LOGICHE ELITARIE PERVERSE.

 

LOGICHE ELITARIE PERVERSE.

 

I Files di Twitter:

“Ogni Teoria del Complotto

si è avverata!”

Conoscenzealconfine.it – (18 Gennaio 2023) - Milosz Matuschek - ci dice:

 

I files Twitter di Elon Musk dimostrano la manipolazione inaudita dell’opinione pubblica.

È l’inizio della fine del potere del mainstream?

Censura è una brutta parola, soprattutto nelle democrazie.

In realtà non dovrebbe esistere.

Censura significa manipolare la formazione del pensiero sopprimendo determinate informazioni.

 

Negli ultimi tre anni di Corona, milioni di post sulle piattaforme sociali sono stati oscurati, rifiutati, cancellati.

I file di Twitter dimostrano ora che ciò avveniva spesso per iniziativa di agenzie statali come la CIA e l’FBI, il governo degli Stati Uniti e il produttore di vaccini Pfizer.

Chiunque disponeva di un potere sufficiente poteva calibrare i social media a proprio favore e controllare così il corso del dibattito pubblico.

Una libera competizione di opinioni: nessuna possibilità.

Tappeto rosso, invece, per la narrazione ufficiale del governo.

 Durante la pandemia, il mainstream mediatico era comunque in linea con il governo e un completo fallimento.

Da quando Elon Musk ha assunto il controllo del servizio di messaggistica breve, Twitter, ha fatto pubblicare documenti interni sugli autori freelance che scrivono sulla piattaforma di newsletter “Substack”:

Matt Taibbi, Bari Weiss, Alex Berenson, Michael Shellenberger e altri.

Le pubblicazioni mostrano sempre più l’intero quadro devastante per la libertà di espressione e sono quindi documenti attuali della massima importanza.

 Sono una lezione esemplare su come trasformare un corso d’acqua in una pozza morta e far credere al pubblico di aver fatto qualcosa per la difesa dell’acqua.

L’elenco degli scandali è lungo.

Ufficialmente, i grandi colossi tecnologici hanno annunciato che avrebbero cancellato solo le informazioni che contenevano inesattezze mediche, lasciando che fosse l’OMS a decidere quale fosse il punto di vista scientifico.

Questo è stato di per sé un rovesciamento totale del concetto di base della scienza, con la sostituzione del dibattito con il dogma, della ricerca della verità con la narrazione di una pseudo-autorità globale, di dubbia affidabilità e con molteplici condizionamenti.

Lo stesso Elon Musk ora dice delle azioni di Twitter:

“Praticamente ogni teoria del complotto si è avverata”.

Ora si scopre che la portata delle cancellazioni è molto maggiore.

 Secondo il rapporto, la CIA, l’FBI e altre agenzie governative hanno regolarmente inviato richieste di cancellazione di tweet o account, le hanno seguite e hanno insistito sulle loro richieste.

 

Al primo incontro dei funzionari di Twitter con l’amministrazione Biden, c’è stata una richiesta esplicita di agire contro gli “oppositori delle vaccinazioni”, mentre lo stesso Biden diffondeva informazioni palesemente false sul fatto che la vaccinazione proteggesse dalle infezioni.

L’amministrazione Biden ha esplicitamente chiesto e ottenuto la cancellazione dell’account di Alex Berenson, ex reporter del New York Times.

Anche i pareri degli esperti sono stati soppressi e manipolati.

Questo riguardava persino informazioni tecnicamente corrette che semplicemente non erano contenute nella linea del governo.

 Ad esempio, un tweet dell’epidemiologo di Harvard, Martin Kulldorff, che metteva in dubbio la necessità di vaccinare chi era già immunizzato dall’infezione, è stato definito “fuorviante” e messo in sordina.

L’account del professore di medicina di Stanford, Jay Bhattacharya, è stato inserito in una lista nera che ha impedito ai suoi tweet di essere visibili a un pubblico più vasto.

Aveva sottolineato la dannosità dei lockdown per i bambini. Contemporaneamente, Twitter ha affidato parte della moderazione dei contenuti a subappaltatori a basso costo nelle Filippine.

Twitter ha agito praticamente come una sub-agenzia dell’apparato di sicurezza statunitense e delle grandi aziende.

Le agenzie governative inviavano richieste che di solito venivano attuate in silenzio.

La FBI ha addirittura pagato a Twitter 3,5 milioni di dollari come compenso per le numerose richieste.

Abbiamo bisogno di altre prove riguardo una censura gestita e pagata dallo Stato? Come se non bastasse, anche Facebook ha cancellato contenuti che, pur essendo veritieri, avrebbero potuto causare un’azione frenante nei confronti dei vaccini.

Ai files di Twitter potrebbero presto seguire quelli di Facebook, di Google e così via. Tutto ciò dimostra che non si è mai trattato di disinformazione.

 Si trattava di superare una narrazione precostituita, e questo: a prescindere.

 I social media come tirapiedi dei potenti.

Particolarmente curioso è il ruolo di Pfizer, produttore di vaccini, su Twitter:

 Scott Gottlieb, membro del consiglio di amministrazione di Pfizer, ha chiesto a Twitter di intervenire contro un tweet che, se fosse diventato “virale”, avrebbe potuto mettere in pericolo le vendite di vaccini di Pfizer.

Il tweet si riferiva allo stato della scienza secondo cui l’immunità naturale è di gran lunga superiore all’immunità acquisita con il vaccino.

L’autore del tweet è l’ex capo della Food and Drug Administration (FDA) statunitense ed ex dirigente dell’OMS, Brett Giroir.

 Gottlieb è stato anch’egli a capo della FDA prima del suo incarico in Pfizer.

 Twitter ha etichettato il tweet di Giroir come “fuorviante”, anche se diversi studi dimostrano che il suo contenuto è corretto. Quindi, chi sta distorcendo la verità, e in quale modo?

La libertà di espressione è il diritto di esprimere un’opinione, anche se non piace agli altri.

Se agli altri piacesse, non ci sarebbe bisogno del diritto di farlo.

 Se si misura il grado di libertà di opinione con questo metro, viviamo lontani da un principio costituzionale reale e fondamentale.

È solo nell’ora della prova, cioè quando le dichiarazioni scontentano i più potenti del mondo, che si capisce se questa libertà esiste davvero.

I files di Twitter lo dimostrano: la censura è reale, i governi e le aziende manipolano la libera formazione dell’opinione.

Nel caso della cancellazione i files sul computer portatile di Hunter Biden, che, come ora sappiamo, contenevano grandi quantità di materiale compromettente, la pratica della censura ha persino influenzato l’esito delle ultime elezioni presidenziali Usa.

I files di Twitter mostrano inesorabilmente il quadro dell’attuale manipolazione del pubblico.

 In particolare, sfatano l’idea che non esista una censura nel vero senso della parola, poiché le aziende private fanno valere liberamente le loro condizioni d’uso, i loro diritti di domicilio per così dire.

 Le ondate dell’ultima pubblicazione mostrano la stretta delle agenzie governative e delle aziende.

Hanno monopolizzato lo spazio del dibattito su questioni politiche di massima importanza a loro favore.

Il processo per venire a capo di questa situazione è appena iniziato.

Quanto è profonda la palude?

I dossier Fauci, già annunciati da Musk, sono molto attesi.

Fauci è una delle figure chiave della pandemia e il funzionario pubblico più pagato degli Stati Uniti.

Anni prima del Corona, aveva annunciato il verificarsi di una pandemia “a sorpresa” e, più recentemente, aveva mentito al Congresso sulla ricerca sul gain-of-function.

La vicenda dei file di Twitter è già diventata un particolare boomerang per i media tradizionali, che finora hanno comprensibilmente trattato la questione come se fosse una patata bollente.

Le pubblicazioni dimostrano come i media abbiano difeso una narrazione ufficiale promuovendo la diffusione di dogmi e decretando alcuni discorsi tabù.

La grande svolta nel settore dei media si sta quindi avvicinando.

 I files di Twitter sono il dispositivo esplosivo nel mainstream.

 Milosz Matuschek (editorialista della Weltwoche e redattore di freischwebende-intelligenz.org.) (Recentemente ha pubblicato il bestseller dello Spiegel “Wenn’s keiner sagt, ich sag’s”, Fifty-Fifty, 2022).

Fonte originale: (weltwoche.ch/daily/jede-verschwoerungstheorie-ist-wahr-geworden-elon-musks-twitter-files-belegen-eine-beispiellose-manipulation-der-meinungsbildung-ist-dies-der-anfang-vom-ende-der-mainstream-m/)

(nogeoingegneria.com/ingegneria-sociale/i-file-twitter-ogni-teoria-del-complotto-si-e-avverata-e-linizio-della-fine-del-potere-del-mainstream/)

 

 

 

 

Salvatore Borsellino parla dopo

l’Arresto di Matteo Messina Denaro:

“Temo Nuovo Baratto con lo Stato”.

 

Conoscenzealconfine.it – (18 Gennaio 2023) - N. Palazzolo – ci dice:

 

Il fratello del giudice Paolo, ucciso da Cosa nostra nella strage di via D’Amelio, dopo l’arresto del superlatitante: “Non vorrei che la contropartita fosse l’abolizione dell’ergastolo ostativo”.

“Da un lato c’è la soddisfazione per un criminale finalmente assicurato alla giustizia, dall’altro l’amarezza per il fatto che ci siano voluti, come per Riina voluti, 30 anni di latitanza prima di catturarlo.

Questo aspetto mi fa perdere il gusto di questa gioia”.

Lo dice all’Adnkronos Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, il giudice antimafia ucciso da Cosa nostra nella strage di via D’Amelio.

Matteo Messina Denaro è stato arrestato a Palermo in una clinica dove si era recato per sottoporsi ad alcune terapie.

“Questo dimostra che ha continuato a insistere sul territorio, dal quale questi mafiosi non si allontanano mai”, dice ancora il fondatore del movimento delle “Agende rosse”.

Per Borsellino c’è poi un altro aspetto.

 “Il sospetto che questa cattura non sia ancora una volta frutto di un baratto con la criminalità organizzata.

Non vorrei che a fronte di questo arresto ci sia la liberazione dall’ergastolo ostativo di personaggi come i Graviano.

Mi aspetto di non vedere pagato nel prossimo futuro il prezzo di questa cattura.

Non vorrei che la contropartita dell’arresto di Messina Denaro fosse l’abolizione dell’ergastolo ostativo”

 (L’ergastolo ostativo rappresenta una tipologia specifica di pena detentiva, che oltre ad essere perpetua, rispetto all’ergastolo “semplice” impedisce alla persona condannata di accedere a misure alternative o ad altri benefici.

 In altre parole, se un ergastolo può, ad esempio per buona condotta o per altri meriti del detenuto, essere trasformato in una condanna con un termine, l’ostativo prevede tali possibilità unicamente nel caso in cui la persona in questione decida di collaborare con la giustizia.

Ovvero di diventare quello che viene definito un “pentito”.

 (lifegate.it/ergastolo-ostativo-definizione-corte-costituzionale-governo-meloni).

Il procuratore di Palermo, Maurizio De Lucia, ha sottolineato che adesso occorrerà indagare su chi ha coperto la latitanza dell’ex primula rossa.

 “Non è venuto fuori chi ha coperto quella di Riina e Provenzano… Questi criminali sicuramente non sono la mafia e sicuramente con il loro arresto la mafia non finirà.

È un fenomeno che va al di là degli uomini, il vero pericolo sono i rapporti tra la mafia e lo Stato, le complicità tra Cosa nostra e lo Stato “.

“La cattura di Messina Denaro era nell’aria, come già quella di Riina era stata preannunciata prima che avvenisse.

 Da qualche mese si sentiva parlare della sua possibile cattura, delle sue cattive condizioni di salute – conclude Salvatore Borsellino.

Mi aspettavo che succedesse.

 Per me non è fondamentale il suo arresto, ma che venissero alla luce i rapporti oscuri tra pezzi dello Stato e mafia stessa.

 Il vero successo sarebbe che venisse ritrovata l’agenda rossa e che chi l’ha sottratta venisse assicurato alla giustizia “.

(N. Palazzolo -- today.it/cronaca/matteo-messina-denaro-arrestato-salvatore-borsellino.html)

Il modello dell'inclusione e

la realtà della città multietnica.

 Treccani.it - Menola Zecca – (7 dicembre 2020) – ci dice:

 

Nuclei problematici e proposte per una salvaguardia del pluralismo identitario.

«Ex nihilo nihil fit» (Niente nasce dal nulla), si legge tra i versi del De rerum natura di Tito Lucrezio Caro.

Quel che il poeta epicureo affermava nel lontano I secolo a.C., così postulando l’eternità della materia, si ritiene possa essere oggi metaforicamente funzionale alla considerazione critica di alcuni eventi che, dal 2016 in particolare, hanno caratterizzato lo scenario politico globale.

Dalla Brexit nel Regno Unito, seguita nello stesso anno dall’elezione di Trump, al referendum in Catalogna del 2017, fino a giungere alla graduale – sebbene sempre più massiccia – avanzata di partiti sovranisti ed euroscettici, chi dichiaratamente, chi no.

Per ciascuno di questi eventi, l’insofferenza nei confronti di istituzioni centralizzate (prima fra tutte, l’Unione Europea) si accompagna spesso ad un’esaltazione dell’ideologia nazionalista, che, mal adattandosi ad una circoscritta e analitica definizione, non è raro venga spesso asservita alle dinamiche di una perversa propaganda.

L’idea che uno Stato, autogovernandosi, riesca ad arginare i rischi di una politica economica globalizzata, che la crisi del 2008 ha rivelato essere sempre più difficilmente controllabile, è l’illusione ricorrente di quanti confidano in un’ideologia tanto sottile quanto poco strutturata.

Ne deriva la costituzione di patrie sempre più chiuse e rancorose, dove un individualismo non virtuoso dilaga e male si adatta a logiche di inclusione comunitaria.

Ciononostante, in un mondo che mai come oggi sembra incarnare la sfida al pregiudizio, nata dalla necessità di condividere con l’Altro il proprio tempo e il proprio spazio, la polietnica e il pluralismo culturale si presentano quali realtà ineludibili all’interno della società.

Risulta, a questo punto, inevitabile una riflessione sul concetto di confine, spesso erroneamente associato al limitato campo delle politiche territoriali.

 «Vorrei sapere se esisto o non esisto! (…)

Per voi l’esistenza di un uomo non conta affatto!

 Conta solo la sua carta d’identità. (…)

Il mondo va avanti con la legge, le carte, i regolamenti.

Molto presto ci vorrà un permesso per vivere (…) e per poter respirare!»,

declama Fernandel al cospetto delle guardie poste a controllo della frontiera Italia – Francia, dopo aver scoperto d’esser stato concepito esattamente sulla linea del confine tra le due nazioni.

Il monologo, tratto da “La legge è legge” (1958) di Christian-Jaque e rimasto tra i più celebri della storia del cinema, presenta il confine quale limite di conservazione di un’identità, stimolando – così – la riflessione sulle pluralità problematiche che tale concetto trascina con sé.

Un elemento identitario, d’altra parte, è definito tale poiché, includendo qualcuno, inevitabilmente esclude qualcun’altro.

Alla luce di questo, risulta evidente come la proposta di un modello di salvaguardia del pluralismo non possa prescindere dal chiedersi quale sia il punto d’unione perfetto tra integrazione e identità.

Nell’Italia degli anni ‘60, la riflessione critica sul sociale e i suoi servizi, finalizzata alla realizzazione di una democrazia sostanziale, che andasse al di là della semplice formalità e che ponesse al centro della sua effettiva realizzazione il valore inalienabile della persona, stimolò l’emergere di una certa sensibilità politica, oltre che culturale, sul tema in questione.

La ricerca di un’unità relazionale tra pari, che limitasse l’emarginazione sociale e da cui, poi, sarebbe scaturito un inevitabile spirito di forte competitività, si tradusse in uguaglianza di trattamento, che sulla base dell’assimilazione – propria, tra l’altro, della visione colonialista europea – si sostanziò nell’assoluta neutralità dello Stato, nonché nella sua totale assenza anche nella promozione della libertà e del benessere dei singoli.

 Non è questa la sede per analizzare le criticità connesse ad un tale sistema unitario di appartenenza, né tanto meno per affrontare le contingenze che lo misero in discussione.

Quel che qui ci si limita a fare è proporre un piano di integrazione alternativo all’amalgama eterogeneo del melting post, che, attraverso l’equilibrio tra tutela dei diritti della persona e logica di inclusione comunitaria, resti esente dal rischio di omogeneizzazione sociale e incomunicabilità tra culture.

L’urgenza di dare vita ad un modello così intenzionalmente finalizzato è ancor più avvertita se si considerano i numerosi casi giudiziari che, rendendo palese la mancanza del basilare principio di certezza del diritto, evidenziano l’esigenza di un dialogo tra istituzioni e culture, oggi assente.

A tal proposito, è bene richiamare alla memoria una sentenza emessa dalla Supreme Court nel 1967, e che molto fece discutere.

Protagonista era una donna di religione ebraica ortodossa che, salita su una seggiovia priva di sorveglianza assieme ad un amico, si vide costretta dalla vincolatività di una norma del suo gruppo (che le vietava di trascorrere la notte con un uomo) a gettarsi giù, in seguito ad una imprevista chiusura dell’impianto al tramonto, così provocandosi gravi lesioni.

 Il fatto che la Corte statunitense decise di conferire il risarcimento alla vittima non per la mancanza di controllo dell’impianto in moto, bensì per il salto volontario cui questa fu costretta, evidenzia come un principio fondamentale quale quello della libertà individuale sia entrato in contrasto, se non in subordine, rispetto a norme elitarie e prive di valenza statale.

Ammettere, come in questo caso, l’incapacità di prevedere l’applicabilità della norma significa constatare il bisogno di fare dello Stato e delle sue istituzioni gli elementi strutturali del corpo sociale, e in questo integrati.

Quel che si sollecita è un vero e proprio rimodellamento del contesto che, facendo leva sulle capacità potenziali di un territorio, realizzi una relazione inclusiva tra le diverse entità del corpo sociale, ciascuna caratterizzata da propri confini.

Quel che nell’integrazione diventa fusione e, dunque, negazione della differenza, nell’inclusione diventa preservazione dell’identità, pur nel riconoscimento della reciproca appartenenza di elementi comuni alle entità sociali.

È evidente che l’inclusione, vista quale frutto di una relazione piuttosto che di un’identità a sé stante, presupponga la promozione di azioni di tutela delle specificità, per le quali la città multietnica si presenta come il terreno di interazione migliore.

Sfruttando il potenziale comune alle diverse entità performative del corpo sociale e sullo sfondo di una garantita legalità internazionale a tutela della dignità umana, la città multietnica si pone come strumento ideale per porre fine all’affannosa rincorsa all’integrazione spontanea e per impedire reazioni folli ad una marginalità sociale oggi sempre più sofferta.

 

 

 

 Processo mediatico e

difesa della persona.

Giustiziainsieme.it – Marco Dell’Utri – (07 MAGGIO 2022) – ci dice: 

(Processo mediatico e difesa della persona*)

 

L’antropologia culturale invita a considerare la dimensione rituale o sacrale del processo, in cui la violenza del conflitto è sublimata nel linguaggio.

 Fuori dal contesto spazio-temporale del processo, la violenza del conflitto deflagra, ‘scatenata’, pur conservando la propria intima natura politico-culturale, e diviene, attraverso la progressiva democratizzazione dei nostri sistemi, uno dei capitoli più rilevanti della c.d. ‘società dello spettacolo’.

Il richiamo alla riflessione di Walter Benjamin, sull’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, offre quindi lo spunto per un ripensamento, lungo quelle coordinate, delle forme attraverso le quali la violenza del conflitto processuale diviene, filtrata dalle logiche del capitale, un potente strumento di repressione sociale.

 Un’operazione a cui è dato rispondere, individualmente, attraverso la rimeditazione, in chiave politica, della protezione dei dati personali e, collettivamente, mediante l’impegno alla trasmissione della cultura come assunzione cosciente di un debito generazionale.

1. Processo, ritualità, violenza. 

La comprensione dei modi attraverso i quali la comunicazione di massa agisce sul processo richiede lo svolgimento di una riflessione di carattere preliminare, destinata a mettere in luce i termini di una struttura processuale essenziale.

Non aiuta, in questo senso, una certa (diffusa) inclinazione ‘produttivistica’ nella considerazione dei temi del processo.

L’accostamento del processo all’idea della ‘produzione’ induce a guardarvi come a un’attività servente o strumentale alla realizzazione di fini ad essa estranei; un impegno vòlto, attraverso la tecnica giudiziaria, al compimento del prodotto, e dunque del giudizio (la decisione, la sentenza), di regola chiamato a tradurre, in termini matematici, uno dei principali indici di misurazione della produttività del giudice.

Un’antica tradizione di origine aristotelica – la cui più recente riscoperta ha costituito un tratto essenziale di gran parte del pensiero etico-politico del Secondo Novecento – invita a distinguere, della vita pratica dell’uomo, l’attività produttiva (la poiesis, governata dalla techne) dalla prassi (la praxis), avente se stessa quale propria finalità:

l’attività per cui l’uomo pone la propria stessa azione come oggetto di un percorso di graduale educazione e perfezionamento, attraverso il governo (non già della ‘tecnica’, bensì) della ‘saggezza’ (phronesis).

 

Produzione e prassi (poiesis e praxis) valgono a distinguersi dunque in ciò, che il sapere teorico generale di cui l’uomo dispone è destinato, nella produzione che si avvale della tecnica (techne), a trasferirsi sulle cose allo scopo di trasformarle in conformità ad esso;

per cui il prodotto, come fine di per sé estraneo all’attività produttiva, diviene lo specchio (o, meglio uno specchio) concretizzato del sapere teorico.

