LA PANDEMIA E IL POTERE.
LA
PANDEMIA E IL POTERE.
Pandemia:
scienza,
conoscenza,
credenze e potere.
Transform-italia.it – (12/01/2022) - Roberto
Rosso – ci dice:
La
pandemia da Sars-CoV-2 ormai da due anni, con il succedersi degli andamenti
stagionali e dal manifestarsi di nuove varianti, costituisce un fattore
determinante per l’andamento del ciclo economico e non solo, sin dall’inizio ha
dato origine alle più diverse credenze indipendentemente da un loro fondamento
scientifico, il fenomeno si è amplificato con l’avvento dei vaccini.
Come abbiamo avuto modo di sottolineare, la pandemia
ha rappresentato una sorta di dispositivo di esplorazione delle formazioni
sociali in tutte le loro dimensioni, livelli e strutture, dalla composizione
demografica alla forma stato, dalla struttura economica e produttiva alla
composizione politica e culturale.
Il
ruolo della scienza nei confronti del potere politico ed economico è stato
messo sotto tensione, le scelte dei diversi governi sono state e continuano ad
essere le più varie, a fronte delle straordinarie conseguenze della pandemia.
Rispetto
alle prime manifestazioni della pandemia le conoscenze sulla natura dell’agente
virale, delle patologie indotte e delle dinamiche epidemiologiche si sono
enormemente amplificate, tuttavia è una continua rincorsa rispetto alla
capacità di mutare del virus che si sono potute manifestare soprattutto a causa
della distribuzione diseguale dei vaccini.
Nei
paesi dove è massimo lo sforzo di vaccinare la popolazione, come in Italia dove
si è giunti alla terza dose il cosiddetto booster, le conseguenze più gravi in
termini di ospedalizzazione e ricovero in terapia intensiva riguardano
soprattutto la parte di popolazione non vaccinata;
sono
dati acclarati anche se c’è chi tenta di nasconderli o mascherarli.
Le
conseguenze dell’atteggiamento verso i vaccini, la disponibilità o meno a farsi
vaccinare, sono drammatiche come si può rilevare dai dati oltre che dalle cronache.
L’azione
dei vaccini quindi indubbiamente efficace contro la pandemia non produce una
situazione bianco/nero, ma molto più articolata e complessa come in tutte le
manifestazioni dei sistemi viventi, a partire dalla curva temporale della
immunizzazione che richiede la somministrazione della terza dose;
forse di dosi successive questione su cui è
aperto il confronto a livello scientifico e negli organi di sorveglianza
sanitaria.
La
nuova variante richiederà un aggiornamento dei vaccini.
La
realizzazione dei vaccini, in particolare quelli a mRNA, è avvenuta in tempi
indubbiamente rapidi a partire dalla comparsa del virus, in base a linee di
ricerca precedenti e con cospicui finanziamenti pubblici.
La
autorizzazione alla somministrazione dopo le tre fasi canoniche di
sperimentazione, è stata seguita appunto dalla somministrazione di miliardi di
dosi, il che ovviamente ha permesso di individuare lo spettro delle reazioni
alla vaccinazione su una scala più ampia e la dinamica dell’immunizzazione, su
cui peraltro si continua ad indagare.
Le
strategie di contrasto alla pandemia -mascherine a parte, che restano il
dispositivo di base per limitare il contagio- si sono fondate nella prima sulla
limitazione dei contatti, sino al lockdown più stretto, poi sui vaccini e le
misure adottate per motivare sino ad imporre la vaccinazione.
Si è
aperto quindi il confronto con le misure che gli stati hanno preso nelle varie
fasi e prendono oggi nel pieno dispiegarsi della variante Omicron.
Un processo di dimensione globale e pervasivo
rispetto ad ogni nesso sociale che non ha prodotto una reazione altrettanto
globale e coordinata, ma semmai ha esaltato le contradizioni, le differenze le
diseguaglianze ed i conflitti.
Il
procedere della pandemia e degli interventi per combatterla costringe i
cittadini a confrontarsi con una situazione sempre più complessa, dentro cui il
flusso di informazioni è stato sufficientemente contradditorio e comunque non
strutturato in modo da realizzare un processo di apprendimento collettivo.
Indubbiamente il fenomeno della pandemia da
Sars-CoV-2 ha un carattere assolutamente straordinario, benché non del tutto
imprevisto nei modelli pandemici delle maggiori agenzie di sorveglianza
epidemiologica- ed ha messo in crisi o meglio ha mostrato limiti e
contraddizioni del processo di trasmissione delle conoscenze e delle
informazioni rispetto allo stato di salute della popolazione in generale,
periodi ‘normali’ -posto che ne esistano.
Il
complesso di processi intrecciati tra loro che si organizzarono, si producono
attorno a ciò che specificamente costituisce la pandemia ha prodotto nuove
conoscenze, sulla dimensione specifica della pandemia, ma ha costretto tutta
l’organizzazione sociale ad apprendere secondo uno schema di produzione di conoscenza
in azione;
conoscenze
e saperi con diverse proporzioni – per così dire- tra saperi formalizzati,
prodotti da una rigorosa metodologia scientifica e saperi legati alle
situazioni.
La
medicina rappresenta il campo dove più concretamente la persona individualmente
e le popolazioni collettivamente vivono il rapporto con la scienza, dove da
sempre il medico, l’esperto sono avvolti in un’aura quasi sacrale, depositari
di un sapere a cui noi tutti – i profani- non possiamo accedere. In realtà,
mentre l’insieme delle conoscenze sulla salute, sui fattori che incidono sulla
salute individuale e collettiva è cresciuto e continua a crescere ad un ritmo
esponenziale, costituendo un sistema di conoscenze sempre più complesso e
specializzato al suo interno, quell’aura sacrale è svanita.
O
meglio, se il sistema delle scienze, delle tecnologie che trattano della nostra
esistenza concreta -dalla genetica alla salute mentale- è sempre più
imperscrutabile al comune cittadino, il funzionamento concreto dell’apparato
sanitario, i servizi che eroga fanno semplicemente parte della fatica di
vivere, per la maggioranza de cittadini, un labirinto in cui orientarsi per
giungere al beneficio della cura.
Pur
perdendo l’aura sacrale nell’esperienza quotidiana, le nostre vite sono
scadenzate dal rapporto coi servizi sanitari.
L’estrema
specializzazione delle tecnologie all’opera sul corpo individuale e collettivo
rimanda all’unità della persona, delle sue dinamiche ed anche all’unità
complessa del corpo sociale, in tutte le dinamiche e relazioni che lo
costituiscono.
Lo
sguardo specialistico sulla persona, seleziona livelli, organi, funzioni su cui
la tecnologia medico-sanitaria interviene.
A
fronte di questa parcellizzazione sta la dimensione unitaria e complessa,
olistica del corpo individuale e sociale.
A fronte del trattamento delle patologie
stanno tutte le pratiche di mantenimento in salute, di miglioramento delle
condizioni di vita individuali e collettive, quasi senza soluzione di
continuità rispetto al trattamento di patologie vere e proprie;
nel
mezzo stanno le pratiche di prevenzione del manifestarsi delle malattie che
riguardano tanto la persona quando la collettività ovvero l’individuo sociale.
Il
mantenimento ed il miglioramento delle condizioni di salute e di efficienza è
l’oggetto di una proposta di servizi e prodotti, tecniche e ricette che fanno
parte di un mercato sempre più diversificato ed esteso per la salute ed il
benessere.
Benessere
diventa la parola chiave nell’orizzonte mitico del miglioramento continuo della
qualità e della durata della vita.
A
fronte di tutto questo sta la solitudine della malattia, quasi la vergogna del
non poter aderire all’ideale di lunga e buona vita, di perfetta condizione
fisica e mentale, che la comunicazione del mercato ci propone attraverso i
messaggi promozionali di qualsiasi prodotto e servizio, mentre ognuno è solo
trafitto da una inaspettata patologia.
Se la
solitudine di fronte alla malattia è una condizione strutturale nei rapporti
sociali dominanti la rete permette invece condivisione possibile di ogni sorta
di informazione ed esperienza, la proposta di pratiche, rimedi e credenze che
altrimenti.si riprodurrebbero in ambiti molto più limitati.
Proprio
la rete -i network sociali e tutte le forme possibili di condivisione di
informazione, che la rete favorisce- permette da un lato la condivisione di
conoscenze testate secondo metodologie minimamente fondate su pratiche
condivise di verifica degli enunciati espressi -assieme a pratiche solidali-
dall’altro favorisce la diffusione delle affermazioni più infondate, delle
peggiori leggende metropolitane;
si creano schieramenti dove si esprimono, cercano un
sbocco, una condivisione la rabbia, i bisogni e le speranze che ognuno matura
nella propria esperienza individuale di cui ricerca un senso condiviso.
È
facile ironizzare sugli spropositi del fai da te in campo sanitario o sulle
leggende che circolano attorno ai vaccini ed alla pandemia – senza per questo
salvare i demagoghi del momento- ma questi fenomeni che con la pandemia si sono
diffusi capillarmente, costituiscono un indice delle diseguaglianze sul piano
dell’accesso alla conoscenza, a quei dispositivi e linguaggi che permettono di
valorizzare, interpretare e sistematizzare la propria esperienza di vita, di
comprenderne il contesto ed agire dentro di esso: e necessariamente contro.
Il
ruolo dell’innovazione tecnologica nella riproduzione e trasformazione delle
società in cui viviamo è quasi una ovvietà, è centrale ed essenziale
considerarla per una analisi delle formazioni sociali.
È il
filo conduttore della nostra ricerca fondata sul ruolo trainante delle
tecnologie digitali -da ultimo lo sviluppo della cosiddetta Intelligenza
Artificiale, nelle sue diverse declinazioni- nel processo globale di
innovazione che dalle singole filiere tecnologiche si riverbera in una più
generale e pervasiva innovazione/trasformazione dei rapporti sociali in tutte
le loro dimensioni.
Cruciale
è l’ibridazione tra le tecnologie dell’informazione e quelle della vita, dalle
biotecnologie che intervengono sui meccanismi più profondi della vita a livello
genetico ed epigenetico, così come sugli ecosistemi.
L’estrema
articolazione della composizione sociale a livello globale, nelle condizioni di
vita e di lavoro, così come nelle singole formazioni sociali, sino ai singoli
territori, è il prodotto dell’uso capitalistico della scienza e della
tecnologia, della forma specifica che queste assumono.
La
società dell’informazione, dello sviluppo ipertrofico delle tecnologie
dell’informazione si traduce in una società dell’ignoranza, del sapere, dello
spaesamento, di una frantumazione degli stessi saperi che si ricompongono
secondo logiche di potere, come ci racconta in questo numero della rivista
Riccardo Rifici.
Il
problema allora della condivisione della conoscenza è dunque cruciale per agire
il conflitto orientare la trasformazione nei rapporti sociale di capitale in
cui viviamo e ancor più vivremo;
tuttavia
non si tratta semplicemente- si fa per dire- di diffondere il sapere
scientifico, la ‘cultura alta’, mantenendo la ‘divisione del lavoro’ che regola
il nostro vivere.
È necessario invece agire con la trasformazione, di cui uno dei paradigmi è
la costruzione di circuiti virtuosi della conoscenza, della ‘conoscenza in
azione’ rendendo permeabili i le filiere disciplinari tra di loro, valorizzando
i dispositivi cognitivi la produzione di conoscenza di individui e
collettività, partendo dalla affermazione a priori del loro valore dal punto di
vista della produzione di nuova conoscenza, appunto.
La
cosiddetta Ricerca-Azione ‘Action Research’2, la ricerca partecipata, la
‘Citizen Science’ -usando definizioni in lingua con cui certe pratiche sono
riconosciute- rimandano alla assunzione di responsabilità condivisa, a livello
individuale, collettivo e comunitario nella produzione di conoscenze, si tratta
quindi di una attribuzione di valore ed una conseguente assunzione di
responsabilità;
il
concetto di produzione della conoscenza in azione si riferisce alla
problematica del riconoscimento delle diverse forme di conoscenza – loro ambiti
di validità- che va oltre la ‘ricerca azione’ come specifico modo di organizzazione
della ricerca, etnografica, sociologica, etc…
L’elaborazione
dei movimenti di liberazione è ovviamente un punto di riferimento, tuttavia
l’orizzonte è quello di una trasformazione profonda, radicale, pervasiva,
quotidiana quanto globale e strutturale della società.
Tornando
alla pandemia ed ai modi di governarla, essa costituisce un terreno
fondamentale per intervenire sui processi che regolano la condivisione delle
conoscenze, la condivisione di criteri di valutazione del valore e dei limiti della
conoscenza, che non può che partire dalla condizione concreta in cui la
pandemia si sviluppa a partire dalla struttura sanitaria, da quando il diritto
alla cura sia realizzato, a partire anche dagli obiettivi che il trattamento e
contenimento della pandemia da parte dei governi vengono assunti a riferimento,
vedi le condizioni in cui si sviluppò il focolaio in provincia di Bergamo.
La
formazione e condivisione delle conoscenze, la scala dei valori che noi
utilizziamo per giudicarle, rispetto ai termini della loro validità (termine
assai impegnativo) costituisce una questione che deve essere rilevata,
riconosciuta, enucleata nel tessuto delle relazioni, delle contraddizioni e dei
conflitti in cui si svolge la nostra esistenza collettiva, per poterla riconoscere e ricollocare
nella complessità del vivere, per poter fare della ‘critica della scienza’ del
rapporto tra ‘scienza e potere’ una questione viva e soprattutto condivisa e
comprensibile ai più.
Un
‘ultima osservazione è necessaria, chi contrappone il ruolo della quota di
popolazione non vaccinata nella manifestazione di patologie gravi da contagio
Covid allo stato della struttura sanitaria oltre a non analizzare i dati usa un
metodo che non collega due fattori concorrenti.
Analogamente
il ritardo nella cura di altre patologie -anche gravi come quelle tumorali- a
causa dell’impegno delle strutture per l’assistenza Covid, viene attribuito da
alcun all’eccessiva enfasi con cui si parla della pandemia e non al dato
concreto dei suoi effetti.
Una analisi delle credenze in merito, delle
modalità della loro diffusione, del ruolo di alcune figure con ruolo e talvolta
fama di intellettuali, sino all’acquisizione o meglio alla ricerca del ruolo di
capipopolo, rientra nel campo di cui sopra.
Della creazione e della condivisione della
conoscenza, all’interno dell’attuale congiuntura, abbiamo brevemente trattato,
alla possibilità di processi di liberazione ci continuiamo riferire.
(Roberto
Rosso)
IL
POTERE E LA CURA. LA POLITICA
AI
TEMPI DELLA PANDEMIA.
Sophiauniversity.org
– (8-1-2023) – Redazione – Pasquale Ferrara – ci dice:
Una
premessa.
Lo
scopo di questo intervento non è certo quello di analizzare tutti gli aspetti
politici, interni in internazionali, della crisi della pandemia.
Bisognerebbe
avere tutti l’umiltà di ammettere che la crisi della pandemia ci costringe ad
apprendere cammin facendo, e che non ci sono ricette semplici o scorciatoie.
Perciò
non farò un’analisi degli eventi in senso stretto, ma suggerirò alcune piste di
riflessione se volete più fondative, senza perdere di vista ovviamente la
drammatica condizione presente, e anche cercare di guardare, se possibile,
oltre l’emergenza del Covid-19.
Pandemia
e biopolitica.
Entrando
nel merito del nostro discorso, possiamo constatare che la pandemia produce un
effetto diretto ed incisivo sulla politica, che in qualche modo viene esposta
nella sua struttura di base.
La politica (con le dovute eccezioni di
strumentalizzazione e tornaconto partitico), non tratta più questioni periferiche,
procedurali o tattiche ma questioni centrali e strategiche.
In
questa crisi appare evidente che la politica, in definitiva, è sempre
bio-politica, perché può fare la differenza tra la vita e la morte, tra la
salute e la malattia.
Come
sapete la biopolitica è un tema che è stato introdotto nella filosofia politica
contemporanea da Foucault, Agamben, Esposito.
La
biopolitica si può riferire in senso ampio a bios, cioè alla vita nelle sue ampie
estensioni, oppure, in modo molto più circoscritto, a zoé, ovvero alla vita nella sua
accezione puramente biologica di sopravvivenza.
A
questo riguardo, personalmente mi ha molto colpito che uno dei provvedimenti
adottati dal governo italiano per affrontare la crisi si chiami “cura-Italia”.
Questo
è molto interessante, perché il rapporto tra il potere e la cura è una
struttura politica fondamentale, benché ambivalente.
C’è da
una parte la pericolosa versione “salvifica” della politica come suggerisce
Hobbes: il Leviatano assicura anzitutto la nostra incolumità fisica.
Dall’altra,
c’è la questione di un insieme complesso di fenomeni interrelati quando si
parla di salute, come medicina, politiche sanitarie, cura, malattia “che hanno
a che fare con il benessere (o la sofferenza) bio-psico-fisica dell’essere
umano” e che in quanto tali “non possono essere intesi né a livello concettuale
né a livello pratico come separati dall’insieme più ampio delle dinamiche
sociopolitiche e dei rapporti di forza e di potere in cui sono immersi.”
Nella
pandemia, a brevissimo termine, è l’idea della sopravvivenza umana a prevalere.
In
questo senso si può interpretare la richiesta del distanziamento sociale per
evitare il diffondersi del contagio.
Esattamente
dieci anni fa scrissi un libro intitolato “Lo stato preventivo”.
“Quali che siano le caratterizzazioni che la
dimensione politica assumerà nei prossimi decenni – scrivevo nel 2010 – è
probabile che i suoi caratteri salienti, di matrice nettamente securitaria,
rimangano quelli dell’immunizzazione e dell’incolumità.”
Ma
verrà un tempo in cui la politica si dovrà preoccupare di ritrovare la
dimensione del bios,
di una vita, per così dire, qualificata, che è essenzialmente fatta di
relazione.
Pandemia
e parresia.
Dopo
una scorpacciata di forzature lessicali, come la famosa “disintermediazione” e
la critica della rappresentanza, i fraintendimenti sull’idea di democrazia
diretta, assistiamo oggi, nella situazione di crisi, ad una forte richiesta di
azione politica chiara e determinata fatta alle istituzioni rappresentative, a
tutti i livelli di governo.
Ci sono, ovviamente, criticità specifiche ad
ogni contesto, come ad esempio la questione delle autonomie regionali e dei
poteri federali.
Più in
generale, si pone il problema di come le democrazie possano affrontare shock
asimmetrici e imprevedibili (come una pandemia) senza snaturarsi e senza
diventare, come si dice in politologia, delle democrature, cioè sistemi politici meno
rispettosi dei diritti dei cittadini e delle regole.
Si
parla ad esempio di quella che potremmo definire “deriva esecutiva”, con governi che operano per
decreto anche nell’impossibilità di convocare fisicamente i Parlamenti per
ragioni precauzionali.
Bisogna
fare attenzione a non confondere lo stato di emergenza, che serve a governare in modo più
decisionista in periodi di crisi acuta, ma senza stravolgere il sistema
costituzionale, con lo stato di eccezione (di cui parlava Carl Schmitt), che
invece sospende l’ordine costituzionale.
C’è dunque una differenza di fondo tra una
democrazia securitaria e la sicurezza democratica.
Qui il
punto fondamentale, a mio avviso, non riguarda la quantità di potere nelle mani
dei governi, ma la sua qualità.
In altre parole, non è necessariamente vero
che solo i sistemi autoritari sono davvero in grado di gestire le crisi, perché anche le democrazie possono
farlo se però esercitano un potere che sia pronto non solo a rispondere delle
sue decisioni (accountability), ma anche a spiegarle (argomentazione).
Qui mi viene in mente la famosa distinzione introdotta
nella teoria della democrazia discorsiva da Jurgen Habermas tra agire teleologico o strategico e
agire comunicativo.
Mentre nel primo caso l’interazione (mettiamo
tra governo e cittadini) è razionale e strumentale (non necessariamente nel
senso negativo di strumentalizzazione), perché orientata al successo (diciamo
pure al consenso), nel secondo caso, quello dell’agire comunicativo, l’azione è
orientata all’intesa, che si fonda su convincimenti comuni.
È una
concezione della democrazia come pazienza, se vogliamo, fondata su
argomentazioni e persuasione.
Un’interazione
orientata all’intesa è anche quella che implica l’ascolto, specie di chi sa
farsi convincere e cambiare idea, se necessario.
Un
aspetto importante di questo esercizio in senso lato deliberativo è quella che
i greci chiamavano “parresia”.
