito paese, reputandolo non degno
d’alcun investimento.
In
questa posizione di nullatenenti hanno continuato a fare i vertici Pd, i
magistrati, i dirigenti di Stato ed enti vari.
Forti della loro posizione hanno perorato la
causa d’infliggere la patrimoniale contro case e terreni degli italiani,
d’aumentare accise e balzelli, di rendere l’Imu un deterrente all’acquisto
d’immobili,
di chiudere il rubinetto creditizio agli italiani perché vivrebbero sopra le loro
possibilità.
Insomma,
loro garantiti e con i beni all’estero, ed una bella “povertà sostenibile” per
chi sputa sangue in Italia.
(Redazione
– lapekoranera.it )-(
lapekoranera.it/2022/12/10/la-lotta-alle-fake-news-e-una-trovata-del-sistema-liberticida/)
Davos
2020,
cos’è e perché
è nata
la
riunione
dell’élite
mondiale.
Ilsole24ore.com
- Angela Manganaro – (20 gennaio 2020) – ci dice:
Evoluzione,
agenda, routine dell’appuntamento sulle Alpi svizzere che quest’anno compie
cinquant’anni.
Davos:
il clima scavalca l'economia fra i rischi globali.
Il
professore Klaus Schwab ha fondato il World Economic Forum di Davos nel 1970,
quest’anno la sua creatura compie cinquanta anni.
Ogni
anno a metà gennaio, un paesotto sulle Alpi svizzere ospita per cinque giorni
presidenti e primi ministri, banchieri centrali e boss di grandi aziende,
industriali, miliardari, influenti accademici, sportivi, attori, rockstar,
innovatori, giovani e non.
Le
origini.
Il
Forum (acronimo WEF) è un’organizzazione internazionale che dà lavoro a circa
800 persone ed è governata da un “Board of Trustee” che garantisce il rispetto
dei valori e il raggiungimento degli obiettivi.
L’ottantaduenne
professor Schwab è il presidente esecutivo e continua a presiedere e presentare
gli incontri con le personalità più importanti che ospita, in una recente
intervista con il Financial Times, ha ricordato che il WEF «è sempre stato
concepito come piattaforma per gli investitori».
In
questo mezzo secolo la piattaforma è diventato altro ma il professore assicura
che non ha mai perso la sua anima.
Certo
l’ha evoluta perché si è adattata ai tempi e i tempi hanno portato con sé più
politica e più personalismi, si è andati oltre le discussioni accademiche
attorno al lavoro dell’economista americano Milton Friedman.
Come è
cambiata l’agenda.
Oggi
non si discute più se Davos sia stata culla della centralità degli azionisti
nella struttura delle aziende.
Davos cinquanta anni dopo si offre come
levatrice di un capitalismo etico, e vara un nuovo Manifesto che aggiorna il
primo del 1973 e sia guida «per le aziende nell’era della Quarta Rivoluzione
Industriale» (nelle scorse settimane, per la prima volta nella sua storia, il WEF ha
pagato inserzioni pubblicitarie per diffonderne il contenuto).
In
mezzo ci sono stati i frenetici anni Ottanta, la globalizzazione dei Novanta,
il movimento no global che prese Davos come simbolo negativo e bersaglio, la
lunga crisi economica iniziata nel 2007, quindi inediti discorsi sulla
deglobalizzazione, e la deriva di tutto questo, il populismo e il sovranismo.
Quest’anno,
al centro dell’agenda, il clima.
Considerato
dai più come vertice esclusivo e inaccessibile - nel tempo si è anche
identificato “l’Uomo di Davos”, ricco, poliglotta, cosmopolita, naturalmente
global - è diventato sempre più un evento coperto dai media: nonostante i suoi
detrattori o forse anche grazie a questi, ha perso quell’aura di gran consesso
a porte chiuse che tanto sospetto ha instillato nei movimenti populisti
anti-élite.
Di
Davos si può sapere tutto, ospitare i grandi nomi comporta e quindi assicura
massima visibilità (banalmente, molti incontri si possono seguire online sul
sito).
A
Davos si raccontano i processi in corso e si tenta di predire il futuro: nel
2004 Bill Gates predisse che il mondo sarebbe stato travolto da un’epidemia
entro il 2006, lo spam. In generale quando le cose non vanno bene, a Davos si
sente.
Nel
2009, piena crisi finanziaria globale, il morale era a terra, in quel caso non
c’era niente da predire, c’era da discutere come uscirne il più presto
possibile, e l’Uomo di Davos sapeva di essere più responsabile di altri.
Chi
c’è, chi non c’è.
Ogni
anno si gioca a chi c’è e chi non c’è, di solito ci sono quasi tutti e anche le
clamorose defezioni come Donald Trump appena eletto alla Casa Bianca,
rientrano: il presidente americano che dell’avversione a questi esclusive
riunioni ha fatto un vezzo elettorale, è andato nel 2018 e torna nel 2020.
Due
anni fa ha promosso il suo America First e lanciato frecciate all’Europa e alla
Cina, stavolta torna anche per ribadire il suo credo negazionista sul clima, non c’è alcun cambiamento climatico
in corso, e lo dirà in faccia alla diciassettenne icona globale
dell’ambientalismo, Greta Thunberg.
Davide
contro Golia, si dirà, ma si sa che i simboli, gli esempi, in quest’era come
non mai, valgono più del reale potere di due attori su un palco.
Trump
lo sa e opporrà il suo ciuffo alle trecce di Greta, perché almeno
mediaticamente su una ribalta imbiancata e fintamente neutrale come Davos sarà
un «uno contro uno».
Quest’anno
non ci saranno il presidente francese Macron e il premier canadese Justin
Trudeau mentre il Regno Unito manda il Cancelliere dello Scacchiere, Sajid
Javid al posto del premier Boris Johnson.
Come
vestirsi.
Il
guardaroba è condizionato dal freddo, molti arrivano con le scarpe da montagna
e non se le tolgono neanche dentro, pochi mollano gli scarponi per costose,
cittadine, scarpe di ricambio.
La maggioranza, quelli che restano col
moonboot, è autorizzata dall’ormai consolidato dress code, quel generico
business casual che vuol dire tutto e niente, spesso il solito: pantalone,
camicia e maglioncino, al massimo un completo ma non la cravatta.
Nessuno
però si presenta in jeans e giacca o in pantalone con le tasche e maglietta,
unica eccezione il fondatore di una azienda tech di successo, specie che ormai
da alcuni anni fa parte dell’habitat Davos e come tale ora si mimetizza.
I miliardari della Silicon Valley non più
novizi si sono allineati in pochi anni, anche troppo, ha scritto il business
editor della Bbc, con il caso limite del fondatore di Facebook, Mark
Zuckerberg, che è passato da un opposto all’altro, dalla felpa del dormitorio
di Harvard alla cravatta, e in entrambi i casi si è ritrovato unico e solo.
Come
muoversi.
La
sicurezza non è discreta e non potrebbe essere altrimenti vista la presenza di
politici, banchieri, miliardari, grandi boss di multinazionali, celebrità di
ogni latitudine.
Spazio aereo interdetto, esercito, cecchini
sui tetti, controlli come all’aeroporto a ogni passaggio, controlli già alla
frontiera se arrivi in macchina ma anche sull’autobus e in treno fin che giungi
in cima a 1.500 metri di altitudine.
Poi
quando sei lì, se non sei ricco o ben finanziato, stai in alberghi lontani dal
luogo degli incontri, quindi anche mezzora di navetta al giorno nella neve.
E ti
ritrovi a dover scegliere tra circa 300 incontri in cinque giorni, e non sai
come dividerti e neanche come battere la concorrenza, perché i posti
disponibili si esauriscono in pochi minuti e, se sei un principiante, rischi di
ritrovarti in una sessione sulla creatività nel quotidiano, la mente e le
macchine, il futuro della mobilità, la questione artica, i segreti
dell’universo (qui i sette temi chiave dell’edizione 2020 da cui sviluppano gli
infiniti panel).
Fuori,
prezzi alle stelle e Davos non sono neanche un granché, un paesello moderno non
il tipico villaggio da cartolina svizzera, quindi di bello restano le montagne,
ma fa freddo, tanto freddo, a gennaio anche meno 20 gradi, insomma hai voglia a
gridare all’élite:
Davos
è un servizio faticoso, confessa un esperto cronista, almeno per chi quella
élite la deve raccontare.
Occasione
unica.
Chi
può però a Davos va perché non capita tutti i giorni di vedere riunite nel
duemila persone più potenti della Terra in un paesino senza assistenti e
esperti di pubbliche relazioni a fare da barriera.
È un’occasione unica per parlare, ascoltare,
imparare qualcosa di nuovo che ha l’ambizione di andare oltre l’utilità
quotidiana.
E non
bisogna farsi intimidire, Lord Digby Jones, habitué del Forum per tanti anni,
citato da Bbc, rassicura: «Sembra che tutti sappiano quello che fanno, in
realtà non è così».
La
sinistra globalista:
danarosa
e intollerante.
Destra.it
- Emiliano Calemma – L’ Editoriale - (19 Novembre 2021) – ci dice:
Ciò
che noi comunemente definiamo Sinistra oggi, è in realtà uno strano miscuglio
fra liberalismo, marxismo e dottrina dell’uguaglianza.
In
realtà potrebbe essere identificato come un sistema ideologico a doppio
livello, composto da un piccolo gruppo di leader e ideologi e da una massa di
persone che si autodefiniscono democratici e libertari.
La
loro tipica generalizzazione è la seguente:
chi è
democratico è di sinistra e chi è di sinistra è democratico.
Il militante di base non va troppo oltre
questa semplice autodefinizione.
L’élite
invece è composta quasi esclusivamente da multimilionari che attraverso il loro
potere mediatico, indirizzano i pensieri pro o contro qualcuno, con un occhio
sempre attento alle loro casse.
Hanno
trovato la chiave di volta del nuovo business:
ideologizzare il profitto, o viceversa.
La
pervasiva presenza di grandi capitalisti quali finanziatori della sinistra
occidentale è un fatto che sui media non viene mai citato e anche gli
oppositori di destra fanno fatica a menzionare questo fatto.
C’è
troppa paura di finire alla berlina in mondovisione.
Tra
governi, denaro, media e tecnologia, l’élite di sinistra ha quasi il monopolio
dello scritto e del parlato nel mondo occidentale.
I partiti e le associazioni sono influenzati e
gestiti con tecniche di marketing sopraffine, dalle quali è quasi impossibile
salvarsi.
Il
bombardamento mediatico è quasi incontrastato e schierarsi apertamente contro
questo sistema è pressoché impossibile, pena l’ostracismo della maggioranza.
Non si
ha semplicemente paura di esprimere un pensiero contrario, ma di essere
socialmente esclusi dal mondo dei benpensanti e additati con le peggiori
definizioni: razzista, fascista, nazista, negazionista, antisemita, omofobo,
etc. tutti insulti all’ordine del giorno nel ristretto vocabolario del
cameriere dei potenti.
I
milionari sono riusciti a convertire la parte più virtuosa del marxismo in una
perversione ideologica votata ad una uguaglianza raccapricciante, fatta di
esaltazione del grottesco e di inclusione del nulla.
La loro azione politica è estremamente aggressiva,
basata sul desiderio di imporre i propri valori e le proprie convinzioni su
tutti gli altri, senza opposizione alcuna.
Questo
è il vero aspetto che dovremmo combattere ed invece è quello che spaventa di
più.
La
sinistra di oggi non ha tolleranza per le opinioni dissenzienti, specie per
quelle che minacciano le sue posizioni e i suoi profitti.
La sinistra sa bene che un dissenso razionale
e motivato può solo minare la loro credibilità e allora sopprimono proprio il
dissenso sul nascere, utilizzando le armi della peggiore propaganda
denigratoria.
Dovremmo
semplicemente combatterli sul piano ideologico, perché è lì che scricchiola la
loro struttura di potere.
Sostengono che le razze sono un costrutto
sociale, che la natura umana è flessibile e malleabile, qualcosa di
riscrivibile a seconda del capriccio.
Propongono un egualitarismo ingenuo che non
tiene conto delle bellezze peculiari dell’umanità:
le differenze profonde che esistono tra razze
e gruppi etnici, per motivi fisici, sociali, emotivi, psicologici, culturali,
etc.
Non hanno alcun concetto di nobiltà umana e
vogliono condannare il genere umano a una miserabile mediocrità.
Una
mescolanza di tutto; un miscuglio sociale senza forma, né origine, né colore.
La
sinistra ci racconta che siamo tutti uguali e per questo nessuno può essere
migliore degli altri su questioni morali e valoriali.
Il
loro concetto di uguaglianza non prevede esseri umani superiori, ma sono
proprio gli esseri umani più elevati che hanno fatto la storia.
Altrimenti
non avremmo mai dovuto narrare e studiare le gesta di grandi condottieri, di
grandi pensatori, di grandi artisti.
Questi
individui superiori, attraverso migliaia di anni, smentiscono il mito
dell’uguaglianza che oggi ci vogliono imporre.
Da qui
la necessità di cancellare il passato.
La
sinistra impone una cultura pagata dal denaro e basata su un’ideologia mondiale
senza alcuna specificità (buona per ogni luogo), su frontiere inesistenti,
sulla denigrazione di ogni tradizione e quindi snaturando qualsiasi tipo di
rivendicazione.
Da qui bisogna ripartire:
rifiutare la loro concezione della vita e
dedicarci al duro lavoro di ripristinare una società sana e fiorente, coesa e
stabile.
I
migliori devono governare, non i più ricchi.
Il
buono delle teorie
del
complotto.
Iltascabile.com
- Andrea Daniele Signorelli – (7 gennaio 2022) – ci dice:
(Andrea
Daniele Signorelli Giornalista classe 1982, si occupa del rapporto tra nuove
tecnologie, politica e società).
Quali
intuizioni salvare nel (e dal) complottismo.
Nata
nel 1776 a Ingolstadt, in Baviera, la setta segreta degli Illuminati fu
definitivamente stroncata nel 1787 dal principe Carlo Teodoro, che ne temeva le
rivendicazioni illuministe, anticlericali e antimonarchiche.
O
almeno così vuole la narrazione ufficiale: secondo una delle più diffuse teorie
del complotto, gli Illuminati sono ancora tra noi.
Altro
che svanire nel nulla: il loro potere, nel corso di due secoli, si è espanso
enormemente.
Col
tempo, alcune delle più potenti e influenti famiglie del mondo hanno preso le
redini degli Illuminati.
Tredici famiglie, per la precisione:
Rothschild, Rockefeller, Onassis, Kennedy, Li, Astor, DuPont e altre ancora,
che messe assieme possiedono il 99% delle ricchezze mondiali.
Un
vero e proprio cartello.
Un
potentissimo cartello che domina il mondo a livello economico, finanziario e
politico.
I governi democraticamente eletti non sono
altro che marionette, al servizio degli Illuminati e dei loro scopi.
E
quale sarebbe però questo scopo?
Semplice:
eliminare dalla faccia della Terra gli stati, le nazioni e le loro differenti
culture e particolarità.
Rendere
tutta l’umanità parte di un’unica famiglia, di un unico governo.
Un
governo mondiale.
Questo è il piano: dare vita a un Nuovo Ordine
Mondiale, a una dittatura globalista in cui l’intero pianeta è asservito ai
voleri delle 13 famiglie degli Illuminati.
Vista
così, quella degli Illuminati – di cui ho raccontato storia e leggenda in una
puntata del podcast Complottismi – è una teoria del complotto assurda e
distaccata dalla realtà, spesso e volentieri intrecciata con l’antisemitismo.
Siamo
però sicuri che la posizione più logica da adottare nei confronti di questa
teoria e dei suoi seguaci sia di totale e sdegnato rifiuto?
“Gli
Illuminati non controllano alcun governo mondiale, né gli ebrei hanno il
controllo del sistema bancario, ma è così sbagliato dire che la classe
dirigente faccia parte di una ‘cospirazione’ volta a inseguire i propri
interessi?”,
scrive
Erica Lagalisse in “Anarcoccultismo” (D Editore).
“Le
persone hanno davvero torto a sospettare che i governi e le sue strutture
agiscano coscientemente ai danni degli individui?”.
Come
sarebbe folle credere alla teoria del complotto degli Illuminati, altrettanto
ingenuo sarebbe pensare che le élite del mondo imprenditoriale e finanziario
non abbiano la volontà (e la capacità) di influire direttamente sulla politica
e sulla società.
Per
molti versi, quella degli Illuminati è una lente che distorce e ingigantisce
una chiave di lettura non necessariamente scorretta.
Sarebbe
ingenuo pensare che le élite del mondo imprenditoriale e finanziario non
abbiano la volontà di influire direttamente sulla politica.
La
benevolenza di una ricercatrice dichiaratamente anarchica come Erica Lagalisse
(antropologa alla London School of Economics) nei confronti di una tesi
complottista facilmente interpretabile in chiave anticapitalista è
comprensibile.
Per
molti versi, gli Illuminati si possono considerare il frutto malato della sana
pianta della critica radicale.
Lo stesso non sembrerebbe certo potersi dire
della famigerata teoria del complotto di QAnon, secondo cui Donald Trump è
l’eroe che deve salvare gli Stati Uniti dalla dominazione di un’élite di
sinistra formata da pedofili satanisti e che ha le sue radici nel terrore
reazionario verso un mondo che cambia;
in cui chi non si oppone strenuamente alle
trasformazioni sociali e culturali è un pervertito corrotto che punta a
distruggere la propria nazione.
E
infatti QAnon è una teoria del complotto nata sui forum della alt-right,
adottata da paranoici di estrema destra con il fucile sempre in braccio, legata
ai più radicali movimenti no-vax e che ha fatto breccia su chi, per esempio,
era già convinto che Barack Obama fosse letteralmente l’Anticristo.
QAnon
sembra confermare, come scrive Leonardo Bianchi in Complotti! (Minimum Fax),
“l’idea generale sui complottisti che chiunque si è fatto consultando i media o
la cultura popolare (…): si tratta di persone disturbate, ai margini della
società, che vanno in giro con cappelli di carta stagnola in testa o pensano di
essere inseguiti da elicotteri neri”.
Le
cose, in realtà, non sono così semplici: “Le teorie del complotto”, scrive
sempre Bianchi, “permeano ogni strato della società e si distribuiscono più o
meno equamente sullo spettro demografico, socioeconomico, occupazionale, di
genere, culturale e ideologico”.
Questo
aspetto a prima vista sorprendente è stato in realtà confermato anche dai
reporter che si sono intrufolati tra i seguaci di QAnon che hanno assaltato il
campidoglio il 6 gennaio 2021, scoprendo che tra essi c’erano parecchi ex
elettori centristi e di sinistra disillusi, alcuni che in passato avevano
votato Obama e Hillary Clinton o, alle primarie, addirittura Bernie Sanders.
Tra le
idee politiche che potrebbero sorprendere chi aderisce a una lettura
superficiale dei seguaci delle teorie del complotto ci sono anche quelle di
Jacob Chansley, meglio noto come Jake Angeli:
lo
sciamano di QAnon che con il suo cappello con le corna è diventato il simbolo
dell’insurrezione del 6 gennaio.
Nel
corso della sua vita, Chansley si è dedicato anche alla scrittura, auto pubblicando
su Amazon un romanzo e un saggio.
Quest’ultimo,
intitolato “One Mind at a Time”, è stato letto dal docente di Storia Nicolas
Guilhot, che sulla Boston Review ne ha sintetizzato la visione del mondo, tanto
distorta quanto ingenuamente progressista.