Nel caso della prassi, governata dai canoni della saggezza (phronesis), il sapere teorico generale è viceversa chiamato a combinarsi o a ‘contaminarsi’ con la realtà, con le circostanze e le vicende del mondo, affinché sappia modificarle, ma insieme anche lasciarsene modificare, sì da dar luogo a una nuova forma di sapere capace, con saggezza, di coniugare, e tenere insieme, il generale e il particolare.

Seguendo il filo di queste linee argomentative, alla descrizione dell’attività processuale sembra dunque convenire la qualificazione nei termini di una prassi, ossia di una specifica attività pratica, governata dalla saggezza, che ha fine in sé stessa.

Ogni atto del processo è il giudizio stesso (in taluni contesti, ‘processo’ e ‘giudizio’ sono usati come sinonimi):

 in realtà, il processo è il giudizio che si va facendo in un tempo e in un luogo determinati, in una dimensione spazio-temporale specificamente qualificata.

È determinante la comprensione della circostanza per cui lo spazio e il tempo giocano un ruolo costitutivo essenziale per la formazione e la realizzazione del processo:

 fuori da un certo spazio e da un certo tempo non si dà alcun processo, né alcun giudizio.

Il riferimento allo spazio e al tempo del processo non è qui (tanto) inteso nel senso in cui l’essenzialità del luogo compare nella norma costituzionale sulla ‘naturalità’ del giudice (art. 25 Cost.), o nelle norme sulla competenza o nell’istituto della rimessione o del c.d. legittimo sospetto (art. 45 c.p.p.).

Il richiamo alla dimensione spazio-temporale del processo è piuttosto operato, ai fini del discorso che si conduce, in relazione alla singolare concretezza dell’udienza, intesa come spazio strutturato nelle forme di un particolare arredamento e destinato ad essere vissuto in uno specifico tempo, che è il tempo della presenza di soggetti che convengono ed agiscono in una forma regolata.

L’accentuata valenza simbolica della fenomenologia giudiziaria ci avverte che il processo regolato dalla legge è un evento che accade, propriamente, nel luogo e nel tempo di un ‘rito’:

 la dimensione ‘rituale’ dell’attività giudiziaria (di ‘rito civile’ o di ‘rito penale’ discorrono, di regola, gli studiosi del processo) rivela (secondo quanto insegna da sempre l’antropologia culturale) le forme di quell’essenziale (e irrinunciabile) meccanismo di trasformazione, in simbolo, della violenza del conflitto:

in breve, il processo opera la sublimazione e l’addomesticamento della violenza in linguaggio.

In un recente libro sulle ‘storie e le immagini del processo’ (scritto, nel quadro dell’esperienza di studi del c.d. “Law and  Literature Movement”, da uno studioso del processo civile italiano) si legge come costituisca «un dato acquisito all’antropologia culturale e giuridica, la propensione di ogni collettività organizzata a risolvere le liti tra i consociati, e a gestire le reazioni ai comportamenti antisociali, trasferendo le une e le altre in una dimensione metaforica e in un mondo artificiale strutturato, sotto ogni aspetto rilevante, come un dopo una gara.

E si potrebbe dire che proprio questa, nelle cosiddette società primitive, è l’origine del processo:

 il quale consiste fondamentalmente nell’utilizzare una struttura ludica agonistica (che, come tale, sarebbe fine a sé stessa) in funzione della composizione di controversie e affari reali, cioè per attuare finalità socialmente ed economicamente rilevanti».

Questo addomesticamento del conflitto e della violenza in linguaggio trova un suo corrispettivo, nel processo, nella cura delle parole e dei ragionamenti, nella meticolosa e tradizionale abitudine del ceto dei giuristi di lavorare sulla parola, sul senso logico delle proposizioni e delle argomentazioni e, infine, sul rigore che lega il senso di queste argomentazioni al conforto delle evidenze obiettive, delle prove, che si formano nello stesso processo.

La formalizzazione in rito della violenza del conflitto rende l’accadimento del processo un evento ‘grave’, a cui si addice la ‘gravità’ del tono dei partecipanti; è un evento che vive della strutturale ‘pesantezza’ della materialità dei gesti ripetuti e delle parole performative, ossia delle parole che non sono primariamente destinate a comunicare un significato, bensì direttamente a cambiare le cose, a fare, foucaultianamente, ‘cose con parole’.

La strutturale gravità, la pesantezza, spesso l’incomprensibilità, per i laici, del processo, nella ritualità delle sue forme, ci presenta i tratti di una rappresentazione che, fuori dai suoi momenti di maggiore pregnanza emotiva (l’assunzione di una particolare testimonianza; l’atto della lettura del dispositivo) diviene financo noioso.

2. Processo e riflessione storico-culturale. 

Ma il processo è anche il simbolo di una società che riflette sui suoi valori.

Il riferimento corre in primo luogo, come può intuirsi, alla narrazione evangelica del giudizio di Pilato e del Crucifige popolare.

 E, prima ancora, all’esperienza di Socrate, primo drammatico atto di un confronto, quello tra le esigenze realistiche della politica e i più larghi orizzonti della cultura, tragicamente consumato lungo il ‘dialogo’ del processo ateniese.

All’esperienza del ‘giudizio’ e del ‘processo’ fu quindi successivamente legata la difesa di quella cultura che la Chiesa aveva lungamente elaborato, conservato e diffuso nei secoli interminabili della clausura monastica e della successiva organizzazione universitaria.

La storia dell’intolleranza e la lunga stagione delle guerre di religione, che tanta parte avrebbero avuto nel disegno dei confini europei, non solo politici, toccano e attraversano la vicenda giudiziaria dell’Inquisizione, consegnando all’orizzonte della ricognizione storica la testimonianza di significative esperienze giudiziarie, di cui gli esempi di ‘intellettuali’ come Tommaso Campanella o Giordano Bruno costituiscono una fedele attestazione.

Nel medesimo arco di tempo, ma nel contesto di un’esperienza storica e culturale del tutto diversa, si collocano le vicende della condanna subita da Tommaso Moro, cui occorre risalire per la ricostruzione dei momenti determinanti del processo di consolidamento dell’autonomia politica britannica e della tradizione ecclesiastica anglicana.

Di un altro celebre ‘processo’ - violentemente condotto ed amaramente concluso con il rinnegamento e l’umiliante abiura galileiana – occorre dire, là dove l’esempio di un contesto giudiziario impaziente, ed insofferente al dialogo scevro da pregiudizi, assurge a simbolo del contrasto irriducibile e dell’insanabile conflitto tra il dogmatismo religioso e le orgogliose pretese del pensiero scientifico nascente.

È ancora la sommarietà del processo e, simbolicamente, i suoi terribili strumenti di esecuzione, ad occupare la scena sanguinosa della stagione del ‘Terrore’ e dell’intransigenza giacobina, nel quadro di quella trasfigurazione radicale che fu la rivoluzione borghese, sul piano della riorganizzazione politica, del risveglio delle coscienze popolari, della prima stagione europea della costituzionalizzazione dei ‘diritti naturali’, che solo pochi anni prima aveva conosciuto, sul suolo nordamericano, il proprio battesimo storico.

La rapida ricognizione (evidentemente incompleta, e certamente suscettibile di arricchimenti non meno significativi), intessuta di momenti così cruciali della storia del pensiero e della cultura occidentale, nel loro incontro con il luogo del processo ed, alla fin fine, con il loro ‘giudice’ (dove questi - lungi dall’identificarsi con l’individualità della sua persona - appare più spesso intuito come l’espressione soggettiva della cultura del proprio tempo), invita a riflettere sul dato, storicamente ricorrente, costituito dall’esigenza, talora dalla tentazione irresistibile, del potere, di ricorrere all’organizzazione del ‘giudizio’, ed alla elaborazione dialettica del confronto, là dove le urgenze della storia impongono la necessità di una possibile conferma dell’esistente (talora trepidamente cercata, più spesso violentemente imposta), ovvero la disponibilità all’umile ricezione ed al successivo consolidamento di un ‘nuovo’ pensiero.

 

In ogni caso, il ricorso al processo appare storicamente alimentato (a fronte dell’incessante violazione dell’ordine costituito) da una continua tensione, connaturata al sistema politico, di ‘ricapitolazione’ del ‘senso’ dei propri valori (normativamente espressi); degli stessi disponendo, di volta in volta, la conferma, la revisione, l’aggiornamento, l’annuncio della caduta, sulla via di una possibile, ma sempre precaria ed incerta, ‘stabilizzazione’.

Dunque, ogni società organizza il suo processo come luogo che è, accanto ed oltre al giudizio sui fatti, anche una forma di laboratorio culturale ed etico-politico.

La valenza politica del processo richiede che del processo socialmente si parli e che del processo si dia notizia;

 che lo si ponga a oggetto di discussione e su cui sia opportuno si formino opinioni.

A testimonianza di questa osservazione varrà richiamare il contributo fornito dalla storia della cultura, là dove ci insegna come la figura moderna dell’intellettuale sia nata e si sia affermata, in corrispondenza al cosiddetto affaire Dreyfus, ai margini di un processo giudiziario.

Il significato e il valore di quella vicenda chiedono d’essere ricercati nella rottura (che il J’accuse di Zola ebbe plasticamente e clamorosamente a rappresentare) degli argini politico-istituzionali, entro i cui confini una lunga tradizione politica e culturale aveva rinchiuso la ricerca ‘dialettica’ di quella ‘stabilizzazione culturale’ che il processo aveva, talora, simbolicamente rappresentato, e le clausure dell’accademia garantito, nel segno di una riconoscibile vocazione elitaria della cultura.

Nell’ambito di quell’esperienza occasionata dal processo, la ‘pubblicizzazione’ e la diffusione popolare del dialogo sui temi di più rilevante impegno etico politico e sociale, ad opera dei più noti scrittori e ‘intellettuali’ del tempo, valsero a segnalare l’esigenza - ormai non più eludibile - di una più larga ‘partecipazione’ collettiva ai processi di formazione e di consolidamento dell’ancora incompiuta e balbettante democrazia francese, nel passaggio tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del secolo appena trascorso.

Tradotta nei termini di un discorso storicamente e culturalmente più impegnativo, la notazione assume un suo preciso valore ove si connettano il piano del coinvolgimento politico dell’intellettuale e del pubblico esercizio critico sui temi connessi all’attualità, a quello dell’allargamento degli spazi di partecipazione politica delle masse;

 là dove il dibattito suscitato dall’ “home de lettre” nell’ambito più vasto dell’‘opinione pubblica’, sottraendo l’esclusività della funzione di ‘laboratorio morale’ della comunità alle clausure dell’accademia, si offre quale occasione di approfondimento della partecipazione democratica collettiva.

In questo senso, l’orientamento repressivo rivelato dalle esperienze processuali più sopra ricordate, fino al tornante della Rivoluzione francese, tende ad attenuarsi e a stemperarsi nella progressiva realizzazione delle garanzie di libertà e di rispetto della persona implicate dall’organizzazione delle moderne entità statuali.

In queste, la stessa esigenza (più o meno avvertita nel tempo e nello spazio) della preservazione dell’autonomia e dell’indipendenza del potere giudiziario da quello politico pone le premesse di una progressiva trasformazione dell’attività giudiziaria, là dove il processo ‘democratico’ tende a divenire, da ‘luogo’ della repressione formalizzata, lo ‘spazio’ delle ‘ragioni degli altri’ nell’interpretazione dei valori comuni.

Uno spazio che acquista il suo senso financo nell’ascolto, solo apparentemente paradossale, che si fa dolente comprensione dell’inaccettabile inclinazione al Male degli uomini condotti al crocevia di Norimberga.

3. Processo, democrazia e società dello spettacolo. 

Rinunciare all’apertura pubblica dei processi, al valore democratico della partecipazione popolare ai temi processuali, significherebbe ormai, nel contesto della cultura contemporanea, rinnegare i presupposti di un percorso di civiltà politica e culturale.

È sufficiente, a voler esemplificare il significato di simili asserzioni, l’osservazione delle più recenti vicende politiche internazionali e, in particolare, le notizie sul divieto diffuso in Turchia (non solo di riprendere attraverso telecamere o macchine fotografiche, bensì) di disegnare durante i processi: un fatto destinato a fornire una spiegazione molto eloquente sull’essenzialità, in chiave democratica, della comunicazione delle stesse immagini del processo.

Il modo attraverso il quale il processo viene comunicato pubblicamente è, nel nostro tempo, quello che (occorre dire, strutturalmente, e quindi inevitabilmente) ha finto col provocare l’inevitabile e progressiva (ma in larga misura, già compiuta) ‘desacralizzazione’ degli atti della giustizia.

Si tratta di un’operazione che può ritenersi il portato proprio della società dello spettacolo, di quella società che lo stesso Guy Debord aveva definito, negli anni Sessanta, come la società in cui i rapporti tra gli individui sono mediati da immagini.

Il processo di desacralizzazione degli atti della giustizia (che, in ultima analisi, si traduce nella sottrazione del processo alla sua materia sacrale, ossia al suo specifico luogo fisico e al tempo storico della ‘presenza’ infungibile dei suoi attori), avviene dunque attraverso la mediazione dell’immagine del processo.

Si tratta, tuttavia, di un’immagine che, per poter essere veicolata socialmente, per poter catturare l’attenzione e dunque l’interesse dei suoi destinatari, richiede di essere filtrata, manipolata, spogliata di tutti i suoi vestimenti rituali che la rendono grave, pesante, noiosa e incomprensibile, per sottoporla a un processo di semplificazione, di adattamento al consumo, e dunque a quel confezionamento che è esattamente il prodotto circolante nell’industria mass-mediatica.

Naturalmente, si tratta di prodotti di varia natura e di diversa destinazione, poiché l’adattamento del processo alle esigenze della comunicazione di massa cambia a seconda dello scopo della comunicazione:

 dall’informazione in sé (un telegiornale o un rotocalco di approfondimento civile o politico), alla rappresentazione del processo come forma di spettacolo.

Si tratta di operazioni che, in termini strettamente industriali, vanno da una minore ‘raffinazione’ (secondo lo stile, ad esempio, di un programma come Un giorno in pretura, in cui le fasi del processo vengono riprese e riproposte in modo diretto, sia pure attraverso un lavoro di taglio e di rimontaggio guidato dalle spiegazioni della conduttrice), ad altre forme assai più elaborate, in chiave produttiva, in cui, per lo più a fini di intrattenimento (o di infotainment, secondo il neologismo che designa il progetto di mescolare, in un unico contenitore, informazione e intrattenimento), si tenta di ‘ripetere’ o di ‘rifare’ il processo attraverso il ricorso ad altre forme ed altri strumenti.

In ogni caso, si tratta di trasformare il processo in ‘qualcosa’ di sostanzialmente diverso dal processo, poiché quel ‘qualcosa’, strappando il processo al suo tempo e al suo spazio, ne ha disincarnato l’essenza.

È agevole comprendere questo aspetto di disincarnazione del processo dalla sua ‘essenza sacrale’ attraverso l’evocazione di quelle situazioni in cui, ad esempio, un testimone o la vittima di un determinato reato (si pensi a una violenza sessuale, o anche alla richiesta di rievocazione di momenti particolarmente dolorosi per chi è chiamato a narrarli) viene chiamato dal giudice ad ‘entrare nei particolari’, a precisare la descrizione di momenti o situazioni peculiari, talora vincendo o superando le comprensibili resistenze, i pudori e a volte la stessa sorpresa del proprio interlocutore, impreparato a entrare, pubblicamente, in un discorso per definizione ‘osceno’.

L’oscenità di cui si parla è qui intesa nel senso di ciò che, per consuetudine, dovrebbe rimanere lontano dallo sguardo, e la cui esibizione rimanda con immediatezza a una sensazione di violenza, naturalmente connessa alla sua immagine.

Qualcosa che per sussistere necessita dell’oscurità e del silenzio come del suo ambiente naturale;

che, se esibita impudicamente, non può che veder compromessa e corrotta la propria natura.

 Vi sono sguardi che bruciano ciò che vedono e rispetto ai quali il pudore ha il senso di una difesa essenziale.

Quei precisi e delicati momenti del processo (di per sé destinati a contribuire alla ricostruzione dei fatti, solo in questa misura giustificando il potere del giudice o dei difensori di entrare in una sfera altrimenti inaccessibile) diviene, in quel ‘qualcosa’ che è l’immagine spettacolare del processo, pettegolezzo, irriverenza, simulacro di un’autorizzazione all’invasione della vita e dei sentimenti altrui, al solo scopo di un compiacimento fine a se stesso (ossia di un puro consumo a fini di evasione).

Diventa violenza nuda.

Questa specifica disincarnazione del processo dalla sua essenza di frammento spazio-temporale (ossia di un fenomeno che ha un senso solo nel luogo e nello spazio che lo ospita e nella ‘presenza’ formalizzata dei suoi attori) determina, come fatto più grave (sotto il profilo del rispetto della persona), la spoliazione di tutti i protagonisti del processo della loro ‘veste’ processuale, e dunque del loro valore di protagonisti di un rituale di esorcizzazione della violenza che, non più sublimata nel linguaggio e nelle forme della sua rappresentazione simbolica, si ‘scatena’ in tutta la sua cruda naturalità e chiede di parteciparvi.

Il grumo di violenza ritualizzata in cui consiste il processo assume, fuori dalle sue forme regolate, la fisionomia della violenza ‘scatenata’, del conflitto senza limiti.

Si tratta della rappresentazione per immagini della pura aggressività in cui la richiesta di partecipazione è, propriamente, quella che invita a ‘schierarsi’ secondo la variabile configurazione delle tonalità emotive che (inevitabilmente) prevalgono sul distacco del pensiero logico-critico.

Il disvelamento della violenza del processo al di fuori dei suoi confini rituali porta con sé la conseguenza per cui ogni sofferenza e ogni debolezza personale (nessuna esclusa, dalla sofferenza della vittima colpita nella sua intimità, a quella dell'imputato spogliato di ogni sua riservatezza, a quelle degli stessi professionisti, i difensori o il giudice, inevitabilmente soggetti a errori, a cadute o insufficienze) si trova adesso gettata, nuda e indifesa, in un ruolo di protagonista di un fenomeno (l'immagine circolante del processo) naturalmente violento, totalmente governato dagli obiettivi e dagli interessi dei suoi produttori, ossia degli ‘editori’ dello ‘spettacolo-giustizia’.

Converrà ammonire come i fenomeni descritti non vadano necessariamente ascritti all’espressione di una scelta di tipo banalmente speculativo, trattandosi di epifenomeni strutturali tipici dei modelli di società, come la nostra, che organizza le forme della produzione secondo una struttura di tipo capitalistico, e che si avvale di elevati livelli di sofisticazione tecnologica nelle modalità della comunicazione in un contesto politico di tipo democratico.

La natura strutturale e, dunque, il carattere inevitabile del fenomeno legato alla produzione delle immagini del processo destituisce di qualunque significato ogni eventuale scopo politico destinato a combatterlo o ad eliminarlo;

una simile opzione, infatti, equivarrebbe a negare, e in qualche misura a tradire, il senso stesso delle radici di quella stessa cultura civile e democratica, lungamente costruita e faticosamente realizzata nel tempo.

Assume piuttosto valore, da questa prospettiva, l’analisi del senso di tale sviluppo storico e l’indicazione delle tracce che valgano a prefigurare una possibile combinazione tra la necessità sociale del processo e l’inclinazione strutturale alla pervasività propria della comunicazione di massa.

4. Il processo nell’epoca della sua riproducibilità tecnica.

Nel corso della seconda metà degli anni Trenta, Walter Benjamin scrisse il saggio “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”, ponendosi l’obiettivo di analizzare – nei termini di un’argomentazione largamente dominata da premesse teoriche d’indole marxiana – il destino dell’opera d’arte, e dell’esperienza della sua fruizione, nel tempo governato dall’operatività di strumenti tecnologici idonei ad assicurare la riproducibilità di quell’opera in forme materiali concretamente capaci di raggiungere un numero illimitato di fruitori.

Là dove, in precedenza, l’esperienza contemplativa legata all’ascolto di un concerto, o alla visione di un quadro, di una statua, di una rappresentazione teatrale, esigeva la contemporanea presenza dell’opera, dei suoi esecutori e del fruitore in un medesimo contesto spazio-temporale (la sala del concerto, il museo espositivo, il teatro), adesso il disco, la fotografia o il film, valgono a ricostruire in modo totalmente sovvertito le modalità del contatto del singolo fruitore con l’opera (o, meglio, con la sua riproduzione) in una forma totalmente dislocata nello spazio e nel tempo, in un luogo privato e in un momento arbitrariamente prescelto, dove l’esperienza contemplativa, totalmente allontanata dalla materialità o dalla concreta ‘presenza’ dell’originale dell’opera, assume connotati che s’intuiscono radicalmente sovvertiti.

Anche “nel caso della riproduzione più perfetta, manca un elemento: l’hic et nunc dell’opera d’arte - la sua esistenza unica è irripetibile nel luogo in cui si trova”.

Le modificazioni delle circostanze indotte dalla riproduzione tecnica dell’opera “possono anche lasciare intatta la consistenza intrinseca dell’opera d’arte - ma in ogni modo determinano la svalutazione del suo hic et nunc” e, dunque, “la sua autenticità.

L’autenticità di una cosa è la quintessenza di tutto ciò che, fin dall’origine di essa, può venir tramandato, dalla sua durata materiale al suo carattere di testimonianza storica.

 Poiché quest’ultima è fondata sulla prima, nella riproduzione, in cui la prima è sottratta all’uomo, vacilla anche la seconda, il carattere di testimonianza storica della cosa.

 Certo, soltanto questa;

 ma ciò che così prende a vacillare è precisamente l’autorità della cosa, il suo peso tradizionale.

Questi tratti distintivi possono essere riassunti nella nozione di aura; e si può dire: ciò che viene meno nell’epoca della riproducibilità tecnica dell’opera d’arte è la sua aura”.

La tecnica della riproduzione “sottrae il riprodotto all’ambito della tradizione. Moltiplicando la riproduzione, al posto del suo esserci unico essa pone il suo esserci in massa.

 E permettendo alla riproduzione di venire incontro a colui che ne fruisce nella sua particolare situazione, attualizza il riprodotto.