Qui la
intendiamo non solo come il coraggio dei governati di dire la verità dinanzi ai
potenti, ma anche il coraggio dei governanti di dire la verità ai cittadini (e
non si tratta, banalmente, di “trasparenza”).
Michel
Foucault ha scritto un bel libro su questo tema della parresia, e afferma che
la parresia “è legata al coraggio difronte al pericolo: essa richiede propriamente il
coraggio di dire la verità a dispetto di un qualche pericolo.
E nella sua forma estrema, dire la verità
diventa un gioco di vita e di morte”.
Ancora
una questione bio-politica.
Qui
entra in gioco la questione del rapporto tra politica e scienza, in particolare
la scienza medica.
In questi ultimi anni abbiamo assistito
soprattutto in occidente, ma non solo, ad una campagna forsennata e dissennata
di svalutazione della conoscenza.
Studiosi, ricercatori, scienziati, gli
intellettuali in genere, sono stati vittime di un “relativismo epistemico” nel senso che le loro tesi sono
state spesso ridotte a mere opinioni tra le altre.
Questo
è il lato oscuro dell’accesso istantaneo, universale e senza intermediazioni
alla rete globale.
La
sostanziale anarchia della rete Internet è per molti versi un fatto
liberatorio, ma ha finito per opporsi non solo all’autoritarismo (e siamo
d’accordo) ma anche troppo spesso all’autorità come competenza prima ancora che
come ruolo sociale.
Previsione
e lungimiranza.
In una
situazione critica e drammatica, occorre mantenere una fondamentale onestà
intellettuale e una correttezza metodologica ed analitica.
Dobbiamo
evitare di avvalorare narrazioni politiche ex-post della nuova pandemia del
COVID-19.
Da una
parte, i sovranisti ci vedono la prova che la globalizzazione è perniciosa e
che bisogna tornare al controllo delle frontiere e ridurre l’esposizione
internazionale.
In realtà si potrebbe contro-argomentare che proprio
questo tipo di minacce transnazionali alla sicurezza nazionale dimostrano che
la sovranità nazionale non è sufficiente e forse inadeguata ad affrontare le
sfide globali, e che solo la condivisione politica (che è cosa ben diversa
dalla cooperazione internazionale) può permetterci di superare queste enormi
criticità.
La
pandemia dimostra che gli eventi si presentano sempre più in termini di flussi,
ma la politica si organizza ancora in termini di “stock”, di quantità finite di
territori e di risorse.
Pensiamo
al discorso delle mascherine che non sono abbastanza in un Paese e che invece
abbondano in un altro.
Sul
versante opposto, i fautori di un approccio olistico e planetario alla politica
ed all’economia (come in particolare i teorici dell’”Antropocene”, cioè del mutamento
degli equilibri del pianeta dovuti all’impronta profonda dell’attività umana –
human imprinting – attraverso la produzione e in definitiva attraverso il
modello capitalistico) tendono ad interpretare la pandemia come prova che
l’alterazione della natura produce conseguenze nefaste dovute agli squilibri
che si producono, ad esempio, nella catena alimentare o nella riduzione
dell’habitat per le specie animali selvatiche che sono costrette ad invadere,
per sopravvivere, gli spazi antropizzati.
Si
potrebbe contro-argomentare che le grandi epidemie come la peste nera ci sono sempre
state e
precedono di gran lunga l’era industriale e quindi si tratta di una
correlazione e non di una causazione.
Un po’
per scherzo e un po’ seriamente io definisco i sovranisti come i “doganieri”
del mondo (con tutto il rispetto per la nobile professione dei doganieri): sono coloro che credono che le
barriere, le frontiere, i muri siano la soluzione per isolarci dalle minacce o
anche semplicemente per tenerci lontani dai problemi degli altri.
Per
contro, quanti giustamente difendono la devastazione ambientale, si possono
definire come gli “ortolani” o i “giardinieri” del mondo, sia detto senza
ironia.
Tutti
e due i gruppi tendono a tirare il virus per la giacchetta.
Il
problema è che le interpretazioni postume rischiano di essere ideologiche.
Invece di essere dei “prometei”, cioè coloro che “pensano prima”
secondo l’etimologia greca, cioè uomini e donne in grado di vedere lontano, di
immaginare le gravi conseguenze delle nostre azioni nella società e nella
natura, rischiamo piuttosto di apparire come degli “epimetei”, cioè come coloro che si accorgono
dei danni e degli eventi solo dopo che si sono prodotti e manifestati.
Credo
che occorra evitare di piegare i fatti, come il grande “evento” mondiale della
pandemia, per arruolarlo a difesa o a giustificazione di una tesi o di una
interpretazione.
In
realtà, stiamo tutti apprendendo severe lezioni.
È
mancata non solo e non tanto la capacità previsionale (immaginare gli effetti
devastanti di una pandemia non solo per la popolazione ma anche per l’economia,
la società, la cultura), ma l’intelligenza di comprendere come le politiche sociali,
ben congegnate, siano in realtà un investimento e non una spesa, un’opportunità
e non uno sperpero, e riguardano non solo il welfare, ma direttamente la
sicurezza nazionale.
Un
centro studi dell’Unione Europea (“European Strategy and Policy Analysis
System”) nel suo ultimo rapporto 2030 (“Challenges and Choices for Europe”)
distingue tra due parole, in inglese: prediction e foresight, cioè tra
previsione e lungimiranza.
La
migliore risposta alle crisi deve essere data prima che esse sorgano, nella
normalità delle scelte di politica economia e nei bilanci pubblici.
Io dico spesso che secondo me i bilanci
statali, le leggi finanziarie e simili non sono affatto documenti contabili, ma sono documenti etici, che mostrano la direzione di marcia
di una società e le sue scelte fondamentali.
Dall’universalità
di mercato all’universalità di senso.
Sul
piano della politica globale, sembra che la pandemia non faccia venir meno il
gioco della strategia.
Ad
esempio, ha avuto buon gioco Donald Trump nel definire il nuovo coronavirus “il
virus cinese“.
Ora, e
evidente che il virus non ha nazionalità e che si tratta di una retorica tesa a
colpevolizzare la sola Cina.
Per
contro, da parte cinese, dopo una gestione della crisi compiuta con
provvedimenti draconiani, si punta a trasformare l’iniziale colpo di immagine
per Pechino in una nuova opportunità politica, in una occasione di esercizio
del “soft
power”,
quasi a voler dimostrare che il modello cinese è in grado di rispondere a
questo tipo di sfide atipiche e catastrofiche meglio dei più avanzati paesi del
mondo euro-atlantico.
Mi
pare tuttavia che nessuno dei due paesi si renda pienamente conto che l’assetto
delle relazioni internazionali al termine della pandemia sarà probabilmente
assai diverso da quello che ha finora dominato la scena.
Alcuni
analisti disinvolti, operando una crasi tra geopolitica e pandemia, hanno
introdotto il concetto di “competizione pandemica” per rappresentare l’idea dello sfruttamento
politico del morbo, asserendo che tale “partita” sarà “vinta” da chi chiude più
tardi e riapre prima, fermando il meno
possibile la macchina produttiva, non da chi subisce meno morti.
In
primo luogo, a me sembra anzitutto che l’aggettivo «geo-pandemico» sia in sé un
ossimoro.
La
pandemia per definizione OMS è globale, è priva di senso anche pratico una
competizione tra territori e popoli più o meno infetti.
Inoltre, abbiamo visto come è finita la «competizione»
in UK e Svezia, due Paesi che hanno dovuto fare un precipitoso dietro-front
rispetto a politiche di contenimento del contagio in apparenza più liberali.
Non
vorrei che dalla geopolitica applicata alla pandemia si passasse senza colpo
ferire alla necro-politica.
La
politica o ha al centro la sicurezza umana oppure non serve, o meglio serve
solo alle oligarchie che giocano a risiko con la vita della gente indifesa.
Inoltre
la comprensibile preoccupazione dei governi di disporre a sufficienza di
dispositivi protettivi ed apparecchiature medicali avanzate, e soprattutto, in
prospettiva, di dosi di vaccino adeguati rischia di aprire una nuova linea di
faglia in un mondo che è già attraversato da fratture così profonde da indurre
a ritenere che si sia entrati in una fase di de-globalizzazione, in un mondo
post-globale.
Una mentalità da gioco “a somma zero” si sta
affermando sotto l’impulso di leader nazionalisti, che approfittano della crisi
pandemica per enfatizzare gli interessi nazionali a scapito della cooperazione
internazionale, paradossalmente ancora più necessaria per rispondere a questo
“shock simmetrico” che colpisce tutti i paesi sia pure in forme e tempi
diversi.
Alla pandemia dovrebbe corrispondere un “Pan
umanesimo” come risposta davvero efficace piuttosto che l’illusione
pseudo-autarchica.
Le
lezioni da trarre sarebbero molteplici e strategiche.
In
primo luogo, si dimostra che nessun paese per quanto militarmente ed
economicamente super-potente riesce veramente ad evitare questo tipo di
situazioni drammatiche che colpiscono direttamente la popolazione, come “armi
letali” totalmente fuori del controllo di ogni regime politico.
Emblematico
è il caso della portaerei statunitense Theodore Roosevelt, una delle più impressionanti
macchine da guerra americane, il cui equipaggio, dopo una sosta dell’unità
navale in Vietnam, a cominciato ad ammalarsi di coronavirus nell’ultima
settimana di marzo 2020, per circa 100 casi registrati.
È stato decretato l’isolamento per i contagiati,
ma sulla portaerei, lunga 333 metri, quasi 5000 persone sono costrette a vivere
in stretto contatto per l’esiguità degli spazi.
Il comandante della portaerei, Brett Crozier,
ha richiesto lo sbarco di gran parte dell’equipaggio, osservando, in particolare,
che non ci si trovava in una situazione di guerra, e che la priorità avrebbe
dovuto essere quella di salvare le vite dei giovani marinai.
Crozier è stato rimosso dall’incarico, perché
in questa circostanza avrebbe dimostrato, secondo i suoi superiori, scarsa
professionalità.
Alla fine è stato consentito lo sbarco di soli
2700 marinai, mentre il resto dell’equipaggio è restato a bordo per
garantire l’operatività della portaerei,
in base al principio astratto che non si abbandona una nave da guerra, anche in
tempo di pace, specie se questa è impegnata in una dimostrazione di forza nei
confronti della Cina con i suoi 90 velivoli da combattimento.
Una portaerei può combattere e vincere una battaglia
navale e aerea, ma non può nulla contro un micro-organismo come il Covid-19,
capace di mettere in difficoltà la potentissima Marina americana.
Sarebbe
poi l’occasione per rendersi conto che un approccio alla politica estera
fondato prevalentemente sulla potenza e talvolta sulla prepotenza non solo non
è in grado di rispondere ai vari “cigni neri“ che fanno di tanto in tanto la
loro irruzione sulla scena mondiale, ma addirittura complica la possibilità di
fronteggiare tali criticità, non fosse altro per la semplice ragione che quegli
investimenti o sperperi fatti nell’illusione securitaria finiscono per
sottrarre risorse preziose alle politiche di prevenzione.
Il 23
marzo 2020 il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha
dovuto lanciare un disperato appello per un immediato per il cessate il fuoco
globale in tutti gli angoli del mondo, chiedendo di fermare i conflitti armati
e concentrarsi, tutti, sulla vera battaglia delle nostre vite”.
C’è poi un tema importante, che riguarda i
Paesi più vulnerabili: “Non dimentichiamo – dice Guterres – che nei Paesi in
guerra i sistemi sanitari hanno collassato e il personale sanitario, già
ridotto, è stato spesso preso di mira. Rifugiati e sfollati a causa di
conflitti sono doppiamente vulnerabili.
La
furia del virus illustra la follia della guerra.”
Sul
piano più generale, la pandemia conferma le tesi di Ulrich Beck, che parlava
della esplosività politica dei rischi globali, che mettono a nudo
l’inadeguatezza delle istituzioni internazionali.
Una
prima esplosione o implosione potrebbe purtroppo riguardare l’Unione Europea,
ma potrebbe anche costituire occasione di riscatto.
La
crisi ha fatto cadere alcuni tabù, come il famoso “Patto di Stabilità”.
La
Banca Centrale Europea ha dopo troppe esitazioni ha deciso di immettere 750
miliardi di Euro nel sistema acquistando titoli del debito pubblico degli
stati.
Ma deve cambiare l’impostazione di fondo: l’Unione come semplice insieme di
stati-nazione è forse superata dalla storia e dagli eventi.
Ormai
da almeno due decenni si parla costantemente di governance globale, con risultati estremamente
deludenti, se si pensa ad esempio al caos climatico o al controllo dello
strapotere della finanza.
La
governance è una chimera, se non è capace di mettere in moto meccanismi seri di
risposta coordinata a livello mondiale al rischio generalizzato creato dalle
pandemie.
È il
mancato governo politico della globalizzazione, più che quest’ultima in quanto
fatto oggettivo (e non ideologia), che crea l’incapacità di risposte mondiali
alle crisi transnazionali.
Comprendiamo
che i meccanismi tecnici del multilateralismo non sono adatti alle catastrofi.
Le relazioni internazionali devono subire una
mutazione genetica, non bastano le mitigazioni e gli adattamenti come si dice
per le politiche climatiche.
Prendendo atto che quando si parla di “famiglia
umana universale” non si tratta di un gergo per anime belle, ma di una sfida
esistenziale per l’umanità.
Il
cambio di paradigma è quello che mette in soffitta l’idea di egemonia, con
tutti i suoi orpelli legati al predominio economico e militare, e rende
centrale l’idea della politica come “cura”, come “prendersi cura” del mondo,
più che dominarlo.
La pandemia rende evidente l’estrema
vulnerabilità e fragilità di tutti i sistemi, indipendentemente dalla quota di
potere che essi detengono sulla scena mondiale.
Essa
sortisce l’effetto di unificare diversi concetti di sicurezza.
La
sicurezza può essere declinata infatti in almeno tre significati, resi in
inglese da security
(le
sicurezze della vita, nel senso ad esempio di sicurezza sociale), certainty (certezza) e safety (sicurezza personale, incolumità).
Prendo
a prestito le parole di Elena Pulcini in un libro di qualche anno fa:
“Se (…)il concetto di responsabilità rimanda
soprattutto alla pre-occupazione per l’altro, il concetto di cura (…) coniuga
in sé, nelle sue stesse radici etimologiche, il significato di preoccupazione e
di sollecitudine; consentendoci di aprire un altro versante della nozione di
responsabilità che pone l’accento, appunto, sull’impegno attivo, concreto ed
esperienziale del prendersi cura.
Il che
vuol dire sottrarre l’etica della responsabilità al rischio di restare
confinata in un ideale astratto e puramente di principio.”
E la cura del mondo implica anzitutto, specie in una
situazione di pandemia, conservazione della vita e garanzia della
sopravvivenza:
ma
soprattutto impone di trasformare quella che è solo una “universalità di
mercato” in una “universalità di senso.”
(Pasquale
Ferrara)
Una
valanga di numeri. La pandemia
e il
potere manipolatorio delle statistiche.
Micromega.net
– Marco d’Eramo – (16 giugno 2021) – ci dice:
Mai le
nostre tv e i nostri giornali hanno usato i numeri relativi dei decessi, ma sempre
le cifre assolute.
Una riflessione sulla “retorica del numero”
come potente arma biopolitica di persuasione irrazionale.
In
molti siti della diaspora indiana ultranazionalista circola dall’inizio di
giugno una ricerca dell’ideologo Shantanu Gupta, assai vicino al Bharatya
Janata Party del premier Narendra Modi.
“Gupta
ha tracciato per mezzo del web la copertura sulla pandemia di Covid in India da
parte di sei media globali – BBC, The Economist, The Guardian, Washington Post,
New York Times e CNN su un periodo di più di 14 mesi.”
Secondo Gupta, “con 176 titoli ‘Minacciosi,
Iperbolici, Critici o Scettici’, la BBC guida la classifica dei super diffusori
di panico in termini di volume di titoli prevenuti.
Con il
96 per cento dei suoi titoli pubblicati in 14 mesi sotto la categoria
‘Diffusori di Panico o Fuorvianti”, The Guardian guida la classifica nella
percentuale di titoli prevenuti” (canindia.com/bbc-tops-chart-of-global-panic-superspreaders-amid-indias-covid-waves/).
Su
cosa si basa la tesi di Gupta?
Sul
fatto che tutti questi media “hanno opportunamente omesso di fare riferimento
al numero di casi per milione di abitanti.
Perché se si prendono i casi o le fatalità per
milione, l’India è uno dei paesi che ha agito meglio nella mappa globale”.
Su
questo punto Gupta ha assolutamente ragione.
Per troppe volte in questa primavera abbiamo
ascoltato e letto cifre drammatiche sui “record” di morti che l’India batteva
un giorno dopo l’altro, fino a diventare “il terzo paese con più morti al
mondo” di Covid.
Andiamo
a caccia di questi record.
Prima
di giugno, l’India aveva ottenuto il suo primato nazionale il 18 maggio di
quest’anno con 4.525 morti in un giorno.
Gli
USA avevano raggiunto il massimo di questa macabra classifica il 12 gennaio con
solo pochi morti in meno, 4.466 in un solo giorno.
Il
Regno Unito aveva toccato il top il 20 gennaio con 1.823 morti e l’Italia lo
aveva fatto il 3 dicembre dell’anno scorso con 993 morti in un giorno.
Il
problema è che l’India ha un miliardo 392 milioni di abitanti, gli Usa 332
milioni; il Regno unito 68 milioni, l’Italia 60 milioni.
Se
perciò contiamo il numero di morti per milione di abitanti, il record
giornaliero di decessi mostra una classifica ben diversa.
In
questa disciplina è saldamente al comando il Regno unito con 28 morti in un
giorno per milione di abitanti;
segue
l’Italia con 17 morti per milione;
vengono
poi gli Usa con 14 morti;
e
infine l’India con solo 3 morti per milione di abitanti.
Per quanto riguarda i decessi totali per
milione di abitanti dall’inizio della pandemia a giugno, la classifica è quasi
la stessa con solo la posizione di vertice che cambia, perché l’Italia
sopravanza il Regno unito: Italia 2.091 morti per milione di abitanti; Regno
unito 1.873; USA 1.836; India solo 243.
Naturalmente
si dirà che le statistiche indiane sono inaffidabili (il che è verissimo)
perché è impossibile censire i morti nelle zone più arretrate o nelle
bidonville.
Sappiamo
ora che in Perù l’eccesso delle morti è stato circa il triplo del conto ufficiale
dei decessi per covid.
Allarghiamoci
ancora di più e moltiplichiamo le statistiche ufficiali indiane non per tre, ma
per quattro.
Il punto è che anche a voler quadruplicare i
morti di covid indiani, il bilancio resterebbe sempre inferiore a quello di paesi
avanzati e con redditi pro capite infinitamente superiori, come appunto USA, UK
e Italia.
Ma
allora per l’India la pandemia è stata forse tutta rose e fiori come ci ha
ripetuto l’ineffabile Modi per circa un anno, e come sostiene ancora oggi
Gupta?
Per
niente affatto.
Vallo a raccontare alle famiglie che si sono
rovinate per comprare al mercato nero le bombole d’ossigeno, alle ignominie cui
si sono dovute abbassare per riuscire a far ricoverare i loro cari in un’unità
con i ventilatori, ai milioni di lavoratori precari rispediti a casa a piedi,
senza un soldo e senza un sussidio.
Se è vero che il covid non ha colpito l’India
con più violenza che altri paesi, è però altrettanto vero che una virulenza
simile, o anche minore, ha messo in ginocchio il sistema sanitario indiano in
modo molto più catastrofico, per non parlare dell’impatto sociale.
Le
cifre che ci venivano prodigate con tanta munificenza per testimoniare la
“tragedia” del covid in India dicevano in realtà tutta un’altra storia:
raccontavano la diseguaglianza inumana di
quella società e lo stato infame in cui versa il sistema sanitario pubblico
indiano, sottofinanziato, con personale sottopagato e mancante di qualunque
strumentazione adeguata.
L’India
è solo l’esempio più macroscopico di come si possa far dire ai numeri qualunque
cosa, e spesso anche il contrario di quello che essi in realtà dicono.
Perché
in questo anno e mezzo siamo stati sommersi, sepolti e asfissiati da una
“valanga di numeri”, come l’ha chiamata il filosofo canadese Ian Hacking.