In “One
Mind at a Time”, Chansley descrive il mondo che emergerà quando il ‘fascismo
aziendale militarizzato’ sarà sconfitto assieme al Deep State:
le
prigioni saranno eliminate e la pena di morte abolita, i confini scompariranno
e tutti potranno muoversi liberamente;
ci
saranno ‘un sacco di soldi’ per gli insegnanti, la sanità coprirà tutti i
cittadini, i senzatetto avranno le case e nessun essere umano e animale sarà
affamato.
Questa
ingenua utopia socialisteggiante, dalla quale Donald Trump sarebbe disgustato,
ci racconta quale possa essere il retroterra socioculturale di alcuni dei
seguaci di QAnon.
Com’è
possibile che un confuso adepto delle ideologie new age, vegano e
ambientalista, finisca a rifugiarsi – come già era stato osservato nella
diffusione di QAnon nel mondo yoga – in una teoria del complotto di estrema
destra?
Sempre
secondo Guilhot, ciò dimostra più che altro “la capacità della alt-right di di
assorbire idee progressiste o contro culturali e incanalarle in una direzione
reazionaria”.
Teorie
trasversali.
Accogliendo
le teorie del complotto, l’estrema destra le trasforma in una specie di terreno
di conquista elettorale.
Non
solo: radunando sotto un’unica bandiera ideologica seguaci di QAnon,
antivaccinisti, chi pensa che la pandemia sia un complotto, seguaci della
Grande Sostituzione, ecc. la destra reazionaria contribuisce attivamente a dare
forma a una visione complottista del mondo.
Una visione complessiva in cui ogni singola
cospirazione rappresenta un tassello di un puzzle più grande, in cui il fine
ultimo è sempre, in un modo o nell’altro, la conquista del mondo.
Come
segnala Leonardo Bianchi rifacendosi a Karl Popper, immaginando cospirazioni
secolari di dominazione planetaria, le teorie del complotto ingigantiscono
oltre ogni misura l’intenzionalità:
tutto si svolge seguendo meticolosamente i piani dei
cospiratori;
non ci
sono mai intoppi, e nessuna persona coinvolta nella cospirazione si lascia
sfuggire il minimo segreto.
In
ultima istanza, la storia è pianificabile e completamente manovrabile dagli
esseri umani.
Nel
mondo reale, precisa ovviamente Bianchi, le cose non vanno mai così e c’è
sempre qualcosa che va storto.
È per
questo che, sempre secondo Karl Popper, le teorie del complotto rappresentano
una forma di superstizione primitiva che indica l’incapacità di comprendere
come gli eventi sociali siano in realtà l’esito di vari processi indipendenti e
in cui invece essi vengono visti come l’espressione di un singolo e onnipotente
volere.
Nella lettura di Popper, quindi, i
cospirazionisti sono vittima di un problema cognitivo, che impedisce loro di
“pensare bene” e li rende incapaci di elaborare correttamente le informazioni.
La
visione che tende a patologizzare chi crede nelle teorie del complotto rischia
però di essere eccessivamente parziale e soprattutto di individualizzare un
problema che è invece sociale.
Sempre
nel saggio pubblicato dalla Boston Review, “Guilhot” riporta una lettura
diametralmente opposta, elaborata già nel 1971 dal sociologo Edgar Morin, che –
ricostruendo una vicenda di cronaca nera avvenuta a Orléans, in seguito alla
quale si era scatenato un ingiustificato e complottista panico morale – spiegò
come questa dovesse essere messa in relazione ai cambiamenti nella struttura
demografica delle città, alle nuove identità di genere, al ruolo della donna
nel mondo del lavoro, ai processi di modernizzazione economica che avevano
travolto il tessuto sociale e morale e il lento declino di una città che era
passata dall’essere un’ex capitale medievale a banlieue di Parigi.
Anche
a cinquant’anni di distanza, una lettura di questo tipo appare molto più
sofisticata e robusta dell’interpretazione patologizzante.
Le
cause della diffusione delle teorie del complotto non sarebbero quindi da
cercare (esclusivamente) in eventuali deficit cognitivi o nella “infodemia”
provocata dai social network, ma troverebbero origine – semplificando – nei
mutamenti e nei terremoti sociali, le cui vittime vanno in cerca di cause
univoche e di responsabili diretti.
È
anche per questo che – come racconta sempre Bianchi in “Complottismi!” – “le
teorie del complotto hanno un andamento oscillante, che raggiunge i picchi più
elevati in coincidenza dei cicli di grandi cambiamenti e grande incertezza”.
I
problemi del debunking.
La
ridicolizzazione dei teorici del complotto – trattati come fenomeni da
baraccone, come casi patologici – è quindi una lettura sbrigativa e parziale.
Non solo: è una lettura pericolosa.
La ragione la spiega la docente di Filosofia
Donatella di Cesare nel suo libro “Il complotto al potere” (Einaudi).
Quando
si parla di teorie del complotto, scrive di Cesare,le linee interpretative sono
per lo più due:
il complottismo viene visto o come una
patologia psichica oppure come un’anomalia logica.
Nel
primo caso si risale ai recessi oscuri della mente.
Nel
secondo si giunge invece alla logica delle fake news che si propagano
nell’epoca della ‘post-verità’.
In
entrambi i casi si pensa che il presunto complottista dovrebbe essere avviato a
una rieducazione cognitiva.
Malgrado
ogni sforzo, però, nessuna delle due terapie funziona, mentre l’onda
complottista aumenta.
“Una
tale stigmatizzazione, oltre a restare inefficace, è controproducente”, scrive
ancora di Cesare.
Come
sempre, la sanzione poliziesca del pensiero e la denuncia inquisitoriale
servono a poco.
Da qualche tempo si è andata affermando una
vulgata anti complottista che, reclamando il possesso della verità, ridicolizza
e delegittima le teorie giudicate devianti, irrazionali, nocive.
Ma
questo approccio polemico e patologizzante, che squalifica ogni critica alle
istituzioni, non fa che confermare il gioco delle parti e aggravare una
frattura sempre più profonda:
da un
canto chi, tacciato di essere complottista, rivendica di essere antisistema,
dall’altro chi, ricorrendo ai canoni della propria ragione, è accusato di
sostenere l’ideologia dominante.
In breve:
l’anti complottismo semplicistico rischia di assecondare lo scarto tra “verità
ufficiale” e ‘verità nascosta’ impedendo di comprendere un fenomeno complesso e
poliedrico.
Alcune
di queste forme di “anti complottismo semplicistico” assumono anche derive
inquietanti e paternaliste, come i programmi di “debiasing” (una sorta di
decostruzione della percezione errata che porta a credere alle teorie del
complotto) proposti dallo scienziato Steven Pinker, e, in misura minore, in una
certa forma di “debunking feroce” che mira a smontare su una base
esclusivamente fattuale ciò che ha fondamenta differenti.
Il
debunking, inoltre, non ha praticamente nessuna utilità “rieducativa”, visto
che i complottisti hanno gioco facile a interpretarlo come un ulteriore ingranaggio
della macchina del fumo dei “poteri forti”.
Forzando
il paragone, sarebbe come credere che sia possibile smontare la fede di un
credente facendo “fact-checking” dell’esistenza di Dio. Buona fortuna.
Avete
presente il meme dei “giovani del PD” che urlano ironicamente al
“komplotto!!1!” per sminuire ogni tesi che non sia perfettamente aderente alla
narrazione ufficiale?
Allo stesso modo, un certo approccio
iper-rigido nei confronti del cospirazionismo rischia di trasformarsi – come
segnala Guilhot – in una “difesa dello status quo”, in cui le teorie del
complotto vengono utilizzate come arma contundente per “restringere
ulteriormente lo spazio della politica”.
Come
dire: per Big Pharma non c’è nulla di più utile che essere presa di mira dai
complottisti, se ciò permette di far passare per “complottista” chiunque
critichi Big Pharma.
Applicando
l’etichetta di “complottista”, tanto gli scienziati sociali quanto gli
attivisti non riescono a distinguere tra teorie che potrebbero avere delle
linee di critica valide (“il sistema sanitario privato è interessato solo ai
soldi”) da quelle più fantascientifiche (“il sistema bancario mondiale è in
mano a lucertole ebree aliene”) scrive Lagalisse in Anarcoccultismo.
Etichettare
troppo facilmente le interpretazioni anticonformiste come complottiste rischia
di ritorcersi contro la ricerca della verità.
E in un paese come l’Italia, dove di complotti
reali negati in ogni modo dalla narrazione istituzionale ne abbiamo visti in
quantità, dovremmo essere perfettamente consapevoli di questo pericolo.
Come
evitare allora di diventare tutti – complottisti e anti complottisti – gli
utili idioti della narrazione mainstream?
Probabilmente,
evitando prima di tutto che questa contrapposizione diventi troppo rigida.
Come
sottolinea Leonardo Bianchi, “la propensione a credere in una teoria del
complotto è universale: tutti, almeno una volta nella vita, siamo finiti nella
‘tana del bianconiglio’ – ci siamo convinti dell’esistenza di qualche
cospirazione fittizia”.
In
secondo luogo, sostiene invece Lagalisse, “sarebbe utile concedere ai
complottisti che vi siano realmente delle ‘piramidi’ che sovrastano e dominano
lo spazio sociale, e che le persone ai vertici lottano senza sosta per rimanere
al potere, che lo ammettano o meno”.
È
questo il nucleo centrale della tesi ottimista e propositiva di Lagalisse.
Che ci
permette di giungere al punto del nostro discorso: se la destra più reazionaria
tende ad abbracciare le teorie del complotto – da QAnon alla Grande
Sostituzione, passando per le posizioni ambigue su Covid e vaccini – al solo
scopo di conquistare quella fascia di elettorato e incurante delle conseguenze,
il compito della sinistra dovrebbe invece essere di estrarre il buono
(l’anticapitalismo, la critica ai poteri forti, lo scetticismo nei confronti
delle multinazionali) di alcune teorie del complotto, separandole però da tutto
ciò che è irrazionale, paranoico e spesso razzista.
Mentre
i teorici delle cospirazioni sviluppano allegorie che riescono a descrivere
l’estrazione capitalista, il fatto che i protagonisti di queste storie siano
banchieri ebrei, alieni, Templari o massoni ci distrae da alcune intuizioni che
invece meriterebbero più attenzione e che rischiano di restare orfane di approfondimenti
politici o sociologici spiega Lagalisse, secondo la quale è fondamentale
prendere le teorie del complotto – che in alcuni casi individuano problemi
corretti attribuendoli però erroneamente alla volontà di un manipoli di singoli
– e trasformarle in teorie critiche, che si concentrano invece “sulla
costruzione di una teoria dei cambiamenti sociali in cui gli eventi si svolgono
a causa di forze impersonali”.
È
quanto scrive anche Bianchi (seguendo lo psicologo Jovan Boyford):
I
nuclei di verità su cui si basano le teorie cospirative sono degli ottimi punti
di partenza per intavolare una discussione proficua.
L’obiettivo,
infatti, non è quello di rendere un complottista meno curioso o meno scettico,
ma di “cambiare la direzione della sua curiosità e del suo scetticismo”.
La fine delle grandi narrazioni.
Seguendo
queste indicazioni, si può leggere in controluce un altro elemento d’importanza
cruciale, vale a dire la possibilità che la fine delle grandi ideologie (e il
declino della religione) abbia lasciato strada alla costruzione di nuove
macro-interpretazioni politiche paranoiche e spesso fai-da-te, nello stesso
modo in cui anche la religione sta diventando una questione sempre più
personale e personalizzata.
L’epoca
post-moderna, in poche parole, avrebbe fatto sì che i vuoti lasciati venissero
colmati (anche) con una lettura cospirazionista del mondo.
L’antropologo
delle religioni Ernesto De Martino, citato da Guilhot sulla Boston Review,
aveva anticipato già nel 1964 come “l’esaurimento delle ideologie del
progresso e il declino della religione avesse lasciato il mondo scarsamente
equipaggiato per affrontare la possibilità della catastrofe”.
De
Martino si riferiva al rischio di apocalisse nucleare della Guerra Fredda.
Adesso,
la catastrofe che le masse non sempre hanno i mezzi per affrontare, inquadrare
e razionalizzare è quella delle diseguaglianze economiche, della fine dell’era
dell’ottimismo, della precarietà, della pandemia, della crisi climatica.
Privati
delle mediazioni culturali comunitarie delle grandi ideologie e delle
religioni, le persone – spiega De Martino – si sentono
al
centro di una rete di insidie diffuse, di forze ostili, di oscure trame
cospirative tessute ai loro danni, esperendo al tempo stesso un continuo
spossessamento di sé, un esser esposti irresistibilmente alla perdita di
qualsiasi intimità e a un continuo deflusso dissipatore nel mondo esterno.
Considerare
il complottismo come se fosse causato da un deficit cognitivo o dai social
network (che comunque, ovviamente, un ruolo lo giocano) non è solo
un’interpretazione parziale e scorretta, ma è anche una lettura possibile solo
da una posizione di privilegio.
Lo
spiega chiaramente Guilhot:
È solo
grazie alla posizione di privilegio in cui la certezza del loro mondo viene
data per scontata che gli opinionisti odierni possono considerare le teorie del
complotto come delle deficienze cognitive che devono essere corrette, rimanendo
invece sordi all’ansia esistenziale che esse esprimono (…).
Dobbiamo
invece recuperare la capacità politica di gettare ponti che attraversano un presente
cataclismatico.
Ciò può iniziare solo dalla ricostruzione
della visione di un mondo comune e di un futuro inclusivo per tutti coloro i
quali stanno smarrendo i loro.
Più in
concreto, un lavoro di questo tipo passa (anzi, probabilmente parte) da un
rapporto differente con le teorie del complotto e i loro sostenitori, che non
li rifiuti in toto, ma che cerchi di depurarne le visioni dalle componenti più
assurde, senza gettare via il bambino con l’acqua sporca.
“Chi
accetta queste teorie”, prosegue Lagalisse, “potrebbe essere convertito a
un’analisi anticapitalista meno roboante e più aderente ai fatti. (…)
Sarebbe
opportuno cercare di articolare questi miti all’interno di teorie sociali
anticapitaliste per avvicinare queste persone ai movimenti sociali”.
È
evidente che – se si accetta la necessità politica di cooptare e depurare le
teorie del complotto – non è attraverso il debunking, la ridicolizzazione o il
semplice razionalismo che è possibile mettere a frutto delle energie che a
volte partono da embrioni critici corretti per poi naufragare, approdando
spesso nella destra estrema.
E se fosse invece possibile accogliere le
premesse di alcune teorie del complotto, disinnescare gli elementi più odiosi
(paranoia, razzismo, antisemitismo) e inquadrarle all’interno di una più ampia
cornice di senso e politica, offrendo risposte alle domande poste da chi sta
precipitando nella tana del bianconiglio?
Forse,
per dirla sempre con Lagalisse, “non è necessario disincantare il mondo per
permettere a un moderno antiautoritarismo di emergere; al contrario, è
necessario re incantarlo”.
Mons.
Viganò:”l’élite globalista
ha
fallito il suo assalto”.
Themilaner.it
– Cesare Sacchetti – (26 Giugno 2022) – ci dice:
Monsignor
Carlo Maria Viganò torna a parlare e questa volta lo fa in occasione del
secondo festival di Filosofia tenutosi a Venezia ieri e dedicato alla memoria
di monsignor Antonio Livi.
Viganò
durante la farsa pandemica è stato un punto di riferimento per molti cattolici
smarriti.
Una
roccia alla quale aggrapparsi durante la tempesta che ha sconvolto il mondo
intero e alzato ancora di più, se possibile, il fumo dell’apostasia in
Vaticano.
Mentre
il mondo cadeva preda di una morsa autoritaria senza precedenti, dietro le Mura
del Vaticano non si condannava questo folle e criminale piano per instaurare
una dittatura mondiale.
Al
contrario, se c’era qualcuno che era pronto a tessere le lodi del Nuovo Ordine
Mondiale quello era proprio Jorge Mario Bergoglio.
Dall’altra
parte invece si ergeva calma e ferma la voce di monsignor Viganò che denunciava
questo disegno imperialista e denunciava i cospiratori che vi avevano preso
parte, sia nelle istituzioni civili sia in quelle ecclesiastiche.
Se
molte persone sono riuscite a preservare la propria fede, lo devono
probabilmente anche a tutti gli sforzi profusi dall’ex nunzio apostolico negli
Stati Uniti che si è battuto costantemente e instancabilmente per tenere viva
la tradizione della vera Chiesa Cattolica.
In
questa sua ultima lettera però Viganò fa notare un elemento nuovo.
Il
piano, così come lo avevano concepito gli architetti di Davos e del Gruppo
Bildeberg, non è riuscito.
Il mondo non è entrato in una morsa
autoritaria globale così come avrebbero voluto gli uomini più influenti delle sfere
del mondialismo.
La farsa pandemica si è interrotta
praticamente ovunque.
Le restrizioni sono state via via sollevate
persino in Italia, il Paese che ha subito l’attacco più feroce da questi poteri
per via della sua storia e della sua cultura inestricabilmente legate alle
radici cattoliche e greco-romane;
radici
profondamente detestate dagli ambienti massonici dal momento che queste
incarnano tutto ciò che invece la religione massonica disprezza.
Il
mondo è entrato in nuova fase che si può definire di de-globalizzazione.
Piuttosto
che accentrarsi su un piano sovranazionale il potere sta tornado gradualmente
agli Stati nazionali.
Il consolidamento dei BRICS e il disimpegno
degli Stati Uniti dalla globalizzazione iniziato sotto l’era Trump, e mai
interrottosi, sta riportando indietro le lancette dell’orologio della storia.
E monsignore coglie questo cambiamento
scrivendo del “fallimento delle élite” che hanno visto andare in fumo i loro
propositi originari.
Sono
gli stessi membri del campo globalista a prendere atto della loro sconfitta e a
riconoscere che oramai la storia ha preso un’altra direzione.
Viganò
però esorta ad utilizzare questo periodo di quiete per ricostruire ciò che è
stato distrutto nei decenni precedenti.
Una volta che si abbandonerà il liberalismo
che è stato la causa del mondo senza valori che è avanzato dal Vaticano II in
poi fino a raggiungere il suo “apogeo” durante l’operazione terroristica del
coronavirus – nella quale si è assistito a una disumanizzazione delle
istituzioni politiche e sanitarie senza precedenti – avrà inizio quel naturale
processo di risanamento del Paese e delle sue istituzioni.
Il colpo di Stato pandemico è stato possibile solamente perché si
è creato un vuoto di valori, che, soprattutto nel caso dell’Italia, sono i
valori del cattolicesimo e della cultura dell’antica Roma.
Se
l’Italia avesse preservato la sua religione, la sua identità, la sua cultura e
la sua morale, tutto questo non avrebbe mai avuto luogo.
Ed è
questo l’insegnamento che Viganò esorta a trarre dagli ultimi due anni.
Ravvedersi
degli errori e dei peccati commessi e iniziare il cammino verso una graduale
rinascita.
E
questa rinascita, nota Viganò, non può non passare dal “rimettere Dio al centro
della nostra vita”.
Una volta intrapreso questo cammino, “tutto il
resto verrà da sé”.
Monsignore
ha tracciato la via. Non resta che seguirla.
