I BUFFONI DELL’ARISTOCRAZIA FINANZIARIA AL COMANDO DEL MONDO.
I
BUFFONI DELL’ARISTOCRAZIA FINANZIARIA
AL
COMANDO DEL MONDO.
L’ONU
E IL NUOVO ORDINE MONDIALE.
Thefederalist.eu
– Redazione- Salish Kumar – (10-11- 2022) – ci dice:
Il vecchio ordine mondiale è scomparso e un
nuovo ordine sta per emergere:
il
mondo si trova di fronte a scelte cruciali.
L’ordine
impostosi dopo il 1945 era condizionato dalla guerra fredda fra i due sistemi
di potere guidati da USA e URSS, il secondo dei quali era caratterizzato da
posizioni revisioniste e contrarie allo status quo.
L’instabile mondo bipolare era il quadro
all’interno del quale funzionava pressoché l’intero sistema internazionale.
Ma la fine della guerra fredda (1988-91) e il
collasso del sistema di potere sovietico ha travolto all’improvviso i criteri
su cui si basava il vecchio ordine.
Ciò ha
significato un cambiamento del sistema di proporzioni storiche, e, come sempre
avviene, ha portato vantaggi per qualcuno e svantaggi per altri.
Ma l’attuale sistema internazionale ha
caratteristiche di globalità mai riscontrate in precedenza, sia per quanto
riguarda il numero dei suoi membri, sia per quanto riguarda il grado di
interdipendenza fra di essi.
Qualsiasi
valutazione della natura dell’ordine mondiale emergente deve basarsi su una
visione olistica dell’intero sistema internazionale.
A tal
fine può essere utile cominciare ad enumerare gli elementi chiave del
cambiamento avvenuto all’interno del vecchio ordine, prima di considerare le
sfide a cui il mondo si trova di fronte e il posto che occupano le Nazioni
Unite nel nuovo ordine.
Gli
elementi del cambiamento.
Come
già detto, la fine della guerra fredda rappresenta il cambiamento più significativo
nel vecchio ordine, che è certamente positivo, ma ha creato varie incertezze.
I paesi appartenenti ai due blocchi sono
rimasti senza i vecchi amici ed alleati del cui appoggio non possono più essere
sicuri.
L’incertezza maggiore, paradossalmente,
riguarda i paesi non allineati, che non possono più contare sull’appoggio di
una delle due superpotenze in caso di ostilità dell’altra, sia a livello
diplomatico che militare.
Ora ciascun paese deve affrontare la sfida ed ha
l’opportunità di cercarsi i propri amici in ogni parte del mondo, contando
sull’interesse reciproco.
Il
secondo cambiamento significativo è il collasso del sistema di potere che
faceva capo all’Unione Sovietica.
Ciò ha significato non soltanto la scomparsa
del secondo sistema di potere più importante nel mondo, creando un vuoto
militare e ideologico in una vasta area, ma ha anche liberato molti paesi in
Europa e altrove dal dominio militare e ideologico.
Ciò ha
inoltre significato che una popolazione di centinaia di milioni fino ad ora
esclusa dall’economia di mercato ora vuole farne parte, entrando in
competizione con il mondo sottosviluppato per ottenere capitali scarsi,
tecnologia e servizi.
Il
terzo cambiamento, che deriva dai primi due, è l’emergere degli Stati Uniti
come potenza dominante, che ha dato luogo a una situazione definita unipolare.
Questo sviluppo può essere considerato
positivamente nella misura in cui essi sostengono i valori di libertà e
democrazia, ma diventa inaccettabile quando gli USA, in nome della libertà,
mirano ai propri obiettivi strategici o strumentalizzano a tal fine le
istituzioni globali.
Il
quarto importante cambiamento riguarda l’affermarsi di Germania e Giappone come
centri di potere economico.
È
nello stesso tempo un paradosso e una cosa straordinaria che le due potenze
sconfitte, alle quali, dopo la seconda guerra mondiale, è stata negata la
facoltà di dotarsi di un esercito, stiano ora minacciando la pace dei loro ex
nemici attraverso il potere economico.
Dato
che l’influenza internazionale della Germania è legata soprattutto alla sua
appartenenza alla Comunità europea, la quale, dopo le decisioni prese al
Vertice di Maastricht, sta trasformandosi in Unione economica e monetaria e in
Unione politica, è necessario trovare un modo perché i nuovi centri di potere
emergenti a livello mondiale possano assumersi maggiori responsabilità
nell’ambito delle organizzazioni internazionali.
Il
quinto cambiamento riguarda una più netta contrapposizione fra Nord e Sud del
mondo.
Nel vecchio ordine mondiale l’Unione Sovietica
era considerata come la potenza disposta a sostenere gli scopi e le aspirazioni
dei paesi del Sud, anche se il suo aiuto era molto selettivo.
In seguito al collasso del sistema di potere
che vi faceva capo, essa, e i paesi dell’Europa orientale, sono spinti a
rivolgersi all’Occidente alla ricerca di massicci aiuti, ed hanno già dato
prova in modo abbastanza evidente di una certa compiacenza nei confronti delle
pretese occidentali riguardo a problemi critici a livello globale.
La
loro dipendenza economica dall’Ovest, così come i legami culturali e
geografici, pongono tutto il Nord in una posizione di più profonda
contrapposizione con il Sud, a cui, con l’andar del tempo, saranno negati
quegli aiuti che ora sono destinati all’Est.
Le
sfide per avviarsi verso il nuovo ordine mondiale.
Alla
luce dei cambiamenti suddetti, è necessario capire quali sono le sfide a cui il
mondo si trova di fronte.
La
prima riguarda il problema della sicurezza.
Da
questo punto di vista il mondo nel suo complesso presenta situazioni diverse:
alcuni sono più sicuri di altri.
Nonostante
la fine della guerra fredda e lo smantellamento di parte delle armi strategiche
e tattiche, non è scomparsa l’attitudine a ragionare sulla base della contrapposizione
fra blocchi, come dimostra la NATO.
Non esiste un meccanismo assolutamente sicuro
di controllo della diffusione delle armi nucleari, alle quali alcuni Stati
hanno libero accesso, ed è particolarmente minacciata la sicurezza degli Stati
piccoli e deboli.
La
seconda sfida riguarda il problema dello sviluppo.
Malgrado
i grandi progressi nel campo della scienza e della tecnologia, permangono
vergognose e umilianti differenze per quanto riguarda gli standards di vita
nelle varie parti del mondo.
Nei
paesi in via di sviluppo più di un miliardo di persone vive in povertà, cioè
contando, per la sopravvivenza, su meno di 370 dollari all’anno (quasi la metà
di questi poveri vive nell’Asia meridionale).
L’aspettativa
di vita nell’Africa sub-sahariana è di 50 anni, contro gli 80 del Giappone. La
mortalità infantile sotto i cinque anni nell’Asia meridionale supera il 170 per
mille, mentre in Svezia è inferiore al 10.
Più di 110 milioni di bambini nei paesi in via
di sviluppo sono esclusi dall’educazione primaria, mentre nei paesi
industrializzati l’iscrizione generalizzata alla scuola primaria è
obbligatoria. In Mozambico, una popolazione di 15 milioni e trecentomila
persone vive con un reddito pro capite di 80 dollari, mentre la Svizzera, con
una popolazione di sei milioni e seicentomila persone, ha un reddito pro capite
di 29.880 dollari.
Ci
sono altre sfide, che riguardano la democrazia e i diritti umani, l’ambiente,
il traffico di droga, il terrorismo, la maggior parte delle quali ha carattere
transnazionale.
Questi problemi derivano dalla povertà,
contribuiscono all’insicurezza nei rapporti fra gli Stati e richiedono
soluzioni globali.
Una
popolazione di 400 milioni di persone in Unione Sovietica e nell’Europa
dell’Est sta lentamente avviandosi verso la democrazia, ma i diritti umani e la
democrazia sono ancora negati a più di metà della popolazione dei paesi in via
di sviluppo.
Il degrado ambientale è causato sia dalla
negligenza del Nord del mondo che dalla povertà del Sud, ma per esso questa
parte diseredata del mondo deve pagare un prezzo più alto.
Il traffico di droga è controllato nel Sud da
regimi feudali, autoritari e militaristi legati alla potente mafia del Nord.
Il
terrorismo, infine, è un sottoprodotto della povertà e della negazione dei diritti
umani.
Tutti questi problemi possono essere risolti
solo attraverso istituzioni multilaterali, sia a livello globale che a livello
regionale.
In
questo contesto dobbiamo esaminare il ruolo delle Nazioni Unite.
La
riforma dell’ONU.
Trentasei
eminenti leaders e uomini di cultura si sono fatti interpreti delle aspirazioni
dell’umanità quando, nel corso della “Stockholm Initiative on Global Security
and Governance” (Iniziativa di Stoccolma sulla sicurezza e il governo globali),
tenutasi il 22 aprile 1991, affermarono:
«Il
sistema internazionale basato sulle Nazioni Unite è stato creato alla fine di
una guerra mondiale, quando la gente percepiva chiaramente la necessità e
l’opportunità di creare un sistema che potesse garantire la pace e la sicurezza...
Tuttavia,
oggi le Nazioni Unite non sono abbastanza forti per affrontare i compiti a cui
si trovano di fronte...
Le Nazioni Unite devono essere adeguate alla
nuova situazione e la loro organizzazione deve essere trasformata».
Il
sistema internazionale odierno consiste di 166 Stati membri dell’ONU e di circa
dieci che non ne fanno parte.
Esso comprende quasi il mondo intero, con
differenze di religione, di cultura e di identità etnica. Se vogliamo che tutti
possano vivere felici, è necessario un qualche «ordine» che garantisca gli
interessi globali e non quelli parziali.
Un
tale ordine, che possiamo chiamare il nuovo ordine mondiale, si può affermare
solo attraverso la centralità dell’ONU riformata e rafforzata, e le riforme
prioritarie riguardano le aree seguenti.
La
sicurezza.
1.) Una
forza di sicurezza.
Fino
ad ora il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha deciso un intervento coercitivo in
due occasioni: il 7 1uglio 1950, durante la guerra di Corea, e il 29 novembre
1990, in seguito all’aggressione irachena contro il Kuwait.
In
ambedue le occasioni, anche se l’intervento è stato fatto a nome delle Nazioni
Unite, queste ne hanno perso il controllo o l’influenza nel corso delle
operazioni militari.
In ambedue i casi l’intervento ha finito col
sottostare ai fini strategici dello Stato, o degli Stati, alla guida
dell’alleanza militare, fini che divergevano da quelli propugnati dagli altri
membri del Consiglio di Sicurezza, e ciò ha provocato divisioni all’interno
dell’ONU.
In
ambedue i casi gli aggressori hanno potuto identificare come avversario un solo
Stato, gli USA, piuttosto che la comunità internazionale nel suo complesso.
La
guerra di Corea e la guerra del Golfo potrebbero non essere necessariamente
considerate esempi validi anche per il futuro, a meno che non siano in gioco
interessi vitali di una superpotenza, anche perché l’impegno finanziario
necessario a sostenere tali operazioni crea delle incertezze.
Per
questo è necessario che questi interventi siano regolati sulla base di principi
duraturi.
Gli Stati membri devono essere incoraggiati a
firmare accordi speciali con il Consiglio di Sicurezza, in base all’articolo 43
della Carta dell’ONU, e, sulla base dell’articolo 47, deve essere attivato il
«Comitato di Stato maggiore».
È
necessario pensare ad innovazioni per quanto riguarda l’addestramento, il
coordinamento e la struttura di comando della forza di sicurezza, ed è
indispensabile assicurarne il supporto finanziario.
2.) La
Corte internazionale di giustizia.
Dispiace constatare che la Corte internazionale di
giustizia non è stata adeguatamente utilizzata per prevenire i conflitti.
L’Assemblea
generale dell’ONU, sulla base della risoluzione del 17 novembre 1989 relativa
alla “Decade of International Law”, adottata su iniziativa del Movimento dei
paesi non allineati, ha il compito di promuovere l’adesione alla giurisdizione
obbligatoria della Corte, ma fino ad ora non più di 40 paesi hanno accettato
questa giurisdizione.
Secondo il parere del giudice Nagendra Singh,
che è stato Presidente della Corte mondiale, bandire l’uso della forza senza
rendere coercitiva la risoluzione – preferibilmente attraverso strumenti
giudiziari – è come mettere il carro davanti ai buoi:
non ha
senso dichiarare la guerra fuori legge e nello stesso tempo mantenere un
sistema di risoluzione delle dispute basato sulla buona volontà.
L’opinione pubblica mondiale dovrebbe
mobilitarsi per chiedere l’estensione della giurisdizione obbligatoria della
Corte, e nel frattempo si dovrebbe chiedere agli Stati fra cui sorgano dispute
che ricorrano più spesso al parere consultivo della Corte.
3.) Il
Consiglio di Sicurezza.
L’attuale
Consiglio di Sicurezza è stato costituito in un contesto storico del tutto
diverso dall’attuale: due delle potenze uscite sconfitte dal conflitto mondiale
sono diventate economicamente più potenti di qualcuno dei vincitori;
gli Stati membri delle Nazioni Unite sono
passati da 50 a 166;
di esse fanno parte paesi la cui popolazione
costituisce quasi un quinto dell’intera umanità, ma il cui peso nelle strutture
decisionali è uguale a quello del più piccolo degli Stati; ci sono Stati membri
che controllano più del 25% delle risorse strategiche (come il petrolio) del
mondo intero.
Nel
corso della riunione a livello ministeriale dei paesi non allineati, tenutasi
ad Accra nel settembre dell’anno scorso, è stato chiesto l’aumento del numero
degli Stati membri del Consiglio di Sicurezza.
Ma
oltre a ciò, e oltre alla necessità di rivedere sia i criteri di scelta dei
membri permanenti, sia il loro potere di veto, è necessario anche estendere le
funzioni del Consiglio stesso.
Il
concetto di sicurezza è diventato più esteso e comprende anche i problemi dello
sviluppo e dell’ambiente.
Per
questo il Consiglio di Sicurezza deve occuparsi delle minacce alla sicurezza
del genere umano nel senso più ampio del termine, tenendo conto dei punti di
vista espressi dalle varie Commissioni Brandt, Olof Palme, Brundtland e dalla
Commissione sul Sud del mondo.
4.) La
Corte penale internazionale.
In ambienti giuridici internazionali e all’interno di
alcune Organizzazioni non governative (NGOs) è in corso un dibattito sulla
necessità di costituire una Corte penale internazionale al fine di perseguire
individui imputati di crimini contro l’umanità, come il genocidio, la tortura,
l’apartheid, i reati di droga, il traffico di donne e bambini, la pirateria, i
dirottamenti aerei, la presa di ostaggi, ecc.
Le opinioni ufficiali più diffuse in questo
campo sono decisamente molto arretrate rispetto alle opinioni non ufficiali più
avanzate.
Tuttavia questa è una questione importante che
merita una seria considerazione nel contesto della costruzione di un sistema di
sicurezza migliore.
5.) La
Camera dei popoli.
Nel corso degli anni, un grande numero di
Organizzazioni non governative ha proposto la creazione, nell’ambito della
struttura «legislativa» dell’ONU, di una Camera dei popoli come seconda Camera,
accanto a quella degli Stati rappresentati nell’Assemblea generale, per dar
voce alle aspirazioni dei popoli di tutto il mondo.
Questa
proposta ha un’importanza notevole, in quanto gli Stati, anche se retti da un
sistema democratico, tendono ad acquisire una personalità autonoma che molto
spesso li porta a contrapporsi agli interessi del popolo.
Inoltre, i popoli di tutto il mondo hanno
interessi comuni che non sempre sono rispecchiati dalle decisioni, condizionate
dagli Stati, prese dall’Assemblea generale.
Ma anche questo problema attualmente è poco
capito dagli ambienti ufficiali.
Lo
sviluppo.
Secondo
la Commissione sul Sud del mondo, che ha consegnato il suo rapporto nel maggio
del 1990, le Nazioni Unite dovrebbero dare maggiore importanza ai problemi
economici e sociali, dato che la diminuzione delle tensioni politiche e
militari riduce la loro responsabilità per quanto riguarda la pace e la
sicurezza internazionale.
«Uno scopo importante che il Sud deve
perseguire è l’attribuzione alle Nazioni Unite di un ruolo centrale nella
gestione del sistema economico internazionale».
È
necessario che l’ONU, ad un elevato livello politico, tracci un panorama dei
problemi economici mondiali ed eserciti una funzione di monitoraggio per quanto
riguarda gli sviluppi dell’economia internazionale, prestando un’attenzione
speciale alle implicazioni che trends significativi hanno per lo sviluppo e
l’ambiente.
A questo scopo dovrebbero riunirsi
periodicamente i leaders di gruppi rappresentativi dei paesi sviluppati e in
via di sviluppo per studiare le interrelazioni fra le varie componenti dell’economia
mondiale, soprattutto il sistema monetario, la finanza e il commercio, il loro
legame con le questioni politiche e di sicurezza internazionali e il loro ruolo
per quanto riguarda le prospettive di sviluppo del Sud.
È
necessario migliorare la gestione economica globale e il processo decisionale
attraverso la riforma delle procedure decisionali delle principali istituzioni
finanziarie multilaterali, come il Fondo monetario internazionale e la Banca
mondiale.
Le
attuali regole, che assegnano il controllo effettivo su di esse ai maggiori
contributori, cioè ai paesi sviluppati, devono essere riviste e modificate in
modo da aumentare il peso del Sud.
Dovrebbe
anche essere riesaminato il sistema del voto ponderato del Fondo comune per il
commercio internazionale creato recentemente, in modo che sia garantita una
distribuzione dei voti più equa e nello stesso tempo accettabile per tutta la
comunità internazionale.
L’ambiente.
La
questione ambientale è stata posta all’ordine del giorno nel 1987, con la
pubblicazione del” Rapporto della Commissione Brundtland”.
Esso
ha definito lo sviluppo sostenibile come «uno sviluppo che soddisfi i bisogni
del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di
soddisfare i propri».
Negli ultimi anni la questione ambientale è
diventata un argomento di serie relazioni accademiche ed ha nello stesso tempo
coinvolto l’opinione pubblica mondiale.
In
vista della Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente e lo sviluppo, che si
terrà in Brasile nel 1992, si è molto riflettuto su come aumentare il ruolo
dell’ONU per quanto riguarda la protezione ambientale.
Il
punto centrale di queste riflessioni è che non si può affrontare la sfida
ambientale attraverso la pura azione volontaria dei singoli Stati.
Questo
problema richiede che si stabiliscano regole vincolanti per tutti, istituzioni
e procedure di controllo della loro esecuzione, e l’applicazione di sanzioni
nei confronti dei trasgressori.
L’istituzione che esiste attualmente, il “Programma
ambientale delle Nazioni Unite” (UNEP) non possiede né i poteri né gli organi
legislativi ed esecutivi.
Per
questo è necessario creare un organismo autonomo delle Nazioni Unite o una
Agenzia ad hoc, che dovrebbe coordinare le convenzioni, le istituzioni e le
procedure esistenti e riempire le lacune in quei campi in cui non sono ancora
state create istituzioni e procedure.
Questo
organismo dovrebbe comprendere una Assemblea plenaria (con il compito di
approvare delle regole internazionali vincolanti), un Consiglio con funzioni di
esecutivo, un segretariato e una Corte ambientale.
Sarebbe
auspicabile un sistema di voto ponderato per permettere alle grandi potenze di
aderirvi, ma esse non dovrebbero avere diritto di veto, come attualmente
avviene nel Consiglio di Sicurezza.
Il Segretario generale.
L’accresciuto
ruolo dell’ONU nel governo del mondo ha focalizzato l’attenzione generale sui
criteri di nomina del Segretario generale delle Nazioni Unite, sulla durata
della carica, sulla sua autorità e giurisdizione.
Uno studio condotto da Brian Urquhart e
Erskine Childers, due noti funzionari internazionali, con la collaborazione
della “Ford Foundation” e della” Dag Hammarskjold Foundation”, ha stabilito che
considerazioni campanilistiche, nazionali, geografiche o politiche non
dovrebbero condizionare il processo di nomina.
Se si decidesse di stabilire un massimo di
sette anni per la permanenza in carica, ciò servirebbe ad attivare e facilitare
la nomina.
Per
quanto riguarda infine la questione centrale della necessità di una leadership
multilaterale per affrontare questi problemi, sarebbe necessario consultare le
Organizzazioni non governative e quei cittadini impegnati sul fronte dei più
importanti problemi del pianeta.
Nonostante
sia vero che il Segretario generale svolge le sue funzioni all’interno delle
strutture di potere della politica mondiale esistenti, è però anche vero che
egli può svolgere un ruolo importante nel modificare le stesse in modo
costruttivo.
Le
finanze.
Le
risorse finanziarie su cui può contare l’ONU sono precarie e soggette a molti
condizionamenti.
Il suo budget totale è insufficiente ad
affrontare le crescenti esigenze nei campi della sicurezza, dello sviluppo e
dell’ambiente, ed è troppo dipendente dagli arbitri politici di poche grandi
potenze, che la possono ricattare se le sue scelte politiche sono contrastanti
con i loro interessi.
Per
questo il rafforzamento dell’ONU è possibile solo se le sue finanze poggiano su
una base più solida e duratura.
Conclusione.
Le
Nazioni Unite non possono essere rafforzate se questo compito è lasciato nelle
mani dei soli governi.
Esse appartengono ai «popoli», come recita
l’inizio della Carta e i «popoli» devono far valere i propri diritti, poiché i
loro interessi sono permanenti, mentre i governi cambiano.
(Salish
Kumar)
L'inganno
del dollaro:
come le banche creano
segretamente
il denaro.
Signoraggio.com
- Sandro Pascucci - Ellen Brown – (3 luglio 2022) – ci dicono:
L'INGANNO:
COME LE BANCHE CREANO SEGRETAMENTE IL DENARO.
(webofdebt.com/articles/dollar-deception.php) – (Ellen
Brown, 3 luglio 2007)
È
stato definito "il gioco di prestigio più strabiliante che sia mai stato
inventato". La creazione del denaro è stata privatizzata e usurpata al
Congresso da un cartello bancario privato.
La maggior parte delle persone pensa che il
denaro sia emesso per decreto dal governo, ma le cose non stanno proprio così.
Ad
eccezione delle monete metalliche, che costituiscono all'incirca solo l'uno per
mille dell'offerta monetaria complessiva degli Stati Uniti, tutto il nostro
denaro viene ora creato dalle banche.
Le
banconote con la dicitura Federal Reserve (banconote di dollari) sono emesse
dalla Federal Reserve, una società per azioni privata, e prestati al governo.
Inoltre,
le banconote con la dicitura della Federal Reserve e le monete metalliche
costituiscono, assieme, meno del 3 per cento dell'offerta monetaria.
L'altro 97 per cento è creato, sotto forma di
prestiti, dalle banche commerciali.
Non
credete al fatto che le banche creano il denaro che prestano?