 Ma il significato sociale, anche nella sua forma più positiva, e anzi proprio in questa, non è pensabile senza quella distruttiva, catartica: la liquidazione del valore tradizionale dell’eredità culturale”.

All’interrogativo su cosa sia l’aura in realtà, Benjamin risponde: “una singolare creazione spazio-temporale: apparizione unica di una lontananza, per quanto questa possa essere vicina.

Seguire, in un pomeriggio d’estate, una catena di monti all’orizzonte oppure un ramo che getta la sua ombra su colui che si riposa - ciò significa respirare l’aura di quelle montagne, di quel ramo.

Sulla base di questa descrizione è facile comprendere il condizionamento sociale dell’attuale decadenza dell’aura.

 Essa si fonda su due circostanze, entrambe connesse con la crescente importanza delle masse e la crescente intensità dei loro movimenti.

E cioè: rendere le cose, spazialmente e umanamente, ‘più vicine’ è per le masse attuali un’esigenza vivissima, quanto la tendenza al superamento dell’unicità di qualunque dato mediante la ricezione della sua riproduzione.

Ogni giorno si fa valere in modo sempre più della sua riproduzione”.

L’aspetto positivo dell’universalizzazione dell’esperienza dell’arte attraverso la sua riproduzione tecnica è rappresentato, per Benjamin, dalla politicizzazione della sua essenza che sancisce la fine della sua autorità sacrale e metafisica:

“per la prima volta nella storia del mondo la riproducibilità tecnica dell’opera d’arte emancipa quest’ultima dalla sua esistenza parassitaria nell’ambito del rituale.

 In misura sempre maggiore l’opera d’arte riprodotta diventa la riproduzione di un’opera d’arte predisposta alla riproducibilità.

Di una pellicola fotografica, per esempio, è possibile tutta una serie di copie; chiedersi quale sia la copia autentica non ha senso.

Ma nell'istante in cui nella produzione dell’arte viene meno il criterio dell’autenticità, si trasforma anche l’intera funzione dell’arte.

Al posto della sua fondazione nel rituale s’instaura la fondazione su un’altra prassi: vale a dire il suo fondarsi sulla politica”.

5. Processo, consumo e repressione sociale.

Il lettore avrà agevolmente compreso lo stretto nesso di corrispondenza analogica che si è inteso istituire, attraverso la riflessione di Walter Benjamin, tra l’esperienza ‘auratica’ dell’opera d’arte e la partecipazione al processo giudiziario nella forma della ‘presenza’, e dunque secondo la sua dimensione propriamente sacrale o rituale.

Converrà seguire sin nelle sue più profonde implicazioni il significato della sostanziale sovrapponibilità dei processi storico-culturali che hanno progressivamente trasformato, attraverso la moltiplicazione e la diffusione delle relative immagini, l’aspetto sacrale e autoritario – e dunque l’aura – dell’opera d’arte (e del processo giudiziario) in un rapporto di massa.

La dissacrazione e la destituzione dell’autorità auratica hanno senso, sul piano storico-culturale, unicamente là dove la riproduzione e la diffusione dell’immagine a beneficio delle masse riesca nell’intento di realizzare il proprio scopo specificamente politico;

 ciò che si traduce nell’estensione della partecipazione democratica, tanto nei confronti dell’esperienza estetica, quanto della riflessione collettiva sul processo giudiziario come momento di rielaborazione storico-culturale. Ma in una società in cui i rapporti tra i singoli appaiono largamente informati, o compromessi, dagli interessi del profitto, la strumentalizzazione a fini commerciali dell’immagine dell’opera (o del processo) finirà con lo sterilizzarne la dimensione propriamente politica, frustrandone definitivamente gli scopi, con la realizzazione del vantaggio (commerciale) di pochi e la negazione dell’accesso della massa al senso proprio dell’opera come forma comunicativa, o del processo come laboratorio etico-politico.

Con specifico riferimento all’esperienza cinematografica, Benjamin osserva come il controllo della dimensione politica di quella forma comunicativa potrà aver luogo unicamente “quando il cinema si sarà liberato dalle catene del suo sfruttamento capitalistico.

 Infatti, attraverso il capitale cinematografico le opportunità rivoluzionarie di questo controllo vengono trasformate in controrivoluzionarie.

 Il culto del divo da esso promosso, non solo conserva quella magia della personalità che già da tempo è ridotta alla magia fasulla propria del suo carattere di merce, ma il suo complemento, il culto del pubblico, contemporaneamente promuove quella corruzione dello stato d’animo della massa che il fascismo cerca di mettere al posto della coscienza di classe.

[…] In questa situazione, l’industria cinematografica ha tutto l’interesse a imbrigliare, mediante rappresentazioni illusionistiche e mediante ambigue speculazioni, la partecipazione delle masse. […]

 L’industria cinematografica ha tutto l’interesse a pungolare la partecipazione delle masse attraverso ambigue speculazioni.

A tale scopo ha messo in movimento un imponente apparato pubblicistico: ha messo al suo servizio la carriera e la vita amorosa dei divi, ha organizzato plebisciti, ha indetto concorsi di bellezza.

Tutto questo al fine di falsare, per via corruttiva, l’originario e giustificato interesse delle masse per il cinema, un interesse per la conoscenza di sé e pertanto anche per la conoscenza della propria classe. […]

Un bisogno innegabile di nuove condizioni sociali viene segretamente sfruttato nell’interesse di una minoranza possidente”.

Commercializzare la circolazione dell’immagine del processo assume dunque il significato della frustrazione dei suoi contenuti politici, per enfatizzarne la dimensione meramente emotiva, attirando le masse su ciò che ne deprime le capacità di crescita morale e culturale, e rafforzandone gli aspetti di strutturale debolezza istintiva.

Si tratta di un’operazione che si risolve in una grave forma di repressione collettiva (storicamente qualificabile in chiave tradizionalista o reazionaria):

la trasformazione di un’esperienza politica in una forma di evasione e, dunque, a sua volta, la canalizzazione di energie politiche di natura critica in soluzioni di continuità comunicativa destinate a dissolvere le spinte del desiderio collettivo in singoli gesti di puro consumo.

6. Processo mediatico e trattamento dei dati personali.

Le riflessioni sin qui rapidamente raccolte sembrano suggerire la necessità di orientare la difesa del processo attraverso la preliminare demistificazione di ogni forma di riproduzione mediatica che, lungi dal proporre costruttivamente una sincera discussione collettiva sul significato del conflitto che si muove all’interno del processo, si risolve tutt’al contrario, in una sterile riproduzione, fine a se stessa, della violenza di quel conflitto nella sua cruda immediatezza, spogliata di ogni forma di sublimazione simbolica.

 

Da questa prospettiva, si tratterebbe preliminarmente di consolidare, quando non di promuovere, le forme (più o meno) istituzionalizzate di pedagogia deontologica e culturale dei protagonisti del processo, ivi compresi i professionisti della comunicazione mediatica, affinché sappiano comprendere, in ciò di cui il processo si sostanzia, il distinto significato della dimensione politica del conflitto, rispetto a tutto ciò che è meramente privato o incidentale;

 gli aspetti o i contenuti critico-dialettici del processo (sotto il profilo del significato e del valore delle regole in cui la comunità intende ancora riconoscersi o non riesce più a identificarsi), rispetto alla dimensione della vita meramente personale che, al di fuori dello stretto circuito dell’indagine o del processo, non può e non deve destare o alimentare alcuna diversa forma di curiosità.

Seguendo la prospettiva della difesa della persona, il limite che occorre saper rinvenire, tra le prerogative della comunicazione di massa riferita al processo, sembra dunque identificarsi nel principio per cui deve ritenersi sottratto, alla legittimazione della partecipazione collettiva (di massa) al processo, ogni aspetto della vicenda processuale che, superando i confini di quel campo critico-dialettico rilevante sotto il profilo etico-politico, si insinua negli spazi squisitamente privati e personali dei protagonisti del processo;

spazi che, se eccezionalmente si giustificano in ragione delle esigenze ricostruttive del giudizio, fuori da quello finirebbero col costringere i suoi protagonisti ad agire su un territorio che ad essi non può, né deve, appartenere.

Converrà sottolineare come non si tratti qui di proporre una selezione a priori degli argomenti destinati a entrare nel campo della legittima discussione pubblica del processo (un discorso difficile o delicato da condurre in relazione alla pienezza della libertà di manifestazione del pensiero, nella sua dimensione di cronaca o di critica dei fatti della vita sociale), quanto piuttosto di procedere a uno studio accurato della disciplina che attiene al governo e alla protezione dei dati personali che, acquisiti dal (e nel) processo, vengono variamente trattati dai diversi agenti della comunicazione mediatica.

L’attitudine propria del sistema della protezione dei dati personali (secondo lo stile della disciplina che la codificazione italiana ha recepito dall’originaria normativa europea e ancora di recente rivisitata in una chiave di armonizzazione continentale è quella del continuo e necessario ‘bilanciamento concreto ’ tra prerogative o interessi in conflitto; da questo punto di vista, la dimensione della ‘politicità’ delle informazioni contenute nei dati destinati alla circolazione riferita al processo può costituire un criterio decisivo nella risoluzione delle questioni che, di fronte alla contestazione degli interessati, di volta in volta sono condotti all’attenzione del giudice.

7. Sulla trasmissione della cultura.

Un’analisi più puntuale o approfondita di temi che appaiono rivestiti di una simile delicatezza e profondità di implicazioni rimane, naturalmente, del tutto estranea ai limiti del discorso che si conduce.

Potrà ragionevolmente destare talune perplessità l’idea di consegnare le forme della tutela della persona, in relazione alla circolazione pubblica delle informazioni sul processo, all’iniziativa dei singoli interessati, consapevoli dei sacrifici e della carica di violenza cui la rappresentazione pubblica inevitabilmente li espone.

L’osservazione della realtà quotidiana offre, sempre più spesso, l’esempio di sconsiderate disponibilità di parti, testimoni, familiari di questi, o dei loro difensori, alla partecipazione (talora retribuita) a forme banalmente spettacolarizzate di vicende giudiziarie.

Si tratta di esperienze che assumono, per lo più – quando non inserite in sofisticati disegni di strategia difensiva – il significato di un’occasione di facile guadagno o, in termini più desolanti, di una sorta di garanzia di esistenza certificata dall’esposizione incontrollata alla generalità.

Di fronte a fenomeni di questa natura, lungi dal congetturare impensabili forme di ‘indisponibilità’ della persona, della propria esperienza esistenziale o delle forme della sua rappresentazione (una soluzione da ritenere di per sé inaccettabile già sul piano della riflessione costituzionale), non resta che affidarsi all’impegno nell’educazione civile, al lavoro condotto nell’umile quotidianità delle nostre scuole, alla cura sollecita del futuro dei nostri giovani.

Si è tentati di domandarsi, in tempi di crisi dell’associazionismo giudiziario, se la trasmissione della cultura non sia, in fondo, oltre ogni legittima preoccupazione per il destino degli organismi che ne esprimono il governo sul piano istituzionale, il senso ultimo dell’impegno civile di quelle donne e di quegli uomini che, alle fortune della ‘città’, hanno inteso dedicare la propria cura;

e all’arte dell’incontro – a cui il senso del diritto infine rimanda – un tempo non breve della propria vita.

(* Il testo riprende e completa la relazione svolta nel corso del convegno Processo mediatico e presunzione di innocenza, tenutosi a Roma, presso l’Istituto Dante Alighieri, il 1° aprile del 2022, e dell’occasione colloquiale conserva, in larga misura, i toni e lo stile.)

 

 

 

L’ETERNO RITORNO DELLA TIRANNIDE.

DALLA REALTÀ ANALOGICA

A QUELLA VIRTUALE.

Leussein.eurom.it – Angela Arsena – (10-5-2020) – ci dice:

 (VOL. XIII - 2020) -Ogni governo tirannico ha sempre preteso il controllo assoluto sin nelle stanze del privato e in questo senso appartiene ad una realtà storica primitiva, tribale e a-democratica.

 Si cercherà qui in prima istanza di analizzare i caratteri tribali e violenti delle vecchie e delle nuove comunità virtuali mostrando come il villaggio-Web, ancorché globale, lontano dalle dinamiche di un’autentica Polis democratica, non sia automaticamente libero e immune dai pericoli della tirannide e del totalitarismo.

Si tratta di una riflessione sulle dinamiche educative e politiche che ruotano attorno alla consapevolezza che il villaggio globale, inteso come realtà iperconnessa, possa rivelarsi, al pari delle primitive realtà umane anteriori alla Polis, una realtà chiusa, a tratti tribale e a rischio tirannide digitale, con i nuovi provider (Facebook, Google, ecc.) che, come nuovi sovrani, autorizzano, determinano o negano l’esistenza altrui, determinando o negando la possibilità di una identità digitale:

lo stare al mondo contemporaneo, infatti, coincide sempre più con lo stare in Rete e questo stare in Rete assomiglia talvolta alla condizione di una perpetua sottomissione ad un tiranno.

1. PRODROMI STORICI E METAFISICI DELLA TIRANNIDE.

Racconta Cicerone che il tiranno Dionigi I di Siracusa aveva adibito una latomia come carcere per prigionieri politici:

 questa grotta, simile ad un lungo e alto corridoio nella roccia adiacente al Teatro, sarà non a caso battezzato in seguito dal pittore Caravaggio Orecchio di Dionisio sia per la sua arcata esterna a forma di padiglione auricolare e sia perché il tiranno pare approfittasse dell’ottima acustica delle pareti per ascoltare i discorsi sediziosi dei prigionieri, individuando così quelli più pericolosi per poter procedere subito a sentenze capitali efficaci, esemplari e, soprattutto, tempestive.

Una leggenda più tarda, ma scarsamente documentata, ci dice che il tiranno siracusano avesse anche l’anomala abitudine di graziare solo coloro che sapessero dare prova di recitare interamente una delle grandi tragedie del repertorio teatrale greco:

non sapremo mai quanto fossero colti e preparati i prigionieri rinchiusi nell’Orecchio di Dionisio, ma possiamo immaginare che, data l’altissima prestazione richiesta, alla fine fossero veramente in pochi a salvarsi.

 

Questi aneddoti mostrano alcune caratteristiche del prototipo del tiranno che verrà descritto da Diodoro Siculo, da Aristotele e da Plutarco i quali si soffermeranno sulla figura di Dionigi come archetipo e «terribile ammonimento per i posteri», insistendo su alcuni aspetti ricorrenti nell’ideal-tipo del tiranno in generale e del tiranno greco (o delle colonie greche) in particolare.

Questi particolari tipici della personalità del tiranno e che pare fossero presenti in Dionigi, sono riconducibili ad un quadro d’insieme caratterizzato da atteggiamenti quali la paranoia che sfociava nel timore continuo di essere in pericolo e di essere potenziale vittima di complotti e la volontà di mettere in atto tecniche di sorveglianza continua e coatta dove ogni parola, anche detta a bassa a voce e in prigione, avrebbe potuto essere intercettata e diventare capo d’accusa.

 A questi si aggiunge l’ansia di potere che sfociava nel desiderio di un monopolio sulla polis o su una regione intera:

 non a caso Platone(nelle cui pagine tuttavia Karl Popper individuerà i prodromi di tutte le ideologie totalitarie) assimilerà la figura del tiranno ad un animale feroce: “da buon cane pastore del popolo si trasforma in lupo spietato” egli scrive nella Repubblica e con il lupo il tiranno condivide lo schema identitario che è fondato su una sostanziale privazione di libertà in senso metafisico ed esistenziale.

Entrambi (il tiranno e il lupo) sono infatti schiavi delle proprie paure e delle stesse bramosie: «chi è realmente tiranno è realmente schiavo».

La schiavitù è reale, tangibile, riconducibile allo stile di vita («temere la folla ma temere anche la solitudine, temere di restare senza guardie e allo stesso tempo temere chi è di guardia, non desiderare di vedere intorno a sé persone armate ma neppure desiderare di vederle disarmate» dice il tiranno Ierone nella riflessione di Senofonte sulla tirannide15) ma è schiavitù anche impalpabile e morale: il tiranno, ricorda sempre Senofonte, vive (male, diremmo noi) «come se fosse stato condannato a morte dall’umanità intera a causa delle ingiustizie commesse, così vive il tiranno, notte e giorno», e questa continua tensione accompagnata dalla pleonexia, dall’eccesso, o dalla fame di eccesso, dalla fame di potere rappresentano il peccato originale della tirannide.

Una miscela di paura e di ingordigia che inoculata lentamente, come un farmaco che si trasforma in veleno, viene lentamente assunta nell’organismo democratico che sembra allevare al suo interno il figlio massimamente degenere: il popolo nutre il tiranno, scrive Platone, e «il popolo che ha generato il tiranno, poi manterrà lui e la sua corte».

Si tratta di una consapevolezza che attiene la sostanza della materia politica, ovvero la sostanza della convivenza e della buona convivenza nella polis, ma attiene anche la forma, ovvero le parole, la nomenclatura diremmo: Platone è qui chiarissimo e descrive proprio questa degenerazione linguistica che permuta e muta sin nel nerbo e nei gangli le parole, inficiandone il significato, modificandole ed esautorandole di senso.

 La mutazione politica dalla democrazia alla tirannide è mutazione che avviene all’inizio nell’ordine linguistico e successivamente nell’ordine fattuale delle cose e della realtà.

Come una lenta mutazione genetica, diremmo: del resto se la democrazia coniuga il gesto politico con il gesto verbale, essendo l’arte del discorso e se, come scrive Gustavo Zagrebelsky, le parole della politica sono parole di per sé ambigue perché strumentali, in quanto parole del potere per il potere, e dunque prestano il fianco ad ogni manipolazione, allora se seguiamo il deterioramento e lo sgretolamento del significato dei termini e dei concetti si può efficacemente registrare lo sgretolamento della democrazia e parimenti si può intravedere il suo lento scivolare nel totalitarismo.

Infatti, secondo Platone quando la libertà diventa licenza, quando la tracotanza diventa buona educazione, quando l’anarchia viene detta libertà, la dissipazione del denaro pubblico viene detta liberalità e l’impudenza diventa coraggio allora la democrazia sfocia nella tirannide per un eccesso di bene e per un desiderio smodato, per una sete insaziabile di quel bene:

a mio giudizio quando uno Stato democratico, nella sua sete di libertà, si trova ad essere accudito da cattivi coppieri, bevendo di questa libertà allo stato puro e più del lecito, se ne ubriaca.

La consapevolezza della potenziale degenerazione della libertà e del potere del popolo in schiavitù o in potere di uno solo, ovvero la consapevolezza di questo slittamento dalla democrazia alla tirannide, sembra sia appartenuta in particolare agli Ateniesi (maestri di democrazia) i quali pare siano stati in grado di maturare (soprattutto dopo l’esperienza della tirannide dei Pisistratidi) una vera e propria tiranno fobia nei confronti di quei politici che ostentavano atteggiamenti tali da suggerire quanto «ambissero alla tirannide»:

anche se consapevoli pragmaticamente che un eccesso di paura avrebbe potuto condurre a valutazioni errate (e un eccesso di paura nei confronti di un eventuale tiranno avrebbe potuto interrompere le sorti “magnifiche e progressive” della città) tuttavia gli Ateniesi preferivano correre il rischio di un eventuale svantaggio momentaneo della polis piuttosto che inciampare nella tirannide.

Essi avevano acquisito un vero e proprio “occhio clinico” nell’individuare, come un radar percepisce un lontano segnale luminoso, le avvisaglie di un atteggiamento politico potenzialmente incline alla tirannide: dell’uomo pubblico non si stancavano di analizzare ed interpretare gesti, comportamenti, atti verbali e non verbali, atteggiamenti e posture e persino intonazione del timbro e della voce, con un’attenzione e un’ acribia che oggi, forse, potrebbero confrontarsi qualitativamente con ogni analisi politica o politologa svolta nei nostri rumorosi talk show e forse farebbero impallidire ogni nostrano interesse per il gossip.

Ad esempio, sempre nel trattato sulla tirannide di Senofonte, il poeta Simonide, da privato cittadino, chiede al tiranno Ierone, come nel corso di un’intervista o di una diretta televisiva, quali siano le differenze tra un uomo qualunque e un tiranno, e l’indagine, che si dipana lungo tutto il trattato e che verte sugli aspetti caratteriali e sulle predisposizioni psicologiche, finisce col coinvolgere addirittura le predilezioni sessuali, in un quadro d’insieme che, oggi come allora, veniva continuamente esposto al pubblico giudicante nelle vesti, di volta in volta, o di opinione pubblica o di spettatore.

Questo universo di significati e di significanti che avvolgono il tiranno e che vanno dal bisogno di essere sempre in guerra e di avere un nemico sino alla paura di perdere il potere e sino addirittura alla strenua difesa nei confronti dei poveri a danno dei ricchi (financo imitando i modi e l’abbigliamento del popolo, sebbene si intravedesse già in questo una pericolosa demagogia), rappresentava, nella riflessione filosofica e politica greca, una vera e propria specializzazione, un insieme di technai, tra le quali spiccava e svettava l’adikia intesa non solo come dis-valore (l’ingiustizia) né come divinità (laddove l’immaginario mitologico greco concepiva Adikia come divinità orrenda, portatrice di inganno, errore e ingiustizia e non a caso sempre rappresentata nell’atto di venir strangolata dalla Giustizia, da Dike) bensì come vera e propria tecnica, un’arte della tirannide e della manipolazione (dei fatti e degli artefatti) e che conduce alla manutenzione del potere asimmetrico tra popolo e capo-popolo e fondato sulla prevaricazione perniciosa e sulla comunicazione perversa e alterata e alterante di quest’ultimo.

