LOGICHE ELITARIE PERVERSE.
LOGICHE
ELITARIE PERVERSE.
I
Files di Twitter:
“Ogni
Teoria del Complotto
si è
avverata!”
Conoscenzealconfine.it
– (18 Gennaio 2023) - Milosz Matuschek - ci dice:
I
files Twitter di Elon Musk dimostrano la manipolazione inaudita dell’opinione
pubblica.
È
l’inizio della fine del potere del mainstream?
Censura è una brutta
parola, soprattutto nelle democrazie.
In realtà non
dovrebbe esistere.
Censura significa
manipolare la formazione del pensiero sopprimendo determinate informazioni.
Negli
ultimi tre anni di Corona, milioni di post sulle piattaforme sociali sono stati
oscurati, rifiutati, cancellati.
I file
di Twitter dimostrano ora che ciò avveniva spesso per iniziativa di agenzie
statali come la CIA e l’FBI, il governo degli Stati Uniti e il produttore di
vaccini Pfizer.
Chiunque
disponeva di un potere sufficiente poteva calibrare i social media a proprio
favore e controllare così il corso del dibattito pubblico.
Una
libera competizione di opinioni: nessuna possibilità.
Tappeto
rosso, invece, per la narrazione ufficiale del governo.
Durante la pandemia, il mainstream mediatico
era comunque in linea con il governo e un completo fallimento.
Da
quando Elon Musk ha assunto il controllo del servizio di messaggistica breve,
Twitter, ha fatto pubblicare documenti interni sugli autori freelance che
scrivono sulla piattaforma di newsletter “Substack”:
Matt
Taibbi, Bari Weiss, Alex Berenson, Michael Shellenberger e altri.
Le
pubblicazioni mostrano sempre più l’intero quadro devastante per la libertà di
espressione e sono quindi documenti attuali della massima importanza.
Sono una lezione esemplare su come trasformare
un corso d’acqua in una pozza morta e far credere al pubblico di aver fatto
qualcosa per la difesa dell’acqua.
L’elenco
degli scandali è lungo.
Ufficialmente,
i grandi colossi tecnologici hanno annunciato che avrebbero cancellato solo le
informazioni che contenevano inesattezze mediche, lasciando che fosse l’OMS a
decidere quale fosse il punto di vista scientifico.
Questo
è stato di per sé un rovesciamento totale del concetto di base della scienza,
con la sostituzione del dibattito con il dogma, della ricerca della verità con
la narrazione di una pseudo-autorità globale, di dubbia affidabilità e con
molteplici condizionamenti.
Lo
stesso Elon Musk ora dice delle azioni di Twitter:
“Praticamente
ogni teoria del complotto si è avverata”.
Ora si
scopre che la portata delle cancellazioni è molto maggiore.
Secondo il rapporto, la CIA, l’FBI e altre
agenzie governative hanno regolarmente inviato richieste di cancellazione di
tweet o account, le hanno seguite e hanno insistito sulle loro richieste.
Al
primo incontro dei funzionari di Twitter con l’amministrazione Biden, c’è stata
una richiesta esplicita di agire contro gli “oppositori delle vaccinazioni”,
mentre lo stesso Biden diffondeva informazioni palesemente false sul fatto che
la vaccinazione proteggesse dalle infezioni.
L’amministrazione
Biden ha esplicitamente chiesto e ottenuto la cancellazione dell’account di
Alex Berenson, ex reporter del New York Times.
Anche
i pareri degli esperti sono stati soppressi e manipolati.
Questo
riguardava persino informazioni tecnicamente corrette che semplicemente non
erano contenute nella linea del governo.
Ad esempio, un tweet dell’epidemiologo di
Harvard, Martin Kulldorff, che metteva in dubbio la necessità di vaccinare chi
era già immunizzato dall’infezione, è stato definito “fuorviante” e messo in
sordina.
L’account
del professore di medicina di Stanford, Jay Bhattacharya, è stato inserito in
una lista nera che ha impedito ai suoi tweet di essere visibili a un pubblico
più vasto.
Aveva
sottolineato la dannosità dei lockdown per i bambini. Contemporaneamente, Twitter ha
affidato parte della moderazione dei contenuti a subappaltatori a basso costo
nelle Filippine.
Twitter
ha agito praticamente come una sub-agenzia dell’apparato di sicurezza
statunitense e delle grandi aziende.
Le
agenzie governative inviavano richieste che di solito venivano attuate in
silenzio.
La FBI
ha addirittura pagato a Twitter 3,5 milioni di dollari come compenso per le
numerose richieste.
Abbiamo
bisogno di altre prove riguardo una censura gestita e pagata dallo Stato? Come
se non bastasse, anche Facebook ha cancellato contenuti che, pur essendo
veritieri, avrebbero potuto causare un’azione frenante nei confronti dei
vaccini.
Ai
files di Twitter potrebbero presto seguire quelli di Facebook, di Google e così
via. Tutto ciò dimostra che non si è mai trattato di disinformazione.
Si trattava di superare una narrazione
precostituita, e questo: a prescindere.
I social media come tirapiedi dei potenti.
Particolarmente
curioso è il ruolo di Pfizer, produttore di vaccini, su Twitter:
Scott Gottlieb, membro del consiglio di
amministrazione di Pfizer, ha chiesto a Twitter di intervenire contro un tweet
che, se fosse diventato “virale”, avrebbe potuto mettere in pericolo le vendite
di vaccini di Pfizer.
Il
tweet si riferiva allo stato della scienza secondo cui l’immunità naturale è di
gran lunga superiore all’immunità acquisita con il vaccino.
L’autore
del tweet è l’ex capo della Food and Drug Administration (FDA) statunitense ed
ex dirigente dell’OMS, Brett Giroir.
Gottlieb è stato anch’egli a capo della FDA
prima del suo incarico in Pfizer.
Twitter ha etichettato il tweet di Giroir come
“fuorviante”, anche se diversi studi dimostrano che il suo contenuto è
corretto. Quindi, chi sta distorcendo la verità, e in quale modo?
La
libertà di espressione è il diritto di esprimere un’opinione, anche se non
piace agli altri.
Se
agli altri piacesse, non ci sarebbe bisogno del diritto di farlo.
Se si misura il grado di libertà di opinione
con questo metro, viviamo lontani da un principio costituzionale reale e
fondamentale.
È solo
nell’ora della prova, cioè quando le dichiarazioni scontentano i più potenti
del mondo, che si capisce se questa libertà esiste davvero.
I
files di Twitter lo dimostrano: la censura è reale, i governi e le aziende
manipolano la libera formazione dell’opinione.
Nel
caso della cancellazione i files sul computer portatile di Hunter Biden, che,
come ora sappiamo, contenevano grandi quantità di materiale compromettente, la
pratica della censura ha persino influenzato l’esito delle ultime elezioni
presidenziali Usa.
I
files di Twitter mostrano inesorabilmente il quadro dell’attuale manipolazione
del pubblico.
In particolare, sfatano l’idea che non esista
una censura nel vero senso della parola, poiché le aziende private fanno valere
liberamente le loro condizioni d’uso, i loro diritti di domicilio per così
dire.
Le ondate dell’ultima pubblicazione mostrano
la stretta delle agenzie governative e delle aziende.
Hanno
monopolizzato lo spazio del dibattito su questioni politiche di massima
importanza a loro favore.
Il
processo per venire a capo di questa situazione è appena iniziato.
Quanto
è profonda la palude?
I dossier
Fauci, già annunciati da Musk, sono molto attesi.
Fauci
è una delle figure chiave della pandemia e il funzionario pubblico più pagato
degli Stati Uniti.
Anni
prima del Corona, aveva annunciato il verificarsi di una pandemia “a sorpresa”
e, più recentemente, aveva mentito al Congresso sulla ricerca sul
gain-of-function.
La
vicenda dei file di Twitter è già diventata un particolare boomerang per i
media tradizionali, che finora hanno comprensibilmente trattato la questione
come se fosse una patata bollente.
Le
pubblicazioni dimostrano come i media abbiano difeso una narrazione ufficiale
promuovendo la diffusione di dogmi e decretando alcuni discorsi tabù.
La
grande svolta nel settore dei media si sta quindi avvicinando.
I files di Twitter sono il dispositivo esplosivo nel
mainstream.
Milosz Matuschek (editorialista della
Weltwoche e redattore di freischwebende-intelligenz.org.) (Recentemente ha
pubblicato il bestseller dello Spiegel “Wenn’s keiner sagt, ich sag’s”,
Fifty-Fifty, 2022).
Fonte
originale: (weltwoche.ch/daily/jede-verschwoerungstheorie-ist-wahr-geworden-elon-musks-twitter-files-belegen-eine-beispiellose-manipulation-der-meinungsbildung-ist-dies-der-anfang-vom-ende-der-mainstream-m/)
(nogeoingegneria.com/ingegneria-sociale/i-file-twitter-ogni-teoria-del-complotto-si-e-avverata-e-linizio-della-fine-del-potere-del-mainstream/)
Salvatore
Borsellino parla dopo
l’Arresto
di Matteo Messina Denaro:
“Temo
Nuovo Baratto con lo Stato”.
Conoscenzealconfine.it
– (18 Gennaio 2023) - N. Palazzolo – ci dice:
Il
fratello del giudice Paolo, ucciso da Cosa nostra nella strage di via D’Amelio,
dopo l’arresto del superlatitante: “Non vorrei che la contropartita fosse
l’abolizione dell’ergastolo ostativo”.
“Da un
lato c’è la soddisfazione per un criminale finalmente assicurato alla
giustizia, dall’altro l’amarezza per il fatto che ci siano voluti, come per
Riina voluti, 30 anni di latitanza prima di catturarlo.
Questo
aspetto mi fa perdere il gusto di questa gioia”.
Lo
dice all’Adnkronos Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, il giudice
antimafia ucciso da Cosa nostra nella strage di via D’Amelio.
Matteo
Messina Denaro è stato arrestato a Palermo in una clinica dove si era recato
per sottoporsi ad alcune terapie.
“Questo
dimostra che ha continuato a insistere sul territorio, dal quale questi mafiosi
non si allontanano mai”, dice ancora il fondatore del movimento delle “Agende
rosse”.
Per
Borsellino c’è poi un altro aspetto.
“Il sospetto che questa cattura non sia ancora
una volta frutto di un baratto con la criminalità organizzata.
Non
vorrei che a fronte di questo arresto ci sia la liberazione dall’ergastolo
ostativo di personaggi come i Graviano.
Mi
aspetto di non vedere pagato nel prossimo futuro il prezzo di questa cattura.
Non vorrei
che la contropartita dell’arresto di Messina Denaro fosse l’abolizione
dell’ergastolo ostativo”
(L’ergastolo ostativo rappresenta una
tipologia specifica di pena detentiva, che oltre ad essere perpetua, rispetto
all’ergastolo “semplice” impedisce alla persona condannata di accedere a misure
alternative o ad altri benefici.
In altre parole, se un ergastolo può, ad
esempio per buona condotta o per altri meriti del detenuto, essere trasformato
in una condanna con un termine, l’ostativo prevede tali possibilità unicamente
nel caso in cui la persona in questione decida di collaborare con la giustizia.
Ovvero
di diventare quello che viene definito un “pentito”.
(lifegate.it/ergastolo-ostativo-definizione-corte-costituzionale-governo-meloni).
Il procuratore
di Palermo, Maurizio De Lucia, ha sottolineato che adesso occorrerà indagare su
chi ha coperto la latitanza dell’ex primula rossa.
“Non è venuto fuori chi ha coperto quella di
Riina e Provenzano… Questi criminali sicuramente non sono la mafia e
sicuramente con il loro arresto la mafia non finirà.
È un
fenomeno che va al di là degli uomini, il vero pericolo sono i rapporti tra la
mafia e lo Stato, le complicità tra Cosa nostra e lo Stato “.
“La
cattura di Messina Denaro era nell’aria, come già quella di Riina era stata
preannunciata prima che avvenisse.
Da qualche mese si sentiva parlare della sua
possibile cattura, delle sue cattive condizioni di salute – conclude Salvatore
Borsellino.
Mi
aspettavo che succedesse.
Per me non è fondamentale il suo arresto, ma
che venissero alla luce i rapporti oscuri tra pezzi dello Stato e mafia stessa.
Il vero successo sarebbe che venisse ritrovata
l’agenda rossa e che chi l’ha sottratta venisse assicurato alla giustizia “.
(N.
Palazzolo -- today.it/cronaca/matteo-messina-denaro-arrestato-salvatore-borsellino.html)
Il
modello dell'inclusione e
la
realtà della città multietnica.
Treccani.it - Menola Zecca – (7 dicembre 2020) – ci
dice:
Nuclei
problematici e proposte per una salvaguardia del pluralismo identitario.
«Ex
nihilo nihil fit» (Niente nasce dal nulla), si legge tra i versi del De rerum
natura di Tito Lucrezio Caro.
Quel
che il poeta epicureo affermava nel lontano I secolo a.C., così postulando
l’eternità della materia, si ritiene possa essere oggi metaforicamente
funzionale alla considerazione critica di alcuni eventi che, dal 2016 in
particolare, hanno caratterizzato lo scenario politico globale.
Dalla
Brexit nel Regno Unito, seguita nello stesso anno dall’elezione di Trump, al
referendum in Catalogna del 2017, fino a giungere alla graduale – sebbene
sempre più massiccia – avanzata di partiti sovranisti ed euroscettici, chi
dichiaratamente, chi no.
Per
ciascuno di questi eventi, l’insofferenza nei confronti di istituzioni
centralizzate (prima fra tutte, l’Unione Europea) si accompagna spesso ad
un’esaltazione dell’ideologia nazionalista, che, mal adattandosi ad una
circoscritta e analitica definizione, non è raro venga spesso asservita alle
dinamiche di una perversa propaganda.
L’idea
che uno Stato, autogovernandosi, riesca ad arginare i rischi di una politica
economica globalizzata, che la crisi del 2008 ha rivelato essere sempre più
difficilmente controllabile, è l’illusione ricorrente di quanti confidano in
un’ideologia tanto sottile quanto poco strutturata.
Ne
deriva la costituzione di patrie sempre più chiuse e rancorose, dove un
individualismo non virtuoso dilaga e male si adatta a logiche di inclusione
comunitaria.
Ciononostante,
in un mondo che mai come oggi sembra incarnare la sfida al pregiudizio, nata
dalla necessità di condividere con l’Altro il proprio tempo e il proprio
spazio, la polietnica e il pluralismo culturale si presentano quali realtà
ineludibili all’interno della società.
Risulta,
a questo punto, inevitabile una riflessione sul concetto di confine, spesso
erroneamente associato al limitato campo delle politiche territoriali.
«Vorrei sapere se esisto o non esisto! (…)
Per
voi l’esistenza di un uomo non conta affatto!
Conta solo la sua carta d’identità. (…)
Il
mondo va avanti con la legge, le carte, i regolamenti.
Molto
presto ci vorrà un permesso per vivere (…) e per poter respirare!»,
declama
Fernandel al cospetto delle guardie poste a controllo della frontiera Italia –
Francia, dopo aver scoperto d’esser stato concepito esattamente sulla linea del
confine tra le due nazioni.
Il
monologo, tratto da “La legge è legge” (1958) di Christian-Jaque e rimasto tra
i più celebri della storia del cinema, presenta il confine quale limite di
conservazione di un’identità, stimolando – così – la riflessione sulle
pluralità problematiche che tale concetto trascina con sé.
Un
elemento identitario, d’altra parte, è definito tale poiché, includendo
qualcuno, inevitabilmente esclude qualcun’altro.
Alla
luce di questo, risulta evidente come la proposta di un modello di salvaguardia
del pluralismo non possa prescindere dal chiedersi quale sia il punto d’unione
perfetto tra integrazione e identità.
Nell’Italia
degli anni ‘60, la riflessione critica sul sociale e i suoi servizi,
finalizzata alla realizzazione di una democrazia sostanziale, che andasse al di
là della semplice formalità e che ponesse al centro della sua effettiva
realizzazione il valore inalienabile della persona, stimolò l’emergere di una
certa sensibilità politica, oltre che culturale, sul tema in questione.
La
ricerca di un’unità relazionale tra pari, che limitasse l’emarginazione sociale
e da cui, poi, sarebbe scaturito un inevitabile spirito di forte competitività,
si tradusse in uguaglianza di trattamento, che sulla base dell’assimilazione –
propria, tra l’altro, della visione colonialista europea – si sostanziò
nell’assoluta neutralità dello Stato, nonché nella sua totale assenza anche
nella promozione della libertà e del benessere dei singoli.
Non è questa la sede per analizzare le criticità
connesse ad un tale sistema unitario di appartenenza, né tanto meno per
affrontare le contingenze che lo misero in discussione.
Quel
che qui ci si limita a fare è proporre un piano di integrazione alternativo all’amalgama
eterogeneo del melting post, che, attraverso l’equilibrio tra tutela dei
diritti della persona e logica di inclusione comunitaria, resti esente dal
rischio di omogeneizzazione sociale e incomunicabilità tra culture.
L’urgenza
di dare vita ad un modello così intenzionalmente finalizzato è ancor più
avvertita se si considerano i numerosi casi giudiziari che, rendendo palese la
mancanza del basilare principio di certezza del diritto, evidenziano l’esigenza
di un dialogo tra istituzioni e culture, oggi assente.
A tal
proposito, è bene richiamare alla memoria una sentenza emessa dalla Supreme
Court nel 1967, e che molto fece discutere.
Protagonista
era una donna di religione ebraica ortodossa che, salita su una seggiovia priva
di sorveglianza assieme ad un amico, si vide costretta dalla vincolatività di
una norma del suo gruppo (che le vietava di trascorrere la notte con un uomo) a
gettarsi giù, in seguito ad una imprevista chiusura dell’impianto al tramonto,
così provocandosi gravi lesioni.
Il fatto che la Corte statunitense decise di
conferire il risarcimento alla vittima non per la mancanza di controllo
dell’impianto in moto, bensì per il salto volontario cui questa fu costretta,
evidenzia come un principio fondamentale quale quello della libertà individuale
sia entrato in contrasto, se non in subordine, rispetto a norme elitarie e
prive di valenza statale.
Ammettere,
come in questo caso, l’incapacità di prevedere l’applicabilità della norma
significa constatare il bisogno di fare dello Stato e delle sue istituzioni gli
elementi strutturali del corpo sociale, e in questo integrati.
Quel
che si sollecita è un vero e proprio rimodellamento del contesto che, facendo
leva sulle capacità potenziali di un territorio, realizzi una relazione
inclusiva tra le diverse entità del corpo sociale, ciascuna caratterizzata da
propri confini.
Quel
che nell’integrazione diventa fusione e, dunque, negazione della differenza,
nell’inclusione diventa preservazione dell’identità, pur nel riconoscimento
della reciproca appartenenza di elementi comuni alle entità sociali.
È
evidente che l’inclusione, vista quale frutto di una relazione piuttosto che di
un’identità a sé stante, presupponga la promozione di azioni di tutela delle
specificità, per le quali la città multietnica si presenta come il terreno di
interazione migliore.
Sfruttando
il potenziale comune alle diverse entità performative del corpo sociale e sullo
sfondo di una garantita legalità internazionale a tutela della dignità umana,
la città multietnica si pone come strumento ideale per porre fine all’affannosa
rincorsa all’integrazione spontanea e per impedire reazioni folli ad una
marginalità sociale oggi sempre più sofferta.
Processo mediatico e
difesa
della persona.
Giustiziainsieme.it
– Marco Dell’Utri – (07 MAGGIO 2022) – ci dice:
(Processo
mediatico e difesa della persona*)
L’antropologia
culturale invita a considerare la dimensione rituale o sacrale del processo, in
cui la violenza del conflitto è sublimata nel linguaggio.
Fuori dal contesto spazio-temporale del processo, la
violenza del conflitto deflagra, ‘scatenata’, pur conservando la propria intima
natura politico-culturale, e diviene, attraverso la progressiva
democratizzazione dei nostri sistemi, uno dei capitoli più rilevanti della c.d.
‘società dello spettacolo’.
Il
richiamo alla riflessione di Walter Benjamin, sull’opera d’arte nell’epoca
della sua riproducibilità tecnica, offre quindi lo spunto per un ripensamento,
lungo quelle coordinate, delle forme attraverso le quali la violenza del
conflitto processuale diviene, filtrata dalle logiche del capitale, un potente
strumento di repressione sociale.
Un’operazione a cui è dato rispondere,
individualmente, attraverso la rimeditazione, in chiave politica, della
protezione dei dati personali e, collettivamente, mediante l’impegno alla
trasmissione della cultura come assunzione cosciente di un debito
generazionale.
1.
Processo, ritualità, violenza.
La
comprensione dei modi attraverso i quali la comunicazione di massa agisce sul processo
richiede lo svolgimento di una riflessione di carattere preliminare, destinata
a mettere in luce i termini di una struttura processuale essenziale.
Non
aiuta, in questo senso, una certa (diffusa) inclinazione ‘produttivistica’
nella considerazione dei temi del processo.
L’accostamento
del processo all’idea della ‘produzione’ induce a guardarvi come a un’attività
servente o strumentale alla realizzazione di fini ad essa estranei; un impegno
vòlto, attraverso la tecnica giudiziaria, al compimento del prodotto, e dunque
del giudizio (la decisione, la sentenza), di regola chiamato a tradurre, in
termini matematici, uno dei principali indici di misurazione della produttività
del giudice.
Un’antica
tradizione di origine aristotelica – la cui più recente riscoperta ha
costituito un tratto essenziale di gran parte del pensiero etico-politico del
Secondo Novecento – invita a distinguere, della vita pratica dell’uomo,
l’attività produttiva (la poiesis, governata dalla techne) dalla prassi (la
praxis), avente se stessa quale propria finalità:
l’attività
per cui l’uomo pone la propria stessa azione come oggetto di un percorso di
graduale educazione e perfezionamento, attraverso il governo (non già della
‘tecnica’, bensì) della ‘saggezza’ (phronesis).
Produzione
e prassi (poiesis e praxis) valgono a distinguersi dunque in ciò, che il sapere
teorico generale di cui l’uomo dispone è destinato, nella produzione che si
avvale della tecnica (techne), a trasferirsi sulle cose allo scopo di
trasformarle in conformità ad esso;
per
cui il prodotto, come fine di per sé estraneo all’attività produttiva, diviene
lo specchio (o, meglio uno specchio) concretizzato del sapere teorico.
Nel
caso della prassi, governata dai canoni della saggezza (phronesis), il sapere
teorico generale è viceversa chiamato a combinarsi o a ‘contaminarsi’ con la
realtà, con le circostanze e le vicende del mondo, affinché sappia modificarle,
ma insieme anche lasciarsene modificare, sì da dar luogo a una nuova forma di
sapere capace, con saggezza, di coniugare, e tenere insieme, il generale e il
particolare.