Non lo credeva nemmeno la giuria nel corso di
una causa in Minnesota che ha lasciato un segno nella storia, finché non ne
hanno avuto le prove.
Nel 1969, First National Bank of Montgomery contro
Daly fu un evento giudiziario degno della sceneggiatura di un film.
L'imputato,
Jerome Daly, si opponeva al pignoramento della banca in merito all'ipoteca di
14.000 dollari gravanti sulla sua abitazione sulla base del fatto che non vi
era alcun corrispettivo per il prestito.
Il
"corrispettivo" ("la cosa scambiata") è un elemento
essenziale di un contratto. Daly, un avvocato che si auto-rappresentava,
sosteneva che la banca non aveva messo da parte del vero denaro per il suo
prestito.
Gli
atti processuali furono verbalizzati dal giudice ausiliario Bill Drexler, il
cui compito principale, egli disse, fu quello di mantenere l'ordine in un'aula
carica di tensione nella quale gli avvocati minacciavano di prendersi a pugni.
Drexler
non aveva dato molto credito alla teoria della difesa, finché il signor Morgan,
il presidente della banca, non fu chiamato a testimoniare.
Con la
sorpresa di tutti, Morgan ammise che la banca creava abitualmente "dal
nulla" il denaro per i propri prestiti e che si trattava di una procedura
bancaria standard.
"A
me sembra un imbroglio", intonò il giudice Martin Mahoney tra i cenni
d'assenso dei giurati.
Nel suo memorandum, il giudice Mahoney
affermava:
"Il querelante ha ammesso che, in
collaborazione con la Federal Reserve Bank di Minneapolis, ... l'intera somma
di 14.000 dollari in denaro e credito fu creata nei propri registri con
annotazioni contabili.
Che
questa era il corrispettivo utilizzato per avvalorare la Distinta datata 8
maggio 1964 e l'Ipoteca emessa nella stessa data.
Il
denaro e il credito hanno avuto origine quando sono stati creati.
Il
signor Morgan ha ammesso che non esisteva alcuna legge o statuto degli Stati
Uniti che gli avesse concesso il diritto di farlo.
Un
corrispettivo legittimo deve esistere e deve essere portato a sostegno della
Distinta".
La corte respinse la richiesta di pignoramento
da parte della banca e l'imputato conservò la propria abitazione.
Per
Daly, le implicazioni furono enormi.
Se i
banchieri stessero veramente estendendo il credito senza corrispettivo - senza
supportare i propri prestiti con il denaro che avevano realmente nei propri
forzieri e che avevano il diritto di prestare - una decisione che dichiarasse
che i loro prestiti erano nulli poteva far crollare la base del potere del
mondo.
Daly
scrisse in un articolo su un quotidiano locale: "Questa sentenza, che è
legalmente corretta, ha l'effetto di dichiarare che tutte le ipoteche private
sulle proprietà personali e immobiliari, tutte le obbligazioni statali e
nazionali gestite dalla Federal Reserve, dalle banche statali e dalle banche
nazionali sono nulle.
Questo
equivale all'emancipazione di questa Nazione dal debito personale, nazionale e
statale dovuto, a quanto si dice, a questo sistema bancario.
Ogni americano è debitore di sé stesso ... per
studiare questa sentenza molto attentamente ... perché su questa poggia la
questione della libertà o della schiavitù".
Inutile
dire, comunque, che la sentenza non riuscì a cambiare l'andazzo generale,
sebbene non fu mai rovesciata.
Questo
era quello che si udì in un ufficio del giudice di pace, un sistema di
tribunali autonomi che risalivano ai giorni della conquista dell'Ovest quando
gli imputati avevano delle difficoltà a raggiungere le città più grandi per
comparire in giudizio.
In
quel sistema, ora scomparso, i giudici e i tribunali erano sostanzialmente
separati.
Il
giudice Mahoney, che non era dipendente dai finanziamenti per la campagna
elettorale né ostacolato da precedenti giudiziari, si spinse così lontano fino
a minacciare di far causa alla banca e di smascherarla.
Morì
sei mesi dopo il processo, in un misterioso incidente che sembrò avvelenamento.
Da
allora, parecchi imputati hanno tentato di evitare le inadempienze sul prestito
utilizzando il modello di difesa di Daly, ma con scarsi risultati.
Ecco quello che un giudice ha detto in via non
ufficiale:
"Se
vi lascio fare questo - a voi e chiunque altro - farebbe crollare l'intero
sistema ... non posso permettervi di andare a curiosare dietro il bancone ...
non andremo dietro al sipario!"
Di
tanto in tanto, comunque, questo sipario è rimasto sollevato abbastanza a lungo
per permetterci di vedere dietro le quinte.
Un certo numero di autorità rispettabili ha
testimoniato quanto accadeva, tra cui Sir Josiah Stamp, presidente della Banca
d'Inghilterra e il secondo uomo più ricco del Regno Unito negli anni '20 del
secolo scorso.
Egli dichiarò in un discorso ufficiale alla
University of Texas nel 1927:
"Il
sistema bancario moderno fabbrica denaro dal nulla. Il procedimento è forse il
gioco di prestigio più strabiliante che sia mai stato inventato. Le attività bancarie sono state
concepite nell'ingiustizia e nate nel peccato ... i banchieri possiedono la
terra. Toglietegliela
da sotto i piedi ma lasciate loro il potere di creare denaro e con un guizzo di
inchiostro creeranno abbastanza denaro per ricomprarsela ... togliete loro
questo grande potere e tutte le enormi fortune come la mia svaniranno, e allora
questo sarà un mondo migliore e più felice in cui vivere ... ma se volete rimanere schiavi dei
banchieri e pagare il costo della vostra schiavitù, continuate a permettere
loro di creare denaro e di controllare il credito.
Robert
H. Hemphill, responsabile del Credito presso la Federal Reserve Bank di Atlanta
al tempo della Grande Depressione, ha scritto nel 1934:
"Noi siamo completamente dipendenti
dalle Banche commerciali.
Qualcuno
deve prendere a prestito ogni dollaro che abbiamo in circolazione, in contanti
o a credito.
Se le Banche creano abbondante denaro
sintetico, noi siamo ricchi; altrimenti, facciamo la fame.
Non abbiamo assolutamente un sistema monetario
durevole. Avendo una visione globale della cosa, la tragica assurdità della
nostra posizione senza speranza è quasi incredibile, ma è così.
Si
tratta del tema più importante sul quale le persone intelligenti possano
indagare e rifletterci sopra".
Graham
Towers, governatore della banca centrale canadese dal 1935 al 1955, ha ammesso:
"Le
banche creano denaro.
Servono
a questo ... il processo produttivo per creare denaro consiste nell'inserire
una voce in un registro.
Tutto
qui ... ogni volta che una Banca concede un prestito ... viene creato nuovo
credito bancario, denaro nuovo di zecca".
Questo
è quanto ha dichiarato Robert B. Anderson, Segretario del Tesoro sotto la
presidenza Eisenhower, in un'intervista pubblicata sull'edizione del 31 agosto
1959 di U.S. News and World Report:
"Quando
una banca concede un prestito, essa aggiunge semplicemente al conto di deposito
del mutuatario presso la banca l'ammontare del prestito.
Il
denaro non è preso dal deposito di nessun altro, non è stato versato in
precedenza alla banca da nessuno.
Si tratta di nuovo denaro, creato dalla banca
per essere utilizzato dal mutuatario".
Come è
nato questo schema e in che modo è stato nascosto per così tanto tempo? Per
rispondere a queste domande, dobbiamo fare un salto indietro nel
diciassettesimo secolo.
Gli
orafi e il gioco delle tre carte.
In
Europa, nel diciassettesimo secolo, il commercio era condotto prevalentemente
con monete d'oro e d'argento.
Le
monete erano durevoli e avevano un valore intrinseco ma era difficile
trasportarle in grosse quantità e potevano essere rubate se non venivano messe
sotto chiave.
Dunque,
molte persone depositavano le proprie monete presso gli orafi, che disponevano
delle casseforti più sicure in città.
Gli orafi, a loro volta, emettevano delle
comode ricevute cartacee che potevano essere negoziate al posto delle
ingombranti monete che rappresentavano.
Queste ricevute erano utilizzate anche quando
la gente che aveva bisogno di monete si recava dall'orafo a richiedere un
prestito.
I guai
iniziarono quando gli orafi si accorsero che, in un qualunque momento, solo dal
10 al 20 per cento delle proprie ricevute ritornava per essere riscattato in
oro.
Essi
potevano "prestare" in tutta sicurezza l'oro contenuto nelle proprie
casseforti ad interessi parecchie volte superiori, finché potevano mantenere
dal 10 al 20 per cento del valore dei loro notevoli prestiti in oro per far
fronte alla domanda.
Gli
orafi, perciò, crearono il "denaro di carta" (ricevute per prestiti
di oro) del valore di parecchie volte superiore al metallo prezioso che in
realtà detenevano.
Venivano
tipicamente emesse banconote e concessi prestiti in quantità che erano da
quattro a cinque volte la loro reale disponibilità in oro.
Ad un
tasso di interesse del 20 per cento, lo stesso oro prestato cinque volte produceva
un rendimento del 100 per cento ogni anno, su oro che gli orafi in realtà non
possedevano e che, legalmente, non potevano affatto prestare.
Se fossero stati attenti a non sovraesporre
questo "credito", gli orafi potevano dunque divenire sufficientemente
benestanti senza produrre alcunché di valore.
Poiché
solo il capitale era dato a prestito nell'offerta monetaria, alla fine si
doveva restituire una somma, in capitale e interesse, maggiore di quella che
l'intera cittadinanza possedeva.
I
cittadini dovevano continuamente ricorrere a prestiti di nuova carta moneta per
coprire il deficit, provocando il dirottamento della ricchezze della città e,
alla fine, dell'intero paese all'interno dei forzieri degli orafi ora
trasformatisi in banchieri, mentre la gente si copriva gradualmente di debiti.
Seguendo
questo modello, nel diciannovesimo secolo in America le banche private emisero
banconote proprie in quantità fino a dieci volte superiori alle riserve reali
in oro.
Questa fu chiamata attività bancaria "di
riserva frazionaria", intendendo che solo una frazione, una parte dei
depositi complessivi gestiti dalla banca erano mantenuti come
"riserva" per far fronte alla domanda dei depositanti.
Ispezioni
periodiche effettuate alle banche quando i clienti divennero tutti sospettosi e
pretesero nello stesso momento il proprio oro, le mandarono in rovina e resero
il sistema instabile.
Nel
1913, il sistema delle banconote private fu quindi consolidato in un sistema di
banconote nazionali sotto la Federal Reserve (o "Fed"), una società
per azioni privata a cui fu concesso il diritto di emettere banconote con la
dicitura Federal Reserve e prestarle al governo degli Stati Uniti.
Queste
banconote, emesse dalla Fed al semplice costo di stampa, divennero la base dell'offerta
monetaria nazionale. Vent'anni dopo, il paese stava affrontando una gravissima
depressione.
L'offerta
di denaro si contrasse, mentre le banche chiudevano i battenti e l'oro fuggiva
in Europa.
I dollari, all'epoca, dovevano essere
sostenuti per il 40 per cento da oro, dunque per il valore in oro di ogni
dollaro che lasciava il paese, 2,5 dollari in moneta di credito svanivano.
Per
impedire che questa allarmante spirale deflazionaria facesse crollare del tutto
l'offerta di moneta, nel 1933 il Presidente Franklin Roosevelt sganciò l'oro
dal gold standard.
Oggi
la Federal Reserve opera ancora nel sistema di "riserva frazionaria",
ma le proprie "riserve" non consistono in nulla se non obbligazioni
governative (pagherò o debiti).
Il
governo emette obbligazioni, la Federal Reserve emette banconote con la
dicitura Federal Reserve, ci si scambiano alla fine enormi somme di denaro lasciando il
governo in debito verso una società per azioni privata, denaro che il governo avrebbe potuto
emettere da solo, esente da interesse.
Rubare
con l'inflazione.
M3,
l'indicatore più ampio dell'offerta monetaria degli Stati Uniti, è schizzato
dai 3.700 miliardi di dollari del febbraio 1988 ai 10.300 miliardi 14 anni più
tardi, quando la Fed smise di riportarlo.
Il perché la Fed abbia cessato di comunicarlo è
suggerito da John Williams in un sito web chiamato "Shadow Government
Statistics" [le statistiche ombra del governo, (shadowstats.com, NdT] nel
quale viene mostrato che, nella primavera del 2007, M3 stava crescendo al ritmo
impressionante dell'11,8 per cento annuo. Meglio non pubblicizzare troppo
quelle cifre!
La
domanda che viene posta qui, comunque, è la seguente: da dove proveniva tutta
questa nuova moneta?
Il
governo non ha aumentato la propria emissione di monete metalliche e non è
stato aggiunto oro all'offerta monetaria nazionale, perché il governo ha abbandonato
il gold standard nel 1933.
Questo
nuovo denaro poteva essere solo stato creato privatamente mentre il
"credito bancario" avanzava sotto forma di prestiti.
Il
problema è che inflazionando in questo modo l'offerta di moneta, anche i
prezzi, naturalmente, ne risultano inflazionati.
Una
maggior quantità di denaro che compete per gli stessi beni fa aumentare i
prezzi.
Il
dollaro ha un potere di acquisto inferiore, sottraendo alla gente il valore del
proprio denaro.
Di
quest'inflazione sfrenata viene di solito data la colpa al governo, accusato di
gestire le tipografie che stampano valuta con lo scopo di spendere e spandere
senza ricorrere all'espediente così impopolare di alzare le tasse.
Ma
come fatto notare in precedenza, l'unica forma di denaro che il governo
americano emette sono le monete metalliche.
Nei
paesi in cui la banca centrale è stata nazionalizzata, il denaro cartaceo
potrebbe essere emesso dal governo insieme al denaro metallico, ma le banconote
rappresentano solo una piccolissima percentuale dell'offerta monetaria.
In
Inghilterra, paese nel quale la Banca centrale fu nazionalizzata dopo la
seconda guerra mondiale, le banche private continuano a creare il 97 per cento
dell'offerta monetaria sotto forma di prestiti.
L'inflazione
sui prezzi è solo uno dei problemi di questo sistema di creazione privata del
denaro.
Un
altro problema è che le banche creano solo il capitale ma non l'interesse
necessario per restituire il prestito.
Poiché
virtualmente l'intera offerta monetaria è creata dalle banche stesse, nuovo
denaro deve essere continuamente immesso sul mercato per pagare l'interesse
dovuto ai banchieri.
Un dollaro prestato al tasso d'interesse del 5
per cento diventa 2 dollari tra 14 anni.
Questo
vuol dire che l'offerta di moneta deve raddoppiare ogni 14 anni solamente per
coprire l'interesse dovuto sul denaro esistente all'inizio di questo ciclo di
14 anni.
Le
cifre della Federal Reserve confermano che dal 1959, anno in cui la Fed ha
iniziato a fornire i dati, l'M3 è raddoppiato, e anche più, ogni 14 anni.
Ciò significa che, ogni 14 anni, le banche
convogliano in interessi tanto denaro quanto ne era presente nell'intera
economia 14 anni prima.
Questo
tributo viene pagato per dare a prestito qualcosa che le banche in realtà non
dovevano prestare, creando forse il più grosso imbroglio mai perpetrato poiché
ora colpisce l'intera economia globale.
La
privatizzazione del denaro è la causa fondamentale della povertà, della
schiavitù economica, dei governi senza fondi e di una classe dominante
oligarchica che si oppone ad ogni tentativo di farle allentare la stretta sulle
redini del potere.
Il problema può essere risolto solamente
invertendo il processo che lo ha creato.
Il
Congresso deve riprendersi il potere Costituzionale di emettere il denaro della
nazione.
L'attività bancaria della "riserva
frazionaria" deve essere eliminata, limitando le banche a prestare solo
fondi pre-esistenti.
Se il potere di creare denaro ritornasse al
governo, il debito federale potrebbe essere estinto, le tasse potrebbero essere
ridotte drasticamente e potrebbero essere estesi i programmi necessari per il
governo.
Contrariamente
a quanto comunemente si è portati a pensare, l'estinzione del debito federale
con nuove banconote emesse dal governo degli Stati Uniti non sarebbe un
pericolo per l'inflazione perché i titoli del governo sono già compresi
nell'indicatore più ampio dell'offerta monetaria.
I
dollari sostituirebbero semplicemente le obbligazioni, lasciandone il totale
invariato.
Se il debito federale degli Stati Uniti fosse
stato estinto nell'anno fiscale 2006, i risparmi governativi per non dover più
pagare interessi sarebbero stati di 406 miliardi di dollari, sufficienti per
cancellare il deficit di bilancio di 390 miliardi di dollari di quell'anno e
con ulteriore denaro da tenere da parte.
Il
budget potrebbe essere raggiunto con le tasse, senza creare denaro dal nulla
come può accadere con le tipografie nazionali o con le registrazioni contabili
dei prestiti effettuati dalle banche.
Tuttavia,
parte del denaro creato dalle tipografie potrebbe essere davvero un toccasana
per l'economia.
Sarebbe grandioso se questo fosse utilizzato
per scopi produttivi come la creazione di nuovi beni e servizi, piuttosto che
per scopi non produttivi come il pagamento dell'interesse sui prestiti.
Quando
l'offerta (beni e servizi) cresce insieme alla domanda (moneta), tutto rimane
in equilibrio e i prezzi rimangono stabili.
Potrebbe
essere aggiunto nuovo denaro senza creare inflazione sui prezzi fino a
raggiungere la piena occupazione.
In
questo modo il Congresso potrebbe finanziare quei programmi di cui si sente una
forte necessità, come lo sviluppo di fonti di energia alternative e
l'estensione della copertura sanitaria e, allo stesso tempo, ridurre le tasse.
(Ndr: Ie grandi famiglie dei Banchieri
da secoli hanno deciso quanto segue:
Le
università che insegnano economia bancaria nel mondo debbono indirizzare i
rispettivi studenti a rispettare i seguenti inderogabili principi.
Il
denaro creato dal nulla dalle banche per effettuare prestiti alla clientela sin
dall’inizio deve essere registrato nei libri contabili bancari nella voce
“passivo”, mentre nella realtà bancaria tutto il denaro che si trova in cassa della
banca ogni mattina dovrebbe essere registrato come “attivo”.
L’aristocrazia
dei banchieri ha creato delle apposite sue società di controllo dei bilanci
bancari dopo che questi sono debitamente approvati dalle assemblee dei soci
proprietari delle banche.
In
Europa esistono tre di queste istituzioni di controllo: La “Swift”, la “Clear stream”
ed “Euro clear”.
Dopo
il controllo dei bilanci bancari effettuati da queste tre società (scelte dai veri
proprietari di tutte le banche) i bilanci bancari vengono definitivamente
approvati con la variazione ultima effettuata dai controllori dopo la quale tutti
i” passivi” bancari registrati dopo aver effettuato prestiti effettuati alla
clientela sono ora definitivamente registrati come “attivi”.
Questi
nuovi “attivi” verranno versati in appositi conti “esteri” di proprietà dei
veri padroni di tutte le banche del mondo occidentale.
Un
esempio controllabile. Solo in Italia il sistema bancario “presta” alla clientela
richiedente circa 1.500 miliardi di euro ogni anno.
Queste
somme non rientrano più in Italia. Vanno ad ingrossare i conti esteri dei
padroni finanziari del mondo e tutto “esente tasse” di pertinenza dello stato.)
Gruppo
Bilderberg, ecco
chi
governa davvero il mondo.
Ilfattoquotidiano.it
– (8-2-2019) – Diego Fusaro – ci dice:
Con
un’espressione in bilico tra l’onesto riconoscimento della realtà fattuale e
l’arroganza propria del potere, così ebbe modo di affermare uno dei massimi miliardari
del pianeta:
“La lotta di classe esiste e la mia classe la
sta vincendo”.
Si
tratta, in effetti, di una chiara e ludica analisi del rapporto di forza quale
si è venuto riconfigurando nel tempo della ribellione delle élite e
dell’offensiva neoliberista al mondo del lavoro e dei diritti.
Scenario
di cui, tuttavia, non si ha contezza, poiché il potere impone le sue mappe
ingannatorie e usa armi di distrazione di massa.
Per
una comprensione della reale entità dell’élite neo-oligarchica come maschera di
carattere e come agente del capitale assoluto-totalitario nel tempo del disarmo
del Servo può giovare soffermare l’attenzione sul cosiddetto “gruppo
Bilderberg”, emblema dell’Internazionale liberal-finanziaria del tempo
neofeudale.
Contrariamente
a quanto si può a tutta prima essere indotti a pensare, il gruppo Bilderberg
non consiste in una società, né in una cospirazione:
si tratta, invece, di un incontro privato tra
potenti di tutto il mondo, che ricorre annualmente, a partire dal primo
consesso, che avvenne nel 1954 presso l’Hotel Bilderberg della cittadina
olandese di Oosterbeek.
Tale
incontro annuale ha lo scopo di porre a confronto i potenti dell’élite, uniti
dall’ideologia neoliberista che li rappresenta e dalla volontà di attuare una
rete atta a tutelare i loro interessi e a unire le istituzioni finanziarie.
Si
tratta, appunto, di una specifica Internazionale liberal-finanziaria il cui
motto pare potersi cristallizzare nel rovesciamento delle parole con cui Marx
chiudeva il Manifesto: “potenti di tutto il mondo, unitevi!”.
Da un
certo angolo prospettico, si potrebbe sostenere che il gruppo Bilderberg
coincide tout court con una rete di interessi interdipendenti di tipo
finanziario e politico, economico e industriale.
Dal
1954 ad oggi, non è mai stato permesso alla stampa di assistere ai consessi del
gruppo Bilderberg, né si è mai pubblicata l’agenda del convegno, né sono state
rilasciate dichiarazioni da parte di chi vi ha partecipato.
Espressione
degli arcani imperii dell’economia mondiale finanziarizzata, la massima
segretezza neo-oligarchica finisce per essere, paradossalmente, quanto mai
rivelativa del vero carattere del gruppo Bilderberg come governo occulto che
opera nell’ombra, determinando le linee generali di una politica ridotta a mera
continuazione dell’economia con altri mezzi.
Ancorché
le riunioni siano strettamente segrete, gli interessi dell’élite Bilderberg
sono ampiamente noti, perché coincidono con quelli del finanz-capitalismo della
fase assoluta del capitalismo (per un’analisi della quale mi permetto di rinviare al mio
studio “Minima mercatalia. Filosofia e capitalismo”).
Tali
interessi orbitano intorno al fuoco prospettico dell’eliminazione degli Stati
nazionali e dei diritti sociali, della creazione di un’immensa “pauper class
precarizzata”, nomade e disposta a tutto pur di sopravvivere, della distruzione
delle costituzioni e dei confini nazionali, della creazione di nuovi trattati
internazionali vincolanti mediante il primato economico e bancario,
dell’offensiva integrale al mondo del lavoro e delle garanzie sociali.