Anzi, anche quando il tiranno o i tiranni, con eloquenza magistrale, si schieravano a favore della virtù, della religione o della giustizia e dunque incitavano alla difesa di un patrimonio di valori comuni e condivisi (in questa direzione, ad esempio, i Pisistrati, anche al fine di mantenere saldo il proprio potere, pare alimentassero il culto emozionale e devozionale, talvolta superstizioso, del dio Dioniso), la critica, soprattutto intellettuale e, diremmo oggi, elitaria, nonché minoritaria, non rinunciava ad esprimere la propria perplessità:

nell’orazione Contro i tiranni, di fronte agli ambiziosi intenti programmatici dei Trenta Tiranni, comunicati, diffusi e pare approvati e applauditi dall’Intelligencija greca, compreso lo stesso Platone, il retore Lisia scrive non senza una vena di sano scetticismo e ironia poi andarono al potere i Trenta… proclamando la necessità di far piazza pulita degli ingiusti e che tutti gli altri cittadini si volgessero al valore (areté) e alla giustizia (dikaiosyne).

In ogni caso, come si evince dalla visone espressa nella Repubblica, l’humus di ogni tirannide sembra essere la condizione dell’eccesso in tutte le direzioni: eccesso di indulgenza, persino eccesso di libertà (una totale illegalità, scrive Platone, chiamata “dagli istigatori della tirannide totale libertà”), o eccesso di servitù nei confronti di uno solo, addirittura eccesso di bellezza, eccesso di passioni, persino eccesso di parole, eccesso di impunità laddove i giovani insultano i precettori e, diremmo addirittura, eccesso di diritti arbitrari.

In questo brodo di coltura maturano e proliferano gli agenti patogeni della tirannide che vanno ad attaccare l’organismo più esposto ovvero il popolo abbandonato alla ubris dissoluta e dissolutiva della demagogia.

Questa tracotanza (quasi prometeica, come prometeico nella sua grandiosa difesa dei propri interessi appare il tiranno) comporta una sostanziale cecità, quella condizione, cioè, che porta ad ignorare, o sottovalutare o minimizzare i segnali premonitori dei primi vagiti di una dittatura, tanto da non rendersi conto che «aromi, unguenti, corone, vini e piaceri dissoluti» sono condizioni a contorno di ogni tirannide, una sorta di “paese dei balocchi” sempre luminoso e aperto e disponibile, e con l’unica funzione di anestetizzare la critica, tappare con «un bavaglio ricoperto di miele», scrive Stanilław Jerzy Lec, la bocca dell’indignazione e dell’opposizione.

Nell’ubriachezza (che ha la sua radice proprio in quella ubris intesa sempre come eccesso) nasce la tirannide di uno solo ma anche la schiavitù dei molti che soggiacciono, inermi, al suo strapotere.

Non è un caso che tutta la discussione sulla tirannide che Platone conduce nel corso dell’VIII e IX libro della Repubblica è anticipata dal racconto del mito della caverna9 come monito e metafora propedeutica dei rischi della cecità e dell’ignoranza e che nella descrizione plastica assomiglia tanto, ma è solo una nostra suggestione, a quell’Orecchio di Dionisio che era al contempo prigione e cassa di risonanza, contenitore ed amplificatore di ogni umore, di ogni passione umana continuamente monitorata e sorvegliata.

2. ERMENEUTICA E FENOMENOLOGIA DELLA TIRANNIDE.

Di metafora in metafora è possibile approdare ad uno sguardo sulla realtà contemporanea capace di cogliere aspetti ulteriori rispetto a quelli evidenti ad un primo approccio storico-logico-inferenziale: in questo senso allora potrebbe essere utile e vantaggioso astrarsi, anche solo momentaneamente, dal dato storiografico, dall’evidenza dei fatti realmente accaduti (a Siracusa con Dionigi e ad Atene con i Trenta) e fermarsi e sostare sulle metafore le quali, proprio perché attinenti al mondo poetico, letterario, teoretico (a quella dimensione del poieo che, dice Aristotele, è condizione umana per eccellenza) possono diventare dei varchi facilmente attraversabili e capaci di condurci all’essenza delle cose, all’essenza, in questo caso della tirannide.

La caverna (del tiranno Dionisio e di Platone), la condizione di cecità e di ignoranza, nonché la consapevolezza di essere monitorati ed osservati, e persino la religione laddove essa sfocia nella superstizione diventano allora paradigmi perpetui e sempre validi per interpretare la tirannide e sostare, usando la locuzione aristotelica, perí ermeneias, intorno alla tirannide come stato in luogo figurato, intorno all’ermeneutica della tirannide e della sua fenomenologia sempre uguale a se stessa, come caratterizzata dalla ciclicità di un eterno ritorno dell’uguale.

Se le tirannidi, ovvero ogni realtà totalitaria, rimangono un corpo estraneo alla politica e se per politica qui si intende l’arte della convivenza e della buona convivenza nella polis, allora in questa accezione forse tutte le dittature e tutte le tirannie si somigliano, pur sprigionando forze telluriche diverse come due terremoti che mai uguali nell’intensità, potrebbero tuttavia essere uguali negli effetti.

Pur appellandosi a strati diversi della popolazione, infatti, pur provocando derive diverse nella società e crisi di assestamento, come accade nella tettonica a zolle da tempi geologici, le tirannidi si assomigliano.

 E se il Novecento ha avuto esperienza di tirannie e di sistemi totalitari, allora lo stesso Novecento può essere chiave di lettura per interpretare la tirannide di ieri e metterci in guardia da potenziali tirannie future.

È senz’altro vero in ogni caso che occorra uno sguardo storico e occorra una valutazione delle temperie culturali e sociali che hanno dato vita e forma alle tirannie politiche, tenendo conto certamente della distanza, talvolta millenaria, tra il passato e il presente e facendo uso e buon uso di una qualità ricognitiva che sappia e possa metter in chiaro i limiti di una comparazione storica.

 Ma qui vogliamo credere fortemente che l’interpretazione delle metafore, come varchi di conoscenza dell’umano, come condizioni per un’ermeneutica dell’inesauribilità del reale, possano diventare occasioni d’intesa ancora disponibili per una comprensione e per un’analogia tra noi e gli ateniesi, tra noi e i siracusani sotto Dionisio, nonostante le diverse condizioni culturali di partenza e di appartenenza.

Ed allora sostiamo ancora intorno all’Orecchio di Dionigi (metafora della realtà storica) e intorno alla Caverna di Platone (metafora della realtà filosofica) per avvicinarci al senso ultimo della tirannide (oggetto di realtà politica), al di là della lontananza secolare e nonostante la nostra condizione contemporanea non abbia nulla a che fare con la prigionia dei condannati di Dionigi e di Platone, e nonostante essa sia anzi una condizione molto più felice per i progressi tecnici e culturali che facilitano la nostra esistenza.

Ed allora più che la storia è forse la letteratura, labirinto e culla di metafore, il vero sismografo per registrare l’andamento delle tirannidi e per condurci, come lettori e cittadini della polis contemporanea e globale, nella direzione di un’ermeneutica della tirannide attraverso i suoi molteplici sentieri, senz’altro non interrotti, e per offrire una griglia interpretativa della realtà contemporanea facilmente paragonabile a quella condizione politica e psicologica già vissuta dall’umanità secoli addietro.

 Per traghettarci, in altri termini, dalla Siracusa e dall’Atene del V secolo a. C. al nostro Novecento e da qui alla realtà contemporanea.

Ad esempio, ne “Il mondo nuovo” (1932)51, Aldous Huxley prevedeva, seppur nelle more di un romanzo, la rovina dell’umanità attraverso l’intrattenimento trasformato in strumento di controllo sociale più efficace e più efficiente della coercizione e della violenza.

Nel romanzo utopico di Huxley per la nuova umanità manipolata e formattata dallo slogan “Community, Identity, Stability” è considerato conforme alle regole sociali essere molto mondani, aver cura del corpo ed essere buoni consumatori di prodotti.

 È invece inaccettabile e assolutamente pericoloso per sé e per gli altri passare del tempo in solitudine, essere monogami, astrarsi e allontanarsi dalla Community, dove “ognuno appartiene a tutti gli altri”, o meglio, ognuno è legato agli altri, connesso agli altri (anche fisicamente), interconnesso agli altri, in una prossimità fisica e logistica claustrofobica da villaggio inteso qui non con l’attributo globale ma nel significato antico di piccolo borgo, di realtà dove tutti si conoscono e tutti parlano a tutti, tutti parlano di tutti.

Ogni forma di educazione viene sostituita da forme di condizionamento (condizionamento dall’alto e condizionamento reciproco) considerato lecito e legittimo in una società programmata per negare gli affetti più intimi e dove la nomenklatura ammessa ripudia come offensivi gli epiteti tradizionali che indicano le relazioni affettive per imporre solo generici legami amicali:

 una società orientata alla perpetua armonia (lontana dalla sana dialettica nella quale si costruiscono gli universi affettivi, teoretici, culturali e politici) dove ognuno viene inviato ad amare la propria collocazione sociale proprio come, diremmo, la formica operaia nel formichiere ama il suo ruolo infinitesimale e mai ambirebbe al ruolo di regina, forse addirittura guardata con disprezzo come rappresentante di un’elite.

 Infine, come antidoto ad ogni forma di possibile infelicità viene distribuita gratuitamente una droga al contempo euforizzante e calmante, capace di addomesticare l’uomo e renderlo più docile e disponibile alla coercizione sottile, impalpabile, ridente, ridanciana e luminosa della quale è prigioniero a sua insaputa.

Un solo individuo sembra sfuggire (per caso, per sbaglio e per errore in questo nuovo mondo di autentica ingegneria sociale) al meccanismo politico perfettissimo che come tritacarne annulla la singolarità umana a favore di un’identità collettiva alienante, e quest’uomo avverte tutta la perversione della neolingua fatta di slogan politici e sociali nella quale si viene allevati e percepisce la felicità liquida e interconnessa nella quale è immerso come artefatta e manipolata, una sorta di “Truman show” dove si sta come pesci in un acquario inconsapevoli dell’esistenza dell’oceano, e dove tuttavia la sua esistenza di singolo (“quel singolo” alla maniera di Kierkegaard), si trascina come esistenza disconnessa, asociale, disadattata, potenzialmente pericolosa o quantomeno strana, straniera, straniante.

In questo scenario la cultura, che ha o dovrebbe avere il compito di traghettarci «fuori dalla caverna di Platone non in gruppo ma ad uno ad uno», come auspicava Nicola Chiaromonte, viene fatalmente sacrificata come primo capro espiatorio ad un mobilismo universale, globale e collettivo che amalgama oggetti, informazioni e scambi senza altre preoccupazioni che non il buon funzionamento dell’ingranaggio, del processo che dirige il suo flusso e che va nella direzione di una compattezza, di una monoliticità di intenti, di volontà, di pensiero che assomiglia tanto ad una condizione totalitaria e totalizzante dove l’uno viene fagocitato nel tutto, nel continum indifferenziato e affollato.

 

Il sacrificio della cultura (intendendo con essa anche tutte le istituzioni che dovrebbero diffonderla) impedisce di sollevare spiritualmente, intellettivamente, politicamente e moralmente l’umanità;

una cultura così mortificata e ridimensionata assomiglia, secondo Zygmunt Bauman, ad un mero prodotto rivolto ad una platea di consumatori, costituita da offerte e non da norme, meno che mai da norme morali o etiche.

Una cultura siffatta sarebbe intrisa di seduzioni e non di regole prescrittive, di pubbliche relazioni e non di controlli, condizione solo di nuove esigenze, desideri, bisogni e capricci ma non coscienze, occasione di incontri, di ricreazione ma non di riflessione.

 Specchio, in altri termini, della società liquida e digitale

Rinunciare a canoni ben definiti, abbandonarsi alla mancanza di discernimento, assecondare ogni gusto senza privilegiarne alcuno, incoraggiare la discontinuità e la flessibilità (termine diffuso e politicamente corretto per descrivere la mancanza di spina dorsale) e idealizzare l’instabilità e l’incoerenza […] una prerogativa encomiabile e appropriata a una società dove le reti si sono sostituite alle strutture, e il gioco di avvicinamento/distacco e una serie infinita di connessioni e disconnessioni si sono sostituiti alla capacità di determinare e stabilire.

La leggenda siracusana racconta che per uscire incolumi dall’Orecchio di Dionisio occorreva dimostrare di possedere una conoscenza alta, di essere in grado di recitare la poesia del tempo dopo averla evidentemente distinta da prodotti commerciali, diremmo, e dunque occorreva mostrare di essere informati, colti, padroni di un sapere non certo piegato su obiettivi minimi.

La leggenda, anche se poco documentata, ha però, come tutti i miti, un fondamento universale e teoretico nella consapevolezza che solo la conoscenza può salvare l’umanità dalla tirannide e da un destino di schiavitù, o anche dal capriccio di un despota.

Ma di quale conoscenza parliamo?

Si tratta di una cultura scolastica o nozionistica oppure di una coscienza e di una sapienza più alta, metafisica diremmo ed attinente all’universo esistenziale?

E soprattutto: la contemporaneità rischia di finire in uno scenario da rinnovata tirannide, in una nuova caverna platonica dalla quale diventa più complicato uscire non tanto per una difficoltà intrinseca quanto piuttosto per il fascino che essa potrebbe esercitare, per un senso di piacevolezza nel sostare al suo interno, come se la caverna fosse il luogo di quell’intrattenimento che anestetizza, secondo i presagi di Huxley?

La letteratura, come fucina di metafore esistenziali, ci ricorda con Carlo Collodi, ad esempio, che Pinocchio non voleva allontanarsi dal paese dei balocchi e che questa sua ostinazione avrebbe potuto costargli la condizione perpetua di burattino e non di essere umano, e sempre la letteratura con Franz Kafka ci racconta del grande teatro di Oklahoma come di una realtà dove tutti sono felici ma alla maniera delle marionette, trascinati come automi verso un luogo imprecisato dove si viene reclutati per svolgere un lavoro poco chiaro in un’impresa dalle finalità oscure, dove viene sacrificata quella vocazione al poieo aristotelico, al fare, al pensare e al poetare che ci umanizza, e dove l’allegria è artificiale, forzata, a tratti inquietante.

Entrambe le situazioni appaiono l’anticamera della schiavitù e della servitù, ed entrambe sono caratterizzate da una condizione preliminare imprescindibile: l’abbrutimento intellettuale.

Del resto Lucignolo muore nel paese dei balocchi dopo aver subito la sua metamorfosi irreversibile in asino che nell’immaginario infantile collettivo è proprio sinonimo di una non volontà di pensiero, di ragionamento.

Hannah Arendt (secondo la quale proprio dalla condizione del non-pensare deriva il male) indagando la fenomenologia della tirannide nel Novecento con uno sguardo retrospettivo, ci ricorda che esiste anche un volto sorridente, ameno, ilare della tirannide dal quale occorre guardarsi per non cadere nell’antica trappola politica volta ad attirare il consenso popolare attraverso forme di distrazione le più varie per allontanare l’attenzione dai giochi di potere:

il guaio è che queste forme di governo non è tanto che sono crudeli (anzi spesso non lo sono) ma piuttosto il fatto che funzionano troppo bene.

 I tiranni, se sanno il fatto loro, possono ben essere “miti e gentili in ogni cosa” come Pisistrato, il cui governo anche nell’antichità fu paragonato all’età d’oro di Cronos;

le loro misure possono apparire veramente non tiranniche e benefiche […] Ma tutti hanno in comune l’esclusione dei cittadini dalla sfera pubblica e l’insistenza con cui li invitano a badare ai propri affari mentre solo chi governa “deve attendere agli affari pubblici” […]

Sono i vantaggi a breve durata della tirannia, i vantaggi della stabilità, sicurezza e produttività, da cui ci si deve guardare se non altro perché aprono la strada a un’inevitabile perdita di potere, anche se le loro reali conseguenze disastrose possono verificarsi in un futuro relativamente lontano.

3. DALLA TIRANNIDE ANALOGICA A QUELLA DIGITALE.

Probabilmente questo futuro “relativamente lontano” è proprio sotto i nostri occhi, posti come siamo di fronte ad una mutazione tecnico-antropologica che ha invertito e trasformato, talvolta trasfigurato, sin nel profondo, tutti i processi di trasmissione, acquisizione, elaborazione della conoscenza umana, sia del pensiero teoretico (che rappresenta al contempo il solo baluardo alla tirannide e il solo antidoto per scongiurarla) e sia del pensiero pratico (la tecnica) attraverso l’hardware e il software.

 La Rete e la diffusione di infrastrutture e architetture e piattaforme digitali sempre più complesse, sempre più interconnesse, hanno modificato non solo il nostro sguardo sul mondo e il gesto ermeneutico, interpretativo dell’uomo sulla realtà, ovvero la rappresentazione del mondo, bensì hanno modificato anche il nostro modo di “stare al mondo”, il nostro abitare la polis, e dunque anche la nostra relazionalità nella polis attraverso nuove forme di socializzazione e di socialità digitale (social connection).

Tutto questo non può non avere un precipitato filosofico, esistenziale e pratico rilevantissimo nelle dinamiche politiche e di potere, nella gestione del governo o del buon governo della polis, se è vero, come spiega Aristotele, che l’uomo ricava dal suo bisogno di stare in società la sua ambizione e la sua vocazione massima di zoon politicon, di animale politico per eccellenza.

 

La politica non è arte che si pratica in solitudine (nello stare solo e pensoso) ma è arte, tecnica che si applica nella mediazione, nel medium della relazione e nella relazionalità, nel medium del piccolo gruppo, della tribù, del villaggio, della città, della metropoli, e nel medium delle passioni, diremmo, nel giusto mezzo, tenendo lontano la ubris e l’eccesso.

E se oggi la tribù, il villaggio e la città sono tribù, villaggio e città digitali o costruite su strutture portanti digitali e se gli spazi di relazione si ricavano nelle nuove agorà digitali, e se i luoghi di manifestazione delle proprie passioni ed emozioni sono diventate le infrastrutture digitali, di questo occorre tener conto nella riflessione politica e nell’analisi di ogni forma di autoritarismo.

In altri termini, una critica del giudizio politico, anche del giudizio politico della tirannide, passa da una critica della ragion pura digitale e da una critica della ragion pratica digitale, e da una critica del nostro nuovo modo di stare al mondo digitale, non senza chiederci se la nostra condizione di zoon politicon digitali sia quella di cittadini di una nuova Siracusa digitale (al cui centro troviamo un nuovo Orecchio di Dionisio digitale, una latomia digitale, fatta di bit, di like, di selfie e non di roccia) o piuttosto assomiglia alla condizione di cittadini di una nuova Atene digitale, che ha maturato al suo interno sane forme di tiranno fobia.

Ma per stanare la tirannide digitale là dove essa potrebbe annidarsi, dovemmo tener conto della chiave interpretativa di Huxley e di Hannah Arend e dovremmo allora cercare una risposta non nei palazzi del potere ma nei luoghi della socializzazione e del divertissement, ancorché digitale, che oggi animano la vita sociale della nuova polis, e che possono essere di volta in volta o causa di una distrazione fatale che ci allontana dal gesto politico e democratico, o al contrario possono rivelarsi gli snodi principali, le agorà della nuova opinione pubblica che smaschera il tiranno o lo sottomette allo sguardo di quell’occhio clinico tiranno fobico di cui gli Ateniesi erano portatori.

 

4. INTORNO ALLA NUOVA CAVERNA DIGITALE DI PLATONE.

Questi interrogativi scomodano problematiche di tipo ontologico e metodologico, nonché educativo, prima ancora che problematiche politiche.

La connrandi monopolisti della Rete è diventata il nuovo habitat dell’umano, la condizione dell’antropocene digitale, producendo una rivoluzione copernicana nel rapporto con lo spazio e con il tempo in quanto abbatte ogni barriera fisica nella disponibilità di ogni tipo di informazione e di conoscenza in un continum qui ed ora.

 L’esposizione ininterrotta alle informazioni ha reso possibile quello che Douglas Rushkoff chiama «presente continuo»:

la frantumazione del tempo in centinaia di frammenti convergenti verso una sola necessità, ovvero esperire tutto nello stesso momento in cui si compie, pena il non-esserci.

 E difatti questo tempo presente dilatato in un unico grande, infinito, totalitario istante viene attraversato dal nostro io virtuale nelle social connection, e riveste gli atti del nostro esserci virtuale.

Al di là delle problematiche giuridiche dovute alla manipolazione di chi gestisce la comunicazione su scala globale, e al di là del fatto che la nuova comunicazione virtuale ha preteso che ciascun essere umano si consegni ad un editor il vero dato interessante ai fini della nostra discussione è che questo spazio-tempo virtuale è popolato da realtà digitali che simulano, imitano la realtà (come le ombre proiettate sulla parete della caverna) e che vengono spacciate per verità anche quando non lo sono.

Si tratta di uno spazio attraversato da una linea che simula lo scorrere temporale ma in realtà è un tempo immobile, paralizzato, legato ad un eterno presente sempre fruibile, sempre accessibile (non esistono i siti del “giorno prima” così come potrebbe esistere un giornale del giorno prima, eppure il tempo dell’umano scorre con tutte le sue vicende, eppure l’umano cambia ogni giorno a dispetto di un profilo virtuale immobile e pietrificato, eppure il tempo dell’umano è un tempo narrativo, un tempo che ha una trama suddivisa, scandita dal divenire) e che riproduce la condizione dei prigionieri della caverna, legati e costretti a guardare le stesse immagini, a guardare in un’unica direzione.

 La falsa credenza che questa realtà proiettata sullo schermo digitale sia non soltanto la sola realtà possibile (buona parte della nostra relazionalità, della nostra predisposizione alla socialità e al dialogo anche politico si consuma nello spazio virtuale, come se fosse l’unico spazio disponibile) ma anche realtà più vera e verosimile deriva dal fatto che i contenuti digitali hanno acquisito una sorta di primato ontologico sui contenuti analogici dovuto alla velocità con la quale vengono prodotti, trasmessi, visualizzati, usati, fruiti e rimbalzati.

Si tratta di una credibilità fondata sulla ridondanza, sulla facile reperibilità, finanche sulla quantità di materiale a disposizione e infine, e non ultimo, sulla velocità con la quale essa viene trasmessa.