Seguendo
il filo di queste linee argomentative, alla descrizione dell’attività
processuale sembra dunque convenire la qualificazione nei termini di una
prassi, ossia di una specifica attività pratica, governata dalla saggezza, che
ha fine in sé stessa.
Ogni
atto del processo è il giudizio stesso (in taluni contesti, ‘processo’ e
‘giudizio’ sono usati come sinonimi):
in realtà, il processo è il giudizio che si va
facendo in un tempo e in un luogo determinati, in una dimensione
spazio-temporale specificamente qualificata.
È
determinante la comprensione della circostanza per cui lo spazio e il tempo
giocano un ruolo costitutivo essenziale per la formazione e la realizzazione
del processo:
fuori da un certo spazio e da un certo tempo
non si dà alcun processo, né alcun giudizio.
Il
riferimento allo spazio e al tempo del processo non è qui (tanto) inteso nel
senso in cui l’essenzialità del luogo compare nella norma costituzionale sulla
‘naturalità’ del giudice (art. 25 Cost.), o nelle norme sulla competenza o
nell’istituto della rimessione o del c.d. legittimo sospetto (art. 45 c.p.p.).
Il
richiamo alla dimensione spazio-temporale del processo è piuttosto operato, ai
fini del discorso che si conduce, in relazione alla singolare concretezza
dell’udienza, intesa come spazio strutturato nelle forme di un particolare
arredamento e destinato ad essere vissuto in uno specifico tempo, che è il
tempo della presenza di soggetti che convengono ed agiscono in una forma
regolata.
L’accentuata
valenza simbolica della fenomenologia giudiziaria ci avverte che il processo
regolato dalla legge è un evento che accade, propriamente, nel luogo e nel
tempo di un ‘rito’:
la dimensione ‘rituale’ dell’attività
giudiziaria (di ‘rito civile’ o di ‘rito penale’ discorrono, di regola, gli
studiosi del processo) rivela (secondo quanto insegna da sempre l’antropologia
culturale) le forme di quell’essenziale (e irrinunciabile) meccanismo di
trasformazione, in simbolo, della violenza del conflitto:
in
breve, il processo opera la sublimazione e l’addomesticamento della violenza in
linguaggio.
In un
recente libro sulle ‘storie e le immagini del processo’ (scritto, nel quadro
dell’esperienza di studi del c.d. “Law and
Literature Movement”, da uno studioso del processo civile italiano) si
legge come costituisca «un dato acquisito all’antropologia culturale e
giuridica, la propensione di ogni collettività organizzata a risolvere le liti
tra i consociati, e a gestire le reazioni ai comportamenti antisociali,
trasferendo le une e le altre in una dimensione metaforica e in un mondo
artificiale strutturato, sotto ogni aspetto rilevante, come un dopo una gara.
E si potrebbe
dire che proprio questa, nelle cosiddette società primitive, è l’origine del
processo:
il quale consiste fondamentalmente
nell’utilizzare una struttura ludica agonistica (che, come tale, sarebbe fine a
sé stessa) in funzione della composizione di controversie e affari reali, cioè
per attuare finalità socialmente ed economicamente rilevanti».
Questo
addomesticamento del conflitto e della violenza in linguaggio trova un suo
corrispettivo, nel processo, nella cura delle parole e dei ragionamenti, nella
meticolosa e tradizionale abitudine del ceto dei giuristi di lavorare sulla
parola, sul senso logico delle proposizioni e delle argomentazioni e, infine,
sul rigore che lega il senso di queste argomentazioni al conforto delle
evidenze obiettive, delle prove, che si formano nello stesso processo.
La
formalizzazione in rito della violenza del conflitto rende l’accadimento del
processo un evento ‘grave’, a cui si addice la ‘gravità’ del tono dei
partecipanti; è un evento che vive della strutturale ‘pesantezza’ della
materialità dei gesti ripetuti e delle parole performative, ossia delle parole
che non sono primariamente destinate a comunicare un significato, bensì
direttamente a cambiare le cose, a fare, foucaultianamente, ‘cose con parole’.
La strutturale
gravità, la pesantezza, spesso l’incomprensibilità, per i laici, del processo,
nella ritualità delle sue forme, ci presenta i tratti di una rappresentazione
che, fuori dai suoi momenti di maggiore pregnanza emotiva (l’assunzione di una
particolare testimonianza; l’atto della lettura del dispositivo) diviene
financo noioso.
2.
Processo e riflessione storico-culturale.
Ma il
processo è anche il simbolo di una società che riflette sui suoi valori.
Il
riferimento corre in primo luogo, come può intuirsi, alla narrazione evangelica
del giudizio di Pilato e del Crucifige popolare.
E, prima ancora, all’esperienza di Socrate,
primo drammatico atto di un confronto, quello tra le esigenze realistiche della
politica e i più larghi orizzonti della cultura, tragicamente consumato lungo
il ‘dialogo’ del processo ateniese.
All’esperienza
del ‘giudizio’ e del ‘processo’ fu quindi successivamente legata la difesa di
quella cultura che la Chiesa aveva lungamente elaborato, conservato e diffuso
nei secoli interminabili della clausura monastica e della successiva
organizzazione universitaria.
La
storia dell’intolleranza e la lunga stagione delle guerre di religione, che
tanta parte avrebbero avuto nel disegno dei confini europei, non solo politici,
toccano e attraversano la vicenda giudiziaria dell’Inquisizione, consegnando
all’orizzonte della ricognizione storica la testimonianza di significative
esperienze giudiziarie, di cui gli esempi di ‘intellettuali’ come Tommaso
Campanella o Giordano Bruno costituiscono una fedele attestazione.
Nel
medesimo arco di tempo, ma nel contesto di un’esperienza storica e culturale
del tutto diversa, si collocano le vicende della condanna subita da Tommaso
Moro, cui occorre risalire per la ricostruzione dei momenti determinanti del processo
di consolidamento dell’autonomia politica britannica e della tradizione
ecclesiastica anglicana.
Di un
altro celebre ‘processo’ - violentemente condotto ed amaramente concluso con il
rinnegamento e l’umiliante abiura galileiana – occorre dire, là dove l’esempio
di un contesto giudiziario impaziente, ed insofferente al dialogo scevro da
pregiudizi, assurge a simbolo del contrasto irriducibile e dell’insanabile
conflitto tra il dogmatismo religioso e le orgogliose pretese del pensiero
scientifico nascente.
È
ancora la sommarietà del processo e, simbolicamente, i suoi terribili strumenti
di esecuzione, ad occupare la scena sanguinosa della stagione del ‘Terrore’ e
dell’intransigenza giacobina, nel quadro di quella trasfigurazione radicale che
fu la rivoluzione borghese, sul piano della riorganizzazione politica, del risveglio
delle coscienze popolari, della prima stagione europea della
costituzionalizzazione dei ‘diritti naturali’, che solo pochi anni prima aveva
conosciuto, sul suolo nordamericano, il proprio battesimo storico.
La
rapida ricognizione (evidentemente incompleta, e certamente suscettibile di
arricchimenti non meno significativi), intessuta di momenti così cruciali della
storia del pensiero e della cultura occidentale, nel loro incontro con il luogo
del processo ed, alla fin fine, con il loro ‘giudice’ (dove questi - lungi
dall’identificarsi con l’individualità della sua persona - appare più spesso
intuito come l’espressione soggettiva della cultura del proprio tempo), invita
a riflettere sul dato, storicamente ricorrente, costituito dall’esigenza,
talora dalla tentazione irresistibile, del potere, di ricorrere
all’organizzazione del ‘giudizio’, ed alla elaborazione dialettica del
confronto, là dove le urgenze della storia impongono la necessità di una
possibile conferma dell’esistente (talora trepidamente cercata, più spesso
violentemente imposta), ovvero la disponibilità all’umile ricezione ed al
successivo consolidamento di un ‘nuovo’ pensiero.
In
ogni caso, il ricorso al processo appare storicamente alimentato (a fronte
dell’incessante violazione dell’ordine costituito) da una continua tensione,
connaturata al sistema politico, di ‘ricapitolazione’ del ‘senso’ dei propri
valori (normativamente espressi); degli stessi disponendo, di volta in volta,
la conferma, la revisione, l’aggiornamento, l’annuncio della caduta, sulla via
di una possibile, ma sempre precaria ed incerta, ‘stabilizzazione’.
Dunque,
ogni società organizza il suo processo come luogo che è, accanto ed oltre al
giudizio sui fatti, anche una forma di laboratorio culturale ed etico-politico.
La
valenza politica del processo richiede che del processo socialmente si parli e
che del processo si dia notizia;
che lo si ponga a oggetto di discussione e su
cui sia opportuno si formino opinioni.
A
testimonianza di questa osservazione varrà richiamare il contributo fornito
dalla storia della cultura, là dove ci insegna come la figura moderna
dell’intellettuale sia nata e si sia affermata, in corrispondenza al cosiddetto
affaire Dreyfus, ai margini di un processo giudiziario.
Il
significato e il valore di quella vicenda chiedono d’essere ricercati nella
rottura (che il J’accuse di Zola ebbe plasticamente e clamorosamente a
rappresentare) degli argini politico-istituzionali, entro i cui confini una
lunga tradizione politica e culturale aveva rinchiuso la ricerca ‘dialettica’
di quella ‘stabilizzazione culturale’ che il processo aveva, talora,
simbolicamente rappresentato, e le clausure dell’accademia garantito, nel segno
di una riconoscibile vocazione elitaria della cultura.
Nell’ambito
di quell’esperienza occasionata dal processo, la ‘pubblicizzazione’ e la
diffusione popolare del dialogo sui temi di più rilevante impegno etico
politico e sociale, ad opera dei più noti scrittori e ‘intellettuali’ del
tempo, valsero a segnalare l’esigenza - ormai non più eludibile - di una più
larga ‘partecipazione’ collettiva ai processi di formazione e di consolidamento
dell’ancora incompiuta e balbettante democrazia francese, nel passaggio tra la
fine dell’Ottocento e l’inizio del secolo appena trascorso.
Tradotta
nei termini di un discorso storicamente e culturalmente più impegnativo, la
notazione assume un suo preciso valore ove si connettano il piano del
coinvolgimento politico dell’intellettuale e del pubblico esercizio critico sui
temi connessi all’attualità, a quello dell’allargamento degli spazi di
partecipazione politica delle masse;
là dove il dibattito suscitato dall’ “home de lettre”
nell’ambito più vasto dell’‘opinione pubblica’, sottraendo l’esclusività della
funzione di ‘laboratorio morale’ della comunità alle clausure dell’accademia,
si offre quale occasione di approfondimento della partecipazione democratica
collettiva.
In
questo senso, l’orientamento repressivo rivelato dalle esperienze processuali
più sopra ricordate, fino al tornante della Rivoluzione francese, tende ad
attenuarsi e a stemperarsi nella progressiva realizzazione delle garanzie di
libertà e di rispetto della persona implicate dall’organizzazione delle moderne
entità statuali.
In
queste, la stessa esigenza (più o meno avvertita nel tempo e nello spazio)
della preservazione dell’autonomia e dell’indipendenza del potere giudiziario
da quello politico pone le premesse di una progressiva trasformazione
dell’attività giudiziaria, là dove il processo ‘democratico’ tende a divenire,
da ‘luogo’ della repressione formalizzata, lo ‘spazio’ delle ‘ragioni degli
altri’ nell’interpretazione dei valori comuni.
Uno
spazio che acquista il suo senso financo nell’ascolto, solo apparentemente
paradossale, che si fa dolente comprensione dell’inaccettabile inclinazione al Male
degli uomini condotti al crocevia di Norimberga.
3.
Processo, democrazia e società dello spettacolo.
Rinunciare
all’apertura pubblica dei processi, al valore democratico della partecipazione
popolare ai temi processuali, significherebbe ormai, nel contesto della cultura
contemporanea, rinnegare i presupposti di un percorso di civiltà politica e
culturale.
È
sufficiente, a voler esemplificare il significato di simili asserzioni,
l’osservazione delle più recenti vicende politiche internazionali e, in
particolare, le notizie sul divieto diffuso in Turchia (non solo di riprendere
attraverso telecamere o macchine fotografiche, bensì) di disegnare durante i
processi: un fatto destinato a fornire una spiegazione molto eloquente
sull’essenzialità, in chiave democratica, della comunicazione delle stesse
immagini del processo.
Il
modo attraverso il quale il processo viene comunicato pubblicamente è, nel
nostro tempo, quello che (occorre dire, strutturalmente, e quindi
inevitabilmente) ha finto col provocare l’inevitabile e progressiva (ma in
larga misura, già compiuta) ‘desacralizzazione’ degli atti della giustizia.
Si
tratta di un’operazione che può ritenersi il portato proprio della società
dello spettacolo, di quella società che lo stesso Guy Debord aveva definito,
negli anni Sessanta, come la società in cui i rapporti tra gli individui sono
mediati da immagini.
Il
processo di desacralizzazione degli atti della giustizia (che, in ultima
analisi, si traduce nella sottrazione del processo alla sua materia sacrale,
ossia al suo specifico luogo fisico e al tempo storico della ‘presenza’
infungibile dei suoi attori), avviene dunque attraverso la mediazione
dell’immagine del processo.
Si
tratta, tuttavia, di un’immagine che, per poter essere veicolata socialmente,
per poter catturare l’attenzione e dunque l’interesse dei suoi destinatari,
richiede di essere filtrata, manipolata, spogliata di tutti i suoi vestimenti
rituali che la rendono grave, pesante, noiosa e incomprensibile, per sottoporla
a un processo di semplificazione, di adattamento al consumo, e dunque a quel
confezionamento che è esattamente il prodotto circolante nell’industria
mass-mediatica.
Naturalmente,
si tratta di prodotti di varia natura e di diversa destinazione, poiché
l’adattamento del processo alle esigenze della comunicazione di massa cambia a
seconda dello scopo della comunicazione:
dall’informazione in sé (un telegiornale o un
rotocalco di approfondimento civile o politico), alla rappresentazione del
processo come forma di spettacolo.
Si
tratta di operazioni che, in termini strettamente industriali, vanno da una
minore ‘raffinazione’ (secondo lo stile, ad esempio, di un programma come Un
giorno in pretura, in cui le fasi del processo vengono riprese e riproposte in
modo diretto, sia pure attraverso un lavoro di taglio e di rimontaggio guidato
dalle spiegazioni della conduttrice), ad altre forme assai più elaborate, in
chiave produttiva, in cui, per lo più a fini di intrattenimento (o di
infotainment, secondo il neologismo che designa il progetto di mescolare, in un
unico contenitore, informazione e intrattenimento), si tenta di ‘ripetere’ o di
‘rifare’ il processo attraverso il ricorso ad altre forme ed altri strumenti.
In
ogni caso, si tratta di trasformare il processo in ‘qualcosa’ di
sostanzialmente diverso dal processo, poiché quel ‘qualcosa’, strappando il
processo al suo tempo e al suo spazio, ne ha disincarnato l’essenza.
È
agevole comprendere questo aspetto di disincarnazione del processo dalla sua
‘essenza sacrale’ attraverso l’evocazione di quelle situazioni in cui, ad
esempio, un testimone o la vittima di un determinato reato (si pensi a una
violenza sessuale, o anche alla richiesta di rievocazione di momenti
particolarmente dolorosi per chi è chiamato a narrarli) viene chiamato dal
giudice ad ‘entrare nei particolari’, a precisare la descrizione di momenti o situazioni
peculiari, talora vincendo o superando le comprensibili resistenze, i pudori e
a volte la stessa sorpresa del proprio interlocutore, impreparato a entrare,
pubblicamente, in un discorso per definizione ‘osceno’.
L’oscenità
di cui si parla è qui intesa nel senso di ciò che, per consuetudine, dovrebbe
rimanere lontano dallo sguardo, e la cui esibizione rimanda con immediatezza a
una sensazione di violenza, naturalmente connessa alla sua immagine.
Qualcosa
che per sussistere necessita dell’oscurità e del silenzio come del suo ambiente
naturale;
che,
se esibita impudicamente, non può che veder compromessa e corrotta la propria
natura.
Vi sono sguardi che bruciano ciò che vedono e
rispetto ai quali il pudore ha il senso di una difesa essenziale.
Quei precisi
e delicati momenti del processo (di per sé destinati a contribuire alla
ricostruzione dei fatti, solo in questa misura giustificando il potere del
giudice o dei difensori di entrare in una sfera altrimenti inaccessibile)
diviene, in quel ‘qualcosa’ che è l’immagine spettacolare del processo,
pettegolezzo, irriverenza, simulacro di un’autorizzazione all’invasione della
vita e dei sentimenti altrui, al solo scopo di un compiacimento fine a se
stesso (ossia di un puro consumo a fini di evasione).
Diventa
violenza nuda.
Questa
specifica disincarnazione del processo dalla sua essenza di frammento
spazio-temporale (ossia di un fenomeno che ha un senso solo nel luogo e nello
spazio che lo ospita e nella ‘presenza’ formalizzata dei suoi attori)
determina, come fatto più grave (sotto il profilo del rispetto della persona),
la spoliazione di tutti i protagonisti del processo della loro ‘veste’
processuale, e dunque del loro valore di protagonisti di un rituale di
esorcizzazione della violenza che, non più sublimata nel linguaggio e nelle
forme della sua rappresentazione simbolica, si ‘scatena’ in tutta la sua cruda
naturalità e chiede di parteciparvi.
Il
grumo di violenza ritualizzata in cui consiste il processo assume, fuori dalle
sue forme regolate, la fisionomia della violenza ‘scatenata’, del conflitto
senza limiti.
Si
tratta della rappresentazione per immagini della pura aggressività in cui la
richiesta di partecipazione è, propriamente, quella che invita a ‘schierarsi’
secondo la variabile configurazione delle tonalità emotive che
(inevitabilmente) prevalgono sul distacco del pensiero logico-critico.
Il
disvelamento della violenza del processo al di fuori dei suoi confini rituali
porta con sé la conseguenza per cui ogni sofferenza e ogni debolezza personale
(nessuna esclusa, dalla sofferenza della vittima colpita nella sua intimità, a
quella dell'imputato spogliato di ogni sua riservatezza, a quelle degli stessi
professionisti, i difensori o il giudice, inevitabilmente soggetti a errori, a
cadute o insufficienze) si trova adesso gettata, nuda e indifesa, in un ruolo di protagonista di un
fenomeno (l'immagine circolante del processo) naturalmente violento, totalmente
governato dagli obiettivi e dagli interessi dei suoi produttori, ossia degli
‘editori’ dello ‘spettacolo-giustizia’.
Converrà
ammonire come i fenomeni descritti non vadano necessariamente ascritti
all’espressione di una scelta di tipo banalmente speculativo, trattandosi di
epifenomeni strutturali tipici dei modelli di società, come la nostra, che
organizza le forme della produzione secondo una struttura di tipo
capitalistico, e che si avvale di elevati livelli di sofisticazione tecnologica
nelle modalità della comunicazione in un contesto politico di tipo democratico.
La
natura strutturale e, dunque, il carattere inevitabile del fenomeno legato alla
produzione delle immagini del processo destituisce di qualunque significato
ogni eventuale scopo politico destinato a combatterlo o ad eliminarlo;
una
simile opzione, infatti, equivarrebbe a negare, e in qualche misura a tradire,
il senso stesso delle radici di quella stessa cultura civile e democratica,
lungamente costruita e faticosamente realizzata nel tempo.
Assume
piuttosto valore, da questa prospettiva, l’analisi del senso di tale sviluppo
storico e l’indicazione delle tracce che valgano a prefigurare una possibile
combinazione tra la necessità sociale del processo e l’inclinazione strutturale
alla pervasività propria della comunicazione di massa.
4. Il
processo nell’epoca della sua riproducibilità tecnica.
Nel
corso della seconda metà degli anni Trenta, Walter Benjamin scrisse il saggio “L’opera
d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”, ponendosi l’obiettivo di
analizzare – nei termini di un’argomentazione largamente dominata da premesse
teoriche d’indole marxiana – il destino dell’opera d’arte, e dell’esperienza
della sua fruizione, nel tempo governato dall’operatività di strumenti
tecnologici idonei ad assicurare la riproducibilità di quell’opera in forme
materiali concretamente capaci di raggiungere un numero illimitato di fruitori.
Là
dove, in precedenza, l’esperienza contemplativa legata all’ascolto di un
concerto, o alla visione di un quadro, di una statua, di una rappresentazione
teatrale, esigeva la contemporanea presenza dell’opera, dei suoi esecutori e
del fruitore in un medesimo contesto spazio-temporale (la sala del concerto, il
museo espositivo, il teatro), adesso il disco, la fotografia o il film, valgono
a ricostruire in modo totalmente sovvertito le modalità del contatto del
singolo fruitore con l’opera (o, meglio, con la sua riproduzione) in una forma
totalmente dislocata nello spazio e nel tempo, in un luogo privato e in un
momento arbitrariamente prescelto, dove l’esperienza contemplativa, totalmente
allontanata dalla materialità o dalla concreta ‘presenza’ dell’originale
dell’opera, assume connotati che s’intuiscono radicalmente sovvertiti.
Anche
“nel caso della riproduzione più perfetta, manca un elemento: l’hic et nunc
dell’opera d’arte - la sua esistenza unica è irripetibile nel luogo in cui si
trova”.
Le
modificazioni delle circostanze indotte dalla riproduzione tecnica dell’opera
“possono anche lasciare intatta la consistenza intrinseca dell’opera d’arte -
ma in ogni modo determinano la svalutazione del suo hic et nunc” e, dunque, “la
sua autenticità.
L’autenticità
di una cosa è la quintessenza di tutto ciò che, fin dall’origine di essa, può
venir tramandato, dalla sua durata materiale al suo carattere di testimonianza
storica.
Poiché quest’ultima è fondata sulla prima,
nella riproduzione, in cui la prima è sottratta all’uomo, vacilla anche la
seconda, il carattere di testimonianza storica della cosa.
Certo, soltanto questa;
ma ciò che così prende a vacillare è
precisamente l’autorità della cosa, il suo peso tradizionale.
Questi
tratti distintivi possono essere riassunti nella nozione di aura; e si può dire:
ciò che viene meno nell’epoca della riproducibilità tecnica dell’opera d’arte è
la sua aura”.
La
tecnica della riproduzione “sottrae il riprodotto all’ambito della tradizione.
Moltiplicando la riproduzione, al posto del suo esserci unico essa pone il suo
esserci in massa.