Nei
piani e nei progetti del gruppo Bilderberg si incarna l’essenza della rivolta
delle élite: le unioni e i trattati internazionali vengono impiegati come
strumenti mediante i quali operare la rimozione della sovranità nazionale
democratica e, per questa via, destrutturare i diritti e lo stato sociale,
imponendo la competitività internazionale come unico parametro.
Per il
tramite dei trattati internazionali, infatti, i governi nazionali vengono
privati del loro potere, che è ceduto ad agenzie internazionali e finanziarie,
che si sostituiscono in misura sempre crescente agli Stati nazionali, le cui
guide e i cui rappresentanti erano, almeno sulla carta, eletti dal popolo.
Per
questa via, l’oligarchia finanziaria dell’élite può operare in qualità di
società per azioni mondiale e di aristocrazia di intenti aspirante ad
amministrare il pianeta mediante una rete transnazionale in grado di imporre
senza incontrare resistenza un nuovo ordine mondiale plasmato dalla logica del
capitalismo assoluto e flessibile.
Come
ebbe ad affermare David Rockefeller, nel giugno del 1991, durante l’incontro
del gruppo Bilderberg a Baden Baden, una sovranità sovranazionale esercitata da
una élite intellettuale e da banchieri mondiali è senza dubbio da preferirsi
senza esitazioni alla tradizionale autodeterminazione delle nazioni.
In
queste parole, in fondo, si condensa il programma internazionalista di
liberalizzazioni senza frontiere perseguito dalla nuova Internazionale
liberal-finanziaria e della sua distruzione complementare del Servo come
soggetto organizzato e oppositivo e di tutti i limiti reali e simbolici di
frenare l’estensione illimitata del nichilismo economico.
L’obiettivo
ultimo consiste nell’instaurazione di un governo unico mondiale con un solo
mercato planetario, ove non sopravvivano identità e culture plurali, l’umanità
sia dissolta in atomi di consumo privi di radici e di progettualità, nella
forma di un’immensa plebe precarizzata e asservita.
È il
trionfo del classismo planetario e del fanatismo economico transnazionale.
Perché
Difendere il Contante.
Conoscenzeaconfine.it
– (13 Gennaio 2023) - Matteo Brandi – ci dice:
Perché
è essenziale difendere il contante?
I
motivi per cui è essenziale difendere il contante ed evitare che i pagamenti
elettronici soppiantino del tutto monete e banconote sono, per me,
essenzialmente tre:
1)- Il
motivo più evidente: le commissioni bancarie.
Dover pagare un obolo al sistema bancario ogni
volta che si riceve un pagamento tramite Pos è per gli esercenti, già
massacrati da una tassazione iniqua, a dir poco odioso.
Soprattutto
se questa mini-tassa viene applicata su acquisti di minor conto, come un
semplice caffè o un cornetto.
Si parla di percentuali piccole (in media
circa lo 0,7% con distinzioni tra carte di debito e Pagobancomat) che tuttavia,
sommate ad ogni transazione portano via un bel po’ di denaro, che viene diviso
tra la banca che emette la carta, il circuito della carta stessa e lo strumento
Pos.
In un
momento di difficoltà economica generale, è facile capire quanto tutto questo
risulti dannoso.
2)- Il motivo più importante: il
controllo.
Durante
le manifestazioni dei camionisti canadesi contro le disposizioni di Justin
Trudeau, così come nel pieno delle proteste a Teheran, è bastato un click ai
governi per bloccare i conti correnti dei dissidenti e impedire loro di
spostarsi, acquistare cibo e comprare medicinali.
Poter contare sul contante è un’assicurazione
sulla propria libertà personale. Affidarsi totalmente al pagamento elettronico,
per quanto comodo, è pericoloso e
rende
il cittadino inerme di fronte agli autoritarismi, di qualsiasi genere. Stiamo
andando verso una società iper-controllata e monitorata, vale la pena correre
questo rischio?
3) -Il
motivo più culturale: la smaterializzazione.
Nell’epoca
del Metauniverso e delle relazioni social, è importante porre un freno (o
almeno un limite) alla dissoluzione della tangibilità dei vari aspetti della
nostra esistenza.
Avere
contezza del denaro che abbiamo in mano e che spendiamo suggerisce un
comportamento meno imprudente rispetto alla semplice “passata” di carta, specie
se il debito viene accumulato e la sua riscossione procrastinata.
In molti sono già diventati consumatori
compulsivi, perdere persino la consapevolezza della presenza materiale dei
propri soldi peggiorerebbe la situazione.
I
fanatici del pagamento elettronico sempre e comunque, tirano fuori la questione
dell’evasione, con il solito piglio auto razzista (gli italiani sono ladri ed
evasori) e fanatico-progressista (questo è il futuro, non c’è alternativa).
Peccato
che la correlazione tra contante ed economia sommersa sia ancora tutta da
dimostrare e la vera, grande evasione riguarda i grandi capitali e le
multinazionali (per non parlare della criminalità organizzata), non i piccoli
commercianti.
Evitiamo
dunque di cadere ancora nella trappola del “divide et impera”.
Questa
nuova guerra tra poveri è, come tutte le altre, ingiusta, ipocrita e dannosa.
(Matteo
Brandi) – (matteobrandi.it/perche-difendere-il-contante/)
Due
Pesi e… Due Misure
Conoscenzealconfine.it
- (12 Gennaio 2023) – Laura Ruggeri -ci dice:
Strategia
geopolitica di Washington: due pesi e due misure!
I
media cinesi hanno sottolineato che i disordini in Brasile sono quasi una
replica perfetta dell’“assalto al Campidoglio” di due anni fa.
E
ancora una volta offrono al governo statunitense, guidato dal Partito Democratico,
l’opportunità di “cavalcare l’onda” contro la parte accusata di fomentare i
disordini: l’ex presidente Donald Trump.
Ma per
il resto del mondo, l’emergere di simili rivolte non è semplicemente dovuto a
Trump, perché c’è qualcosa di terribilmente sbagliato in un sistema politico
che genera (ed esporta) polarizzazione sociale e caos.
Da un
lato, la società statunitense è fortemente divisa e il sentimento populista è
forte.
Il
sistema esistente non è in grado di risolvere le contraddizioni che genera.
Dall’altro
lato, gli Stati Uniti praticano due pesi e due misure nei confronti di altri
Paesi, il che è ancora peggio.
In
base alle esigenze della sua strategia geopolitica, l’atteggiamento di
Washington nei confronti di simili disordini è molto diverso.
Ad esempio, Washington ha condannato con forza
le rivolte in Brasile, ma è molto più ambigua su episodi di violenza simili in
altri Paesi.
In alcuni Paesi, incoraggia e addirittura
sostiene il disprezzo per lo Stato di diritto e la sovversione quando serve ad
istigare una “rivoluzione colorata”.
Basti pensare a Maidan in Ucraina e tutte le
rivoluzioni colorate orchestrate dagli Stati Uniti.
La
macchina dei “cambi di regime” non si ferma mai: in Iran istiga proteste
violente da mesi.
Nell’odierna
situazione internazionale, caotica e intrecciata, un virus politico radicale
può facilmente trovare un focolaio adatto alla sua sopravvivenza, e diventare
sempre più contagioso e patogeno.
Chi è
interessato a destabilizzare il Brasile, un Paese membro del BRICS+, e a
sfruttare e approfondire divisioni e spaccature nella sua società?
(Laura
Ruggeri - t.me/LauraRuHK)
DISERZIONE,
GUERRA E
COMANDO
SUL MONDO.
Euronomade.info
-Redazione – Massimo De Angelis - (Apr. 27, 2022) – ci dice:
Riprendiamo
qui un articolo di Massimo De Angelis pubblicato per Effimera il 26 aprile
2022.
In
questo approfondito contributo, Massimo De Angelis riflette sulle ragioni della
guerra in corso in Europa, a seguito dell’invasione dell’esercito russo in
Ucraina.
Una
guerra che accentua una situazione socio-economica e politica, già provata da
due anni di pandemia e di malessere sociale crescente.
Di
fronte alla nocività della guerra, pur tenendo ben conto delle colpe dirette e
delle immediate responsabilità, l’unica possibile risposta che ci si sente di
dare è: diserzione.
L’autore la rilancia, ricordando i contributi
di Franco Berardi e Sandro Mezzadra sul tema.
Tale
parola può suonare indigesta alle letture che forzosamente contrappongono i
(presunti) “valori occidentali” all’aggressione dei “barbari”.
La
storia ci insegna che quando scoppia una guerra di questa entità, finalizzata
(come spiega l’autore), a ridisegnare l’attuale (dis)ordine geo-politico e
geo-economico, non esistono poteri buoni.
L’Ucraina
è vittima delle tentazioni egemoniche del disegno panrusso di Putin, da un
lato, e nella necessità Usa (che comanda la Nato) di mantenere una supremazia
militare ed economica fortemente compromessa, dall’altro.
Questo
sono i pilastri centrali dell’attuale crisi.
E
tutto ciò con la Cina sullo sfondo.
In
questo quadro, l’Europa non è in grado, o meglio non vuole, ritagliarsi un
ruolo autonomo, andando così incontro al proprio suicidio.
Gli
eccidi e le morti civili in Ucraina sono il prezzo cinico che deve essere
pagato, mentre le potenze imperiali rinfocolano lo scontro, affondando
qualsiasi tentativo diplomatico, e i mercanti di guerra festeggiano.
Per
questo, disertare non è vigliaccheria, ma l’unico vero atto di coraggio
possibile. Perché “disertare la guerra è disertare il comando sul mondo”.
Oltre
la claustrofobia della guerra, la diserzione.
Questa
guerra ci è piombata addosso dopo due anni di pandemia e corrispondente crisi
sanitaria, ci ha distratti da una catastrofe ambientale senza precedenti, e i
suoi effetti si adagiano in occidente su un malessere sociale accumulato da 50
anni di politiche neoliberali.
Come
spesso accade in queste situazioni, attorno a noi gli orizzonti del possibile
sembrano chiudersi, e mentre si accentua il senso di claustrofobia e il gusto
amaro di una necessità aliena al desiderio, solo una via sembra esserci lasciata
aperta, quella della guerra, del riarmo, di un solco netto tracciato tra buoni
e cattivi, tra eroi e codardi, tra un noi e un loro che rimescola le carte, che
accomuna ricchi e poveri di una parte contro i ricchi e i poveri dell’altra, e
così per sfruttati e sfruttatori, violentati e violentatori, inquinati e
inquinatori, come se queste distinzioni non avessero più importanza di fronte
alla distinzione tra invasi e invasori e i loro alleati.
Quest’ultima distinzione è dunque posta sopra
tutte le altre, le mette all’ombra obliterando le diverse posizioni all’interno
dei due campi, occultando le trasversalità che le differenti forme della
cooperazione sociale ha instaurato nel tempo.
La costruzione del reale si fonda sempre su
una gerarchia tra le possibili distinzioni, e la distinzione prodotta dalla
guerra sta in alto non per negare tutte le altre distinzioni, ma, attraverso
sangue, distruzione e dolore, per creare la condizione per la loro
riconfigurazione e il loro perpetuarsi.
Quando
ogni via di trasformazione positiva del reale sembra esserci sbarrata, sorge
quindi forte e disperata ancora la domanda: “che fare”?
In un articolo di qualche settimana fa, Sandro
Mezzadra ci suggerisce la risposta già nel titolo, bisogna “disertare la
guerra”.
È
certo che bisogna disertarla, con tutte le nostre forze, con tutto il nostro
immaginario collettivo, anche se il cosa, il come, il chi, il dove di questa
diserzione pongono domande aperte la cui risposta richiede uno sforzo e un
impegno comune.
Ma disertare bisogna.
Anche
in questa guerra ci sono i disertori, sia dal versante russo che da quello
ucraino.
Ciò che li accumuna come fratelli è la voglia
di non uccidere e di non farsi uccidere, oltre ad una pulsione vitale senza se
e senza ma che li porta a reclamare il diritto al futuro.
La parola “diserzione” invita ad immagini di
giovani militari spaventati che scappano dal proprio reggimento, che affrontano
i rischi insiti alla fuga da un’autorità che, se li acciuffa, li punirà
crudelmente, che si rifugiano in casolari e fienili per passare la notte nella
speranza che nessuno li veda, che timidamente cercano la solidarietà di chi li
incontra — un pezzo di pane, un bicchiere d’acqua — per poter continuare il
viaggio.
Disertare
non è cosa facile, perché implica una rottura con ciò che ti dicono da tutte le
parti che sia giusto o quantomeno doveroso fare, la guerra.
Disertare
è anche una scelta pericolosa, per le conseguenze che possono ricadere su di te
(le immagini i tanti ragazzi impauriti e fucilati nella prima e nella seconda
guerra mondiale per esempio.
Ancora
oggi in Ucraina, la legge permette a un comandante di sparare se sorprende un
milite in procinto di disertare, soprattutto se questo è di guardia al confine,
mentre per i russi ci sono 8 anni di prigione).
Occorre
espandere questa immagine che abbiamo di diserzione, dobbiamo allargarla in
centri concentrici, ad altri ambiti collegati alla logica della guerra, poiché
risulta essere sempre più chiaro che il rinnovamento del nostro mondo si fonda
anche su una rinnovata pratica della diserzione in senso lato.
Disertare la guerra è dunque anche disertare
le sue ragioni, disertare è necessariamente allo stesso tempo cercare e
costruire altro, un fuori dalla guerra e un fuori da quel mondo che la genera
per la costruzione di un altro mondo.
E come
ancora ci ricorda Sandro Mezzadra “disertare la guerra è oggi un imperativo, ma
le pratiche di diserzione non possono essere efficaci se non sono articolate in
una cornice globale.
Se non
sono sostenute dall’invenzione, che certo non può essere fatta a tavolino, di
un nuovo internazionalismo, che potrà anche chiamarsi in un altro modo ma a
quello spirito dovrà collegarsi.”
Disertare
la guerra, è quindi anche disertare una logica di comando sul mondo della quale
la guerra — con tutte le sue orribili conseguenze — è la levatrice.
Lenti.
Per
ampliare questa nozione di diserzione, bisogna munirsi di lenti ottiche che ci
permettano di osservare il mondo a diverse scale, come uno zoom che passa dal
teleobiettivo al grandangolo.
Il
mondo che si vede con tali lenti diverse è lo stesso, eppure esso appare in
maniera diversa, perché ad ogni scala scopriamo caratteristiche specifiche di
quella scala.
Allo
stesso tempo, i fenomeni distinti che intravediamo alle diverse scale, fanno
parte in realtà di un unico fenomeno.
Una
foto panoramica, se ingrandita, rivelerà particolari inaspettati.
Eppure quei particolari erano lì fin
dall’inizio, e costituiscono, insieme ad una moltitudine di altri particolari,
il panorama stesso.
Allora,
osserviamo la guerra armati di tali lenti.
Una
delle cose che trovo molto frustrante nelle discussioni sulla guerra, è la
netta divisione binaria che emerge nella rappresentazione del “popolo” Ucraino
da una parte e gli invasori Russi dall’altra, i primi visti SOLO come vittime
indifese o eroici difensori, i secondi SOLO come puri aggressori o brutali
esecutori di atrocità.
Ovviamente,
a un certo livello di osservazione, questo tipo di rappresentazione binaria è
comprensibile:
l’esercito
russo è stato l’aggressore, e quindi il popolo ucraino la vittima
dell’aggressione che cerca di difendersi.
Non
nego la validità (seppur parziale) di questa rappresentazione della realtà.
Ma chi
vede solo questo, è come se usasse solo una lente, chiamiamola Lente 1.
Non è
mio compito in questo scritto usare questa lente e ripetere la condanna a
Putin, gli orrori dei massacri di civili, le motivazioni interne ed esterne che
lo hanno portato a questo, il Nazi-stalinismo, come lo ha definito Biffo, del
suo governo sulla Russia e la guerra promossa dal suo regime ad altri popoli in
quel che considera il suo giardino di casa.
È tuttavia utile ricordare che il vecchio Tony
Blair quando era primo ministro aumentò le licenze di esportazione alla Russia
del 550%, e ciò includeva equipaggiamento necessario alla guerra in Cecenia,
poiché, come disse, è “importante appoggiare la Russia nella sua lotta contro
il terrorismo.”
D’altra
parte la Russia ha agito come potenza regionale, cioè come nodo del comando sul
mondo, in diverse guerre prima dell’intervento in Ucraina del 24 febbraio
scorso: in Cecenia (2000-03); in Georgia (2008);
nell’ est Ucraina (dal 2014 a oggi); in Siria
(dal 2015 a oggi).
Ha
anche svolto brevi interventi militari in Bielorussia (2020) e in Kazakhstan
(2022). Come ci ricorda Simon Pirani), a parte il caso dell’intervento in
Cecenia nel quale l’obiettivo russo era di rinforzare i confini nazionali ed
eliminare il nazionalismo ceceno, tutti gli altri casi di intervento militare
sono stati contraddistinti da tre obiettivi comuni:
1. quello di appoggiare regimi o forze
militari pro-russe;
2.
quello di contrastare movimenti sociali che minacciavano regimi pro-russi (a
parte il caso della Georgia), un po’ come nell’intervento dell’unione sovietica
in Ungheria (1956) e Cecoslovacchia (1968);
3. in
tutti questi casi, e a dispetto della retorica di Zelensky che vede la Russia
come minaccia all’integrità territoriale Europea o addirittura mondiale, la
Russia ha mostrato poco interesse verso l’acquisizione di nuovi territori, a
parte enclave dove vivono una maggioranza di lingua russa.
Simon
Pirani quindi conclude che “la Russia, nonostante la sua sottostante debolezza
economica, ha cercato in questo modo di rivaleggiare con l’alleanza USA-Regno
Unito, che in questo periodo ha fatto guerra in Iraq, Afghanistan e Libia, e ha
sostenuto la guerra saudita in Yemen, la guerra israeliana in Palestina e altri
guerre per procura.”
Per
capire la complessità della situazione e quindi pensare a come uscirne, si
dovrebbero però usare ANCHE altre lenti.
In
primo luogo, lenti che ci permettono di osservare la guerra in Ucraina nel suo
contesto geopolitico, che ci permettono appunto di capire questa invasione,
alla luce di una storia di cui ANCHE l’occidente ha avuto e ha tutt’oggi un
ruolo determinante.
Dunque
dobbiamo usare una lente che apre la prospettiva sul contesto della guerra,
chiamiamola Lente 2.
In
secondo luogo, lenti che ci permettono di “ingrandire” l’immagine della
situazione rivelandoci che ciò che appariva semplicemente binario, risulta
assai più complesso e sfaccettato, chiamiamola Lente 3.
Per esempio, tra i militari russi c’è chi
diserta, e tra la popolazione russa c’è chi protesta.
Allo stesso tempo, il popolo ucraino non è un
monolito, ma come tutti i popoli, è differenziato e plurale.
E allora c’è chi combatte con entusiasmo gli
invasori russi, e c’è chi avrebbe a gran lunga preferito non essere obbligato
alla leva obbligatoria;
c’è
anche chi sta dalla parte dei russi, c’è poi chi diserta il militare e la
guerra, chi non gliene importa nulla se comandano i russi o gli americani, e
chi gli basterebbe vivere in pace.
Ci
sono i rifugiati che lasciano l’Ucraina per l’Europa, e chi invece trova
rifugio nelle vaste campagne dell’Ucraina occidentale, dimenticati dal governo
ucraino, con farmacie e negozi vuoti e senza che un soldo degli aiuti
internazionali arrivi da quelle parti.
E poi ci sono anche quegli ucraini vicini al
potere del governo ucraino che ammazzano, torturano, e zittiscono altri ucraini
perché in qualche modo non si identificano nella linea governativa, o magari
perché è dal 2014 che sono stati bombardati da milizie ed esercito ucraino nel Donbas.
Questa complessità che è parte fondamentale
del reale non è visibile a chi usa solo la Lente 1, o solo la Lente 2.
Per
vederla, bisognerebbe anche usare altre lenti e lasciare che ciò che esse ci
mostrano inquini le nostre certezze ottenute guardando solo con una lente, e attraverso
processo di meticciamento del pensiero, lasciare che esso raggiunga una nuova
immagine quanto più congruente del tutto — e quindi una nuova idea sul da
farsi.
Un processo questo che nessun individuo può da
solo affrontare, ma che può solo approssimarsi attraverso una prassi
comunicativa di un’intelligenza collettiva.
Ora
c’è una ragione per la quale chi usa solo la lente 1 — ed è la maggioranza dei
commentatori mainstream, dei governi occidentali e dei media — sembra solo
usare questa lente, almeno pubblicamente.
La ragione è che la guerra ha bisogno di
nemici, non solo il nemico esterno, ma anche quello interno.
Come
ci ricorda Franco Biffo Berardi, “Il nemico interno è la sensibilità di essere
umani: la coscienza, se vogliamo.
Ne
parla Freud in un testo sulle nevrosi di guerra scritto durante la Prima guerra
mondiale:
il nemico interno si manifesta come dubbio,
esitazione, paura, diserzione.
Il
nemico interno è la volontà di pensare.
” Così
come si demonizza il nemico esterno (e la guerra si fonda su tale
demonizzazione), allo stesso tempo si demonizza e si silenzia come amico del
nemico chiunque usi anche altre lenti.
Una
vecchia tattica che cerca di chiudere il pensiero ad ogni tipo di ragionamento,
demonizzando chi cerca di aprirlo.
Una
tattica di coloro che credono che per fermare una guerra di questo tipo occorre
alimentare la guerra fino alla vittoria.
Un pensiero che di fronte alla necessità di
uscire dalla guerra è un pensiero perdente, perché se anche la mitica vittoria
dovesse arrivare, arriverà dopo anni di combattimenti, torture, sangue e
sofferenze, e quindi di tante, molteplici sconfitte.
No,
quelli che come me sono contro la guerra, non sono amici di Putin, ma non sono
neanche amici di Boris Johnson, Joe Biden o la NATO.
Se ci
interessa la pace, dobbiamo disertare la guerra, e il primo passo della
diserzione è capire la situazione dal quale vogliamo fuggire.
Una
comprensione che ovviamente si deve avvalere anche di altre lenti, per esempio
una Lente 4, che indaga il metabolismo tra cooperazione sociale e natura non
umana e una Lente 5 che indaga nelle pieghe anche psichiche della soggettività.
In
quanto segue, lungi da poter mettere in rapporto le osservazioni scaturite da
tutte queste lenti, mi soffermerò su ciò che si intravede usando la Lente 2,
anche se vorrei poter scrivere più dettagliatamente su cosa si osserva
attraverso la Lente 3.
E’
quest’ultima in effetti quella che alla fine ci dà un orientamento su come
agire nel mondo, quali le trasversalità da istituire tra soggetti attraverso i
confini, come creare ponti tra sfruttate/i, violentate/i, e oppresse/i in tutte
le nazioni, in modo tale da spingere le distinzioni tra i confini nazionali in
fondo alla gerarchia delle cose ed elevare altre distinzioni e metterle al
centro della nostra preoccupazione politica.