Ps
123, 7
L’anno
scorso il nostro sguardo era rivolto con grande apprensione all’evolversi degli
eventi, che seguivano in modo apparentemente indefettibile l’agenda dei
globalisti del World Economic Forum.
Sempre
più persone capivano di trovarsi dinanzi a un piano – anzi, chiamiamolo col
termine appropriato: un complotto – ordito da cospiratori senza morale, ma si
sentivano inermi e sopraffatti.
Anche
noi, che pure avevamo ben chiaro sin dall’inizio cosa stesse accadendo, avevamo
molteplici ragioni per temere un inasprimento del regime dittatoriale che
andava instaurandosi.
E la
crisi russo-ucraina di inizio anno sembrava confermare questa recrudescenza.
Abbiamo
avuto conferma, pochi giorni fa, nientemeno che da Bergoglio, che ben prima
dell’inizio dell’operazione militare russa in Ucraina la NATO voleva provocare
l’intervento di Mosca per avere un pretesto per imporre la transizione
ecologica, a seguito delle sanzioni della comunità internazionale.
La pandemia per il controllo sociale, la
guerra e la crisi economica per la svolta green, il credito sociale,
l’abolizione della proprietà privata, il reddito universale.
Ma
proprio perché questo tradimento è ormai conclamato;
proprio
perché le menzogne che sono state diffuse si sono rivelate nella loro falsità e
pretestuosità;
proprio
perché si è capito che è l’attuale autorità ad essere irreparabilmente corrotta
e corruttrice, c’è da aspettarsi una reazione disperata, un colpo di coda:
perché
costoro non hanno più nulla da perdere, e sanno che quel che non ottengono oggi
con un ultimo rantolo, non lo otterranno domani, quando la loro cospirazione
sarà conosciuta universalmente e universalmente esecrata.
Bisogna
ridare alla società la sua dimensione spirituale, sanando la secolare ferita
inferta da laicismo, liberalismo e comunismo.
Cristo
Re deve regnare sugli Italiani ancor prima che sull’Italia.
Il laicato cattolico è chiamato a dare
testimonianza della propria Fede su due fronti:
uno
sociale, ricostruendo ciò che è stato distrutto, restaurando ciò che è stato
lasciato crollare.
Scuole, università, professioni, mestieri. Un
patrimonio di civiltà intimamente cristiano.
Rimettiamo
Dio al centro della nostra vita, al centro della famiglia e della società, al
centro della Chiesa.
Tutto
il resto verrà da sé.
Pianificavano
putsch contro
"deep
State" in Germania, 25 arresti.
Stream24.ilsole24ore.com – Redazione – askanews
– ( 07 dicembre 2022) ci dice:
Sotto la guida del Principe Heinrich XIII
Reuss, la rete cosiddetta dei "Reichsbuerger", "I cittadini del
Reich", una presunta cellula di estrema destra che si rifà al terzo Reich,
voleva compiere un "putsch", rovesciare il governo tedesco e
assaltare il Bundestag, imponendo il loro dominio anche con le armi, se
necessario.
In una
delle più grandi operazione contro l'estremismo in Germania, che ha coinvolto
circa 3.000 agenti di polizia, tra cui anche unità anti-terrorismo, sono state
perquisite più di 130 abitazioni e 52 sospetti, e almeno 25 persone sono state
arrestate con l'accusa di pianificare il violento "cambio di sistema".
Funzionari
di polizia hanno perlustrato l'area attorno agli appartamenti di caccia
"Waidmannsheil", vicino alla città della Germania est Bad Lobenstein,
dato che il proprietario è stato arrestato in relazione alle indagini.
I
sospettati sono accusati di avere formato un "gruppo terrorista" verso
la fine di novembre 2021, con l'obiettivo di superare l'attuale sistema della
Repubblica federale di Germania e sostituirlo con mezzi militari e la violenza.
Tra i
principali indagati figurano un membro di un'ex famiglia aristocratica, a lungo
attribuita dagli inquirenti all'ambiente borghese del Reichsbuerger, e un ex
membro dell'AfD del Bundestag, la deputata Birgit Malsack-Winkemann, secondo la
Welt online.
Tra i
presunti cospiratori ci sarebbero diversi ex ufficiali delle forze speciali
della Bundeswehr, secondo i procuratori federali.
Due
dei 25 arresti sono stati eseguiti in Austria e in Italia.
Il movimento include neonazisti,
cospirazionisti di Qanon e fan delle armi, i quali - secondo i procuratori -
credono di dover rovesciare un "deep State" che guida la Germania.
Il
ministro della Giustizia tedesco Marco Buschmann in un tweet ha elogiato
l'operazione tesa a smantellare la sospetta cellula terrorista, affermando che
la Germania ha dimostrato di essere capace di difendere la propria democrazia.
Altro
che virus. Trump lotta
(di
nuovo) col Deep
State.
La
versione di Maglie.
Formiche.net
– Francesco Bechis – (06/10/2020) – ci dice:
Convalescente
sì, al tappeto no. Il virus non ha spezzato Donald Trump, anzi, forse gli tira
la volata per le elezioni presidenziali. Parla Maria Giovanna Maglie,
giornalista e a lungo corrispondente negli Usa per la Rai: altro che Covid-19,
il vero nemico del presidente è il Deep State.
Un partito che fa proseliti anche fra i
Repubblicani.
“Se non facesse così, non sarebbe
Trump”.
Chi pensa di leggere le peripezie elettorali
del presidente americano Donald Trump con la lente della “coerenza” rischia di
prendere una cantonata.
Parola di Maria Giovanna Maglie, giornalista,
a lungo corrispondente per la Rai negli Stati Uniti.
Altro che
calare il sipario.
Il
contagio del coronavirus può tirare la volata al Tycoon a meno di un mese dalle
elezioni, dice a Formiche.net.
Maglie,
Trump esce dall’ospedale più debole o più forte di prima?
Non
credo che la malattia danneggi la sua immagine, anzi. Lo fa essere un “primus
inter pares”.
Da
sempre la “monarchia” americana vuole che il “re” sia in perfetta salute, non a
caso i report sulle condizioni fisiche del presidente sono periodici e
pubblici.
In passato ci sono stati presidenti che hanno perso
le elezioni per la loro salute. Come Bush padre, che si giocò la rielezione
perché prendeva antidepressivi e ha rimesso addosso al presidente giapponese.
Ma il Covid ha cambiato questa percezione.
Il
presidente ha più volte sottovalutato la gravità del virus. Non ne esce
benissimo…
Perché
ha scelto di non trincerarsi dentro la Casa Bianca?
Perché,
come Boris Johnson, ha sfidato la malattia, al contrario di Biden, che è stato
tutto il tempo dentro a un bunker?
Ma
questo è ciò che fa un leader.
Un leader
dà l’esempio. E questa scelta lancia il messaggio del “libera tutti”, in un
Paese che ne ha seppelliti più di 200mila.
Trump
non aveva alternative.
Sotto
elezioni un leader deve farsi vedere. Non è vero che ha negato il Covid.
Ha
delegato la gestione della pandemia ai governatori, senza trascinarsi in quei
ridicoli tiri alla fune italiani fra governo e presidenti di regione finiti al
Tar. L’economia, poi, resta un punto a suo favore.
La
disoccupazione è risalita.
Rispetto
ai tempi pre-Covid. Ma sta di nuovo scendendo. A luglio era intorno al 12%, ora
all’8%.
Trump
ha capito che una nazione come gli Stati Uniti, se spegne i motori
dell’economia, è clinicamente morta.
La
Trump Economics gli sta dando ragione. Tasse abbassate, investimenti in
infrastrutture, burocrazia snellita fino all’osso ora creano un cordone
sanitario.
La
malattia aiuterà Trump al voto?
Non lo
escludo. È vero che Trump è un leader fisico. Soprattutto in questa campagna
elettorale, ha puntato tutto sulla presenza, dal volantinaggio porta a porta
alla convention con il pubblico.
Però
la degenza può dare il via a un effetto simpatia intorno al leader ferito.
Perché
il presidente si ostina a non condannare i suprematisti bianchi?
Lo ha
fatto già durante il dibattito. Magari obtorto collo, ma per ben due volte.
A
differenza di Biden, per cui “AntiFa” non è un movimento terroristico, è
“un’idea”.
L’intero
Partito democratico si è venduto all’estremismo pur di togliere di mezzo Trump.
Raramente
nella storia americana ho visto trionfare presidenti democratici estremisti.
Da
Carter in poi, i democratici o si sono presentati come moderati, o hanno finto
di esserlo.
Con Obama è iniziata la deriva.
Trump
ha dalla sua tutto il Partito repubblicano?
Ufficialmente
sì. Tanti di loro voterebbero Biden sotto banco. Perché, dopo quattro anni
nella stanza dei bottoni, Trump non parla ancora la loro lingua.
Ha
sradicato l’ala moderata del partito, è allergico ai metodi felpati del Deep
State.
Il
Deep State?
Sì, lo
Stato profondo che oggi più di quattro anni fa spera in una sconfitta del Tycoon.
Lo
stesso che fece prendere a Washington DC alla Clinton percentuali bulgare. Funzionari,
dirigenti delle agenzie e dei ministeri sono di nuovo col fiato sospeso.
Maglie,
un errore Trump lo ha commesso oppure no?
Il
vero errore di Trump è il suo carattere.
È un
bullo, non ama la mediazione, vuole fare di testa sua.
Ma è
davvero un errore? Se non facesse così, semplicemente non sarebbe Trump.
Far
saltare il banco: come il Deep State
frena
la transizione democratica in Sudan.
Geopolitica.info - VINCENZO ROMANO – (31/07/2022) ci
dice:
Il
Center for Advanced Defense Studies – C4ADS – ha recentemente pubblicato il
rapporto ‘Breaking the Bank.
How
Military Control of the Economy obstructs democracy in Sudan’ che traccia un
quadro completo di come un cartello formato da attori affiliati allo stato stia
di fatto bloccando la transizione democratica in Sudan.
Tali
attori costituiscono il deep state del paese, controllando le principali
strutture statali nonché pezzi interi di economia, inclusi conglomerati
agricoli, banche e società di importazione medica.
Il
Deep State sudanese.
Il
Deep State sudanese, secondo la definizione data nel rapporto, è composto da
‘funzionari di grado medio-alto della sicurezza e dei servizi civili che
abusano del sistema statale per mantenere la loro rete di potere economico e
politico”.
All’interno
di esso vi sono diverse fazioni, tra cui le principali sono le Forze Armate
Sudanesi (Sudanese Armed Forces – SAF), le Forze di Supporto Rapido (Rapid
Support Forces – RSF) e, più recentemente, i comandanti ribelli che
combattevano contro il governo federale sudanese.
In
seguito al colpo di stato del 1989, l’ex-presidente Omar Al-Bashir ha messo in
piedi un sistema di potere nel quale una élite ristretta a lui vicina ha potuto
prosperare, consolidando il proprio controllo nei settori chiave dell’economia
e traducendo il potere economico in influenza politica attraverso la nomina di
funzionari in posizioni chiave della pubblica amministrazione.
Ad
oggi il deep state beneficia dei meccanismi stabiliti durante l’epoca Bashir.
Le
compagnie petrolifere, per fare un esempio, restano in mano statale,
consentendo alle élite militari di controllare l’afflusso di capitali stranieri
e dirigerlo verso le proprie casse.
Le SAF
e RSF possiedono banche, società di importazione e snodi di trasporto creando
monopoli verticalmente integrati che superano la concorrenza delle imprese
civili nazionali.
La
transizione democratica: dalla caduta di Bashir al colpo di stato dell’ottobre
2021.
L’11
aprile del 2019, Omar al-Bashir fu estromesso con un colpo di stato guidato da
alti ufficiali militari che si schierarono con i manifestanti scesi in piazza
contro il regime autoritario.
Nell’agosto
dello stesso anno, i militari sudanesi stipularono un accordo di power-sharing
con i leader politici civili, inaugurando così il “Civil-Led Transitional
Government” (CLTG).
Il
mandato del CLTG era la supervisione degli affari di stato fino alle elezioni
politiche e lo smantellamento della rete di potere creata da Bashir attraverso
la creazione del “Regime Dismantlement Committee” (RDC), un comitato contro la
corruzione e il recupero dei beni composto da rappresentanti di partiti
politici, esponenti militari e dell’intelligence.
L’RDC ha emesso più di cinquecento decisioni
recuperando con successo miliardi di dollari acquisiti illecitamente
dall’establishment del regime Al-Bashir.
Nella
sua fase iniziale, il CLTG ha ricevuto il sostegno dell’élite
politico-militare, facendo registrare progressi sostanziali verso la
democratizzazione del paese.
Tuttavia,
i conglomerati economici costituiti principalmente da RSF e SAF sono stati solo
parzialmente toccati dalla transizione politica.
Sebbene
le reti
del deep state e del precedente regime siano fortemente intrecciate, l’RDC si è ben
guardato dal toccarne gli interessi vitali.
Questo
ha aperto una spaccatura pubblica tra i membri dell’RDC, il deep state e le
Forze per la Libertà e il Cambiamento (FFC).
I militari hanno accusato l’RDC di corruzione,
mentre i civili hanno accusato i militari di intromissioni indebite nel mandato
indipendente dell’RDC.
Queste
tensioni sono sfociate, il 25 ottobre 2021, nel colpo di stato militare del
generale Al-Burhan, che ha portato all’arresto del primo ministro Hamdok, della
maggior parte del suo gabinetto e almeno venti membri dell’RDC.
Mentre i militari hanno citato la corruzione
della leadership civile come motivo del colpo di stato, la ragione profonda ha
a che vedere con i tentativi di smantellamento del sistema di potere
politico-economico da parte del RDC.
Il
colpo di stato ha rappresentato, nella sostanza, il punto di arrivo inevitabile
di una serie di tensioni latenti tra la componente civile e quella militare per
il controllo e la ripartizione delle risorse del paese.
Il
ruolo delle imprese controllate dallo stato.
Nel
rapporto è stato mappato l’ecosistema delle imprese controllate dallo Stato
(State-controlled enterprises – SCE) in Sudan per valutare in che modo
l’establishment militare esercita il controllo sull’economia del paese,
identificando 408 imprese controllate dallo stato in settori quali
l’agricoltura, il sistema bancario, l’industria militare e quella delle
forniture mediche.
Una SCE è definita come ‘un’azienda che ha
legami [strutturali] con membri del governo sudanese e/o del deep state,
inclusi SAF, RSF o funzionari dell’intelligence, e vulnerabile alla
manipolazione da parte di tali attori’.
È qui
opportuno menzionare i casi più importanti emersi nel rapporto ovvero quello
della “Omdurman National Bank” (ONB) e della Khaleej Bank, che le SAF e le RSF
rispettivamente controllano per avere accesso alle reti finanziarie globali.
Secondo il rapporto, le SAF, attraverso una rete di enti di beneficenza
fittizi, possiedono l’86% delle azioni della ONB, mentre la Khaleej Bank è
controllata attraverso joint venture tra le RSF e società facenti capo agli
Emirati Arabi Uniti.
In particolare, dal rapporto emerge che la
famiglia del leader delle RSF Mohamad Hamdan Dagalo, detto ‘Hemeti’, controlli
il 28% delle azioni della Khaleej Bank.
Inoltre,
nel consiglio di amministrazione della Zadna International Company for
Investment Ltd, un conglomerato agricolo di proprietà dell’esercito che gestisce
programmi di irrigazione e gestione di appezzamenti di terra, siede il fratello
di ‘Hemeti’, Abdel Rahim Dagalo.
Quali
conclusioni?
Il
rapporto arriva così alla formulazione delle seguenti conclusioni.
In
primis, il controllo dell’economia da parte di attori civili è un prerequisito
fondamentale per la transizione democratica in Sudan.
Il governo militare sta gradualmente
indebolendo le riforme democratiche fatte approvare dal governo di transizione
civile e rafforzando la posizione dell’establishment nei settori economici
chiave del paese.
Fino a
quando questa logica prevarrà, i militari continueranno a detenere tutto il
potere, senza lasciare alcun margine ai civili.
A tal
proposito, i paesi che cercano di sostenere la democrazia in Sudan hanno gli
strumenti per indebolire l’establishment sudanese in quanto: “Governi,
organizzazioni non governative (ONG) e società private hanno un ruolo nello
smantellamento del deep state del Sudan attraverso sanzioni economiche,
riduzione degli aiuti e una maggiore due diligence sugli investimenti privati”.
Finora,
le azioni dei paesi donatori hanno preso prevalentemente di mira le
organizzazioni governative piuttosto che le reti finanziarie e le imprese
appartenenti al potere militare.
Pertanto,
la comunità internazionale può contrastare il potere dell’élite sudanese e
sostenere la transizione democratica attraverso le seguenti misure:
colpire
le élite militari del paese e le loro attività attraverso sanzioni mirate
contro imprese economiche a loro associate;
riduzione del rischio per gli investimenti e
gli aiuti internazionali attraverso garanzie che questi siano direttamente
canalizzati a favore della popolazione locale, evitando il supporto a società
associate a SAF, RSF e funzionari pubblici sudanesi;
rafforzamento del sostegno alle organizzazioni
civili e ai giornalisti che sostengono la trasparenza e combattono la
corruzione in Sudan.
GLORIA
AL “DEEP STATE”:
LA
SECONDA GUERRA FREDDA.
Opinione.it
- Maurizio Guaitoli – (08 aprile 2022) ci dice:
Secondo
capitolo di fantapolitica: invadendo l’Ucraina, Vladimir Putin è caduto nella
trappola preparata per lui dal Deep State statunitense?
Davvero
qualcuno pensa che sarebbe stato meglio se il Donbass fosse stato riconosciuto
indipendente per evitare, nell’ordine, guerra, crisi energetica ed eccidi di
civili innocenti?
Una
falsa convinzione, evidentemente, dato che anche con l’indipendenza del Donbass
restava l’assoluta autonomia di Kiev a scegliere, in quanto Paese libero e
democratico, le sue alleanze militari e civili (Nato; Ue).
E
l’autonomia-indipendenza del Donbass non avrebbe alterato di una virgola
l’enunciato del problema.
Ma, che cosa è cambiato in Occidente?
È nata la Grande Germania post-merkeliana!
In
passato, con l’accordo implicito (ma anche esplicito, a volte) degli Usa,
Angela Merkel ha potuto svolgere per più di quindici anni il ruolo di
interfaccia tra l’America e la Russia di Putin.
Dopo la fine dell’era dell’ex cancelliera
tedesca, ecco che i due contendenti si trovano messi l’uno contro l’altro,
anche se il russo tenta di farsi scudo con il corpo di Xi Jinping.
Germania
con le mani libere, quindi, e Vladimir Putin versus Joe Biden, ma con uno status
enormemente inferiore del primo nei confronti del secondo.
Infatti,
allo “Zar” non rimangono che le armi del ricatto energetico-nucleare per
terrorizzare un’Europa tremebonda (ma non la Nato e l’America!), indecisa su
tutto.
Va
detto che, oggi, senza l’avallo degli Usa, la Germania non avrebbe mai potuto
decidere autonomamente per il proprio riarmo, dato che Paesi come la Polonia
non guardano a Berlino per la loro protezione, ma a Washington, più lontana ma
molto più sicura.
Dato
che Russia e Germania sono entrate per secoli in competizione tra di loro per
spartirsi la nazione polacca.