Hacking si riferiva alla passione per le
statistiche, e per la statistica, che colse l’Europa nell’800, dopo le guerre
napoleoniche e con la rivoluzione industriale.
Nel
suo bellissimo “The Taming of Chance”, Hacking ci racconta il doppio percorso
per cui la statistica è diventata nell’800 uno dei principali strumenti di
governo e, nello stesso tempo, ha prodotto una colossale rivoluzione
epistemologica nella scienza: si pensi solo alla meccanica statistica, alla
teoria dei gas, con l’apparire di nuovi sconvolgenti concetti (entropia prima,
interpretazione probabilistica della meccanica quantistica poi).
Non
solo, ma è per mezzo di questa “valanga di numeri” che compaiono le “scienze
umane”:
la sociologia non sarebbe nemmeno pensabile
senza i dati statistici:
Durkheim non avrebbe potuto scrivere il suo
fondamentale studio sul “Suicidio” senza la mole di informazioni fornite dai
censimenti.
L’immagine
che noi oggi abbiamo dell’essere umano deriva in gran parte da quali numeri era
possibile contare per gli umani (mettendo in disparte tutto ciò che non è
contabile, censibile).
Ovviamente
le statistiche, cioè i numeri, sono state l’utensile principale per mettere in
atto quella che Michel Foucault chiama la “biopolitica”, per cui a chi governa
è indispensabile sapere quanto lunga sarà la vita media di chi nasce in un
certo anno, a che età si sposerà, a seconda del grado d’istruzione, quanti
giovani potranno essere chiamati alle armi, quanti operai saranno disponibili,
per quanti anni lo stato dovrà pagare un vitalizio, e così via.
Ma una
disciplina non può essere uno strumento di governo senza diventare un’arma
della politica.
A loro
volta le armi della politica diventano poste in gioco della stessa, per cui la
manipolazione delle statistiche nasce insieme alle statistiche stesse, fino
all’indimenticabile, lapidaria massima di Mark Twain, “Ci sono tre tipi di menzogne: le
menzogne, le dannate menzogne e le statistiche” (Chapters from my Autobiography,
1906).
A sua
volta, tutto questo processo ha reso indispensabile raffinare una nuova arte,
quella dell’uso retorico dei numeri, per arrivare a una vera e propria
“retorica del numero”.
Tutto
il grande show mediatico cui abbiamo assistito negli ultimi 17 mesi ha dispiegato
questa retorica del numero in tutta la sua potenza, potenza d’insegnamento, di
minaccia, di convinzione, di dissuasione, di distorsione: è quindi l’occasione
per guardarla un po’ più da vicino questa retorica.
E
innanzitutto: “Cosa è un numero? È una parola tra le altre, che fa parte
integrante della lingua? O è un puro oggetto scientifico di natura
extralinguistica?” si domandava Jacques Durand nel primo pionieristico testo
sull’argomento (“Rhétorique du nombre”, Communications, n. 16, 1970, pp. 125-132).
Noi
non ce ne rendiamo conto, ma siamo martellati dai numeri usati in un registro
per così dire “extra-aritmetico”: Le mille e una notte, 2001 Odissea nello
spazio, Fahrenheit 451, Il settimo sigillo, Ocean 11, l’agente 007, la bevanda
7-Up, i negozi 7-Eleven, 666 “numero della Bestia”.
In politica, l’uso retorico dei numeri deriva dal
fatto che numeri e statistiche — anche da fonti ufficiali— non sono uno
specchio della realtà, ma la deflettono riflettendola.
Proprio
per la sua natura solo in parte linguistica, il numero produce un effetto di
convincimento irrazionale.
Se mi si dice che in un disastro sono morte
migliaia di persone, posso crederci o meno e rimanere scettico, se invece mi si
dice che sono morte 12.324 persone, devo prendere o lasciare, e se prendo, devo
crederci in toto.
Il
numero detiene così una forza persuasoria assimilabile a quella di una foto
(che “vale più di mille parole”).
Nello
stesso tempo il numero decontestualizza, assolutizza.
Siamo
martellati a tal punto dai numeri da non accorgerci del lato arbitrario e
superfluo di tante informazioni.
Quando
durante la pandemia sentivamo per esempio il 30 gennaio che in Malesia in un
giorno si era registrato un record di 5.298 nuovi casi, nessuno di noi si
chiedeva perché questa cifra ci fosse comunicata:
come
mai in precedenza non ci avevano mai riferito l’andamento giornaliero di nuovi
casi di tubercolosi, quando ogni anno nel mondo muoiono circa 1,7 milioni di
persone per questa malattia?
Oppure,
ogni anno muoiono di incidenti stradali nel mondo quasi 1,4 milioni di persone.
Perché la tv non c’informa ogni sera sui
decessi stradali nelle Filippine o in Cile?
Al
contrario, con la seconda ondata di Covid, nessuno ha più nominato i morti
nelle case da riposo, che sono letteralmente scomparse dai mass media.
Eppure
gli anziani continuavano a morirci alla grande.
Ma non
si sono più sentiti i singhiozzi ipocriti sulla “strage dei vegliardi” né le
lacrime da coccodrillo sui “nostri nonni lasciati soli a morire”.
Quindi
il primo strumento della retorica del numero è la scelta di quali numeri usare,
e quali non usare.
Dichiarare
l’ammontare assoluto di decessi, invece del tasso relativo alla popolazione, è
un esempio lampante di quest’uso retorico del numero.
Mai né le nostre tv né i nostri giornali hanno
usato i numeri relativi, ma sempre le cifre assolute.
Un
esempio meno letale, ma altrettanto grave, è la manipolazione sulle statistiche
del lavoro
(con i vari curiosi stratagemmi per addomesticare il tasso di disoccupazione).
Poi ci
sono le figure vere e proprie della retorica che qui non abbiamo né modo né
spazio per analizzare.
Con i
numeri si può usare l’antitesi: “700.000 euro di multa per un debito inevaso di 1,2 euro”,
“cade da 80 metri: indenne”, “uccide per 20 euro”; la tautologia: “il 2021 non
è il 2001”; la ripetizione: “in 12 giorni, con 12 flaconi, 12 anni di meno sul
vostro viso”; l’enumerazione: “paghi uno, compri due” (pubblicità di un negozio
di scarpe), “uno, due, tre, quattro, cinque, ecco cinque creme da gelato
Mont-Blanc”, “1 offerta eccezionale, 2 stili di vita, 3 vantaggi”;
l’accumulazione: “920 tonnellate a 920 km/h”.
Vi sono poi le figure retoriche miste di numeri e
parole. La lista è lunga.
Da
questo breve excursus si vede che i numeri non sono né una parola come le
altre, né un segno completamente extralinguistico, ma il loro uso ricorda
curiosamente, per chiudere il cerchio, l’uso delle parole hindi nei giornali indiani
in lingua inglese, giornali farciti di termini locali che evidentemente dicono
un significato inesprimibile in inglese.
Queste “intrusioni” hindi costituiscono un
solecismo esotico rispetto all’inglese standard, ma nello stesso tempo un
rinvio a un patrimonio locale comune: è indubbio che nella coscienza popolare i
numeri hanno un fascino esotico.
Questo esotismo è dovuto alla conoscenza
imperfetta che il pubblico ha dell’aritmetica.
Quanto
spesso ho dovuto correggere i giornalisti che lavoravano con me perché negli
articoli che mi sottoponevano confondevano i milioni con i miliardi?
Una confusione comprensibile, e per due
ragioni.
1) -Perché
la probabilità di guadagnare un miliardo di euro è per loro pari a quella di
guadagnarne un milione: cioè zero, e quindi le due cifre si confondono nel
comune regno dell’impossibilità.
Questa
impossibilità era ben sfruttata da un tabloid israeliano che titolava a tutta
pagina:
“Il
bilancio dello stato: 4,360,000,000,000 Shekels”, invece di scrivere “4,360 miliardi”,
proprio perché nessun “lettore popolare” è in grado di cogliere il valore reale
di quella sfilza di zero.
2)-
Perché nessuno di noi esseri umani farà a tempo a contare fino a 3 miliardi
(supponendo che ogni numero venga contato in un secondo):
se
viviamo meno di 95 anni e 47 giorni, a 3 miliardi saremo già morti; e cioè le
cifre di cui parliamo, quando per esempio diciamo che l’India ha 1,390 milioni
di abitanti, restano per noi viventi puramente astratte.
Questo confondere le migliaia con i milioni e
i milioni con i miliardi ha giocato un ruolo importantissimo nella retorica del
numero pandemico.
Resta
da chiedersi lo scopo di quest’uso dei numeri.
Non
c’è dubbio alcuno: il
panico delle popolazioni è stato un obiettivo dichiarato, per niente nascosto.
Intendiamoci,
non voglio dire che l’epidemia non dovesse essere temuta: i negazionisti
ricorrono anch’essi a una loro peculiare “retorica dei numeri” (avrete notato che anche Gupta,
citato all’inizio, combatteva la retorica dei numeri “colonialista” con
un’altra retorica dei numeri).
Piuttosto, a mio parere le autorità di tutto
il mondo hanno ritenuto che se non avessero instillato un panico duraturo nelle
loro popolazioni, queste non avrebbero accettato con tanta remissività le
misure di lockdown e di limitazione delle libertà personali che il contenimento
dell’epidemia richiedeva.
Un
panico mediatico ben amministrato e ben dosato era, ed è, molto meno costoso e
intrusivo di misure di polizia.
E a questo scopo l’efficacia retorica dei
numeri è impareggiabile.
"Campo
profughi d'Europa".
Il
Viminale smaschera
l'ipocrisia della sinistra.
llgiornale.it
-Francesca Galici – (10-01 -2023) – ci dice:
Le Ong
dei migranti, per la maggior parte straniere, sanno di avere nella sinistra italiana
uno dei migliori alleati.
Lo dimostrano le recenti proteste del Pd e di
gran parte dell'opposizione per l'assegnazione del porto di Ancona alla nave
Geo Barents e alla Ocean Viking.
La sinistra è arrivata a parlare di decisioni
"punitive" contro le Ong e contro i migranti e, addirittura, di
scelte politiche del governo Meloni che mira a mandare le navi solo nelle città
amministrate da sindaci rossi.
Ovviamente,
non si contano le richieste di assegnazione di porti più vicini, magari al sud Italia,
non solo da parte delle Ong ma anche dalla stessa sinistra, che evidentemente
ha deciso di destinare il Meridione italiano a centro di sbarco per i migranti.
E lo dice senza troppi giri di parole Wanda
Ferro, sottosegretario al Viminale, che traccia i confini entro i quali il
governo sta cercando di trovare la quadra per una miglior gestione del
fenomeno, impegno mai preso dalla sinistra che ha sempre lasciato che fossero
le Ong e i trafficanti a scegliere porti e modalità di sbarco.
"La
sinistra protesta perché le navi delle Ong stanno finalmente sbarcando anche in
altre regioni del centro Italia e non più solo al Sud.
Evidentemente
a sinistra si vorrebbero trasformare Calabria e Sicilia nel campo profughi
d'Europa, una prospettiva del tutto inaccettabile", ha dichiarato Wanda
Ferro in una nota, in replica alle polemiche del Pd e degli altri partiti.
Il sottosegretario ha ricordato come "le
strutture di queste due regioni sono sottoposte da anni a una pressione
fortissima ed è giusto variare i punti di approdo".
Wanda
Ferro, quindi, smaschera le strategie delle Ong e il falso buonismo della
sinistra che le supporta:
"Lo
scandalo starebbe nel fatto che le navi delle Ong sono costrette a prolungare
il viaggio di due o tre giorni.
Nessuno
però si scandalizza quando le stesse navi tengono i profughi in mare per
settimane in attesa di effettuare nuovi trasbordi.
Forse
la sinistra soffre una sorta di sindrome 'nimby', predica accoglienza purché
lontano dal suo giardino".
Il
governo ha deciso di tenere una linea dura e chiara, senza accettare ingerenze
esterne per quanto concerne le politiche interne.
L'Italia torna ad avere voce in capitolo nelle
decisioni che interessano la gestione degli affari interni e questo sembra non
essere facilmente sopportato dalla sinistra e dalle Ong, abituate a ignorare il
volere popolare, che addirittura chiede maggior fermezza a Giorgia Meloni.
"Fratoianni
e compagni si rassegnino alla politica di contrasto dell'immigrazione
irregolare intrapresa dal governo Meloni.
Gli
italiani hanno detto no al modello Soumahoro e non si torna indietro", ha
concluso Wanda Ferro.
Da
giorni, i sindaci rossi del nord Italia stanno alzando la voce contro la
politica del governo, mostrando ancora una volta in chiaro tutta l'ipocrisia
che contraddistingue quella parte politica, ormai alla deriva.
"Molti
predicano la solidarietà e l'accoglienza, sulla stampa, quando leggono le
agenzie.
Quando
poi sul territorio bisogna accogliere migliaia di migranti regolari tutti
condividono le criticità di un sistema senza regole e questo avviene perché in
un quadro di solidarietà abbiamo pensato di far sbarcare i migranti in tutti i
porti italiani e non più solo in Calabria e Sicilia", ha dichiarato ieri il
sottosegretario, evidenziando le contraddizioni e il falso buonismo di chi si
dichiara favorevole all'accoglienza, purché la facciano altri.
COVID-19:
LA PANDEMIA
DEI
PROFITTI E DEL POTERE.
Oxfamitalia.org
– Redazione – (10 Settembre 2020) – ci dice:
400
milioni di posti di lavoro persi, mentre la ricchezza finanziaria di 25
miliardari è aumentata di 255 miliardi di dollari in poco più di due mesi.
400 milioni di posti di lavoro persi durante
la pandemia da Coronavirus.
Mezzo
miliardo di nuovi poveri a causa della pandemia, il tutto a fronte di 109
miliardi di extra-profitti realizzati da 32 multinazionali nel 2020, dei quali
secondo le stime l’88% andrà a remunerare gli azionisti.
A
rivelarlo è “Potere, profitti e pandemia”, il nuovo rapporto pubblicato oggi da
Oxfam a 6 mesi dalla dichiarazione della pandemia da Covid-19, che denuncia
quanto l’emergenza sanitaria in corso abbia portato molte grandi multinazionali
ad anteporre i profitti alla salute e alla sicurezza dei lavoratori, ad
abbattere costi e trasferire rischi e ad usare il proprio potere di influenza
per condizionare le politiche dei governi.
Il risultato è un acuirsi impressionante di
disuguaglianze già esistenti a ogni livello.
“Il
Covid-19 ha avuto conseguenze tragiche per molte persone in tutto il mondo, ma
ha anche beneficiato chi si trova all’apice della piramide distributiva.
Ha
detto Misha Maslennikov, policy advisor su giustizia economica di Oxfam Italia.
A livello globale alcune grandi
multinazionali, in particolare i colossi tecnologici, farmaceutici e del
commercio online stanno registrando, senza particolari meriti produttivi,
livelli di utili da capogiro, beneficiando della domanda eccezionale dei loro
beni e servizi causata dalla pandemia, e applicando incrementi talvolta
ingiustificati dei prezzi.
Per
alcuni, infatti, la crisi ha generato dei grandi surplus:
dall’inizio
della pandemia 100 grandi corporation globali quotate hanno visto una crescita
del proprio valore in borsa di oltre 3 mila miliardi di dollari e i patrimoni
finanziari dei 25 tra i più facoltosi miliardari al mondo hanno registrato un
incremento di ben 255 miliardi di dollari, solo tra metà marzo e fine maggio
2020.
Jeff
Bezos da solo potrebbe personalmente pagare a ciascuno degli 875.000 dipendenti
di Amazon un bonus una tantum di 105.000 dollari, senza intaccare i livelli di
ricchezza finanziaria personale di inizio pandemia.
Chi
sta guadagnando di più: decine di miliardi di dollari agli azionisti a scapito
dei livelli occupazionali e della qualità del lavoro.
Il
rapporto di Oxfam evidenzia come alcune multinazionali abbiano contribuito ad
aggravare l’impatto economico del coronavirus, destinando utili stratosferici
agli azionisti invece di investirli in posti di lavoro di qualità, attività di
ricerca e sviluppo, tecnologie amiche del clima, riconversione dei processi
produttivi, nonché nel pagamento di una equa quota di imposte, che generano
risorse pubbliche necessarie alla ripresa:
quattro
delle più grandi aziende tecnologiche del mondo, Google, Apple, Facebook e
Amazon, sono proiettate a realizzare quest’anno e complessivamente quasi 27
miliardi di dollari di extra-profitti.
Si
stima che Microsoft sia destinata a realizzare da sola 19 miliardi di dollari
di utili in più quest’anno rispetto alla media del quadriennio precedente;
da
gennaio, secondo i dati forniti dalle stesse aziende, Microsoft e Google hanno
remunerato gli azionisti rispettivamente con oltre 21 e 15 miliardi di dollari;
anche
i giganti farmaceutici hanno visto incrementare i propri profitti.
Le 7 società farmaceutiche analizzate da Oxfam
stanno realizzando in media un margine di profitto del 21%.
6 di
queste guadagneranno 12 miliardi di dollari in più durante la pandemia rispetto
alla media degli ultimi 4 anni.
Tra queste Merck 4,9 miliardi in più, Johnson
& Johnson e Roche avranno circa 3 miliardi di dollari di extra-profitti
ciascuna;
tre
delle più importanti aziende statunitensi che stanno lavorando allo sviluppo di
vaccini per il Covid19, grazie anche a cospicui investimenti pubblici – Johnson
& Johnson, Merck e Pfizer – hanno già distribuito dal mese di gennaio 16
miliardi di dollari ai propri azionisti;
la
Chevron ha annunciato tagli del 10-15% della propria forza lavoro globale,
nonostante nel primo trimestre dell’anno abbia distribuito dividendi e
realizzato buyback per un ammontare superiore agli utili del periodo;
la più
grande industria del cemento della Nigeria, la Dangote Cement, ha licenziato
3.000 lavoratori senza preavviso, pur prevedendo di corrispondere nel 2020 il
136% dei propri profitti agli azionisti.
Il
mondo dopo la pandemia: favorire modelli d’impresa economicamente sostenibili e
inclusivi.
Covid-19:
la pandemia dei profitti e del potere.
Secondo
le stime di Oxfam, 32 tra le corporation più redditizie al mondo prese in esame
nel rapporto destineranno l’88% dei loro profitti in eccesso agli azionisti,
arricchendo in gran misura chi è già ricco.
Non è
una novità, ma la conseguenza di un modello d’impresa orientato all’esclusiva
massimizzazione dei profitti per gli azionisti e all’incremento del valore
finanziario delle aziende a discapito dello sviluppo dei livelli occupazionali
e retributivi dei dipendenti e della più ampia attenzione alla società.
Per
questo Oxfam chiede alle istituzioni di sostenere maggiormente le imprese che
perseguono l’obiettivo di creare e distribuire il valore in modo più equo tra
tutti gli stakeholder, economicamente sostenibili e in grado di coniugare
redditività e solidarietà.
“Abbiamo
di fronte l’occasione straordinaria di ripensare il nostro modello economico.
Chiediamo
ai leader politici di lavorare per creare un ambiente normativo che favorisca
le imprese capaci di essere socialmente responsabili, mostrando attenzione
all’interesse generale e diventando delle entità generative di inclusione oltre
che di sviluppo economico”, aggiunge Maslennikov.
Una
delle proposte del rapporto è l’introduzione di un’imposta sugli extra-profitti
generati da imprese con fatturato annuo consolidato superiore ai 500 milioni di
dollari.
Un’imposta
che non aggraverebbe in alcun modo le precarie condizioni di piccole e medie
imprese in difficoltà, ma si applicherebbe solo a grandi società in alcuni
settori economici che hanno beneficiato, in maniera anche fortuita, dalla
pandemia.
“Se
introdotta, la misura può fornire un disincentivo all’aumento indiscriminato
dei prezzi di beni e servizi e impedire ad alcuni giganti corporate
l’incremento del proprio potere di mercato attraverso acquisizioni di imprese
in difficoltà. – conclude Maslennikov.
Il gettito stimato per questa imposta si
attesterebbe intorno a 104 miliardi di dollari dalle sole 32 multinazionali
analizzate nel rapporto.
Si tratta di risorse sufficienti a finanziare
lo sviluppo e la distribuzione di test, terapie e vaccini anti-Covid gratuiti
per tutti, a livello globale”.
Le
sfide della
pandemia,
il
potere e il trionfo dell’avidità.
Ilmanifesto.it
– Redazione – (18 agosto 2021) - Marco Revelli - ci dice:
PANDEMIA.