E permettendo alla riproduzione di venire
incontro a colui che ne fruisce nella sua particolare situazione, attualizza il
riprodotto.
Ma il significato sociale, anche nella sua
forma più positiva, e anzi proprio in questa, non è pensabile senza quella
distruttiva, catartica: la liquidazione del valore tradizionale dell’eredità
culturale”.
All’interrogativo
su cosa sia l’aura in realtà, Benjamin risponde: “una singolare creazione
spazio-temporale: apparizione unica di una lontananza, per quanto questa possa
essere vicina.
Seguire,
in un pomeriggio d’estate, una catena di monti all’orizzonte oppure un ramo che
getta la sua ombra su colui che si riposa - ciò significa respirare l’aura di
quelle montagne, di quel ramo.
Sulla
base di questa descrizione è facile comprendere il condizionamento sociale
dell’attuale decadenza dell’aura.
Essa si fonda su due circostanze, entrambe
connesse con la crescente importanza delle masse e la crescente intensità dei
loro movimenti.
E
cioè: rendere le cose, spazialmente e umanamente, ‘più vicine’ è per le masse
attuali un’esigenza vivissima, quanto la tendenza al superamento dell’unicità
di qualunque dato mediante la ricezione della sua riproduzione.
Ogni
giorno si fa valere in modo sempre più della sua riproduzione”.
L’aspetto
positivo dell’universalizzazione dell’esperienza dell’arte attraverso la sua
riproduzione tecnica è rappresentato, per Benjamin, dalla politicizzazione
della sua essenza che sancisce la fine della sua autorità sacrale e metafisica:
“per
la prima volta nella storia del mondo la riproducibilità tecnica dell’opera
d’arte emancipa quest’ultima dalla sua esistenza parassitaria nell’ambito del
rituale.
In misura sempre maggiore l’opera d’arte
riprodotta diventa la riproduzione di un’opera d’arte predisposta alla
riproducibilità.
Di una
pellicola fotografica, per esempio, è possibile tutta una serie di copie;
chiedersi quale sia la copia autentica non ha senso.
Ma
nell'istante in cui nella produzione dell’arte viene meno il criterio
dell’autenticità, si trasforma anche l’intera funzione dell’arte.
Al
posto della sua fondazione nel rituale s’instaura la fondazione su un’altra
prassi: vale a dire il suo fondarsi sulla politica”.
5.
Processo, consumo e repressione sociale.
Il
lettore avrà agevolmente compreso lo stretto nesso di corrispondenza analogica
che si è inteso istituire, attraverso la riflessione di Walter Benjamin, tra
l’esperienza ‘auratica’ dell’opera d’arte e la partecipazione al processo
giudiziario nella forma della ‘presenza’, e dunque secondo la sua dimensione
propriamente sacrale o rituale.
Converrà
seguire sin nelle sue più profonde implicazioni il significato della
sostanziale sovrapponibilità dei processi storico-culturali che hanno
progressivamente trasformato, attraverso la moltiplicazione e la diffusione
delle relative immagini, l’aspetto sacrale e autoritario – e dunque l’aura –
dell’opera d’arte (e del processo giudiziario) in un rapporto di massa.
La
dissacrazione e la destituzione dell’autorità auratica hanno senso, sul piano
storico-culturale, unicamente là dove la riproduzione e la diffusione
dell’immagine a beneficio delle masse riesca nell’intento di realizzare il
proprio scopo specificamente politico;
ciò che si traduce nell’estensione della
partecipazione democratica, tanto nei confronti dell’esperienza estetica,
quanto della riflessione collettiva sul processo giudiziario come momento di
rielaborazione storico-culturale. Ma in una società in cui i rapporti tra i
singoli appaiono largamente informati, o compromessi, dagli interessi del
profitto, la strumentalizzazione a fini commerciali dell’immagine dell’opera (o
del processo) finirà con lo sterilizzarne la dimensione propriamente politica,
frustrandone definitivamente gli scopi, con la realizzazione del vantaggio
(commerciale) di pochi e la negazione dell’accesso della massa al senso proprio
dell’opera come forma comunicativa, o del processo come laboratorio
etico-politico.
Con
specifico riferimento all’esperienza cinematografica, Benjamin osserva come il
controllo della dimensione politica di quella forma comunicativa potrà aver
luogo unicamente “quando il cinema si sarà liberato dalle catene del suo
sfruttamento capitalistico.
Infatti, attraverso il capitale
cinematografico le opportunità rivoluzionarie di questo controllo vengono
trasformate in controrivoluzionarie.
Il culto del divo da esso promosso, non solo conserva
quella magia della personalità che già da tempo è ridotta alla magia fasulla
propria del suo carattere di merce, ma il suo complemento, il culto del
pubblico, contemporaneamente promuove quella corruzione dello stato d’animo
della massa che il fascismo cerca di mettere al posto della coscienza di
classe.
[…] In
questa situazione, l’industria cinematografica ha tutto l’interesse a
imbrigliare, mediante rappresentazioni illusionistiche e mediante ambigue
speculazioni, la partecipazione delle masse. […]
L’industria cinematografica ha tutto
l’interesse a pungolare la partecipazione delle masse attraverso ambigue
speculazioni.
A tale
scopo ha messo in movimento un imponente apparato pubblicistico: ha messo al
suo servizio la carriera e la vita amorosa dei divi, ha organizzato plebisciti,
ha indetto concorsi di bellezza.
Tutto
questo al fine di falsare, per via corruttiva, l’originario e giustificato
interesse delle masse per il cinema, un interesse per la conoscenza di sé e
pertanto anche per la conoscenza della propria classe. […]
Un
bisogno innegabile di nuove condizioni sociali viene segretamente sfruttato
nell’interesse di una minoranza possidente”.
Commercializzare
la circolazione dell’immagine del processo assume dunque il significato della
frustrazione dei suoi contenuti politici, per enfatizzarne la dimensione
meramente emotiva, attirando le masse su ciò che ne deprime le capacità di
crescita morale e culturale, e rafforzandone gli aspetti di strutturale
debolezza istintiva.
Si
tratta di un’operazione che si risolve in una grave forma di repressione
collettiva (storicamente qualificabile in chiave tradizionalista o
reazionaria):
la
trasformazione di un’esperienza politica in una forma di evasione e, dunque, a
sua volta, la canalizzazione di energie politiche di natura critica in
soluzioni di continuità comunicativa destinate a dissolvere le spinte del
desiderio collettivo in singoli gesti di puro consumo.
6.
Processo mediatico e trattamento dei dati personali.
Le
riflessioni sin qui rapidamente raccolte sembrano suggerire la necessità di
orientare la difesa del processo attraverso la preliminare demistificazione di
ogni forma di riproduzione mediatica che, lungi dal proporre costruttivamente
una sincera discussione collettiva sul significato del conflitto che si muove
all’interno del processo, si risolve tutt’al contrario, in una sterile
riproduzione, fine a se stessa, della violenza di quel conflitto nella sua
cruda immediatezza, spogliata di ogni forma di sublimazione simbolica.
Da
questa prospettiva, si tratterebbe preliminarmente di consolidare, quando non
di promuovere, le forme (più o meno) istituzionalizzate di pedagogia
deontologica e culturale dei protagonisti del processo, ivi compresi i
professionisti della comunicazione mediatica, affinché sappiano comprendere, in
ciò di cui il processo si sostanzia, il distinto significato della dimensione
politica del conflitto, rispetto a tutto ciò che è meramente privato o
incidentale;
gli aspetti o i contenuti critico-dialettici
del processo (sotto il profilo del significato e del valore delle regole in cui
la comunità intende ancora riconoscersi o non riesce più a identificarsi),
rispetto alla dimensione della vita meramente personale che, al di fuori dello
stretto circuito dell’indagine o del processo, non può e non deve destare o
alimentare alcuna diversa forma di curiosità.
Seguendo
la prospettiva della difesa della persona, il limite che occorre saper
rinvenire, tra le prerogative della comunicazione di massa riferita al
processo, sembra dunque identificarsi nel principio per cui deve ritenersi
sottratto, alla legittimazione della partecipazione collettiva (di massa) al
processo, ogni aspetto della vicenda processuale che, superando i confini di
quel campo critico-dialettico rilevante sotto il profilo etico-politico, si
insinua negli spazi squisitamente privati e personali dei protagonisti del
processo;
spazi
che, se eccezionalmente si giustificano in ragione delle esigenze ricostruttive
del giudizio, fuori da quello finirebbero col costringere i suoi protagonisti
ad agire su un territorio che ad essi non può, né deve, appartenere.
Converrà
sottolineare come non si tratti qui di proporre una selezione a priori degli
argomenti destinati a entrare nel campo della legittima discussione pubblica
del processo (un discorso difficile o delicato da condurre in relazione alla
pienezza della libertà di manifestazione del pensiero, nella sua dimensione di
cronaca o di critica dei fatti della vita sociale), quanto piuttosto di
procedere a uno studio accurato della disciplina che attiene al governo e alla
protezione dei dati personali che, acquisiti dal (e nel) processo, vengono
variamente trattati dai diversi agenti della comunicazione mediatica.
L’attitudine
propria del sistema della protezione dei dati personali (secondo lo stile della
disciplina che la codificazione italiana ha recepito dall’originaria normativa
europea e ancora di recente rivisitata in una chiave di armonizzazione
continentale è quella del continuo e necessario ‘bilanciamento concreto ’ tra
prerogative o interessi in conflitto; da questo punto di vista, la dimensione
della ‘politicità’ delle informazioni contenute nei dati destinati alla
circolazione riferita al processo può costituire un criterio decisivo nella
risoluzione delle questioni che, di fronte alla contestazione degli
interessati, di volta in volta sono condotti all’attenzione del giudice.
7.
Sulla trasmissione della cultura.
Un’analisi
più puntuale o approfondita di temi che appaiono rivestiti di una simile
delicatezza e profondità di implicazioni rimane, naturalmente, del tutto estranea
ai limiti del discorso che si conduce.
Potrà
ragionevolmente destare talune perplessità l’idea di consegnare le forme della
tutela della persona, in relazione alla circolazione pubblica delle
informazioni sul processo, all’iniziativa dei singoli interessati, consapevoli
dei sacrifici e della carica di violenza cui la rappresentazione pubblica
inevitabilmente li espone.
L’osservazione
della realtà quotidiana offre, sempre più spesso, l’esempio di sconsiderate
disponibilità di parti, testimoni, familiari di questi, o dei loro difensori,
alla partecipazione (talora retribuita) a forme banalmente spettacolarizzate di
vicende giudiziarie.
Si
tratta di esperienze che assumono, per lo più – quando non inserite in
sofisticati disegni di strategia difensiva – il significato di un’occasione di
facile guadagno o, in termini più desolanti, di una sorta di garanzia di
esistenza certificata dall’esposizione incontrollata alla generalità.
Di
fronte a fenomeni di questa natura, lungi dal congetturare impensabili forme di
‘indisponibilità’ della persona, della propria esperienza esistenziale o delle
forme della sua rappresentazione (una soluzione da ritenere di per sé
inaccettabile già sul piano della riflessione costituzionale), non resta che
affidarsi all’impegno nell’educazione civile, al lavoro condotto nell’umile
quotidianità delle nostre scuole, alla cura sollecita del futuro dei nostri
giovani.
Si è
tentati di domandarsi, in tempi di crisi dell’associazionismo giudiziario, se
la trasmissione della cultura non sia, in fondo, oltre ogni legittima
preoccupazione per il destino degli organismi che ne esprimono il governo sul
piano istituzionale, il senso ultimo dell’impegno civile di quelle donne e di
quegli uomini che, alle fortune della ‘città’, hanno inteso dedicare la propria
cura;
e
all’arte dell’incontro – a cui il senso del diritto infine rimanda – un tempo
non breve della propria vita.
(* Il
testo riprende e completa la relazione svolta nel corso del convegno Processo
mediatico e presunzione di innocenza, tenutosi a Roma, presso l’Istituto Dante
Alighieri, il 1° aprile del 2022, e dell’occasione colloquiale conserva, in
larga misura, i toni e lo stile.)
L’ETERNO
RITORNO DELLA TIRANNIDE.
DALLA
REALTÀ ANALOGICA
A
QUELLA VIRTUALE.
Leussein.eurom.it
– Angela Arsena – (10-5-2020) – ci dice:
(VOL. XIII - 2020) -Ogni governo tirannico ha sempre
preteso il controllo assoluto sin nelle stanze del privato e in questo senso
appartiene ad una realtà storica primitiva, tribale e a-democratica.
Si cercherà qui in prima istanza di analizzare
i caratteri tribali e violenti delle vecchie e delle nuove comunità virtuali
mostrando come il villaggio-Web, ancorché globale, lontano dalle dinamiche di
un’autentica Polis democratica, non sia automaticamente libero e immune dai
pericoli della tirannide e del totalitarismo.
Si
tratta di una riflessione sulle dinamiche educative e politiche che ruotano
attorno alla consapevolezza che il villaggio globale, inteso come realtà
iperconnessa, possa rivelarsi, al pari delle primitive realtà umane anteriori
alla Polis, una realtà chiusa, a tratti tribale e a rischio tirannide digitale,
con i nuovi provider (Facebook, Google, ecc.) che, come nuovi sovrani,
autorizzano, determinano o negano l’esistenza altrui, determinando o negando la
possibilità di una identità digitale:
lo
stare al mondo contemporaneo, infatti, coincide sempre più con lo stare in Rete
e questo stare in Rete assomiglia talvolta alla condizione di una perpetua
sottomissione ad un tiranno.
1.
PRODROMI STORICI E METAFISICI DELLA TIRANNIDE.
Racconta
Cicerone che il tiranno Dionigi I di Siracusa aveva adibito una latomia come
carcere per prigionieri politici:
questa grotta, simile ad un lungo e alto
corridoio nella roccia adiacente al Teatro, sarà non a caso battezzato in
seguito dal pittore Caravaggio Orecchio di Dionisio sia per la sua arcata
esterna a forma di padiglione auricolare e sia perché il tiranno pare
approfittasse dell’ottima acustica delle pareti per ascoltare i discorsi
sediziosi dei prigionieri, individuando così quelli più pericolosi per poter
procedere subito a sentenze capitali efficaci, esemplari e, soprattutto,
tempestive.
Una
leggenda più tarda, ma scarsamente documentata, ci dice che il tiranno
siracusano avesse anche l’anomala abitudine di graziare solo coloro che
sapessero dare prova di recitare interamente una delle grandi tragedie del
repertorio teatrale greco:
non
sapremo mai quanto fossero colti e preparati i prigionieri rinchiusi
nell’Orecchio di Dionisio, ma possiamo immaginare che, data l’altissima
prestazione richiesta, alla fine fossero veramente in pochi a salvarsi.
Questi
aneddoti mostrano alcune caratteristiche del prototipo del tiranno che verrà
descritto da Diodoro Siculo, da Aristotele e da Plutarco i quali si soffermeranno
sulla
figura di Dionigi come archetipo e «terribile ammonimento per i posteri»,
insistendo su alcuni aspetti ricorrenti nell’ideal-tipo del tiranno in generale
e del tiranno greco (o delle colonie greche) in particolare.
Questi
particolari tipici della personalità del tiranno e che pare fossero presenti in
Dionigi, sono riconducibili ad un quadro d’insieme caratterizzato da
atteggiamenti quali la paranoia che sfociava nel timore continuo di essere in pericolo
e di essere potenziale vittima di complotti e la volontà di mettere in atto
tecniche di sorveglianza continua e coatta dove ogni parola, anche detta a
bassa a voce e in prigione, avrebbe potuto essere intercettata e diventare capo
d’accusa.
A questi si aggiunge l’ansia di potere che
sfociava nel desiderio di un monopolio sulla polis o su una regione intera:
non a caso Platone(nelle cui pagine tuttavia Karl
Popper individuerà i prodromi di tutte le ideologie totalitarie) assimilerà la figura del tiranno ad
un animale feroce: “da buon cane pastore del popolo si trasforma in lupo
spietato” egli scrive nella Repubblica e con il lupo il tiranno condivide lo
schema identitario che è fondato su una sostanziale privazione di libertà in
senso metafisico ed esistenziale.
Entrambi
(il tiranno e il lupo) sono infatti schiavi delle proprie paure e delle stesse
bramosie: «chi è realmente tiranno è realmente schiavo».
La
schiavitù è reale, tangibile, riconducibile allo stile di vita («temere la
folla ma temere anche la solitudine, temere di restare senza guardie e allo
stesso tempo temere chi è di guardia, non desiderare di vedere intorno a sé
persone armate ma neppure desiderare di vederle disarmate» dice il tiranno
Ierone nella riflessione di Senofonte sulla tirannide15) ma è schiavitù anche
impalpabile e morale: il tiranno, ricorda sempre Senofonte, vive (male, diremmo
noi) «come se fosse stato condannato a morte dall’umanità intera a causa delle
ingiustizie commesse, così vive il tiranno, notte e giorno», e questa continua
tensione accompagnata dalla pleonexia, dall’eccesso, o dalla fame di eccesso,
dalla fame di potere rappresentano il peccato originale della tirannide.
Una
miscela di paura e di ingordigia che inoculata lentamente, come un farmaco che
si trasforma in veleno, viene lentamente assunta nell’organismo democratico che
sembra allevare al suo interno il figlio massimamente degenere: il popolo nutre il tiranno, scrive
Platone, e «il popolo che ha generato il tiranno, poi manterrà lui e la sua
corte».
Si
tratta di una consapevolezza che attiene la sostanza della materia politica,
ovvero la sostanza della convivenza e della buona convivenza nella polis, ma
attiene anche la forma, ovvero le parole, la nomenclatura diremmo: Platone è
qui chiarissimo e descrive proprio questa degenerazione linguistica che permuta
e muta sin nel nerbo e nei gangli le parole, inficiandone il significato,
modificandole ed esautorandole di senso.
La mutazione politica dalla democrazia alla
tirannide è mutazione che avviene all’inizio nell’ordine linguistico e
successivamente nell’ordine fattuale delle cose e della realtà.
Come
una lenta mutazione genetica, diremmo: del resto se la democrazia coniuga il
gesto politico con il gesto verbale, essendo l’arte del discorso e se, come
scrive Gustavo Zagrebelsky, le parole della politica sono parole di per sé
ambigue perché strumentali, in quanto parole del potere per il potere, e dunque
prestano il fianco ad ogni manipolazione, allora se seguiamo il deterioramento
e lo sgretolamento del significato dei termini e dei concetti si può
efficacemente registrare lo sgretolamento della democrazia e parimenti si può
intravedere il suo lento scivolare nel totalitarismo.
Infatti,
secondo Platone quando la libertà diventa licenza, quando la tracotanza diventa
buona educazione, quando l’anarchia viene detta libertà, la dissipazione del
denaro pubblico viene detta liberalità e l’impudenza diventa coraggio allora la
democrazia sfocia nella tirannide per un eccesso di bene e per un desiderio
smodato, per una sete insaziabile di quel bene:
a mio
giudizio quando uno Stato democratico, nella sua sete di libertà, si trova ad
essere accudito da cattivi coppieri, bevendo di questa libertà allo stato puro
e più del lecito, se ne ubriaca.
La
consapevolezza della potenziale degenerazione della libertà e del potere del
popolo in schiavitù o in potere di uno solo, ovvero la consapevolezza di questo
slittamento dalla democrazia alla tirannide, sembra sia appartenuta in
particolare agli Ateniesi (maestri di democrazia) i quali pare siano stati in
grado di maturare (soprattutto dopo l’esperienza della tirannide dei
Pisistratidi) una vera e propria tiranno fobia nei confronti di quei politici
che ostentavano atteggiamenti tali da suggerire quanto «ambissero alla
tirannide»:
anche
se consapevoli pragmaticamente che un eccesso di paura avrebbe potuto condurre
a valutazioni errate (e un eccesso di paura nei confronti di un eventuale
tiranno avrebbe potuto interrompere le sorti “magnifiche e progressive” della
città) tuttavia gli Ateniesi preferivano correre il rischio di un eventuale
svantaggio momentaneo della polis piuttosto che inciampare nella tirannide.
Essi
avevano acquisito un vero e proprio “occhio clinico” nell’individuare, come un
radar percepisce un lontano segnale luminoso, le avvisaglie di un atteggiamento
politico potenzialmente incline alla tirannide: dell’uomo pubblico non si
stancavano di analizzare ed interpretare gesti, comportamenti, atti verbali e
non verbali, atteggiamenti e posture e persino intonazione del timbro e della
voce, con un’attenzione e un’ acribia che oggi, forse, potrebbero confrontarsi
qualitativamente con ogni analisi politica o politologa svolta nei nostri
rumorosi talk show e forse farebbero impallidire ogni nostrano interesse per il
gossip.
Ad
esempio, sempre nel trattato sulla tirannide di Senofonte, il poeta Simonide,
da privato cittadino, chiede al tiranno Ierone, come nel corso di un’intervista
o di una diretta televisiva, quali siano le differenze tra un uomo qualunque e
un tiranno, e l’indagine, che si dipana lungo tutto il trattato e che verte
sugli aspetti caratteriali e sulle predisposizioni psicologiche, finisce col
coinvolgere addirittura le predilezioni sessuali, in un quadro d’insieme che,
oggi come allora, veniva continuamente esposto al pubblico giudicante nelle
vesti, di volta in volta, o di opinione pubblica o di spettatore.
Questo
universo di significati e di significanti che avvolgono il tiranno e che vanno
dal bisogno di essere sempre in guerra e di avere un nemico sino alla paura di
perdere il potere e sino addirittura alla strenua difesa nei confronti dei
poveri a danno dei ricchi (financo imitando i modi e l’abbigliamento del
popolo, sebbene si intravedesse già in questo una pericolosa demagogia),
rappresentava, nella riflessione filosofica e politica greca, una vera e
propria specializzazione, un insieme di technai, tra le quali spiccava e
svettava l’adikia intesa non solo come dis-valore (l’ingiustizia) né come
divinità (laddove l’immaginario mitologico greco concepiva Adikia come divinità
orrenda, portatrice di inganno, errore e ingiustizia e non a caso sempre
rappresentata nell’atto di venir strangolata dalla Giustizia, da Dike) bensì come vera e propria tecnica,
un’arte della tirannide e della manipolazione (dei fatti e degli artefatti) e
che conduce alla manutenzione del potere asimmetrico tra popolo e capo-popolo e
fondato sulla prevaricazione perniciosa e sulla comunicazione perversa e
alterata e alterante di quest’ultimo.