Putin
sa benissimo che l’Ue è un salotto di comari per quanto riguarda tre
caratteristiche negative fondamentali che ne costituiscono il difetto di
fabbrica, annidato nei suoi trattati cervellotici, zeppi di clausole che
impediscono il passaggio rapido ad azioni e decisioni immediatamente operative.
L’unitarietà
del comando è solo un sogno lontano, quando invece oggi servirebbe per la Ue
una strutturazione politico-decisionale da iperpotenza dotata di una iper
leadership, come Cina, Russia, e Usa.
Invece, accade l’esatto opposto: decisioni per
cui si renderebbero necessari tempi rapidi, sono rallentate dall’esigenza di
ricorrere a estenuanti e barocche mediazioni, adottate per di più con il
criterio antistorico della unanimità, tranne in rari casi stabiliti per legge.
In
questo contesto, la produzione legislativa e para-legislativa è devoluta a una
serie di strumenti, che vanno dai regolamenti, alle direttive e a un paniere
complesso di atti intermedi, affidati a organi esecutivi e decisionali, in cui
gli aspetti politici e amministrativi sono ora rigidamente separati, ora del
tutto confusi tra loro.
Infatti,
tutti i poteri di indirizzo politico e di riforma dei trattati sono di
esclusiva giurisdizione del Consiglio europeo dei capi di Stato e di Governo,
che decidono di regola all’unanimità;
mentre
l’intera parte normativa applicativa e secondaria (per modo di dire!) è
affidata a una serie di organismi politico-burocratici pletorici e ipertrofici,
come la Commissione europea e i Consigli dei ministri della Ue.
Poi,
c’è un Parlamento della Ue co-legiferante con la Commissione che rappresenta un
altro monstrum della insipienza politica di Bruxelles, visto che non esiste un
Governo comune!
Della
disunità organizzata di questa trista Europa fanno poi integralmente parte le
assenze suicidarie di politiche comuni di bilancio, fiscalità, difesa e
politica estera, rendendo così la Ue quella che è da sempre: un nano politico.
E altrove,
come funziona? Prendiamo Washington, dove da sempre comanda il Deep State.
Per
comprenderne l’intima e sofisticata essenza, è sufficiente un esempio tra
tutti: la durata dell’interregno del deus ex machina Edgar Hoover, il più
longevo direttore dell’Fbi, che si è fatto vari mandati all’ombra di almeno tre
presidenti Usa.
La
stessa cosa la si ricava dall’analisi delle guerre americane degli anni Novanta
e del primo decennio del XX secolo, a proposito del Nation Building e
dell’Esportazione della Democrazia.
L’America,
soprattutto lei, aveva un bisogno disperato di sostituire il nemico planetario
perduto (l’ex Urss) con qualcosa di altrettanto solido.
Dopo
l’11 settembre 2001, uno dei migliori candidati sembrava essere il Terrorismo
islamico, solo che quest’ultimo, pur avendo una destabilizzante, grandissima
portata ideologica antioccidentale, non aveva nulla di planetario, essendo
militarmente confinato in aree molto ristrette del Medio Oriente, e pertanto
non poteva di certo surrogare il ruolo dell’ex Urss.
Così,
nell’ottica del Deep State, si è un po’ troppo lasciato dilatare il fenomeno
dell’Isis, noncuranti delle sue stragi genocidiarie, per poi fare un
esperimento in corpore vili su quanto fosse facile la sua eradicazione totale
come abbozzo di Stato islamico.
A
questo punto, con la devastazione globale prodotta dalla pandemia e dagli
enormi rischi associati dall’estensione planetaria delle catene di valore (ad
esempio, i principi attivi degli antibiotici sono di fatto un monopolio della
Cina!), il Deep State ha chiarito a sé stesso “Chi” sarebbe davvero stato il
migliore candidato per divenire il nemico planetario irriducibile
dell’Occidente, individuandolo correttamente nel blocco Cina + Russia (+ India
+ Sud America, eventualmente).
Strumentalmente,
in venti anni si è lasciata ampia libertà economica a Pechino, per farne
un’immensa isola di sfruttamento di manodopera a buon mercato, ai fini degli
interessi del capitalismo americano.
E, forse, anche l’inerzia apparente sul suo
massivo riarmo si colloca in questa linea di supplenza ideologica, in
sostituzione dello sconfitto comunismo sovietico.
Alla
Cina si è poi lasciato associare come avversario geostrategico la Russia di
Putin:
dopo che l’America aveva girato la testa
dall’altra parte per Cecenia, Georgia, Siria, Libia, Donbass e Crimea, Mosca è
stata presa in trappola dal Deep State, facendole credere che anche l’Ucraina
sarebbe andata di pari passo, mentre invece la Cia preparava il trappolone del riarmo
militare di Kiev, facendo la danza della pioggia perché Putin decidesse
pro-invasione.
Il
calcolo come si vede è stato precisissimo: non ne uscirà vivo lo “Zar” dalla
caduta di immagine e dalle enormi perdite militari che fin da ora e fino a
chissà quando sarà costretto a subire.
E qui il colpo da maestro del Deep State è
stato quello di sostenere e formare in tutti i modi l’esercito e la Resistenza
ucraini, determinatissimi a difendere l’unità territoriale del proprio Paese,
costi quel che costi in termini di vite umane.
Nel
calcolo di depotenziamento del nemico russo, è previsto che la guerra di Putin
e la resilienza militare ucraina possano durare anni, grazie alle armi
modernissime che vengono e verranno fornite dagli americani al Governo di Kiev.
Putin
si è fatto fregare, quindi, versando un mare di sangue innocente, sacrificato
al suo delirio di onnipotenza, e procurando all’Ucraina distruzioni talmente
enormi che nessuno le dimenticherà per un secolo a venire!
Lo
Stato russo, grazie al combinato disposto di sanzioni ed emorragia di riserve
monetarie per tenere in piedi la sua folle guerra di invasione, va
rapidissimamente incontro alle conseguenze attese dal Deep State:
il
Default e i moti sociali di rivolta verso il regime, a causa della paurosa
scarsità di Panem et circenses che caratterizzerà di qui ai prossimi anni la
società russa e, soprattutto, la campagna profonda che vota in massa per Putin.
Ma,
analizzata dal Deep State, anche la Cina è un gigante d’argilla.
Lo si
è visto con il siero antivirale Covid.
Se un
giorno si dovesse imporle le stesse sanzioni che oggi applichiamo a Putin, il
tasso di crescita del suo Pil scenderebbe sottozero, facendo sprofondare
centinaia di milioni di cinesi nella povertà precedente alle riforme economiche
di Deng.
Morale?
Il Deep State sta garantendo da un secolo che l’America resterà sempre la più
forte di tutte le altre nazioni al mondo.
Per
colpa nostra, certo.
Quelli
che comandano davvero:
lo
"Stato nascosto" allo scontro
con
Giorgetti sulla Manovra.
Notizie.tiscali.it
– Redazione – (25 dicembre 2022) – ci dice:
Ragioneria
di Stato, Consiglio di Stato, tecnici d'eccellenza: mai metterseli contro.
Le ore
convulse di lavoro alla Finanziaria hanno messo il ministro sulla graticola.
Deep
State. Parola americana per "Stato profondo" o "nascosto".
In poche parole, quelli che comandano davvero,
che stanno nei gangli fondamentali della burocrazia e che possono rallentare
fino allo sfinimento, bloccare o deviare l'efficacia di ogni singolo
provvedimento.
È una
cosa un po' diversa del celebre "partito dell'immobilismo" che stando
a molte analisi storiche fa da pastoia alla Repubblica da quando è nata ad
oggi.
Si
tratta dei revisori, dei tecnici d'eccellenza, di coloro che devono validare e
bollinare ogni provvedimento del governo.
Meglio
non metterseli contro e lo sta capendo il neo ministro dell'Economia del
governo Meloni, il leghista Giancarlo Giorgetti.
Messo
sulla graticola dai rilievi della Ragioneria di Stato mentre si combatte per il
tribolatissimo varo della Manovra da 35 miliardi che definisce la politica
economica dello Stato per il 2023.
Scheda:
vi tutte le misure approdate in Senato.
Lo
sfogo contro il ministro e il suo team.
Se 21
dei 35 miliardi allo stanziamento sono praticamente già assegnati a combattere
il caro bollette, come mai sta diventando una specie di guerra del Vietnam, con
vietcong interni, assegnare i restanti 14?
Capirlo
significa realizzare chi comanda davvero quando si arriva alla messa in pratica
di leggi e provvedimenti, e il perché di certe tensioni fra Giorgetti e Meloni
su certe scelte recenti.
È
stato il deputato di Fratelli d'Italia Federico Mollicone, Presidente della VII
Commissione Cultura, Sport, Scienza, Editoria e Istruzione e collaboratore
stretto del vicepresidente della Camera Fabio Rampelli a sfogarsi con i
cronisti politici alla vigilia di Natale.
Raccontando, come riportato al quotidiano La
Stampa, l'irritazione della Ragioneria di Stato che ha sollevato ben 44 rilievi
sul provvedimento del Mef, in particolare con una serie di mail mandate al team
di Giorgetti su un emendamento riguardante il bonus Cultura, messaggi rimasti
senza risposta.
Sia Mollicone che Tommaso Foti, capogruppo di
Fratelli d'Italia, hanno sottolineato con fastidio che "soprattutto nelle
ultime ore alla Camera non vi fosse personale del Mef".
Ma
notano pure come il Ministero fosse impegnato parallelamente nella discussione
in Senato del decreto Aiuti Quater.
Sullo sfondo di questo fastidio ci sarebbe il dissenso
tra Fratelli d'Italia e il ministro Giorgetti, con la premier Giorgia Meloni
che preme per la sostituzione del direttore generale del Tesoro, Alessandro
Rivera, che al contrario Giorgetti blinda.
Scontrarsi
con lo "Stato sotterraneo".
C'è un
bel libro intitolato “Io sono il potere”, confessioni di un capo di gabinetto,
scritto da Giuseppe Salvaggiulo, che racconta molto bene l'eterno scontro fra
politici e tecnici, di cui i primi vorrebbero fare a meno ma di cui non possono
evitare l'apporto e le critiche.
Intanto per somma di competenze spesso
sbilanciate a favore dei secondi, poi perché il burosauro italiano si regge sui
vari snodi della messa in pratica del potere.
E sui
suoi controlli.
Significa
sbattere contro la Ragioneria di Stato, il Consiglio di Stato, la Corte dei
Conti, i capi di Gabinetto, i Servizi e così via.
Salvaggiulo
nel suo libro documenta alcuni errori politici poi bastonati dal Deep State
italiano.
Guai a
sbagliare.
Come
quando Renzi mise l'ex capo della Polizia municipale Fiorentina, Antonella
Manzione, alla guida dell’ufficio legislativo della presidenza del Consiglio,
il che portò a tensioni continue.
O quando Tremonti, vicepremier nel governo
Berlusconi nominò capo di Gabinetto Marco Milanese, ex finanziere poi datosi
alla politica.
E
isolato da tutti che nemmeno rispondevano alle sue telefonate.
Guai a sbagliare e in queste ore Giorgetti se
ne starebbe accorgendo, anche se ha difeso i suoi tecnici dicendo "sono
stanchi, hanno lavorato tanto".
Sarebbero
poi le scelte del ministro ad irritare chi sta negli snodi della burocrazia
economica dello Stato, col turnover da lui imposto mentre i tempi per il varo
della Manovra erano già strettissimi.
Dunque:
via Giuseppe Chiné, influente consigliere di Stato e già capo di gabinetto di
Daniele Franco (ministro dell'Economia del governo Draghi) al cui posto è
arrivato Stefano Varone già con Giorgetti al Mise.
E
dentro il coordinamento la magistrata della Corte dei Conti Diana Perrotta
invece di un consigliere di Stato.
Di cui
un deputato di Fdi, seccato, ha detto alla Stampa: "Sembrava comandasse
lei".
E fra breve c'è da votare il fondo salva Stati
europeo, Mes, a cui Giorgia Meloni ha opposto forte resistenza finora.
Il
deep state autoritario
internazionale
e la
corruzione legale dell’Occidente.
Il
dito, la luna, il Qatar e la Russia .
Linkiesta.it
- Carmelo Palma – (14 dicembre 2022) – ci dice:
La
potenza economica delle non democrazie è cresciuta così rapidamente che oggi possono
comprarsi progetti di ricerca, cattedre universitarie, testate giornalistiche,
influencer.
E non lo fanno lungo le linee del mondo
privato, ma con l’infiltrazione pubblica.
Del
caso Panzeri & Co. penso che l’essenziale – di cui discutere, su cui interrogarsi,
di cui davvero preoccuparsi – non stia nel sospetto o nell’accusa di corruzione
(ancora tutta da dimostrare) nei confronti degli indagati, arrestati o a piede
libero, di un’inchiesta che, anche se non fosse condotta da un magistrato belga
incolpevolmente paragonato, da un giornale italiano, ad Antonio Di Pietro,
meriterebbe comunque di essere presa con le pinze e nei dettagli, non con la
pala e all’ingrosso.
Questo
purtroppo si è però abituati a fare in un Paese, che ha un’idea della giustizia
costruita sul paradigma di Tangentopoli e in cui la flagranza di reato di uno
diventa, per proprietà transitiva, una prova di colpevolezza per tutti e dove
comunque, come disse un famoso” maître à penser ” di Mani Pulite, non esistono
innocenti, ma solo colpevoli che non sono ancora stati scoperti.
Antonio
Panzeri, Eva Kaili e tutti gli altri accusati di avere parlato e fatto parlare
bene del Qatar dietro laute e non dichiarate ricompense sono il dito – forse
penalisticamente sporco, forse no:
deciderà
un giudice a Bruxelles – di una luna cattiva, ma irraggiungibile per via
giudiziaria, rappresentata dall’enorme potere di condizionamento che gli Stati
canaglia (al diverso grado di canaglieria di ognuno) possono esercitare
legittimamente e illegittimamente, legalmente e illegalmente, per determinare e
propiziare il consenso delle opinioni pubbliche dei Paesi liberi o supposti
tali.
È
fenomeno che in Italia ha avuto una manifestazione letteralmente mostruosa
rispetto alla Russia di Putin, per quasi un ventennio nobilitata e legittimata
– gratis et amore Dei, non c’è dubbio – dai vertici dell’establishment politico
e economico italiano (dico Romano Prodi e Silvio Berlusconi, mica Marco Rizzo e
Giuliano Castellino), molto prima delle frequentazioni dell’Hotel Metropol da
parte di Gianluca Savoini per trattare, a quanto pare per finta, la cresta
sulle forniture di idrocarburi.
La
stessa cosa, “mutatis mutandis”, ma molto più in piccolo, anzi in piccolissimo,
può pure dirsi del Qatar, che ha conquistato i Mondiali di calcio senza neppure
far troppo finta di non essere quello che era.
La
potenza economica delle non democrazie nel mondo è cresciuta rapidamente negli
ultimi decenni.
Gli
investimenti produttivi, finanziari e pubblicitari di società statali e non
statali legate al deep state autoritario internazionale sono sempre più
determinanti per l’economia dell’Occidente.
Possono
comprarsi o, per così dire, affittare legalmente progetti di ricerca, cattedre
universitarie, testate giornalistiche, istituzioni culturali, think tank,
opinion leader, influencer e qualunque altra cosa faccia successo e immagine
senza bisogno di riempire le valigette di euro in nero, che a Bruxelles
sarebbero state trovate a casa di alcuni indagati.
E così
stanno facendo, con notevole e indiscutibile successo.
La
luna che gli stolti non vogliono vedere è che la penetrazione degli Stati
canaglia nel soft power del potere occidentale non viaggia lungo le linee della
corruzione privata, ma dell’infiltrazione pubblica.
Ed è un problema enorme per società e economie
aperte e quindi esposte anche a questa forma di cattura ideologica, prima che
corruttiva, che può trovare argini effettivi solo sul piano politico-culturale,
non su quello repressivo-giurisdizionale.
Pensare
di fermare questo fenomeno spiando le vacanze di questo e di quell’altro
politico o lobbista non dichiarato è, nella migliore delle ipotesi,
un’illusione ingenua e nella peggiore, e più frequente, una forma di cattiva
coscienza.
Lo
vediamo quotidianamente a proposito della guerra russa all’Ucraina, in cui
senza bisogno di dazioni illecite e di mazzette nascoste un pezzo
dell’informazione e della politica italiana si è fatta da dieci mesi
altoparlante della propaganda moscovita, del «non ci sono prove che…», «però la
Nato si era allargata troppo», «la Crimea è sempre stata russa» e «…ma in
Donbass era in corso un genocidio».
Il
«non si dica che Putin non vuole la pace», cioè il refrain gratuito della
campagna elettorale di Conte, mentre il famoso pacifista del Cremlino faceva
crimini a livello di Srebrenica, è stato molto più invasivo e epidemico delle
timide difese dei progressi del Qatar da parte degli eurodeputati socialisti,
indiziati di avere difeso a gettone le condizioni di lavoro degli immigrati
impegnati a costruire gli stadi per i Mondiali di calcio.
Purtroppo
la corruzione politica dell’Occidente – quella che davvero costa, pesa e
determina gli esiti delle elezioni, non i viaggi premio dei promoter – è oggi
legalissima, perché è indissolubilmente connessa al funzionamento e alla
fragilità del mercato politico e mediatico delle nostre democrazie.
Questo
sarebbe un bel tema di cui discutere, se l’ “Italian connection” di Bruxelles
non fosse diventata la nuova forma di scopofilia giudiziaria da cui la politica
e l’opinione pubblica italiana non sembra avere intenzione di guarire.
La
dis-percezione sulla gravità del pericolo e del fenomeno, unita alla
perversione guardonistica che fa apparire esistente e vero solo ciò che trova
spazio nelle aule dei tribunali, è proprio ciò che ha portato negli scorsi anni
a considerare come un atto di folklore la sfilata di Matteo Salvini e
dell’attuale presidente della Camera Lorenzo Fontana con le magliette pro Putin
nell’aula del Parlamento europeo e porta oggi a spiare con trepidazione e
allarme le email riservate pro Qatar di Andrea Cozzolino.
Chi
parla bene di Putin, chi traduce in italiano i dispacci della propaganda
moscovita, chi
spiega che di questo Zelensky e del suo regime di tipo nazista proprio non ci
possiamo fidare, può tranquillamente fare il Savonarola contro gli accusati e arrestati
di Bruxelles.
Rimaniamo un Paese così, a misura di Fatto
Quotidiano.
Trump,
Dio e Putin. Viaggio
nella
«tana» di Qanon in Italia.
Ilmanifesto.it - Giovanna Branca – (5 ottobre
2022) – ci dice:
(Questo
articolo è parte del progetto investigativo su Qanon in Europa basato
sull’analisi dei dati e condotto da Bellingcat e Lighthouse Reports.)
Mentre
Marjorie Taylor Greene – la prima deputata apertamente Qanonista eletta al
congresso statunitense – si complimenta felice per la vittoria di Giorgia
Meloni ritwittando un vecchio video in cui la leader di Fdi proclama che
l’istituzione familiare è sotto attacco, la comunità Qanon in Italia sembra
essere di tutt’altro avviso.
Meloni,
è la convinzione diffusa e variamente espressa, è l’ultima delle «gate Keeper»,
delle custodi del «sistema».
Ma che
cosa è la comunità di Q in Italia?
Quali
sono le narrative dentro il movimento nato sulla scorta di un fenomeno
tipicamente statunitense, ma diffusosi in tutta Europa?