Come in un gioco a quiz dove il concorrente che ha il pollice più veloce nello schiacciare il tasto di prenotazione della risposta ha priorità sull’altro concorrente più lento, ma forse anche più riflessivo, così in Rete la velocità è un valore intrinseco e garanzia di credibilità.

 A questa fallacia logica si accompagna l’universo empatico che caratterizza il nostro predisporci quotidiano in Rete dove la velocità con la quale i contenuti vengono trasmessi genera un effetto giostra piacevolissimo dovuto al vortice digitale che assomiglia alla condizione di chi fluttua, sorvola, naviga a grande velocità sulla realtà:

il sogno di Icaro, la realizzazione della libertà che ha come ali conoscenza e sapere digitale, spesso ci rende incuranti del fatto che, proprio come in una giostra, si sorvola in tondo sempre lo stesso frammento di spazio.

 La grande prateria della Rete è infatti generalmente suddivisa in piccole grandi tribù sociali, community virtuali che condividono gli stessi interessi, le stesse predisposizioni (come una moderna rappresentazione degli ideali di Community, Indentity and Stability de” Il mondo nuovo”) e sono rare le incursioni verso tribù sociali e virtuali completamente estranee se non per attacchi offensivo-digitali diremmo (se non per azioni riconducibili ad un cyberbullismo dei minori e degli adulti):

 il grande nomadismo sociale che la Rete probabilmente permetteva sin dai suoi primi vagiti si è presto trasformato in una sostanziale sedentarietà culturale, politica e teoretica (da pensiero unico) e da nomade, quale avrebbe potuto essere e rimanere, l’homo tecnologicus-digitale si è presto trasformato in un homo stanziale, anche abbastanza ostile e teso a difendere strenuamente il proprio territorio virtuale fatto di conoscenze in termini relazionali e gnoseologici, rinchiudendosi in congreghe o sette virtuali che coltivano la stessa religione (alimentare, politica, sanitaria, educativa, economica, morale), la stessa rappresentazione del mondo.

Ora, queste condizioni della comunicazione digitale sono apparentemente prossime alla libertà di parola e di espressione di cui è impregnata ogni democrazia contemporanea ma occorre che si accompagnino ad una consapevolezza fondamentale ovvero che la realtà iperconnessa potrebbe essere talvolta del tutto incompatibile con il modus operandi di una buona istituzione e di un buon governo la cui arte di amministrare è fondata su un continuo bisogno di feedback che richiedono tempi molto dilatati.

 Forse è questa la consapevolezza più alta alla quale pervenire e che non corrisponde ad un mero nozionismo ma ad un livello di coscienza e di conoscenza di grado superiore, perché quando si parla di lentezza non ci si riferisce ai tempi della burocrazia senz’altro lunghi ma in senso deteriore e obsoleto, bensì ai tempi della riflessione, della concentrazione, dell’attenzione, dell’elaborazione, della giusta deliberazione.

 Le democrazie contemporanee sono spesso, a livello strutturale, ben pensate per favorire questa fertile lentezza e ponderatezza che serve ad una giusta mediazione tra le parti (la doppia camera di un Parlamento, ad esempio, potrebbe andare in questa direzione) ma il problema che qui ci interezza è il problema della partecipazione alla quaestio democratica, ovvero il problema educativo che investe in prima istanza la vita associata e in seconda istanza l’esperienza comunicativa.

 

5. STRATEGIE DI USCITA DALLA TIRANNIA (DIGITALE) CONTEMPORANEA.

La democrazia come condizione antitetica alla tirannide è un processo perennemente in fieri, lontano da ogni forma di pietrificazione, lento nei suoi movimenti, orientato alla mediazione tra le parti, ovvero ad un dialogo continuo e non meramente interlocutorio o limitato alla prossimità dell’interlocutore, e che va analizzato alla luce delle nuove forme di socializzazione e comunicazione virtuale, soprattutto perché queste ultime, per una curiosa forma di sineddoche (la parte per il tutto) non siano confuse con il cuore della democrazia.

Il cuore della democrazia, secondo John Dewey, sta infatti nel rapporto con l’educazione e con l’accesso a quella consapevolezza più alta di cui sopra.

Qualsiasi educazione data da un gruppo tende a «socializzare» i suoi membri, ma la qualità e il valore della socializzazione dipendono dalle abitudini e dallo scopo dei gruppi […]

 Ora in un qualsiasi gruppo sociale, anche in una banda di ladri, troviamo qualche interesse comune, e una certa quantità di interazione e relazioni di cooperazione con altri gruppi […]

Quanto vari sono gli interessi consciamente condivisi?

Quanto è completo e libero lo scambio con altre forme di associazione?

Se applichiamo queste considerazioni, per esempio, a una banda criminale, troviamo che i legami che tengono insieme consciamente i suoi membri sono pochi di numero, riducibili quasi al comune interesse nel bottino;

e che sono di natura tale da isolare il gruppo da altri gruppi riguardo allo scambio dei valori della vita.

Perciò l’educazione fornita da una simile società è parziale e deformata.

Per Dewey la democrazia è qualcosa di più di una forma di governo, ma è prima di tutto vita associata ed esperienza comunicata.

Vita associata significa l’estensione nello spazio del maggior numero di individui che considerano l’azione degli altri non un limite alla propria azione, non uno steccato alla propria libertà, bensì un’occasione per muoversi nella direzione di una maggiore consapevolezza del vivere in comunità (che non è solo mera community, diremmo oggi, tanto più digitale) perché essi non siano sopraffatti dai cambiamenti nei quali si trovassero coinvolti e di cui non capirebbero il significato e la connessione.

Ne seguirebbe una confusione nella quale un piccolo numero di persone si impadronirebbe dei risultati delle attività altrui cieche e dirette dall’esterno.

Ne seguirebbe, in altri termini, non tanto e non solo il predominio di una tribù più forte (numericamente, ideologicamente) sulle altre tribù più deboli, ma ne seguirebbe una situazione di monopolio da parte di chi è in grado di approfittare di questa divisione.

Negli anni Sessanta, in maniera profetica, Lyotard scriveva a proposito delle condizioni della conoscenza che si intravedevano nella società contemporanea e che stavano per provocare quel capovolgimento di paradigma nelle dinamiche sociali e comunicative.

Ammettiamo, per esempio, che un’impresa come la IBM sia autorizzata ad occupare un corridoio orbitale attorno alla Terra per piazzarvi dei satelliti di comunicazione e/o delle banche di dati.

Chi vi avrà accesso?

Chi deciderà quali siano i canali e i dati riservati? Lo Stato?

Oppure esso sarà un utente come tutti gli altri?

 Nascono in tal modo nuovi problemi giuridici ed attraverso di essi si pone la domanda: chi saprà?

 

Basterebbe sostituire il riferimento alla (longeva) IBM con una qualsiasi realtà tecnica e tecnologica oggi a nostra disposizione, con l’autostrada delle Rete occupata dai grandi Provider monopolisti, ad esempio, per cogliere in quell’interrogativo finale sul detentore di conoscenza il riproporsi dell’interrogativo filosofico ineludibile.

 La democrazia (anche quella digitale) che porta al ripudio e alla fobia della tirannide (anch’essa digitale) e che vuole contrapporsi a tutte le sue forme, scongiurandone l’eterno ritorno, ci invita ad uscire dalla caverna di Platone nella quale ci siamo volontariamente rinchiusi, con forme di socializzazione digitale che simulano le vecchie tribù primitive dove la nostra persona viene recintata con le sue abitudini, i suoi interessi e consegnata alla discrezionalità di nuovi Dionigi che hanno la possibilità illimitata di vendere questi dati e queste informazioni, di ascoltare e monitorare ogni espressione comunicativa, traendone in prima istanza indubbi vantaggi economici e commerciali e forse traendone dopo anche dei vantaggi politici nella direzione di un controllo capillare, totalitario dell’esistenza.

La democrazia di cui parla Dewey ha infatti bisogno di una dimensione educativa che scomodi una consapevolezza esistenziale, non nozionistica né scolastica, bensì consapevolezza dell’irriducibilità della persona, della sua singolarità: quella consapevolezza, scrive Primo Levi, da cui viene la vera libertà dell’uomo, anche dell’uomo in catene.

Da cittadini della polis globale, interpellati dalla quotidiana, ormai imprescindibile interlocuzione “sei su Facebook?”

dovremmo, con nuova consapevolezza etica ed ermeneutica, rispondere in prima istanza e in prima persona “No. Sono qui. Sono qui ed ora e sono qui di fronte a te.

Sono qui con la mia irriducibilità e la mia finitudine”, e non perché non si possa o non si debba stare su Facebook, ma perché da abitanti di una nuova Atene digitale dovremmo essere consci, orgogliosamente e responsabilmente consci, che quello stare su Facebook non è e non potrà mai essere l’unico modo di stare al mondo.

Abitare la polis globale vuol dire riscattare un’identità completamente appiattita sulla sola forma e sulla sola modalità fenomenica dell’identità virtuale e ricondurre e ridimensionare quest’ultima solo a ciò che essa è o dovrebbe essere: un segmento della persona, un’appendice e non la più vitale.

 Abitare la polis globale vuol dire altresì recuperare la dimensione del tempo come imitazione dell’eterno, come contenitore dell’intelligenza e della volontà, come coordinata entro la quale si colloca la posizione dell’uomo che, nel suo essere intrinsecamente de situato, può trovare nel tempo la dimensione dell’autenticità dell’esserci: esperire il mondo ed esperire la realtà comporta l’impiego e l’esercizio di tutto l’essere e nell’attraversare il teatro dell’esistenza ci si ritrova a dover rivestire innumerevoli ruoli, molti di essi fortemente identitari e non comprimibili in un profilo virtuale, che come Orecchio di Dionigi virtuale ci vede rinchiusi e alle prese con il problema di come sintetizzare, zippare noi stessi.

Foto e video, selfie e commenti (anche se condivisi) ma potrebbero esaurire la complessità poliedrica e l’incommensurabilità dell’umano.

Stare al mondo significa essere autenticamente presenti a noi stessi nell’esercizio del nostro variegato esserci che comporta in prima istanza un esserci nel tempo: non un impiego di tempo né uno spreco di tempo, bensì un attraversare il tempo, forse un interiorizzare il tempo, uno stare sul tempo.

Nell’attraversare i sentieri della consapevolezza dello stare al mondo senza distrazione (proprio senza quella distrazione fatale che ci disumanizza e di cui parlava Pascal) che si recupera infatti quella dimensione autenticamente umana del tempo già intravista da Agostino quando, in una delle più belle riflessioni poetiche delle Confessioni, «in te, anima mia, misuro il tempo» legherà per sempre, nella coscienza occidentale, il contenuto del tempo al contenuto esistenziale della singolarità e dell’individualità dell’uomo, rivelando così che la consapevolezza dell’abitare il tempo è consapevolezza dell’esistenza con tutto ciò che essa porta con sé con gli eventi, le scelte, gli incontri, gli amori che diversificano ogni vita da un’altra: con il filo della voluntas spesso a noi ignota, eppure profondamente nostra, che sembra determinare il nostra destino.

La dimensione esistenziale che caratterizza l’uomo è riconducibile alla sapienza primaria e originaria di stare e di essere in un tempo e in uno spazio: se dividessimo il tempo della giornata nei variegati segmenti della nostra identità (essere madri e padri, ma al contempo anche figli, e al contempo lavoratori, e al contempo…) e se dedicassimo ad ogni segmento l’attenzione, la presenza anche d’animo necessaria per viverlo interamente, autenticamente, vedremmo come il segmento temporale vissuto per esercitare e vivere ed aggiornare un’identità virtuale, che è solo una delle infinite identità, si ridimensionerebbe e diventerebbe un frammento di tempo analogo (o inferiore) per estensione e valore a tutti gli altri frammenti di tempo durante i quali si esercitano le diverse forme identitarie del nostro esserci.

Ora, nel villaggio globale l’identità virtuale non è considerata una delle tante infinite identità: essa coincide con l’intero dell’identità, ed ecco perché fagocita ed erode il tempo, s’insinua come un tarlo negli altri segmenti e non lascia spazio e non lascia scampo e chiede continua attenzione.

L’identità virtuale s’impone come ladra di tempo, una sorta di catena a cui l’uomo si lega dalla testa ai piedi e, come diceva Gadamer a proposito delle schiavitù imposte dai nuovi media, «chi ha le chiavi di questa catena è una nuova élite che esiste solo per schiavizzare l’umanità con le immagini e con la sua frusta elettronica».

Che le immagini siano le proprie o siano le immagini di coloro che conosciamo e che cerchiamo nella Rete delle relazioni, poco importa:

si sta sempre come prigionieri nella caverna platonica, condannati alla fruizione di un’eterna fiction.

Favorire i competenti in democrazia,

senza sfociare nella tecnocrazia dei saggi?

È possibile. Ecco come.

Open.luiss.it – (9 MARZO 2018) – Raffaele De Mucci – ci dice:

 

Quelli che seguono sono ampi stralci della prefazione pubblicata nel volume “Contro la democrazia”, pubblicato da LUISS University Press.

“È stato detto che la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte le altre fin qui sperimentate”.

Così, letteralmente, Winston Churchill fissava un principio fondamentale di supremazia storica del regime democratico nel discorso rivolto alla Camera dei comuni alla fine della seconda guerra mondiale, nel 1947.

A questa concezione relativistica della democrazia come “male minore” si richiamano un po’ tutte le analisi e le teorie moderne, di scienza politica o persino di filosofia, ispirate alla metodologia del “realismo”:

da Machiavelli a Sartori, passando per Weber e Schumpeter, si cerca di capire cosa effettivamente sia la democrazia, come funzionino concretamente i suoi processi e i suoi attori, inevitabilmente controllati e influenzati da élite e gruppi di potere in competizione fra loro.

Ma persino ai tempi della sua fondazione concettuale e pratica, “democrazia” era una parola ambigua.

In quanto forma “virtuosa” di governo era chiamata piuttosto “politia”, qualcosa che si avvicina molto al sistema di democrazia liberale fondata sul patto costituzionale e sul principio di rappresentanza.

Quando ci si voleva riferire alla forma “deviata” di democrazia, la si definiva invece “olocrazia”, il governo delle masse senza distinzione alcuna, secondo gli schemi più vieti del “populismo”.

Prima ancora di Aristotele, Platone aveva fermato un criterio inderogabile per molti altri pensatori e teorici dei sistemi di governo: la politica è un affare troppo serio e complicato perché possa essere lasciato alla cura della gente comune;

il potere politico deve essere gestito dai “sapienti”, da coloro che “sanno” e hanno le necessarie competenze.

Questo modo di vedere le cose è chiamato comunemente “sofocrazia” o “noocrazia” (governo dei sapienti o dei capaci) e ha ispirato numerose scuole di pensiero politico in epoca moderna.

 Secondo Platone, una moltitudine non è mai in grado di amministrare uno Stato, a meno che non ci si trovi in un contesto di estrema corruzione.

Per molto tempo a seguire, e ancora oggi, il modello della Repubblica di Platone, basato sul governo degli “esperti”, è stato considerato l’antitesi del modello democratico.

 Popper contrappone il “totalitarismo” platonico, prototipo dell’assolutismo moderno, all’idea di “società aperta”, fondata sui principi di libertà e pluralismo e praticata nella democrazia ateniese all’età di Pericle.

 In fondo, questa antinomia anticipa e radica il contrasto dei nostri giorni fra democrazia e tecnocrazia.

 

Ci sono poi le correnti dell’elitismo vecchio e nuovo: si tratta di variegate correnti di pensiero tutte nettamente contrarie alla democrazia parlamentare, e che concordano sulla tesi che il governo di una società debba essere retto da una classe “scelta” e necessariamente ristretta di individui.

Nel concetto moderno di democrazia confluiscono in sintesi due accezioni rilevanti della sua stessa storia:

un’accezione “procedurale” (il rispetto delle regole del gioco) e l’altra “sostanziale” (la garanzia dei diritti di libertà e uguaglianza).

Nella scienza politica contemporanea si guarda ormai a questa sintesi come al concentrato delle caratteristiche delle “qualità” democratiche ovvero delle caratteristiche che devono avere le democrazie “di buona qualità”, esprimibili in altrettante categorie osservative almeno in parte empiricamente controllabili.

Dovremmo chiederci a questo punto se esistono alternative praticabili e migliori rispetto alla democrazia rappresentativa.

Secondo Norberto Bobbio, la risposta era negativa.

 La recente tesi “epistocratica” lanciata nel libro Contro la democrazia (LUISS University Press 2018) da Jason Brennan, filosofo della Georgetown University, non sembra affatto mettere in discussione il modello della democrazia rappresentativa quanto piuttosto le modalità del suo funzionamento:

il problema e la crisi della democrazia non sono legati al principio della rappresentanza ma piuttosto alla indiscriminata estensione dei diritti di voto, attivo e passivo, promossa dal suffragio universale, che consente a una massa di elettori che non si interessano o non sanno nulla di politica di conferire il potere di legiferare e governare a una minoranza di eletti per lo più incompetenti e corrotti.

Brennan sostiene che vi siano almeno due versioni di populismo, una positiva (dare voce e risorse ai più deboli) e una negativa, quando tendiamo a considerare come populisti quei movimenti e individui che si ribellano contro i politici corrotti o incompetenti.

Ma così facendo diamo loro più credito di quanto non meritino, perché tralasciamo il fatto che i loro elettori sono poco informati e molto inconsapevoli.

Una ricerca dell’ANES – “American National Election Studies” – ha rivelato che gli elettori americani sanno a mala pena chi è il presidente in carica, non hanno nemmeno un’idea vaga di quale sia la percentuale di disoccupazione nel paese, né di quanto spenda il governo all’anno:

un terzo di questa popolazione pensa che il versetto degli Atti degli Apostoli “da ciascuno secondo le sue possibilità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”, reso celebre da Marx, faccia parte della Costituzione degli Stati Uniti.

 La stessa percentuale non sa citare i tre poteri dello Stato, e non conosce nemmeno il nome dei propri rappresentanti a Washington.

Come funzionerebbe l’epistocrazia.

Brennan tiene a sottolineare che gli elettori disinformati e privi di cultura politica non siano affatto stupidi:

semplicemente sono disinteressati agli affari politici e di governo e sanno di poter persistere in questo atteggiamento di rifiuto e ignoranza, o indulgere a convinzioni politiche false e irrazionali senza che tutto ciò si ripercuota sul loro diritto di voto. Ma secondo il nostro autore, per essere ammessi a scegliere con il voto se confermare o mandare a casa questo o quel rappresentante in Parlamento o in Comune, l’uno o l’altro candidato alla Presidenza, occorrerebbe dimostrare di sapere almeno chi abbia ricoperto ruoli elettivi di potere nel precedente mandato, quali fossero i mezzi reali a sua disposizione, quali le possibili opzioni politiche e di governo, a quali risultati avrebbero portato scelte diverse.

Ed è questa, in sostanza, la proposta contenuta nel suo modello di epistocrazia.

Come lo stesso Brennan riconosce, montagne di prove dimostrano che la democrazia generalmente opera meglio di una dittatura o di un’oligarchia.

 Ma egli sostiene che queste non sono le sole possibili alternative alla democrazia.

C’è anche l’”epistocrazia” – il “governo di coloro che conoscono”.

L’elettorato potrebbe prendere decisioni migliori se fosse limitato per renderlo più consapevole e meno prevenuto.

 Per la maggior parte delle persone, le idee come quella di epistocrazia suonano come difesa del governo di una piccola élite, che potrebbe facilmente abusare dei suoi poteri.

 Ma Brennan presenta una varietà di strategie che potrebbero migliorare la qualità dell’elettorato, come limitare il diritto di voto a coloro che sono in grado di passare un test elementare di conoscenza politica.

A quelli dotati di maggiori conoscenze potrebbero invece essere concessi voti supplementari (idea già di John Stuart Mill nel XIX secolo).

 Se il risultato di questo elettorato più esperto è dis-rappresentativo (ad esempio, relativamente a specie, genere, età o ricchezza), ai voti dei membri più informati di questi gruppi “sottorappresentati” potrebbe essere dato un peso maggiore.

In alternativa, potremmo rendere l’elettorato potenzialmente più esperto e più rappresentativo di quanto lo sia ora, persino ricorrendo una specie di “lotteria per il diritto di voto”, cioè estraendo a sorte gli elettori legittimati a esprimere le scelte politiche.

I precedenti dei minorenni e degli immigrati.

Tali idee possono sembrare, e in un certo senso sono, molto radicali.

Ma per molti aspetti, si tratta solo di modeste estensioni dello status quo.

Sostiene Brennan che escludiamo già oltre il 20% della nostra popolazione dal diritto di voto, perché pensiamo che siano ignoranti e hanno scarsa capacità di giudizio:

chiamiamo quelle persone “minorenni”, e non sentiamo alcun senso di colpa per la loro esclusione sistematica dai circuiti del potere politico.

La cosa colpisce la maggior parte di noi in termini di semplice buon senso.

 L’idea di lasciare che alcuni di loro votino se possono dimostrare che sono più informati di un adulto medio è considerata radicale e pericolosa.

Non consentiamo che gli immigrati legali ottengano il diritto di voto a meno che non superino un test di educazione civica che la maggior parte dei nativi americani probabilmente fallirebbero.

Parecchi Stati escludono inoltre dal diritto di voto molti dei malati mentali e dei condannati.

Sta bene escludere i diciasettenni dal voto, ma perché non anche un diciannovenne o un quarantenne, la cui la comprensione dei problemi è scarsa o peggiore di quella di un minorenne medio?

Se possiamo escludere gli immigrati ignoranti, perché non possiamo farlo per gli autoctoni ignoranti?

Chi deve comandare – e come deve essere designato chi comanda – è la domanda che si pose Platone, e in fondo si pone anche Brennan sulla scia di una lunghissima tradizione di teoria politica.

 Con risposte sempre storicamente mutevoli.