Anzi,
anche quando il tiranno o i tiranni, con eloquenza magistrale, si schieravano a
favore della virtù, della religione o della giustizia e dunque incitavano alla
difesa di un patrimonio di valori comuni e condivisi (in questa direzione, ad
esempio, i Pisistrati, anche al fine di mantenere saldo il proprio potere, pare
alimentassero il culto emozionale e devozionale, talvolta superstizioso, del
dio Dioniso), la critica, soprattutto intellettuale e, diremmo oggi, elitaria,
nonché minoritaria, non rinunciava ad esprimere la propria perplessità:
nell’orazione
Contro i tiranni, di fronte agli ambiziosi intenti programmatici dei Trenta
Tiranni, comunicati, diffusi e pare approvati e applauditi dall’Intelligencija
greca, compreso lo stesso Platone, il retore Lisia scrive non senza una vena di
sano scetticismo e ironia poi andarono al potere i Trenta… proclamando la
necessità di far piazza pulita degli ingiusti e che tutti gli altri cittadini
si volgessero al valore (areté) e alla giustizia (dikaiosyne).
In
ogni caso, come si evince dalla visone espressa nella Repubblica, l’humus di
ogni tirannide sembra essere la condizione dell’eccesso in tutte le direzioni:
eccesso di indulgenza, persino eccesso di libertà (una totale illegalità,
scrive Platone, chiamata “dagli istigatori della tirannide totale libertà”), o
eccesso di servitù nei confronti di uno solo, addirittura eccesso di bellezza,
eccesso di passioni, persino eccesso di parole, eccesso di impunità laddove i
giovani insultano i precettori e, diremmo addirittura, eccesso di diritti
arbitrari.
In
questo brodo di coltura maturano e proliferano gli agenti patogeni della
tirannide che vanno ad attaccare l’organismo più esposto ovvero il popolo
abbandonato alla ubris dissoluta e dissolutiva della demagogia.
Questa
tracotanza (quasi prometeica, come prometeico nella sua grandiosa difesa dei
propri interessi appare il tiranno) comporta una sostanziale cecità, quella
condizione, cioè, che porta ad ignorare, o sottovalutare o minimizzare i
segnali premonitori dei primi vagiti di una dittatura, tanto da non rendersi
conto che «aromi, unguenti, corone, vini e piaceri dissoluti» sono condizioni a
contorno di ogni tirannide, una sorta di “paese dei balocchi” sempre luminoso e
aperto e disponibile, e con l’unica funzione di anestetizzare la critica,
tappare con «un bavaglio ricoperto di miele», scrive Stanilław Jerzy Lec, la
bocca dell’indignazione e dell’opposizione.
Nell’ubriachezza
(che ha la sua radice proprio in quella ubris intesa sempre come eccesso) nasce
la tirannide di uno solo ma anche la schiavitù dei molti che soggiacciono,
inermi, al suo strapotere.
Non è
un caso che tutta la discussione sulla tirannide che Platone conduce nel corso
dell’VIII e IX libro della Repubblica è anticipata dal racconto del mito della
caverna9 come monito e metafora propedeutica dei rischi della cecità e
dell’ignoranza e che nella descrizione plastica assomiglia tanto, ma è solo una
nostra suggestione, a quell’Orecchio di Dionisio che era al contempo prigione e
cassa di risonanza, contenitore ed amplificatore di ogni umore, di ogni
passione umana continuamente monitorata e sorvegliata.
2.
ERMENEUTICA E FENOMENOLOGIA DELLA TIRANNIDE.
Di
metafora in metafora è possibile approdare ad uno sguardo sulla realtà
contemporanea capace di cogliere aspetti ulteriori rispetto a quelli evidenti
ad un primo approccio storico-logico-inferenziale: in questo senso allora
potrebbe essere utile e vantaggioso astrarsi, anche solo momentaneamente, dal
dato storiografico, dall’evidenza dei fatti realmente accaduti (a Siracusa con
Dionigi e ad Atene con i Trenta) e fermarsi e sostare sulle metafore le quali,
proprio perché attinenti al mondo poetico, letterario, teoretico (a quella
dimensione del poieo che, dice Aristotele, è condizione umana per eccellenza)
possono diventare dei varchi facilmente attraversabili e capaci di condurci
all’essenza delle cose, all’essenza, in questo caso della tirannide.
La
caverna (del tiranno Dionisio e di Platone), la condizione di cecità e di
ignoranza, nonché la consapevolezza di essere monitorati ed osservati, e
persino la religione laddove essa sfocia nella superstizione diventano allora
paradigmi perpetui e sempre validi per interpretare la tirannide e sostare, usando
la locuzione aristotelica, perí ermeneias, intorno alla tirannide come stato in
luogo figurato, intorno all’ermeneutica della tirannide e della sua
fenomenologia sempre uguale a se stessa, come caratterizzata dalla ciclicità di
un eterno ritorno dell’uguale.
Se le
tirannidi, ovvero ogni realtà totalitaria, rimangono un corpo estraneo alla
politica e se per politica qui si intende l’arte della convivenza e della buona
convivenza nella polis, allora in questa accezione forse tutte le dittature e
tutte le tirannie si somigliano, pur sprigionando forze telluriche diverse come
due terremoti che mai uguali nell’intensità, potrebbero tuttavia essere uguali
negli effetti.
Pur
appellandosi a strati diversi della popolazione, infatti, pur provocando derive
diverse nella società e crisi di assestamento, come accade nella tettonica a
zolle da tempi geologici, le tirannidi si assomigliano.
E se il Novecento ha avuto esperienza di
tirannie e di sistemi totalitari, allora lo stesso Novecento può essere chiave
di lettura per interpretare la tirannide di ieri e metterci in guardia da
potenziali tirannie future.
È
senz’altro vero in ogni caso che occorra uno sguardo storico e occorra una
valutazione delle temperie culturali e sociali che hanno dato vita e forma alle
tirannie politiche, tenendo conto certamente della distanza, talvolta
millenaria, tra il passato e il presente e facendo uso e buon uso di una
qualità ricognitiva che sappia e possa metter in chiaro i limiti di una
comparazione storica.
Ma qui vogliamo credere fortemente che
l’interpretazione delle metafore, come varchi di conoscenza dell’umano, come
condizioni per un’ermeneutica dell’inesauribilità del reale, possano diventare
occasioni d’intesa ancora disponibili per una comprensione e per un’analogia
tra noi e gli ateniesi, tra noi e i siracusani sotto Dionisio, nonostante le
diverse condizioni culturali di partenza e di appartenenza.
Ed
allora sostiamo ancora intorno all’Orecchio di Dionigi (metafora della realtà
storica) e intorno alla Caverna di Platone (metafora della realtà filosofica)
per avvicinarci al senso ultimo della tirannide (oggetto di realtà politica),
al di là della lontananza secolare e nonostante la nostra condizione
contemporanea non abbia nulla a che fare con la prigionia dei condannati di
Dionigi e di Platone, e nonostante essa sia anzi una condizione molto più
felice per i progressi tecnici e culturali che facilitano la nostra esistenza.
Ed
allora più che la storia è forse la letteratura, labirinto e culla di metafore,
il vero sismografo per registrare l’andamento delle tirannidi e per condurci,
come lettori e cittadini della polis contemporanea e globale, nella direzione
di un’ermeneutica della tirannide attraverso i suoi molteplici sentieri,
senz’altro non interrotti, e per offrire una griglia interpretativa della
realtà contemporanea facilmente paragonabile a quella condizione politica e
psicologica già vissuta dall’umanità secoli addietro.
Per traghettarci, in altri termini, dalla
Siracusa e dall’Atene del V secolo a. C. al nostro Novecento e da qui alla
realtà contemporanea.
Ad
esempio, ne “Il mondo nuovo” (1932)51, Aldous Huxley prevedeva, seppur nelle
more di un romanzo, la rovina dell’umanità attraverso l’intrattenimento
trasformato in strumento di controllo sociale più efficace e più efficiente
della coercizione e della violenza.
Nel
romanzo utopico di Huxley per la nuova umanità manipolata e formattata dallo
slogan “Community,
Identity, Stability” è considerato conforme alle regole sociali essere molto
mondani, aver cura del corpo ed essere buoni consumatori di prodotti.
È invece inaccettabile e assolutamente
pericoloso per sé e per gli altri passare del tempo in solitudine, essere
monogami, astrarsi e allontanarsi dalla Community, dove “ognuno appartiene a
tutti gli altri”, o meglio, ognuno è legato agli altri, connesso agli altri
(anche fisicamente), interconnesso agli altri, in una prossimità fisica e
logistica claustrofobica da villaggio inteso qui non con l’attributo globale ma
nel significato antico di piccolo borgo, di realtà dove tutti si conoscono e
tutti parlano a tutti, tutti parlano di tutti.
Ogni
forma di educazione viene sostituita da forme di condizionamento
(condizionamento dall’alto e condizionamento reciproco) considerato lecito e
legittimo in una società programmata per negare gli affetti più intimi e dove
la nomenklatura ammessa ripudia come offensivi gli epiteti tradizionali che indicano
le relazioni affettive per imporre solo generici legami amicali:
una società orientata alla perpetua armonia
(lontana dalla sana dialettica nella quale si costruiscono gli universi
affettivi, teoretici, culturali e politici) dove ognuno viene inviato ad amare
la propria collocazione sociale proprio come, diremmo, la formica operaia nel
formichiere ama il suo ruolo infinitesimale e mai ambirebbe al ruolo di regina,
forse addirittura guardata con disprezzo come rappresentante di un’elite.
Infine, come antidoto ad ogni forma di
possibile infelicità viene distribuita gratuitamente una droga al contempo
euforizzante e calmante, capace di addomesticare l’uomo e renderlo più docile e
disponibile alla coercizione sottile, impalpabile, ridente, ridanciana e
luminosa della quale è prigioniero a sua insaputa.
Un
solo individuo sembra sfuggire (per caso, per sbaglio e per errore in questo
nuovo mondo di autentica ingegneria sociale) al meccanismo politico
perfettissimo che come tritacarne annulla la singolarità umana a favore di
un’identità collettiva alienante, e quest’uomo avverte tutta la perversione
della neolingua fatta di slogan politici e sociali nella quale si viene
allevati e percepisce la felicità liquida e interconnessa nella quale è immerso
come artefatta e manipolata, una sorta di “Truman show” dove si sta come pesci
in un acquario inconsapevoli dell’esistenza dell’oceano, e dove tuttavia la sua
esistenza di singolo (“quel singolo” alla maniera di Kierkegaard), si trascina
come esistenza disconnessa, asociale, disadattata, potenzialmente pericolosa o
quantomeno strana, straniera, straniante.
In
questo scenario la cultura, che ha o dovrebbe avere il compito di traghettarci
«fuori dalla caverna di Platone non in gruppo ma ad uno ad uno», come auspicava
Nicola Chiaromonte, viene fatalmente sacrificata come primo capro espiatorio ad
un mobilismo universale, globale e collettivo che amalgama oggetti,
informazioni e scambi senza altre preoccupazioni che non il buon funzionamento
dell’ingranaggio, del processo che dirige il suo flusso e che va nella
direzione di una compattezza, di una monoliticità di intenti, di volontà, di
pensiero che assomiglia tanto ad una condizione totalitaria e totalizzante dove
l’uno viene fagocitato nel tutto, nel continum indifferenziato e affollato.
Il
sacrificio della cultura (intendendo con essa anche tutte le istituzioni che
dovrebbero diffonderla) impedisce di sollevare spiritualmente,
intellettivamente, politicamente e moralmente l’umanità;
una
cultura così mortificata e ridimensionata assomiglia, secondo Zygmunt Bauman,
ad un mero prodotto rivolto ad una platea di consumatori, costituita da offerte
e non da norme, meno che mai da norme morali o etiche.
Una
cultura siffatta sarebbe intrisa di seduzioni e non di regole prescrittive, di
pubbliche relazioni e non di controlli, condizione solo di nuove esigenze,
desideri, bisogni e capricci ma non coscienze, occasione di incontri, di
ricreazione ma non di riflessione.
Specchio, in altri termini, della società liquida e
digitale
Rinunciare
a canoni ben definiti, abbandonarsi alla mancanza di discernimento, assecondare
ogni gusto senza privilegiarne alcuno, incoraggiare la discontinuità e la
flessibilità (termine diffuso e politicamente corretto per descrivere la
mancanza di spina dorsale) e idealizzare l’instabilità e l’incoerenza […] una
prerogativa encomiabile e appropriata a una società dove le reti si sono
sostituite alle strutture, e il gioco di avvicinamento/distacco e una serie
infinita di connessioni e disconnessioni si sono sostituiti alla capacità di
determinare e stabilire.
La
leggenda siracusana racconta che per uscire incolumi dall’Orecchio di Dionisio
occorreva dimostrare di possedere una conoscenza alta, di essere in grado di
recitare la poesia del tempo dopo averla evidentemente distinta da prodotti
commerciali, diremmo, e dunque occorreva mostrare di essere informati, colti,
padroni di un sapere non certo piegato su obiettivi minimi.
La
leggenda, anche se poco documentata, ha però, come tutti i miti, un fondamento
universale e teoretico nella consapevolezza che solo la conoscenza può salvare
l’umanità dalla tirannide e da un destino di schiavitù, o anche dal capriccio
di un despota.
Ma di
quale conoscenza parliamo?
Si
tratta di una cultura scolastica o nozionistica oppure di una coscienza e di
una sapienza più alta, metafisica diremmo ed attinente all’universo
esistenziale?
E
soprattutto: la contemporaneità rischia di finire in uno scenario da rinnovata
tirannide, in una nuova caverna platonica dalla quale diventa più complicato
uscire non tanto per una difficoltà intrinseca quanto piuttosto per il fascino
che essa potrebbe esercitare, per un senso di piacevolezza nel sostare al suo
interno, come se la caverna fosse il luogo di quell’intrattenimento che anestetizza,
secondo i presagi di Huxley?
La
letteratura, come fucina di metafore esistenziali, ci ricorda con Carlo
Collodi, ad esempio, che Pinocchio non voleva allontanarsi dal paese dei
balocchi e che questa sua ostinazione avrebbe potuto costargli la condizione
perpetua di burattino e non di essere umano, e sempre la letteratura con Franz
Kafka ci racconta del grande teatro di Oklahoma come di una realtà dove tutti
sono felici ma alla maniera delle marionette, trascinati come automi verso un
luogo imprecisato dove si viene reclutati per svolgere un lavoro poco chiaro in
un’impresa dalle finalità oscure, dove viene sacrificata quella vocazione al
poieo aristotelico, al fare, al pensare e al poetare che ci umanizza, e dove
l’allegria è artificiale, forzata, a tratti inquietante.
Entrambe
le situazioni appaiono l’anticamera della schiavitù e della servitù, ed
entrambe sono caratterizzate da una condizione preliminare imprescindibile:
l’abbrutimento intellettuale.
Del
resto Lucignolo muore nel paese dei balocchi dopo aver subito la sua
metamorfosi irreversibile in asino che nell’immaginario infantile collettivo è
proprio sinonimo di una non volontà di pensiero, di ragionamento.
Hannah
Arendt (secondo la quale proprio dalla condizione del non-pensare deriva il
male) indagando la fenomenologia della tirannide nel Novecento con uno sguardo
retrospettivo, ci ricorda che esiste anche un volto sorridente, ameno, ilare
della tirannide dal quale occorre guardarsi per non cadere nell’antica trappola
politica volta ad attirare il consenso popolare attraverso forme di distrazione
le più varie per allontanare l’attenzione dai giochi di potere:
il
guaio è che queste forme di governo non è tanto che sono crudeli (anzi spesso
non lo sono) ma piuttosto il fatto che funzionano troppo bene.
I tiranni, se sanno il fatto loro, possono ben
essere “miti e gentili in ogni cosa” come Pisistrato, il cui governo anche
nell’antichità fu paragonato all’età d’oro di Cronos;
le
loro misure possono apparire veramente non tiranniche e benefiche […] Ma tutti
hanno in comune l’esclusione dei cittadini dalla sfera pubblica e l’insistenza
con cui li invitano a badare ai propri affari mentre solo chi governa “deve
attendere agli affari pubblici” […]
Sono i
vantaggi a breve durata della tirannia, i vantaggi della stabilità, sicurezza e
produttività, da cui ci si deve guardare se non altro perché aprono la strada a
un’inevitabile perdita di potere, anche se le loro reali conseguenze disastrose
possono verificarsi in un futuro relativamente lontano.
3.
DALLA TIRANNIDE ANALOGICA A QUELLA DIGITALE.
Probabilmente
questo futuro “relativamente lontano” è proprio sotto i nostri occhi, posti
come siamo di fronte ad una mutazione tecnico-antropologica che ha invertito e
trasformato, talvolta trasfigurato, sin nel profondo, tutti i processi di
trasmissione, acquisizione, elaborazione della conoscenza umana, sia del
pensiero teoretico (che rappresenta al contempo il solo baluardo alla tirannide
e il solo antidoto per scongiurarla) e sia del pensiero pratico (la tecnica)
attraverso l’hardware e il software.
La Rete e la diffusione di infrastrutture e
architetture e piattaforme digitali sempre più complesse, sempre più
interconnesse, hanno modificato non solo il nostro sguardo sul mondo e il gesto
ermeneutico, interpretativo dell’uomo sulla realtà, ovvero la rappresentazione
del mondo, bensì hanno modificato anche il nostro modo di “stare al mondo”, il
nostro abitare la polis, e dunque anche la nostra relazionalità nella polis
attraverso nuove forme di socializzazione e di socialità digitale (social
connection).
Tutto
questo non può non avere un precipitato filosofico, esistenziale e pratico
rilevantissimo nelle dinamiche politiche e di potere, nella gestione del
governo o del buon governo della polis, se è vero, come spiega Aristotele, che
l’uomo ricava dal suo bisogno di stare in società la sua ambizione e la sua
vocazione massima di zoon politicon, di animale politico per eccellenza.
La
politica non è arte che si pratica in solitudine (nello stare solo e pensoso)
ma è arte, tecnica che si applica nella mediazione, nel medium della relazione
e nella relazionalità, nel medium del piccolo gruppo, della tribù, del
villaggio, della città, della metropoli, e nel medium delle passioni, diremmo,
nel giusto mezzo, tenendo lontano la ubris e l’eccesso.
E se
oggi la tribù, il villaggio e la città sono tribù, villaggio e città digitali o
costruite su strutture portanti digitali e se gli spazi di relazione si
ricavano nelle nuove agorà digitali, e se i luoghi di manifestazione delle
proprie passioni ed emozioni sono diventate le infrastrutture digitali, di
questo occorre tener conto nella riflessione politica e nell’analisi di ogni
forma di autoritarismo.
In
altri termini, una critica del giudizio politico, anche del giudizio politico
della tirannide, passa da una critica della ragion pura digitale e da una
critica della ragion pratica digitale, e da una critica del nostro nuovo modo
di stare al mondo digitale, non senza chiederci se la nostra condizione di zoon
politicon digitali sia quella di cittadini di una nuova Siracusa digitale (al
cui centro troviamo un nuovo Orecchio di Dionisio digitale, una latomia
digitale, fatta di bit, di like, di selfie e non di roccia) o piuttosto
assomiglia alla condizione di cittadini di una nuova Atene digitale, che ha
maturato al suo interno sane forme di tiranno fobia.
Ma per
stanare la tirannide digitale là dove essa potrebbe annidarsi, dovemmo tener
conto della chiave interpretativa di Huxley e di Hannah Arend e dovremmo allora
cercare una risposta non nei palazzi del potere ma nei luoghi della
socializzazione e del divertissement, ancorché digitale, che oggi animano la
vita sociale della nuova polis, e che possono essere di volta in volta o causa
di una distrazione fatale che ci allontana dal gesto politico e democratico, o
al contrario possono rivelarsi gli snodi principali, le agorà della nuova
opinione pubblica che smaschera il tiranno o lo sottomette allo sguardo di
quell’occhio clinico tiranno fobico di cui gli Ateniesi erano portatori.
4.
INTORNO ALLA NUOVA CAVERNA DIGITALE DI PLATONE.
Questi
interrogativi scomodano problematiche di tipo ontologico e metodologico, nonché
educativo, prima ancora che problematiche politiche.
La
connrandi monopolisti della Rete è diventata il nuovo habitat dell’umano, la
condizione dell’antropocene digitale, producendo una rivoluzione copernicana
nel rapporto con lo spazio e con il tempo in quanto abbatte ogni barriera
fisica nella disponibilità di ogni tipo di informazione e di conoscenza in un
continum qui ed ora.
L’esposizione ininterrotta alle informazioni
ha reso possibile quello che Douglas Rushkoff chiama «presente continuo»:
la
frantumazione del tempo in centinaia di frammenti convergenti verso una sola
necessità, ovvero esperire tutto nello stesso momento in cui si compie, pena il
non-esserci.
E difatti questo tempo presente dilatato in un
unico grande, infinito, totalitario istante viene attraversato dal nostro io
virtuale nelle social connection, e riveste gli atti del nostro esserci
virtuale.
Al di
là delle problematiche giuridiche dovute alla manipolazione di chi gestisce la
comunicazione su scala globale, e al di là del fatto che la nuova comunicazione
virtuale ha preteso che ciascun essere umano si consegni ad un editor il vero
dato interessante ai fini della nostra discussione è che questo spazio-tempo
virtuale è popolato da realtà digitali che simulano, imitano la realtà (come le
ombre proiettate sulla parete della caverna) e che vengono spacciate per verità
anche quando non lo sono.
Si
tratta di uno spazio attraversato da una linea che simula lo scorrere temporale
ma in realtà è un tempo immobile, paralizzato, legato ad un eterno presente
sempre fruibile, sempre accessibile (non esistono i siti del “giorno prima”
così come potrebbe esistere un giornale del giorno prima, eppure il tempo dell’umano
scorre con tutte le sue vicende, eppure l’umano cambia ogni giorno a dispetto
di un profilo virtuale immobile e pietrificato, eppure il tempo dell’umano è un
tempo narrativo, un tempo che ha una trama suddivisa, scandita dal divenire) e
che riproduce la condizione dei prigionieri della caverna, legati e costretti a
guardare le stesse immagini, a guardare in un’unica direzione.
La falsa credenza che questa realtà proiettata
sullo schermo digitale sia non soltanto la sola realtà possibile (buona parte
della nostra relazionalità, della nostra predisposizione alla socialità e al
dialogo anche politico si consuma nello spazio virtuale, come se fosse l’unico
spazio disponibile) ma anche realtà più vera e verosimile deriva dal fatto che
i contenuti digitali hanno acquisito una sorta di primato ontologico sui
contenuti analogici dovuto alla velocità con la quale vengono prodotti,
trasmessi, visualizzati, usati, fruiti e rimbalzati.
Si
tratta di una credibilità fondata sulla ridondanza, sulla facile reperibilità,
finanche sulla quantità di materiale a disposizione e infine, e non ultimo,
sulla velocità con la quale essa viene trasmessa.