QUANDO
NEL 2020 Tpi cercava di farne una prima radiografia, a un anno dell’inserimento
da parte dell’Fbi di Qanon fra le minacce terroristiche interne degli Usa, uno
dei canali Telegram citati dalla testata – Qlobal Change Italia – aveva 8.800
iscritti.
Oggi
ne ha 23.741, e non è affatto il gruppo più vasto di questa composita comunità
.
Altri gruppi sono scomparsi, altri ancora sono nati e hanno proliferato
superando anche i 60.000 iscritti, hanno cambiato forma, oppure le narrative di
Q hanno raggiunto altri ecosistemi genericamente definibili come complottisti,
fra cui le nutrite schiere no vax.
È Telegram infatti, insieme a YouTube, la
piattaforma regina in questo universo: la maggior parte dei canali nasce dopo
la purga di Q dalle piattaforme mainstream (Facebook, Twitter…) e anche qualora
i singoli seguaci abbiano dei profili attivi, è su Telegram che il grosso del
discorso qanonista italiano viene portato avanti.
Non
solo: la piattaforma per la comunità italiana – come viene fotografata dal
database di contenuti postati su canali associabili a Qanon, creato da
Bellingcat e Lighthouse Report – è una sorta di universo perlopiù
autoreferenziale: nella top ten dei domain condivisi su questi gruppi al primo
posto c’è la stessa Telegram.
E come
emerge dall’analisi dei dati relativi a un campione di 8 dei principali canali
collegati a Q in Italia, fatta per questa ricerca, fra i più linkati appaiono
il sito di disinformazione di estrema destra americano” The Gateaway Pundit”,
all’ottavo posto, e Rt al 18esimo.
Mentre
nel più vasto ecosistema complottista subito dopo Telegram si trovano” Il
fatto” e “Ansa”.
QUANDO
APRE il suo canale – The Storm Q-17, arrivato ad avere oltre 60.000 iscritti –
il 26 settembre 2020 Daniela Cecamore lo inaugura con una immagine di Trump con
una Q dorata in mano e sovraimpresso il motto di Qanon: «Where We Go One We Go
All».
La
narrativa è quella integralmente qanonista raccontata con dovizia di
particolari da La Q di Qomplotto di Wu Ming 1: l’allora presidente Usa è a capo
di una operazione segreta di cui fanno parte l’esercito e Jfk jr. (che nel 1999
avrebbe finto la sua morte), per sgominare il Deep State, la cabala di
pedo-satanisti – naturalmente a prevalenza ebraica – che regge le fila del
potere non solo in Usa ma in tutto il mondo.
Q è un insider del piano che con i suoi
periodici drop sulle piattaforme 4chan o 8chan si rivolge cripticamente a
coloro che hanno visto la luce e li invita a «fidarsi del piano»,
rassicurandoli sul fatto che «The storm is coming» – è in arrivo la tempesta
che sgominerà i nemici di tutto ciò che è bello e giusto.
CON IL
PROCEDERE del tempo e della pandemia, e con l’introduzione dell’obbligo del
green pass, la narrazione su The Storm Q-17 si sposta però poco alla volta, ma
infine totalmente, su posizioni, post, storie e fake news no vax.
Nell’ecosistema
di Telegram (e non solo), come è prevedibile, la permeabilità dei confini fra
gruppi cospirazionisti è continua, ma è significativo come dall’analisi dei
dati emerga che in tutti i principali gruppi di Q la narrazione alternativa sul
Covid (grafene nei vaccini e così via) sia un perenne rumore di fondo con
picchi che in determinati momenti superano anche l’interesse verso Q e affini –
ad esempio su Il risveglio Q17, Qanon Italia e ChildresQue Italia Channel nel
gennaio del 2022 in coincidenza con il decreto legge che introduce l’obbligo
vaccinale per gli over 50 – evidenziando il rischio di proselitismo per la
comunità Q.
ALL’INVERSO,
e parallelamente, in nutriti gruppi no vax si diffondono nel tempo le narrative
di gruppi e soprattutto personaggi riconducibili a Q.
Specialmente
attraverso i post dell’influencer al centro di questo ecosistema: Cesare
Sacchetti.
Autore di un blog sul Fatto quotidiano fino al
2016, Sacchetti è inserito già a maggio 2020 da “News Guard” fra i
super-diffusori di disinformazione a livello europeo, l’anno successivo Rolling
Stone gli dedica un profilo dove lo etichetta come «il re dei complottisti
italiani».
Unico
fra tutti coloro che hanno sposato le teorie di Q a produrre quasi
esclusivamente contenuti originali (nell’ordine di decine di post al giorno
sugli argomenti più svariati, dalla pandemia alla guerra in Ucraina, oltre ad
avere un suo blog anche in inglese), dai dati emerge che il suo canale Telegram
(63.505 iscritti) è il più ri-postato in tutto il network italiano – non solo
quello Q – preso in analisi dal database, con un margine quasi di 2 a 1.
Due
post di Sacchetti in cui insinuava che Mario Draghi fosse gravemente malato –
che gli sono valsi lo scorso gennaio una perquisizione da parte della Digos –
hanno rispettivamente 99.000 e più di 43.000 visualizzazioni – e hanno
circolato non solo su canali Q come Qanon Italia e Italian Patriots ma anche su
gruppi come Esercenti no green Pass e Italia Costituzionale no green pass.
ALL’INTERNO
del campione degli otto principali canali Q presi in esame, Sacchetti è in top
ten fra i più ripostati sia che si parli di Qanon, di elezioni o di Covid,
mentre è in assoluto il più condiviso in materia di guerra in Ucraina.
Sulla
quale la sua posizione è ampiamente chiarita dal fatto che l’unico canale
Telegram che riposta occasionalmente è “Intel Slava Z”, gruppo di
disinformazione filorussa (e probabilmente di matrice russa) che fra i tanti
post – decine al giorno per oltre 400.000 iscritti – adduceva sedicenti prove
del fatto che l’esercito ucraino abbia commesso la strage di Bucha.
INVARIABILMENTE,
l’universo Q italiano è filo Putin, che viene visto come un alleato di Trump
nella lotta al Deep State e un nemico della «dittatura» europeista e
filoatlantica.
Proprio
il filoatlantismo è fra i reati mortali che si contestano a Meloni, vista come
una schiava di Nato e Israele – in tanti ri-postano il suo tweet a Zelensky
come prova della sua collusione – e non abbastanza estrema in fatto di aborto:
quando tutta la comunità gioiva della sentenza della Corte suprema Usa che ha
abolito il diritto federale all’aborto, veniva puntato il dito su Meloni che
sosteneva di non voler abolire la 194.
E
questo nonostante la leader di Fdi abbia solleticato molte delle tematiche care
alla comunità, dalla teoria della sostituzione etnica ai riferimenti a Soros
come «usuraio» fino alla vicinanza con l’apprezzatissimo Orban e il sodale di
Trump Steve Bannon.
Il
millenarismo di Q – che vede in Trump una sorta di profeta destinato a
realizzare un progetto simil-divino – trova terreno fertile nella variante
cattolica oltranzista italiana: gender e diritti civili sono il male, lo stesso
papa «è parte della falsa chiesa e della dittatura mondiale».
LO
SCRIVE Rossella Fidanza (42.234 iscritti al suo canale) che ha esordito da
Paragone alla Gabbia nel 2014 come imprenditrice truffata dalle banche in epoca
di odio per il “signoraggio bancario”, e oggi gestisce il secondo canale
Telegram più condiviso nel network italiano, inzeppato di contenuti Q – a
partire dal negazionismo sui risultati elettorali Usa – e no vax: il canale da
cui riposta più spesso è “Eventi avversi vaccino Covid”.
Perfino
il sottobosco sovranista e complottista candidato alle elezioni, Paragone in
testa, è però respinto dalla comunità Q e liquidato da Sacchetti come un’armata
di «utili idioti» di cui si è servito «lo stato profondo italiano» per
ritardare l’attesa e inarrestabile pietra tombale sulla «democrazia liberale».
Vaccini,
pandemia, totalitarismo:
un
piano studiato.
Lanuovabq.it – Paolo Bella Vita -chirurgo – (26-10-2022)
– ci dice:
Un
programma di forte stampo totalitario e tecnocratico è stato concepito in
Occidente per affrontare le nuove “sfide” del mondo globalizzato.
Dalla
cultura dei vaccini del 2014 alla pandemia fino all'imposizione del Green pass.
Ecco come le élite globaliste stanno
incarnando il "Padrone del mondo" con il Grande Reset.
E come l'obiettivo - insegna San Giovanni
Paolo II - sia sempre la negazione della dignità della persona umana.
Grazie
ad un invito del Comitato “La Gente come Noi” a tenere una conferenza a Caneva
(PN), ho avuto occasione di riflettere
ancora sul fatto che la questione dell’obbligo vaccinale e del cosiddetto green
pass non sono mere questioni tecniche ma evidenziano un passaggio critico di
tipo ideologico e politico, che si potrebbe chiamare “totalitarismo del
pensiero unico” (altri usano i termini “grande reset” o “transumanesimo”, tutti
concetti tra loro collegati) e in questo si rivelano anche delle analogie con
il modo con cui è gestita l’attuale crisi geopolitica.
In questo intervento partirò da mie esperienze
nel campo dei vaccini per allargare infine l’orizzonte sulle radici ideologiche
e persino psicologiche delle distorsioni osservate.
LA
“CULTURA” DEI VACCINI.
Ho
sempre insegnato immunologia e vaccinologia all’università, senza dubbi di
sorta fino al 2016, allorché fui coinvolto nel caso del dr. Roberto Gava,
persona mite e competente, radiato dall’Ordine dei Medici di Treviso per le sue
posizioni critiche verso le vaccinazioni indiscriminate e obbligatorie.
Non si
trattava di un caso isolato, ma di una manovra organizzata dalla Federazione
dei Medici che con un documento del 2016 sui vaccini iniziava a seguire le
indicazioni governative.
Era
già in corso una manovra poi culminata con la legge n. 3 dell'11 gennaio 2018,
che ha previsto una nuova definizione degli Ordini, che ora agiscono quali
organi sussidiari dello Stato “al fine di tutelare gli interessi pubblici”
connessi all'esercizio professionale.
Anche
se sono fatti del passato, conviene ricordare come andarono le cose perché si
vede come operò l’intreccio tra industria, politica e informazione già in
quell’occasione.
In
quegli anni si stava preparando l’allargamento dell’obbligo vaccinale con la legge
Lorenzin del 2017.
Ricordiamo che fino al 2017 erano obbligatori
solo vaccini per difterite, tetano e polio (malattie sparite, di cui la
difterite e il tetano non per merito dei vaccini, ma dell’igiene) cui poi fu
aggiunta la epatite B, resa obbligatoria, benché inutile per i bambini, per una
disposizione di legge del 1991 quando era ministro della Sanità Francesco De
Lorenzo, che
intascò una tangente da 600 milioni di lire pagata dalla multinazionale Glaxo
SmithKline (GSK), azienda produttrice del vaccino.
Dieci-quindici
anni fa il mercato dei vaccini languiva e GSK iniziò a produrre un vaccino
cosiddetto esavalente che oltre a contenere i 4 obbligatori conteneva
l’antigene della pertosse e di haemophilus influenzae (malattia rarissima).
Inoltre,
le case farmaceutiche produssero un vaccino tetravalente contro Morbillo,
Rosolia, Parotite e poi Varicella.
Nello
stesso tempo Glaxo e Merck si accordarono per eliminare dal mercato i vaccini
monovalenti Morbillo e Rosolia che si facevano fino a quel momento.
C’era
semplicemente il problema di venderli.
E
salvare lo stabilimento di Siena, per cui si mosse Matteo Renzi in prima
persona, quando GSK minacciò di chiudere lo stabilimento di Siena, dove sono
impegnati circa 2.000 dipendenti.
Ecco
quindi che sotto il governo Renzi si fece a Washington un accordo
internazionale, che emerge anche da un comunicato dell’AIFA del 29 settembre
2014 in cui si legge, tra l’altro: “Washington, 29 settembre 2014 – L’Italia
guiderà nei prossimi cinque anni le strategie e le campagne vaccinali nel
mondo.
È
quanto deciso al Global Health Security Agenda (GHSA) che si è svolto venerdì
scorso alla Casa Bianca.
Il
nostro Paese, rappresentato dal Ministro della Salute Beatrice Lorenzin,
accompagnata dal Presidente dell’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) prof.
Sergio Pecorelli, ha ricevuto l’incarico dal Summit di 40 Paesi cui è
intervenuto anche il Presidente USA Barack Obama”.
La
promessa era di aprire i mercati dei vaccini in oriente (soprattutto India e
Pakistan) e in cambio bisognava saper garantire la vendita in Europa e
diffondere “cultura” dei vaccini, tanto che il polo di Siena è diventato un
centro di formazione dei vaccinatori di tutti i paesi poveri.
Non
sta però scritto che Pecorelli fu poi costretto alle dimissioni per accertati
legami con case farmaceutiche e che l’incontro di Washington fu organizzato dal
dottor Ranieri Guerra, che era addetto medico dell'ambasciata italiana in USA
e, guarda caso, faceva parte del CDA della fondazione GSK.
Come
“premio” di questa attività Ranieri Guerra alla fine dell’anno fu nominato
direttore generale della programmazione sanitaria del Ministero della Salute, e
da quella posizione si occupò di organizzare le campagne vaccinali e scrisse di
suo pugno la legge sull’obbligo del 2017 (in cui in prima battuta avevano
inserito 12 vaccini con previsione di ritiro della patria potestà agli
inadempienti).
LA
BUGIA DEL MORBILLO.
La
legge Lorenzin fu preparata dall’allora Ministro, per i motivi che si sono
visti, approfittando in modo straordinariamente abile di un minimo aumento di
casi di morbillo.
Furono dette delle vere e proprie fandonie, la
più grande fu che quel microscopico picco ricorrente ogni tre-cinque anni in
una malattia così (da gennaio a maggio si trattava di poco più di 2500 casi in
tutta Italia di cui nemmeno 1000 bambini, cioè meno di un caso ogni 5000
bambini) era dovuto a un presunto crollo delle coperture vaccinali (W.
Ricciardi).
Io
collaborai con la Regione Veneto nell’allestimento del dossier.
Il ricorso del Veneto - in cui vigeva la
libertà di vaccinazione da 10 anni - disse una cosa semplice e certa: non c’era
alcuna necessità di un obbligo vaccinale, non c’era alcun aumento dei casi.
Eppure
la Corte Costituzionale respinse il ricorso, perché essa stessa fu ingannata
dalle ripetute argomentazioni dell’Avvocatura dello Stato sul presunto
interesse pubblico dell’obbligo vaccinale.
Relatrice
fu l’allora Consigliera Marta Cartabia, poi ministro del governo Draghi e
“artefice” dei decreti legge sull’obbligo vaccinale anti-COVID-19 e “green
pass”. Sarà un caso.
Questi sono fatti e servono per capire come
funzionano le cose anche oggi, perché il metodo è sostanzialmente lo stesso, in
parte sono le stesse persone e gli stessi partiti a sponsorizzare l’operazione.
IL
NUOVO TOTALITARISMO DEL GREEN PASS.
Il
primo obbligo vaccinale anti-COVID-19 (DL 44, 1 aprile 2021, Art. 4) fu
decretato “al fine di tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate
condizioni di sicurezza nell'erogazione delle prestazioni di cura e assistenza”.
Poi da
questo si è passati ad allargare l’obbligo agli ultra-50enni e soprattutto al
green pass che è uno strumento tipico del nuovo totalitarismo, anzi ne è
l’emblema.
Caparbiamente voluto dalle élites europeiste,
impersonate in Italia dal premier Draghi.
Il filosofo Giorgio Agamben ebbe a dichiarare,
in una audizione al Senato, che non è vero che il green pass sia servito a
imporre i vaccini, sono stati i vaccini funzionali a imporre il green pass.
Quest’ultimo
era il vero obiettivo delle autorità italiane e europee, che affermavano,
falsamente, che si sarebbe trattato di uno strumento a garanzia della libertà
di circolazione e di movimento.
Oggi
sappiamo che l’inoculo di materiale genetico del virus non previene l’infezione
(in realtà si sapeva già che non c’era alcuna prova scientifica di ciò), ha
efficacia di breve durata e la protezione si inverte dopo 5-6 mesi, in un anno
ha totalizzato molti più effetti avversi di tutti gli altri vaccini assieme
nella storia, non è monitorato con farmacovigilanza attiva, non è valutato
correttamente per quanto riguarda la “correlazione” (algoritmo OMS).
In
mancanza della farmacovigilanza, l’unico parametro di riferimento indiscutibile
(almeno come dato) è la mortalità per tutte le cause (cioè comprendente non
solo i morti da COVID-19 ma anche da malattie cardiovascolari e tumori) e
proprio da tale parametro originano dati estremamente preoccupanti.
Almeno per quanto riguarda il Regno Unito, la
mortalità per tutte le cause, che all’inizio sembrava inferiore tra i
vaccinati, negli ultimi mesi sta invertendo la tendenza e si mostra maggiore
tra i vaccinati (almeno quelli con due o tre dosi, non essendovi ancora dati
sufficienti per quelli con quattro dosi).
VACCINO
INTOCCABILE.
Eppure
il “vaccino” gode ancora di uno statuto di intoccabilità, non si può nemmeno
discuterlo, pena essere considerati complottisti e anti-scientifici. Continua
la credenza che il vaccino sia l’unica salvezza e continua la sponsorizzazione
di qualsiasi Ente o mezzo di informazione che ne promuova l’uso.
Ad
esempio, l’Università di Padova ha avviato un centro ricerche che riceverà 320
milioni dall’Unione europea e collabora con molte aziende di Big Pharma, tra
cui Pfizer, Biontech, Astrazeneca che beneficeranno di questi fondi.
Tra
queste aziende spicca anche Orgenesis, un’azienda di biotecnologie americana
che ha avuto un ruolo nello sviluppo dei vaccini a mRNA.
Ebbene:
in questa azienda opera in un ruolo direttivo “Heiko von der Leyen”, marito
della presidente UE.
E
proprio il medico tedesco è stato inserito nel consiglio di sorveglianza, che
secondo lo statuto del centro ha il potere di pianificare la strategia del
budget.
Un
conflitto di interesse della famiglia von der Leyen grande come una casa ma di
cui pochi parlano.
D’altra
parte, ancora si parla troppo poco delle cure della malattia, forse perché i
costosissimi antivirali (sempre della Pfizer) non mantengono le promesse o non
ci sono fondi per utilizzarli in tutti i casi.
Perché
le cure domiciliari con i comuni antinfiammatori e integratori alimentari non
vengono studiate, organizzate, promosse e valutate?
Le
ragioni sono essenzialmente tre:
1)- la
pervasiva mentalità tipica di uno statalismo “etico-burocratico”: lo Stato
presume di dover dirigere la medicina e la farmacologia e non può ammettere
cure cosiddette “non provate rigorosamente”.
L’AIFA
usa il termine cure “non raccomandate”, ma dalla non raccomandazione alla
negazione il passo è breve, anche tenendo conto che qualche medico è stato già
inquisito dalla magistratura o radiato per non aver seguito le
“raccomandazioni” di Tachipirina e vigile attesa.
2)- I
vaccini promessi come l’unica salvezza dell’umanità potevano essere autorizzati
in via emergenziale solo se non esistevano rimedi efficaci per la malattia.
