I BUFFONI DELL’ARISTOCRAZIA FINANZIARIA AL COMANDO DEL MONDO.

 

I BUFFONI DELL’ARISTOCRAZIA FINANZIARIA

AL COMANDO DEL MONDO.

 

 

L’ONU E IL NUOVO ORDINE MONDIALE.

Thefederalist.eu – Redazione- Salish Kumar – (10-11- 2022) – ci dice:

 

 Il vecchio ordine mondiale è scomparso e un nuovo ordine sta per emergere:

il mondo si trova di fronte a scelte cruciali.

L’ordine impostosi dopo il 1945 era condizionato dalla guerra fredda fra i due sistemi di potere guidati da USA e URSS, il secondo dei quali era caratterizzato da posizioni revisioniste e contrarie allo status quo.

 L’instabile mondo bipolare era il quadro all’interno del quale funzionava pressoché l’intero sistema internazionale.

 Ma la fine della guerra fredda (1988-91) e il collasso del sistema di potere sovietico ha travolto all’improvviso i criteri su cui si basava il vecchio ordine.

Ciò ha significato un cambiamento del sistema di proporzioni storiche, e, come sempre avviene, ha portato vantaggi per qualcuno e svantaggi per altri.

 Ma l’attuale sistema internazionale ha caratteristiche di globalità mai riscontrate in precedenza, sia per quanto riguarda il numero dei suoi membri, sia per quanto riguarda il grado di interdipendenza fra di essi.

Qualsiasi valutazione della natura dell’ordine mondiale emergente deve basarsi su una visione olistica dell’intero sistema internazionale.

A tal fine può essere utile cominciare ad enumerare gli elementi chiave del cambiamento avvenuto all’interno del vecchio ordine, prima di considerare le sfide a cui il mondo si trova di fronte e il posto che occupano le Nazioni Unite nel nuovo ordine.

Gli elementi del cambiamento.

Come già detto, la fine della guerra fredda rappresenta il cambiamento più significativo nel vecchio ordine, che è certamente positivo, ma ha creato varie incertezze.

 I paesi appartenenti ai due blocchi sono rimasti senza i vecchi amici ed alleati del cui appoggio non possono più essere sicuri.

 L’incertezza maggiore, paradossalmente, riguarda i paesi non allineati, che non possono più contare sull’appoggio di una delle due superpotenze in caso di ostilità dell’altra, sia a livello diplomatico che militare.

 Ora ciascun paese deve affrontare la sfida ed ha l’opportunità di cercarsi i propri amici in ogni parte del mondo, contando sull’interesse reciproco.

Il secondo cambiamento significativo è il collasso del sistema di potere che faceva capo all’Unione Sovietica.

 Ciò ha significato non soltanto la scomparsa del secondo sistema di potere più importante nel mondo, creando un vuoto militare e ideologico in una vasta area, ma ha anche liberato molti paesi in Europa e altrove dal dominio militare e ideologico.

Ciò ha inoltre significato che una popolazione di centinaia di milioni fino ad ora esclusa dall’economia di mercato ora vuole farne parte, entrando in competizione con il mondo sottosviluppato per ottenere capitali scarsi, tecnologia e servizi.

Il terzo cambiamento, che deriva dai primi due, è l’emergere degli Stati Uniti come potenza dominante, che ha dato luogo a una situazione definita unipolare.

 Questo sviluppo può essere considerato positivamente nella misura in cui essi sostengono i valori di libertà e democrazia, ma diventa inaccettabile quando gli USA, in nome della libertà, mirano ai propri obiettivi strategici o strumentalizzano a tal fine le istituzioni globali.

Il quarto importante cambiamento riguarda l’affermarsi di Germania e Giappone come centri di potere economico.

È nello stesso tempo un paradosso e una cosa straordinaria che le due potenze sconfitte, alle quali, dopo la seconda guerra mondiale, è stata negata la facoltà di dotarsi di un esercito, stiano ora minacciando la pace dei loro ex nemici attraverso il potere economico.

Dato che l’influenza internazionale della Germania è legata soprattutto alla sua appartenenza alla Comunità europea, la quale, dopo le decisioni prese al Vertice di Maastricht, sta trasformandosi in Unione economica e monetaria e in Unione politica, è necessario trovare un modo perché i nuovi centri di potere emergenti a livello mondiale possano assumersi maggiori responsabilità nell’ambito delle organizzazioni internazionali.

Il quinto cambiamento riguarda una più netta contrapposizione fra Nord e Sud del mondo.

 Nel vecchio ordine mondiale l’Unione Sovietica era considerata come la potenza disposta a sostenere gli scopi e le aspirazioni dei paesi del Sud, anche se il suo aiuto era molto selettivo.

 In seguito al collasso del sistema di potere che vi faceva capo, essa, e i paesi dell’Europa orientale, sono spinti a rivolgersi all’Occidente alla ricerca di massicci aiuti, ed hanno già dato prova in modo abbastanza evidente di una certa compiacenza nei confronti delle pretese occidentali riguardo a problemi critici a livello globale.

La loro dipendenza economica dall’Ovest, così come i legami culturali e geografici, pongono tutto il Nord in una posizione di più profonda contrapposizione con il Sud, a cui, con l’andar del tempo, saranno negati quegli aiuti che ora sono destinati all’Est.

Le sfide per avviarsi verso il nuovo ordine mondiale.

Alla luce dei cambiamenti suddetti, è necessario capire quali sono le sfide a cui il mondo si trova di fronte.

La prima riguarda il problema della sicurezza.

Da questo punto di vista il mondo nel suo complesso presenta situazioni diverse: alcuni sono più sicuri di altri.

Nonostante la fine della guerra fredda e lo smantellamento di parte delle armi strategiche e tattiche, non è scomparsa l’attitudine a ragionare sulla base della contrapposizione fra blocchi, come dimostra la NATO.

 Non esiste un meccanismo assolutamente sicuro di controllo della diffusione delle armi nucleari, alle quali alcuni Stati hanno libero accesso, ed è particolarmente minacciata la sicurezza degli Stati piccoli e deboli.

La seconda sfida riguarda il problema dello sviluppo.

Malgrado i grandi progressi nel campo della scienza e della tecnologia, permangono vergognose e umilianti differenze per quanto riguarda gli standards di vita nelle varie parti del mondo.

Nei paesi in via di sviluppo più di un miliardo di persone vive in povertà, cioè contando, per la sopravvivenza, su meno di 370 dollari all’anno (quasi la metà di questi poveri vive nell’Asia meridionale).

L’aspettativa di vita nell’Africa sub-sahariana è di 50 anni, contro gli 80 del Giappone. La mortalità infantile sotto i cinque anni nell’Asia meridionale supera il 170 per mille, mentre in Svezia è inferiore al 10.

 Più di 110 milioni di bambini nei paesi in via di sviluppo sono esclusi dall’educazione primaria, mentre nei paesi industrializzati l’iscrizione generalizzata alla scuola primaria è obbligatoria. In Mozambico, una popolazione di 15 milioni e trecentomila persone vive con un reddito pro capite di 80 dollari, mentre la Svizzera, con una popolazione di sei milioni e seicentomila persone, ha un reddito pro capite di 29.880 dollari.

Ci sono altre sfide, che riguardano la democrazia e i diritti umani, l’ambiente, il traffico di droga, il terrorismo, la maggior parte delle quali ha carattere transnazionale.

 Questi problemi derivano dalla povertà, contribuiscono all’insicurezza nei rapporti fra gli Stati e richiedono soluzioni globali.

Una popolazione di 400 milioni di persone in Unione Sovietica e nell’Europa dell’Est sta lentamente avviandosi verso la democrazia, ma i diritti umani e la democrazia sono ancora negati a più di metà della popolazione dei paesi in via di sviluppo.

 Il degrado ambientale è causato sia dalla negligenza del Nord del mondo che dalla povertà del Sud, ma per esso questa parte diseredata del mondo deve pagare un prezzo più alto.

 Il traffico di droga è controllato nel Sud da regimi feudali, autoritari e militaristi legati alla potente mafia del Nord.

Il terrorismo, infine, è un sottoprodotto della povertà e della negazione dei diritti umani.

 Tutti questi problemi possono essere risolti solo attraverso istituzioni multilaterali, sia a livello globale che a livello regionale.

In questo contesto dobbiamo esaminare il ruolo delle Nazioni Unite.

La riforma dell’ONU.

Trentasei eminenti leaders e uomini di cultura si sono fatti interpreti delle aspirazioni dell’umanità quando, nel corso della “Stockholm Initiative on Global Security and Governance” (Iniziativa di Stoccolma sulla sicurezza e il governo globali), tenutasi il 22 aprile 1991, affermarono:

«Il sistema internazionale basato sulle Nazioni Unite è stato creato alla fine di una guerra mondiale, quando la gente percepiva chiaramente la necessità e l’opportunità di creare un sistema che potesse garantire la pace e la sicurezza...

Tuttavia, oggi le Nazioni Unite non sono abbastanza forti per affrontare i compiti a cui si trovano di fronte...

 Le Nazioni Unite devono essere adeguate alla nuova situazione e la loro organizzazione deve essere trasformata».

Il sistema internazionale odierno consiste di 166 Stati membri dell’ONU e di circa dieci che non ne fanno parte.

 Esso comprende quasi il mondo intero, con differenze di religione, di cultura e di identità etnica. Se vogliamo che tutti possano vivere felici, è necessario un qualche «ordine» che garantisca gli interessi globali e non quelli parziali.

Un tale ordine, che possiamo chiamare il nuovo ordine mondiale, si può affermare solo attraverso la centralità dell’ONU riformata e rafforzata, e le riforme prioritarie riguardano le aree seguenti.

La sicurezza.

1.) Una forza di sicurezza.

Fino ad ora il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha deciso un intervento coercitivo in due occasioni: il 7 1uglio 1950, durante la guerra di Corea, e il 29 novembre 1990, in seguito all’aggressione irachena contro il Kuwait.

In ambedue le occasioni, anche se l’intervento è stato fatto a nome delle Nazioni Unite, queste ne hanno perso il controllo o l’influenza nel corso delle operazioni militari.

 In ambedue i casi l’intervento ha finito col sottostare ai fini strategici dello Stato, o degli Stati, alla guida dell’alleanza militare, fini che divergevano da quelli propugnati dagli altri membri del Consiglio di Sicurezza, e ciò ha provocato divisioni all’interno dell’ONU.

In ambedue i casi gli aggressori hanno potuto identificare come avversario un solo Stato, gli USA, piuttosto che la comunità internazionale nel suo complesso.

La guerra di Corea e la guerra del Golfo potrebbero non essere necessariamente considerate esempi validi anche per il futuro, a meno che non siano in gioco interessi vitali di una superpotenza, anche perché l’impegno finanziario necessario a sostenere tali operazioni crea delle incertezze.

Per questo è necessario che questi interventi siano regolati sulla base di principi duraturi.

 Gli Stati membri devono essere incoraggiati a firmare accordi speciali con il Consiglio di Sicurezza, in base all’articolo 43 della Carta dell’ONU, e, sulla base dell’articolo 47, deve essere attivato il «Comitato di Stato maggiore».

È necessario pensare ad innovazioni per quanto riguarda l’addestramento, il coordinamento e la struttura di comando della forza di sicurezza, ed è indispensabile assicurarne il supporto finanziario.

2.) La Corte internazionale di giustizia.

 Dispiace constatare che la Corte internazionale di giustizia non è stata adeguatamente utilizzata per prevenire i conflitti.

L’Assemblea generale dell’ONU, sulla base della risoluzione del 17 novembre 1989 relativa alla “Decade of International Law”, adottata su iniziativa del Movimento dei paesi non allineati, ha il compito di promuovere l’adesione alla giurisdizione obbligatoria della Corte, ma fino ad ora non più di 40 paesi hanno accettato questa giurisdizione.

 Secondo il parere del giudice Nagendra Singh, che è stato Presidente della Corte mondiale, bandire l’uso della forza senza rendere coercitiva la risoluzione – preferibilmente attraverso strumenti giudiziari – è come mettere il carro davanti ai buoi:

non ha senso dichiarare la guerra fuori legge e nello stesso tempo mantenere un sistema di risoluzione delle dispute basato sulla buona volontà.

 L’opinione pubblica mondiale dovrebbe mobilitarsi per chiedere l’estensione della giurisdizione obbligatoria della Corte, e nel frattempo si dovrebbe chiedere agli Stati fra cui sorgano dispute che ricorrano più spesso al parere consultivo della Corte.

3.) Il Consiglio di Sicurezza.

L’attuale Consiglio di Sicurezza è stato costituito in un contesto storico del tutto diverso dall’attuale: due delle potenze uscite sconfitte dal conflitto mondiale sono diventate economicamente più potenti di qualcuno dei vincitori;

 gli Stati membri delle Nazioni Unite sono passati da 50 a 166;

 di esse fanno parte paesi la cui popolazione costituisce quasi un quinto dell’intera umanità, ma il cui peso nelle strutture decisionali è uguale a quello del più piccolo degli Stati; ci sono Stati membri che controllano più del 25% delle risorse strategiche (come il petrolio) del mondo intero.

Nel corso della riunione a livello ministeriale dei paesi non allineati, tenutasi ad Accra nel settembre dell’anno scorso, è stato chiesto l’aumento del numero degli Stati membri del Consiglio di Sicurezza.

Ma oltre a ciò, e oltre alla necessità di rivedere sia i criteri di scelta dei membri permanenti, sia il loro potere di veto, è necessario anche estendere le funzioni del Consiglio stesso.

Il concetto di sicurezza è diventato più esteso e comprende anche i problemi dello sviluppo e dell’ambiente.

Per questo il Consiglio di Sicurezza deve occuparsi delle minacce alla sicurezza del genere umano nel senso più ampio del termine, tenendo conto dei punti di vista espressi dalle varie Commissioni Brandt, Olof Palme, Brundtland e dalla Commissione sul Sud del mondo.

4.) La Corte penale internazionale.

 In ambienti giuridici internazionali e all’interno di alcune Organizzazioni non governative (NGOs) è in corso un dibattito sulla necessità di costituire una Corte penale internazionale al fine di perseguire individui imputati di crimini contro l’umanità, come il genocidio, la tortura, l’apartheid, i reati di droga, il traffico di donne e bambini, la pirateria, i dirottamenti aerei, la presa di ostaggi, ecc.

 Le opinioni ufficiali più diffuse in questo campo sono decisamente molto arretrate rispetto alle opinioni non ufficiali più avanzate.

 Tuttavia questa è una questione importante che merita una seria considerazione nel contesto della costruzione di un sistema di sicurezza migliore.

 

5.) La Camera dei popoli.

 Nel corso degli anni, un grande numero di Organizzazioni non governative ha proposto la creazione, nell’ambito della struttura «legislativa» dell’ONU, di una Camera dei popoli come seconda Camera, accanto a quella degli Stati rappresentati nell’Assemblea generale, per dar voce alle aspirazioni dei popoli di tutto il mondo.

Questa proposta ha un’importanza notevole, in quanto gli Stati, anche se retti da un sistema democratico, tendono ad acquisire una personalità autonoma che molto spesso li porta a contrapporsi agli interessi del popolo.

 Inoltre, i popoli di tutto il mondo hanno interessi comuni che non sempre sono rispecchiati dalle decisioni, condizionate dagli Stati, prese dall’Assemblea generale.

 Ma anche questo problema attualmente è poco capito dagli ambienti ufficiali.

Lo sviluppo.

Secondo la Commissione sul Sud del mondo, che ha consegnato il suo rapporto nel maggio del 1990, le Nazioni Unite dovrebbero dare maggiore importanza ai problemi economici e sociali, dato che la diminuzione delle tensioni politiche e militari riduce la loro responsabilità per quanto riguarda la pace e la sicurezza internazionale.

 «Uno scopo importante che il Sud deve perseguire è l’attribuzione alle Nazioni Unite di un ruolo centrale nella gestione del sistema economico internazionale».

È necessario che l’ONU, ad un elevato livello politico, tracci un panorama dei problemi economici mondiali ed eserciti una funzione di monitoraggio per quanto riguarda gli sviluppi dell’economia internazionale, prestando un’attenzione speciale alle implicazioni che trends significativi hanno per lo sviluppo e l’ambiente.

 A questo scopo dovrebbero riunirsi periodicamente i leaders di gruppi rappresentativi dei paesi sviluppati e in via di sviluppo per studiare le interrelazioni fra le varie componenti dell’economia mondiale, soprattutto il sistema monetario, la finanza e il commercio, il loro legame con le questioni politiche e di sicurezza internazionali e il loro ruolo per quanto riguarda le prospettive di sviluppo del Sud.

È necessario migliorare la gestione economica globale e il processo decisionale attraverso la riforma delle procedure decisionali delle principali istituzioni finanziarie multilaterali, come il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale.

Le attuali regole, che assegnano il controllo effettivo su di esse ai maggiori contributori, cioè ai paesi sviluppati, devono essere riviste e modificate in modo da aumentare il peso del Sud.

Dovrebbe anche essere riesaminato il sistema del voto ponderato del Fondo comune per il commercio internazionale creato recentemente, in modo che sia garantita una distribuzione dei voti più equa e nello stesso tempo accettabile per tutta la comunità internazionale.

L’ambiente.

La questione ambientale è stata posta all’ordine del giorno nel 1987, con la pubblicazione del” Rapporto della Commissione Brundtland”.

Esso ha definito lo sviluppo sostenibile come «uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri».

 Negli ultimi anni la questione ambientale è diventata un argomento di serie relazioni accademiche ed ha nello stesso tempo coinvolto l’opinione pubblica mondiale.

In vista della Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente e lo sviluppo, che si terrà in Brasile nel 1992, si è molto riflettuto su come aumentare il ruolo dell’ONU per quanto riguarda la protezione ambientale.

Il punto centrale di queste riflessioni è che non si può affrontare la sfida ambientale attraverso la pura azione volontaria dei singoli Stati.

Questo problema richiede che si stabiliscano regole vincolanti per tutti, istituzioni e procedure di controllo della loro esecuzione, e l’applicazione di sanzioni nei confronti dei trasgressori.

 L’istituzione che esiste attualmente, il “Programma ambientale delle Nazioni Unite” (UNEP) non possiede né i poteri né gli organi legislativi ed esecutivi.

Per questo è necessario creare un organismo autonomo delle Nazioni Unite o una Agenzia ad hoc, che dovrebbe coordinare le convenzioni, le istituzioni e le procedure esistenti e riempire le lacune in quei campi in cui non sono ancora state create istituzioni e procedure.

Questo organismo dovrebbe comprendere una Assemblea plenaria (con il compito di approvare delle regole internazionali vincolanti), un Consiglio con funzioni di esecutivo, un segretariato e una Corte ambientale.

Sarebbe auspicabile un sistema di voto ponderato per permettere alle grandi potenze di aderirvi, ma esse non dovrebbero avere diritto di veto, come attualmente avviene nel Consiglio di Sicurezza.

 Il Segretario generale.

L’accresciuto ruolo dell’ONU nel governo del mondo ha focalizzato l’attenzione generale sui criteri di nomina del Segretario generale delle Nazioni Unite, sulla durata della carica, sulla sua autorità e giurisdizione.

 Uno studio condotto da Brian Urquhart e Erskine Childers, due noti funzionari internazionali, con la collaborazione della “Ford Foundation” e della” Dag Hammarskjold Foundation”, ha stabilito che considerazioni campanilistiche, nazionali, geografiche o politiche non dovrebbero condizionare il processo di nomina.

 Se si decidesse di stabilire un massimo di sette anni per la permanenza in carica, ciò servirebbe ad attivare e facilitare la nomina.

Per quanto riguarda infine la questione centrale della necessità di una leadership multilaterale per affrontare questi problemi, sarebbe necessario consultare le Organizzazioni non governative e quei cittadini impegnati sul fronte dei più importanti problemi del pianeta.

Nonostante sia vero che il Segretario generale svolge le sue funzioni all’interno delle strutture di potere della politica mondiale esistenti, è però anche vero che egli può svolgere un ruolo importante nel modificare le stesse in modo costruttivo.

Le finanze.

Le risorse finanziarie su cui può contare l’ONU sono precarie e soggette a molti condizionamenti.

 Il suo budget totale è insufficiente ad affrontare le crescenti esigenze nei campi della sicurezza, dello sviluppo e dell’ambiente, ed è troppo dipendente dagli arbitri politici di poche grandi potenze, che la possono ricattare se le sue scelte politiche sono contrastanti con i loro interessi.

Per questo il rafforzamento dell’ONU è possibile solo se le sue finanze poggiano su una base più solida e duratura.

Conclusione.

Le Nazioni Unite non possono essere rafforzate se questo compito è lasciato nelle mani dei soli governi.

 Esse appartengono ai «popoli», come recita l’inizio della Carta e i «popoli» devono far valere i propri diritti, poiché i loro interessi sono permanenti, mentre i governi cambiano.

(Salish Kumar)

 

 

 

 

L'inganno del dollaro:

come le banche creano

segretamente il denaro.

Signoraggio.com - Sandro Pascucci - Ellen Brown – (3 luglio 2022) – ci dicono:

 

L'INGANNO: COME LE BANCHE CREANO SEGRETAMENTE IL DENARO.

 (webofdebt.com/articles/dollar-deception.php) – (Ellen Brown, 3 luglio 2007)

 

È stato definito "il gioco di prestigio più strabiliante che sia mai stato inventato". La creazione del denaro è stata privatizzata e usurpata al Congresso da un cartello bancario privato.

 La maggior parte delle persone pensa che il denaro sia emesso per decreto dal governo, ma le cose non stanno proprio così.

Ad eccezione delle monete metalliche, che costituiscono all'incirca solo l'uno per mille dell'offerta monetaria complessiva degli Stati Uniti, tutto il nostro denaro viene ora creato dalle banche.

Le banconote con la dicitura Federal Reserve (banconote di dollari) sono emesse dalla Federal Reserve, una società per azioni privata, e prestati al governo.

Inoltre, le banconote con la dicitura della Federal Reserve e le monete metalliche costituiscono, assieme, meno del 3 per cento dell'offerta monetaria.

 L'altro 97 per cento è creato, sotto forma di prestiti, dalle banche commerciali.

Non credete al fatto che le banche creano il denaro che prestano?