Di avidità parla tutta la vicenda del pessimo andamento della campagna
vaccinale europea.
Avidità dei signori di Big Pharma, che
lautamente finanziati dai poteri pubblici privatizzano spudoratamente i
profitti, riservando dosi ai migliori offerenti anche a borsa nera, e
tradiscono impunemente impegni contrattuali selezionando ad arbitrio i sommersi
e i salvati.
«Greed
is good!».
Ricordate
l’esclamazione di Michael Douglas alias Gekko in quel grande film di Oliver
Stone, Wall Street, sul «denaro che non dorme mai»: «L’avidità è buona!»?
È
tornata a risuonare in questi giorni, in una video-conferenza riservata per i
parlamentari inglesi, per bocca di Boris Johnson che si è lasciato andare a
proclamare che la vittoria sul Covid, ottenuta col vaccino, la si deve a
«capitalismo e avidità».
Non ha
detto, il premier inglese, che a quella stessa avidità è dovuto il record di
morti da lui collezionato in Europa nella fase precedente in cui il virus era
lasciato correre a briglia sciolta pur di non sacrificare il business.
E poi ha anche dovuto invocare la cancellazione di quella
voce dal sen fuggita, quando gli hanno fatto notare che l’Europa avrebbe potuto
prenderla male, imputando appunto all’avidità britannica il proprio deficit di
Astra Zeneca, che pure aveva finanziato abbondantemente (pare per il 95%) e che
si è vista accaparrare dall’avidità d’oltremanica.
E
tuttavia, falsificante sulla questione della vittoria sul virus, l’avidità la
dice lunga piuttosto sull’ideologia dei ceti dirigenti attuali, anche di quelli
che se ne vergognano a nominarla.
DI
AVIDITÀ PARLA in realtà tutta la vicenda del pessimo andamento della campagna
vaccinale europea.
Avidità
dei signori di Big Pharma, che lautamente finanziati dai poteri pubblici
privatizzano spudoratamente i profitti, riservando dosi ai migliori offerenti
anche a borsa nera, e tradiscono impunemente impegni contrattuali selezionando
ad arbitrio i sommersi e i salvati.
Avidità degli stati più forti nel tentativo di
avviare trattative separate con i fornitori a scapito degli altri.
E poi
– allargando il campo – avidità dei Paesi ricchi, Europa in testa (che al Wto
si è macchiata dell’imperdonabile crimine di votare contro la proposta dei
paesi svantaggiati di sospendere il copyright dei farmaci antivirus) nei
confronti di quelli poveri.
Basta
guardare la graduatoria globale delle coperture vaccinali, con in testa Stati
Uniti e Gran Bretagna (con circa il 60% di popolazione vaccinata almeno con una
dose) e al fondo la Namibia (con lo 0,1) e lo Zambia (con lo 0%).
Eppure
tutti gli epidemiologi con un po’ di sale in zucca dicono che se non si eradica
il virus in tutto il mondo, non si sarà mai sicuri, rischiando che le varianti
prosperino nelle periferie del globo.
Ma
come si sa l’avidità è cattiva consigliera, sorella gemella del masochismo.
Né si
può dimenticare, infine, l’avidità dei Signori della terra, quello sparuto
gruppetto di miliardari che mentre buona parte della popolazione mondiale
arretrava, hanno continuato ad arricchirsi a dismisura: secondo l’ultimo
rapporto Oxfam dedicato a Il virus della diseguaglianza, dal marzo 2020 la
ricchezza dei 36 miliardari italiani classificati come tali è cresciuta di
oltre 45,7 miliardi di euro, e quella dei miliardari mondiali ha raggiunto il
record storico di 11.950 miliardi.
Sempre
secondo l’Agenzia i 540 miliardi accumulati dai primi 10 super-ricchi nel mondo
nell’anno della pandemia sarebbero sufficienti a «garantire un accesso
universale al vaccino e assicurare che nessuno cada in povertà per il virus».
SE POI
DAL CAMPO largo del pianeta si scende alla scala minore di casa nostra, la
musica non cambia.
Non
solo e non tanto per l’indecente spettacolo dell’arlecchinata regionale, ogni
Governatore a sgomitare per contendersi i favori del generale logistico.
Ma
anche, e soprattutto, per il rischio mal calcolato delle riaperture e per la
vicenda del Recovery Plan o, come si dice in politichese, del PNRR, ovvero di
quel «piano nazionale» che nell’ostentare nella propria denominazione il tema
della Resilienza (ovvero del ritorno di un oggetto contuso alla sua precedente
forma) non promette niente di buono quanto a cambio di paradigma e di rimedio
ai tanti precedenti errori che disseminano la vicenda del trionfo della logica
d’impresa applicata al bene pubblico.
Vicenda
grottesca nella sua opacità, se ancora oggi, a dieci giorni dalla scadenza, si
sa poco o nulla dei suoi contenuti, sigillati nelle stanze di Palazzo Chigi e
nei cassetti del ministro Franco, dopo che si era crocifisso il povero Giuseppe
Conte perché non condivideva, quattro mesi fa, urbi et orbi, il proprio «plan».
E dopo che l’unico materiale fornito al
Parlamento (che l’opposizione di ieri, oggi in maggioranza, intimava di
coinvolgere nella discussione) sono le schede elaborate da quell’ Esecutivo
disabitato con l’accusa di reticenza sui progetti.
BENE,
A GUARDARE dentro la scatola nera custodita da Draghi, o meglio a tentare di
interpretare i flebili messaggi che ne fuoriescono, s’intuisce che anche qui
l’avidità abbia una parte consistente.
Che
quel «tesoretto» per assicurarsi il quale la Confindustria di Bonomi e tutto
l’esercito dei vecchi e nuovi depredatori del Paese aveva scatenato da subito
la guerriglia contro il governo giallo-rosso, sembra ora molto, ma molto a loro
portata di mano.
Vorrà dire qualcosa che il primo atto, fulmineo, sia
stato l’avvio di 57 grandi opere con annessi Commissari speciali, che sono lo
strumento madre di tutte le speculazioni (qui si tratta di 83 miliardi).
O che
si parli di revisione delle procedure d’appalto?
O che ancora si attivi la retorica degli “investimenti”
in contrapposizione con i sussidi e o sostegni (unica forma per garantire la
sopravvivenza alla galassia molecolare dei piccoli falcidiati da un anno di
quaresima)?
Vedremo
cosa ne viene fuori quando l’uomo della provvidenza aprirà il suo tabernacolo.
Ma che
ne esca fuori un qualche spirito santo è lecito dubitare.
Il
nuovo volto
del
potere.
Legrandcontinent.eu
– Lorenzo Castellani – (30 agosto 2021) – ci dice:
La
pandemia ha cambiato per sempre la natura del potere.
All'indomani della crisi, stanno emergendo tre
scenari estremi:
uno scenario burocratico e dirigista, un
secondo scenario "populista", o una profonda trasformazione delle
strutture di potere.
(Spunti
di dottrina Politica).
Il
potere è moto perpetuo. I suoi equilibri si modificano in continuazione. Mutano
le regole, i rapporti di forza, il sistema dei controlli, gli equilibri degli
interessi, le maggioranze e le minoranze, le violenze, le costrizioni.
Ogni
giorno o quasi.
Esistono
però fasi della storia in cui questo moto, questo gran ballo del potere, è
particolarmente accelerato e vorticoso.
Il
nostro tempo presente è uno di quei momenti.
La
pandemia ha reso più fisico il potere.
Più
vicino ai cittadini, più protettivo e al tempo stesso più inquietante.
Il potere è tornato a delimitare uno spazio
fisico che sembrava senza confini prossimi.
Le
case sono state serrate per decreto, le persone chiuse dentro.
Le attività economiche sospese, erogati flussi
di denaro pubblico per fermare le perdite.
E poi
ancora dispositivi medici obbligatori, distanziamento sociale, quarantene,
prenotazioni obbligatorie, vaccinazioni di massa, tamponi.
Gli
individui si sono trovati isolati dagli altri uomini, ma esposti come canne al
vento all’azione del potere amministrativo.
L’uomo,
e non soltanto lo Stato, è stato costretto ad essere più disciplinato,
pianificatore, burocratico.
Autocertificare,
attestare, dare comunicazione, certificare, codificare.
La tecnologia, che già sferzava nella nostra
quotidianità, si è intimamente accoppiata con l’amministrazione.
La
morsa della tenaglia tecno-amministrativa si è fatta più stretta all’ombra
della maschera paternalista dello Stato.
Tracciamento, prenotazioni, app, QR code.
L’automatismo della macchina al servizio della
sanità pubblica e del nuovo ordine pubblico.
Utile dispositivo per debellare la malattia e
impersonale meccanismo di organizzazione.
Terminale
senza volto, pura spirito di funzione.
Nuova
scienza della polizia, se questa la si intende nel suo antico significato
tedesco (polizei), come potere gestionale, regolatore degli affari interni e
dell’economia.
Potere
disciplinante e paternalista che perimetra il comportamento degli individui con
l’ordinanza e col decreto.
Il
potere, si diceva, si è fatto più fisico ma anche più impalpabile.
La procedura ha travolto la politica,
l’algoritmo guida l’organizzazione sociale, le pratiche e i decreti
sostituiscono il legislatore.
Sono
volti vuoti ed inermi quelli che appaiono nelle televisioni, c’è molto più
potere nella struttura che nella leadership.
È diventato chiaro quanto la comunicazione ed
il personalismo politico restino il fumo sovrastante mentre la complessità di
strutture interdipendenti sia il carbone ardente che serve per arrostire la
carne.
La nostra vita quotidiana in questo prolungato
stato di eccezione dipende molto di più dal funzionario, sia medico, ingegnere
o informatico, o dall’impiegato dell’azienda sanitaria, che non da politici
impotenti oppure tremendamente impauriti.
La
straordinaria rivoluzione dell’informazione digitale degli ultimi anni aveva
celato l’illusione, oggi caduta, che la politica fosse ancora in grado di
prendere decisioni fondamentali per i destini umani e di mettere da parte o
almeno controllare i mastodontici apparati che governano le nostre vite.
Sistemi tecno-burocratici in grado di
condizionare anche la più politica tra le attività umane: la guerra.
Tendenza di recente rimarcata dalla “questione
afghana” e dagli errori informativi, organizzativi e logistici imputabili al
sistema americano, più che alla politica in sé, nella ritirata.
Si può
regredire senza traumi da una burocrazia e da un esercito di taglia imperiale?
Domanda
centrale nel futuro degli Stati Uniti d’America e del resto del mondo.
Ma
torniamo al punto.
La
pandemia ci ha ricordato che essere governati è anche e soprattutto essere
chiusi, tracciati, sorvegliati, controllati, certificati, distanziati, isolati.
La
domanda di sicurezza ha stretto gli ultimi bulloni residui del Leviatano.
Ha spazzato via tutte le membrane, come la
famiglia, la scuola, il lavoro, le associazioni, le chiese, che separavano
l’uomo dal governo.
L’amministrazione
delle cose si è sovrapposta all’amministrazione delle persone.
Mai si
è arrivati così vicini negli ultimi decenni a qualcosa di così simile allo
Stato in guerra, ad un livello di interventismo del potere pubblico nella vita
privata così penetrante.
Potere
duro, che interviene, regola, dispone, autorizza, rinchiude, isola.
Ma
anche potere che confonde e si nasconde.
Rispondere
alla domanda “chi ci governa?” è sempre più difficile.
Chiunque
intuisce che la politica è solo un pezzo, e oramai nemmeno quello più evidente,
di un sistema di potere che si sposta.
Dai
territori fino ad oltre lo Stato, passando per multiple burocrazie, i comitati
tecnico-scientifici, le task force, le agenzie, gli istituti e numerosi altri
corpi amministrativi.
La
politica è ridotta a mera attività di regolazione dei rischi, o meglio brancola
nel buio alla ricerca di un irraggiungibile rischio zero.
In questa affannosa corsa spinge le strutture
verso la massima pianificazione.
Pretende
di annullare l’errore, di minimizzare il danno, di controllare
l’incontrollabile, di avere risposte dalla scienza che spesso la stessa scienza
non può dare.
Ma la
coperta è sempre corta: se si cerca di ridurre il danno sanitario ci si espone
a quello economico e viceversa, se si contiene il rischio pandemico ci si
espone a quello sociale, se si persegue una politica scientifica ci si ritrova
spogliati dai tecnici, mentre se si segue l’istinto politico puro ci si pone
come navigatori dilettanti esposti alla tempesta.
In
ogni scenario, una legittimazione politica già da lungo tempo precaria, interna
a quel regime che ancora chiamiamo democrazia, si indebolisce ulteriormente. Si
rivolgono le proprie preghiere al tecnico, alla scienza, all’amministratore, al
militare.
Questo
nuovo potere indurito, su cui la classe politica non ha potuto far altro che
mettere le mani con indecisione per affrontare l’emergenza, ha rotto le
illusioni di un ipotetico ritorno del politico.
L’idea che la discussione pubblica e la
rappresentanza possano tornare al centro della scena è un’idea romantica,
troppo romantica.
Così come
sembra eccessivamente apocalittica l’idea di una guerra civile, reale o
figurata, che possa rivoluzionare le istituzioni.
I
regimi politici del prossimo futuro si fonderanno sempre più sulla
amministrazione, sull’apparato scientifico-tecnologico, sull’intreccio tra
capitalismo pubblico e privato, sui centri di fabbricazione della competenza e
sempre meno sulla rappresentanza politica per come è stata concepita e vissuta
nei decenni passati.
In questo senso, la pandemia ha soltanto accelerato e
reso evidente una tendenza di lungo periodo.
Difatti,
nella concretezza del potere quotidiano, regimi all’apice del proprio
auto-compiacimento liberale e democratico hanno avanzato la più grande
operazione di disciplinamento della popolazione che ci sia stata dalla fine
della Seconda guerra mondiale.
È in nome dell’emergenza che si è attivato il torchio
della banca centrale, liberati i bilanci dalla disciplina economica, avviato il
complesso scientifico-industriale, fermate le attività economiche, risucchiate
informazioni personali, ristrette le libertà, sovvertito il modo di vivere
comune.
Certamente
per necessità, quella di contenere il contagio, ma anche per l’enorme
difficoltà che le grandi comunità odierne hanno nel governare loro stesse.
Una
sofisticazione tale, accoppiata ad una sempre più disfunzionale inflazione
burocratica e regolamentare, che per fronteggiare gli imprevisti domanda
soluzioni sempre più radicali e scarica una buona dose delle responsabilità dei
vertici politico-amministrativi sulla collettività.
L’uomo occidentale credeva di vivere in
sistemi liquidi e flessibili ma con il cigno nero della pandemia ha compreso di
vivere in regimi solidi e molto rigidi.
E dunque fragili come il cristallo.
Il prezzo per fronteggiare l’emergenza resta
la inevitabile coercizione dello Stato sull’individuo.
Dunque,
qual è il confine del potere nell’emergenza?
E quanto a lungo uno stato d’emergenza si può
giustificare prima di trasformarsi in qualcosa di più preoccupante?
Questa
appare la domanda fondamentale quando si guarda in faccia il nuovo volto del
potere.
Fino a
due anni fa si credeva a ragione di vivere in società libere.
La
minaccia dalla pandemia ha imposto l’accettazione di momentanee restrizioni della
libertà di movimento, di produzione e consumo.
Davanti alla malattia e alla morte vi sono
state colpevolizzazione, controllo reciproco, responsabilizzazione anche quando
l’organizzazione sanitaria e della sfera pubblica lasciavano a desiderare non per
causa di gran parte dei cittadini.
Impaurita
dal ritorno del contagio, gran parte della popolazione ha diligentemente fatto
la fila per i vaccini e ha mantenuto distanze e precauzioni.
La
preoccupazione nei confronti di frange minoritarie di indisciplinati ha portato
ad accogliere il codice digitale, il certificato, il controllo esercitato da
soggetti pubblici e privati.
Le
libertà e i diritti costituzionali sono stati compressi o, se si vuole essere
meno drammatici, pesantemente riequilibrati tra loro.
Lo Stato, soprattutto in Europa, ha esercitato
di fatto un potere costituente. Quanto precario e temporaneo lo si capirà poi.
Tutto
questo ha trovato la sua legittimazione in nome di uno stato d’eccezione
momentaneo.
Momentaneo.
Ma fino a quando? Fino a che punto?
Non c’è essere umano abituato all’utilizzo del
dubbio e della ragione che non sia assillato da questa domanda di questi tempi.
Tutto
tornerà “normale” come “prima”?
Ma è
quasi impossibile riavvolgere il tempo una volta che il “normale” è stato
scavalcato dagli eventi.
Si è
discusso molto sulle trasformazioni di lunga durata dell’economia a seguito
della pandemia.
Molto
meno si è riflettuto sulle potenziali trasformazioni della politica.
Sembra
quasi che l’attuale classe dirigente occidentale abbia scelto di ignorare,
forse per esorcizzare il potenziale caos o le potenziali derive dispotiche, le
conseguenze politiche che il nuovo volto del potere potrà produrre.
Si invoca spesso la rinascita del
post-pandemia guardando al fiorire economico e sociale del dopoguerra.
Ma allora, dopo anni di morte e devastazione
ben peggiore, interi regimi politici e assetti sociali consolidati vennero
abbattuti.
La
ricostruzione ripartì tenendo il buono di ciò che c’era prima della guerra e
gettando tutto il resto.
Rifondando
la società e scrivendo nuove costituzioni.
Ma allora la distruzione era stata tale da
giustificare una ripartenza quasi da zero. Lo scenario post-pandemico, se si
esclude la variazione di paradigma economico, appare assai meno innovativo.
Non si scorgono all’orizzonte nuovi contratti
né nuovi patti sociali né una costituzione europea.
Sul
piano sociale, inutile girarci intorno, chi prima della pandemia aveva un
curriculum, un reddito e una posizione elevata uscirà ancor più rafforzato da
questo tempo eccezionale.
L’impressione
è che la distanza crescente tra gruppi sociali è stata sia stata forse
accelerata più che ridotta dalla pandemia e dalle soluzioni politiche da essa
scaturite.
I
sussidi non basteranno a rendere più giuste né meno inquiete le nostre società.
Se lo
Stato è “di tutti i gelidi mostri il più gelido”, di ancor più tacita freddezza
è l’apparato tecnico-produttivo, il “capitalismo immateriale” dei tempi nostri.
Una
totalità, in cui si dispongono e ordinano le singole competenze, sicché neppure
la specializzazione del sapere salva l’individuo, ma lo conduce e racchiude
all’interno di quella unità.
Lo
smart working, accelerato dall’espansione virale, risponde alla logica della
più rigida funzionalità: la lontananza fisica esalta l’oggettività
dell’apparato, che non ha bisogno di alcun luogo, poiché è capace di
raggiungerci in tutti i luoghi, o, meglio, di sovrapporre il reale ed il
virtuale.
Mentre
lo Stato pandemico disegna più angusti confini fisici, l’apparato
tecnico-produttivo sfrutta l’emergenza per abolire la dimensione materiale
dello spazio. Uno si mostra e delimita, l’altro scompare e penetra.
Quasi
due anni di pandemia hanno mostrato paradossi che non si pensavano possibili.
Che
l’origine del virus sia stata frutto del caso o di una Chernobyl biologica,
sorprende come il paese più indirettamente responsabile della pandemia sia
uscito rafforzato nell’immagine, nella leadership e nell’economia.
Il dato reale è che la Cina ha sfruttato la
pandemia per ristrutturare la propria economia e per cercare di dispiegare la
propria politica di potenza.
Emerge con sempre maggior chiarezza il
“paradosso cinese”.
È
vero, come ha sottolineato Henry Kissinger nel 2019, che siamo all’inizio di
una nuova guerra fredda, eppure i regimi politici occidentali sembrano
avvicinarsi a quello di Pechino sul piano politico ed economico.
Due
modelli in contrasto tra loro finiscono per rassomigliarsi.
Gli
americani sono stati a lungo ossessionati da questa sindrome osmotica per cui
la guerra, reale o fredda, con altre potenze avrebbe trasformato gli Stati
Uniti in regimi simili a quelli sconfitti.
Durante
la guerra fredda, un tema ricorrente nelle analisi di progressisti e
conservatori era che stava maturando una sorta di convergenza, la quale faceva
assomigliare gli Stati Uniti, almeno per alcuni aspetti, al loro antagonista
sovietico.