Ma per
agire nel mondo che si osserva con la lente 3, occorre anche delimitare i
contorni delle forze che agiscono su di esso, cioè usare la lente 2, quella che
fa intravedere il comando sul mondo.
In
quanto segue, voglio provare a mettere a fuoco la guerra in Ucraina attraverso
la lente 2.
Il
comando sul mondo.
Tante
domande si aggirano tra i commentatori più attenti della guerra in Ucraina,
quelli meno schiacciati su posizioni entusiaste e desiderose di prendere parte
in qualche modo alla guerra.
Per
esempio, perché Biden non ha cercato di far qualcosa diplomaticamente quando la
CIA ha mostrato le immagini dell’ammasso di truppe lungo i confini tra Russia e
Ucraina?
Perché
la strategia degli Stati Uniti, come disse in un’intervista alla CNN Hilary
Clinton, sembra essere la stessa di quella adottata durante l’invasione russa
in Afghanistan, cioè mandare armi per contrastare l’esercito occupante e
aspettare che i russi si sfiancano, mentre si accumulano i morti tra civili e
militari (morti che in Afghanistan durante la guerriglia contro le truppe
sovietiche furono stimati tra i 562,000 and 2,000,000, senza parlare del caos
successivo)?
Perché
Biden non dice a Zelensky di andare calmi, di rallentare, di negoziare perché i
costi umani della resistenza fino alla vittoria — che include per molti
commentatori Ucraini sulle tv occidentali perfino la cacciata dei Russi dalla
Crimea— sono incalcolabili?
La
risposta credo abbastanza ovvia è che l’amministrazione americana spinge per un
allungamento della guerra.
E
quindi la domanda centrale è perché?
Che
interesse hanno gli Stati Uniti ad allungare questa guerra, e come questo
interesse è legato al comando sul mondo in questa fase storica?
Quando
parliamo di mondo, parliamo di una complessità in continua riproduzione, una
complessità prodotta e in produzione, parliamo di cooperazione sociale che si
articola in forme diverse spesso intrecciate e spesso antagoniste.
Parliamo
di relazioni sociali che si incarnano in quelle ecologiche e viceversa,
parliamo di metabolismo sociale, parliamo di soggetti individuali che operano
in una moltitudine di reti di cooperazione sociale le cui relazioni danno forma
a queste reti, le quali a loro volta danno forma alle razionalità dei soggetti.
Per
capire questa guerra e soprattutto cosa c’è in gioco bisogna in primo luogo
anche munirsi della Lente 2, quella che guarda al comando sul mondo in questo
senso, comando sulla cooperazione sociale nella sua totalità, un comando che ha
la finalità di dargli una finalità e una direzione.
Parlare
di comando sul mondo sembra un’operazione puramente ideologica per chi crede
che la democrazia occidentale sia la “fine della storia” e insieme la più alta
forma di governo sul mondo, una forma che crede di distribuire il potere
equamente su ogni individuo del popolo attraverso un voto a scadenze regolari
ogni qualche anno.
Purtroppo, sappiamo, questa forma di
democrazia lascia molto spazio all’esercizio oligarchico del potere da parte
del capitale, e addirittura anche monarchico, da parte della sezione egemonica
del capitale internazionale.
La
guerra che si è scatenata in Europa ha delle ragioni che si radicano
nell’”ordine” mondiale, un “ordine” che mettiamo tra virgolette, proprio perché
sappiamo che è un ordine che si dà al capitalismo, ai suoi flussi estrattivi e
di sfruttamento, di continua (ri)generazione di gerarchie di potere e comando,
che produce l’intelligenza artificiale ma anche la fame, e di un metabolismo
tra la cooperazione sociale e la natura non-umana dalle conseguenze
catastrofiche. Ma ciò che chiamiamo capitalismo, anch’esso non è un monolito.
Il
capitalismo oggi è la quasi totalità della cooperazione sociale che si dipana e
intreccia a diverse scale, e che include diverse forme del fare e del
relazionarsi, quelle che seguono la logica del capitale, dello stato, e del
comune, un intreccio comunque egemonizzato dal capitale, ed è per questo che lo
chiamiamo capitalismo.
Il
comando sul capitalismo globale è il comando sull’intreccio delle reti e dei
sistemi della cooperazione sociale.
E il
capitalismo ha bisogno di direzione e di comando proprio in virtù delle crisi
che esso genera, e delle lotte che domandano risposte a queste crisi.
In
forme diverse, possiamo derivare dal pensiero post-operaista italiano, dagli
scritti di Alquati negli anni 80 a quelli di Hardt e Negri degli anni 2000,
un’immagine del comando sul mondo come un sistema di stati gerarchizzati a
secondo delle relative potenze;
una serie di reti di miliardari, corporations
e organizzazioni economiche e finanziarie, e una selezione di organizzazioni
della “società civile”.
Questo livello di comando dunque, non è
rappresentabile con un faraone in cima alla piramide sociale tenuta in piedi da
un bello strato di schiavi.
No, questo comando globale è in primo luogo
anch’esso un sistema di comando, e ognuna delle parti interagenti, nelle sue
molteplici posizioni, intenzionalità, capacità e poteri, partecipa al gioco.
L’”ordine” mondiale è il risultato di questa
interazione tra parti che hanno potere differenziale.
In
questo gioco, la Russia e le Cina vi hanno partecipato come stati, nelle loro
funzioni dentro all’organizzazione delle Nazioni Unite, e come potenze
politico/economiche/militari quantomeno regionali e con aspirazione di maggiore
compartecipazione in questo comando sul mondo.
Il
peso che la Russia e la Cina hanno nel definire questo ordine oggi, non è
proporzionale alla loro potenza, militare della prima ed economica della
seconda.
L’egemonia
all’interno di questo ordine, almeno da dopo la seconda guerra mondiale, ce
l’hanno gli Stati Uniti, un’egemonia tuttavia che da anni è in declino, a
fronte della crescita di altre potenze economiche, in particolare quella Cinese.
L’egemonia
statunitense nel comando sull’ordine del mondo si regge su due gambe, la
potenza militare e il dollaro.
Sebbene gli USA siano di gran lunga la potenza
militare più forte al mondo, è una potenza che a fronte della crescita
economica Cinese e di altre potenze, nonché delle sconfitte militari in
Afghanistan e Iraq che hanno seguito gli attacchi dell’11 settembre del 2001,
sembra essere una potenza in declino, almeno per quanto riguarda la sua
capacità di raggiungere i suoi obiettivi.
Ma è
soprattutto la seconda gamba su cui si regge l’egemonia statunitense a porre
seri problemi:
il
dollaro e il suo ruolo nella regolazione sia degli scambi internazionali
all’interno della globalizzazione, ma anche delle politiche sul debito pubblico
americano e le corrispondenti voci di spesa.
In
questo senso il dollaro fa da cerniera tra conflitti esterni ed interni agli
Stati Uniti.
Sono
anni che gli Stati Uniti tentano di arrestare questo declino egemonico su
quest’”ordine” mondiale, un declino che è accelerato dall’11 settembre, che è
passato da due grandi sconfitte militari in Afghanistan e in Iraq, e che ha
visto infrangere le certezze della governance neoliberale a partire dalla
grande crisi finanziaria del 2008, e che vede la Cina pianificare la sua
filiera globale (Road and Belt Initiative) mentre allo stesso tempo domanda
rispetto e multipolarismo nella gestione del comando globale sul capitalismo.
Il dollaro è importante per gli Stati Uniti
perché permette agli USA di far fronte alle crisi esterne ed interne
semplicemente stampando dollari o, attraverso il rialzo del tasso di interesse,
rimpatriando dollari che il resto del mondo detiene nelle sue riserve. In
ultima analisi, questa egemonia del dollaro permette agli Stati Uniti di
regolare il flusso e la composizione degli investimenti nel mondo.
Come
scrive disincantato il generale cinese Quiao Liang nel suo libro L’arco
dell’impero (2018, p. 68), in questo modo gli Stati Uniti, “hanno incorporato
risorse e prodotti globali, oltre al commercio di tutto il mondo, nel sistema
di regolamento del dollaro; non hanno saccheggiato apertamente le risorse e le
ricchezze degli altri Paesi, però le hanno scambiate con un pezzetto di carta
verde che a loro costa quasi niente, il che in pratica è un saccheggio
invisibile.”
Dopo
lo svincolamento del dollaro all’oro proclamato da Nixon il 15 Agosto 1971,
l’origine di questa egemonia si è avuta attraverso l’instaurazione di un altro
legame che permetteva ai “pezzi verdi” di circolare in maniera egemonica
nonostante le difficoltà economiche nel mezzo della crisi degli anni 70.
Così
Nixon e la Federal Reserve pensarono di legarlo alla merce più importante del
mondo il petrolio, cosa che si ottenne grazie alle rassicurazioni saudite agli
americani dopo la guerra dello Yom Kippur nel 1973.
Oggi il
petrolio rappresenta da solo quasi il 4% del commercio totale e i suoi derivati
entrano nella produzione della stragrande maggioranza dei prodotti.
Il
legame tra dollaro e petrolio è quindi il legame tra una merce fittizia (il
dollaro) e una assai centrale, il petrolio.
Dollaro
e petrolio diventano quindi due merci fondamentali della globalizzazione, un
legame che è avvenuto prima dell’era della cosiddetta globalizzazione economica
e anzi, ne ha definito la precondizione.
Chi
non ha dollari non compra petrolio, e chi non compra petrolio non fa marciare
l’economia.
Gli
Stati Uniti hanno quindi creato un sistema di sopravvivenza economica
attraverso questo legame.
E
hanno difeso questo sistema con la guerra.
Non è
un caso che la guerra in Iraq nel 2003 che ha deposto Saddam Hussein, e quella
in Libia del 2011 che ha deposto Gheddafi, siano state entrambe combattute
all’indomani della minaccia di questi regimi di abbandonare il dollaro nel
mercato del petrolio.
Così
gli Stati Uniti hanno diviso il mondo in due parti.
Da una
parte gli USA, il cui vantaggio competitivo rispetto agli altri paesi era
quello di produrre dollari.
E
dall’altra il resto del mondo, il cui vantaggio competitivo variava a seconda
dei casi.
Nel
caso della Cina e di altri paesi asiatici dagli inizi degli anni ’80, il
vantaggio stava nel bassissimo costo del lavoro, scarse regolazioni ambientali,
e forti leggi repressive contro sindacati.
Questo
permise di rilocalizzare molte industrie americane ed europee in queste e in
simili aree del mondo, anche per sfuggire alle lotte salariali e attorno alla
riproduzione sociale che in questi paesi si erano accumulate nell’onda degli
anni 60 e 70.
Dallo
svincolamento del dollaro all’oro il 15 agosto 1971, gli Usa hanno stampato una
grande quantità di dollari, che ha contribuito, insieme ad altri fattori, al declino
secolare del dollaro rispetto ad altre divise.
Tuttavia
questo è un declino che ha oscillato tra fasi rivalutazione e fasi di
svalutazione.
Questi
dollari sono stati immessi in circolazione mondiale, oltre che per l’acquisto
di petrolio, anche per acquistare prodotti ora manufatti in Cina ed altre aree,
materie prime, per la produzione di armi, e per finanziare col debito regimi in
tutto il mondo.
Questi
ultimi si trovano poi ciclicamente esposti al controllo americano attraverso il
Fondo Monetario Internazionale che, nel caso di crisi del debito, devono subire
le famose politiche di aggiustamento strutturale, politiche volte al taglio di
spese sociali, dei sussidi alle popolazioni più povere, all’apertura
dell’agricoltura alle grandi multinazionali e alla promozione di esportazione e
di surplus della bilancia commerciale.
Basta
qui ricordare brevemente la grande crisi del debito, in concomitanza con una
recessione globale, che si è scatenata sui proletari dei paesi più poveri negli
anni ’80 dopo il rialzo massiccio del tasso di sconto americano da parte di
Paul Volker nel periodo 1979-1981.
L’andamento
dei tassi di interesse americani ha anche la funzione di regolare i flussi di
investimento globali in modo da favorire la gestione sia dei problemi interni
americani, che gli orizzonti strategici degli USA sul capitalismo mondiale.
Come
avviene per la regolazione della temperatura ambientale per mezzo di una
caldaia e un termostato, anche il sistema del dollaro si basa su un sistema di
feedback negativi, sebbene sia un automatismo non così preciso come quello che
si ha attraverso un termostato.
In
quest’ultimo caso, il termostato misura la deviazione della temperatura
ambientale da un dato valore desiderato di riferimento.
Tale
differenza di valori poi segnala alla caldaia come regolarsi: la spegnerà se la
temperatura dell’ambiente è superiore al valore desiderato, o l’accenderà se la
temperatura ambientale è inferiore al valore desiderato.
Invece
della regolazione della temperatura ambientale per mezzo di un termostato
collegato a una caldaia, qui si tratta della regolazione dei flussi di
investimento globali per mezzo di un “termostato geopolitico” che misura la
deviazione tra un contesto operativo globale — così come è valutato da parte
delle élite americane — e la loro visione degli obiettivi strategici economici,
politici e militari.
Strumenti tecnici tra i quali il tasso di
sconto della Fed possono poi operare nel tentativo appunto di attrarre dollari
negli USA o disperderli in giro per il mondo a seconda della necessità.
La
regolazione cosiddetta a “fisarmonica” comprende dunque due grandi fasi:
la
semina e il raccolto.
In
primo luogo, la semina di dollari in giro per il mondo attraverso i meccanismi
discussi, provocando in molti luoghi dei boom economici che come ogni boom
finisce.
Dunque,
in secondo luogo, quando il boom si sgonfia, il raccolto di dollari dal mondo,
permettendo agli investitori di uscire dalle aree di crisi attratti da
condizioni di redditività e sicurezza relativamente migliori da parte degli
USA, e offrire agli USA più liquidità per gli usi che rende necessario il
conflitto di interessi interno.
L’egemonia
del dollaro dunque permette agli USA di esercitare il comando di un sistema
monetario internazionale, seminando e mietendo dollari al ritmo di crisi
alternanti disperse nel mondo.
Crisi
che si possono anche creare attraverso la guerra, in tutte le sue forme.
Il già
citato Quiao Liang fa diversi esempi di queste crisi, come quella in America
Latina degli anni ’80 del secolo scorso, e del Sud Est Asiatico degli anni
’90.
Inoltre,
in questo ciclo della regolazione della liquidità mondiale, i paesi che
ricevono dollari attraverso le esportazioni per esempio, come la Cina che ha accumulato enormi surplus commerciali
e quindi una gran quantità di riserve monetarie, sono chiamati a comprare buoni
del tesoro americano, denaro che servirà a finanziare il debito pubblico, a
finanziare l’industria bellica, e la spesa pubblica in generale.
La
guerra in Ucraina e il comando sul mondo.
Cosa
centra la guerra in Ucraina in tutto questo?
Come
accennato in precedenza, la domanda cruciale è perché gli Stati Uniti sembrano
voler allungare la guerra, a dispetto degli interessi economici degli alleati
Europei?
La lunga storia dell’allargamento della Nato
lamentata da Putin, nonché il sostegno militare dell’amministrazione americana
e della Nato almeno dal 2014, ma con documentate interferenze USA già dal 2004,
hanno portato a un lento gioco geopolitico, la cui invasione russa dell’Ucraina
a partire dal 24 febbraio di quest’anno, è solo l’ultima fase.
Una tragica fase ma, dal punto di vista
geopolitico americano, sicuramente una grande opportunità.
L’ipotesi
è quindi che il “termostato geopolitico” delle élite americane registri
l’allungamento di questa guerra come necessario per affrontare tre sfide
collegate alla salvaguardia della sua egemonia nel comando sul mondo, in un
contesto in cui l’egemonia del dollaro è in declino, e proprio quando
l’avanzamento della crisi sociale, economica e ambientale globale ha bisogno di
scelte radicali assai rischiose.
Perché
dunque gli USA vogliono un allungamento della guerra? Perché la guerra è un
principio regolatore della composizione del flusso globale degli investimenti
quando gli USA ne hanno più bisogno.
In
primo luogo, molto semplicemente, la crisi pandemica, e la strategia della
cosiddetta “green transition” e le spese militari (un aumento del 5% dal 2021)
ha gravato sul debito pubblico americano, il che richiede appunto un afflusso
di fondi sui treasury bonds.
L’aumento dei tassi d’interesse in corso negli
USA servirà anche ad affrontare questa questione.
Ma l’aumento dei tassi di interesse avrà molto
probabilmente ripercussioni su paesi oggi messi in difficoltà anche dalla
guerra in Ucraina.
Il
debito di molti paesi era già aumentato durante la pandemia.
Ora
l’aumento dei prezzi dell’import energetico e alimentare prodotto dalla
speculazione, dalla guerra e, per quanto riguarda il cibo, dall’intensificarsi
degli effetti del cambio climatico, aggrava la situazione debitoria la quale, a
seguito agli aumenti previsti dei tassi di interesse, potrà precipitare una
catena di bancarotte statali e private.
Si
profila quindi, nel mezzo di tanta sofferenza, una condizione ideale per
ristrutturare le catene del valore dell’economia globale, ri-configurare la
produzione e le filiere, ri-modellare le gerarchie globali di reddito e
ricchezza. Il capitalismo vive su questo.
Gli
esempi odierni di questa crisi sono la punta dell’iceberg: Sri Lanka, Egitto e
Tunisia.
C’è però una differenza tra la crisi del
debito che si profila oggi e quella di qualche anno fa:
nella
gestione della crisi di oggi e del prossimo futuro, la Cina avrà un ruolo assai
più determinante di ieri, poiché oggi comanda una percentuale assai più elevata
del credito a fronte di una diminuzione da parte di istituzioni quali Fondo
Monetario Internazionale e Banca Mondiale.
Come
ci ricorda il Wall Street Journal:
“Secondo
l’FMI, la quota di debiti esteri della Cina nei confronti delle 73 nazioni
povere altamente indebitate è balzata al 18% nel 2020 dal 2% nel 2006, mentre i
prestiti del settore privato sono saliti all’11% dal 3%.
Nel
frattempo, la quota combinata dei prestatori tradizionali — istituzioni
multilaterali come il FMI e la Banca Mondiale e i prestatori del ‘Club di
Parigi’ di governi occidentali per lo più ricchi — è scesa dall’83% al 58%.”
In secondo
luogo, l’allungamento della guerra in Ucraina offre agli Stati Uniti un
vantaggio nella competizione EU-China-US sullo sviluppo delle tecnologie verdi
e corrispondenti mercati.
Al
momento, a dispetto sia del forte bisogno di cooperazione per affrontare la
crisi ambientale, sia delle promesse sul tavolo di lasciare i mercati aperti e
condividere le tecnologie verdi per abbattere i costi, a detta di alcuni
commentatori diventa plausibile che “le
considerazioni geoeconomiche stiano diventando fattori politici sempre più
importanti”, poiché “l’UE, gli Stati Uniti e la Cina sembrano più determinati
che mai a promuovere politiche industriali verdi nazionali e sostenitori delle
energie rinnovabili.”
Questo
vorrebbe dire due cose.
Primo, l’Europa si trova in casa una crisi
geopolitica di straordinaria potenza, che ha già incominciato ad affrontare
devolvendo una parte consistente delle proprie risorse riservate dal green deal
all’aumento delle spese militari, riducendo quindi la sua capacità competitiva
nel campo dello sviluppo delle tecnologie verdi.
Secondo, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna
stanno spingendo l’Europa a tagliare nettamente il suo legame con la Russia, e
ciò significa non solo permettere agli USA di guadagnarci con la vendita del
gas liquido all’Europa in sostituzione di quello russo — con effetti aggravanti
sull’ambiente aggiuntivi — ma anche di impedirgli di avere un accesso
relativamente più economico alle fonti energetiche che sono assolutamente
necessarie anche per la transizione ecologica.
Se si
pensa che queste siano delle tesi audaci, mettetevi per un momento in testa il
cappello ideologico che ci hanno propinato in tutti questi anni, quello del
managerialismo neoliberale, il cappello delle “opportunità”.
Leggiamo
per un momento il mondo con quel cappello: una situazione così, per gli
americani è un’opportunità irriproducibile.
Ma
quando si ripresenta l’opportunità di mettere l’Europa nella condizione di
reindirizzare le proprie risorse alla difesa e alla gestione della crisi
geopolitica di fronte a tutte le altre crisi sociali, ambientali, economiche
ecc., e la necessità strategica di investire nella transizione ecologica?
Quale
migliore opportunità di questa avrebbe potuto dare Putin a Biden per
avvantaggiarsi nella corsa competitiva con l’Europa per la leadership
tecnologica della green transition?
Questo
scenario può voler dire solo una cosa per l’Europa: “there may be trouble
ahead”, per riprendere il tema della famosa canzone.
In
terzo luogo, il ritiro delle truppe dall’Afghanistan, l’impegno dell’Europa sul
versante ucraino/russo, e l’aumento delle spese militari in Europa libera
risorse per gli Stati Uniti, risorse che possono usare per impegnarsi su un altro
fronte, quello asiatico, e in particolare
l’Asia orientale, dove la strategia americana è quella
dell’accerchiamento e di contenimento della Cina.
Questa
strategia di contenimento ha anche a che fare con il tentativo Americano di
contrastare lo sviluppo della “Belt and Road Iniziative”, un progetto di
sviluppo di una infrastruttura globale adottata dalla Cina nel 2013, e che
porta investimenti in quasi 146 paesi.
Un’iniziativa
che si basa sulla costruzione di strade, ponti, ferrovie, oleodotti, gasdotti,
porti e via dicendo, e creerebbe potenzialmente una grande infrastruttura
geoeconomica nell’area euroasiatica, una struttura il cui controllo è in mano
cinese, e permetterebbe alla Cina di supplementare il trasporto marittimo
(necessario oggi per l’importazione di gran parte dell’import di gas e del
petrolio e tutta l’esportazione di merci) con quello di terra.
Ora,
si vede che un allungamento della guerra in Ucraina è anche funzionale alla
compressione di questa strategia cinese, poiché nodi importanti della”” Belt
and Road iniziative” “dovrebbero appunto passare per l’Ucraina e, in secondo
luogo, una Europa drasticamente sganciata dalla Russia dal punto di vista delle
materie prime mutilerebbe il progetto euroasiatico della parte europea.
Per
mantenere la propria egemonia, gli Stati Uniti sembrano quindi spingere per una
de-globalizzazione dell’economia nel senso di una creazione di due grandi poli.
Uno atlantico, con fulcro tra Stati Uniti e un’Europa ad essi subordinata, e
uno asiatico, con Cina e Russia che si complementano dal punto di vista delle
materie prime, della tecnologia e della produzione industriale.