 Non lo credeva nemmeno la giuria nel corso di una causa in Minnesota che ha lasciato un segno nella storia, finché non ne hanno avuto le prove.

 Nel 1969, First National Bank of Montgomery contro Daly fu un evento giudiziario degno della sceneggiatura di un film.

L'imputato, Jerome Daly, si opponeva al pignoramento della banca in merito all'ipoteca di 14.000 dollari gravanti sulla sua abitazione sulla base del fatto che non vi era alcun corrispettivo per il prestito.

Il "corrispettivo" ("la cosa scambiata") è un elemento essenziale di un contratto. Daly, un avvocato che si auto-rappresentava, sosteneva che la banca non aveva messo da parte del vero denaro per il suo prestito.

Gli atti processuali furono verbalizzati dal giudice ausiliario Bill Drexler, il cui compito principale, egli disse, fu quello di mantenere l'ordine in un'aula carica di tensione nella quale gli avvocati minacciavano di prendersi a pugni.

Drexler non aveva dato molto credito alla teoria della difesa, finché il signor Morgan, il presidente della banca, non fu chiamato a testimoniare.

Con la sorpresa di tutti, Morgan ammise che la banca creava abitualmente "dal nulla" il denaro per i propri prestiti e che si trattava di una procedura bancaria standard.

"A me sembra un imbroglio", intonò il giudice Martin Mahoney tra i cenni d'assenso dei giurati.

 Nel suo memorandum, il giudice Mahoney affermava:

 "Il querelante ha ammesso che, in collaborazione con la Federal Reserve Bank di Minneapolis, ... l'intera somma di 14.000 dollari in denaro e credito fu creata nei propri registri con annotazioni contabili.

Che questa era il corrispettivo utilizzato per avvalorare la Distinta datata 8 maggio 1964 e l'Ipoteca emessa nella stessa data.

Il denaro e il credito hanno avuto origine quando sono stati creati.

Il signor Morgan ha ammesso che non esisteva alcuna legge o statuto degli Stati Uniti che gli avesse concesso il diritto di farlo.

Un corrispettivo legittimo deve esistere e deve essere portato a sostegno della Distinta".

 La corte respinse la richiesta di pignoramento da parte della banca e l'imputato conservò la propria abitazione.

Per Daly, le implicazioni furono enormi.

Se i banchieri stessero veramente estendendo il credito senza corrispettivo - senza supportare i propri prestiti con il denaro che avevano realmente nei propri forzieri e che avevano il diritto di prestare - una decisione che dichiarasse che i loro prestiti erano nulli poteva far crollare la base del potere del mondo.

Daly scrisse in un articolo su un quotidiano locale: "Questa sentenza, che è legalmente corretta, ha l'effetto di dichiarare che tutte le ipoteche private sulle proprietà personali e immobiliari, tutte le obbligazioni statali e nazionali gestite dalla Federal Reserve, dalle banche statali e dalle banche nazionali sono nulle.

Questo equivale all'emancipazione di questa Nazione dal debito personale, nazionale e statale dovuto, a quanto si dice, a questo sistema bancario.

 Ogni americano è debitore di sé stesso ... per studiare questa sentenza molto attentamente ... perché su questa poggia la questione della libertà o della schiavitù".

Inutile dire, comunque, che la sentenza non riuscì a cambiare l'andazzo generale, sebbene non fu mai rovesciata.

Questo era quello che si udì in un ufficio del giudice di pace, un sistema di tribunali autonomi che risalivano ai giorni della conquista dell'Ovest quando gli imputati avevano delle difficoltà a raggiungere le città più grandi per comparire in giudizio.

In quel sistema, ora scomparso, i giudici e i tribunali erano sostanzialmente separati.

Il giudice Mahoney, che non era dipendente dai finanziamenti per la campagna elettorale né ostacolato da precedenti giudiziari, si spinse così lontano fino a minacciare di far causa alla banca e di smascherarla.

Morì sei mesi dopo il processo, in un misterioso incidente che sembrò avvelenamento.

Da allora, parecchi imputati hanno tentato di evitare le inadempienze sul prestito utilizzando il modello di difesa di Daly, ma con scarsi risultati.

 Ecco quello che un giudice ha detto in via non ufficiale: "Se vi lascio fare questo - a voi e chiunque altro - farebbe crollare l'intero sistema ... non posso permettervi di andare a curiosare dietro il bancone ... non andremo dietro al sipario!"

Di tanto in tanto, comunque, questo sipario è rimasto sollevato abbastanza a lungo per permetterci di vedere dietro le quinte.

 Un certo numero di autorità rispettabili ha testimoniato quanto accadeva, tra cui Sir Josiah Stamp, presidente della Banca d'Inghilterra e il secondo uomo più ricco del Regno Unito negli anni '20 del secolo scorso.

 Egli dichiarò in un discorso ufficiale alla University of Texas nel 1927:

"Il sistema bancario moderno fabbrica denaro dal nulla. Il procedimento è forse il gioco di prestigio più strabiliante che sia mai stato inventato. Le attività bancarie sono state concepite nell'ingiustizia e nate nel peccato ... i banchieri possiedono la terra. Toglietegliela da sotto i piedi ma lasciate loro il potere di creare denaro e con un guizzo di inchiostro creeranno abbastanza denaro per ricomprarsela ... togliete loro questo grande potere e tutte le enormi fortune come la mia svaniranno, e allora questo sarà un mondo migliore e più felice in cui vivere ... ma se volete rimanere schiavi dei banchieri e pagare il costo della vostra schiavitù, continuate a permettere loro di creare denaro e di controllare il credito.

Robert H. Hemphill, responsabile del Credito presso la Federal Reserve Bank di Atlanta al tempo della Grande Depressione, ha scritto nel 1934:

"Noi siamo completamente dipendenti dalle Banche commerciali.

Qualcuno deve prendere a prestito ogni dollaro che abbiamo in circolazione, in contanti o a credito.

 Se le Banche creano abbondante denaro sintetico, noi siamo ricchi; altrimenti, facciamo la fame.

 Non abbiamo assolutamente un sistema monetario durevole. Avendo una visione globale della cosa, la tragica assurdità della nostra posizione senza speranza è quasi incredibile, ma è così.

Si tratta del tema più importante sul quale le persone intelligenti possano indagare e rifletterci sopra".

Graham Towers, governatore della banca centrale canadese dal 1935 al 1955, ha ammesso:

"Le banche creano denaro.

Servono a questo ... il processo produttivo per creare denaro consiste nell'inserire una voce in un registro.

Tutto qui ... ogni volta che una Banca concede un prestito ... viene creato nuovo credito bancario, denaro nuovo di zecca".

Questo è quanto ha dichiarato Robert B. Anderson, Segretario del Tesoro sotto la presidenza Eisenhower, in un'intervista pubblicata sull'edizione del 31 agosto 1959 di U.S. News and World Report:

"Quando una banca concede un prestito, essa aggiunge semplicemente al conto di deposito del mutuatario presso la banca l'ammontare del prestito.

Il denaro non è preso dal deposito di nessun altro, non è stato versato in precedenza alla banca da nessuno.

 Si tratta di nuovo denaro, creato dalla banca per essere utilizzato dal mutuatario".

Come è nato questo schema e in che modo è stato nascosto per così tanto tempo? Per rispondere a queste domande, dobbiamo fare un salto indietro nel diciassettesimo secolo.

Gli orafi e il gioco delle tre carte.

In Europa, nel diciassettesimo secolo, il commercio era condotto prevalentemente con monete d'oro e d'argento.

Le monete erano durevoli e avevano un valore intrinseco ma era difficile trasportarle in grosse quantità e potevano essere rubate se non venivano messe sotto chiave.

Dunque, molte persone depositavano le proprie monete presso gli orafi, che disponevano delle casseforti più sicure in città.

 Gli orafi, a loro volta, emettevano delle comode ricevute cartacee che potevano essere negoziate al posto delle ingombranti monete che rappresentavano.

 Queste ricevute erano utilizzate anche quando la gente che aveva bisogno di monete si recava dall'orafo a richiedere un prestito.

I guai iniziarono quando gli orafi si accorsero che, in un qualunque momento, solo dal 10 al 20 per cento delle proprie ricevute ritornava per essere riscattato in oro.

Essi potevano "prestare" in tutta sicurezza l'oro contenuto nelle proprie casseforti ad interessi parecchie volte superiori, finché potevano mantenere dal 10 al 20 per cento del valore dei loro notevoli prestiti in oro per far fronte alla domanda.

Gli orafi, perciò, crearono il "denaro di carta" (ricevute per prestiti di oro) del valore di parecchie volte superiore al metallo prezioso che in realtà detenevano.

Venivano tipicamente emesse banconote e concessi prestiti in quantità che erano da quattro a cinque volte la loro reale disponibilità in oro.

Ad un tasso di interesse del 20 per cento, lo stesso oro prestato cinque volte produceva un rendimento del 100 per cento ogni anno, su oro che gli orafi in realtà non possedevano e che, legalmente, non potevano affatto prestare.

 Se fossero stati attenti a non sovraesporre questo "credito", gli orafi potevano dunque divenire sufficientemente benestanti senza produrre alcunché di valore.

Poiché solo il capitale era dato a prestito nell'offerta monetaria, alla fine si doveva restituire una somma, in capitale e interesse, maggiore di quella che l'intera cittadinanza possedeva.

I cittadini dovevano continuamente ricorrere a prestiti di nuova carta moneta per coprire il deficit, provocando il dirottamento della ricchezze della città e, alla fine, dell'intero paese all'interno dei forzieri degli orafi ora trasformatisi in banchieri, mentre la gente si copriva gradualmente di debiti.

Seguendo questo modello, nel diciannovesimo secolo in America le banche private emisero banconote proprie in quantità fino a dieci volte superiori alle riserve reali in oro.

 Questa fu chiamata attività bancaria "di riserva frazionaria", intendendo che solo una frazione, una parte dei depositi complessivi gestiti dalla banca erano mantenuti come "riserva" per far fronte alla domanda dei depositanti.

Ispezioni periodiche effettuate alle banche quando i clienti divennero tutti sospettosi e pretesero nello stesso momento il proprio oro, le mandarono in rovina e resero il sistema instabile.

Nel 1913, il sistema delle banconote private fu quindi consolidato in un sistema di banconote nazionali sotto la Federal Reserve (o "Fed"), una società per azioni privata a cui fu concesso il diritto di emettere banconote con la dicitura Federal Reserve e prestarle al governo degli Stati Uniti.

Queste banconote, emesse dalla Fed al semplice costo di stampa, divennero la base dell'offerta monetaria nazionale. Vent'anni dopo, il paese stava affrontando una gravissima depressione.

L'offerta di denaro si contrasse, mentre le banche chiudevano i battenti e l'oro fuggiva in Europa.

 I dollari, all'epoca, dovevano essere sostenuti per il 40 per cento da oro, dunque per il valore in oro di ogni dollaro che lasciava il paese, 2,5 dollari in moneta di credito svanivano.

Per impedire che questa allarmante spirale deflazionaria facesse crollare del tutto l'offerta di moneta, nel 1933 il Presidente Franklin Roosevelt sganciò l'oro dal gold standard.

Oggi la Federal Reserve opera ancora nel sistema di "riserva frazionaria", ma le proprie "riserve" non consistono in nulla se non obbligazioni governative (pagherò o debiti).

Il governo emette obbligazioni, la Federal Reserve emette banconote con la dicitura Federal Reserve, ci si scambiano alla fine enormi somme di denaro lasciando il governo in debito verso una società per azioni privata, denaro che il governo avrebbe potuto emettere da solo, esente da interesse.

Rubare con l'inflazione.

M3, l'indicatore più ampio dell'offerta monetaria degli Stati Uniti, è schizzato dai 3.700 miliardi di dollari del febbraio 1988 ai 10.300 miliardi 14 anni più tardi, quando la Fed smise di riportarlo.

 Il perché la Fed abbia cessato di comunicarlo è suggerito da John Williams in un sito web chiamato "Shadow Government Statistics" [le statistiche ombra del governo, (shadowstats.com, NdT] nel quale viene mostrato che, nella primavera del 2007, M3 stava crescendo al ritmo impressionante dell'11,8 per cento annuo. Meglio non pubblicizzare troppo quelle cifre!

La domanda che viene posta qui, comunque, è la seguente: da dove proveniva tutta questa nuova moneta?

Il governo non ha aumentato la propria emissione di monete metalliche e non è stato aggiunto oro all'offerta monetaria nazionale, perché il governo ha abbandonato il gold standard nel 1933.

Questo nuovo denaro poteva essere solo stato creato privatamente mentre il "credito bancario" avanzava sotto forma di prestiti.

Il problema è che inflazionando in questo modo l'offerta di moneta, anche i prezzi, naturalmente, ne risultano inflazionati.

Una maggior quantità di denaro che compete per gli stessi beni fa aumentare i prezzi.

Il dollaro ha un potere di acquisto inferiore, sottraendo alla gente il valore del proprio denaro.

Di quest'inflazione sfrenata viene di solito data la colpa al governo, accusato di gestire le tipografie che stampano valuta con lo scopo di spendere e spandere senza ricorrere all'espediente così impopolare di alzare le tasse.

Ma come fatto notare in precedenza, l'unica forma di denaro che il governo americano emette sono le monete metalliche.

Nei paesi in cui la banca centrale è stata nazionalizzata, il denaro cartaceo potrebbe essere emesso dal governo insieme al denaro metallico, ma le banconote rappresentano solo una piccolissima percentuale dell'offerta monetaria.

In Inghilterra, paese nel quale la Banca centrale fu nazionalizzata dopo la seconda guerra mondiale, le banche private continuano a creare il 97 per cento dell'offerta monetaria sotto forma di prestiti.

L'inflazione sui prezzi è solo uno dei problemi di questo sistema di creazione privata del denaro.

Un altro problema è che le banche creano solo il capitale ma non l'interesse necessario per restituire il prestito.

Poiché virtualmente l'intera offerta monetaria è creata dalle banche stesse, nuovo denaro deve essere continuamente immesso sul mercato per pagare l'interesse dovuto ai banchieri.

 Un dollaro prestato al tasso d'interesse del 5 per cento diventa 2 dollari tra 14 anni.

Questo vuol dire che l'offerta di moneta deve raddoppiare ogni 14 anni solamente per coprire l'interesse dovuto sul denaro esistente all'inizio di questo ciclo di 14 anni.

Le cifre della Federal Reserve confermano che dal 1959, anno in cui la Fed ha iniziato a fornire i dati, l'M3 è raddoppiato, e anche più, ogni 14 anni.

 Ciò significa che, ogni 14 anni, le banche convogliano in interessi tanto denaro quanto ne era presente nell'intera economia 14 anni prima.

Questo tributo viene pagato per dare a prestito qualcosa che le banche in realtà non dovevano prestare, creando forse il più grosso imbroglio mai perpetrato poiché ora colpisce l'intera economia globale.

La privatizzazione del denaro è la causa fondamentale della povertà, della schiavitù economica, dei governi senza fondi e di una classe dominante oligarchica che si oppone ad ogni tentativo di farle allentare la stretta sulle redini del potere.

 Il problema può essere risolto solamente invertendo il processo che lo ha creato.

 

Il Congresso deve riprendersi il potere Costituzionale di emettere il denaro della nazione.

 L'attività bancaria della "riserva frazionaria" deve essere eliminata, limitando le banche a prestare solo fondi pre-esistenti.

 Se il potere di creare denaro ritornasse al governo, il debito federale potrebbe essere estinto, le tasse potrebbero essere ridotte drasticamente e potrebbero essere estesi i programmi necessari per il governo.

Contrariamente a quanto comunemente si è portati a pensare, l'estinzione del debito federale con nuove banconote emesse dal governo degli Stati Uniti non sarebbe un pericolo per l'inflazione perché i titoli del governo sono già compresi nell'indicatore più ampio dell'offerta monetaria.

I dollari sostituirebbero semplicemente le obbligazioni, lasciandone il totale invariato.

 Se il debito federale degli Stati Uniti fosse stato estinto nell'anno fiscale 2006, i risparmi governativi per non dover più pagare interessi sarebbero stati di 406 miliardi di dollari, sufficienti per cancellare il deficit di bilancio di 390 miliardi di dollari di quell'anno e con ulteriore denaro da tenere da parte.

Il budget potrebbe essere raggiunto con le tasse, senza creare denaro dal nulla come può accadere con le tipografie nazionali o con le registrazioni contabili dei prestiti effettuati dalle banche.

Tuttavia, parte del denaro creato dalle tipografie potrebbe essere davvero un toccasana per l'economia.

 Sarebbe grandioso se questo fosse utilizzato per scopi produttivi come la creazione di nuovi beni e servizi, piuttosto che per scopi non produttivi come il pagamento dell'interesse sui prestiti.

Quando l'offerta (beni e servizi) cresce insieme alla domanda (moneta), tutto rimane in equilibrio e i prezzi rimangono stabili.

Potrebbe essere aggiunto nuovo denaro senza creare inflazione sui prezzi fino a raggiungere la piena occupazione.

In questo modo il Congresso potrebbe finanziare quei programmi di cui si sente una forte necessità, come lo sviluppo di fonti di energia alternative e l'estensione della copertura sanitaria e, allo stesso tempo, ridurre le tasse.

 

(Ndr: Ie grandi famiglie dei Banchieri da secoli hanno deciso quanto segue:

Le università che insegnano economia bancaria nel mondo debbono indirizzare i rispettivi studenti a rispettare i seguenti inderogabili principi.

Il denaro creato dal nulla dalle banche per effettuare prestiti alla clientela sin dall’inizio deve essere registrato nei libri contabili bancari nella voce “passivo”, mentre nella realtà bancaria tutto il denaro che si trova in cassa della banca ogni mattina dovrebbe essere registrato come “attivo”.

L’aristocrazia dei banchieri ha creato delle apposite sue società di controllo dei bilanci bancari dopo che questi sono debitamente approvati dalle assemblee dei soci proprietari delle banche.

In Europa esistono tre di queste istituzioni di controllo: La “Swift”, la “Clear stream” ed “Euro clear”.  

Dopo il controllo dei bilanci bancari effettuati da queste tre società (scelte dai veri proprietari di tutte le banche) i bilanci bancari vengono definitivamente approvati con la variazione ultima effettuata dai controllori dopo la quale tutti i” passivi” bancari registrati dopo aver effettuato prestiti effettuati alla clientela sono ora definitivamente registrati come “attivi”.

Questi nuovi “attivi” verranno versati in appositi conti “esteri” di proprietà dei veri padroni di tutte le banche del mondo occidentale.

Un esempio controllabile. Solo in Italia il sistema bancario “presta” alla clientela richiedente circa 1.500 miliardi di euro ogni anno.

Queste somme non rientrano più in Italia. Vanno ad ingrossare i conti esteri dei padroni finanziari del mondo e tutto “esente tasse” di pertinenza dello stato.)

 

 

 

 

Gruppo Bilderberg, ecco

chi governa davvero il mondo. 

Ilfattoquotidiano.it – (8-2-2019) – Diego Fusaro – ci dice:

 

Con un’espressione in bilico tra l’onesto riconoscimento della realtà fattuale e l’arroganza propria del potere, così ebbe modo di affermare uno dei massimi miliardari del pianeta:

 “La lotta di classe esiste e la mia classe la sta vincendo”.

Si tratta, in effetti, di una chiara e ludica analisi del rapporto di forza quale si è venuto riconfigurando nel tempo della ribellione delle élite e dell’offensiva neoliberista al mondo del lavoro e dei diritti.

Scenario di cui, tuttavia, non si ha contezza, poiché il potere impone le sue mappe ingannatorie e usa armi di distrazione di massa.

Per una comprensione della reale entità dell’élite neo-oligarchica come maschera di carattere e come agente del capitale assoluto-totalitario nel tempo del disarmo del Servo può giovare soffermare l’attenzione sul cosiddetto “gruppo Bilderberg”, emblema dell’Internazionale liberal-finanziaria del tempo neofeudale.

Contrariamente a quanto si può a tutta prima essere indotti a pensare, il gruppo Bilderberg non consiste in una società, né in una cospirazione:

 si tratta, invece, di un incontro privato tra potenti di tutto il mondo, che ricorre annualmente, a partire dal primo consesso, che avvenne nel 1954 presso l’Hotel Bilderberg della cittadina olandese di Oosterbeek.

Tale incontro annuale ha lo scopo di porre a confronto i potenti dell’élite, uniti dall’ideologia neoliberista che li rappresenta e dalla volontà di attuare una rete atta a tutelare i loro interessi e a unire le istituzioni finanziarie.

Si tratta, appunto, di una specifica Internazionale liberal-finanziaria il cui motto pare potersi cristallizzare nel rovesciamento delle parole con cui Marx chiudeva il Manifesto: “potenti di tutto il mondo, unitevi!”.

Da un certo angolo prospettico, si potrebbe sostenere che il gruppo Bilderberg coincide tout court con una rete di interessi interdipendenti di tipo finanziario e politico, economico e industriale.

Dal 1954 ad oggi, non è mai stato permesso alla stampa di assistere ai consessi del gruppo Bilderberg, né si è mai pubblicata l’agenda del convegno, né sono state rilasciate dichiarazioni da parte di chi vi ha partecipato.

Espressione degli arcani imperii dell’economia mondiale finanziarizzata, la massima segretezza neo-oligarchica finisce per essere, paradossalmente, quanto mai rivelativa del vero carattere del gruppo Bilderberg come governo occulto che opera nell’ombra, determinando le linee generali di una politica ridotta a mera continuazione dell’economia con altri mezzi.

Ancorché le riunioni siano strettamente segrete, gli interessi dell’élite Bilderberg sono ampiamente noti, perché coincidono con quelli del finanz-capitalismo della fase assoluta del capitalismo (per un’analisi della quale mi permetto di rinviare al mio studio “Minima mercatalia. Filosofia e capitalismo”).

Tali interessi orbitano intorno al fuoco prospettico dell’eliminazione degli Stati nazionali e dei diritti sociali, della creazione di un’immensa “pauper class precarizzata”, nomade e disposta a tutto pur di sopravvivere, della distruzione delle costituzioni e dei confini nazionali, della creazione di nuovi trattati internazionali vincolanti mediante il primato economico e bancario, dell’offensiva integrale al mondo del lavoro e delle garanzie sociali.