Che
tutte le superpotenze nucleari sarebbero diventate Stati totalitari era stata,
ad esempio, la cupa profezia di George Orwell proprio nell’articolo in cui
inventava il termine “Guerra Fredda”.
Un
rischio poi nuovamente denunciato nel celeberrimo romanzo 1984.
Ma una
preoccupazione simile aveva agitato i sogni anche di un presidente pragmatico
come Dwight Eisenhower, il quale aveva messo in guardia i cittadini, alla fine
della sua presidenza, sul pericolo del potere del “complesso
militare-industriale”.
Nel Nuovo Stato Industriale (1967) invece,
John Kenneth Galbraith sosteneva che la pianificazione avrebbe inesorabilmente
sostituito il libero mercato nel mondo occidentale, proprio come aveva fatto
nell’Unione Sovietica, a causa delle esigenze della “produzione moderna su
larga scala”.
Inutile dire che timori e suggestioni della
classe intellettuale americana si sono rivelati o molto sbagliati oppure si
sono solo parzialmente realizzati.
Gli Stati
Uniti non sono diventati un paese collettivista né politicamente illiberale.
Il
divario tra il sistema economico americano e quello sovietico è solamente
cresciuto nel tempo, non solo in termini di organizzazione ma anche di
prestazioni.
Né si
è materializzato l’incubo di Orwell: gli Stati Uniti e i suoi alleati non sono
degenerati in Oceania, uno stato totalitario indistinguibile dall’Eurasia e
dall’Asia.
Tuttavia,
la gestione della crisi pandemica da parte della leadership americana non si è
risolta nel tracciare una netta linea di demarcazione politica con la Cina, con
la quale le frizioni geopolitiche sono state in costante aumento negli ultimi
dieci anni.
Non
sono stati riaffermati principi come il libero mercato, la libertà di parola,
lo stato di diritto e la separazione dei poteri per mettere ulteriore distanza
tra il sistema americano e quello della Repubblica popolare cinese, basato sul
potere illimitato e incontestabile del partito comunista su ogni aspetto della
vita individuale.
Anzi, sul piano economico gli Stati Uniti hanno
seguito la via tracciata dall’autoritarismo di Xi, fondata sul rilancio dei
consumi interni e su accresciuti stimoli fiscali (1 trilione di dollari).
L’amministrazione Biden ha varato prima
l’American Rescue Plan (1.9 trilioni di dollari), poi l’American Jobs Plan per
potenziare le infrastrutture (2.2 trilioni) ed infine l’American Families Plan
(1.8 trilioni).
Il costo totale di questi piani arriva a poco
meno di 6 trilioni di dollari, equivalente a oltre un quarto del PIL degli
Stati Uniti (sebbene la spesa per entrambi i piani Jobs e Families sia
distribuita su più anni).
Pianificazione,
pianificazione, pianificazione come alla metà degli Sessanta a cui conseguì, è
bene ricordarlo, la disastrosa crisi del decennio successivo tra stagnazione e
inflazione.
I
repubblicani però sono nella posizione giusta per attaccare queste scelte di
politica economica, avendo incautamente legittimato sia il reddito di base
universale che la Modern Monetary Theory (MMT) con le misure di emergenza
approvate lo scorso anno.
Da
ultimo, ci sono senza dubbio argomenti ragionevoli a favore dei certificati
elettronici di vaccinazione (green pass) adottati da molti paesi occidentali,
così come sono esistiti precedenti storici per documenti simili. Esiste,
tuttavia, un ovvio rischio che tali certificati possano trasformarsi in una
sorta di carta d’identità digitale, un sistema che la Cina ha iniziato a
utilizzare nel 2018 e che ha stretto ulteriormente il controllo del partito
sulla vita dei cittadini e ha ristretto le residue libertà dei “non conformi”.
Tutto
questo per dire che tanto le soluzioni sanitarie (lockdown, distanziamento,
pass vaccinali) quanto quelle economiche, fondate sul nuovo slancio
dell’interventismo statale, hanno avvicinato l’Occidente all’Oriente e al
modello di Pechino in particolare.
Tuttavia,
se per la natura genetica, autoritaria e monopolista, del regime cinese una
tale evoluzione può essere letta come espressione della volontà di potenza e
come un esercizio del politico attraverso mezzi tecnici al contrario per le
democrazie pluraliste, questa dinamica rischia di asciugare ulteriormente “il
politico” a favore di una inarrestabile razionalità tecnocratica capace di
fiorire sull’anomia degli individui, anomia rimpolpata proprio dall’isolamento
prodotto dalla pandemia.
Avvertiva
Emanuel Mounier in Che cos’è il personalismo? (1948) che «l’organizzazione è un
progresso verso l’ordine, ma al qua del punto in cui l’uomo si riduce a una
funzione».
Oltre quel punto vi è l’alienazione
dell’essere umano e l’inedia della società civile.
In
questo proliferare di paradossi ve ne è un ultimo che impressiona più degli
altri, e cioè l’omogeneità delle soluzioni adottate a livello globale nell’era
pandemica indipendentemente dalle costituzioni politiche e dalle tradizioni culturali
nazionali o regionali.
La globalizzazione non è affatto in ritirata: gli
ultimi anni ci hanno ingannato.
I
paradigmi tecnico-politici sono sempre più somiglianti ed estesi sul piano
spaziale.
Vale
per la sanità, per l’economia, per la tecnologia e per il rapporto tra Stato e
cittadini.
Seppure
i più avveduti avevano saputo scorgerne le premesse nelle scelte politiche ed
economiche di questi ultimi anni, nessuno avrebbe scommesso su una convergenza
globale così rapida e risolutiva intorno a nuovi paradigmi senza la pandemia.
La
differenza nella coloritura della medesima soluzione tra Occidente e Oriente è
il verde, le politiche green, proposte dalla classe politica occidentale per
gestire un altro stato di emergenza che subentrerà, o meglio appare già in
compresenza, a quello pandemico.
Scelta che forse può fornire un orizzonte
escatologico, il desiderio di una terra più vivibile, sana e sostenibile, sia
con sfumature di destra che di sinistra, e meno “presentista” rispetto al mero
interventismo economico e che garantisce forse alla classe politica il pretesto
per uno Stato d’eccezione permanente funzionale all’infusione top-down, con una
sorta di «modernizzazione dall’alto», di riforme e al mantenimento della presa
sulle leve di comando.
L’operazione, tuttavia, non appare priva di
rischi politici.
Il
primo è
che l’aspirazione ambientalista è per sua natura di matrice globale e, come è
noto, solo una parte del mondo, quella occidentale appunto, è disposta a
piegarsi ad una diversificazione di consumi e ad orientarsi verso nuove
tecnologie green.
Col pericolo che alcuni paesi seguano una
strada vanificata dal mancato impegno degli altri nel rapportarsi con i
cambiamenti globali.
Il
secondo rischio è quello della deriva tecnocratica, con una letale combinazione tra la
costruzione di un complesso tecnologico-industriale-ambientale e politiche
restrittive e costose per quella parte di popolazione più periferica e più
debole sul piano socio-economico.
In
questo caso il timore è quello di avere da un lato provvedimenti che andrebbero
per gran parte a favore dei grandi attori del capitalismo pubblico e privato,
di imporre dirigisticamente una vulgata pedantemente pedagogica e dei
provvedimenti regolatori paternalistici ad una popolazione per gran parte
inerte e insensibile.
Una
situazione che minerebbe probabilmente la legittimazione politica del nuovo
ambientalismo e che rischierebbe di non attuare alcuna concreta azione di
redistribuzione del reddito, dei pesi fiscali e delle opportunità lavorative né
di aprire nuovi spazi di mercato per le piccole imprese.
La
ricostruzione di un nuovo ordine politico secondo differenti coordinate
potrebbe non essere, in definitiva, così semplice e lineare.
Lo scrittore Michel Houellebecq ha forse fiutato il
pericolo meglio di ogni altro intellettuale, notando che «non ci risveglieremo, dopo il
distanziamento, in un mondo nuovo; sarà lo stesso, ma un po’ peggiore».
È
noto, infatti, che un potere in moto perpetuo e vorticoso può distruggere un
certo ordine oppure rafforzarlo.
Per ora il mondo del dopo Covid-19 rientra
nella seconda ipotesi.
Tuttavia,
così come non sono chiari i confini dell’emergenze, si possono solo formulare
plurimi scenari sulla politica post-pandemica.
Tre
sembrano i più probabili.
Il
primo è il rafforzamento della classe politica e burocratica attualmente al
governo.
Con un
potere più verticalizzato, dirigista, interventista.
Se
questo consolidamento sarà fragile ed illusorio si apriranno altri scenari, ma
se al contrario sarà più forte del previsto non è da scartare l’ipotesi di un
dispotismo tecnocratico.
Il che non significa necessariamente dittature
e totalitarismi su modello del ventesimo secolo, ma un progressivo svuotamento
delle istituzioni rappresentative a vantaggio di quello burocratiche,
giudiziarie, economiche e tecnocratiche.
A cui consegue una ridotta mobilità sociale,
una maggiore chiusura dei circoli delle élite, un mandarinato impolitico che
gestisce il potere sul piano nazionale e sovranazionale, l’impotenza di nuove
forze politiche nel deviare i paradigmi scelti da questi gruppi dirigenti
apicali.
In questo scenario i regimi politici occidentali si
avvicinerebbero di più nella forma a quelli asiatici.
Tuttavia,
la pericolosità del nostro tempo – denunciava un lucido e presciente Emanuel Mounier nel 1948 – «non
cerchiamola solo nei fascismi defunti. I tecnocratici di tutti i partiti ci
preparano un fascismo raffreddato, (…), una barbarie pulita e ordinata, una
pazzia lucida e impalpabile, verso la quale sarebbe meglio ora volgere lo
sguardo piuttosto che soddisfarci con poca fatica a condannare un cadavere».
Il pericolo maggiore, dunque, è quello di
regimi occidentali trasformati in un mandarinato burocratico e centralista, in
cui lo spirito d’iniziativa individuale e collettivo, la società civile, i beni
comuni, le libertà positive vengano mortificati e sacrificati sull’altare di
nuovo dirigismo.
Il
secondo è, invece,
un inaspettato ritorno del populismo (potremmo anche chiamarlo “estremismo”)
con sfumature di destra e di sinistra a seconda dei casi nazionali.
L’establishment
politico, burocratico, scientifico, esce debilitato dalla lunga pandemia e
delegittimato agli occhi di gran parte dell’opinione pubblica.
Oggi questo scenario potrebbe essere nascosto
oltre la coltre prodotta dal volto del potere pandemico.
Le
coalizioni ampie, un potere pubblico indurito, un ordine pubblico maggiormente
presidiato, impediscono di vedere il crescere della rabbia politica e sociale.
Ad un
momentaneo riassorbimento del populismo consegue un’esplosione che nel giro di
pochi anni trascina in una crisi i regimi politici occidentali.
Qui
l’ordine rafforzato dalla pandemia potrebbe essere messo seriamente in
discussione, ma senza sapere fino a che punto.
Potrebbe
aprirsi la via verso una metaforica guerra civile, conflitto di tutti contro
tutti.
Oppure
i populisti post-pandemici arrivati al potere potrebbero semplicemente godere
ed impossessarsi dei nuovi dispositivi di controllo e dello stato d’eccezione
dispiegati dall’attuale élite politica durante la pandemia.
Sfruttare
la breccia aperta da chi è ha governato in questi anni.
Ad
oggi, sul riacutizzarsi della febbre populista, sono possibili soltanto delle
ipotesi.
Sappiamo
però che potrebbe accadere e che potrebbe non essere saggio gettare nel cestino
questo scenario, per quanto oggi possa apparire improbabile.
Il
terzo scenario è quello in cui la politica riesce a tirare il freno di
emergenza.
La
classe dirigente realizza quanto delicato e fragile sia il sistema della
libertà e quanto potenzialmente pericoloso sia lo stato di emergenza permanente
e la trappola dello “scivolamento monocratico”, con regimi per lo più nelle
mani di mandarini pubblici e privati.
Si
comprende che la polarizzazione e la frammentazione sociale devono essere
contenute per evitare il dispotismo oppure il caos, e per questo si accetta di
convivere con minoranze multiple senza demonizzazioni o discriminazioni.
La politica si decide a tracciare confini di
legittimazione dell’avversario meno stringenti di quelli odierni e riesce a
mantenere forme di riconoscimento reciproco pur nella contrapposizione tra
fazioni. Ciò significa rinunciare al
nazionalismo reazionario a destra ma anche agli eccessi del progressismo
scientista e pedagogico a sinistra.
Accettare
che non possiamo più considerare la felicità come conseguenza infallibile della
scienza poiché altre forze operano, sotto la patina dell’ordine civilizzato,
inesplorate e selvagge.
Per
questo si deve rifuggire il rassicurante porto del razionalismo, riscoprire
l’uomo in tutte le sue dimensioni e ricomporlo in tutta la sua ampiezza.
Il
pericolo maggiore è quello di regimi occidentali trasformati in un mandarinato
burocratico e centralista, in cui lo spirito d’iniziativa individuale e
collettivo, la società civile, i beni comuni, le libertà positive vengano
mortificati e sacrificati sull’altare di nuovo dirigismo.
Bisogna
evitare, al tempo stesso, la reductio ad nationem, impossibile e distruttiva in un
sistema politico debordante, interdipendente, reticolare e multilivello.
Il potere è dunque chiamato a creare nuove
finzioni legittimanti, idee o anche ideologie intorno a cui si ridisegni la
scena politica e nuovi momenti costituenti formalizzati e coinvolgenti, e nuove
realtà, legate all’evoluzione dello scenario internazionale.
Il nostro precario stato di eccezione
resterebbe leggero, senza evoluzioni dispotiche o di rottura costituzionale.
La società si muoverebbe verso un New Deal economico e
politico, comunque non privo di problematiche e pur sempre portatore di
conseguenze indelebili nelle istituzioni, più che verso un pesante regime
tecnocratico.
Il
potere eviterebbe la totale spersonalizzazione verso cui sembra tendere.
Le
amministrazioni nazionali e sovranazionali sarebbero costrette ad essere più
aperte e responsabili verso i cittadini.
Oggi
disponiamo di tecnologie e di tecniche di gestione dei dati che consentono di
padroneggiare situazioni estremamente complesse e, soprattutto, di avvicinare i
cittadini all’amministrazione e viceversa.
Ciò non potrà continuare a funzionare soltanto
per il commercio e le relazioni sociali, ma diverrà decisivo anche per portare
le misure amministrative “a domicilio”, favorendo la partecipazione attiva dei
cittadini.
Le
forme politiche resteranno differenti da quelle del passato, ma le democrazie
liberali manterranno la loro sostanza politica, giuridica e istituzionale.
L’Unione Europea tornerà forse a coltivare la
speranza di un miraggio costituzionale che la consolidi e riordini.
STATO
DI ECCEZIONE, STATO DI ASSEDIO
O USO
EMERGENZIALE DEL POTERE?
Sifp.it-
Claudio Corradetti – (321-5-2020) – ci dice:
L’attuale
pandemia del virus corona ha di colpo arrestato la frenesia delle nostre vite e
attività produttive.
I governi hanno scandito fasi di sospensione
della normalità.
In
Italia il capo del governo Conte ha emesso quelli che sono sembrati ai critici
‘editti’ periodici noti come i DPCM – Decreti del Presidente del Consiglio dei
Ministri – espressione della maggioranza politica.
In Inghilterra, Johnson, dopo un primo
avventato richiamo ad una improbabile immunità di gregge ha adottato il
Coronavirus Act 2020.
Trump, infine, ha richiamato aspetti del
National Defence Act del 1950 e tutti gli Stati federali hanno dichiarato lo
stato di emergenza per la prima volta nella storia degli Stati Uniti.
Si è
trattato di un insolito esercizio di potere e di comunicazione politica
giustificato dalla gravità del momento ma con risvolti potenzialmente
pericolosi.
Cosa
succederebbe infatti se questo emergenzialismo fosse destinato a ripetersi e
divenisse forma corrente dell’esercizio del potere pubblico?
Cosa
dovremmo aspettarci dai governi nel caso in cui operassero sotto il rischio di
una contaminazione costante?
Certamente
l’ipotesi di una gestione protratta nel tempo dell’eccezionalità pandemica è
già entrata nel “mindset politico” dei governi.
L’attuazione
diffusa di lockdown e restrizioni alle libertà personali hanno già gettato le
basi di un nuovo management dell’emergenza rispetto alle politiche di
popolazione.
Tuttavia
i distinguo sono d’obbligo al fine di comprendere se l’attuale scenario si
configuri come esercizio di un potere d’eccezione, oppure se si tratti più
semplicemente dell’adozione di misure circoscritte nel tempo che rientrano in
una gestione dell’emergenza all’interno di un quadro democratico
costituzionale.
Possiamo
sostenere che i DPCM indichino proprio quanto sembra essere il paradosso
fondamentale delle attuali democrazie liberali, ovvero, che una buona politica
emergenziale sia quella che rinuncia alla politica stessa?
Se
così fosse, saremmo difronte a un caso di stato di eccezione à la Schmitt o à
la Agamben?
Oppure ci troveremmo nella condizione di uno
stato di assedio come quello descritto da Camus nella Peste?
Nelle
riflessioni seguenti prescinderò dal considerare se lo stato di eccezione sia o
meno una valida formula di teorizzazione della sovranità democratica.
Tuttavia
rifletterò su se sia il caso di considerare le attuali misure adottate dai
governi come azioni di sospensione del diritto (exceptio) e dunque come
illustrazioni paradigmatiche del fondamento del potere sovrano.
Una
possibile alternativa, che resta tuttavia ancorata ad una visione di anormalità
dell’uso del potere, riguarda l’idea dello stato di assedio secondo la
prospettiva di Camus.
Se ci
considerassimo come in tale condizione dovremmo allora concepire la vita
politica e sociale come un qualcosa di esistenzialmente tragico perché aperto a
una condizione di terrore generalizzato mai completamente espungibile dal
vivere in comune.
Possiamo
ritenere che l’uno o l’altro modello rappresentino in modo appropriato lo
scenario politico vigente?
Le
attuali misure di restrizione sollecitate dall’azione di contrasto dei governi
al virus corona non sembrano poter rientrare in nessuno di questi casi.
Certamente
vi è tragicità nell’alto numero dei decessi e nella privazione delle cerimonie
di commiato, ma il nemico è a noi ben conosciuto, almeno nella sua origine e
forma di trasmissione, anche se una cura – un vaccino – non è ancora
disponibile.
Il virus corona, a mio avviso, resta privo di
quel valore simbolico paradigmatico che per alcuni fornirebbe una chiave di
lettura sul fondamento del potere.
Più
complessa sembrerebbe invece l’analogia fra stato di eccezione e misure
ipoteticamente ultra vires adottate dai governi per ridurre i rischi e gli
effetti sulla salute pubblica.
Ma
anche in questo caso, le misure di limitazione delle libertà individuali
adottate delle amministrazioni nazionali (mobilità, commercio, educazione,
lavoro etc.), anziché esibire un carattere originario del rapporto tra potere
politico e legge, illustrano piuttosto una modalità di declinazione del potere
sovrano.
L’uso
emergenziale del potere esibito dai DPCM o dal Coronavirus Act 2020 si pone
all’interno di un quadro di sovranità già costituita.
Questo
cioè non ne è la condizione-limite così come lo stato di emergenza
richiederebbe.
Gli
atti di limitazione delle libertà dei cittadini dunque non illustrano un
aspetto primigenio della costituzione del potere politico – non si pongono cioè
al confine tra legge ed extra legem (eccezione).
La loro legittimità presuppone l’esistenza di
una regola che è solo condizionatamente sospesa.
Le restrizioni odierne dunque assurgono ad
“esempio” della regola costituzionale nell’istante in cui sfuggono alla regola
stessa.
Mostrando
la loro “appartenenza ad una classe”, i vari decreti relativi al contenimento
del virus corona stabiliscono istanze ‘d’inclusione escludente’ e non di
‘esclusione includente’ (come sarebbe invece il caso dello stato di eccezione).
Per
comprendere questo punto è necessario ricostruire brevemente l’idea in
questione.
Lo
stato di eccezione è un concetto teorizzato anzitutto da Carl Schmitt in due
suoi scritti: “La dittatura e Teologia Politica” e reinterpretato poi da
Agamben in “Homo Sacer e Stato di eccezione “ in termini di sua
‘normalizzazione’ nell’esercizio odierno di governo.