Come
in un gioco a quiz dove il concorrente che ha il pollice più veloce nello
schiacciare il tasto di prenotazione della risposta ha priorità sull’altro
concorrente più lento, ma forse anche più riflessivo, così in Rete la velocità
è un valore intrinseco e garanzia di credibilità.
A questa fallacia logica si accompagna
l’universo empatico che caratterizza il nostro predisporci quotidiano in Rete
dove la velocità con la quale i contenuti vengono trasmessi genera un effetto
giostra piacevolissimo dovuto al vortice digitale che assomiglia alla
condizione di chi fluttua, sorvola, naviga a grande velocità sulla realtà:
il
sogno di Icaro, la realizzazione della libertà che ha come ali conoscenza e
sapere digitale, spesso ci rende incuranti del fatto che, proprio come in una
giostra, si sorvola in tondo sempre lo stesso frammento di spazio.
La grande prateria della Rete è infatti generalmente
suddivisa in piccole grandi tribù sociali, community virtuali che condividono
gli stessi interessi, le stesse predisposizioni (come una moderna
rappresentazione degli ideali di Community, Indentity and Stability de” Il
mondo nuovo”) e sono rare le incursioni verso tribù sociali e virtuali
completamente estranee se non per attacchi offensivo-digitali diremmo (se non
per azioni riconducibili ad un cyberbullismo dei minori e degli adulti):
il grande nomadismo sociale che la Rete probabilmente
permetteva sin dai suoi primi vagiti si è presto trasformato in una sostanziale
sedentarietà culturale, politica e teoretica (da pensiero unico) e da nomade,
quale avrebbe potuto essere e rimanere, l’homo tecnologicus-digitale si è
presto trasformato in un homo stanziale, anche abbastanza ostile e teso a
difendere strenuamente il proprio territorio virtuale fatto di conoscenze in
termini relazionali e gnoseologici, rinchiudendosi in congreghe o sette
virtuali che coltivano la stessa religione (alimentare, politica, sanitaria,
educativa, economica, morale), la stessa rappresentazione del mondo.
Ora,
queste condizioni della comunicazione digitale sono apparentemente prossime
alla libertà di parola e di espressione di cui è impregnata ogni democrazia
contemporanea ma occorre che si accompagnino ad una consapevolezza fondamentale
ovvero che la realtà iperconnessa potrebbe essere talvolta del tutto
incompatibile con il modus operandi di una buona istituzione e di un buon
governo la cui arte di amministrare è fondata su un continuo bisogno di
feedback che richiedono tempi molto dilatati.
Forse è questa la consapevolezza più alta alla
quale pervenire e che non corrisponde ad un mero nozionismo ma ad un livello di
coscienza e di conoscenza di grado superiore, perché quando si parla di
lentezza non ci si riferisce ai tempi della burocrazia senz’altro lunghi ma in
senso deteriore e obsoleto, bensì ai tempi della riflessione, della
concentrazione, dell’attenzione, dell’elaborazione, della giusta deliberazione.
Le democrazie contemporanee sono spesso, a
livello strutturale, ben pensate per favorire questa fertile lentezza e
ponderatezza che serve ad una giusta mediazione tra le parti (la doppia camera
di un Parlamento, ad esempio, potrebbe andare in questa direzione) ma il problema
che qui ci interezza è il problema della partecipazione alla quaestio
democratica, ovvero il problema educativo che investe in prima istanza la vita
associata e in seconda istanza l’esperienza comunicativa.
5.
STRATEGIE DI USCITA DALLA TIRANNIA (DIGITALE) CONTEMPORANEA.
La
democrazia come condizione antitetica alla tirannide è un processo perennemente
in fieri, lontano da ogni forma di pietrificazione, lento nei suoi movimenti,
orientato alla mediazione tra le parti, ovvero ad un dialogo continuo e non
meramente interlocutorio o limitato alla prossimità dell’interlocutore, e che
va analizzato alla luce delle nuove forme di socializzazione e comunicazione
virtuale, soprattutto perché queste ultime, per una curiosa forma di sineddoche
(la parte per il tutto) non siano confuse con il cuore della democrazia.
Il
cuore della democrazia, secondo John Dewey, sta infatti nel rapporto con
l’educazione e con l’accesso a quella consapevolezza più alta di cui sopra.
Qualsiasi
educazione data da un gruppo tende a «socializzare» i suoi membri, ma la
qualità e il valore della socializzazione dipendono dalle abitudini e dallo
scopo dei gruppi […]
Ora in un qualsiasi gruppo sociale, anche in
una banda di ladri, troviamo qualche interesse comune, e una certa quantità di
interazione e relazioni di cooperazione con altri gruppi […]
Quanto
vari sono gli interessi consciamente condivisi?
Quanto
è completo e libero lo scambio con altre forme di associazione?
Se
applichiamo queste considerazioni, per esempio, a una banda criminale, troviamo
che i legami che tengono insieme consciamente i suoi membri sono pochi di
numero, riducibili quasi al comune interesse nel bottino;
e che
sono di natura tale da isolare il gruppo da altri gruppi riguardo allo scambio
dei valori della vita.
Perciò
l’educazione fornita da una simile società è parziale e deformata.
Per
Dewey la democrazia è qualcosa di più di una forma di governo, ma è prima di
tutto vita associata ed esperienza comunicata.
Vita
associata significa l’estensione nello spazio del maggior numero di individui
che considerano l’azione degli altri non un limite alla propria azione, non uno
steccato alla propria libertà, bensì un’occasione per muoversi nella direzione
di una maggiore consapevolezza del vivere in comunità (che non è solo mera
community, diremmo oggi, tanto più digitale) perché essi non siano sopraffatti
dai cambiamenti nei quali si trovassero coinvolti e di cui non capirebbero il
significato e la connessione.
Ne
seguirebbe una confusione nella quale un piccolo numero di persone si impadronirebbe
dei risultati delle attività altrui cieche e dirette dall’esterno.
Ne
seguirebbe, in altri termini, non tanto e non solo il predominio di una tribù
più forte (numericamente, ideologicamente) sulle altre tribù più deboli, ma ne
seguirebbe una situazione di monopolio da parte di chi è in grado di
approfittare di questa divisione.
Negli
anni Sessanta, in maniera profetica, Lyotard scriveva a proposito delle
condizioni della conoscenza che si intravedevano nella società contemporanea e
che stavano per provocare quel capovolgimento di paradigma nelle dinamiche
sociali e comunicative.
Ammettiamo,
per esempio, che un’impresa come la IBM sia autorizzata ad occupare un
corridoio orbitale attorno alla Terra per piazzarvi dei satelliti di
comunicazione e/o delle banche di dati.
Chi vi
avrà accesso?
Chi
deciderà quali siano i canali e i dati riservati? Lo Stato?
Oppure
esso sarà un utente come tutti gli altri?
Nascono in tal modo nuovi problemi giuridici
ed attraverso di essi si pone la domanda: chi saprà?
Basterebbe
sostituire il riferimento alla (longeva) IBM con una qualsiasi realtà tecnica e
tecnologica oggi a nostra disposizione, con l’autostrada delle Rete occupata
dai grandi Provider monopolisti, ad esempio, per cogliere in
quell’interrogativo finale sul detentore di conoscenza il riproporsi
dell’interrogativo filosofico ineludibile.
La democrazia (anche quella digitale) che porta al
ripudio e alla fobia della tirannide (anch’essa digitale) e che vuole
contrapporsi a tutte le sue forme, scongiurandone l’eterno ritorno, ci invita
ad uscire dalla caverna di Platone nella quale ci siamo volontariamente
rinchiusi, con forme di socializzazione digitale che simulano le vecchie tribù
primitive dove la nostra persona viene recintata con le sue abitudini, i suoi
interessi e consegnata alla discrezionalità di nuovi Dionigi che hanno la
possibilità illimitata di vendere questi dati e queste informazioni, di
ascoltare e monitorare ogni espressione comunicativa, traendone in prima
istanza indubbi vantaggi economici e commerciali e forse traendone dopo anche
dei vantaggi politici nella direzione di un controllo capillare, totalitario
dell’esistenza.
La
democrazia di cui parla Dewey ha infatti bisogno di una dimensione educativa
che scomodi una consapevolezza esistenziale, non nozionistica né scolastica,
bensì consapevolezza dell’irriducibilità della persona, della sua singolarità:
quella consapevolezza, scrive Primo Levi, da cui viene la vera libertà
dell’uomo, anche dell’uomo in catene.
Da
cittadini della polis globale, interpellati dalla quotidiana, ormai
imprescindibile interlocuzione “sei su Facebook?”
dovremmo,
con nuova consapevolezza etica ed ermeneutica, rispondere in prima istanza e in
prima persona “No. Sono qui. Sono qui ed ora e sono qui di fronte a te.
Sono
qui con la mia irriducibilità e la mia finitudine”, e non perché non si possa o
non si debba stare su Facebook, ma perché da abitanti di una nuova Atene
digitale dovremmo essere consci, orgogliosamente e responsabilmente consci, che
quello stare su Facebook non è e non potrà mai essere l’unico modo di stare al
mondo.
Abitare
la polis globale vuol dire riscattare un’identità completamente appiattita
sulla sola forma e sulla sola modalità fenomenica dell’identità virtuale e
ricondurre e ridimensionare quest’ultima solo a ciò che essa è o dovrebbe
essere: un segmento della persona, un’appendice e non la più vitale.
Abitare la polis globale vuol dire altresì
recuperare la dimensione del tempo come imitazione dell’eterno, come
contenitore dell’intelligenza e della volontà, come coordinata entro la quale
si colloca la posizione dell’uomo che, nel suo essere intrinsecamente de situato,
può trovare nel tempo la dimensione dell’autenticità dell’esserci: esperire il
mondo ed esperire la realtà comporta l’impiego e l’esercizio di tutto l’essere
e nell’attraversare il teatro dell’esistenza ci si ritrova a dover rivestire
innumerevoli ruoli, molti di essi fortemente identitari e non comprimibili in
un profilo virtuale, che come Orecchio di Dionigi virtuale ci vede rinchiusi e
alle prese con il problema di come sintetizzare, zippare noi stessi.
Foto e
video, selfie e commenti (anche se condivisi) ma potrebbero esaurire la
complessità poliedrica e l’incommensurabilità dell’umano.
Stare
al mondo significa essere autenticamente presenti a noi stessi nell’esercizio
del nostro variegato esserci che comporta in prima istanza un esserci nel
tempo: non un impiego di tempo né uno spreco di tempo, bensì un attraversare il
tempo, forse un interiorizzare il tempo, uno stare sul tempo.
Nell’attraversare
i sentieri della consapevolezza dello stare al mondo senza distrazione (proprio
senza quella distrazione fatale che ci disumanizza e di cui parlava Pascal) che
si recupera infatti quella dimensione autenticamente umana del tempo già
intravista da Agostino quando, in una delle più belle riflessioni poetiche
delle Confessioni, «in te, anima mia, misuro il tempo» legherà per sempre,
nella coscienza occidentale, il contenuto del tempo al contenuto esistenziale
della singolarità e dell’individualità dell’uomo, rivelando così che la
consapevolezza dell’abitare il tempo è consapevolezza dell’esistenza con tutto
ciò che essa porta con sé con gli eventi, le scelte, gli incontri, gli amori
che diversificano ogni vita da un’altra: con il filo della voluntas spesso a
noi ignota, eppure profondamente nostra, che sembra determinare il nostra
destino.
La
dimensione esistenziale che caratterizza l’uomo è riconducibile alla sapienza
primaria e originaria di stare e di essere in un tempo e in uno spazio: se
dividessimo il tempo della giornata nei variegati segmenti della nostra
identità (essere madri e padri, ma al contempo anche figli, e al contempo
lavoratori, e al contempo…) e se dedicassimo ad ogni segmento l’attenzione, la
presenza anche d’animo necessaria per viverlo interamente, autenticamente,
vedremmo come il segmento temporale vissuto per esercitare e vivere ed
aggiornare un’identità virtuale, che è solo una delle infinite identità, si
ridimensionerebbe e diventerebbe un frammento di tempo analogo (o inferiore)
per estensione e valore a tutti gli altri frammenti di tempo durante i quali si
esercitano le diverse forme identitarie del nostro esserci.
Ora,
nel villaggio globale l’identità virtuale non è considerata una delle tante
infinite identità: essa coincide con l’intero dell’identità, ed ecco perché
fagocita ed erode il tempo, s’insinua come un tarlo negli altri segmenti e non
lascia spazio e non lascia scampo e chiede continua attenzione.
L’identità
virtuale s’impone come ladra di tempo, una sorta di catena a cui l’uomo si lega
dalla testa ai piedi e, come diceva Gadamer a proposito delle schiavitù imposte
dai nuovi media, «chi ha le chiavi di questa catena è una nuova élite che
esiste solo per schiavizzare l’umanità con le immagini e con la sua frusta
elettronica».
Che le
immagini siano le proprie o siano le immagini di coloro che conosciamo e che
cerchiamo nella Rete delle relazioni, poco importa:
si sta
sempre come prigionieri nella caverna platonica, condannati alla fruizione di
un’eterna fiction.
Favorire
i competenti in democrazia,
senza
sfociare nella tecnocrazia dei saggi?
È
possibile. Ecco come.
Open.luiss.it
– (9 MARZO 2018) – Raffaele De Mucci – ci dice:
Quelli
che seguono sono ampi stralci della prefazione pubblicata nel volume “Contro la
democrazia”, pubblicato da LUISS University Press.
“È
stato detto che la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per
tutte le altre fin qui sperimentate”.
Così,
letteralmente, Winston Churchill fissava un principio fondamentale di
supremazia storica del regime democratico nel discorso rivolto alla Camera dei
comuni alla fine della seconda guerra mondiale, nel 1947.
A
questa concezione relativistica della democrazia come “male minore” si
richiamano un po’ tutte le analisi e le teorie moderne, di scienza politica o
persino di filosofia, ispirate alla metodologia del “realismo”:
da
Machiavelli a Sartori, passando per Weber e Schumpeter, si cerca di capire cosa
effettivamente sia la democrazia, come funzionino concretamente i suoi processi e i suoi
attori, inevitabilmente controllati e influenzati da élite e gruppi di potere
in competizione fra loro.
Ma
persino ai tempi della sua fondazione concettuale e pratica, “democrazia” era
una parola ambigua.
In
quanto forma “virtuosa” di governo era chiamata piuttosto “politia”, qualcosa
che si avvicina molto al sistema di democrazia liberale fondata sul patto
costituzionale e sul principio di rappresentanza.
Quando
ci si voleva riferire alla forma “deviata” di democrazia, la si definiva invece
“olocrazia”, il governo delle masse senza distinzione alcuna, secondo gli
schemi più vieti del “populismo”.
Prima
ancora di Aristotele, Platone aveva fermato un criterio inderogabile per molti
altri pensatori e teorici dei sistemi di governo: la politica è un affare
troppo serio e complicato perché possa essere lasciato alla cura della gente
comune;
il
potere politico deve essere gestito dai “sapienti”, da coloro che “sanno” e
hanno le necessarie competenze.
Questo
modo di vedere le cose è chiamato comunemente “sofocrazia” o “noocrazia”
(governo dei sapienti o dei capaci) e ha ispirato numerose scuole di pensiero
politico in epoca moderna.
Secondo Platone, una moltitudine non è mai in
grado di amministrare uno Stato, a meno che non ci si trovi in un contesto di
estrema corruzione.
Per
molto tempo a seguire, e ancora oggi, il modello della Repubblica di Platone,
basato sul governo degli “esperti”, è stato considerato l’antitesi del modello
democratico.
Popper contrappone il “totalitarismo”
platonico, prototipo dell’assolutismo moderno, all’idea di “società aperta”,
fondata sui principi di libertà e pluralismo e praticata nella democrazia
ateniese all’età di Pericle.
In fondo, questa antinomia anticipa e radica
il contrasto dei nostri giorni fra democrazia e tecnocrazia.
Ci
sono poi le correnti dell’elitismo vecchio e nuovo: si tratta di variegate correnti di
pensiero tutte nettamente contrarie alla democrazia parlamentare, e che
concordano sulla tesi che il governo di una società debba essere retto da una
classe “scelta” e necessariamente ristretta di individui.
Nel
concetto moderno di democrazia confluiscono in sintesi due accezioni rilevanti
della sua stessa storia:
un’accezione
“procedurale” (il rispetto delle regole del gioco) e l’altra “sostanziale” (la
garanzia dei diritti di libertà e uguaglianza).
Nella
scienza politica contemporanea si guarda ormai a questa sintesi come al
concentrato delle caratteristiche delle “qualità” democratiche ovvero delle
caratteristiche che devono avere le democrazie “di buona qualità”, esprimibili
in altrettante categorie osservative almeno in parte empiricamente
controllabili.
Dovremmo
chiederci a questo punto se esistono alternative praticabili e migliori
rispetto alla democrazia rappresentativa.
Secondo
Norberto Bobbio, la risposta era negativa.
La recente tesi “epistocratica” lanciata nel
libro Contro la democrazia (LUISS University Press 2018) da Jason Brennan,
filosofo della Georgetown University, non sembra affatto mettere in discussione
il modello della democrazia rappresentativa quanto piuttosto le modalità del
suo funzionamento:
il
problema e la crisi della democrazia non sono legati al principio della
rappresentanza ma piuttosto alla indiscriminata estensione dei diritti di voto,
attivo e passivo, promossa dal suffragio universale, che consente a una massa
di elettori che non si interessano o non sanno nulla di politica di conferire
il potere di legiferare e governare a una minoranza di eletti per lo più
incompetenti e corrotti.
Brennan
sostiene che vi siano almeno due versioni di populismo, una positiva (dare voce
e risorse ai più deboli) e una negativa, quando tendiamo a considerare come
populisti quei movimenti e individui che si ribellano contro i politici
corrotti o incompetenti.
Ma
così facendo diamo loro più credito di quanto non meritino, perché tralasciamo
il fatto che i loro elettori sono poco informati e molto inconsapevoli.
Una
ricerca dell’ANES – “American National Election Studies” – ha rivelato che gli
elettori americani sanno a mala pena chi è il presidente in carica, non hanno
nemmeno un’idea vaga di quale sia la percentuale di disoccupazione nel paese,
né di quanto spenda il governo all’anno:
un
terzo di questa popolazione pensa che il versetto degli Atti degli Apostoli “da
ciascuno secondo le sue possibilità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”, reso
celebre da Marx, faccia parte della Costituzione degli Stati Uniti.
La stessa percentuale non sa citare i tre
poteri dello Stato, e non conosce nemmeno il nome dei propri rappresentanti a
Washington.
Come
funzionerebbe l’epistocrazia.
Brennan
tiene a sottolineare che gli elettori disinformati e privi di cultura politica
non siano affatto stupidi:
semplicemente
sono disinteressati agli affari politici e di governo e sanno di poter
persistere in questo atteggiamento di rifiuto e ignoranza, o indulgere a
convinzioni politiche false e irrazionali senza che tutto ciò si ripercuota sul
loro diritto di voto. Ma secondo il nostro autore, per essere ammessi a
scegliere con il voto se confermare o mandare a casa questo o quel
rappresentante in Parlamento o in Comune, l’uno o l’altro candidato alla
Presidenza, occorrerebbe dimostrare di sapere almeno chi abbia ricoperto ruoli
elettivi di potere nel precedente mandato, quali fossero i mezzi reali a sua
disposizione, quali le possibili opzioni politiche e di governo, a quali
risultati avrebbero portato scelte diverse.
Ed è
questa, in sostanza, la proposta contenuta nel suo modello di epistocrazia.
Come
lo stesso Brennan riconosce, montagne di prove dimostrano che la democrazia
generalmente opera meglio di una dittatura o di un’oligarchia.
Ma egli sostiene che queste non sono le sole
possibili alternative alla democrazia.
C’è
anche l’”epistocrazia” – il “governo di coloro che conoscono”.
L’elettorato
potrebbe prendere decisioni migliori se fosse limitato per renderlo più
consapevole e meno prevenuto.
Per la maggior parte delle persone, le idee
come quella di epistocrazia suonano come difesa del governo di una piccola
élite, che potrebbe facilmente abusare dei suoi poteri.
Ma Brennan presenta una varietà di strategie
che potrebbero migliorare la qualità dell’elettorato, come limitare il diritto
di voto a coloro che sono in grado di passare un test elementare di conoscenza
politica.
A
quelli dotati di maggiori conoscenze potrebbero invece essere concessi voti
supplementari (idea già di John Stuart Mill nel XIX secolo).
Se il risultato di questo elettorato più
esperto è dis-rappresentativo (ad esempio, relativamente a specie, genere, età
o ricchezza), ai voti dei membri più informati di questi gruppi
“sottorappresentati” potrebbe essere dato un peso maggiore.
In
alternativa, potremmo rendere l’elettorato potenzialmente più esperto e più
rappresentativo di quanto lo sia ora, persino ricorrendo una specie di
“lotteria per il diritto di voto”, cioè estraendo a sorte gli elettori
legittimati a esprimere le scelte politiche.
I
precedenti dei minorenni e degli immigrati.
Tali
idee possono sembrare, e in un certo senso sono, molto radicali.
Ma per
molti aspetti, si tratta solo di modeste estensioni dello status quo.
Sostiene
Brennan che escludiamo già oltre il 20% della nostra popolazione dal diritto di
voto, perché pensiamo che siano ignoranti e hanno scarsa capacità di giudizio:
chiamiamo
quelle persone “minorenni”, e non sentiamo alcun senso di colpa per la loro
esclusione sistematica dai circuiti del potere politico.
La
cosa colpisce la maggior parte di noi in termini di semplice buon senso.
L’idea di lasciare che alcuni di loro votino
se possono dimostrare che sono più informati di un adulto medio è considerata
radicale e pericolosa.
Non
consentiamo che gli immigrati legali ottengano il diritto di voto a meno che
non superino un test di educazione civica che la maggior parte dei nativi
americani probabilmente fallirebbero.
Parecchi
Stati escludono inoltre dal diritto di voto molti dei malati mentali e dei
condannati.
Sta
bene escludere i diciasettenni dal voto, ma perché non anche un diciannovenne o
un quarantenne, la cui la comprensione dei problemi è scarsa o peggiore di
quella di un minorenne medio?
Se
possiamo escludere gli immigrati ignoranti, perché non possiamo farlo per gli
autoctoni ignoranti?
Chi
deve comandare – e come deve essere designato chi comanda – è la domanda che si
pose Platone, e in fondo si pone anche Brennan sulla scia di una lunghissima
tradizione di teoria politica.