Nei piani e nei progetti del gruppo Bilderberg si incarna l’essenza della rivolta delle élite: le unioni e i trattati internazionali vengono impiegati come strumenti mediante i quali operare la rimozione della sovranità nazionale democratica e, per questa via, destrutturare i diritti e lo stato sociale, imponendo la competitività internazionale come unico parametro.

Per il tramite dei trattati internazionali, infatti, i governi nazionali vengono privati del loro potere, che è ceduto ad agenzie internazionali e finanziarie, che si sostituiscono in misura sempre crescente agli Stati nazionali, le cui guide e i cui rappresentanti erano, almeno sulla carta, eletti dal popolo.

Per questa via, l’oligarchia finanziaria dell’élite può operare in qualità di società per azioni mondiale e di aristocrazia di intenti aspirante ad amministrare il pianeta mediante una rete transnazionale in grado di imporre senza incontrare resistenza un nuovo ordine mondiale plasmato dalla logica del capitalismo assoluto e flessibile.

Come ebbe ad affermare David Rockefeller, nel giugno del 1991, durante l’incontro del gruppo Bilderberg a Baden Baden, una sovranità sovranazionale esercitata da una élite intellettuale e da banchieri mondiali è senza dubbio da preferirsi senza esitazioni alla tradizionale autodeterminazione delle nazioni.

In queste parole, in fondo, si condensa il programma internazionalista di liberalizzazioni senza frontiere perseguito dalla nuova Internazionale liberal-finanziaria e della sua distruzione complementare del Servo come soggetto organizzato e oppositivo e di tutti i limiti reali e simbolici di frenare l’estensione illimitata del nichilismo economico.

L’obiettivo ultimo consiste nell’instaurazione di un governo unico mondiale con un solo mercato planetario, ove non sopravvivano identità e culture plurali, l’umanità sia dissolta in atomi di consumo privi di radici e di progettualità, nella forma di un’immensa plebe precarizzata e asservita.

È il trionfo del classismo planetario e del fanatismo economico transnazionale.

 

 

 

Perché Difendere il Contante.

Conoscenzeaconfine.it – (13 Gennaio 2023) - Matteo Brandi – ci dice:

 

Perché è essenziale difendere il contante?

I motivi per cui è essenziale difendere il contante ed evitare che i pagamenti elettronici soppiantino del tutto monete e banconote sono, per me, essenzialmente tre:

 

1)- Il motivo più evidente: le commissioni bancarie.

 Dover pagare un obolo al sistema bancario ogni volta che si riceve un pagamento tramite Pos è per gli esercenti, già massacrati da una tassazione iniqua, a dir poco odioso.

Soprattutto se questa mini-tassa viene applicata su acquisti di minor conto, come un semplice caffè o un cornetto.

 Si parla di percentuali piccole (in media circa lo 0,7% con distinzioni tra carte di debito e Pagobancomat) che tuttavia, sommate ad ogni transazione portano via un bel po’ di denaro, che viene diviso tra la banca che emette la carta, il circuito della carta stessa e lo strumento Pos.

In un momento di difficoltà economica generale, è facile capire quanto tutto questo risulti dannoso.

 

2)- Il motivo più importante: il controllo.

Durante le manifestazioni dei camionisti canadesi contro le disposizioni di Justin Trudeau, così come nel pieno delle proteste a Teheran, è bastato un click ai governi per bloccare i conti correnti dei dissidenti e impedire loro di spostarsi, acquistare cibo e comprare medicinali.

 Poter contare sul contante è un’assicurazione sulla propria libertà personale. Affidarsi totalmente al pagamento elettronico, per quanto comodo, è pericoloso e

rende il cittadino inerme di fronte agli autoritarismi, di qualsiasi genere. Stiamo andando verso una società iper-controllata e monitorata, vale la pena correre questo rischio?

3) -Il motivo più culturale: la smaterializzazione.

Nell’epoca del Metauniverso e delle relazioni social, è importante porre un freno (o almeno un limite) alla dissoluzione della tangibilità dei vari aspetti della nostra esistenza.

Avere contezza del denaro che abbiamo in mano e che spendiamo suggerisce un comportamento meno imprudente rispetto alla semplice “passata” di carta, specie se il debito viene accumulato e la sua riscossione procrastinata.

 In molti sono già diventati consumatori compulsivi, perdere persino la consapevolezza della presenza materiale dei propri soldi peggiorerebbe la situazione.

I fanatici del pagamento elettronico sempre e comunque, tirano fuori la questione dell’evasione, con il solito piglio auto razzista (gli italiani sono ladri ed evasori) e fanatico-progressista (questo è il futuro, non c’è alternativa).

Peccato che la correlazione tra contante ed economia sommersa sia ancora tutta da dimostrare e la vera, grande evasione riguarda i grandi capitali e le multinazionali (per non parlare della criminalità organizzata), non i piccoli commercianti.

Evitiamo dunque di cadere ancora nella trappola del “divide et impera”.

Questa nuova guerra tra poveri è, come tutte le altre, ingiusta, ipocrita e dannosa.

(Matteo Brandi) – (matteobrandi.it/perche-difendere-il-contante/)

 

 

 

 

Due Pesi e… Due Misure

Conoscenzealconfine.it - (12 Gennaio 2023) – Laura Ruggeri -ci dice:

 

Strategia geopolitica di Washington: due pesi e due misure!

I media cinesi hanno sottolineato che i disordini in Brasile sono quasi una replica perfetta dell’“assalto al Campidoglio” di due anni fa.

E ancora una volta offrono al governo statunitense, guidato dal Partito Democratico, l’opportunità di “cavalcare l’onda” contro la parte accusata di fomentare i disordini: l’ex presidente Donald Trump.

Ma per il resto del mondo, l’emergere di simili rivolte non è semplicemente dovuto a Trump, perché c’è qualcosa di terribilmente sbagliato in un sistema politico che genera (ed esporta) polarizzazione sociale e caos.

Da un lato, la società statunitense è fortemente divisa e il sentimento populista è forte.

Il sistema esistente non è in grado di risolvere le contraddizioni che genera.

Dall’altro lato, gli Stati Uniti praticano due pesi e due misure nei confronti di altri Paesi, il che è ancora peggio.

In base alle esigenze della sua strategia geopolitica, l’atteggiamento di Washington nei confronti di simili disordini è molto diverso.

 Ad esempio, Washington ha condannato con forza le rivolte in Brasile, ma è molto più ambigua su episodi di violenza simili in altri Paesi.

 In alcuni Paesi, incoraggia e addirittura sostiene il disprezzo per lo Stato di diritto e la sovversione quando serve ad istigare una “rivoluzione colorata”.

 Basti pensare a Maidan in Ucraina e tutte le rivoluzioni colorate orchestrate dagli Stati Uniti.

La macchina dei “cambi di regime” non si ferma mai: in Iran istiga proteste violente da mesi.

Nell’odierna situazione internazionale, caotica e intrecciata, un virus politico radicale può facilmente trovare un focolaio adatto alla sua sopravvivenza, e diventare sempre più contagioso e patogeno.

Chi è interessato a destabilizzare il Brasile, un Paese membro del BRICS+, e a sfruttare e approfondire divisioni e spaccature nella sua società?

(Laura Ruggeri - t.me/LauraRuHK)

 

 

 

 

DISERZIONE, GUERRA E

COMANDO SUL MONDO.

Euronomade.info -Redazione – Massimo De Angelis - (Apr. 27, 2022) – ci dice:

 

Riprendiamo qui un articolo di Massimo De Angelis pubblicato per Effimera il 26 aprile 2022.

In questo approfondito contributo, Massimo De Angelis riflette sulle ragioni della guerra in corso in Europa, a seguito dell’invasione dell’esercito russo in Ucraina.

Una guerra che accentua una situazione socio-economica e politica, già provata da due anni di pandemia e di malessere sociale crescente.

Di fronte alla nocività della guerra, pur tenendo ben conto delle colpe dirette e delle immediate responsabilità, l’unica possibile risposta che ci si sente di dare è: diserzione.

 L’autore la rilancia, ricordando i contributi di Franco Berardi e Sandro Mezzadra sul tema.

Tale parola può suonare indigesta alle letture che forzosamente contrappongono i (presunti) “valori occidentali” all’aggressione dei “barbari”.

La storia ci insegna che quando scoppia una guerra di questa entità, finalizzata (come spiega l’autore), a ridisegnare l’attuale (dis)ordine geo-politico e geo-economico, non esistono poteri buoni.

L’Ucraina è vittima delle tentazioni egemoniche del disegno panrusso di Putin, da un lato, e nella necessità Usa (che comanda la Nato) di mantenere una supremazia militare ed economica fortemente compromessa, dall’altro.

Questo sono i pilastri centrali dell’attuale crisi.

E tutto ciò con la Cina sullo sfondo.

In questo quadro, l’Europa non è in grado, o meglio non vuole, ritagliarsi un ruolo autonomo, andando così incontro al proprio suicidio.

Gli eccidi e le morti civili in Ucraina sono il prezzo cinico che deve essere pagato, mentre le potenze imperiali rinfocolano lo scontro, affondando qualsiasi tentativo diplomatico, e i mercanti di guerra festeggiano.

Per questo, disertare non è vigliaccheria, ma l’unico vero atto di coraggio possibile. Perché “disertare la guerra è disertare il comando sul mondo”.

Oltre la claustrofobia della guerra, la diserzione.

Questa guerra ci è piombata addosso dopo due anni di pandemia e corrispondente crisi sanitaria, ci ha distratti da una catastrofe ambientale senza precedenti, e i suoi effetti si adagiano in occidente su un malessere sociale accumulato da 50 anni di politiche neoliberali.

Come spesso accade in queste situazioni, attorno a noi gli orizzonti del possibile sembrano chiudersi, e mentre si accentua il senso di claustrofobia e il gusto amaro di una necessità aliena al desiderio, solo una via sembra esserci lasciata aperta, quella della guerra, del riarmo, di un solco netto tracciato tra buoni e cattivi, tra eroi e codardi, tra un noi e un loro che rimescola le carte, che accomuna ricchi e poveri di una parte contro i ricchi e i poveri dell’altra, e così per sfruttati e sfruttatori, violentati e violentatori, inquinati e inquinatori, come se queste distinzioni non avessero più importanza di fronte alla distinzione tra invasi e invasori e i loro alleati.

 Quest’ultima distinzione è dunque posta sopra tutte le altre, le mette all’ombra obliterando le diverse posizioni all’interno dei due campi, occultando le trasversalità che le differenti forme della cooperazione sociale ha instaurato nel tempo.

 La costruzione del reale si fonda sempre su una gerarchia tra le possibili distinzioni, e la distinzione prodotta dalla guerra sta in alto non per negare tutte le altre distinzioni, ma, attraverso sangue, distruzione e dolore, per creare la condizione per la loro riconfigurazione e il loro perpetuarsi.

Quando ogni via di trasformazione positiva del reale sembra esserci sbarrata, sorge quindi forte e disperata ancora la domanda: “che fare”?

 In un articolo di qualche settimana fa, Sandro Mezzadra ci suggerisce la risposta già nel titolo, bisogna “disertare la guerra”.

È certo che bisogna disertarla, con tutte le nostre forze, con tutto il nostro immaginario collettivo, anche se il cosa, il come, il chi, il dove di questa diserzione pongono domande aperte la cui risposta richiede uno sforzo e un impegno comune.

 Ma disertare bisogna.

Anche in questa guerra ci sono i disertori, sia dal versante russo che da quello ucraino.

 Ciò che li accumuna come fratelli è la voglia di non uccidere e di non farsi uccidere, oltre ad una pulsione vitale senza se e senza ma che li porta a reclamare il diritto al futuro.

 La parola “diserzione” invita ad immagini di giovani militari spaventati che scappano dal proprio reggimento, che affrontano i rischi insiti alla fuga da un’autorità che, se li acciuffa, li punirà crudelmente, che si rifugiano in casolari e fienili per passare la notte nella speranza che nessuno li veda, che timidamente cercano la solidarietà di chi li incontra — un pezzo di pane, un bicchiere d’acqua — per poter continuare il viaggio.

Disertare non è cosa facile, perché implica una rottura con ciò che ti dicono da tutte le parti che sia giusto o quantomeno doveroso fare, la guerra. 

Disertare è anche una scelta pericolosa, per le conseguenze che possono ricadere su di te (le immagini i tanti ragazzi impauriti e fucilati nella prima e nella seconda guerra mondiale per esempio.

Ancora oggi in Ucraina, la legge permette a un comandante di sparare se sorprende un milite in procinto di disertare, soprattutto se questo è di guardia al confine, mentre per i russi ci sono 8 anni di prigione). 

Occorre espandere questa immagine che abbiamo di diserzione, dobbiamo allargarla in centri concentrici, ad altri ambiti collegati alla logica della guerra, poiché risulta essere sempre più chiaro che il rinnovamento del nostro mondo si fonda anche su una rinnovata pratica della diserzione in senso lato.

 Disertare la guerra è dunque anche disertare le sue ragioni, disertare è necessariamente allo stesso tempo cercare e costruire altro, un fuori dalla guerra e un fuori da quel mondo che la genera per la costruzione di un altro mondo.

E come ancora ci ricorda Sandro Mezzadra “disertare la guerra è oggi un imperativo, ma le pratiche di diserzione non possono essere efficaci se non sono articolate in una cornice globale.

Se non sono sostenute dall’invenzione, che certo non può essere fatta a tavolino, di un nuovo internazionalismo, che potrà anche chiamarsi in un altro modo ma a quello spirito dovrà collegarsi.”

Disertare la guerra, è quindi anche disertare una logica di comando sul mondo della quale la guerra — con tutte le sue orribili conseguenze — è la levatrice.

Lenti.

Per ampliare questa nozione di diserzione, bisogna munirsi di lenti ottiche che ci permettano di osservare il mondo a diverse scale, come uno zoom che passa dal teleobiettivo al grandangolo.

Il mondo che si vede con tali lenti diverse è lo stesso, eppure esso appare in maniera diversa, perché ad ogni scala scopriamo caratteristiche specifiche di quella scala.

Allo stesso tempo, i fenomeni distinti che intravediamo alle diverse scale, fanno parte in realtà di un unico fenomeno.

Una foto panoramica, se ingrandita, rivelerà particolari inaspettati.

 Eppure quei particolari erano lì fin dall’inizio, e costituiscono, insieme ad una moltitudine di altri particolari, il panorama stesso.

Allora, osserviamo la guerra armati di tali lenti.

Una delle cose che trovo molto frustrante nelle discussioni sulla guerra, è la netta divisione binaria che emerge nella rappresentazione del “popolo” Ucraino da una parte e gli invasori Russi dall’altra, i primi visti SOLO come vittime indifese o eroici difensori, i secondi SOLO come puri aggressori o brutali esecutori di atrocità.

Ovviamente, a un certo livello di osservazione, questo tipo di rappresentazione binaria è comprensibile:

l’esercito russo è stato l’aggressore, e quindi il popolo ucraino la vittima dell’aggressione che cerca di difendersi.

Non nego la validità (seppur parziale) di questa rappresentazione della realtà.

Ma chi vede solo questo, è come se usasse solo una lente, chiamiamola Lente 1.

Non è mio compito in questo scritto usare questa lente e ripetere la condanna a Putin, gli orrori dei massacri di civili, le motivazioni interne ed esterne che lo hanno portato a questo, il Nazi-stalinismo, come lo ha definito Biffo, del suo governo sulla Russia e la guerra promossa dal suo regime ad altri popoli in quel che considera il suo giardino di casa.

 È tuttavia utile ricordare che il vecchio Tony Blair quando era primo ministro aumentò le licenze di esportazione alla Russia del 550%, e ciò includeva equipaggiamento necessario alla guerra in Cecenia, poiché, come disse, è “importante appoggiare la Russia nella sua lotta contro il terrorismo.”

D’altra parte la Russia ha agito come potenza regionale, cioè come nodo del comando sul mondo, in diverse guerre prima dell’intervento in Ucraina del 24 febbraio scorso: in Cecenia (2000-03); in Georgia (2008);

 nell’ est Ucraina (dal 2014 a oggi); in Siria (dal 2015 a oggi).

Ha anche svolto brevi interventi militari in Bielorussia (2020) e in Kazakhstan (2022). Come ci ricorda Simon Pirani), a parte il caso dell’intervento in Cecenia nel quale l’obiettivo russo era di rinforzare i confini nazionali ed eliminare il nazionalismo ceceno, tutti gli altri casi di intervento militare sono stati contraddistinti da tre obiettivi comuni:

 1. quello di appoggiare regimi o forze militari pro-russe;

2. quello di contrastare movimenti sociali che minacciavano regimi pro-russi (a parte il caso della Georgia), un po’ come nell’intervento dell’unione sovietica in Ungheria (1956) e Cecoslovacchia (1968);

3. in tutti questi casi, e a dispetto della retorica di Zelensky che vede la Russia come minaccia all’integrità territoriale Europea o addirittura mondiale, la Russia ha mostrato poco interesse verso l’acquisizione di nuovi territori, a parte enclave dove vivono una maggioranza di lingua russa.

Simon Pirani quindi conclude che “la Russia, nonostante la sua sottostante debolezza economica, ha cercato in questo modo di rivaleggiare con l’alleanza USA-Regno Unito, che in questo periodo ha fatto guerra in Iraq, Afghanistan e Libia, e ha sostenuto la guerra saudita in Yemen, la guerra israeliana in Palestina e altri guerre per procura.”

Per capire la complessità della situazione e quindi pensare a come uscirne, si dovrebbero però usare ANCHE altre lenti.

In primo luogo, lenti che ci permettono di osservare la guerra in Ucraina nel suo contesto geopolitico, che ci permettono appunto di capire questa invasione, alla luce di una storia di cui ANCHE l’occidente ha avuto e ha tutt’oggi un ruolo determinante.

Dunque dobbiamo usare una lente che apre la prospettiva sul contesto della guerra, chiamiamola Lente 2.

In secondo luogo, lenti che ci permettono di “ingrandire” l’immagine della situazione rivelandoci che ciò che appariva semplicemente binario, risulta assai più complesso e sfaccettato, chiamiamola Lente 3.

 Per esempio, tra i militari russi c’è chi diserta, e tra la popolazione russa c’è chi protesta.

 Allo stesso tempo, il popolo ucraino non è un monolito, ma come tutti i popoli, è differenziato e plurale.

 E allora c’è chi combatte con entusiasmo gli invasori russi, e c’è chi avrebbe a gran lunga preferito non essere obbligato alla leva obbligatoria;

c’è anche chi sta dalla parte dei russi, c’è poi chi diserta il militare e la guerra, chi non gliene importa nulla se comandano i russi o gli americani, e chi gli basterebbe vivere in pace.

Ci sono i rifugiati che lasciano l’Ucraina per l’Europa, e chi invece trova rifugio nelle vaste campagne dell’Ucraina occidentale, dimenticati dal governo ucraino, con farmacie e negozi vuoti e senza che un soldo degli aiuti internazionali arrivi da quelle parti.

 E poi ci sono anche quegli ucraini vicini al potere del governo ucraino che ammazzano, torturano, e zittiscono altri ucraini perché in qualche modo non si identificano nella linea governativa, o magari perché è dal 2014 che sono stati bombardati da milizie ed esercito ucraino nel Donbas.

 Questa complessità che è parte fondamentale del reale non è visibile a chi usa solo la Lente 1, o solo la Lente 2.

Per vederla, bisognerebbe anche usare altre lenti e lasciare che ciò che esse ci mostrano inquini le nostre certezze ottenute guardando solo con una lente, e attraverso processo di meticciamento del pensiero, lasciare che esso raggiunga una nuova immagine quanto più congruente del tutto — e quindi una nuova idea sul da farsi.

 Un processo questo che nessun individuo può da solo affrontare, ma che può solo approssimarsi attraverso una prassi comunicativa di un’intelligenza collettiva.

Ora c’è una ragione per la quale chi usa solo la lente 1 — ed è la maggioranza dei commentatori mainstream, dei governi occidentali e dei media — sembra solo usare questa lente, almeno pubblicamente.

 La ragione è che la guerra ha bisogno di nemici, non solo il nemico esterno, ma anche quello interno.

Come ci ricorda Franco Biffo Berardi, “Il nemico interno è la sensibilità di essere umani: la coscienza, se vogliamo.

Ne parla Freud in un testo sulle nevrosi di guerra scritto durante la Prima guerra mondiale:

 il nemico interno si manifesta come dubbio, esitazione, paura, diserzione.

Il nemico interno è la volontà di pensare.

” Così come si demonizza il nemico esterno (e la guerra si fonda su tale demonizzazione), allo stesso tempo si demonizza e si silenzia come amico del nemico chiunque usi anche altre lenti.

Una vecchia tattica che cerca di chiudere il pensiero ad ogni tipo di ragionamento, demonizzando chi cerca di aprirlo.

Una tattica di coloro che credono che per fermare una guerra di questo tipo occorre alimentare la guerra fino alla vittoria.

 Un pensiero che di fronte alla necessità di uscire dalla guerra è un pensiero perdente, perché se anche la mitica vittoria dovesse arrivare, arriverà dopo anni di combattimenti, torture, sangue e sofferenze, e quindi di tante, molteplici sconfitte.

No, quelli che come me sono contro la guerra, non sono amici di Putin, ma non sono neanche amici di Boris Johnson, Joe Biden o la NATO.

Se ci interessa la pace, dobbiamo disertare la guerra, e il primo passo della diserzione è capire la situazione dal quale vogliamo fuggire.

Una comprensione che ovviamente si deve avvalere anche di altre lenti, per esempio una Lente 4, che indaga il metabolismo tra cooperazione sociale e natura non umana e una Lente 5 che indaga nelle pieghe anche psichiche della soggettività.

In quanto segue, lungi da poter mettere in rapporto le osservazioni scaturite da tutte queste lenti, mi soffermerò su ciò che si intravede usando la Lente 2, anche se vorrei poter scrivere più dettagliatamente su cosa si osserva attraverso la Lente 3.