Nell’ipotesi di una de-globalizzazione basata
sull’emergenza di almeno due grandi poli geopolitici e geoeconomici, puntare al
contenimento ha un senso strategico per gli USA. Così come avrebbe un senso
strategico per gli Stati Uniti, contenere la Cina nel suo sviluppo e
commercializzazione delle tecnologie di punta, inclusa quelle per la green
transition, anche nell’ipotesi di una più debole ri-globalizzazione.
La
dirigenza cinese infatti, dopo la crisi del 2008, nonché dopo il lungo ciclo di
lotte per aumenti salariali, migliori condizioni di lavoro, ma anche lotte
ambientali, sembra convinta di dover pianificare una politica industriale per
risalire la catena del valore.
È ovvio
che questo progetto contrasti con gli interessi occidentali e soprattutto
americani. Costruendo sulla linea di Trump sulla Cina, l’amministrazione di
Biden ha quindi promosso il “decoupling tecnologico selettivo” nei confronti
della Cina, nel senso di restringere selettivamente nelle aree di interesse
strategico, le esportazioni, le importazioni, gli investimenti diretti e gli
investimenti finanziari, cosa che sta riconfigurando in maniera fondamentale il
rapporto tra USA e Cina.
Queste
strategie si possono chiaramente attuare in maniera molto approssimata e anche
per vie sporche come la guerra, o la promozione del suo allungamento nel tempo,
e l’instaurazione di un’economia di guerra (si veda per esempio l’articolo di
Andrea Fumagalli).
La formazione di due poli, se questo è quello
che avverrà, può essere solo graduale, poiché sganciarsi dalla Cina significa
rimpiazzare altri centri di produzione globale mentre si cerca di mantenere allo
stesso tempo l’egemonia del dollaro, un’egemonia che passa anche per la
destinazione del surplus commerciale della Cina con gli USA all’acquisto di
Buoni del Tesoro americani.
Ma c’è
un altro fattore da tenere in conto, la minaccia di uno sgonfiamento della
bolla speculativa e di debito che si è gonfiata negli anni successivi al 2008.
E
molto probabilmente che, tra guerre, inflazione e stagflazione si avrà una
nuova grande recessione mondiale, che dal punto di vista del capitale, se non
si sollevano le moltitudini in maniera costituente per ridisegnare la loro
cooperazione sociale in forme assai più eque, inclusive e rispettose della
natura non umana, significa un’opportunità ulteriore per dirigere gli
investimenti e riprendere una nuova fase di accumulazione.
L’arrivo
di una grande recessione (e magari dar la colpa a Putin anche di questo come ha
già fatto Biden) può servire appunto a svincolare almeno parte dell’economia
USA all’import cinese, e con la sua fisarmonica darle spazio e tempo per
dirigere investimenti e capitali in quelle aree del mondo che possono sostituire
la produzione cinese.
La
guerra in Ucraina e la subordinazione strategica dell’Europa gli Stati Uniti,
spinge dunque verso la visione strategica degli USA, cioè del distaccamento
economico dell’Europa dalla Russia, cosa che contemporaneamente avvicina quest’ultima
alla Cina per la costruzione di un polo geo-economico e geo-politico. Ma questa
strategia può ritorcersi contro agli stessi Stati Uniti, come sembra indicare
l’impatto delle sanzioni, soprattutto quelle che lo escludono dal sistema di
pagamento SWIFT.
La
reazione della Russia è stata quella di instaurare la parità del rublo con
l’oro che ha permesso, insieme alla richiesta di pagamento del gas in rubli, a
contrastare la caduta del rublo dopo le sanzioni, a ricuperare quasi tutto il
valore, e a definire un pavimento oltre il quale il tasso di cambio tra rublo e
dollaro non può andare.
E’
giusto quindi chiedersi se gli smottamenti nell’egemonia del dollaro possano
aprire appunto all’emergenza di un sistema monetario separato centrato su un
paniere di valute legato alle commodities (materie prime strategiche) delle
quali la Russia, ma anche la Cina, sono grandi produttori. Questa sembra essere
la lettura che ne deriva il Credit Swiss.
La
mossa della parità del rublo con l’oro forse presagisce appunto la costruzione
futura di un pacchetto di monete legate alle commodities che può valere come
alternativa al dollaro, specialmente se la Cina deciderà un giorno di
aggregarsi. Specialmente in questa fase, dove le commodities, per via della
guerra ma anche del green deal tendono a rafforzarsi.
Si
vedrà.
Da
aggiungere infine, che queste dinamiche monetarie si stanno sommando ad altre
tendenze che diminuiscono l’importanza ancora egemonica del dollaro, come per
esempio le consultazioni tra Arabia Saudita e Cina attorno al pagamento in Yuan
del petrolio.
Disertare
la guerra è disertare il comando sul mondo.
Non so
come, ma a me sembra che questi giochi strategici attorno al comando sul mondo
siano come il riarrangiare la disposizione delle sedie sul ponte del Titanic,
mentre questo sta per affondare.
Per tornare alle nostre preoccupazioni
iniziali, cosa significa quindi disertare la guerra alla luce del comando sul
mondo, delle dinamiche interne a questo comando, alla lotta per l’egemonia su
di esso?
In questo ambito, disertare la guerra
significa disertare questo comando, e poiché questo è l’ambito del comando
verticale sulla cooperazione sociale dal quale in fondo dipendiamo, disertare
questo comando vuol dire specularmente creare cooperazione sociale che non
dipenda da e non sia sottomesso a questo comando, cioè creare comune,
progettare comune che ci offra quanto più possibile riparo dal comando e dai
suoi effetti devastanti.
In
piccolo, è l’immagine del soldato disertore che scappa dal suo reggimento, la
cui vita dipende dal comune che instaura con chi gli dà del cibo e un tetto.
Un’immagine
che può evocare anche quella dell’“abbandono di ogni campo di battaglia,
sopravvivenza ai margini di una società che si sta disfacendo, autosufficienza
nell’esilio dal mondo” come scrive Franco (Biffo) Berardi.
Ma
anche una sopravvivenza ai margini di questo mondo e quindi del suo comando non
può evitare di costruire un altro mondo, anche se marginale.
Allo
stesso modo, abbandonare completamente ogni campo di battaglia in questo mondo,
non può evitare che il comando di questo mondo sposti il campo di battaglia ai
confini dell’altro mondo, soprattutto se si tiene in mente la logica espansiva
del capitale.
Cosa rimane dunque del disertare la guerra?
Rimane, spero, un’ambivalenza produttiva.
Il
fatto che la diserzione sia un momento, una fase necessaria, nella costruzione
di un altro mondo, mentre sopravvive forte anche la consapevolezza che molto di
questo mondo ci appartiene e può, e deve essere, riappropriato nella
costruzione dell’altro mondo.
Diritti
umani,
"Non è più possibile
affidarsi
ad un piccolo gruppo di governi
nel
Nord del mondo per difenderli".
Repubblica.it
– (12 gennaio 2023) – Redazione – ci dice:
Il
nuovo rapporto di “Human Rights Watch” che propone un altro modello di
leadership globale sui diritti umani.
È il World Report 2023 che analizza la
situazione di quasi 100 Paesi.
LONDRA
– La litania di crisi dei diritti umani che si è svolta nel 2022 – dall'Ucraina
alla Cina all'Afghanistan – ha lasciato dietro di sé un mare di sofferenza
umana, ma ha anche aperto nuove opportunità per la leadership dei diritti umani
da parte di paesi di tutto il mondo, ha dichiarato oggi Tirana Hassan,
direttore esecutivo ad interim di “Human Rights Watch” (Hrw) pubblicando il Rapporto mondiale 2023, il
“World Report” che esamina lo stato dei diritti umani in quasi 100 Paesi in cui
l' “Ong” opera.
Mentre
il potere si sposta in tutto il mondo, proteggere e rafforzare il sistema globale dei diritti umani di fronte ai prevedibili sforzi dei leader abusivi
per abbatterlo richiede rinnovati impegni da parte di tutti i governi che trascendono le
attuali alleanze politiche.
"L'anno
scorso ha dimostrato che tutti i governi hanno la responsabilità di proteggere
i diritti umani in tutto il mondo", ha detto Hassan.
"In un contesto di potere mutevole, c'è
più spazio, non meno, per gli stati per difendere i diritti umani mentre
emergono nuove coalizioni e nuove voci di leadership".
Una
trentatreesima edizione da 712 pagine.
Nel
World Report 2023 di 712 pagine, “Human Rights Watch” esamina le pratiche in
materia di diritti umani in molte parti del mondo.
Nel suo
saggio introduttivo, Hassan afferma che in un mondo in cui il potere si è
spostato, non è più possibile fare affidamento su un piccolo gruppo di governi
per lo più del Nord del mondo per difendere i diritti umani.
La
mobilitazione del mondo intorno alla guerra della Russia in Ucraina ci ricorda
lo straordinario potenziale quando i governi realizzano i loro obblighi in
materia di diritti umani su scala globale.
Spetta
ai singoli Paesi, grandi e piccoli, applicare un quadro dei diritti umani alle
loro politiche, e quindi lavorare insieme per proteggere e promuovere i diritti
umani.
La
questione aperta dal conflitto in Ucraina.
L'invasione
su vasta scala dell'Ucraina da parte del presidente russo Vladimir Putin, che
ha preso di mira le infrastrutture civili e provocato migliaia di vittime
civili, ha catturato l'attenzione del mondo e innescato l'intero arsenale del
sistema dei diritti umani.
Il
Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite ha aperto un'indagine sugli
abusi e ha nominato un esperto per monitorare la situazione dei diritti umani
in Russia.
La “Corte
penale internazionale” ha aperto un'altra indagine a seguito di un deferimento
da parte di un numero record di Paesi membri della Corte.
L'Unione
Europea, gli Stati Uniti, il Regno Unito, il Canada e altri governi hanno anche
imposto sanzioni internazionali senza precedenti contro individui, società e
altre entità russe legate al governo russo.
L'azione
globale necessaria.
I governi che stanno fornendo un sostegno
consolidato senza precedenti all'Ucraina dovrebbero chiedersi quale sarebbe la
situazione se avessero chiesto conto a Putin nel 2014, all'inizio della guerra
in Ucraina orientale; o nel 2015, per abusi in Siria;
o
anche prima, per l'escalation delle violazioni dei diritti umani in Russia
nell'ultimo decennio.
Questo
tipo di azione globale è necessaria in Etiopia, dove due anni di atrocità da
parte di tutte le parti in conflitto hanno ricevuto solo una piccola parte
dell'attenzione focalizzata sull'Ucraina, contribuendo a una delle peggiori
crisi umanitarie del mondo, ha detto Hassan.
La
guerra in Etiopia fuori dall'agenda.
Il “Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite”,
che ha il compito di garantire la pace e la sicurezza internazionali, non è
stato disposto a mettere l'Etiopia nella sua agenda formale a causa dei blocchi
da parte dei membri africani, nonché di Russia e Cina.
Il processo di pace guidato dall'”Unione africana”
recentemente concluso ha portato a una fragile tregua, ma affinché possa
reggere, i sostenitori dell'accordo, tra cui l'Unione africana, le Nazioni
Unite e gli Stati Uniti, dovrebbero segnalare e mantenere la pressione per
garantire che coloro che hanno commesso gravi crimini durante la guerra siano
chiamati a rispondere per rompere i cicli mortali di violenza e impunità.
La
responsabilità è fondamentale per le vittime per ottenere una misura di
giustizia e risarcimenti che finora è stata elusiva.
Le
responsabilità della Cina.
La
mancanza di responsabilità del governo cinese per la detenzione di massa, la
tortura e il lavoro forzato di ben un milione di uiguri e altri musulmani
turchi nella regione dello Xinjiang persiste.
Il “Consiglio
per i diritti umani delle Nazioni Unite” ha perso due voti prima di approvare
una risoluzione per discutere il rapporto dell'”Alto Commissario delle Nazioni
Unite per i diritti umani” che ha concluso che gli abusi nello Xinjiang possono
costituire crimini contro l'umanità.
La vicinanza di quel voto mostra il crescente
sostegno tra i governi per ritenere il governo cinese responsabile ed evidenzia
il potenziale per alleanze interregionali e nuove coalizioni per sfidare
l'aspettativa di impunità di Pechino.
I governi, come Australia, Giappone, Canada,
Regno Unito, UE e Stati Uniti, che stanno riconsiderando le loro relazioni con
la Cina, stanno cercando di espandere gli accordi commerciali e di sicurezza
con l'India.
Ma il”
partito nazionalista indù Bharatiya Janata Party” del primo ministro “Narendra
Modi” ha imitato molti degli stessi abusi che hanno permesso la repressione
dello stato cinese, e approfondire i legami con l'India senza pressioni su Modi
per rispettare i diritti spreca una leva preziosa per proteggere lo spazio
civico indiano sempre più in pericolo.
L'autoritarismo
al servizio della stabilità di governo.
"Gli autocrati si basano sull'illusione che le loro tattiche di braccio forte
siano necessarie per la stabilità, ma come i coraggiosi manifestanti di tutto il
mondo mostrano più e più volte, la repressione non è una scorciatoia per la
stabilità", ha detto Hassan.
"Le
proteste nelle città di tutta la Cina contro le rigide misure di blocco 'zero
Covid' del governo cinese dimostrano che i desideri delle persone per i diritti
umani non possono essere cancellati nonostante gli sforzi di Pechino per
reprimerli".
I
movimenti di protesta e la società civile.
I
governi che rispettano i diritti hanno sia l'opportunità che la responsabilità
di prestare la loro attenzione politica e la loro resistenza ai movimenti di
protesta e ai gruppi della società civile che stanno sfidando i governi abusivi
in paesi come il Sudan e il Myanmar.
In
Sudan, i responsabili politici di Stati Uniti, Nazioni Unite, UE e partner
regionali che si impegnano con la leadership militare del Sudan dovrebbero dare
priorità alle richieste di protesta e dei gruppi di vittime per la giustizia e
la fine dell'impunità per coloro che occupano posizioni di comando.
(In
Sudan possiede una fabbrica di bombe atomiche Klaus Schwab, il “nuovo profeta” ed
Autore della “Quarta Rivoluzione Industriale” assieme al giovane teorico della
prossima vita dell’umanità e del cambiamento climatico il filosofo Yuva Noah Harari. Ndr.)
E l'Associazione delle Nazioni del Sud-Est
Asiatico (ASEAN) dovrebbe intensificare la pressione sulla giunta del Myanmar
allineandosi con gli sforzi internazionali per tagliare le fonti militari di
valuta estera.
Il
pesante costo dell'inazione.
La comunità internazionale dovrebbe anche applicare
una lente dei diritti umani alla minaccia esistenziale del cambiamento
climatico.
Dal
Pakistan alla Nigeria all'Australia, ogni angolo del mondo affronta un ciclo
ininterrotto di inondazioni catastrofiche indotte dall'uomo, enormi incendi e
siccità.
Questi
disastri illustrano il costo dell'inazione, con i più vulnerabili che pagano il
prezzo più alto.
I
funzionari governativi hanno l'obbligo legale e morale di regolamentare le
industrie, come i combustibili fossili e il disboscamento, i cui modelli di
business sono incompatibili con la protezione dei diritti fondamentali.
Il
caso di Lula in Brasile.
"Assistere le comunità in prima linea e i
difensori dell'ambiente è uno dei modi più potenti per respingere le attività
aziendali e governative che danneggiano l'ambiente e proteggono gli ecosistemi
critici necessari per affrontare la crisi climatica", ha affermato Hassan.
"In
Brasile, il presidente Luiz Inácio Lula da Silva si è impegnato a ridurre a
zero la deforestazione amazzonica e a difendere i diritti indigeni, e la sua
capacità di mantenere i suoi impegni in materia di clima e diritti umani è
fondamentale per il Brasile e il mondo".
Rispetto
alla portata e alla frequenza delle crisi, un nuovo modello.
L'entità, la portata e la frequenza delle
crisi dei diritti umani in tutto il mondo dimostrano l'urgenza di un nuovo
inquadramento e di un nuovo modello di azione.
Centrare
le nostre più grandi sfide e minacce al mondo moderno intorno ai diritti umani
rivela non solo le cause profonde della perturbazione, ma offre anche una guida
per affrontarle.
Ogni
governo ha l'obbligo di proteggere e difendere i diritti umani.
"La
mobilitazione mondiale intorno all'Ucraina ha mostrato cosa è possibile quando
i governi lavorano insieme", ha detto Hassan.
"La sfida per tutti i governi è quella di
portare lo stesso spirito di solidarietà per re-immaginare ciò che serve per
raggiungere il successo nella protezione e nella promozione dei diritti umani
in tutto il mondo".
Harari:
Ci sarà una
élite
dominante
e una
classe inutile.
Mariomancini.medium.com
– Mario Mancini – (19 gennaio 2019) – ci dice:
Ecco
l’innovazione che si attua in Silicon Valley.
Vai
agli altri articoli della serie “La rivoluzione tecnologica e le sue
conseguenze”.
La
Valle dei paradossi e delle distopie.
Il
paradosso, cioè un ragionamento corretto che ha, però, in sé una contraddizione
eclatante, sembra proprio essere la nuova razionalità che modella le menti dei
protagonisti del ciberspazio.
(E tutti i governi globalisti occidentali seguono
pedissequamente i paradossi di Klaus Schwab e Hatari. “Davos “Docet! Ndr.)
Il principio di contraddizione sembra essere
diventato il motore del modo di pensare dei tecnologi, degli imprenditori e
delle persone che stanno cambiando il mondo.
Prendiamo
il caso dell’intellettuale israeliano Yuval Noah Harari.
Ci
stiamo occupando molto di questo, anche troppo, brillante intellettuale, le cui
tesi sembrano le più adatte a darci un quadro d’insieme del punto in cui è
arrivata l’evoluzione umana e delle sfide che l’attendono.
Nella
sua indagine, che inizia con l’affermazione dell’homo sapiens e arriva fino ai
robot, Harari è arrivato a maturare una posizione estremamente critica nei
confronti di quello che sta succedendo nella Silicon Valley.
Non
perde occasione per affermare quanto pernicioso sia quel modo di pensare,
soprattutto per il suo agnosticismo verso le conseguenze dei modelli
tecnologici ed economici praticati nella Valle.
Le
conseguenze della tecnologia, per usare una famosa locuzione di Martin
Heidegger — che ha scritto qualcosa di definitivo su questo tema –, sono tutt’altro
che tecnologiche, poiché la tecnica, secondo il pensatore tedesco, è
sussumibile nella metafisica.
Per
certi versi, le profezie di Harari e di Klaus Schwab sul futuro dell’umanità, plasmata sul modello tecnologico
della Valle, sembrano affette dalla sindrome di Cassandra.
Non è infatti un mistero che Harari ritenga la Silicon
Valley l’incubatore di una montagna di rovine distopiche a cui sta andando
incontro l’umanità.
Harari è convinto che la Silicon Valley stia
minando la democrazia e costruendo un mondo in cui la democrazia è un” per di
più”.
È qualcosa che sta succedendo già da adesso
perché, con i mastodontici meccanismi d’influenza delle menti di miliardi di
persone, le grandi compagnie tecnologiche stanno distruggendo l’idea a
fondamento della modernità e dell’illuminismo, quella di un individuo sovrano
guidato nelle sue azioni dal libero arbitrio.
Ha
scritto in proposito:
“Se
gli umani sono animali hackerabili e se le nostre scelte e opinioni non
riflettono il nostro libero arbitrio, quale dovrebbe essere il ruolo della
democrazia?
Come
vivi quando ti rendi conto che il tuo pensiero potrebbe essere plasmato dal
governo, che la tua amigdala potrebbe funzionare per Putin e che la prossima
idea che si affaccia nella tua mente potrebbe essere il prodotto di qualche
algoritmo che ti conosce meglio di quanto tu conosca te stesso?”.
Se
dovessimo cercare il corrispettivo letterario alle tesi di Harari, il pensiero
potrebbe andare a un’opera poco conosciuta ma visionaria di Jack London, “Il popolo dell’abisso”, pubblicato nel 1903 e disponibile
in italiano negli Oscar Mondadori.
È
preoccupato anche per altre cose.
Soprattutto
per la tenuta dell’assetto sociale costruito intorno alla democrazia, primo fra
tutti il lavoro.
La
rivoluzione tecnologica guidata dalla la Silicon Valley richiede pochi
lavoratori. Si sta creando così una nuova ristretta classe dominante, quella
che possiede i dati, e una grande “classe inutile” brulicante e furiosa, che
fornisce i dati.
Quest’ultima
è l’equivalente di quel popolo degli abissi, della omonima e ben poco
conosciuta opera di Jack London.
La
giovane classe imprenditoriale della Valle lo ascolta, lo invita e lo corteggia
in ogni occasione.
Il suo primo libro “Sapiens, breve storia
dell’Umanità” occupa il nono posto della classifica dei libri preferiti da Mark
Zuckerberg.
Google
lo ha chiamato a parlare si suoi tecnologici e i due fondatori, Larry Page e
Serghey Brin, fanno spesso riferimento alle sue idee.
Bill
Gates ha scritto un articolo celebrativo di 1000 parole su Homo Deus e si è
prefisso di raccomandarlo, già a colazione, a Melinda Gates, inserendo 21
Lezioni per il 21° secolo, l’ultimo libro di Harari, tra i cinque migliori
libri del 2018. Nonostante queste opinioni, di cui il futurologo israeliano non
fa certo mistero, succede che Harari è oggi il pensatore più in auge nella
Silicon Valley.
È venerato come una star.
Com’è
successo che CEO, tecnologici, imprenditori e governatori globalisti dei paesi
occidentali si sono innamorati della loro Cassandra?
È
questa la domanda che si è posta la giornalista Nellie Bowles, che copre la
Silicon Valley per molte testate tra cui il “New York Times”, accompagnando lo
storico israeliano in un tour di conferenze e incontri tenuto nella Silicon
Valley lo scorso autunno.
Proponiamo
di seguito il resoconto su questo tour nella Valle delle distopie.
In
viaggio con Yuval Harari.
Il
capo di Netflix, Reed Hastings, in una cena da lui organizzata in onore di
Harari, ha presentato il futurologo di Haifa come “la persona che vorremmo
essere e non possiamo essere”.
Se
quella di una piccola élite dominate e di un popolo degli abissi è la
straziante visione di Harari e la conseguenza di quello che egli chiama il datismo,
perché i tecnologi della Silicon Valley e i governatori dei Paesi occidentali
lo amano così tanto da elevarlo a filosofo massimo del loro tempo?
“Una
possibilità è che il mio messaggio non li stia minacciando, e così lo fanno
proprio”, dice Harari un po’ perplesso.
“Per me, ciò è ancor più preoccupante
perché, forse, mi manca ancora qualcosa.”
Quando
Harari ha visitato la Bay Area quest’autunno per promuovere il suo ultimo
libro, l’accoglienza è stata incredibilmente gioiosa.
Reed
Hastings, amministratore delegato di Netflix, gli ha organizzato una cena.
I capi
di X, l’appartata divisione di ricerca di Alphabet, gli hanno aperto le porte
che in genere sono ben serrate.