Con risposte sempre storicamente mutevoli.
I
filosofi ovvero i sapienti, era stata la risposta di Platone, alla quale è in
qualche modo riconducibile la proposta di “epistocrazia” avanzata da Brennan,
anche se la “sapienza” da lui invocata è una conoscenza basica di cultura
politica che non ha la pretesa di accostarsi al modello platonico di
“sofocrazia”.
Altri hanno dato risposte diverse: devono
comandare i sacerdoti, i militari, i tecnici, i “migliori” del popolo.
Per altri, invece, è bene che comandi una
persona sola: un re di stirpe divina, un tiranno o un principe armato.
Altre risposte indicano invece il popolo per
volontà della nazione, questa o quella classe, questa o quella razza.
Ma la
domanda di Platone – commenta Popper – “è sviante, irrazionale. […]
Razionale
è piuttosto quest’altra domanda: come possiamo organizzare le istituzioni
politiche in modo da impedire che governanti cattivi o incompetenti facciano
troppo danno?”
La
risposta che ne dà Popper, come è noto, è quella di una “società aperta”
garantita dal regime della democrazia liberale.
Come
spiega Yascha Mounk, viviamo tempi “straordinari” nei quali regna il caos diffuso,
e si moltiplicano le crudeltà in uno scenario di progressiva consunzione dei
sistemi liberal-democratici, mentre fioriscono per contro democrazie illiberali
(o al contrario liberalismo senza democrazia), strette dall’alternativa
esiziale fra populismo e tecnocrazia [Mounk 2017].
Tuttavia,
in attesa che l’Autore spieghi meglio i dettagli del suo progetto
“epistemocratico”, non possiamo non dirci d’accordo sulle sue critiche al
funzionamento delle attuali democrazie.
Ed è
persino difficile dissentire dall’idea portante delle sue argomentazioni che la
democrazia non sia una forma di “intelligenza o saggezza collettiva”, come
sostiene una lunga serie di autori sulla scorta di Aristotele.
Primo,
perché questi attributi possono essere predicati di individui e non di masse
indifferenziate di elettori, fra i quali sono davvero pochi coloro che si
impegnano e sono un minimo informati per concorrere consapevolmente alla
formazione di scelte collettive.
È
secondo perché, proprio per questo, la democrazia “aritmetica”, nella quale i
voti si contano, non coincide con la democrazia “epistemica” nella quale i voti
pesano.
In
conclusione, si può essere più o meno d’accordo con le diagnosi di crisi della
democrazia avanzate da Brennan e con le terapie proposte, peraltro non
compiutamente indicate né tanto meno realizzabili nei sistemi contemporanei
(come riconosce lo stesso Autore).
Ma è
certo che questo libro sembra come una roccia precipitata in un immenso
specchio d’acqua che, complice la presunta “fine della storia” che postula la
perennità e insostituibilità del modello di democrazia liberale [Fukuyama
2003], correrebbe il rischio di diventare una palude stagnante.
La
corsa dell’Unione europea
contro
il tempo.
Le
responsabilità dell’Italia.
Thefederalist.eu
– Redazione – (7 agosto 2022) – ci dice:
Il 20
luglio, giorno della caduta del governo Draghi in Italia, rischia di essere
ricordato come una di quelle date cruciali che cambiano drasticamente la
direzione dei processi politici.
La
crisi del governo italiano ha infatti una valenza non solo nazionale, ma
investe anche l’Unione europea e tutto il fronte delle democrazie occidentali.
L’Italia
è un paese determinante nel quadro europeo, e di conseguenza lo è anche sul
piano internazionale.
L’esperienza
appena conclusa del governo guidato da Mario Draghi lo ha dimostrato.
Grazie al sussulto di responsabilità di tutte
le forze politiche italiane che hanno accettato — con l’eccezione della estrema
sinistra e di Fratelli di Italia — il patto di unità nazionale proposto dal
Presidente della Repubblica e grazie all’autorevolezza e alla competenza di
Mario Draghi, l’Italia non ha solo raggiunto risultati importantissimi sul
fronte interno (campagna di vaccinazione e lotta alla pandemia, ripresa economica
con una delle crescite più alte in Europa e a livello internazionale, politiche
di sostegno sociale, avvio della diversificazione energetica, solo per citarne
alcuni esempi che si aggiungono al lavoro per il PNRR), ma ha anche giocato un
ruolo di leadership sul piano europeo e internazionale.
Draghi
è stato l’interlocutore privilegiato degli USA in Europa per fissare la linea a
sostegno dell’Ucraina, come reso evidente anche dal ruolo determinante che ha
avuto nella decisione sulla candidatura dell’Ucraina all’Unione europea;
e
nell’UE, insieme a Macron, ha guidato il fronte dei Paesi impegnati a costruire
un’Europa forte e coesa, dotata di una sua indipendenza strategica.
In questa ottica ha lavorato su una serie di
proposte cruciali (dall’energia alla difesa e alla riforma della finanza
pubblica europea) e sostenuto il processo di riforma dei Trattati, dalla
Conferenza sul futuro dell’Europa alla richiesta da parte del Parlamento
europeo di aprire una Convenzione ex art. 48 TUE, con l’obiettivo più volte
dichiarato di modificare in senso federale il sistema politico-istituzionale
europeo.
Aver
provocato la caduta del governo Draghi ha quindi non solo portato l’Italia in
acque incerte e agitate, ma ha ancor di più privato di una guida decisiva l’Europa,
fermando quel processo di rafforzamento così cruciale per il successo nel
confronto (accelerato e reso drammaticamente inevitabile da Putin con
l’aggressione all’Ucraina) tra democrazie liberali e autocrazie.
La
guerra lanciata dalla Russia contro l’Ucraina, proprio per aver portato la
frattura tra Occidente e potenze autocratiche a livelli non più sanabili
facendo ricorso a politiche di dialogo, ha aperto molte incognite sul futuro di
un’Europa che è stata costretta a prendere atto della propria vulnerabilità e
della mancanza di strumenti di difesa adeguati.
Se
oggi questa aggressione non fosse contrastata con coraggio e determinazione
dagli ucraini stessi con il supporto esterno della NATO e l’impegno
innanzitutto americano, la minaccia diretta di Mosca avrebbe sicuramente
investito in tempi brevi anche alcuni dei paesi membri dell’UE.
In
questo quadro, ancora una volta, gli europei si ritrovano dipendenti per la
loro sicurezza da un paese esterno (gli USA), che a sua volta è condizionato da
una situazione politica interna dagli sviluppi imprevedibili;
ma la differenza, rispetto al passato dopo il
crollo dell’URSS, è che questa volta la guerra è in Europa, e il fatto che il
ritardo europeo (sul piano politico, oltre che militare) sia così profondo da non
potere essere colmato in tempi politicamente utili rispetto alla guerra in
corso, mette a nudo chiaramente quella realtà dell’Europa “ventre molle” del
fronte occidentale tante volte richiamato da analisti e politici americani.
Si
aggiunga, a conferma di tutto ciò, che gli europei si ritrovano a dipendere dal
nemico in un settore vitale come quello dell’energia e, attraverso questa
dipendenza, finanziano il proprio aggressore profumatamente.
In
più, hanno al proprio interno porzioni importanti di opinione pubblica e di
classe dirigente che parteggia per il nemico e lo sostiene attivamente (mentre
l’opposizione democratica in Russia o in Cina è ridotta facilmente al
silenzio).
A questo va aggiunto che, di fronte alle
conseguenze economiche della guerra — che ricadono su economie già gravemente
colpite dalla pandemia e che avevano appena iniziato la ripresa — gli europei
hanno una moneta unica forte e autorevole, che però, in assenza dei necessari
strumenti concomitanti fiscali ed economici, è minacciata dalla fragilità di
una parte degli Stati che vi partecipano, dal loro debito eccessivo e dalle
loro carenze rispetto alle quali mancano strumenti strutturali di supporto;
mentre l’inflazione rende complesso anche
l’utilizzo della leva della politica monetaria della Banca centrale, in passato
determinante per salvare l’euro.
Infine, quando devono agire uniti, gli
europei, nel quadro dell’UE, hanno una struttura decisionale che riflette la
loro frammentazione e l’assenza di una sovranità comune democratica e
legittima, per cui si trovano a ragionare troppo spesso in base non ad una
visione forte di grande potenza continentale, ma alla somma di tante visioni
nazionali deboli;
in più per agire sono anche privi di vere
risorse e strumenti adeguati.
Questo
quadro, senza togliere nulla al valore di quanto costruito in oltre settanta
anni di integrazione, dimostra come l’UE si sia crogiolata troppo a lungo
nell’illusione che il Mercato unico fosse la risposta politica adeguata alle
sfide del nostro tempo e che fosse in grado, unito ad una gestione sana e
scrupolosa delle finanze nazionali e a buone pratiche nazionali di governo, di
garantire la pace, il successo dei nostri sistemi economici e sociali e delle
nostre democrazie.
La realtà, invece ha visto crescere le minacce
attorno a noi a dismisura, lasciandoci del tutto inadeguati a fronteggiarle.
Basta
confrontare le indicazioni contenute nello “Strategic Concept” della NATO e nello
“Strategic Compass” dell’UE.
Di fronte ad un’analisi molto simile delle minacce che
dobbiamo fronteggiare e degli attacchi che rischiamo (altamente) di dover
subire, l’uno propone le soluzioni che derivano dalla forza della potenza
tecnologica e militare (grazie al ruolo degli USA);
l’altro
un cantiere tutto da costruire, e rispetto al quale non ci sono ancora neanche
gli strumenti per avviare i lavori.
Parole
da una parte, quindi, rispetto al potere reale dall’altra.
La
descrizione dello stato in cui si trova l’Unione europea spiega bene perché
rischia di essere fatale il fatto di aver fermato chi in Europa era alla guida
del cambiamento.
La riforma per costruire l’unione politica
federale dell’UE è fondamentale per rafforzare la presenza internazionale
dell’UE, la sua capacità di agire con autorevolezza internamente ed
esternamente e anche per offrire ai cittadini e alle opinioni pubbliche (spesso
sfiduciate e deluse dalle debolezze delle istituzioni e delle politiche
nazionali) un progetto lungimirante e profondo di rifondazione della politica e
del modello democratici.
In un confronto tra sistemi alternativi, in
cui l’autocrazia sfida con la sua apparente efficacia la complessità e la
inclusività dei meccanismi decisionali democratici, il rafforzamento del
sistema democratico diventa il fattore dirimente;
e,
vista la debolezza strutturale a livello nazionale, è evidente che la
democrazia può rilanciarsi solo se si realizza pienamente a livello europeo.
L’evoluzione del sistema istituzionale europeo
necessario a tal fine si scontra però con molti ostacoli, dall’inerzia di un
paese chiave come la Germania (a lungo sostenitore del sistema di un’UE grande
Mercato unico e ora in difficoltà a modificare il suo modello economico e
politico), alla freddezza dei paesi “frugali” e di quelli del Nord Europa, fino
all’aperta difesa dell’indebolimento politico dell’UE, a favore del ritorno ad
un regime di piena sovranità degli Stati membri, da parte dei pasi dell’Europa
orientale.
Il tandem franco-italiano era il motore
indispensabile per costruire la nuova Europa, ed è stato fermato.
Tenendo
conto di come la guerra contro l’Ucraina abbia alzato il livello della sfida
contro i nostri sistemi democratici, e di come il fattore tempo si sia fatto
determinante, questa brusca frenata è particolarmente pericolosa.
A
questo si deve aggiungere l’incognita se l’Italia potrà mai recuperare il ruolo
svolto sotto la presidenza del Consiglio di Mario Draghi.
Perché
ciò accada, il 25 settembre dovrà vincere la continuità politica e
istituzionale, fondata su un grande patto che si apra nuovamente in ottica
nazionale, rispetto all’esperienza del governo uscente.
Tutto in teoria è possibile, benché difficile,
e potrebbe anche prevalere — chiunque vinca — il senso di responsabilità verso
l’interesse nazionale e la coerenza verso i valori democratici e di libertà,
che sono perduti al di fuori del quadro europeo.
A
sostegno di un possibile miracoloso rientro in campo dell’Italia vi è il fatto
ormai riconosciuto che l’Italia non si governa “contro” l’Europa, ma solo
lavorando in sinergia con i nostri partner europei e con l’UE e rispettando gli
impegni comuni;
così
come è un fatto riconosciuto che se prevarranno a livello nazionale delle
scelte e dei comportamenti irresponsabili che priveranno l’Italia delle
protezioni europee, il nostro Paese ha davanti a sé un unico destino:
la crisi irreversibile e fallimento.
Anche
solo se il prossimo governo vorrà schierarsi a favore di un indebolimento
dell’Unione europea, cambiando così il quadro delle nostre alleanze europee,
non solo si metterà in grave pericolo la coesione e la stessa tenuta dell’UE,
ma si rafforzeranno parallelamente le tentazioni all’immobilismo e le regole
rigide di controllo che sono così dannose per la nostra tenuta a livello di
sistema paese.
L’Italia
quindi ha in mano una parte importante del destino europeo e ha, al tempo
stesso, un disperato bisogno di un’Europa forte e coesa.
Chiunque vada al governo dopo il 25 settembre
non può prescindere dal misurarsi con questo fatto.
D’altro
canto, il comportamento delle forze che hanno fatto cadere Draghi in Senato il
20 luglio sembra testimoniare che non c’è limite all’irresponsabilità, quando
una classe politica ha in gran parte perso il senso del dovere e del proprio
compito.
Le forze che hanno mantenuto la fiducia a
Draghi, e che hanno mostrato di essere coscienti delle esigenze vere del Paese
e della necessità di porle al di sopra degli interessi di parte, sono al
momento in minoranza e non sembrano riuscire ad esprimere una strategia elettorale
all’altezza del grave momento storico, complice anche le incongruenze di una
pessima legge elettorale.
Gli
altri, nuovi o vecchi oppositori del governo di unità nazionale, si suddividono
tra un partito come il Movimento 5 Stelle che cerca di recuperare la sua anima
populista per non scomparire dal panorama politico, dopo aver cercato per mesi
di portare l’Italia su posizioni anti-NATO per quanto riguarda il sostegno
italiano all’Ucraina;
la
Lega di Salvini, che ha, come il M5S, contestato Draghi sull’Ucraina e su
alcune riforme essenziali del PNRR;
Forza
Italia che predica il suo ancoraggio alla famiglia europea del PPE e al tempo
stesso, sotto la guida di Berlusconi, mantiene l’ambiguità verso Putin e
rievoca vecchi cavalli di battaglia populisti;
infine
Fratelli di Italia — cresciuto nell’opposizione al governo, alle sue riforme e
alle sue scelte europee, con posizioni tradizionalmente e coerentemente
anti-europee e sovraniste, aperto sostenitore dei movimenti illiberali in
Europa — che in vista di una probabile vittoria elettorale e di una conseguente
responsabilità di governo recupera in pochi giorni l’europeismo, la fedeltà al
sistema costituzionale (salvo mantenere le posizioni presidenzialiste), la
continuità con l’agenda del governo precedente e si accredita presso
l’Amministrazione americana come garante della posizione atlantista del suo
futuro governo.
Sarà,
questa svolta improvvisa del partito favorito alle urne e alla guida del
prossimo governo, una mossa tattica per evitare una tempesta perfetta nel
momento in cui sale al potere?
Oppure è già in nuce la presa d’atto che
Draghi aveva ragione su tutto, e che pertanto fargli l’opposizione è stato
politicamente sbagliato, anche se elettoralmente redditizio?
Potrà
l’eventuale prossimo esecutivo a trazione Fratelli di Italia superare le
contraddizioni che ne hanno reso probabile la nascita?
O in
alternativa potrà vincere in Italia uno schieramento di forze che nel suo DNA
apertamente si richiama alla continuità con il governo uscente, con numeri
sufficienti per poter far riguadagnare immediatamente la credibilità all’Italia?
La
risposta è nelle mani degli elettori italiani e delle forze politiche.
In una campagna esposta agli attacchi ibridi
della disinformazione e dell’ambiguità delle posizioni di molti contendenti
l’Italia gioca una partita cruciale per il futuro delle democrazie occidentali.
Un’Italia
europea per un’Europa federale, sovrana e democratica è appena stata messa al
tappeto dal populismo e dagli interessi di parte.
Riusciranno
comunque a prevalere responsabilità, buon senso e coerenza rispetto al modello
liberal-democratico, insieme alla coscienza del valore dirimente dell’Europa per
il nostro futuro?
Sarebbe
bello che questo dibattito avvenisse realmente per permettere ai cittadini
italiani di prendere coscienza della vera posta in gioco il 25 settembre.
(Pavia,
7 agosto 2022)
Le
leve interne ed esterne per
raggiungere
la democrazia globale.
Cosmopolisonline.it
- Daniele Archibugi, Marco Cellini – (10-5-2021) – ci dicono:
(Articolo
pubblicato nella sezione "La rappresentanza politica tra quantità e
qualità".)
Quali
sono gli obiettivi della governance globale democratica?
I
partigiani della democrazia hanno almeno due forme di disagio quando osservano
la governance globale.
La prima è che non tutti i paesi del mondo
sono democratici.
La seconda è che le decisioni globali non
vengono prese democraticamente e anche i governi eletti spesso dimenticano i
principi fondamentali in politica estera.
Identificare
chi ci rappresenta nella sfera internazionale è una questione cruciale perché
accade spesso che questioni di portata generale - siano essi la sicurezza,
l’ambiente o la necessità di fronteggiare una pandemia - vengono prese senza
che si sappia chi ci rappresenta.
Questa
incertezza su chi siano i nostri rappresentanti nella politica estera porta
spesso a parlare di deficit democratico nella governance globale, ma il
concetto rischia di essere sfuggente.
Secondo il primo significato, il deficit democratico nella
governance globale è imputabile al fatto che i membri della comunità
internazionale, vale a dire gli Stati, non sono sufficientemente democratici.
Stando al secondo, il deficit democratico è dovuto al
fatto che la governance globale non è soggetta ad alcun controllo democratico (per una discussione si veda Nye 2001;
Moravcsik 2005).
Anche
le istituzioni che sono state progettate con lo scopo di aumentare la
legittimità, la rappresentatività, e la trasparenza nella politica mondiale,
come le organizzazioni internazionali (OI) non corrispondono a criteri
democratici.
Si noti che il primo significato richiama ad
una carenza interna dei sistemi politici, il secondo una carenza del sistema
internazionale.
Queste
carenze mostrano che non c’è una adeguata rappresentanza nel processo
decisionale.
Internamente,
nonostante l'ondata democratica iniziata dopo la fine della guerra fredda, la
metà dei paesi del mondo non ha ancora governi eletti.
L’altra metà dei paesi, anche se democratica
all’interno, non ha ancora trovato il modo di esserlo anche all’esterno.
Non
solo le autocrazie, ma anche le democrazie consolidate sono piuttosto
riluttanti a rendere conto delle loro scelte globali, spesso anche di fronte ai
propri cittadini.
La
struttura costituzionale delle organizzazioni intergovernative (OIG) non
assomiglia affatto a quella vigente all’interno dei paesi democratici, perché
in esse sono rappresentati i governi e non i cittadini.
Le Nazioni Unite, il Fondo Monetario Internazionale,
l’Organizzazione Mondiale del Commercio, solo per citare alcune delle più
importanti OIG, non contemplano l'elezione di rappresentanti da parte della
cittadinanza.
Anche l'Unione Europea, l'OI che più di tutte
è stata permeata dai valori democratici, ha una costituzione che è molto meno
democratica di tutti i suoi membri (cfr. Zurn 2000).
Gli Stati sono riluttanti a limitare la propria
sovranità in favore di organizzazioni internazionali o sovranazionali (cfr. Maffettone 2015).
Una
possibile soluzione potrebbe essere di creare canali diretti di rappresentanza
dei cittadini negli affari globali.
C'è
qualcosa che si può fare al riguardo?
E, soprattutto, se individuiamo l'esistenza di
almeno due aree in cui la democrazia non è pienamente realizzata - quella
interna e quella globale - come si collegano?
Questo
articolo intende evidenziare i legami tra le dimensioni interna e globale del
deficit democratico e offrire alcuni suggerimenti per azioni che potrebbero
essere implementate dalle OI, dai singoli governi e dall'opinione pubblica.
Ciò si
basa su un presupposto che vale la pena esplicitare: un’autentica governance
democratica globale richiede che ci sia un mondo composto da Stati che sono
internamente democratici e dove le decisioni globali sono prese secondo alcune
forme di democrazia.
Il che
richiede, in altre parole, raggiungere insieme la globalizzazione della
democrazia e la democratizzazione della globalizzazione (cfr. Gould 2004; Scholte 2011).
Il
problema, come sempre, è come raggiungere questo così ambizioso obiettivo e,
per capirlo, cerchiamo qui di identificare come la sfera interna e quella
esterna interagiscono tra loro.
Cos'è
la governance globale democratica?
Esistono
diverse definizioni di governance globale.
In
questo articolo, applichiamo la seguente definizione:
«le
azioni politiche intraprese da attori nazionali e/o transnazionali volte ad
affrontare problemi che interessano più di uno Stato e/o dove non esiste
un'autorità politica definita in grado di affrontarli» (Koenig-Archibugi 2002; cfr. anche
Koenig-Archibugi, Zurn, 2006; Brown 2012).
In un
mondo globalizzato, le questioni che non possono essere adeguatamente
affrontate a livello nazionale - dalla sicurezza alle crisi umanitarie,
dall’ambiente alle epidemie, dai tassi di cambio al commercio – sono crescenti.
Partiti
politici, amministratori pubblici, imprenditori e opinione pubblica richiedono
sempre più spesso che esse siano affrontate attraverso azioni e livelli
decisionali appropriati.
Durante
e dopo la crisi finanziaria del 2008, ad esempio, il settore imprenditoriale, i
sindacati e l'opinione pubblica hanno chiesto un intervento efficace per
prevenire il collasso delle attività economiche.
Molte di queste decisioni sono state prese nei
vertici del G8, G20, G4 o G2 (il G4 è l'etichetta data al vertice tra i quattro
principali paesi europei “Francia, Germania, Italia e Regno Unito”.
Il G2
è stato etichettato come il vertice tra Cina e Stati Uniti).
Durante la pandemia del Covid-19, gli stati
sono stati costretti a prendere misure di vario tipo, che hanno comportato
coordinamento nelle restrizioni, condivisione di informazioni scientifiche,
distribuzione di farmaci e vaccini.
Tale governance globale è stata a volte
efficace e altre meno, ma non molti criteri di democraticità sono stati
soddisfatti:
un
numero ristretto di governi ha di fatto preso decisioni per tutta l’umanità
senza averne delega.