I filosofi ovvero i sapienti, era stata la risposta di Platone, alla quale è in qualche modo riconducibile la proposta di “epistocrazia” avanzata da Brennan, anche se la “sapienza” da lui invocata è una conoscenza basica di cultura politica che non ha la pretesa di accostarsi al modello platonico di “sofocrazia”.

 Altri hanno dato risposte diverse: devono comandare i sacerdoti, i militari, i tecnici, i “migliori” del popolo.

 Per altri, invece, è bene che comandi una persona sola: un re di stirpe divina, un tiranno o un principe armato.

 Altre risposte indicano invece il popolo per volontà della nazione, questa o quella classe, questa o quella razza.

Ma la domanda di Platone – commenta Popper – “è sviante, irrazionale. […]

Razionale è piuttosto quest’altra domanda: come possiamo organizzare le istituzioni politiche in modo da impedire che governanti cattivi o incompetenti facciano troppo danno?”

La risposta che ne dà Popper, come è noto, è quella di una “società aperta” garantita dal regime della democrazia liberale.

Come spiega Yascha Mounk, viviamo tempi “straordinari” nei quali regna il caos diffuso, e si moltiplicano le crudeltà in uno scenario di progressiva consunzione dei sistemi liberal-democratici, mentre fioriscono per contro democrazie illiberali (o al contrario liberalismo senza democrazia), strette dall’alternativa esiziale fra populismo e tecnocrazia [Mounk 2017]. 

Tuttavia, in attesa che l’Autore spieghi meglio i dettagli del suo progetto “epistemocratico”, non possiamo non dirci d’accordo sulle sue critiche al funzionamento delle attuali democrazie.

Ed è persino difficile dissentire dall’idea portante delle sue argomentazioni che la democrazia non sia una forma di “intelligenza o saggezza collettiva”, come sostiene una lunga serie di autori sulla scorta di Aristotele.

Primo, perché questi attributi possono essere predicati di individui e non di masse indifferenziate di elettori, fra i quali sono davvero pochi coloro che si impegnano e sono un minimo informati per concorrere consapevolmente alla formazione di scelte collettive.

È secondo perché, proprio per questo, la democrazia “aritmetica”, nella quale i voti si contano, non coincide con la democrazia “epistemica” nella quale i voti pesano.

In conclusione, si può essere più o meno d’accordo con le diagnosi di crisi della democrazia avanzate da Brennan e con le terapie proposte, peraltro non compiutamente indicate né tanto meno realizzabili nei sistemi contemporanei (come riconosce lo stesso Autore).

Ma è certo che questo libro sembra come una roccia precipitata in un immenso specchio d’acqua che, complice la presunta “fine della storia” che postula la perennità e insostituibilità del modello di democrazia liberale [Fukuyama 2003], correrebbe il rischio di diventare una palude stagnante.

 

 

 

La corsa dell’Unione europea

contro il tempo.

Le responsabilità dell’Italia.

Thefederalist.eu – Redazione – (7 agosto 2022) – ci dice:

 

Il 20 luglio, giorno della caduta del governo Draghi in Italia, rischia di essere ricordato come una di quelle date cruciali che cambiano drasticamente la direzione dei processi politici.

La crisi del governo italiano ha infatti una valenza non solo nazionale, ma investe anche l’Unione europea e tutto il fronte delle democrazie occidentali.

L’Italia è un paese determinante nel quadro europeo, e di conseguenza lo è anche sul piano internazionale.

L’esperienza appena conclusa del governo guidato da Mario Draghi lo ha dimostrato.

 Grazie al sussulto di responsabilità di tutte le forze politiche italiane che hanno accettato — con l’eccezione della estrema sinistra e di Fratelli di Italia — il patto di unità nazionale proposto dal Presidente della Repubblica e grazie all’autorevolezza e alla competenza di Mario Draghi, l’Italia non ha solo raggiunto risultati importantissimi sul fronte interno (campagna di vaccinazione e lotta alla pandemia, ripresa economica con una delle crescite più alte in Europa e a livello internazionale, politiche di sostegno sociale, avvio della diversificazione energetica, solo per citarne alcuni esempi che si aggiungono al lavoro per il PNRR), ma ha anche giocato un ruolo di leadership sul piano europeo e internazionale.

Draghi è stato l’interlocutore privilegiato degli USA in Europa per fissare la linea a sostegno dell’Ucraina, come reso evidente anche dal ruolo determinante che ha avuto nella decisione sulla candidatura dell’Ucraina all’Unione europea;

e nell’UE, insieme a Macron, ha guidato il fronte dei Paesi impegnati a costruire un’Europa forte e coesa, dotata di una sua indipendenza strategica.

 In questa ottica ha lavorato su una serie di proposte cruciali (dall’energia alla difesa e alla riforma della finanza pubblica europea) e sostenuto il processo di riforma dei Trattati, dalla Conferenza sul futuro dell’Europa alla richiesta da parte del Parlamento europeo di aprire una Convenzione ex art. 48 TUE, con l’obiettivo più volte dichiarato di modificare in senso federale il sistema politico-istituzionale europeo.

Aver provocato la caduta del governo Draghi ha quindi non solo portato l’Italia in acque incerte e agitate, ma ha ancor di più privato di una guida decisiva l’Europa, fermando quel processo di rafforzamento così cruciale per il successo nel confronto (accelerato e reso drammaticamente inevitabile da Putin con l’aggressione all’Ucraina) tra democrazie liberali e autocrazie.

La guerra lanciata dalla Russia contro l’Ucraina, proprio per aver portato la frattura tra Occidente e potenze autocratiche a livelli non più sanabili facendo ricorso a politiche di dialogo, ha aperto molte incognite sul futuro di un’Europa che è stata costretta a prendere atto della propria vulnerabilità e della mancanza di strumenti di difesa adeguati.

Se oggi questa aggressione non fosse contrastata con coraggio e determinazione dagli ucraini stessi con il supporto esterno della NATO e l’impegno innanzitutto americano, la minaccia diretta di Mosca avrebbe sicuramente investito in tempi brevi anche alcuni dei paesi membri dell’UE.

In questo quadro, ancora una volta, gli europei si ritrovano dipendenti per la loro sicurezza da un paese esterno (gli USA), che a sua volta è condizionato da una situazione politica interna dagli sviluppi imprevedibili;

 ma la differenza, rispetto al passato dopo il crollo dell’URSS, è che questa volta la guerra è in Europa, e il fatto che il ritardo europeo (sul piano politico, oltre che militare) sia così profondo da non potere essere colmato in tempi politicamente utili rispetto alla guerra in corso, mette a nudo chiaramente quella realtà dell’Europa “ventre molle” del fronte occidentale tante volte richiamato da analisti e politici americani.

Si aggiunga, a conferma di tutto ciò, che gli europei si ritrovano a dipendere dal nemico in un settore vitale come quello dell’energia e, attraverso questa dipendenza, finanziano il proprio aggressore profumatamente.

In più, hanno al proprio interno porzioni importanti di opinione pubblica e di classe dirigente che parteggia per il nemico e lo sostiene attivamente (mentre l’opposizione democratica in Russia o in Cina è ridotta facilmente al silenzio).

 A questo va aggiunto che, di fronte alle conseguenze economiche della guerra — che ricadono su economie già gravemente colpite dalla pandemia e che avevano appena iniziato la ripresa — gli europei hanno una moneta unica forte e autorevole, che però, in assenza dei necessari strumenti concomitanti fiscali ed economici, è minacciata dalla fragilità di una parte degli Stati che vi partecipano, dal loro debito eccessivo e dalle loro carenze rispetto alle quali mancano strumenti strutturali di supporto;

 mentre l’inflazione rende complesso anche l’utilizzo della leva della politica monetaria della Banca centrale, in passato determinante per salvare l’euro.

 Infine, quando devono agire uniti, gli europei, nel quadro dell’UE, hanno una struttura decisionale che riflette la loro frammentazione e l’assenza di una sovranità comune democratica e legittima, per cui si trovano a ragionare troppo spesso in base non ad una visione forte di grande potenza continentale, ma alla somma di tante visioni nazionali deboli;

 in più per agire sono anche privi di vere risorse e strumenti adeguati.

 

Questo quadro, senza togliere nulla al valore di quanto costruito in oltre settanta anni di integrazione, dimostra come l’UE si sia crogiolata troppo a lungo nell’illusione che il Mercato unico fosse la risposta politica adeguata alle sfide del nostro tempo e che fosse in grado, unito ad una gestione sana e scrupolosa delle finanze nazionali e a buone pratiche nazionali di governo, di garantire la pace, il successo dei nostri sistemi economici e sociali e delle nostre democrazie.

 La realtà, invece ha visto crescere le minacce attorno a noi a dismisura, lasciandoci del tutto inadeguati a fronteggiarle.

Basta confrontare le indicazioni contenute nello “Strategic Concept” della NATO e nello “Strategic Compass” dell’UE.

 Di fronte ad un’analisi molto simile delle minacce che dobbiamo fronteggiare e degli attacchi che rischiamo (altamente) di dover subire, l’uno propone le soluzioni che derivano dalla forza della potenza tecnologica e militare (grazie al ruolo degli USA);

l’altro un cantiere tutto da costruire, e rispetto al quale non ci sono ancora neanche gli strumenti per avviare i lavori.

Parole da una parte, quindi, rispetto al potere reale dall’altra.

La descrizione dello stato in cui si trova l’Unione europea spiega bene perché rischia di essere fatale il fatto di aver fermato chi in Europa era alla guida del cambiamento.

 La riforma per costruire l’unione politica federale dell’UE è fondamentale per rafforzare la presenza internazionale dell’UE, la sua capacità di agire con autorevolezza internamente ed esternamente e anche per offrire ai cittadini e alle opinioni pubbliche (spesso sfiduciate e deluse dalle debolezze delle istituzioni e delle politiche nazionali) un progetto lungimirante e profondo di rifondazione della politica e del modello democratici.

 In un confronto tra sistemi alternativi, in cui l’autocrazia sfida con la sua apparente efficacia la complessità e la inclusività dei meccanismi decisionali democratici, il rafforzamento del sistema democratico diventa il fattore dirimente;

e, vista la debolezza strutturale a livello nazionale, è evidente che la democrazia può rilanciarsi solo se si realizza pienamente a livello europeo.

 L’evoluzione del sistema istituzionale europeo necessario a tal fine si scontra però con molti ostacoli, dall’inerzia di un paese chiave come la Germania (a lungo sostenitore del sistema di un’UE grande Mercato unico e ora in difficoltà a modificare il suo modello economico e politico), alla freddezza dei paesi “frugali” e di quelli del Nord Europa, fino all’aperta difesa dell’indebolimento politico dell’UE, a favore del ritorno ad un regime di piena sovranità degli Stati membri, da parte dei pasi dell’Europa orientale.

 Il tandem franco-italiano era il motore indispensabile per costruire la nuova Europa, ed è stato fermato.

Tenendo conto di come la guerra contro l’Ucraina abbia alzato il livello della sfida contro i nostri sistemi democratici, e di come il fattore tempo si sia fatto determinante, questa brusca frenata è particolarmente pericolosa.

A questo si deve aggiungere l’incognita se l’Italia potrà mai recuperare il ruolo svolto sotto la presidenza del Consiglio di Mario Draghi.

Perché ciò accada, il 25 settembre dovrà vincere la continuità politica e istituzionale, fondata su un grande patto che si apra nuovamente in ottica nazionale, rispetto all’esperienza del governo uscente.

 Tutto in teoria è possibile, benché difficile, e potrebbe anche prevalere — chiunque vinca — il senso di responsabilità verso l’interesse nazionale e la coerenza verso i valori democratici e di libertà, che sono perduti al di fuori del quadro europeo.

A sostegno di un possibile miracoloso rientro in campo dell’Italia vi è il fatto ormai riconosciuto che l’Italia non si governa “contro” l’Europa, ma solo lavorando in sinergia con i nostri partner europei e con l’UE e rispettando gli impegni comuni;

così come è un fatto riconosciuto che se prevarranno a livello nazionale delle scelte e dei comportamenti irresponsabili che priveranno l’Italia delle protezioni europee, il nostro Paese ha davanti a sé un unico destino:

 la crisi irreversibile e fallimento.

Anche solo se il prossimo governo vorrà schierarsi a favore di un indebolimento dell’Unione europea, cambiando così il quadro delle nostre alleanze europee, non solo si metterà in grave pericolo la coesione e la stessa tenuta dell’UE, ma si rafforzeranno parallelamente le tentazioni all’immobilismo e le regole rigide di controllo che sono così dannose per la nostra tenuta a livello di sistema paese.

L’Italia quindi ha in mano una parte importante del destino europeo e ha, al tempo stesso, un disperato bisogno di un’Europa forte e coesa.

 Chiunque vada al governo dopo il 25 settembre non può prescindere dal misurarsi con questo fatto.

D’altro canto, il comportamento delle forze che hanno fatto cadere Draghi in Senato il 20 luglio sembra testimoniare che non c’è limite all’irresponsabilità, quando una classe politica ha in gran parte perso il senso del dovere e del proprio compito.

 Le forze che hanno mantenuto la fiducia a Draghi, e che hanno mostrato di essere coscienti delle esigenze vere del Paese e della necessità di porle al di sopra degli interessi di parte, sono al momento in minoranza e non sembrano riuscire ad esprimere una strategia elettorale all’altezza del grave momento storico, complice anche le incongruenze di una pessima legge elettorale.

Gli altri, nuovi o vecchi oppositori del governo di unità nazionale, si suddividono tra un partito come il Movimento 5 Stelle che cerca di recuperare la sua anima populista per non scomparire dal panorama politico, dopo aver cercato per mesi di portare l’Italia su posizioni anti-NATO per quanto riguarda il sostegno italiano all’Ucraina;

la Lega di Salvini, che ha, come il M5S, contestato Draghi sull’Ucraina e su alcune riforme essenziali del PNRR;

Forza Italia che predica il suo ancoraggio alla famiglia europea del PPE e al tempo stesso, sotto la guida di Berlusconi, mantiene l’ambiguità verso Putin e rievoca vecchi cavalli di battaglia populisti;

infine Fratelli di Italia — cresciuto nell’opposizione al governo, alle sue riforme e alle sue scelte europee, con posizioni tradizionalmente e coerentemente anti-europee e sovraniste, aperto sostenitore dei movimenti illiberali in Europa — che in vista di una probabile vittoria elettorale e di una conseguente responsabilità di governo recupera in pochi giorni l’europeismo, la fedeltà al sistema costituzionale (salvo mantenere le posizioni presidenzialiste), la continuità con l’agenda del governo precedente e si accredita presso l’Amministrazione americana come garante della posizione atlantista del suo futuro governo.

Sarà, questa svolta improvvisa del partito favorito alle urne e alla guida del prossimo governo, una mossa tattica per evitare una tempesta perfetta nel momento in cui sale al potere?

 Oppure è già in nuce la presa d’atto che Draghi aveva ragione su tutto, e che pertanto fargli l’opposizione è stato politicamente sbagliato, anche se elettoralmente redditizio?

Potrà l’eventuale prossimo esecutivo a trazione Fratelli di Italia superare le contraddizioni che ne hanno reso probabile la nascita?

O in alternativa potrà vincere in Italia uno schieramento di forze che nel suo DNA apertamente si richiama alla continuità con il governo uscente, con numeri sufficienti per poter far riguadagnare immediatamente la credibilità all’Italia?

La risposta è nelle mani degli elettori italiani e delle forze politiche.

 In una campagna esposta agli attacchi ibridi della disinformazione e dell’ambiguità delle posizioni di molti contendenti l’Italia gioca una partita cruciale per il futuro delle democrazie occidentali.

Un’Italia europea per un’Europa federale, sovrana e democratica è appena stata messa al tappeto dal populismo e dagli interessi di parte.

Riusciranno comunque a prevalere responsabilità, buon senso e coerenza rispetto al modello liberal-democratico, insieme alla coscienza del valore dirimente dell’Europa per il nostro futuro?

Sarebbe bello che questo dibattito avvenisse realmente per permettere ai cittadini italiani di prendere coscienza della vera posta in gioco il 25 settembre.

(Pavia, 7 agosto 2022)

 

 

 

 

Le leve interne ed esterne per

raggiungere la democrazia globale.

 

Cosmopolisonline.it - Daniele Archibugi, Marco Cellini – (10-5-2021) – ci dicono:

 

(Articolo pubblicato nella sezione "La rappresentanza politica tra quantità e qualità".)

Quali sono gli obiettivi della governance globale democratica?

I partigiani della democrazia hanno almeno due forme di disagio quando osservano la governance globale.

 La prima è che non tutti i paesi del mondo sono democratici.

 La seconda è che le decisioni globali non vengono prese democraticamente e anche i governi eletti spesso dimenticano i principi fondamentali in politica estera.

Identificare chi ci rappresenta nella sfera internazionale è una questione cruciale perché accade spesso che questioni di portata generale - siano essi la sicurezza, l’ambiente o la necessità di fronteggiare una pandemia - vengono prese senza che si sappia chi ci rappresenta.

Questa incertezza su chi siano i nostri rappresentanti nella politica estera porta spesso a parlare di deficit democratico nella governance globale, ma il concetto rischia di essere sfuggente.

 Secondo il primo significato, il deficit democratico nella governance globale è imputabile al fatto che i membri della comunità internazionale, vale a dire gli Stati, non sono sufficientemente democratici.

 Stando al secondo, il deficit democratico è dovuto al fatto che la governance globale non è soggetta ad alcun controllo democratico (per una discussione si veda Nye 2001; Moravcsik 2005).

Anche le istituzioni che sono state progettate con lo scopo di aumentare la legittimità, la rappresentatività, e la trasparenza nella politica mondiale, come le organizzazioni internazionali (OI) non corrispondono a criteri democratici.

 Si noti che il primo significato richiama ad una carenza interna dei sistemi politici, il secondo una carenza del sistema internazionale.

Queste carenze mostrano che non c’è una adeguata rappresentanza nel processo decisionale.

Internamente, nonostante l'ondata democratica iniziata dopo la fine della guerra fredda, la metà dei paesi del mondo non ha ancora governi eletti.

 L’altra metà dei paesi, anche se democratica all’interno, non ha ancora trovato il modo di esserlo anche all’esterno.

Non solo le autocrazie, ma anche le democrazie consolidate sono piuttosto riluttanti a rendere conto delle loro scelte globali, spesso anche di fronte ai propri cittadini.

La struttura costituzionale delle organizzazioni intergovernative (OIG) non assomiglia affatto a quella vigente all’interno dei paesi democratici, perché in esse sono rappresentati i governi e non i cittadini.

 Le Nazioni Unite, il Fondo Monetario Internazionale, l’Organizzazione Mondiale del Commercio, solo per citare alcune delle più importanti OIG, non contemplano l'elezione di rappresentanti da parte della cittadinanza.

 Anche l'Unione Europea, l'OI che più di tutte è stata permeata dai valori democratici, ha una costituzione che è molto meno democratica di tutti i suoi membri (cfr. Zurn 2000).

 Gli Stati sono riluttanti a limitare la propria sovranità in favore di organizzazioni internazionali o sovranazionali (cfr. Maffettone 2015).

Una possibile soluzione potrebbe essere di creare canali diretti di rappresentanza dei cittadini negli affari globali.

C'è qualcosa che si può fare al riguardo?

 E, soprattutto, se individuiamo l'esistenza di almeno due aree in cui la democrazia non è pienamente realizzata - quella interna e quella globale - come si collegano?

Questo articolo intende evidenziare i legami tra le dimensioni interna e globale del deficit democratico e offrire alcuni suggerimenti per azioni che potrebbero essere implementate dalle OI, dai singoli governi e dall'opinione pubblica.

Ciò si basa su un presupposto che vale la pena esplicitare: un’autentica governance democratica globale richiede che ci sia un mondo composto da Stati che sono internamente democratici e dove le decisioni globali sono prese secondo alcune forme di democrazia.

Il che richiede, in altre parole, raggiungere insieme la globalizzazione della democrazia e la democratizzazione della globalizzazione (cfr. Gould 2004; Scholte 2011).

Il problema, come sempre, è come raggiungere questo così ambizioso obiettivo e, per capirlo, cerchiamo qui di identificare come la sfera interna e quella esterna interagiscono tra loro.

Cos'è la governance globale democratica?

Esistono diverse definizioni di governance globale.

In questo articolo, applichiamo la seguente definizione:

«le azioni politiche intraprese da attori nazionali e/o transnazionali volte ad affrontare problemi che interessano più di uno Stato e/o dove non esiste un'autorità politica definita in grado di affrontarli» (Koenig-Archibugi 2002; cfr. anche Koenig-Archibugi, Zurn, 2006; Brown 2012).

In un mondo globalizzato, le questioni che non possono essere adeguatamente affrontate a livello nazionale - dalla sicurezza alle crisi umanitarie, dall’ambiente alle epidemie, dai tassi di cambio al commercio – sono crescenti.

Partiti politici, amministratori pubblici, imprenditori e opinione pubblica richiedono sempre più spesso che esse siano affrontate attraverso azioni e livelli decisionali appropriati.

Durante e dopo la crisi finanziaria del 2008, ad esempio, il settore imprenditoriale, i sindacati e l'opinione pubblica hanno chiesto un intervento efficace per prevenire il collasso delle attività economiche.

 Molte di queste decisioni sono state prese nei vertici del G8, G20, G4 o G2 (il G4 è l'etichetta data al vertice tra i quattro principali paesi europei “Francia, Germania, Italia e Regno Unito”.

Il G2 è stato etichettato come il vertice tra Cina e Stati Uniti).

 Durante la pandemia del Covid-19, gli stati sono stati costretti a prendere misure di vario tipo, che hanno comportato coordinamento nelle restrizioni, condivisione di informazioni scientifiche, distribuzione di farmaci e vaccini.

 Tale governance globale è stata a volte efficace e altre meno, ma non molti criteri di democraticità sono stati soddisfatti:

un numero ristretto di governi ha di fatto preso decisioni per tutta l’umanità senza averne delega.