3)-
AIFA è letteralmente finanziata dalle case farmaceutiche che versano notevoli
somme per i propri dossier di registrazione.
Un antinfiammatorio
come l’indometacina (già registrato) costa 2 euro la scatola e non porta alcun
incentivo nelle casse dello Stato, mentre i nuovi antivirali costano 500 euro.
L’INTRECCIO.
Analizzare
il modo di gestione della pandemia, particolarmente per gli aspetti
dell’obbligo vaccinale e dei ritardi nelle cure, è importante perché le
distorsioni segnalate rappresentano la “punta di un iceberg” e rivelano
emblematicamente l’intreccio tra finanza, politica, informazione e scienza.
Qui si
rivelano le menzogne del potere totalitario (e del suo pensiero unico) che
incombe sull’umanità e sfrutta la cosiddetta scienza (meglio si dovrebbe
parlare di tecnologia) per i suoi fini di dominio planetario.
Esistono dei poteri forti e sovranazionali che
condizionano le nostre vite.
Non per niente, ad esempio, la propaganda
vaccinale a buon mercato (cioè senza neppure approfondire tecnicamente le
questioni) ha visto come motore e protagonista lo stesso “World Economic Forum”
(WEF), di Klaus Schwab che ha pubblicato degli opuscoli in materia.
IL
GREAT RESET E IL TRANSUMANO.
Il
Grande Reset (in inglese Great Reset) è una proposta del WEF per ricostruire
l'economia “in modo sostenibile” dopo la pandemia di COVID-19.
Fu
presentato congiuntamente a maggio 2020 da Carlo, oggi re del Regno Unito, e
dal fondatore e direttore Klaus Schwab.
Si
tratta, in breve, di un progetto di completa riorganizzazione della produzione,
del commercio e dei consumi in vista di una trasformazione della società
dichiaratamente in senso trans-umano.
La
stessa von der Leyen ne ha fatto menzione nei suoi discorsi programmatici.
Il
programma si basa sulle innovazioni della “Quarta rivoluzione industriale” con
una apparente finalità etica, filantropica, ecosostenibile etc...
Per
quarta rivoluzione industriale si intende la crescente compenetrazione tra
mondo fisico, digitale e biologico.
È una somma dei progressi in intelligenza
artificiale, robotica, Internet, stampa 3D, ingegneria genetica, computer
quantistici e altre tecnologie.
L’obiettivo è la creazione di un nuovo tipo
umano che anziché riferirsi alle credenze tradizionali diviene creatore e allo
stesso tempo utilizzatore del proprio destino, mediante la tecnologia di stampo
meccanicistico e riduzionistico.
Un
“uomo nuovo”, sano, efficiente, che è capace di emanciparsi dalla stessa natura
utilizzando la conoscenza soprattutto biogenetica e informatica
. Il
“metaverso”, in cui l’uomo alienato potrà immergersi e “vivere”, è solo un
esempio di questo progresso.
L’obiettivo
finale è l’emancipazione dalla morte o, se non possibile, almeno una
"dolce morte".
Una
società finalmente funzionante, ben organizzata, una popolazione selezionata
sin dall’embrione, ridotta di numero, senza pesi morti e individui non
produttivi.
Oltre
che nel WEF, l’idea del Great Reset trova alimento e rilancio in Occidente in
un cartello sovranazionale, di stampo scienti-tecnocratico e con accentuati
lineamenti etici.
Le sue
“armate” sono costituite da un coacervo di istituzioni e organismi che agiscono
su tutti i principali ambiti dell’esistenza umana:
Gruppo
Bilderberg, Banca Mondiale, OMS, Trilaterale, Aspen Institute, Fondazione
Gates, GAVI (Global Alliance for Vaccine Initiative).
In
tali e altri Enti sovranazionali, in parte pubblici, in parte privati, in parte
esclusivi, sono implicati banchieri, politici (di destra, centro e sinistra),
giornalisti, economisti, dirigenti d’azienda, persino personaggi dello
spettacolo.
Quindi
si è formato un intreccio di interessi tra finanza, industria tecnologicamente
avanzata, politica ispirata alla sinistra globalista, informazione mainstream.
Queste
entità sono intrecciate, dipendono le une dalle altre e si sostengono. Questo
“pensiero unico” e totalizzante prende forma e si autogiustifica come tale,
demonizzando qualsiasi pensiero alternativo o di resistenza.
Nel mondo la fa da padrone, tanto che si potrebbe
chiamare la personificazione del “Padrone del Mondo” profetizzato in vari
romanzi del secolo scorso.
Contro
questo “pensiero” ingranato con tutto non si può andare, neppure i potenti ci
devono provare.
IL
RUOLO DELLA CINA.
Questo
programma di forte stampo totalitario e tecnocratico è stato concepito in
Occidente per affrontare le nuove “sfide” del mondo globalizzato, forse anche
perché la Cina ha dimostrato coi fatti che un regime politicamente e
giuridicamente autoritario è più efficiente delle nostre vecchie democrazie per
padroneggiare le crisi.
Ad
esempio, il modo con cui la Cina ha affrontato la pandemia è esemplare:
hanno
lavorato per anni nel settore del “gain of function” (GOF) dei virus (anche con
i finanziamenti americani), poi si sono lasciati “scappare” il virus dal
laboratorio, hanno fatto subito un lockdown durissimo, mentre in giro per il
mondo sono stati presi tutti alla sprovvista.
Subito
dopo la “comparsa” dei SARS-CoV-2 i cinesi “concessero” la sequenza del nuovo
virus e gli americani ed europei ci cascarono, pensando che con quella
avrebbero prodotto i vaccini, mentre i cinesi i vaccini se li sono fatti col
sistema tradizionale dei virus inattivati.
TOTALITARISMO
O DITTATURA?
Il
totalitarismo è diverso dalla dittatura perché la seconda è violenta e forza le
persone, mentre il primo è pervasivo, convincente, si basa sulla formazione del
pensiero delle masse e il controllo capillare dell’informazione.
Matthias
Desmet, nel suo recente “Psicologia del totalitarismo” (Edizioni La Linea, Bologna 2022),
ricorda che la differenza si colloca soprattutto sul piano psicologico: mentre
le dittature si basano sulla paura fisica, lo Stato totalitario affonda le sue
radici nel processo sociale e psicologico della “formazione di massa”.
In una
società devono darsi quattro condizioni perché si renda possibile una
formazione di massa su larga scala, tutte presenti al momento dell’avvento del
nazismo e dello stalinismo, ma emergenti anche nella nostra epoca:
1)-
uno stato di solitudine generalizzata, isolamento sociale e mancanza di legami
interni alla popolazione;
2)-
mancanza di senso della vita, del lavoro e dello studio;
3)-
enorme diffusione di ansia latente e disagio psicologico;
4)-
senso generalizzato di frustrazione e quindi aggressività, che cercano degli
oggetti verso cui indirizzarsi.
Il
metodo di lavoro del sistema di potere globale emergente è basato su una sorta
di procedura la cui attuazione, passo dopo passo, consente di raggiunge
l’obiettivo principale, cioè il totalitarismo del pensiero unico.
Eccone gli steps fondamentali:
Creazione
artificiosa di fenomeni – o utilizzazione strumentale di situazioni
effettivamente presenti – dai quali far scaturire un pericolo grave e
incombente per tutti (malattia, povertà, fame, aggressione di un nemico,
regressione economica, cambi climatici).
Necessità
di risposte immediate e presentazione di soluzioni che “appaiano” il più
possibile rapide, efficaci e univoche, comunque incontestabili (meglio se
eticamente giustificabili; da qui l’opportunità del supporto, quando
necessario, di una religione compiacente).
Creazione
di vere e proprie “fedi” indiscutibili. La prima “fede” è la cosiddetta scienza
e i suoi prodotti tecnologici. Un’altra fede è la bontà dello Stato che si
occupa del bene dei cittadini. Un’altra è la “transizione ecologica” che
metterebbe fine al riscaldamento globale.
Portare
la gente a credere in un solo modello economico (adesione di massa all’Euro e
al modello irreversibile, unico e indiscutibile delle politiche liberiste di
stampo euro-globalista), uno politico-strategico (adesione di massa
all’approccio euro-atlantico nella crisi russo-ucraina e nello scenario
cino-taiwanese), uno etico-valoriale (adesione di massa alla visione e alle strategie
mondialiste LGBTQIA+).
Conseguimento
della piena operatività delle soluzioni proposte, grazie alla progressiva
collaborazione delle persone, prima spinte poi forzate ad adottare cambiamenti
di tipo comportamentale, sociale, relazionale, affettivo ed etico.
Parallela
adozione di massicce e pervasive strategie di comunicazione, informazione e
persuasione per conseguire incondizionato consenso acritico di massa alle
soluzioni adottate;
Isolamento,
insulto e discriminazione, fino all’eliminazione (non c’è più bisogno che sia
fisica) di singoli soggetti o gruppi sociali dissidenti.
UNA
REAZIONE.
Di
fronte a tali minacce, così pervasive, profonde e apparentemente invincibili,
cosa si può realmente fare?
È
possibile resistere, lottare e reagire?
Innanzitutto
si tratta di capire il pericolo e le sue radici.
In
questo ci aiuta quanto scrisse San Giovanni Paolo II Papa (che di totalitarismo
se ne intendeva) nella sua Centesimus Annus:
“La
radice del moderno totalitarismo, dunque, è da individuare nella negazione
della trascendente dignità della persona umana, immagine visibile del Dio
invisibile e, proprio per questo, per sua natura stessa, soggetto di diritti
che nessuno può violare: né l'individuo, né il gruppo, né la classe, né la
Nazione o lo Stato.
Non
può farlo nemmeno la maggioranza di un corpo sociale, ponendosi contro la
minoranza".
Nella
Centesimus Annus si leggono affermazioni ancora più forti:
“Lo
Stato totalitario, inoltre, tende ad assorbire in se stesso la Nazione, la
società, la famiglia, le comunità religiose e le stesse persone.
Difendendo
la propria libertà, la Chiesa difende la persona, che deve obbedire a Dio
piuttosto che agli uomini (cf At 5,29), la famiglia, le diverse organizzazioni
sociali e le Nazioni, realtà tutte che godono di una propria sfera di autonomia
e di sovranità.”
Un
altro insegnamento viene dall’esperienza delle resistenze al potere sovietico -
soprattutto ungheresi, polacche e cecoslovacche - prima del suo crollo.
Come ricorda Francesco Ochetta in un commento
al libro di Havel “Il potere dei senza potere”, il muro di Berlino è caduto anche
grazie alla dissidenza non violenta di uomini come Václav Havel, drammaturgo e
intellettuale liberale, poi diventato Presidente della Cecoslovacchia.
L’eredità
del suo pensiero ci consegna almeno tre insegnamenti:
1) il
dovere della memoria: omettere questa responsabilità significa creare le
condizioni per un oblio politico e sociale da cui nemmeno l’Italia è immune;
2) la
mitezza, che ha ispirato la Rivoluzione di Velluto nel 1989 e rovesciato il
comunismo in Cecoslovacchia. Havel infatti si è rifiutato di odiare anche
quando è stato rinchiuso in carcere;
3) la
ricerca della verità contro ogni tipo di menzogna, attraverso la qualità della
parola.
Havel non ha mai soffocato la sua parola,
nemmeno nei circa sei anni trascorsi in carcere: anzi, l’ha esaltata come
drammaturgo, l’ha condivisa e resa dialogica come politico.
Per
Havel ogni cambiamento sociale e politico inizia dai singoli atti, soprattutto
da quelli piccoli che prendono le mosse dal cambiare la (propria) storia.
Incluso
ciò che serve per «cercare l’anima dell’Europa», un’Europa dei popoli: «Al
totalitarismo – diceva – si resiste soltanto se si sceglie di scacciarlo dalla
propria anima».
In
pratica, la gente che ha capito e vuole resistere può fare comunque alcune cose
in tale direzione, a portata di tutti e di ciascuno:
Dichiarare
il proprio dissenso dal pensiero unico in ogni circostanza e con qualunque
mezzo.
Diffondere
ogni tipo di struttura, organizzazione e iniziativa che nei diversi contesti
(religioso, politico, informativo, web, editoriale, educativo, sanitario,
sportivo) sia portatrice di istanze resistenziali antitotalitarie.
Partecipare
attivamente e dare visibilità a qualunque evento pubblico venga organizzato per
dar voce e corpo alle suindicate istanze.
Promuovere
e realizzare, con iniziative sia individuali sia sociali, forme di boicottaggio
mirato a qualunque organizzazione che sia allineata con le politiche, le
strategie e i cosiddetti “valori” politicamente corretti.
Scegliere
per i propri figli proposte scolastiche ed educative che siano sicuramente
fuori dai “circuiti” gender ed ecoambientalisti.
Attivare
azioni, anche drastiche, di silenziamento massmediale. Una di esse, ad esempio,
potrebbe essere quella di eliminare i collegamenti televisivi o ridurli al
minimo.
Aiutare
nelle forme per ciascuno possibili persone e organizzazioni che, a motivo delle
loro scelte resistenziali, si trovino a operare concretamente e rischiosamente
contro il sistema totalitario.
Politicamente,
promuovere ogni iniziativa che vada nella direzione dell'applicazione di un
autentico principio di sussidiarietà, che è sempre stato il cardine della
Dottrina sociale della Chiesa.
È
necessario iniziare a muoverci, anche individualmente, qui e ora. Occorre
farlo, io penso, anche come credenti, anche se oggi la Chiesa nelle sue
gerarchie sembra ancora lontana da tale consapevolezza.
Dobbiamo lavorare con pazienza affinché
aumenti la presa di coscienza (con relativo cambiamento) che renda gruppi
sociali più o meno vasti e importanti consapevoli del disegno oppressivo di cui
sono vittime e siano capaci di resistere per il bene comune.
(Paolo Bellavita- Medico chirurgo e
ricercatore indipendente).
FACILE
È LA GUERRA PER
CHI
NON L’HA PROVATA.
Euronomade.info – Redazione- GIROLAMO DE
MICHELE – (Apr. 1, 2022) -ci dice:
1). Nella
commedia all’italiana Anni ruggenti, un compassato Nino Manfredi si rivolge
all’esagitato fascista Gastone Moschin, che ha perorato la partenza dei
volontari alla guerra di Spagna con roboante oratoria, chiedendogli: “Voi
partite col secondo scaglione?”.
È una
domanda che andrebbe rivolta ai molti autoproclamatisi analisti politici che
negli spazi comunicativi si accalorano sull’invio di armi all’Ucraina –
peraltro, senza chiarire quali armi, e a quali destinatari.
Il
correlato di questi discorsi è da un lato la legittimazione della resistenza
ucraina – come se, putiniani a parte, qualcuno la mettesse in discussione;
dall’altro, che chi dissente dal discorso
sulle armi sia, oltre che un’anima bella o un pacifista, un pacifista da
tastiera.
Fatto
è che dietro una tastiera ci siamo tutti, pacifisti e sostenitori dell’invio di
armi: perché nessun partecipante all’agorà mediatica ha, in questo momento, la
minima possibilità di influire sulle decisioni che vengono prese altrove.
Non si
dice Biden, ma neanche Draghi telefonerà a uno qualunque di questi opinionisti
per chiedere parere: questo è un fatto.
Che
pone un problema di non poco conto: in che modo, non solo sulla questione della
guerra, ricostruire uno spazio pubblico in grado di rendere performativi gli
enunciati che emergono nella discussione pubblica.
2).
Peraltro, la foga di taluni opinionisti sembra orientata, con l’alzare dei
toni, ad attutire la memoria di posizioni più o meno recenti, che sarebbe bene
ricordare.
C’è
chi, all’indomani della vittoria elettorale del centro-destra nel 2018, si
affrettava a citare autorevolmente in prime time “il filosofo Diego Fusaro”;
chi ha profetizzato l’avvento del “gigante
indiano” e la nascita di un blocco indo-cinese, il cosiddetto “impero di
Cindia”;
chi
poche ore prima dell’invasione russa metteva in guardia dal blocco del sistema
SWIFT, e sosteneva che riconoscere le autoproclamate repubbliche secessioniste
dell’Ucraina orientale non preludeva a una dichiarazione di guerra:
filosofie
politiche alla carta e geopolitiche prêt-à-porter, insomma, rese possibili dal
fatto che delle cantonate passate nessuno sembra chiedere conto.
Il che
è una delle facce della peste del linguaggio che ha da tempo contagiato lo
spazio pubblico.
3). Le
armi: quali, e a chi?
Se c’è
una merce che non sembra mancare alla resistenza ucraina (che è costituita da
soldati di mestiere), sono proprio le armi di piccolo e medio peso.
Capita
piuttosto che la cattiva merce, cioè quella bellica, scacci quella buona:
viveri, farmaci, generi di conforto.
Dei
quali si interessa attivamente quella galassia pacifista che, in modo
spontaneo, si occupa dell’invio di materiali e del supporto al diritto alla
fuga dei profughi.
E del
resto neanche il bellicoso presidente ucraino Zelinsky chiede fucili o
munizioni: chiede piuttosto tank, aerei, la no fly zone.
In poche parole, la partecipazione attiva alla
guerra del cosiddetto Occidente, in una delle sue molte incarnazioni – Unione
Europea, NATO, USA.
Sarebbe
dunque doveroso che chi parla di invio di armi all’Ucraina chiarisse se intende
– e allora lo dica – una dichiarazione di guerra, o no.
Sempre
ricordando che nessuno consulterà Rampini o Gramellini, prima di dichiararla.
4).
Sicché, in un mare di chiacchiere roboanti – ma anche, va riconosciuto, di
discorsi più pacati e ragionati, ma parimenti impotenti – le uniche azioni
concrete, al di là della tastiera, delle prime pagine dei quotidiani e dei
palchi televisivi, sono quelle compiute dalle anime belle – ebbene sì:
rivendichiamola,
questa definizione, appropriamocene! – da Mediterranea a Emergency alla
Caritas, fino alle mille associazioni, ma anche alle singolarità cui basta un
mezzo capace e due giorni liberi per portare soccorso e salvezza sulla
frontiera ucraino-polacca.
E, con buona pace di qualche starlette
televisiva, senza dimenticare che il fronte orientale si aggiunge, ma non si
sostituisce a quello meridionale, nel quale si continua a morire per
annegamento o per mano della cosiddetta guardia costiera libica armata e
finanziata dall’Italia, se non giunge per tempo il soccorso navale.
5). La
peste del linguaggio, si diceva.
Quell’allestire
a misura di audience nei luoghi deputati alla discussione un Circo Barnum nel
quale deve necessariamente esserci un barboncino parlante e un clown col naso
rosso: e, simmetricamente, quello sgomitare di barboncini e clown disposti a
farsi avanti per recitare la parte.
È
questo uno dei peggiori retaggi dei due anni di discussione pubblica avvelenata
in tempo di sindemia:
lo
smarmellarsi delle differenze in una pappa indistinta nella quale sono confusi
la filosofa pacifista che ha scritto Stranieri residenti e l’opinionista
filo-russo fino a ieri aduso ad odiose affermazioni sui migranti; e, più in
generale, la sovrapposizione intenzionale, condita dal conseguente dileggio,
fra chi prepara la pace perché vuole pace, e chi strumentalmente dice pace per
nascondere la propria adesione alla crociata putiniana.