Secondo Agamben il caso attuale della crisi
indotta dal virus corona non sarebbe che una conferma del dispositivo di
eccezione quale paradigma normalizzato. Dunque il decreto-legge approvato dal
governo italiano «per ragioni di igiene e di sicurezza pubblica» si
risolverebbe in una vera e propria militarizzazione «dei comuni e delle aree
nei quali risulta positiva almeno una persona […]”.
Stato di eccezione o uso emergenziale del
potere?
Centrale
nella riflessione teorico-politica, lo stato di eccezione ha attraversato
diversi contesti di teorizzazione che mal si prestano, a mio avviso, ad una sua
estensibilità trans-storica in assenza di precise contestualizzazioni.
Per lo
Schmitt del ’33 il riferimento era alla lunga parabola discendente della
Repubblica di Weimar e, in particolare, all’Art. 48 che aprì la strada alla
dittatura nazista attraverso la proclamazione da parte di Hitler del ‘Decreto
dell’incendio del Reichstag’ e del ‘Decreto per la protezione del popolo e
dello Stato’.
L’Art.
48 stabiliva che in caso di minaccia alla sicurezza pubblica, i sette articoli
costituzionali concernenti le libertà individuali e di associazione fossero
sospesi.
Come è
noto fu il neoeletto cancelliere Adolf Hitler che ne decise la sospensione.
Questi
articoli non saranno più riabilitati dal regime il quale però non revocherà né
abolirà la Costituzione di Weimar.
È
dunque questa concreta possibilità di stabilire l’eccezione che definisce il
tipo di stato storico e giuridico che Schmitt ha in mente quando chiederà di
superare l’impasse costituzionale di Weimar post-’33 richiedendo la
proclamazione di una nuova Costituzione per il Reich.
La
differenza tra stato di eccezione “stricto sensu “e “stato di emergenza” è di
fondamentale rilevanza per comprendere non soltanto la teorizzazione
Schmittiana dell’eccezionalità del potere (e in primis del potere popolare
rivoluzionario che arriva ad autodeterminarsi nel Führer), ma anche la
differenza – sul piano storico-giuridico – delle figure nelle quali
l’eccezionalità del potere si differenzia dai correnti stati di emergenza.
Schmitt
distingue questi due aspetti nella sezione di Appendice al testo su La
dittatura dove separa la ‘legge di emergenza costituzionale’ (Staatsnotrecht) e
lo stato di emergenza propriamente detto.
Le leggi di emergenza possono essere impugnate
da qualsiasi organo di governo a tutela dell’ordine costituzionale (e persino
contro il Presidente) mentre soltanto lo stato di eccezione è regolato
dall’Art.48.
In
questo secondo caso, nello stato di eccezione, teoria e prassi trovano un punto
d’incontro nella figura della decisione sovrana.
Di qui
si spiega perché per lo Schmitt di Teologia politica del ’22 sovrano è “chi
decide sullo stato di eccezione” (Ausnahmezustand), ma “solo in quanto questo
[stato di eccezione] si assuma come concetto limite [Grenzbegriff]”.
Che
cosa sia questo limite ci viene chiarito in via differenziale poco oltre,
quando Schmitt si appresta a stabilire che “la sua [sovranità come stato di
eccezione] definizione non può applicarsi al caso normale [ovvero non a]
qualsiasi ordinanza d’emergenza o stato d’assedio [nicht irgendeine
Notverordnung oder jeder Belagerungszustand]”.
Dunque,
potremmo concludere, che l’invocazione dell’Art. 48 della Costituzione di
Weimar per Schmitt non è sempre relativo ad un’eccezionalità giuridica ma concerne
spesso un uso del potere proprio dei ‘decreti di emergenza’ (Notverordnungen)
così come furono effettivamente utilizzati prima del ’33 in concomitanza alle
difficoltà economiche della Germania.
Infatti,
l’utilizzo dell’Art. 48 ricadeva in principio all’interno di un esercizio
legittimo dei poteri costituzionali poiché il suo utilizzo era condizionale
all’assenso del Reichstag.
Soltanto
quando l’Art. 48 venne impugnato come strumento di abrogazione incondizionata
delle libertà si passò ad una condizione di piena eccezionalità, ovvero, a
quella che definirei come una condizione di stato di eccezione
(ri-)costituente.
È in quest’ottica dunque che deve intendersi
il richiamo di Schmitt alla formulazione di una nuova costituzione per il Terzo
Reich.
Tale
passaggio non può che avvenire extra legem.
A differenza delle ordinanze di emergenza o degli
stati di assedio, infatti, la decisione sullo stato di eccezione propriamente
inteso costituisce una “decisione in senso eminente [im eminenten Sinne]”.
Il punto
che c’interessa ora è il seguente: possiamo ritenere che l’emergenza posta
dalla pandemia del virus corona sia di eccezionalità assoluta, e cioè tale che
la decisione dell’adozione di determinati provvedimenti amministrativi si
configuri come istanza di eccezione normalizzata?
Non
credo. Pur se ritengo che sussistano casi in tal senso ad illustrazione
dell’idea di eccezionalità come sospensione della norma.
Si pensi ad esempio al modo in cui la
governance economica odierna dell’Unione europea venga oggi definita in gran
parte attraverso capitali internazionali e organismi sovra-europei come il
Fondo monetario internazionale o la Banca mondiale.
È vero invece che l’atto giuridico
emergenziale si pone come atto derivativo interno ad un potere giuridico già
costituito (e dunque in modo non fondativo rispetto al potere come sovranità
assoluta/eccezione).
Che la
situazione odierna ricada in questa seconda fattispecie lo si desume anche dal
fatto che solo per quel che concerne l’uso emergenziale del potere – ma non
nello stato di eccezione – si possono pianificare fasi di uscire dall’emergenza
pur rimanendo all’interno di un quadro di esercizio costituzionale dei poteri.
Nel
contesto italiano attuale è evidente come le regioni (specie quelle a statuto
autonomo) abbiano fatto sentire la propria voce ai fini di un ritorno alla
normalità.
Se
fossimo in uno stato di eccezione il potere sarebbe indivisibile e
innegoziabile.
Che si
sia invece all’interno di un quadro pienamente costituzionale risulta anche dal
ruolo svolto dall’Art. 16 della Costituzione il quale stabilisce che la
circolazione è libera salvo limitazioni stabilite “per motivi di sanità o di
sicurezza”, e che nessuna limitazione può derivare “da ragioni politiche”.
È questa una formulazione consapevole delle
vicende del ’900 e per questo ben più restrittiva di quella dell’Art. 48 di
Weimar dove il Presidente poteva proporre di “sospendere per un po’, in tutto o
in parte, i diritti fondamentali previsti dagli articoli 114, 115, 117, 118,
123, 124, e 153”, ovvero, gli articoli concernenti i vari diritti di libertà di
espressione, associazione, stampa, nonché di proprietà privata.
L’uso
emergenziale del potere, tuttavia, non vuole porsi in sostituzione di una
condizione/stato di normalità/costituzionalità del potere.
L’uso “emergenziale del potere” si rivolge
anzitutto ad un nemico interno, come la sconfitta del virus in vista della
protezione della popolazione.
La limitazione ad hoc di alcuni diritti si
giustifica solo in vista di misure di contenimento del rischio epidemiologico,
senza la possibilità di una revoca dei poteri parlamentari – come nel caso
dello stato di eccezione.
L’apparente
sovrapposizione tra uso emergenziale del potere e stato di eccezione deriva
tuttavia dal fatto che il potere di emergenza associa in modo paradossale
l’efficientismo della tempestività decisionale con l’annichilimento della vita
politica e sociale.
La politica annulla la vita politica stessa.
La
consapevolezza di una radicale trasformazione dell’uso corrente del potere si
pone come qualcosa di sempre esposto ad un impiego di emergenza.
A tale riguardo, una svolta ‘efficientista’
della forma democratica non può che allineare le democrazie liberali ai regimi
ideologici illiberali.
La
capacità reattiva dei paesi illiberali ma efficienti invertirà inevitabilmente
la relazione competitiva di accreditamento internazionale.
L’efficienza pragmatica eroderà le limitazioni
poste dai diritti nel nome dell’emergenza.
In
effetti gli Stati ideologico-autoritari sono in vantaggio nell’uso dei poteri
di emergenza rispetto agli Stati democratici e ancor più di quelli privi o
quasi di un welfare sanitario.
Il presupposto ideologico collettivo sul quale
gli stati autoritari si fondano permette loro di agire in modo rapido.
In tal senso, la capacità con la quale la Cina ha
saputo far fronte alla crisi epidemiologica del virus corona entrerà, almeno in
parte, nell’orizzonte politico dei paesi democratici definendo nuove
prerogative di potere.
Ma una
volta che l’uso emergenziale del potere sarà accettato dall’elettorato come
connaturato all’esercizio democratico, il confinamento privato della vita
associata diventerà un’opzione sempre più disponibile anche alle misure della
politica democratica.
L’utilizzo dei sistemi informatici agevolerà
tale processo.
Non
soltanto il dissenso politico si esprimerà per lo più in linguaggio virtuale,
le piazze potranno essere luoghi di potenziale contagio, ma l’agenda politica
terrà conto di un fattore di un rischio sempre in agguato.
Non
ritengo tuttavia che sarà questo a distruggere l’ethos liberale delle
democrazie occidentali.
Il
virus corona ha segnato senza dubbio un mutamento nell’esercizio dei poteri
pubblici ma questo non è il viatico di un nuovo ordine giuridico.
Per
comprendere gli slittamenti e le ristrutturazioni dei poteri contemporanei
dobbiamo guardare altrove.
La pandemia corrente del virus corona
c’informa soltanto di un più modesto assestamento interno dei poteri, ovvero,
del loro adattarsi alle esigenze delle emergenze attuali di salute pubblica.
Sarebbe
fatale sbagliare bersaglio ora, in questa fase ancora non ben definita dei
nuovi pericoli per le democrazie liberali.
Cibo,
dall’UE Via libera al
Commercio
di Grilli in Polvere.
Conoscenzealconfine.it
– (8 Gennaio 2023) – Redazione – ci dice:
Pubblicato
sulla Gazzetta Ufficiale comunitaria il via libera all’autorizzazione
dell’immissione sul mercato di “Acheta domesticus” in polvere parzialmente
sgrassata.
“Rivoluzione”
nel cibo… L’Ue ha autorizzato l’immissione sul mercato di “Acheta domesticus”,
vale a dire i grilli domestici, in polvere parzialmente sgrassata.
È quanto prevede il Regolamento di esecuzione
della Commissione del 3 gennaio 2023, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale
comunitaria.
Il
grillo domestico è il terzo insetto approvato in Ue (dopo le tarme della farina
essiccate e la locusta migratoria).
I
prodotti contenenti questi nuovi alimenti saranno etichettati per segnalare
eventuali potenziali reazioni allergiche.
La
Commissione Ue aveva chiesto, l’8 luglio 2020, all’Autorità europea per la
sicurezza alimentare di effettuare una valutazione in merito, e il 23 marzo
2022 l’Efsa ha adottato un parere scientifico sulla sicurezza della polvere
parzialmente sgrassata di “Acheta domesticus” intero, quale nuovo alimento ( figuriamoci se esprimevano parere
contrario – nota di conoscenze al confine).
(Occorrerebbe controllare la provvigione
percepita dall’Autorità europea! Ndr.)
Per un
periodo di cinque anni, a decorrere dalla data di entrata in vigore del
presente regolamento, viene poi precisato nel Regolamento pubblicato nella
Gazzetta Ufficiale comunitaria, solo la società “Cricket One Co. Ltd” è autorizzata
a immettere sul mercato dell’Unione il nuovo alimento a base di polvere
parzialmente sgrassata di grillo domestico, salvo nel caso in cui un
richiedente successivo ottenga un’autorizzazione per tale nuovo alimento.
Critiche
e Dubbi esprime la Filiera Italia.
“Mangi
pure gli insetti chi ha voglia di esotico, ma è un gioco in malafede
promuoverli per una dieta sostenibile in alternativa alla nostra”, ha
commentato Luigi Scardamaglia, consigliere delegato di Filiera Italia.
“Nessuna riserva, ci mancherebbe altro, per
chi voglia assaggiare ‘cibi’ esotici, lontani dalla nostra cultura, sbagliato e
diseducativo, però, presentarli come alimenti sostenibili da scegliere in
alternativa alla nostra dieta perché meno impattanti sull’ambiente “, ha
sottolineato.
“Si tratta di affermazioni false – ha
aggiunto Scardamaglia – perché la nostra dieta non è solo di qualità, ma a
basso impatto ambientale “.
L’agroalimentare
italiano, infatti, a fronte del più alto valore aggiunto in Europa pari a 65
miliardi di euro, espressione della qualità prodotta, ha una emissione di CO2 a
essa correlata pari ad 1/3 delle emissioni francesi e a metà di quelle
tedesche, per non parlare del confronto con altri continenti.
“Inoltre
– ha proseguito Scardamaglia – va considerato che molti insetti contengono
numerosi elementi anti nutritivi che ostacolano il normale assorbimento dei
nutrienti, riducendone l’efficienza nutrizionale, per non parlare delle
sostanze chimiche contaminanti e causa di intossicazione, come quella avvenuta
nel 2007 in California per consumo di cavallette importate dal Messico,
sostanze spesso presenti in questi insetti, dato che molto spesso sono
importati da Paesi con standard di sicurezza nettamente inferiori ai nostri”.
Purtroppo
l’agenda degli psicopatici delle élite prosegue, sta a noi stare in guardia,
informarci e aggirare l’ostacolo di volta in volta… È stressante sì… ma prima o
poi vinceremo.
Sempre
più persone si stanno svegliando e fra non molto questi “potenti” non potranno
che rassegnarsi davanti al fallimento delle loro folli strategie.
E
allora… noi che avremo resistito fino a quel momento, isseremo insieme la
bandiera della vittoria… (nota di conoscenze al confine)
(tgcom24.mediaset.it/mondo/ue-commercio-grilli-cibo_59375176-202302k.shtml)
Chissà
Quanti ci Cascheranno
Nuovamente…
Conoscenzealconfine.it – (9 Gennaio 2023) - Leonardo
Santi – ci dice:
Regno
Unito in pole position per le Nuove terapie mRNA contro il cancro.
Il
ministro della salute inglese, Steve Barclay, ha firmato un memorandum d’intesa
con l’azienda tedesca Biontech, per lanciare da settembre una sperimentazione
su larga scala di terapie mRNA contro il cancro e altre malattie nel Regno
Unito.
I
malati di cancro britannici avranno quindi accesso anticipato agli studi sulle
terapie mRNA, i trattamenti saranno “personalizzati” e, a differenza della
chemioterapia che colpisce anche cellule diverse da quelle tumorali, dovranno
“fornire al sistema immunitario un codice genetico in modo che possa attaccare
solo il tumore”, spiegano gli esperti.
Prima
hanno fatto ammalare di cancro e non solo… chi ha deciso di sottoporsi alla più
grossa sperimentazione volontaria che la storia ricordi (facendo leva sulla
paura), poi, una volta creati milioni di nuovi clienti, gli si offre la
“speranza” di guarire sottoponendosi ad una nuova sperimentazione.
Geni!
Problema e soluzione, la loro.
Chissà
quanti ci cascheranno nuovamente…
(Leonardo
Santi - t.me/+RgVqdy7j2kM5YTE0)
Chi ha
gestito lo stato
di
emergenza Covid-19.
Openpolis.it
– Redazione - Mappe del potere - (5 aprile 2022) – ci dice:
Terminato
lo stato di emergenza restano ancora molte le cose da fare, ma queste dovranno
ora essere amministrate in via ordinaria.
Per questo, intanto, è possibile tracciare un
primo bilancio relativo proprio alla fase emergenziale.
La
fine dello stato di emergenza Covid-19 purtroppo non sta coincidendo con la
fine della pandemia.
Tuttavia dopo due anni l’Italia dovrebbe aver
maturato l’esperienza necessaria per gestire questo drammatico fenomeno
attraverso strumenti ordinari anziché emergenziali.
Anche
se in via transitoria rimarranno attivi ancora per alcuni mesi dei poteri
straordinari, dal primo aprile sono cessate le attività del commissario
straordinario Figliuolo, ma anche di tutte quelle task force e comitati tecnico
scientifici attivati nel corso del tempo sia a livello nazionale che regionale.
La
deliberazione dello stato di emergenza.
Quando
il 31 gennaio del 2020 il secondo governo Conte, riunito in consiglio dei
ministri, ha deliberato lo stato di emergenza in relazione all’emergere
dell’epidemia da Covid-19 stabilì che il provvedimento avesse una durata di 6
mesi.
Gli
eventi che si sono susseguiti però hanno portato prima lo stesso governo Conte
e poi il governo Draghi a prorogare lo stato di emergenza, che si è concluso
solo lo scorso 31 marzo.
26
mesi la durata dello stato di emergenza per la gestione della pandemia da
coronavirus.
Dopo
oltre due anni dunque è finalmente finito lo stato di emergenza.
Una
condizione grazie alla quale sono stati attribuiti poteri straordinari, in
deroga alla normativa vigente, a molti soggetti nazionali e locali.
Per fronteggiare la situazione inoltre sono
stati creati in via temporanea numerosi organi, a tutti i livelli.
L’emergenza
Covid e il lento ritorno alla normalità.
Certo,
ad oggi, il Covid-19 non ha smesso di essere un problema molto serio.
È chiaro dunque che sia le istituzioni che i
cittadini dovranno tenere ancora alto il livello di allerta.
Ma lo
stato di emergenza non è uno strumento creato semplicemente per affrontare
sfide difficili.
Si
tratta piuttosto un provvedimento a cui fare ricorso nei casi in cui le
istituzioni si trovino di fronte a problemi che non sono in grado di affrontare
con mezzi ordinari.
La
crisi Ucraina e la gestione emergenziale dell’accoglienza.
[Lo
stato di emergenza può essere attivato in caso di] emergenze di rilievo
nazionale connesse con eventi calamitosi […] che in ragione della loro
intensità o estensione debbono, con immediatezza d’intervento, essere
fronteggiate con mezzi e poteri straordinari da impiegare durante limitati e
predefiniti periodi di tempo […]
-
D.Lgs. 1/2018 Art. 7
Dopo
26 mesi dunque si auspica che il governo e tutte le istituzioni preposte
abbiano avuto il tempo di organizzarsi, in modo da poter gestire il problema,
senza ricorrere allo stato di emergenza.
Un
lento ritorno alla gestione ordinaria.
Il
ritorno alla normalità può essere complesso e proprio per questo il codice
della protezione civile (articolo 26) prevede meccanismi transitori.
Attraverso
questa norma è dunque possibile prorogare alcune delle competenze fino a quel
momento in vigore, anche se per il tempo strettamente necessario per tornare a
una vera e propria gestione ordinaria.
Nello
specifico il codice stabilisce che le funzioni commissariali possano essere
prorogate oltre lo scadere dello stato di emergenza ma solo per la gestione
degli interventi programmati e non ancora ultimati.
Per un massimo di 6 mesi dalla data di
conclusione dell’emergenza inoltre possono essere ancora previste deroghe ai
contratti pubblici.
In
effetti è proprio a queste disposizioni che fa riferimento il decreto legge
24/2022 il quale, tra le altre cose, ha istituito l’Unità per il completamento
della campagna vaccinale e per l’adozione di altre misure di contrasto alla
pandemia.
Una
struttura al cui vertice è stato posto in capo il generale Tommaso Petroni, già
capo dell’area logistica operativa della struttura di supporto al commissario
straordinario Francesco Paolo Figliuolo.
Le funzioni vicarie del generale, invece, sono
state attribuite a Giovanni Leonardi, attuale segretario generale del ministero
della salute.
D’altronde,
come dispone la legge, si tratta di una struttura provvisoria, destinata a
concludere le sue funzioni entro la fine del 2022, confluendo poi in via
ordinaria proprio nel ministero della salute.
Gli
organi e gli incarichi censiti.
Nel
corso di questi anni sono stati molti gli organi e gli incarichi istituiti ad
hoc per affrontare l’emergenza.
A
molti altri organi già esistenti invece sono stati attribuiti nuovi compiti e
poteri.
Se
all’inizio dell’emergenza avevamo censito poco meno di 1.500 incarichi, con il
passare del tempo questi sono diventati oltre 2mila.
2.219
incarichi censiti da open polis nel corso dell’emergenza Covid-19 in strutture
nazionali e locali.
La
ragione di questa crescita è legata in parte alla nascita di nuove strutture e
all’attribuzione di nuovi incarichi.