Sebbene la rilevanza della governance globale sia cresciuta in modo esponenziale negli ultimi decenni (vedi Held, McGrew 2002; Woods et al. 2013), ciò non significa necessariamente che si sta procedendo verso una sua democratizzazione.

Ciò è anche legato al fatto che non esiste una definizione condivisa di cosa sia la governance globale democratica.

Studiosi, consiglieri e responsabili politici hanno fornito indicazioni su quale dovrebbe essere la governance globale democratica, e altri hanno sostenuto che la governance globale democratica sia impossibile o non desiderabile (per una raccolta di punti di vista diversi, si veda Archibugi 2003; Archibugi et al. 2011).

Alla fine della guerra fredda, con la democrazia cosmopolitica abbiamo tentato di esplorare in quali condizioni i valori e le norme democratiche potessero essere estesi anche alla governance globale (cfr. Archibugi, Held 1995; Held 1995), con la convinzione implicita che il progetto avrebbe acquisito un consenso generale tra i teorici della democrazia.

Ma non tutti si sono dimostrati d'accordo su una simile estensione.

 In particolare, Robert Dahl, uno dei più importanti teorici democratici della seconda metà del XX secolo, ha sostenuto che fosse impossibile realizzare la democrazia al di là degli Stati (cfr. Dahl 1999; 2005. Vedi anche Urbinati, 2003).

Il vero problema è capire fino a che punto l'analogia interna è valida quando si tratta di democrazia oltre i confini dello Stato.

 Non tutte le procedure democratiche applicate all'interno degli stati possono essere estese su scala planetaria.

 La rigorosa applicazione del sistema statale a livello globale porterebbe alla creazione di uno stato federale mondiale.

 Il federalismo mondiale è una linea di pensiero che ha contribuito alla trasformazione delle organizzazioni internazionali e ha fornito nuove idee per un ordine mondiale più integrato (vedi Cabrera 2004; Levi 2008; Marchetti 2008).

Tuttavia, il programma qui proposto è più modesto e, si spera, più facilmente realizzabile, volto ad aumentare la rappresentatività democratica nella governance globale anche in assenza di una concentrazione del potere in un unico stato mondiale.

In questo articolo, ci concentreremo sulle OI poiché sono la componente più trasparente della governance globale e quindi qualsiasi deficit democratico al loro interno testimonia quanto più severo esso sia nelle sedi informali, esclusive o addirittura segrete.

Anche quando il potere, la legittimità e le risorse sono forniti dagli Stati membri, le OI hanno la loro agenda e non sono dei meri “agenti” dei governi.

 Inoltre, rispetto ad altre forme di governance globale, come

 i) azioni unilaterali intraprese da singoli stati (quali assistenza unilaterale allo sviluppo),

 ii) iniziative intergovernative bilaterali o multilaterali (quali iniziative di coordinamento finanziario intraprese nel G7),

o iii) le attività svolte dal settore imprenditoriale (quali azioni e regolamenti adottati dalle associazioni di categoria), le OI incorporano già alcuni valori e principi caratterizzanti la democrazia. Proviamo ad elencarle:

- Le OI sono basate su carte, convenzioni, trattati e altri atti pubblici. Ciò le rende vincolate allo Stato di diritto e al diritto internazionale.

- Alcune OI hanno metodi giudiziari per affrontare le controversie.

- La maggior parte delle attività svolte dalle OI sono trasparenti e i loro funzionari se ne assumono le responsabilità nei confronti degli Stati membri e, indirettamente, nei confronti dei cittadini degli Stati membri.

Questi elementi sono sufficienti per considerare le OI istituzioni democratiche?

 Ovviamente no (cfr. Erman, Higgott 2010).

Certamente, sono più legittime delle alternative come i vertici tenuti a porte chiuse o le decisioni prese da un gruppo di amministratori aziendali (cfr. Buchanan, Keohane 2006).

 Ma questi criteri sono altamente insufficienti se confrontati con i requisiti della teoria democratica.

I criteri sopra elencati, infatti, non sarebbero sufficienti per qualificare alcuno stato come democratico (cfr. Patomaki, Teivainen 2004; Zweifel 2005; Levi et al. 2014).

Non sorprende quindi che Dahl (1999, 2005) abbia contestato l’idea che le OI possano diventare istituzioni rappresentative.

Dahl ha indicato alcuni criteri chiave che qualificano il termine moderno “democrazia” per dimostrare che nessuno di essi è pienamente applicato nelle OI.

Ma il fatto che le OI attualmente non soddisfino i criteri democratici dovrebbe far sì che i partigiani della democrazia lavorino per riformarle adeguatamente.

Ciò dipende in gran parte dalla concezione di democrazia che vorremmo utilizzare per la governance globale.

 Non crediamo che sia fruttuoso replicare i modelli già noti semplicemente espandendoli a livello globale (cfr. Archibugi et al. 2010; Macdonald, Macdonald 2010).

 Al contrario, occorre costruire una teoria della democrazia non centrata sullo stato e applicabile a una varietà di diversi contesti umani (ad esempio famiglie, aziende, quartieri, associazioni politiche) così come alle organizzazioni al di sopra dello stato (cfr. Held 2006).

Per quanto riguarda il nucleo della governance globale rappresentato dalle OI, la Tabella 1 illustra in che misura questi principi sono già applicati e qual è la loro potenziale applicazione.

Emerge che tali principi possono ispirare una serie di azioni politiche necessarie per rendere le OI più trasparenti e più rappresentative.

 

Tabella 1 - Principi democratici e organizzazioni intergovernative.

 

Principi. Applicazione corrente nelle OI. Riforma democratica delle OI.

Non violenza.

Impegno degli Stati membri ad affrontare pacificamente i conflitti internazionali e ad usare la forza solo per l'autodifesa.

Applicazione del principio di non violenza attraverso:

i) giurisdizione obbligatoria del potere giudiziario internazionale;

ii) responsabilità penale individuale per reati internazionali;

iii) intervento umanitario per garantire la sicurezza dei popoli minacciati da genocidio e/o gravi violazioni dei diritti umani.

Controllo Politico-  Controllo esercitato dai governi membri.

Pubblicità e trasparenza degli atti.

Norme e procedure codificate in trattati, alleanze, carte e statuti internazionali.

Espansione del controllo politico attraverso un Parlamento mondiale, l'Unione interparlamentare o altre rappresentanze dei cittadini.

Allargare la rappresentanza nelle OI con canali aperti alla società civile globale e alle sue ONG.

Monitoraggio dei governi nazionali da parte di istituzioni cosmopolitiche

Eguaglianza Politica. Uguaglianza formale degli stati.

Uguaglianza dei cittadini in termini di diritti sanciti dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo.

Uguaglianza degli stati su base sostanziale piuttosto che formale (coinvolgimento degli stati associati alla partecipazione detenuta).

Uguaglianza politica tra i cittadini sulla base di un elenco minimo di diritti e doveri associati alla cittadinanza cosmopolita.

Partecipazione diretta alla politica mondiale attraverso un Parlamento mondiale eletto direttamente o altre forme di rappresentanza dei popoli.

(Fonte: Archibugi 2009. Controllo e eguaglianza politica sono tratti da Beetham -1999).

La prossima sezione discuterà come il regime politico interno dei paesi membri può influenzare la possibilità di ottenere una governance globale più democratica, mentre la sezione successiva esplorerà il nesso causale opposto, vale a dire come la partecipazione alle OI può promuovere e consolidare la democrazia all'interno degli Stati.

Le nostre ipotesi di partenza sono che:

a) Il regime interno dei paesi ha un impatto molto importante sulla governance globale.

Se i regimi interni sono dominati da governi autoritari, qualsiasi forma di governance globale non riuscirà ad avviare la partecipazione dei cittadini e della società civile, mentre è probabile che il processo decisionale coinvolga solo le ristrette élite al potere.

 Al contrario, presumiamo che i regimi democratici possano consentire e facilitare una più ampia batteria di interconnessioni.

Se un regime è democratico, i partiti politici, sia al governo che all'opposizione, i sindacati e le organizzazioni della società civile saranno in grado di sviluppare le proprie reti transnazionali e questo può essere un potente strumento per rendere la governance globale trasparente, responsabile, partecipativa e, in definitiva, democratica.

 La leva interna può quindi essere utilizzata per promuovere una governance globale democratica.

b) Il percorso a lungo termine verso la democrazia e la legittimità all'interno dei paesi è fortemente influenzato dal clima internazionale.

Se la paura domina le relazioni internazionali, i paesi democratici tendono a ridurre le loro libertà civili e la partecipazione, mentre i regimi autoritari vengono rafforzati.

Al contrario, le condizioni esterne possono fungere da potente motore per la transizione da regimi autoritari alla democrazia nonché per consolidarla ed espanderla in nazioni già democratiche.

 La leva esterna può quindi essere utilizzata per aumentare il numero di paesi democratici e la loro qualità.

La leva interna.

Ogni stato ha un regime politico diverso.

 Grazie agli sforzi dei politologi è possibile identificare e misurare, su un'unica scala, il livello di partecipazione democratica in ciascuno di essi.

 L'indice Polity IV, uno degli indici democratici più utilizzati, fornisce una metrica in cui ai singoli paesi viene attribuito un punteggio da –10 (mancanza totale di democrazia) a +10 (raggiungimento totale della democrazia).

Questo ci permette di vedere come la democrazia si è evoluta nel tempo e nello spazio.

La Figura 1 riporta il numero di paesi classificati secondo tre categorie:

 democrazie (da +6 a +10), ano crazie (regimi intermedi, da -5 a +5) e autocrazie (da -6 a –10).

L’asse verticale sul lato sinistro riporta il numero degli stati (crescente in conseguenza dei processi di decolonizzazione) e la loro classificazione.

I dati mostrano chiaramente che le nazioni democratiche sono aumentate e, di conseguenza, le autocrazie sono diminuite.

Figura 1 - Tendenze globali nei regimi politici interni 1946-2018

Fonte: elaborazione degli autori su dati Polity IV. La media di Polity IV è la media dei punteggi ottenuti dai paesi da -10 a +10.

Sul lato verticale a destra, invece, abbiamo riportato la somma dei punteggi conseguiti da tutti gli stati considerati.

Da ciò si vede che a partire dal 1960, con l’aumentare degli stati a seguito della decolonizzazione, nel sistema globale dominavano regimi autocratici.

Nel 1990, a seguito della fine della guerra fredda, sono aumentati non solo i regimi democratici, ma anche il punteggio complessivo di democraticità.

La possibilità di classificare un regime politico con un solo numero è discutibile e spesso criticata.

Tuttavia, i dati di Polity IV confermano che la democrazia ha notevolmente aumentato la sua popolarità come regime politico, che questo è diventato sempre evidente nell'ultimo quarto di secolo.

 Anche se negli ultimi anni sembra essersi esaurita quella spinta nata alla fine della guerra fredda (cfr. Repucci, Slipowitz 2021).

La connessione tra i deficit democratici interni ed esterni può essere illustrata con due diversi insiemi (vedi Figura 2).

Da un lato, abbiamo il regime politico all'interno degli stati (sinistra).

Questo insieme è cambiato nel tempo:

il numero di stati è aumentato e anche il loro regime interno, come si vede nella Figura 1, si sta evolvendo.

Possiamo misurare il sottoinsieme delle democrazie in base al numero di paesi democratici, alla popolazione totale che vive in questi paesi e persino alle risorse (in termini di quota del PIL mondiale, commercio, spese militari, seggi nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e così via) associati a democrazie e non democrazie.

Il secondo set è rappresentato dalle istituzioni della governance globale.

 La governance globale è composta da molti aspetti diversi, alcuni dei quali sono chiaramente identificabili, come le OI, altri meno visibili, come i negoziati diplomatici, e altri ancora sono segreti come l'intelligence.

 In questo caso, quantificare la relazione tra l'insieme “governance globale” da un lato e il sottoinsieme “organizzazioni internazionali” dall'altro è assai più complesso.

 Molte attività che rientrano nella governance globale sono misteriose e impenetrabili.

 Solo alcune di queste attività possono essere identificate e nello specifico sono quelle svolte dalle OI.

Il modo in cui agiscono i membri della comunità internazionale influenza la governance globale e viceversa.

Definiamo leva interna il modo in cui i cambiamenti nel numero e nella qualità della democrazia all'interno degli stati influenzano la democratizzazione della governance globale.

Il livello interno è sia descrittivo che prescrittivo: da un lato, dobbiamo sapere quando e come i regimi democratici hanno contribuito alla democratizzazione della governance globale.

Ma dobbiamo anche chiederci cosa possono fare per migliorarlo, al fine di renderla più democratica.

Figura 2 - Le leve interna ed esterna per la democrazia globale.

Fonte: elaborazioni degli autori.

C'è un modo ovvio in cui ha operato la leva interna, ossia la nascita delle OI, visto che esse sono state generate per volere dei paesi democratici occidentali.

La Società delle Nazioni, le Nazioni Unite e la Fédération Internationale de Football Association sono state create dall'impulso di paesi, dei leader e dei teorici democratici.

Ci sono ben poche OI che siano sorte per iniziative di regimi autocratici, come la Lega Araba.

Supponendo che le OI rappresentino comunque un miglioramento rispetto ad altre forme di governance globale, un modo in cui ha operato la leva interna è la creazione stessa delle OI.

La volontà delle democrazie di partecipare alle OI è confermata anche per i regimi democratici più giovani, come indicato da Mansfield e Pevehouse (2006).

Le OI sono generalmente onnicomprensive e raramente hanno discriminato in base al regime politico dei paesi membri.

 Infatti, la maggior parte accetta membri in base al principio del controllo effettivo su un dato territorio piuttosto che alla legittimità dei loro governi.

Per molti anni, il regime interno dei membri non è stata considerata una questione su cui le OI avrebbero dovuto interferire.

L’ONU, l’FMI, la Banca Mondiale, l’OMC danno pari dignità a tutti paesi, senza curarsi della natura interna del regime.

Quando le OI hanno interferito con i regimi interni, la loro attenzione si è concentrata più sulle violazioni dei diritti umani che su quanto i governi fossero rappresentativi dei voleri dei cittadini.

Tuttavia, si possono trovare alcune eccezioni.

L’Unione Europea (UE), il Consiglio d’Europa, il Mercato Comune del Sud (MERCOSUR) e l'Organizzazione degli Stati Americani (OSA) sono esempi di IO che contengono clausole che richiedono ai membri di avere governi democratici (cfr. Pevehouse 2002; Whitehead 1993; Dominguez 1998; Hakim 1993).

Data l’adesione eterogenea della maggior parte delle OI, è comprensibile che non vi sia consenso sulla loro architettura.

 In linea di principio, dovremmo aspettarci che, da un lato, le democrazie desiderino replicare il loro sistema interno anche nelle OI, mentre d'altra parte che i regimi autoritari siano riluttanti a introdurre sistemi che consentirebbero una maggiore partecipazione della cittadinanza poiché ciò potrebbe portare a chiedersi perché gli stessi dispositivi non siano introdotti a livello nazionale, minando la legittimità stessa dei regimi esistenti.

 Se così fosse, ci sarebbe una piena somiglianza tra i regimi interni degli stati e la forma di governance globale a cui aspirano.

Ma nella politica internazionale c’è spesso una mancanza di congruenza.

 I regimi autoritari si sono spesso lamentati del fatto che il potere di veto nel Consiglio di sicurezza non è democratico e nelle OI sono diventati inaspettati sostenitori della stessa democrazia che negano ai loro cittadini.

 Al contrario, i regimi democratici si sono spesso opposti all'espansione di una governance globale più partecipativa, soprattutto quando devono condividere il potere e il processo decisionale con governi non eletti.

Il regime interno di un paese, dunque, non è sempre un buon indicatore della volontà di un governo di sostenere o ostacolare la democratizzazione della governance globale.

Una ricerca empirica condotta da Jonas Tallberg e dai suoi colleghi (cfr. Tallberg et al. 2013, 2014; Agné et al. 2015) indica che le OI sono diventate più trasparenti, responsabili e accessibili agli attori transnazionali.

Gli attori non governativi sono spesso riusciti ad aumentare la partecipazione e la consapevolezza dell'opinione pubblica anche al di fuori delle OI, ad esempio attraverso campagne specifiche che hanno effetti indiretti sulle politiche dei governi e delle OI.

Ci sono casi significativi di ONG che riescono a interagire oltre confine in aree definite (aiuti allo sviluppo, commercio, promozione dei diritti umani) a volte anche in assenza di accordi intergovernativi specificatamente deliberati (per uno studio di caso, cfr. Macdonald, Macdonald 2006).

 Secondo Tallberg e colleghi, l'apertura delle OI è stata guidata da governi democratici piuttosto che da attori transnazionali.

Tuttavia, possiamo chiederci perché i governi democratici siano spesso riluttanti ad espandere la loro governance interna anche a livello globale.

 Qui si pone un enigma fondamentale per gli stati democratici:

è possibile introdurre dispositivi democratici nelle OI anche quando molti dei suoi membri sono autoritari?

Norberto Bobbio (1995) si è chiesto se sia possibile essere democratici anche con un regime non democratico.

Le democrazie possono essere riluttanti a stringere accordi più progrediti se sono circondate da autocrazie.

Naturalmente, questa è una spiegazione benevola che presuppone implicitamente che gli stati democratici siano disposti ad espandere i controlli e gli equilibri democratici con stati a loro simili.

 È una spiegazione che i teorici realisti trovano ridicola, sostenendo che tutti gli stati, inclusi gli stati democratici, partecipano alle OI quando le trovano utili per i loro scopi (cfr. Morgenthau 1948).

Il problema, tuttavia, non dovrebbe essere visto solo staticamente.

Dinamicamente, abbiamo un contesto in cui i regimi interni degli stati (Figura 2, insieme A) sono cambiati drasticamente come conseguenza dell'ondata democratica iniziata nel 1990:

le democrazie sono ora il gruppo più numeroso e hanno un potere ed una influenza politica molto maggiore.

Nonostante questo importante cambiamento nei regimi interni, l'impatto sulle OI è stato piuttosto limitato.

 È vero che l'ONU, l'FMI, la Banca mondiale e l'OMC hanno iniziato a essere più trasparenti e disponibili a ricevere input e suggerimenti dalle ONG, ma non è stata introdotta alcuna riforma costituzionale di rilievo.

 È anche vero che le organizzazioni regionali sono aumentate, spesso, come nel caso del Mercosur, composte da giovani nazioni democratiche ancora in fase di consolidamento (cfr. Telò 2013; Triandafyllidou 2016), ma la leva interna si è rivelata troppo debole.

Che cosa possono fare i governi democratici all'interno delle OI con appartenenza eterogenea, per renderle più rappresentative?

Indichiamo qui quattro punti.

Utilizzare le OI invece di altre forme di governance globale non trasparenti.

 Per prima cosa i governi democratici dovrebbero usare forme di governance trasparenti e rappresentative, piuttosto che strutture segrete.

L’obbligo di rendere conto ai propri cittadini è una delle caratteristiche principali del metodo democratico e rimandare le questioni globali alle istituzioni internazionali progettate si muoverebbe sicuramente nella direzione della democratizzazione della governance globale.

Anche se indirettamente, infatti, un tale impegno consentirebbe ai cittadini di controllare le azioni dei governi sulla scena internazionale e quindi di sentirsi meglio rappresentati.

 Le esperienze passate e recenti dimostrano che è necessaria una partecipazione attiva e robusta dell'opinione pubblica per impedire ai governi democratici di utilizzare metodi illegittimi nella politica internazionale.

 Grazie a Julian Assange, Edward Snowden, Chelsea Manning e tanti altri abbiamo avuto chiara prova che i governi democratici usano metodi illegittimi e illegali nella politica internazionale (così come in quella interna) tanto quanto i governi autoritari.

Creare e rafforzare le “Assemblee Parlamentari Internazionali” (API).

Negli ultimi decenni, c'è stato un aumento delle API nelle OI, specialmente in quelle regionali.

Due rassegne hanno censito addirittura un centinaio di API (cfr. Kissling 2014; Rocabert et al. 2014).

Ad eccezione del Parlamento Europeo, nessuna è eletta direttamente dai cittadini, mentre i loro membri sono generalmente nominati dai parlamenti nazionali. Inoltre, la maggior parte delle API possiedono solo poteri consultivi e solo il Parlamento Europeo condivide con la Commissione alcuni poteri legislativi.

Nonostante queste limitazioni, le API aiutano ad aumentare la rappresentatività delle OI poiché le attività di queste ultime sono esaminate non solo dai governi.

Poiché i membri delle assemblee legislative nazionali sono selezionati da partiti politici sia governativi che di opposizione, c'è un aumento nella capacità di controllo.

 È certamente sorprendente che diverse API abbiano membri provenienti da nazioni democratiche e non democratiche (come nel caso dell'Unione Interparlamentare) poiché ci aspettiamo che un'assemblea parlamentare sia composta solo da membri eletti democraticamente.

 I governi democratici dovrebbero usare il loro peso politico per rafforzare il ruolo politico e la rappresentatività delle API.

Da un lato, dovrebbero promuovere la creazione API in tutte le IO.

 D'altra parte, utilizzando la leva interna, dovrebbero impegnarsi a migliorare il ruolo e il funzionamento delle API sostenendo con forza le riforme volte a fornirle di poteri legislativi e per renderle elettive.

Dare più voce ai dispositivi giudiziari internazionali.

I governi democratici dovrebbero promuovere il ruolo dei dispositivi giudiziari internazionali.

L’indipendenza del potere giudiziario è una componente fondamentale delle democrazie moderne.

 Anche le procedure giudiziarie sono molto importanti per la risoluzione pacifica di conflitti e controversie e, come per le API, il numero dei tribunali internazionali è cresciuto costantemente (per una rassegna, cfr. Mackenzie et al. 2010).

Un ruolo e un potere maggiori nel controllo giudiziario aumenterebbero sicuramente la legittimità delle OI, soprattutto se gli stati sono pronti ad accettare la loro giurisdizione.