Non è
un caso che, come osserva Luigi Manconi, si appalesi “una perfetta integrazione
tra ostilità al vaccino e apprezzamento per Putin”, descrivibile attraverso
(almeno) quattro categorie: sindrome del nemico, mania di persecuzione,
sovranismo corporale e geo-politico, odio per le élite.
Fermo restando che, detto pour cause, qualcuno
(magari chi lo aveva candidato alla presidenza della Repubblica) dovrebbe
chiedere allo stesso Manconi se la Buona Scuola, che lui votò in Parlamento
senza proferire una sola parola di dissenso, rende oggi più facile o più
difficile combattere questa peste logico-linguistica.
Se oggi è possibile dileggiare quotidianamente
un intellettuale che da anni, con lo sguardo della fisica teorica, cerca di
“pensare il mondo come un insieme di eventi, di processi”, e non come una
collezione di cose, e sostituire uno sguardo complesso con la lettura dei fondi
di caffè nella tazzina, qualche domanda su quello che alla scuola è stato fatto
nell’ultimo ventennio bisognerebbe farsela.
6). Ho
scritto: crociata putiniana.
La
dico meglio: quella rappresentazione semplificatrice di opinionisti
facilitatori che descrivono lo spazio europeo come luogo di un conflitto tra
presunte élite globali e difensori della tradizione cristiana;
tra civilizzazione e civiltà; tra Grande Reset
globalista e Grande Risveglio;
tra perversioni LGBTQ+ e ritorno alla morale.
Una
rappresentazione della quale si fa artefice non solo, e non tanto, Aleksandr
Dugin – che peraltro non è un ideologo di Putin, ma un estremista cui a Putin
può far comodo ammiccare –, come esemplifica bene la recente intervista
fattagli da un “giornalista” su un antifrastico foglio di stampa (ambedue,
giornalista e foglio, sdoganati da un’altra intervista nelle prime settimane
della pandemia).
Ma
soprattutto, da un opinionista/facilitatore come Rampini, che assume pari –
limitandosi a rovesciarlo, salvo parlare con involontaria ironia di “opposti
estremismi” – il paradigma binario: l’impudenza di Putin sarebbe causata da un
Occidente malato del virus della critica, teorica e sociale, ai buoni valori
occidentali.
Quale che ne sia il segno, la posta in gioco
di questa guerra sarebbe la ricostituzione del blocco, geo-politico e
valoriale, occidentale.
7). La
pace: quali sono le parole che devono, o dovrebbero essere pronunciate, oggi?
Cominciamo
col chiederci quale prassi discorsiva debbano praticare i movimenti per la
pace, anche e soprattutto alla luce dell’attuale impotenza performativa di ogni
discorso sulla guerra.
Uno
dei primi effetti di ogni guerra – lo diceva Gino Strada – è di far dimenticare
tutto ciò che c’era prima, e che ha causato la guerra, schiacciando la
dimensione politica sull’oggi:
fingendo di ignorare che in quel passato che
viene rimosso ci sono le cause non solo della guerra attuale, ma anche delle
prossime (che è un altro modo di dire che “il mondo non è un insieme di cose, è
un insieme di eventi”).
È
evidente che le parole della pace non possono avere per scopo l’ingresso
nell’attuale agorà politica, ma devono osare la prefigurazione di un diverso
ordine del discorso, scommettendo sulla possibilità di un altro mondo nel quale
le differenze non sono risolte tramite la guerra.
Di
più: nel quale l’intreccio sistemico delle crisi – bellica, pandemica,
ecologica, migratoria, economica – sia riconosciuto come la manifestazione di
un modo perverso di stare al mondo, di una distribuzione dei viventi negli
spazi globali infettata dal virus del capitalismo.
E
nella ricerca di alleanze fra chi è disposto a condividere questi assunti. In
quest’ottica, è patente che non può aspirare a una futura credibilità un
discorso che oggi si comprometta con il sostegno alla soluzione armata.
È
altrettanto evidente che qui acquista una sua centralità il ruolo della scuola,
non a caso investita dall’ennesima emergenza educativa nell’accoglienza dei
profughi.
Per
dirla con una battuta che spiega tutto: come si diceva all’assemblea di
Priorità alla Scuola di domenica 27, cominciamo a chiamarli non più profughi,
ma cittadini e studenti.
8). È stato
detto che questa guerra ha definitivamente distrutto l’album di famiglia della
sinistra.
È
probabile che la crisi bellica abbia reso indifferibile la presa di coscienza
di qualcosa che era già accaduto da tempo, ben prima della stessa crisi
pandemica.
Si tratta comunque di prenderne atto, se
possibile con sobrietà, e tracciare il disegno di un diverso album (magari
rinunciando all’analogia con l’istituzione familiare, che i soggetti
fotografati in quell’album un tempo sognarono di distruggere).
Gettare
via l’album, del resto, non significa gettare via tutto quello che quell’album
raffigurava: morfologie, strutture, processi di soggettivazione, insomma cose
concrete possono e devono essere recuperate genealogicamente da quel passato.
Non
per nostalgia, ma per la costruzione di nuovi spazi politici, pubblici,
discorsivi: assumere una posizione per la pace, in favore di un tempo futuro,
può essere un lavoro di federazione possibile.
L’OCCIDENTE
IN DECLINO E GLI INTERESSI
DIETRO
LA GUERRA IN UCRAINA.
Controinformazione.info
– (19 aprile 2022) – Luciano Lago – ci dice:
Quando
analizziamo la causa dei conflitti odierni sullo scenario internazionale
dobbiamo partire da una premessa di fondo che permette di comprendere quale sia
la principale causa di tali conflitti.
La
classe dirigente globalista e l’élite di potere statunitense rifiutano di
accettare la loro sempre maggiore perdita storica dell’egemonia unipolare e
della supremazia nelle relazioni internazionali dovuta allo sviluppo di un
nuovo mondo multipolare e policentrico che sta modificando la correlazione delle
forze tra nazioni con l’ascesa attiva di potenze come India, Iran, Corea del
Nord, Cina, Russia, Venezuela o Cuba che segnano la loro sovranità e
indipendenza contro l’imperialismo statunitense e il suo sistema neoliberista
in declino .
Questa
è anche la causa prima dello scontro fra occidente atlantista e la Russia di
Putin ed a questo si collega l’altro fattore che è dato dalla volontà delle élite
globaliste di annientare la Russia come polo antagonista al dominio degli Stati
Uniti in Europa e in altre parti del mondo.
Gli
Stati Uniti hanno utilizzato l’Ucraina come una loro pedina per contrastare la
Russia e creare un conflitto alle sue porte, approfittando delle rivalità
interne e dei conflitti etnici di quel paese.
A
questo si è unito il desiderio di saccheggio del neoliberismo occidentale, con
buona parte della popolazione ucraina sottoposta all’allucinazione consumistica
introdotta da una massiccia operazione di marketing.
Tale
operazione ha favorito la rivoluzione colorata avvenuta nel paese (pilotata dalla
CIA), guidata violentemente da due partiti di estrema destra Pravy Sektor e
Svoboda, quest’ultimo con seggi in Parlamento.
In un
prolungamento della guerra fredda, che in molti pensavano fosse un residuo del
passato, l’Occidente ha fatto pressione per insediare un governo russofobo a
Kiev, dando così origine alla ribellione delle regioni a maggioranza russa e
gestendo una sorta di guerra civile che ha servito da terreno fertile per il
rafforzamento dei gruppi ultranazionalisti e neonazisti che hanno permeato le istituzioni
ucraine, l’esercito e incluso il governo di Kiev.
L’Ucraina
è diventata quindi il terreno di scontro tra Occidente atlantista e la Russia
che difende la sua sicurezza dal tentativo scoperto della NATO di costituire
nel paese basi avanzate offensive contro la Russia.
La
Russia ha reagito ed ha rotto l’accerchiamento con l’operazione speciale
iniziata il 24 febbraio che, si può criticare per il modo ed i tempi in cui si
è sviluppata, ma che costituisce la risposta della Russia alla strategia di
accerchiamento portata avanti dalla NATO e dagli USA sotto le proprie frontiere.
Forze
USA in Ucraina.
In
questo contesto si rende evidente l’ipocrisia dell’Occidente che oggi condanna
la Russia per la presunta invasione dell’Ucraina dimenticandosi delle tante
guerre sostenute ed appoggiate da USA e i suoi alleati contro paesi sovrani in
violazione del diritto internazionale.
In
particolare in molti si chiedono per quale motivo i governi occidentali, l’amministrazione
Biden e l’Unione Europea, condannano la Russia per aver invaso l’Ucraina con il
pretesto della sicurezza nazionale mentre difendono il “diritto legittimo” del
regime saudita di invadere lo Yemen con lo stesso pretesto?
Nonostante
le spaventose violazioni dei diritti umani da parte dell’Arabia Saudita nello
Yemen, le nazioni occidentali, e in particolare gli Stati Uniti, non solo hanno
fornito armi letali, addestramento, manutenzione, intelligence e copertura
politica e diplomatica alla monarchia saudita, ma hanno imposto restrizioni ai
media sulla copertura delle violazioni dei diritti umani del regime saudita in Yemen,
pressioni sulle società di tecnologia e social media per rimuovere e bandire
completamente gli attivisti yemeniti e i media critici nei confronti della
guerra.
Lo
stesso accade in Palestina ed in Siria con le azioni criminali del regime di
Israele, sostenuto da tutto l’Occidente atlantista, che sono dirette contro la
popolazione indifesa, adducendo sempre il motivo della propria sicurezza quando
è noto a tutti che Israele occupa illegalmente le terre palestinesi e conduce
una spietata politica di appropriazione, di insediamenti coloniali e di
apartheid della popolazione nativa.
Tralasciando
il ruolo nefasto della NATO nelle recenti guerre di aggressione condotte in
Iraq, in Libia, Somalia e Afghanistan e altrove, con il loro bilancio di
milioni di vittime e distruzioni immani fatte da coloro che oggi si ergono a
giudici.
In
occasione della crisi ucraina il livello di ipocrisia e di cinismo dei media
occidentali, guidati dal grande carrozzone della propaganda anglo USA, risulta
assolutamente intollerabile, da denunciare per le falsità e la manipolazione
della realtà diretta ad assegnare la parte del cattivo tiranno al presidente Putin
e la patente di “buoni e vittime” a tutti gli ucraini, inclusi i neonazisti
sanguinari dei vari battaglioni e mercenari di ogni risma accorsi a difendere
la giunta di Zelensky e soci.
In
vista dell’obiettivo di questa guerra, quello di disarticolare la Russia ed
ottenere un cambio di regime a Mosca, le forze della NATO stanno conducendo una
forsennata campagna di sostegno dell’esercito ucraino e delle formazioni
neonaziste, fornendo loro ogni tipo di appoggio e di armi sofisticate,
alimentando le fiamme del conflitto che rischia ogni giorno di estendersi in
Europa.
Si è
compreso che nessuno ha voglia di scendere direttamente in campo per timore di
una guerra nucleare ma non si tralascia ogni sforzo per prolungare il conflitto
a tempo indefinito a costo di elevate perdite umane, con l’Occidente che mette
le armi e gli ucraini che mettono la carne da cannone per alimentare la guerra.
Gli
istigatori della guerra sono a Washington, a Londra ed a Bruxelles, con il
tragico ruolo dell’Europa che lavora per il suo stesso annientamento pur di
favorire gli interessi dell’Impero statunitense.
Di
questo un giorno le classi dirigenti dei paesi europei saranno chiamate a
rispondere.
Russia
e Cina all’avanguardia
del
mondo multipolare.
Nritalia.org
- Aleksandr Dugin – (6-2-2022) – ci dice:
(Bandiere
Russa e Cinese davanti alla Cattedrale di San Basilio, Mosca)
L’attuale
crisi delle relazioni tra la Russia e l’Occidente non ha nulla a che vedere con
il gas, il petrolio, le risorse energetiche o l’economia in generale.
I tentativi di spiegare la politica con il
premio nello spirito di Daniel Yergin sono vani e superficiali.
Si
tratta di processi civili e geopolitici, in cui le questioni economiche ed
energetiche sono secondarie e vengono citate in giudizio strumentalmente.
Dal
punto di vista della civiltà, è tutta una questione di ideologia e proprio di
quella dei Democratici nell’amministrazione Biden.
L’amministrazione
attuale degli Stati Uniti consiste di alleanza di ultra-globalisti mescolati
con neocons e falchi liberali.
Osservano che il mondo unipolare, l’ideologia
liberale globale e l’egemonia dell’Occidente stanno crollando e sono disposti a
fare qualsiasi cosa, anche la Terza Guerra Mondiale, per prevenirla in qualche
modo.
I
globalisti hanno molti nemici – Islam, populismo (tra cui Trump),
conservatorismo, Islam politico, ecc. –, ma solo due potenze hanno il reale
potenziale per sfidare davvero l’egemonia – Russia e Cina.
La Russia è un gigante militare, la Cina un
gigante economico.
Qui
entra in gioco la geopolitica.
È importante che Biden strappi la Russia
dall’Europa, che vuole una propria politica autonoma.
Da qui
il problema ucraino e l’escalation nel Donbass.
La
Russia e Putin vengono demonizzati e accusati di essere pronti ad invadere il
paese vicino, anche se non c’è una vera invasione, Washington si comporta come
se fosse già avvenuta.
Da qui
le sanzioni e anche la probabile azione militare preventiva nel Donbass.
Poiché
tutti in Occidente sono convinti dell’invasione russa, qualsiasi operazione
militare degli ucraini appoggiata dalla NATO nel Donbass sembrerà una difesa
legittima.
Allo
stesso tempo, si presume che una campagna mediatica scatenata contro la Russia
impedirà una risposta adeguata e simmetrica da parte di Mosca e, se non lo
impedirà, le relazioni di Mosca con l’Europa saranno comunque interrotte.
Le
dispute sul gas e Nord Stream-2 servono solo come strumenti tecnici per una
guerra di posizionamento.
Lo
stesso vale per la Cina.
Biden
ha creato un’alleanza anti-Cina con i paesi anglosassoni (Australia, Gran
Bretagna) AUKUS e QUAD con i paesi asiatici – Giappone, India.
L’ostacolo
stavolta è Taiwan (come l’Ucraina nel caso della Russia) e l’obiettivo finale è
quello di interrompere e prevenire l’espansione economica della Cina nel
progetto “One Way One Belt Initiative”.
L’alleanza
tra Russia e Cina e la combinazione delle intenzioni russe di restaurare il
«grande spazio» con il progetto cinese “One Way One Belt “nel progetto
integrale della Grande Eurasia, annunciata dai leader russi e cinesi diversi
anni fa, significa la fine irreversibile dell’egemonia occidentale.
I
recenti incontri di Putin e Xi Jinping non lasciano dubbi sulla serietà della
Grande Eurasia e la decisione è stata presa.
Da qui
il feroce attacco dell’ultraliberale e globalista Soros alla Cina.
Tutto
questo è geopolitica classica, che ripete alla lettera i progetti atlantisti da
Mackinder a Brzezinski.
Il potere marino (liberali, globalisti) contro
il potere terrestre (Eurasia).
Allo
stesso tempo, Russia e Cina potrebbero accogliere altri contendenti per lo
status del polo:
America
Latina (come è stato sottolineato durante la visita del Presidente argentino
Albert Fernandez a Mosca e di cui sicuramente si parlerà durante la visita
prevista del Presidente brasiliano Bolsonaro),
il
mondo islamico (che sogna di liberarsi del controllo occidentale – Iran,
Turchia e Pakistan sono in prima linea su questo fronte),
Africa
(dove Russia e Cina hanno iniziato a ripulire i regimi fantocci europei),
l’Europa
continentale stessa (che è sempre più stanca dell’atlantismo e sogna di
diventare un polo a sé stante – idee che stanno guadagnando popolarità in
Francia, Germania, Italia e Spagna, nonostante le élite liberali atlantiste,
ancora al potere).
Solo
l’India (a causa dei conflitti con la Cina e il Pakistan) e il Giappone (ancora
sotto il rigido controllo degli Stati Uniti), così come un certo numero di
burattini globalisti, sono dalla parte degli evidenti perdenti. Rimanere lì sta
diventando un vero peccato.
Questo
riguarda anche l’ideologia.
Tutti
coloro che si oppongono all’egemonia americana e al goffo tentativo di Biden di
salvare il modello unipolare (nello spirito della League of Democracies) stanno
cominciando a prendere le distanze dal dogma liberale, soprattutto nella sua
attuale forma assolutamente ripugnante e patologica (con la legalizzazione e
l’imposizione totalitaria aggressiva di LGBT+, matrimoni gay e altre
perversioni, così come minaccia diretta di cedere il potere all’Intelligenza
Artificiale, a cui si riducono i progetti post-umanisti attivamente promossi
dalla Big Tech).
Se a
questo si aggiungono il fallimento delle politiche anti-Covid, le vaccinazioni
discutibili (eliminate da Omicron), le repressioni ingiustificate e orrende, i
passaporti orwelliani e un sistema di sorveglianza totale, è chiaro che il
crollo del liberalismo è più vicino che mai.
I
successi dei camionisti ribelli del Convoglio della Libertà in Canada, che
hanno costretto il globalista liberale Trudeau a nascondersi, e l’aumento della
popolarità dei candidati anti-Macron in Francia (tutti, da Zemmour a Marine Le
Pen a Melanchon, si schierano su posizioni antiliberali e anti-NATO) sono solo
alcuni sintomi del processo globale – la fine della L’egemonia atlantista.
La
Russia è ora sfidata dall’atlantismo agonizzante simmetricamente dal punto di
vista della geopolitica eurasiatica, opponendo globalismo e multipolarità e il
liberalismo con valori alternativi e tradizionali di civiltà;
al
posto delle persone LGBT, la famiglia tradizionale (scritta nella
Costituzione); al posto dell’individualismo – la nazione e la sua identità
storica, ecc.
La
Cina in generale sostiene questo approccio di Mosca.
Pechino
si oppone anche al globalismo e all’egemonia occidentale e difende i suoi valori
tradizionali, stavolta cinesi.
Tutto
ciò si vede chiaramente nelle tesi dell’ultimo incontro di Putin con Xi
Jianping:
Mosca
e Pechino intendono opporsi a qualsiasi attacco alla loro sovranità (leggi:
combattere fino in fondo l’egemonia e il globalismo);
Russia
e Cina hanno tenuto conto della creazione di blocchi anticinesi da parte di
Biden e dell’attivazione della NATO nell’Europa orientale e intendono opporvisi
(insieme!);
i
leader dei due paesi hanno indirettamente accusato gli Stati Uniti di terrorismo
biologico (la minaccia si chiama «attività militari-biologiche degli Stati
Uniti»); ciò significa, infatti, ammettere che è stato l’Occidente (Stati Uniti
e Gran Bretagna) a scatenare il covid-19 sul mondo;
Pechino
sostiene Mosca nell’Europa orientale, e Mosca Pechino nell’Oceano Indiano e
Pacifico, e Putin ha esplicitamente proclamato «Taiwan è tua» (Xi Jinping
borbottò tra sé, «In questo caso, l’Ucraina è tua»);
entrambi
i paesi maledicono la Lega delle democrazie (l’unipolarità) e promettono di
preservare il modello policentrico dell’ordine mondiale (questo va inteso come
una dichiarazione di fedeltà ai principi della pace di Yalta e dell’ONU).
Il
blocco russo-cinese – eurasiatico! – ha avuto luogo.