E’ quest’ultima in effetti quella che alla fine ci dà un orientamento su come agire nel mondo, quali le trasversalità da istituire tra soggetti attraverso i confini, come creare ponti tra sfruttate/i, violentate/i, e oppresse/i in tutte le nazioni, in modo tale da spingere le distinzioni tra i confini nazionali in fondo alla gerarchia delle cose ed elevare altre distinzioni e metterle al centro della nostra preoccupazione politica.

Ma per agire nel mondo che si osserva con la lente 3, occorre anche delimitare i contorni delle forze che agiscono su di esso, cioè usare la lente 2, quella che fa intravedere il comando sul mondo.

In quanto segue, voglio provare a mettere a fuoco la guerra in Ucraina attraverso la lente 2.

Il comando sul mondo.

Tante domande si aggirano tra i commentatori più attenti della guerra in Ucraina, quelli meno schiacciati su posizioni entusiaste e desiderose di prendere parte in qualche modo alla guerra.

Per esempio, perché Biden non ha cercato di far qualcosa diplomaticamente quando la CIA ha mostrato le immagini dell’ammasso di truppe lungo i confini tra Russia e Ucraina?

Perché la strategia degli Stati Uniti, come disse in un’intervista alla CNN Hilary Clinton, sembra essere la stessa di quella adottata durante l’invasione russa in Afghanistan, cioè mandare armi per contrastare l’esercito occupante e aspettare che i russi si sfiancano, mentre si accumulano i morti tra civili e militari (morti che in Afghanistan durante la guerriglia contro le truppe sovietiche furono stimati tra i 562,000 and 2,000,000, senza parlare del caos successivo)?

Perché Biden non dice a Zelensky di andare calmi, di rallentare, di negoziare perché i costi umani della resistenza fino alla vittoria — che include per molti commentatori Ucraini sulle tv occidentali perfino la cacciata dei Russi dalla Crimea— sono incalcolabili?

La risposta credo abbastanza ovvia è che l’amministrazione americana spinge per un allungamento della guerra.

E quindi la domanda centrale è perché?

Che interesse hanno gli Stati Uniti ad allungare questa guerra, e come questo interesse è legato al comando sul mondo in questa fase storica?

Quando parliamo di mondo, parliamo di una complessità in continua riproduzione, una complessità prodotta e in produzione, parliamo di cooperazione sociale che si articola in forme diverse spesso intrecciate e spesso antagoniste.

Parliamo di relazioni sociali che si incarnano in quelle ecologiche e viceversa, parliamo di metabolismo sociale, parliamo di soggetti individuali che operano in una moltitudine di reti di cooperazione sociale le cui relazioni danno forma a queste reti, le quali a loro volta danno forma alle razionalità dei soggetti.

Per capire questa guerra e soprattutto cosa c’è in gioco bisogna in primo luogo anche munirsi della Lente 2, quella che guarda al comando sul mondo in questo senso, comando sulla cooperazione sociale nella sua totalità, un comando che ha la finalità di dargli una finalità e una direzione.

Parlare di comando sul mondo sembra un’operazione puramente ideologica per chi crede che la democrazia occidentale sia la “fine della storia” e insieme la più alta forma di governo sul mondo, una forma che crede di distribuire il potere equamente su ogni individuo del popolo attraverso un voto a scadenze regolari ogni qualche anno.

 Purtroppo, sappiamo, questa forma di democrazia lascia molto spazio all’esercizio oligarchico del potere da parte del capitale, e addirittura anche monarchico, da parte della sezione egemonica del capitale internazionale.

La guerra che si è scatenata in Europa ha delle ragioni che si radicano nell’”ordine” mondiale, un “ordine” che mettiamo tra virgolette, proprio perché sappiamo che è un ordine che si dà al capitalismo, ai suoi flussi estrattivi e di sfruttamento, di continua (ri)generazione di gerarchie di potere e comando, che produce l’intelligenza artificiale ma anche la fame, e di un metabolismo tra la cooperazione sociale e la natura non-umana dalle conseguenze catastrofiche. Ma ciò che chiamiamo capitalismo, anch’esso non è un monolito.

Il capitalismo oggi è la quasi totalità della cooperazione sociale che si dipana e intreccia a diverse scale, e che include diverse forme del fare e del relazionarsi, quelle che seguono la logica del capitale, dello stato, e del comune, un intreccio comunque egemonizzato dal capitale, ed è per questo che lo chiamiamo capitalismo.

Il comando sul capitalismo globale è il comando sull’intreccio delle reti e dei sistemi della cooperazione sociale.

E il capitalismo ha bisogno di direzione e di comando proprio in virtù delle crisi che esso genera, e delle lotte che domandano risposte a queste crisi.

In forme diverse, possiamo derivare dal pensiero post-operaista italiano, dagli scritti di Alquati negli anni 80 a quelli di Hardt e Negri degli anni 2000, un’immagine del comando sul mondo come un sistema di stati gerarchizzati a secondo delle relative potenze;

 una serie di reti di miliardari, corporations e organizzazioni economiche e finanziarie, e una selezione di organizzazioni della “società civile”.

 Questo livello di comando dunque, non è rappresentabile con un faraone in cima alla piramide sociale tenuta in piedi da un bello strato di schiavi.

 No, questo comando globale è in primo luogo anch’esso un sistema di comando, e ognuna delle parti interagenti, nelle sue molteplici posizioni, intenzionalità, capacità e poteri, partecipa al gioco.

 L’”ordine” mondiale è il risultato di questa interazione tra parti che hanno potere differenziale.

In questo gioco, la Russia e le Cina vi hanno partecipato come stati, nelle loro funzioni dentro all’organizzazione delle Nazioni Unite, e come potenze politico/economiche/militari quantomeno regionali e con aspirazione di maggiore compartecipazione in questo comando sul mondo.

Il peso che la Russia e la Cina hanno nel definire questo ordine oggi, non è proporzionale alla loro potenza, militare della prima ed economica della seconda.

L’egemonia all’interno di questo ordine, almeno da dopo la seconda guerra mondiale, ce l’hanno gli Stati Uniti, un’egemonia tuttavia che da anni è in declino, a fronte della crescita di altre potenze economiche, in particolare quella Cinese.

L’egemonia statunitense nel comando sull’ordine del mondo si regge su due gambe, la potenza militare e il dollaro.

 Sebbene gli USA siano di gran lunga la potenza militare più forte al mondo, è una potenza che a fronte della crescita economica Cinese e di altre potenze, nonché delle sconfitte militari in Afghanistan e Iraq che hanno seguito gli attacchi dell’11 settembre del 2001, sembra essere una potenza in declino, almeno per quanto riguarda la sua capacità di raggiungere i suoi obiettivi.

Ma è soprattutto la seconda gamba su cui si regge l’egemonia statunitense a porre seri problemi:

il dollaro e il suo ruolo nella regolazione sia degli scambi internazionali all’interno della globalizzazione, ma anche delle politiche sul debito pubblico americano e le corrispondenti voci di spesa.

In questo senso il dollaro fa da cerniera tra conflitti esterni ed interni agli Stati Uniti.

Sono anni che gli Stati Uniti tentano di arrestare questo declino egemonico su quest’”ordine” mondiale, un declino che è accelerato dall’11 settembre, che è passato da due grandi sconfitte militari in Afghanistan e in Iraq, e che ha visto infrangere le certezze della governance neoliberale a partire dalla grande crisi finanziaria del 2008, e che vede la Cina pianificare la sua filiera globale (Road and Belt Initiative) mentre allo stesso tempo domanda rispetto e multipolarismo nella gestione del comando globale sul capitalismo.

 Il dollaro è importante per gli Stati Uniti perché permette agli USA di far fronte alle crisi esterne ed interne semplicemente stampando dollari o, attraverso il rialzo del tasso di interesse, rimpatriando dollari che il resto del mondo detiene nelle sue riserve. In ultima analisi, questa egemonia del dollaro permette agli Stati Uniti di regolare il flusso e la composizione degli investimenti nel mondo.

Come scrive disincantato il generale cinese Quiao Liang nel suo libro L’arco dell’impero (2018, p. 68), in questo modo gli Stati Uniti, “hanno incorporato risorse e prodotti globali, oltre al commercio di tutto il mondo, nel sistema di regolamento del dollaro; non hanno saccheggiato apertamente le risorse e le ricchezze degli altri Paesi, però le hanno scambiate con un pezzetto di carta verde che a loro costa quasi niente, il che in pratica è un saccheggio invisibile.”

Dopo lo svincolamento del dollaro all’oro proclamato da Nixon il 15 Agosto 1971, l’origine di questa egemonia si è avuta attraverso l’instaurazione di un altro legame che permetteva ai “pezzi verdi” di circolare in maniera egemonica nonostante le difficoltà economiche nel mezzo della crisi degli anni 70.

Così Nixon e la Federal Reserve pensarono di legarlo alla merce più importante del mondo il petrolio, cosa che si ottenne grazie alle rassicurazioni saudite agli americani dopo la guerra dello Yom Kippur nel 1973.

Oggi il petrolio rappresenta da solo quasi il 4% del commercio totale e i suoi derivati entrano nella produzione della stragrande maggioranza dei prodotti.

Il legame tra dollaro e petrolio è quindi il legame tra una merce fittizia (il dollaro) e una assai centrale, il petrolio.

Dollaro e petrolio diventano quindi due merci fondamentali della globalizzazione, un legame che è avvenuto prima dell’era della cosiddetta globalizzazione economica e anzi, ne ha definito la precondizione.

Chi non ha dollari non compra petrolio, e chi non compra petrolio non fa marciare l’economia.

Gli Stati Uniti hanno quindi creato un sistema di sopravvivenza economica attraverso questo legame.

E hanno difeso questo sistema con la guerra.

Non è un caso che la guerra in Iraq nel 2003 che ha deposto Saddam Hussein, e quella in Libia del 2011 che ha deposto Gheddafi, siano state entrambe combattute all’indomani della minaccia di questi regimi di abbandonare il dollaro nel mercato del petrolio.

Così gli Stati Uniti hanno diviso il mondo in due parti.

Da una parte gli USA, il cui vantaggio competitivo rispetto agli altri paesi era quello di produrre dollari.

E dall’altra il resto del mondo, il cui vantaggio competitivo variava a seconda dei casi.

Nel caso della Cina e di altri paesi asiatici dagli inizi degli anni ’80, il vantaggio stava nel bassissimo costo del lavoro, scarse regolazioni ambientali, e forti leggi repressive contro sindacati.

Questo permise di rilocalizzare molte industrie americane ed europee in queste e in simili aree del mondo, anche per sfuggire alle lotte salariali e attorno alla riproduzione sociale che in questi paesi si erano accumulate nell’onda degli anni 60 e 70.

Dallo svincolamento del dollaro all’oro il 15 agosto 1971, gli Usa hanno stampato una grande quantità di dollari, che ha contribuito, insieme ad altri fattori, al declino secolare del dollaro rispetto ad altre divise.

Tuttavia questo è un declino che ha oscillato tra fasi rivalutazione e fasi di svalutazione.

Questi dollari sono stati immessi in circolazione mondiale, oltre che per l’acquisto di petrolio, anche per acquistare prodotti ora manufatti in Cina ed altre aree, materie prime, per la produzione di armi, e per finanziare col debito regimi in tutto il mondo.

Questi ultimi si trovano poi ciclicamente esposti al controllo americano attraverso il Fondo Monetario Internazionale che, nel caso di crisi del debito, devono subire le famose politiche di aggiustamento strutturale, politiche volte al taglio di spese sociali, dei sussidi alle popolazioni più povere, all’apertura dell’agricoltura alle grandi multinazionali e alla promozione di esportazione e di surplus della bilancia commerciale.

Basta qui ricordare brevemente la grande crisi del debito, in concomitanza con una recessione globale, che si è scatenata sui proletari dei paesi più poveri negli anni ’80 dopo il rialzo massiccio del tasso di sconto americano da parte di Paul Volker nel periodo 1979-1981.

L’andamento dei tassi di interesse americani ha anche la funzione di regolare i flussi di investimento globali in modo da favorire la gestione sia dei problemi interni americani, che gli orizzonti strategici degli USA sul capitalismo mondiale.

Come avviene per la regolazione della temperatura ambientale per mezzo di una caldaia e un termostato, anche il sistema del dollaro si basa su un sistema di feedback negativi, sebbene sia un automatismo non così preciso come quello che si ha attraverso un termostato.

In quest’ultimo caso, il termostato misura la deviazione della temperatura ambientale da un dato valore desiderato di riferimento. 

Tale differenza di valori poi segnala alla caldaia come regolarsi: la spegnerà se la temperatura dell’ambiente è superiore al valore desiderato, o l’accenderà se la temperatura ambientale è inferiore al valore desiderato.

Invece della regolazione della temperatura ambientale per mezzo di un termostato collegato a una caldaia, qui si tratta della regolazione dei flussi di investimento globali per mezzo di un “termostato geopolitico” che misura la deviazione tra un contesto operativo globale — così come è valutato da parte delle élite americane — e la loro visione degli obiettivi strategici economici, politici e militari.

 Strumenti tecnici tra i quali il tasso di sconto della Fed possono poi operare nel tentativo appunto di attrarre dollari negli USA o disperderli in giro per il mondo a seconda della necessità.

La regolazione cosiddetta a “fisarmonica” comprende dunque due grandi fasi:

la semina e il raccolto.

In primo luogo, la semina di dollari in giro per il mondo attraverso i meccanismi discussi, provocando in molti luoghi dei boom economici che come ogni boom finisce.

Dunque, in secondo luogo, quando il boom si sgonfia, il raccolto di dollari dal mondo, permettendo agli investitori di uscire dalle aree di crisi attratti da condizioni di redditività e sicurezza relativamente migliori da parte degli USA, e offrire agli USA più liquidità per gli usi che rende necessario il conflitto di interessi interno.

L’egemonia del dollaro dunque permette agli USA di esercitare il comando di un sistema monetario internazionale, seminando e mietendo dollari al ritmo di crisi alternanti disperse nel mondo.

Crisi che si possono anche creare attraverso la guerra, in tutte le sue forme.

Il già citato Quiao Liang fa diversi esempi di queste crisi, come quella in America Latina degli anni ’80 del secolo scorso, e del Sud Est Asiatico degli anni ’90. 

Inoltre, in questo ciclo della regolazione della liquidità mondiale, i paesi che ricevono dollari attraverso le esportazioni per esempio, come la Cina  che ha accumulato enormi surplus commerciali e quindi una gran quantità di riserve monetarie, sono chiamati a comprare buoni del tesoro americano, denaro che servirà a finanziare il debito pubblico, a finanziare l’industria bellica, e la spesa pubblica in generale.

La guerra in Ucraina e il comando sul mondo.

Cosa centra la guerra in Ucraina in tutto questo?

Come accennato in precedenza, la domanda cruciale è perché gli Stati Uniti sembrano voler allungare la guerra, a dispetto degli interessi economici degli alleati Europei?

 La lunga storia dell’allargamento della Nato lamentata da Putin, nonché il sostegno militare dell’amministrazione americana e della Nato almeno dal 2014, ma con documentate interferenze USA già dal 2004, hanno portato a un lento gioco geopolitico, la cui invasione russa dell’Ucraina a partire dal 24 febbraio di quest’anno, è solo l’ultima fase.

 Una tragica fase ma, dal punto di vista geopolitico americano, sicuramente una grande opportunità.

L’ipotesi è quindi che il “termostato geopolitico” delle élite americane registri l’allungamento di questa guerra come necessario per affrontare tre sfide collegate alla salvaguardia della sua egemonia nel comando sul mondo, in un contesto in cui l’egemonia del dollaro è in declino, e proprio quando l’avanzamento della crisi sociale, economica e ambientale globale ha bisogno di scelte radicali assai rischiose.

Perché dunque gli USA vogliono un allungamento della guerra? Perché la guerra è un principio regolatore della composizione del flusso globale degli investimenti quando gli USA ne hanno più bisogno.

In primo luogo, molto semplicemente, la crisi pandemica, e la strategia della cosiddetta “green transition” e le spese militari (un aumento del 5% dal 2021) ha gravato sul debito pubblico americano, il che richiede appunto un afflusso di fondi sui treasury bonds.

 L’aumento dei tassi d’interesse in corso negli USA servirà anche ad affrontare questa questione.

 Ma l’aumento dei tassi di interesse avrà molto probabilmente ripercussioni su paesi oggi messi in difficoltà anche dalla guerra in Ucraina.

Il debito di molti paesi era già aumentato durante la pandemia.

Ora l’aumento dei prezzi dell’import energetico e alimentare prodotto dalla speculazione, dalla guerra e, per quanto riguarda il cibo, dall’intensificarsi degli effetti del cambio climatico, aggrava la situazione debitoria la quale, a seguito agli aumenti previsti dei tassi di interesse, potrà precipitare una catena di bancarotte statali e private.

Si profila quindi, nel mezzo di tanta sofferenza, una condizione ideale per ristrutturare le catene del valore dell’economia globale, ri-configurare la produzione e le filiere, ri-modellare le gerarchie globali di reddito e ricchezza. Il capitalismo vive su questo.

Gli esempi odierni di questa crisi sono la punta dell’iceberg: Sri Lanka, Egitto e Tunisia.

 C’è però una differenza tra la crisi del debito che si profila oggi e quella di qualche anno fa:

nella gestione della crisi di oggi e del prossimo futuro, la Cina avrà un ruolo assai più determinante di ieri, poiché oggi comanda una percentuale assai più elevata del credito a fronte di una diminuzione da parte di istituzioni quali Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale.

Come ci ricorda il Wall Street Journal:

“Secondo l’FMI, la quota di debiti esteri della Cina nei confronti delle 73 nazioni povere altamente indebitate è balzata al 18% nel 2020 dal 2% nel 2006, mentre i prestiti del settore privato sono saliti all’11% dal 3%.

Nel frattempo, la quota combinata dei prestatori tradizionali — istituzioni multilaterali come il FMI e la Banca Mondiale e i prestatori del ‘Club di Parigi’ di governi occidentali per lo più ricchi — è scesa dall’83% al 58%.”

In secondo luogo, l’allungamento della guerra in Ucraina offre agli Stati Uniti un vantaggio nella competizione EU-China-US sullo sviluppo delle tecnologie verdi e corrispondenti mercati.

Al momento, a dispetto sia del forte bisogno di cooperazione per affrontare la crisi ambientale, sia delle promesse sul tavolo di lasciare i mercati aperti e condividere le tecnologie verdi per abbattere i costi, a detta di alcuni commentatori  diventa plausibile che “le considerazioni geoeconomiche stiano diventando fattori politici sempre più importanti”, poiché “l’UE, gli Stati Uniti e la Cina sembrano più determinati che mai a promuovere politiche industriali verdi nazionali e sostenitori delle energie rinnovabili.”

Questo vorrebbe dire due cose.

Primo, l’Europa si trova in casa una crisi geopolitica di straordinaria potenza, che ha già incominciato ad affrontare devolvendo una parte consistente delle proprie risorse riservate dal green deal all’aumento delle spese militari, riducendo quindi la sua capacità competitiva nel campo dello sviluppo delle tecnologie verdi.

Secondo, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna stanno spingendo l’Europa a tagliare nettamente il suo legame con la Russia, e ciò significa non solo permettere agli USA di guadagnarci con la vendita del gas liquido all’Europa in sostituzione di quello russo — con effetti aggravanti sull’ambiente aggiuntivi — ma anche di impedirgli di avere un accesso relativamente più economico alle fonti energetiche che sono assolutamente necessarie anche per la transizione ecologica.

Se si pensa che queste siano delle tesi audaci, mettetevi per un momento in testa il cappello ideologico che ci hanno propinato in tutti questi anni, quello del managerialismo neoliberale, il cappello delle “opportunità”.

Leggiamo per un momento il mondo con quel cappello: una situazione così, per gli americani è un’opportunità irriproducibile.

Ma quando si ripresenta l’opportunità di mettere l’Europa nella condizione di reindirizzare le proprie risorse alla difesa e alla gestione della crisi geopolitica di fronte a tutte le altre crisi sociali, ambientali, economiche ecc., e la necessità strategica di investire nella transizione ecologica?

Quale migliore opportunità di questa avrebbe potuto dare Putin a Biden per avvantaggiarsi nella corsa competitiva con l’Europa per la leadership tecnologica della green transition?

Questo scenario può voler dire solo una cosa per l’Europa: “there may be trouble ahead”, per riprendere il tema della famosa canzone.

In terzo luogo, il ritiro delle truppe dall’Afghanistan, l’impegno dell’Europa sul versante ucraino/russo, e l’aumento delle spese militari in Europa libera risorse per gli Stati Uniti, risorse che possono usare per impegnarsi su un altro fronte, quello asiatico, e in particolare  l’Asia orientale, dove la strategia americana è quella dell’accerchiamento e di contenimento della Cina.

Questa strategia di contenimento ha anche a che fare con il tentativo Americano di contrastare lo sviluppo della “Belt and Road Iniziative”, un progetto di sviluppo di una infrastruttura globale adottata dalla Cina nel 2013, e che porta investimenti in quasi 146 paesi.

Un’iniziativa che si basa sulla costruzione di strade, ponti, ferrovie, oleodotti, gasdotti, porti e via dicendo, e creerebbe potenzialmente una grande infrastruttura geoeconomica nell’area euroasiatica, una struttura il cui controllo è in mano cinese, e permetterebbe alla Cina di supplementare il trasporto marittimo (necessario oggi per l’importazione di gran parte dell’import di gas e del petrolio e tutta l’esportazione di merci) con quello di terra.

Ora, si vede che un allungamento della guerra in Ucraina è anche funzionale alla compressione di questa strategia cinese, poiché nodi importanti della”” Belt and Road iniziative” “dovrebbero appunto passare per l’Ucraina e, in secondo luogo, una Europa drasticamente sganciata dalla Russia dal punto di vista delle materie prime mutilerebbe il progetto euroasiatico della parte europea.

Per mantenere la propria egemonia, gli Stati Uniti sembrano quindi spingere per una de-globalizzazione dell’economia nel senso di una creazione di due grandi poli. Uno atlantico, con fulcro tra Stati Uniti e un’Europa ad essi subordinata, e uno asiatico, con Cina e Russia che si complementano dal punto di vista delle materie prime, della tecnologia e della produzione industriale.