Bill
Gates ha recensito il libro sul “New York Times” scrivendo “affascinante… uno
scrittore così stimolante”.
Sono
interessato a capire come la Silicon Valley possa essere così infatuata di
Yuval.
È folle che sia così popolare, lo stanno
invitando a parlare ovunque, quando quello che Yuval sta dicendo mina i fondamenti dei loro modelli
economici.
Ha
detto Tristan Harris, ex responsabile etico di Google e co-fondatore del Center
for Human Technology.
Una
spiegazione potrebbe stare nel fatto che la Silicon Valley, a un certo livello
almeno, non è per niente ottimista sul futuro dell’America.
Più il caos domina a Washington, più il mondo
tecnologico è interessato a creare un’alternativa che potrebbe non essere di
democrazia rappresentativa.
I tecnologici sono molto diffidenti nei
confronti dei programmi di regolamentazione e incuriositi dalle forme
alternative di governo a quello attuale.
C’è
addirittura una corrente separatista: i capitalisti di ventura chiedono la secessione
della California o la sua frammentazione in stati- aziende.
E
quest’estate, Mark Zuckerberg, che ha raccomandato Harari nel suo club del
libro, ha manifestato la sua ammirazione per l’autocrate Cesare Augusto.
“Fondamentalmente
— ha detto Zuckerberg al “New Yorker” — con mano decisa e dura, Cesare Augusto
ha assicurato 200 anni di pace mondiale”.
“Sapiens”
è stato il primo libro di Harari, quello che lo ha fatto conoscere al mondo e
lo ha reso ricco.
L’opera
ha venduto più di otto milioni di copie
Harari,
che ha un dottorato di ricerca a Oxford, è un filosofo israeliano di 42 anni,
professore di storia all’Università ebraica di Gerusalemme.
La sua
fama attuale inizia nel 2011, quando ha pubblicato un libro ambizioso: una
storia globale della specie umana.
Ne è
nato “Sapiens”:
“A
Brief History of Humankind”, pubblicato per la prima volta in ebraico.
Il
libro non ha aperto nuovi orizzonti alla ricerca storica, né la sua tesi — che
gli umani sono animali e il loro dominio è un incidente — sembra una ricetta in
grado di garantire il successo.
Ma il
tono disinvolto e il modo dolce in cui Harari ha saputo collegare le varie
discipline ne fanno una lettura molto piacevole, anche se il volume si chiude
con la previsione che il processo dell’evoluzione umana potrebbe essere al suo
capolinea.
Tradotto
in inglese nel 2014, il libro ha venduto più di otto milioni di copie e ha reso
Harari una celebrità intellettuale.
A”
Sapiens” è seguito” Homo Deus”:
“A Brief History of Tomorrow”, che ha delineato la sua visione di
ciò che viene dopo la fine dell’evoluzione umana.
In esso, parla del Datismo, un nuovo paradigma
organizzativo basata sul potere degli algoritmi.
Il futuro per Harari è quello in cui dominano
i big data, l’intelligenza artificiale supera l’intelligenza umana e alcuni
umani sviluppano capacità divine.
Harari
si esibisce durante il recente “TedTalk” dedicato al fascismo.
18 minuti di assoluta genialità. Esiste il
video del Ted Talk di Harari con i sottotitoli italiani.
Dopo
il passato e il futuro oggi ha scritto un libro sul presente:
“21
Lezioni per il 21° secolo”.
È pensato per essere letto come una serie di
avvertimenti.
Ha intitolato suo recente TED Talk “Perché il
fascismo è così seducente” — e in che modo i nostri dati potrebbero
alimentarlo.
Le sue
analisi avrebbero potuto trasformarlo in una “persona non grata” nella Silicon
Valley.
Invece, ha avuto il piacere di scoprire di
essere molto popolare e amato dalla gente del posto.
La faccenda alla fine la vede come
un’opportunità: “Se fai in modo che le persone inizino a riflettere molto
profondamente e seriamente sui problemi che sollevi — dice — alcune delle
conclusioni che trarranno potrebbero non essere quelle che si vuole che traggano”.
Il
“mondo nuovo” è il mondo della Valle e degli uomini di Davos?
Il
capolavoro di Aldous Huxley potrebbe avere descritto bene il futuro
dell’umanità dell’epoca del Datismo che succederà a quella del capitalismo.
Harari
ha accettato che mi unissi a lui e al suo compagno durante il suo tour nella
Valle.
Un
pomeriggio, l’ho osservato mentre parlava nella sede di X a Mountain View.
Mi è apparso un uomo timido, magro,
occhialuto, con una spolverata di capelli bianchi.
Ha un
che della civetta: un aspetto meditativo, non muove molto il corpo e spesso
guarda di traverso l’interlocutore.
La sua
faccia non è particolarmente espressiva, ad eccezione di un sopracciglio dispettoso.
Quando
incroci i suoi occhi, nella sua espressione c’è un qualcosa di circospetto,
come se volesse indagare se anche tu sia pienamente consapevole del male che
sta per colpire il mondo.
Dopo
il suo incontro con i tecnologici di Google, Harari ha portato la conversazione
su Aldous Huxley, uno di suoi autori preferiti.
I
contemporanei di Huxley sono rimasti inorriditi dal romanzo “Il mondo nuovo”,
che descrive un regime sociale di controllo delle emozioni e di apparente
eliminazione del dolore.
Di primo acchito i lettori che leggono il
libro, osserva Harari, possono pensare che tutto vada bene in quel mondo
coraggioso.
“Tutto
appare così bello e perfetto e invece siamo di fronte a uno scenario
intellettualmente inquietante perché è davvero difficile spiegare cosa c’è che
non va.
È la
stessa sensazione che si ha di fronte alla visione dei tecnologici della
Silicon Valley”.
Per
esempio è interessante, dice Harari, che a differenza dei politici, le aziende
tecnologiche non hanno bisogno di una stampa libera, dal momento che
controllano già i mezzi di comunicazione.
Si è però rassegnato al dominio globale dei
tecnologi, dopo la presa d’atto di quanto siano peggiori i politici.
Dice:
Ho
incontrato un certo numero di questi giganti dell’high-tech e, generalmente,
sono delle brave persone.
Non
sono l’unno Attila. Nella lotteria dei leader umani, potrebbe capitare di molto
peggio.
Alcuni
dei suoi fan tecnologici gli si rivolgono parlando dell’ansia che gli procura
il loro lavoro.
“Alcuni sono molto spaventati dall’impatto di
ciò che stanno facendo”, dice Harari.
Tuttavia,
l’entusiasmo nei confronti del suo pensiero non lo mette del tutto a proprio
agio:
È una
regola empirica della storia che se vieni così tanto coccolato dall’élite, non
sarai più capace di farle paura”, dice Harari.
“Possono
assorbirti. Puoi diventare uno dei loro tanti gingilli intellettuali.
Le
prove dell’entusiasmo dell’élite tecnologica per l’acume di Harari non sono
difficili da trovare.
“Sono
attratto da Yuval per la sua chiarezza di pensiero”, ha scritto in una e-mail
Jack Dorsey, il capo di Twitter e Square, lodando un particolare aspetto della
riflessione di Harari.
E Reed
Hastings, capo di Netflix, ha scritto: “Yuval è l’intellettuale anti-Silicon
Valley — non porta un telefono e passa molto tempo a meditare.
Vediamo
in lui quello che vorremmo davvero essere”.
Ha
quindi aggiunto:
“Nel suo nuovo libro le riflessioni sull’IA e
sulle biotecnologie estendono la nostra comprensione delle sfide e dei problemi
che dovremo affrontare”.
Alla
cena organizzata in onore di Harari, Hastings ha co-ospitato accademici e
leader del settore che hanno discusso i rischi del datismo e il modo in cui le
biotecnologie prolungheranno la durata della vita umana.
(Harari
ha scritto che la classe dominante vivrà più a lungo della “classe inutile”.)
“I
suoi libri hanno la capacità di riunire le persone intorno a un tavolo e di
farle riflettere e questo è il contributo più grande” ha detto Fei-Fei Li, un
esperto di intelligenza artificiale che lavora a Google.
L’irrilevanza
dei più.
La
locandina dell’evento di San Francisco dove Sam Harris e Harari si sono
confrontati di fronte a una vasta platea sul tema “Understanding the present”.
Alcune
giorni prima, Harari aveva parlato a San Francisco a 3.500 persone.
L’evento
consisteva in un dialogo con Sam Harris che si è presentato in un completo
grigio ben inamidato con dei vistosi bottoni bianchi.
Harari
sembrava ben meno a suo agio in un completo largheggiante che gli si
accartocciava intorno al corpo, le mani intrecciate sul ventre e sprofondato
nella sedia.
Però,
mentre parlava della meditazione — Harari trascorre due ore ogni giorno e due
mesi all’anno in silenzio — ha conquistato la platea.
In un luogo in cui l’auto-miglioramento è fondamentale
e la meditazione è uno sport competitivo, la pratica di Harari gli conferisce
lo status di eroe.
Durante
la conferenza ha affermato che il libero arbitrio è un’illusione e che i
diritti umani sono solo una storia che ci raccontiamo.
I partiti politici, ha aggiunto, potrebbero
non avere più senso.
Ha
proseguito sostenendo che l’ordine mondiale liberale si è basato su finzioni
come “il cliente ha sempre ragione” e “segui il tuo cuore” e che queste idee
non funzionano più nell’età dell’intelligenza artificiale, quando i cuori
possono essere manipolati dalla tecnologia.
Tutti
nella Silicon Valley sono concentrati sulla costruzione del futuro, ha
continuato Harari, mentre la maggior parte delle persone del mondo non sono
neppure abbastanza utili per essere sfruttate.
Harari
precisa così il suo pensiero al riguardo:
Una
persona fuori da quel ristretto circolo percepisce sempre più la propria
irrilevanza nello scenario globale.
Ed è
molto peggio essere irrilevanti che essere sfruttati.
La
classe inutile è straordinariamente vulnerabile.
Se un
secolo fa si scatenava una rivoluzione contro lo sfruttamento in fabbrica
avveniva nella consapevolezza della rilevanza del proprio ruolo di lavoratori
nella società e dell’economia.
La logica era: non possono eliminarci tutti
perché hanno bisogno di tutti noi.
Oggi è
meno chiaro il motivo per cui l’élite dominante non dovrebbe eliminare la
classe inutile.
“Siete
totalmente sacrificabili”, è la nuova ratio del datismo.
Questo è il motivo, secondo Harari, per il quale la
Silicon Valley è così impegnata nel promuovere il concetto di reddito
universale di base, oppure l’idea di trasferire delle risorse alle persone
indipendentemente dal fatto che lavorino o meno.
Il messaggio nascosto è: “Non abbiamo bisogno di te. Ma siamo
gentili, quindi ci prenderemo cura di te”.
Stile
di vita e influenza.
La
meditazione è una delle pratiche più importanti nello stile di vita di Harari
che per certi versi costituisce un modello per i tecnologi della Silicon
Valley.
Il futurologo israeliano è anche vegano e
animalista, un altro aspetto molto sentito nella Valle.
Per il
proprio soggiorno nella Valle, Harari, insieme al suo coniuge, Itzik Yahav —
che è anche il suo manager –, ha affittato una piccola casa a Mountain View.
Una
mattina li ho trovati a preparare farina d’avena.
Harari
ha osservato che, con l’aumento della sua notorietà nella Silicon Valley, i
tecnologi hanno iniziato a interessarsi anche del sul suo stile di vita.
La
Silicon Valley è stata una specie di incubatore di nuovi stili di vita legati
alla controcultura, la alla meditazione e allo yoga.
Dice.
“Il fatto che io pratichi queste
discipline è una delle cose che mi ha reso più popolare e interessante alle
persone che vi abitano”.
Mentre
parla, indossa una vecchia felpa su dei pantaloni di jeans. La sua voce è
silenziosa e, facendo un largo gesto con la mano, rovescia un contenitore di
posate.
Harari
è cresciuto a Kiryat Ata, vicino a Haifa.
Suo padre lavorava nell’industria delle armi
(come Klaus Schwab).
Sua
madre, già dipendente delle poste, ora lavora per il figlio gestendo la sua corrispondenza;
riceve circa 1.000 messaggi a settimana.
Harari
non usa la suoneria al mattino e si alza spontaneamente tra le 6:30 e le 8:30.
Medita
un’oretta e quindi prende una tazza di tè.
Lavora
fino alle 4 o 5 del pomeriggio, poi fa un’altra ora di meditazione, seguita da
una passeggiata di 60 minuti, che a volte è una nuotata, e poi si mette in TV
con Yahav.
I due
si sono conosciuti 16 anni fa attraverso il sito di incontri Check Me Out. “Non
siamo grandi adepti dell’innamoramento”, dice Harari. “È stata più una scelta
razionale quella che ci ha spinto a metterci insieme”.
Yahav
è diventato il manager di Harari.
Nel
periodo in cui gli editori di lingua inglese non erano troppo convinti della
riuscita commerciale di “Sapiens” (il suo primo libro) — ritenendolo troppo
serio per il lettore medio e non abbastanza serio per gli studiosi — Yahav ha
insistito per andare avanti e ha ingaggiato Deborah Harris, un agente
letterario di Gerusalemme.
Un giorno, mentre Harari era a meditare, Yahav
e la Harris hanno venduto il libro alla Random House di Londra.
Oggi
c’è un team di otto persone, con base a Tel Aviv, che lavora sui progetti di
Harari.
Il regista Ridley Scott e il documentarista Asif
Kapadia stanno adattando “Sapiens” per una serie televisiva, e Harari sta
lavorando ad alcuni libri per bambini per raggiungere un pubblico più ampio.
Yahav
era solito meditare, ma recentemente ha smesso.
“Ero troppo frenetico”, dice mentre ripiega il
bucato.
“Non
ho potuto beneficiare dei vantaggi della meditazione attraverso una pratica
regolare”.
Harari
rimane invece impegnato nella meditazione.
“Se
dipendesse solo da lui, sarebbe come un eremita, impegnato a scrivere tutto il
giorno, senza neppure tagliarsi i capelli”, dice Yahav, guardando il coniuge.
La
coppia è vegana e Harari è particolarmente sensibile nei confronti degli
animali. “Nel mezzo della notte”, dice Yahav, “quando c’è una zanzara, lui la
prende e l’accompagna fuori”.
Essere
gay, ammette Harari, ha aiutato il suo lavoro, gli ha dato una prospettiva
differente.
Ha
infatti messo in discussione i principi dominanti della stessa società ebraica
in cui è cresciuto, una società che è molto conservatrice nei confronti
dell’omosessualità.
“Se la società ha sbagliato l’approccio
all’omosessualità, chi garantisce che non abbia sbagliato anche tutto il
resto?”, Dice.
“Se
fossi un superumano, il mio super-potere sarebbe il distacco”, aggiunge Harari.
La
coppia guarda molta TV. È il loro hobby principale e l’argomento principale di
conversazione. Yahav dice che è l’unica cosa da cui Harari non riesce a
distaccarsi.
Hanno
appena finito di vedere “Dear White People” dopo essere andati in sollucchero
per la serie australiana “Please Like Me”.
Quella
sera, avevano in programma di incontrare i dirigenti di Facebook nella sede
della società e poi di guardare lo spettacolo di YouTube “Cobra Kai”.
Quando
Harari lascerà la Silicon Valley, entrerà in un ashram appena fuori Mumbai, in
India, per 60 giorni di assoluto silenzio.
Il
cambio dei vertici militari in Russia
e
altre notizie interessanti.
Limesonline.com
– Redazione – (12/01/2023) – ci dice:
La
rassegna geopolitica della giornata.
GUERRA
D'UCRAINA, KAZAKISTAN, ETIOPIA.
LE
NOTIZIE INTERESSANTI DI OGGI.
Guerra
d’Ucraina – nuova catena di comando russa.
Il
ministero della Difesa della Federazione Russa ha annunciato un altro riallineamento
degli ufficiali che guidano la guerra in Ucraina.
Il generale Valerij Gerasimov diventa
comandante generale della campagna bellica, mentre l’attuale comandante Sergej
Surovikin diventerà uno dei suoi tre vice, al fianco di Oleg Saljukov (comandante
in capo delle forze di terra) e di Alexey Kim (vicecapo di Stato maggiore).
In
termini di gerarchia burocratica, l’annuncio non rappresenta uno
sconvolgimento, poiché Surovikin già riferiva direttamente a Gerasimov.
Secondo
il commentatore televisivo russo Sergej Markov, «non viene punito né Surovikin
né Gerasimov, è tutta una squadra – ovviamente con la concorrenza, cosa che
accade sempre tra i cani di punta».
La
decisione mette Gerasimov, capo di Stato maggiore da oltre un decennio, più
vicino alla supervisione diretta dell’operazione.
Il
ministero della Difesa russo ha spiegato questa mossa con «la necessità di
organizzare una più stretta interazione tra i servizi delle Forze armate» e
migliorare il «comando e controllo dei raggruppamenti di truppe».
Soprattutto
alla luce del recente incidente a Makiivka (oblast’ di Donec’k), che ha causato
decine/centinaia di morti tra le fila russe.
Sebbene Gerasimov sia stato una figura chiave
nella pianificazione dell’invasione dell’ex paese satellite, sinora è rimasto
defilato con una sola visita personale al fronte.
Ma il Cremlino ha deciso di cambiare registro
per almeno due motivi:
primo, gli insuccessi bellici o gli scarsi
risultati non devono essere intestati ai quadri intermedi, bensì ai massimi
vertici delle Forze armate, che devono risponderne personalmente;
secondo, per chiedere future e più vaste
“mobilitazioni parziali” per sostenere lo sforzo bellico, gli alti comandanti
devono mostrarsi per primi disposti a perdere la vita sul campo per la “Grande
Madre”.
Ecco perché il presidente Vladimir Putin ha appuntato
come Capo di stato maggiore generale delle Forze armate di terra l’“eroe della
Russia” Aleksandr Lapin, primo artefice della sanguinosa e quasi totale
liberazione/occupazione della Repubblica popolare di Luhans’k.
Un
modo anche per mettere a tacere i sempre più irruenti “falchi” del “partito
della vera guerra” (Ramzan Kadyrov su tutti), che al sicuro e lontani dal
fronte lo avevano messo in cattiva luce dopo il sofferto ma inevitabile ritiro
russo dalla città di Lyman (oblast’ di Donec’k).
Guerra
d’Ucraina – pressioni di Polonia e Lituania.
Durante
il vertice del Triangolo di Lublino a Leopoli (Galizia), il presidente della
Polonia Andrzej Dudda ha dichiarato che i colloqui con il presidente della
Lituania Gitanas Nausėda e l’omologo dell’Ucraina Volodymyr Volodymyr
Zelens’kyj (Zelensky) hanno riguardato la difesa del paese invaso dalla
Federazione Russa e la sicurezza della «nostra parte d’Europa».
In
particolare, Dudda ha menzionato l’intenzione di Varsavia e Vilnius di
sostenere Kiev nel suo cammino verso l’Unione Europea e la Nato:
«Abbiamo detto al presidente ucraino che
sosterremo il suo paese dal punto di vista politico nel suo cammino sia verso
l’Ue sia verso l’Alleanza Atlantica, in considerazione anche dell’imminente
summit Nato a Vilnius».
Dudda
ha quindi aggiunto che Polonia e Lituania faranno pressione sulla Nato affinché
«l’Alleanza fornisca all’Ucraina speciali garanzie di sicurezza».
Proprio
a Leopoli, il capofila del Triangolo di Lublino si è detto pronto a inviare
carri armati di produzione tedesca Leopard all’Ucraina, come «partecipazione a
una coalizione internazionale».
Un modo per fare ulteriori pressioni sulla
Germania affinché metta a disposizione i propri asset militari.
Kazakistan.
L’ex
presidente del Kazakistan Nursultan Nazarbayev ha perso lo status di senatore
onorario ed è stato privato di privilegi speciali per ordine della Corte
costituzionale del paese.
La
decisione giudiziaria segue la recente disposizione presidenziale
sull’accantonamento del nome della capitale Nur-Sultan – lustro concesso all’ex
“padre della patria” nel 2019 – e sul ripristino dell’antecedente nome Astana
(che in kazako significa “capitale”).
Il
presidente Kassym-Jomart Tokayev consolida il proprio potere e promuove una
silenziosa sostituzione della vecchia classe dirigente di Nazarbayev.
Etiopia.
I
ministri degli Esteri di Francia (Catherine Colonna) e Germania (Annalena
Baerbock) sono volate a Addis Abeba per supportare il processo di pace.
La
visita in Etiopia è cominciata il giorno dopo l’annuncio dei combattenti del
Tigrai (Tigre) dell’inizio della consegna delle loro armi pesanti, elemento
chiave dell’accordo del 2 novembre 2022.
Il momento è delicato poiché, mentre i tigrini
approntano il disarmo, l’esercito eritreo e le forze amhara continuano a
imperversare e occupare parti della regione.
I
media filogovernativi parlano di” forze di pace” ma, in base all’accordo
sottoscritto, il disarmo dovrebbe avvenire contemporaneamente al ritiro delle
forze straniere.
La
visita delle due delegazioni europee giunge con una settimana di ritardo
rispetto a quella del ministro degli Esteri della Repubblica Popolare Cinese
Qin Gang.
Segno che Pechino gioca d’anticipo anche in Africa.
Francia-Burkina
Faso.
Una
delegazione della Francia guidata dal segretario di Stato incaricato allo
sviluppo della Francofonia Chrysoula Zacharopoulou si è recata a Ouagadougou,
capitale del Burkina Faso, dove ha intrattenuto colloqui con il capo della
giunta militare Ibrahim Traoré che ha guidato il colpo di Stato di settembre
2022.
A dicembre, le nuove autorità Burkinabé avevano
chiesto alla Francia di ritirare il proprio ambasciatore.
Nel
tentativo di ricucire i rapporti, Zacharopoulou ha assicurato che Parigi
continuerà a fornire il proprio sostegno a Ouagadougou, sebbene l’ingerenza della Federazione
Russa in Africa si stia ben radicando nel Sahel grazie all’attivismo della
compagnia militare privata Wagner.
DOV'È
IL POTERE.
Mercati
e Big Tech sono
i nuovi poteri assoluti del mondo: ecco i rischi.
Agendadigitale.eu
– (25-1-2022) – Lelio Demichelis – ci dice:
(Docente
di Sociologia economica Dipartimento di Economia- Università degli Studi
dell’Insubria)
Cultura
E Società Digitali.
A
differenza del passato, oggi la politica è subordinata, come mezzo,
all’economia e alla tecnologia, diventate il fine di sé stesse.
Abbiamo
un enorme problema di democrazia. Ma non lo vediamo.
Serve lo Stato contro un capitalismo che mai è
stato bello, e oggi lo è ancor meno.
big
tech- gafam.
Cos’è
il potere?
Dov’è il potere – anzi, il Potere, usando Pier
Paolo Pasolini?