Tutti
gli altri paesi devono prendere una decisione — con chi stare: con il crollo
dell’egemonia americana aggressiva e completamente folle, o con quel blocco di
paesi (tra cui Russia, Cina, Iran, Pakistan, Bielorussia, Corea del Nord,
Venezuela, Cuba, Nicaragua, Siria, Mali, Repubblica Centrafricana, Burkina
Faso, Guinea, e in parte Turchia, Argentina e Brasile), che vi si oppone in
nome della salvaguardia della sovranità statale e dell’identità di civiltà?
Il
futuro è sicuramente dalla parte della multipolarità, quindi dell’Eurasia.
I liberali sono stati delusi dai propri
successi, che non hanno potuto consolidare e mantenere dopo la caduta
dell’URSS.
L’ultimo
tentativo di costruire un impero mondiale è fallito.
Il
Nuovo Mondo è iniziato.
(geopolitica.ru)
Ucraina:
cattiva gestione sotto
un’egemonia
USA in declino?
Lindro.it
- Masahiro Matsumura – (13 Marzo 2022) – ci dice:
Con la
sua invasione rapida e su vasta scala da tre fronti in Ucraina, la Russia sta
ribaltando la situazione sull’Occidente guidato dagli Stati Uniti controllando
lo stato cuscinetto strategico.
Il cambiamento sarà probabilmente il peggior
risultato per gli ucraini, anche se alcuni aggiustamenti geopolitici sono
inevitabili in un futuro non così lontano come conseguenza del grande
spostamento di potere in evoluzione conseguente al cospicuo declino egemonico
degli Stati Uniti.
Ottenendo una schiacciante vittoria militare,
la Russia metterà l’Ucraina nella sua orbita, probabilmente, attraverso un
cambio di regime filo-russo che implica un riorientamento esterno
dall’Occidente alla Russia.
Ciò
richiederà probabilmente una completa smilitarizzazione e neutralizzazione
semi-sovrana dell’Ucraina, compresa la completa eliminazione del potenziale di
armamento nucleare.
Si
pone la questione del perché la Russia abbia scelto senza mezzi termini di
adottare una soluzione militare e perché l’Ucraina non abbia perseguito una
soluzione diplomatica a condizioni favorevoli.
Il
recente lavoro di questo autore prima dell’invasione ha già analizzato la crisi
ucraina da una prospettiva geopolitica.
Eppure
la geopolitica non determina un risultato, ma limita solo la portata dei
possibili risultati.
Pertanto,
proviamo ad indagare il corso e le circostanze di eventi importanti alla
ricerca di una causa diretta.
1. Le
risposte inadeguate di Biden.
Negli
ultimi mesi, l’amministrazione Biden ha parlato duramente con la Russia senza
un grosso bastone, contrariamente alla ricetta per un’efficace politica di
deterrenza.
Nella
fase pre-crisi del deterioramento delle relazioni bilaterali sull’Ucraina, in
una videochiamata con il presidente Vladimir Putin il 7 dicembre 2021, il
presidente Joe Biden lo ha avvertito di severe sanzioni economiche in caso di
invasione russa dell’Ucraina, escludendo l’intervento militare contro
l’invasione, in particolare qualsiasi invio di truppe di terra statunitensi.
È
vero, dato che l’Ucraina non è uno stato membro della NATO, gli Stati Uniti non
possono esercitare il diritto di autodifesa collettiva basato sul trattato per
difendere il paese.
Né il
Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite può autorizzare una sanzione
militare delle Nazioni Unite contro la Russia perché è in grado di porre il
veto a tale risoluzione, sebbene l’Assemblea generale delle Nazioni Unite possa
approvare una risoluzione non giuridicamente vincolante “Uniting for Peace”
contro l’invasione dell’Ucraina (Risoluzione dell’UNGA /ES-11/1) su cui la
Russia non ha diritto di veto.
Né gli
Stati Uniti organizzeranno e guideranno una coalizione di volontà contro la
Russia per la difesa dell’Ucraina, senza interessi americani vitali in gioco.
Inoltre, una guerra convenzionale su vasta
scala con la Russia, una grande potenza che possiede una parità nucleare
strategica con gli Stati Uniti, è praticamente irrealizzabile perché comporta
grandi rischi di escalation in una guerra termonucleare e in un Armageddon
nucleare.
Ciò è in netto contrasto con i casi in
Afghanistan e Iraq nella guerra globale al terrorismo guidata dagli Stati
Uniti.
Anche
molto prima dell’aggressione della Russia, era chiaro che l’Ucraina da sola
avrebbe sicuramente dovuto resistere senza alcun rinforzo della NATO, ma solo
con armi leggere, di piccolo calibro e munizioni fornite dagli Stati Uniti e
dai suoi alleati.
A
peggiorare le cose, la storia internazionale mostra che l’efficacia delle
sanzioni economiche è altamente problematica, con pochi casi di successo nel
costringere un aggressore determinato a fare marcia, almeno a breve termine,
mentre sanzioni sostenute richiedono il forte e tuttavia difficilmente
assicurabile volontà politica e solidarietà dei paesi sanzionatori.
Ciò si
applicherà sicuramente all’attuale caso russo perché il paese è sopravvissuto
alle sanzioni imposte dopo l’invasione della Crimea nel 2014 e da allora ha già
sviluppato una notevole capacità di resistenza.
Inoltre,
la Russia sarà probabilmente inattaccabile a tali sanzioni, perché la Cina è
disposta ad acquistare il conseguente surplus di petrolio e gas russi, una
fonte schiacciante di reddito nazionale, e perché la Russia ha
significativamente de-dollarizzato il suo commercio e altre transazioni
economiche esterne attraverso la cooperazione con la Cina e i principali paesi
in via di sviluppo.
Ciò
significa che l’esclusione della Russia da SWIFT, una rete prevalentemente
basata sul dollaro per il regolamento finanziario internazionale tra le banche
mondiali, potrebbe non turbare il paese come previsto.
2.
Negligenza intenzionale di Biden.
Senza
buone carte in mano, gli Stati Uniti in stretto coordinamento con i principali
alleati avrebbero dovuto esplorare una soluzione diplomatica della questione
ucraina.
Ma le informazioni open source disponibili
suggeriscono che il presidente Biden e il suo massimo team di politica estera
hanno adottato poche misure efficaci per ridurre la preoccupazione esistenziale
della Russia sull’espansione della NATO in Ucraina, invece di averla rifiutata
continuamente per principio, pur avendo esortato la Cina a livello bilaterale
dietro le quinte per aiutare a scongiurare l’invasione, nonostante
l’intensificarsi della rivalità egemonica USA-Cina.
Collegando
questi punti, non c’è da stupirsi che il presidente Putin consideri l’invasione
da trascurare prima che l’Ucraina diventi uno stato membro della NATO, più
chiaramente, come un’acquiescenza periferica all’invasione.
In tempi contemporanei, ci sono alcuni
precedenti notevoli in cui il governo degli Stati Uniti ha rilasciato dichiarazioni
formali per mettere un paese vittima fuori dalla linea di difesa, spingendo il
paese aggressore a spazzare via il senso di esitazione, come la guerra di
Corea, la prima crisi di Taiwan , e l’invasione irachena del Kuwait. (Se quelle mosse statunitensi
fossero intenzionali o involontarie è discutibile e richiedono analisi
dettagliate.)
Al
contrario, l’amministrazione Biden ha adottato alcune misure specifiche che
avrebbero accelerato l’invasione della Russia, a condizione della sua tenace
linea politica sull’espansione della NATO in Ucraina e del continuo sostegno ai
suoi filo-USA. governo deciso all’adesione alla NATO, insieme a significativi
trasferimenti di armi e alla relativa formazione militare.
Più
specificamente, solo per tre o quattro mesi prima dell’invasione,
l’amministrazione Biden ha apertamente effettuato sostanziali consegne di armi
all’Ucraina, inclusi 180 missili anticarro letali portatili Javelin, nonché
molti missili antiaerei Stinger portatili che un tempo molestavano i sovietici
forze di invasione in Afghanistan (1979-1989) e alla fine le costrinse a fare
un’imbarazzante ritirata da esso.
La
mossa è significativamente significativa perché l’allora presidente Barack
Obama ha rifiutato categoricamente di fornire all’Ucraina giavellotti a causa
degli alti rischi di provocazione ed escalation, che l’allora vicepresidente
Biden, che si era assunto la responsabilità principale degli affari
dell’Ucraina, lo ha implorato.
Evidentemente,
ha osato commettere i ben noti rischi nella fase pre-crisi in cui c’era ancora
un buon margine di negoziazione diplomatica, purché fosse pronto a mettere sul
tavolo la questione dell’espansione della NATO.
(Nonostante le pesanti dosi di lodi e censure,
l’immediato presidente Donald Trump avrebbe sicuramente tentato di fare un
grande affare attraverso incontri al vertice e altre iniziative personali
dirette con i presidenti Putin e Volodymyr Zelensky.)
Si
pone la questione del motivo per cui sia il governo degli Stati Uniti che
quello dell’Ucraina hanno aderito rigidamente alla linea politica
sull’espansione della NATO in Ucraina al momento del chiaro e ostacolante
pericolo di guerra.
3.
L’intransigenza istituzionalizzata dell’Ucraina verso l’adesione alla NATO.
Dopo
la rivoluzione arancione del 2014, l’Ucraina ha integrato saldamente la sua
politica di adesione alla NATO nel suo sistema legale, rendendo la linea
politica irreversibile in caso di cambio di governo.
Ciò
segna un netto allontanamento dai continui spostamenti tra l’orientamento esterno
filo-russo e filo-occidentale, rafforzando notevolmente l’approccio della
Russia all’Ucraina che già ha generato una causa remota dell’attuale invasione.
Più in
particolare, nel giugno 2017 l’Ucraina ha modificato le sue leggi sulla
sicurezza nazionale e la politica interna ed estera che ha sancito il suo
impegno giuridicamente vincolante di raggiungere l’adesione alla NATO.
Nel
settembre 2018, la legislatura unicamerale del paese ha presentato alla corte
costituzionale un disegno di legge di modifiche costituzionali, il cui
preambolo conferma l’identità europea del popolo ucraino.
L’articolo 85 del disegno di legge prevede di
autorizzare il legislatore a determinare i fondamenti della politica interna ed
estera e ad attuare il corso strategico dello stato per ottenere la piena
adesione del paese alla NATO e all’UE.
L’articolo
102 prevede di designare il Presidente quale garante dell’attuazione del corso.
L’articolo
116 prevede che il Consiglio dei Ministri assicuri l’attuazione del corso.
La
cosa più offensiva dal punto di vista russo è la clausola 14, sezione 15, che
consente di affittare basi militari esistenti per lo stazionamento temporaneo
di formazioni militari straniere, in effetti, tenendo conto delle forze NATO.
Nel
novembre successivo, il tribunale ha approvato l’emendamento.
Apparentemente,
l’istituzionalizzazione affrettata di cui sopra durante la presidenza di
Poroshenko (7 giugno 2014 ~ 20 maggio 2019) non si è evoluta intrinsecamente
dalle dinamiche politiche interne ucraine, in generale data l’attiva diplomazia
pubblica statunitense sotto i presidenti G.W. Bush e Obama che hanno perseguito
l’allargamento liberaldemocratico, e in particolare viste le manovre
significative dei circoli dell’intelligence statunitense, sia palesi che nascoste,
che hanno portato alla rivoluzione arancione nel contesto di una serie di
rivoluzioni colorate.
È necessario verificare se Joe Biden ha avuto
notevoli coinvolgimenti e, possibilmente, interferenze nella trasformazione
della politica ucraina.
4. Il
passato del rapporto tra Biden e l’Ucraina.
Biden
ha effettuato sei visite ufficiali in Ucraina durante la sua vicepresidenza
degli Stati Uniti, assumendo la responsabilità principale degli affari ucraini
sotto l’amministrazione Obama.
Queste
visite hanno sottolineato il sostegno degli Stati Uniti al paese nel contesto
dell’allargamento liberaldemocratico e hanno messo in evidenza il suo
coinvolgimento personale nel fornire il sostegno.
Già
durante la sua prima visita del luglio 2009, Biden ha rassicurato il governo
ucraino sul sostegno degli Stati Uniti alla candidatura dell’Ucraina
all’adesione alla NATO e sulla sua minore dipendenza dalla Russia per l’energia.
Ha
rafforzato la sua retorica per il sostegno, in modo considerevole e crescente,
prima e dopo la Rivoluzione arancione, nella misura in cui gli ucraini si
sarebbero aspettati invano l’intervento militare degli Stati Uniti in caso di
aggressione della Russia.
I
documenti attestano gli ampi contatti di Biden con i circoli politici e economici
dell’Ucraina.
Questi
contatti hanno portato alla costruzione di reti interpersonali sostanziali che
gli hanno dato opportunità di manovre politiche e quindi un potere e
un’influenza significativi su di esse, in particolare perché l’amministrazione
Obama si è impegnata a fornire al paese significativi aiuti militari ed
economici, nonché a promuovere attivamente l’Occidente guidato dagli Stati
Uniti investimenti nel settore energetico, sulle condizioni di attuazione delle
riforme democratiche, giudiziarie ed economiche.
Ciò
comporta l’eliminazione della corruzione, degli oligarchi post-sovietici, di
altri lasciti sovietici e dell’influenza dominante della Russia in generale,
dall’Ucraina.
In
effetti, Biden ha esercitato il suo potere sulla politica ucraina per
sostituire l’allora procuratore generale Shokin per il suo fallimento nel
lavorare sugli sforzi anticorruzione, facendo penzolare la sospensione del
pacchetto finanziario degli Stati Uniti davanti al governo ucraino.
Questo
è molto controverso perché Hunter Biden, figlio dell’allora vicepresidente, era
fortemente sospettato di essere coinvolto in uno scandalo di corruzione
relativo a Burisma Holdings, la più grande compagnia privata di estrazione di
petrolio e gas in Ucraina.
Il
vicepresidente ha sempre portato il figlio con sé nelle sue visite ufficiali in
Ucraina, mentre il figlio ha servito come membro del consiglio dell’azienda con
uno stipendio mensile di $ 50.000 dollari.
Va
oltre lo scopo di questa analisi esaminare se il caso costituisca un semplice
scandalo adulto-bambino in cui suo padre è impantanato o una cospirazione di
padre-figlio alla corruzione.
Ovviamente,
il presidente Biden è stato un protagonista della politica degli Stati Uniti
nei confronti dell’Ucraina che ha portato l’Ucraina a consolidare la sua
politica di adesione alla NATO attraverso un emendamento costituzionale, ma
senza assumere i necessari impegni militari per la difesa dell’Ucraina.
Nonostante il suo apparentemente solido
sostegno all’Ucraina, il presidente Biden ha lasciato il presidente ucraino
Zelensky all’altare nel momento critico dell’aggressione russa.
5. Il
ruolo di Biden da una prospettiva a volo d’uccello: declino egemonico degli
Stati Uniti.
Per
comprendere la causa principale diretta, è essenziale cogliere il ruolo di
Biden nelle dinamiche macro storiche della politica mondiale, piuttosto che
attribuirlo al suo libero arbitrio.
Per
due decenni, gli Stati Uniti hanno affrontato la rapida ascesa della Cina che
ha comportato il suo relativo declino egemonico, come evidenziato dalle note
osservazioni del presidente Obama del settembre 2013 secondo cui gli Stati
Uniti non erano più i poliziotti del mondo.
Il
declino è stato gravemente aggravato da un’espansione eccessiva dell’impero
nella condizione di crescenti vulnerabilità strutturali economiche conseguenti
alla globalizzazione iper-dinamica.
Naturalmente,
è emersa una divisione profondamente radicata tra le élite americane e il
pubblico allo stesso modo, riguardo all’opportunità di continuare o
interrompere la linea politica egemonica.
All’establishment
globalista piace continuare la linea che probabilmente peggiorerà il vuoto
industriale degli Stati Uniti e la bipolarizzazione socioeconomica.
In particolare, la nascita della presidenza di
Donald Trump (2017-2021) dimostra l’ascesa di controforze anti-globaliste nella
politica americana che sfidano la linea egemonica verso il multipolarismo in
tandem con “America First”.
In
questo contesto, la questione della Russia era al primo posto nell’agenda,
almeno per scopi tattici anti-globalisti, anche nella fase preludio della
campagna elettorale presidenziale del 2017, perché l’allineamento diplomatico
con la Russia è essenziale per utilizzare il Paese come un importante
contraltare strategico -peso contro la Cina, o un primo rivale in divenire.
Ciò
comporta la necessità di sminuire il forte antagonismo americano contro la
Russia e fare un accordo con la Russia per formare un fronte comune contro la
Cina o almeno la sua benevola neutralità con gli Stati Uniti.
D’altra
parte, i globalisti hanno cercato di mantenere l’antagonismo contro la Russia,
mentre cercando di mantenere lo status quo durante la globalizzazione, inclusa
la forte interdipendenza con la Cina.
Non
c’è da stupirsi se i globalisti hanno inventato il cosiddetto “Russiagate” per
aver invano messo sotto accusa il presidente Trump.
Dopo
aver affrontato intense contro-offensive dell’establishment globalista, è stato
costretto a rimuovere il suo primo consigliere per la sicurezza nazionale, il
generale Michael Flynn, nella fase iniziale del “Russia gate” dopo meno di un
mese dalla nomina.
Impantanato nello scandalo inventato, quindi,
il presidente ha placato l’establishment nominando al posto il generale Herbert
McMaster e poi John Bolton, i quali hanno entrambi continuato l’approccio
anti-russo di lunga data adottando un approccio competitivo e poi conflittuale
nei confronti della Cina, che aveva reso la strategia cinese di Trump meno
efficace che altrimenti.
Inoltre, il primo Segretario di Stato
dell’amministrazione Trump è stato Rex Tillerson, che aveva una vasta
esperienza sulla Russia e contatti con i leader russi durante la sua carriera
nel settore energetico, incluso un CEO della Exxon Mobil Corporation.
Avrebbe
potuto essere determinante per la politica russa di Trump, ma sostituito da
Michael Pompeo solo dopo 13 mesi perché Tillerson ha preso una forte posizione
politica anti-russa.
Se il
Presidente Trump fosse stato rieletto per il secondo mandato, avrebbe adottato
almeno un approccio parzialmente accomodante nei confronti della Russia in modo
da consentire la formazione di un fronte comune contro la Cina, con sforzi per
abbandonare la politica egemonica di lunga data verso il multipolarismo .
Ciò
comporterebbe sicuramente un accordo con la Russia per mantenere la stabilità
regionale centrata sull’Ucraina, trasformando il paese in uno stato cuscinetto
come uno stato neutrale o uno stato finlandizzato. In tal modo, sarebbe stato
possibile trovare condizioni più favorevoli di quelle che potrebbero essere
stabilite da una catastrofica sconfitta dell’Ucraina nell’attuale guerra con la
Russia.
Evidentemente,
l’attuale guerra Russia-Ucraina è stata conseguente alla cattiva gestione
globalista del declino egemonico degli Stati Uniti in cui il presidente Biden
ha svolto continuamente un ruolo centrale per più di un decennio, nel contesto
geopolitico che limita la possibile portata dei risultati.
Tuttavia,
ciò che ha spinto il presidente Putin a commettere l’indicibile atto di
aggressione contro l’Ucraina rimane un mistero per gli anni a venire come altre
grandi guerre nella storia mondiale.
Per il
momento, la ripugnanza morale per l’aggressione e la conseguente calamità
umanitaria ostacola un’analisi fredda.
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