 Nell’ipotesi di una de-globalizzazione basata sull’emergenza di almeno due grandi poli geopolitici e geoeconomici, puntare al contenimento ha un senso strategico per gli USA. Così come avrebbe un senso strategico per gli Stati Uniti, contenere la Cina nel suo sviluppo e commercializzazione delle tecnologie di punta, inclusa quelle per la green transition, anche nell’ipotesi di una più debole ri-globalizzazione.

La dirigenza cinese infatti, dopo la crisi del 2008, nonché dopo il lungo ciclo di lotte per aumenti salariali, migliori condizioni di lavoro, ma anche lotte ambientali, sembra convinta di dover pianificare una politica industriale per risalire la catena del valore.

È ovvio che questo progetto contrasti con gli interessi occidentali e soprattutto americani. Costruendo sulla linea di Trump sulla Cina, l’amministrazione di Biden ha quindi promosso il “decoupling tecnologico selettivo” nei confronti della Cina, nel senso di restringere selettivamente nelle aree di interesse strategico, le esportazioni, le importazioni, gli investimenti diretti e gli investimenti finanziari, cosa che sta riconfigurando in maniera fondamentale il rapporto tra USA e Cina.

Queste strategie si possono chiaramente attuare in maniera molto approssimata e anche per vie sporche come la guerra, o la promozione del suo allungamento nel tempo, e l’instaurazione di un’economia di guerra (si veda per esempio l’articolo di Andrea Fumagalli).

 La formazione di due poli, se questo è quello che avverrà, può essere solo graduale, poiché sganciarsi dalla Cina significa rimpiazzare altri centri di produzione globale mentre si cerca di mantenere allo stesso tempo l’egemonia del dollaro, un’egemonia che passa anche per la destinazione del surplus commerciale della Cina con gli USA all’acquisto di Buoni del Tesoro americani.

Ma c’è un altro fattore da tenere in conto, la minaccia di uno sgonfiamento della bolla speculativa e di debito che si è gonfiata negli anni successivi al 2008.

E molto probabilmente che, tra guerre, inflazione e stagflazione si avrà una nuova grande recessione mondiale, che dal punto di vista del capitale, se non si sollevano le moltitudini in maniera costituente per ridisegnare la loro cooperazione sociale in forme assai più eque, inclusive e rispettose della natura non umana, significa un’opportunità ulteriore per dirigere gli investimenti e riprendere una nuova fase di accumulazione.

L’arrivo di una grande recessione (e magari dar la colpa a Putin anche di questo come ha già fatto Biden) può servire appunto a svincolare almeno parte dell’economia USA all’import cinese, e con la sua fisarmonica darle spazio e tempo per dirigere investimenti e capitali in quelle aree del mondo che possono sostituire la produzione cinese.

La guerra in Ucraina e la subordinazione strategica dell’Europa gli Stati Uniti, spinge dunque verso la visione strategica degli USA, cioè del distaccamento economico dell’Europa dalla Russia, cosa che contemporaneamente avvicina quest’ultima alla Cina per la costruzione di un polo geo-economico e geo-politico. Ma questa strategia può ritorcersi contro agli stessi Stati Uniti, come sembra indicare l’impatto delle sanzioni, soprattutto quelle che lo escludono dal sistema di pagamento SWIFT.

La reazione della Russia è stata quella di instaurare la parità del rublo con l’oro che ha permesso, insieme alla richiesta di pagamento del gas in rubli, a contrastare la caduta del rublo dopo le sanzioni, a ricuperare quasi tutto il valore, e a definire un pavimento oltre il quale il tasso di cambio tra rublo e dollaro non può andare.

E’ giusto quindi chiedersi se gli smottamenti nell’egemonia del dollaro possano aprire appunto all’emergenza di un sistema monetario separato centrato su un paniere di valute legato alle commodities (materie prime strategiche) delle quali la Russia, ma anche la Cina, sono grandi produttori. Questa sembra essere la lettura che ne deriva il Credit Swiss.

La mossa della parità del rublo con l’oro forse presagisce appunto la costruzione futura di un pacchetto di monete legate alle commodities che può valere come alternativa al dollaro, specialmente se la Cina deciderà un giorno di aggregarsi. Specialmente in questa fase, dove le commodities, per via della guerra ma anche del green deal tendono a rafforzarsi.

Si vedrà.

Da aggiungere infine, che queste dinamiche monetarie si stanno sommando ad altre tendenze che diminuiscono l’importanza ancora egemonica del dollaro, come per esempio le consultazioni tra Arabia Saudita e Cina attorno al pagamento in Yuan del petrolio.

Disertare la guerra è disertare il comando sul mondo.

Non so come, ma a me sembra che questi giochi strategici attorno al comando sul mondo siano come il riarrangiare la disposizione delle sedie sul ponte del Titanic, mentre questo sta per affondare.

 Per tornare alle nostre preoccupazioni iniziali, cosa significa quindi disertare la guerra alla luce del comando sul mondo, delle dinamiche interne a questo comando, alla lotta per l’egemonia su di esso?

 In questo ambito, disertare la guerra significa disertare questo comando, e poiché questo è l’ambito del comando verticale sulla cooperazione sociale dal quale in fondo dipendiamo, disertare questo comando vuol dire specularmente creare cooperazione sociale che non dipenda da e non sia sottomesso a questo comando, cioè creare comune, progettare comune che ci offra quanto più possibile riparo dal comando e dai suoi effetti devastanti.

In piccolo, è l’immagine del soldato disertore che scappa dal suo reggimento, la cui vita dipende dal comune che instaura con chi gli dà del cibo e un tetto.

Un’immagine che può evocare anche quella dell’“abbandono di ogni campo di battaglia, sopravvivenza ai margini di una società che si sta disfacendo, autosufficienza nell’esilio dal mondo” come scrive Franco (Biffo) Berardi.

Ma anche una sopravvivenza ai margini di questo mondo e quindi del suo comando non può evitare di costruire un altro mondo, anche se marginale.

Allo stesso modo, abbandonare completamente ogni campo di battaglia in questo mondo, non può evitare che il comando di questo mondo sposti il campo di battaglia ai confini dell’altro mondo, soprattutto se si tiene in mente la logica espansiva del capitale.

 Cosa rimane dunque del disertare la guerra?

 Rimane, spero, un’ambivalenza produttiva.

Il fatto che la diserzione sia un momento, una fase necessaria, nella costruzione di un altro mondo, mentre sopravvive forte anche la consapevolezza che molto di questo mondo ci appartiene e può, e deve essere, riappropriato nella costruzione dell’altro mondo.

 

 

 

Diritti umani, "Non è più possibile

affidarsi ad un piccolo gruppo di governi

nel Nord del mondo per difenderli".

Repubblica.it – (12 gennaio 2023) – Redazione – ci dice:

 

Il nuovo rapporto di “Human Rights Watch” che propone un altro modello di leadership globale sui diritti umani.

 È il World Report 2023 che analizza la situazione di quasi 100 Paesi.

LONDRA – La litania di crisi dei diritti umani che si è svolta nel 2022 – dall'Ucraina alla Cina all'Afghanistan – ha lasciato dietro di sé un mare di sofferenza umana, ma ha anche aperto nuove opportunità per la leadership dei diritti umani da parte di paesi di tutto il mondo, ha dichiarato oggi Tirana Hassan, direttore esecutivo ad interim di “Human Rights Watch” (Hrw)  pubblicando il Rapporto mondiale 2023, il “World Report” che esamina lo stato dei diritti umani in quasi 100 Paesi in cui l' “Ong” opera.

Mentre il potere si sposta in tutto il mondo, proteggere e rafforzare il sistema globale dei diritti umani di fronte ai prevedibili sforzi dei leader abusivi per abbatterlo richiede rinnovati impegni da parte di tutti i governi che trascendono le attuali alleanze politiche.

"L'anno scorso ha dimostrato che tutti i governi hanno la responsabilità di proteggere i diritti umani in tutto il mondo", ha detto Hassan.

 "In un contesto di potere mutevole, c'è più spazio, non meno, per gli stati per difendere i diritti umani mentre emergono nuove coalizioni e nuove voci di leadership".

Una trentatreesima edizione da 712 pagine.

Nel World Report 2023 di 712 pagine, “Human Rights Watch” esamina le pratiche in materia di diritti umani in molte parti del mondo.

Nel suo saggio introduttivo, Hassan afferma che in un mondo in cui il potere si è spostato, non è più possibile fare affidamento su un piccolo gruppo di governi per lo più del Nord del mondo per difendere i diritti umani.

La mobilitazione del mondo intorno alla guerra della Russia in Ucraina ci ricorda lo straordinario potenziale quando i governi realizzano i loro obblighi in materia di diritti umani su scala globale.

Spetta ai singoli Paesi, grandi e piccoli, applicare un quadro dei diritti umani alle loro politiche, e quindi lavorare insieme per proteggere e promuovere i diritti umani.

La questione aperta dal conflitto in Ucraina.

L'invasione su vasta scala dell'Ucraina da parte del presidente russo Vladimir Putin, che ha preso di mira le infrastrutture civili e provocato migliaia di vittime civili, ha catturato l'attenzione del mondo e innescato l'intero arsenale del sistema dei diritti umani.

Il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite ha aperto un'indagine sugli abusi e ha nominato un esperto per monitorare la situazione dei diritti umani in Russia.

La “Corte penale internazionale” ha aperto un'altra indagine a seguito di un deferimento da parte di un numero record di Paesi membri della Corte.

L'Unione Europea, gli Stati Uniti, il Regno Unito, il Canada e altri governi hanno anche imposto sanzioni internazionali senza precedenti contro individui, società e altre entità russe legate al governo russo.

L'azione globale necessaria.

 I governi che stanno fornendo un sostegno consolidato senza precedenti all'Ucraina dovrebbero chiedersi quale sarebbe la situazione se avessero chiesto conto a Putin nel 2014, all'inizio della guerra in Ucraina orientale; o nel 2015, per abusi in Siria;

o anche prima, per l'escalation delle violazioni dei diritti umani in Russia nell'ultimo decennio.

Questo tipo di azione globale è necessaria in Etiopia, dove due anni di atrocità da parte di tutte le parti in conflitto hanno ricevuto solo una piccola parte dell'attenzione focalizzata sull'Ucraina, contribuendo a una delle peggiori crisi umanitarie del mondo, ha detto Hassan.

La guerra in Etiopia fuori dall'agenda.

 Il “Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite”, che ha il compito di garantire la pace e la sicurezza internazionali, non è stato disposto a mettere l'Etiopia nella sua agenda formale a causa dei blocchi da parte dei membri africani, nonché di Russia e Cina.

 Il processo di pace guidato dall'”Unione africana” recentemente concluso ha portato a una fragile tregua, ma affinché possa reggere, i sostenitori dell'accordo, tra cui l'Unione africana, le Nazioni Unite e gli Stati Uniti, dovrebbero segnalare e mantenere la pressione per garantire che coloro che hanno commesso gravi crimini durante la guerra siano chiamati a rispondere per rompere i cicli mortali di violenza e impunità.

La responsabilità è fondamentale per le vittime per ottenere una misura di giustizia e risarcimenti che finora è stata elusiva.

Le responsabilità della Cina.

La mancanza di responsabilità del governo cinese per la detenzione di massa, la tortura e il lavoro forzato di ben un milione di uiguri e altri musulmani turchi nella regione dello Xinjiang persiste.

Il “Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite” ha perso due voti prima di approvare una risoluzione per discutere il rapporto dell'”Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani” che ha concluso che gli abusi nello Xinjiang possono costituire crimini contro l'umanità.

 La vicinanza di quel voto mostra il crescente sostegno tra i governi per ritenere il governo cinese responsabile ed evidenzia il potenziale per alleanze interregionali e nuove coalizioni per sfidare l'aspettativa di impunità di Pechino.

 I governi, come Australia, Giappone, Canada, Regno Unito, UE e Stati Uniti, che stanno riconsiderando le loro relazioni con la Cina, stanno cercando di espandere gli accordi commerciali e di sicurezza con l'India.

Ma il” partito nazionalista indù Bharatiya Janata Party” del primo ministro “Narendra Modi” ha imitato molti degli stessi abusi che hanno permesso la repressione dello stato cinese, e approfondire i legami con l'India senza pressioni su Modi per rispettare i diritti spreca una leva preziosa per proteggere lo spazio civico indiano sempre più in pericolo.

L'autoritarismo al servizio della stabilità di governo.

 "Gli autocrati si basano sull'illusione che le loro tattiche di braccio forte siano necessarie per la stabilità, ma come i coraggiosi manifestanti di tutto il mondo mostrano più e più volte, la repressione non è una scorciatoia per la stabilità", ha detto Hassan.

"Le proteste nelle città di tutta la Cina contro le rigide misure di blocco 'zero Covid' del governo cinese dimostrano che i desideri delle persone per i diritti umani non possono essere cancellati nonostante gli sforzi di Pechino per reprimerli".

I movimenti di protesta e la società civile.

I governi che rispettano i diritti hanno sia l'opportunità che la responsabilità di prestare la loro attenzione politica e la loro resistenza ai movimenti di protesta e ai gruppi della società civile che stanno sfidando i governi abusivi in paesi come il Sudan e il Myanmar.

In Sudan, i responsabili politici di Stati Uniti, Nazioni Unite, UE e partner regionali che si impegnano con la leadership militare del Sudan dovrebbero dare priorità alle richieste di protesta e dei gruppi di vittime per la giustizia e la fine dell'impunità per coloro che occupano posizioni di comando.

(In Sudan possiede una fabbrica di bombe atomiche Klaus Schwab, il “nuovo profeta” ed Autore della “Quarta Rivoluzione Industriale” assieme al giovane teorico della prossima vita dell’umanità e del cambiamento climatico il filosofo  Yuva Noah Harari. Ndr.)

 E l'Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (ASEAN) dovrebbe intensificare la pressione sulla giunta del Myanmar allineandosi con gli sforzi internazionali per tagliare le fonti militari di valuta estera.

Il pesante costo dell'inazione.

 La comunità internazionale dovrebbe anche applicare una lente dei diritti umani alla minaccia esistenziale del cambiamento climatico.

Dal Pakistan alla Nigeria all'Australia, ogni angolo del mondo affronta un ciclo ininterrotto di inondazioni catastrofiche indotte dall'uomo, enormi incendi e siccità.

Questi disastri illustrano il costo dell'inazione, con i più vulnerabili che pagano il prezzo più alto.

I funzionari governativi hanno l'obbligo legale e morale di regolamentare le industrie, come i combustibili fossili e il disboscamento, i cui modelli di business sono incompatibili con la protezione dei diritti fondamentali.

Il caso di Lula in Brasile.

 "Assistere le comunità in prima linea e i difensori dell'ambiente è uno dei modi più potenti per respingere le attività aziendali e governative che danneggiano l'ambiente e proteggono gli ecosistemi critici necessari per affrontare la crisi climatica", ha affermato Hassan.

"In Brasile, il presidente Luiz Inácio Lula da Silva si è impegnato a ridurre a zero la deforestazione amazzonica e a difendere i diritti indigeni, e la sua capacità di mantenere i suoi impegni in materia di clima e diritti umani è fondamentale per il Brasile e il mondo".

Rispetto alla portata e alla frequenza delle crisi, un nuovo modello.

 L'entità, la portata e la frequenza delle crisi dei diritti umani in tutto il mondo dimostrano l'urgenza di un nuovo inquadramento e di un nuovo modello di azione.

Centrare le nostre più grandi sfide e minacce al mondo moderno intorno ai diritti umani rivela non solo le cause profonde della perturbazione, ma offre anche una guida per affrontarle.

Ogni governo ha l'obbligo di proteggere e difendere i diritti umani.

"La mobilitazione mondiale intorno all'Ucraina ha mostrato cosa è possibile quando i governi lavorano insieme", ha detto Hassan.

 "La sfida per tutti i governi è quella di portare lo stesso spirito di solidarietà per re-immaginare ciò che serve per raggiungere il successo nella protezione e nella promozione dei diritti umani in tutto il mondo".

 

 

 

Harari: Ci sarà una élite

dominante e una classe inutile.

Mariomancini.medium.com – Mario Mancini – (19 gennaio 2019) – ci dice:

 

Ecco l’innovazione che si attua in Silicon Valley.

Vai agli altri articoli della serie “La rivoluzione tecnologica e le sue conseguenze”.

La Valle dei paradossi e delle distopie.

Il paradosso, cioè un ragionamento corretto che ha, però, in sé una contraddizione eclatante, sembra proprio essere la nuova razionalità che modella le menti dei protagonisti del ciberspazio.

(E tutti i governi globalisti occidentali seguono pedissequamente i paradossi di Klaus Schwab e Hatari.  “Davos “Docet! Ndr.)

 Il principio di contraddizione sembra essere diventato il motore del modo di pensare dei tecnologi, degli imprenditori e delle persone che stanno cambiando il mondo.

Prendiamo il caso dell’intellettuale israeliano Yuval Noah Harari.

Ci stiamo occupando molto di questo, anche troppo, brillante intellettuale, le cui tesi sembrano le più adatte a darci un quadro d’insieme del punto in cui è arrivata l’evoluzione umana e delle sfide che l’attendono.

Nella sua indagine, che inizia con l’affermazione dell’homo sapiens e arriva fino ai robot, Harari è arrivato a maturare una posizione estremamente critica nei confronti di quello che sta succedendo nella Silicon Valley.

Non perde occasione per affermare quanto pernicioso sia quel modo di pensare, soprattutto per il suo agnosticismo verso le conseguenze dei modelli tecnologici ed economici praticati nella Valle.

Le conseguenze della tecnologia, per usare una famosa locuzione di Martin Heidegger — che ha scritto qualcosa di definitivo su questo tema –, sono tutt’altro che tecnologiche, poiché la tecnica, secondo il pensatore tedesco, è sussumibile nella metafisica.

Per certi versi, le profezie di Harari e di Klaus Schwab sul futuro dell’umanità, plasmata sul modello tecnologico della Valle, sembrano affette dalla sindrome di Cassandra.

 Non è infatti un mistero che Harari ritenga la Silicon Valley l’incubatore di una montagna di rovine distopiche a cui sta andando incontro l’umanità.

 Harari è convinto che la Silicon Valley stia minando la democrazia e costruendo un mondo in cui la democrazia è un” per di più”.

 È qualcosa che sta succedendo già da adesso perché, con i mastodontici meccanismi d’influenza delle menti di miliardi di persone, le grandi compagnie tecnologiche stanno distruggendo l’idea a fondamento della modernità e dell’illuminismo, quella di un individuo sovrano guidato nelle sue azioni dal libero arbitrio.

Ha scritto in proposito:

“Se gli umani sono animali hackerabili e se le nostre scelte e opinioni non riflettono il nostro libero arbitrio, quale dovrebbe essere il ruolo della democrazia?

Come vivi quando ti rendi conto che il tuo pensiero potrebbe essere plasmato dal governo, che la tua amigdala potrebbe funzionare per Putin e che la prossima idea che si affaccia nella tua mente potrebbe essere il prodotto di qualche algoritmo che ti conosce meglio di quanto tu conosca te stesso?”.

Se dovessimo cercare il corrispettivo letterario alle tesi di Harari, il pensiero potrebbe andare a un’opera poco conosciuta ma visionaria di Jack London, “Il popolo dell’abisso”, pubblicato nel 1903 e disponibile in italiano negli Oscar Mondadori.

È preoccupato anche per altre cose.

Soprattutto per la tenuta dell’assetto sociale costruito intorno alla democrazia, primo fra tutti il lavoro.

La rivoluzione tecnologica guidata dalla la Silicon Valley richiede pochi lavoratori. Si sta creando così una nuova ristretta classe dominante, quella che possiede i dati, e una grande “classe inutile” brulicante e furiosa, che fornisce i dati.

Quest’ultima è l’equivalente di quel popolo degli abissi, della omonima e ben poco conosciuta opera di Jack London.

La giovane classe imprenditoriale della Valle lo ascolta, lo invita e lo corteggia in ogni occasione.

 Il suo primo libro “Sapiens, breve storia dell’Umanità” occupa il nono posto della classifica dei libri preferiti da Mark Zuckerberg.

Google lo ha chiamato a parlare si suoi tecnologici e i due fondatori, Larry Page e Serghey Brin, fanno spesso riferimento alle sue idee.

Bill Gates ha scritto un articolo celebrativo di 1000 parole su Homo Deus e si è prefisso di raccomandarlo, già a colazione, a Melinda Gates, inserendo 21 Lezioni per il 21° secolo, l’ultimo libro di Harari, tra i cinque migliori libri del 2018. Nonostante queste opinioni, di cui il futurologo israeliano non fa certo mistero, succede che Harari è oggi il pensatore più in auge nella Silicon Valley.

 È venerato come una star.

Com’è successo che CEO, tecnologici, imprenditori e governatori globalisti dei paesi occidentali si sono innamorati della loro Cassandra?

È questa la domanda che si è posta la giornalista Nellie Bowles, che copre la Silicon Valley per molte testate tra cui il “New York Times”, accompagnando lo storico israeliano in un tour di conferenze e incontri tenuto nella Silicon Valley lo scorso autunno.

Proponiamo di seguito il resoconto su questo tour nella Valle delle distopie.

 

In viaggio con Yuval Harari.

Il capo di Netflix, Reed Hastings, in una cena da lui organizzata in onore di Harari, ha presentato il futurologo di Haifa come “la persona che vorremmo essere e non possiamo essere”.

Se quella di una piccola élite dominate e di un popolo degli abissi è la straziante visione di Harari e la conseguenza di quello che egli chiama il datismo, perché i tecnologi della Silicon Valley e i governatori dei Paesi occidentali lo amano così tanto da elevarlo a filosofo massimo del loro tempo?

“Una possibilità è che il mio messaggio non li stia minacciando, e così lo fanno proprio”, dice Harari un po’ perplesso.

Per me, ciò è ancor più preoccupante perché, forse, mi manca ancora qualcosa.”

Quando Harari ha visitato la Bay Area quest’autunno per promuovere il suo ultimo libro, l’accoglienza è stata incredibilmente gioiosa.

Reed Hastings, amministratore delegato di Netflix, gli ha organizzato una cena.

I capi di X, l’appartata divisione di ricerca di Alphabet, gli hanno aperto le porte che in genere sono ben serrate.

Bill Gates ha recensito il libro sul “New York Times” scrivendo “affascinante… uno scrittore così stimolante”.