Non tanto il potere politico – quello sembra
facile da identificare, ha dei nomi di persona (Biden, Draghi, Lagarde, Putin)
oppure rimanda a Istituzioni specifiche (la Ue, il Parlamento, il Governo, il
Fondo monetario internazionale, l’Organizzazione mondiale della sanità – Oms) –
quanto ciò che, a monte, determina le reali forme del Potere e i modi con cui
si esprime e si esercita su di noi:
cioè, qual è il Potere che governa la vita
delle persone, ovvero, usando Michel Foucault, “conduce le condotte umane” in
una direzione piuttosto che in un’altra.
La
questione è antica, volendo potremmo risalire a Platone e ad Aristotele e alle
loro distinzioni tra democrazia, oligarchia, governo degli uomini o governo
delle leggi, democrazia formale e sostanziale, eccetera, eccetera.
Ma rapportando la questione all’oggi, non
possiamo non riconoscere che il potere dell’economia e della tecnologia
(antidemocratici per essenza propria) è più forte del potere politico e della
democrazia, è potere assoluto in quanto non bilanciato da altri poteri
equi-valenti ed equi-potenti.
Indice
degli argomenti:
I
livelli di governo e i luoghi del Potere.
Cosa
si intende per democrazia?
Chi
governa il mondo?
La
corruzione neoliberale e tecnica della demo-crazia.
Il
ruolo dello stato.
I
livelli di governo e i luoghi del Potere.
Qui
vogliamo quindi ricordare alcuni elementi che ci permettono di definire i
diversi livelli di governo (di Potere) oggi esistenti, la loro struttura
gerarchica e il loro rapporto con la democrazia, la sovranità, la libertà e
l’autonomia delle persone – e il demos (i cittadini) titolare del potere in
demo-crazia.
Non senza aggiungere che da sempre il potere corrompe
chi lo pratica, che viene usato per corrompere (qualcun ricorda Mani pulite?),
che spesso il popolo ama chi corrompe ed ama essere ingannato (cioè corrotto
mentalmente e politicamente) dal potere (pensiamo a Trump e a quel 50% di
americani che lo hanno votato e lo rivoterebbero).
Sul tema della corruzione è recentemente uscito un nuovo libro
dal titolo inequivocabile, “Corruptible: Who Gets Power and How It Changes Us”
(Scribner Book Company), di Brian Klass, columnist del Washington Post e basato
su 500 interviste a uomini di potere.
Qui
però useremo il concetto di corruzione e il processo del corrompere nel senso
di “disfacimento, deterioramento materiale ma soprattutto morale” (Dizionario etimologico della
lingua italiana – Zanichelli) e faremo una rilettura/interpretazione del potere
concentrandoci sul macro-contesto entro il quale, oggi, si muovono o possono
muoversi i diversi livelli di governo a scala nazionale, sovra-nazionale e
locale, pre-determinandone (corrompendone) l’azione e gli effetti.
Questo
macro-contesto è dato dal neoliberalismo, egemone nel mondo da quarant’anni a
questa parte (è l’ideologia trionfante dopo la morte delle ideologie
novecentesche) a dispetto di tutti i suoi fallimenti e del suo intrinseco
nichilismo (possiede una potentissima e patologica coazione a ripetersi),
sommato con le tecnologie di rete e con chi le possiede (e con la religione
tecno-capitalista che esprimono, con il feticismo e il catechismo tecnofilo che
producono).
Macro-contesto ideologico e tecnologico che ha
profondamente modificato i livelli di governo esistenti prima degli anni ‘80.
Corrompendo
in altro modo la società e la polis, corrompendo la democrazia, il concetto di
libertà e imponendosi come modo di vivere/way of life tecno-capitalista sul
mondo intero – la globalizzazione e la rete come espressione di questo
meta-contesto a-democratico e impostosi come un dato di fatto.
Prima
però, una distinzione:
il governo è la struttura istituzionale/politica –
articolata su diversi livelli – “che ha ottenuto il potere di scegliere,
decidere e attuare politiche pubbliche.
Nei
sistemi democratici questo è ottenuto attraverso elezioni libere e la
presentazione di programmi politici” (Bobbio-Matteucci-Pasquino, Il Dizionario
di politica – Utet).
All’opposto
accade nei sistemi autoritari o tecnocratici.
Diverso
è invece il concetto di governo inteso come governare – ossia come attuare un
determinato programma politico, scelto dal demos oppure imposto al demos.
E
ancora diverso è capire dov’è oggi il potere capace di governare, posto che non
è più nel governo-istituzione democratica, ma non si sa bene dove sia.
Ci aveva provato, con ottimi risultati di
analisi, il francese Michel Foucault (1926-1984) che definiva con
governamentalità/biopolitica il modo con cui il potere (non necessariamente lo
stato) guida e dirige appunto le condotte umane in un senso voluto dal potere,
rendendo ciascuno utile e docile verso il potere – e il neoliberalismo era per
Foucault una di queste forme di governamentalità/biopolitica (infra, Lippmann),
che qui definiamo come macro-contesto e che altrove abbiamo definito come una
delle forme di human engineering succedutesi nel corso della storia e
soprattutto nel Novecento.
Cosa
si intende per democrazia?
“Nella
democrazia, l’agire politico non solo è pubblico, ma deve essere reso pubblico,
messo sotto gli occhi del pubblico;
e lo è
in due sensi:
perché
volto ad occuparsi di problemi che direttamente o indirettamente riguardano e
condizionano tutti;
e perché deve essere reso chiaro, giustificato
e aperto al pubblico, esposto sempre al giudizio dei cittadini, i quali, in
quanto corpo sovrano, hanno due poteri:
quello
di autorizzare con il voto e quello di giudicare e controllare perpetuamente,
prima o dopo aver votato, coloro che hanno autorizzato” a governarli (Urbinati,
Liberi e uguali, Laterza).
Ovvero,
nella democrazia, aggiungeva il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky, ci si
deve poter attivare, mentre nelle altre forme politiche si è invece attivati da
qualcuno/qualcosa di esterno.
L’essenza della democrazia è infatti in questa
possibilità e capacità di ciascuno di attivarsi, cioè di pensare, fare,
partecipare, decidere liberamente:
senza
questa possibilità e capacità, non c’è democrazia.
Perché,
ancora Zagrebelsky, la democrazia moderna è in primo luogo la scelta dei fini e
poi la predisposizione dei mezzi per raggiungere tali fini, ovvero il governo
della polis è conseguenza della volontà dai cittadini espressa in un pensiero
pro-gettante.
E
allora, la domanda:
i
diversi livelli di governo esistenti oggi rispondono tutti a queste esigenze di
democrazia, di partecipazione e di controllo da parte del demos?
Certamente
no il potere della finanza e del denaro/mercati;
certamente no il potere della tecnica e
dell’innovazione tecnologica;
certamente
no il potere delle multinazionali;
certamente
no il potere dei social.
E il deficit di democrazia non solo va
crescendo (populismi, autoritarismi, tecnocrazie, algoritmi), ma viene sempre
più accettato come nuova e necessaria normalità del Potere.
E ad
essere corrotto oggi da questi poteri non democratici – è quindi anche il
principio della separazione dei poteri, essenziale in una democrazia perché sia
possibile attivarsi e perché il potere sia trasparente, pubblico e
controllabile dal demos.
Già
Montesquieu (1689-1755) aveva tracciato la teoria della separazione dei poteri.
Partendo dalla considerazione che il “potere
assoluto corrompe assolutamente”, aveva analizzato i tre poteri che vi sono in
ogni stato:
il potere legislativo, il potere esecutivo e
il potere giudiziario.
Condizione
oggettiva e necessaria per l’esercizio della libertà del cittadino che esercita
il suo potere sovrano (supra Urbinati e Zagrebelsky), è che questi tre poteri restino
nettamente separati e bilanciati e controllati, per evitare che diventino
appunto poteri assoluti.
Oggi, i mercati (finanza) e il Big Tech sono i
nuovi poteri assoluti del mondo
(e non basta certo la decisione dell’Antitrust di multare
Amazon per poter dire che esiste un controllo, perché questo controllo si
esercita solo ex-post, mentre dovrebbe essere esercitabile anche ex-ante, la politica tornando a governare
anche il mercato e i processi di innovazione tecnologica (o di regressione tecnologica, posto
che Amazon è le vecchie vendite per corrispondenza, oggi algoritmiche;
e che la Fabbrica 4.0 è solo il vecchio
taylorismo, ma digitalizzato).
Oggi,
quindi, il potere dell’economia (finanza) e della tecnologia è potere assoluto.
Ieri
il sistema economico e industriale veniva subordinato, come mezzo, alla
politica, per realizzare dei fini sociali, decisi dal demos;
oggi è
la politica che è subordinata, come mezzo, all’economia-finanza e alla
tecnologia, diventate il fine di sé stesse.
Quindi
abbiamo – di nuovo – un enorme problema di democrazia.
Ma non
lo vediamo. Il Potere sa nascondersi.
Chi
governa il mondo (parte prima)?
Lo
Stato, sempre meno. Il demos, sempre meno (le scelte economiche e di politica
economica vengono imposte dai mercati e dalla finanza , vedi il caso
Europa/mercati/banche contro la Grecia nel 2015, con l’Europa democratica
(sic!) che rifiuta di accettare l’esito di un voto popolare in un democratico
referendum).
I mercati, sempre di più.
Il
Gafam (Google, Amazon, Facebook, Apple, Microsoft – cioè un oligopolio di
monopoli), sempre di più (si pensi a come una singola impresa come Amazon ha
stravolto in pochi anni, a sua totale discrezione e decisione, il sistema della
piccola, ma anche della grande distribuzione e a come i social/imprese private
finalizzate al profitto privato governano la vita di miliardi di persone).
La tecnica, sempre di più – si pensi alla
delega di valutazione e di decisione che sempre più diamo ad algoritmi e
digitale, a prescindere da ogni controllo e da ogni consapevolezza umana. Le
lobby: sempre di più – si pensi a come per decenni è stato negato il
riscaldamento climatico e a quanto hanno pesato sul fallimento della recente
Cop26.
I
sistemi di regolazione extra-statali, sempre di più.
Su
questi ultimi sistemi di regolazione, tanto invisibili da essere sconosciuti ai
più ma dal potere enorme sul governo della vita di ciascuno e dell’intero sistema
globale, il
giurista Sabino Cassese aveva scritto anni fa: “Chi governa il mondo?
La risposta più comune è che il mondo è
governato dagli stati che, tramite i propri organi esecutivi, stipulano accordi
nelle diverse parti del globo.
Gli stati non hanno tutti lo stesso peso e la
stessa influenza e di conseguenza il potere non è ripartito equamente.
Essi
infine stipulano convenzioni e trattati […].
Questa
risposta tralascia però due fatti importanti.
La prima è che gli stati hanno vissuto nel
tempo processi di aggregazione e di disaggregazione.
La
seconda è
che sono stati affiancati da un numero sempre crescente di organismi non
statali” (che non sono le Ong), ma con il potere di imporre norme estremamente
vincolanti, al di fuori di qualunque sovranità e controllo da parte del demos (S. Cassese, Chi governa il mondo? –
il Mulino).
Cassese
definiva questo regime di regolazione come global polity.
Chi
governa il mondo (parte seconda)?
Ma a
governare il mondo è oggi soprattutto – come anticipato – il pensiero/ideologia
neoliberale e tecnico (il meta-contesto, ciò che predetermina i modi del potere
economico, tecnologico e politico; che ingegnerizza la vita sociale e
individuale).
Che si basa su una serie di principi:
trasformazione
pianificata della società in mercato e in rete;
stato
da governare come un’impresa ma soprattutto stato come promotore del mercato;
interconnessione/digitalizzazione/connessione/integrazione
di tutti nel sistema tecnico e di mercato (che è la nuova forma
dell’organizzazione, del comando e del controllo da parte del capitale, come
direbbe Marx);
l’uomo non più come persona ma come capitale
umano;
l’impresa
solo nella sua forma autocratica.
Scriveva
il neoliberale Walter Lippmann già negli anni ‘30 del ‘900, definendo
chiaramente quella che sarebbe stata poi l’azione di pianificazione neoliberale
della società a partire dagli anni ‘80: “il liberalismo è la filosofia della
rivoluzione industriale” e suo compito è modificare l’uomo, adattandolo alle
esigenze della produzione e del capitalismo, divenendo “un nuovo sistema di
vita per l’intera umanità”, accompagnando “la rivoluzione industriale in tutte
le fasi del suo sviluppo; e poiché questo sviluppo è infinito, il nuovo ordine
non sarà mai in nessun modo perfettamente realizzato e concluso” (Dardot e Laval, La nuova ragione
del mondo – DeriveApprodi).
Ovvero,
per i neoliberali – in questo profondamente anti-democratici, illiberali e in
contraddizione con se stessi, negando di fatto la libertà dell’individuo e
imponendo all’individuo di adattarsi a qualcosa che non deve governare e
controllare – l’ambiente sociale e il sistema capitalistico devono tendere a formare un
tutto armonico, in realtà integrato e soprattutto e peggio, integralistico.
Esiste
poi il potere delle imprese.
Scriveva – lo abbiamo fatto in altre occasioni
ma lo richiamiamo di nuovo – Luciano Gallino (1927-2015), nel 2011:
“La
democrazia, si legge nei manuali, è una forma di governo in cui tutti i membri
di una collettività hanno sia il diritto, sia la possibilità materiale di
partecipare alla formulazione delle decisioni di maggior rilievo che toccano la
loro esistenza. […]”.
E
invece, oggi
“la grandissima maggioranza della popolazione è
totalmente esclusa dalla formazione delle decisioni che ogni giorno si
prendono” nei settori dell’economia, e della finanza, di fatto espropriati e
alienati dalla democrazia, per l’azione di quel soggetto che si chiama grande
impresa, industriale o finanziaria, italiana o straniera che sia.
“Il fatto nuovo del nostro tempo è che il
potere della grande impresa di decidere a propria totale discrezione che cosa
produrre, dove produrlo, a quali costi per sé e per gli altri, non soltanto non
è mai stato così grande, ma non ha mai avuto effetti altrettanto negativi sulla
società e sulla stessa economia. […]
il potere esercitato dalle corporation sulle
nostre vite configura un deficit di democrazia da costituire ormai il maggior
problema politico della nostra epoca”.
Si pensi ancora ad Amazon, a Google, ai
social.
Si
pensi alla Gkn o alla Whirlpool e alla loro libertà di delocalizzare (e al
governo tecnocratico di Draghi che ovviamente non glielo impedisce).
La
corruzione neoliberale e tecnica della demo-crazia.
Dunque,
abbiamo un sistema complesso di livelli di governo, alcuni espliciti, altri
nascosti, apparentemente disordinati, ma tutti in realtà organizzati,
finalizzati, governati secondo il macro-contesto (il meta-livello di governo)
del neoliberalismo e della tecnica (e della tecnocrazia).
Un
macro-contesto che appunto pre-determina ogni scelta politica, corrompendo
ex-ante la demo-crazia, corrompendo ex-ante la sovranità del demos, questo
macro-contesto imponendosi come dato di fatto immodificabile, che non si deve e
non si può governare democraticamente (anche perché confonde dolosamente rete e
mercato con democrazia, facendoci credere che siano la stessa cosa – e
ideologia significa anche, come scriveva Norberto Bobbio, “far credere”), senza
permettere la ricerca di alternative.
È il macro-potere di sé stesso.
È il
meta-livello di governo che subordina a sé e che sussume in sé tutti gli altri
livelli di governo.
Che ha
corrotto le radici della democrazia, illudendo di una libertà solo apparente.
Ha
scritto Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia nel 2001, valutando gli
effetti delle politiche neoliberali (noi però aggiungendo la tecnica):
“1) le
regole economiche neoliberiste hanno creato maggiori disuguaglianze, con un
calo dei soggetti che condividono i benefici dell’attività economica e una
crescita più lenta dell’economia in generale e persino degli investimenti”;
2) “la finanza non è più al servizio
dell’intera economia ma solo di se stessa”;
3) “i
sistemi fiscali incoraggiano la speculazione e l’elusione fiscale da parte
delle multinazionali”;
4) “le politiche monetarie e fiscali, troppo
incentrate sulla difesa da certi rischi (deficit di bilancio e inflazione)
ignorano le vere minacce alla prosperità economica, ovvero la crescente
disuguaglianza e il sotto-investimento e hanno prodotto più disoccupazione, più
instabilità e meno crescita”;
5)
“nel mercato del lavoro, i cambiamenti delle istituzioni, delle leggi, delle
norme e dei regolamenti hanno indebolito il potere dei lavoratori, che ora
hanno più difficoltà a contrapporsi agli eccessi di potere di mercato delle
imprese”;
6) “la
disuguaglianza è stata una scelta politica” (Le nuove regole dell’economia, il
Saggiatore).
Il
ruolo dello stato.
Scriveva
J. M. Keynes, negli anni ‘30 del ‘900, un autore che dovremmo rileggere
urgentemente per ripensare al ruolo da tornare ad affidare allo stato e alla
necessità di governare democraticamente sia il mercato e sia il Big Tech):
“La
cosa importante per il governo, non è fare ciò che gli individui fanno già, e
farlo un po’ meglio o un po’ peggio, ma fare ciò che presentemente non si fa
del tutto”.
E aggiungeva.
“I difetti lampanti dell’economia odierna
sono: la sua incapacità di provvedere alla piena occupazione; e la sua
distribuzione arbitraria e iniqua della ricchezza e dei redditi” [esattamente
oggi come allora].
E ancora: “Il capitalismo non è intelligente,
non è bello, non è giusto, non è virtuoso e non produce i beni necessari”
[allora, come oggi].
Inoltre,
spreca deliberatamente una quantità enorme di risorse nella lotta per la
concorrenza [allora come oggi].
Keynes
sosteneva quindi che fosse necessario guidare l’economia (e non lasciarsi
guidare dall’economia) attraverso precise politiche monetarie, industriali,
sociali e fiscali poiché i mercati quasi mai sono in grado di raggiungere un
equilibrio efficiente.
Salute e ambiente, ad esempio, sono beni
pubblici che acquisiranno un valore crescente e questo giustificherà, scriveva,
l’intervento dello stato.
Il
capitalismo inoltre – e questo diventa ancora più importante nel momento in
cui, per la crisi climatica, dobbiamo pensare alle future generazioni – è
incapace “di garantire l’allocazione inter-temporale delle risorse, dunque solo
lo stato potrà occuparsi del nostro futuro a lungo termine”.
(La fine del laissez-faire e altri
scritti – Bollati Boringhieri).
Covid.
Il comando della
“finanza”
sul mondo.
Lariscossa.info
- Alberto Lombardo – (novembre 13, 2020) – ci dice:
La
situazione sanitaria che si sta creando nel mondo in seguito alla seconda
ondata del Covid-19 impone riflessioni politiche che non sono facili.
Infatti, per fare un’analisi scientifica, si
dovrebbe essere in grado di partire da competenze tecniche (epidemiologiche,
mediche, sanitarie) che evidentemente sono molto complesse, spesso sono viziate
dal punto di vista di chi le formula e soprattutto possono condurre a una
guerra tra negazionisti e “affermazionisti” che seppellisce sotto una sterile
polemica la corretta disamina della situazione.
Cercheremo
in queste riflessioni di astenerci da tali diatribe ma, dovendo pervenire a un
punto di vista politico, che poi è quello che interessa i comunisti, non
possiamo non tenere conto di alcuni dati.
Partiamo
da un fatto.
La
gestione della prima fase della pandemia, dei mesi intercorsi tra la prima fase
e la seconda e, conseguentemente, la gestione di questa seconda fase non sono
state affatto omogenee in tutto il mondo.
Pertanto
anche gli effetti sulle conseguenze che stanno vivendo i vari paesi non sono
affatto gli stessi.
Le discriminanti che si possono intravedere
non riguardano tanto i regimi che governano i diversi paesi, ma apparentemente
sembrano più legate alle collocazioni geografiche delle nazioni coinvolte.
Potremmo mettere da un lato Europa, poi
l’America (con significative eccezioni), dall’altro l’Asia e infine l’Africa.
Escludendo in un primo momento quest’ultimo
continente, possiamo vedere che, nel combattere gli effetti della pandemia,
hanno avuto più successo nazioni come la Cina (sia la RPC, che Taiwan), il
Giappone e la Corea del Sud;
mentre
Europa e America (con l’eccezione di Cuba) stanno di nuovo precipitando nel
baratro, nonostante abbiano intrapreso strategie molto diverse (USA e Brasile,
Europa continentale, Gran Bretagna, Svezia).
Sgomberiamo
subito il campo, se mai ce ne fosse bisogno, dalla tossica narrazione dei
corifei dell’imperialismo che attribuisce i successi delle politiche della RPC
all’intrinseca antidemocraticità di quel regime.
Infatti, se così fosse, le conclusioni
sarebbero che i regimi “totalitari” riescono a garantire la salute pubblica dei
loro cittadini, mentre le “democrazie” non lo sono affatto.
Bel risultato per i succitati corifei, ma
poiché la propaganda si basa sulla ripetizione ossessiva di una falsità, anche
se questa contraddice le più elementari regole della logica, qualunque
assurdità va sempre bene, purché sostenuta da un’adeguata potenza di fuoco
mediatica.
Inoltre,
se la RPC ha chiuso solo una sua provincia, per quanto popolosa come l’intera
Italia, da noi invece abbiamo assistito al lockdown di tutta la nazione.
Quindi,
quando la “democrazia” vuole, sa essere ancora più costrittiva della peggiore
“dittatura”.
Veniamo
al cuore del problema che riguarda l’oggi.
Mettiamo insieme una serie di tasselli.
Primo
indizio.
In
Italia abbiamo assistito a un fatto molto strano e per questo molto indicativo.
La sera del 7 marzo l’annuncio del governo sulla chiusura della Lombardia e
delle altre aree. Il 9 marzo sera il lockdown sarà esteso a tutto il territorio
nazionale (vedi qui).
Il
comitato tecnico-scientifico aveva raccomandato la prima soluzione, ma
naturalmente non si è potuto opporre alla seconda.
Perché una scelta così drastica da parte del
governo, addirittura più restrittiva di quella invocata dagli esperti?
Chi è
intervenuto a non limitare la chiusura a una sola parte dell’Italia?
Dal
punto di vista economico sarebbe stato ben diverso se buona parte della nazione
avesse potuto continuare a lavorare, pur fissando rigide limitazioni di
sicurezza.
Sarebbe
stata anche l’occasione affinché certi territori – alcuni tra i più
svantaggiati – avessero avuto l’occasione di sostituire per un breve periodo
nell’attività produttiva altri territori, ai quali certamente si poteva poi
dare un ristoro economico.
Gli
atti del comitato tecnico-scientifico sono rimasti per la maggior parte
“riservati” e quindi il reale dibattito che si è svolto non è noto nella sua
completezza.
Le
regioni d’Italia più colpite comunque hanno continuato a lavorare e molti
lavoratori sono stati mandati in trincea come “carne da cannone”.