Sebbene
la rilevanza della governance globale sia cresciuta in modo esponenziale negli
ultimi decenni (vedi Held, McGrew 2002; Woods et al. 2013), ciò non significa necessariamente che
si sta procedendo verso una sua democratizzazione.
Ciò è
anche legato al fatto che non esiste una definizione condivisa di cosa sia la
governance globale democratica.
Studiosi,
consiglieri e responsabili politici hanno fornito indicazioni su quale dovrebbe
essere la governance globale democratica, e altri hanno sostenuto che la governance
globale democratica sia impossibile o non desiderabile (per una raccolta di punti di vista
diversi, si veda Archibugi 2003; Archibugi et al. 2011).
Alla
fine della guerra fredda, con la democrazia cosmopolitica abbiamo tentato di
esplorare in quali condizioni i valori e le norme democratiche potessero essere
estesi anche alla governance globale (cfr. Archibugi, Held 1995; Held
1995), con
la convinzione implicita che il progetto avrebbe acquisito un consenso generale
tra i teorici della democrazia.
Ma non
tutti si sono dimostrati d'accordo su una simile estensione.
In particolare, Robert Dahl, uno dei più
importanti teorici democratici della seconda metà del XX secolo, ha sostenuto
che fosse impossibile realizzare la democrazia al di là degli Stati (cfr. Dahl 1999; 2005. Vedi anche
Urbinati, 2003).
Il
vero problema è capire fino a che punto l'analogia interna è valida quando si
tratta di democrazia oltre i confini dello Stato.
Non tutte le procedure democratiche applicate
all'interno degli stati possono essere estese su scala planetaria.
La rigorosa applicazione del sistema statale a livello
globale porterebbe alla creazione di uno stato federale mondiale.
Il federalismo mondiale è una linea di pensiero che ha
contribuito alla trasformazione delle organizzazioni internazionali e ha
fornito nuove idee per un ordine mondiale più integrato (vedi Cabrera 2004; Levi 2008;
Marchetti 2008).
Tuttavia,
il programma qui proposto è più modesto e, si spera, più facilmente
realizzabile, volto ad aumentare la rappresentatività democratica nella
governance globale anche in assenza di una concentrazione del potere in un
unico stato mondiale.
In
questo articolo, ci concentreremo sulle OI poiché sono la componente più
trasparente della governance globale e quindi qualsiasi deficit democratico al
loro interno testimonia quanto più severo esso sia nelle sedi informali,
esclusive o addirittura segrete.
Anche
quando il potere, la legittimità e le risorse sono forniti dagli Stati membri,
le OI hanno la loro agenda e non sono dei meri “agenti” dei governi.
Inoltre, rispetto ad altre forme di governance
globale, come
i) azioni unilaterali intraprese da singoli
stati (quali assistenza unilaterale allo sviluppo),
ii) iniziative intergovernative bilaterali o
multilaterali (quali iniziative di coordinamento finanziario intraprese nel
G7),
o iii)
le attività svolte dal settore imprenditoriale (quali azioni e regolamenti
adottati dalle associazioni di categoria), le OI incorporano già alcuni valori
e principi caratterizzanti la democrazia. Proviamo ad elencarle:
- Le
OI sono basate su carte, convenzioni, trattati e altri atti pubblici. Ciò le
rende vincolate allo Stato di diritto e al diritto internazionale.
- Alcune OI hanno metodi giudiziari per
affrontare le controversie.
- La maggior parte delle attività svolte
dalle OI sono trasparenti e i loro funzionari se ne assumono le responsabilità
nei confronti degli Stati membri e, indirettamente, nei confronti dei cittadini
degli Stati membri.
Questi
elementi sono sufficienti per considerare le OI istituzioni democratiche?
Ovviamente no (cfr. Erman, Higgott 2010).
Certamente,
sono più legittime delle alternative come i vertici tenuti a porte chiuse o le
decisioni prese da un gruppo di amministratori aziendali (cfr. Buchanan, Keohane 2006).
Ma questi criteri sono altamente insufficienti se
confrontati con i requisiti della teoria democratica.
I
criteri sopra elencati, infatti, non sarebbero sufficienti per qualificare
alcuno stato come democratico (cfr. Patomaki, Teivainen 2004; Zweifel 2005; Levi et al.
2014).
Non
sorprende quindi che Dahl (1999, 2005) abbia contestato l’idea che le OI
possano diventare istituzioni rappresentative.
Dahl
ha indicato alcuni criteri chiave che qualificano il termine moderno
“democrazia” per dimostrare che nessuno di essi è pienamente applicato nelle OI.
Ma il
fatto che le OI attualmente non soddisfino i criteri democratici dovrebbe far
sì che i partigiani della democrazia lavorino per riformarle adeguatamente.
Ciò
dipende in gran parte dalla concezione di democrazia che vorremmo utilizzare
per la governance globale.
Non crediamo che sia fruttuoso replicare i
modelli già noti semplicemente espandendoli a livello globale (cfr. Archibugi et al. 2010;
Macdonald, Macdonald 2010).
Al contrario, occorre costruire una teoria della
democrazia non centrata sullo stato e applicabile a una varietà di diversi
contesti umani (ad esempio famiglie, aziende, quartieri, associazioni
politiche) così come alle organizzazioni al di sopra dello stato (cfr. Held 2006).
Per
quanto riguarda il nucleo della governance globale rappresentato dalle OI, la
Tabella 1 illustra in che misura questi principi sono già applicati e qual è la
loro potenziale applicazione.
Emerge
che tali principi possono ispirare una serie di azioni politiche necessarie per
rendere le OI più trasparenti e più rappresentative.
Tabella
1 - Principi democratici e organizzazioni intergovernative.
Principi. Applicazione corrente nelle OI. Riforma
democratica delle OI.
Non
violenza.
Impegno
degli Stati membri ad affrontare pacificamente i conflitti internazionali e ad
usare la forza solo per l'autodifesa.
Applicazione
del principio di non violenza attraverso:
i)
giurisdizione obbligatoria del potere giudiziario internazionale;
ii)
responsabilità penale individuale per reati internazionali;
iii)
intervento umanitario per garantire la sicurezza dei popoli minacciati da
genocidio e/o gravi violazioni dei diritti umani.
Controllo
Politico- Controllo esercitato dai
governi membri.
Pubblicità
e trasparenza degli atti.
Norme
e procedure codificate in trattati, alleanze, carte e statuti internazionali.
Espansione
del controllo politico attraverso un Parlamento mondiale, l'Unione
interparlamentare o altre rappresentanze dei cittadini.
Allargare
la rappresentanza nelle OI con canali aperti alla società civile globale e alle
sue ONG.
Monitoraggio
dei governi nazionali da parte di istituzioni cosmopolitiche
Eguaglianza
Politica. Uguaglianza formale degli stati.
Uguaglianza
dei cittadini in termini di diritti sanciti dalla Dichiarazione universale dei
diritti dell'uomo.
Uguaglianza
degli stati su base sostanziale piuttosto che formale (coinvolgimento degli
stati associati alla partecipazione detenuta).
Uguaglianza
politica tra i cittadini sulla base di un elenco minimo di diritti e doveri
associati alla cittadinanza cosmopolita.
Partecipazione
diretta alla politica mondiale attraverso un Parlamento mondiale eletto
direttamente o altre forme di rappresentanza dei popoli.
(Fonte:
Archibugi 2009. Controllo e eguaglianza politica sono tratti da Beetham -1999).
La
prossima sezione discuterà come il regime politico interno dei paesi membri può
influenzare la possibilità di ottenere una governance globale più democratica,
mentre la sezione successiva esplorerà il nesso causale opposto, vale a dire
come la partecipazione alle OI può promuovere e consolidare la democrazia
all'interno degli Stati.
Le
nostre ipotesi di partenza sono che:
a) Il
regime interno dei paesi ha un impatto molto importante sulla governance
globale.
Se i
regimi interni sono dominati da governi autoritari, qualsiasi forma di
governance globale non riuscirà ad avviare la partecipazione dei cittadini e
della società civile, mentre è probabile che il processo decisionale coinvolga
solo le ristrette élite al potere.
Al contrario, presumiamo che i regimi
democratici possano consentire e facilitare una più ampia batteria di
interconnessioni.
Se un
regime è democratico, i partiti politici, sia al governo che all'opposizione, i
sindacati e le organizzazioni della società civile saranno in grado di
sviluppare le proprie reti transnazionali e questo può essere un potente
strumento per rendere la governance globale trasparente, responsabile,
partecipativa e, in definitiva, democratica.
La leva interna può quindi essere utilizzata per
promuovere una governance globale democratica.
b) Il
percorso a lungo termine verso la democrazia e la legittimità all'interno dei
paesi è fortemente influenzato dal clima internazionale.
Se la
paura domina le relazioni internazionali, i paesi democratici tendono a ridurre
le loro libertà civili e la partecipazione, mentre i regimi autoritari vengono
rafforzati.
Al
contrario, le condizioni esterne possono fungere da potente motore per la transizione
da regimi autoritari alla democrazia nonché per consolidarla ed espanderla in
nazioni già democratiche.
La leva esterna può quindi essere utilizzata
per aumentare il numero di paesi democratici e la loro qualità.
La
leva interna.
Ogni stato
ha un regime politico diverso.
Grazie agli sforzi dei politologi è possibile
identificare e misurare, su un'unica scala, il livello di partecipazione
democratica in ciascuno di essi.
L'indice Polity IV, uno degli indici
democratici più utilizzati, fornisce una metrica in cui ai singoli paesi viene
attribuito un punteggio da –10 (mancanza totale di democrazia) a +10
(raggiungimento totale della democrazia).
Questo
ci permette di vedere come la democrazia si è evoluta nel tempo e nello spazio.
La Figura
1 riporta il numero di paesi classificati secondo tre categorie:
democrazie (da +6 a +10), ano crazie (regimi
intermedi, da -5 a +5) e autocrazie (da -6 a –10).
L’asse
verticale sul lato sinistro riporta il numero degli stati (crescente in
conseguenza dei processi di decolonizzazione) e la loro classificazione.
I dati
mostrano chiaramente che le nazioni democratiche sono aumentate e, di
conseguenza, le autocrazie sono diminuite.
Figura
1 - Tendenze globali nei regimi politici interni 1946-2018
Fonte:
elaborazione degli autori su dati Polity IV. La media di Polity IV è la media
dei punteggi ottenuti dai paesi da -10 a +10.
Sul
lato verticale a destra, invece, abbiamo riportato la somma dei punteggi
conseguiti da tutti gli stati considerati.
Da ciò
si vede che a partire dal 1960, con l’aumentare degli stati a seguito della
decolonizzazione, nel sistema globale dominavano regimi autocratici.
Nel
1990, a seguito della fine della guerra fredda, sono aumentati non solo i
regimi democratici, ma anche il punteggio complessivo di democraticità.
La
possibilità di classificare un regime politico con un solo numero è discutibile
e spesso criticata.
Tuttavia,
i dati di Polity IV confermano che la democrazia ha notevolmente aumentato la
sua popolarità come regime politico, che questo è diventato sempre evidente
nell'ultimo quarto di secolo.
Anche se negli ultimi anni sembra essersi
esaurita quella spinta nata alla fine della guerra fredda (cfr. Repucci, Slipowitz 2021).
La
connessione tra i deficit democratici interni ed esterni può essere illustrata
con due diversi insiemi (vedi Figura 2).
Da un
lato, abbiamo il regime politico all'interno degli stati (sinistra).
Questo
insieme è cambiato nel tempo:
il
numero di stati è aumentato e anche il loro regime interno, come si vede nella
Figura 1, si sta evolvendo.
Possiamo
misurare il sottoinsieme delle democrazie in base al numero di paesi
democratici, alla popolazione totale che vive in questi paesi e persino alle
risorse (in termini di quota del PIL mondiale, commercio, spese militari, seggi
nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e così via) associati a
democrazie e non democrazie.
Il
secondo set è rappresentato dalle istituzioni della governance globale.
La governance globale è composta da molti
aspetti diversi, alcuni dei quali sono chiaramente identificabili, come le OI,
altri meno visibili, come i negoziati diplomatici, e altri ancora sono segreti
come l'intelligence.
In questo caso, quantificare la relazione tra
l'insieme “governance globale” da un lato e il sottoinsieme “organizzazioni
internazionali” dall'altro è assai più complesso.
Molte attività che rientrano nella governance
globale sono misteriose e impenetrabili.
Solo alcune di queste attività possono essere
identificate e nello specifico sono quelle svolte dalle OI.
Il
modo in cui agiscono i membri della comunità internazionale influenza la
governance globale e viceversa.
Definiamo
leva interna il modo in cui i cambiamenti nel numero e nella qualità della
democrazia all'interno degli stati influenzano la democratizzazione della
governance globale.
Il
livello interno è sia descrittivo che prescrittivo: da un lato, dobbiamo sapere
quando e come i regimi democratici hanno contribuito alla democratizzazione
della governance globale.
Ma
dobbiamo anche chiederci cosa possono fare per migliorarlo, al fine di renderla
più democratica.
Figura
2 - Le leve interna ed esterna per la democrazia globale.
Fonte:
elaborazioni degli autori.
C'è un
modo ovvio in cui ha operato la leva interna, ossia la nascita delle OI, visto
che esse sono state generate per volere dei paesi democratici occidentali.
La
Società delle Nazioni, le Nazioni Unite e la Fédération Internationale de
Football Association sono state create dall'impulso di paesi, dei leader e dei
teorici democratici.
Ci sono
ben poche OI che siano sorte per iniziative di regimi autocratici, come la Lega
Araba.
Supponendo
che le OI rappresentino comunque un miglioramento rispetto ad altre forme di
governance globale, un modo in cui ha operato la leva interna è la creazione stessa
delle OI.
La
volontà delle democrazie di partecipare alle OI è confermata anche per i regimi
democratici più giovani, come indicato da Mansfield e Pevehouse (2006).
Le OI
sono generalmente onnicomprensive e raramente hanno discriminato in base al regime
politico dei paesi membri.
Infatti, la maggior parte accetta membri in
base al principio del controllo effettivo su un dato territorio piuttosto che
alla legittimità dei loro governi.
Per
molti anni, il regime interno dei membri non è stata considerata una questione
su cui le OI avrebbero dovuto interferire.
L’ONU,
l’FMI, la Banca Mondiale, l’OMC danno pari dignità a tutti paesi, senza curarsi
della natura interna del regime.
Quando
le OI hanno interferito con i regimi interni, la loro attenzione si è
concentrata più sulle violazioni dei diritti umani che su quanto i governi
fossero rappresentativi dei voleri dei cittadini.
Tuttavia,
si possono trovare alcune eccezioni.
L’Unione
Europea (UE), il Consiglio d’Europa, il Mercato Comune del Sud (MERCOSUR) e
l'Organizzazione degli Stati Americani (OSA) sono esempi di IO che contengono
clausole che richiedono ai membri di avere governi democratici (cfr. Pevehouse 2002; Whitehead 1993;
Dominguez 1998; Hakim 1993).
Data
l’adesione eterogenea della maggior parte delle OI, è comprensibile che non vi
sia consenso sulla loro architettura.
In linea di principio, dovremmo aspettarci
che, da un lato, le democrazie desiderino replicare il loro sistema interno
anche nelle OI, mentre d'altra parte che i regimi autoritari siano riluttanti a
introdurre sistemi che consentirebbero una maggiore partecipazione della
cittadinanza poiché ciò potrebbe portare a chiedersi perché gli stessi
dispositivi non siano introdotti a livello nazionale, minando la legittimità stessa
dei regimi esistenti.
Se così fosse, ci sarebbe una piena somiglianza tra i
regimi interni degli stati e la forma di governance globale a cui aspirano.
Ma
nella politica internazionale c’è spesso una mancanza di congruenza.
I regimi autoritari si sono spesso lamentati del fatto
che il potere di veto nel Consiglio di sicurezza non è democratico e nelle OI
sono diventati inaspettati sostenitori della stessa democrazia che negano ai
loro cittadini.
Al contrario, i regimi democratici si sono spesso opposti
all'espansione di una governance globale più partecipativa, soprattutto quando
devono condividere il potere e il processo decisionale con governi non eletti.
Il
regime interno di un paese, dunque, non è sempre un buon indicatore della
volontà di un governo di sostenere o ostacolare la democratizzazione della
governance globale.
Una
ricerca empirica condotta da Jonas Tallberg e dai suoi colleghi (cfr. Tallberg
et al. 2013, 2014; Agné et al. 2015) indica che le OI sono diventate più
trasparenti, responsabili e accessibili agli attori transnazionali.
Gli
attori non governativi sono spesso riusciti ad aumentare la partecipazione e la
consapevolezza dell'opinione pubblica anche al di fuori delle OI, ad esempio
attraverso campagne specifiche che hanno effetti indiretti sulle politiche dei
governi e delle OI.
Ci
sono casi significativi di ONG che riescono a interagire oltre confine in aree
definite (aiuti allo sviluppo, commercio, promozione dei diritti umani) a volte
anche in assenza di accordi intergovernativi specificatamente deliberati (per
uno studio di caso, cfr. Macdonald, Macdonald 2006).
Secondo Tallberg e colleghi, l'apertura delle
OI è stata guidata da governi democratici piuttosto che da attori
transnazionali.
Tuttavia,
possiamo chiederci perché i governi democratici siano spesso riluttanti ad
espandere la loro governance interna anche a livello globale.
Qui si pone un enigma fondamentale per gli
stati democratici:
è
possibile introdurre dispositivi democratici nelle OI anche quando molti dei
suoi membri sono autoritari?
Norberto
Bobbio (1995) si è chiesto se sia possibile essere democratici anche con un
regime non democratico.
Le
democrazie possono essere riluttanti a stringere accordi più progrediti se sono
circondate da autocrazie.
Naturalmente,
questa è una spiegazione benevola che presuppone implicitamente che gli stati
democratici siano disposti ad espandere i controlli e gli equilibri democratici
con stati a loro simili.
È una spiegazione che i teorici realisti
trovano ridicola, sostenendo che tutti gli stati, inclusi gli stati
democratici, partecipano alle OI quando le trovano utili per i loro scopi (cfr.
Morgenthau 1948).
Il
problema, tuttavia, non dovrebbe essere visto solo staticamente.
Dinamicamente,
abbiamo un contesto in cui i regimi interni degli stati (Figura 2, insieme A)
sono cambiati drasticamente come conseguenza dell'ondata democratica iniziata
nel 1990:
le
democrazie sono ora il gruppo più numeroso e hanno un potere ed una influenza
politica molto maggiore.
Nonostante
questo importante cambiamento nei regimi interni, l'impatto sulle OI è stato
piuttosto limitato.
È vero che l'ONU, l'FMI, la Banca mondiale e
l'OMC hanno iniziato a essere più trasparenti e disponibili a ricevere input e
suggerimenti dalle ONG, ma non è stata introdotta alcuna riforma costituzionale
di rilievo.
È anche vero che le organizzazioni regionali sono
aumentate, spesso, come nel caso del Mercosur, composte da giovani nazioni
democratiche ancora in fase di consolidamento (cfr. Telò 2013; Triandafyllidou
2016), ma
la leva interna si è rivelata troppo debole.
Che
cosa possono fare i governi democratici all'interno delle OI con appartenenza
eterogenea, per renderle più rappresentative?
Indichiamo
qui quattro punti.
Utilizzare
le OI invece di altre forme di governance globale non trasparenti.
Per prima cosa i governi democratici
dovrebbero usare forme di governance trasparenti e rappresentative, piuttosto
che strutture segrete.
L’obbligo
di rendere conto ai propri cittadini è una delle caratteristiche principali del
metodo democratico e rimandare le questioni globali alle istituzioni
internazionali progettate si muoverebbe sicuramente nella direzione della
democratizzazione della governance globale.
Anche
se indirettamente, infatti, un tale impegno consentirebbe ai cittadini di
controllare le azioni dei governi sulla scena internazionale e quindi di sentirsi
meglio rappresentati.
Le esperienze passate e recenti dimostrano che
è necessaria una partecipazione attiva e robusta dell'opinione pubblica per
impedire ai governi democratici di utilizzare metodi illegittimi nella politica
internazionale.
Grazie a Julian Assange, Edward Snowden,
Chelsea Manning e tanti altri abbiamo avuto chiara prova che i governi
democratici usano metodi illegittimi e illegali nella politica internazionale
(così come in quella interna) tanto quanto i governi autoritari.
Creare
e rafforzare le “Assemblee Parlamentari Internazionali” (API).
Negli
ultimi decenni, c'è stato un aumento delle API nelle OI, specialmente in quelle
regionali.
Due
rassegne hanno censito addirittura un centinaio di API (cfr. Kissling 2014;
Rocabert et al. 2014).
Ad
eccezione del Parlamento Europeo, nessuna è eletta direttamente dai cittadini,
mentre i loro membri sono generalmente nominati dai parlamenti nazionali.
Inoltre, la maggior parte delle API possiedono solo poteri consultivi e solo il
Parlamento Europeo condivide con la Commissione alcuni poteri legislativi.
Nonostante
queste limitazioni, le API aiutano ad aumentare la rappresentatività delle OI
poiché le attività di queste ultime sono esaminate non solo dai governi.
Poiché
i membri delle assemblee legislative nazionali sono selezionati da partiti
politici sia governativi che di opposizione, c'è un aumento nella capacità di
controllo.
È certamente sorprendente che diverse API
abbiano membri provenienti da nazioni democratiche e non democratiche (come nel
caso dell'Unione Interparlamentare) poiché ci aspettiamo che un'assemblea
parlamentare sia composta solo da membri eletti democraticamente.
I governi democratici dovrebbero usare il loro
peso politico per rafforzare il ruolo politico e la rappresentatività delle
API.
Da un
lato, dovrebbero promuovere la creazione API in tutte le IO.
D'altra parte, utilizzando la leva interna,
dovrebbero impegnarsi a migliorare il ruolo e il funzionamento delle API
sostenendo con forza le riforme volte a fornirle di poteri legislativi e per
renderle elettive.
Dare
più voce ai dispositivi giudiziari internazionali.
I
governi democratici dovrebbero promuovere il ruolo dei dispositivi giudiziari
internazionali.
L’indipendenza
del potere giudiziario è una componente fondamentale delle democrazie moderne.
Anche le procedure giudiziarie sono molto
importanti per la risoluzione pacifica di conflitti e controversie e, come per
le API, il numero dei tribunali internazionali è cresciuto costantemente (per
una rassegna, cfr. Mackenzie et al. 2010).
Un
ruolo e un potere maggiori nel controllo giudiziario aumenterebbero sicuramente
la legittimità delle OI, soprattutto se gli stati sono pronti ad accettare la
loro giurisdizione.