Sono interessato a capire come la Silicon Valley possa essere così infatuata di Yuval.

 È folle che sia così popolare, lo stanno invitando a parlare ovunque, quando quello che Yuval sta dicendo mina i fondamenti dei loro modelli economici.

 

Ha detto Tristan Harris, ex responsabile etico di Google e co-fondatore del Center for Human Technology.

Una spiegazione potrebbe stare nel fatto che la Silicon Valley, a un certo livello almeno, non è per niente ottimista sul futuro dell’America.

 Più il caos domina a Washington, più il mondo tecnologico è interessato a creare un’alternativa che potrebbe non essere di democrazia rappresentativa.

 I tecnologici sono molto diffidenti nei confronti dei programmi di regolamentazione e incuriositi dalle forme alternative di governo a quello attuale.

C’è addirittura una corrente separatista: i capitalisti di ventura chiedono la secessione della California o la sua frammentazione in stati- aziende.

E quest’estate, Mark Zuckerberg, che ha raccomandato Harari nel suo club del libro, ha manifestato la sua ammirazione per l’autocrate Cesare Augusto.

“Fondamentalmente — ha detto Zuckerberg al “New Yorker” — con mano decisa e dura, Cesare Augusto ha assicurato 200 anni di pace mondiale”.

“Sapiens” è stato il primo libro di Harari, quello che lo ha fatto conoscere al mondo e lo ha reso ricco.

L’opera ha venduto più di otto milioni di copie

Harari, che ha un dottorato di ricerca a Oxford, è un filosofo israeliano di 42 anni, professore di storia all’Università ebraica di Gerusalemme.

La sua fama attuale inizia nel 2011, quando ha pubblicato un libro ambizioso: una storia globale della specie umana.

Ne è nato “Sapiens”:

“A Brief History of Humankind”, pubblicato per la prima volta in ebraico.

Il libro non ha aperto nuovi orizzonti alla ricerca storica, né la sua tesi — che gli umani sono animali e il loro dominio è un incidente — sembra una ricetta in grado di garantire il successo.

Ma il tono disinvolto e il modo dolce in cui Harari ha saputo collegare le varie discipline ne fanno una lettura molto piacevole, anche se il volume si chiude con la previsione che il processo dell’evoluzione umana potrebbe essere al suo capolinea.

Tradotto in inglese nel 2014, il libro ha venduto più di otto milioni di copie e ha reso Harari una celebrità intellettuale.

A” Sapiens” è seguito” Homo Deus”:

A Brief History of Tomorrow”, che ha delineato la sua visione di ciò che viene dopo la fine dell’evoluzione umana.

 In esso, parla del Datismo, un nuovo paradigma organizzativo basata sul potere degli algoritmi.

 Il futuro per Harari è quello in cui dominano i big data, l’intelligenza artificiale supera l’intelligenza umana e alcuni umani sviluppano capacità divine.

Harari si esibisce durante il recente “TedTalk” dedicato al fascismo.

 18 minuti di assoluta genialità. Esiste il video del Ted Talk di Harari con i sottotitoli italiani.

Dopo il passato e il futuro oggi ha scritto un libro sul presente:

“21 Lezioni per il 21° secolo”.

 È pensato per essere letto come una serie di avvertimenti.

 Ha intitolato suo recente TED Talk “Perché il fascismo è così seducente” — e in che modo i nostri dati potrebbero alimentarlo.

Le sue analisi avrebbero potuto trasformarlo in una “persona non grata” nella Silicon Valley.

 Invece, ha avuto il piacere di scoprire di essere molto popolare e amato dalla gente del posto.

 La faccenda alla fine la vede come un’opportunità: “Se fai in modo che le persone inizino a riflettere molto profondamente e seriamente sui problemi che sollevi — dice — alcune delle conclusioni che trarranno potrebbero non essere quelle che si vuole che traggano”.

Il “mondo nuovo” è il mondo della Valle e degli uomini di Davos?

Il capolavoro di Aldous Huxley potrebbe avere descritto bene il futuro dell’umanità dell’epoca del Datismo che succederà a quella del capitalismo.

Harari ha accettato che mi unissi a lui e al suo compagno durante il suo tour nella Valle.

Un pomeriggio, l’ho osservato mentre parlava nella sede di X a Mountain View.

 Mi è apparso un uomo timido, magro, occhialuto, con una spolverata di capelli bianchi.

Ha un che della civetta: un aspetto meditativo, non muove molto il corpo e spesso guarda di traverso l’interlocutore.

La sua faccia non è particolarmente espressiva, ad eccezione di un sopracciglio dispettoso.

Quando incroci i suoi occhi, nella sua espressione c’è un qualcosa di circospetto, come se volesse indagare se anche tu sia pienamente consapevole del male che sta per colpire il mondo.

Dopo il suo incontro con i tecnologici di Google, Harari ha portato la conversazione su Aldous Huxley, uno di suoi autori preferiti.

I contemporanei di Huxley sono rimasti inorriditi dal romanzo “Il mondo nuovo”, che descrive un regime sociale di controllo delle emozioni e di apparente eliminazione del dolore.

 Di primo acchito i lettori che leggono il libro, osserva Harari, possono pensare che tutto vada bene in quel mondo coraggioso.

“Tutto appare così bello e perfetto e invece siamo di fronte a uno scenario intellettualmente inquietante perché è davvero difficile spiegare cosa c’è che non va.

È la stessa sensazione che si ha di fronte alla visione dei tecnologici della Silicon Valley”.

Per esempio è interessante, dice Harari, che a differenza dei politici, le aziende tecnologiche non hanno bisogno di una stampa libera, dal momento che controllano già i mezzi di comunicazione.

 Si è però rassegnato al dominio globale dei tecnologi, dopo la presa d’atto di quanto siano peggiori i politici.

Dice:

Ho incontrato un certo numero di questi giganti dell’high-tech e, generalmente, sono delle brave persone.

Non sono l’unno Attila. Nella lotteria dei leader umani, potrebbe capitare di molto peggio.

Alcuni dei suoi fan tecnologici gli si rivolgono parlando dell’ansia che gli procura il loro lavoro.

 “Alcuni sono molto spaventati dall’impatto di ciò che stanno facendo”, dice Harari.

 

Tuttavia, l’entusiasmo nei confronti del suo pensiero non lo mette del tutto a proprio agio:

È una regola empirica della storia che se vieni così tanto coccolato dall’élite, non sarai più capace di farle paura”, dice Harari.

“Possono assorbirti. Puoi diventare uno dei loro tanti gingilli intellettuali.

Le prove dell’entusiasmo dell’élite tecnologica per l’acume di Harari non sono difficili da trovare.

“Sono attratto da Yuval per la sua chiarezza di pensiero”, ha scritto in una e-mail Jack Dorsey, il capo di Twitter e Square, lodando un particolare aspetto della riflessione di Harari.

E Reed Hastings, capo di Netflix, ha scritto: “Yuval è l’intellettuale anti-Silicon Valley — non porta un telefono e passa molto tempo a meditare.

Vediamo in lui quello che vorremmo davvero essere”.

Ha quindi aggiunto:

 “Nel suo nuovo libro le riflessioni sull’IA e sulle biotecnologie estendono la nostra comprensione delle sfide e dei problemi che dovremo affrontare”.

Alla cena organizzata in onore di Harari, Hastings ha co-ospitato accademici e leader del settore che hanno discusso i rischi del datismo e il modo in cui le biotecnologie prolungheranno la durata della vita umana.

(Harari ha scritto che la classe dominante vivrà più a lungo della “classe inutile”.)

“I suoi libri hanno la capacità di riunire le persone intorno a un tavolo e di farle riflettere e questo è il contributo più grande” ha detto Fei-Fei Li, un esperto di intelligenza artificiale che lavora a Google.

L’irrilevanza dei più.

La locandina dell’evento di San Francisco dove Sam Harris e Harari si sono confrontati di fronte a una vasta platea sul tema “Understanding the present”.

Alcune giorni prima, Harari aveva parlato a San Francisco a 3.500 persone.

L’evento consisteva in un dialogo con Sam Harris che si è presentato in un completo grigio ben inamidato con dei vistosi bottoni bianchi.

Harari sembrava ben meno a suo agio in un completo largheggiante che gli si accartocciava intorno al corpo, le mani intrecciate sul ventre e sprofondato nella sedia.

Però, mentre parlava della meditazione — Harari trascorre due ore ogni giorno e due mesi all’anno in silenzio — ha conquistato la platea.

 In un luogo in cui l’auto-miglioramento è fondamentale e la meditazione è uno sport competitivo, la pratica di Harari gli conferisce lo status di eroe.

Durante la conferenza ha affermato che il libero arbitrio è un’illusione e che i diritti umani sono solo una storia che ci raccontiamo.

 I partiti politici, ha aggiunto, potrebbero non avere più senso.

Ha proseguito sostenendo che l’ordine mondiale liberale si è basato su finzioni come “il cliente ha sempre ragione” e “segui il tuo cuore” e che queste idee non funzionano più nell’età dell’intelligenza artificiale, quando i cuori possono essere manipolati dalla tecnologia.

Tutti nella Silicon Valley sono concentrati sulla costruzione del futuro, ha continuato Harari, mentre la maggior parte delle persone del mondo non sono neppure abbastanza utili per essere sfruttate.

Harari precisa così il suo pensiero al riguardo:

Una persona fuori da quel ristretto circolo percepisce sempre più la propria irrilevanza nello scenario globale.

Ed è molto peggio essere irrilevanti che essere sfruttati.

La classe inutile è straordinariamente vulnerabile.

Se un secolo fa si scatenava una rivoluzione contro lo sfruttamento in fabbrica avveniva nella consapevolezza della rilevanza del proprio ruolo di lavoratori nella società e dell’economia.

 La logica era: non possono eliminarci tutti perché hanno bisogno di tutti noi.

Oggi è meno chiaro il motivo per cui l’élite dominante non dovrebbe eliminare la classe inutile.

“Siete totalmente sacrificabili”, è la nuova ratio del datismo.

 Questo è il motivo, secondo Harari, per il quale la Silicon Valley è così impegnata nel promuovere il concetto di reddito universale di base, oppure l’idea di trasferire delle risorse alle persone indipendentemente dal fatto che lavorino o meno.

 Il messaggio nascosto è: “Non abbiamo bisogno di te. Ma siamo gentili, quindi ci prenderemo cura di te”.

Stile di vita e influenza.

 

La meditazione è una delle pratiche più importanti nello stile di vita di Harari che per certi versi costituisce un modello per i tecnologi della Silicon Valley.

 Il futurologo israeliano è anche vegano e animalista, un altro aspetto molto sentito nella Valle.

Per il proprio soggiorno nella Valle, Harari, insieme al suo coniuge, Itzik Yahav — che è anche il suo manager –, ha affittato una piccola casa a Mountain View.

Una mattina li ho trovati a preparare farina d’avena.

Harari ha osservato che, con l’aumento della sua notorietà nella Silicon Valley, i tecnologi hanno iniziato a interessarsi anche del sul suo stile di vita.

La Silicon Valley è stata una specie di incubatore di nuovi stili di vita legati alla controcultura, la alla meditazione e allo yoga.

 Dice.

Il fatto che io pratichi queste discipline è una delle cose che mi ha reso più popolare e interessante alle persone che vi abitano”.

Mentre parla, indossa una vecchia felpa su dei pantaloni di jeans. La sua voce è silenziosa e, facendo un largo gesto con la mano, rovescia un contenitore di posate.

Harari è cresciuto a Kiryat Ata, vicino a Haifa.

 Suo padre lavorava nell’industria delle armi (come Klaus Schwab).

Sua madre, già dipendente delle poste, ora lavora per il figlio gestendo la sua corrispondenza; riceve circa 1.000 messaggi a settimana.

Harari non usa la suoneria al mattino e si alza spontaneamente tra le 6:30 e le 8:30.

Medita un’oretta e quindi prende una tazza di tè.

Lavora fino alle 4 o 5 del pomeriggio, poi fa un’altra ora di meditazione, seguita da una passeggiata di 60 minuti, che a volte è una nuotata, e poi si mette in TV con Yahav.

I due si sono conosciuti 16 anni fa attraverso il sito di incontri Check Me Out. “Non siamo grandi adepti dell’innamoramento”, dice Harari. “È stata più una scelta razionale quella che ci ha spinto a metterci insieme”.

Yahav è diventato il manager di Harari.

Nel periodo in cui gli editori di lingua inglese non erano troppo convinti della riuscita commerciale di “Sapiens” (il suo primo libro) — ritenendolo troppo serio per il lettore medio e non abbastanza serio per gli studiosi — Yahav ha insistito per andare avanti e ha ingaggiato Deborah Harris, un agente letterario di Gerusalemme.

 Un giorno, mentre Harari era a meditare, Yahav e la Harris hanno venduto il libro alla Random House di Londra.

Oggi c’è un team di otto persone, con base a Tel Aviv, che lavora sui progetti di Harari.

 Il regista Ridley Scott e il documentarista Asif Kapadia stanno adattando “Sapiens” per una serie televisiva, e Harari sta lavorando ad alcuni libri per bambini per raggiungere un pubblico più ampio.

Yahav era solito meditare, ma recentemente ha smesso.

 “Ero troppo frenetico”, dice mentre ripiega il bucato.

“Non ho potuto beneficiare dei vantaggi della meditazione attraverso una pratica regolare”.

Harari rimane invece impegnato nella meditazione.

“Se dipendesse solo da lui, sarebbe come un eremita, impegnato a scrivere tutto il giorno, senza neppure tagliarsi i capelli”, dice Yahav, guardando il coniuge.

La coppia è vegana e Harari è particolarmente sensibile nei confronti degli animali. “Nel mezzo della notte”, dice Yahav, “quando c’è una zanzara, lui la prende e l’accompagna fuori”.

Essere gay, ammette Harari, ha aiutato il suo lavoro, gli ha dato una prospettiva differente.

Ha infatti messo in discussione i principi dominanti della stessa società ebraica in cui è cresciuto, una società che è molto conservatrice nei confronti dell’omosessualità.

 “Se la società ha sbagliato l’approccio all’omosessualità, chi garantisce che non abbia sbagliato anche tutto il resto?”, Dice.

“Se fossi un superumano, il mio super-potere sarebbe il distacco”, aggiunge Harari.

La coppia guarda molta TV. È il loro hobby principale e l’argomento principale di conversazione. Yahav dice che è l’unica cosa da cui Harari non riesce a distaccarsi.

Hanno appena finito di vedere “Dear White People” dopo essere andati in sollucchero per la serie australiana “Please Like Me”.

Quella sera, avevano in programma di incontrare i dirigenti di Facebook nella sede della società e poi di guardare lo spettacolo di YouTube “Cobra Kai”.

Quando Harari lascerà la Silicon Valley, entrerà in un ashram appena fuori Mumbai, in India, per 60 giorni di assoluto silenzio.

 

 

 

Il cambio dei vertici militari in Russia

e altre notizie interessanti.

Limesonline.com – Redazione – (12/01/2023) – ci dice:

 

La rassegna geopolitica della giornata.

 

GUERRA D'UCRAINA, KAZAKISTAN, ETIOPIA.

LE NOTIZIE INTERESSANTI DI OGGI.

 

Guerra d’Ucraina – nuova catena di comando russa.

Il ministero della Difesa della Federazione Russa ha annunciato un altro riallineamento degli ufficiali che guidano la guerra in Ucraina.

 Il generale Valerij Gerasimov diventa comandante generale della campagna bellica, mentre l’attuale comandante Sergej Surovikin diventerà uno dei suoi tre vice, al fianco di Oleg Saljukov (comandante in capo delle forze di terra) e di Alexey Kim (vicecapo di Stato maggiore).

In termini di gerarchia burocratica, l’annuncio non rappresenta uno sconvolgimento, poiché Surovikin già riferiva direttamente a Gerasimov.

Secondo il commentatore televisivo russo Sergej Markov, «non viene punito né Surovikin né Gerasimov, è tutta una squadra – ovviamente con la concorrenza, cosa che accade sempre tra i cani di punta».

La decisione mette Gerasimov, capo di Stato maggiore da oltre un decennio, più vicino alla supervisione diretta dell’operazione.

Il ministero della Difesa russo ha spiegato questa mossa con «la necessità di organizzare una più stretta interazione tra i servizi delle Forze armate» e migliorare il «comando e controllo dei raggruppamenti di truppe».

Soprattutto alla luce del recente incidente a Makiivka (oblast’ di Donec’k), che ha causato decine/centinaia di morti tra le fila russe.

 Sebbene Gerasimov sia stato una figura chiave nella pianificazione dell’invasione dell’ex paese satellite, sinora è rimasto defilato con una sola visita personale al fronte.

 Ma il Cremlino ha deciso di cambiare registro per almeno due motivi:

 primo, gli insuccessi bellici o gli scarsi risultati non devono essere intestati ai quadri intermedi, bensì ai massimi vertici delle Forze armate, che devono risponderne personalmente;

secondo, per chiedere future e più vaste “mobilitazioni parziali” per sostenere lo sforzo bellico, gli alti comandanti devono mostrarsi per primi disposti a perdere la vita sul campo per la “Grande Madre”.

 Ecco perché il presidente Vladimir Putin ha appuntato come Capo di stato maggiore generale delle Forze armate di terra l’“eroe della Russia” Aleksandr Lapin, primo artefice della sanguinosa e quasi totale liberazione/occupazione della Repubblica popolare di Luhans’k.

Un modo anche per mettere a tacere i sempre più irruenti “falchi” del “partito della vera guerra” (Ramzan Kadyrov su tutti), che al sicuro e lontani dal fronte lo avevano messo in cattiva luce dopo il sofferto ma inevitabile ritiro russo dalla città di Lyman (oblast’ di Donec’k).

Guerra d’Ucraina – pressioni di Polonia e Lituania.

Durante il vertice del Triangolo di Lublino a Leopoli (Galizia), il presidente della Polonia Andrzej Dudda ha dichiarato che i colloqui con il presidente della Lituania Gitanas Nausėda e l’omologo dell’Ucraina Volodymyr Volodymyr Zelens’kyj (Zelensky) hanno riguardato la difesa del paese invaso dalla Federazione Russa e la sicurezza della «nostra parte d’Europa».

In particolare, Dudda ha menzionato l’intenzione di Varsavia e Vilnius di sostenere Kiev nel suo cammino verso l’Unione Europea e la Nato:

 «Abbiamo detto al presidente ucraino che sosterremo il suo paese dal punto di vista politico nel suo cammino sia verso l’Ue sia verso l’Alleanza Atlantica, in considerazione anche dell’imminente summit Nato a Vilnius».

Dudda ha quindi aggiunto che Polonia e Lituania faranno pressione sulla Nato affinché «l’Alleanza fornisca all’Ucraina speciali garanzie di sicurezza».

Proprio a Leopoli, il capofila del Triangolo di Lublino si è detto pronto a inviare carri armati di produzione tedesca Leopard all’Ucraina, come «partecipazione a una coalizione internazionale».

 Un modo per fare ulteriori pressioni sulla Germania affinché metta a disposizione i propri asset militari.

Kazakistan.

L’ex presidente del Kazakistan Nursultan Nazarbayev ha perso lo status di senatore onorario ed è stato privato di privilegi speciali per ordine della Corte costituzionale del paese.

La decisione giudiziaria segue la recente disposizione presidenziale sull’accantonamento del nome della capitale Nur-Sultan – lustro concesso all’ex “padre della patria” nel 2019 – e sul ripristino dell’antecedente nome Astana (che in kazako significa “capitale”).

Il presidente Kassym-Jomart Tokayev consolida il proprio potere e promuove una silenziosa sostituzione della vecchia classe dirigente di Nazarbayev.

Etiopia.

I ministri degli Esteri di Francia (Catherine Colonna) e Germania (Annalena Baerbock) sono volate a Addis Abeba per supportare il processo di pace.

La visita in Etiopia è cominciata il giorno dopo l’annuncio dei combattenti del Tigrai (Tigre) dell’inizio della consegna delle loro armi pesanti, elemento chiave dell’accordo del 2 novembre 2022.

 Il momento è delicato poiché, mentre i tigrini approntano il disarmo, l’esercito eritreo e le forze amhara continuano a imperversare e occupare parti della regione.

I media filogovernativi parlano di” forze di pace” ma, in base all’accordo sottoscritto, il disarmo dovrebbe avvenire contemporaneamente al ritiro delle forze straniere.

La visita delle due delegazioni europee giunge con una settimana di ritardo rispetto a quella del ministro degli Esteri della Repubblica Popolare Cinese Qin Gang.

 Segno che Pechino gioca d’anticipo anche in Africa.

Francia-Burkina Faso.

Una delegazione della Francia guidata dal segretario di Stato incaricato allo sviluppo della Francofonia Chrysoula Zacharopoulou si è recata a Ouagadougou, capitale del Burkina Faso, dove ha intrattenuto colloqui con il capo della giunta militare Ibrahim Traoré che ha guidato il colpo di Stato di settembre 2022.

 A dicembre, le nuove autorità Burkinabé avevano chiesto alla Francia di ritirare il proprio ambasciatore.

Nel tentativo di ricucire i rapporti, Zacharopoulou ha assicurato che Parigi continuerà a fornire il proprio sostegno a Ouagadougou, sebbene l’ingerenza della Federazione Russa in Africa si stia ben radicando nel Sahel grazie all’attivismo della compagnia militare privata Wagner.

 

 

 

DOV'È IL POTERE.

Mercati e Big Tech sono i nuovi poteri assoluti del mondo: ecco i rischi.

Agendadigitale.eu – (25-1-2022) – Lelio Demichelis – ci dice:

(Docente di Sociologia economica Dipartimento di Economia- Università degli Studi dell’Insubria)

 

Cultura E Società Digitali.

A differenza del passato, oggi la politica è subordinata, come mezzo, all’economia e alla tecnologia, diventate il fine di sé stesse.

Abbiamo un enorme problema di democrazia. Ma non lo vediamo.

 Serve lo Stato contro un capitalismo che mai è stato bello, e oggi lo è ancor meno.

big tech- gafam.

Cos’è il potere?

 Dov’è il potere – anzi, il Potere, usando Pier Paolo Pasolini?