Sanitari
in testa, ma anche lavoratori di servizi che non si sono affatto fermati.
Il resto d’Italia chiusa.
Che in
generale ci sia stata una gestione dell’emergenza particolarmente fallimentare
in Italia da parte dei gestori nazionali – dalla predisposizione dei piani di
emergenza, alla preparazione del personale, all’accumulo delle scorte – sembra
ormai stia venendo a galla, come sempre accade con gli scandali italiani.
Ma
tutto ciò non può oscurare il fatto che queste mancanze si inseriscono in un
pluridecennale attacco bipartisan alla sanità pubblica, alla rete territoriale,
al trattamento e alla numerosità del personale sanitario e delle strutture.
Le inchieste giornalistiche che stanno
portando a galla pressappochismi e inettitudini individuali non possono farci
dimenticare la storia politica della sanità in Italia.
Secondo
indizio.
In questi mesi, dopo la riapertura, non sono
mancate voci che hanno indicato i punti deboli del nostro sistema. Innanzitutto
la necessità di sviluppare una sanità di prossimità, ossia molti più medici e
infermieri sul territorio che potessero aiutare coloro che cominciano ad
avvertire i primi sintomi e somministrare per tempo le terapie che già si
stavano rivelando più utili.
Questa
strategia non solo allevia il decorso e gli esiti più nefasti della malattia,
ma è proprio ciò che serve per non sovraccaricare il SSN di pazienti che
arrivano ad avere necessità delle terapie d’urgenza, tallone d’Achille dei
sistemi sanitari, particolarmente quelli in cui l’aspetto privatistico, fatto
più da strutture che da personale, ha prevalso maggiormente.
Inoltre l’altro punto critico, su cui tutti
gli esperti erano d’accordo, è il sistema dei trasporti, particolarmente quello
che si fa carico del trasferimento quotidiano di coloro che si muovono
giornalmente, lavoratori e studenti.
Era una strategia così sofisticata programmare
trasferimenti di grandi masse attraverso canali privilegiati e controllati in
modo rigoroso?
Ci
potevano arrivare anche i responsabili locali.
Scuolabus
e, per similitudine, fabbricabus, ufficiobus.
Ossia un tracciamento dei percorsi più
affollati, nelle ore interessate, con grande impiego di controlli alla partenza
e nei luoghi di lavoro e di studio.
Cioè
misure atte a evitare, non nel mucchio ma nel locale, la creazione di focolai.
Tra
l’altro i cosiddetti “mobility manager” sono previsti per legge per tutte le
maggiori strutture lavorative, quindi non si doveva partire dall’anno zero, ma
riprendere con urgenza quanto già programmato, almeno sulla carta, e farlo
diventare realtà a tutti i livelli.
Che si
è fatto invece?
Irridere
amaramente le misure del governo a proposito dei monopattini e dei banchi a
rotelle è fin troppo spontaneo. Che si fa ora?
Si chiudono le suole, che invece sono i posti
più sicuri per i giovani, rispetto ai comportamenti che essi possono tenere
fuori.
Si
chiudono i locali pubblici, dopo le misure assai costose che essi hanno
approntato.
Nonostante
le zone rosse nella parte più produttiva d’Italia, le fabbriche restano aperte.
Se ciò
fosse caratteristica solo del nostro governo, potremmo pure derubricare il
tutto alla proverbiale italica incapacità, pressapochismo, cialtroneria,
fancazzismo, scarica-barile tra Regioni e Stato, ecc.
No, è
troppo comodo e fa a pugni con la realtà, perché anche il dirigismo centralista
francese ha fallito e anche altre nazioni si ritrovano a nuotare insieme a noi
nella stessa melma.
Terzo
indizio.
Mi
scuso col lettore per non essere un virologo, ma debbo cercare di riassumere –
per quello che riesco a capire – ciò che a livello internazionale seri
ricercatori stanno dicendo da tempo.
Uso a
questo scopo un articolo di Internazionale, “L’importanza del fattore k” di
Zeynep Tufekci, apparso originariamente su The Atlantic (Stati Uniti).
In
questo articolo si focalizza l’attenzione sulla modalità di trasmissione del
virus.
Si
assiste a una “sovra-dispersione” della trasmissione, ossia poche persone
portatrici sono in grado di contagiarne moltissime altre, mentre la maggior
parte dei contagiati non trasmettono o trasmettono poco.
Ciò
induce a formulare non strategie massive di ricerca dei focolai, ma invece
ricerche mirate a individuare i super-contagiatori.
Quindi
non ha senso – o ha un’importanza molto relativa – una volta individuato un
portatore, andare alla ricerca delle persone con cui questi ha avuto contatti
dal momento del suo contagio in poi, perché è molto probabile che egli faccia
parte della categoria dei non contagiatori e quindi non trasmetta;
mentre risulta molto più efficace andare a
cercare chi ha contagiato lui, perché si potrebbe con maggiore probabilità
andare a scovare un super-contagiatore e, individuatolo, isolarlo.
Quindi
non un’analisi in avanti, ma all’indietro.
Per
quanto basate su modelli matematici molto sofisticati, le conclusioni credo che
siano alla portata anche dei responsabili della sanità, nazionale e regionale.
Inoltre, occorrerebbero controlli a grappoli – per limitare il rischio dei
falsi negativi – e non a tappeto indiscriminati, rapidi – ormai disponibili in
larga scala – e programmati nei luoghi sensibili.
Per
scongiurare le ire dei corifei della “democrazia”, diciamo che il Giappone, la
Corea del Sud e la Cina hanno fatto così, la maggior parte dell’Europa no.
I
risultati sono sotto gli occhi di tutti.
Tre
indizi fanno una prova.
Il
punto è però che abbiamo provato non è ancora chiaro cosa.
Perché,
se non sappiamo cosa cercare, anche se è sotto i nostri occhi, non lo
riconosciamo neanche.
“Ho la
soluzione! ma non so bene a cosa”, diceva un ricercatore.
Ebbene,
è sempre la politica che può darci quel quadro teorico entro cui collocare i
risultati e non un semplice allineamento di “fatti”, che da soli non spiegano
nulla.
Terminato
il primo percorso, cominciamo l’altro, quello storico-politico.
In questo ci facciamo guidare da Lenin e da
Gramsci.
Lenin
ci ha insegnato cos’è la guerra imperialista e a quali ragioni risponde:
distruzione delle forze produttive e concentrazione monopolistica di capitali e
mezzi di produzione.
E se
questa fosse una “guerra senza bombe”?
Ossia uno strumento per realizzare i fini
strategici di cui ci parlava Lenin un secolo fa, ma con strumenti che non sono
cruenti, non in quella misura almeno.
La
distruzione delle forze produttive è evidente, il fallimento delle piccole
attività e la preparazione dei grandi gruppi monopolistici a farne man bassa,
pure.
Shock economy a livello planetario.
Concentriamoci
sull’Unione Europea.
Se
fino a pochi mesi fa sembrava che sforare i bilanci pubblici di qualche milione
di euro fosse un attentato alla nazione e al “futuro dei nostri giovani”, oggi
ai milioni si sono sostituiti i miliardi.
Gli
aiuti previsti sono avvelenati, come i prestiti degli strozzini:
nel momento del bisogno ti concedono quello
che vuoi, poi tirano il cappio.
I
prestiti dovranno essere ripagati, o direttamente o attraverso il meccanismo di
condivisione dei singoli stati del finanziamento del bilancio europeo.
Si litiga su come prendersi la fetta di torta
e poi su come dividere il conto del pasticcere, ma la somma non cambia.
In
Italia fanno gola due cose fondamentali: la massa enorme di denaro giacente
“inerte” nei conti correnti e le proprietà immobiliari.
Sui
conti correnti ci sono i risparmi dei lavoratori italiani che, dopo averlo
preso nel “fondo” coi “fondi” di tutti i tipi e colori e davanti alla
prospettiva dei tassi negativi, fanno l’unica cosa sensata, ossia tenere i
soldi sul conto:
la cosa che costa meno, ha zero rischi,
massima liquidità, non necessita di alcuna “gestione” e, in tempi di inflazione
zero, almeno non fa perdere capitale.
L’Italia, avendo il risparmio privato più alto
d’Europa, è sotto attacco dei gatti e delle volpi di tutto il mondo.
Anche
il patrimonio immobiliare italiano è una bella preda. Si parla di patrimoniale.
Bene,
ma chi la farà?
I
grandi patrimoni sono sempre scudati rispetto all’assalto fiscale: tra società
immobiliari, paradisi fiscali, elusione, ecc., chi li acchiapperà mai?
Quindi,
chi sarà l’obiettivo della patrimoniale?
“Bisogna
prendere il denaro dove si trova: presso i poveri.
Hanno
poco, ma sono in tanti”, diceva uno dei più grandi economisti e politici del
secolo scorso che faceva i suoi discorsi sotto mentite spoglie, Ettore
Petrolini.
Quindi,
per ottenere una massa consistente di gettito fiscale aggiuntivo si dovranno
intaccare i patrimoni delle seconde case, se non delle prime.
Sia
detta fra parentesi una cosa ovvia: la patrimoniale vera la farebbero solo i comunisti,
ma non con le seconde case, ma con i grandi mezzi di produzione e patrimoni.
A
questo punto ci rendiamo conto che la Grecia è stato solo il banco di prova di
un’operazione epocale molto più vasta e complessa.
Non era certo il piccolo 2 percento del PIL
europeo, costituito da quella nazione, che era sotto attacco da parte dei
grandi monopoli.
Cosa
si è verificato in quel paese?
Prima crediti fuori controllo, quindi incremento del
debito privato, poi nazionalizzazione di quel debito, infine bancarotta del
paese e la svendita della nazione by the pound.
Quando
si dice che i prestiti non hanno condizionalità, è vero.
Ma
perché per lo strozzino come spendi i tuoi soldi è del tutto indifferente,
l’importante è che poi paghi.
Cosa
succederà quando il debito pubblico italiano sarà passato dal 130 al 160
percento del PIL? Chi detterà i tassi?
Ancora
una volta il “mercato”, ossia quelli a cui dovremo pagare gli interessi.
Significa un assegno in bianco agli squali.
Ancora
tra parentesi.
I
comunisti rinnegherebbero il debito mandando a gambe all’aria non solo il 30
percento aggiuntivo ma anche il precedente 130.
Tanto
per puntualizzare en passant la differenza con certi “sovranisti” di cartone.
Ma c’è
di più. C’è molto di più.
Questi
soldi rastrellati dalle tasche dei contribuenti (i “tanti poveri”) dove
andranno a finire?
Cosa
andranno a “ricoverare”?
Il
recovery fund sarà uno straordinario acceleratore di concentrazione
monopolistica: reti, energia, sistemi complessi.
Con la scusa che una nazione ha subito una
forte riduzione del PIL, le si concederanno maggiori contributi, ma non per
ristorare i settori colpiti e rimetterli in condizione di ripartire, ma per
incrementare altri settori che, nel disegno capitalistico, dovrebbero
accelerare la “modernizzazione del paese”.
Quindi se ti è fallito il b&b, ti do il
5G.
I “ristori” previsti non serviranno a far sì
che le attività possano superare il momento della crisi per poi riprendere dal
punto dove si erano fermate.
Quando
un’attività chiude, chiude per sempre, non è un interruttore che si accende e
si spegne, soprattutto quando è sottoposta a stress ripetuti, come quelli a cui
oramai stiamo assistendo.
Primo
lockdown, poi stop per salvare la stagione estiva; secondo lock down, poi stop
per salvare il natale; fino a quando?
I
ristori serviranno per evitare che ci sia subito l’insurrezione generalizzata,
tamponando con piccole distribuzioni di farina oggi, in modo che poi, quando
arriverà la carestia vera, si muoia uno alla volta e non tutti insieme.
La
strategia della rana nell’acqua bollente.
Oggi
la parola d’ordine “Tu ci chiudi, tu ci paghi” riesce ad essere agitata nelle
piazze e il governo può fare grandi gesti di solidarietà più o meno
appariscenti.
Ma quanto può durare?
E cosa succederà dopo, quando le piazze si
saranno svuotate e le attività non riusciranno ad aprire?
A quel
punto passerà l’asso pigliatutto della concentrazione monopolistica e le
attività cadranno una dopo l’altra.
Chiuderanno
quelle che danno fastidio ai grandi monopoli, mentre quelle che possono essere
assorbite, saranno acquistate.
Quindi
ora vediamo delineato su quale incudine batte il martello. Il martello è la
crisi, l’incudine la ristrutturazione capitalistica.
L’uno
senza l’altra non è efficace.
A
questo punto il disegno comincia ad apparire più chiaro.
Abbiamo il corpo del delitto (la crisi),
l’arma (le politiche fiscali), ora abbiamo anche il movente (la concentrazione
monopolistica).
Resta
ancora fuori però la domanda principale dalla quale eravamo partiti.
Dicevamo
in apertura a proposito dei negazionismi:
non
scambiamo la causa per l’effetto.
Il
fatto che ci sia un disegno per realizzare la più grande ristrutturazione
monopolistica della storia, non vuol dire che l’epidemia sia stata creata ad
hoc o addirittura sia un falso.
Questa versione sarebbe uno sparring partner
comodo per il potere capitalistico.
Qui
entreremmo in un terreno che esula dal tema che ci siamo prefissi e riguarda la
gestione della credenza popolare.
Limitiamoci
a dire che in una narrazione, basta che ci sia una falla anche minima, per far
cadere non solo la singola argomentazione fallace, ma tutto l’impianto
accusatorio.
In
tribunale gli avvocati della difesa più esperti sanno che basta incrinare la
credibilità di una singola prova, per distruggere la credibilità dell’accusa e
con essa la forza dell’accusa nel suo complesso.
Sostenere
posizioni “estreme” che riguardano aspetti specifici della nascita e
dell’evoluzione della pandemia, espone proprio al rischio di lasciare fuori
qualche falla che apre le porte non solo alla distruzione del ragionamento
specifico, ma a tutte le considerazioni che fin qui abbiamo cercato di
condurre.
È per
questo che non solo ci siamo tenuti lontani da queste polemiche, ma le
dichiariamo come nostre avversarie.
Torniamo
alla domanda cruciale.
Perché
il disegno delittuoso che abbiamo delineato nelle argomentazioni precedenti non
viene perseguito in tutto il mondo con eguale strategia e intensità?
Qui ci
soccorre Gramsci.
…
l’americanismo, nella sua forma più compiuta, domanda una condizione
preliminare: «la razionalizzazione della popolazione», cioè che non esistano classi
numerose senza una funzione nel mondo della produzione, cioè classi assolutamente
parassitarie.
(I buffoni
dei super ricchi che comandano il mondo! Ndr.)
La
«tradizione» europea è proprio invece caratterizzata dall’esistenza di queste
classi, create da questi elementi sociali:
l’amministrazione statale, il clero e gli
intellettuali, la proprietà terriera, il commercio.
Questi
elementi, quanto più vecchia è la storia di un paese, tanto più hanno lasciato
durante i secoli delle sedimentazioni di gente fannullona, che vive della
«pensione» lasciata dagli «avi».
L’America
senza «tradizione», ma anche senza questa cappa di piombo:
questa
una delle ragioni della formidabile accumulazione di capitali, nonostante i
salari relativamente migliori di quelli europei.
La non
esistenza di queste sedimentazioni vischiose delle fasi storiche passate ha
permesso una base sana all’industria e specialmente al commercio e permette
sempre più la riduzione dei trasporti e del commercio a una reale attività
subalterna della produzione, coll’assorbimento di questa attività da parte dell’industria
stessa (vedi Ford e quali «risparmi» abbia fatto sui trasporti e sul commercio
assorbendoli).
Questa
«razionalizzazione» preliminare delle condizioni generali della produzione, già
esistente o facilitata dalla storia, ha permesso di razionalizzare la
produzione, combinando la forza (distruzione del sindacalismo) con la
persuasione (salari e altri benefizi); per collocare tutta la vita del paese
sulla base dell’industria.
L’egemonia
nasce dalla fabbrica e non ha bisogno di tanti intermediari politici e
ideologici.
[Quaderni del carcere, quaderno 1 §〈61〉.]
Cerchiamo
di riportare questa analisi a quasi un secolo dopo.
Cos’è
successo nella composizione produttiva delle società?
In Europa possiamo dire che il processo è solo
andato avanti, mentre gli USA ci hanno raggiunto nella fase in cui il
capitalismo assume le sue forme parassitarie slegate dalla produzione. D-D’,
direbbe Marx, senza passare dall’M intermedio di D-M-D’.
Questo
processo è testimoniato da un semplice dato: negli USA negli anni che vanno dai
Quaranta ai Settanta esisteva una tassazione applicata allo scaglione massimo
di oltre il 90% e una imposta di successione di oltre il 70%;
tale tassazione passò nel 1980 al 70% e al 28%
nel 1988, imposta che ora è al 35%.
Chiaro
sintomo dell’europeizzazione degli USA.
Le
nostre società “mature” si occupano di più di come riuscire a creare un
mercato, proteggere il proprio e dare l’assalto a quello altrui, che a
produrre.
La produzione spesso è esternalizzata ad altri
mondi che stanno fuori.
Ci porterebbe lontano qui dettagliare il
percorso del capitalismo finanziario inglese – ancora osservatorio privilegiato
dell’evoluzione storica del capitalismo a distanza di centocinquant’anni da
quando una certa Barba lo studiava seduto al British Museum – dalle
ristrutturazioni thatcheriane al brexit.
Invece
i paesi dove si produce, dove l’intermediazione produttiva dell’accumulazione
capitalistica agisce con tutta la sua potenza, anche la struttura sociale vede
la presenza di strati collaterali alla produzione molto limitata.
«L’egemonia
nasce dalla fabbrica e non ha bisogno di tanti intermediari politici e
ideologici».
E
allora sovrapponiamo la mappa della diffusione dell’epidemia con quella della
propensione di un’economia alla produzione manifatturiera.
Prendiamo
in considerazione una serie di paesi, sia per il loro peso demografico ed
economico, sia per la rappresentatività rispetto al nostro ragionamento
politico.
Vogliamo
solo offrire queste considerazioni per consentire al lettore di effettuare paragoni
tra alcuni paesi.
In
questo senso, tali paesi non si possono considerare né un campione
rappresentativo dell’intero mondo, né delle rispettive regioni.
Per la
prima grandezza, riguardante la diffusione della malattia, abbiamo scelto di
riportare per ogni paese i dati cumulati sia dei casi che dei morti per milione
di abitanti (riportare i dati assoluti è un’imbecillità statistica madornale).
Ciò ci consente di estrapolare delle considerazioni
che si possano effettuare al netto della capacità dei rispettivi paesi di far
fronte al numero dei malati.
Per
esempio, il Messico, rispetto a un numero relativamente basso di casi, presenta
un numero relativamente alto di morti.
Al
contrario i Paesi Bassi. I dati sono quelli ricavabili dal sito dell’OMS,
aggiornati al 15 ottobre.
I
paesi in cui rispettivamente i casi e i morti sono elevati li troviamo nella
parte alta del grafico.
Per la
seconda grandezza, ci siamo chiesti, seguendo l’insegnamento di Gramsci, come possiamo –
con la migliore approssimazione possibile – ottenere un dato che ci indichi il
grado di “americanismo” di una nazione?
L’abbiamo ricavato nella quota di PIL creata
dal settore manifatturiero rispetto al PIL totale. I più elevati al mondo sono
– tra i pesi massimi mondiali – com’è noto, Cina, Rep. Di Corea, Giappone e
Germania.
Li troviamo nella parte destra dei due
grafici. I dati più recenti, disponibili per tutti i paesi, sono del 2017. In
ogni caso, il 2019 non lo avremmo preso in considerazione, perché già viziato
dalla presenza della pandemia.
La
linea interpolante dà una idea generica (i dati non sono pesati per i vari
paesi né demograficamente né economicamente) del possibile legame tra queste
due grandezze che si riportano sulla scala orizzontale (ascissa) e in verticale
(ordinata). Il legame tra la coppia di grandezze può anche essere messo in
luce, qualitativamente, osservando che i punti, rappresentanti i vari paesi, si
concentrano solo su due quadranti dei grafici: in alto a sinistra e in basso a
destra. I quadranti sono centrati sul punto che rappresenta il dato complessivo
mondiale.
Ciò fa
emergere la relazione inversa nei paesi esaminati tra propensione alla
produzione manifatturiera di una nazione e capacità di contrastare la
diffusione e la mortalità del virus.
Ovviamente
tale relazione non può esprimere un rapporto di causa-effetto. Caso mai quel
rapporto esistesse, ce lo si dovrebbe aspettare di tipo inverso. Infatti i
sistemi produttivi costituiscono una occasione di assembramenti di grandi masse
di lavoratori, spesso impossibilitati a mantenere il distanziamento sociale.
Quindi ci deve essere un’altra causa, molto più forte che si nasconde dietro
l’apparenza.
Da
tutto il ragionamento politico ed economico che abbiamo fatto prima, la
conclusione che traiamo è la seguente.
La
pandemia sta agendo come un enorme volano per la concentrazione capitalistica
proprio in quei paesi che ne hanno disperato bisogno: i paesi in cui i profitti
non vengono estratti principalmente dalla manifattura, ma dalla finanza e dai servizi.
Le
differenze tra Germania, da un lato, e Francia e Gran Bretagna, dall’altro, e
le similitudini tra Cina, Giappone Corea e Germania non si spiegano altrimenti,
né con l’analoga organizzazione sanitaria, politica o economica, né con la
diversa collocazione geografica.
Si può
spiegare solo con la ferma volontà di governi che si vogliono opporre alla
pandemia e
governi che questa intenzione non ce l’hanno, come il nostro.
Governi che prendono ordini da monopolisti che
vorrebbero distruggere il nostro paese per poi passare all’acquisto delle
attività “un tanto al chilo”.
La Cina, ma anche il Giappone, la Corea del
Sud e la Germania hanno un capitalismo finanziario meno incidente
sull’economia.
Non si
tratta di capitalismo più buono o più cattivo.
Si
tratta del fatto che il capitalismo, arrivato alla sua fase finanziaria
estrema, comincia a cannibalizzare le proprie economie.
Gli altri ci arriveranno magari dopo.
Questa
è la guerra senza bombe tra i grandi monopoli e i piccoli lavoratori autonomi,
dopo che i lavoratori dipendenti sono stati ulteriormente schiacciati.
O i
lavoratori autonomi si alleano col proletariato contro i grandi monopoli, o
saranno tutti triturati.
Rifiutiamo
la posizione che immagina un enorme complotto mondiale, ma sosteniamo che i
governi dei paesi che non hanno affrontato la pandemia, non lo hanno fatto, non
per incapacità o per motivi di impossibilità politica, ma per precise ragioni
economiche che fanno capo alle necessità dei grandi monopoli, di cui i governi
sono fedeli esecutori.
Non
sono incapaci, ma nemici dei loro popoli.
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