Nella
maggior parte dei casi però si è trattato dell’alternarsi delle persone a cui è
stato attribuito il compito di ricoprire questi ruoli di responsabilità.
Nella
gran parte dei casi poi ci riferiamo a persone il cui lavoro non cessa con la
fine dello stato di emergenza.
A
concludersi piuttosto sono i compiti straordinari che in quell’occasione gli
sono stati attribuiti.
Si
tratta infatti di dirigenti ministeriali, prefetti, presidenti di regione,
dirigenti delle Asl e molto altro.
Gli
incarichi censiti durante l’emergenza Covid-19.
Incarichi
censiti da open polis tra quelli ordinari particolarmente coinvolti e quelli
creati ad hoc per l'emergenza sia a livello nazionale che regionale
A
livello quantitativo la maggior parte degli incarichi censiti riguarda i
vertici delle aziende sanitarie locali.
Organizzazioni
fondamentali per la gestione pratica dell'emergenza pandemica, ma anche in
generale per l'ordinario funzionamento del sistema sanitario nazionale.
Per questo negli scorsi anni ci siamo occupati
più volte di questi enti, e per questo continueremo a farlo anche in futuro.
Aziende
sanitarie locali.
Un
discorso analogo, per quanto si tratti di realtà molto diverse, riguarda gli
uffici territoriali del governo e in particolare i prefetti.
Questi
infatti hanno avuto un ruolo molto importante, in particolare nelle fasi più
dure dell'emergenza.
I nostri contenuti sul ruolo e le nomine dei prefetti.
Ma
numeri notevoli sono stati registrati anche rispetto a incarichi istituiti ad
hoc per affrontare l'emergenza, sia a livello nazionale (182 incarichi) che
regionale (423).
A livello
nazionale si è trattato di incarichi in organi come il “comitato tecnico
scientifico”, ma anche le varie task force istituite a vario titolo e la nomina
di vari soggetti attuatori nelle forze dell'ordine, nei ministeri, nelle
agenzie e negli enti pubblici.
Lo
stesso ragionamento vale per le regioni e le province autonome, ma moltiplicato
per ognuna di queste realtà.
Anche le regioni infatti hanno istituito i
propri comitati tecnico scientifici e le proprie task force.
Tutti
i presidenti di regione inoltre sono stati nominati soggetti attuatori dal capo
della protezione civile e in alcuni casi hanno a loro volta nominato dei
delegati.
Ma un
ruolo fondamentale è stato svolto a maggior ragione da coloro che ricoprivano e
che tutt'ora ricoprono in via ordinaria incarichi di punta nel settore
sanitario e di protezione civile.
Nelle
regioni si tratta degli assessori e dei dirigenti regionali con deleghe su
queste materie.
A
livello nazionale della protezione civile, del ministero della sanità ma anche
di istituzioni come l'istituto superiore di sanità o il consiglio superiore di
sanità.
I
protagonisti dello stato di emergenza.
Se
sono stati numerosi coloro che hanno avuto un ruolo importante nella gestione
dell'emergenza, alcuni hanno ricoperto posizioni effettivamente di spicco.
"Coronavirus, chi decide durante lo
stato di emergenza."
Oltre
ovviamente al presidente del consiglio si tratta del ministro della sanità, del
segretario generale del ministero, del capo della protezione civile e del
commissario straordinario.
Chi ha
deciso durante lo stato di emergenza.
Panoramica
delle principali strutture e persone coinvolte nel corso dell'emergenza
Covid-19.
Speranza
è l'unico tra coloro che hanno avuto maggiori responsabilità ad essere rimasto
in carica per tutto il periodo dell'emergenza.
Tra
tutte le persone che hanno ricoperto questi incarichi però è da notare come
solo il ministro della salute Roberto Speranza sia rimasto in carica
dall'inizio alla fine dell'emergenza.
Negli
altri casi invece, per motivi diversi, nel corso del tempo l'incarico è stato
ricoperto da due persone diverse.
In
seguito alla crisi di governo di inizio 2021 infatti, alla presidenza del
consiglio si sono alternati Giuseppe Conte e Mario Draghi.
Un
cambio di esecutivo che, sebbene non abbia implicato una sostituzione del
vertice politico del ministero della salute, ha comportato cambiamenti nel
vertice amministrativo.
Nella
prima fase dell'emergenza infatti è stato Giuseppe Ruocco a ricoprire il ruolo
di segretario generale del ministero.
Raggiunta
l'età per andare in pensione però, con il cambio di governo Ruocco ha lasciato
il proprio incarico.
Una
decisione su cui comunque possono aver pesato anche gli aspri contrasti che il
dirigente ha avuto nel corso degli ultimi mesi di attività con alcuni
importanti esponenti della maggioranza.
Il
difficile rapporto tra politica e vertici amministrativi.
Come
abbiamo detto però questi non sono stati gli unici cambiamenti importanti.
Al
vertice della protezione civile infatti il governo Draghi ha nominato Fabrizio
Curcio al posto di Angelo Borrelli, mentre il generale Figliuolo è stato
preferito a Domenico Arcuri come commissario straordinario.
Il
governo Draghi e la gestione dell’emergenza tra continuità e volti nuovi.
Una
scelta quest'ultima che è stata interpretata in molti modi ma che in effetti ha
segnato anche il cambio di fase nella gestione dell'emergenza.
Il
manager Arcuri infatti era stato scelto per gestire una grande mole di
contratti pubblici affidati con procedure emergenziali di cui c'era assoluta
urgenza nelle prime fasi della pandemia, per reperire tutto il materiale
sanitario necessario.
Il generale Figliuolo è invece un esperto di
logistica e il suo principale compito è stato quello di gestire il piano di
vaccinazione, visto che l'acquisto dei vaccini è stato gestito in primo luogo
in ambito europeo più che nazionale.
Dopo
la pandemia:
verso
un "nuovo mondo".
Ispionline.it
- Paolo Magri - Antonio Villafranca – (23 luglio 2021) – ci dicono:
Nel
momento in cui l’Occidente si appresta ad uscire dall’emergenza sanitaria
provocata dalla pandemia da Covid-19 avviandosi verso una ripresa economica
che, sulla carta, sembra promettente, si ha la sensazione che il 2020 sia stato
uno spartiacque epocale per lo scenario economico e geopolitico internazionale.
È
difficile credere che il futuro ci riservi il ritorno al ‘business as usual’:
le
nostre vite sono andate incontro a profondi cambiamenti, così come i processi
produttivi e le relazioni internazionali.
A
profilarsi è ormai un vero e proprio ‘nuovo mondo’.
Ciò
però non significa che questo ‘nuovo mondo’ sarà radicalmente diverso dal
precedente.
Prima
che il ‘cigno nero’ del Covid-19 sconvolgesse le nostre vite e il nostro
sistema economico iper-globalizzato, alcuni trend di medio-lungo termine – come
la transizione digitale e quella ecologica – erano già ben visibili da tempo.
In
parallelo, da alcuni anni era già in corso una redistribuzione del potere
economico globale, con la Cina (e i Paesi asiatici ad essa legati
economicamente a doppio filo) protagonista di una crescita apparentemente
inarrestabile in grado di mettere in discussione la leadership degli Stati
Uniti.
In
questo quadro, l’Europa perdeva terreno a causa di una economia stagnante e di
un insopportabile immobilismo politico-istituzionale.
La
pandemia è entrata con forza dirompente in questi trend, accelerandoli da un
lato, ma rendendo anche improcrastinabili risposte di policy.
Nel
corso dei paragrafi successivi offriremo una panoramica di queste dinamiche:
partendo
dalla situazione attuale, quali sono le principali sfide di breve periodo, e
quali invece quelle di medio-lungo termine per l’economia globale?
Come
si posizionano l’Italia e l’Europa nel quadro di un mondo che è profondamente
cambiato?
Covid:
vincitori e vinti.
La
pandemia sembra aver già prodotto dei vincitori e dei vinti, quantomeno sul
piano economico.
Nel
periodo immediatamente successivo alla prima ondata, la Cina (e i Paesi del
Sud-est asiatico da essa trainati, come ad esempio il Vietnam) sono riusciti a
riattivare le proprie economie più rapidamente, soprattutto grazie ad un
contenimento più efficace dei contagi che ha consentito di circoscrivere
temporalmente i lockdown.
Pechino ha raggiunto il doppio intento di
evitare l’ingresso in recessione (registrando una crescita del PIL del 2,3% nel
2020 secondo il Fondo Monetario Internazionale) e di incrementare il proprio
potere di mercato a livello internazionale, aumentando il peso sugli scambi
commerciali globali di circa il 2% sia per quanto riguarda le esportazioni che le
importazioni.
Da
questo punto di vista (e in questa prima fase), Europa e Stati Uniti ne vengono
fuori da sconfitti:
il PIL
di UE e USA si è contratto rispettivamente del 6,1% e del 3,5%, mentre il
potere di mercato (in termini di esportazioni) si è ridotto di circa lo 0,5%
per l’UE e dell’1% per gli Stati Uniti.
Dati che rivelano in maniera abbastanza
eloquente come lo “shift to Asia” non solo sia proseguito, ma abbia anche
accelerato.
Ma per
il futuro più prossimo le cose potrebbero migliorare per USA e UE.
La ripresa potrebbe essere non solo più
rapida, ma anche più duratura del previsto.
In Europa, la campagna vaccinale è finalmente
decollata dopo un inizio difficile:
il
rapido miglioramento della situazione sanitaria ha contribuito a fare innalzare
le prospettive di crescita, tanto che la Commissione Europea ha previsto che
entro il 2022 tutti gli Stati Membri avranno recuperato il terreno perso e
saranno tornati ai livelli di PIL del 2019.
Per
l’UE si prevede una crescita del Pil del 4,2% nel 2021 e del 4,4% nel 2022.
Inoltre, i fondi in arrivo con il Next Generation EU potrebbero fornire
un’ulteriore spinta alla crescita economica che, grazie agli investimenti
previsti in aree cruciali come il digitale e la transizione energetica,
potrebbero instaurare un circolo virtuoso facendo innalzare le prospettive nel
medio periodo:
secondo
la Banca Centrale Europea, un uso produttivo di NGEU, incentrato su
investimenti e riforme, contribuirebbe ad aumentare il Pil dell’Eurozona
dell1,5% nel medio termine.
Gli Stati
Uniti potrebbero essere protagonisti di una ripresa ancora più rapida: l’OCSE
stima una crescita del 6,9% nel 2021 anche grazie allo stimolo fiscale senza
precedenti messo in campo dall’amministrazione Biden:
un
pacchetto di quasi 6mila miliardi di dollari, basato su aiuti diretti alle
famiglie a reddito medio-basso e investimenti in infrastrutture.
Ovviamente quello appena descritto è un best
case scenario che tiene conto di un costante miglioramento della situazione
sanitaria e di un allentamento progressivo delle restrizioni agli spostamenti
individuali.
Rimane
in realtà una buona di incertezza per i prossimi mesi, non solo per il timore
di una possibile ripresa dei contagi dovuta alle nuove varianti, ma anche
perché diverse regioni del mondo non avranno ancora ricevuto una quantità
sufficiente di dosi per potersi dichiarare fuori pericolo.
Questo potrebbe causare ulteriori
rallentamenti alle attività economiche, con riverberi a livello globale
attraverso le supply chains che sono state già messe a dura prova generando
‘colli di bottiglia’.
Le
sfide da vincere subito per "agganciare" la ripresa.
Un
elemento di cui tenere conto in un’ottica di breve periodo è l’attuale dinamica
al rialzo dei prezzi delle materie prime, con riferimento soprattutto ai
metalli e alle terre rare indispensabili per la realizzazione di prodotti in
settori high-tech quali automotive e informatica.
La crescente domanda di veicoli elettrici,
computer e smartphone sta causando pressioni sull’offerta di commodities
necessarie per produrre batterie o semiconduttori, quali cobalto (il cui prezzo
nel corso del 2021 è aumentato del 40%), rame (sempre più fondamentale per le
infrastrutture energetiche e digitali), nickel (ai massimi da 17 anni a questa
parte).
Fattori
quali la forza della ripresa economica, la crescente domanda da parte della
Cina, i bassi tassi di interesse reali e i massicci piani di stimolo fiscale
messi in atto da molti Stati per finanziare la ripresa, sono alla base delle
pressioni sui prezzi, al punto che diversi analisti considerano probabile
l’ingresso in un nuovo “supercycle” dei prezzi delle materie prime.
Oltre
alle implicazioni dirette per le prospettive economiche (rialzi eccessivi
potrebbero porre un freno alla ripresa), il mismatch tra domanda e offerta di
commodities sta portando ad una nuova competizione geopolitica per il loro
accaparramento che vede Europa e Stati Uniti (che hanno posto l’autonomia negli
approvvigionamenti tra i propri principali obiettivi) in contrapposizione alla
Cina, che è allo stesso tempo il principale produttore e importatore mondiale
di terre rare.
In
questo contesto, i rischi legati a un’impennata dell’inflazione appaiono sempre
più evidenti.
D’altra
parte, ogni fase di ‘boom’ economico porta con sé fisiologicamente un rialzo
generale dei prezzi; ma quanto si sta verificando negli ultimi mesi negli Stati
Uniti (a maggio l’indice dei prezzi al consumo è cresciuto del 5%, il dato più
alto da 13 anni) sta cominciando a generare una certa preoccupazione per un
eccessivo surriscaldamento dell’economia.
Attualmente,
l’inflazione nell’eurozona è stata contenuta (+2% su base annuale a maggio) ma
il rischio di una trasmissione dagli USA non può essere escluso.
Le
autorità di politica monetaria non hanno manifestato segnali di allarme fino ad
ora e hanno dichiarato di essere pronte a intervenire con un graduale rialzo
dei tassi di interesse (che al momento restano molto bassi) se l’inflazione
dovesse aumentare oltre i livelli di guardia.
Da
ultimo, ma non per importanza, è la questione del consolidamento di bilancio
che si renderà necessario una volta che questa fase eccezionale di espansione
fiscale si esaurirà.
Nel
2020, la combinazione tra recessione e aumento della spesa pubblica per far
fronte alla crisi economica ha fatto lievitare il debito pubblico in tutto il
mondo e nell’UE dove la media del rapporto debito-PIL sfiora ora il 100%.
In
alcuni Paesi (come Italia e Spagna) il debito pubblico è cresciuto di circa 25
punti percentuali ed è previsto che resterà su livelli molto elevati almeno
fino alla fine del 2022 (rispettivamente al 156,6% e 116,9%).
La
sospensione del Patto di Stabilità ha certamente fornito più che una boccata di
ossigeno alle economie dell’eurozona in questa situazione senza precedenti;
tuttavia,
nel 2023 (quando il Patto dovrebbe essere ripristinato) si porrà anche la
questione del ‘come’ reimpostare le politiche di bilancio.
Non è detto che il Patto torni così come lo
conoscevamo, ovvero con la stessa enfasi quasi “dogmatica” su deficit e debito
(il Commissario Europeo al bilancio, Johannes Hahn, ha recentemente dichiarato
che i parametri sul debito dovranno essere rivisti).
La
lezione del Recovery Fund con la sua enfasi su crescita, riforme e investimenti
non potrà essere dimenticata.
D’altra parte, il ritorno del Patto potrebbe
essere un duro colpo per i Paesi con il rapporto debito/PIL più elevato, e
potrebbe alimentare nuove tensioni con i Paesi cosiddetti ‘frugali’ (Austria,
Danimarca, Finlandia, Paesi Bassi e Svezia) che invece in media avranno un
debito al 55% del PIL.
Strettamente
legati all’aumento del debito sono anche i rischi di nuove crisi finanziarie
provenienti da economie in via di sviluppo.
Se
infatti per i debiti dei Paesi più poveri qualcosa è stato fatto in ambito G20,
per quelli degli emergenti (i cui debiti sono decisamente più cospicui) molto
rimane da fare. Il cambiamento di atteggiamento degli USA di Biden in merito a
una nuova possibile allocazione dei Diritti Speciali di Prelievo del FMI per
circa 650 miliardi di dollari è certamente un segnale positivo, ma non potrà
eliminare il rischio di crisi finanziarie con possibili propagazioni globali
soprattutto verso quei Paesi, come l’Italia, fortemente indebitati.
Quello della stabilità dei mercati finanziari è un
ambito da monitorare con estrema attenzione per evitare che dopo la crisi
economica da Covid seguano crisi finanziarie capaci di rallentare o annullare
del tutto la ripresa.
Uno
sguardo al futuro: nuovi trend, rischi e opportunità.
Spostando
lo sguardo ai prossimi decenni, sono tre le principali dinamiche a cui
guardare.
Si
tratta di dinamiche che influenzeranno la direzione che prenderà l’economia e
avranno un forte impatto sul piano geopolitico, ovvero sui rapporti di forza
tra gli Stati.
La
prima dinamica è senza dubbio legata alla lotta al cambiamento climatico:
per vincerla, sarà fondamentale che i recenti annunci
(da ultimi Cina e USA) per il perseguimento della neutralità climatica entro il
2050-2060 siano accompagnati da azioni concrete da parte del sistema
produttivo.
Finora, non tutti i Paesi hanno dimostrato
sensibilità simili rispetto a queste sfide, sia per motivazioni politiche che a
causa di dei loro diversi livelli di sviluppo economico. Inoltre, alcuni Paesi
potrebbero non avere un’autonomia finanziaria sufficiente a finanziare la
propria transizione energetica.
Per
raggiungere i target di Parigi, le stime più recenti indicano che sarebbero
necessari 100 trilioni di dollari in 30 anni.
E
mentre i Paesi avanzati hanno promesso agli emergenti 100 miliardi l’anno per
la transizione energetica – impegno riaffermato anche all’ultimo G7 di Carbis
Bay -, a oggi ne hanno messi a disposizione solo 25-30 all’anno.
Anche per questo è sempre più importante avere
regole comuni e condivise su quanto ‘valga’ la sostenibilità; una informazione
peraltro fondamentale affinché gli investitori possano basare le proprie scelte
su proiezioni plausibili.
La
transizione ecologica verso nuovi modelli di business ‘puliti’ e ‘green’ avrà
successo solo se il mondo delle aziende e quello della finanza (necessario per
reperire i capitali) troveranno gli incentivi giusti per investire nelle nuove
fonti di energia e puntare a produzioni più sostenibili.
Intanto la finanza green ‘vola’, soprattutto
in Europa:
l’emissione
di green bonds è più che triplicata negli ultimi anni (da 20 miliardi di euro
nell’ultimo trimestre del 2017 a oltre 60 miliardi di euro nel secondo
trimestre del 2020), accompagnata da una crescita sostenuta dei rendimenti
degli investimenti socialmente responsabili (in media +25% tra il 2017 e il
2020).
In Italia, nello specifico, le emissioni di
green bonds sono più che raddoppiate tra il 2018 e il 2019 e (secondo una
ricerca EY) sono oltre il 70% le imprese italiane che dichiarano di aver
redatto un piano di sostenibilità.
Molte
hanno già incluso i criteri Environmental, Social and Governance (ESG) nella
loro pianificazione interna.
Insomma,
investire in settori e attività ‘green’ sarà sempre più conveniente, sia per
intercettare risorse finanziarie (come quelle europee del Green Deal e di
NGEU), sia per creare nuove opportunità di crescita economica e di occupazione.
Il
secondo ‘macro-trend’ è quello legato alla transizione digitale. Tecnologie come Intelligenza
Artificiale, machine learning, Internet delle Cose, stanno diventando sempre
più pervasive.
Secondo
una ricerca condotta da Huawei, la domanda di computer a livello globale
potrebbe aumentare fino a 100 volte da qui al 2030.
In parallelo, aumenterà però anche il rischio
di attacchi cibernetici (secondo Deloitte, gli attacchi da hacker nel 2020
hanno subito un incremento annuale del 30%).
La
digitalizzazione potrebbe inoltre amplificare ulteriormente le disuguaglianze,
sia tra Paesi che all’interno degli stessi:
ad
esempio, ancora oggi 3,7 miliardi di persone non hanno accesso a Internet.
Stati
Uniti e Cina sono attualmente in vantaggio rispetto all’Europa, ma l’UE ha
deciso di puntare in maniera decisa sulle nuove tecnologie cercando di colmare
gli attuali gap con una strategia di ampia portata denominata “Bussola per il
Digitale” da qui fino al 2030.
Un ambito in cui l’UE arranca rispetto a
Washington e Pechino è quello della spesa in ricerca e sviluppo:
nel 2019, solo il 2,1% del Pil UE è andato in
R&D, contro il 2,23% della Cina, e il 3,1% degli USA.