Diversi
stati hanno accettato la giurisdizione obbligatoria della Corte internazionale
di giustizia (CIG) se chiamati da altri stati che l'hanno accettata.
Il
presupposto di fondo è che alcuni paesi democratici sono disposti a rispettare
lo stato di diritto (e le sentenze di tribunali indipendenti) anche se la
controparte ha un regime dispotico.
Una
persona onesta non si sente autorizzata a rubare il portafoglio a un ladro, e
allo stesso modo un regime democratico dovrebbe rispettare lo stato di diritto
anche quando ha una controversia con un’autocrazia.
Apertura
dell'accesso alle ONG e alla società civile.
I governi democratici dovrebbero anche
consentire un ruolo più preminente alle ONG e alla società civile.
In assenza di canali elettorali, le ONG
svolgono un ruolo cruciale per aumentare la rappresentatività delle OI.
Negli
ultimi vent'anni, le OI sono diventate molto più propense ad aprire le loro
porte alle ONG (cfr. Tallberg et al. 2013).
In
aree selezionate che vanno dai diritti umani al cambiamento climatico, le OI
hanno sostanzialmente cambiato le loro strategie anche per il coinvolgimento di
attori non statali e transnazionali.
Ma
l'impulso più importante verso la democratizzazione si è spesso verificato al
di fuori della struttura formale delle OI:
in
questioni centrali come il cambiamento climatico, i diritti umani, la giustizia
economica e la costruzione della pace, i movimenti sociali globali sono
riusciti a plasmare l'agenda della politica mondiale meglio e prima delle OI
(cfr. Della Porta et al. 2009; Scholte 2011).
La
leva esterna.
Le OI
hanno effetti positivi sulla democratizzazione interna agli stati?
E se sì, attraverso quali canali? È ciò che
chiameremo la leva esterna.
L'arena internazionale può influenzare sia i
processi di transizione che di consolidamento democratico attraverso quattro
principali metodi di influenza: “imposizione”, “esempio”, “socializzazione” e
“condizionalità” (cfr. Archibugi 2009; Morlino 2011; Morlino, Magen 2008;
Pevehouse 2002).
A questi metodi, bisogna aggiungere un'altra
funzione che le OI possono svolgere al fine di promuovere la democrazia
all'interno degli stati, vale a dire la funzione di “controllo”, come attore
imparziale, dei processi di transizione verso la democrazia.
L’”imposizione”
rappresenta il ricorso all'intervento militare per rovesciare un regime
autocratico e instaurare un governo democratico.
L’”esempio” riguarda il ruolo che i paesi democratici
possono svolgere nel mostrare il vantaggio derivante dall'istituzione di un
governo democratico.
In effetti, il benessere economico, la
sicurezza e le libertà di cui godono i paesi democratici sono fattori
importanti che possono spingere le élite e i cittadini degli stati non
democratici a intraprendere una transizione democratica (cfr. Haveman 1993). La
“socializzazione” riguarda l'interiorizzazione di norme, politiche, istituzioni
e pratiche democratiche che si verifica quando un paese in transizione
stabilisce e rafforza i legami con gli stati democratici (cfr. Johnston 2001;
Kelley 2004; Way, Levitsky 2005; Morlino 2011).
Nel
caso dell’”esempio” i paesi democratici hanno solo un ruolo passivo, con la
“socializzazione” svolgono un ruolo attivo fornendo una sorta di “learning
mentoring”:
scambi
istituzionali, interscambio tra società civili, associazioni professionali e
commercio sono tutti metodi in cui i diversi sistemi politici - direttamente e
indirettamente - riescono a socializzare. La “condizionalità” rappresenta i
casi in cui i paesi non democratici sono spinti a intraprendere il percorso di
democratizzazione per l'eventualità di una punizione o di una ricompensa.
Esempi di condizionalità possono essere le
sanzioni economiche (condizionalità negativa) o la possibilità di accedere a
una linea di credito subordinata alla condizione di intraprendere riforme
democratiche (condizionalità positiva).
Infine,
il “controllo” è quando le OI svolgono un ruolo diretto nel modo in cui la vita
politica è organizzata e amministrata all'interno dei paesi.
Una
forma di controllo a bassa intensità si ha quando alle OI viene chiesto di
agire come garanti dell’equità del processo elettorale, specialmente nei paesi
in cui le elezioni non si sono mai tenute o sono state sospese per lunghi
periodi e dove i partiti politici in competizione nutrono una radicata
diffidenza l’uno dell’altro (cfr. Koenig-Archibugi 1997).
Altre
forme di controllo includono il monitoraggio dei diritti umani.
I
diversi metodi, tuttavia, non hanno lo stesso successo.
In particolare, l'imposizione e la
condizionalità negativa hanno mostrato, in media, scarso successo rispetto agli
altri mezzi di influenza.
L'imposizione
- che può prendere la forma estrema di una occupazione militare compiuta da uno
stato o da una coalizione di stati democratici o quella più limitata di
partecipazione alle operazioni di mantenimento e consolidamento della pace condotte
da ONU e altri OI - si è rivelata spesso debole e controversa perché avviene
dall'alto verso il basso e non riesce a realizzare la componente più importante
per attuare una transizione democratica, vale a dire il sostegno della
cittadinanza.
Germania,
Giappone e Italia hanno ottenuto regimi democratici attraverso l'imposizione
militare degli Alleati nel 1945-1946, ma negli ultimi settant'anni non ci sono
stati casi significativi di transizione alla democrazia attraverso l'invasione
militare.
Per una
discussione e una revisione delle evidenze empiriche, vedere Archibugi (2009),
capitolo 7.
Allo
stesso modo, la condizionalità negativa non ha ottenuto risultati significativi
e non riesce a generare sostegno interno alla democrazia, come hanno dimostrato
le sanzioni economiche imposte all'Iran o l'embargo imposto a Cuba.
L’esempio,
la condizionalità positiva e la socializzazione si sono invece dimostrati
strumenti preziosi per favorire la diffusione e il consolidamento della
democrazia.
La
condizionalità positiva e la socializzazione possono essere giocate
direttamente dalle OI e possono incoraggiare e facilitare le transizioni
democratiche in un contesto multilaterale.
Il
controllo viene generalmente esercitato quando le autorità nazionali accettano
di aprirsi a influenze esterne per specifiche funzioni e pertanto il suo ambito
può essere limitato nel tempo (come nel caso dell'assistenza elettorale) o con
un termine più lungo (quando esistono accordi sul monitoraggio dei diritti
umani).
Di seguito
ci concentriamo sul ruolo che le OI possono svolgere negli affari interni degli
stati attraverso questi metodi e su come possono contribuire alla diffusione e
al consolidamento della democrazia all'interno delle nazioni.
È possibile individuare almeno quattro modi
pratici in cui le OI possono effettivamente promuovere la democratizzazione
interna (cfr. Pevehouse 2002).
In
primo luogo, le OI possono utilizzare la condizionalità positiva attraverso la
concessione di fondi specifici per promuovere governi democratici o sostenere
riforme democratiche.
Questo
è, ad esempio, il caso del Fondo per la democrazia delle Nazioni Unite. Ancora
più importante, le OI possono specificare che nuovi stati possano essere
accettati come loro membri al raggiungimento di una soglia democratica minima.
L'UE,
il MERCOSUR e l'OSA sono esempi di OI che richiedono ai potenziali membri di
raggiungere una certa soglia di democraticità prima di essere accolti (cfr.
Hakim 1993).
L’appartenenza ad alcune OI fornisce spesso
vantaggi materiali, che vanno dall'accesso alle zone di libero scambio, alla
cooperazione in materia di sicurezza e nei settori culturale, scientifico e
tecnologico.
Questi
incentivi forniscono validi motivi ai potenziali membri per avviare e
consolidare la transizione verso la democrazia.
In
secondo luogo, utilizzando la socializzazione, le OI possono fornire uno spazio
in cui i paesi in transizione, attraverso la vicinanza con democrazie
consolidate, possono imparare a sviluppare le istituzioni democratiche e
possono interiorizzare le norme richieste per governare una politica
democratica.
In
questo senso, le OI possono essere una forma di trasmissione della conoscenza
sulla governance democratica e sulle sue istituzioni (cfr. Torfason, Ingram 2010).
Le OI possono aiutare i partiti politici nazionali, le
associazioni professionali e l'opinione pubblica a imparare come gestire le
controversie in un formato agonistico piuttosto che antagonistico.
Spesso
le OI svolgono anche un ruolo più attivo come consulenti di istituzioni
pubbliche e private.
Durante le transizioni democratiche, le OI
hanno contribuito a formare o riqualificare la polizia, il sistema giudiziario,
i media. Particolarmente importante è il ruolo svolto nella socializzazione dei
militari, tipica istituzione su cui si basano i regimi autoritari.
All'interno
delle OI, le forze militari dei paesi in transizione possono imparare dai loro
colleghi dei regimi democratici qual è il loro ruolo in una società
democratica.
Terzo, le OI hanno dimostrato di essere un
potente strumento di controllo e quindi possono svolgere un ruolo cruciale
nelle transizioni democratiche.
I governi autoritari in carica sono spesso
riluttanti a rinunciare al loro potere anche perché temono per il proprio
futuro.
Possono
paventare che se gruppi politici opposti accedono al governo, imporranno la
propria dittatura piuttosto che un regime liberale.
Le
forze autoritarie in carica hanno maggiori probabilità di farsi da parte se
intravedono uno spazio politico come partito di opposizione e se viene loro
garantito, anche dalle OI, che nel prossimo regime, poiché democratico, siano
possibili cambiamenti di governo associati a elezioni libere e ricorrenti.
L'appartenenza
a OI aiuta a fornire un centro di gravità (cfr. Pevehouse 2002) in cui tutti i
membri possono agire come mediatori per garantire il non uso della violenza del
governo in carica contro le opposizioni.
Quarto, le OI sono spesso chiamate a fare
da mediatori nelle democrazie giovani e deboli, dove esiste ancora una
fondamentale mancanza di fiducia tra le fazioni politiche.
Ad
esempio, le OI sono state sempre più attive nel contribuire all'organizzazione
e al monitoraggio delle elezioni, fino al punto che sta emergendo come una
nuova norma (vedi Kelley 2012).
Una
organizzazione relativamente recente, l'Istituto Internazionale per la
Democrazia e l'Assistenza Elettorale (IDEA) ha spesso aiutato i paesi a
progettare i loro sistemi elettorali e altre OI sono state attive in questo
ambito, specialmente a livello regionale (cfr. Lean 2007).
Non
necessariamente le OI devono avere al proprio interno dispositivi democratici
affinché abbiano un effetto positivo sul regime politico dei loro paesi membri
(cfr. Koenig-Archibugi 2015).
Tuttavia,
quando sono dominate da paesi democratici, esse rappresentano un potente
strumento per indurre altri membri a introdurre riforme democratiche.
Cosa
si può fare per rendere più efficace la leva esterna?
La
leva esterna non fornisce risultati unici, ma può essere un veicolo cruciale
per la democratizzazione interna.
Che
cosa si può fare per renderla ancora più efficace?
L'impegno
esplicito delle OI verso la democrazia.
L'impegno
esplicito per la democratizzazione e il consolidamento democratico da parte
delle OI può generare importanti implicazioni interne.
Le fazioni politiche pro-democratiche possono
trovare sostegno nelle OI, rafforzando il loro potere contrattuale interno.
Le
pressioni portate avanti dalle OI sono state più fruttuose dei tentativi
unilaterali e coercitivi degli anni 2000 di esportare la democrazia, che sono
ancora ben lungi dall’aver conseguito una transizione verso la democrazia in
Afghanistan e in Iraq.
Al
fine di impiegare efficacemente la leva esterna, le OI e i loro stati membri
devono essere percepiti come istituzioni credibili.
Ovviamente,
alcune OI (e alcuni stati) sono stati più credibili di altri.
Come ambasciatore democratico l'UE è stata
credibile ed efficace, mentre l'OSA lo è stata molto meno.
La NATO, dominata da membri con regime
democratico, piuttosto che favorire la democrazia in Portogallo, Grecia e
Turchia, ha di fatto sostenuto i regimi autoritari in carica.
Tuttavia,
un atteggiamento mutevole è anche evidente nella maggior parte delle OI. Ad
esempio, l’ONU, organizzazione nata sulla premessa della non interferenza in
questioni interne, ha iniziato ad essere attiva anche nella promozione
democratica.
Due ex
segretari generali, Boutros Boutros-Ghali e Kofi Annan, hanno esplicitamente
impegnato le Nazioni Unite a promuovere i cambi di regime (Boutros-Ghali, 1996;
Annan, 2002).
Il Fondo per la democrazia delle Nazioni Unite
(UNDEF), nonostante il suo budget molto limitato, soprattutto rispetto alle
risorse che sono state spese per la democrazia con la guerra (con risultati
nulli), indica un impegno a lavorare con i paesi verso la transizione e il
consolidamento democratico.
Maggiore
utilizzo di incentivi.
Al di
fuori dell’UE, non molte OI mettono a disposizione incentivi per favorire
transizioni e consolidamenti democratici.
Ciò
può essere spiegato dal fatto che la maggior parte delle OI non discrimina i
membri in base al loro regime.
Mentre
nell’UE l’incentivo più potente è rappresentata dall'adesione, che non è mai
stata concessa a paesi al di sotto di una certa soglia di democrazia, lo stesso
non si può dire per la maggior parte delle altre OI.
Le
istituzioni economiche, l’FMI, la Banca Mondiale e l'OMC, nonostante siano
dominate dalle democrazie occidentali, hanno fatto solo blandi tentativi per
utilizzare i propri strumenti per promuovere la democrazia e per proteggere i
diritti umani.
Utilizzare
le ONG per sviluppare collegamenti tra le società civili. Quando le OI
consentono un ruolo attivo alle ONG si generano effetti positivi sulla loro
trasparenza e responsabilità.
Ma le
OI possono anche essere un contesto istituzionale in cui le ONG, soprattutto
quelle che agiscono in paesi autoritari, possono acquisire riconoscimento e
legittimità internazionale.
Un
maggiore utilizzo dei forum delle ONG all'interno delle OI può quindi
rafforzare sostanzialmente le forze pro-democratiche nei paesi autoritari,
aiutandole ad organizzarsi e fornendo collegamenti con i paesi democratici.
Pari
dignità tra i membri.
I regimi politici in trasformazione sono
particolarmente sensibili al ruolo che i loro paesi acquisiranno nel contesto
internazionale, comprese le OI.
In
molti paesi, la possibilità di acquisire pari dignità nella definizione di
un’agenda comune può spesso essere una forza decisiva.
Il
caso dell'UE ha mostrato come questo sia stato un fattore cruciale per indurre
le élites al potere in Grecia, Spagna e Portogallo ad abbandonare i regimi
autoritari e ad abbracciare la fede democratica.
Evitare
di usare l'imposizione.
La
storia recente ha mostrato come la democrazia sia una merce che non può essere
facilmente “esportata” e imposta con la forza.
Le
esperienze afghane, irachene, libiche e siriane, per citare alcuni esempi
chiave, hanno chiaramente dimostrato che imporre militarmente un governo
democratico è inefficace o addirittura controproducente, soprattutto se il
compito è svolto da uno stato, un gruppo di stati o un’OI percepita come
ostile.
Queste
esperienze hanno anche dimostrato che l’instabilità derivante da questi
interventi può influire negativamente sull'intera comunità internazionale.
Pertanto,
la comunità internazionale dovrebbe evitare l'uso di tale strategia preferendo
l'impiego di altri mezzi di azione come la condizionalità positiva e la socializzazione,
che si sono dimostrati più efficaci.
Dal
deficit democratico ad una rappresentatività democratica globale.
In
questo articolo abbiamo cercato di evidenziare la presenza di due deficit
democratici: quello interno e quello esterno.
Le due
dimensioni sono ovviamente strettamente interconnesse e, in entrambi i casi,
l’assenza di propri dispositivi di rappresentanza limita la legittimità delle
decisioni globali.
Abbiamo
indicato due diversi meccanismi causali che possono affrontare e, si spera,
ridurre questi deficit democratici:
- La
diffusione della democrazia all’interno degli stati contribuisce a rendere la
governance globale più rappresentativa e democratica; quello che abbiamo
etichettato come leva interna.
- Le
OI possono aiutare la democratizzazione interna dei suoi paesi membri attuali e
futuri, ciò che abbiamo etichettato come leva esterna.
La
leva interna si è rivelata un fattore decisivo nell'organizzazione della
governance globale attraverso le OI piuttosto che attraverso forme più segrete,
come i vertici segreti o la diplomazia a porte chiuse.
Tuttavia,
abbiamo anche notato che l'effetto della leva interna nell'ultimo quarto di
secolo è stato troppo debole;
i
paesi democratici sono aumentati, anche la qualità della democrazia in molti
paesi è migliorata, ciò nonostante le OI non hanno cambiato radicalmente il
loro modo di operare.
Hanno
iniziato ad essere più aperte nei confronti delle ONG e di altre istituzioni,
ma non abbiamo sperimentato né riforme costituzionali democratiche né un
adeguato allargamento della rappresentanza, nonostante ciò sia stato ritenuto
auspicabile dai loro stessi più elevati funzionari (cfr. Boutros-Ghali 1996; Annan 2002;
Lamy 2005).
Abbiamo
anche notato che le storie di successo non sono solo associate all’azione dei
governi democratici, ma anche all'impulso e alla forte pressione esercitata
dalle ONG e dalle altre organizzazioni della società civile.
Se la
rappresentatività, la trasparenza e la partecipazione sono aumentate, ciò è
spesso dovuto per pressioni che hanno avuto luogo al di fuori delle OI
piuttosto che al loro interno.
Sebbene
i governi democratici siano stati disposti a ricevere suggerimenti e a
trasmetterli all'interno delle OI, raramente sono stati una forza trainante
della democratizzazione della governance globale.
Abbiamo
esplorato come le OI possano agire da agenti per la democratizzazione interna.
Anche se non può essere dato per scontato,
sono diversi i casi in cui sono riusciti a operare efficacemente per la
transizione e il consolidamento democratico.
Abbiamo
indicato alcune azioni politiche che potrebbero essere intraprese per rendere
queste leve più efficaci.
Le
leve interne ed esterne sono chiaramente collegate nei loro effetti, ma troppo
spesso i governi eletti non sono disposti a perseguire coerentemente la loro
natura democratica anche per quanto riguarda la governance globale.
L'approccio
muscolare alla democratizzazione, con i tragici esempi delle invasioni in
Afghanistan e in Iraq, i tentativi di risolvere le guerre civili attraverso
bombardamenti aerei, come è successo in Libia e in Siria, hanno seriamente
minato l'autorità morale e politica delle democrazie occidentali e hanno
portato a un decennio di incertezze.
Se gli
stati liberali intendono riacquisire la propria autorevolezza nel promuovere un
ordine mondiale rappresentativo e legittimo, dovrebbero meditare su questi
fallimenti e ricercare altri mezzi meno onerosi e più efficaci per aumentare la
democraticità della global governance.
Aumentare
il coinvolgimento e la partecipazione dei cittadini nella sfera globale
richiede molte meno risorse di scatenare una guerra e si dimostra essere assai
più efficace.
La
Bufala del
Riscaldamento Globale.
Conoscenzealconfine.it
– (19 Gennaio 2023) - Gabriele Sannino – ci dice:
Il
riscaldamento globale, come ormai sa chi mi segue, è una bufala colossale
dell’èlite per implementare il suo mondo “psico-green” e portarci all’agenda
2030 con restrizioni draconiane… in nome del’ “ambiente”.
Il “climate
change” di Biden, per esempio, prevede sussidi solo ad aziende considerate
“green”, e in questi tempi già così difficili, sta facendo fallire interi
comparti aziendali ed agricoli perché giudicati non “ecosostenibili”.
Anche
l’Europa va a ruota, imponendoci insetti al posto della carne e tentando
perfino di toglierci la casa, vista la direttiva sull’efficientamento ecologico
ed energetico delle abitazioni che vorrebbe discutere a breve.
Del
resto parliamo dell’Europa che manda armi all’Ucraina ma vuole la pace, ma
anche dell’Europa che ci tiene talmente tanto al nostro benessere… da comprare
il gas a 80 euro dagli amici americani mentre i nostri “nemici” ce lo vendono a
due euro, come ha sottolineato in un meme Diego Fusaro.
Ad
ogni modo, la teoria del riscaldamento globale – lo sappiamo – non ha NIENTE di
scientifico, proprio come la psico-pandemia e gli pseudo vaccini, basti pensare
a quanti scienziati come Carlo Rubbia abbiano già denunciato la frode.
D’altronde
gli ecologisti hanno Greta Thunberg, no?
Si sa
che è una scienziatah!
Ebbene,
sul giornale La Verità del 12 gennaio 2022, c’è un’altra crepa che fa cadere
questo muro globale di sciocchezze:
Valentina
Zharkova è una scienziata ucraina di spicco, che negli ultimi 30 anni ha
lavorato in diverse università britanniche, da Glasgow a Bradford fino alla
Northumbria University di Newcastle.
La
Zharkova parte dall’assioma del professor John Eddy, che nel 1976 stabilì che
la temperatura terrestre segue i cicli di intensità del sole, aumentando
durante i massimi solari e diminuendo durante i suoi minimi.
Secondo
la Zharkova, la temperatura solare è aumentata fino al 1960, mentre dal 1980 è
diminuita, anche se non di molto.
Nei
prossimi tre decenni – stando alle sue previsioni – dovrebbe diminuire di circa
un grado.
La
variazione dell’irradiazione – spiega a La Verità – dipende principalmente dal
sole ma anche dagli effetti orbitali del nostro Pianeta, ovvero dalle
variazioni cicliche ed eccentriche dell’orbita terrestre, che variano a seconda
dell’effetto gravitazionale di grandi pianeti come Giove, Saturno, Nettuno,
Urano.
Si
parla, a tal proposito, di moto inerziale solare (MIS), poiché ogni 2000 anni
circa la posizione del Sole cambia oscillazione rispetto al fuoco dell’orbita
terrestre e questo può provocare effetti nelle temperature, al di là dei
massimi e dei minimi della nostra stella.
Ecco
che il magico mondo dell’élite riguardo la CO2 crolla inesorabile anche in
questo caso:
ricordiamoci
che la CO2 è il gas della vita, le piante si nutrono di CO2 ed emettono
ossigeno, noi facciamo l’esatto opposto.
Azzerare
la CO2 significa azzerare la vita:
d’altronde
i piani dell’èlite sono proprio questi, e tutte le strade portano – guarda caso
– in quella direzione.
(Gabriele Sannino - t.me/gabrielesannino)
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