Diversi stati hanno accettato la giurisdizione obbligatoria della Corte internazionale di giustizia (CIG) se chiamati da altri stati che l'hanno accettata.

Il presupposto di fondo è che alcuni paesi democratici sono disposti a rispettare lo stato di diritto (e le sentenze di tribunali indipendenti) anche se la controparte ha un regime dispotico.

Una persona onesta non si sente autorizzata a rubare il portafoglio a un ladro, e allo stesso modo un regime democratico dovrebbe rispettare lo stato di diritto anche quando ha una controversia con un’autocrazia.

Apertura dell'accesso alle ONG e alla società civile.

 I governi democratici dovrebbero anche consentire un ruolo più preminente alle ONG e alla società civile.

 In assenza di canali elettorali, le ONG svolgono un ruolo cruciale per aumentare la rappresentatività delle OI.

Negli ultimi vent'anni, le OI sono diventate molto più propense ad aprire le loro porte alle ONG (cfr. Tallberg et al. 2013).

In aree selezionate che vanno dai diritti umani al cambiamento climatico, le OI hanno sostanzialmente cambiato le loro strategie anche per il coinvolgimento di attori non statali e transnazionali.

Ma l'impulso più importante verso la democratizzazione si è spesso verificato al di fuori della struttura formale delle OI:

in questioni centrali come il cambiamento climatico, i diritti umani, la giustizia economica e la costruzione della pace, i movimenti sociali globali sono riusciti a plasmare l'agenda della politica mondiale meglio e prima delle OI (cfr. Della Porta et al. 2009; Scholte 2011).

La leva esterna.

Le OI hanno effetti positivi sulla democratizzazione interna agli stati?

 E se sì, attraverso quali canali? È ciò che chiameremo la leva esterna.

 L'arena internazionale può influenzare sia i processi di transizione che di consolidamento democratico attraverso quattro principali metodi di influenza: “imposizione”, “esempio”, “socializzazione” e “condizionalità” (cfr. Archibugi 2009; Morlino 2011; Morlino, Magen 2008; Pevehouse 2002).

 A questi metodi, bisogna aggiungere un'altra funzione che le OI possono svolgere al fine di promuovere la democrazia all'interno degli stati, vale a dire la funzione di “controllo”, come attore imparziale, dei processi di transizione verso la democrazia.

L’”imposizione” rappresenta il ricorso all'intervento militare per rovesciare un regime autocratico e instaurare un governo democratico.

 L’”esempio” riguarda il ruolo che i paesi democratici possono svolgere nel mostrare il vantaggio derivante dall'istituzione di un governo democratico.

 In effetti, il benessere economico, la sicurezza e le libertà di cui godono i paesi democratici sono fattori importanti che possono spingere le élite e i cittadini degli stati non democratici a intraprendere una transizione democratica (cfr. Haveman 1993). La “socializzazione” riguarda l'interiorizzazione di norme, politiche, istituzioni e pratiche democratiche che si verifica quando un paese in transizione stabilisce e rafforza i legami con gli stati democratici (cfr. Johnston 2001; Kelley 2004; Way, Levitsky 2005; Morlino 2011).

Nel caso dell’”esempio” i paesi democratici hanno solo un ruolo passivo, con la “socializzazione” svolgono un ruolo attivo fornendo una sorta di “learning mentoring”:

scambi istituzionali, interscambio tra società civili, associazioni professionali e commercio sono tutti metodi in cui i diversi sistemi politici - direttamente e indirettamente - riescono a socializzare. La “condizionalità” rappresenta i casi in cui i paesi non democratici sono spinti a intraprendere il percorso di democratizzazione per l'eventualità di una punizione o di una ricompensa.

 Esempi di condizionalità possono essere le sanzioni economiche (condizionalità negativa) o la possibilità di accedere a una linea di credito subordinata alla condizione di intraprendere riforme democratiche (condizionalità positiva).

Infine, il “controllo” è quando le OI svolgono un ruolo diretto nel modo in cui la vita politica è organizzata e amministrata all'interno dei paesi.

Una forma di controllo a bassa intensità si ha quando alle OI viene chiesto di agire come garanti dell’equità del processo elettorale, specialmente nei paesi in cui le elezioni non si sono mai tenute o sono state sospese per lunghi periodi e dove i partiti politici in competizione nutrono una radicata diffidenza l’uno dell’altro (cfr. Koenig-Archibugi 1997).

Altre forme di controllo includono il monitoraggio dei diritti umani.

I diversi metodi, tuttavia, non hanno lo stesso successo.

 In particolare, l'imposizione e la condizionalità negativa hanno mostrato, in media, scarso successo rispetto agli altri mezzi di influenza.

L'imposizione - che può prendere la forma estrema di una occupazione militare compiuta da uno stato o da una coalizione di stati democratici o quella più limitata di partecipazione alle operazioni di mantenimento e consolidamento della pace condotte da ONU e altri OI - si è rivelata spesso debole e controversa perché avviene dall'alto verso il basso e non riesce a realizzare la componente più importante per attuare una transizione democratica, vale a dire il sostegno della cittadinanza.

Germania, Giappone e Italia hanno ottenuto regimi democratici attraverso l'imposizione militare degli Alleati nel 1945-1946, ma negli ultimi settant'anni non ci sono stati casi significativi di transizione alla democrazia attraverso l'invasione militare.

Per una discussione e una revisione delle evidenze empiriche, vedere Archibugi (2009), capitolo 7.

Allo stesso modo, la condizionalità negativa non ha ottenuto risultati significativi e non riesce a generare sostegno interno alla democrazia, come hanno dimostrato le sanzioni economiche imposte all'Iran o l'embargo imposto a Cuba.

L’esempio, la condizionalità positiva e la socializzazione si sono invece dimostrati strumenti preziosi per favorire la diffusione e il consolidamento della democrazia.

La condizionalità positiva e la socializzazione possono essere giocate direttamente dalle OI e possono incoraggiare e facilitare le transizioni democratiche in un contesto multilaterale.

Il controllo viene generalmente esercitato quando le autorità nazionali accettano di aprirsi a influenze esterne per specifiche funzioni e pertanto il suo ambito può essere limitato nel tempo (come nel caso dell'assistenza elettorale) o con un termine più lungo (quando esistono accordi sul monitoraggio dei diritti umani).

Di seguito ci concentriamo sul ruolo che le OI possono svolgere negli affari interni degli stati attraverso questi metodi e su come possono contribuire alla diffusione e al consolidamento della democrazia all'interno delle nazioni.

 È possibile individuare almeno quattro modi pratici in cui le OI possono effettivamente promuovere la democratizzazione interna (cfr. Pevehouse 2002).

In primo luogo, le OI possono utilizzare la condizionalità positiva attraverso la concessione di fondi specifici per promuovere governi democratici o sostenere riforme democratiche.

Questo è, ad esempio, il caso del Fondo per la democrazia delle Nazioni Unite. Ancora più importante, le OI possono specificare che nuovi stati possano essere accettati come loro membri al raggiungimento di una soglia democratica minima.

L'UE, il MERCOSUR e l'OSA sono esempi di OI che richiedono ai potenziali membri di raggiungere una certa soglia di democraticità prima di essere accolti (cfr. Hakim 1993).

 L’appartenenza ad alcune OI fornisce spesso vantaggi materiali, che vanno dall'accesso alle zone di libero scambio, alla cooperazione in materia di sicurezza e nei settori culturale, scientifico e tecnologico.

Questi incentivi forniscono validi motivi ai potenziali membri per avviare e consolidare la transizione verso la democrazia.

In secondo luogo, utilizzando la socializzazione, le OI possono fornire uno spazio in cui i paesi in transizione, attraverso la vicinanza con democrazie consolidate, possono imparare a sviluppare le istituzioni democratiche e possono interiorizzare le norme richieste per governare una politica democratica.

In questo senso, le OI possono essere una forma di trasmissione della conoscenza sulla governance democratica e sulle sue istituzioni (cfr. Torfason, Ingram 2010).

 Le OI possono aiutare i partiti politici nazionali, le associazioni professionali e l'opinione pubblica a imparare come gestire le controversie in un formato agonistico piuttosto che antagonistico.

Spesso le OI svolgono anche un ruolo più attivo come consulenti di istituzioni pubbliche e private.

 Durante le transizioni democratiche, le OI hanno contribuito a formare o riqualificare la polizia, il sistema giudiziario, i media. Particolarmente importante è il ruolo svolto nella socializzazione dei militari, tipica istituzione su cui si basano i regimi autoritari.

All'interno delle OI, le forze militari dei paesi in transizione possono imparare dai loro colleghi dei regimi democratici qual è il loro ruolo in una società democratica.

Terzo, le OI hanno dimostrato di essere un potente strumento di controllo e quindi possono svolgere un ruolo cruciale nelle transizioni democratiche.

 I governi autoritari in carica sono spesso riluttanti a rinunciare al loro potere anche perché temono per il proprio futuro.

Possono paventare che se gruppi politici opposti accedono al governo, imporranno la propria dittatura piuttosto che un regime liberale.

Le forze autoritarie in carica hanno maggiori probabilità di farsi da parte se intravedono uno spazio politico come partito di opposizione e se viene loro garantito, anche dalle OI, che nel prossimo regime, poiché democratico, siano possibili cambiamenti di governo associati a elezioni libere e ricorrenti.

L'appartenenza a OI aiuta a fornire un centro di gravità (cfr. Pevehouse 2002) in cui tutti i membri possono agire come mediatori per garantire il non uso della violenza del governo in carica contro le opposizioni.

Quarto, le OI sono spesso chiamate a fare da mediatori nelle democrazie giovani e deboli, dove esiste ancora una fondamentale mancanza di fiducia tra le fazioni politiche.

Ad esempio, le OI sono state sempre più attive nel contribuire all'organizzazione e al monitoraggio delle elezioni, fino al punto che sta emergendo come una nuova norma (vedi Kelley 2012).

Una organizzazione relativamente recente, l'Istituto Internazionale per la Democrazia e l'Assistenza Elettorale (IDEA) ha spesso aiutato i paesi a progettare i loro sistemi elettorali e altre OI sono state attive in questo ambito, specialmente a livello regionale (cfr. Lean 2007).

Non necessariamente le OI devono avere al proprio interno dispositivi democratici affinché abbiano un effetto positivo sul regime politico dei loro paesi membri (cfr. Koenig-Archibugi 2015).

Tuttavia, quando sono dominate da paesi democratici, esse rappresentano un potente strumento per indurre altri membri a introdurre riforme democratiche.

Cosa si può fare per rendere più efficace la leva esterna?

La leva esterna non fornisce risultati unici, ma può essere un veicolo cruciale per la democratizzazione interna.

Che cosa si può fare per renderla ancora più efficace?

L'impegno esplicito delle OI verso la democrazia.

L'impegno esplicito per la democratizzazione e il consolidamento democratico da parte delle OI può generare importanti implicazioni interne.

 Le fazioni politiche pro-democratiche possono trovare sostegno nelle OI, rafforzando il loro potere contrattuale interno.

Le pressioni portate avanti dalle OI sono state più fruttuose dei tentativi unilaterali e coercitivi degli anni 2000 di esportare la democrazia, che sono ancora ben lungi dall’aver conseguito una transizione verso la democrazia in Afghanistan e in Iraq.

Al fine di impiegare efficacemente la leva esterna, le OI e i loro stati membri devono essere percepiti come istituzioni credibili.

Ovviamente, alcune OI (e alcuni stati) sono stati più credibili di altri.

 Come ambasciatore democratico l'UE è stata credibile ed efficace, mentre l'OSA lo è stata molto meno.

 La NATO, dominata da membri con regime democratico, piuttosto che favorire la democrazia in Portogallo, Grecia e Turchia, ha di fatto sostenuto i regimi autoritari in carica.

Tuttavia, un atteggiamento mutevole è anche evidente nella maggior parte delle OI. Ad esempio, l’ONU, organizzazione nata sulla premessa della non interferenza in questioni interne, ha iniziato ad essere attiva anche nella promozione democratica.

Due ex segretari generali, Boutros Boutros-Ghali e Kofi Annan, hanno esplicitamente impegnato le Nazioni Unite a promuovere i cambi di regime (Boutros-Ghali, 1996; Annan, 2002).

 Il Fondo per la democrazia delle Nazioni Unite (UNDEF), nonostante il suo budget molto limitato, soprattutto rispetto alle risorse che sono state spese per la democrazia con la guerra (con risultati nulli), indica un impegno a lavorare con i paesi verso la transizione e il consolidamento democratico.

Maggiore utilizzo di incentivi.

Al di fuori dell’UE, non molte OI mettono a disposizione incentivi per favorire transizioni e consolidamenti democratici.

Ciò può essere spiegato dal fatto che la maggior parte delle OI non discrimina i membri in base al loro regime.

Mentre nell’UE l’incentivo più potente è rappresentata dall'adesione, che non è mai stata concessa a paesi al di sotto di una certa soglia di democrazia, lo stesso non si può dire per la maggior parte delle altre OI.

Le istituzioni economiche, l’FMI, la Banca Mondiale e l'OMC, nonostante siano dominate dalle democrazie occidentali, hanno fatto solo blandi tentativi per utilizzare i propri strumenti per promuovere la democrazia e per proteggere i diritti umani.

Utilizzare le ONG per sviluppare collegamenti tra le società civili. Quando le OI consentono un ruolo attivo alle ONG si generano effetti positivi sulla loro trasparenza e responsabilità.

Ma le OI possono anche essere un contesto istituzionale in cui le ONG, soprattutto quelle che agiscono in paesi autoritari, possono acquisire riconoscimento e legittimità internazionale.

Un maggiore utilizzo dei forum delle ONG all'interno delle OI può quindi rafforzare sostanzialmente le forze pro-democratiche nei paesi autoritari, aiutandole ad organizzarsi e fornendo collegamenti con i paesi democratici.

Pari dignità tra i membri.

 I regimi politici in trasformazione sono particolarmente sensibili al ruolo che i loro paesi acquisiranno nel contesto internazionale, comprese le OI.

In molti paesi, la possibilità di acquisire pari dignità nella definizione di un’agenda comune può spesso essere una forza decisiva.

Il caso dell'UE ha mostrato come questo sia stato un fattore cruciale per indurre le élites al potere in Grecia, Spagna e Portogallo ad abbandonare i regimi autoritari e ad abbracciare la fede democratica.

Evitare di usare l'imposizione.

La storia recente ha mostrato come la democrazia sia una merce che non può essere facilmente “esportata” e imposta con la forza.

Le esperienze afghane, irachene, libiche e siriane, per citare alcuni esempi chiave, hanno chiaramente dimostrato che imporre militarmente un governo democratico è inefficace o addirittura controproducente, soprattutto se il compito è svolto da uno stato, un gruppo di stati o un’OI percepita come ostile.

Queste esperienze hanno anche dimostrato che l’instabilità derivante da questi interventi può influire negativamente sull'intera comunità internazionale.

Pertanto, la comunità internazionale dovrebbe evitare l'uso di tale strategia preferendo l'impiego di altri mezzi di azione come la condizionalità positiva e la socializzazione, che si sono dimostrati più efficaci.

Dal deficit democratico ad una rappresentatività democratica globale.

In questo articolo abbiamo cercato di evidenziare la presenza di due deficit democratici: quello interno e quello esterno.

Le due dimensioni sono ovviamente strettamente interconnesse e, in entrambi i casi, l’assenza di propri dispositivi di rappresentanza limita la legittimità delle decisioni globali.

Abbiamo indicato due diversi meccanismi causali che possono affrontare e, si spera, ridurre questi deficit democratici:

- La diffusione della democrazia all’interno degli stati contribuisce a rendere la governance globale più rappresentativa e democratica; quello che abbiamo etichettato come leva interna.

- Le OI possono aiutare la democratizzazione interna dei suoi paesi membri attuali e futuri, ciò che abbiamo etichettato come leva esterna.

La leva interna si è rivelata un fattore decisivo nell'organizzazione della governance globale attraverso le OI piuttosto che attraverso forme più segrete, come i vertici segreti o la diplomazia a porte chiuse.

Tuttavia, abbiamo anche notato che l'effetto della leva interna nell'ultimo quarto di secolo è stato troppo debole;

i paesi democratici sono aumentati, anche la qualità della democrazia in molti paesi è migliorata, ciò nonostante le OI non hanno cambiato radicalmente il loro modo di operare.

Hanno iniziato ad essere più aperte nei confronti delle ONG e di altre istituzioni, ma non abbiamo sperimentato né riforme costituzionali democratiche né un adeguato allargamento della rappresentanza, nonostante ciò sia stato ritenuto auspicabile dai loro stessi più elevati funzionari (cfr. Boutros-Ghali 1996; Annan 2002; Lamy 2005).

Abbiamo anche notato che le storie di successo non sono solo associate all’azione dei governi democratici, ma anche all'impulso e alla forte pressione esercitata dalle ONG e dalle altre organizzazioni della società civile.

Se la rappresentatività, la trasparenza e la partecipazione sono aumentate, ciò è spesso dovuto per pressioni che hanno avuto luogo al di fuori delle OI piuttosto che al loro interno.

Sebbene i governi democratici siano stati disposti a ricevere suggerimenti e a trasmetterli all'interno delle OI, raramente sono stati una forza trainante della democratizzazione della governance globale.

Abbiamo esplorato come le OI possano agire da agenti per la democratizzazione interna.

 Anche se non può essere dato per scontato, sono diversi i casi in cui sono riusciti a operare efficacemente per la transizione e il consolidamento democratico.

Abbiamo indicato alcune azioni politiche che potrebbero essere intraprese per rendere queste leve più efficaci.

Le leve interne ed esterne sono chiaramente collegate nei loro effetti, ma troppo spesso i governi eletti non sono disposti a perseguire coerentemente la loro natura democratica anche per quanto riguarda la governance globale.

L'approccio muscolare alla democratizzazione, con i tragici esempi delle invasioni in Afghanistan e in Iraq, i tentativi di risolvere le guerre civili attraverso bombardamenti aerei, come è successo in Libia e in Siria, hanno seriamente minato l'autorità morale e politica delle democrazie occidentali e hanno portato a un decennio di incertezze.

Se gli stati liberali intendono riacquisire la propria autorevolezza nel promuovere un ordine mondiale rappresentativo e legittimo, dovrebbero meditare su questi fallimenti e ricercare altri mezzi meno onerosi e più efficaci per aumentare la democraticità della global governance.

Aumentare il coinvolgimento e la partecipazione dei cittadini nella sfera globale richiede molte meno risorse di scatenare una guerra e si dimostra essere assai più efficace.

 

 

 

La Bufala del Riscaldamento Globale.

Conoscenzealconfine.it – (19 Gennaio 2023) - Gabriele Sannino – ci dice:

Il riscaldamento globale, come ormai sa chi mi segue, è una bufala colossale dell’èlite per implementare il suo mondo “psico-green” e portarci all’agenda 2030 con restrizioni draconiane… in nome del’ “ambiente”.

Il “climate change” di Biden, per esempio, prevede sussidi solo ad aziende considerate “green”, e in questi tempi già così difficili, sta facendo fallire interi comparti aziendali ed agricoli perché giudicati non “ecosostenibili”.

Anche l’Europa va a ruota, imponendoci insetti al posto della carne e tentando perfino di toglierci la casa, vista la direttiva sull’efficientamento ecologico ed energetico delle abitazioni che vorrebbe discutere a breve.

Del resto parliamo dell’Europa che manda armi all’Ucraina ma vuole la pace, ma anche dell’Europa che ci tiene talmente tanto al nostro benessere… da comprare il gas a 80 euro dagli amici americani mentre i nostri “nemici” ce lo vendono a due euro, come ha sottolineato in un meme Diego Fusaro.

Ad ogni modo, la teoria del riscaldamento globale – lo sappiamo – non ha NIENTE di scientifico, proprio come la psico-pandemia e gli pseudo vaccini, basti pensare a quanti scienziati come Carlo Rubbia abbiano già denunciato la frode.

D’altronde gli ecologisti hanno Greta Thunberg, no?

Si sa che è una scienziatah!

Ebbene, sul giornale La Verità del 12 gennaio 2022, c’è un’altra crepa che fa cadere questo muro globale di sciocchezze:

Valentina Zharkova è una scienziata ucraina di spicco, che negli ultimi 30 anni ha lavorato in diverse università britanniche, da Glasgow a Bradford fino alla Northumbria University di Newcastle.

La Zharkova parte dall’assioma del professor John Eddy, che nel 1976 stabilì che la temperatura terrestre segue i cicli di intensità del sole, aumentando durante i massimi solari e diminuendo durante i suoi minimi.

Secondo la Zharkova, la temperatura solare è aumentata fino al 1960, mentre dal 1980 è diminuita, anche se non di molto.

Nei prossimi tre decenni – stando alle sue previsioni – dovrebbe diminuire di circa un grado.

La variazione dell’irradiazione – spiega a La Verità – dipende principalmente dal sole ma anche dagli effetti orbitali del nostro Pianeta, ovvero dalle variazioni cicliche ed eccentriche dell’orbita terrestre, che variano a seconda dell’effetto gravitazionale di grandi pianeti come Giove, Saturno, Nettuno, Urano.

Si parla, a tal proposito, di moto inerziale solare (MIS), poiché ogni 2000 anni circa la posizione del Sole cambia oscillazione rispetto al fuoco dell’orbita terrestre e questo può provocare effetti nelle temperature, al di là dei massimi e dei minimi della nostra stella.

Ecco che il magico mondo dell’élite riguardo la CO2 crolla inesorabile anche in questo caso:

ricordiamoci che la CO2 è il gas della vita, le piante si nutrono di CO2 ed emettono ossigeno, noi facciamo l’esatto opposto.

Azzerare la CO2 significa azzerare la vita:

d’altronde i piani dell’èlite sono proprio questi, e tutte le strade portano – guarda caso – in quella direzione.

 (Gabriele Sannino - t.me/gabrielesannino)

Commenti

Post popolari in questo blog

Quale futuro per il mondo?

Co2 per produrre alimenti.

Caos e dazi.