 Non tanto il potere politico – quello sembra facile da identificare, ha dei nomi di persona (Biden, Draghi, Lagarde, Putin) oppure rimanda a Istituzioni specifiche (la Ue, il Parlamento, il Governo, il Fondo monetario internazionale, l’Organizzazione mondiale della sanità – Oms) – quanto ciò che, a monte, determina le reali forme del Potere e i modi con cui si esprime e si esercita su di noi:

 cioè, qual è il Potere che governa la vita delle persone, ovvero, usando Michel Foucault, “conduce le condotte umane” in una direzione piuttosto che in un’altra.

La questione è antica, volendo potremmo risalire a Platone e ad Aristotele e alle loro distinzioni tra democrazia, oligarchia, governo degli uomini o governo delle leggi, democrazia formale e sostanziale, eccetera, eccetera.

 Ma rapportando la questione all’oggi, non possiamo non riconoscere che il potere dell’economia e della tecnologia (antidemocratici per essenza propria) è più forte del potere politico e della democrazia, è potere assoluto in quanto non bilanciato da altri poteri equi-valenti ed equi-potenti.

Indice degli argomenti:

I livelli di governo e i luoghi del Potere.

Cosa si intende per democrazia?

Chi governa il mondo?

La corruzione neoliberale e tecnica della demo-crazia.

Il ruolo dello stato.

I livelli di governo e i luoghi del Potere.

Qui vogliamo quindi ricordare alcuni elementi che ci permettono di definire i diversi livelli di governo (di Potere) oggi esistenti, la loro struttura gerarchica e il loro rapporto con la democrazia, la sovranità, la libertà e l’autonomia delle persone – e il demos (i cittadini) titolare del potere in demo-crazia.

 Non senza aggiungere che da sempre il potere corrompe chi lo pratica, che viene usato per corrompere (qualcun ricorda Mani pulite?), che spesso il popolo ama chi corrompe ed ama essere ingannato (cioè corrotto mentalmente e politicamente) dal potere (pensiamo a Trump e a quel 50% di americani che lo hanno votato e lo rivoterebbero).

 Sul tema della corruzione è recentemente uscito un nuovo libro dal titolo inequivocabile, “Corruptible: Who Gets Power and How It Changes Us” (Scribner Book Company), di Brian Klass, columnist del Washington Post e basato su 500 interviste a uomini di potere.

Qui però useremo il concetto di corruzione e il processo del corrompere nel senso di “disfacimento, deterioramento materiale ma soprattutto morale” (Dizionario etimologico della lingua italiana – Zanichelli) e faremo una rilettura/interpretazione del potere concentrandoci sul macro-contesto entro il quale, oggi, si muovono o possono muoversi i diversi livelli di governo a scala nazionale, sovra-nazionale e locale, pre-determinandone (corrompendone) l’azione e gli effetti.

Questo macro-contesto è dato dal neoliberalismo, egemone nel mondo da quarant’anni a questa parte (è l’ideologia trionfante dopo la morte delle ideologie novecentesche) a dispetto di tutti i suoi fallimenti e del suo intrinseco nichilismo (possiede una potentissima e patologica coazione a ripetersi), sommato con le tecnologie di rete e con chi le possiede (e con la religione tecno-capitalista che esprimono, con il feticismo e il catechismo tecnofilo che producono).

 Macro-contesto ideologico e tecnologico che ha profondamente modificato i livelli di governo esistenti prima degli anni ‘80.

Corrompendo in altro modo la società e la polis, corrompendo la democrazia, il concetto di libertà e imponendosi come modo di vivere/way of life tecno-capitalista sul mondo intero – la globalizzazione e la rete come espressione di questo meta-contesto a-democratico e impostosi come un dato di fatto.

Prima però, una distinzione:

 il governo è la struttura istituzionale/politica – articolata su diversi livelli – “che ha ottenuto il potere di scegliere, decidere e attuare politiche pubbliche.

Nei sistemi democratici questo è ottenuto attraverso elezioni libere e la presentazione di programmi politici” (Bobbio-Matteucci-Pasquino, Il Dizionario di politica – Utet).

All’opposto accade nei sistemi autoritari o tecnocratici.

Diverso è invece il concetto di governo inteso come governare – ossia come attuare un determinato programma politico, scelto dal demos oppure imposto al demos.

E ancora diverso è capire dov’è oggi il potere capace di governare, posto che non è più nel governo-istituzione democratica, ma non si sa bene dove sia.

 Ci aveva provato, con ottimi risultati di analisi, il francese Michel Foucault (1926-1984) che definiva con governamentalità/biopolitica il modo con cui il potere (non necessariamente lo stato) guida e dirige appunto le condotte umane in un senso voluto dal potere, rendendo ciascuno utile e docile verso il potere – e il neoliberalismo era per Foucault una di queste forme di governamentalità/biopolitica (infra, Lippmann), che qui definiamo come macro-contesto e che altrove abbiamo definito come una delle forme di human engineering succedutesi nel corso della storia e soprattutto nel Novecento.

Cosa si intende per democrazia?

“Nella democrazia, l’agire politico non solo è pubblico, ma deve essere reso pubblico, messo sotto gli occhi del pubblico;

e lo è in due sensi:

perché volto ad occuparsi di problemi che direttamente o indirettamente riguardano e condizionano tutti;

 e perché deve essere reso chiaro, giustificato e aperto al pubblico, esposto sempre al giudizio dei cittadini, i quali, in quanto corpo sovrano, hanno due poteri:

quello di autorizzare con il voto e quello di giudicare e controllare perpetuamente, prima o dopo aver votato, coloro che hanno autorizzato” a governarli (Urbinati, Liberi e uguali, Laterza).

Ovvero, nella democrazia, aggiungeva il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky, ci si deve poter attivare, mentre nelle altre forme politiche si è invece attivati da qualcuno/qualcosa di esterno.

 L’essenza della democrazia è infatti in questa possibilità e capacità di ciascuno di attivarsi, cioè di pensare, fare, partecipare, decidere liberamente:

senza questa possibilità e capacità, non c’è democrazia.

Perché, ancora Zagrebelsky, la democrazia moderna è in primo luogo la scelta dei fini e poi la predisposizione dei mezzi per raggiungere tali fini, ovvero il governo della polis è conseguenza della volontà dai cittadini espressa in un pensiero pro-gettante.

E allora, la domanda:

i diversi livelli di governo esistenti oggi rispondono tutti a queste esigenze di democrazia, di partecipazione e di controllo da parte del demos?

Certamente no il potere della finanza e del denaro/mercati;

 certamente no il potere della tecnica e dell’innovazione tecnologica;

certamente no il potere delle multinazionali;

certamente no il potere dei social.

 E il deficit di democrazia non solo va crescendo (populismi, autoritarismi, tecnocrazie, algoritmi), ma viene sempre più accettato come nuova e necessaria normalità del Potere.

E ad essere corrotto oggi da questi poteri non democratici – è quindi anche il principio della separazione dei poteri, essenziale in una democrazia perché sia possibile attivarsi e perché il potere sia trasparente, pubblico e controllabile dal demos.

Già Montesquieu (1689-1755) aveva tracciato la teoria della separazione dei poteri.

 Partendo dalla considerazione che il “potere assoluto corrompe assolutamente”, aveva analizzato i tre poteri che vi sono in ogni stato:

 il potere legislativo, il potere esecutivo e il potere giudiziario.

Condizione oggettiva e necessaria per l’esercizio della libertà del cittadino che esercita il suo potere sovrano (supra Urbinati e Zagrebelsky), è che questi tre poteri restino nettamente separati e bilanciati e controllati, per evitare che diventino appunto poteri assoluti.

 Oggi, i mercati (finanza) e il Big Tech sono i nuovi poteri assoluti del mondo

 (e non basta certo la decisione dell’Antitrust di multare Amazon per poter dire che esiste un controllo, perché questo controllo si esercita solo ex-post, mentre dovrebbe essere esercitabile anche ex-ante, la politica tornando a governare anche il mercato e i processi di innovazione tecnologica (o di regressione tecnologica, posto che Amazon è le vecchie vendite per corrispondenza, oggi algoritmiche;

 e che la Fabbrica 4.0 è solo il vecchio taylorismo, ma digitalizzato).

Oggi, quindi, il potere dell’economia (finanza) e della tecnologia è potere assoluto.

Ieri il sistema economico e industriale veniva subordinato, come mezzo, alla politica, per realizzare dei fini sociali, decisi dal demos;

oggi è la politica che è subordinata, come mezzo, all’economia-finanza e alla tecnologia, diventate il fine di sé stesse.

Quindi abbiamo – di nuovo – un enorme problema di democrazia.

Ma non lo vediamo.  Il Potere sa nascondersi.

Chi governa il mondo (parte prima)?

Lo Stato, sempre meno. Il demos, sempre meno (le scelte economiche e di politica economica vengono imposte dai mercati e dalla finanza , vedi il caso Europa/mercati/banche contro la Grecia nel 2015, con l’Europa democratica (sic!) che rifiuta di accettare l’esito di un voto popolare in un democratico referendum).

 I mercati, sempre di più.

Il Gafam (Google, Amazon, Facebook, Apple, Microsoft – cioè un oligopolio di monopoli), sempre di più (si pensi a come una singola impresa come Amazon ha stravolto in pochi anni, a sua totale discrezione e decisione, il sistema della piccola, ma anche della grande distribuzione e a come i social/imprese private finalizzate al profitto privato governano la vita di miliardi di persone).

 La tecnica, sempre di più – si pensi alla delega di valutazione e di decisione che sempre più diamo ad algoritmi e digitale, a prescindere da ogni controllo e da ogni consapevolezza umana. Le lobby: sempre di più – si pensi a come per decenni è stato negato il riscaldamento climatico e a quanto hanno pesato sul fallimento della recente Cop26.

I sistemi di regolazione extra-statali, sempre di più.

Su questi ultimi sistemi di regolazione, tanto invisibili da essere sconosciuti ai più ma dal potere enorme sul governo della vita di ciascuno e dell’intero sistema globale, il giurista Sabino Cassese aveva scritto anni fa: “Chi governa il mondo?

 La risposta più comune è che il mondo è governato dagli stati che, tramite i propri organi esecutivi, stipulano accordi nelle diverse parti del globo.

 Gli stati non hanno tutti lo stesso peso e la stessa influenza e di conseguenza il potere non è ripartito equamente.

Essi infine stipulano convenzioni e trattati […].

Questa risposta tralascia però due fatti importanti.

 La prima è che gli stati hanno vissuto nel tempo processi di aggregazione e di disaggregazione.

La seconda è che sono stati affiancati da un numero sempre crescente di organismi non statali” (che non sono le Ong), ma con il potere di imporre norme estremamente vincolanti, al di fuori di qualunque sovranità e controllo da parte del demos (S. Cassese, Chi governa il mondo? – il Mulino).

Cassese definiva questo regime di regolazione come global polity.

Chi governa il mondo (parte seconda)?

Ma a governare il mondo è oggi soprattutto – come anticipato – il pensiero/ideologia neoliberale e tecnico (il meta-contesto, ciò che predetermina i modi del potere economico, tecnologico e politico; che ingegnerizza la vita sociale e individuale).

 Che si basa su una serie di principi:

trasformazione pianificata della società in mercato e in rete;

stato da governare come un’impresa ma soprattutto stato come promotore del mercato;

interconnessione/digitalizzazione/connessione/integrazione di tutti nel sistema tecnico e di mercato (che è la nuova forma dell’organizzazione, del comando e del controllo da parte del capitale, come direbbe Marx);

 l’uomo non più come persona ma come capitale umano;

l’impresa solo nella sua forma autocratica.

Scriveva il neoliberale Walter Lippmann già negli anni ‘30 del ‘900, definendo chiaramente quella che sarebbe stata poi l’azione di pianificazione neoliberale della società a partire dagli anni ‘80: “il liberalismo è la filosofia della rivoluzione industriale” e suo compito è modificare l’uomo, adattandolo alle esigenze della produzione e del capitalismo, divenendo “un nuovo sistema di vita per l’intera umanità”, accompagnando “la rivoluzione industriale in tutte le fasi del suo sviluppo; e poiché questo sviluppo è infinito, il nuovo ordine non sarà mai in nessun modo perfettamente realizzato e concluso” (Dardot e Laval, La nuova ragione del mondo – DeriveApprodi).

Ovvero, per i neoliberali – in questo profondamente anti-democratici, illiberali e in contraddizione con se stessi, negando di fatto la libertà dell’individuo e imponendo all’individuo di adattarsi a qualcosa che non deve governare e controllare – l’ambiente sociale e il sistema capitalistico devono tendere a formare un tutto armonico, in realtà integrato e soprattutto e peggio, integralistico.

Esiste poi il potere delle imprese.

 Scriveva – lo abbiamo fatto in altre occasioni ma lo richiamiamo di nuovo – Luciano Gallino (1927-2015), nel 2011:

“La democrazia, si legge nei manuali, è una forma di governo in cui tutti i membri di una collettività hanno sia il diritto, sia la possibilità materiale di partecipare alla formulazione delle decisioni di maggior rilievo che toccano la loro esistenza. […]”.

E invece, oggi

 “la grandissima maggioranza della popolazione è totalmente esclusa dalla formazione delle decisioni che ogni giorno si prendono” nei settori dell’economia, e della finanza, di fatto espropriati e alienati dalla democrazia, per l’azione di quel soggetto che si chiama grande impresa, industriale o finanziaria, italiana o straniera che sia.

 “Il fatto nuovo del nostro tempo è che il potere della grande impresa di decidere a propria totale discrezione che cosa produrre, dove produrlo, a quali costi per sé e per gli altri, non soltanto non è mai stato così grande, ma non ha mai avuto effetti altrettanto negativi sulla società e sulla stessa economia. […]

 il potere esercitato dalle corporation sulle nostre vite configura un deficit di democrazia da costituire ormai il maggior problema politico della nostra epoca”.

 Si pensi ancora ad Amazon, a Google, ai social.

Si pensi alla Gkn o alla Whirlpool e alla loro libertà di delocalizzare (e al governo tecnocratico di Draghi che ovviamente non glielo impedisce).

La corruzione neoliberale e tecnica della demo-crazia.

Dunque, abbiamo un sistema complesso di livelli di governo, alcuni espliciti, altri nascosti, apparentemente disordinati, ma tutti in realtà organizzati, finalizzati, governati secondo il macro-contesto (il meta-livello di governo) del neoliberalismo e della tecnica (e della tecnocrazia).

Un macro-contesto che appunto pre-determina ogni scelta politica, corrompendo ex-ante la demo-crazia, corrompendo ex-ante la sovranità del demos, questo macro-contesto imponendosi come dato di fatto immodificabile, che non si deve e non si può governare democraticamente (anche perché confonde dolosamente rete e mercato con democrazia, facendoci credere che siano la stessa cosa – e ideologia significa anche, come scriveva Norberto Bobbio, “far credere”), senza permettere la ricerca di alternative.

 È il macro-potere di sé stesso.

È il meta-livello di governo che subordina a sé e che sussume in sé tutti gli altri livelli di governo.

Che ha corrotto le radici della democrazia, illudendo di una libertà solo apparente.

Ha scritto Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia nel 2001, valutando gli effetti delle politiche neoliberali (noi però aggiungendo la tecnica):

“1) le regole economiche neoliberiste hanno creato maggiori disuguaglianze, con un calo dei soggetti che condividono i benefici dell’attività economica e una crescita più lenta dell’economia in generale e persino degli investimenti”;

 2) “la finanza non è più al servizio dell’intera economia ma solo di se stessa”;

3) “i sistemi fiscali incoraggiano la speculazione e l’elusione fiscale da parte delle multinazionali”;

 4) “le politiche monetarie e fiscali, troppo incentrate sulla difesa da certi rischi (deficit di bilancio e inflazione) ignorano le vere minacce alla prosperità economica, ovvero la crescente disuguaglianza e il sotto-investimento e hanno prodotto più disoccupazione, più instabilità e meno crescita”;

5) “nel mercato del lavoro, i cambiamenti delle istituzioni, delle leggi, delle norme e dei regolamenti hanno indebolito il potere dei lavoratori, che ora hanno più difficoltà a contrapporsi agli eccessi di potere di mercato delle imprese”;

6) “la disuguaglianza è stata una scelta politica” (Le nuove regole dell’economia, il Saggiatore).

 

Il ruolo dello stato.

Scriveva J. M. Keynes, negli anni ‘30 del ‘900, un autore che dovremmo rileggere urgentemente per ripensare al ruolo da tornare ad affidare allo stato e alla necessità di governare democraticamente sia il mercato e sia il Big Tech):

“La cosa importante per il governo, non è fare ciò che gli individui fanno già, e farlo un po’ meglio o un po’ peggio, ma fare ciò che presentemente non si fa del tutto”.

 E aggiungeva.

 “I difetti lampanti dell’economia odierna sono: la sua incapacità di provvedere alla piena occupazione; e la sua distribuzione arbitraria e iniqua della ricchezza e dei redditi” [esattamente oggi come allora].

 E ancora: “Il capitalismo non è intelligente, non è bello, non è giusto, non è virtuoso e non produce i beni necessari” [allora, come oggi].

Inoltre, spreca deliberatamente una quantità enorme di risorse nella lotta per la concorrenza [allora come oggi].

Keynes sosteneva quindi che fosse necessario guidare l’economia (e non lasciarsi guidare dall’economia) attraverso precise politiche monetarie, industriali, sociali e fiscali poiché i mercati quasi mai sono in grado di raggiungere un equilibrio efficiente.

 Salute e ambiente, ad esempio, sono beni pubblici che acquisiranno un valore crescente e questo giustificherà, scriveva, l’intervento dello stato.

Il capitalismo inoltre – e questo diventa ancora più importante nel momento in cui, per la crisi climatica, dobbiamo pensare alle future generazioni – è incapace “di garantire l’allocazione inter-temporale delle risorse, dunque solo lo stato potrà occuparsi del nostro futuro a lungo termine”.

(La fine del laissez-faire e altri scritti – Bollati Boringhieri).

 

 

 

 

Covid. Il comando della

“finanza” sul mondo.

Lariscossa.info - Alberto Lombardo – (novembre 13, 2020) – ci dice:

 

La situazione sanitaria che si sta creando nel mondo in seguito alla seconda ondata del Covid-19 impone riflessioni politiche che non sono facili.

 Infatti, per fare un’analisi scientifica, si dovrebbe essere in grado di partire da competenze tecniche (epidemiologiche, mediche, sanitarie) che evidentemente sono molto complesse, spesso sono viziate dal punto di vista di chi le formula e soprattutto possono condurre a una guerra tra negazionisti e “affermazionisti” che seppellisce sotto una sterile polemica la corretta disamina della situazione.

Cercheremo in queste riflessioni di astenerci da tali diatribe ma, dovendo pervenire a un punto di vista politico, che poi è quello che interessa i comunisti, non possiamo non tenere conto di alcuni dati.

Partiamo da un fatto.

La gestione della prima fase della pandemia, dei mesi intercorsi tra la prima fase e la seconda e, conseguentemente, la gestione di questa seconda fase non sono state affatto omogenee in tutto il mondo.

Pertanto anche gli effetti sulle conseguenze che stanno vivendo i vari paesi non sono affatto gli stessi.

 Le discriminanti che si possono intravedere non riguardano tanto i regimi che governano i diversi paesi, ma apparentemente sembrano più legate alle collocazioni geografiche delle nazioni coinvolte.

 Potremmo mettere da un lato Europa, poi l’America (con significative eccezioni), dall’altro l’Asia e infine l’Africa.

 Escludendo in un primo momento quest’ultimo continente, possiamo vedere che, nel combattere gli effetti della pandemia, hanno avuto più successo nazioni come la Cina (sia la RPC, che Taiwan), il Giappone e la Corea del Sud;

mentre Europa e America (con l’eccezione di Cuba) stanno di nuovo precipitando nel baratro, nonostante abbiano intrapreso strategie molto diverse (USA e Brasile, Europa continentale, Gran Bretagna, Svezia).

Sgomberiamo subito il campo, se mai ce ne fosse bisogno, dalla tossica narrazione dei corifei dell’imperialismo che attribuisce i successi delle politiche della RPC all’intrinseca antidemocraticità di quel regime.

 Infatti, se così fosse, le conclusioni sarebbero che i regimi “totalitari” riescono a garantire la salute pubblica dei loro cittadini, mentre le “democrazie” non lo sono affatto.

 Bel risultato per i succitati corifei, ma poiché la propaganda si basa sulla ripetizione ossessiva di una falsità, anche se questa contraddice le più elementari regole della logica, qualunque assurdità va sempre bene, purché sostenuta da un’adeguata potenza di fuoco mediatica.

Inoltre, se la RPC ha chiuso solo una sua provincia, per quanto popolosa come l’intera Italia, da noi invece abbiamo assistito al lockdown di tutta la nazione.

Quindi, quando la “democrazia” vuole, sa essere ancora più costrittiva della peggiore “dittatura”.

Veniamo al cuore del problema che riguarda l’oggi.

 Mettiamo insieme una serie di tasselli.

Primo indizio.

In Italia abbiamo assistito a un fatto molto strano e per questo molto indicativo. La sera del 7 marzo l’annuncio del governo sulla chiusura della Lombardia e delle altre aree. Il 9 marzo sera il lockdown sarà esteso a tutto il territorio nazionale (vedi qui). 

Il comitato tecnico-scientifico aveva raccomandato la prima soluzione, ma naturalmente non si è potuto opporre alla seconda.

 Perché una scelta così drastica da parte del governo, addirittura più restrittiva di quella invocata dagli esperti?

Chi è intervenuto a non limitare la chiusura a una sola parte dell’Italia?

Dal punto di vista economico sarebbe stato ben diverso se buona parte della nazione avesse potuto continuare a lavorare, pur fissando rigide limitazioni di sicurezza.

Sarebbe stata anche l’occasione affinché certi territori – alcuni tra i più svantaggiati – avessero avuto l’occasione di sostituire per un breve periodo nell’attività produttiva altri territori, ai quali certamente si poteva poi dare un ristoro economico.

Gli atti del comitato tecnico-scientifico sono rimasti per la maggior parte “riservati” e quindi il reale dibattito che si è svolto non è noto nella sua completezza.

Le regioni d’Italia più colpite comunque hanno continuato a lavorare e molti lavoratori sono stati mandati in trincea come “carne da cannone”.