La spesa europea risulta peraltro anche al di
sotto della media OCSE, che si collocava intorno al 2,5%.
Il basso livello di investimenti è uno dei
motivi che impediscono all’Europa di essere un terreno fertile per grandi
aziende tech.
Secondo
la classifica di Forbes, infatti, solo 12 compagnie europee sono tra le prime
100 aziende digitali del mondo, contro 9 cinesi (a cui vanno aggiunte 3 di Hong
Kong), e addirittura 39 americane.
Sul fronte delle start-up, il divario
dell’Europa nei confronti di USA e Cina è ancora più elevato:
nel
marzo 2021, l’Europa contava solo 41 “unicorni” (start-up con valore superiore
al miliardo di dollari) su 603 al mondo, contro i 140 cinesi e i 298 negli USA.
Per
creare un ambiente più attrattivo per le aziende hi-tech, l’Unione punta anche
a superare la frammentazione interna del mercato dei servizi digitali, uno dei
principali ostacoli alla crescita di aziende su larga scala.
Infine,
il terzo grande trend da tenere d’occhio nei prossimi decenni sarà quello
legato alla demografia.
La
situazione di svantaggio dell’UE si ritrova anche in questo campo, seppur con
una differenza:
anche
Stati Uniti e Cina stanno facendo i conti con popolazioni che invecchiano e che
crescono più lentamente.
L’Europa
è però il continente che negli ultimi anni ha visto questa tendenza
manifestarsi con più forza: il rapporto tra over 65 e under 15 nel Vecchio
Continente ha raggiunto il 133%.
L’Italia è purtroppo ‘maglia nera’ nell’UE e
rischia di ritrovarsi nel 2050 con un rapporto tra persone in età lavorativa e
over 65 di 1:1, con evidenti implicazioni in termini di sostenibilità dei
sistemi di welfare.
La
crescita della popolazione nei prossimi decenni si concentrerà lontano
dall’Occidente, in Asia e Africa Subsahariana.
Quest’ultima
sarà poi protagonista indiscussa della crescita della popolazione nella seconda
metà del secolo.
La
bassa natalità e il rapido invecchiamento della popolazione stanno spingendo le
economie avanzate a introdurre strategie per contenere o invertire la tendenza,
focalizzandosi principalmente sulla riduzione dei cosiddetti “NEET” (giovani
che non studiano né lavorano, e dunque non formano famiglia), sui sostegni alle
famiglie con figli, e su un’espansione dei servizi all’infanzia (ma molto di
più, e con una visione più strategica, bisognerebbe fare in merito alle
politiche migratorie).
Anche
la Cina ha recentemente introdotto misure per contrastare il declino della
natalità, incluso l’aumento del limite di figli per coppia da 2 a 3.
Il rapido invecchiamento della popolazione
rappresenta una grande sfida per l’Europa, con la necessità di trovare le
risorse per fornire servizi ad una popolazione maggiormente bisognosa di cure
ed assistenza, a fronte di una quota di lavoratori sempre più bassa.
USA e Cina sono invece ancora all’inizio di
questa fase discendente: se in Europa l’età media registrata nel 2019 era di 43
anni, quella USA era di 38, uguale a quella fatta registrare dal censimento
cinese 2020.
Non
solo per i due giganti globali questo crea minori problemi a livello di finanze
pubbliche, lasciando maggiori margini di manovra rispetto all’Europa, ma
permette anche di sfruttare la ripresa dell’economia globale al meglio.
Con
una maggiore manodopera disponibile, saranno infatti più attrattive per
capitali e investimenti.
Senza un’inversione di tendenza in Europa, o
quantomeno un rallentamento, la quota europea nell’economia globale rischia di
diminuire ulteriormente rispetto a USA e Cina, accelerando una fase di declino
tanto economico quanto geopolitico.
L'Italia e l'Europa in un "nuovo
mondo".
Le
opportunità per l’Italia di imboccare finalmente la strada di una ripresa
solida e sostenuta nel tempo passano essenzialmente dalle riforme e dall’uso
che verrà fatto dei fondi destinati al nostro Paese nell’ambito della Recovery
and Resilience Facility.
Il
nostro Paese sarà il principale beneficiario dei fondi europei per un totale di
191,5 miliardi di euro, tra risorse a fondo perduto e prestiti a tasso
agevolato.
La
chiave per il successo sarà riuscire a tradurre queste risorse in investimenti
efficaci e avviare un percorso di riforme.
Secondo fonti dello stesso Governo italiano,
con investimenti ‘addizionali’ (quindi escludendo quelli già previsti in
passato) pari a circa 183 miliardi, l’Italia registrerà una crescita aggiuntiva
tra il 2021 e il 2026 compresa tra l’1,8% e il 3,6%.
Sempre
secondo le stime del governo, la crescita aumenterà di un ulteriore 3,3% se
realizzeremo le riforme, con contributi significativi soprattutto da parte di
quelle ‘orizzontali’ (+2,3% con la riforma della pubblica amministrazione e
+0,5% con quella della giustizia).
Per
quanto riguarda la composizione di queste risorse, la “fetta” più cospicua sarà
destinata agli investimenti ‘verdi’ (86 miliardi), mentre per il digitale
saranno investiti 42 miliardi.
Proporzioni più o meno in linea con le
previsioni di Francia e Spagna, mentre la Germania prevede di utilizzare 15 dei
27,9 miliardi che riceverà per progetti legati alla digitalizzazione.
Per
l’Italia tuttavia la fase post-Covid non coincide solo con l’irripetibile
opportunità di “fare le riforme” offerta dai fondi NGEU.
La coincidenza di presiedere nello stesso anno il G20
e (insieme al Regno Unito) la COP26, la Conferenza delle Nazioni Unite contro
il cambiamento climatico, rappresenta un’occasione unica per giocare un ruolo
di primo piano a livello internazionale e per contribuire a rilanciare il
multilateralismo, che attraversava da alcuni anni un periodo di evidenti
difficoltà.
Attorno
ad un’agenda ambiziosa basata sulle cosiddette “3P” (People, Planet and
Prosperity), la Presidenza italiana cercherà di raggiungere alcuni importanti
risultati: dal contrasto all’attuale pandemia attraverso la fornitura di
vaccini ai
Paesi più
poveri al conseguimento di accordi storici in ambito fiscale, come la proposta
di istituire una “global minimum tax” sui profitti delle multinazionali già
propiziata dal G7 a guida britannica e dall’OCSE.
Allargando
lo sguardo al continente europeo, le sfide per Bruxelles in un mondo che sta
cambiando irreversibilmente sono numerose.
Per
quanto riguarda l’immediato vicinato, ovviamente la priorità principale
riguarda la definizione di un nuovo rapporto con il Regno Unito, dopo che la
Brexit è diventata realtà.
Con riferimento invece al rapporto con gli
Stati Uniti, i primi segnali giunti dalla Casa Bianca di Biden hanno fatto
chiaramente intendere la volontà di un riavvicinamento tra le due sponde
dell’Atlantico.
La
sospensione dei dazi relativi alla questione Airbus/Boeing, così come la
decisione di istituire un nuovo “Trade and Technology Council” volto a favorire
la cooperazione su tematiche strategiche come il commercio e lo sviluppo delle
moderne tecnologie, testimoniano la volontà degli USA di ripristinare la
tradizionale alleanza con il Vecchio Continente dopo la “pausa”
dell’amministrazione Trump.
Anche
nell’ottica di contrastare l’espansione della Cina, verso cui l’UE guardava con
favore fino a pochi mesi fa in seguito all’approvazione dell’accordo bilaterale
sugli investimenti CAI (ora messo in naftalina a seguito di vari dissidi). Nel
prossimo futuro, vincerà chi avrà tratto le lezioni più importanti dal
coronavirus.
Chi
realizzerà che nel futuro già prossimo ci attende in parte un ‘nuovo mondo’.
E chi avrà tradotto per tempo queste lezioni
in nuove policy.
Guardando
ai tre macro-trend indicati (ambiente, digitalizzazione, demografia), ciò
significa avere la forza di riconsiderare non solo le politiche economiche e
ambientali, ma anche quelle di welfare e inclusione sociale, di istruzione e
formazione, fino a quelle migratorie.
Tutto ciò non può avvenire con decisioni
‘spot’ ma deve essere inserito nell’ambito di una strategia coerente che per
noi italiani riguarda inevitabilmente tanto il nostro governo quanto le
Istituzioni europee.
Il
potere della crisi
secondo
Bremer.
Agi.it
– Ian Bremer – (17 luglio 2022) – ci dice:
Nell'ultimo
libro, il politologo statunitense spiega "Come tre minacce e la nostra
risposta cambieranno il mondo".
Le
sfide sanitaria, ecologica e tecnologica destinate a cambiare gli equilibri.
AGI - Stati Uniti e Cina pur da avversari
devono trovare "dal confronto diplomatico soluzioni alle divergenze.
Abbiamo
bisogno di crisi grandi abbastanza da terrorizzarci, ma non gravi al punto da
annientare la nostra capacità di cambiare".
Lette
nei giorni della pandemia e della guerra in Europa, le parole di Ian Bremer
possono suscitare inquietudine e speranza.
Da un lato si percepisce la sensazione di
vivere un momento tanto decisivo quanto complesso della grande Storia, i cui
sviluppi raramente sono apparsi tanto incerti.
Dall'altro
ci si convince di poter trovare, nelle difficoltà, lo slancio decisivo per
invertire una rotta diventata - agli occhi di molti - insostenibile,
riscrivendo un nuovo domani.
È
questo, in fondo, il "potere della crisi" sul quale si concentrano analisi e
riflessioni del noto politologo statunitense, presidente di Eurasia Group e di
Gzero Media, affidate al suo nuovo saggio tradotto in Italia da Egea ('Il potere della crisi. Come tre
minacce e la nostra risposta cambieranno il mondo', pagg.216)
È
innegabile che quella in cui viviamo sia un'epoca di straordinarie opportunità.
Con la nascita del primo "ceto medio mondiale", oggi miliardi di
persone hanno agi e opportunità superiori a quelli che potevano vantare i re
medievali, mentre l'inventiva umana ha raggiunto picchi inimmaginabili anche
solo una generazione fa.
Eppure
- guardandoci intorno - percepiamo con chiarezza che allo stesso tempo
rischiamo la catastrofe.
Le
conquiste storiche degli ultimi cinquant'anni sono minacciate dall'incapacità
dei nostri leader di collaborare per proteggerci da sfide sempre più pressanti
e "manifeste".
Mentre
il mondo sta ancora lottando per lasciarsi alle spalle gli effetti economici,
politici e sociali del Covid-19 e prende posizione di fronte all'invasione
dell'Ucraina da parte della Russia, Bremer cerca di ampliare l'orizzonte e ne
individua principalmente tre.
Quella
sanitaria,
con la
prevedibile lotta a virus più letali e contagiosi del coronavirus che ha
innescato l'ultima pandemia.
Quella
ecologica,
con
l'intensificarsi del cambiamento climatico il cui impatto non sarà soltanto
naturale ma anche economico e sociale, dato che gli sconvolgimenti in atto - se
non contrastati - potrebbero generare la fuga di decine di milioni di rifugiati
e costringerci a ripensare drasticamente i nostri stili di vita.
Infine,
la sfida più pericolosa: quella delle nuove tecnologie - da un'intelligenza artificiale sempre
più efficiente e pervasiva all'informatica quantistica - che riplasmeranno le
società e l'ordine geopolitico destabilizzando i nostri paradigmi più
velocemente della nostra capacità di reazione.
Lo
scenario è reso ancora più complicato da diversi fattori: le profonde divisioni
interne ai Paesi occidentali, Stati Uniti in primis, sfociate nei venti del
populismo, e soprattutto il clima da "nuova Guerra fredda" che
aleggia ogni giorno più pesante sulle relazioni tra le due superpotenze della
nostra epoca, gli stessi Usa e la Cina.
Il
tutto mentre gli eserciti sono tornati a scontrarsi in Europa, con il rischio
che il conflitto tra Russia e Ucraina possa coinvolgere anche altri Paesi.
Un
triplo ostacolo a quella "cooperazione pratica" e globale che,
secondo Bremer, rappresenterebbe la prima e più potente "arma" di
fronte a sfide che non ci attendono, ma sono già tra noi.
La
buona notizia?
Alcuni leader politici, decisori aziendali e cittadini
lungimiranti stanno già unendo le forze per affrontare queste crisi.
La
domanda è se riusciranno a lavorare abbastanza bene e velocemente e,
soprattutto, se sapremo usare queste crisi per reinventare il nostro cammino
verso un mondo migliore.
Tracciando
paralleli tra strategie di ieri, di oggi e di domani - dal Piano Marshall al
Green New Deal, passando per l'idea di un'Organizzazione mondiale dei dati in
grado di disciplinare l'intelligenza artificiale, la privacy, la proprietà
intellettuale e i diritti dei cittadini - Bremer indica un piano d'azione per
sopravvivere e prosperare anche nel XXI secolo.
"La
storia ci insegna che abbiamo bisogno di una crisi", riflette l'autore.
"È
nella natura umana: abbiamo bisogno che la paura ci aiuti a superare l'inerzia
e ad affrontare i rischi a cui abbiamo permesso di diventare fatali.
Ecco
perché dobbiamo usare le crisi già in atto - le lezioni del Covid, il potere
distruttivo del cambiamento climatico e la minaccia esistenziale rappresentata
dai vertiginosi sviluppi tecnologici che non comprendiamo - per creare un nuovo
sistema internazionale costruito su misura per i nostri scopi attuali e per
quelli futuri.
Abbiamo
bisogno di crisi sufficientemente spaventose da indurci a forgiare un nuovo
sistema internazionale che promuova una cooperazione proficua su poche ma
cruciali questioni.
Le nazioni del mondo non devono diventare amiche o
alleate su ogni singolo progetto;
la competizione globale può ancora alimentare
il progresso dell'umanità.
Ma
abbiamo bisogno della giusta collaborazione per sopravvivere alle potenziali
catastrofi del futuro".
La
Cina, ricorda l'autore, ha 1,4 miliardi di abitanti è un'economia a medio
reddito: una conquista ineguagliata in altre economie.
La Cina però è anche "l'unico paese ad
avere una strategia globale a lungo termine che continuerà essere implementata
mentre Stati Uniti d'Europa vedranno avvicendarsi vari presidenti e leader che
cambieranno indirizzi e opzioni".
Ma il
rapporto Usa Cina è fondamentale per la pace e la prosperità globale.
Il Covid-19 ha creato nuove opportunità per la
Cina.
Il suo
sistema politico autoritario, reso possibile dalla stessa stretta sorveglianza
della popolazione e altri controlli techno sociali, e l'intervento diretto
dello Stato nell'economia, hanno consentito alla Cina di uscire per primo dalla
recessione nel 2020.
Nel
2018 - ricorda l'autore - la Cina era partner commerciale di 128 paesi sul 190,
nel 1999 l'organizzazione mondiale della proprietà intellettuale ricevette
appena 276 richieste di brevetto dalla Cina, nel 2019 quel numero è salito a
circa 59.000.
La
Cina è diventata leader anche nell'assumersi parte delle responsabilità
internazionali che il potere comporta.
A
partire dal 2012 ha fornito più truppe ONU per missioni di pace di Stato di
Stati Uniti, Regno Unito, Francia e Russia (gli altri quattro mesi gli altri
quattro membri permanenti del consiglio di sicurezza dell'ONU) messi insieme.
La
crescita economica però sarà più difficile da conseguire quando la Cina
diventerà più dipendente dall'innovazione e dal progresso in un settore privato
che si vuole allineato al partito comunista, inoltre sarà più difficile creare
posti di lavoro quando gli aumenti salariali avranno reso la Cina meno
appetibile come meta l'esternalizzazione e una quota maggiore della produzione
sarà stata automatizzata.
Come
si vede sfide importanti che necessitano di trovare sintesi per evitare crisi
irreparabili.
Ma "il potere della crisi" porterà a
cercare soluzioni. E Bremer indica la strada su cui convergere.
L’aumento dell’inflazione, combinata con il rallentamento della crescita
economica sta
riducendo drasticamente i salari reali in Italia e in molti paesi dell’Unione
europea.
Ilo.org – Redazione – Giulia De Lazzari – Gianni Rosas
- (2 dicembre 2022) – ci dicono:
ROMA (notizie OIL).
Questo è uno dei messaggi principali del Rapporto
mondiale dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) sui salari
2022–2023 che viene presentato a Roma il 2 dicembre 2022, insieme ad un
approfondimento sulla situazione dei salari in Italia.
Per la prima volta in questo secolo, i salari reali
sono diminuiti su scala mondiale (-0,9 per cento) nella prima metà del 2022.
In Italia, l’impennata inflazionistica ha eroso i
salari con una riduzione di quasi 6 punti percentuali nel 2022 che è più che
doppia rispetto alla media dei paesi dell’Unione europea.
Questo “effetto inflazione” segue un periodo di
crescita modesta di 0,1 punti percentuali delle retribuzioni mensili nel
periodo 2020–2021 (+1,7 punti per la media dei paesi dell’Unione europea) a
causa della pandemia.
Se si considera il periodo 2008–2022, solo in 3 delle
economie avanzate del G20 — Italia, Giappone e Regno Unito — i salari reali
hanno registrato livelli inferiori nel 2022 rispetto al 2008.
L’Italia è il paese che registra la decrescita
maggiore, pari a 12 punti percentuali, intaccando in modo sostanziale il potere
d’acquisto per le famiglie negli ultimi 15 anni.
Le crisi legate alla pandemia e all’inflazione hanno
un impatto maggiore su lavoratori e lavoratrici con basse retribuzioni.
La combinazione tra perdita di lavoro e riduzione di
ore lavorate durante la pandemia ha causato una crescita di quasi un punto
percentuale della proporzione di lavoratori e lavoratrici a bassi salari che in
Italia è passata dal 9,6 per cento del 2019 al 10,5 per cento del 2020.
Anche i giovani sono nell’occhio del ciclone.
Essi sono
particolarmente numerosi tra i lavoratori con basse retribuzioni, anche se la
crescita maggiore si è registrata tra i lavoratori a bassa retribuzione di età
compresa tra i 35 e i 50 anni (+1,2 per cento) e i lavoratori con contratti a
termine.
“Dobbiamo porre particolare attenzione ai lavoratori a
reddito medio-basso.
Contrastare l’erosione del potere d’acquisto dei
salari è un fattore essenziale per la crescita economica e può supportare la
crescita dell’occupazione.
Questo può essere inoltre un modo efficace per
diminuire la probabilità o la severità di un’eventuale recessione in Italia”
dice Giulia De Lazzari, economista dell’OIL.
Il Rapporto mostra, inoltre, che l’inflazione può
avere un impatto maggiore sul costo della vita delle famiglie a basso reddito a
causa dell’utilizzo della maggior parte del loro reddito disponibile per la
spesa in beni e servizi essenziali.
Questi ultimi, in genere, subiscono un incremento di
prezzo maggiore.
Anche i dati relativi all’Italia evidenziano che i
beni e servizi primari sono stati maggiormente intaccati dall’inflazione.
Il divario salariale di genere è rimasto immutato a
livello globale durante la pandemia e si attesta intorno al 20 per cento.
In Italia questo divario continua ad attestarsi all’11
per cento (se misurato in base ai salari orari) o al 16,2 per cento (se basato
sui salari mensili).
Questo nasconde tuttavia le maggiori
perdite occupazionali delle lavoratrici durante l’emergenza di COVID-19.
“La ripresa dal COVID-19 che si stava
realizzando nel mondo del lavoro in Italia e su scala globale è stata
compromessa dall’attuale grave crisi inflazionistica.
Insieme al rallentamento della crescita economica, la
crisi attuale sta aggravando la situazione dei salari reali in Italia e nel
mondo”, spiega il Direttore dell’Ufficio OIL per l’Italia e San Marino, Gianni
Rosas.
“In questo
contesto, è necessario adottare, attraverso il dialogo sociale, delle politiche
e misure di supporto al tenore di vita di lavoratori e famiglie, politiche
salariali attraverso la contrattazione collettiva, unitamente a misure dirette
alle famiglie meno abbienti.
È inoltre
fondamentale rafforzare le competenze di lavoratrici e lavoratori attraverso
l’istruzione e la formazione lungo l’arco della vita e adottare strategie
integrate per ridurre il divario salariale di genere”, ha concluso il Direttore
dell’Ufficio OIL per l’Italia e San Marino, Gianni Rosas.
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