Sanitari in testa, ma anche lavoratori di servizi che non si sono affatto fermati.

 Il resto d’Italia chiusa.

Che in generale ci sia stata una gestione dell’emergenza particolarmente fallimentare in Italia da parte dei gestori nazionali – dalla predisposizione dei piani di emergenza, alla preparazione del personale, all’accumulo delle scorte – sembra ormai stia venendo a galla, come sempre accade con gli scandali italiani.

Ma tutto ciò non può oscurare il fatto che queste mancanze si inseriscono in un pluridecennale attacco bipartisan alla sanità pubblica, alla rete territoriale, al trattamento e alla numerosità del personale sanitario e delle strutture.

 Le inchieste giornalistiche che stanno portando a galla pressappochismi e inettitudini individuali non possono farci dimenticare la storia politica della sanità in Italia.

Secondo indizio.

 In questi mesi, dopo la riapertura, non sono mancate voci che hanno indicato i punti deboli del nostro sistema. Innanzitutto la necessità di sviluppare una sanità di prossimità, ossia molti più medici e infermieri sul territorio che potessero aiutare coloro che cominciano ad avvertire i primi sintomi e somministrare per tempo le terapie che già si stavano rivelando più utili.

Questa strategia non solo allevia il decorso e gli esiti più nefasti della malattia, ma è proprio ciò che serve per non sovraccaricare il SSN di pazienti che arrivano ad avere necessità delle terapie d’urgenza, tallone d’Achille dei sistemi sanitari, particolarmente quelli in cui l’aspetto privatistico, fatto più da strutture che da personale, ha prevalso maggiormente.

 Inoltre l’altro punto critico, su cui tutti gli esperti erano d’accordo, è il sistema dei trasporti, particolarmente quello che si fa carico del trasferimento quotidiano di coloro che si muovono giornalmente, lavoratori e studenti.

 Era una strategia così sofisticata programmare trasferimenti di grandi masse attraverso canali privilegiati e controllati in modo rigoroso?

Ci potevano arrivare anche i responsabili locali.

Scuolabus e, per similitudine, fabbricabus, ufficiobus.

 Ossia un tracciamento dei percorsi più affollati, nelle ore interessate, con grande impiego di controlli alla partenza e nei luoghi di lavoro e di studio.

Cioè misure atte a evitare, non nel mucchio ma nel locale, la creazione di focolai.

Tra l’altro i cosiddetti “mobility manager” sono previsti per legge per tutte le maggiori strutture lavorative, quindi non si doveva partire dall’anno zero, ma riprendere con urgenza quanto già programmato, almeno sulla carta, e farlo diventare realtà a tutti i livelli.

Che si è fatto invece?

Irridere amaramente le misure del governo a proposito dei monopattini e dei banchi a rotelle è fin troppo spontaneo. Che si fa ora?

 Si chiudono le suole, che invece sono i posti più sicuri per i giovani, rispetto ai comportamenti che essi possono tenere fuori.

Si chiudono i locali pubblici, dopo le misure assai costose che essi hanno approntato.

Nonostante le zone rosse nella parte più produttiva d’Italia, le fabbriche restano aperte.

Se ciò fosse caratteristica solo del nostro governo, potremmo pure derubricare il tutto alla proverbiale italica incapacità, pressapochismo, cialtroneria, fancazzismo, scarica-barile tra Regioni e Stato, ecc.

No, è troppo comodo e fa a pugni con la realtà, perché anche il dirigismo centralista francese ha fallito e anche altre nazioni si ritrovano a nuotare insieme a noi nella stessa melma.

Terzo indizio.

Mi scuso col lettore per non essere un virologo, ma debbo cercare di riassumere – per quello che riesco a capire – ciò che a livello internazionale seri ricercatori stanno dicendo da tempo.

Uso a questo scopo un articolo di Internazionale, “L’importanza del fattore k” di Zeynep Tufekci, apparso originariamente su The Atlantic (Stati Uniti).

In questo articolo si focalizza l’attenzione sulla modalità di trasmissione del virus.

Si assiste a una “sovra-dispersione” della trasmissione, ossia poche persone portatrici sono in grado di contagiarne moltissime altre, mentre la maggior parte dei contagiati non trasmettono o trasmettono poco.

Ciò induce a formulare non strategie massive di ricerca dei focolai, ma invece ricerche mirate a individuare i super-contagiatori.

Quindi non ha senso – o ha un’importanza molto relativa – una volta individuato un portatore, andare alla ricerca delle persone con cui questi ha avuto contatti dal momento del suo contagio in poi, perché è molto probabile che egli faccia parte della categoria dei non contagiatori e quindi non trasmetta;

 mentre risulta molto più efficace andare a cercare chi ha contagiato lui, perché si potrebbe con maggiore probabilità andare a scovare un super-contagiatore e, individuatolo, isolarlo.

Quindi non un’analisi in avanti, ma all’indietro.

Per quanto basate su modelli matematici molto sofisticati, le conclusioni credo che siano alla portata anche dei responsabili della sanità, nazionale e regionale. Inoltre, occorrerebbero controlli a grappoli – per limitare il rischio dei falsi negativi – e non a tappeto indiscriminati, rapidi – ormai disponibili in larga scala – e programmati nei luoghi sensibili.

Per scongiurare le ire dei corifei della “democrazia”, diciamo che il Giappone, la Corea del Sud e la Cina hanno fatto così, la maggior parte dell’Europa no.

I risultati sono sotto gli occhi di tutti.

Tre indizi fanno una prova.

Il punto è però che abbiamo provato non è ancora chiaro cosa.

Perché, se non sappiamo cosa cercare, anche se è sotto i nostri occhi, non lo riconosciamo neanche.

“Ho la soluzione! ma non so bene a cosa”, diceva un ricercatore.

Ebbene, è sempre la politica che può darci quel quadro teorico entro cui collocare i risultati e non un semplice allineamento di “fatti”, che da soli non spiegano nulla.

Terminato il primo percorso, cominciamo l’altro, quello storico-politico.

 In questo ci facciamo guidare da Lenin e da Gramsci.

Lenin ci ha insegnato cos’è la guerra imperialista e a quali ragioni risponde: distruzione delle forze produttive e concentrazione monopolistica di capitali e mezzi di produzione.

E se questa fosse una “guerra senza bombe”?

 Ossia uno strumento per realizzare i fini strategici di cui ci parlava Lenin un secolo fa, ma con strumenti che non sono cruenti, non in quella misura almeno.

La distruzione delle forze produttive è evidente, il fallimento delle piccole attività e la preparazione dei grandi gruppi monopolistici a farne man bassa, pure.

 Shock economy a livello planetario.

Concentriamoci sull’Unione Europea.

Se fino a pochi mesi fa sembrava che sforare i bilanci pubblici di qualche milione di euro fosse un attentato alla nazione e al “futuro dei nostri giovani”, oggi ai milioni si sono sostituiti i miliardi.

Gli aiuti previsti sono avvelenati, come i prestiti degli strozzini:

 nel momento del bisogno ti concedono quello che vuoi, poi tirano il cappio.

I prestiti dovranno essere ripagati, o direttamente o attraverso il meccanismo di condivisione dei singoli stati del finanziamento del bilancio europeo.

 Si litiga su come prendersi la fetta di torta e poi su come dividere il conto del pasticcere, ma la somma non cambia.

In Italia fanno gola due cose fondamentali: la massa enorme di denaro giacente “inerte” nei conti correnti e le proprietà immobiliari.

Sui conti correnti ci sono i risparmi dei lavoratori italiani che, dopo averlo preso nel “fondo” coi “fondi” di tutti i tipi e colori e davanti alla prospettiva dei tassi negativi, fanno l’unica cosa sensata, ossia tenere i soldi sul conto:

 la cosa che costa meno, ha zero rischi, massima liquidità, non necessita di alcuna “gestione” e, in tempi di inflazione zero, almeno non fa perdere capitale.

 L’Italia, avendo il risparmio privato più alto d’Europa, è sotto attacco dei gatti e delle volpi di tutto il mondo.

Anche il patrimonio immobiliare italiano è una bella preda. Si parla di patrimoniale.

Bene, ma chi la farà?

I grandi patrimoni sono sempre scudati rispetto all’assalto fiscale: tra società immobiliari, paradisi fiscali, elusione, ecc., chi li acchiapperà mai?

Quindi, chi sarà l’obiettivo della patrimoniale?

“Bisogna prendere il denaro dove si trova: presso i poveri.

Hanno poco, ma sono in tanti”, diceva uno dei più grandi economisti e politici del secolo scorso che faceva i suoi discorsi sotto mentite spoglie, Ettore Petrolini.

Quindi, per ottenere una massa consistente di gettito fiscale aggiuntivo si dovranno intaccare i patrimoni delle seconde case, se non delle prime.

Sia detta fra parentesi una cosa ovvia: la patrimoniale vera la farebbero solo i comunisti, ma non con le seconde case, ma con i grandi mezzi di produzione e patrimoni.

A questo punto ci rendiamo conto che la Grecia è stato solo il banco di prova di un’operazione epocale molto più vasta e complessa.

 Non era certo il piccolo 2 percento del PIL europeo, costituito da quella nazione, che era sotto attacco da parte dei grandi monopoli.

Cosa si è verificato in quel paese?

 Prima crediti fuori controllo, quindi incremento del debito privato, poi nazionalizzazione di quel debito, infine bancarotta del paese e la svendita della nazione by the pound.

Quando si dice che i prestiti non hanno condizionalità, è vero.

Ma perché per lo strozzino come spendi i tuoi soldi è del tutto indifferente, l’importante è che poi paghi.

Cosa succederà quando il debito pubblico italiano sarà passato dal 130 al 160 percento del PIL? Chi detterà i tassi?

Ancora una volta il “mercato”, ossia quelli a cui dovremo pagare gli interessi. Significa un assegno in bianco agli squali.

Ancora tra parentesi.

I comunisti rinnegherebbero il debito mandando a gambe all’aria non solo il 30 percento aggiuntivo ma anche il precedente 130.

Tanto per puntualizzare en passant la differenza con certi “sovranisti” di cartone.

Ma c’è di più. C’è molto di più.

Questi soldi rastrellati dalle tasche dei contribuenti (i “tanti poveri”) dove andranno a finire?

Cosa andranno a “ricoverare”?

Il recovery fund sarà uno straordinario acceleratore di concentrazione monopolistica: reti, energia, sistemi complessi.

 Con la scusa che una nazione ha subito una forte riduzione del PIL, le si concederanno maggiori contributi, ma non per ristorare i settori colpiti e rimetterli in condizione di ripartire, ma per incrementare altri settori che, nel disegno capitalistico, dovrebbero accelerare la “modernizzazione del paese”.

 Quindi se ti è fallito il b&b, ti do il 5G.

 I “ristori” previsti non serviranno a far sì che le attività possano superare il momento della crisi per poi riprendere dal punto dove si erano fermate.

Quando un’attività chiude, chiude per sempre, non è un interruttore che si accende e si spegne, soprattutto quando è sottoposta a stress ripetuti, come quelli a cui oramai stiamo assistendo.

Primo lockdown, poi stop per salvare la stagione estiva; secondo lock down, poi stop per salvare il natale; fino a quando?

I ristori serviranno per evitare che ci sia subito l’insurrezione generalizzata, tamponando con piccole distribuzioni di farina oggi, in modo che poi, quando arriverà la carestia vera, si muoia uno alla volta e non tutti insieme.

La strategia della rana nell’acqua bollente.

Oggi la parola d’ordine “Tu ci chiudi, tu ci paghi” riesce ad essere agitata nelle piazze e il governo può fare grandi gesti di solidarietà più o meno appariscenti.

 Ma quanto può durare?

 E cosa succederà dopo, quando le piazze si saranno svuotate e le attività non riusciranno ad aprire?

A quel punto passerà l’asso pigliatutto della concentrazione monopolistica e le attività cadranno una dopo l’altra.

Chiuderanno quelle che danno fastidio ai grandi monopoli, mentre quelle che possono essere assorbite, saranno acquistate.

Quindi ora vediamo delineato su quale incudine batte il martello. Il martello è la crisi, l’incudine la ristrutturazione capitalistica.

L’uno senza l’altra non è efficace.

A questo punto il disegno comincia ad apparire più chiaro.

 Abbiamo il corpo del delitto (la crisi), l’arma (le politiche fiscali), ora abbiamo anche il movente (la concentrazione monopolistica).

Resta ancora fuori però la domanda principale dalla quale eravamo partiti.

Dicevamo in apertura a proposito dei negazionismi:

non scambiamo la causa per l’effetto.

Il fatto che ci sia un disegno per realizzare la più grande ristrutturazione monopolistica della storia, non vuol dire che l’epidemia sia stata creata ad hoc o addirittura sia un falso.

 Questa versione sarebbe uno sparring partner comodo per il potere capitalistico.

Qui entreremmo in un terreno che esula dal tema che ci siamo prefissi e riguarda la gestione della credenza popolare.

Limitiamoci a dire che in una narrazione, basta che ci sia una falla anche minima, per far cadere non solo la singola argomentazione fallace, ma tutto l’impianto accusatorio.

In tribunale gli avvocati della difesa più esperti sanno che basta incrinare la credibilità di una singola prova, per distruggere la credibilità dell’accusa e con essa la forza dell’accusa nel suo complesso.

Sostenere posizioni “estreme” che riguardano aspetti specifici della nascita e dell’evoluzione della pandemia, espone proprio al rischio di lasciare fuori qualche falla che apre le porte non solo alla distruzione del ragionamento specifico, ma a tutte le considerazioni che fin qui abbiamo cercato di condurre.

È per questo che non solo ci siamo tenuti lontani da queste polemiche, ma le dichiariamo come nostre avversarie.

Torniamo alla domanda cruciale.

Perché il disegno delittuoso che abbiamo delineato nelle argomentazioni precedenti non viene perseguito in tutto il mondo con eguale strategia e intensità?

Qui ci soccorre Gramsci.

… l’americanismo, nella sua forma più compiuta, domanda una condizione preliminare: «la razionalizzazione della popolazione», cioè che non esistano classi numerose senza una funzione nel mondo della produzione, cioè classi assolutamente parassitarie.

(I buffoni dei super ricchi che comandano il mondo! Ndr.)

La «tradizione» europea è proprio invece caratterizzata dall’esistenza di queste classi, create da questi elementi sociali:

 l’amministrazione statale, il clero e gli intellettuali, la proprietà terriera, il commercio.

Questi elementi, quanto più vecchia è la storia di un paese, tanto più hanno lasciato durante i secoli delle sedimentazioni di gente fannullona, che vive della «pensione» lasciata dagli «avi».

L’America senza «tradizione», ma anche senza questa cappa di piombo:

questa una delle ragioni della formidabile accumulazione di capitali, nonostante i salari relativamente migliori di quelli europei.

La non esistenza di queste sedimentazioni vischiose delle fasi storiche passate ha permesso una base sana all’industria e specialmente al commercio e permette sempre più la riduzione dei trasporti e del commercio a una reale attività subalterna della produzione, coll’assorbimento di questa attività da parte dell’industria stessa (vedi Ford e quali «risparmi» abbia fatto sui trasporti e sul commercio assorbendoli).

Questa «razionalizzazione» preliminare delle condizioni generali della produzione, già esistente o facilitata dalla storia, ha permesso di razionalizzare la produzione, combinando la forza (distruzione del sindacalismo) con la persuasione (salari e altri benefizi); per collocare tutta la vita del paese sulla base dell’industria.

L’egemonia nasce dalla fabbrica e non ha bisogno di tanti intermediari politici e ideologici. [Quaderni del carcere, quaderno 1 §61.]

 

Cerchiamo di riportare questa analisi a quasi un secolo dopo.

Cos’è successo nella composizione produttiva delle società?

 In Europa possiamo dire che il processo è solo andato avanti, mentre gli USA ci hanno raggiunto nella fase in cui il capitalismo assume le sue forme parassitarie slegate dalla produzione. D-D’, direbbe Marx, senza passare dall’M intermedio di D-M-D’.

Questo processo è testimoniato da un semplice dato: negli USA negli anni che vanno dai Quaranta ai Settanta esisteva una tassazione applicata allo scaglione massimo di oltre il 90% e una imposta di successione di oltre il 70%;

 tale tassazione passò nel 1980 al 70% e al 28% nel 1988, imposta che ora è al 35%.

Chiaro sintomo dell’europeizzazione degli USA.

Le nostre società “mature” si occupano di più di come riuscire a creare un mercato, proteggere il proprio e dare l’assalto a quello altrui, che a produrre.

 La produzione spesso è esternalizzata ad altri mondi che stanno fuori.

 Ci porterebbe lontano qui dettagliare il percorso del capitalismo finanziario inglese – ancora osservatorio privilegiato dell’evoluzione storica del capitalismo a distanza di centocinquant’anni da quando una certa Barba lo studiava seduto al British Museum – dalle ristrutturazioni thatcheriane al brexit.

Invece i paesi dove si produce, dove l’intermediazione produttiva dell’accumulazione capitalistica agisce con tutta la sua potenza, anche la struttura sociale vede la presenza di strati collaterali alla produzione molto limitata.

«L’egemonia nasce dalla fabbrica e non ha bisogno di tanti intermediari politici e ideologici».

E allora sovrapponiamo la mappa della diffusione dell’epidemia con quella della propensione di un’economia alla produzione manifatturiera.

Prendiamo in considerazione una serie di paesi, sia per il loro peso demografico ed economico, sia per la rappresentatività rispetto al nostro ragionamento politico.

Vogliamo solo offrire queste considerazioni per consentire al lettore di effettuare paragoni tra alcuni paesi.

In questo senso, tali paesi non si possono considerare né un campione rappresentativo dell’intero mondo, né delle rispettive regioni.

Per la prima grandezza, riguardante la diffusione della malattia, abbiamo scelto di riportare per ogni paese i dati cumulati sia dei casi che dei morti per milione di abitanti (riportare i dati assoluti è un’imbecillità statistica madornale).

 Ciò ci consente di estrapolare delle considerazioni che si possano effettuare al netto della capacità dei rispettivi paesi di far fronte al numero dei malati.

Per esempio, il Messico, rispetto a un numero relativamente basso di casi, presenta un numero relativamente alto di morti.

Al contrario i Paesi Bassi. I dati sono quelli ricavabili dal sito dell’OMS, aggiornati al 15 ottobre.

I paesi in cui rispettivamente i casi e i morti sono elevati li troviamo nella parte alta del grafico.

 

Per la seconda grandezza, ci siamo chiesti, seguendo l’insegnamento di Gramsci, come possiamo – con la migliore approssimazione possibile – ottenere un dato che ci indichi il grado di “americanismo” di una nazione?

 L’abbiamo ricavato nella quota di PIL creata dal settore manifatturiero rispetto al PIL totale. I più elevati al mondo sono – tra i pesi massimi mondiali – com’è noto, Cina, Rep. Di Corea, Giappone e Germania.

 Li troviamo nella parte destra dei due grafici. I dati più recenti, disponibili per tutti i paesi, sono del 2017. In ogni caso, il 2019 non lo avremmo preso in considerazione, perché già viziato dalla presenza della pandemia.

 

La linea interpolante dà una idea generica (i dati non sono pesati per i vari paesi né demograficamente né economicamente) del possibile legame tra queste due grandezze che si riportano sulla scala orizzontale (ascissa) e in verticale (ordinata). Il legame tra la coppia di grandezze può anche essere messo in luce, qualitativamente, osservando che i punti, rappresentanti i vari paesi, si concentrano solo su due quadranti dei grafici: in alto a sinistra e in basso a destra. I quadranti sono centrati sul punto che rappresenta il dato complessivo mondiale.

Ciò fa emergere la relazione inversa nei paesi esaminati tra propensione alla produzione manifatturiera di una nazione e capacità di contrastare la diffusione e la mortalità del virus.

Ovviamente tale relazione non può esprimere un rapporto di causa-effetto. Caso mai quel rapporto esistesse, ce lo si dovrebbe aspettare di tipo inverso. Infatti i sistemi produttivi costituiscono una occasione di assembramenti di grandi masse di lavoratori, spesso impossibilitati a mantenere il distanziamento sociale. Quindi ci deve essere un’altra causa, molto più forte che si nasconde dietro l’apparenza.

 

Da tutto il ragionamento politico ed economico che abbiamo fatto prima, la conclusione che traiamo è la seguente.

La pandemia sta agendo come un enorme volano per la concentrazione capitalistica proprio in quei paesi che ne hanno disperato bisogno: i paesi in cui i profitti non vengono estratti principalmente dalla manifattura, ma dalla finanza e dai servizi.

Le differenze tra Germania, da un lato, e Francia e Gran Bretagna, dall’altro, e le similitudini tra Cina, Giappone Corea e Germania non si spiegano altrimenti, né con l’analoga organizzazione sanitaria, politica o economica, né con la diversa collocazione geografica.

Si può spiegare solo con la ferma volontà di governi che si vogliono opporre alla pandemia e governi che questa intenzione non ce l’hanno, come il nostro.

 Governi che prendono ordini da monopolisti che vorrebbero distruggere il nostro paese per poi passare all’acquisto delle attività “un tanto al chilo”.

 La Cina, ma anche il Giappone, la Corea del Sud e la Germania hanno un capitalismo finanziario meno incidente sull’economia.

Non si tratta di capitalismo più buono o più cattivo.

Si tratta del fatto che il capitalismo, arrivato alla sua fase finanziaria estrema, comincia a cannibalizzare le proprie economie.

 Gli altri ci arriveranno magari dopo.

Questa è la guerra senza bombe tra i grandi monopoli e i piccoli lavoratori autonomi, dopo che i lavoratori dipendenti sono stati ulteriormente schiacciati.

O i lavoratori autonomi si alleano col proletariato contro i grandi monopoli, o saranno tutti triturati.

Rifiutiamo la posizione che immagina un enorme complotto mondiale, ma sosteniamo che i governi dei paesi che non hanno affrontato la pandemia, non lo hanno fatto, non per incapacità o per motivi di impossibilità politica, ma per precise ragioni economiche che fanno capo alle necessità dei grandi monopoli, di cui i governi sono fedeli esecutori.

Non sono incapaci, ma nemici dei loro popoli.

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